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Gli Argonauti

Collana diretta da
Luigi M. Lombardi Satriani

59
Edizione originale:
Assessing Cultural Anthropology
Copyright © 1994, McGraw-Hill

Copyright © 2000 Meltemi editore srl, Roma


Prima ristampa: marzo 2004

La traduzione dei saggi contenuti nel volume è stata effettuata


da Andrea Bernardelli, Fulvia Caruso, Gianfranco d’Eramo,
Sonia Di Loreto, Eleonora Federici, Antonio Perri, Piero Vereni.

La revisione delle traduzioni e la cura delle diverse parti nelle quali


è suddiviso il volume è stata effettuata da Massimo Canevacci,
Paola de Sanctis Ricciardone, Vanessa Maher, Vincenzo Matera,
Giovanna Salvioni, Alberto Sobrero e Massimo Squillacciotti.

È vietata la riproduzione, anche parziale,


con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editore
via dell’Olmata, 30 - 00185 Roma
tel. 064741063 - fax 064741407
info@meltemieditore.it
www.meltemieditore.it
a cura di
Robert Borofsky

L’antropologia culturale oggi


Sottot
itolo

Introduzione e cura
di Laura Faranda

MELTEMI
La casa editrice ringrazia tutti coloro che hanno contribuito a realizzare quest’opera e sa-
rà grata a chi vorrà segnalarci errori o inesattezze che, nonostante il nostro impegno, potran-
no essere sfuggite alla nostra attenzione.
Questo libro, già nato come un’opera collettiva, ha mantenuto e accentuato questa carat-
teristica anche nella sua traduzione italiana. A ciascuna delle introduzioni di Robert Borofsky
(la prima, generale e le sei che aprono le parti in cui è diviso il volume) abbiamo pensato di
far seguire una nota di antropologi italiani che contestualizza allo sviluppo degli studi antro-
pologici nel nostro paese le tematiche affrontate nei diversi saggi, rendendo così maggior-
mente comprensibili agli studenti italiani l’articolazione e i contenuti dei saggi presenti nel
volume.
La prima parte del volume è stata tradotta da Piero Vereni, la seconda da Sonia Di Lore-
to, la terza da Gianfranco d’Eramo, la quarta da Andrea Bernardelli, la quinta da Eleonora
Federici, la sesta da Fulvia Caruso. Antonio Perri ha tradotto prefazione, introduzione e con-
clusioni. La revisione finale delle traduzioni e dei riferimenti bibliografici è stata curata da
Antonio Perri e Piero Vereni.
Indice

p. 9 Prefazione e ringraziamenti
11 Introduzione, Robert Borofsky
36 Nota all’edizione italiana, Paola de Sanctis Ricciardone

Parte prima
Diversità e divergenze nella comunità antropologica

42 Introduzione alla parte prima, Robert Borofsky


49 Nota alla parte prima, Vanessa Maher
52 Lo straniero solitario nel cuore di tenebra, Philip Carl Salzman
62 Biografia intellettuale
64 Dopo la critica dell’etnografia: la fede, la speranza e la carità, ma di tutte
più grande è la carità, George Marcus
77 Biografia intellettuale
80 La dialettica di fatti e parole, Robert F. Murphy
85 Biografia intellettuale

88 Il materialismo culturale è vivo e vegeto e non se ne andrà finché non si


farà avanti qualcosa di meglio, Marvin Harris
102 Biografia intellettuale

Parte seconda
La prospettiva comparativa

106 Introduzione alla parte seconda, Robert Borofsky


114 Nota alla parte seconda, Giovanna Salvioni
116 La coscienza comparativa, Laura Nader
127 Biografia intellettuale
131 “Specchio, specchio delle mie brame…”. Il ruolo passato e futuro
dell’antropologia: un tentativo di valutazione, Maurice Godelier
144 Biografia intellettuale
149 I futuri dell’antropologia, Adam Kuper
155 Biografia intellettuale
156 Alcune notazioni preconcette sull’antropologia interpretativa: un punto di
vista dal Brasile, Roberto DaMatta
168 Biografia intellettuale
170 Il discorso antropologico sull’India: la ragione e l’altro, Veena Das
181 Biografia intellettuale

Parte terza
Ripensare le prospettive precedenti

184 Introduzione alla parte terza, Robert Borofsky


193 Nota alla parte terza, Massimo Canevacci
194 L’evoluzione dell’umanità e il futuro dell’antropologia, Roy Rappaport
209 Biografia intellettuale
212 I metodi appartengono a tutti, H. Russell Bernard
222 Biografia intellettuale
225 Per un’antropologia imperniata sulla persona, Robert I. Levy
234 Biografia intellettuale
236 Genere sessuale e parentela: verso una analisi unificata,
Sylvia Yanagisako e Jane Collier
247 Biografia intellettuale
252 Le relazioni tra parti e totalità: un approccio alternativo, Marilyn Strathern
266 Biografia intellettuale
268 Il potere: vecchie conclusioni, nuove domande, Eric R. Wolf
279 Biografia intellettuale
281 Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso un’antropologia
medica critica, Nancy Scheper-Hughes
293 Biografia intellettuale

Parte quarta
Ripensare il culturale

298 Introduzione alla parte quarta, Robert Borofsky


306 Nota alla parte quarta, Massimo Squillacciotti
310 La cultura e i suoi confini: un punto di vista europeo, Jack Goody
322 Biografia intellettuale
324 Per una teoria operativa della cultura, Ward H. Goodenough
337 Biografia intellettuale
339 Linguaggio, antropologia e scienze cognitive, Maurice Bloch
346 Biografia intellettuale
348 Un’antropologia cognitivo-culturale, Claudia Strauss e Naomi Quinn
363 Biografie intellettuali
367 Le teorie della cultura rivisitate, Roger M. Keesing
377 Biografia intellettuale
Parte quinta
La cultura in movimento

382 Introduzione alla parte quinta, Robert Borofsky


390 Nota alla parte quinta, Alberto Sobrero
392 Azioni, variazioni, e cambiamento: la nascente prospettiva anti-essenzia-
lista in antropologia, Andrew P. Vayda
402 Biografia intellettuale
404 Conoscere e conoscenza nelle attività culturali, Robert Borofsky
423 Biografia intellettuale
425 Una prospettiva personale sui compiti attuali dell’antropologia culturale e
sociale, Fredrik Barth
438 Biografia intellettuale
440 L’etnografia del presente e l’analisi del processo, Sally Falk Moore
454 Biografia intellettuale
457 “Addio tristi tropi”: l’etnografia nel contesto storico del mondo moderno,
Marshall Sahlins
476 Biografia intellettuale
478 Connessioni a molteplici livelli: longitudine e studi comparativi,
Conrad Kottak ed Elizabeth Colson
493 Biografie intellettuali

Parte sesta
L’antropologia applicata

500 Introduzione alla parte sesta, Robert Borofsky


507 Nota alla parte sesta, Vincenzo Matera
509 Antropologia, razza e politica: una conversazione con Didier Heribon,
Claude Lévi-Strauss
515 Biografia intellettuale
520 La politica dell’etnicità, Stanley J. Tambiah
531 Biografia intellettuale
534 Invenzioni e manifestazioni di etno-nazionalismo nel linguaggio sovietico
accademico e pubblico, Valery A. Tishkov
543 Biografia intellettuale
546 Gli usi della diversità, Clifford Geertz
560 Biografia intellettuale

564 Conclusioni
Una valutazione del campo di studi, Robert Borofsky
593 Bibliografia
647 Indice dei nomi
Prefazione e ringraziamenti

Questo volume trae origine da una giornata di studi organizzata in occasione


dell’incontro annuale dell’American Anthropological Association per il 1989, dal ti-
tolo “Assessing Developments in Anthropology” (“Valutare gli sviluppi dell’antro-
pologia”). Grazie al supporto degli editors della McGraw-Hill e dei recensori dei te-
sti ai contributi originari ne sono stati aggiunti altri, in modo da dare al volume un
carattere più internazionale e affrontare tematiche che erano rimaste escluse. Alla
fine, naturalmente, non è stato possibile includere tutti gli studiosi e le prospettive
che avrebbero dovuto rientrare in un’opera come questa. Ma non credo sia irragio-
nevole ritenere che altri, leggendo queste pagine, saranno indotti a proseguire il
dialogo che abbiamo avviato – riempiendo lacune, suggerendo nuove possibilità di
ricerca.
Assessing Cultural Anthropology è rivolto a un pubblico vasto: è un libro per gli
studenti e per laureati che proseguono la loro preparazione a livello dottorale. Una
delle speranze del volume è dar vita a un dialogo comune sulla nostra disciplina,
nell’ambito di quella più vasta comunità fatta da antropologi e antropologi in fieri.
Quanti apprezzano l’impeto e la vitalità della disputa fra varie posizioni, ciascu-
na con le proprie argomentazioni – il tira e molla del dibattito, con le sue alterne fa-
si – si divertiranno molto a leggere i saggi contenuti nel libro. In quei saggi sono de-
lineate un gran numero di posizioni stimolanti, che adombrano una serie di possibi-
lità teoriche su cui riflettere. Come curatore, ho tentato di equilibrare questi diversi
insiemi di prospettive con una serie di considerazioni relative all’eredità comune e
agli interessi condivisi della disciplina. Il continuo sovrapporsi e i contrasti nati dai
diversi modi di considerare la disciplina – quelle che nell’Introduzione chiamo ten-
denze “centrifughe” e “centripete” – testimoniano il dinamismo intellettuale del-
l’antropologia come campo di studi.
Questo libro non prefigura il futuro della disciplina: almeno per l’antropologia,
il futuro non è ancora arrivato. Credo tuttavia che Assessing Cultural Anthropology
sia davvero in grado di fornire una base comune, a partire da cui gli antropologi di
oggi e quelli di domani possano, assieme, costruire questo futuro. Spero che chi leg-
gerà questo volume lo valuterà con cura e con audacia. Con cura, perché bisogna
costruire il futuro basandosi sugli interessi passati e presenti della disciplina. Ma an-
che con audacia, per cogliere le enormi potenzialità dei saggi in esso contenuti. Lo
scopo del libro è stimolare l’innovazione e il cambiamento: se Assessing Cultural
Anthropology riuscirà a far proseguire il dialogo sul futuro della disciplina, dando il
proprio contributo all’effervescente sviluppo di nuove intuizioni e analisi in grado
di farci progredire come disciplina, allora avrà senza dubbio raggiunto il suo scopo.
Da un punto di vista concettuale, il libro è diviso in due parti: i saggi veri e pro-
pri (organizzati in sei parti) e una serie di contributi editoriali destinati a contestua-
lizzarli. In calce a ciascun saggio, una breve “(auto)biografia intellettuale” di cia-
10 ROBERT BOROFSKY

scun autore mette in luce come l’antropologia non venga reinventata ad ogni gene-
razione: nonostante l’attuale frammentazione della disciplina, infatti, ritroviamo
una effettiva continuità da una generazione di studiosi alla successiva: gli insegnanti
formano gli studenti, i professori più anziani influenzano i loro colleghi più giovani.
Quelle biografie, inoltre, rappresentano un efficace inquadramento dei problemi
chiave della disciplina, dandoci di volta in volta una prospettiva personale, ravvici-
nata dell’antropologia e dei suoi interessi.

Ringraziamenti
Molte persone hanno collaborato ad Assessing Cultural Anthropology, e voglio
qui ricordarle per dar loro una sia pur piccola testimonianza della mia gratitudine.
Anzitutto, devo molto a quanti hanno contribuito al volume con i loro saggi: è gra-
zie al loro aiuto e sostegno che questo volume ha potuto veder la luce. Nelle vesti di
rappresentanti dell’American Anthropologial Association (o delle sezioni a essa affi-
liate) vorrei poi ringraziare le seguenti cattedre che col loro programma del 1989
hanno sponsorizzato l’incontro dell’Associazione da cui è nato questo volume: Har-
riet Klein, Jim Peacock e Dorothy Holland. Presso l’Hawaii Pacific University (e in
particolare il campus di Hawaii Loa, all’epoca Haway Loa College) ho ricevuto il
prezioso aiuto di Marvin ed Eda Anderson, Chatt Wright, Jim Hochberg, John
Fleckles, Ruby Okano, Leslie Rodrigues, Janice Uyeda. In particolare Greg Molfino
ha fornito il suo inestimabile contributo controllando e ricontrollando all’infinito i
materiali; e offrendo numerosi suggerimenti. Voglio inoltre ringraziare, per l’assi-
stenza prestatami presso l’editore McGraw-Hill, Sylvia Shepard, Phil Butcher, Con-
rad Kottak, Sylvia Warren, Lori Pearson, Melissa Mashburn e Yannett Pena. In par-
ticolare Sylvia Shepard e Conrad Kottak mi hanno fornito un grande aiuto: Sylvia,
per i numerosi suggerimenti e consigli di natura editoriale; Conrad, perché è lui che
per primo mi ha dato l’idea di questo libro.
Più in generale, vorrei ringraziare un gran numero di persone che mi hanno aiu-
tato in molti modi: Fred e Ann Schildt, David Friedman, Iris Wiley, George e Jean
Campbell, Mimi Fox, Rachel Davis-Green, Ted Green, Helena Morrison, Dave
Hanlon, Abigail Lipson, Karen Peacock, Susan Murata, Jim Bauman, White/Eisen-
stein, Stan Bowers e Jerry e Richie Borofsky. Questo progetto è stato realizzato
mentre ero fellow dell’East-West Center’s Institute of Communication and Culture;
vorrei ringraziare in modo particolare Mary Bitterman per il sostegno che mi ha
fornito. Inoltre vorrei ringraziare per l’assistenza che mi hanno data mentre mi tro-
vavo all’East-West Center: Victor Lee, Meg White, Geoff White, Vimal Dissanaya-
ke, David Wu ed Helen Palmore. I lettori di questo volume meritano anch’essi la
mia gratitudine per il loro instancabile aiuto, le loro intuizioni e suggerimenti: Don
Brenneis, Elizabeth Colson, Virginia Dominguez, Janet Keller, Conrad Kottak e
Mary Jo Schneider. Il loro contributo, accanto a quello di Sylvia Shepard si è rivela-
to essenziale durante la realizzazione del libro.
Questo volume è dedicato a tre generazioni di donne che hanno svolto ruoli im-
portanti nel mio sviluppo intellettuale: mia madre, Ruth; mia moglie, Nancy; e le
mie due figlie, Amelia e Robyn. A tutti coloro che mi hanno assistito in quest’im-
presa ma in particolare a loro – a mia madre, a mia moglie e alle mie figlie – è diret-
to perciò il mio grazie.
Robert Borofsky
Kailua O’Ahu - Hawai’i
Introduzione
Robert Borofsky

Non è facile descrivere l’antropologia come disciplina intellettuale. Quel che an- L’eterogeneità
zi emerge in modo chiarissimo nella letteratura è la diversità dell’antropologia: in dell’antropologia
essa trovano posto un’enormità di tematiche, e quanti la praticano sono fedeli a un
gran numero di approcci. L’antropologo Clifford Geertz (1985, p. 623) ha osservato
di recente che “uno dei vantaggi dell’antropologia come disciplina accademica è
che nessuno, compresi coloro che la praticano, sa con esattezza cosa sia”.

Gente che osserva i babbuini mentre copulano, che riscrive miti in formule algebriche,
che estrae dal terreno scheletri del Pleistocene, che elabora correlazioni approssimate al
decimale fra l’abitudine all’igiene personale e le teorie della malattia, che decodifica i ge-
roglifici maya e che classifica i sistemi parentali sulla base di tipologie in base alle quali il
nostro sistema si rivela essere “Eschimese”; ecco, tutte queste persone si definiscono an-
tropologi.

Uno degli esiti di questa ampiezza di latitudini, continua Geertz, “è una perma-
nente crisi di identità”. Wolf (1980, p. 20) offre una formulazione più positiva dello
stesso concetto: “Il risultato dell’eclettismo antropologico è che il campo d’indagine
continua a stupire per la sua variegata e multiforme attività”.
Un’analisi dei manuali americani di introduzione alla materia – nel tentativo di
semplificare quanto appare complesso e ricco di sottigliezze, in modo da riuscire a
governare il problema – non offre che un aiuto parziale. Autori diversi infatti forni-
scono definizioni parzialmente diverse del campo di studi. Harris (1991, p. 1) affer-
ma che “l’antropologia è lo studio dell’uomo – dei popoli antichi e moderni coi lo-
ro modi di vita”; egli divide la disciplina in quattro rami principali: antropologia Suddivisioni del
culturale, archeologia, antropologia fisica (o biologica) e linguistica. Ember ed Em- campo di studi
ber (1981, p. 484) definiscono l’antropologia come “lo studio delle differenze e so-
miglianze, sia biologiche che culturali, fra le popolazioni umane”; gli autori divido-
no l’antropologia in due rami, antropologia fisica e culturale – quest’ultima divisa a
sua volta in archeologia, linguistica ed etnologia. Kottak (1991, p. 7) segue Harris,
suo maestro di un tempo, dividendo l’ambito di studi in due rami, ma ipotizza poi
che l’antropologia possa comprendere anche un quinto ramo, quello dell’antropo-
logia applicata. Queste divisioni contrastano con quelle formulate in Europa: in
Svezia ad esempio si distingue fra l’antropologia, che studia di prevalenza le culture
straniere e lontane (come quelle africane) e l’etnologia che si occupa delle culture
europee – volgendosi tradizionalmente allo studio delle comunità contadine. Men-
tre come nota Bloch (in questo volume, p. 339) la distinzione fra antropologia so-
ciale britannica e antropologia culturale americana “non è assoluta”, i due rami del
campo di studi hanno di solito sottolineato differenti aspetti: il primo si è incentra-
to sulla “struttura sociale”, il secondo sui “modelli culturali” (cfr. Herskovits 1965).
12 ROBERT BOROFSKY

Quanto all’India e al Giappone, la situazione in quei paesi appare ancora diversa


(cfr. Tax, Eiseley, Rouse, Voegelin 1953, pp. 219-223). Non c’è da stupirsi allora che
molti manuali di antropologia evitino di fornire una definizione chiara e concisa del
campo di studi, e che i loro autori preferiscano dedicare un intero capitolo nell’in-
tento di chiarire cosa sia l’antropologia.
Vista l’attuale preoccupazione per l’unità dell’antropologia (cfr. ad es. Givens,
Skomal 1992), è importante notare che molti noti antropologi concepiscono l’unità
della disciplina più in rapporto al suo sviluppo storico che a una specifica missione
intellettuale. Boas, uno dei fondatori e personaggi chiave dell’antropologia america-
L’antropologia: na, osservava nel 1908: “bisognerà ammettere che… ciò su cui gli antropologi lavo-
aspetti unificati rano è più o meno accidentale, e ciò avviene perché altre scienze hanno già occupa-
to una parte del campo di studi prima dello sviluppo dell’antropologia moderna”
(1908, p. 9). E Lévi-Strauss si chiede: “Com’è nata l’antropologia” per poi rispon-
dere che “si è costituita a partire da ogni sorta di rifiuti e avanzi degli altri campi di
studi” (in Tax, Eiseley, Rouse, Voegelin 1953, p. 349).
Tuttavia la disciplina ha in sé una coerenza – purché si guardi sotto la moltitudi-
ne di forme che si ammassano alla sua superficie: essa si occupa infatti della varia-
zione umana nel tempo e nello spazio esplorando quei tratti umani condivisi come
specie; in altre parole, l’antropologia studia le variazioni culturali e fisiche che esi-
stono nelle comunità umane – sia attraverso il tempo che nella contemporaneità –
cercandone le ragioni.
Tax sostiene, giustamente a mio parere, che un legame fondamentale che tiene
assieme gli antropologi è il loro desiderio di comunicare fra loro. Come vedremo in
seguito, l’antropologia coinvolge una comunità di studiosi che condividono una se-
rie di preoccupazioni in parte sovrapposte (cfr. Wrong 1993).
Gli antropologi, ad esempio, condividono un interesse di lunga data nei con-
fronti dei processi; non è un caso che Boas (a cura, 1938, p. 4), nel suo manuale
General Anthropology del 1938, individuasse tre grandi problemi inerenti la disci-
plina: “1) la ricostruzione della storia umana; 2) la determinazione di tipi di feno-
meni storici e delle loro sequenze; 3) le dinamiche del mutamento”. Se appare
L’interesse per i
dubbio che oggi gli antropologi siano interessati a tutti e tre gli aspetti, tuttavia
processi e per quasi tutti si occupano di almeno uno di questi. In un certo senso, anzi, l’intera
l’evoluzione disciplina è sorta da un interesse per i processi e per l’evoluzione umana e cultu-
rale. I primi antropologi – come Morgan, Tylor e Frazer – cercavano di collegare
le culture umane note in base a uno schema temporale di progresso che dalle for-
me più semplici e antiche giungesse alle più recenti e complesse (sebbene, nel lo-
ro etnocentrismo, posero se stessi con fiducia al culmine dello schema, relegando
agli stadi inferiori le culture diverse dalle proprie). Molti antropologi considerano
oggi i processi storici ed evolutivi un fattore essenziale per comprendere i model-
li biologici e culturali contemporanei.
Andando più a fondo, possiamo scorgere un ulteriore aspetto di questa unità
della disciplina. Le attuali tendenze alla frammentazione dell’antropologia sono
parte di una tradizione che percorre ininterrotta l’intera storia della disciplina: non
Frammentazione a caso Tax (1956, p. 316) afferma che queste tendenze alla frammentazione sono
vs unità
state presenti in antropologia sin dal suo sviluppo come disciplina ufficiale nel cor-
so del secolo diciannovesimo. Barth concorda nel sostenere che l’antropologia è sta-
ta sempre “indegnamente e confusamente divisa” (1992, p. 63). Alla fine degli anni
Quaranta l’antropologia americana stava quasi per andare in pezzi, in effetti, pro-
prio a causa di queste tendenze alla frammentazione – entrando in un periodo che
fu definito di “riorganizzazione”. Se ciò non accadde, suggerisce Stocking (1976,
INTRODUZIONE 13

pp. 41-42), fu per un motivo assai semplice: il potere. Poiché l’antropologia era (ed
è ancora) la scienza sociale dalle dimensioni più ridotte ma aveva e ha alti costi per
la ricerca, non aveva senso che gli antropologi si dividessero ulteriormente dando
vita a gruppi ancora più piccoli: la già limitata efficacia nell’ottenere riconoscimen-
to e sostegno finanziario si sarebbe infatti ridotta ulteriormente (quest’ultimo è un
aspetto affrontato da Salzman nel suo saggio).
L’unità dell’antropologia come disciplina intellettuale – coi suoi quattro sotto-
ambiti dell’antropologia culturale, fisica, archeologica e linguistica – appare oggi
nella sua forma più evidente quando affronta problemi che si sovrappongono a
quelli cui si erano dedicati gli antropologi del passato, come quelli del rapporto fra
biologia e cultura (discussi nel suo saggio da Levy) o quelli della ricostruzione stori-
ca. Se pensiamo a quanto tempo i Tasaday delle Filippine sono rimasti isolate cultu-
ralmente, o sino a che punto la moderna cultura sudafricana dei boscimani sia stata
modellata da influssi europei, i sotto-ambiti dell’antropologia si sovrappongono con
esattezza l’uno all’altro e ci forniscono tutti dei significativi indizi per rispondere a
questi interrogativi. Il problema è che l’antropologia attuale non solo si pone queste
domande tradizionali, ma ne formula anche di nuove – e da ciò nasce il problema
della frammentazione disciplinare.

Prima di occuparmi dell’antropologia culturale, prenderò brevemente in esame


il termine cultura. Anche questo termine, infatti, deve essere spiegato e anch’esso è La definizione
difficile da definire. L’uso dei manuali introduttivi – nella speranza di trovare un’af- di “cultura”
fermazione semplice e diretta relativa alla cultura – può esser d’aiuto solo se ci si li-
mita ad analizzare un testo alla volta. Kottak (1991, p. 17) definisce la cultura come
un fenomeno “specificamente umano; trasmesso attraverso l’apprendimento; insie-
me di tradizioni e costumi che regolano il comportamento e le credenze”. Keesing
(1976, p. 509) afferma che la cultura è “il sistema conoscitivo condiviso in forma
parziale o totale dai membri di una società” (suo padre del resto, anche lui noto an-
tropologo, definì la cultura come “la totalità del comportamento o dei costumi ap-
presi e socialmente trasmessi” [F. M. Keesing 1958, p. 16]).
Se osserviamo più a fondo – e cerchiamo di verificare in che modo gli antro-
pologi di professione definiscono il termine a uso dei loro pari – scopriamo se
non altro una maggiore diversità. L’opera di riferimento in materia è il libro di Kroeber e
Kroeber e Kluckhohn dal titolo Il concetto di cultura (1963). Nel prendere in Kluckhohn
esame oltre 150 definizioni di cultura, i due autori discutono un gran numero di
differenti modi per concettualizzare il termine; alla fine la definizione che adot-
tano è la seguente:

la cultura è composta da modelli, espliciti e impliciti, di e per il comportamento, acquisi-


ti e trasmessi mediante simboli, costituenti il risultato distintivo di gruppi umani; il nu-
cleo essenziale della cultura consiste di idee tradizionali... e specialmente in valori loro at-
tribuiti; i sistemi culturali possono considerarsi da un lato prodotti dell’azione, e dall’al-
tro punto di vista sono elementi condizionanti l’azione futura (1963, p. 367).

Il tratto distintivo di questa definizione, per gli antropologi moderni, è che ben
pochi di loro oggi la citano. Ormai è fuori moda, e sembra troppo ampia – perciò
forse anche troppo poco maneggevole – per riuscire ad affrontare concreti proble-
mi di ricerca. Sono, in effetti, definizioni dello stesso tipo di quelle di Kottak e
Keesing che abbiamo citate più in alto a essere oggi le più diffuse in ambito antro-
pologico.
14 ROBERT BOROFSKY

Definizioni L’antropologia culturale è uno dei principali sotto-settori dell’antropologia. Co-


dell’antropologia me i lettori potranno immaginare, anch’essa è stata definita in vari modi; cionono-
culturale stante, le varie definizioni si sovrappongono in modo consistente – almeno se met-
tiamo da parte i sotto-ambiti costituiti dall’archeologia e dalla linguistica, concen-
trando la nostra attenzione sul senso complessivo e generale assunto dall’intero
campo di studi. Adam Kuper, in Kuper e Kuper (1985, p. 177), presenta una buona
definizione affermando che

[la denominazione di] antropologia culturale è utilizzata prevalentemente negli Stati


Uniti per definire il ramo dell’antropologia che si occupa dell’uomo [cioè degli esseri
umani] in quanto… esseri sociali, e delle forme di comportamento apprese piuttosto
che geneticamente trasmesse.

Mandelbaum (1968, p. 313) asserisce che

il compito essenziale dell’antropologia culturale… è lo studio di somiglianze e differenze


nei comportamenti fra i gruppi umani, la descrizione del carattere delle varie culture e dei
processi di stabilizzazione, trasformazione e sviluppo che caratterizzano queste ultime.

Se aggiungiamo che l’antropologia culturale comprende non solo un momento


descrittivo e uno d’analisi, ma ha tradizionalmente formulato molte delle sue analisi in
termini comparativi, le definizioni fornite da Harris (1991, p. 2), Kottak (1991, p. 7),
Keesing (1976, p. 2), Haviland (1976, p. 8), Ember ed Ember (1981, p. 485) e Bates e
Plog (1976, p. 466) nei loro manuali sono abbastanza conformi ai parametri citati.
L’antropologia culturale mostra per lo più le stesse tendenze di quella più ampia
disciplina che è l’antropologia tout court: essa possiede infatti sia tendenze centrifu-
ghe (di separazione e frammentazione) che tendenze centripete (di consolidamento
e unificazione). Dato che questo libro è incentrato sull’antropologia culturale, ana-
Tendenze
centrifughe e
lizzerò nei dettagli queste due tendenze in modo da introdurre i lettori allo studio
tendenze della materia. Sarà opportuno notare che mi atterrò a una prassi comune nel nostro
centripete in campo di studi, facendo uso del termine antropologia per riferirmi sia all’antropo-
antropologia logia culturale che all’antropologia generale; sebbene quest’uso del termine non sia
del tutto appropriato – poiché veicola una sorta di imperialismo intellettuale, consi-
derando un sotto-settore eguale alla totalità del campo di studi più generale – esso
consente di far uso di formulazioni meno complesse, in un libro dedicato in primo
luogo all’antropologia culturale.

Tendenze centrifughe
Non è difficile imbattersi in affermazioni riguardanti le tendenze alla frammen-
tazione dell’antropologia culturale. In una recente rassegna sul campo di studi, Ort-
ner (1984, p. 126) osserva: “Il campo appare come un insieme di pezzetti e toppe,
nel quale singoli ricercatori e piccole conventicole portano avanti indagini diverse e
parlano per lo più a se stessi”. Questa situazione dev’essere il risultato di un proces-
so protrattosi già da tempo, se già all’inizio degli anni Cinquanta l’antropologo in-
glese Nadel (in Tax, Eiseley, Rouse, Voegelin 1953, p. 90) affermava: “Gli studi sul-
la struttura sociale di Evans-Pritchard o Fortes, il ‘pescatore malese’ di Firth e il
‘carattere balinese’ della Mead semplicemente non appartengono allo stesso univer-
so di discorso”. Ma quali sono le ragioni di questa frammentazione?

“Oggigiorno”, osserva Leaf (1979, p. 3), “nel campo di studi vi sono modi al-
Due prospettive quanto diversi di concepire la teoria, la cultura e la comparazione culturale”. Non è
INTRODUZIONE 15

difficile constatarlo leggendo i vari saggi che costituiscono questo libro. Rappaport,
ad esempio, a p. 195 fa riferimento al fatto che

Sin dai suoi esordi, nell’antropologia si sono sviluppate due diverse tradizioni: una, che
aspira all’oggettività ed è ispirata alle scienze biologiche, va alla ricerca di spiegazioni ed
è preoccupata di scoprire cause o addirittura, nelle sue formulazioni più ambiziose, leggi;
l’altra, influenzata dalla filosofia, dalla linguistica e dalle altre scienze umane, è sensibile a
una forma di conoscenza maggiormente legata al soggetto, va alla ricerca di interpretazio-
ni e cerca di chiarire significati.

Kuper, a p. 149, cita due progetti di ricerca ormai ben radicati nell’ambito del-
l’antropologia americana:

Il primo, lanciato di fatto da Boas, si occupa della cultura, e in particolare della variazio-
ne culturale. Aspira a fornire un resoconto “dall’interno” dell’esperienza culturale, inter-
rogandosi sull’esperienza delle differenze culturali, sui modi in cui il linguaggio e il co-
stume infondono all’azione un significato e uno scopo, sul peso della tradizione. Si tratta
di un progetto relativista, più interessato a descrivere e interpretare che a spiegare, e que-
sto guardando più al particolare che al generale…
Il secondo programma ha rappresentato da sempre il principale antagonista di quello boa-
siano. Esso si occupa principalmente dell’evoluzione umana, e Darwin è il suo eroe; privi-
legia i fattori materiali del processo evolutivo… È un progetto che cerca principi generali,
modellando se stesso sulle scienze naturali – invece che sulle scienze umane – in seno alle
quali i boasiani di solito trovavano in propri alleati.

Anche Murphy discute queste due prospettive, e riferimenti a una di esse o a en-
trambe sono presenti nei saggi di Barth, Bernard, DaMatta, Das, Geertz, Harris, Kee-
sing, Kuper, Marcus, Nader, Salzman, Scheper-Hughes, Tambiah, Tishkov e Vayda.
Sul ruolo che l’una o l’altra di queste opposte prospettive dovrebbero giocare nel-
l’ambito della disciplina è in corso una disputa di vaste proporzioni – o, per dirla in
modo positivo, vi è una sorta di ambiguità. Wolf (1964, p. 88), in quella che sarebbe
diventata una citazione famosa, descrive l’antropologia come “la più scientifica delle
scienze umane, la più umanistica delle scienze” (cfr. Goodenough 1989). E Lévi- “Scienza” vs
Strauss (1966, p. 118), con un tocco di poesia, ipotizza che l’antropologia coltivi “interpretazione”

un sogno segreto: essa appartiene alle scienze umane, come il suo stesso nome [anthropo-
(dell’uomo) e logia (studio dell’)] afferma in modo opportuno; ma rassegnandosi a resta-
re nel purgatorio accanto alle scienze sociali, essa senza dubbio non dispera di risvegliar-
si fra le scienze naturali al momento del giudizio finale.

I lettori si saranno resi conto che esiste un’enorme frattura fra la “scienza” di
Harris e l’“interpretazione” di Geertz. Si tratta di differenze profonde, irresolubili.
In proposito Service così commenta (1985, p. 286):

Le controversie sembrano derivare da una mutua incomprensione, causata da differenti


scopi e interessi. Spesso… la controversia è… causata dalle diverse domande che ci si po-
ne, fatto che ha come conseguenza l’assenza di qualsiasi forma di confronto tra importan-
ti [antropologi]. Essi non si limitano a rispondersi con tempi lunghissimi; spesso non si
rivolgono affatto la parola.
Un passato
Se diamo retta ai grandi vecchi dell’antropologia, udiamo talora parlare di un consenso
passato consenso disciplinare. Colson (1985, pp. 178-179) osserva: intellettuale
16 ROBERT BOROFSKY

Un tempo vi era consenso riguardo ai problemi ed alla metodologia, e in merito al modo


in cui avremmo dovuto scrivere per il pubblico… Verso il 1930… l’etnologia americana
era definita da un insieme comune di problemi e da una comune metodologia. Essa ave-
va anche un pubblico crescente di etnologi, addestrati nello stesso modo e in grado di
identificarsi e dibattere gli stessi problemi.

Wolf (1980, p. 20) afferma:

L’antropologia del passato aveva raggiunto l’unità sotto l’egida del concetto di cultura…
Questo concetto unificava la disciplina attorno a una preoccupazione per le domande es-
senziali circa la natura della specie umana, la sua variabilità biologica e appresa, e i parti-
colari modi di valutare somiglianze e differenze.

Ma, egli nota, “il venticinquennio passato ha messo in crisi il senso di sicurezza in-
Il crollo del tellettuale. Il concetto relativamente incompleto di ‘cultura’… [ha subito] attacchi da
consenso
vari ambiti teorici”. In modo conforme alla diversità della disciplina, diversi interpre-
ti situano il crollo di questo consenso concettuale in periodi diversi. Colson ipotizza
che il crollo si sia verificato nel corso degli anni Trenta, Leaf (1979, p. 1) negli anni
Cinquanta, Yengoyan (1986, p. 38) all’inizio degli anni Sessanta e Murphy (1976, p.
19) tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Ma non v’è alcun dubbio che
oggi come oggi il concetto di cultura, e forse anche i metodi tradizionali della discipli-
na nel fare etnografia, siano meno in grado di fungere da paradigmi unificanti al ripa-
ro dei quali gli antropologi possono restare uniti.
Quest’aspetto si trova in numerosi saggi del libro. Moore, ad esempio (pp. 447-
448) si interroga circa “l’utilità dell’idea classica di ‘una cultura’”; Vayda (p. 397) criti-
ca le nozioni “essenzialiste” implicate da tale concetto; Nader (p. 126) suggerisce di
farla finita con “modelli che non producono più modi di pensare creativi”; Marcus cri-
tica il “discorso realista” dei primi scrittori etnografici; infine Bernard fa riferimento al-
la separazione crescente fra metodologie quantitative e qualitative. Sembra che qualco-
sa stia eclissandosi, sebbene una lettura più attenta di testi del passato – ad es. Barnett
(1940, p. 21) – ci metta in guardia dall’esagerare la coerenza interna dei tempi andati (a
questo proposito cfr. anche Barth 1992, p. 63). Inoltre, a differenza di una volta, siamo
in presenza, oggi, per citare Marcus e Fischer, dell’“esaurimento di una concezione
paradigmatica” (1986, p. 34). O ancora, per citare un’affermazione di Strathern (pp.
261-262), vi sono visioni plurime di come riconnettere i vari aspetti del campo di studi.
Cosa prenderà il posto di questo consenso ormai perduto è uno dei problemi es-
senziali che l’antropologia si trova ad affrontare. E per molti aspetti è proprio que-
Il futuro della
sto l’argomento del libro. Possono alcuni dei più eminenti antropologi, nelle loro
disciplina visioni e valutazioni della disciplina che in parte si sovrappongono, dare vita a un
nuovo ordine? Si tratta di una domanda che i lettori dovranno tener presente per
tutto il corso del libro; del resto quasi tutti i saggi contenuti nel volume affontano
questo tema – in modo diretto o indiretto. È in gioco il futuro della disciplina: qua-
le sarà il suo aspetto, e chi contribuirà a dargli forma? Ritorneremo su questo argo-
mento nel capitolo finale del libro, dopo che i lettori avranno avuto la possibilità di
prendere in esame i vari contributi. Per ora, in questa introduzione, vorrei chiarire i
motivi per cui si è verificato questo apparente crollo di paradigmi. Quali ne sono le
cause? Prenderò in esame tre fattori: 1) l’espansione dell’antropologia al di là dei
suoi primi “eroici maestri”, 2) le trasformazioni del contesto mondiale entro il qua-
le l’antropologia si è sviluppata e 3) le dinamiche interne alla disciplina. Anche altri
fattori hanno giocato un ruolo, come si potrà constatare leggendo Wolf (1969, pp.
245-255); ma i tre che ho citati sono stati essenziali.
INTRODUZIONE 17

Ai fini dei nostri obiettivi, potremmo in generale dividere lo sviluppo dell’antro-


pologia in tre periodi: 1) un periodo formativo, 2) un periodo degli eroici maestri e Dopo gli
3) un periodo di espansione (i lettori interessati a conoscere fatti e periodi in modo eroici maestri
più dettagliato, potranno fare riferimento a resoconti storici dello sviluppo della di-
sciplina come Harris 1968; Hatch 1973; Lowie 1937; Kuper 1983; Bohannan, Gla-
zer 1988; Stocking 1968 e Voget 1975).
Il periodo formativo inizia con la nascita della disciplina nel diciannovesimo se-
colo, e si può dire che termini nel corso delle prime decadi del secolo ventesimo. Fu
l’epoca in cui nacquero le società di antropologia, vennero pubblicate le prime ri-
cerche, fu istituito un primo nucleo di cattedre universitarie. Uomini come Morgan,
Tylor e Frazer postularono colossali modelli di progresso entro i quali tutto il
“mondo primitivo” si evolveva nel “moderno Occidente”.
Gli eroici maestri dell’antropologia – Boas, Malinowski, Radcliffe-Brown e Dur-
kheim – furono i moderni fondatori della disciplina. Prima di loro, altri antropologi
avevano lavorato in ambito universitario ma solo questi studiosi furono in grado di
creare, nel corso della prima metà del ventesimo secolo, ognuno una propria “scuo-
la”, esercitando un influsso significativo sulla disciplina nel suo complesso grazie alle
risorse finanziarie e al numero di studenti. In tal modo, il potere di questi maestri
non si esercitava solo mediante le loro idee, ma tramite i loro allievi. Stocking (1976,
p. 7), citando Kroeber, afferma che Boas fu “un vero patriarca” e riconosce che fra i
“boasiani” – cioè Boas e i suoi allievi – vigevano le dinamiche di una “vasta famiglia
tardo-vittoriana”. Le dinamiche (e le ambiguità) della prospettiva boasiana si mani-
La prospettiva
festavano anche nel lavoro dei suoi studenti. Nota Stocking (1976, p. 8): boasiana

In Boas erano presenti tutti e quattro i geni [cioè la generalizzazione scientifica, la com-
prensione storica, l’induzione rigorosa e la “penetrazione affettiva dei fenomeni come to-
talità”], sebbene il primo e l’ultimo fossero chiaramente recessivi. Nei suoi studenti, que-
sti tratti si manifestarono nei modi più vari: i boasiani più tipici tesero ad essere eterozi-
goti, sia a livello teorico (Goldenweiser) che metodologico (Spier), o ad entrambi i livelli
(Herskovits). Alcuni, tuttavia, (Kroeber) passarono attraverso fasi in cui ora una, ora l’al-
tra tendenza genetica si manifestò in modo chiaro.

Quando ci si volge a riconsiderare questo periodo – le prime due decadi del se-
colo negli Stati Uniti e in Francia per ciò che concerne Boas e Durkheim, gli anni
Venti e Trenta in Gran Bretagna per ciò che concerne Malinowski e Radcliffe-
Brown – è fondamentale ricordare quante poche persone si occupassero all’epoca La ridotta
di antropologia. Firth (1975, p. 2) afferma che “rispetto a oggi, le opere di grande comunità
antropologica
importanza erano assai limitate e gli studiosi coinvolti pochissimi”. L’American dell’inizio del
Anthropological Association annoverava 306 membri nel 1910, 666 nel 1930. “Al- Novecento
cuni anziani della nostra tribù”, nota Stocking (1976, p. 1), “ricordano ancora un’e-
poca in cui quasi tutti gli antropologi si conoscevano personalmente fra loro, ed era
possibile tenere [delle conferenze]… in una sala di modeste dimensioni”.
Non appena quelli che furono allievi di uno dei maestri trasmisero le proprie cono-
scenze ai propri studenti – Steward, ad esempio, era uno studente di Kroeber, che a
sua volta era stato allievo di Boas – si verificò una comprensibile diversificazione degli
interessi. Si può dire anzi che parte dell’attuale ampiezza dell’antropologia nasca dalla
normale espansione della disciplina al di là dell’epoca dei suoi eroici maestri. Questo
processo graduale è stato accentuato da una espansione più vasta della disciplina a par-
tire dagli anni Quaranta: i membri dell’American Anthropological Association, ad
esempio, aumentarono dai 1.101 del 1940 ai 2.260 del 1950, sino a raggiungere nel
1970 la cifra di 6.240. Oggi dell’associazione fanno parte circa 10.500 membri ed è cre-
18 ROBERT BOROFSKY

sciuto anche il numero dei corsi di laurea e dei laureati. Assieme a questa espansione,
si è verificata una crescente specializzazione: gli antropologi hanno tentato di perfezio-
nare le ampie formulazioni degli studiosi passati, finendo per differenziarsi progressi-
Espansione e vamente l’uno dall’altro da un punto di vista professionale. La divisione in varie antro-
specializzazione
della disciplina
pologie – antropologia medica, antropologia economica, antropologia giuridica, antro-
pologia politica, antropologia psicologica, ecc. – è parte integrante di questa tendenza.
L’eclissi del cosiddetto consenso intellettuale, allora, è in parte il risultato del suc-
cesso dell’antropologia come disciplina – la sua espansione dall’originario campo di
studi dei suoi eroici maestri a un ambito più vasto, che ha in sé un maggior numero di
problemi. La nostalgia che aleggia nei discorsi sul consenso dei tempi passati non tie-
ne conto di un fatto importante: per gli antropologi era più facile condividere una
medesima struttura concettuale quando vi era solo un gruppetto di persone che pren-
devano attivamente parte allo sviluppo della discliplina – gente che verosimilmente si
conosceva personalmente, che poteva aver frequentato la stessa università o almeno
aver avuto alcuni degli stessi professori. Oggi è assai meno probabile che ciò avvenga,
data l’ampiezza della disciplina e il numero dei corsi di laurea.

Veniamo così alla seconda ragione della diversità attuale dell’antropologia. Essa è
cambiata assieme al mondo nel quale è cresciuta, e le trasformazioni hanno rimesso
in questione concezioni passate senza chiarire cosa le avrebbe sostituite.
“Che l’antropologia sia nata e si sia sviluppata – osserva Lévi-Strauss a p. 617 –
Un nuovo all’ombra del colonialismo è un dato di fatto”. La decolonizzazione ha sollevato nuo-
contesto vi e difficili problemi che la disciplina deve affrontare. Come nota Godelier, gli an-
mondiale tropologi sono stati scacciati dalle popolazioni locali a causa delle associazioni antro-
pologiche imperialistiche; la sua preoccupazione per i gruppi marginali e meno svi-
luppati è stata interpretata da alcuni come un morboso interesse per l’arretratezza,
per il “primitivo” – un’immagine di cui i paesi che hanno appena conquistato l’indi-
pendenza si disfano con difficoltà. Prins (in Kuper, Kuper 1985, p. 870) ci dice che

Antropologia e l’immagine realizzata ad Accra per commemorare la conquista dell’indipendenza politica


colonialismo del Ghana mostra la fuga dei rappresentanti del colonialismo: accanto al funzionario del
Distretto amministrativo c’è l’antropologo, che reca stretta sotto il braccio una copia di
African Political Systems di Fortes ed Evans-Pritchard (1940).

Opere come quelle di Asad (1973) e Said (1978) hanno chiarito che il contesto
coloniale ha dato forma in modi sottili ai resoconti antropologici. Oggi sappiamo,
come mette in luce Godelier (p. 133), che le precedenti indagini etnografiche “ten-
devano a svolgersi in un ambiente in cui i rapporti fra osservatore ed osservato erano
di dominio, di ineguaglianza sociale e di potere”. Le immagini di stabilità e isola-
mento culturale elaborate dall’antropologia – basate su ottiche funzionaliste e su al-
cune immagini del “primitivo” – sottostimarono la natura distruttiva del controllo
occidentale e in apparenza la giustificavano. Si tratta di un punto citato anche nei
contributi di Wolf, Marcus e Nader.
Le cose, comunque, non sono così semplici. “Fino a quando hanno tentato di
Il programma
politico degli manifestare ordine e coesione”, osserva Moore in una nota a p. 454,
antropologi
i costruttori di sistemi hanno sviluppato un consapevole programma politico, che era il
contrario di ciò che i critici più recenti hanno ritenuto fosse il loro obiettivo inconscio:
pensavano infatti di mostrare quanto fossero logiche le popolazioni native

mettendo in luce la natura sistematica e funzionalmente integrata delle loro culture.


INTRODUZIONE 19

Se le buone intenzioni non sono sufficienti a evitare le critiche successive, cosa


potranno insegnarci gli antropologi del futuro riguardo al nostro ambiguo attivismo
sociale attuale? Barth (p. 426) nota che l’antropologia “ha purtroppo avuto ben po-
co da dire sul fenomeno della grande povertà che sempre più affligge centinaia di
milioni di persone in tutte le principali città del mondo”. E Keesing gli fa eco osser-
vando (p. 374) che “ciò che vi è di non-detto nella maggior parte degli attuali scritti
antropologici, parla in modo assordante, se solo ci fermiamo ad ascoltare”.
Vi è oggi qualcosa di curiosamente ironico, che dovrebbe indurre gli antropologi
a fermarsi e riflettere. La disgustosa collaborazione fra antropologia e colonialismo,
nota Lévi-Strauss, non ha certo impedito ai nativi di ricorrere ai testi antropologici
per ricostruire il proprio passato culturale – un passato costruito fondandosi su quel-
le nozioni di omogeneità e stabilità che oggi gli antropologi rifiutano, considerando- Usi politici
le semplicistiche. Proprio quando la concezione antropologica tradizionale di cultura attuali del
pensiero
viene messa in questione in seno alla disciplina, allora, i leader del Terzo Mondo antropologico
sembrano volersene appropriare per le proprie finalità politiche. “I nostri stessi mali
concettuali” afferma Keesing a p. 374, stanno ora per essere “usati contro di noi”.
Del resto, come osserva Sahalins (p. 458), la parola “cultura è sulla bocca di tutti”.
Quale conoscenza culturale si sta usando, per quali finalità e da parte di chi so-
no domande intellettuali intriganti e politicamente esplosive. Gli antropologi deb-
bono ancora venire a patti con questa politica della conoscenza, e col loro ruolo in
un mondo decolonizzato.
Accanto alla decolonizzazione, l’altro importante insieme di eventi con cui l’antro-
pologia deve confrontarsi è dato dai terribili mutamenti economici verificatisi in tutto
il mondo negli ultimi decenni. Prima della seconda guerra mondiale, se gli antropolo-
gi riuscivano con qualche difficoltà a ignorare un’enorme quantità di variabili, poteva-
no credere ancora che vi fossero piccoli gruppi – lontani dai centri del potere europeo
– che fossero isole culturali coese, libere (o relativamente libere) dalle influenze pro- La fine del
venienti dall’esterno. Oggi è semplicemente impossibile continuare a credere in qual- colonialismo
cosa di simile. “Qualunque metodologia tenti di estrarre la cultura locale pura da si-
stemi più vasti è destinata a perdere buona parte di quel che accade, e buona parte di
ciò che riguarda la popolazione oggetto di studio”, sottolineano Kottak e Colson a p.
482. “Gli interessi locali si sviluppano in funzione del loro rapporto con sistemi più
vasti”. Le realtà del mondo moderno hanno ormai raggiunto l’antropologia.
L’essersi resi conto di tutto questo ha influito sull’antropologia in molti modi. La
disciplina ha infatti rimesso in questione alcuni assunti fondamentali riguardo la natura
della cultura: come sottolinea Wolf in L’Europa e i popoli senza storia (1982, p. 538),

se noi collochiamo la realtà della società all’interno di allineamenti sociali mutevoli, imper-
fettamente definiti… e ramificati, il concetto di una cultura determinata... deve lasciare po-
sto ad una concezione che privilegi la fluidità e permeabilità delle configurazioni culturali.

L’antropologia ha poi sollevato il problema delle interconnessioni – per usare l’e-


spressione di Kottak e Colson: cioè del modo in cui aree “locali” siano legate a più
La cultura
ampie forze e strutture. A questo proposito Moore prende in esame tre differenti fluida e le
prospettive: quella culturale, quella politica e quella economica. A suo giudizio (p. interconnessioni
453), questi tre ambiti in cui si realizzano le interconnessioni “hanno tutte dei difet-
ti. Uno dei principali obiettivi dell’antropologia è di raggiungere una combinazione
plausibile di queste prospettive”. Vi è anche il problema di quella che Sahlins (p.
472) chiama “l’indigenizzazione della modernità”, cioè dei modi in cui forze più va-
ste sono concettualizzate e utilizzate in un contesto “locale”. “Gli effetti storici del
20 ROBERT BOROFSKY

capitalismo”, avverte Sahlins (p. 463), non sono “direttamente proporzionali alla sua
forza materiale, quasi si trattasse di un semplice fenomeno fisico”; sono invece rimo-
dellati dalle concettualizzazioni e dalle dinamiche culturali locali. La distinzione fra
“noi” e “loro” è diventata piuttosto ambigua, in un mondo odierno fatto di econo-
mie intrecciate fra loro e di comunicazioni ad alta velocità: le due categorie finiscono
a volte quasi per fondersi, pur restando irritantemente differenti. Il fatto che molti
tra gli scritti che compongono questa raccolta affrontino questa tematica – quelli di
DaMatta, Das, Geertz, Godelier, Keesing, Lévi-Strauss, Marcus, Moore, Nader, Sah-
lins, Strathern, Tambiah e Wolf, per citare solo alcuni dei casi più ovvi – evidenzia
quanto importante sia la problematica.

Dinamiche interne alla disciplina


Vi sono però altri fattori, legati alle dinamiche attuali interne all’antropologia,
che favoriscono la frammentazione del campo di studi.

Può sembrare strano che la disponibilità sempre crescente di dati da parte del-
I dati
l’antropologia – dati che continuano ad aumentare sia per qualità che per ampiezza
etnografici della copertura etnografica – possa arrecare dubbi in seno alla disciplina. Ma è pro-
sempre prio ciò che è accaduto. Oggi gli antropologi sono in possesso di dati etnografici
maggiori e sufficientemente affidabili da individuare i problemi insiti nelle passate concettua-
migliori
lizzazioni e approcci. Molti dei saggi contenuti nel volume affrontano questo aspet-
to – quelli di Barth, Bernard, Bloch, Borofsky, DaMatta, Das, Godelier, Goode-
nough, Goody, Harris, Keesing, Kottak e Colson, Kuper, Lévi-Strauss, Levy, Mar-
cus, Moore, Nader, Sahlins, Salzman, Strathern, Strauss e Quinn, Vayda, Wolf, Ya-
nagisako e Collier.
Oggi più che mai è chiaro ad esempio che le culture non sono unità omogenee e
stabili, tendenti all’equilibrio, a mantenere la stessa forma nel tempo e coinvolgere
persone con conoscenze per lo più comuni. Colson (1984, p. 7), citato da Vayda a p.
394, chiarisce bene questo punto:

i valori ritenuti una volta fondamentali come guida all’interazione delle persone l’una con
Fine del mito
della “stabilità l’altra e con il proprio ambiente sono situazionali e legati al tempo, piuttosto che verità
culturale” eterne utilizzate per predire il comportamento nel tempo e in ogni circostanza.

E Goody, a p. 313, si chiede: “fino a che punto la cultura del New England con-
temporaneo sia la stessa degli inizi del XIX secolo, dell’antico periodo dominato dai
Puritani, dell’Inghilterra di epoca Stuart ormai abbandonata dai Puritani...”. La gran
messe di dati in nostro possesso in relazione a questi periodi chiarisce quanto poco
tengano alcuni degli assunti sulla stabilità culturale. Nel tentativo di ripensare mo-
delli e processi culturali, siamo perciò indotti a porci domande come: 1) Come co-
municano di fatto tra loro persone con conoscenze diverse (cfr. ad es. Goode-
nough)? 2) Quali elementi culturali tendono a restare coesi nel corso del tempo (cfr.
ad es. Vayda e Borofsky) e in quali modi (cfr. ad es. Strathern)? 3) In che modo la
stabilità resiste al mutamento, e quest’ultimo si oppone alla stabilità (cfr. ad es. Sah-
lins e Yanagisako e Collier)?
L’ampiezza crescente dei dati etnografici ci aiuta anche a spiegare la crescente spe-
La cializzazione del campo di studi: dato che i tratti culturali generali di molti gruppi so-
specializzazione no ormai noti, gli antropologi contemporanei si dedicano spesso a problemi più limi-
su tematiche tati e specifici. Kuper menziona questo fatto nel suo saggio – parlando di come gli an-
specifiche
tropologi siano passati dallo studio di totalità tribali come gli tswana a quello di tema-
INTRODUZIONE 21

tiche specifiche come l’associazione dei trivellatori con sonde. Va notato che il rap-
porto fra uno studio dettagliato e l’altro non è sempre ovvio, ed è comprensibile che
questo fatto contribuisca al senso di frammentazione nell’ambito della disciplina.
Ma non basta; l’autorità etnografica ha smesso di essere quella che era una volta.
“La credibilità dei nostri resoconti dal campo” non può più fondarsi “sulla loro unici-
tà, cioè sull’assenza di altri resoconti”, nota Salzman a p. 59 (cfr. anche Geertz 1983,
p. 28). Oggi come mai in precedenza questi vengono messi in discussione, dato che
un maggior numero ricercatori lavora su comunità locali che si sovrappongono, e
Trasformazione
sempre più indigeni leggono e pongono domande riguardo a ciò che gli antropologi dell’autorità
hanno scritto su di loro: è questo, in effetti, l’aspetto considerato da Das nella sua etnografica
analisi del lavoro di Dumont sulle caste indiane. Anche DaMatta, a p. 161, vi fa riferi-
mento prendendo in esame la “legge di DeVoto”, secondo cui “più gli antropologi
scrivono sugli Stati Uniti, meno credo a ciò che dicono quando parlano di Samoa”.
Le differenti prospettive di Redfield e Lewis sulla città messicana di Tepoztlan,
o della Mead e di Freeman sulle Samoa ci inducono a mettere in dubbio l’obiettivi-
tà e l’accuratezza di vari resoconti antropologici. Questa messa in questione condu- La riflessività
ce spesso alla preoccupazione tipicamente postmoderna per i modi in cui gli antro-
pologi creano l’autorità etnografica e l’autenticità mediante alcuni espedienti lette-
rari. La riflessività, “significa implicare nei testi etnografici un resoconto consape-
vole [delle] condizioni di produzione della conoscenza” (Marcus, p. 69), è diventa-
ta sempre più importante nella scrittura etnografica rimproverando – per usare an-
cora le parole di Marcus (p. 69) – “l’‘occhio’ obiettivo e osservatore dell’etnografo
con il suo ‘io’ personale…”.
Come risultato di queste tendenze, gli antropologi oggi parlano con molta mi-
nor fiducia e certezza che in passato. L’insieme di conoscenze condivise – riguar-
danti non solo i modi in cui concepiamo la cultura, ma anche i metodi che usiamo
per studiarla – sembra perciò sempre più soggetto a esser messo in discussione.

“Clyde Kluckhohn, secondo l’affettuso ricordo di Clifford Geertz” – nota Salz-


man a p. 52; cfr. Geertz 1983, p. 27 – “amava dire che una laurea in antropologia
Orientamenti
equivale a una licenza intellettuale di caccia di frodo”. Oggi gli antropologi parteci- interdisciplinari
pano di una serie di discipline; dei tre programmi antropologici elencati da Kuper
(pp. 149-150) uno si colloca nell’ambito delle discipline umanistiche, un secondo
nell’ambito delle scienze naturali e un terzo in quello delle scienze sociali. Un esame
degli studiosi citati dagli autori di questa raccolta potrà darci il senso dell’ampiezza
assunta dalla disciplina: vi sono riferimenti allo storico sociale Foucault (nei saggi di
Borofsky, DaMatta, Geertz, Harris, Keesing, Moore, Murphy, Scheper-Hughes,
Tishkov e Wolf), al sociologo Weber (nei saggi di Barth, Borofsky, Godelier, Kuper,
Strauss e Quinn), al filosofo Wittgenstein (saggi di Geetz, Scheper-Hughes, Strauss
e Quinn, Vayda), al critico letterario Derrida (saggi di Harris e Keesing), al sociolo- Riferimenti
go Bourdieu (Borofsky, Keesing, Kuper, Moore, Scheper-Hughes, Strauss e Quinn, intellettuali e
Tambiah, Yanagisako e Collier), all’economista politico Marx (Barth, Borofsky, Da- ampiezza della
disciplina
Matta, Geertz, Godelier, Harris, Keesing, Kuper, Marcus, Murphy, Rappaport, Sah-
lins, Scheper-Hughes, Tishkov, Vayda e Wolf), al critico letterario Bakhtin (DaMat-
ta, Sahlins, Scheper-Hughes, Strauss e Quinn), all’economista politico Wallerstein
(Kottak e Colson, Nader e Tambiah), e al militante politico e intellettuale Gramsci
(Keesing, Nader e Scheper-Hughes).
Questo orientamento interdisciplinare ha caratterizzato l’antropologia già da un L’orientamento
po’ di tempo. Boas (1904, p. 523), quasi un secolo fa, ammetteva che “[alla discipli- interdisciplinare
na] è necessaria una conoscenza speciale che non può esser offerta dall’antropologia
22 ROBERT BOROFSKY

generale” stessa. Come ha osservato Fortes (1953, p. 1), i fondatori dell’antropologia


all’Università di Cambridge “ripetevano con insistenza [che] gli studi antropologici
non potevano fiorire restando isolati… e che i progressi nella conoscenza antropolo-
gica erano inseparabili dai progressi nelle scienze umane ad essa connesse”. E anche
Tax (1956, p. 315), riassumendo i tratti comuni a tutti gli antropologi, commentava
che “una delle caratteristiche più apprezzate è stata sempre la libertà e insieme la ne-
cessità di fondarsi su conoscenze provenienti da qualsiasi fonte fosse ritenuta perti-
nente in relazione ai problemi dell’antropologia”. Wolf (1964, p. 6) cita un ulteriore
aspetto di questa tendenza:

L’antropologia americana ha importato buona parte del proprio armamentario teorico da


oltre Atlantico… Si potrebbe, anzi, notare ironicamente che per un lungo periodo di
tempo Lewis H. Morgan, il principale teorico americano, fu un profeta ovunque tranne
che in patria.

Dei sei autori che in questo volume citano Morgan – DaMatta, Godelier, Kuper,
Marcus, Wolf, Yanagisako e Collier – solo l’antropologo francese Godelier entra nel
merito della sua opera, per la quale mostra sincero apprezzamento. Anche Bloch fa
riferimento a questo stesso modello – cioè la tendenza a ispirarsi a pensatori stra-
nieri – ma in senso opposto: a p. 339 egli afferma che gli antropologi europei do-
vrebbero prestare maggior attenzione al lavoro degli scienziati cognitivi e degli an-
tropologi cognitivi americani.
La tendenza degli antropologi americani a importare idee dall’altra sponda del-
l’Atlantico si è semmai rafforzata durante lo scorso decennio, quando hanno cerca-
to di ispirarsi alla vita intellettuale europea (e in particolare francese). In una re-
cente intervista, Geertz (1991, p. 611) nota che in passato “gli antropologi [tende-
L’esterofilia vano di solito a] leggere altri antropologi” – “come Boas, Kroeber e Lowie”. “L’i-
intellettuale
degli
dea che si dovessero leggere filosofi, che Wittgenstein avesse qualcosa di interes-
antropologi sante da dire agli antropologi sarebbe apparsa del tutto fuori luogo”. Oggi al con-
trario, egli afferma, “…il campo di interessi è vastissimo… accade quasi l’oppo-
sto… questo è ciò che è accaduto negli anni ’80”. Una simile apertura ha condotto
a sviluppi intellettuali innovativi ma, osserva Geertz, “ha anche creato una certa
instabilità” nella disciplina.
Il punto è che se gli antropologi continuano a rivolgersi ad autorità esterne alla
propria disciplina, non c’è da sorprendersi che il campo di studi sia, in certa misu-
ra, frammentato, spinto com’è in direzioni diverse da ricercatori diversi.

Alcuni antropologi di professione potrebbero trovare esagerata l’affermazione


di Salzman (p. 52) che vede nell’antropologia la “terra dell’uomo libero”. Ma i let-
tori potranno rendersi conto che Salzman non è il solo a sostenere questo assunto e
che altri studiosi, sia interni che esterni alla disciplina, hanno sostenuto argomenta-
zioni simili. Braroe e Hicks (1967, pp. 179, 177) scrivono in «The Sociological
Lo stile
anticonformista
Quarterly» che molti antropologi “tradiscono un’inguaribile antipatia nei confronti
dell’antropologia dell’autorità nell’ambito della loro… cultura”; gli autori evocano poi la “nozione
romantica dell’antropologo come un avventuriero intrepido, eccentrico e instanca-
bilmente anticonformista”. Rappaport, dal canto suo, nota a p. 194 che “le mie os-
servazioni, quindi, non possono riferirsi ad altro che a quello che ciascuno di noi ri-
tiene sia interessante ed importante”, mentre Kroeber (in Thomas 1956, p. 309) –
pilastro della conservazione istituzionale e allievo di Boas – ha espresso lo stesso
concetto in forma più ambigua: “Gli antropologi della vecchia scuola” – ha detto –
INTRODUZIONE 23

“ubbidiscono, come è noto, solo agli ordini provenienti dall’interno della loro stes-
sa cerchia”. Altrove lo stesso Kroeber (in Tax, Eiseley, Rouse, Voegelin 1953, pp.
151-152) così si accalora sull’argomento:

L’antropologia è senza dubbio una delle scienze più centrifughe, ed ha conquistato un terri- Una scienza
torio enorme. Talora siamo amichevolmente derisi da gente che lavora in ambiti nei quali libera e
un numero di persone cinque o dieci volte superiore si occupa di una serie di problemi as- centrifuga
sai più ristretta. Come afferma Redfield, la nostra predisposizione ad occuparci di questioni
che si trovano ai margini di qualunque settore dell’immenso e variegato campo dello studio
dell’uomo… fa dell’antropologia la più libera ed esplorativa delle scienze. Credo che questa
affermazione sia legittima. Di recente, io stesso ho tracciato una distinzione fra antropolo-
gia culturale e sociologia sulla base degli adepti che ciascuna di esse annovera al proprio in-
terno: chi ha radicate tendenze centrifughe ed è attratto dal remoto e dal marginale diviene
antropologo, mentre chi è attratto dal familiare e dal ripetitivo, non desidera avventure in-
tellettuali e aspira ad agire in un orizzonte dai confini ben delimitati diventa sociologo.

Come nota Salzman, un simile orientamento disciplinare ha implicazioni di un


certo peso. Cito in proposito Tax (1956, p. 320):
Polisemia
terminologica
L’ampiezza dell’impresa… l’apertura dei confini ad uomini e idee, la grande tolleranza
nei confronti di una varietà di argomenti e strumenti: al di là di tutto questo, nasce anche
un atteggiamento di tolleranza nei confronti di una certa ambiguità e vaghezza.

Si può allora comprendere perché esistono tante definizioni diverse di antropolo-


gia e cultura. Ben ventotto fra gli autori di questa raccolta usano o si riferiscono ai ter-
mini interpretare, interpretativo e interpretazione; ma un’analisi più attenta del modo
in cui usano queste parole metterà in luce nette differenze di significato. Lo stesso va-
le per i quattordici che hanno parlato di postmoderno, e i dieci che si sono rifatti a
prospettive materialiste: anche se gli autori utilizzano le stesse parole, vi attribuiscono
significati diversi. Questo induce Murphy (p. 80) ad affermare nel proprio saggio:

La teoria culturale moderna soffre di una tale frammentazione e dispersione che sembra
rovesciare l’intero discorso all’interno della nostra comunità scientifica... i campioni di
ogni punto di vista... si parlano uno addosso all’altro in una confusione di lingue: si parla
molto, ma si dialoga ben poco.

In antropologia, questo orientamento dà forza a un particolare stile: la persua-


sione e la verifica sembrano sovrapporsi in modi alquanto elusivi. Alcuni noti antro-
pologi, del resto, hanno fatto osservazioni degne di nota sullo stile intellettuale del-
l’antropologia; e i contributi di due di loro sono presenti in questo volume. Barth,
ad esempio, afferma alle pp. 426-427:

La creatività teorica richiede, naturalmente, la libertà di criticare e di rifiutare, l’indipen-


denza dalle convenzioni, e una volontà di esplorare altre, radicali posizioni. Ma… non si
migliora la propria creatività raccattando freneticamente cose all’ultima moda, e abban-
donando tutte le prospettive precedentemente stabilite (e le loro alternative). Nelle uni-
versità americane esiste una forte pressione in direzione di un’originalità stereotipata.

E Wolf commenta a p. 270:


Le “mode” nel
In antropologia i paradigmi vengono continuamente violati, solo per vederli rinascere co- campo di studi
me se fossero stati appena scoperti... Dal momento che ogni successivo approccio recide
24 ROBERT BOROFSKY

di netto i precedenti, l’antropologia rischia di somigliare ad un progetto di deforestazio-


ne intellettuale.

Gli antropologi delle generazioni passate si soffermavano a riflettere questa stessa


tendenza; Kroeber (1948, p. 362), ad esempio, afferma che scienze come l’antropolo-
gia “vanno soggette alle ondate di moda” e Wallace (1966, p. 1.254) parla della natu-
ra “taglia e brucia” dell’antropologia (cfr. Lévi-Strauss, Eribon 1991, pp. 91-92).
Le teorie e i modelli della disciplina sembrano, almeno a un esame superficiale,
avere una “vita media intellettuale” relativamente breve. Gli antropologi spesso
La ricerca avanzano in apparenza verso il “nuovo” sminuendo il vecchio – “facendone strage”,
del nuovo gettandolo via, o semplicemente ignorandolo. Così lo “stimolante saggio” di Evans-
Pritchard “sull’importanza della storia per… l’antropologia [scritto nel 1961] ha agi-
to come una provocazione per alcuni dei suoi colleghi”, afferma Firth (1975, p. 8),

non tanto, come sosteneva [Evans-Pritchard], a causa del pregiudizio antistorico dei [suoi
colleghi], ma perché affermando che gli antropologi avevano voltato le spalle alla storia egli
ignorava completamente i contributi già realizzati in tale ambito, in particolare da Schapera.

Le intuizioni possono sembrare più nuove quando si ignorano i propri predeces-


sori; e questo è tanto più vero oggi – epoca in cui nuovi antropologi, alla ricerca di
posti in un mercato del lavoro sempre più ridotto e di uno status in seno a una disci-
plina in espansione, trovano vantaggioso da un punto di vista finanziario e intellet-
tuale crearsi le proprie nicchie denigrando o ignorando i loro predecessori. I recenti
Originalità a
tutti i costi commenti di Colson a riguardo (1992, p. 51) meritano di esser citati per esteso:

Il rapido aumento della popolazione e la dispersione geografica [nell’ambito della disci-


plina] sono andate di pari passo con la nascita di una moltitudine di scuole intellettuali,
ciascuna delle quali sottolinea la propria unicità e superiorità, da un lato, e sente il biso-
gno che la totalità della comunità socioculturale accetti la sua leadership. Questo non ac-
cade mai, e persino la formula di maggior successo raramente mantiene il predominio
per più di un decennio: nel momento in cui sembra che trionfi, finisce per essere rieti-
chettata come ortodossia fuori moda dai giovani antropologi che stanno tentando di la-
sciare la propria impronta in questo ambito professionale. Si produce così un effetto te-
rapeutico che fa passare di moda quasi tutta la letteratura esistente, già adesso troppo va-
sta per esser fruita da un qualsiasi nuovo venuto, mentre al tempo stesso vecchie idee
continuano ad essere sostenute con nuove formulazioni. La storia dell’antropologia è uno
splendido esempio di ciò che John Barnes chiamò una volta amnesia strutturale: la crea-
zione di comodi miti che eliminano quasi tutti i dettagli e celebrano un numero molto li-
mitato di figure ancestrali. La dimenticanza selettiva, tuttavia, oscura la continuità di idee
che in realtà continua a guidare molto di ciò che è fatto.

Si potrebbe credere che la presenza di queste tendenze centrifughe possa con-


durre l’antropologia all’autodistruzione, a frammentarsi in una miriade di piccoli
pezzetti. Ma ciò non è accaduto; vi sono infatti forti tendenze centripete, che danno
alla disciplina un solido nucleo intellettuale.

Tendenze centripete
Le forze che mantengono unita l’antropologia culturale sono numerose, ma le
Tre forze più importanti fra queste sono: 1) le tradizioni condivise dalla disciplina, 2) un in-
centripete
sieme simile di esperienze di ricerca sul campo fra quanti praticano la disciplina, 3)
la qualità sempre migliore dei dati etnografici a sua disposizione e 4) la sua natura
autocorrettiva e in continuo sviluppo.
INTRODUZIONE 25

Le tradizioni condivise, spesso inculcate durante l’apprendimento nei corsi di


laurea e rafforzate nella letteratura relativa al campo di studi, sono un lascito del Tradizioni
passato della disciplina. Le vecchie prospettive – come l’evoluzione culturale di condivise
Morgan, Tylor, Frazer e il funzionalismo di Malinowski e Radcliffe-Brown – sem-
brano rivivere in diverse formulazioni o forme molto tempo dopo esser state in ap-
parenza respinte dalla disciplina nel suo insieme (un po’ alla maniera delle sopravvi-
venze di Tylor). Lo si può constatare per il funzionalismo nella sua relazione con
l’olismo, per il diffusionismo in relazione alla “teoria dei sistemi-mondo” e per l’e-
voluzione culturale in relazione alle moderne concezioni del mutamento. Passerò
ora a descrivere molte di queste tradizioni condivise dell’antropologia.

L’olismo sottolinea due tematiche che si sovrappongono. In primo luogo, le cul-


ture debbono esser studiate come totalità, e non come parti frammentate. Mauss
(1925, p. 286), figura chiave nello sviluppo dell’antropologia francese, afferma che
gli antropologi “si occupano di ‘totalità’, di sistemi nella loro interezza”; in altre pa-
role, per usare la sua espressione, di “fatti sociali totali”. In secondo luogo, gli ele-
menti culturali sono spesso considerati interrelati e interdipendenti: “l’intricata in-
terdipendenza di tutti i tratti della vita di un popolo”, per dirla con le parole di
Kluckhohn (1949, p. 289). Malinowski e Boas, figure chiave nello sviluppo dell’an- La
preoccupazione
tropologia britannica e americana, hanno anch’essi sottolineato la prospettiva olisti- per l’olismo
ca; per citare Boas (1938, a cura, p. 5): “Non possiamo render giustizia a tutti gli im-
portanti problemi della storia umana se trattiamo la vita sociale come una mera som-
ma di… elementi separati. Bisogna comprendere la vita e la cultura come totalità”.
Questo impegno verso l’olismo traspare anche nelle loro etnografie: Malinowski
(1922), ad esempio, nel descrivere gli scambi marittimi kula fra gli abitanti delle iso-
le Trobriand (dei papua della Nuova Guinea), fa riferimento anche agli stili con cui
venivano costruite le canoe, alla magia e alla stratificazione sociale; e Boas (1966), nel
descrivere i matrimoni presso i kwakiutl dell’America del Nordovest tiene conto an-
che dei regimi di proprietà e delle cerimonie del potlatch.
Una preoccupazione per l’olismo emerge in molti dei saggi in questo volume.
Harris, ad esempio, fa riferimento al primato delle infrastrutture, in cui le trasfor-
mazioni all’interno del sistema socioculturale nell’interfaccia fra biologia e cultura
modellano le trasformazioni in altre parti del sistema; questo è ciò cui allude parlan-
do (1991, p. 404) dei “costi e benefici materiali necessari a soddisfare i bisogni es-
senziali in un habitat particolare”. Levy analizza il modo in cui gli stili della perso-
nalità si adattano ai particolari modelli di integrazione culturale a Tahiti e in Nepal.
Nader, nelle sue ipotesi sulla subordinazione femminile, suggerisce che gli elementi
culturali siano interrelati. E infine Yanagisako e Collier (a p. 252) affermano che “le
analisi centrate sul gender devono partire da totalità sociali, piuttosto che da indivi-
dui o ambiti funzionali come la parentela”.

Per gli antropologi, intelligibilità e comprensione sono raggiunte solo situando


gli elementi nel loro contesto culturale. Ciò che può sembrare strano ed esotico a
quanti non hanno familiarità con le pratiche di una data cultura, spesso acquista un Il contesto
proprio senso se viene collocato nei contesti di significato indigeni; lo scopo dell’et-
nografo, ha affermato Malinowski in quella che è diventata una citazione famosa
(1922, p. 49), è “afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita,
di rendersi conto della sua visione del suo mondo”. E Kroeber (1943, p. 6) nota che
anche Boas insisteva nell’affermare che “i fenomeni possono essere affrontati pro-
priamente solo nel contesto a loro connesso”. Questo è il motivo per cui gli antropo-
26 ROBERT BOROFSKY

logi dedicano un notevole spazio nelle loro etnografie all’analisi dei termini indigeni,
cercando di farci capire tutte le sottigliezze e la complessità delle percezioni indige-
ne: in questo modo si mette in luce il loro significato chiarendo – per citare Geerz
(1973, p. 54) – “ciò che accade in questi luoghi... [e] che tipi di uomini siano”. Inol-
tre, collocare elementi culturali in apparenza esotici nei contesti indigeni rappresenta
anche un antidoto contro il fanatismo: rende l’estraneo e il “selvaggio” più compren-
sibili, più razionali. La comprensione fra “noi” e gli “altri” progredisce se si tiene
conto dei contesti nei quali questi popoli “altri” conducono le proprie vite.

Tuttavia non dovremmo esagerare la dedizione degli antropologi nei confronti


dell’olismo e del contesto culturale. Quasi tutti gli antropologi tendono ad accettare
Un disagio
condiviso questi concetti in forma generale, ma sono anche a disagio quando si tratta di farli
propri completamente, poiché presentano aspetti problematici.
L’olismo, ad esempio, è soprattutto visto come uno strumento analitico, un ap-
proccio piuttosto che una teoria. Si tratta, per citare Moore (p. 442), più di “una
domanda da porsi, piuttosto che una risposta”, di uno strumento per scoprire “il fi-
lo degli influssi” (per usare i termini di Vayda a p. 395). La famosa affermazione di
Lowie (1920, p. 441) secondo cui la civiltà (o la cultura) è fatta “di stracci e bran-
delli” è stata rifiutata (il grande “picconatore” è stato lui stesso picconato). Ma co-
me Vayda, Barth, Moore, Strathern e io stesso abbiamo sottolineato, il modo in cui
una cultura è integrata resta un problema aperto. Problema che, come sottolinea
Strathern, implica aspetti sottili e complessi: non soltanto dobbiamo esser consape-
voli, ad esempio, di come i gruppi indigeni costruiscono totalità muovendo da sin-
gole parti, ma dobbiamo anche “tentare – afferma a p. 252 – di comprendere in
modo olistico come i nostri soggetti decostruiscono i propri costrutti”. In poche pa-
role, bisogna che chiariamo meglio in che modo parti e totalità riescono (o non ri-
escono) ad adattarsi le une all’altra.

Sebbene gli antropologi, fino a tempi recenti, abbiamo spesso formulato i propri
Trasformazioni resoconti in un “presente etnografico’’ (fondendo in una mistura senza tempo rac-
e mutamento
colte di dati del passato e osservazioni sul presente tratte dalla ricerca sul terreno), e
sebbene i funzionalisti si siano concentrati, come nota Beattie (1955, p. 7), “sullo
stato presente della società” e abbiano evitato “di far congetture sulla remota origi-
ne delle cose”, gli antropologi si sono anche tradizionalmente occupati dei processi
e dei problemi del mutamento. E quest’interesse non sorse semplicemente con la
“ri-scoperta” della storia da parte di Evans-Pritchard: i primi evoluzionisti infatti –
Morgan, Frazer e Tylor – si occupavano delle trasformazioni culturali, e i primi dif-
fusionisti – come Schmidt e Graebner – erano interessati alla diffusione delle idee e
Evoluzionisti
diffusionisti e
della cultura materiale. Gli antropologi sono stati totalmente assorbiti da problemi
l’interesse per il del mutamento culturale per numerosi decenni sino a oggi. Bisogna ammettere che
mutamento il tema è stato affrontato con una gran varietà di denominazioni – non soltanto evo-
luzione, storia e processo ma anche acculturazione (Redfield, Linton ed Hersko-
vits), configurazioni di crescita culturale (Kroeber) e innovazione (Barnett).
Le questioni chiave relative al mutamento sono per lo più rimaste le stesse nel
corso del tempo. Esse si appuntano su relazioni causali: quali forme culturali sono
prodotte da quali fattori e in quali proporzioni. “Alla fine” nota Godelier (p. 142,
Le cause del
corsivo nostro) “la questione essenziale per le scienze sociali è: di tutte le molteplici
mutamento attività umane, quali sono quelle che causano non solo i cambiamenti nella socie-
tà… ma della società?”. Aggiungono Yanagisako e Collier (p. 246): “Abbiamo quin-
di bisogno di una strategia... in modo di poter osservare i cambiamenti nei sistemi
INTRODUZIONE 27

sociali e, insieme, riuscire a comprendere meglio i processi che permettono loro di


rimanere nel tempo, relativamente stabili”.

Tradizionalmente, gli antropologi hanno studiato popoli posti sotto il controllo


politico delle élites occidentali – sia in luoghi lontani come l’Africa o Papua in Nuo-
va Guinea, sia in luoghi più vicini a noi come le riserve degli indiani d’America o le I soggetti
studiati
comunità rurali dell’Europa contadina. DaMatta afferma che gli americani un tem-
po preferivano non studiare la propria cultura (sebbene Powdermaker [1939] e
Warner e Lunt [1941, 1942] costituiscano delle ovvie eccezioni). Le cose sono chia-
ramente cambiate: oggi vi sono un gran numero di studi che affrontano una vasta
serie di argomenti concernenti la cultura americana – come ad esempio, per citarne
solo alcuni, la controversia sull’aborto a Fargo, North Dakota (Ginsburg 1989), le
donne nei college del North Carolina (Holland, Eisenhart 1990), e gli scaricatori di
porto di Portland (Pilcher 1972).
Pur con queste trasformazioni, tuttavia, vi è stata una chiara e soggiacente conti-
nuità nei soggetti di studio prescelti in genere dagli antropologi: gli antropologi ten-
dono a studiare i “perdenti”, per usare la formulazione di Nader (1969), tendono a
concentrare la propria attenzione sui “derelitti” (Tax 1956, p. 321). L’accento va su
chi ha meno potere, su quanti sono ai margini dei centri in cui si esercita il potere Lo studio dei
subalterni
politico ed economico occidentale; di solito, gli antropologi tentano di descrivere
queste persone – come mostra il saggio di Scheper-Hughes – trasmettendoci un
senso di dignità e inducendoci a riconoscere il valore alla loro condizione.
Quando gli antropologi risalgono alla sommità della piramide del potere prenden-
do in esame non solo i colonizzati ma anche i colonizzatori (ad es. Stoler 1989a,
1989b, John Comaroff 1989, Comaroff, Comaroff 1992) di solito li studiano in luoghi
lontani dall’“Occidente”, in Indonesia e Sudafrica, ad esempio. A dire la verità dovrei
far notare che esistono delle eccezioni a questa tendenza generale, i cui esempi più
noti sono forse Waiting di Crapanzano, People as Subject, People as Object di Domin-
guez, Eva Peron di Taylor, Good Families of Barcelona di McDonogh e Lives in Trust
di Marcus ed Hall, sebbene anche in questi casi vi sia una certa distanza sociale che
tende a tener distinti gli antropologi dai loro informatori. La ricerca antropologica, in
ogni caso, resta per lo più orientata allo studio di quanti hanno apparentemente meno
potere degli antropologi, e studia anche coloro che – per il fatto di esser separati geo-
graficamente e/o distanti socialmente dagli antropologi – allontanano questi ultimi
dalle loro consuete conoscenze e valori. Proprio descrivendo queste persone la disci-
plina ha potuto fornire i suoi più validi contributi etnografici sino ad oggi.
Quarant’anni fa, Oscar Lewis (1956, p. 260) ha sottolineato che

buona parte della scrittura antropologica contiene comparazioni. Persino le monografie a


carattere prevalentemente descrittivo formulano in genere dei confronti con la letteratura
antecedente, e molte contengono un capitolo finale comparativo.

L’antropologo britannico Nadel (1953, p. 229), scrivendo nella stessa decade, Comparazione
sottolineò che l’antropologia era “sposata” alla comparazione: “Studiamo le variazio-
ni… e le mettiamo in correlazione affinché possano emergere regolarità generali” (p.
222); e Nader (a p. 126) afferma: “Gli antropologi negli ultimi cento anni, hanno co-
stantemente riconosciuto nell’antropologia una disciplina comparativa”.
Godelier (a p. 136) descrive due tipi di comparazione: in uno le culture sono se-
zionate, frammentate, e i loro specifici aspetti – come il sistema parentale, i modelli
di scambio economico o le pratiche religiose – sono comparati tra loro; nell’altro, le
28 ROBERT BOROFSKY

comparazioni sono condotte fra diverse “entità totali”. In quest’ultimo caso, sono in-
tere società denominate “Stati” o “regni” ad esser confrontate tra loro. Il problema
dinanzi al quale si trovano entrambi i tipi di comparazione è che essi possono, a vol-
Due tipi di te, contraddire altri orientamenti antropologici: così il primo tipo di comparazione
comparazione può opporsi alla preoccupazione per l’olismo (poiché in questo caso la cultura viene
frammentata in componenti, e le parti della cultura sono separate l’una dall’altra per
gli scopi dell’analisi); il secondo può invece contraddire l’importanza attribuita al
contesto (perché una cultura viene separata dalle condizioni regionali e storiche che
rendono comprensibili particolari credenze e pratiche).
Mentre la comparazione è un aspetto fondamentale della disciplina, dobbiamo
però riconoscere che essa rimane anche un concetto per molti versi problematico.
Quel che gli antropologi condividono sulla comparazione è non solo la percezione
dei suoi metodi e possibilità, ma anche la percezione dei problemi ancora irrisolti:
la comparazione è uno strumento che stiamo ancora imparando a usare.

A p. 215 Bernard nota che “Sulle questioni epistemologiche le posizioni degli


antropologi divergono, ma il metodo strategico dell’osservazione partecipante viene
usato da quasi tutti per raccogliere dati originali”. L’osservazione partecipante, co-
me implica la sua stessa denominazione, ha in sé due processi: gli antropologi non
Osservazione
partecipante
solo osservano la popolazione studiata (sforzandosi di essere obiettivi), ma prendo-
no anche parte a varie attività – e questo sia per esser meno distanti che per ottene-
re una comprensione delle attività descritte sperimentandole direttamente. Gli an-
tropologi accettano, per citare Geertz (1985, p. 624) l’“affermazione in base alla
quale per comprendere gli ‘altri’… è utile stare con loro come essi stessi fanno”.
Secondo la celebre formulazione di Malinowski, gli antropologi debbono “usci-
re dal portico delle proprie case”. Pochi antropologi scrivono una etnografia limi-
tandosi a raccogliere commenti di seconda mano su una cultura, o intervistando gli
informatori al di fuori dei contesti delle loro vite quotidiane (ad es. in un portico di
una abitazione europea). Gli antropologi raccolgono i propri dati vivendo presso il
popolo oggetto di studio – e non solo per pochi mesi, ma per degli anni.
Colson, nella sue breve autopresentazione intellettuale, nota di aver studiato
presso i tonga dell’Altopiano e gli gwembe tonga dello Zambia per più di quaran-
t’anni. “Per il suo essere a lungo termine”, il che implica contatti intimi e ininterrot-
ti con coloro che studiamo – nota Bloch a p. 345 – “l’osservazione partecipante ci
permette di conoscere le procedure che quelle stesse persone hanno appreso e ci
mette in condizione di controllare se stiamo imparando correttamente”. L’osserva-
zione partecipante, come afferma Bernard a p. 215,

rappresenta lo strumento che rende possibile sia agli interpretativisti che ai positivisti la
raccolta di documenti sulle storie di vita, la partecipazione a celebrazioni sacre, la discus-
sione con persone su argomenti significativi, la valutazione dei possedimenti terrieri, l’e-
numerazione delle prede, camminando a fianco dei cacciatori; essi possono intervistare
formalmente e informalmente le donne che commerciano, per comprendere come riesco-
no a recuperare le perdite subìte nel mercato giornaliero.

A dispetto delle loro differenze, perciò, gli antropologi possono vantare un co-
mune metodo di raccolta dei dati.
La visione
Infine l’antropologia si fa interprete di una particolare visione che punta a mi-
antropologica gliorare le relazioni sociali e, più in generale, la qualità della vita umana. Nel far ciò
essa sottolinea tre diversi aspetti.
INTRODUZIONE 29

In primo luogo, mette in luce le caratteristiche che gli uomini hanno in comune:
l’antropologia sottolinea quel che condividiamo con persone in apparenza diverse
da noi per comportamenti, credenze e luoghi in cui vivono. Parafrasando Hymes
(1979b, p. 73), l’antropologia amplia il nostro sentimento di comunanza morale,
sottolineando ciò che ci lega agli altri.
In secondo luogo, l’antropologia attribuisce un valore alla differenza culturale.
Gli antropologi testimoniano altre umanità (utilizzando le parole di DaMatta a p.
160) di altri modi di vita; li registriamo e proteggiamo, affinché non vadano perduti
per le generazioni future. Oggi molti occidentali non solo conoscono la vita che si
conduce in aree distanti dell’Africa o nelle lontane isole del Pacifico, ma – fatto al-
trettanto importante – ritengono che gli stili di vita di questi popoli abbiano un va-
lore. Conoscenze di ogni sorta, giunteci da ogni sorta di popolazione locale sono ac-
colte positivamente dalla coscienza occidentale grazie all’antropologia.
In terzo luogo, l’antropologia utilizza la differenza culturale come forma di criti-
ca culturale e – attraverso la critica – contribuisce a un arricchimento della cultura.
Essa mostra che esistono altre possibilità di risolvere i problemi e costruire esisten- Valorizzare le
ze dotate di senso – diverse da quelle che ci sono più familiari: è ciò cui alludono differenze
culturali
Marcus e Fischer quando affermano che “l’antropologia non è una collezione del-
l’esotico, bensì l’uso della ricchezza culturale per una riflessione e la crescita del
sé” (1986, p. 32). Ed è ciò che Rappaport vuol dire a p. 208, quando afferma che “il
futuro dell’antropologia consiste nell’aiutare l’umanità a realizzare, cioè a compren-
dere e mettere in atto, questa visione del suo posto nel mondo”. L’antropologia ci
dà modo di riconfigurare i rapporti sociali ed ecologici, per poter rinnovare la no-
stra comune umanità e interdipendenza. L’antropologia è una disciplina diversa dalle
altre, perché afferma che i marginali – i dominati, coloro che non hanno potere – han-
no un importante contributo da dare all’arricchimento degli altri, compresi coloro che
occupano i centri del potere.
Tuttavia farsi sostenitori di un’immagine di ciò che siamo e di ciò che dovrem-
mo essere è una cosa; realizzarla nei fatti è un’altra – e in quest’ultimo senso l’an-
tropologia ha collezionato un minor numero di successi. Ho citato più in alto
Barth e Keesing, ma anche altri autori di questa raccolta affrontano l’argomento:
Godelier (a p. 131) si chiede se le scienze sociali siano solo capaci di “inseguire
gli eventi”; Das rimette in discussione l’uso (e l’uso scorretto) dei dati etnografici; Scarsità di
Salzman (p. 54) nota che “il nostro lavoro rimane al margine della... vita dei po- successi pratici
poli che studiamo”; DaMatta infine analizza alcuni dei motivi che hanno reso gli
antropologi americani restii a impegnarsi in un’azione sociale più ampia. Per par-
te mia, ritengo che come antropologi non abbiamo in comune soltanto una solida
visione intellettuale, ma anche lo scarso successo conseguito quando si è trattato
di metterla in atto.

Esperienze in comune in relazione alla ricerca sul campo


Manners e Kaplan (1968, p. 1) segnalano che la ricerca sul terreno è

non solo l’‘espediente’ utilizzato dagli antropologi per raccogliere il materiale empirico
necessario alla disciplina, ma è diventata molto di più…: una sorta di pietra di paragone
dell’accettabilità di un’indagine, un rite de passage attraverso il quale si sancisce la pro-
pria appartenenza alla comunità degli antropologi.

Quanto a Leach (1961, p. 13), per lui si tratta della “base essenziale” dell’antro-
pologia, mentre per Cohn (1980, p. 200) è un “solenne rito”.
30 ROBERT BOROFSKY

Quasi tutti gli antropologi provano almeno una volta (e alcuni molte volte) l’e-
L’importanza sperienza al tempo stesso eccitante e frustrante di vivere in un luogo estraneo, con-
della ricerca sul frontandosi con saperi estranei. Le ambiguità nella raccolta dei dati, la preoccupa-
campo zione di astrarre modelli e processi dalle fluttuazioni della vita quotidiana, il bisogno
di dar senso all’estraneo sono tutte esperienze antropologiche condivise, sono parte
del processo che conduce a diventare e a essere antropologo. Come nota Salzman (p.
54) la ricerca sul campo è “una pratica rischiosa ed estenuante”; e gli antropologi si
riscoprono come comunità per il fatto di vivere tutti quanti questa esperienza.
Data la grande diversità nelle preoccupazioni teoriche dei decenni passati, que-
sta esperienza etnografica sembra spesso fornire agli antropologi un fondamento
comune. Come afferma Wolf (1964, p. 89), “in un certo senso, nel sistema gerarchi-
co privato degli… antropologi, l’eccellente ricercatore che ha raccolto minuti detta-
gli etnografici è considerato superiore al più dotato fra i teorici”. E Fernandez
(1975, p. 191) aggiunge:

Noi antropologi condanniamo spesso l’abitudine di fare della ricerca sul campo una vera
e propria mania; tuttavia quasi sempre sono i ricchi dati risultanti da una esperienza di ri-
cerca sul campo portata a compimento a costituire il punto di partenza di ogni traguardo
significativo cui è giunta la nostra disciplina (...) praticamente tutte le figure più significa-
tive nell’ambito della disciplina possono essere ricondotte ad un corpus etnografico:
Boas ai Kwakiutl, Malinowski alle Trobriand, Lowie ai Crow, Kluckhohn ai Navajo,
Evans-Pritchard ai Nuer, Griaule… ai Dogon, [e] Firth ai Tikopia.

Da tale prospettiva nasce la sensazione, comune a molti antropologi, che le etno-


grafie durino più delle teorie (cfr. ad es. la nota 3 del saggio di Moore). In realtà que-
Le etnografie sto è vero soltanto in parte: gli scritti su gruppi come gli eschimesi hanno chiaramen-
durano più te retto alla prova del tempo, ma recenti scritti su altri gruppi come ad esempio gli
delle teorie?
aborigeni australiani (cfr. Fardon 1990, p. 39) hanno riconsiderato le prospettive del
passato – mentre peraltro, come noteremo fra breve, sembra che le stesse domande
teoriche abbiano continuato a esser presenti in antropologia per molto tempo, men-
tre è cambiato solo il modo in cui sono state di volta in volta formulate. La sensazio-
ne che le etnografie siano relativamente durevoli può essere invece considerata una
reazione alla preoccupazione intellettuale della disciplina per le mode in continua
trasformazione, su cui ci siamo già soffermati: in questo caso, infatti, l’etnografia of-
fre una solida base intellettuale ed emotiva per l’intera disciplina.

La base di dati dell’antropologia


A dispetto delle differenze intellettuali che li dividono, quasi tutti gli antropolo-
gi sono d’accordo nel riconoscere che la base di dati in possesso della disciplina è
aumentata – e ciò non solo a causa del suo inarrestabile ampliarsi e approfondirsi
L’aumento dei man mano che nuovi dati vi si aggiungevano in modo costante.
dati e della Ciò accade invece perché le stesse etnografie sono migliorate: le etnografie mo-
qualità del derne implicano di solito descrizioni più dettagliate, sono più sofisticate nell’analisi
lavoro della dinamica culturale e mostrano una maggiore sensibilità nei riguardi delle sfu-
etnografico
mature temporali e spaziali rispetto al passato (cfr. Colson 1992, p. 51).
Il possesso di questi dati ha fatto sì che gli antropologi ripensassero al modo in
cui fanno antropologia. Sta diventando sempre più chiaro, ad esempio, che la spe-
cializzazione ha dei limiti e che dividere una cultura in “sistemi” economico, politi-
co o religioso può essere utile per una comprensione iniziale di un gruppo, ma al di
là di un certo punto è inevitabile che qualcosa vada perduto. Goody nota questo
fatto a p. 311, quando afferma che “è difficile individuare un qualche beneficio che
INTRODUZIONE 31

sia derivato dal trattare il livello dell’ideazione… come un distinto campo del sape-
re”; quanto a Yanagisako e Collier, esse ribadiscono a p. 238 “l’impossibilità di I limiti della
comprendere l’interazione all’interno delle ‘sfere domestiche’, senza comprendere specializzazione
allo stesso tempo l’organizzazione degli ambiti politici ed economici”; Moore, infi-
ne, osserva: “il ‘legale’ così come l’‘economico’, sono dimensioni che pervadono
quasi tutta la vita sociale” (p. 449). L’aumento della specializzazione nella raccolta
dei dati ha perciò messo in luce il bisogno di una maggiore integrazione.
Gli antropologi hanno in comune anche una certa stima per le etnografie ecce-
zionali: le citano più volte nei loro scritti, e sono proprio queste etnografie a fornir
loro la base per sviluppare un discorso comune, un comune quadro di riferimento.
Ad esempio DaMatta, Goody e Salzman fanno tutti riferimento al lavoro di Evans- Etnografie
“eccezionali”
Pritchard sui nuer, mentre Moore e Salzman citano l’opera di Malinowski nelle Tro-
briand: si tratta di etnografie che rappresentano dei modelli, dei parametri in base
ai quali misuriamo la nostra ricerca e quella degli altri. Inoltre, esse fungono da uti-
li fonti, consentendoci di analizzare vecchi materiali in modi nuovi molti anni dopo
la realizzazione della ricerca originaria. Il documento etnografico insomma, come
nota Kuper (p. 154), è la nostra “eredità essenziale e condivisa”.

Progressi nella comunità


Può sembrare illogico che un gruppo in cui sono presenti così intense tendenze
centrifughe costituisca una comunità eppure, come abbiamo visto, gli antropologi
possiedono delle tradizioni comuni, vivono le stesse esperienze, possono richiamar-
si a uno stesso corpus di scritti. Essi inoltre condividono anche un sentimento di
scetticismo: a molti antropologi piace rimettere in questione verità assodate, e spes-
so contestano le descrizioni e gli orientamenti dei loro stessi colleghi. L’affermazio-
ne di Lowie formulata in tempi passati, secondo cui gli antropologi hanno “appreso
a guardare con sospetto agli slogans altrui” (in Murphy 1972, p. 78) è simile a quel-
la attuale di Wolf secondo cui “dobbiamo diffidare delle categorie e dei modelli che
utilizziamo” (p. 270). In questo volume, a p. 90 Harris si riferisce alle teorie antro-
pologiche come a delle “approssimazioni per tentativi”; DaMatta, a p. 156, ammet-
te “la ‘autorità etnografica’ dev’essere continuamente sfidata e sottoposta a verifi-
ca”; e Godelier afferma a p. 143 “le prospettive analitiche e teoriche della discipli-
na... devono essere controllate, criticate e riviste continuamente”.
Lo scetticismo riguardo alle verità assodate è uno dei punti forti dell’antropolo-
gia eppure non basta, come attesta il proliferare cacofonico di prospettive d’analisi.
Dev’esserci anche voglia di dialogo, di un dibattito ragionevole, una conversazione Dialogare sulle
differenze
comune riguardo alle caratteristiche che ci differenziano. Le differenze infatti, se af-
frontate con spirito adeguato, possono dare origine a nuove intuizioni – come met-
te in luce Das a p. 170 quando afferma: “Ciò che l’antropologia ha di unico… è il
suo uso dell’‘Altro’… per superare i limiti della sua stessa origine e collocazione”.
Proprio attraverso un dialogo sulle differenze è possibile sviluppare una cono-
scenza cumulativa in antropologia. Io stesso ho insistito su questo punto in Making
History (Borofsky 1987, p. 155):

Le forme di conoscenza antropologiche, a dispetto dei loro limiti, rappresentano un pas-


so avanti in direzione di una migliore comprensione culturale. Questa comprensione si
sviluppa non da una singola etnografia ma nel corso del tempo: attraverso un dialogo con
altre ricerche etnografiche, costruite in modo diverso e rispondenti a differenti prospetti-
ve, andiamo oltre l’autocompiacimento per le nostre stesse costruzioni teoriche in dire-
zione di un vero avanzamento conoscitivo.
32 ROBERT BOROFSKY

Discutendo i resoconti conflittuali relativi ai samoani in relazione alla controver-


sia tra Freeman e la Mead, Kuper (1989, p. 455) formula una notazione simile:

L’etnografia… è un contributo ad un dibattito… Questo dibattito verrà portato avanti da


La conoscenza una comunità di esperti (inclusi gli stessi nativi) che possono fare appello alla propria
antropologica esperienza di vita in particolari società e che potranno far riferimento ad un corpus di os-
come impresa servazioni ed interpretazioni edite, scritte a partire da differenti prospettive…
cooperativa Esiste allora un’autorità in etnografia, che non è necessariamente incarnata in nessun re-
soconto etnografico ma emerge nel corso della ricerca, comparazione, valutazione e di-
battito condotti dagli esperti.

Goodenough (p. 334) sottolinea anche lui questo punto quando afferma che
l’etnografia “è un’impresa di vasta portata, cumulativa e necessariamente cooperati-
va”. Infine, anche Harris insiste su questo nella conclusione del suo L’evoluzione del
pensiero antropologico (1968, p. 924): “La riabilitazione della strategia del materiali-
smo culturale” egli nota, sta nella sua capacità di dare “origine a ipotesi esplicative
fondamentali, sottoponibili ai collaudi della ricerca etnografica e archeologica, mo-
dificabili se necessario e incorporabili in un corpus di teoria ugualmente capace di
spiegare i caratteri più generalizzati della storia universale, e le particolarità meno
comuni di culture specifiche”. Solo col tempo, con tentativi ripetuti, con il succe-
dersi di etnografie accumulatesi una dietro l’altra, saremo finalmente in grado di co-
noscere la validità di vari resoconti.
Il bisogno di una conoscenza cumulativa in antropologia si è rivelato traguardo
difficile, e i progressi sono stati lenti. Service (1985, p. 318) accenna a questo aspet-
to nella sua conclusione a A Century of Controversy: Ethnological Issues from 1860
to 1960, e dopo aver esaminato numerosi e importanti questioni afferma che l’an-
tropologia culturale (Service parla di etnologia)

non è progredita in modo molto rapido… Oggi non vi è alcuna opinione netta o comune-
mente accettata riguardo al ‘significato’ dei termini di parentela, o delle forme essenziali di
struttura sociale e del totemismo, o delle origini dello stato, della legge,… della proprietà e
delle forme di scambio economico, o persino dello stesso concetto chiave di cultura.

Eppure l’antropologia ha compiuto progressi in campo intellettuale, sebbene si


Progressi nel debba ammettere che essi siano più evidenti se si guarda ai brevi percorsi piuttosto
breve periodo:
dati più ricchi, che alle grandi correnti di sviluppo. Come abbiamo appena visto, e come si può con-
nuove fermare in modo incontrovertibile da uno sguardo alla letteratura antropologica, gli
formulazioni antropologi hanno accumulato un corpus più ricco, più “denso” di dati etnografici,
teoriche sviluppando metodi più sofisticati di raccolta e analisi del materiale. Inoltre, essi han-
no riformulato in modi più elaborati gli interrogativi del passato che, come nota Ser-
vice, sono ancora tali. Non si può leggere la sintesi fra prospettive antropologiche di-
vergenti formulata da Rappaport, la critica di Vayda all’essenzialismo, le analisi della
cultura di Keesing e Barth, le prospettive riguardo alla storia elaborate da Moore e
Sahlins o l’analisi delle inteconnessioni sviluppata da Kottak e Colson senza trarne la
sensazione di un crescente livello di complessità nel nostro approccio ai problemi.
Se poi si vuole davvero provare una maggior sensazione di progresso, basterà
Il progresso
secondo Lowie
volgersi indietro a riconsiderare la History of Ethnologial Theory di Lowie. In quel
testo Lowie afferma (1937, p. 252):

nello spazio di cinquant’anni sono stati risolti un gran numero di problemi… Nessuno
oggi difende ancora la teoria dei tre stadi del progresso economico, mentre la distinzione
INTRODUZIONE 33

formulata da Hahn tra coltivazione con l’aratro [cioè agricoltura] e coltivazione con zap-
pa e semina [cioè orticoltura] resta valida. [Allo stesso modo] che oggi la promiscuità
non esista in alcun luogo e che si tratti di un’ipotesi inverificabile riguardo al passato è
opinione di molti noti antropologi.

Lowie aggiunge anche alla sua lista (1937, p. 252) l’abbandono della teoria del
prelogismo dei primitivi; ora, che molti fra i lettori non abbiano mai sentito parlare
di questi problemi dimostra quel che ho sostenuto: se guardiamo con attenzione al
passato, vediamo che c’è stato un progresso.
Gli antropologi si sono posti domande molto generali disponendo, almeno sino a
tempi recenti, di una massa di dati limitata e imperfetta. Il fatto che la base di dati sia
migliorata ci dà maggiori speranze per il futuro: possiamo continuare ad affrontare i
“grandi problemi” via via che il nostro materiale etnografico si accresce in ampiezza
e profondità, mentre sempre più antropologi lavorano negli stessi luoghi adottando
prospettive che si sovrappongono, e nella misura in cui un dialogo riguardo alle dif-
ferenze continui a svolgersi e svilupparsi nell’ambito della comunità antropologica.
Vorrei concludere con una notazione positiva. In antropologia ci si preoccupa
senza dubbio più della disciplina, e di dove sta andando; ma fuori della disciplina, co- L’antropologia
me sottolinea Peacock (comunicazione personale, 1991), il prestigio dell’antropologia vista
dall’esterno
è piuttosto elevato. Non a caso Geertz (1985, p. 624) nota che gli antropologi “sono
citati ovunque e da tutti, per ogni sorta di finalità. La ‘prospettiva antropologica’ è
dunque, per quanto attiene alla più vasta comunità scientifica, decisamente ‘in’”.

Organizzazione del libro Un testo aperto


Negli ultimi anni sono state avanzate diverse valutazioni dell’antropologia cultu- a molteplici
interpretazioni
rale (cfr. ad es. Harris 1968; Hymes 1969; Hatch 1973; Honigmann 1973; Tax 1977;
Ortner 1984; Marcus, Fischer 1986; Fox 1991). Quella che ha il carattere più simile
al contributo dato da questo libro, comunque, è l’opera in due volumi nata da una
Conferenza della Wenner-Green Foundation (cfr. Kroeber e al. 1953 e Tax, Eiseley,
Rouse, Voegelin 1953). Come quest’ultima, e a differenza di molte opere valutative
di sintesi più recenti, questo volume unisce tre caratteristiche distinte. Anzitutto è
un’opera a stampa che vede la partecipazione di molti fra i più eminenti specialisti
della disciplina. In secondo luogo gli autori non affrontano nei loro saggi delle tema- Un approccio
globale
tiche specializzate definite in modo rigido (ad es. l’antropologia economica, l’antro-
pologia politica, l’antropologia giuridica), ma tendono a concentrarsi sull’antropolo-
gia culturale nel suo insieme. In terzo luogo, infine, il volume è un testo aperto a
molteplici interpretazioni: vi sono presentati approcci distinti, e i lettori possono sin-
tetizzarli in modi differenti. Nel capitolo finale del volume, mi sforzerò di presentare
un quadro d’assieme in grado di integrare i vari contributi, ma i lettori sono liberi di
valutare lo stesso materiale e trarne conclusioni diverse, di proporre diverse valuta-
zioni di quale sia la situazione attuale del nostro campo disciplinare e quali i percor-
si che potrebbe (o dovrebbe) affrontare.
Il titolo del libro, del resto, ne riassume anche gli scopi. Secondo il dizionario
Webster (1984, p. 426), il verbo assess [valutare] “implica una stima critica allo sco- Work in
po di comprendere o interpretare, o come guida per l’azione”. E nel titolo usiamo il progress
gerundio [assessing] perché quest’opera di valutazione è ancora in corso. Il volume è
parte di una conversazione che continua – fra studenti e professori assieme – riguar-
do la condizione presente dell’antropologia culturale e le sue possibilità future.
L’aspetto sorprendente del volume, del resto, non è la diversità dei punti di vista
presenti: è una cosa che in campo antropologico non giunge certo inattesa. Sorpren-
34 ROBERT BOROFSKY

de invece la misura in cui le prospettive dei vari autori si sovrappongono: si può così
seguire il filo rosso di numerose tradizioni antropologiche discusse più in alto – rela-
tive all’olismo, alla contestualizzazione, al mutamento, al dominio, alla comparazio-
ne, ai metodi e alla visione del lavoro sul campo. Ad esempio Barth, Bloch, Goody,
Goodenough, Harris, Keesing, Levy, Strathern, Strauss e Quinn, Vayda, Yanagisako
Prospettive e Collier nonché io stesso teniamo tutti conto dell’interrelazione fra elementi cultu-
teoriche e rali; ma da questa base comune, ci volgiamo poi in direzioni differenti discutendo si-
tematiche che
si
no a qual punto, in quali modi e per quali ragioni esista questa interrelazione. Così
sovrappongono Bernard, Bloch, Goodenough, Harris, Levy, Marcus, Murphy, Rappaport, Salzman e
io ci siamo occupati degli aspetti antropologici della conoscenza; i problemi legati al
dominio e al potere sono affrontati da Harris, Sahlins, Scheper-Hughes, Tambiah,
Tishkov, e Wolf; DaMatta, Das, Godelier, Harris, Kottak e Colson, Kuper, Nader
prendono in esame la comparazione; Barth, Bloch, Godelier, Harris, Keesing, Kot-
tak e Colson, Levy, Moore, Rappaport, Sahlins, Strathern, Strauss e Quinn, Tam-
L’utopia del
consenso biah, Tishkov, Wolf e io indaghiamo i problemi relativi ai processi culturali; e infine
generalizzato Barth, Geertz, Harris, Keesing e Lévi-Strauss rimettono in questione la visione del-
l’antropologia più diffusa e lodata. Tutto questo è piuttosto confortante per quanti
vedono l’antropologia come una comunità intellettuale, in particolare perché un’at-
tenta lettura dei vari saggi rivela che altri nomi potrebbero essere aggiunti a ognuna
delle liste citate. Ne nasce un senso di speranza, cui fa seguito un’importante doman-
da: possono gli antropologi dar vita a un consenso generalizzato riguardo a dove sia-
mo e dove dovremmo andare?
Vi è inoltre un’altra domanda, implicita, che nasce dalla lettura del volume – re-
lativa allo status e al potere. Quasi tutti coloro che hanno contribuito all’opera sono
studiosi affermati, che hanno un forte potere di orientare lo stato attuale della disci-
plina; col tempo, è probabile che molti tenderanno a mantenere una continuità con
il presente che hanno contribuito a creare. Se gli autori fossero stati più giovani di
una generazione, avrebbero forse manifestato un maggior interesse a crearsi proprie
nicchie, muovendosi in svariate direzioni per tentare di crearsi identità proprie sen-
za sentirsi legati al presente. Siamo così indotti a porci un’ulteriore domanda: può il
vecchio aiutarci a dar forma al nuovo? Bisogna che il cambiamento nasca, come
ipotizza Fox (1991, p. 16), da un “pensionamento in massa degli ‘anziani’”? O gli
“anziani” possono, con le intuizioni, abilità ed esperienze che hanno accumulate,
aiutarci a guidare la disciplina verso il futuro?

I trentuno saggi del libro non erano parte di un’organizzazione già esistente;
l’ordine delle parti (e dei saggi) si è sviluppato solo a poco a poco, man mano che
riflettevo sul grado di sovrapposizione fra i diversi contributi.
La prima parte espone alcune delle cacofonie, delle divergenze e diversità che so-
L’organizzazione no oggi tipiche della disciplina. Le posizioni enunciate da Salzman e Marcus riecheg-
delle parti giano in filigrana il dibattito fra positivisti e interpretativisti che si è protratto per de-
cenni in antropologia; il problema è quello di dar vita a una disciplina dinamica e pro-
duttiva. Murphy e Harris affrontano un’altra controversia: quella fra le prospettive
idealista e materialista di analisi del processo culturale; in questo caso, il nocciolo del-
la discussione erano le dinamiche generali che soggiacciono al mutamento culturale.
La seconda parte utilizza uno dei punti forti dell’antropologia, la comparazione,
per riflettere sullo stato presente della disciplina. Fondandoci su valutazioni prove-
nienti da Europa e Terzo Mondo, potremo avere una prospettiva sulla disciplina di-
versa da quella dell’ottica nordamericana della prima parte. Nel suo contributo,
Nader enuncia il bisogno di una “coscienza comparativa”; quanto alle due valuta-
INTRODUZIONE 35

zioni europee – quella di Godelier (un antropologo francese) e di Kuper (un britan-
nico) – possono sconcertare un poco gli americani: i primi infatti vedono nel campo
di studi un consenso maggiore rispetto a questi ultimi, e glissano su alcune opposi-
zioni: cominciamo così a renderci conto di ciò che affascina e al tempo stesso di-
sturba i lettori indigeni riguardo alle etnografie scritte su di loro da individui estra-
nei al gruppo. Le due prospettive che ci giungono dal Terzo Mondo proseguono su
questa tematica, prendendo in esame alcuni usi e abusi dell’antropologia. DaMatta,
un antropologo brasiliano, e Das, un’indiana, sollevano importanti questioni in me-
rito alle prospettive e alle inclinazioni attuali della disciplina.
Nella terza parte gli autori recitano il ruolo – che ormai da tempo gli antropolo-
gi si sono visti assegnare – di critici delle verità comunemente accettate. Rappaport
e Bernard sviluppano suggestive notazioni riguardo al dibattito fra positivisti e in-
terpretativisti; Levy, Yanagisako e Collier, Strathern tornano a riflettere sulle vec-
chie categorizzazioni della disciplina in modi nuovi e profondi. Infine Wolf e Sche-
per-Hughes prendono in esame questioni relative alle dinamiche del potere e dello
spossessamento: Wolf delinea le nuove strategie che si aggiungono agli approcci an-
tropologici tradizionali all’argomento, mentre Scheper-Hughes esamina in che mo-
do i rapporti di potere siano inscritti nei corpi sofferenti dei lavoratori malati.
La quarta parte prende in esame il concetto antropologico di cultura. Goody e
Goodenough ci aiutano a ripensare ciò che intendiamo col termine cultura – quali di-
stinzioni dovremmo tracciare, quali modelli dovremmo utilizzare affinché ci aiutino a
interpretare i fenomeni sulla base di concetti dati. Bloch, Strauss e Quinn, Keesing ri-
mettono in questione le vecchie prospettive, interrogandosi sull’uso dei modelli lin-
guistici, chiedendosi sino a che punto la cultura sia un fenomeno pubblico che si op-
pone a un fatto privato e quale sia il ruolo giocato dal potere nell’ordine della cultura.
La quinta sezione affronta la cultura muovendo da una prospettiva dinamica –
vedendola in movimento, in trasformazione nel tempo e nello spazio. Vayda, Barth
e io ci occupiamo della dimensione della diversità individuale, e di come dobbiamo
concettualizzare al meglio la natura aperta, fluida di ciò che la gente sa; Moore,
Sahlins, Kottak e Colson esaminano le dinamiche processuali legate al mutamento,
al pari delle interconnessioni fra reti locali e globali: per noi, la cultura si configura
come un insieme fluido di processi, e per questo analizziamo i problemi che gli an-
tropologi debbono affrontare nel descrivere questi processi.
La sesta parte si occupa del ruolo dell’antropologia al di là dell’accademia. In un
mondo in cui l’eterogeneità culturale può dar vita sia a intuizioni che a esiti violen-
ti, i contributi di Lévi-Strauss, Tambiah, Tishkov e Geertz analizzano problemi con-
nessi al conflitto etnico e al pregiudizio culturale: mentre Tambiah e Tishkov pren-
dono in esame questioni specifiche, Lévi-Strauss e Geertz si interrogano sui proble-
mi più ampi relativi a questi aspetti.
Un capitolo finale presenta le mie opinioni sulla sovrapposizione di tematiche fra
gli autori che hanno partecipato al volume: dopo aver chiarito dove siamo giunti noi
antropologi, mi chiedo dove dovremmo andare. In quelle conclusioni, sottolineo co-
me il libro sia parte di una conversazione in corso riguardo alla disciplina: è parte di
un dialogo antropologico che continua, e a cui prendono parte gli stessi lettori – al
pari degli studiosi che vi hanno contribuito. Tenuto conto di tutto ciò, possiamo af-
frontare le sei parti, ciascuna con i propri saggi, di cui il volume si compone.
Nota all’edizione italiana
Paola de Sanctis Ricciardone

“Non avevo idea che il turismo rientrasse nel campo dell’antropologia”.


“Oh, sì. È una materia in via di sviluppo. Dall’estero arrivano un mucchio di studenti che paga-
no la retta, il che ci rende molto apprezzati dai ragazzi dell’amministrazione. Inoltre, c’è un sac-
co di soldi per la ricerca. Studi sull’impatto... studi sulla capacità di attrarre… Gli antropologi
tradizionali ci guardano dall’alto in basso, è naturale, ma si tratta semplicemente di invidia.
Quando fui sul punto di iniziare il dottorato di ricerca, il mio correlatore voleva che studiassi
una tribù africana sconosciuta, gli Oof. Costoro non coniugano i verbi al futuro e, a quel che
sembra, si lavano unicamente al solstizio d’estate e al solstizio d’inverno”.
“Molto interessante”, disse Bernard.
“Sì, ma nessuno ti darebbe una sovvenzione decente per studiare gli Oof. E in ogni caso chi può
mai aver voglia di trascorrere due anni in una capanna di fango, attorniato da un mucchio di sel-
vaggi puzzolenti che non hanno neppure un vocabolo per dire ‘domani’? Grazie al mio settore
di ricerca, invece, io riesco ad essere alloggiato in alberghi a tre stelle, come minimo… A propo-
sito, mi chiamo Sheldrake, Roger Sheldrake. Forse le sarà capitato di leggere un libro intitolato
Il Giro Turistico, della Surrey University Press”.
David Lodge, Notizie dal Paradiso, p. 691.

David Lodge – autore inglese di molti e conosciuti racconti – mostra spesso di


essere un vero e proprio etnografo di quel Piccolo Mondo2 virtuale abitato dalle va-
rie comunità di studiosi universitari. In questo ironico brano riesce a cogliere, in
qualche modo, tracce anche di quella specialissima etnia costituita dagli antropologi
contemporanei. Certo, il suo immaginario Roger Sheldrake è un inglese molto ame-
ricanizzato, tanto da apparire solo una caricatura di alcuni celebri antropologi del
turismo come John Urry, del quale sembra pure evocato il titolo del volume The
Tourist Gaze (Londra, 1990). Tuttavia molti dei temi umoristicamente sollevati dal
cinico Sheldrake riguardano tutta intera la comunità internazionale degli antropolo-
gi, come testimonia, sin dalla Introduzione, anche il ricchissimo e polifonico volume
Assessing Cultural Anthropology qui presentato in edizione italiana.
Si tratta di una raccolta di saggi il cui nucleo originario è costituito dai contribu-
ti del congresso dell’American Anthropological Association del 1989, dedicato pro-
prio allo stato dell’arte e agli sviluppi dell’antropologia culturale. A quel nucleo ori-
ginario si aggiunsero, proprio per internazionalizzare il dibattito, altri saggi, inclu-
dendo ulteriori tematiche. Il volume è così divenuto una occasione di bilancio di fine
secolo della intera disciplina. Un evento editoriale pressoché unico nel suo genere,
data la pluralità di voci e la mole dei temi trattati. È difficile, infatti, trovare assieme
a discutere intorno a problematiche vitali per i nostri studi, tanti antropologi famosi
e così diversi dal punto di vista epistemologico e generazionale: Lévi-Strauss, Geertz,
Harris, Marcus, Godelier, Kuper, Goody, Sahlins, tanto per citarne alcuni.
Il volume può essere un mezzo per cominciare a districarsi nel labirinto dei per-
corsi conoscitivi, delle strategie, degli approcci di studio e delle diverse e talvolta li-
NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA 37

tigiose scuole che hanno caratterizzato, sin dalla sua nascita, l’antropologia cultura-
le come disciplina autonoma. Oppure, per i più navigati, può essere un mezzo di
sollecitazioni ulteriori e anche un aiuto per prospezioni di scenari futuri.
Certo, dal corposo dibattito internazionale presentato da Borofsky mancano del
tutto contributi italiani; e questo ci dovrebbe indurre a una qualche riflessione, non
tanto sulla validità dei nostri studi – che in diversi casi, proprio a uno sguardo com-
parativo, appare fuori discussione – quanto sulle nostre strategie di comunicazione
scientifica all’esterno dei confini nazionali. Molte delle tematiche e dei campi di stu-
dio affrontati in Assessing Cultural Anthropology hanno traversato e continuano a
traversare anche la comunità antropologica italiana, sebbene, come è ovvio, con
uno stile locale che in qualche misura ci caratterizza3. E anche dal punto di vista ac-
cademico, con le recenti riforme universitarie in tema di autonomia finanziaria, an-
che noi, come tante altre comunità di studiosi nel mondo4, cominciamo ad avere –
assieme a Roger Sheldrake – il problema di rendere apprezzate le nostre ricerche “ai
ragazzi dell’amministrazione”.
Finita l’era del consenso (sebbene travagliato e talvolta mitizzato nella manuali-
stica) intorno a dei nuclei teorico-metodologici comuni siamo ormai traghettati al di
là dei tracciati disegnati dagli “eroici maestri”, come dice Borofsky.
Malinowski, nelle capanne di fango, attorniato da “selvaggi” tipo gli oof paven-
tati dall’antropologo del turismo di Lodge, ci andò e anche molto precocemente,
sin dal 1914. Eroico maestro dunque, uno dei fondatori dell’antropologia moderna
e inventore di quel cosiddetto “realismo etnografico” su cui oggi però si appunta la
critica delle strategie etnografiche postmoderniste (cfr. infra, Marcus, pp. 64-79).
Eppure qualcosa del cinico Sheldrake albergava anche in lui, a giudicare da come si
lamentava dei suoi disagi da fieldwork (capanne di fango e “selvaggi puzzolenti”
compresi) nei suoi privatissimi diari5 pubblicati più di vent’anni dopo la sua morte.
E quanto a consenso non fu mai un gran campione sia nei confronti di altri “eroici
maestri” del passato sia di quelli a lui contemporanei; pensiamo solo, tanto per fare
un esempio ricordato dal suo allievo Raymond Firth6, a come aveva ribattezzato
l’antropologia boasiana: Boasinine Anthropology.
E l’insinuazione che dietro l’eccessivo successo odierno dell’antropologia post-
modernista, o postprocessuale, come dice Harris (cfr. infra, pp. 88-104), si nasconda
in realtà un proliferare di antropologie asinelle può cogliersi in vari saggi del pre-
sente volume. Un colpo basso, questo, sferrato reiteratamente e da più parti, si veda
per esempio il quadro irriverente e graffiante dell’antropologia interpretativa ameri-
cana fornito dall’ultimo Ernest Gellner7.
Insomma tutto questo per dire che in fondo ieri come oggi le relazioni tra le va-
rie scuole antropologiche non sono state mai troppo pacifiche, e soprattutto quelle
tra le “due prospettive” avverse che hanno sempre caratterizzato, come ci ricorda
Borofsky nell’Introduzione, gli studi: una dalla vocazione “scientifica” e l’altra dalla
vocazione “umanistico-letteraria”. Ma, al di là dei dissidi, si può cogliere da più
parti, nell’ambito della vasta comunità degli studiosi, una sincera preoccupazione
che la vena individualista, antimetodologica e frammentaria dell’antropologia fini-
sca per compromettere il suo stesso futuro. Le preoccupazioni espresse da Salzman
(pp. 52-63) in questo volume, sulla credibilità e l’affidabilità dell’antropologia (an-
che in relazione alla possibilità di creare sbocchi lavorativi e di ottenere finanzia-
menti) rispetto ad altre discipline “sorelle”, possono rintracciarsi anche altrove, co-
me ad esempio nei saggi di Melford Spiro o del più giovane Lawrence A. Kuznar8.
Il quadro contemporaneo della nostra disciplina è estremamente complicato,
proprio perché (v. infra p. 52) non solo essa stessa è cambiata, ma è cambiato “il
38 PAOLA DE SANCTIS RICCIARDONE

mondo nel quale è cresciuta”: è finito il colonialismo tradizionale, di cui sicuramen-


te l’antropologia si avvantaggiò9 almeno sino al secondo dopoguerra; e quanto ai
popoli “primitivi” incontaminati e “selvaggi”, già Lévi-Strauss (1955) ne lamentava
l’inafferrabilità e l’assenza, se non come chimera iniziatica del viaggio antropologi-
co, nel resoconto dei suoi soggiorni nei Tristi Tropici tra gli anni Trenta e Quaranta
del secolo scorso.
Inoltre, a differenza del passato, è cambiato il rapporto con l’autorità etnografi-
ca, fuori e dentro la comunità degli studiosi; ovvero i resoconti degli antropologi
anche più professionali e prestigiosi, non trovano più forme di credito e di autenti-
cazione pressoché automatica. Ciò dipende da vari fattori. Un tempo, data l’esigui-
tà relativa degli studiosi sul campo, le relazioni di un singolo antropologo erano di
fatto l’unica voce, l’unico tentativo di traduzione culturale disponibile di popolazio-
ni lontane. Per anni l’immagine occidentale dei trobriandesi è stata quella di Mali-
nowski, dei nuer quella di Evans-Pritchard, dei samoani quella di Margaret Mead e
così via. Più cresceva la fama degli antropologi e più famose divenivano le popola-
zioni da loro studiate. Così i popoli dei resoconti etnografici del passato sembrano
essere stati consegnati in eterno a una sorta di iperuranio cartaceo, cristallizzati in
un immoto presente etnografico (cfr. Fabian 1983).
Oggi c’è la possibilità di cogliere diversi punti di vista, sia per la sovrapposizione
sul campo di più osservatori e sia per un maggior controllo e presenza delle comu-
nità locali nelle rappresentazioni etnografiche.
E proprio come in una rappresentazione di recente vena antiessenzialista (v. in-
fra, Vayda, pp. 392-403), in questo volume gli studiosi proiettano diverse immagini
dell’antropologia, alcune fortemente segnate dalla frammentazione degli studi e da
una sorta di incommensurabilità tra i diversi orientamenti, altre invece più rassicu-
ranti: l’ansia di continuità in seno alla disciplina, di cui ci parla Borofsky nelle Con-
clusioni, sembra talvolta prevalere nella ricerca di posizioni mediane o nel ricono-
scimento di una salutare complementarità dei diversi approcci.
Venti di crisi hanno traversato e continuano a traversare negli ultimi decenni
tutti i campi del sapere, in un diffuso ripensamento e messa in discussione di quelle
che Lyotard10 ha chiamato Grandi Narrazioni della modernità. La nostra disciplina
non avrebbe potuto avere una sorte diversa. Per citare solo un caso tra molti, in un
suo celebre saggio del 198111, il fisico, filosofo e storico della scienza Yehuda Elka-
na ha usato l’antropologia come un buon “teatrino esemplare” del dibattito episte-
mologico contemporaneo: resta da riconoscere dunque che gli antropologi hanno
saputo rappresentare bene le ansie e i fermenti di quelle generazioni di intellettuali
destinati ad assistere alle molte agonie del secolo che li ha generati.

1 Lodge, D., 1997, Notizie dal Paradiso, Milano, Sonzogno; ed. or. 1991, Paradise News, Londra, Seckes e Warburg.
2 Small World è il titolo del suo più famoso romanzo, tradotto in italiano come Il Professore va a Congresso, Milano,
Bompiani, 1990.<
3 Sulla storia degli studi italiani esiste una letteratura abbondantissima, soprattutto per ciò che riguarda le origini;

si veda, solo a titolo esemplificativo, Cirese, A.M., 1997, Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma, Meltemi
(che raccoglie scritti compresi tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta); Clemente, P., et alii, 1985, L’Antropologia italia-
na. Un secolo di storia, Bari, Laterza. Per uno sguardo su una storia più recente e sulla contemporaneità si veda, oltre al
saggio polemico di F. Remotti, “Tendenze autarchiche”, in id., 1986, Antenati e antagonisti, Bologna, il Mulino, pp. 277-
332, il numero monografico di «Ethnologie Française», n. 3, 1994, Italia, régardes d’anthropologues italiens, a cura di
Françoise Loux e Cristina Papa.
4 Il tema dei finanziamenti pubblici e privati ai programmi accademici e di ricerca antropologica è toccato da Salz-

man (infra, p. 60).


5 Malinowski, B., 1967, Diary in the Strict Sense of The Term, New York; tr. it. 1992, Giornale di un antropologo,

Roma, Armando.
NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA 39
6 “Malinowski in the history of social antrhropology”, in Ellen, R., Gellner, E., et alii, a cura, 1988, Malinowski bet-

ween two worlds, Cambridge, Cambridge University Press, p. 14.


7 1992, Postmodernism, Reason and Religion, London (tr. it. 1993, Ragione e Religione, Milano, Il Saggiatore).
8 Cfr. Spiro, M., 1992, “Cultural Relativism and the Future of Anthropology”, in Marcus, G., a cura, Rereading Cul-

tural Anthropology, Durham and London, Duke University Press, pp. 124-151; Kuznar, L. A., 1997, Reclaiming a Scien-
tific Anthropology, Walnut Creek and London, AltaMira Press. Una eco italiana di queste polemiche può cogliersi nei
Commenti (di Olivia Harris, Pier Giorgio Solinas, Silvana Miceli, Pier Paolo Viazzo) al saggio di Josep R. Llobera, Il
compito degli anni ’90: ricostruire l’antropologia; tr. it. 1994, in «Ossimori», n. 4, 1° semestre. Gli interventi italiani sugli
scenari antropologici contemporanei sono numerosi, ricordiamo, solo per citarne alcuni a titolo esemplificativo e in or-
dine cronologico, Miceli, S., 1990, Orizzonti incrociati, Il problema epistemologico in antropologia, Palermo, Sellerio; Re-
motti, F., 1990, Noi primitivi, Torino, Bollati Boringhieri; Dei, F., Simonicca, A., 1990, “Razionalità e relativismo in An-
tropologia”, Introduzione a Ragione e forme di vita, Milano, Angeli; Lombardi Satriani, L. M., 1994, La stanza degli
specchi, Roma, Meltemi; de Sanctis Ricciardone, P., 1996, “Immagini della scienza tra seduzione e repulsione”, in id., Ne-
mici immaginari, esercizi di etnografia, Roma, Meltemi; Sobrero, A., 1999, L’antropologia dopo l’antropologia, Roma,
Meltemi.
9 Gellner, a differenza di molti studiosi americani e di altri paesi – anche presenti in questo volume – tese invece a

sdrammatizzare e a minimizzare il rapporto tra antropologia (soprattutto britannica) e colonialismo, v. Gellner, E.,
1987, Culture, Identity and Politics, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 69 sgg. In Italia la tematica è stata af-
frontata da Colajanni, A., 1998, Gli usignoli dell’imperatore. Antropologia applicata e colonialismo britannico, Roma, Eu-
Roma.
10 Lyotard, J. F., 1991, La condizione post-moderna, Milano, Feltrinelli; ed or. 1979.
11 Elkana, Y., 1989, Antropologia della conoscenza, Bari, Laterza; ed. or. 1981.
Parte prima
Diversità e divergenze
nella comunità antropologica
Introduzione alla parte prima
Robert Borofsky

In questa sezione potremo osservare da vicino la tensione tra le tendenze cen-


trifughe e quelle centripete dell’antropologia. Per un verso, ci sono chiare diffe-
renze di opinione tra i gli autori dei quattro contributi. Per esempio, Salzman e
Marcus non sono d’accordo su come edificare un corpus cumulativo di conoscen-
ze antropologiche. Salzman (p. 61), tramite un più solido “processo di valutazio-
Divergenze
ne” nella ricerca, si preoccupa di moderare “la velocità abbacinante” con cui
sovrapposizioni “vezzi e mode teoriche… vanno e vengono in antropologia” (p. 59). Marcus sot-
tra autori e tolinea il bisogno di sperimentare nuove possibilità di concettualizzare e descrive-
prospettive re gli esiti della ricerca sul campo. Quel che per Salzman sarebbe un ennesimo
vezzo dell’antropologia – il postmodernismo – è per Marcus uno sviluppo intel-
lettuale positivo. Murphy e Harris si contestano l’un l’altro il tentativo di valutare
l’importanza relativa delle diverse variabili culturali nell’agevolare il mutamento e
la stabilità. Murphy (p. 83) afferma che: “i materialisti… non riescono a ricono-
scere che le forme culturali hanno una loro vita autonoma, e non sono semplici
epifenomeni di ‘infrastrutture’ sottostanti”. Al che Harris replica affermando (p.
96): “Il tentativo di Murphy e di altri di ritrarre il materialismo culturale come un
paradigma per cui ‘le idee per mezzo delle quali gli uomini vivono non hanno ri-
levanza per le loro azioni’ (Bloch 1985b, p. 134) è in chiaro conflitto con la rile-
vanza che l’espressione ‘sistema socioculturale’ gioca nella definizione dei princi-
pi del materialismo culturale”.
D’altra parte, ci sono evidenti sovrapposizioni di prospettive. Salzman e Marcus
(come anche Murphy e Harris) sono preoccupati di individuare modi per ovviare ai
pregiudizi nella raccolta etnografica. Condividono l’intento comune di sviluppare
un corpus cumulativo di conoscenze antropologiche. E aldilà dell’asprezza dell’op-
posizione tra Murphy e Harris, si intravede una comune attenzione per l’esplorazio-
ne dei modi sottili e dinamici con cui si intrecciano gli elementi culturali. Entrambi
sono interessati alle modalità con cui prende forma il mutamento culturale e, so-
prattutto, a quali siano le variabili determinanti.
L’aspetto interessante di queste discussioni è che hanno un valore che travalica
questa sezione. Attraversano il volume nel suo insieme e, più in generale, costituisco-
La portata no un campo di tensioni all’interno della stessa disciplina. Service (1985) per esem-
generale del
dibattito pio, ne parla nella sua analisi delle principali controversie tra antropologi tra il 1860
e il 1960. Al di là dei dibattiti sulla terminologia di parentela, la struttura sociale, le
origini dei governi e la vita economica dei gruppi non occidentali, vengono poste se-
condo Service questioni che pongono in opposizione coppie alternative: la prospetti-
va scientifica a quella umanistica, il determinismo alla libertà di scelta, la generalizza-
zione al particolarismo, la comparazione all’olismo, tutte questioni collegate ai temi
qui trattati. Voglio ora indicare quali sono gli estremi del dibattito, e soprattutto co-
sa si intenda per positivismo, interpretativismo, materialismo e idealismo.
INTRODUZIONE ALLA PARTE PRIMA 43

Positivismo/interpretativismo
Bernard (p. 213) fa notare che ci sono in realtà due tipi di positivismo. Entram-
bi pongono l’accento sulla “esperienza verificata e sistematizzata piuttosto che… Due tipi di
sulla speculazione indisciplinata” (Kaplan 1968, p. 89). Ma i due tipi sviluppano positivismo
questo aspetto in modi diversi.
Il primo tipo di positivismo si basa su testi degli inizi del XIX secolo, soprattutto
sull’opera di Saint-Simon, un socialista francese. Questi coniò il termine “positivi-
smo” per riferirsi all’applicazione di metodi scientifici a questioni filosofiche. Com-
te in seguito applicò il termine a una concezione a tre stadi del progresso umano:
quello religioso, quello metafisico e quello scientifico. Il positivismo implicava i Il modello
principi verificabili e razionali dell’era della scienza. Comte (nota Bernard) si era comtiano
però fatto trascinare dall’entusiasmo nell’enunciare questi principi scientifici, e la
sua concezione perse di credibilità.
Il secondo tipo di positivismo è spesso etichettato come positivismo logico (ma
è noto anche come empirismo logico, empirismo scientifico o neopositivismo logi-
co). Questa prospettiva è stata elaborata da un gruppo di scienziati interessati a
questioni filosofiche (e filosofi interessati a questioni scientifiche) che si incontraro- Il neo
positivismo
no spesso a Vienna negli anni Venti e Trenta. Il gruppo, chiamato il “circolo di logico
Vienna”, considerava la scienza come un’attività rivolta alla descrizione dell’espe-
rienza. Si opponeva alla speculazione metafisica non perché questa non fosse inte-
ressante, ma perché spesso si dimostrava impossibile da verificare. Il gruppo soste-
neva che “le proposizioni non dovrebbero essere considerate dotate di significato se
non possono essere verificate [empiricamente]” (Passmore 1967, p. 55).
Nella sua forma odierna, orientata empiricamente, il moderno positivismo (o
neopositivismo) si può meglio considerare come un insieme di principi operativi,
una gamma di strumenti per sviluppare un corpus cumulativo di conoscenze. Esso Principi
sostiene che: 1) la formulazione di teorie dovrebbe basarsi sull’induzione dall’osser- operativi del
positivismo
vazione, 2) in caso di dispute teoriche dovrebbero essere le verifiche empiriche – e moderno
non le affiliazioni politiche – a fornire il metro di valutazione della correttezza e 3)
dato che le dispute teoriche si possono risolvere nel corso del tempo, la conoscenza
scientifica può essere considerata cumulativa e progressiva (cfr. Alexander 1985, p.
632). La prospettiva positivista è ben espressa nel saggio di Harris, il quale afferma
(p. 90) che la conoscenza scientifica: “si ottiene per mezzo di operazioni pubbliche
e replicabili”, e che lo scopo della ricerca scientifica è “formulare teorie esplicative
che siano… verificabili (o falsificabili), [e] cumulative entro un corpus di teorie co-
erente e in espansione”. Harris conclude il suo saggio – nella tradizione di Saint-Si-
mon e Comte – con l’invito a basare il giudizio morale e la politica sociale sulla co-
noscenza scientifica piuttosto che su valori relativisti.

L’interpretativismo (o meglio l’antropologia interpretativa) si pone lungo una rot- L’interpretativismo


ta assai diversa da quella del positivismo nello stabilire cosa sia la conoscenza. L’at-
tenzione non è rivolta tanto alla verifica, quanto alla contestualizzazione. Compren-
dere un’azione, dicono Rabinow e Sullivan (1987, p. 14): “implica il riferimento al
suo contesto più ampio… Lo scopo non è scoprire universali o leggi, ma spiegare il
contesto”. L’atteggiamento interpretativo riguarda diversi filoni, e di conseguenza è
stato percepito male o in modi diversi (basti solo comparare l’uso che i diversi con-
tributi di questo volume fanno del termine “interpretativo”). Per introdurre i lettori
ai temi in questione, fornisco una sommaria descrizione di questa prospettiva. Ma
chi legge si ritenga avvertito: le mie affermazioni sono solo una base sulla quale i let-
tori dovranno costruire la loro comprensione man mano che leggono questo libro.
44 ROBERT BOROFSKY

Geertz è una figura chiave nello sviluppo della moderna antropologia interpre-
tativa. Afferma (Geertz 1973, p. 41):
La cultura
e la rete di Ritenendo, insieme con [il sociologo tedesco] Max Weber, che l’uomo è un animale im-
significati pigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in
queste reti e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca
di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato.

Egli è interessato al “tessuto di significato nei cui termini gli esseri umani inter-
pretano la loro esperienza e guidano le loro azioni” (Geertz 1957, p. 33). Sostiene
che “la spiegazione interpretativa… concentra la propria attenzione su ciò che le
istituzioni… significano per quelli a cui quelle istituzioni appartengono” (Geertz
1983, p. 28). Ancora (Geertz 1973, pp. 54-55):

Non è nei confronti di una massa di dati non interpretati, di descrizioni radicalmente thin
[o superficiali] che dobbiamo misurare la forza delle nostre spiegazioni, ma con la capacità
dell’immaginazione scientifica di metterci in contatto con le vite delle persone estranee.
La cultura
come insieme
di testi Coerente con questa prospettiva è il suggerimento di Geertz (1973, p. 444) di
esaminare “la cultura come una insieme di testi” e che “le forme culturali possono
essere trattate… come opere dell’immaginazione costruite con materiali sociali”. Le
opere culturali possono essere interpretate (e reinterpretate) per i loro significati.
Feste, rituali e combattimenti di galli non sono da questo punto di vista semplice-
mente degli eventi: rappresentano anche degli insiemi di significati. Per coloro che
vi sono coinvolti, veicolano conoscenza, emozione e senso.
Geertz non è antiscientifico. “Io non credo – afferma (cit. in Carrithers 1990, p.
274) – che l’antropologia non sia o non possa essere una scienza, o che il valore del-
le opere antropologiche stia tutto nella loro forza di persuasione”. Ma di certo si
Il rifiuto della oppone alla quantificazione ossessionata dalla metodologia, e all’austera ricerca di
ossessione
nomotetica leggi. E lavora all’interno di una tradizione – che si definisce ermeneutica e com-
prende studiosi come Weber, Dilthey, Gadamer e Ricoeur – che sostiene che lo stu-
dio delle questioni sociali e storiche richieda metodi differenti da quelli impiegati
nelle scienze naturali. Geertz è attento alla natura aperta e stratificata del significato
e si preoccupa di “opporsi all’idea che ‘vi sia… [un’unica] rappresentazione corret-
ta del mondo’” (Geertz 1990, p. 274). Ci sono implicazioni sociali importanti nella
sua prospettiva per quanto riguarda la tolleranza, come chiarisce egli stesso nel suo
saggio (p. 663):

Comprendere ciò che ci è estraneo in qualche modo, e che verosimilmente resterà tale,
senza minimizzarlo con vaghi commenti di “varia umanità”, senza vanificarlo con un at-
teggiamento indifferente alla “a ciascuno il suo” né respingerlo, considerandolo affasci-
nante e persino attraente ma illogico, è una abilità che dobbiamo faticosamente appren-
dere; e una volta appresala (sempre in modo molto imperfetto) dobbiamo continuamen-
te sforzarci di tenerla in vita: non si tratta infatti di una capacità connaturata in noi come
la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, su cui possiamo fare affidamento
senza alcun timore.

L’attenzione interpretativa per la contestualizzazione e la costruzione del signifi-


cato ha condotto in anni recenti a contestualizzare non solo gli osservati, ma anche
gli osservatori: “Ciò che chiamiamo i nostri dati – dice Geertz (1973, p. 45) – sono
in realtà le nostre interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro
INTRODUZIONE ALLA PARTE PRIMA 45

e i loro compatrioti”. Questa contestualizzazione – del conosciuto e di colui che co-


nosce, del descritto e di colui che descrive – è oggi chiamata antropologia interpre-
tativa da alcuni, e postmodernismo da altri.
Quest’antropologia si considera interpretativa perché rappresenta un’estensione
del modello interpretativo, e conduce ad applicare all’osservatore gli stessi principi La contestua-
di contestualizzazione che si applicano agli osservati (l’idea che una descrizione ri- lizzazione di
fletta sia il descritto che colui che descrive ha ovviamente una lunga storia sia entro osservatore e
l’antropologia che fuori di essa). “L’antropologia interpretativa – affermano Marcus osservati
e Fischer (1986, p. 60) – riflette sul fare e sullo scrivere dell’etnografia [stessa]”, su
come gli antropologi presentano agli altri i loro dati. Clifford (1988, p. 54) sostiene
che: “L’antropologia interpretativa è venuta demistificando parecchio di quanto in
precedenza era passato senza problemi nella costruzione etnografica di narrazioni”.
Il postmodernismo – se posso per un momento generalizzare all’estremo al fine
di trasmettere la sua rilevanza in questo contesto – sfida le forme moderne della rap-
presentazione. Le “decostruisce”, analizza (e contestualizza) criticamente le loro co-
struzioni, per dimostrare come la credibilità sia veicolata da certe forme retoriche.
Clifford (1986, p. 34) sostiene che “il ‘reale’, nella storia, nelle scienze sociali, nelle
arti, perfino nel senso comune” possa essere analizzato “come una serie di codici e
convenzioni sociali”. Nel caso dell’etnografia, per esempio, il postmodernismo con-
sidera come gli antropologi producano un’impressione di autenticità, il senso di “es-
sere stati lì”, sul posto, e aver effettivamente condotto una ricerca sul campo. La
nuova tendenza deriva, per coloro che vi si riconoscono (cfr. Marcus, Fischer 1986, La crisi della
p. 47), da una “crisi della rappresentazione”, dall’incapacità delle forme moderne di rappresentazione
rappresentazione (primariamente della scrittura e dell’immagine filmata) di veicolare
le sottili e complesse dinamiche del mondo contemporaneo, soprattutto in relazione
a due elementi: 1) colui che descrive all’interno della descrizione e 2) i molteplici le-
gami che collegano i luoghi di ricerca sul campo ai sistemi più ampi. Quindi i post-
modernisti come Marcus (p. 65) propongono di sostituire le tradizioni di scrittura
etnografica fin qui sedimentate, esplorando nuove possibilità:

...una volta che sono rese palesi le convenzioni e la natura retorica del discorso realista, si
apre lo spazio per formulare nuove domande, per concretizzare nuovi oggetti di studio, e
per esplorare nuovi ambiti discorsivi attraverso esperimenti sulla forma.

Suggeriscono a proposito Marcus e Fischer (1986, p. 95):

Ciò che risulta particolarmente importante, nella discussione che verte sui testi sperimen-
tali auto-consapevoli, non è tanto la sperimentazione per se stessa, ma lo spunto teorico
prodotto da una determinata tecnica di scrittura e la sensazione che una innovazione con-
tinua nella natura dell’etnografia possa essere un mezzo utile allo sviluppo della teoria.

È questo quindi il contesto del saggio di Marcus, lo sviluppo dell’antropologia


interpretativa in chiave postmoderna, la critica della scrittura etnografica, e l’inte- Le critiche ai
resse per la sperimentazione. C’è però un altro contesto da considerare. La lettura postmodernisti
di diversi contributi presenti in questo volume, così come la letteratura antropologi-
ca in generale, indicano che molti antropologi si oppongono a questa prospettiva.
Le critiche si concentrano su due punti. Primo, si crede che l’antropologia inter-
pretativa/postmoderna venga a minare alcuni assodati standard qualitativi, fino al
punto che alcuni accuserebbero che “tutto fa brodo”. DaMatta (p. 156) sostiene
che un eccessivo interesse nella descrizione per colui che descrive “tende a ridurre i
problemi antropologici esclusivamente a narrazioni sul lavoro di campo”. Murphy
46 ROBERT BOROFSKY

(p. 81) si riferisce alla “scrittura densa” (un gioco di parole sulla “descrizione den-
sa” di Geertz) “in cui oscure allusioni letterarie e forme retoriche barocche diventa-
L’oscurità della no armi, in una specie di rap per teste d’uovo”. Invece di descrizioni etnografiche,
“scrittura densa” ci troviamo per le mani “contemplazioni del proprio ombelico” (come le chiama
Jarvie, cfr. Sangren 1988, p. 428), esercizi di narcisismo. Gli studi antropologici di-
ventano un mezzo di contrasto per parlare di sé. Secondo, l’antropologia postmo-
derna sottostima il contesto della sua produzione, trascurando i propri giochi di po-
tere, come se oggetto di analisi dovessero essere solo i giochi di potere e le costru-
zioni intellettuali degli altri. Sangren (1988, p. 414) sostiene che nelle analisi inter-
pretative o postmoderne:

Assenza di Si è liberi di sperimentare e criticare, di delegittimare, demistificare e decostruire… ogni


autoanalisi e specie di “altro”, reale o fittizio, che fa al proprio caso, senza l’obbligo di dover difende-
auto-demi- re la propria posizione… [Il postmodernismo implica] la libertà espressamente ricono-
stificazioni sciuta di dar vita a mistificazioni e falsificazioni vantaggiose per chi le produce, senza do-
versi confrontare con alcuna replica di tipo logico o fattuale.

Nel dibattito tra positivismo e postmodernismo sono in discussione approcci anti-


tetici su come far avanzare la disciplina. I positivisti si concentrano sugli standard per
distinguere, se non la ricerca giusta da quella sbagliata, almeno la migliore da quella
peggiore. L’attenzione è posta sull’accumulazione di dati attendibili, su di un corpus
di dati etnografici sempre più vasto. Gli interpretativisti e i postmodernisti spingono
Standard di invece alla cautela verso la pratica di distillare conoscenze sottili e complesse con mo-
attendibilità vs dalità che possono apparire “scientifiche”, ma che fanno perdere il senso originario e
sperimentazione il significato di quelle conoscenze. Pongono l’accento sul fatto che molta “autenticità”
etnografica
etnografica è il frutto di uno stile retorico, in cui l’osservatore nasconde se stesso
mentre dà forma all’osservato. Infine sostengono il bisogno di mantenersi aperti a
nuove possibilità, il bisogno di sperimentare per sviluppare la disciplina.
Questo dibattito sta giocando un ruolo chiave nell’evoluzione dell’antropologia.
Ognuna delle due parti in causa ha raffreddato gli eccessivi entusiasmi dell’altra.
Gli interpretativisti hanno infuso cautela nello sforzo positivista di giungere a una
relativa oggettività. I positivisti hanno indicato le serie limitazioni che i resoconti et-
nografici interpretativi e personalizzati comportano per lo sviluppo della disciplina.
Per il prossimo decennio abbiamo bisogno di verificare come sia possibile tener as-
sieme entrambe le prospettive entro una fiorente disciplina. Come permettere loro
di imparare una dall’altra, come farle veramente essere un vicendevole stimolo nello
sviluppo dell’antropologia e della conoscenza.

Materialismo/idealismo
Non sarebbe corretto considerare il dibattito tra materialismo e idealismo come
una semplice variazione sul tema di quello tra positivismo e interpretativismo. La
relazione tra le due opposizioni è più complessa. Si può considerare Harris un
esponente allo stesso tempo del positivismo e del materialismo, ma Marcus, che è
un interpretativista, sembra individuare degli aspetti da valorizzare anche nel mate-
Il materialismo di rialismo. Facendo riferimento all’antropologia “come sedimentazione intellettuale
Marcus
interna alla storia del colonialismo occidentale” (p. 67), Marcus lega l’evoluzione
dell’antropologia alla politica e all’economia del colonialismo. E Murphy (pp. 81-
82), nonostante la sua distanza da Harris, concede molto al materialismo quando
suggerisce che: “le realtà del potere, del sesso e del bisogno economico sono ampia-
mente prioritarie e generative rispetto alle forme simboliche”.
INTRODUZIONE ALLA PARTE PRIMA 47

Il dibattito tra materialismo e idealismo si è affacciato in antropologia attraverso


gli scritti di Marx: “Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che deter-
Materialismo
mina la coscienza” (Marx, Engels 1845-46, p. 66). In un altro famoso brano Marx
dice: “La totalità delle relazioni di produzione costituisce la struttura economica
della società, il reale fondamento su cui si basano le sovrastrutture giuridiche e poli-
tiche”. Detto altrimenti: “Il modo di produzione della vita materiale determina il
carattere generale dei processi sociali, politici e spirituali della vita”.
Harris ha sviluppato una prospettiva di tipo materialista basata sugli scritti di
Marx (e su quelli di White e Steward). In omaggio ai suoi antenati, ha chiamato il Harris e il
suo approccio “materialismo culturale”. Harris sostiene che “il compito primario materialismo
dell’antropologia è quello di fornire spiegazioni causali delle differenze e somiglian- culturale
ze che vi sono tra gruppi umani nel pensiero e nel comportamento”. Prosegue
(Harris 1991, p. 404):

Questo compito può essere perseguito studiando le costrizioni materiali cui è soggetta
l’esistenza umana. Queste costrizioni sorgono dal bisogno di produrre cibo, rifugio, stru-
menti e attrezzi, e di riprodurre la popolazione umana entro i limiti stabiliti dalla biologia
e dall’ambiente. Queste costrizioni sono dette materiali… per distinguerle da costrizio-
ni… imposte da idee e da altri aspetti mentali o spirituali della vita umana… Per i mate-
rialisti culturali, le cause più probabili delle maggiori variazioni negli aspetti mentali o
spirituali della vita umana sono da rinvenire nelle differenze di costi e benefici materiali
nella soddisfazione del bisogni di base in un determinato ambiente.

Nelle prospettive di tipo idealista, i processi mentali definiscono il contesto entro


cui operano le dinamiche materialiste. Sahlins (1976, p. 204) chiarisce questo punto: Idealismo

Non esiste alcuna logica materiale al di fuori dell’interesse pratico, e l’interesse pratico
degli uomini per la produzione è simbolicamente costituito. Le finalità non meno che le
modalità della produzione provengono dal lato culturale.

È questa convinzione – che cioè le forze e le relazioni di produzione materiali


siano costruite culturalmente – che sta alla base della convinzione di Sahlins (p.
468) che ogni società sia una “società globale”, cioè che ogni società definisca il
Sahlins e il
mondo dal suo punto di vista indigeno. primato del
Lo strutturalismo, una prospettiva idealista, si concentra sulle strutture di rela- simbolico
zioni profonde della mente umana. Postula, come dice Godelier (p. 37) che “la
mente ordina la realtà naturale e culturale in base a due fondamentali regole dell’a-
nalogia”: la metafora, o associazione per analogia (per cui, per esempio, la bellezza
di un fiore è comparata alla bellezza di una donna) e la metonimia, o associazione Lo strutturalismo
per connessione fisica (per cui una corona è associata alla regina perché la regina di Godelier e
porta la corona). Per Lévi-Strauss, il fondatore dello strutturalismo, metafora e me- Lévi-Strauss
tonimia sono forme mentali e concettuali di ordinare il mondo, o come dice lui
(1962, p. 8): “Il pensiero… si fonda sul bisogno di ordine”. Lévi-Strauss sostiene
che questo ordinamento prende forma attraverso opposizioni binarie del tipo cal-
do/freddo, crudo/cotto, terra/cielo, maschio/femmina, e lui stesso possiede un’abi-
lità non comune nell’individuare relazioni e opposizioni in diversi miti e rituali. Co-
me si vedrà meglio nell’introduzione alla terza parte, è inoltre in grado di usare que- Metafora,
ste opposizioni per mettere in luce le contraddizioni di base di una società. Una metonimia e
precisazione è però a questo punto necessaria: Lévi-Strauss rifiuta di farsi categoriz- opposizioni
zare come idealista, e dice di basarsi anche su altre prospettive, incluse certe forme binarie
di materialismo (cfr. Lévi-Strauss 1962 e Lévi-Strauss, Eribon 1991).
48 ROBERT BOROFSKY

Non si può negare che il confronto generato dal dibattito nei decenni scorsi tra
diverse forme di materialismo e idealismo sia stato particolarmente acceso. Ortner
(1984, pp. 133-134) afferma in proposito che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio
dei Settanta: “Bisognava essere proprio digiuni di teoria antropologica per non es-
Asperità nel
dibattito sere a conoscenza della feroce polemica” tra queste due prospettive. Gli antropolo-
gi di impronta materialista consideravano quelli con un’impostazione idealistica co-
me “dei mentalisti dalle idee confuse… che si lasciano andare a interpretazioni sog-
gettive non verificabili”, mentre erano a loro volta criticati dagli idealisti per il fatto
che “ignoravano a bella posta l’evidenza che… la cultura media tutto il comporta-
mento umano” (ib.).
In un certo senso, quel che emerge da questo dibattito sono i punti forti e debo-
li della prospettiva olistica. In forma più o meno esplicita, sia Harris che Murphy si
interessano dei modi sottili e complessi in cui gli elementi culturali sono interrelati.
Ma l’olismo non specifica in maniera chiara fino a che punto e con quali modalità
gli elementi culturali interagiscano tra di loro, e così i due autori esplorano possibi-
lità differenti. E non c’è accordo neppure sull’importanza relativa dei diversi ele-
menti nel favorire il mutamento e/o la stabilità.

Sviluppare la disciplina
Leggendo questa sezione, potrebbe facilmente venire il mente la poesia di Ro-
bert Frost, Riparare il muro. Sorge cioè il desiderio di conoscere non solo quel che è
racchiuso da una particolare prospettiva – ciò che essa include esplicitamente, ciò
su cui getta luce – ma anche quel che il muro eretto da ogni prospettiva lascia al di
fuori – ciò che viene escluso, sottovalutato, trascurato. Gli autori di questa parte del
volume non risolvono le polemiche intellettuali che abbiamo indicato. Ma i lettori
I temi ignorati possono meditare su alcune questioni a riguardo: quali sono i temi che questi auto-
e i problemi nello ri mettono in luce in modo specifico? Quali sono quelli ignorati? Che problemi
sviluppo della
disciplina
pongono al procedere della ricerca?
Come ultima cosa, quel che dobbiamo tenere a mente nel leggere questa sezione
è come usare a vantaggio dell’antropologia i diversi orientamenti qui inclusi. Come
possiamo cioè imbrigliare le tensioni tra le opposte – e tuttavia parzialmente so-
vrapposte – prospettive di questi autori per far avanzare l’antropologia come disci-
plina intellettuale?
Nota alla parte prima
Vanessa Maher

Leggere questa sezione è stato un po’ come guardare un dramma che si svolge
su un palcoscenico lontano. Qual è la comunità antropologica di cui parla Borofsky
nel titolo? L’elenco degli autori del volume non lascia dubbi: si tratta di autori an-
glofoni, con alcuni ospiti d’onore francesi come Lévi-Strauss e Godelier; del resto,
anglofoni sono quasi tutti i riferimenti nel testo. Come verrà recepita questa tradu-
zione in Italia? Ripercorrendo in forma riflessiva la storia della disciplina nel nostro
paese, ci rendiamo conto di come vi siano molti fattori che la rendono differente da
quella americana. Gli autori di questa sezione hanno studiato e insegnato in alcune
delle università il cui nome è associato a quello dei fondatori dell’antropologia cul-
turale statunitense: Columbia, Harvard, Chicago, California, senza contare i sog-
giorni in vari e importanti dipartimenti di studio britannici. Tutti hanno svolto ri-
cerche sul campo lontano dal proprio paese, e redatto lavori etnografici. Ritengono
superate le fasi evoluzionista e funzionalista della disciplina. Fanno riferimento a un
corpus comune di concetti e procedure: etnografia, osservazione partecipante, cul-
tura, struttura sociale, relativismo, contestualizzazione, ecc. e riconoscono gli stessi
“antenati mitici”: Boas, Kroeber, Kluckhohn, Eggan, Nadel, Steward, Radcliffe-
Brown, Evans-Pritchard, Malinowski, Lévi-Strauss e persino Geertz. Il dibattito in-
torno a questi comuni concetti e agli altri proposti dagli antenati è costante. Condu-
ce a posizioni divergenti per quanto riguarda, ad esempio, il ruolo degli approcci
positivisti o ermeneutici nella ricerca antropologica, le prospettive sono – come dice
Borofsky – in gran parte “sovrapposte”. I termini del dibattito sono astratti, concer-
nono lo sviluppo della disciplina in università che assomigliano molto a “torri d’a-
vorio”: il campo è lontano, una “rappresentazione” dei contendenti che non inter-
ferisce con il corso del dibattito intellettuale. Salzman così vorrebbe una definizione
ancor più rigorosa dell’antropologia, in modo che possa esser meno contaminata da
discipline vicine (come se non vi fosse una storia economica o religiosa, o varie
branche della psicologia), e rivendica una preparazione linguistica e tecnica più se-
ria. Marcus critica le varie retoriche con le quali gli antropologi si sono arrogati au-
torità etnografica, e si augura che giunga una fase di sperimentalismo e plurivocità
nella ricerca antropologica.
Questi saggi mi colpiscono sia per la loro convergenza nella divergenza, sia per
le omissioni comuni. Mi chiedo perciò, con Ruth Behar e Deborah Gordon in Wo-
men Writing Culture (19925), come hanno fatto gli autori di questa sezione e i criti-
ci delle “retoriche etnografiche” a ignorare quasi completamente l’antropologia
femminista, che ha percorso la strada, all’epoca più accidentata, della messa in dis-
cussione dell’autorità dell’etnografia androcentrica e dell’antropologia “dialogica”
fin dagli anni Settanta (cfr. Annette Weiner, Women of Value, Men of Renown, 1976
su Malinowski, o gli importanti volumi curati da Shirley Ardener, o ancora l’opera
di Michelle Rosaldo o di Rayner Reiter; si veda, infine, Barbara Myerhoff, Peyote
50 VANESSA MAHER

Hunt, del 1974). I consigli paternalisti di Harris suonano quasi comici, se visti nel
contesto delle ricerche di genere contemporanee. Mi chiedo anche dove sia finita
l’antropologia biografica degli anni Sessanta (si pensi a Lewis, I figli di Sanchez e a
molti altri), oppure la scuola di Manchester e l’analisi situazionale, con la sua pro-
posta di più “narrazioni” di una stessa situazione. Infine mi chiedo: cosa significano
questi dibattiti in Italia?
In Italia l’antropologia s’innesta su altre tradizioni di studio e gli antropologi la-
vorano in circostanze diverse. I problemi sono differenti e così pure le divergenze
tra antropologi. Una delle condizioni che tende a influire sulla ricerca antropologica
in Italia è la forte continuità fra le università e la società civile. Le università sono
ubicate nelle città e risentono degli avvenimenti nella società circostante. I docenti
hanno spesso come interlocutori certi settori della popolazione locale e le loro ricer-
che sono frequentemente legate a questioni poste da questi stessi interlocutori, as-
sumendo connotazioni pratiche e politiche estranee all’antropologia statunitense.
Tali questioni, dato lo status minoritario dell’antropologia, vengono poste nei termi-
ni di discipline più tradizionali e familiari al senso comune: la medicina, la filosofia,
la teologia, la sociologia. Questa circostanza spiega sia la fortuna che la sfortuna
dell’antropologia culturale in Italia. Le tesi positiviste dell’antropologia biologica di
Cesare Lombroso e Paolo Mantegazza hanno accompagnato il pensiero sul sociale
per tutto il periodo fascista e non è raro ancora oggi sentire ragionamenti giuridici e
leggere sui quotidiani delle interpretazioni biologiche di comportamenti sociali (p.
es.: “il divorzio è ereditario”). Mi sembra che il grande lavoro sul concetto di cultu-
ra fatto, e continamente aggiornato, dagli antropologi negli Stati Uniti (da Boas,
Kluckhohn, Kroeber, fino a Geertz) fin dagli anni Quaranta e Cinquanta per far
fronte ai problemi sociali posti da una popolazione culturalmente eterogenea sia
qui ancora da fare e si impone con urgenza nella nuova situazione mondiale.
Inoltre, le ricerche di Ernesto De Martino, ispirate allo storicismo e al marxi-
smo, ponevano insieme problemi filosofici e problemi inerenti al riscatto culturale
ed economico delle popolazioni dell’Italia meridionale. La formazione di questi
studiosi e i materiali che ritenevano pertinenti ai loro studi erano molto diversi tra
loro ma diversi anche da quelli dell’antropologia culturale anglofona. De Martino
non svolgeva un’osservazione partecipante nell’accezione statunitense; ma d’altra
parte, dove osservava e raccoglieva materiali non aveva problemi di comprensione
linguistica. In Italia, anche dopo l’introduzione dell’antropologia statunitense nel
secondo dopoguerra, gran parte delle ricerche si sono svolte con l’intento di racco-
gliere e analizzare le tradizioni culturali italiane, e raramente in una prospettiva
comparativa. Non era molto presente l’idea dell’“unità del genere umano”, concet-
to che emergeva di più negli scritti di Pettazzoni e altri studiosi legati a un approc-
cio religioso. Qualche volta queste ricerche si avvalevano di un linguaggio e un im-
pianto concettuale marxista oppure assumevano il colore della denuncia sociale.
Un’ulteriore diversità dell’antropologia italiana riguarda la profonda influenza di
Lévi-Strauss e dello strutturalismo su molti antropologi di formazione filosofica.
La ricerca sul campo e l’etnografia come “generi” sono stati sviluppati da pochi
africanisti e studiosi dell’America Latina, spesso in contatto con l’antropologia
francese e anglofona.
Oggi molti giovani antropologi seguono con attenzione tutte le proposte di de-
costruzione dell’etnografia anglofona senza conoscerne l’oggetto. Per esempio, per
valutare le accuse di Marcus di “astoricità” dell’etnografia, bisognerebbe prima leg-
gere Nadel oppure Shapera; per valutare le critiche di Salzman alle competenze lin-
guistiche dei giovani antropologi anglofoni, bisognerebbe leggere Beidelman, o
NOTA ALLA PARTE PRIMA 51

Fortes o Bohannan, o Gluckman o il dibattito degli antropologi arabi su questo te-


ma. Anche chi svolge delle ricerche sul campo tende a sottovalutare il problema lin-
guistico. Nel panorama delle ricerche italiane lo studio delle lingue viene posto in
genere come etnolinguistica, una disciplina a sé, e non come uno strumento neces-
sario per la ricerca sul campo. La sezione qui presentata, con la sua prospettiva
comparativa, le posizioni pro e contro certe convenzioni etnografiche e il dibattito
intorno alla determinazione o autonomia del sistema socio-culturale offre più occa-
sioni di elaborazione e aggiornamento delle risorse disciplinari italiane; pure con le
cautele qui raccomandate insieme con il consiglio di leggere le etnografie, oggetto
del discorso, e di alternare le teorie sulla teoria alla ricerca pratica.
I nostri studenti, ultimi destinatari di questo libro, sono spesso portatori di un
senso comune che attribuisce il comportamento sociale alla biologia, che distingue
volentieri fra il “civile” e il “selvaggio” o “primitivo”, che non ha familiarità con il
dibattito sul relativismo culturale e ha più facilità a fare analisi politiche che socia-
li. Ciononostante gli studenti sono sensibili e attenti al linguaggio simbolico e ri-
tuale, ma si dedicano con difficoltà a ricerche che implicano l’osservazione minuta
dei comportamenti sociali. Si trovano, invece, a loro agio nell’analisi filologica e
nella raccolta e valorizzazione di tradizioni locali. Raramente possiedono delle in-
formazioni approfondite su altre società, né assumono una prospettiva comparati-
va. Infine sono costretti a impadronirsi di un linguaggio scientifico adeguato, rara-
mente assimilabile al senso comune. Altre cattive analisi sociali, invece, a volte si
diffondono ulteriormente perché sono veicolate dal linguaggio comune. Non per
caso in Italia la sociobiologia ha ricevuto molta attenzione mentre negli Stati Uniti,
grazie alla reazione della comunità antropologica ed ai “Women’s Studies” è rima-
sta una tendenza marginale. Nella didattica dell’antropologia, materia minoritaria
in molte facoltà, sono inevitabili i riferimenti agli sviluppi della disciplina in altri
paesi, ma tali riferimenti implicano un lessico e un retroterra culturale (il melting-
pot oppure la storia del colonialismo, per esempio) poco familiari. I testi che se-
guono fanno emergere con chiarezza alcuni problemi-chiave e invitano a un dibat-
tito ancora aperto.
Lo straniero solitario nel cuore di tenebra
Philip Carl Salzman

Quali che siano i vanti degli Stati Uniti nella coorte delle nazioni, nel mondo ac-
cademico è senza dubbio l’antropologia culturale a essere “la terra dell’uomo libero
e la casa del coraggioso”. I modi in cui concepiamo l’insegnamento, la ricerca e la
L’antropologia conoscenza testimoniano tutti il primato accordato alla libertà e al coraggio. I pregi
“terra della e i difetti, i successi e i fallimenti dell’antropologia culturale derivano proprio da
libertà”
queste apprezzate caratteristiche della disciplina.

La libertà del coraggioso


Clyde Kluckhohn, secondo l’affettuoso ricordo di Clifford Geertz (1983, p.
27), amava dire che una laurea in antropologia equivale a una licenza intellettuale
di caccia di frodo, ma la libertà di fare praticamente qualunque cosa sotto il nome
di antropologia culturale (d’ora in avanti userò il termine più generale “antropo-
logia” per riferirmi a quella sua porzione che è l’antropologia culturale, e specifi-
Gli antropologi cherò quando mi riferisco ad altri settori, come l’archeologia) si manifesta ben
“cacciatori di prima di raggiungere la laurea. Mentre altri studenti si specializzano in psicologia
frodo”
o economia, women’s studies o sviluppo, scienze politiche o religione, arte o sto-
ria, i nostri studenti sono liberi all’interno dell’antropologia di tuffarsi in ognuna
di queste discipline, di saggiare quel che li attrae, di passare dall’una all’altra con
disinvoltura, e di selezionarle e combinarle in maniera del tutto idiosincratica. I
corsi nella maggior parte dei dipartimenti di antropologia non offrono una ristret-
ta specializzazione, ma piuttosto tutto lo spettro delle scienze sociali e umanisti-
che, e spesso qualcosa in più.
L’ampiezza straordinaria dell’antropologia, unica nel mondo accademico, ha fat-
to nascere finora nell’American Anthropological Association (AAA) non meno di do-
dici gruppi formali definiti principalmente per argomento (senza contare cinque or-
ganizzazioni generali, due areali e una regionale): antropologia femminista, antro-
I gruppi pologia politica e legale, antropologia dell’educazione, della nutrizione, dell’agricol-
organizzati
all’interno tura, della conoscenza, del lavoro, antropologia culturale, antropologia umanistica,
dell’American antropologia del linguaggio, antropologia medica, antropologia psicologica e antro-
Anthropological pologia urbana. Le regole per l’istituzione di queste organizzazioni sono prima di
Association tutto amministrative, e richiedono essenzialmente che un certo numero di membri
dell’AAA diano il loro sostegno al nuovo gruppo. Non ci sono criteri accademici ba-
sati su qualche definizione ristretta di antropologia che possano limitare la gamma
degli argomenti accettabili. Con la stessa libertà, i membri dell’AAA, quale che sia la
loro formazione o retroterra accademico, possono iscriversi a una o più di queste
associazioni (anche a tutte) scegliendo, di nuovo, in base ai loro interessi del mo-
mento e limitati solo da ragioni di tipo economico. Il ventaglio pressoché illimitato
degli interessi antropologici è stato quindi ufficialmente ratificato anche al livello
più formale della professione.
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 53

L’organizzazione del curriculum antropologico e della professione negli Stati


Uniti rispecchia gli esempi indicati dagli eroi culturali dell’antropologia. Tra gli an-
tenati ancestrali, Malinowski ha scritto autorevoli etnografie su politica, parentela e Libertà negli
psicologia nelle Trobriand, ma anche importanti lavori teorici su rituale, mito e reli- argomenti
gione. Tra i rappresentanti della seconda generazione, Evans-Pritchard ha offerto
eccellenti contributi etnografici sulla stregoneria tra gli azande, su ecologia e politi-
ca, parentela e religione tra i nuer, e sulla storia in Cirenaica e tra gli azande. Tra i
campioni attuali, Geertz ci ha edotto con resoconti etnografici su politica e religio-
ne, ecologia ed economia a Giava, sulla politica a Bali, sulla religione a Giava e in
Marocco, e sull’economia in Marocco, nonché con contributi teorici su religione,
ideologia, senso comune, arte ed evoluzione. I grandi maestri dell’antropologia si
sono sentiti liberi di spaziare lungo l’intero spettro della vita umana e lungo le sue
variegate attività, i suoi sforzi, le correlazioni, le deduzioni, le sue forme astratte e le
sue forze concrete. Del resto, il modello tradizionale di monografia etnografica
comprendeva un capitolo a testa per parentela, insediamento, economia, politica,
religione e così via. Nulla di ciò che è umano è estraneo all’antropologia.
La libertà dell’antropologia va oltre il numero infinito di argomenti indagabili,
poiché include anche il luogo della ricerca, il posto da studiare. Ancora una volta in
contrasto con la maggior parte degli altri studiosi, gli antropologi possono scegliere Libertà geografica
dal mondo intero: è accettabile qualsiasi continente, qualsiasi regione, qualsiasi po-
sto, dalle città più grandi e culturalmente più complesse (l’East End di Londra, i
cowboy bar di Parigi, i quartieri poveri del Cairo, il bazar di Teheran o i porno-shop
di Tokyo), fino ai villaggi di un minuscolo atollo del Pacifico, i campi temporanei di
pastori nomadi nei deserti dell’Arabia, gli insediamenti itineranti nelle foreste plu-
viali dell’Africa centrale, o le nuove cittadine nel gelo del Canada settentrionale.
Tutti questi luoghi sono rilevanti per l’universale campo d’azione dell’antropologia.
Uno studente di antropologia in un dipartimento anche piccolo può viaggiare in
tutto il mondo attraverso i corsi di etnografia. Dopo il turbolento primo semestre di
introduzione alle culture del mondo, si passa ai corsi più dettagliati sui popoli nati-
vi del Nord America, sulle culture dell’Oceania, sul Medio Oriente, l’Asia, il Medi-
terraneo, e così via. Se si è affascinati dagli eleganti sceicchi col turbante in groppa a
cammelli, ci si iscrive al corso sul Medio Oriente. Se ci eccitano il mare e il sole del-
le isole del Pacifico, si segue il corso sull’Oceania. Se ci pare che le culture ecologi-
che dei nativi del Nord America offrano un’alternativa, seguiamo il corso sulle po-
polazioni indigene. Quante preziose opportunità ci attendono nel caleidoscopio
delle culture umane: l’antropologia le offre tutte, scegli quel che ti attrae!
Mentre le possibilità per gli studenti fino alla laurea sono in gran parte limitate ai
libri, alle lezioni e ai documentari, quelli che scelgono l’antropologia come professio-
ne sono in grado di selezionare tra le migliaia di possibilità un’esperienza ben più pro-
fonda e intensa nel momento in cui intraprendono una ricerca etnografica in una lo- La carriera
dell’antropologo
calità straniera. Di solito gli antropologi passano un anno sul campo, a volte di più,
spesso seguito da ulteriori viaggi. Nel corso della sua decennale carriera, un antropo-
logo sceglierà inoltre quasi sicuramente di fare ricerca in diversi posti, non di rado
passando da una regione (o da un continente) all’altra. Io stesso ho fatto ricerca nel
Baluchistan iraniano, nel Rajasthan (India), e in Sardegna, e sono un tipo casalingo in
confronto a molti miei colleghi. In realtà, nel mio caso sono stato pressato dalle circo-
stanze: una rivoluzione islamica scoppiata in Iran, coincidente con la terribile invasio-
ne dell’Afghanistan e con caotiche ribellioni e repressioni nel Baluchistan pakistano.
Ma questo tipo di pressioni accadono sempre. Di fatto, molti colleghi scelgono di
spostarsi da un sito di ricerca a uno differente semplicemente per sondare con mag-
54 PHILIP CARL SALZMAN

gior completezza il variegato campionario dell’umanità. Molti insigni antropologi


hanno spaziato lungo vasti tratti del globo: Geertz, come già detto, ha lavorato a Gia-
va, a Bali e in Marocco; Edmund Leach fece ricerche sulle tribù delle montagne del
Kurdistan, sui sistemi politici birmani, e su terra e parentela a Ceylon; e Fredrik Barth
ha intrapreso ricerche sui villaggi montagnosi del Kurdistan, sui campi nomadi dell’I-
ran, tra le valli irrigue e le ‘case degli uomini’ in Pakistan, sulle flotte di pescherecci in
Norvegia, sui quartieri urbani in Oman, sui villaggi collinari in Nuova Guinea, sulle
città a Bali e sulle comunità di montagna in Nepal. L’antropologia ci offre tutto il
mondo. La nostra libertà di spaziarlo è limitata solo dalle nostre energie.

Il coraggio dell’uomo libero


Scegliete con cura ciò che desiderate perché rischiate di ottenerlo. Questo mot-
to potrebbe essere cucito sul vessillo antropologico che portiamo sul campo, per-
ché la ricerca sul terreno si rivela una pratica rischiosa ed estenuante. Ci sono in-
Motivazioni numerevoli ostacoli al benessere, alla tranquillità e alla ricerca. Vediamo quali.
della ricerca e
interessi dei
Per cominciare, dovunque si faccia ricerca, le persone che dobbiamo coinvolge-
nativi re sono impegnate ad affrontare le avversità della vita, e la nostra indagine ben di
rado coinvolge i loro interessi. Facciamo ricerca quasi sempre per ottenere un sod-
disfacimento intellettuale ed emotivo, per costruirci una carriera, per migliorare la
nostra vita. Se la gente ci accetta e collabora a quel che facciamo, è perché la loro
curiosità e generosità giocano a nostro vantaggio, ma il nostro lavoro rimane al mar-
gine delle loro vite, e dobbiamo imporre costantemente la nostra ricerca sul flusso
di attività della vita locale.
Inoltre, per quanto proviamo a essere sensibili verso la cultura che studiamo,
per quanto tentiamo di considerarla dal punto di vista dei nativi, i locali non sono
tenuti a fare altrettanto nei nostri confronti. Siamo noi che pretendiamo di essere
relativisti culturali, non loro. Le nostre usanze si discostano dai modelli locali in
un’infinità di maniere, alcune incomprensibili, altre divertenti, altre stupide, o peri-
colose od offensive, a seconda di come sono percepite dalle persone con le quali la-
Gli antropologi: voriamo. Persone che reagiranno, su diversi livelli di comprensibilità, con stupore,
degli outsider riso, derisione, imbarazzo o collera, tutti atteggiamenti ovviamente espressi nelle
marginali forme locali. Siamo per forza degli outsider marginali, incompetenti, imbarazzanti,
maleducati, e del tutto irrilevanti. Essere un outsider marginale per un anno intero
non è uno scherzo, ci vuole del fegato.
Tanto più ce ne vuole per essere un outsider marginale da solo, completamente
da solo. Il più delle volte facciamo ricerca da soli. A volte ci portiamo sul campo il
fidanzato o il coniuge, e questo ci aiuta, ma di solito siamo “l’antropologo solita-
rio”, che fa ricerca per conto suo, che interagisce con i locali, con gli informatori,
con i suoi oggetti e soggetti basandosi esclusivamente sulle sue personali risorse.
Dobbiamo affrontare lo stupore, il riso, la derisione, l’imbarazzo e la collera, accet-
tare tutto ciò e farci i conti in quanto persone, e in quanto antropologi saper anda-
re oltre per conformare la situazione in modo che sia possibile estrarre le informa-
zioni necessarie alla nostra ricerca. La vita del ricercatore sul campo è fortemente
teleologica, motivata da un fine, orientata a uno scopo, con un sottofondo costante
di disagio sociale e psicologico.
I disagi del Il disagio non si limita alla marginalità sociale o all’eccentricità culturale. Lo
lavoro sul sforzo di vivere in condizioni fisiche diverse e forse meno confortevoli – si tratti del-
campo
la pioggia costante e dell’umidità della foresta, con la muffa che cresce sui libri, sui
vestiti e sulla pelle, o del calore bruciante e soffocante del deserto, oppure del fred-
do penetrante degli inverni in montagna – può distogliere dal lavoro (nel tentativo
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 55

di mantenersi asciutti, o freschi, o caldi) e minare il morale. A questo si sommano


microrganismi voraci e sconosciuti, spesso messi gentilmente a disposizione da si-
stemi idrici e fognari reciprocamente servizievoli, che lasciano l’etnografo seriamen-
te malato o comunque ne minano la salute fisica. Durante una ricerca sul campo
lunga ed estenuante, un collega che lavorava sulle montagne del Zagros in Iran ha
sofferto di epatite, colera e dissenteria amebica. Quando non gli era rimasto più
nulla da cui farsi infettare fu gravemente ferito in un incidente d’auto su una strada
di montagna. Era diventato un esperto di etnografia degli ospedali iraniani quanto
lo era della tribù che stava studiando.
Anche in periodi in cui riusciamo a mantenerci ragionevolmente sani, l’effettiva
conduzione della ricerca si dimostra assai meno limpida e trasparente di quel che ci
sembrava quando, studenti universitari, tutti celebravamo la nostra fiducia nell’“os-
servazione partecipante”. La nostra libertà di scelta all’università ci ha permesso di
evitare i corsi di metodologia, così come la libertà di cui godono i dipartimenti per-
mette loro di trascurare l’eventualità di fornire corsi di questo tipo. Se anche è stata
messa a disposizione una rapida introduzione alla metodologia, e ci siamo presi la
briga di seguirla, il tempo concesso è stato troppo breve per qualunque serio adde-
stramento, pratica, o raffinamento delle tecniche d’indagine. Questo è il modello Le metodologie
generale di apprendimento della metodologia in Nord America. Per quanto riguar- di ricerca
da i metodi quantitativi e le tecniche statistiche, sono insegnate solo in pochi centri,
e non sono richieste praticamente da nessuno. Gli insegnamenti sull’uso del com-
puter per la ricerca sono poi sostanzialmente inesistenti. Così si va sul campo, le no-
stre speranze appese al vago concetto di “osservazione partecipante”, che in pratica
sembra voler dire andarsene in giro con la gente, con la vaga idea di guardare quel
che succede, e di fare qualche intervista. Certo, in questo modo siamo aperti e
spontanei, anche se non del tutto sicuri su come procedere. Ma procedere si deve, e
tenendoci sul chi va là e stringendo i denti, tiriamo avanti coraggiosamente, con la
convinzione che un modo si troverà.
Provate d’altra parte a considerare il rarissimo caso opposto, in cui un’elaborata
metodologia sia stata pianificata e applicata. Un mio collega aveva sviluppato e por-
tato sul campo la struttura di una lunga intervista per raccogliere informazioni det-
tagliate sulla mobilità economica familiare, informazioni importanti per le teorie di
classe. Per raccogliere le 120 interviste necessarie alla significatività statistica, per I limiti di
un anno intero di ricerca sul campo passò la maggior parte del suo tempo a fare so- metodi troppo
lo queste interviste. Nessun conteggio calorico per l’analisi dello scambio alimenta- pianificati
re, niente mappe interpersonali di network analysis sociale, nessuna descrizione di
rituali, nessun diagramma di analisi parentale, nessun dato sugli scambi alimentari
per l’analisi delle caste, e nulla delle decine di altri tipi di raccolta dei dati per le de-
cine di altri tipi di analisi. Anche se avesse imparato, veramente imparato, tutte que-
ste tecniche metodologiche e modalità d’analisi, e avesse saputo applicarle, non
avrebbe avuto il tempo di farlo neppure per una o due di esse in maniera coerente,
sistematica o seria. Certo, si può sempre provare a fare quel che si può, un pezzo di
qua e un pezzo di là, su questo o quest’altro argomento. Ma che affidabilità hanno
questi frammenti sparsi, e come combinarli nei nostri resoconti con le cose che co-
nosciamo veramente? Le restrizioni di tempo ed energia inevitabilmente ci limitano
molto durante la ricerca sul campo. Ci sono tante cose che un ricercatore da solo Lo sguardo al
può fare, e queste sono comunque una ben piccola parte di quel che ci sarebbe da contesto
fare. Tutto ciò dipende ovviamente anche dai nostri limiti nella capacità di organiz-
zare e controllare le persone che studiamo, per le quali la nostra ricerca è piuttosto
marginale. Le attività quotidiane, orientate verso le preoccupazioni centrali della lo-
56 PHILIP CARL SALZMAN

ro vita, spesso conducono i nostri informatori fuori dal nostro raggio di azione e dai
nostri piani, rallentando così o inibendo il procedere del nostro lavoro. Alla fine
quindi, per quanto sappiamo come fare le cose, siamo ostacolati da restrizioni di
tempo ed energia. Nonostante queste restrizioni, abbiamo comunque la convinzio-
ne che non dobbiamo isolare gli elementi culturali dal loro contesto più ampio, che
dobbiamo tendere a uno studio olistico, e che siamo tenuti a fornire un resoconto
completo della società e della cultura che studiamo. Sappiamo che tendiamo all’im-
possibile, tanto impossibile da essere assurdo, eppure siamo pronti a non vedere
l’assurdità, per puntare coraggiosamente verso la necessaria completezza.
Il nostro coraggio si manifesta forse più che mai nel modo in cui affrontiamo le
La conoscenza
difficoltà della ricerca etnografica senza una grande abilità di comunicare con le
delle lingue persone che stiamo studiando. Spesso andiamo sul campo con una conoscenza solo
locali rudimentale delle lingue locali. Dopo tutto, concentriamo i nostri sforzi e il nostro
tempo nello studio dell’antropologia, e solo in una fase avanzata decidiamo esatta-
mente dove fare la nostra ricerca e quali lingue saranno necessarie. Di solito rimane
ben poco tempo per studiarle, e spesso non abbiamo accesso a corsi di apprendi-
mento per le lingue di cui abbiamo bisogno. Le nostre università non li garantisco-
no, e non ci sono fondi disponibili per consentire altrove lo studio delle lingue. Il
problema è poi peggiorato dal fatto che spesso abbiamo bisogno di conoscere una
lingua nazionale o regionale assieme a una locale. Io stesso mi sono trovato in que-
sta situazione ogni volta che mi sono avventurato sul campo: per la ricerca nel Balu-
chistan iraniano erano necessari persiano e baluchi, per la ricerca in Jodhpur hindi
e marwari, e in Sardegna italiano e sardo. La conseguenza di questi problemi nella
preparazione linguistica è che dobbiamo imparare la lingua sul campo, mentre fac-
ciamo la nostra indagine. Così, partiti per una località straniera per fare ricerca,
dobbiamo imparare a vivere lì e iniziare a lavorare senza essere veramente in grado
di comprendere o di farci comprendere. Ci vuole del coraggio a fare questo, come
Finanziamenti e ce ne vuole, in tali circostanze, a pianificare il completamento del lavoro entro il ca-
permessi nonico anno di ricerca sul campo. Faccio notare a riguardo che c’è tra i nostri colle-
ghi antropologi una forte resistenza all’idea che la ricerca sul campo possa richiede-
re più di un anno. In risposta a una recente richiesta di finanziamento, che mi è sta-
ta poi concessa, tutti i membri della commissione giudicatrice hanno criticato il pe-
riodo di due anni indicato per la ricerca, anche se la durata non influiva sull’am-
montare dei fondi richiesti. Quando risposi ai commissari, giustificando la richiesta
di due anni, cominciò a sembrarmi sempre più improbabile che anche due anni fos-
sero abbastanza, dati gli ostacoli da superare e gli obiettivi da raggiungere.
Tutto questo presuppone ovviamente l’autorizzazione da parte delle autorità
politiche a entrare nel paese prescelto e a procedere verso il luogo di lavoro desi-
gnato. Spesso infatti il problema dei permessi di ricerca o di residenza si dimostra
un vero azzardo. Diversi dottorandi nel mio dipartimento hanno passato recente-
mente un anno in attesa spasmodica di sapere se sarebbe stato loro concesso di en-
trare nei paesi per i quali si erano preparati negli anni precedenti. Io stesso ho pas-
sato lunghi mesi a Teheran prima della rivoluzione cercando di farmi dare un per-
Problemi messo per andare in Baluchistan, permesso che finalmente mi venne concesso, par-
politici
zialmente e di mala voglia. Alla fine ebbi l’onore di essere espulso dal Baluchistan
dalla polizia, dato che mi muovevo troppo liberamente sul territorio tribale. In se-
guito ho studiato le caste pastorali in Jodhpur, Barmer e Jaisalmir, i distretti deser-
tici del Rajasthan, a poca distanza dal confine con il Pakistan, provocando così una
serie di frenetici interrogatori di colleghi e altri amici indiani da parte della polizia
segreta indiana, fatto che non mi sembrò proprio di buon augurio per futuri per-
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 57

messi di ricerca e residenza nell’area. Questi insuccessi sfiorati rappresentano co-


munque le storie positive, perché ce l’abbiamo fatta ad andare sul campo e a con-
durre la ricerca, anche se a costo di molto tempo perso, energie, e tensione nel su-
perare gli ostacoli politici. Ci sono molti altri antropologi che hanno a volte aspet-
tato mesi in una capitale, per vedersi poi impedito l’accesso al luogo per il quale si
erano preparati, o che sono addirittura stati allontanati una volta raggiunto il luo-
go della ricerca. Ci sono poi anche casi di esclusione politica di origine locale più
che nazionale. Un giovane collega che cercava di fare ricerca presso una popola-
zione di nativi americani, dopo aver scoperto che il forte ronzio che sentiva era
prodotto non da grossi insetti ma da pallottole che fischiavano nelle sue vicinanze,
ha deciso di trasferire frettolosamente il suo sito di ricerca in un altro continente.
Anche se andiamo a fare ricerca sul campo con le migliori intenzioni (o con quelle
che almeno a noi così sembrano, forse con poco spirito critico) possiamo comun-
que essere accolti di mala voglia, o essere ostacolati, oppure totalmente respinti.
Visto che per noi è in gioco così tanto, facciamo del nostro meglio per evitare lo
scoramento e fare leva sulla nostra tenacia.
Chi, in queste condizioni, avrebbe voglia di intraprendere una ricerca sul campo
se non fosse dotato di grande coraggio (o di una sublime incoscienza)? La prospet-
tiva delle molteplici prove della ricerca sul terreno ha scoraggiato molti studenti
dall’affrontare lo studio post-laurea dell’antropologia. “Come fanno a vivere lì?”
(cioè: “come potrei vivere lì?”) si chiedono spesso timidi studenti che considerano
con angoscia l’idea di una ricerca sul campo. Ovviamente, le sfide del terreno sono
un’attrattiva per altri studenti, che sono forse più audaci e quindi più attratti dalla
prospettiva dell’avventura. Non rimangono certo delusi.

Quant’è dolce il frutto della ricerca antropologica?


Se da un lato non possiamo che rallegrarci della libertà di cui godono gli antro-
pologi o del coraggio che dimostrano nel fare ricerca sul campo, bisogna ora porci
la questione se non ci siano gli estremi per essere invece insoddisfatti dei risultati
della ricerca antropologica, e se eventuali inadeguatezze non siano da attribuire
proprio alla libertà e al coraggio di cui godiamo per statuto. Sono passati ottant’an- Risultati positivi
ni da quando Radcliffe-Brown pubblicò The Andaman Islanders, e quasi altrettanti della ricerca
da quando Malinowski pubblicò Argonauti del Pacifico occidentale e le altre mono-
grafie sulle Trobriand. L’antropologia non dovrebbe più essere un bimbo appena
svezzato che fa fatica a mettere un passo dietro l’altro nella stessa direzione. Non
dobbiamo più affidarci a una manciata di antropologi, uno o due alla Columbia, in
Michigan, in California, a Oxford e a Londra. Ce ne sono circa 10.000 nei soli Stati
Uniti, e molti di più nel mondo. Se l’antropologia è in seria difficoltà, potrebbe es-
sere non perché la disciplina è troppo giovane o noi siamo troppo pochi. Potrebbe
dipendere dal modo in cui facciamo le cose, forse proprio da quel coraggio e da
quella libertà che sembrano così peculiari all’antropologia.
Ma perché dovremmo essere delusi dei risultati dell’antropologia e della ricer-
ca antropologica? Un problema risaputo e a volte dibattuto è il fatto che la gran
parte delle conferenze antropologiche, dei congressi, degli articoli, delle mono-
grafie e delle raccolte di saggi, mentre corrispondono a una montagna di carta (e L’asistematicità
del corpus di
mettono a rischio intere foreste), non sembrano corrispondere a un effettivo, inte- conoscenze
grato e coerente corpus di conoscenze che possa fornire le basi per un ulteriore
avanzamento della disciplina. L. A. Faller diceva che sembriamo continuamente
darci da fare con nuove idee e nuovi concetti, senza mai risolverci di applicarli e
valutarli in modo efficace e sistematico. John Davis, qualche decennio fa in The
58 PHILIP CARL SALZMAN

Peoples of the Mediterranean, sembrava al limite della disperazione e della frustra-


zione, nel tentativo di trovare nei resoconti etnografici a sua disposizione, infor-
mazioni in qualche modo comparabili che potessero essere usate per porre casi
singoli in prospettiva e per ordinarli in un quadro più vasto. Non c’è neppure fi-
ducia nei singoli resoconti etnografici disponibili: non possiamo credere alle etno-
La sfiducia grafie di Schapera perché era un funzionalista, o a quelle di Nadel, perché era un
verso le
etnografie del
agente del colonialismo, o a Pitt-Rivers, perché ha raccolto tutti i suoi dati da se-
passato ñoritas delle classi agiate, o a Barth perché è capitalistico, o a Godelier perché è
un idealista travestito da marxista, o ad Asad perché è un marxista travestito da
empirista, o a Harris, perché è un materialista volgare, eccetera. Così finiamo per
non avere un corpus di conoscenze sul quale elaborare, e ci costringiamo a prova-
re continuamente a rifare l’antropologia daccapo.
Certo, rifare l’antropologia daccapo momento per momento è una manifestazione
della libertà così radicata nella costituzione dell’antropologia, e offre il destro alla
creatività. Ma sono veramente disponibili le risorse organizzative e intellettuali neces-
sarie alla creatività? Consideriamo il punto di vista di specialisti di aree più ristrette –
per esempio orientalisti, indologi, esperti dell’Estremo Oriente, storici che lavorano
sull’Europa, sociologi specializzati sul Nord America, economisti che si concentrano
sull’America del Sud – che spesso ricevono un’istruzione specialistica e raggiungono
un’elevata competenza riguardo alle lingue, alla letteratura, la geografia, la storia e gli
eventi attuali delle loro rispettive regioni, conoscenze che forniscono una base solida
per le loro ricerche. Questi specialisti d’area – certamente ne avrete incontrato qual-
cuno – rimangono allibiti dall’estrosità degli antropologi che, di solito profani (o qua-
L’antropologo e
gli specialisti si-profani) dei linguaggi e delle letterature regionali, e privi di tutto tranne che di en-
tusiasmo e della convinzione nella giustezza dell’antropologia, scienza concreta e dal-
la parte della gente, se ne vanno nella foresta/deserto/montagna/città a vivere per un
anno e a registrare per i posteri la popolazione e la cultura da loro “scoperti di recen-
te”. Di solito ci liberiamo dello scetticismo cupo e meschino di questi specialisti d’a-
rea come di un caso di competitività interdisciplinare, e del resto loro sono tutti più o
meno intrappolati nell’imperialismo intellettuale occidentale, prigionieri orientalisti di
fantasie esotiche dell’altro, mentre noi antropologi siamo impegnati a presentare “il
punto di vista dell’attore sociale”, la “concreta” realtà quotidiana, e l’intelaiatura cul-
turale, o le condizioni materiali, o il contesto del sistema-mondo attraverso cui quella
realtà si costituisce. Ma è difficile negare l’esistenza di alcune delle difficoltà prima ci-
tate – che noi preferiamo considerare difficoltà pratiche – riguardo alla nostra prepa-
razione areale. Abbiamo deciso il luogo della ricerca solo uno o due anni prima di
partire per il campo; le lingue, le letterature, e altri soggetti d’area necessari sono rara-
mente disponibili nelle nostre università; di solito le lingue da padroneggiare sono
due, quella nazionale e quella locale; spesso la letteratura scientifica relativa al nostro
terreno di ricerca è in un’altra lingua ancora, o in più d’una, che troppo sovente non
abbiamo studiato in precedenza. Con queste premesse spesso non siamo in grado di
L’antropologo dare un solido fondamento alla nostra ricerca. Così di solito seguiamo un corso estivo
“tappabuchi” di lingua, o ci iscriviamo a corsi di cultura o storia regionale, e intanto speriamo di im-
parare la lingua sul campo, di conoscere la cultura direttamente dagli informatori, e di
gestire il contesto generale attraverso il lavoro d’archivio sul terreno. Facciamo affida-
mento sui nostri rapidi progressi sul campo e sulla nostra capacità di tappare tutti i
buchi. E va bene – mi pare di sentire – ci vuole un bel daffare, ma la ricerca sul cam-
po è proprio questo! Giusto, ma se facciamo del nostro meglio con una conoscenza
solo modesta delle lingue, e con un modesto background della regione, e facciamo af-
fidamento su episodi isolati e impressioni personali perché non ci hanno insegnato i
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 59

metodi della raccolta delle informazioni, e se comunque non c’è tempo per una rac-
colta sistematica delle informazioni, dovremmo forse sorprenderci se troppo spesso le
nostre etnografie sono superficiali, frammentarie e inaffidabili?

Siamo noi a creare gli ostacoli che ci bloccano?


La credibilità dei nostri resoconti dal campo si basa principalmente sulla loro
unicità, cioè sull’assenza di altri resoconti che potrebbero presentare “risultati” op- Il lavoro
posti, cioè che potrebbero verificarne l’affidabilità. La maggior parte dei casi di ri- etnografico:
cerche ripetute o strettamente comparabili, da Redfield e Lewis in Messico alla con- esplorazione
avventurosa o
troversia sull’atollo di Truk, fino alla critica del lavoro di Mead a Samoa, hanno contributo alla
prodotto come risultato solo delle grossolane contrapposizioni, un’esagitata confu- conoscenza?
sione e una sostanziale incertezza. La tradizionale strategia antropologica del ricer-
catore solitario che si cerca un luogo da fare suo – il “mio” villaggio, o gruppo, o
quartiere, la “mia” gente – possibilmente un sito prima sconosciuto e mai studiato,
rafforza la sensazione del lavoro etnografico come esplorazione avventurosa, ma
sottovaluta la ricerca in quanto valido contributo all’impresa collettiva tesa all’in-
cremento della conoscenza.
Lo statuto problematico dei resoconti etnografici non è tuttavia l’unica fonte di
difficoltà nella costruzione di una solida base di conoscenze antropologiche. Alme-
no altrettanto deleteri sono i vezzi e le mode teoriche che vanno e vengono in an-
tropologia a una velocità abbacinante. Da circa cinque anni predomina in antropo-
logia il quadro euristico dell’interpretativismo, che sottolinea la dimensione simbo-
licamente costruita della vita umana e la natura soggettiva dell’attività di ricerca. È
impressionante pensare che più o meno nei cinque anni precedenti l’antropologia
era stata dominata dall’analisi marxista, concentrandosi su oppressione, conflitto,
lotta, rivoluzione e prassi, e che nel quinquennio prima di quello una grande in- Vezzi e mode
fluenza l’aveva avuta lo strutturalismo francese, con le sue astratte strutture profon- teoriche
de e trasformazioni. Prima ancora c’era stato un simile periodo di transazionalismo,
che enfatizzava la scelta, lo scambio, le reti e i modelli di insieme. Tra queste onda-
te, una serie innumerevole di testi, spesso inestricabilmente intrecciati con altre di-
scipline, hanno ingombrato le bibliografie e gli scaffali, per scomparire del tutto da
un momento all’altro ad ogni nuova mobilitazione generale. E le mode non sono fi-
nite, visto che proprio in questo periodo gli esperti di antropologia medica ci dico-
no che “il corpo” dovrebbe essere assunto come il modello e la metafora universali
della vita umana e degli studi antropologici. Come ci si può aspettare, i campioni e
gli epigoni di ogni nuova ondata disprezzano il lavoro di quelle precedenti, e lo ri-
fiutano perché sarebbe mal concepito e degno dell’oblio. Solo le nuove tendenze
teoriche di domani – il corpo? la genetica simbolica? l’ecologia dello spazio? – han-
no un qualche valore. Quanto agli errori del passato, vadano al rogo, perché con- Volubilità e
condanna del
tengono solo falsità e illusioni. Visto che cambiano paradigmi più spesso di quanto passato
non cambino automobili, c’è forse da stupirsi se gli antropologi fanno fatica a con-
solidare una base di conoscenze sulla quale progredire?
C’è ovviamente una stretta relazione tra gli alti e bassi delle mode teoriche e la
strategia di ricerca dello straniero solitario all’avventura. Siamo così raramente in
grado di valutare il valore effettivo di un resoconto etnografico – di solito, neppure i
supervisori ne sanno molto delle popolazioni studiate dai loro studenti – di sapere
quanto del resoconto costituisca il punto di vista, l’immaginazione e la confusione
del ricercatore e quanto invece rifletta qualcosa di reale sulle persone studiate, che
abbiamo pure smesso di provare a giudicare la solidità, la validità, l’affidabilità, l’at-
tendibilità e l’integrità delle etnografie. In effetti, l’attuale prospettiva interpretativi-
60 PHILIP CARL SALZMAN

sta e postmoderna sostiene che i resoconti etnografici sono soggettivi per costituzio-
ne – interpretazioni di interpretazioni secondo Geertz, storie che uno si porta dietro
dal campo, secondo J. Briggs – ed è quindi inutile e anzi fuorviante pretendere vali-
dità, attendibilità eccetera. Ora, sono d’accordo sul fatto che gli esseri umani siano
soggettivi, un’opinione del resto condivisa dalle scienze naturali, la cui metodologia
L’esasperazione si incentra proprio su questa premessa. Sono però convinto che la teoria secondo cui
del le etnografie siano espressioni personali del ricercatore, che hanno un rapporto inde-
soggettivismo finito con la “realtà” (se osiamo metterla in questi termini) del contesto studiato, non
etnografico è tanto un profondo riconoscimento di saggezza epistemologica, come spesso si dice,
ma piuttosto una razionalizzazione dell’istruzione manchevole, della disorganizzazio-
ne e della trasandata metodologia della ricerca etnografica, nonché una giustificazio-
ne dello spirito di corpo degli antropologi basato sulla libertà e l’avventura. Come
conseguenza, all’interno dell’antropologia si banalizza l’etnografia e ci si concentra
su approcci teorici euristicamente originali, su nuove concettualizzazioni, nuove pa-
role chiave per comprendere ogni cosa, nuove ideologie, nuove parole d’ordine, fino
alla nausea. Uno scaltro stratega della sua carriera non farà della solida e seria etno-
grafia, ma se ne uscirà con un’originale e seducente prospettiva, o uno slogan che lo
renderanno il campione di uno nuovo “-ismo” antropologico. C’è quindi una retroa-
zione positiva tra la letteratura etnografica inverificabile e ambigua da un lato e la fa-
stidiosa promozione dello slogan “teorico” del momento dall’altro.
Se il mio giudizio sullo stato attuale dell’antropologia sembra troppo severo e
ingiustamente aspro, si dovrebbe tenere in considerazione la posizione che l’antro-
pologia detiene tra le discipline consorelle, tra i potenziali ed effettivi suoi utilizza-
L’impegno degli tori e tra coloro che danno lavoro agli antropologi, e quanto questo pesi sul futuro
antropologi nel della disciplina. È vero che l’antropologia può probabilmente tirare avanti nel
mondo del mondo accademico allettando studenti in cerca di un’opzione morbida, in cui si
lavoro possano evitare corsi propedeutici, esami di statistica e così via, e attraendo ancor
più verso i nostri corsi universitari gli avventurieri solitari. Ma gli antropologi nel
mondo del lavoro, che sono impiegati da agenzie governative o da ospedali, o da
compagnie commerciali, e che devono presentare i loro risultati e sostenere le loro
opinioni di fronte a economisti e agronomi, medici e membri dei comitati a tutela
dei pazienti, avvocati e politici, questi antropologi devono avere argomentazioni
solide, legate in qualche modo alla possibilità di comprendere il reale, altrimenti i
loro progetti di ricerca e il loro lavoro verrebbero semplicemente derisi. Anche
nell’ambiente accademico, gli specialisti d’area e i colleghi nelle discipline affini
avanzano seri dubbi sul fatto che gli antropologi facciano seriamente qualcosa, a
parte passare lunghe e piacevoli vacanze in posti esotici. Di certo gli amministrato-
La scarsità dei ri delle università, quelli che garantiscono i fondi ai dipartimenti di antropologia,
finanziamenti
sembrano spesso ben poco impressionati dai meriti accademici della nostra disci-
plina. Perché un’università dovrebbe finanziare l’insegnamento e la ricerca antro-
pologica, quando ci sono discipline accademiche serie da sovvenzionare? Egual-
mente, come mai il Programma di Antropologia Sociale e Culturale del National
Science Foundation riceve solo 1.400.000 dollari all’anno per sovvenzionare la ri-
cerca per i diecimila antropologi statunitensi, il che fa la bella media di 140 dollari
a testa? Se l’antropologia non è considerata una cosa seria da finanziatori governa-
tivi, amministratori universitari e datori esterni di lavoro, dovremmo chiederci il
perché. Forse non si tratta solo di ignoranza e rozzezza da parte loro, ma di un se-
rio limite di quel che l’antropologia è in grado di offrire.
Mentre la libertà nell’antropologia è portatrice di apertura e creatività, e il co-
raggio degli antropologi garantisce tenacia di fronte alle difficoltà, l’individualismo
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 61

che ne deriva limita e inibisce la fruizione di ogni potenziale ricerca e la produzione


di conoscenza. L’individualismo impone che agli studenti sia concesso di fare quel
che vogliono, anche se quel che vogliono poi non li prepara in modo adeguato alla
loro ricerca. Impone che studenti e antropologi affermati possano perseguire qual- I rischi
siasi progetto di ricerca in qualsiasi posto, indipendentemente da qualunque rile- dell’indivi-
dualismo
vanza e nonostante la mancanza di una solida specializzazione. Consente che i reso-
conti etnografici siano generici e superficiali, oppure limitati e parziali. E conduce
alla latitanza di una comunità competente in grado di valutare i resoconti etnografi-
ci, il che porta a sottovalutare l’etnografia e a farsi vanamente influenzare da nuove
teorie, etichette e parole d’ordine.

L’unione fa la forza
È possibile che l’individualismo istituzionalizzato nei nostri programmi di inse-
gnamento e nelle nostre strategie di ricerca possa, con cura e determinazione, esse-
re progressivamente attenuato da strutture più ampie che soddisfino il bisogno del-
l’antropologia di un programma formativo più adeguato, di una strategia di ricerca
più efficace, un più vasto quadro di riferimenti comuni, un processo di valutazione
più solido, e una base per un valido esercizio dell’attività critica? Molte altre disci- Una nuova
pline, da quelle più vicine come l’archeologia preistorica fino alle più distanti scien- comunità di
ricerca
ze biologiche e fisiche, arricchiscono la creatività degli individui attraverso strutture
di scambio e cooperazione, iniziative collettive e divisione delle responsabilità. Di-
versi ricercatori spesso si concentrano su questioni correlate nello stesso settore, o
indagano diversi aspetti dello stesso fenomeno, e sono così in grado di specializzar-
si senza trascurare il punto di vista più generale. In questo modo possono costituire
una piccola comunità di ricerca, cooperare nella divisione dei compiti in modo che
ognuno abbia un carico di lavoro ragionevole, fornire critiche competenti e costrui-
re un corpus di conoscenze comuni sul quale progredire. Queste cooperazioni di la-
voro, reti, gruppi o squadre, forniscono allo stesso tempo un’efficace struttura di ri-
cerca e un luogo di scambio intellettuale produttivo per filtrare e raffinare risultati e
idee. Come ha detto Ralf Dahrendorf, la verità non è funzione di un occasionale im-
pegno nei riguardi dell’oggettività, ma piuttosto di un effettivo luogo di scambio
delle idee. In questo spazio aperto, “la verità” dei risultati delle ricerche e delle teo-
rie può essere messa alla prova attraverso il libero esercizio della critica tra ricerca- La verità e il
tori. Oppure, se il termine “verità” è troppo osé per la nostra epoca postmoderna, libero esercizio
della critica
possiamo dire che stiamo cercando di lavorare in maniera più solida, su di un fon-
damento più stabile, con maggior sensibilità, attraverso nuove strutture che ci assi-
stano in questo compito.
Trovo paradossale che gli antropologi riflettano così di rado sulla struttura del-
la loro disciplina e non sembrino tenere in considerazione i costi dei modelli attua-
li. Siamo perfettamente in grado di istituire modifiche tali da produrre un aumen-
to del livello di coordinamento e cooperazione nella ricerca, della condivisione di
conoscenze e della collaborazione critica. Lavorando assieme per un ragionevole
periodo in uno o più siti di ricerca, gli etnografi, all’inizio delle loro carriere o già Lavorare
affermati, possono suddividersi le responsabilità della ricerca in modo comple- assieme per
mentare e più realistico, possono costituire un quadro conforme di concezioni co- creare nuove
muni, fornire solide valutazioni e critiche costruttive, e insieme offrire alla più am- concezioni
comuni
pia comunità intellettuale un corpus di risultati più raffinato, condiviso e profon-
do, sul quale è più facile condurre ulteriori ricerche.
Certo, potremmo continuare come abbiamo fatto finora, mantenendo l’aleato-
rietà dell’avventura individualista, con la sua pochezza di armonia e giustificazione
62 PHILIP CARL SALZMAN

disciplinare, e con la sua continua confusione di mode contrastanti che sbocciano e


appassiscono una dopo l’altra. Ma potremmo continuare così solo a patto di accon-
tentarci delle tenebre dell’alea e della confusione, tenebre ben lontane da quella lu-
ce che si spera e ci si aspetta dall’antropologia come disciplina di ricerca.

Biografia intellettuale

Philip Carl Salzman è professore di antropologia alla McGill University di Mon-


treal. Da molti anni studia le popolazioni nomadi e pastorali, conducendo ricerche
sul campo tra le tribù nomadi del Baluchistan iraniano (1968-69, 1972-73, 1976), tra
le caste pastorali del Rajasthan e nel Gujarat (1985) e tra le comunità di pastori in
Sardegna (1987, 1988, 1990-1992). Tra le diverse pubblicazioni legate alle sue ricer-
che ricordiamo gli articoli: Political Organization among Nomadic Peoples (1967),
Movement and Resource Extraction among Pastoral Nomads (1971), Adaptation and
Political Organization in Iranian Baluchistan (1971), Ideology and Change in Middle
Eastern Tribal Society (1978), Does Complementary Opposition Exists? (1978), Why
Tribes Have Chiefs (1983), Shrinking Pasture for Rajasthani Pastoralists (1986), Labor
Formations in Nomadic Tribe (1988), e i volumi editi e co-editi: When Nomads Settle
(1980), The Future of Pastoral Peoples (1981), Change and Development in Nomadic
and Pastoral Society (1981), Contemporary Nomadic and Pastoral Peoples (1982), No-
madic Peoples in a Changing World (1990). Salzman ha fondato nel 1978 e continua a
presiedere la Commissione per le Popolazioni Nomadi dell’International Union of
Anthropological and Ethnological Sciences, attività per la quale l’International Union
lo ha premiato nel 1988 con il suo Gold Award, e ha fondato, diretto e pubblicato
(nel decennio 1980-90) il giornale internazionale della commissione, «Nomadic Peo-
ples» (attualmente pubblicato in svedese). Ha inoltre pubblicato saggi critici, per
esempio: Is traditional Fieldwork Outmoded (1986), Fads and Fashion in Anthropo-
logy (1988), The Failure of Solitary Fieldwork (1989), e The Lone Stranger and the So-
litary Quest (1989). Nel 1988 ha fondato un gruppo di collaborazione di ricerca, il
Mediterranean Anthropological Research Equipe (M.A.R.E.) che ha dato il via ad una
ricerca in Sardegna nel 1990.

Ho iniziato a studiare sociologia con E. K. Wilson e R. Gordon all’Antioch Col-


lege, e sono stato attratto dall’antropologia sociale durante un anno di studio (1959-
60) con K. Little, M. Banton, J. Littlejohn e M. Ruel all’Università di Edimburgo.
Quando sono tornato ad Antioch ho studiato con Victor Ayoub, che aveva lavorato
con Clyde Kluckhohn al Dipartimento di Relazioni Sociali ad Harvard, ma che era
attratto dall’antropologia sociale britannica, come del resto io ero affascinato dalla
concezione di Radcliffe-Brown dell’antropologia sociale come una branca della so-
ciologia comparativa, e dall’efficace dimostrazione metodologica di S. F. Nadel del-
la forza dell’analisi comparativa applicata alle popolazioni etnograficamente attigue.
Radcliffe-Brown aveva insegnato all’Università di Chicago, influenzando alcuni
degli insegnanti ancora in attività, come Eggan, che era un acceso sostenitore del me-
todo comparativo e quindi io, anche per questa ragione, decisi di laurearmi in quell’u-
niversità. Tuttavia a Chicago (1963-66), seguendo i corsi di Fallers, Geertz e Schnei-
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 63

der, mi trovai a fronteggiare una prospettiva weberiana influenzata da Talcott Par-


sons, che enfatizzava l’interrelazione tra i sistemi sociale, culturale e di personalità,
considerati quasi indipendenti. Mentre più tardi mi sarei orientato verso la concezio-
ne parsonsiana, in un periodo in cui più o meno tutti la respingevano per abbracciare
il materialismo marxista e il culturalismo simbolico, a Chicago sono stato molto in-
fluenzato dalla prospettiva ecologica, probabilmente per via dei corsi di preistoria te-
nuti da L. Binfield e R. Adams, prospettiva che mi sembrava assai promettente per la
spiegazione antropologica e per la formulazione di generalizzazioni teoriche.
L’individuazione delle spiegazioni della variabilità sociale e culturale è sempre
stata uno dei miei interessi primari, ed è per questo che sono molto attratto dall’a-
nalisi comparativa, soprattutto da quella su piccola scala del tipo “comparazione
controllata” proposta da Nadel ed Eggan. I semplici resoconti descrittivi, per quan-
to interessanti, mi sono sempre sembrati incompleti. Voglio conoscere non solo co-
me una particolare popolazione è, ma perché è così, quali fattori l’hanno condotta al
punto in cui si trova. Non ho individuato però la base per una spiegazione nelle
teorie di Marx o Freud, visto che ho trovato insoddisfacente la natura auto-referen-
ziale delle loro teorie, un giudizio il mio che ho elaborato studiando Hume e Pop-
per, nonché Gellner, che più tardi avrei avuto l’occasione di conoscere personal-
mente grazie al nostro comune interesse per le popolazioni nomadi.
Il mio primo contatto con il Medio Oriente (o, con un termine non eurocentri-
co: Sud-Est asiatico) è stato attraverso la ricerca di Ayoub in Libano, e il primo rap-
porto con l’antropologia dei popoli nomadi lo ebbi leggendo Una democrazia pasto-
rale di M. Lewis, un lavoro sui nomadi del Somaliland (oggi Somalia). Rimasi affa-
scinato dal carattere coraggioso e indipendente dei nomadi, e dalla loro politica de-
mocratica, e mi sembrava che i fattori determinanti del loro modello di vita fossero
più chiari per l’osservatore di quelli di altri tipi di società. Proseguendo lo studio
dei nomadi, attraverso la lettura di testi come I Nuer e The Sanusi of Cirenaica di E.
E. Evans-Pritchard, Karimojong Politics di N. Dyson-Hudson, e Nomads of South
Persia di F. Barth, mi divenne chiaro quanto i singoli gruppi di nomadi fossero di-
versi gli uni dagli altri. Buona parte dei miei scritti ruota attorno al tentativo di spie-
gare queste differenze grazie all’analisi comparativa.
La mia ricerca tra gli yarahmadzai baluch (sotto il regime Shah detto lo Shah
Nawazi) mi ha reso consapevole della molteplicità organizzativa della società e della
cultura yarahmadzai, un insieme precostituito di alternative, a volte sovrapposte o
in conflitto, ma sempre in grado di fornire la flessibilità necessaria alla realizzazione
di obiettivi individuali o di gruppo, e di rispondere al mutamento delle circostanze.
Avevo già trovato accenni di questa molteplicità nella A Theory of Social Structure di
Nadel, ma non ne avevo colto l’importanza finché non mi sono messo a sbrogliare i
dati della mia ricerca. Con quest’idea della molteplicità in mente, ho affrontato
qualche rompicapo etnografico e qualche apparente anomalia, come il sistema di li-
gnaggio segmentario tra i beduini, “che la gente dice ma poi non attua”, come rife-
risce E. Peters, prima studente e poi critico di Evans-Pritchard.
Da qualche tempo, ripensando alla mia esperienza personale nel fare ricerca sul
terreno e alle difficoltà affrontate dai miei studenti sul campo e al loro ritorno, mi
sono convinto dei seri limiti della ricerca solitaria e individuale. Nel tentativo di af-
frontare in modo pratico questi problemi, nel 1988 ho organizzato il Gruppo di ri-
cerca di antropologia del Mediterraneo, raccogliendo dottorandi e professori da di-
versi paesi per condurre una ricerca etnografica basata sulla collaborazione nella re-
gione tradizionalmente pastorale di Ogliastra in Sardegna. Questa ricerca, iniziata
nel 1990 e ancora in corso, è una sfida continua per le mie idee e le mie teorie.
Dopo la critica dell’etnografia:
la fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità
George Marcus

Dopo la critica della retorica


Le critiche degli anni Ottanta della retorica impiegata dalle scienze sociali han-
no avuto un innegabile effetto sul pensiero, se non sulla pratica, della maggior parte
L’attenzione degli studiosi. Le implicazioni di queste critiche per trasformare a lungo termine gli
alle teorie
filosofiche e stili disciplinari di ricerca e teorizzazione rimangono tuttavia una questione tuttora
letterarie aperta. Lungo il corso degli anni Ottanta rappresentanti di diverse discipline – tra
cui storia, scienze politiche, economia, antropologia, sociologia, psicologia, diritto e
architettura – sono stati influenzati dalla teoria filosofica e letteraria nel loro interes-
se critico verso i linguaggi specialistici usati per descrivere, concettualizzare e spie-
gare la realtà sociale. È stato dimostrato che i discorsi sul “reale” sono della stessa
natura della retorica della fiction, e possiedono il carattere pienamente letterario del
linguaggio in quanto narratività, soggetto ai tropi, alle figurazioni e alla proiezione
di una certa immagine di sé. La fusione delle categorie della letterarietà e della
scientificità nell’uso linguistico ha inoltre sollevato questioni che nutrono l’anima
fortemente scettica della filosofia occidentale, soprattutto riguardo ai limiti della
rappresentazione e alla natura referenziale del linguaggio.
Nelle differenti versioni disponibili della critica retorica, il compito primario
delle scienze sociali – la creazione di una conoscenza positiva del mondo – è diven-
tato molto più complicato. Per quanto possa essere intrinsecamente interessante il
tentativo di mettere in discussione il discorso realista e oggettivante del positivismo,
c’è comunque un disagio diffuso per il ribaltamento, o almeno per la deviazione,
della missione empirica delle scienze sociali che consisterebbe nel parlare con cer-
tezza probabilistica del mondo sociale (allo stesso modo in cui le scienze naturali
sono in grado di parlare del mondo naturale).
Fin quando le implicazioni della forte critica al discorso delle scienze sociali non
verranno articolate in compiuti progetti alternativi di teorizzazione e di ricerca, la
critica sarà riconosciuta e basta, emarginata come una specializzazione di basso li-
vello (come storiografia, per esempio) o ignorata con un “e allora?”. Gli esterni alla
tradizione delle scienze sociali – filosofi, teorici della letteratura, critici culturali e
La necessità di
articolare la storici del pensiero che hanno fatto del discorso delle scienze sociali il loro oggetto
critica in di studio – sono relativamente liberi di affermare le implicazioni più radicali della
progetti critica: che le tradizioni delle scienze sociali sono progetti impossibili che possono
alternativi essere perpetuati solo a patto di ignorare la loro natura discorsiva. Mi riferisco in
questo caso all’insediamento di una ricerca interdisciplinare emersa nei centri di
studi umanistici/culturali che esistono negli interstizi disciplinari di molte università
americane contemporanee. Questi centri si nutrono dell’eredità del pensiero post-
strutturalista e dell’infatuazione con cui definiscono il presente in quanto “postmo-
dernità”. Gli interni, che hanno effettivamente offerto critiche retoriche delle loro
discipline sociali (alleandosi con questi critici esterni) hanno in gioco una posta ben
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 65

più alta in termini di interesse professionale e di identità. Non possono mettere al


bando tanto facilmente le tradizioni delle quali sono investiti.

Quattro sviluppi conseguenti alle recenti critiche


La critica del discorso delle scienze sociali ha generato un prevedibile campo di Posizioni
reazione, di dibattito e di polemica da una disciplina all’altra. Tra le diverse posizio- diverse nella
critica
ni, voglio puntare l’attenzione su due più estreme, e su altre due meno estreme. La
prima posizione è rappresentata dai tentativi di spazzare via il campo delle scienze I:
sociali e la sua identità con una messa in questione radicale della nozione stessa di La
rappresentazione. L’ideologia della decostruzione derridiana – la posposizione infi- decostruzione
derridiana
nita del significato e l’assunzione dell’illusione del reale in quanto presenza – è la
forma forte della critica radicale del discorso. Questa posizione è mantenuta più fa-
cilmente da esterni che non hanno uno specifico investimento in una particolare
tradizione di indagine sociale, ma alcune sue versioni sono sostenute da interni che
offrono metacritiche permanenti, come rivoluzioni permanenti, all’interno delle lo-
ro discipline.
La seconda posizione non è meno radicale del decostruzionismo, ma riconosce II:
uno spazio e una funzione per questa critica radicale all’interno degli storici proget- La metacritica
ti delle scienze sociali. Invece di essere nichilista, la metacritica permanente del permanente
discorso e della retorica si confronta con il realismo irriflesso del filone dominante,
con il suo gusto per l’oggettivazione e la sua fiducia nella trasparenza del linguag-
gio, mantenendo lo scopo di provocare e contestare costantemente questi stili. Que-
sta intonazione in chiave minore (scettica) della chiave maggiore (logocentrica) del-
la cognizione culturale occidentale si assume il compito (in forme specifiche per
ogni disciplina) di produrre autocoscienza critica. Questa posizione giustifica uno
spazio per una critica radicale permanente all’interno della disciplina, ma con im-
plicazioni ambigue per i modi della teoria e della pratica. Di fatto, riconosce che la
corrente dominante è troppo forte, ed è probabilmente immutabile.
La terza posizione è quella moderata/liberale di riformismo debole o vago, ed è III:
piuttosto diffusa. La consapevolezza della natura retoricamente costruita delle pro- Il riformismo
prie affermazioni e asserzioni può avere un valore terapeutico per chi la pratica. La debole
critica è qualcosa che fa riflettere gli scienziati sociali. È vista come uno strumento
che può arricchire ed entrare a far parte degli stili di teorizzazione e ricerca in uso.
Dobbiamo solo cavarcela e qualificare, fino a un certo punto, il processo di oggetti-
vizzazione e le pretese di verità del filone dominante nelle scienze sociali.

Sperimentazione
La quarta possibilità, la sperimentazione, è una prospettiva ben più concreta e
argomentabile. È la possibilità su cui intendo soffermarmi, con un’attenzione parti-
colare all’etnografia, la pratica che si trova al cuore dell’antropologia socioculturale
contemporanea. La parola “esperimento” evoca la modalità essenziale delle scienze
naturali oppure quella dell’avanguardia del modernismo estetico storico in Occi- IV:
dente tra la fine del secolo scorso e gli anni Sessanta. Attraverso sperimentazioni Sperimentazioni
formali furono ribaltate concezioni elaborate ma ingenue del realismo nell’arte. È formali
questo secondo significato del termine “esperimento” che intendo evocare qui.
Quel che provoca la sperimentazione è il fatto che una volta che sono rese pale-
si le convenzioni e la natura retorica del discorso realista, si apre lo spazio per for-
mulare nuove domande, per concretizzare nuovi oggetti di studio, e per esplorare
nuovi ambiti discorsivi attraverso esperimenti sulla forma. Il rischio storico dei mo-
vimenti di rivitalizzazione intellettuale basati su esperimenti formali può essere lo
66 GEORGE MARCUS

scadimento in un eccesso di concessione alla tecnica, oppure la riduzione a puro


Un problema di manierismo di effetti un tempo dotati di efficacia. Eppure credo che nel momento
ristrutturazione attuale – in cui la teoria sociale e la filosofia hanno criticato con forza lo stesso pro-
formale cesso di rappresentazione – la ricostituzione di grandi tradizioni teoriche sia pro-
prio un problema di ristrutturazione formale. Detto in modo semplice, la critica
della retorica delle scienze sociali, al di là della sua funzione di critica, indirizza pro-
prio verso questa ristrutturazione della forma.
Solo un libero Alcuni temono che la sperimentazione sia arrogante, chic, elitista, e che soffra di
gioco nostalgia per una funzione dell’intellettuale creativo andata ormai perduta. Peggio
dell’immagi- ancora, si teme che sotto la sperimentazione non si celi null’altro che un gioco libe-
nazione?
ro, la sopravvalutazione dell’immaginazione nei confronti di un discorso condiviso
empirico e sistematico e nei confronti della produzione di conoscenza. Infine, si
può ritenere che il complesso processo e la responsabilità della teorizzazione – cioè
l’aspettativa di chiarimenti sulle grandi questioni riguardo l’umanità, la storia e la
società – non possano aver luogo a livello della pratica, cioè a livello di una rifles-
sione e di una scrittura puramente sperimentali che partono da una miriade di pro-
getti di ricerca che non credono più a paradigmi disciplinari generali in grado di
fornire i mezzi concettuali per rappresentare e classificare il mondo.
Vorrei replicare a questi rilievi sostenendo che, nell’epoca scettica in cui vivia-
mo, il problema formale del modo in cui produciamo resoconti del mondo, il pro-
blema di ripensare a come nelle nostre descrizioni di base sono stati nominati e
concepiti i fenomeni ritenuti interessanti, tutto ciò è in realtà la chiave per una vasta
e radicale trasformazione delle scienze sociali così come si sono sviluppate negli
Stati Uniti a partire dalla seconda guerra mondiale. Proprio perché non esimono al-
cun discorso – neppure il loro – da un vaglio severo, le critiche della retorica cam-
biano la tradizionale relazione tra teoria e ricerca pratica nelle scienze sociali. Que-
Le critiche della ste critiche pongono sullo stesso piano teoria e pratica come fonti di idee, e creano
retorica pongono un dialogo tra di loro, indebolendo quella gerarchia di autorità e subordinazione
sullo stesso piano che normalmente si pensa ci debba essere tra teoria e ricerca pratica. In quanto ta-
teoria e pratica
le, la tendenza sperimentale decostruisce le categorie di teoria e di metodo che or-
ganizzano gran parte del lavoro intellettuale nelle scienze sociali. Essa offre un ven-
taglio di diverse possibilità per comprendere quali siano i fini e i mezzi dell’indagi-
ne. Mi sembra quindi che la sperimentazione con le forme dei resoconti standard di
una disciplina sia l’implicazione più ovvia, più promettente e pragmaticamente più
radicale delle recenti critiche delle retoriche di discipline che non si liberano per
proprio conto di intere tradizioni di pensiero (o che non le criticano radicalmente).

Il ruolo dell’etnografia in antropologia


Alla critica dell’etnografia in antropologia, critica di cui mi occupo nelle pagine
che seguono, è stata rivolta un’attenzione particolare. Questo è avvenuto perché,
tra tutte le scienze sociali americane che sono state costituite attraverso una più o
meno esplicita aderenza a un modello idealizzato di produzione della conoscenza
nelle scienze naturali, l’antropologia sembra rappresentare un caso in cui la critica
L’etnografia
come luogo in
recente e le sue implicazioni hanno occupato il cuore del dibattito disciplinare. Vi-
cui la critica ceversa, iniziative simili per le scienze politiche, la storia e l’economia sono state
coincide con il credo finora accolte solo ai margini di queste discipline, o considerate delle mode
progetto di passeggere o delle sotto-specializzazioni. Tradizionalmente giudicata tra le scienze
ricerca
sociali e umanistiche come la produttrice dell’alterità esotica – cioè di casi eccezio-
nali ai margini dei temi dominanti – l’etnografia entro l’antropologia ha ora la pos-
sibilità di ridefinire la sua posizione all’interno dei discorsi intellettuali dell’Occi-
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 67

dente. Può liberarsi dalla sua storica identificazione con l’esotico e il primitivo – ca-
tegorie di assai dubbio valore empirico ed etico, almeno alla fine del ventesimo se-
colo – ed essere invece l’esempio di una disciplina che non solo dà ascolto alla criti-
ca continua delle sue pratiche e dei suoi discorsi, ma accoglie quella critica come la
reale fucina del suo progetto di ricerca.
L’etnografia è al cuore dell’antropologia culturale da più di settant’anni. Ha gio-
cato un ruolo essenziale nel rovesciare il paradigma evoluzionista su cui si era fonda-
ta molta della ricerca antropologica nel diciannovesimo secolo. Si potrebbe addirit-
tura considerare l’etnografia proprio come la forma storica della sperimentazione L’etnografia
trasformata in dottrina da Boas negli Stati Uniti e da Malinowski in Inghilterra al fi- come
ne di superare le grandi schematizzazioni universalizzanti ed evoluzioniste di autori sperimentazione
come James Frazer e Lewis Henry Morgan. Tuttavia, anche un’antropologia scienti- trasformata in
fica e basata sull’etnografia mantiene gran parte dell’attenzione centrale originaria dottrina
della disciplina per le condizioni dell’“Uomo universale”, concepito come un primi-
tivo che vive al di fuori della modernità, lo spazio deputato in cui si possono porre le
questioni essenziali sull’umanità. Si poteva allora pensare che l’antropologia cultura-
le non avesse altro proposito generale se non quello di creare un archivio etnografico
dettagliato dell’esotico ad uso dell’Occidente moderno, così da poter finalmente de-
terminare qualche nozione di quel che è (o non è) universale tra gli esseri umani.
Di certo gli sviluppi di questa fine secolo in altri campi, come le scienze cogni-
tive, e il generale discredito di schemi evoluzionisti progressivi, hanno lasciato il
grande progetto dell’antropologia culturale e il suo archivio etnografico in preca-
rie condizioni. Quel che rimane è un approccio alla produzione della conoscenza
chiaramente interpretativo, unico tra la scienze sociali o quelle umanistiche. L’et-
nografia si è modellata in massima parte al di fuori della nozione occidentale di
storia, attraverso l’uso di strategie retoriche come il “presente etnografico”. Si è
La retorica del
basata sulla dimensione romantico-scientifica della ricerca sul campo – lo studio “presente
della vita in altre comunità chiaramente diverse (se non esotiche). Il difficile com- etnografico”
pito di traduzione culturale e di interpretazione ha assorbito le energie intellet-
tuali e ha definito l’ethos della disciplina contemporanea. In effetti qualcuno ha
resistito all’astoricità implicita nel paradigma etnografico. Soprattutto dopo la se-
conda guerra mondiale, per esempio, l’attenzione rivolta al primitivo si è aperta
fino a includere i contadini, gli emigranti urbani, e la formazione dei gruppi etni-
ci nell’epoca della nascita di nuove nazioni, della decolonizzazione, e dell’ideolo-
gia dello sviluppo economico. Tuttavia anche nell’etnografia attenta al mutamento
sociale, che aveva trovato un rifugio intellettuale nell’economia politica marxista,
le convenzioni di base e la retorica della produzione etnografica della conoscenza
sono rimaste centrali.

La critica recente dell’etnografia


Solo dalla fine degli anni Sessanta e lungo gli anni Settanta emergono critiche ef-
fettive di vari elementi del paradigma etnografico. Prima di tutto, si è sviluppata
una discussione raffinata e seria, dal punto di vista storico, dell’antropologia come
sedimentazione intellettuale interna alla storia del colonialismo occidentale. Secon- Antropologia e
do, dopo un lunghissimo silenzio tra gli antropologi su questo emblema essenziale colonialismo
della loro specificità disciplinare, ha preso vita una discussione critica della ricerca
sul campo come metodo esplicitamente ermeneutico in cui l’osservatore non può
essere completamente separato dall’osservato. Dalla fine degli anni Sessanta in poi
abbiamo assistito a un profluvio di resoconti romantici (quasi delle confessioni, ma
non meno rivelatori dal punto di vista epistemologico) sulle pene e tribolazioni del-
68 GEORGE MARCUS

la ricerca sul campo. Terzo, gli antropologi, assieme agli storici delle idee e a critici
culturali, hanno prodotto una critica del soggetto storicamente distinto della loro
La visione disciplina, il primitivo ed esotico “altro” e, dietro questa rappresentazione, una cri-
ermeneutica tica dell’“Uomo universale” o dell’umanità.
della ricerca
Questi filoni importanti si sono unificati in modo sistematico durante gli anni
Ottanta in quella critica della retorica e del discorso etnografico espressa forse con
maggior chiarezza nel volume che ho curato nel 1986 assieme a Jim Clifford: Scrive-
La critica al re le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia. Al cuore della critica c’era il modo
discorso in cui l’autorità etnografica è costruita retoricamente nella produzione testuale della
etnografico: conoscenza antropologica. Per esempio, la legittimità e la validità delle etnografie si
Scrivere le
culture sono basate sulla capacità di veicolare la sensazione di “essere stati lì”. La diretta
esperienza di un altro mondo, inclusa la conoscenza della lingua e delle forme della
quotidianità degli altri, rende l’etnografo un traduttore competente di una forma
distintiva di vita che dovrebbe essere presentata in modo vivido e olistico ai lettori
dell’etnografo rimasti a casa. Diversi abbagli, evasioni, e vere e proprie finzioni, ne-
cessarie per raccogliere gli importanti risultati conoscitivi che l’etnografia ha pro-
dotto, e la loro esposizione nell’attuale atmosfera di scetticismo intellettuale, sugge-
riscono il bisogno di nuovi vocabolari, nuovi concetti, e nuove retoriche. In breve,
c’è bisogno di nuovi modi, aldilà dell’eredità di cui disponiamo dalla teoria sociale
del diciannovesimo secolo, per descrivere il sociale e il culturale.
A partire dal diciannovesimo secolo l’innovazione nel pensiero antropologico
non è stata generalmente supportata da un più ampio discorso metateorico, ma piut-
tosto da un tipo di teoria che è rimasto vicino al modo in cui i fatti etnografici veni-
vano determinati (ad esempio il particolarismo storico di Boas). Non è quindi sor-
prendente che la critica della retorica etnografica abbia prodotto esperimenti con la
forma semiletteraria reclamata dai modelli conoscitivi dell’etnografia. Per esempio,
L’etnografia nel un interessante problema analitico dell’odierna antropologia culturale riguarda i mo-
contesto del di in cui aprire la conoscenza locale classicamente rappresentata e descritta dagli et-
sistema-mondo nografi ai processi contemporanei di apparente omogeneizzazione globale. Non si
tratta più soltanto di porre l’etnografia nel contesto di metanarrazioni storiche, dato
che queste sono oggetto di analisi critica, ma di trovare nuove retoriche di descrizio-
ne per costituire oggetti di indagine che non siano inconsapevoli del potere dei pro-
cessi transculturali (compresi ancora solo parzialmente) che diversificano e deterrito-
rializzano le culture proprio mentre le omogeneizzano (per una recente panoramica
su questi temi, rimando il lettore alla rivista «Public Culture», da poco fondata da
Arjun Appadurai e Carol Beckenridge). Questo è il tipo di doppio livello di discorso
modernista (o postmoderno come si dice ora) che l’etnografia deve essere in grado
di dimostrare che può essere reso in un progetto di ricerca ricco di opportunità. L’et-
nografia condivide questo tipo di tematiche con altre discipline, ma il suo vantaggio,
come ho fatto notare, è che riesce a funzionare bene e in maniera creativa senza sen-
tire la necessità di un paradigma teorico positivo – cioè di una teoria sociale conven-
zionale – che la guidi. Essa si nutre invece della critica della sua stessa retorica.
Per la fine degli anni Ottanta l’interesse tradizionale dell’etnografia per la cul-
tura (in quanto esperienza vissuta a livello locale) e il bisogno riconosciuto di com-
Nuovi interessi prenderla in una prospettiva globale si sono esplicitamente rivolti al problema di
per nuovi come le identità individuali e collettive siano negoziate nei diversi luoghi in cui gli
argomenti antropologi fanno ricerca sul campo. Quest’etnografia ha la responsabilità di spie-
gare come la diversità emerga in modo paradossale, in un mondo transculturale,
nei contesti locali abituali e nei siti familiari della ricerca etnografica. Di fronte a
processi di creolizzazione globale sta sorgendo un rinnovato interesse tra gli antro-
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 69

pologi per argomenti come l’etnicità, la razza, la nazionalità e il colonialismo. Men-


tre fenomeni primordiali come le tradizioni, le comunità e i sistemi di parentela
continuano a essere documentati, non possono più servire, in sé e per sé, come tro-
pi fondanti (o figure del discorso) che organizzano la descrizione e la spiegazione
etnografica.
I lavori più coraggiosi in questo filone interessato alla formazione e trasforma-
zione delle identità – dei soggetti di indagine e, allo stesso tempo, dell’etnografo e
dello stesso progetto etnografico – mettono in discussione in maniera radicale le in-
telaiature concettuali che privilegiano identità esclusive, che emergerebbero da una
struttura culturale autorevole che può essere sempre descritta e modellizzata (si ve-
da per esempio il recente lavoro di Klaus Neumann (1992), che fin dal titolo segna-
la l’approccio radicale al problema dell’identità: Not the Way It Really Was: Con-
structing the Tolai Past.
Le etnografie sperimentali si compiacciono invece di collegare tra loro feno-
meni distantissimi, di mostrare come fenomeni culturali agiscano in maniera siste-
matica in modi decentrati e frammentati, di superare i dualismi che hanno con-
formato la teoria e l’indagine sociale (del tipo tradizionale-moderno, rurale-urba-
no, individuo-società e simili) e infine di scoprire relazioni sistematiche giustap- Ridisegnare le
coordinate della
ponendo ciò che normalmente si potrebbe pensare del tutto incommensurabile. rappresentazione
In breve, il compito analitico pratico di molta etnografia contemporanea (e allo per dar conto
stesso tempo il suo maggior contributo alla teorizzazione) è quello di ridisegnare della
il mezzo spazio-temporale di rappresentazione dei processi culturali in risposta frammentazione
alla percezione che l’antropologia deve fare i conti con la frammentazione, la di-
scontinuità e la simultaneità che sembrano caratteristiche delle realtà contempo-
ranee globali e locali1.

Due strategie chiave dell’odierna scrittura etnografica


Mentre la critica del discorso etnografico è tuttora oggetto di un intenso dibat-
tito, alcune modificazioni della retorica e del discorso etnografico, se non ampia-
mente condivise, sono perlomeno considerate largamente accettabili. Le due nuo-
ve strategie infuse a dosi massicce nelle etnografie sono la riflessività e quella che
io chiamo la formula “resistenza e accomodamento” (che apre l’integrità locale
delle culture alle forze globali o storico-mondiali). Il pericolo è che questi atteggia- Riflessività e
menti possano essere considerati delle semplici affettazioni, o delle tecniche di di- processi di
scorso etnografico in risposta alla critica postmoderna degli stili retorici antropolo- “resistenza e
gici. Se questi atteggiamenti non sono considerati a pieno come importanti ele- accomodamento”
menti di più ampie strategie di riformulazione del discorso etnografico, rischiano
di perdere tutto il loro potere analitico.

La riflessività significa implicare nei testi etnografici un resoconto consapevole


sulle condizioni di produzione della conoscenza mentre viene prodotta. Detto altri-
Riflessività
menti, questo atteggiamento sostituisce “l’occhio” obiettivo e osservatore dell’etno-
grafo con il suo “io”2 personale (atteggiamento a volte giudicato sprezzantemente
come narcisista). Ci si allontana dalle assunzioni ingenue di obiettività e realismo
non mediato, e si consente un ampio grado di tolleranza per il trattamento esplicito
della riflessività nell’analisi etnografica. C’è tuttavia da parte di molti ancora la man-
canza di una piena comprensione delle funzioni intellettuali a cui serve questa resa
esplicita della riflessività.
Alcuni potrebbero sostenere che serva essenzialmente allo scopo di esprimere il
rincrescimento per la malafede del realismo non mediato di una volta (in cui il ruo-
70 GEORGE MARCUS

lo del conoscente nella costituzione del conosciuto era sottovalutato di proposito).


Riflessività come Ma la riflessività è più di questo, e costituisce la base della pratica ermeneutica.
costruzione di un Può, per esempio, suggerire modificazioni riguardo alla stessa nozione del tipo di
testo collettivo conoscenza che l’etnografia può o dovrebbe produrre, conoscenza che sorge non
da un’autorità o da una voce monolitica (per quanto auto-critica), ma dalle relazio-
ni dialogiche nel campo, che portano a esperimenti di collaborazione intellettuale
che sono di fatto al centro del lavoro etnografico sul campo. Riflessività significa
quindi introdurre nel testo etnografico il tema delle relazioni dialogiche e collabora-
tive, cioè di come gli informatori e l’etnografo costruiscano un testo collettivamen-
te. Sono dell’opinione che la riflessività – impiegata per diversi compiti analitici e
narrativi – è una dimensione essenziale di ogni etnografia il cui intento sia la produ-
zione di una conoscenza critica dei modi di vita del proprio soggetto.

L’individuazione degli elementi di resistenza e accomodamento nella formazione


Resistenza e
accomodamento
delle identità collettive e individuali è diventata una formula analitica (quasi uno
slogan) che mantiene un senso di coerenza e località nella descrizione etnografica,
pur riconoscendo la forza pervasiva dei sistemi-mondo e delle economie di consu-
mo. La formula “resistenza e accomodamento” può da un lato essere vista come la
riedizione del ruolo dell’etnografia come una disciplina con funzioni di salvaguar-
dia, argomento questo che l’antropologia sfrutta da moltissimo tempo. L’etnografo
arriva sulla scena di un mondo in via di sparizione, e lo salva su dei testi prima che
vada del tutto perduto sotto la spinta della modernizzazione. Il modo alternativo di
narrare la resistenza e l’accomodamento con il quale si sperimenta oggi individua
invece la sopravvivenza culturale e l’autenticità con modalità ben più sottili e com-
plesse, riuscendo al tempo stesso a riaffermarle (per un ottimo esempio, si veda
Body and Power, Spirit of Resistance, 1985, di Jean Comaroff, ma oggi molta etno-
grafia è scritta con questo spirito).
La possibilità di Questi due tratti della scrittura etnografica contemporanea stanno ridisegnando
un realismo il modo (realismo non mediato) e la giustificazione (la salvaguardia della diversità in
rivitalizzato e pericolo) dell’etnografia classica. In mancanza di un esplicito paradigma teorico per
praticabile la sperimentazione, li si considera da parte di molti antropologi l’essenza stessa del-
la sperimentazione. Ognuna di queste due strategie ha bisogno di un progetto, di
un’affermazione più sistematica del loro valore di esperimenti con la narrazione e la
descrizione etnografica. Quel che segue è il mio tentativo (dichiaratamente pro-
grammatico e idiosincratico) di fornire uno schema generale per riconfigurare
un’etnografia che incorpori queste strategie. Tutt’altro che un rifiuto del realismo,
considero quel che propongo come un passo verso un realismo rivitalizzato e prati-
cabile, realismo che sorge dal dialogo con i critici più radicali della narrativa reali-
sta, quegli studiosi di retorica, filosofi scettici e critici culturali carismatici che pon-
gono in questione la sua validità, se non la sua possibilità. Quel che qui rimane fuo-
ri scena è quel dialogo, e le origini del mio schema entro di esso.

Sei strategie sperimentali per riconfigurare l’etnografia


I seguenti sei stratagemmi derivano dalla sistematica presa d’atto dell’inadegua-
tezza dei vari modi di strutturazione da cui è tradizionalmente dipeso il realismo et-
nografico (e che sono stati messi in luce dalla critica della sua retorica). Tre riguar-
dano il cambio dei parametri che danno forma al modo in cui i soggetti etnografici
sono stati costituiti analiticamente e retoricamente in quanto tali: la riconfigurazio-
ne dell’osservato. Gli altri tre coinvolgono un mutamento della natura dell’interven-
to teoretico che l’etnografo impiega nei testi che produce: la riconfigurazione del-
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 71

l’osservatore. Assieme, costituiscono un progetto critico per l’etnografia che la con-


duce ben aldilà della sua tradizionale funzione di archivio in cui classificare e de-
scrivere l’alterità esotica, verso la problematica postmoderna della sperimentazione
dei modi di narrazione (e quindi di comprensione) dell’attuale varietà di forme di
vita contemporaneamente locali e globali.

Problematizzare la dimensione spaziale (ovvero: la rottura con il topos della co- Riconfigurare
munità). Il concetto di comunità – nel senso classico di condivisione di valori e l’osservato
identità, e quindi di cultura – ha preso forma letteralmente entro il concetto di loca-
lità, al fine di definire uno schema di riferimento basilare per l’etnografia. Le con-
notazioni di solidità e omogeneità (correlate alla nozione di comunità) sono state
rimpiazzate nel quadro della modernità dall’idea che la produzione dell’identità –
sia di un individuo, di un gruppo, o anche di un’intera società – non dipende sola-
mente, e neppure sempre principalmente, dalla compresenza di attività osservabili
entro un luogo specifico. L’identità di chiunque, e di qualunque gruppo, si produce Luoghi, contesti
e scopi nella
simultaneamente in molti e differenti luoghi di attività, da parte di molti agenti dif- produzione delle
ferenti, per molti scopi differenti. L’identità di un individuo in termini del luogo identità
dove vive – vicini, amici, parenti, estranei – è solo uno dei contesti sociali, e forse
neppure il più importante, in cui l’identità prende forma. Sono i vari elementi di
questo processo di costituzione di identità disperse – rappresentazioni mobili e cor-
relate in molti luoghi differenti di carattere diverso – che devono essere afferrati in
quanto fatti sociali. Questo pone certamente all’etnografia problemi di metodi di ri-
cerca e di rappresentazioni testuali del tutto nuovi e in alcuni casi estremamente
difficili. Ma riuscire a cogliere la formazione dell’identità (di identità multiple, in
realtà) in un particolare momento della biografia di una persona, o della storia di
un gruppo di persone, attraverso la messa a fuoco di siti o luoghi di attività tra loro
assai diversi, permette di riconoscere sia i potenti impulsi integrativi (razionalizzan-
ti) dello Stato e dell’economia nella modernità, sia la conseguente dispersione del
soggetto (persona o gruppo) in frammenti multipli e sovrapposti di identità che al-
trettanto chiaramente caratterizza la modernità (a questo proposito si veda Marcus
[1989] per una discussione della complessità dei resoconti etnografici che si occu-
pano di classi agiate).
Le questioni in gioco in questa elaborazione per così dire parallela di identità
pluridislocate sono: 1) quali identità si sedimentano, e in quali circostanze? 2) qua-
li diventano quelle centrali o dominanti, e per quanto tempo? 3) in che misura il
gioco delle conseguenze non intenzionali influenza il risultato nella sedimentazio- Identità
ne di un’identità rilevante in questo spazio di costituzione multipla e controllo di- pluridislocate
sperso delle identità di una persona o di un gruppo? 4) qual è la natura delle poli-
tiche che controllano l’identità in ciascuno dei siti all’interno e all’incrocio dei qua-
li essa si forma?
La differenza o diversità culturale non sorge in questo caso da una qualche lotta
locale per l’identità, ma è funzione di un complesso processo che coinvolge tutti i
siti in cui si definisce l’identità individuale o di gruppo. È compito dell’etnografia
sperimentale contemporanea riuscire ad afferrare la costituzione di specifiche iden-
tità in tutte le loro migrazioni e dispersioni. Questa visione multilocale di identità
disperse riconfigura e rende complesso il piano spaziale in cui l’etnografia si è mos-
sa concettualmente in passato.
Il libro di Bruno Latour (1989), che tratta della diffusione della scienza di Pa-
steur nella società francese, ne è un esempio. Latour cerca di costruire uno spazio
eterogeneo (e discontinuo) in cui rendere conto di un processo che si rifrange nelle
72 GEORGE MARCUS

operazioni simultanee di siti multipli e di attori, senza interrelazioni di causa ed ef-


fetto scontate o lineari. C’è nel libro lo sforzo di immaginare il tipo di spazio com-
plesso in cui poter descrivere il processo culturale dell’innovazione scientifica.
Problematizzare la dimensione temporale (ovvero: la rottura con il topos della
storia nell’etnografia realista). La rottura non è con la coscienza storica (o con un
senso pervasivo del passato) in alcuno dei luoghi o delle reti di luoghi individuate
Integrazione di
presente
dall’etnografia. Si tratta piuttosto della rottura con la determinazione storica intesa
etnografico e come il contesto esplicativo primario di un presente etnografico. Il realismo etno-
flusso storico grafico è stato in una certa misura rivitalizzato incorporando il passato coloniale en-
tro i preesistenti resoconti storici occidentali. C’è uno sforzo notevole, in contrasto
con il periodo classico dello sviluppo dell’antropologia angloamericana, di aggan-
ciare il luogo dell’osservazione etnografica a un flusso storico all’interno del quale
può essere spiegato in riferimento a una narrazione storica (si veda, per esempio,
tutto il filone ispirato da Wolf [1982] e Sahlins [1985]).
La tendenza sperimentale odierna non è così ottimista sull’alleanza tra storia so-
ciale convenzionale ed etnografia. Il passato presente in ogni sito è costruito a parti-
re dalla memoria, il mezzo fondamentale dell’etnostoria. La memoria collettiva e in-
Riflessioni e dividuale nelle sue molteplici tracce ed espressioni è il crogiolo dell’auto-riconosci-
metodi per mento di un’identità. Mentre gli etnografi contemporanei riconoscono chiaramente
narrare la il significato della memoria come mezzo e processo di collegamento che unisce sto-
memoria ria e formazione dell’identità, si deve ancora sviluppare a pieno una riflessione ana-
litica e metodologica su questo tema.
La difficoltà di concepire dal punto di vista descrittivo la memoria come proces-
so sociale o collettivo ha una qualche relazione con l’inadeguatezza del topos della
comunità nel concepire il piano spaziale dell’etnografia. L’erosione della distinzione
pubblico/privato nella vita quotidiana (in cui la comunità è costruita entro narrative
occidentali) assieme allo spaesamento della funzione di memoria a lungo termine
dell’oralità e del racconto nell’epoca dell’informazione elettronica, hanno reso pro-
blematiche la comprensione e la descrizione di qualsivoglia chiara “arte della me-
moria”. È sempre più probabile che la memoria collettiva passi attraverso quella in-
dividuale, e attraverso l’autobiografia radicata nella comunicazione diffusa tra gene-
razioni, piuttosto che in qualche spettacolo o performance pubblica.
Le rappresentazioni collettive sono quindi filtrate con la massima efficacia at-
traverso rappresentazioni personali. Con questa consapevolezza, un’etnografia ri-
Storia e configurata trasforma il convenzionale interesse realista per la storia – che infonde-
costituzione rebbe, esprimerebbe e addirittura determinerebbe le identità sociali in una deter-
delle identità minata località – in una ricerca in cui la storia e il rivolgersi alla costruzione dell’i-
personali e
collettive
dentità personale e collettiva diventano sinonimi. Questi tipi di esperienze storiche
assunte nella memoria, e che danno forma ai movimenti sociali contemporanei,
possono forse essere apprezzati al meglio nella produzione di autobiografie, nella
misura in cui questo genere si è sviluppato con un interesse particolare per l’etnici-
tà (Fischer 1986).
Il ritorno del presente etnografico – ma si tratta di un presente etnografico
ben diverso da quello della classica antropologia funzionalista delle società tradi-
Il presente
zionali e tribali, che solitamente ignorava la storia – è quindi una sfida alla costru-
fondato sulla zione antropologica della dimensione temporale. Il presente non è definito dalla
memoria narrazione storica, ma dalla memoria. La memoria possiede le sue specifiche stra-
tegie narrative e delinea una sinonimia con il processo frammentato di formazione
dell’identità in ogni località, e le sue forme chiaramente sociali sono difficili da af-
ferrare dal punto di vista etnografico.
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 73

Il lavoro di Michael Taussig (1987) esemplifica questa prospettiva. Si tratta di


una brillante storia sociale di terrore e genocidio nella Putumayo del boom della
gomma del diciannovesimo secolo messa a confronto con i presenti disordini della
Colombia rurale. Cerca di subordinare la narrazione storica convenzionale al mezzo
locale della memoria espresso dalle pratiche di guarigione degli sciamani. Quest’o-
pera, uno dei più consapevoli esperimenti a nostra disposizione, mette in pratica
con diversa intensità molte delle strategie di riconfigurazione che sto delineando.
Problematizzare la prospettiva o la voce (rottura con l’idea di struttura nel reali-
smo etnografico). L’etnografia si è aperta alla prospettiva della “voce” non appena
è entrata in crisi la vigilante metafora della struttura. Il concetto di struttura, inten-
so sia come superficiale struttura sociale (derivata da modelli di comportamento Crisi della
osservati), sia come sottostanti significati e codici sistematici (che organizzano il struttura e
importanza della
linguaggio e il discorso sociale), continua anche per l’etnografia sperimentale a es- “voce
sere probabilmente indispensabile nella produzione di descrizioni dell’oggetto prospettica”
d’indagine. Ma il peso analitico o il centro dell’attenzione in un resoconto etnogra-
fico si spostano, con una nuova enfasi, verso un interesse per la prospettiva in
quanto voce, in quanto discorso radicato nell’intelaiatura e nella pratica dell’in-
chiesta etnografica.
Si è giunti a ciò anche come risultato della messa in discussione dell’adeguatezza
dell’analisi strutturale nel modellare la complessità della diversità intraculturale. Le
registrazioni empiriche di effettivi flussi di discorso montati a collage hanno conte-
stato l’adeguatezza della prospettiva strutturalista o semiotica nel dar conto del di-
scorso in termini di modelli culturali o di codici, e di più o meno ordinate trasfor-
mazioni di componenti.
In parte, l’alternativa sperimentale nella voce, che accetta il montaggio della po-
lifonia allo stesso tempo come un problema di rappresentazione e analisi, ha proba-
bilmente avuto tanto a che fare col mutamento dell’etica dell’attività etnografica
quanto con l’insoddisfazione per l’analisi strutturale dei fenomeni culturali. Questi
cambiamenti si basano su una profonda attenzione per le radici dialogiche, orali, di Il dialogismo
tutta la conoscenza antropologica, trasformata e oscurata dai complessi processi di della conoscenza
antropologica
scrittura (che domina i progetti etnografici dal campo fino al testo compiuto) e di
relazioni di potere differenziali (che danno forma al mezzo finale e ai modi di rap-
presentazione della conoscenza). In questa sede, mi limito a commentare questo
slittamento come differenza analitica del modo in cui l’etnografia sperimentale crea
la sua dimensione spazio-temporale di discorso, indipendentemente dalla valutazio-
ne delle possibilità di successo nel rappresentare – eticamente e autoritativamente –
la voce e la sua diversità.
Nel modello di analisi culturale sviluppato da Raymond Williams (1977), l’o-
biettivo dell’etnografia sarebbe la costituzione di una struttura di sentimento. Que-
sta struttura si concentra su quel che emerge in un contesto dall’interazione di for-
mazioni dominanti e marginali chiaramente definite con quel che non è pienamente Williams e la
articolabile dai soggetti o dall’analista. Rendere questa inarticolabilità più struttura di
dicibile/visibile è una delle funzioni centrali dell’etnografia. Lungo questo filone, ri- sentimento
conoscendo proprietà a discorsi quali la dominazione, la marginalità e la comparsa
sulla scena (o la possibilità di una comparsa), l’etnografia sperimentale dovrebbe
cartografare le relazioni di queste proprietà in ogni sito di indagine non per mezzo
di immediate appropriazioni strutturali di formazioni del discorso, ma esponendo,
per quanto possibile, la qualità delle voci per mezzo di categorie metalinguistiche
(strategie narrative, figure retoriche, eccetera). Le voci non sono considerate il pro-
dotto di strutture locali, basate sulla comunità e sulla tradizione, uniche o privile-
74 GEORGE MARCUS

giate fonti di prospettiva. Sono invece considerate come i prodotti del complesso
insieme di associazioni ed esperienze che le compone.
Il libro di Carolyn Kay Steedman (1987) è un buon esempio di questo approc-
cio. Resoconto in parte autobiografico di una madre inglese di estrazione operaia e
di sua figlia, questo lavoro cerca di dare espressione alla storia entro strutture teori-
Rendere la che date, e fallisce in modo provocatorio. Ciò che lo caratterizza è il fatto di soste-
qualità del
complesso nere con successo la qualità della voce, senza determinazioni strutturali immediate
insieme di voci dello spazio sociale in cui i suoi discorsi sono evocati in quanto voce. In realtà, sfida
direttamente le fantasticherie teoriche che immaginano una qualche struttura in
grado di racchiudere le voci che l’autrice orchestra.

Riconfigurare L’appropriazione attraverso il dialogo dell’apparato concettuale di un testo. L’et-


l’osservatore nografia realista si è spesso costituita attorno all’esegesi intensiva di un simbolo o
di un concetto indigeno considerato cardinale (estrapolato dai suoi contesti di dis-
corso per esservi poi reinserito secondo i dettami dello schema analitico dell’etno-
grafo). Molta della recente analisi culturale si è basata su questa tecnica e su que-
sto principio organizzativo, tipici dei resoconti etnografici. La valutazione profes-
sionale di una particolare opera di etnografia dipende spesso dalla qualità e incisi-
vità di tale esegesi.
L’esegesi come In una certa misura, l’esegesi rappresenta un primo passo per riconoscere e
priorità data ai privilegiare i concetti indigeni rispetto a quelli dell’antropologia. Questi concetti
concetti individuati dall’analisi arrivano a fungere da elementi rappresentativi dell’identità
culturale. Si elevano nella letteratura antropologica (e a volte al di là di essa) a si-
stema di significato nonché di identità di un popolo. Il contributo (o la maledizio-
ne) dell’antropologia sembra quindi proprio quello di tendere a imporre un’iden-
tità a un popolo intrecciando un resoconto etnografico a particolari concetti, miti
o simboli.
Le concezioni Modificare l’etnografia vuol dire riscrivere questa pratica in un’altra che sia com-
dell’antropologo pletamente dialogica, in cui quindi l’esegesi è portata in primo piano nell’etnografia
messe in
discussione
e lo schema di analisi si delinea dalle voci che prendono parte al dialogo. In questo
processo di traduzione culturale, l’intenzione non è tanto quella di modificare le
concezioni indigene (questo spetta agli interlocutori dell’antropologo), ma piuttosto
quelle dell’antropologo. È infatti proprio la ricostituzione dei nostri concetti a essere
seriamente in gioco nel movimento di cultural studies nel mondo accademico occi-
dentale. In una recente intervista, Fredric Jameson (1987, p. 37), commentando la
difficoltà di dire le cose entro un discorso postmoderno, ha auspicato la creazione
“di un nuovo vocabolario. I linguaggi che sono stati utili per parlare di cultura e po-
litica in passato non sembrano più adeguati a questo momento storico”.
Da dove può venire questo vocabolario? Forse, da una riconfigurazione della
traduzione di concetti al centro del realismo etnografico. Momenti esegetici verreb-
bero rimpiazzati da momenti dialogici che implicano la revisione da parte dell’etno-
grafo di concetti familiari che definiscono i limiti analitici del suo lavoro. Una diver-
sa concezione di esegesi, chiaramente agganciata al riconoscimento del suo caratte-
re dialogico, diventa un’operazione di riflessività. Mentre si esplorano i processi di
mutamento identitario all’interno di un contesto etnografico, muta anche l’identità
dei nostri concetti. Il processo per cui si costituisce un’analisi può quindi assumere
su di sé e replicare alcuni aspetti del processo che sta descrivendo. La sfida centrale
è costituita dal problema se un’identità può mai essere spiegata da un discorso di ri-
ferimento quando i discorsi in gioco sono molteplici, uno dei quali (certo non irrile-
vante) è quello dell’etnografo in dialogo con determinati altri soggetti.
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 75

Ci sono diversi modi in cui tutto ciò può essere rappresentato dal punto di vista
testuale. Ma il punto chiave è che l’intelaiatura concettuale dell’antropologo non
dovrebbe rimanere intatta, se quella del soggetto viene fatta analiticamente a pezzi.
L’opera poetica di Dennis Tedlock (1989) si appropria in maniera più seria e co- Le concezioni
dell’antropologo
erente di qualunque lavoro antropologico che io conosca di una struttura derivata non possono
dialogicamente dalla ricerca sul campo, e la rende sua. Rappresenta un anno della rimanere intatte
vita di un viaggiatore occidentale nei termini della complessa organizzazione tem- se quelle del
porale dei maya quiche. Così facendo, fornisce un nuovo vocabolario che modifica soggetto vengono
fatte a pezzi
in modo convincente il modo in cui il tempo è concepito nell’esperienza occidenta-
le contemporanea.
Bifocalità (guardare almeno in due direzioni). Una forte dimensione comparati-
va è sempre stata un aspetto più o meno implicito di ogni progetto etnografico.
Nella globale modernità in evoluzione del ventesimo secolo in cui si è praticata l’an-
tropologia fin quasi dalla sua fondazione come professione, la sincronicità dell’et-
nografo e dell’“Altro” (in quanto soggetto di indagine) è stata tuttavia quasi sempre
negata (Fabian 1983). C’è in etnografia una storia di giustapposizioni tra il nostro
mondo e quello dell’“Altro”, ma l’attenzione è rivolta a mondi separati, distanti. La La negazione
relazione assai sfocata tra la società dell’antropologo e quella del soggetto etnografi- della
co (sotto dominazione coloniale) è stata messa in discussione solo dalla critica del sincronicità
rapporto dell’antropologia con il colonialismo occidentale. dell’“altro”
Ora che la modernità occidentale viene ripensata come un fenomeno globale e
del tutto transculturale, l’uso dichiarato della bifocalità nei resoconti etnografici sta
diventando sempre più esplicito e apertamente critico nei confronti della superata
distinzione tra “noi” e “loro”. Oggi, l’identità dell’antropologo e del suo mondo è
con buona probabilità profondamente correlata a quella del particolare “mondo”
che sta studiando. Tuttavia, solo la riconfigurazione dell’osservato (delineata nel
paragrafo precedente) rende possibile questa revisione del carattere bifocale dell’et-
nografia. La catena di pregressi collegamenti, storici o contemporanei, tra l’etnogra-
fo e i suoi soggetti può essere più o meno lunga, rendendo così la bifocalità una
questione di giudizio personale. Ma la sua scoperta e il suo riconoscimento riman- I legami tra
gono un tratto definitorio dell’attuale dimensione sperimentale in etnografia. Sono l’etnografo e i
suoi soggetti e
una dichiarazione critica contro ogni sforzo conformista di mantenere separati dei la bifocalità
mondi (e separate le loro determinazioni) in un mondo fortemente integrato.
Anthropology through the Looking Glass di Michael Herzfeld (1987) mostra gli
elementi in comune nello sviluppo del concetto di cultura in antropologia e nella
lotta per definire la cultura contemporanea della Grecia da parte dei greci stessi (in
cui l’antropologia, gli studi folklorici e quelli classici hanno giocato un ruolo decisi-
vo). Herzfeld sviluppa la dimensione bifocale dell’etnografia rivelando nel suo pro-
getto la complessa relazione storica tra lo sguardo etnografico e ciò su cui esso si
posa. La riflessività, da semplice atto personale, viene fatta diventare una pratica
critica per l’etnografia, che dimostra la relazione tra osservatore e osservato in uno
specifico momento dell’indagine.
Giustapposizioni critiche e considerazione di possibilità alternative. La funzione La critica
principale dell’etnografia sperimentale è la critica culturale. Ciò implica la critica culturale
non solo della propria disciplina (attraverso un’alleanza intellettuale con il soggetto impone alla
voce
etnografico) e della propria società (che nell’accelerata situazione di integrazione dell’etnografo
globale è sempre correlata al sito d’interesse etnografico in maniera bifocale attra- di diventare
verso processi transculturali e attraverso la prospettiva storica), ma anche della si- evidente
tuazione all’interno del luogo stesso della ricerca, il mondo locale indagato. Dato il
generale impegno delle etnografie sperimentali a esplorare l’intero ventaglio delle
76 GEORGE MARCUS

possibilità per le identità e le loro complesse espressioni attraverso la voce in cia-


scun contesto, la realizzazione di questa dimensione esplorativa è a sua volta una
forma essenziale della critica culturale. Ciò significa la chiara espressione della voce
dell’etnografo nel suo testo, e prende le mosse dall’atteggiamento critico che le cose
così come sono non lo sono di necessità.
Ci sono più possibilità, ulteriori identità, rispetto a quelle che si sono effettiva-
mente realizzate in qualunque luogo di ricerca. L’esplorazione di tutte le eventualità
realizzate e possibili è in se stesso un metodo di critica culturale che contesta i prin-
L’utopismo cipi della situazione data. La prospettiva postmoderna permette di tracciare percor-
critico si non battuti, possibilità inesplorate. Questo tipo di sperimentazione del pensiero
dell’etnografo critico – incluso nell’etnografia che riesce a giustapporre realtà e possibilità in un
mutuo dialogo analitico – potrebbe apparire pericolosamente vicino al pensiero
utopistico o nostalgico, se non fosse che dipende dalla documentazione del fatto
che queste tracce alternative hanno una loro vita autonoma, che è parte integrante
del processo che dà forma alle identità, anche a quelle che risultano normative o
dominanti. Questa messa in luce di possibilità in contrasto con le condizioni ogget-
tive e definitorie “che contano veramente” in ogni contesto costituisce l’intervento
critico e il contributo che l’etnografo può dare, il suo specifico contributo.
Il resoconto sul movimento sciita nell’Iran odierno presentato da Fischer e
Abedi (1990) esemplifica questo approccio. Il testo si sviluppa lungo differenti ge-
neri di scrittura e da molteplici prospettive (rende inoltre giustizia all’ideale colla-
borativo della produzione etnografica) e delinea in maniera critica le formazioni
dominanti, marginali o in fase emergente di un particolare spazio culturale e intel-
lettuale, quello che in tempi recenti è stato spesso considerato fanatico e integrali-
sta. Fischer e Abedi riescono soprattutto a identificare possibilità e fenomeni
emergenti negli eventi susseguenti la rivoluzione, che hanno creato una nuova e
originale diaspora iraniana.
Il diffondersi Ho percorso i cammini di una disciplina nutrita oggi da innovazioni nella sua
della tendenza pratica empirica che sono sorte in risposta alla critica degli obiettivi del passato di
sperimentale
rappresentare la realtà di forme culturali distintive dell’umanità. Questa tendenza
sperimentale si può riscontrare anche in altre scienze sociali, soprattutto nei nuovi
centri e progetti interdisciplinari che vanno prendendo piede. Per ragioni che spero
di aver reso chiare, in nessun altro campo questa critica è però così essenziale come
lo è per l’antropologia.
Lascio ai lettori di questo saggio il compito di individuare nella loro etnografia,
o in quella di altri, gli elementi qui discussi. Se non ci riescono (o se scelgono di
non farlo), sono liberi allora di rivalutare e criticare il mio progetto, optando per al-
tre forme e altre concezioni di quel che l’etnografia potrebbe diventare.

1 Voglio sottolineare che la sperimentazione non è una mia profezia, basata sulla raffinata anticipazione di pochi

esempi, ma è invece una tendenza documentata, non solo nell’attuale allentamento del modello educativo iniziatico del-
l’etnografia in termini di ciò che si può presentare in una dissertazione dottorale, ma anche nel modo in cui sono gesti-
te le “seconde ricerche” intraprese da ricercatori già affermati che hanno compiuto le loro prime indagini tra la fine de-
gli anni Sessanta e la metà dei Settanta. Dopo tutto, l’etnografia non è solo la pratica intellettuale centrale dell’antropo-
logia, ma è anche il rito di passaggio che plasma le carriere individuali. Il progetto educativo iniziale della ricerca etno-
grafica – uno o due anni di ricerca sul campo, scrittura della dissertazione dottorale seguita dalla pubblicazione di una
monografia – costituisce il capitale in base a cui vengono assegnate e in seguito mantenute le posizioni accademiche. Se
da un lato il modello educativo è prevedibilmente conservatore e tende all’ortodossia, dall’altro ciò che è ortodosso, nel
bene e nel male, sia per i soggetti d’indagine che per le convenzioni di scrittura, è cambiato notevolmente negli ultimi
dieci anni, secondo me tanto su richiesta degli studenti quanto per volontà dei docenti.
Ma per quel che mi riguarda e per quelli della mia generazione, il momento di sperimentazione più interessante su
come condurre una ricerca, si verifica lungo quella linea di rottura con il progetto di ricerca iniziale, necessario a dare il
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 77

via a una carriera e tendenzialmente conservatore. Lungo quella linea di rottura il ricercatore o la ricercatrice cerca og-
gi di intraprendere qualcosa di assai diverso da quello per il quale era stato/stata addestrato. Dato che il primo proget-
to di ricerca, che può durare spesso un decennio, non consente certo di padroneggiare a fondo una forma di vita diffe-
rente anche nel caso – comune nell’etnografia convenzionale – di ricerche condotte su di uno spazio estremamente ri-
stretto come un villaggio, una cittadina o un quartiere urbano, si è sempre guardato con favore al ritorno ulteriore sul
sito originario di ricerca, per spingersi al di là di esso sia concettualmente sia geograficamente con estrema cautela. Ma
oggi pochi antropologi costruiscono le loro carriere di ricerca in questo modo. È più comune adesso che le divergenze
rispetto al primo progetto di ricerca siano delle vere fratture ed esperimenti sia nella concezione che nella conduzione
della ricerca. Tuttavia, visto che le carriere non dipendono da questo tipo di progetti di ricerca, questi tendono a essere
sviluppati in modo più silenzioso, personale, in un modo più intenso e più ambizioso, nonché a essere realizzati con un
po’ di insicurezza. La tendenza sperimentale che ho individuato si manifesta in maniera diffusa nell’antropologia con-
temporanea proprio nella produzione relativamente silenziosa di questi secondi progetti.
Il problema di fondo di questi progetti è proprio quello di ripensare le convenzioni dell’etnografia per scopi, luo-
ghi e soggetti non convenzionali, soprattutto superando l’idea di comunità locale come luogo di ricerca sul campo a fa-
vore di fenomeni più frammentari che pongono una seria sfida al modo in cui l’etnografia classica è concepita e assume
prestigio. Ciò avviene, per esempio, spostando la ricerca da un paese italiano al Parlamento europeo multinazionale,
dalla giungla amazzonica ai centri di trattamento del dolore a Boston, dallo studio di una fabbrica giapponese all’indu-
stria internazionale della moda, dallo studio del culto degli antenati in un villaggio taiwanese alla comparazione delle
concezioni del corpo nella medicina ufficiale e nel pensiero femminista americano, dai contadini della Transilvania agli
intellettuali rumeni, dallo studio degli sherpa del Nepal a quello dei propri compagni di classe del liceo. Questi, e molti
altri casi di slittamento di interessi, implicano tutti una verifica dei limiti del paradigma etnografico, e soprattutto una
mutazione delle forme dell’etnografia. Per esempio, come si devono ripensare le forme dell’evidenza e dell’autorità et-
nografica quando si ha a che fare con soggetti non localizzati, fenomeni culturali ancora in via di costituzione, slegati da
storie locali o tradizioni ben assestate, in mondi che a prima vista non sono del tutto estranei all’etnografo? Se da un la-
to assistiamo a un’esplicita discussione sulla critica e le trasformazioni dell’etnografia, pratica al cuore dell’antropologia,
questa critica e queste trasformazioni si stanno effettivamente concretizzando ad ampio raggio nel silenzioso problema
professionale di come lanciare secondi progetti di ricerca, che è esattamente il problema di come trovare e rendere con-
cettualmente plausibile una via di uscita da una tradizione che si vuole, allo stesso tempo, conservare e mutare.
2 L’autore gioca sull’omofonia tra eye (occhio) e I (io), che in italiano si potrebbe forse rendere come assonanza tra

“(lo) sguardo” e “(io) guardo” (N.d.T.).

Biografia intellettuale

George E. Marcus è professore di antropologia alla Rice University, dove inse-


gna dal 1975. È direttore del dipartimento dal 1980 e ha presieduto alla sua ricosti-
tuzione in linea con la sua fama attuale di luogo deputato alla critica dell’antropolo-
gia, che incoraggia la pratica di una ricerca etnografica critica. Si è laureato in poli-
tica ed economia a Yale nel 1968, ha studiato antropologia a Cambridge grazie a
una borsa di studio Henry e nel 1971 è entrato a far parte del Dipartimento di Re-
lazioni Sociali di Harvard (antropologia sociale), proprio quando il programma in-
terdisciplinare post-laurea stava per essere dismesso. Dall’inizio degli anni Settanta
ai primi anni Ottanta la sua ricerca si è centrata sul regno di Tonga. A partire dagli
anni Ottanta ha iniziato a studiare le classi agiate e le istituzioni d’élite negli Stati
Uniti e in altri paesi occidentali. Dal 1986 al 1991 è stato inaugural editor della rivi-
sta «Cultural Anthropology». Di recente, si è interessato assieme ai suoi colleghi so-
prattutto di sviluppare il collegamento tra l’antropologia e quel settore disciplinare
in forte espansione noto come cultural studies. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:
The Nobility and the Chiefly Tradition in the Modern Kingdom of Tonga (1980), Eli-
tes: Ethnographic Issues (1983), (con Michael Fischer) Antropologia come critica cul-
turale (1998), (con James Clifford) Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnogra-
fia (1998), e (con Peter Dobkin Hall) Lives in Trust: The Fortunes of Dynastic Fami-
lies in Late Twentieth Century America (1992).
78 GEORGE MARCUS

Sono stato attratto dall’antropologia quand’ero ancora uno studente liceale all’i-
nizio degli anni Sessanta, grazie alle lettere dal campo di una coppia di miei cognati
(lui era allora dottorando a Yale) che si trovavano tra i semai nell’allora Malaya. La
trasformazione professionale di questo interesse non può essere raccontata in sem-
plici termini genealogici (del tipo: Boas generò X che generò Y, da cui io fui genera-
to). Mi è capitato invece di passare di continuo attraverso particolari istituzioni an-
tropologiche che si trovavano di volta in volta alla fine di un particolare percorso o
progetto, così che, per quanto fossi interessato e affascinato dall’esperienza antro-
pologica, mi sono sempre trovato ad avere un rapporto obliquo o distaccato con i
particolari modelli di antropologia professionale con i quali mi trovavo in contatto.
Per prima cosa, ero a Yale alla metà degli anni Sessanta, quando l’influenza felice di
Murdock da un lato e l’etnoscienza dall’altro avevano già passato il loro zenit.
Quindi, pur seguendo i corsi di antropologia, la mia vera fonte di entusiasmo furo-
no le lezioni di Paul Mus e Harry Benda sulla storia del Sud-Est asiatico (con una
buona dose di Geertz come esperto di Indonesia), per cui finii per laurearmi con un
programma speciale in politica ed economia (formato in buona parte da teorici del-
la politica, economisti dello sviluppo e studiosi di estrazione europea).
Poi, tra il 1969 e l’anno seguente, passai tre semestri a Cambridge, studiando
antropologia sociale per il BA Tripos. Si era al tramonto del funzionalismo britanni-
co, e il triumvirato composto da Goody, Leach e Fortes (ma insegnava anche Tam-
biah) si mantenne stranamente unito di fronte al radicalismo dei loro stessi studen-
ti e di molti studiosi americani in visita. Mi ricordo chiaramente una serie di confe-
renze presentate dai “grandi” – Evans-Pritchard, Needham, Gluckman eccetera –
e di come tutti (assieme al gruppo di Cambridge) apparissero esausti, almeno in
confronto alle promesse suscitate dai loro scritti, che in quell’anno stavo leggendo
in modo sistematico.
In seguito, dopo due anni nell’esercito nella Carolina del Sud (durante i quali ho
insegnato antropologia ai corsi serali dell’università e ho fatto qualche approccio et-
nografico tra coloro che parlano gullah a Sea Island), entrai a far parte del Diparti-
mento di Relazioni Sociali di Harvard (antropologia sociale). Talcott Parsons e
George Homans erano ancora nomi di rilievo, ma il programma del dipartimento
non aveva più da offrire (almeno agli antropologi) quel che aveva offerto in passato,
quando Clyde Kluckhohn dirigeva la sezione antropologica e David Schneider e
Clifford Geertz erano studenti. Anche se ho imparato molto da Cora DuBois e Da-
vid Maybury-Lewis, di nuovo mi allontanai dall’antropologia per rivolgermi ai corsi
di altri settori, che mi sembravano potenzialmente promettenti per l’antropologia,
corsi tenuti per esempio da Stanley Cavell, Barrington Moore e Daniel Bell.
Ho potuto constatare che la mia esperienza è stata molto simile a quella della
maggior parte dei miei colleghi studenti di antropologia sociale a Harvard all’inizio
degli anni Settanta. Eravamo liberi di prendere parte a un ampio spettro di propo-
ste intellettuali, ma prima o poi la maggior parte degli studenti si associava con l’u-
no o l’altro dei principali progetti che fornivano opportunità di ricerca dopo la lau-
rea. Mi unii al progetto sulle Fiyi dello scomparso Klaus Friedrich Koch (un antro-
pologo legale che era stato allievo di Laura Nader a Berkeley), visto che mi dava la
possibilità di lavorare nel regno di Tonga, una società monarchica che si era adatta-
ta in modo interessante a una lunga storia di colonialismo e modernizzazione. A
Harvard, l’esperienza di antropologia che mi ha dato più soddisfazioni, e senza
dubbio la più importante, è stata la mia partecipazione come teaching fellow al cor-
so di teoria sociale di David Maybury-Lewis e Nur Yalman. Gli incontri all’ora di
pranzo con quest’ultimo e la mia partecipazione come teaching fellow al corso ri-
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 79

mangono a tutt’oggi eventi per me memorabili, e mi hanno indicato un modo con-


geniale e stimolante di condivisione delle tendenze teoriche nuove, vecchie ed
emergenti che ancora definiscono l’orizzonte dell’antropologia sociale e culturale.
Dal punto di vista formale, la mia istruzione come antropologo è quindi avve-
nuta sullo sfondo continuo di tendenze e mode che si andavano dissolvendo in isti-
tuzioni che appartenevano a società (gli Stati Uniti e la Gran Bretagna) che stava-
no sperimentando, retrospettivamente, l’incipiente dissoluzione della cultura e dei
modelli postbellici. Ho imparato veramente l’antropologia in maniera completa e
impegnata solo lavorando a Rice, con crescente creatività dopo il 1980, quando il
dipartimento è stato letteralmente ricostruito. In questo periodo, ho imparato mol-
tissimo di antropologia dai miei colleghi, Michael Fischer (che aveva studiato a
Chicago ed era stato ad Harvard) e Stephen Tyler (che aveva studiato a Stanford
ed era uno dei portavoce principali della critica all’antropologia cognitiva). Un’a-
micizia personale e una profonda solidarietà con Jim Clifford (che era dottorando
di storia mentre io ero ad Harvard, e partecipava spesso alle conferenze e ai ricevi-
menti del dipartimento mentre io ero lì), iniziata con la sua visita a Rice nel 1980,
mi ha aperto nuove ed eccitanti prospettive entro cui comprendere la sfida antro-
pologica. Un anno all’Institute for Advanced Studies di Princeton (nel 1982-83),
durante il quale Clifford Geertz e io, in modi diversi, stavamo entrambi riflettendo
sull’antropologia dal punto di vista della scrittura e della rappresentazione, è stato
essenziale per tutto quel che ho fatto da allora in poi. Il Seminario di Santa Fe
(School of American Research) del 1984, che portò alla pubblicazione di Scrivere le
culture, mi ha permesso di dar corpo a quel che stavo elaborando dagli inizi degli
anni Ottanta, e mi ha messo in contatto permanente con la maggior parte degli an-
tropologi di vedute aperte della mia generazione. E dall’inizio degli anni Ottanta
sono stato abbastanza fortunato da incontrare e conoscere un bel po’ degli antro-
pologi più creativi e impegnati oggi in circolazione. Sono loro a essere stati, e a es-
sere ancora, i miei maestri più importanti.
Mi sono spostato dallo studio delle élite dinastiche allo studio di come si sono
formate istituzioni culturali dominanti negli Stati Uniti e in altri paesi. Il mio pro-
gramma di ricerca è trovare nuovi modi di descrivere e di scrivere, all’interno della
tradizione dell’etnografia e dell’antropologia culturale, dei mutamenti grandi e pic-
coli nelle società contemporanee. Mi sento in grado di farlo (all’interno di un dipar-
timento che come pochi si dimostra utile alla sua facoltà e ai suoi studenti laureati)
continuando a imparare dalla mia rete di amici e dai legami con un gruppo di an-
tropologi particolarmente brillanti, e raccogliendo la sfida di essere aperto e critico
nei confronti dei diversi e fertili territori intellettuali che formano oggi i cultural stu-
dies, terreno da cui stiamo chiaramente estraendo molto del capitale e del vigore in-
tellettuale che ci permette di riflettere sui processi culturali odierni – siano essi alti,
bassi, quotidiani, globali o locali.
La dialettica di fatti e parole
Robert F. Murphy

La teoria culturale moderna soffre di una tale frammentazione e dispersione che


sembra rovesciare l’intero discorso all’interno della nostra comunità scientifica1. Le
teorie di cui disponiamo spaziano dalla sociobiologia da un lato, attraverso vari tipi
L’assenza di di materialismo e funzionalismo di vecchio stampo, alle teorie, all’altro estremo, che
dialogo fra individuano lo studio della cultura nel linguaggio e nel significato. Si potrebbe spera-
prospettive
re che i campioni di ogni punto di vista illuminino la nostra professione con un di-
battito costruttivo, ma si parlano uno addosso all’altro in una confusione di lingue: si
parla molto, ma si dialoga ben poco. A prima vista verrebbe da dire che il nostro fu-
turo è ben misero, tuttavia possiamo ancora consolarci con una verità antropologica
ben attestata che recita: le cose non sono mai come sembrano. Del resto, ci guadagnia-
mo da vivere proprio dimostrando che quel che sembra una cosa, in realtà è un’altra,
un processo alchemico che ci permette di scoprire nei rituali la sublimazione del ses-
so, oppure un modo di produrre fertilizzanti. Assecondando questo spirito critico,
cercherò di individuare all’interno del caos della teoria contemporanea una direzio-
ne diversa che, paradossalmente, riporta l’antropologia al suo centro.

Due posizioni polari


Il materialismo Un asse oppositivo tra scuole antropologiche è costituito dal diverso grado con
e l’interpreta- cui tengono in considerazione la mente umana, e limiterò le mie considerazioni alle
tivismo due posizioni diametralmente opposte rispetto a questo tema: il materialismo da un
lato e alcune tendenze postmoderne e interpretativiste dall’altro.

Materialismo
Alcuni materialisti affermano che la “mente” semplicemente non esiste. C’è,
piuttosto, solo il cervello umano, entro cui fluiscono gli stimoli esterni e da cui sca-
turiscono le risposte comportamentali. Per quanto riguarda il cervello, non c’è biso-
gno di conoscere cosa contiene o come funziona, ma solo quel che vi entra e quel
La cultura come
“comportamento
che ne esce. Quel che ne esce è tutto quel che fornisce il miglior risultato con il mi-
appreso e nimo sforzo, concetto che si definisce elegantemente “condizionamento operativo”.
condiviso” Dato che la cultura è definita dagli stessi materialisti “comportamento appreso e
condiviso”, ne segue che quando un numero sufficiente di persone ottiene gli stessi
risultati e reagisce allo stesso modo, nasce la cultura. Ma John Stuart Mill, nella sua
formulazione del massimo benessere per il maggior numero di individui, aveva
espresso meglio lo stesso concetto già 150 anni fa. E 42 anni fa ho seguito i corsi di
psicologia sperimentale al Columbia College con il mio vecchio amico Marvin Har-
ris. Lui è diventato un fedele del vangelo secondo Thorndike mentre io, in reazione
al comportamentismo, sono diventato un fedele di Sigmund Freud.
Isaiah Berlin (1966) ha diviso gli intellettuali di professione in due categorie: le
volpi e gli istrici. Le volpi sono persone che hanno molte idee, tipi come Clifford
LA DIALETTICA DI FATTI E PAROLE 81

Geertz (o come me). Il problema è che dopo un po’ il lettore non sa più da che par-
te stanno queste persone (cosa questa che diventa un problema serio solo quando al
lettore la questione non interessa più). Gli istrici, al contrario, sostengono un’idea
sola, ma si tratta della GRANDE IDEA. Questo atteggiamento, com’è ovvio, ben descri-
ve Marvin Harris, che ha subito una conversione materialista in una fase precoce Marvin Harris e
della sua carriera. Questa conversione, assieme al comportamentismo del college, è il materialismo
culturale
diventata il Materialismo Culturale. Harris sostiene testardamente questa teoria da
trentacinque anni, modificando qualche cosa qui e lì, ma senza deviare di una virgo-
la dalle sue linee essenziali. La teoria è tuttavia meno in debito con Karl Marx di
quanto non lo sia con scrittori come Jeremy Bentham, Adam Smith e B. F. Skinner.
Può essere questa la ragione per cui durante gli anni Settanta e Ottanta molti stu-
denti radicali si sono orientati invece verso diversi tipi di marxismo, un movimento
adesso in via d’estinzione nel culto delle mode che ora infesta la nostra professione.
Roy Rappaport (1989) ha sostenuto che gli studi ecologici devono diventare più
culturali e basarsi di meno sui modelli delle scienze naturali, il che costituisce una
chiara presa di distanza dal cieco determinismo meccanicista del materialismo cul-
turale. Da questo punto di vista, ho sempre creduto che l’approccio ecologico-cul-
turale di Julian Steward [descritto nell’introduzione alla quarta parte] rimanga tut-
tora la direzione più promettente per noi, perché sposta l’attenzione dall’ambiente
naturale alla cultura, e in maniera più specifica alla penetrazione e al radicamento L’approccio
del lavoro – cioè delle relazioni sociali di produzione – nel tessuto totale della socie- ecologico-cultu-
tà (cfr. Murphy 1970). Vorrei aggiungere il corollario che questo stesso radicamento rale
del lavoro è il cammino attraverso cui aspetti della cultura interni al sistema di valo-
ri e significati rifluiscono ad articolare e influenzare l’organizzazione del lavoro, da-
to che si tratta in qualche misura di una strada a due direzioni. Io sostengo che que-
sto è il contributo centrale della teoria di Steward, per quanto con i miei aggiusta-
menti, un contributo che può evitare il fardello di concetti rigidi come “nucleo cul-
turale” o “infrastruttura”.

Postmodernismo
Dopo aver presentato alcuni moderni, rivolgo ora la mia attenzione ai postmo-
derni e a quelli di atteggiamento affine. Il postmodernismo, con le nuove antropo-
logie interpretative e riflessive, con il decostruzionismo, il dialogismo e qualche al-
tro caso che ora non mi viene in mente, è una tendenza in crescita in questo paese. La minoranza
Nonostante il suo successo, rimane sotto il controllo di una minoranza, per quanto postmoderna e
ben posizionata. Per quel che riguarda tutti gli altri, credo di non travisare il loro il suo “oscuro”
stile di scrittura
atteggiamento se dico che gran parte di loro sospetta che ci sia nel postmodernismo
una cospicua dose di mistificazione. Ho l’impressione che buona parte di questo
stato d’animo verso l’antropologia postmoderna derivi dallo stile di scrittura dei
suoi seguaci, che scrivono alternando frasi di una parola a rompicapi sintattici di
frasi subordinate. In tutta franchezza, devo tuttavia far notare che i maggiori rap-
presentanti di quel che io chiamo la “scrittura densa” sono maschi, che sembrano
impegnati in uno strano gioco competitivo in cui oscure allusioni letterarie e forme
retoriche barocche diventano armi, in una specie di rap per teste d’uovo.
Dopo questa premessa, la maggior parte dei lettori si aspetterà probabilmente da La rottura col
me una critica totale della dottrina post-strutturale e postmoderna ma, per quanto fa- positivismo
stidiosa possa essere la loro sintassi, io trovo condivisibili, addirittura familiari, alcuni
aspetti di questi scritti. Mi soffermo ora su questi aspetti, e lascio per dopo i punti in
cui credo abbiano perso il senso della misura. Il postmodernismo e l’interpretativismo,
nelle loro grandi linee, hanno marcato una profonda rottura con il paradigma del posi-
82 ROBERT F. MURPHY

tivismo funzionalista che ha dominato le scienze sociali per gran parte del ventesimo
secolo, e che tuttora fornisce l’intelaiatura intellettuale di una buona fetta della nostra
professione. Il modello funzionalista di società – una rete di entità empiriche correlate
in maniera causale e funzionale a formare dei sistemi naturali – si basava sull’implicita
assunzione positivista dell’autonomia e oggettività degli osservatori scientifici che rac-
Una nuova colgono questi nuclei fattuali. A sua volta, questa cosiddetta obiettività derivava dalla
fenomenologia convinzione che noi, in quanto soggetti, potessimo metterci in un angolo con i nostri
del discorso e quaderni di appunti e studiare i nativi nei loro villaggi come oggetti. Era una convin-
della
costruzione del zione innocente, ma rivelava un soggiacente atteggiamento imperialista.
reale La nuova antropologia ha spostato l’attenzione dalla struttura al modello e al pro-
cesso, alla fenomenologia del discorso, e ai processi attraverso cui la cultura, e la stessa
realtà, sono costruite. L’interesse per i confini dei sistemi e per il mondo lineare e mec-
canico del funzionalismo strutturale (abbracciato da Radcliffe-Brown e da altri) è finito
per sempre. È sparito anche l’osservatore oggettivo che si distacca dai suoi informatori,
e al suo posto c’è ora l’osservatore contestuale e culturalmente costituito, che non può
più separarsi dalla sua etnografia. Do il benvenuto a queste nuove tendenze, e quindi
spero che non la prenderete a male se mi chiedo: cos’altro c’è di nuovo?

La dialettica della vita sociale


Una ventina d’anni fa ho scritto un libro, The Dialetics of Social Life (Murphy
1971) che partiva da una critica del funzionalismo strutturale e proseguiva con un
attacco più generale allo stesso positivismo sociologico. Al suo posto, proponevo
una concezione processuale della vita sociale che avrebbe dovuto tenere in debita
La concezione considerazione le contraddizioni presenti nel flusso delle reali attività umane e nei
processuale nostri manchevoli tentativi di comprenderle. Veniva prospettata un’analisi dialetti-
della vita ca della microstoria dell’interazione sociale e degli aspetti negativi della vita socia-
sociale
le: 1) le separazioni e le distanze create da ogni vincolo sociale positivo; 2) la costi-
tuzione di false coscienze che sono il prezzo e la precondizione della vita sociale;
3) i malintesi e le opposizioni che fanno andare avanti il mondo; 4) l’essenziale
alienazione da sé e dagli altri che delimita, e quindi limita, le vite umane; e altro
ancora. In quel libro inoltre contestavo l’autonomia del soggetto e dell’oggetto, ri-
fiutando la nozione di osservatore oggettivo. Ho affermato che il nostro senso del-
la realtà è in parte costruito culturalmente, e che le nostre stesse etnografie sono
un miscuglio delle costruzioni culturali di coloro che studiamo e di quelle che noi
ci portiamo sul campo e imponiamo ai nostri dati. Di certo non affermavo tutto
ciò come una nuova verità rivelata, e mi basavo invece su Hegel, Simmel, Freud,
Lévi-Strauss e sul sociologo fenomenologico Alfred Schutz. Molta della nuova et-
nografia non è nuova per nulla.
Il mio libro era però assai diverso da quel che oggi si scrive sotto la bandiera
del postmodernismo. Io proponevo un’etnografia autocritica, non un’etnografia
L’etnografia che considera l’etnografo più interessante dei nativi. Dopo quasi quarant’anni che
critica come osservo sia gli antropologi sia i nativi, vi assicuro che noi non siamo più interes-
indissolubilità santi di loro. È però più importante, per una proposta di antropologia critica, ri-
di prassi e cordare che il libro era una generale argomentazione in favore dell’indissolubilità
pensiero
di prassi e pensiero, di fatti e parole, dell’attività sociale e della sua costruzione
culturale, di azioni e norme, ognuno gravido dell’altro, in un’unione che è origina-
riamente dialettica nella sua natura.
È su questo punto che hanno fallito sia il materialismo culturale sia quegli approcci
che restringono il loro campo alla mente, al significato e al discorso. In Dialectics ho
sostenuto che le realtà del potere, del sesso e del bisogno economico sono ampiamente
LA DIALETTICA DI FATTI E PAROLE 83

prioritarie e generative rispetto alle forme simboliche nelle quali sono espresse (od oc-
Un’antropologia
cultate). La mia generazione non ha maturato questa convinzione dai libri o dagli inse- realista
gnanti. Abbiamo imparato la tirannia della privazione negli anni Trenta, e negli anni
Quaranta abbiamo scoperto che il potere e la legittimità vengono dalle armi. Questo
ha dato alla nostra antropologia un tono di concreto realismo che non deve andare
perduto per inseguire l’iconografia culturale. Sotto varie bandiere, molti studiosi si so-
no recentemente allontanati da questa ragionevole attività per dedicarsi solo alla se-
Gli eccessi del
miotica e al significato. Sono stati così trascinati in indagini interpretative che conside- testualismo
rano sia la vita sociale che le etnografie su di essa come dei testi, avvicinandosi così pe- postmoderno
ricolosamente alla critica letteraria, il settore più sterile della ricerca moderna.
Per quanto riguarda i materialisti, non riescono a riconoscere che le forme cul-
turali hanno una loro vita autonoma, e non sono semplici epifenomeni di “infra-
strutture” sottostanti. Non esiste un brodo primordiale di prassi bruta all’interno I limiti del
materialismo
del quale la cultura verrebbe creata. Il comportamento sociale deve prendere luogo
all’interno di strutture di significato, che sono significati costruiti. Le nostre azioni
sono modellate entro le nostre memorie del passato, le anticipazioni del futuro e la
realtà del presente e sono estremamente pericolose perché, una volta rese pubbli-
che, sono irrevocabili. Ma le nostre azioni, in quanto performances pubbliche, av-
vengono nelle nostre menti e nelle menti di coloro che ci osservano. La loro coeren-
za dipende dalle conflittuali interpretazioni che di esse danno sia gli attori che gli
spettatori, e che rendono spesso la vita sociale una commedia o una tragedia, che
poi sono la stessa cosa. Il comportamento avviene quindi entro storie in cui l’attore
è insieme il prodotto e il produttore, creatore e vittima, guardiano e prigioniero. È
proprio perché preso nell’angoscia di questa trappola che Stephen Dedalus escla-
ma: “La storia è un incubo dal quale cerco di svegliarmi”. Noi antropologi interpre-
tiamo questi incubi, ma anche li sogniamo, e quindi siamo in loro balia.
Sono consapevole del fatto che i materialisti culturali ammettono un rispetto for- Il fatto e la
male per i simboli e le norme, come i postmodernisti, i semiologi e gli interpretativisti parola: due
scienze
dicono di rispettare l’attività pratica. Ma insisto che nessuno dei due fronti tiene in se- dell’uomo?
ria considerazione il punto di vista dell’altro. Il materialismo culturale rimane abbar-
bicato a un modello meccanico e naturalista che non riesce a tener presente che la
mente è ben di più di una tabula rasa e ha il suo ordine interno e i suoi processi. I
postmodernisti e compagnia cadono nell’intellettualismo rifiutando di riconoscere in
pieno che i significati devono essere verificati e forgiati nello spazio dell’azione sociale
concreta. È in questo spazio che desideriamo e bramiamo, lavoriamo e sudiamo, e in
cui la nostra comprensione del mondo deve adattarsi ai nostri umani bisogni. Il mate-
rialismo culturale si interessa soprattutto del Fatto, e molti postmodernisti solo della
Parola. È come se ci fossero due scienze dell’uomo, una che studia l’uomo dal collo in
giù, l’altra dal collo in su, un Uomo in un caso senza testa, nell’altro senza corpo.

Un’eterna contraddizione
Da questo punto di vista, apprezzo l’interesse di Nancy Scheper-Hughes (Sche-
per-Hughes, Lock 1987) per le metafore culturali del corpo, perché illustrano bene
la differenza tra l’approccio interpretativo e un trattamento dialettico. Il corpo è un
soggetto di cui ho trattato per la prima volta in un articolo (Murphy 1977) sui ruoli La battaglia dei
sessuali e l’anatomia dei sessi, che indagava le implicazioni del fatto ben noto che le sessi e le
donne hanno dal punto di vista sessuale una ricettività ben maggiore rispetto agli uo- modificazioni
mini. In quell’articolo sostenevo che la cultura inibisce questa abbondanza naturale imposte dalla
di sessualità femminile, rendendola un bene a disponibilità limitata rispetto a una cultura
sessualità maschile che è invece limitata naturalmente ma trasformata dalla cultura in
84 ROBERT F. MURPHY

una falsa abbondanza. Questa doppia inversione consente la creazione dell’idea di


Uomo Cacciatore (di Donne) e forma lo spazio esistenziale in cui si svolge la batta-
glia tra i sessi. Tra parentesi, non ho trovato l’ispirazione per questo esercizio dialet-
tico nella filosofia, ma negli scritti di Mark Twain (1962). Ho trattato del corpo in
Dal corpo come maggior dettaglio in un mio libro (Murphy 1987) che parla della paralisi come di
testo al corpo una metafora dell’entropia, ma che studia la paralisi soprattutto in quanto immobili-
come strumento
tà pura e semplice. Suggerirei quindi a coloro che sono impegnati a vedere il corpo
come una specie di testo di scendere dalle sperticate altezze della metafora per calar-
si nelle attività sociali terra terra, e considerare il corpo come uno strumento attraver-
so cui interagiamo con il nostro ambiente fisico e sociale. Questa è la tradizione di
Simone de Beauvoir e di Merleau-Ponty, piuttosto che di Foucault (il bello di farsi
affascinare dai francesi è che uno lo può fare in tanti modi diversi). Sarebbe il caso di
ricordare che nel Secondo sesso de Beauvoir scrive: “Se il corpo non è una cosa, è
una situazione… È lo strumento per la nostra presa sulla realtà, un fattore limitante
dei nostri progetti”. L’anatomia non è il destino, ma piuttosto un insieme di possibi-
lità che l’antropologia non ha ancora esplorato completamente.
Credo di parlare a nome della maggioranza dei miei colleghi se dico che non so-
lo la testa e il corpo sono egualmente essenziali ai nostri studi, ma anche che la loro
relazione antitetica, e quella tra Atto e Concetto, dovrebbe costituire la sostanza es-
senziale della nostra disciplina. E non realizzeremo in pieno questo obiettivo elabo-
rando catene di eventi sempre più causali oppure gomitoli di significati sempre più
soggettivi. In The Dialectics of Social Life ho cercato di sottolineare la fragilità di si-
gnificato e modello, e di dissolvere le strutture e le forme rigide a vantaggio di una
nuova antropologia del movimento e del processo. Ho cercato così di dar vita a una
sintesi delle posizioni antitetiche di due scuole.
In conclusione, quando diciamo che la realtà è in parte un costrutto culturale,
La realtà
dobbiamo sempre essere consapevoli che tale costrutto non dev’essere confuso con
costruita e i la realtà stessa, che spesso lascia su di noi tracce dolorose della sua esistenza. Al di
vincoli del là delle lenti di falsa coscienza attraverso cui porgiamo il nostro miope sguardo, c’è
mondo reale infatti il mondo reale, e l’antropologia tratta ancora del nostro posto entro di esso.
Ma noi umani non nasciamo plastici e malleabili come creta. Gli uomini sono costi-
tuiti, e piegano il mondo a loro immagine. In quanto animali dotati di coscienza,
nati entro società con una predisposizione per il linguaggio e per certi modi di pen-
siero, i nostri piedi sono immersi nel fango, ma le nostre teste – le nostre menti –
raggiungono le stelle. Quest’eterna contraddizione è il diletto e l’emblema della no-
stra umanità, e la missione antropologica è quella di studiare e descrivere, in tutta la
sua ricchezza, il lavoro della vita.

1 Questo articolo è una versione leggermente modificata di un intervento presentato all’incontro annuale dell’Ame-

rican Anthropological Association il 6 novembre 1989 a Washington, D.C., in un simposio intitolato “Gli sviluppi del-
l’antropologia”, organizzato da Robert Borofsky. Precedenti versioni di questo articolo sono state lette dai dottori Tho-
mas de Zengotia, Barbara Price e Joel Wallman. Sono loro grato per gli utili commenti e suggerimenti.
LA DIALETTICA DI FATTI E PAROLE 85

Biografia intellettuale*

Robert F. Murphy (1924-1990) è stato professore di antropologia alla Columbia


University, dove insegnò dal 1963 fino al suo pensionamento nel 1990. Antropologo
culturale, ha condotto ricerche tra gli indios mundurucu (Brasile), gli indiani sho-
shone-bannock (America del Nord), i tuareg (Africa) e, in tempi più vicini, nel
campo dell’antropologia dei disabili. Nel 1977 ricevette il premio Mark Van Doren
per la sua attività di insegnamento e nel 1988 il premio Lionel Trilling per il suo li-
bro The Body Silent (1987). Tra le sue pubblicazioni forse i testi più famosi sono
The Dialectics of Social Life (1971), Cultural and Social Anthropology (1979) e Wo-
men of the Forest (1974) scritto assieme alla moglie Yolanda.

Murphy iniziò la sua carriera come studioso di macrostrutture e di evoluzione


multilineare. In seguito si interessò della mediazione simbolica nell’interazione so-
ciale, concentrando l’attenzione sul rapporto tra individui e gruppi. Poi si interessò
in maniera sempre più sistematica della natura del sé, la natura della condizione
umana in cui tutti noi, in ogni società, siamo nati. La sua evoluzione intellettuale,
piuttosto che essere dovuta all’adozione e poi all’abbandono dei punti di vista di
una serie di “scuole”, si può considerare come l’aggiunta e l’integrazione, nel corso
di tutta la sua vita, di nuovi settori conoscitivi e teorici. In realtà, Murphy ha speso
gran parte della sua vita a rifiutare in toto le limitazioni delle “scuole” e i loro con-
flitti. Fu invece sempre affascinato dalle anomalie, dalle “eccezioni” al senso comu-
ne. L’indagine di queste eccezioni era rivolta a spiegare non solo questi casi isolati,
ma ad affinare e riformulare le stesse generalizzazioni di partenza.
Il suo carattere, il suo sistema di valori e lo spirito ironico con cui affrontò la sua
vita e il suo lavoro presero forma precocemente. Figlio della grande depressione,
cresciuto a Rockaway Beach, New York, in una famiglia cattolica di ceto medio e
origine irlandese che era rimasta colpita dalla crisi, frequentò la scuola superiore di
Rockaway Beach assieme ad altri ragazzi fortemente motivati, molti dei quali aveva-
no intenzione di iscriversi all’università. Per problemi finanziari, Murphy dovette
però cercarsi un impiego dopo il diploma. Nel 1943 si arruolò in Marina, partecipò
alle attività militari nel Pacifico e fu congedato nel 1946 con il grado di tecnico di
prima classe. Le sue esperienze con la Chiesa e la Marina militare lo portarono a es-
sere per il resto della vita sospettoso di qualsiasi forma di autorità, sia ecclesiastica,
sia politica, sia intellettuale. Grazie a una legge nazionale, poté fare domanda ed es-
sere accettato alla Columbia University poco dopo la smobilitazione.
Di conseguenza, Murphy prese parte a quello che fu uno sconvolgimento unico
nel sistema sociale americano. I veterani che entrarono alla Columbia e nelle altre
università americane erano una nuova generazione, spesso irriverente e intellettual-
mente curiosa, che si era formata nel crogiolo della seconda guerra mondiale. An-
che se venivano da fasce sociali diverse, molti provenivano da quella classe operaia i
cui membri, prima della guerra, avrebbero avuto scarse possibilità di accesso all’u-
niversità. Molti di loro erano i primi nelle loro famiglie a poterlo fare, e vedevano
nell’istruzione superiore una via di fuga dalla povertà e da lavori tediosi e ripetitivi.
Come diceva Murphy (1987, p. 168): “La Columbia University mi ha formato, ha
valorizzato il mio potenziale e mi ha incoraggiato a diventare qualunque cosa voles-
si, a far tutto quel che mi permettevano le mie capacità. Mi ha spalancato un uni-
verso ricco al di là di ogni mia immaginazione”.
Proprio studiando alla Columbia Murphy scoprì sia l’antropologia che gli scritti
di Freud. Sebbene avesse abbandonato la fede all’età di sedici anni, la concezione
86 ROBERT F. MURPHY

cattolica della colpa e dell’espiazione, il simbolismo e l’importanza data alla repres-


sione sessuale dalla Chiesa trovavano un’eco nel suo profondo interesse per Freud,
nel quale vedeva trattati gli stessi temi, e sulla cui opera si sarebbe poi basato nella
sua ricerca sul Sé. Ancora studente, Murphy seguì quasi per caso un corso di antro-
pologia tenuto da Charles Wagley, che gli aprì gli occhi su un mondo completamen-
te nuovo, gli offrì un modo diverso con cui ripensare alla sua esperienza di soldato,
e orientò la sua scelta professionale. Nel 1949 iniziò i suoi studi post-laurea sempre
alla Columbia, e ottenne il Ph.D. nel 1954. Tra i dottorandi di quegli anni alla Co-
lumbia c’erano Eric Wolf, Morton Fried, Robert Manners, Elliott Skinner, Stanley
Diamond, Rene Millon e Marvin Harris.
Mentre era dottorando, Murphy continuò a studiare con Wagley, che seppe sti-
molare il suo interesse per gli indiani dei bassopiani del Sudamerica, e lo preparò
per la sua ricerca sul campo tra i mundurucu del Brasile nel 1952-53. L’altra grande
figura di spicco alla Columbia in quegli anni era Julian Steward, il cui lavoro nei
paralleli settori dell’evoluzione multilineare e dell’ecologia culturale influenzò
Murphy per tutta la vita, soprattutto nel suo interesse per la parentela e l’organizza-
zione del lavoro. Dopo il ritorno dal campo, accettò un impiego con Steward come
Research Associate all’Università dell’Illinois assieme a Eric Wolf, che considerava
uno studioso intelligente e di cui rispettava le idee. La collaborazione con Steward è
evidente soprattutto nei primi lavori di Murphy [Headhunter’s Heritage, 1960; Tap-
pers and Trappers, 1956 e (con la moglie Yolanda) Shoshone-Bannock Subsistence
and Society, 1960].
Nel 1955 Murphy entrò a Berkeley, Università della California, come Assistant
Professor di antropologia. All’epoca c’era un buon rapporto tra antropologi e socio-
logi, concretizzato in un vivace seminario congiunto che prevedeva la partecipazio-
ne di studiosi come David Schneider (che lui considerava il suo mentore), Rene
Millon, Lloyd Fallers, Reinhard Bendix, Philip Selznick, Erving Goffman e Talcott
Parsons. Lo scambio di idee in quel seminario permise a Murphy di esplorare l’ope-
ra di Simmel, Durkheim e Lévi-Strauss, e la loro influenza è forse più evidente nella
successiva ricerca sui tuareg (1959-60). Sebbene il suo progetto teorico iniziale fos-
se quello di integrare l’ecologia culturale di Steward con un modello struttural-fun-
zionalista, si rivolse invece a Simmel e Lévi-Strauss per un’analisi dei suoi dati (So-
cial Distance and the Veil, 1964). Con questa nuova sintesi, tornò ai mundurucu ap-
plicando l’opera di Simmel sul conflitto a un’analisi del sistema di guerra tra i mun-
durucu (Intergroup Hostility and Social Cohesion, 1957). Nell’ultimo periodo a Ber-
keley, Murphy si interessò sempre più allo strutturalismo e nel 1961 (o forse l’anno
dopo) tenne quello che fu forse il primo seminario in quell’università su questo ar-
gomento, ma non accettò mai completamente questa prospettiva teorica. Conside-
rava lo strutturalismo privo di qualsiasi sistema di azione e di sentimento umano, e
in seguito ne modificò e trasformò alcuni elementi nel suo libro The Dialectics of So-
cial Life.
Con enorme piacere, Murphy tornò alla Columbia University come professore
di antropologia, unendosi a colleghi come Wagley, Morton Fried, Conrad Aren-
sberg, Alexander Alland, Elliott Skinner e Marvin Harris. Era convinto che la varie-
tà di opinioni, non solo tra il corpo docente ma anche tra gli studenti, riflettesse
una ricca tradizione che aveva dato vita a un dipartimento impegnato nella ricerca e
nello sviluppo teorico. Dialectics fu scritto alla Columbia, per altro nel contesto dei
movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam attivi sia a Berkeley sia alla Co-
lumbia. Questo libro, un lavoro sulla dialettica dell’interazione, fu anche una critica
del positivismo antropologico e forse uno dei primi tentativi di introdurre la feno-
LA DIALETTICA DI FATTI E PAROLE 87

menologia nell’antropologia. Mentre era alla Columbia, scrisse anche Cultural and
Social Anthropology e, assieme alla moglie Yolanda, Women of the Forest.
A metà degli anni Settanta Murphy era già gravemente malato, ma continuò a
insegnare e pubblicare. Il suo studio divenne un salotto in cui docenti e studenti
potevano incontrarsi, discutere e scambiarsi opinioni. La sua stessa malattia diven-
ne una sfida per pensare alla paralisi come a un problema intellettuale, una metafo-
ra di qualcosa radicato nella condizione umana. Di conseguenza, iniziò un nuovo
progetto di ricerca per studiare le vite delle persone disabili. In The Body Silent, il
suo ultimo libro, che è allo stesso tempo autobiografico e generalizzante, tentò di
integrare e sintetizzare il pensiero di tutta una vita, e soprattutto di sviluppare da
Dialectics quel che lui considerava fosse rimasto incompiuto o inespresso nell’opera
precedente. Citiamo da The Body Silent (pp. 221-222):

In ospedale, pensando a ruota libera alla malattia e al declino fisico, ho avuto l’ossessio-
nante sensazione di aver fatto in tutti gli anni passati nient’altro che le prove generali per
il presente, di rivivere la mia storia in un’iperbole, di subire una tremenda parodia della
vita stessa. Ero intrappolato in un processo per il quale non c’è via di scampo, talmente
inevitabile che non potevo resistergli, ma solo guardarlo ammaliato. In un modo perver-
so, il progresso della mia degenerazione fisica sembrava qualcosa di appropriato, perché
in ogni momento della mia esistenza erano contenuti tutti i miei ieri e tutti i miei domani.
E il mio ricapitolare il passato – e il futuro – non era un’attività idiosincratica, il mio in-
cubo strettamente personale. Era invece, in qualche modo, la messa in atto in forma esa-
sperata del corso di tutta la vita sociale.

* Testo di Yolanda Murphy e Barbara Price.


Il materialismo culturale è vivo e vegeto e non se ne andrà finché non si farà
avanti qualcosa di meglio
Marvin Harris

Vorrei prima di tutto prendere le distanze dall’impressione, trasmessa a volte


L’antropologia per trascuratezza e altre volte intenzionalmente, che l’antropologia possa essere
non si riduce equiparata all’antropologia culturale o, ancor meno, all’etnografia1. Gli antropolo-
all’etnografia gi culturali che intraprendono studi etnografici fanno estremo affidamento su ma-
teriali storici, etnostorici e archeologici per perseguire con successo i loro interessi
intellettuali e professionali (per es. Sahlins, Murra, Wolf, Mintz). Inoltre, molte
importanti figure dell’archeologia (per es. Marcus, Flannery, Hodder, Binford,
Sanders), hanno intrapreso studi etnografici per proprio conto, per poter migliora-
re la loro comprensione delle società arcaiche. Per di più, studi sul campo di pri-
mati non umani (per es. Devore, Van Lawick-Goodall, Imanishi, Teleki) fornisco-
no una base di dati indispensabile per comprendere la comparsa di culture specifi-
camente umane. Lo studio dei ruoli sessuali tra i primati non umani ha per esem-
pio consentito enormi progressi nella nostra comprensione dell’evoluzione delle
gerarchie umane su base di genere. Una feconda interazione tra archeologia, pa-
leontologia ed etnografia è cosa comune tra gli antropologi che individuano il loro
principale interesse nell’antropologia medica o nell’antropologia bioculturale. E
non dovremmo neppure dimenticare che gli antropologi che fanno ricerca applica-
ta, redigono relazioni e valutano programmi di sviluppo, superano per numero gli
etnografi che ruotano attorno alle università. Di certo anche ai postmodernisti de-
v’essere giunta la voce che l’iscrizione all’American Anthropological Association
non è riservata esclusivamente agli etnografi.
Il materialismo culturale è un paradigma i cui principi sono rilevanti per la ri-
cerca e lo sviluppo della teoria praticamente in tutti i settori e sub-settori dell’antro-
pologia. È stato infatti calcolato (Thomas 1989, p. 115) che circa la metà degli ar-
La generalità cheologi degli Stati Uniti si considerano, almeno in parte, dei materialisti culturali.
del paradigma Per i materialisti culturali, siano essi antropologi culturali, archeologi, antropologi
materialista fisici o linguisti, l’esperienza intellettuale centrale dell’antropologia non è l’etnogra-
culturale fia ma lo scambio di dati e di teorie tra differenti settori e sub-settori che riguarda-
no lo studio globale, comparativo, diacronico e sincronico del genere umano: l’ori-
gine degli ominidi, la nascita del linguaggio e della cultura, l’evoluzione delle diffe-
renze e somiglianze culturali, e i modi in cui i processi bioculturali, mentali, com-
portamentali, demografici, ambientali e altri processi nomotetici hanno conformato
e continuano a conformare il mondo umano.

Cultura
Non è un caso che tutti coloro che ignorano, implicitamente o esplicitamente,
gli aspetti biologici o archeologici dell’antropologia, operino con una definizione di
cultura che è strettamente limitata a fenomeni mentali ed emici (vedi oltre, il para-
grafo sui principi epistemologici). Per costoro la cultura costituisce il regno delle
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 89

pure idee, accessibile solo attraverso il dialogo interattivo tra etnografi viventi e vi-
venti “nativi” (vedi Harris [1980] per una storia della definizione di cultura come I limiti della
pura idea). Questo errore grossolano separa per forza di cose lo studio degli umani cultura come
nel presente da quello degli umani vissuti nel passato e che non hanno lasciato do- regno delle
“pure idee”
cumenti scritti, visto che è impossibile dialogare in modo interattivo con dei morti.
Per mantenere i collegamenti tra antropologia culturale, archeologia e antropologia
fisica è necessario dunque un concetto di cultura che comprenda non solo le com-
ponenti mentali ed emiche (vedi oltre) della vita sociale umana, ma anche quelle eti-
che e comportamentali.
Per cultura, secondo il materialismo culturale, si intendono i repertori social-
mente condizionati di azioni e di pensieri che sono associati a particolari gruppi so-
ciali o popolazioni. Questa definizione di cultura si oppone nettamente ai concetti La definizione
statici, “essenzialisti”, che ispirano coloro che definiscono la cultura come il regno di cultura per il
materialismo
delle idee pure e uniformi che si librano sul frastuono della vita quotidiana di indi- culturale
vidui specifici. Per i materialisti culturali gli elementi culturali sono costruiti (più
specificamente: sono astratti) dal nocciolo duro dei pensieri e dei comportamenti
immensamente variabili di specifici individui (Harris 1964a). In perfetto accordo
con la sottolineatura di Borofsky della variabilità individuale, i materialisti culturali
affermano da tempo che la cultura è in fondo un processo materiale di dispiega-
mento (cfr. il concetto di “flusso di comportamento”) piuttosto che l’emanazione di
un archetipo platonico (vedi la discussione sulla variabilità e l’ambiguità delle cate-
gorie brasiliane di colore/razza – Harris 1964b, 1970; Kottak 1967). Sarebbe tutta-
via del tutto autodistruttivo limitare la definizione di cultura e lo scopo delle scien-
ze sociali al nocciolo duro del pensiero e dell’azione individuale (come sembra pro- La realtà delle
porre il saggio di Vayda alle pp. 392-401). Anche se non possiamo vedere o toccare entità culturali
entità come un modo di produzione o una multinazionale o un sistema sociocultu-
rale, nella misura in cui queste sono astrazioni logiche ed empiriche costituite a par-
tire dall’osservazione di eventi di livello individuale, sono dotate di realtà in misura
non inferiore a qualsiasi altra realtà. È un vero imperativo per la sopravvivenza e il
benessere degli uomini imparare a sollevarsi dai pensieri e dalle azioni individuali
per giungere al livello in cui possiamo iniziare ad esaminare gli effetti combinati
della vita sociale e del comportamento di entità di questo ordine superiore come le
istituzioni e i sistemi socioculturali. Le economie politiche sono reali quanto gli in-
dividui che vivono sotto il loro influsso, e ben più potenti di loro.

Paradigmi
I paradigmi stabiliscono i principi che governano la conduzione della ricerca. I
principi si dividono in due classi: regole per acquisire, testare e validare conoscenza
(cioè principi epistemologici) e regole per produrre e valutare teorie (cioè principi
teorici). Un aspetto ampiamente frainteso dei paradigmi scientifici è il fatto che né i
principi epistemologici o teorici, né il paradigma nel suo complesso godono dello Principi
epistemologici e
status di teoria scientifica. Principi come il creazionismo, la selezione naturale o il teorici
primato delle infrastrutture non sono falsificabili. Ciò non significa però che i para-
digmi siano occulti, come “navi che passano di notte”. I paradigmi possono essere
comparati l’un l’altro e valutati da due punti di vista: a) la loro struttura logica e co-
erenza interna e b) la loro rispettiva capacità di produrre teorie scientifiche confor-
mi ai criteri che esporremo fra poco. Da questo punto di vista, le alternative al ma-
terialismo culturale hanno ben poca speranza di farcela. Vedo un bel po’ di navi af-
fondate nelle acque torbide del post-postmodernismo – navi costruite con resocon-
ti viziati della storia della teoria antropologica, progetti provinciali, concezioni cao-
90 MARVIN HARRIS

tiche sulla natura delle società e delle culture umane, e una sostanziale mancanza di
principi epistemologici e teorici o di risultati concreti utili che potrebbero giustifi-
care un futuro – qualsiasi futuro – per l’antropologia.

Principi epistemologici: la scienza


Il materialismo culturale si basa su alcuni principi epistemologici condivisi da
I caratteri delle
osservazioni
tutte le discipline che affermano di produrre conoscenza scientifica. La conoscenza
scientifiche scientifica si ottiene per mezzo di operazioni pubbliche e replicabili (osservazioni e
trasformazioni logiche). Lo scopo della ricerca scientifica è formulare teorie esplica-
tive che siano a) predittive (o retrodittive), b) verificabili (o falsificabili), c) in nu-
mero non eccessivo, d) di ampia portata e 5) integrabili o cumulative entro un cor-
pus di teorie coerente e in espansione.
Gli stessi criteri distinguono le teorie scientifiche più accettabili da quelle che lo
sono meno. Le teorie scientifiche sono accettate in base alla loro relativa capacità di
previsione, alla loro verificabilità, economia, ampiezza di spettro e integrabilità,
confrontate con teorie rivali rispetto agli stessi fenomeni. Dato che in questo campo
ci si può solo avvicinare alla perfezione senza mai raggiungerla, le teorie scientifiche
sono accettate in quanto approssimazioni per tentativi, mai in quanto “fatti”.
Questa concezione della scienza deriva dalle tradizioni del positivismo logico e
dell’empirismo filosofico. Si potrebbe definire neopositivismo in quanto incorpora
e supera le critiche di Popper (1965), Lakatos (1970) e Kuhn (1962, 1974). Si noti
che questa concezione non afferma assolutamente di essere libera da giudizi di valo-
La necessità di re. Propone piuttosto di superare gli inevitabili pregiudizi di tutte le forme di cono-
un controllo scenza per mezzo di regole metodologiche che insistano sull’apertura al controllo
pubblico delle pubblico delle operazioni per mezzo di cui vengono costruiti particolari fatti e teo-
operazioni
antropologiche
rie. La convinzione, troppo spesso avanzata dagli spazza-scienza postmodernisti,
che non esisterebbe una comunità di osservatori che possa controllare o che con-
trolli effettivamente le operazioni antropologiche e soprattutto quelle etnografiche
(vedi la discussione di Tyler [1986] qui di seguito) è smentita dalle forti critiche alle
quali vengono regolarmente sottoposti fatti cruciali e teorie sulle principali riviste di
antropologia. Le sfide portate da altri osservatori all’accuratezza etnografica dei la-
vori di Boas, Mead, Benedict, Redfield, Evans-Pritchard, Malinowski, Lee, Vayda e
L’effettivo Chagnon, solo per citarne alcuni, sia che fossero basate sulla ricerca sul campo, sia
coinvolgimento
di una su fonti scritte, soddisfano chiaramente il modello scientifico del controllo indipen-
comunità di dente da parte di altri osservatori. Questo è uno dei pochi punti su cui sono in
ricercatori disaccordo con il saggio di Salzman, che risponde “no” alla domanda se la ricerca
etnografica coinvolga o meno ai nostri tempi una comunità di ricercatori. Ci può
magari volere del tempo, ma gli etnografi che lavorano nella stessa area, se non ad-
dirittura nello stesso villaggio, aiutano effettivamente a tenersi l’un l’altro in contat-
to con i fatti etnografici basilari. Sono comunque d’accordo con Salzman che il fu-
turo dell’etnografia si basa sulla capacità di espandere in modo sistematico l’utilizzo
di gruppi di ricerca sul campo e il numero dei “re-studies” piuttosto che, come pro-
pone Marcus nel suo contributo a questo volume, sull’aumentare il numero delle ri-
cerche sul campo di tipo sperimentale, personalistico e idiosincratico, condotte da
aspiranti romanzieri privi di qualsiasi addestramento e da narcisisti ego-fissati afflit-
ti da logo-diarrea congenita.
L’oggettività è Si afferma spesso che anche le scienze naturali hanno dovuto abbandonare
davvero in
declino?
l’“oggettività” e il determinismo a causa del principio di indeterminazione di Hei-
senberg o per via della teoria del caos. L’idea che l’oggettività non sia più in que-
stione nelle scienze fisiche, chimiche e biologiche fa a cazzotti con quello che invece
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 91

fanno milioni di ricercatori in tutto il mondo per guadagnarsi da vivere. Lasciamo


pure che i nostri spazza-scienza antropologici si mettano a dire a un pubblico di
malati che non c’è trattamento oggettivamente valido per l’AIDS o la leucemia e che
mai ce ne sarà uno; oppure a un gruppo di fisici che è impossibile stabilire se la fu-
sione a freddo avvenga o meno; oppure alla commissione sulle frodi scientifiche di
non darsi tanto da fare, ché tanto tutti i dati scientifici sono egualmente precotti,
soggettivi e culturalmente “costruiti”. La ragione per cui i materialisti culturali pri-
vilegiano la conoscenza prodotta conformemente ai principi epistemologici della
scienza non è perché la scienza garantisca una verità assoluta, libera da pregiudizi
soggettivi, da errori, falsità, bugie e frodi. È invece perché la scienza è il sistema mi-
gliore finora messo a punto per ridurre pregiudizi soggettivi, errori, falsità, bugie e
frodi. Per quanto riguarda il determinismo – l’affermazione che i fenomeni sono de- Il metodo
terminati causalmente da certi eventi o principi – la sua morte viene enfatizzata a scientifico come
tutela contro
sproposito. Nelle scienze sociali le formulazioni del XIX secolo su leggi assolute so- pregiudizi,
no state modificate molto tempo fa dalla presa d’atto che la scienza non produce errori, falsità,
certezze e leggi, ma solo probabilità e generalizzazioni. La teoria del caos – sia detto bugie, frodi
incidentalmente – non porta alla rinuncia dei sistemi deterministici ma all’estensio-
ne del determinismo probabilistico a campi di fenomeni (come la turbolenza idro-
dinamica) che fino a ora sembravano essere del tutto imprevedibili.
Sotto la guida di Clifford Geertz e la diretta influenza di filosofi postmoderni e
di critici letterari come Paul DeMan, Jacques Derrida e Michel Foucault, gli antro-
pologi interpretativisti hanno fatto loro una retorica sempre più arrogante e intolle-
rante, intenzionata a liberare l’antropologia di tutte le vestigia dei paradigmi scienti-
fici “totalizzanti”. Secondo Stephen Tyler (1986, pp. 171-172), per esempio, gli an-
tropologi socioculturali dovrebbero abbandonare:

l’inappropriato processo della retorica scientifica che implica “oggetti”, “fatti”, “descri-
zioni”, “induzioni”, “generalizzazioni”, “verifiche”, “esperimento”, “verità”, e concetti
simili che, se non come vuote indicazioni, non hanno corrispondenza né nell’esperienza
della ricerca etnografica, né nella scrittura delle etnografie. L’urgenza di confermarsi ai Tyler:
l’abbandono dei
canoni della retorica scientifica ha reso il facile realismo della storia naturale l’aspetto do- paradigmi
minante della prosa etnografica; ma è stato anche un realismo illusorio, che spingeva as- “totalizzanti”
surdamente a “descrivere” non-entità – “cultura”, “società” – come insetti, e con in più
la ridicola pretesa comportamentista del “descrivere” schemi ripetitivi dell’azione isolan-
doli dal discorso che gli attori usano per costruire e situare il loro agire. E tutto con la
semplicistica certezza che il discorso fondante dell’osservatore è una forma oggettiva ade-
guata alla descrizione degli atti.

La completa rinuncia di Tyler alla ricerca di oggetti, fatti, descrizioni, induzioni,


generalizzazioni, verifiche, esperimenti, verità e “concetti simili” (!) nelle questioni
umane si fa beffe di sé in modo così evidente che ogni tentativo di confutazione ri-
sulterebbe deludente a confronto. Credo però sia comunque utile far notare che la
“semplicistica certezza”, con cui i positivisti e i comportamentisti avrebbero visto la
vita sociale degli uomini, distorce l’intera storia della scienza in generale, durante la
quale ogni certezza, semplicistica o meno, è stata sottoposta a un continuo scettici-
smo, e distorce in particolare la storia del positivismo logico, storia durante la quale Shanks e Tilley:
la lotta per creare linguaggi oggettivi rispetto ai dati ha costituito il nodo centrale di la critica alle
un vasto e incessante sforzo filosofico. generalizzazioni
Gli spazza-scienza dediti all’antropologia non vengono rabboniti dall’assicurazio-
ne che i materialisti culturali cercano probabilità più che certezze, generalizzazioni
più che leggi. Shanks e Tilley per esempio contestano la possibilità di far alcun tipo
92 MARVIN HARRIS

di generalizzazione. Si chiedono quanto un enunciato debba essere generale prima


di valere come generalizzazione: “due casi? tre? cinquanta?”. Chiedono inoltre:

Se le generalizzazioni fatte non sono leggi, non ci si può aspettare di applicarle in ogni
caso. Quindi perché queste generalizzazioni ci sarebbero utili? Perché la questione di fa-
re scienza dovrebbe essere necessariamente equiparata alla capacità o alla volontà di ge-
neralizzare? Sembra esserci una regola procedurale fondata sul principio che generalizza-
re, invece che considerare tutte le particolarità del caso individuale, sia una forma supe-
riore di attività. Non sembrano esserci ragioni necessarie per cui dovremmo accettare
tutto ciò (Shanks, Tilley 1987, p. 38).

Domande e risposte
Gli errori che sostengono queste domande sono così evidenti che ci si chiede
per forza se chi le ha formulate voglia veramente essere preso sul serio, e questa è
una seria preoccupazione da parte mia, visto che Derrida e i suoi seguaci non disde-
gnano di celebrare gli aspetti ludici del decostruzionismo. Ma vista l’attuale popola-
rità dell’antiscientismo, le loro domande, serie o no, non possono essere lasciate
senza risposta.
Domanda: Quanto spesso un evento si deve ripetere per poter servire come base
per una generalizzazione?
Risposta: Più volte si ripete e meglio è.
Domanda: Se non ci si può aspettare che le generalizzazioni siano applicabili a
ogni caso specifico, che cos’hanno di buono?
Risposta: Migliore la generalizzazione, più probabile la sua applicabilità al caso
particolare e più utile la generalizzazione stessa. È certamente utile sapere che una
persona particolare che fuma quattro pacchetti di sigarette al giorno ha una proba-
bilità dieci volte maggiore di prendersi un cancro al polmone di uno che non fuma,
anche se non tutti i grandi fumatori contraggono il cancro ai polmoni.
Domanda: Perché la scienza dovrebbe essere equiparata alla generalizzazione?
Risposta: Perché la scienza è per definizione una forma generalizzante di cono-
Le aporie del scenza.
particolarismo Domanda: Il mandato a generalizzare non è altro che una “regola procedurale”?
per la scienza Risposta: Ovviamente, e ognuno è libero di ignorare la regola, ma farlo significa
cessare di fare scienza, ed è probabile che vi faccia rimanere secchi la prossima vol-
ta che scendete dal marciapiedi senza rispettare il semaforo pedonale, o la prossima
volta che accendete un fiammifero per guardare nel serbatoio della benzina.
Ultima domanda: Invece di generalizzare, perché non considerare “tutte le parti-
colarità del caso individuale”?
Risposta: Perché non ci sono limiti alle particolarità. Qualsiasi progetto che si
proponga di dar conto di tutte le particolarità di un evento macrofisico, umano o
non umano, fa quindi un’affermazione assurda sul nostro tempo e sulle nostre risor-
se. Per questo motivo, per la scienza la particolarità senza fine equivale esattamente
all’ignoranza senza fine.

Principi epistemologici: emica ed etica


Oltre ai principi epistemologici generali condivisi con altre discipline scientifi-
Eventi mentali che, il materialismo culturale si basa anche su principi epistemologici specifici per
vs lo studio dei sistemi socioculturali umani. Questi comprendono: 1) la separazione
comportamento degli eventi mentali (pensieri) dal comportamento (azioni di parti del corpo e i loro
effetti ambientali) e 2) la separazione sia per i pensieri sia per il comportamento
della prospettiva emica da quella etica (vedi oltre per le definizioni di “emico” ed
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 93

“etico”). La ragione per distinguere epistemologicamente tra eventi mentali e com-


portamentali è che le operazioni (le procedure osservazionali) usate per ottenere la
conoscenza degli eventi mentali sono distinte dal punto di vista categoriale da quel-
le necessarie per ottenere la conoscenza di eventi comportamentali. Per i primi gli
osservatori dipendono direttamente o indirettamente dai partecipanti per venir in- Quattro tipi di
formati di quello che sta succedendo nella testa di questi; per gli eventi comporta- conoscenza
mentali gli osservatori non dipendono dagli attori per identificare i movimenti del
corpo dell’attore e gli effetti sull’ambiente di quei movimenti. Gli osservatori hanno
la possibilità di descrivere entrambi i tipi di eventi secondo categorie che sono defi-
nite, identificate e verificate dalla comunità dei partecipanti (prospettiva emica) op-
pure da quella degli osservatori (prospettiva etica). Da queste distinzioni derivano
quattro tipi di conoscenza: 1) emica del pensiero; 2) emica del comportamento; 3)
etica del comportamento; 4) etica del pensiero.
Per esemplificare, consideriamo la pratica dell’infanticidio indiretto nel Brasile Un esempio:
nord orientale. 1) Un campione di madri economicamente e socialmente disagiate l’infanticidio in
condanna e aborre l’infanticidio. 2) Queste madri insistono che il loro comporta- Brasile
mento è orientato a sostenere la vita dei loro bimbi. 3) Gli osservatori però notano
che alcune di queste madri di fatto negano cibo e bevande ad alcuni dei bambini,
soprattutto al primo e all’ultimo nato. 4) Sulla base dell’occorrenza osservata di at-
ti di negligenza materna e dell’elevata mortalità infantile, si può inferire che queste
donne disagiate hanno pensieri contrari o che modificano la loro emica di pensiero
e comportamento esplicitata. (Quest’esempio è stato adattato da Scheper-Hughes
[1984, 1992]). Rivolgersi nuovamente ai partecipanti per trarre ulteriori dati emici
può produrre l’esplicitazione di pensiero emico e comportamento emico che corri-
spondono alle inferenze etiche. Le versioni emiche ed etiche della vita sociale sono
spesso, ma non necessariamente, in contraddizione. (Cfr. Headland, Pike, Harris
[1990], per un’ampia discussione della storia e del significato della distinzione
emica/etica). Ma l’incapacità di distinguere tra dati emici ed etici e tra eventi men-
tali e comportamentali rende inutile molta della letteratura socioculturale dell’an-
tropologia culturale impedendo letteralmente ai ricercatori di comprendere il valo-
re referenziale del loro discorso descrittivo (Harris 1968; Marano 1982; Headland,
Pike, Harris 1990).
Nonostante la cortina fumogena di maligne affermazioni non informate e colme
di pregiudizio, i materialisti culturali insistono nell’affermare che il vero studio della Il materialismo
specie umana riguarda sia l’emica che l’etica, il pensiero e il comportamento. Questo e la necessaria
mi conduce al saggio di Robert Murphy e alla sua affermazione che i materialisti, e io compresenza di
in particolare, definirebbero la cultura come “comportamento appreso e condiviso” pensiero e
azione
(corsivo nell’originale). Non so come spiegare l’incapacità di Murphy nell’accettare il
fatto che io ho insistentemente ed esplicitamente affermato più volte che la cultura è
insieme pensiero e azione, emica ed etica, e che l’antropologia comprende lo studio
della mente e del corpo. Forse Murphy non riesce ad accettare che il suo argomento
principale – e cioè che “la relazione antitetica [tra mente e corpo], e quella tra Atto e
Concetto, dovrebbe costituire la sostanza essenziale della nostra disciplina” (p. 84) –
fornisce proprio l’essenza centrale del mio lavoro (per esempio, relazioni razziali in
Brasile; colonialismo in Mozambico; bestiame in India; guerra in Amazzonia; e tecni-
che di controllo delle nascite in società preindustriali).
Mentre nessun materialista culturale ha mai preteso di fare esclusivamente
Gli esclusivismi
della prospettiva “etica” o del comportamentale l’oggetto dell’antropologia cultu- dei
rale, i postmodernisti e i loro predecessori idealisti hanno sostenuto senza sosta postmodernismi
esclusioni essenzialiste riguardo a quel che gli antropologi culturali dovrebbero
94 MARVIN HARRIS

studiare. Farebbe molto comodo a questi critici se i materialisti culturali rifiutas-


sero lo studio della mente e dell’emica alla stessa maniera in cui gli interpretativi-
sti rifiutano lo studio dell’azione e l’approccio “etico”: “Ecco, guardate come
questi rozzi rifiutano quel che più c’è di umano negli uomini!”. Ma affermazioni
di questo tenore dimostrano al massimo un’ignoranza sterminata della letteratura
antropologica.

Principi teorici
Importanza e Si basano sul presupposto che alcune categorie di risposte comportamentali e
scelta dei mentali siano importanti in modo più diretto per la sopravvivenza e il benessere de-
comportamenti gli individui rispetto ad altre e che sia possibile misurare l’efficacia con la quale
queste risposte contribuiscono al mantenimento della sopravvivenza e del benessere
di un individuo. Questo presupposto sta alla base della “valutazione” di modelli al-
ternativi di comportamento che è a sua volta essenziale per identificare un compor-
tamento o un pensiero ottimizzante (vedi oltre) e per sviluppare teorie materialiste
delle cause delle differenze e somiglianze socioculturali.
Bisogni, impulsi Le categorie di risposte i cui costi e benefici assicurano la selezione e l’evolu-
e tendenze zione culturale sono derivate empiricamente dalle scienze biologiche e psicologi-
comporta- che che studiano i bisogni, gli impulsi, le avversioni e le tendenze comportamenta-
mentali
nell’homo
li geneticamente prestabilite dell’Homo sapiens: sesso, fame, sete, sonno, acquisi-
sapiens zione del linguaggio, bisogno di cure affettive, processi nutritivi e metabolici, vul-
nerabilità alla malattia fisica e psichica e allo stress a causa di buio, freddo, caldo,
altitudine, umidità, mancanza d’aria e altri eventi ambientali. Questa lista non pre-
tende ovviamente di comprendere l’intera natura umana. Rimane aperta e flessibi-
le a nuove scoperte sul biogramma umano e su differenze genetiche specifiche a
certe popolazioni.
Materialismo e Questo mi conduce a un’altra caratteristica del materialismo culturale perenne-
rifiuto della mente attribuitagli e perennemente confutata. Con le parole di Murphy (p. 83): “Il
tabula rasa materialismo culturale rimane abbarbicato a un modello meccanico e naturalista
che non riesce a tener presente che la mente è ben di più di una tabula rasa”. Am-
messo e non concesso che la condizione minima per sostenere una concezione
“meccanica” o “naturalistica” sia l’adesione alla dottrina della lavagna mentale vuo-
ta, si può davvero trovare questa lavagna incorporata nei principi teorici del mate-
rialismo culturale? Assolutamente no, perché quando insistiamo che gli esseri uma-
ni hanno precisi impulsi biopsicologici determinati geneticamente, stiamo ovvia-
mente dicendo che le nostre menti non sono vuote alla nascita. Forse i postmoder-
nisti e altri critici del materialismo culturale possono non gradire quel che il mate-
rialismo culturale pone nel cervello-mente alla nascita, ma questa è un’altra questio-
ne. Io non credo, come fa Murphy per esempio, che noi siamo obbligati a pensare
dialetticamente, sebbene sia disposto a cambiare opinione se qualcuno riesce a for-
nirmi qualche evidenza empirica di questo principio grazie alle scienze cognitive o
alla neurofisiologia.
Materialismo Per continuare: si possono utilizzare diverse unità di misura per misurare i costi
culturale vs e i benefici di un comportamento che abbia conseguenze ottimizzanti, ad esempio i
sociobiologia livelli di morbilità e mortalità, l’accesso differenziale in base al sesso, i costi e bene-
fici crematistici, i costi e benefici energetici, e i costi e benefici nutrizionali. (Si noti
la mancanza di unità di misura direttamente collegate al successo riproduttivo diffe-
renziale, dato che questa omissione racchiude la differenza fondamentale tra il ma-
terialismo culturale e i paradigmi sociobiologici. Cfr. Harris (1991) per una critica
argomentata del paradigma sociobiologico).
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 95

Infrastruttura, struttura e sovrastruttura


I componenti della vita sociale che più direttamente mediano e facilitano il
soddisfacimento di bisogni, impulsi, avversioni e tendenze comportamentali del Il nesso
biogramma costituiscono il centro causale dei sistemi socioculturali. Il peso di demo-tecno-eco-
no-ambientale
questa mediazione è portato congiuntamente da processi demografici, tecnologi-
ci, economici ed ecologici – i modi di produzione e riproduzione – che si trovano
in ogni sistema socioculturale. Detto più precisamente, è l’aspetto comportamen-
tale etico della congiunzione demo-tecno-econo-ambientale a essere saliente, e
quindi sarebbe più esatto (ma troppo ingombrante) definire il centro causale co-
me l’infrastruttura etica comportamentale (o i modi comportamentali etici di pro-
duzione e riproduzione). L’infrastruttura costituisce l’interfaccia tra natura da un
lato (in forma di delimitazioni fisiche, chimiche, biologiche e psicologiche inalte- L’infrastruttura
rabili) e cultura dall’altro (che è il principale mezzo dell’Homo sapiens per otti- “etica” come
interfaccia tra
mizzare salute e benessere). Nella formulazione delle teorie del materialismo cul- natura e cultura
turale viene dunque data una priorità strategica iniziale all’infrastruttura proprio
in ragione dell’inalterabilità delle leggi della fisica, della chimica, della biologia e
della psicologia. Le ottimizzazioni e gli adattamenti culturali devono in prima e
ultima istanza conformarsi alle delimitazioni e alle opportunità dell’ambiente e
della natura umana.
Oltre all’infrastruttura, ogni sistema socioculturale umano consiste di due altri Struttura e
sub-sistemi principali: struttura e sovrastruttura, ognuno con i suoi aspetti menta- sovrastruttura
le/comportamentale ed emico/etico. La struttura individua i sub-sistemi domestico
e politico mentre la sovrastruttura individua il campo dei valori, dell’estetica, delle
regole, delle credenze, simboli, rituali, religioni, filosofie, e altre forme di conoscen-
za, scienza compresa.
Si possono a questo punto stabilire i principi teorici di base del materialismo
culturale: a) le ottimizzazioni dei costi/benefici nel soddisfare i bisogni del biogram-
ma determinano (o selezionano) probabilisticamente (cioè con una significatività
statistica superiore alla casualità) i cambiamenti nell’infrastruttura comportamenta-
le etica; b) i cambiamenti nell’infrastruttura etica comportamentale selezionano
probabilisticamente i cambiamenti nel resto del sistema socioculturale. La combi-
nazione di a e b costituisce il principio del primato dell’infrastruttura2.
Come guida alla formulazione di teorie, il primato dell’infrastruttura impone ai I principi del
ricercatori antropologici interessati alla spiegazione delle differenze e somiglianze materialismo e
il primato
socioculturali di concentrarsi sulla, e di dar la precedenza alla, formulazione di ipo- dell’infrastrut-
tesi e teorie in cui i componenti dell’infrastruttura etica comportamentale sono con- tura
siderati variabili indipendenti. La conseguenza pratica di quest’assunzione è che la
ricerca di variabili infrastrutturali causali verrà perseguita senza dubbio con mag-
gior costanza e in maggior dettaglio di quel che non avverrebbe sotto gli auspici di
paradigmi alternativi. La storia della teoria antropologica dimostra che quelli che
sono privi di un serio impegno paradigmatico inevitabilmente “si arrendono” rapi-
damente, posti di fronte a fenomeni difficili e complicati.
Il primato dell’infrastruttura è stato spesso criticato come un principio teleologi- La teologia
co che nega la rilevanza del caso e dei processi stocastici nell’evoluzione. Si tratta materialista e la
causalità
ovviamente di un rilievo scorretto, se considerato secondo la formulazione della
causalità in termini di processi di selezione. B. F. Skinner (1984) ha giustamente de-
finito questo genere di processi evolutivi come selezione da conseguenze. Nell’evolu-
zione biologica, nel condizionamento comportamentale e nell’evoluzione culturale,
la selezione opera su variazioni le cui origini possono essere indeterminate. Il mate-
rialismo culturale non è quindi più teleologico dell’evoluzionismo darwiniano. In
96 MARVIN HARRIS

questo senso circoscritto l’evoluzione culturale è analoga a quella biologica (e allo


sviluppo di modelli individuali di apprendimento): come nell’evoluzione biologica,
ci sono innovazioni e selezioni positive o negative. Nei repertori di risposta umana
socialmente condizionati (cioè nella cultura) le innovazioni avvengono a tassi eleva-
tissimi. Alcune vengono selezionate positivamente (mantenute e trasmesse lungo le
generazioni), altre negativamente (cioè si estinguono). La selezione positiva o nega-
tiva è determinata probabilisticamente dalle conseguenze infrastrutturali (costi e
benefici) del comportamento innovativo.
Nonostante questa analogia, ci sono specifiche differenze tra i meccanismi di
“selezione da conseguenze” che caratterizzano l’evoluzione biologica e quella cultu-
La fallacia del rale. Le innovazioni biologiche selezionate sono immagazzinate come informazione
riduzionismo nei geni dell’organismo, mentre le innovazioni culturali selezionate sono immagaz-
zinate in forma di repertori di risposta nei tracciati neuronali dell’organismo. È
questa differenza che condanna i tentativi di ridurre l’insieme dei fenomeni socio-
culturali a livello della biologia.
Un altro punto di costante preoccupazione da parte dei colleghi è se il materiali-
smo culturale pretenda che ogni differenza e somiglianza socioculturale possa esse-
re spiegata con il determinismo infrastrutturale (Magnarella 1982). Si tratta di una
preoccupazione mal riposta. È ovviamente assai probabile che molti tratti sociocul-
turali siano la conseguenza di eventi arbitrari e idiosincratici. Ma il compito princi-
pale del materialismo culturale consiste nel concentrarsi sulla costruzione di un cor-
pus di teorie verificabili che sia più vasto, coerente e interconnesso delle teorie pro-
poste da strategie di ricerca alternative, confrontandosi allo stesso tempo con casi
refrattari all’analisi, man mano che questi si evidenziano3.
Un altro aspetto del principio del primato dell’infrastruttura di solito associato a
interpretazioni errate è la retroazione tra infrastruttura, struttura e sovrastruttura.
I processi di Ai cultori dello “spacca-materialismo” piacerebbe molto se il principio del primato
retroazione fra dell’infrastruttura volesse dire che i materialisti culturali considerano gli aspetti
componenti
emici e simbolico-ideazionali semplici riflessi meccanici ed epifenomeni dell’infra-
struttura. (“Harris pensa che le idee, i simboli, i valori, l’arte e la religione siano
aspetti non importanti della vita umana. Oddio!”) Cito ancora dall’articolo di
Murphy (p. 83): “Per quanto riguarda i materialisti, non riescono a riconoscere che
le forme culturali hanno una loro vita autonoma, e non sono semplici epifenomeni
di ‘infrastrutture’ sottostanti”. Il tentativo di Murphy e di altri di ritrarre il materia-
lismo culturale come un paradigma per cui “le idee per mezzo delle quali gli uomi-
ni vivono non hanno importanza per le loro azioni” (Bloch 1985b, p. 134) è in chia-
ro conflitto con la rilevanza che l’espressione “sistema socioculturale” gioca nella
definizione dei principi del materialismo culturale. Perché uno dovrebbe prendersi
la briga di parlare del ruolo sistemico della struttura e della sovrastruttura se solo
l’infrastruttura avesse importanza per l’azione? Forse che i materialisti sostengono
che la gente continua a produrre e a riprodursi a caso, senza alcun pensiero dentro
la testa? Potrebbe esistere vita socioculturale come noi la conosciamo se non esi-
L’asimmetria fra stesse altro che l’infrastruttura? Certo che no. Similmente, nessuno può immaginare
pensiero e gli uomini vivere senza un’infrastruttura, vivere cioè solo di idee. Franz Boas aveva
azione nel perfettamente ragione quando fece notare che “non è mai stata osservata alcuna po-
paradigma polazione che non avesse una struttura sociale”. Ma chi è mai stato così perfetta-
materialista
mente pazzo da sostenere il contrario? Dire che gli uomini per vivere devono pen-
sare non ci dice comunque nulla riguardo ai ruoli del pensiero e del comportamen-
to nei processi responsabili dell’evoluzione socioculturale. La vera questione non è
se il pensiero sia importante per l’azione, ma se i pensieri e le azioni siano egual-
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 97

mente rilevanti nella spiegazione dell’evoluzione dei sistemi socioculturali. Il mate-


rialismo culturale – e di fatto qualsiasi paradigma delle scienze sociali onestamente
materialista – dice di no. Il sistema è asimmetrico. Le variabili infrastrutturali sono
più determinanti per l’evoluzione del sistema. Ma questo non significa che l’infra-
struttura possa esistere senza la corrispondente sovrastruttura.
Inoltre, dire che la struttura e la sovrastruttura sono causalmente dipendenti
dall’infrastruttura, non implica che nei processi di continuità e cambiamento la Struttura,
pressione selettiva si eserciti solo dall’infrastruttura alla sovrastruttura. Senza i con- sovrastruttura e
azione
tributi di struttura e sovrastruttura il subsistema infrastrutturale si sarebbe evoluto trasformativa
in una direzione radicalmente diversa da quella che invece osserviamo oggi. Struttu-
ra e sovrastruttura non sono solo prodotti epifenomenici passivi, e contribuiscono
invece attivamente sia alla continuità sia al cambiamento delle infrastrutture. Ma
possono fare questo entro le limitazioni e le possibilità specifiche di un insieme da-
to di condizioni demo-tecno-econo-ambientali. Struttura e sovrastruttura danno vi-
ta e selezionano il cambiamento quasi sempre in conformità e quasi mai in contra-
sto con queste condizioni.
Come esempio, prendiamo in esame i cambiamenti nella famiglia statunitense a
partire dalla seconda guerra mondiale: la scomparsa del ruolo maschile del capofa-
miglia, la fine del ruolo della casalinga a casa con molti figli, e il sorgere di ideologie
femministe che hanno dato rilievo al valore dell’indipendenza sessuale, economica e Un esempio: i
cambiamenti
intellettuale delle donne. Come ho suggerito altrove (Harris 1981a), queste trasfor- della famiglia
mazioni strutturali e sovrastrutturali sono il risultato determinato del passaggio dal- negli Usa
l’industrialismo produttore di beni all’industrialismo produttore di servizi e infor-
mazione, passaggio consentito dall’ingresso nel mercato del lavoro di un esercito di
riserva, sottopagato e non sindacalizzato, composto di casalinghe. Le trasformazioni
infrastrutturali, a loro volta, erano dipendenti dall’uso di tecnologie elettroniche e
dal declino della produttività nelle grandi fabbriche sindacalizzate, che avevano
creato e sostenuto le famiglie del tipo “maschio capofamiglia, donna casalinga”. La
nascita di un’ideologia femminista che rendeva allettanti il lavoro salariato e l’indi-
pendenza emotiva, sessuale e intellettuale delle donne è stata il risultato determina-
to della stessa forza infrastrutturale. È ovvio comunque che sia il mutamento strut-
turale sia quello sovrastrutturale hanno esercitato e continuano a esercitare un effet-
to amplificatore, di retroazione positiva, sulle trasformazioni infrastrutturali. Nella
misura in cui le conseguenze dell’ingresso nel mercato della forza lavoro femminile
si concretizzano in percentuali più elevate di divorzi, più basse di primi matrimoni
e in tassi di fertilità ai minimi storici, corrispondentemente l’industrialismo basato
su servizi e informazione viene amplificato a modello di produzione e riproduzione
sempre più dominante. In modo simile, nella misura in cui le ideologie femministe
continuano a scuotere le coscienze contro i residui del sessismo maschile del capo-
famiglia, uomini e donne si trovano in competizione coatta nel mercato del lavoro, i
salari diminuiscono per entrambi, i sindacati vengono indeboliti e viene incremen-
tato il profitto delle imprese di servizi e informazione, favorendo così ulteriori rial-
locazioni di capitale dalle imprese produttrici di beni alla produzione di servizi e in-
formazione.
Sebbene la riallocazione-amplificazione possa avvenire come conseguenza di
mutamenti iniziati in qualunque settore del sistema socioculturale, le componenti
infrastrutturali rimangono causalmente preponderanti. I rapporti tra componenti
restano causalmente asimmetrici perché i mutamenti iniziati al livello strutturale o
sovrastrutturale vengono selezionati con maggior probabilità se facilitano o aiutano
a ottimizzare aspetti cruciali dell’infrastruttura. Nel caso in esame, è chiaro che né il
98 MARVIN HARRIS

femminismo né lo smantellamento della famiglia del marito lavoratore hanno sele-


zionato le innovazioni tecnologiche che hanno dato il via alla trasformazione del-
l’infrastruttura industriale.

Femminismo e antiscienza
Mi sembra a questo punto giunto il momento per fare alcune considerazioni sul-
la relazione tra materialismo culturale e femminismo. L’antropologia femminista co-
stituisce una tradizione intellettuale distinta che cerca di ristabilire un equilibrio tra
prospettive, teorie e basi di dati androcentriche e ginocentriche. A causa della vir-
Materialismo tuale egemonia dell’androcentrismo in antropologia per tutti i primi sessanta o set-
culturale e tant’anni di questo secolo, è naturale che il femminismo in pratica sembri spesso in-
femminismo tenzionato a sostituire l’androcentrismo con il ginocentrismo. Ci vorrebbe molto di
più dello spazio a disposizione anche solo per iniziare a passare in rassegna i punti
forti e quelli deboli degli specifici mutamenti di basi di dati e di teorie che sono sta-
ti introdotti sotto gli auspici del femminismo o in risposta a critiche femministe, ma
c’è un rilievo generale che va fatto, se si vuol capire l’ondata di antiscientismo e re-
lativismo postmoderni.
Il corpus delle teorie positiviste-scientiste sul tema del genere sessuale era del
tutto povero, quando non totalmente opposto alla realtà, prima del sorgere del fem-
minismo. Le femministe sono state perciò inclini a identificare la scienza con l’an-
drocentrismo. Consideravano le teorie scientifiche pasticci dei maschi orditi per
confondere e depotenziare le donne. Una simile reazione ha investito anche il mar-
xismo, per la sua pretesa di essere una scienza della società, mentre si concentrava
sullo sfruttamento di classe a discapito dello sfruttamento sessista. In questo conte-
sto, gli attacchi postmoderni alla distinzione tra osservatore e osservato e la difesa
dell’idea che la verità sia relativa e costruita politicamente sembravano costituire un
paradigma appropriato per portare avanti il progetto femminista in antropologia
(alcune femministe sostengono però che queste posizioni si erano sviluppate entro
il femminismo indipendentemente e in una fase antecedente, si veda ad esempio
Mascia-Leeds, Sharpe, Cohen [1989]).
Da un punto di vista cultural-materialista, la risposta femminista alle manchevo-
lezze delle formulazioni positiviste riguardo al genere sessuale è tuttavia contropro-
I limiti della ducente sia intellettualmente sia politicamente. A lungo andare il femminismo an-
reazione tropologico non ha nulla da guadagnare facendo pesare la sua rendita sul versante
femminista al
positivismo
antiscientifico. L’antropologia scientifica è ampiamente se non completamente aper-
ta alle ricercatrici femministe e al loro contributo per migliorare le teorie antropolo-
giche in qualunque settore di loro interesse. La risposta intellettuale più efficace per
smascherare pregiudizi, progetti occulti e carenza di certezze in antropologia non
consiste nell’adottare paradigmi che, fin dall’inizio, promettono pregiudizi anche
maggiori, progetti ancora più impenetrabili e una totale incertezza. Consiste invece
nel lavorare all’interno di paradigmi scientifici per ridurre i pregiudizi, portare alla
luce i progetti occulti e diminuire le incertezze.
Per le femministe, i cui interessi politici sono prevalenti, l’adozione del pro-
gramma postmoderno fa presagire conseguenze sociali impreviste in cui le donne
Lavorare per vengono più danneggiate che aiutate. Alcuni esempi: la relazione tra le leggi sul “di-
ridurre i vorzio senza colpa” (concesso ai mariti) e la femminilizzazione della povertà; la rela-
pregiudizi
zione tra femminilizzazione della forza lavoro e l’aumentata emarginazione dei ma-
schi afroamericani, con conseguente moltiplicazione di famiglie povere mantenute
da una donna di colore; la bassa priorità concessa dalle femministe delle classi me-
die alla sindacalizzazione, e il calo dei salari effettivi per maschi e femmine. Come
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 99

per il fallimento dei teorici del marxismo sovietico nel calcolare l’effettiva ineffica-
cia della loro economia pianificata, non si tratta di problemi che possono essere in-
dividuati, né tanto meno risolti, stando lì a rimuginare sulla relatività della verità, o
sulla non esistenza di cose come “i fatti”.

Potere e teorie cultural-materialiste


Per aver sostenuto che i mutamenti nei sistemi socioculturali sono selezionati
in conformità a principi di ottimizzazione, il materialismo culturale è stato de-
scritto come una forma caricaturale di funzionalismo in cui tutto va per il meglio
nel migliore dei mondi possibili (Diener, Nonini, Robkin 1978). Questa accusa si Il materialismo
non è una
trova in completo contrasto con l’attenzione che il materialismo culturale pone da caricatura di un
lungo tempo sui temi dell’ineguaglianza e dello sfruttamento di classe, di casta, funzionalismo
razziale e sessuale (Harris 1964c, 1975; Ross 1978b; Murray 1980; Mencher 1980; ottimista
DeHavenon 1990). La critica del funzionalismo panglossiano – e anche la creazio-
ne di questa espressione – è invece un tema fondamentale del materialismo cultu-
rale (Harris 1967, p. 252).
Il fatto che modi di produzione e riproduzione siano selezionati in conformità a
principi di ottimizzazione non significa che tutti i membri della società beneficino
in egual misura di questo processo selettivo. Lì dove si sono evolute marcate diffe-
renze di potere come tra sessi e gruppi stratificati, i benefici possono essere distri-
buiti in modo del tutto iniquo e a vantaggio dello sfruttamento. In questi casi, i co-
sti e benefici devono essere considerati non solo in rapporto agli individui nel loro
contesto infrastrutturale, ma anche in rapporto alle decisioni politico-economiche
di coloro che detengono il potere. Ciò non significa che tutti i mutamenti che favo-
riscono la classe dominante abbiano di necessità effetti negativi su tutti gli altri, co- Differenze di
me hanno cercato di farci credere i marxisti. Come abbiamo già fatto notare, per potere e
esempio, la nascita dei settori dei servizi e dell’informazione nelle economie miste distribuzione
postindustriali dipende dalle maggiori quote di profitto ottenibili da una forza lavo- iniqua di costi e
benefici
ro non organizzata. Una porzione crescente della forza lavoro consiste dunque di
donne che si sono in certa misura liberate della loro precedente condizione di ma-
dri-casalinghe non pagate, dominate da mariti operai maschi sciovinisti. Non c’è al-
cuna contraddizione nel sostenere che i maggiori vantaggi accumulati dagli interessi
capitalisti negli Stati Uniti sono facilitati da un rapporto costi/benefici che anche
per le donne è più favorevole, per quanto in minor misura. Il comportamento di en-
trambi gli strati sociali evidenzia le predette ottimizzazioni, anche se si può afferma-
re che il guadagno per la maggior parte delle donne, soprattutto per quelle apparte-
nenti a gruppi minoritari, è comparativamente più esiguo.
Il materialismo culturale non è dunque meno attento al ruolo centrale dell’ine-
guaglianza politico-economica nel modificare i processi di ottimizzazione di quan-
to non lo siano diversi teorici marxisti che si arrogano il monopolio della difesa de- Le retroazioni
gli oppressi (Harris 1991). Entro il materialismo culturale si dà inoltre pieno rico- sistemiche della
noscimento ai conflitti generati da allocazioni inique di costi e benefici tra gruppi struttura: i
stratificati, e al potenziale di mutamento del sistema che tali conflitti hanno. Non fattori politici
si può mai sfuggire alla domanda per chi siano i costi, e per chi i benefici. Lungi
dal trascurare o “coprire” gli effetti di fattori politici sulle ottimizzazioni, i mate-
rialisti culturali riconoscono regolari retroazioni sistemiche dal livello strutturale a
quello infrastrutturale, che fanno sorgere l’economia politica, la demografia politi-
ca, la tecnologia politica e l’ecologia politica. Non si possono ad esempio spiegare
l’adozione e la diffusione di dispositivi tecnologici come i fucili, o nuove varietà di
grano e riso, i trattori o i generatori a pannelli solari senza tener conto degli inte-
100 MARVIN HARRIS

ressi delle compagnie di commercio, del business agricolo, delle multinazionali pe-
trolifere, dei proprietari terrieri, delle banche e così via.
Mi pare che nel suo contributo a questo volume Eric Wolf abbracci una pro-
spettiva molto simile quando dice, riguardo la subordinazione di Sahlins della storia
hawaiana alla “cultura” hawaiana: “Per spiegare cosa è successo alle Hawaii o da
qualunque altra parte, dobbiamo comprendere le conseguenze dell’esercizio del po-
tere” (p. 278). Vorrei inoltre far notare in margine al contributo di Wolf che il suo
appello – per “un’antropologia che non si contenta semplicemente di tradurre, in-
terpretare o giocare con un caleidoscopio di frammenti culturali, ma che cerca spie-
gazioni di fenomeni culturali” (p. 278) – è del tutto isomorfo agli obiettivi del mate-
rialismo culturale. Ma al di là di presentare esempi specifici degli effetti del potere,
Wolf non offre un insieme coerente di principi per ottenere la tanto auspicata alter-
nativa al relativismo e al nichilismo postmoderni. Forse Wolf è un materialista che
si cela a se stesso.

Dove sta andando l’antropologia culturale?


Un mito popolare tra gli spazza-scienza interpretativisti è che l’antropologia
Il crollo del
positivismo: una
positivista è crollata giustamente, per la sua incapacità di produrre un corpus co-
conclusione erente di teorie scientifiche sulla società e la cultura. Marcus e Fischer (1986, p.
affrettata 208), per esempio, affermano che la crisi dell’antropologia e delle discipline colle-
gate dipende dai “caotici tentativi di costruire teorie così generali e storicamente
esaurienti da assimilare, poco a poco, tutta la ricerca”. Ciò implica che i postmo-
dernisti avrebbero condotto uno studio sistematico sul corpus positivista di teorie
che trattano dell’evoluzione parallela e convergente dei sistemi socioculturali. Ma
non hanno fatto nulla del genere. È stato solo dopo la seconda guerra mondiale
che paradigmi non-biologici, cultural positivisti e archeologici hanno ottenuto fa-
vore tra gli antropologi. A partire da allora sono stati fatti passi avanti senza prece-
denti nella risoluzione del rompicapo dell’evoluzione socioculturale attraverso un
corpus genuinamente cumulativo e in espansione di teorie sofisticate e potenti ba-
sate su metodi di ricerca sempre più raffinati ed estesi. L’espansione cumulativa
del sapere è stata marcata soprattutto all’interno dell’archeologia e al confine tra
archeologia e antropologia culturale (vedi per es. Johnson, Earle 1987). È quindi
Un “nuovo” paradossale che, proprio nel momento in cui l’antropologia sta ottenendo i suoi
paradigma maggiori successi scientifici, degli antropologi che non hanno mai verificato il cor-
umanista?
pus teorico positivista che condannano si mettano a celebrare la morte dell’antro-
pologia positivista e la nascita di un “nuovo” paradigma umanista. Solo quelli che
non sanno nulla della storia dell’antropologia potrebbero salutare questo paradig-
ma come “nuovo”, tanto meno come “una rifondazione del pensiero sociale”
(Darnell 1984, p. 271).
Ciò pone la questione del perché l’umanesimo antipositivista sia diventato così
attraente per una nuova generazione di antropologi (e di altri esperti di “scienza”
sociale). Un motivo potrebbe essere che la generazione di studenti cresciuta duran-
te gli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta crede che la scienza sociale positivista sia
responsabile di flagelli del ventesimo secolo come il fascismo, lo stalinismo, l’impe-
rialismo americano, e il complesso educativo-industrial-militare. Senza dubbio l’i-
perindustrializzazione, l’alta tecnologia e la “mania tecnologica” portano a forme di
deumanizzazione e alienazione. Ma il collegamento tra tutto ciò e la scienza sociale
positivista è illegittimo. Il fatto non è che abbiamo avuto un eccesso di scienza so-
ciale positivista, ma che invece ne abbiamo avuta troppo poca (Harris 1974, pp.
264 sgg). Le atrocità del ventesimo secolo sono state perpetrate proprio da persone
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 101

che erano all’oscuro o violentemente contrarie alla scienza sociale positivista (per
esempio Lenin, Stalin, Hitler, Mussolini). Sembra che troppi antropologi abbiano Relativismo,
dimenticato che ogni relativismo, fenomenologia e antipositivismo hanno anche un antipositivismo
altro lato della medaglia – il lato su cui i relativisti che denunciano la ragione e la e fascismo
conoscenza scientifica costruiscono il mondo a loro immagine. Benito Mussolini
poneva la questione in questi termini:

Il fascismo è un movimento super-relativista perché non ha mai tentato di rivestire il suo


complesso e potente atteggiamento mentale con un programma definito, ma è riuscito a
seguire l’incessante mutare delle sue intuizioni individuali. Tutto quel che ho detto e fat-
to in questi anni è relativismo per intuizione… Se relativismo significa disprezzo per ca-
tegorie prefissate e per gli uomini che aspirano ad essere portatori di una verità oggettiva
esterna… allora non c’è nulla di più relativista dell’atteggiamento e dell’attività fascista…
Dal fatto che tutte le ideologie sono di eguale valore, che tutte le ideologie sono pure fin-
zioni, il moderno relativista ne deduce che ognuno è libero di creare per sé la sua propria
ideologia e di tentare di sostenerla con tutte le sue forze (citato in Ross 1980a, p. XXVII).

La constatazione che c’è una relazione tra relativismo antiscientifico e fascismo Decostruzio-
non può essere messa da parte come un semplice trucco intellettuale per terrorizza- nismo ed
re l’avversario. La filosofia fascista di Mussolini prese in prestito a piene mani da eredità
Fredrich Nietzsche, soprattutto dal suo tardo concetto di “volontà di potenza” co- nietzschiana
me sorgente della verità. Paul DeMan, che è stato importante come Derrida nello
sviluppo del decostruzionismo, si appassionò al suo ruolo di critico letterario stu-
diando Nietzsche e trasmettendo propaganda per i nazisti durante la seconda guer-
ra mondiale, un fatto che nascose con successo ai suoi colleghi di Yale fino al 1988
(Lehman 1988). E Michel Foucault, il postmodernista il cui credito tra gli antropo-
logi è in crescita, anche lui deve molto a Nietzsche, come rivela il suo aforisma: “Al-
tro potere, altro sapere” (citato in Hoy 1986, p. 133).

1 Nella sessione del 1989 “Gli sviluppi dell’antropologia” il mio compito era quello di commentatore. Visto che la

mia reazione critica agli articoli raccolti in questo volume è guidata dalla difesa di un paradigma cultural materialista, e
visto che i principi del materialismo culturale sono travisati in diversi articoli, la mia argomentazione consisterà in buo-
na parte nell’esposizione di quel che è e non è il materialismo culturale.
2 L’aver sostituito “determinismo infrastrutturale” con “primato dell’infrastruttura” costituisce un cambiamento

puramente strategico o cosmetico, inteso a placare una generazione che considera la sua dignità compromessa da qual-
siasi paradigma deterministico e che sceglie di ignorare la natura probabilistica di questo determinismo. Allo stesso mo-
do, ho suggerito altrove di sostituire “sovrastruttura” con “struttura simbolico-ideazionale”, al fine di non veicolare l’i-
dea che questa componente sia superflua o irrilevante.
3 Questo corpus include teorie riguardo: l’evoluzione generale: Leavitt (1986); Sanderson (1990). L’origine e l’evo-

luzione dei ruoli sessuali e di genere: Divale, Harris (1976); Harris (1979a, 1981a); Hayden et al. (1986); Maclachlan
(1983); Margolis (1984); Miller (1981); Leavitt (1989). Guerra: B. Ferguson (1984, 1989); Morren (1984); Balee (1984);
Harris (1984); J. Ross (1984). Classe, casta e relazioni etniche: Harris (1964b, 1964c); Despres (1975); Mencher (1980);
Abruzzi (1982, 1988); E. Ross (1978a). Origine delle religioni: Harner (1977); Harris (1979a, 1991a). Origine delle pre-
ferenze e delle evitazioni alimentari e delle tradizioni culinarie: E. Ross (1980b, 1983, 1987); Harris (1990); Vaidyana-
than, Nair, Harris (1982). Modelli di insediamento, tendenze demografiche e modi di regolazione della popolazione:
Good (1987); Gross (1975); Harris, Ross (1987); Hayden (1986); Keeley (1988). Origine dell’agricoltura: Hayden
(1990). Origine dei domini e dello Stato: Kottak (1972); Sanders, Price (1968); Price (1984); Webster (1985); Sanders,
Santley, Parsons (1979); Haas (1982); Paulsen (1981). Per evitare polemiche, spesso gli antropologi che intraprendono
ricerche in conformità ai principi del materialismo culturale non si definiscono come contributori del corpus del mate-
rialismo culturale. Questa influenza “senza etichetta” del materialismo culturale è particolarmente rilevante nell’archeo-
logia americana, di cui un archeologo ha scritto: “Il principio del determinismo infrastrutturale soggiace ovviamente al-
la moderna archeologia, almeno in Nord America” (Schiffer 1983, p. 191). Va infine fatto notare un interesse per il ma-
terialismo culturale da parte degli psicologi comportamentisti: Biglan (1988); Glenn (1988); Malagodi (1986); Vargas
(1985); R. Warner (1985).
102 MARVIN HARRIS

Biografia intellettuale

Marvin Harris è stato membro del collegio docente del Dipartimento di Antro-
pologia della Columbia University dal 1953 al 1980 e direttore del Dipartimento dal
1963 al 1966. Dal 1980 è Graduate Research Professor di antropologia all’Università
della Florida. Ha condotto ricerche in Brasile (la più recente, nel 1992, a Rio de
Contas, Bahia, dov’era stato la prima volta nel 1950), Mozambico, India, e East
Harlem, a New York. Ha inoltre condotto programmi di addestramento alla ricerca
sul campo in Brasile ed Ecuador. Tra i suoi diciassette libri, i più famosi sono Pat-
terns of Race in the Americas (1964); L’evoluzione del pensiero antropologico (1960)
(che nel 1991 è stato designato del titolo “classico della citazione nelle scienze so-
ciali”); Culture, People, Nature: An Introduction to General Anthropology (sei edi-
zioni dal 1971); Antropologia culturale (tre edizioni dal 1983); Cows, Pigs, Wars, and
Witches: The Riddles of Culture (1974); Cannibali e re. L’origine delle culture (1977);
Materialismo culturale (1979); America Now: The Anthropology of a Changing Cul-
ture (1981a); Buono da mangiare (1985) e La nostra specie (1989). Questi libri sono
stati tradotti in sedici lingue diverse. Harris è stato direttore della Divisione di An-
tropologia Generale dell’American Anthropological Association, e Distinguished Lec-
turer nell’anno 1991.

Ho deciso di dedicarmi all’antropologia dopo aver seguito il corso introduttivo


di Charles Wagley alla Columbia. Wagley è stato poi supervisor della mia ricerca sul
campo, presidente della commissione esaminatrice del mio dottorato, e amico di
tutta una vita. Sotto la sua guida, divenni un buon particolarista-relativista di stam-
po eclettico boasiano, e condividevo con Wagley il rifiuto dell’approccio ecologico-
culturale di Steward. Anche se ho seguito un corso con Steward, la sua teoria non
mi influenzò fino a molti anni dopo (forse anche perché lui era malato, e quasi sem-
pre assente). Tuttavia all’epoca essere boasiano voleva dire essere positivista: l’idea
che Boas fosse uno scientista matricolato era data per scontata tra i suoi eredi intel-
lettuali alla Columbia come Bunzel, Lesser e Mead. Ci sono poi stati anche i corsi di
psicologia comportamentista e diverse letture personali sul positivismo logico che
mi hanno aiutato a sviluppare l’interesse a cercare di convincere gli altri che l’antro-
pologia, è o potrebbe essere, una scienza. Dopo il 1953, anno in cui iniziai a inse-
gnare e dividevo lo studio con Morton Fried, fui attratto dalla critica mossa ai boa-
siani da Leslie White, e dalla sua attenzione all’energetica. Trovavo però irritante il
fatto che White non avesse mai veramente misurato gli input e output energetici,
una carenza alla quale pensavo di rimediare una volta tornato sul campo, ma alla
quale in realtà non rimediai mai.
Alfred Kroeber è stato e continua a essere un modello molto importante per me.
Insegnò due volte alla Columbia, la prima quando ero ancora studente, e la seconda
quando facevo i miei studi post-laurea. Quand’ero ancora studente, scrissi per lui
un saggio in cui mostravo le ragioni per cui né lui né Leslie White avevano compre-
so le operazioni logico-empiriche che convalidano le astrazioni che chiamiamo “cul-
tura” e le correlate entità “superorganiche” (saggio che anticipava The Nature of
Cultural Things [1964]). Molti antropologi sono ancora incapaci di fornire un mo-
dello operativo di cultura dotato di una seria base epistemologica). Ammiravo
Kroeber per la sua erudizione, soprattutto per il modo in cui ha affrontato la qua-
dripartizione della nostra disciplina (antropologia fisica, linguistica, archeologia e
antropologia culturale) nel suo capolavoro Antropologia (1948), che è stato il mo-
dello cui mi sono ispirato per il mio manuale (1983).
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 103

Il grande mutamento di prospettiva è avvenuto per me in seguito al mio viaggio di


ricerca in Mozambico. Speravo di condurre una ricerca sul consumo energetico nel-
l’unità familiare bathonga, e contavo di delineare la storia del suo mutamento dall’ini-
zio del secolo usando l’etnografia di Henri Junod come punto di riferimento, ma lo
scopo principale della mia ricerca era la comparazione tra le relazioni razziali in Brasi-
le e quelle in un’altra area dell’impero portoghese passato e presente. Tutti i miei pia-
ni furono sconvolti dalla drammatica realtà del sistema portoghese di apartheid colo-
niale e sfruttamento del lavoro. La distanza tra quel che la gente faceva e quel che di-
ceva mi indicò la necessità di affrontare le questioni della soggettività e dell’oggettivi-
tà, degli eventi mentali e comportamentali, e delle prospettive emiche ed etiche (ter-
mini che ancora non avevo a mia disposizione). Inoltre, quanto più apprendevo sulle
differenze tra le relazioni razziali in Brasile e in Mozambico, tanto più mi diventava
chiaro come i differenti sistemi di produzione e di sfruttamento del lavoro potessero
dar conto di gran parte dell’evoluzione divergente tra Africa e Americhe. Valori e tra-
dizioni portoghesi o anglosassoni avevano ben poco a che fare con questa divergenza,
ed erano anzi essi stessi in gran parte dipendenti da quel che più tardi avrei chiamato
l’infrastruttura demo-tecno-econo-ambientale. Da ultimo, l’esperienza in Mozambico
mi fece chiaramente prendere coscienza del fatto che, come antropologo, non potevo
sottrarmi alle conseguenze morali di un’affettata neutralità relativista.
Tornato alla Columbia, scrissi, tra l’altro, un libello per l’American Committee
sull’Africa, Portugal’s African Wards (1958), in cui descrivevo l’attività dell’Indigena-
to portoghese. Allo stesso tempo, lessi Marx, Plekhanov e Kautsky con una nuova
consapevolezza. Mi resi conto che Marx stava alla base del pensiero di Steward e
White, anche se entrambi avevano nascosto questo fatto all’opinione pubblica in
ossequio al feroce anticomunismo che dominava il mondo accademico americano
tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Cinquanta. Altra figura centrale per me,
nei primi anni Sessanta, fu Karl Wittfogel che, nonostante il suo livido e proditorio
anticomunismo, fu l’ispiratore principale del modo in cui Steward considerò i fatto-
ri ecologici nella formazione dei primi stati agro-manageriali.
Prima del Mozambico, vivevo il mio scientismo come fosse scisso dai principi
teorici ed epistemologici necessari a stabilire nelle scienze sociali un paradigma ma-
terialista positivista (di tipo non dialettico). Dopo il Mozambico, i due (scientismo e
ricerca di una teoria ed epistemologia) hanno proceduto di pari passo. Il materiali-
smo di base mi è venuto da Marx e Skinner, l’importanza dei fattori economici an-
cora da Marx, l’impianto evoluzionista da White, e l’attenzione per l’ambiente e gli
aspetti demografici da Steward e Wittfogel (con un chiaro aggancio diretto a Dar-
win e Malthus).
Nel 1963 presentai il primo articolo sulle condizioni materiali che hanno por-
tato gli hindu dell’India a credere alla sacralità dei bovini, e nel 1964 pubblicai
Patterns of Race in the Americas assieme a The Nature of Cultural Things. Mentre
insegnavo il corso di storia dell’antropologia alla Columbia, iniziai a raccogliere il
materiale per L’evoluzione del pensiero antropologico, in cui coniai il termine “ma-
terialismo culturale” e lo presentai come una specifica alternativa antropologica a
tutte le forme di idealismo e a tutte le altre forme di materialismo: dialettico, sta-
linista, antipositivista o biologico-riduzionista. Da allora, ho sempre cercato di
raffinare e migliorare la formulazione dei principi del materialismo culturale met-
tendoli alla prova di un corpus di problemi antropologici in espansione, che spa-
zia dalle preferenze e i tabù alimentari ai mutamenti della struttura della famiglia
negli Stati Uniti e, recentemente, al crollo del socialismo di Stato in Unione Sovie-
tica e nell’Europa orientale.
104 MARVIN HARRIS

I miei progetti per il prossimo futuro includono un rinnovato sforzo per contra-
stare l’atteggiamento elitista, oscurantista e nichilista dell’antropologia postproces-
suale e postmoderna. Considero questo non un obiettivo in sé, ma il mio contributo
al tentativo di garantire all’antropologia una maggior rilevanza intellettuale e una
dimensione più applicativa di fronte alle grandi questioni odierne: ad esempio le
conseguenze ecologiche della diffusione del consumismo e del capitalismo, la diffu-
sione di corporazioni globali senza una base statale, il riaffiorare di tensioni etniche
e razziali, la dimensione mondiale della povertà, e la prevenzione della guerra.
Parte seconda
La prospettiva comparativa
Introduzione alla parte seconda
Robert Borofsky

Nella letteratura antropologica in generale, e negli stessi capitoli di questo volu-


me, si percepisce un senso di incertezza rispetto alla direzione che questo campo di
studi sta prendendo (la questione non riguarda semplicemente la peculiarità del-
Continuità e l’antropologia in quanto disciplina scientifica). Tale peculiarità, come ho osservato
innovazione nell’Introduzione (citando Tax e Barth) è una caratteristica presente da molto tem-
nelle ricerche
attuali po. Quello che sembra contraddistinguere il momento presente riguarda gli sforzi
verso due diverse direzioni contemporaneamente, tentando di preservare un senso
di continuità con le prospettive passate mentre si sviluppano nuove prospettive di-
verse da quelle. La preoccupazione di mantenere una continuità risulta evidente in
molti contributi al presente volume. Nella parte precedente, ad esempio, Salzman
(p. 58) critica lo sforzo di rifare “l’antropologia daccapo momento per momento”
mentre Murphy (p. 80) parla di riportare “l’antropologia al suo centro”. La preoc-
cupazione per l’innovazione è ugualmente ovvia in Marcus (pp. 70 sgg.), il quale
suggerisce dei modi per ridisegnare l’etnografia e in Nader (p. 119) che invece ri-
chiede una comparazione rivitalizzata attraverso “la violazione dei canoni general-
mente accettati”.
In questa sezione ci concentriamo sulla prospettiva comparativa come un modo
per poter riflettere sulla disciplina nel suo insieme. Molti considerano la compara-
La prospettiva zione un metodo fondamentale per gli studi antropologici. Autori tanto diversi co-
comparativa e la me Harris (p. 88), Marcus (p. 75), Yanagisako e Collier (p. 245), Wolf (p. 270), per
riflessione sulla nominare solo alcuni esempi di antropologi presenti in questo volume, ne sottoli-
disciplina neano l’importanza. Più di due terzi degli antropologi che hanno contribuito al vo-
lume vi fanno riferimento nei capitoli da loro scritti. Nader (p. 126) osserva che “gli
antropologi negli ultimi cento anni hanno costantemente considerato l’antropologia
come una disciplina comparativa”. Godelier (p. 131) aggiunge che l’ambizione del-
l’antropologia “è di imparare abbastanza di ognuna di queste società in modo da
poterle comparare”. Nonostante ciò gli studi comparativi stanno perdendo d’im-
portanza all’interno della disciplina. Se, in termini relativi, di comparazioni ne ven-
gono ancora condotte, la comparazione sembra giocare un ruolo meno significativo
– numericamente e intellettualmente – che nel passato. “Il puro e semplice numero
Perdita di articoli e libri comparativi pubblicati” nei primi anni Cinquanta, osserva Nader
d’importanza (p. 117), ci ricorda che “nei programmi antropologici di oggi mancano quegli ener-
della gici dibattiti sulla collocazione intellettuale della comparazione”. Kuper (p. 152) ag-
comparazione
giunge che “la comparazione non è più l’interesse centrale di molti antropologi che
lavorano sul campo”. Holy (1987, pp. 8, 13), in un libro intitolato Comparative
Anthropology afferma che “in questi tempi una gran parte di ricerca empirica è net-
tamente non comparativa” e “le comparazioni il cui scopo primario era dar vita a
generalizzazioni transculturali valide, brillano per la loro assenza”. Queste afferma-
zioni contrastano con quelle espresse in tempi precedenti, quando Lewis (1956, p.
INTRODUZIONE ALLA PARTE SECONDA 107

260) poteva scrivere “Negli ultimi cinque anni è apparso un numero insolitamente
ampio di scritti teorici che trattano del metodo comparativo in antropologia”, ed
Eggan (1965, p. 357) poteva osservare che “negli ultimi dieci anni c’è stato un nu-
mero insolitamente ampio di scritti teorici in antropologia che trattano il metodo
comparativo”. Un problema sul quale i saggi che seguono ci inducono a riflettere
concerne la possibilità di arricchire la disciplina antropologica nel suo complesso,
grazie a un rinnovato vigore della prospettiva comparativa.

Ricordare il passato: alcune comparazioni rilevanti dell’antropologia


Ricordare le comparazioni passate non è solo una forma di nostalgia. È un mo- Le comparazioni
do per comprendere il percorso precedentemente tracciato rispetto a dove siamo del passato
ora, e forse, rispetto a dove potremmo andare in futuro. Dobbiamo infatti conside-
rare cosa rivelino le comparazioni realizzate in passato a proposito dell’antropologia
(dei suoi risultati, dei suoi approcci, delle sue aspettative).
Nel riesaminare alcune significative comparazioni in antropologia potremmo di-
stinguere fra comparazione implicita ed esplicita. La comparazione implicita è ine- Comparazione
implicita ed
rente alla maggior parte delle descrizioni. Quando si descrive qualcuno come un in- esplicita
dividuo “pieno di speranza”, tale attributo si intende rapportato alla nostra idea del
termine, non a un qualche senso assoluto che può essere misurato con degli stru-
menti. La comparazione esplicita è differente. Implica la comparazione palese di
due (o più) gruppi per chiarire un insieme di dinamiche culturali. È proprio a que-
sto senso esplicito che Nadel (1953, p. 261) si riferisce quando suggerisce che la
prospettiva comparativa è “l’equivalente dell’esperimento nello studio della socie-
tà”. Portando più di un riferimento a un problema, offre delle possibilità stimolanti
per spiegare come il tratto culturale A influenza B o come il tratto C causa D. In Comparazioni
quelle che vengono definite “comparazioni controllate”, ad esempio, gli antropolo- controllate
gi esplorano un numero scelto di contesti posti in relazione che comprendono un
numero limitato di differenze culturali per valutare il modo in cui alcune variabili
sociali influiscano l’una sull’altra (si veda Eggan 1954; 1955, p. 499, e gli studi di
Eggan e Nadel in quella stessa raccolta).
Gli antropologi ottocenteschi come Morgan, Taylor e Frazer svilupparono una
forma evolutiva di comparazione. Essi compararono delle differenze culturali nello
spazio per stabilire differenze culturali nel tempo. In tutto il mondo le società esi- Comparazione
stenti erano organizzate secondo una scala temporale che andava dal semplice al evoluzionista
complesso o, in effetti, da società diverse da quelle europee a quelle più simili a loro.
“Nel sistemare questa sequenza unilineare di istituzioni il metodo comparativo veni-
va utilizzato per documentare i vari stadi”, nota Eggan (1965, p. 363). “Le società
esistenti erano [considerate] come sopravvivenze di stadi precedenti, attraverso le
quali le società più avanzate erano passate… Una volta che la struttura evolutiva ven-
ne delineata, il metodo comparativo diventò fondamentalmente un procedimento at-
traverso il quale venivano classificate nuove informazioni”. Ci si concentrava meno
su quelle che potevano essere definite “culture” rispetto a ciò che era “cultura” –
l’“accumulazione progressiva di… arte, scienza, conoscenza, raffinatezza – cose che
liberavano l’uomo dal controllo… della natura” (Stocking 1968, p. 264). Proprio a
causa di tale orientamento non sarebbe giusto affermare, come hanno fatto alcuni,
che questi evoluzionisti ignorassero i contesti culturali di determinate pratiche: essi
avevano un diverso sistema di riferimento. Erano infatti molto più preoccupati del-
l’evoluzione della cultura in generale, con i suoi stadi di sviluppo, che dei suoi mec-
canismi colti in contesti e periodi specifici. Nell’ambito di tale tradizione, Tylor
(1889) usa un’analisi statistica transculturale di circa tre o quattrocento casi, riguar-
108 ROBERT BOROFSKY

danti la residenza post-matrimoniale, il rifiuto dei parenti acquisiti e il levirato (che


Tylor e la riguarda le condizioni di matrimoniabilità delle vedove) per svelare “una tendenza
comparazione
transculturale
della società a passare dal sistema materno a quello paterno” (1889, p. 256).
Nel libro La struttura sociale, Murdock ha usato i dati statistici in modo simile
per suggerire un insieme di cambiamenti evolutivi, ma su scala minore. La sua ipo-
tesi – basata su alcune correlazioni statistiche che comprendono discendenza, ma-
trimonio, residenza e terminologie di parentela – era che ci fosse una particolare di-
rezione nel cambiamento dell’organizzazione sociale. Murdock suggerì infatti che
“un mutamento nella regola di residenza vigente possa essere il punto di partenza
Murdock e l’uso per quasi tutti i mutamenti dell’organizzazione sociale” (1949, pp. 172-173). Segui-
comparativo va quindi un cambiamento nella forma di aggregazioni localizzate di parenti; a sua
dei dati statistici
volta questo veniva seguito rispettivamente da cambiamenti nella regola della di-
scendenza e nella terminologia della parentela. Prendendo come esempio la patrilo-
calità e una terminologia della parentela orientata verso la patrilinearità, si possono
rappresentare i cambiamenti in questo modo: patrilocalità > famiglie estese patrilo-
cali > discendenza patrilineare > terminologia orientata verso la patrilinearità. (Per
non esagerare la portata di questo caso, i lettori sono invitati a notare come Mur-
dock abbia fatto più di una precisazione riguardo alle relazioni direzionali. Si veda
ad esempio Murdock 1949, p. 187).
Un altro gruppo di studi comparativi si sviluppò dalla critica mossa da Boas alla
La critica prospettiva evolutiva. Boas osservò infatti che “anche l’esame più frettoloso mostra
di Boas alle che gli stessi fenomeni possono svilupparsi in un gran numero di modi diversi”
comparazioni
estese (1940, pp. 273-276). “Prima che siano condotte delle comparazioni estese, la com-
parabilità [cioè la somiglianza dello sviluppo] del materiale deve essere provata”.
Boas contrapponeva quello che lui definiva “il metodo comparativo” degli evolu-
zionisti con il suo “metodo storico” che, pur essendo comparativo, comprendeva:

uno studio dettagliato dei costumi nei loro rapporti reciproci e della cultura nella sua to-
Il metodo talità della tribù che li pratica, assieme ad un’indagine della loro distribuzione geografica
storico fra le tribù vicine… [Questo] ci concede quasi sempre un mezzo per determinare con ac-
curatezza considerevole le cause storiche che hanno condotto alla formazione dei costu-
mi in questione e ai processi psicologici attivati durante il loro sviluppo.

“Se l’antropologia desidera stabilire le leggi che governano la crescita della cul-
tura”, continua ancora Boas (1940, p. 280), “non deve limitarsi solo alla compara-
zione dei risultati della crescita, ma ogni volta che questo sia possibile, deve compa-
rare i processi della crescita”. Sapir ha ricapitolato in modo esauriente molti dei
principi legati a questa forma di metodo comparativo nel libro Time Perspective in
Aborigenal American Culture (1916).
Il testo di Spier The Sun Dance of the Plains Indians (1921) – che traccia la dif-
fusione della Danza del Sole attraverso le Grandi Pianure a partire da una origine
che si postula fra gli arapaho e i cheyenne – è un classico esempio di questo approc-
cio. Ma un esempio più recente e forse più calzante di questa prospettiva è la com-
L’analisi parazione di Eggan (1955; 1968, pp. 396-397) della terminologia di parentela e dei
comparativa modelli di sussistenza fra gli indiani delle Pianure dell’America del Nord. Eggan ha
degli Indiani suddiviso la parentela degli indiani delle Pianure del Nordamerica in due grandi ti-
del Nordamerica
di Eggan
pologie: una che sottolinea l’unità del lignaggio, l’altra che evidenzia l’unità genera-
zionale. Gli indiani della parte più orientale delle Grandi Pianure erano fondamen-
talmente orticoltori e vivevano in villaggi stabili, organizzati in gruppi di discenden-
za unilineare (ad esempio gli omaha, iowa, illinois, hidatsa e pawnee). Gli indiani
INTRODUZIONE ALLA PARTE SECONDA 109

delle High Plains erano invece cacciatori seminomadi divisi in gruppi bilaterali che
si raccoglievano intorno a un accampamento circolare (ad esempio i cheyenne, i
kiowa e i dakota). Il loro sistema parentelare classificatorio si articolava in base alla
generazione e al sesso, e (diversamente dal sistema di discendenza degli orticoltori)
coinvolgeva una vasta gamma di altre relazioni, con un senso molto vago dei limiti
esterni. Eggan ha sostenuto che il principio di unità di lignaggio – così come si ma-
nifestava nell’organizzazione unilineare – forniva agli orticoltori stanziali delle Pia-
nure orientali un senso di stabilità e continuità nel tempo. Al contrario la preoccu-
pazione degli indiani delle High Plains per il mantenimento dell’unità generazionale
favoriva legami molto estesi, ma di scarsa profondità: uno schema che ben si
attagliava alle forme flessibili di solidarietà che occorrevano a cacciatori seminomadi
che dovevano adattarsi a sistemi variabili di condizioni ecologiche. Quello che ha re- I rapporti fra
so l’analisi di Eggan particolarmente interessante è stata l’ipotesi secondo la quale parentela e
dei gruppi di indiani, come i crow, avrebbero alterato il loro sistema di parentela in adattamento
ecologico
relazione al loro spostamento da una regione all’altra delle Pianure. In altri termini,
Eggan ha posto in relazione differenze negli schemi di parentela con differenze nelle
strategie di sopravvivenza all’interno di una data regione geografica, per spiegare co-
me alcune pressioni all’adattamento influenzassero l’organizzazione della parentela.
Durkheim e Mauss hanno utilizzato una comparazione degli schemi classificato-
La comparazione
ri di australiani, zuñi, sioux, e cinesi per mostrare quella che loro consideravano es- in Durkheim e
sere la base sottostante il pensiero classificatorio: l’organizzazione sociale degli esse- Mauss: pensiero
ri umani. In questo modo essi, nel 1903, hanno posto il nesso tra pensiero classifica- classificatorio e
tore e organizzazione sociale: organizzazione
sociale
La società non è stata semplicemente un modello in base al quale il pensiero classificatorio
avrebbe lavorato… i suoi stessi quadri... sono serviti da schemi per il sistema. Le prime ca-
tegorie logiche sono state categorie sociali; e le prime classi di cose sono state classi di uo-
mini. Poiché gli uomini erano raggruppati, e si rappresentavano sotto forma di gruppi, es-
si hanno idealmente raggruppato gli altri esseri, e i due modi di raggruppamento hanno
cominciato col confondersi fino al punto da non poter più essere distinti (1901, p. 109).

Lo studio di Nadel (1952) di quattro società africane è una originale compara- Nadel e lo studio
zione controllata che riguarda le dinamiche sottese alla stregoneria. (Per problemi comparativo
di spazio, limito le mie ricapitolazioni alle due società dell’Africa occidentale). I nu- della stregoneria
pe e i gwari, nota Nadel, avevano in comune un gran numero di somiglianze cultu- in Africa
rali riguardanti l’organizzazione sociale, economica e politica, ma differivano su un
punto significativo. Fra i nupe solo le donne erano streghe, mentre fra i gwari lo
erano sia gli uomini che le donne. Perché questa differenza? Nadel faceva notare
che le donne nupe erano commercianti, e il loro commercio spesso forniva loro po-
tere economico e ricchezza. Inoltre permetteva alle donne nupe la libertà di essere
coinvolte in relazioni sessuali extramatrimoniali. Le donne gwari non possedevano
questa libertà, non erano in grado di sfidare le norme culturali della dominazione
maschile che esistevano in entrambe le culture; solo le donne nupe potevano farlo.
Nadel suggerisce che la distanza fra il potere ideale (degli uomini) e il potere reale
(delle donne) si concentrava sulle accuse di stregoneria mosse contro le commer-
cianti donne presso i nupe. Le tensioni sociali fra i gwari erano più diffuse, e di con-
seguenza lo erano anche le accuse di stregoneria.
Wolf e la
Wolf (1957) ha utilizzato materiale storico ricavato da vari archivi per sviluppa- comparazione
re una comparazione fra la Mesoamerica e Giava centrale nel periodo coloniale. tra Giava e
Wolf ipotizza che un certo tipo di villaggio rurale – denominato “comunità chiusa la Mesoamerica
corporativa” – si costituì in entrambi i luoghi a causa di pressioni simili durante
110 ROBERT BOROFSKY

l’era coloniale. Egli identifica le “comunità chiuse corporative” come comunità


con una giurisdizione comunitaria sulla terra, con una ristretta appartenenza, mec-
canismi ridistributivi per il surplus e barriere a difesa della penetrazione di merci e
Le “comunità idee dall’esterno. Lo studioso suggerisce che una delle ragioni per le quali questi
chiuse villaggi si svilupparono risiede negli sforzi amministrativi di limitare il potere dei
corporative” colonizzatori. “Attraverso la garanzia di una relativa autonomia alle comunità dei
nativi il governo nazionale poteva assicurare il mantenimento delle barriere cultu-
rali contro l’invadenza dei coloni e allo stesso tempo evitare l’enorme costo del-
l’amministrazione diretta” (1957, p. 10). Un altro fattore che contribuì alla loro
formazione riguardò la dualizzazione economica forzata della società coloniale,
che comprendeva un settore imprenditoriale dominante e un settore contadino do-
minato. I contadini indigeni erano relegati “allo status di lavoratori part-time, che
dovevano provvedere allo loro sussistenza su una terra insufficiente, e che subiva-
no l’imposizione di tributi imposti e riscossi dalle… autorità locali” (1957, p. 12).
Nel suo studio comparativo storico, Wolf rivelò alcune delle dinamiche simili che
contribuirono a modellare le comunità contadine durante il periodo coloniale in
diverse parti del globo.
Beatrice Whiting (1950), attingendo alle informazioni contenute nell’Human
Relations Area Files – una raccolta enciclopedica di materiali che comprende centi-
naia di società e che fu usata anche da Murdock nella sua ricerca – ha analizzato in
Beatrice Whiting modo statistico la relazione fra la magia e la risoluzione delle controversie in cin-
e il rapporto fra
magia e
quanta società non occidentali. La caratteristica delle società contrassegnate da
risoluzione del quello che la studiosa definì (1950, p. 82) controllo politico “coordinato” era “l’as-
conflitto senza di un individuo o gruppo… che possedesse un’autorità delegata per risolvere
le dispute e punire i reati”. Il maggior meccanismo di controllo sociale, in questi ca-
si, era costituito dalla vendetta da parte dei pari. Nelle società a controllo politico
Società “superordinato” gli individui che possedevano un’autorità riconosciuta (ad esempio
“coordinate” e i giudici) risolvevano le dispute e punivano i trasgressori. “In questo modo, le socie-
“superordinate tà nelle quali l’omicidio era risolto tramite vendetta venivano classificate come coor-
dinate, e quelle nelle quali i casi di omicidio venivano rinviati ad una autorità dele-
gata [venivano classificate] come superordinate” (1950, pp. 84-85). Whiting ha sco-
perto che su 25 società a controllo coordinato, la magia era importante in 24 di
queste. Su 25 società con controllo superordinato, invece la magia era importante
solo in 11. Da ciò Whiting ha concluso che la paura della magia spesso costituiva
un importante mezzo di controllo sociale, specialmente nelle società in cui erano as-
senti i meccanismi di controllo superordinato (si veda Swanson 1960, pp. 137-152,
per un’analisi connessa allo stesso problema).
In questi esempi si percepiscono alcune delle speranze che l’antropologia coltiva
per se stessa: vediamo quali tipi di questioni alcuni antropologi ritengono importan-
ti, e inoltre in che modo questi antropologi cercano di risolverle. Ciò facendo, co-
gliamo alcuni degli scopi e dei metodi dell’antropologia.

Due problemi relativi alla comparazione


In questo periodo ci troviamo di fronte almeno due problemi chiave in relazio-
Problemi della ne alla comparazione. Uno deriva dalla discussione sul dibattito positivismo/inter-
comparazione: pretativismo: ci occorre un corpus di materiale affidabile per sviluppare delle com-
la necessità parazioni valide. Le etnografie tendono ad affrontare vari argomenti con differenti
di materiali
affidabili gradi di profondità e secondo diverse prospettive. Questo rende la comparazione
difficile. Salzman (p. 58) cita il caso di John Davis che “sembrava al limite della di-
sperazione e della frustrazione, nel tentativo di trovare nei resoconti etnografici a
INTRODUZIONE ALLA PARTE SECONDA 111

sua disposizione, informazioni in qualche modo comparabili...”. Nell’Introduzione


ho citato uno studio condotto da Steward (1950, citato da Lewis [1956, p. 262])
che trovava “delle difficoltà nella comparabilità a causa dell’ineguale ampiezza di
trattazione, che sembrava dipendere in larga parte dagli interessi individuali”. Ne La selezione dei
consegue che i repertori a disposizione sono basati più su raccolte estemporanee dati “di comodo”
che non su tecniche sistematiche di selezione. I ricercatori selezionano prima di
tutto gruppi per i quali hanno informazioni pronte. Schapera (1953, p. 353) com-
menta “i principî… che governano la selezione delle società per la comparazione
sembrano essere tutt’altro che scientifici; né vi è alcuna coerenza su cosa si intenda
per ‘società’, cioè sulla natura delle unità fra le quali viene condotta la comparazio-
ne”. Per illustrare il suo punto Schapera critica la tecnica usata da Murdock in La
struttura sociale: “Non possiamo che concludere che la tecnica di campionatura di
Murdock è stata influenzata più dalla comodità che dall’aderenza alla disciplina
scientifica” (1953, p. 357). Schapera nota che Murdock si affidava a etnografie
scitte in lingue straniere (1949, pp. 271-295). “Quando Murdock ci chiede di esse-
re comprensivi per l’incompletezza di una sua ricerca perché non poteva dedicare
molto tempo al suo lavoro” continua Schapera, “potremo forse chiedergli di per-
donarci a sua volta se mettiamo in dubbio la validità delle sue correlazioni e con-
clusioni”. Il primo problema riguarda quindi il modo in cui si raccolgono sistema-
ticamente i dati rappresentativi.
Il secondo problema comprende la questione dei collegamenti. Nel passato gli
antropologi potevano pensare di comparare gruppi apparentemente indipendenti La questione
dei “legami”
che, anche se forse collegati l’uno all’altro, avevano proprie identità e confini cultu-
rali. Questa indipendenza, oggi, non esiste quasi mai. Seguendo Keesing e Kottak e
Colson (nelle parti seguenti), anzi, ci chiediamo se nei secoli essa sia mai stata ri-
scontrabile. La questione dei collegamenti ci conduce al “problema Galton”, nel
quale la validità statistica di alcune comparazioni è minata perché gli elementi posti Il “problema
Galton”
in comparazione potrebbero essere collegati storicamente l’uno all’altro. Quando si
osservano credenze magiche simili in due distinte società, ad esempio, non si deve
immediatamente giungere alla conclusione che la medesima dinamica culturale sot-
tostante le abbia prodotte entrambe. Invece, le credenze del gruppo A avrebbero
semplicemente potuto trasmettersi per diffusione al gruppo B. Vale a dire che a
causa di vari collegamenti storici esistono delle difficoltà nel discernere le cause del-
le relazioni osservate nelle comparazioni – se cioè queste provengono da legami sto-
rici, o sono associate a dinamiche sociali simili. Whiting nota, ad esempio: “Potreb-
be sorgere la questione se le connessioni fra la magia e il controllo coordinato non
possano essere in molti casi storiche, piuttosto che funzionali… Il problema di
escludere le connessioni storiche è di difficile soluzione” (1950, p. 88). Questo è an-
cora più vero nell’odierno mondo fatto di collegamenti che si sovrappongono e di
interazioni complesse fra gruppi culturali. Siamo quindi portati a chiederci come
delle comparazioni efficaci possano essere condotte oggi.

I contributi di questa parte


Ho utilizzato il saggio di Nader, e in particolare la sua preoccupazione per una
“coscienza comparativa”, per inquadrare i contributi di questa parte del libro. Na-
der pone delle domande sul modo in cui si possano rivitalizzare le comparazioni e La posizione
così facendo, suggerisce un mezzo per arricchire la disciplina antropologica nel suo di Nader
complesso. La studiosa sottolinea che in un mondo sempre più interconnesso, le
nostre prospettive che si sovrappongono l’una all’altra formano un campo molto fe-
condo per l’analisi comparativa. Esplora inoltre il campo della percezione che gli al-
112 ROBERT BOROFSKY

Verso una nuova tri hanno di noi in relazione a come vediamo loro e/o noi stessi. Nei suoi suggeri-
forma di
comparazione?
menti vi è la speranza di una nuova forma produttiva di comparazione – differente,
ma che si fonda su quelle precedenti.
Ispirandomi alle sue idee, potrei chiedere ai lettori di questa parte di compara-
re diverse valutazioni dell’antropologia – sia in questa parte, sia nell’intero volume
– al fine di esplorare i modi in cui sarebbe possibile potenziare la disciplina. Tutti
gli autori di questo volume, in un modo o nell’altro, valutano l’ampio settore del-
l’antropologia culturale. Ma ho selezionato quattro autori, due europei (Godelier e
Kuper) e due che non appartengono ai tradizionali centri dell’antropologia (Da-
Matta e Das) per indagare su come persone diverse valutino le questioni che l’an-
tropologia deve affrontare negli anni Novanta. Nelle loro valutazioni, divergenti
ma sovrapposte, che fanno il punto sull’antropologia attuale e le direzioni da pren-
dere, si avverte molto del presente stato dell’antropologia e qualcosa, forse, di un
possibile futuro.
Invito i lettori non solo a comparare fra di loro le prospettive enunciate in que-
sta parte del libro ma anche a comparare le prospettive di questa sezione – singolar-
mente e collettivamente – con quelle delle altre parti del volume. Le prospettive di
questa parte, ad esempio, differiscono in modo interessante da quelle della prima,
sia per le questioni sollevate sia per le preoccupazioni espresse. Mentre la prima se-
Le differenze fra zione contiene valutazioni americane e canadesi, gli ultimi quattro contributi della
i contributi presente sezione includono valutazioni europee e provenienti dal Terzo Mondo.
di questa e della Harris e Godelier condividono un orientamento “materialista”, ma i loro approcci
precedente parte
del volume
sono diversi. E anche se Marcus e Das condividono l’interesse per le prospettive
interpretative, sviluppano questo interesse in modi distinti. Inoltre autori diversi ci-
tano diversi studiosi. È interessante infine che sia l’antropologo francese Godelier a
rendere maggiormente omaggio all’antropologo americano Morgan, più di quanto
non facciano gli antropologi americani in questo volume.
Non si dovrebbero considerare le prospettive di un singolo (o di una sezione)
corrette, e quelle di altri sbagliate. Piuttosto, si dovrebbe essere in grado di co-
gliere le sottili sovrapposizioni e divergenze nelle loro valutazioni e considerare
quali riflessioni possiamo trarre da una loro comparazione. Ad esempio, quali so-
no le ragioni che sottendono le diverse valutazioni della disciplina condotte da
Harris e Godelier o da Marcus e Das? Come suggerisce Nader, porre queste do-
mande ci conduce verso un diverso senso della comparazione. Siamo indotti a
chiederci cosa chiariscano le loro differenze e somiglianze rispetto a chi valuta e a
chi viene valutato.
Nei quattro contributi, in linea con il saggio iniziale di Nader, assistiamo alla
La complicazione
della polarità complicazione della polarizzazione del mondo in “noi” e “gli altri”. Quattro degli
“noi” - “altri” autori di questa parte del volume sono antropologi non americani. Sono “noi”, in-
tendendo con questo termine antropologi? O sono “gli altri”, intendendo non ame-
ricani? In qualsiasi modo si suddividano le categorie, Occidente contrapposto a
Terzo Mondo, americano contrapposto a non americano, le ambiguità abbondano.
Però il dialogo fra prospettive risulta stimolante ed è la base per molte riflessioni.
Godelier e Kuper forniscono due valutazioni europee della disciplina (Bloch,
Goody, Lévi-Strauss, Strathern e Tishkov ne forniscono altre nelle parti seguenti).
Godelier, Kuper
e la coerenza del Risulta interessante notare che Godelier e Kuper avvertono una maggiore coerenza
campo di studi nel campo di studi, rispetto a quanto potrebbero percepire molti antropologi ame-
ricani. Le loro descrizioni sembreranno probabilmente un poco sconcertanti a qual-
che antropologo americano (i lettori possono iniziare a percepire il disagio che
emerge quando si diventa l’oggetto descritto, piuttosto che colui che descrive). Os-
INTRODUZIONE ALLA PARTE SECONDA 113

serviamo così le tradizionali preoccupazioni degli antropologi francesi e inglesi


espresse da Godelier quando riflette su un’ampia gamma di questioni teoriche rela-
tive al potere, alla politica e all’economia (nella sua analisi di Lévi-Strauss e Marx);
Kuper, al contrario, riflette in modo più empirico sull’importanza del lavoro sul
campo e della rianalisi del materiale etnografico.
I capitoli scritti dagli antropologi del Terzo Mondo DaMatta (brasiliano) e Das DaMatta e Das:
(indiana) sollevano in modo analogo molte questioni. DaMatta, ad esempio, prende la diversità
dell’antropologia
come obiettivo l’antropologia interpretativa, ma i suoi commenti relativi alle ragioni del Terzo Mondo
per cui questioni antropologiche vengono dibattute nella vita intellettuale e politica
di alcuni paesi e non di altri, sono rilevanti per una gran parte della disciplina. In
che misura, siamo portati a chiederci, l’antropologia del Terzo Mondo è differente
da quella occidentale? Das inizia con una critica del lavoro di Dumont sulla natura
gerarchica dell’organizzazione sociale indiana: Dumont ha cercato di superare le
tendenze etnocentriche ed egualitarie dei resoconti occidentali sull’India presentan-
do la sua analisi dell’India in termini prettamente indiani. Ma ecco l’affascinante L’antropologia e
problema di un’antropologa indiana che muove obiezioni. Le sue riflessioni condu- l’analisi della
cono alla più ampia questione riguardante il ruolo che l’antropologia può (e deve) propria cultura
d’origine
giocare nell’analisi della propria cultura in contrapposizione alle altre culture. Chi
parla in nome di chi? In che modi e per quali ragioni?
Durante la lettura dei saggi che seguono, i lettori dovrebbero tenere bene a
mente alcune questioni: Come si sovrappongono le diverse valutazioni del campo di
studio? Dove e perché differiscono? Viste nel loro insieme, cosa indicano rispetto
agli sviluppi passati dell’antropologia come disciplina? E in modo simile, cosa sug-
geriscono riguardo alla direzione futura dell’antropologia?
Nota alla parte seconda
Giovanna Salvioni

Riprendere coscienza dell’importanza della dimensione comparativa nella co-


struzione del sapere antropologico è veramente come ritornare al “Centro”. Al di là
delle asciutte definizioni da manuale – così l’Enciclopedia Garzanti di Filosofia:
“metodo utilizzato dagli antropologi per costruire un sistema di classificazione uni-
versale dei dati culturali in base alle somiglianze esistenti fra le diverse culture e al-
l’individuazione di costanti, cioè di punti di riferimento invariabili per la descrizio-
ne e il confronto interculturale” – il comparativismo ha svelato ma ha anche elabo-
rato negli anni, dalle origini evoluzioniste in poi, insospettate capacità di entrare in
rapporto con la realtà e con i suoi vari ordini di problemi, da un lato, e dall’altro la
determinazione a favorire una profonda riflessione sulle basi epistemologiche, i me-
todi, il futuro della disciplina: “In questa sezione ci concentriamo sulla prospettiva
comparativa come un modo per poter riflettere sulla disciplina nel suo insieme.
Molti considerano la comparazione un metodo fondamentale per gli studi antropo-
logici” (Borofsky). Nell’introduzione di Borofsky e nelle pagine di Laura Nader,
Maurice Godelier, Adam Kuper, Roberto DaMatta, Veena Das, l’antropologia, gra-
zie alla flessibilità della metodologia comparativa, si delinea come una disciplina ca-
pace di entrare nei problemi della vita sociale e politica, nell’ambivalenza e relativi-
tà dei punti di vista emici ed etici, rendendo evidente la affascinante complessità di
ogni cultura umana, la necessità di rompere la monotonia di angusti orizzonti e ri-
cordando con toni appassionati – quelli di DaMatta e di Das, ad esempio – alla co-
munità scientifica che spesso persino grandi e vincenti scuole antropologiche nazio-
nali possono a tutt’oggi cadere nelle reti dell’etnocentrismo. Soprattutto chi è a
contatto con i giovani si rende conto di quanto, come afferma a più riprese Geertz,
la diversità e la curiosità che essa suscita siano ancora un ottimo canale privilegiato
di incontro con la riflessione antropologica, ritenuta giustamente capace di rilevare
le valenze profonde della varietà valutandola come ricchezza e non come dispersio-
ne o come materia da organizzare “da un meno a un più”. Pertanto, dopo aver trac-
ciato molti e fruttuosi percorsi, l’antropologia sembra ritrovare respiro proprio nel-
l’allargamento di orizzonte che il metodo comparativo comporta, allargamento di
visuale e di conoscenza che vale la rivalutazione delle scritture e conoscenze etno-
grafiche, proprio quelle che fanno ancora “viaggiare col pensiero in mondi scono-
sciuti” i giovani, che danno più ampio senso a comportamenti quotidiani, che fanno
capire le ragioni degli altri in ordine ai grandi problemi dell’umanità, ma non solo
questo; in questa sezione, è forte la voce di due rappresentanti di realtà sociali e cul-
turali diverse da quella occidentale euroamericana, DaMatta e Das, che nel procla-
mare la diversità nella quale operano mettono in luce quanto, nella confezione di
un sapere antropologico, contino non solo la personalità e preparazione dell’antro-
pologo come individuo ma anche la sua appartenenza a una o all’altra cultura, ciò
che li rende sensibili a problemi specifici e capaci di rivendicarne il senso e signifi-
NOTA ALLA PARTE SECONDA 115

cato nel loro preciso contesto. Un ampio comparativismo ci permette dunque di ca-
pire meglio anche gli stessi antropologi (certo Clifford, Marcus, Pratt e via dicendo
lo hanno già affermato) e di non banalizzare le loro battaglie: come quella di Da-
Matta per assegnare il giusto valore all’impegno sociale e politico dell’antropologia
brasiliana e quella di Veena Das a favore della rivalutazione dei saperi antropologici
religiosi e locali indiani.
Un comparativismo differente, messo in atto dall’“altro” e al servizio del con-
trollo sociale, è presentato da Laura Nader attraverso un’analisi dei ruoli e della po-
sizione della donna in Egitto così come emergono da un noto manuale-guida per le
donne musulmane curato da Shaykh I-Sha’rawi. Nader non avalla certo i condizio-
namenti imposti alle donne, ma dimostra come il comparativismo sia uno strumen-
to flessibile e dalle molte potenzialità. La sua conclusione può valere come conclu-
sione generale (p. 127):

Il messaggio essenziale del presente saggio è che una coscienza comparativa ben tempe-
rata conduce a scoperte importanti. Il punto di vista da cui questo viene affermato sostie-
ne la necessità di una maggiore discussione fra i comparativisti sui vantaggi di un meno
rigido controllo tecnico nella comparazione esplicita, e invita gli etnografi a intensificare
le comparazioni implicite nel lavoro etnografico. Se la conoscenza è potere, la compara-
zione è fondamentale nella dinamica della produzione di conoscenza.
La coscienza comparativa*
Laura Nader

Introduzione
È stato scritto molto sulle ragioni che dovrebbero spingere a praticare un’antro-
Due presupposti
sull’antropologia:
pologia consapevole del fatto che l’esistenza vera e propria dell’antropologia come
le origini disciplina è dovuta al colonialismo e, più in generale, all’imperialismo. L’antropolo-
coloniali e lo gia è stata anche descritta da molti come lo studio dell’“Altro” non occidentale. Da
studio dei questi presupposti – che l’antropologia affonda le sue radici nell’imperialismo e che
non-occidentali consiste nello studio da parte dell’Occidente di popolazioni non occidentali – è de-
rivata una critica, a volte illuminata, a volte viziata, del lavoro sul campo e degli
scritti riguardanti altre culture. Gran parte di questa critica ad ampio raggio, alla
quale hanno partecipato persone esterne alla disciplina, implicava che la ricerca sul
campo sia stata parte di uno sforzo a “mantenere un certo tipo di relazione fra l’Oc-
cidente e il proprio Altro” (Fabian 1983, p. 175).
Siegfried Nadel nel suo libro The Nuba (1947) ha scritto sulla relazione fra l’Oc-
cidente e il suo Altro e sull’importante ruolo giocato dalle religioni importate nei
cambiamenti delle strutture sociali africane. Ha osservato che “l’educazione religio-
sa per prima cosa sradica, e in seguito ricostruisce. Il cristianesimo, ancor più del-
L’atteggiamento l’Islam, pianifica la costruzione di una nuova società” (1947, p. 512). Comunque
posizionale l’osservazione di Nadel, una ipotesi di ricerca interessante e importante, da decenni
dell’antropologia giace dimenticata proprio a causa di quello che io definisco atteggiamento posizio-
occidentale
nale dell’antropologia occidentale, che esclude l’osservazione dell’Occidente da par-
te di altre culture e che potrebbe essere parte di uno sforzo per gestire una certa re-
lazione con l’“altro” occidentale.

Una componente mancante nei dibattiti attuali


La mancanza di consenso fra gli antropologi accademici è sempre stata abbon-
dante e, se produce un dibattito, costituisce parte della nostra forza (Nader 1989c).
La convenienza
della teoria
Ad esempio, i disaccordi ci insegnano che la convenienza fa parte dello sviluppo
teorico: in tal senso i concetti di cultura e comportamento come entità consensuali
risultavano convenienti per i colonizzatori, e per un’antropologia che si stava svi-
luppando, ma anche per i colonizzati che stavano costruendo attivamente la loro
auto-rappresentazione. Quando, attraverso l’accumulo di esperienza etnografica, fu
richiamata l’attenzione sulla variazione come risposta a una critica dei modelli con-
sensuali, la reazione era ancora all’interno del paradigma di una etnografia positivi-
sta. Alla fine, comunque, l’allargarsi delle critiche contro un positivismo sempre più
debole ha dato vita ad approcci che valorizzavano la natura ricca e molteplice dei
significati simbolici e la necessità di calibrare l’osservatore come strumento di docu-
mentazione1.
L’idea che accompagnava ogni critica successiva era tuttavia che l’approccio
proposto fosse superiore ed esclusivo. Questa convinzione non era agevole: 1) per
LA COSCIENZA COMPARATIVA 117

coloro che erano interessati all’enorme complessità della materia, 2) per coloro che
combattevano i problemi derivanti da una antropologia “occidentale” o incentrata
sull’Occidente; 3) per coloro che erano interessati alla comparazione innanzitutto La necessità di
come processo di scoperta. L’insoddisfazione venne seguita da valutazioni che indi- una teoria
cavano la necessità di una teoria composita – alcuni la chiamano unificata (Collier, unificata
Yanagisako 1987), e la necessità di approcci multidimensionali che comprendano
diverse modalità di conoscenza (Ong 1987). Ma l’evidente domanda è: come mai
l’antropologia – disciplina che si compiace della sua prospettiva olistica – è andata
sviluppando dei modelli unidimensionali e, come corollario, metodi che devono
escludersi l’un l’altro?
Gli antropologi tendono a conformarsi ai canoni delle loro società di appartenen-
za – in questo caso i canoni di una scienza positivista basata su un modello ideale di
laboratorio, nel quale sono fondamentali la specializzazione dei metodi e un control-
lo sempre maggiore sulle variabili2. Le critiche degli ultimi vent’anni hanno attirato
la nostra attenzione sulla retorica della scienza e sulle limitazioni di una scienza posi-
tivista in antropologia, un antidoto utile all’arroganza degli scienziati nell’era nuclea-
re. Hanno anche rivelato i limiti degli umanisti non scientifici che nel periodo post- L’ossessione
moderno, in modo altrettanto arrogante, ritengono che la comprensione possa pro- per il metodo e
venire da schemi unidimensionali. In entrambe le tendenze l’ossessione per il meto- quella per la
scrittura
do è stata costante, e l’ossessione per i modelli, le tabelle, i numeri, e la concretezza
illusoria che ne deriva, è stata replicata da quelli ossessionati dalla scrittura, coloro
che considerano l’antropologia una forma artistica narrativa. Alcuni dei miei colleghi
funzionalisti definiscono questa ossessione per la scrittura “una sciocchezza”, una
preoccupazione per l’estetica, non una seria preoccupazione per i problemi di rap-
presentazione, e certo non un’antropologia responsabile. Se mettiamo l’accusa e la
disputa da parte, le critiche ci mostrano che l’antropologia è una disciplina florida.
La comparazione non è un tema centrale nelle discussioni contemporanee. In
ogni caso, l’assenza di interesse si può illustrare ricordando l’inchiesta sull’antropo-
logia condotta da Oscar Lewis nel 1956, nella quale riporta l’esame di un totale di
248 scritti che avevano a che fare con la comparazione (dal 1950 al 1954). Il puro e
semplice numero di articoli comparativi e di libri pubblicati in quel periodo ci ri-
corda che nell’antropologia odierna mancano validi dibattiti sulla collocazione in-
tellettuale della comparazione.

La necessità di una coscienza comparativa: I


Pensando ai modelli positivisti e a quelli interpretativi mi torna in mente un’al-
tra tradizione antropologica, con diversi presupposti, e preoccupata non solo delle L’antropologia
differenze, ma anche delle somiglianze. Per molti di noi l’antropologia non riguar- come studio
da soltanto società coloniali non occidentali, o società insulari isolate. Il soggetto della diversità
dell’antropologia è l’esistenza umana in tutta la sua diversità, e comprende tutte le umana in tutte
le sue forme
forme culturali che troviamo sulla terra: negli appartamenti, nelle strade, nei villag-
gi, nella steppa, nelle città, nelle istituzioni e nella mente. Di questa tradizione in-
clusiva fanno parte molti tipi di intellettuali, non solo europei e americani. Gli an-
tropologi non si occupano soltanto dell’intero spazio del territorio terrestre, ma
anche dell’intera storia dell’esistenza umana. Da questo punto di vista si potrebbe
affermare che la nostra antropologia/etnografia è stata incompleta – almeno in ba-
se alla nostra esperienza di luogo e problema – e questo mi ha portato a dare un
taglio verticale al mio Up the Anthropologist (Nader 1969): ho preso in esame,
cioè, gli approcci unidimensionali abbracciati da ogni successiva generazione di
antropologi, finendo con lo scrivere dell’antropologia postinterpretativa (Nader
118 LAURA NADER

1989c); e ho condotto la mia analisi occupandomi di un’antropologia che non è


L’antropologia
abbastanza cosciente di sé rispetto alle implicazioni della sua origine occidentale
postinterpretativa (occidentalista; si veda Nader 1989b).
e Negli esempi che seguono, l’approccio particolarista nel quale il nativo è muto
l’“occidentalismo” (o viene ascoltato attraverso l’interpretazione antropologica) si distingue dall’ap-
inconscio proccio universalista, che ammette il soggetto della descrizione l’Altro dell’Altro.
La differenza tra le teorie universalizzanti e quelle particolarizzanti sottolinea una
coscienza comparativa che è legata a una consapevolezza sull’uso della comparazio-
ne. Può esserci una divisione del lavoro in antropologia: da una parte un’antropolo-
gia che incorpori direttamente (senza interpretazione) riflessioni provenienti da os-
servatori non occidentali su di noi in Occidente, e dall’altra una che utilizzi ed esa-
mini le categorie usate nelle comparazioni fatte da commentatori non antropologi.
Una “grande” antropologia dovrebbe riecheggiare i problemi del monopolio occi-
dentale della produzione della “conoscenza”.
Kluckhohn, nel suo libro Lo specchio dell’uomo, nota che “lo studio dei primitivi
Dallo specchio di ci mette in grado di vedere meglio noi stessi. Di solito noi non ci rendiamo conto
Kluckhohn alla
critica culturale
delle lenti particolari attraverso le quali guardiamo la vita... Chi si occupa delle scien-
ze umane ha bisogno di sapere altrettanto dell’occhio che vede quanto dell’oggetto
veduto” (1949, pp. 20-21)3. Questo accadeva nel 1949; oggi usiamo il termine critica
culturale, ma in qualche modo non usiamo il termine “critica” nel senso di guardare
indietro verso noi stessi con una seria coscienza comparativa, perché ancora non sap-
piamo abbastanza dell’occhio che osserva. Un’occhiata fugace non è sufficiente.
Quando l’etnografo va presso un’altra cultura e cerca di comprendere quello
che è differente, la differenza diventa l’attrazione primaria. La coscienza critica e
comparativa decade e ci sono dei costi da pagare. Se osservando la vita delle donne
egiziane rimaniamo colpiti dalla clitoridectomia (Morsy 1991), perdiamo l’opportu-
nità di esaminare simultaneamente la ricostruzione del seno negli Stati Uniti. Se de-
legittimiamo la comparazione in quanto parte di una generale delegittimazione del-
la scienza positivista e dei metodi comparativi associati con il positivismo (compara-
zione controllata transculturale), gettiamo via la possibilità di esaminare quelle di-
mensioni dell’esperienza umana che sono condivise (cfr. Kapferer 1988). Senza
comparazione, perdiamo letteralmente la coscienza e diventiamo vittime dei limiti
del pensiero pensabile (Chomsky 1985; Borofsky 1987).
La necessità di una maggiore consapevolezza nei confronti delle metodologie
comparative in antropologia è pressante proprio a causa delle attuali controversie.
Il potenziamento È utile notare che le recenti critiche postmoderniste in antropologia hanno segnato
della coscienza un allargamento della situazionalità della ricerca etnografica. Le spiegazioni delle
comparativa: la dinamiche culturali non si concentrano più soprattutto su fattori interni a una unità
situazionalità culturale, ma vengono arricchiti anche dall’inclusione di fattori esplicativi di natura
postmoderna
globale, demografica, politica, economica e ideativa. Tuttavia, l’incentrarsi dell’at-
tenzione sulla più ampia dimensione contestuale dell’etnografia ha anche determi-
nato un rifiuto di obiettivi generalisti, come quelli della scienza positivista, e dun-
que un rifiuto della comparazione esplicita.
Da parte loro i comparativisti sono stati lenti a rispondere al di là del fatto di
trincerarsi e continuare a elaborare modelli precedenti. La sfida è una sfida intellet-
tuale, non puramente tecnica o ideologica, come qualcuno ha pensato: le metodolo-
gie comparative contemporanee riescono a gestire questioni relative allo sviluppo e
all’egemonia?
Le storie dell’antropologia non rendono certo un buon servizio alla disciplina
quando dipingono un conflitto costante fra coloro che prediligono l’unicità e co-
LA COSCIENZA COMPARATIVA 119

loro che desiderano generalizzare, fra i comparativisti e i non-comparativisti. Il conflitto fra


comparativisti e
Questa descrizione lascia ai margini coloro che stanno facendo entrambe le cose. non-comparativisti
La scuola storica, quella funzionale e quella interpretativa di ricerca etnografica
sono esempi idealizzati di modalità particolariste, mentre le metodologie compa-
rative controllate, evolutive e transculturali sono esempi di modalità generaliste.
Il presente saggio tratta dell’area che è fra queste due modalità, una collocazione
che offre la possibilità di una coscienza comparativa, che mette in luce le connes-
sioni – fra locale e globale, passato e presente, fra l’antropologia e quelli che la Una via mediana:
studiano, fra l’uso della comparazione e le implicazioni di questi usi. In altri ter- comparare
mini, questo saggio tratta delle metodologie comparative che danno modo di con- situazioni fluide
cepire situazioni fluide, quelle che abbracciano sia gli studi umanistici che la
scienza, sia gli osservatori “esperti” che i non esperti.

Rivitalizzare la comparazione
Gli approcci comparativi che possono chiarificare i tipi di connessione sopraci-
tati dipendono dalla violazione di due canoni di ricerca comparativa generalmente I canoni
comparativi
accettati: 1) che gli elementi comparati debbano avere in comune alcuni tratti fon- classici.
damentali (il concetto di comparazione controllata) e 2) che gli elementi comparati Presenza di tratti
debbano essere discontinui, vale a dire non devono influenzarsi in modo diretto. in comune e
Questi due presupposti metodologici restringono le questioni della ricerca solo a discontinuità
quelle che possono essere espresse con chiarezza ed eleganza e, di conseguenza, so-
no servite a far emergere risultati particolaristi.
Le metodologie comparative che sono utili per esaminare la situazione mondiale
attuale devono includere gli aspetti interattivi del movimento globale di persone,
merci e idee4. Le monografie scritte alla ricerca del nativo, e i comparativisti alla ri- Metodi
cerca della “verità” scientifica talvolta hanno trattato il colonialismo, l’opera missio- comparativi e
naria e la scolarizzazione come aspetti che inquinano il soggetto di studio. Ad esem- sistema-mondo
pio Llewelyn e Hoebel nel 1941 hanno descritto i procedimenti di disputa dei che-
yenne senza menzionare che erano una cultura e una popolazione decimata. Al con-
trario, io ho recentemente (1990) descritto i procedimenti di disputa degli zapote-
chi considerandoli inseriti in modo inestricabile in considerazioni locali di valenze
globali, che trascendevano quindi i confini del microcosmo per incorporare un’e-
sperienza comune in ambienti sparsi.
L’attenzione alla coscienza comparativa e lo sviluppo di una pluralità di compa-
razioni sono modi per comprendere più adeguatamente la nostra materia di studio.
Le scoperte della
Attraverso una coscienza comparativa, gli antropologi hanno sviluppato un modo comparazione
di pensare la vita umana come risposta a osservazioni ripetute che in altre discipline
potrebbero essere considerate scoperte: 1) la cultura non è omogenea, né sempre
consensuale; 2) la cultura può essere costruita e diffusa in modo strumentale; 3)
l’organizzazione sociale non opera in base a principi che prevedono tutto ciò che è
importante; 4) l’organizzazione può rimanere immutata mentre il significato cam-
bia; 5) il cambiamento è onnipresente; 6) alcuni cambiamenti indicano la forza del-
l’impatto globale lungo il corso di millenni; e in ultimo 7) gli antropologi non han-
no inventato lo studio della società e della cultura, ma solo lo studio disciplinare
dell’“uomo”, dando spazio così a osservazioni che i nostri soggetti di studio potreb-
bero fare su di noi.
Gli antropologi hanno fornito risposte creative a queste scoperte: 1) il tempo ri-
ordina sia gli antropologi che i loro informatori (Colson 1984); 2) la storia è parte
degli strumenti interpretativi (R. Rosaldo 1980); 3) sia la popolazione che l’antropo-
logo fanno storia (Borofsky 1987); e 4) il peso di ideologie vecchie di secoli può es-
120 LAURA NADER

Le risposte sere ritrovato nella routine quotidiana sia di popolazioni occidentali che di popola-
creative degli
antropologi
zioni occidentalizzate (Nader 1990). Le strutture comparative possono emergere da
etnografie all’interno di regioni geografiche piccole o grandi, ma sono collocate en-
tro una struttura complessiva di interazione fra sistemi mondiali che conducono a
cambiamenti locali (Nash 1979; Taussig 1980). Attraverso una coscienza comparati-
va facciamo emergere le interazioni storiche fra vaste aree del mondo da interazioni
regionali più limitate, un approccio che ci consente di catturare la dinamica pur
mantenendo una prospettiva olistica o ecologica (Nader 1989a). La comparazione
può anche spiegare, attraverso la giustapposizione, le componenti specifiche di una
certa area, un approccio che ha condotto alla scoperta delle culture nazionaliste
(Kapferer 1988) e al riconoscimento dell’impatto della storia nazionale sulla storia
locale, e un’intolleranza per il conflitto (Greenhouse 1986) che in seguito torna a ri-
percuotersi sulla cultura nazionale (Nader 1989).
La tendenza attuale contro la comparazione (specialmente contro gli esperimen-
Approcci ti controllati) può essere attribuita a un’incapacità, da parte di qualsiasi tipo di
comparativi comparazione, di gettare luce sulle condizioni in un mondo che è sempre più carat-
compositi terizzato dall’interdipendenza, nel contesto di relazioni dinamiche e globali di pote-
re, pur mantenendo l’integrità delle comunità descritte. La soluzione per evitare
questa predisposizione contro esperimenti controllati o transculturali, o per una
predilizione verso un particolare tipo di comparazione, è di utilizzare tutte le com-
parazioni nelle loro forme storiche, funzionali e contrastive, in modo da non inibire
l’emergere e il concentrarsi su questioni interessanti, relative alle dinamiche dell’in-
terazione. Gli approcci compositi non sono mai netti, e se paragonati a posizioni
più ortodosse non attraggono un folto gruppo di sostenitori. Tuttavia allargare una
coscienza comparativa in modo da giovare alla sfida universale posta all’antropolo-
gia, non vuol dire restringere o costringere il concetto di comparazione, ma amplia-
re la sua portata metodologica e il suo stile intellettuale.

Filtrare l’Occidente5
Le culture cosiddette primitive o del Terzo Mondo sono state descritte dagli an-
Il “laboratorio
tropologi come laboratori, luoghi di esplorazione che si pensava potessero essere
primitivo” usati per scoprire la “verità”. Un’altra prospettiva offerta dallo studio dell’attività
umana è che può cambiare le nostre idee rispetto a cosa significhi conoscere qual-
cosa. A tale proposito è interessante comprendere i modi funzionalmente equiva-
lenti attraverso i quali le altre culture hanno percepito il loro “Altro”. Nelle pagine
seguenti, i miei esempi saranno tratti dalla lettura delle letterature “orientalista” e
“occidentalista” in termini di dialogo. Mi soffermerò sugli “occidentalismi”, mate-
Gli riali riguardanti l’Occidente scritti da non occidentali. Ci sono solo riferimenti spo-
“occidentalismi”
radici sul modo in cui l’Occidente è stato percepito, ed è stato scritto e tradotto re-
lativamente poco sull’Occidente in alcune regioni dell’Oriente. I materiali a disposi-
zione dovrebbero essere esaminati attentamente perché sono particolarmente rile-
vanti per il concetto di atteggiamenti posizionali.
Dal 1826 al 1831 il direttore egiziano della prima spedizione scientifica di Mo-
hammad Ali in Europa, Rifa’ah al-Tahtawi, viaggiò in Francia. Nel 1836 Edward W.
Lane, un rappresentante inglese del Ministero degli Esteri britannico, pubblicò il
suo libro sul Cairo. Sandra Naddaf (1986) ha pubblicato in un articolo una compa-
Lo “specchio” razione fra questi due lavori, in cui mostra le differenze fra i due autori. Entrambi
di Lane e il descrivono un’istituzione che l’Oriente ha in comune con l’Occidente, ed entrambi
Cairo: il distacco
usano i giochi di specchi come tecnica descrittiva e narrativa. Il viaggiatore inglese
istituisce se stesso come un osservatore distaccato, nasconde la sua presenza nelle
LA COSCIENZA COMPARATIVA 121

scene che descrive, e sostiene lo specchio per riflettere la società egiziana senza es- Lo “specchio” di
al-Tahtawi e
sere parte dell’immagine riflessa. Nella sua descrizione dei caffè del Cairo, Lane Parigi:
fonda il caffè come un’istituzione specifica della cultura attraverso un uso massiccio l’integrazione
della terminologia araba, che può essere tradotta solo tra parentesi. Il viaggiatore
egiziano sostiene lo specchio in modo da riflettere sia il soggetto sia l’oggetto.
Nonostante al-Tahtawi parli di Parigi, egli mantiene la tradizione orientale come
sfondo. Come sottolinea Naddaf, la sua rappresentazione di un’altra cultura non è
un mezzo per distanziare se stesso dall’Altro, ma uno strumento di integrazione. In-
fatti, poiché al-Tahtawi assume il ruolo di mediatore fra le due culture tende a tro-
vare punti di riferimento in comune, ed elementi di autoriconoscimento. Entrambe
queste tradizioni – l’approccio particolarista e un approccio più universale – sono
presenti nell’antropologia, sebbene, (come ho menzionato in precedenza) l’approc-
cio particolarizzante recentemente abbia sopraffatto le possibilità creative di una
coscienza comparativa.
Il resoconto ottocentesco del libanese Faris al-Shidyaq circa il suo incontro con
la musica europea è consapevolmente comparativo, poiché si concentra sulle di-
stinzioni fra la musica occidentale e quella araba. Per al-Shidyaq, come per il suo
al-Shidyaq e la
contemporaneo al-Tahtawi, il primo contatto ha ispirato la comparazione. Nella comparazione fra
sua descrizione di quella che denomina “musica franca” al-Shidyaq cita molte dif- musica
ferenze fra la musica di questi due mondi. La prima ha a che fare con l’innovazio- occidentale e
ne della notazione musicale. Al-Shidyaq si meraviglia che “anche senza la cono- musica araba
scenza precedente di un brano musicale, se venti di loro si radunassero con questi
segni grafici davanti a sé, li trovereste che lo eseguono all’unisono” (Cachia 1973,
p. 43). Comunque al-Shidyaq è consapevole delle limitazioni che la notazione pone
al musicista, poiché la musica araba ha sempre tenuto in grande considerazione la
dote dell’improvvisazione abile. Una seconda differenza riguarda l’armonia. La
musica araba è caratterizzata dall’eterofonia, uno stile di musica nel quale tutti gli
strumenti e le voci suonano una singola sequenza melodica, ognuno con il proprio
stile di ornamento musicale. L’armonia occidentale impiega invece voci e strumen-
ti che suonano diverse sequenze melodiche contemporaneamente. Al-Shidyaq con-
tinua notando effetti differenziati delle due musiche, riferendosi all’uso, da parte
della musica “franca” di strumenti militari, legati tematicamente alla lotta, alla ven-
detta o alla difesa della verità. Al contrario, la musica araba è interessata alla tene-
rezza e all’amore, aspirando a creare uno stato di incantesimo. Infine egli nota che
la musica occidentale tende a usare soltanto due modi, mentre la musica araba usa
regolarmente più dei due modi maggiore e minore. Riassume la sua comparazione
ripentendo che “le loro canzoni di entusiasmo e ardore da noi sono sconosciute”
(Cachia 1973, p. 46).
Queste osservazioni sono significative perché i cambiamenti che in seguito sa-
rebbero avvenuti nella musica araba avrebbero condotto verso una maggiore am-
piezza drammatica ed espressiva allontanandosi dalle forme improvvisate. Il punto
di vista arabo sulla musica occidentale, così come era stato costruito, divenne un
modello per il cambiamento musicale nella musica araba del ventesimo secolo: la
musica diventò un luogo per affermare una competenza culturale internazionale,
causando spesso delle controversie locali (Stokes 1992).
Il termine coscienza comparativa implica che le persone non sono sempre con-
sapevoli della comparazione, sebbene l’atto del pensare in modo comparativo è Coscienza
probabilmente universale. Nelle osservazioni di viaggio la comparazione è talvolta comparativa e
implicita, talvolta esplicita a seconda del contesto. Ma la comparazione è sempre consapevolezza
parte del sostrato dell’osservazione.
122 LAURA NADER

Un ulteriore esame degli scritti orientali sull’Occidente indica molti contesti


rilevanti – politico, economico, psicologico – e condizioni maggiormente genera-
lizzate. Ad esempio, la breve monografia di M. Gandhi Indian Home Rule (1922)
è una risposta a una precisa situazione politica. Gandhi ha in mente una riforma,
Gandhi, la piuttosto che una relazione storica. Il libro prende una chiara posizione e compa-
comparazione e il ra la civiltà occidentale – immatura, impura e malata – e la civiltà indiana – matu-
cambiamento
ra, pura, alta e morale. Per Gandhi la civiltà indiana è viva, presente, non risiede
da qualche parte nel passato. Il libro pone la forza dell’anima, o resistenza passi-
va, contro la forza bruta. La resistenza all’invasione da parte dell’Occidente deve
essere portata a termine attraverso una trasformazione interiore. Per citare Gan-
dhi: “i contadini non sono mai stati sottomessi dalla spada e non lo saranno mai”
(1922, p. 92). La comparazione è una parte fondamentale dell’appello di Gandhi
al cambiamento.
Vi è una simile presa di posizione nelle relazioni degli storici e cronisti arabi con-
temporanei alle crociate, 1096-1291 (Maalouf 1984). Questi scrittori arabi citati nel
libro The Crusades through Arab Eyes, consideravano il confronto come una con-
trapposizione fra l’Oriente culturalmente superiore e le “bestie selvagge” tecnologi-
camente superiori dell’Occidente, che conoscevano soprattutto il sangue, la tortura e
il cannibalismo. Gli arabi di quel periodo paragonano la razionalità del mondo arabo
che apprezza i libri, con la barbarie degli occidentali che distruggono i libri. Le os-
servazioni, di tipo comparativo, vengono fatte in relazione a tecnologia, medicina,
comportamento giuridico, mancanza di tolleranza per la diversità e fanatismo reli-
gioso attribuiti ai crociati. Il termine Franj, una parola usata ancora oggi nell’arabo
colloquiale, indica gli occidentali. Soprattutto i francesi erano, per gli osservatori
Gli arabi e arabi, dei barbari tecnologicamente sofisticati, bisognosi della civiltà orientale.
l’Occidente Due osservazioni sono pertinenti. Prima di tutto la visione orientale degli occi-
“barbaro” dentali come barbari (che è una visione antica) è un’immagine speculare dell’Orien-
te in Occidente. Secondariamente questi brani ci ricordano che mentre gli occiden-
tali possono pensare alle civiltà indiana, cinese, islamica al passato, i membri di que-
ste società vedono le loro civiltà come parte del presente, anche se solo un presente
spirituale. In questo modo nella loro retorica continuano a comparare se stessi al-
l’Occidente barbarico considerandosi superiori, anche se l’Occidente è superiore
tecnologicamente.
Recentemente è emerso un interessante capovolgimento delle comparazioni abi-
tuali. In genere l’Occidente viene rappresentato dalle culture orientali come tecno-
logicamente superiore, ma spiritualmente inferiore. La diffusione anticipata di un
La Cina e manoscritto redatto da alti dirigenti d’azienda giapponesi presenta una visione degli
l’Occidente
occidentali americani come spiritualmente e tecnologicamente inferiori. Il mano-
scritto si intitola The Japan that Can Say No: The New U.S.-Japan Relations Card (Il
Giappone che sa dire no. Il nuovo statuto delle relazioni tra Stati Uniti e Giappone)
ed è stato oggetto di numerose recensioni da parte della stampa americana prima
della pubblicazione ufficiale (Ishihara 1991).
Le comparazioni che utilizzano concetti di superiorità posizionale non sono
sempre ben delineate, come illustra l’esempio degli osservatori cinesi dell’Occiden-
te. La scrittura di appunti di viaggio su persone e luoghi visitati è stata, sin dall’anti-
chità, un importante genere letterario in Cina. Osservare l’Altro è un’abitudine ci-
nese antica almeno quanto l’antico manoscritto cinese scritto da Hiuen Tsiang, un
pellegrino cinese buddista vissuto nel settimo secolo e che scrisse sull’India (Coon
1948) che per lui costituiva l’Occidente. In brani tratti da questo lavoro (1948, pp.
452-463) Coon sottolinea la forte attualità delle osservazioni che Hiuen Tsiang fece
LA COSCIENZA COMPARATIVA 123

più di 1200 anni fa. Un esame dell’intero manoscritto suscita rispetto per l’abilità di
Hiuen Tsiang nel descrivere le strutture sociali incontrate (Beal 1957, p. 58).
Un commento simile può essere rivolto a una raccolta di lavori, che vanno da
metà Ottocento a oggi, scritti da autori cinesi sull’America. In Land without Ghosts
(Arkusch, Lee 1989) gli autori formulano delle osservazioni esplicite sulla cultura de- I cinesi si
gli Stati Uniti, contrastando il mutamento di atteggiamento dei cinesi nei confronti confrontano
con gli USA
degli USA visti di volta in volta come un modello esotico, minaccioso, da emulare o
guasto. Mentre ci muoviamo attraverso questi diversi atteggiamenti, comunque in-
fluenzati da eventi reali sia in Cina (come la rivolta dei Boxer ai primi dell’Ottocen-
to), sia in America (soprattutto in relazione al trattamento americano dei lavoratori
cinesi), il tono cambia: da residui di esotismi barbari, al rispetto per il processo de-
mocratico e alla paura di introdurre l’individualismo e la democrazia liberale in Ci-
na. Ci sono delle annotazioni molto tristi nella discussione sul razzismo negli Stati
Uniti, che si alternano alla gioia per le navi da guerra e i fucili. Gli usi della compara-
zione cambiano sebbene una critica costante della famiglia americana si espanda at-
traverso più di un secolo di osservazione. I cinesi sono particolarmente schietti ri-
guardo al modo in cui gli americani trattano i loro familiari, sia giovani che anziani.
Si ha la netta sensazione che queste osservazioni provengano da membri di una civil-
tà antica e duratura che guardano ai membri di una civiltà molto giovane.

Coscienza comparativa e posizione delle donne


Gli studi femministi negli Stati Uniti e in Europa occidentale hanno prodotto
un forte incremento della ricerca sulla posizione delle donne in altre società del
Il ruolo delle
mondo. Nel complesso, questa ricerca sulle donne in altre culture esamina la posi- donne e le
zione delle donne utilizzando concezioni venutesi a consolidare all’interno delle re- relazioni di
lazioni di genere. Ad esempio Ortner (1974), Rosaldo e Lamphere (1974) e Stra- genere
thern (1981b) hanno affrontato il sistema delle relazioni di genere attraverso un’a-
nalisi delle opposizioni binarie che sono alla base della classificazione simbolica: in-
teressato a se stesso/interessato alla società; sfera pubblica/sfera privata; natura/cul-
tura. Inoltre Biersack (1984) ritiene che l’opposizione binaria sia inerente alla co-
struzione sociale del genere. Harris ammette che il contrasto gioca un ruolo impor-
tante nella costruzione dell’identità di genere, sebbene affermi che l’opposizione bi-
naria non riesca a spiegare molte delle caratteristiche importanti dell’identità di ge-
nere (O. Harris 1978).
Mentre una comparazione a contrasto interna rivela assetti di genere nella socie-
tà, si è prestata meno attenzione ai modi in cui i complessi di relazioni maschi-
le/femminile possono essere organizzati nella comparazione a contrasto fra le socie- Relazioni di
tà, ai modi in cui gli assetti di genere sono legati a distinzioni di macro-livello fra genere e
“noi” e “loro”, come fra l’Oriente e l’Occidente, e ai modi in cui le categorie cultu- contrasto fra
società
rali di un’antropologia occidentale contribuiscano a cambiare le concezioni di gene-
re. A questo riguardo è importante l’osservazione di Nelson e Olesen (1977) che la
ricerca femminista occidentale è basata su una premessa di eguglianza, in confronto
alla premessa mediorientale di complementarità.
Se consideriamo la situazione delle donne come dinamica e contestuale ma non
unilineare (vale a dire in progresso da condizioni peggiori a migliori), bisogna pren-
dere in considerazione lo scopo delle ideologie di genere nel più vasto quadro delle Ideologie di
genere e relazioni
nazioni e società, di mantenere le identità separate all’interno di un contesto di internazionali
sempre maggiore interazione. In breve, la posizione delle donne si può situare nel
contesto dei tentativi maschili di mantenere l’autorità in società sempre più minac-
ciate dalla dinamica dei rapporti di potere internazionali. In questo modo le strut-
124 LAURA NADER

ture di genere emergono come qualcosa in più di un prodotto del dibattito interno
fra maschi e femmine di particolari società. Essere portatori di dogmi differenti nel-
la costruzione del genere, nella disputa della comparazione, rivela le dimensioni ge-
nerali e quelle particolari della subordinazione delle donne che potrebbero essere
offuscate dall’assenza della comparazione.
Sono utili sia i metodi comparativi storici, sia i metodi funzionali. Quando lo sta-
tus di una donna in una disputa sociopolitica viene affiancato all’Altro e ai movimen-
ti economici globali, diventa chiaro che le donne, in virtù della loro posizione di cu-
Le dinamiche di stodi, sono fondamentali per meccanismi di controllo indigeni più vasti (Knauss
divulgazione 1987). I sistemi del primo e del terzo mondo sono parte di un processo interattivo
comune nel quale le idee vengono trasmesse da un mondo all’altro, modellando e ri-
modellando la costruzione di genere. Le dinamiche della diffusione possono intrap-
polare le donne in una spirale. Senza una coscienza comparativa le osservazioni sulle
dinamiche e sulla comparsa dei sistemi multipli di genere in singole località possono
passare inosservate. I processi interattivi generati dalla dipendenza economica e poli-
tica fra aree culturali determinano la divulgazione. Nella disgiunzione risultante dal
concentrarsi sul particolare, o sul transculturale, il genere è un elemento mancante,
come dimostro nel seguente esempio di comparazione come controllo.
L’uso della comparazione come controllo può venire illustrato da un breve rife-
rimento al materiale riguardante l’immagine Oriente/Occidente (si veda Nader
La comparazione
come controllo 1989b). I giudizi di valore non sono pertinenti in questo caso; il soggetto è costitui-
to dalle immagini più diffuse delle donne nelle altre culture. Sfortunatamente gli
studi sulle donne arabe musulmane sono stati tenuti separati dagli studi sulle donne
occidentali, e questo trattamento separato ha esacerbato la costruzione di immagini
opposte attraverso i media.
Nel 1987 una specialista del Medio Oriente, Barbara Stowasser, ha analizzato una
guida contemporanea, molto diffusa, per le donne musulmane, scritta dall’egiziano
Shaykh I-Sha’rawi. Sha’rawi ha pubblicato la sua guida considerandola il paradigma
ideale al quale una donna deve attenersi per essere considerata veramente islamica nel
Cairo del 1982. Nella selezione che presenta Stowasser ricorrono molte affermazioni
La guida per comparative circa l’Oriente e l’Occidente. Sha’rawi celebra i diritti civili delle donne
donne islamiche islamiche, notando i diritti che le donne in Occidente non possiedono: “quando una
di I-Sha’rawi
donna si sposa in Europa, chiama se stessa con il nome del marito. Non ha il diritto di
mantenere il suo nome o il nome di suo padre o di sua madre. Per la legge francese
non ha il diritto di stipulare contratti per proprietà individuali per sé. L’Occidente
non fornisce alla donna nessun diritto, né circa il suo nome, né circa la sua ricchezza”.
I-Sha’rawi continua notando che “come madri, le donne hanno molta più considera-
zione nell’Islam che in Occidente” (Stowasser 1987, pp. 267-268).
Questo lavoro è un esempio di un genere ora comune, di un’attività che utilizza
la comparazione per difendere l’ordine islamico, per correggere gli errori di una in-
L’Occidente e la terpretazione esterna, per rispondere alle critiche provocatorie provenienti dall’Oc-
femminilità cidente e, cosa ancora più importante, per impedire che le donne islamiche si occi-
islamica dentalizzino. Gli esempi di questo genere letterario illustrano che l’Occidente gioca
un ruolo importante nella costruzione islamica della femminilità islamica e che, co-
me dimostrerò, è fondamentale per mantenere le donne occidentali al loro posto. I
paradigmi vengono legittimati proprio dal loro contrasto con l’Occidente, special-
mente con un Occidente barbarico e materialista.
I-Sha’rawi non è un teologo, o un rivoluzionario, o uno studioso, ma piuttosto
una personalità dei media molto in vista, una figura istruita, uno dei tradizionalisti
contemporanei che considera se stesso come uno di quelli che riarma le donne isla-
LA COSCIENZA COMPARATIVA 125

miche per contrastare l’impatto con l’Occidente imperialistico. Le donne che lo


ascoltano credono che le donne occidentali in generale e le donne statunitensi in
particolare non siano rispettate come categoria sociale. In ogni occasione, e senza
essere provocate, queste donne riferiscono che le donne americane sono oggetti ses-
suali e citano l’industria pornografica multimilionaria come prova. Si dice che le
donne in Occidente sono sotto la minaccia quotidiana di stupro, mentre non lo so-
no al Cairo. Vengono citate le percentuali di incesti e violenze familiari negli Stati
Uniti, e ci viene ricordato di continuo che i ritratti delle donne americane nelle rivi-
ste sono irrispettosi.
I media occidentali contraccambiano, e le loro immagini mostrano che l’Oriente
detiene una parte importante nella costruzione della femminilità occidentale. Le L’immagine
immagini della donna musulmana la mostrano come miseranda e oppressa. In gene- occidentale della
re queste immagini dei media si concentrano su aree selezionate di comparazione donna
musulmana
(contrasto). Le donne musulmane indossano il velo, un simbolo di subordinazione
per l’osservatore occidentale. La società islamica è fissata sul culto della verginità e
le bambine subiscono abusi attraverso varie tecniche come la Jabr o il matrimonio
forzato o la clitoridectomia. Anche la poligamia e il divorzio facile soggiogano psi-
cologicamente e materialmente le donne.
Le implicazioni delle comparazioni implicite ed esplicite sono fondamentali per Comparazione e
il controllo delle donne occidentali e, attraverso un certo sviluppo, anche per le subordinazione
femminile
donne orientali. La subordinazione femminile è sempre più razionalizzata in termi-
ni di Altro. Le donne arabe oppresse fanno apparire la cultura islamica in generale
meno umana, e attraverso la comparazione, il trattamento riservato alle donne occi-
dentali sembra più umano e più aperto e libero da pregiudizi. È vero anche il con-
trario: le immagini dell’Occidente sono quelle di un popolo barbaro e immorale.
Credo che l’uso della comparazione come controllo, dia in questo caso come risul-
tato il perpetuarsi della subordinazione femminile sia in Oriente che in Occidente.
La coscienza comparativa richiede comparazioni che non siano solo di natura Convergenze tra
dicotomica, comparazioni che si basino sulla differenza fra noi e gli altri, ma com- Oriente e
parazioni che indichino punti di convergenza e comunanza. Sia l’Occidente che Occidente
l’Oriente hanno dei governi prevalentemente maschili. Sia in Oriente che in Occi-
dente le donne lavorano sempre più del doppio, e come classe, con i loro bambini,
costituiscono la maggioranza dei poveri e di chi subisce impoverimento. Sebbene in
entrambe le aree ci siano ideologie che esaltano lo status delle donne, in entrambi i
luoghi lo status inferiore delle donne viene generalmente spiegato come causato
dall’innata inferiorità delle donne. In altri termini, sia in Oriente che in Occidente
la subordinazione femminile è strutturata istituzionalmente e razionalizzata cultu-
ralmente, e conduce alla sottomissione, dipendenza, impotenza e povertà. Eppure,
in entrambe le culture, il modo in cui si realizza la costruzione di genere, modo at- La comparazione
come processo
traverso cui la cultura interna è idealizzata se paragonata alla cultura esterna, per- unico
mette a componenti di entrambe le società di sentirsi superiori gli uni agli altri, e
rappresenta una parte dell’apparato che controlla il posto occupato dalle donne. Le
dicotomie tendono a sottolineare le caratteristiche uniche di ognuno – l’Occidente
sembra possedere degli standards più alti in relazione all’apparato tecnologico, e
l’Oriente si rappresenta come spiritualmente superiore6. La comparazione serve a
controllare sia in Occidente che in Oriente, ed è un processo unico, non duplice.
Per coloro che usano il linguaggio delle ipotesi, il processo di scoperta attraver- Evans-Pritchard
so l’uso di tali comparazioni può dar vita ad alcune ipotesi di lavoro. L’ipotesi di e la condizione
femminile
Evans-Pritchard sul peggioramente della condizione femminile con un incremento
del predominio culturale o con lo sviluppo di una civiltà sempre più complessa è un
126 LAURA NADER

punto di inizio (1983). Parti di questa ipotesi generale potrebbero includere le se-
guenti ipotesi più specifiche:
1. La subordinazione femminile può aumentare nel contesto di tentativi maschi-
li di mantenere l’autorità in società minacciate sempre più dalla dinamica di relazio-
ni di potere internazionali. Nelle condizioni di colonialismo, emigrazione, immigra-
zione e modernizzazione, la subordinazione femminile tende ad aumentare, sebbe-
ne gli indicatori possano variare dall’aumento di probabilità di stupro in una socie-
tà all’aumento di isolamento in un’altra.
2. La subordinazione femminile aumenta con l’aumentare delle “civiltà” perché
i sistemi multipli di subordinazione femminile risultano dalla conquista, dal cam-
biamento e dall’aumento generale di interazione comune alle diverse civiltà. Questo
potrebbe essere il caso, ad esempio, di una donna messicana che sposasse un uomo
egiziano e vivesse a Dallas, in Texas, soggetta ai modelli di subordinazione prove-
nienti da tutte e tre le culture.
3. Le categorie di subordinazione femminile seguono linee di distribuzione com-
plementari quando la superiorità posizionale del “primo mondo” viene asserita o
La
complementarietà
quando la superiorità posizionale viene innalzata a difesa contro le possibilità delle
delle categorie di donne del “terzo mondo” di occidentalizzarsi. Ad esempio la costruzione musulma-
subordinazione na della subordinazione femminile in Occidente include l’alta percentuale di stupri,
la pornografia, le donne come oggetti sessuali, la perdita del proprio cognome con
il matrimonio, l’assenza di rispetto come viene indicato da sistemi di pagamento ini-
qui. La costruzione occidentale della subordinazione musulmana femminile include
il matrimonio forzato, indossare il velo, la clitoridectomia, il divorzio facile e l’esclu-
sione generale delle donne dalla vita pubblica.
L’idea è di usare la comparazione nelle sue forme storiche, contrastive e control-
late per rompere con i modelli che non producono più modi di pensare creativi.

La necessità di una coscienza comparativa: II


Gli antropologi negli ultimi cento anni hanno costantemente riconosciuto nel-
La comparazione l’antropologia una disciplina comparativa. Ma si è stati meno coerenti nell’essere
per gli consapevoli della natura della comparazione. Ogni epoca ha prodotto in antropolo-
evoluzionisti e i
diffusionisti gia uno schema teorico, all’interno del quale la dimensione comparativa viene defi-
nita (Kobben 1956). Gli evoluzionisti hanno usato la comparazione per compren-
dere lo sviluppo delle istituzioni sociali e culturali. La teoria diffusionista puntava
invece a procedimenti comparativi che fossero in grado di stabilire delle relazioni
storiche fra le culture, per capire come un’idea si propagasse da un gruppo cultura-
Il funzionalismo
le all’altro. L’avvento del funzionalismo ha accentrato l’interesse sull’identificazione
di relazioni funzionalmente significative, e sulla loro comparazione fra culture dove
si ritrovano condizioni simili.
Quando il funzionalismo fu attaccato negli anni Sessanta e Settanta, vi fu un
altro spostamento nell’uso della comparazione. Con l’influsso della linguistica e
Linguistica, dell’analisi componenziale e in seguito dell’antropologia interpretativa, l’interesse
analisi per la comparazione diminuì. Fu attribuito valore positivo all’unico e al particola-
componenziale, re, e la generalizzazione perse d’importanza. Inoltre ci furono asserzioni e prove
antropologia
interpretativa che le società non erano legate in modo preciso e chiaro (e che forse non lo erano
state per secoli), indicando che le unità studiate erano più dinamiche e fluide di
quanto si pensasse (si veda, ad esempio Wallerstein 1974; Wolf 1982; Gramsci
1948-51).
Eppure l’antropologia rimane comparativa nonostante le tendenze fluttuanti.
C’è sempre stata una comparazione implicita nelle etnografie fra noi e il cosiddetto
LA COSCIENZA COMPARATIVA 127

Altro. Non è soltanto in relazione ai caffè e alla subordinazione femminile che la co- Comparazione e
ideologia
scienza comparativa e la consapevolezza dell’uso della comparazione diventano dell’armonia
centrali per la comprensione. Nel mio lavoro sull’ideologia dell’armonia, l’esercizio
della coscienza comparativa ha stimolato una ricerca degli usi, passati e presenti,
fatti di questa ideologia dai missionari cristiani e dai governi coloniali (Nader 1990).
La coscienza comparativa, inoltre, mi ha aiutato a capire che la stessa armonia cri-
stiana, usata con intenti pacificatori nell’iniziale colonizzazione europea dei popoli
era, e ancora è, impiegata per reprimere la tendenza alla critica da parte degli ame-
ricani nel periodo successivo agli anni Sessanta (Nader 1989a). Una coscienza
Il messaggio essenziale del presente saggio è che una coscienza comparativa ben comparativa ben
temperata
temperata conduce a scoperte importanti. Il punto di vista da cui questo viene af-
fermato sostiene la necessità di una maggiore discussione fra i comparativisti sui
vantaggi di un meno rigido controllo tecnico nella comparazione esplicita, e invita
gli etnografi a intensificare le comparazioni implicite nel lavoro etnografico. Se la
conoscenza è potere, la comparazione è fondamentale nella dinamica della produ-
zione di conoscenza.

* Vorrei ringraziare per l’aiuto e gli stimoli che mi hanno forniti Saddeka Arebi, Joann Martin, Lori Powell e Tarek

Milleron e i molti studenti partecipanti al mio seminario “Orientalism, Occidentalism and Control”.
1 Il discorso critico ha anche messo in dubbio la fissità del significato. Anche questo, durante i politicizzati anni

Sessanta e Settanta era un atteggiamento “conveniente” e, dice qualcuno, deresponsabilizzante.


2 Le critiche esterne sono state utili. Gli antropologi sono diventati più consapevoli di essere gli strumenti del loro

lavoro; hanno tratto beneficio da una maggiore consapevolezza del modo in cui viene prodotta la conoscenza. I dibatti-
ti hanno affinato le nostre valutazioni critiche sulla conoscenza prodotta da generazioni precedenti e hanno fatto com-
prendere agli antropologi che anche questo momento nel tempo diventerà “il lavoro di generazioni precedenti”, e ma-
teria che produrrà un proprio dibattito e una propria citica.
3 Alla fine degli anni Cinquanta Clyde Kluckhohn tenne un corso sulla società americana all’Università di Harvard

utilizzando solo romanzi come letture. Affermò che solo i romanzi potevano colmare quei vuoti che risultano quando
gli antropologi sono unidimensionali e quando alcune tematiche (come studiare le élite) sono tabù.
4 Se sviluppiamo molteplici varietà di comparazione, gli antropologi faranno uso della comparazione con rinnova-

to vigore perché le etnografie estremamente localizzate e le comparazioni che comprimono il particolare nelle ristrette
definizioni delle variabili scientifiche mascherano sia influssi egemonici che controegemonici, trascurando quindi i pro-
cessi storici.
5 L’affermazione di Paul Bohannan (comunicazione personale) che oggi “la cultura è libera per le strade” e l’osser-

vazione di Richard Rorty che “abbiamo una mente così aperta che i nostri cervelli sono caduti fuori” (1989, p. 526) mi
hanno stimolato a pensare attentamente al costo della perdita del potere della comparazione in antropologia. La rispo-
sta alla mia domanda mi spinge a rivolgere l’attenzione ad alcune situazioni difficili dell’antropologia socio-culturale
contemporanea.
6 L’analisi di Goody (1984) delle strutture orientali e occidentali utilizza un metodo di comparazione nel quale le

caratteristiche comparate vengono guardate non solo dal punto di vista dell’Oriente o dell’Occidente, ma anche da una
terza angolatura. Viste da questa prospettiva, le differenze possono sembrare relativamente lievi.

Biografia intellettuale

Laura Nader è professore di antropologia presso l’Università della California a


Berkeley, dove fa parte del Dipartimento di Antropologia dal 1960. Ha lavorato fra
gli zapotechi e i trique del Messico, gli shia musulmani del Libano del Sud, popola-
zioni urbane in Marocco e negli Stati Uniti. Il suo lavoro sul campo più esteso si è
svolto fra gli zapotechi di Oxaca, in Messico (1957-1968), e negli Stati Uniti (1970-).
128 LAURA NADER

Le sue ricerche sono note attraverso i numerosi articoli pubblicati. I suoi libri più
importanti sono Talea and Juquila - A Comparison in Zapotec Social Organization
(1964); The Ethnography of Law (1965); Law in Culture and Society (1969); The Di-
sputing Process (1978); No Access to Law (1980) e Harmony Ideology - Justice and
Control in a Zapotec Mountain Village (1990). Ha inoltre pubblicato in collabora-
zione con altri colleghi Energy Choices in a Democratic Society (1980) e un testo sul
futuro dei bambini americani (All Our Children, 1980). Fa parte dell’American Aca-
demy of Arts and Sciences.
Ho iniziato i miei studi nel Dipartimento di Antropologia all’Università di Har-
vard, sotto la guida di Clyde Kluckhohn, dopo la lettura del suo famoso libro Lo
specchio dell’uomo in una congiuntura intellettuale critica. Sebbene Kluckhohn
avesse studiato a Oxford sotto la guida di Robert Marett e lavorato a Vienna con
Padre Schmidt e altri della Scuola storico-culturale di Vienna, quando io l’ho in-
contrato era molto influenzato dal suo studio linguistico con Edward Sapir ed era
coinvolto nel lavoro di A. L. Kroeber sul concetto di cultura. È stato grazie a Kluc-
khohn che frequentai il Summer Institute of Linguistics ad Ann Arbor nell’Universi-
tà del Michigan (estate 1956). Quando in seguito espressi il mio interesse a passare
un anno di studi in Inghilterra, data la mia ammirazione per il lavoro di E. R. Leach
e Raymond Firth, Kluckhohn mi disse che avrei certo potuto leggere quello che gli
inglesi avevano da dire, ma che il pensiero immaginativo era in Francia, fra persone
come Lévi-Strauss. Rimasi ad Harvard. Per Kluckhohn, l’istruzione in antropologia
era una questione di ampiezza di vedute, non di specialismo; incoraggiava gli stu-
denti a leggere attentamente Antropologia (1948) di Kroeber, a visitare gli psicologi
sperimentali di Mem Hall, a essere critici nelle letture dei sociologi, a non dimenti-
care l’importanza di leggere i romanzi (che era il suo modo di insegnare la società
americana), a riconoscere l’importanza della biologia evoluzionista e l’importanza
del tempo. L’antropologia ci riguardava tutti, ovunque.
Douglas Oliver tenne il corso del primo anno ad Harvard; anche lui aveva stu-
diato a Vienna. Introdusse gli studenti all’antropologia attraverso un anno duran-
te il quale leggemmo le monografie classiche. Tra queste letture ho incontrato Na-
ven di Gregory Bateson. Bateson era cosciente della costruzione dell’etnografia
quando quasi nessuno sembrava esserlo, e insieme a Kluckhohn sollevava la que-
stione della differenza fra la modalità scientifica e quella artistica di presentare
una cultura. Contemporaneamente Oliver istruiva la classe sul suo lavoro nel Pa-
cifico discutendo le innovazioni metodologiche che erano applicazioni del lavoro
di Eliot Chapple. Oliver puntava a una ricerca sul campo meticolosa, ma fu grazie
al contatto con Beatrice e John Whiting del Laboratory of Human Development
della School of Education che conobbi l’importanza della comparazione per com-
prendere gli universali e le variazioni umane. I Whiting avevano completato i loro
studi a Yale e l’influenza di Sapir e Malinowski, che era lì in visita, è stata una
grossa parte di quello che mi hanno insegnato. Le influenze ad Harvard erano di
natura eterogenea.
Come studente fra gli zapotechi di montagna mi trovai a lottare per realizzare
un’etnografia estremamente dettagliata, mentre percepivo che stavo perdendo
quello che venne in seguito messo in luce attraverso i film e l’analisi culturale.
Comparai due villaggi molto simili: ma piuttosto che porre delle variabili di pre-
senza/assenza, lavorai su un continuum. Gli antropologi messicani che mi in-
fluenzarono erano Julio de la Fuente e Roberto Weitlaner. La monografia di de la
Fuente sugli zapotec yalalag e il suo lavoro con Malinowski sui sistemi di mercato
indigeni furono importanti punti fermi per l’etnografia dell’Oaxaca. Il modello
LA COSCIENZA COMPARATIVA 129

della ricerca sul mercato illustrava una rete di relazioni fra villaggi apparentemen-
te autonomi. De la Fuente mi mise in guardia rispetto all’insuccesso in cui incorse
E. C. Parson nel documentare la variazione nel suo lavoro sui mitla a causa del-
l’eccessiva dipendenza da un informatore singolo. Roberto Weitlaner mi portò nei
villaggi otomi dove mi insegnò a prender nota di una genealogia, e a porre delle
domande che avessero senso per gli otomi. Weitlaner era un modello per ciò che
concerne la costruzione di un rapporto di ricerca: era stato istruito come ingegne-
re, poi istruito in linguistica americana e le molte ore passate davanti al caffè a
Sanborns erano i migliori seminari sul campo che ognuno potesse avere sulla rico-
struzione storica.
Nel 1960 sono entrata a far parte del Dipartimento di Antropologia dell’Univer-
sità della California a Berkeley. In quello stesso anno morirono Clyde Kluckhohn e
A. L. Kroeber, mentre Geertz, Fallers e Schneider erano partiti per Chicago, la-
sciando così un notevole divario generazionale fra gli antropologi più giovani e più
anziani a Berkeley. Io dovevo insegnare antropologia giuridica. Legge non era una
materia che mi era stata insegnata a Harvard, ma conoscevo la letteratura a fondo.
Il lavoro condotto da Malinowski sul diritto mi attirava, poiché il suo era un punto
di vista molto ampio, e sebbene ammirassi il lavoro di Gluckman trovavo la sua at-
tenzione specifica per i tribunali troppo “da avvocato”. Quando prese inizio il Ber-
keley Village Law Project, decisi di continuare a incentrare il lavoro su una causa in
giudizio (come aveva fatto Gluckman) perché pensavo fosse un’unità minima, com-
parabile a unità come i fonemi e i morfemi in quanto parti del discorso in linguisti-
ca. Dibattere è un fenomeno universale nella cultura umana, anche se non va confu-
so con il paradigma della risoluzione della controversia, che trovo venga usato a
volte in modo non contestualizzato. Come unità d’azione il caso in giudizio può es-
sere manipolato dalle parti o dalle strutture di potere. Fu il lavoro di Eric Wolf che
mi aiutò a comprendere tali manipolazioni in quanto meccanismi potenti di colo-
nizzazione globale e di pacificazione.
Berkeley negli anni Sessanta aveva un grande impatto intellettuale. Sherwood
Washburn stava scrivendo sulla razza come concetto culturale e sociale; Elizabeth
Colson stava scrivendo sulla tradizione e sul cambiamento; George Foster stava stu-
diando il modo in cui le persone si comportano in situazioni di deprivazione; Ro-
bert Heizer stava studiando le lunghe permanenze nelle grotte del Nevada nel con-
testo di un’era nucleare. Dell Hymes incoraggiava molti di noi a occuparci di antro-
pologia critica: Antropologia radicale (a cura, 1969) comprendeva il mio pezzo sullo
studio approfondito, uno sforzo di ampliare l’ambito etnografico. Fu proposto il
concetto di etnografia di interesse pubblico (Spradley 1970), ma il tentativo fu som-
merso dalla scarsa tolleranza verso i precursori in antropologia e dalla passione per
un’antropologia che riusciva a utilizzare sia metodi scientifici che artistici di cono-
scenza. Tuttavia per me rimase valida l’eterodossia del periodo precedente, e si
aprirono nuovi mondi.
Il mio insegnamento e la mia ricerca riflettono queste influenze eterogenee. Inse-
gno: “introduzione all’antropologia socioculturale”, “antropologia giuridica” e tengo
un corso chiamato “Comparative Society”. Le mie aree di interesse sono l’America
Centrale e il Medio Oriente. Negli ultimi anni tengo un corso per i primi anni sui
“processi di controllo”, le componenti dinamiche del potere. Del seminario legato a
questo corso, “Orientalismo, occidentalismo e controllo”, parlo nel presente volume
come di una nuova impresa dell’etnografia storica. L’ispirazione per questo lavoro
viene dalla scoperta che un uso simultaneo di metodologie comparative produce una
comprensione nuova e più profonda rispetto all’uso di approcci singoli. Al momento
130 LAURA NADER

sto scrivendo una serie di saggi sulle pratiche contemporanee che usano i concetti di
controllo sociale e culturale accanto all’idea, oramai accettata, che gli etnografi e le
loro culture sono uno strumento per scrivere l’etnografia, e dunque, parte dell’analisi
sulle forme egemoniche della cultura.
“Specchio, specchio delle mie brame…”.
Il ruolo passato e futuro dell’antropologia: un tentativo di valutazione
Maurice Godelier

Mi è stato chiesto di valutare lo stato attuale, la natura e il futuro dell’antropolo-


gia in poche pagine. È un compito impossibile, naturalmente. Ma è una sfida e un
buon pretesto per porre delle domande che, prima o poi, tutti devono farsi. E ora è
un periodo buono come un altro, forse migliore, perché negli ultimi anni si è chiusa
un’intera epoca. Dieci anni fa chi poteva prevedere che una struttura sociale ed
economica così diffusa come il sistema socialista potesse sgretolarsi e che le intere
mura di tale edificio potessero scomparire nello spazio di pochi mesi? Nessun poli-
tico, nessuno scienziato sociale lo aveva previsto. Le scienze sociali sono capaci solo
di inseguire gli eventi, di analizzare le società senza notare che sono già in via di dis-
solvimento? Non sono mai in grado di prevedere nuovi sviluppi? O forse questi
eventi e altri che non sono ancora avvenuti introdurranno un’epoca che avrà un bi-
sogno ancora maggiore delle scienze sociali.
Se questo è il caso, in cosa può essere utile l’antropologia? Prima di procedere,
però, vorrei tornare per un momento alla sfida iniziale: valutare lo stato dell’antro-
pologia oggi. La tattica migliore è quella di convertire la sfida in un numero di do-
mande semplici: Chi siamo noi? Da dove veniamo? Cosa abbiamo fatto? Cosa do-
vremmo fare?

Chi siamo?
Gli antropologi commerciano in conoscenza. Il nostro scopo esplicito è scoprire L’antropologia
come funzionano le società umane, come mai le varie società che vivono una accanto come scienza
all’altra su questo pianeta – che comprendono l’attuale essenza dell’umanità dalle universale
molte sfaccettature – vivono e pensano a quel modo e cosa questo significhi. La no-
stra ambizione è di imparare abbastanza di ognuna di queste società in modo da po-
terle comparare. Sia che lo ammetta o meno, l’antropologia mira a essere una scienza
universale. Ciò può essere compreso in uno di questi due modi: 1) universale perché
è una scienza, vale a dire, un campo di pensiero che sostiene che le sue affermazioni,
metodi e conclusioni possano essere soggette, come in fisica e in biologia, alla valuta-
zione e all’esame oggettivo, sia l’antropologo un americano, un giapponese o un
messicano; 2) universale poiché, per definizione, nessuna società è esclusa dalla sua
sfera di analisi in quanto punta a scoprire i meccanismi presenti in tutte le società.
Detto questo, comunque, i paradossi saltano agli occhi. Se l’antropologia deve
essere lo studio comparato di tutte le società umane, deve allora invadere la sfera Antropologia,
storia, sociologia:
abitualmente attribuita alla storia e aggiungere alle società di oggi tutte quelle del un compromesso
passato? L’altro paradosso è che pur attenendosi solo alle società odierne come può
l’antropologia combinarsi con la sociologia, che ha anch’essa come oggetto di stu-
dio queste società?
Tutti sappiamo che questi paradossi rimangono irrisolti e che stiamo lavorando
all’interno di un compromesso che le tre discipline hanno tacitamente accettato. In
132 MAURICE GODELIER

pratica, gli antropologi lavorano più sulle società odierne che su quelle del passato e
più su società altre che non sulle proprie; più sulle società non occidentali che su
quelle occidentali. Questo compromesso è presente sin dall’inizio. Dove, allora, ab-
biamo iniziato?

Da dove veniamo?
I due aneddoti personali che seguono saranno d’aiuto per portare alla ribalta le
Il contesto storico nostre origini. Nel 1967, sei mesi dopo il mio arrivo fra i baruya – una tribù isolata
nelle montagne della Nuova Guinea, che nel 1960 era appena passata sotto il con-
trollo del governo australiano – mi fu chiesto dall’ufficiale di polizia australiano a
capo della postazione militare e, separatamente, dal missionario tedesco responsabi-
le della missione luterana, di fornire informazioni che potessero essere loro utili.
L’ufficiale voleva che gli fornissi i nomi dei tradizionali “capi di guerra” della tribù,
sapendo perfettamente che gli uomini che lui aveva designato, in nome di Sua Mae-
stà la Regina, come capi del villaggio non possedevano una reale autorità sugli altri.
Due aneddoti Per quanto riguardava il missionario, era ansioso che io gli insegnassi la religione di
personali questa popolazione, i loro riti segreti, e soprattutto le loro pratiche magiche. Come
il suo collega militare, anch’egli voleva sapere i nomi degli uomini e delle donne che
si credeva fossero “streghe” e “stregoni” (si noti che i baruya chiamano queste per-
sone con un termine che indica rispetto e che significa “uno che tratta con gli spiri-
ti”). Naturalmente la mia etica professionale mi proibiva di dire alcunché e io ero
guardato con sospetto da questi altri bianchi.
In un’altra occasione, al contrario, accettai di collaborare con le autorità austra-
liane. Ecco il perché. Un uomo era tornato dopo molti anni di lavoro alle piantagio-
ni e aveva scoperto che la moglie aveva lasciato la loro casa per andare a vivere con
il suo amante sposato. Il marito andò a richiedere indietro sua moglie, ma l’amante
lo picchiò e umiliò di fronte a tutto il villaggio. Il giorno seguente l’uomo seguì la
moglie nei campi e la colpì a morte con un’accetta. Quindi si consegnò a un agente
che lo arrestò. Fu accusato di omicidio. Il giudice mi chiamò perché io spiegassi in
tribunale le usanze dei baruya. Io dissi che uccidendo la moglie, l’uomo aveva agito
in accordo con la legge baruya. La donna gli apparteneva di diritto, pertanto ora il
lignaggio di lei doveva all’uccisore una donna. Il giudice tenne questi fatti in consi-
derazione quando emise la sentenza.
Vi era certamente più di una ragione per la mia condotta. Ovviamente accettan-
do o rifiutando – secondo il caso – di collaborare con l’amministrazione coloniale o
con una Chiesa occidentale, stavo seguendo dei principi che non sono tutti parte in-
Le ragioni etiche, trinseca della nostra professione. Tutte le volte che ho potuto ho cercato di attenua-
scientifiche,
politiche e la re l’impatto che le pressioni e il potere esercitati dall’Occidente avessero sui baruya.
condotta Il mio atteggiamento era condizionato da ragioni etiche e scientifiche, ma anche po-
dell’antropologo litiche. E tutti conosciamo antropologi che hanno agito in modo diverso, e non
avrebbero necessariamente condiviso i miei scrupoli nell’aiutare a diffondere la “ve-
ra” fede. Ma, e sono sicuro di ciò, a parte queste divergenze, tutti gli antropologi
avrebbero voluto essere lì prima che lo stato di cose cambiasse, per la semplice e lo-
gica ragione che non è possibile misurare il cambiamento se non si conosce lo stato
precedente. Ogni antropologo sogna di essere il primo ad arrivare sul posto. Que-
sto è il sogno “scientifico” che tutti condividiamo.
Ma in una situazione coloniale, principale contesto di lavoro dell’antropologo
fino a dopo la seconda guerra mondiale, l’antropologo non era il solo ad arrivare
sulla scena. Questi era preceduto o seguito da altre figure, le cui funzioni erano in-
dispensabili in questo tipo di scenario: soldati, missionari, mercanti e a volte euro-
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 133

pei proprietari di miniere o piantagioni. Questi aneddoti personali mostrano che Utilità e criteri
nell’uso
1) l’antropologia può essere utile agli altri ed essere riconosciuta come tale; e 2) dell’antropologia
che, come ogni altra scienza, l’antropologia non contiene in se stessa i criteri per
decidere come dovrebbe essere usata. Questi criteri esistono ma sono al di là del-
l’antropologia.
In che modo questi aneddoti ci riconducono alle nostre origini, almeno per
quelli di noi che vivono in Occidente? L’antropologia non è semplicemente apparsa
un giorno già in tutto il suo vigore nel mondo occidentale a fissare le sue rivendica-
zioni come scienza universale. È emersa gradualmente dalla necessità di compren-
dere due aree che erano all’inizio completamente separate. Da un lato c’erano le L’antropologo e i
suoi “compagni
popolazioni dell’Africa, dell’America precolombiana e dell’Asia che lentamente ve- di viaggio”
nivano scoperte e soggiogate dalle lusinghe del commercio dell’Occidente o dai
suoi potenti armamenti. Ogni volta che i colonizzatori volevano commerciare, go-
vernare o evangelizzare dovevano apprendere le lingue locali (per lo più non scrit-
te), osservare le usanze locali e prenderne nota. Anche in Europa, perlomeno dal
sedicesimo secolo, molti impiegati di vari Stati o sacerdoti di diverse Chiese scrive-
vano sulle usanze dei baschi, degli sloveni, dei valacchi, dei lituani, ecc. Questo fu
fatto per molte ragioni – al fine di risolvere le divergenze con una comunità quan-
do, ad esempio, la terra di quest’ultima era stata espropriata e la popolazione prote-
stava in nome dei propri “diritti precedenti”. In breve, vi erano molte ragioni per
cui l’Europa ricercava una conoscenza migliore dei diversi gruppi etnici o delle co-
munità agricole, che (in misura maggiore che nelle città) mantenevano le loro usan-
ze e le facevano valere nella lotta per resistere al cambiamento. Quindi l’antropolo-
go professionista era preceduto da un certo numero di figure che facevano più o
meno le stesse cose che avrebbe fatto lui, ma per ragioni diverse. Questi viaggiatori,
amministratori, mercanti e missionari rimasero i suoi compagni di viaggio, anche
quando l’antropologia si era ormai costituita in tutta la sua differenza. E qui arrivia-
mo al nodo fondamentale: qual è questa differenza?

Il lavoro di Lewis Morgan mi aiuterà a definire in cosa l’antropologia è diversa da Cosa rende
attività apparentemente simili. Ma prima dobbiamo dare un ultimo sguardo alle con- l’antropologia
dizioni nelle quali la nostra disciplina si è andata costituendo. L’antropologia è una diversa
strategia di acquisizione della conoscenza che deve essere utilizzata quando una so-
cietà vivente non ha archivi scritti o altri documenti storici che ci spieghino come
funziona. È una tecnica che rende possibile estrarre la conoscenza dall’osservazione,
dalle informazioni raccolte all’interno della società sottoposta allo studio. Essenzial-
mente la nostra disciplina si è costruita intorno a un metodo, l’osservazione parteci-
pante, che postula la più o meno prolungata immersione di un osservatore (general- Contesti di
mente un esterno) nel gruppo osservato. I due contesti all’interno dei quali l’antro- sviluppo
dell’antropologia
pologia occidentale si è sviluppata – 1) l’espansione coloniale occidentale e 2) in Eu-
ropa, la subordinazione di gruppi etnici e comunità agricole ai processi di formazio-
ne dello Stato nazionale e dello sviluppo di una economia di mercato – indicano che
le indagini etnografiche tendevano a svolgersi in un ambiente in cui i rapporti fra os-
servatore e osservato erano di dominio, di ineguaglianza sociale e di potere. Questo
sfondo si intromette di continuo durante l’intero corso dell’indagine.
Ma l’Occidente non è unico in questo. Altre civiltà hanno assoggettato molte Relazioni di
popolazioni sulle quali, in seguito, hanno cercato una conoscenza più precisa. Non potere
è necessario rivolgersi al Medioevo o alle relazioni dei viaggiatori e degli ammini-
stratori cinesi. Nell’attuale Cina “comunista” l’antropologia è quasi esclusivamente
riservata allo studio delle “minoranze” nazionali, vale a dire i gruppi etnici come gli
134 MAURICE GODELIER

L’antropologia yao e i lesu che si crede non abbiano raggiunto lo stesso grado di civiltà dei cinesi
in Cina
han. Questi gruppi sono oggetto di speciali misure politiche che sottolineano la loro
inferiorità. Lo slogan “un figlio per famiglia” non li riguarda perché sarebbe un af-
fronto troppo grande per le loro usanze. Alle famiglie sono concessi fino a tre figli,
da qui il paradosso: oggi vediamo i cinesi rivolgersi allo Stato per essere riconosciu-
ti non-han e poter quindi beneficiare dei vantaggi di questo status. In India, paese
L’antropologia dove vive una delle maggiori civiltà del mondo, all’inizio l’antropologia sembrava
in India destinata a essere relegata allo studio di quelle tribù ancora non incluse nel sistema
di casta. Insomma, in questi paesi, come nell’Occidente, l’antropologia è vista come
lo studio di popolazioni e gruppi culturalmente arretrati, meno sviluppati economi-
camente e socialmente. La nostra professione ancora porta i segni di questo atteg-
giamento. Quanto detto spiega perché oggi molti paesi di recente indipendenza ri-
fiutino i permessi d’ingresso agli antropologi. Dicono “Non siamo selvaggi kanaka
[indigeni dei mari del Sud] che gli europei osservano”, “siamo gente normale, inte-
ressata alla sociologia, non all’antropologia”.
Questo rifiuto è una delle ragioni per cui l’antropologia, a cui viene riservata
un’accoglienza gelida in alcune zone dell’Oceania e dell’Africa, sta volgendo la sua
L’antropologia attenzione all’Europa e all’America. Ma ci sono ragioni più positive per spiegare
in Europa e in questo riorientamento. Sono state sviluppate tecniche di osservazione sofisticate ed
America
è emersa una consapevolezza critica che ora rende possibile agli antropologi andare
oltre le limitazioni imposte dal contesto originale. Ora gli antropologi si impegnano
ad analizzare città, sistemi educativi, relazioni uomo/donna in tutte le classi e socie-
tà. In breve siamo coinvolti in un movimento doppio, in qualche modo contraddit-
Un doppio torio. I miglioramenti nel nostro metodo hanno allargato il campo di applicazione,
movimento includendo molte aree che precedentemente non erano state individuate. Allo stes-
so tempo la nostra storia, le nostre associazioni passate, le complicità con le relazio-
ni di potere che le nostre società intrattenevano con altre culture, tendono a esclu-
derci oggi dalle aree che abbiamo occupato in passato.
Nulla di tutto questo è misterioso, e il lavoro di Lewis Morgan, uno dei nostri
padri fondatori, spiegherà perché. Questo avvocato proveniente da Rochester, Stato
di New York, amico e difensore degli indiani, iniziò a interessarsi allo studio delle
usanze degli irochesi. Nel corso della sua ricerca scoprì che le relazioni parentali
degli irochesi non sono assurde, ma seguono una logica diversa dalla nostra. Sono
Lewis Morgan
basate su una regola di discendenza matrilineare che serve come principio per re-
clutare membri in una unità sociale e anche per definire quelli a cui è proibito spo-
sarsi. Per designare questo tipo di gruppo lineare esogamico Morgan ha utilizzato il
termine latino gens. Ciò non è stato casuale. Morgan aveva scoperto che i termini
parentali e le regole di discendenza e residenza costituivano un “sistema”. Partì egli
stesso per comparare una dozzina di altre società indiane che già vivevano nelle ri-
serve. In seguito, dopo aver scoperto degli schemi regolari, ebbe l’idea di lanciare
uno studio a livello mondiale. Più di mille questionari furono mandati a missionari,
L’etnografia
come studio dei
amministratori, ecc. Sulla base dei dati ottenuti, che costituivano la più ampia gam-
“sistemi” sociali ma di fatti mai raccolti sulla parentela, Morgan ha sviluppato una prima sintesi nel
libro Systems of Consaguinety and Affinity of the Human Family (1870).
In ciò sta la differenza fra l’etnografia professionale e le annotazioni fatte dai
missionari e dai viaggiatori. Consiste nell’idea che le relazioni sociali formano un
“sistema”, nell’ipotesi che la loro enorme diversità può essere “ridotta” a pochi tipi
fondamentali e che la loro evoluzione e le loro trasformazioni seguono degli schemi
o addirittura obbediscono a delle leggi. L’antropologia non divenne una disciplina
veramente scientifica fin quando non adottò l’obiettivo esplicito di scoprire queste
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 135

logiche, di ridurre le diversità a pochi tipi, e di scoprire (fra i molti incidenti della
storia) cosa produceva queste trasformazioni. Per portare a termine tutto ciò ha do-
vuto perfezionare i propri concetti, rendendoli sistematici e verificabili.
Ma Morgan era anche un uomo del suo tempo. Mentre stava fondando la nostra
disciplina come scienza, contemporaneamente la indeboliva poiché ingabbiava le
sue scoperte in un modello imposto e artificiale che presentava l’evoluzione umana Evoluzionismo e
come una marcia verso il progresso. Credeva di poter tracciare gli stadi dell’evolu- relazione di
zione partendo da lunghi periodi di stato selvaggio e barbarie fino ad arrivare allo dominio
Stato civilizzato che, per l’Occidente, culminava in Europa e nell’America dell’Ot-
tocento. A questo punto la relazione di dominio che era sempre rimasta sullo sfon-
do viene alla ribalta nel cuore della teoria antropologica. Tutte le società non occi-
dentali, così come i gruppi etnici europei e le comunità agricole, venivano rappre-
sentati non solo come residui, ma come vestigia di stadi attraverso i quali l’umanità
era passata nel suo cammino verso la civiltà. Il mondo divenne lo specchio nel qua-
le l’umanità poteva contemplare le sue origini e la sua evoluzione. L’Occidente di-
ventò non soltanto lo specchio, ma la misura della storia nel suo insieme. Ecco la ra- La gens di
Morgan
gione per cui Morgan scelse un termine latino per designare la discendenza matrili-
neare irochese. Egli considerò gli irochesi come le vestigia dell’organizzazione della
gens che aveva caratterizzato l’Europa ai tempi dei greci e dei romani e che era sta-
ta ora dimenticata.
Proprio questo tipo di evoluzionismo, questa particolare visione ideologica del-
l’umanità si è dimostrato essere il punto debole della teoria di Morgan e l’ostacolo
da superare se si volevano fare ulteriori passi in avanti. Le scuole di antropologia
che si sono sviluppate dai tempi di Morgan hanno tutte dovuto iniziare ripudiando
questa versione unilineare dell’evoluzionismo.
Cosa abbiamo fatto da allora?

Verso una comprensione delle relazioni sociali fondamentali


L’antropologia ha iniziato con un postulato condiviso da tutte le scienze socia-
li all’inizio del secolo. Si può esprimere in questi termini: ogni società è un’unità Il postulato
organica che: 1) esiste solo perché alcune funzioni vengono eseguite da varie isti- funzionale e
tuzioni e che 2) si mantiene in vita soltanto fino a quando le trasformazioni inter- organicista
ne o esterne subite dalla società sono compatibili con la riproduzione di queste
istituzioni e funzioni. Per molto tempo questo postulato è stato alla base delle no-
stre analisi. Ma dietro al presupposto astratto formale, troviamo qualcosa nell’im-
magine delle società occidentali al cui interno (da secoli, ormai) le istituzioni eco-
nomiche, politiche e religiose, come pure le relazioni parentali, hanno condotto
delle vite separate. In Europa secoli fa le relazioni economiche si distaccarono
dalle istituzioni politiche e religiose (ad esempio di tipo feudale). Lo sviluppo, a
me sembra, può essere spiegato dall’interazione fra le forze del mercato e le leggi.
Nelle società occidentali funzioni separate sono svolte da istituzioni separate.
Non è sempre stato così, comunque, e non è questo il caso in tutte le culture
odierne. In molte società dell’Africa e dell’Oceania, ad esempio, le relazioni pa-
rentali implicano funzioni economiche come la sorveglianza della terra, la mobili-
tazione della forza lavoro e la ridistribuzione dei prodotti del lavoro. In altre so-
cietà come il Tibet lamaista le istituzioni religiose (come templi e monasteri) so-
vrintendono a molte di queste funzioni economiche.
Gli antropologi hanno usato il suddetto postulato riguardante la natura orga-
nica delle unità sociali come quadro di riferimento per analizzare altre società. Al-
lo stesso tempo hanno visto che il loro schema non corrispondeva mai esattamen-
136 MAURICE GODELIER

te al quadro che i membri di queste società avevano della loro organizzazione so-
Prospettive ciale. Dall’inizio l’antropologia si è trovata di fronte al problema di prendere sul
“emiche” ed serio e di spiegare la discrepanza fra i propri quadri di riferimento di analisi e i
“etiche”
concetti e principi delle popolazioni il cui modo di vita cercava di comprendere.
La nostra teoria esprime questa differenza attraverso l’idea che l’antropologia de-
ve combinare un’analisi “emica” (analisi delle rappresentazioni degli attori nativi)
con un’analisi “etica” (analisi delle rappresentazioni “scientifiche” degli osserva-
tori). Alcuni antropologi come D. Schneider (1984) portano questa distinzione fi-
no ai suoi limiti logici, e non sono lontani dal pensare che l’approccio “emico”
esclude o distrugge quello “etico”, che la parentela così come viene concepita e
vissuta dai “nativi” non ha nulla a che fare con la versione concepita e ricostruita
dagli antropologi.
I compiti degli Quali che siano queste differenze, gli antropologi si trovano di fronte tre compiti.
antropologi
1. Descrizione. Fare una descrizione esaustiva delle società individuali, rico-
struendo con maggior fedeltà possibile i loro modi di pensare e i principi che go-
vernano le loro azioni, seguiti esplicitamente dai membri di queste società. Questo
sforzo si è materializzato nella montagna di monografie basate sul lavoro di campo
prodotte dagli antropologi.

2. Comparazione. Poiché non vi è nessuna scienza senza comparazione, gli an-


tropologi hanno assiduamente comparato le osservazioni in un tentativo di trovare
dei modelli, o meglio ancora, delle leggi. Questa comparazione può essere svolta in
due modi.
Per prima cosa, le società possono essere scomposte in parti e le parti compara-
Comparazioni te (ma non le società). Le comparazioni vengono fatte fra istituzioni – relazioni pa-
tra istituzioni rentali, credenze e pratiche religiose, ecc. – scegliendo esempi tratti da un grande
numero di società e ignorando i legami che queste potrebbero avere con altri aspet-
ti della pratica sociale in ogni società. Questo è quello che fece Morgan quando
comparò i sistemi di “consanguineità” (discendenza) e “affinità” (legami coniugali).
Questo è quello che fece Lévi-Strauss nel suo Le strutture elementari della parentela
(1949). Questo diede origine alle sottodiscipline dell’antropologia: l’antropologia
politica era separata dall’antropologia religiosa che a sua volta era separata dall’an-
tropologia giuridica. Ma poi si pose il problema di come questi campi specializzati
si legassero con le altre scienze sociali che trattavano delle stesse aree. Come si rela-
ziona, ad esempio, l’antropologia economica con la politica economica e la storia
economica? L’antropologia può semplicemente volger loro le spalle? Dovrebbe as-
sorbirle, o sarà assorbita da quelle? L’antropologia chiarisce, critica, o è di comple-
mento?
Le società possono essere anche comparate come entità totali; in questo caso es-
Comparazioni tra
società come
se vengono collocate in categorie ampie: società acefale (o senza capi), regni, stati.
totalità Queste categorie possono essere suddivise: ad esempio le società acefale possono
essere classificate in bande e tribù, ecc. Questo è stato il metodo usato da E. Servi-
ce e M. Sahilns (nei suoi primi scritti), che hanno seguito l’esempio di L. White, il
cui predecessore era stato Morgan.
Le difficoltà (e i dubbi) che si incontrano quando si comparano le società nella
loro totalità sono ovviamente maggiori rispetto a quelli inerenti la comparazione del-
le loro parti. Ma questo tipo di comparazione complessiva fornisce agli antropologi
delle riflessioni migliori riguardo alle ragioni della varietà e della distribuzione delle
strutture sociali totali nello spazio e nel tempo. Le ragioni possono essere ecologiche,
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 137

tecnologiche o ideologiche. In altri termini siamo alla ricerca di una logica della sto-
ria. Non faccio dell’ironia a proposito di questo tentativo. L’antropologia ecologica, La ricerca della
ad esempio, ci ha insegnato molto. Si è presa il compito difficile di identificare e mi- logica della storia
surare le costrizioni materiali imposte su una società dalle sue tecniche e dall’ecosi-
stema (dal quale trae i mezzi di sussistenza). Ha anche aperto il campo tutto nuovo
dell’etnoscienza, poiché ai ricercatori occorreva scoprire come i gruppi umani rap-
presentavano le piante, gli animali domestici e selvaggi, le stagioni, la foresta, la pia-
nura, il mare. Oggi, grazie all’interesse teorico intorno alle condizioni materiali del-
l’esistenza dei gruppi umani e delle loro rappresentazioni dell’ambiente naturale, di- Antropologia
ecologica ed
scipline come l’etnobotanica, l’etnozoologia e l’etnoecologia sono fiorenti. Ma in un etnoscienza
altro ambito i sogni di alcuni ricercatori non si sono avverati perché, come ricordò
Marshall Sahlins a Harris, tutto ciò che questo tipo di riflessione ci può dire riguarda
quello che è materialmente possibile mettere in atto in una società, non la ragione
per cui una di tali possibilità è diventata socialmente necessaria.

3. Metateoria. Giungiamo così al livello metateorico. Gli antropologi che si sono


Metateoria e
avventurati fino a questo punto non possono fare a meno di fare riferimento a para- paradigmi teorici
digni teorici più ampi, come quelli di Max Weber, Karl Marx o Émile Durkheim. di ampia portata
Ma anche se la prudenza o la distanza critica impongono che ci si fermi prima di af-
frontare questi paradigmi teorici, alcuni problemi molto difficili rimangono. Come
mai e in che modo le relazioni parentali in una società assumono tutta una serie di
funzioni che non svolgono in un’altra e così facendo dominano la logica complessi-
va di questa società? Perché in altre società è la religione che ha il ruolo dominante
(ai nostri occhi) come suggerisce L. Dumont (1966a) in Homo Hierarchicus per l’In-
dia? L’antropologia non è stata in grado di trovare una risposta a questi quesiti che
fosse universalmente soddisfacente. La risposta più frequente, che elude la doman-
da, è che ogni società “sceglie la propria cultura”. Infatti. Le società e i sistemi cul-
turali non sono individuali; non sono inventati da una sola persona. Nessuna singo-
la persona ha inventato il cinese o il finlandese.

C’è qualcosa collocato all’interno dell’individuo (ma che non è identico alla sua
irriducibile singolarità) che sia la fonte di questi mondi sociali e culturali?

Lévi-Strauss. Durkheim, Lévi-Strauss e altri guardano oltre l’individuo singolo, Scavare nelle
alle strutture inconscie e alle regole di funzionamento della mente umana in genera- metateorie di
le. Essi postulano che la mente ordina la realtà naturale e culturale in base a due Lévi-Strauss e
fondamentali regole dell’analogia: metafora e metonimia1. Pensare significa scoprire Marx
o porre delle relazioni di equivalenza (o non equivalenza) fra esseri e cose e fra
aspetti di questi esseri e delle cose. Su un livello più astratto, significa pensare a re-
lazioni fra relazioni. La metafora e la metonimia sono dei modi per stabilire delle
relazioni. Questo è stato il punto di partenza di Lévi-Strauss per la sua analisi dei Metafora,
miti e dei sistemi di pensiero, e gli ha dato un buon vantaggio. Ha chiarito nel det- metonimia e
taglio il ruolo giocato, nella formazione dei miti e nei rituali che spesso li accompa- funzionamento
della mente
gnano, dalle coppie di principi e opposizioni binarie (come caldo/freddo; cru- umana
do/cotto; terra/cielo; maschio/femmina) che a loro volta possono entrare in combi-
nazioni anche più complesse.
A questo punto ci troviamo di fronte a due problemi irrisolti. Se i principi che
operano nei miti e nelle religioni si trovano nella mente e se la parte inconscia della
mente umana è la stessa in ogni persona, allora perché ci sono diverse classificazioni
nel mondo? Potrebbe essere che altri principi mentali o contenuti diversi di pratica
138 MAURICE GODELIER

Lévi-Strauss, gli sociale entrino nella genesi del mito e della religione e quindi spieghino la diversità?
empiristi e i
marxisti
Questo suscita una seconda domanda. Anche se non neghiamo il ruolo creativo gio-
cato dal pensiero nella produzione delle relazioni sociali, non corriamo il pericolo di
considerare le relazioni sociali come pensieri “applicati”? Con questa argomentazio-
ne gli empiristi accusano Lévi-Strauss di “intellettualismo”, mentre lui al contrario li
incolpa di funzionalismo semplicistico, e i marxisti distruggono i primi senza rispar-
miare i secondi. Potrebbe sembrare che ci si trovi a confrontare fra visioni opposte e
che però, per quanto i protagonisti tengano alle loro differenze, le loro tesi non siano
mai state interamente in contraddizione l’una con l’altra.
Lévi-Strauss critica gli empiristi perché confondono la descrizione delle forme
visibili dell’organizzazione sociale – le istituzioni e le loro interconnessioni visibili –
con l’analisi della loro logica reale, che è quella delle proprietà strutturali di queste
relazioni sociali. Comunque queste proprietà non possono mai essere viste a occhio
nudo, e devono quindi essere ricostruite mentalmente con l’aiuto di modelli. Lévi-
Strauss rifiuta l’accusa di idealismo affermando che se i suoi modelli forniscono una
spegazione migliorata rispetto alla realtà nel suo insieme è perché corrispondono a
qualcosa “all’interno della realtà”. E insiste dicendo di essere un “realista”, se non
un vero e proprio materialista. In Il pensiero selvaggio arriva a scrivere che quando
tratta i sistemi di parentela e i miti sta trattando solo le “sovrastrutture” della vita
Marx e sociale e dichiara di accettare l’affermazione di Marx sul “primato delle infrastrut-
Lévi-Strauss ture” (il primato delle strutture che organizzano la produzione materiale) sulle so-
vrastrutture (le strutture che riguardano idee e ideali). In questo modo postula l’esi-
stenza di un “ordine degli ordini”, un concetto che non eplorerà mai completamen-
te, ma del quale attribuisce a Marx il merito dell’invenzione. Quando Lévi-Strauss
sostiene che studiando i miti primitivi e le religioni sta studiando semplicemente le
ombre sulle pareti della caverna, la metafora platonica suggerisce che la realtà (che
non è un gioco d’ombre) esiste da qualche parte fuori della caverna. Per compren-
dere la realtà è necessario venire fuori dalla caverna delle rappresentazioni e delle
ideologie. In questo Lévi-Strauss non è lontano da Marx che nel Capitale (1867-
1894) parla del carattere “feticistico” delle merci, che deriva dal fatto che l’aspetto
di una merce non rivela il segreto della sua essenza. Il suo aspetto nasconde il fatto
che il valore di una merce risiede nel lavoro umano necessario per la sua produzio-
ne.

Marx. Ora ci rivolgiamo a Marx, quindi e a quelli che, come me, hanno cercato
La produzione di applicare il marxismo all’antropologia. (Nei fatti molti hanno seguito Althusser
delle forme piuttosto che Marx, almeno fra gli antropologi francesi, ad esempio Terray e Meil-
sociali
lassoux. Io non sono stato uno di loro).
Prendiamo in considerazione le idee principali che sono state prese in prestito
da Marx o a lui attribuite e che hanno influenzato le scienze sociali. Il punto princi-
pale è che le persone non vivono in società come gli altri animali sociali, perché
producono la società (e le sue relazioni sociali) per vivere. Se producono nuove for-
me di società è perché (diversamente dagli animali) sono capaci di modificare il lo-
ro ambiente naturale proprio attraverso quelle relazioni che intrattengono con la
natura e con le altre persone. Gli esseri umani hanno addomesticato piante e ani-
mali, hanno sviluppato l’agricoltura e la zootecnia e così facendo sono entrati in un
nuovo stadio di sviluppo sociale. Questa linea di pensiero non è solo caratteristica
di Marx. Molti credono che lo sviluppo dell’agricoltura e della zootecnia le rese più
utili della caccia e della raccolta nel creare le condizioni per la produzione regolare
di un surplus, che rese possibile la comparsa di classi o caste specializzate nelle fun-
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 139

zioni politiche o religiose (e che non dovevano produrre i loro mezzi materiali di so-
pravvivenza). Tutto ciò, dal loro punto di vista, fu l’origine dei regni e degli stati.
Il “marxismo” postula quindi che lo sviluppo delle forze materiali e intellettuali
di produzione implichi una serie di conseguenze per l’organizzazione della società.
Questa ipotesi non è priva di verità, ma vi è un’enorme riserva: le forze produttive
non si sono mai sviluppate in isolamento, l’economia non è guidata solo da ragioni
e forze economiche. Marx questo lo sapeva. La sua teoria oscilla fra due ipotesi. L’ipotesi del
Un’ipotesi è che la comparsa di nuove forze produttive ha dato origine a nuovi primato delle
rapporti di produzione, che a loro volta hanno influenzato le corrispettive sovra- infrastrutture
strutture (sistemi di parentela, strutture politiche e religiose, forme artistiche, ecc.).
Questo è Marx rivisto da Althusser. Le infrastrutture determinano le sovrastrutture
e le ideologie, che sono le sovrastrutture delle sovrastrutture. Qui le idee sono dav-
vero le ombre sulle pareti della caverna.
Ma vi è una seconda versione di Marx, che inizia con il rifiuto, da parte sua, del-
l’idea che le forze produttive si sviluppino da sole. Egli, al contrario, postula che
queste si sviluppino solo all’interno e sotto la spinta di rapporti di produzione dati.
Questa volta sono le relazioni sociali che attorniano la produzione e non le forze
produttive a essere il punto di partenza per le trasformazioni sociali.
Sorge quindi un problema seguendo entrambe le ipotesi. Solo nelle società capi- Il primato delle
taliste i rapporti di produzione (all’interno di aziende o nell’ambito del mercato) so- relazioni sociali
no completamente separati dalle relazioni politiche e religiose. Nelle società non ca-
pitaliste le relazioni che organizzano la produzione sono inserite e costituiscono le
funzioni e gli aspetti di quelle che noi chiamiamo relazioni di parentela (come fra
gli aborigeni australiani) o relazioni politiche o religiose (come nei regni dell’Africa
o negli antichi imperi pre-colombiani).
L’intera teoria di Marx in questo caso rischia di vacillare, perché vorrebbe dire
che sono la parentela o la religione a strutturare le forme sociali di produzione e a Problemi della
teoria marxiana
imporre alle forze produttive un certo tipo e ritmo di sviluppo. Inoltre, più nume-
rosi sono i fattori non economici che incidono sulla configurazione del modo in cui
una società divide il lavoro fra i sessi, le caste, gli ordini, meno questa divisione cor-
risponderà direttamente a un livello dato di forze produttive, e minore sarà la possi-
bilità che l’ipotesi di Marx – che esistano “leggi di corrispondenza” fra le forze pro-
duttive e i rapporti di produzione – sia vera.
Questo slittamento di prospettiva prova che la metafora infrastruttura/sovrastrut-
ture/ideologie non funziona e deve essere eliminata. Una società non ha un sopra e un
sotto. Quando parliamo di prime o ultime cause, vogliamo soltanto intendere che
un’attività umana pesa più o meno delle altre nel processo di produzione e riprodu-
zione della società, non che è la causa prima o la causa finale della sua esistenza.
Dobbiamo ancora considerare con attenzione alcune delle altre idee di Marx
che hanno causato non pochi dubbi e discussioni. Ad esempio Marx pensava che le
relazioni materiali che le persone intrattengono fra di loro sono anche relazioni di
potere. Chiunque controlli l’accesso delle persone ai mezzi di sussistenza e ai mezzi
per produrre ricchezza, ha potere su queste e le subordina a se stesso. Questa è una
verità fin troppo evidente. Il problema coinvolge le condizioni che governano la ri-
cezione di questa diseguaglianza di accesso alle fonti di sussistenza e ricchezza.
Questa diseguaglianza d’accesso è considerata legittima (o no) da quelli che ne be-
neficiano così come da quelli che sono ad essa assoggettati?
La questione fondamentale qui è: quali sono i ruoli che la violenza e il consenso Violenza,
rispettivamente giocano nella genesi e nella perpetuazione delle diseguaglianze so- consenso e
ciali? A questa domanda Marx risponde con la famosa affermazione “in una società diseguaglianza
140 MAURICE GODELIER

classista le idee dominanti sono quelle della classe dominante”. Aggiunge inoltre
che queste ideologie sono accettate dai più miseri perché spacciano le relazioni di
sfruttamento come condizioni per raggiungere un illusorio “bene comune” e per-
ché tacciono su un’intera parte della realtà. Per Marx le funzioni dell’ideologia, al
contrario di quelle della conoscenza scientifica, sono di mascherare la realtà e di
creare un silenzio nella coscienza. (Freud avrebbe insistito sulle stesse idee in un al-
L’ideologia come tro ambito, portando alla luce la sublimazione del desiderio, la rimozione del signi-
inganno ficato e la censura del corpo o dei pensieri consci). L’ordine non dipende solo dalla
repressione, ma dal silenzio e dall’inganno.
Niente di tutto ciò risolve il problema di come e per quale ragione le rappresen-
tazioni siano condivise da classi, caste e sessi che hanno interessi opposti. Proprio
questa condivisione, insieme con la violenza diretta riversata sui gruppi dominati, è
la fonte del loro consenso volontario (anche quando è passivo) all’ordine sociale
che li domina. Affinché questo consenso esista, le relazioni diseguali (che contengo-
Le relazioni di no forme di dominazione od oppressione) devono in un modo o nell’altro – attra-
dominio come verso qualche misterioso processo che dobbiamo ancora analizzare – presentarsi co-
relazioni di
scambio
me scambio reciproco di servizi. L’esercizio del potere deve infine essere visto come
un servizio fornito dal gruppo dominante a quelli che domina, e deve far sentire
questi ultimi debitori per questi servizi e legati a ripagare il debito donando la loro
ricchezza, il loro lavoro, i loro servizi, le loro vite. Da questo punto di vista è possi-
bile mostrare come, in India ad esempio, la religione funzioni come una relazione di
dominazione e produzione. Poiché la casta dei bramini, grazie alla sua purezza,
sembra essere l’unica casta in grado di compiere i riti religiosi e di offrire i sacrifici
adatti, si considera che questa adempia a un servizio insostituibile per le altre caste.
Ciò a sua volta autorizza i bramini a prendere come dono il lavoro e i servizi delle
altre caste. Questo monopolio d’accesso a quelle che consideriamo realtà immagi-
narie e condizioni immaginarie di riproduzione dell’universo e della società consoli-
da la disuguaglianza d’accesso alle condizioni materiali dell’esistenza, alla terra, al
lavoro, alla ricchezza.
Dove collocarsi dunque, ora che siamo arrivati al termine del nostro tentativo di
districare i vari approcci teorici, ognuno dei quali contiene elementi di verità ma
solleva domande per le quali, a causa delle loro ipotesi fondamentali, non sono cer-
ti di avere una risposta?

Una prospettiva A livello teorico sembra corretto dire che non vi è diretta corrispondenza fra un
aperta sulla dato modo di produzione e una particolare regola di discendenza o un sistema pa-
parentela rentale. Questo era già evidente prima di Murdock o Meyer Fortes. Allo stesso tem-
po nessuno ha ancora spiegato perché così tanti sistemi diversi di parentela – patrili-
neare, matrilineare, cognatici, ecc. – siano sparsi sulla faccia della terra. Il conflitto
fra coloro che si sono concentrati sui legami di discendenza (Fortes, Goody, ecc.) e
coloro che si sono concentrati sul matrimonio o sui legami di affinità (Lévi-Strauss,
Dumont, Needham e un esponente più cauto, Leach) come fondamentali per stabili-
re legami di parentela, è stato di grande aiuto per agevolare la nostra comprensione
della materia.

Parentela come discendenza/Parentela come alleanza matrimoniale. La distinzio-


ne tra filiazione – basata biologicamente su legami bilaterali – e discendenza – le co-
struzioni culturali più esclusiviste che hanno a che fare con la trasmissione genealo-
gica (ad esempio patri- e matrilinearità) suggerisce che tutti i sistemi di parentela in-
cludano un livello di relazioni bilaterali o cognatico. Seguendo Fortes è possibile
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 141

accettare l’idea che alcune regole di discendenza (che favoriscono alcune linee di fi- Meyer Fortes:
discendenza e
liazione a sfavore o con l’esclusione di altre) operano insieme ad altre relazioni so- strutture di
ciali come le relazioni politiche. In questo caso il modo in cui le discendenze sono potere
organizzate può essere posto in relazione con le strutture di potere. Ma pur avendo
proposto l’idea e stimolato una seria ricerca sui sistemi politici dell’Africa, Fortes
non fu in grado di spiegare le ragioni della diversità dei sistemi africani (che anda-
vano da tribù acefale, senza capi, a domini e regni).
Né si sbagliava Lévi-Strauss affermando che le regole matrimoniali siano una
parte intrinseca della logica della parentela – sono molto di più di un elemento se-
Lévi-Strauss:
condario aggiunto, utile solo per la riproduzione di gruppi di discendenza. A que- l’incesto e le
sto punto la questione dell’incesto viene alla ribalta. L’esistenza di questa proibizio- regole
ne è ciò che rende le alleanze fra i gruppi di parentela una condizione necessaria e matrimoniali
permanente per la loro riproduzione. Ma è necessario accettare la sua affermazione
che il tabù dell’incesto è all’origine dell’“autentica” società umana e la fonte della
cultura? Questo non attribuisce erroneamente agli uomini l’“invenzione” della so-
cietà? Noi non abbiamo dovuto inventare la società. Siamo animali sociali per natu-
ra, e l’evoluzione naturale ci ha resi così. L’uomo però è l’unico animale che abbia la
capacità di modificare le sue condizioni originarie di esistenza, di produrre nuove
forme di esistenza sociale. Questa è una capacità probabilmente dovuta alla gran-
dezza del cervello dell’uomo (che gli rende possibile comprendere le relazioni fra
relazioni) e alla sua posizione eretta (che rende libere le mani e concede una capaci-
tà eccezionale di agire sull’ambiente che lo circonda).
Ma Lévi-Strauss avanzò un’altra idea che oggi appare inaccettabile. Dire che il
matrimonio è uno scambio è vero. Ma affermare che questo scambio deve sempre Il matrimonio
come scambio
prendere la forma di uno scambio di donne fatto da uomini vuol dire considerare la di donne
dominazione maschile come un fatto di natura, un presupposto transculturale e
trans-storico delle relazioni parentali. Ciò non significa dire che la dominazione ma-
schile non esista. Ma tutto quello che può essere dedotto dall’analisi dei sistemi pa-
rentali è che, quando la dominazione maschile esiste (e può esistere per molte ra-
gioni che non hanno nulla a che fare con la parentela), si fa largo nelle relazioni pa-
rentali e le usa per la propria riproduzione. Nelle nostre attuali società occidentali,
il matrimonio non si presenta come uno scambio di donne fra uomini ma come uno
scambio fra famiglie di uomini e donne. Il matrimonio in quanto tale non presup-
pone una dominazione maschile anche se questa pervade le nostre società.

Cosa spiegano le relazioni parentali e cosa non spiegano. Le relazioni parentali


Trasformazioni
cambiano e si evolvono. Fanno questo per molte ragioni. Ma il risultato della loro delle relazioni
evoluzione è la comparsa di un altro sistema di parentela. Un sistema matrilineare parentali
può diventare bilineare; un sistema cognatico può diventare patrilineare. L’evolu-
zione della parentela produce parentela. Nessuna trasformazione concepibile di un
sistema di parentela sarà in grado di spiegare la comparsa di classi, o caste, o altri
gruppi simili in una società.
Un altro fatto di grande portata teorica è che un sistema parentale può sopravvi-
vere a grandi trasformazioni sociali e (al prezzo di alcune riorganizzazioni interne)
andare d’accordo molto bene per lunghi periodi di tempo con strutture economi- Goody e la
che e politiche molto diverse. Se si deve credere a Jack Goody, la maggior parte dei parentela in
sistemi di parentela europei per secoli sono stati cognatici e si sono adattati prima Europa
alla comparsa, poi alla scomparsa del feudalesimo, e quindi allo sviluppo del capita-
lismo (con la conseguente ed enorme industrializzazione e urbanizzazione). Infine,
e questa è una continuazione critica della tesi di Meyer Fortes (1969), le relazioni di
142 MAURICE GODELIER

parentela appaiono come sistemi di supporto – sono dei canali per trasmettere da
una generazione all’altra titoli politici e/o diritti sulla terra e/o compiti religiosi. Le
relazioni sociali, politiche, economiche e religiose subiscono continuamente delle
metamorfosi, facendosi largo nel funzionamento dei sistemi di parentela dove di-
ventano attributi, aspetti di alcune relazioni di parentela.
L’imposizione di una regola di discendenza sottomette le relazioni di filiazione a
Teorie “native” manipolazioni che hanno l’effetto di sottovalutare alcune relazioni perché sopravva-
sull’eredità
lutano altre. Questo è quello che è alla base delle teorie “native” che riguardano il
corpo e le rappresentazioni di ciò che ogni bambino o bambina riceve da sua madre
o suo padre (sangue, ossa, carne, sperma, ecc.). È il meccanismo per l’appropriazio-
ne di bambini da parte degli adulti (che affermano di essere in una certa relazione
parentale con essi) che viene legittimato.
La recente ricerca sulla parentela e sulle rappresentazioni dell’individuo presso
varie culture ha mostrato che il sesso agisce come il pupazzo del ventriloquo, ossia
che sin dall’inizio la cultura e la società impongono al genere sessuale di funzionare
come un linguaggio – di legittimare aspetti della realtà che non hanno direttamente
nulla a che fare con i sessi e con la riproduzione sessuale. In tutte le società studiate
i corpi erano utilizzati non solo per testimoniare, ma anche per testimoniare a favo-
re o contro l’ordine esistente.
Ma né la parentela, né la sessualità spiegano questo ordine. Il fatto che un siste-
ma di parentela sia cognatico piuttosto che patrilineare non spiega e non getta luce
sulla ragione per cui i titoli che vengono trasmessi attraverso la parentela da una ge-
Il ridotto potere nerazione all’altra siano titoli feudali. Né tantomeno la parentela spiega la ragione
esplicativo della per cui la proprietà ereditata dai discendenti di una persona prenda la forma di una
parentela
proprietà privata o di una proprietà feudale della terra. Non vi è quindi una diretta
connessione in forma di una corrispondenza necessaria, in nessuna società, fra la
natura delle relazioni di parentela, da un lato, e la natura delle forme di proprietà e
potere dall’altro. Però esse si compenetrano l’un l’altra. Un’analisi simile può essere
applicata alla religione e potrebbe mostrare che il cristianesimo, i cui dogmi origi-
nari si cristallizzarono più di duemila anni fa in Medio Oriente, in seguito si unì al-
lo sviluppo del feudalesimo e del capitalismo, nessuno dei quali ha avuto la benché
minima connessione con le origini dei dogmi della religione cristiana.

Due fondamentali relazioni sociali


Alla fine la questione essenziale per le scienze sociali è: di tutte le molteplici atti-
vità umane, quali sono quelle che causano non solo i cambiamenti nella società, ossia
Le forze causali gli avvenimenti ordinari quotidiani, ma i cambiamenti della società? Credo di avere
di mutamento appena dimostrato che queste forze e cause non risiedano nella parentela, né nella
religione, né nell’arte. A me pare che si trovino nelle azioni di due serie di relazioni e
attività, strettamente correlate fra di loro. Esse comprendono, nel loro insieme, la
fonte delle forze e delle costrizioni che conducono ai cambiamenti della società.
Queste due serie di relazioni sono quelle che, da un lato, organizzano l’azione del-
l’uomo sulla natura e ridistribuiscono gli effetti materiali alla società; dall’altro organiz-
zano le relazioni di potere fra gli uomini e consentono alla società di riprodursi come co-
Le relazioni
uomo-natura e munità, come un insieme che è più grande della somma delle parti. Questa visione
quelle di potere teorica delle componenti della vita sociale si costituisce come un nucleo di forze che
sorpassano quelle riguardanti la produzione sociale. Queste sono associate con le fun-
zioni politiche ed economiche: potere, sussistenza, ricchezza. Ma questo “nocciolo
duro” di forze è anche necessariamente associato con la parentela, l’arte e la religione,
senza che questa associazione prenda mai la forma di una corrispondenza necessaria.
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 143

Marx occupa un posto importante in questa visione. Ma la sua ipotesi che la sfe-
ra economica costituisca il fondamento generale della vita sociale – che è l’infra-
struttura sulla quale tutte le altre relazioni sociali sono costruite e dalla quale pro-
vengono – è invalidata da quella che ora può essere esibita come prova: che non esi-
ste una corrispondenza necessaria fra questo nucleo, le sfere economica e politica, e
gli altri aspetti della pratica sociale.

Cosa dovremmo fare ora? Lo specchio infranto


A questo punto il lettore avrà capito che l’antropologia è viva e vegeta. Ha le sue
crisi e i suoi conflitti, come il resto delle scienze sociali. Ma per il prossimo futuro
La vastità
dovrà giocare un ruolo indispensabile nel pensiero sociale, perché l’antropologia è dell’antropologia
insostituibile. Fra tutte le scienze sociali è l’unica che presenti una gamma tanto va-
sta di informazioni riguardanti i vari modi di vivere e di pensare che coesistono og-
gi sulla terra. Ha il vantaggio di presentarci, per così dire, due versioni di questi da-
ti: da un lato le prospettive analitiche e teoriche della disciplina, che devono essere
controllate, criticate e riviste continuamente, se non proprio annullate; dall’altro la
moltitudine degli studi etnografici sulle società che gli antropologi hanno descritto
e analizzato negli ultimi centocinquanta anni. Né la sociologia, né la storia offrono
un così ampio campo di comparazioni.
Naturalmente il contesto dell’antropologia è cambiato dai tempi della sua nasci-
ta, o per meglio dire delle sue diverse nascite. L’era delle grandi scoperte e dei
“viaggi in America” è passata. I grandi imperi coloniali sono scomparsi, sebbene al-
cuni paesi ne portino tuttora dei segni (vedi l’influsso francese nell’Africa occiden-
tale, o l’influsso inglese in Asia). La nostra epoca sarà certamente caratterizzata da
una nuova espansione del sistema nato in Occidente, l’economia di mercato di tipo
capitalista più o meno associata con un regime politico di democrazia parlamentare.
Questa combinazione non avviene ovunque e forse non è neanche necessaria, come
aveva suggerito Max Weber. Il Sudafrica è un paese capitalista la cui intera popola-
zione, bianchi e neri, è cristianizzata. Ma è stato caratterizzato dall’apartheid e dal-
l’assenza di democrazia.
L’originalità della nostra epoca riguarda anche il fatto paradossale che l’occiden-
talizzazione del mondo è, in parte, nelle mani dei paesi orientali. Il Giappone, che L’occidentalizzazione
che viene da
non è mai stato una colonia, che ha sempre mantenuto la sua sovranità politica e Oriente: il
che ha rifiutato i tentativi cristiani di evangelizzazione, è ora alla guida di tutti gli al- Giappone
tri paesi capitalisti nello sviluppo di tecnologie d’avanguardia e di meccanismi eco-
nomici capitalisti.
Un’altra caratteristica originale dei nostri tempi, che sta appena iniziando ad
emergere, è che l’Europa, tagliata a metà negli ultimi decenni (e che in effetti per
secoli non è mai stata unita), potrebbe essere riunificata sotto il vessillo del mercato
e della democrazia. Ma esiste il pericolo di passare da una forma totalitaria di socia- La situazione
lismo a un nuovo tipo di capitalismo sfrenato. L’Europa dovrà affrontare i problemi europea
vecchi di secoli e ancora irrisolti (negati o brutalmente repressi dai regimi socialisti)
legati alle numerose identità etniche dominate o dominanti che formano l’Europa
centrale e orientale. L’analisi dei gruppi etnici e dell’“identità etnica” è uno dei
punti di forza dell’antropologia.
Gli antropologi dovrebbero inoltre occuparsi della rinascita delle grandi reli-
Antropologia e
gioni come l’Islam e della comparsa in Occidente di nuove forme di vita spirituale. relazioni tra i
In più, le relazioni fra uomini e donne, specialmente le forme di negazione e op- sessi
pressione legate a queste relazioni, costituiscono un terreno di dibattito politico e
riflessione teorica, non solo in Occidente, ma in numerose società. Oggi l’antropo-
144 MAURICE GODELIER

logia è all’avanguardia tra le discipline che esplorano questa area. Dietro la que-
stione delle relazioni fra i sessi si affacciano il problema delle relazioni intergenera-
zionali, delle relazioni fra adulti e giovani, e tutti i problemi che accompagnano i
cambiamenti negli atteggiamenti generazionali, cambiamenti che chiamano in cau-
sa i sistemi educativi.
Su un piano più astratto l’antropologia è favorita anche fra le discipline in grado
I meccanismi di analizzare i meccanismi e le caratteristiche fondamentali della “fede”. Il fatto di
della fede condividere le stesse rappresentazioni, di credere nelle stesse idee quando si è sepa-
rati da interessi opposti, rimane un problema fondamentale all’interno dei compor-
tamenti umani, e rappresenta un punto di particolare difficoltà per la teoria. Quali
furono le circostanze relative alla morte delle divinità greche: cessarono di essere
oggetto di fede e culto attivo? Non siamo ancora andati molto lontano nella ricerca
della scatola nera che contiene i meccanismi della fede, e non sappiamo ancora la
ragione e il modo in cui una certa fede o pratica venga associata a un dato simbolo.
I simboli non sono semplicemente ornamenti derivati da alcune pratiche e rappre-
sentazioni. Sono una delle componenti interne, una parte intima, attraverso la quale
la fede e le pratiche prendono vita.
Ma risulterà evidente, a questo punto, che, se deve affrontare tutti questi pro-
blemi, l’antropologia non può essere governata da una dottrina singola. È giunto il
Una funzionalità momento di optare per un razionale pragmatismo radicato in una sorveglianza criti-
di dottrine ca permanente, che non smetta mai di imparare – imparare dal nostro passato, dal-
le nostre origini e dalla nostra evoluzione. Non tutti gli studi, tutte le teorie, tutte le
posizioni antropologiche sono uguali. Quelle che hanno dimostrato la loro utilità –
come il lavoro di Lévi-Strauss, Leach, Firth, Rivers ad esempio – devono avere il
giusto credito. Dobbiamo costruire su quello che abbiamo preso da loro per conti-
nuare la nostra strada comune e controversa.

1 La metafora, o associazione per analogia, avviene ad esempio quando la bellezza di un fiore viene paragonata alla

bellezza di una donna. La metonimia, o associazione per connessione fisica, avviene quando una corona è associata con
una regina, perché la regina generalmente indossa la corona (NdC).

Biografia intellettuale

Maurice Godelier è professore di antropologia alla Ecole des Hautes Études en


Sciences Sociales di Parigi. Nel 1990 ha ricevuto il premio internazionale Von
Humboldt per le Scienze Sociali. È stato vice presidente della Société des Océani-
stes, direttore scientifico del Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica
(CNRS) e capo del Dipartimento di Lettere e Scienze Sociali. Ha condotto un inten-
so lavoro sul campo in Papua Nuova Guinea fra i baruya e altri membri del grup-
po culturale anga. Fra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Rationalité et ir-
rationalité en economie, 1960; Perspectives in Marxist Anthropology, 1977 (ed. fran-
cese 1972); La production des Grandes Hommes. Pouvoir et domination masculine
chez les Baruya de Nouvelle-Guinée, 1981; L’ideale e il materiale, 1984 (ed. francese
1984); è stato coeditore con Marilyn Strathern di Big Men and Great Men: Personi-
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 145

fications of Power in Melanesia, 1991; ed editore di Transitions et Subordinations au


Capitalisme, 1991.

Quando iniziai i miei studi a Lille nel 1951 non avevo idea che un giorno sarei
diventato un antropologo. La mia passione era la filosofia ma ero anche interessato
alla psicologia. Nel 1952 Michel Foucault, fresco di Ecole Normale Supérieure e con
la sua agrégation de philosophie, venne a Lille come professore di filosofia e psicolo-
gia. Diventammo amici e fu lui a consigliarmi di andare a Parigi a continuare i miei
studi.
Entrai alla Ecole Normale Supérieure nel 1955 e iniziai a lavorare sulla logica in
Husserl, Kant e Hegel, quindi mi misi a leggere il Capitale di Marx da cima a fondo.
Nel 1958 passai l’agrégation de philosophie. In quel periodo imperversava il dibatti-
to intorno alla morte della filosofia, che secondo molti non avrebbe potuto resistere
allo sviluppo delle scienze e ai cambiamenti rivoluzionari che avvenivano nella so-
cietà. Io ero convinto che ciò con cui bisognava farla finita era la presunzione che la
filosofia da sola potesse scoprire i fondamenti delle scienze e della pratica sociale.
Arrivai alla conclusione che mi occorreva più della filosofia per filosofare su tutto, e
decisi di continuare i miei studi. Ero indeciso fra medicina ed economia, ma a cau-
sa del mio interesse per Marx e per la mia attività politica, scelsi economia.
Nel 1960 lo storico Fernand Braudel mi introdusse alla Ecole Pratique des Hautes
Études, della quale era presidente. Era una grande opportunità per me. Braudel mi
concesse due anni di completa libertà per fare ciò che volevo e io lessi moltissimo.
In fondo tre domande mi affascinavano: in quali condizioni i sistemi economici
possono essere “comparati”? Cosa spiega la loro comparsa e scomparsa in alcuni
momenti della storia? Fino a che punto la concezione occidentale di “razionalità
economica” può essere usata nel comparare sistemi socioeconomici? L’ultima do-
manda sembrava essere al centro di discussioni violente che scoppiavano fra gli eco-
nomisti ogni volta che qualcuno voleva dimostrare la superiorità del capitalismo e
dell’economia di mercato sul socialismo e l’economia pianificata, o viceversa. Men-
tre ero alla ricerca di risposte a queste domande, mi volsi all’antropologia. Mi sem-
brava che sarebbe stato più produttivo studiare i sistemi economici nelle società vi-
venti contemporanee organizzate secondo logiche sociali e culturali completamente
differenti dai nostri modelli occidentali.
A questo punto mi si presentò una seconda opportunità. Avendo già pubblicato
tre articoli sul concetto di “struttura” nel Capitale di Marx, li mandai a Lévi-
Strauss, che non conoscevo personalmente. Mi rispose con un biglietto, dicendomi
che questi testi lo interessavano, tanto più che, durante la sua giovinezza, prima del-
la sua agrégation de philosophie, aveva scritto un saggio su La struttura logica del Ca-
pitale di Marx. Mi invitò anche ad andarlo a trovare, e quando gli dissi che volevo
occuparmi di antropologia, mi suggerì di unirmi a lui al Collège de France.
Nel 1962 Il Pensiero selvaggio era stato appena pubblicato, e in questo testo Lé-
vi-Strauss aveva adottato la posizione di Marx il quale riteneva che le infrastrutture
prevalgano sulle sovrastrutture, presentandosi come specialista delle sovrastrutture.
Un giorno, scherzando, mi suggerì di dedicarmi alle infrastrutture e ricercare tutto
il materiale antropologico sull’economia delle società primitive. Nel 1963 fui nomi-
nato Senior Lecturer del dipartimento e organizzai il primo corso in Francia di an-
tropologia economica. In quel periodo l’unico studioso francese a lavorare in quel-
l’area era Claude Meillassoux, che aveva studiato con George Balandier. Vi era un
vivace dibattito fra sostantivisti (Polanyi e i suoi seguaci) e formalisti (Firth, Schnei-
der, ecc.). Mi sembrava che la discussione portasse nella direzione sbagliata. Sentivo
146 MAURICE GODELIER

che vi era la necessità di guardare oltre e di cercare di comprendere perché l’econo-


mia di una società era inscritta nelle relazioni politiche o di parentela, o, al contra-
rio, non vi era inscritta, come nelle economie capitaliste. Fu in quel periodo che ini-
ziai a considerare la distinzione fra infrastruttura e sovrastruttura non più come una
distinzione fra istituzioni, ma come una distinzione tra funzioni che potevano essere
collocate in ambiti molto diversi della pratica sociale. Avrei sviluppato queste consi-
derazioni dieci anni più tardi in Horizon, Trajets Marxistes en Anthropologie (1977),
per il quale fui immediatamente attaccato da Meillassoux, Terray, Kahn e altri che si
professavano marxisti ma che in realtà seguivano l’interpretazione di Marx propo-
sta da Althusser.
Incontrai George Dalton, Marshall Sahlins e molti altri durante i viaggi negli
Stati Uniti e quindi tornai in Francia per completare Rationalité et irrationalité en
économie, che uscì dopo la mia partenza per la Nuova Guinea (1966). In questo te-
sto arrivai alla conclusione che non vi era nessuna razionalità economica, ma che
esistevano varie razionalità sociali e che le ragioni del succedersi dei sistemi socioe-
comici negli anni erano da ricercarsi nei cambiamenti strutturali, per la maggior
parte involontari, e nelle riorganizzazioni consapevoli avvenute nelle relazioni so-
ciali, che prese da sole non erano sufficienti a determinare il passaggio da un siste-
ma all’altro.
Una delle idee di Marx che mi sembrava veramente importante era che le rela-
zioni mediante cui si organizza la produzione e la circolazione dei mezzi di sussi-
stenza e di ricchezza implicano lo sviluppo di interessi conflittuali e di contraddi-
zioni sociali. Un’altra idea era che le ideologie o sorvolano queste contraddizioni in
silenzio, oppure le mascherano come scambi reciproci, mascherando di conseguen-
za il dominio e lo sfruttamento che queste implicano. Il punto di vista marxista, che
sottolinea le costrizioni materiali e l’evoluzione dei sistemi, mi avvicinò alla nuova
scuola di antropologia ecologica che stava esordendo negli Stati Uniti con R. Rap-
paport e P. Vayda e in Francia con J. Barrau, che aveva lavorato con H. Conklin a
Yale. Nonostante ciò sentivo che l’approccio ecologico non sempre prestava abba-
stanza attenzione all’esistenza delle contraddizioni sociali e alle forme di sfrutta-
mento nelle dinamiche dei sistemi.
Alla fine del 1966 lasciai la Nuova Guinea, dopo aver seguito il consiglio di E.
Leach ed esser andato a Cambridge per incontrare A. e M. Strathern, che erano ap-
pena tornati dal loro primo lavoro sul campo con i melpa. Nel corso del mio viag-
gio per l’Australia mi fermai a New York per consultare M. Meggitt e R. Rappaport
e quindi a Camberra per vedere W. Stanner. Il mio primo soggiorno durò tre anni
(1967-1969) poiché volevo combinare un approccio qualitativo e uno quantitativo,
e la dimensione del gruppo baruya (circa 1700 persone) sembrava permettermelo.
Nel 1969 M. e A. Jablonko vennero a filmare la produzione di sale e altri aspetti
della vita baruya; Ian Dunlop venne a filmare le grandi cerimonie di iniziazione ma-
schile che si tennero a ottobre e novembre di quello stesso anno. Analizzare queste
immagini con i miei amici baruya, tradurre i dialoghi e quindi offrire ai baruya co-
pie dei filmati sono state esperienze molto importanti nella mia vita.
Il periodo passato con i baruya ha modificato profondamente le mie opinioni
teoriche, per non parlare di me stesso. Fui colpito dal fatto che i miti e i rituali fun-
zionavano sistematicamente per innalzare gli uomini e umiliare le donne nella men-
te della popolazione, attraverso una serie di spiegazioni immaginarie che giustifica-
vano la posizione del genere maschile e del genere femminile nella società. Fui an-
che colpito dal fatto che il dominio maschile combinava sempre due forze: l’uso di
violenza fisica, politica e simbolica, naturalmente, ma anche il consenso delle donne
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 147

a questo dominio. Quindi invece di scrivere l’abituale monografia che trattava di


parentela, economia, ecc., decisi di descrivere la società baruya, dal punto di vista
delle relazioni uomo-donna, che sembrava essere il punto centrale – da qui La pro-
duction des Grandes Hommes (1981). Furono i baruya, quindi, che stimolarono il
mio interesse per l’analisi delle relazioni di genere, o almeno che mi fecero vedere e
sentire più chiaramente cosa accadeva intorno a me nella mia stessa società. Para-
dossalmente, questo mi ha anche portato, dal 1974, a passare molto più tempo a
leggere materiale sulle società di cacciatori e raccoglitori, poiché queste venivano
chiamate in causa dai movimenti femministi e antifemministi in antropologia per
provare che la dominazione maschile era sempre stata la regola universale o, al con-
trario, che era solo sopravvenuta con la comparsa di tipi di società più complessi e
con la stratificazione sociale. Nel 1978 organizzai un incontro su “Cacciatori e rac-
coglitori”, i risultati del quale apparvero nel volume Politics and History in Band So-
cieties (1982, a cura di Eleanor Leacock e Richard Lee, Cambridge University
Press). La conoscenza di E. Leacock mi ha influenzato molto, forse proprio perché
su tante questioni avevamo opinioni diverse.
Il mio lavoro fra i baruya ha avuto anche delle conseguenze teoriche per me in
quanto specialista della Melanesia. Venti anni fa molti antropologi opponevano il
modello di M. Sahlins del Big Man melanesiano al Capo polinesiano quando analiz-
zavano le forme di potere che incontravano in Nuova Guinea. Sfortunatamente, per
quanto provassi, io non riuscivo a inserire i baruya in questo schema. Da nessuna
parte trovavo un Big Man che accumulasse mogli e ricchezza, cercasse di superare
gli altri con regali e rispondesse con altri regali durante gli scambi cerimoniali. Gli
uomini eminenti nella società baruya erano i capi delle iniziazioni maschili, grandi
guerrieri, sciamani, insomma persone che ho deciso di chiamare “great men” per
distinguerli dagli altri. Questo mi ha condotto a setacciare i lavori dei miei colleghi
su circa quindici società della Nuova Guinea per verificare se questa distinzione fra
società con “Big Men” e società con “Great Men” apparisse altrove. Avevo la sensa-
zione che questi fossero due poli di un complesso di logiche sociali e culturali le cui
variazioni non erano semplicemente il risultato del caso. Nel 1987 insieme a Stra-
thern organizzai un incontro su “Big Men e Great Men: personificazioni del potere
in Melanesia”.
Ma c’era un problema che continuava a saltar fuori: mentre il potere per domina-
re si combinava sempre con la violenza e il consenso, perché questo consenso esi-
stesse in qualche modo i dominatori e i dominati, gli sfruttatori e gli sfruttati doveva-
no condividere le stesse rappresentazioni. Questo, insieme alla convinzione che non
ci fossero legami diretti fra un dato modo di produzione e qualsiasi sistema di paren-
tela e di religione – il cristianesimo, ad esempio e il capitalismo, che apparve quindi-
ci secoli più tardi – mi portò a tentare una sintesi in L’ideale e il materiale. Non sem-
brava più possibile fare della sfera economica il fondamento generale della società e
quindi la chiave fondamentale per analizzare le forme della società, come aveva pro-
vato a fare Marx. Ora mi sembrava che questi due campi di forza, relazioni economi-
che e relazioni di potere, mantenessero delle affinità strutturali che erano molto più
del semplice effetto di adattamenti reciproci e che contavano più di tutte le altre aree
della condotta umana (arte, parentela, ecc.) nei processi che inducono non solo una
società a cambiare, ma a cambiare in un altro tipo di società.
Tenendo tutto questo a mente, negli ultimi dieci anni ho esplorato in due dire-
zioni. Da un lato ho studiato il processo di subordinazione e disintegrazione/ripro-
duzione nelle società periferiche soggette all’espansione del capitalismo occidentale;
dall’altro sono tornato allo studio classico sulla parentela. Perché la parentela? An-
148 MAURICE GODELIER

cora una volta la storia inizia con il mio lavoro sui baruya. La sensazione che ci de-
ve essere qualche connessione fra l’esistenza di un sistema di parentela basato sullo
scambio diretto di donne e l’esistenza di una organizzazione politica e simbolica –
le iniziazioni maschili – che uniscono gli uomini contro le donne mi spingeva a
comparare i sistemi di parentela trovati all’interno della Nuova Guinea, prima di
tutto, e poi ancora più lontano. Negli ultimi tre anni ho esaminato numerosi lavori
sulla parentela con l’intenzione, un giorno, di scrivere qualcosa su “Incesto, paren-
tela e potere”, e devo ammettere che trovo molte delle teorie più ampiamente
discusse poco convincenti.
I futuri dell’antropologia
Adam Kuper

Cosa possiamo aspettarci dall’antropologia degli anni Novanta? Penso che l’og-
gi sarà come il passato, poiché gli elementi costitutivi dell’antropologia sono rimasti
stabili per tutto il ventesimo secolo. Allo stesso tempo, le tendenze che condurran-
no ad alcuni cambiamenti di direzione e di enfasi sono già evidenti.

I tre progetti dominanti


Ci sono tre progetti di ricerca ben noti in antropologia. Due sono pienamen-
te istituzionalizzati negli Stati Uniti, mentre il terzo è caratteristico dell’Europa
occidentale.
Il progetto
Il primo, lanciato di fatto da Boas, si occupa della cultura, e in particolare della boasiano
variazione culturale. Aspira a fornire un resoconto “dall’interno” dell’esperienza
culturale, interrogandosi sull’esperienza delle differenze culturali, sui modi in cui il
linguaggio e il costume infondono all’azione un significato e uno scopo, sul peso
della tradizione. Si tratta di un progetto relativista, più interessato a descrivere e in-
terpretare che a spiegare, e questo guardando più al particolare che al generale.
Questo programma di ricerca ha subito molte trasformazioni nelle generazioni
ma è ancora riconoscibile nella seconda metà del secolo in un gran numero di pro-
getti, specialmente all’interno dell’antropologia interpretativa e psicologica. Di re-
cente ha assunto una forma radicale – ma che sarebbe stata immediatamente chia-
ra a Boas – nel postmodernismo. I suoi interessi psicologici da lungo tempo affer-
mati vengono espressi soprattutto nell’antropologia del “self”. Le tendenze attuali
favoriscono una definizione cognitiva della cultura e implicano – raramente in mo-
do esplicito – forme di determinismo culturale. Vi sono strette affinità con il mo-
vimento costruttivista sociale in filosofia e con la sociologia delle scienze. E molto
spesso viene dato rilievo al linguaggio – ovvero esso viene “privilegiato” come di-
cono nel dialetto francoinglese.
Il secondo programma ha rappresentato da sempre il principale antagonista di
quello boasiano. Si occupa principalmente dell’evoluzione umana, e Darwin è il suo
eroe. Privilegia i fattori materiali del processo evolutivo... È un progetto che cerca i Il programma
evolutivo
principi generali, modellando se stesso sulle scienze naturali – invece che sulle scien-
ze umane – in seno alle quali i boasiani di solito trovavano i propri alleati. Questo
programma è una scelta automatica per molti archeologi e antropologi fisici, sebbe-
ne sia sempre stato preferito anche da un folto numero di antropologi culturali, a
partire dai seguaci di Morgan al “Bureau for American Ethnology” e compresa la
progenie intellettuale di Stewart e di White, gli ecologisti degli anni Sessanta e Set-
tanta e, più recentemente, i sociobiologi.
Naturalmente alcuni singoli studiosi hanno partecipato a entrambi questi pro-
grammi e altri si sono identificati con alcune modalità di una tradizione particolare
ma si sono opposti alle restanti. (La tradizione evoluzionista ha sempre avuto una
150 ADAM KUPER

destra e una sinistra, una più interessata alle costrizioni biologiche, l’altra più alla
tecnologia e all’ambiente). Nonostante ciò, è giusto dire che la maggior parte degli
antropologi, nella gran parte dei dipartimenti di antropologia americani, ha lavora-
to all’interno di uno di questi due programmi abbozzati e, tendenzialmente, rifiuta-
to l’altro.
Non ci sono solo differenze intellettuali fra questi programmi. Oguno di loro ha
ricevuto fondi da diverse istituzioni e i dipartimenti di antropologia si sono spesso
divisi politicamente fra i sostenitori di una o dell’altra traiettoria di ricerca.
Il terzo programma – caratteristico dell’antropologia sociale in Europa occiden-
tale – tende a seguire Durkheim (nonostante abbia accettato letture di Weber e
Marx). Questo programma è interessato alla relazione fra la struttura sociale e ciò
Il programma
dell’antropologia che viene variamente etichettato come cultura, religione o ideologia. Se il program-
sociale ma boasiano è a suo agio fra le scienze umanistiche e il programma evoluzionista
aspira a essere accettato dalle scienze naturali, allora l’antropologia sociale è una
scienza sociale, strettamente legata alla sociologia. Fra le due guerre mondiali il suo
centro era in Inghilterra, ma le sue più recenti trasformazioni sono avvenute a Pari-
gi. Queste comprendono lo strutturalismo di Lévi-Strauss negli anni Sessanta e il
marxismo strutturalista negli anni Settanta, eppure la tradizione è stata straordina-
riamente risparmiata da altri movimenti parigini riguardanti la filosofia e la teoria
letteraria, movimenti che hanno influenzato l’antropologia culturale contemporanea
americana. Oggi l’antropologia sociale si ispira a idee provenienti dalle sociologie
di Bourdieu, Habermas e Giddens, e dalla storia strutturale che la scuola degli «An-
nales» ha sviluppato da Durkheim.
Questo programma ha una posizione virtualmente monopolistica nell’antropo-
logia sociale europea; l’antropologia sociale in Europa sta iniziando una fase di cre-
scita istituzionale e demografica, specialmente nei paesi di lingua tedesca e in Spa-
gna e Portogallo. È stata fondata una nuova “European Association of Social Anth-
ropologists” e le sue prime conferenze, tenute in Portogallo nel 1990 e a Praga nel
1992, hanno dato prova di una fresca vitalità. Gli europei occidentali sono ora più
aperti a influenze provenienti dall’antropologia culturale americana di quanto lo
fossero in passato e alcuni recenti lavori di antropologia culturale americana sono
stati emulati in Europa (come testimoniano il numero di dicembre 1989 de «L’-
Homme» e le recenti conferenze della “British Association of Social Anthropo-
logy”). Negli Stati Uniti, comunque, l’antropologia sociale rimane un interesse mi-
noritario, sebbene abbia alcuni avamposti ben evidenti. In Europa l’antropologia
sociale ha poca o nessuna relazione con l’antropologia fisica e solo un legame remo-
to e occasionale con l’archeologia. Queste discipline tendono a prendere spunto da-
gli sviluppi che emergono negli Sati Uniti.
I tre progammi di ricerca sono ben definiti, attuabili, dinamici e istituzional-
Le tradizioni di
mente radicati. Saranno certo tutti al loro posto nella prossima generazione. Que-
studio sto non vuol dire però che le discipline accademiche siano immortali, sebbene sia-
minoritarie no indubbiamente forti. All’interno dell’antropologia le tradizioni europee di et-
nologia intrecciate agli studi di folklore sono oggi così deboli da non poter proba-
bilmente sopravvivere. Sono state spinte in una periferia non accademica nella
maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e nell’Europa orientale, dove era-
no più presenti, saranno probabilmente fra le vittime che passeranno inosservate
nell’attuale riorientamento politico. Al contrario, la vitalità delle tre tradizioni de-
scritte è molto evidente. Un sintomo è la loro capacità di produrre delle trasfor-
mazioni nuove, spesso inaspettate e a volte affascinanti sulla scorta dei loro pro-
grammi di base.
I FUTURI DELL’ANTROPOLOGIA 151

Fonti di cambiamento: diversificazione regionale


Se ci sono degli elementi massicci di continuità, ci sono anche due significative
fonti di cambiamento. Non è più corretto definire l’antropologia culturale o sociale
in termini di tradizione metropolitana, anche se la definizione della metropoli si è
ampliata, come doveva sicuramente accadere, per comprendere il Giappone. Vi so-
no degli sviluppi affascinanti al di fuori dei centri metropolitani che diventeranno
sempre più significativi nel futuro.
Le conferenze più interessanti a cui ho partecipato negli ultimi anni sono state
un piccolo raduno di antropologi sociali indiani, economisti e responsabili per lo L’antropologia
sviluppo a Nuova Dehli e un enorme incontro dell’Associazione di Antropologi sociale fuori
dalla metropoli
Brasiliani a Campinas, con più di duemila partecipanti. Questi incontri rappresen-
tano bene dozzine di incontri simili che si svolgono in India, Indonesia, Brasile,
Messico e Sudafrica. In questi paesi l’antropologia sociale ha preso più o meno il
ruolo che ha la sociologia in molti paesi occidentali. Istruisce il personale e fornisce
agli intellettuali delle risorse e dei metodi per lo studio di processi sociali e naziona-
li. Gli antropologi di questi paesi in genere sono impegnati in programmi di svilup-
po sociale e in strategie politiche (sia direttamente che come critici). Sono estrema-
mente sensibili alle implicazioni politiche del loro lavoro. Ce ne sono anche molti
fortemente interessati a una ricerca etnografica più tradizionale a causa di un impe-
gno per il libero sviluppo culturale di alcune comunità presenti nei loro paesi. Sen- L’impegno degli
antropologi per
to un certo orgoglio per la mia professione quando considero il modo in cui i miei lo sviluppo
colleghi hanno usato le risorse della nostra disciplina per comprendere e sostenere
gli interessi delle popolazioni urbane povere in Messico o in India, o dei lavoratori
migranti del Sudafrica o del Brasile e delle minoranze tribali minacciate dell’Amaz-
zonia o dell’Himalaia, e per indagare i conflitti etnici nel mondo.
L’antropologia in questi paesi è tipicamente eclettica nella sua ispirazione intellet-
tuale. Si ispira infatti, per lo più, a modelli teorici metropolitani (sebbene la teoria del-
la dipendenza latinoamericana, ad esempio, abbia influenzato molti studiosi della me-
tropoli negli anni Settanta). I dibattiti nelle comunità di studiosi locali, in ogni caso, Gli influssi
aiutano a modellare lo studio di particolari aree nei centri metropolitani. Tale influen- delle comunità
za crescerà. Gli etnografi provenienti dall’Occidente che vanno a lavorare in questi locali
paesi ora (necessariamente e giustamente) si uniscono alle comunità locali di studiosi,
impegnandosi in discussioni comuni e trovandosi esposti a critiche pungenti per man-
canza di empatia, sensibilità politica e conoscenza locale. Ci sono alcune riviste regio-
nali eccellenti e le migliori monografie etnografiche vengono ora frequentemente
pubblicate più in India o in Brasile che in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Fonti di cambiamento: il documento etnografico


La diversificazione regionale della nostra disciplina – la sua diffusione istituzio-
nale in alcune fra le comunità intellettuali più vivaci del Terzo Mondo – rinforza
l’altro grande processo che io considero come promotore di cambiamento. Que- Gli “antropologi
st’ultimo, da un certo punto di vista è metodologico, da un altro è demografico. La esplorativi” del
generazione di Malinowski e di Boas si considerava come una generazione di esplo- passato
ratori, che schiudevano un nuovo mondo, e i loro studenti avevano ancora la men-
talità dei pioneri. Essi potevano ingannarsi, ma ai nostri giorni queste illusioni sono
in ogni caso impossibili. Il mio vecchio amico Isac Shapera di recente mi ha fatto
notare che quando lui iniziò a lavorare in quello che allora era il Protettorato del
Bechuanaland (ora Botswana) circa sessanta anni fa, capì che il suo compito era la
descrizione di ogni aspetto della vita sociale di ogni tribù tswana. Recentemente un
giovane studioso che svolgeva del lavoro sul campo lo venne a trovare mentre era in
152 ADAM KUPER

viaggio per condurre uno studio sulle associazioni di trivellatori. Il progetto è per-
fettamente ragionevole e realizzabile perché ora si conosce molto della vita rurale in
Botswana. Probabilmente numerosi altri scienziati sociali sono impegnati in ricer-
che che ora si sovrappongono una sull’altra. Avranno contatti con gli ufficiali presso
il Ministry of Local Government a Gaborone e forse con i funzionari della Banca
Mondiale che potrebbero finanziare progetti riguardanti risorse idriche o vendita
del bestiame, o le conseguenze ecologiche della pastorizia.
Non voglio esagerare il contrasto: Malinowski diceva ai suoi studenti di studiare
La tendenza alla i problemi, non le popolazioni (parafrasando il monito di Collingwood agli storici,
specializzazione che dovevano studiare i problemi, non i periodi). Ma se invece di contrapporre due
estremi esagerandoli, io suggerissi che c’è stata una chiara tendenza di sviluppo, ci
sarebbe ben poco da ribattere. La tendenza è stata verso un lavoro sul campo più
specializzato e un’ampiezza di trattazione etnografica più complessa e dettagliata.
In breve, l’etnografia sta diventando sempre più diffusa e approfondita.
Ci sono molte consequenze importanti. Ne menzionerò due. Prima di tutto ogni
etnografo contemporaneo deve controllare padroneggiare una intera biblioteca di
fonti secondarie e tenersi aggiornato rispetto ad un flusso di studi locali rilevanti –
condotti da antropologi, ma anche da linguisti, storici, studiosi della religione, demo-
Il lavoro grafi, economisti e geografi. In secondo luogo non è più necessario per l’etnografo
dell’etnografo rivolgersi ad un pubblico accademico metropolitano e formulare un argomento teo-
oggi: molte fonti,
un nuovo rico generale. I lettori dell’etnografo sono sempre di più persone con una competen-
pubblico locale za locale. Potrebbero essere perfettamente soddisfatti di un testo di critica etonogra-
fica sull’interpretazione eccessivamente letteraria e orientata verso i bramini di qual-
che culto popolare Hindu. O potrebbero apprezzare una descrizione dei modi in cui
una popolazione dedita alla pastorizia ha reagito alla deviazione di un fiume messa in
atto per alimentare un bacino d’acqua. E poiché l’etnografo si rivolge a lettori locali,
deve tenerne in considerazione le sensibilità politiche e culturali.
Queste forse sono tutte tendenze sufficientemente familiari, ma vale la pena di
considerare alcune implicazioni per lo sviluppo dell’antropologia sociale e cultura-
le. La comparazione non è più l’interesse centrale di molti antropologi che lavorano
sul campo, e in ogni caso, l’impresa comparativa – che io credo sia il nucleo dell’an-
tropologia teorica – sta cambiando la sua natura. Oggi le comparazioni più interes-
santi e acute sono regionali come campo d’azione e storiche come concezione. Ci
sono buone ragioni teoriche per questo, ma derivano anche dall’intensa ricerca et-
nografica caratteristica del nostro tempo.
A causa di queste tendenze alcuni dei dipartimenti più avanzati delle università
del Terzo Mondo diventeranno i centri per tale comparazione regionale di ispirazio-
ne teorica, come Leiden una volta lo era per gli studi indonesiani, od Oxford per gli
studi sul Sudan. Il vecchio Rhodes-Livingstone Institute sotto la guida di Max Gluck-
man o l’East African Institute of Social Research sotto la guida di Audrey Richards
forse prefiguravano alcuni dei centri antropologici della prossima generazione.

Ricerca interdisciplinare
In questi sviluppi è implicita un’altra grande questione, vale a dire la relazione
Interdisciplinarietà fra le nuove direzioni prese dalla nostra disciplina e quelle prese dalle altre discipli-
e innovazioni ne. Gli antropologi sociali e culturali al di fuori dei centri metropolitani danno per
teoriche scontato il fatto di lavorare in un ambiente interdisciplinare. Dopo tutto essi sono
interessati soprattutto alla regione. Consumano tutte le informazioni che possono
trovare su essa e si impegnano in continue discussioni con altri che condividono i
loro interessi. Nonostante ciò le innovazioni teoriche continueranno ad arrivare so-
I FUTURI DELL’ANTROPOLOGIA 153

prattutto dai centri metropolitani, proprio a causa del loro orientamento meno re-
gionale e più generale, ma anche perché è qui che i nuovi sviluppi tendono ad avve-
nire nelle altre discipline e diventano quindi disponibili agli antropologi.
Una predizione sicura è che la maggior parte delle innovazioni teoriche della
prossima generazione sarà interdisciplinare, ma la fonte degli stimoli esterni negli
anni a venire sarà difficile da prevedere. Nell’ultimo quarto di secolo abbiamo
tratto modelli e idee dalla sociologia, storiografia, linguistica, filosofia, teoria let-
teraria, ecologia e sociobiologia. Ho stranamente omesso la psicologia cognitiva
perché le sue vivaci promesse stanno iniziando a essere sfruttate solo ora dagli an-
tropologi.

Interessi e metodi teorici condivisi


Ho delineato le tre principali tradizioni dell’antropologia sociale e culturale. Ho
previsto che queste continueranno a dar forma ai maggiori programmi di ricerca nei
centri metropolitani. Sono diverse in tutto e soprattutto si pongono delle questioni
Un confronto
particolari sulla storia umana. Sono spesso in competizione istituzionale l’una con creativo
l’altra e a volte si considerano come discipline virtualmente distinte. Eppure non so-
no sempre e necessariamente in lotta l’una con l’altra. Una fonte di vitalità intellet-
tuale in antropologia potrebbe consistere nella riscoperta dei nostri interessi teorici
comuni, nel confronto creativo e nella messa in comune delle nostre risorse.
L’osservatore esterno è portato a supporre che ci sia un programma comune a
tutte le varie antropologie. Penso che la sua intuizione non sia poi così ingenua co-
me potrebbe apparire a prima vista.
L’antropologia riguarda l’unità e la diversità degli esseri umani. Noi vorremmo
1) stabilire fino a che punto le popolazioni variano nelle loro istituzioni sociali, nei
loro valori e credenze, e persino nella loro costituzione fisica, 2) tracciare una gam-
ma di queste variazioni e uniformità, e 3) giustificare queste scoperte e considerare
le loro implicazioni. Le tre astrazioni
Un’impresa vasta è generalmente definita riferendosi a tre astrazioni condivise: condivise
“evoluzione”, “cultura” e “struttura sociale”. Certamente ognuno dei tre succitati
progetti antropologici ha fatto di una di queste particolari astrazioni il suo centro
d’interesse. Ma questi concetti acquistano il loro significato dalle relazioni che han-
no l’uno con l’altro: formano un complesso. E ogni teoria antropologica è in effetti
un’ipotesi riguardante queste interconnessioni. Convergenze
Vi è inoltre una notevole convergenza di metodi. Qui i termini chiave sono “la- di metodo
voro sul campo”e “comparazione”, ma vi è anche un terzo procedimento comune,
che a volte trascuriamo di definire – la rianalisi dei materiali etnografici, particolar-
mente della casistica classica della disciplina.
Gli antropologi provenienti dalle principali tradizioni della disciplina tendono a
proporre dei metodi simili di raccolta dei dati, basati sull’osservazione partecipante.
Sono anche attenti alle possibilità di comparazione, combinando il fascino per la
complessità dei casi etnografici, il senso del significato relativo degli esempi partico- Comparazione
e critica
lari e il riconoscimento sofisticato dei tranelli insiti nei procedimenti comparativi postmoderna
stabiliti. Eppure, sebbene possa mancarci la fiducia in alcune forme convenzionali
di comparazione, possiamo ancora accettare implicitamente le loro premesse di ba-
se, cioè che i materiali etnografici possano essere rimaneggiati in nuovi contesti e ri-
analizzati. La critica postmoderna ci ha creativamente messo a disagio rispetto ai
nostri procedimenti, ma alcuni dei più stimolanti saggi recenti sulla rivalutazione si
sviluppano attraverso la critica persuasiva e la rianalisi dei dati etnografici, non solo
delle etnografie.
154 ADAM KUPER

Tali interessi e metodi teorici condividono anche un punto di riferimento. Non


Il documento
si tratta di un’astratta nozione di storia umana, ma di un corpus di materiali molto
etnografico concreto e familiare che costituisce l’eredità essenziale e condivisa dell’antropolo-
gia: l’insieme dei documenti etnografici. Le teorie dell’antropologia sono tentativi
di dare senso a questi documenti; i metodi dell’antropologia sono procedimenti per
raggiungerli, criticarli, sfruttarli. Gli antropologi sono educati a rispettare e apprez-
zare questi documenti. Rendiamo onore a chi li conosce bene e rispettiamo quei po-
chi che in ogni generazione vi contribuiscono significativamente. Gli antropologi
sono degli specialisti nell’uso di questi documenti. Al contrario, gli estranei che se
ne appropriano ci sembrano ingenui, poco critici e cadono nelle trappole che persi-
no gli studenti di antropologia dei primi anni sarebbero abbastanza cauti da evitare.
(Se gli estranei considerano gli antropologi come una comunità, anche noi ricono-
sciamo quanto essi siano differenti da noi).

Un continuo sforzo intellettuale


Vi sono quindi sia forze centripete che forze centrifughe – spesso forze creati-
ve, che promuovono l’innovazione – al lavoro nel mondo antropologico. Mentre il
nucleo centrale è lì, non ha la stessa attrazione magnetica per tutti gli antropologi.
Un antropologo sociale probabilmente conosce abbastanza, o anche di più, la so-
ciologia contemporanea, le attuali teorie sull’evoluzione umana o la semantica, e
un archeologo che lavora sui neanderthaliani può non sapere quasi nulla di “strut-
tura sociale”.
Le divisioni fra Le principali linee di faglia nella disciplina forse non corrono fra i grandi pro-
specializzazioni
disciplinari
grammi intellettuali di ricerca, ma fra le specializzazioni disciplinari – antropologia
culturale e sociale, archeologia, antropologia fisica. La linguistica ha virtualmente
reciso i suoi legami con il resto, per quanto gli antropologi culturali possano ram-
maricarsene. Negli anni Settanta molti eminenti antropologi predissero il collasso
della disciplina come istituzione accademica. La frammentazione organizzativa
dell’American Anthropological Association può ancora far presagire un’ulteriore
disintegrazione.
Sono consapevole che questa rassegna è stata condotta nell’ambito dell’antro-
pologia culturale e sociale. Una rassegna di antropologia condotta dall’interno
dell’archeologia o dell’antropologia fisica avrebbe probabilmente individuato del-
le traiettorie disciplinari piuttosto diverse. Eppure, buona parte della vivacità in-
tellettuale dell’archeologia contemporanea nasce dall’utilizzo delle teorie antro-
pologiche sociali e del documento etnografico; e la biologia umana è impegnata
nello studio dell’interazione dinamica fra processi sociali, culturali e biologici. Gli
interessi principali – la struttura profonda della disciplina – sopravviveranno sicu-
ramente a questo nuovo millennio. E continueranno a trovare espressione nelle
organizzazioni, dipartimenti universitari, riviste, ma soprattutto nello sforzo intel-
lettuale.
I FUTURI DELL’ANTROPOLOGIA 155

Biografia intellettuale

Adam Kuper è nato in Sudafrica e ha studiato antropologia sociale presso l’Uni-


versità del Witwatersrand e a Cambridge, dove ha conseguito il dottorato nel 1966.
Ha insegnato presso università in Uganda, Gran Bretagna, Svezia, Stati Uniti, Olan-
da ed è stato borsista presso il Center for Advanced Studies in the Behavioral Scien-
ces a Stanford. I suoi libri comprendono monografie etnografiche che trattano degli
abitanti di villaggi nel deserto Kahalari e della Giamaica moderna, etnografie com-
parative sull’Africa del Sud e critiche storiche di antropologia sociale. Il suo libro
più recente è The Invention of Primitive Society (Routledge, 1988). Sin dal 1986 è
stato direttore di «Current Anthropology» ed è stato il primo presidente della Euro-
pean Association of Social Anthropology.

Ogni antropologo sociale è educato per lavorare sia come etnografo che come
teorico comparativista o sociale. Sembra che stia cercando di giustificare me stesso
su entrambi i fronti, ma forse attraverso progetti non troppo convenzionali. Il mio
lavoro ha due centri d’interesse primari: uno è costituito dall’etnografia comparati-
va dell’Africa del Sud; l’altro è costituito dalla storia e dalla teoria dell’antropologia
sociale. La mia ricerca attuale riguarda i sistemi politici precedenti alla conquista.
Tendo a passare regolarmente da un insieme di progetti all’altro dopo un po’ di an-
ni, ma questo non è un ritmo pianificato, e ne sono consapevole solo quando mi
guardo indietro verso quello che è accaduto realmente.
Sebbene il mio periodo più intenso di formazione si sia svolto a Cambridge, sot-
to la guida di Meyer Fortes, la maggiore influenza intellettuale sul mio lavoro è sta-
ta esercitata dai lavori di Lévi-Strauss. Dirigere «Current Anthropology» ha amplia-
to i miei orizzonti intellettuali e mi ha messo in contatto con antropologi di tutto il
mondo. Più recentemente, comunque, sono stato catturato dal risveglio dell’antro-
pologia sociale europea.
Alcune notazioni preconcette sull’antropologia interpretativa: un punto di
vista dal Brasile
Roberto DaMatta

Vorrei discutere alcuni aspetti della prospettiva “interpretativa” che si sono svi-
luppati recentemente nell’antropologia culturale americana. Non intendo scrivere
uno studio dettagliato ed esaustivo, né voglio formulare una tesi contro un movi-
mento che ha molti punti sui quali concordo e che tendo ad accettare. Gli antropo-
logi brasiliani hanno sempre lavorato in ambienti politici fortemente autoritari e
hanno scritto i primi studi sulle “situazioni di contatto”, caratteristiche delle società
tribali oggetto delle loro etnografie, che erano sull’orlo dell’estinzione, non soltanto
culturale, ma anche e tragicamente fisica. Penso che per questi antropologi non sa-
rebbero una sorpresa le affermazioni che: 1) il mondo si sta restringendo; 2) si fa
della retorica ogni volta che si parla dell’“altro”, che si parla di coloro che vengono
studiati dagli antropologi; 3) l’“autorità etnografica” deve essere continuamente sfi-
data e sottoposta a verifica1.
Tenterò di presentare la mia opinione su una prospettiva che, dal mio punto di
Alcuni limiti vista, possiede dei difetti molto seri. Mi riferisco al fatto che l’“antropologia inter-
dell’antropologia pretativa” americana, oltre a scivolare in astratti argomenti filosofici, tende all’esa-
interpretativa gerazione programmatica e retorica, cadendo a volte in quello che si può definire
un’irritante rettitudine. Inoltre tende a ridurre i problemi antropologici esclusiva-
mente a narrazioni sul lavoro di campo, evitando sistematicamente una contestua-
lizzazione storica e teorica, che è stata la base delle rivendicazioni scientifiche e
umanistiche dell’antropologia2.
Il punto centrale è che discutendo questioni di questo tipo emergono due pro-
blemi fondamentali. Il primo è che le basi dell’autorità etnografica vanno oltre un
semplice fatto di stile. Sono legate al successo con cui gli studi etnografici presenta-
no, risolvono o sciupano una questione teorica nel periodo durante il quale è stato
scritto il lavoro. Il secondo problema è che la posizione interpretativa deve essere
appresa e giudicata in riferimento a un contesto particolare – vale a dire, all’interno
dei confini di un universo sociale in cui la vita accademica (e sto pensando natural-
mente alla vita accademica americana) ha alcune caratteristiche. Una di queste ca-
ratteristiche è la sua estrema compartimentazione; un’altra è la sua grandezza e la
sua enorme sicurezza politica e istituzionale; una terza è la sua ferma convinzione
Le caratteristiche
dell’accademia che il mondo stia subendo una frammentazione verso l’individualismo (con una
americana “cosmopolitizzazione” di ogni cosa e ogni persona, nella quale la scelta individuale
gioca un ruolo fondamentale). Nessuno ha riassunto ciò meglio di James Clifford
(1986, 1988), il leader intellettuale di questa posizione. Per Clifford – professore al-
la cosmopolita e fiorente Università californiana di Santa Cruz – il mondo è un luo-
go in cui “i frutti puri impazziscono”.
Io credo che molto dell’“antropologia interpretativa” abbia una correlazione
diretta con il panorama culturale e accademico americano – un universo costituito
da un individualismo egualitario e cosmopolita, dove si può mangiare “cibo” cine-
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 157

se, messicano o francese, e dove si vive in un contesto sociale caratterizzato dal fat-
to che la cultura locale viene definita negativamente e attraverso la sua paradossale
assenza3.
Si può sviluppare, credo, un’interessante discussione intorno alla posizione “in-
terpretativa” basandosi sull’osservazione delle proprietà ideologiche e/o culturali
del movimento, specialmente quando si hanno a mente i tipi di antropologia con-
trastanti prodotti in Brasile. Senza questo sforzo di valutazione reciproca e comune,
la nostra critica verrà sempre fatta in termini di presupposizioni universalistiche.
Quello che dovrebbe essere un dialogo “dialogico” e polisemico diventa ancora una
volta un monologo autoritario.

Il contesto del discorso intepretativo americano


Secondo me la caratteristica più irritante delle “antropologie postmoderne” –
ispirate dalla “scoperta” che la soggettività e la storia pervadono tutto quello che Il
facciamo – è la loro relativa incapacità a essere ispirate teoricamente da società, cul- postmodernismo
e la fuga dalla
tura e sistema di valori a cui appartengono gli studiosi che le producono. Così, propria cultura
mentre i fondatori degli studi critici ed ermeneutici europei in generale – da Dilthey
a Ricoeur e Foucault – erano interessati a problemi, categorie e circostanze stretta-
mente legate alla loro cultura e società, i rappresentanti modeni di questa tendenza
dell’antropologia americana hanno continuato a ritrarsi dallo studio della loro cul-
tura come il diavolo di fronte all’acquasanta.
Abbiamo quindi una situazione singolare. Una nuova “antropologia interpretati-
va” viene promossa con forza (in buon stile americano) in quanto denuncia i para-
Polifonia e
digmi della tradizionale autorità etnografica. Si insiste a dire che invece delle etno- dialogismo in
grafie di stile “monologico” occorra uno stile carnevalesco, un “dialogo polifonico” etnografia
nel quale il ricercatore e l’oggetto della ricerca alla fine (e giustamente) si scambino
i posti4. Allo stesso tempo, comunque, la maggior parte dei lavori prodotti da que-
sto movimento continua a concentrarsi su fenomeni esotici – fenomeni che richie-
dono la presenza di un interprete per iniziare una discussione. La sfida maggiore
per le “antropologie culturali” e per il “lavoro sul campo” che le genera, sarebbe
non soltanto di conciliare il soggettivismo con l’“obiettività scientifica” – combinare
le prospettive personali e umanistiche con quelle scientifiche – ma presentare il te-
sto fondamentale di una data situazione o circostanza umana. Il resoconto etnogra-
fico, la documentazione del lavoro sul campo ritraggono una particolare umanità
nel panorama delle società e delle culture.
Questo lato privilegiato, positivo del lavoro sul campo – nonostante i suoi rischi,
errori ed esagerazioni – è stato, secondo me, sottovalutato dagli “antropologi inter-
pretativi” americani. Forse perché alcuni di loro non hanno mai condotto ricerca
sul campo; o perché hanno avuto delle esperienze di ricerca che li hanno disillusi; o
perché hanno lavorato in società nazionali dove la politica svolge un ruolo non se-
condario – situazione per la quale la preparazione degli studenti americani è noto-
riamente lacunosa.
Basti far notare, attraverso l’etnografia, che negli anni Sessanta le letture ri-
chieste ai dottorandi in antropologia sociale all’Università di Harvard compren-
devano lavori di Maine, Morgan, Tylor e Frazer, ma non Marx o Engels. Mi ricor-
do discussioni vivaci fra professori gentili e studenti vociferanti, ma che rimane-
vano al di fuori di questioni politiche non considerate parte della formazione di
un antropologo sociale. I testi quindi venivano discussi per la loro utilità in rela-
zione a un progetto di lavoro sul campo in qualche terra esotica, attività veramen-
te feticizzata dai professionisti dell’epoca.
158 ROBERTO DAMATTA

La contrastante situazione del Brasile


Questo si opponeva alla mia iniziazione antropologica brasiliana, nella quale, al
contrario, le questioni politiche e i grandi dilemmi morali erano di gran lunga gli ar-
Interessi politici e
morali
gomenti principali di discussione. In Brasile iniziammo a leggere Marx ed Engels e
nell’antropologia rinviammo la lettura dei lavori di Frazer, Maine, Morgan e degli altri. Quello che
brasiliana mancava agli accademici americani in un certo senso abbondava nella vita intellet-
tuale brasiliana.
Temo che esista una percezione negativa del lavoro sul campo fra i portavoce
dell’antropologia interpretativa americana. Ai loro occhi la pratica etnografica è una
sorta di cilindro del prestigiatore, uno spazio dal quale gli etnografi possono tirar
fuori dei cattivi trucchetti retorici e trasformare le loro soggettività opprimenti e
piene di pregiudizi in consigli teorici apparentemente obiettivi. Infatti in uno dei
più importanti capitoli, se non addirittura in quello centrale, di I frutti puri impazzi-
scono, James Clifford parla (1988, p. 36) di “autorità etnografica” come derivata es-
senzialmente dal potere retorico della formula “Tu sei là… perché io ero là” (la-
sciando perdere il fatto che così come è formulata in portoghese non ha pratica-
mente senso). “Tu sei là… perché io ero là” acquista senso solo in una collettività di
viaggiatori estremamente mobile, una cultura di cartoline, di individui che viaggia-
no fino alla fine del “mondo civilizzato” per ritornare portando novità. Questa idea
Clifford e la è in forte contrasto con l’esperienza brasiliana, nella quale è proprio il radicamento
retorica in un luogo particolare a definire la superiorità sociale e il privilegio politico ed eco-
dell’autorità
etnografica nomico. Per i brasiliani è l’assenza di movimento (e non i viaggi, soprattutto i viaggi
solitari o migratori) che denotano benessere sociale. Ma in un sistema che fa della
mobilità il suo credo, questi “resoconti dei testimoni oculari” che combinano magi-
stralmente un discorso in prima persona con un perfetto controllo narrativo, sono
tanto lontani dal nostro stile etnografico quanto lo è il cielo dalla terra. In questo
contesto è opportuno ricordare il monito di Louis Dumont, nel l’ambito del suo
discorso sul modo in cui l’antropologia sociale si era sviluppata come disciplina:

sembra che un’impazienza febbrile ci spinga a bruciare le tappe, a dimenticare subito (o


a compromettere) le nostre acquisizioni più preziose. Questa particolarità può forse prove-
nire dagli Stati Uniti, dove mode passeggere si susseguono rapidamente in un clima ideolo-
gico e istituzionale competitivo, propizio all’escalation (Dumont 1983, p. 222, cors. mio).

Il contesto del discorso etnografico brasiliano


Che forma avrebbe dunque il “testo etnografico” brasiliano? Una panoramica
potrebbe essere significativa. In tre studi etnologici di antropologi brasiliani mol-
to noti, appartenenti a generazioni e tendenze teoriche diverse – Cardoso de Oli-
Il testo
veira (1960), Schaden (1965) e Ribeiro (1974) – lo stile complessivo è straordina-
etnografico riamente segnato dalla prima persona plurale. I tre autori scrivono con un imper-
brasiliano sonale e formale “noi” che mostra delle tendenze professionali, autoritarie, mae-
stose e sovrane5. A qualche interpretativista convinto che l’etnologo debba essere
un autore dialogico che scrive su persone viventi e trascrive le ambiguità e i dialo-
ghi da un’ottica individualista, tutta (o quasi tutta) l’etnologia brasiliana deve si-
curamente sembrare mistificata o autoritaria. Ciononostante, in Brasile esiste una
tradizione antropologica veramente interessata ai paradossi del contatto culturale
e al destino (e alle voci) dei gruppi tribali, e anche a una critica sistematica dello
Stato nazionale.
Si può veramente giudicare l’autorità da uno stile etnografico, come alcuni degli
antropologi interpretativi vorrebbero farci credere? Ho paura che fare questo signi-
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 159

ficherebbe tracciare una caricatura troppo semplicistica del discorso etnografico, Le ragioni della
perdendo di vista il fatto che tali narrazioni iniziano e finiscono con un insieme di retorica
quesiti posti prima di intraprendere il lavoro sul campo. Negli esempi usati prece- etnografica
brasiliana
dentemente, Cardoso de Oliveira, Schaden e Ribeiro hanno tutti formulato le loro
riflessioni sul problema del “contatto culturale” – un argomento centrale per l’an-
tropologia brasiliana. Questo colma la distanza fra la diversità locale delle culture
native e la rappresentazione della nazione come totalità dominante. Tocca inoltre la
questione classica dell’identità nazionale, un problema centrale per un paese, come
il Brasile, che si autodefinisce “mestizo”6. Ogni tentativo di produrre un testo meno
formale, pomposo e impersonale potrebbe correre il rischio di essere attaccato in
quanto narrazione falsa e fantasiosa.
Prima di screditare categoricamente (e universalisticamente) il “realismo et-
nografico” occorre comprendere i contesti storici e culturali nei quali viene pro- L’uso del “noi”
dotto. Nel caso brasiliano quello che emerge come formalismo monologico può come strumento
politico
essere inteso in quanto parte di uno stile culturale ben noto, in cui esprimersi
con un “io” individualizzante era (ed è ancora) spesso visto come un segno di
immodestia, egocentrismo e cattivo gusto. Inoltre l’uso di un “noi” solenne e
formale, che fonde l’autore e la disciplina, vale anche – attraverso la combinazio-
ne ambivalente di autorità e modestia – da potente strumento per richiamare
l’attenzione delle élite governative in un contesto pubblico segnato dalla gerar-
chia, dal centralismo corporativista e dall’assenza di una rappresentazione egua-
litaria democratica.
In conclusione, quindi, una comparazione con altri approcci culturali, come
quelli delle cosiddette “antropologie periferiche” nelle quali l’individualismo non
è il valore dominante, mostra che né l’uso della prima persona, né un “dialogi-
smo” ispirato all’individualismo può essere preso come un segno sicuro di un’an-
tropologia nuova e libera dai pregiudizi. In tal modo, per raccontare un caso che
conosco molto bene, quando ho scritto il libro sugli Apinayé, l’ho scritto in prima
persona. L’ho fatto perché volevo mostrare che questo stile più individualista e
monografico di fare antropologia, nel quale ogni società è considerata come un
“caso”, in Brasile dovrebbe essere tentato con più regolarità. Quello che mi ha Il ricercatore
portato a sperimentare questo stile individualista è stata la voglia di disturbare come osservatore
l’autorità etnografica diventata abituale, ispirata da un grossolano evoluzionismo fragile
marxista che ha condotto alla produzione di narrazioni etnografiche intorpidite e
piatte7. Il mio scopo era mostrare la possibilità di costruire un testo dove il ricer-
catore si collocasse come un osservatore fragile, concreto e in carne e ossa, all’in-
terno della situazione sul campo – come un autore reale e responsabile della sua
narrazione8.
Il lettore attento noterà ancora che i discorsi e gli stili possono avere diverso va- Relatività
lore in diverse situazioni culturali e storiche. Quello che sembra ortodosso e persi- degli stili
no “autoritario” agli antropologi interpretativi americani potrebbe avere una valen-
za positiva e liberatoria nell’antropologia brasiliana e in antropologie non indivi-
dualistiche di altro tipo.

Testimoniare altre umanità


Al fine di cogliere le motivazioni profonde degli stili etnografici, bisogna occu-
parsi di come i nativi vengono rappresentati come “altri” – come differenti, di-
stinti – in contesti nazionali divergenti. In Brasile l’“altro” è incarnato da una ri-
stretta popolazione nativa, disseminata nell’Amazzonia immensa e nel Brasile cen-
trale, una popolazione genericamente riassunta nel termine “indio” (indiano). Ma
160 ROBERTO DAMATTA

l’“indiano” non è solo, poiché con la categoria “nero” formano la base di una sin-
golare e affascinante visione dell’immediata diversità umana per i brasiliani. Il
L’alterità “nero” (fondamentalmente l’ex schiavo) è un elemento, intrinseco alla struttura
brasiliana: sociale brasiliana, che ossessiona con la sua enorme presenza la “bianchezza” di
l’“indio”, uno stile di vita borghese. L’indiano è un escluso, che genera le fantasie romanti-
il “Nero” che del nobile selvaggio che deve essere isolato e protetto dai mali della civiltà,
oppure eliminato dal panorama nazionale per la sua incapacità di prendere parte
al progresso moderno.
In questo contesto, per un antropologo brasiliano, essere con gli “indiani” è
qualcosa di più di avere l’opportunità di vivere con un’altra umanità. È anche il pri-
vilegio di essere in contatto con un’alterità mitica; e così facendo avere l’onore di
superare tutti i generi di disagi per descrivere un nuovo modo di vita nel bel mezzo
Gli indiani
come alterità
della civiltà brasiliana. Così, per gli antropologi brasiliani, “essere lì” vuol dire ave-
mitica re l’opportunità di essere testimone di un modo di vita di una società diversa. Que-
sto è vero in particolar modo quando quel modo di vita corre il rischio di soccom-
bere a una situazione di contatto che è brutalmente diseguale in termini politici.
Dal mio punto di vista questa consapevolezza di testimoniare altre umanità re-
cupera il progetto umanistico dell’antropologia, e allo stesso tempo ci ricorda le se-
vere limitazioni di quel progetto. Claude Lévi-Strauss disse molte cose belle e sagge
in Tristi Tropici (1955), un libro il cui titolo sembra cercare di salvare quella nostal-
gia – quella immensa saudade luso-brasiliana – con la quale ogni antropologo parla
delle sue esperienze sul campo. Senza quella miscela multivocale di nostalgia, amo-
Tristi tropici:
autorità e fragilità re, simpatia, follia giovanile e, ultima ma non meno importante, ansia di oggettività,
del discorso nessuna monografia sarebbe mai stata scritta a proposito di nessun “altro”. Proprio
antropologico questa mescolanza di autorità e fragilità caratterizza il discorso antropologico. L’au-
torità deriva dal fatto di essere la persona che testimonia e produce il resoconto. La
fragilità viene dalla dolorosa percezione che il “presente etnografico” è un’illusione
che in pochi anni sarà corretta da un altro etnografo che, in un altro progetto di ri-
cerca, porrà delle domande diverse.
I “tropici” sono tristi davvero. Non perché Lévi-Strauss li sdegnasse del tutto,
ma perché invitano, con quelle sensazioni dubbie di intensa convivialità (che porta-
L’etnografia come no a una comprensione debole) e quella distanza formidabile (che conduce all’auto-
confessione e
romanzo
rità oggettiva) a sentimenti che, nei momenti più ottimistici, il ponte antropologico
(o per meglio dire, l’antropologia come ponte) spera di superare. Da qui deriva l’in-
tima relazione fra buona antropologia e confessione (percepita da Lévi-Strauss) e
fra buona etnografia e romanzo. Secondo me c’è da rammaricarsi del fatto che i so-
stenitori dell’antropologia interpretativa abbiano perso di vista l’aspetto testimonia-
le del lavoro sul campo, cercando di sostituirlo – secondo la moda americana – con
un’altra formula: quella dialogica, interpretata individualmente.

La pratica della Non si può dimenticare che testimoniare è una parte centrale della nostra prati-
testimonianza ca di studiosi. Soprattutto in Brasile, dove una reale tristezza tropicale giunge con il
riconoscimento che alcune delle società che studiamo con tanto affetto, sacrificio e
simpatia stanno per perire! È stato solo per questa ragione che, copiando Lévi-
Strauss, ho parlato di un “blues antropologico” associato alla ricerca sul campo
(DaMatta 1987b). Un doppio obiettivo mi ha spinto a sostenere questa posizione:
Il “blues
antropologico” cercare di registrare la malinconia che deriva dal lavorare con società che il mio
paese non riconosce come nazioni, e riflettere sullo sradicamento che io stavo su-
bendo. Può essere che tutto appartenga al passato, che oggi queste società non si
distinguano l’una dall’altra e dalla comunità brasiliana come culture distinte?
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 161

Perciò quando ci riferiamo a tikopia, tallensi, crow o nuer, non possiamo fare a
meno di citare Firth, Fortes, Lowie e Evans-Pritchard. Non soltanto scrivevano in
un inglese eccellente ed erano “esperti” di quelle realtà. I loro lavori hanno anche
creato il modo più completo o esclusivo di parlare sociologicamente di quelle uma-
nità. Se non fosse così, a nessuno occorrerebbe citare il lavoro di Curt Nimuendajú
(Nimuendajú 1939, 1946) una raccolta di pezzi etnografici che descrive collettività
mai conosciute prima.
Nimuendajú aveva una scarsa formazione antropologica precedente al lavoro sul
L’opera di
campo. E la scrittura etnografica di Nimuendajú implica uno stile etnografico tutto Nimuendajú
suo – un modo di scrivere nel quale l’interesse “dialogico” per il destino delle socie-
tà studiate va di pari passo con una descrizione distaccata e realistica nel miglior sti-
le di Malinowski. Potrebbe essere il risultato dei rapporti di lavoro fra Nimuendajú
(uno studioso senza un’affiliazione istituzionale stabile) e Robert H. Lowie (un pro-
fessore affermato e conosciuto internazionalmente, affiliato all’Università della Cali-
fornia, al già famoso Dipartimento di Antropologia di Berkeley)? Quello che i rap-
porti di lavoro fra Lowie e Nimuendajú rivelano è la prospettiva di discutere l’“etno-
grafia” come una narrazione fondamentalmente cumulativa. Senza il legame con Lo-
wie, che pose a Nimuendajú gli interrogativi in grado di aiutarlo a ordinare la realtà
che aveva visitato, Nimuendajú non sarebbe riuscito a produrre testi etnografici ve-
ramente autorevoli. Chiunque abbia studiato il lavoro di Nimuendajú sa che i suoi Il rapporto
con Lowie
studi precedenti presentavano una narrazione con seri problemi descrittivi, dovuti a
una ovvia assenza di un punto di vista, o se vogliamo, di “teoria”. Questo è in netto
contrasto con il lavoro che ha prodotto negli anni seguenti, sotto l’egida di Lowie.
Nel lavoro successivo c’è una narrazione – un testo, nell’accezione di Ricoeur (1971)
– concisa e unitaria che caratterizza la moderna scrittura etnografica.

Etnografie del familiare


Devo insistere sul fatto che tutto ciò è molto diverso dallo spiegare la religiosità
popolare, studiare le relazioni razziali, cercare di capire la popolarità del calcio bra-
siliano o discutere il clientelismo cronico che pervade il sistema politico brasiliano. La “Legge di
Come apparirebbe l’antropologia interpretativa di Geertz se partisse per andare a Devoto” e
Geertz
interpretare un incontro di calcio a Notre Dame, Indiana, invece dei combattimenti
fra galli a Bali? La “legge” di Bernard DeVoto – nella quale afferma che “più gli an-
tropologi scrivono sugli Stati Uniti, meno credo a ciò che dicono quando parlano di
Samoa” – potrebbe essere valida anche per lui9?
Come Max Gluckman (1957) e Mary Douglas (1975) hanno sottolineato, descri-
vere e interpretare il familiare può innescare una reazione molto più fortemente
“controinterpretativa”, che catalogare esotiche terminologie parentali o interpretare
il dualismo tribale. Dopo tutto, quante persone sono interessate a tali fenomeni nella
nostra società? Ma se scriviamo sulla struttura del rituale carnevalesco, tutto cambia.
A quel punto non trattiamo più di un testo prodotto per deliziare un gruppetto di
iniziati, ma trattiamo un fenomeno sociale vissuto e pensato da milioni di persone.

Quando abbiamo a che fare con la nostra cultura, diventa straordinariamente


Descrizione e
difficile ottenere una “distanza etnografica” realistica e descrittiva. Infatti proprio narrazione
l’esercizio di tale modalità letteraria – una descrizione monologica, fredda nella
quale il narratore è lontanissimo dalla cosa che si sta descrivendo – è sufficiente a
provocare un tal senso di straniamento che il fenomeno descritto, anche se familia-
re, diventa irriconoscibile. Questo è quello che succede agli americani quando Ho-
race Miner – nel suo Body Ritual among the Nacirema (cioè “american” scritto al
162 ROBERTO DAMATTA

Horace Miner e il contrario) – descrive pratiche americane come lavarsi i denti o andare dal dentista
problema della
“distanza
con la prospettiva di uno straniero che considera queste esperienze come riti magici
etnografica” (finalizzati a migliorare l’attrazione sugli altri)10. Poiché queste descrizioni distan-
ziate vengono fatte raramente, nel descrivere la nostra società tendiamo a scivolare
nell’ambito delle “interpretazioni” trasformate in un batter d’occhio in “opinioni”,
che minano la presunta autorità delle nostre descrizioni “oggettive”. Questo accade
in Brasile, dove l’autorità è per definizione sospettata e dove nessuno ha un atteg-
giamento schietto e sincero verso la “legge” e i suoi rappresentanti. Le pompose de-
scrizioni “oggettivistiche” di fatti e istituzioni ben conosciute possono, contraria-
mente alla normale e accettata aspettativa americana, condurre al ridicolo e a una
critica dilagante11.
Si potrebbe dire, richiamando una vecchia e famosa distinzione formulata da
György Lukács (1965), che quando si parla di società strane, “descriviamo”, quando
parliamo del nostro sistema “narriamo”. Questi studi inevitabilmente hanno con-
La “narrazione”
della nostra dotto a un atteggiamento critico in relazione alla cultura propria del ricercatore, fa-
cultura cendo in modo che l’idilliaca distanza fra osservatore e osservato venga spazzata
via. In questo modo, il metodo più saggio per proteggere da questi dibattiti una di-
sciplina sociale che aspiri a essere “scientifica” – dibattiti nei quali la materia della
ricerca e l’opinione del ricercatore possono intrecciarsi pericolosamente – sarebbe
Il distanziamento porre molte miglia di distanza fra i due inventando il mito del lavoro sul campo in
come scelta luoghi lontani. Non potrebbe essere per questa ragione che molti dei grandi centri
oggettivante accademici dell’Occidente tendono a evitare e a resistere agli studi sulla loro cultu-
ra12? È come se lo studio dell’“altro distante” a volte fosse una scusa per impedire
la “defamiliarizzazione” di noi stessi – per poter vedere noi stessi come esterni, in
modi insoliti. Evita un certo tipo di interrogativi politicamente radicali che spesso
pervadono le antropologie dei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”.
Il punto è che, nel classico caso di studio delle culture distanti, il risultato tende
a essere una descrizione, mentre parlando della propria cultura la tendenza è quella
di sostituire la descrizione con narrazione interpretativa che (come ha provato la
battuta di Bernard DeVoto), diventa velocemente “opinione”. Come ho rilevato an-
ni fa (DaMatta 1976b) vi è una tendenza, nell’atropologia tradizionale, a stabilire
un’associazione totemica fra il ricercatore e l’oggetto studiato. Nello stesso modo in
cui gli “scienziati naturali” battezzano con i loro nomi le specie di animali, piante e
microbi appena scoperte, ogni antropologo o antropologa ha la “sua” tribù.

Nelle etnografie del centro antropologico – le principali scuole occidentali della


Il problema che disciplina – abbiamo uno scollamento, una interruzione radicale che a vari livelli se-
sorge non facendo para la società del ricercatore da quella dei nativi. Questo tipo di atteggiamento è
endo-etnografia stato esaminato da molti ciritici che spesso invocano la frammentazione del mondo
contemporaneo come responsabile di una crisi “postcoloniale” che si dice abbia
gradualmente e sistematicamente eroso le frontiere culturali. Non voglio entrare qui
in una discussione in merito a questa tesi, che a me sembra fortemente discutibile.
“Esoetnografia” ed Ma voglio sottolineare che, poiché tali critici non vogliono rivolgersi alle proprie so-
“endoetnografia” cietà, non sono in grado di comprendere le profonde differenze fra l’atteggiamento
descrittivo richiesto da una “esoetnografia” (nella quale l’altro è uno straniero, di
un’altra, spesso radicalmente diversa, cultura) e il complesso spostamento narrativo
provocato da una “endoetnografia” (che comprende lo studio di ciò che è familiare,
o almeno conosciuto, nella nostra cultura).
Mi sembra che uno dei difetti delle “antropologie interpretative” sia stata la loro
mancata considerazione di questo paradosso. Il risultato è che si limitano a sfiorare il
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 163

problema che ogni antropologia deve affrontare: come studiare l’“altro” può condur-
re a una migliore comprensione di se stessi. Come ha notato Maurice Merleau-Ponty
(1962, p. 183), la questione non è, per l’antropologia, di

sconfiggere il primitivo, o dargli ragioni per opporsi a noi, ma invece di situare noi stessi su
un piano dove possiamo essere reciprocamente intellegibili l’uno all’altro, senza riduzione
né fragile trasposizione… Il compito... consiste nell’allargare la nostra ragione per essere in
grado di comprendere quello che, in noi e negli altri, precede e va oltre la ragione .

Le antropologie della periferia e la loro produzione di testi


Se le antropologie praticate nei grandi centri accademici dell’Occidente mostra-
no una riluttanza notevole a prendere le loro società come oggetto di studio e di
ispirazione teorica, è vero il contrario fra le antropologie della periferia. Qui il tema
ricorrente non è più l’“altro” come un opposto antitetico all’interno dei confini del
mondo conosciuto, ma piuttosto quell’“altro” che si maschera dietro capelli atten-
tamente pettinati e un elegante abito europeo.
In queste “antropologie nazionali” quello che mi sembra più caratteristico, e
certamente più autentico, è il fatto che – nonostante ciò che esse stesse credono –
non sono semplici applicazioni dei modelli teorici inventati nei grandi centri acca-
demici occidentali, ma implicano una ricerca appassionata che dura da generazioni Le implicazioni
per trovare una risposta alla domanda “Chi siamo noi?”. Perché come hanno sco- nell’interpreta-
zione di ciò che
perto tutti coloro che hanno percorso quella strada, anche le teorie antropologiche è familiare
“beneducate” non riconoscono la piena implicazione dell’interpretare cose familia-
ri. Questo perché: 1) tutti sembrano conoscere quello che viene descritto (cosa che
in un certo senso rende tutte le descrizioni non necessarie); 2) ognuno percepisce e
si schiera su quello di cui si parla (cioè, i meccanismi retorici del parlante saranno
immediatamente riconosciuti e denunciati dai suoi interlocutori, siano essi esperti o
profani); e 3) quando si parla di ciò che è tra noi, inevitabilmente si commette un
atto di autoriconoscimento politico che è simultaneo allo studio sociologico. In Bra-
sile e in molti altri paesi del “Terzo Mondo” si parla spesso di “antropologia socia-
le” e di “antropologia brasiliana”, “antropologia messicana”, e così via, che si pensa
siano diverse dall’“originale”. Nel valutare l’antropologia è giunto il momento di
prendere tutte le antropologie come varianti dello stesso mito, riconoscendo che
tutte – anche quando costituiscono l’avanguardia – hanno la loro cecità13.
Vi sono delle differenze tra lo studio di un sistema esotico (che viene appreso
attraverso mezzi intellettuali) e la comprensione del proprio sistema. Se si compie
questo tipo di esperienza è facile capire l’enorme contrasto fra discutere il sistema
di valori di una società esotica e cercare di comprendere pratiche sociali familiari
come il carnevale (per i brasiliani) e il football (per gli americani).
Come potevo essere distante nello studio del carnevale (come brasiliano) quando
questo suscitava emozioni, fantasie, sentimenti e atteggiamenti – specialmente atteg- Lo studio del
giamenti politici? Come i personaggi di Dostoevskij, insisteva “dialogicamente” per carnevale
sfuggire al mio controllo, per guadagnare una sorta di spazio particolare nei miei studi. brasiliano
Ho dovuto trattare con una varietà di persone per rendere giustizia alla sua complessi-
tà. Quando si studia una tribù distante situata dall’altra parte del globo, si possiede
“autorità”. Si è l’unico a parlare. E si ha controllo totale sul fenomeno da presentare
alla discussione. Qui la separazione fra me come investigatore e il mio oggetto di stu-
dio era un dato. Non mi occorreva un Geertz per dirmi che gli Apinayé corrono il ri-
schio di divenire un “testo”14. Tutta la mia esperienza in mezzo a loro e soprattutto i
miei sforzi per esprimere questa esperienza in modo antropologico, me lo confermavano.
164 ROBERTO DAMATTA

Nei miei studi sulla società brasiliana mi sono sempre trovato ad affrontare ver-
sioni e variazioni di fenomeni che sin dall’inizio potevano avere testi multipli. In
questo contesto vale la pena riflettere se tutti i fenomeni sociali hanno un “testo”.
La cultura come Quello che veramente sorprende nello studiare la propria società è la scoperta che
testo e i limiti ci sono pratiche sociali, istituzioni e valori virtualmente senza una forma fissata (o
della
testualizzazione un testo). In ogni società ci sono delle cose di cui si parlerà e altre che sono nasco-
ste. Queste ultime vengono classificate come tabù, mistero, segreto, dogma – quello
che non può essere detto e nemmeno pensato. Un nativo della Nuova Guinea po-
trebbe “testualizzare” la sua iniziazione segreta? Un prete potrebbe rivelare i segre-
ti di una confessione, trasformandola in una storia allettante? Un apinayé potrebbe
descrivere apertamente un caso di stregoneria? Un brasiliano potrebbe tradire un
amico, raccontandone ad altri i peccati e le paure?

Queste domande ci conducono a due problemi fondamentali. Il primo è costi-


tuito dalle condizioni sociali (e politiche) che governano la produzione di un testo,
Due problemi questione che ci riporta al vecchio problema di come si raccolgono i dati sul campo.
fondamentali Il lavoro sul campo, nonostante i suoi trabocchetti retorici, è ancora un lavoro duro
– e si potrebbe aggiungere – sporco. (Dio sa se alcuni antropologi durante il lavoro
sul campo darebbero qualsiasi cosa per una buona storia). La produzione di docu-
menti nella ricerca etnografica sul campo è casuale, dipende da eventi contingenti e
dalla fortuna, come il lavoro degli storici. Non si ha sempre l’opportunità di avere
un’interazione “dialogica”.
Il secondo problema fondamentale è se questa relazione fra società e narrazione
possa diventare meno visibile quando abbiamo a che fare con lo studio del nostro
sistema. Come sanno tutti coloro che hanno studiato dei temi controversi della so-
cietà brasiliana, è importante non parlare di quello che viene classificato come “ta-
bù”. È altrettanto problematico parlare della corda in casa dell’impiccato, quanto
I sfidare il principio di autorità in Brasile o testualizzare – come fece Louis Dumont –
condizionamenti
sociopolitici la gerarchia e l’ineguaglianza in India. Non fu una sorpresa che la “testualizzazio-
nella produzione ne” di Dumont dell’ineguaglianza in India (le cui conseguenze sono politicamente
di testi liberatorie) provocasse reazioni negative ed esplicitamente egocentriche e solipsisti-
che in alcuni scienziati sociali indiani. Alcuni arrivarono a chiedersi se l’antropolo-
gia sociale fosse in grado di trascendere la distanza che separa la cultura indiana –
fondata, per tali scienziati sociali, su incommensurabili valori religiosi – dal moder-
no mondo occidentale dominato dalle sue dimensioni civili e politiche. Appare
chiaro che il problema non è solo lo stile dell’antropologia di Dumont – facilmente
considerabile come un’altra forma di autorità etnografica – ma invece il suo svelare
Il caso di un sistema basato sulla gerarchia e l’ineguaglianza. La reazione al lavoro di Dumont
Gilberto Freyre mostra come i discorsi antropologici possano essere trasparenti in termini di impli-
cazioni politiche, una caratteristica che il disegno delle istituzioni accademiche occi-
dentali e dell’“esoetnografia” spesso mascherano. Un caso simile a quello di Du-
mont, in relazione al Brasile, si è verificato con Gilberto Freyre (1933), che nello
scrivere Casa Grande e Senzala aveva testualizzato una serie di pratiche dell’élite
brasiliana – soprattutto alcune attività sessuali – che non ci si aspettava mai fossero
discusse apertamente. Gilberto Freyre mi disse che nel 1933 vi era un movimento
per bruciare Casa Grande e Senzala pubblicamente, affermando che era un testo
pornografico. Era pratica comune proibire il libro perché veniva considerato “mol-
to forte” per gente della mia generazione. Il libro era scandaloso perché era una te-
stualizzazione autentica delle pratiche intime dell’élite, e peggio ancora, una testua-
lizzazione scritta da un membro della stessa società.
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 165

I contesti accademici dell’antropologia


Un atteggiamento accademico che rifiuta di impegnarsi in “endoetnografia” ini-
bisce la critica più profonda e radicale del proprio ambiente. Più un sistema acca-
demico è ben insediato, più individualistica sarà la carriera intellettuale e maggior-
mente compartimentato, autonomo e orientato al mercato sarà il sistema delle pro-
mozioni e degli aumenti, e così pure il dibattito sarà considerato più “teorico”,
“tecnico”, e francamente “accademico”.
È fondamentale su questo punto comprendere la distinzione, di cui si parla
molto, fra “vita accademica” e “vita intellettuale”, in relazione alla classe accade-
Vita accademica
mica americana15. Tendo a credere che più compartimentato diventa un sistema e vita
universitario – come nel caso dell’America del Nord o dell’Inghilterra – maggior- intellettuale
mente si avrà una vita “accademica” piuttosto che “intellettuale”. Ma in paesi co-
me Francia, Italia, e in tutta l’America Latina, dove l’“attività intellettuale” tende a
comprendere la vita accademica, la situazione è ribaltata. In questi paesi lo scopo è
essere un “intellettuale”, letto e conosciuto al di fuori dell’accademia. L’accademia
è spesso considerata come limitata, formale e reazionaria, o come un posto dove si
ha un semplice “lavoro”, o che fornisce un po’ di prestigioso “secondo lavoro”.
Ma non è considerata socialmente significativa. In Brasile, per diventare un intel-
lettuale, un accademico deve andare oltre “le mura dell’università” e cercare di in-
cidere sull’intera società.
In questi sistemi il dibattito sulle idee tende a essere trasformato in “endoetno-
grafie” – una vivace discussione nella quale ognuno espone non tanto i problemi
teorici che hanno dato inizio al dibattito, quanto i problemi che incidono sulla so-
cietà nel suo insieme. In un sistema legato a tali parametri, diventa molto difficile
promuovere una critica moralistica e programmatica che tenda a sfociare in diatribe
sul “come si fa”, come accade negli Stati Uniti, dove il sistema accademico è com-
posto da isole (o feudi) e la discussione delle idee spesso avviene in maniera com-
partimentata16.
Nel criticare il tipo di antropologia praticato da un collega un professionista
nordamericano (o inglese) può permettersi il lusso di esagerare per affermare la
sua opinione. Ma raramente un attacco all’approccio antropologico di un opposi-
tore sarà legato a una particolare posizione politica – men che meno a una affilia- La
politicizzazione
zione partitica. Il risultato è che il dibattito tende a rimanere confinato nella sfera del dibattito
del sistema accademico, scavalcando raramente le mura ricoperte d’edera dell’uni- intellettuale
versità. Nei paesi nei quali il sistema universitario non è compartimentato, le cose
vanno in modo diverso. In questi paesi i dibattiti specializzati superano la cerchia
accademica, si mescolano alla politica e finiscono per divenire veramente “dialogi-
ci”, mobilitando un pubblico che, anche senza comprendere gli aspetti tecnici, si
dichiara in favore di una o dell’altra parte nel dibattito. Quello che è in gioco in
questo caso non è la materia in se stessa (che diventa solo un “fatto” senza valore),
ma i “programmi nascosti”, che sono dietro al dibattito e rivelano il loro vero ca-
rattere politico17.
Mi sembra che queste situazioni sociali generino diversi tipi di antropologie.
Nelle società dove la vita universitaria è fragile, dove i partiti politici tendono a in-
vadere l’istruzione e il sistema di ricerca, dove la struttura di potere pubblico è alta-
mente centralizzata, i dibattiti tendono a essere “(pre)testi” per proposte radicali e
spesso demagogiche che vogliono rimodellare l’intero sistema sociale. Si passa velo-
cemente da una discussione antropologica a un dibattito che riguarda l’intera socie-
tà, e in modo particolare il sistema di potere – un dibattito nel quale la critica più
radicale non risparmia nulla e non lascia nulla in piedi.
166 ROBERTO DAMATTA

Credo che le tradizioni più empiriste tendano a comparire e a proliferare in pae-


si dove i sistemi accademici sono maggiormente compartimentati. Un’altra caratte-
ristica dei movimenti accademici è il loro approccio puramente programmatico e
metodologico. La direzione è chiaramente stilistica, come se la disciplina non avesse
I “contesti
accademici” questioni più fondamentali da affrontare e “risolvere”. I problemi culturali non do-
vrebbero essere ridotti a poetiche o politiche di stile narrativo, né una dimensione
dovrebbe essere radicalmente separata dall’altra.
Detto ciò, sarebbe utile – se non indispensabile – discutere questi movimenti ac-
cademici in termini di contesti dai quali emergono. Questa prospettiva rivelerebbe
tre aspetti su cui riflettere. Prima di tutto la maturità di una “antropologia brasilia-
na” più critica e meno formalistica e mimetica. In secondo luogo la dimostrazione
che la liberazione dalle limitazioni coloniali conduce a prendere il “centro” come
oggetto, con la sua prestigiosa creatività, le stimolanti sfide e le severe limitazioni.
Infine, essa dimostra che il compito di valutare l’antropologia è fondamentalmente
legato alla comprensione del fatto che tutte le imprese antropologiche sono fatte
“di carne e ossa”, avendo alle spalle un contesto nazionale, culturale e storico pieno
di desideri, valori e fantasie.

1 Scrivo partendo da un atteggiamento “relativista”, con preconcetti strutturalisti, mosso da quello che ritengo es-

sere un sano scetticismo giustificato dalla mia esperienza professionale. Le mie discussioni hanno come bersaglio molti
aspetti dell’“antropologia interpretiva”, su alcuni dei quali, mi pare, non si è sufficientemente meditato. Sono anche
motivato dal fatto che ho sperimentato un vasta gamma di “antropologie”. Nei miei trenta anni di pratica antropologi-
ca ho studiato sia due società tribali (i gavies di lingua gê e gli apinayé del Brasile centrale) che il mio sistema di valori.
Ho anche sperimentato lo studio sociologico di testi letterari che ho trattato come documenti etnografici.
2 Abbiamo a che fare con una antropologia che, come ha notato Wilson Trajano Filho (1988), si è preoccupata più

di questioni di tecnica, che dei tradizionali problemi della disciplina.


3 Gli Stati Uniti sono forse l’unica società conosciuta che in molti contesti si definisce come priva di una cultura,

come un “melting pot” (crogiolo), o come una società che possiede una molteplicità di “usanze” che sono “naturali”
e “universali”, verità chiare e ovvie. Questo è in contrasto con la ben nota procedura legale e/o civile nordamericana
che, oltre a essere locale, è applicata rigidamente e definita dall’espressione “È la legge!”. Queste procedure sono on-
nipresenti nella vita collettiva degli Stati Uniti. Si può dire che gli Stati Uniti negano di essere una “società” solo per
affermarsi come “nazione”. Come sostiene Louis Dumont, “noi stessi siamo rinviati alla nostra cultura e alla società
moderna come a una forma particolare dell’umanità, che è eccezionale per il fatto di negarsi come tale in virtù dell’uni-
versalismo che professa (si veda Dumont 1993, p. 228, cors. in originale).
4 Dal mio punto di vista l’idea del “dialogico”, che è strettamente legata al concetto di “carnevalizzazione”, non

esclude una visione olistica (e dinamicamente ambivalente) della società. Inoltre l’idea dialogica non garantisce neces-
sariamente delle etnografie non autoritarie, non fredde e meno distanti, cosa di cui è consapevole anche Clifford. In-
fatti è possibile essere molto autoritari e dialogici, come pure essere dialogici e produrre etnografie impersonali – reso-
conti dove le relazioni con l’“altro” sono represse o soppresse. Sulla questione dell’individualismo come valore impli-
cito nelle scienze sociali americane si veda Hervé Varenne (1989). Per importanti, sebbene dimenticati, pensieri sul-
l’assenza delle emozioni (e io aggiungerei anche coinvolgimento personale) nel lavoro sul campo antropologico si veda
Francis Hsu (1983, pp. 172-173).
5 In portoghese l’uso di un “plurale di modestia” normativo indica l’uso simultaneo (e ambiguo) di una retorica di

umiltà e autorità. Come hanno sottolineato degli specialisti questa modalità del plurale indica anche “maestà” (Cunha
1975, p. 206) e/o “autorità sovrana” (Lima 1975, p. 290). Queste notazioni, come pure la bibliografia a riguardo, mi so-
no state segnalate dal professor Enylton de Sa Rego. Per considerazioni provocatorie sulla comparsa della prima persona
singolare in inglese e alcune delle sue implicazioni sociali, psicologiche e politiche, si veda Franz Borkenau (1981).
6 Secondo me è l’indigenismo come ideologia che riferirà la poco flessibile diversità delle culture tribali – con pic-

cole popolazioni e poca voce negli ambiti nazionali – a una concezione tipicamente centralizzata (ed essenzialistica e
antimoderna) ibero-brasiliana di “società nazionale”. In questo modo gli studi di “acculturazione” e “assimilazione”,
così noti nell’antropologia, possono essere letti come modi per “sorvegliare” le traiettorie delle società tribali che de-
vono prendere un unico percorso – che le condurrà alla “società nazionale”.
7 Va notato che fino al 1960 gli studi antropologici brasiliani erano dominati dal classico “schema indigenista”

proposto da Darcy Ribeiro. Questo è un paradigma basato sulla reinterpretazione dell’evoluzionismo di Leslie White.
Per Darcy Ribeiro, nello stesso modo in cui le società evolvono dallo stadio primitivo a uno civilizzato, i gruppi tribali
all’interno del territorio nazionale sarebbero evoluti nella direzione del sistema nazionale, i due processi essendo paral-
leli l’uno all’altro. In questo modello viene postulato che le società tribali entrano nell’ordine nazionale attraverso un
processo graduale, evolutivo. Prima entrano in un “contatto intermittente” con i pionieri; quindi, in una fase di “con-
tatto permanente”, stabiliscono dei legami abituali con segmenti della società nazionale; infine sono integrati nella na-
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 167

zione. Questo schema dimentica che le società indigene in effetti non sono dei blocchi uniformi, in grado di essere inte-
grati “massicciamente” nell’ordine nazionale. Come ho già notato altrove (DaMatta 1976b), l’integrazione economica,
politica e territoriale può avvenire senza una assimilazione automatica di altre sfere della vita tribale. Un gruppo tribale
può essere assimilato economicamente rimanendo relativamente “isolato” (e autonomo) in termini di sistema di paren-
tela, di convinzioni religiose e cerimoniali.
8 Per fare ciò, avevo in mente l’esempio di David Maybury-Lewis, che era stato il mio relatore ad Harvard e che,

nei suoi lavori, tratta questa fragilità in modo molto franco (si veda Maybury-Lewis 1967, 1965). Quando sono entrato
in contatto con il lavoro di Maybury-Lewis sono rimasto sorpreso da due fatti: per prima cosa, di trovare un antropolo-
go che aveva viaggiato con la sua famiglia – cosa molto rara fra ricercatori sul campo brasiliani; seconda cosa, di trovare
un antropologo che raccontava tutto. Per noi brasiliani il progetto di viaggiare fino a una località di ricerca certamente
comprendeva un certo grado di distanza, ma la nostra relazione con gli indiani e le popolazioni rurali acquistava presto
un tono familiare attraverso i legami di patrocinio e i rapporti con gli uffici governativi, il prestigio politico potenziale e
l’onnipresente gerarchia brasiliana. Inoltre la tradizione del lavoro sul campo in Brasile era molto più personalizzata e
il viaggio diventava una sorta di avventura “machista” nello spirito del “bandeirante”, lo storico eploratore e sfruttatore
delle selvagge zone interne brasiliane.
L’esperienza di viaggiare con la moglie e il figlio, comunque, come viene raccontata da Maybury-Lewis indica un
notevole grado di isolamento e fragilità. La somma di queste esperienze certamente spiega la percezione distanziata, ma
acuta, di Maybury-Lewis dell’ambiente sociale e istituzionale visitato. Così quello che penso debba essere sottolineato è
che la ricerca sul campo accentua questa fragilità, che viene gestita diversamente da diverse tradizioni antropologiche.
Lo stile etnografico inglese tende a incorporarla in un resoconto impersonale e scientifico. In Brasile queste esperienze
non vengono neanche menzionate.
A una buona etnografia si possono adattare le osservazioni di Oscar Wilde sull’arte di Dostoevskji, che “non ha
mai completamente spiegato i suoi personaggi” (Bachtin 1996, p. 50). A me sembra che il lavoro di Evans-Pritchard e
di Malinowski sia un buon esempio di autentico “dialogismo” – una situazione dove le pratiche native, le convinzioni e
le cosmologie sono più importanti delle convinzioni e della preparazione dell’etnografo. I personaggi delle buone mo-
nografie antropologiche subentrano all’autore, parlando e vivendo per se stessi.
9 La battuta di Bernard DeVoto era diretta ai lavori di Margaret Mead sulla società americana e viene citata da

Geertz (1988, p. 13).


10 Lavarsi i denti, possedere stanze da bagno, andare dal dentista e preoccuparsi eccessivamente della bocca come

parte dell’igiene fisica, tutti questi comportamenti sono relativizzati e trasportati dall’ambito della “scienza” applicata e
inserita nel nostro buon senso, all’ambito della “cultura” e ideologia pura da un osservatore “alieno”. Il risultato è una
diatriba contro la distinzione fra magia e scienza – “selvaggio” e “civilizzato” – e a livello di etnografie e di ermeneutica,
un’elegante dimostrazione del potere della distanza e dello straniamento. L’articolo di Miner afferma che ciò che conta
davvero non è solo retorica, ma un punto di vista o “prospettiva teorica” – qualcosa di cui gli antropologi interpretativi
non gradiscono parlare. In questo modo, anche quando si cerca di decostruire le modalità standardizzate di descrizione
“oggettiva”, non bisogna dimenticare che gli argomenti rappresentano anche una “posizione teorica” e che anche la
nuova modalità proposta presenta un altro modo di fare – un’altra formula.
11 Dopo tutto solo un “tranquillo” antropologo potrebbe veramente pensare (e credere) che le etnografie che leg-

ge siano sempre state scritte in modo freddo e onesto, e devono essere considerate espressione della “realtà” in modo
vero e obiettivo. Il Diario di Malinowski avrebbe potuto scioccare solo la classe accademica angloamericana, abituata a
pensare che nessuno dovrebbe mentire o mostrare profonde contraddizioni e ambiguità. Quando viene letto dagli stu-
denti brasiliani questo lavoro è preso come una prova che, grazie a Dio, almeno uno di loro è umano!
12 È cosa nota che a Oxford e a Cambridge tendeva a essere un tabù condurre studi sulla propria cultura. Tali stu-

di erano condotti a Manchester, dove Max Gluckman si comportava in modo non ortodosso, provocando reazioni ne-
gative al suo lavoro. Anche oggi gli studenti del dottorato in antropologia in molti importanti dipartimenti dell’accade-
mia nordamericana non vengono incoraggiati a studiare la loro cultura.
13 Mentre scrivevo dell’“originalità” di Gilberto Freyre (in DaMatta 1987a), ho sottolineato che quando Freyre

scrisse della “realtà brasiliana”, la trattò come un avvolgente universo morale – un mondo nei confronti del quale lui
aveva degli evidenti interessi. Freyre ha adottato raramente un atteggiamento “disinteressato”, “distante” o “scientifi-
co” verso la sua materia. Al contrario è sempre stato completamente di parte (DaMatta 1987a, p. 4). Freyre stesso era
consapevole del suo atteggiamento quando scriveva, in Casa Grande e Senzala, che la pratica della sociologia non impli-
ca scoprire formule scientifiche, ma piuttosto “volere completare noi stessi” (Freyre 1933, in DaMatta 1987a, p. 5). In
Gilberto Freyre, all’interno della serie ibero-americana di veri “antropologi dialogici”, la posizione ermeneutica è pre-
sentata in modo ricco e i personaggi tendono a superare l’autore, parlando per loro stessi. Bisogna conoscere e prende-
re questa tradizione più seriamente se si vuole essere così assertivi sulla natura della descrizione e della scrittura nelle
scienze sociali.
14 Nota del curatore. Come indicato nell’Introduzione alla prima parte, Diversità e divergenze, Geertz (1973, pp.

448-449) suggerisce di indagare “la cultura come un insieme di testi” e che “le forme culturali possono essere trattate…
come opere dell’immaginazione costruite con materiali sociali”.
15 Per una discussione classica della posizione sociologica degli “intellettuali americani” si veda Lipset (1959). Si ri-

cordi che in tale saggio Lipset, e ciò è significativo per quello che sto trattando ora, fornisce una definizione molto ri-
stretta di “intellettuale”. Questo fu notato e criticato da un commentatore di origine europea, il professor Karl Deutsch
(si veda Deutsch 1959).
16 Si potrebbe suggerire che dietro il movimento “interpretativo” vi sia la speranza di cambiare la vita accademica ame-

ricana, portandola fuori dai ghetti dove tendono a chiudersi gli accademici. In questo senso le loro opinioni rivelano forse
una profonda insoddisfazione non solo verso l’antropologia, ma verso l’organizzazione della vita intellettuale americana.
17 Il lettore mi permetterà di soffermarmi su un’esperienza personale. Nel 1979 scrissi una risposta ad alcune opi-

nioni di Darcy Ribeiro (“A Antropologia Brasileira em Questo”, in Encontros com a Civilizaáo Brasileira, Settembre
1979) che erano critiche nei confronti del tipo di antropologia praticata nel programma di dottorato del Museu Nacio-
168 ROBERTO DAMATTA

nal, dove ero stato direttore e avevo un posto. Avevo tre obiettivi nel rispondere a Ribeiro. Prima di tutto volevo dimo-
strare che era possibile esercitare la libertà individuale in modo tangibile rompendo il vecchio sistema autoritario e ge-
rarchico che governava la vita intellettuale brasiliana e che implicava che nessuno doveva sfidare una persona così nota
e rispettata come Darcy Ribeiro. In secondo luogo volevo mostrare che il mondo sociale poteva veramente essere egua-
litario e permettere a varie antropologie di coesistere contemporaneamente (cioè che la scelta di uno stile antropologico
non avrebbe delegittimato o eliminato tutti gli altri). Infine volevo mostrare che era possibile praticare un’antropologia
che si concentrava sui problemi teorici, un’antropologia che impedisse che un indigenismo “evoluzionista”, vittoriano,
fosse utilizzato per stigmatizzare alcune scuole teoriche e servire come camicia di forza per ostacolare alcune esperien-
ze. Se l’“indigenismo” era un lascito prezioso, non doveva essere trasformato in una demagogia che parlava molto di di-
fendere gli “indiani” mentre faceva ben poco per capirli o rispettarli. Insomma, stavo schierandomi contro l’autorità di
uno dei “capi” della disciplina. Ma appena la mia risposta fu pubblicata, mi resi conto immediatamente di essere solo e
che il mio punto di partenza era diventato una questione politica.

Biografia intellettuale

Roberto DaMatta è professore di antropologia alla Edmund P. Joyce e Senior


Fellow dell’Helen Kellog Institute for International Studies all’Università di Notre
Dame. Ha studiato due società indiane del Brasile centrale, i gavioes nel 1961 e gli
apinayé dal 1962 al 1971. I suoi libri più conosciuti sono A Divided World: Apinayé
Social Structure (1982); Carnivals, Rogues, and Heroes (quinta edizione brasiliana
1991; prima edizione americana 1991) e A Casa & A Rua (quinta edizione brasilia-
na 1990). È stato direttore del programma di dottorato in antropologia sociale del
Museo Nazionale (Università Federale di Rio de Janeiro) in Brasile e direttore del
suo Dipartimento di Antropologia. Fra i libri di cui è stato curatore vi è Universo do
Futebol (1982) e E.R. Leach (1983).

Sono approdato all’antropologia sociale dopo aver conseguito la laurea in Storia


presso la Scuola Fluminense di filosofia a Niteroi, Stato di Rio de Janeiro, nel 1959.
I miei primi contatti con la disciplina furono attraverso il professor Luis de Castro
Faria. Castro aveva anche un posto al museo nazionale di Rio e aveva esperienza di
lavoro sul campo in etnografia (era stato il collega di Lévi-Strauss nella sua ricerca
sul Brasile) e archeologia. Grazie a lui entrai a far pratica nel museo e iniziai una
collaborazione che durò ventotto anni. Nel museo incontrai il professor Roberto
Cardoso de Oliveira, che ebbe un’influsso fondamentale su di me. Cardoso de Oli-
veira era stato uno studente di Florestan Fernandes all’Università di San Paolo e
aveva anche collaborato con Darcy Ribeiro al Museo do Índio a Rio. Nel 1961 die-
de vita a un corso di dottorato sperimentale presso il museo che è stato essenziale
nella mia vita. Cardoso de Oliveira mi avvicinò all’antropologia brasiliana, all’antro-
pologia culturale americana, all’antropologia sociale britannica e alla scuola france-
se di sociologia. Questo approccio fu in seguito rafforzato dalla collaborazione fra
Cardoso de Oliveira e David Maybury-Lewis – allora professore associato ad Har-
vard – che era interessato a fare lavoro comparativo con le tribù gê del Brasile cen-
trale. Poiché io avevo svolto lavoro sul campo con i gavioes e gli apinayé, andai ad
Harvard come studente speciale nel 1963-64. Questo è stato decisivo nella mia vita
intellettuale. Per uno studente provinciale proveniente da Niteroi, senza esperienza
internazionale, ma pieno di vita e desiderio di apprendere, Harvard era il paradiso,
e David Maybury-Lewis fu di fondamentale importanza come guida, amico e men-
tore intellettuale. Harvard era anche il centro dell’esperienza paradigmatica di una
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 169

nazione democratica e del modo di vita americano. Nel 1963-64 anche Thomas Bei-
delman insegnava ad Harvard, e lui, insieme a James Fox (che era lì nel 1967-70 ed
era molto interessato ed entusiasta per gli studi strutturali) hanno avuto su di me un
grosso influsso. Poiché Maybury-Lewis, Beidelman e Fox erano stati tutti studenti
di Rodney Needham a Oxford, diventai presto un lettore avido di teoria della pa-
rentela e organizzazione sociale. Il lavoro di Lévi-Strauss ebbe un grande impatto
sulla mia vita intellettuale. Questa fase divenne sempre più importante con l’inizio
dell’Harvard-Central Brazil Research Project che portò un gruppo di giovani, intel-
ligenti e preparati dottorandi di Harvard a lavorare sul campo in Brasile: Terry Tur-
ner, Joan Bamberger, Jean Carter Lave, Dolores Newton, Jon Cristopher Crocker e
Cecil Cook Jr. Loro diedero un tocco metropolitano e uno stile più fiducioso al no-
stro modo di pensare. Le nostre discussioni congiunte a Harvard, dove eravamo an-
che in stretto contatto con Pierre ed Elli Miranda, e a Rio, dove c’era Julio Cezar
Melatti (che aveva studiato i kraho ed era membro del Progetto) e Roque Laraia so-
no stati certamente i momenti più intensi di questi fondamentali anni formativi. La
mia relazione con Harvard durò fino al 1970, quando scrissi la mia tesi sugli apina-
yé e tornai in Brasile per diventare direttore del dottorato in antropologia sociale
del museo nazionale.
Negli anni Settanta il Brasile era sottomesso a un regime brutale e autoritario.
Affrontando molte sfide difficili ho riorientato il mio interesse intellettuale e ho ini-
ziato a studiare il Brasile. Questo aumentò il mio interesse per il lavoro di Victor
Turner e di Louis Dumont che hanno influenzato molto il mio lavoro sui riti nazio-
nali brasiliani, la vita quotidiana, gli eroi mitici e la letteratura. Il cambiamento di
interesse mi fece pensare di usare le mie esperienze brasiliane e americane in modo
comparato. Volsi così la mia attenzione al lavoro di Conrad Kottak. Mi ha anche
condotto a leggere la storia sociale e le scienze politiche. Al momento sto lavorando
sulle implicazioni delle pratiche sociali liberali ed egualitarie e dei valori nelle socie-
tà fondate sulla parentela come il Brasile.
Il discorso antropologico sull’India: la ragione e l’altro
Veena Das

La natura eurocentrica dell’antropologia, come di molte altre scienze, è stata ri-


conosciuta da molto tempo. Ciò che l’antropologia ha di unico, come disciplina, co-
munque, è il suo uso dell’“Altro” – di società e culture radicalmente differenti – per
superare i limiti della sua stessa origine e collocazione. In questo saggio esamino
l’“alterità” della società indiana e il ruolo che questa ha giocato nella teoria antro-
pologica. C’è un che di paradossale nel fatto che le controversie della teoria antro-
pologica non vengano solo rispecchiate nei conflitti ideologici della società indiana
moderna, ma abbiano anche fornito nuovi spazi in cui questi conflitti potessero ar-
ticolarsi1.

Il ruolo problematico dell’antropologo indiano in una “sociologia dell’India”


Inizio con il porre una domanda: a chi viene indirizzato il testo antropologico, e
il destinatario influenza la scelta dell’oggetto? Uno degli scrittori più influenti che si
Dumont e la sia occupato della società indiana, Louis Dumont, ha definito la gerarchia tradizio-
gerarchia in India nale come la “nota ideologica predominante” del sistema sociale in India. È stata
scelta la gerarchia come specifico oggetto di indagine perché costituiva un polo to-
talmente opposto a quello da lui chiamato “ideologia moderna”, che aveva orienta-
mento egualitario. Lo scopo dello studio di questa opposta polarità, secondo Du-
mont (1966a, pp. 74-75) era di isolare le qualità essenziali della nostra ideologia al
fine di trascenderle per non “restare chiusi in noi stessi... [e riuscire] a capire l’ideo-
logia del sistema delle caste”.
Questa frase significativa rende piuttosto chiaro che, presi come base su cui fon-
dare la legittimità della ricerca antropologica, i soggetti di questa ricerca – i “noi” e
Il pubblico il pubblico al quale è destinata – appartengono per definizione alle società con
“moderno” “ideologie moderne”. Spazialmente collocata in Occidente, proprio la sua “moder-
dell’antropologia nità” impone l’obbligo, da parte del pubblico, di coltivare l’abilità nel comprendere
intellettualmente altri valori. Come afferma Dumont (1966a, p. 73):

Beninteso il lettore può rifiutare di uscire dai suoi valori, può affermare che per lui l’uo-
mo comincia con la Dichiarazione dei diritti, e condannare puramente e semplicemente
quanto se ne allontana. Così egli senza dubbio si limita e la sua pretesa di essere “moder-
no” diventa discutibile, per ragioni non solo di fatto ma anche di diritto. In realtà qui
non si tratta per niente, sia ben chiaro, di attaccare i valori moderni in modo diretto o
subdolo. Sono del resto valori che ci sembrano abbastanza saldi per non avere niente da
temere di per sé dalle nostre indagini. Si tratta soltanto di tentare di comprendere intel-
lettualmente altri valori.

All’interno di una simile descrizione del progetto antropologico, che spazio in-
tellettuale l’antropologia può crearsi in India? È meglio definire la sociologia/antro-
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 171

pologia come in India, nel senso che l’India fornisce un’ubicazione per l’osservazio- Antropologia in
ne della differenza culturale e della sua articolazione? Oppure è preferibile pensare India e
a una “sociologia dell’India”, come sostiene Dumont, sociologia in grado di fornire antropologia
i mezzi attraverso i quali il desiderio occidentale di sfuggire intellettualmente i limi- dell’India
ti della propria ideologia possa essere esaudito?
Il pericolo per l’antropologa indiana è che possa rendersi vulnerabile all’accusa
di essere “difensiva” o “sciovinista”. L’indù istruita non riesce a parlare con autenti-
cità su questioni che riguardano le caste o la religione poiché è condannata a vedere
le istituzioni della sua società da un punto di vista occidentale.

Ai giorni nostri gli indù dichiarano spesso agli Occidentali che la casta è una questione
sociale e non religiosa. È evidente che la motivazione è qui completamente diversa dalle
precedenti: in primo luogo si tratta di giustificare in qualche misura le istituzioni da un
punto di vista occidentale, punto di vista che l’indù istruito accetta il più delle volte (Du-
mont 1966a, p. 105).
L’antropologia
Se però l’antropologa parla da un punto di vista che si può definire “indiano”, “sciovinista” e
“retrograda”
“indù” o “islamico” sarà accusata di essere “retrograda”. L’unico orientamento le-
gittimo permesso, nei confronti delle tradizioni della propria società, sembra sia di
collocarle totalmente nel passato. Rivediamo una vecchia controversia fra Dumont
e due antropologi indiani, per comprendere bene il doppio vincolo con cui l’antro-
pologa indiana deve fare i conti.

La prospettiva di Dumont relativa a una “sociologia dell’India”


Nella sua conferenza inaugurale per il conferimento della presidenza di Sociolo-
gia dell’India in Francia, nel 1955, Dumont ha ventilato il progetto di fondare una
sociologia dell’India che si trovi alla “confluenza di sociologia e indologia”. In que-
sto progetto Dumont ha identificato il sistema delle caste come istituzione fonda- Le caste,
mentale della società indiana, che potrebbe essere studiata sia a livello testuale che istituzione
d’osservazione. L’identificazione delle caste come istituzione fondamentale della so- fondamentale
cietà indiana, sosteneva Dumont, permetteva all’India di essere concettualizzata co- della società
indiana
me una, nonostante le variazioni osservate a livello storico e regionale. Dumont era
consapevole che affermare che l’unità dell’India risiedeva nel sistema delle caste po-
teva essere interpretato sia come affermazione sociologica che come dichiarazione
politica. Pertanto nel 1960 scrisse (Dumont 1960, pp. 8-9) che temeva un’incom-
prensione del suo progetto da parte di qualche lettore indiano. Nei suoi termini:

Qualcuno dei lettori indiani non ha forse trovato nell’affermazione dell’unità fondamen-
tale della società di caste indiana qualcosa di più di una semplice affermazione sociologi-
ca, qualcosa come una affermazione politica, per non parlare di un’arma?… Per chiarire
tutti i malintesi sarà sufficiente ricordare che l’unità alla quale ci siamo riferiti non è solo
un’unità politica ma un’unità religiosa. Nei termini degli “scopi dell’azione”, artha è mes-
so al servizio di dharma… questo vuol dire disunione politica nell’interesse della supre-
mazia religiosa. E il corso della storia indiana nel suo insieme lo conferma.

Mentre per il lettore occidentale identificare l’unità fondamentale dell’India con


il sistema delle caste è una questione che riguarda l’apprendere intellettualmente al-
tri valori, è probabile che almeno alcuni lettori indiani faranno uso di questa affer-
mazione sociologica come arma politica. Discuteremo in seguito sul fatto che il con-
cetto di nazione (essenzialmente opposto alle tradizioni della società all’interno del
172 VEENA DAS

Valenza politica quale è stato istituito) e di una particolare consapevolezza del tempo (che vede il
delle tesi di passato come una minaccia al futuro e alla stabilità politica dell’India) diano vita a
Dumont un importante dibattito nella cultura pubblica della società indiana. Attraverso que-
sti duplici concetti di “nazione” opposta a comunità (leggi casta), e di un “passato”
di cui ci si deve consapevolmente liberare, prende forma il dibattito politico.
“Nazione”,
“passato” e Dumont tratta le relative implicazioni politiche attraverso un accorgimento me-
dibattito politico todologico. La distanza spaziale fra l’India e l’Occidente permette agli studiosi occi-
indiano dentali di osservare la “casta” e i suoi valori attraverso la lente dell’intelletto. Ma
questi valori “obsoleti” non devono fornire né opportunità, né sfide politiche ai let-
tori occidentali. Per l’antropologo indiano che vive in società intrise di questi valori,
secondo Dumont, la sfida è invece di superare questi valori e istituzioni tradizionali
per costruire un moderno Stato-nazione. L’unico atteggiamento che l’indiano mo-
derno può assumere nei confronti delle proprie tradizioni è quello di collocarle nel
Distanza spaziale passato. In nessun caso queste tradizioni offrono una risorsa intellettuale alle socie-
e distanza tà contemporanee. Le funzioni espletate dalla distanza spaziale (per gli occidentali)
temporale
vengono assolte dalla distanza temporale (per gli indiani): così il suo passato india-
no appare all’antropologo come l’“altro”.

Il ruolo ambiguo degli scienziati sociali indiani nella prospettiva di Dumont


Nel 1962 il sociologo indiano A. K. Saran, che aveva mostrato una preoccupa-
zione costante per le implicazioni della sociologia come disciplina occidentale
nello sviluppo dei sistemi di conoscenza dell’India, scrisse una recensione di una
parte del lavoro di Dumont (Saran 1962). In tale recensione Saran discute l’affer-
Saran e le mazione di Dumont che una prospettiva “etica”, esterna alla società indiana sia
critiche a più obiettiva di una prospettiva “emica” interna, affermazione che egli considera
Dumont come una trappola positivista. Una prospettiva esterna, sosteneva, non è altro che
interpretare attraverso le categorie di un’altra cultura, estranea. Mettere così in
discussione il concetto di prospettiva esterna – a volte più obiettiva – non è sor-
prendente né per la filosofia, né per l’antropologia. Infatti, l’idea che la realtà sia
indipendente dalla sua descrizione è senza dubbio più difficile da sostenere nel
discorso filosofico moderno. Geertz (1973) ha ampiamente commentato la prossi-
mità epistemologica fra etnografia e narrativa. Ha suggerito che le convenzioni
per mezzo delle quali la verità viene asserita e accettata nell’etnografia e nella nar-
Il venir meno rativa fanno parte di una tradizione narrativa non fittizia che raggiunge l’illusione
dell’autorità dei fatti attraverso finzioni innocenti2. Oggi si può dare quasi per scontato il biso-
etnografica gno di discutere della “crisi della rappresentazione”, dinanzi al crollo delle affer-
“oggettiva”
mazioni di autorità etnografica in rapporto a una realtà “obiettiva” o “esterna”.
Comunque, la risposta di Dumont a Saran non fu impostata in termini di dialo-
go sulla natura del mondo che l’etnografo crea o rappresenta; piuttosto, attaccava
Saran in quanto fascista. Le citazioni seguenti sono esplicite:

Mentre l’antropologo sociale occidentale desidera vedere la propria cultura – cioè la cul-
tura che al momento domina materialmente il mondo – “in prospettiva”, il dottor Saran
vuole essere lasciato in pace nel beato godimento del suo credo neo-indù. Questo è com-
prensibile, perché la religione e la filosofia indù sono a loro modo onnicomprensive, al-
meno quanto ogni altra teoria socio-logica (1966a, p. 26).

Il tono ambiguo di questa affermazione si disvela alla pagina seguente:

Quello che trovo più inquietante è che il dottor Saran non sembra essere consapevole dei
pericoli insiti nelle implicazioni della sua posizione su larga scala. Noi europei abbiamo
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 173

avuto un maestro che voleva insegnarci l’impenetrabilità delle culture (lui le chiamava
razze): il suo nome era Adolf Hitler. Il solipsismo è lungi dall’essere incompatibile con la
violenza… Spero che su questo ci venga resa giustizia: che abbiamo spianato la strada al-
la comprensione, senza sottovalutare le difficoltà e gli ostacoli. Avrei pensato che uno
studioso del calibro del dottor Saran non avrebbe teso una mano ai sentimenti “provin-
ciali” e arretrati neo-indù (1966a, p. 27).

In questi brani davvero degni di nota Dumont sembra costruire, contempora-


L’ideologia
neamente, sia l’India come oggetto antropologico sia le condizioni grazie alle quali diventa
gli indiani attualmente possono aspirare a un posto legittimo nel panorama degli strumento di
studi antropologici. Per l’antropologo occidentale, comprendere intellettualmente riflessione
i valori di altre culture fa parte dei suoi moderni valori e tendenze di diffusione scientifica
della cultura. Questo aiuta il suo tentativo di convertire l’ideologia in uno stru-
mento di riflessione scientifica. Questo tentativo intellettuale, comunque, non mi-
naccia i suoi valori presenti, poiché l’“alterità” delle culture estranee può rimanere
sigillata ermeticamente – essendo separata dalla distanza – dalla vita regolare del-
l’antropologo e del pubblico per il quale questi scrive3. Per l’antropologo indiano,
invece, non c’è modo di partecipare alla demistificazione di categorie “universali-
ste”, “reificate” della sociologia occidentale, mostrando le tracce lasciate da una
cultura aliena nella costruzione di queste stesse categorie. Agli antropologi occi-
dentali è aperta la possibilità di trascendere la propria ideologia attraverso l’appro-
priazione intellettuale di altri valori. Ma gli antropologi indiani non conoscono un
modo lecito per applicare lo stesso metodo all’ideologia della propria cultura. Le
categorie conoscitive delle culture non occidentali sono semplicemente convinzio-
ni disancorate, mentre le categorie occidentali acquistano lo status di verità scienti-
fiche e obiettive.
L’impossibilità
Il futuro di una sociologia radicata nei valori di una cultura differente da quel- di una sociologia
la dell’Occidente è inesistente, poiché è già stato sottolineato in precedenza che ta- non-occidentale
le sociologia sarebbe una sociologia fascista – “neo-indù”, “provinciale” e “arretra-
ta”. In questo modo il destino dei sistemi di conoscenza indiani è segnato negati-
vamente. Possono avere un posto nella storia delle idee; possono essere appresi in-
tellettualmente per fornire mezzi attraverso i quali “noi” dell’Occidente possiamo
trascendere i limiti della “nostra” ideologia. Ma non sono validi come risorse per
la costruzione dei sistemi conoscitivi coi quali l’indiano moderno deve misurarsi.
Le altre culture acquistano legittimità solo come oggetti del pensiero, mai come Culture come
oggetti del
strumenti per il pensiero. Non voglio dire che il valore del lavoro di Dumont si pensiero e come
esaurisca in questa descrizione4; solo che quando l’antropologo indiano è il diretto strumenti del
destinatario del suo discorso, il suo ruolo si limita a quello di informatore. La con- pensiero
dizione per la partecipazione alla costruzione di un discorso sociologico per l’an-
tropologo non occidentale è un’attiva rinuncia alle possibilità contemporanee della
propria cultura.

Costruzioni indiane che modellano le costruzioni occidentali dell’India


Mi rivolgo ora a un altro importante elemento della sociologia di Dumont: il suo
voler fare affidamento sul concetto di totalità, di una realtà stabile e di un sistema Dumont e l’idea
stabile di rappresentazione. Sostengo che questa stabilità della rappresentazione di stabilità della
rappresentazione
viene raggiunta privilegiando una visione del mondo (quella desunta dal concetto
braminico di “tradizione” o, per meglio dire, una delle tante desunte da tale concet-
to) e ritenendo che possa rappresentare la società indiana come una “totalità obiet-
tiva” del mondo. Mi affretto ad aggiungere che per Dumont tale totalità obiettiva
174 VEENA DAS

non è un concetto empirico o quantitativo. Egli piuttosto usa il concetto di gerar-


chia per escludere dei particolari contingenti, al fine di meglio afferrare le leggi fon-
damentali della società e della storia indiana.
La connessione fra il principio di totalità e il principio di gerarchia ha permesso
a Dumont di conciliare le critiche che lo accusavano di aver trascurato altri valori
della società indiana considerandoli presenti empiricamente, ma marginali teorica-
mente. In tal modo le pratiche delle caste più basse venivano sdegnosamente liqui-
date con la seguente affermazione: “Poiché i barbieri si radono reciprocamente,
qualcuno [che Dumont non si preoccupa neanche di citare] vorrebbe arguire che
Le pratiche delle ‘uguaglianza e reciprocità’ hanno la stessa importanza della gerarchia all’interno del
caste inferiori e sistema”. La ragione per attirare l’attenzione sulle pratiche delle caste più basse che
quelle sono in opposizione alle pratiche braminiche era di mettere in questione l’idea di
braminiche
un “sistema” o di una “totalità” che privilegia la visione del mondo dei bramini, at-
tribuendogli lo status di verità “obiettiva”. Ammettendo la voce bramina come l’u-
nica “voce”, Dumont stava infatti partecipando alla creazione di una narrazione
primaria della società indiana che considerava le visioni braminiche del mondo co-
me in qualche modo rappresentative dell’intera società indiana.

Burghart: la forma braminica dell’analisi di Dumont


Perché la visione braminica del mondo è stata privilegiata nel discorso antropo-
logico sull’India? Burghart (1990) fornisce una ragione interessante della centralità
Burghart e la dei bramini come “altro” del discorso antropologico. Egli sostiene (1990, p. 261)
centralità dei che quando gli antropologi iniziarono a guardare al subcontinente indiano come a
bramini
un luogo di elaborazione antropologica, scoprirono che “era già occupato e definito
da controparti locali – bramini e asceti che parlavano dell’universo sociale nel nome
di Brahma”. L’incontro di queste due modalità di costruzione della conoscenza –
quella del bramino e quella dell’antropologo – era interessante, secondo Burghart,
perché “entrambi i tipi di persone assolutizzano le relazioni sociali come un siste-
ma, nel quale agiscono da esperti e di cui la loro conoscenza trascende quella di tut-
ti gli altri attori” (1990, p. 261). Burghart continua descrivendo le differenti modali-
tà antropologiche secondo le quali è stata costruita la conoscenza dell’India, soprat-
tutto in funzione dei diversi tipi di dialogo fra l’antropologo e la tradizione bramini-
ca. Burghart afferma che questi dialoghi vanno dall’evitare la tradizione braminica
(come nel lavoro dell’antropologo indiano M. N. Srinivas) fino a una sua completa
imitazione, come in Louis Dumont. Nelle considerazioni di Burghart, l’Oriente non
è una proiezione europea, come afferma Said (1978) e come afferma per l’India, più
recentemente, Inden (1986, 1990), e le popolazioni rese soggetto e oggetto della ri-
cerca antropologica entrano nel testo dell’antropologo non solo come fonte dei dati
nudi e crudi, ma anche come persone che hanno formulato attivamente il progetto
di ricerca e preparato il suo esito.
Nell’utilizzare questa riflessione per un’analisi del lavoro di Dumont, Burghart
I bramini afferma che le controparti braminiche di Dumont non erano oggetti passivi perce-
indiani e il piti dallo studioso, ma piuttosto erano coloro che gli permettevano di formulare la
“bramino sua rappresentazione della casta. Infatti “rappresentazione” non è neppure il termi-
europeo”
ne adatto da usare in questo contesto. Burghart sostiene che “la mia lettura di Du-
mont inizia dall’osservazione che [Dumont è un bramino europeo], e culmina nella
convinzione che la singolarità di Homo Hierarchicus risieda non nella rappresenta-
zione di Dumont della visione braminica della società indù, ma nella sua imitazione
della rappresentazione braminica della società indù” (1990, p. 268). È proprio per-
ché la tradizione braminica vede la storia come una serie di rassomiglianze che, ad
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 175

esempio, Dumont può parlare delle caste così come appaiono nelle leggi di Manu
nel secondo secolo dopo Cristo, e delle caste come funzionano nelle società di vil-
laggio dell’India contemporanea come se si riferissero alla stessa realtà etnografica.
La distinzione fra circostanze locali (per le quali erano valide regole abitudina-
Circostanze
rie) e conoscenza autorevole (che era contenuta solo nei testi) era fondamentale per locali e
la costruzione braminica della tradizione. Srinivas fece i conti con questa separazio- conoscenza
ne stabilendo una forte differenza fra “visione del libro” e “visione del mondo” nel- autorevole
la società indiana e facendo coincidere quest’ultima con l’ambito legittimo di inda-
gine per l’antropologo5. Dumont, secondo Burghart, imitava semplicemente questa
distinzione fra verità empiriche e ideologia, che permetteva a lui, come ai bramini,
di trattare la diversità come marginale, o come residuale, in relazione alle verità te-
stuali. L’India era lontana dall’essere una proiezione dell’immaginazione europea, e
l’immaginazione braminica faceva in modo di dare forma alla rappresentazione eu-
ropea dell’India sulla base di un processo di mimesi.
Se è corretta la caratterizzazione che Burghart dà del lavoro di Dumont come imita-
zione della visione braminica della tradizione, allora diventa ancora più interessante
il fatto che la controparte di Dumont, i bramini, vengano collocati nel passato in-
diano. Per molti ogni tentativo di sviluppare un linguaggio sociologico che abbia ra-
dici nella tradizione indiana non è degno di un confronto intellettuale. Viene sem-
plicemente considerato pericoloso per la costruzione di una nazione indiana fonda- Gli antropologi
ta su valori moderni. Burghart non spinge oltre le sue riflessioni, ma i quesiti riman- nativi come meri
gono aperti. Gli antropologi sociali nativi devono essere considerati come dei porta- portavoce?
voce nativi? Vengono forse accolti nella comunità antropologica a condizione che
non soltanto trascendano, ma rinuncino a tutte le forme di conoscenza acquistate
attraverso la partecipazione a una società della quale ora scrivono6? Con questi pro-
blemi torniamo alla domanda iniziale: che spazio intellettuale può creare l’antropo-
logia per se stessa in India?

Situare il ruolo del discorso antropologico (e della scienza sociale) nella società in-
diana odierna
Nell’introduzione a questo saggio si affermava che l’antropologia come discipli-
na non rispecchia solo i conflitti ideologici della società indiana moderna, ma ha an- Critica delle
che aiutato a creare nuovi spazi per la loro articolazione e rappresentazione. Mi oc- politiche passate:
il programma
cuperò di un conflitto contemporaneo che è stato materia di vasta discussione in In- implicito nelle
dia, sia nella sfera pubblica, che nella letteratura delle scienze sociali. Non entro in rappresentazioni
questa discussione per fornire una “soluzione” a un dibattito burrascoso ma piutto- coloniali
sto per mostrare come molta della letteratura delle scienze sociali in India condivi-
da le ipotesi del moderno Stato-nazione e le costruisca essa stessa in risposta ai bi-
sogni politici contemporanei.
La controversia alla quale mi riferisco è conosciuta come la disputa Ramjanmab- La disputa fra
humi-Babri Masjid e riguarda rivendicazioni opposte fatte da indù e musulmani su indù e
uno stesso luogo sacro nella città di Adodhya. Alcuni gruppi indù hanno affermato musulmani su
che, sulla base di prove storiche, si può provare che nel sito era stato costruito un Adodhya
tempio per commemorare il luogo di nascita del dio Rama, divinità regale molto ri-
spettata dagli indù. Essi affermano che questo tempio fu distrutto per ordine di Ba-
bur, un re musulmano nel XVI secolo, per costruire una moschea al fine di comme-
morare la vittoria sui regni indù. Molte organizzazioni musulmane, d’altro canto,
sostengono che non vi è nessuna prova storica certa che la moschea sia stata co-
struita sul luogo del tempio precedente. Questa questione ha condotto a una mobi-
litazione senza precedenti da entrambe le parti. Ogni grande partito politico è stato
176 VEENA DAS

coinvolto nella controversia e la mobilitazione della popolazione su entrambi i fron-


ti è stata accompagnata da un’atmosfera di grande violenza, con sommosse nelle co-
munità e brutalità da parte della polizia che ha colpito soprattutto i musulmani in
quanto minoranza.
Sebbene questa disputa abbia ora preso una forma precaria, gli storici hanno
prontamente fatto notare che narrazioni di questa disputa appaiono nei documenti
amministrativi inglesi. Come molti scienziati sociali hanno ormai compreso, il docu-
mento amministrativo non può essere trattato come prova documentaria di una ve-
rità “pura”. Se il documento dà tale impressione è perché ripropone le convenzioni
La verità nell’affermazione della verità prese in prestito e formulate attraverso le teorie antro-
“ufficiale” e pologiche dominanti del tempo. Il modo in cui questa verità “ufficiale” può essere
quella dei
colonizzatori
letta riflette il modo in cui i britannici comprendevano la natura della società india-
na. Pandey (1990, p. 21) riassume il problema:

La storia moderna dell’India, in questo senso, è stata scritta ai tempi della colonizzazione e
dai colonizzatori. Furono gli scrittori coloniali che stabilirono lo schema del passato indiano
così come lo conosciamo ora. E in quello schema la lotta settaria era un tema importante.
Alla fine del XIX secolo il tratto dominante nella storiografia colonialista rappresentava
l’intolleranza religiosa e i conflitti fra persone di diversa fede religiosa come una delle ca-
ratteristiche peculiari della società indiana, passata e presente – un segno della parte in-
diana dell’“oriente”.

Pandey e altri hanno mostrato come questa particolare rappresentazione dell’In-


dia abbia condotto a narrazioni cristallizzate; come la “narrazione della sommossa
coloniale”, nella quale “la storia si svuotava – in termini di variazioni specifiche di
tempo, luogo, classe e problemi – dell’esperienza politica delle persone, e alla reli-
gione, o alla comunità religiosa veniva riconosciuto il ruolo di forza motrice di tut-
Le narrazioni ta la politica indiana” (Pandey 1990, p. 24). Senza tenere in considerazione il perio-
cristallizzate do in cui una sommossa accadeva, o lo spazio nella quale accadeva, o il problema
delle sommosse (ad esempio, profanazione di uno spazio sacro, sequestro di una donna, o protesta
contro la legislazione del governo), il discorso ufficiale britannico ha visto in ogni
sommossa un evento con struttura simile.
Dato questo quadro di riferimento all’interno del quale veniva collocata la storia
indiana, non sorprende che nel caso della disputa a Ayodhya gli inglesi avessero
considerato se stessi come arbitri equi e neutrali di una lunga disputa fra indù e mu-
sulmani. Da questa prospettiva il problema di accertare i meriti storici delle oppo-
ste rivendicazioni divenne una questione fondamentale per i funzionari britannici.
Nella narrazione ufficiale della disputa, così come era formulata, i seguenti elemen-
Aspetti
ti sono stati passati sotto silenzio: 1) gli eventi che indicavano la cooperazione fra
trascurati dalle indù e musulmani; 2) la rivalità fra diversi gruppi di musulmani per stabilire la loro
narrazioni influenza e protezione, e più importante, 3) il ruolo dell’amministrazione britannica
ufficiali nell’intervenire in modo decisivo per alterare le strutture di potere locale al fine di
insediare, in posizioni di potere, musulmani a loro fedeli. Dalla narrazione ufficiale
è difficile indovinare che la protezione offerta da molti musulmani Nawabs al culto
indù, così come rivalità fra diverse sette indù, hanno giocato un ruolo importante
nell’evoluzione di Ayodhya come meta di pellegrinaggio.
Il risultato è una narrazione primaria sviluppata dallo Stato coloniale, nella qua-
le la disputa intorno al tempio e alla moschea appare come un esempio ulteriore
dell’eterno conflitto fra indù e musulmani in cui gli inglesi compaiono come media-
tori neutrali. Non sostengo che gli indiani non fossero pedine passive in questi
eventi. Suggerisco piuttosto che esisteva una complessa elaborazione in atto, nella
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 177

quale i concetti britannici sulla società indiana, configurazioni alterate di forze loca-
li e regionali e nuovi modi per definire la legittimità, giocarono un ruolo nello svi-
luppo di questa e molte altre simili dispute. Il testo prodotto dallo Stato coloniale
era costruito in modo da dare un’impressione di isolamento dei codici locali di con-
dotta nei confronti delle istituzioni legali e burocratiche circostanti, che il potere
coloniale aveva introdotto in modo illegittimo.

Sostenere la politica presente: il potere immaginativo dello Stato-nazione


Nell’India contemporanea il discorso delle scienze sociali fornisce una base
scientifica per legittimare il diritto dello Stato non soltanto a governare, ma anche a
dar forma all’identità indiana moderna. Non sto ipotizzando, lo ribadisco, un con-
trasto fra atteggiamenti intellettuali – da un lato gli antropologi “stranieri” (come L.
Dumont) e dall’altro gli scienziati sociali “nativi” (come S. Gopal) – ma mostrando
percorsi lungo i quali si è verificata una convergenza. Illustrerò questo punto attra-
verso la discussione sulla disputa Ramjanmabhumi-Babri Masjid, condotta dall’emi-
nente storico sociale Sarvepalli Gopal (1991).

Gopal vede questa disputa come immagine di una generale malattia nella socie-
tà indiana. “La questione Ramjanmabhumi… mostra con una chiarezza maggiore
che in ogni altra occasione dal 1947, una malattia che l’India libera non è stata in Definire la
religione in
grado di scrollarsi di dosso e che chiede una rivalutazione di molte caratteristiche termini di ragion
fondamentali della nostra società” (1991, p. 11). Questa malattia che si presenta co- di Stato
me “principi civilizzati di coesione nazionale” (1991, p. 13) è direttamente in rela-
zione con il profondo radicamento della religione sul suolo indiano. “L’atteggia-
mento logico di liberarsi del tutto della religione” dice Gopal, “era troppo utopico
per la società indiana, dove molte religioni erano radicate” (1991, p. 13). Così la
soluzione pratica non è stata quella di opporsi alla religione, ma di relegarla alla vi-
ta privata dell’individuo, allontanandola da tutte le forme di vita pubblica. Questo Il radicamento
non è il luogo per esaminare in dettaglio tale versione del secolarismo; posso solo della religione
in India
sottolineare che la distinzione fra pubblico e privato non è affatto semplice o senza
complicazioni come Gopal pensa che sia.
Quello che mi interessa è il tentativo di definire la religione in modo tale da po-
ter essere coerente con le necessità dello Stato-nazione. Sulla vera natura dell’indui-
smo Gopal (1991, p. 14) dice quanto segue:

Mentre non vi è una religione indù, nel senso in cui questo termine viene comunemente
usato, c’è un’atmosfera, una struttura di sentimento che governa le diverse sette e le porta Gopal e la vera
natura
ad un livello più elevato. Questo elemento comune nella fede che lega insieme coloro che si
dell’induismo
definiscono indù nelle varie parti dell’India, è l’accettazione della religione come esperienza
spirituale, come comprensione della realtà di un supremo Spirito Universale. La devozione
alla verità e al rispetto di tutti gli esseri umani, un approfondimento della consapevolezza
interiore e un impegno per la compassione formano l’essenza della religione indù.

Sebbene in questo brano si usi il presente indicativo – come se venisse affermata


una verità senza tempo sull’essenza dell’induismo – è ovvio che quella che viene co-
struita è una visione della religione coerente con le necessità politiche dello Stato.
Un induismo svuotato di tutto il centenuto politico e di tutte le altre funzioni, tran-
ne quelle ultraterrene della meditazione sul Supremo Spirito Universale, lascia l’are-
na politica libera affinché altre forze vi si mettano in gioco. (Questa visione dell’in-
duismo corrisponde soltanto alla grande e alta tradizione braminica, nella quale il
coinvolgimento negli affari del mondo era visto con sospetto).
178 VEENA DAS

Ritrarre le Romila Thapar usa l’espressione “comunità religiose immaginate” per caratte-
comunità
religiose sulla
rizzare la natura della comunità come se fosse “immaginata” nel discorso ammini-
base strativo dei governanti britannici. Il senso di “immaginato” qui è quello di qualcosa
dell’immagine che è fabbricato, e quindi falso. È importante ricordare che Benedict Anderson
amministrativa (1983), che ha utilizzato questa espressione per caratterizzare la natura delle nazioni
moderne, era interessato a cogliere la natura costruita delle nazioni piuttosto che a
definirle non autentiche o false. Nel proporre la definizione di nazione come comu-
nità politica immaginata, ha anche suggerito che noi trattassimo tutte le comunità,
ad eccezione delle comunità di villaggio dove tutti si conoscono, come comunità
immaginate, nel senso che i loro membri non si conoscono l’uno con l’altro nella lo-
ro esistenza reale, eppure in ogni membro vive un’immagine del loro essere comu-
La nazione nità. Per Anderson il potere “politico” del nazionalismo è pari solo alla sua povertà
immaginata in filosofica e persino alla sua incoerenza. È quindi interessante notare che nonostante
Anderson
questa povertà il discorso del nazionalismo fornisce immagini da applicare ad altre
comunità, comprese le comunità religiose nell’India moderna.
Come controparti dello Stato-nazione anche le “comunità” religiose creano
delle immagini di comunità fra persone che non hanno alcuna relazione reale l’u-
na con l’altra. Nella controversia riguardante il tempio e la moschea, ad esempio,
alcuni gruppi indù avevano come progetto principale la creazione di tali immagi-
L’idea ni di comunità. La letteratura prodotta da gruppi indù militanti mette in rilievo
“numerica” di
comunità questioni come l’alto grado di fecondità dei musulmani e la paura che gli indù di-
ventino “minoranze” nella loro stessa terra. Chiaramente questa visione della co-
munità come un’entità puramente numerica può esistere solo all’interno di un
quadro di riferimento di un tipo di governo che dà per scontata la raccolta di in-
formazioni statistiche regolari sulle diverse comunità che formano la “nazione”,
perché non possiede altra definizione di comunità se non quella numerica.
Dal punto di vista dello Stato-nazione, la religione occupa uno spazio illegittimo
quando avanza la pretesa di costruire un passato che è in conflitto con i ricordi isti-
tuzionalizzati e sacralizzati dallo Stato-nazione. Quello che i gruppi indù in questo
caso sembrano fare è sfidare questa distribuzione delle funzioni, immaginando se
La comunità stessi nello stesso modello dello Stato-nazione. Anderson ha affermato che la nazio-
religiosa e lo
Stato-nazione ne in quanto comunità immaginata ha forti radici religiose, ma che d’altra parte è
attraverso la limitazione dell’immaginazione religiosa che la nazione come comunità
sovrana ed essenzialmente limitata può essere immaginata.
Vediamo che collocando se stessa fondamentalmente all’interno della stessa are-
na storica dello Stato-nazione, la comunità religiosa limita le proprie possibilità di
affrontare le questioni umane fondamentali della sofferenza e della redenzione e di-
venta limitata e ristretta. Questo, comunque, non rappresenta una perversione della
religione, ma piuttosto una semplice testimonianza del potere e della povertà filoso-
fica delle ideologie dello Stato-nazione.
Vi è una visione nella costruzione tradizionale della comunità che possa sfuggire
al potere immaginativo dello Stato-nazione, che agisce come pietra di paragone di
tutti i valori moderni? Nel paragrafo seguente consideriamo il tentativo di Saran di
formulare una tale possibilità e critichiamo la rappresentazione nostalgica della co-
munità tradizionale che costituisce l’altro polo della ricerca nelle scienze sociali nel-
l’India contemporanea.

Critica della “vita moderna”: la comunità “tradizionale”


Nella letteratura sociologica classica il concetto di comunità era legato stretta-
mente all’idea di una sfera interpersonale spazialmente delimitata, di relazioni uma-
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 179

ne basate su un innato ordine morale. Secondo Benedict Anderson (1983) la comu-


nità si istituisce nel mondo moderno non come una sfera interpersonale di relazioni La visione
umane ma come una comunità immaginata, che chiede fedeltà a persone che non classica di
comunità:
hanno relazioni reali fra di loro, creando immagini di comunità e unità. È interes- Tönnies
sante osservare che la crisi della modernità, simboleggiata dalla morte di Dio, evo-
chi con nostalgia la perdita del senso della comunità (nelle riflessioni sociologiche
classiche) e la perdita della virtù (nei commenti filosofici contemporanei). L’opposi-
zione espressa da Tönnies (1887) fra Gesellschaft e Gemeinschaft rappresenta la co-
munità come derivante da una risposta ai bisogni della vita reale, organica. La so-
cietà è definita da Tönnies come una forma di relazione sociale basata su relazioni
artificiali e meccaniche della volontà riflessa. La sua formulazione suggerisce che si
va nella Gesellschaft (società) come si va in un paese straniero.
In studi più recenti la comunità è stata considerata come una risorsa per ri-mo-
ralizzare aree della vita private di significato morale dalla crescita di una razionalità
impersonale e burocratica (si veda soprattutto Unger 1975). Notiamo due problemi La comunità
principali in questa rappresentazione nostalgica della comunità. Il primo è che come risorsa
ignorando fino a che punto la violenza giochi un ruolo nella definizione della comu- moralizzatrice
nità, la visione nostalgica fornisce una visione piuttosto depurata della tradizione e
della comunità. In secondo luogo, tralascia il fatto che la comunità, nel contesto
contemporaneo, è definita sia da strutture di modernità, compresa la legge burocra-
tica, sia da un ordine consuetudinario tradizionale.
L’opinione che una sociologia che abbia le sue radici in India trovi la propria
giustificazione nella critica radicale della visione modernista della vita ispira il lavo-
ro di molti scienziati sociali nell’India contemporanea. Saran rappresenta una voce
Saran e lo
potente nello sviluppo di questa visione. Per lui lo sviluppo della tradizione è non sviluppo della
tanto un ritorno a un passato glorioso, quanto lo sviluppo di un concetto diverso di tradizione
“normalità” che può sfidare (quelle che lui considera essere) le patologie della so-
cietà moderna. Secondo Saran, la fede politica più sviluppata in grado di lanciare
questa sfida si trova nel pensiero di Gandhi. In ogni caso, secondo l’opinione di Sa-
ran, il pensiero gandhiano non può essere studiato isolandolo dalla tradizione alla
quale appartiene. Il pensiero di
Gandhi e la
Bisogna andare oltre [gli scritti] di Gandhi e scandagliare sempre più in profondità nella tradizione
sua vita e nel suo pensiero in un tentativo di raggiungere il centro del pensiero gandhia-
no, vale a dire il nucleo dal quale Gandhi parte e al quale ritorna… Gandhi lottò per sco-
prire un nucleo totalmente al di là della civiltà occidentale. Questo nucleo è quello che è
stato chiamato generalmente “tradizione primordiale”.

Saran considera la sfera politica come il settore per l’esercizio di tale critica “ra-
dicalmente spirituale”. In questa critica è fondamentale l’esame della vita umana
sulla base di tre tipi di relazioni: quella dell’uomo con la natura, dell’uomo con l’uo- Le relazioni
uomo/natura,
mo, dell’uomo con il divino. Saran sostiene che la frammentazione nella vita umana uomo/uomo,
giunta con la visione modernista della vita, ha come presupposto la divisione fra uomo/divino
questi tre tipi di relazioni. Ne segue che concetti moderni come il principio della
competizione, il desiderio di superare la sofferenza e l’idea del progresso sono basa-
ti su “non verità”. In tal modo Saran non ha difficoltà nel sostenere le idee di
Gandhi riguardo ai mali della medicina occidentale moderna, come quelli dell’istru-
zione occidentale moderna. Saran (1989, p. 721), fra l’altro, basa il suo sostegno a
Gandhi non solo sugli eccessi della medicina moderna, ma su una teoria della soffe-
renza totalmente diversa.
180 VEENA DAS

La malattia e la La malattia può colpire sia il corpo che la mente dell’uomo, ma la distinzione fra malattia
sofferenza per fisica e malattia mentale e spirituale non è segnata in modo netto nelle civiltà tradizionali,
Saran che provvedono sempre contemporaneamente ai bisogni di entrambe. Tutte le malattie e
le sofferenze hanno un significato spirituale e cosmologico, così come l’ignoranza in fon-
do è l’ignoranza rispetto a chi si è. Nello stesso modo, tutta la conoscenza è conoscenza
del proprio vero “io”… e tutte le guarigioni sono guarigioni dalla ferita dell’ignoranza
del proprio “io” reale.

Questo brano esprime anche i limiti di una tale visione per la costruzione di uno
spazio antropologico in India, nel contesto delle teorie contemporanee della cono-
scenza. Quello da cui Saran è stato sedotto è stata la visione della tradizionale civil-
tà indiana come “altro”. Mentre Dumont si ingannava nel suggerire che Saran fosse
capace solo di solipsismo culturale, la tendenza totalizzante del suo pensiero fa sì
che il concetto di tradizione si elevi al di sopra dei luoghi contestati. Eppure l’espe-
rienza della tradizione nella società indiana, come in molte società simili, ha un
doppio radicamento: uno nelle istituzioni che possono essere considerate tradizio-
nali, come le caste e la religione; e il secondo nelle istituzioni che possono essere
considerate moderne, come la burocrazia e la legge.
Questa doppia articolazione trasforma istituzioni come le caste e la comunità re-
La
trasformazione ligiosa in entità nuove e originali; non si tratta di una aggregazione, nella quale nuo-
della tradizione ve caratteristiche vengono sommate a quelle vecchie. Quando, ad esempio, Gandhi
usa satyagraha come una forma di resistenza non violenta al dominio britannico,
trasforma il concetto tradizionale in un concetto nuovo. Soltanto all’interno della
teoria braminica del tempo, a cui ci si è riferiti in precedenza, Saran può trattare
questo come esempio di pensiero “tradizionale”.

Conclusione: una pluralità di vedute


Ranajit Guha espone la questione molto bene quando parla di un insieme di
effetti sovradeterminanti costituiti da un doppio significato, nel quale “i momenti
La doppia ideologici delle contraddizioni sociali nell’India pre-coloniale e nell’Inghilterra
articolazione moderna erano uniti a quelli delle contraddizioni contemporanee del dominio co-
della tradizione loniale al fine di strutturare la relazione” di predominio e subordinazione. Se que-
e della
modernità
sta doppia articolazione è caratteristica sia della tradizione che della modernità
nell’India contemporanea, allora non possiamo semplicemente ricorrere al con-
cetto di progresso, come a un concetto non contestato, per criticare la tradizione.
Al contrario, non si può ricorrere neanche a una costruzione nostalgica delle idee
di comunità tradizionali, intesa come risorsa per costruire una visione alernativa a
quella della modernità.
Non possiamo sostenere che le rivendicazioni dello Stato-nazione siano le sole
valide; ma non possiamo neanche seguire Saran e costruire un totale “uomo tradi-
zionale”. Sembra che a causa della natura composita della cultura e delle contese
riguardanti gli spazi etici, all’interno dei quali le scienze sociali possono collocar-
si, l’unico spazio onorevole lasciato all’antropologia sia quello nel quale le sedu-
zioni del consenso, nel nome della tradizione o della modernità, devono essere
evitate.
A differenza degli scienziati sociali che giunsero nel mondo della conoscenza co-
La fine della me parte di un’impresa nazionalista e anticoloniale, la generazione moderna degli
certezza e la scienziati sociali in India deve convivere con la distruzione della certezza, in quanto
pluralità di
prospettive condizione nella quale impegnarsi per produrre conoscenza sulla società indiana.
Non possono “rappresentare” l’India come se l’India fosse assente e silenziosa. Pos-
sono soltanto inserire le loro voci all’interno di una pluralità di voci nella quale ogni
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 181

tipo di affermazione – prescrittiva, normativa, descrittiva, indicativa – intraprende


una battaglia virtuale sulla natura della società indiana e sullo spazio legittimo riser-
vato alle scienze sociali in questa società.

1 Questo saggio non intende fornire una rassegna completa del problema. Intende solo sottolineare alcuni aspetti

nella letteratura delle scienze sociali per chiarire alcuni problemi nel discorso antropologico della società indiana.
2 Per un’analisi di queste opinioni si veda Stephen Webster (1982).
3 Dumont si sbagliava a immaginare che le “altre culture” sarebbero rimaste ermeticamente separate all’interno

della vita moderna occidentale. In Francia la decisione delle ragazze musulmane di indossare il velo a scuola ha creato
molte controversie. Il caso Salman Rushdie ha portato alla luce il fatto che in Inghilterra le leggi contro la blasfemia ri-
guardano il cristianesimo, ma non le altre religioni. Sembra che nel contesto delle moderne società globali diventerà
molto difficile tenere le culture separate in compartimenti stagni. L’alterità vissuta in luoghi lontani è già parte della vi-
ta del mondo nelle società europee.
4 L’importanza degli scritti di Dumont sull’India è attestata da molti convegni sul suo lavoro, ai quali gli indiani

(me compresa) hanno partecipato e nei quali hanno espresso la loro ammirazione per le sue notevoli abilità di mettere
insieme una grande vastità di materiali all’interno di uno stesso quadro teorico. Quello che si percepisce, però, in Du-
mont come in altri studiosi, è un’insofferenza nei confronti degli studi indiani che vengono considerati intrisi dell’espe-
rienza del colonialismo – come se essere toccati dalla propria storia volesse dire diventare inautentici.
5 Per una critica di questa distinzione, si veda Das (1977).
6 L’obbligo di segnalare l’ingresso nel campo di ricerca, come se questo fosse una terra aliena, è evidente nel reso-

conto di Rampura fatto da Srinivas (1977). L’espressione più forte può essere trovata comunque in Madan (1978), che
parla di vivere intimamente con degli “stranieri”. Gli stranieri erano Kashmiri Pandits, membri della sua stessa comuni-
tà in un villaggio non distante da dove era cresciuto. Troviamo molte riflessioni interessanti in Srinivas sulle conseguen-
ze del suo essere un bramino. Ma mentre si è prestata molta attenzione ai problemi della rappresentazione dell’altro che
è al di fuori, l’alterità all’interno ha ricevuto pochissima attenzione.

Biografia intellettuale

Veena Das è professore di sociologia alla Dehli School of Economics, presso


l’Università di Dehli. È autrice di Structure and Cognition: Aspects of Hindu Caste
and Ritual, Dehli, Oxford University Press, 1977; ha curato The Word and the
World: Fantasy, Symbol and Record, Dehli, Sage Publications, 1986; e Mirrors of
Violence: Communities, Riots and Survivors in South Asia, Dehli, Oxford University
Press, 1990. Insegna all’Università di Dehli dal 1968. È stata “visiting professor”
presso le Università di Chicago, Harvard, Amherst College e l’Università di Heidel-
berg. È tra i curatori della rivista «Contributions to Indian Sociology». Le è stato
assegnato il premio Ghurye Award nel 1977 e il VKRV Rao nel 1986.

Non riesco a trovare nessun piano sistematico nel mio sviluppo come antropolo-
ga. Ho avuto il privilegio di studiare con M. N. Srinivas all’Università di Dehli. Sri-
nivas era stato uno studente di G. S. Ghrye all’Università di Bombay e di Radcliffe
Brown all’Università di Oxford. Sebbene si trovasse all’Università di Dehli, Srinivas
metteva in rilievo la “visione del lavoro sul campo” della società indiana, in con-
trapposizione alla “visione del libro”, e mi incoraggiva a usare la mia conoscenza
del sanscrito per la costruzione di problemi sociologici. In questo modo iniziai a la-
vorare su testi sanscriti Gujarat poco conosciuti del XIII secolo per la tesi di dottora-
to. Poiché avevo un enorme interesse a ricollocare i testi sanscriti nei sistemi di co-
noscenza moderni, trovai il lavoro di Dumont assolutamente affascinante. Il meto-
do strutturalista per lo studio del mito mi aprì molte porte quando avevo poco più
182 VEENA DAS

di venti anni. Immaginavo che Claude Lévi-Strauss forse era una moderna incarna-
zione di uno studioso sanscrito antico o medievale, che aveva messo a repentaglio la
propria stessa salvezza quando scelse una teoria del linguaggio rispetto a un’altra!
Tutto ciò per dire che le idee dello strutturalismo e in seguito della narratologia mi
si rendevano disponibili non solo nei testi in cui erano formulate, ma anche creando
per esse una diversa genealogia nella tradizione sanscrita. Nel 1982, nella conferen-
za Henry Myers che ebbi il privilegio di tenere, affrontai questo metodo in modo
esplicito ponendo la scuola mimamsa dell’antica filosofia indiana come interlocutri-
ce per le teorie antropologiche contemporanee sul sacrificio. Sono felice che le cate-
gorie della conoscenza derivanti da culture non occidentali impegnino gli antropo-
logi sociali, ma mi trovo a disagio con i quadri di riferimento totalizzanti all’interno
dei quali queste vengono formulate.
Quando penso al passato, riesco a riconoscere nei miei interessi intellettuali il
bisogno disperato di fuggire verso un passato collettivo che avrebbe vinto la violen-
za intorno a me. Ma il presente premeva, e io iniziai a esser stanca del ruolo di “fab-
brica di sogni” dell’antropologia. Lentamente imparai a impegnarmi nei problemi
dell’ambiente circostante. Dal 1984 sono stata assorbita nello studio della violenza e
del modo in cui le comunità morali vengono create attraverso la sofferenza. Questi
interessi derivano da altri aspetti della mia biografia personale, alcuni eventi contin-
genti che mi gettarono nel bel mezzo della violenza catastrofica, e dal consiglio che
mi diede una volta Srinivas: che un antropologo sociale deve cogliere il proprio per-
corso nell’ambiente circostante come lo percepisce un animale – non solo come un
interesse intellettuale, ma come un modo di essere. Se sarò stata capace di tradurre
questa visione, lo si potrà verificare nel mio prossimo libro, Critical Events, dove ho
cercato di mostrare come l’antropologia sociale ci aiuti a ridescrivere eventi critici
come le sommosse all’interno della comunità durante la spartizione dell’India, la
comparsa del sati nell’India moderna, il disastro chimico a Bhopal, dando corpo al
dolore come oggetto antropologico. Durante questo processo ho imparato a leggere
studiosi classici come Durkheim e Nietzsche, fortemente interessati al problema del
dolore. Sebbene io non possa vantare una discendenza nella lunga fila di autorevoli
studiosi che hanno creato l’antropologia sociale come disciplina, penso che il tipo
di lavoro condotto nei cosiddetti spazi marginali come l’India e il Brasile potrà ri-
vendicare questa tradizione e modellerà il futuro.
La comunità di studiosi a Dehli, specialmente Andre Beteille, Ashis Nandy, J. P.
S. Uberoi, Ritu Menon e Upendra Baxi, e altrove Richard Burghart, Audrey Canta-
lie e Arthur Kleinman, sono stati dei punti fermi nel mio sviluppo. Non riesco a
emularli e a definire il nucleo centrale della mia ricerca, poiché sembra che io viva
intellettualmente un’esistenza del tutto contingente. Anche questa, diceva Kierke-
gaard, è una scelta riflessiva.
Parte terza
Ripensare le prospettive precedenti
Introduzione alla parte terza
Robert Borofsky

Problematizzare Nel tentativo di descrivere (e di comprendere) orientamenti culturali diversi da


le conoscenze quelli a noi familiari, l’antropologia tende a problematizzare, implicitamente ed
date per
scontate
esplicitamente, le conoscenze che diamo per scontate, sottolineando quindi che le
nostre norme e i nostri valori non sono unici.
Dal punto di vista intellettuale l’antropologia è stimolante perché incoraggia alla
comprensione di aspetti culturali che non ci sono familiari, aiutandoci a considerare
noi stessi in una prospettiva più ampia. Come osservava Boas (1928), nella sua pre-
messa a L’adolescenza in Samoa di Mead: gli “elementi delle culture altre… danno
un enorme risalto ai nostri”.
Come “critico culturale” (per usare l’espressione di Marcus e Fischer 1986) l’an-
tropologo non si rivolge solo alla cultura occidentale, ma anche a se stesso. Parte del-
l’interesse nei riguardi di ciò che Wolf definisce (in questa parte, a p. 270) una conti-
nua “violazione” di paradigmi, è dovuta alla costante preoccupazione antropologica
di ripensare, dal punto di vista intellettuale, i contenuti accettati dalla disciplina. È
così che, in qualche modo, la teoria antropologica è progredita fino a oggi.
In questa sezione prenderemo in considerazione un insieme di questi “ripensa-
menti”. Rappaport e Bernard offrono due diverse prospettive sul dibattito tra positivi-
smo e interpretativismo. Levy, Yanagisako, Collier e Strathern presentano, invece, una
diversa formulazione rispettivamente dei rapporti tra persona e contesto, tra genere e
parentela, tra parti e insiemi sociali. Wolf e Scheper-Hughes suggeriscono infine nuovi
modi di prendere in considerazione le dinamiche del potere e della sua sottrazione.
Come si evince dai diversi contributi presenti nel volume, anche il costante ri-
Il rischio di pensamento di quanto è stato accettato crea dei problemi. Se non si presta la dovu-
perdere le basi ta attenzione, c’è infatti il rischio di lasciare la disciplina priva di un nucleo comune,
comuni di una solida base sulla quale poter edificare. Il processo di ripensamento, tuttavia,
può anche essere fruttuoso. Come si nota nei diversi contributi di questa parte del
testo, esso può condurre a nuove intuizioni, a sintesi innovative che contribuiscono
al progredire della disciplina.

I criteri di valutazione
Come è possibile giudicare, in antropologia, il “ripensamento” delle prospetti-
ve? Come è possibile riuscire a separare il grano dal loglio, il positivo dal negativo?
Non è facile. Idealmente sarebbe preferibile poter esaminare le nuove prospettive
con dati specifici, per chiarire fino a che punto riescono a spiegare quanto resta an-
cora da chiarire.
Harris (p. 90), Goodenough (p. 325) e altri autori stabiliscono criteri utili per
orientarsi in questo genere di analisi. Tuttavia, come è stato già chiarito nelle prime
due parti del volume, l’antropologia non ha in generale raggiunto (o almeno, non
ancora) lo stadio di maturità in cui è possibile porre in atto verifiche precise, effica-
INTRODUZIONE ALLA PARTE TERZA 185

ci e scientifiche (per questo motivo Bernard, in questa sezione, dedica particolare


attenzione al metodo). Al momento, una serie di difficoltà – tra cui la qualità, la
completezza e la comparabilità dei dati disponibili per la valutazione – rendono
problematico rifiutare o accettare nel suo complesso una nuova prospettiva.
Esistono tuttavia criteri che gran parte degli antropologi, (forse la maggior par-
te) utilizza nella valutazione delle innovazioni intellettuali. I criteri chiave ruotano
attorno al potere intellettuale dell’orientamento in esame: se riesce a suggerire modi
nuovi e proficui per risolvere vecchi problemi e vecchie opposizioni; se riesce ad af-
frontare situazioni specifiche in modo più efficace delle prospettive esistenti; se
conduce a nuove e interessanti intuizioni. Nella storia della disciplina, molte sono
state le innovazioni intellettuali che hanno soddisfatto questi criteri. Le innovazioni
L’interesse di Malinowski e di Boas per il lavoro sul campo è una tra le più im- chiave: la
portanti. Nel periodo precedente alla prima metà del secolo prevalse una diversa ricerca sul
“economia del sapere etnografico” (nelle parole di Clifford 1988, p. 39). Esistevano, terreno
infatti, sia gli antropologi “da tavolino” che poco si dedicavano alla ricerca etnografi-
ca, sia (come li definì Frazer) gli uomini “da campo”: missionari, viaggiatori, ammi-
nistratori, commercianti, che conoscevano una cultura grazie a una vasta esperienza,
di prima mano. Il problema emerso fu che le astratte teorie elaborate nella metropo-
li dagli antropologi “da tavolino” spesso fraintendevano l’interpretazione dei dati et-
nografici: nelle lettere che gli antropologi “di città” e i loro corrispondenti “dal cam-
po” si scambiavano, i significati culturali venivano snaturati. I resoconti suggestivi e
metaforici degli informatori sul campo, ad esempio, venivano considerati, una volta
tornati nella metropoli, testimonianze di sistemi di credenze reali (cfr. Lewis 1986).
Malinowski e Boas ribadirono che per riuscire a comprendere veramente una cultu-
ra, e come parte della loro formazione, gli antropologi dovevano affrontare un lungo
periodo di lavoro sul campo dedicato all’analisi delle comunità, con un’intensa os-
servazione partecipante. Bisogna vivere “proprio in mezzo agli indigeni”, sosteneva
Malinowski (1922, p. 34). L’innovazione riscosse una generale approvazione. Se in
passato solo alcuni antropologi si dedicavano alla ricerca sul campo, negli anni Tren-
ta questa pratica era in sostanza diffusa tra tutti gli antropologi. Divenne così una
prassi stabilita. Oggi, l’esperienza sul campo rappresenta generalmente un “rito di
passaggio” per ottenere un dottorato in antropologia. Solo ora, chiariti i legami che
circondano le comunità locali e divenute ovvie le variazioni esistenti tra queste, ri- I limiti del
usciamo a comprendere i limiti di questo approccio incentrato esclusivamente sulle “localismo”
nella ricerca
comunità. Se limitiamo la nostra prospettiva a un lavoro sul campo intensivo in un
contesto locale alla volta, perdiamo di vista la spiegazione di vasti fenomeni culturali.
Un altro esempio di innovazione vincente è l’analisi del mito di Lévi-Strauss.
Prima dell’avvento dell’analisi strutturale, i miti venivano generalmente interpretati
adottando una o l’altra tra due prospettive antropologiche. Essi venivano analizzati Lévi-Strauss
in termini psicologici: così Kluckhohn (1942) ipotizzò ad esempio che i miti riduce- e l’analisi
vano le inquietudini perché stabilivano un senso di ordine e continuità culturale. del mito
Oppure erano considerati, da Malinowski (1948) in poi, come fondamenta mitolo-
giche del presente, mezzi per fondare e giustificare istituzioni esistenti. Lévi-Strauss
(1966) concepì tre innovazioni sostanziali. In primo luogo, sostenne che l’analisi dei
miti doveva concentrarsi più che sui dettagli specifici dei contenuti (chi agisce, cosa
fa, quando) sui “fasci” di relazioni, sui rapporti, cioè, tra eventi, oggetti, animali e/o
esseri umani nei miti. In secondo luogo, sottolineò l’importanza della diversità tra le Il mito come
insieme
versioni. Un resoconto non costituiva semplicemente una copia imperfetta di un’al- di relazioni
tra versione “corretta”; piuttosto, tutte le versioni raccolte avevano la loro impor-
tanza e dovevano essere analizzate di conseguenza: esse rappresentavano, per usare
186 ROBERT BOROFSKY

un’analogia musicale, variazioni su un tema comune. In terzo luogo, Lévi-Strauss


(1966) sottolineò che il pensiero mitico “progredisce dalla consapevolezza delle op-
posizioni alla loro risoluzione”. I miti servivano a risolvere (o quantomeno, a smus-
sare) importanti opposizioni culturali. La storia di Asdiwal, ad esempio, esplorava
la tensione esistente tra gli orientamenti egualitari e quelli gerarchici nel sistema
matrimoniale degli tshimshian della costa americana del Nordovest. “Tutte le anti-
nomie concepite, sui piani più diversi, dal pensiero indigeno – geografica, economi-
ca, sociologica, e persino cosmologica – vengono in fin dei conti assimilate a quella,
meno apparente, ma tanto più reale, che il patrimonio con la cugina matrilaterale
cerca di superare senza riuscirvi”, dichiarò Lévi-Strauss (1973, p. 210).
Quanto detto finora, però, potrebbe trarre in inganno il lettore. Sembrerebbe
quasi che queste innovazioni siano risultate efficaci e significative in modo così evi-
dente da essere state immediatamente accettate. Non è proprio così. All’inizio, in-
fatti, non è chiaro quale innovazione sarà o meno accolta dalla disciplina.
Il successo delle Due sono i principi che entrano in gioco e si sovrappongono in questo processo. Il
innovazioni primo riguarda il numero di volte in cui la prospettiva è citata. Oppure, detto altri-
teoriche
menti, quali, e di che levatura, sono gli antropologi che nei loro scritti fanno riferimen-
to all’innovazione. Harris sottolinea implicitamente questo principio quando ricorda,
in una nota (p. 101), la schiera di studiosi che ricorrono al materialismo culturale per
cercarvi degli spunti. “Per sopravvivere o per essere trasformata in fatto”, osserva La-
tour (1987, p. 38), “un’affermazione ha bisogno della successiva generazione di scritti”.
Vale a dire, esiste un periodo di attesa per valutare le innovazioni. Bisogna considerare
chi si riferisce a esse, in che modo e in quali contesti (questo spiega perché alcuni stu-
diosi, per difendere una posizione, citano ripetutamente se stessi o si citano a vicenda,
e perché altri si offendono quando non vengono citati).
A questo proposito, l’approccio di Lévi-Strauss al mito ha superato con successo
diverse prove. È stato analizzato e rianalizzato, criticato, lodato e soprattutto forse
imitato da una schiera di studiosi. È infatti possibile trovare centinaia di citazioni del
suo lavoro. L’ormai classico testo di Evans-Pritchard (1937) Stregoneria, oracoli e ma-
gia fra gli Azande ha avuto bisogno di parecchio tempo per raggiungere questa posi-
zione. La sua allieva, Mary Douglas (1970) scrive: “per oltre un decennio…[dopo] la
sua pubblicazione… [il volume] ha avuto poca influenza… tuttavia, nei successivi
venti anni arrivò a dominare straordinariamente gli scritti degli antropologi”.
Una carenza di citazioni non necessariamente rappresenta un segno di disinteres-
se. Può anche essere segno di insuccesso. Quasi quarant’anni anni fa, Leach (1961)
prospettò un ripensamento dell’antropologia, suggerendo che le “idee organizzative”
presenti in una società costituissero un “modello matematico” (1961, p. 2). Pochi au-
tori, se non nessuno, hanno ripreso questa idea così come era stata originariamente
Alcuni espressa. Oggi, il suo Nuove vie dell’antropologia viene citato più per la sua critica alle
insuccessi tipologie strutturali di Radcliffe-Brown, definite “collezioni di farfalle”, che per le sue
idee innovative. L’etnoscienza e l’analisi componenziale hanno condiviso, per certi
versi, un destino analogo, sebbene meno drastico. Nel 1972, Keesing (1972, p. 299)
rifletteva: “gli articoli sui sistemi di classificazione indigena che riempivano le riviste
diversi anni fa hanno perso di importanza. Che fine ha fatto l’etnoscienza?”. Oggi,
quasi trent’anni dopo, è facile comprendere le ragioni della carenza di citazioni. I testi
classici di quella prospettiva vengono infatti citati solo sporadicamente.
Un secondo principio in base al quale valutare le passate prospettive, stretta-
mente connesso al primo, riguarda la possibilità che esse siano di stimolo a ulte-
riori ricerche etnografiche. Forse sembrerebbe troppo drastico. C’è, tuttavia,
una complicazione. Gli studiosi più anziani spesso dirigono i progetti degli stu-
INTRODUZIONE ALLA PARTE TERZA 187

denti laureati: stimolare ulteriori ricerche potrebbe ridursi all’essere circondati


da una schiera di studenti accondiscendenti. Tutto ciò, ad esempio, ha rappre- Malinowski e
Boas, gli “eroici
sentato un fattore decisivo per l’accettazione della prospettiva di Malinowski e mentori”
Boas di lavoro sul campo. Questi due eroici mentori esercitarono infatti un for-
tissimo influsso sulla generazione successiva di studiosi, attraverso la formazione
di molti dei suoi più autorevoli membri (ad esempio, Firth, Evans-Pritchard,
Fortes, Leach, Kroeber, Lowie, Benedict e Mead). Solo ora riusciamo a com-
prendere, al di là dei suoi ovvi meriti, perché la visione unitaria della disciplina
di Boas o Malinowski fu accettata così velocemente.
È interessante riflettere sulle ragioni per le quali la tradizione francese di lavoro
sul campo, a partire dal lavoro di Griaule e altri, sia rimasta fino a poco tempo fa
ignorata in Nord America, se paragonata a quella di Malinowski e Boas.
Come osserva Clifford (1983, p. 126): “la tradizione nata con Griaule offre una
delle poche alternative pienamente elaborate al modello anglo-americano dell’osser-
vazione partecipante intensiva… perché concepisce la ricerca come una pratica
strettamente legata alle relazioni di potere”. E aggiunge inoltre (1983, p. 140): La tradizione di
“Griaule non ha mai pensato di essere un partecipante discreto… la ricerca rappre- Griaule,
ricercatore
sentava dichiaratamente un’intrusione. I suoi resoconti contenevano spesso un ri- “intruso”
corrente conflitto di interessi… che generava un rispetto reciproco, una complicità
in un produttivo equilibrio di poteri”. Curiosamente, mentre le innovazioni teori-
che di diversi studiosi francesi, come Durkheim, Mauss e Lévi-Strauss, vengono
continuamente citate nella letteratura, molti altri classici francesi appartenenti alla
stessa tradizione etnografica tendono invece a essere ignorati dall’antropologia bri-
tannica e americana. La scarsa attenzione riservata alle ricerche francesi potrebbe
essere riconducibile all’apparente inconciliabilità tra queste due tradizioni etnogra-
fiche e alla difficoltà del mondo anglosassone a confrontarsi con le tematiche del
potere (discussa in questo volume nei saggi di DaMatta e Wolf).

Il contesto intellettuale dei contributi


È utile forse, nella lettura dei saggi che seguono, segnalare alcuni dei contesti da
cui traggono origine, per chi ha poca familiarità con essi. Prima però vorrei fare
un’ulteriore breve notazione. Alcuni, se non tutti, i saggi contenuti nel volume, po-
trebbero essere considerati come parte di un processo di “ripensamento”. In questo
senso, l’aver disposto determinati saggi in una sezione intitolata “ripensare le pro-
spettive precedenti” può sembrare una scelta in parte arbitraria. I saggi che seguo-
no dovrebbero essere considerati dimostrazioni, testi rappresentativi di una tenden-
za antropologica generale di cui sono parte integrante anche gli altri saggi. Questa
parte, infine, illustra alcuni dei continui ripensamenti che proseguono poi nel corso
del lavoro sul campo.
Come già notato, i contributi di Rappaport e di Bernard si concentrano sul di-
battito, interno alla disciplina, tra positivismo e interpretativismo. Questo dibattito
è già stato affrontato nella prima parte del volume, e non c’è bisogno di dilungarsi
su di esso. In ogni caso, il lettore dovrebbe tenere presente che ogni contributo svi- Gli studi di
luppa la sua sintesi da una prospettiva differente, tenendo conto inoltre del proble- cultura e
ma, sollevato da Rappaport (e in precedenza da Das), che sarà affrontato in seguito: personalità
quale significativo ruolo può assumere l’antropologia nella vita moderna. Sarebbe
inoltre da chiedersi fino a che punto i metodi discussi da Bernard risultino utili per
valutare efficacemente i problemi attuali. Il contributo di Levy si riferisce a un am-
bito diverso: il rapporto fra cultura e personalità. Questo argomento è stato affron-
tato, dagli anni Venti sino agli anni Cinquanta, da alcuni antropologi (specialmente
188 ROBERT BOROFSKY

americani, come Sapir, Mead, Benedict, Linton, Kluckhohn e Hallowell). Questi


autori, come rileva LeVine (1991, p. 3), non formarono una scuola, ma appartenne-
ro piuttosto a quello che egli definisce un “campo di indagine, all’interno del quale
gli studiosi, nel tentativo di associare le prospettive psicologica e culturale, speri-
mentarono determinati metodi empirici e programmi di ricerca, concependo una
varietà di nuovi modelli teorici”. Vari autori hanno ipotizzato relazioni diverse tra
cultura e personalità (termini, tra l’altro, entrambi definiti in una miriade di modi
diversi). Alcuni hanno sottolineato come la cultura plasmi la personalità, altri come
quest’ultima dia forma alla cultura. Cultura e personalità sono state da taluni consi-
derate essenzialmente la stessa cosa. Altri ancora hanno sostenuto come attorno alla
personalità si coagulino variabili culturali, e come essa ne plasmi alcune venendo
modellata da altre. Per LeVine (1991, p. 4), “il campo di ricerca di cultura e perso-
nalità nei suoi primi vent’anni… ha rappresentato una delle più eccitanti esplora-
zioni intellettuali proposte dalle scienze sociali americane nel ventesimo secolo”. Ad
ogni modo, verso la fine degli anni Cinquanta, questo ambito aveva perduto molto
del suo slancio iniziale ed era ormai in declino; i suoi postulati teorici vennero infat-
ti ritenuti imprecisi, e le sue metodologie limitate (cfr. LeVine 1973; Shweder 1991;
Lindesmith, Strauss 1950). Ad esempio, non è mai giunto a una conclusione defini-
tiva riguardo al problema della variabilità. Ha esagerato la concordanza degli ele-
menti culturali e delle personalità nel tempo e in contesti differenti.
Negli anni Sessanta, così, un “nuovo” orientamento relativo al rapporto tra cul-
tura e personalità si sostituì al vecchio: era ora definita antropologia psicologica, e il
La nuova suo interesse verteva prevalentemente su questioni cognitive. Questa prospettiva
antropologia spesso si incentrò sulle categorie conoscitive culturali, in particolar modo sulla clas-
cognitiva sificazione indigena dei mondi sociale e fisico. Divennero allora importanti i proble-
mi relativi al modo in cui gli informatori organizzano il loro sapere (nei termini di
quella che veniva considerata “realtà psicologica”). Col tempo, tuttavia, anche que-
sto obiettivo sembra aver perduto parte della sua attrattiva.
Lo sta sostituendo un interesse per questioni relative alla personalità, alle moti-
vazioni, alle modalità di apprendimento e alla relazione tra i processi cognitivi e i
contesti culturali (cfr. ad esempio, D’Andrade, Strauss 1992; Chaiklin, Lave 1993;
Holland, Quinn 1987). Il contributo di Levy si sofferma su alcune problematiche
Gli studi sulle
innovazioni e
precedenti relative a questo campo d’indagine: ecco un esempio di violazione di
sull’apprendimento paradigma (secondo l’espressione di Wolf, a p. 270), resuscitato in forma più sofi-
sticata.
Si potrebbe discutere nel chiedersi se le questioni relative al gender abbiano in
tempi passati riguardato gli antropologi (cfr., ad esempio, Richards 1939, 1940,
1956; Kaberry 1939, 1952; E. Parsons 1915-1924 e Underhill 1936). Tuttavia, a co-
minciare dagli anni Sessanta, un certo numero di fattori, sia interni che esterni al-
l’antropologia, hanno condotto a un deciso riconoscimento del loro ruolo critico.
Inizialmente, l’obiettivo consisteva nel neutralizzare le distorsioni maschili (o an-
L’interesse per il drocentriche) nelle etnografie. Reiter (1975, p. 12) ce ne fornisce un esempio:
gender
gli studi sulla parentela sono… generalmente rivolti ai maschi… i sistemi matrimonia-
li… gli scambi [condotti da maschi] e… i modelli evoluzionistici hanno spiegato lo…
sviluppo della società umana dando un peso enorme al ruolo maschile della caccia e
senza troppo considerare il ruolo femminile della raccolta.

Studi successivi, di contesti culturali già noti e condotti secondo prospettive


orientate a tematiche femminili (come quello famoso del 1976 di Weiner sulle Tro-
INTRODUZIONE ALLA PARTE TERZA 189

briand) hanno chiarito fino a che punto i pregiudizi androcentrici abbiano influen-
zato le dinamiche sociali delle interazioni.
La questione del dominio maschile, e l’essenzialismo di natura biologica in
essa implicito, rappresenta un altro importante tema su cui si è soffermato l’in-
teresse degli antropologi. Un aspetto di questo problema ha riguardato la for-
L’uguaglianza
mulazione di polarità trans-culturali nelle relazioni di genere, ad esempio tra na- sessuale delle
tura e cultura (Ortner 1974) e tra pubblico e domestico (M. Rosaldo 1974), che origini: le bande
hanno rivisitato il problema del dominio maschile. Un altro elemento è stata l’i-
potesi che le prime società di banda fossero caratterizzate dall’uguaglianza tra i
sessi, perduta in seguito con l’evoluzione culturale verso forme organizzative di
tipo statuale (vedi ad esempio Leacock 1981). Il “dominio” maschile (tra virgo-
lette perché è stato definito, al pari dei concetti di “natura” e “cultura”, in una
miriade di modi) non fu ritenuto universale. Al contrario, come precisava San-
day (1981, p. 11): “il dominio maschile ed il potere femminile sono conseguenze
dei modi in cui i popoli si pongono in relazione con i propri ambienti storici e
naturali”.
La tendenza più recente negli studi sul genere ha abbandonato l’interesse per
ciò che è stato tralasciato a causa dell’esclusione di problemi relativi al gender ed è
andata interessandosi, piuttosto, a tutto ciò che è stato incluso, analizzando attenta- Genere sessuale
e implicazioni
mente proprio tali questioni. Dal momento che gli aspetti del genere si sovrappon- culturali
gono e si intrecciano a numerosi altri aspetti culturali, costituiscono un mezzo vali-
do per esaminare una serie di argomenti. Collier (1988), ad esempio, prende in esa-
me le implicazioni culturali, sulla base della concezione del mondo e del rituale, dei
diversi tipi di transazioni matrimoniali nelle società prive di classi. Stoler (1989a, p.
634) puntualizza “che le categorie caratterizzanti il ‘colonizzatore’ e il ‘colonizzato’
erano consolidate in misura crescente attraverso le forme di controllo sessuale che
definivano i comuni interessi politici dei coloni europei e gli investimenti culturali
con i quali questi ultimi si identificarono”.
La parentela, una volta oggetto di gran parte dell’analisi antropologica, è scadu-
ta di importanza teorica negli ultimi decenni (e anche questo rappresenta un esem-
pio di quella violazione di paradigmi di cui parla Wolf). Si potrebbero fornire una
serie di spiegazioni a riguardo: un’analisi più accurata, un mondo in trasformazione,
differenti interessi antropologici. Tuttavia, è importante notare che i temi politici,
economici e religiosi cui si erano rivolti a suo tempo gli studi di parentela non sono La riscoperta
del tutto scomparsi, ma sono stati semplicemente riformulati dal punto di vista con- della parentela
cettuale. Attraverso l’analisi del gender, Yanagisako e Collier propongono un mezzo
per ricondurre la parentela nell’ambito della corrente antropologica tradizionale.
Vedremo in che modo l’attenzione alle problematiche del genere arricchisca visibil-
mente l’analisi etnografica.
Strathern si confronta con un tema diverso ma correlato. Come rileva (1992, p.
150) a proposito del suo recente The Gender of the Gift: “considero un esercizio in-
tellettuale fuori luogo, il modo in cui gli antropologi occidentali hanno interpretato il
concetto di ‘società’ nei termini melanesiani… Mi sono posta l’obiettivo di immagina-
re quale potrebbe essere la controparte intellettuale plausibile di tale concetto”. Co-
me nota nel suo saggio (p. 264), “il ‘nostro’ progetto non deve essere confuso con il
‘loro’”. Esaminando come concettualizzare una società “che… non [è] composta da
gruppi” (p. 254) Strathern riflette sugli ordinamenti alternativi delle relazioni tra par-
ti e totalità o, come sostiene a p. 254, “se i gruppi sono il tramite con i quali le società
si presentano ai loro membri, allora, se non appartiene ad un gruppo, di cosa è parte
una persona?”.
190 ROBERT BOROFSKY

La ricerca di Strathern tocca un certo numero di interessi storicamente rilevanti per


la disciplina. Gli antropologi britannici degli anni Quaranta e Cinquanta utilizzarono il
concetto di “gruppo di discendenza” per collegare gli individui a gruppi circoscritti, e
Il problema dei questi gruppi alle collettività più estese che potremmo definire società. Negli anni Cin-
gruppi cognatici quanta e Sessanta i loro tentativi vennero messi in crisi da due fronti. In primo luogo,
nacque la questione dei gruppi cognatici: come potevano, cioè, le persone appartenere
concretamente a gruppi che non sembravano legati da vincoli di discendenza? Questo
problema portò alla ricerca di criteri ulteriori, che si aggiungevano a quello di discen-
denza e fossero in grado di unire tra loro le persone in seno alle collettività. Successiva-
mente, furono le alleanze matrimoniali (e gli scambi in essi impliciti), piuttosto che la
discendenza a essere considerati l’elemento principale nel dar forma ai confini di un
gruppo. L’obiettivo si spostò quindi dall’attenzione posta sull’organizzazione interna
dei gruppi agli scambi intercorrenti fra un gruppo e gli altri. I teorici della discenden-
za, come Fortes, utilizzarono il concetto di “filiazione complementare” (legami matri-
laterali in sistemi patrilineari e legami patrilaterali in sistemi matrilineari) per confron-
tarsi, dal punto di vista teorico, con i vincoli che oltrepassavano i gruppi di discenden-
za. Strettamente connessa a questi dibattiti, che a volte diventavano vere e proprie dis-
pute, è la questione relativa al valore (e alla validità) della differenziazione tra l’ambito
politico-giuridico e quello domestico (tema, questo, a cui sono dedicati sia il saggio di
Yanagisako e Collier, sia quello di Strathern). Il fatto è che il problema sollevato da
Strathern – il legame tra gli individui all’interno dei gruppi e fra gruppi all’interno di
collettività più estese – costituisce un interesse primario e attuale in antropologia.
Strathern pone l’accento non sui gruppi o sugli individui, ma sulle relazioni so-
L’importanza del ciali. Come sostiene Brown (1992, p. 124): “la tesi di Strathern [è] che sia il rappor-
rapporto sociale
to sociale, piuttosto che la società considerata come entità o l’individuo autonomo,
il vero oggetto dell’antropologia… Considerare la persona come attore al centro
delle concrete relazioni sociali costituisce un limite del pensiero occidentale… Per
la Melanesia… è la relazione a costituire il fulcro dell’azione sociale”.
Tutto questo ci conduce alla concezione del gender proposta da Strathern, che è
diversa, in un certo senso, da quella di Yanagisako e Collier:

per “genere” intendo quei modi di categorizzare persone, oggetti, eventi, sequenze ecce-
tera che fanno riferimento alle immagini sessuali, ai modi cioè in cui le specifiche partico-
Il gender secondo larità dei caratteri maschili e femminili danno concretezza alle idee delle persone sulla
Yanagisako
natura delle relazioni sociali (Strathern 1988, p. IX)
e Collier

Questo spiega perché Strathern (p. 256) prenda in considerazione “la divisione
interna delle persone... in elementi maschili e femminili”. Piuttosto che su quanto
tiene assieme e lega le collettività, l’accento viene posto sulla differenziazione delle
relazioni. Per citare ancora l’autrice (a p. 264):

...ad essere “separate” l’una dall’altra erano le persone e le stesse relazioni: persona da
persona, relazione da relazione, e non persone isolate dalle relazioni. Invece di essere fis-
sate per sempre al momento della nascita, le relazioni costituivano la vita attiva delle per-
sone, qualcosa su cui non si smette di lavorare.
Quello che differenziava le relazioni, in Melanesia, era lo scambio delle prospettive con
cui le persone si ponevano in rapporto tra loro....

Per molti antropologi, senza dubbio, Strathern non è un’autrice agevole da se-
guire. I suoi scritti sono ricchi di sottigliezze, complessità e connessioni parziali che
necessitano di continui approfondimenti. Tuttavia il suo approccio ci lascia una lun-
INTRODUZIONE ALLA PARTE TERZA 191

ga serie di problemi su cui riflettere: 1) cosa intendono (o dovrebbero intendere) gli


antropologi con il concetto di “società”, di cui fanno tanto spesso uso; 2) quali ge-
neri di relazioni, in che modi e in quali contesti, legano tra loro persone da una par-
te all’altra del pianeta; 3) come sono collegate tra loro, se lo sono, in insiemi più am-
pi, le entità colte in forma più immediata in seno alla vita sociale: gli individui (con
i loro elementi divisibili) e le relazioni che questi intrattengono tra di loro.
Considerata la tendenza degli antropologi a esaminare gli strati inferiori (come li Lo studio degli
ha definiti Nader) della società, a studiare cioè che ha meno potere, i marginali ri- inferiori e dei
spetto ai centri dominanti, si potrebbe ritenere il potere un interesse prevalente in marginali
antropologia. Eppure negli scorsi decenni non lo è stato abbastanza, o almeno non
come ci si sarebbe auspicati.
“La natura del potere è stata oscurata all’interno della nostra stessa società”, os-
serva Adams (1977, p. 409), “a causa della nostra lunga insistenza sulla fondamen-
tale uguaglianza” degli esseri umani e, potremmo aggiungere, a causa del fatto che
il nostro presupposto di fondo è sempre stato che il governo è espressione del go-
vernato. Wolf (1964, p. 63) suggerisce che non è “eccessivo affermare che gli ameri-
cani raramente hanno preso in considerazione… il potere… perché le differenze di
potere dovevano essere negate a favore di un’ideologia secondo cui… esso è teori- Lo studio
camente accessibile a tutti”. Ricordiamo inoltre il giudizio espresso da DaMatta a del potere
proposito della vita accademica. In Francia, dove i dibattiti accademici travalicano
l’università e sono amplificati nella vita intellettuale e politica generale, il potere vie-
ne considerato un vero e proprio argomento di analisi. Tutto ciò si può ritrovare nel
contributo di Godelier e, come abbiamo già visto, nel modo di intendere il lavoro
sul campo di Griaule. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove gli interessi acca-
demici sono più “compartimentati” – separati cioè dalla vita pubblica – le manife-
stazioni e le manipolazioni del potere sono oggetti d’analisi meno importanti. Se-
condo Wolf, è necessario prestare maggiore attenzione alle dinamiche del potere
nell’antropologia americana, tema questo che echeggia nei recenti scritti di matrice
femminista (come quelli di Rapp, Sacks, Morgan e DiLeonardo).
Il saggio di Scheper-Hughes si affianca a quello di Wolf poiché l’antropologia
medica, pur mantenendo il suo tradizionale interesse per le determinanti culturali
della malattia e della guarigione, è andata sempre più interessandosi alle relazioni di
potere implicite nel discorso e nella pratica biomedica. Estroff (1981), ad esempio, Il percorso
analizza gli usi e gli abusi delle relazioni di potere in psichiatria, E. Martin (1987) e dell’antropologia
medica
Lock (1988b) fanno lo stesso in ginecologia e Taussig (1992) nella pratica medica
generale. In un altro saggio, Scheper-Hughes (1990, pp. 190-195) sostiene che oggi
gli antropologi medici spesso agiscono in modi che ricordano i rapporti che gli an-
tropologi avevano in passato con i funzionari coloniali, ponendo cioè le loro cono-
scenze al servizio delle autorità interessate allo sviluppo di programmi occidentali,
senza necessariamente aiutare le popolazioni indigene a resistere agli effetti negativi
di tali programmi.
Basandosi sulla distinzione di Kleinman (1980, p. 72) tra illness (disordini per-
cepiti dal paziente) e disease (disordini diagnosticati dal medico), un certo numero Illness vs disease
di studi clinicamente orientati esplora oggi le tensioni e le interazioni dinamiche
tra le prospettive indigene e le prospettive biomediche in contesti specifici. Di
contro, gli approcci dell’antropologia medica più orientati in senso critico si con-
centrano, per citare Singer (1989, p. 1196), sulla “necessità di situare l’esame della
salute e della malattia all’interno del ‘più vasto campo di forza’ [delle relazioni di
potere]… che determina cosa viene prodotto, come viene prodotto e chi ne bene-
ficia (o ne soffre)”. Questo genere di lavori si riconnette alle prospettive teoriche
192 ROBERT BOROFSKY

di Foucault (cfr. ad esempio, 1975, 1976, 1980, 1984) le cui “analisi del corpo”,
L’influsso di nelle parole di Dreyfuss e Rabinow (1982, p. 111), indicano che “anche le pratiche
Foucault sociali più minute e locali sono collegate all’organizzazione del potere su larga sca-
la”. Questa prospettiva critica viene esemplificata nel saggio di Scheper-Hughes,
nel quale vengono analizzate le relazioni tra classe sociale e genere a livello del cor-
po. L’autrice riconcettualizza la convenzionale analisi freudiana della conversione
isterica e il modello psicologico della somatizzazione, per sostenere che la produ-
zione di segni corporei e dei sintomi non controllati nelle persone non deve essere
considerata una patologia, ma una forma legittima di “prassi corporea”, nella qua-
le il corpo “dice il vero al potere” sotto forma di sintomi, che rivelano le “inespri-
mibili” condizioni e la violenza quotidiana dei tagliatori di canna da zucchero del
Nord-Est del Brasile.
Infine, bisognerà riflettere su una serie di questioni nate da queste operazioni di
ripensamento delle prospettive: in che modo, ad esempio, si basano sulle analisi
precedenti, come riorientano il pensiero attuale e se riescono a suggerire nuovi ap-
profondimenti e possibilità di ricerca.
Nota alla parte terza
Massimo Canevacci

La sezione “ripensare le prospettive precedenti” si muove su questo doppio regi-


stro: da un lato, sottoporre a critica i tradizionali paradigmi della ricerca antropo-
logica e, dall’altro, esplora nuove modalità di ricerca, di rappresentazione e persino
di scelta.
Per questo, antropologi e soprattutto antropologhe appartenenti a scuole diverse
affrontano questioni relative al rapporto tra evoluzione e ecologia – metodi e tecni-
che – genere e parentela – potere e persona. Ho trovato non casuali i riferimenti ad
autori come Gregory Bateson (quasi costanti!), Michael Taussig, Michelle e Renato
Rosaldo, James Clifford. Quello che emerge da una antropologia del ripensamento
non è tanto ridefinire il “nucleo comune”, edificare una “base solida”, cercare “sin-
tesi fruttuose”, bensì il contrario: esplicitare le differenze anche epistemologiche
che però abbiano come scarto la critica a una visione apologetica, normativa, ripro-
duttiva del sapere. Come dire: a ciascuno la sua antropologia, ma sia chiaro che,
nelle scelte di campo o nei “ripensamenti”, le soggettività scientifiche stanno dentro
precise zone di potere. O fuori...
Vorrei sottolineare la particolare bellezza concettuale del saggio di Nancy Scheper-
Hughes. Un saggio oltre Foucault e – nelle sue interconnessioni tra corpo indivi-
duale (mindful-body e body-self), corpo sociale, corpo politico – anche oltre un tipo
di antropologia medica solo spettatrice o ingenua riformatrice del disagio somatiz-
zante o psicologizzante. Non è casuale che la sua stessa biografia intellettuale sia
densa di passioni e di esplorazioni che derivano da un’attiva ricerca sul campo non
solo per addetti ai lavori, ma spinta verso scelte di attiva trasformazione soggettiva e
di radicali ripensamenti metodologici.
In questo senso, la sua prospettiva – le prassi corporee – spinge l’antropologia con-
temporanea a non ritornare ossessivamente sulle sue fondazioni, ma sempre e co-
stantemente a esplorare persone sul campo, esplorarsi nelle proprie interazioni,
esplorare le possibilità di trasformare i sistemi di medicalizzazione vigenti. Lo scopo
è esplicito: dis-abitare i corpi da medicalizzazioni, somatizzazioni, psicologizzazioni
(scorporare l’habitus) e diffondere il corpo sovversivo.
L’evoluzione dell’umanità e il futuro dell’antropologia
Roy Rappaport

Un antropologo impegnato a sviluppare con altri, nel corso di un ventennio, un


certo tipo di approccio ecologico, dovrebbe essere in grado di valutare gli ultimi
venti anni di ecologia culturale e suggerire, di conseguenza, una serie di indicazioni
per i futuri orientamenti.
Ammetto, tuttavia, fin dall’inizio, di nutrire in generale delle riserve a proposi-
to di prescrizioni e predizioni. Difficilmente si può prevedere – e senza dubbio è
impossibile irreggimentare – qualsiasi risultato interessante o importante ottenuto
dai nostri colleghi. Le mie osservazioni, quindi, non possono riferirsi ad altro che
a quello che ciascuno di noi ritiene sia interessante e importante. Sono tuttavia
convinto di esser sul punto di individuare qualcosa di nuovo, che l’intera discipli-
L’antropologia na non riesce ancora a cogliere. Non è ancora del tutto chiaro di cosa si tratti; è
come scienza qualcosa, forse, che potrebbe costituire un nuovo metodo di studio, un campo di
postmoderna ricerca, una scienza, una forma di conoscenza le cui caratteristiche si adeguano al-
le qualità del suo oggetto. Siamo soli, tra le scienze sociali, a tentare quest’impre-
sa, e nonostante le probabili accuse di sciovinismo disciplinare riteniamo che, vi-
sto che come scienza moderna l’antropologia è rimasta piuttosto arretrata, come
scienza postmoderna potrebbe diventare addirittura fondamentale.

Le due tradizioni antropologiche


La “scienza postmoderna” è qualcosa di diverso da quell’insieme di idee e at-
teggiamenti che sono giunti all’antropologia dall’architettura per mezzo della criti-
ca letteraria. Il termine è qui inteso nell’accezione datagli da Stephen Toulmin
(1982), che lo utilizza in contrapposizione a “scienza moderna”, ossia il program-
ma codificato da Cartesio e dai suoi seguaci. Se fosse sviluppata in antropologia, la
scienza postmoderna di Toulmin avrebbe alcune caratteristiche in comune con il
più familiare postmodernismo letterario, ma i due sono diametralmente opposti
nei loro rispettivi fondamenti. Tutto questo può sembrare ovvio, perché dal punto
di vista critico-letterario il termine “scienza postmoderna” rappresenta un vero e
proprio ossimoro. Torneremo presto al pensiero di Toulmin, dopo essere passati
per l’antropologia.
Qualcuno, forse Gregory Bateson, ha sostenuto una volta che al mondo esistono
due tipi di intellettuali: gli ingenui e i confusionari. Forse è ingenuo ritenerlo ma,
L’antropologia dal mio punto di vista, l’antropologia si rivolge ai confusionari o forse, per sua inti-
disciplina
confusionaria
ma natura, è essa stessa confusionaria, laddove le altre scienze sociali, almeno in ba-
se agli stereotipi, propendono per l’ingenuità. Ad ogni modo, non ho mai riposto
particolare fiducia nell’ingenuità, forse perché ho sempre ritenuto il mondo più
confuso e complicato delle descrizioni datene da qualsiasi metodo, o combinazione
di metodi. Tutto ciò non deriva esclusivamente da un atteggiamento umile, ma an-
che dalla particolare ambivalenza della mia epistemologia.
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 195

Sin dai suoi esordi, nell’antropologia si sono sviluppate due diverse tradizioni:
una, che aspira all’oggettività ed è ispirata alle scienze biologiche, va alla ricerca di Due tradizioni
antropologiche
spiegazioni ed è preoccupata di scoprire cause o addirittura, nelle sue formulazioni
più ambiziose, leggi; l’altra, influenzata dalla filosofia, dalla linguistica e dalle altre
scienze umane, è sensibile a una forma di conoscenza maggiormente legata al sog-
getto, va alla ricerca di interpretazione e cerca di chiarire significati. Le nostre radi-
ci affondano sia nell’Illuminismo sia in ciò che Isaiah Berlin (1980) definiva “con-
tro-Illuminismo”. Discendiamo da Cartesio, quindi, ma anche da Vico.
La convivenza tra le due tradizioni non sempre è stata facile anche, o forse so-
prattutto, quando hanno coabitato nelle stesse menti. Tuttavia, ogni separazione ra-
dicale tra le due è fuorviante, non solo perché i significati sono spesso causali, e le
cause sono spesso significative, ma perché, fondamentalmente, la relazione tra le
due tradizioni, in tutta la sua ambiguità, esprime la condizione di una specie che vi-
ve, e non può che vivere, sulla base dei significati che deve costruire, in un mondo
privo di significato intrinseco ma soggetto alle leggi della natura. Per essere adegua-
ta, l’antropologia deve quindi tentare di comprendere la pienezza della condizione
del proprio soggetto.
In realtà, le critiche succedutesi negli ultimi venti anni hanno tutte sottolinea-
to il crescente allontanamento tra le due tradizioni. Il distacco non dovrebbe
comunque essere esagerato, né tantomeno valutato sulla base dell’estremismo del-
le asserzioni radicali. È ancora lontano il divorzio, e anche la separazione potreb-
be essere stata in certo senso utile, per aver permesso a ciascuna tradizione non
solo di esplorare i limiti delle proprie possibilità ma, nel far ciò, di riscoprire la
propria dipendenza dall’altra. Crediamo tuttavia sia giunto il momento di una
loro, pur problematica, riunificazione.
Molto può dipendere da questo, più che dal futuro di una branca specifica del-
l’antropologia. Torniamo ora dalla nostra disciplina al suo oggetto specifico. La no-
stra è, dopotutto, non solo una specie in via di estinzione, ma una specie il cui ri-
schio di estinzione mette in pericolo la vita di tutte le altre specie. Sono convinto
che l’antropologia non sia in grado di dare risposta a tutti e forse, nemmeno ad al-
cuni tra i più urgenti problemi che affliggono il mondo. Può, però, almeno fornire
dei modi utili per concepire quei problemi. Modi, per molti aspetti, ben diversi dal-
le concezioni (dominanti nel dibattito pubblico) immaginate dagli economisti, che
spesso fanno ricorso a quel capolavoro di ingenuità mentale detto “calcolo di costi
e benefici”. D’altronde, avere a che fare con simili problemi rappresenterà per noi
uno stimolo, sia dal punto di vista teorico sia da quello pratico.
Sono convinto che, tra le possibili cause del pericolo di estinzione, riveste no-
tevole importanza lo iato tra la legge naturale e i significati che costruiamo. Per
“legge naturale” intendo le regolarità della natura e le loro cause, siano o meno L’incommensu-
conosciute o comprese. Da un lato, è decisamente poco probabile che le leggi na- rabilità fra la
turali potranno mai essere pienamente conosciute; anche se così fosse, però, i fe- natura
nomeni della natura sono di tale complessità e così soggetti al caso che le loro e i significati
conseguenze resterebbero per sempre imprevedibili. Dall’altro, non c’è niente costruiti
nella natura del pensiero umano che possa impedire la nascita di follie autodi-
struttive: follie che, rafforzate da tecnologie sempre più potenti, sono ormai in
grado di distruggere il mondo. Il fatto che questa affermazione sia scontata non è
che una conferma della sua verità.
Noterò solo per inciso che uno dei problemi del relativismo, nella sua forma più
estrema, è che non sembra in grado di affrontare quel tipo di errori che possono
impossessarsi di intere culture. Per “errori” intendo quelle idee, qualunque sia la
196 ROY RAPPAPORT

Il relativismo loro provenienza, così lontane dal conformarsi alla struttura del mondo, da causare
e gli “errori”
delle culture
azioni a carattere distruttivo. La prevalente concezione economica dei sistemi eco-
logici, che li considera, in sostanza, alla stregua di concentrazioni di risorse (una
concezione che contribuisce quindi, in questo modo, alla distruzione dello strato di
ozono e all’effetto serra) rappresenta soltanto un esempio che – per la familiarità
che abbiamo con esso ma anche per la sua gravità estrema – permette di dimostrare
che gli “errori” non dipendono soltanto (o soprattutto) da malintesi empirici, ma
sono, in un certo senso, funzionali al potere. Tuttavia, ciò che intendo affermare è
che se le due tradizioni rimarranno radicalmente separate, l’antropologia non potrà
neanche accostarsi al problema più generale dello iato tra sistemi naturali e costru-
zioni culturali.
Prima di passare a considerare il futuro dell’antropologia nel quadro di questo
iato che potrebbe ben rappresentare l’essenza di ciò che definiamo, spesso piutto-
sto solennemente e forse pretenziosamente, “condizione umana”, sarà utile prende-
re in esame la natura di questa frattura e il suo emergere nel corso dell’evoluzione
dell’umanità.

Il linguaggio e l’umanità
Non mi riferisco, lo ripeto, all’“evoluzione” umana o a quella degli “ominidi”,
ma all’“evoluzione dell’umanità”. C’è una differenza di connotazione: le espressioni
“evoluzione degli ominidi” o “evoluzione umana” avrebbero permesso di sottoli-
neare ciò che accomuna la nostra specie alle altre, il fatto cioè che siamo animali
che vivono in mezzo ad altri organismi e dipendiamo da essi e inoltre, il fatto che la
nostra specie si è evoluta attraverso processi di selezione naturale per nulla differen-
ti, in linea di principio, da quelli che hanno prodotto le sanguisughe o i leoni. Pur
L’evoluzione
dell’umanità e il
ammettendo queste affinità, tuttavia, l’espressione “evoluzione dell’umanità” ci
linguaggio consente di porre in evidenza le caratteristiche che contraddistinguono la nostra
specie e la differenziano dalle altre. I nostri antenati ominidi divennero “pienamen-
te umani”, per usare un termine generico ma afficace, con lo sviluppo del linguag-
gio. Tutti gli animali comunicano; persino le piante trasmettono informazioni, ma
solo gli esseri umani, per quanto ne sappiamo, possiedono un linguaggio che com-
prende, in primo luogo, un lessico fatto di simboli nel senso indicato da Peirce
(1960, vol. II, pp. 143 sgg.) – segni connessi a ciò che denotano esclusivamente me-
diante “leggi”, vale a dire in virtù di una convenzione; e, in secondo luogo, da
grammatiche, serie di regole in grado di combinare simboli dando vita a un discor-
so semanticamente illimitato.
Sottrarsi Il possesso del linguaggio rende possibili modi di vita inconcepibili per esseri
all’immediatezza che ne sono privi, e la stessa capacità di utilizzarlo è il prodotto di uno specifico
del presente processo di selezione. Con il linguaggio, la comunicazione non solo può sottrarsi al-
l’immediato hic et nunc e fare riferimento al passato ma può anche, entro un certo
limite, preordinare il futuro, rendendo così possibili ed efficaci la pianificazione e la
coordinazione. Ne derivano altre implicazioni, che pure non presentano vantaggi
altrettanto evidenti. Grazie al linguaggio, infatti, il discorso è in grado di sfuggire al-
l’immediatezza del presente non solo per registrare l’effettivo passato o per configu-
rare un futuro prevedibile, ma anche per esplorare quei “mondi paralleli” rappre-
sentati da espressioni come “potrebbe essere stato”, “dovrebbe essere”, “può sem-
pre darsi che sia”. Rende possibile, per così dire, la ricerca negli universi del deside-
rabile, della morale, della possibilità, dell’immaginario, del generale.
Indagare questi universi non significa semplicemente scoprire quel che già esiste,
L’espansione del
pensabile ma crearlo. Il linguaggio espande straordinariamente tutto ciò che è pensabile.
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 197

Quest’estensione del potere concettuale, oltre a una crescente competenza comuni-


cativa, è alla base della modalità generale di adattamento umano. Per questo motivo
il linguaggio è stato fondamentale nel successo evolutivo dell’umanità.
Abbiamo appena introdotto il termine “adattamento”. Con questo termine in-
tendo i processi attraverso i quali i sistemi viventi si tengono in vita di fronte ai
costanti disturbi e alle occasionali minacce. Bateson (1972) affronta l’argomento
sulla base della teoria dell’informazione, e afferma che i sistemi adattativi operano
per preservare il valore di verità di alcune proposizioni che si riferiscono a se stes-
si, dinanzi alle minacce di falsificazione. Negli organismi non umani, tali proposi-
zioni rappresentano descrizioni di aspetti cruciali della loro struttura o fisiologia.
Tra gli esseri umani, invece, può trattarsi di proposizioni propriamente dette, co-
me pure di altri tipi di proposizioni relative ad argomenti che affronteremo in se-
guito. Le risposte adattive comprendono sia cambiamenti di stato reversibili e a
breve durata, sia cambiamenti nella struttura irreversibili e a lunga durata. I due
aspetti, spesso in contrasto, sono strettamente collegati, perché le trasformazioni
strutturali nei sottosistemi permettono agli elementi basilari dei sistemi circostanti
di rimanere invariati. Quindi, la domanda fondamentale che è necessario porsi, su
ogni trasformazione evolutiva, è: cosa resta invariato?
La flessibilità è fondamentale per l’adattamento così concepito; e la flessibilità Linguaggio e
adattativa degli esseri umani, che deriva dal possesso del linguaggio, rimane inegua- funzione adattativa
umana
gliabile. Il linguaggio è quindi fondamentale ai fini della funzione adattiva umana.
Tuttavia, anche quest’affermazione non rende giustizia all’importanza del linguag-
gio, dal momento che la sua rilevanza travalica i confini della specie in cui esso ap-
pare. Leslie White (1949) sosteneva molti anni fa che, dal momento in cui apparve
la vita sulla terra, la comparsa del linguaggio ha rappresentato un’innovazione più
importante della stessa evoluzione. La tesi di White non era poi così originale, dato
che il linguaggio non rappresenta solo un modo nuovo per comunicare vecchi gene-
ri di informazioni. Con il linguaggio compare nel mondo una forma del tutto nuova
di informazione che ha portato un contenuto nuovo: il mondo intero, da allora in
poi, non è stato più lo stesso.
Dopo la comparsa del linguaggio, la sua importanza epocale per il mondo, al
di là dell’umanità, non è apparsa chiara per molti millenni. Tuttavia, ai primordi
gli effetti sul modo di vivere degli ominidi devono esser stati enormi. Il linguaggio
non solo permette al pensiero e alla comunicazione di sfuggire la concreta realtà
dell’immediatezza per scoprire nuovi universi ma, allo stesso tempo, necessita di I significati
tale pensiero e lo rende inevitabile. Come abbiamo già detto, l’umanità è una spe- costruiscono
il reale
cie che vive e non può non vivere sulla base dei significati che essa stessa deve
creare. I significati e le conoscenze non solo riflettono o si riferiscono al mondo
reale, ma partecipano alla sua costruzione. I mondi abitati dagli esseri umani non
sono costituiti esclusivamente da processi geologici e organici, ma sono anche
concepiti simbolicamente e costituiti da azioni performative (cfr. Austin 1962),
perché sono gravidi di concezioni come l’onore, il male, la democrazia, gli dèi.
Tutte queste concezioni sono reificate, cioè trasformate in res, in cose reali, attra-
verso le azioni sociali dipendenti dal linguaggio. Le persone agiscono in base al-
l’esistenza di queste azioni, oltre che in base all’esistenza delle cose fisiche, e tra- La trasformazione
sformano gli ecosistemi che – tranne forse che per le società di caccia e di raccol- degli ecosistemi
ta – sono diventati prevalenti sin dalla nascita dell’agricoltura, diecimila anni fa. Il
linguaggio si è esteso sempre più prepotentemente dalla specie in cui ha avuto
origine, per riordinare e subordinare i sistemi naturali di cui le popolazioni di
quella specie sono parte.
198 ROY RAPPAPORT

Alcune implicazioni
Se, conformemente quanto sosteniamo, il linguaggio è fondamentale per l’adat-
tamento umano, è chiaro che questa affermazione risulta inadeguata o addirittura
L’invasione tra
fuorviante come descrizione del rapporto tra il linguaggio e il parlante. Se le persone
apparato adattivo agiscono, e non possono che agire, sulla base dei significati che essi o i loro antenati
e specie in hanno concepito, allora sono alla mercé di tali concezioni tanto quanto queste ultime
adattamento sono parte integrante del loro stesso adattamento. Nel corso dell’evoluzione umana si
verifica, cioè, un’inversione, o una parziale inversione, nella relazione tra apparato
adattivo e specie in adattamento. La capacità essenziale per l’adattamento umano dà
vita a concetti come quelli di dio, paradiso e inferno, che finiscono col dominare chi
li ha concepiti. Non ha quindi senso sostenere che questi concetti, o le azioni cui
danno origine, contribuiscono alla sopravvivenza e alla riproduzione degli organi-
smi che li affermano.
Se le implicazioni di quanto proposto sono ovvie, non per questo tuttavia sono
meno profonde. In primo luogo, se la metafora dell’inversione (ovviamente una
semplificazione) risulta adeguata, la misura in cui concetti come “idoneità comples-
siva” e “selezione della specie” sono in grado di spiegare i fenomeni culturali è piut-
tosto limitata. In secondo luogo, e strettamente collegata al primo aspetto, qualsiasi
cosa accada tra le altre specie, la selezione del gruppo (ovvero, quella selezione fina-
lizzata alla continuazione dei tratti che contribuiscono in maniera positiva alla so-
La selezione pravvivenza dei gruppi in cui compaiono e negativamente alla sopravvivenza dei
di gruppo particolari individui in loro possesso) non è soltanto possibile tra gli esseri umani,
ma è di grande importanza nell’evoluzione dell’umanità. Tutto ciò che occorre, per
rendere possibile la selezione di gruppo, è uno strumento in grado di spingere gli
individui a distinguere le loro concezioni del benessere o del vantaggio dalla so-
pravvivenza biologica. Concetti come dio, paradiso, inferno, eroismo, onore, vergo-
gna, patria e democrazia, codificati in quei processi di inculturazione che li rappre-
sentano come reali, naturali, pubblici, sacri (e, perciò, normativi), hanno dominato
ogni cultura della quale possediamo una conoscenza etnografica o storica. In termi-
ni più generali, ciò significa che se i sistemi adattivi possono essere descritti come
sistemi che operano (consciamente o inconsciamente) per preservare il valore di ve-
rità di certe proposizioni di fronte alle minacce di falsificazione, allora è possibile
ipotizzare che le proposizioni più idonee, a questo proposito, nei sistemi umani ri-
guardino concezioni come dio, onore, libertà, bene. Va da sé che la loro conserva-
Conservazione zione ha spesso richiesto sacrifici grandi, talora anche estremi, da parte degli indivi-
di postulati dui. I postulati relativi alla natura una o trina di Dio sono fra quelli per i quali innu-
adattivi
merevoli individui hanno sacrificato le loro vite, al pari di slogan “terreni” come
“meglio la morte che il disonore” o “meglio morti che rossi”.
Un’implicazione finale: ci accostiamo qui a una legge o regola evolutiva che in
genere non viene riconosciuta, quasi l’equivalente evolutivo del vecchio adagio
per cui non esistono pasti gratuiti: nel momento in cui fornisce un’adeguata ri-
sposta e contribuisce alla risoluzione dei problemi precedenti, ogni progresso
evolutivo pone nuovi problemi; in tal senso, il linguaggio non ha fatto eccezione.
Da una sorta di celebrazione del linguaggio siamo così giunti a riconoscerne gli
I difetti
aspetti più problematici. Oltre alle illimitate possibilità di contraddizione esistenti
del linguaggio tra la conservazione delle costruzioni simboliche e la sopravvivenza degli organismi
che le concepiscono, due altri problemi sono strettamente correlati alla natura stes-
sa del linguaggio. In primo luogo, quando un segno è collegato soltanto convenzio-
nalmente a ciò che denota, nel senso indicato da Peirce, il segno ricorre anche in as-
senza del significato a cui si riferisce, mentre gli eventi possono accadere senza do-
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 199

ver essere denotati da segni. La stessa relazione convenzionale che permette al dis-
La menzogna
corso di sfuggire l’immediatezza del presente, perciò, rende possibile anche la men-
zogna. Se gli esseri umani non sono i primi e gli unici bugiardi al mondo, sono sicu-
ramente i principali. In secondo luogo, il linguaggio rende inevitabile concepire
delle alternative alle condizioni e consuetudini dominanti. La stessa capacità che
permette di aumentare la flessibilità rappresenta una sfida costante al prevalente or-
dine sociale e concettuale. L’altra faccia della medaglia della maggiore flessibilità è La sfida
la maggiore possibilità di disordine. È interessante notare che Buber (1953) consi- all’ordine sociale
derava la menzogna e l’alternativa come il fondamento di ogni male. Ad ogni modo,
se la presenza delle parole è inevitabile, diventa necessario definire in modo univo-
co il concetto di parola; la “parola vera”, contrapposta al potere corrosivo delle pa-
role mendaci e della moltitudine di parole, della falsità e della babele.
La questione che stiamo affrontando è molto vicina a quella posta da Hans
Kung (1980, p. 1) nel primo paragrafo del suo monumentale Does God Exist?

Da quando è nato l’uomo moderno e razionale abbiamo assistito ad una lotta quasi di-
sperata con il problema della certezza umana. Dove, ci chiediamo, è possibile trovare una
certezza salda ed incrollabile su cui poter costruire tutta la convinzione umana?

Vorrei modificare la domanda posta da Kung cancellando i termini “moderno”


e “razionale”: l’uomo razionale moderno, infatti, può forse incorrere nel problema
dell’esaurimento dei mezzi usati in passato per stabilire la certezza, ma questa è
un’altra questione. Prima dobbiamo tornare a questi mezzi antichi, al Logos e alla
sua fondazione.

Il Logos
Uso il termine “Logos” per designare una categoria di concezioni in base alle qua-
li sono ordinate molte, forse la maggior parte, delle società premoderne. Ogni conce-
zione è unica nel suo genere per quanto attiene i particolari, ma tutte presentano tra
loro una “somiglianza di famiglia”. In alcune società esse restano sottintese, ma in
molte hanno invece un nome: Ma’at nell’antico Egitto, l’Asha zoroastriano, l’Hozho Il “principio
dei navajo, il Nomane dei maring. Naturalmente, c’è poi il Logos dell’antica Grecia, la d’ordine”
“specie-tipo”, per così dire, da cui facciamo derivare il nome della categoria.
Nel Nuovo Testamento, Logos viene tradotto in generale con il termine “ver-
bo”. Io, tuttavia, lo considero nella sua precedente accezione pre-socratica. Al tem-
po di Eraclito, il termine denotava un principio permanente e divino che ordina il
mondo (Debrunner 1967; Kahn 1979). Il Logos possedeva determinate caratteristi-
che generali, alcune delle quali abbastanza diffuse tra i Logoi del mondo. In questa
sede prenderemo tuttavia in considerazione soprattutto l’accezione greca.
Innanzitutto, la nozione di unità implicita in ogni concetto di ordine è una ca-
ratteristica esplicita del Logos. Uno dei frammenti più importanti viene tradotto da
G. S. Kirk (1954, p. 65) come segue: “non prestate ascolto a me, ma al Logos; è del
saggio riconoscere che tutte le cose sono una”.
In secondo luogo, il Logos è accessibile alla comprensione umana perché lo stes-
so Logos, che ordina l’universo, ordina le menti umane come parti dell’universo.
C’è solo un atto veramente saggio: comprendere che tutto al mondo è parte di uno
stesso insieme. Questo genere di comprensione è radicalmente differente da altre
forme di consapevolezza, ed è solo attraverso di essa che gli esseri umani possono
sentirsi parte integrante dell’insieme ordinato di cui sono membri. Ne derivano di-
verse osservazioni.
200 ROY RAPPAPORT

In primo luogo, è evidente che la comprensione del Logos non è semplicemente


L’uomo come intellettuale: è possibile comprenderlo solo divenendone parte. Come sostiene un
parte del Logos
commentatore moderno: “esso richiede un uomo” (Kleinknecht 1967, p. 85), “il
particolare Logos dell’Uomo… è parte del Logos generale… che acquista consape-
volezza nell’uomo, cosicché attraverso questo, Dio e Uomo… il vero uomo… quel-
lo che possiede l’Orthos Logos, e vive quindi come suo seguace, sono uniti in un
grande cosmo”.
Questa moderna interpretazione sottolinea gli aspetti sociali del Logos. Innanzi-
tutto è normativo: c’è un Logos che è orthos. Gli esseri umani “dovrebbero” parte-
ciparvi, ma è possibile che facciano altrimenti. È anzi probabile, dal momento che il
Logos è nascosto.
Ciò richiama un’altra delle sue caratteristiche generali. L’unità, che è proprio del
saggio riconoscere, racchiude ovviamente cose diverse e in conflitto tra loro; tutta-
via, una delle qualità esplicite del Logos è l’armonia. A causa della lotta costante che
L’armonia
pervade il mondo, l’armonia non può che nascere da, o esser soggiacente allo stesso
soggiacente al conflitto. L’armonia nascosta di Eraclito è un’armonia fatta di tensione. La violenza
conflitto di una Natura composta da creature che si divorano tra loro è evidente solo per co-
loro che vi partecipano, mentre non sono altrettanto evidenti l’ordine e l’armonia a
livello dell’ecosistema di cui i partecipanti sono parte. Trascendendo gli attori, l’ar-
monia si nasconde a essi.
Siamo quindi giunti a un’altra delle qualità del Logos, l’Aletheia che, secondo
Heidegger (1959) denota, dal punto di vista etimologico, non-occultamento, ma che
abitualmente viene tradotta con il termine “verità”. Un tipo particolare di verità,
tuttavia: non quella che caratterizza determinate affermazioni in virtù della loro cor-
rispondenza a stati di cose, ma “il vero stato di cose da far valere contro la diversità
delle affermazioni” (Bultmann 1964, p. 238). I termini contrari ad Aletheia e diffusi
tra gli oppositori del Logos sono pseudos, “inganno” e doxa, “opinione”. L’Aletheia
è ciò che accade al di là delle opinioni. Il termine non corrisponde alla semplice ve-
ridicità, ma alla verità. Sebbene il Logos ordini l’universo, l’esistenza di doxa e pseu-
dos indica che è probabile che esso venga ignorato o violato. Un altro dei suoi ne-
mici è l’idia phronesis, il “calcolo personale”, che corrisponde forse alla “razionali-
tà” degli economisti classici. Fondamentalmente, il Logos viene spesso ignorato
semplicemente perché, essendo nascosto, non viene riconosciuto. Il suo svelamento
deve essere raggiunto attraverso qualche genere di operazione: il ruolo delle parole
in una poesia, quello della pietra nelle statue e forse, più significativo, l’agire delle
persone nel rituale. È interessante notare che il termine “liturgia”, che è sinonimo
di rituale, deriva da Laos ergon, cioè “opera della gente”.
Dobbiamo, tuttavia, tenere presente che non c’è testimonianza delle relazioni
tra la concezione del Logos proposta da Eraclito e le pratiche liturgiche dei suoi
Certezza
tempi. Il concetto è, a questo proposito, virtualmente unico; in tutti gli altri casi ci-
dell’ordine tati, il Logos viene affermato e santificato nel rituale. Finora abbiamo parlato della
come costrutto fondazione degli ordini come costrutti culturali. Per essere fondati, questi ordini
culturale devono essere accettati come veri e certi. Dopo aver parlato di Logoi (plurale di Lo-
gos), ci occuperemo del modo in cui questi vengono resi veri e certi. Tutto ciò com-
porta una discussione preliminare del concetto di sacro e, successivamente, di quel-
lo di rituale.

Sacralità e rituale
Nelle parti essenziali del discorso che fonda i Logoi e che viene rappresentato
nella liturgia, sono fondamentali determinate affermazioni, che definiamo “postula-
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 201

ti sacri essenziali”. Un esempio che ci è familiare è: “il Signore è il nostro Dio, Uno I “postulati sacri
è il Signore”. Tali affermazioni solitamente non fanno riferimento a termini materia- essenziali”
li e, a volte, sembrano internamente auto-contradditorie. Sembrano, quindi, invul-
nerabili alla falsificazione empirica e al di là della falsificazione logica: non possono
essere verificati e, nonostante tutto, sono considerati indiscutibili. Credo che questa
non discutibilità sia fondamentale e, in altra sede, ho definito la sacralità come “la
qualità dell’indiscutibilità, attribuita da un insieme di fedeli a postulati che sono per
loro natura assolutamente infalsificabili e oggettivamente non verificabili ” (1971, p.
29; 1979c, p. 209). In quanto tali, possono sembrare indistinguibili dagli assiomi,
ma esistono delle differenze. Innanzitutto non possono essere derivati, come teore-
mi, da logiche di tipo superiore. Allo stesso modo, le affermazioni che da essi di-
pendono non sono derivate logicamente ma sono, invece, sacralizzate, cioè a dire
certificate.
Questa definizione, sia chiaro, considera la sacralità come una caratteristica del
discorso piuttosto che dell’oggetto del discorso: ad esempio non è sacro Cristo, ma
è sacra l’espressione della sua divinità (nel discorso). Dai postulati sacri essenziali,
la sacralità fluisce verso tutte le parti fondamentali del discorso fondativo dei Logoi,
alla cui sommità essi si trovano e in questo flusso la sacralità promana dal rituale
per entrare, in generale, nei processi sociali. Se, ad esempio, la regalità fa parte del
Logos e se i re vengono incoronati nel nome di Dio, allora anche le loro direttive
terrene saranno sacre. Espressioni abitualmente sacralizzate sono, ad esempio, gli
assiomi cosmologici, i comandamenti, la professione di fede, i giuramenti e anche
quei rituali che consacrano e legittimano le autorità. La sacralità, insomma, proma-
na dal rituale non solo per rendere sacri i Logoi, ma per sottoscriverne, in generale,
il discorso. In questo flusso, la generale non discutibilità che rappresenta l’essenza
della sacralità acquista determinate caratteristiche, correlate ma più specifiche: la
decenza, la moralità, la legittimazione, l’efficacia, la verità.
Dobbiamo ora chiederci in che modo determinati postulati raggiungono la loro
condizione di sacralità essenziale, vale a dire la non discutibilità. Ritengo che tale Il rituale come
condizione sia conferita loro dalla rappresentazione nel rituale: il rituale è un mez- mezzo per
produrre sacralità
zo, forse l’unico, per produrre sacralità. La definizione di rituale che accettiamo de-
nota “la rappresentazione di sequenze più o meno invarianti di atti formali ed
espressioni non codificate dagli esecutori” (cfr. Rappaport 1979c, p. 175).
In altra sede (1979c), ho sostenuto che il rituale basa la non discutibilità di ciò
che è sacro su tre modalità, due delle quali dipendenti dalle caratteristiche relativa-
mente invarianti della forma rituale. Per ragioni di tempo non posso qui discuterle
in dettaglio. Basterà notare in primo luogo che, per rappresentare un ordine inva-
riante e non codificato dagli stessi esecutori, è indispensabile la conformità a quel-
l’ordine. È necessario cioè, come minimo, riconoscere l’autorità dell’ordine. Ma c’è
qualcosa di più. Rappresentare una liturgia vuol dire parteciparvi; parteciparvi, si-
gnifica divenirne parte. Riteniamo contraddittorio, quindi impossibile, negare un L’importanza
ordine del quale siamo parte. Quindi, rappresentare un ordine liturgico significa ac- dell’invarianza
cettare qualsiasi cosa sia stata codificata nel suo canone. Accettarlo significa essere
d’accordo e non metterlo in discussione: è questo il primo fondamento della non
discutibilità. È importante notare che accettare un ordine liturgico non implica né
la credenza, né la conformità: l’accettazione crea un obbligo a conformarsi, ma non
garantisce essa stessa la conformità. Il secondo fondamento della non discutibilità,
allora, si fonda sull’importanza dell’invarianza per il testo in se stesso.
Se il rituale è una forma di comunicazione, in termini di teoria dell’informazio-
ne, si tratta di una forma particolare. Se un ordine rituale è invariante, il suo mani-
202 ROY RAPPAPORT

festarsi nell’esecuzione non riduce alcuna incertezza. Ma se l’informazione è (in


senso tecnico) ciò che riduce l’incertezza, ne consegue che il rituale è privo di infor-
mazione. Affermare tuttavia che sia privo di valore informativo non significa soste-
nere che sia privo di significato, perché, come notava A. F. C. Wallace (1966, p.
234) il significato della mancanza di informazioni è la certezza. La certezza di ciò che
viene codificato in modo invariante costituisce allora il secondo fondamento della
non discutibilità.
Una conseguenza ulteriore dell’invarianza è che la rappresentazione di una litur-
gia esprime ipso facto “la conformità al Logos”. Sebbene siano salvaguardate le con-
vinzioni private relative a un Logos compreso pubblicamente – ossia, per gli esecu-
tori, la possibilità di interpretarlo in modi idiosincratici – lo stesso Logos, costituito
da atti ed espressioni che gli esecutori non inventano ma trovano già codificati nella
liturgia invariante, è sostenuto pubblicamente e resta al di là della doxa.
La condizione di non discutibilità dei postulati sacri essenziali deve, tuttavia,
fondarsi su qualcosa di più di una semplice accettazione formale e delle sottigliezze
della teoria dell’informazione. Abbiamo definito il sacro in un modo da associarlo
all’aspetto discorsivo, o linguistico, dei fenomeni religiosi. Tutto ciò non esaurisce la
Il “Numinoso” totalità del sacro. L’altro aspetto – quello non discorsivo, affettivo, basato sull’espe-
come rienza e anch’esso generato nel rituale – può essere definito, seguendo Rudolph Ot-
esperienza to (1917) il “Numinoso”. Del Numinoso si fa esperienza con una consapevolezza
irrefutabile diretta e immediata di una presenza straordinaria, o anche mediante la partecipa-
zione a tale presenza. Gli informatori concordano sul fatto che il Numinoso è pro-
fondamente, e fondamentalmente, significativo.
A differenza dei postulati sacri, che non sono falsificabili, le esperienze numino-
se, proprio perché di esse si fa esperienza in modo immediato e diretto, sembrano irre-
futabili. Queste esperienze sono prodotte mediante le caratteristiche comuni del ri-
tuale: non solo l’invarianza, ma anche caratteri a essa correlati come l’accordo, la
ritmicità, la stilizzazione e l’antichità. Inoltre vi sono la singolarità, l’eccesso di sti-
moli sensoriali, il dolore. L’esperienza numinosa, quando si verifica, rafforza l’accet-
tazione formale con la credenza, con una persuasione che attrae quanti ne sono
convinti più intensamente dei richiami puramente morali del dovere, o della per-
suasione derivante da una semplice certezza. Quest’ultimo è il terzo fondamento
della non discutibilità del rituale. Possiamo fornire adesso una risposta all’interro-
gativo posto da Hans Kung: “dov’è la certezza salda come roccia… su cui edificare
tutta la convinzione umana?”. Tuttavia, quanto abbiamo trovato non è affatto saldo
come roccia; siamo, invece, di fronte a uno spettacolo straordinario.
Il non-falsificabile, sostenuto dall’innegabile, dà vita al non-discutibile che tra-
sforma, a sua volta, ciò che è arbitrario, dubbio e convenzionale in ciò che è appa-
rentemente corretto, necessario e naturale. Tutto questo rappresenta l’antico fonda-
mento sul quale fu edificato lo stile di vita umano; esso fu creato nel rituale. È poco
probabile, tuttavia, che il fondamento stia ancora lì. È bene infatti ricordare che
ogni progresso evolutivo pone nuovi problemi nello stesso momento in cui risolve i
vecchi e la sacralità non fa eccezione, perché comporta una serie di problemi che le
sono peculiari.

I problemi della sacralità


Questi problemi sono numerosi, e lo spazio per trattarli è piuttosto limitato.
Uno dei più evidenti è la capacità di mettere in discussione le verità sacre per susci-
tare conflitti e persecuzione tra gruppi diversi o all’interno di uno stesso gruppo,
che su di esse fondano il proprio discorso e la propria fede. C’è poi il problema del-
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 203

l’oppressione. Nelle società tribali, semplici, l’esistenza di forme definite di autorità La sacralizzazione
dell’autorità nelle
dipende, per le prerogative di cui godono, dalla sacralizzazione derivante dai rituali società tribali
a cui partecipano coloro che presumibilmente sono soggetti a esse. Ciò significa che
in tali società è attivo un processo cibernetico. Nel caso in cui le autorità dovessero
operare in modo incompetente o oppressivo, i soggetti possono privarle della sacralità,
sia in modo passivo, rinunciando alla partecipazione ai rituali che santificano l’auto-
rità, sia in modo attivo, partecipando a rituali alternativi o a riti di degradazione.
Nelle società più sviluppate, dove le autorità hanno al loro servizio uomini ar-
mati, la situazione cambia. Le autorità possono in questo caso mantenersi in vita
grazie al potere, piuttosto che alla sacralità. Tuttavia non rinunciano a rivendicare la
loro sacralità, ma il rapporto con quest’ultima risulta ora invertito: mentre nelle so-
cietà più semplici l’autorità dipende dalla sua sacralizzazione, in società più sviluppate
la sacralità può essere degradata alla condizione di strumento dell’autorità.
La partecipazione rituale può continuare, naturalmente; ma se diventa obbliga-
toria, come a volte accade, non implica l’accettazione e, anche quando è entusiasti-
ca, è probabile che differisca profondamente dalla sacralità tribale quanto a orienta-
mento e a conseguenze. Le religioni affermatesi nelle società organizzate in Stati, in-
fatti, tendono a concentrarsi sulla salvezza ultraterrena e ad abbandonare la pro-
spettiva di curare i mali del presente. Come sosteneva Marx, la religione diventa
l’oppio dei popoli.
La sacralità pone ulteriori problemi specifici. In primo luogo, caratteristica del-
l’evoluzione sociale è la crescente differenziazione della società in sottosistemi spe-
cializzati, che tendono inevitabilmente a differenziarsi per quanto riguarda il pote-
re. La conseguenza è che i ristretti interessi dei più potenti arrivano a dominare i
valori della società intera. Come risultato, questi sottosistemi conseguono un grado Le società evolute
di sacralità maggiore di quanto sia adeguato alla loro natura specializzata e stru- e la creazione
della “idolatria”
mentale. Se, ad esempio, l’America è, come si afferma in alcuni atti e nella promes-
sa di fedeltà, “una nazione governata da Dio”, e se “gli affari dell’America sono gli
affari”, come dichiarò uno dei nostri presidenti (un uomo, cioè, che ha prestato giu-
ramento per rivestire la carica più elevata nella nostra società), allora anche gli affa-
ri vengono profondamente sacralizzati, e la logica del “ciò che va bene per la Gene-
ral Motors va bene per il paese” – una dichiarazione resa da una delle nostre più al-
te cariche – assume un carattere obbligatorio. In base alla nostra precedente discus-
sione sull’adattamento, determinate proposizioni assolutamente specifiche sono sta-
te elevate alla condizione di verità ultime. L’innalzamento di ciò che è specializzato,
strumentale e profano allo stato di verità generale, fondamentale e sacralizzata rap-
presenta un esempio di quello che il teologo Paul Tillich (1957) chiama “idolatria”,
in cui ciò che è relativo e contingente viene scambiato per l’assoluto, mentre que-
st’ultimo viene di conseguenza relativizzato. Tillich dà un’interpretazione negativa
di questo processo, tuttavia, al di là del giudizio morale, è necessario notare che in-
vestire determinate istituzioni specializzate e strumentali, come il mondo degli affa-
ri, di un alto grado di sacralità le rende incredibilmente resistenti al cambiamento:
in tal modo la flessibilità adattiva si riduce, impedendo le regolari trasformazioni
evolutive (cfr. Rappaport 1979d).
L’“eccesso di sacralizzazione”, di cui l’idolatria non costituisce che un caso speci- Chiesa cattolica,
fico, può anche svilupparsi all’interno delle stesse tradizioni religiose. Leggi di im- controllo delle
nascite ed eccesso
portanza minore possono essere confuse con leggi fondamentali, e possono essere at- di sacralizzazione
tribuite loro gradi elevati di sacralità, impropriamente. Un caso tipico è la posizione
della Chiesa cattolica a proposito del controllo delle nascite. Un determinato grado
di sacralità, adeguato solo alle questioni di fede – come, ad esempio, alla dottrina
204 ROY RAPPAPORT

dell’Immacolata Concezione – viene in questo caso riconosciuto a una dottrina di


rango inferiore, una dottrina che riguarda una non-immacolata non-concezione. Di
conseguenza abbiamo assistito non solo a diffuse defezioni dalla Chiesa cattolica, ma
a vere e proprie sfide all’autorità del papa da parte di teologi come Hans Kung.
Un problema della sacralità, meno ovvio ma pur sempre legato a essa, è rappre-
sentato da un altro progresso epocale: la scrittura. Con la scrittura arrivano le Sa-
cre Scritture: essendo testi scritti, diventano facilmente invarianti e assoluti, oltre
che ricchi e dettagliati. I fondamentalisti tendono a considerare sacre in modo as-
soluto le Scritture nella loro totalità, il che non vuol dire solo che diventano indi-
scutibili, ma anche immutabili. Se la flessibilità è fondamentale all’adattamento, la
perdita della capacità adattiva costituisce allora una conseguenza di portata gene-
rale. Il conservatorismo politico e sociale è un’altra probabile conseguenza, così
come la resistenza alla dottrina secolare. Questi sviluppi, tuttavia, più che ostacola-
re l’indagine intellettuale, compromettono la sacralità. Porre la sacralità al servizio
della teoria geocentrica nel diciassettesimo secolo o del creazionismo nel ventesi-
mo secolo ha, tra i suoi effetti, quello di screditare la stessa sacralità come princi-
pio di certificazione.

L’epistemologia della scienza moderna


Gli uomini dell’età moderna hanno celebrato la liberazione della conoscenza
dal dominio della sacralizzazione ma tale liberazione ha avuto i suoi costi. Con l’e-
La scienza mergere della scienza moderna, l’ordine della conoscenza è stato invertito. La co-
moderna e la noscenza ultima dei Logoi è una conoscenza indiscutibile, dal momento che viene
conoscenza dei allo stesso tempo realizzata numinosamente, e accettata ritualmente. I postulati sa-
fatti
cri essenziali, considerati veri in eterno, sacralizzano, ovvero certificano, le gerar-
chie delle espressioni e delle istituzioni, nei cui termini vengono organizzati pen-
siero e azione. La conoscenza dei fatti terreni si trova, e si trovava, all’ultimo posto
di queste gerarchie. I fatti sono considerati ovvi, transitori, privi o quasi di sacrali-
tà e contingenti.
Quando la scienza viene liberata dalla religione, la conoscenza dei fatti diventa
la conoscenza fondamentale. I fatti vengono classificati in generalizzazioni chiamate
La “teorie”, anche se queste ultime continuano a essere vittime di anomalie: se i fatti
frammentazione sono allo stesso tempo fondamentali e transitori, del resto, la certezza scompare.
della conoscenza Inoltre, le teorie hanno un campo di applicazione limitato; quindi i tentativi di ap-
plicare i concetti sviluppati in un campo a un altro tendono a essere liquidati come
“mere analogie”. Il risultato è la frammentazione della conoscenza: se l’unicità è in-
trinseca alla concezione del Logos, allora, quest’ultimo è minacciato di dissoluzione.
Si perde il senso del mondo come totalità.
Quando i fatti diventano sovrani, qual è il destino di quella che una volta era la
conoscenza fondamentale? È ridotta a “mera credenza”, alla stregua di opinione o
doxa. I valori, che erano stati investiti di sacralità dai postulati sacri essenziali, sono
degradati al rango di gusti o preferenze. A differenza dei Logoi, che avanzano prete-
se morali ed emotive sui credenti, il nuovo ordine della conoscenza chiarisce che le
sue pretese su coloro che operano in conformità con esso sono solo di tipo intellet-
tuale: coloro che investigano sono tenuti a distanziarsi dai mondi che cercano di co-
noscere in modo oggettivo. La partecipazione ad atti scientifici di osservazione e di
analisi del mondo, in conformità con la legge naturale, è molto diversa dalla parteci-
pazione ad atti rituali che creano e tengono in vita il mondo in conformità con il Lo-
gos. I rituali, che una volta costituivano atti, profondi e significativi, di partecipazio-
ne agli ordini realizzati dalle stesse rappresentazioni, diventano “semplici rituali”,
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 205

vuoti o addirittura ipotetici formalismi. Come strumento in grado di stabilire le fon-


damenta dei mondi umani, il rituale è ormai seriamente danneggiato e non è chiaro
quali altri mezzi, di pari efficacia, possano ristabilire tali fondamenta.
In breve, siamo di fronte a una tremenda contraddizione. Il nuovo ordinamen-
to della conoscenza che ha liberato gli esseri umani, permettendo loro di scoprire L’epistemologia
le leggi del mondo fisico, si oppone non solo alla superstizione, al dogmatismo e della scienza e
la crisi delle
all’irrazionalità ma anche ai processi reali attraverso i quali sono create e ordinate basi del
le componenti specificamente umane del mondo. L’epistemologia della scienza significato
moderna minaccia di distruggere la base ontologica del significato. Detto altrimen-
ti, nel tentativo di scoprire gli aspetti fisici del mondo ne miniamo le fondamenta
convenzionali.

La legge e il significato
Ad ogni modo, se la scienza moderna rappresenta una minaccia per il significa-
to, non c’è ragione per l’antropologia di voltarle le spalle. Riconoscere che la scien-
za, di per sé, non fornisce una comprensione globale dell’umanità non significa af-
fermare che essa sia sbagliata.
Un’adeguata comprensione dell’umanità deve riuscire ad abbracciare sia la legge
che il significato, dal momento che l’umanità è una specie che vive, e non può che vi-
vere, nei termini dei significati che essa stessa deve costruire. La sua natura la trattiene
solo in parte dal dar vita a follie autodistruttive o distruttrici del mondo, un mondo
sprovvisto di significato intrinseco ma soggetto a leggi fisiche immutabili e, forse, non
del tutto comprensibili. Legge fisica e significato convenzionale, dunque: la legge e il
significato non sono coestensivi, ma vengono conosciuti in modi diversi. Per essere
conosciute, le leggi fisiche e gli stati di cose che esse generano devono essere scoperte.
Scoprite le leggi,
I significati che caratterizzano il genere umano, al contrario, devono essere costruiti e costruire i
accettati. Le leggi e i fatti, nonché le procedure scientifiche utilizzate per la loro sco- significati
perta, possono rappresentare alcuni dei materiali di cui sono fatti i significati; ma essi,
da soli, non generano il significato e, nell’organizzazione dell’azione umana, non pos-
sono nemmeno sostituirsi a esso. Viceversa, anche se la costruzione dei significati vie-
ne spesso rappresentata come una scoperta di leggi, essa non è naturale. Le leggi del-
la fisica, della chimica e della biologia, e gli stati di cose che dipendono da esse, sussi-
stono anche se non vengono conosciute. Nel corso dell’evoluzione della legge, lo svi-
luppo della capacità di costruire il significato non ha dispensato gli esseri umani dalle
leggi fisiche; ha, anzi, aumentato la loro capacità non solo di interpretare il mondo,
ma anche di interpretarlo male. L’evoluzione successiva non ha fatto che rafforzare la
nostra incomprensione, dandoci una sempre maggiore capacità – tecnologica, econo-
mica e politica – di distruggere il mondo per motivi sempre più banali, superficiali o
astratti. I mondi dell’uomo, allora, sono mondi le cui operazioni devono essere co-
struite e scoperte da quanti sono parte di essi. È necessario, a questo punto, aggiunge-
re un caveat. Sebbene sia possibile distinguere, da un punto di vista classificatorio, ciò
che è costituito fisicamente da ciò che è costruito culturalmente non si tratta, in natu-
ra, di due processi separati e anzi il mondo diventa ogni giorno di più un risultato del-
la loro interazione. Riconciliare tra loro la scoperta e la costruzione, impresa difficilis-
sima, è sempre più arduo, considerato che le nostre capacità di distruzione aumenta-
no mentre la certezza delle nostre costruzioni simboliche si sgretola.

La scienza postmoderna
Dopo queste premesse, torniamo ora all’antropologia. L’obiettivo principale di
una scienza postmoderna potrebbe essere di concepire modi per realizzare tale ri-
206 ROY RAPPAPORT

Riconciliare conciliazione. Non pretendo di sapere come giungere a ciò, ma ritengo che l’antro-
mondo fisico e
mondo culturale
pologia sia in posizione favorevole per giungere a conciliare mondo fisico e mondo
culturale, dal momento che entrambi gli elementi inconciliabili ruotano attorno alla
sua costituzione profonda.
Nel suo The Return to Cosmology del 1982, Stephen Toulmin ci fornisce alcuni
spunti in questa direzione. Secondo Toulmin, la “scienza postmoderna” si differen-
zia dalla “scienza moderna” per diversi aspetti, da cui si evince che l’antropologia
ha già iniziato a qualificarsi come scienza postmoderna. In primo luogo, la scienza
postmoderna restituisce gli scienziati a quei sistemi da cui il programma cartesiano
li aveva banditi, relegandoli alla condizione di osservatori distaccati. Nella conce-
zione di Toulmin, questo distacco non è più difendibile, dal momento che diversi
progressi scientifici come la scoperta del principio di indeterminazione di Heisen-
berg, quella del transfert e del controtransfert nella teoria psicoanalitica, gli effetti
degli studi dei sistemi ecologici sugli stessi sistemi presi in esame, dei sondaggi di
La fine del mito
opinione sugli intervistati e la crescente consapevolezza che i sistemi viventi analiz-
del “distacco zati possiedano caratteristiche sia soggettive che oggettive, dimostrano semplice-
scientifico” mente come il “distacco scientifico” sia un obiettivo che non può essere raggiunto.
Ovviamente, anche se gli scienziati potessero distaccarsi dal loro oggetto di studio,
altri potrebbero utilizzare i loro risultati non solo per agire, ma anche per trasfor-
mare il mondo nel quale, tra gli altri, anche gli scienziati stessi vivono.
Tutto ciò ci conduce a una seconda differenza. Mentre la scienza moderna ha
tentato di sviluppare una “teoria”, e cioè una comprensione intellettuale distaccata,
derivante da una conoscenza “oggettiva o esterna” di tutto ciò che costituisce il
mondo – lasciando in tal modo la praxis agli agricoltori, ai carpentieri, agli ingegne-
ri, ai preti o ai politici – una scienza postmoderna, che riconosca come la propria
partecipazione al mondo che osserva è inevitabile, dovrà comprendere in sé anche
La dimensione indicazioni pratiche. Per raggiungere questo obiettivo, essa deve sviluppare una
dei valori teoria della pratica che non può essere solo, o soprattutto, di natura metodologica:
dev’essere anche, o soprattutto, una teoria morale. Una terza differenza, quindi, è
che mentre la scienza moderna pretende di essere libera da valori, la scienza post-
moderna riconosce francamente la propria dimensione etica.
Una quarta differenza è implicita. Se la scienza postmoderna deve vertere su
soggetti pensanti e agenti e non su soggetti considerati come oggetti inanimati o
passivi, riconoscerà allora il valore della conoscenza “interna”, soggettiva, come an-
che di quella oggettiva, “esterna”: il verum di Vico e il certum di Cartesio. È interes-
sante notare che il filosofo Toulmin si accosta alla scienza postmoderna (discussa
nella terza parte del suo The Return to Cosmology), attraverso considerazioni sul la-
Bateson e la
scienza voro di un antropologo, Gregory Bateson che, sostiene Toulmin, “fornisce una vi-
postmoderna sione allettante di quella che, nella nuova era della ‘scienza postmoderna’, diventerà
una visione complessiva del posto occupato nella natura dall’umanità”.
Non sminuisco certo l’originalità e il genio di Bateson se dico che la parte del
suo lavoro che ha colpito Toulmin concerne per lo più determinate caratteristiche
che, al di là delle recenti tendenze particolaristiche, continuano a essere alle radici
dell’antropologia. Queste qualità rappresentano le ragioni concrete che inducono, a
volte, a considerare l’antropologia come la più “arretrata” o “primitiva” o “sottosvi-
luppata” tra le scienze sociali moderne; ma sono le stesse che le permetterebbero di
assumere un ruolo-guida nello sviluppo della scienza postmoderna, a proposito del-
la quale Toulmin, seguendo Bateson, sottolinea: 1) gli interessi qualitativi, 2) l’inte-
resse rivolto al contesto e alla visione olistica, 3) il riferimento sia alla conoscenza
soggettiva sia a quella oggettiva, 4) la conseguente esaltazione dell’osservazione par-
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 207

tecipante, piuttosto che dell’osservazione pura e semplice e, quindi, la sua disponi-


bilità a prendere seriamente in considerazione sia il verum che il certum, 5) la pro-
blematizzazione della rappresentazione etnografica, 6) la ricerca della quantificazio-
ne temperata dalla consapevolezza dei limiti epistemologici della quantificazione, 7)
l’interesse umanistico per tutto ciò che è umano.
Esiste poi, tra scienza moderna e scienza postmoderna, una quinta differenza. La divisione del
Le osservazioni dettagliate e specializzate del metodo scientifico moderno hanno lavoro scientifico
richiesto, quale esito pratico, una crescente divisione del lavoro scientifico. Le di-
scipline si sono moltiplicate e, come risultato, la conoscenza è diventata sempre
più frammentata. Di conseguenza, l’organizzazione del mondo nel suo complesso
ha smesso di interessare gli studiosi. Anzi i tentativi di generalizzazione, che han-
no spinto all’applicazione dei principi sviluppati in un ambito ad altri ambiti, so-
no spesso guardati con sospetto e probabilmente ripudiati come tentativi dilettan-
teschi, riduzionistici o metafisici. La scienza postmoderna, secondo Toulmin, farà
al contrario rinascere l’interesse nei confronti del Cosmos, bandito dalla conside-
razione degli scienziati seri sin dal diciassettesimo secolo, quando la nuova astro-
nomia e la successiva rivoluzione cartesiana hanno reso per sempre indifendibile
il semplicistico modello cosmologico, basato sull’astronomia, che ha dominato il
pensiero sin dall’antichità. Che l’astronomia abbia dimostrato, in definitiva, di
non poter costituire una base valida per un modello cosmologico non vuol dire,
tuttavia, che nessun modello cosmologico sia possibile; anzi, secondo Toulmin, la
scienza postmoderna sarebbe in definitiva (utilizziamo deliberatamente l’espres-
sione di Paul Tillich) interessata all’unità del mondo, sia attraverso la comprensio-
ne dei principi di questa unità sia attraverso il mantenimento della sua integrità.
L’interesse per
In breve, ciò che Toulmin definisce “scienza postmoderna”, rappresenta un ordi- l’unità del mondo
ne di conoscenza e azione, nel quale sia chi cerca di scoprire leggi naturali, sia chi
cerca di comprendere la natura dei significati costruiti finiscono per riconciliarsi
con un mondo che non soltanto osservano entrambi ma del quale, nel bene o nel
male, sono parte.
Mentre la cosmologia premoderna si basava sull’astronomia, la cosmologia post-
moderna, radicata in un Logos rivitalizzato, dovrebbe essere fondata secondo Toul-
min (ma secondo tanti altri, che pure si esprimono usando parole diverse), sull’eco-
logia. Esistono importanti differenze tra le cosmologie fondate sull’astronomia, da
un lato, e quelle fondate sull’ecologia dall’altro. Se una volta era plausibile credere
che il corso degli astri potesse influenzarci, non è tuttavia mai stato facile credere Le cosmologie
che noi potessimo avere alcun effetto su di loro. Anzi, la stessa irrealizzabilità face- ecologiche
va parte del richiamo cosmologico. Di contro, la reciprocità delle nostre relazioni
con gli ambienti non è solo innegabile, ma anche palesemente ovvia. Se la relazione
tra le vite umane e il movimento dei corpi celesti era di corrispondenza tra due si-
stemi radicalmente separati, la relazione tra gli esseri umani e le piante, gli animali e
le terre che li circondano rappresenta un’interazione continua. Se gli esseri umani
erano in grado di entrare in rapporto con i corpi celesti solo attraverso l’osservazio-
ne, ora possono entrare in rapporto con gli ecosistemi di cui fanno parte proprio
partecipandovi, e ai giorni nostri sono diventati chiaramente gli elementi che influi-
scono in modo più diretto sui sistemi che cercano di comprendere.
Toulmin parla di un “ritorno al Cosmos” come qualcosa di decisivo per il no-
stro futuro. In precedenza ho fatto riferimento al “Logos” perché ritengo questa
concezione determinante per il Cosmos. Tutto ciò implica che si prenda atto di L’unità
come l’unità del mondo non sia costituita solo dai processi galattici, geologici, del mondo
e la cultura
meteorologici, chimici e organici ma, da quando l’uomo è apparso sulla terra, es-
208 ROY RAPPAPORT

sa sia stata costruita anche attraverso la cultura e che, dallo sviluppo dell’agricol-
tura, la componente culturale è diventata sempre più determinante. Per mezzo
dell’agricoltura, gli esseri umani arrivano a costruire e a dominare quei sistemi an-
tropocentrici che grazie all’uso di tecnologie sempre più potenti hanno richiesto,
da un lato, di esser diretti in modi sempre più globali e, dall’altro, sono diventati
sempre più vulnerabili agli sconvolgimenti creati proprio dagli stessi esseri umani.
Oggi è possibile danneggiare i cicli chimici e le variabili fisiche del pianeta così
seriamente, che i processi naturali autoregolatori possono non essere più in grado
di apportare delle correzioni. Ho scelto il termine “Logos” per una seconda, im-
Logos e
responsabilità
portante ragione. Nel descriverlo, ho notato come i critici riconoscono che la sua
comprensione non è semplicemente di natura intellettuale. Si è rilevato che que-
sto genere di comprensione “pretende” coloro che la accettano. Nelle concezioni
del Logos, è implicita la responsabilità a comprendere, partecipare, mantenere in
vita, correggere, trasformare e non semplicemente osservare le regole che su di es-
so si fondano e a esso si conformano. Non è del tutto chiaro, tuttavia, in che mo-
do la comprensione possa trasformarsi in responsabilità. A questo proposito ho
discusso, all’inizio, delle proprietà della liturgia ma ho dovuto in seguito ricono-
scere che negli ultimi secoli essa ha subito molti danni e ha visto indeboliti i suoi
poteri, che potrebbero ora non essere più sufficienti per catturare l’attenzione dei
partecipanti. Tuttavia questa forma di azione, o altre a essa correlate, non dovreb-
be essere scartata. Nelle mie recenti ricerche sulle conseguenze sociali ed econo-
miche dell’affitto di piattaforme continentali di petrolio esterne ho sostenuto che
la partecipazione ad azioni progettate insieme, conformi al valore e alla teoria eco-
logica e volte al miglioramento dei problemi ecologici e di altri disordini sociali, è
probabilmente considerata dai partecipanti un impegno “profondamente” o “al-
tamente” significativo. Aumentandone con cura la veste formale, questo tipo di
azioni potrebbe diventare altrettanto impegnativo di quelle rituali: potrebbero,
anzi, addirittura essere ritualizzate. È ovvio infine che, dato il potere che ha l’u-
manità di costruire e distruggere e considerata la sua posizione dominante negli
ecosistemi che contribuisce a destabilizzare, la sua responsabilità non deve più li-
mitarsi a se stessa ma deve riguardare il mondo nel suo complesso. Se l’evoluzio-
ne, umana e non, deve continuare, l’umanità deve cominciare a pensare non solo
al mondo, ma nell’interesse del mondo, un mondo di cui non rappresenta che una
parte molto speciale e nei cui confronti ha, quindi, enormi responsabilità. Se que-
sto discorso ha una sua generale validità per tutta l’umanità, è addirittura impera-
tivo per coloro la cui professione consiste nel riflettere su questi argomenti, primi
fra tutti gli antropologi. Per citare uno dei moderni commentatori di Eraclito
(Kleinknecht 1967, p. 85): “il particolare Logos dell’Uomo… è parte del Logos
generale… che acquista consapevolezza nell’uomo”.
Il Logos, cioè, può raggiungere la coscienza nella mente umana e, per quanto ne
sappiamo, esclusivamente nella mente umana. Tutto ciò rappresenta una concezio-
ne della natura umana molto diversa dall’Homo economicus, quella specie di golem
L’umanità e il suo degli economisti cui non solo la persuasività della teoria ma anche il suo potere co-
posto nel mondo ercitivo ha infuso la vita. È inoltre una creatura diversa da quell’essere alienato,
frammentato, mistificato dalle opacità del linguaggio e abbagliato dall’apparenza di
cui parlano i postmodernisti letterari. L’umanità, in questa concezione, non è solo
una specie tra le specie ma rappresenta l’unico modo che il mondo ha di pensare a
se stesso. Dal mio punto di vista, il futuro dell’antropologia consiste nell’aiutare l’u-
manità a realizzare, cioè a comprendere e mettere in atto, questa visione del suo po-
sto nel mondo.
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 209

Biografia intellettuale

Roy A. Rappaport ricopre la carica di Walgreen Professor “per lo studio della


comprensione umana” alla University of Michigan, nella quale è membro del Di-
partimento di Antropologia sin dal 1965. Presidente dell’American Anthropological
Association (1987-1989), ha svolto ricerche etnografiche sul campo in Nuova Gui-
nea (1962-64, 1981-82) dopo una breve esperienza di lavoro archeologico sul cam-
po nelle Isole della Società (1960). Recentemente ha lavorato su tematiche ecologi-
che negli Stati Uniti, occupandosi in particolare dello smaltimento delle scorie nu-
cleari e delle trivellazioni nelle piattaforme petrolifere continentali. Tra le sue pub-
blicazioni, le più note sono Maiali per gli antenati (1968) ed Ecology, Meaning, and
Religion (1979).

Mi avvicinai all’antropologia dopo aver lavorato come gestore di una pensione,


perché mi sentivo sempre meno a mio agio nel mondo di fine anni Cinquanta e vo-
levo arrivare a una più profonda e rigorosa comprensione del mio senso di aliena-
zione crescente. Dapprima pensai alla sociologia, ma uno degli studiosi che ha par-
tecipato a questo volume, Robert Levy (mio primo cugino parallelo matrilaterale),
mi ha spinto verso l’antropologia. Mi hanno spinto a iscrivermi alla facoltà anche
un’amica, Kay Erikson, e suo padre, il quale mi fissò un appuntamento ad Harvard
con Clyde Kluckhon. Per deferenza verso Erik Erikson, Kluckhon mi ricevette, ma
non perse l’occasione per pronunciare una predica sulle ragioni per cui Harvard
non avrebbe ammesso un trentatreenne con un diploma di scuola alberghiera, otte-
nuto con esito non troppo brillante e risalente a dieci anni prima. Non posso biasi-
marlo ma, ad ogni modo, approdai alla Columbia, un’istituzione che, con la sua
Scuola di Studi Generali, era dotata di un meccanismo che permetteva di accettare
provvisoriamente chiunque.
A quel tempo, il paradigma dominante alla Columbia era la teoria dell’evoluzio-
ne generale di White, esposta in maniera più articolata da Morton Fried, che rap-
presentò per me un primo, importante, influsso. Sebbene avessi rifiutato immedia-
tamente la prospettiva di White, la sua idea di un ordine normativo e unificato alla
base della molteplicità delle strutture ed eventi che costituiscono in apparenza il
mondo umano era, e rimane tuttora, stimolante. Harold Conklin non si era ancora
trasferito a Yale: trovai molto utili i suoi corsi di etnoscienza ed ecologia. A poste-
riori, i corsi di antropologia politica di Conrad Arensberg che si concentravano sul-
le caratteristiche formali delle gerarchie e sulla loro funzione, hanno avuto un effet-
to duraturo sulle mie idee sulla struttura dei sistemi adattativi. Due seminari di la-
voro sul campo con Margaret Mead furono preziosi ma, essendo professore associa-
to, raramente era presente al dipartimento e, sfortunatamente, esercitava uno scarso
influsso sulla maggior parte dei suoi studenti. Seguii solo un corso con Marvin Har-
ris, ma il materialismo che andava sviluppando a quel tempo rappresentava qualco-
sa con cui tutti noi dovevamo confrontarci.
Quattro mesi di lavoro archeologico sul campo nelle Isole della Società, nel
1960 con Kenneth Emory e poi con Roger Green, furono anch’essi importanti: co-
noscere direttamente la terra e i panorami marini della Polinesia mi hanno chiarito
il potenziale esplicativo dell’ecologia generale. Al rientro negli Stati Uniti mi im-
battei nel volume, appena pubblicato, di Marshall Sahlins, Social Stratification in
Polinesia, e lessi molto di biologia ecologica – disciplina che, a quel tempo, era de-
dita a sviluppare approcci ecosistemici. Peter Vayda, anch’egli interessato essen-
zialmente all’ecologia, si unì alla facoltà della Columbia e io cominciai a lavorare
210 ROY RAPPAPORT

con lui. Alla fine divenne mio relatore nella discussione della tesi di dottorato.
Fred Barth, in visita dalla Norvegia per quell’anno, propose un corso di ecologia
culturale. Alla fine del semestre invernale ero piuttosto addentro agli studi ecologi-
ci. Con Vayda scrissi due saggi per il Pacific Science Congress, tenutosi nel 1961 al-
le Hawaii. In seguito facemmo richiesta per una borsa di studio in ecologia cultu-
rale in Nuova Guinea; iniziammo la ricerca nel 1962, insieme ad Ann Rappaport e
Cherry Lowman-Vayda.
Per reazione contro quella particolare forma di ecologia che Julian Steward con-
siderava necessaria a sostenere il suo concetto di cultura, mi proposi di studiare un
gruppo locale di orticultori tribali negli stessi termini in cui gli ecologisti animali
studiano le popolazioni degli ecosistemi, attraverso l’osservazione e la misurazione
(ad esempio delle aree coltivate, del ricavato per unità di terreno, delle razioni pro
capite, dell’input energetico per unità di terreno). Quando scoprii che le relazioni
ambientali tra le persone studiate sembravano regolate da un prolungato ciclo ritua-
le, rimasi alquanto sorpreso. Dopo aver terminato Maiali per gli antenati, compresi
che ero in grado di fornire un resoconto del luogo in cui si svolgeva il rituale nel-
l’ambito di un particolare sistema ecologico, ma non conoscevo né il motivo per cui
quelle funzioni venivano ritualizzate né, tantomeno, qualcosa sul rituale stesso. Mi
interessai in seguito al rituale, ad argomenti a esso correlati (come, ad esempio, il
concetto di sacro e quello di religione in generale), e all’ecologia; ancora oggi, come
allora, questi rimangono i miei interessi.
Entrai a far parte del dipartimento dell’Università del Michigan nel 1965. I miei
colleghi più anziani, compreso Leslie West con il quale ho condiviso un ufficio per
un anno, erano Elman Service, Eric Wolf, Marshall Sahlins e Mervin Meggitt. Rob
Burling, Aram Yengoyan e Norma Diamond erano lì già da un po’ di tempo prima
di me; Conrad Kottak, Kent Flannery ed Henry Wright arrivarono un anno dopo.
Tutti, in misura diversa, ebbero su di me un qualche influsso. Forse i principali in-
flussi, all’inizio, li ricevetti da Sahlins, Wolf e Meggitt: Wolf per le sue capacità
mentali, Meggitt per il suo rigore e per la sua erudizione, Sahlins – che stava allora
trasformando il proprio pensiero, passando dall’evoluzionismo e dall’ecologia allo
strutturalismo – per aver semplicemente sfidato i truismi materialisti dell’ecologia e
dell’ecologia culturale.
Incontrai Gregory Bateson nel 1968 alle Hawaii; immediatamente divenne, e ri-
mase, il personaggio che esercitò su di me l’influsso più profondo. Allievo di Alfred
Haddon, ma discepolo in realtà di suo padre, il biologo William Bateson, la sua con-
cezione dell’evoluzione e dell’adattamento come processi informazionali, così come è
stata sviluppata in alcuni saggi del suo Verso un’ecologia della mente, mi sembrava
davvero promettente dal punto di vista di una nuova sintesi. Come ha osservato Ste-
phen Toulmin, Bateson indica non solo la direzione verso cui dovrebbe dirigersi l’an-
tropologia, ma le direzioni verso cui dovrebbe volgersi la stessa scienza, in generale.
I miei interessi – sul rituale in particolare e sulla religione in generale – devono
qualcosa sia a Durkheim che a Weber, ma mi sento maggiormente debitore verso al-
tri personaggi, antichi e moderni, esterni o interni all’antropologia. I più importan-
ti: Eraclito di Efeso, sant’Agostino, Giambattista Vico, Charles Sanders Peirce,
Gershom Sholem, J. L. Austin, Herbert Simon, Claude Shannon, Arnold van Gen-
nep, Victor Turner e Anthony F. C. Wallace. Attualmente, cerco di trovare il tempo
per ultimare la stesura finale di un lungo lavoro sul rituale che mi ha tenuto impe-
gnato, in modo intermittente, per molti anni.
In anni recenti mi sono sempre più interessato ai problemi ecologici, sociali e
politici che hanno afflitto questo scorcio di ventesimo secolo. Ho fatto parte di una
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 211

commissione molto attiva di esperti della National Academy of Science, sullo studio
degli impatti sociali ed economici dell’affitto di piattaforme continentali esterne per
la trivellazione di petrolio e di una commissione di esperti dello Stato del Nevada
sullo studio degli effetti della collocazione sulla Yucca Mountain del deposito na-
zionale delle scorie nucleari ad alto potenziale radioattivo. Da presidente dell’Ame-
rican Anthropological Association, ho creato una serie di gruppi di lavoro e di com-
missioni di esperti per studiare i problemi contemporanei. Spero, in futuro, di po-
termi ancora dedicare a questo.
I metodi appartengono a tutti
H. Russell Bernard

Rispetta la natura del mondo empirico ed organizza una


prospettiva metodologica per riflettere quel rispetto
Herbert Blumer (1969, p. 60)

Introduzione
Il termine “metodo” viene utilizzato in antropologia e, più in generale, in tutte
le scienze sociali almeno in tre accezioni diverse.
Metodo come In primo luogo si riferisce all’epistemologia, cioè a quella serie di presupposti
epistemologia che si riferiscono al modo in cui acquisiamo la conoscenza. L’espressione “metodo
scientifico”, ad esempio, ha in sé una serie di questi presupposti (oltre ad alcune re-
gole procedurali) e cioè: 1) che esiste una realtà “esterna” (o “interna”, nel caso di
idee o emozioni); 2) che questa realtà può essere conosciuta in misura variabile da-
gli esseri umani attraverso l’esperienza diretta (oppure attraverso mediazioni dell’e-
sperienza diretta); 3) che tutti i fenomeni naturali possono essere spiegati senza far
necessariamente ricorso a misteriose forze non indagabili; e 4) che, nonostante sia
impossibile conoscere a fondo la verità sui fenomeni, è tuttavia possibile approssi-
marsi gradualmente a essa, perché le vecchie spiegazioni vengono superate e sosti-
tuite da altre, maggiormente valide. Le epistemologie che competono con questa ri-
fiutano uno o più di tali presupposti.
In secondo luogo, il termine “metodo” fa riferimento a quegli approcci strategici
che sono utilizzati per accumulare dati reali. Lo sperimentalismo e il naturalismo
Metodo come rappresentano, all’interno del metodo scientifico, due diversi esempi di approcci
approccio
strategico strategici. Lo sperimentalismo si basa sulla manipolazione diretta, in forma control-
lata, delle variabili. Il naturalismo si basa, invece, sull’osservazione dei fenomeni nel
loro ambiente naturale. Gli oceanografi, gli astronomi, i biologi naturali e gli antro-
pologi sono tutti naturalisti. L’osservazione partecipante costituisce un approccio
strategico alla raccolta dei dati, utilizzato dai naturalisti nelle scienze sociali.
In terzo luogo, il termine “metodo” fa riferimento alle tecniche o alla serie di
tecniche utilizzate nella raccolta e nell’analisi dei dati. Il metodo dell’inchiesta con il
questionario è costituito da una serie di tecniche di raccolta dei dati (che compren-
de il campionamento, la costruzione di strumenti, l’intervista e così via). L’osserva-
Metodo come zione sul campo incarna un’altra serie di tecniche di raccolta dati (che riguardano,
serie di tecniche ad esempio, la misurazione del tempo impiegato dalle persone nelle diverse attivi-
per la raccolta
di dati tà). L’analisi del contenuto, l’analisi componenziale, la misurazione in scala multidi-
mensionale e il modello etnografico ad albero decisionale, rappresentano tutte tec-
niche di analisi (cioè di estrazione del significato) dei dati.
La formazione che gli antropologi ricevono in ognuno di questi tre metodi di ri-
cerca è sicuramente insufficiente. Molti corsi di laurea in antropologia non hanno
corsi obbligatori in metodologia etnografica (Trotter 1988; Plattner 1989). Ritengo,
invece, che una formazione che comprenda tutti e tre i tipi di metodologia – l’epi-
stemologia, la strategia e la tecnica – debba costituire la parte più cospicua del cur-
riculum antropologico sia per i laureandi che per i laureati.
Quanto può durare la formazione metodologica? Torneremo su questa doman-
da alla fine del saggio. Per cominciare, esaminiamo il metodo inteso come episte-
mologia e come strategia.
I METODI APPARTENGONO A TUTTI 213

Il metodo come epistemologia


In antropologia culturale è possibile tracciare una distinzione generale tra due tipi Il positivismo
di epistemologie, quella positivista e quella interpretativista. In questa sede ci occu-
peremo della prima, lasciando ad altri contributi (alcuni presenti in questo volume)
l’analisi della seconda, perché siamo convinti che la prospettiva positivista non sia
stata sempre pienamente compresa. Positivisti e interpretativisti possono infatti di-
battere sulle questioni epistemologiche ma quando ci riferiamo ai metodi a livello di
strategia e di tecnica, allora questi appartengono a tutti. L’origine del
Quando nacque, il positivismo era abbastanza elementare. Ecco come John positivismo: John
Stuart Mill
Stuart Mill spiegava, nel 1866, “le positivisme” a un pubblico di lingua inglese.

Chiunque consideri gli eventi come elementi di un ordine invariabile, ognuno come ne-
cessaria conseguenza di una condizione antecedente, accetta pienamente il modo di pen-
sare Positivo… (p. 15).
Tutte le teorie secondo cui il principio ultimo che guida le istituzioni e le regole di azione
[sia] la felicità del genere umano e che considerano come guida l’osservazione e l’espe-
rienza… vengono qualificate come “positive” (p. 69).

Alla metà del diciannovesimo secolo, il positivismo1 rappresentava la scienza ap-


plicata allo studio dell’umanità, nello spirito esuberante e ottimistico di servizio alla
felicità umana.
Il filosofo sociale francese Auguste Comte, tuttavia, non considerava la scienza
solo come un mezzo efficace, finalizzato a una conoscenza strumentale. Immagina-
va invece una classe di filosofi che avrebbe diretto l’istruzione con il sostegno dello I progetti
di Comte
Stato. Costoro avrebbero dovuto fornire consiglio al governo composto da quei ca-
pitalisti “la cui dignità ed autorità”, spiegava Mill, “doveva essere considerata in
rapporto al grado di generalità delle loro concezioni e pratiche prima i banchieri,
poi i mercanti, gli industriali e, per ultimi, gli agricoltori” (1866, p. 122). Comte si
attirò le simpatie di molti ammiratori, che aspiravano a realizzare i progetti del mae-
stro. Fortunatamente sono tutti scomparsi, ma l’espressione “positivista” conserva
ancora salda traccia dell’ego di Comte.

La versione moderna del positivismo fu sviluppata dai membri del Circolo di


Vienna, un gruppo di filosofi, matematici, fisici e scienziati sociali che s’incontraro- Il Circolo di
no in una serie di seminari nel periodo che va dal 1923 al 1936. I membri del Circo- Vienna e il
lo si consacrarono all’empirismo, e al tentativo di contrastare la metafisica. Le intui- positivismo
logico
zioni possono giungerci da qualunque fonte, sostenevano, ma la conoscenza scienti-
fica si fonda solo sull’esperienza e la spiegazione scientifica solo sui principi della
logica e della matematica. Da qui l’appellativo di “empiristi logici” con il quale fu-
rono noti per un certo periodo.
Per questi positivisti, la logica era di fondamentale importanza. Essi compresero
che gli assunti della scienza costituiscono delle asserzioni. Compresero, inoltre, che i
presupposti della scienza non sono solo dei semplici presupposti. I membri del Circolo
di Vienna s’impegnarono a sostenere una forma di pensiero scientifica – cioè logica –
e a magnificare i benefici che questa avrebbe portato all’umanità. È questa la compo-
nente positivista che condivisero con Comte, ed è proprio questo ciò che spinge al
giorno d’oggi gran parte degli scienziati sociali, compreso me, a ritenersi positivisti.
È chiaro, naturalmente, quanto quest’impegno possa risultare pericoloso: le
convinzioni relative a ciò che è bene possono non coincidere. Questo è ciò che ren-
de lo studio dell’etica una parte essenziale del metodo inteso come epistemologia.
214 H. RUSSELL BERNARD

Numeri Nei primi decenni di questo secolo, molte personalità di rilievo dell’antropolo-
e scienza
gia culturale incoraggiavano la raccolta di dati sia quantitativi che qualitativi. Rac-
coglievano testi e contavano oggetti a seconda di quel che consideravano necessario
per le loro ricerche.
Ad esempio uno dei contributi sempre attuali di Tylor è rappresentato dal saggio
On a Method of Investigating the Development of Institutions (1889), nel quale Tylor
Tylor e la presentava un metodo numerico per comparare sistematicamente le culture. D’altro
comparazione
statistica
canto uno dei più grandi contributi di Boas è rappresentato da una monografia che
dimostra la relazione esistente tra nutrizione e grandezza corporea degli immigrati, e
che rese in tal modo inutile tanta parte della retorica razzista con cui si osteggiava a
quel tempo l’immigrazione dall’Europa orientale negli Stati Uniti. Anche le ricerche
di Kroeber su trecento anni di moda femminile rimangono una pietra miliare negli
studi quantitativi delle tracce culturali (Richardson, Kroeber 1940).
Trent’anni fa, quando studiavo all’University of Illinois, era ancora viva la tradi-
zione di utilizzare insieme dati qualitativi e quantitativi. Oscar Lewis, ad esempio,
sosteneva l’uso dei metodi di rilevamento come integrazione degli studi etnografici
sul campo2. Joseph Casagrande insegnava a verificare le ipotesi interculturali, utiliz-
zando lo Human Relations Area Files. Entrambi, ovviamente, erano etnografi che
avevano raccolto un’enorme quantità di dati qualitativi.
C’è stata, naturalmente, anche un’altra tradizione in antropologia, quella cioè
Radin e la che si opponeva all’utilizzo dei dati quantitativi. Il dibattito sulla quantificazione fu
critica all’uso
di dati
sollevato con forza nel 1933, da uno degli studenti di Boas, Paul Radin. Nel suo
quantitativi The Method and the Theory of Ethnology, Radin lodava il maestro per aver criticato
le dottrine evolutive di Tylor e Frazer, rimproverandogli però di essere “naturswis-
senschaftlich eingestellt”, di essere cioè eccessivamente scientifico (Radin 1933, p.
10) e ritenere che i fatti culturali potessero essere trasformati in fatti fisici ed essere
in tal modo enumerati. Radin si schierava contro Boas, accusandolo di aver formato
una generazione di studenti come Kroeber, Sapir, Lowie, Wissler e Mead che cerca-
vano di etichettare culture e ambienti naturali come se fossero specie di animali e
piante, comparandole poi statisticamente (Radin 1933, p. 10).
Radin non aveva tutti i torti, a proposito di quel gruppo di studiosi, ma aveva
un’idea diversa sull’oggetto dell’antropologia. Secondo lui un etnografo doveva vi-
vere parecchio tempo tra la gente che studiava e doveva imparare a parlare spedita-
mente la lingua locale. Soprattutto, sosteneva Radin, l’etnografo doveva fornire ai
lettori i testi originali, i materiali da cui le sue osservazioni erano tratte.
Quei testi, e l’esegesi dell’etnografo, avevano lo scopo di mostrare le realtà cul-
turali del tempo, “come se fossero state osservate attraverso lo specchio del cuore
e della mente di un uomo reale, e non attraverso il cuore e la mente artificiali delle
I testi sul marionette con cui operavano Boas, Sapir e Kroeber” (Radin 1933, p. 10). Radin
Culto del non misurava di certo le parole. Per dimostrare il suo metodo, presentò un’analisi
Peyote dettagliata di una serie di testi che riguardavano il Culto del Peyote forniti da tre
persone d’etnia winnebago. In uno di questi, John Rave esponeva la sua conversio-
ne al Culto del Peyote. Radin attinse alle sue conoscenze di storia locale e dimostrò
che la versione di Rave rifletteva la sua accettazione di particolari componenti del-
la fede cristiana e di precedenti credenze winnebago. Rave non riuscì a raggiunge-
re una visione durante il rito della pubertà winnebago, e non gli fu così concesso
di partecipare alla Danza della Medicina. Questo spiegava, secondo Radin, la sua
costante preoccupazione di ottenere nuovi adepti.
Si potrebbe obiettare che tutto ciò non è altro che psicologia a buon mercato,
ma Radin era un ricercatore sul campo piuttosto navigato: conosceva la lingua,
I METODI APPARTENGONO A TUTTI 215

aveva trascorso diversi anni lavorando con i winnebago, con quegli informatori in
particolare, e possedeva i testi per avvalorare quanto sosteneva. Se Kroeber, Boas e
Sapir non erano interessati alle sue argomentazioni, concludeva Radin, “rimane
comunque il documento, che loro possono interpretare meglio e più profonda-
mente” (1933, p. 238)3.
Radin non avrebbe voluto essere ricordato come scienziato – anche se, per
quanto mi riguarda, lo era, ed anche dotato di talento. Aveva una profonda vocazio-
ne empirica, costruiva argomentazioni esclusivamente partendo dalle osservazioni,
era impegnato nella ricerca della verità. Con tutti i suoi testi sul Culto del Peyote,
possedeva dati sufficienti per postulare una teoria della rivitalizzazione. Il fatto che
abbia lasciato successivamente ad altri questo esercizio nomotetico non diminuisce
certo l’importanza del suo contributo.
Oggi, anche molti antropologi che condividono le sue idee sulle fonti primarie
intendono contribuire allo sviluppo della conoscenza delle regolarità nel comporta-
mento umano. Possono nutrire dei dubbi ben fondati sulla possibilità di quantifica-
re accuratamente tutti i fenomeni cui sono interessati. Credo, tuttavia, che ciò che
allontana molti antropologi culturali – non li ho contati, ma ritengo siano più vicini
alle centinaia che alle dozzine – dalla ricerca quantitativa, sia il fatto che essi, quan-
do completano i loro studi, non vengono addestrati a farla.

Il metodo come strategia: l’osservazione partecipante


Sulle questioni epistemologiche le posizioni degli antropologi divergono, ma il
metodo strategico dell’osservazione partecipante viene usato da quasi tutti per rac-
cogliere dati originali. Anche gli antropologi che utilizzano i questionari, per met-
terli a punto, si dedicano per prima cosa all’osservazione partecipante.
L’osservazione partecipante rappresenta lo strumento che rende possibile sia
Lo strumento
agli interpretativisti che ai positivisti la raccolta di documenti sulle storie di vita, la
partecipazione a celebrazioni sacre, la discussione con persone su argomenti signi-
ficativi, la valutazione dei possedimenti terrieri, l’enumerazione delle prede, cam-
minando a fianco dei cacciatori; essi possono intervistare formalmente e informal-
mente le donne che commerciano, per comprendere come riescono a recuperare le
perdite subite nel mercato giornaliero. Oltre a tutto questo, l’osservazione parteci-
pante ci aiuta a costruire i rapporti che ci permettono di osservare e discutere con
le persone a proposito delle loro vite, e di registrarne informazioni4.

Il metodo dell’osservazione partecipante è stato sviluppato in ambito antropolo- Migliorare


gico ed è stato in seguito accettato, con nostra grande soddisfazione, dai ricercatori l’osservazione
di molte altre discipline. Tuttavia, dopo averlo utilizzato per decenni, non siamo an- partecipante
dati molto avanti dal punto di partenza. L’osservazione partecipante non è stata ap-
profondita né perfezionata.
Sono almeno cinque gli elementi in grado di influenzare il genere e la qualità Cinque elementi
dei dati che, attraverso l’osservazione partecipante, siamo in grado di raccogliere:
1) le caratteristiche personali, come l’età e il genere; 2) la buona conoscenza della
lingua; 3) l’obiettività; 4) l’affidabilità degli informatori; 5) la rappresentatività de-
gli informatori.

Negli anni Trenta, Margaret Mead aveva già chiarito l’importanza del sesso come I:le caratteristiche
variabile nella raccolta dei dati. Il genere comporta almeno due conseguenze: influenza personali
il modo in cui gli altri vengono percepiti e limita l’accesso a determinate informazioni.
In tutte le culture è proibito rispondere a particolari domande se chi le rivolge è
216 H. RUSSELL BERNARD

L’importanza di sesso maschile o femminile. Per la stessa ragione, è proibito l’accesso a determi-
della variabile
del gender
nate aree e ubicazioni o fare certe osservazioni e riferirsi a determinati argomenti.
Anche la cultura degli antropologi ne viene influenzata: la credibilità diminuisce o
aumenta tra i colleghi quando chi discute di un determinato argomento è uomo o
donna (vedi Golde 1970; Whitehead, Conaway 1986; Scheper-Hughes 1987a; Al-
torki, El-Solh, a cura, 1987).
Quando lavorò a Thule, presso il campo di ricollocamento per americani di
origine giapponese durante la seconda guerra mondiale, Rosalie Wax non parteci-
pò ad alcun gruppo o associazione femminile. Riconsiderando questo fatto a più
di quarant’anni di distanza, Wax conclude che il suo era stato un atteggiamento
errato:

Ero studentessa universitaria e ricercatrice. Non ero ancora pronta ad accettare me stessa co-
me una persona completa e questo fatto fu limitante per la mia prospettiva e la mia compren-
sione. Quelli di noi che formeranno i futuri antropologi, dovranno incoraggiarli a compren-
dere e a valutare interamente le possibilità del loro essere perché solo così potranno far fronte
in modo intelligente alla varietà d’esperienze che incontreranno sul campo (1986, p. 148).

Oltre al genere, anche l’età rende possibile il contatto con determinate situazio-
ni, escludendone al contempo delle altre. Essere genitore aiuta a discutere con le
persone di particolari aspetti della vita e ciò fornisce più informazioni di quante se
Altre variabili ne potrebbero ottenere se non lo si fosse. Essere ricco permette di parlare con alcu-
personali ne persone di certi argomenti, mentre ne allontana altre. La stessa socievolezza può
pertinenti prevenire il dialogo con le persone timide.
Anche essere divorziati ha i suoi costi. Nancie Gonzáles scoprì che, nella Re-
pubblica Dominicana, essere divorziate con due figli era considerato davvero
troppo. “Potendo tornare indietro”, dichiara, “mi creerei un’identità di vedova
con anello nuziale e fotografie annesse” (1986, p. 92). Anche l’altezza può cam-
biare tutto: Alan Jacobs mi raccontò una volta che pensava di aver svolto un lavo-
ro sul campo migliore con i masai perché la sua altezza superava i due metri, ri-
spetto a quanto avrebbe fatto se fosse stato di altezza media.

Più di trenta anni fa, Raoul Naroll (1962, pp. 89-90) scoprì un curioso riscontro
II: la statistico: gli antropologi che conoscono la lingua locale tendono a riportare casi di
conoscenza stregoneria più frequentemente di coloro che, invece, non parlano quella lingua.
della lingua La sua interpretazione fu che la padronanza della lingua locale crea condizioni
locale migliori per una relazione e ciò, a sua volta, aumenta la probabilità che le persone
riferiscano a proposito della stregoneria.
La credibilità dei nostri dati deriva quindi dalla padronanza della lingua locale?
Nella sua polemica del 1933 contro i colleghi che utilizzavano un approccio eccessi-
vamente scientifico, Radin rimproverava una certa superficialità nel lavoro di Mead
sulle Samoa perché l’autrice non conosceva a fondo la lingua parlata nelle Samoa
(1933, p. 179). Cinquanta anni dopo, Derek Freeman (1983) sottolineò che Mead
era stata tratta in inganno dai suoi informatori, probabilmente perché non conosce-
va abbastanza la lingua locale5.
Secondo Brislin, Lonner e Thorndike (1973, p. 70), “la cultura delle Samoa è
L’antropologo una di quelle culture che considerano accettabile l’inganno e la finzione con gli
tratto in estranei. Gli intervistatori ricevono spesso risposte ridicole, non con uno spirito
inganno
d’ostilità ma, piuttosto, per gioco”. Bristin e gli altri lo definiscono l’“errore del
credulone” e ne mettono in guardia chi lavora sul campo. La buona conoscenza
I METODI APPARTENGONO A TUTTI 217

della lingua locale è presumibilmente uno dei modi per starne alla larga, evitando
così di incorrere in questo problema. Se gli osservatori partecipanti rischiano di es-
sere imbrogliati, allora è necessario indagare sia per determinare le condizioni in
cui è più probabile che ciò accada, sia per riconoscere e quindi evitare che ciò av-
venga. Bisogna inoltre indagare quali siano quei dati che sono disponibili solo agli
“antropologi indigeni” e non agli estranei, e viceversa (a proposito dei saggi sul la-
voro sul campo all’interno della propria cultura, cfr. Messerschmidt 1981). Biso-
gna infine studiare il modo in cui l’osservazione partecipante dia il meglio di sé co-
me metodo strategico.

Non ho mai conosciuto nessuno, nelle scienze sociali, che ha pensato seriamente III: l’obiettività
che gli esseri umani potessero divenire dei ricercatori sul campo pienamente obietti-
vi, come degli automi. Tuttavia, se l’obiettività assoluta è irraggiungibile, questo non
semplifica le cose. L’economista Robert Sarlow osservò una volta che, se è vero che
non esiste un ambiente perfettamente asettico, non per questo le operazioni chirur-
giche si effettuano nelle fogne (citato da Geertz 1973, p. 70). L’obiettività, chiara-
mente, varia da persona a persona: alcuni, ed è meglio, ne possiedono più di altri. La consapevolezza
Essere obiettivi non vuol dire essere esenti da ogni pregiudizio, ma divenire con- dei propri
sapevoli dei propri pregiudizi, cercando allo stesso tempo di trascenderli. Alcuni ri- pregiudizi
escono in questo meglio di altri. Inseguire l’obiettività è importante anche se la per-
fetta obiettività è irraggiungibile.
Laurie Krieger, un’americana che faceva ricerca sul campo al Cairo, studiò la
punizione fisica sulle donne. Imparò che le punizioni nei confronti delle mogli era-
no meno violente di quanto lei avesse immaginato, ma quelle azioni la disgustavano
ancora. La sua reazione le permise di ottenere una serie di informazioni dalle vitti-
me della rabbia dei loro mariti: “ho scoperto che la visione piena di pregiudizi di
una donna americana e di un’antropologa non sempre sono negative, fintanto che
ne ero consapevole e in grado di controllare l’espressione dei miei pregiudizi”
(1986, p. 120).
L’esigenza di obiettività è riconosciuta anche da quei ricercatori sul campo che
più amano la ricerca qualititativa. Colin Turnbull sostiene che la chiave per svolgere
un buon lavoro sul campo è “conoscere noi stessi più in profondità, attraverso una
soggettività consapevole, perché in tal modo è molto più probabile che venga rag-
giunto il fine ultimo dell’obiettività e si approfondisca così la nostra conoscenza
delle altre culture” (1986, p. 27).
Obiettività non significa (e non ha mai significato) neutralità nei riguardi dei va-
lori. Nessuno chiede a «Cultural Survival, Inc.» di rimanere neutrale nel documen-
tare le brutali oscenità che si commettono a danno degli indigeni del mondo, o ad
Amnesty International di restare neutrale nella sua opera di documentazione della
tortura istituzionalizzata. Bisogna, invece, riconoscere che il potere della documen-
tazione risiede nella sua obiettività, nella sua irrefutabilità, non nella sua neutralità.

Nel 1940, C. Wright Mills scriveva che la differenza tra le opinioni e le azioni IV:l’affidabilità
degli informatori
delle persone rappresenta “il problema metodologico centrale delle scienze umane”
(1940, p. 329). Aveva ragione, e il problema resta ancora oggi fondamentale.
Gli informatori mentono, naturalmente. Mentire, tuttavia, è la parte minore del
problema. Gli informatori, riferendoci del loro comportamento, commettono come
tutti degli errori in buona fede, sia quando dichiarano di aver compiuto qualcosa
che in realtà non hanno fatto, sia omettendo di riferire su determinate azioni che
hanno, invece, compiuto.
218 H. RUSSELL BERNARD

Il problema fu espresso chiaramente da Richard La Pierre nel 1934. Assieme a


una giovane coppia di cinesi, girò in lungo e in largo gli Stati Uniti in automobile.
Alloggiarono e mangiarono in 66 hotel e in 184 ristoranti diversi. Sei mesi dopo la
fine del viaggio, La Pierre scrisse una lettera ai gestori degli hotel e dei ristoranti.
Comunicando loro l’intenzione di intraprendere un viaggio, chiedeva se avrebbe
causato loro qualche problema servire dei cinesi. Più del 90 per cento degli alberga-
tori rispose che non avrebbe servito dei cinesi. Irwin Deutscher riprese questo tema
nel 1972 in What We Say, What We Do, testo in cui dichiarava che il problema non
era stato ancora risolto, nonostante studiosi di molte discipline fossero al corrente
degli studi di La Pierre e ne riconoscessero l’importanza.
Con i miei colleghi ho condotto, durante gli anni Settanta, una serie di ricerche
Studi sulle
per capire fino a che punto le persone erano in grado di riferire delle loro interazio-
attendibilità ni sociali in modo attendibile (cfr., ad esempio, Bernard, Killworth 1977). Gran
degli parte della scienza sociale, in fin dei conti, è costruita sulla base dei dati raccolti do-
informatori mandando alle persone con chi hanno (parlato), (scambiato messaggi), (parlato al
telefono), (interagito) nelle ultime 24 ore (o ultima settimana, o ultimo mese). Nel
1984, con i miei colleghi ho passato in rassegna gli studi sull’attendibilità degli in-
formatori. Una lunga lista di studi, compreso il nostro, dimostrava che una percen-
tuale oscillante tra il 25 e il 50 per cento di quello che viene riferito dagli informato-
ri a proposito delle loro azioni risulta inesatto.
Questi dati si ripetono quando si prende in esame ciò che le persone sostengono
di mangiare, quante visite mediche in un certo lasso di tempo hanno effettuato,
quanti risparmi sostengono di avere in banca. Riemergono inoltre nei luoghi che
credevamo più improbabili: nel censimento di Addis Abeba del 1961, il 23 per cen-
to delle donne riferì di avere avuto un numero minore di figli rispetto alla realtà.
Evidentemente, la gente non “conta” i bambini che muoiono prima di aver raggiun-
to i due anni (Pausewang 1973, p. 65).
Si sono fatti comunque progressi nello spiegare le imprecisioni dell’informatore.
La spiegazione Più di trent’anni fa, Cancian (1963) dimostrò come, in un villaggio messicano, questo
delle genere di inesattezze corrispondeva a determinati schemi già prestabiliti in base alle
imprecisioni
posizioni di prestigio. D’Andrade dimostrò nel 1974 l’esistenza di una pressione ge-
nerale a pensare nei termini di associazioni del tipo “se x, allora y”, anche se questo
poteva produrre degli errori nel riferire la realtà degli eventi (cfr. anche Shweder,
D’Andrade 1980). Più di recente, Freeman, Romney e Freeman (1987) hanno scoper-
to che, almeno per quanto riguarda determinati tipi di comportamento, gli informato-
ri, quando si chiedeva loro di ricordare le azioni che effettivamente avevano compiuto
e con chi avevano effettivamente interagito (cfr. anche Freeman, Romney 1987;
McNabb 1990) riferivano il comportamento abituale, piuttosto che quello specifico.
Le gente, in altre parole, aggiunge del proprio e riferisce il comportamento se-
condo regole che tendono alla media. Questo vale sia quando gli informatori riferi-
scono del loro comportamento, sia quando riferiscono del comportamento altrui (la
psicologia cognitiva ha naturalmente indagato sui processi d’archiviazione mnemo-
nica e di recupero delle informazioni).
La questione, tuttavia, continua a sussistere: quando le persone ci riferiscono a
proposito del loro comportamento, otteniamo risposte inattendibili o indicatori ac-
curati per qualche altra domanda sulle norme sociali?

V: la Se anche gli informatori ci riferissero accuratamente tutto quel che sanno, ri-
rappresentatività marrebbe ancora aperta la questione se le loro conoscenze siano o meno rappresen-
degli informatori tative della popolazione che stiamo studiando.
I METODI APPARTENGONO A TUTTI 219

Fin dagli anni Trenta, l’antropologia culturale e la sociologia hanno preso, su


questa questione, strade separate. La sociologia si è concentrata sullo sviluppo di
strumenti sistematici (come i questionari) e sulla loro applicazione a campioni rap-
presentativi della popolazione intervistata. La sociologia si concentra quindi sull’affi-
dabilità (qualsiasi cosa lo strumento abbia misurato oggi, la misurerà anche domani)
e sulla validità esterna (qualsiasi cosa risulti da un campione può, con un certo mar-
gine di errore, essere esteso al resto della popolazione) di questi strumenti.
L’antropologia, invece, si è concentrata sulla validità interna. Che importa sape- Affidabilità e
re se i dati sono affidabili o generalizzabili se non sono esatti? Nelle scienze sociali validità esterna vs
vengono raccontati casi di questionari assurdi che hanno costretto le persone a ri- validità interna
dei dati
spondere in maniera assurda (magari perché le domande erano inopportune dal
punto di vista culturale).
D’altro canto, per quale motivo vogliamo conoscere cosa pensano o fanno deci-
ne di informatori, se le informazioni ottenute non possono venire generalizzate? Il
recente volume di Jeffrey Johnson (1990) sulla selezione degli informatori etnografi-
ci, riassume diverse informazioni utili su questo argomento. Romney, Weller e Bat- Il “modello di
chelder (1986) propongono una tecnica definita “modello di consenso” che serve consenso”
per selezionare gli informatori esperti in particolari aree (come l’etnozoologia, le
pratiche mediche locali e altro). Romney e altri dimostrano che, una volta accettati i
presupposti del loro modello, un numero minimo di sei informatori può essere con-
siderato sufficiente per acquisire una informazione rappresentativa e valida a pro-
posito di una sfera culturale. È una linea di ricerca interessante.

La formazione metodologica in antropologia


Ritengo che la formazione metodologica debba rivestire un ruolo chiave negli
studi antropologici a livello universitario e postuniversitario. Quanta formazione
occorre? Tenuto conto dei tre significati della parola “metodo” (epistemologia, stra-
tegia e tecnica), ne occorre un bel po’ perché sia sufficiente.

Ogni antropologo ha bisogno di conoscere approfonditamente i vari approcci L’epistemologia


che hanno caratterizzato la nostra disciplina. Questo vuol dire introdurre tutti gli
studenti, al di là delle loro preferenze personali, ai fondamenti filosofici dello strut-
turalismo, del simbolismo, dell’interpretazionismo, dell’ermeneutica, della fenome-
nologia, del positivismo, dell’empirismo.
La conoscenza dell’Etica dovrebbe far parte della formazione in epistemologia. L’etica della
Plattner (1989, p. 33) chiarisce questo punto: ricerca

La formazione nell’etica della ricerca è rilevante tanto quanto la formazione nelle tecniche
di progettazione della ricerca, nella raccolta e nell’analisi dei dati. La ricerca consiste in
una serie di decisioni (dove studiare, cosa studiare, chi intervistare, quali domande rivol-
gere, quando lasciare il campo), ed ogni decisione… comprende una componente etica.

Ogni antropologo ha delle storie da raccontare su come la sua etica è stata mes-
sa alla prova dalle circostanze nel campo. Nella Newsletter dell’American Anthropo-
logical Association, ad esempio, e in Cassell e Jacobs (1987), esiste un’enorme lette-
ratura su casi del genere. Per diffondere e fare sistematico uso della saggezza che
questi casi forniscono, non ci si può basare solo sul racconto informale di storie. Il
metodo del case-study viene utilizzato negli studi di giurisprudenza e amministrazio-
ne commerciale, un case-study sull’etica dovrebbe quindi far parte del curriculum di
ogni laureato in antropologia.
220 H. RUSSELL BERNARD

La strategia Ogni antropologo dovrebbe ricevere un adeguato addestramento formale nel-


l’osservazione partecipante. Questo vuol dire avere familiarità con la letteratura sul-
l’argomento. Significa ritornare su ciò che già conosciamo a proposito dei modi di
effettuare una buona o una cattiva osservazione partecipante, sullo shock culturale,
sui ruoli del genere nelle ricerche sul campo, sulla violenza, sulla malattia e sui ri-
schi derivanti dalla ricerca sul campo, sul mantenimento dell’obiettività senza pre-
tendere di essere neutrali.
Questo tipo di formazione potrebbe fornire agli antropologi gli strumenti di cui
hanno bisogno per migliorare le ricerche sul campo. Potrebbe inoltre fornire loro i
mezzi per contribuire concretamente al miglioramento tecnico dell’osservazione
partecipante.

La tecnica Qui le cose si fanno complicate. I laureati nelle scienze sociali dovrebbero oggi
semplicemente conoscere l’uso del computer, non solo per l’elaborazione dei testi,
ma anche per l’introduzione, la gestione, la ricerca e l’analisi dei dati. Gli studenti
di antropologia che sono arrivati all’università senza aver prima appreso adeguata-
mente queste tecniche, hanno bisogno di una preparazione supplementare prima di
La formazione affrontare lo studio della raccolta e dell’analisi formale dei dati.
degli studenti Una volta apprese le conoscenze di base, dovrebbero imparare come progettare
una ricerca, come raccogliere i dati (ad esempio, a intervistare in modo strutturato e
non) e come analizzarli. Gli studenti seriamente intenzionati a svolgere ricerche per
mezzo del rilevamento di dati statistici, ad esempio, avrebbero bisogno almeno di
due corsi di statistica applicata (analisi multivariata compresa), mentre coloro che
intendono lavorare con un vasto corpus di appunti presi sul campo, o con materiali
di storie di vita, dovrebbero apprendere il trattamento informatizzato dei testi.
Tutti gli antropologi devono ricevere un addestramento formale nella raccolta e
I mezzi tecnici
per la raccolta
nell’analisi dei dati, sia qualitativi che quantitativi. La fotografia, la videoregistrazio-
dati ne, la registrazione audio, la stenografia, il disegno, sono metodi utilizzati nella rac-
colta dei dati qualitativi. L’indicizzazione, il conteggio e la misurazione producono
dati quantitativi. Le risposte alle domande dei questionari a risposta aperta sono
qualitative. La loro indicizzazione ed enumerazione produce dei dati quantitativi.
Osservare le persone e tradurre in parole il loro comportamento, produce dati qua-
litativi. L’enumerazione dei comportamenti produce dati quantitativi. I testi trascrit-
ti sono dati qualitativi. L’enumerazione dell’utilizzo di un termine o di un tema par-
ticolare in un testo, produce dati quantitativi.
Dati qualitativi Rimaneggiare gli appunti presi sul campo costituisce una elaborazione qualitati-
e trattamenti va dei dati. L’introduzione degli appunti sul computer e l’utilizzo di un programma
quantitativi di gestione dei testi per rimaneggiarli costituisce anch’essa una elaborazione dati.
Un test del chi quadro eseguito utilizzando una calcolatrice portatile costituisce un
trattamento quantitativo dei dati. Così, come introdurre migliaia di numeri in un
computer e far calcolare alla macchina il valore del chi quadro.
Gran parte di quella che viene definita analisi statistica riguarda, a mio parere,
il trattamento dei dati e non la loro analisi. Riflettere sui contenuti in un testo, co-
me gli appunti presi sul campo, costituisce un’analisi dei dati. Pensare al significa-
to di un chi quadro (o di qualsiasi analisi statistica) vuol dire analizzare dei dati.
Tutta l’analisi è in fondo qualitativa. Tuttavia, non siamo neanche in grado di arri-
vare a quel punto, finché non abbiamo raccolto una serie di dati consistenti (vali-
di e attendibili).
Oltre ad apprendere l’utilizzo dei metodi di ricerca, dovremmo anche imparare
a raffinarli. Ogni spedizione sul campo fornisce informazioni sui modi in cui le ca-
I METODI APPARTENGONO A TUTTI 221

ratteristiche personali e la competenza della lingua influenzano la raccolta dei dati.


Ogni spedizione sul campo rappresenta un’opportunità per verificare la relazione
tra le opinioni e le azioni delle persone. Dobbiamo controllare e rendere pubblici i
risultati di tutti quegli esperimenti che accadono naturalmente6.

Conclusioni
In passato, gli antropologi culturali erano più interessati alla descrizione che alla
Una buona
spiegazione e alla previsione. Una buona descrizione rappresenta già un’analisi; in- descrizione è già
dividuare esattamente la causa di un problema è, allo stesso tempo, il miglior con- analisi
tributo possibile alla sua soluzione; lo scrivere bene, essere in grado cioè di raccon-
tare una storia, rimane il metodo migliore che gli antropologi possano apprendere.
Oggi, tuttavia, molti antropologi si interessano a ricerche su argomenti che ri-
chiedono spiegazione e previsione – questioni che riguardano, ad esempio, la ragio-
ne per cui in quasi tutte le società industriali, socialiste e capitaliste, le donne ven-
gono pagate meno degli uomini per lo stesso tipo di lavoro; la ragione per cui le cu-
re mediche sono così difficili da ottenere in società che pure possono fornirle, o se
il pluralismo culturale contribuisca o meno al mantenimento della stabilità degli
Stati (come, ad esempio in Canada, Belgio, India, Azerbaigian, Iugoslavia o Kenya).
Rispondere a queste domande richiede un affinamento dei metodi di ricerca,
maggiore di quello attualmente in uso in antropologia. Si rende necessaria un’abili-
tà nella ricerca statistica comparata e nella raccolta di dati da fonti pubbliche, com-
presi i dati disponibili solo su supporto magnetico. Gli antropologi che lavorano in
gruppi multidisciplinari di ricerca su problemi complessi come lo sviluppo agricolo,
il controllo della fertilità, l’assistenza nelle cure sanitarie o l’istruzione, hanno biso-
gno di maggiore preparazione di quanta ne abbiano finora ricevuta.
Conoscere i metodi di raccolta dei dati qualitativi e quantitativi, per certi versi è Computer e
più difficile oggi di quanto lo fosse quaranta anni fa: esistono semplicemente più analisi della
cultura
metodi di una volta7. Per altri versi, tuttavia, apprendere le tecniche di ricerca è og-
gi più semplice. Computer e programmi efficienti rendono la gestione dei testi, la
statistica e l’analisi della sfera culturale meno minacciose8.
Conoscere ogni metodo di ricerca è impensabile. Tuttavia, coloro che ne cono-
scono solo alcuni non avranno paura di apprenderne di nuovi, già disponibili e
adatti a particolari progetti di ricerca.
Come ho già detto all’inizio del saggio, gli antropologi possono discutere, o an-
che litigare, sul metodo come epistemologia. Condividono, tuttavia, un interesse co-
mune nei riguardi del metodo inteso come strategia e tecnica. Riuscire a controllare
metodi differenti per raccogliere e analizzare dati ci permette di indagare qualsiasi
questione teorica possa interessarci, mentre, viceversa, una formazione metodologi-
ca ristretta limita la nostra abilità a pensare e a risolvere molte importanti questioni
teoriche. Saperne di più è meglio che saperne di meno.

1 Mill non riteneva appropriata alla lingua inglese l’espressione francese “positivisme”. Decise però alla fine di uti-

lizzare l’espressione coniata da Comte, opportunamente tradotta, per far riferimento al concetto comtiano. Avrei prefe-
rito che Mill avesse deciso altrimenti.
2 Vedi il contributo di Lewis al volume del 1953 Anthropology today, curato da Alfred Kroeber. Cfr. anche l’artico-

lo sulla famiglia nell’«American Journal of Sociology» del 1950. A quei tempi gli studi sulla famiglia rientravano ancora
nell’alveo della sociologia. Indirizzandosi agli antropologi, Lewis sottolineava la necessità di svolgere inchieste a integra-
zione della ricerca etnografica. Volgendosi ai sociologi, d’altro canto, sottolineava la necessità della ricerca etnografica
come completamento della rilevazione dei dati.
3 Da laureato, m’ispirai al lavoro di Radin sulla produzione e sulla presentazione di testi indigeni. Radin seguiva la

direzione tracciata da Boas in relazione all’etnografia indigena nordamericana. Boas insegnò a George Hunt, un indiano
222 H. RUSSELL BERNARD

kwakiutl, a redarre descrizioni etnografiche della cultura kwakiutl. Hunt scrisse più di 5.000 pagine di appunti, che ser-
virono come base per gran parte del lavoro di Boas sulla vita kwakiutl. Radin insegnò a Crashing Thunder a scrivere in
lingua winnebago, e Crashing Thunder scrisse l’ormai classica autobiografia che porta lo stesso nome.
L’etnografia indigena è stata a lungo considerata molto promettente, come mezzo adatto a sviluppare un autentico
archivio di dati emici degli indiani e delle altre culture indigene. Credo che solo ovvie difficoltà di tipo fisico abbiano
impedito all’etnografia indigena di diventare il metodo più importante in antropologia culturale.
In anni recenti ho scoperto che l’utilizzo del computer semplifica l’etnografia indigena. Basta solo programmare
un elaboratore testi in modo da renderlo in grado di riconoscere i caratteri speciali necessari in una particolare lingua,
insegnare agli indigeni che utilizzano lingue non scritte a impiegare l’attrezzatura, e consegnargliela.
Per molti anni il mio compagno in queste iniziative è stato Jésus Salinas Pedraza, un indiano nanhu (otomì) prove-
niente dalla Valle Mezquital del Messico. Salinas ha scritto un’estesa biografia dei nanhu, che ho trascritto e tradotto
(Bernard, Salinas 1989).
Dal 1987 Salinas e Josefa Gonzalez Ventura, un’indiana nuu saavi (mixteca) di Oaxaca (Messico) hanno diretto il
Centro di Alfabetizzazione Indigena presso il Centro de Investigaciones y Estudios Superiores in Antropología Social della
città di Oaxaca. Hanno finora insegnato ad altri 75 indiani provenienti dal Messico, Perù, Bolivia, Argentina, Ecuador e
Cile l’utilizzo del computer per scrivere libri nelle loro lingue.
Molte sono le questioni di natura sociale ed etica che questo tentativo solleva. In Bernard 1992 ho trattato di tali
questioni, e della storia del progetto.
4 In tal senso l’osservazione partecipante, come la vita di ogni giorno, rappresenta un esercizio di gestione delle im-

pressioni (vedi Berreman 1962, p. 11).


5 Margaret Mead è stata veramente tratta in inganno? Che la si sia ingannata o meno, questo non ha nulla a che fa-

re con il suo enorme contributo all’antropologia. Tutti gli etnografi corrono lo stesso rischio.
6 Quanto possiamo fidarci, ad esempio, degli informatori per conoscere il loro reddito o la grandezza dei loro ap-

pezzamenti di terra, o ancora dove sono andati i loro figli una volta adulti? I dati relativi alla natura e alle cause dell’i-
nesattezza degli informatori potrebbero aiutare a chiarire il rapporto tra conoscenza e comportamento, tra i mondi in-
terni ed esterni degli esseri umani ovunque nel mondo.
7 Ad ogni modo, i metodi vanno e vengono. Nessuno utilizza più i test che “prescindono dalla cultura” [culture-

free] per indagare la conoscenza dal punto di vista interculturale. Quei test sono già stati screditati e abbandonati da
molti ricercatori trenta anni fa (Brislin, Lonner, Thorndike 1973, p. 109).
8 Per lavorare su un numero relativamente piccolo di materiali testuali (un migliaio di pagine di appunti presi

sul campo, ad esempio, oppure su trascrizioni di interviste ecc.) GoFer è un prodotto eccellente. Per ottenere il pro-
gramma scrivete a Microlytics, Inc., Two Tobey Village Office Park, Pittsford, NY 14534. Per lavorare su un numero
maggiore di testi, consiglio vivamente ZyINDEX. Per ottenerlo, scrivete a ZyLAB, Information Dimensions, Inc., 100
Lexington Drive, Buffalo Grove, IL 60089. Per codificare ed analizzare i testi, consiglio di tenere in considerazione i
seguenti prodotti: 1) The Text Handler, di Gery Ryan. Questo pacchetto software lavora con WordPerfect. Se deside-
rate informazioni, scrivete a Gery Ryan, Dept of Anthropology, University of Florida, Gainesville, FL 32611. 2)
TALLY 3.0, di Jeffrey W. Bowyer. Il programma utilizza il codice ASCII. Scrivete a Wm. C. Brown Publishers, 2460
Kerper Boulevard, Dubuque, IA 52001. 3) DtSEARCH, di David Thede. DtSEARCH lavora con tutti i migliori ela-
boratori di testo, e utilizza anche il codice ASCII. Per ottenerlo, scrivete a DT Software, Inc. 2101 Crystal Plaza Ar-
cade, Suite 231 Arlington, VA 22202. 4) THE ETNOGRAPH, di John Seidel. Il programma lavora con i principali
elaboratori di testo. Per ottenerlo scrivete a Qualis Research Associates, P.O. Box 2240, Corvalis, OR 97339.
ANTHROPAC, di Stephen Borgatti, aiuta i ricercatori a raccogliere e analizzare dati numerici. Risulta particolar-
mente utile per la misurazione in scala multidimensionale, il raggruppamento gerarchico, il modello di consenso e al-
tri metodi che operano su matrici comuni. Scrivete ad Analytic Technologies, 306 South Walker Street, Columbia,
SC 29205, per ottenere informazioni su questo prodotto.
Quasi tutti i programmi menzionati in questa sede sono stati recensiti nella rivista «Cultural Anthropology Me-
thods», dal 1989 al 1993.

Biografia intellettuale

H. Russell Bernard insegna antropologia all’Università della Florida. Ha svolto


ricerca sul campo in Grecia, Messico e Stati Uniti, e a bordo di navi mercantili du-
rante la navigazione. Bernard è stato direttore di «Human Organizations» (1976-
1981) e di «American Anthropologist» (1981-1989). Ha lavorato di recente con Je-
sús Salinas e altri colleghi indiani in Oaxaca, Messico, alla creazione di un centro
che permettesse agli indigeni di pubblicare libri nella loro lingua. I più noti contri-
buti di Bernard sono Research Methods in Cultural Anthropology (1988); Native
Ethnography (con Jesús Salinas Pedraza, 1989); Technology and Social Change (cura-
I METODI APPARTENGONO A TUTTI 223

ta con Pertti Pelto, 19872); e una serie di articoli sull’analisi delle reti sociali (con
Peter Killworth e altri).

Nell’estate del 1959, studente al terzo anno delle superiori al Queens College,
andai in Messico a studiare la lingua spagnola, tornando in patria ormai convinto di
voler diventare antropologo. All’università ho studiato con Ernestine Friedl, Hor-
tense Powdermaker e Mariam Slater. In seguito, nel corso dell’ultimo anno, Pow-
dermaker mi parlò di un dottorato di ricerca appena istituito, all’University of Illi-
nois. Forse, disse, potevo riuscire a farne parte.
Nel 1961 l’Illinois era un ambiente intellettuale stimolante. Studiai con Kenneth
Hale e Duane Metzger per il mio master in antropologia linguistica e, in seguito,
con Edward Bruner, Oscar Lewis, Julian Steward, Dimitri Shimkin, Kris Lehman e
Joseph Casagrande per il dottorato di ricerca.
Metzger era parte dell’allora nascente campo dell’etnoscienza. L’obiettivo era di
riuscire a scrivere la grammatica di una cultura, apprendere, cioè, quello che una
persona di lingua indigena pensa a proposito, ad esempio, del chiedere una bibita, e
riuscire a spiegare questa conoscenza in modo chiaro.
Creare grammatiche culturali si dimostrò un’impresa più ardua di quanto si po-
tesse immaginare. Metzger diede un seminario pratico di addestramento, e insieme
a pochi altri studenti trascorsi un semestre lavorando con una casalinga giapponese,
imparando e schematizzando le regole implicite che utilizzava per decidere come
tagliare e sistemare le verdure su un piatto.
Soltanto tenere una registrazione dei dati rappresentò uno sforzo enorme. Uno
degli altri studenti utilizzava il computer per ordinare e stampare, ogni volta che in-
dividuavamo una nuova regola, l’intera mole di dati. Al centro informatico, la gente
considerava il nostro metodo piuttosto eccentrico, ma da allora in poi non ho più
abbandonato quest’approccio sistematico alla raccolta dei dati e l’idea di utilizzare i
computer per facilitare complesse attività di gestione dei dati.
Ken Hale era studente di Carl Voegelin e, come Carl (al pari di Boas e di tutti i
suoi studenti prima di Voegelin), Ken lavorò a stretto contatto con gli informatori-
colleghi indiani. Il modello consisteva nell’aiutarli a produrre da soli i loro testi, nel-
la loro lingua, e poi utilizzare questi testi per l’analisi linguistica e l’esegesi culturale.
L’esempio di Ken, e la tradizione che ha rappresentato, mi hanno condotto alla col-
laborazione di una vita, che dura ancora oggi, con Jesús Salinas, un indiano nahnu
dalla Valle Mezquital del Messico.
Jesús era stato mio informatore nel 1962, quando svolsi la ricerca per la tesi di
master sui modelli di tonalità nella lingua ñähñu (chiamata a quei tempi otomì). Nel
1971 toccò a me fare da informatore a Jesús: gli insegnai a scrivere in lingua ñähñu
e, nel 1980, a utilizzare un elaboratore testi in lingua ñähñu. Collaboro ancor oggi
con Jesús, che conduce il CELIAC, il Centro di Alfabetizzazione Indigena a Oaxaca,
dove arrivano indiani da ogni parte dell’America Latina per apprendere l’uso del
computer e per scrivere e pubblicare libri nelle proprie lingue.
Il mio lavoro di master orientò gran parte della mia carriera futura. Appresi così
quanto è importante per gli studenti entrare a far parte, da subito e spesso, dei pro-
getti di ricerca.
Durante i miei studi per il dottorato di ricerca Julian Steward, Dimitri Shimkin,
Joe Casagrande e Kris Lehman mi incoraggiarono a sviluppare i miei interessi per
l’analisi quantitativa dei dati. Nel seminario di Casagrande sulla ricerca intercultu-
rale, appresi soprattutto a utilizzare lo Human Relations Area Files e a verificare le
ipotesi utilizzando le culture come unità di analisi.
224 H. RUSSELL BERNARD

Non ricordo nessuno a quel tempo definire tutto questo “positivismo”, o mo-
strarsi preoccupato della legittimità dei miei interessi per la ricerca quantitativa.
Lessi i lavori di Tylor, Boas, Kroeber, Driver, Wissler, Murdock e Roberts e scoprii
che tutti avevano svolto un lavoro quantitativo e, allo stesso tempo, scritto pagine e
pagine di etnografie. Trovai questa mescolanza di metodi quantitativi e qualitativi
molto pregnante.
Il mio più importante professore di dottorato fu Ed Bruner. Ed si identificò poi
con l’antropologia simbolica, mentre io presi un’altra direzione. Ed tuttavia mi inse-
gnò a scrivere, e a capire che la ricerca della conoscenza non esaurisce il nostro
compito: bisogna saper raccontare agli altri quello che si è appreso, bisogna cattura-
re la loro attenzione e non permettere loro di chiudere il volume prima che l’esposi-
zione degli argomenti sia terminata. Questo potrebbe essere uno dei pochi punti su
cui positivisti e interpretativisti convengono ma, dal mio punto di vista, è la cosa
più importante di tutte.
Nel 1972 ho trascorso un anno allo Scripps Institution of Oceanography, dove in-
contrai Peter Killworth, un fisico oceanico. Decidemmo di studiare insieme quei
problemi (1) che nessuno di noi avrebbe potuto affrontare da solo; (2) che entram-
bi consideravamo estremamente divertenti e (3) che erano al di fuori degli interessi
delle nostre rispettive discipline. Eravamo inoltre d’accordo sul fatto che non
avremmo lasciato che i nostri progetti comuni interferissero con le nostre rispettive
carriere di ricerca (Peter infatti costruisce modelli degli oceani).
Abbiamo infatti trascorso un bel periodo insieme, scrivendo una serie di saggi
sull’attendibilità degli informatori, mentre ora ci dedichiamo piacevolmente alla
sperimentazione di un modello di rete in grado di prevedere la dimensione di una
popolazione che non si può calcolare (ad esempio, il numero di vittime di violenze
in una città). Peter mi ha insegnato molto a proposito dell’analisi dei dati.
Ho inoltre tratto numerosi frutti dal mio rapporto con Pertti Pelto. Insieme, ini-
ziammo a insegnare al National Science Foundation Summer Institute on Research Me-
thods in Cultural Antropology nel 1987. Stephen Borgatti si unì allo staff di insegnanti
del corso estivo nel 1988, e da lui ho appreso molto sui nuovi metodi di analisi.
La mia biografia intellettuale deve essere ancora scritta. Posso guardarmi indie-
tro e riconoscere chiaramente l’influsso dei miei docenti ma, altrettanto chiaramen-
te, riesco a distinguervi l’influsso dei coetanei, dei colleghi più giovani e degli stu-
denti. Questo è ciò che rende per me l’antropologia così stimolante: non si finisce
mai di imparare.
Per un’antropologia imperniata sulla persona
Robert I. Levy

Le persone e i contesti
Una delle conquiste fondamentali dell’antropologia è rappresentata dall’isola-
mento della “cultura” come modo coerente per riuscire a comprendere determinati
aspetti del comportamento e dell’esperienza umana. Questa conquista ha rappre-
sentato un importante risultato morale e intellettuale. Come tutte le sintesi innovati-
ve, tuttavia, mentre da un lato ha permesso la riformulazione di vecchi problemi in
un nuovo linguaggio, dall’altro ha scisso il mondo in modo tale da far nascere pro-
blemi concettuali completamente nuovi. I problemi che ci riguardano in questa se- Le relazioni tra
de sono quelli evocati da termini solitamente in contrasto tra loro, come cultura e persone e
contesti
individuo portatore di cultura, ruolo e sé, mente e cultura, mente e personalità1.
Definiamo antropologia imperniata sulla persona quel genere di ricerche che si con-
centrano sui problemi connessi all’esame e all’analisi delle relazioni tra le persone e
i contesti che le circondano2.
Osservare alternativamente e separatamente, da un lato le persone e dall’altro le
loro condizioni di vita, è probabilmente un atteggiamento universale. Quando nel
diciassettesimo e diciottesimo secolo gli europei si imbatterono in mondi completa-
mente sconosciuti, gli esploratori, che ci si aspettava contribuissero al potere ma an-
che al sapere dell’Europa, erano interessati, come si dichiarò nella relazione sulla
missione dell’ammiragliato britannico al capitano Cook, al “genio e all’indole” degli
indigeni, ma anche a quegli aspetti concreti, interessanti dal punto di vista strategi-
co, come “il loro numero e la loro disposizione nello spazio”3. Il “genio e
Gli europei volevano sapere non solo come vivevano gli indigeni, ma come era- l’indole” degli
no fatti, cioè che genere di esseri umani fossero. I “selvaggi” da cui si era allora os- indigeni
sessionati (“nobili” o “ignobili” che fossero) suscitavano fantasie tanto sulle qualità
“interiori” di quelle genti, quanto sulla vita che conducevano.
Entrambi questi modi elementari di considerare gli esseri umani richiedono
un’abile oscillazione di punti di vista. I problemi nascono quando, una volta accet-
tata la realtà (o l’utilità) del “contesto” e dell’“individuo” come sfere separate, si
tenta di comprendere simultaneamente e in qualche modo logico o causale sia la
“natura interiore” (sé, personalità, carattere, mente) delle persone, sia il contesto
(cultura, società, collocazione nella storia e nel mondo) che le circonda.
I tentativi di affrontare in modo unitario persone e contesti debbono far fronte a
profondi problemi concettuali e, di fatto, anche ideologici. Nel difendere la scoper-
ta (o l’invenzione) della cultura, l’antropologia si è trovata ad affrontare, in modi di-
versi e più o meno improvvisati, il problema delle persone che vivevano nelle comu-
nità prese in esame. L’antropologia ha talora dato per scontato che non ci sia alcuna
distinzione tra persone e cultura, e che la cultura si infila nelle persone come un og- Modelli e stili di
cultura
getto in una scatola. In questo senso abbiamo parlato di modelli e di stili di cultura,
di caratteri nazionali, ethos, eidos e valori. Più spesso, però, abbiamo ipotizzato l’e-
226 ROBERT I. LEVY

sistenza di una distinzione. Tuttavia, nella nostra ossessione per la cultura, a volte
abbiamo trascurato l’importanza dell’“attore”, prestando attenzione solo a sceneg-
giature in cui questi non comparivano; altre volte, invece, siamo partiti da un ideale
“uomo antropologico” non problematico, un attore universale che ha imparato a
orientarsi nel labirinto culturale locale e delle cui peculiarità pan-umane tutte le co-
munità hanno dovuto, in un modo o nell’altro, tenere conto. In generale, gli indivi-
dui non sono mai stati considerati tema di studio centrale per le indagini antropolo-
giche. Tuttavia, l’ossessione degli antropologi per i contesti, astratti dalle specifiche
Cultura e persone che ne fanno esperienza, ha lasciato un vuoto particolare che ha motivato i
personalità,
antropologia tentativi di colmare le lacune con approcci come le storie di vita, i saggi letterari e le
psicologica varie proposte di quella branca della disciplina già denominata “cultura e personali-
tà” e, in anni recenti, “antropologia psicologica”.
Il tentativo di colmare la lacuna fu istituzionalizzato e perfezionato e, per un po’
di tempo, continuò a sedurre l’immaginario del Department of Social Relations della
Harvard di metà del secolo, dove l’analisi dell’azione sociale dell’uomo era stata
esaurientemente distinta in tre “sistemi” distinti: la “personalità”, la “società” e la
“cultura”, che corrispondevano opportunamente alle tre discipline accademiche
istituzionali: la psicologia, la sociologia e l’antropologia.
Una volta distinti e circoscritti questi ambiti, divenne necessario ricercare dei
“collegamenti” tra domini separati. L’indirizzo di “cultura e personalità”, ad esem-
pio, è ricco di tentativi, ingegnosi e di varia provenienza, di porre in relazione istitu-
zioni culturali con strutture psicologiche e viceversa. In linea di massima, le varie
teorie sull’individuo (per la maggior parte, in origine, teorie psicoanalitiche) utiliz-
zate in queste imprese, furono inserite negli spazi residuali lasciati liberi dalle teorie
della cultura e della società.

L’eredità di Boas Agli albori dell’antropologia, le concezioni che condensavano l’attore “alieno” e
le sue azioni “aliene” – generalmente a detrimento dell’attore e a beneficio di noi
stessi – favorirono la nascita di affermazioni romantiche sul coraggio e la ferocia in-
dividuale dei guerrieri nativi americani. Tali concezioni contribuirono alla nascita di
convinzioni paternalistiche sulla fondamentale licenziosità e (allo stesso tempo) in-
nocenza degli abitanti delle isole dei Mari del Sud, e sui processi di pensiero ostina-
Stereotipi tamente infantili dei cannibali, i quali sembravano convinti che mangiare il cuore
paternalistici del nemico avrebbe donato loro il coraggio. In ambito euro-americano, quelle stes-
se concezioni contribuirono a generare immagini paternalistiche a proposito, ad
esempio, dell’incorreggibile avarizia e della natura esclusivista degli ebrei o dell’in-
sana disonestà degli zingari, oppure dell’oziosità degli europei mediterranei (esito
di migliaia di anni di esposizione a un sole cocente) e via dicendo.
Talvolta, pensatori progressisti e ottimisti addossarono la responsabilità di que-
ste “nature inferiori” all’assenza di educazione e al cattivo esempio offerto agli altri.
Tuttavia, alla fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, le concezioni
del mondo degli europei e degli americani – in genere sostenute da individui carichi
di pregiudizi, da privilegiati e potenti – giunsero alla conclusione che le “nature in-
feriori” potevano avere un fondamento biologico e razziale. Si riteneva che le azioni
dei primitivi e quelle, ad esempio, degli europei mediterranei, degli irlandesi o dei
negri fossero 1) espressione diretta della natura delle “menti” di quelle popolazioni
e 2) prova dei limiti e, in generale, delle caratteristiche negative delle loro immuta-
bili capacità.
Fu contro questo genere di presupposti di fondo, con le loro profonde implica-
zioni sulle opinioni sociali e sugli indirizzi politici, che prese piede in antropologia,
PER UN’ANTROPOLOGIA IMPERNIATA SULLA PERSONA 227

con Franz Boas, lo sviluppo originario della “teoria della cultura”4. Il comporta- La “teoria della
cultura” di Boas
mento dell’“altro” esotico venne ora interpretato in modo diverso: attore e azione
venivano separati per mezzo di una nuova accezione del termine cultura.
È utile seguire le argomentazioni di Boas nella prima edizione, pubblicata nel
1911, di L’uomo primitivo, per cogliere nel suo sviluppo questo nuovo tipo di sag-
gezza antropologica: “riconosciamo l’esistenza di due possibili spiegazioni alle di-
verse manifestazioni della mente umana”, dichiarava Boas (1911a, p. 102)5:

È probabile che menti di razze diverse mostrino differenze di organizzazione; cioè a dire,
le leggi dell’attività mentale possono non essere le stesse per tutte le menti. Ma è anche
possibile che l’organizzazione della mente sia praticamente identica in tutte le razze; che
l’attività mentale obbedisca dappertutto alle stesse leggi, ma che le sue manifestazioni di-
pendano dalle caratteristiche dell’esperienza individuale che è soggetta all’azione di queste
leggi (corsivo nostro).

La prima mossa, allora, per prendere le distanze dai presupposti razzisti, fu


quella di negare differenze relative nell’“organizzazione” della mente. È importan-
te notare che Boas nel 1911 accettava i presupposti dei suoi avversari riguardo al
fatto che, se “caratteristiche della mente” come l’“inibizione degli impulsi”, la “ca-
pacità di attenzione” e la “capacità di pensiero originale”, venivano considerate
espressione diretta dei diversi tipi di leggi dell’attività mentale, e quindi dei diversi
tipi di organizzazione della mente, esse dovevano necessariamente essere conside-
rate “ereditarie”. Il comportamento
La mossa successiva fu quella di separare il comportamento di un attore dalla sua come risposta a
essenza. La soluzione di Boas al problema dei comportamenti esotici, in modo par- situazioni
ticolare quelli considerati con disprezzo dagli europei, era che essi rappresentavano
risposte di attori, universali ed equivalenti, a differenti “situazioni”. “La maniera
giusta di mettere a confronto l’incostanza del primitivo e quella del bianco è com-
parare il loro comportamento in compiti che ciascuno, dal proprio punto di vista,
considera importanti” (1938, p. 108).
L’“importanza”, dal punto di vista comparativo, di una “situazione” o di un
“compito” rappresentava di per sé – e Boas ne era consapevole – un fenomeno
“mentale”. Aggiunse così un’argomentazione conclusiva essenziale:

la spiegazione dell’attività della mente umana (…) impone di affrontare due distinti pro-
blemi. Il primo riguarda la questione dell’unità o della diversità nell’organizzazione della
mente, mentre il secondo riguarda la diversità prodotta dalla varietà dei contenuti della
mente, così come si trovano nei vari ambienti sociali e geografici (1911, p. 104).

Dato questo senso “forte” del concetto di “cultura”, era naturale per Boas ri-
fiutare un’ipotesi radicale: che cioè l’“organizzazione dell’attività mentale” fosse
in parte determinata dall’esperienza locale. Aveva la sensazione, forse, che anche
le differenze nell’“organizzazione della mente” determinate dall’esperienza potes-
sero essere utilizzate per lo stesso genere di discriminazioni sostenute dalle teorie
genetiche. Risolse perciò il problema del “comportamento esotico” attraverso la
separazione delle situazioni (e dei loro riflessi sui “contenuti della mente”) dal re-
sto della persona. Quel che rimaneva – la base comune dell’umanità – veniva
adesso, dal punto di vista quantitativo, in un certo senso dilatata: il “selvaggio”
diventava assai simile all’uomo civilizzato, e l’individuo “sospetto” proveniente
dall’Europa del Sud o dell’Est finiva per esser considerato simile ai suoi “giudici”
dell’Europa nordoccidentale.
228 ROBERT I. LEVY

La variabile interna, cioè il “contenuto” informazionale delle menti, divenuta


adesso essenziale, venne derivata dalla struttura delle situazioni e dalle esperienze
locali e fu assimilata a un processo di “assorbimento” di quella che era considerata
“cultura”: un sistema locale di definizione e informazione in un certo senso “ester-
no” agli individui. L’attore individuale, divenuto parte della specie umana – come
L’assorbimento era definita dai presupposti occidentali – finì per assumere scarso rilievo per l’an-
della cultura tropologia e diventò il semplice oggetto di una psicologia qualsiasi, probabilmente
pan-umana. Se gli attori che l’antropologia doveva ora prendere in considerazione
erano universalmente simili, allora erano i “contenuti della mente” e i “significati” a
costituire – ciò che vale ancora per l’antropologia cognitiva e simbolica – le diffe-
renze locali accettabili che era possibile rintracciare, ad esempio, presso i danzatori
di danze strane o “esotiche”. Al di là di ciò, non restava che un territorio proibito e
il pericolo di ricadere nell’errore.
Come suggerisce questa schematica analisi della missione di Boas, le varie pro-
spettive in base a cui considerare le persone che agiscono in modo diverso da noi
comportano profonde differenze ideologiche. Il modo in cui consideriamo loro, in-
fatti, determina anche cosa pensiamo di noi; se siamo in grado di influenzare le loro
vite, inoltre, allora il modo in cui li consideriamo influenzerà profondamente sia ciò
che penseranno di se stessi, sia ciò che noi possiamo fare a loro.

La danza e il danzatore
Privilegiare la cultura subordinando a essa l’universalità, rappresentò una grande
conquista, ma trasformò le relazioni tra contesto e persona in un assioma metodolo-
gico e ideologico, invece di considerare questo rapporto come un problema empiri-
co. La più sintetica formulazione del problema di distinguere in noi stessi e negli al-
tri due diversi ambiti, interno ed esterno, è forse rappresentata dai versi di Yeats:

Castagno, o grande castagno che hai radici forti


Sei foglia, fiore o tronco?
O corpo sei, avvinto dalla musica, con occhi iridescenti
Chi è che si perde in quell’indistinto:
La danza o il danzatore?6

La nostra esperienza personale, sia essa fuorviante o meno, ci suggerisce che a


volte la danza siamo noi, nel senso che siamo costituiti dalla danza, mentre a volte
siamo da essa separati e la eseguiamo per una qualche ragione, mettendola intenzio-
Essere e recitare nalmente in atto. Nei giudizi che formuliamo sugli altri, nella vita di tutti i giorni, è
importante per noi sapere se le persone “sono” o se, invece, “recitano”7. Una viola-
zione delle aspettative in entrambe le direzioni – essere quando si dovrebbe recita-
re, recitare quando si dovrebbe essere – può comportare accuse di falsità, strava-
ganza, inadeguatezza, di ipocrisia o addirittura di malattia mentale.
Un interessante documentario, Holy Ghost People, su un raduno dei membri,
bianchi e poveri, di un gruppo pentecostale che utilizzava nei rituali serpenti velenosi,
svoltosi negli anni Quaranta in Virginia occidentale, mostra fenomeni di possessione
da parte dello Spirito Santo, glossolalia e classiche convulsioni epilettiche di tipo
“isterico”. Tra queste persone c’è almeno un uomo che (ne sono pienamente convin-
to), incapace di raggiungere la possessione, partecipa ugualmente alla danza, fingendo
di essere posseduto, mentre gli altri, qualsiasi cosa voglia dire, non fingono affatto.
La vita, così come ne facciamo esperienza, prima di abbracciare qualsiasi tipo di
prospettiva totalizzante, potente ed esemplificatrice, ci dimostra che le relazioni tra
PER UN’ANTROPOLOGIA IMPERNIATA SULLA PERSONA 229

le persone e i vari elementi dei contesti sono molteplici e complesse. Delinearle, è


un problema empirico e rappresenta, per tutti gli antropologi, l’oggetto ideale per
un’antropologia imperniata sulla persona.

Le indagini etnografiche
Per riuscire a comprendere la persona all’interno del contesto, dobbiamo rifiu-
tare di assumere una prospettiva culturologica o sociologica da un lato, e psicologi-
ca dall’altro. Dobbiamo riuscire a indagare e a costruire una teoria che abbia come
oggetto, come base cioè per una disciplina, il fenomeno della danza e del suo esecu-
tore. Tenendo conto pienamente e in modo critico dei contenuti psicologici e socio- La persona come
nucleo attivo di
culturali dobbiamo esaminare, in termini adeguati ai problemi che ci interessano, la storia e contesto
persona, intesa come nucleo attivo di storia e contesto, di possibilità e limiti psicolo-
gici e biologici. Questa posizione potrebbe portarci a delle sorprese, dandoci la
possibilità di svolgere una comparazione fruttuosa e di proporre una spiegazione
che contribuisca alla teoria antropologica generale.

Quando decidiamo di esaminare l’esecuzione di una danza, quando cioè al cen- Cosa analizzare
tro dei nostri interessi ci sono le relazioni tra persona e contesto, quali sono gli ele-
menti da prendere in esame? Cosa troveremo all’incrocio tra gli universi pubblico e
privato, che a volte li separa e a volte li condensa? Riflettendo su alcuni dei tradi-
zionali interessi dell’antropologia psicologica e aggiungendovi le acquisizioni più re-
centi potremmo stilare un elenco che, per cominciare, comprenderebbe alcuni dei
seguenti argomenti:
1) la formazione e la natura delle sotto-componenti del mondo interiore e dell’e-
sperienza pubblica di un individuo, alle quali facciamo riferimento utilizzando (con Il sé, l’autorità,
diverse implicazioni) termini come “sé”, “persona” e “identità”. 2) La struttura del- il noto e
le autorità coercitive e del ruolo da esse svolto nella formazione del “sé” (o il nascosto
dell’“identità” o della “persona”), ovvero gli aspetti personali e pubblici di un siste-
ma di “controlli morali” di una comunità. 3) La classificazione privata e pubblica di
quello che, in un modo o nell’altro, viene conosciuto e di quello che rimane invece
nascosto alla conoscenza pubblica e/o privata. Come vengono conosciute le cose?
In che modo vengono nascoste? In quali forme distorte possono essere espresse? In
quali componenti della vita privata e della vita comunitaria vengono espresse? Que-
sta domanda si ricollega alla tradizionale questione della “natura dell’inconscio”, te-
nuto conto del fatto che le cose esistono in gradi e modi significativamente diversi e
quindi sono, o non sono, conosciute allo stesso modo. 4) Il nesso tra le esperienze e
le “conoscenze” delle persone. Questo tipo di problema riguarda il genere di “epi-
stemologia” sommersa che opera in una comunità. 5) I diversi generi di “realtà” che Epistemologie
i membri di una comunità considerano presenti nelle loro sfere private e pubbliche. comunitarie e
Come sono classificati e correlati? Quali tipi di pensiero, di logica, di discorso sono livelli di realtà
a essi collegati? In che modo un individuo entra in rapporto con queste realtà? Ad
esempio, tramite nozioni di senso comune? Attraverso il gioco? Con la fede? 6) Le
forme personali e pubbliche che influenzano i significati e gli usi dei vari aspetti
dello spazio, del tempo e dei loro rapporti e che quindi influiscono, ad esempio, sui
significati e sulle conseguenze degli eventi e della “storia”. 7) Le dimensioni private
e pubbliche della formazione, del riconoscimento, della gestione e dei vari usi delle
emozioni. 8) Gli aspetti privati e pubblici di ciò che la teoria psicanalitica definisce Spazio, tempo,
“meccanismi di difesa”, cioè quel genere di strumenti che consentono agli individui emozioni e
meccanismi di
di affrontare i conflitti nell’ambito del sé e nei rapporti fra il sé, il sistema morale e difesa
ciò che la comunità definisce “realtà”, senza possibilmente arrecare disturbo all’ese-
230 ROBERT I. LEVY

Gli errori cuzione della danza. 9) I modi in cui la danza e/o il danzatore commettono degli er-
rori o si interrompono. Quali sono le patologie caratteristiche di una particolare co-
munità, o di ogni comunità?

Alcuni esempi Le persone che ho studiato a Piri, piccolo villaggio tahitiano di orticoltori nel
Pacifico meridionale, e a Bhaktapur, città nepalese induista sulle pendici himalaiane
altamente integrata, “premoderna”, agricola e densamente abitata8, differivano tra
loro per tutti questi aspetti. Quando ritenevo possibile separare contesto e persona,
avevo comunque l’impressione che gli abitanti delle due comunità fossero, da un la-
to, individui unici e, dall’altro, comuni esseri umani. Rappresentavano, per molti
versi, esattamente il tipo di persone che ci si aspetta di trovare in quei luoghi speci-
I casi di Piri e
Bhaktapur fici. Luoghi che allo stesso tempo erano, per molti versi, esattamente quello che
“dovevano” essere proprio in quanto abitati da quelle persone. Inoltre, nella misura
in cui queste interdipendenze risultavano caratteristiche anche di altre comunità, si-
mili in un modo o nell’altro a Piri e a Bhaktapur, mi accorsi di riuscire a intravede-
re qualcosa che andava oltre le relazioni particolari tra quelle persone e quei conte-
sti, la possibilità, cioè, di una comprensione più generale delle relazioni tra questo
genere di luoghi e il genere di persone che in essi vive.
Studiando adeguatamente le attività delle persone nelle diverse comunità, do-
vremmo quindi riuscire progressivamente a delineare come i movimenti del danza-
Il danzatore, la
tore, e i confini che delimitano la sua danza, si relazionano non solo agli aspetti im-
danza e la mediati che costituiscono, rendono possibile e limitano quella particolare danza, ma
comunità ai contesti sociali più vasti e generali come, ad esempio, la grandezza e la complessi-
tà della comunità, la densità della popolazione, le integrazioni in aree più vaste, la
tecnologia e l’economia, la storia coloniale, le strutture culturali, le tradizioni locali
e qualsiasi altra cosa si riesca a prendere in considerazione.
Vorrei ora illustrare brevemente, e a scopo illustrativo, alcune possibili implica-
Differenze di zioni di una delle differenze tra Piri e Bhaktapur, quella in dimensione e complessi-
complessità tà. Gran parte dell’ordine che regna nella minuscola Piri è prodotto, come sostene-
vano i teorici delle utopie della Gemeinschaft del diciannovesimo secolo, dalle risor-
se cognitive e morali di una comunità ristretta, nella quale vigono relazioni faccia-a-
faccia. Le persone condividono un corpus di verità generato da un’esperienza per
lo più comune; queste esperienze perciò risultano vere, come precisò Gregory Bate-
son, perché tutti credono in esse. Viene così creata, ai vari livelli di esperienza, una
La “comunità
totale”
realtà imperativa fondata sul senso comune che unisce, in una struttura imperativa
di realtà apparentemente basata sulla percezione, il piccolo gruppo degli abitanti
del villaggio. La conformità a questo sistema viene rafforzata, quando necessario,
dalle pressioni morali di una coesa “comunità totale” – per citare l’espressione di
Erving Goffmann (Goffman 1956).
A confronto, l’enorme vastità e complessità urbana di Bhaktapur trasformano le
possibilità e gli effetti di questo genere di ordine. Sebbene le persone a Bhaktapur,
come del resto ovunque nel mondo, siano radicate nelle unità familiari, nelle fami-
glie estese e nel vicinato, dove la morale e il comportamento reale vengono costruiti
in un personale faccia-a-faccia, sono allo stesso tempo costrette a muoversi conti-
nuamente e con competenza in una compatta struttura di sistemi urbani altamente
organizzati, molto diversi e più estesi; a differenza di quel che accade a Piri, questo
fatto trasforma il loro senso del sé, i loro modi di pensiero, la loro organizzazione
morale. Le modalità di relazione di Piri non sono sufficienti per l’ordine sociale di
Bhaktapur. Negli ambiti più estesi di Bhaktapur – al di là, cioè, delle essenziali rela-
zioni faccia-a-faccia – viene elaborato un profondo simbolismo sacralizzato e un ti-
PER UN’ANTROPOLOGIA IMPERNIATA SULLA PERSONA 231

po speciale, “premoderno” di integrazione, utilizzato solo in modo limitato a Piri,


necessario a integrare le persone in sfere comunitarie più ampie e a orientarle nel Religione e
complesso spazio, tempo e ordine sociale della città. Per questi più ampi obiettivi di integrazione
urbana
integrazione, la città utilizza le risorse notevolmente elaborate e dettagliate fornite
da una religione – l’induismo – drammatica, costrittiva e che aspira continuamente
a insegnare, le cui pretese nei confronti della “realtà” sono d’ordine diverso da
quelle delle forme secolari del senso comune quotidiano.
Queste diverse condizioni di vita sono associate a diversi modi di eseguire le
danze e, in modo meno ovvio, a diversi danzatori locali. La reazione di un tahitiano
alla domanda “chi sei?”, ad esempio, è di manifesto stupore, anche se la natura del
sé tahitiano può essere dedotta da altri generi di discorso e azione (Levy 1973, pp.
213-239). Il “sé” di un contadino tahitiano non rappresenta un problema per il
pensiero discorsivo o per il discorso pubblico.
La stessa domanda rivolta a un abitante di Bhaktapur provoca, invece, una com-
plicata analisi piena di imbarazzo. “Chi sei?”, chiedo a un abitante di Bhaktapur di
una casta elevata (so che è perfettamente in grado di comprendere la peculiarità di Armonia della
persona vs
questa domanda, visto che lo conosco bene e l’ho intervistato per diverse ore a que- conflitti di ruoli
sto proposito). Osserva che questa questione è interessante, che l’ha già affrontata
con gli amici. Dopo una dissertazione preliminare sui passi importanti delle Bhaga-
vad Gita a proposito del sé, risponde:

sembra che io sia sempre qualcos’altro perché, quando cucino, sono un cuoco; quando
amo una donna sono un amante; quando ho un figlio o una figlia, sono un genitore, un
padre; quando sono con mio padre, sono un figlio; quando sono solo con un amico, sono
un amico; quando mi trovo con gli avversari sono un nemico.

Questa risposta, sebbene particolarmente elegante, è tipica del parlare degli abi-
tanti di Bhaktapur e certamente sorprenderebbe (e probabilmente annoierebbe) un
cittadino di Piri. La natura, la quantità, la discontinuità e i conflitti paradossali dei
diversi “ruoli” nella complessa e ampia società di Bhaktapur rivestono profonde
implicazioni per il “sé” e le sue connesse “strutture psicologiche”.
Osserviamo ora un’altra differenza tra gli abitanti di Piri e quelli di Bhaktapur, dif-
ferenza che sembra scaturire dalla diversità delle comunità nelle quali essi vivono. I
contadini tahitiani che facevano da informatori, tendevano a prendere più o meno alla
lettera le forme della loro cultura, come luoghi cioè dove il pensiero analitico e il dis-
corso devono o dovrebbero arrestarsi. “Perché fai questo?”. – “Perché è tradizione”.
A Bhaktapur, invece, in determinate circostanze, le persone confrontano le spie- Giustificazioni
gazioni culturali tradizionali con altri tipi di spiegazione, con una conoscenza tratta tradizionali e
pensiero analitico
dall’esperienza che, per così dire, resiste alle forme di ordinamento culturale domi-
nanti. Perciò un contadino di Bhaktapur, spinto da me ripetutamente e in modo
piuttosto fastidioso a contraddirsi a proposito della sua giustificazione culturale del-
l’emarginazione degli intoccabili (un’emarginazione che serve ad assicurare la conti-
nuità nei ruoli sociali stigmatizzati tradizionalmente, e che viene giustificata da un
gran numero di teorie sulla purezza e sul karma), risponde finalmente con suppli-
chevole esasperazione: “se mangiassimo con loro perderemmo l’intero sistema delle
caste, l’intero sistema delle gerarchie nella nostra società e la gente sarebbe libera di
fare ciò che vuole, sarebbe il caos”.
Questo genere di pensiero analitico9 crea un sapere spesso potenzialmente sov-
versivo per la dottrina pubblica, e spesso possiede un’interessante qualità: sembra
che esprima una qualche verità generale relativamente libera dal condizionamento
232 ROBERT I. LEVY

della cultura. A Bhaktapur, molte dottrine “culturali” risultano problematiche e non


intuitive per gli individui, anche se sono fermamente sostenute da un moto che indu-
ce loro una certezza di fede secondaria rispetto al dubbio, fortemente motivato dagli
emozionanti messaggi personali trasmessi dai numerosi riti di passaggio e dai rituali
pubblici. Per molti, forse per la maggior parte degli abitanti di Bhaktapur, questo
equilibrio tra certezza, dubbio, analisi e fede finisce per contraddistinguere alcuni
modi generali di pensare e di reagire dinanzi al proprio mondo.
Conoscenza L’ambiente in cui vivono gli abitanti di Bhaktapur, così com’è configurato dalle
“sofisticata” vs danze che devono eseguire, ha determinato alcune caratteristiche dell’“organizza-
pensiero zione” del loro pensiero. Si tratta di una sorta di sedimentazione sistematica dei di-
“ingenuo”
versi tipi di conoscenza contraddittoria, che potremmo definire “sofisticata” rispet-
to al pensiero “ingenuo” di molti villaggi tahitiani10. Queste osservazioni, a proposi-
to delle connessioni esistenti fra le credenze, il dubbio, la fede, l’insieme degli
aspetti dell’organizzazione cognitiva, della vastità e della complessità delle comunità
sono esempi di tutti quei tipi di fenomeni che un’antropologia imperniata sulla per-
sona dovrebbe riuscire a chiarire e a utilizzare nella costruzione della teoria.

Quale formazione per un’antropologia imperniata sulla persona


Quando l’antropologia socioculturale si è progressivamente differenziata in
branche specializzate, i dipartimenti delle università hanno dovuto affrontare il pro-
blema della formazione degli studenti, sia in antropologia generale sia nei campi
che richiedono una speciale preparazione teorica e tecnica.
Anche l’antropologia imperniata sulla persona ha, come le altre branche specia-
lizzate, i suoi problemi specifici, relativi alla formazione e all’apprendimento di tec-
niche. Abbiamo visto, ad esempio come essa abbia bisogno di comprendere dati e
teoria sia dell’“ambito” socioculturale che individuale, e di acquisire la capacità di
selezionare questi dati per riuscire a criticare e modificare la teoria e incentrarla sui
propri interessi.
L’obiettivo più importante e difficile da raggiungere nella formazione preli-
minare al lavoro sul campo, forse, è quello di insegnare e apprendere a ricono-
L’intervista
guidata
scere e raccogliere i dati rilevanti. Uno strumento probabilmente indispensabile
a questo scopo è l’intervista guidata. Nella versione che abbiamo utilizzato per
molti anni, gli studenti, nell’ambito dell’attività seminariale, intervistano a fondo
– per esempio due interviste di un’ora ognuna a settimana durante il corso di un
semestre – un pubblico selezionato di persone atte a rispondere: gli “intervista-
ti”. Il soggetto dell’intervista dovrebbe essere un individuo che riveste, nella so-
cietà, un ruolo interessante (un impresario di pompe funebri, un poeta, un sacer-
dote). Il ruolo, a causa del suo “interesse”, fornisce agli studenti quel tipo di
estraniamento che rende visibile e problematica la situazione socioculturale di
altre comunità. Gli “intervistati” sono individui considerati come problemi, “og-
getti” da studiare in se stessi, e non perciò “informatori”, testimoni esperti che ci
forniscono descrizioni e spiegazioni “oggettivamente valide”. Gli studi antropo-
logici di “cultura e personalità” hanno ereditato una tradizione psicologica che
considerava l’analisi degli “intervistati” che rispondevano alle interviste derivabi-
le, in modo più o meno meccanico, dalle misurazioni, dai test e dall’osservazione
di segni e indizi simili ai fatti. Siamo ora consapevoli che la comprensione
dell’“altro”, ovvero degli “intervistati”, richiede molta umiltà, autocoscienza ri-
flessiva e capacità ermeneutica. Queste qualità dell’antropologia contemporanea
dovrebbero esser presenti sia nella metodologia di un corso relativo alla tecnica
sia nel successivo lavoro sul campo.
PER UN’ANTROPOLOGIA IMPERNIATA SULLA PERSONA 233

Le interviste devono essere registrate su nastro, per poter catturare i molti strati Interviste e
relazioni tra
della forma significativa che esse recano in sé. Attraverso l’utilizzo di tecniche origi- parlante e
nariamente radicate nella tradizione dell’“intervista psicodinamica” e modificate in ricercatore
seguito per i nostri scopi, diversi da quelli clinici, le interviste agli “intervistati” ri-
sultano piene di indicazioni chiarificatrici, proprio in relazione al problema della
danza e del danzatore posto da Yeats. Se opportunamente condotte, le interviste il-
lustrano ampiamente l’organizzazione dei temi, le esitazioni, il diramarsi delle deci-
sioni, le tracce paralinguistiche e cinestesiche, le “operazioni difensive” che, assie-
me al “contenuto” verbale dell’intervista, chiariscono la mutevolezza delle relazioni
tra il parlante e il suo discorso di superficie (la danza), l’intervistatore, le varie fasi
dell’intervista, i diversi generi di argomenti discussi e, oltre a ciò, il rapporto con la
vita, i ruoli, l’appartenenza dell’intervistato a varie comunità e così via. Le selezioni
tratte dalle interviste, sostenute dai testi dattiloscritti, possono essere utilizzate per
chiarire i problemi relativi all’intervista, per identificare i fenomeni potenzialmente
significativi nei vari esempi catturati dalle registrazioni e per apprendere la costru-
zione di modelli teorici minori, basati, nel modo più solido possibile, sui materiali
specifici e dimostrabili dell’intervista. Sul campo, questo genere di interviste richie-
de una profonda conoscenza della lingua locale. Al contrario di molte altre ricerche
antropologiche, non è possibile lavorare con la lingua franca11 dell’area o, ancor
meno, con un interprete.
Nell’antropologia imperniata sulla persona, le ricerche sul campo non sono rapi-
de. In una prima, lunga fase è necessario apprendere il contesto, la cultura, l’orga-
nizzazione sociale e il linguaggio di una cultura, in modo da evitare affermazioni
stupide e non aggiungerne altre a diversi secoli di stupidità, almeno se intendiamo
studiare e costruire teorie basate sull’ambiente personale e la costruzione di univer-
si da parte di membri di una comunità.
La ricerca dell’antropologia imperniata sulla persona, come tutta l’antropologia,
è irta di difficoltà. Ma chi meglio degli antropologi può osservare queste danze così
interessanti, e riflettere sulla sfida lanciata da Yeats?

1 La scissione tra la “cultura” e la “società”, in seguito, ha anch’essa dato vita a un’altra serie di problemi.
2 Il termine “persona” viene utilizzato qui nell’accezione generale e non specifica di “essere umano” o “individuo”;
non cioè nel particolare significato morale – peraltro di estremo interesse per l’antropologia – di entità umana o corpo-
rativa che una comunità (o un corpo di leggi) concepisce come avente diritti e doveri legittimi.
3 Vari paragrafi del presente saggio sono stati ripresi – in alcuni casi più o meno alla lettera – da un articolo scritto

per un pubblico diverso (Levy 1989). Alcune questioni, qui soltanto brevemente accennate, sono state sviluppate este-
samente in quell’articolo. Sono grato a Roy Rappaport per aver espresso utili commenti critici alla prima stesura di que-
sto saggio.
4 A proposito di Boas e della teoria della cultura nell’antropologia americana, cfr. Stocking (1968).
5 La citazione e l’analisi del pensiero di Boas sono riprese e adattate da Levy 1973, p. 245.
6 W. B. Yeats, A scuola fra i bambini.
7 Questa distinzione assume forme differenti nei diversi tipi di società. Rappresenta, forse, un problema nelle so-

cietà moderne, nelle quali il comportamento “formale” non è garantito o reso certo da un codice di onore più o meno
inviolabile, o da una rigida convenzione sociale. Nelle società moderne (come suggeriva Riesman nel 1952, a proposito
della particolare ossessione americana per la “sincerità”) riveste particolare importanza la dimensione dello “stato inte-
riore” dell’individuo.
8 Cfr. Levy 1973; 1990.
9 Il “pensiero analitico” può essere distinto dalla riproduzione passiva della “dottrina culturale”, in base ai modi in

cui gli individui giungono a formulare le loro affermazioni e le difendono.


10 Un’affermazione del genere o – in questo caso – quasi tutte le affermazioni relative alle differenze fra le “or-

ganizzazioni mentali” degli individui prodotte dalla cultura, nella misura in cui sembra minacciare le conclusioni rag-
giunte da Boas, irrita molti antropologi pronti a andare in cerca di dati in grado di falsificarla. Esistono, infatti, dati
specifici che sembrano smentire quasi ogni tesi antropologica; si tratta tuttavia di tesi che riguardano le tendenze
“generali” nel comportamento: consideriamo perciò educate le persone nonostante occasionali atti di maleducazio-
ne, o le giudichiamo intelligenti nonostante compiano occasionali azioni stupide. Alle asserzioni relative alle tenden-
234 ROBERT I. LEVY

ze organizzative si deve replicare non con atti particolari, ma ponendosi allo stesso livello di analisi in cui quelle as-
serzioni vengono formulate.
11 Quando lavoravo nella Polinesia francese, mi accorsi che le risposte fornite dagli stessi polinesiani bilingui inter-

vistati in francese o in tahitiano erano molto diverse. Sembrava che le due lingue investissero aspetti diversi del sé e at-
tivassero forme di difesa anch’esse in qualche modo differenti, dando vita a diverse rappresentazioni del mondo. Studi
sistematici delle risposte fornite in entrambe le lingue da informatori bilingui, ove siano condotti, rivestirebbero un
enorme interesse antropologico.

Biografia intellettuale

Robert I. Levy è Professor Emeritus in antropologia alla University of California,


San Diego e Research Professor in antropologia alla University of North Carolina,
Chapel Hill. Ha dedicato la prima parte della sua carriera alla medicina, alla psichia-
tria e alla psicoanalisi. Tra il 1961 e il 1964 condusse i suoi primi studi antropologici
in due piccole comunità tahitiane della Polinesia francese. Dal 1964 al 1968 lavorò
all’University of Hawaii. Durante questo periodo contribuì a coordinare ricerche e
programmi di psichiatria comparativa in Asia meridionale e orientale. Nel 1969 di-
ventò uno dei membri fondatori del nuovo Dipartimento di Antropologia all’Univer-
sity of California, a San Diego, organizzato da Melford Spiro come centro di studi di
antropologia psicologica. Nel 1973 Levy cominciò lo studio di Bhaktapur, una città
nepalese tradizionale, induista e premoderna, che si trova nella Valle di Kathmandu.
Ha pubblicato saggi etnografici e teorici su Tahiti e si occupa di numerose tematiche
nel campo dell’antropologia psicologica; ha scritto inoltre diversi e importanti saggi
sull’emozione, considerata in prospettiva antropologica. Il suo volume Tahitians:
Mind and Experience in the Society Islands (1973) descrive gli universi conoscitivi e
d’azione incentrati sulla persona di alcuni abitanti dei villaggi tahitiani. Mesocosm:
Hinduism and The Organization of a Traditional Hindu City in Nepal (1990) descrive
l’organizzazione simbolica e religiosa di Bhaktapur. Attualmente è impegnato nello
studio degli universi privati di alcuni abitanti di questa città, e si occupa delle inter-
relazioni tra le sfere private e la più estesa sfera pubblica cittadina.

La mia biografia intellettuale ha avuto origine con la medicina, con le sue parti-
colari intuizioni e i suoi pregiudizi limitanti, la sua idea dell’esistenza di sistemi stret-
tamente interdipendenti più o meno coesi sotto l’epidermide umana, e il suo interes-
se per la patologia e il crollo fisico come modi privilegiati per comprendere il fun-
zionamento della salute. Gli incontri con pazienti “psicotici” nei corsi di psichiatria
hanno prodotto in me l’interesse, durato una vita, per il comportamento e gli uni-
versi interiori degli “altri” esotici e i loro incerti legami con le “nostre” realtà e nor-
malità. Alla metà del secolo, la punta di diamante della psichiatria sembrava essere
la teoria psicanalitica e, durante i soggiorni di studio psichiatrico che seguirono la
scuola di medicina, l’unica cosa da fare era intraprendere una formazione psicanali-
tica presso uno di quegli “istituti” di psicoanalisi che cominciavano a proliferare a
New York e in tutte le più importanti città americane. Scelsi il William Alanson
White Istitute, un gruppo “neo-freudiano” di cui tra l’altro erano membri il filosofo
sociale Erik Fromm e Harry Stack Sullivan, un teorico delle relazioni interpersonali
all’epoca di grande prestigio. La facoltà dell’Istituto, come altre scuole “neo freudia-
ne”, si occupava in particolare di quelli che considerava fattori “culturali” nello svi-
PER UN’ANTROPOLOGIA IMPERNIATA SULLA PERSONA 235

luppo e nella psicopatologia umani, rispetto a ciò che era considerato come un ec-
cessivo freudismo “biologico”. Nonostante l’importanza posta sulla “cultura”, l’Isti-
tuto conservò molto del modello medico-psichiatrico, concentrato esclusivamente
sulla patologia del “paziente”. Dopo alcuni anni di pratica a New York e dopo un
breve e istruttivo periodo trascorso nell’esercito a San Francisco – dove ho osserva-
to diversi pazienti e situazioni patogene che senza dubbio non appartenevano alla
classe media – cominciai a sentirmi sempre di più insoddisfatto delle limitazioni del-
la teoria e della pratica psicanalitica. Mi sembrò allora che il passo successivo, per
l’utilità della ricerca futura, sarebbe stato cercare di comprendere i rapporti tra i fe-
nomeni incentrati sulla persona e i processi socioculturali più estesi.
Sono stato influenzato sia dalla ricerca contemporanea su quella che era varia-
mente denominata psichiatria sociale o interculturale o comparativa, tra cui era
possibile annoverare gli importanti studi dell’antropologo Alexander Leighton sulle
relazioni tra disordine della comunità e tensione personale, oltre al campo degli
“studi di cultura e personalità” allora in pieno sviluppo, i cui autori più stimolanti
per me furono, tra gli altri, Ernest Beaglehole, Abram Kardiner, Melford Spiro,
Margaret Mead, George Devereux e Geza Roheim. Ma l’esperienza di gran lunga
più importante, formativa e che ebbe su di me effetti duraturi fu quella con Gre-
gory Bateson, che incontrai per la prima volta quando si occupava, vicino a San
Francisco, della schizofrenia, lavoro che lo condusse all’elaborazione della teoria
dell’apprendimento (di enorme utilità per l’antropologia) e della teoria del doppio
legame nella schizofrenia. Il lavoro di Bateson, in modo particolare i saggi teorici al-
la fine raccolti in Verso un’ecologia della mente, mi introdussero a quella trasforma-
zione rivoluzionaria dei modelli di comportamento avviata dalla cibernetica e dalla
teoria della comunicazione, che hanno permesso di comprendere (in parte) il com-
portamento/mente/pensiero come entità localizzate e apprese in un campo struttu-
rato di relazioni dinamiche e reciprocamente costruttive, in seno al quale gli indivi-
dui rappresentavano i punti nodali. Le sue riflessioni hanno introdotto gli sviluppi
successivi del pensiero di fine ventesimo secolo (compreso quello francese degli ul-
timi decenni, che per lo più indaga questo nuovo terreno, partendo da un punto di
vista differente) e un parziale correttivo ai modelli (ancora fiorenti) meccanicistici,
intrapsichici e di “cultura e personalità”, che rappresentavano residui delle conce-
zioni del diciannovesimo secolo. Bisogna tuttavia notare che, a dispetto dell’enorme
potere correttivo esercitato da questi modelli alla fine del ventesimo secolo, essi, a
loro volta, non specificarono e sottovalutarono i complessi processi intrapsichici e
le attività dei “nodi” – cioè degli “individui” – ma sottolinearono la conoscenza o la
“mente” come precipitati di schemi culturali dominanti a spese di fattori determi-
nanti per la comprensione e l’azione umana quali coscienza, emozione, meccanismi
di difesa, intuizione e simili, ognuno dei quali possiede propri tipi di rapporto e una
peculiare resistenza alla “cultura”.
Alla metà degli anni Sessanta, per riprendere il filo della sequenza genealogica,
ero ansioso di lasciare una prassi psichiatrica problematica cercando di apprendere
qualcos’altro da nuove esperienze e osservazioni. Fui così in grado, grazie all’invito
dell’antropologo e specialista dell’Oceania Douglas Oliver, di lavorare in un villag-
gio di madrelingua tahitiana e in una piccola enclave urbana dal 1961 al 1964. Negli
anni successivi lavorai in una comunità completamente differente, una tradizionale
città induista in Nepal (dal 1973 al 1976). In entrambi i luoghi, il mio interesse es-
senziale si incentrava sulla relazione tra le strutture e le forme della vita comunitaria
e le forme di “mentalità ed esperienza” degli abitanti di diversi tipi di comunità.
Questi rapporti continuano ancora ad assorbire la mia attenzione.
Genere sessuale e parentela: verso una analisi unificata*
Sylvia Yanagisako e Jane Collier

Introduzione
L’intento del nostro saggio è da un lato rivitalizzare lo studio della parentela e,
dall’altro, fare dello studio del gender il nucleo teorico dell’antropologia, mettendo
in discussione il confine tra questi due ambiti. Ci proponiamo, quindi, sfidando la
concezione che vede nella parentela e nel genere ambiti distinti di analisi – sebbene
strettamente collegati – di rinnovare le prospettive intellettuali che avevano offerto
riconnettendoli in un campo unitario.

Cercando di mostrare le potenzialità creative che emergono se si ignora la di-


stinzione tra questi due ambiti analitici ben affermati, prendiamo una direzione che
Il declino degli si allontana dalle recenti tendenze teoriche dell’antropologia. Durante gli ultimi
studi sulla
parentela venti anni, la parentela ha perso il proprio ruolo di interesse centrale delle ricerche
etnografiche e luogo privilegiato del dibattito teorico sulle caratteristiche della
struttura sociale. Recenti rassegne e commenti relativi alla teoria antropologica (cfr.
ad es. Ortner 1984; Yengoyan 1986; Hannerz 1986; Appadurai 1986b) mostrano
che oggi gli studi di parentela non producono più né le controversie né la novità in-
tellettuale che hanno caratterizzato la prima metà del secolo. Senza dubbio né le et-
nografie, né quegli studi comparativi che oggi stimolano l’immaginazione antropo-
logica si concentrano su quelle che una volta venivano considerate le basi essenziali
della parentela, cioè le regole di discendenza, le prescrizioni o le preferenze matri-
moniali e i sistemi di terminologia.
A posteriori, è evidente come il declino dell’importanza teorica degli studi di
parentela in antropologia sia stato preannunciato, negli anni Sessanta e Settanta, dai
diversi tentativi di ripensarne i concetti e i metodi fondamentali (Leach 1961;
Schneider 1964, 1972; Needham 1971). Questi tentativi erano sintomatici di un dif-
fuso crollo della fiducia nei confronti del modello struttural-funzionalista della so-
cietà, il cui sviluppo ed egemonia in antropologia hanno coinciso con l’aumento di
importanza della parentela.
Nel dopoguerra, la critica al paradigma struttural-funzionalista finì per indeboli-
La critica al re la fiducia nella concezione secondo cui la parentela costituisce ovunque un ambi-
paradigma to di relazioni facilmente accessibile a qualsiasi etnografo dotato di una mappa ge-
struttural-
funzionalista nealogica. La concezione della parentela come ambito separato di analisi fu diretta-
mente posta in discussione (Schneider 1976, 1984) coronando così un periodo di
crescente scetticismo nei confronti del modello istituzionale di società ipotizzato dal-
lo struttural-funzionalismo. Giunti alla conclusione che non era più possibile sup-
porre la necessaria esistenza, in ogni società, sia di una sfera politica – che stabilisce
l’autorità e il regolare esercizio del potere e della coercizione – sia di una sfera reli-
giosa – che provvede una soluzione sul piano cognitivo ai dilemmi universali riguar-
do al significato dell’esistenza umana – ci rendemmo conto che non era possibile
GENERE SESSUALE E PARENTELA 237

neppure presupporre l’esistenza di una sfera della parentela – alla base della creazio-
ne di un sistema di diritti e doveri atti a garantire la regolare riproduzione della vita
umana. Dando per scontata l’esistenza di questi ambiti, lo struttural-funzionalismo
aveva rinunciato alla fruttuosa possibilità di chiedersi come queste sfere vengano a
costituirsi in modi peculiari per ogni società, e con quali conseguenze sociali.
Gli studi recenti sulla parentela che hanno mantenuto una certa vitalità concet- La parentela
tuale e che hanno reso, allo stesso tempo, un contributo innovativo alla discussione come aspetto
teorica in antropologia non si sono incentrati sulla parentela in sé, ma sulla parente- dell’economia
politica e dei
la come aspetto dell’economia politica (Meillassoux 1975; Terray 1969; Friedman sistemi di
1974) o sulla parentela come aspetto di più ampi sistemi di diseguaglianza, all’inter- diseguaglianza
no dei quali il genere rappresenta una dimensione fondamentale (Collier, Rosaldo
1981; Ortner, Whitehead 1981). In breve, il tentativo di annullare i confini conven-
zionali di analisi rappresenta la più interessante promessa teorica di questi studi sul-
la parentela.
Per quanto ci riguarda, invece di accettare senza obiezioni i confini analitici tradi-
zionali, preferiamo chiederci quali nuovi significati possano essere colti scegliendo di
non tener conto della distinzione tra genere e parentela. La domanda in sé ha preso
forma al di là delle obiezioni di matrice femminista mosse agli studi sulla parentela.

Negli anni Sessanta, con la stagione di lotta del movimento delle donne, le an- La sfida
tropologhe femministe si rivolsero agli studi di parentela, considerati uno strumen- femminista alla
to utile per comprendere il ruolo e le possibilità delle donne: non solo le informa- teoria della
parentela
zioni etnografiche relative alle donne e alle loro vite erano contenute infatti soprat-
tutto nei capitoli sulla parentela, sul matrimonio e sulla famiglia, ma la distinzione
tracciata da Fortes tra ambito domestico e ambito politico-giuridico (1958, 1969)
forniva anche una spiegazione dei motivi per cui l’associare le donne all’ambito Le donne e
“domestico” faceva sembrare queste ultime, e le loro attività, universalmente meno l’ambito
preziose delle attività e agli attributi degli uomini “pubblici” (Rosaldo 1974). “domestico”
Il rapporto fra studi di parentela e studi sul genere, tuttavia, fu presto capovolto
negli anni Settanta, con lo sviluppo dell’antropologia femminista. Quando gli studi
di matrice femminista videro i loro interessi spostarsi dal tentativo di comprendere
la posizione delle donne (ad es. Rosaldo 1974; Ortner 1974; Friedl 1975; Schlegel L’evoluzione
1977) alla classificazione delle variazioni nei ruoli e nelle esperienze femminili e, in dell’antropologia
seguito, alla comprensione della costruzione del genere in sistemi sociali specifici femminista
(ad es. MacCormack, Strathern 1980; Ortner, Whitehead 1981), gli assunti essen-
ziali della teoria della parentela cominciarono a essere messi in discussione.
Il nucleo della teoria della parentela era la dicotomia analitica tra ambito
“domestico” e ambito “politico-giuridico”. Tale dicotomia, utilizzata implicita-
mente dai teorici della parentela a partire da Morgan, ed elaborata da Fortes Fortes e le basi
(1949, 1958, 1969, 1978), continua a influenzare l’antropologia e le discipline a giuridiche della
essa collegate. Fortes sviluppò questo concetto per sfidare i presupposti occiden- parentela
tali che insistevano sulla base biologica della parentela, sostenendo che quest’ul-
tima aveva una dimensione giuridica e politica. Tuttavia, paradossalmente, rita-
gliando uno spazio politico-giuridico della parentela basato su vincoli giuridici,
Fortes lasciò intatto il presupposto di una sfera domestica invariante, costruita
sui legami affettivi e sulle sanzioni morali del vincolo tra madre e figlio. La dico-
tomia tra dominio domestico e dominio politico-giuridico presuppone infatti l’e-
sistenza di una sfera “domestica”, relativa alla sessualità e alla crescita della pro-
le che viene associata essenzialmente alle donne, e di una sfera “pubblica”, di re-
238 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

gole giuridiche e di autorità legittima, che viene associata essenzialmente agli uo-
mini (Yanagisako 1979).
Le antropologhe femministe che per prime si volsero alle teoria della parentela
come strumento di analisi cominciarono presto a mettere in discussione il presuppo-
La crisi della sto dell’esistenza di una sfera domestica, organizzata sulla base dei vincoli affettivi e
“naturalità” del morali del legame tra madre e figlio, alla quale poteva essere aggiunta ogni altra fun-
“domestico” zione (economica, politica, ideologica) senza che per questo variasse il “naturale”
ruolo primario della riproduzione umana. A causa del loro interesse per le variazioni
nelle concezioni del genere, delle strategie e dei poteri delle donne, le femministe co-
minciarono a mettere in rapporto le differenze osservate nelle esperienze delle donne
con le diverse forme di organizzazione economica, politica e culturale, mettendo in
discussione quindi 1) l’apparente naturalezza delle coppie madre-figlio e 2) la rela-
zione tra la presunta “autorità” maschile e le reali dinamiche di potere e privilegio in
sistemi sociali specifici.
Sottolineando le strategie delle donne, le studiose femministe non presero sola-
mente atto del fatto che queste ultime, come gli uomini, hanno degli obiettivi e si
adoperano per raggiungerli. Dimostrarono anzi l’impossibilità di comprendere l’in-
terazione all’interno delle “sfere domestiche”, senza comprendere allo stesso tempo
l’organizzazione degli ambiti politici ed economici che forniscono gli obiettivi e le
risorse a entrambi i sessi. Analogamente, le femministe che sottolineavano l’impor-
tanza della concezione del gender dimostrarono come le concezioni simboliche del-
la femminilità non possono essere comprese senza fare riferimento a un ordine cul-
turale, perché i fatti biologici ricevono un senso solo all’interno di più ampi sistemi
Il contributo di di significato (Ardener 1975, 1978).
Goody e Le femministe non sono state le uniche a mettere in discussione gli assunti centrali
Bourdieu della teoria della parentela. La teoria dell’evoluzione del dominio domestico di Goody
(1973, 1976) ha sfidato la concezione della parentela come sistema autonomo e ha di-
mostrato che sono i processi produttivi e la trasmissione della proprietà a dare forma ai
gruppi domestici. Bourdieu (1972), rifiutando le formalistiche “regole matrimoniali”
di Lévi-Strauss, ha analizzato le “strategie di matrimonio” attraverso cui, in particolari
società, le persone riproducono le relazioni di produzione e di diseguaglianza sociale.
Allo stesso tempo, l’analisi culturale della parentela di Schneider (1968, 1972)
Interdipendenza ha permesso di comprendere il rapporto di interdipendenza esistente tra parentela
tra parentela e altri domini. Schneider e altri hanno sostenuto che la parentela non costituisce un
e altri domini
dominio di significato separato e isolabile ma, piuttosto, che i significati attribuiti
alle relazioni e alle azioni dei congiunti provengono da una serie di domini culturali
che comprendono la religione, la nazionalità, il genere, l’etnicità, la classe sociale e
il concetto di “persona” (Alexander 1978; Chock 1974; Schneider, Smith 1973;
Strathern 1981a; Yanagisako 1978, 1985).

Ripensare parentela e genere


Alla luce della sfida femminista alla teoria della parentela sembra ora giunto il
momento, per i teorici di questo campo di studio, di volgersi agli studi sul genere
per ottenere gli strumenti che permettano di riconsiderare la loro analisi. Come è
stato dimostrato dalle femministe, non è più sufficiente considerare le donne come
esclusive portatrici, nell’ambito della parentela, della capacità di allevare figli e gli
uomini come esclusivi portatori della capacità di partecipare alla vita pubblica. Di
conseguenza l’analisi incentrata sul genere – ad esempio nella società tradizionale
cinese o nuer – potrebbe facilmente mettere in luce che classificare queste due so-
cietà sotto l’etichetta della “discendenza patrilineare”, invece di chiarire i termini
GENERE SESSUALE E PARENTELA 239

della questione li renda, di fatto, più oscuri. Allo stesso modo, un’analisi incentrata
sul genere potrebbe fornire una comprensione piuttosto diversa dei tipi di “allean- La reciproca
ze” cui gli uomini danno vita attraverso lo scambio di donne. Potrebbe, inoltre, di- costruzione
mostrare l’impraticabilità della separazione delle transazioni matrimoniali dalle al- di genere
tre transazioni relative alla proprietà. Ma non intendiamo utilizzare gli studi sul ge- e parentela
nere per comprendere i tradizionali interessi dei teorici della parentela. Sosteniamo,
invece, che genere e parentela si costruiscono reciprocamente e che non possono
neanche essere considerati, dal punto di vista analitico, uno precedente all’altro,
perché si creano insieme nei particolari sistemi culturali economici e politici. In
breve, le analisi centrate sul gender devono partire da totalità sociali, piuttosto che
da individui o ambiti funzionali come la parentela.

La parentela e i “fatti” biologici della riproduzione sessuale


Schneider (1968, 1972, 1984) è stato il teorico della parentela che più di tutti ha
rifiutato ciò che altri hanno dato per scontato: che le unità fondamentali della pa- Schneider e la
denaturalizzazione
rentela, cioè, erano ovunque relazioni di natura genealogica. Nell’analisi della pa- della parentela
rentela americana (1968), Schneider ha dimostrato che le nostre specifiche conce-
zioni popolari della parentela si collocano al di là dei nostri presupposti sull’univer-
salità della rete genealogica. Nel tentativo di spiegare il sistema simbolico con il
quale gli americani costruiscono le relazioni genealogiche, Schneider denaturalizzò,
per così dire, la parentela e rivelò le sue fondamenta culturali.
Più di recente, nella sua rassegna critica del 1984 sulla storia degli studi di paren-
tela, Schneider ha sostenuto che, per gli antropologi, la parentela si è sempre radicata
nella biologia, perché (in virtù della definizione che noi stessi ne abbiamo data) essa si
riferisce alle relazioni basate sulla riproduzione sessuale. Quando affrontiamo lo stu-
dio della parentela in altre società, ci sentiamo obbligati a iniziare da un qualche pun- La riproduzione
sessuale
to fermo, che è stato, da sempre, la riproduzione sessuale. Non ci chiediamo quali ef-
fettivi rapporti siano implicati nella riproduzione degli esseri umani in particolari so-
cietà; presumiamo, invece, che la principale relazione riproduttiva in tutte le società
sia la relazione tra uomo e donna, caratterizzata dal rapporto sessuale e dalle sue con-
seguenze fisiologiche della gravidanza e del parto. Il solo caso in cui ci preoccupiamo
di porci domande a proposito della riproduzione, è quando scopriamo che gli indige-
ni non tracciano le stesse nostre connessioni tra i due eventi (come nel caso dei tro-
briandesi) oppure quando scopriamo che gli indigeni autorizzano matrimoni tra per-
sone dello stesso sesso (come i nuer e i lovedu). In altri termini, presupponiamo che la
“produzione” di discendenza umana – attraverso il rapporto eterosessuale, la gravi-
danza e il parto – costituisca il processo biologico sul quale la cultura costruisce rela-
zioni sociali come il matrimonio, la filiazione e il ruolo dei genitori.
Se è chiaro che il rapporto eterosessuale, la gravidanza e il parto sono implicati
nella riproduzione umana, è del resto evidente che mettere al mondo degli esseri
umani comporta qualcosa di più. M. Bridget O’Laughlin (1977) sintetizza bene La riproduzione
umana e i fattori
questo concetto quando scrive: “la riproduzione umana non è mai esclusivamente culturali
una questione di concepimento e nascita”. Oltre al rapporto sessuale e al parto, esi-
ste poi una lunga serie di attività alle quali partecipano le persone, attività che con-
tribuiscono alla nascita di individui capaci e al loro sviluppo, facendone degli esseri
adulti. Queste attività, a loro volta, investono, e sono organizzate da una serie di re-
lazioni differenti da quelle della paternità e maternità e del matrimonio.
Data l’ampiezza di attività e di relazioni umane che è possibile prendere in con-
siderazione e che contribuiscono tutte alla generazione di esseri umani, per quale
ragione dobbiamo concentrarci solo su alcune di queste, considerandole la base
240 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

universale della parentela? Per quale ragione consideriamo fatti naturali soltanto
questo genere di attività e di relazioni, invece di cercare di comprendere in che mo-
do anche essi sono, come tutti i fatti sociali, culturalmente costruiti? La risposta for-
nita da Schneider è che la nostra teoria della parentela è allo stesso tempo una teo-
ria “folk” della riproduzione biologica.

Il genere e i “fatti” biologici della riproduzione sessuale


L’intuizione di Schneider, secondo cui la parentela riguarda per definizione la
procreazione sessuale, ci spinge a ritenere che le presupposizioni relative al genere
siano al centro degli studi della parentela. Inoltre, se le riflessioni sul genere sono
fondamentali nell’analisi della parentela, anche le idee sulla parentela sono essenzia-
li per l’analisi del genere. Dal momento che genere e parentela sono stati definiti in
base alle nostre concezioni della stessa cosa, e cioè della procreazione sessuale, non
possiamo considerare l’uno senza considerare anche l’altra. In breve, questi due
campi di studio sono interdefiniti, e si limitano l’un l’altro.
Nella letteratura sulla parentela, gli assunti relativi al genere pervadono i concet-
ti relativi ai fatti della riproduzione sessuale. Gran parte di ciò che è stato scritto a
proposito degli atomi di parentela (Lévi-Strauss 1949), dell’assioma dell’altruismo
prescrittivo (Fortes 1958, 1969), dell’universalità della famiglia (Fox 1967) e della
Le unità
standard delle
centralità del legame tra madre e figlio (Goodenough 1970), è radicato nei presup-
genealogie posti relativi alle peculiarità naturali delle donne e degli uomini e dei loro ruoli na-
turali nella procreazione sessuale. Le unità standard delle nostre genealogie, dopo-
tutto, sono cerchi e triangoli, riguardo ai quali abbiamo sviluppato tutta una serie di
presupposti. Soprattutto, diamo per scontato che essi rappresentino due categorie
di persone naturalmente differenti, e che la differenza naturale tra di esse costitui-
sca la base della riproduzione umana e, quindi, della parentela.
La letteratura sul gender è attenta ai numerosi modi in cui, nelle diverse società,
vengono elaborate concettualmente e giudicate la gravidanza e la nascita, nonché ai
modi diversi con cui sono organizzate socialmente le attività che li circondano. Tut-
tavia continua a essere presente, nelle analisi comparative, la convinzione che la dif-
ferenza biologica tra i ruoli delle donne e degli uomini nella riproduzione sessuale
sia al centro dell’organizzazione culturale del genere.
Come i teorici della parentela, anche gli studiosi del gender hanno dato per
scontato che la differenza tra uomini e donne, comporti necessariamente determi-
nate conseguenze per la società. Per fare un esempio, il presupposto che le donne
sostengano un carico più elevato e una responsabilità maggiore nella riproduzione
umana pervade gli studi sul genere, soprattutto quei lavori che utilizzano una di-
stinzione tra riproduzione e produzione. Inoltre, questo concetto sembra spesso es-
La distinzione fra
sesso e genere sere frutto più di un’estensione metaforica dell’importanza che tendiamo ad attri-
buire al fatto che le donne partoriscono figli, che di una conclusione fondata sulla
comparazione sistematica del contributo dato dagli uomini e dalle donne alla ripro-
duzione umana.
La centralità della riproduzione umana nella definizione del genere si riflette
sulla distinzione tra sesso e genere, diventata ormai luogo comune in gran parte
della letteratura femminista. Judith Shapiro sintetizza la distinzione tra i termini
come segue:

[Essi] mostrano una certa utilità nel sottolineare analiticamente le differenze tra una serie
di fatti biologici e una serie di fatti culturali. Se dovessi utilizzare i termini in modo scru-
poloso, userei il termine “sesso” solo per parlare di differenze biologiche tra maschi e fem-
GENERE SESSUALE E PARENTELA 241

mine ed il termine “genere” per riferirmi ai costrutti sociali, culturali, psicologici che sono
imposti su tali differenze biologiche… Il genere designa una serie di categorie che possiamo
definire allo stesso modo in lingue o in culture diverse, dal momento che possiedono una
qualche relazione con le differenze sessuali. Queste categorie sono, ad ogni modo, conven-
zionali o arbitrarie, nella misura in cui non sono riducibili a, o direttamente derivate da,
fatti naturali, biologici; nel modo in cui ordinano l’esperienza e l’azione, esse variano da
un linguaggio ad un altro, da una cultura all’altra (1981, p. 449, corsivo nostro).

Il tentativo di separare lo studio delle categorie del genere dai fatti biologici ai
quali sembrano universalmente connesse riflette lo sforzo dei teorici della parentela
– di cui Schneider (1984) ha dato una rassegna – di separare lo studio della paren-
tela dagli stessi fatti biologici. Come il precedente tentativo, anche questo sembra
essere condannato al fallimento perché anch’esso parte da una definizione del suo
oggetto primario radicata in quei fatti biologici. È impossibile, naturalmente, sapere
cosa significherebbero genere o parentela se fossero sganciati da sesso e riproduzio-
ne biologica. Non ci rimane altro che iniziare le indagini dei concetti “altri” parten-
do prima dai nostri, scomponendo però gli assunti culturali che vi sono incorporati
e che limitano la nostra capacità di comprendere i sistemi sociali permeati da altri
assunti culturali.

Sebbene sia gli studi sul genere che quelli sulla parentela si basino su un’unica e Riunificare genere
comune concezione dei fatti biologici della riproduzione sessuale, le rispettive dire- e parentela
zioni di analisi possono sembrare divergenti: la parentela si volge al carattere socia-
le delle relazioni genealogiche, il genere si interessa al carattere sociale delle relazio-
ni tra maschio e femmina (e anche alle relazioni tra maschio e maschio e tra femmi-
na e femmina). Ad ogni modo, dal momento che entrambi fondano su queste pre-
sunte caratteristiche naturali le loro spiegazioni dei diritti e dei doveri sociali e delle
relazioni di eguaglianza e diseguaglianza tra persone, entrambi mantengono, nei
concetti relativi alle stesse differenze naturali tra le persone, l’eredità dei loro esor-
di. Di conseguenza, quello che è stato distinto in due campi di studio, anche se cor-
relati, costituisce in realtà un ambito unico.
Rendersi conto dell’unità costitutiva di genere e parentela come argomenti di
studio dovrebbe renderci cauti nel considerarli problemi analiticamente separati. Al
pari dell’“economia”, della “politica”, della “religione”, anche la parentela è stata
interpretata dagli antropologi come una vera e propria pietra miliare della società
(Schneider 1984, p. 181). Allo stesso tempo, non dovremmo neanche presupporre
che in tutte le società la parentela crei il genere, o che il genere crei la parentela.
Sebbene i due concetti possano reciprocamente rappresentare degli oggetti di stu-
dio per la nostra società, ciò non significa che essi siano collegati tra loro allo stesso
modo in tutte le società.
Invece di presumerli, dovremmo perciò cercare di comprendere gli ambiti di re- Come nascono i
lazioni socialmente significativi in ogni società, e chiederci da cosa siano costituiti. domini sociali
Rifiutata l’esistenza di domini di relazioni sociali universali e presociali – al pari del- “naturali”
l’esistenza di un dominio domestico e di un dominio pubblico, di un dominio della
parentela e di un dominio politico – dobbiamo chiederci quali processi simbolici e
sociali rendano tali domini auto-evidenti e forse anche campi di attività “naturali”
in ogni società.

Superare le dicotomie: riflettere sugli insiemi sociali


Comprendere il modello “folk” o popolare della riproduzione umana sul quale si
basano le categorie di analisi, implicite ed esplicite, e le dicotomie che hanno dominato
242 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

gli studi sul genere e quelli sulla parentela rappresenta il primo passo in direzione del
loro superamento. Il passo successivo sta nel superare quelle dicotomie, incentrando
l’analisi sugli insiemi sociali. Invece di chiederci in che modo le categorie di “maschio”
e “femmina” siano dotate di caratteri culturalmente specifici – dando quindi per scon-
tato che esistono delle differenze tra loro – dobbiamo chiederci come le specifiche so-
cietà definiscono la differenza. Invece di chiederci come diritti e obblighi gravino sui
vincoli della parentela, dando quindi per scontata la rete genealogica, dobbiamo chie-
derci come specifiche società riconoscono i diritti e distribuiscono le responsabilità.

Analizzare gli insiemi sociali


Data la nostra predisposizione a reinventare le dicotomie analitiche che limitano
la capacità di comprendere il genere, nella nostra e in altre società, abbiamo bisogno
La costruzione
sociale dei “fatti”
di un’esplicita strategia per riuscire a superarle. La nostra proposta si basa sull’as-
biologici sunto che non esistono “fatti” biologici o materiali che comportino, in se stessi, con-
seguenze sociali e significati culturali. Il rapporto sessuale, la gravidanza e il parto
rappresentano fatti culturali le cui forme, conseguenze e significati sono, in ogni so-
cietà, costruiti socialmente – come l’essere madre, l’essere padre, il giudicare, il co-
mandare e il pregare. Allo stesso modo, non esistono “fatti” materiali che possano
essere trattati come dati preculturali. Le conseguenze e i significati dell’uso della for-
za, ad esempio, sono costruiti socialmente come lo sono le conseguenze e i significa-
ti dei mezzi di produzione o le risorse dalle quali dipendono le persone per vivere.
Rifiutando le dicotomie analitiche, rifiutiamo allo stesso modo l’esistenza di ambi-
ti analitici: vale a dire, non diamo per scontata l’esistenza di un sistema di genere ba-
sato sulle differenze naturali nella riproduzione sessuale, o di un sistema di parentela
basato sulla rete genealogica, o ancora di una politica basata sulla forza e di un’econo-
mia basata sulla produzione e sulla distribuzione di risorse necessarie. Invece di pre-
supporre che le società siano costituite da ambiti istituzionali di carattere funzionale,
il nostro intento è studiare i processi sociali e simbolici attraverso cui le azioni umane,
all’interno di mondi sociali particolari, producono conseguenze e significati, compre-
sa la loro apparente organizzazione in ambiti sociali a prima vista “naturali”.

I sistemi di diseguaglianza
Premettiamo che i sistemi sociali sono, per definizione, sistemi di diseguaglian-
za. Questa premessa ci dà tre vantaggi immediati. In primo luogo è autoevidente.
Quasi tutte le definizioni, infatti, affermano che una società è un sistema di relazio-
La “struttura di ni sociali e di valori, e che questi ultimi implicano dei criteri di giudizio. Di conse-
prestigio” della
società guenza, una società è un sistema di relazioni sociali nelle quali ogni cosa o azione
sta su un piano differente: ogni società, come sostengono Ortner e Whitehead
(1981), possiede una “struttura di prestigio”. Un sistema di valori, tuttavia, non è
“maschile” e, nell’analisi di ogni specifica società, dobbiamo indagare le ragioni per
le quali sembra che le persone possiedano quei valori.
In secondo luogo, la premessa che tutte le società sono sistemi di diseguaglianza
ci induce a separare i concetti spesso confusi di “eguaglianza” (la condizione del-
l’essere uguali) e di “giustizia” (giustezza morale). La stessa premessa, inoltre, ci in-
duce a separare l’esame dei nostri e degli altrui sistemi culturali di valutazione dalle
considerazioni sul fatto che quei sistemi si accordino o meno con i nostri criteri di
rispetto e di giustizia.
Infine, la premessa che tutte le società sono sistemi di disuguaglianza ci libera
dall’obbligo di immaginare un mondo senza iniquità socialmente prodotte. Se affer-
miamo che tutte le società siano sistemi di diseguaglianza, come scienziati sociali
GENERE SESSUALE E PARENTELA 243

dobbiamo spiegare non l’esistenza della diseguaglianza stessa ma il motivo per cui
assume forme qualitativamente differenti.
La premessa che tutte le società siano sistemi di disuguaglianza ci spinge a speci-
ficare, in ogni caso particolare, ciò che intendiamo per diseguaglianza. Invece di
chiederci in che modo le differenze “naturali” acquisiscano significati culturali e
conseguenze sociali (una strategia che ci condanna a reinventare le nostre dicotomie Valori culturali e
analitiche), muovere dal presupposto della diseguaglianza ci permette di chiederci processi di
perché determinati attributi e caratteristiche delle persone siano culturalmente rico- diseguaglianza
nosciuti e valutati in modo differente, e altri no. Tutto ciò ci spinge a iniziare ogni
analisi con la domanda: quali sono i valori culturali di una società? Quali processi
sociali organizzano la distribuzione del prestigio, del potere e del privilegio? Po-
tremmo scoprire che in alcune società i valori culturali e i processi sociali non dis-
criminano tra i sessi (che, cioè, ci troviamo di fronte a un sistema di diseguaglianza
non basato sul genere). A questa conclusione, tuttavia, è necessario giungere solo
dopo un’analisi dell’organizzazione della diseguaglianza.
Una volta premesso che i sistemi sociali sono sistemi di diseguaglianza, propo- Un’analisi
niamo un programma d’analisi articolato in tre fasi. Non si tratta di momenti orga- in tre fasi
nizzati secondo un ordine di importanza teorica, ma secondo la sequenza nella qua-
le riteniamo che debbano essere utilizzati in ogni analisi specifica. Alcuni ricercato-
ri, a seconda della particolare questione o del tipo di società oggetto di analisi, pos-
sono preferire un’altra sequenza, o scegliere di concentrarsi su di una fase piuttosto
che sulle altre. Riteniamo, tuttavia, che nessun tentativo di analisi di insiemi sociali
possa procedere senza prenderle in considerazione tutte e tre.

1) L’analisi culturale del significato. La prima fase del nostro programma com-
porta un’analisi dei sistemi culturali di significati. In particolare, dobbiamo iniziare
spiegando i significati culturali compresi dalle persone mediante la prassi delle rela-
zioni sociali. Così invece di presupporre che, in ogni società, le unità fondamentali Interpretare
simbolicamente
del genere e della parentela siano definite dalla differenza tra maschi e femmine nel- le categorie
la riproduzione sessuale, ci chiederemo quali sono le categorie socialmente signifi- pertinenti
cative che le persone utilizzano e in cui si imbattono negli specifici contesti sociali,
e su quali simboli e significati si basano. Seguendo Schneider (1968), invece di dare
per scontato il significato del sangue, dell’amore e del rapporto sessuale nella pa-
rentela americana e il loro influsso sulla costruzione delle categorie di parentela, do-
vremmo interrogarci sui significati che rivestono il corredo genetico, l’amore, il rap-
porto sessuale, il potere, l’indipendenza e quant’altro nella costruzione simbolica
delle categorie della gente in ogni particolare società. Questa posizione analitica nei
confronti del genere è ben riassunta nella seguente dichiarazione di Ortner e Whi-
tehead (1981, pp. 1-2):

il genere, la sessualità e la riproduzione sono trattati come simboli e investiti di significa-


to, come tutti i simboli, dalla società in questione. L’approccio al problema del sesso e
del genere è quindi un problema di analisi e di interpretazione simbolica, un problema
relativo al rapporto tra questi simboli e significati e, da un lato, altri simboli e significati,
dall’altro le forme di vita sociale e di esperienza.

Prestando ascolto ai discorsi attraverso i quali le persone pubblicamente descri-


vono, interpretano, valutano e difendono le loro posizioni cercando di influenzare
relazioni ed eventi, possiamo ricavarne i simboli e i significati relativamente stabili
che esse utilizzano nella vita di tutti i giorni.
244 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

Questi simboli e questi significati, come ribadiremo più oltre nell’analisi dei mo-
delli sistemici di diseguaglianza sociale, sono sempre di natura valutativa. Come ta-
li, decodificano le particolari distribuzioni di prestigio, potere e privilegio. Tuttavia,
dal momento che sono creati attraverso la pratica sociale, non sono statici. Come
Dinamicità della
elaborazione chiariremo meglio analizzando l’importanza dell’analisi storica, non diamo affatto
della tradizione per scontato che i sistemi culturali di valutazione rappresentino strutture immutabi-
li e autonome della “tradizione”. Ma anche quando i significati dei simboli fonda-
mentali cambiano, siamo in grado di separare i diversi significati che rivestono nei
particolari contesti e, quindi, di comprendere meglio i processi simbolici implicati
nel cambiamento sociale (Yanagisako 1985, 1987).
Una volta esplorati i vari modi in cui nelle società altre viene elaborata concet-
tualmente la differenza (e, inoltre, se e in che modo sesso e riproduzione entrano
nella creazione delle diversità che danno effettivamente origine alla differenza) pos-
siamo tornare a esaminare il modello biologico che definisce il genere nella nostra
società. In altri termini, come la nostra critica alla dicotomia domestico/pubblico,
intesa come base strutturale delle relazioni tra maschio e femmina nelle altre socie-
tà, ci ha indotto a dubitare della sua utilità per l’analisi della nostra società (Yanagi-
sako 1987), allo stesso modo possiamo chiederci se la concezione secondo cui il ge-
nere è radicato nella differenza biologica riesca o meno a spiegare le relazioni tra
uomini e donne nella nostra società. Dopo aver considerato il nostro modello di dif-
ferenza biologica come un particolare modo culturale di riflettere sulle relazioni tra
le persone, dovremmo essere in grado di indagare gli stessi “fatti biologici” del ses-
so. Ci aspettiamo che i nostri dubbi sulla presunta base biologica del gender ci con-
ducano, alla fine, al rifiuto di ogni dicotomia tra sesso e genere come fatti biologici
e culturali, aprendo così la strada a un’analisi dei processi simbolici e sociali attra-
verso i quali entrambi vengono costruiti ognuno in relazione all’altro.
L’analisi culturale del significato non può essere isolata dall’analisi dei modelli
d’azione. Non riteniamo che i sistemi di significato siano le determinanti ideali del-
Significato e l’organizzazione sociale o rappresentino soluzioni al problema universale del signifi-
modelli di azione cato e dell’ordine. Piuttosto, dal nostro punto di vista, i significati degli eventi e del-
le relazioni sociali a essi correlate, anche se non necessariamente coerenti, danno
forma alla pratica sociale e sono da questa formati. Il nostro rifiuto di creare una di-
cotomia fra le relazioni materiali e i significati sociali, o di garantire agli uni o agli
altri priorità analitica, è conseguenza della posizione che abbiamo assunta, conside-
rando la prassi e le idee come elementi di un unico processo.

2) I modelli sistemici di diseguaglianza. La seconda fase della nostra strategia ri-


chiede la costruzione di modelli sistemici di diseguaglianza. Questi modelli sono di
un tipo particolare. Seguendo Bourdieu (1972), analizzeremo un sistema sociale
non considerandolo come una struttura invisibile e immutabile, ma chiedendoci
piuttosto in che modo la gente comune, perseguendo i propri fini soggettivi, crei le
strutture di diseguaglianza che limitano le sue possibilità. Ecco perché la prima fase
della nostra strategia richiede un’analisi dei significati di senso comune di cui la
gente dispone, che permettono loro di orientare e interpretare le proprie azioni e
quelle degli altri. Quest’analisi del significato, tuttavia, deve essere seguita da un’a-
Il rapporto fra nalisi delle strutture create dalle persone attraverso le loro azioni. Dal momento che
persone e riusciamo a comprendere i significati di senso comune di cui la gente dispone sol-
strutture tanto indagando in che modo la loro comprensione del mondo viene modellata dal-
le loro esperienze strutturate e non ipotizzando la presenza di una cultura vista co-
me struttura invisibile e immutabile, dobbiamo muoverci di continuo tra un’analisi
GENERE SESSUALE E PARENTELA 245

di come le strutture modellano l’esperienza delle persone e un’analisi di come que-


ste ultime, attraverso le proprie azioni, creano le strutture.
Sebbene sia possibile costruire un modello sistemico di diseguaglianza per ogni
società, sviluppare una tipologia di modelli risulta utile per analizzare i casi partico-
lari. Alla fine (come vedremo nel prossimo paragrafo), ogni società dovrebbe essere
studiata in base ai suoi specifici termini storici. Una serie di modelli idealtipici, tutta- L’inevitabilità
della
via, ci permette di scoprire relazioni altrimenti inosservabili. Ogni tentativo di com- comparazione
prendere le altre culture è, per sua natura, comparativo. È impossibile descrivere un
particolare e unico modo di vita senza implicitamente o esplicitamente compararlo a
un altro, generalmente alla società a cui appartiene chi compie l’analisi, o alla società
cui appartiene il linguaggio utilizzato dallo studioso. Dal momento che la compara-
zione è inevitabile, sembra più produttivo avere a disposizione una serie di modelli
per riflettere sulle somiglianze e sulle differenze, piuttosto che fare affidamento sol-
tanto su noi stessi come unico termine, implicito o esplicito, di paragone.
Nel tentativo di sviluppare questi modelli, non consideriamo come tratti deter-
minanti la tecnologia e l’accesso alle risorse produttive socialmente organizzato (cfr.
Collier, Rosaldo 1981, p. 318; Collier 1987, 1988). Date le nostre premesse – che
nessun “fatto” biologico o materiale comporti in se stesso delle conseguenze sociali
– non possiamo sin dall’inizio dare per scontato il carattere determinante delle for-
ze o delle relazioni di produzione. Non classificheremo, quindi, le società in base al-
le tecnologie – come la raccolta, l’orticoltura, l’agricoltura, la pastorizia e l’industria
(cfr. ad es. Martin, Voorhies 1975) – o sulla base delle relazioni sociali che governa-
no l’accesso alle risorse – come società egualitaria, ordinata e stratificata (Etienne,
Leacock 1980), o come comunità, società fondata sui gruppi parentali e società
fondata sulle classi (Sacks 1976).
Un esempio del tipo di modello di diseguaglianza che proponiamo è rappresenta-
to dal modello idealtipico delle società “del servizio della sposa” [brideservice socie-
ties] studiato da Jane Collier e Michelle Rosaldo (1981). Lo schema classificatorio uti- Il modello ideale
di società “del
lizzato in questo e in altri saggi (Collier 1984, 1987, 1988) fa uso dei termini delle servizio della
transazioni matrimoniali – “servizio della sposa”, “ricchezza della sposa pari o stan- sposa”
dard” e “ricchezza della sposa ineguale o variabile” – come indicatori di modelli siste-
mici, e non ritiene le transazioni matrimoniali determinanti dell’organizzazione socia-
le o delle idee ma le considera, piuttosto, momenti in cui la pratica e il significato ven-
gono negoziati assieme. Le negoziazioni matrimoniali, perciò, rappresentano momen-
ti di “riproduzione sistemica” in società nelle quali la “parentela” sembra organizzare
i diritti delle persone e i loro obblighi nei confronti degli altri. Società organizzate su
basi diverse, allora, avranno momenti diversi di “riproduzione sistemica”.
Dato che non vogliamo presupporre dei tratti determinanti, il tipo di compren-
sione di cui abbiamo bisogno non è lineare. Piuttosto, il modello che proponiamo
svela le complesse relazioni esistenti tra diversi aspetti di ciò che – utilizzando le ca-
tegorie analitiche convenzionali – potremmo definire “genere”, “parentela”, “eco- I modelli
nomia”, “politica” e “religione”. Il pregio fondamentale di questi modelli è che essi sistemici
permettono di chiarire i significati culturali e le conseguenze sociali di azioni, even-
ti e attributi delle persone e di scoprire i processi attraverso i quali emergono questi
elementi. I modelli sistemici non privilegiano nessun ambito a scapito di altri. A dif-
ferenza di Ortner e Whitehead, che difendono la loro scelta di concentrarsi sulla
“azione orientata al prestigio maschile”, intesa come chiave per comprendere le re-
lazioni di genere in ogni società (1981, p. 20), noi sosteniamo invece che anche i “si-
stemi di prestigio” richiedono una spiegazione. Quando gli uomini, ad esempio, af-
fermano che il prestigio maschile è generato da attività che non implicano relazioni
246 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

con le donne, come la caccia o la guerra, ci chiediamo cosa vi sia dietro queste af-
fermazioni, e quali processi sociali le rendano plausibili. Un modello di “servizio
della sposa” suggerisce che, almeno per quanto riguarda le società di raccoglitori e
di cacciatori-orticoltori, le persone celebrano “l’uomo cacciatore” non perché il
prestigio maschile sia effettivamente basato sulla caccia ma, piuttosto, perché la
caccia rappresenta l’espressione principale con cui gli uomini manifestano le pro-
prie richieste alle donne, i cui compiti quotidiani permettono loro di godere della li-
bertà di non dovere chiedere niente a nessuno (Collier; Rosaldo 1981).
Dal momento che i modelli sistemici specificano i contesti nei quali le persone
sviluppano i propri interessi particolari, tali modelli possono aiutarci a comprende-
re i significati apparentemente incoerenti che scopriamo attraverso l’analisi cultura-
Le incoerenze
apparenti
le. Nella loro analisi delle società “del servizio della sposa”, ad esempio, Collier e
Rosaldo (1981) suggeriscono i motivi per i quali la violenza maschile è temuta no-
nostante venga celebrata, le ragioni per le quali le donne, che contribuiscono come
o anche più degli uomini all’approvvigionamento, non evidenziano il loro contribu-
to alla vita economica e preferiscono, invece, mettere in primo piano la propria ses-
sualità; inoltre, la loro analisi spiega il motivo che spinge gli scapoli a diventare cac-
ciatori pigri quando il sesso viene considerato come ricompensa per il cacciatore, e
le ragioni per le quali le nozioni di matrimonio a scambio diretto coesistono con la
credenza secondo cui gli uomini conquistano le mogli attraverso prove di coraggio.
I modelli sistemici, dandoci modo di comprendere queste apparenti incoerenze, ci
forniscono gli strumenti analitici necessari per superare i nostri pregiudizi culturali
riguardo alla coerenza.

3) L’analisi storica. La terza fase della nostra strategia analitica deriva dalla con-
siderazione che in tutti i sistemi sociali, a prescindere dai particolari rapporti di dis-
eguaglianza presenti al loro interno, il cambiamento è possibile. Abbiamo quindi
Mutamento bisogno di una strategia esplicita in grado di controbilanciare l’importanza assegna-
sociale ta alla riproduzione sociale nei nostri modelli sistemici, in modo di poter osservare i
e stabilità
cambiamenti nei sistemi sociali e, insieme, riuscire a comprendere meglio i processi
che permettono loro di rimanere, nel tempo, relativamente stabili. Il raggiungimen-
to di quest’equilibrio è reso possibile da un’analisi storica che consente di interpre-
tare le idee e le pratiche correnti, proprio nel momento in cui rivela la sequenza del-
l’azione e del significato che ha condotto a esse.
Domandandoci in che modo il rapporto degli insiemi sociali con il passato co-
stringa e modelli le loro dinamiche nel presente e chiedendoci, inoltre, se questa re-
lazione è di relativa continuità oppure di radicale rottura, l’ambito temporale della
nostra indagine sugli insiemi sociali viene notevolmente allargato. In altre parole, se
l’analisi storica è di importanza fondamentale per comprendere le società e le co-
munità che attraversano profonde trasformazioni (ad es. cfr. Sahlins 1981; Yanagi-
Il ruolo della
prospettiva sako 1985; Collier 1986), è altrettanto importante per comprendere le società carat-
storica terizzate da apparente continuità sociale e culturale (R. Rosaldo 1980). Quindi, da-
to che il mutamento è intrinseco all’azione sociale, la riproduzione dei sistemi socia-
li richiede una spiegazione non dissimile da quella della loro trasformazione. Basare
la nostra analisi degli insiemi sociali e modellare i nostri modelli sistemici di dis-
eguaglianza all’interno delle particolari sequenze storiche, ci permette di osservare
in che modo le dinamiche delle azioni e delle idee del passato hanno generato le
strutture nel presente. Adottando una tale prospettiva storica sulla costituzione de-
gli insiemi sociali, eviteremo così di rappresentare gli attuali sistemi di diseguaglian-
za come prodotti immutabili di identici passati, e discuteremo, invece, se e in che
GENERE SESSUALE E PARENTELA 247

modo questi sistemi si siano sviluppati da passati diversi. Riusciremo allora a com-
prendere come determinate concezioni e pratiche, che nei nostri modelli sistemici
sembrano rafforzarsi e riprodursi a vicenda, si indeboliscono proprio mentre si ren-
dono reciprocamente instabili.

Conclusioni
In conclusione, riteniamo che il prossimo contributo del femminismo allo studio
del genere e della parentela debba consistere nel problematizzare la differenza tra
donne e uomini. Non dubitiamo delle differenze tra uomini e donne, così come non
dubitiamo delle differenze tra individui, generazioni, razze, eccetera. Ci domandia- Non-universalità
delle differenze
mo, piuttosto, se la particolare differenza biologica nella funzione riproduttiva, che maschio-femmina
per la nostra cultura rappresenta la base delle differenze tra maschi e femmine e che
viene quindi posta a fondamento delle loro relazioni, venga utilizzata da altre socie-
tà per dar vita alle categorie culturali di maschio e femmina.
A nostro giudizio si deve dubitare dell’universalità dei nostri presupposti cultu-
rali sulle differenze tra maschi e femmine. Gli studi sul genere e quelli sulla paren-
tela, dal nostro punto di vista, sono naufragati a causa del presupposto incontestato
che la differenza biologica nei ruoli maschili e femminili nella riproduzione sessuale
si trovi al centro dell’organizzazione culturale del genere, e che essa costituisca la
rete genealogica al centro degli studi di parentela. Solo se mettiamo in discussione
questo presupposto siamo in grado di chiederci in che modo la differenza tra donne
e uomini viene compresa nelle altre culture. Allo stesso tempo, emergono altre pos-
sibilità di ricerca sulle ragioni che, nella nostra cultura, inducono a sottolineare i
momenti del coito e del parto considerandoli rappresentativi della mascolinità e
della femminilità.
In questo saggio abbiamo sostenuto l’esigenza di analizzare gli insiemi sociali
nella loro interezza; a questo scopo abbiamo proposto un approccio basato su tre
momenti: la spiegazione dei significati culturali, la costruzione dei modelli che spe-
cificano la relazione dialettica tra pratiche e concezioni nella costituzione delle dise-
guaglianze sociali e l’analisi storica delle continuità e dei cambiamenti.
Non ci illudiamo che la strategia da noi proposta possa risolvere tutti i problemi
che abbiamo sollevati. Sappiamo che non potremo mai liberarci dai modelli “folk” La resistenza dei
della nostra cultura, e che mentre rendiamo problematici alcuni concetti popolari, fi- modelli “folk”
niamo per privilegiarne altri. Riteniamo, comunque, che gli studi che intendiamo
promuovere indagando sulla differenza tra donne e uomini possano, col tempo, met-
tere in luce quali sono i loro stessi assunti problematici, e dar vita a nuove domande
che, a loro volta, saranno alla base di nuove strategie di ricerca e di nuove soluzioni.

* Ristampato in versione riveduta, da J. F. Collier e S. J. Yanagisako, a cura, 1987, Gender and Kinship: Essayo To-
ward a Unified Analysis, Stanford, Stanford University Press.

Biografie intellettuali

Sylvia Yanagisako insegna antropologia alla Stanford University dal 1975. Ha


svolto ricerche tra gli indiani americani e i giapponesi americani nello Stato di
Washington, e tra le famiglie di imprenditori italiani, a Como. Il suo Transforming
248 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

the Past: Kinship and Tradition among Japanese Americans offre una prospettiva
teorica in seno alla quale analizzare la conoscenza degli specifici processi storici
con i quali le persone interpretano e trasformano le relazioni di parentela. Con Ja-
ne Collier, oltre a scrivere il saggio teorico che appare nel presente volume, è stata
coautrice della raccolta di saggi Gender and Kinship: Essays toward a Unified
Analysis.

I primi influssi intellettuali mi giungono da prima della seconda guerra mon-


diale, quando alle Hawaii era in corso la politica delle piantagioni, e dalle trasfor-
mazioni subite da questa politica nel dopoguerra. Sono cresciuta alle Hawaii,
quando una società basata sull’economia delle piantagioni e dominata da un’oli-
garchia terriera bianca stava per essere rimpiazzata da un’economia militare e turi-
stica, controllata da una coalizione di interessi maggiormente diversificata dal pun-
to di vista etnico. La storia della mia famiglia, fatta di lavoro nelle piantagioni e di
piccola imprenditoria, mi ha reso da sempre diffidente nei confronti del mito del-
l’esistenza del Bene sociale assoluto. Allo stesso tempo, a Honolulu, il gruppo dei
miei compagni di scuola, eterogeneo dal punto di vista etnico e razziale, mi ha in-
segnato il carattere fluido e negoziale dell’identità etnica e delle pratiche culturali,
sebbene all’interno di una struttura politica ed economica fondata sulla disegua-
glianza.
Il primo maestro che esercitò su di me un grande influsso intellettuale è stato
Setsu Okubo, alla Roosevelt High School di Honolulu, che trasformò un comune
corso di educazione civica in una critica serrata degli interessi militari e industriali
nordamericani. Nel contesto dei problemi degli Stati Uniti dei primi anni Sessanta
– la guerra fredda, la crisi dei missili a Cuba, il movimento per i diritti civili dei ne-
ri americani e la guerra alla povertà – finii per contestare l’ideologia di quanti soste-
nevano di governare nell’interesse di tutti.
Prima e durante la mia carriera universitaria all’University of Boston, nel corso
degli anni Sessanta, più che dai professori, la mia prospettiva intellettuale venne in-
fluenzata dal dialogo nazionale e internazionale suscitato sia dal movimento pacifi-
sta contro la guerra in Vietnam e dalla rivolta culturale giovanile, sia dai movimenti
per i diritti civili dei neri e del Black Power che fornirono ai primi gran parte dell’i-
spirazione, dell’analisi politica e delle tattiche d’azione. Il fiorire di pubblicazioni
underground e di altri luoghi in cui sviluppare una critica politica e culturale mi ha
fatto conoscere teorie e concetti alternativi al modello struttural-funzionalista e dur-
kheimiano di società, allora dominante nell’antropologia americana.
Dopo la tesi di master sui problemi educativi dei bambini indiani nei sistemi
scolastici pubblici controllati dai bianchi, che fece diminuire il mio interesse per
l’antropologia, abbandonai la scuola di specializzazione per organizzare con degli
amici una comune alle Hawaii. Questo esperimento mi insegnò molto a proposito
della diffusione delle diseguaglianze di genere, compresa la mia stessa interioriz-
zazione delle ideologie del genere e del potere. Sebbene fossi in qualche modo
isolata dagli sviluppi che avvenivano attorno alla comunità, mi resi subito conto
che la mia esperienza personale era simile a quella della seconda ondata del fem-
minismo americano.
Quando tornai all’University of Washington, tre anni dopo, scoprii che la situa-
zione era molto cambiata. Il mio progetto di continuare la ricerca tra gli indiani
americani mi fu precluso dall’allora nascente movimento indigeno americano, con
la sua critica al ruolo degli antropologi nella dominazione culturale. Il mio advisor,
Laura Newell, un’antropologa fisica interessata a questioni demografiche legate ai
GENERE SESSUALE E PARENTELA 249

giapponesi americani, mi suggerì di studiare la loro parentela al fine di indagare le


forze culturali che ne plasmavano i processi demografici. Allo stesso tempo, un al-
tro advisor della facoltà, Michael Lieber, mi fece conoscere il volume di David
Scheider American Kinship: A Cultural Account. Il volume, oltre ai saggi di Schnei-
der, rappresentò una vera e propria sfida alla direzione che gli studi dei sistemi di
parentela, e la teoria antropologica, avevano preso nel secolo precedente. Sebbene
Schneider attingesse a una tradizione teorico-culturale che passa attraverso Max
Weber, Franz Boas, Ruth Benedict e Talcott Parsons, la sua trattazione delle conce-
zioni popolari e antropologiche della parentela biologica come sistema simbolico
denaturalizzò la parentela in un modo del tutto nuovo, aprendo così quelle nuove
prospettive di analisi che ancora oggi sono oggetto di indagine.
I miei primi anni come membro del dipartimento di antropologia alla Stanford
University (1975-1980), mi introdussero a un’ampia serie di teorie critiche della cul-
tura, delle quali non avevo avuto sino allora una conoscenza adeguata. Ho imparato
molto da Jane Collier, Bridget O’Laughlin, Michelle Rosaldo, Renato Rosaldo e, in
seguito, da Donald Donham, che mi hanno insegnato come l’analisi della cultura
possa diventare uno strumento più utile quando si volge alle questioni del potere e
della diseguaglianza. Nella seconda metà degli anni Ottanta, il seminario interdisci-
plinare organizzato dalla facoltà a Stanford sui cultural studies rappresentò un vero
e proprio rifugio intellettuale per me e per le mie ricerche di teoria culturale estese
anche ad altre discipline.
Negli anni Ottanta la mia prospettiva venne enormemente influenzata dai miei
studenti. Lisa Rofel, Anna Tsing e Kath Weston mi insegnarono, tra le altre cose,
a dubitare dei presupposti degli studi di parentela e della cultura fondati sull’al-
tro sesso, compresa buona parte della teoria femminista. Roger Rouse mi insegnò
a inserire le teorie antropologiche nell’ambito delle storie materiali, nazionali e
transnazionali, delle crisi politiche e dei movimenti culturali. Questa lezione si ri-
flette abbastanza naturalmente nel modo in cui ho scritto questa biografia intel-
lettuale.
Al momento, sto lavorando a una monografia sulle trasformazioni del genere,
della famiglia e dell’industria nelle grandi aziende familiari della seta del Nord
Italia. Nel tentativo di concentrarmi sui modi in cui le trasformazioni dei concetti
relativi al genere hanno plasmato le trasformazioni delle aziende industriali nella
società capitalistica, il mio studio estende l’analisi femminista al di là del suo con-
venzionale ambito di studio delle donne e delle istituzioni “femminili” create al
centro di una sfera presumibilmente “maschile” della struttura e dell’economia
industriale.

Jane F. Collier insegna antropologia alla Stanford University, in California, dal


1972. Ha svolto ricerche sul campo tra gli indiani maya di Zinacantan, nel Chia-
pas messicano e tra i contadini andalusi diventati lavoratori giornalieri nelle città
della Spagna. Tra suoi lavori editi: Law and Social Change in Zinacantan (1973) e
Marriage and Inequality in Classless Societies (1988) oltre ai due volumi di cui è
stata co-curatrice, Gender and Kinship: Essays toward a Unified Analysis, con
Sylvia J. Yanagisako (1987) e History and Power in the Study of Law, con June
Starr (1989). Si interessa allo studio dei sistemi di diseguaglianza sociale. I suoi la-
vori si incentrano sui modi in cui le norme giuridiche e quelle tradizionali orga-
nizzano la distribuzione ineguale della ricchezza, del potere e del prestigio, gene-
rando in tal modo differenze di classe, genere, etnia e razza.
250 SYLVIA YANAGISAKO, JANE COLLIER

Sono diventata antropologa perché, quando studiavo a Radcliffe, ho avuto l’op-


portunità di partecipare a un seminario estivo di lavoro sul campo nel Messico me-
ridionale, organizzato da Evon Z. Vogt di Harvard. Le famiglie zinacanteche che mi
ospitarono nel 1960, soprattutto la famiglia Vaskis di Navenchauk, mi trasformaro-
no da aspirante archeologa ad aspirante antropologa sociale. Sebbene non mi sia
mai perfezionata nell’arte del tessere e del cucinare tortillas, che pure cercarono di
insegnarmi, mi resi conto che, sulla cultura maya, volevo saperne di più. Tornai a
Zinacantan l’estate successiva per studiare gli stili di corteggiamento, e scrissi così la
mia tesi di laurea sotto la supervisione di Vogt.
Fu un privilegio partecipare all’Harvard Chiapas Project. Evon e Nan Vogt erano
delle vere autorità e crearono un ambiente intellettuale e sociale che promuoveva l’ap-
prendimento e la cooperazione. Vogt rendeva partecipi i propri studenti della sua im-
mensa conoscenza della religione zinacanteca, incoraggiando al contempo ognuno di
loro a sviluppare un progetto individuale, mentre Nan ci insegnò a lavorare assieme.
Condividendo esperienze e appunti presi sul campo con gli altri membri del
progetto, soprattutto con mio marito George Collier, con Frank e Francesca Can-
cian, Robert e Miriam Laughlin, John Haviland, Leslie Deveraux, Victoria Bricker e
Stuart e Phyllis Plattner, imparai che la conoscenza e la comprensione aumentano
quando sono il risultato di una creazione reciproca.
Il mio interesse attuale per la diseguaglianza giuridica e sociale può esser ricon-
dotto ai miei studi sui valori culturali ad Harvard, e alla mia successiva adesione al
movimento femminista. Sebbene non abbia mai partecipato a un corso tenuto da
Clyde Kluckhohn, tutti i miei docenti sono stati suoi studenti. Vogt, il mio advisor e
responsabile del corso di laurea durante i cinque anni di interruzione per maternità,
mi incoraggiò a continuare a lavorare a Zinacantan. Quando decisi di concentrarmi
sul diritto consuetudinario, Vogt mi presentò a Laura Nader di Berkeley che, per
corrispondenza e in seguito di persona, mi insegnò come raccogliere e analizzare i
materiali etnografici. Il suo articolo e il suo documentario sui giudici zapotechi mi
suggerirono la ricerca di una norma comparabile, alla base delle loro norme giuridi-
che. B. N. Colby, che mi affidò l’incarico part time dello studio interculturale dei
valori secondo lo schema classificatorio di Kluckhohn, mi insegnò a estrarre le nor-
me dalle etnografie. Il mio advisor durante i miei studi alla Tulane, Munro Edmon-
son, mi aiutò ad apprezzare le complesse, e spesso contraddittorie, concezioni rac-
chiuse nelle culture maya e ispanica.
Mi interessai al ruolo che i processi sociali avevano nel creare e perpetuare i va-
lori sociali, dopo la lettura di Models of Social Organization di Frederik Barth, che
mi convinse a concentrarmi, nella stesura della mia tesi, sul diritto consuetudinario
zinacanteco e sulle strategie dei contendenti piuttosto che sulle decisioni dei giudi-
ci. Successivamente, a Stanford, Katherine Verdery mi fece leggere il saggio di
Ralph Dahrendorf sulle origini delle diseguaglianze tra gli uomini, e m’indusse a in-
dagare sul modo in cui le norme giuridiche creano e perpetuano la distribuzione
ineguale del prestigio, del potere e dei privilegi.
M. Bridget O’Laughlin mi introdusse al marxismo, una tradizione intellettuale si-
no allora palesemente assente dalla mia formazione. L’entusiasmo con cui discutevo
delle opere di Marx e dei suoi seguaci francesi del ventesimo secolo con Bridget, Do-
nald Donham, Michelle (Shelly) e Renato Rosaldo e George Collier, mi indusse a
sperimentare lo sviluppo di modelli idealtipici in grado di connettere il ruolo del po-
tere nella produzione della conoscenza, al ruolo della conoscenza e della sua assenza,
nella distribuzione del potere. Il mio Marriage and Inequality in Classless Societies del
1988 propone modelli per l’analisi di gruppi in cui l’età e il genere organizzano gli
GENERE SESSUALE E PARENTELA 251

obblighi, e il mio attuale studio sui contadini andalusi diventati lavoratori salariati
mostra come gli effetti del sostituirsi del lavoro salariato alla coltivazione della terra
ereditata costituiscano la causa determinante della loro condizione sociale.
Se il marxismo mi offrì gli strumenti concettuali per studiare i rapporti tra valo-
ri e diseguaglianza, il femminismo mi diede la spinta per farlo. La mia crescente
consapevolezza dell’asimmetria del genere stimolò lo studio dei modi in cui i con-
cetti culturali di femminilità e mascolinità erano creati e perpetuati. Nel 1971, con
Shelly Rosaldo, entrambe mogli di antropologi, partecipammo a un collettivo di sei
donne allo scopo di sviluppare il primo corso di antropologia di Stanford sul tema
“le donne in prospettiva interculturale”.
L’anno seguente Benjamin Paul, capo del dipartimento, ottenne fondi sufficienti
per assumerci entrambe come assistenti a tempo parziale. Io e Shelly continuammo
a tenere insieme il corso sulle donne, cambiandone il nome e il contenuto, quando i
nostri interessi si spostarono dallo studio delle donne all’analisi della costruzione
sociale delle differenze di genere. Mentre Shelly scriveva il suo Knowledge and Pas-
sion sui concetti del sé e della società tra gli ilongot, e mentre io svolgevo ricerche
sulle correlazioni interculturali tra procedure giuridiche e forme di organizzazione
politica, sviluppammo delle idee per la creazione di un modello idealtipico in grado
di collegare le concezioni culturali del genere a quelle che definimmo “società del
servizio della sposa”. La morte di Shelly nel 1981 lasciò un vuoto enorme nella mia
vita e nel Dipartimento di Antropologia di Stanford. Il suo influsso tuttavia conti-
nua a essere presente: con Sylvia Yanagysako organizzai la conferenza sul genere e
parentela che noi tre avevamo progettato, e il nostro saggio in questo volume svi-
luppa idee che abbiamo tutte condiviso.
Le relazioni tra parti e totalità: un approccio alternativo*
Marilyn Strathern

Costrutti olistici e costrutti disgreganti della società


De Coppet (1985, p. 78, corsivo nell’originale) ha avanzato un pressante invito a
studiare le società come totalità: “la comparazione è possibile soltanto se analizzia-
Lo studio delle mo i modi diversi nei quali le società ordinano i loro valori fondamentali. In questo
società olistiche tentativo, ogni società viene studiata non come un oggetto disgregato dalle nostre
categorie, ma come un tutto”. L’obiettivo è quindi quello di comparare “le società
per se stesse” e non i loro sottosistemi, una concezione olistica adeguata a “società
olistiche”.
Concordo con de Coppet. Ritengo però necessario riflettere sul fatto che ogni
concettualizzazione è inevitabilmente una riconcettualizzazione. La società che noi
concepiamo per gli ’are ’are (melanesiani delle Isole Salomone), è una trasformazio-
ne della società che concepiamo per noi stessi. De Coppet, per esempio, sostiene a
proposito degli ’are ’are che la loro società invece di attribuire il suo carattere di
permanenza agli individui che la compongono, lo costruisce dissolvendolo conti-
nuamente “nel processo rituale e nel processo di scambio dei principali elementi
che compongono ciascun individuo” (1981, p. 176).
Invece di decostruire sistemi olistici attraverso inadeguate categorie di analisi,
dovremmo, forse, tentare di comprendere in modo olistico come i nostri soggetti deco-
La Melanesia struiscono i propri costrutti. Almeno per la Melanesia, i costrutti disgregati o deco-
e i costrutti
decostruiti struiti riguardano forme di vita: persone, corpi e lo stesso processo riproduttivo.
L’etnografia melanesiana contemporanea, soprattutto quella delle coste della fa-
miglia linguistica austronesiana, sta sviluppando un proprio microvocabolario della
disgregazione, che descrive i processi di decostruzione degli elementi che compon-
gono le persone, in modo da permettere alle relazioni che esse mantengono di essere
reinvestite. Questo comprende sia le relazioni consolidate nel corso della vita che le
relazioni procreative (coniugali) che le hanno generate. Un mekeo del Nord viene
“de-concepito” prima al momento del matrimonio e poi alla morte (Mosko 1985); i
muyuw nelle Isole Woodlark “concludono” il matrimonio di un genitore quando il
figlio muore (Damon 1989); le feste dei morti dei barok “risolvono” tutte le relazioni
precedenti attraverso l’uccisione finale del morto (Wagner 1986), processo che per i
sabarl rappresenta una “scomposizione” (Battaglia 1990) e tra i gawa una “rottura”
o una “dissoluzione” dei vincoli sociali (Munn 1986). Tutto ciò ci ricorda l’interes-
sante descrizione fornita da Bloch (1986) di altre località di lingua austronesiana, a
proposito di una vera e propria “ricomposizione” dei morti nelle loro tombe. Tutta-
via, se le relazioni che riproducono le persone devono, a volte, essere dissolte alla lo-
ro morte, altri melanesiani considerano la nascita come il principale atto di sostitu-
zione, per mezzo del quale nuove relazioni rimpiazzano le precedenti (Gillison
1991). In realtà, tutto il sapere rivelatorio può essere considerato come una scompo-
sizione (Strathern 1988).
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 253

Questi rovesciamenti delle tradizionali metafore antropologiche della struttura e Il postmoderno e


il rovesciamento
del sistema, sono presenti anche nel postmodernismo. Tuttavia, come osserva Batta- del sistema
glia (1990, p. 218, n. 49), è necessario che il postmodernismo inteso come “movi-
mento radicato nel problema eminentemente storico degli effetti alienanti e disgre-
ganti delle influenze socioeconomiche e politiche occidentali sulle altre culture” sia
ben distinto dalle prospettive di analisi (ermeneutica, decostruttivista) che hanno
come obiettivo il “rispetto per il modo in cui gli indigeni concepiscono la riprodu-
zione culturale del sapere e che sono esse stesse prospettiviste”. Bisogna quindi esse-
re creativi quanto cauti nell’associare la frammentazione culturale percepita in ge-
nerale nel mondo, specifiche tattiche di analisi – per es. la decostruzione – e la sco-
perta di relazioni concettualizzate dal sapere indigeno attraverso le metafore della
disgregazione. La distruzione
Quello che rende arduo il tentativo di approccio olistico dell’antropologia nel della società
tardo ventesimo secolo è proprio la demolizione, da parte occidentale, di quella ca-
tegoria che una volta veicolava il concetto di entità olistica, e cioè la “società”. La
società era un veicolo per un tipo occidentale di olismo, un concetto totalizzante at-
traverso il quale i moderni erano in grado di pensare gli olismi degli altri1.
Questo saggio è un tentativo di ripensare le diverse concettualizzazioni di certe
relazioni nel nostro recente passato. Le relazioni in questione appartengono a una
sfera di ricerca antropologica, apparentemente limitata, che riguarda quei sistemi di
parentela melanesiani conosciuti come cognatici. Questo perché, nonostante la scar-
sa importanza rivestita dalla parentela nella società occidentale o euro-americana,
anche i sistemi euro-americani sono considerati di tipo cognatico. E credo che la
nostra incapacità di riflettere sulle peculiarità del “nostro” sistema di parentela, sia
tutt’uno con l’incapacità di riflettere sui processi simbolici nel pensiero antropolo-
gico. Sono questi processi che hanno creato, nel corso dell’ultimo secolo, il concet-
to di società per poi dissolverlo di fronte ai nostri occhi.

La scomparsa della società garia


Per iniziare, affrontiamo la rinascita di un paradigma modernista. L’antropolo-
gia sociale britannica di metà secolo vide, secondo Kuper, una fenice risorgere dalle
sue ceneri. Spuntarono (1988, p. 204) ovunque, riconcettualizzati, i sistemi segmen-
tari di lignaggio che, tra l’altro, permettevano una solida equazione tra società e
gruppi.

Quando finalmente Lawrence pubblicò il suo resoconto sui garia, fece scrivere, Concettualizzare
coraggiosamente, la prefazione a Fortes, il quale si limitò a dire che il concetto garia una società non
composta da
di “pensare ai parenti” aveva ispirato la sua formulazione dell’amicizia parentale. gruppi
La verità è che, nel 1950, la descrizione fatta da Lawrence di questi melanesiani fu
uno scandalo. Rievocando quei tempi, Fortes (1984, IX) puntualizza:
Fortes e la
Quando, appena tornato dal campo, Peter Lawrence mi descrisse con entusiasmo l’orga- parentela dei
nizzazione sociale dei Garia, la mia prima reazione fu, a dir poco, prudente. Quello che in Garia
seguito venne definito il modello africano di gruppo di discendenza segmentaria rappre-
sentava ancora una novità e, per molti di noi, piena di promesse. Melanesia voleva dire so-
prattutto Trobriand, Dobu, Manus, Isole Salomone: ovunque spuntavano gruppi di di-
scendenza simili a quelli del modello africano. I Garia erano però significativamente diffe-
renti… Sembrava avessero una struttura senza confini: nessun confine genealogico separa- Una struttura
va un gruppo di persone da un altro… nessun confine geografico isolava i villaggi… nes- senza confini
sun confine politico con i popoli vicini, nessuna associazione rituale riservata o accesso
esclusivo a risorse economiche; in breve, una società che non sembrava fondata sui grup-
254 MARILYN STRATHERN

pi di discendenza unilineare ma su estese relazioni di parentela cognatica… Questa fluidi-


tà della struttura sollevava un problema: come garantire continuità o coesione sociale?

L’unica base visibile per le relazioni umane sembrava risiedere nel modo in cui
l’individuo veniva concepito, al centro di un flusso di vincoli che si irradiavano for-
mando un cerchio di sicurezza.

L’essenza della loro organizzazione sociale… è costituita dal diritto dell’individuo di as-
sociarsi… liberamente… con i parenti di uno dei due genitori… E qui scatta il problema
principale che, come Radcliffe-Brown… puntualizza, riguarda tutti i sistemi di organizza-
La fluidità
dell’organizzazione zione sociale di questo tipo: come contrastare, frenare, l’estendersi dei legami di parente-
sociale dei garia la verso aree sempre più distanti di cuginanza (1984, p. X).

L’organizzazione sociale dei garia era lì, ma dov’era la società garia?


Lawrence si opponeva alle immagini cartografiche della struttura sociale usate a
quel tempo, che insistevano su una qualche limitazione alla divisione degli interessi.
Il concetto di parentela cognatica rendeva invece evidente come fossero le richieste
sovrapposte di flebili accorpamenti parentali a creare le divisioni sociali. L’ordine
sociale veniva così percepito come una pluralità di interessi esterni; la coesione era
rintracciabile nel cerchio di sicurezza, che rendeva almeno possibile rappresentare,
sotto forma di diagrammi, il parentado ego-centrato (1984, figg. 7, 9). Eppure, la ri-
levanza di queste relazioni per l’individuo fu sottolineata da Lawrence con sorpren-
dente disinvoltura: sono semplicemente quegli individui… con i quali ego mantiene
relazioni sicure (1971, p. 76).
Due furono i problemi che i garia posero nel 1950. Il primo: come concettua-
lizzare una società non composta da gruppi. Il secondo: come inquadrare le rela-
zioni delle parti con la totalità. Se i gruppi sono il tramite con cui le società si pre-
sentano ai loro membri, allora, se non appartiene a un gruppo, di cosa è parte una
persona?

La relazione tra persona e gruppo nell’antropologia britannica degli anni Cinquanta


Per l’antropologia britannica il problema fu sollevato da Radcliffe-Brown: “sol-
Radcliffe-Brown: tanto un sistema2 unilineare consente di dividere la società in gruppi parentali di-
l’importanza stinti e organizzati” (1950, p. 82). I gruppi parentali più estesi, come i clan, “erano
dell’unilinearità e
della struttura
composti da” gruppi più piccoli, i lignaggi (1952a, p. 88), e questi da “persone”, co-
sì che “il principio dell’unità del gruppo di discendenza” forniva un tipo di relazio-
ne che univa “un certo individuo e tutti i membri del gruppo di discendenza” (p.
104). Gli individui potevano inoltre essere considerati uniti in una rete di relazioni
di parentela, “parte di quella trama di rapporti sociali che io definisco struttura so-
ciale” (p. 72). Dimostrando la struttura si poté affermare che tra “le diverse compo-
nenti di un particolare sistema di parentela esiste un complesso rapporto di interdi-
pendenza” che rende ipotizzabile “un insieme complesso, un tutto organizzato” (p.
73). Radcliffe-Brown poteva quindi sostenere la possibilità di comparare interi si-
stemi, evidenziati attraverso le varie strutture di parentela analoghe a quelle presen-
ti nei gruppi di lignaggio. La totalità era conosciuta attraverso la sua coerenza inter-
na, cioè, attraverso la sua chiusura.
Sistema, struttura, gruppo: questi termini sono distinti e non equivalgono al ter-
mine società ma, come serie di categorie comprensive e organizzative, ognuna forni-
va una prospettiva per poter immaginare l’intera entità. Il riconoscimento dei grup-
pi “per mezzo delle società”, fu in seguito sancito dalla concezione che i singoli in-
dividui, diventando parte di un gruppo, diventavano anche parte della società. La
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 255

teoria dei gruppi di discendenza si concentrava essenzialmente sul ruolo di media- Fortes: il
rapporto fra
zione, svolto dai lignaggi e da altri gruppi corporativi, nella determinazione dell’età società e gruppi
adulta sociale considerata equivalente all’appartenenza al gruppo. In un volo di fan- domestici
tasia, Fortes paragonò questo processo alla crescita del bambino, da neonato all’età
adulta: cioè la maturazione dell’individuo era di fondamentale interesse per la so-
cietà in generale. Di conseguenza, il gruppo domestico, “una volta nutrito, allevato
ed educato il bambino, affida il prodotto finale all’intera società” (1958, p. 10). Co-
me una totalità preesistente, la società assimila gli individui alle sue parti separan-
doli da altre sfere preesistenti. “L’intera società”, quindi, “si contrappone alla “cul-
tura privata di ciascun gruppo domestico” (1958, p. 12).
In questa concezione, da un lato gli individui venivano trasformati in membri
dei gruppi o dell’intera società, dall’altro venivano considerati dotati naturalmente
di identità preesistenti, derivate sia dalla natura biologica o psicologica che dalla
Il contrasto fra
sfera domestica. Dal momento che la sfera domestica e quella politico-giuridica ve- individuo come
nivano concettualizzate in modo da dividere la vita sociale in componenti irriduci- singolo e come
bili l’una all’altra, ognuna forniva una prospettiva differente sulla vita sociale e, parte della società
quando queste si fondevano nei singoli individui [“ogni membro di una società è
contemporaneamente una persona nella sfera domestica e in quella politico-giuridi-
ca” (Fortes 1958, p. 12)], rappresentavano campi di relazioni piuttosto differenti.
Quindi la società appariva insieme includere ed escludere la sfera domestica. Ciò
che rendeva un individuo membro della società, per le sue relazioni politico-giuridi-
che, era altro da ciò che lo rendeva membro del gruppo domestico da cui proveniva
“la nuova recluta”.
In breve, ciò che dava rappresentatività alla parte (“l’individuo”) come persona
intera, differiva da ciò che rendeva la persona parte dell’intera società. Il problema
dei garia può essere così riformulato: a differenza di ciò che rendeva un individuo
garia una persona, negli anni Cinquanta sembrava impossibile riuscire a compren-
dere che cosa rendeva un individuo garia un membro della società.

Lo scambio di prospettive
La ricerca dei gruppi attraverso i quali poter stabilire l’appartenenza risultò fati-
cosa. Tuttavia, supponiamo che i garia concepiscano proprio la persona come mo-
dello di relazioni. Invece di cercare i gruppi di appartenenza di un individuo, sareb- La persona
be forse più opportuno considerare quale modello di relazioni l’individuo racchiu- come modello
da. Inoltre, se la società garia fosse modellata dall’unità che identifica il singolo es- di relazioni
sere umano, una persona non potrebbe, in un certo senso, far parte di nient’altro.
Una moltitudine di persone rappresenterebbe cioè, semplicemente, la sua immagi-
ne ingrandita.
Lawrence prestò poca attenzione alle relazioni giuridiche e alla coesione socia-
le e accentuò, invece, il pragmatismo e la ricerca del tornaconto personale dei ga-
ria: “le affermazioni di obblighi morali… rappresentano solo scorciatoie per con- Dai gruppi alle
siderazioni di interdipendenza o di reciproco tornaconto e sopravvivenza sociale” relazioni
(1969, p. 29). L’accordo sociale, dichiarò allarmato, rappresenta un semplice pro-
dotto secondario. Il valore di una relazione, nei termini del vantaggio pratico e
materiale che essa conferisce, dipende dalla valutazione dell’individuo, quindi,
anche quando le aspettative sono elevate, come tra parenti stretti, ogni obbligo
morale deve essere costruito. Quindi l’obbligo morale viene limitato alla cerchia
dei vincoli sociali effettivi.
Se nella concezione dei garia tutte le relazioni dipendono, per la loro definizio-
ne, dalla persona, allora la persona contiene in sé la consapevolezza delle relazioni
256 MARILYN STRATHERN

La “persona” che intrattiene con l’esterno. Se esse preesistono alla persona, esse vanno intese co-
garia come
corpo composito
me differenze interne al suo corpo composito. Credo che questa sia una buona raf-
figurazione del parentado cognatico o “gruppo” presso i garia.

In che modo possiamo prendere in considerazione la ricorrente divisione inter-


na delle persone, compresi i parentadi cognatici, in elementi maschili e femminili?
La divisione delle Credo che le differenze tra le formulazioni dei garia e quelle dei raggruppamenti fa-
persone in
elementi maschili miliari dei cosiddetti sistemi lineari dei loro vicini dipendano da una modalità tem-
e femminili porale. Ciò che è in questione è l’immagine del genere come elemento di separazio-
ne, finalizzato alla creazione di una futura immagine unitaria.
Il momento in cui le persone (o i “gruppi”) appaiono composti di elementi ma-
L’immagine del
schili e femminili, e quello in cui un unico genere è reso definitivo rappresentano
genere fra momenti temporali diversi nella riproduzione delle relazioni che assumono una
separazione e unità stessa forma, immaginata in tutta la Melanesia. L’unità emerge non appena la dop-
pia identità del genere viene sostituita da un’unica identità. Il processo comporta
un’oscillazione tra la concezione di una persona come androgina e la concezione di
una persona come appartenente a un sesso determinato. Le persone di un sesso
specifico sono presentate attraverso i corpi degli uomini e delle donne, oppure me-
diante i beni mobili maschili o femminili scambiati tra di loro. La scomposizione
della persona come aggregato composito, perciò, rivela le relazioni, al tempo stesso
interne ed esterne, di cui lui o lei sono composti.
Un melanesiano, sia androgino o di sesso definito, non costituisce un tipo di rap-
L’individuo e il
gruppo
presentante corporativo3, e il singolo individuo non viene concettualizzato come un
corporativo gruppo che mantiene delle relazioni con l’esterno. Le matrilineari Trobriand, che
Fortes citava non a caso come prova del gruppo di discendenza, ne sono un esem-
pio.
Per tutta la durata della loro vita, i trobriandesi attivano determinate relazioni
che rendono ogni persona vivente un misto di relazioni parentali materne e pater-
ne. La persona può essere raffigurata metaforicamente come una canoa che con-
tiene legami parentali materni, e che è decorata all’esterno dalle sue relazioni con
gli altri, specialmente dalle relazioni che passano attraverso gli uomini. L’intero si-
stema di scambio kula, infatti, rappresenta una sorta di ornamento della matrili-
nearità. Alla morte, la persona viene divisa e, come ha dimostrato Annette Weiner
(1976, 1979, 1983), il gruppo di discendenza raggiunge una forma unitaria come
raccolta di spiriti ancestrali in attesa di rinascere. Questo è il momento in cui esso
appare come entità di sesso specifico, come nelle metafore della terra o del san-
La morte gue che incarnano il corpo vivente. Quando somiglia all’individuo vivente, co-
dell’individuo
come morte delle munque, il gruppo di discendenza appare nella forma delle sue numerose esten-
relazioni sioni e relazioni con gli altri: la terra attira a sé i figli perché restino, e il feto viene
nutrito dal padre.
Se sono le relazioni a mantenere in vita una persona, allora, ciò che si estingue alla
sua morte sono le relazioni che il deceduto incarnava. Una funzione importante delle
cerimonie funerarie dei massim, infatti, è la spoliazione del deceduto dai vincoli socia-
li: l’entità permanente viene depersonalizzata. Le relazioni create in vita vengono
quindi rimodellate, dal momento che il vivente non è più in grado di incorporarle. In
alcuni casi (vedi, per es., Mosko 1989; Battaglia 1990), è come se la gente dovesse ri-
comporre il mondo così come era prima che l’individuo venisse alla luce. L’entità co-
gnatica costruita nel corso di una vita viene perciò suddivisa al momento della morte.
Quelli che sono stati classificati dagli antropologi come principi differenti del-
l’organizzazione della società melanesiana, possono essere intesi anche come conse-
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 257

guenze di modalità di ordine temporale e spaziale. Varia la forma di disgregazione, Il “prospettivismo”


dei melanesiani
ma l’“organizzazione sociale”, cioè la persona, viene costruita ovunque in modo si-
mile. Per comprenderlo bisogna capire la natura del “prospettivismo” dei melane-
siani, dal momento che vivono in un mondo in cui le prospettive assumono la for-
ma peculiare delle analogie. E in tal modo le prospettive possono essere scambiate
l’una con l’altra.

Le relazioni si manifestano in tempi e in luoghi diversi. È qui che la prospettiva L’importanza


diventa importante. Un membro maschile di un matrilignaggio è allo stesso tempo della prospettiva
uguale e diverso da un membro femminile, una comunità di uomini che fa “nascere”
un iniziato è insieme uguale e diversa da una donna che partorisce da sola, l’igname
che gonfia il ventre sociale nel giardino del fratello trobriandese è allo stesso tempo
uguale e diverso dall’igname con cui un padre nutre i suoi figli. La diversificazione
delle forme in cui si esprimono le persone e le relazioni è costante. Ognuno può tra-
sformarsi nell’altro: mia sorella è tua moglie. Sono slittamenti di prospettiva tra le
posizioni occupate dalle persone: il donatore si fa ricevente, i beni paterni della figlia La diversificazione
diventano i beni materni della madre. La prospettiva temporale è evidente, per delle forme di
esempio, nei gruppi clanici patrilineari degli altipiani della Nuova Guinea. I gruppi relazione
vivono per l’azione, per ribadire nello spazio l’unità del clan, la casa degli uomini, i
confini del territorio, finché il clan agirà unitariamente. Un unico corpo, un unico
genere: il clan detta o ristruttura l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti.
L’individuo “cognatico”, androgino, viene depluralizzato, disgregato, per dar vi-
ta a una persona di discendenza “unilineare”, di un sesso specifico. Le eterogenee
relazioni interne vengono, quindi, rovesciate e appaiono al soggetto attivo del clan
come la rete di relazioni di affinità e consanguineità esterne che può concentrare su
se stesso.
Le forme melanesiane non offrono le basi per concepire universi conoscitivi radi-
calmente diversi, ma danno vita a prospettive analoghe, (potenziali) trasformazioni
l’una dell’altra, perché consentono alle persone un reciproco scambio di prospettiva.
Il mio centro non è il tuo centro ma tua/o sorella/fratello (la tua ricchezza) che hai
perso, può essere incorporata/o come madre/padre dei miei figli (i miei mezzi di ri-
produzione). Manca del tutto lo slittamento di prospettiva necessario a percepire un
individuo come entità costituita in modo diverso dalle relazioni delle quali fa parte.
Dal modo in cui i melanesiani si rappresentano la loro vita sociale, non sembre-
rebbero esistere principi di organizzazione non rintracciabili anche nella stessa co-
stituzione di una persona. Le relazioni esterne hanno lo stesso effetto di quelle in- Persona e relazioni
terne. Immaginare la persona in questo modo significa che, per “osservare” le rela- interne ed esterne
zioni sociali, non sono necessari slittamenti di prospettiva tra persona e relazioni.
Lo scambio delle prospettive differenzia solo una serie di relazioni dall’altra, come
un tipo di persona da un altro.

Parentela cognatica?
Resuscitare la teoria inglese del gruppo di discendenza degli anni Cinquanta può
sembrare curioso. È tuttavia necessario, per sottolineare che il suo nucleo era costi-
tuito da un importante meccanismo simbolico. La natura del dibattito nato sui siste-
mi di parentela non unilineari, rivela a posteriori il carattere di un sistema di paren- La parentela inglese:
tela “indigeno” euro-americano, più nel modo di concettualizzare la parentela rispet- la persona è meno
to alla società, che nella classificazione delle relazioni che intendeva offrire. L’esem- importante della
totalità
pio che utilizzerò, è quello della parentela inglese rispetto al quale utilizzo una pro-
spettiva emica.
258 MARILYN STRATHERN

La questione è semplice. Considerata come un individuo, la persona inglese era


decisamente incompleta (secondo Carrier s.d.). Sembrava che nella vita sociale esi-
stesse “sempre qualcosa di più” di una persona. Quando l’individuo veniva consi-
derato come un elemento isolato, le sue relazioni subentravano come altrettanti ele-
menti. La vita sociale veniva così vista come la partecipazione di una persona a una
pluralità. Risultato: un singolo individuo faceva sempre e solo parte di qualche ag-
gregato più vasto ed era, quindi, meno importante della totalità.
Laddove un prototipo di melanesiano avrebbe potuto elaborare concettualmen-
te la disgregazione della persona membro di una discendenza cognatica come un
La persona processo che rendeva incompleta un’entità altrimenti completa, il nostro prototipo
melanesiana come di inglese avrebbe ritenuto necessario per la persona – simbolizzata efficacemente
entità completa
dal bambino che deve essere socializzato – un completamento da parte della socie-
tà. Incentrandosi sul singolo individuo si disintegrò inevitabilmente questa catego-
ria più estesa, frammentando il “livello” dal quale era possibile osservare l’olismo.
Radcliffe-Brown sosteneva la necessità di comparare interi sistemi perché (da
questo punto di vista) solo i sistemi erano una totalità. Il paradosso inglese era che
l’olismo fosse un tratto di una sola parte, e non di tutta la vita sociale! Era, quindi,
una caratteristica più evidente da alcune prospettive (quelle sistemiche, per esem-
pio) che da altre.
Che gli inglesi immaginassero di vivere tra diversi ordini o livelli di fenomeni, in
un mondo incommensurabile di parti e totalità, determinò e fu al tempo stesso un
precipitato del loro modo di gestire la prospettiva. Un esempio di questo modo di
pensare è evidente nei dibattiti inglesi sulla parentela cognatica alla metà del secolo.
Come possono Si riteneva, allora, che i gruppi di discendenza unilineare potessero rivelare le ca-
coesistere sistemi
cognatici e gruppi?
ratteristiche di una vita sociale ordinata. In particolare, poteva essere dimostrata l’ap-
partenenza al gruppo; infatti, nell’organizzazione della parentela, molti popoli non
occidentali sembravano spiegare la struttura sociale come gli antropologi: classificava-
no, cioè, secondo le convenzioni della vita sociale. Il singolo individuo veniva consi-
derato all’interno di un ordine di natura sociale (discendenza e successione), la cui
Gruppo identità perdurava in modo evidente oltre la vita di ciascun membro della società. La
e persona giuridica “vita”, come tale, diventò presto un attributo di sistemi sociali astratti (Fortes 1958, p.
1). Secondo la prospettiva della discendenza, un gruppo poteva essere concettualizza-
to come una (singola) persona giuridica (Fortes 1969, p. 304). Tuttavia, come abbia-
mo visto, la stessa prospettiva affermava che ciò che rendeva gli individui membri di
un gruppo come totalità non era la stessa cosa che li rendeva persone unitarie.
Un importanza particolare sembravano rivestire quelle parti del sistema di pa-
rentela che regolavano la distribuzione delle risorse, la lealtà dei membri e la loro
stessa definizione di entità sociocentriche. Da qui il significato della distinzione tra
Discendenza vs “discendenza” e “parentela” e della distinzione tra quelle relazioni (politico-giuridi-
parentela che) che influivano sull’affiliazione ai gruppi e quelle che, invece, si concentravano
sull’ego come individuo, al punto che la prima serie di relazioni (ossia la discenden-
za) sembrava appartenere alla sfera del sociale, mentre la seconda (ossia la parente-
la), sembrava essere basata sui legami naturali. La sfera domestica fu quindi consi-
derata in relazione alla riproduzione, intesa come necessità biologica; esisteva una
logica interna al suo ciclo di sviluppo (Mosko 1989) e la rete di legami di parentela
che si concentrava sull’ego individuale, sembrava un terreno naturale per altre con-
venzioni di parentela. “Società” e “natura” tracciavano, in un certo senso, domini
diversi di relazioni sociali, essendo la prima, a differenza della seconda, modellata
in modo più evidente dalle convenzioni.
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 259

Infatti, le relazioni di consanguineità in sé rimandavano a un mero fatto di natu- La “naturalità”


delle relazioni
ra, un fenomeno universale dell’organizzazione umana. Sembrava non esistessero consanguinee
società che, rispetto alla parentela, non tenessero in considerazione al tempo stesso
la presenza di parenti materni e paterni: “la filiazione… è universalmente bilatera-
le” (Fortes 1953, p. 87). Il riconoscimento della consanguineità era irrilevante: va-
riava semmai il grado in cui le relazioni di parentela costituivano la base sociale del-
l’appartenenza al gruppo. L’antropologia sociale britannica cominciò ad interessar-
si, non solo ai diversi tipi di discendenza, ma anche al fatto se esistessero o meno
forme di discendenza.
È un vero peccato che il termine “cognatico” sia stato sottolineato con tanta en-
fasi in modo complementare ai termini unilineari “agnatico” o “uterino”. I legami
Fortes e i legami
cognatici, scrisse Fortes (1943-44, p. 49), sono “legami di consanguineità fisica rea- cognatici
le o presunta”. Per i tallensi, è nella famiglia domestica che è possibile osservare
“l’immagine più evidente dell’interazione tra parentela cognatica e legami agnatici.
Osserviamo infatti qui i vincoli elementari della parentela cognatica che legano il
genitore al figlio e i fratelli ai fratelli, e anche il vincolo agnatico che contraddistin-
gue i maschi come lignaggio nucleare” (p. 50).
La parentela cognatica emerse così come uno sfondo sul quale si manifestavano
le relazioni sociali basate sulla discendenza agnatica. La creazione di quest’ultima fi-
nì per somigliare alla creazione della società (che emerge dalla natura). Un processo
che potrebbe essere descritto così: 1) i gruppi di discendenza erano una raffigurazio-
ne esemplare della creazione della differenza sociale: entità sociocentriche delimitate
L’ambiguità del
che venivano ritagliate a partire dalle reti ramificate degli individui. La società si ma- termine
nifestava come differenziazione convenzionale. 2) Il campo dei legami cognatici di- “cognatico”
ventava quindi un insieme di consanguinei naturalmente indifferenzati: la materia
grezza della parentela. Nei sistemi dei gruppi di discendenza, i cognati non lineari
venivano riconosciuti attraverso la filiazione complementare o le residue rivendica-
zioni di legami sussidiari.
“Cognatico” è un termine infelice se non altro perché è rimasto in uso per un
secolo (Derek Freeman 1961), per designare tutti i molteplici sistemi in cui i gruppi
di discendenza unilineare sono assenti. I prototipi di questi sistemi erano sia quello
europeo che quello inglese. Senza il privilegio dell’unilinearità, ogni genitore aveva
lo stesso peso ed era allo stesso modo differenziato. Quello che risultò interessante
fu il tentativo degli antropologi di riscattare, in queste società, il significato sociale
dei vincoli di parentela.
Il problema riguardava la possibilità di mantenere in vita allo stesso tempo i sistemi
cognatici e i gruppi. Sembrava frequente il caso in cui il riconoscimento della parente-
la cognatica coesisteva con modalità di classificazione e delimitazione organizzate se-
condo criteri diversi dalla parentela come, ad esempio, la residenza (vedi Scheffler
1985). I sistemi cognatici finirono per assumere un duplice status teorico, marginale sia
in relazione ai sistemi unilineari, sia alla loro stessa organizzazione parentale intrinseca.
Quest’organizzazione infatti sembrava del tutto irrilevante, o assolutamente ovvia. Era-
no invece ben più interessanti quelle convenzioni non parentali (come appunto la resi-
denza) grazie alle quali i sistemi cognatici potevano ottenere quel grado di chiusura ne-
cessario se volevano essere, come si diceva allora, le fondamenta della società.
I sistemi di parentela che davano vita a gruppi non presentavano invece proble- Problemi dei
mi. Il problema dei sistemi cognatici era rappresentato dal fatto che la mappatura sistemi cognatici
della parentela cognatica non poteva né produrre gruppi in un senso forte, né, in
senso debole, dare un’impressione di convenzione o di società. In questo caso,
cioè in assenza di linearità, sembrava accadere l’inverso: 1) la parentela cognatica
260 MARILYN STRATHERN

rifletteva una differenza naturale nel riconoscimento bilaterale delle relazioni; 2) il


campo della parentela cognatica rimaneva, quindi, dal punto di vista sociale, indif-
ferenziato e i gruppi venivano, di conseguenza, ritagliati secondo criteri differenti,
non parentali.
La società, secondo l’analisi che ne facevano gli antropologi, doveva essere resa vi-
Parentela senza sibile nelle sue differenziazioni e categorizzazioni interne, – nei segmenti sociali cioè,
struttura?
che essa ritagliava dalla natura. Nel caso della cognazione, infatti, l’unica cosa osserva-
bile era l’eterno ricombinarsi di elementi emanati dagli individui e incentrati su di es-
si. Una proliferazione naturale, una rete infinita di legami: come dichiarò Fortes nei
suoi commenti sui garia, sembrava non esserci struttura in questo modo di concepire
la parentela. Visto come una sorta di criterio opposto all’olismo lineare, il funziona-
mento della parentela cognatica sembrava non far emergere un modello di totalità.

Relazioni tra parti e totalità: l’oscillazione tra due mondi totalizzanti


Se la “società” risultava più visibile nei gruppi ciò dipendeva dal fatto che an-
Il “livello”
organizzativo ch’essi raffiguravano in modo esemplare la classificazione e la convenzione. Si rite-
della società neva, infatti, che la società fosse inerente al “livello” dei principi organizzativi e non
al livello di ciò che veniva ordinato; erano livelli concepiti letteralmente come se ap-
partenessero a un ordine differente da quello delle persone, immaginate concreta-
mente come altrettanti individui.
Da qui nacque il problema centrale dell’antropologia di metà secolo: la relazio-
ne tra individuo e società. Ognuno dei due implicava una prospettiva irriducibile ri-
spetto all’altro: la conseguenza era il pluralismo. Pensare alla società piuttosto che
all’individuo non significava scambiare le prospettive, perché, in questo caso, non
esisteva reciprocità. Piuttosto, si trattava di oscillare tra due mondi totalizzanti. E in
questo caso, ciascuna prospettiva racchiudeva l’altra come “parte” di sé.
Società In questa illustrazione delle relazioni tra parti e tutto il tutto era composto da
e individuo come parti; eppure la logica della totalità non andava cercata in quella delle singole parti,
mondi totalizzanti ma nei principi organizzativi e nelle relazioni che si trovano al di là di esse. Percepi-
re la vita dalla prospettiva delle singole parti produceva così una dimensione diver-
sa da quella ottenuta dal punto di vista della totalità.
A seconda di quello che veniva considerato come tutto o come parte, esisteva
sempre la possibilità di generare nuove prospettive (totali) e nuove serie di elemen-
ti o componenti. Ciascuna parte era potenzialmente un tutto, ma solo se vista da al-
tre prospettive. Per cui una singola persona era un’entità potenzialmente olistica
ma, per gli antropologi, solo dal punto di vista di un’altra disciplina come la psico-
logia. Dalla prospettiva propriamente antropologica, il concetto di società stimolò
la visione più olistica.

La scomparsa della parentela inglese


La strategia simbolica centrale di questa teorizzazione della parentela era basata
sull’idea che le parti non possano essere definite per mezzo di ciò che definisce la
La teoria della
parentela come
totalità, una formulazione che riecheggia quella di David Schneider (1968) sulla pa-
riflesso del rentela americana. Ciò che fa di una persona un parente, dichiarò Schneider, non è
“modello inglese” ciò che fa di un parente una persona. I costrutti relativi alla parentela della metà del
ventesimo secolo dettero concretezza e certezza proprio a questo slittamento di
prospettive. Ritengo che il pensiero antropologico sulla parentela riflettesse quei
modelli popolari della “società più estesa” di cui la disciplina faceva parte.
Ora, anche se quello “inglese” è per me un modello esemplificativo, esplicativo
quindi del pensiero euro-americano sulla parentela, credo ci siano buone ragioni
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 261

per sostenere che la sua banalizzazione del ruolo della parentela nella vita sociale
sia una caratteristica che ben lo distingue dai modelli europei continentali o meri-
dionali (sebbene presenti delle affinità con certi aspetti della parentela “america-
na”). Questo modello risulta interessante nella misura in cui ha contribuito a for-
mare le teorie dell’antropologia britannica sulla parentela. Entrambi, modello po-
polare e modello antropologico, appartengono all’era culturale che definisco mo-
dernista o pluralista.
In breve, ci si deve chiedere perché un sistema di parentela di tipo inglese sia ri-
sultato, dal punto di vista teorico, così difficile da concettualizzare. In parte ciò è ac-
caduto perché è stato considerato come un sistema cognatico, risultando, quindi, co-
me abbiamo visto, di scarso interesse. Il suo modo di considerare la parentela è del
tutto non problematico, perché è auto-evidente e segue le distinzioni naturali, oppu-
La dimensione
re è completamente problematico proprio perché risolve ben poche delle questioni significativa della
che potremmo sollevare sulla vita sociale. Come modello, esso scompare nelle ricer- parentela inglese
che sulle comunità locali, sui modelli di appartenenza a classi o quelli di relazioni
amicali e di vicinato. Abbiamo l’impressione che la parentela nella società inglese ab-
bia una dimensione sociale significativa, nonostante il fatto che l’unica cosa osserva-
bile sia il numero delle visite effettuate dalle figlie ai genitori o i doni durante il pe-
riodo natalizio. Quello che “osserviamo”, tuttavia, è l’incompletezza della parentela
come strumento esplicativo. Se reintroduciamo le dimensioni di classe, reddito e vi-
cinato, la nostra comprensione di ciò che identifica la parentela svanisce di nuovo.

Che gli inglesi non riescano a definire con precisione il significato di società, L’incompletezza
quando riflettono sui propri sistemi di parentela, è una conseguenza del sistema come artefatto
del sistema
stesso, cioè del modo in cui gli inglesi fanno svanire la parentela. I parenti collatera-
li, naturalmente, durano per sempre, ma i legami si attenuano quasi subito (Firth,
Hubert, Forge 1969, pp. 170-171) non per ragioni che riguardano la natura delle
relazioni di parentela. Intervengono altri fattori; ecco il punto. La parentela sembra
un sistema non del tutto completo.
Da un punto di vista britannico, nonostante tutti i tentativi, come antropologi,
di osservare le nostre stesse convenzioni, riteniamo socialmente insignificante il mo-
do in cui gli inglesi rintracciano la parentela lungo le linee di consanguineità. La so-
cietà si trova “al di là” della parentela implicando un diverso ordine di fenomeni.
Supponiamo però che questo problema sia anche un fatto, che cioè questa in- Relazioni
completezza faccia parte dello stesso pensiero inglese sulla parentela. Invece di ten- parentali e
tare di specificare quale potrebbe essere la rilevanza sociale della parentela, do- modelli
di pluralità
vremmo prendere in considerazione quali modelli di pluralità siano espressi dalle
stesse formulazioni della parentela. Riformuliamo allora il modello in questione, e
ristabiliamo la prospettiva temporale dalla quale scrivo.
L’aspetto che ho definito modernista o pluralista di questo pensiero sulla paren-
tela, ha generato un’immagine della persona come individuo fatto della stessa mate-
ria fisica di cui sono fatti altri individui, ma riorganizzata in modo unico. In questo
senso, la persona rappresentava un individuo completo. Tuttavia, ciò che rendeva la
persona un individuo completo non era ciò che lo rendeva parte di una identità più
ampia: in relazione alla società, l’individuo era incompleto – da completarsi cioè
con la socializzazione, le relazioni e la convenzione. Il problema centrale dell’antro-
pologia britannica di metà secolo si identificava con le affermazioni essenziali relati-
ve alla parentela inglese del ventesimo secolo.
Queste affermazioni comprendevano sia il modo in cui gli antropologi rappre-
sentavano i loro mondi plurali e frammentati, sia il modo in cui rappresentavano
262 MARILYN STRATHERN

mondi totalizzanti e olistici. Nel momento in cui si passava dal considerare la perso-
na come individuo unico alle sue relazioni con gli altri si aggiungeva una dimensio-
ne di ordine differente. Ciascuna prospettiva poteva essere utilizzata con intenti to-
talizzanti, ma ogni prospettiva totalizzante era vulnerabile nei confronti di altre, che
rendevano incompleta la sua comprensione della realtà. Il singolo individuo era al
tempo stesso parte della società e parte della natura. La società veniva ritagliata dal-
Il rapporto la natura e insieme conteneva la natura in sé. Passare da una prospettiva all’altra vo-
parte-tutto tra leva dire passare da un ambito di spiegazione all’altro. Le parti non erano uguali
natura e società perché le prospettive non potevano combaciare: si sovrapponevano, e una totalità
era solo parte di un’altra. La convenzione sociale, allora, poteva essere vista come se
modificasse e al tempo stesso contenesse ciò che era dato naturalmente.
Queste prospettive moderniste avevano il loro effetto pluralizzante: quando le
prospettive non possono essere scambiate, una prospettiva può cogliere l’essenza di
un’altra solo contenendola come parte di se stessa. Di conseguenza, a loro volta, le
parti sembravano sempre ritagliate a partire da altre totalità più vaste.

Le visioni postplurali
Alcuni autori, in Occidente, sono convinti di vivere in un mondo che ha perdu-
La visione to ormai la prospettiva unificante del modernismo. Il che lascia irrisolto il problema
pluralizzata delle parti e delle totalità. Mi limito a dare un esempio americano.
di Clifford Sono rimasta colpita dalle metafore su cui si impernia I frutti puri impazziscono:
Etnografia, Letteratura ed Arte nel XX secolo di Clifford (1988), dal suo interesse per
la perdita delle radici che spiazza le persone e disperde le tradizioni. Questo senso
di perdita di autenticità, l’idea cioè che il mondo sia pieno di culture parziali modi-
ficate, non è del tutto nuova. La novità (secondo Clifford) è rappresentata dalla cor-
nice del tardo ventesimo secolo: “il mondo è sempre più connesso economicamente
e culturalmente. Il particolarismo locale non offre scampo da simili coinvolgimenti.
In effetti, le moderne storie etnografiche sono forse condannate a oscillare tra due
metanarrazioni: l’una di omologazione, l’altra di emergenza” (1988, p. 30). L’obiet-
tivo è come rispondere a una sovrapposizione di tradizioni senza precedenti.
L’etnografia intensiva dovrebbe, secondo Clifford, trasformarsi in un’etnografia
dei collegamenti che spazia tra le culture, una pratica cosmopolita che partecipa a
quelle ibridazioni che Clifford vede ovunque. Infatti, continua l’autore, le etnogra-
fie sono sempre state composte da ritagli, brani estrapolati dai contesti e resi uniti
dall’analisi e dalla narrazione. La novità è rappresentata dal modo in cui viene con-
siderata l’ibridazione. I testi che una volta celebravano l’integrazione dei costrutti
culturali sono stati rimpiazzati da un’esplicita attenzione nei confronti dell’unicità
dei frammenti. La creatività sta solo nella loro ricombinazione. Clifford la considera
La terapia della una salvezza, non solo per i testi ma per lo stesso concetto di cultura, perché le cul-
“re-invenzione ture sono sempre state degli ibridi, “le radici della tradizione [per sempre] recise e
della differenza”
riannodate” (1988, p. 28). Tradizione?
La speranza terapeutica dei suoi sforzi è rivolta alla “reinvenzione della differen-
za” (1988, p. 29). Gli elementi ritagliati da tempi e da luoghi diversi possono essere
ricombinati, anche se non possono adattarsi reciprocamente per formare una totali-
tà. Il problema di Clifford non è quello di una semplice molteplicità o del multicul-
turalismo del contatto, ma è la visione post-plurale di un mondo composito, che è
sempre il risultato di prestiti e scambi. Nella sua concezione, questa visione si op-
pone in modo significativo alla visione globale, ad esempio, di Tristi Tropici di Lévi-
Strauss (1955), carica della nostalgia tipica degli anni Cinquanta per le autentiche
differenze umane che scompaiono, in una cultura consumistica in continua espan-
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 263

sione. Invece di essere situata al termine delle molteplici storie del mondo, la narra-
zione europea di una progressiva monocultura si deve porre oltre la creolizzazione
della cultura stessa. Clifford evoca così i Caraibi: una storia di degradazione, imita-
zione, violenza, ma anche una storia di ribellione, sincretismo e creatività. In assen-
za della totalità, l’unica cosa da fare è ricombinare le parti.

Vediamo, allora come funzionano le metafore del lavoro di ritaglio e di ricombi- L’etnografia come
nazione, cosa accade nel momento in cui immaginiamo la visione del mondo post- collage: pensare
moderno di Clifford applicata al sistema di parentela di tipo inglese. la parentela
La critica di Clifford è volta a chi confondeva le collezioni di oggetti con la rap-
presentazione di una vita collettiva: non sono mai esistite grandi narrazioni indigene
autentiche, per le quali le narrazioni antropologiche rappresentassero un genere
adeguato. Colui che classifica le collezioni etnografiche inventa una relazione tra ar-
tefatto e cultura. Estrapolati dai loro contesti (vissuti), i manufatti vengono concepi-
ti per rappresentare degli insiemi astratti: una maschera bambara rappresenta la
cultura bambara. La creolizzazione, di contro, rende evidente l’incongruità, come
accade nelle etnografie che rendono visibili “i tagli e le suture del processo di ricer-
ca” (1988, p. 175). L’etnografia come “collage, sarebbe un assemblaggio contenente
voci altre da quelle dell’etnografo, nonché esempi di documentazione ‘trovata’, dati Il collage
etnografico
non pienamente integrati nell’interpretazione che governa l’opera” (1988, p. 176).
Piuttosto che registrare la creatività in quanto convenzione, la parentela “ridotta a
sistemi differenziali discreti” (1988, p. 277), l’etnografia deve rimanere aperta a se-
gnalare l’atto originale di combinazione, la procreazione di un ibrido.
La proposta di Clifford di culture come pezzi e frammenti tagliati e ricombinati
tra loro, contiene a sua volta dei prestiti. Da un lato, come persone sradicate, le cultu-
re sono sempre frammentate; dall’altro, nel raccoglierle, sono stati gli antropologi del
passato ad averle ritagliate in pezzi poi riassemblati nelle narrazioni. Le culture sono
sempre ibridi, eppure il futuro delle culture risiede in un’ulteriore ricombinazione
creativa, compresa quella dell’impresa etnografica. Clifford dipinge l’etnografia del
tardo ventesimo secolo con abili differenziazioni che possono adattarsi anche a diffe-
renze già esistenti. Clifford cita Said: “una parte di qualcosa va nel senso di un futuro
prevedibile, che sarà meglio di tutto questo. Frammenti al di là di totalità (…). Rac-
contare la vostra storia a brandelli, così com’è” (1988, p. 24, corsivo nell’originale).
È proprio come il vecchio gergo riproduttivo della parentela biologica. Clifford,
naturalmente, non discute di parentela. Eppure, le sue creative espressioni etnogra-
fiche traducono, per me, idee ugualmente applicabili alle nozioni di procreazione
degli anni Cinquanta.
Gli individui sono ibridi naturali, frutto della combinazione creativa di materia-
Etnografia
le genetico già differenziato, che rende ciascuno una nuova entità. Se il passato è dell’ibrido e
stato raccolto in tradizioni ancestrali, il futuro risiede nella perpetua ibridazione. linguaggio
Clifford non ha problemi a concepire l’ibridazione di un mondo già ibrido, con della parentela
la sua natura parcellizzata e i suoi momenti unici. Gli ibridi, tuttavia, non possono
essere stabilizzati come totalità. Per lui, sono “problematiche” solo quelle particola-
ri grandi narrazioni che pretendono di rivelare società olistiche e, in questo caso, il
reale problema consiste nell’averle ereditate, nell’aver ereditato cioè il presupposto
che le parti siano sempre e solo ritagli di qualcos’altro: come poter concepire una
parte che non fa parte di una totalità?
Clifford parla di un mondo che ha smesso di considerare l’unità o la pluralità in
modo netto. Alle sue spalle ci sono anni di dottrina modernista, che ha sempre so-
stenuto l’esistenza di una pluralità di società e di culture, la cui possibilità di com-
264 MARILYN STRATHERN

parazione si basava sull’effetto unificante di questa o quella prospettiva dominante.


Ciascuna prospettiva, allo stesso tempo, frammentava l’oggetto di studio dell’antro-
pologia e prometteva una comprensione olistica, che avrebbe dimostrato come gli
elementi si combinavano tra loro e le parti si completavano.

Ripensare il Almeno per quanto riguarda l’antropologia britannica, ritengo sia stata la vici-
concetto olistico nanza tra il modello antropologico e quello popolare a rendere, nei fatti, il sistema
di società, cogliere cognatico indigeno impossibile da analizzare: questo sistema, o sembrava una ver-
gli ordinamenti
alternativi di sione in negativo di altri sistemi di parentela, oppure veniva considerato universale,
parti e totalità perché esibiva quegli stessi fatti che altri provavano a rendere convenzionali. Tali
convenzioni erano rinvenute in società dove la parentela risultava fondamentale per
il modo in cui la stessa società veniva rappresentata. La “parentela” era stata, natu-
ralmente, già concepita come “sistema” e i sistemi erano considerati composti da
parti (interdipendenti). Tuttavia, concedere alle “parti” una propria distinta identi-
tà avrebbe coinvolto altre prospettive, altri totalizzanti sistemi di relazione; nella so-
cietà occidentale, guardare alla parentela, ma mai dallo stesso punto di vista da cui
si guarda alla società.
I garia e la Torniamo all’individuo garia. È stata una bizzarria, ovviamente, aver supposto
prospettiva che questa figura melanesiana potesse contenere un’immagine della “società” per-
che muove ché, nel pensiero occidentale, proprio l’idea di società implicava una delimitazione
dal centro delle prospettive. La società, nei modelli dei garia, non forniva una prospettiva sul
singolo individuo più di quanto il singolo individuo non fornisse una prospettiva
sulla società. Non esisteva, in questo senso, nessuna prospettiva; o meglio ce n’era
solo una: quella che muove dal centro, rispetto alla quale le altre rappresentavano
sempre delle analogie o delle trasformazioni. Di conseguenza, immaginare un’altra
persona voleva dire cambiare prospettiva: la periferia di una persona appariva come
il centro di un’altra (Werbner 1989).
Nuovi termini disgreganti possono così fornire alla disciplina un vocabolario
con il quale essa riesca a comprendere i progetti disgreganti di altri individui, ma il
“nostro” progetto non deve essere confuso con il “loro”. Non riproduciamo gli
stessi mondi e non ne siamo emanazione.
I paralleli tra la concettualizzazione “melanesiana” e quella “occidentale” sem-
bravano sempre elusivi. La “cerchia di sicurezza” dei garia, a prima vista, sembrava
rappresentare l’estesa rete parentale di consanguinei familiare a molti europei. Ep-
pure, la rappresentazione dell’individuo garia non è mai stata quella di un ibrido
genetico, completo di dotazione e di eredità ma incompleto quando veniva conside-
rato come parte di una più ampia società. Era invece completo dal punto di vista
sociale, ma reso incompleto nel suo rapporto di scambio con gli altri. Né l’olismo
delle metafore melanesiane escludeva una loro concezione della separazione. Al
contrario, le metafore di separazione, estrazione e distacco, per loro, erano luoghi
comuni. Ma a essere “separate” l’una dall’altra erano le persone e le stesse relazioni:
persona da persona, relazione da relazione, e non persone isolate dalle relazioni. In-
vece di essere fissate per sempre al momento della nascita, le relazioni costituivano
la vita attiva delle persone, qualcosa su cui non si smette di lavorare.
Quello che differenziava le relazioni, in Melanesia, era lo scambio delle prospet-
Le relazioni tive con cui le persone si ponevano in rapporto tra loro: il trasferimento di beni che
melanesiane garantiva che una donna allevasse il figlio del marito e non quello di suo padre, o
e la vita attiva l’impegno delle mogli nella procreazione, dalla nascita alle cure successive. Si crea-
delle persone va una persona, per così dire, a partire dagli stessi materiali con i quali essa creava
la propria vita: composita ma non unica; “tagliata” e suddivisa, ma non da una sfera
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 265

esterna a essa. La donna degli altipiani preparandosi per il matrimonio, poteva esse-
re separata dal suo clan e, insieme, divisa al suo interno – distaccata, cioè, e costret-
ta ad abbandonare la ricchezza paterna. Tutto era divisibile4. Questa scomposizio-
ne, tuttavia, non dava vita a modi d’essere diversi da parti e totalità.
L’immagine modernista delle parti e della totalità funzionava diversamente, e
noi ne siamo gli eredi. Ci ha fatto considerare le persone come parti ritagliate da
una totalità immaginata: sotto forma di rapporti, vita e, per gli antropologi, società.
Viceversa, nel discorso sui sistemi e sulle strutture, erano i rapporti, la vita e la so-
cietà, che ricombinavano in modo creativo i frammenti e le parti. La “parentela co-
gnatica” della società occidentale riproduceva individui unici, la cui procreazione
era continuamente modificata dal sovrapporsi di altri principi della vita sociale.
Senza l’individuo, direbbero gli inglesi, la società continua a durare. Invece la mor-
te di un melanesiano, richiedeva il distacco attivo di persone e relazioni, ossia esseri
viventi che riorganizzano le proprie relazioni quando il deceduto non è più in grado
di incarnarle. Questo significava anche “disfare” i vincoli di parentela cognatica che
costituivano la vita.
L’aspetto creativo delle ricombinazioni realizzate dai melanesiani – la ricchezza e
la prole ottenuta – stava nella loro capacità di riuscire ad anticipare gli atti che in se-
guito li avrebbero divisi, e nell’esser composte da atti simili a quelli. Le parti, in que-
sto senso, non venivano mai trasferite, lasciate, per così dire, in sala di montaggio, in
attesa di essere ricombinate da altri. Al contrario di quanto si ritiene comunemente, i
melanesiani non hanno mai avuto bisogno di essere “preservati” nella scrittura etno-
grafica perché la loro visione del mondo infatti non si preoccupava di come compor-
re assieme le parti. Non esistevano pezzi né frammenti da rimettere insieme, per po-
ter riparare una cultura o concepire una società. Dubito che la nostalgia per la cultu-
ra o per la società possa esser parte del loro attuale cosmopolitismo.

* Ristampato in forma riveduta, da A. Kuper, a cura, 1992, Conceptualising Society, New York, Routledge.
1 Oggi sembra che la società appartenga più alla dimensione testuale che alla vita. Thornton sostiene che gran par-
te dell’importanza del termine “società” risieda nella sua forza retorica per l’organizzazione dei dati antropologici. Sta-
bilire delle componenti analitiche in grado di integrarsi a livello teorico presupponeva una interezza dell’oggetto di stu-
dio, considerato come un insieme composto da parti, cosicché la società appariva come un precipitato olistico dell’ana-
lisi. “Immaginare delle totalità, costituisce un imperativo retorico per l’etnografia perché è questa immagine di interez-
za che dà all’etnografia quel senso di pienezza compiuta, che altre discipline realizzano per mezzo di differenti mezzi re-
torici” (1988, p. 286). Viceversa, “concettualizzare una società potrebbe risultare impossibile se non in termini di meta-
fore olistiche” (1988, p. 298).
2 Quando Fortes (1970, p. 81 [1953]) si azzardò a fare riferimento a “[una] società composta da lignaggi corpora-

tivi”, fece in seguito il possibile per smentire questa immagine (ad esempio, 1969, p. 287). Sulle profonde differenze tra
la ricca documentazione di Fortes sul caso dei tallensi (che includeva anche i loro sovrapposti campi di appartenenza ai
clan) e i suoi assiomi teorici, vedi Kuper (1982, p. 85); e per una posizione analoga, con riferimento alla relazione tra
“discendenza” e “gruppo”, vedi Scheffler (1985, p. 9).
3 Maine (1861, p. 181) (citato in Fortes 1969, p. 292) definisce il rappresentante corporativo come segue: “un rap-

presentante corporativo è un individuo, membro di un gruppo di individui, che viene investito, attraverso una finzione,
delle qualità di una corporazione. Basta citare, come esempi di rappresentante corporativo, il re o un parroco. La posi-
zione o il ruolo vengono qui considerati a prescindere dal particolare individuo che può occuparli nel tempo; essendo
essi perenni, le serie di individui che li occupano sono investite dall’attributo principale del mandato, cioè la continui-
tà” (N.d.C.).
4 Quando le persone (o le relazioni) sono tra loro separate, come nel caso, ad esempio, di una donna di un gruppo

patrilineo separata dal suo clan o di un donatore separato dal ricevente, allora una posizione o una prospettiva è sosti-
tuita con un’altra di ordine comparabile. Così i molima sostituiscono al momento della morte di una persona le relazio-
ni che questa aveva creato in vita con le precedenti divisioni parentali maschili e femminili. Quando le persone muoio-
no, si ricostituiscono come fratelli, i loro matrimoni sono, per così dire, disfatti e i loro figli vengono de-concepiti
(Chowning 1989). Ora, nella misura in cui una serie di relazioni (di fratellanza) sostituisce un’altra (di coniugalità), essa
viene anche anticipata ed è, in questo senso, “già lì”. Invece, la parentela inglese, in modo assai diverso, percepisce la
creazione naturale dei singoli individui come un’attività rispetto alla quale la creazione di relazioni sociali si configura
come un’assoluta innovazione.
266 MARILYN STRATHERN

Biografia intellettuale

Marilyn Strathern insegna antropologia sociale presso la Manchester University,


ed è William Wyse Professor Elect a Cambridge. Dalle sue prime ricerche sul campo
negli altopiani della Nuova Guinea sono nati Women in between (1972), Self-Decora-
tion in Mt. Hagen (1971, di cui è stata coautrice) e due New Guinea Research Bulle-
tins, sulle dispute e sugli emigranti hagen. Una tra le ragioni che la portò a scrivere
The Gender of the Gift (1988) fu il bisogno di valutare criticamente i suoi lavori pre-
cedenti. Partial Connections (1991) ha affrontato il tema della comparazione dopo il
postmodernismo. In Kinship at the core (1981) studiò un villaggio dell’Essex, lavoro
che continuò poi nel successivo After Nature (1992), una critica della relazione tra le
teorie antropologiche sull’individuo, sulla società e sul sistema di parentela “indige-
no” (inglese). I suoi lavori più recenti sono la raccolta di saggi Reproducing the futu-
re (1992) e Technologies of procreation (1993). È membro della British Academy.

L’arrivo a Cambridge, nel 1960, mi tolse definitivamente l’illusione che l’univer-


so avesse un centro; da allora i miei studenti mi hanno dimostrato che la trasmissio-
ne delle idee tra docente e discente non è per niente lineare e, da piccoli, i miei figli,
mi hanno insegnato che la fretta è una cattiva consigliera. Ho smesso di credere alle
genealogie, e immagino il mio lavoro contestualizzato ripetutamente da altri.
Metto subito in luce la natura selettiva di questa nota biografica, limitandomi
alle figure femminili. Ciò non significa che non sia stata influenzata anche da uo-
mini. Anzi, da studentessa, rimasi profondamente colpita sia dalla precisione so-
ciologica di Jack Goody, sia dalle trasgressioni culturali di Edmund Leach, un bi-
nomio per certi versi replicato nella differenza tra il testardo pragmatismo di An-
drew Strathern (gran parte del mio stile di lavoro sul campo lo devo a lui) e l’in-
stancabile capacità di tornare a riflettere su un argomento di Roy Wagner. Se c’è
un ipotetico legame di discendenza tra A. Strathern e J. Goody, uno dei loro moti-
vi di ispirazione, almeno all’inizio, fu anche mio: una copia di Struttura e Funzione
di Radcliffe Brown, acquistata da Foyle, famoso negozio di libri usati, suscitò la
mia curiosità prima ancora di andare a Cambridge, e la mia tesi (1968), che diven-
tò in seguito Women in Between, era intrisa delle stesse problematiche sull’ordine
sociale. Durante un inaspettato soggiorno a Port Moresby lessi il libro appena
pubblicato da Ann Oakley Sex, Gender and Society (che, nel 1973, scrisse un volu-
me sul genere mai pubblicato). Nell’estate del 1978 rimasi indirettamente colpita
da L’invenzione della Cultura di Wagner, ispirato al libro che avrei voluto scrivere
da sempre (Struttura e Funzione). Del resto, la lettura di Reproductive Technologies
di Michelle Stanworth, dieci anni dopo, ridefinì quello che per me doveva essere il
compito vero di una strategia femminista negli anni Novanta.
Mia madre, Joyce Evans, mi ha insegnato che è sempre giusto concentrarsi sulle
questioni delle donne, una sicurezza in seguito demolita dalle prime critiche di An-
nette Weiner. Ed ecco un altro binomio: la gratificazione venutami da un pubblico
noto, e la svolta indotta dai critici. Mi rendo perfettamente conto che, essendo io
sempre stata polemica, divisa tra quelli per e quelli contro cui scrivo, merito quel
che ricevo; ma, quando l’occasione è importante, come in questo caso, l’obiettivo lo
raggiungo.
Il primo pubblico dei miei tentativi antropologici fu Doris Wheatley (Director of
Studies a Girton, Cambridge), mentre Esther Goody e Audrey Richards hanno cor-
retto, con una cura che ancora ricordo, i miei saggi del secondo e del terzo anno. E.
Goody fu relatrice al mio Ph. D. (nello stesso corso di Maurice Bloch e di Adam
LE RELAZIONI TRA PARTI E TOTALITÀ: UN APPROCCIO ALTERNATIVO 267

Kuper); Paula Brown accettò con entusiasmo la supervisione delle ricerche sul cam-
po in Nuova Guinea; entrambe mi hanno instillato il rispetto per il dettaglio socia-
le. Più tardi, Richards mise generosamente a disposizione il materiale che aveva ac-
cumulato a Elmdon, nell’Essex e sul quale Marianne Leach lavorò in seguito (anche
se sono convinta che a Richards non siano piaciuti i libri che ho tratto da quel ma-
teriale). Una forte influenza etnografica, a Port Moresby (1972-1976), mi fu suscita-
ta da Ann Chowning, la cui sbalorditiva conoscenza del paese ha impedito molte
semplificazioni.
Fu uscendo dalla conferenza organizzata nel 1977 da Jean La Fontaine all’Asso-
ciation of Social Anthropology of the Commonwealth, che Carol McCormack e io
scoprimmo che la dicotomia tra natura e cultura creava problemi a tutte e due. La
successiva raccolta di saggi (Nature, Culture and Gender, nel 1980), stimolata dal-
l’anno trascorso a Canberra con il gruppo di studio sulle relazioni di genere e dalla
breve visita a Berkeley (dove Elisabeth Colson frequentava l’ultimo anno), mi
proiettarono in The Gender of the Gift. I passi più chiari del libro devono molto ai
dati e alle intuizioni dei recenti lavori sul campo in Melanesia: per esempio, quelli
di Debora Battaglia, Aletta Biersack, Gillian Gillison e Margaret Jolly.
A questo punto – e questo vale anche per i miei attuali colleghi a Manchester –
la mia storia può riassumersi solo come espressione di un senso di riconoscenza. In-
fatti, se ogni storia richiede una presa di distanza dai momenti già vissuti, allora,
forse, è proprio l’ospite inatteso a essere anche il più influente, cioè noi stessi. Avrei
potuto continuare il lavoro sul campo in Nuova Guinea, ma ringrazio le circostanze
che mi hanno invece obbligato a de-scrivere e ri-scrivere il mio lavoro. La parentela,
di recente, ha fatto di nuovo capolino tra i miei interessi, naturalmente ricontestua-
lizzata in una nuova forma dalle possibilità biologiche e culturali offerte dalle tecno-
logie della procreazione. Educata a credere che lo specifico contributo dell’antro-
pologia risiedesse quasi unicamente in questo ambito, ritengo che le operazioni di
ripensamento, considerate fino a poco tempo fa un lusso, siano veramente divenute
una necessità urgente e di carattere pratico.
Il potere: vecchie conclusioni, nuove domande
Eric R. Wolf

In questo saggio intendo occuparmi del problema del potere e delle questioni
che pone all’antropologia. Sono convinto che, in realtà, noi antropologi sappiamo
molte cose riguardo al potere, ma siamo riluttanti a elaborare sistematicamente quel
che sappiamo. Questo fatto ha conseguenze insieme teoriche e metodologiche, e in-
fluenza il nostro modo di valutare le conclusioni cui siamo giunti in passato e di sol-
levare nuove domande.
Lo stesso termine potere fa sentire molti di noi a disagio: è sicuramente una del-
Polisemia le parole più distintamente polimorfiche e più cariche di significato presenti nel no-
del termine stro vocabolario. Nelle lingue romanze, germaniche e slave, ad esempio, i termini
“potere”
pouvoir o potere, Macht o mogushchestvo assumono una moltitudine di significati.
Questi termini, ci consentono di parlare del potere come se rivestisse per tutti
noi lo stesso significato. Allo stesso tempo, spesso ne parliamo come se tutti i feno-
meni che hanno a che vedere con il potere siano in qualche modo riducibili a un
nucleo comune, a una qualche intima essenza. Tutto questo evoca mostruose imma-
gini del potere, il Leviatano di Hobbes o il Minotauro di Bertrand de Jouvenel, ma
non ci consente tuttavia di distinguere con chiarezza quali e quanti differenti tipi di
potere siano connessi ai differenti tipi di relazione.

Le modalità del potere


Quattro modalità Ritengo quindi utile distinguere quattro diverse modalità di potere. La prima
di potere riguarda il potere come attributo della persona, come potenza o capacità; in altre
I: potenza parole, il concetto nietzschiano di potere (Kaufmann 1968). In questa accezione
del termine, viene sottolineato il significato di attributo personale, ma poco o
nulla viene detto sulla sua forma e sulla sua direzione. La seconda modalità può
II:imposizione essere intesa come l’abilità di un ego di imporre, nell’azione sociale e nelle rela-
a contestuale zioni interpersonali, la sua volontà su di un alter. Questa accezione punta cioè a
evidenziare le sequenze di interazioni e di transazioni tra le persone, ma non
mette in luce la natura del contesto – luoghi, situazioni – in cui queste si svolgo-
III: controllo dei no. La natura del contesto appare invece più chiaramente specificando la terza
contesti (tattica) modalità del potere, inteso come controllo dei contesti nei quali le persone ma-
nifestano le loro potenzialità e interagiscono tra loro. Mi imbattei per la prima
volta in questa formulazione antropologica del concetto di potere quando Ri-
chard Adams tentò di definirlo non in termini interpersonali, ma come controllo
esercitato da un attore o da un’“unità operativa” (sua la definizione) sui flussi di
energia che rappresentano parte dell’ambiente di un altro attore (Adams 1966,
1975). Questa definizione richiama l’attenzione sul significato strumentale del
potere e aiuta a comprendere come le “unità operative” circoscrivono, all’inter-
no di determinati contesti, le azioni degli altri. Definiamo tattica o organizzativa
questa terza modalità.
IL POTERE: VECCHIE CONCLUSIONI, NUOVE DOMANDE 269

Esiste tuttavia anche una quarta modalità, che non solo opera all’interno dei con- IV: strutturazione
e governo dei
testi o settori, ma che organizza e governa i contesti stessi e stabilisce la direzione e la flussi d’energia
distribuzione dei flussi di energia. Penso sia proprio questo il tipo di potere cui si rife-
riva Marx, quando analizzava la capacità del capitale di imbrigliare e allocare la forza
lavoro, e che proprio questo tipo di potere faccia da sfondo alla nozione di Michel
Foucault, secondo cui il potere consiste nella forza “di strutturare il possibile campo
di azione degli altri”. Foucault (1984b, pp. 427-428) la definì governare, nel senso che
l’autorità aveva nel sedicesimo secolo, un esercizio, cioè, di “azione sull’azione”. Lo
stesso Foucault era interessato soprattutto a quello specifico potere che consiste nel
governare la coscienza. Per quanto ci riguarda, utilizzeremo invece il termine nel sen-
so del potere che struttura l’economia politica. Definiamo potere strutturale questa
modalità del potere. L’espressione rappresenta una riformulazione del vecchio con-
Potere strutturale
cetto di “relazioni sociali di produzione” e serve a sottolineare il ruolo del potere nel-
l’utilizzo e nella distribuzione del lavoro sociale. Questo genere di relazioni fonda-
mentali non risultano evidenti se si pensa al potere soltanto in termini di interazione.
Il potere strutturale regola il campo sociale dell’azione, in modo da rendere possibili,
improbabili o impossibili, determinati tipi di comportamento. Come dichiarò il vec-
chio Georg Friedrich Hegel, ciò che accade nella realtà deve prima essere possibile.
I rapporti di produzione capitalistici, ad esempio, rendono possibile l’accumula-
zione di capitale basata sulla vendita della forza lavoro quasi ovunque al mondo. Co-
me antropologi, siamo in grado di seguire i flussi del capitale e del lavoro nei loro
movimenti – avanzate e ritirate – e siamo anche in grado di indagare come, nello spa-
zio e nel tempo, le varie combinazioni sociali e culturali risultino coinvolte e implica-
te nei meccanismi di questo duplice incantesimo. Questo genere di rapporti non so-
no esclusivamente di natura economica, ma anche di natura politica: stabiliscono,
mantengono e difendono degli obiettivi, e il controllo di quegli obiettivi diventa mo-
tivo di competizione o di costruzione di alleanze, di resistenza o di accomodamento.
Questa dimensione è stata variamente sottolineata negli studi sull’imperialismo,
sulla dipendenza o sui sistemi-mondo. Le questioni sollevate da questi studi riguar-
dano le ragioni e le modalità per cui alcuni settori, regioni o nazioni sono in grado
di vincolare le scelte degli altri e quali tipi di alleanze e conflitti si verificano nel cor-
so di questa interazione. Alcuni hanno sostenuto che questi problemi non riguarda-
no l’antropologia, perché nulla aggiungono, come sostiene Sherry Ortner (1984, p. Imperialismo,
dipendenza e
114), a proposito delle “persone reali che fanno cose reali”. Ritengo tuttavia che sistemi-mondo
questi problemi riguardino gran parte di quello che accade nel mondo reale che de- come problemi
termina, impedisce o facilita ciò che le persone possono o non possono fare, all’in- antropologici
terno dei contesti presi in esame. Il concetto di potere strutturale è utile soprattutto
perché ci permette di delineare con precisione in che modo le forze del mondo
ostacolino le persone che noi studiamo, evitando così il rischio di cadere in un indi-
genismo antropologico che presuppone, nel presente come nel passato, l’esistenza
di società isolate e di culture incontaminate. Non c’è nulla da guadagnare da un fal-
so romanticismo secondo cui “le persone reali che fanno cose reali” devono abitare
in universi chiusi e autosufficienti.

Il compito dell’antropologia
In questo saggio, metterò soprattutto a fuoco la relazione tra potere tattico (o I rapporti fra
organizzativo) e potere strutturale, perché sono convinto che questi concetti ci per- potere tattico e
strutturale
mettano di comprendere meglio il mondo in cui abitiamo. Sono cioè convinto che
sia proprio questo il compito dell’antropologia, o almeno di certi antropologi: ten-
tare, cioè, di spiegare e non semplicemente di descrivere o interpretare. L’antropo-
270 ERIC R. WOLF

logia può rappresentare cose diverse per persone diverse (intrattenimento, frisson
esotico, un’illimitata gamma di differenze), ma non dovrebbe accontentarsi, ne so-
no convinto, di essere quella sorta di “mutevole collage di opposti che rischiano
sempre di scollarsi” come vorrebbe James Boon (1982, p. 237). Scrivere le culture
può richiedere abilità e stile, ma un tentativo di spiegazione richiede qualcosa di
più: è impossibile spiegare senza nominare e comparare le cose e senza formulare i
concetti che servono a nominare e a comparare. Penso che, nel tentativo di spiega-
zione, dobbiamo superare le comprensioni “vicine all’esperienza” di Geertz, per
raggiungere i concetti analitici che ci permettano di stabilire cosa conosciamo ri-
guardo X rispetto a ciò che conosciamo riguardo Y. La mia è una posizione essen-
zialmente realistica: penso che il mondo sia reale e ritengo che le realtà influenzino
le azioni degli esseri umani, che queste, a loro volta, influenzino il mondo e che noi
siamo in grado di comprendere i motivi e le ragioni di questa relazione.
Considerata la nostra formazione, dobbiamo diffidare delle categorie e dei mo-
Le spiegazioni
sono cumulative
delli che utilizziamo ed essere consapevoli delle loro contingenze storiche e cultura-
li; possiamo concepire un tentativo di spiegazione come un’approssimazione della
verità piuttosto che la verità stessa. Tuttavia, ritengo che, in antropologia, l’obiettivo
di offrire una spiegazione possa essere cumulativo, nel senso che la conoscenza e le
conclusioni cui siamo giunti in passato generano nuove domande e che i nuovi
orientamenti contengono le acquisizioni del passato.
In antropologia, i paradigmi vengono continuamente violati, solo per vederli rina-
scere come se fossero stati appena scoperti. L’antiquato evoluzionismo di Morgan ed
Paradigmi e loro Engels riapparve in una variante ecologista negli anni Quaranta e Cinquanta. L’insi-
metamorfosi
stenza di Boas sulla necessità di comprendere i modi in cui “le persone pensano in
concreto alla propria cultura ed alle proprie istituzioni” (Goldman 1975, p. 15), è riaf-
fiorata nell’ antropologia cognitiva e simbolica, e oggi risuona, seppure distorta, sotto
le vesti del decostruzionismo. Il diffusionismo si esaurì per aver indugiato troppo nella
seducente raccolta dei tratti culturali, ma è resuscitato negli studi sull’acculturazione,
sulle sfere di interazione e sui sistemi-mondo. Nel sostenere di rappresentare unità or-
ganiche, il funzionalismo superò se stesso, facendo tuttavia il suo rientro nella teoria
dei sistemi come anche in altre forme. Gli studi di Cultura e Personalità proposero i
concetti di “struttura della personalità di base” e di “carattere nazionale”, senza curar-
si troppo della storia, dell’eterogeneità culturale, o del ruolo rivestito dall’egemonia nel
forzare i processi di omologazione; tuttavia, continuano ad apparire descrizioni di na-
L’antropologia
come progetto di zioni moderne e di “gruppi etnici” che destano sospetti per quanto somigliano a quei
“deforestazione vecchi studi. Sia gli esperti che i profani sostengono che le varietà dell’antropologia
intellettuale”? ecologica e i vari marxismi hanno bisogno del concetto di cultura. È nota a tutti la me-
tafora di Robert Lowie del “diffusionismo che scarica la sua accetta sull’evoluzioni-
smo”. Dal momento che ogni successivo approccio recide di netto i precedenti, l’an-
tropologia rischia di somigliare a un progetto di deforestazione intellettuale.
Non credo che tutto ciò sia necessario o desiderabile. Ritengo che l’antropologia
possa essere cumulativa, nel senso che in essa è possibile utilizzare il lavoro dei no-
stri predecessori per sollevare nuove questioni.

Tre progetti
Alcune delle passate acquisizioni antropologiche relative al potere possono co-
stituire la base per nuove indagini. Passiamo ora brevemente in rassegna tre proget-
ti che nel tentativo di comprendere quel che accade alla gente nel mondo moderno,
hanno sollevato una serie di problemi relativamente al potere, tattico e strutturale.
Questi progetti hanno prodotto una notevole quantità di dati e di teoria, hanno
IL POTERE: VECCHIE CONCLUSIONI, NUOVE DOMANDE 271

aperto prospettive che hanno oltrepassato i loro obiettivi e sono stati tutti criticati,
all’epoca, per essere poi rivalutati successivamente. Tutti e tre i progetti rappresen-
tarono tentativi verso un’antropologia esplicativa.

Il primo di questi progetti è lo studio di Portorico, diretto, nel 1948-1949, da Portorico,


Julian Steward e i cui risultati sono raccolti in un lavoro collettivo, The People of Steward e la
Puerto Rico (Steward et al. 1956). L’impeto originario del progetto scaturì dall’at- critica
all’omogeneità
tacco di Steward ai presupposti sull’unitarietà della cultura e del carattere nazionale del carattere
che dominavano allora gli interessi della scuola di cultura e personalità. Il progetto nazionale
tendeva invece a mettere in risalto l’eterogeneità della società nazionale, rifiutando
il modello che considerava una singola comunità rappresentativa di una intera na-
zione. Portorico veniva descritta come una struttura composta da varie comunità e
L’eccessiva
regioni, unite da istituzioni calibrate sulla dimensione insulare e dalle attività di una attenzione per i
classe dirigente radicata nell’isola, con un sistema articolato di parti e livelli. fattori locali
Il progetto risultò particolarmente innovativo, nel tentativo di scoprire in che
modo questo complesso assetto si fosse sviluppato storicamente, nella ricerca delle
cause storiche e dei cicli di produzione del raccolto sull’isola e, successivamente,
analizzando le diverse implicazioni dello sviluppo in quattro comunità rappresenta-
tive. Tuttavia, nonostante l’impegno a prestare attenzione alle istituzioni che garan-
tivano la vita unitaria di comunità, regioni e nazione, si limitò, in pratica, a conside-
rarle soprattutto in rapporto ai loro effetti locali. Riuscì comunque a portare a ter-
mine un’analisi delle classi dirigenti dell’isola, che venivano considerate il punto di
coagulo della nazione.
Dove invece il progetto non riuscì a mantenere le sue promesse, fu nell’incapaci-
tà di valutare adeguatamente l’intensificarsi dell’emigrazione verso la vicina costa
degli Stati Uniti. Confinando l’attenzione sull’ecologia agricola, non fu in grado di
cogliere aspetti che già si stavano manifestando a livello locale, ma che prendevano
le mosse e si articolavano in un contesto ben più ampio.

Mentre il progetto di Portorico non valutò il fenomeno migratorio, un altro la-


voro si incentrò sull’emigrazione per lavoro verso le città e le ricche miniere dell’A-
frica centrale. Questa ricerca fu intrapresa sotto gli auspici del Rhodes-Livingstone Africa centrale,
Institute, fondato nel 1937 nell’allora Rhodesia del Nord, ora Zambia. Lo scopo del Gluckman:
emigrazione,
progetto fu definito dal suo primo direttore, Godfrey Wilson, che tendeva incon- conflitti e governo
sciamente a combinare tra loro Marx e Malinowski (Richard Brown 1973a, p. 195). coloniale
Wilson considerò i processi che interessavano l’Africa centrale nei termini di una ri-
voluzione industriale intrecciata ai processi dell’economia mondiale. L’enorme pe-
netrazione dell’industria mineraria fu ritenuta la causa principale dei numerosi con-
flitti locali e regionali. Max Gluckman, direttore dal 1942 al 1947, stilò un nuovo
piano di ricerca per l’Istituto, prospettando una serie di studi mirati e arruolando
una nutrita squadra di antropologi per lavorare sui problemi relativi alle sovrappo-
sizioni tra regole di governo indigene e coloniali, il ruolo della stregoneria, gli effet-
ti della migrazione di lavoro sull’economia domestica e i problemi generati dal con-
flitto tra discendenza matrilineare e residenza patrilocale.
Lavorando su un’area molto diversificata dal punto di vista linguistico e cultura-
le, i ricercatori poterono comparare le loro scoperte per identificare analogie e va- L’interrelazione
riazioni nelle risposte locali ai processi generali. Il progetto risultò particolarmente fra i centri e la
diversificazione
innovativo perché seppe considerare le comunità rurali, i centri minerari e le città di contesti e
non come distinte entità sociali e culturali, ma come elementi interrelati e inquadra- risposte
ti in un unico campo sociale. Dall’interesse originario di Wilson sulla detribalizza-
272 ERIC R. WOLF

zione come perdita anomica, il progetto approdò quindi a un contesto estremamen-


te diversificato, di risposte differenziate ai nuovi comportamenti instaurati nei vil-
laggi, nelle miniere e nei raggruppamenti urbani. Per queste ragioni, il progetto aprì
prospettive non presenti nel progetto di Portorico. Non aver considerato in modo
critico e sistematico la struttura coloniale in cui questi contesti erano immersi rap-
presenta, invece, il suo limite.

Il terzo progetto è quello diretto, dal 1963 al 1966, da Richard Adams e descrit-
to nel volume Crucifixion By Power (Adams 1970). Con l’obiettivo di studiare la
struttura sociale nazionale del Guatemala, il progetto si concentrò sull’intensa cre-
Guatemala,
Adams: crescita scita della produzione agricola e inserì tutto ciò che si conosceva sulla vita nelle co-
della produzione munità all’interno di quel contesto. La maggiore novità, comunque, risiede nel fatto
agricola e che, diversamente dai due progetti menzionati, questo approfondì lo studio delle
istituzioni istituzioni nazionali. Adams descrisse il modo in cui le élite locali, regionali e sovra-
nazionali
nazionali si contendevano tra loro il potere e come le élite regionali riuscivano a
consolidare il loro controllo attraverso legami con il livello nazionale; livello che co-
munque subordinava il potere delle élite alla competizione e all’interferenza dei
gruppi che operavano sul piano transnazionale e internazionale. Allo studio delle
élite fece seguito la descrizione dello sviluppo delle varie istituzioni: quella militare,
la rinascente Chiesa guatemalteca, le organizzazioni del settore più elevato con i lo-
L’importanza dei ro interessi crescenti, il sistema e la professione giuridica. Adams descrisse come
legami di queste istituzioni non solo comprimevano la produzione agricola e la domanda di
comparatico lavoro nelle campagne, ma generavano legami individualizzati di comparatico tra gli
abitanti poveri delle città e i loro protettori politici nella capitale. Il progetto però
non tentò di unificare questo ricco materiale in una sintesi che avrebbe potuto for-
nire un modello teorico della nazione per successivi lavori.

La rilevanza dei Oggi sembra evidente che tutti e tre questi progetti giunsero sulla soglia di un
progetti nuovo e promettente filone di ricerca antropologica, ma non riuscirono a varcarla.
Osarono, ma non abbastanza. Soprattutto anticiparono un avvicinamento all’econo-
mia politica ma non riuscirono a compiere il passo successivo. Il progetto di Porto-
rico, proprio perché si concentrò sull’agricoltura, non riuscì a confrontarsi con
Limiti del quelle forze politiche ed economiche che avevano dato priorità alle attività agricole
progetto di e che già erano attive nella “Operation Bootstrap” per trasformare l’economia agri-
Portorico
cola dell’isola in una economia industriale. Non capimmo le forme in cui le istitu-
zioni dell’isola, considerate “nazionali” ma in realtà intimamente legate all’econo-
mia e alla politica del continente, erano il terreno di scontro di interessi contrappo-
sti. Il progetto, quindi, non riuscì ad affrontare la complessa interazione, nella situa-
zione portoricana, tra le istanze culturali egemoniche e quelle subalterne. In realtà,
ancora oggi nessuno ci è riuscito.
Il progetto dell’Africa centrale fu ugualmente limitato dai suoi stessi presuppo-
sti. Fu attento ai conflitti e alle contraddizioni, ma rimase prigioniero del funziona-
Limiti del lismo dell’epoca, soprattutto perché interpretò le separazioni come semplici fasi di
progetto in un cammino tutto teso alla restaurazione continuista. Fu dato per scontato il siste-
Africa centrale
ma coloniale e, quindi, attutite le implicazioni storiche della conquista e i confronti
cumulativi tra europei e africani. Nuove ipotesi ci permettono di riformulare questi
problemi. Il colonialismo travolse le organizzazioni basate sulla parentela e quelle
tributarie. I loro membri furono trasformati in contadini nell’entroterra e in lavora-
tori nelle miniere e nelle città; la ruralizzazione e la proletarizzazione furono proces-
si concomitanti, spesso violenti e disumani. Nuove identità etniche e di classe rim-
IL POTERE: VECCHIE CONCLUSIONI, NUOVE DOMANDE 273

piazzarono i vecchi legami ormai decentrati (Sichone 1989). Eppure, la ricerca ha


portato alla luce diverse risposte africane contro l’organizzazione politica e lavorati-
va (A. L. Epstein 1958; Ranger 1970): dalle compagnie di danza (J. C. Mitchell
1957; Ranger 1975), alla proliferazione di movimenti religiosi (Van Binsbergen,
Schofeleers 1985; Werbner 1989); fino a raggiungere forme acute di ribellione (Lan
1985). Questi studi hanno sottolineato il ruolo decisivo dei saperi culturali nella tra-
sformazione del lavoro e del potere.
Il progetto di Adams raggiunse quasi l’obiettivo. Concretizzò, infatti, la pro-
spettiva storica, riuscendo a comprendere le relazioni tra i gruppi come processi Limiti del
progetto in
carichi di conflitti e incluse le operazioni dei poteri multinazionali e trasnazionali Guatemala
in questa dinamica. Non arrivò, tuttavia, alla formulazione di un modello politico
economico complessivo, forse perche Adams era interessato soprattutto allo svi-
luppo di una teoria evolutiva del potere. E anche la complessa interazione di cul-
ture del Guatemala fu messa in secondo piano. Un simile tentativo di sintesi deve
ancora arrivare.
La rilevanza di questi tre progetti risiede non solo nella loro realizzazione, ma
negli interrogativi che sollevano. In primo luogo, richiamano l’attenzione sulla sto-
ria, non intesa come una “maledetta successione di avvenimenti” come usava dire
Leslie White. “La storia”, sostiene Maurice Godelier, “non spiega: deve essere spie-
gata” (1972, p. 6). L’attenzione nei confronti della storia permette di analizzare i L’importanza
processi nel tempo, mentre si intrecciano, si diffondono e si disperdono. Questo ci della storia
impone di ripensare le unità di inchiesta, le unità familiari, le comunità, le regioni,
le entità nazionali, considerandole non entità fisse, ma continuamente modellate e
rimodellate. Considerare i processi nel tempo, permette di evidenziare l’organizza-
zione, l’assetto strutturale della vita sociale, ma ci impone di considerarli nel loro
sviluppo e trasformazione. In secondo luogo, i tre progetti ci mostrano i processi at-
tivi sia a un livello macro sia in ambienti circoscritti. Portorico ruotava prima nel-
l’orbita spagnola, poi in quella degli Stati Uniti. L’Africa centrale fu modellata dal-
l’industrializzazione mondiale e anche dalle politiche del dominio coloniale. Il Gua-
temala è stato tormentato dalle relazioni con l’esterno e dai loro effetti al suo inter- L’importanza
no. Tutto ciò rappresenta la prosecuzione delle passate teorie antropologiche, che degli orizzonti
facevano riferimento dapprima ad “aree culturali”, poi a ecumeni, a sfere di intera- macro e micro
zione, a sistemi interetnici e a regioni simbiotiche e che ora concepiscono “sistemi-
mondo”. La macrostoria e i processi di organizzazione diventano quindi elementi
fondamentali di nuovo tipo di approccio. Entrambi riguardano il potere, tattico e
strutturale.

L’organizzazione come processo


L’organizzazione è fondamentale perché stabilisce le relazioni tra le persone Distribuzione e
attraverso la distribuzione e il controllo delle risorse e la gestione delle gratifica- controllo delle
zioni. L’organizzazione utilizza il potere tattico per monopolizzare o distribuire risorse e potere
tattico
garanzie e diritti, al fine di incanalare l’azione in determinate direzioni e di arre-
starne il flusso in altre. Determinate azioni diventano possibili e probabili, altre
sono invece improbabili. Ma l’organizzazione è sempre a rischio. Dal momento
che gli equilibri di potere oscillano e si trasformano di continuo, la sua attività
non ha mai fine; lavora contro l’entropia (Balandier 1967). Anche l’organizzazio-
ne più efficace non è priva di contestazioni. L’attuazione del potere crea sempre
frizione, malumore, evasione, sabotaggio, protesta o aperta resistenza, una pano-
plia di reazioni ben documentate dal materiale proveniente dalla Malesia di James
Scott (1985) in Weapons of the Weak.
274 ERIC R. WOLF

L’antropologia ha Considerata l’importanza del soggetto, non si capisce il motivo per cui l’antro-
trascurato
l’organizzazione
pologia abbia rinunciato allo studio dell’organizzazione, tanto che oggi se ne discu-
te più spesso nei manuali di gestione aziendale che nelle nostre pubblicazioni. Noi
teorizziamo, prendiamo in considerazione e sviluppiamo metafore, ma l’intera que-
stione dell’organizzazione è caduta nel dimenticatoio.
Molti di noi optarono per l’antropologia quando erano ancora obbligatori dei
corsi in quella materia definita “organizzazione sociale”, che riguardava i principi di
categorizzazione – genere, generazione e classificazione – e l’organizzazione dei
gruppi – lignaggi, clan, classi di età e associazioni. A posteriori, è facile comprende-
re perché queste definizioni fossero troppo statiche: l’organizzazione era allora inte-
sa essenzialmente come conseguenza, come un prodotto che rispondeva a un copio-
ne culturale senza iniziativa, non era intesa cioè come un processo, spesso arduo e
L’organizzazione carico di conflitto. Quando l’interesse principale veniva posto sulle forme e sui
come prodotto o principi organizzativi, era fin troppo facile considerare l’organizzazione in termini
come processo architettonici, come qualcosa che forniva le basi per la struttura, un edificio sicuro
composto di pratiche regolari e ricorrenti e di idee che rendevano la vita sociale
prevedibile e quindi indagabile sul campo. Poco interesse, invece, si è posto verso il
potere tattico, la sua capacità di plasmare le organizzazioni, di mantenerle, di desta-
bilizzarle o di disfarle.
Se un’idea può essere giudicata dalla sua fecondità, allora la nozione di strut-
tura sociale ha dimostrato di essere un’ottima idea. Ha prodotto lavori interessan-
ti e feconde intuizioni. È ora evidente che ci ha anche portato a reificare i risulta-
ti dell’organizzazione come basi fondamentali delle architetture sociali, ipostatiz-
Pregi e difetti zate, ad esempio, nel concetto di gruppo di discendenza unilineare. Quell’idea è
della nozione di
“struttura risultata proficua perché ci ha permesso di considerare sinotticamente le caratte-
sociale” ristiche dell’appartenenza al gruppo, la discendenza, la solidarietà giuridico-poli-
tica, i diritti e le obbligazioni concentrati sulla proprietà comune, le norme di “al-
truismo prescrittivo” e quelle che circondavano la moralità. Eppure, una cosa è
utilizzare un modello per riflettere sulle implicazioni dei processi dell’organizza-
zione e un’altra è aspettarsi che i gruppi di discendenza unilineare, che presenta-
no tutte queste caratteristiche, si materializzino in questi termini, come mattoni
ben delineati della struttura sociale.
Osservare il Com’è possibile passare da una concezione dell’organizzazione come prodotto
“flusso o risultato, a una concezione dell’organizzazione come processo? Per iniziare, do-
dell’azione” vremmo seguire il consiglio di Conrad Arensberg (1972, pp. 10-11) e osservare “il
flusso dell’azione”, chiederci cioè cosa accade, perché accade, chi agisce, con chi,
quando e quanto spesso. Inoltre, a questo tipo di approccio centrato sul compor-
tamento, andrebbe aggiunta una nuova domanda: per quali ragioni e a favore di
chi accade tutto questo e, quindi, contro chi? Questa domanda non dovrebbe es-
sere intesa in termini semplicemente interazionistici. Domandarsi perché e a favo-
re di chi accade qualcosa, richiede un’ipotesi concettuale che riguarda le cause e
gli effetti del potere strutturale che guida l’organizzazione e al quale l’organizza-
zione deve rispondere a tutti i livelli. Quali sono le relazioni dominanti attraverso
cui si distribuisce il lavoro? Quali sono le implicazioni organizzative delle alleanze
e delle coalizioni di parentela, dei ranghi o delle forme di Stato? Non tutte le or-
ganizzazioni o parti di organizzazioni hanno gli stessi requisiti funzionali o le stes-
se dinamiche.
La ricerca sui Tutto ciò, inoltre, ci impone una riflessione sulle implicazioni che derivano dal
potenziali
organizzativi e sul concepire l’organizzazione come un processo. Quest’area non è stata ancora affron-
potere strutturale tata dal pensiero antropologico. I contratti diadici, le reti di relazioni di diversa
IL POTERE: VECCHIE CONCLUSIONI, NUOVE DOMANDE 275

grandezza e forma, i sistemi di parentela, le gerarchie politiche, le corporazioni e gli


stati presentano ovviamente potenziali organizzativi diversi. Comprendere in che
modo questi insiemi di persone e mezzi possano essere uniti e articolati sotto diver-
si generi di potere strutturale, rimane un obiettivo ancora da chiarire.

Per chiarire questo obiettivo possiamo riferirci al passato e utilizzare i nostri I modelli come
concetti e modelli non come rappresentazioni fisse, applicabili cioè in modo univer- procedure di
scoperta
sale, ma come procedure di scoperta. Ad esempio, Michael Verdon formulò, nel vo-
lume sugli Abutia Ewe (Verdon 1983), una decisa critica alla teoria del lignaggio.
Eppure quella critica si nutre proprio delle domande sollevate da quella teoria, e
della richiesta di una sua conferma attraverso i dati. Verdon analizzò le caratteristi-
Verdon e la
che e la distribuzione delle unità domestiche, delle unità residenziali e delle prati- critica della teoria
che matrimoniali, considerandole prerequisiti per la definizione dei legami di pa- del lignaggio
rentela. In seguito, utilizzò il modello teorico del lignaggio per sollevare ulteriori
problemi sulla relazione tra parentela e sincronizzazione politica, problematizzando
questa relazione invece di presupporla a priori. Più che come archetipo, il modello
servì come metodo d’indagine.
Un’analoga redifinizione del problema è presente negli studi sui domini, dove l’in-
teresse, come ha sostenuto Timothy Earle, “è passato dai progetti di classificazione
Earle e le cause
delle società in dominî e non, alla considerazione delle cause delle variazioni osserva- delle variazioni
te” (Earle 1987, p. 279). Le costellazioni sociali definite domini, non solo si presenta- nello studio dei
no in dimensioni e forme molto diverse (Feinman, Neitzel 1984), ma vengono ora domini
considerate come “istituzioni fragili, negoziate”, sia nell’assicurare la conformità al-
l’interno, sia nel competere con i rivali all’esterno. La ricerca sottolinea ora il misto di
strategie economiche, politiche e ideologiche che i domini impiegano per questi fini,
così come la variabilità del loro successo nel plasmare le diverse direzioni nella storia
(Earle 1989, p. 87). Allo stesso modo, se una volta si parlava semplicemente di
“Stato”, ora questo viene considerato più un “processo” che una “cosa” (Gailey Lo “Stato” come
1987). Sottolineare i “processi di costruzione dello Stato”, significa prendere in consi- processo
derazione sia la “diversità e la fluidità della forma, delle funzioni e delle disfunzioni”,
sia “il grado in cui tutti gli Stati risultano intimamente divisi e soggetti alla penetrazio-
ne di forze in conflitto e, in generale, contraddittorie” (Bright, Harding 1984, p. 4).

Le strutture della produzione di valore


Affrontiamo infine i rapporti tra potere e valori. L’antropologia ha sempre con-
siderato i valori soprattutto nei termini di qualcosa che circonda le unità culturali,
come i modelli, le configurazioni, l’ethos, l’eidos, l’episteme, i paradigmi e le struttu-
re culturali. Queste unità, a loro volta, sono state concettualizzate soprattutto come Il simbolico come
risultati di processi di integrazione logico-estetica. Anche quando venivano ricono- luogo di regolarità
sciute le caratteristiche spesso incongrue e disomogenee della cultura, c’era sempre soggiacenti e
la speranza che, citando Geertz, l’identificazione dei simboli significativi, dei gruppi l’approccio
teleologico
di simboli e degli insiemi di gruppi, riuscisse a chiarire le regolarità sottostanti del-
l’esperienza umana alla base della loro formazione (Geertz 1973a, p. 445). L’interes-
se è rivolto all’efficacia dei simboli, ai meccanismi della logica e dell’estetica, al mo-
vimento verso l’integrazione o la reintegrazione, come se questi processi cognitivi
fossero guidati da un telos (o fine ultimo).

Intendiamo criticare questo approccio per diverse ragioni. In primo luogo, Ridiscutere i
prendiamo spunto dalle intuizioni di Anthony Wallace che, alla fine degli anni Cin- tradizionali
approcci
quanta evidenziò le differenze tra quelle concezioni della cultura che sottolineavano
276 ERIC R. WOLF

Wallace e la “la riproduzione dell’uniformità” e quelle che riconoscevano, invece, il problema


cultura come
“organizzazione
dell’“organizzazione della diversità”. Secondo Wallace (1961, p. 110),
delle diversità”
tutte le società sono, alla radice, società plurali… In che modo riescono ad assicurare
l’articolazione delle diverse prospettive di adulti e bambini, maschi e femmine, guerrieri
e sciamani, schiavi e padroni, per formare le strutture di equivalenza che rappresentano
la sostanza della vita sociale?

La domanda di Wallace riecheggia in diverse direzioni: in un’antropologia fem-


minista, che mette in discussione il presupposto secondo cui uomini e donne condi-
vidono le stesse concezioni culturali; nell’etnografia di aree diverse, che rivela la
Le divergenze e mancanza di conformità alle norme e agli ideali dei big men e dei capi, degli “uomini
la logica della spazzatura” in Melanesia e della “gente di nessuna importanza” della costa nordoc-
cultura
cidentale; negli studi sui sistemi gerarchici, nei quali strati e segmenti differenti esibi-
scono modelli di integrazione logico-estetica diversi e in conflitto (l’India rappresen-
ta un caso eclatante). Si è sempre creduto che queste divergenze fossero controllate
dalla logica culturale, pura e semplice ma tutto ciò non sembra tuttavia convincente.
Accade infatti che i nostri informatori sul campo invochino opposizioni metaforiche:
purezza/inquinamento, benessere/malessere, yin/yang, vita/morte. Queste metafore
sono inoltre intrinsecamente polisemiche, così ricche di possibili significanti da com-
prendere qualsiasi situazione. Prenderle in considerazione in determinati contesti ri-
La selezione dei
chiede che la loro gamma sia ristretta e ridotta esclusivamente a una piccola serie di
significati come referenti. Quello che Lévi-Strauss definì “il surplus di significanti”, deve essere sog-
conflitto di getto a un’attenta selezione, prima che possa essere attualizzata la logica dell’integra-
potere zione culturale. Questa indicizzazione, come qualcuno l’ha definita, non è un proces-
so automatico, ma passa attraverso il potere e i conflitti di potere, con tutte le conse-
guenze per i valori.
Le osservazioni di Wallace sull’organizzazione della diversità sollevano inoltre
dei problemi sul reale funzionamento del significato nella vita sociale. Coloro che
partecipano all’azione sociale, nota Wallace, non hanno bisogno di comprendere
quali significati si nascondano dietro il comportamento dei loro partner. Tutto ciò
che devono sapere è come rispondere in modo appropriato ai segnali degli altri. Le
questioni relative al significato non devono arrivare sempre e necessariamente al li-
vello della coscienza. Questo è spesso compito di determinati specialisti, il cui lavo-
ro o interesse specifico è quello di esplorare l’abbondanza dei significati possibili:
gli sciamani, i tohunga o gli accademici. Ci sono inoltre situazioni nelle quali la reci-
proca segnalazione di aspettative viene turbata, nelle quali, cioè, vengono alla luce
interessi opposti e contraddittori oppure vengono sfidate le rappresentazioni cultu-
rali. È chiaro, quindi, che al di là della logica e dell’estetica, è il potere che garanti-
sce o meno le strutture del significato.

Il ruolo del Il coinvolgimento del potere nel significato si realizza rendendo credibile la veri-
potere tà, l’utilità e la bellezza di una versione contro altre possibilità che ne ostacolano la
credibilità. Tutte le culture, comunque siano concepite, costruiscono il significato e
cercano di renderlo stabile contro possibili alternative. Nelle vicende umane, le co-
se possono essere differenti, e spesso lo sono. Roy Rappaport, a proposito della sa-
cralità e del rituale (Rappaport 1979b) ha sottolineato la fondamentale arbitrarietà
di tutti gli ordini culturali, come siano ancorati a determinati postulati che non pos-
sono essere né verificati né falsificati, ma che devono essere considerati indiscutibi-
li; per renderli indiscutibili, sono sacralizzati. Aggiungeremmo, inoltre, che esiste
IL POTERE: VECCHIE CONCLUSIONI, NUOVE DOMANDE 277

sempre la possibilità che possano sfaldarsi. Per queste ragioni il lavoro simbolico L’indiscutibilità
dei postulati e la
non è mai definitivo, non raggiunge cioè nessuna soluzione finale. L’affermazione sacralizzazione
culturale relativa a un’unica composizione del mondo, deve essere ripetuta e sanzio-
nata, per timore che sia messa in discussione e, in tal modo, negata. Il problema vie-
ne chiarito da Valerio Valeri nel suo studio del rituale nelle Hawaii, Kinship and Sa-
crifice. Il rituale, sostiene (1985, p. XI), produce significato

attraverso la creazione di opposizioni nel continuum dell’esperienza. Questo implica la


soppressione di determinati elementi d’esperienza al fine di dare rilevanza ad altri. Quin-
di la creazione di un ordine concettuale rende necessaria, per sua natura, anche la sop-
pressione di alcuni aspetti della realtà.

La dottrina cinese della rettificazione dei nomi, rappresenta un esempio della La Cina e la
soppressione delle alternative. Stabilire che il mondo funziona in un modo e non in rettificazione
un altro richiede categorie per ordinare e dirigere l’esperienza. Secondo questa dot- dei nomi
trina, se i significati si moltiplicassero tanto da trascendere i confini stabiliti, il con-
senso sociale diverrebbe impossibile, le persone cioè si danneggerebbero l’una con
l’altra “come l’acqua con il fuoco”. Un governo saggio deve quindi restituire alle
cose le loro definizioni, riconoscendo chiaramente che il mantenimento delle cate-
gorie serve al sostentamento del potere e che questo, a sua volta, mantiene l’ordine
del mondo (cfr. Pocock 1971, pp. 42-79).

Modalità del potere e modalità di categorizzazione


Abbiamo trattato delle diverse modalità del potere strutturale che operano per Le diverse
mezzo di relazioni chiave fondamentali. Ogni modalità sembrerebbe richiedere modi formazioni sociali
diversi di concettualizzare e di categorizzare le persone. Nelle formazioni sociali che e la classificazione
delle persone:
utilizzano una forza lavoro strutturata mediante relazioni definite come parentela, le strutture
persone vengono assegnate alle reti o alle strutture di parentela distinte secondo il parentali, basate
criterio del genere, delle diverse sostanze o essenze di discendenza, dei diversi rap- sui tributi e
porti con la morte, delle diverse distribuzioni di miti, rituali e simboli. Le formazioni capitaliste
basate sui tributi sistematizzano gerarchicamente questi criteri e costituiscono strati
sociali distinti, ogni strato viene contrassegnato da una caratteristica sostanza intima
che definisce inoltre la sua posizione e i suoi privilegi nella società. Nelle formazioni
capitalistiche l’individuo viene letteralmente astratto dai gruppi ascrittivi circostanti
e le persone sono definite come attori separati, liberi di cambiare, contrattare e ba-
rattare al mercato o in qualche altro settore della vita. Le tre modalità di categorizza-
re gli attori sociali, inoltre, sottendono relazioni diverse con la “natura” e l’universo. Conflitti tra forme
Quando una modalità entra in conflitto con un’altra, anche le categorie fondamenta- di classificazione
li che autorizzano le sue dinamiche vengono sfidate. Sarà allora invocato il potere al
fine di contrastare le rivendicazioni categoriche dei rivali. Il potere, quindi, non è
mai esterno al significato ma è in esso, lo conferma e lo difende.

L’antropologia sociale ha intuito che l’assetto della società sia più facilmente vi- Percepire il ruolo
sibile quando viene sfidato dalla crisi. Il ruolo del potere è inoltre più evidente del potere nelle
quando i valori vengono sfidati da grandi trasformazioni dell’organizzazione. Ecco trasformazioni
alcuni esempi. Nel loro studio sull’esperienza della visione tra gli indiani delle pia-
nure, Patricia Albers e Seymour Parker (1971) distinguono le visioni personalizzate
dei raccoglitori ugualitari che vivono ai margini delle pianure, dalle visioni standar- La crisi della
società e del
dizzate e controllate dal gruppo parentale degli orticolturalisti di villaggio. Un terzo significato e il
tipo di concezione, orientato alla guerra e alla ricchezza, emerse tra i cacciatori di ruolo del potere
278 ERIC R. WOLF

bufalo nomadi che lo svilupparono in risposta all’introduzione del cavallo e del fu-
Gli indiani
delle pianure cile. Dal momento che l’allevamento dei cavalli si dimostrò sempre più produttivo,
gli ortoculturalisti divennero sempre più lacerati dai conflitti tra le visioni personali
dei giovani coinvolti nella caccia al bufalo, e quelle controllate dai gruppi ereditari
di parentela.
Lo sviluppo dello Stato dei merina nel Madagascar fornisce un ulteriore esempio
I merina nel (cfr. Berg 1986 e Bloch 1986). Man mano che lo Stato si faceva sempre più potente e
Madagascar
centralizzato attorno a una agricoltura intensiva e a una gerarchia sociale sempre più
complessa, il centro reale emerse come il fulcro del sistema ideativo. Riti locali di cir-
concisione, aspersioni, offerte in onore dei superiori, rituali di distribuzione di sim-
boli e talismani vennero sincronizzati e fusi sempre più con i rituali di Stato.
I rituali della regalità nelle Hawaii forniscono un terzo esempio. Il loro sviluppo
fu legato alle grandi trasformazioni che interessarono le Hawaii dopo il 1400, quan-
La regalità
nelle Hawaii do l’agricoltura e l’acquacoltura furono estese e intensificate (v. Earle 1978; Kirch
1985; Sprigg 1988). Le comunità locali furono riorganizzate, i lignaggi decostruiti, i
cittadini persero il diritto a mantenere le genealogie e a frequentare i templi, venen-
do assegnati come semi-affittuari a capi subalterni esterni alla comunità. Capi e ari-
stocratici furono elevati, come dei, a un ceto endogamo separato. I conflitti all’in-
terno dell’élite sfociarono in una guerra endemica e in tentativi di conquista, ali-
mentando il culto del sacrificio umano. Le innovazioni nel mito e nel rituale dipin-
sero lo scoppio della guerra e della violenza come un arrivo di stranieri, “squali sul-
la terra”. Sahlins (1985) ha proposto la nozione di struttura culturale per interpreta-
re in che modo gli hawaiani colsero questi cambiamenti e come rivalutarono le loro
comprensioni nel corso del cambiamento.
Dialettica fra Il riferimento alla sola struttura culturale, però, o a una dialettica tra la struttura
struttura e di significato e il mondo, non spiega ancora come determinate forme di significato
mondo e relazioni si relazionino alle trasformazioni agricole, agli insediamenti, all’organizzazione so-
di potere
ciopolitica e alle relazioni di guerra e pace. Per spiegare cosa è successo alle Hawaii
o da qualunque altra parte dobbiamo comprendere le conseguenze dell’esercizio
del potere.

In queste pagine ho offerto un contributo a un’antropologia che non si contenta


semplicemente di tradurre, interpretare o giocare con un caleidoscopio di fram-
menti culturali, ma che cerca spiegazioni di fenomeni culturali. Possiamo costruire
a partire dai tentativi e dalle intuizioni del passato, ma dobbiamo porci nuove do-
mande. Considero l’antropologia un impegno cumulativo e anche una ricerca col-
lettiva che si estende per successivi cerchi concentrici, una ricerca che dipende dai
contributi di ognuno di noi, e per la quale siamo tutti responsabili.
IL POTERE: VECCHIE CONCLUSIONI, NUOVE DOMANDE 279

Biografia intellettuale

Eric R. Wolf è Distinguished Professor di antropologia all’Herbert Lehman Colle-


ge e al Graduate Center della City University di New York. Ha svolto ricerche sul
campo a Portorico, in Messico e nelle Alpi italiane. Ha prestato il suo contributo al-
le ricerche comparative sui processi di ruralizzazione e sull’articolazione delle socie-
tà complesse. I suoi lavori più conosciuti sono Sons of the Shaking Earth (1959),
Peasants (1964) e L’Europa e i popoli senza storia (1982). È membro dell’American
Academy of Arts and Sciences.

Penso che la mia spinta intellettuale sia nata dall’importanza che ha avuto per
me crescere in una famiglia ebrea perfettamente assimilata, in un’Europa centrale
che era sì multietnica, ma sempre più nazionalista e antisemita. Da bambino mi af-
fascinavano gli animali e, in seguito, la montagna e il folklore tedesco. Trapiantato
in Inghilterra, ormai adolescente, entrai in contatto con le scienze naturali leggendo
J. B. S. Haldane. Iniziai le scuole superiori (1940) con l’intenzione di studiare bio-
chimica ma, dopo aver vagabondato tra le scienze sociali, approdai al corso di cul-
tura e personalità tenuto da Hortense Powdermaker e alle lezioni di antropologia
asiatica di Joseph Bram. Powdermaker aveva studiato alla London School of Econo-
mics con Malinowski, Bram era stato allievo di Boas.
Trascorsi tre anni nelle truppe di montagna dell’esercito degli Stati Uniti, ri-
uscendo così a terminare le scuole superiori grazie al salario militare. Iniziai, poi, gli
studi antropologici alla Columbia University. Durante la guerra, approfondii la pro-
spettiva socialista, soprattutto attraverso la lettura dell’economista Paul Sweezy, del
Polymath caraibico C. L. R. James e, durante l’estate che precedette la scuola di
specializzazione, lo studio ecologico e politico-economico sulla Cina di Karl Wittfo-
gel (1931). Alla Columbia, dapprima seguii due corsi con Ruth Benedict e, successi-
vamente, con Julian Steward, che mi invitò a partecipare alle sue ricerche sul campo
a Portorico (1948-1949). Questo lavoro, a sua volta, mi portò ad approfondire i
problemi dell’America Latina. Gli studi alla Columbia University mi permisero inol-
tre di entrare in contatto con un gruppo di studenti straordinariamente in gamba,
composto da Stanley Diamond, Morton Fried, Robert Manners, Daniel McCall,
Sidney Mintz ed Elman Service. Formammo un gruppo di ricerca e imparammo
moltissimo l’uno dall’altro. Talvolta, quando da Chicago passava per New York, si
univa a noi John Murra.
Benedict e Steward, ciascuno a suo modo, stimolarono i miei interessi sulle for-
me in cui gruppi e regioni si saldano nelle cornici degli Stati nazionali, spingendomi
così a continuare nei miei interessi, dapprima in biblioteca e successivamente sul
campo, in Messico (1951-1952). Qui entrai in contatto con due rifugiati di grande
talento, Pedro Armillas, che mi avvicinò a un nuovo tipo di archeologia, e Angel
Palerm, con il quale condivisi i medesimi interessi politici e intellettuali. Questi
contatti e impegni resero gli anni Cinquanta un periodo di intense e produttive ri-
cerche sull’interazione tra gruppi e istituzioni durante la storia messicana.
Dopo aver insegnato in una serie di istituzioni, tornai alla ricerca sul campo se-
guendo i miei interessi verso l’ecologia e l’identità nazionale presso due comunità
contadine situate su entrambi i lati di una frontiera linguistica delle Alpi italiane
(1960-1961). Fortunatamente, mi unii a un gruppo di colleghi della University of
Michigan, che comprendeva, tra gli altri, Marshall Sahlins, Elman Service e Roy
Rappaport, che lavorava a una sintesi tra prospettive ecologiche ed evoluzionisti-
che. Mentre negli anni Cinquanta mi ero concentrato sul Messico, i primi anni Ses-
280 ERIC R. WOLF

santa, trascorsi presso la University of Michigan, mi permisero di approfondire il


discorso comparativo sul mondo contadino. Con William Schorger organizzai ricer-
che sul campo in entrambe le coste europee e africane del Mediterraneo e con John
W. Cole, allora appena laureato portammo avanti una ricerca sulle comunità alpine,
che sfociò alla fine in un volume, La frontiera nascosta, pubblicato nel 1972. Nel
1971 mi spostai alla City University di New York, per insegnare nei corsi di laurea
del Lehman College, nel Bronx, e nei corsi post-laurea al Graduate Center. Lo scopo
delle mie ricerche si estese fino ad abbracciare l’inclusione e la partecipazione di so-
cietà e culture estremamente diverse nei sistemi di interazione globale. Questo im-
pegno mi spinse a scrivere L’Europa e i popoli senza storia (1982). Rimango ancora
affascinato e perplesso dal modo in cui le varie entità sociali e culturali prese in esa-
me dagli antropologi risultano collegate l’una all’altra mentre, allo stesso tempo, si
insiste tanto sulla loro separazione e sul loro carattere distintivo.
Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso un’antropologia me-
dica critica*
Nancy Scheper-Hughes

Il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo


Merleau-Ponty, 1962

Nel 1989 durante una lezione alla University of California, a Berkeley, Ronald
Frankenberg ricordò che fu per lui una grande sorpresa apprendere, attraverso Gli uomini vivono
l’antropologia medica, che “gli esseri umani vivono in corpi, mentre prima crede- in corpi
va che essi vivessero in comunità”. Frankenberg si riferiva alla sua formazione
nell’ambito della tradizione antropologica britannica, che concepiva il corpo es-
senzialmente come astorico e universale, occupandosi delle particolarità della
struttura sociale, della funzione e dei ruoli in cui erano inseriti i corpi individuali
come intercambiabili (i corpi individuali erano infatti considerati come fasci di
ruoli). Fu solo dopo molti anni, spiegò Frankenberg, che divenne consapevole
che, per comprendere il conflitto sociale, la comunità, piuttosto che essere un’u-
nità d’analisi troppo “micro” o ridotta (come ritenevano i teorici sociali marxisti),
era invece troppo ampia o “macro”.
Frankenberg continuò dicendo che, se avesse preso più sul serio gli studi di
Durkheim sulla teoria dell’anomia, o quelli di Marx sulla teoria dell’alienazione, o
anche quelli di Freud sulla conversione isterica, sarebbe stato in grado di prevedere
perché il corpo sarebbe emerso come il campo d’interesse centrale di fine secolo.
Di fatto però la rivelazione gli giunse principalmente attraverso i più umili studi L’antropologia
empirici dei suoi colleghi antropologi medici che lavoravano nelle cliniche, negli medica e la
“scoperta” del
ospedali, nelle zone rurali, nelle fabbriche, tra le persone affette da malattie, follia, corpo, del sé,
dolore, disabilità e disagio. della riflessività e
La mia discussione prenderà le mosse proprio da questo tema – la “scoperta” e della resistenza
la nuova consapevolezza dei corpi da parte dell’antropologia – situandolo nell’am-
bito della discussione sull’invenzione di un’antropologia medica critico-interpretati-
va (vedi Lock, Scheper-Hughes 1990), e mostrandone i potenziali contributi per la
teoria antropologica, per la pratica medico/psichiatrica e per la prassi politica. In
un certo senso, questa discussione prende le mosse laddove si era fermata Sherry
Ortner (1984), con la sua panoramica Theory in Anthropology Since the Sixties. Se
gli anni Sessanta furono dominati dai temi del “simbolo, della natura e della strut-
tura”, e gli anni Settanta si occuparono della tardiva scoperta, da parte dell’antro-
pologia, di Marx, dell’economia politica, e delle teorie del sistema mondiale, io ca-
ratterizzerei gli anni Ottanta come la decade contraddistinta teoricamente dall’at-
tenzione per i domini sovrapposti del corpo, del sé, delle emozioni, della riflessività
e della resistenza1.

Lo studio del corpo in antropologia medica L’incorporazione


Vorrei sottolineare che proprio l’interesse “preferenziale” dell’antropologia me- come paradigma
dica per il corpo, rappresenta la sua specificità come campo sottodisciplinare di- dell’antropologia
stinto dall’antropologia sociale e culturale (dove il corpo è praticamente assente) e medica
282 NANCY SCHEPER-HUGHES

dall’antropologia fisica (dove il corpo c’è ma è muto). Sebbene introduca l’incorpo-


razione come paradigma centrale dell’antropologia medica, rimango comunque
consapevole di quanto questo campo sia situato in modo precario tra i mondi e i si-
gnificati biologico/biomedici e quelli simbolico/socioculturali.

Il dibattito fra Da un certo punto di vista esiste una differenza basilare tra le diverse modalità
antropologia antropologiche e biomediche di conoscere e guardare. Il sapere antropologico è
medica e fondamentalmente esoterico (occupandosi di differenza, estraneità e alterità), locale
medicina
(in termini geertziani), simbolico, e rischiosamente relativista. Il sapere biomedico è
invece intrinsecamente mondano, universale (e universalizzante), oggettivista e radi-
calmente materialista/riduzionista2. Da un altro punto di vista, rispetto all’oggetto
d’analisi, l’antropologia medica è più vicina alla biomedicina – con il suo sguardo
fisso e intenso sul, o interno al, corpo – di quanto non lo sia l’antropologia sociale.
La “datità” A riguardo, è proprio il caratteristico disinteresse dell’antropologia sociale per il
del corpo corpo che la rende distante dall’antropologia medica. Il “corpo” ipotizzato di cui io
parlo – mindful3, nervoso, consumistico, feticizzato, al lavoro, angosciato, o disciplina-
to4 – è, per gli antropologi medici critici, allo stesso tempo reale ed esistenzialmente
dato, anche se la sua datità è sempre storicamente e culturalmente prodotta. Per
quanto i corpi siano, in una certa misura, ‘costruiti’, esistono tuttavia dei limiti alla
capacità di costruzione, e gli antropologi medici critico-interpretativi (vedi Lock,
Scheper-Hughes 1990) considerano il corpo in termini differenti dalle astrazioni si-
gnificanti, simboliche ed estetizzanti degli antropologi sociali.
L’impossibilità di mettere in discussione il corpo era, secondo Wittgenstein, il pun-
Wittgenstein, il to di partenza di ogni sapere e di ogni certezza. “Se sai che qui c’è una mano”, iniziava
corpo e la il suo ultimo libro, Della Certezza (1969, p. 3), “allora ti concediamo tutto il resto”. Ma
certezza detto questo, Wittgenstein, che allora lavorava con pazienti ospedalizzati, vittime
smembrate e compromesse fisicamente e spiritualmente dalla seconda guerra mondia-
le, si dedicò all’esclusiva indagine di quelle circostanze che erodevano e privavano del-
la “certezza” del corpo. Nei miei recenti lavori sui corpi nervosi-affamati (1988b) e
“scomparsi” (1992) dei tagliatori di canna da zucchero brasiliani, ho indagato un insie-
me di circostanze che forniscono a moltissime persone motivi di perdita della certezza
circa i loro corpi, e che favoriscono la disperazione e il dubbio esistenziale.
Idealmente l’antropologo medico sul campo si sente “a casa” con il corpo proprio
come il proverbiale medico di campagna quando fa il suo giro di visite. Spesso la gen-
te della baraccopoli brasiliana di Alto do Cruzeiro mi avvicina bruscamente per farmi
guardare, toccare, esaminare una ferita infetta e infiammata, oppure una frattura ma-
Lo sguardo lamente ricomposta che sporge, con un’improbabile angolazione, da sotto i pantaloni
clinico e quello laceri. Tuttavia, gli antropologi medici non sono dei dottori frustrati e il loro “sguar-
antropologico
do” (o prospettiva) non va confuso con il penetrante, dissimulante, “sguardo clinico”
descritto da Michel Foucault (1963). Se infatti lo sguardo clinico e biomedico ha ri-
dotto il corpo a particelle sempre più piccole e invisibili (Valery 1989), e se lo sguardo
epidemiologico si è allontanato dai corpi individuali e dai gruppi sociali per studiare
“comportamenti ad alto rischio” (Bolton 1992) disincorporati e distaccati, la prospet-
tiva medico-antropologica rimane fissa su, intorno, e tra, i reali, vissuti, esperienziali
corpi che soffrono. Lo sguardo dell’antropologia medica sfiora la superficie del corpo
per muoversi verso il contesto, per cogliere il gioco di metafore, figure retoriche e si-
I “tre corpi”
gnificati simbolici entro la rete di scambi tra i “tre corpi” (Scheper-Hughes, Lock
1987): il corpo sociale delle rappresentazioni, il controllo esercitato dalle forze del bio-
potere sul corpo politico, e, non indipendente dai primi, la consapevole, più o meno
alienata, attribuzione di significati all’individuale ed esistenziale corpo personale.
IL SAPERE INCORPORATO 283

Quanto detto basta per quanto riguarda la polemica tra l’antropologia medica e Il dibattito tra
antropologia
la biomedicina. La questione con l’antropologia sociale è invece di tutt’altro tipo, e medica e
fa riferimento al fatto che il corpo è apparso, nella storia della disciplina, solo spo- antropologia
radicamente e in modo criptico. Di conseguenza, la maggior parte dei dibattiti sulle sociale
relazioni umane e la vita sociale in antropologia hanno ruotato intorno a un vuoto
analitico in seno alla disciplina: l’assenza del corpo. Tradizionalmente, il corpo, se
preso in considerazione, appariva nei lavori degli antropologi (tra cui Durkheim
1897; Van Gennep 1909; Lévi-Strauss 1958; Mary Douglas 1970; Clifford Geertz
1974; Robert Hertz 1909; Victor Turner 1969; e Terrence Turner 1980) come stru-
mento per l’iscrizione sociale, cioè come un mezzo su cui iscrivere simboli e analo- Il corpo come
gie del mondo sociale. In questo senso, le società potevano affermare la loro co- strumento per
erenza, il loro consenso e quella lealtà culturale inconscia che Pierre Bourdieu l’iscrizione sociale
(1974, p. 164) definisce con il termine di “doxa” – la “corrispondenza quasi-perfet-
ta tra l’ordine oggettivo e i principi soggettivi di organizzazione… [cosicché] il
mondo naturale e sociale appare come auto evidente”. Il corpo culturale “naturaliz-
za” il fittizio corpo sociale, facendo sì che la società appaia come “indiscutibilmen-
te” certa, “reale”, ed esistenzialmente “data”. Sembrerebbe che “le categorie socia-
li” vengano assunte insieme al latte materno.
Il corpo indagato dall’antropologia sociale emerge come un peso passivo, inerte,
morto e attaccato a una mente vitale, reattiva, nomade, che rappresenterebbe così il La mente come
vero agente della cultura. Terrence Turner (1980, p. 113) descrive la superficie del vero agente della
cultura per
corpo come una “pelle sociale”, una sagoma, un “palcoscenico simbolico su cui il l’antropologia
dramma della socializzazione viene messo in scena”. Pierre Bourdieu (1977 [ed. or. sociale
1974), seguendo Marcel Mauss (1925), fornisce una descrizione ironica dei contadi-
ni algerini i cui movimenti corporei appaiono determinati dal loro essere inseriti in
un particolare ordine culturale, tecnico e produttivo. Nonostante sembri ci sia gra-
zia e significato nei gesti ritmici dei contadini, rappresentati come metafore incor-
porate sospese nel tempo e nello spazio, l’ordine corporeo è tuttavia appeso allo
stenditoio degli imperativi culturali e tecnici.
Dalla scrittura particolarmente evocativa di Bourdieu il corpo emerge come in- Bourdieu,
corporazione (o somatizzazione) della cultura. L’ordine sociale ha la priorità, e ri- l’habitus e la
priorità del
produce i corpi individuali che sono docilmente compatibili con esso. Questo è ciò sociale
che Bourdieu sembra intendere con “habitus”, l’espressione corporea, informata
dall’abitudine, di identità sociale, appartenenza e affermazione culturale. Tutto ciò
potrebbe essere definito come “la positività” del corpo.

Michel Foucault, al contrario, ha esplorato l’opposto, ossia la “negatività” del


corpo, in modo particolare gli effetti distruttivi delle relazioni di potere sul corpo Foucault
socialmente e politicamente costituito. Nel suo saggio “Body/Power”, Foucault
(1980, p. 55) sostiene che “il corpo sociale è l’effetto, non del consenso sociale, ma
della materialità del potere che opera sui corpi degli individui”. Tale posizione è ar-
gomentata con più efficacia da Foucault nelle sue storie della medicina e della psi-
chiatria con la loro produzione di corpi medicalizzati e violati, e di sessualità psico-
logizzate e annullate (si veda Foucault 1975, 1976, 1980, 1984). Il “corpo di Fou-
cault”, inteso come quel nesso di lotte di potere che emergono nello “stato” delle
cose (ossia nel corpo politico), è prontamente trasferito al bagaglio di un’antropolo-
gia medica interpretativa, dove il corpo in questione è più spesso afflitto, alienato e
sofferente di quanto non sia estatico, decorato, affermativo. La domanda foucaul-
tiana “Che tipo di corpo la società vuole e di cui ha bisogno?” ha stimolato una rifles-
sione critica nell’antropologia medica contemporanea.
284 NANCY SCHEPER-HUGHES

L’assenza Ciononostante, il corpo immaginato da Foucault è ancora, in larga misura, un cor-


dell’esperienza
del body-self
po privo di soggettività, senza cioè una reale esperienza dell’affermazione e dell’alie-
nazione o del potere e della sua assenza. Ciò che manca, sia nel corpo sociale degli an-
tropologi simbolici che nel corpo politico della teoria foucaultiana del bio-potere, è
l’esperienza esistenziale del pratico e attivo soggetto umano. Entrambi i due corpi,
prodotti dell’iscrizione sociale e del controllo politico, si lasciano dietro un progetto
fallimentare, perché ignorano l’esperienza vissuta del body-self. È questa terza dimen-
sione, quella delle “mancanti”, consapevoli, e spesso alienate esperienze individuali e
collettive del body-self, che l’antropologia medica interpretativa riporta sotto il domi-
nio dell’antropologia nella forma del “mindful body” (Scheper-Hughes, Lock 1987).
A ciò si giunge attraverso la pressione esercitata dal suo stesso oggetto d’analisi: i cor-
pi sofferenti che rifiutano di essere semplicemente estetizzati o metaforizzati.

Il corpo dell’antropologia medica


Il corpo dell’antropologia medica, allora, rappresenta l’intersezione di tre corpi:
Il corpo come
intersezione di
il corpo personale, sociale e politico. Questi non vengono considerati come tre di-
personale, stinti, anche se sovrapposti, livelli di analisi, ma come la sintesi lavorativa di tre ap-
sociale, politico procci teorici: quello fenomenologico esistenziale (il body-self individuale); quello
dell’antropologia simbolica e strutturale (il corpo sociale); quello della teoria critica,
in riferimento soprattutto al concetto gramsciano di egemonia (1948-51) e al post-
strutturalismo di Foucault. L’antropologia medica critica vede nel corpo il terreno
più prossimo, più immediato, dove le verità sociali vengono forgiate e le contraddi-
zioni messe in scena, così come anche il luogo di resistenza personale, di creatività e
di lotta. Nel riportare il corpo soggettivo, prima assente, al centro delle loro indagi-
ni, gli antropologi medici critici invertono la domanda di Foucault: “Che tipo di so-
cietà è quella che il corpo desidera, sogna e di cui ha bisogno?”.

Il corpo sovversivo

Il corpo è il primo
e il più naturale
strumento dell’uomo
(Marcel Mauss 1925, p. 392).

Con incorporazione si intendono le modalità attraverso cui le persone ‘abitano’ i


L’“habitus” loro corpi, così che questi si “abituino”. Questo gioco di parole si rifà alla nozione
come serie di di “habitus” di Mauss, termine più tardi ripreso da Bourdieu, e con cui Mauss in-
tecniche
somatiche
tendeva riferirsi a tutte le abitudini apprese e a tutte quelle tecniche somatiche che
apprese rappresentano l’arte culturale di utilizzare il, ed essere nel, corpo (e nel mondo).
Dalla prospettiva fenomenologica di alcuni antropologi medici (preoccupati del
senso “vissuto” della malattia), dolore, disabilità e altre forme di sofferenza umana
rappresentano espressioni corporee, culturalmente informate, di relazioni sociali di-
namiche. La malattia è più di un semplice scontro sfortunato con la natura. Essa
rappresenta più di qualcosa che “semplicemente capita” alla gente. La malattia è
qualcosa che gli esseri umani fanno in modi squisitamente originali e creativi. La
malattia è una forma di prassi del corpo, di azione corporea.
La malattia Le seguenti notazioni sono dedicate proprio a questo segreto linguaggio del cor-
come forma di po (i sintomi di malattia) e possono anche essere interpretate come un tentativo di
azione corporea sostituire l’idioma psicosomatico della “somatizzazione”, così popolare nell’antro-
pologia medica convenzionale. In questa sede mi concentrerò sulla “saggezza” del
IL SAPERE INCORPORATO 285

corpo, sulla sua intenzionalità e significatività nel produrre ribelli e “caotici” sinto-
mi che aprono continue brecce nei confini tra mente e corpo, natura e cultura, cor-
po individuale e sociale. Il corpo è “naturalmente” sovversivo: si rifiuta di confor-
marsi a epistemologie che trafficano tra opposizione e dualismi, tra materialismi ri-
duzionisti e radicali.
Inizialmente gli antropologi medici erano abbastanza soddisfatti di lavorare al- Malattia come
l’interno della cornice psichiatrica e psico-somatica di Eisenberg (1977) e Klein- esperienza
man (1980) che distinguevano tra l’esperienza soggettiva di malattia, così come è soggettiva e
oggettiva; malattia
percepita dai pazienti5, e la patologia oggettiva, così come viene diagnosticata dal- come dramma e
l’esperto biomedico6. L’esperienza di malattia del paziente veniva considerata co- performance
me un importante fattore di trasformazione delle altrimenti reificate e universali
categorie biomediche di diagnosi e classificazione. In seguito, alla luce degli scritti
degli antropologi medici criticamente orientati7, la malattia fu gradualmente libe-
rata dal dominio individualizzante delle relazioni medico-paziente, e venne consi-
derata in termini maggiormente collettivi e sociali come, ad esempio, nella forma
di narrazioni culturali, di drammi e performance, di rituali di resistenza corporea e
di riforma sociale.
Se il corpo può essere utilizzato per esprimere un senso di appartenenza e di af- Il corpo
fermazione (come l’antropologia simbolica ha a lungo suggerito), è vero anche che espressione
del disagio e
esso può essere utilizzato per esprimere sentimenti negativi e conflittuali, sensazioni dell’alienazione
di disagio, di alienazione, frustrazione, rabbia, risentimento, tristezza e perdita.
Queste due forme di espressione corporea esistono in relazione dialettica, espri-
mendo le tensioni tra appartenenza e alienazione che esistono ovunque nella vita
sociale. Nei sistemi sociali caratterizzati da una situazione di ineguaglianza istituzio-
nalizzata (sia nei termini di genere, razza, classe che in quelli di gerarchie di casta),
sensazioni di oppressione, frustrazione e rabbia sommersa sono sentimenti persona-
li e sociali comuni, sebbene spesso vietati.

Le armi mediche dei deboli


James Scott (1985, p. XV) ha sostenuto che, se le classi sociali prive di potere ra-
ramente possono permettersi “il lusso di un’attività politica aperta ed organizzata”, Le “istituzioni
riparatrici”
chi è afflitto mette però spesso in piedi una notevole varietà di forme di resistenza,
che comprendono “il tirare per le lunghe, la dissimulazione, la diserzione, la falsa
accondiscendenza, il rubacchiare, l’ignoranza simulata, la calunnia, l’incendio dolo-
so, il sabotaggio e via dicendo” (p. XVI). A queste armi dei deboli, l’antropologia
medica critico-interpretativa aggiunge quelle tattiche somatiche e “istituzioni ripa-
ratrici” che appaiono molto frequentemente nel nostro campo: 1) stregoneria, ma-
gia, malocchio e contro-stregoneria; 2) trance e possessione; 3) parossismo nervoso
e follia; e 4) rituali organizzati e messe in scena capovolte e fantastiche.
Accuse di magia e stregoneria, così come la malattia, sono invocate in molti ango-
La stregoneria
li di mondo per spiegare la sventura e per correggere relazioni sociali critiche. Leith come espressione
Mullings (1984), ad esempio, nota che nel contesto della crescente commercializza- di tensione sociale
zione della vita sociale, nei centri urbani del Ghana, le malattie ritenute opera di
stregoneria, e le relative accuse, esprimono le tensioni sociali e le ostilità correlate al-
l’introduzione del capitalismo industriale. Le accuse di stregoneria colpiscono spe-
cialmente quegli individui che sono impegnati in competizioni non paritetiche, che
sono “avidi” e materialisti, e che, di conseguenza, violano maggiormente i valori con-
divisi collettivamente e rendono gli altri membri della comunità deboli e malati. Fa-
vret-Saada (1977, 1989) ha dimostrato il ruolo formidabile svolto dalla stregoneria
nelle relazioni sociali della tradizionale economia agricola della regione della Bocage
286 NANCY SCHEPER-HUGHES

nella Francia occidentale. Nella Bocage, i capi famiglia maschi delle piccole fattorie
spesso cadono vittime di malattie causate da stregoneria. Questi si ritrovano paraliz-
zati, incapaci di lavorare e di produrre. Le malattie imputate a stregoneria sono spes-
so espressione del senso di colpa del contadino nei confronti dei suoi atti, cultural-
mente e giuridicamente sanciti, di violenza nei confronti dei suoi più stretti parenti,
atti legati all’acquisizione, per eredità, della fattoria. L’eredità della terra implica che
i propri fratelli vengano spossessati e che l’erede, come capo fattoria, si troverà nella
condizione strutturale di sfruttare il lavoro gratuito di molti familiari, moglie, figli,
fratelli e sorelle non sposati, o privi di terra. Le tecniche di “liberazione dalla strego-
neria” servono a dirigere le tensioni e le fonti di ostilità a vicini distanti (che sono
identificati come i primi sospettati), cioè verso coloro con i quali non vi è alcun rap-
porto. Liberarsi dalla stregoneria funge da pratica istituzionale risolutiva, che con-
sente al contadino di liberarsi dal conflitto e continuare il suo lavoro senza alcun sen-
so di colpa e senza paura di essere biasimato per il destino che gli ha permesso, in
quanto primogenito, di assumere il ruolo di capofamiglia.
Messe in scena Le messe in scena fantastiche offrono alle persone afflitte un altro modo di cir-
fantastiche e cuire o di gestire il conflitto e le contraddizioni che spesso circondano le relazioni
gestione del sociali nelle società caratterizzate da ineguaglianze di classe o di genere. Una forma
conflitto di messa in scena istituzionalizzata, presente più o meno ovunque nel mondo, attra-
verso cui le donne e gli uomini hanno espresso i loro desideri frustrati sono i rituali
di oblio, inversione, e travestimento, come lo scambio dei generi nella cerimonia na-
ven della Nuova Guinea (Bateson 1958), la festa indiana dell’amore holi (Marriot
1966) e il carnevale brasiliano (DaMatta 1983; Scheper-Hughes 1988a; Parker 1990).
Tutte queste hanno in comune l’inversione dell’ordine sociale normativo e dell’eco-
nomia morale che governa il comportamento della vita quotidiana. Proiettato in un
Il mondo alla mondo capovolto, sotto sopra, nell’atmosfera carnevalesca di licenza e riso che que-
rovescia e lo ste sceneggiate permettono, si crea uno spazio per chi è senza potere, per il debole,
spazio del debole lo sfruttato e l’oppresso affinché possa assumere una posizione di dominio simboli-
co, e prendere posto al centro del palco. I ruoli sociali oppressivi vengono così capo-
volti: i contadini si prendono gioco dei proprietari; le mogli rimproverano i mariti;
gli uomini si vestono come donne; la sessualità è esibita piuttosto che nascosta. Un
caos creativo e uno spazio di liminalità rimpiazzano l’ordine e la struttura. Sebbene
si sia a lungo e calorosamente discusso (si veda Gluckman 1955; Babcock 1978;
Hobsbawm 1965; Illich 1982; Davis 1975; Ladurie 1979) sul carattere potenzialmen-
te rivoluzionario o conservativo di questi rituali, non vi è stato alcun esame della na-
tura terapeutica psico-socio-bio-fisiologica di questi rituali di riparazione e di prote-
sta per gli individui poveri e marginalizzati, che in essi lanciano i loro corpi con evi-
dente piacere. Allo stesso modo, alcune modalità di espressione della malattia, della
disabilità e della follia possono essere considerate come atti di rifiuto incorporato,
La natura come farse e come proteste da parte di chi è privo di potere contro l’oppressione
terapeutica delle ideologie e dei ruoli sociali. Tra tutte le tecniche per esprimere il dissenso, la
psico-socio-bio-
fisiologica
sfida e il malcontento, la malattia è certamente la più comune, ma è anche una delle
dei rituali più problematiche. Un approccio critico-interpretativo, che consideri la malattia co-
me prassi corporea (o come agire corporeo), deve superare i paradigmi psico-somati-
ci e psicanalitici prevalenti che, attraverso il termine “somatizzazione”, servono am-
piamente a rinforzare gli stereotipi negativi e a stigmatizzare coloro che hanno scelto
di dire la verità ai poteri costituiti attraverso il veicolo dei propri corpi.

Riesaminare la Il concetto di somatizzazione viene generalmente inteso come l’inconscia e di


somatizzazione solito disadattata amplificazione ed esagerazione di sintomi psicologici da parte di
IL SAPERE INCORPORATO 287

un individuo che soffre. A questo proposito, gli antropologi medici clinici e con-
venzionali (vedi Kleinman 1980, 1986) hanno condiviso la prospettiva di quei medi-
ci e di quegli psichiatri che consideravano la somatizzazione come un semplice mec-
canismo “primitivo” nelle relazioni tra mente e corpo, come un’implicita espressio-
ne di disagio mentale e sociale nella forma di disturbi corporei non specifici e “neu-
rotici”. La somatizzazione veniva considerata come una caratteristica di uomini e
donne marginalizzate, relativamente privi di potere, psicologicamente non sofistica-
ti e non riflessivi, certamente provenienti dagli stati sociali inferiori o, comunque,
non occidentali. Il passato lavoro di Kleinman (1980), con pazienti cinesi e america-
ni, che concepiva la somatizzazione come una forma di “depressione mascherata”
(dove quest’ultima costituiva la reale patologia sottostante) rappresenta certamente
un esempio di questa tendenza. Il classico studio di Ian Lewis (1971) sulla posses-
sione, considerata come strategia individuale di manipolazione inconscia utilizzata La possessione
dalle persone marginalizzate del Terzo Mondo, ma specialmente dalle donne, ne co- e l’“l’artista
stituisce un altro. In quest’ottica, la possessione spiritica è una sofisticata forma cul- della malattia”
turalmente esotica di conversione isterica, che offre al povero, al debole, alla donna,
una modalità “sicura” di comunicare la propria rabbia, paura, risentimento, ansia e
invidia. Ciò che viene comunicato in queste interpretazioni è la qualità poco at-
traente e la petulante viltà di coloro i quali si abbasserebbero a una strategia così
primitiva. Il paradigma della somatizzazione coniuga anche le immagini sessiste del-
le viziate donne isteriche di Freud, e quelle simili di Elisabeth Barrett Browning e
Alice James (1964), la James “minore”, che erano lamentosamente padrone del loro
piccolo mondo dai confini ridotti della loro stanza da malate. Al posto dell’“artista
della fame” di Kafka abbiamo “l’artista della malattia”.
Un limite del concetto di somatizzazione è che se in teoria esso pretende di so-
stenere un’indissolubile unità di mente e corpo, di corpo individuale e sociale, di La persistenza
natura e cultura, in pratica non riesce a superare questi dualismi. Le malattie vengo- del dualismo
no considerate come la manifestazione soggettiva, evidentemente psicologica, di pa-
tologie reali e fisicamente individuabili, oppure non sono altro che tracce illusorie,
frutto di immaginazione, “pezzi di carne mal digeriti”, come l’apparizione del fanta-
sma di Marley a Scrooge. Se veramente mente e corpo rappresentano un’unità, co-
me anche il più convenzionale degli antropologi medici sarebbe disposto ad asseri- Tutte le malattie
re, allora tutte le malattie, senza eccezioni, sono e devono essere psicosomatiche: sono
tutte sono “somatiche” tanto quanto “mentali”. Ma l’antropologia medica non ha psicosomatiche
mai vissuto all’altezza delle sue convinzioni, e non è mai stata pronta a sostenere
una tesi così radicale e ricca di conseguenze.

La prassi corporea: drammatizzazione della protesta e del disagio attraverso il corpo


Le persone, ovunque, uomini e donne, e di ogni classe sociale, nell’esprimere
sentimenti complessi, contraddittori e ostili utilizzano i loro corpi. I sentimenti ne-
gativi spesso esplodono in un’epidemia di disturbi fisici ribelli e in sintomi che pos- La persona
sono non materializzarsi sotto lo sguardo penetrante di una radiografia o di una incorporata
TAC. Questi sintomi, ribelli e caotici, lacerano e collegano, in modo continuo e si- e le origini
multaneo, i confini tra mente e corpo, natura e cultura, persona e società. Se partia- della malattia
mo da una nozione di persona incorporata, che sopravvive e risponde creativamente
al suo ruolo nell’ordine sociale, le origini sociali del disagio e della malattia così co-
me gli aspetti morbosi dell’ordine sociale e morale emergono chiaramente.
Diviene allora possibile interpretare l’esplosione di possessioni da parte di spiriti
ancestrali, tra le donne che lavorano in moderne catene di montaggio di componenti
elettronici per una multinazionale in Malesia (Ong 1987), come parte di una comples-
288 NANCY SCHEPER-HUGHES

sa negoziazione della realtà in cui le giovani operaie reagiscono, sia alla violazione del-
la loro identità culturale tradizionale, sia alle condizioni lavorative eccessive e forte-
mente disciplinate, attraverso il ricorso a spiriti ancestrali, che causano una tempora-
nea interruzione della produzione. Invece di abbassarsi a utilizzare nozioni cliniche di
assenteismo o di “somatizzazione” psiconeurotica, possiamo cogliere il principio di
uno “sciopero da malattia”, una strategia non lontana dai rallentamenti di produzione
nelle fabbriche, i cosiddetti “scioperi bianchi” (che spesso vengono messi in atto
quando è probabile che uno sciopero aperto fallisca o conduca al licenziamento).
Possiamo anche considerare la produzione di “nuove”, croniche e fastidiose, se
non disabilitanti o terminali, malattie della nostra società in tutte le classi sociali, e in
tutti i gruppi etnici [vedi l’American Psychiatric Association, 1987, DSM-III(R)]. La
contemporanea sovrapproduzione di malattie nelle società industriali avanzate è stata
oggetto di numerosi studi da parte di antropologi medici. Allan Young (1989), ad
esempio, ha studiato i significati sociali e politici dello stress post-traumatico nei vete-
rani di guerra del Vietnam. Emily Martin (1987) ha interpretato l’invenzione medica
La della PMS, sindrome pre-mestruale, come un discorso clinico sul controllo della rabbia
secolarizzazione
della vita sociale: e dell’irritazione femminile socialmente intollerabile. Margaret Lock (1988b) ha visto
la malattia prende nella “scoperta” medica della menopausa in Giappone un’espressione del panico mo-
il posto della rale sulla modernizzazione e occidentalizzazione della famiglia giapponese, del genere
stregoneria e e delle classi d’età. Con Margaret Lock (Scheper-Hughes, Lock 1986), ho spiegato la
della trance
crescente tendenza a esprimere il malcontento personale, il desiderio e la protesta at-
traverso il medium della malattia come conseguenza, in parte, della secolarizzazione
della vita sociale e delle istituzioni pubbliche, che hanno portato alla sparizione di al-
tre forme di resistenza quotidiana, come le accuse di stregoneria, la trance, la messa in
scena, e il carnevalesco, oppure le hanno svuotate della loro efficacia evocativa.
D’altro canto, l’esistenza di queste “istituzioni di rimedio” e di queste tecniche
somatiche non elimina gli usi del corpo nel drammatizzare la protesta e la contesta-
zione. Gli usi creativi della malattia sono inoltre presenti: 1) nella comunità rurali di
contadini, 2) in società che stanno vivendo un rapido o iniziale processo di indu-
strializzazione, e 3) tra i lavoratori salariati e gli artigiani. Le convenzionali osserva-
Usi creativi zioni psichiatriche che le persone povere e gli operai sono particolarmente inclini a
della malattia “inventare” malattie e a “incorporare” la loro infelicità in sintomi immaginari, smi-
nuiscono, sviliscono, e non riescono a comprendere una forma alternativa e assai
diffusa di prassi corporea. La tendenza presente, in biomedicina, psichiatria, e an-
tropologia medica clinica, è quella di eleggere a parametri normativi le nostre tecni-
che psico-corporee, prodotte dalla cultura medica e socialmente prescritte, e di
classificare coloro che non vi si conformano come psicologicamente primitivi, de-
vianti, patologici, irrazionali, o inadeguati.
Contro questa prospettiva intendo presentare un’interpretazione delle vite in-
corporate e della cultura somatica dei tagliatori di canna da zucchero del Nord-Est
del Brasile (Scheper-Hughes 1992) come normative e “meno alienate” rispetto alla
Contro i
parametri tendenza a psicologizzare il disagio sociale e politico che viene accettata nella nostra
normativi della società come una norma e uno standard universali. Quando il disagio personale e
cultura medica sociale viene espresso “psicologicamente”, piuttosto che attraverso un canale di co-
municazione corporeo, il linguaggio “naturale” del corpo viene soppresso, messo a
tacere e negato. Tra i tagliatori di canna da zucchero, la struttura dei sentimenti in-
dividuali e collettivi (fin dentro il sentire dei loro corpi e gli usi a cui esso è dedito)
è espressione non solo del loro abitudinario sistema di disposizioni (nel senso del-
l’habitus di Bourdieu 1990, p. 61), ma anche della posizione e ruolo da essi rivestiti
nell’ordine tecnico e produttivo.
IL SAPERE INCORPORATO 289

Vite incorporate, cultura somatica: nervos nell’Alto do Cruzeiro brasiliano Il corpo come
canale privilegiato
Nel parlare di “cultura somatica” dei dislocati e marginali tagliatori del Nord- delle classi
Est del Brasile, intendo suggerire che la loro è una classe sociale, e una cultura, che popolari
privilegia il corpo, e che li istruisce a prestare particolare attenzione ai sensi fisici e
al linguaggio del corpo espresso dai sintomi. In questo seguo il pensiero di Luc Bol-
tanski (1984), quando sostiene che il pensiero e la pratica somatici sono assai fre-
quenti nelle classi operaie e popolari che si affidano al lavoro fisico per la loro sussi-
stenza. Boltanski notò la tendenza degli operai francesi a comunicare con, e attra-
verso, il corpo rispetto a cui, per contrasto, la prassi e le tecniche corporee delle
classi borghesi appaiono impoverite.
Tra i coltivatori salariati che vivono nella bidonville alle pendici delle colline del-
l’Alto do Cruzeiro, ai margini di una larga cittadina mercantile dell’interno, nell’a-
rea delle piantagioni di Pernambuco, in Brasile, e che vendono il loro lavoro anche
per un solo dollaro al giorno, le contraddizioni socioeconomiche e politiche spesso
prendono forma attraverso le “naturali” contraddizioni dei corpi malati pieni di
rabbia e afflitti. Oltre alle prevedibili epidemie di infezioni parassitarie e di febbre,
si aggiungono le ancor più prevedibili esplosioni di sintomi ribelli e sovversivi che
non si materializzano nel microscopio del dispensario sanitario. Tra questi ci sono i I nervos come
sintomi fluidi del nervos (nervosismo frenetico e rabbioso): tremore, svenimento, metafora di
crisi, pianto isterico, recriminazioni rabbiose, perdita temporanea di coscienza e contraddizioni
paralisi della faccia e degli arti.
Questi attacchi nervosi rappresentano in parte delle metafore codificate attra-
verso cui i lavoratori esprimono la loro precaria e inaccettabile condizione di mal-
nutrizione cronica e di bisogno (vedi Scheper-Hughes 1988b), e in parte, rappre-
sentano atti di sfida e di dissenso che registrano graficamente il rifiuto di sopporta-
re ciò che è, nella realtà, insopportabile e la loro protesta contro la loro disponibili-
tà allo sfruttamento fisico e all’abuso. Quindi, i lavoratori rurali che dall’età di sette, Il corpo come
metafora e
otto anni hanno tagliato canna da zucchero, in certi momenti cadono esausti, e le metonimia della
loro gambe cedono il passo a un ataque de nervos, un attacco nervoso. Non possono posizione del
camminare, non possono stare in piedi; si ritrovano, come Oliver Sacks (1984) Su tagliatore
una gamba sola. brasiliano di canna
da zucchero
Nello scambio di significati tra il corpo personale e il corpo sociale, il corpo af-
famato-nervoso e nervoso-rabbioso del tagliatore si presenta come metafora e meto-
nimia8 del sistema nervoso sociopolitico e della posizione paralizzata del lavoratore
agricolo nell’attuale disordine economico e politico. Nel rallentare il ritmo lavorati-
vo, nel rifiutare di fare ritorno al lavoro che ha così profondamente determinato le
loro vite intere, il linguaggio corporeo dei tagliatori di canna esprime arrendevolez-
za e sfida. Ma è possibile anche cogliere un dramma beffardo e di rifiuto. Se infatti
questa malattia popolare, i nervos, attacca le gambe e la faccia, lascia intatte le brac-
cia e le mani, libere così di lavorare in attività fisiche meno rovinose. Di conseguen-
za, i giovani, altrimenti in buona salute, che soffrono di attacchi nervosi, premono i
loro vari boss politici e padrini affinché questi trovino loro, essendo malati, un lavo-
ro alternativo, da “tavolino”, manuale (anche se non d’ufficio visto che questi uomi-
ni sono analfabeti).
L’analisi dei nervos non termina qui, dal momento che l’attacco di nervi rappre- Gli attacchi di
senta una forma di dis-agio varia e polisemica. Anche le donne delle bidonville sof- nervi come
risposta politica
frono di nervos, di entrambi in realtà: nervos de trabalhar muito, i nervi cioè da ec-
cessivo lavoro di cui soffrono i tagliatori uomini, e anche della forma più specifica-
tamente connotata a livello di genere: nervos de sofrir muito, i nervi di coloro che
hanno sopportato e sofferto molto. Chi “soffre di attacchi di nervi” normalmente
290 NANCY SCHEPER-HUGHES

ha affrontato una recente tragedia, particolarmente violenta. Sono proprio vedove e


madri di figli che sono stati sequestrati, e che sono “spariti” violentemente, a essere
inclini al silenzioso e pieno di rabbia agitare di pugni chiusi, così tipico di chi soffre
di nervi. Il collegamento che Taussig stabilisce tra i “sistemi nervosi”, anatomico e
sociopolitico, è assai utile. Si potrebbe infatti interpretare l’attuale “nervosismo”
dei residenti delle baraccopoli come risposta alla nervosa e instabile democrazia che
in questi ultimi anni sta emergendo in Brasile, dopo più di un ventennio di repres-
sione militare. Molte vestigia dello Stato militare rimangono intatte e, sull’Alto do
Cruzeiro, la presenza militare è più spesso avvertita sotto forma di irruzioni nottur-
ne, di risse e sequestri dei propri mariti o figli.
Le epidemie di nervos, sustos (attacco di paura), e di pasmos (shock paralizzan-
te) indicano uno stato d’allarme, di panico. Questo è anche un modo di comunicare
uno stato di cose in cui ci si muove avanti e indietro tra un’accettazione della situa-
zione come normale, o che ci si aspettava, e una consapevolezza del reale stato di
Il corpo emergenza in cui uno è precipitato (si veda Taussig 1990). La gente della bidonville
comulativo e
sovversivo
è gettata in uno stato d’agitazione nervosa, di shock, di crisi per cui i nervosos,
doenca de nervos, lanciano un segnale d’allarme, mettendo in guardia la comunità
che i loro corpi e le loro vite sono in pericolo. L’epidemia di nervos tra le mogli e le
madri di chi è stato fatto sparire per motivi politici rappresenta una forma di resi-
stenza, al tempo stesso efficace e sicura. Da un lato, infatti, rende pubblico il peri-
colo, la paura, l’“anormalità del normale”, dall’altro, non espone chi soffre a ulte-
riori rappresaglie politiche. La natura politica della malattia e del corpo comunicati-
vo e sovversivo, rimane però una forma di protesta solo parzialmente conscia. Chi
se la sentirebbe di ridurre questo idioma complesso, creativo, somatico e politico a
un insipido discorso sulla “somatizzazione” del paziente?

Una pedagogia per pazienti: malattia come resistenza


Malattia come
messaggio in
Per concludere, la malattia e le sue metafore rappresentano messaggi in codice
codice in una bottiglia gettata in acque turbolente da chi soffre ed è afflitto, nella speran-
za che un navigatore di passaggio la recupererà e decifrerà i significati in essa na-
scosti, il messaggio di aiuto cioè che questi ultimi contengono. La difficoltà consi-
ste nel fatto che, ad ogni modo, qualsivoglia rifiuto o protesta siano espressi nel
linguaggio corporeo dei sintomi, vi è sempre il pericolo di una risposta individua-
lizzata e medicalizzata. Quando rabbia, frustrazione, malcontento, e contraddi-
zioni sociopolitiche vengono espresse attraverso il corpo, ricorrendo a sindromi
etnomediche come i nervos, c’è sempre il conseguente pericolo che queste siano
assorbite e “trattate” come semplici malattie. Le ampie e flessibili afflizioni social-
mente costruite (sia che si tratti dei nervos in Brasile o di un attacco da parte di
uno spirito in Malesia, o del burnout di un lavoratore statunitense) lasciano uno
spazio alla medicalizzazione e alla domesticazione. Queste possono venire calma-
La ricerca di te o psicoanalizzate, a seconda del livello di tecnologia disponibile. Nel Nord-Est
medicalizzazione del Brasile, quindi, i nervosi e pieni di rabbia tagliatori di canna si presentano ne-
gli ospedali pubblici o nelle farmacie in cerca di un potente medicinale che possa
rinvigorire il corpo, “rianimare” i sensi, e “fortificare” le ossa. Un uomo allora si
darà uno schiaffo sulle gambe emaciate e devastate come se queste fossero appen-
dici rimovibili dal sé, e dirà al medico della clinica che sono completamente “inu-
tili”. Nelle mura della clinica, il disgusto e il biasimo per se stessi prendono il po-
sto della rabbia di classe, e le implicazioni politiche dell’afflizione vengono nasco-
ste. Si perde così la possibilità di utilizzare il disagio corporeo per generare una
critica radicale dell’ordine sociale.
IL SAPERE INCORPORATO 291

Così, anche Ong (1988) rileva come i direttori delle fabbriche d’elettronica nella
Free Trade Zone malese, coadiuvati dal modello occidentale dell’isteria, convertono
immediatamente il dissenso delle operaie in casi psichiatrici. Gli esperti medici e re-
ligiosi vengono chiamati nella fabbrica, e “gli spiriti della resistenza” vengono
dispersi e oscurati, per essere sostituiti, verrebbe da dire, dallo spirito del capitali- La medicina
smo. La stessa prassi biomedica invita a interpretare ogni sorta di disturbo somatico narcotizza le masse
nei termini del suo discorso essenzializzante e universalizzante, e in questo modo oppresse
segnala ovunque la sconfitta degli idiomi tradizionali della resistenza e della non
conformità. Nel Nord-Est del Brasile, non appena la fame di nervi e il parossismo
nervoso raggiungono la clinica, chi ne è colpito è già stato sconfitto. È una scom-
messa sicura che la sua sofferenza verrà sedata pesantemente, così che la medicina,
anche più della religione, viene ad attualizzare il truismo marxista a proposito della
narcotizzazione delle masse oppresse.
Qualsiasi altra cosa la malattia sia, e ritengo sia molte cose differenti (uno scon-
tro sfortunato con la natura, una disgrazia, una frattura sociale, una contraddizione Malattia come atto
economica), rappresenta anche, a volte, un atto di rifiuto. Il rifiuto può manifestar- di rifiuto
si in vari modi: il rifiuto nel lavoro, nella lotta in condizioni perdenti, nella soppor-
tazione, nel cercare di tirare avanti (come nel caso del collasso nervoso di quei ta-
gliatori di canna paralizzati che ne hanno avuto abbastanza e che sono ormai con le
spalle al muro).
Come lo stesso Talcott Parsons (1972) ha evidenziato nella sua classica analisi
sul ruolo del malato, la malattia può rappresentare una minaccia reale alla stabilità
dell’ordine sociale e morale. Riteniamo allora che il ruolo di malato sia un’arma
disponibile per i deboli; Parsons riconobbe gli effetti distruttivi delle relazioni indu- Il ruolo di malato
striali, tipiche della produzione capitalistica, sul corpo e sullo spirito umano, e com- come arma per i
prese come l’eccessiva presenza di sintomi e di disturbi corporei fossero un “lamen- più deboli
to degli oppressi”, un’espressione di frustrazione del lavoratore. La medicina rap-
presentava allora una via d’uscita con il rifugio nel ruolo del malato, sussidi e con-
gedi per malattia, nei termini che Parsons considerò di devianza sancita. Ma queste
funzioni coperte del ruolo del malato andavano attentamente monitorate, altrimen-
ti un episodio di malattia si sarebbe potuto diffondere tra altri lavoratori insoddi-
sfatti. Era pertanto essenziale che la medicina clinica fingesse di essere stupida, che
fallisse nel suo tentativo di cogliere la segreta indignazione del malato e che i dotto-
ri trasformassero fluidi sintomi di protesta corporea in passive, reificate, individua-
La necessaria
lizzate e contenute forme di caduta, ossia in semplici malattie organiche. “stupidità” della
Chi soffre di nervos, di sindrome premestruale, di stress da lavoro e stanchezza medicina
cronica, ha due scelte. Può aprirsi al segreto linguaggio degli organi che contiene in
sé i semi della riflessione critica e della coscienza. “I miei nervi”, concludeva una
donna di Alto do Cruzeiro che aveva recentemente sofferto il rapimento-mutilazione
del proprio figlio, “sono in realtà semplicemente la mia vita”. Un’altra persona di Al-
to giunse a una conclusione simile: “La mia malattia è tanto fisica quanto morale”.
L’altra via a disposizione è mettere a tacere l’urlo corporeo di protesta, tagliarlo
fuori e relegare una parte sempre maggiore del suo dolore e della sua coscienza al Aprirsi al segreto
dominio tecnico della medicina dove la rabbia, la frustrazione, l’ansia, la paura e il linguaggio degli
panico, così come la fame nervosa, possono essere trasformati in malattie ed essere organi o relegare
trattate con iniezioni, pillole per i nervi, terapia ormonale e sedativi. Una volta che il dolore nella
il messaggio nella bottiglia viene medicalizzato, la disperata e socialmente significa- medicalizzazione
tiva richiesta di aiuto va perduta per sempre.
Pertanto, il problema di come sussumere entro le categorie diagnostiche della
biomedicina quelle delle varie etnomedicine è in realtà fuori luogo. La traduzione
292 NANCY SCHEPER-HUGHES

di una forma comunicativa culturalmente ricca nel ristretto e individualizzante lin-


guaggio della fisiologia, della psicologia e della psichiatria è inappropriata e fuor-
viante. Piuttosto, l’antropologo medico critico-interpretativo può mostrare come
termini polisemici – nervos, susto, possessione spiritica, e stress – possono fornire
dei legami tra l’ordine sociopolitico e quello del disagio personale. Se questa forma
di comunicazione (che mantiene il corpo metaforicamente legato alla mente e alla
società) è ridotta al “veritiero” linguaggio della scienza, allora una delle più comuni
fonti di resistenza personale viene sottratta alle persone nella loro lotta contro le
oppressive condizioni sociali.
La presenza della sofferenza, soprattutto quando viene espressa nel linguaggio
Il divario tra dei sintomi, denuncia il divario tra corpi che rifiutano di soffrire in silenzio e le ri-
corpi e ordini
economici e
chieste degli antagonisti ordini economici e sociali. Il compito di mettere in collega-
sociali mento i tre corpi, quello individuale, quello sociale e quello politico, rimane l’anello
mancante di un discorso critico sulla malattia.

* Questo articolo affonda le sue radici in molti anni di collaborazione produttiva con la mia collega Margaret Lock,

con cui ho collaborato in molte occasioni, nel tentativo di creare un’antropologia medica critica e riflessiva. Fu con il
nostro articolo, Speaking Truth to Illness (1986), che iniziammo a sviluppare una teoria positiva degli usi creativi della
malattia.
1 Gli ultimi dieci anni hanno visto una revisione dei significati della cultura popolare e della prassi della vita quoti-

diana, animata, per così dire, da un inebriante postmodernismo fortemente influenzato dall’opera di Bachtin (1979) sui
significati e i propositi sovversivi alla base anche delle attività più ordinarie e mondane, dallo sport e dalla recitazione
(Edward Bruner 1983), alla danza e al carnevale (Moreno 1982; DaMatta 1983; Limon 1989), alla religione popolare e
al rituale (Comaroff 1985; Lancaster 1988; Kligman 1988), alla guarigione sciamanica (Taussig 1987), alle figure retori-
che e del parlato (de Certeau 1984). Entro questo ambito l’antropologia medica critica, con la sua attenzione per il sa-
pere incorporato e la prassi corporea, si trova a proprio agio e può offrire un insieme di utili proposte.
2 C’è un tenace orientamento cartesiano (corpo/mente) in questa tradizione materialista/riduzionista. Come evi-

denziò Foucault, la risposta cartesiana alla domanda “chi sono?” è che tu sei chiunque, ovunque, in ogni tempo. Se la
biomedicina presuppone un universale soggetto astorico, gli antropologi medici entrano in rapporto a corpi ribelli e
“anarchici”, corpi che rifiutano di conformarsi (o di sottomettersi) a presunte categorie universali e ai concetti di malat-
tia, disagio ed efficacia medica.
3 Corpo cosciente, dotato di mente. La scelta terminologica dell’autrice, che difficilmente trova un’espressione cor-

rispondente in italiano, è radicata nel tentativo di utilizzare un linguaggio che rompa con il dominio concettuale del
dualismo cartesiano e che ricorra a termini capaci di rendere la consustanzialità di mente e corpo (N.d.T.).
4 Laddove Mary Douglas (1970) si riferisce ai “Due Corpi”, quello “naturale” e quello delle rappresentazioni so-

ciali, John O’Neill (1985) distingue tra il corpo fisico, il corpo comunicativo, il corpo del mondo, il corpo sociale, il cor-
po politico, i corpi consumistici, e i corpi medici (medicalizzati). Il corpo “disciplinato” è, ovviamente, invenzione di
Michel Foucault (1975). Sono inoltre in debito nei confronti del volume di Bryan Turner The Body and Society: Explo-
rations in Social Theory (1984), e di Michel Feher, Ramona Naddaff e Nadia Tazi, curatori della splendida serie in tre
volumi Fragments for a History of the Human Body, pubblicata nel 1989. In alcuni ambiti, almeno, il corpo non è mai
stato assente, mancante, o distaccato dalla teoria sociale.
5 Illness (N.d.T.).
6 Disease (N.d.T.).
7 Tra gli antropologi medici critico-interpretativi ci sono Allan Young (1980, 1982, 1988); Ronald Frankenberg

(1988a, 1988b); Jean Comaroff (1982, 1985); Michael Taussig (1987, 1990, 1992); Margaret Lock (1986, 1988a, 1988b);
Merrill Singer (1989); Singer, Davidson e Gerdes (1988); e il volume di Arthur Kleinman (1986) Social Origins of Distress
and Disease che rappresenta una revisione della sua precedente e più decontestualizzata nozione di somatizzazione.
8 La metafora, o associazione per analogia, è presente, ad esempio, quando la bellezza di un fiore viene comparata

alla bellezza di una donna. La metonimia, o associazione per connessione fisica, è presente, invece, quando una corona
è associata al re, dal momento che quest’ultimo normalmente la indossa. (N.d.C.).
IL SAPERE INCORPORATO 293

Biografia intellettuale

Nancy Scheper-Hughes è professore di antropologia e direttore del corso uni-


versitario in antropologia medica alla University of California a Berkeley, dove ha
diretto, dal 1992 al 1993, il centro di studi latino-americani. Nel luglio 1993, inol-
tre, ha ottenuto la cattedra di antropologia sociale alla University of Cape Town in
Sudafrica. Precedentemente aveva insegnato al Southern Methodist University di
Dallas, Texas e alla University of North Carolina, Chapel Hill. Un intensivo lavoro
sul campo l’ha condotta a un villaggio montano nell’Irlanda occidentale (1974-
1975), a istituti psichiatrici a Boston, Massachusetts (1979-1980), a villaggi ispano
americani e ai pueblos Taos e Picaris del New Mexico settentrionale (1979, 1985,
1986) e a venticinque anni di impegno nella miseria delle bidonville del Nord-Est
del Brasile (1964-1992). In tempi recenti ha svolto ricerche sull’AIDS e sulle politi-
che pubbliche in Brasile e a Cuba. Tra i suoi lavori più importanti ricordiamo:
Saints, Scholars and Schizophrenics: Mental Illness in Rural Ireland (1979, 1982),
Child Survival: Anthropological Approaches to the Treatment and Maltreatment of
Children (1987) e Death Without Weeping: The Violence of Everyday Life in Brazil
(1992). Ha ricevuto il Margaret Mead Award (1981), lo Stirling Award (1985), la
John Simon Guggenheim Fellowship (1987) e l’Eileen Basker Memorial Prize in an-
tropologia medica (1992).

Sono nata nel 1944 a Williamsburgh nella zona cattolica, europea orientale di
Brooklyn. Era il periodo in cui i rifugiati appena giunti da un’Europa lacerata dalla
guerra stavano per scontrarsi con una nuova ondata di immigrati in miseria prove-
nienti dalle zone rurali di Puerto Rico. Fu nell’ambito di quello scontro tra culture,
interpretazioni mancate, apprensioni razziali e religiose, fobie e odi che ebbe inizio,
in modo abbastanza inconsapevole, la mia formazione antropologica.
Iniziai gli studi in letteratura inglese e filosofia al Queens College di New York
City e frequentai, quasi per scherzo, come insegnamento facoltativo, il mio primo
corso in antropologia (“Popoli e culture dell’Africa”) tenuto da Hortense Powder-
maker. La lista dei testi assegnati per quel corso, tra i quali comparivano i classici di
A. R. Radcliffe-Brown, Monica Wilson, Ira Schapera, E. E. Evans-Pritchard e altri,
catturò la mia immaginazione anche più dei seminari di letteratura esistenzialista e
filosofia. Alla fine del semestre (primavera del 1964) decisi di lasciare l’università
per unirmi all’allora nascente US Peace Corps (vedi Scheper-Hughes 1993).
Fui assegnata alla regione del Nord-Est del Brasile (1964-1966) e ho vissuto e la-
vorato come paramedico e organizzatore della comunità in una bidonville alle pen-
dici di una collina, abitata da tagliatori di canna da zucchero appena licenziati e che
si erano stabiliti ai margini di una città nello Stato di Pernambuco, la cui economia
si basava sul commercio di canna da zucchero. Fu allora, sull’Alto do Cruzeiro, che
i primi traumi, dubbi, e domande iniziarono a emergere alla mia attenzione circa gli
effetti della scarsità, della fame e della mortalità infantile su ciò che viene comune-
mente chiamato “l’amore materno”. Affrontai l’argomento in una serie di brevi sto-
rie allorché feci ritorno negli Stati Uniti e mi iscrissi nuovamente al Queens College,
questa volta come studente nei corsi di scrittura creativa. Ma ancora una volta fui
attratta dall’antropologia e da Hortense Powdermaker, di cui seguii il corso su
“Cultura e personalità”, che mi introdusse ai lavori dei ‘neofreudiani’, e a quelli, tra
gli altri, di Margaret Mead, Edward Sapir, Cora DuBois, George Spindler, Yehudi
Cohen e Melford Spiro. Ma furono proprio i lavori della Powdermaker sulle rela-
zioni razziali nel profondo Sud che attirarono maggiormente la mia attenzione (vedi
294 NANCY SCHEPER-HUGHES

Powdermaker 1943), e alla fine di quel semestre (primavera 1967), lasciai nuova-
mente gli studi per unirmi alla S.N.C.C. (The Student Non-Violent Coordinating
Comittee) e ad altri gruppi per la salvaguardia dei diritti civili a Selma, in Alabama.
Fui nominata coordinatrice di un progetto di ricerca sulla fame e la malnutrizione
tra più di 500 famiglie di agricoltori nelle contee nere del Sud-Est dell’Alabama. I
risultati della ricerca furono utilizzati in un’azione legale per i diritti civili Peoples
vs. the Department of Agriculture (Civil Action No. 544-68, U.S. District Court,
Washington, D.C., April 1968) che aiutò all’introduzione del programma governati-
vo di aiuto alimentare per gli indigeni, in contee dove i funzionari locali bianchi
avevano cercato di ostacolarla.
Una volta laureatami in antropologia, iniziai a lavorare alla University of Califor-
nia a Berkeley come assistente di ricerca di Hortense Powdermaker, che si era tra-
sferita in California (vedi Scheper-Hughes 1991), e allo stesso tempo studiavo sotto
la direzione di May Diaz, Gerald Berreman, George Foster, George DeVos e di
Margaret Clark, sebbene fossi molto influenzata anche da Elisabeth Colson ed Eu-
gene Hammel attraverso i loro seminari, rispettivamente di teoria e metodo. Non vi
era un unico paradigma dominante a Barkeley negli anni in cui le attività politiche
universitarie per il Vietnam, la Cambogia, e il Terzo Mondo spesso avevano la me-
glio sui seminari istituzionali. Allo stesso tempo la sfida radicale all’antropologia
tradizionale, rappresentata dall’opera di Dell Hymes Antropologia radicale, convin-
se il gruppo dei miei studenti che se l’antropologia aveva motivo di sopravvivere co-
me disciplina doveva allora assumere una nuova e radicale veste. Alcuni dei miei
compagni scelsero la via di un’antropologia marxista e neomarxista, mentre altri si
dedicarono all’invenzione di un’antropologia femminista.
Partecipai a entrambi i movimenti critici di Berkeley, sollevando le perplessità di
molti miei colleghi, e decisi di dedicarmi per la mia ricerca di dottorato allo studio
della schizofrenia tra gli agricoltori celibi in Irlanda, intesa come proiezione di temi
culturali. Lavorando all’inizio degli anni Settanta sulle prime traduzioni degli scritti
di Michel Foucault, fui colpita dalla sua interpretazione della follia nei termini di
un costrutto culturale dotato di una sua storia specifica che andava indagata in una
molteplicità di contesti sociali.
Il mio primo libro Saints, Scholars and Schizophrenics era una miscela di vecchi e
nuovi approcci (quelli della socializzazione e della personalità adulta, dei test TAT e
di un’antropologia critica riflessiva e interpretativa). Era un lavoro eclettico dal
punto di vista teorico, che cercava di combinare e di applicare i contributi di Erik
Erikson, Gregory Bateson, R. D. Laing e Michel Foucault a una piccola popolazio-
ne di pastori e pescatori irlandesi. Subito dopo aver ricevuto il Margaret Mead
Award, comunque, il mio libro fu oggetto di una grande e spiacevole controversia.
L’approccio che andavo sviluppando, una sorta di critica culturale esistenziale, fu
visto come “etnocentrico” nella misura in cui si allontanava dalla implicita premes-
sa antropologica che prevedeva di scrivere solamente su ciò che è “buono” e “giu-
sto” di una data società o cultura, specialmente, come era il caso per l’Irlanda occi-
dentale, se si trattava di una società postcoloniale. Non ci si poteva permettere, co-
me invece io avevo fatto, di utilizzare l’antropologia al fine di diagnosticare gli ele-
menti nocivi e perversi del corpo sociale, e così venni etichettata, da un critico ir-
landese, come una pericolosa “abile patologa della condizione umana”.
Il mio libro sull’Irlanda si allontanava decisamente dalla descrizione che Conrad
Arensberg (1937) offriva della vita rurale irlandese nel suo The Irish Countryman:
infatti la mia era una etnografia centrata sull’infanzia, e non si articolava attraverso
la prospettiva degli anziani seduti comodamente al pub e al cuore della vita rurale,
IL SAPERE INCORPORATO 295

ma prendeva le mosse dalla prospettiva dei loro figli, quei giovani cioè che avrebbe-
ro dovuto aspettare fino a quaranta o cinquanta anni per ereditare e affrancarsi, e
dalla prospettiva delle ragazze che non vedevano l’ora di fuggire dall’opprimente vi-
ta di villaggio. Saints, Scholars and Schizophrenics offriva una visione controegemo-
nica della vita rurale irlandese, ma che apparve alla sensibilità di alcuni “anti-irlan-
dese”, “anti-cattolica”, o “anti-clericale”. Il fatto che io avessi scritto solamente sui
“segreti pubblici”, che tutti nel villaggio conoscevano, come l’alta incidenza dell’al-
colismo, della depressione, e della follia, così come dell’alienazione sessuale e della
frustrazione, ma di cui nessuno vuole parlare, non rappresentò una consolazione
per i membri del villaggio irlandese che preferivano invece essere “lasciati in pace”
con le loro strategie di difesa culturali.
Dopo il dottorato, alla Harvard University, mi occupai del reinserimento pro-
blematico di un gran numero di pazienti psichiatrici ospedalizzati nel difficile quar-
tiere operaio di South Boston. A una serie di lavori (1981, 1983, 1987) che metteva-
no in luce “i dilemmi della deistituzionalizzazione” negli Stati Uniti, fece seguito la
pubblicazione di Psychiatry Inside Out (1987), una traduzione degli scritti di Fran-
co Basaglia, il fenomenologo marxista radicale italiano, il cui Movimento di Psichia-
tria Democratica sembrava contenere gli elementi che io consideravo fondamentali
per quel tipo di rivoluzione culturale necessaria al reinserimento dei pazienti psi-
chiatrici in un ruolo reale all’interno della società. A causa della sua analisi antistitu-
zionale e priva di compromessi, Psychiatry Inside Out fu accolto con considerevole
ostilità dalla psichiatria americana.
Dal 1982 le mie ricerche sul campo in Brasile si sono concentrate sulle questioni
dell’amore materno e della mortalità infantile, sulla medicalizzazione della fame,
sulla malattia come protesta, e sulla insicurezza ontologica del corpo per i margina-
li lavoratori rurali che sono preda della quotidiana violenza della fame, del maltrat-
tamento medico, delle squadre della morte, di torture ed esecuzioni. Un articolo
preliminare – Culture, Scarcity and Maternal thinking (1985) – diede vita a una acce-
sa controversia sull’interpretazione delle emozioni. La pubblicazione di Death Wi-
thout Weeping: The Violence of Everyday Life In Brazil (1992) conclude una decade
di ricerca antropologica nelle bidonville del Nord-Est del Brasile, sotto forma di
una etnografia sperimentale, al femminile, che combina diversi elementi narrativi,
tematici, di suspense, d’ironia, e di altre forme letterarie in una tesi sugli effetti della
scarsità, della malattia e della morte sullo spirito umano, e sul pensiero e la pratica
materni in particolare.
Al momento sto lavorando su un volume, The Rebel Body, che mette insieme una
serie di saggi di riflessione sul corpo, inteso come luogo primario di resistenza e di
sfida, nel mondo postmoderno. Il saggio qui presentato è parte del lavoro che sto
svolgendo. Molte delle questioni su cui ho scritto (stigma, capro espiatorio, distri-
buzione dell’ingiustizia nelle famiglie, violenza quotidiana della medicina e della
psichiatria quando praticate in cattiva fede, follia della fame e fame distruttiva della
maternità nelle bidonville del Brasile) si occupano del bisogno di radicare l’antro-
pologia nell’etica. Se gli antropologi non fossero capaci di pensare criticamente le
loro istituzioni sociali in termini etici e morali, allora la nostra disciplina mi sembre-
rebbe alquanto debole e inutile. Tuttavia il problema di come articolare uno stan-
dard (o standard divergenti) di riflessione morale che non privilegi i nostri assunti e
presupposti culturali “occidentali” resta una questione aperta e irrisolta.
Parte quarta
Ripensare il culturale
Introduzione alla parte quarta
Robert Borofsky

Data l’importanza della nozione di “culturale” nella disciplina antropologica, è


comprensibile che possa essere coinvolta nelle varie tensioni centripete e/o centri-
fughe tipiche della disciplina stessa. Pochi negano l’importanza di questo concetto.
Dal punto di vista storico, Yengoyan (1986, p. 368) sottolinea che, “quello di cultu-
ra è stato il concetto più importante nel tenere unita l’antropologia americana”. Ma,
come dice Hatch (1973, p. 1): “anche se il termine è stato analizzato in un infinito
numero di libri ed articoli, esiste ancora una grande incertezza riguardo al suo im-
piego – gli antropologi usano questa nozione in modi fondamentalmente diversi”.
Goldschmidt (1985, p. 171) aggiunge che il paradigma culturale è “così universale
Cultura: le nella sua caratterizzazione e così esteso nella sua formulazione che gli studiosi han-
definizioni di no sempre più concentrato la loro attenzione su alcuni aspetti particolari” del con-
Harris, Keesing, cetto. È facile comprendere allora per quale motivo esistano più di centocinquanta
Kottak definizioni dello stesso termine (cfr. Kroeber, Kluckhohn 1963).
Per aiutare i lettori nella lettura dei saggi qui raccolti, voglio dare alcuni esempi
di definizione dell’uso corrente del concetto fornito nei loro testi introduttivi da tre
degli autori dei contributi presenti in questo stesso volume. Harris (1988, p. 597) fa
riferimento al concetto di cultura nei termini di “strutture di comportamento e di
pensiero apprese, caratteristiche di un gruppo sociale”; Keesing (1976, p. 509) so-
stiene che per cultura si debba intendere “il sistema del sapere più o meno condiviso
dai membri di una società”; mentre Kottak (1978, p. 17) lo definisce come “espres-
samente umano; trasmesso mediante apprendimento; dato da tradizioni e costumi
che regolano i comportamenti e le credenze”. Per motivi che saranno esplicitati in
seguito, preferisco usare il termine “culturale” invece che “cultura” per i fenomeni
qui descritti. Tale uso contraddittorio è intenzionale. Ci ricorda che abbiamo a che
fare con un costrutto antropologico, un concetto, e non con un’entità viva.

Il culturale come fenomeno coerente


L’interrelazione Sebbene siano diverse tra loro, le definizioni del culturale tendono ad avere al-
fra elementi
meno un tratto in comune: lo ritraggono come relativamente coerente. L’idea è che
certi elementi co-occorrano, ovvero che siano in qualche modo interrelati, e/o che
si sostengano a vicenda secondo particolari modalità. Senza questa coerenza, sotto-
linea Kroeber (1953, p. 373), “abbiamo un migliaio di elementi disparati che danno
un ben misero risultato”. Con tale coerenza c’è invece una parvenza di ordine.
Nel delineare tale coerenza del culturale gli antropologi hanno tradizionalmente
sottolineato due serie generali di fattori: quelli ritenuti relativamente intrinseci a un
gruppo e quelli che, sebbene siano concettualizzati in termini culturali, possono essere
considerati più estrinseci al gruppo (come nel caso dell’ambiente). Queste due serie di
fattori non possono essere intese come totalmente distinte l’una dall’altra. Rappresen-
tano di fatto i due poli di un continuum con considerevoli sovrapposizioni reciproche.
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUARTA 299

Prima di darne una descrizione, lasciatemi aggiungere un’annotazione parenteti-


ca. Per gli antropologi immersi nella tendenza contemporanea, una descrizione di ta-
li fattori può apparire un po’ datata. L’attenzione della disciplina si è infatti spostata
su altri argomenti. Tuttavia questi nuovi interessi, in qualche modo, sono derivati da
quelli antichi. E l’attuale generazione degli studenti ha bisogno di sapere quali mo-
delli hanno dato forma in passato alle diverse concezioni del culturale per collocare
nella giusta prospettiva le sue concezioni presenti. Potrei anche aggiungere che alcu-
ni degli argomenti di cui parlerò in seguito sopravvivono in diverse forme.

I fattori intrinseci
Gli antropologi hanno tradizionalmente espresso le loro analisi intrinseche nei Modello
termini di due modelli concettuali: quello organico e quello linguistico. Spencer, organico e
Durkheim e Radcliffe-Brown hanno messo in evidenza il modello organico; Boas, modello
Sapir, Benedict e Lévi-Strauss quello linguistico. linguistico
Fondato su un’analogia biologica (in cui le differenti parti di un organismo agi-
scono insieme per mantenere lo stato di salute fisica), il modello organico vede le
istituzioni sociali sostenersi a vicenda per mantenere un buon ordine sociale – spesso
definito nei termini del raggiungimento di stabilità e integrazione. Associato al mo-
dello organico è il concetto di funzione (e l’etichetta di funzionalismo). “Quando ci
si accinge a spiegare un fenomeno sociale”, dice Durkheim (1895, p. 95), “bisogna…
ricercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso as-
solve”. Durkheim (1912, p. 417) ritiene che la funzione di una religione sia, ad esem-
pio, quella di unire i fedeli che “agiscono in comune”. I riti religiosi, dice Durkheim,
sono mezzi attraverso cui “la società prende coscienza di sé e si pone; essa è anzitut-
to una cooperazione attiva”. Attraverso questi, la gente “diviene consapevole della
propria unità morale” (cfr. R. Rosaldo 1989, p. 20). All’inizio della sua carriera, in
The Adaman Islanders, Radcliffe Brown mette esplicitamente in evidenza l’analogia Radcliffe-Brown
organica. “Ogni credenza o costume di una società primitiva”, scrive (1922, p. 229), e l’analogia
organica
“gioca un ruolo determinante nella vita sociale della comunità, proprio come ogni
parte di un corpo vivente svolge un ruolo nella vita generale dell’organismo”. In la-
vori successivi (1950, p. 82), tale nozione viene perfezionata: “La funzione sociale di
qualsiasi elemento di un sistema consiste nella sua relazione con la struttura e nella
sua persistenza e stabilità”. O, detto in modo leggermente differente, l’unità funzio-
nale è “una condizione in cui tutte le parti del sistema sociale operano insieme con
un sufficiente grado di armonia o di accordo interno, vale a dire senza determinare
conflitti persistenti che non possano essere né risolti, né regolati” (1952a). I tabù sul-
l’incesto possono chiarire tale posizione. Infatti questi non impediscono solo la dis-
gregazione della “vita sociale di una singola famiglia… [ma] dell’intero sistema di
sentimenti morali e religiosi su cui è basato l’ordine sociale” (1950, p. 72). Essi dan-
no ordine all’esistenza, prevenendo conflitti disgreganti.
Il modello linguistico prende invece una direzione differente. In questo caso il
culturale viene analizzato nei termini di strutture e intuizioni prese a prestito dalla
linguistica (vedi ad es. Aberle 1957). “Sembra che sia necessario soffermarsi sull’ana-
logia esistente tra etnologia e linguaggio”, scrive Boas (1911a, pp. 70-71), perché “la
parte della cultura che si presta in modo particolare al riconoscimento di modelli [di
pensiero dei nativi] è il linguaggio” (cfr. Kroeber 1952, p. 149). Come la cultura, so-
stiene Sapir (1916, ora in 1949, p. 161), anche il linguaggio è strutturato: “La rete
delle strutture culturali di una civiltà è codificata nel linguaggio”. Benedict (1969, p.
29) sostiene che: “Avviene nella vita della cultura ciò che avviene nel linguaggio; an-
zitutto è necessaria una scelta. Il numero di suoni che possono essere prodotti dalle
300 ROBERT BOROFSKY

nostre corde vocali (…) è praticamente illimitato”. “Anche per quanto riguarda la
cultura”, prosegue, “dobbiamo immaginare una specie di grande arco lungo il quale
La selezione si allineano tutti i possibili interessi (…). Una cultura che facesse propri troppi di
e il modello
linguistico
questi interessi sarebbe tanto incomprensibile quanto una lingua che usasse tutte le
consonanti”. Secondo la Benedict tali strutture culturali tendono ad avere una certa
coerenza psicologica. O meglio, come dice lei stessa (1969, p. 30): “Una cultura, co-
me un individuo, è una struttura più o meno coerente di pensiero e azione”. Ad
esempio gli zuñi vengono descritti come, “un popolo amante delle cerimonie, gente
che stima la sobrietà e la mansuetudine al di sopra di ogni altra virtù” (1969, p. 65).
Basandosi sulle intuizioni della linguistica strutturale, Lévi-Strauss sottolinea un
aspetto differente dell’analogia linguistica. Secondo Lévi-Strauss il linguaggio e la
cultura costituiscono dei codici della comunicazione connessi tra loro. “Pur senza ri-
durre la società o la cultura alla lingua”, sostiene (1958, p. 100), si può interpretare
“la società, nel suo insieme, in funzione di una teoria della comunicazione. (…) Le
regole della parentela e del matrimonio servono ad assicurare la comunicazione del-
le donne tra i gruppi, come le regole economiche servono ad assicurare la comunica-
zione dei beni e dei servizi, e le regole linguistiche la comunicazione dei messaggi”.
Nei saggi presenti in questa raccolta, Goodenough e Bloch assumono posizioni
diverse riguardo al valore da dare all’analogia linguistica. Nel suo saggio, Goode-
Goodenough, nough ribadisce e aggiorna una posizione che lo ha reso celebre. Nello stesso modo
Bloch e i limiti
dell’analogia
in cui si apprende un linguaggio, dice Goodenough (p. 326), l’apprendimento di
linguistica una cultura implica la scoperta “di ciò che si deve sapere... per agire in modo accet-
tabile ...all’interno di una società”. Bloch mette invece in discussione il valore del-
l’analogia linguistica. Basandosi su recenti ricerche nel settore delle scienze cogniti-
ve, egli fa una distinzione tra differenti tipologie di conoscenza e suggerisce che l’a-
nalogia linguistica come modello delle forme della conoscenza culturale sia appro-
priata solo in alcuni casi. La tensione tra le posizioni di Goodenough e di Bloch è
d’aiuto nel focalizzare, non solo la forza o la debolezza dell’analogia linguistica, ma,
più generalmente, il valore e le problematiche legate alla concettualizzazione del
culturale in termini di analogie.

I fattori estrinseci
Secondo Boas e Benedict l’ambiente esercita solo una leggera influenza restrittiva
sulla cultura. Per Steward (1963) invece l’ambiente costituisce una delle maggiori
forze strutturanti così come risulta evidente dalla sua nozione di “nucleo culturale”.
Steward e il Tale nucleo coinvolge “la costellazione dei tratti che sono più strettamente legati alle
nucleo culturale attività di sussistenza e con le soluzioni economiche” (pp. 51-52) – in altre parole,
quegli elementi culturali che sono più fortemente strutturati dall’ambiente. Questo
nucleo di elementi culturali, suggerisce Steward, svolge un ruolo critico nello struttu-
rare sia l’organizzazione di un gruppo sociale quanto il suo sviluppo nel tempo. Tra
gli indiani shoshone del Grande Bacino, ad esempio: “A causa dei processi culturali-
ecologici – dello sfruttamento cioè del loro ambiente particolare per mezzo delle tec-
niche di cui erano a conoscenza – le famiglie adempivano alle loro funzioni in modo
indipendente nella maggior parte delle loro attività culturali, e le rare attività colletti-
ve interfamiliari non erano sufficienti a dare una coesione permanente che avesse co-
me sbocco famiglie estese” (1963, p. 162). Di conseguenza, “i rapporti di natura eco-
nomica e sociale tra le famiglie shoshoni (…) possono essere paragonati alla trama di
una rete, [dato] che ogni famiglia aveva forme associative occasionali con altre fami-
glie in ogni direzione; [… ma] alla rete mancavano i nodi; ogni famiglia era libera di
intrattenere rapporti con chiunque desiderasse” (1963, p. 158). Kroeber (in Thomas
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUARTA 301

1956, p. 304) andò ancora oltre nell’analisi ecologica. In una ricerca compiuta sugli
indiani americani, egli sostiene che: “Un ambiente improduttivo, che imponeva una
ricerca continua ma in piccola quantità di cibo, tendeva fortemente ad essere accom-
pagnato da istituzioni e personalità modeste e indifferenziate”.
Anche gli antropologi possono, in qualche maniera, essere considerati delle va-
riabili estrinseche che danno forma alla coesione culturale. Da un punto di vista in-
terpretativo, la coerenza culturale è tanto nello sguardo dell’osservatore quanto nel- Gli antropologi
come variabili
la realtà di ciò che è descritto. O, come dice Said (1989, p. 224), “La rappresenta-
zione antropologica dipende nella stessa misura dal mondo di chi rappresenta e dal-
la persona o cosa che viene rappresentata”. Gli elementi culturali nel pensiero etno-
grafico vengono armonizzati tra loro in modo da riflettere non solo la prospettiva
dei nativi, ma anche da avere un senso per gli antropologi e per i loro lettori (vedi
ad es. Borofsky 1987).
Il culturale, a dire il vero, non è una concreta entità vivente, non è qualcosa che
si possa toccare con mano. È un modo per concettualizzare un insieme di credenze
e di pratiche, una serie di continuità e cambiamenti. Questo è il motivo per cui, se-
guendo Keesing (p. 377), impiego il termine “culturale” piuttosto che quello di
“cultura”. La forma aggettivale riduce l’importanza della nozione di cultura intesa
come una sorta di essenza innata, come un qualcosa di vivente e materiale. La cul-
tura è un’astrazione antropologica. Goody e la
Il contributo di Goody lavora su questo tema prendendo in considerazione i differenza tra
problemi che sorgono nel definire il culturale. La tematica specifica del suo contri- “culturale” e
buto – che mette in questione la differenza tra i concetti di “culturale” e di “socia- “sociale”
le” – riprende un antico dibattito interno alla disciplina. Kroeber (1948, p. 250) in-
tende cultura e società come “le due facce di uno stesso foglio di carta”. Esse “sono
così strettamente collegate in quanto fenomeni reali”, dice Kroeber (1948, p. 250)
“che spesso è molto difficile distinguerle”. Al contrario, il suo collega e amico Lo-
wie (1953, p. 531) sottolinea la supremazia del culturale e considera “la struttura
sociale (…) un aspetto della cultura”. Goody, come Goodenough e Bloch, ci porta
a considerare in che modo possiamo meglio concettualizzare il culturale: come do-
vremmo definirlo? E per quale scopo?
In definitiva, la coerenza culturale viene intesa al meglio come un’ipotesi guida.
E ha dato prova di essere un’ipotesi preziosa. Ma si tratta ancora “più di una do-
manda che di una risposta”, come dice Moore (p. 442). Come sottolinea Lowie
(1937, pp. 142-143), “molti degli elementi che risultano coerenti nella vita di un po-
polo non lo sono in maniera casuale, (…) ma non è stato mai provato che tutti (…)
gli elementi culturali siano tra loro connessi”.

La concettualizzazione del culturale


Nell’odierno dibattito sul concetto di culturale emergono con una certa conti-
nuità alcune questioni. Vediamo di esaminarne brevemente alcune.

La nozione di culturale si è sviluppata all’interno di diversi contesti storici. Uno Il concetto di


culturale:
dei più importanti è stato quello dell’industrializzazione occidentale. Commentan- un’idea
do l’opera di Raymond Williams Culture and Society (1983), Herbert (1991, p. 22) storicamente
rileva che: situata

L’idea di cultura appare sulla scena come elemento centrale di un lunga e ben struttura- Idea di cultura e
ta tradizione inglese di critica sociale che si opponeva agli effetti disgreganti e degradan- critica sociale
ti dell’industrializzazione. A partire da Burke, ciò che gli autori incominciarono a chia-
302 ROBERT BOROFSKY

mare “cultura” era un ideale di armoniosa perfettibilità individuale e collettiva, “un in-
sieme di valori superiori al consueto progredire di una società”, “il vero modello di per-
fezione per un popolo”.

Un altro importante contesto fu quello della politica nazionalista. Come viene os-
servato da Keesing (vedi oltre p. 374), la nostra moderna concezione di “identità cul-
turale ha la sua origine nel nazionalismo culturale europeo del diciannovesimo seco-
lo, che si espresse sotto forma di un’intensa ricerca delle radici etniche e delle origini
popolari, della primordialità e delle tradizioni culturali”. È rilevante il fatto che gli
Stati-nazione nati allora in Europa fossero sostanzialmente diversi per concezione ri-
spetto ai precedenti regni di quel continente. Citando Anderson (1983, p. 35):

Un governo monarchico organizza tutto intorno a un centro superiore. La sua legittimità


deriva dalla divinità, non dai popoli, che dopotutto sono sudditi, non cittadini. Nella
concezione moderna, la sovranità di uno stato è operativa in modo rigido, pieno, unifor-
me su ogni centimetro quadrato di un territorio legalmente demarcato. Ma nella conce-
zione più antica, quando gli stati erano definiti da centri, i confini erano porosi e indi-
La politica
nazionalista e le stinti, e le sovranità scolorivano impercettibilmente l’una nell’altra.
“comunità
immaginate” Le nazioni-Stato, al fine di sostenere la loro concezione della statalità, sviluppa-
rono, come suggerisce Anderson (1996, p. 25), “comunità immaginate”, – immagi-
nate “in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la mag-
gior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare,
eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere in comunità”. Il lin-
guaggio aveva un ruolo fondamentale in queste comunità immaginarie. Anderson
(1996, p. 148) prosegue dicendo che: “esiste un particolare genere di comunità con-
temporanea che può essere suggerita solo dalla lingua, soprattutto nella forma di
poesie e canzoni”. Cantando gli inni nazionali, ad esempio, “non importa quanto
banali siano le parole e mediocre la musica, in queste canzoni si prova sempre una
sensazione di simultaneità. Nello stesso identico momento, individui completamen-
te estranei tra loro uniscono le stesse parole alla stessa melodia. L’immagine: totale
consonanza”.
Questi due contesti storici – industrializzazione e nazionalismo – ci aiutano a
comprendere alcune delle attuali implicazioni e ambiguità del concetto di culturale.
È possibile individuare, implicito in molti scritti, il concetto secondo cui le culture
non-occidentali avrebbero un’omogeneità e un senso della comunità assente nel-
l’Occidente industrializzato. Inoltre si può percepire l’ambiguità che riguarda il
grado in cui la nozione di culturale può rappresentare un ideale elitario contro i ve-
Geertz: modello ri comportamenti e credenze condivisi dallo stesso gruppo. Nel definire la religione
per la realtà
e modello
come sistema culturale, Geertz (1973, p. 146) formula un’importante distinzione tra
di realtà un modello per la realtà e un modello di realtà. Il primo “è un modello sotto la cui
guida sono organizzati i rapporti fisici” coinvolgendo, come modelli culturali, “dot-
trine”, “canti”, e “riti” – tutte cose che inducono a comportarsi in un certo modo.
Il secondo descrive i “rapporti fisici in modo tale (...) da renderne possibile l’ap-
prendimento”, conoscibili. La differenza tra le due accezioni consiste nell’intendere
la nozione di culturale come un ideale propositivo invece che come una descrizione
riassuntiva. Alcune varianti della prima accezione erano comuni nell’antropologia
del secolo diciannovesimo; diverse versioni della seconda sono comuni nel ventesi-
mo (cfr. Stocking 1968; cfr. Wolf 1964, p. 18).
Voglio però mettere in guardia i lettori dal ritenere corretto in maniera definiti-
va l’uno o l’altro modello. Certamente i modelli della realtà pervadono la maggior
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUARTA 303

parte delle attuali discussioni antropologiche e popolari. Ma nel concetto sono pre-
senti delle fondamentali ambiguità. Esiste ad esempio il problema – discusso sia in I confini
del culturale
questa sezione che nella successiva – di definire i confini del culturale e di delimita- e il grado
re la condivisione culturale. Dove finisce esattamente una cultura? Che cosa condi- di condivisione
vidono specificamente le persone al suo interno?
I lettori possono riflettere per un momento sulle implicazioni politiche di questi
due modelli concettuali. In riferimento alle relazioni esistenti tra le concezioni poli-
tiche e culturali dello Stato, Anderson (1983, p. 36) sottolinea che “imperi e regni
pre-moderni [che usavano un modello élitario della cultura] poterono sostenere il
proprio dominio su popolazioni assolutamente eterogenee, e spesso neanche conti-
gue, per lunghissimi periodi di tempo”. Ci si può domandare se molti moderni Sta-
ti-nazione – che per l’ordinamento dello Stato impiegano omogenei e condivisi mo-
delli per la realtà – sarebbero in grado di dimostrare la stessa stabilità politica a lun-
go termine, in particolare data l’intensa presenza di conflitti etnici con cui devono
oggi confrontarsi.

Analizzando ulteriormente la nozione di culturale possiamo notare la presenza Due ambiguità


di almeno due ambiguità ricorrenti. La prima consiste nella compresenza di conti-
nuità e cambiamento. Contrariamente a quanto può sembrare, non è sempre facile 1) compresenza
di continuità
distinguere la continuità dal mutamento. Esse tendono a confondersi e a definirsi e cambiamento
reciprocamente. I due esempi a seguire illustrano alcune delle difficoltà coinvolte
nel tentativo di distinguere il cambiamento dalla continuità.
Nel descrivere i Sistemi politici birmani, in particolare quello della popolazio-
ne kachin, Leach (1954) analizza la differenza tra due forme di organizzazione:
quella detta gumsa (che sottolinea le forme di discendenza organizzate gerarchica-
mente e il ruolo dei capi) e quella detta gumlao (una struttura più egualitaria).
Leach (1954, p. 227) dice che “nella società Kachin nel suo insieme, le comunità Leach e il caso
dei kachin
di tipo gumlao hanno la tendenza a sviluppare caratteristiche di comunità di tipo
gumsa, mentre le comunità di tipo gumsa hanno la tendenza a disgregarsi in sotto-
gruppi organizzati secondo i principi gumlao”. “La vera società Kachin non è”,
sostiene Leach (1954, p. 195), “una gerarchia rigidamente strutturata di classi sta-
bilite e di incarichi ben definiti, ma è un sistema in cui è presente una costante e,
in certi momenti, molto rapida forma di mobilità sociale”. Ci si trova continua-
mente di fronte a un modello di trasformazione ciclica in cui una struttura gumsa
evolve in gumlao, e gumlao in gumsa. Per chiarire quest’ultimo punto, Leach
(1954, p. 212) aggiunge: “Le ‘cause’ fondamentali del mutamento sociale sono,
dal mio punto di vista, quasi sempre individuabili in cambiamenti dell’ambiente
politico ed economico; ma la forma assunta da ogni mutamento è in larga parte
determinata dalla preesistente struttura interna di un sistema dato”.
Sahlins (1981, 1985) si è occupato delle dinamiche culturali del periodo dei pri-
mi contatti con l’Occidente nelle Hawaii. Quando il potere del rituale tradizionale
Sahlins: l’uso
del tabù venne applicato a un nuovo contesto – per regolare i commerci con gli oc- commerciale del
cidentali – Sahlins (1981, p. 45) ritiene che “i re hawaiani iniziarono un processo di tabù hawaiano
ridefinizione di quel potere”. “Che [i re hawaiani] sfruttassero il tabù a fini com-
merciali”, sostiene Sahlins (1985, p. 124) “significa per la gente comune una con-
trapposizione diretta fra le sacre restrizioni che promettevano benefici divini (quan-
do venivano rispettate) e il benessere di tutti” – i tabù furono utilizzati per impedi-
re al cittadino comune di commerciare con gli inglesi. Il risultato fu che “i comuni
cittadini hawaiani non (…) esitarono a violare ogni tipo di tabù, in più o meno
aperta sfida al potere costituito”. La conseguenza di questo atteggiamento fu l’inde-
304 ROBERT BOROFSKY

bolimento dei tabù e della correlata autorità rituale dei capi che annunciava, e
avrebbe portato, alla famosa abolizione dei tabù del 1819 da parte di Liholiho. Ap-
plicando un concetto tradizionale a un nuovo contesto i capi hanno favorito l’alte-
razione sia del concetto stesso che dei contesti in cui esso operava. Parafrasando
Sahlins (1981, p. 8), gli sforzi compiuti per riprodurre la struttura (vale a dire, per
estendere l’uso dei tabù rituali alla regolamentazione degli scambi con gli europei)
hanno determinato nel tempo una trasformazione della struttura (vale a dire una
contestazione e eventuale abolizione dei tabù). “Quanto più le cose rimanevano le
stesse,” osserva Sahlins (rovesciando il famoso detto francese plus ça change, plus
c’est la meme chose) “tanto più esse mutavano” (1985, p. 126). “Ci si può chiedere,”
dice Sahlins (1981, p. 67), “se la continuità di un sistema avvenga mai senza una sua
alterazione, o se una sua alterazione possa darsi senza continuità”.
2) Difficoltà di Un’altra ambiguità che coinvolge la nozione di culturale riguarda la difficoltà di
definire i confini
definire i suoi confini. I gruppi culturali non hanno necessariamente dei confini chiari
e distinti. Possiamo solo ricordare la definizione data da Kroeber (1948, p. 265) delle
popolazioni rurali – come parti di società e composte, quindi, di quella cultura – per
comprendere il problema. Sappiamo attraverso la nostra stessa esperienza all’interno
di un’economia globale, che le interferenze politiche e culturali tra “noi” e gli “altri”
possono essere sottili, intricate e estremamente complesse. “La quantità di materiale
culturale (…) di origine straniera che si accumula gradatamente entro ogni data cultu-
ra,” sottolinea Kroeber (1948, p. 241), “è di norma maggiore di quello che si origina
dentro la cultura stessa”. Ma, prosegue, “non appena una data cultura ha accettato un
Kroeber nuovo elemento, essa tende a disinteressarsi dell’origine straniera di tale elemento”.
e le interferenze Diventa allora difficile separare in assoluto ciò che è “indigeno” da ciò che è “stranie-
tra culture ro”. Si sovrappongono troppo l’un l’altro. Linton (1937, p. 405), in un celebre artico-
lo intitolato One Hundred Per-Cent American [Americani al cento per cento], affronta
in modo interessante questo problema in relazione a ciò che possiamo chiamare l’A-
merican way of life. L’americano medio:

quando si sveglia (…) dà uno sguardo all’orologio, un’invenzione europea di età medie-
vale, usa una forte espressione latina in forma abbreviata, si alza in fretta, e va al bagno
(…). Avrà sentito storie riguardo alla qualità e alla frequenza nell’uso di impianti idrauli-
ci stranieri (…) ma l’insidiosa influenza straniera lo perseguita anche qui. Il vetro è stato
inventato dagli antichi Egizi, l’uso di piastrelle in ceramica per i muri e i pavimenti nel
Vicino Oriente, la porcellana in Cina, e l’arte di smaltare i metalli dagli artigiani del baci-
no Mediterraneo dell’età del Bronzo. Anche la sua vasca da bagno e il gabinetto non so-
no altro che copie leggermente modificate degli originali di età Romana.

Descrivere “il culturale” come una entità nettamente demarcata, che ha la medesi-
ma estensione di un certo gruppo sociale, può farci sentire (noi o altri) distinti. Ma
La disputa tra questo non è coerente con i fatti. Sono state tralasciate alcune rilevanti ambiguità.
Geertz e In aggiunta al contributo di Strauss e Quinn, vorrei discutere un altro argomen-
Goodenough to che riguarda il culturale. È correlato a una disputa tra Geertz e Goodenough. La
nozione di culturale secondo Geertz è localizzabile in istituzioni, atti e simboli a ca-
rattere pubblico, non in modelli cognitivi privati e individuali. “La cultura è pubbli-
ca”, sostiene Geertz (1973, p. 49), “perché lo è il significato”. “Nessuno penso
identificherebbe [un quartetto di Beethoven…] con il suo spartito, con le abilità e
la conoscenza necessarie per suonarlo, con la sua comprensione da parte dell’esecu-
tore o dell’ascoltatore” (pp. 48-49). Goodenough (1981, pp. 53-54) è contrario a ta-
le posizione e sostiene che: “Un quartetto di Beethoven è un’astrazione presente
nella mente di ciascuno di noi che abbia una qualche familiarità con esso (…). Il
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUARTA 305

quartetto (…) è presente in ogni suo atto di comprensione. (…) Se la cultura viene
appresa, la sua collocazione definitiva deve essere nei singoli individui e non nei
gruppi”. Tale questione porta a questa conclusione: per quali motivi e in quali ma-
niere avrebbe un qualche significato vedere il culturale collocato in un’attività pub-
blica anziché privata (e dunque mentale). Strauss e Quinn tentano di saldare questa
frattura. Esse ritengono che (p. 361): “È ora di dire che la cultura è sia pubblica sia
privata, e si trova sia nel mondo che nella mente delle persone […così] possiamo
meglio dar conto di ciò che abbiamo appreso sulla cultura fino ad ora e iniziare ad
approfondire la comprensione dei problemi che ancora ci sfuggono”.
Riguardo al tema del suo contributo nel presente volume, Keesing osserva in un
altro lavoro (1987, pp. 161-162) che: “Dobbiamo domandarci chi crea e chi defini-
sce i significati culturali, e a quale scopo”. Keesing mette in discussione il program-
ma politico inerente alle concezioni tradizionali della nozione di culturale, sottoli-
neando il fatto che ci si deve porre in sintonia con la contestualità storica dei signi-
ficati culturali. Nel far questo, si occupa anche di alcune delle prospettive politiche Keesing
che circondano oggi la nozione di culturale. Keesing si riferisce al concetto di ege- e il concetto
monia, una nozione oggi molto popolare tra gli antropologi. Secondo Gramsci di egemonia
(1948-51), l’autore più spesso associato alla nozione di egemonia, il termine si riferi-
sce al “corso generale imposto alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominan-
te” – vale a dire, quei contesti e quelle strutture intellettuali entro cui hanno luogo
la discussione, l’opposizione, il consenso e il conflitto. Gli influssi egemonici posso-
no risultare palesi, come nel caso dell’imposizione ad altri della credenza di un sin-
golo, oppure possono essere più sottili, come quando definiscono i termini entro
cui avviene il dialogo politico. Non si deve ritenere, comunque, che in tali circo-
stanze i dominati accettino passivamente tale forma di dominio. Thompson (1966),
Willis (1981) e Scheper-Hughes (in questo stesso volume) ritengono che la resisten-
za culturale si manifesti in una moltitudine di maniere, sottili e complesse.
I contributi a seguire, quindi, manifestano un’ampia panoramica di approcci al-
la nozione di culturale, offrendo una varietà tale di prospettive che il lettore non
potrà accettarle tutte. Ma in ogni caso, dobbiamo renderci conto che esse condivi-
dono alcuni tratti comuni. Tutte, ad esempio, si trovano d’accordo nel collocare il
culturale all’interno delle attività sociali. E in nessuna di tali prospettive si descrive
il culturale in astratto, in termini essenziali.
La lettura dei saggi, comunque, ci pone dinanzi una serie di importanti questio- Alcune questioni
ni: in che modo possiamo superare le attuali ambiguità e limitazioni del concetto di essenziali
culturale? Come possiamo meglio affrontare le connotazioni storiche, linguistiche e
politiche del concetto? Come possiamo costruire una nozione efficace di culturale
in vista del nuovo millennio?
Nota alla parte quarta
Massimo Squillacciotti

Ricordo, eravamo nel 1964, quando, studente del primo anno del corso di antropologia,
la nostra ‘cultura’ benpensante gridava allo scandalo perché al Festival dei due mondi di
Spoleto andava in scena lo spettacolo Bellaciao, che presentava canzoni e testi della Resi-
stenza italiana. Quando, parallelamente, la nostra ‘cultura’ di sinistra vedeva male l’intro-
duzione dell’antropologia culturale nello studio universitario, perché esterna alla tradi-
zione italiana e, soprattutto, perché la sua matrice statunitense di ideologia interclassista
tendeva a vanificare, attraverso le scuole di servizio sociale di ispirazione cattolica, l’im-
pegno militante dei ricercatori…

L’uso di questo brano di auto-intervista in apertura alla quarta parte del volume
gioca deliberatamente su più piani perché per prima cosa costituisce un’evidente
traccia autobiografica della nostra realtà d’epoca, poi perché è costruito apposta
adottando lo specifico stile narrativo della tradizione letteraria della “cultura” colta
e, infine, perché si pone al confine dell’ambiguità semantica del termine “cultura”,
in relazione all’analisi fattane dai diversi autori che seguono. Il gioco finisce così ma
questo spunto contiene, comunque, una duplice prospettiva di riflessione che vo-
glio qui introdurre rispetto al diverso taglio d’analisi dei saggi in questione: restitui-
re il quadro di un’epoca di fondazione italiana degli studi antropologici, ormai lon-
tana dalla realtà dello studio universitario di oggi, e introdurre un nodo del concet-
to di “cultura” all’interno delle possibili accezioni e pratiche del termine nella sua
formazione storico-culturale italiana. In altre parole, è come dire che nell’analisi
della storia della nostra stessa disciplina dobbiamo applicare principi e metodi che
noi stessi abbiamo già sperimentato proprio sul terreno del nostro studio e che so-
no riassumibili in due proposizioni: per il primo punto che “il significato di un testo
procede dal suo contesto”; per il secondo punto che “uno stesso testo può specifi-
carsi solo nello specifico contesto che lo definisce, al di là della sua presenza in altri
diversi contesti”. Che ne è allora del concetto di cultura nostro (italiano) e degli al-
tri (stranieri) antropologi?

Testo e contesti: noi e gli altri


Procedo per riferimenti a nodi bibliografici perché questa mia nota assuma util-
mente una valenza didattica. Così, nella storiografia degli studi antropologici italia-
ni la data del 1941 assume un valore simbolico di riferimento significativo: è l’anno
di pubblicazione di una serie di libri che segnano uno spartiacque dallo storicismo-
idealistico lungo quel percorso, tutto italiano, costituito da “De Sanctis-Croce-
Gramsci”, per dirla con Ernesto De Martino e Alberto Cirese. Questi sono: il ro-
manzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, l’antologia di Ernesto De Marti-
no, Naturalismo e storicismo in etnologia, e il saggio critico di Remo Cantoni, Il pen-
siero dei primitivi 1. Con questi contributi si evidenzia la distanza della “cultura” na-
zionale sia dalle istanze di approcci moderni del sapere, che dalla scoperta della
NOTA ALLA PARTE QUARTA 307

realtà diversa e specifica della “cultura” meridionale; con la necessità, presto diven-
tata anche impegno politico, di studiarla e comprenderla, con strumenti adeguati
come, in primo luogo, la dilatazione del concetto di cultura in prospettiva demo-an-
tropologica2. Eravamo in una Italia dal clima della “ricostruzione” post-bellica, sia
in senso materiale che di formazione di un nuovo blocco storico.
È in questo ambito che nel 1953 nasce il confronto sulla rivista «La Lapa», fon-
data e diretta da Eugenio Cirese, intorno alla portata di questa scoperta meridiona-
lista della “cultura”, come dell’esistenza della capacità analitica di strumenti già
presenti negli studi italiani sul folklore, subito appresso rivitalizzati dalla lettura
dell’opera di Antonio Gramsci, come, ancora, della definizione del concetto di
“cultura” tra studi demologici italiani e antropologia culturale (A. M. Cirese, T.
Tentori e altri).
È ancora in questo quadro che si svolgono in successione ravvicinata il I ed il II
convegno nazionale di antropologia culturale (1962 e 1963): nel confronto tra qua-
dri concettuali interni alla rinnovata tradizione scientifica italiana e apporti dall’an-
tropologia culturale, in primo luogo statunitense. Dalle posizioni presenti in questi
convegni appare chiaro come l’opposizione reciproca tra filoni di studio sia un ri-
flesso all’interno della scienza dei termini delle opposizioni più generali allora esi-
stenti nella “cultura” italiana.
Sul versante bibliografico, l’opera di diffusione dell’antropologia culturale por-
tata avanti da Tullio Tentori fa riferimento, oltre ai suoi numerosi interventi su rivi-
ste (e in particolare riviste del servizio sociale), essenzialmente alla pubblicazione
del 1960 del suo manuale per l’editrice Studium. Inoltre è da segnalare lo sforzo di
definizione di una “via italiana” del concetto di cultura nel Memorandum3 del 1958,
a opera di un gruppo di giovani studiosi che, coordinati dallo stesso Tentori, coniu-
gano rigore scientifico e impegno politico nella ricerca sul terreno, mentre l’editoria
italiana è impegnata piuttosto nella traduzione di monografie esemplificative degli
studi statunitensi (tipo Benedict e Mead) o della stessa antropologia sull’Italia (tipo
Banfield e Freedman), prima di proporre opere costitutive di manualistica antropo-
logica o sul concetto di cultura4.
Il dibattito all’interno dell’antropologia italiana5 ha avuto un altro momento
d’intensità, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, a opera di
Francesco Remotti6 sulle pagine della «Rassegna Italiana di Sociologia» a partire
dal tema del rapporto tra antropologia e marxismo, ma subito generalizzatosi intor-
no al senso stesso dell’antropologia culturale.

Testo e contesti: gli altri e noi


Innanzitutto la presentazione all’edizione originale dei testi di questa parte del
volume, svolta da Robert Borofsky, mostra ampiamente le novità di crisi e il punto
di svolta dell’antropologia culturale oggi, e non solo statunitense; ma una differenza
va sottolineata tra i diversi contributi e autori presenti riguardo ai loro riferimenti
di conoscenza e formazione. Mentre tutti sono accomunati da una consistente espe-
rienza di ricerca sul campo, ritenuta altresì fondamentale e costituiva della pratica
professionale dell’antropologo, una differenza tra loro emerge significativa dividen-
doli in due gruppi. Da una parte sono collocabili Jack Goody e Maurice Bloch, con
la loro formazione europea che, al di là di quanto già appare nei loro contributi qui
presentati, è ancor più evidente nel resto della loro produzione scientifica nota e
diffusa in Italia anche oltre lo spazio specialistico degli antropologi. Dall’altra sono
collocabili complessivamente gli altri studiosi che, al di là dell’articolazione interna
riguardo alla coniugazione del concetto di cultura e del riferimento a sottocampi
308 MASSIMO SQUILLACCIOTTI

dell’antropologia, sembrano avere presenti solo gli studi antropologici statunitensi


o tradotti nella loro lingua.
Ciò risulta evidente, ad esempio, dal fatto che la lettura dell’opera di Gramsci
negli Stati Uniti è piuttosto recente e, spesso, non diretta e di prima mano, ancor-
ché questa conoscenza si è verificata con quasi vent’anni di ritardo rispetto al cir-
cuito culturale europeo e senza la presa in considerazione del dibattito che la stessa
lettura7 aveva invece già alimentato negli studi antropologici continentali, italiani e
francesi in particolar modo. Non credo che questo ritardo sia dovuto a un tardivo
accorgersi dell’urgenza di rivitalizzare per altra strada la crisi aperta negli studi,
proprio intorno al concetto di cultura, dalla filosofia postmodernista. Piuttosto, al
di là del diffondersi della conoscenza delle lingue, è ancor vero che si sono verifica-
te e si verificano ancora oggi situazioni come questa riguardo all’introduzione e dif-
fusione di prospettive di studio in paesi diversi da quello in cui sono state elaborate.
Questo processo è generalmente legato alla politica editoriale della traduzione in al-
tra lingua dei testi e tale rapporto di potere delle lingue risulta sbilanciato secondo
una gerarchia che vede in ordine di preminenza l’inglese e il francese. È con questo
fenomeno che, comunque, bisogna ancora fare i conti anche nel considerare un al-
tro esempio, ma nella prospettiva rovesciata del rapporto: quello che potremmo
chiamare in Italia “il caso Geertz”. Infatti, le questioni sollevate da quest’ultimo, e
che appaiono qui chiaramente in molti dei contributi, sono arrivate tardivamente al
grosso pubblico italiano e solo a partire da allora sembrano essere esplose non solo
come interesse di riflessione in Italia, ma riduttivamente essersi poste in assoluto
per gli studi antropologici. Così, non solo i problemi affrontati dal postmodernismo
in antropologia sono stati impersonati da noi con e in questo studioso, limitando
così la conoscenza del più ampio raggio di posizioni ricoperte da altri studiosi d’ol-
treoceano, ma si è ridotta l’intera questione del “senso dell’antropologia” a un “dis-
corso di famiglia”, al contrario di quanto invece viene proposto anche in questa
parte del volume.
Infine, un’avvertenza di chiarimento: nel corso dei saggi alcuni autori fanno rife-
rimento indifferentemente all’antropologia cognitiva come antropologia della cono-
scenza, implicando in un tutt’uno campi che sono in parte disgiunti, e non solo per
gli studi italiani, anche se è difficile metterli in ordine con precise delimitazioni.
In primo luogo troviamo gli studi classici sulla “mentalità primitiva”, rappre-
sentati da Durkheim, Mauss, Boas, Lévy-Bruhl, Cantoni, Cocchiara, Lévi-Strauss,
Godelier. Questo primo e più antico filone, poi, ha visto consistenti ricerche sul
campo sui temi delle differenti categorie del pensiero (quali tempo, spazio, nume-
ro, colore, causalità) e delle sue connessioni con le forme sociali: ci sono in questo
campo studi di Hallpike, Sahlins, Brent, Kay, Cole, Goodenough, Barnes, Rom-
ney, Mann, Fraser, per indicare solo alcuni nomi. Accanto a questi ultimi studi si
è sviluppato un ulteriore filone definito dell’etnoscienza e della classificazione
(valga per tutti il nome di Cardona), un filone sui codici orale/scritto della comu-
nicazione (Goody, Cardona e molti altri), un filone di antropologia simbolica
(Douglas, Hugh-Jones e anche qui molti altri). In secondo luogo, e a partire dalla
psicologia transculturale, troviamo gli studi di Price-Williams, Goodnow, Hal-
ford, Berry, Dasen, Mandler, Triandis; ma anche studi sul versante antropologico
quali quelli di Tyler, Casson, Romney, D’Andrade, Cole, Means e altri. In terzo
luogo, con l’avanzamento degli studi sulla mente e l’intelligenza artificiale, si sono
sviluppate le scienze cognitive con l’ambizione di raccogliere in maniera unitaria
le differenti esperienze degli studi cognitivi e della cognizione. Infine, ma non ul-
tima, la filosofia della mente.
NOTA ALLA PARTE QUARTA 309
1 Cantoni, Remo, 1941, Il pensiero dei primitivi, Milano, Garzanti; De Martino, Ernesto, 1941, Naturalismo e stori-

cismo in etnologia, Bari, Laterza; Levi, Carlo, 1945, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi; prima ed. 1941.
2 Cirese, Alberto Mario, a cura, 1972, Folklore e antropologia tra storicismo e marxismo, Palermo, Palumbo, con

saggi di G. Angioni, C. Bermani, G. L. Bravo, P. G. Solinas. Cfr. in particolare il saggio di Pier Giorgio Solinas, “Il di-
battito sull’antropologia culturale”, pp. 79-111; Cirese, Alberto Mario, 1973, Cultura egemonica e culture subalterne. Ras-
segna sugli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo, Palumbo; Clemente, Pietro, Meoni, Maria Luisa, Squillac-
ciotti, Massimo, 1976, Il dibattito sul folklore in Italia, Milano, Edizioni di Cultura Popolare; prima ed. 1974, Universi-
tà di Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia.
3 Bonacini Seppilli, Liliana, Calisi, Romano, Cantalamessa-Carboni, Guido, Seppilli, Tullio, Signorelli, Amalia,

Tentori, Tullio, 1958, L’antropologia culturale nel quadro delle scienze dell’uomo. Appunti per un memorandum, in Atti
del I Congresso Nazionale di Scienze Sociali, Bologna, il Mulino, vol. I, pp. 235-253.
4 In ordine cronologico: Rossi, Pietro, a cura, 1970, Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropo-

logica, Torino, Einaudi, con saggi di P. Rossi, E. B. Tylor, F. Boas, R. H. Lowie, A. L. Kroeber, B. Malinowski, G. P.
Murdock, R. Linton, D. Bidney, C. Kluckhohn, M. J. Herskovits; Kluckhohn, Clyde, Kroeber, Alfred L., 1972, Il con-
cetto di cultura, introduzione all’edizione italiana di T. Tentori, Bologna, il Mulino.
5 In ordine cronologico: Bernardi, Bernardo, a cura, 1972, Etnologia e antropologia culturale, Milano, Angeli; in

particolare: B. Bernardi, “Prospettive di sviluppo degli studi antropologi in Italia”, pp. 93-117; V. Lanternari, “Le scienze
umane oggi in Italia, nel contesto europeo-americano”, pp. 43-70; AA.VV., 1980, Studi antropologi italiani e rapporti di
classe. Dal positivismo al dibattito attuale, a cura di S. Puccini, V. Padiglione, A. M. Sobrero, M. Squillacciotti, Quader-
ni di «Problemi del Socialismo», Milano, Angeli; con saggi di R. Ago, G. Angioni, A. M. Cirese, P. Clemente, P. de
Sanctis, C. Gallini, L. Li Causi, V. Padiglione, C. Pasquinelli, R. Putti, T. Seppilli, P. G. Solinas; Grottanelli, Vinigi,
1977, Ethnology and/or Cultural Anthropology in Italy: Traditions and Developments, «Current Anthropology», 4, pp.
593-614; Saunders, George R., 1984, Contemporary Italian Cultural Anthropology, «Annual Review of Anthropology»,
13, pp. 447-466; AA.VV., 1985, L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Bari-Roma, Laterza, con pref. di A. M. Cirese
e saggi di P. Clemente, A. R. Leone, S. Puccini, C. Rossetti, P. G. Solinas.
6 Remotti, Francesco, 1986, Antenati e antagonisti. Consensi e dissensi in antropologia culturale, Bologna, il Mulino.

In particolare il saggio “Tendenze autarchiche nell’antropologia culturale italiana”, (pp. 277-333), già pubblicato in «Ras-
segna Italiana di Sociologia», 2 (1978), pp. 183-226, e seguito da una serie di interventi sulla stessa rivista di Amalia Si-
gnorelli, 1980, Antropologia, culturologia, marxismo, 1, pp. 97-116; Domenico Parisi, 1980, Ancora su antropologia, cul-
turologia e marxismo, 3, pp. 471-476; Tentori, Tullio, 1984, Sull’antropologia culturale e le scienze antropologiche, 4, pp.
607-611; Francesco Remotti, 1985, Quale senso per l’antropologia culturale, 2, pp. 261-306.
7 In ordine cronologico: Cirese, Alberto Mario, 1976, Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deled-

da, Scotellaro, Gramsci, Torino, Einaudi; AA.VV., 1980, Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani. Problemi e di-
battiti, a cura di S. Puccini, V. Padiglione, A. M. Sobrero, M. Squillacciotti, Quaderni di «Problemi del Socialismo»,
Milano, Angeli; con saggi di P. Angelini, F. Apergi, F. Faeta, V. Lanternari, S. Portelli, S. Puccini e M. Squillacciotti, L.
M. Lombardi Satriani, A. M. Sobrero, T. Tentori.
La cultura e i suoi confini: un punto di vista europeo*
Jack Goody

Il concetto di cultura, accolto senza obiezioni nella maggior parte dei discorsi
quotidiani e anche in molte discussioni accademiche, ha avuto una storia travaglia-
ta. I filosofi della scienza hanno vivacemente sostenuto la necessità di restringere la
definizione di cultura, fornendo inoltre alcuni suggerimenti riguardo al modo in cui
andava formulata (Kroeber, Kluckhohn 1963; Moore 1952; Goldstein 1957; Cafa-
gna 1960). Sono state pubblicate numerose ed esaustive rassegne del concetto, che
si sono spesso concluse con un tono abbastanza pessimista (Singer 1968; Schneider,
Bonjean 1973; Keesing 1974).
Esistono due modalità principali in base a cui gli scienziati sociali impiegano il ter-
mine. In primo luogo esiste la nozione di “cultura” intesa come comportamento ap-
Cultura come
comportamento
preso (e i suoi prodotti) che, in linea generale, distingue l’uomo dalle altre specie ani-
apreso mali dipendenti totalmente dalla trasmissione genetica. Il comportamento appreso
(l’azione sociale) è in un certo senso (spesso in un’accezione molto debole) orientato a
un fine, almeno nel corso del processo di apprendimento stesso. In secondo luogo,
esiste una nozione di “cultura” che comprende i comportamenti strutturati di un
gruppo particolare, di una tribù, di una nazione, di una classe o di un luogo. Quest’u-
so del termine può risultare ingannevole sotto molti punti di vista, specialmente in
Cultura come mano a quegli antropologi per i quali il culturale è opposto al sociale, in quanto desi-
comportamento gna un particolare aspetto o settore del comportamento umano correlato a simboli e
strutturato
di un gruppo credenze o, per usare le parole di Mary Douglas, “un insieme di credenze collegate
tra loro in strutture relazionali” (vedi anche Schneider 1976, p. 198: “un sistema di
simboli e significati”). Coloro che seguono Talcott Parsons (1973) invitano al ricono-
scimento di un settore separato degli studi “culturali” relativo all’analisi di “simboli”
e “significati”, un settore che sia in opposizione al sociale (strutture sociali, organizza-
Struttura sociale zioni sociali, ecc.) o che al limite ne sia distinto, nonostante il fatto che il concetto di
vs cultura azione sociale di Parsons includa entrambi gli elementi (Geertz 1965; Schneider
1976). Geertz distingue tra la struttura sociale intesa come “il processo incessante dei
comportamenti interattivi” e la cultura come “il complesso di credenze, simboli
espressivi e valori nei cui termini gli individui definiscono il loro mondo, esprimono i
loro sentimenti e formulano i loro giudizi” (Geertz 1957, p. 190).
Quando mi siedo al balcone e guardo i miei vicini in un villaggio rurale francese,
trovo difficile distinguere questi due livelli. Essi agiscono e interagiscono secondo mo-
dalità che possono permettere di identificare credenze, simboli e valori, ma questi sono
inerenti alla loro interazione; l’azione sociale deve includere tale dimensione e sarebbe
priva di senso senza di essa. Il complesso di credenze, l’uso di simboli, l’“espressione”
di valori sono parte del “processo incessante dei comportamenti interattivi”. Ogni altra
nozione distintiva di una “struttura” deriva dalla percezione analitica dell’osservatore
piuttosto che dalla prospettiva dell’azione compiuta dall’attore. Tutto questo non ren-
de tale posizione sbagliata, ma fa sì che sia qualcosa di superfluo1.
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 311

Le difficoltà nel distinguere il culturale dal sociale


La tradizione europea è meno disposta ad accettare la dicotomia tra cultura e
società. Come avveniva nell’approccio degli inizi del secolo diciannovesimo, la ten-
denza è stata quella di trattare tali categorie virtualmente come sinonimi. Certamen- Gli studi
te James Frazer non riconosceva tale distinzione quando accettò la cattedra di an- europei e
tropologia sociale all’Università di Liverpool. Allo stesso modo neppure l’espressio- l’indistinzione
ne francese anthropologie sociale esclude l’analisi di ciò che gli studiosi americani di sociale e
possono pensare sia “la cultura”. Anzi, pur essendo stati i primi a proporre uno stu- culturale
dio della “struttura sociale” con Durkheim, i francesi hanno continuato a manife-
stare il più grande interesse nei confronti dello studio dei miti, dei simboli e del “si-
gnificato”, tutti sotto il titolo del sociale. Anche accettando tale dicotomia, ritengo
che le credenze (secondo la definizione di Douglas), o i simboli e i significati (se-
condo Schneider e altri) siano solo un elemento di ciò che la maggior parte degli
studiosi riconosce come il campo del culturale: da un punto di vista analitico questi
elementi necessitano di essere trattati non proprio come distinti, ma piuttosto come
aventi il medesimo tipo di relazione con il “sociale” che il mito ha con il “rituale”
(Kroeber, Kluckhohn 1963, pp. 312-313).
All’interno di una più ampia prospettiva europea, la cultura viene intesa come il
contenuto delle relazioni sociali e non come un’entità separata (vedi ad esempio
Firth 1951, p. 27). Questo vuol dire che la cultura è la parte “consuetudinaria” del-
l’azione sociale, che non costituisce un proprio campo di studi e su cui non si può
avere un corpus teorico separato2. Certo è difficile dire come dovrebbe essere una
“teoria” generale della cultura. Mentre è avvenuto un miglioramento nell’analisi dei
sistemi di conoscenza, ad esempio della classificazione dei fenomeni, è difficile indi-
viduare un qualche beneficio che sia derivato dal trattare il livello dell’ideazione, in-
cluso il piano dei simboli e dei significati, come un distinto campo del sapere. Tan- La cultura come
to per cominciare, tale approccio tende a enfatizzare eccessivamente la linea di divi- fenomeno
sione tra fenomeni “materiali” e “non materiali” riflettendo in questo modo dicoto- secondario e
mie popolari da tempo stabilite ma che spesso risultano fuorvianti. Goodenough immateriale
era molto chiaro quando dichiarava che “la cultura non è un fenomeno materiale
ma un meccanismo comportamentale, piuttosto che il comportamento stesso”
(Goodenough 1957, p. 167). In altre parole la cultura è un fenomeno secondario
che noi deriviamo dallo studio del comportamento. Da dove verrebbero allora il li-
bro e la scrittura se noi avessimo a che fare solo con l’immateriale? E il pensiero
stesso è allora privo di ogni aspetto materiale?
Tale approccio possiede un’evidente vena idealista che tende a privare di valore
non solo la cultura materiale, ma in generale i diversi aspetti materiali della cultura.
I limiti di un
Mentre in un’analisi “socio-culturale” ci sono diversi motivi per sottolineare il ruo- approccio
lo svolto dalle idee, dai valori e dalle norme, non esiste ragione per tralasciare il idealista
ruolo svolto da elementi materiali nel comportamento (ai quali è intrinseco un ele-
mento ideativo e in altre parole linguistico, perlomeno in rapporto all’interazione
umana). È sin troppo evidente che l’avvento dell’automobile ha cambiato il modo
in cui i beni vengono acquistati nei piccoli centri, trasformando anche le relazioni
tra casa e lavoro. In un altro ambito, quello della comunicazione, l’avvento della
scrittura ha influito sulla possibilità di spedire messaggi a distanza e di riceverne dal
passato, ovvero da scriventi scomparsi da tempo, così come ha influenzato non solo
il contenuto di tali messaggi, ma anche le stesse operazioni mentali dei membri di
tali società alfabetizzate. L’implicita, e spesso apertamente dichiarata, separazione
tra il materiale e l’immateriale presente in molti approcci recenti allo studio della
“cultura” è fortemente limitativa dal punto di vista dell’analisi e profondamente in-
312 JACK GOODY

soddisfacente dal punto di vista della teoria generale. Ciò porta a trascurare que-
stioni importanti, senza metterne in evidenza molte altre che potrebbero essere pro-
ficuamente analizzate.
Senz’altro, quali che siano le asserzioni teoriche degli antropologi culturali, all’in-
terno della loro disciplina essi hanno a che fare con molte più questioni di quanto
non comporti lo specifico ambito per cui dichiarano il proprio preciso interesse, ov-
vero quello dei simboli e del significato. Geertz concepisce la cultura come “un siste-
La rischiosa
ma di significato creato storicamente, nei cui termini noi diamo forma, ordine, scopo
separazione fra e direzione alla nostra vita” (Geertz 1973, p. 97). Egli distingue tra simboli culturali
“contenuto” e intesi come “veicoli di pensiero” e strutture sociali viste come “forme di associazione
“interazione” umana”, con una “reciproca interazione che ha luogo tra loro”. Nonostante tale po-
tenziale interazione, la situazione umana è espressa nei termini di una dicotomia ra-
dicale. Molti altri studiosi vedrebbero nel linguaggio il principale esempio sia di un
veicolo di pensiero che di un mezzo di associazione umana (Rice 1980, p. 171). In
molti campi sembra esserci molto da perdere e ben poco da guadagnare in tale sepa-
razione tra “contenuto” e “interazione”, soprattutto perché essa non sembra affatto
necessaria al concetto di sociale impiegato da Parsons (1973) o dagli studiosi a lui
precedenti e di cui il suo lavoro è una vera e propria sintesi. Ad ogni buon conto, se-
condo l’uso europeo la struttura sociale può includere l’analisi del campo del simbo-
lico, come avviene nel caso dell’opera di Lévi-Strauss, o può implicare lo studio del-
la “interazione”, come accade, ad esempio, nello studio di Evans-Pritchard della reli-
gione nuer o nell’indagine di Fortes del culto degli antenati (Evans-Pritchard 1956;
Fortes 1987).
I diversi tentativi compiuti per distinguere il culturale dal sociale, o il simbolico
da altre forme d’interazione umana, sembrano essere quindi discutibili. I termini
Berkhofer possono servire come indicatori generali per diverse aree di interesse all’interno di
e la nuova un più ampio campo di azione sociale, a volte aree in cui ci si perde alla ricerca di
definizione una spiegazione (alternativa).
di cultura
È lo storico Berkhofer (1973) a fornire il contesto della trasformazione nella de-
finizione di cultura (americana) dopo la seconda guerra mondiale. La precedente
componente legata agli artefatti venne allora esclusa a favore del “simbolico”, uno
spostamento dall’ordine del “reale” a quello dell’ideale, dal “materiale” all’“imma-
teriale” che egli considera compatibile con i cambiamenti avvenuti in materia sto-
riografica da un approccio di opposizione a uno di consenso nei riguardi della poli-
tica americana nel periodo della guerra fredda. Si tratta di uno spostamento dalla
più concreta, generale e ampia definizione offerta da E. B. Taylor, verso una posi-
zione che si concentra al livello dell’ideazione e del simbolico3.

Questioni di unità e di diversità tra le nozioni letterarie e storiche di cultura


T. S. Eliot, nelle sue Notes towards the Definition of Culture (1948), tenta di
Eliot e le tre
accezioni di conciliare tre accezioni della nozione di “cultura” (di “una cultura”, piuttosto che
“cultura” della “cultura”) a seconda che vada riferita a un individuo, a un gruppo (o clas-
se), o all’intera società. Partendo dai gruppi tribali, Eliot fa riferimento alla defi-
nizione antropologica totalizzante data da E. B. Tylor nel suo lavoro di fondazio-
ne del 1871, Primitive Culture. Ma prosegue sottolineando che “se consideriamo
società altamente sviluppate, e in particolare la nostra società contemporanea,
dobbiamo tenere in considerazione la relazione esistente fra le tre accezioni della
nozione. A questo punto l’antropologia si trasforma in sociologia” (Eliot 1948, p.
20). Vale a dire che è possibile applicare la nozione di omogeneità alle “tribù”,
ma non a unità più complesse.
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 313

Un’osservazione simile viene fatta da Keith Thomas (1971) nel suo studio delle
forme di credenza nell’Inghilterra dell’epoca Tudor, Religion and the Decline of Ma-
gic. Nell’introduzione egli descrive la varietà dell’Inghilterra di quel periodo, dovu- La varietà
ta alle ampie trasformazioni nelle abitudini di vita, nei livelli di educazione e nella dell’Inghilterra
dei Tudor
sensibilità intellettuale che hanno reso tale società così diversificata e, di conseguen-
za, così difficile da affrontare mediante generalizzazioni. Non solo le condizioni del
paese sono mutate nell’arco dei due secoli in oggetto, ma anche in singoli momenti
di tale periodo sono presenti tanti diversi contesti di credenza e con vari livelli di
sofisticazione. L’invenzione della parola stampata, inoltre, ha reso possibile la diffu-
sione di tanti diversi sistemi di pensiero che venivano da altre società o, in alcuni
casi, discendevano dal lontano passato classico. Il compito dello storico è quindi in-
finitamente più duro di quello dell’antropologo sociale, che studia piccole comuni-
tà omogenee in cui tutti i componenti condividono le medesime credenze e di cui
ben poche sono state acquisite da altre società. Quello dello storico non è un sem-
plice mondo primitivo unitario, ma una società dinamica e infinitamente diversifi-
cata, su cui ha a lungo operato il mutamento sociale e intellettuale e in cui differen-
ti correnti muovono in diverse direzioni (Thomas 1971, p. 5).
Sia i critici letterari che gli storici accettano la prospettiva secondo cui le defini-
zioni olistiche non sono applicabili alle società post-rinascimentali ma solo alle “tri-
bù”, analizzate dagli antropologi, che possiedono culture di tipo indifferenziato. La
divisione operativa tra sociologia e antropologia implicata da tale distinzione solleva La divisione fra
sociologia e
notevoli obiezioni teoriche che coinvolgono gli assunti riguardo alla natura di “altre antropologia
culture”. Possiamo, naturalmente, considerare le “società più semplici” come meno
dinamiche e più statiche poiché sono di minore dimensione, più omogenee e più
“primitive”. Ma questa sarebbe un’argomentazione circolare. Vorrei precisare tale
descrizione, così come vorrei sottolineare un meccanismo che può dar conto, alme-
no in parte, della differenza, un meccanismo suggerito da entrambi gli autori. Pos-
siamo trovarci d’accordo sul fatto che molte piccole società, del genere esemplifica-
to dai nuer o dai tallensi, siano relativamente omogenee dal punto di vista culturale.
Ci sono ben poche stratificazioni economiche e politiche, e le differenze sub-cultu-
rali tendono a essere appianate attraverso le interazioni faccia-a-faccia. Comunque, Omogeneità e
questa situazione non significa necessariamente che tali società siano statiche nel temporalità
tempo, poiché possiamo trovarci di fronte a un’omogeneità in movimento. Qualsia-
si omogeneità possiede una dimensione temporale, poiché è disturbata di volta in
volta da forze esterne e da contraddizioni e tensioni interne.
Perfino in queste società più semplici è facile sovrastimare l’omogeneità della cul-
tura, che è sempre relativa. In ogni sistema di interazione umana esistono tra i parte-
cipanti dei giudizi comuni di tipo culturale, certamente negoziati, ma in cui allo stes-
so tempo ciascun partecipante conserva le proprie personali valutazioni. Anche in
società orali queste non sono delle semplici deviazioni da una norma fissata, ma in
uno specifico momento permettono di differenziare un individuo o un gruppo da un L’“estensione”
altro, mentre sul lungo periodo possono rappresentare atti creativi che ridefiniscono di una cultura
la cultura e le stesse relazioni sociali. È facile credere che tali atti creativi siano va-
rianti di una singola “cultura”, e in un certo senso questo è vero per definizione. Ma
i pericoli insiti in tale assunto diventano palesi quando guardiamo alla questione del-
l’estensione spaziale e temporale di una “cultura” o di elementi culturali. Ad esem-
pio, estendiamo la prospettiva temporale e chiediamoci fino a che punto la cultura
del New England contemporaneo sia la stessa degli inizi del XIX secolo, dell’antico
periodo dominato dai Puritani, dell’Inghilterra di epoca Stuart ormai abbandonata
dai Puritani, dell’antica Inghilterra chauceriana a cui appartenevano i loro antenati.
314 JACK GOODY

Inoltre, non tutte le società non alfabetizzate sono ugualmente omogenee. Se os-
La
serviamo gli antichi regni africani troviamo forme di stratificazione che davano ac-
disomogeneità cesso ad alte funzioni, i cui incaricati erano investiti di poteri magico-religiosi. Tali
degli antichi poteri non venivano sempre trasmessi per via ereditaria in senso stretto, anche
regni africani quando la funzione politica veniva trasmessa in tal modo. La classe dominante,
spesso comprendente anche i discendenti di successivi conquistatori, possedeva
l’accesso esclusivo alle principali cariche politiche e i gruppi di specialisti, che cir-
condavano il re e la sua corte, tessevano abiti, suonavano, svolgevano la funzione di
interpreti e facevano altri lavori di questo genere. Le differenze di ruolo e di occu-
pazione abbondavano.
Qual è la differenza tra tale contesto africano e quello dell’Europa rinascimenta-
le che Burke (1978) descrive in termini di sottoculture composte da artigiani e altri
gruppi? Evidentemente è in larga parte questione di gradi. Si tratta anche di un
problema di natura del confine tra i gruppi. Nelle società eurasiatiche i confini tra i
gruppi vengono spesso rinsaldati attraverso il matrimonio. In Africa questo avviene
raramente, se si esclude il caso dei gruppi dominanti degli Stati dei laghi nell’Africa
orientale, di alcuni gruppi di specialisti dell’Africa occidentale e per i credenti delle
religioni universaliste, tutti tendenti all’endogamia. In tutti questi casi non è solo
coinvolto il matrimonio ma anche la tendenza a sviluppare sottoculture. In genera-
le, comunque, non è presente una gerarchia culturale pienamente sviluppata, per
cui risulta difficile parlare, ad esempio, di una cultura popolare in opposizione alla
cultura alta.
Pur essendo un errore quello di insistere sull’omogeneità delle società non alfa-
Differenze fra betizzate, si deve certamente sottolineare la grande differenza che esiste tra le cultu-
società re delle società “semplici” e di quelle “complesse” che si fonda sui loro mezzi di co-
“semplici” e municazione; questo è il meccanismo che ritengo debba essere tenuto in considera-
“complesse”: il
ruolo della
zione per aiutarci a chiarire i nostri fondamenti concettuali. Ovviamente le società
scrittura orali hanno fatto a meno di ciò che Benjamin Franklin ha definito “l’incessante in-
tervento della stampa”. Hanno fatto anche a meno della presenza perturbante e
creativa dello scrittore. E l’assenza di scrittura ha chiaramente qualche relazione
con la loro omogeneità, dato che mediante questo medium vengono perlomeno
create nuove forme di conoscenza, nuovi simboli e nuovi significati che influenzano
la cultura in modo molto esteso. Non so se si possa parlare di “cultura popolare” se
non in società che possiedono la scrittura, sebbene la scrittura non sia sempre il so-
lo mezzo di differenziazione.
La stratificazione sociale di tipo più complesso si traduce in modo più sottile in
differente accesso e coinvolgimento nell’attività socio-culturale, ma implica anche la
garanzia di una certa autonomia e potere alla parola scritta, anche quando tale pa-
rola non è necessariamente controllata da autorità politiche o religiose. La natura
Autonomia della della scrittura promuove la concezione dell’esteriorità della cultura – quella cultura
scrittura ed è in larga parte là fuori, in libri da acquistare o da bruciare, in teatri sovvenzionati o
esteriorità della
cultura soppressi, nei Ministeri della Cultura piuttosto che nel cuore e nella mente degli uo-
mini. Ciò che è implicito in quest’ultimo tipo di cultura viene spesso presupposto
dagli antropologi nel momento in cui definiscono la cultura come un comporta-
mento appreso – prendendo così a modello il linguaggio, per poi generalizzare le
caratteristiche particolari da tale mezzo di comunicazione (che deve essere relativa-
mente preciso e quasi universale) al contenuto della comunicazione (in cui la diffe-
renziazione può spesso essere maggiore).
Gli attori sociali generalmente definiscono la propria cultura nei termini degli
elementi politici, linguistici o religiosi dominanti verso cui hanno un debito di ap-
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 315

partenenza, di modo che essi possono subito parlare dell’inglese americano, del cat-
tolicesimo americano, della cultura americana, presumendo un’unità ben definita L’omogeneità
che spesso è problematica (dato che molti altri condividono gli elementi di base “politica”
della lingua inglese e della religione cattolica). In questo senso il concetto di “una della cultura
cultura” tende ad avere una profonda connotazione nazionalistica o perlomeno po-
litica. La cultura può essere intesa come omogenea, come modo per coprire i buchi
nel tessuto della società. Tale nozione è spesso connessa concettualmente ad ele-
menti politici, o a entità che desiderano giocare un ruolo politico. Di conseguenza,
non a caso, uno dei primi capitoli dell’analisi di Schama sulla cultura olandese del
Seicento, intitolato Scritture patriottiche, inizia con la domanda “chi credevano di
essere esattamente gli olandesi?” (Schama 1987, p. 51). L’attenzione è in tal modo
concentrata sugli elementi in comune tra i membri di una data entità politica, il più
delle volte il loro linguaggio. Ma, dal punto di vista privilegiato dell’osservatore
esterno, il linguaggio (ma una diversa religione) e molti altri aspetti comportamen-
tali accomunavano gli abitanti delle Fiandre, e le attività di Anversa assomigliavano
molto a quelle di Amsterdam. L’osservatore esterno vede le aree di sovrapposizione,
l’osservatore interno mette invece in evidenza le differenze.
Questi problemi inerenti l’uso del concetto di cultura emergono chiaramente
nell’analisi di Eliot (1948) sull’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, non
solo da un punto di vista temporale ma anche da quello spaziale. Egli parla dell’uni-
tà della cultura europea (che era il titolo di un suo programma radiofonico trasmes-
so in Germania nel dopoguerra). A suo parere questa unità era essenzialmente cri-
stiana; e l’unità religiosa caratterizza in modi diversi le culture più elevate. Egli con-
Eliot: da “una
siderava le culture non solo stratificate al proprio interno, ma vedeva i diversi strati cultura”
culturalmente più alti o più bassi, ovvero aventi più o meno cultura. Le culture più a “la cultura”
elevate vengono distinte in base alla “differenziazione della funzione, di modo che elitaria
si può parlare di strati della società più o meno colti” (Eliot 1948, p. 124). Una del-
le funzioni dell’educazione è quella di mantenere una cultura elevata: “l’educazione
dovrebbe aiutare a proteggere la differenza di classe e a selezionare un’élite” (Eliot
1948, p. 163). In altre parole Eliot cerca di combinare l’uso sociologico di “una cul-
tura” con il punto di vista valutativo-elitario del concetto di “cultura”, presente nel-
l’uso quotidiano soprattutto nei circoli letterari dove spesso viene riferito a una pre-
cisa tradizione scritta o artistica. Eliot sostiene questo basandosi non tanto sulla di-
stinzione tra cultura elitaria e cultura popolare, ma piuttosto su quella tra individui
più o meno colti.
Da una prospettiva politica Eliot cercava di ridare validità alla nozione di “cultu-
ra” europea nel dopoguerra, momento in cui l’idea di ricostruzione era nell’aria: non
solo la ricostruzione politica dei paesi conquistati – la riabilitazione della Germania,
l’abbandono del concetto di dominio imperiale, e la creazione di un nuovo ordine
mondiale – ma anche la ricostruzione della nozione di cultura quando molto era sta-
to distrutto sul piano materiale, e grande era stata l’inerzia sul piano dell’azione. Il
primo libro che ho comprato dopo la guerra era The Bombed Cities of Europe: una
testimonianza di ciò che era andato perduto. Al giorno d’oggi un osservatore distac-
cato riconoscerebbe a malapena quelle cicatrici. Allora si rimpiangeva ogni singolo Il fascino
capolavoro perduto, si aveva il desiderio di vedere ogni rappresentazione artistica. per i “modelli
di cultura”
Anche la nozione di cultura, nel significato sociologico inteso da Eliot (1948), era già
nell’aria poiché si focalizzava l’attenzione su elementi in via di sviluppo, sul cui fon-
damento poteva essere costruito un mondo nuovo, riprendendo il meglio dal vec-
chio. Forse da questo stato d’animo derivò almeno in parte l’attrazione verso il testo
di Benedict Modelli di cultura così come l’interesse per i lavori di Mead, Bateson,
316 JACK GOODY

Gorer e altri, che riducevano le società a supposti elementi di continuità, a temi e


strutture che resistevano a ogni avversità, a componenti immateriali che nessuna
bomba poteva distruggere, ignorando le tensioni e le contraddizioni che davano ori-
gine al conflitto, o alla variegata complessità che Thomas (1971) ritrovava nel Rina-
scimento inglese.
Anche tralasciando le obiezioni a un tale approccio avanzate comunemente dalle
scienze sociali europee (soprattutto dall’antropologia sociale britannica), c’era qual-
cosa che non tornava in queste concezioni per chi aveva vissuto le trasformazioni
della Germania sotto Hitler, della Francia sotto Petain, e più tardi l’improvvisa cadu-
ta della cultura fascista in Italia e della cultura nazista alla fine della guerra. Erano
questi cambiamenti semplicemente una questione di sostituzioni politiche al vertice?
Certamente no. I regimi fascisti guadagnarono un ampio consenso popolare, come
in seguito vedemmo nella prosecuzione del conflitto. Ciò che emerse dalle loro rovi-
ne era in parte nuovo, in parte imposto dall’alto e ampiamente accettato dal basso.
Totalitarismo e improvvisi mutamenti si accavallavano uno sull’altro. Razzismo e tol-
leranza si alternavano: grandi musicisti, artisti e scrittori prima dimenticati vennero
nuovamente accolti nella società.
Studi letterari come quello di Eliot (1948) ci ricordano la presenza dell’aspetto
valutativo implicito in molti usi del concetto di cultura; studi storici come quelli di
Thomas (1971) mettono invece in evidenza l’associata nozione di differenziazione.
Inoltre, dobbiamo essere perfettamente consapevoli del variare dei confini, non
tanto della cultura, quanto delle pratiche culturali. Il riconoscimento di tali elemen-
ti può renderci diffidenti nei confronti delle nozioni semplicistiche di omogeneità
culturale e della comune natura di ciò che ha senso e ciò che non ne ha. Questo si-
curamente può renderci diffidenti riguardo la concezione di una dicotomia tra il
culturale e il sociale, e perfino verso l’uso dello stesso termine “culturale”.

I confini interni alla nozione di cultura e i suoi elementi costitutivi


I differenti elementi che compongono una cultura hanno tra loro diversi tipi di
I confini
confine. In primo luogo, vi sono i confini che dividono i domini interni di un dato
“dentro” la sistema socioculturale, domini religiosi, politici, interpersonali (il dono), culminanti
cultura, negli usi fortemente contestuali di singoli autori creativi. Esistono poi dei confini
i confini locali e locali, tra gruppi sociali adiacenti e tra individui che sono differenti in funzione del-
quelli di classe
le diverse azioni sociali. Il terzo genere di confine è quello gerarchico, di classe o di
ceto. La natura di tali confini varierà in ragione del tipo di sistema sociale; le socie-
tà più semplici sono relativamente più indifferenziate non solo gerarchicamente ma
anche per quanto riguarda i diversi ambiti, con il religioso che si confonde con il
politico.

In Europa l’atto di donare delle rose rosse significa abitualmente amore; nel
Gli ambiti contesto cristiano sta per la Vergine, per l’amore di Cristo così come per il suo mar-
tirio; in quello politico, il colore rosso è spesso il sangue dei martiri socialisti. I con-
testi interpersonali, religiosi e politici definiscono gli usi in maniera abbastanza dif-
Il “linguaggio ferente, anzi in modo contraddittorio. Il “linguaggio dei fiori” del diciannovesimo
dei fiori” secolo ha tentato di definire una lista di singoli referenti per ogni fiore, un compito
impossibile – se lo si fosse voluto conforme all’uso tradizionale – poiché esso era
multiforme, determinato dai diversi domini. Inoltre, tali usi erano soggetti a esten-
sioni creative, nelle arti così come nel quotidiano. Per l’artista la comunicazione di
un significato simbolico non era solo il modo per dare espressione a un sistema di
senso culturale, esistente e tradizionale, ma per estendere ed elaborare ciò che era
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 317

già acquisito (che poteva includere sistemi di significato “creati” o per “speciali-
sti”). E tali nozioni potevano anche variare in funzione degli individui o dei gruppi,
così come in ragione degli ambiti, del soggetto trattato, o di altri contesti di discor-
so. Se andiamo alla ricerca di un sistema comune di significati culturali, in termini
L’assenza di un
linguistici, otterremo una serie di equivalenze estremamente povera di senso, poi- codice floreale
ché sarebbero state omesse le differenze di tipo spaziale, temporale, così come quel-
le geografiche e gerarchiche. E anche tenendo conto di tali differenze non è del tut-
to certo che si ottenga un sistema di senso coerente, tantomeno un codice, nel signi-
ficato abituale in cui il termine viene impiegato.

In secondo luogo, vi sono confini spaziali di tipo ed estensione variabile. Spesso


si parla di cultura come se fosse un attributo limitato a particolari gruppi sociali, ma I confini spaziali
questo non è assolutamente vero quando si presta attenzione a specifici aspetti del
comportamento. Nel diciassettesimo secolo la questione richiamò l’attenzione del-
l’Abbé Jean-Baptiste Thiers che sottolineò, nel suo Traité de Superstitions (stampato
nel 1697), come il “popolare” risulti opposto al credo cattolico così come il partico-
lare si oppone all’universale: “ogni regno, ogni provincia, ogni diocesi, ogni città,
ogni parrocchia, ha le proprie credenze” (citato da Revel 1984, p. 299). Perché? Se-
condo Thiers tali credenze non hanno alcun fondamento nell’autorità canonica.
Guardando la cosa da un’altra prospettiva, possiamo attribuire la varietà alla natura
generativa della cultura, in particolare quando non sia frenata da egemonie politi- Thiers e il
che o religiose. Ciò che manca a tali credenze, come giustamente sottolineava “popolare”
Thiers, è l’autorità canonica. Le parole si rinforzano a vicenda; il canone non era so- come particolare
lo un documento che costituiva un’autorità, ma una regola, un dovere autorizzato e
accettato. Disciplinava credenze e pratiche, sia nel senso di dare una disciplina a
studenti e soldati, anche formando il loro carattere, sia nel senso di creare un cam-
po di studio, un settore dotato di un proprio corpus di opere scritte.
Nel mettere in relazione ciò che è “universale” o cattolico con documenti scritti,
e ciò che è particolare o locale con le modalità orali, non intendo ridurre la distin-
zione tra le nozioni di alta e bassa cultura a quella esistente tra il testo scritto e la
parola detta. Anche se tale semplice dicotomia fosse appropriata, un aspetto in-
fluenza l’altro, in modo differente nel corso del tempo, essendo ognuno a proprio
modo creativo; l’orale sostituisce, lo scritto accumula. Inoltre, esistono livelli di dif- Canone,
ferenziazione all’interno di entrambi i contesti. Ciononostante, uno degli effetti a scrittura e
lungo termine dell’aggiunta di un registro di scrittura va in direzione di una stan- standardizzazione
dardizzazione di gran parte dei riti, delle leggi e dei costumi. Questo non vuol dire
che diventino statici, ma che attraverso l’incorporazione nello scritto si introduce in
loro un certo livello di standardizzazione.
Nel Medioevo il canone non era confinato a un solo paese, a una “cultura”.
Apparteneva all’intera cristianità, in cui simili concezioni religiose e simili simbolo-
gie erano ovunque correnti: la rosa rossa stava ovunque per il Cristo e la Vergine
Maria. Allo stesso modo, il simbolismo araldico dei fiori non era confinato a una Omogeneità a
sola società: si era diffuso tra le aristocrazie dell’Occidente tra cui la solidarietà livello popolare
orizzontale di classe era allora più forte dei legami verticali di appartenenza politi-
ca. Anche a livello popolare in tutta Europa si trovavano alcune somiglianze come,
ad esempio, nelle attività legate al primo maggio (dato che non sembra rappresen-
tare un antico culto, del genere evocato da Robert Graves). Tuttavia, tali attività
erano largamente adottate a livello popolare e venivano inserite negli interstizi del
calendario liturgico, anche con l’incoraggiamento della Chiesa che considerava
maggio come il mese di Maria, o delle istituzioni interessate a creare valvole di si-
318 JACK GOODY

curezza di tipo cerimoniale. Ciononostante, è stata in complesso l’oralità a diffe-


renziarsi in modo estremamente localistico, mentre la scrittura ha avuto la tenden-
za a estendere il proprio dominio ben oltre quei confini.
Sull’altro versante della dialettica della cultura non si trova il canone ma la crea-
La dialettica zione, che non è limitata né all’orale né allo scritto. Vi sono ragioni per intendere
della creazione l’uso del simbolismo floreale fatto da Shakespeare nell’Amleto più come una crea-
zione letteraria che come un codice, sebbene abbia qualche rapporto con gli usi po-
polari. Così è anche per la tradizione del “linguaggio dei fiori” nella Francia del di-
ciannovesimo secolo, che era uno degli aspetti della cultura “alta” di Parigi. Era
piuttosto un aspetto della cultura della nascente borghesia urbana, che si fondava
su elementi sia della cultura popolare che di quella elitaria, nel definire una nuova,
temporanea tradizione di ristretta circolazione e di limitato accesso, ma che avrebbe
avuto molteplici conseguenze.

Alto e basso Messe a confronto con la complessità delle variazioni orizzontali, le differenze
verticali sembrano essere relativamente semplici. Ma questo non è del tutto vero. In
primo luogo alcuni aspetti caratteristici di gruppi particolari tendono a diffondersi
all’interno della gerarchia e, meno frequentemente, a scalarla. Queste differenze ge-
rarchiche possono essere parzialmente riaffermate come urbane-rurali. Prima del-
l’attuale tendenza a una universale periferizzazione, gli usi europei riguardo ai fiori
La gerarchia nella campagna e in città erano notevolmente diversi. Anche un significato larga-
urbano-rurale mente accettato come quello della connotazione sessuale delle rose rosse sembra es-
sere stato principalmente urbano e elitario, estendendosi poi gradualmente ad altri
livelli della società. Questo è avvenuto spesso nelle consuetudini matrimoniali in cui
uomini e donne tendono a indossare gli abiti e gli accessori dei gruppi elitari, come
testimonia l’uso dell’abito da sera utilizzato anche di recente nelle zone rurali della
Francia e dell’Inghilterra, oppure il vestire la sposa da imperatrice in Cina o da re-
L’abbigliamento gina nelle società islamiche. “Vestirsi a festa” significa adottare i costumi e le prati-
come adozione che dei gruppi elitari, anche solo per la specifica occasione, un processo tipico dei
di costumi elitari
matrimoni ma che si può riscontrare anche in altri riti.
Tale adattamento non pone fine alla differenziazione. Le cerimonie delle classi
elevate sono senza dubbio esclusivamente loro, anche solo per la ricchezza che met-
tono in mostra. Ma il comportamento di un gruppo può distinguersi secondo crite-
ri impercettibili. Si tratta di criteri a volte arbitrari e in parte nascosti, che emergo-
no continuamente sotto un’altra forma. Tali mutazioni possono iniziare anche come
espressioni individuali di simpatie e di antipatie. I critici letterari e gli antropologi
condividono l’idea che le culture popolari e orali siano virtualmente indistruttibili,
che posseggano una tradizione viva in grado di resistere a tutte le avversità che il ca-
so oppone loro. E in ciò esse contrastano con la cultura alta, che è invece maggior-
mente soggetta al cambio delle mode e all’instabilità delle occasioni. Tale opinione
deve essere modificata non solo perché la scrittura fornisce alle classi colte un testo
Gli aspetti definito e, nella sfera rituale, spesso durevole (così come incoraggia un’innovazione
generativi delle cumulativa in altri campi), ma anche per gli aspetti generativi delle culture orali e
culture orali
per la loro propensione ad adottare aspetti propri ad altri gruppi sociali. Questo è
vero anche per la “cultura popolare”, che è necessariamente complementare alla
“cultura alta”. Nelle società che possiedono la scrittura, il popolare è dipendente e
influenzato dalla “cultura alta” o egemonica più di quanto si possa pensare, in alcu-
ni casi in modo devastante. Ciò è evidente nei movimenti riformisti di tipo religioso.
Quando la cristianità divenne dominante, in Europa si ebbe proprio questo effetto
di trasformazione. Si può ancora percepire vagamente la persistenza di elementi di
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 319

precedenti culture, ma nei settori significativi per la cristianità il nuovo credo prese
il sopravvento in modo talmente schiacciante da determinare pesanti problemi a
ogni ipotesi di una continuità profondamente radicata. A restare indenni furono gli
elementi marginali della cultura o quelli che erano relativamente indipendenti dalle
principali strutture di pratica o di credenza.
In alcuni casi tali caratteristiche sono attivamente diffuse sia in “basso” che in
“alto”, nello “scritto” e nell’“orale” come parte di quei processi di incorporazione
sociale, di voluto controllo o di proselitismo aggressivo, in cui può essere inclusa
l’“educazione”: questi sono i processi del trasferimento egemonico. In alternativa, o
anche in concomitanza, gruppi di bassa estrazione sociale o singoli individui posso-
no cercare di appropriarsi delle caratteristiche culturali elitarie secondo diverse mo-
dalità classiche che sono state documentate in Francia dai commediografi del sedi-
cesimo secolo, in Inghilterra dopo la Restaurazione, dagli etnografi in diversi paesi:
i letti in stile Reggenza delle case di campagna francesi, la moda diffusa di costruire
torrette e piccionaie dopo la Rivoluzione. Tali adattamenti avvengono anche in pre-
senza di leggi suntuarie che tentano di limitare questi trasferimenti democratici.
Non esiste pertanto nessuna semplice divisione tra “grande” e “piccola” cultura
e molti storici si sono opposti all’opposizione binaria tra cultura alta e cultura bas- L’inadeguatezza
sa. Come hanno mostrato Hall e Chartier (D. Hall 1984, p. 5; Chartier 1984, p. del binarismo tra
“alta” e “bassa”
231), l’uso di una dicotomia radicale è evidentemente inadeguato se ignora l’intera- cultura
zione e lo scambio che avviene tra i diversi livelli; ad esempio, l’interfaccia tra l’ora-
le e lo scritto produce una serie di interazioni stratificate di notevole complessità. In
verità la stessa nozione di “cultura popolare” è di per sé complessa. L’analisi com-
piuta da Revel (1984) sulle trasformazioni ideologiche nella Francia della prima età
moderna è incentrata sul modo in cui il definirsi di una cultura nazionale era colle-
gato al processo di centralizzazione politica.
La cultura popolare differenziata delle società complesse (che implica la coesi-
stenza di alto e basso) contrasta con quella tradizionale (generalmente intesa in ma- Il contesto
niera olistica). Possiamo pensare alle società “tribali” in Africa come se fossero rela- africano
tivamente omogenee nel modo di agire e di pensare, certamente questo è vero per
gruppi piccoli e acefali (non centralizzati) come i lodagaa; lo è meno per nazioni co-
me i gonja, anch’essi del Nord del Ghana; e ancor meno per i luoghi dove un grup-
po di conquistatori con una differente tradizione socioetnica si è imposta sugli indi-
geni, come è accaduto nei regni della zona dei laghi dell’Africa orientale. Ma esiste
una tendenza relativamente bassa, in confronto all’Eurasia, a formare sottoculture
separate su base professionale, di “classe” o gruppo. Vi sono alcune differenze nel
modo di agire e di pensare dei diversi strati di molte nazioni africane, in culture che
sono di fatto prive di scrittura. Ci sono alcuni specialisti che tengono per sé le pro-
prie forme di conoscenza. Penso in particolare alla tendenza al formarsi di “caste”
nei gruppi professionali della regione mande dell’Africa occidentale, gruppi che
non solo preservano le proprie competenze ma lo fanno mediante l’endogamia,
prendendo moglie all’interno del gruppo. In ogni modo, su gran parte delle relazio-
ni sociali agisce un processo di omogeneizzazione interna che ho cercato di descri-
vere per le preparazioni culinarie, un processo in cui la continua interazione limita
l’emergere di una piccola nobiltà o di altre sottoculture.
In Europa, al contrario, queste differenze emergono continuamente, in partico-
lare nell’ambito del ceto e della classe sociale – e specialmente nella corte, dando
luogo a una gerarchia culturale. Allo stesso tempo il trasferimento di forme di com-
portamento avviene attraverso un processo di popolarizzazione o volgarizzazione.
Tale aspetto dell’interazione tra questi gruppi o raggruppamenti solleva ancora una
320 JACK GOODY

La volta la questione relativa ai confini culturali e alla loro permeabilità. I componenti


volgarizzazione
in Europa
di diverse “sottoculture” condividono tra loro più ampie forme di scambio; in veri-
tà i sottogruppi, per i rituali e le cerimonie politiche, confluiscono spesso in colletti-
vità più estese. Il grado in cui si aggregano o si separano (o sono tenuti separati) è
molto variabile. In alcune parti d’Europa le comunità ebraiche partecipano ben po-
co, se si escludono le attività economiche, all’incirca come nel modello di Furnival
di una “società plurale” del Sud-Est asiatico, in cui ogni gruppo persegue la propria
vita sociale (Furnival 1948). Altri gruppi confinano la loro attività agli affari di cor-
porazione. Parlando in generale, in tutte le principali società preindustriali dell’Eu-
rasia esiste una dimensione separata per la cultura alta e per quella bassa, per quel-
la elitaria e per quella popolare, sia che tale situazione venga intesa come una diffe-
renziazione che come un continuum. D’altro canto l’interazione avviene non solo
nella sfera pubblica delle cerimonie o delle azioni militari ma anche nei contesti pri-
vati dell’esistenza domestica, quando le spose del villaggio adottano l’abito nuziale
L’interazione delle classi superiori, così come i musicisti di corte adattano le arie campagnole per
nell’esistenza compiacere i loro protettori. Questi confini e questi prestiti, tali interazioni e adat-
domestica
tamenti, manifestano tendenze e caratteristiche generali, ma vanno osservati empiri-
camente in ogni contesto dato che le variabili che influenzano le situazioni partico-
lari sono molteplici. Così, prescindendo dal modo in cui il concetto di “cultura po-
polare” è emerso nella storia europea, è ancora necessario trovare un metodo per
caratterizzare le polarità e le segmentazioni all’interno dell’ampia serie delle attività
culturali che distinguono ogni unità politica. La natura di questa serie e le caratteri-
stiche dei suoi elementi costitutivi varia in ragione del sistema sociopolitico.
Alcuni recenti studi hanno tentato di compiere ulteriori distinzioni generali
sulla tipologia delle divisioni culturali esistenti, e li si dovrebbe prendere in consi-
derazione secondo un’ampia prospettiva storica e comparativa. Lo sviluppo di
nuove tecniche per rivolgersi a un uditorio di massa, piuttosto che a una comunità
in cui sia abituale l’interazione faccia-a-faccia, ha portato al graduale superamento
I mutamenti di molti di quei confini di cui abbiamo parlato. Questo è accaduto in precedenza
nelle
comunicazioni e quando la stessa scrittura è diventata un fenomeno di massa, mentre una limitata
l’aumento della alfabetizzazione ha esasperato ogni incipiente divisione culturale tra alto e basso,
circolazione di elitario e popolare, aggiungendo la dimensione dell’alfabetizzato e del non alfabe-
beni e messaggi tizzato agli altri assi della stratificazione. Ciò non significa che ogni élite fosse alfa-
betizzata, tutt’altro. Ma che tutte erano fortemente influenzate dalla presenza della
scrittura che aveva favorito la trasformazione dell’ordine sociale da cui era dipesa
la loro condizione.
Una complessa serie di cambiamenti nelle comunicazioni, nei trasporti così co-
me nei media, agendo sul lungo periodo, ha favorito l’aumento del movimento del-
le persone così come dei beni e dei messaggi. Alcune pratiche culturali, come la
moda di usare un abito nuziale occidentale (con fiori arancioni nei capelli per la
donna e il garofano per l’uomo), senza citare la musica popolare, la pubblicità delle
multinazionali e il cinema, sono state radicalmente influenzate dall’estendersi della
interazione su scala mondiale mediante trasporti economici e media elettronici. La
cultura non è più rinchiusa in comunità locali. In verità, la “cultura dei fiori” – il si-
gnificato e l’uso dei fiori in diversi gruppi sociali nel corso del tempo (Goody 1993)
– suggerisce che essa non è mai vincolata completamente così.
Quando si va oltre l’uso del termine “cultura” come puro indicatore, ciò che ri-
sulta problematico del concetto rinvia a problemi di gerarchia (differenziazioni inter-
ne) e di confini (differenziazioni esterne). In termini di gerarchia la divisione tra eli-
tario e popolare, o tra grande e piccola tradizione, non tiene sempre conto delle reci-
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 321

proche influenze, né consente le ulteriori distinzioni di cui sentiamo la necessità


quando parliamo di cultura delle classi lavoratrici o di sottoculture della piccola no-
biltà o di sottoculture dei gruppi professionali. E a che cosa sono sub-ordinate? Sia
nel discorso quotidiano che in quello analitico parliamo di cultura americana, o di
cultura navaho, collegando la nozione di unità culturale a un preciso gruppo sociale, Gli usi attuali di
a una specifica entità politica o tribale. In altri casi, come la nozione di cultura euro- “cultura”:
pea di Eliot (1948), che egli vedeva fondata sulla religione, la colleghiamo a più ampi problemi di
raggruppamenti geopolitici o religiosi (ad es. alla cultura araba o islamica, alla cultu- gerarchie e confini
ra ebraica). Quindi parliamo sempre più spesso di culture del consumatore, di cultu-
re pubbliche, addirittura di cultura mondiale del villaggio globale, associando feno-
meni culturali con variabili economiche, religiose, e in particolare della comunicazio-
ne, vale a dire con il consumo di massa, con le religioni mondiali, con i media elet-
tronici. Ognuno di tali usi ha una sua giustificazione ma è la base analitica a essere
debole. E diventa ancora più debole quando facciamo caso agli elementi (culturali)
costitutivi, quelli che un tempo la terminologia americana chiamava “tratti”. Questi
possono essere raggruppati in “aree” ma tali aree spesso differiscono per i diversi
“tratti”. Possono condividere quelli linguistici con alcuni, quelli religiosi con altri ed
entrambe queste importanti componenti culturali si estendono oltre gli usuali confi-
ni di una cultura. La stessa cosa vale, a un livello più specifico, per il modo in cui si
usano le rose gialle o rosse. Tali usi possono indicare un’unità socioculturale princi-
pale (essenzialmente politica) così come la intendiamo normalmente (ad es. la cultu- Le discontinuità e
disomogeneità di
ra francese o americana). Possono caratterizzare il comportamento di sottogruppi, di “aree” e “tratti”
classi o di cittadini in contrapposizione agli abitanti delle campagne. Spesso i tratti
sono distribuiti in “aree” che attraversano tali gruppi e collegano, in modo irregola-
re, gruppi vicini, in modo non del tutto dissimile dalle relazioni esistenti tra gruppi
adiacenti tra i tallensi del Ghana del Nord descritte da Fortes (1987) o tra i lodagaa
della stessa area da me descritti, sebbene raramente costituiscano degli espliciti ele-
menti di differenziazione.
In questo saggio ho tentato di discutere alcuni dei problemi che sorgono nel deli-
mitare il concetto di cultura e di intendere tali confini in termini di modi e prodotti
condivisi del pensiero e dell’azione. Ho esplorato le diverse dimensioni dei confini,
spaziali e gerarchiche, così come le vaste differenze temporali nelle forme culturali
collegate a differenze nei modi della comunicazione e della produzione. La “cultura
dei fiori” deve essere considerata, ad esempio, in relazione ai partecipanti e ai fattori
che influenzano il suo sviluppo nel tempo, che includono sia la coltivazione sia il
mercato, così come le conoscenze botaniche, le pratiche rituali e le tradizioni artisti-
che e letterarie. Tali aspetti “culturali” non devono essere dissociati da fattori ecolo-
gici, economici e da altri fattori. Lo stesso discorso è valido per altri argomenti come
il cibo, l’abitazione, la sepoltura, e l’“azione”. Il culturale, in altre parole, è il sociale
visto da un’altra prospettiva, non un’entità analitica distinta.

* Questo saggio è la versione abbreviata e rivista dal curatore di un articolo edito nel primo numero di «Social
Anthropology». I temi qui sviluppati sono stati ripresi dall’autore nel suo La cultura dei fiori (Torino, Einaudi, 1993).
1 In pratica vedo ben poca differenza tra le due prospettive, se non di accento. Nelle società in cui l’alfabetizzazio-

ne svolge un ruolo di maggior rilievo può sembrare che emerga una separazione più radicale, ma ciò si evidenzia meglio
esaminando le differenze tra il discorso orale e quello scritto.
2 Vedi, per contrasto, il titolo dell’articolo di D. M. Schneider – Notes towards a Theory of Culture (1976) – e della

recensione di Keesing – Theories of Culture (1974).


3 L. Schneider (in Schneider, Bonjean 1973) mette in discussione l’effettiva inclusione di un elemento materiale

nella prima definizione di Tylor del 1871. Anche se è vero che si riferisce all’arte piuttosto che al manufatto, in ogni ca-
so il resoconto che Tylor fa di una “cultura primitiva” mette in chiaro che la “cultura materiale” è un elemento impor-
322 JACK GOODY

tante, così come lo era certamente nell’insegnamento dell’antropologia, e specialmente dell’archeologia. Non ci si aspet-
ta che il cibo, sia quello concreto sia le sue forme simboliche, sia escluso da un’analisi della “cultura francese”, e nep-
pure che la circolazione dei beni tra i consumatori non faccia parte della nozione di “cultura americana”, né che la pit-
tura sia esclusa da entrambe.

Biografia intellettuale

Jack Goody è membro del St. Johns College di Cambridge, e ha tenuto la Wil-
liam Wyse Chair in antropologia sociale all’Università di Cambridge dal 1972 al
1985. Ha condotto lunghe ricerche sul campo presso i lodagaa e i gonja nel Ghana
settentrionale, e per periodi più brevi in Gujarat; ha svolto inoltre indagini e studi
in altre parti del mondo (ad es. sui fiori nella Cina meridionale, il “maggio” di Lot,
e i cimiteri degli Stati Uniti). Le sue pubblicazioni più note sono: Death, Property
and the Ancestors (1962), Technology, Tradition and the State in Africa (1971), The
Myth of the Bagre (1972), Produzione e riproduzione (1976), L’addomesticamento del
pensiero selvaggio (1977), Cooking, Cuisine and Class (1982), Famiglia e matrimonio
in Europa (1983), La logica della scrittura e l’organizzazione della società (1986), Il
suono e i segni (1987), The Oriental, the Ancient and the Primitive (1990), e La cul-
tura dei fiori (1993).

Qual è la mia biografia intellettuale? Cambia in funzione del tema di ricerca, e


questi temi a loro volta possono difficilmente essere racchiusi nella parola “antro-
pologia”, intesa nel suo significato accademico. I miei primi studi a Cambridge so-
no stati di letteratura inglese, anche se ero interessato alla storia e alle scienze politi-
che. Prima ancora di andare all’università ero attratto dalle analisi morali e culturali
di F. R. Leavis e dei suoi sostenitori. A quel tempo mi interessavo di sociologia del-
la letteratura e mi documentai sulla “antropologia di Cambridge” di Frazer da alcu-
ni studi di letteratura medievale.
Ritornato a Cambridge dopo la seconda guerra mondiale, passai a letture antro-
pologiche, stimolato dalle molte ricerche storiche di Gordon Childe e dai lavori so-
cio-psicanalitici del Tavistock Institute of Human Relations. A Cambridge, subii l’in-
flusso delle lezioni di Evans-Pritchard, ma soprattutto quello dei miei colleghi stu-
denti (in particolare G. Lienhardt e E. L. Peters, che lo seguirono a Oxford).
Più tardi, quando li raggiunsi là, ebbi come tutore Fortes e potei conoscere i
membri passati e presenti del dipartimento – M. Gluckman, P. Bohannan, M. N.
Srinivas, L. Dumont, e J. Peristiany – molti dei quali si ispiravano al lavoro di Rad-
cliffe-Brown e, in misura minore, a quello di Malinowski. A fondamento del lavoro
di Radcliffe-Brown c’era la tradizione ottocentesca della giurisprudenza, Maine e
Maitland in Inghilterra, così come l’importante scuola dell’Illuminismo scozzese,
culminante in Robertson Smith. Furono i lavori di Durkheim e degli altri membri
dell’«Année Sociologique» a costituire il centro delle nostre letture, sebbene mi fos-
si familiarizzato anche con gli scritti di Talcott Parsons (con cui ho poi seguito un
seminario) e, attraverso quest’ultimo, anche con quelli di Weber. Marx e Freud non
costituivano la parte centrale del nostro insegnamento, ma hanno svolto un ruolo
importante nella nostra vita nel suo insieme. Ho già espresso altrove il mio debito
nei confronti della sociologia francese, nei confronti di Parsons, Shils e Homans,
LA CULTURA E I SUOI CONFINI: UN PUNTO DI VISTA EUROPEO 323

così come nei riguardi di coloro che sono stati influenzati dalla “antropologia di
Cambridge” di James Frazer: Jane Harrison, E. K. Chambers, e Jessie L. Weston.
Non ho voluto essere un antropologo nel senso tradizionale del termine. Il mio
principale interesse è sempre stato quello di cercare di collocare le culture e le so-
cietà che conoscevo nella dimensione della profondità storica e della distribuzione
del genere umano. In sostanza, ho ereditato il medesimo insieme di interessi storici
e letterari che hanno mosso i miei contemporanei, Raymond Williams, Eric Hob-
sbawm, E. P. Thompson, Ian Watt, e molti altri, tra cui alcuni, come Godfrey Lien-
hardt, Kathleen Gough e Peter Worsley, hanno compiuto anch’essi il salto dalla
“letteratura” all’“antropologia” in senso accademico, ma hanno sempre conservato
un atteggiamento interdisciplinare (vale a dire umano) nei confronti del mondo nel
suo insieme.
Per una teoria operativa della cultura
Ward H. Goodenough

Noi antropologi abbiamo bisogno di una valida teoria operativa della cultura.
Questo bisogno è evidente nei più recenti scritti di antropologia. Senza una valida
teoria operativa della cultura noi rimaniamo incerti su fini e metodi dell’etnografia.
In questo saggio espongo le mie conclusioni riguardo al concetto di cultura, matu-
rate nel corso del mio lavoro. Faccio questo nella speranza che possa aprire la pos-
sibilità a una teoria operativa efficace.
In molti scritti recenti si nota una certa preoccupazione riguardo alla collocazio-
ne delle persone come individui, tutti differenti l’uno dall’altro e ognuno ripiegato
La teoria sui propri interessi. Li vediamo sfidare i costumi, creare nuovi modi di agire, e ne-
culturale e goziare l’uno con l’altro i termini in cui intraprendere le loro attività. Osservando
l’importanza questo, ci domandiamo come sia possibile pensare alla cultura come a un insieme di
degli individui
modi consolidati di pensare e di agire socialmente condiviso, una forma di consen-
so sociale cioè, che determina il modo in cui agisce ogni membro della società. Ed-
ward Sapir aveva messo in questione questa visione della società già molti anni fa,
sostenendo la mia stessa obiezione, che la teoria culturale ha bisogno di prestare at-
tenzione al modo in cui gli individui contribuiscono alla formazione e conservazio-
ne delle culture e come interpretano i costumi e le tradizioni in funzione dei loro in-
teressi e necessità (Sapir 1924)1.

Perché una teoria della cultura?


Pensare che le persone esercitano un ruolo attivo nella conservazione delle loro
società e nella creazione delle loro culture ha delle implicazioni per quella che è sta-
La prospettiva ta la prospettiva antropologica dominante sulla cultura e sulla società. Secondo tale
antropologica
dominante
prospettiva, una cultura è proprietà collettiva di una società ed esiste, in qualche
modo, separatamente e indipendentemente dai singoli membri della società. Se og-
gi tale posizione appare insostenibile, ne consegue forse che la cultura, come con-
cetto, abbia perso la sua utilità? Data la grande variabilità nella stessa comunità ri-
guardo a quello che persone differenti dicono delle proprie pratiche e credenze, ta-
le mancanza di consenso rende forse l’idea di cultura un mito antropologico che sa-
rebbe meglio abbandonare? Dobbiamo forse abbandonare il termine perché ha
perso la sua utilità? E se lo facciamo, ci rimane un fenomeno o una serie di fenome-
ni correlati di cui possiamo ancora parlare?
La risposta all’ultima domanda è chiaramente affermativa. Chiunque abbia a
che fare con popolazioni di altre aree geografiche o provenienti da diversi ambiti di
una società complessa riconosce che essi fanno molte cose in modi diversi. Parlano
in maniera diversa, si comportano diversamente, hanno diverse attese nei confronti
del comportamento sociale, fanno giochi diversi, organizzano diversamente le loro
famiglie e le relazioni parentali. Le popolazioni kiribati (Isole Gilbert) parlano dei
te-katei-ni Kiribati, “i costumi dei kiribati”, come distinti da quelli degli altri. Allo
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 325

stesso modo, tra i chuuk (prima chiamati truk), la gente parla delle differenze tra Le differenze
e le loro
wussun Chuuk, “i modi chuuk”, wussun Sapan, “i modi giapponesi”, e wussiy, “il giustificazioni
mio modo (di fare le cose)”. Su qualunque cosa si basino tali differenze esse sono
un’esperienza comune che viene ribadita praticamente ovunque. Le persone hanno
spiegazioni diverse per giustificare queste differenze, ma tutti le notano2.
Da un punto di vista naturalistico vi sono delle differenze visibili nel linguaggio,
nel comportamento, negli accordi sociali e nelle espressioni di credenze che caratte-
rizzano diverse popolazioni. Il contenuto del discorso, del comportamento e della
credenza – qualunque cosa esso sia – richiede una descrizione. E una volta descrit-
te, quelle similarità e differenze di contenuti richiedono una spiegazione. Noi im-
pieghiamo i termini linguaggio e cultura per riferirci a tali contenuti. Il nostro pro-
blema riguarda non i termini, ma la conoscenza dei contenuti a cui si riferiscono.

Ovviamente la nostra conoscenza del contenuto di quei fenomeni a cui ci riferia- La descrizione
mo come lingue e culture è limitata dalla nostra capacità nel descriverli3. La descrizio-
ne è fondamentale in ogni scienza. Come i più attenti scienziati sanno, e contraria-
mente a quanto si presume abitualmente, la descrizione non è un processo semplice.
La descrizione rappresenta ciò che siamo stati in grado di costruire cognitivamente
osservando i fenomeni. Noi non abbiamo i mezzi per registrare tutto ciò che avviene
nel mondo reale. Ciò che possiamo fare è necessariamente limitato. Gli scienziati, co-
me in generale ogni essere umano, tentano di dare un senso al “mondo reale” cercan-
do delle strutture e dei rapporti ricorrenti in ciò che ne hanno registrato. Alcune
strutture possono essere intuite direttamente dai dati, altre invece no. Prima di indivi-
duare le strutture è necessario riportare i dati secondo un qualche metodo di notazio-
ne che sia adatto all’analisi (così, ad esempio, per analizzarle, riportiamo in forma
Metodi di
scritta o in spettrogrammi sonori le registrazioni linguistiche su nastro). Gli scienziati notazione e
costruiscono dei modelli dei contenuti e dei processi e li proiettano sulla loro realtà modelli
esterna. Ma queste non sono mai altro che delle approssimazioni, o teorie operative,
della realtà. I progressi del pensiero scientifico non sono basati unicamente sul mi-
glioramento delle tecnologie di registrazione dei dati, ma sulla definizione di sistemi
di notazione che aumentino le possibilità di individuare in essi delle strutture.
Descrivere le lingue o le culture significa creare modelli e teorie delle conoscen-
ze che gli esseri umani hanno costruito a partire dalle loro esperienze. Noi produ-
ciamo questi modelli e queste teorie mediante l’analisi delle manifestazioni materia-
li di queste conoscenze. Quante volte si sente parlare di “pure” descrizioni etnogra-
fiche quasi come non si trattasse di vere operazioni scientifiche? La descrizione non
è solo il dato registrato, ma il senso che se ne trae: vale a dire il modello o la teoria
del contenuto o del processo che si è costruita a partire dal dato registrato per rap-
presentare ciò che è a esso soggiacente. Come gli altri scienziati, noi antropologi sia-
mo limitati dalle nostre tecnologie di registrazione e dalla predisposizione all’analisi
del modo in cui annotiamo i dati. I nostri corpi sono il principale strumento di ana-
lisi e riportiamo in linguaggio ordinario ciò che registriamo mediante essi.
I criteri che gli scienziati impiegano per valutare l’accettabilità delle loro costru- I criteri di
zioni sono legati alla valutazione della misura in cui, in virtù di questi costrutti, è valutazione
possibile dare un senso coerente e congruente ai dati registrati. Gli scienziati basa-
no le valutazioni di teorie e interpretazioni su diversi principi. Uno di questi è quel-
lo della riproducibilità dei dati (tenuto conto di precise limitazioni nelle modalità di
registrazione). Un altro è quello dell’ampiezza di spettro. Una teoria o interpreta-
zione che renda conto della maggior parte dei fenomeni considerati è preferibile a
una che è utilizzabile solo per una ristretta parte di essi. Una teoria compatibile con
326 WARD H. GOODENOUGH

interpretazioni utilizzabili per altre tipologie di fenomeni è preferibile a una che


non lo sia. Gli scienziati sono anche interessati a valutare quanto una teoria o una
interpretazione riesca a rendere conto di nuovi dati o fenomeni oggetto di studio.
Preferiscono costruzioni che chiariscano gruppi di fenomeni in precedenza rimasti
senza spiegazione. Infine, a parità di altre condizioni, gli scienziati preferiscono la
parsimonia e l’eleganza. Questi sono gli stessi criteri che usiamo in antropologia per
la valutazione delle descrizioni di lingue e culture – sia che lo si faccia come scien-
ziati che come umanisti4.
In che modo queste considerazioni siano applicabili alla descrizione culturale e
alla sua valutazione deve essere ulteriormente esaminato alla luce di ciò che già cre-
diamo di sapere riguardo al contenuto di specifiche lingue e culture.

L’apprendimento Descrivere ciò che bisogna sapere per partecipare in modo accettabile
dei criteri alla Se le lingue e le culture vengono apprese nel corso della partecipazione alle atti-
base di lingua e
cultura
vità dei gruppi sociali e se a essere appresi sono i criteri per parlare, agire e inter-
pretare che permettono di partecipare al proprio e all’altrui appagamento in tali at-
tività, ne consegue che quei criteri – quale che sia il loro fondamento – rientrano tra
le cose che dobbiamo descrivere. Il nostro problema nel fare questo, come è stato
detto in precedenza, non è essenzialmente differente dal problema della descrizione
che si presenta nelle scienze in generale. Noi registriamo quello che vediamo fare
alle persone e quello che dicono su ciò che fanno, e poi tentiamo di inferire da que-
sti dati che cosa dobbiamo sapere per partecipare, noi stessi, a ciò che sta accaden-
do e come farlo in modo che queste persone lo accettino mostrandoci che siamo in-
Le descrizioni
“emiche”
formati correttamente. Il loro giudizio è la misura del nostro successo. Un modello
di ciò che bisogna sapere perché sia soddisfatto questo criterio di giudizio è una de-
scrizione “emica”5.
Un fraintendimento diffuso tra gli antropologi privi di basi linguistiche è che
una descrizione emica corrisponda a presentare la cultura di un gruppo nei termi-
ni in cui i suoi membri sono abituati a parlarne. Il modo in cui le persone parlano
della propria cultura è una informazione utile e interessante allo stesso tempo, e
rappresenta una parte rilevante del dato da cui deriva una descrizione emica. Più
tale informazione è legata al contesto, più utile risulta nello sviluppo di tale de-
scrizione. Ma se si assumono le generalizzazioni delle persone letteralmente come
base su cui fondare la propria partecipazione alle loro attività, probabilmente si
verrà considerati poco affidabili (il grado in cui tali generalizzazioni differiscono
da ciò che in pratica si deve conoscere varia, ovviamente, in funzione del soggetto
trattato). Una considerazione emica si basa più sull’analisi delle strutture presenti
nel giudizio delle persone riguardo a ciò che è e non è accettabile in specifiche si-
I giudizi di tuazioni e contesti, che sulle loro spiegazioni e generalizzazioni. Una considera-
accettabilità
zione emica, quindi, è un modello di ciò che si deve sapere per esprimersi in una
lingua come un parlante naturale o per agire in modo accettabile rispetto agli
standard delle persone socializzate all’interno di una società. Non è il semplice re-
soconto di ciò che essi ne dicono. Un modello di ciò che si deve sapere è, natural-
mente, il modello di ciò che si presume debbano sapere le persone competenti di
una società oggetto di ricerca. In quanto tale, si tratta del modello della porzione
di conoscenze che consente agli individui di adempiere in modo accettabile alla
propria funzione nella società.
Possiamo comprendere tutto questo molto meglio nella descrizione delle lingue.
La descrizione di un particolare dialetto inglese che non sia una guida accurata per
parlarlo in maniera accettabile dai suoi parlanti naturali verrebbe ritenuta inadegua-
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 327

ta. Riteniamo anzi che le grammatiche e i dizionari di una lingua ci debbano fornire Grammatiche e
descrizioni di
proprio questo tipo di guida. Di rado gli etnografi hanno pensato di svolgere una culture
funzione equivalente nel descrivere culture. Non abbiamo mai pensato che il nostro
compito fosse quello di dire al lettore ciò che lui (o lei) deve sapere per adempiere in
modo accettabile al proprio ruolo di membro della società che stiamo descrivendo6.
Per descrivere la cultura di un gruppo, in questo senso, bisogna essere in grado
di verbalizzare molte cose che le persone conoscono soggettivamente, ma che non
hanno mai esplicitato a se stessi. Di queste cose possono far parte esperienze che
nessuno in precedenza ha mai tentato di esprimere in parole. Esplicitare una cono-
scenza soggettiva in parole per fini descrittivi la rende oggettiva, ne fa l’oggetto di
una indagine accurata e la trasforma in qualcosa di diverso da ciò che è come sensa-
zione soggettiva. L’esplicitare in parole formalizza un sapere soggettivo e la forma-
lizzazione tende a definire i criteri soggettivi (le sensazioni) come regole per ciò che
è e ciò che non è appropriato. In verità, coloro che analizzano formalmente la cul-
tura sono stati accusati di ridurre la società a regole; ma il loro errore – se di errore Espicitare e
oggettivare
si può parlare in questo caso – non è affatto strano: rappresenta quello che gli esse- conoscenze
ri umani fanno in genere quando cercano di oggettivare ciò che è soggettivo, e ciò soggettive
che fanno personalmente quando rendono oggettivi i diversi criteri alla base delle
proprie regole di comportamento e della valutazione di quello altrui. Abbiamo buo-
ne ragioni per formalizzare. Ma dobbiamo guardarci dalla tentazione di reificare ta-
li formalizzazioni e, a maggior ragione, le formalizzazioni delle persone che fanno
parte della cultura che stiamo analizzando (le regole di una “corretta” grammatica
inglese che dovevo apprendere nella mia giovinezza non sono altro che un esempio
di tale iperformalizzazione e reificazione).
La prospettiva di tentare di descrivere adeguatamente le culture è scoraggiante.
Per alcuni aspetti della cultura noi non sappiamo semplicemente come farlo. Per al-
tri può essere disponibile la tecnologia necessaria alla registrazione dei dati, ma ci
Le notazioni per
manca un sistema di notazione che renda i dati suscettibili di analisi. Le forme esi- gli studi di
stenti di notazione, come quella di Birdwhistell (1953) concepita per la cinesica, ri- cinesica
chiedono un notevole addestramento e ci sono ben pochi incentivi per gli antropo-
logi che decidono di intraprendere il necessario tirocinio. Per quegli aspetti della
cultura di cui sappiamo registrare e analizzare i dati rilevanti, tale compito è spesso
al di là di ciò che un solo ricercatore sul campo può fare in un anno o due.
Nel corso degli anni mi ha colpito il modo in cui noi antropologi culturali ab-
biamo sottolineato l’importanza della conoscenza culturale per entrare in contatto
con persone in altre parti del mondo, mentre, allo stesso tempo, nessun antropolo-
go ha tentato di descrivere in maniera esauriente i costumi di un popolo collegati al-
l’etichetta. Ritengo che dare descrizioni esaustive di ciò che è necessario sapere per
essere membri accettati di una società sia uno degli obiettivi a cui deve puntare l’et-
nografia: un obiettivo necessario, su cui costruire una teoria della cultura.
Aggiungo subito che questo non è in ogni caso l’unico obiettivo del campo di
studio etnografico. Ci sono molte altre cose là fuori, oltre al linguaggio e alla cultu-
ra, che devono essere registrate e descritte. Ci sono, ad esempio, artefatti di attività
umane del passato culturalmente strutturate, forme di distribuzione della proprietà
e della ricchezza, centri di potere politico, nemici minacciosi e malattie: tutte cose a
cui le persone applicano la loro cultura per potere venire a capo dei problemi del-
l’esistenza. Anche questi fattori devono essere accuratamente descritti; altrimenti,
non potremmo vedere come le persone impiegano la loro cultura e ci manchereb-
bero i dati per l’analisi comparata su cui sono necessariamente basate le teorie del
cambiamento e dell’adattamento culturale. Esistono buoni motivi, come hanno insi-
328 WARD H. GOODENOUGH

stito a dire i materialisti culturali, per tenere queste cose a mente ai fini della descri-
zione etnografica. Ma non possiamo occuparci di cose come l’adattamento cultura-
le se abbiamo una conoscenza incompleta o approssimativa della cultura che è stata
soggetta a un adattamento7.

Cosa deve spiegare una teoria della cultura


Implicito in ciò che ho detto è l’assunto che ciò a cui ci riferiamo come lingue e
culture siano fenomeni dello stesso ordine. Una lingua è correttamente intesa come
un genere di tradizione culturale, proprio come lo sono la cucina, un corpus di dog-
Teorie del mi religiosi e rituali, o le prescrizioni necessarie per gli accordi sociali. Sia il metodo
linguaggio e che la teoria correlate al linguaggio e ad altre tradizioni culturali sono da considera-
teorie della re come fondamentalmente simili, anche se differiscono nello specifico da una tra-
cultura dizione all’altra (Goodenough 1971). Ciò che apprendiamo riguardo al linguaggio
può essere d’aiuto nel pensare alla cultura. Proprio come una teoria del linguaggio
si basa su ciò che sappiamo di lingue specifiche, una teoria della cultura è fondata
su quello che sappiamo di specifiche culture.
Pensiamo tradizionalmente a una lingua come a qualcosa di condiviso dai suoi
parlanti e a una cultura come a qualcosa di condiviso tra i membri di un gruppo.
Sappiamo, comunque, che molte cose non sono condivise (Wallace 1961, pp. 22-36;
Keesing 1976, pp. 138-145). Anche quello che le persone sembrano condividere
non viene compreso esattamente nello stesso modo sotto tutti gli aspetti da due sin-
goli individui. Non si tratta, come dice Wallace, di una “replicazione dell’uniformi-
tà”. Ogni conoscenza individuale della lingua della propria comunità discorsiva dif-
ferisce in qualche modo da quella di qualsiasi altro membro della stessa comunità.
Ogni individuo possiede il proprio idioletto (o una personale struttura discorsiva).
La stessa cosa si può dire della conoscenza di ciò che le persone ritengono essere le
pratiche tradizionali, i valori, le credenze – la cultura – dei gruppi di cui sono mem-
bri. Anche quando sembra esserci un alto grado di consenso, un esame più attento
rivela la presenza di differenze individuali.
Una teoria del linguaggio e della cultura deve rendere conto di ciò che gli indi-
vidui conoscono e del modo in cui ne vengono a conoscenza. Deve inoltre rendere
conto dei processi che portano a un apparente consenso su ciò che le persone co-
noscono – che dà luogo a ciò che può essere inteso come il linguaggio e la cultura
Apprendimento, di un gruppo – e dei processi che operano contro tale consenso. Tale teoria do-
sviluppo vrebbe aiutare a comprendere come le lingue e le culture cambiano nel tempo (ve-
cognitivo e
interazione
di ad es. Goodenough 1971). Essa non deve occuparsi solo dell’apprendimento al
sociale livello individuale dello sviluppo emozionale e cognitivo. Deve rendere conto an-
che di ciò che avviene nell’interazione sociale: nell’imitazione, nel gioco, nel condi-
zionamento comportamentale e, soprattutto, nella comunicazione – nelle sue for-
me verbali, non verbali e subliminali. Inoltre, una teoria del linguaggio e della cul-
tura deve essere strutturata sulla base di ciò che si sa riguardo ai processi di intera-
zione sociale e psicologica e, fondamentalmente, delle modalità in cui tali processi
influiscono l’uno sull’altro. Così strutturata, potrà essere utile come stimolo allo
studio di questi processi secondo modalità che daranno un ulteriore contributo al-
la teoria culturale, sociale e comportamentale.

I gruppi sociali e le attività in una teoria della cultura


Il principale errore in quella che viene considerata la comune prospettiva antropo-
logica su cultura e linguaggio consiste nel fatto che essa pertiene a una comunità o so-
cietà presa come un tutto. Va sottolineato che è più produttivo pensare che una co-
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 329

munità sia in possesso di una serie di elementi culturali e linguistici piuttosto che di Cultura e
linguaggio come
un linguaggio e una cultura uniformi (Goodenough 1971, pp. 26, 102-111). Una co- fenomeni legati
munità possiede, attraverso i suoi membri, differenti tradizioni, ciascuna con una pro- alle attività
pria storia. Alcune di queste tradizioni, come quella relativa al pubblico decoro, sono
universalmente note all’interno della comunità. Altre, come quelle che coinvolgono
una conoscenza tecnica, non lo sono. Alcune sono universalmente conosciute in gene-
rale ma variano nello specifico da un sottogruppo all’altro all’interno della stessa co-
munità. Alcune di queste differenze sono rilevanti e sono come un distintivo dell’i-
dentità di un sottogruppo, mentre altre possono essere ignorate, consapevolmente o
inconsapevolmente. Ciò che dev’essere conosciuto è un conto. Chi lo conosce, chi
possiede i requisiti per esserne a conoscenza, e le condizioni appropriate in cui è pos-
sibile farne uso, sono a loro volta aspetti importanti di cui tenere conto.
Ho trovato utile dal punto di vista teorico pensare alla cultura e al linguaggio co-
me fenomeni radicati nelle attività umane (piuttosto che nelle società) e come appar-
tenenti a gruppi nella misura in cui essi sono costituiti da persone coinvolte recipro-
camente nel contesto di queste stesse attività (Goodenough 1971, pp. 102-103). Le
persone che interagiscono regolarmente in una determinata attività hanno la necessi-
tà di condividere una sufficiente conoscenza sul come praticarla e di comunicare tra
loro nel corso dell’azione in modo da poter lavorare insieme in modo soddisfacente8.
Tutto quello che hanno bisogno di condividere, infatti, è ciò che li rende capaci di
svolgere quell’attività. Se certe persone agiscono sempre nel medesimo ruolo e altre
in un altro, ciò può facilitare lo svolgimento di questa attività nel caso in cui non tut-
ti ne abbiano la medesima conoscenza (vedi Wallace 1961, pp. 27-28). Esiste una dif-
ferente cultura connessa alla attività per ogni gruppo di interpreti di un ruolo. Tali
differenze costituiscono una parte della composizione culturale dell’intero gruppo di
persone che svolge l’attività, ma non esiste una cultura di tale attività per il gruppo
nel suo insieme, una cultura che sia condivisa da tutti i suoi membri.
Da questo punto di vista il problema di studiare le culture nelle società com-
plesse (contrapposte a quelle semplici) svanisce. In comunità piccole, e relativamen-
te isolate, ognuno entra in rapporto con quasi tutti gli altri membri nella maggior Le culture delle
società
parte delle attività e in rapporto a quasi tutti gli argomenti. La condivisione è estesa complesse e il
ma, anche in questo caso, assolutamente non completa. Nelle società complesse, gli mito della
individui hanno a che fare con diversi gruppi di persone nelle attività in cui sono condivisione
coinvolti, e nessuno è coinvolto in tutte le attività. Eppure essi possiedono una per- assoluta
sonale conoscenza del modo in cui condurre le attività a cui partecipano e median-
te cui giudicano la correttezza del comportamento degli altri partecipanti. Possie-
dono, di fatto, delle personali culture per quelle attività. Esiste un’ampia diffusione
di saperi culturali che passano attraverso diverse attività e da una attività all’altra. Il
risultato è che ciò che viene compreso per una attività può essere applicato al modo
di comportarsi in molte altre attività, ma non sembra applicarsi a tutte.
La descrizione culturale nelle società complesse – e, in verità, anche in quelle re-
lativamente semplici – è, in base alla mia esperienza, facilitata molto dal focalizzare
l’attenzione sulle attività e sugli individui e i gruppi, occasionali o permanenti, che
le mettono in atto. Non credo esista alcun dubbio sul fatto che in pratica i ricerca-
tori sul campo abbiano tendenzialmente focalizzato la loro attenzione sulle attività
come contesti per la raccolta della maggior parte dei dati, ma questa pratica non ha
strutturato la nostra teorizzazione così come avrebbe potuto.
La composizione culturale di una società non deve quindi essere intesa come
un’entità monolitica che determina il comportamento dei suoi membri, ma come
una mescolanza di conoscenze e aspettative relative a diverse attività che viene uti-
330 WARD H. GOODENOUGH

lizzata come guida per compierle e interpretarle. Il contenuto di queste conoscenze


L’analisi continua a trasformarsi nel tempo in funzione del mutare della frequenza e dei con-
incentrata sulle testi di interazione. La frequente esecuzione di un’attività promuove nel tempo una
attività e la
cultura come più ampia condivisione delle conoscenze necessarie tra i suoi partecipanti. La
guida cognitiva discontinuità dei partecipanti e la scarsa frequenza di esecuzione congiurano en-
in progress trambe contro una conoscenza condivisa. Le persone responsabili di una attività
eseguita di rado devono sedersi a negoziare tra loro la conoscenza su come quell’at-
tività debba essere correttamente svolta. Da questo punto di vista, una teoria della
cultura deve cercare di spiegare come la frequenza d’interazione, la costanza e la
motivazione delle persone a partecipare concorrano a promuovere (o inibire) lo svi-
luppo di una conoscenza condivisa su una attività, le sue motivazioni, le sue occa-
sioni e le sue modalità di conduzione. Questa serie di conoscenze condivise costi-
tuisce per quelle persone la loro cultura relativa a quella attività.
Come ha sottolineato Geertz (1973, pp. 47-51) una cultura sorge e si mantiene
attraverso l’interazione umana. Ma una teoria della cultura si mette nei pasticci se ve-
de la cultura come un’entità che esiste indipendentemente dai singoli individui che
la costituiscono con le loro interazioni. È normale per le persone intendere la pro-
pria cultura come dotata di tale esistenza separata: la gente si sente infatti condizio-
Geertz e la nata dalle altrui aspettative. Non sorprende, quindi, se noi antropologi abbiamo fat-
cultura come to ciò che ci viene naturale in quanto esseri umani e abbiamo pensato alle culture in
entità questo stesso modo. Ma la teoria richiede una prospettiva opposta, vale a dire che
indipendente
dagli individui una cultura (e una lingua) esiste come un aggregato di tutte le più diverse conoscen-
ze individuali che ciascun partecipante attribuisce al gruppo. Una cultura è un ag-
gregato delle conoscenze individuali che ogni individuo attribuisce al gruppo unita-
mente alle associazioni affettive che ciascun individuo possiede con tali conoscenze.
Una teoria della cultura deve quindi sondare i processi che riducono (o aumentano)
le differenze tra gli individui sulle loro conoscenze e relative associazioni affettive.
In un certo senso, le comunità linguistiche e culturali sono analoghe alle specie
Cultura come
aggregato di biologiche (Goodenough 1971). Ogni specie è in un qualsiasi momento nel tempo
conoscenze un aggregato di individui genotipicamente e fenotipicamente diversi che possono
individuali accoppiarsi produttivamente l’uno con l’altro. Ogni comunità umana è, in modo si-
mile, un aggregato di individui diversi per idioletto e per personale conoscenza del-
la cultura del proprio gruppo (analoga al genotipo) così come nelle abitudini mani-
feste e negli stili di comportamento (analoghi al fenotipo). Ma in entrambi i casi la
differenza non è mai tanto grande da fare in modo che le persone non possano inte-
ragire l’una con l’altra produttivamente nelle attività mediante cui realizzano i loro
L’analogia tra obiettivi personali e collettivi. Proprio come i processi selettivi definiscono la tipo-
comunità logia e il grado delle variazioni all’interno di una specie che le permetteranno di so-
linguistiche e pravvivere come tale, così i processi di selezione psicologica e sociale limitano il ti-
specie biologiche po e il grado delle variazioni idiolettali e delle conoscenze personali sulle aspettative
sociali che permettono a una società o comunità umana di continuare a vivere come
tale e di possedere una cultura comune. Questo approccio alla relazione che la lin-
gua e la cultura hanno con la società fornisce delle possibilità proficue per esamina-
re i processi attraverso cui le comunità umane giungono a esistere, si conservano at-
traverso la trasformazione nel tempo e, infine, si disgregano.

La posizione speciale del linguaggio nella cultura


Noi portiamo nei nostri corpi i dati soggettivi dell’esperienza, come nella memo-
ria e nel ricordo. Possediamo delle conoscenze soggettive di cui parliamo in termini
di “sensazioni” di come le cose funzionino. Ma ciò che possiamo fare con questi da-
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 331

ti e conoscenze nella loro forma soggettiva è limitato. Mediante il linguaggio le per- Il linguaggio e
l’oggettivazione
sone hanno modo di correlare i dati soggettivi a manifeste forme comportamentali e della soggettività
in tal modo rendono oggettiva la propria esperienza a se stesse e agli altri. La ren-
dono pubblica. Il passaggio non è mai completo, in scala uno-a-uno, e l’uso che le
persone fanno del linguaggio influenza, a sua volta, il modo in cui costruiscono e
conservano i propri dati soggettivi. Ma il linguaggio permette loro di confrontare i
dati e individuare un dato di gruppo o condivisibile. Il dato pubblico o di gruppo
non può essere soggettivo, perché la soggettività risiede negli individui. Il dato pub-
blico è determinato da ciò che le persone hanno detto delle loro esperienze, non da
quello che hanno esperito individualmente o sul modo in cui hanno singolarmente
interpretato ciò che è stato detto.
Il vantaggio di queste conoscenze e dati oggettivati è il loro poter essere somma-
ti e corretti. Permettono agli individui di estendere il loro mondo fenomenico per
interposta persona. Possiamo immaginare cose, passare in rassegna possibilità futu-
re e valutare percorsi alternativi dell’azione. Possiamo diffondere e discutere le dif-
ferenze sulle nostre attese reciproche e le nostre conoscenze su come funzionano le L’importanza
cose. E possiamo ridurre tali differenze in modo che qualunque cosa ne rimanga delle conoscenze
indirette
non ci intralci.
Altri processi, come l’imitazione, giocano un ruolo fondamentale nella riduzio-
ne delle differenze individuali nel comportamento. Ma la comunicazione verbale,
rendendo possibili esperienze indirette, risulta cruciale nel ridurre le differenze in-
dividuali dell’esperienza. E risulta cruciale nel ridurre la variabilità delle conoscen-
ze individuali, rendendo possibili le tradizioni intellettuali, così importanti nella vi-
ta dell’uomo9.

Descrivere la composizione culturale della società


Una descrizione esaustiva della composizione culturale di una società richiede Un’enciclopedia
che si dia conto di ciò che si deve sapere per agire in modo accettabile in ogni ti- culturale della
po di attività in cui i suoi membri siano coinvolti, partendo dalle cose che ci si at- società
tende che tutti in quella società conoscano fino a quelle note solo agli specialisti.
Il prodotto etnografico che ne deriva dovrebbe essere un’enciclopedia culturale
della società.
Dato che bisogna apprendere, perlomeno indirettamente, proprio ciò che si in-
tende descrivere, tale descrizione esaustiva si trova al di là delle capacità di ogni sin-
golo individuo. L’etnografia richiede una ricerca cumulativa e di collaborazione. Un
singolo antropologo che stia per un anno o due sul campo, anche dotato di una
buona conoscenza della lingua locale, non può sperare di fare ciò che nessun mem-
bro della stessa società oggetto di analisi fa nel corso di una vita intera.
Nel migliore dei casi la ricerca sul campo permette di apprendere le cose che ci
si aspetta che ognuno sappia e, forse, alcuni dei saperi più specializzati. È già
un’impresa formidabile concentrare l’attenzione solamente su ciò che ogni uomo o
donna normali sono tenuti a sapere, in particolare nelle società più semplici in cui
le persone non si limitano a partecipare solo a poche attività.
Risulta spesso proficuo concentrarsi su un singolo complesso di attività tra loro Necessità di
interrelate, come è il caso dell’agricoltura. Manolescu (1987) ci fornisce un esem- concentrarsi su
insiemi
pio istruttivo. Questa studiosa ha descritto il modo in cui lavora effettivamente circoscritti di
una comunità di allevatori di mucche da latte di Schwenkfelder in una valle della attività
Pennsylvania, focalizzando la sua attenzione sui criteri da loro impiegati per fare
ciò che fanno e per discriminare tra una modalità di allevamento buona o cattiva.
Ha iniziato il suo studio lavorando come aiuto per uno di questi allevatori per più
332 WARD H. GOODENOUGH

Lo studio sulle di un anno. In questo modo ha appreso, mediante la propria attiva partecipazione
mucche da latte insieme all’allevatore, tutte le operazioni da fare nel modo stesso in cui lui le svol-
della geva – in ciascuna delle principali attività – e, nel contesto dell’esecuzione reale, le
Pennsylvania motivazioni che forniva per farle proprio in quel modo. Sulla base di ciò che aveva
appreso in quel periodo fu in seguito in grado di elaborare un elenco di argomenti
centrali per compiere osservazioni e interviste da potere utilizzare con gli altri alle-
vatori della comunità. I risultati le permisero di identificare differenti approcci al-
l’allevamento delle mucche da latte – la scelta dell’uno o dell’altro sembrava rap-
presentare delle differenze nelle valutazioni degli allevatori riguardo all’allevamen-
to e alle sue motivazioni10.
Ho citato la sua ricerca perché illustra un punto importante riguardo alla strate-
gia dell’apprendimento culturale. Se la Manolescu avesse preparato un questionario
fondato su assunti a priori riguardo all’allevamento, non avrebbe appreso granché
riguardo a questa cultura e alle sue variazioni sottoculturali in quella comunità. È
stato più importante per lei lavorare con una persona che le ha fatto da insegnante.
Osservazione, Inoltre, essendo percepita dagli altri allevatori della comunità come persona bene
partecipazione e informata riguardo all’allevamento delle mucche da latte, poteva avere colloqui e
apprendimento
culturale
periodi di osservazione molto proficui con quasi tutti gli allevatori, incluso l’acces-
so, con il dovuto riguardo per la confidenzialità, ai loro dati sui guadagni e le spese.
Questo è naturalmente il modo in cui in generale ha luogo l’apprendimento cul-
turale. Gli individui crescono apprendendo da un ristretto numero di persone – dai
genitori e dai fratelli per certe cose, e da poche altre persone per cose diverse. Più
un insegnante viene giudicato bene informato dagli altri su di un argomento, mag-
giori sono le opportunità di apprendimento per l’allievo. Una volta che hanno ap-
preso abbastanza da poter interagire con gli altri nel contesto dell’argomento in
questione, le persone scoprono l’inadeguatezza delle loro conoscenze e rilevano
inoltre che non tutte le persone fanno le cose nello stesso modo. Nel corso della sua
ricerca etnografica Manolescu ha impiegato i processi naturali di apprendimento
culturale in modo cosciente e sistematico.
Lo sviluppo di una valida base di dati etnografici dipende dalle modalità di ap-
prendimento culturale del ricercatore. Se ci sono delle cose da computare è neces-
sario sapere che cosa sia significativo contare. Quando ho tracciato una mappa del
territorio facendo un inventario delle proprietà di Romonum, Chuuk, nell’anno
1947, ho utilizzato indicazioni note localmente e con i loro nomi abituali. Sarebbe
stato uno spreco di energie tracciare una griglia arbitraria dell’isola e poi raccoglie-
re i dati riguardo a chi possedeva cosa in ciascun quadrante della griglia. Le ricer-
che sul campo sono particolarmente vulnerabili da questo punto di vista. Una ricer-
ca compiuta prima di conoscere quali siano gli aspetti culturali rilevanti da estrapo-
lare sembra avere ben poco valore etnografico. Le ricerche hanno bisogno di essere
basate su una previa buona conoscenza della composizione culturale locale delle at-
tività e dei gruppi da analizzare.
Nel corso dell’apprendimento della loro cultura le persone hanno alcune espe-
L’importanza
delle esperienze
rienze di una certa cosa e poi ne traggono una conclusione sul modo in cui funzio-
non coerenti con na. Mettono alla prova dell’esperienza la propria conclusione mettendola in pratica
le aspettative nella vita quotidiana. Le successive esperienze sono più o meno coerenti con tale
conclusione. Man mano che le esperienze coerenti si accumulano le persone accre-
scono la conferma della loro conclusione. In questo caso le esperienze non coerenti
sono determinanti. Mettono infatti in questione le conclusioni e portano a una revi-
sione delle conoscenze sul modo in cui le cose funzionano. Questo è anche il pro-
cesso attraverso cui un etnografo apprende le tradizioni culturali del popolo che
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 333

studia. Le prime conclusioni che vengono smentite sono seguite da una serie cre-
scente di conferme o di conclusioni revisionate, anche se è sempre possibile che sia-
no necessarie ulteriori correzioni11.
Nel fare etnografia non si può aspettare che le esperienze si accumulino nel nor-
male corso dell’esistenza. Fare etnografia richiede che si lavori con persone locali
bene informate per accumulare, nel modo più esaustivo possibile, dati sui casi – sia
reali che ipotetici – da cui estrapolare strutture che diano forma alle nostre cono-
scenze. Dati di questo genere sono una base durevole per analisi (o ri-analisi) futu-
re. Vengono in mente a questo proposito i ricchi repertori di dati su cui si basano
molti dei nostri lavori etnografici migliori (ad es. Conklin 1957, 1980; Firth 1936;
Kelly 1977; Netting 1968; Pospisil 1963).
Concentrare l’attenzione sulle attività è un percorso utile per l’apprendimento Il lavoro
culturale. È possibile, infatti, registrare in forma cumulativa tutti i diversi tipi di etnografico
attività a cui le persone prendono parte, individualmente e in gruppo. (Molto
tempo fa, nel 1944, Malinowski presentò un’utile descrizione generale della strut-
tura soggiacente di ciò che egli chiamava un’“istituzione”; ora, di questa descri-
zione fa parte la struttura delle attività, siano queste ultime istituzionalizzate o
meno)12.
In proposito, sono importanti per lo studio dell’organizzazione sociale i dati su La distribuzione
come sono distribuite tra le diverse attività le differenti forme di organizzazione dei delle attivià
membri e la strutturazione della direzione e dell’autorità. Essi liberano la parentela,
ad esempio, dalla relativamente sterile considerazione di pochi principi astratti, co-
me quello della discendenza, a favore di un resoconto del modo in cui i principi
agiscono in pratica. Non è possibile comprendere cosa si intenda per tempo, luogo
e occasione appropriata per compiere una attività senza mettersi nella prospettiva
in cui questi fattori sono disposti l’uno in rapporto all’altro e senza porli in relazio-
ne ad altri fattori come la stagione, il conflitto, la malattia e le altre contingenze del-
l’umana esistenza. Questa conoscenza relativa alle attività è fondamentale inoltre
per lo studio del cambiamento, in particolare per definire programmi di trasforma-
zione pianificata e per il monitoraggio dei suoi progressi.

I prodotti finali dell’etnografia


Dato un approccio all’etnografia come quello appena esposto, quali sono i suoi
prodotti finali? Siamo un po’ più vicini a comprendere quale sia la cultura delle
persone che studiamo così come loro stessi la comprendono, oppure siamo ancora
intrappolati nelle nostre stesse imperfette ricostruzioni?
Nel rispondere alla seconda questione lasciatemi ripetere che la “cultura delle per-
sone così come loro stessi la comprendono” è costituita dalle differenti conoscenze in- La proiezione
delle conoscenze
dividuali riguardo alle attese degli altri. Ogni individuo proietta la propria conoscenza e le aspettative
del gruppo di cui è parte o di cui è un osservatore. Questi individui ritengono che tut- di condivisione
ti i membri del gruppo, per fini pratici, abbiano come loro proprietà collettiva ciò che
in tal modo viene loro attribuito. Le persone interagiscono l’una con l’altra basandosi
sull’assunto che i gruppi condividano le conoscenze che loro stessi gli attribuiscono,
che esistano, cioè, veramente delle conoscenze e delle rappresentazioni collettive.
Tale assunto è funzionale ai nostri bisogni sociali. Esso funziona fino a quando
le differenze tra le conoscenze individuali sono abbastanza ridotte o si integrano a
vicenda in modo da non interferire con una interazione sociale produttiva13. Da
questo punto di vista, il massimo che può fare un antropologo è lo stesso che può
fare un qualsiasi altro essere umano: avere una propria conoscenza delle aspettative
degli altri esseri oggetto di studio e attribuirgliela come gruppo.
334 WARD H. GOODENOUGH

L’importante per noi è ottenere una conoscenza tale che membri del gruppo
oggetto di studio riconoscano ciò che manifestiamo loro delle nostre attribuzioni
La conoscenza come facente parte della gamma di variabilità accettabile per le manifestazioni del-
etnografica come le loro stesse conoscenze. Se soddisfa tale criterio, la conoscenza dell’etnografo è
modello valido
un modello valido dell’insieme di conoscenze che comprende la cultura del grup-
po, nello stesso modo in cui la grammatica e il dizionario di una lingua cercano di
esserne un valido modello.
A questo proposito consideriamo ancora una volta lo studio di Manolescu sul-
l’allevamento delle mucche da latte in una comunità di Schwenkfelder. Supponia-
mo che dopo avere appreso il modo in cui si allevano gli animali dall’allevatore per
cui aveva lavorato agli inizi per più di un anno, avesse scritto un resoconto di quan-
to appreso e che lo avesse presentato come la cultura dell’allevamento in quella co-
munità. Potrebbe allora avere prodotto un esemplare di cultura valido per una del-
le sue sottoculture piuttosto che per l’aggregato culturale dell’intera comunità, ma
che sarebbe comunque nella sfera dell’accettabilità. Proseguendo, come essa ci rac-
conta, a intervistare e a osservare gli altri allevatori della comunità, è stata invece in
grado di sviluppare una propria conoscenza di altri modi di allevare. Di conseguen-
za ha potuto presentare un resoconto riguardo alle differenti sottoculture dell’alle-
vamento all’interno della comunità.
Adeguatezza e
Molta etnografia è, naturalmente, del genere che avrebbe prodotto la Manole-
inadeguatezza scu se avesse concluso la propria ricerca dopo aver intensamente lavorato con un al-
delle etnografie levatore. In tal modo, l’etnografia può essere non del tutto adeguata per certi scopi
ma perfetta per altri. La sua utilità dipende da ciò per cui deve essere impiegata. Se
voglio comparare il modo in cui sono organizzate le relazioni di parentela a Chuuk
e alle Isole Trobriand, un buon modello etnografico di queste organizzazioni in en-
trambi i luoghi può dare una chiara immagine di come i due luoghi differiscano cul-
turalmente e può essere utilizzato per elaborare ogni genere di questione per ulte-
riori ricerche. Ma devo avere modelli-campione da un certo numero di località di
Chuuk per poter osservare tutta la gamma di variazioni in quel luogo. Quello che
sappiamo ora della cultura di Chuuk è particolarmente significativo per l’analisi
delle diverse società della Micronesia, del Pacifico, e del mondo in generale, ma è
ancora lontano dal fornire una immagine adeguata della composizione culturale di
Chuuk nel suo insieme.
Da questo punto di vista, possiamo vedere l’etnografia partire dalla raccolta di
La creazione di quelli che riteniamo essere singoli modelli discretamente validi della composizione
modelli sempre
più precisi e
culturale dei tanti gruppi portatori di cultura nel mondo, fino ad avere dei modelli
dettagliati per ciascun gruppo e, nel corso del tempo, modelli sempre più sofisticati. Quindi
otteniamo gradualmente un’immagine della composizione culturale di una società,
mostrando ciò che le persone conoscono o non conoscono, ciò di cui si lamentano e
ciò con cui sono in disaccordo. Sviluppare una conoscenza della composizione cul-
turale, anche solo di un esempio rappresentativo delle società del mondo, è un’im-
presa di vasta portata, cumulativa, e necessariamente cooperativa.
Esiste una falsità spesso ripetuta che riguarda la pratica dell’antropologia cultu-
rale secondo cui gli antropologi difendono gelosamente il loro particolare territorio
di ricerca dagli altri antropologi e quindi si proteggono dal vedere messi in discus-
L’antropologo sione i loro resoconti etnografici. Vi sono alcuni noti casi di tale atteggiamento. Nel-
“geloso” delle
origini
l’etnografia dei primi tempi c’era un buon motivo per alzare una barriera e evitare
la duplicazione dei dati culturali raccolti. C’erano così tante cose ancora da fare e
così tante cose interessanti sembravano sul punto di scomparire sotto la spinta del
colonialismo e sotto gli effetti delle allora emergenti società industriali.
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 335

Fin da principio, comunque, e sempre più a partire dalla seconda guerra La necessità di
uno sforzo
mondiale, ci sono state diverse società presso cui diversi antropologi sono ritor- cooperativo
nati di volta in volta per proseguire ed estendere precedenti lavori, per studiare
argomenti fino ad allora ignorati, e per testimoniare i cambiamenti14. Da quel
momento hanno preso forma campi di studio sugli zuñi, sugli hopi, sui navaho,
sui maya, sugli hawaiani e sui maori. Per pohnpei, chuuk, belau e yap in Micro-
nesia, esiste un crescente corpus di materiale etnografico, a partire dai lavori de-
gli etnografi tedeschi dei primi di questo secolo e proseguendo attivamente fino
al presente con gli studi di etnografi americani e giapponesi (così come di altri
studiosi della società). Questo lavoro non è stato confinato solo ad argomenti di
cui ci si era già occupati in precedenza, ma ha rivisto e ampliato cumulativamen-
te la nostra conoscenza della complessa composizione culturale di ognuna delle
comunità di tali isole. Possediamo ora anche buone grammatiche e dizionari di
tutte le lingue parlate in Micronesia, che stanno per essere aggiornate da nuove
ricerche. Sviluppi simili si stanno avendo riguardo agli studi etnografici della
Melanesia, che sono stati comprensibilmente rallentati dal grande numero di co-
munità da analizzare.
L’Associazione per gli studi sociali in Oceania organizza esplicitamente i suoi
convegni annuali in modo da sottolineare con successo il fatto che l’etnografia è il
risultato di uno sforzo cooperativo. I suoi membri contribuiscono a un corpus di
conoscenze in espansione e giudicano costruttivamente l’uno i lavori dell’altro con
l’obiettivo di incrementare la qualità dei futuri contributi.
Concludo quindi affermando che l’etnografia non è in quello stato di crisi che al-
cuni critici postmoderni le attribuiscono. Così come viene condotta in molte parti
del mondo, l’etnografia è viva e in buona salute e manifesta tutta l’intenzione di vo-
ler continuare a svilupparsi come impresa sia scientifica che umanistica. Nella misu-
ra in cui si continueranno a compiere ricerche sempre più cooperative e sistemati-
che, saremo in grado di raffinare la nostra teoria della cultura, rendendo conto in
modo più completo dei processi cognitivi, emozionali e interattivi di gruppi e indivi-
dui da cui derivano le culture.

1 È significativo il fatto che oggi ci sia un rinnovato interesse nei confronti del pensiero di Sapir. La mia personale

prospettiva sulla cultura, così come quella di Sapir, è derivata dagli interessi per la linguistica e la psicologia sociale.
Quando intrapresi il compito di scrivere un libro sul cambiamento sociale, in particolare su quello pianificato, ho tro-
vato essenziale focalizzare l’attenzione non sulla società e la cultura, ma su persone che perseguono i loro interessi così
come li comprendono, abbandonandoli quando fa loro piacere e aggrappandovisi obbligatoriamente in altri casi (Goo-
denoug 1963). Fui colpito da quanto i dati dello sviluppo mostravano che i pianificatori, anche con il grande potere e le
risorse spesso in loro possesso per cercare di portare a un cambiamento, non potevano essere altro alla fine che dei pro-
positori di cambiamento. Potevano di certo avere un forte impatto sullo stato delle cose ma le persone per cui avevano
pianificato il cambiamento ne controllavano la maggior parte dei risultati, anche solo restandosene con le mani in ma-
no. È evidente che una teoria dei processi che coinvolgono il cambiamento sociale e culturale, e la stabilità nel tempo,
deve essere focalizzata sulle persone.
2 Qualunque sia la natura di tali differenze non può essere spiegata in termini biologici. Un bambino nato in qual-

siasi parte del mondo, e che sia allevato in un altro luogo, cresce parlando e agendo secondo modalità che si conforma-
no al modo in cui le cose vengono dette e fatte nel luogo in cui è stato allevato. Gli antropologi ne hanno necessaria-
mente concluso che le differenze che si osservano nel linguaggio e nei costumi sono socialmente apprese. Esistono fat-
tori biologici che rendono possibili o limitano le possibilità del linguaggio e di altre forme di comportamento, ma al di
fuori di questi vincoli, le differenze nel linguaggio e nel comportamento da un gruppo a un altro sono il prodotto di
contingenze storiche.
3 I nostri sforzi per spiegare le apparenti similarità e differenze tra i gruppi umani sono vincolati allo stesso modo.

La descrizione di ciò che caratterizza linguisticamente e culturalmente i gruppi umani è il fondamento su cui si basano
gli studi scientifici e umanistici del linguaggio e della cultura.
4 Che le cose stiano così è un fatto che non viene inficiato dai frequenti problemi che si verificano nell’applicare tali

criteri, dato il modo in cui molte ricerche vengono condotte. Né viene inficiato dalla diffusa incomprensione del modo in
cui tali criteri possono essere – e informalmente spesso sono – utilizzati come parte del processo di ricerca sul campo.
336 WARD H. GOODENOUGH

5 L’uso del termine “emica” è stato diffuso per descrivere tutti i comportamenti dotati di senso da Pike (1954), in

analogia con quella che viene definita in linguistica come una descrizione “fonemica” – un’analisi delle categorie di suo-
ni di cui si deve essere a conoscenza per potere distinguere tra diverse espressioni dotate di senso in una determinata
lingua (cfr. Sapir 1925).
6 L’importanza di puntare a descrizioni di questo tipo è iniziata durante la mia ricerca dottorale a Chuuk (Truk) nel

1947 (Goodenough 1951). Cercavo informazioni sul modo tradizionale di condurre proprietà terriere. Ero anche co-
sciente del fatto che ciò che dovevo riportare poteva servire come base all’amministrazione americana per affrontare e
risolvere le dispute riguardanti la proprietà che venivano loro sottoposte. Quando mi domandai cosa avrei avuto biso-
gno di sapere se fossi stato in quella posizione, mi risultò subito evidente che avrei dovuto sapere come condurre l’e-
quivalente di quella che chiamiamo una “ricerca del titolo” in quel sistema di proprietà. Dovevo inoltre apprendere e
descrivere quali fossero i differenti tipi di transazione che potevano essere fatti e quali fossero i conseguenti diritti, do-
veri, privilegi e poteri delle parti in causa. Fui sorpreso che gli antropologi non avessero descritto in precedenza in tal
modo i sistemi di proprietà nelle società non alfabetizzate. Non vi erano resoconti emici della cultura della proprietà
nella letteratura antropologica.
7 I metodi per raccogliere e analizzare dati riguardanti la popolazione, l’ambiente fisico, le malattie, gli oggetti di

partecipazione emozionale, e altre cose simili, sono un aspetto a cui anche altre discipline diverse dall’antropologia ri-
volgono la loro attenzione. La cultura rimane il peculiare argomento dell’antropologia. Il metodo e la teoria a essa cor-
relati, anche se difficili da sviluppare, devono avere la massima priorità per gli antropologi.
8 Chapple e Coon (1942) fanno riferimento a gruppi stabili di una società i cui membri si impegnavano collettiva-

mente in attività ricorrenti come “istituzioni”, usando un approccio di analisi sistemico alla cultura e alla società che
non è diverso da quello che io stesso ho trovato utile. Io ho comunque incentrato l’analisi sulle attività piuttosto che sui
gruppi stabili, rendendola in tal modo più esauriente.
9 I processi mediante cui le persone apprendono come soddisfare le reciproche aspettative comportamentali e a

ottenere la parvenza di una comprensione e di un corpo di conoscenze comuni riguardo al modo in cui va il mondo, so-
no necessariamente gli stessi processi attraverso cui noi, in quanto antropologi, possiamo imparare a soddisfare le aspet-
tative delle persone che stiamo studiando e poi descrivere ciò che pensiamo di avere imparato. Non possiamo in questo
trascendere la nostra umana natura. Ma possiamo impiegare tali processi consapevolmente e sistematicamente. Possia-
mo estrapolare da loro tattiche e strategie, svilupparle in una metodologia per la ricerca empirica etnografica, e così in-
crementare di molto la ricchezza e la replicabilità dei dati etnografici che creiamo nel perseguire i nostri obiettivi scien-
tifici e umanistici.
10 È interessante il fatto che il suo sia apparentemente l’unico studio condotto negli Stati Uniti sul modo in cui la-

vora effettivamente qualsiasi comunità di allevatori.


11 Le persone di solito non abbandonano le proprie idee per cercare una confutazione delle loro conoscenze. Esse

procedono senza problemi con ciò che pensano di sapere fino a che non sono forzate a modificarlo. Al contrario, il me-
todo etnografico, come il metodo scientifico in generale, richiede la ricerca di confutazioni e le vede come buone op-
portunità per avere migliori conoscenze. Per fare questo è necessaria una raccolta sistematica dei dati.
Ogni comprensione è basata sulla percezione di modelli. Le comprensioni che portano a conoscenze culturali
vengono dalla percezione di modelli riguardo al modo in cui due o più tipi di cose significative sono appropriata-
mente (o inappropriatamente) distribuite l’una nei confronti dell’altra. Possiamo derivare queste intuizioni casual-
mente dal modo in cui molte persone acquisiscono il loro sapere culturale, oppure possiamo usare sistematicamen-
te l’analisi distributiva a tale scopo. Tale analisi è il metodo attraverso cui i linguisti formulano i principi che gover-
nano la fonologia e la grammatica di una lingua. Gli etnografi sono meno abituati a usarla, ma io l’ho trovata molto
produttiva.
Nello studio dei costumi correlati alla proprietà a Chuuk, ad esempio, avevo a che fare con diversi oggetti di va-
lore culturalmente riconosciuti come lo spazio, la terra, gli alberi, i giardini, le canoe, le case, e le coppe cerimoniali.
Esistevano diversi generi di diritto che le persone potevano avere su esse. Tali diritti risultavano dai differenti tipi di
transazione in cui le persone di Chuuk potevano essere coinvolte. E vi erano diverse entità sociali, individuali e di
gruppo, che potevano essere parte di tali transazioni. L’analisi distributiva mostra che lo stesso tipo di diritto coinvol-
ge differenti diritti e doveri in base al fatto che un oggetto sia o non sia classificato come produttivo dal punto di vista
alimentare. Tutti i tipi di oggetto possono essere soggetti ad alcune transazioni, ma solo alcuni ad altre. E così accade.
Osservando sistematicamente come i tipi di transazione, i diritti e i doveri che ne derivano, i tipi di diritto, i tipi di og-
getto e i tipi di entità sociale possono o meno essere associati tra loro, ho sviluppato la mia conoscenza del modo in
cui funziona la proprietà a Chuuk.
12 Non ritengo sia necessario ripetere in questa sede il modo in cui ho sviluppato il problema delle attività a par-

tire dalla formulazione di Malinowski (Goodenough 1963, pp. 322-337). Basti dire che ogni attività ha una giustifica-
zione pubblica per essere svolta (lo “statuto” di Malinowski), a meno che, come nel furto, non sia pubblicamente
disapprovata. (In quest’ultimo caso, naturalmente, ha una giustificazione privata). L’analisi del modo in cui le giusti-
ficazioni pubbliche si distribuiscono tra differenti attività, e delle priorità (con relative giustificazioni) date a attività
in competizione, possono mettere in evidenza i valori pubblici. L’analisi di come si distribuiscono tra le attività le
strategie, le tecniche e le risorse perché le cose siano fatte, esemplifica in modo chiaro la completa organizzazione
tecnologica di una società.
13 L’esistenza umana come noi la conosciamo è basata sulla formulazione di questo assunto e sulla nostra disponi-

bilità ad apprendere l’uno dall’altro in modo che l’assunto sia valido per il maggior tempo possibile, in particolare in
quei casi in cui risulta cruciale farlo.
14 Sulla piccola isola di Romonum a Chuuk, per esempio, nel 1947 hanno lavorato in gruppo quattro antropologi e

un linguista. Nei due anni successivi hanno lavorato lì altri due antropologi e un componente del gruppo originario è ri-
tornato nel 1965. Almeno altri sette hanno lavorato in altre località della laguna di Chuuk dopo il 1947, inclusi due stu-
denti di uno dei membri del gruppo di quell’anno.
PER UNA TEORIA OPERATIVA DELLA CULTURA 337

Biografia intellettuale

Ward H. Goodenough è professore emerito di antropologia all’Università del-


la Pennsylvania dove ha lavorato dal 1949. I suoi libri sono Property, Kin and
Community on Truk (1951), Cooperation in Change (1963), Description and Com-
parison in Cultural Anthropology (1970), Culture, Language and Society (1971,
1981), Trukese-English Dictionary (con Hiroshi Sugita, 1980, supplemento del
1990), e il volume da lui curato Explorations in Cultural Anthropology (1964). È
stato direttore della rivista «American Anthropologist» (1966-1970), presidente
dell’American Ethnological Society (1962) presidente della Society for Applied
Anthropology (1963) ed è stato membro del comitato scientifico della American
Association for the Advancement of Science (1972-1975). È membro della National
Academy of Sciences, dell’American Philosophical Society e della American Aca-
demy of Arts and Sciences.

Fino al terzo anno alla Cornell University, i miei studi erano incentrati sull’anti-
co islandese e sulla letteratura delle saghe islandesi, sulle lingue germaniche, il lati-
no, il greco e la storia. Mi dedicai alle scienze sociali e del comportamento nell’ulti-
mo anno di corso, seguendo le lezioni di antropologia culturale di Lauriston Sharp
e quelle di teoria della personalità di Leonard S. Cotrell.
Dal corso di Cotrell ho imparato che il nostro senso di autocoscienza – cogniti-
vo, cinesico e affettivo – deriva dalla nostra esperienza di noi stessi in quanto ogget-
ti in continua interazione con il nostro ambiente, in particolare con altre persone.
Deriva, in pratica, dalle transazioni che hanno luogo nel rapporto “io-altro”. Da
Sharp ho imparato che ciò che gli antropologi chiamano cultura è qualcosa di ap-
preso e non qualcosa di trasmesso biologicamente. Anch’essa deriva ed è tenuta in
vita dalle transazioni che hanno luogo nei rapporti “io-altro”. La cultura e la co-
scienza individuale, capii, erano in qualche modo prodotto dei medesimi processi.
Mi risultò anche evidente che, sebbene la teoria fosse in grado di dire qualcosa sui
processi mediante cui si definivano la cultura e il senso di autocoscienza, eravamo
ancora privi di valide procedure per descrivere il contenuto di entrambe queste no-
zioni. Qui era la sfida.
Nel primo anno dei miei studi di dottorato a Yale, seguii i corsi di Bronislaw
Malinowski, John Dollard, Irving Rouse, Clellan Ford, George P. Murdock e Wen-
dell Bennett, e lavorai con Murdock al progetto di Cross-Cultural Survey. Sono sta-
to molto influenzato dalle idee di Malinowski e dal modo in cui la psicologia com-
portamentista e la teoria psicoanalitica potevano essere applicate all’approccio oli-
stico dell’antropologia per lo studio della natura umana e dei fenomeni ad essa cor-
relati. Quello stesso anno ho seguito un corso di fonetica e fonemica tenuto da
George Trager. Questo corso fu fonte per me di ispirazione, perché mi parve dare
una risposta alle questioni che mi ero poste nei miei studi dell’anno precedente alla
Cornell: come afferrare il contenuto della cultura e di ciò che viene appreso nel cor-
so della interazione sociale. Vidi che i linguisti avevano definito procedure abba-
stanza rigorose per ottenere ipotesi verificabili sul contenuto di ciò che le persone
avevano appreso e conoscevano soggettivamente riguardo alla lingua che parlavano.
Mi sembrava che se fossimo stati in grado di unire nella procedura di ricerca l’ap-
proccio dei linguisti a quello degli psicologi comportamentisti e sociali, avremmo
avuto la possibilità di creare una teoria della cultura produttiva e dare inoltre un
contributo significativo allo studio del comportamento umano. Da allora, ho lavo-
rato tentando di realizzare questa possibilità.
338 WARD H. GOODENOUGH

Durante la seconda guerra mondiale sono stato per tre anni nel gruppo di lavo-
ro sul campo della Sezione Ricerca della Divisione dell’Esercito per l’Informazione e
l’Educazione. Lì ho appreso le basi delle metodologie per la ricerca sugli atteggia-
menti e sulle opinioni e ho imparato a usare la scala di Guttman (la mia prima pub-
blicazione scientifica, nel 1944, riguardava una tecnica per definire tale scala).
Quando tornai a Yale, ebbi un gratificante apprendistato con Murdock come re-
search assistant, mentre stava scrivendo il suo libro La struttura sociale. Più tardi,
sempre a Yale, Ralph Linton esercitò anch’egli un notevole influsso sul mio pensie-
ro, spingendomi a unire le sue formulazioni di “status” e di “ruolo” alle nozioni re-
lative all’analisi con la scala di Guttman. Il suo lavoro con Kardiner su “cultura e
personalità” si sovrappose al mio crescente interesse per il ruolo della cultura nei
processi d’interazione che portano alla costruzione della coscienza. In seguito, ho
avuto l’opportunità di sviluppare il mio pensiero riguardo a questi argomenti anche
dopo essere stato assunto alla Università della Pennsylvania, nel 1949, dove ho im-
parato molte cose da A. I. Hallowell e Anthony Wallace. Mia moglie, Ruth Galla-
gher Goodenough, che ha anch’essa avuto una formazione di psicologia sociale, ha
avuto un profondo influsso sul mio lavoro. Una grande influenza l’ha avuta anche
mio padre, Erwin R. Goodenough, un noto storico della religione, che ha dato un
grosso contribuito alla teoria e al metodo dello studio dei simboli religiosi nel suo
Jewish Symbols in the Greco-Roman Period.
Nei quarant’anni trascorsi all’Università della Pennsylvania ho proseguito il la-
voro di ricerca sui metodi di descrizione del contenuto della cultura, su come pos-
siamo comprendere i processi da cui essa deriva e su cosa influenzi il suo contenuto
nel corso del tempo. Nel far questo il mio approccio metodologico, seguendo l’e-
sempio della linguistica, è stato quello di costituire corpus di dati di casi specifici
sufficienti ad evidenziare la presenza di strutture negli eventi, e suggerire i criteri
mediante cui le persone sembrano giudicare se un comportamento è appropriato e
accettabile o meno. Il mio approccio teorico consiste nel ritenere che il comporta-
mento umano sia in larga parte orientato a realizzare degli scopi, tenendo conto di
volontà e bisogni non solo in relazione alla sopravvivenza fisica ma anche alle rela-
zioni sociali e al benessere emotivo, forse il fattore più importante di tutti. Il mio
principale obiettivo è stato di contribuire alla nostra comprensione del modo in cui
particolari gruppi umani agiscono come sistemi governati da aspettative, sia che
queste coinvolgano il linguaggio o altri tipi di attività. La mia premessa è stata che
più saremo in grado di conoscere come funzionino questi sistemi, ognuno in base ai
propri termini, meglio potremo comprendere cosa vi sia di comune o soggiacente a
essi e di conseguenza capire cosa significhi essere umani. Naturalmente non sono
stato il solo a essermi dedicato a quest’impresa, e devo moltissimo a numerose per-
sone, più di quante sia possibile citare nello spazio a mia disposizione.
Linguaggio, antropologia e scienze cognitive*
Maurice Bloch

Le scienze cognitive e la cultura


Le scienze cognitive vengono abitualmente descritte come il tentativo di mettere
insieme psicologia cognitiva, filosofia, neurofisiologia, intelligenza artificiale, lingui- L’antropologia e
le scienze
stica e antropologia per comprendere i processi di pensiero. In questa alleanza l’an- cognitive
tropologia, di fatto, è una componente lasciata abbastanza in ombra. Solo l’antro-
pologia cognitiva viene abitualmente presa in considerazione dagli scienziati cogni-
tivi e, anche in questo caso, si tratta solo dei risultati più recenti dell’antropologia
cognitiva e molti antropologi, in particolare quelli europei, non la riconoscerebbero
come un loro oggetto di ricerca. Una situazione poco promettente visto che alcune
delle teorie che vengono dalle scienze cognitive risultano centrali per i problemi
dell’antropologia, sia culturali che sociali, e dovrebbero condurre gli antropologi a
riesaminare molte delle premesse delle loro ricerche.
Gli antropologi culturali studiano la cultura. La cultura può essere definita co-
me ciò che si deve sapere in modo da potere agire ragionevolmente e con efficacia
in uno specifico ambiente umano1. Gli antropologi sociali studiano tradizionalmen-
te l’organizzazione sociale e il comportamento mediante cui le persone entrano in
rapporto l’una con l’altra. Sia gli antropologi sociali che quelli culturali sono co-
munque consapevoli del fatto che la distinzione tra le due discipline non è assoluta.
Gli antropologi culturali sanno che non possono analizzare direttamente la cultura,
ma possono arrivarci solo mediante l’osservazione di attività comunicative, verbali o
non verbali, naturali o simulate artificialmente. Gli antropologi sociali sono consa-
pevoli del fatto che non possono comprendere l’azione, verbale o non verbale, se
non costruiscono, probabilmente con l’immaginazione, una rappresentazione della
cultura della popolazione che stanno studiando, dato che questa è l’unica maniera
di dare un significato alle loro attività (Winch 1958).
Alcuni aspetti del concetto di cultura sono quindi essenziali sia per gli antropo-
logi sociali che per gli antropologi culturali. Comunque, un’ulteriore assunto antro- La culrura
pologico, esplicito o implicito, è che questa cultura sia inseparabilmente legata al “strutturata
come un
linguaggio, questo sulla base della convinzione che la cultura sia pensata e trasmes- linguaggio”
sa come un testo mediante il linguaggio, oppure che tale cultura sia fondamental-
mente “strutturata come un linguaggio”, composta di proposizioni linearmente col-
legate. Sono proprio questi due assunti sulla cultura che voglio mettere in discussio-
ne in questo saggio.
Se la cultura è una buona parte o tutto quello che le persone devono sapere in
uno specifico ambiente sociale in modo da agire efficacemente, ne consegue in pri-
mo luogo che quelle persone devono aver acquisito il sapere o mediante lo sviluppo
di qualche potenzialità innata o attraverso fonti esterne, oppure da una combinazio-
ne di entrambe. In secondo luogo ciò significa che questa conoscenza acquisita vie-
ne continuamente immagazzinata in modo da essere facilmente accessibile quando
340 MAURICE BLOCH

La compatibilità se ne presenti la necessità2. Queste ovvie inferenze hanno a loro volta un’ulteriore
necessaria fra implicazione: le questioni trattate dagli antropologi collocano questi ultimi proprio
teoria al centro delle scienze cognitive, che piaccia loro o meno, dato che sono gli scien-
antropologica e
teorie cognitive ziati cognitivisti ad avere qualcosa da dire riguardo all’apprendimento, alla memo-
ria e al ricordo. Gli antropologi non possono dunque evitare di tentare di rendere le
loro teorie sulla vita sociale compatibili con ciò che altri scienziati cognitivisti hanno
da dire riguardo ai processi di apprendimento e memorizzazione.

La formazione dei concetti


Tutti i concetti classificatori sono almeno parzialmente appresi, e alcuni recenti
studi sull’argomento hanno prodotto cambiamenti fondamentali nel modo in cui
immaginiamo tale processo. La vecchia idea che i bambini apprendano i concetti
La teoria dei classificatori come definizioni minime e necessarie, un’idea data per scontata nella
prototipi maggior parte degli studi antropologici e che è particolarmente radicata nello strut-
turalismo e nelle etnoscienze, si è dimostrata non più sostenibile già da molto tem-
po (Fillmore 1975; Rosch 1977, 1978a; E. E. Smith 1988). La posizione general-
mente accettata oggi è che questi concetti si formino mediante il riferimento a “pro-
totipi” vaghi e provvisori che tengono unite delle famiglie di casi specifici a loro
volta debolmente costituite. Ad esempio, il concetto di “casa” non è costituito da
una lista di elementi essenziali (tetto, porta, muri, e così via) che devono essere con-
trollati uno a uno prima di decidere se un determinato oggetto sia o meno una casa.
Se così fosse non potremmo avere più l’idea che una casa priva del tetto sia comun-
que una casa. Piuttosto, noi consideriamo qualcosa come “una casa” mettendolo a
confronto con un insieme debolmente associato di elementi di ciò che è “simile a
una casa”, nessuno dei quali è essenziale, ma che sono tenuti assieme dall’idea gene-
rale di ciò che deve essere una casa tipica.
Sembra che la forma mentale dei concetti classificatori, che sono come dei mat-
toni essenziali della cultura, coinvolga reti deboli e implicite di strutture
pratico/teoriche del sapere, basate sull’esperienza di casi concreti definiti spesso co-
me i “migliori esemplari” (Smith, Sera, Gattuso 1988, p. 372). Un aspetto significa-
tivo nel considerare in questa prospettiva i concetti classificatori è che li rende iso-
Gli scripts e le
morfi a ciò che è definito come uno “script” o uno “schema”, anche se quest’ultimo
sceneggiature si colloca su un piano più vasto e complesso. Tali “script” o “schemi” sono in effet-
ti veri e propri pezzi di una debole rete di procedure e di conoscenze che ci metto-
no in grado di avere a che fare con situazioni standardizzate e ricorrenti, come ad
esempio il “preparare la colazione,” che è chiaramente qualcosa di culturalmente
creato (Abelson 1981; Holland, Quinn 1987; D’Andrade 1990)3.
Se i concetti classificatori come gli “script” e gli “schemi” non sono delle voci di
dizionario, ma sono invece piccole reti di conoscenze e di pratiche particolari sul
mondo, allora la questione della loro relazione con le parole diventa più problemati-
ca di quanto non fosse con la vecchia prospettiva del “controllo delle condizioni ne-
L’indipendenza
dei concetti dalla cessarie e sufficienti”. Il fatto che non esista una relazione inevitabile tra concetti e
lingua parole è dimostrata dal fatto, oggi bene accertato, che i concetti possono esistere, e
di fatto esistono, indipendentemente dal linguaggio. Questo è messo in chiaro dai
molteplici esempi di pensiero concettuale nei bambini in fase prelinguistica, presen-
tati da Roger Brown (1973). I bambini possiedono il concetto di “casa” prima di po-
ter dire questa stessa parola. Vi sono anche studi in cui si dimostra che l’acquisizione
da parte dei bambini di una semantica lessicale è, per lo più, il tentativo di associare
le parole a concetti già formati. Questa viene definita come teoria del “concept first”
(della “precedenza del concetto”). Al contrario di quanto sostenevano le vecchie
LINGUAGGIO, ANTROPOLOGIA E SCIENZE COGNITIVE 341

prospettive dell’antropologia cognitiva (Tyler 1969), il linguaggio non è quindi essen- La teoria del
“concept first”
ziale per il pensiero concettuale4. Si può comunque andare anche oltre questo inizia-
le distanziamento del lessico dai concetti mentali grazie ai lavori di acquisizione se-
mantica di Bowerman (1977). Questi dimostra una continua interazione reciproca
tra i diversi aspetti della classificazione introdotti attraverso il linguaggio e i concetti
mentali, nel momento in cui il bambino apprende a esprimere questi concetti me-
diante parole. Questo moto dialettico non è solo interessante in sé ma suggerisce an-
che un processo molto più generale, a cui ritornerò più avanti, mediante cui un sape-
re originariamente non linguistico viene parzialmente trasformato quando diventa
linguistico, assumendo in tal modo una forma che assomiglia sempre più da vicino a
ciò che gli strutturalisti, tra gli antropologi, ritengono caratterizzi l’organizzazione di
tutto il sapere umano (Keil, Batterman 1984).
Questo breve riassunto del processo di formazione dei concetti ci mette in con- L’importanza del
dizione di tirare le seguenti conclusioni: gran parte del sapere è di carattere non lin- sapere non-
guistico; i concetti implicano reti implicite di significato che sono strutturate me- linguistico
diante l’esperienza e la pratica del mondo esterno; in determinate circostanze, que-
sto sapere non linguistico può essere riportato come linguaggio e prendere la forma
di un discorso esplicito, ma cambiando le sue caratteristiche nel corso del processo.

Alcune implicazioni del modo in cui apprendiamo abilità e sviluppiamo competenze


Un’altra area di contatto tra antropologia e psicologia cognitiva rivela l’impor-
tanza del sapere non linguistico. Si tratta dello studio del modo in cui apprendiamo Lo studio delle
a svolgere i compiti pratici quotidiani. È evidente che non passiamo attraverso una attività
quotidiane
spiegazione punto per punto del processo quando insegnamo ai nostri bambini co-
me trovare la strada di casa o aprire le porte. Buona parte del sapere culturale sem-
bra venire trasmesso secondo modalità a noi sconosciute. Probabilmente in società
ad alta scolarizzazione questo è mascherato dall’importanza delle istruzioni esplici-
te, ma nelle società non industrializzate la maggior parte di ciò che prende il tempo
e le energie delle persone – incluse le pratiche relative alla pulizia del corpo e degli
abiti, come cucinare, coltivare, ecc. – viene appreso molto gradualmente mediante
imitazione e tentativi di partecipazione.
La specificità culturale, la complessità e il radicamento di questi compiti, e la lo-
ro caratteristica di non essere linguisticamente espliciti, è stata discussa da antropo-
logi, quali Mauss (1936), Leroi-Gourhan (1943) e Haudricourt (1968). In alcuni ca-
si gli antropologi hanno rilevato che il linguaggio svolge un ruolo sorprendente-
mente limitato nella trasmissione della conoscenza. Borofski (1987), ad esempio, La trasmissione
sottolinea questo aspetto nella sua analisi della trasmissione della conoscenza nell’a- non verbale
tollo polinesiano di Pukapuka. Sia che si stiano apprendendo delle tecniche specifi- della conoscenza
che o delle abilità generali, la trasmissione della conoscenza tende ad avvenire nel
contesto delle attività quotidiane mediante osservazione o pratica manuale. Esiste
solo un minimo di istruzione verbale diretta. In modo simile Lave, nel suo studio
sui sarti liberiani, ha notato che ciò che lei chiamava “apprendistato”, che si basava
sulla “assunzione che conoscere, pensare e capire si generassero nella pratica” (La-
ve 1988, 1990, p. 310), e che fosse più efficace dell’istruzione formale basata sulle
modalità linguistiche e socratiche di apprendimento.
La significatività di queste scoperte è molto più importante di quanto si possa
pensare in un primo momento. Ciò perché la trasmissione della conoscenza, per le
attività polinesiane in generale come per la sartoria in Africa occidentale, sia in lar-
ga parte non linguistica può avere meno a che fare con l’educazione impartita dalla
cultura di quei luoghi che con la struttura generale del tipo di conoscenza soggia-
342 MAURICE BLOCH

cente allo svolgimento di compiti pratici complessi, che richiedono che la trasmis-
La necessità sione della conoscenza non sia linguistica.
dell’apprendi- Che questo sia il reale stato delle cose è suggerito da diversi studi sull’apprendi-
mento pratico: mento in cui, in contrasto con gli esempi appena citati, l’insegnamento originario
il caso
dell’automobile viene impartito mediante il linguaggio, o perlomeno in una forma proposizionale,
ma in cui il processo di divenire esperto sembra comportare la trasformazione delle
proposizioni dell’insegnante in forme di conoscenza fondamentalmente non lingui-
stiche (Dreyfus, Dreyfus 1986, cap. 1)5. Infatti J. R. Anderson (1983) sottolinea che
chi sta imparando a guidare deve trasformare una conoscenza acquisita mediante
una serie di proposizioni in una serie di procedure non linguistiche e tra loro inte-
grate prima di riuscire a farlo in modo rapido, efficace e automatico – in una paro-
la, per riuscire a farlo bene. Solo quando non pensano in termini verbali a ciò che
stanno facendo i conducenti sono veramente esperti. Probabilmente alcuni insegna-
menti debbono necessariamente essere impartiti verbalmente, ma ci sono anche dei
vantaggi nella trasmissione non linguistica di abilità pratiche tipiche di società non
industrializzate, dal momento che tale trasmissione “supera” la duplice trasforma-
zione: prima quella da una conoscenza implicita a una linguisticamente esplicita
compiuta dall’insegnante, poi quella dalla conoscenza linguisticamente esplicita a
una implicita compiuta dal discente.
Perché le cose dovrebbero essere così? Per iniziare a rispondere a questa do-
L’apprendimento manda dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al processo mediante il quale un in-
come creazione dividuo diventa un esperto. Non sorprende il fatto che la pratica nello svolgere un
di un apparato compito complesso rende il praticante più efficiente, ma gli studi relativi alla com-
cognitivo petenza mostrano che l’incremento di efficienza è più sorprendente di quanto possa
“dedicato”
apparire da principio. Ad esempio, quando si richiede alle persone di leggere la pa-
gina di un testo messa a rovescio, riusciranno a farlo sempre più rapidamente, ma
l’aumento di velocità non è costante, né prosegue all’infinito. All’inizio vi è un rapi-
do aumento dell’efficienza che prosegue per un po’, poi inizia a calare, fino a che
non vi è più nessun incremento. La forma della curva dell’incremento di efficienza
suggerisce (Johnson-Laird 1988, che cita Newell, Rosenbloom 1981) che il processo
di apprendimento implica la costruzione di un apparato cognitivo dedicato a occu-
parsi di questo compito. Lo stabilirsi di tale apparato è lento, e quando è in costru-
zione vi sono incrementi significativi; in ogni caso una volta stabilizzatosi non sono
possibili ulteriori incrementi. Un elemento o un apparato riguardante un’attività fa-
miliare esiste allora nel cervello come risultato di una pratica ripetuta (Simon 1979,
pp. 386 sgg.).
Un esempio più complesso e discusso di ciò che accade quando qualcuno diven-
ta un esperto viene dallo studio dei grandi giocatori di scacchi. È stato ampiamente
Il caso degli sostenuto il fatto che i giocatori di scacchi esperti non differiscano molto dai princi-
scacchi: pianti (che non siano dei veri e propri esordienti) nella conoscenza delle regole del
principianti e
giocatori esperti
gioco o nel compiere atti motori come muovere un pezzo senza fare cadere gli altri.
Quello che sembra distinguere l’esperto dal principiante non è tanto la capacità di
utilizzare complesse regole strategiche di tipo logico-matematico, ma piuttosto il
possesso in memoria di un deposito sorprendentemente completo e organizzato di
parziali o totali configurazioni della scacchiera, che gli permettono di riconoscere la
situazione all’istante in modo da sapere cosa fare successivamente (Dreyfus, Drey-
fus 1986, pp. 32-35). Comunque, tenendo presente l’esempio della guida, non è che
l’esperto ricordi di fatto le tante partite che ha fatto, ma ha sviluppato attraverso
una lunga pratica uno specifico apparato che gli rende possibile ricordare tante par-
tite e configurazioni in modo più semplice e veloce di chi non è esperto. L’esperto
LINGUAGGIO, ANTROPOLOGIA E SCIENZE COGNITIVE 343

ha imparato il modo in cui apprendere questo tipo di informazioni. Questo spie- L’apprendimento
“esperto” come
gherebbe perché un esperto può fare fronte non solo a situazioni che riconosce, ma prerequisito
anche a situazioni che siano nuove; questo fino a che rientrano nel dominio delle si-
tuazioni con cui ha appreso a operare con efficienza.
Imparare a diventare un esperto sarebbe dunque una questione non solo di ri-
cordare molti casi, ma di costruire un meccanismo cognitivo specifico per trattare
casi di un determinato tipo. Tale meccanismo, dato che si interessa solo di uno
specifico ambito di attività, può affrontare in maniera efficiente e molto rapida in-
formazioni correlate a quel campo di attività, si tratti di informazioni sul gioco de-
gli scacchi o su scenari autostradali, anche se i casi specifici di questi due ambiti
non sono mai stati in precedenza esperiti esattamente in quel modo (Dreyfus,
Dreyfus 1986, cap. 1).
Se divenire un esperto comporta la creazione di apparati dedicati alla gestione
di famiglie di compiti correlati, allora questo è certamente qualcosa che un antro-
pologo deve tenere a mente. Poiché un antropologo studia proprio persone che
affrontano problemi familiari eppure sempre nuovi (Hutchins 1980). Sembra ra-
gionevole ritenere che la costruzione di apparati specifici per occuparsi da esperti
di certe aree di attività abbia luogo durante il processo di apprendimento cultura-
le di tutti i più comuni compiti pratici. Effettivamente alcuni studi recenti sugge-
riscono che apprendere come diventare un esperto in aree familiari è un prerequi-
sito necessario per altri tipi di apprendimento per essere poi in grado di affronta-
re situazioni meno familiari e meno prevedibili. Le ragioni sembrano essere in
parte neurologiche.
Nel caso della guida di un’automobile sembra che nel momento in cui una per-
sona diventa esperta, non solo guida meglio e trasforma quella che una volta era
una informazione linguistico-proposizionale in qualcosa di diverso, ma sembra an-
che impiegare un potenziale neurologico assai minore nello svolgere i compiti ne-
cessari (Schneider, Shiffrin 1977), rendendosi quindi disponibile per altri compiti
mentali, come ad esempio quello di parlare al telefono della macchina. In modo si-
mile lo straordinario valore della memoria di un campione di scacchi sembra essere
reso possibile dall’efficiente stoccaggio di informazioni mediante l’uso dell’apparato
specializzato nell’affrontare nuove situazioni di gioco.
Esiste quindi una chiara prova del fatto che l’apprendimento non è solo un pro-
blema di semplice immagazzinamento di conoscenze ricevute, come molti antropo- La costruzione
logi danno per scontato quando mettono sullo stesso piano le rappresentazioni cul- di apparati per
turali e quelle individuali, ma è una costruzione di apparati per occuparsi poi effica- specifici domini
del sapere
cemente di specifici domini del sapere e della pratica. Inoltre, come viene suggerito
dal caso dell’apprendimento della guida, l’evidenza mostra che una volta che tali
apparati sono costruiti, le operazioni connesse con tali domini non solo sono non
linguistiche, ma devono essere non linguistiche perché siano efficienti. Ne consegue
che gran parte del sapere che gli antropologi studiano esiste necessariamente nelle
menti delle persone in forma non linguistica.
Prima di andare avanti, è necessario eliminare una ambiguità presente in ciò che
ho detto finora. Dire che la conoscenza riguardante ciò che è familiare è non-lingui- La conoscenza
irriducibile al
stica può significare due cose. Può voler semplicemente dire che tale conoscenza linguaggio
non è formulata in un linguaggio naturale, ma può significare anche qualcosa di più
forte: potrebbe significare che tale conoscenza non è in nessun modo assimilabile a
un linguaggio, che non è governata dalla logica proposizionale tipica di un linguag-
gio naturale o di un computer. Qui adotto la più forte delle due alternative perché
credo che gli studi sull’acquisizione di una competenza di cui si è parlato suggeri-
344 MAURICE BLOCH

scano che un sapere organizzato per essere efficiente nella pratica quotidiana non
sia solo non-linguistico, ma anche non assimilabile a un linguaggio, in quanto non
assume una forma logica proposizionale. Per sostenere questo e per rendere la mia
posizione meno negativa mi rivolgo ora ai principi certamente controversi di ciò
che viene chiamato “connessionismo”.

Il connessionismo e la sfida al modello della logica proposizionale


Ciò che del connessionismo risulta particolarmente interessante per l’antropolo-
gia non è tanto il connessionismo in sé, ma le ragioni per cui una tale teoria si sia re-
L’importanza del sa necessaria. In parole più semplici, una teoria come quella del connessionismo è
connessionismo
necessaria perché un modello della mente per frasi lineari, qualche volta definito
come il modello della logica proposizionale (Churchland, Sejnowski 1989), molto
simile nella forma alla semantica del linguaggio naturale, non può rendere conto
della velocità e dell’efficienza con cui svolgiamo i nostri compiti giornalieri e ci oc-
cupiamo di situazioni familiari.
Il connessionismo è una teoria del pensiero alternativa. Suggerisce che si affronti
l’intero problema dei processi mentali in un modo completamente diverso da ciò che
si è finora ipotizzato. Il problema con la descrizione vulgata dei processi mentali, ad
esempio di come si giunge a una decisione, è che tendiamo a vedere tale attività co-
me un processo sequenziale di analisi condotto in modo lineare da un singolo pro-
cessore. Per compiti complessi, anche se familiari, tale procedura sarebbe insoppor-
tabilmente goffa e lenta. Invece, il connessionismo suggerisce che si abbia accesso al
sapere dalla memoria oppure da come tale sapere viene concettualizzato a partire
dalla percezione del mondo esterno, mediante un certo numero di unità di elabora-
L’elaborazione in zione che operano in parallelo e che forniscono informazioni simultaneamente. Sug-
parallelo e gerisce inoltre che le informazioni ricevute da tali processori multipli in parallelo è
multipla analizzata simultaneamente mediante reti già esistenti che connettono i processori.
Solo attraverso tale elaborazione multipla e parallela si possono ottenere conoscenze
e operazioni complesse veloci così come sono. Altrimenti, data la velocità di condu-
zione e i ritardi sinaptici dei neuroni, esisterebbe un’impossibilità fisica e biologica
che i numerosi passaggi richiesti da un modello logico proposizionale della mente
siano portati a termine nel tempo in cui viene svolto anche il più semplice dei com-
piti mentali. Un cervello connessionista, invece, potrebbe (almeno ipoteticamente)
lavorare in modo sufficientemente veloce (Feldman, Ballard 1982).
È ancora troppo presto per dire se il connesionismo dimostrerà di essere un mo-
dello accurato di analisi del cervello e, in ogni caso, non sono nella posizione di po-
ter valutare la sua validità da un punto di vista neurologico. Ciò che conta qui, so-
prattutto, è che questa teoria offre proprio il genere di sfida ai modelli della logica
proposizionale di cui l’antropologia ha bisogno, e dà il tipo di risposte che ci con-
sentono di affrontare le situazioni che cerchiamo di comprendere.
Dato che gran parte della cultura è costituita dall’esecuzione di queste procedu-
re e conoscenze familiari, il connessionismo può spiegare come si configuri gran
parte della cultura nella mente-cervello. Esso spiega inoltre perché tale tipo di cul-
tura non possa essere né linguistica né simile a un linguaggio. Per rendere la cultura
efficiente è necessaria la costruzione di reti connesse di campi-rilevanti, che per la
loro stessa natura non possono essere immagazzinate o recuperate mediante formu-
le logiche proposizionali come quelle che regolano il linguaggio naturale. Inoltre,
come mostra la discussione riguardo all’apprendimento dei principianti, non è nep-
pure necessario che questo genere di conoscenza sia sempre trasposta in parole per
essere trasmessa da un membro della comunità a un altro.
LINGUAGGIO, ANTROPOLOGIA E SCIENZE COGNITIVE 345

Dire che gran parte della cultura non è né linguistica né strutturata come un lin- Trasporre la
conoscenza in
guaggio non implica che il linguaggio sia irrilevante. Tuttavia, contrariamente a parole
quanto gli antropologi tendono a presupporre, dobbiamo vedere i fenomeni lingui-
stici come parte della cultura, gran parte della quale è non-linguistica. Invece di da-
re per scontata la presenza del linguaggio, dobbiamo vederla come qualcosa che ri-
chiede una spiegazione.
Il processo con cui si traspone la conoscenza in parole deve richiedere una tale La presenza del
linguaggio: una
trasformazione nella natura del sapere, che le parole avranno solo una lontana rela- cosa da spiegare
zione con il sapere originario cui si riferiscono. Ma il processo può anche compor-
tare dei guadagni in differenti aree, come è suggerito dalla ricerca già citata sulla
trasformazione di concetti prototipici in concetti classici (concetti che possono es-
sere definiti da un lista chiusa di elementi necessari e sufficienti).

Le implicazioni per l’antropologia


La nostra analisi dei modi in cui è organizzata la conoscenza ha delle fondamen-
tali implicazioni per l’antropologia. Il primo punto è che la cultura sia probabil- I limiti delle
mente un tipo di fenomeno differente rispetto a quello che si pensava fosse in pre- analisi
cedenza, con la conseguenza che la nostra comprensione della cultura è rimasta proporzionali
parziale e superficiale. Fino a oggi gli antropologi hanno cercato di analizzare la della cultura
cultura mediante modelli popolari di pensiero applicabili solo alla conoscenza basa-
ta sulla logica proposizionale che, come abbiamo visto, non è altro che una piccola
parte dell’intero sapere.
Inoltre, ci sono delle implicazioni metodologiche. Se l’antropologo tenta spesso
di descrivere una conoscenza frammentata e non-proposizionale con un mezzo lin-
guistico (la scrittura), e non ha alternative, dovrà essere consapevole che in tal mo- La trasposizione
do non riproduce l’organizzazione della conoscenza delle persone che studia ma nella scrittura
che la sta trasponendo in una forma logica interamente diversa. Eseguire tale tra-
sposizione non è impossibile: dopotutto possiamo descrivere le cose che non sono
linguistiche. Ma nel tentativo di evocare tale conoscenza dobbiamo evitare i dispo-
sitivi stilistici che trasformano i tentativi di descrizione in quasi-teorie, come nel ca-
so dello strutturalismo.
Queste conclusioni sollevano la questione di come possiamo raggiungere questa
L’osservazione
conoscenza interconnessa e frammentata. Ma in questo caso credo che gli antropo- partecipante
logi abbiano un vantaggio sugli altri scienziati cognitivi per il fatto di possedere già
una tecnica propugnata da Malinowski: l’osservazione partecipante.
Per il suo essere a lungo termine, implicando contatti continui e intimi con colo-
ro che stiamo studiando, l’osservazione partecipante ci permette di conoscere le L’importanza del
procedure che quelle stesse persone hanno appreso e ci mette in condizione di con- quotidiano e delle
trollare se stiamo imparando correttamente osservando la nostra crescente abilità di pratiche culturali
cavarcela sul campo nei compiti quotidiani, inclusi quelli sociali, con la stessa rapi-
dità dei nostri informatori.
Un fatto che sottolineiamo sempre e con ragione quando spieghiamo in cosa
contrasti il nostro modo di agire con quello di altri scienziati sociali e cognitivi è
l’importanza da noi data al quotidiano e il fatto che crediamo che i più importanti
aspetti della cultura siano radicati negli elementari prerequisiti mentali dell’agire.
Gli antropologi sono particolarmente coscienti di questo fatto perché molti di loro
lavorano in culture straniere e in tal modo la presenza dell’esotico nel quotidiano
non può non essere prevalente. Abbiamo ben presente l’importanza delle pratiche
culturali quotidiane anche perché svolgiamo lunghi periodi di ricerca sul campo e
vi partecipiamo in verità per molto tempo. Questo apprendimento delle cose prati-
346 MAURICE BLOCH

che è di fatto la parte più importante dell’antropologia. Dreyfus e Dreyfus hanno


ragione nel sottolineare che, non prestando attenzione al modo in cui agiscono i ve-
ri esperti, gli scienziati cognitivi hanno tentato di creare delle intelligenze artificiali
ignorando le reali caratteristiche della prassi umana, ma questo non è un buon mo-
tivo per ritenere, come loro, che si debba rinunciare completamente a tentativi di
questo tipo. Questo è il motivo per cui, proprio come gli antropologi hanno biso-
gno di altri scienziati cognitivi, questi ultimi riceveranno un beneficio dalla collabo-
razione con antropologi che hanno esperienza di osservazione partecipante.

* Questo saggio è una versione rivista del testo già apparso in «Man», n. 26 (1991), pp. 83-198, a sua volta una
revisione delle mie Frazer Lectures del 1990. Invito i lettori a riferirsi all’articolo pubblicato su «Man» per ulteriori svi-
luppi dei temi qui trattati. Questi scritti sono basati su ricerche finanziate da The Spencer Foundation. Ho inoltre be-
neficiato dell’ospitalità del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Bergen, dove ho potuto sviluppare alcune
delle idee qui presentate. Vorrei ringraziare F. Cannell, C. Fuller, D. Holland, N. Quinn e C. Strauss, per i loro utili
commenti su una prima versione del testo. In particolare, vorrei ringraziare D. Sperber per avermi spinto a interessar-
mi all’argomento e per avermi dato tanti utili suggerimenti per migliorare il testo della conferenza così come era stato
originariamente letto.
1 Non voglio affatto sostenere che tutti i membri di una comunità abbiano la necessità di possedere l’intero sapere

culturale. Le discussioni riguardo alla “diffusione della conoscenza” (“distributed cognition”) di Cicourel e altri sugge-
riscono in effetti che le cose non stiano così.
2 Cfr. Sperber (1985) per un’elaborazione completa del problema.
3 Holland e Quinn (1987, p. 19) prestano particolare attenzione al significato di questi aspetti per la conoscenza

della cultura.
4 I lavori sui bambini sordomuti sembrano a loro volta mostrare che un pensiero concettuale evoluto non richieda

l’uso del linguaggio (Petitto 1987, 1988). Sono grato a L. Hirschfeld per avere sottolineato la rilevanza di questa ricerca
per la mia argomentazione.
5 Sebbene mi basi estesamente sulla caratterizzazione della competenza data da Dreyfus e Dreyfus (1986), lo faccio

per giungere a conclusioni abbastanza differenti.

Biografia intellettuale

Maurice Bloch è professore di antropologia alla London School of Economics


and Political Science dell’Università di Londra. Tra le sue pubblicazioni Placing the
Dead: Tombs, Ancestral Villages, and Kinship Organization in Madagascar (1985b),
Marxism and Anthropology: The History of a Relationship (1983), From Blessing to
Violence: History and Ideology in the Circumcision Ritual of the Merina of Madaga-
scar (1986), Ritual, History and Power - Selected Papers in Anthropology (1989), e
Prey into Hunter: The Politics of Religious Experience (1992). Ha inoltre curato l’e-
dizione di Political Language, Oratory and Traditional Society (1975), Marxist Analy-
sis and Social Anthropology (1975), Death and Regeneration of Life (1986), e, con J.
Parry, Money and the Morality of Exchange (1989).

In gioventù crebbi tra gli influssi contraddittori del cattolicesimo e del comunismo
francese. Ho in seguito rifiutato entrambi; ma grazie a essi sono ancor oggi convinto
che i dominati siano più interessanti e importanti dei dominatori. Tutto questo, e l’in-
flusso di un libro francese per bambini, Deradji, Fils du Desert, scritto da un autore di
cui ho dimenticato il nome e che narra le umiliazioni di un ragazzo musulmano nel
contesto coloniale, mi spinsero a decidere che avrei studiato la cultura dei colonizzati.
LINGUAGGIO, ANTROPOLOGIA E SCIENZE COGNITIVE 347

Ciò mi portò all’antropologia. Studente prima alla London School of Economics e


poi a Cambridge, mi nutrii inizialmente della tradizione antropologica britannica,
che all’epoca doveva molto a Radcliffe-Brown e a Malinowski. Subii in particolare
l’influsso di Firth, Mayer, Leach, Fortes, e Tambiah; poi lessi l’antropologia france-
se, e venni influenzato dallo strutturalismo e dal marxismo.
In realtà, ho appreso molto di più da due altre fonti. La prima è rappresentata
dai miei amici e dai miei studenti (di cui molti sono diventati miei amici). Tra i miei
colleghi, quelli che mi sembra abbiano avuto un influsso maggiore sono stati A.
Strathern, J. Parry, D. Sperber, e E. Terray; tra gli studenti, posso identificare l’in-
flusso sulla mia opera di J. Kahn, D. Lan, J. Carsten, R. Astuti e F. Cannel. La se-
conda fonte delle mie concezioni e opinioni sono alcune persone del villaggio di
Malagasy dove ho svolto la mia ricerca; i loro nomi direbbero ben poco ai lettori di
questo libro, ma sono consapevole che mi hanno insegnato molto, in antropologia e
su molti altri argomenti.
Un’antropologia cognitivo-culturale*
Claudia Strauss e Naomi Quinn

Vi presentiamo Paula. È nata poco dopo la fine della seconda guerra mondiale
ed è cresciuta nella periferia di una città statunitense di media grandezza. La vita di
Paula è una sorta di sfida per l’attuale teoria della cultura.
Da un lato, la sua esistenza non ha replicato quella dei genitori o di altre perso-
ne delle precedenti generazioni di americani statunitensi. La vita di Paula non è
neppure stata esattamente come quella di altri membri della sua generazione, amici
e fratelli, che sono cresciuti in condizioni simili. Quindi, Paula risulta difficile da
spiegare nei termini di una teoria della cultura che consideri le conoscenze culturali
immutabili e uniformemente condivise entro i confini di una società.
D’altro canto, esiste una certa coerenza e prevedibilità nelle azioni di Paula. In
quanto personalità individuale è in qualche modo prevedibile: i suoi amici scuote-
ranno talvolta la testa dicendo “Non è proprio una cosa da Paula?”. Essendo un ca-
Individui e so tipico del proprio gruppo storico, essa può essere ancor più prevedibile: i suoi
cultura: un bambini, alzando gli occhi al cielo in segno d’esasperazione diranno, “Mamma, non
problema per
l’antropologia
siamo più negli anni Sessanta!”. Infine, anche in quanto americana e statunitense, è
prevedibile sotto qualche aspetto: quando andrà all’estero, le persone che la incon-
treranno diranno subito dopo “Gli americani!”. Ne segue che Paula non può essere
spiegata nei termini delle attuali teorie, che considerano le personalità storico-cultu-
rali costantemente fluttuanti, in funzione dei discorsi dominanti del tempo o delle
mutevoli scelte strategiche dello stesso attore storico.
Paula è una creatura di finzione. Avremmo potuto benissimo presentarvi al suo
posto Juan, Shefali, Rashid o Chuko. Partire da una singola persona in un saggio
dedicato alla cultura ci permette di sottolineare come l’attuale teoria antropologica
faccia davvero un pessimo lavoro nel tentativo di spiegare come gli individui siano
prodotti dal loro ambiente culturale, e come essi non si limitino a ricreare tale am-
biente, ma lo trasformino.

Il nostro approccio
In questo saggio esporremo un approccio che a nostro avviso funziona molto
meglio, fondato su una recente teoria della conoscenza chiamata “connessioni-
smo”. Il nostro, comunque, non è un modello cognitivo “freddo”: una delle qua-
Un approccio
connessionista
lità del connessionismo sta proprio nella sua capacità di fornire un modello della
mente che può essere esteso sino a includere emozioni e motivazioni. Infine, il
nostro approccio guarda anche oltre la persona in direzione delle forze sociali
che costantemente formano e sono formate dalle persone. Nel collocare la cultu-
ra nelle menti di individui particolari, nel mondo sociale che gli individui crea-
no, e nelle interazioni tra mente e mondo, il nostro approccio non reifica la cul-
tura né cade nell’errore contrario di ridurla a un’astrazione analitica creata da
noi antropologi.
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 349

La nostra formulazione può essere considerata come una versione della teoria
delle pratiche sociali, in particolare così come è stata sviluppata nel classico testo La teoria della
prassi di
di Pierre Bourdieu, (1972; vedi anche Bourdieu 1979, 1982). Come Bourdieu, rite- Bourdieu
niamo che una teoria dei fatti sociali e delle rappresentazioni collettive richieda
che si comprenda il modo in cui gli individui interiorizzano questi aspetti e li ri-
creano1. Nel suo come nel nostro modello è particolarmente significativo che le
rappresentazioni interiorizzate non siano regole stabilite rigorosamente, ma deboli
reti associative che permettono reazioni flessibili ai particolari di ogni dato evento.
Infine, come Bourdieu, vogliamo sottolineare la relativa persistenza di queste rap-
presentazioni interiorizzate.
Diversamente da Bourdieu2 comunque, vogliamo mettere in chiaro che la nostra
teoria della cultura non si applica solo o prevalentemente alle società “tradizionali”.
Ci sono delle conoscenze culturali stabili anche nelle società industrializzate e po-
stindustrializzate; questo è uno dei motivi per cui abbiamo usato il personaggio di
Paula per il nostro esempio di finzione3. Inoltre, non intendiamo tracciare una de-
marcazione netta tra le conoscenze espresse e quelle inespresse4: il nostro modello
cognitivo elimina le distinzioni eccessivamente semplicistiche che Bourdieu traccia
tra le conoscenze accessibili “nella testa” e quelle inaccessibili che sono “incorpora-
te”. Inoltre, nel nostro modello gli attori sociali acquisiscono non solo la consapevo-
lezza di ciò che è naturale, ma anche un forte senso di motivazione nei riguardi di Attori sociali,
ciò che è desiderabile. Gli attori sociali non si limitano a conoscere, desiderano an- conoscenza e
che. Questo desiderio, questa motivazione a mettere in atto alcune conoscenze cul- desiderio
turali piuttosto che altre, è centrale nella nostra formulazione dei processi sociali e
manca in quella di Bourdieu. Infine, diversamente da Bourdieu, mostreremo che il
nostro modello rende conto delle forze che portano alla variazione e al cambiamen-
to, insieme alle tendenze alla condivisione e alla riproduzione: vale a dire che dà
conto dei processi sociali “centrifughi” così come di quelli “centripeti” che operano
nella cultura (Bachtin 1975).

La teoria degli schemi e il connessionismo


Abbiamo detto che il nostro interesse principale verterà sulle conoscenze cultu-
rali. Con il termine “conoscenze” noi intendiamo ciò che molti cognitivisti chiame- Conoscenze e
rebbero schemi; le conoscenze culturali sono semplici schemi più o meno condivisi schemi
senza essere degli universali. L’essenza della teoria degli schemi5 è che i nostri pen-
sieri e le nostre azioni non siano direttamente determinate da elementi del mondo
esterno, ma che siano mediate da prototipi appresi. Tali prototipi o schemi sono
versioni generiche dell’esperienza che rimangono nella memoria. Questi prototipi
hanno forza previsionale: quando un’esperienza presente o un ricordo di eventi del
passato presentano delle informazioni mancanti o ambigue, possiamo non render-
cene conto perché i nostri schemi, se non sono modificati da un’evidenza contraria,
riempiranno queste aree vuote o “grigie”. La teoria degli schemi, in tal senso, non è
nuova6: ciò che ci fornisce l’attuale teoria connessionista7 è un nuovo modo di dar
forma agli schemi.
Prima di descrivere il connessionismo, dobbiamo avvertire i lettori che il model-
lo cognitivo che presentiamo qui si discosta dai modelli connessionisti di cui posso-
no avere conoscenza. Il termine “connessionismo” è abitualmente impiegato per ri-
ferirsi ai nuovi modelli informatici della mente che hanno iniziato a prendere piede
intorno alla metà degli anni Ottanta (in particolare i modelli presentati da Rumel-
hart, McClelland, PDP Research Group 1986, e in McClelland, Rumelhart 1988).
Anche se i computer possono essere programmati per imitare un comportamento
350 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

intelligente sotto vari rispetti, non si può da ciò dedurre alcunché sul modo in cui
Il operi realmente il sistema cognitivo umano. Così abbiamo estrapolato ecletticamen-
connessionismo te a partire dalla neurobiologia e dalla psicologia, come dalle nostre osservazioni in
come principio
euristico qualità di antropologi, per creare un modello cognitivo più completo ed empirica-
mente più affidabile. Abbiamo utilizzato il connessionismo come un principio euri-
stico – un modo di riunire e di dare senso a una serie di intuizioni provenienti da al-
tre discipline altrimenti irrelate. L’importanza del connessionismo consiste nel fatto
che offre una plausibile alternativa alla popolare teoria che pensiamo molti dei no-
stri lettori – come una buona parte degli stessi cognitivisti – condividono riguardo
all’apprendimento culturale, teoria che riteniamo sbagliata.
Questo modello popolare, ampiamente condiviso, suppone che la conoscenza
consista di proposizioni immagazzinate ed elaborate in sequenza. Supponiamo, sug-
geriscono i connessionisti, che si pensi alla conoscenza non come a una serie di pro-
La conoscenza posizioni in forma di regole depositate in una memoria centrale ma piuttosto come
come somma di a delle connessioni (links) tra una rete largamente distribuita di tante piccole unità
proposizioni di elaborazione che lavorino come neuroni. Alcuni neuroni sono specializzati e so-
immagazzinate e
sequenziali no attivati da particolari aspetti discreti del mondo (ad es. la percezione di un rosso
acceso o il gusto di qualcosa d’amaro), alcuni ancora sono attivati dalla combinazio-
ne di messaggi inibitori e eccitatori di migliaia di altri neuroni e poi vengono ad ag-
giungersi per rappresentare combinazioni più complesse di elementi, e alcuni sono
connessi alle cellule muscolari, mandando i messaggi che portano all’azione. Simil-
La conoscenza
mente, si ritiene che alcune unità ricevano degli stimoli dal mondo (inputs), che al-
come serie di tre mandino stimoli verso l’esterno (outputs) e che altre ancora svolgano la funzione
links neuronali di mediare tra gli stimoli interni e quelli esterni delle diverse unità. Per gli scopi del-
l’antropologia vi sono diversi vantaggi nel pensare gli schemi culturali come costi-
tuiti da insiemi di unità interconnesse simili ai neuroni. I due principali vantaggi di
questo modello sono che l’apprendimento può avvenire anche senza un esplicito in-
segnamento e che questo apprendimento è compatibile con risposte flessibili a nuo-
ve situazioni.

Il processo di apprendimento
Apprendiamo gran parte delle nostre aspettative riguardo al mondo senza che ci
sia insegnata esplicitamente alcuna regola. Prendiamo il caso di Paula. Quando era
Apprendimento bambina nessuno ha dovuto insegnarle, come regole da memorizzare, il fatto gene-
senza regole
esplicite
rale che fosse più facile trovare la propria madre in cucina piuttosto che in cantina,
che per il giorno del Ringraziamento ci sarebbe stato un tacchino sul tavolo, e che
le favole incominciavano spesso con “C’era una volta…” e finivano con un “e visse-
ro tutti felici e contenti”. Paula ha semplicemente raccolto queste generalizzazioni,
incorporandole in schemi riguardanti la maternità, il giorno del Ringraziamento e le
favole, osservando che cosa si collegava a qualcos’altro nel suo mondo.
Esiste una ben determinata base neurale per apprendere che cosa vada associato
con qualcos’altro. Quando due neuroni, A e B, sono attivati da aspetti dell’espe-
rienza co-occorrenti e si eccitano allo stesso tempo, la connessione tra loro è raffor-
zata (Hebb 1949)8. In seguito, se A è attivato, sarà molto probabile che si attivi an-
che B. Mentre sono necessari centinaia se non migliaia di neuroni per rappresentare
la madre, il giorno del Ringraziamento o le fiabe, possiamo, nei termini più ipoteti-
ci del modello connessionista, pensare a una ristretta serie di unità che rappresenti-
no tutte le visioni, i suoni, gli odori, e quant’altro sia parte della nostra conoscenza
delle cose. Allora le generalizzazioni che Paula ha appreso possono essere rappre-
sentate come un rafforzamento delle connessioni tra unità che stanno per la madre
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 351

e unità che rappresentano la cucina, tra unità che stanno per il giorno del Ringra- Generalizzazioni
come
ziamento e unità che rappresentano il tacchino, e così via (le generalizzazioni che rafforzamento di
costituiscono la nostra conoscenza separata di una madre, di una cucina, del giorno connessioni
del Ringraziamento e di un tacchino possono, a loro volta, essere rappresentate co- neurali
me strutture composte da connessioni forti tra unità della visione, del suono, dell’o-
dorato e di quant’altro, che si uniscono nella nostra esperienza di ciascuno di tali
generalizzazioni, fino ai più dettagliati elementi dell’esperienza).
Apprendimenti di questo tipo sono solitamente graduali. Abitualmente sono ne-
cessarie ripetute esposizioni a una struttura di relazioni per costruire le associazioni
strettamente connesse e di applicabilità generale, che identifichiamo come schemi.
Ogni volta che Paula vede la madre o la madre degli amici nella cucina, o legge sto-
rie in cui una madre esce dalla cucina, oppure quando vede madri con il loro grem-
biule in spettacoli televisivi come Leave It to Beaver, le sue “unità” per la madre e la
cucina sono attivate e le connessioni tra loro sono rafforzate (in questo e in altri ca- Gli schemi come
si, intendiamo dire che questo apprendimento può essere simulato in un modello entità fluide e
connessionista come un rafforzamento delle connessioni tra unità, ma per brevità interagenti fra
loro
possiamo parlare di queste unità e delle loro connessioni come se fossero realmente
quelle che si trovano nella testa delle persone). Infine, dato il periodo storico in cui
Paula è cresciuta e i ruoli tipici di genere sessuale del suo tempo, questo legame di-
venta forte, impresso in ampie reti di altre associazioni forti, che costituiscono i mo-
delli di conoscenza che Paula possiede sulla maternità.
Eppure, gli schemi di Paula non sono rigide strutture cognitive. Non ha impa-
rato nulla che assomigli a una ricetta o ad un programma di computer che dica fra-
se per frase che cosa ci si aspetti che una madre faccia, né cosa accada nel giorno
del Ringraziamento e neppure gli elementi della fiaba europea. Invece, i suoi sche-
mi sulla maternità, sul giorno del Ringraziamento e sulla fiaba sono una serie di
unità più o meno fortemente interconnesse, a loro volta collegate ad altre serie,
che interagiscono all’interno di una rete priva di soluzioni di continuità ma estre-
mamente diffusa.

Risposte flessibili
Che cosa accade quando Paula utilizza la sua rete appresa di associazioni in una
nuova esperienza? Nei modelli connessionisti qualsiasi esperienza attiva le unità che
rispondono alle sue caratteristiche sensoriali. Tali unità, a loro volta, attivano poi le
altre cui sono strettamente collegate da associazioni apprese in passate esperienze, e
così via. Questa attivazione diffusa prosegue fino a quando una qualche reazione
soggettiva o un’azione non vengono attivate in maniera più netta di qualsiasi altra
L’attivazione
possibilità. L’influenza combinata di differenti unità attivate da particolari caratteri- neurale diffusa e
stiche di una qualsiasi situazione data può portare a differenti risultati da una situa- la flessibilità
zione a un’altra successiva. nelle risposte
Consideriamo, ad esempio, il tono di voce e la postura di Paula quando fa con-
versazione. Crescendo, ha osservato numerosi esempi di conversazione. In ognuno
di questi esempi l’identità, il ruolo e lo scopo dei partecipanti è stato associato a un
differente tono di voce e a una diversa postura. Più avanti, Paula ha appreso certe
tipiche associazioni: la supplica si associa abitualmente con un tono di voce dolce,
con una postura non assertiva e spesso anche con il femminile, mentre gli ordini e
altre forme di dominio si associano con toni di voce alti, una postura assertiva e
spesso anche con il maschile. Queste generalizzazioni, comunque, sottostimano tut-
te le variazioni possibili. Ad esempio, gli aspetti paralinguistici della voce possono
variare da un tono più alto a uno più basso, da una voce che sembra un sospiro a
352 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

una che sia dura come acciaio, da un ritmo esitante a uno rapido. Gli aspetti cine-
stetici, come la direzione e la fissità dello sguardo, la posizione delle spalle e della
schiena, il gesticolare controllato o movimentato, hanno a loro volta una possibilità
altrettanto ampia di variazione.
Quindi la nostra ipotesi è che Paula non abbia appreso una ristretta serie di rego-
le (ad esempio, se sei una donna e desideri qualcosa parla con voce dolce, esitante e
languida) ma piuttosto un ampio numero di connessioni dalla differente forza tra uni-
Apprendimento tà che rappresentano sia aspetti del contesto (l’identità degli attori, lo scopo delle loro
di regole vs azioni, il contenuto del loro discorso), sia aspetti degli elementi paralinguistici e cine-
apprendimento sici che accompagnano il loro discorso. Tali connessioni multiple la mettono in condi-
di connessioni zione di rispondere con flessibilità a nuove situazioni che mostrino combinazioni di
aspetti di cui non abbia mai avuto esperienza in precedenza. Questo è esattamente ciò
che è accaduto a Paula, ad esempio, quando ha cambiato lavoro e ha scoperto che il
suo capo era una donna. Il contesto in cui rivolgeva la parola a una donna ha attivato
in Paula una certa serie di unità, mentre il contesto in cui doveva rivolgere la parola a
qualcuno che aveva del potere su di lei ne attivava un’altra serie, solo in parte sovrap-
ponibile alla precedente. Quando queste unità ne attivano simultaneamente altre an-
cora, la loro influenza combinata si definisce alla fine in una determinata risposta
piuttosto che in altre, suggerendo una modalità di reagire che venga sentita come giu-
sta da parte di Paula: uno stile vocale, posturale e gestuale che rappresenti un com-
promesso tra le maniere rispettose che riservava abitualmente a un uomo di autorità e
il contegno più rilassato e diretto che usava con le altre donne9.
Le In breve, gli schemi come sono costruiti nel modello connessionista sono bene
improvvisazioni appresi ma non impongono una struttura di comportamento invariabile. Si possono
regolate dagli adattare a situazioni nuove o ambigue mediante “improvvisazioni regolate” (utiliz-
schemi: l’habitus
zando la terminologia scelta da Bourdieu per designare l’azione sociale determinata
dalla rappresentazione cognitiva da lui chiamata “habitus”, 1972). Le risposte che
sono il prodotto delle reti connessioniste sono improvvisate perché vengono create
sul momento, ma sono regolate perché vengono guidate da strutture di associazioni
previamente apprese; non vengono improvvisate dal nulla.

Le implicazioni per una teoria della cultura


Conoscenza, Le osservazioni di Paula sulla madre in cucina non erano fredde e distaccate. Di
emozione, e quella situazione facevano parte determinati stati d’animo. Quando era giovane i
motivazione sentimenti erano di benessere e sicurezza per il fatto di essere accudita, ma crescen-
do è diventata sempre più consapevole che sua madre non amava essere confinata
in tal modo nella cucina. La reazione negativa di Paula si è manifestata in un’irrita-
L’importanza di zione verso la madre per non avere insistito per una diversa divisione dei lavori do-
emozioni e mestici. Col passare del tempo anche la sola vista della madre in cucina poteva infa-
motivazioni stidire Paula e ricordarle, allo stesso tempo, quanto importante sarebbe stato per lei
insistere per una differente divisione dei compiti domestici nel proprio futuro.
Chiaramente Paula ha appreso molto di più che semplici associazioni tra ele-
menti osservabili della sua esperienza da bambina: ha appreso anche associazioni
tra questi elementi osservabili e determinate emozioni. Queste emozioni, a loro vol-
ta, si connettono a certe motivazioni personali: in questo caso la determinazione a
non trovarsi a sua volta “prigioniera” in cucina. I teorici del connessionismo, la
maggior parte dei quali si è occupata esclusivamente del problema di fare agire in
modo intelligente dei computers, non si sono molto interessati a come spiegare le
emozioni e le motivazioni. D’altro canto i modelli connessionisti possono essere fa-
cilmente estesi per includerle.
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 353

Per compiere questa estensione dobbiamo assumere che anche gli stati interiori
soggettivi della volontà e dell’emozione, così come l’osservazione di proprietà del
mondo esterno, visibile, possono essere simulati come attivazione di unità. Tale as-
sunzione è plausibile alla luce di ciò che sappiamo della psicologia delle emozioni e
della motivazione10. Da questo assunto consegue che la rete associativa di Paula po-
trebbe giungere a rappresentare la madre come connessa alla cucina, a sensazioni di
fastidio e all’obiettivo di fare qualcosa di diverso. I suoi ricordi del giorno del Rin-
graziamento a casa dei suoi nonni, d’altro canto, sono soffusi del calore di una feli-
ce occasione libera dalle tensioni della casa dei genitori. Così Paula associa il giorno
del Ringraziamento non solo al tacchino, ai mirtilli e al ripieno, ma anche al calore,
a sensazioni di felicità e, nel presente, all’intenzione di ricreare quella esperienza
per i suoi figli.
Come possiamo aspettarci le reazioni di Paula di fronte a sua madre non si limi-
tano alle reazioni che nascono quando la madre si trova in cucina; sono parte di un
insieme di sentimenti che Paula associa a sua madre. Le esperienze con la madre, a
loro volta, fanno parte di un più ampio insieme di esperienze che ha portato Paula a
costruire delle forti associazioni tra un certo tipo di situazioni, il sentimento che es-
se richiamano e la sua disposizione a rispondere a queste in un certo modo. In altre
parole, lo stesso processo che abbiamo descritto, attraverso cui Paula si è formata
come una personalità storica e culturale, le ha anche dato forma in tutta la sua uni-
cità come Paula11.

Proprio come non tracciamo alcun confine netto tra il campo delle emozioni12 o Il detto
delle motivazioni e quello del pensiero, non ne prevediamo alcuno tra i campi del e il non-detto
detto e del non-detto. Se il parlare e il linguaggio sono parte della nostra esperien-
za, essi saranno rappresentati in reti cognitive come un ulteriore aspetto di quell’e-
sperienza; ma anche gli eventi non etichettati linguisticamente e non espressi posso-
no essere ugualmente rappresentati. Non sono necessari dei moduli separati per
queste esperienze diverse, che possono essere ugualmente incorporate in reti asso- Rappresentazioni
ciative, e non esiste certamente alcun motivo per presupporre un programma inter- del detto e del
non-detto, moduli
no di traduzione che converta l’esperienza grezza in proposizioni di un qualche lin- e reti associative
guaggio mentale (Fodor 1975).

Oltre alla loro forza motivazionale, di cui abbiamo già parlato, le conoscenze
Tendenze
culturali possiedono quattro ulteriori tendenze centripete. In primo luogo, le cono- centripete
scenze culturali possono essere relativamente persistenti negli individui. In secondo
luogo esse possono essere relativamente stabili dal punto di vista storico, essendo
riprodotte di generazione in generazione. Terzo, esse possono essere relativamente
tematiche, nel senso che certe conoscenze possono essere applicate ripetutamente
in una grande varietà di contesti. Infine, possono essere più o meno largamente
condivise; infatti, noi non definiamo una conoscenza come “culturale” se non è
condivisa, in larga misura, all’interno di un gruppo sociale. Le proprietà della men-
te che abbiamo descritto aiutano a spiegare queste quattro tendenze centripete.

Una parte delle ragioni per cui le conoscenze culturali sono durature e persi- Persistenza
stenti è che esse – e tutte le cose che vengono apprese – portano a dei cambiamen-
ti nella forza delle connessioni tra i neuroni che non possono essere sciolte facil-
mente. Le strutture di connessioni neurali possono essere soffocate da altre e più
forti, strutture di connessioni, ma esse – salvo un trauma cerebrale o un’altra pato-
logia – non spariscono mai completamente (si noti che questo aspetto della nostra
354 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

descrizione non deriva dal modello connessionista, ma riflette quello che sappiamo
del cervello).
Paula, ad esempio, può apprendere e rappresentare nuove conoscenze. Ora che è
adulta, lei e il marito, Michael, tentano di dividere equamente il lavoro in cucina. Ma
Paula sperimenta che se non compiono uno sforzo consapevole per fare altrimenti,
lei e Michael tendono a ricadere nei ruoli di genere che hanno osservato quando sta-
vano crescendo. Quando sono occupati nel ricevere ospiti, ad esempio, Paula tende
ad attardarsi in cucina mentre Michael chiacchiera con gli ospiti. Strutture cognitive
così forti non possono essere semplicemente cancellate e rimpiazzate da strutture al-
ternative. Queste conoscenze apprese nel profondo forniscono le interpretazioni e i
comportamenti che Paula mette in atto automaticamente: è necessario uno sforzo e
una rifessione intenzionale per attivare nuove strutture di comportamento.
Un’altra ragione della persistenza degli schemi è che essi tendono a essere auto-
rinforzanti. Per la maggior parte gli schemi dei bambini sono molto malleabili. Nel
corso dello sviluppo, comunque, riteniamo che alcuni di questi schemi diventino
sempre più profondamente stabiliti, assimilando le nuove esperienze nella struttura
Gli schemi si piuttosto che adattarsi a tali nuove esperienze. Questo processo può essere compre-
auto-rafforzano so connessionisticamente nel seguente modo: una volta che una rete di unità forte-
mente interconnesse è stata creata, completa le informazioni mancanti o ambigue
attivando tutte le unità in una rete interconnessa, anche quelle non direttamente sti-
molate dalla esperienza attuale. Fenomenologicamente, dovremmo aspettarci di
scoprire che qualche volta siamo portati a pensare di avere esperito tutti gli aspetti
dell’evento tipico quando invece sono presenti solo alcuni dei suoi aspetti (un risul-
tato che gli psicologi hanno dimostrato sperimentalmente, cfr. ad esempio Loftus
1979). Tale effetto rinforza le aspettative con cui siamo partiti.
Paula ha un collega al lavoro con cui è in pessimi rapporti. In passato egli l’ha
umiliata in modo più o meno diretto e Paula si aspetta che continuerà a comportar-
si in tal modo. Di conseguenza molti dei suoi commenti, anche quelli detti innocen-
temente, fanno scattare il suo schema “ecco-che-mi-umilia-ancora”, con il risultato
che Paula vede delle intenzioni non-innocenti in quei commenti. Per quel che la ri-
guarda, la sua esperienza contiene la ripetuta evidenza che questo suo collega la
guarda dall’alto in basso e ognuno di questi eventi non fa altro che rafforzare le as-
sociazioni con cui è partita.
Inoltre, schemi sociali negativi possono condurre a modelli di interazione sociale
Stereotipi che che non lasciano spazio a una loro messa in discussione. Poiché Paula è di razza
non sono
falsificabili bianca ed è cresciuta in una periferia borghese, ha avuto limitate esperienze di con-
tatti con afroamericani di città. Il suo stereotipo, preso dai media, è che gli afroame-
ricani poveri che vivono in città hanno molte probabilità di diventare dei criminali
violenti. L’ultima volta che è stata in una grande città Paula è stata avvicinata da un
afroamericano vestito in maniera trasandata. Qualcosa nel modo in cui la guardava
ha suscitato le associazioni cariche di paura di Paula che si è girata ed è corsa via. In
realtà a lui era sembrato che si fosse persa e l’aveva avvicinata per darle delle indica-
zioni. Per Paula, in ogni caso, l’esperienza ha rinforzato la connessione nella sua
mente tra afroamericani poveri e violenza, e ha in seguito riferito agli altri dell’inci-
dente come una prova del fatto che non sia più sicuro camminare in città.
Se Paula fosse rimasta un po’ più a lungo a parlare con quell’uomo, l’esperienza
positiva sarebbe stata ugualmente memorabile: gli schemi non funzionano come
barriere che impediscono ai segnali in entrata (inputs) di essere percepiti13. Un ac-
cadimento che non rientra in uno degli schemi esistenti può essere percepito in
quanto tale e può anche essere ricordato a lungo proprio perché sorprendente. Ma
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 355

è improbabile che gli incontri fugaci e superficiali riservino questo tipo di sorprese
rispetto alle interpretazioni esistenti. Incontri di questo tipo forniscono solo molte
informazioni ambigue o parziali, che vengono poi interpretate sulla base di aspetta-
tive precedentemente apprese e che rinforzano proprio tali aspettative. Ad esempio,
ci siamo preoccupate del fatto che anche solo presentando questo breve esempio di
finzione avremmo potuto rinforzare in alcune menti lo stereotipo che stavamo de-
scrivendo. Se abbiamo avuto questo effetto su un qualche lettore, allora significa
che non siamo riuscite a comunicare efficacemente la nostra argomentazione caute-
lativa riguardo al modo in cui gli stereotipi negativi possono persistere e anche raf-
forzarsi in assenza di un sostegno empirico.
Un ulteriore motivo per cui alcuni schemi culturali sono persistenti è che il risve-
glio di emozioni che si crea durante e dopo una esperienza rafforza le connessioni neu- Emozioni e
rali che derivano da quell’esperienza (W. J. Freeman 1991, pp. 81-82; Squire 1987, pp. rafforzamento
delle connessioni
39-55). Quindi, la rabbia di Paula nell’interazione con il suo collega, e la paura nell’in- neurali
cidente urbano, hanno alterato l’ambiente neurochimico in cui le relazioni tra i diversi
aspetti di quelle esperienze erano codificate per rendere le rappresentazioni mentali
più forti di quanto sarebbero state se lei non fosse stata così presa da ciò che stava os-
servando. Ogni volta che vede il proprio collega umiliarla, ad esempio, la sua rabbia si
risveglia per aumentare la forza delle associazioni che riporta da questo evento, ren-
dendo tali associazioni ancora più persistenti di quanto non sarebbero altrimenti.
Fino a ora abbiamo parlato di un apprendimento che avviene senza un insegna-
mento deliberato. Comunque, i bambini e altri novizi non apprendono ogni cosa Le forme di
insegnamento
senza alcun aiuto semplicemente osservando il modo in cui è strutturato il loro esplicito
mondo; spesso viene loro insegnato – in maniera assidua, in molti modi e in combi-
nazione con potenti incentivi e disincentivi. Paula, ad esempio, è tipicamente ameri-
cana nel credere all’importanza dell’autosufficienza (ad es. Bellah et al. 1985, pp.
55-65; Harkness, Super, Keefer 1992). Non è un caso che questo per lei sia un valo-
re duraturo. Non solo i suoi genitori hanno indottrinato lei e il fratello Daniel ri-
guardo all’importanza dell’autosufficienza, ma hanno anche aspettato che si allac-
ciassero da soli la scarpe, che sistemassero da soli le loro dispute, li hanno incorag-
giati a prendere da soli le loro decisioni e li hanno mandati a fare campeggio in mo- Il valore
do che si abituassero a vivere lontani da casa. Essi manifestavano la propria appro- dell’autosufficienza
vazione quando lei faceva qualcosa “tutto da sola!” e l’hanno dissuasa dal chiedere nella cultura
aiuto troppo spesso. Gli sforzi dei suoi genitori sono stati rafforzati da numerose americana
storie, discorsi e messaggi sulle virtù dell’autosufficienza che ha sentito quando era
più grande. Il risultato è che non solo Paula trova naturale avere fiducia in sé, ma in
molte situazioni vuole anche averla14. Questo truismo riguardo al modo in cui fun-
ziona la socializzazione nello stabilire schemi persistenti e pervaderli di motivazioni,
sfugge al resoconto dato da Bourdieu (1972) e altri che hanno lavorato sull’argo-
mento (ad esempio Ortner 1990; per una discussione più completa vedi Spiro
1987b e D’Andrade 1984). Nella nostra prospettiva connessionista, Paula ha co-
struito dei forti legami tra certi tipi di situazione e sentimenti e motivazioni a essi
associati. Le nuove situazioni che incontra, simili alle precedenti attraverso cui ave-
va appreso la propria autosufficienza, risvegliano quei sentimenti che creano poi un
contesto neurochimico in cui successi e fallimenti recenti della sua autosufficienza
sono per lei particolarmente degni di nota.
Ma resta qualcosa da aggiungere alla nostra storia. I genitori di Paula erano al-
trettanto attenti a insegnare a lei e al fratello una corretta igiene quanto lo erano
nell’infondere loro un senso di autosufficienza, ed entrambe le lezioni hanno avuto
effetto. Comunque, quando promuovevano l’igiene sulla base pragmatica della salu-
356 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

Gli schemi della te e dall’accettazione sociale, i suoi genitori davano un particolare significato al sen-
socializzazione e so di autosufficienza che non davano invece a quello di pulizia. Paula ha appreso
legami con non solo a voler avere stima di sé, ma anche a pensare a sé come a una persona mo-
situazioni e
motivazioni
dello per il fatto di essere tale (e a pensarsi come una persona fallita per non riu-
scire a essere tale). L’associazione tra l’autosufficienza e un dato ideale di persona
rende Paula contenta di sé ogni volta che è autosufficiente e questa sensazione posi-
tiva riguardo a se stessa agisce come un’auto-ricompensa, che rafforza ogni nuova
esperienza di autosufficienza e rende la sua motivazione a essere autosufficiente an-
cor più persistente di quanto non lo sarebbe altrimenti (per una argomentazione si-
mile vedi Spiro 1987b).

Stabilità storica La persistenza degli schemi per gli individui ha degli effetti sulla loro stabilità
storica, vale a dire sulla loro riproduzione di generazione in generazione. Prima di
tutto, quando le persone mettono in atto le strutture che hanno appreso, ricreano il
mondo pubblico fatto di oggetti e eventi da cui impara la generazione successiva.
Ad esempio, quando Paula e Michael ricadono nei ruoli di genere che hanno ap-
preso crescendo, il loro comportamento diventa parte del mondo osservabile che
dà forma agli schemi dei loro figli. Inoltre, le persone agiscono intenzionalmente
per trasmettere valori che reputano importanti, inclusi in particolare quei valori che
giudicano essenziali per essere una persona esemplare. Poiché Paula e Michael sono
stati abituati a valutare positivamente l’autosufficienza in se stessi e negli altri, essi
trasmettono tale valore ai loro figli, spesso attraverso pratiche educative simili a
quelle con cui si è sviluppato in loro un senso di autosufficienza. Al contrario, Pau-
la è meno attenta di quanto lo fossero i suoi genitori nell’insegnare ai figli ad essere
puliti; non essendo associata all’idea che possiede riguardo all’essere una buona
Persistenza di
conoscenze
persona, la pulizia le sembra essere meno necessaria e pensa che la madre l’abbia
culturali, forze eccessivamente enfatizzata. Conoscenze come quelle che Paula possiede riguardo
sociali e alla pulizia personale sono maggiormente soggette a sparire da una generazione al-
motivazioni l’altra rispetto a idee come quella che lei possiede sull’autosufficienza. Naturalmen-
te la persistenza delle conoscenze culturali è basata anche su forze sociali, come l’a-
zione del potere e l’inerzia delle istituzioni, ma la storia cognitivo-motivazionale che
abbiamo delineato non può essere ignorata in quanto parte della teoria della ripro-
duzione sociale.

Tematicità Questo punto ci porta a un altro aspetto del carattere centripeto della cultura: la
tendenza di alcuni schemi a essere evocati in una ampia varietà di contesti, come
nel caso dei complessi di conoscenze sull’onore nell’area mediterranea, sulla purez-
za e la contaminazione in India, o sull’autosufficienza negli Stati Uniti.
Dato che Paula e Michael dicono “per favore, cerca di farlo da solo” quasi tutte
le volte che i loro bambini chiedono aiuto (a meno che l’ostacolo non consista in
qualcosa che evidentemente i bambini non sono in grado di superare), i loro figli
Estensione degli
schemi a una sono giunti ad associare tanti differenti tipi di ostacolo con l’aspettativa di superarli
varietà di contesti da soli. Comunque, questo non significa che nel futuro tale aspettativa sarà attivata
solo da situazioni che siano esattamente le stesse che i bambini hanno incontrato
nel passato. Come abbiamo detto in precedenza, gli schemi che vengono concettua-
lizzati nel modello connessionista non sono strutture rigide composte da regole de-
finite di applicabilità ma sono invece strutture aperte di associazioni. Le nuove
esperienze evocano un’interpretazione basata su una somiglianza complessiva fra gli
aspetti dell’attuale esperienza e combinazioni ripetute o particolarmente memorabi-
li di aspetti comuni a esperienze anteriori. In tal modo, nel futuro, ogni nuovo osta-
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 357

colo che i bambini di Paula e Michael incontreranno evocherà l’aspettativa da loro La natura
dell’“ethos”
determinata del “fallo da solo” che possiede un certo tipo di “somiglianza di fami-
glia” con precedenti occasioni in cui loro stessi hanno appreso a fare da soli15.
Schemi come questi sull’autosufficienza possono diffondersi abbastanza ampiamen-
te in un insieme di esperienze, dando a osservatori esterni il fondamento per descri-
zioni del “carattere nazionale” o dell’“ethos” di un popolo.
Inoltre, esiste un complesso meccanismo di interrelazione tra le proprietà del
mondo culturalmente dato e le proprietà della mente. Dato che Paula, Michael e i
loro bambini sono giunti a ritenere naturale e desiderabile l’essere autosufficienti,
essi avranno una “affinità elettiva” (Weber 1915) per nuovi prodotti (ad es. cibi per
bambini riscaldabili nel forno a microonde), storie (ad es. il film Mamma, ho perso
l’aereo), aspetti retorici (ad es. gli inviti a ridurre la “dipendenza” dal benessere) e
altre cose simili che si addicono a queste conoscenze. Se molte persone condivido-
no tali conoscenze riguardo all’autosufficienza, questi nuovi discorsi pubblici, que-
ste storie, questi prodotti, “venderanno” bene. Questa risposta popolare, a propria
volta, darà indicazioni ai diversi poteri futuri riguardo alle politiche e ai prodotti
per il mercato e ai modi per venderli, ridefinendo il panorama degli oggetti e degli
eventi pubblici da cui apprendere ulteriori associazioni cognitive.

L’interrelazione tra il mondo pubblico e le psicologie private è utile anche per Condivisione
spiegare perché certi schemi siano così largamente condivisi in una società. Non è
necessario che due persone abbiano avuto esattamente le stesse esperienze (e mai
due persone le avranno) perché giungano ad avere alcuni degli stessi schemi. Se-
condo i modelli connessionisti le strutture di associazioni di elementi più frequen-
temente rappresentate vengono interiorizzate come connessioni forti, mentre le
variazioni casuali sono rappresentate da connessioni più deboli che hanno molto
meno effetto sull’elaborazione cognitiva (tralasciando gli effetti della modulazio-
ne emozionale, che per il momento ignoreremo). Quindi, nell’apprendere il mo-
dello culturale secondo cui l’autosufficienza è una cosa positiva, non importa se
L’interrelazione
Paula abbia acquisito tale conoscenza da un insegnamento dei genitori A, da una fra universo
esperienza B, da un film C, mentre Michael l’abbia appresa da una differente ti- pubblico e
pologia di esperienze. Dato che entrambi gli insiemi di inputs manifestano le stes- psicologie
se strutture generali di elementi associati, tale struttura è rappresentata da unità private
strettamente interconnesse in ciascuna delle proprie reti cognitive.
Il mondo è organizzato quasi nella sua totalità esattamente in modo da assicu-
rare che persone dello stesso ambiente sociale abbiano in comune le stesse espe-
rienze. Questa strutturazione modale è una caratteristica assai pervasiva della vita
sociale dell’uomo, un requisito di molte delle pratiche attraverso cui le persone in- La strutturazione
modale delle
teragiscono, coordinano attività comuni e collaborano a iniziative comuni (D’An- esperienze
drade 1987, 1989). Per citare un esempio banale ma non irrilevante, Paula e le sue
amiche che hanno bambini e milioni di altre madri di periferia si trovano coinvolte
nell’esperienza comune di continui spostamenti in automobile dovuti all’organiz-
zazione delle attività dei bambini di classe borghese, unita alla disposizione delle
abitazioni in periferia e all’importanza che ha acquistato l’automobile negli Stati
Uniti a partire dalla metà del secolo scorso. Un’altra fonte di strutture condivise ri-
siede negli eventi e nelle tendenze storiche che agiscono su moltitudini di indivi-
dui. La madre di Paula non è certo la sola donna della sua generazione ad avere ri-
sentito della divisione delle occupazioni domestiche fondate sul genere, né Paula è
stata l’unica figlia di una donna simile a decidere che avrebbe organizzato la pro-
pria vita in modo diverso.
358 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

Non dobbiamo dimenticare che la strutturazione modale dell’esperienza è un


Il ruolo
del potere
sottoprodotto non solo di movimenti sociali, come ad esempio il femminismo, ma
delle forze sociali anche di imposizioni del potere dall’alto: la partecipazione a certe istituzioni e la
condivisione di certe ideologie vengono incentivate perché giocano a favore del-
l’interesse di persone che detengono posizioni di potere; di conseguenza non tutte
le politiche e i prodotti hanno la possibilità di essere “scelti” o “acquistati”16. La
nostra spiegazione cognitiva della condivisione culturale, così come le nostre spie-
gazioni di altri aspetti centripeti della cultura, non escludono le forze sociali; al
contrario, riteniamo che le forze cognitive e sociali interagiscano nel determinare
le dinamiche culturali.

L’ultimo paragrafo può avere dato l’impressione che la nostra teoria cognitiva
presagisca l’uniformità delle conoscenze culturali all’interno di una società, una te-
Tendenze maticità incontrollata e una assenza di cambiamenti negli individui e in più ampi
centrifughe gruppi storici. Questo non è vero. Lo stesso modello cognitivo aiuta a spiegare per-
ché Paula non mette in atto continuamente una ristretta, inalterata serie di schemi,
perché le sue conoscenze culturali siano diverse da quelle di molte altre persone
cresciute nelle medesime circostanze e nello stesso periodo, e perché i suoi bambini
non siano obbligati ad acquisire e a mettere in atto schemi che siano esattamente gli
stessi di Paula. Sebbene non ci voglia molto a convincere un pubblico di antropolo-
gi contemporanei dell’esistenza di queste tendenze centrifughe, è importante per la
teoria unificata della cultura che stiamo presentando che il medesimo modello pos-
sa spiegare anche queste forze.

Come abbiamo già sottolineato, gli schemi culturali non differiscono in nulla da
L’impatto altri schemi se non nel fatto di essere condivisi. Gli schemi appartenenti solo ad un
dell’esperienza
individuo sono costruiti a partire da esperienze idiosincratiche, mentre quelli con-
divisi vengono costruiti partendo da diverse tipologie di esperienze comuni. Alcuni
schemi sono senza dubbio posseduti in comune da milioni di persone, condivisi da
ogni persona che sia cresciuta e abbia vissuto la propria esistenza di adulto in uno
Stato-nazione, con la sua influenza egemonica e la sua capacità di diffondere gli
eventi popolari fino ai limiti estremi dei suoi confini. Altri schemi sono condivisi so-
lo da alcuni individui – ad esempio, dai sottogruppi che si formano delle sottocultu-
re autocoscienti o da individui a cui è capitato di condividere esperienze simili, o
Gradi di ancora specialisti che abbiano compiuto lo stesso percorso di apprendimento. A
condivisione quale punto del continuum di ciò che è condiviso decidiamo di definire un dato
degli schemi schema come “culturale”, è semplicemente questione di scelta: possiamo parlare,
volendo, della “cultura” di una famiglia o di un luogo di lavoro, di “alta cultura”, o
ancora di una “tematica sottoculturale”. I modelli culturali sono nella testa delle
persone, ma un preciso modello culturale non deve essere nella testa di tutti. Dato
che i sottogruppi – come quello della famiglia, i gruppi fondati sul genere, sulla re-
gione, le minoranze etniche o i gruppi che condividono l’identità storica – si inter-
secano l’un l’altro, un individuo può condividere gli schemi con tanti gruppi diffe-
Distribuzione
differenziata renti di altri individui quanti sono quelli cui si sente affiliato – ma al tempo stesso
degli schemi può non condividere tali schemi con nessun membro specifico di questi gruppi.
Questo modo di pensare la cultura come un insieme di conoscenze o di schemi cul-
turali distribuiti in maniera differenziata, ci sembra dare ragione della condivisione
culturale che avviene senza reificare la cultura come un’entità delimitata.
Una delle principali conseguenze dei modelli connessionisti è che pongono la
questione di quello che – precisamente – le persone esperiscono. Sia Paula che Mi-
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 359

chael hanno appreso le virtù dell’autosufficienza da bambini, ma esistono delle dif-


ferenze nella specificità degli schemi che hanno acquisito. Michael, ad esempio, non
ha imparato ad associare l’autosufficienza con l’essere capace di rammendare da so-
lo i propri abiti, mentre Paula lo ha fatto e, come vedremo, Paula non ha imparato
ad associare l’autosufficienza con l’essere in grado di fare riparazioni domestiche,
mentre Michael lo ha fatto. Allora, mentre è vero che Paula e Michael condividono
una conoscenza generale riguardo l’importanza dell’autosufficienza, esistono molti
aspetti specifici in cui i loro schemi si differenziano.
Le conoscenze di Paula e Michael sono diverse anche da quelle dei loro figli,
La diversificazione
perché questi sono cresciuti osservando delle strutture di comportamento già diver- degli schemi e
se: non solo i momenti in cui Paula e Michael ricadevano nei vecchi ruoli di genere l’influsso dei media
ma anche i momenti in cui avevano condiviso i lavori domestici più equamente. I
comportamenti che richiedono a Paula e Michael uno sforzo deliberato configure-
ranno ciò che per i loro figli verrà dato per scontato (comunque gli schemi dei bam-
bini sono configurati anche dai comportamenti che imparano in altre case e dai li-
bri, dalla televisione, dal cinema, e così via. Nella misura in cui questi altri compor-
tamenti tendono verso le mode o idealizzano il passato, le conoscenze dei bambini
di Paula e Michael si avvicinano sempre più a quelle che loro ritengono tradiziona-
li, più di quanto non si aspettino; cfr. Weisner 1990). Quando questa generazione
raggiungerà i trent’anni, i quaranta o i cinquanta, le loro idee su ciò che è naturale e
desiderabile daranno ulteriormente forma ai simboli e alle istituzioni pubbliche da
cui ancora un’altra generazione acquisirà i propri schemi.
Ciò che risulta decisivo non è la quantità netta di rappresentazioni di interpreta-
zioni tradizionali o non-tradizionali dei ruoli di genere a cui i bambini di Paula ven-
gono esposti. Nell’ultimo paragrafo abbiamo analizzato in dettaglio l’opprimente
influsso combinato di differenti media che presentano lo stesso messaggio. Ora
dobbiamo aggiungere l’avvertimento che le rappresentazioni mentali delle persone
non sempre riprendono le associazioni più frequentemente presentate nel loro am-
biente (per alcuni esempi vedi Strauss, Quinn 1992). A causa dei processi neurochi-
mici, di cui abbiamo detto in precedenza, le emozioni e le motivazioni di chi ap- Emozioni e
prende determinano una differenza nel modo in cui gli eventi vengono pensati. apprendimento
Questo può avere degli effetti centripeti, come abbiamo visto nell’esempio dell’au-
tosufficienza. È anche possibile, comunque, che le emozioni e le motivazioni giochi-
no un ruolo centrifugo nell’apprendimento, poiché due individui possono essere
esposti alla stessa informazione, ma esserne diversamente interessati e quindi inte-
riorizzarla in maniera differente17. Ad esempio, il fratello di Paula, Daniel, ha avuto
le medesime occasioni della sorella di osservare la madre quando crescevano. Co-
munque, dato che la felicità delle madri nelle cucine non lo interessava particolar-
mente, le associazioni mentali che si era formato su di lei in quel contesto non erano
così forti come quelle di Paula che è stata influenzata da differenti ricordi della ma-
dre, emotivamente più importanti.
Paula non è solo diversa da Michael e dai suoi figli, ma non è sempre coerente
negli stessi schemi che mette in atto. Il suo schema dell’autosufficienza, ad esem-
pio, non è una regola che l’aiuta a superare tutti gli ostacoli da sola. Al contrario,
Paula possiede tracce di ricordi delle molte situazioni in cui ci si attendeva da lei
che facesse da sé, e di conseguenza trova naturale e desiderabile essere autosuffi-
ciente in situazioni simili a quelle. Comunque ha anche appreso, mentre cresceva,
che c’erano occasioni in cui nessuno si attendeva che una donna risultasse autosuf-
ficiente: ad esempio la ruota a terra di una automobile o un rubinetto che perde.
Infatti, da quanto può aver visto attraverso esempi reali e di finzione, le cose vanno
360 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

bene se in queste situazioni le donne si dimostrano bisognose di aiuto. Oggigiorno,


quando l’automobile di Paula ha una ruota a terra o un rubinetto perde o si trova
“Incapsulamento” di fronte a un qualche altro ostacolo da superare che lei collega ad attività pesanti,
e assenza di
conflitto tra sporche, “maschili”, le sembra naturale lasciare che sia Michael a occuparsene.
conoscenze A un osservatore il comportamento di Paula può sembrare incoerente. Paula è in-
consapevole di tale incoerenza, perché la sua conoscenza circa l’autosufficienza e
la necessità di aiuto delle donne sono rappresentate in diverse parti della sua vasta
rete neurale e vengono attivate in diversi generi di contesti, di modo che raramen-
te si vengono a trovare in conflitto in una determinata situazione18. (Cfr. Strauss,
Quinn 1992 e Strauss 1990 per altri esempi di questo “incapsulamento” o “conte-
nimento”).
Inoltre, come abbiamo spiegato usando l’esempio dell’interazione di Paula con
un capo-donna, anche schemi appresi in maniera profonda non determinano una
risposta invariabile, perché la risposta che viene suggerita dipende da tutti gli aspet-
ti di una determinata situazione. Quando cambiano le parole di Paula, non cambia-
no solo alcuni suoi schemi, ma anche le sue associazioni più resistenti e durevoli si
adattano combinandosi in modi nuovi con altre associazioni, per dar vita a risposte
innovative.

Le possibilità di innovazione di Paula non sono limitate a nuove combinazioni


Sforzo deliberato
di vecchie associazioni. Abbiamo sottolineato in precedenza in questo saggio che,
facendo uno sforzo deliberato e consapevole, Paula e Michael possono mettere in
atto strutture di comportamento che non sono quelle che vengono automaticamen-
te in mente, data la loro esperienza da bambini. Questo sforzo deliberato è un
esempio di ciò che alcuni psicologi cognitivisti chiamano un processo “controllato”,
per distinguerlo da quelli “automatici”, che si danno involontariamente (Schneider,
Shiffrin 1977; Shiffrin, Shneider 1977). Le associazioni forti e apprese in profondità
determinano risposte automatiche, ma queste risposte possono essere soffocate me-
diante un controllo cosciente.
Qualche volta decisioni deliberate come queste portano al cambiamento sociale,
in funzione dell’ampiezza delle forze sociali che determinano l’efficacia delle azioni
Processi individuali. Comunque, spesso le persone si applicano in uno sforzo deliberato per
“controllati” di realizzare fini socialmente valorizzati e accettati. In ogni caso, ci aspetteremmo che
comportamento sforzi cognitivi deliberati siano più spesso alimentati da schemi appresi in maniera
approfondita piuttosto che da un entusiasmo momentaneo. In un altro esempio da-
to in precedenza, abbiamo sottolineato come non sia sufficiente spiegare la decisio-
ne di Paula di condividere equamente il cucinare con Michael come il risultato de-
gli articoli che ha letto di recente sulla rivista «Ms». Gli attuali messaggi femministi
non vengono a imprimersi su una totale tabula rasa ma fanno presa su Paula come
conseguenza di una serie di associazioni apprese, emozionalmente e motivazional-
L’interrelazione
fra intenzioni e
mente caricate, che si porta dietro dal proprio passato, come ad esempio le sue pri-
schemi me esperienze riguardo all’infelicità della madre e l’ambivalenza nei confronti dei
lavori domestici. In altri termini, non abbiamo la necessità di scegliere tra teorie che
riconoscano l’intenzione e l’iniziativa degli attori e teorie che si incentrano sul ruolo
svolto da schemi culturali persistenti e condivisi: le intenzioni si basano su schemi.
La teoria cognitiva che abbiamo delineato mostra non solo il perché, ma il come.

La cultura come fatto pubblico e privato


Una teoria cognitiva, da sola, non è sufficiente a spiegare sia la stabilità che il
cambiamento culturale. D’altro canto, questa spiegazione è certo una parte neces-
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 361

saria di qualsiasi teoria come questa, ed è stata trascurata dal discorso antropologi- Il dualismo
individuale
co dominante. Questa “distrazione” – che è, in verità, una “cancellazione” attiva – collettivo e la
risulta dalla convergenza di alcune correnti storiche. Essa discende naturalmente natura di stabilità
dal dualismo fra ciò che è individuale e ciò che è collettivo: tale dualismo è parte e mutamento
della nostra eredità e fissa i moderni confini della disciplina, definendo un campo
che antropologi e sociologi difendono dalle incursioni di psicologi e biologi. Nel
passato recente della nostra disciplina, questa necessità di contrassegnare i confini
del campo di studi è emersa in particolare nell’antropologia simbolica di autorevo-
li studiosi come Schneider (1968) e Geertz (1973). Così Geertz dice della cultura
che “benché comprenda il mondo delle idee non esiste nella testa di nessuno”
(1973, p. 47). La corrente di pensiero che divide l’individuale dal sociale si unisce
a volte con un’altra, che vanta anch’essa una tradizione nella filosofia occidentale e
nella teoria popolare: il sospetto nei confronti di entità particolari come il pensiero
e i sentimenti di un altro, che non possono essere visti né toccati con mano. Que-
sta tendenza comportamentista può essere stato un altro fattore alla base della pre-
ferenza manifestata da Geertz per le analisi delle “superfici solide della vita”
(Geertz 1973, p. 62), invece che di qualcosa presumibilmente più inconsistente,
come le idee e i sentimenti, che si trova al di là della superficie19.
Più di recente, una nuova generazione di antropologi culturali ha fortemente
criticato l’antropologia simbolica per la sua caratterizzazione della cultura e special- L’antropologia
simbolica e il
mente delle culture non europee, come immutabili e monolitiche. Ora ci si interes- rifiuto del
sa delle forme incoerenti e mutevoli che la cultura può assumere. L’ironia della si- “privato”
tuazione consiste nel fatto che non mettendo in questione il rifiuto da parte degli
antropologi simbolici del lato privato e psicologico della cultura, la nuova genera-
zione si trova senza una teoria convincente sia della stabilità che del mutamento.
Come possono inventare, negoziare e contestare i loro mondi culturali senza avere
interiorizzato dei motivi per farlo? E i motivi non cambiano da momento a momen-
to: nella sua forma più assurda questa prospettiva rende il cambiamento culturale I limiti di una
non molto differente da un cambio d’abito. definizione di
È ora di confrontarsi con la contraddizione presente nella definizione di cultu- cultura che
ra che abbiamo ereditato, intesa come insieme di ciò che è significativo, simboli- dimentica il
privato e lo
co, rilevante, concettuale e ideativo, ma non per opporla a un’altra definizione psicologico
particolare; questa contraddizione infatti ha causato una distorsione nell’analisi,
imponendo gravosi giri di parole al linguaggio analitico di moltissimi antropologi
nel corso degli ultimi due decenni. È ora di rimettere in discussione l’idea di cul-
tura come qualcosa di creato, negoziato e contestato da attori umani stranamente La duplice natura,
privata e
privi di qualunque obiettivo di lungo periodo al di là dei loro sforzi creativi e tra- pubblica, della
sformativi. È ora di dire che la cultura è sia pubblica sia privata, e si trova sia nel cultura
mondo che nella mente delle persone20. Se la conoscenza viene ricondotta ai pro-
cessi sociali, possiamo meglio dar conto di ciò che abbiamo appreso sulla cultura
fino a ora e iniziare ad approfondire la comprensione dei problemi che ancora ci
sfuggono.

* Una prima versione di questo testo era stata preparata per la sessione a invito intitolata “Assessing Developments
in Anthropology” organizzata da Robert Borofsky per l’87° convegno annuale dell’American Anthropological Associa-
tion tenutosi a Washington D.C. nel novembre 1989. Siamo grate a Robert Borofsky per i suoi commenti sulla prima
stesura e per la sua pazienza mentre ne svolgevamo la revisione in vista della pubblicazione. Il nostro ringraziamento va
inoltre a Harriet Whitehead per l’attenta lettura e gli utili commenti a questa prima versione, a Jane Hill che ha letto e
discusso una versione più estesa del testo (Quinn e Strauss, in preparazione) oltre che a Dorothy Holland per le frut-
tuose discussioni su argomenti legati a questo saggio.
362 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

1 Un’altra teorica della cultura legata a Bourdieu, Sherry Ortner (1990) ha discusso alcune questioni simili a quelle

che solleviamo in questo lavoro, e ha proposto una soluzione che si basa sul concetto di “schema”, un termine utilizza-
to anche da noi. La formulazione di Ortner differisce dalla nostra, comunque, dal momento che i suoi schemi non sono
fondati su una teoria cognitiva. Poiché si tratta di un tentativo intelligente, le cui conclusioni sono giunte fino a dov’era
possibile muovendo da un approccio non cognitivista, il lavoro di Ortner evidenzia l’impasse cui giunge la teoria non
cognitivista della cultura.
2 Diversamente, almeno, dal Bourdieu di Esquisse d’une théorie de la pratique (1972). Le sue posizioni sono infatti

un po’ cambiate in Ragioni Pratiche (1982 [1980]).


3 Per una descrizione di un modello culturale persistente e ampiamente condiviso negli Stati Uniti vedi, ad esem-

pio, Quinn (1987, 1991).


4 Non siamo le uniche a prendere in esame tale distinzione. Cfr., ad esempio, Comaroff, Comaroff (1989).
5 Casson (1983) fornisce una buona rassegna della teoria dello schema e delle sue applicazioni nell’antropologia cultu-

rale, almeno per come è stata intesa dalle scienze cognitive e dall’antropologia cognitiva degli anni Settanta e dei primi anni
Ottanta.
6 Kant (1781) ha usato il termine “schema” per riferirsi a rappresentazioni mentali che guidano l’applicazione del-

le categorie a priori a una particolare esperienza. Piaget (1936) ha usato lo stesso termine per riferirsi alle strutture co-
gnitive apprese e in continua trasformazione, che mediano la conoscenza del mondo da parte dei bambini (e degli adul-
ti). Cfr. anche Bartlett (1932).
7 Queste teorie vengono identificate con nomi diversi: “elaborazione distribuita in parallelo”, “teoria delle reti

neurali” e “darwinismo neurale”. “Connessionismo” è tuttavia il termine generale usato per designarle. Sebbene i mo-
delli connessionisti proposti da diversi ricercatori differiscano tra loro, condividono un nucleo di assunti abbastanza ra-
dicali se confrontati con le prospettive presenti nei primi lavori delle scienze cognitive. La descrizione che ne diamo ha
subito l’influsso di un particolare approccio, quello della elaborazione distribuita in parallelo (Rumelhart, McClelland,
PDP Research Group 1986; McClelland, Rumelhart, PDP Research Group 1986; Smolensky 1988), ma il suo intento è di
affrontare gli aspetti condivisi dall’intera classe di modelli, con qualche modifica.
8 Questa regola di apprendimento è stata proposta da Hebb ed è stata in seguito confermata sperimentalmente

(vedi la discussione in Carlson 1986; Freeman 1991).


9 Vi sono anche altri aspetti della situazione che è possibile considerare rilevanti. Ad esempio, Paula si ritrova a

paragonare il suo capo con sua madre, che ha all’incirca la stessa età, e le sue reazioni nei confronti della prima sono in-
fluenzate dalle reazioni apprese nei confronti della seconda. Nel seguito del saggio, discuteremo l’atteggiamento di Pau-
la nei confronti della madre.
10 Quando proviamo un sentimento, può darsi che accada qualcosa di più di un’attivazione di neuroni – forse al-

cuni ormoni vengono rilasciati dagli attivatori neurali – ma ogni meccanismo di questo tipo è compatibile con questo
modello. Tale questione verrà discussa con maggiore ampiezza in una monografia in corso di stampa, intitolata Mind in
Society/Society in Mind, che Strauss sta scrivendo con Dorothy Holland.
11 Alcuni processi psicodinamici possono essere incorporati in un modello connessionista, se assumiamo che que-

ste prime esperienze tendono a essere collegate a forti sentimenti correlati alla sopravvivenza e alla sicurezza, e che for-
ti inibizioni possono svilupparsi ad ogni età per evitare che il ricordo di eventi traumatici diventi cosciente. Il secondo
tipo di conoscenza può essere inconscio, perché è parte di una rete associativa collegata agli attivatori neuronali di forti
sensazioni di ansia. Cfr. Kandel (1983) per un’analisi del meccanismo neurale soggiacente all’ansia conscia, cui segue il
tentativo di evitare stimoli di dolore. Si noti che la conoscenza inconscia deve essere distinta dalla conoscenza che sem-
plicemente rimane sullo sfondo della coscienza, perché parte di procedure d’azione non problematiche. Bourdieu
(1972) tende a confondere le due forme di conoscenza non-coscienti.
12 Il termine “emozione” include generalmente – e così lo useremo in questa sede – non solo le sensazioni soggetti-

ve di rabbia, gioia, dolore e simili, ma anche gli schemi appresi che possono essere connessi a tali sensazioni (ad es.
schemi per le circostanze in cui tali sensazioni sono abitualmente evocate e le modalità corrette di manifestarli e di do-
minarli) così come i correlati fisiologici di tali sensazioni (ad es. accelerazione del battito e sudorazione delle mani).
13 Gli antropologi, seguendo una tradizione di determinismo linguistico di ispirazione whorfiana, considerano di

solito i concetti culturali come delle barriere. Gli antropologi contemporanei tendono ad assimilare l’idea di schema a
una posizione di estremo relativismo epistemologico, in cui la concezione culturale delle cose esclude modi alternativi
di percepirle. In ogni caso, gli schemi non funzionano in questo modo (Alba, Hasher 1983).
14 Per un esempio particolarmente chiaro di questo processo di trasmissione in un altro contesto culturale vedi

Lutz (1983, 1987).


15 L’uso della terminologia di Wittgenstein (1995) è deliberato. La sua analisi delle somiglianze di famiglia dei con-

cetti si adatta bene al modello connessionista.


16 Questa è naturalmente una critica comune della, peraltro interessante, analisi di Weber.
17 Le contrastanti autobiografie di Clifton Taulbert (1989) e Anne Moody (1968) offrono esempi lampanti di diffe-

renti associazioni create da persone cresciute in circostanze simili, nella stessa area e nello stesso periodo. Taulbert
(1989, pp. 144-146) e Moody (1968, p. 129), ad esempio, descrivono in maniera assai diversa il modo in cui ci si aspet-
tava che i neri si comportassero nei confronti dei bianchi nello Stato del Mississippi negli anni Cinquanta. Taulbert in-
fatti si fa vanto delle sue capacità “diplomatiche” per tirare avanti, mentre Moody se la prende proprio con quei neri
che, come Taulbert, utilizzavano questa strategia.
18 Tali possibilità spiegano perché l’attribuzione di personalità a individui o a culture di solito sovrastima la predi-

cibilità e coerenza degli individui o dei gruppi di individui così tipicizzati.


19 Infatti l’importante saggio di Geertz “Verso una teoria interpretativa della cultura” (in Interpretazione di culture,

1973, pp. 39-71), è basato in modo determinante sulla filosofia fortemente antimentalista di Gilbert Ryle. Cfr. Strauss
(1992) per un’analisi più dettagliata di quel saggio.
20 Non siamo né le sole, né le prime ad affermare questo. Cfr. ad es. D’Andrade (1984); Bloch (1985a); Spiro

(1987); Shore (1991).


UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 363

Biografie intellettuali

Claudia R. Strauss insegna antropologia culturale alla Duke University. La sua


prima ricerca è stata sugli atteggiamenti sociali e politici di alcuni dipendenti e del-
la popolazione vicina a un discusso impianto chimico nel New England; ha anche
svolto una ricerca di archivio in India sulla proprietà terriera nel diciottesimo seco-
lo. Ha ricevuto lo Stirling Award per l’anno 1983 in antropologia psicologica ed è
co-curatrice (con Roy D’Andrade) del volume Human Motives and Cultural Models.
Ha scritto inoltre il saggio Who Gets Ahead? Cognitive Responses to Heteroglossia
in American Political Culture, ed è coautrice (con Dorothy Holland) di una mono-
grafia in corso di stampa, Mind in Society/Society in Mind: A Critical Anthropology
of Cognition.

Ho scelto di occuparmi di antropologia perché di tutte le scienze sociali, è la più


olistica e la più ricettiva nei confronti di teorie e metodi differenti. Come studente
all’Università di Rochester e alla Brown University, il mio interesse principale era la
filosofia; in seguito mi sono interessata in prevalenza ai fattori che danno forma alle
prospettive sociali – problema ancora oggi al centro delle mie ricerche.
Bill Beeman e Marida Hollos del Dipartimento di Antropologia della Brown
University mi hanno dato una formazione di base in antropologia psicologica e lin-
guistica e mi hanno incoraggiata. Poiché ero moglie di un professore della Brown,
ho scelto di fare il dottorato lì vicino. Ho scelto Harvard, in parte perché nel suo
passato recente c’era un dottorato in Relazioni Sociali (in cui confluivano sociolo-
gia, psicologia e antropologia sociale). Sebbene il corso di Relazioni Sociali fosse
stato cancellato nei primi anni Settanta, pensavo che il suo spirito interdisciplinare
fosse ancora vivo.
Mi sbagliavo: quando giunsi lì, nel 1976, tutto quello che rimaneva di Relazioni
Sociali era l’ubicazione dei tre dipartimenti citati nel medesimo edificio, il William
James. Inoltre, lo spirito dominante in antropologia sociale era decisamente antipsi-
colinguistico. John Whiting era diventato una voce minoritaria nel dipartimento e,
in ogni caso, andò in pensione poco dopo che io avevo iniziato il mio lavoro di dot-
torato. I nostri studi si fondavano soprattutto sulle tradizioni francese e inglese, in
particolare lo strutturalismo di Lévi-Strauss; gli approcci antropologici americani
(non solo in antropologia psicologica, ma anche in antropologia linguistica ed eco-
logia culturale) erano completamente assenti dal nostro curriculum. Il dipartimento
non era quindi particolarmente in sintonia con i miei interessi.
Nei suoi settori di specializzazione, comunque, il programma di studi era eccel-
lente. Da David Maybury-Lewis, da Nur Yalman e Michael Fischer ho acquisito so-
lide basi sulle opere di Marx, Weber e Durkheim. Il loro influsso è ancora presente
nella mia ricerca, in cui la teoria cognitivista e i metodi della linguistica sono appli-
cati a classiche tematiche di Marx e alla sociologia della conoscenza di Weber. L’ar-
rivo di Stanley Tambiah al dipartimento fu una vera fortuna: sia le sue ricerche che
i temi dei corsi da lui tenuti (dalla magia alla scienza e alla religione, fino all’antro-
pologia economica) mi hanno mostrato come riuscire a combinare approcci mate-
rialisti e idealisti. Infine ero in compagnia di bravissimi studenti, coi quali ho potu-
to discutere con interesse i temi sollevati durante le lezioni. Per uno strano scherzo
del destino, alcuni di noi hanno proseguito a lavorare nel settore dell’antropologia
psicologica e linguistica.
Ho compiuto due brevi viaggi in India, per studiare i concetti di proprietà terrie-
ra nel tardo diciottesimo secolo – un argomento che mi aveva interessato frequentan-
364 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

do un corso su legge e religione in India alla Harvard Law School. Comunque, il


contatto con indiani che operavano per il cambiamento sociale mi indusse a mettere
in questione l’utilità della mia ricerca. In un certo senso, ero un caso alquanto tipico
per la mia generazione (quella che è stata alle superiori durante la guerra del Viet-
nam): ero politicamente attiva e preoccupata dell’importanza sociale del mio lavoro.
Mi chiedevo se considerare legittima una carriera accademica e, anche ove ciò fosse
stato possibile, se avrei dovuto interessarmi a un diverso argomento di ricerca.
Data la mia incertezza sulle scelte future, ho abbandonato temporaneamente gli
studi per accettare un lavoro a tempo pieno di ricerca nel settore della politica pub-
blica. Fortunatamente, avevo trovato un lavoro come assistente di ricerca presso il
Van Leer Project della Harvard’s Graduate School of Education. Il progetto valuta-
va le idee soggiacenti alla prassi educativa di diverse società; il risultato doveva ser-
vire a configurare le decisioni future della Van Leer Foundation sulle borse di stu-
dio per programmi educativi in varie parti del mondo.
La mia partecipazione a questo progetto ha segnato una svolta nella mia carrie-
ra. L’antropologo del progetto era Bob LeVine. Bob divenne così il mio relatore di
tesi, e ho molto apprezzato il suo saggio e ben fondato giudizio antropologico. Cosa
più importante, vidi che era possibile svolgere ricerche intellettualmente stimolanti
e al tempo stesso utili al mondo concreto. Mi imposi di terminare la tesi; il solo pro-
blema era: su quale argomento?
A questo punto fui fortunata: mi capitò in mano un articolo di Naomi Quinn
apparso nel 1982 sull’«American Ethnologist», in cui analizzava uomini e donne
americani che parlavano degli impegni matrimoniali. Incontrai poi Naomi nel 1983
agli incontri dell’American Anthropological Association, e le parlai del mio interesse
ad applicare il suo stile di discorso all’analisi di interviste sugli atteggiamenti politi-
ci e sociali negli Stati Uniti. Sia sul piano pratico che da un punto di vista intellet-
tuale, ella divenne per me un maestro. Sono grata di avere avuto l’opportunità di
soddisfare i suoi sforzi disinteressati nei confronti di studiose più giovani, perché il
suo supporto è stato decisivo nella mia carriera.
La mia attuale ricerca collega alcuni problemi che hanno suscitato il mio interesse
da quando ero studentessa con tematiche intellettuali recenti. Ad esempio, il modello
cognitivo messo in evidenza in questo saggio può essere usato per criticare alcune ten-
denze poststrutturaliste, che abbandonano la centralità del soggetto umano e costrui-
scono tutto sotto forma di discorso. Lo scopo del mio lavoro è stato invece di com-
prendere l’interazione tra le persone e il loro ambiente culturale, un’interazione in cui
nessuno dei due aspetti può essere ridotto a un assemblaggio di discorsi. Queste te-
matiche sono sviluppate in un libro che sto scrivendo con Dorothy Holland. I proget-
ti futuri prevedono ulteriori ricerche su ciò che i discorsi delle persone rivelano ri-
guardo al modo in cui i messaggi culturali vengono interiorizzati; uno studio dell’ac-
quisizione della cultura da parte dei bambini che sto conducendo con Naomi Quinn;
una comparazione dei limiti metodologici dell’analisi simbolica, dell’analisi del discor-
so e dell’analisi del comportamento (attitude survey research); e uno studio degli atteg-
giamenti riguardo ai programmi di assistenza sociale negli Stati Uniti.

Naomi Quinn è professore associato al Dipartimento di Antropologia Culturale


della Duke University, dipartimento di cui è anche direttrice. È presidente della So-
ciety for Psycological Anthropology. La sua ricerca più recente e prolungata – incen-
trata sui modelli culturali del matrimonio negli Stati Uniti e sulla definizione della
UN’ANTROPOLOGIA COGNITIVO-CULTURALE 365

sua prospettiva sulla natura della cultura – è il tema di un libro in preparazione e di


una serie di articoli tra cui The Cultural Basis of Metaphor (1991) e Convergent Evi-
dence for a Cultural Model of American Marriage (1987). Quest’ultimo è apparso in
un volume di cui è stata curatrice insieme a Dorothy Holland, Cultural Models in
Language and Thought. Sta inoltre sviluppando il proprio interesse nei confronti
delle ricerche sul genere, già emerso in un suo vecchio articolo, Anthropological Stu-
dies of Women’s Status (1977). Più di recente, la Quinn e Claudia Strauss hanno av-
viato delle ricerche sulla acquisizione culturale, i cui primi risultati appaiono in Pre-
liminaries to a Theory of Culture Acquisition (1992).

L’antropologia culturale, da quando la scoprii al tempo del college, è stata la mia


passione. John Whiting, che insegnava nel mio corso a Harvard, sostenne la possi-
bilità che le ricerche interculturali potessero essere non solo descrittive ma anche
esplicative. La mia relatrice di tesi fu Bea Whiting, che mi insegnò a essere allo stes-
so tempo un’attenta osservatrice e una pensatrice comparativa. Bea e Johnny e il
gruppo interdisciplinare di studenti che lavorarono con loro al laboratorio di ricer-
ca di Palfrey House mi fecero capire cosa significava lavorare in un ambiente di ri-
cerca; mi spinsero a impegnarmi nella ricerca di dati certi e a difendere l’antropolo-
gia come scienza; e svilupparono in me un costante interesse per gli effetti dell’e-
sperienza infantile. Dopo il college, ancora in convalescenza in seguito a un’epatite,
ho lavorato a Palfrey House sviluppando il programma relativo al progetto delle
“Sei Culture”.
Quando completai i corsi di dottorato e partii per il Ghana per compiere la mia
ricerca sul terreno per la tesi, avevo già accumulato una buona esperienza di lavoro
sul campo. Mentre ero ancora studentessa ho partecipato a un campo-scuola di
Harvard-Cornell-Columbia nell’alto Ecuador, dove tornai più tardi con una borsa
di studio Fullbright (e dove contrassi la già citata epatite). Come studente di dotto-
rato a Stanford, ho seguito un’altra scuola estiva a Oaxaca, in Messico. Queste
esperienze risultarono ancor più formative di vere e proprie ricerche, confermarono
la mia propensione per la ricerca sul campo e fecero di me una minuziosa naturali-
sta a mia insaputa.
Alla Graduate School di Stanford, Roy D’Andrade (uno degli studenti che ave-
vo conosciuto a Palfrey House) divenne il mio relatore di tesi e il mio maestro. Ot-
timo insegnante, mi trasmise una chiara consapevolezza dei problemi della ricerca,
un approccio inventivo e pragmatico al metodo e al disegno della ricerca, e un gran-
de interesse nei confronti della storia della nostra disciplina. A Stanford il mio inte-
resse per la psicologia si estese a comprendere il pensiero cognitivo. Ero impegnata
nella nascente tradizione dell’etnoscienza con la sua teoria mentalista della cultura, i
suoi sforzi per ricostruire gli assunti culturali delle persone da attente analisi di ciò
che dicevano, e il suo rispetto per il metodo formale. I primi due di questi temi
hanno dato forma alla mia antropologia direttamente; al terzo mi sono opposto. Co-
me facevano altri studenti, ho sviluppato una critica all’eccessiva attenzione nei
confronti dei metodi formali da parte dell’etnoscienza e alle limitazioni della teoria
semantica soggiacenti a tali formalismi. Queste due insoddisfazioni teoriche e meto-
dologiche nutrirono la nostra impellente necessità di cercare metodi migliori in di-
rezione della teoria cognitiva; e anche la nostra invenzione di metodi di analisi
discorsiva più appropriati ai nuovi assunti teorici.
Le genealogie intellettuali centrate sugli individui possono ignorare la più dif-
fusa, ma talvolta più profonda, influenza di ampi movimenti intellettuali. Su di
me, così come su altri antropologi della mia generazione, la più importante di
366 CLAUDIA STRAUSS, NAOMI QUINN

queste influenze intellettuali, la teoria degli schemi (fondamentale per il saggio


contenuto in questo volume), proveniva dal campo interdisciplinare delle scienze
cognitive. Il principale contesto in cui è avvenuta la mia formazione nelle scienze
cognitive è stato il Social Science Research Council Commitee on Cognitive Re-
search, a cui mi sono unita quando Roy D’Andrade mi presentò come suo sostitu-
to, e presso cui ho lavorato negli anni Settanta e Ottanta insieme a psicologi come
Eleanor Rosch e Amos Tversky e a linguisti come Charles Fillmore. Nel corso di
una delle conferenze organizzate sotto gli auspici di quel comitato, incontrai un
linguista che è anche un mio lontano cugino, George Lakoff, e mi interessai alle
sue ricerche sulla metafora. Questa ricerca mi ha influenzato moltissimo, in primo
luogo per il fatto di averne dovuto formulare una critica e per il modo in cui ho
pensato alle conoscenze culturali e alle loro relazioni con il discorso. La genealo-
gia come metafora può spingere una persona a pensare solo al passato, e per lo
più in termini intergenerazionali. Ma una delle persone che più ha influenzato il
mio pensiero è stata la giovane co-autrice del saggio presente in questo volume,
Claudia Strauss. Collaborare con Claudia mi ha portato a estendere le mie ambi-
zioni teoriche e a essere più logica nelle mie argomentazioni. Abbiamo riso della
mia tendenza a sottolineare quelle che nel saggio sono definite proprietà “centri-
pete” della cultura, e a ignorare quelle “centrifughe”, e della sua tendenza a fare
esattamente il contrario – come in molte altre cose, riflesso delle nostre rispettive
generazioni.
La mia è una storia intellettuale segnata dalla continuità ma anche da rotture e
“mode” contingenti. Ero appena uscita dalla Graduate School quando la tradizione
nell’ambito della quale mi muovevo fu oggetto di un attacco motivato da una lotta
all’ultimo sangue per l’egemonia disciplinare piuttosto che da serie obiezioni intellet-
tuali. Come spieghiamo nel nostro saggio, l’antropologia cognitiva è stata cancellata,
o quasi. Nel corso della mia vita intellettuale, ho cercato di valutare positivamente il
ruolo del pensiero cognitivo nella teoria della cultura, assumendo una posizione teo-
rica più aperta e comprensiva di quanto solitamente si ammetta nella nostra discipli-
na divisa in fazioni. Il saggio di Claudia e mio in questo volume offre una concreta
manifestazione del valore di questi principi.
Le teorie della cultura rivisitate
Roger M. Keesing

La costruzione culturale dell’“altro” come diverso


Se un’alterità radicale non esistesse, sarebbe compito dell’antropologia inventar-
la1. L’alterità radicale – un Altro culturalmente costruito e radicalmente differente
da Noi – colma un bisogno sentito nel pensiero sociale europeo: ciò che Trouillot
(1991) definisce “il posto del selvaggio”. Credo che sia importante rilevare come
Il mito della
per diversi aspetti l’alterità radicale cercata dagli antropologi non esiste, perlomeno “Alterità radicale”
da molte migliaia d’anni. Il mondo tribale in cui abbiamo collocato questa alterità –
il mondo dalle tradizioni immutabili delle “società fredde” di Lévi-Strauss – è stato
una nostra invenzione antropologica. Continuiamo a invocarla; e alcuni di noi si ad-
dentrano sempre più nella Nuova Guinea per trovarla ancora viva.
L’invenzione e l’evocazione di questa alterità radicale che è stata il progetto del-
l’antropologia, richiedeva un universo concettuale, una modalità discorsiva. In par-
ticolare, dato il modo in cui è stata sviluppata l’idea di “cultura” nella tradizione
boasiana, come un universo delimitato di idee e costumi condivisi, e dato il modo in
cui l’idea di “società” è stata sviluppata dall’antropologia sociale funzionalista, co- La “cultura”
me un universo delimitato di strutture che si auto-riproducono, questi concetti for- boasiana e la
niscono una cornice per la nostra creazione ed evocano una diversità radicale. “Una “società”
funzionalistica
cultura” ha sì una storia, ma è il tipo di storia della barriera corallina: una crescita
cumulativa di minuscoli depositi, essenzialmente inconoscibili e irrilevanti rispetto
alla struttura cui danno forma.
Il mondo di strutture, sociali e ideali, senza tempo e che si auto-riproducono al- Il modello della
l’infinito, ognuna rappresentante un esperimento unico tra le possibilità culturali, è “barriera
stato forgiato (oggi lo sappiamo) sulla base delle ricerche e delle concezioni della corallina”
tradizione filosofica europea ed è stato sovrapposto alle popolazioni incontrate e
soggiogate lungo le frontiere coloniali. La diversità e l’unicità sono, naturalmente,
“verità” parziali: i tupinambá, gli aranda, i baganda, i vedda, i dayak hanno sfidato
ogni comprensione e lo fanno ancora. Ma credo che si continui a esasperare la Di-
versità, in cerca dell’esotico e dell’alterità radicale pretese dalla filosofia occidentale
e dalla passione occidentale per le opposizioni.
Tornerò su questa questione dell’alterità radicale così come è stata creata e inter-
pretata dal discorso antropologico. Il mio principale obiettivo in questo caso è di ri-
esaminare il concetto di “cultura”, in particolare il nostro modo di parlare e di scri-
vere riguardo a “una cultura”. Perciò, ritorno a temi che ho trattato in un saggio
vecchio ormai di venticinque anni, intitolato Theories of Culture (Keesing 1974).
Comincerò con l’esporre una serie di paradossi e contraddizioni.

L’accento sulla differenza


Il primo paradosso consiste nel fatto che le forme oggi di moda – in certi casi, al La necessità
limite, in ascesa – dell’antropologia simbolico-interpretativa necessitano più che della differenza
368 ROGER M. KEESING

mai dell’alterità radicale, in un mondo in cui quei confini che ci sono sempre stati,
si dissolvono in un giorno. Per mostrare che concetti come quello di personalità, di
emozione, di azione, di genere, di corpo, sono culturalmente costruiti è necessario
che la Differenza sia dimostrata e celebrata, che le “culture” siano poste in compar-
timenti separati e che siano caratterizzate in termini essenzialisti. Eppure le popola-
zioni tribali e delle campagne di una volta, delle cui vite ci occupiamo, sono coin-
volte in un sistema mondiale attraverso cui le idee circolano liberamente. Sono ap-
pena tornato dalle Isole Salomone, in cui i capelli lunghi con le treccine, nello stile
di Bob Marley, e i video di Kung Fu sono parte della “cultura” contemporanea. Più
che in passato, il confinamento – e l’essenzialismo che lo motiva – deve allontanarsi
dalle realtà osservate; la frattura che esiste tra ciò che vediamo sul campo e il modo
La complessità in cui lo rappresentiamo si allarga di minuto in minuto.
postmoderna Nelle sue mutazioni postmoderniste, l’antropologia culturale può effettivamente
considerare la complessità del presente come collage, giustapposizioni del vecchio e
del nuovo, dell’endogeno e dell’esogeno; e può trascendere le nostre vecchie preoc-
cupazioni riguardo all’“autenticità” e a confini chiusi. Nelle loro dichiarazioni gene-
rali gli antropologi postmodernisti hanno spesso posto in rilievo tale complessità.
Marcus e Fischer (1986, p. 151) ci dicono che:

la maggior parte delle culture locali del mondo intero sono i prodotti di una lunga storia
di appropriazioni, resistenze e compromessi. L’obiettivo... è così quello di rivedere le
convenzioni della descrizione etnografica, al di là di una misura di cambiamento di fron-
te a qualche auto-comprensiva, omogenea e largamente astorica formazione dell’unità
culturale. Ciò va a favore di una visione di situazioni culturali sempre in mutamento, in
un perpetuo e storicamente sensibile stato di resistenza e di accomodamento rispetto ai
più ampi processi d’influenza, che sono tanto interni quanto esterni al contesto locale.

Amen. Eppure, in pratica, gli antropologi postmodernisti americani, con le loro


radici nella tradizione costruttivista interpretativo/culturale, invocano spesso retori-
camente l’alterità radicale nello stesso modo. Marcus e Fischer parlano delle “più
intime esperienze dell’essere persona... distintive delle singole culture” (1986, p.
126) e della “mascolinità marocchina” come “superficialmente simile alla mascolini-
tà in altre culture” (1986, p. 126). “E se le persone appartenenti a culture altre agi-
scono sulla base di differenti concezioni dell’individuo?” (1986, p. 104).
Il pensiero poststrutturalista, nel suo interesse per i testi come finzioni pervasive
L’invocazione
retorica
(ad es. Derrida, Foucault, écriture feminine), è stato coinvolto in contraddizioni simili.
dell’alterità Esaminando criticamente ciò che era dato per scontato nel pensiero occidentale, il
radicale poststrutturalismo ha indebolito gli antichi dualismi – civilizzato vs. primitivo, raziona-
le vs. irrazionale, Occidente vs. Oriente – su cui l’esoticizzazione dell’antropologia si è
implicitamente fermata. Tuttavia allo stesso tempo, anche il pensiero poststrutturalista
ha fortemente bisogno del concetto di alterità radicale, per mostrare che le cose da noi
date per scontate rappresentano costruzioni culturali europee. Sostenere che il nostro
“logocentrismo,” il nostro concentrarci sulla ragione, è una eredità della filosofia greca,
ad esempio, richiede l’esistenza di una alterità non logocentrica – da qualche parte –
non contaminata dai Greci. Le diverse varietà del femminismo sono sempre rimaste in-
vischiate in una tensione dialettica tra l’evocazione di società tribali al limite parzial-
mente libere dal patriarcato e il vedere la subordinazione delle donne come un fatto
universale, ma ciononostante storicamente contingente – quindi preservando la possi-
bilità teorica e politica di un mondo non dominato dagli uomini oppure pervasivamen-
te fondato su di un pensiero maschilizzato e fallocentrico. In ogni caso, l’antropologia
è fatta per fornire le alterità cui vengono contrapposte cose immaginate.
LE TEORIE DELLA CULTURA RIVISITATE 369

Reificazione ed essenzialismo
Sosterrò che la nostra concezione di cultura ci conduce quasi inevitabilmente al-
la reificazione e all’essenzialismo. Quante volte ancora sento i miei colleghi e gli stu-
denti parlare come se la “cultura” fosse un essere agente che può fare delle cose, o
come se “una cultura” fosse una collettività di persone. Naturalmente, sosteniamo
di non volere dire realmente che “la cultura balinese” fa o crede qualcosa, o che vi-
va sull’isola di Bali (tutto questo è una sorta di stenografia); ma temo che i nostri
modi comuni di parlare portino il nostro pensiero in quella direzione. Inoltre, l’at- Coerenza,
condivisione e
tribuire alla “cultura balinese” una coerenza sistematica, una condivisibilità pervasi- reificazione della
va, e una certa persistenza – così che Bali rimane Bali nel corso dei secoli, dal nord cultura
al sud, dall’ovest all’est (anche oggi, nonostante i turisti) – ci conduce a una forma
estrema di essenzialismo. L’essenzialismo del nostro discorso non coinvolge solo la
nostra concettualizzazione della nozione di “cultura”, ma riflette allo stesso tempo
l’interesse da noi conferito a una caratterizzazione esotica dell’alterità. Se giungia-
mo presso una comunità della Nuova Guinea o dell’Amazzonia e troviamo gente
che ascolta radio a transistor o guarda video, pianta prodotti per venderli oppure
ha un lavoro dipendente, va in chiesa e frequenta la scuola invece di compiere ri-
tuali nelle case degli uomini – e se quello che stiamo andando a studiare è il loro
concetto di individualità o le loro costruzioni culturali del tempo e dello spazio – al-
lora dobbiamo credere che la loro essenziale “culturalità” sopravviva nonostante i
cambiamenti esteriori nelle loro vite.
I modi contemporanei del discorso quotidiano sono stati pesantemente influenza-
ti dal nostro concetto antropologico di cultura. Facendo presa sul pensiero popolare,
il concetto antropologico di cultura è stato applicato a modi di vivere contemporanei L’influsso del
concetto di
complessi – “la cultura greca”, “la cultura francese”, “la cultura cinese” – così come a cultura sul
quelli esotici e “primitivi” che si vedono nei documentari televisivi. Curiosamente la discorso
nostra concezione onnicomprensiva di “cultura”, una volta diffusasi nel discorso po- quotidiano
polare, ha portato con sé anche le nostre abitudini discorsive che reificano, personifi-
cano, ed essenzializzano. Di recente, così, ho sentito un’annunciatore radiofonico in
Australia parlare delle “differenti culture che vivono nella nostra area”.
Dato che è ormai diffusa nel discorso quotidiano occidentale, la nostra conce-
zione essenzialista, reificata, di “cultura”, è stata adottata dalle élites del Terzo
Mondo e dalla loro retorica culturale e nazionalista. Se “una cultura” è qualcosa di
simile alla realtà, se le essenze culturali persistono, allora “questa” fornisce uno
strumento retorico ideale per le rivendicazioni di identità, pronunciate in opposi-
zione alla modernità, all’occidentalizzazione o al neocolonialismo. Il colmo dell’iro-
nia è che attraverso questo prestito, i nostri stessi mali concettuali possono colpirci La retorica
da direzioni inattese. La “cultura”, così reificata ed essenzializzata, può essere uti- nazionalista del
lizzata come un simbolo ideale da opporre ai ricercatori stranieri, messi alla berlina Terzo Mondo
per aver rubato “quella cosa”, per averla venduta nel tentativo di ricavarne profitto
sul mercato accademico o semplicemente (in quanto estranei che cercano di inter-
pretare l’essenza mistica di qualcun altro) per averla fraintesa e mal rappresentata.

Il “culturale” dei cultural studies


Proprio mentre il nostro concetto antropologico di cultura stava sempre più
pervadendo il pensiero e il discorso popolare, scienziati sociali di diverso orienta-
mento hanno incominciato a prendere il concetto di cultura molto più seriamente. I La nozione
umanistico-élitaria
cultural studies sono diventati un settore in continuo sviluppo. Questa “cultura” dei di cultura e i
“cultural studies” è la “cultura” come noi l’abbiamo elaborata? In genere, la rispo- cultural studies
sta a questa domanda è negativa. La “cultura” dei cultural studies (sia post-marxisti
370 ROGER M. KEESING

che postmodernisti o post- qualsiasi altra cosa) è stata sviluppata ampliando e per-
fezionando la concezione cui per decenni le nostre si sono opposte: quella di “cul-
tura” come massimo compimento e perfezionamento di una società complessa.
Questo non vuol dire che i cultural studies si occupino solo di dipinti, statue e sin-
fonie. Un crescente interesse nei confronti del linguaggio e della teoria semiotica2
ha condotto a un notevole ampliamento del vecchio concetto di cultura come
“grande arte” – un estensione in senso antropologico.
Ciò che distingue maggiormente la “loro” cultura dalla “nostra” è l’insistenza
nei cultural studies sull’intreccio fra lo sviluppo dei sistemi simbolici e le dimensioni
di classe e potere – la produzione e riproduzione delle forme culturali. Credo che
invece di estendere la nostra tradizionale concezione antropologica di cultura alle
contemporanee “società” complesse, dobbiamo urgentemente occuparci del perfe-
zionamento concettuale della teoria sociale contemporanea, compreso il “culturale”
dei cultural studies, per interpretare la produzione e la riproduzione simbolica così
come accade presso le popolazioni con cui siamo entrati in contatto, ai margini del
sistema coloniale e presso le comunità contadine.
Ci troviamo quindi a fronteggiare una curiosa situazione: la nostra concezione
antropologica della cultura ha pervaso il pensiero popolare ed è stata applicata, vo-
lente o nolente, alla vita contemporanea; ma allo stesso tempo, alcuni di noi hanno
incominciato a mettere in questione la sua utilità e a cercare modi alternativi di pen-
sare ai simboli e ai significati collettivi che sono studiati fuori dalla nostra disciplina.

Ripensare il grado della diversità culturale nel mondo contemporaneo


Vorrei ora soffermarmi più in dettaglio su alcune di queste argomentazioni. In-
nanzitutto, chiarirò meglio il problema dell’invenzione dell’Alterità radicale. Quan-
Un esempio di to siano differenti dai nostri i pensieri le esperienze di popoli non-occidentali è un
alterità: il caso di
Maenaa’adi punto controverso, su cui potremmo discutere fino alla nausea. Ho di recente tra-
scorso alcune settimane a conversare con un brillante giovane Kwaio (etnia delle
Isole Salomone), che ancora pratica la sua antica religione e vive in un mondo in cui
il magico, il rituale e le conversazioni con i morti sono cosa di tutti i giorni. L’alteri-
tà culturale di Maenaa’adi è forse altrettanto radicale di ogni altra, nel mondo dei
primi anni Novanta (sebbene viva anch’egli nel collage del nostro tempo, prenden-
do l’autobus e controllando l’ora sul suo orologio quando viene in città). Egli dà
per scontato che se la sua ombra passerà sul luogo in cui è stato gettato il corpo di
un lebbroso, morirà di lebbra. Ritiene che ogni notte il suo spirito incontri gli spiri-
ti dei suoi antenati, che lo informano su eventi futuri. Recita formule magiche dodi-
ci volte al giorno, convinto in assoluta buona fede che funzioneranno. Ovviamente,
non sto affermando che il mondo di Maenaa’adi e il mio siano varianti ridotte l’uno
dell’altro; c’è molto più di questo. Tuttavia non vedo alcun motivo, basandomi sui
L’insostenibilità testi che ho raccolto, per inferire che la modalità pragmatica in cui egli trova la pro-
della differenza pria strada nel proprio mondo sia qualitativamente differente dal modo in cui io
radicale sul piano trovo la mia nel mio mondo; o che le sue concezioni, create dalla cultura, di indivi-
pragmatico dualità e di azione (o di personalità, di causalità, o di qualsiasi altra cosa) siano poi
così straordinariamente diverse dalle mie.
Potremmo discutere all’infinito su quanto siano radicalmente diverse le conce-
zioni di individualità e azione o le esperienze emotive create culturalmente. Credo
che gli antropologi siano molto interessati, proprio in ossequio ai loro paradigmi di-
sciplinari, a costruire la diversità culturale in modo ancor più estremo di quanto
non sia giustificato dalla nostra esperienza etnografica (Keesing 1989b). Inoltre, ab-
biamo ignorato le implicazioni di dati sempre più frequenti che mettono seriamente
LE TEORIE DELLA CULTURA RIVISITATE 371

in dubbio il nostro relativismo estremo. Alcuni di questi dati ci vengono dalle neu-
roscienze e dalle scienze cognitive, dove i limiti di ciò che può essere appreso e ri-
cordato da membri della nostra specie sono ben evidenti e la logica del pensiero in-
comincia a sembrare ben poco esotica. Altre derivano da ricerche sulla neurobiolo-
gia del sistema emotivo dei mammiferi, compreso quello degli esseri umani e di altri
grossi primati. Altre ancora vengono da studi sul linguaggio, sia sulla struttura for-
male della sintassi che sulla logica della semantica e sulla formazione dei concetti. Il
ricco settore della linguistica cognitiva unisce sempre più la teoria grammaticale ad
altri ambiti del pensiero3.

Metafora e oggettivazione
Le lingue, viste attraverso questa lente, non appaiono assolutamente esotiche o La diversità
radicalmente diverse (anche se lingue particolari esplorano ovviamente, in modi di- tra le lingue
versi, differenti possibilità logiche e di organizzazione). Non voglio divagare occu-
pandomi di questo; mi preme tuttavia sottolineare due linee di sviluppo che ritengo
particolarmente importanti in relazione all’esagerato relativismo antropologico. La
prima riguarda l’importanza pervasiva della metafora nel linguaggio: sia il modo in
cui le lingue come sistemi concettuali sono pervase da metafore convenzionali, così
come è stato esplicitato da Lakoff e Johnson (1980), sia il modo in cui in una lingua L’onnipresenza
cambi nel tempo durante il quale le forme lessicali acquisiscono funzione grammati- della metafora
cale – processo che è stato chiamato di “grammaticalizzazione” – seguendo percorsi
metaforici (e secondo modalità che rivelano sorprendenti similarità da una famiglia
linguistica a un’altra, come hanno mostrato Bernd Haine e altri – vedi Heine, Reh
1984; Heine, Claudi, Hünnemeyer 1992; Heine, Traugott 1992). Ho suggerito altro-
ve che con la loro predilezione per la possibilità di lettura più esotica dei testi cultu-
rali, espressi in lingue che apprendono in modo limitato per la ricerca sul campo, gli
etnografi corrono il rischio di trasformare semplici schemi metaforici convenzionali
in strutture cosmologiche e filosofie religiose (Keesing 1985, 1987, 1989b).
Il secondo punto, parzialmente emerso dallo studio del linguaggio e delle meta-
fore convenzionali, ma che possiede implicazioni più ampie, è il grado in cui l’og-
gettivazione dell’esperienza culturale diviene un fattore critico. Lo studio delle me- L’oggettivazione
tafore convenzionali e la codificazione linguistica delle relazioni di spazio, tempo, dell’esperienza
percezione e causalità, si focalizza sempre più sull’importanza dell’oggettivazione
dell’esperienza. Il testo di Mark Johnson, The Body in the Mind, critica aspramente
i costi del dualismo mente/corpo proprio della filosofia occidentale e del suo incen-
trarsi su una ragione non oggettivata. L’antropologia sta affrontando l’oggettivazio-
ne e la costruzione culturale del corpo in gran parte attraverso l’“antropologia me-
dica” (cfr. ad esempio Nancy Scheper-Hughes in questo volume). Ma come le argo-
mentazioni di Johnson e le riflessioni femministe sull’oggettivazione (cfr. ad esem-
pio Gatens 1983) hanno illustrato, si stanno facendo progressi anche su altri fronti.
Il fatto che tutti gli esseri umani in ogni luogo sperimentino il mondo “là fuori”,
sia sul proprio corpo che attraverso esso, e che tale oggettivazione diventi il model-
lo per l’elaborazione concettuale culturale dell’orientamento spaziale, dell’azione,
della percezione, dell’emozione e del pensiero, non significa che l’elaborazione cul-
turale dell’esperienza oggettivata vada tutta nella medesima direzione. Torno a oc-
cuparmi brevemente del mio amico Maenaa’adi. In un certo senso, le esperienze di
Maenaa’adi quando sogna e la mia devono essere abbastanza simili; eppure egli at-
tribuisce uno status di realtà al vagare notturno del suo spirito e ai suoi incontri con
altri spiriti, mentre io ritengo sia tutta una creazione della mia immaginazione nel
sogno. Vedere la propria ombra come una parte del corpo che possa essere danneg-
372 ROGER M. KEESING

giata o contaminata, temere la possibilità di perdere l’anima, attribuire forme di


malattia a corpi magici estranei ingeriti, significa avere una concezione dei confini e
delle dinamiche del proprio corpo molto diverse dalle mie.
La costruzione culturale del corpo, e le immagini e le esperienze corporee, va-
riano incontestabilmente nei diversi tempi e luoghi. Le predilezioni teoriche e gli
Differenze nella interessi disciplinari dell’antropologia vanno ancor oggi in questa direzione, e ci in-
costruzione ducono a esagerare un caso o a sottostimare un fenomeno contrario. Attraverso gli
culturale scritti di Foucault (cfr. 1963, 1975) e di recenti indagini antropologiche sappiamo
del corpo molte cose riguardo al modo in cui il potere del corpo sociale è inscritto sul corpo
fisico. Eppure, penso che non abbiamo ancora colto con chiarezza il potere del cor-
po fisico – così come è soggettivamente vissuto dal suo “occupante” – di inscriversi
nelle tradizioni culturali e quindi di limitare la diversità culturale.
Le bizzarrie del La mia intenzione non è di discutere all’infinito quella che, lo ammetto, è una
relativismo posizione di parte riguardo alla diversità culturale radicale. Al contrario, voglio dav-
estremo
vero manifestare un profondo scetticismo su quanto leggo oggi riguardo alla costru-
zione culturale dell’individualità, dell’azione e delle emozioni. Credo che entro un
decennio o due, quando alcuni dei limiti biologico/cognitivi che riguardano il pen-
siero, le emozioni e l’apprendimento umano saranno più chiaramente percepiti, il
relativismo estremo e le posizioni culturali costruttiviste del nostro tempo sembre-
ranno del tutto bizzarre.

Conseguenze implicite nelle concezioni antropologiche convenzionali di “cultura”


Il secondo punto che desidero sviluppare riguarda le conseguenze implicite nel-
Cultura come le concezioni antropologiche convenzionali di “cultura”. Ho affermato che la nostra
esperienza
“naturale” ricerca dell’alterità radicale forma ed è formata dalle nostre elaborazioni concettua-
li delle “culture” come universi discreti, autosufficienti, autoriproduttivi, di prati-
che e credenze tradizionali condivise. “Una cultura”, perché sia un esperimento sin-
golo all’interno delle umane possibilità, non deve solo essere separata e internamen-
te coerente e omogenea; l’“esperimento” deve essere, per così dire, “naturale” (nel
senso che l’azione e l’interesse intenzionale non contribuiscono alla sua forma cu-
mulativa, simile a quella di una barriera corallina). Ritroviamo qui un’intera serie di
conseguenze implicite. In verità, le teorie antropologiche della cultura possono es-
sere soggette allo stesso genere di critica politica cui si è esposta la sociologia fun-
zionalista, nella variante che potremmo definire “parsoniana” – che enfatizzava l’or-
dine, l’integrazione, la stasi e mascherava il conflitto, la contraddizione e la forza
Marxismo,
ideologica ed egemonica di simboli e istituzioni “condivise”. I marxisti, le femmini-
femminismo e ste e altri critici della società data, hanno opportunamente sottolineato tutti i fattori
critica delle nascosti dalle rappresentazioni della “cultura” e della “società” come entità consen-
prospettive suali, collettive, coerenti, integrate e autoriproduttive. Le voci di chi è soggetto
funzionaliste
subalterno (Guha 1983a, 1984), contraddizioni e conflitti, la forza egemonica delle
ideologie dominanti, le differenze di classe e di sesso, vengono spazzate via con un
solo colpo di spugna della teoria analitica.
La concettualizzazione antropologica della “cultura” è stata – dobbiamo dirlo –
innocente (nel senso della semplicità, non della colpevolezza) per quanto concerne
le linee guida della teoria sociale. Il nostro modo di concettualizzare ciò che si è so-
liti chiamare il mondo “primitivo” comprende ancora una serie di assunti, che ci
giungono dal diciannovesimo secolo, sulla collettività e condivisione del “costume”.
Contrapponendo Loro a Noi, l’etnologia del diciannovesimo secolo aveva caratte-
rizzato i popoli primitivi, soggiogati lungo le frontiere coloniali, nei termini delle
forze profondamente conservative della tradizione, della mancanza di individuazio-
LE TEORIE DELLA CULTURA RIVISITATE 373

ne del modo in cui vivono le loro vite, della forza invisibile della convenzione socia- L’antropologia e
le. Nel momento in cui gli antropologi hanno perfezionato la nozione di “costume” l’obliterazione
dell’ideologia del
in quella di “cultura”, questo ha lasciato ampiamente non analizzati gli assunti sulla potere
collettività e sull’uniformità delle credenze, delle norme e delle esperienze cultural-
mente definite (sebbene ci fossero alcune posizioni dissenzienti, notevoli le critiche
poste da Radin)4. La concezione della “barriera corallina” sul come le culture si svi-
luppano è rimasta intatta. Le differenze di genere e l’ineguaglianza sociale sono sta-
te nascoste senza pensarci. La produzione, la forza ideologica e il potere egemonico
dei significati culturali sono rimasti sostanzialmente inesaminati, in una disciplina
che è cresciuta (specialmente in Nord America) in un curioso isolamento dalla teo-
ria sociale continentale.
Che cosa dire, allora, del presente? Ovviamente le cose sono molto cambiate,
soprattutto per l’influsso determinante esercitato dal marxismo negli anni Sessanta
e Settanta, dall’emergere di una antropologia del gender e di un serio studio della
vita delle donne e da una maggiore apertura alle tematiche della teoria sociale. Ma
si è trattato di mutamenti concreti, e orientati nelle opportune direzioni?
Anche se le vite di quelli che oggi studiamo sono situate nel mondo degli anni
Ottanta e Novanta della cultura di massa globale, del consumismo e delle relazioni
e dipendenza del lavoro capitalista, le loro culture possono ancora essere soggette a
quel trucco dell’analisi, a quella negazione della “contemporaneità” così bene carat- La scissione tra
vite e culture delle
terizzata da Johannes Fabian nel suo importante lavoro Il tempo e gli altri. La politi- popolazioni
ca del tempo in antropologia (1983). Le loro culture sono ermeticamente sigillate, al studiate
di là del tempo e del sistema-mondo. Ho scritto di recente (Keesing, Jolly 1992) sul
modo in cui le caratterizzazioni della Melanesia, zona in cui si è perlopiù concentra-
to il mio lavoro, tagliano fuori sistematicamente il cristianesimo, i negozi, le migra-
zioni di lavoratori, la politica contemporanea e l’economia monetaria, esotizzando
ed essenzializzando la “cultura tradizionale” nelle forme in cui sopravvive ed è visi-
bile presso i villaggi limitrofi ai grossi centri. Questo non vuole dire che l’antropolo-
gia sia ancora incrollabilmente indirizzata verso il ritratto di un’alterità culturale
esotica, come attesta la rapida scorsa del programma di un qualsiasi recente conve-
gno dell’American Anthropological Association. Tuttavia questa ricerca dell’esotico
Altro è ancora un tema persistente e la cultura è un potente dispositivo per la sua
perpetuazione (come attestano un buon numero di recenti studi etnografici sulla
Nuova Guinea e l’Indonesia orientale).

La “cultura” nel discorso del Terzo Mondo


Facciamo un passo indietro, per tornare al modo in cui il discorso antropologico
sulla “cultura”, con la sua irresistibile tentazione a reificare, personificare ed essen-
zializzare, è penetrato nel discorso culturale nazionalista delle élites del Terzo Mon-
do. Per queste, per quanto possano essere occidentalizzate, affermare che “quella”
è “la nostra cultura” significa fare dichiarazioni riguardo all’identità, all’autenticità,
alla resistenza e alla forza di reazione. La cultura così reificata ed essenzializzata Rappresentazioni
può essere soggetta a trasformazioni metonimiche, in modo che l’eredità culturale metonimiche della
tradizione: l’abito,
di un popolo o di una nazione postcoloniale può essere rappresentata dalle sue for- le danze, i
me materiali e dalle sue attività feticizzate: “l’abito tradizionale”, le danze, i manu- manufatti
fatti. Così trasformata, “quella cosa” – l’eredità culturale, semioticamente conden-
sata (nel senso specificato alla nota 2) – può manifestarsi in rituali di stato, in festi-
val d’arte, in spettacoli per turisti e in apparizioni politiche per riaffermare che
“quella cosa” sopravvive nonostante l’occidentalizzazione (e anche per negare l’ero-
sione, la riorganizzazione capitalista e la pauperizzazione delle campagne). È impor-
374 ROGER M. KEESING

L’eredità del tante osservare che questa semiotica dell’identità culturale ha la sua origine nel na-
museo europeo
zionalismo culturale europeo del diciannovesimo secolo, che si espresse sotto forma
di un’intensa ricerca delle radici etniche e delle origini popolari, della primordialità
e delle tradizioni culturali. L’idea del museo e le tradizioni folcloriche, così forti nel-
l’Europa orientale e settentrionale, derivano da questa ricerca romantica delle origi-
ni e delle tradizioni popolari. Il Terzo Mondo ha ereditato questi sistemi semiotici e
queste istituzioni europee, nel corso del processo coloniale, ed essi si sono manife-
stati in una parallela affermazione dell’identità culturale.
Ho sottolineato (1989b) l’ironica situazione che emerge quando una concezione
della cultura, indirettamente presa a prestito dall’antropologia, è impiegata per de-
nunciare ricerche straniere, con gli antropologi visti come la quintessenza del male.
Essi, in quanto estranei (si ritiene), non possono comprendere la Nostra essenza,
La cultura non ci capiranno mai. Una volta che “una cultura” è stata reificata e ipostatizzata
reificata va contro
gli antropologi
come un simbolo, il ricercatore dall’esterno può essere anche accusato di appro-
priarsene. “Quella cosa” può anche essere mercificata, può essere dipinta come fos-
se stata alienata da un antropologo e venduta per trarne profitto sul mercato acca-
demico. È il colmo dell’ironia che i nostri stessi mali concettuali debbano essere
usati contro di noi.

Apprendere dagli sviluppi dei “cultural studies”


Torniamo ora alle posizioni estreme del costruttivismo culturale e del relativi-
smo, vale a dire all’ottica postmodernista che colloca l’etnografia al centro della
disciplina, e all’indulgente soggettivismo e narcisismo dei resoconti “sperimenta-
li” etnografici che è prevalente nella pratica e nelle politiche dell’attuale antropo-
logia americana (vedi ad es. Clifford, Marcus 1986). Non è una coincidenza, a
mio parere, che tali approcci siano sorti durante l’era conservatrice del thatcheri-
smo e del reaganismo5.
Non c’è alcun motivo per cui le nuove modalità di rappresentazione debbano
Il conservatorismo essere conservatrici, ignorando il contemporaneo stato di terrore e dando per scon-
dei nuovi tata la politica economica del capitalismo globale che continua a sottrarre beni ai
antropologi
paesi del Terzo Mondo e che li tiene costretti nei debiti, pauperizza le comunità
dell’entroterra e genera devastazioni ecologiche6. Ciò che vi è di non-detto nella
maggior parte degli attuali scritti antropologici parla in modo assordante, se solo ci
fermiamo ad ascoltare – come ha sottolineato Edward Said (1989).
I programmi di ricerca neppure troppo nascosti invalsi nelle concezioni antro-
pologiche di cultura mi inducono a una ulteriore e conclusiva estensione della mia
argomentazione. Ho sostenuto che concezioni di cultura più ristrette di quelle
convenzionali in antropologia sono state sviluppate nel settore dei cultural studies
come un ricco argomento degno di interesse per la teoria critica e sociale. Ho so-
stenuto, inoltre, che gli sviluppi teorici in quest’area possono illuminare utilmente
la conoscenza antropologica delle comunità in cui lavoriamo, “tribali,” contadine
o urbane che siano.

Quello dei cultural studies è un settore molto contestato, e vi si può accedere da


Teoria critica
molte direzioni. Uno degli accessi è dato dalla teoria critica. La teoria critica nelle
sue varie forme ha come interesse principale la letteratura e le “arti”. Vi includerei
buona parte del postmodernismo, oltre che del poststrutturalismo continentale, in
particolare nelle sue espressioni americane (la “decostruzione” nell’ambito della
critica letteraria, ecc.). Le fonti intellettuali fondamentali per la teoria critica con-
temporanea sono molto diversificate per quanto concerne i “tradizionali” comparti-
LE TEORIE DELLA CULTURA RIVISITATE 375

menti disciplinari, e non comprendono solo i critici letterari ma anche filosofi, psi-
Dalla centralità
canalisti, antropologi, linguisti e semiologi. I cultural studies, in tal modo, assumono della produzione
come centro del “culturale” la produzione letteraria e artistica delle contemporanee letteraria e
“società” complesse, di conseguenza partono da una concezione della cultura cui la artistica, alla
prospettiva enciclopedica dell’antropologia si è opposta per decenni. Comunque, il semiotica
concetto del culturale nei cultural studies così come viene proposto dalla teoria cri-
tica è stato notevolmente ampliato, da un lato grazie a un interesse onnipervasivo
nei confronti del linguaggio in tutte le sue manifestazioni (influsso della semiotica e
dello strutturalismo), e dall’altro in seguito al rifiuto tutto postmodernista di mante-
nere in piedi il “grande spartiacque” tra cultura “alta” e cultura “popolare” (cfr.
Huyssen 1986).

Altre incursioni nel regno dei cultural studies sono giunte da forme diverse di Gli approcci
teoria sociale. Illustrerò questo punto soffermandomi su quelli che chiamerò (in li- “post-marxisti” e
nea con lo spirito del tempo) approcci “post-marxisti”. Esemplari in tal senso sono femministi
i lavori di Willis, Hall, Hebdige e dei suoi colleghi inglesi, l’opera di Ranajit Guha
e dei suoi colleghi della disciplina dei subaltern studies7, e gli scritti raccolti nel re-
cente volume intitolato Marxism and the Interpretation of Culture (Nelson, Gros-
sberg 1988). L’ispirazione in questo caso viene più direttamente da Gramsci che da
Marx. Ma la più profonda origine sta nelle intuizioni dello stesso Marx riguardo a
simboli e ideologia.
Anche per la maggior parte dei teorici post-marxisti, il nucleo del “culturale” Gli studi
consiste in produzioni simboliche pubblicamente sviluppate. Comunque, esiste una subalterni e
l’importanza
seconda lettura, più antropologica, della cultura in relazione agli aspetti simbolici di Gramsci
della “vita quotidiana” (in particolare nell’opera di Bourdieu, Guha e i suoi colle-
ghi, e Willis). Come nel caso della teoria critica, gli interessi nel settore della semio-
tica e del linguaggio hanno portato a un considerevole ampliamento nella concezio-
ne del “culturale”. Grossberg e Nelson (1988, pp. 5-6) scrivono che:

La teoria culturale ha oggi allargato la categoria di cultura ben oltre “il meglio che è stato
pensato e detto”, al di là delle forme generali dell’arte, del linguaggio e del divertimento, L’ampliamento
della categoria di
oltre il tempo libero (vale a dire, il non-lavoro) della maggioranza della popolazione… cultura
Una base di tematiche linguistiche ha portato ad un ampio interesse verso la cultura, le
forme simboliche, la comunicazione, il significato… il marxismo inizia a riconoscere che
l’analisi culturale ha la necessità di occuparsi di tutte le attività strutturali e di produzio-
ne del significato mediante cui la vita umana viene creata e conservata.

In questo ampliamento di prospettiva svolgono un importante ruolo le intuizio-


ni di Gramsci riguardo all’egemonia e quelle di Foucault sul potere e sulla cono- Le ideologie come
scenza, unite alla sua critica dell’ideologia8. Una concezione più sofisticata del pro- “posizioni” del
soggetto
cesso ideologico e del potere egemonico del significato sta inoltre emergendo negli
scritti post-marxisti più recenti. Le ideologie, in tale prospettiva, non creano illusio-
ni fini a se stesse, ma posizioni del soggetto idealizzate nei cui termini vengono ri-
tratti i mondi sociali e culturali (o alcuni loro elementi): esse definiscono prospettive
e anche atteggiamenti e cose date per scontate, piuttosto che semplicemente na-
scondere la realtà con degli inganni. Per dare un esemplificazione cito da Stuart
Hall (1988, p. 44):

L’insieme delle idee dominanti accumula il potere simbolico per elaborare una mappa, o
classificare il mondo ad uso degli altri; le sue classificazioni acquisiscono non solo un po-
tere vincolante, determinando i modi di pensare, ma anche l’autorità inerziale dell’abitu-
376 ROGER M. KEESING

dine e dell’istinto. Questo insieme diviene così l’orizzonte di ciò che è dato per scontato:
cosa è il mondo e come funziona… ponendo il limite di ciò che può apparire razionale,
ragionevole, credibile, in altre parole dicibile e pensabile, entro… i vocabolari di motivi e
azioni alla nostra portata.

La teoria femminista nelle sue diverse forme è un’altra area in cui si è raggiunto
un significativo livello di chiarezza teorica. Le femministe condividono con i teorici
Le femministe di tradizione marxista (e naturalmente in questo caso vi è una forte sovrapposizio-
e il rifiuto dello
status quo
ne) un punto di partenza teorico: il fatto di rimettere in questione e in discussione
qualsiasi forma di status quo simbolicamente costruita. Nessuna barriera corallina in
questo caso: chi produce i sistemi simbolici dominanti di una società, quali interessi
serve e nasconde, quale è la sua forza ideologica e come opera egemonicamente per
dare forma alla consapevolezza dei subordinati, sono tutte tematiche problematiz-
zate sin dall’inizio.

Verso una differente prospettiva del culturale


Se le teorie sociali nelle loro varie forme – post-strutturaliste, post-marxiste,
femministe – hanno utilmente appreso dalla ampia concezione del culturale dell’an-
tropologia (sebbene forse per via indiretta, principalmente attraverso la semiotica),
La contestualità ritengo che questi approcci alternativi alla teoria culturale che sono stati sviluppati
storica e la forza all’interno dei cultural studies abbiano molto da insegnare all’antropologia. Si occu-
egemonica dei
significati culturali pano in modo corretto proprio di ciò che la concezione antropologica di “cultura”
come barriera corallina nasconde: la contestualità storica, la produzione, la forza
egemonica dei significati culturali come strutture interne e fratture della “società”.
Anche in quelle comunità tribali in cui noi antropologi abbiamo individuato
un’alterità radicale, senza differenze di classe, la produzione delle forme culturali e
la loro forza egemonica richiedono un’interpretazione. Nel momento in cui siamo
entrati nelle case degli uomini dell’Amazzonia o della Nuova Guinea per registrare
cosmologie, rituali, tabù di contaminazione, la nostra concezione della cultura come
barriera corallina ci ha distolto da tali questioni. Anche quando differenze e inegua-
glianze, oltre quelle di genere, vengono a essere espresse ovunque intorno a noi nei
discorsi e nella vita quotidiana, come a Bali o in India, siamo propensi a immerger-
Le “fratture” e le
ci in una meravigliosa ricchezza culturale e a non analizzare l’economia politica del-
ineguaglianze le forme simboliche.
nelle società Cerchiamo ora di esser chiari su ciò che diciamo e che taciamo. Non sto soste-
tribali nendo che si debba adottare un concetto di cultura che ritenga i dipinti più cultura-
li dei libri di cucina o degli ombrelli o dei tabù di contaminazione, e che si debbano
forzare i nostri dati comparativi in tali compartimenti. Sto dicendo che ciò di cui gli
antropologi e gli altri teorici del sociale hanno necessità è un concetto del culturale
che caratterizzi adeguatamente sia le modalità complesse della vita moderna che
quelle di scala minore di piccole comunità, passate e presenti:
La “politica
1. Una tale prospettiva del culturale (evito deliberatamente l’uso di “cultura” in
economica della questo caso, per eludere quanto più è possibile la reificazione) può assumere la pro-
conoscenza” duzione e riproduzione delle forme culturali come problematica; vale a dire, esami-
nerà il modo in cui la produzione simbolica è connessa al potere e all’interesse (in
termini di classe, gerarchia, genere, ecc.) e inoltre indagherà ciò che ho chiamato al-
trove la “politica economica della conoscenza” (Keesing 1987).
La forza 2. Una tale concezione assumerà che la tradizione culturale veicoli (o che molti
ideologica suoi elementi veicolino) una forza ideologica – ancora non nel crudo senso marxista
veicolata di una distorsione della realtà o della creazione di una falsa coscienza, ma nella ri-
LE TEORIE DELLA CULTURA RIVISITATE 377

formulazione di Stuart Hall (1988) di un concetto gramsciano: che l’ideologia defi-


nisce il mondo in termini di posizioni del soggetto idealizzate: “un bravo guerrie-
ro”, “una donna virtuosa”, “un soggetto leale”, “un figlio ubbidiente”.
3. Inoltre, una concezione critica del culturale muoverebbe dall’assunto che in Le tradizioni
qualsiasi “comunità”/“società”, ci siano molteplici tradizioni culturali parzialmente sommerse
sommerse e sottodominanti (ancora, in relazione al potere, al grado, alla classe, al
genere, all’età, ecc.), così come una forza egemonica della tradizione dominante. In
tale prospettiva, in particolare le teorie femminista e post-marxista hanno reso visi-
bile e hanno esaminato criticamente proprio quello che la teoria antropologica ave-
va difficoltà a nascondere o negare.
4. Infine, una teoria culturale più critica non riterrebbe necessario assumere l’e- La cultura come
sistenza di confini chiusi entro cui i significati culturali siano dominanti: “una cultu- entità non chiusa
ra” come unità confinata dovrebbe lasciare spazio a concezioni più complesse di in-
terpenetrazione, sovrapposizione e miscuglio.
Credo che nel rivisitare le teorie della cultura, quindi, vi sia oggi più da appren-
dere che da insegnare.

1 La prima versione di questo saggio è stata presentata nella sessione “Assessing Developments in Anthropology”

organizzato da Robert Borofsky al congresso della American Anthropological Association tenutosi a Washington D.C.
nel novembre 1989. Sono grato a Roger Stocking per i suoi utili commenti nel ruolo di interlocutore ufficiale della mia
relazione al convegno. Una versione ampliata del testo è stata presentata come lezione all’Università di Manitoba nel
febbraio 1990; per i commenti e le questioni che hanno portato a una ulteriore versione, sono in debito con Rod Bur-
chard, Jean-Luc Chodkiewicz, Yngve Georg Lithman, James Urry e Raymond Wiest.
2 Nota del curatore (Robert Borofsky): “L’idea centrale della semiotica consiste in una particolare concezione della

struttura del segno, definito come una relazione tra un significato e un significante: ad esempio, la relazione che esiste
tra una serie di suoni (significanti) e i loro contenuti (significati) in una lingua data, o la convenzione sociale secondo
cui il colore rosso stia per il pericolo. La ricerca semiotica riguarda… tutti i meccanismi che servono sia a produrre che
a nascondere significati, e a trasformare il significato in sistemi di segni” (Kuper, Kuper 1985, p. 743).
3 Consiglio in questo caso il libro di George Lakoff, Women, Fire and Dangerous Things (1987); un’altra fonte inte-

ressante è la nuova rivista «Cognitive Linguistics».


4 Yngve George Lithman mi ha opportunamente ricordato che la concezione antropologica di cultura è stata an-

ch’essa influenzata da più ampi sviluppi intellettuali (ad es. il romanticismo tedesco, come si è manifestato sia nei dibat-
titi intellettuali che nel nazionalismo culturale); e George Stocking ha svolto un’analisi simile circa le trasformazioni del-
la visione teorica del sociale che separa la tradizione di Boas e il suo appello alla “cultura” dalla concezione e dal pro-
getto di Tylor.
5 Le interpretazioni culturali chiariscono alcuni problemi, ma ne nascondono molti altri. Se l’orientalismo classico,

incluse le sue forme antropologiche, è stato parte integrante del processo imperialista, il neo-orientalismo in cui siamo
coinvolti è parte integrante dell’attuale clima politico e della globalizzazione economica.
6 Cfr. ad es. gli scritti recenti di Michael Taussig sulla cultura del terrore (Taussig 1987).
7 Cfr. Guha (1983b, 1984b, 1985, 1986, 1987).
8 Foucault ha demolito la classica teoria marxista dell’ideologia, intesa come un mascheramento di classe di verità

soggiacenti. Considerare le ideologie come entità che nascondono la verità significa presumere un accesso privilegiato
alla verità che non è più filosoficamente ammissibile. Marx stesso assume in certi casi una prospettiva più articolata ri-
guardo alle ideologie e alla loro forza, ma è stato merito di Gramsci, come suo successore e interprete, svilupparle in
forma coerente.

Biografia intellettuale

Roger Keesing (1935-1993) è stato professore di antropologia alla McGill Uni-


versity di Montreal. Dal 1974 al 1990 ha insegnato antropologia presso l’Institute
of Advanced Studies, The Austrialian National University. Ha studiato i Kwaio di
378 ROGER M. KEESING

Malaita, nelle isole Salomone, per trent’anni, e ha anche svolto ricerche sul campo
nel Nordovest dell’Hilamaia indiano. L’elenco dei suoi undici libri comprende Kin
Groups and Social Structure (1975), Lightning Meets the West Wind: The Malaita
Massacre (1980), Cultural Anthropology: A Contemporary Perspective (1981),
Kwaio Religion (1982), Kwaio Grammar (1985), Melanesian Pidgin and the Ocea-
nic Substrate (1988), e Custom and Confrontation: The Kwaio Struggle for Cultural
Autonomy (1992) – e più di un centinaio di articoli pubblicati su un vasto spettro
di argomenti: teoria culturale, struttura sociale, religione, simbolismo, storia colo-
niale e linguistica.

Essendo cresciuto in una famiglia di antropologi, ho avuto delle esperienze gio-


vanili di lavoro sul campo: ma ho scoperto l’antropologia dal punto di vista intellet-
tuale solo come studente a Stanford, dopo aver iniziato a studiare letteratura. Geor-
ge Spindler, Bernard Siegel e mio padre Felix Keesing mi hanno introdotto al setto-
re; ho studiato con Gregory Bateson, che è rimasto per me un amico e che ha eser-
citato su di me un forte influsso negli anni successivi.
Ho iniziato i miei studi di dottorato presso il Dipartimento di Social Relations
ad Harvard, con Clyde Kluckhohn e Douglas Oliver, negli anni 1956-57. Quando
ritornai dopo aver passato tre anni in Turchia come ufficiale nella Air Force, Kluc-
khohn era da poco scomparso, e un nuovo vivo interesse a Harvard si concentrava
intorno alla teoria britannica della parentela nello stile di Needham e Leach (intro-
dotta dal nuovo arrivato David Maybury-Lewis) e all’antropologia cognitivista (“et-
noscienza”) introdottavi da Charles Frake e rappresentata dal lavoro di Goode-
nough e Conklin.
Questi due filoni hanno influito e guidato il mio modo di pensare quando sono
partito per le Isole Salomone, nel 1962. Dopo la permanenza in Turchia, mi ero in-
teressato all’Asia centrale, ma i problemi politici della guerra fredda avevano reso
quasi irrealizzabile un lavoro sul campo in quei luoghi. La scelta delle Salomone era
stata ispirata da Douglas Oliver: “Devi trovare una società tradizionale melanesia-
na, come ho fatto io, e fare proprio un duro lavoro sul campo mentre sei ancora
giovane e fisicamente agile: potrai studiare in qualche luogo più comodo quando
sarai vecchio” (pensavo a queste parole mentre scalavo le pareti della giungla e dor-
mivo su pavimenti fangosi nei territori kwaio, quando già ero sulla cinquantina).
Ho voluto realizzare una sintesi delle prospettive cognitivista e sulla parentela,
studiando i codici culturali attraverso cui vengono prese decisioni riguardo al matri-
monio, la residenza e le parentele in una società in cui sembrava fossero presenti
“gruppi di discendenza non uni-lineare” (preoccupazione impellente degli antropo-
logi a quel tempo). I kwaio, come li ho conosciuti negli anni Sessanta, sorprenden-
temente conservatori dal punto di vista culturale, si rivelarono ideali per questo stu-
dio (sebbene venissero ritenuti selvaggi e pericolosi, i kwaio furono molto ospitali e
disponibili). La mia tesi di dottorato e un certo numero di pubblicazioni scritte nei
tardi anni Sessanta e nei primi anni Settanta esploravano questi temi. A quel tempo
stavo insegnando nella nuova università sperimentale della California a Santa Cruz,
in cui una buona dozzina di studenti che ho avviato allo studio dell’antropologia
hanno proseguito fino a conseguire un dottorato.
Nei primi anni Settanta venni politicizzato dai miei studenti, e i miei interessi si
spostarono dallo studio del pensiero e delle strutture sociali verso interessi più poli-
tici e ampi, inclusa una tarda rieducazione al marxismo e alla teoria sociale.
Il mio trasferimento a una cattedra presso The Australian National University
Research Institute nel 1974 rappresentò un’opportunità ideale per proseguire il mio
LE TEORIE DELLA CULTURA RIVISITATE 379

lavoro sul campo alle Isole Salomone (che assorbì in misura crescente nuovi orien-
tamenti del mio pensiero) e per fare alcuni brevi viaggi svolgendo ricerche sul cam-
po presso i churah nell’Himalaya indiano nordoccidentale, analizzando l’economia
politica dei contadini e il loro “sviluppo”.
Negli ultimi vent’anni mi sono occupato di problemi che avevo in gran parte
ignorato nelle mie prime ricerche: la classe, il genere sessuale, il potere, lo “svilup-
po” e la dipendenza, il discorso coloniale, il nazionalismo culturale. Ho trovato del-
le guide sul piano teorico in Marx, e più recentemente, in Gramsci, Foucault, Bour-
dieu, Hall, Said, Guha, e in una schiera di teoriche femministe (in particolare in
Rowbotham, Mitchell, Ehrenreich, English, Irigaray, e Wittig). Tutto questo si è ri-
flettuto nei miei scritti sulle Isole Salomone, in libri e articoli sulle lotte contro la
dominazione coloniale, su storie di vita di donne kwaio, sull’economia politica dello
“sviluppo”, sulla politica del “costume”, le strutture del discorso contro-egemonico
e la violenza e la pauperizzazione delle classi subalterne urbane.
Il mio interesse nei confronti del linguaggio (evidente nei miei studi sulla lingua
kwaio e sulla storia del pidgin inglese melanesiano) e nei riguardi della mente si è ri-
destato con l’emergere della linguistica cognitiva. L’interesse nei confronti delle me-
tafore convenzionali, con il loro carattere iconico, basate sull’immagine del linguag-
gio e del pensiero, e l’importanza posta sull’oggettivazione dell’esperienza, puntano
tutti a mettere in luce degli universali e a fornire antidoti all’eccessivo relativismo
dell’antropologia sempre a caccia di esotico. Questi interessi mi hanno ricondotto
all’interesse per questioni cognitive (nelle quali il primo influsso di Bateson rimane
forte) e di teoria culturale.
Ho sempre cercato di essere aperto a paradigmi alternativi, e di creare “ponti” in
grado di connetterli fra loro. Il sapere accademico tenta in genere di ampliare le pro-
spettive ristrette e le verità parziali, in vista di un sistema totale e nel tentativo di for-
mulare grandi teorie che si escludono l’una con l’altra. Quanto a me, mi ha interessa-
to di più la ricerca di modi produttivi per fare “stare assieme” le visioni parziali, ac-
cogliendo la vasta e meravigliosa complessità che rende umano ciò che è umano.
Parte quinta
La cultura in movimento
Introduzione alla parte quinta
Robert Borofsky

Nella parte precedente, abbiamo esplorato il culturale come un concetto analiti-


co. Qui prendiamo in considerazione il carattere dinamico del culturale. Gli antro-
pologi hanno commentato questo aspetto del culturale per decenni, ma hanno in-
Il carattere
dinamico
contrato diversi problemi nello sviluppare un modello coerente delle complesse di-
culturale namiche in esso coinvolte. Si può avvertire la difficoltà dando uno sguardo a una
recente affermazione di Sanjek. La cultura, dice (1991, p. 622), “è... in continua
creazione – è fluida, interconnessa, diffusa, interpenetrata, compatta, resistente, ri-
formulabile, creolizzabile, più aperta che chiusa, più parziale che totale, supera i
propri stessi confini, si conserva immutata dove non ce lo aspettiamo, e si trasforma
dove invece ce lo aspettiamo”. Quale tipo di modello si deve usare per concettualiz-
zare una tale collezione di aspetti?
Tre dimensioni: Questa sezione si sofferma su tre dimensioni del culturale: la diversità individua-
diversità le, il tempo, e lo spazio. Si potrebbe aggiungere che il culturale non si muove lungo
individuale, tutte queste dimensioni contemporaneamente, ma che le dimensioni sono, allo stes-
tempo e spazio
so tempo, in movimento – interagendo e adattandosi l’un l’altra. Resta ben poco da
meravigliarsi, allora, se abbiamo avuto qualche problema nel concettualizzare le di-
namiche coinvolte.
Si può, approssimativamente, classificare ognuno dei contributi di questa sezio-
ne in ragione del suo incentrarsi su una delle summenzionate dimensioni. Dico ap-
prossimativamente perché risulterà chiaro dalla lettura dei saggi che essi vanno al di
là di qualsiasi etichettatura, occupandosi di argomenti che coinvolgono due o più
dimensioni. Ma se accettiamo le tre diverse qualifiche date a questa categorizzazio-
ne, potremmo dire che nel mio contributo e in quelli di Vayda e Barth l’attenzione è
incentrata sulla dimensione della diversità individuale. Vayda mette in questione le
La critica alla nozioni essenzialiste del culturale, nozioni che mettono in rilievo l’essenza o il carat-
uniformità del tere uniforme di un gruppo culturale. Io stesso proseguo su questo tema, utilizzan-
gruppo do le differenze riguardo a ciò che la gente dice su certi argomenti per ripensare ciò
culturale
che definiamo mediante le espressioni conoscenza e conoscere. Collegando la mia
analisi alle attuali ricerche neurofisiologiche sulla memoria, insisto (come Vayda)
sulla necessità di andare oltre le vecchie analisi e formulazioni. Barth (p. 428) sotto-
linea il bisogno “di riconoscere la variabilità come un aspetto onnipresente”. Egli
suggerisce di riorientare il concetto di culturale per renderlo più aperto, contestabi-
Il riconfigurarsi le e fluido. Moore e Sahlins si interessano alla dimensione del tempo. Moore discute
dei significati degli strumenti per analizzare le continue e molteplici riconfigurazioni dei significa-
nel tempo ti culturali nel corso del tempo e il modo in cui il passato, il presente e il futuro si
mescolano l’uno con l’altro. Sahlins considera le sottili modalità secondo cui il cam-
biamento si sovrappone alla continuità quando un gruppo entra in contatto con un
altro. Kottak e Colson focalizzano la loro attenzione sulla dimensione dello spazio.
Esplorano le connessioni variabili che legano le comunità locali a sistemi su larga
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUINTA 383

scala, regionali e internazionali. Osservando un po’ più da vicino queste dimensioni Le connessioni
e il modo in cui gli antropologi le hanno analizzate in passato, aiuta a illuminare i tra comunità
locale e sistemi
contesti di cui scrivono gli autori dei saggi qui raccolti. più vasti

La dimensione della diversità individuale


Gli antropologi hanno avuto per decenni la consapevolezza della diversità indi-
viduale all’interno dei gruppi culturali – forse anche da più di un secolo se si tiene
conto di testi come Omaha Sociology di Dorsey del 1884. Più di cinquant’anni fa,
Boas (1938, p. 683) aveva notato che “quasi tutti i tentativi di caratterizzare la vita
sociale dei popoli sono stati intralciati dalla mancanza di un comportamento unifor-
me da parte di tutti gli individui”. E Sapir (1916, p. 570) commentava: “Due Corvi,
un informatore valido e perfettamente credibile... potrebbe avere la presunzione di
non riconoscere l’effettiva presenza di un costume o di un atteggiamento o creden-
za attestata da alcuni altri informatori... ugualmente validi e credibili”.
Ciò che forse è più interessante delle molte analisi esistenti – e una breve indagi-
ne porterebbe alla luce un gran numero di studi – è che la ricerca su questo tema è Sapir e
andata avanti in modo simile al modello del “taglia e incendia” citato da Wolf e l’importanza
della variazione
Wallace nell’introduzione (vedi p. 25). Periodicamente vi sono persone che com- individuale
piono studi intensivi sull’argomento solo per passare a qualcos’altro dopo pochi an-
ni. L’argomento rimane così ignorato per un certo periodo di tempo, fino a quando
non viene “riscoperto” (ancora una volta) da una nuova serie di studiosi.
In questo processo discontinuo, comunque, si sono accumulate molte interes-
santi intuizioni, come illustra la seguente breve selezione. Sapir, ad esempio, sostie-
ne la necessità di un più attento resoconto dei fattori psicologici presenti dietro alle
variazioni individuali (il riferimento a Due Corvi, appena citato, proviene da un
saggio intitolato Perché l’antropologia culturale ha bisogno dello psichiatra). “Solo
mediante una analisi della variazione... [e] uno studio minuzioso e simpatetico del
comportamento individuale”, sostiene Sapir (1916, p. 576), sarà “infine possibile Altre
prospettive
dire qualcosa che sia più di una astrazione di convenienza sulla società... e la cultu- sulla diversità
ra”. Wallace (1961, p. 129) ritiene che il culturale debba essere concepito più nei
termini di ciò che egli definisce come “l’organizzazione della diversità” che in quel-
li di una condivisa uniformità: vale a dire il modo in cui “diversi organismi operano
individualmente per mantenere, aumentare, o ripristinare una certa organizzazio-
ne... all’interno di sistemi socioculturali eterogenei”. Egli sottolinea (1961, p. 32)
che “la condivisione cognitiva non è necessaria per una interazione sociale stabile”,
solo che noi si risponda efficacemente l’uno all’altro. Pelto e Pelto (1975, p. 1) sug-
geriscono, “la diversità all’interno di un gruppo... come la diversità genetica all’in-
terno di popolazioni, è di grande importanza per i continui processi di adattamento
umano”. Essi mettono a confronto l’evoluzione biologica e quella culturale e consi-
derano il ruolo che svolge la diversità in ciascuno dei due casi. Boster (1985) segue
un percorso differente, notando le similarità che soggiacciono ad affermazioni ap-
parentemente diverse. “Le deviazioni dal modello [Aguaruna]” nella identificazio-
ne della manioca, egli scrive (1985, p. 123), “sono strutturate in relazione con la di-
visione sessuale del lavoro, con la appartenenza familiare e la residenza dei gruppi,
e con la capacità individuale”.
Il problema è stato riunire queste intuizioni isolate in un disegno complessivo e L’incapacità di
unitario. Gli antropologi, per un certo periodo, sono stati consapevoli della loro ten- elaborare
modelli
denza essenzialista e del fatto di ignorare la diversità culturale: non a caso Kroeber alternativi
(1948, p. 528), già più di quarant’anni fa, sottolineava che “qualsiasi illustrazione ne-
cessariamente elimina gran parte dei ruoli estremamente mutevoli degli uomini e del-
384 ROBERT BOROFSKY

le donne... e diventa un catalogo dei caratteri dell’istituzione”. Ma non siamo stati ca-
paci di sviluppare un modello efficace del culturale, che ci consentisse davvero di an-
dare oltre l’immagine di omogeneità diffusa dal vecchio modello. I modelli suggeriti,
del resto, non sempre riescono a imporsi. Seguendo l’analogia del “taglia e brucia”,
I limiti dei dati vengono prima proposti e poi quasi ignorati. Questo è il motivo per cui i reiterati mo-
quantitativi
niti di Vayda a favore di una posizione “anti-essenzialista” sono così importanti.
Restano tre punti rilevanti a cui fare riferimento. Primo, è necessario che svilup-
piamo descrizioni empiriche più efficaci della diversità individuale. Da un lato, pos-
siamo fondarci sulla tesi di Nadel (in Tax et al. 1953, p. 91), il quale sostiene la ne-
cessità di raccogliere dati quantitativi “che ci diano modo di sostenere, riguardo ad
una particolare modalità di comportamento, che è tipica sino ad un grado determi-
nato e che ammette una possibilità di variazione definita”. Dall’altro, però continua
a non esser chiaro, come sottolinea Barth, fino a che punto dettagli minuti possano
essere ridotti a modelli statistici (ritroviamo qui l’ombra del dibattito tra positivisti
e teorici dell’interpretazione).
Secondo, è necessario essere più precisi riguardo a ciò che è (o non è) condiviso
nei raggruppamenti culturali, e in merito al livello (o livelli) cui la condivisione po-
trà accadere: si verifica a livello di un contenuto manifesto – nei termini di ciò che
Cos’è le persone dicono e fanno nella loro esistenza quotidiana? O in base a principi sot-
condiviso? E a tintesi che, anche quando non sono direttamente osservabili, sembrano comunque
quali livelli?
dare forma alla reciproca interazione tra persone? Tenuto conto del sottile rapporto
che unisce diversità e condivisione, dobbiamo anche tenere a mente la possibilità –
evidenziata da Vayda (in particolare cfr. la nota 6) – di studiare la diversità in se
stessa, senza analizzarla nel contesto dell’unità culturale, senza presupporre che i
gruppi siano il punto centrale dell’analisi.
Infine, dobbiamo spostarci da un’analisi orientata al contenuto – che cioè ricer-
ca quali specifici elementi siano (o non siano) condivisi – a un’analisi più attenta al
processo nella quale la creazione, riproduzione e manipolazione della diversità di-
vengono aspetti essenziali. Questa è la direzione suggerita da Wallace trent’anni fa e
Da un’analisi che sosteniamo Vayda, Barth e io, (così come Bloch, Strauss e Quinn nella prece-
del contenuto a dente sezione). Le recenti Huxley Lectures di Barth (1990, p. 640) costituiscono
una del
processo
un’illustrazione di questo approccio processuale: utilizzando esempi tratti dal Sud-
Est asiatico e dalla Melanesia, egli indica in che modo differenti stili di trasmissione
della conoscenza “generano profonde differenze di forma, grado e distribuzione del
sapere”. Allo stesso modo, come afferma Vayda (p. 396), io stesso (Borofsky 1987)
sottolineo l’importanza di un approccio processuale nell’esaminare le tradizioni di
un atollo polinesiano: “secondo Borofsky, così come per Barth, il modo in cui la co-
noscenza viene acquisita, conservata e trasmessa contiene la chiave per spiegare le
variazioni”.

La dimensione del tempo


Non c’è dubbio che l’antropologia ha avuto in passato una tendenza a-tempora-
le. Molti etnografi hanno mescolato passato e presente in un “presente etnografico”
La tendenza che non riflette né il passato né il presente, ma una sorta di combinazione teorica
atemporale
dell’antropologia
dei due – che esprime non una realtà osservabile, ma il significato astratto di ciò che
avrebbe potuto essere. Tuttavia è allo stesso tempo vero che l’antropologia si è inte-
ressata ad argomenti come il cambiamento e la continuità per più di un secolo. As-
secondando le sue tendenze centrifughe, l’antropologia si è mossa in due direzioni
diverse contemporaneamente: si è allo stesso tempo avvicinata e allontanata dalla
problematica temporale.
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUINTA 385

Mi sia consentito riflettere sul crescente interesse dell’antropologia nei riguardi


degli aspetti temporali, dato che è uno dei temi centrali dei saggi seguenti; la mia
analisi inoltre servirà da contraltare ad alcune recenti discussioni sull’orientamento
atemporale dell’antropologia (ad esempio Fabian 1983). I primi antropologi hanno
L’ambiguo
ripetutamente manifestato un interesse nei riguardi della dimensione temporale. Nel rapporto
1896, Boas (1940, p. 280) sottolineava l’importanza di studiare “i processi di cresci- dell’antropologia
ta” mediante quello che lui definiva il metodo storico. E, rispondendo a una critica con il tempo
di colui che fu il suo primo studente di dottorato (Kroeber), Boas (1940, p. 307) co-
sì affermava in propria difesa nel 1936: “ho impiegato interi anni della mia vita... ten-
tando di comprendere lo sviluppo storico dell’organizzazione sociale, delle società
segrete, del diffondersi delle forme artistiche e delle fiabe sulla costa nordovest del-
l’America”. Sapir, un altro allievo di Boas, scrisse nel 1916 una celebre monografia
intitolata Time Perspective in Aborigenal American Culture. In questo testo svolgeva
una rassegna sistematica sui metodi di ricostruzione culturale – in particolare chie-
dendosi quali inferenze si potevano ragionevolmente trarre riguardo ai cambiamenti, Evans-Pritchard:
e con quale tipo di dati. Ed Evans-Pritchard (1962, p. 180), rivendicando un rinno- la riscoperta
vato interesse nei confronti della storia, sottolineava come questi primi antropologi della storia
fossero interessati all’aspetto temporale: “voltando le spalle alla storia, le abbiamo
voltate anche ai fondatori della nostra scienza che, fino a Hobhouse e Westermark,
hanno avuto tra i loro principali obiettivi quello di scoprire i principi o le tendenze
di sviluppo dell’evoluzione sociale – una meta che può essere raggiunta solo utiliz-
zando i fatti della storia”. (Quanti hanno letto il testo di Wolf, L’Europa e i popoli
senza storia, saranno lieti di sapere che già nel 1908 Bernheim, così come è stato in-
terpretato da Koppers [in Thomas 1956, p. 169], diceva che: “I popoli primitivi...
dovrebbero essere un soggetto storico. Non esistono popoli senza storia”).
L’interesse dell’antropologia nei confronti dell’aspetto temporale ha assunto for-
me diverse. È possibile rilevarlo nelle analisi dei primi evoluzionisti, ad esempio nel
caso di Morgan, Tylor, e Frazer. Il libro di Morgan La società antica (1877), ad esem-
pio, recava il sottotitolo “Ricerche sul percorso del progresso umano dallo stato sel- L’interesse per
vaggio, attraverso il periodo barbarico, fino alla civilizzazione”. La stessa situazione il tempo nel
si ritrova in evoluzionisti più recenti: nell’analisi di White (1949) sulla crescente abi- passato della
lità umana a imbrigliare fonti di energia, nella ricerca di Childe (1936) sulle fasi di disciplina:
evoluzionismo
passaggio dalla raccolta del cibo alla produzione del medesimo fino all’urbanizzazio- e diffusionismo
ne, nell’interesse di Steward (1963) nei confronti dell’evoluzione multilineare e del-
l’ecologia culturale e nello schema evolutivo “banda – tribù – dominio – stato” di
Service (1962), come in quello di Fried (1967) sul passaggio fra “società egualitarie –
fondate sul rango – stratificate – statuali”. L’aspetto temporale è anche presente in
molti studi sulla diffusione: nell’analisi delle “aree cronologiche” di Wissler (1917),
Kroeber (1939), e Kroeber e Driver (1932) così come nell’analisi dei “Kulturkreis”
di Graebner (1911, vedi anche Kluckhohn 1936) – tutti autori che intendono la dif-
fusione come una propagazione spaziale nel tempo di oggetti e idee. E lo si ritrova in
un gran numero di studi sull’apprendimento culturale, ad esempio in quello di Moo-
ney (1896) The Ghost-Dance Religion and the Sioux Outbreak of 1890, in Linton
(1940) Acculturation in Seven American Indian Tribes, nel lavoro di Wilson e Wilson
(1945) The Analysis of Social Change, Based on Observations in Central Africa, poi in
R. Redfield (1953) The Primitive World and Its Transformations, e infine in Spindler
(1955) Sociocultural and Psycological Processes of Menomini Acculturation.
Gli antropologi hanno quindi condotto molte ricerche sull’aspetto temporale. Le ricerche di
Mi limiterò a una breve rassegna del gran numero di studi sul tema. Kroeber (1957, Kroeber sulla
p. 20) ha osservato che la “struttura ideale di base dell’abito femminile in Occiden- moda
386 ROBERT BOROFSKY

te... è passata attraverso migliaia di anni di un continuo rimodellarsi senza alcun


cambiamento fondamentale”.
Il ritorno di
Firth a Tikopia
Abbiamo visto [...] come nell’abbigliamento la moda sostenga degli elementi – per esem-
pio le proporzioni della figura – che vanno in una certa direzione per cinquant’anni e
più, e che impiegano lo stesso periodo per tornare indietro. Pur variando di molto poco
da un anno all’altro, [...] le gonne femminili, per esempio, diventano sempre più ampie, o
sempre più corte, mezzo secolo alla volta (1948, p. 363). (Per ulteriori dettagli riguardo a
questa analisi vedi Richardson, Kroeber 1940).

Seguendo quel modello che Kottak e Colson presentano nel loro contributo,
Firth era ritornato a Tikopia, isolato avamposto polinesiano nelle isole Salomone.
Egli indagò in forma sistematica ciò che era cambiato nei ventitré anni trascorsi dal-
la sua prima ricerca. Palesemente, molte cose erano rimaste uguali al 1929 per
quanto riguardava i gruppi di discendenza, la parentela e il matrimonio, il potere e
le credenze religiose (con la presenza di comunità sia cristiane che pagane). “Tutta-
via nel 1952” – al tempo della sua seconda visita – Firth (1959, p. 342) notava che
“qualcosa di fondamentale era accaduto alla società di Tikopia. Aveva raggiunto
una condizione da cui si capiva che sarebbe stato difficile tornare indietro... In cam-
po economico, [ad esempio], si era notevolmente ampliato l’orizzonte dei consuma-
tori”. “La società sembrava essere sulla soglia di... un radicale cambiamento, che se-
guiva logicamente alle idee già accettate” (1959, p. 344). Tra i mutamenti più evi-
denti c’era “il fatto che... [i tikopiani] avevano ceduto la definitiva responsabilità ri-
guardo ai loro valori... ad autorità... che si trovavano in terre lontane”. Firth trova la
società tikopia, in altre parole, all’apice di una trasformazione. Un grande numero
di piccoli cambiamenti si erano sommati, dando vita a un cambiamento di entità
maggiore. Il cambiamento aveva prodotto il proprio stesso movimento.
Hallowell e Hallowell (1955) ha esaminato l’impatto psicologico del cambiamento tra gli
l’acculturazione ojibwa. Usando il test di Rorschach su tre gruppi che manifestavano tre diversi gra-
degli ojibwa di di acculturazione, Hallowell ha esaminato in che modo tali differenze di accultu-
razione influivano sulle strutture della personalità degli ojibwa. Notò la presenza di
problemi nel gruppo più acculturato, dovuti alla “mancanza di un qualsiasi sostitu-
to positivo del... sistema di valori nativo che aveva il proprio centro nelle credenze
religiose [tradizionali]” (1955, p. 357). Gli uomini e le donne reagivano a questa si-
tuazione di stress culturale in maniera differente: Hallowell osservava che mentre le
donne “si adattavano psicologicamente e socialmente in modo eccellente all’accul-
turazione, gli uomini, nel complesso, avevano avuto molto meno successo” (p. 335).
Lo studio di Service (1955) sulle relazioni fra Nuovo Mondo ed Europa ha
esplorato un aspetto differente della temporalità. Service ha dimostrato l’esistenza
Service e i di una relazione tra l’organizzazione sociale originaria e la composizione etnica del-
rapporti fra le contemporanee popolazioni latino-americane. La relazione era basata sulle moda-
europei e lità del controllo da parte delle autorità coloniali sulle popolazioni indigene dopo la
America Latina
Conquista. Con il sistema statale degli indigeni, che già possedevano una propria
burocrazia, il controllo amministrativo era indiretto; in tal modo sopravvivevano
molte popolazioni e tradizioni culturali. Ma dove esistevano altre forme di organiz-
zazione indigena, prive di una burocrazia pienamente sviluppata, i poteri coloniali
imponevano propri amministratori. In questo caso, le tradizioni culturali (e le po-
polazioni indigene) venivano a essere molto più influenzate. “Il livello e il grado di
acculturazione”, sostenava Service (1955, p. 423), “erano più rapidi e completi do-
ve il controllo [amministrativo coloniale] era più diretto e personale”.
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUINTA 387

La dimensione temporale è oggi nuovamente importante nei milieux antropolo-


gici. Se in precedenza essa veniva riconosciuta come rilevante (in particolare quan-
Ripensare le
do si poteva fare qualcosa di più che semplici congetture riguardo al passato), oggi vecchie
si potrebbe a buon diritto affermare che viene considerata una dimensione critica. concettualiz-
Quali fattori hanno portato a questo cambiamento? zazioni
In primo luogo, vi è oggi molto più materiale storico su cui lavorare. Stiamo rac-
cogliendo i frutti della rivoluzione etnografica boasiana e malinowskiana. Abbiamo
una grande quantità di scritti etnografici – prodotti 50 o 60 anni fa – che possono
servire come punto di partenza per gli studi contemporanei. E abbiamo dati, come
La dimensione
sottolineano Kottak o Colson, tratti da un certo numero di progetti a lungo termi- temporale
ne. (Colson, ad esempio, ha lavorato tra i tonga africani per oltre quarant’anni). come aspetto
“Partecipando ad una ricerca prolungata e a lungo termine, non accumuliamo solo critico
una grande massa di dati” scrive la Colson (1984, p. 3), “ma apprendiamo anche
molte cose sui limiti presenti nella raccolta stessa dei dati”. “La raccolta e i dati so-
no entrambi processi che si svolgono nel tempo... Non siamo più gli stessi quando
ritorniamo ad una medesima popolazione, e non possiamo ritornare a occuparci di
una popolazione che rimanga uguale a se stessa”. “È stato Eraclito a dire”, prose-
gue Colson, “che non possiamo bagnarci due volte nello stesso fiume. Sospetto che
fino a poco tempo fa nessuno di noi fosse in grado di vedere quanto velocemente
scorresse il fiume”.
In secondo luogo, siamo più interessati a storie di contatti e di colonizzazione. Contatti e
Oggigiorno queste vengono viste come ricche fonti di informazione etnografica, of- colonizzazione
frendo una dimensione temporale di rilievo al lavoro sul campo fondato sul presen-
te. “Come parte della più generale iniziativa politica dei primi anni Settanta”, sotto-
linea Stoler (1989b, p. 134), gli antropologi “hanno riesaminato il modo in cui le
politiche coloniali hanno influito... sulla storia dei nostri soggetti”. Si tratta di un te-
ma ricco di sottigliezze. “Uno dei paradossi che ha segnato la storia delle relazioni
europee con il resto del mondo”, aggiunge Cohn (1981, p. 233), “è che molti di
quegli aspetti che accogliamo come autentiche tracce degli aborigeni del nord Ame-
rica, si sono create in conseguenza del contatto con gli europei”. Ad esempio gli
Ojibwa, a cui abbiamo appena fatto riferimento citando lo studio di Hallowell, po-
trebbero benissimo essersi uniti in tribù dopo il 1600, in conseguenza delle necessi-
tà e del progressivo spostamento imposti dal commercio delle pellicce (vedi Wolf
1982, pp. 254-256). Le credenze e le pratiche religiose di cui parla Hallowell, facen-
done la base del “sistema di valori originario” (compreso il Midewiwin), furono
probabilmente in parte create dalle interazioni tra indiani d’America e occidentali.
Stiamo capendo, in altre parole, che non solo i contatti con l’Occidente hanno pla- L’interesse per
smato nel tempo l’organizzazione indigena, ma che, in una certa misura, esistono una politica
della cultura
dati storici di quei cambiamenti. Questo fatto sta causando una grande effervescen-
za nella disciplina.
In terzo luogo, gli antropologi sono interessati a una “politica della cultura”.
Come sottolinea Keesing, il culturale è oggi teatro di molte controversie – riguar-
do a chi può parlare di chi, e con quale autorità. Gli antropologi stanno renden-
dosi conto del fatto che il culturale finisce per essere costruito (e ricostruito) sot-
to i loro stessi occhi. Sia nella riscoperta di antiche tradizioni che nella formula- Il culturale
zione di nuove, allora, vediamo il culturale in movimento: è diventato uno stru- come terreno
mento per conferire potere, un simbolo per compattare un gruppo che si oppone di scontro
a un altro. Come quotidianamente evidenziano i titoli dei giornali, il culturale è
diventato qualcosa su cui scontrarsi.
388 ROBERT BOROFSKY

La consapevolezza di questi cambiamenti rappresenta il contesto in cui si muo-


vono i saggi della sezione, specialmente quelli di Moore e Sahlins. Nella loro ricer-
ca di nuove concettualizzazioni, essi focalizzano la loro attenzione su tre argomen-
Giungere a
nuove
ti che si sovrappongono a quelli già discussi in Ripensare il culturale (i lettori po-
concettualiz- tranno tornare a consultare questa parte del volume per ritrovarvi in dettaglio le
zazioni tematiche coinvolte).
In primo luogo, c’è il problema della misura in cui continuità e cambiamento
tendano a sovrapporsi. Il culturale, ritiene Cohn (1980, p. 217), “viene continua-
mente inventato o modificato, senza essere totalmente trasformato”. Questo è il
motivo per cui Moore (p. 442) si interessa sia al “continuo e molteplice formarsi e
riformarsi” dei significati, sia all’analisi di sequenze trasformazionali. Come la Moo-
re sottintende, il cambiamento e la continuità non sono sempre facili da distingue-
re, ma sono intrecciati in modi complessi.
In seconda istanza, c’è la questione del modo in cui le unità culturali interagi-
scono tra loro nel tempo – in particolare come un gruppo all’apparenza domini
un altro culturalmente senza che la dominazione diventi completa. Esiste una “in-
digenizzazione della modernità”, come sostiene Sahlins, in cui ciò che è straniero
viene reinterpretato in termini locali. E esiste una curiosa forma di ibridazione del
Indigeniz- culturale, quando le credenze di diversi gruppi sembrano mescolarsi a quelle del
zazione della “sistema economico mondiale” e tuttavia rimangono distinte tra loro. Hannerz
modernità e (1990, p. 245) si riferisce alle culture transnazionali come a “teste di ponte... in al-
ibridazione tri territori culturali”. Le sovrapposizioni e le differenziazioni coinvolte in queste
interazioni possono essere ben più sottili (una puntualizzazione che abbiamo vi-
sto fare a Linton nel suo “Americano al cento per cento”, citato nell’introduzione
alla parte quarta).
Infine c’è la “politica della cultura”, in cui definire cosa sia il culturale e chi lo
possieda diventa un tema altamente politicizzato – aperto non solo al dibattito in-
tellettuale, ma anche a un violento conflitto. Noi vediamo il culturale non semplice-
mente come qualcosa in movimento, ma come parte di una serie di processi politici
più vasti, che aiutano a definirlo.

La dimensione dello spazio


Gli antropologi degli esordi hanno valutato in modo ambiguo la dimensione
spaziale del culturale. Alcuni, così, hanno descritto i gruppi che analizzavano come
culturalmente isolati. Da questo punto di vista, la distinzione culturale comportava
La dimensione una separazione spaziale – in particolare dagli occidentali (ma anche forse da altri).
spaziale e i L’ovvia frantumazione indotta dal contatto con l’Occidente ha rafforzato questa
gruppi isolati
prospettiva. I fattori esterni che danno forma all’organizzazione di un gruppo ten-
devano a essere sottovalutati, e i condizionamenti coloniali e missionari venivano
messi da parte. Lo stesso accadeva per un’altra serie di fattori. “Una delle più am-
mirevoli analisi di una dettagliata struttura sociale... che sia stata pubblicata negli
ultimi anni”, sottolineava Forde (in Tax et al. 1953, p. 69) quarant’anni fa, “è lo stu-
La sottovalu- dio del professor Fortes sui Tallensi [1945]... Ma nel libro del dottor Fortes non si
tazione dei troverà alcun riferimento... alle implicazioni delle razzie di schiavi compiute dall’e-
condiziona-
menti coloniali sterno, un fattore endemico nell’area dei Tallensi”.
È anche vero, comunque – ancora una volta assecondando le tendenze centri-
fughe dell’antropologia – che diversi antropologi hanno prestato una considerevo-
le attenzione alla dimensione spaziale. Questa dimensione ha rappresentato un ele-
mento chiave, ad esempio, negli studi sulla diffusione – come quelli dei Kultur-
kreis e sulle variazioni cronologiche areali – che hanno utilizzato le trasformazioni
INTRODUZIONE ALLA PARTE QUINTA 389

osservate nello spazio per derivarne delle trasformazioni nel tempo. Come nell’a-
nalisi di Spier della “danza del sole degli Indiani delle Pianure” (citata nella Secon-
da parte), si possono tracciare le distribuzioni spaziali degli elementi e, da questi,
derivarne cosa si sia diffuso, come e quando. La dimensione spaziale è inoltre par-
te integrante della celebre definizione di Kroeber (1948, pp. 263, 265) delle popo-
lazioni rurali come “culture parziali di segmenti della società”: tali popolazioni “vi-
Gli studi delle
vono in rapporto con le città-mercato”, notava Kroeber, “formano un segmento di aree culturali
classe di una popolazione più vasta”. Per comprendere i raggruppamenti delle po-
polazioni rurali, allora, si doveva studiare il più ampio insieme spaziale di cui costi-
tuivano una parte.
Pochi sottolineano oggi le qualità arcaiche o isolate dei siti di ricerca. La pre-
Kroeber e le
senza della dimensione spaziale – sotto forma di influssi regionali, nazionali o glo- popolazioni
bali sulle comunità locali – è stata più volte riconosciuta. “Una delle forze più im- rurali
portanti dei sistemi-mondo e dell’approccio marxista ai modi di produzione”, so-
stiene Roseberry (1988, p. 168), è “la possibilità di collocare i soggetti antropologi-
ci in più ampi movimenti storici, politici e economici come il commercio degli
schiavi, l’imposizione di regimi coloniali... le esplosioni e le contrazioni del merca-
to internazionale”. Inoltre si ammette la necessità di “rivedere le convenzioni della
descrizione etnografica al di là di una misura del cambiamento di fronte a qualche
auto-comprensiva, omogenea e largamente astorica formazione dell’unità cultura-
le… a favore”, sostengono Marcus e Fischer (1986, p. 151), “di una visione di si-
tuazioni culturali… in un perpetuo e storicamente sensibile stato di resistenza e di Contatto,
accomodamento rispetto a più ampi processi di influenza”. Sahlins (1977, p. 27) resistenza e
sottolinea come gruppi di indigeni possano essere attivamente coinvolti in tali inte- accomodamento
razioni: “Gli hawaiani non erano propriamente le vittime passive dell’imperiali- tra culture
smo... Al contrario, l’ordinamento delle categorie hawaiane giocò... un ruolo nel
dar forma all’organizzazione del commercio… in base al proprio significativo siste-
ma di domanda”.
Il fatto che i contatti influiscano su entrambe le parti coinvolte nell’interazio-
ne è oggetto oggi di un sempre maggior consenso. Ad esempio, non solo gli eu-
ropei-americani negli ultimi tre secoli hanno avuto effetti drammatici sugli india-
ni nordamericani; come sottolinea Hallowell (1957, p. 320), infatti, gli indiani
nordamericani hanno influenzato il modo di vivere degli europei-americani: “I
nostri contatti con gli Indiani hanno influenzato il nostro discorso, la nostra vita
economica, il nostro abbigliamento, i nostri sport e il tempo libero… la musica
popolare e da concerto, la narrativa, la poesia, il teatro, e anche alcuni nostri at-
teggiamenti psicologici di base”.
Due argomenti chiave necessitano di una chiarificazione in relazione all’aspetto
spaziale. In primo luogo, dobbiamo pensare servendoci di unità d’analisi più effica- Il bisogno di
efficaci unità
ci. Cosa si guadagna e cosa si perde, ad esempio, focalizzando l’attenzione su una d’analisi
comunità piuttosto che su una regione, o sull’intera rete internazionale? I dati com-
plessi raccolti da Kottak e Colson sollevano questioni relative a che genere di con-
cezione possa soddisfare al meglio un dato tipo di domanda. E, in secondo luogo,
dobbiamo rivalutare (come indicano Sahlins, Kottak e Colson) il modo in cui pos-
siamo meglio rappresentare le relazioni tra l’Occidente e il resto del mondo nel cor-
so del tempo – come possiamo registrare al meglio le sottigliezze dell’interazione,
dell’adattamento e della resistenza?
Nota alla parte quinta
Alberto Sobrero

Dopo tante pagine, giunto alle soglie di questa quinta parte, Il culturale in movi-
mento, il lettore avrà chiara l’ipotesi centrale che sorregge il vastissimo reader di Bo-
rofsky. Proviamo a riassumerla così: l’essenzialismo, quell’atteggiamento positivista
che ci spingeva a pensare che il compito dei nostri studi fosse rivelare la nascosta,
invariabile, essenza al di sotto delle apparenti differenze, è una prospettiva che la
nostra disciplina ha definitivamente messo da parte. Di recente quel che restava di
tale ipotesi è stato bersagliato da più bastioni: basti pensare agli attacchi dell’erme-
neutica filosofica, del decostruttivismo, dell’interpretativismo e agli stessi sommovi-
menti dell’epistemologia applicata alle scienze dure. L’antropologia, quel che Geor-
ge Stocking chiama l’antropologia classica, o l’epoca classica dell’antropologia, è
definitivamente trapassata. E con essa sono passate a miglior vita molte delle sue ca-
tegorie, smontate e deposte negli ammutoliti depositi di tutte le macchine meccani-
che o mentali che non sono mai state realizzate. In bella evidenza i curatori della
nostra storia hanno messo la nozione di identità e di etnia; più in fondo, ma bene in
luce, la nozione di razza; nel reparto storico c’è la nozione di mentalità collettiva, al-
la quale avevamo affidato tante speranze, quella di sopravvivenza, di funzione, di
sovrastruttura. Ma sugli scaffali il reperto più ingombrante è senz’altro quello di
“cultura”, concetto posto dai padri fondatori a basamento della nostra disciplina.
Un concetto di cultura fuori del tempo e dai confini spaziali ben definiti: sopra al
basamento troviamo etichettati con ordine gli andamani, i bambara, i malinke, i
nuer, i peulth, gli zuñi. E molte altre centinaia di popoli-etnie. Alcuni dicono intor-
no ai cinquemila.
Eppure malgrado ogni decostruzione si è continuato a fare antropologia, o meglio
si è fatta sempre più antropologia. La stessa nozione di cultura, quando più quando
meno, ha sempre contenuto un “di più” di diversità da spiegare, un intrinseco non-
essenzialismo, una potenzialità riflessiva, che sarebbe da ciechi non vedere. Si pensi
al nostro De Martino su tutti, ma anche a Gregory Bateson, e, facendo incursione in
territorio nemico, a Lévi-Strauss riletto da Edmund Leach. Tutti autori sui quali ha
ragionato in Italia Vincenzo Padiglione in Interpretazione e differenze (1996).
Ecco, la prima tesi di questo libro è in fondo questa: malgrado le visioni e le senten-
ze palingenetiche dell’interpretativismo, l’antropologia ha sempre tentato di sottrarsi
alle categorie metafisiche date una volta per tutte. Il suo stesso oggetto la spingeva in
questa direzione. A volte malgré soi. Per sua natura l’antropologia non poteva che es-
sere antropologia critica, non poteva che andare oltre l’antropologia codificata. In
questo libro si tratta, appunto, di scoprire come l’antropologia sia andata avanti, tra
Scilla e Cariddi, fra le secche del positivismo e i gorghi dell’interpretativismo.
Quello che il lettore italiano scoprirà con piacere è che le strade che hanno per-
messo e permettono di andare avanti sono tante. Molte di più di quelle che alcuni
affrettati entusiasmi gli hanno permesso di vedere. In questa quinta parte, dicevo,
NOTA ALLA PARTE QUINTA 391

si arriva alla resa dei conti. In discussione è il concetto di cultura. L’ipotesi è che
quello di cultura sia un concetto buono quando lo si usa, lo si adatta, lo si manipo-
la, ma pessimo quando lo si assume come principio e fine del nostro lavoro. In un
modo o nell’altro gli autori che leggerete in questa parte lo hanno usato: una cultu-
ra che non esclude l’ossimoro della ‘cultura individuale’, un concetto di cultura
che cambia nel tempo, nello spazio, che si scompone e si ricompone continuamen-
te. Gli interpretativisti, gli autori di Scrivere le culture (Clifford, Marcus 1986),
hanno detto cose importanti e cose intelligenti, ma mi domando quante di queste
cose non fossero già implicite nel discorso antropologico. Il loro merito è stato
esplicitarle. Molto o poco, a seconda delle prospettive. In questo libro appare uno
solo degli autori che contribuirono a Scrivere le culture: si tratta di George Marcus.
Non era l’unico antropologo (Rice University) di quel progetto: era uno dei pochi
e comunque vale la pena (cosa che permette ottimamente questo libro) rileggersi il
suo (antropologico) percorso intellettuale.
Infine. C’è un’ipotesi batesoniana che circola qua e là in questa quinta sezione e
che, forse per le mie recenti riflessioni, vorrei sottolineare: abbiamo sempre detto
che per comunicare è necessaria una cultura comune, abbiamo detto che gli uomini
comunicano grazie alla comune cultura, ma perché non potremmo rovesciare i ter-
mini: comunicando produciamo una cultura comune, per meccanismi che in buona
parte sono ancora da studiare, ma per meccanismi che forse danno una qualche
concretezza al vecchio concetto di cultura. Così cediamo le armi? Riduciamo l’an-
tropologia a un settore della teoria della comunicazione, della semiologia, come si
diceva una volta? No; la differenza fra le due prospettive, proprio a partire da Bate-
son, non è molta: si tratta sempre di rendere virtuoso il procedere circolare della
nostra conoscenza. Ancora un’ultimissima osservazione: Clifford Geertz non a caso
apre questo libro (nell’introduzione di Borofsky) e lo chiude con il saggio Gli usi
della diversità. Per piacere, non diamo ai padri le colpe dei figli. Hanno già tante
colpe per conto loro.
Azioni, variazioni e cambiamento:
la nascente prospettiva anti-essenzialista in antropologia*
Andrew P. Vayda

Mentre gli antropologi positivisti e interpretativisti discutevano sui modi in cui


devono essere studiate le strutture e l’ordine dei fenomeni socioculturali e sui loro
L’eccessiva aspetti fondamentali, si prestava una sempre maggiore attenzione, anche se limitata,
importanza
data alle
agli sviluppi che desidero sottolineare in questo saggio – vale a dire all’emergere di
strutture una prospettiva secondo cui si è indebitamente esagerata l’importanza delle struttu-
re e dell’ordine, mentre è necessario studiare le variazioni e la variabilità in maniera
più approfondita. Nel descrivere tale sviluppo e nel rivendicarne l’importanza, farò
dapprima uso di esemplificazioni che definisco “anti-essenzialiste”, poi di esempi
essenzialisti. Per fare maggiore chiarezza riguardo ad alcuni temi programmatici
della disciplina, la mia analisi comprenderà solo alcuni cenni circa l’essenzialismo e
l’anti-essenzialismo, in relazione ad altri dibattiti in corso tra antropologi.

Anti-essenzialismo
Questo paragrafo intende illustrare per sommi capi, e senza pretese di esaustivi-
tà, la prospettiva emergente dell’anti-essenzialismo, incentrata sulla variazione1. Nel
1975, Pelto e Pelto ne proposero un’efficace formulazione. Essi hanno sottolineato
che dal 1884, quando Dorsey aveva riportato notizia di disaccordi tra gli indiani
omaha riguardo alla loro stessa cultura, le osservazioni relative a eterogeneità intra-
comunitarie riportate da diversi altri antropologi erano state, per la maggior parte,
Il tentativo di
trovare una
rapidamente accantonate in modo da “potere proseguire nell’opera di descrizione
“verità di ‘strutture sociali’ e culturali ‘tipiche’” (Pelto, Pelto 1975, p. 1). Di conseguenza,
culturale” uno sviluppo recente delle ricerche di alcuni antropologi confrontatisi con delle va-
riazioni è stato il tentativo di determinare la “verità culturale”, stabilendo su cosa
possa fondarsi il consenso tra gli informatori a dispetto della molteplicità di varia-
zioni (Romney, Weller, Batchelder 1986, p. 315; Boster 1986, p. 429).

Pelto e Pelto, al contrario, considerano le variazioni in sé estremamente im-


portanti – ad esempio, come adattamenti a microambienti o a contesti transitori e
come materia prima per eventuali cambiamenti sociali o culturali. Come per le di-
L’importanza chiarazioni anti-essenzialiste in altri campi (ad esempio nella biologia e nell’ecolo-
della variazione gia, Gould 1982; Mayr 1982, pp. 46-47; Simberloff 1980), l’articolo di Pelto e
Pelto è degno di nota per essere andato al di là del semplice riconoscimento delle
variazioni e averne fatto il principale oggetto di studio, al posto di tipi e strutture.
L’anti-essenzialismo in antropologia, come in questi altri campi, vede le variazioni
come “la realtà fondamentale” (Gould 1982, p. 12) e non come semplici infrazio-
ni alla norma. Questa prospettiva rifiuta la nozione che Popper (1957, pp. 37-40)
considera caratteristica dell’essenzialismo, vale a dire che qualunque cosa sia con-
divisa o universale (ad esempio la “bianchezza” come proprietà appartenente a
molte cose differenti: i fiocchi di neve, le tovaglie, e i cigni) abbia una realtà in sé
AZIONI, VARIAZIONI E CAMBIAMENTO 393

e sia più meritevole di attenzione scientifica e accademica di quanto non lo siano


singoli oggetti, o anche serie o gruppi di oggetti. Nelle sue ricerche l’anti-essen-
zialista è guidato da questioni riguardo al comportamento reale e alle sue conse-
guenze, piuttosto che da questioni come “cos’è la famiglia?” o “cos’è lo Stato?” o Popper e
“che cos’è la rivoluzione?” o “che cos’è la religione?” o “che cos’è la religione de- l’esistenzialismo
gli indiani pueblo?” o “che cos’è la cultura giavanese?”. A differenza dell’essen- come
zialista, non si propone il compito di estrapolare, a partire dalle singole cose o reificazione di
concetti ed
eventi cui si applica l’uno o l’altro di tali termini, la natura “vera” o “reale” di al- essenze
cune essenze da essi denotate (Popper 1957, p. 39)2. E quando lo stesso anties-
senzialista fa uso di ampie categorie come quella di “comportamento alimentare”
o di “comportamento sessuale”, non è nel tentativo di scoprire delle norme o di
mostrare ciò che “realmente” sono, ma piuttosto nel tentativo di mostrare e spie-
gare le variazioni, ad esempio, in quello che le persone mangiano (Vayda 1987a),
se i partner sono dell’altro sesso o del medesimo e se sono sposati o meno (Gould
1982 analizza così il “radicale anti-essenzialismo” delle ricerche in materia sessua-
le di Alfred Kinsey).
Espressioni
Espressioni etnografiche della prospettiva anti-essenzialista negli anni Settanta e etnografiche
Ottanta possono ritrovarsi in resoconti in cui le variazioni sono, in effetti, la realtà dell’essen-
fondamentale descritta, e non vengono invece presentate come deviazioni da una zialismo: le
norma putativa, o sminuite come mero “rumore” nel sistema. P. J. Wilson (1977, p. variazioni come
deviazioni e
28) così, descrivendo gli tsimihety del Madagascar, afferma che essi conducono le “rumore”
proprie vite in modo flessibile, pragmatico e non spettacolare, “senza i limiti o l’e-
stetica di una struttura ordinatrice sistematica”. Le loro azioni e i loro pensieri va-
riano in rapporto alle situazioni personali:

Alcuni villaggi irrigavano i loro campi di riso, mentre altri contavano sulle piogge. Alcuni Il caso delle
organizzavano delle cooperative in cui si scambiavano i lavori; altri lavoravano da soli. variazioni
Alcuni uomini eseguivano un rituale impiegando una certa preghiera, altri omettevano la presso gli
preghiera o ne usavano una differente. tsimihety

Non ci sono motivi, secondo Wilson, di ritenere che tale variazione sia il risulta-
to della disgregazione culturale. Sebbene non trovi alcuna modalità specifica con
cui gli tsimihety fanno le cose o, con parole sue, nessun “marchio etnografico” tsi-
mihety, non ritiene però che quella popolazione viva nel caos o nell’anarchia.
Mi limiterò a citare solo pochi altri resoconti in cui la variazione viene descritta
in modo simile. Gli ibans del Sarawak sono degni di nota, perché è parso ad alcuni
La
studiosi che possiedano una peculiarità etnografica definita: coltivazioni estensive, diversificazione
distruttive della foresta e mobili (vedi i riferimenti in Padoch 1982, pp. 9-10; 117) e dei
sono stati descritti come “i prototipici mangeurs de bois” (o mangiatori di foreste) comportamenti
(Bronson 1972, p. 193). Comunque, in una monografia del 1982, Padoch dimostra presso gli ibans
che agiscono in molti modi diversi, e non si limitano a migrare verso aree di foresta
vergine quando la terra o altre risorse a loro disposizione diventano limitate. Ad
esempio, adottano regimi più conservatori di semina a maggese, e intensificano il la-
voro di coltivazione; utilizzano anche più terra per appezzamenti orticulturali colti-
vati secondo la tecnica del “taglia e brucia”, e impiegano più persone in lavori tem- Il caso della
poranei. Gli ibans, così come emergono dalle pagine della monografia di Padoch, guerra maring
sono simili agli tsimihety nel variare pragmaticamente il loro comportamento, e nel
rispondere alle differenti condizioni in cui si vengono a trovare.
Di recente, ho nuovamente attaccato l’antropologia essenzialista, che tende a ve-
dere la cultura come norma, analizzando il motivo per cui la gente combatte nelle
394 ANDREW P. VAYDA

regioni montuose della Nuova Guinea (Vayda 1989). Utilizzando dati che avevo
raccolto negli anni Sessanta sulla guerra maring, ho mostrato che un importante
elemento che variava tra i maring era il fatto di combattere per il possesso della ter-
Lo studio di
Colson sui
ra. Alcuni gruppi di maring lo facevano, altri no. La paura degli spiriti degli antena-
gwembe ti dei nemici impediva ad alcuni maring di impossessarsi delle terre dei nemici ma
non spaventava altri. Come è stato detto dai critici delle mie prime pubblicazioni
sulla guerra nei maring (ad esempio Hallpike 1973, pp. 457-459; King 1976, p.
313), non tutti i combattimenti dei maring erano causati dal fatto di essere senza
terra e di battersi per quella; comunque, al contrario di quanto sostenevano i critici,
alcuni combattimenti dei maring lo erano. In verità la variazione in quanto tale era
qualche volta rintracciabile perfino tra i principali belligeranti in una singola guer-
ra, uno che combatteva per la terra e l’altro per l’onore (che sarebbe stato perduto,
nel caso la sua terra, anche se superava di molto le sue necessità, non fosse stata di-
fesa). Risultato della mancata attenzione a tale variazione è la distorsione della real-
tà in tipologie come quella di Sillitoe (1977), in cui il fatto di combattere per la ter-
ra è usato per distinguere la guerra combattuta dai membri di una singola vasta uni-
tà etnolinguistica della Nuova Guinea, gli abelam, ma viene erroneamente negato
per ciò che concerne i membri di altre unità, inclusi i maring.
Il contributo di Colson alla nuova prospettiva emergente, concretizzatosi in un
importante articolo del 1984, ha un peso speciale perché è basato sullo studio di
una singola popolazione, i gwembe tonga dello Zambia, a partire dal 1946. La Col-
son ritiene che in ogni decennio i gwembe si sono trovati di fronte “rischi e possi-
bilità molto differenti” (ad esempio, il trauma di un forzato reinsediamento, lotte
politiche, guerriglie, espansione economica e declino economico) e che, proprio
come le persone fronteggiavano differenti sfide, così di volta in volta riordinavano
il proprio modo di pensare e mutavano i loro obiettivi (Colson 1984, p. 5).
Riguardo in particolare ai valori, la Colson rende esplicito il fatto che le osserva-
zioni derivanti da studi a lungo termine non sono compatibili con una prospettiva
essenzialista: “alla fine si è visto che i valori ritenuti una volta fondamentali come
guida all’interazione delle persone l’una con l’altra e con il proprio ambiente sono
situazionali e legati al tempo, piuttosto che verità eterne utilizzate per predire il
comportamento nel tempo e in ogni circostanza” (Colson 1984, p. 7). Colson chiu-
de il proprio articolo facendo riferimento alla pervasività del divenire richiamando-
si con forza alla prospettiva anti-essenzialista: “l’antropologia compie dei progressi
quando va alla ricerca della diversità, della variabilità” (Colson 1984, p. 12)3.

Fare delle Affinché non si pensi che la prospettiva emergente costituisca, come suggerisce
variazioni Harris (1988, p. 515), una ripresa del volontarismo e una infatuazione per le variazio-
l’oggetto di ni al solo scopo di rifiutare teorie e principi generali, si deve capire come la prospetti-
analisi
va anti-essenzialista, per formulare i propri rifiuti, debba di necessità interessarsi alla
spiegazione delle variazioni e debba perciò utilizzare generalizzazioni. Di conseguenza
il problema programmatico non si pone più nei vecchi termini di una generalizzazio-
ne opposta al particolarismo, o della spiegazione opposta alla descrizione, (Harris
1968, capp. 9-11; Magarey 1987), ma piuttosto contempla l’ipotesi che le variazioni
stesse devono diventare oggetto di spiegazione e generalizzazione tanto quanto, se
non più di, qualsiasi struttura putativa o norma socioculturale. Quest’ultimo aspetto
è, in effetti, quello affrontato da Colson (1984, p. 12) quando un collega le disse che
“nessuno penserebbe che l’antropologia abbia qualcosa da offrire se si ammettesse
che i valori e le istituzioni cambino costantemente, e che anche tra due villaggi nella
stessa regione vi sono numerose differenze”. La Colson reagì appropriatamente citan-
AZIONI, VARIAZIONI E CAMBIAMENTO 395

do Darwin e i fringuelli delle Galapagos, un classico caso in cui non solo si sono os- Il riferimento a
servate variazioni significative, ma si è fornita per esse una spiegazione. Darwin
In un libro recente, anche Barth (1987, pp. 8, 24) fa riferimento a Darwin; se-
guendo la “tradizione del meraviglioso naturalista”, egli esprime il proprio intento
di identificare fenomeni per rendere conto delle variazioni, processi e meccanismi
reali, empiricamente accertabili ma “generalizzabili”. Le variazioni a cui è specifica-
mente interessato sono quelle dei rituali e delle concezioni cosmologiche dei moun-
tain ok della Nuova Guinea. Mettendo in evidenza le oscillazioni presenti in una
comunità tra l’esecuzione pubblica dei riti ogni dieci anni circa e i lunghi periodi di
isolata e chiusa salvaguardia, circondata da tabù, della conoscenza dei medesimi riti
ottenuta grazie a un ristretto numero di esperti di rituali, Barth ha notato che i riti Le
non possono essere riprodotti ogni volta con assoluta fedeltà, e che le modificazioni modificazioni
intervenute dipendono da fattori come la memoria degli esperti e il loro ricorso alla dei rituali
congettura e all’improvvisazione, così come al prestito da gruppi vicini (Barth 1987, presso i
Mountain Ok
cap. 4 e passim). Con il loro aumentare, tali modificazioni possono determinare le
variazioni che Barth ha osservato tra le comunità mountain ok, compresi quei con-
trasti netti in base ai quali dipingersi di rosso il corpo in certi rituali di iniziazione è
associato alla mascolinità e alla virilità in alcune comunità, al sangue mestruale in al-
tre4. Barth mette in chiaro che i suoi oggetti di studio non sono “ordini logici inclu-
sivi” (1987, p. 8) o “insiemi strutturali” (1987, p. 83) o culture “internamente omo-
genee e condivise, e esternamente delimitate” ma piuttosto le variazioni stesse, e i
processi e i meccanismi che le producono.
In un mio recente lavoro, ho anch’io evitato che culture o altri “insiemi” fossero
l’oggetto dei miei studi, e ho cercato invece di spiegare le azioni o le loro conse-
guenze senza considerare la loro rappresentatività o tipicità culturale5. Nel caso del Le motivazioni
della guerra
mio studio sulle motivazioni dei combattimenti tra i maring, l’attenzione era focaliz- presso i maring
zata sull’atto del combattere in sé e sulle variazioni nelle sue conseguenze e nelle e il modello
ragioni in base alle quali gli individui vi erano coinvolti. La mia spiegazione di tali contestuale
variazioni è conforme al cosiddetto modello contestuale, che ho formulato in alcune
recenti pubblicazioni (Vayda 1987a, 1987b, 1988; cfr. Vayda 1983).
Nel modello contestuale, la spiegazione consiste nel contestualizzare le azioni
o le loro conseguenze seguendo il filo degli influssi che hanno agito su di loro nel-
lo spazio esterno o nel tempo6. Le generalizzazioni che in casi particolari sosten-
gono le spiegazioni sono “asserzioni generiche di connessioni intelligibili” piutto- Le
sto che leggi inclusive o generalizzazioni universali, un tempo ritenute da alcuni generalizzazioni
positivisti indispensabili alla spiegazione scientifica7. Quindi, in casi particolari, come “asserzione
per formulare la spiegazione di alcune azioni è possibile attestare connessioni tra di connessioni
certi tipi di azione, certi tipi di motivazione, e certi tipi di contesto in cui hanno intellegibili”
luogo. Le connessioni risultano intelligibili e ricorrenti solo qualche volta, ma non
sono necessariamente universali.
Un semplice esempio tratto dal mio studio dei maring consiste nell’affermazio-
ne che le persone combattono per ciò che non possiedono (Vayda 1989, pp. 169,
175). Che tali asserzioni generiche possano essere riferite a diverse culture e diffe-
renti periodi storici allo scopo di spiegare dei modelli di azione è stato sostenuto
con forza da Martin nel 1977 (Martin 1977, cap. 11) e, in effetti, alcuni anni prima Evans-Pritchard:
anche da Evans-Pritchard (1964, pp. 167-168); cfr. Berlin 1960, pp. 19-21; Hart, unicità e
Honoré 1959, p. 53). Poiché Evans-Pritchard ha avuto il buon senso di prestare generalità
meno attenzione alle dichiarazioni teoriche che al modo in cui gli eventi vengono dell’evento
realmente spiegati o resi intelligibili dagli antropologi e dai sociologi della storia
(1964, p. 168), ha giustamente sostenuto che “ogni avvenimento ha in sé i caratteri
396 ANDREW P. VAYDA

dell’unicità e della generalità” e che in una interpretazione o spiegazione si deve


prestare attenzione a entrambe (cfr. Gould 1988). Inoltre, gli esempi di cui si servi-
va – le operazioni di svalutazione monetaria e la lotta dei re contro i baroni – chia-
riscono come la generalità a cui faceva riferimento si estendeva al di là dei confini
di particolari culture o periodi storici.
Borofsky: la Un altro studio recente focalizzato sulle variazioni è la monografia di Borofsky
fluidità e (1987) sulle tradizioni e cambiamenti tra i circa 750 abitanti dell’atollo polinesiano
flessibilità di
Pukapuka di Pukapuka. Come Barth, e diversamente da precedenti etnografi di Pukapuka,
Borofsky non assume come proprio obiettivo quello di produrre il resoconto di
una cultura omogenea o di un modo di vivere coerente, dotato di una struttura
unitaria. Al contrario, egli sottolinea come la struttura sociale degli abitanti di Pu-
kapuka sia fluida e flessibile (Borofsky 1987, p. 72) e qualche volta assuma forme
che i precedenti etnografi, me compreso, non avevano rilevato8. Un esempio di ta-
le forma è ciò che gli abitanti di Pukapuka chiamano Akatawa, una divisione bi-
partita della popolazione e delle risorse dell’atollo. Dal 1976 al 1980, questa forma
prese il posto di una organizzazione tripartita del villaggio che era stata utilizzata
per decenni. Il “Consiglio delle persone importanti” che aveva introdotto nel 1976
l’Akatawa la considerò una forma tradizionale di organizzazione sociale che le per-
sone più giovani dell’isola dovevano conoscere. Quello che era stato inizialmente
considerato come revival limitato a sole due settimane continuò a restare in uso
perché “alla gente piaceva” (Borofsky 1987, p. 140). Borofsky (1987, p. 35) nota
Il caso
dell’Akatawa
che l’Akatawa non fu affatto un fenomeno disgregativo, e che probabilmente il
cambiamento più radicale che aveva causato fu quello di fargli capire come la vita
sociale degli abitanti di Pukapuka era molto più fluida e meno strutturata di quan-
to avesse pensato. Ma questa cosapevolezza non è il punto finale dell’analisi di Bo-
rofsky. Come Barth, egli è interessato a rendere il fluire e le variazioni comprensi-
bili, scoprendo i meccanismi che li producono. Nella sua ricerca dei meccanismi,
Borofsky impiega un approccio naturalistico simile a quello di Barth e presta una
particolare attenzione alle modalità attraverso cui gli abitanti di Pukapuka acquisi-
scono le conoscenze. Scopre che tra i principali processi si ritrovano l’osservazione
informale e l’ascolto degli altri e che, poiché le persone hanno differenti percezioni
I diversi di ciò che osservano e sentono, tale diversità trasforma non solo la loro idea del
processi di modo in cui queste attività debbano essere eseguite – considerandole come un fit-
acquisizione
delle
to tessuto di trame sovrapposte – ma anche la loro conoscenza di possibili modi di
conoscenze organizzare la gente e di allocare risorse (Borofsky 1987, p. 122 e passim). Nel caso
dell’Akatawa, tutti i dati raccolti indicano che, prima del 1976, non era granché
conosciuto e a esso non veniva attribuito un particolare significato legato alla tra-
dizione. Come le cose fossero cambiate a partire dal 1976 viene riassunto da Bo-
rofsky nel seguente modo (1987, pp. 141-142):

Le concezioni private (e probabilmente vaghe) di pochi individui furono introdotte nel-


l’ambito pubblico e sostenute sia dal “Consiglio delle persone importanti”, sia dalla po-
polazione nel suo insieme... Agendo in modo semplice e senza grossi problemi l’Akatawa
guadagnò anche una certa carica di autenticità. La gente, facendo esperienza dell’Akata-
wa, dal 1976 in poi cominciò a discuterne pubblicamente, riflettendo sui suoi possibili
antecedenti storici; si diffusero così idee inizialmente vaghe e marginali riguardo all’Aka-
tawa del passato, e finirono per stabilizzarsi, venendo ampiamente enunciate e accettate.
Era sorta una nuova significativa tradizione.

Anche per Borofsky, come per Barth, il modo in cui la conoscenza viene acquisi-
ta, conservata e trasmessa contiene la chiave per spiegare le variazioni.
AZIONI, VARIAZIONI E CAMBIAMENTO 397

Essenzialismo
Il contrasto tra la nuova prospettiva, così come viene esemplificata da Borofsky,
e le prospettive essenzialiste può essere evidenziato prendendo brevemente in esa-
me le passate etnografie dei pukapuka. Nel caso di Ernest e Pearl Beaglehole
(1938), la loro insistenza sulla uniformità culturale, sulla struttura e la stasi, a spese
della diversità, della labilità, e del cambiamento può essere stata non tanto espres-
sione di una prospettiva filosofica coerente quanto una risposta al fatto di dovere L’essenzialismo
e le etnografie
pubblicare i loro dati su pukapuka in un numero limitato di pagine e secondo il dei pukapuka
formato imposto per le inchieste polinesiane del Bernice P. Bishop Museum. Inol-
tre, come osserva Borofsky (1987, pp. 50-51), sebbene le variazioni fossero state
registrate nelle annotazioni sul campo dei Beaglehole, devono avere deciso di non
includerle nella loro monografia a causa dell’idea di coerenza che quest’ultima do-
veva possedere9. D’altra parte, nel caso di un etnografo più recente, Hecht, l’ac-
cantonamento delle variazioni evidenzia una vera e propria tendenza essenzialista,
che lo spinge a una ricerca della “congruenza” e della “strutturazione simbolica
unitaria” nel comportamento e nei simboli dei pukapuka in relazione ad ambiti co-
me quello del genere sessuale, del paesaggio, e del passaggio attraverso il ciclo del-
la vita (Hecth 1976a; 1976b; 1977, citato in Borofsky 1987, pp. 61-63). I modelli
culturali dei pukapuka che possono essere considerati validi sono costituiti, secon-
do Hecht, da dati che concordano tra loro; non è necessario che altri dati ricevano La ricerca della
“strutturazione
grande attenzione (Hecht 1976a, 1976b, citati da Borofsky 1987, pp. 69-70). Di simbolica
conseguenza, sono assenti dall’etnografia di Hecht il genere di dati riportati da Bo- unitaria”
rofsky: ad esempio, che le formule dei pukapuka riguardo alle relazioni tra i rag-
gruppamenti matrilineari e patrilineari venivano ripetutamente contraddette nella
pratica, e che gli stessi abitanti di Pukapuka riconoscevano questo fatto (Borofsky
1987, p. 71).

Il tipo di tendenza che esprime il lavoro di Hecht è datata. Oggi è posta in dis-
La tendenza
cussione dalla teoria del caos come reazione alle secolari costrizioni di una visione essenzialista
newtoniana in cui i dati che manifestavano ordine e stabilità venivano valutati
molto più dei dati dalle caratteristiche opposte (Pool 1989). Ma tale tendenza ri-
sale nel tempo a molto prima di Newton, almeno fino a Platone e agli altri filoso-
fi greci, i quali ritenevano che la vera conoscenza consistesse nello scoprire la
realtà essenziale nascosta e persistente dietro a tutto ciò che si presentava ai nostri
occhi come fuggevole, variabile o accidentale (Popper 1950, I, p. 31 e passim; cfr. Origini
Popper 1957, pp. 21 sgg.). Esaltata dal pensiero occidentale per più di due mil- filosofiche
lenni, questa tendenza non è limitata ad alcuna particolare scuola antropologica
contemporanea10.
Gli antropologi ecologici come Rappaport (1968, p. 412) la sviluppano in pro-
grammi per scoprire la struttura essenziale che ogni sistema adattivo si presume
possieda nonostante “le differenze specifiche e categoriali” che esistono tra i vari
sistemi (cfr. Vayda 1986, pp. 296-302 per una critica del programma di Rappaport Una critica
e della sua metafisica greca). I marxisti strutturali come Godelier (1972, p. 46) ce- all’essenzia-
lebrano Marx per la sua scoperta del fatto che il profitto capitalista derivante da lismo
lavoro non retribuito sia la struttura nascosta e essenziale soggiacente alle relazioni ecologico,
marxista e
economiche osservabili. I materialisti culturali come Harris (1979, p. 219), sebbe- strutturalista
ne critici nei confronti sia dei marxisti strutturali che degli strutturalisti lévistraus-
siani, approvano il loro tentativo “di allontanarsi dalle apparenze superficiali e tro-
vare il segreto interno ai fenomeni”. Sahlins, in quanto antropologo strutturalista e
interpretativo, contesta non solo l’uso da parte di Harris di una “contabilità del
398 ANDREW P. VAYDA

costo ecologico” per tentare di scoprire i segreti più riposti (Sahlins 1978), ma, più
in generale, le forme di spiegazione usate da tutti gli antropologi funzionalisti: essi
considerano la ricca, simbolica complessità dei fenomeni culturali come mera ap-
parenza che maschera la funzione essenziale dei fenomeni in relazione ai bisogni
economici e biologici (Sahlins 1976, cap. 2; per una critica non strutturalista della
spiegazione di Harris in termini di rapporto costo/benefici, vedi Vayda 1987a,
La ricerca 1987b). Ma poi Sahlins stesso (1976, 1979, 1981, 1985) dichiara che ogni società è
strutturale ordinata secondo una logica essenziale e significativa di cui i membri della società
della logica sono più o meno inconsapevoli, e che il criterio per capire se gli eventi a cui i
significativa membri partecipano devono essere giudicati importanti e degni di attenzione da
parte degli antropologi è la possibilità di individuare negli eventi proprio un ordi-
ne o logica culturale (o delle trasformazioni di tale logica; su tale criterio vedi in
particolare Sahlins 1985, pp. XI, 86-87).
Consideriamo, ad esempio, l’analisi strutturalista fatta da Sahlins (1981, 1985)
della storia hawaiana. Egli presenta la cultura hawaiana come se, prima dell’arrivo
del capitano Cook, si riproducesse sulla base di una serie di opposizioni binarie
(cultura/natura: capi/cittadini: tabu/noa: uomo/donna). Poi, per giustificare la sua
L’analisi della
storia hawaiana affermazione che “la storia è organizzata da strutture di significato” (Sahlins 1981,
di Sahlins p. 8), sposta la propria attenzione al periodo dei primi contatti tra europei e ha-
waiani, un periodo in cui, come ha sottolineato un critico di Sahlins, migliaia di
hawaiani morirono in seguito alle epidemie, il territorio venne disboscato, si diffu-
sero malattie veneree, le hawaiane venivano violentate dai balenieri europei e gli
hawaiani erano catechizzati dai missionari calvinisti, la produzione di cibo declinò
e le privazioni aumentarono non appena il lavoro venne dirottato sulla produzione
di legno di sandalo (Gailey 1983, p. 247; cfr. Stannard 1989, che fa delle stime ri-
guardo alla popolazione prima dei contatti, da cui si deduce che il numero dei
morti hawaiani nel periodo dei primi contatti deve essere contato nell’ordine delle
Il contatto con
centinaia di migliaia). Pur in mezzo a tutti questi problemi, il cambiamento essen-
gli europei e la ziale rilevato da Sahlins consiste solo nella ristrutturazione delle opposizioni bina-
ristrutturazione rie, alcune rimpiazzate e altre riformulate. Se tale cambiamento illustra, come af-
delle ferma Sahlins (1981, p. 3), le strutture nella storia così come la storia delle struttu-
opposizioni re, allora evidentemente il problema sta in tutta la storia che questo tipo di spiega-
zione tralascia (cfr. N. Thomas 1989, capp. 8, 9; per un caso simile di annullamen-
to delle variazioni nella ricerca archeologica in modo da evidenziare principi o
strutture “soggiacenti,” vedi Tilley 1989, pp. 189-190).

L’anti-essenzialismo: né positivismo, né anti-scienza


Il titolo principale di questo saggio, quando venne letto al convegno annuale
della American Anthropological Association (vedi nota *), era “Né positivismo, né
anti-scienza”. Proseguendo sulla linea di questo titolo originale, un punto che voglio
qui sottolineare è che l’opposizione tra essenzialismo e anti-essenzialismo è una te-
Le differenze tra matica molto diversa da quella dell’opposizione tra approccio interpretativo e ap-
l’opposizione proccio positivista in antropologia. Per quanto riguarda il positivismo, sono d’ac-
essenzialismo vs
anti-essen- cordo con Agger (1987, p. 122) che “è soprattutto nelle scienze sociali anglo-ameri-
zialismo e quella cane che il positivismo sopravvive, più come un principio regolativo impiegato per
positivismo vs escludere le prospettive devianti (ad es. la teoria critica, la sociologia qualitativa,
interpretativismo l’ermeneutica) che come una coerente teoria della conoscenza” (cfr. Geertz 1985;
C. Taylor 1980)11.
Lungi dal sottoscrivere la vecchia nozione positivista secondo cui gli stessi mo-
delli cosiddetti “materialisti” di spiegazione usati dalla fisica classica e dalla chimica
AZIONI, VARIAZIONI E CAMBIAMENTO 399

debbano essere appropriati per tutte le scienze, incluse le scienze sociali, ho soste-
nuto, nel perorare la causa della modalità contestuale di spiegazione, che sia neces- La necessità di
sario includere tra gli elementi utili alla spiegazione delle azioni umane “non solo tener conto di
aspetti del contesto fisico e istituzionale, ma anche le intenzioni, gli scopi, la cono- intenzioni,
scenza, e le credenze degli attori, ognuno dei quali può essere a propria volta ogget- scopi e
to di spiegazione” (Vayda 1987a, p. 500, 1989, p. 173). Non solo il positivismo, ma credenze degli
attori
anche il dualismo cartesiano che ha contribuito al suo successo ha fatto il proprio
corso (Rosenthal 1980, Searle 1984). Il punto da mettere in chiaro, però, è che la
mia obiezione a interpretazioni strutturaliste come quelle di Sahlins non consiste
nel fatto che esse riferiscano tutto a eventi mentali o a stati mentali. La mia obiezio-
ne è piuttosto che Sahlins e altri non riescono a fornire qualsiasi adeguata giustifica- La critica alle
zione empirica o teorica delle loro interpretazioni, poiché ritengono che certi feno- spiegazioni di
meni mentali o modalità di pensiero siano attributi essenziali di particolari società o Sahlins
culture e che, in conseguenza di ciò, siano gli elementi necessari a spiegare in modi
in cui agiscono persone che, in base alla nascita, all’educazione, alla cittadinanza,
e/o residenza, appartengono a quelle società o culture.
Certamente nel mondo moderno, come Goody ha sostenuto più di vent’anni fa,
le diverse attività di una persona si verificano in differenti contesti mentali e mate-
riali, di modo che essa “agisce in un contesto ‘come’ un musulmano o un indù, in
un altro ‘come’ un commerciante, in un altro ‘come’ un membro di una particolare
Pluralità delle
casta o gruppo patronimico” (Goody 1968, p. 9). Inoltre molti di noi oggi, lungi credenze e
dall’“appartenere” a una particolare cultura o dal vivere nei “mondi cognitivi cul- moltiplicazione
turalmente specifici” messi in rilievo da alcuni antropologi dell’interpretazione dei contesti
(Holy 1987, p. 7), hanno costruito, come ha detto un umanista, il proprio nido di
pratiche o identità con paglia e rametti presi da almeno una dozzina di “culture”
(Bryden 1989b; cfr. Bryden 1989a; Barth 1989, p. 130; Clifford 1983). Le credenze
e gli altri fenomeni mentali che possono essere inclusi nelle spiegazioni del nostro
comportamento non vengono da un mondo cognitivo culturalmente specifico, e
pronunciamenti come quello di Sahlins (1985, p. IX) che tutti gli eventi sono realiz-
zazioni contingenti di strutture culturali forniscono ben poco aiuto nel dare un si-
gnificato agli eventi a cui prendiamo parte (cfr. Greenwood 1987 riguardo alla op-
posizione tra “rappresentazioni sociali” e “rappresentazioni dell’attore”).

Comunque, secondo la prospettiva anti-essenzialista, il fatto che specifici signifi-


cati e credenze siano o meno largamente condivisi e persistenti in una data società Una questione
di
è, anche nel mondo pre-moderno, una questione da valutare empiricamente piutto- determinazione
sto che da postulare a priori sulla base di assunzioni essenzialiste12. È allo stesso empirica
modo una questione empirica stabilire se, anche se sono ampiamente condivisi e
persistenti, quei significati e quelle credenze, piuttosto che altri più idiosincratici o
transitori, siano alla base della realizzazione di particolari azioni in momenti parti-
colari e in specifici contesti13.
L’anti-essenzialismo non si oppone affatto all’impiego dei fenomeni mentali come
L’anti-essen-
elementi di spiegazione di azioni o eventi, ma fa una scelta riguardo a quali fenomeni zialismo non è
mentali vengono usati in tal modo e quale sia la loro evidenza empirica. Nell’affron- antimentalismo
tare tali problemi, l’essenzialismo non riceve alcuna conferma da quegli studi di si-
tuazioni premoderne citati nel paragrafo precedente, compresa l’analisi di Barth del-
le variazioni nei rituali e nelle concezioni cosmologiche del popolo mountain ok del-
la Nuova Guinea e il mio personale lavoro sulle variazioni tra la popolazione maring
della Nuova Guinea riguardo alle motivazioni che li spingevano a combattere e al
ruolo delle credenze nell’impedir loro di prendere il territorio del nemico.
400 ANDREW P. VAYDA

Il fatto che i fenomeni mentali figurino (e in modo rilevante) nelle spiegazioni


Le spiegazioni delle scienze sociali, le tiene distinte dalla maggior parte delle spiegazioni fornite
di tipo dalle scienze naturali, e la particolare spiegazione di tipo “intenzionale” che viene
“intenzionale”
impiegata nelle scienze sociali è sempre più un argomento degno di interesse per la
ricerca filosofica (vedi, ad esempio, Elster 1983, cap. 3; Searle 1984, capp. 4, 5).
Comunque, il fatto che si possano impiegare i fenomeni mentali nelle spiegazioni
non significa che antropologi o altri scienziati sociali siano autorizzati ad attribuire
processi o stati mentali specifici ai propri soggetti senza il dovuto riguardo nei
La necessità di confronti dell’evidenza empirica. Come affermava Barth (1987, p. 8) gli antropolo-
rispettare
l’evidenza gi, al pari di ogni scienziato naturale, dovrebbero esser dediti a un ideale di natu-
empirica ralismo in cui agli oggetti di studio vengano attribuite solo quelle proprietà e capa-
cità il cui possesso essi possano ragionevolmente verificare in forma empirica. Gli
essenzialisti sono spesso esageratamente propensi a ignorare questo ideale.
E c’è dell’altro al di là di questo ideale, qualcosa che scienziati sociali e della na-
tura dovrebbero condividere nonostante le differenze tra le loro discipline. Con
Tutte le scienze l’abbandono del positivismo, infatti, anche le scienze naturali si può dire siano di-
sono oggi
ermeneutiche ventate ermeneutiche (Weinsheimer 1985, pp. 16 sgg.; cfr. C. Taylor 1980): se si ri-
tiene che la spiegazione, sia nelle scienze sociali che in quelle naturali, consista nel
mostrare connessioni intelligibili nel soggetto che si tra studiando, questo solo fatto
è segno di un’unità degna di nota e forse altrettanto importante di qualunque altra
differenza del soggetto studiato. Come anti-essenzialisti, possiamo perciò rivendica-
re la prassi di ciò che non è né positivismo né anti-scienza.

* Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata in «Canberra Anthropology», vol. 13, n. 2, 1990, pp. 29-

45. Una versione indonesiana è stata pubblicata dalla University of Indonesia Press in una raccolta di miei saggi riguar-
danti la metodologia e la spiegazione in antropologia e in ecologia umana. In una versione ridotta fu letto per me al
convegno “Assessing Developments in Anthropology”, incontro annuale della American Anthropological Association,
Washington D.C., nel novembre 1989. Io stesso l’ho presentato in un seminario antropologico alla The Australian Na-
tional University di Canberra nell’aprile del 1990.
1 Vedi Borofsky 1987, p. 165, nota 7, per ulteriori riferimenti.
2 Riguardo all’oblio, da parte delle scienze sociali, dei cambiamenti storici in tutti gli eventi a cui vengono applica-

te espressioni come quella di “rivoluzione”, vedi Farr 1982, 1989. Per una formulazione concisa dei differenti tipi di ri-
sposta dati in filosofia alla questione di cosa abbiano in comune oggetti designati dallo stesso termine, vedi Briskman
1982, p. 305.
3 Circa i valori, è possibile sottolineare anche che queste affermazioni essenzialiste riguardo alla loro netta e piena

espressione nella danza e nella musica di determinate culture sono state ridimensionate da studi che mostrano la diver-
sità in queste arti così come nei valori che si riteneva esprimessero. Ne sono esempi quelle ricerche che mostrano come
le danze e le musiche giavanesi abbiano (o abbiano avuto) una esuberanza, irregolarità e suggestività ben lontane dalle
raffinate esecuzioni di corte che spesso si ritiene esprimano quelli che vengono identificati come i generali valori giava-
nesi di grazia, armonia, e controllo emotivo (Hefner 1987, Pemberton 1987).
4 Un’ipotetica analogia che Barth propone per tale contrasto è quella tra una immagine del Cristo sulla croce nella

chiesa di un villaggio inglese e una immagine del demonio sulla croce nella chiesa del villaggio vicino. Altre variazioni
tra i mountain ok riguardano argomenti del tipo: se (e in quale misura) i miti venissero raccontati o meno nel corso dei
riti, o se i simboli sacri fossero esplicitamente elaborati o meno (Barth 1987, pp. 4-6).
5 Forse è degno di nota il fatto che il non porre come oggetto di studio le culture o altri “insiemi” distingue il pen-

siero mio e di Barth sulle variazioni dal pensiero degli studiosi della “trasmissione culturale” (ad es. Boyd, Richerson
1985, Cavalli-Sforza, Feldman 1981, Hewlett, Cavalli-Sforza 1986) che guardano alle variazioni all’interno di un’unità
delimitata e predefinita (ad es. una cultura o la cultura di una popolazione predefinita come i pigmei aka dell’Africa
centrale) in modo da sviluppare o mettere alla prova modelli quantitativi di cambiamento in queste unità rispetto ai lo-
ro tratti componenziali. Gli anti-essenzialisti possono studiare e spiegare particolari variazioni senza impegnarsi nell’i-
dentificarle come tratti di una cultura o misurare in qualche modo la loro frequenza entro culture di altri “insiemi” o,
invece, decidere se definire o meno tali unità delimitate e continue come oggetti di indagine. I problemi metodologici
che derivano dalla tendenza a uno studio di unità o sistemi delimitati, sono stati da me discussi altrove (Vayda 1986), e
esistono anche dei problemi ontologici (Barth 1987, p. 84; Vayda 1986, pp. 296-300; vedi anche Handler 1984 per ar-
gomentazioni contro la tendenza a considerare le culture e le società come oggetti naturali confinati piuttosto che come
costrutti la cui realtà sia semiotica).
6 Una complicazione che ho estesamente discusso in altro luogo sotto la denominazione di “relatività esplicativa” è

il fatto che “avendo in mente particolari contrasti o alternative, possiamo considerare in effetti come oggetto di conte-
AZIONI, VARIAZIONI E CAMBIAMENTO 401

stualizzazione e spiegazione non un’azione o una conseguenza semplicemente, ma piuttosto un’azione o conseguenza in
contrasto con alcune definite alternative” (Vayda 1989, p. 174). Quella che può diventare l’esemplificazione classica
della relatività esplicativa è stata data da Garfinkel (1981, pp. 21 sgg.), che fa riferimento alla risposta data dal carcera-
to Willie Sutton quando un prete protestante gli chiese perché svaligiava banche. “Perché era là che c’erano i soldi” è
una spiegazione che ha un senso in relazione al motivo per cui Sutton svaligiava le banche anziché i giornalai o i negozi
di caramelle, ma non come risposta alla questione presupposta dal sacerdote del perché Sutton rubava anziché vivere
onestamente.
7 La legge che soddisfaceva questi requisiti è rappresentata dal cosiddetto modello di spiegazione deduttivo-nomo-

logico. Per una spiegazione più approfondita del concetto di connessione intelligibile cfr. Martin 1976 (in particolare p.
314 e la nota 7). Anche Winch (1958, pp. 114-115, citando Wittgenstein 1956, parte I, sez. 142-151) ne parla, ma, come
sottolinea Bhaskar (1979, p. 2), manca di riconoscere che quel metodo di spiegazione non è peculiare alle sole scienze
sociali.
8 Ho trascorso sette settimane a Pukapuka nel 1957. I principali etnografi di Pukapuka prima di Borofsky furono

Ernest e Pearl Beaglehole, che sono stati sull’atollo per sette mesi e mezzo nel 1934 e nel 1935, e Julia Hecht, che ha
trascorso là tredici mesi tra il 1972 e il 1974.
9 Oltre a Borofsky, diversi antropologi hanno suggerito che la nozione di coerenza monografica abbia contribuito

alla cancellazione delle variazioni e del fluire in ciò che è pubblicato (Fardon 1988, p. 15; Kay 1984; Vayda 1982; P. J.
Wilson 1977).
10 Una cosa simile è stata notata, in effetti, anche da Geertz (1984, p. 48), quando scriveva di socio-biologi, antro-

pologi cognitivisti e altri che condividono una “posizione in cui la diversità culturale... consiste in una serie di espres-
sioni... di una realtà determinata, sottostante, la natura essenziale dell’uomo”. Le rivendicazioni di Geertz sulla impor-
tanza della diversità sono, comunque, più limitate delle mie, in quanto elaborate in relazione alla diversità intercultura-
le in particolare, piuttosto che per la diversità più in generale.
11 Agger (1987, p. 122) va oltre dicendo che “oggi le scienze dello spirito vanno in direzione di una comprensione

nomotetica, laddove le scienze della natura hanno da tempo abbandonato questa visione in quanto non realistica”. Se-
condo Agger, la maggior parte degli scienziati naturali “non imitano la posizione priva di fondamento del Circolo di
Vienna, ma riconoscono come la stessa scienza naturale sia storica e prospettica” (cfr. Weinsheimer 1985, p. 16).
12 Per le argomentazioni dei filosofi contro le assunzioni essenzialiste a riguardo, vedi Roth 1987, in particolare il

capitolo 6. L’enfasi sulle variazioni da me posta in questo saggio in reazione alla tendenza degli essenzialisti a trascurar-
le, non intende negare o tacere un’osservazione che mi è stata fatta da Myron Cohen (1991b) in relazione a numerosi
aspetti delle iniziative domestiche e dell’etica familiare che la sua ricerca aveva mostrato essere comuni a villaggi “delle
regioni del Nord, del Sud, dell’Est e dell’Ovest della Cina agraria nel corso di tardi periodi tradizionali”, nonostante
evidenti differenze ambientali e nella lingua parlata (Cohen 1991a). Cohen vuol dire che qualche volta il fatto concreto
che certe idee e comportamenti siano largamente condivisi e persistenti ci sorprende e richiede un’interpretazione. Nel-
la prospettiva anti-essenzialista, tali idee e comportamenti possono, come ogni idea o comportamento, essere studiati in
relazione a quando, dove, da chi, perché e con quale effetto siano conservati o eseguiti, e non siamo obbligati a consi-
derarli come proprietà essenziali di alcune entità ipostatizzate come la cultura o la società cinese. (Per una prospettiva
contraria, essenzialista, sui “principi essenziali” della società cinese, vedi Hallpike 1986, pp. 294-329).
13 Si considerino, ad esempio, alcune delle conclusioni che emergono da studi che io e altri abbiamo compiuto ri-

guardo alla migrazione e all’uso delle terre da parte della popolazione bugis dell’Indonesia (Vayda 1980; Vayda, Sahur
1985; Lineton 1975a, 1975b). Tra i bugis vengono riconosciuti come valori largamente accettati e persistenti il senso del-
l’avventura e la mobilità, e si confida nelle opportunità presenti fuori del proprio villaggio. Tuttavia, mentre alcuni bugis
vagavano per i mari e istituivano commerci e colonie di coltivazione in tutto l’arcipelago indonesiano, per lo più la mag-
gioranza dei bugis passava il suo tempo conducendo una vita rurale dedita alla coltivazione del riso e alla pesca. Per
quanto possano essere diffusi e persistenti i valori e le credenze correlate alla mobilità, essi sono semplicemente irrilevan-
ti nello spiegare gran parte del comportamento dei bugis. Inoltre, anche se i nostri oggetti di spiegazione sono le migra-
zioni, o la mobilità, dei bugis dei nostri giorni, si può sostenere che il commercio, i viaggi, le avventure, e le imprese pio-
nieristiche dei bugis proseguite per secoli siano meno significative per ciò che suggeriscono sulla voglia di evasione come
una delle dinamiche del comportamento dei bugis di quanto non lo siano per il ruolo svolto nello stabilire e mantenere
estese reti di rapporti geografici mediante i quali le informazioni sulle opportunità presenti in altre terre potevano giun-
gere a conoscenza di qualsiasi potenziale emigrante, in un momento particolare e per particolari motivi, presso gli inse-
diamenti bugis nella terra natale del sud del Sulawesi o in altri luoghi (Vayda 1980, p. 81; Vayda, Sahur 1985, p. 107; cfr.
Kopytoff 1987, pp. 22-23 sulla mobilità e voglia di avventura in Africa; vedi anche Gatewood 1985, p. 216 e passim, sul
modo in cui le azioni possano essere “giustificate da rappresentazioni personali piuttosto che collettive”).
402 ANDREW P. VAYDA

Biografia intellettuale

Andrew P. Wayda è professore di antropologia d’ecologia alla Rutgers University.


In precedenza docente alla Columbia University, ha insegnato anche all’University of
Indonesia (l’ultima volta nel 1990) e in altre università indonesiane, e ha diretto dei
progetti di ricerca in Indonesia e a Papua-Nuova Guinea. Ha fondato la rivista «Hu-
man Ecology», e ne è stato il direttore per cinque anni. Ha pubblicato diversi libri e
più di novanta articoli. Il suo attuale interesse riguarda l’area dei concetti, dei meto-
di e delle spiegazioni in antropologia e in ecologia umana; la progressiva scomparsa
della foresta tropicale e i cambiamenti nell’uso delle terre; e le interrelazioni fra i
cambiamenti cognitivi e quelli tecnologico-ambientali. (Alcuni degli articoli che ri-
flettono questi suoi interessi sono citati nella bibliografia di questo volume).

Quando ero uno studente alla Columbia University negli anni Cinquanta l’inse-
gnamento di Elman Service, che sviluppò un’ampia prospettiva integrata dall’orien-
tamento ecologico di Julian Steward e dall’evoluzionismo e la culturologia di Leslie
White, mi attrasse alla carriera di antropologo. Service lasciò la Columbia proprio
poco prima che io diventassi uno studente di dottorato, e così Morton Fried, che
condivideva molte delle idee e degli interessi di Service, divenne il mio insegnante e
tutore di tesi. Sebbene abbia abbandonato l’evoluzionismo e la culturologia tanti
anni fa, è probabilmente a Service e a Fried che devo il mio duraturo interesse ri-
guardo alle relazioni tra le persone e i loro ambienti. La mia ricerca specifica, inte-
ressata principalmente al Pacifico meridionale e alle zone marittime del Sud-Est
asiatico, ha incluso sia un lavoro estensivo su materiale documentario, sia alcuni pe-
riodi di lavoro antropologico ed ecologico sul campo.
Il mio libro Maori Warfare e la tesi di dottorato del 1956 da cui esso è derivato
erano basati su ricerche compiute nelle biblioteche e negli archivi della Nuova Ze-
landa negli anni 1954 e 1955, e il mio interesse nei confronti della guerra in rap-
porto a fenomeni ambientali e demografici (argomento del mio libro del 1976, War
in Ecological Perspective) risale a questo periodo. Nel 1956 e nel 1957 ho svolto
delle ricerche sul cambiamento culturale in tre atolli corallini delle Isole Cook set-
tentrionali. Dal 1958 al 1960, ho insegnato alla University of British Columbia e ho
ampliato la mia ricerca storica fino a includervi l’arte della guerra del Borneo così
come quella della Nuova Zelanda; ho anche iniziato delle ricerche con Wayne
Suttles sulla relazione tra le fluttuazioni nelle risorse alimentari e l’occorrenza di
distribuzioni cerimoniali di beni nelle popolazioni della costa nordoccidentale del-
l’India e della Melanesia. Questa ricerca proseguì dopo che venni assunto dalla
Columbia University nel 1960. Per quindici mesi, tra il 1962 e il 1963, e per quat-
tro mesi nel 1966 sono stato in Nuova Guinea lavorando a un progetto che ha per-
messo di radunare un gruppo multidisciplinare, in grado di mettere alla prova sul
campo alcune delle idee che erano emerse dalla ricerca in biblioteca sulla guerra,
l’economia e l’ecologia.
Le collaborazioni con Anthony Leeds, Roy Rappaport, e il filosofo Paul Collins,
e gran parte del mio lavoro negli anni Sessanta, riguardavano i meccanismi culturali
e il contributo di questi ultimi agli equilibri tra la popolazione umana e le sue risor-
se. Poi, negli anni Settanta, mi interessai sempre più ai rapporti “sbilanciati” tra po-
polazione e ambiente. Il mio trasferimento nel 1972 dalla Columbia University, do-
ve ero nel frattempo professore ordinario, al Cook College della Rutgers University
fu parzialmente motivato dal desiderio di svolgere ricerca su questi rapporti in am-
bienti contemporanei e dalla mia aspettativa che i programmi ecologici interdisci-
AZIONI, VARIAZIONI E CAMBIAMENTO 403

plinari del college mi avrebbero dato migliori opportunità per queste ricerche di
quante non ne avessi presso la Columbia. Fondare e dirigere la rivista «Human
Ecology» ha anche contribuito a cambiare la direzione del mio lavoro e i miei inte-
ressi, per l’aumento dei contatti tra studiosi di tante discipline e il confronto con va-
ste tematiche di ricerca sul rapporto persone-ambiente nelle società moderne così
come in quelle piccole e relativamente isolate, simili a quelle che avevo in preceden-
za studiato. In accordo con questi nuovi orientamenti, nel 1974 entrai a far parte
del programma dell’Unesco Man and Biosphere (MAB), un programma di ricerca
pratica che tenta di sviluppare un approccio sociale ed ecologico integrato ai pro-
blemi e fornire informazioni e metodi in grado di proporre e gestire una migliore
politica ambientale. In relazione a questo programma, ho partecipato a numerose
conferenze internazionali e studi di fattibilità relativi alla trasformazione e conserva-
zione delle foreste in Indonesia e in Malesia. Inoltre, dal 1979 al 1984, ho diretto
due progetti di ricerca interdisciplinare tra Stati Uniti e Indonesia sulla interrelazio-
ne delle azioni umane e del cambiamento biotico nelle foreste della provincia indo-
nesiana del Kalimantan orientale. I rapidi cambiamenti avvenuti in quei luoghi, co-
involgenti diversi movimenti di popolazioni, risorse, e idee, che superavano i confi-
ni sociali, geografici, e ecosistemici, mi fecero vedere con maggiore chiarezza le li-
mitazioni dell’approccio basato sui modelli di equilibrio in antropologia e nello stu-
dio dell’ecologia umana, e misero in questione con maggior forza gli assunti in base
ai quali quegli insiemi predefiniti che sono le culture, le società, le comunità, e gli
ecosistemi, diventano le unità di analisi nella scienza sociale ed ecologica. Dal com-
pletamento delle ricerche nel Kalimantan orientale, mi sono interessato di questi e
altri problemi metodologici (incluse questioni che i filosofi e altri hanno sollevato
riguardo alla contingenza, all’azione umana, e all’intenzionalità) e ho dedicato a lo-
ro buona parte del mio insegnamento e dei miei scritti.
Nel riflettere su questi argomenti, ho ricevuto stimoli e idee da discussioni con
alcuni colleghi antropologi come Bonny McCay, George Bond, Gerge Morren, Su-
san Lees, Fredrik Barth, Iwan Tjitradjaja, Myron Cohan e James Anderson, e ho
tratto vantaggio da letture ampiamente esterne all’antropologia. Tra gli autori con
cui mi sento particolarmente in debito ci sono i seguenti: Karl Popper, per le idee
sull’analisi situazionale e sulle conseguenze inintenzionali; Isaiah Berlin, che ci ha li-
berato dal monismo teorico e metodologico; i filosofi come Donald Davidson e
John Searle, che hanno chiarito il ruolo essenziale dell’intenzionalità nello spiegare
le azioni umane; Alan Garfinkel, per il concetto di relatività esplicativa; Jon Elster e
Harold Kincaid, per avere appoggiato la mia insofferenza nei confronti delle teorie
e per avermi chiarito alcune loro alternative alle spiegazioni delle scienze sociali; e
Stephen Jay Gould, per lo scambio di idee sull’importanza del caso e della contin-
genza nello sviluppo e nell’evoluzione storica.
Il mio interesse per l’antropologia cognitiva ed ecologica si ritrova nelle mie più
recenti esperienze in Indonesia, a Giava nel 1990 e nel Kalimantan orientale nel
1992; queste esperienze erano incentrate sulle variazioni e sui cambiamenti delle co-
noscenze e delle pratiche agro-ecologiche dei coltivatori di riso. Con i miei collabo-
ratori ecologici, Timothy Jessup e Kusata Kartawinata, sto ora organizzando nuove
ricerche nel Kalimantan orientale sull’interrelazione tra fenomeni cognitivi, com-
portamentali e ambientali.
Conoscere e conoscenza nelle attività culturali*
Robert Borofsky

Il problema Esiste, nell’analisi antropologica, l’apparente problema della diversità della co-
(apparente) noscenza. Dico apparente perché credo che il problema non stia tanto in quel che
della diversità sanno gli informatori, quanto nelle nostre concezioni di cosa dovrebbe essere tale
della
conoscenza conoscenza. Eppure, c’è qualcosa che ancora non va.
Come afferma Goodenenough in questo volume (p. 328), “pensiamo tradi-
zionalmente ad una… cultura come a qualcosa di condiviso tra i membri di un
gruppo”. Una breve rassegna di manuali di introduzione all’antropologia sottoli-
nea questo punto. Kottak (1978, pp. 37-41), ad esempio, descrive la cultura co-
me “racchiusa... appresa... simbolica... condivisa... modellata”. Haviland (1990,
p. 30) la definisce come “una serie di regole condivise dai membri di una socie-
tà”. E Peacock (1986, p. 7) suggerisce che sia composta da “conoscenze e codici
dati per scontati, ma che esercitano un influsso profondo e sono condivisi dai
L’ipotesi della membri di un gruppo”1. L’ipotesi di una condivisione è basata su un dato ovvio.
condivisione Le persone devono condividere un certo numero di conoscenze se vogliono co-
municare tra loro, se vogliono partecipare ad alcuni compiti, se vogliono intera-
gire nello stesso gruppo. Per citare ancora Goodenenough (p. 329): “Le persone
che interagiscono regolarmente… hanno la necessità di condividere una suffi-
ciente conoscenza… in modo soddisfacente”.
Eppure l’impressione che si riceve da diversi studi antropologici è che esista in
La presenza di molti gruppi culturali una considerevole disparità di conoscenze. A quanto pare,
disparità gran parte di questa diversità si trova in aree in cui ci si potrebbe aspettare una
maggiore condivisione. Alcuni studi sottolineano questa diversità nei valori familia-
ri (Swartz 1982), nelle concezioni religiose (Brunton 1980), nelle classificazioni del-
le specie ornitologiche (Gardner 1976), nella conoscenza delle piante (Hays 1976),
nelle categorizzazioni caldo-freddo (Foster 1979), e nelle opinioni sul passato (Bo-
rofsky 1987), solo per citarne alcune. Le persone che vivono nella stessa comunità
sembrano accogliere una gamma di credenze, e utilizzare un insieme di termini, che
in molti casi non sono sovrapponibili.
Per quanto si indaghi a fondo la letteratura sulla diversità nelle comunità – ed è
un vasto corpus di studi – si ritrovano ben poche menzioni di persone che non inte-
ragiscono efficacemente tra di loro. Che significato diamo a questo fatto? Quale co-
noscenza viene condivisa, e in che modo?
Inizierò a esaminare questi interrogativi considerando alcuni esempi etnografi-
Un esempio
etnografico: ci di diversità. Gli esempi sono tratti da Pukapuka, un piccolo atollo polinesiano
l’atollo di nel Pacifico meridionale, dove ho condotto un ricerca sul campo per quarantuno
Pukapuka mesi tra il 1977 e il 1981 (cfr. Borofsky 1987). La scelta del caso di Pukapuka, na-
turalmente, non esclude che altri antropologi abbiano individuato tratti simili in
altri luoghi2.
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 405

Desidero incentrare la mia analisi su un preciso insieme di esempi etnografici, in


modo da poter indagare non solo cosa le persone conoscono all’interno di uno spe-
cifico contesto, ma avere anche un punto di riferimento per la successiva discussio-
ne sulla conoscenza e sul conoscere.

La storia di Wutu di Pukapuka è descritta dai Beaglehole (ms. b, pp. 1021- La diversità di
1023) e da me (Borofsky 1987, p. 118) e in genere si ritiene che sia nota agli adulti gruppo in un
contesto
e ai bambini, oggi come in passato. Ho chiesto a dieci individui, appartenenti ai quotidiano: la
gruppi dall’“a” fino all’“h” riportati nella Tavola 1, di recitare a memoria tutto storia Wutu
quello che conoscevano della storia (alcuni dettagli riguardo a questa e ad altre in-
dagini riportate nel presente saggio sono discussi nella nota 4)3. Seguendo Lévi-
Strauss (1966), ho diviso i resoconti degli informatori in singole unità componenti,
per indagare fino a che punto i soggetti condividessero alcuni elementi. Le unità
componenti erano:

1) Wutu va in un luogo isolato, 1a) specificazione del luogo, 1b) specificazio-


La suddivisione
ne della ragione per cui ci va, 2) Wutu si addormenta, 3) gli spiriti arrivano nel della storia di
luogo dove c’è Wutu, 4) preparano un piano per mangiarlo, 5) lo portano via in Wutu in
un grande recipiente di legno (kumete), 6) cantano una cantilena (o diverse can- sequenze e
tilene), 6a) una cantilena si incentra sulla frase “ko wutu, ko wutu”, 6b) un’altra unità
cantilena ripete la frase “tau laulau ma tau pala”, 7) Wutu escogita un piano per
fuggire, 8) defeca nel recipiente di legno (di modo che sembrerà pesante quando
ne uscirà), 9) Wutu sale su un albero per raggiungere il sentiero, 10) gli spiriti
continuano ad andare verso il luogo stabilito, 10a) specificazione del luogo, 11)
gli spiriti si preparano a mangiare Wutu, 12) gli spiriti rovesciano il recipiente di
legno, 13) gli spiriti sono ricoperti dalle feci, 14) Wutu fugge da loro, 15) Wutu
scappa verso un altro luogo, 15a) specificazione del luogo dove fugge, 16) gli
spiriti lo inseguono, ma 17) Wutu si salva, 17a) specificazione del perché Wutu si
salva.

La Tavola 1 presenta il grado in cui tali unità costituenti erano condivise dal
gruppo degli informatori.
Chiaramente, esisteva solo un limitato accordo riguardo alla storia. Più che altro
Il limitato
erano d’accordo sul punto 6a, la cantilena: che ha raggiunto una percentuale del 67 accordo
per cento in sei degli otto gruppi da “a” a “h”, e del 75 per cento in cinque dei riguardo alla
gruppi. Altre unità costituenti – come la 3, 4, 5 e 12 – erano meno condivise. E al- storia
cune unità – come la 6b – erano condivise solo da alcuni individui. Sebbene la sto-
ria sia ritenuta popolare tra i bambini come tra gli adulti, né il gruppo delle persone
intorno ai dieci anni, né quello intorno ai venti era d’accordo sul senso complessivo
che emergeva dalla storia. Solo chi era ritenuto esperto dell’argomento dai coetanei
– i membri del gruppo h – era in grado di trovare un accordo su una versione co-
erente della storia. È abbastanza chiaro, allora, che la storia di Wutu, sebbene sia
popolare, viene narrata in molti modi.
406 ROBERT BOROFSKY

Tavola 1. La storia di Wutu

Categoria 67% di consenso 75% di consenso 100% di consenso

a. fino anni 10
b. fino anni 20
c. fino anni 30 3, 5, 6a 6a
d. fino anni 40 6a 6a
e. fino anni 50 6a 6a
f. Uomini anziani 6a
g. Donne anziane 6a 6a
h. Esperti 3, 4, 5, 6a, 8, 9, 3, 4, 5, 6a, 12 6a
10, 12, 14, 15, 15a
Uomini 3, 6a 6a
Donne 6a
Totale: tutti i gruppi 6a 6a

Tavola 2. Identificazione dei pesci presenti o meno nelle acque di Pukapuka

Categoria 67% di consenso 75% di consenso 100% di consenso

Fino a 30 anni (119/141) 84% (100/141) 71% (48/141) 34%


Fino a 40 anni (119/141) 84% (96/141) 68% (44/141) 31%
Fino a 50 anni (115/141) 82% (96/141) 68% (39/141) 28%
Anziani (102/141) 72% (74/141) 52% (14/141) 10%
Esperti (103/141) 73% (77/141) 55% (34/141) 24%
Pescatori esperti (107/141) 76% (78/141) 55% (12/141) 9%

In aggiunta ai dati qui sopra riportati – la cui raccolta mette in parallelo il modo
La diversità di in cui gli abitanti di Pukapuka potrebbero discutere tale questione (vedi Borofsky
gruppo in un 1987, pp. 74-130) – ho sistematicamente osservato i soggetti nel riconoscimento dei
contesto più
formale: pesci di Pukapuka. Ciò che rese questa seconda osservazione più formale della pre-
l’identificazione cedente fu il fatto che utilizzai una serie di foto (da Fowler 1928), chiedendo ai sog-
dei pesci nelle getti quali dei pesci nelle foto si trovassero nelle acque attorno all’atollo. Io chiede-
acque Pukapuka vo i nomi dei pesci che loro identificavano come appartenenti alle acque dell’atollo.
Mentre gli abitanti di Pukapuka sembravano avere poca dimestichezza con compiti
di questo tipo, sembravano capire con rapidità cosa gli veniva richiesto. Inoltre
molti sembravano abbastanza sicuri nell’identificare i pesci.
La Tavola 2 riassume i dati sul grado di accordo tra gli informatori riguardo ai
pesci fotografati da Fowler (1928) che si trovavano (o non si trovavano) nelle acque
di Pukapuka. La Tavola 3 riporta i dati sui nomi dei pesci identificati come presen-
ti nelle acque di Pukapuka (i lettori interessati ai dettagli dei calcoli della Tavola 3
possono consultare la nota 4)4.
Una discreta Le percentuali riportate in alto su ogni tavola si riferiscono ai livelli di con-
percentuale di senso. Se si assume che il 67% sia un livello appropriato di consenso (vale a dire,
conoscenza che due terzi del campione concordano), allora i trentenni della Tavola 2 erano
non è condivisa
d’accordo riguardo a 119 identificazioni su 141, il che vuol dire che concordava-
no sull’84% delle foto. Se ci si focalizza sul cento per cento di consenso, i tren-
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 407

tenni erano concordi solo riguardo a 48 figure su 141, ovvero sul 34% delle im-
magini. L’impressione generale che si riceve dalle due tavole è che se si accetta
un livello inferiore di accordo (vale a dire, il 67 per cento), allora si avrà un dis-
creto livello di consenso (dal 68 all’84 per cento). Se invece si cerca un livello
maggiore di accordo (vale a dire il 100%), allora avremo un più basso livello di
consenso (dal 9 al 34 per cento). In altre parole, mentre una parte della cono-
scenza era condivisa, un’altra buona parte non lo era, anche se riguardava una
delle attività più importanti e fondamentali svolte dagli uomini di Pukapuka – la
pesca.

Tavola 3. Attribuzione dei nomi di pesci di Pukapuka

Categoria 67% di consenso 75% di consenso 100% di consenso

Fino a 30 anni (32/42) 76% (26/42) 62% (14/42) 33%


Fino a 40 anni (38/49) 78% (28/49) 57% (12/49) 24%
Fino a 50 anni (41/56) 73% (33/56) 59% (13/56) 23%
Anziani (32/47) 68% (25/47) 53% (4/47) 9%
Esperti (45/53) 81% (30/53) 57% (11/53) 21%
Pescatori esperti (36/45) 80% (25/45) 56% (6/45) 13%

Vorrei sottolineare non solo che esiste una considerevole differenza nelle rispo-
ste tra persone diverse, ma che gli informatori hanno fornito individualmente di- La variabilità
chiarazioni diverse riguardo ad un certo argomento. La Tavola 4 indica fino a che li- individuale
vello alcuni individui hanno raccontato in modo diverso la storia di Wutu, in diver-
se occasioni, lungo un periodo di tre anni (cfr. Lowie 1942)5.
Una riunione di un gruppo di esperti – cui presero parte Molingi, Petelo, Paani
e Kililua – produsse la versione seguente. Venne raccontata da Petelo, con il contri-
buto degli altri partecipanti (e/o con chiarimenti di alcuni punti).

1, 1a (sebbene ci fosse qualche incertezza sul luogo esatto) 2, 3, 5, 6a, 6b (Petelo Wutu: la
disse che questa cantilena era di un diverso racconto, ma la incluse comunque), 7 versione di
(leggermente diversa dalla precedente per il modo in cui era raccontata), 8, 9, 10, Petelo
12, 13, 14, 15, 15a (vaghi sulla precisazione del luogo), 16, 17.

Voglio sottolineare che questi soggetti presentarono un resoconto chiaro e ben


strutturato ogni volta che venivano loro poste delle domande. Eppure, i loro rac-
conti mutavano nei diversi contesti e nelle differenti situazioni.
Abbiamo notato tale variabilità non solo in relazione a ciò che le persone rico-
noscevano mediante un confronto con gli altri, ma anche nelle loro stesse asserzio- Riformulare il
ni. In questo saggio ipotizzo che dobbiamo fare qualcosa di più che sostenere l’im- tradizionale
concetto di
portanza delle diversità all’interno del gruppo e delle variazioni personali. Dobbia- conoscenza
mo anche mettere in questione il nostro tradizionale concetto di conoscenza. La-
sciatemi spiegare come.
408 ROBERT BOROFSKY

Tavola 4. Versioni ripetute della storia di Wutu da parte di informatori selezionati

Tre versioni del racconto

Molingi:
Unità costituenti non mutate: 1, 4, 5, 6a, 8, 10, 12
Unità costituenti leggermente modificate: 3, 9
Unità costituenti mutate: 1a, 2, 6b, 10a, 11, 13, 14, 15, 15a
Petelo:
Unità costituenti non mutate: 1, 3, 5, 8, 9, 10, 12, 13, 14
Unità costituenti mutate: 1a, 2, 4, 6a, 7, 10, 15, 15a

Due versioni del racconto

Paani:
Unità costituenti non mutate: 1, 2, 3, 4, 5, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15, 16
Unità costituenti mutate: 1a, 6a, 7, 15a, 17, 17a
Kililua:
Unità costituenti non mutate: 4, 5, 6a, 6b, 7, 8, 9, 10, 10a, 12, 14, 15, 15a, 16
Unità costituenti leggermente modificate: 1a, 1b
Unità costituenti mutate: 2, 3, 13, 17, 17a
Vailoa:
Unità costituenti non mutate: 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 10, 11
Unità costituenti leggermente modificate: 1a
Unità costituenti mutate: 6a, 11, 12, 13, 14, 15, 15a
Pelepele:
Unità costituenti non mutate: 1a, 5, 9, 10, 12, 13, 14, 15, 16
Unità costituenti mutate: 1, 3, 4, 6a, 8, 10a

La conoscenza e il conoscere
All’interno delle culture accademiche ed erudite di cui gli antropologi sono par-
te, sembra spesso appropriato definire la conoscenza individuale come qualcosa di
La conoscenza delimitato e concreto. Dopotutto molti antropologi si sono formati sulle teorie di
individuale è diverse scuole, che sottolineavano tutte come la conoscenza potesse essere trascritta
delimitata e per mezzo di parole, e valutata mediante test. Senza dubbio gran parte della cono-
concreta?
scenza può essere valutata in questo modo. Ma vorrei ricordare che esiste anche
una parte non trascurabile della conoscenza che non è così facilmente definita e de-
scrivibile. Inoltre, etichettare questa conoscenza come diversità – perché diversi
soggetti forniscono risposte diverse a riguardo – nasconde le dinamiche essenziali
che hanno a che fare con la natura del conoscere. Credo che gli antropologi siano
parte in causa di questa creazione della diversità, proprio perché ritengono che
gran parte della conoscenza sia qualcosa di rigido e strutturato, mentre essa è un
processo fluido e flessibile.
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 409

Per mettere in evidenza gli aspetti flessibili della conoscenza, dobbiamo immagi-
nare che vi sia un continuum tra la conoscenza (cioè un sapere definito e delineato) e
il conoscere (cioè un sapere dal carattere più fluido e flessibile). A un estremo del
Un continuum
continuum, dalla parte della conoscenza, si trova quel tipo di sapere e di cognizione tra conoscenza
che si tende a presentare nelle analisi o nei dati degli informatori come “fatti” spe- e conoscere
cifici (ad es. il nome di un oggetto comune, come un tavolo, o la data di un evento
specifico). Generalmente tendiamo a concettualizzare questo tipo di conoscenza
come un qualcosa che non cambia da un giorno all’altro, da un soggetto all’altro, da
contesto a contesto. Muovendoci lungo questo continuum, verso il lato del conosce-
re, invece, troviamo affermazioni che tendono a variare a seconda del contesto. Co-
me abbiamo visto per la storia di Wutu, le persone possono dare diverse versioni a
seconda dei diversi contesti. In questo continuum allora sono presenti asserzioni co-
noscitive che sembrano relativamente definite per alcuni aspetti, e relativamente
non definite per altri. La storia di Wutu, ad esempio, aveva una parte centrale su I “fatti” della
cui in generale i soggetti concordavano (vale a dire la cantilena del punto 6a). Ma conoscenza
non cambiano
oltre a questo, la storia si divideva a poco a poco in una serie di affermazioni diver- con facilità
genti, incerte su cosa accadeva e quando. Qui il conoscere non è diverso solo per- come le
ché cambia in diversi contesti, ma perché parti di ciò che è conosciuto possono es- affermazioni
sere delineate in modo preciso, e altre invece non possono esserlo. E infine, sull’al- del conoscere
tro estremo di questo continuum, si trova una tipologia del conoscere che tende ad
essere fluida, che difficilmente si riesce a definire mediante parametri precisi, con
descrizioni formali e costanti. La ricerca suggerisce che esistono diversi livelli di
strutturazione nelle affermazioni conoscitive delle persone. Vorrei ora soffermarmi
su questo tipo di ricerca.
Uno dei problemi costanti dell’antropologia cognitiva è che dopo aver separato
il contesto dalla conoscenza – in modo da poter meglio descrivere gli elementi chia-
ve di ciò che le persone conoscono all’interno di una serie di contesti – gli antropo-
logi si trovano di fronte al problema di reintegrare il contesto nella conoscenza, ri-
La necessità di
portando ciò che un informatore sa all’interno dei contesti in cui il fatto è conosciu- reintegrare il
to. Molti studiosi che si occupano in particolare di “apprendimento situato” e “teo- contesto della
ria dell’attività” cercano di aggirare il problema, considerando la conoscenza come conoscenza
intrinsecamente racchiusa nei contesti. Rogoff (1990, p. 27), ad esempio, dice:
“Piuttosto che esaminare il contesto come un fattore che influisce sul comporta-
mento umano, considero il contesto come inseparabile dalle azioni umane nelle atti-
vità... cognitive”. E Scribner (1984, p. 39) afferma: “il pensiero pratico specializzato
è orientato a uno scopo, e varia adattandosi al mutare delle caratteristiche dei pro-
blemi e al variare delle condizioni nell’ambiente di ricerca”. Questo tipo di pensie-
ro pratico, continua la studiosa, “contrasta con quel tipo di pensiero accademico
che ad esempio utilizza un singolo algoritmo per risolvere tutti i problemi di un da-
to tipo”. Lave (1993, pp. 4-5) sottolinea che “le teorie sulle pratiche quotidiane
contestuali mostrano come le persone che agiscono e il mondo sociale delle attività
non possono essere separati”.
Sebbene non lo si sottolinei nei testi antropologici, questa prospettiva coincide
con un vasto insieme di fatti che va oltre la teoria dell’attività. Colson (1984, p. 7),
citata da Vayda (p. 394) in questo volume, dice ad esempio che “alla fine si è visto
che i valori una volta ritenuti fondamentali come guida all’interazione delle persone
l’una con l’altra e con il proprio ambiente sono situazionali e legati al tempo”. E
Barth (p. 433 in questo volume) asserisce che “tutti i concetti sono radicati nella
pratica”. Lo psicologo Mischel (1973, pp. 258-259) suggerisce che alcuni “risultati
delle ricerche ci ricordano che quello che le persone fanno in qualsiasi situazione
410 ROBERT BOROFSKY

può essere cambiato anche in modo drammatico da banali variazioni nelle loro
esperienze precedenti o da leggere modificazioni nelle particolari caratteristiche
della situazione immediata” (vedi anche Wright, Mischel 1988 e Shoda, Mischel,
Wright 1989).
Nei precedenti dati su Pukapuka si può notare la variabilità situazionale nelle
asserzioni degli informatori. La nota sei riporta che Paani mi raccontò volentieri la
storia di Wutu ben due volte, ma disse, quando gli fu chiesto da due studenti, che
Variabilità
situazionale non la conosceva. E l’analisi dei racconti su Wutu di Molingi, Petelo e Paani indica-
degli no come il loro resoconto di gruppo si differenziasse in diversi modi dai racconti in-
informatori dividuali.
I fattori contestuali hanno probabilmente contribuito a dare forma alle risposte
degli abitanti di Pukapuka anche nella ricerca sull’identificazione dei pesci. Sebbe-
I fattori ne il mio metodo di raccogliere dati sia simile a quello di altri antropologi, non è si-
contestuali e la
ricerca sul
mile al modo in cui questi abitanti utilizzano quello che sanno dei pesci nel loro
riconoscimento quotidiano. Almeno parte della diversità di cui abbiamo parlato in precedenza deri-
dei pesci va probabilmente dal tentativo degli abitanti di Pukapuka di dare delle risposte a
domande per le quali hanno ben scarsa esperienza collettiva – il riconoscere i pesci
dalle fotografie. D’Andrade (1992, p. 51) sottolinea un punto importante: “È come
se cercando delle tassonomie l’antropologo... [stia spesso] cercando un formato di
Contrasto tra raccolta della conoscenza che corrisponde a un formato utilizzato nella cultura
formato di scientifica degli antropologi, piuttosto che scoprire la forma di organizzazione della
raccolta dei
dati
conoscenza utilizzata dall’informatore”.
“scientifico” e Gli abitanti di Pukapuka possiedono una vasta gamma di nomi per i pesci. Ma
forma nella maggior parte delle loro conversazioni non analizzano le identità dei diversi
conoscitiva pesci. Tendono a parlarne in generale. In una conversazione con un amico ad esem-
indigena
pio, può essere menzionato uno specifico tipo di pesce. Ma dettagli relativi all’iden-
tità specifica del pesce – se cioè sia un malau loa, un malau mania, un malau moana,
un malau aniu, un malau wangamea, un malau kulu o un malau ngutu poto – se mai
vengono presi in considerazione, sono di solito di importanza secondaria6.
Quello che sto dicendo è che mentre gli abitanti di Pukapuka hanno risposto
prontamente alla ricerca sui pesci, non è certo una cosa che fanno quotidianamente.
Si possono allora comprendere le variazioni nelle loro risposte in quanto cercano di
applicare la loro conoscenza, sviluppata in una serie di contesti, a una situazione
più formale e diversa dove in qualche modo emergono aspettative non familiari. Ti-
picamente, gli esperti scelti dagli informatori per questi argomenti non mostrarono
un maggiore accordo rispetto agli altri gruppi coinvolti nella ricerca. Da un certo
punto di vista, tutti “pescavano” le risposte – cercando di dare risposte giuste, basa-
te su esperienze passate, alle mie domande in qualche modo non familiari ma com-
prensibili.
Muovendoci ulteriormente verso l’estremità del continuum che abbiamo defini-
Rosch e le to “conoscenza” troviamo diverse ricerche condotte nel campo dei giudizi prototi-
categorie come pici e delle classificazioni fuzzy – sui gradi e sui livelli di chiarezza e delimitazioni
prototipi delle categorie culturali. La ricerca di Rosch (cfr. 1973a, 1973b, 1975, 1977, 1978a,
1978b, 1987), ad esempio, indica che spesso le categorie posseggono un nucleo cen-
trale circondato da elementi periferici classificati in modo più ambiguo. Secondo
Rosch una categoria è definita “in base ai suoi casi più evidenti piuttosto che in ba-
se ai suoi confini” (Rosch 1978b, p. 36); “le categorie sono internamente strutturate
da gradienti di rappresentatività… [con] confini di categoria… non necessariamen-
te definiti” (Mervis, Rosch 1981, p. 109). Per quanto riguarda la categorizzazione
dei modelli, in linea con la ricerca di Zadeh sulla logica fuzzy, Oden (1981, p.
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 411

2.897) suggerisce che i modelli fuzzy “non sono basati su caratteristiche essenziali La fuzzy logic
(non esistono proprietà che devono essere per forza presenti)... [piuttosto] ci... [so-
no] diversi gradi di appartenenza a [una] categoria concettuale”.
Nella storia di Wutu, gli informatori tendevano a concordare sul fatto che una
unità del racconto, la cantilena degli spiriti del punto 6a, fosse centrale nella storia
– sebbene (come indica la Tavola 1) non ci fosse il cento per cento di consenso
nemmeno su questo. A partire dal “nucleo centrale”, un certo numero di abitanti di
Pukapuka includeva le unità 3 e 5 nel loro racconto, un numero minore includeva Nucleo
invece gli elementi 4 e 12. Oltre a questo, tendevano a presentarsi ambiguità e in- centrale, unità
certezze riguardo a cosa fosse (o non fosse) rilevante nella storia di Wutu. A confer- marginale e
ma della ricerca psicologica sui prototipi (vedi ad es. McCloskey, Glucksberg 1978, divergenze
Niedenthal, Cantor 1984), era nelle aree meno centrali che i resoconti risultavano nella storia di
Wutu
essere più divergenti e contradditori.
Forse il settore del continuum tra conoscenza e conoscere più difficile da accet-
tare da parte di alcuni studiosi è proprio quello più distante, il conoscere – dove il
concetto di “conoscere” sembra essere generalmente più fluido. “In ogni caso da-
to” dicono Keller e Keller (1993, p. 127), “la conoscenza è continuamente ridefini-
ta, arricchita, o completamente revisionata dall’esperienza”. Lo psicologo Oden
(1987, p. 213) osserva che i concetti non devono necessariamente essere “strutture
statiche con referenti fissi e connessioni permanenti... La base intensionale dei con-
cetti permette loro di essere costruiti, corretti, e capiti ‘al volo’ a seconda dei biso-
La continua
gni di coloro che li possiedono e delle esigenze che tale compito richiede”. L’antro- costruzione e
pologo Ellen (1979, pp. 354-355) sostiene che “gli stessi individui... [possono] esse- correzione dei
re solo di rado coerenti rispetto alle affermazioni che formulano in contesti in cui concetti
l’informazione viene sollecitata”, e continua dicendo che “possono inizialmente da-
re un nome, o anche diversi nomi, poi negarli e dopo decidere per qualcosa di di-
verso. Questo è il tipo di identificazione che dobbiamo normalmente accettare co-
me ‘definitiva’, sebbene sia possibile che osservazioni, considerazioni e consultazio-
ni future portino l’informatore a cambiare di nuovo idea”. “Il problema con questo
tipo di lavoro”, egli continua, “è che necessita di risposte definitive per ragioni ana-
litiche, mentre è chiaro che i processi che generano le risposte sono flessibili”. (I
lettori interessati alla posizione di Ellen possono consultare la ricerca sulla persona-
lità realizzata da Mischel in ambito psicologico. Mischel 1973, p. 255, ad esempio,
dice che una parte dei “risultati della ricerca... è totalmente congruente con... le
conclusioni... che mettono in evidenza l’organizzazione idiosincratica del comporta-
mento tra gli individui”). Ellen (1979, p. 357) dice anche:

La variabilità è ciò che dobbiamo aspettarci, la diversità fa parte del sistema; l’omogenei- La diversità fa
tà non solo non è necessaria, o possibile (Hays 1974, pp. 204, 305), ma forse non sempre parte del
è desiderabile. Questo non solo perché la conoscenza, gli interessi e l’abilità nelle identi- sistema
ficazioni e nelle classificazioni delle persone variano, ma anche perché le persone utilizza-
no costantemente delle categorie, senza formalmente definirle, in modi che suggeriscono
diverse, e perfino opposte, proprietà in distinte occasioni (Bourdieu 1972).

Brunton (1980) ritorna con efficacia su questo punto nel suo articolo L’ordine
frainteso nella religione della Melanesia. Connerton (1989, p. 70) si riferisce ai miti –
includendo storie come quella di Wutu – come a “contenitori di possibilità”. Ortu- I miti come
“contenitori di
tay (1959, p. 207) afferma che “la caratteristica decisiva della... trasmissione orale possibilità”
non è semplicemente quella di preservare la conoscenza, ma una tendenza ad ab-
bellirla e arricchirla”. Harris (1970, p. 1), analizzando l’identità razziale brasiliana,
412 ROBERT BOROFSKY

mette in evidenza che in certe categorizzazioni “conseguenze adattive dal punto di


vista strutturale coincidono con l’aumento delle interferenze e delle ambiguità”.
Possiamo ritrovare elementi di un conoscere fluido e flessibile nella storia di
Wutu. Come abbiamo sottolineato, il punto 6a, la cantilena, costituisce il nucleo
centrale della storia – l’unico elemento che ricorre attraverso le molteplici interpre-
tazioni. Eppure un’analisi delle ripetute interpretazioni di Petelo, Paani, Vailoa e
Pelepele indica che tutti hanno cambiato l’unità costituente nei loro ripetuti rac-
conti della storia – è significativo che nuove parole fossero aggiunte alla cantilena
e/o altri elementi importanti venissero invece tralasciati.

Voglio ora soffermarmi su tre punti correlati e conseguenti questo continuum


conoscenza/conoscere. Si tratta di aspetti che evidenziano come sia necessario pre-
Tre punti
stare attenzione alle dinamiche processuali che fanno parte della conoscenza e del
conoscere.
Innanzitutto, concentrarsi solo sul contenuto intellettuale – a scapito della rap-
presentazione sociale – significa perdere un aspetto importante di quello che le per-
sone conoscono. Uno dei motivi per tollerare la flessibilità nel registrare una storia
L’importanza come quella di Wutu è, credo, il fatto che questo tipo di storia implica non solo cer-
della ti aspetti di contenuto, ma anche un determinato stile retorico nella sua presenta-
rappresentazione zione. Nel raccontare, l’atto del raccontare può essere essenziale tanto quanto il
sociale accanto
a quella del contenuto del racconto (cfr. R. Lakoff 1973; Grice 1975). Il modo in cui Petelo e
contenuto Molingi raccontano la storia di Wutu, ad esempio, comunica emozioni. Indipen-
dentemente dalla scelta di questo o quel dettaglio, Petelo e Molingi sanno come
animare il racconto. Dobbiamo, quindi, abbandonare l’interesse esclusivo per ciò
che è conosciuto, inteso come contenuto separato, e radicarlo invece in un’attività
significativa. Dobbiamo situare “l’apprendimento lungo le traiettorie della parteci-
pazione in cui acquisisce il suo significato” per citare Lave e Wenger (1991, p. 121).
Ciò mi porta al secondo punto. La diversità all’interno del gruppo è in parte una
questione di percezione. Ad esempio, se si considera la storia di Wutu come un
qualcosa di chiaro e delineato allora emergono numerose differenze dai racconti
delle persone. Ma se si considera la storia come un qualcosa di più fluido nella for-
ma, le variazioni non si notano più così tanto. Queste variazioni sembrano rientrare
La diversità è in un più vago e generale schema di tendenze. Dobbiamo renderci conto che la di-
spesso versità è in parte negli occhi dell’osservatore, e in parte nel fatto di vedere il proprio
questione di oggetto di ricerca come dotato di una forma rigida o flessibile. Lord (1960, p. 27),
percezione nella sua ricerca delle favole iugoslave, parlò con un informatore che dichiarò di
dell’osservatore
aver recitato una canzone esattamente come l’aveva sentita in precedenza. L’infor-
matore metteva in evidenza come il suo resoconto fosse: “la stessa canzone, parola
per parola, e riga per riga”. In realtà, Lord fu in grado di dimostrare che le due ver-
sioni erano diverse. Come nota Lord (1960, p. 28): per il cantore “parola per parola
e riga per riga è semplicemente un modo enfatico per dire uguale”. Dobbiamo esse-
re in grado di capire quando una differenza fa la differenza in ciò che le persone rac-
contano e fanno, se vogliamo capire il concetto di diversità.
La costruzione
Terzo punto. Dobbiamo riorientare le nostre analisi del continuum conoscen-
della za/conoscere. Fino a oggi, le analisi cognitive hanno preferito il concetto di cono-
conoscenza al scenza – con elementi strutturali in genere persistenti – e hanno cercato di determi-
di là della nare in che modo la diversità e il conoscere si sviluppano al di fuori di tali strutture,
schematiz- vale a dire di analizzare il modo in cui alcuni schemi, considerati fissi, assumono
zazione
forme diverse in contesti diversi. Possiamo rovesciare tale processo, iniziando con il
conoscere e vedere in che modo la conoscenza è costruita a partire da quello7: in-
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 413

tendo dire che dovremmo soffermarci sulle condizioni che strutturano il conoscere
in conoscenza.
Tra i maggiori fattori che strutturano il conoscere ci sono le esperienze del quo-
tidiano. Le persone, interagendo tra loro, finiscono per condividere le modalità di
comunicazione e di associazione. Invece di sottolineare il fatto che le persone han-
no bisogno di condividere una certa conoscenza per poter comunicare efficacemen- Le esperienze
te, credo si debba notare che le persone condividono tale conoscenza perché hanno del quotidiano:
appreso come interagire l’uno con l’altro. Ciò che le persone condividono cultural- interazione e
mente è l’esperienza di vivere accanto gli uni agli altri, di partecipare insieme ad at- condivisione
tività che abbiano un significato. Quet’impostazione ci riconduce all’importanza
che alcuni saggi della quarta e quinta sezione di questo volume assegnano al cultu-
rale, inteso come parte integrante di attività condivise. Possiamo, inoltre, capire me-
glio gli interessanti dati di Swartz sugli swahili. Per quanto riguarda “una dimensio-
ne cruciale della cultura, vale a dire il livello di condivisione nelle relazioni e nella
vita familiare”, Swartz (1982, p. 321) sottolinea che “le differenze all’interno di una
società [come gli swahili] possono essere maggiori delle differenze tra le società”.
Swartz (1991, pp. 294-295) continua osservando che “chi occupa un certo ruolo
[ad es. le madri] non condivide una maggiore comprensione con altri attori aventi
lo stesso status… [per quanto concerne] il proprio ruolo di quanto non lo faccia…
Il caso degli
con chi non è membro di quel ruolo” (ad es. i padri). Dove troviamo il grado più al- swahili e il
tro di condivisione tra gli swahili studiati da Swartz? Essa è maggiore tra i membri ruolo della
della famiglia, e specialmente tra gli sposi (Swartz 1982, p. 333) perché interagisco- famiglia
no costantemente tra loro. In modo simile Holland (1987, p. 247) segnala che “l’in-
terazione faccia a faccia” tra i membri dello stesso gruppo e “il raggiungimento di
relazioni stabili e non superficiali” sono fattori determinanti per la distribuzione
della conoscenza culturale all’interno di un gruppo (a questo riguardo vedi anche
Boster 1985, p. 193).
Altri fattori danno forma al conoscere. Mi soffermo brevemente su due di questi
– il potere e l’oggettivazione – anche se, se avessimo abbastanza spazio per farlo,
potremmo prendere in considerazione anche altri fattori – specialmente quelli ri-
Potere e
tuali. Sia Wolf che Keesing discutono di potere nei loro saggi; il potere è essenziale oggettivazione
anche nelle analisi di Foucault (ad esempio 1963; 1975; 1976; 1966). Il potere può
dare forma al conoscere delle persone sulla base di ciò che è o non è accettabile
nell’interazione con gli altri, così come, più in generale, promuovendo (o scorag-
giando) alcune credenze o comportamenti. Oltre a questo può, in modo più sottile,
inquadrare i contesti all’interno dei quali la conoscenza esiste, specialmente nei ter-
mini di ciò che Bourdieu (1972) definisce come doxa – “ciò che è senza dubbio e su
cui ogni rappresentante è tacitamente d’accordo per il solo fatto di comportarsi in La doxa
accordo alle convenzioni sociali”. Il focalizzarsi sul potere amplia il campo dell’an- secondo
tropologia cognitiva, e la porta in un ambito nel quale le teorie di pensatori come Bourdieu
Marx, Durkheim, e Weber e i temi come la politica, la religione, e il cambiamento
sociale diventano centrali nell’analisi.
L’antropologo – come recenti approcci interepretativi e postmoderni hanno
messo in evidenza – è anch’egli un fattore chiave nella struttura del conoscere.
Bourdieu (1972; 1982) denomina questo processo oggettivazione – il modo in cui il È l’antropologo
conoscere fluido delle pratiche quotidiane viene trasformato nella conoscenza strut- a dare forma
turata degli scritti antropologici (cfr. ad esempio 1982, p. 40). In Making History compiuta alle
(1987) ho confrontato il modo in cui certi abitanti di Pukapuka e gli antropologi tradizioni,
trasformandole
descrivono il passato di questo popolo. Molti abitanti di Pukapuka cambiano conti- in conoscenza
nuamente le loro tradizioni nel processo di apprendimento e di convalida – di mo-
414 ROBERT BOROFSKY

do che le loro descrizioni mantengono per loro una qualità conoscitiva. E diversi
antropologi, nel descrivere queste stesse tradizioni, danno loro forma compiuta, en-
fatizzandone l’uniformità a scapito della diversità e sottolineandone una forma sta-
tica a scapito dei cambiamenti – in altre parole, trasformano quelle che sono tradi-
zioni fluide in conoscenza.
Riassumendo, ho messo in evidenza il bisogno di ampliare il nostro concetto di
conoscenza. Ipotizzando un continuum tra conoscenza e conoscere, ho cercato di
Nuovi
rapporti di
raggruppare in un solo quadro d’assieme materiali riguardanti la teoria dell’attività,
collaborazione i giudizi prototipici, la fuzzy logic e l’analisi processuale. Anche se riconosco l’im-
fra antropologi portanza delle forme di conoscenza strutturate e fisse, ho messo in evidenza gli
aspetti dinamici, fluidi e/o flessibili del conoscere (dato che questi sembrano tra-
scurati negli scritti). E senza cercare di sminuire l’approccio comune all’interno del-
l’antropologia cognitiva, che consiste nel partire dalla conoscenza per poi osservare
in che modo il conoscere derivi da questa, ho suggerito che è arrivato il momento di
concentrarsi su un approccio alternativo: cercare di capire in che modo il conoscere
è strutturato in forma di conoscenza non solo apre nuove strade per pensare al con-
tinuum conoscenza/conoscere, ma crea nuovi rapporti di collaborazione con gli an-
tropologi che lavorano al di là dei tradizionali confini dell’antropologia cognitiva,
su tematiche come il potere, l’egemonia, il materialismo culturale, il rituale, la poli-
tica della memoria, il postmoderno, e i cultural studies. Queste tematiche, piuttosto
marginali in molte ricerche dell’antropologia cognitiva contemporanea, dovrebbero
diventare centrali all’interno di questa disciplina.

Due tipi di memoria


Volgendomi ai recenti studi neuroscientifici sulla memoria, voglio proseguire
nel processo di ripensamento delle nostre concezioni della conoscenza/conoscere.
L’importanza Nelle osservazioni seguenti riconosco implicitamente che bisogna andare oltre alle
delle
neuroscienze vaghe e suggestive possibilità del processo cognitivo, alla ricerca di un rapporto di
scambio con altre discipline, e specialmente con la neuroscienza, in relazione alle
dinamiche effettivamente implicate. Tirare fuori dal cappello nuovi modelli non
servirà più all’antropologia; e nemmeno preferire un modello a un altro a seconda
di quali individui lo convalidino, e di quale status. Dobbiamo fondare le nostre ana-
lisi della conoscenza e del conoscere su percorsi euristici che si sovrappongono e
che possiamo trarre da altre discipline.

Nella neuroscienza prove sempre più evidenti suggeriscono che esistano almeno
Memoria due tipologie di memoria nel cervello umano: la prima viene definita come implici-
implicita e ta (o non-dichiarativa, o procedurale) e la seconda viene invece definita come espli-
esplicita cita (o dichiarativa, o relazionale). Secondo Schacter (1992, p. 559):

la memoria implicita è una forma di ritenzione non intenzionale, inconscia, che può esse-
re contrapposta alla memoria esplicita, che implica un ricordo conscio di esperienze vis-
sute. La memoria esplicita viene tipicamente valutata con funzioni di richiamo e ricono-
scimento che richiedono un recupero intenzionale di informazioni da uno specifico caso
precedente, mentre la memoria implicita è valutata in base a funzioni che non richiedono
un riconoscimento cosciente di specifici episodi.

La memoria esplicita o dichiarativa, dice Squire (1992, p. 232), “fornisce le basi


per ricordi coscienti di fatti ed eventi... e [viene] definita ‘dichiarativa’ per intendere
che può essere riportata alla mente e che i suoi contenuti possono essere ‘dichiarati’”.
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 415

La memoria non dichiarativa comprende informazioni che sono state acquisite durante
l’apprendimento di capacità definite (capacità motorie, percettive e cognitive), attraverso
la creazione di abitudini... [e] un altro tipo di conoscenza che viene espressa attraverso la
rappresentazione piuttosto che attraverso il ricordo. L’esperienza può accumularsi sino a
produrre un mutamento del comportamento, ma senza dar vita a un accesso cosciente a
episodi di apprendimento precedente o a capacità di ricordo (Squire 1992, p. 233).

Mentre le ricerche sulla base biologica di queste tipologie di memoria stanno


Le basi
continuando, i dati disponibili suggeriscono che biologiche dei
due tipi di
Le memorie dichiarative richiedono quelle reciproche connessioni anatomiche che per- memoria
mettono alla neocorteccia di interagire con l’ippocampo e le strutture correlate ad esso, e
la neocorteccia è considerata l’ultimo ricettacolo della memoria dichiarativa. [Le] capaci-
tà e le consuetudini [della memoria implicita] si basano sulle proiezioni dell’apparato
corticostriale... Una possibilità è che la memorizzazione delle informazioni alla base delle
capacità e delle consuetudini abbia luogo nelle sinapsi tra i neuroni corticali e i neuroni
dell’apparato neostriato (Squire, Knowlton, Musen, ms., p. 55).

Si può facilmente percepire la differenza biologica tra le due tipologie di memo-


ria nell’amnesia. I pazienti che soffrono di amnesia hanno perso la memoria esplici- L’interazione
ta. Questi pazienti conservano invece la memoria implicita. fra le due
Focalizzandoci sulle differenze tra queste due tipologie di memoria, non inten- memorie
do dire che entrambe non possano essere implicate in diverse attività. Di fatto, al-
cune attività hanno bisogno dell’interazione tra le due tipologie. Non esiste nemme-
no un reciproco sistema esclusivo (cfr. ad es. Harrington, Haaland, Yeo, Marder
1990, p. 334; Squire, Knowlton, Musen, ms., p. 12). Ma i due sistemi di memoria
sembrano possedere diverse proprietà.
Un’interessante linea di ricerca ha a che fare con lo sviluppo di elementi cultu-
rali e di regole nella memoria implicita. Knowlton, Ramus e Squire (1992, p. 172)
hanno esaminato l’abilità nel classificare le informazioni in categorie – e l’abilità a
essa connessa di classificare un ordine di esperienze culturali in schemi – secondo
una gamma di astratte e implicite regole grammaticali. I loro risultati (1992, p.
177) “dimostrano la partecipazione di almeno due sistemi indipendenti di memo- Due sistemi di
ria nell’apprendimento di una classificazione basata su regole. Un sistema imma- apprendimento
gazzina nella memoria esplicita gli esempi effettivi che si presentano... l’altro tipo
di memoria... immagazzina informazioni implicite che vengono ricavate dagli sti-
moli... in forma di regole” (Squire 1992, p. 234). “La memoria di informazioni
specifiche non è importante nel secondo tipo di apprendimento”, dice Squire
(1992, p. 234). “Piuttosto, è l’informazione che rimane invariata nel corso di mol-
te prove ad essere importante”. Mentre la classificazione può basarsi sulle infor-
mazioni immagazzinate sia nella memoria implicita che in quella esplicita, Knowl-
ton, Ramus e Squire (1992, p. 177) suggeriscono che gli esseri umani sembrano La memoria
fare maggiore affidamento sulla memoria implicita “quando le categorie sono de- implicita e il
finite da complesse regole sottostanti o da figure che è difficile scoprire in modo quotidiano
esplicito” – ciò significa che la memoria implicita viene utilizzata nell’occuparsi di
situazioni quotidiane.
A questo punto voglio sottolineare due punti. In primo luogo, sembra che le in-
formazioni immagazzinate nella memoria implicita non siano delle percezioni detta-
gliate di ciò che è accaduto, quanto piuttosto principi astratti che organizzano una
gamma di percezioni in elementi apparentemente coerenti. La focalizzazione è sulle
ripetute associazioni dell’esperienza piuttosto che su quelle variabili – una prospet-
416 ROBERT BOROFSKY

tiva che si sovrappone all’elaborazione dei principi connessionisti di Strauss e


Quinn (cfr. il loro saggio). In secondo luogo tali elementi, poiché sono immagazzi-
nati nella memoria implicita, non vengono prontamente verbalizzati o resi consape-
voli. Tali elementi possono essere meglio stabiliti nei termini della rappresentazione
piuttosto che nella capacità di riconoscimento, nell’attività sociale piuttosto che nel-
la spiegazione intellettuale.
Per quello che riguarda la storia di Wutu, possiamo ipotizzare che ciò che gli in-
formatori Petelo, Molingi, e altri conservavano nella memoria implicita fosse una
Gli elementi gamma di elementi della storia. Questi elementi potevano essere combinati, come
impliciti come
schemi abbiamo visto, con un varietà di aspetti specifici di contenuto immagazzinato nella
memoria esplicita – elementi che possono variare da racconto a racconto – e che
possono comunque condurre alla stessa storia. Ciò che ne fa “la stessa storia”, cre-
do, non è solo un dato numero di unità costituenti, ma la capacità con cui tali unità
vengono integrate e presentate come una rappresentazione sociale.
Questi dati (e le inferenze da loro tratte) si sovrappongo molto bene a un soli-
do patrimonio di materiale antropologico. Gli elementi impliciti, ad esempio, ven-
gono spesso definiti nell’antropologia contemporanea come schemi – “mondi sem-
plificati” nelle parole di D’Andrade (1990, p. 93), “strutture interpretative sche-
Le esperienze matizzate” secondo Holland (1992, p. 68). D’Andrade (1992b, p. 54) suggerisce,
corporeee riguardo all’apprendimento culturale, che gran parte del “comportamento di ri-
abitudinarie e
la consuetudine
sposta sembra governato da regole, ma spesso l’individuo non può stabilire le rego-
le” (vedi anche 1990, p. 99). L’importanza assunta dalle esperienze abitudinarie in-
corporate inconsciamente ben si accorda con la nozione di “consuetudine” propo-
sta da Bourdieu (1972) – “una [serie di disposizioni] abituali... del corpo” (vedi
anche Bourdieu 1972, pp. 285-300; 1982, pp. 52-65; Mauss, 1936, p. 73). A questo
riguardo si può citare anche Giddens (1984, p. 4): “la maggior parte del ‘bagaglio
di conoscenza’... incorporata negli incontri non è direttamente accessibile alla co-
scienza degli attori. Molta di questa conoscenza è di tipo pratico: corrisponde alla
capacità di ‘continuare’ la routine della vita sociale” (cfr. anche Connerton 1989;
Johnson 1987). E occupandosi della polifonia nella cultura americana, Strauss dice
(1990, p. 314) “i rituali, i simboli non coscienti, e le abitudini quotidiane vengono
interiorizzate... meno come teoria esplicita che come conoscenza implicita di ciò
che ne consegue”.
Tutto questo mi induce a ritenere che una parte notevole di ciò che possiamo defi-
nire come culturale sia immagazzinata nella memoria implicita – il che significa che
La memoria una larga parte di esso è accessibile principalmente attraverso la sua rappresentazio-
implicita e il ne. Da questo punto di vista, il dibattito tra Geertz e Goodenough (riportato nella se-
dibattito zione introduttiva della parte quarta) viene in certo senso meno, dato che la memoria
Geertz-
Goodenough
implicita è sicuramente localizzata nel cervello (come sottolinea Goodeenogh), ma
può essere meglio osservata nelle azioni pubbliche delle persone (in linea con la posi-
zione di Geertz). Forse ora possiamo riflettere su diverse questioni a questo riguardo.

Potremmo chiederci, ad esempio, fino a che punto l’implicito può essere trasfor-
mato in esplicito. Altrettanto ovviamente, parte di ciò che conosciamo implicitamen-
Cercare di te può essere descritto in forma linguistica manifesta, può essere presentato ad altri
rendere verbalmente. Altrettanto ovviamente, altre parti di ciò che sappiamo non possono
esplicito ciò esserlo. Il problema consiste nel delineare a quale categoria appartengano alcune
che è noto parti di ciò che è conosciuto implicitamente. Questo aspetto è particolarmente im-
come implicito
portante poiché, come ha sottolineato D’Andrade (1990, p. 68), “il rapporto tra cul-
tura e cognizione è stato principalmente studiato nei termini della relazione tra il lin-
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 417

guaggio e la cognizione”. Come Bloch mette in evidenza nel suo saggio, dobbiamo
ridurre il nostro interesse anche verso le prospettive meno orientate al linguaggio.
Lasciate che vi mostri di cosa si tratta mediante un esempio. Guidare un’auto-
mobile implica una capacità acquisita di conoscenza/conoscere. Se un amico ci
chiede come facciamo a guidare, possiamo fornire un preciso resoconto di ciò che è
generalmente richiesto per farlo. Possiamo, se vogliamo essere precisi, formulare Un esempio
una serie di regole (cfr. Wallace 1965). E se vogliamo essere ancora più precisi, pos- specifico:
siamo formulare anche una serie di regole aggiuntive per elencare le eccezioni, e le guidare
eccezioni alle stesse eccezioni. Ma tutte queste regole non rifletterebbero cosa acca- un’auto
de mentalmente quando guidiamo. Molte delle persone che conosco tendono a so-
gnare a occhi aperti o a concentrarsi su altre cose mentre stanno guidando (ad
esempio ascoltano la radio). Per quanto proviamo, non potremmo mai esprimere
pienamente col linguaggio il tipo di conoscenza/conoscere che utilizziamo nel gui-
dare. Esso è incorporato in diverse sensazioni cinesico-estetiche che non possiamo
del tutto esplicitare. Come indicano Dreyfus e Dreyfus (1986, p. 30): “Di solito non
prendiamo delle decisioni coscienti quando camminiamo, guidiamo, o conduciamo
le nostre attività sociali… Il guidatore esperto diventa un tutt’uno con l’automobile,
e ha semplicemente l’esperienza di se stesso che guida”.
Questo non significa che le persone non possano fornire affermazioni esplicite e
coerenti su ciò che fanno e sanno. Certo che possono. Ma le dichiarazioni che le
persone fanno agli altri riguardo al loro comportamento possono essere alquanto
diverse dalla conoscenza/conoscere che rimane dietro al comportamento stesso, co- Il passaggio
me diversi scienziati sociali hanno posto in evidenza (vedi ad es. Bilmes 1986). dall’esperienza
Bloch (p. 345 di questo volume) sottolinea che “se l’antropologo tenta spesso di de- alla descrizione
intellettuale
scrivere una conoscenza frammentata e non-proposizionale con un mezzo linguisti-
co (la scrittura), e non ha alternative, dovrà essere consapevole che in tal modo non
riproduce l’organizzazione della conoscenza delle persone che studia ma che la sta
trasponendo in una forma logica interamente diversa”. Il comportamento, come
hanno sottolineato Dreyfus e Dreyfus (1986, pp. 35 sgg.) viene trasformato – gene-
ralmente in qualcosa di più razionale, di più simile a una proposizione, e/o in base
all’assunzione di decisioni (decision-making). Cercare di descrivere esplicitamente
l’implicita conoscenza/conoscere significa tentare di descrivere intellettualmente
ciò che conosciamo per esperienza. Dobbiamo essere cauti nel non descrivere trop-
po, o concettualizzare troppo poco, ciò che è implicitamente noto.
È interessante notare, a questo riguardo, che gli informatori spesso rispondono
alle domande su qualcosa di cui hanno implicitamente avuto esperienza, ma di cui
sono coscientemente incerti riferendo norme culturalmente esplicite (cfr. ad es.
Bernard, Killworth, Kronenfeld, Sailer 1984, p. 508). Lo studio di Kronenfeld e al-
tri (citato in Bernard, Killworth, Kronenfeld, Sailer 1984, p. 509) è degno di nota a
questo riguardo: riporta “un esperimento in cui agli informatori che uscivano da un
ristorante veniva chiesto cosa indossassero i camerieri e le cameriere. Gli informato-
ri dimostrarono un maggior accordo su ciò che indossavano i camerieri piuttosto
che su quello che indossavano le cameriere, nonostante il fatto che in nessuno di
questi ristoranti ci fossero dei camerieri”.
Una questione importante è fino a che punto l’implicitamente noto può essere La difficoltà di
adeguatamente trasformato nell’esplicitamente detto. Si tratta di stabilire in che mi- una descrizione
sura gli antropologi possono descrivere, senza alterarli, importanti principi culturali oggettiva
e elementi riconosciuti dagli informatori. L’interpretativismo e le neuroscienze ten-
dono a giungere alla stessa conclusione a questo riguardo: che vi sono seri problemi
nel cercare di descrivere in modo oggettivo buona parte di ciò che le persone cono-
418 ROBERT BOROFSKY

scono. Dobbiamo essere cauti nel ritenere che l’implicitamente noto possa essere
trasformato in forma esplicita, e soprattutto, come sottolinea Bloch, che la cono-
scenza/conoscere a carattere non-linguistico possa essere strutturata, senza distor-
sioni, in termini linguistici.

Sviluppo delle Affrontando un problema diverso, dobbiamo ora considerare come si sviluppa-
strutture no i modelli coerenti all’interno della conoscenza/conoscere implicita. Basandosi
implicite sulle ricerche di Rosch (ad es. 1978b; Rosch, Mervis 1975), Gibson (ad es. 1979),
Kosslyn (ad es. 1988; Kosslyn et al. 1989), Reber (ad es. 1992), e altri ancora, sem-
bra probabile che tali strutture emergano dal rilevamento mentale di fatti apparen-
temente invarianti e/o covarianti in un ripetuto numero di esperienze correlate.
L’informazione (Dico apparentemente, poiché le percezioni culturali ovviamente simolano ciò che
invariante e la viene e non viene percepito come simile). In altre parole, le persone sembrano co-
concettualiz-
zazione
struire astratte concettualizzazioni delle loro esperienze come risultato della statici-
dell’esperienza tà di certi elementi o del loro variare collettivo insieme a una gamma di attività ripe-
tute. Questo è ciò a cui Squire (1992, p. 234) si riferisce quando dice “[che] è im-
portante l’informazione che rimane invariata durante una serie di processi”. E que-
sto è ciò che vogliono dire Hasher e Zacks (1984, p. 1.381) quando affermano che
“lavori recenti dimostrano che la conoscenza concettuale dipende direttamente dal-
la frequenza delle informazioni”.
Siamo di fronte a un evidente problema. Come può il cervello scegliere nella
L’importanza gamma degli inputs quali siano le invarianti, e cosa sia o non sia associato agli altri
della frequenza
per la memoria
elementi? In apparenza, il cervello umano non solo possiede questa capacità, ma la
attiva automaticamente. Cito nuovamente Hasher e Zacks (1984, p. 1.379):

L’informazione sulla frequenza è registrata nella memoria senza che la persona abbia in-
tenzione di farlo... Virtualmente, a differenza da ogni altra capacità cognitiva già esami-
nata nella storia della disciplina, la memoria per la frequenza manifesta un’invariabilità
ambientale dalla minore età... fino all’età matura. In modo simile, non esistono effetti
delle differenze tra le persone nella motivazione, nell’intelligenza, e nell’educazione.

Questo potrebbe esserci d’aiuto nel dimostrare che, come hanno sottolineato
Dreyfus e Dreyfus (1986, p. 22), l’apprendimento iniziale di un compito “richiede
talmente tanta concentrazione che... [le proprie] capacità di parlare o di ascoltare
un consiglio sono fortemente limitate”. Ci si concentra mentalmente nello stabili-
re ciò che è o non è similmente invariante e/o co-variante. Si potrebbe in tal mo-
do spiegare perché, una volta che queste invarianti e covarianti sono in qualche
modo stabilite, si può parlare e sognare a occhi aperti mentre si porta avanti lo
stesso compito. A supportare questa posizione ci sono gli studi della tomografia a
emissione di positroni, un attento esame del cervello di certe capacità abituali e
L’interazione acquisite della conoscenza/conoscere – come giocare al videogioco Tetris (vedi
con l’ambiente
e la rilevanza Haier et al. 1992) – che indica come una volta che le persone hanno iniziato ad
dei problemi acquisire una capacità, tendono da quel momento in poi a consumare meno glu-
cosio nei processi di immissione, nonostante possano essere richiesti alti livelli di
capacità nelle prove successive (vedi Squire et al. 1992). È importante sottolinea-
re che queste invarianti e covarianti si basano sulle interazioni con l’ambiente,
nella risoluzione dei problemi quotidiani. Vorrei sottolineare che quest’attenzione
posta sulle attività concrete conferma un tema significativo delle ricerche cogniti-
ve: “In generale la risoluzione dei problemi” dice Lave (1990, p. 322) “è motivata
da un dilemma”. O, come dicono Dreyfus e Dreyfus (1986, p. 43), “le persone
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 419

non sono particolarmente abili nell’eseguire un compito che è poco rilevante nel
mondo reale”.
La ricerca sta proseguendo affrontando diverse questioni. Quanto sono astratte
queste astrazioni costruite a partire dalle invarianti? Fino a che punto si tratta di ve-
re e proprie regole? Come si sviluppano e si trasformano di volta in volta queste
concettualizzazioni nel tempo? Le risposte a queste domande derivano in parte, na-
turalmente, da come si definiscono termini come “astrazione” e “in forma di rego-
le”. Ma, generalmente, è giusto dire che ci sono al momento ancora domande senza
risposta – il che significa che non dovremmo presupporre che una possibilità sia ov-
viamente più corretta di un’altra fino a quando non saranno svolte ulteriori ricer-
che.
Dall’analisi di tutti questi materiali, traggo una conseguenza: dobbiamo essere Bisogna
cauti nella formulazione degli schemi culturali. Come Burling (1964) ha sottolinea- prestare
to molti anni fa, un particolare insieme di categorie può, rispetto agli schemi sotto- attenzione alla
frequenza degli
stanti, ricevere una elaborazione concettuale in una gamma di modi diversi. Po- eventi
tremmo essere tentati di dare importanza prioritaria agli schemi che spiegano gran
parte del comportamento con il minore numero di requisiti. Ma tale approccio
ignora il modo in cui le persone sembrano sviluppare gli schemi, come arrivano a
concettualizzare le loro esperienze. Se ci atteniamo all’osservazione di Malinowski
secondo cui è necessario capire la “prospettiva del nativo”, dobbiamo concentrarci
maggiormente sulle esperienze invarianti e covarianti degli informatori nel tempo.
E questo indica un approccio in qualche modo diverso riguardo alla raccolta e alla
concettualizzazione dei dati nei vari campi di ricerca, rispetto a quello che viene og-
gi comunemente utilizzato. Gli etnografi devono fare maggiore attenzione alla fre-
quenza degli eventi, e specialmente alle esperienze varianti e covarianti dei loro in-
formatori (cfr. Oliver 1958; 1974, pp. 580, 583-584).

Nel concludere questa parte, desidero accennare brevemente ad alcune implica-


Implicazioni
zioni che riguardano tratti di ciò che è implicitamente noto. La prima si riconnette antropologiche
all’idea di Reber (1992, p. 123) che “le strutture neurologiche che favoriscono il si- di tre tratti
stema (o sistemi) cognitivo implicito sono precedenti dal punto di vista evolutivo, e impliciti
precedono con un certo lasso di tempo il sistema (o sistemi) esplicito e cosciente”.
(Reber 1992, p. 106, indica anche che “la coscienza è un recente evolutivo che fun-
ziona come una specie di sistema esecutivo in grado di esercitare un controllo, a va-
ri livelli, sui contenuti dell’inconscio cognitivo”). Riguardo a questa prospettiva
evolutiva, Reber (1992, p. 123) rileva che i processi cognitivi impliciti sono mag-
giormente resistenti alla “disgregazione della funzione dovuta a malattia o disordini
mentali” – un punto che abbiamo osservato in precedenza parlando dell’amnesia. Le strutture
E, inoltre, i processi cognitivi impliciti sembrano essere meno correlati a differenze implicite sono
d’età e di quoziente intellettivo. Reber (1992, p. 118) ipotizza, basandosi su dati in- precedenti
teressanti ma non conclusivi, che “le funzioni implicite... mostrano poche variazioni evolutivamente
nelle loro modalità da individuo a individuo, a paragone di quelle esplicite”. Se co-
sì è, possiamo individuare elementi del culturale nell’implicitamente noto: le con-
cettualizzazioni astratte che richiedono capacità e rappresentazioni derivano da
Le funzioni
esperienze sovrapposte all’interno di un gruppo, solitamente condivise dal gruppo implicite sono
come un tutto. Non sto dicendo che tale conoscenza/conoscere implicita è tutto ciò meno variabili
che è culturale. Sto sostenendo però che costituisce una sua parte importante. e costituiscono
In secondo luogo, i modelli cognitivi impliciti tendono a essere iper-specifici, parte
ovvero hanno “un accesso limitato a sistemi di risposta non coinvolti nell’apprendi- importante del
culturale
mento iniziale” (Squire 1992, p. 237). “La conoscenza radicata in un insieme di
420 ROBERT BOROFSKY

produzioni non si sposterà [prontamente] a un compito che richieda produzioni di-


verse” (Willingham, Nissen, Bullemer 1989, p. 1.059). Anche sottili differenze – l’o-
rientamento e la sfumatura di un oggetto, la voce di chi espone il materiale, o il tipo
di carattere grafico in una lettera – sembrano influenzare la memoria implicita negli
studi sperimentali (cfr. Squire, Knwlton, Musen, ms., p. 51).
Questo si connette a due questioni antropologiche. La prima riguarda la ricerca
La ricerca di su modelli di pensiero indigeni, soprattutto sui livelli ai quali “il pensiero delle per-
modelli di sone... viene incarnato all’interno dei contesti” per citare Levy (1973, p. 269). Le
pensiero analisi psicologiche e antropologiche hanno spesso ritenuto che questo problema
indigeni e
l’importanza
dipendesse da informatori non occidentali e alla loro attitudine al concreto (con,
del concreto forse, una preoccupazione meno netta nei riguardi dell’astratto). P. Boyer (1990, p.
42), ad esempio, suggerisce che “una caratteristica degna di nota di... [ciò che egli
definisce] come discorso tradizionale è l’importanza posta su specifiche situazioni
invece che su inferenze teoriche”. Ma possiamo notare che questo problema riguar-
da assai poco l’astrazione teorica – dato che l’implicito rinvia certamente a delle
astrazioni – ed è generalizzabile solo in forma limitata al di là del contesto d’ap-
prendimento iniziale o, come dice Cole (1990, p. 106), del “ristretto trasferimento
delle strategie di risoluzione dei problemi” tra i contesti.
In secondo luogo, sebbene diversi studiosi abbiano ripetutamente parlato del-
le qualità iperspecifiche di ciò che è implicitamente noto, gli antropologi hanno, a
L’importanza
del contestuale
volte, sottostimato questa proprietà nelle loro descrizioni del culturale. Il cultura-
e dell’implicita- le è spesso definito nei termini di strutture e processi ampi e coerenti che si colle-
mente noto gano a contesti e attività. Tale visione del culturale non è del tutto sbagliata. Le
associazioni metaforiche che attraversano diversi contesti sono comuni nella co-
noscenza/conoscere esplicita. Come mette in risalto Squire (1992, p. 209), “L’ip-
pocampo, e il sistema cui appartiene, è essenziale per acquisire informazioni sui
rapporti, sulle combinazioni e le associazioni tra stimoli, di modo che la rappre-
sentazione che ne risulta è flessibile e accessibile a molteplici sistemi di risposte”.
Comunque, nel concettualizzare il culturale dobbiamo tenere in considerazione
non solo il metaforico, il pluricontestuale, le strutture orientate al linguaggio del-
l’esplicitamente noto, ma anche alle strutture basate sul contesto e orientate all’at-
tività dell’implicitamente noto. Ritengo insomma che dobbiamo esaminare in che
modo e fino a che punto i vari aspetti del culturale sembrano – in termini indige-
ni – comuni a una serie di attività e in che modo invece si restringano investendo
una gamma definita di attività correlate.
Infine, seguendo le precedenti osservazioni di Reber, sostengo sia possibile che
l’età abbia un effetto maggiore sulla memoria esplicita che sulla memoria implicita
(cfr. ad es. Mitchell 1989, Musen, Treisman 1990, Mitchell, Brown, Murphy 1990,
Gli stili
conoscitivi
Allen, Reber 1980, Reber 1992). I dati in nostro possesso indicano che l’organizza-
fondati zione delle informazioni in strutture concettuali nella memoria implicita possono es-
sull’autorità sere più durevoli che l’esplicita reminiscenza di esperienze particolari, o di particola-
sono più ri informazioni. Ciò significa che v’è motivo di credere che gli informatori più anzia-
durevoli perché
impliciti
ni possono mantenere i loro stili di conoscenza basati sull’autorità anche molto tem-
po dopo che hanno perduto, a causa dell’età, i dettagli specifici su cui poggiano le
loro asserzioni. Gli antropologi, allora, nelle loro interviste possono ottenere dagli
anziani “bene informati” rappresentazioni sociali raffinate e autorevoli, piuttosto che
reminiscenze di fatti e tradizioni specifiche. Questa era in sintesi la situazione di Pe-
telo. Come abbiamo già specificato in una precedente pubblicazione (Borofsky
1987, p. 105), Petelo aveva evidenti “vuoti conoscitivi [riguardo a una serie di mate-
riali]… [ma era]… un maestro nel far credere agli altri di sapere tutto”. Così il pro-
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 421

blema che viene alla luce è che gli antropologi – a causa delle incertezze nel com- Gli anziani
prendere il gruppo che stanno studiando – si fondano in genere sugli informatori più hanno
maggiore
anziani, che hanno modi autoritari e sapienti. Questi informatori, comunque, posso- autorità ma
no sapere meno – in termini di dettagli specifici – riguardo a certi fenomeni cultura- ricordano
li degli informatori più giovani, che presentano le loro informazioni in modo meno meno dettagli
autorevole. Dobbiamo tenere conto di tutto questo nel raccogliere i nostri dati.

Conclusioni
Questo saggio sottolinea come la diversità del sapere non sia un problema sem-
plice; esso intende essere un’occasione per ripensare a cosa intendiamo con “condi-
visione culturale” e “diversità”, “conoscenza culturale” e “conoscere”, e con “pro-
cesso culturale in atto”. Ho mostrato come sia necessario ripensare e riconfigurare i
nostri approcci al culturale in almeno quattro modi.
In primo luogo, ho suggerito di ristrutturare le nostre concezioni della diversità Quando una
e della condivisione. Abbiamo sottolineato che le persone possiedono qualcosa in differenza fa
davvero la
più di una conoscenza fissa e formale: hanno anche un conoscere, fluido e dinami- differenza?
co. A questo riguardo, possiamo considerare la diversità come un fenomeno in par-
te presente agli occhi dell’osservatore, a seconda di come si veda il soggetto in dis-
cussione, rigido o flessibile nella forma. La domanda che dobbiamo porci riguardo
a questa apparente diversità è allora: quando una differenza fa veramente la diffe-
renza? E questo dipende, come abbiamo già sottolineato, dall’esecuzione e dal con-
testo. Ho anche indicato come di fatto abbiamo ripensato il paradigma tradizionale,
che afferma che le persone interagiscono con successo in quanto condividono certe
La
conoscenze. Ora possiamo rovesciare l’implicita relazione causale: le persone condi- condivisione è
vidono certe conoscenze perché hanno appreso a interagire tra loro – ciò che condi- causata
vidono sono le esperienze, costruite nel tempo, di interazioni portante avanti con dall’interazione
successo. Da una prospettiva di sviluppo, la condivisione nasce da, piuttosto che
precedere, l’interazione.
In secondo luogo, abbiamo esplorato alcune linee-guida necessarie per dare for-
ma concettuale al culturale. In particolare ho sottolineato la necessità di fare atten-
zione all’ordinamento dei processi che trasformano il conoscere nella conoscenza.
Muovendo da questo, ho mostrato l’importanza di inquadrare i processi di struttu-
razione implicati nel contesto intellettuale di autori importanti come Marx e Dur-
kheim, e di discipline critiche come l’economia politica e i cultural studies, che si
trovano al di là dei confini tradizionali dell’antropologia cognitiva.
In terzo luogo, a partire da questa seconda tematica, ho notato come gli antro- L’apporto delle
pologi si sono tradizionalmente occupati di tendenze presenti in altre discipline. Se- neuroscienze e
guendo questa linea, mi sono rivolto alle neuroscienze per capire i processi chiave le nuove
prospettive di
di comprensione all’opera nella conoscenza/conoscere. Il modo in cui le prospetti- ricerca
ve neuroscientifiche e antropologiche tendono a sovrapporsi possono rappresentare
per noi un valido stimolo, dandoci un maggiore grado di fiducia nelle nostre formu-
lazioni. Ma esistono anche alcune differenze in tali prospettive che ci spingono a ri-
pensare certe posizioni e a esplorare formulazioni alternative. In merito a una for-
mulazione concettuale del culturale ho notato, ad esempio, una certa tensione tra le
strutture basate sull’attività e su ciò che è implicitamente noto, e le strutture che si Riaffermazione
riferiscono a più attività e basate su ciò che è esplicitamente noto. E abbiamo dimo- e/o
strato che l’implicitamente noto è meno soggetto al deterioramento mentale dovuto ricostruzione
delle strutture
all’età rispetto all’esplicitamente noto. Tali dati aprono nuove possibilità di ricerca. nel quotidiano
Infine, qua e là tra queste osservazioni si trovano, spero, delle interessanti indi-
cazioni su come elaborare concettualmente il culturale in movimento. Ho mostrato
422 ROBERT BOROFSKY

quanto sia importante considerare il culturale non solo in termini di conoscenza,


ma anche in termini di conoscere, e inoltre che gran parte dell’implicitamente noto
è radicata nelle attività culturali. Durante le attività quotidiane, ma soprattutto nei
periodi di cambiamento culturale, le strutture implicite soggiacenti a varie attività
culturali tendono a essere riaffermate o ricostruite. Vengono riaffermate, perché
costituiscono la base su cui le azioni vengono elaborate ed effettuate. E vengono
ricostruite, perché le persone alterano il loro comportamento proprio come si
adattano a nuove circostanze e contesti. Il ripetersi di un insieme di nuove azioni
porta, nel tempo, a una trasformazione delle vecchie strutture e/o alla creazione di
nuove strutture. È una prospettiva che non solo si riallaccia a Sahlins (1981, 1985,
1992) e alle sue illuminanti analisi sulla continuità e sui cambiamenti alle isole Ha-
waii, ma anche alle attuali posizioni connessioniste (vedi il saggio di Strauss e
Quinn) e alla moderna teoria del condizionamento (cfr. ad es. Rescorla 1988).
In conclusione, vorrei ribadire che stiamo facendo notevoli progressi in vista di
una comprensione della natura dinamica della cultura. Ma uno dei fattori che aiuta
tale progresso è il riconoscimento del fatto che c’è ancora molto da imparare.

* Desidero esprimere la mia gratitudine a coloro che mi hanno dato commenti e consigli che si sono rivelati utili

nel corso della revisione del saggio: Michael Cole, Elizabeth Colson, Virginia Dominguez, Janet Keller, Barbara Knowl-
ton, Jean Lave e Barbara Rogoff.
1 La sottolineatura della “condivisione” nelle tre citazioni, è mia e non appare nelle citazioni originali.
2 Vedi per esempio Barth (1975, 1987), Bilmes (1976), Boster (1985, 1987), Bricker (1975), Cavalli-Sforza, Feld-

man, Chen, Dornbusch (1982), Fabrega, Silver (1973), Finnegan (1977), Furbee, Benfer (1983), Garro (1986), Harris
(1970), Keesing (1982), Keesing, Tonkinson (1982), Lewis (1980), Lord (1960), Lowie (1942), Mathes (1983), Pelto,
Pelto (1975), Rubinstein (1981), Sanjek (1977), Sankoff (1971), Sapir (1938), Scribner (1985), Stromberg (1981), Walla-
ce (1961), Weller (1984), e Wexler, Romney (1972). Per ulteriori riferimenti vedi Boster 1987, p. 151.
3 Per le ricerche descritte nelle Tavole 1, 2 e 3 ho intervistato ottanta persone. Il campione per la ricerca di Wutu

(Tavola 1) comprendeva sia uomini che donne, mentre la ricerca per i pesci (Tavole 2 e 3) solo uomini. In questa ricer-
ca mi sono focalizzato sugli uomini perché sono principalmente loro ad andare a pesca nell’atollo e quindi hanno più
familiarità con la materia. Nell’esempio di Wutu, c’erano cinque uomini e cinque donne per ogni gruppo della seguen-
te età: (a) 10-, (b) 20-, (c) 30-, (d) 40-, (e) 50- anni. Per la ricerca dell’identificazione dei pesci c’erano dieci uomini in
ogni gruppo. Inoltre ho intervistato altri due gruppi. Uno era di “esperti” scelti dai loro pari. Per l’esempio di Wutu, il
gruppo era di dieci adulti. La selezione è stata fatta dagli uomini e dalle donne con più di cinquant’anni – 91 persone –
a cui è stato chiesto chi ritenevano bene informato sulle tradizioni dell’isola. Per la ricerca sui pesci, il gruppo degli
esperti era formato da quindici uomini. La selezione è stata fatta da tutti gli uomini con più di cinquant’anni – 57 per-
sone – a cui è stato chiesto chi ritenessero bene informato sulla pesca. Gli altri gruppi intervistati includevano informa-
tori con più di sessantaquattro anni che non facevano parte del gruppo degli esperti. Per la ricerca su Wutu, erano die-
ci uomini anziani e dieci donne anziane. Per la ricerca sui pesci, quindici uomini anziani. Quindi c’erano 80 informato-
ri sia per la ricerca su Wutu che per quella sui pesci.
Il gruppo dei “pescatori esperti” includeva tutti gli uomini dai trent’anni in su – uomini che, sulla base dell’età, do-
vevano aver avuto una notevole esperienza come pescatori. Il gruppo dei più giovani, anche se intervistato, non è inclu-
so poiché era presumibilmente meno informato sulla pesca e quindi avrebbe cambiato il risultato della ricerca. Nella ri-
cerca su Wutu, questo gruppo più giovane è stato incluso perché la storia è ritenuta popolare.
4 Decidere su quali pesci concentrarsi nel domandare i nomi ha rappresentato in qualche modo un problema. Chie-

dere il nome nella lingua di Pukapuka per pesci che pochi abitanti identificavano come presenti nell’atollo sembrava un
po’ assurdo. Sarebbe stato come chiedere i nomi indigeni di pesci che secondo molti abitanti non esistevano nei pressi
dell’atollo, e che presumibilmente non avevano mai visto. Per la ricerca della Tavola 3, ho utilizzato i pesci della Tavola 2
su cui esisteva un consenso di almeno il 67% degli intervistati. Questo mi consentiva di prendere in esame una certa
gamma di pesci e dava una chiara visione della misura in cui i nomi dei pesci forniti dagli individui si sovrapponessero.
5 Gli ottanta informatori le cui risposte sono riassunte nella Tavola 1 sono stati intervistati nella primavera del

1979. Un incontro con diversi “esperti” (scelti dai loro pari) avvenne nel settembre del 1980. Circa due mesi dopo, in-
tervistai tre di coloro che erano presenti all’incontro – Molingi, Petelo, e Paano – per vedere se c’erano dei cambiamen-
ti nelle loro versioni della storia dopo l’incontro. Infine, nella primavera del 1982 – circa un anno dopo che avevo la-
sciato l’atollo – due studenti intervistarono alcuni informatori della prima ricerca sulla storia, compresi Kililua, Vailoa e
Pelepele. (I racconti degli informatori furono registrati in ogni occasione e quindi esiste una versione relativamente pre-
cisa di quello che hanno detto).
Paani, che era considerato dai suoi pari al sesto posto (con Kililua) in base alla conoscenza delle cose tradizionali,
disse di non conoscere bene la storia quando venne intervistato dai due studenti nella primavera del 1982. Non mostrò
alcuna esitazione, comunque, nel raccontarmi la storia quando gliela chiesi in ben due interviste precedenti.
CONOSCERE E CONOSCENZA NELLE ATTIVITÀ CULTURALI 423
6 Nell’indagine sulle classificazioni di pesci, si è valutata come consensuale qualsiasi convergenza degli informatori al

livello tassonomico più generico rispetto all’identificazione di un pesce. Ad esempio, anche se gli informatori potevano
identificare un pesce come malau ngutu poto, malau aniu, malau wangamea, o malau kulu, la classificazione era considera-
ta comunque consensuale perché tutti identificavano i pesci come malau. Tale valutazione, tuttavia, creava una presuppo-
sizione di consenso dato che alcuni abitanti di Pukapuka potevano chiaramente identificare i pesci a un più preciso livello
di sottocategoria. Il punto è semplicemente che, in generale, molti abitanti di Pukapuka tendono a non concentrarsi su ta-
li categorizzazioni. Per questo ho pensato non fosse corretto sottolineare questa possibilità di maggior precisione nella
creazione delle tavole della mia ricerca.
7 L’idea nasce da una discussione con Jean Lave, e la devo a un suo acuto suggerimento.

Biografia intellettuale

Robert Borofsky è docente di antropologia alla Hawaii Pacific University ed è


editor del Book Review Forum dei Pacific Studies. Dal 1977 al 1981 ha condotto ri-
cerche a Pukapuka e alle isole Cook, riassunte nel libro Making History: Pukapu-
kan and Anthropological Constructions of Knowledge (Cambridge 1987). Borofsky
ha curato (con Alan Howard) Developments in Polynesian Ethnology (Hawaii
1989), un volume che indaga le direzioni attuale e futura degli studi sulla Poline-
sia. Nel 1988 e 1989 è stato membro dell’Institute of Culture and Communication,
East-West Center, dove ha iniziato a progettare il suo libro. Nel 1991-1992, è stato
Program Chair per la Divisione di Antropologia Generale dell’American Anthropo-
logy Association. Borofsky sta attualmente scrivendo due libri: Pacific Histories, un
volume (curato assieme a David Hanlon) sulle questioni attuali della storia del Pa-
cifico, e uno studio sul contatto tra l’Occidente e la Polinesia intitolato Of Guns
and Gods.

Essendo cresciuto in una famiglia di psicologi, il mio interesse per l’antropolo-


gia si è sviluppato a poco a poco. Il mio primo incontro con la disciplina avvenne
quando giunsi come studente all’University College di Londra, dove, in gran parte
per caso, seguii dei corsi nel Dipartimento di Antropologia. Diviso tra l’impegno
sociale e l’antropologia durante la graduate school, presi un master in antropologia a
Brandeis e poi, dato che l’esperienza non fu piacevole, andai ad insegnare in una
scuola elementare per qualche anno e viaggiai. Fu solo quando giunsi alla graduate
school delle Hawaii che mi sentii a casa.
Ho avuto diversi insegnanti importanti. A Londra ho seguito i corsi di Mary
Douglas (che studiò con Evans-Pritchard) e Daryll Forde (che, come preside del-
l’International African Institute, aveva dei forti legami con i più importanti antropo-
logi inglesi). Alle Hawaii, ho lavorato con Richard Lieban (un allievo di Steward e
Fried), Alan Howard (allievo di Felix Keesing) e Douglas Oliver. Oliver, dopo aver
studiato ad Harvard (dove subì l’influsso di Hooton e Cline) ha studiato a Vienna.
Ma sostiene di essere stato influenzato dalle letture etnografiche degli antropologi
inglesi, come Firth, Fortes, Evans-Pritchard e Malinowski. Firth è rimasto un eroe
per lui (e anche per me), e fu amico di Fortes.
Questi maestri mi hanno trasmesso due cose importanti. Anzitutto un forte inte-
resse per le etnografie. A Londra e alle Hawaii (soprattutto con Oliver) le etnogra-
fie erano considerate qualcosa di speciale, produzioni qualificate che resistevano al
tempo nonostante la fragilità delle mode teoriche. (Quando sono tornato dal mio
424 ROBERT BOROFSKY

lavoro sul terreno e ho iniziato a scrivere la tesi, ho riletto il libro di Firth, Noi, Ti-
kopia, e quello di Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande per
ispirarmi). Inoltre, mi hanno insegnato ad apprezzare il processo di creazione intel-
lettuale, a lavorare piano, ma bene.
Alle Hawaii, ho letto molto – non solo i maggiori teorici citati oggi dagli antro-
pologi, ma anche altri approcci dell’antropologia francese, inglese e americana; an-
che se erano meno di moda, ritengo avessero molto da offrire. Nonostante questo,
mi sentivo ancora affascinato dall’intreccio tra i percorsi delle opere di Weber, Lévi-
Strauss e Marx. Ero interessato a come le persone costruissero i significati del mon-
do che li circondava e da come il potere, interagendo con altre variabili, giocasse un
ruolo in questo processo.
Altre esperienze furono importanti per la mia crescita. Crescendo intellettual-
mente negli anni Sessanta, mi trovai impegnato in questioni come l’attivismo socia-
le, il potere e la democrazia. Quarantun mesi di lavoro su un atollo polinesiano eb-
bero su di me un impatto fondamentale. Continuavo a trovare problemi da indaga-
re, imparavo continuamente dai miei errori, e avevo sempre nuovi spunti su cui ri-
flettere. Fu attraverso l’interazione prolungata nel tempo con gli abitanti di Puka-
puka, cercando di capire come percepivano le loro stesse tradizioni rispetto a come
io (e altri) le percepivamo, che è nata in me la passione per la disciplina. Quando
sono ritornato dal lavoro sul campo, nel 1981, la storia del Pacifico era nota grazie
alle recenti pubblicazioni di Sahlins (1981) e Dening (1986). Ho subito l’influsso
del testo di Sahlins, Historical Metaphors and Mythical Realities, ma ancor più mi ha
influenzato quello di Dening, Islands and Beaches. Ho sognato allora, e lo sogno an-
cora oggi, di scrivere un libro così. Greg Dening, con il suo esempio e incoraggia-
mento, ha esercitato un forte influsso nella mia crescita di studioso.
Oggi i miei interessi rimangono eclettici. Sono profondamente impegnato nel-
l’insegnamento come parte dell’esperienza accademica, e preoccupato per lo stato
dell’educazione universitaria negli Stati Uniti. Continuo a fare ricerca su aspetti del-
l’antropologia del sapere che ho discusso in questo saggio, e sono profondamente
interessato alla storia degli incontri interculturali nel Pacifico, soprattutto per come
illuminano le sottili dinamiche del sapere e del potere. Il fatto che io diffonda que-
sti interessi e, fino a un certo punto, cerchi di circoscriverli sta a testimoniare il mio
ininterrotto interesse per l’importanza dell’etnografia in antropologia.
Una prospettiva personale sui compiti attuali dell’antropologia culturale
e sociale
Fredrik Barth

Dopo i recenti turbolenti e rapidi cambiamenti di paradigmi e stile in antro-


pologia culturale, è assai poco sorprendente che gran parte del nostro lavoro
prenda oggi forma come reazione agli assalti del postmoderno, e alle critiche ri- Una revisione
flessive e interpretative1. Sentiamo la necessità di raccogliere i frammenti dispersi di concezioni
e riprendere in qualche modo i compiti dell’antropologia ordinaria, non rifiutan- fondamentali
della disciplina
do o ignorando le critiche ma trasformandole e incorporandole poiché incremen-
tano la nostra sensibilità e capacità. Il compito può richiedere una revisione note-
vole dei nostri presupposti e concezioni fondamentali, ed è ancora solo parzial-
mente in corso. Tuttavia percepisco una considerevole convergenza tra molti col-
leghi che tenterò di esprimere nel presente testo. Ma in primo luogo, è necessario
riconsiderare le priorità e i nuclei principali che ci hanno preoccupato fino a poco
tempo fa, per essere sicuri di individuare gli orientamenti tradizionali che erano
importanti, ma che sono forse diventati meno rilevanti nel corso del dibattito del-
l’ultimo decennio.

Riflessioni sull’attuale antropologia culturale e sociale


In altre parole, per valutare prospettive passate e orientamenti futuri dell’an-
tropologia (culturale e sociale), è importante che si rifletta sugli usi passati dell’an-
tropologia, e sui possibili usi futuri. È possibile che gli obiettivi attuali dell’antro-
pologia rispecchino solo in modo imperfetto il potenziale della disciplina. I nostri Gli usi passati
e futuri della
interessi teorici, peraltro, possono involontariamente concentrarsi solo su questi antropologia
aspetti, piuttosto che sui bisogni che derivano dall’insieme di analisi compiute sul-
l’oggetto di studio più vasto. In questi ultimi anni, infatti, mi sembra che a questi
interessi sia stato concesso di deviare l’attenzione in direzioni che hanno inutil-
mente ristretto la portata del dibattito teorico.
L’antropologia è sorta come una branca della storia naturale dedicata allo studio
dell’uomo primitivo, di culture e società selvagge, ed è cresciuta come studio com-
parativo degli stili di vita degli esseri umani – per un certo periodo definiti anche La nascita
“esperimenti viventi” – tentando di acquisire una miglior conoscenza del potenziale dell’antro-
umano, oltre che delle condizioni essenziali e delle forme di vita dell’uomo. Per pologia come
questi motivi, lo studio di culture drasticamente differenti dalla nostra è stato sem- studio degli
pre particolarmente rilevante. E sulla base di questo studio, la disciplina ha svilup- “esperimenti di
vita”
pato quel vasto insieme di argomenti e di orientamenti che ha rappresentato la sua
forza e la sua debolezza nel corso delle ultime due generazioni.
Più di recente, ci siamo trovati in una situazione in cui sembra che i principa-
li nuclei di interesse dell’antropologia culturale americana siano cambiati, e si
siano ristretti. È vero che oggi più che mai le differenze culturali possono attrar-
re l’attenzione degli intellettuali (come suggerisce Keesing, pp. 367 sgg.). Ma as-
sistiamo a un cambiamento nel modo in cui questa attenzione viene utilizzata:
426 FREDRIK BARTH

meno per esplorare la diversità e le alternative del mondo, e più per fornirci
parabole e argomenti per parlare di noi stessi. La diversità o “Alterità” (ad esem-
La diversità pio, altri stili di vita) fornisce immagini buone per quegli studiosi che si sentono
come alienati, inautentici, disorientati, e forse anche amareggiati, e vogliono valutare la
argomento per loro stessa condizione. La riflessività, certo, è servita a far emergere questi orien-
parlare di noi tamenti e questi interessi; ma non è certo entusiasmante osservare gli atteggia-
stessi
menti che sono scaturiti dalla nostra riflessività: ironia, elitismo, estetismo, e, al
massimo indignazione per le condizioni di vita delle persone che hanno meno
potere. Perché mai la passione dovrebbe avere un posto così limitato? Passione
per la gente, per i problemi, amore e meraviglia per le diverse forme di “alterità”
di cui ci occupiamo? Credo che questo rifletta il restringersi dell’interesse nel-
L’importanza l’indagine, e l’uso limitato che si fa abitualmente dell’“alterità” culturale nella
della riflessività teorizzazione antropologica. Il fatto che oggi il campo dell’antropologia medica
attragga così tanti giovani è dovuto forse a questo: essa sfugge in qualche modo
alle limitazioni, lascia spazio a una sensibile empatia e rende possibile un interes-
se per gli altri che viene incoraggiato, e non ostacolato, da una raffinata attenzio-
ne per la loro alterità.
Altrettanto importante è il fatto che del settore di competenza dell’antropologia
medica è parte integrante un impegno nei confronti del mondo pratico che viene
invece eluso dagli orientamenti antropologici più recenti. Kuper (p. 151) fa una os-
servazione simile quando critica il livello dei contributi teorici recentemente forniti
dagli antropologi “metropolitani” ai problemi che invece riguardano gli antropologi
del Terzo Mondo. Una critica interna e molto intellettuale ha definito le priorità e
L’assenza dal ha focalizzato gli interessi in modo da farci perdere gran parte del nostro coinvolgi-
dibattito di
temi essenziali: mento nel mondo reale e con i problemi attuali. È possibile illustrare questo fatto
la povertà, anche solo notando l’assenza di alcuni temi dal dibattito antropologico: l’antropolo-
l’ambiente gia ha purtroppo avuto ben poco da dire sul fenomeno della grande povertà che
sempre più affligge centinaia di milioni di persone in tutte le principali città del
mondo. Né siamo stati capaci di assumere una posizione o anche di interessarci
concretamente al fatto che l’attività umana sembra distruggere l’ambiente dell’uo-
mo nella sua totalità. Infine, ci stiamo occupando solo marginalmente del crescente
pluralismo ed eterogeneità culturale nel mondo nell’attuale contesto della comuni-
cazione. Non voglio dire che il nostro futuro progetto di ricerca debba prender for-
ma a partire dalle trasformazioni delle grandi questioni politiche. Al contrario, ri-
Le potenzialità tengo che la nostra attenzione debba essere molto più rivolta ai principali aspetti
delle teorie della vita umana e che nelle nostre discussioni essa debba essere ben più avanti ri-
vanno testate spetto a quella dei governi e all’opinione pubblica; penso che la nostra disciplina
alla luce della
pratica
debba alzare la voce, per definire le tematiche in forma tale da attrarre l’attenzione
degli studiosi e del pubblico; e infine credo che dovremmo ammettere che le poten-
zialità delle nostre teorie spesso possono essere testate proprio alla luce della loro
rilevanza in questioni pratiche.
Se questi devono essere i nostri standard, a partire dai quali sceglieremo gli
orientamenti futuri dell’antropologia, da dove è meglio cominciare? Il primo pas-
so è apprendere a fare un uso migliore e più costruttivo dei risultati già ottenuti
da colleghi e predecessori, che hanno lavorato partendo da premesse diverse. So-
lo se utilizziamo con cura le idee produttive possiamo aumentare il potere della
nostra disciplina. La creatività teorica richiede, naturalmente, la libertà di critica-
re e di rifiutare, l’indipendenza dalle convenzioni e una volontà di esplorare altre,
radicali, posizioni. Ma dobbiamo esser pronti a resistere, a sostenere una qualsiasi
di queste posizioni. Non si migliora la propria creatività andando in cerca freneti-
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 427

camente della moda più recente, e abbandonando tutte le prospettive precedente-


mente stabilite (e le loro alternative). Nelle università americane esiste una forte
pressione in direzione di un’originalità stereotipata, che produce facilmente ri- Il rifiuto della
strettezza di vedute e dogmatismo locale, scuole e sette, e non favorisce abbastan- originalità a
tutti i costi e
za lo scetticismo, la sospensione del giudizio e il gioco intellettuale. La ribellione del
postmoderna contro alcune di queste limitazioni sarebbe più fruttuosa se fosse dogmatismo
meno interessata allo stile, e si occupasse più della sostanza che della forma. Dob-
biamo cercare di essere meno sprezzanti, per sospendere il giudizio e dare spazio
al pluralismo all’interno delle nostre stesse posizioni e nella nostra più ristretta
cerchia di alterità significative. Una prova importante per ogni nuova prospettiva
è vedere che accade quando cerchiamo di riformulare i dati e le conclusioni di
precedenti paradigmi nei termini del nuovo approccio: dovremmo individuare
criticamente quel che il nuovo paradigma ci fa perdere, e non limitarci a esprime-
re la nostra soddisfazione per quel che ci fa guadagnare.

La prospettiva relativista
Un’importante prospettiva antropologica che merita in modo particolare di es-
sere recuperata è la versione debole del relativismo: la vecchia idea che il “nostro” La prospettiva
modo occidentale di vivere debba essere ridotto alla condizione di essere solo uno relativista
tra molti altri modi differenti e ugualmente possibili. Questa prospettiva è quasi
andata perduta nella polarizzazione tra “noi” e “loro”, un artefatto della riflessivi-
tà: la posizione egocentrica del ricercatore etnografico in relazione con l’“Altro”.
Tale retorica della riflessività fornisce una descrizione davvero misera di un mondo
intero di variazioni culturali, diverse fra loro e la cui validità relativa non viene
considerata.
Tuttavia è necessario che l’antropologia riaffermi tale prospettiva relativista,
per molteplici ragioni. Anzitutto, essa risulta controintuitiva per tutti coloro che
sono integrati in una tradizione culturale: dal punto di vista di tante persone, ci sa- Accogliere la
rà sempre della “gente come noi” contrapposta a quella mescolanza di tutti gli altri varietà di
alternative e
nell’unica categoria degli stranieri, degli altri, della gente “non come noi”. Un rela- migliorare le
tivismo che accolga una varietà di alternative culturali non gerarchizzate incorpora relazioni
un realismo che deve essere appreso e riappreso ogni volta da ogni generazione. interetniche
Questa prospettiva ha un’importanza particolare, dato che averne consapevolezza
suscita un’umiltà in grado di migliorare le relazioni interetniche, ed è di solito scar-
samente presente nel discorso umano. Nessun’altra disciplina quanto l’antropolo-
gia è tanto adatta a insegnarla, e in verità molte altre discipline sono indotte a ne-
gare l’ottica relativista. All’interno dell’antropologia, il relativismo fornisce anche
una regola pratica di base per la teoria e il metodo: qualsiasi problema esistenziale
L’antropologia,
umano avrà trovato diverse soluzioni, che vale la pena di conoscere e confrontare e un fondamento
sulle quali vale la pena riflettere. E infine, la sua pratica porta, progressivamente, comune per
all’abbandono della “nostra” cultura come misura auto-evidente di tutte le altre, l’umanità
favorendo il progetto che vuole trasformare l’antropologia in un fondamento co-
mune per l’umanità, un universo di discorso atto alla discussione di tutte le forme
culturali in modo da permettere a persone di diverse origini di incontrarsi da pari
a pari: nessun discorso su “noi” e l’“Altro” potrà mai aprire questo spazio. E si
tratta di uno spazio che non nega le fonti storiche dell’antropologia, ma ci aiuta a
trascenderle. E neppure nega che diverse posizioni teoriche entro l’antropologia
possano avere ognuna le proprie priorità. Ma chiede che vengano alla luce, e dà
forma al dibattito in modo più costruttivo entro un’antropologia che cerca di ren-
dere universali i termini del suo discorso.
428 FREDRIK BARTH

Studiare le tradizioni umane di conoscenza


Per affrontare questo discorso la prima premessa consiste nell’adottare la posi-
zione formulata da Rappaport (p. 195). Egli afferma che la nostra specie è quella
che “vive, e non può che vivere, nei termini dei significati che deve costruire, in un
L’interfaccia tra mondo privo di significato intrinseco ma soggetto alle leggi della natura”2. Circa il
la legge di modo migliore di descrivere tale situazione, tuttavia, gli studiosi sono divisi: come
natura e il
significato
affrontare una varietà complessiva di significati, infatti, e come situarli in un mondo
costruito di limiti fisici e di processi biologici? Ma anche in questo caso ritrovo un grado di
convergenza nella pratica contemporanea riguardo a concezioni e procedure che io
stesso prediligo, e che saranno il centro di interesse delle notazioni che seguono. Le
nostre analisi ne trarranno beneficio, se privilegeremo l’interfaccia in cui si incon-
trano il significato e la legge di natura, vale a dire lo studio delle tradizioni umane
di conoscenza. Cercherò di esporre in termini processuali la mia visione di ciò che
accade lungo questa interfaccia, in particolare riguardo al modo in cui le persone
affrontano la costruzione dei significati. E vorrei scegliere di affrontare il tema nei
particolari, da dove può essere osservato e descritto da un punto di vista vantaggio-
so: vale a dire, il più vicino possibile al processo stesso.
In altri termini, sono d’accordo con la preoccupazione crescente circa il rischio
di essenzialismo (vedi Vayda, p. 392 sgg.). Ritengo che si possano evitare i suoi limi-
ti muovendo dal particolare e osservando le relazioni nel tempo, e nella loro diversi-
Fornire un tà. Nel corso di tale descrizione sorgeranno problemi – problemi provocatori e rive-
resoconto
adeguato di ciò
latori, dunque sempre benvenuti. Tuttavia il vantaggio è quello di poterli riformula-
che osserviamo re in modo concreto, ad esempio: le mie descrizioni colgono ciò che vedo (vale a di-
re, quanto di ciò che si trova di fronte a me può essere ricostruito a partire dalla
mia descrizione)? Quali possono essere le cose rilevanti che non sto notando? E co-
sa sto vedendo di cui non sono in grado di dare un resoconto?
Se il nostro primo obiettivo è il passo, apparentemente modesto, di dare un re-
soconto adeguato di ciò che si trova davanti a noi, saremo meno spinti a identifica-
re che cosa sia “essenziale” e ci sentiremo meno autorizzati a tralasciare altri aspet-
ti, anch’essi emersi dalla nostra registrazione di concetti. Produciamo una comple-
Le variazioni ta registrazione di ciò che sembra ci stia dinanzi, e ci concediamo del tempo per ri-
come stimolo a flettere in maniera più approfondita sui suoi vari aspetti. Senza dubbio, le nostre
una coscienza descrizioni riveleranno delle variazioni, e ci spingeranno a riconoscere la variabili-
comparativa tà come elemento sempre presente in ciò che stiamo osservando. Fino a ora, que-
sta variazione è stata accantonata dalla nostra disciplina – e per lo più in modo
sommario – da quei dogmi predefiniti che ci assicurano che quanto vediamo è ri-
sultato di rappresentazioni, norme, e strutture collettive. Forse questa posizione
può rivelarsi adeguata in molti casi. Ma il primo aspetto rilevante dei dati che stia-
mo raccogliendo sarà quello della diversità e della variazione. E queste variazioni
dovranno stimolare la nostra coscienza comparativa e condurre a ulteriori scoper-
te, nel momento stesso in cui cercheremo co-variazioni strutturate, e in tal modo
possibili connessioni.

La prima regola metodologica implicata da questo approccio è che dobbiamo


applicare o sviluppare procedure di scoperta che ci mettano in condizione di esplora-
Esplorando il
particolare re il particolare nella sua variabilità, piuttosto che schemi e strutture che ci seduco-
no troppo rapidamente e puntano a caratterizzare e cogliere la totalità (o la suppo-
sta essenza della totalità). Questo significa sviluppare una forte consapevolezza del
modo in cui andiamo in giro a osservare, e un minore coinvolgimento verso ciò che
riteniamo si debba trovare.
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 429

Per evitare di venire sommersi dalla semplice molteplicità degli eventi, abbia-
mo bisogno di idee provvisorie sul modo in cui classificarli e connetterli. Tradizio-
nalmente, l’antropologia ha sempre fatto un grande affidamento sulle tassonomie, Tassonomie e
e sulla raccolta dei singoli elementi in quanto membri di una classe – procedura tipologie: pregi
e limiti
che raramente ci aiuta a trascendere le nostre categorie e a scoprire ciò che è inat-
teso. Sebbene sia favorevole al ritorno a una più valida prospettiva comparativa, ci
sono ben poche ragioni per tornare alla costruzione di tipologie: la nostra attenzio-
ne deve essere volta per lo più ai contesti particolari, al modo in cui si integrano e
collegano. Questo significa imparare da Bateson a “seguire i fili” che collegano gli
eventi tra loro, e che ci forniranno utili indicazioni nella nostra ricerca di connes-
sioni e sistemi. Significa lavorare con meno foga alla ricerca di teorie ben articola-
te, ed essere più coscienziosamente interessati a strade alternative, mettendo ordi- La ricerca di
ne nella ricerca in modo da usare la minima violenza possibile nel segmentare ciò percorsi
che stiamo osservando. Adottare nuove categorie mentre procediamo, in particola- alternativi
re traendole dalle persone fra cui viviamo, ma anche dalla nostra stessa esperienza
accumulata, ci spinge a mantenere un’attenzione costante; ci permette di utilizzare
diverse serie di categorie allo stesso tempo, tracciando i legami che appaiono nelle
rifrazioni alternative.
Una delle posizioni contemporanee consiste nel sottolineare l’importanza del la-
voro di gruppo sul campo e della diversità degli osservatori – per incentivare allo
stesso tempo la competenza e la versatilità della ricerca. Personalmente, preferirei L’importanza
sottolineare una pratica di ricerca che presti maggiore attenzione alla precisione – del lavoro di
gruppo
cioè alla consapevolezza di ciò che stiamo facendo. Ogni ricercatore deve introdur-
re nel campo d’indagine le recenti inquietudini riguardo ai problemi teorici dell’og-
gettività, dell’interpretazione e dello stile di presentazione, per aumentare la nostra
sensibilità nei confronti di ciò che possiamo considerare come la condizione esi-
stenziale degli eventi e dei resoconti. Quindi, ad esempio, dobbiamo essere consa-
pevoli del fatto che il migliore resoconto di prima mano degli eventi dato da un par-
tecipante non è nient’altro che questo – un resoconto, cioè, e non “ciò che realmen-
te è accaduto”. Non solo è possibile che quelle persone ci vogliano ingannare, o che Ogni resoconto
li stiamo fraintendendo: la loro è in ogni caso una particolare costruzione culturale, è una
particolare
non ciò che è realmente accaduto. Il nostro essere lì di persona, e l’annotare esatta- costruzione
mente ciò che è accaduto, d’altro canto, registra solo una nostra costruzione: per la culturale
precisione, ciò che pensiamo sia realmente accaduto, non quello che gli eventi signi-
ficavano (e di conseguenza, cosa erano davvero) per ciascuno dei partecipanti. Dob-
biamo d’ora in poi, essere costantemente consapevoli dell’inevitabile particolarità di
ogni interpretazione.
Se siamo seriamente interessati alle tradizioni di conoscenza – all’interfaccia tra i
Lavorare al
mondi del significato e il mondo naturale – dovremo essere particolarmente precisi: tempo stesso
passando i nostri dati al setaccio, e costruendo una descrizione che tenta ininterrot- nel contesto e
tamente di stare a cavallo dell’interfaccia. Per studiare la conoscenza, abbiamo biso- fuori dalla
gno di studiare il modo in cui le azioni modellate da particolari modulazioni di signi- comprensione
culturale del
ficato operano nel mondo esterno. Abbiamo bisogno, quindi, di lavorare dentro il mondo
contesto del culturale, in modo da poter cogliere almeno in parte il significato degli
atti e degli eventi; ma dobbiamo anche agire fuori della comprensione culturale del
mondo, per poter formarci un qualche genere di idea del modo in cui le connessioni
causali del mondo esterno vengono rifratte nella realtà culturalmente costruita.

Questa formulazione non evita – al contrario, induce a un confronto diretto Due enigmi
con – i due enigmi di base che hanno dato del filo da torcere a molte teorie re-
430 FREDRIK BARTH

centi: 1) come possiamo riuscire ad accedere al mondo culturalmente costruito


di qualcun altro, e prestare fiducia alle sue rappresentazioni, mentre allo stesso
La difficoltà di tempo la riportiamo nella nostra tradizione conoscitiva (vedi Borofsky 1987); e
accedere ai 2) come possiamo mai pensare di ottenere una prospettiva sul reale, sugli eventi
mondi costruiti nel mondo esterno che si sta cercando di cogliere e individuare, pur presumendo
dalla cultura e che la nostra prospettiva non sia altro che una particolare interpretazione cultu-
istituire una
prospettiva
rale – vale a dire, la nostra personale interpretazione. Sono proprio questi gli
oggettiva enigmi sollevati dalla teoria postmoderna, interpretativa e riflessiva. Il resoconto
postmoderno del lavoro sul campo etnografico ha ridotto la nostra fiducia nell’a-
bilità di raccontare altri mondi che non siano il nostro. E l’efficace critica del-
l’oggettività positivista ci ha resi sempre più cauti nel contrapporre un resoconto
culturale ai “fatti”.
Ridisegnare Si è trattato di argomentazioni critiche davvero potenti. Ma il risultato del modo
l’etnografia in cui questi argomenti sono stati sviluppati è che essi sono oggi ancora più difficili
da affrontare. È oggi in atto una convergenza tra molti antropologi: tutti ritengono si
debba trovare una strada per uscire dall’impasse: dall’invito di Marcus a ridisegnare
l’etnografia dopo la critica della sua retorica, sino alla riproposizione che altri han-
no promosso di programmi di ricerca ben definiti.
Un primo passo consiste nel criticare il modo in cui il problema è stato posto e
sviluppato, sfuggendo così all’impasse e mettendosi in condizioni di risolvere l’enig-
ma. Il modo in cui le argomentazioni della traduzione culturale sono state distorte
La finzione del da un uso impreciso e dissimulatorio dei pronomi, ad esempio, è stato senza dubbio
“nostro” e del un errore. Sia il “nostro” mondo che il “loro” fanno riferimento a grossolane finzio-
“loro” mondo
ni. Qual è il “nostro” mondo: quello delle concezioni condivise in Occidente? O
delle concezioni della classe media americana? Quello di un mediocre fisico nuclea-
re? Di un sofisticato filosofo? Di un particolare antropologo? Di uno che è un mar-
xista convinto? Di un funzionalista? Di uno scettico postmoderno? Senza dubbio,
se scegliessimo una qualsiasi di queste alternative a scapito di ogni altra, il mondo
che saremmo in grado di definire “nostro” sarebbe di volta in volta molto diverso.
E cosa dire del “loro” mondo, quando si ponga mente alla gamma di fatti non me-
glio specificati di collocazione, variazione, e orientamento, anche tra coloro che sce-
gliamo di definire come membri di un’altra “società”? Questa diversità, a dire il ve-
ro, può essere anche utilizzata per una critica interna.
Inoltre, la vera distinzione tra i mondi dicotomici di ogni “noi” e “loro” svanisce
quando riconosciamo la probabile presenza di un grado di sovrapposizione larga-
mente inesplorato, e certamente non specificato, tra la nostra gamma di concezioni
e quella di qualunque altra persona – quale che sia la sua formazione culturale, la
sua posizione e la sua esperienza. Le culture rese dicotomiche oppure omogenee e
unitarie non sono altro che unità inadatte a criticare, pensare, e ridisegnare una me-
todologia antropologica, una volta che si sia riconosciuta la diversità di orientamen-
to e il grado di concettualizzazione presente in ogni popolazione, come l’attuale co-
munità globale creata dalla comunicazione umana (Barth 1989).
L’attenzione Il problema della definizione dell’intersoggettività e delle conoscenze condivise,
alle “ricerche”
altrui come allora, non può essere visto come un particolare enigma della comunicazione inter-
risorsa per culturale. Dobbiamo considerarlo come una difficoltà chiave da superare, almeno
l’antropologo in parte, in qualsiasi episodio di interazione o comunicazione. Le angosce di riflessi-
vità e di confusione raccolte nei confessionali antropologici non sono che un rispec-
chiamento – o meglio una caricatura – del lavoro interpretativo in cui è necessaria-
mente coinvolto ogni individuo che partecipa alle relazioni sociali. E gli antropologi
potranno apprendere molto di più se saranno meno monopolizzati dalla loro perso-
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 431

nale ricerca prestando maggiore attenzione a tutte le altre, e al modo in cui gli indi-
vidui fanno fronte a questi compiti nella vita quotidiana. Ciò senza dubbio accadrà,
sia perché ci sono buoni motivi per non prestare fiducia alle nostre personali descri-
zioni di noi stessi (è necessaria una superba perspicacia e oggettività per dare un re-
soconto affidabile della propria personale confusione, dei pensieri e delle azioni in
cui si definisce), sia perché la situazione dell’antropologo è in qualche modo specia-
le, dato che costui associa un alto livello sociale a una grande ignoranza – e allo stes-
so tempo gli è garantita una comoda via d’uscita dalle situazioni. Queste non sono
le condizioni in cui opera la maggior parte delle persone.

Ritengo quindi che dobbiamo usare la nostra presenza, la nostra posizione privi-
legiata, per osservare e raccontare quei processi così come avvengono tra gli altri. In
verità il compito di dare un resoconto realistico, in diverse condizioni culturali, di Dare un
come le persone raggiungono e riproducono un certo grado di accordo concettuale resoconto
realistico
e di condivisione dei presupposti, mi sembra attualmente il compito più importante
dell’antropologia. Dobbiamo ricercare su che basi l’attività interpretativa incorpora
una cultura non omogenea e distribuita; i mezzi collettivi e individuali che la gente
impiega per stabilire delle basi condivise; e il grado e il tipo di convergenza che si
crea (cfr. Wikan 1992). Una compiaciuta tendenza comune a gran parte della lette-
ratura attuale tende a minimizzare questi argomenti complessi, utilizzando il termi-
ne “negoziazioni” per riferirsi agli incontri sociali. Ma quest’espressione è raramen-
te accompagnata da un qualche tentativo di descrivere il processo a cui ipotetica-
mente si riferisce, o di esplorare il suo statuto teorico e le sue implicazioni sistemi-
che. Mi sembra che il termine “negoziazione” costituisca un infelice paradigma per
descrivere quello che stiamo studiando, in quanto tende a dare per scontata una
Chiarire la
struttura di presupposti prestabiliti e condivisi, e suggerisce un interscambio esclu- natura del
sivamente verbale in una situazione chiaramente definita. Anzitutto, lo scontro in parziale
vista di una convergenza su conoscenze condivisibili e funzionanti viene, a mio giu- accordo in un
dizio, abitualmente condotto più nel contesto dell’azione che attraverso il discorso, gruppo
ed è parte integrante dei molteplici obiettivi della vita quotidiana. Inoltre, per mi-
gliorare la nostra comprensione dei processi, non è necessario mettere in evidenza
gli aspetti strategicamente negoziati, così come non è necessario invocare la nostra
recente conquista della consapevolezza delle problematiche dell’interpretazione che
Dare un senso
deve essere afferrata. I processi primari e più basilari sono quelli in cui le persone a ciò che
devono impegnarsi in diversi modi, semplicemente per dare un senso a ciò che le accade come
circonda così come per essere in grado di rispondere consapevolmente all’ambiente processo
circostante. Non possiamo integrare fruttuosamente tali processi sotto la definizio- primario
ne di “negoziazione”, che è più adatta a cogliere il modo in cui le persone possono,
in processi di second’ordine, tentare di “manovrarsi” l’una con l’altra. La più ampia
questione relativa a come gli attori di fatto interpretino gli eventi verrà chiarita, sen-
za dubbio in modo significativo, anche da ulteriori contributi degli studi cognitivi.
Comunque, per rimpiazzare il modello, logoro e fittizio ma semplice, delle cul-
ture distinte e internamente omogenee, non dobbiamo a questo punto aspirare alla
vera e definitiva teoria della cultura, che sistemerà le cose nel modo giusto una vol-
ta per tutte. Lo scopo della scienza in ogni disciplina è, come sappiamo tutti molto
bene, una ricerca senza fine. Quanto più realistici e intelligenti potremmo essere se
accettassimo questo truismo! Senza mettere a un certo punto temporaneamente tra
parentesi la nostra autocritica, un concreto progresso diviene impossibile. Ciò che
dobbiamo cercare di sviluppare è quel che al momento attuale sembra il modello
ontologicamente più plausibile dei fenomeni che stiamo studiando; lasciamo quindi
432 FREDRIK BARTH

che questo modello provvisorio ci serva da guida quando diamo la caccia a proble-
mi e costruiamo descrizioni – che a nostra volta critichiamo.
Questo ci riporta alla ricerca di procedure utili di scoperta circa l’interfaccia tra
i significati culturalmente costruiti e gli eventi naturali. Il problema relativo alla no-
Come non
esagerare i stra capacità di conoscere qualcosa riguardo agli eventi del mondo esterno può es-
problemi ser risolto evitando di rendere i problemi analitici ed epistemologici più ostici e in-
epistemologici? trattabili di quanto non sia necessario. Quando ci capita – come accadde a me e mia
moglie durante un recente lavoro sul campo a Bali (Wikan 1990, pp. 131 sgg.) – di
esser presenti a una cerimonia rovinata da una tempesta di pioggia, e più tardi sen-
tirla descrivere come una giornata ideale e piena di sole, si sarà appreso qualcosa di
specifico sul modo in cui sono costruiti i significati culturali, e come rifrangano le
leggi naturali. Questo non significa che ci si attribuisca con arroganza una cono-
Il caso della scenza privilegiata della realtà – a dire il vero, ci si può porre il problema di vedere
cerimonia le proprie osservazioni meteorologiche confermate da qualcun altro dei balinesi che
balinese erano presenti. Ma il problema è che la versione culturalmente rifratta è per loro
comprensibile e significativa – proprio come lo sarebbe anche per voi, se ammette-
te che a una porzione del reale è stata data forma e significato in accordo con un
quadro generale di equilibrio e armonia tra il cosmo, la società e l’eccellenza mora-
le individuale. Allo stesso modo, quando Borofsky utilizza il libro di Fowler, Fishes
in Oceania, per studiare la conoscenza e il consenso in riferimento ai diversi tipi di
pesce in un gruppo di uomini di Pukapuka (vedi p. 406), non sostiene in alcun mo-
Il do che Fowler sia la chiave della verità; Borofsky cerca solo una procedura di sco-
riconoscimento
di pesci a
perta per descrivere la conoscenza e la sua distribuzione in una popolazione, in uno
Pukapuka studio particolare sull’interfaccia tra i significati degli abitanti di Pukapuka e la na-
tura. In questo modo, possiamo cogliere le variabili relazioni empiriche tra le occor-
renze osservate e i rapporti e interpretazioni degli indigeni.
Per esprimere questi giudizi, non abbiamo bisogno delle chiavi per comprendere
e definire gli eventi naturali. Abbiamo solo bisogno di avanzare cautamente e di im-
piegare i casi più istruttivi di discrepanza per scoprire, non ciò che è veramente reale,
Attraverso ma quali sono i processi attraverso cui viene costruito il significato dagli altri nel loro
quali processi stesso esser coinvolti nel mondo. Questo è tanto più possibile quanto il nuovo orien-
gli altri tamento che qui suggerisco ci libera anche da un altro punto di vista: non ci viene più
costruiscono i
loro significati?
richiesto di esser certi, in una sola rapida incursione, della struttura essenziale di ciò
che stiamo studiando – che siano culture, società, o culture nella natura. Lavoreremo
invece per identificare i processi mediante cui le persone sono in contatto col mondo
e l’una con l’altra; le conoscenze e i significati che di conseguenza esse costruiscono; e
le connessioni tra il modo in cui affrontano il mondo e le forme dei mondi conosciuti,
I processi come
“parti” di che vengono in tal modo costruiti. Non si tratta di un compito di importanza secon-
connessioni daria. Ma può essere raggiunto a poco a poco, un’idea alla volta: le sue parti non stan-
casuali no necessariamente assieme o si disgregano a seconda che riusciamo o meno a coglie-
re l’intera struttura. I processi sono sì “parti”, ma possono essere studiati e modellati
separatamente con minore perdita di naturalezza di quanto si possa fare con le “par-
ti” di una struttura, poiché seguono i percorsi delle connessioni causali invece di seg-
mentarle per dar vita alle parti staccate del proverbiale puzzle.

Tre modifiche del concetto tradizionale di cultura


Per capitalizzare ciò che è stato ottenuto dalla recente critica dell’antropologia,
dobbiamo tener conto degli aspetti della cultura che tale critica ha messo in evi-
denza: la multivocalità (o il fatto di possedere molteplici significati), la molteplicità
delle interpretazioni possibili, e la loro temporaneità. In che modo questo interessa
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 433

i nostri dati empirici, se cerchiamo di trarre da tali elementi e dalle loro implica-
zioni e conseguenze tutto il necessario? Si noti che non sto affermando che li si
debba adottare come una nuova serie di premesse su cui dovremmo fondare la no-
stra analisi, o come una serie di ipotesi da mettere alla prova. Si tratta, piuttosto, Multivocalità
della necessità di riconoscere questi aspetti descrittivi del fenomeno ponendosi le della cultura,
molteplicità
domande conseguenti: 1) qual è il modo migliore di creare un modello a partire da delle
tali sistemi disordinati – tipi di struttura che si collochino in maniera equidistante interpretazioni
tra un ordine totale e un disordine caotico? e 2) quali sarebbero le implicazioni
per i processi di interazione sociale, e per la riproduzione o il cambiamento delle
condizioni presenti, se questi fossero gli aspetti rilevanti della cultura e della vita
sociale? In altre parole, possiamo adottare provvisoriamente la descrizione consi-
derandola “reale” e credibile, per poi tracciare e configurare di conseguenza la no-
stra procedura di ricerca. Abbiamo ancora bisogno di portarci dietro tutti i nostri
Problemi
dubbi, e cercare indizi del fatto che le nostre idee possano essere sbagliate, stando metodologici
attenti alle opportunità che ogni singola analisi può darci di falsificare l’una o l’al- ed
tra delle nostre premesse. Nel frattempo, è necessario che rintracciamo le implica- epistemologici
zioni dell’indeterminatezza introdotta dall’assenza di una cultura condivisa e omo-
genea. Come possiamo costruire un modello dei processi d’interazione, di comuni-
cazione e di costruzione del significato in modo che dia un resoconto plausibile
della vita sociale così come di fatto si sviluppa, e mostrare al tempo stesso come ta-
li processi riproducono le proprie stesse precondizioni? Poiché quanto abbiamo
Le implicazioni
detto è fondamentale per la creazione di un qualsiasi modello come questo, è an- dell’indetermi-
cora più significativa per l’analisi delle relazioni sociali e dei significati cultural- natezza
mente costruiti una valutazione provvisoria e realistica del modo in cui la cultura è
di fatto costruita e distribuita.
In questo spirito, formulerei tre modificazioni recenti e particolarmente fruttuo-
se del più tradizionale concetto di cultura, che accentuano il suo naturalismo e che
dovrebbero avere delle conseguenze per il nostro metodo. Ho scelto di formularle
come asserzioni, per una maggiore chiarezza:
Tre nuove
asserzioni circa
1. Tutti i concetti sono radicati nella pratica: e di conseguenza la loro definizione il concetto di
e il loro significato può essere determinato solo nel contesto di quella pratica. cultura
2. Tutte le prospettive sono individuali e parziali; i resoconti antropologici e le
generalizzazioni riguardo alla tradizione culturale saranno una costruzione dello
stesso antropologo, basata sul suo giudizio e sulle sue analisi.
3. Tutti i significati sono sempre contestabili, – sia all’interno, sia nei rapporti fra
i nuclei sociali e le tradizioni culturali.

La prima di queste asserzioni sostiene che la cultura è composta da idee; ma


queste idee e concezioni non possono essere ridotte a un modello, come fossero Tutti i concetti
costrutti logici e astratti connessi tra loro in un’ordinata scienza universale. Al sono radicati
contrario, esse sono immagini che vengono impiegate quando abbiamo a che fare nella pratica
con il mondo – vale a dire, sono connesse a contesti e obiettivi così come fra di
loro. La loro definizione si basa in modo essenziale sulle regole di rilevanza che
sono loro connesse, e sulle operazioni in cui vengono utilizzate. Per coglierle, non
dobbiamo separarle da queste loro connessioni pratiche e considerarle solo in
astratto, come pensiero. Dobbiamo anche osservarle nella loro gamma di utilizzo,
come conoscenza. La connessione
tra idee,
Questo fatto ha immediate implicazioni sul modo in cui dobbiamo orientarci e contesti e
procedere nel corso del lavoro sul campo. I migliori materiali sulle concezioni cul- azioni
434 FREDRIK BARTH

turali sono quelli che contestualizzano la loro evocazione. Ciò dà grande importan-
za alla personale osservazione del partecipante, che è il solo a consentirci di accede-
re a materiale spontaneo e diretto riguardo ai discorsi e agli atti di specifiche perso-
ne in contesti reali.
Andare in
Ma dire che dovremmo occuparci di contesti sembra voler dire che ci dovremmo
cerca di dati occupare di ogni cosa: come faremo a cogliere quali elementi contestuali sono rile-
contestualizzati vanti e significativi? Non posso offrire alcuna risposta teoricamente definitiva fonda-
ta su di un ragionamento a priori. Ma ho ipotizzato che dovremmo prestare una par-
ticolare attenzione alla conoscenza, vale a dire ai significati mediante cui le persone
sono in relazione con il mondo esterno, che può poi aiutarci come un oggetto-guida
quando tentiamo di cogliere le loro concezioni e interessi. Noi sappiamo, in verità,
che la nostra difficoltà è di quelle risolvibili nella pratica: ogni bambino è in grado di
farlo, probabilmente grazie alla posizione che occupa. Attraverso la partecipazione,
Comprendere il bambino apprende progressivamente le idee sul mondo dei suoi genitori, le loro
gli elementi
rilevanti nel
concezioni, il linguaggio, e i modelli di comportamento. In modo simile, la parteci-
contesto pazione facilita il nostro apprendimento collocandolo in un contesto effettivo, dota-
to di tutte le circostanze, le eventualità e le coincidenze che ci permettono di “entra-
re in sintonia con la sintonia degli altri”. Attraverso la partecipazione all’esperienza,
riusciamo a comprendere gli sforzi d’attenzione richiesti nella pratica – cioè cosa
sembra essere, in quel contesto, autoevidente riguardo a un concetto e al suo utiliz-
zo, e cosa richiede uno sforzo di discriminazione. Un fatto quasi altrettanto impor-
tante è che possiamo accumulare esperienza di tutto quello che risulta marginale a
ciò che il concetto discrimina, sebbene sia regolarmente associato con esso. Di con-
seguenza, possiamo anche arrivare a condividere parte degli elementi associativi e
connotativi che la pratica genera in coloro che tramite essa vivono.
Le situazioni L’altro vantaggio che si ottiene dall’osservare i concetti nel loro contesto pratico è
cooperative e la prospettiva offerta dei processi sociali in cui i concetti sono radicati. La maggior
interattive
parte dei concetti sarà evocata e utilizzata in situazioni cooperative e interattive. In
questi contesti, il risultato – il modo in cui un concetto si occupa del mondo – sarà
determinato in parte dalla forma sequenziale di questa interazione, ma anche dagli
schemi concettuali dei singoli partecipanti. Nelle strutture, analoghe alla vita, che le
Il gioco come persone costruiscono nel gioco – ad esempio nel gioco degli scacchi – possiamo rico-
struttura noscere il fatto che il “significato” dello scacco matto giunge come culmine di una
analoga alla serie di mosse, qualcosa che nessun manuale può specificare e nessun singolo gioca-
vita: gli scacchi tore può generare. Allo stesso modo, nella pratica della vita, le premesse riguardo a
ciò che significano i risultati sono determinate dalla nostra interazione l’uno con l’al-
tro; le forme realizzabili risultanti sono condizionate dall’organizzazione sociale; e i
nostri timori, delusioni, e conoscenze, sono il prodotto di una sociologia dell’intera-
zione così come di una schematizzazione dell’interpretazione e della classificazione.
Una prospettiva come questa contiene la promessa, o al limite la speranza, che sa-
Verso uno remo in grado di muovere dall’analisi delle semplici rappresentazioni culturali verso un
studio completo studio dell’esperienza mediata dalla cultura. Se così sarà, migliorerà di molto
dell’esperienza la nostra capacità di dare forma all’effettiva diversità dei significati attraverso cui le
mediata dalla persone prendono parte al mondo, e di rappresentare il fatto che ogni specifica conca-
cultura
tenazione di significati ha delle conseguenze sulla costruzione culturale di quel mondo.

La seconda asserzione, che tutte le prospettive siano parziali, può inizialmente


Tutte le sembrare meno sconvolgente per la pratica antropologica tradizionale. Ci incorag-
prospettive
sono uniche e gia a interessarci con maggiore attenzione a persone e interessi particolari, e alla di-
parziali versità in generale. Ritengo che il numero dei dati rilevanti e la loro molteplicità sia
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 435

così grande e diversificato da non poter essere mai ridotto a una questione di mo-
delli statistici. Richiederà sempre elaborate descrizioni qualitative, sebbene i dati
quantitativi riguardo ad alcuni aspetti specifici siano di particolare valore.
La concezione della cultura come materiale ideativo distribuito in modo diffe-
renziato all’interno di una popolazione delimita uno scenario in cui le differenze tra Modelli di
le persone rispetto a conoscenza, valori, concezioni, e prospettive, danno vita a gran distribuzione
differenziata
parte delle azioni e interazioni che hanno luogo. Creare modelli di tali distribuzioni della cultura
e delle transazioni derivate – e dei processi attraverso cui le differenze, e le dinami-
che che essi generano, vengono a loro volta riprodotte – costituisce la questione
centrale dell’organizzazione sociale e della sociologia della conoscenza.
La molteplicità di voci che questa prospettiva riconosce significa, naturalmente,
che nessuna voce viene privilegiata e che nessuno può dare una versione definitiva e
essenziale di cosa sia “una cultura”. Questo non comporta una perdita di precisione
nelle nostre descrizioni; piuttosto, conduce a una diminuzione della distorsione e a
un’accresciuta qualità delle descrizioni nei termini della loro credibilità. Non riduce
l’importanza dei modelli nativi, e “lascia che la loro voce venga udita” nei nostri “Udire la voce
dei nativi” per
scritti etnografici. Va rifiutato, però, quell’atteggiamento di abdicazione che può migliorare la
aver indotto alcuni etnografi verso questa retorica: non c’è modo, per noi, di sfuggi- qualità delle
re alla nostra piena responsabilità verso i nostri testi come rappresentazioni, siano es- descrizioni
si costituiti da un collage di citazioni, risultato di una cooperazione tra etnografo e
informatore, sia che abbiano invece assunto la forma del modello rigido e dell’anali-
si. La multivocalità ci sfida dunque ad argomentare in modo più preciso la scelta dei
nostri modelli espositivi, e ad avere una maggior consapevolezza dei nostri assunti
teorici. Colloca l’intero compito di costruire la nostra analisi sulle spalle della disci-
plina, a cui di fatto appartiene.
Ma quale genere di modello è necessario? Forse lavoreremmo meglio se smettes-
simo di privilegiare la rappresentazione della “cultura”, e ci focalizzassimo invece sul
piano degli eventi, delle azioni, delle persone e dei processi. Ma nella misura in cui le
strutture culturali rimangono rilevanti a livello descrittivo, avremo minori possibilità Privilegiare il
di impiego dei modelli strutturali, dato che essi inevitabilmente perdono qualcosa piano degli
del loro fascino una volta che smettiamo di andare in cerca dell’essenza nascosta del- eventi e dei
processi
le cose. Se il nostro oggetto di studio è la diversità di prospettive orientate e di mate-
riali culturalmente distribuiti, da cui sono prodotte le diverse gamme di eventi e di
azioni; e se il nostro interesse comprende anche i processi attraverso cui questi atti
ed eventi possono sia riprodursi che mutare le proprie stesse precondizioni, allora
avremo necessariamente bisogno di costruire modelli di sistemi di un certo tipo. Ma
per rappresentare i fenomeni vedendoli così complessi e diversificati, dobbiamo pro-
babilmente farci carico del compito di costruire modelli che rappresentino sistemi
disordinati, sistemi in flusso, forme che sono allo stesso tempo diffuse e localizzate. La necessità di
Ci resta ancora da discutere a lungo prima di sapere cosa implichi tutto questo e co- modelli che
rappresentino
me possa essere fatto. Una prematura adesione alla teoria del caos o ad altre nuove sistemi in
attraenti idee produrrebbe, probabilmente, solo nuove mode e nuova confusione. flusso
Tutte le possibili prospettive debbono essere esplorate e applicate. Ma soprattutto,
abbiamo bisogno di sforzarci di ottenere un grado ragionevole di credibilità per i no-
stri resoconti, e di vedere quali concetti e modelli siano necessari a compiere il lavo-
ro di descrizione con maggiore naturalismo e pertinenza, piuttosto che con irrilevan-
te e formale eleganza (cfr. Sperber, Wilson 1986).

Questa strategia sembra essere ancor più necessaria quando consideriamo le


implicazioni relative alla messa in discussione dei significati. Le implicazioni di
436 FREDRIK BARTH

questa premessa, in apparenza ineludibile, sembrano rendere i nostri materiali an-


Tutti i cor più evanescenti. La varietà di orientamenti e la molteplicità delle prospettive
significati sono amplia il campo delle contestazioni in modo terrificante: ci troviamo di fronte non
sempre solo a differenze di interesse, e alle lotte e negoziazioni che queste generano; dob-
contestabili
biamo anche riconoscere che i contendenti stanno costruendo differenti interpre-
tazioni del mondo e delle reciproche azioni, e in questo modo entrano in relazione
l’uno con l’altro, quando si confrontano, in modo insolito e spesso povero. In veri-
Interpretazioni
tà, le loro interazioni sembrano coinvolgere solo presupposti concepiti e percepiti
e modelli in modo vago, o addirittura una confusa mistificazione, piuttosto che implicare
diversi a posizioni e interessi chiaramente concepiti.
confronto Al di là di questo, dalle persone che vivono in questi contesti relativamente
disordinati non ci si può aspettare che siano coerenti, anche nelle loro personali
prospettive e conoscenze come singoli attori – come in verità abbiamo appreso dal-
l’esperienza e da noi stessi. Ciò significa che ogni attore sarà indotto a perseguire si-
multaneamente obiettivi incoerenti e incompatibili, probabilmente per mantenere
Incoerenza e
incompatibilità delle posizioni di valore che sono in pratica o in linea di principio diametralmente
degli attori opposte. Paine (1989) ha recentemente fornito un’elegante e accurata discussione
di uno scenario familiare di questo tipo, che coinvolge l’amore, il genere sessuale,
l’onore e l’autoaffermazione illustrando i problemi che ne risultano.
Ma anche scardinando tali fondamenti – se pure li si possa considerare intatti
a questo punto – dobbiamo comprendere non solo che ogni interpretazione, e
quindi il significato di ogni evento, è contestabile da una varietà di posizioni, ma
che essa rimane tale anche nel corso del tempo. “Ciò che è accaduto” continua a
La labilità di essere eternamente contestabile. Qualsiasi convergenza nella comprensione rag-
ogni accordo giunta oggi può essere invalidata domani, nel momento in cui le persone ritorna-
sugli “eventi”
no con la memoria agli eventi passati reinterpretandoli e delineando nuovi svilup-
pi di quegli eventi passati e quindi non solo riscrivendo la storia, ma letteralmen-
te cambiando le cause della situazione presente. La tradizione antropologica di
compiere una sola visita sul campo ma anche, a volte, il nostro meticoloso lavoro
di documentazione di una serie estesa di casi – considerati come registrazione as-
sodata degli eventi – le richieste e le controrichieste, hanno per molto tempo
Colson ed il
“riordinamento
bloccato la possibilità di rendersi conto di questo stato di cose. Gli studi longitu-
dell’espe- dinali di Elizabeth Colson, e la sua sensibilità nel comprendere le potenzialità dei
rienza” materiali risultanti, l’hanno portata a riconoscere il continuo “riordinamento del-
l’esperienza” (Colson 1984) in un modo che sta producendo risultati anche in al-
tri attuali lavori e che può ora essere estrapolato teoricamente. A un primo sguar-
do, questa idea può darci l’impressione che ci venga a mancare la terra sotto i pie-
Manca un di: “ciò che è realmente accaduto” non esiste più come tale. Ogni tentativo di co-
resoconto struirne un resoconto sintetico diventa di interesse marginale dato che, a coloro
coerente e che erano parti in causa dell’evento e che condividevano le sue conseguenze, un
coeso
tale resoconto sembrerebbe per lo più un miscuglio di cause misconosciute, inter-
pretazioni rifiutate e dettagli dimenticati. I dati significativi – il modo in cui per-
sone diverse che usano differenti parti dello schema costruiscono interpretazioni
temporanee nel corso delle loro interazioni innovative e in modo intermittente –
non può mai risultare coeso come un unico resoconto verificato, perché essi non
manifestano quel tipo di ordine.
L’importanza
Ma ancora una volta, non dobbiamo disperare. Le annotazioni prese sul campo,
delle note di in cui sono inscritti gli evanescenti livelli di ordine e rilevanza cui tale prospettiva ci
campo rende sensibili, costituiranno un resoconto accresciuto di ciò che avviene tra le per-
sone, e forniranno il solo mezzo attraverso cui possiamo cogliere i processi rilevanti
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 437

e il precipitato dell’esperienza generatasi nelle persone e nei gruppi. Il nostro com-


pito non è quello di reificare fatti o strutture illusorie, e di incorporarli nella nostra
raccolta di dati, ma di registrare il flusso che possiamo osservare. Solo da questi da-
ti possiamo sperare di produrre modelli validi del modo in cui le persone insieme
agiscono, comunicano, e costruiscono significati.

Aumentare il potere delle nostre analisi


Se varie persone, con orientamenti differenti, recano con sé nei loro incontri La forza
mondi diversi, probabilmente percepiti in modo molto vago, e producono le loro potente della
discrepanti interpretazioni in funzione di ciò che accade tra loro e intorno a loro – convergenza
come possiamo mai aspettarci che convergano nelle loro idee? Le nostre annotazio- negli incontri
tra esseri
ni prese sul campo documentano un considerevole grado di condivisione – di con- umani
cetti, idee, elementi di cosmologie e tutto l’altro materiale culturale – in ogni comu-
nità. Possibile che tutto questo venga prodotto e riprodotto in base alle condizioni
di orientamento, contestazione e trasformazione dei ricordi che ho attribuito ai
membri interagenti di queste comunità?
Francamente non ho indicato le teorie, i modelli e le analisi, che potrebbero dir-
celo; ma la mia sensazione è che, dati gli strumenti concettuali appropriati, saremo
in grado di mostrare che è così. Una potente forza in direzione della convergenza è
l’aspettativa onnipresente della mutua comprensione e della condivisione della real-
tà che caratterizza quasi tutti gli incontri tra esseri umani.
Per accrescere il potere delle nostre analisi, ho a lungo sostenuto che dobbiamo
passare da modelli culturali totalizzanti a modelli generativi dei processi (ad esem- Verso modelli
pio Barth 1966). Nelle più recenti correnti dell’antropologia contemporanea colgo generativi dei
processi
in effetti un salutare ritrarsi dalle esagerate attenzioni per l’astrazione della “cultu-
ra”, in vista di una più versatile attenzione per i molteplici livelli degli eventi, delle
azioni, delle esperienze, dei gradi di variazione, dei contesti, e di ampi sistemi –
ognuno di essi permeato da caratteristici processi culturali, ma non semplicemente
costitutivo di una cultura unitaria.
In particolare, ritengo sia necessario sviluppare modelli di sistemi disordinati.
Dovranno essere modelli in grado di rappresentare società di ampia scala e stati
del mondo culturale, senza esagerare ed essenzializzare alcuna evidente regolarità
pertinente o conveniente sotto forma di rappresentazioni idealizzate di “totalità”.
Questo non pone problemi insuperabili, ma necessita di modalità innovative nella
costruzione di modelli. Soprattutto, richiede uno spostamento nelle nostre tacite
abitudini concettuali e una maggiore volontà nell’esaminare la complessità della Sviluppare
modelli di
nostra costruzione di modelli del mondo. Le sole irregolarità, variazioni e forme sistemi
che vengono nascoste quando omogeneizziamo ed essenzializziamo possono, infat- disordinati
ti, essere le chiavi d’accesso alle dinamiche complessive del nostro oggetto. In mo-
do simile, a livello inferiore, è necessario che osserviamo e costruiamo modelli dei
diversi processi che producono tendenze opposte e divergenti, per creare quei
parallelogrammi di forze che possono configurare in maniera approfondita delle
forme aggregate.
Nessun gioco di destrezza può sostituire il duro lavoro di integrare una rappre-
sentazione complessa di connessioni parziali, contrastanti e interferenti. Ma a meno
che noi non si possa dare, per quanto semplificato, un resoconto di come più ampie Bisogna
configurazioni, e i processi che ne conseguono, siano tra loro connessi e producano integrare tra
i loro diversi effetti, non avremo ottenuto la solidità naturalistica che è il primo re- loro
quisito di ogni genere di conoscenza valida. Nella misura in cui costruiamo tali rap- rappresenta-
zioni parziali
presentazioni, scopriremo anche che esse si applicano al mondo più direttamente,
438 FREDRIK BARTH

sia per la diversità dei significati costruiti che le persone proiettano su di esso che
per le conseguenze dei loro atti nell’ambiente circostante. Questo ci darebbe il po-
tere di agire con maggiore efficacia sul mondo, riuscendo quindi ad aumentare l’im-
portanza della nostra disciplina, in linea con quanto la sua crisi contemporanea ci
impone di fare.

1 Vorrei ringraziare Bruce Knauft e i membri del seminario antropologico presso l’Università di Bergen per le utili

osservazioni critiche fatte a questo manoscritto.


2 Questa non è, naturalmente, una premessa universalmente condivisa nei vari mondi che le persone costruiscono,

ma deriva da una particolare corrente del pensiero occidentale, e deve questo particolare sviluppo primariamente a
Max Weber. Tuttavia evidenzia un orientamento oggi sempre più accettato tra le persone di tutto il mondo (riflettendo
la loro speranza condivisa di avere una vita con meno sofferenze, grazie a un più ampio controllo delle sue circostanze
materiali) e rappresenta perciò un passo ulteriore nel definire il discorso comune cui si è fatto riferimento nel passo pre-
cedente. Non è certo questa la sede per tentare, con un eccesso di zelo, di abbandonare questa visione in antropologia a
favore di una posizione metafisica meno materialista e meno condivisa, che inoltre non siamo in grado di sostenere, al-
meno in forme di vita come quelle che ciascuno dei miei lettori starà vivendo. Inoltre questa posizione, provvisoria co-
me dovrebbe esserlo ogni premessa, da sola sembra permetterci di convogliare all’interno di una serie di limiti condivi-
si gli sforzi che le persone compiono per agire nel proprio mondo – sforzi che, di conseguenza, diventano transitivi e
traducibili l’uno nei termini dell’altro. Senza di esso, non possiamo evadere dalla sala degli specchi in cui un’estrema re-
latività culturale ci rinchiude, riducendoci a semplici, ironici commentatori; inoltre, la prospettiva di un’antropologia
della conoscenza, che sostengo nelle pagine seguenti, si dissolverebbe.

Biografia intellettuale

Fredrik Barth è attualmente ricercatore affiliato al Ministero della Cultura Norvegese


ed è professore di antropologia alla Emory University. Ha in precedenza insegnato
presso le Università di Oslo e Bergen, e in diversi dipartimenti americani di Antropo-
logia. Ha condotto ricerche in diverse aree, a cominciare dal Medio Oriente, con par-
ticolare attenzione alle politiche tribali e all’ecologia. Le sue opere più note a partire
da quel periodo, sono: Political Leadership among Swat Pathans (1959), Nomads of
South Persia (1961), Models of Social Organization (1964), e ha curato l’edizione del-
l’opera Ethnic Groups and Boundaries (1969). Ha anche svolto lavoro di ricerca sul
campo in Nuova Guinea e nel Sud-Est Asiatico, e tra le sue pubblicazioni si trova Ri-
tual and Knowledge among the Baktaman of New Guinea (1975) e Cosmologies in the
Making (1987). È in stampa (nel 1993) una sua monografia dal titolo Balinese Worlds.

Dopo un’infanzia vissuta in tempo di guerra in Norvegia, all’Università di Chicago


iniziai a interessarmi alla paleontologia e all’evoluzione umana. Ma l’attivo e ricco
programma di insegnamento di Fred Eggan, Sol Tax, Robert Redfield, e altri am-
pliarono i miei orizzonti intellettuali, e mi portarono, dopo un intermezzo di scavi
condotti in Iraq con Bob Braidwood, a scegliere l’antropologia sociale come nucleo
principale del mio lavoro. Le mie basi teoriche derivano indirettamente da Radclif-
fe-Brown, che ha insegnato ai miei insegnanti durante gli anni Trenta.
Come altri dei miei colleghi di Chicago, continuai gli studi in Inghilterra. Scelsi la
London School of Economics, e fu lì che nacque l’amicizia di una vita con Raymond
Firth e, ancor più importante, con Edmund Leach, che ho più tardi seguito a
UNA PROSPETTIVA PERSONALE SUI COMPITI ATTUALI... 439

Cambridge per il mio dottorato. Nell’ambiente strutturalista della scuola britanni-


ca di antropologia sociale degli anni Cinquanta e Sessanta, questo mi pose quasi
nel ruolo di oppositore, aggravato dalla mia preferenza per Weber rispetto a Dur-
kheim e Marx.
Attraverso Firth e Leach, l’influsso del loro maestro Malinowski rafforzò la mia natu-
rale inclinazione verso il lavoro sul campo. In verità, la mia biografia intellettuale è
stata probabilmente formata più dai luoghi in cui sono stato che dai libri che ho letto,
come pure dagli insegnanti che ho conosciuto. Le tribù del Medio Oriente mi hanno
insegnato la turbolenza e la pragmatica della politica e i potenti limiti dell’ecologia; la
varietà dei loro modi di vita mi spinse a pensare all’economia comparata; e la loro si-
tuazione di minoranze in stato di guerra in un enorme continente mi ha costretto a
prendere coscienza delle problematiche dell’etnicità e dei confini. Allo stesso modo,
le questioni legate allo sviluppo del Terzo Mondo sono rimaste impresse in me quan-
do ho tentato di comprenderle in veste di consulente delle Nazioni Unite, nel Sudan e
in altri luoghi. Nel frattempo, anche le attività intellettuali e pratiche di costituzione
di istituzioni nazionali per l’antropologia sociale nella mia nativa Norvegia influirono
anch’esse sulla mia visione della disciplina, che ho ampliata e resa più che mai critica.
Un crescente interesse nei confronti della religione, dei rituali, e dell’analisi del si-
gnificato mi portò in Nuova Guinea, dove la possibilità di assistere a un culto segre-
to della fertilità singolarmente ricco ed evocativo ha forgiato la mia conoscenza dei
modi di analizzare i simboli. Le mie concezioni riguardo al pluralismo culturale
cambiarono in occasione di una ricerca sul campo in Oman. Più tardi, le sfide po-
stemi da Bali, dove mia moglie e io incominciammo un lavoro sul campo nel 1983, e
più recentemente dal Butan, hanno dato nuova linfa a un ripensamento circa i pro-
blemi della cultura e dell’azione umana, inducendomi a riflettere sulla natura delle
potenti forme di continuità e dei contesti nei quali le persone, ovunque nel mondo,
sono poste come attori ed esseri pensanti.
L’etnografia del presente e l’analisi del processo
Sally Falk Moore

La Di recente, autorevoli studiosi hanno constatato come storia ed etnografia sia-


compresenza di no spesso compresenti nel medesimo testo. Questa associazione e complementari-
storia e
etnografia
tà di due distinte forme di conoscenza ha vivacizzato e arricchito entrambe le di-
scipline. Ma non si è trattato soltanto di un felice incontro. L’attenzione rivolta ai
processi storici ha per alcuni decenni suscitato questioni su tutti i progetti etno-
grafici, e non solo su quelli derivati da ricerche d’archivio. Questo significa che il
lavoro sul campo è una testimonianza della storia attuale, la storia colta nel pro-
cesso stesso della sua produzione. Ma in che modo l’importanza del processo sto-
L’importanza
del processo
rico coinvolge le tecniche del lavoro sul campo? In che modo investe l’identifica-
storico e le zione del “problema”? O la struttura dell’analisi? Un atteggiamento storico nei
tecniche della confronti dell’etnografia del presente implica forse che alcuni tipi di dati debbano
ricerca pesare più di altri?

Un approccio processuale
Scopo di questo saggio è esaminare alcuni dei problemi complessi, e mai del
tutto risolti, che sorgono rispetto a un approccio processuale1. Sono esistiti tanti e
diversi usi della nozione di “processo”, e molte etnografie (con o senza l’etichetta
“processuale”) hanno tentato, in modo apparentemente paradossale, di descrive-
Descrivere gli re una scena sociale come è, e, insieme, nel suo divenire (in particolare Barth
eventi nel loro 1966; cfr. Vincent 1986, in cui è riassunto il dibattito struttura/processo dal
divenire: i 1974). Il tentativo di affermare una temporalità analitica nel lavoro sul campo
fattori dinamici
e il rapporto non è, ovviamente, semplice: si tratta di provare a calcolare direzione e significato
con la teoria di attività complesse nel loro stesso svolgersi. Fare lavoro sul campo significa es-
sere testimoni dell’attiva costruzione, destrutturazione e trasformazione di rela-
zioni, significati, categorie, sistemi, ordini. Il lavoro sul campo è un tentativo di
comprendere i legami sia tra ciò che si ripete sia tra ciò che è unico, tra il deter-
minato e l’imprevisto, i meccanismi propulsivi di contesti in sviluppo, i percorsi
del comando e della subordinazione, i fattori dinamici nell’organizzazione degli
organismi. L’esperienza del lavoro sul campo è in parte sollecitata dalle indagini
dell’etnografo, in parte semplicemente offerta dagli eventi che accadono (o sono
analizzati) durante il suo lavoro sul campo. La teoria può dare forma all’indagine,
ma non può controllare gli avvenimenti.

Fabian ha dichiarato che l’atemporalità dell’antropologia è “uno scandalo”,


che è stato il modo di negare la coesistenza “dell’Altro” nello stesso nostro mon-
La do, la nostra forma di orientalismo o peggio (Fabian 1983). La sua accusa, con la
“atemporalità”
della sua forte indignazione politica è in ritardo ed esagerata. Basterà riflettere sul ruo-
antropologia lo giocato dalla storia nell’opera di Alfred Kroeber, Julian Steward, Eric Wolf e
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 441

Marshall Sahlins, o in E. E. Evans-Pritchard, Georges Baladier, M. G. Smith,


Stanley Tambiah e in alcuni scritti di Clifford Geertz, per vedere che l’indiscrimi-
nata accusa di Fabian è senza dubbio esagerata (inoltre nella raccolta di definizio-
ni di cultura pubblicata da Kroeber e Kluckhohn, gli approcci storici hanno uno
spazio molto ampio). Le accuse di
Ci sono stati momenti in cui l’atemporalità contro cui si schiera Fabian è stata Fabian
una realtà in più settori: nel progetto teorico di Bronislaw Malinowski e di A. R.
Radcliffe-Brown, in alcune delle comparazioni statistiche dei sostenitori della
“Human Relations Area Files” e in molte etnografie. Per un certo periodo, e nel
tentativo di produrre comparazioni scientifiche, le società delle popolazioni non-
occidentali furono viste come espressioni di tipologie mutevoli all’interno di am-
pie categorie classificate in ragione della loro semplicità o complessità. Due erano
i presupposti di questo approccio. Il primo: che la natura delle società “tradizio-
Il ruolo della
nali” senza l’intervento di qualche circostanza o cambiamento esterno, era desti- storia in autori
nata a riprodurre le loro strutture sociali e culturali da una generazione all’altra. classici
Il secondo: che sebbene su tali società agiscano fattori esogeni – conquiste, impat-
to di colonizzazioni, schiavismo, evangelizzazioni ed economia mondiale –, e seb-
bene siano cambiate molto dal tempo in cui sono state osservate, la loro prece-
dente situazione può essere ricostruita. Sia per salvare il “passato” che per deri-
varne modelli, il progetto etnografico si è perciò volto con decisione a queste “in-
tempestive” ricostruzioni. E data la definizione del compito e dei presupposti, i
soli processi che presentavano l’interesse maggiore erano quelli ciclici, cioè quelli
riprodotti di generazione in generazione.
La
Stimolata dalle nuove informazioni, e dalla speranza di raggiungere generaliz- classificazione
zazioni scientifiche, l’antropologia ha assunto il proprio compito molto seriamen- in tipologie:
te. Ma ciò che intendeva comparare erano tipologie sociali/culturali e tipologie di omeostasi e
“istituzioni” e “costumi,” non sequenze infinite di varianti, e certamente non l’en- possibilità di
ricostruire le
tità sempre diversa realmente osservata nel lavoro sul campo (Needham 1971). Il società
dispositivo “esplicativo” serviva per mostrare le connessioni tra i costumi all’in- “tradizionali”
terno di una tipologia, e metteva in evidenza una “logica” totale dell’ordine cultu-
rale e sociale. L’esistenza delle connessioni, la logica, e l’ordine erano postulati.
Quel che non si integrava veniva ritenuto inessenziale. “L’oggetto della vostra in- Il dispositivo
dagine sono i modelli di comportamento standardizzati; la loro totalità integrata è esplicativo e la
la cultura” (Nadel 1953, p. 42). L’obiettivo di quel periodo consisteva quindi nel- logica totale
lo stabilire che quelli erano “sistemi” dotati di una logica sociale, e non un aggre-
gato arbitrario di regole e pratiche curiose ed esotiche privo di organizzazione2. Il
progetto così concepito di contestualizzare particolari costumi in una matrice cul-
turalmente logica finiva quasi inevitabilmente per costruire un sistema totale
(Radcliffe-Brown 1952a, p. 181).
Malinowski, ad esempio, sosteneva che i temi del contesto legale, come il con-
cetto di proprietà delle isole Trobriand, possono essere compresi solo se descritti
all’interno di un contesto culturale completo (1926, pp. 17-21). Si è dovuta accan-
tonare l’astratta, ma culturalmente densa, idea occidentale di “proprietà”, per de-
scrivere le realtà delle isole Trobriand, con tutti i loro dettagli anatomici. Mali-
nowski cercava un ordine normativo coerente. Le idee locali intorno alla proprie- Malinowski e
tà erano considerate una parte ben integrata di un insieme operativo, e questo in- l’ordine
sieme integrato era “la cultura”. Il comportamento, naturalmente, non era in real- normativo
coerente
tà conforme alle norme. Sebbene Malinowski abbia riportato un considerevole
numero di divergenze e ne abbia fatto un certo uso teorico, non è bastato a fargli
442 SALLY FALK MOORE

comprendere come lo stesso ordine culturale ipotizzato fosse pieno di significati


contraddittori e di possibilità di trasformazione. Ha continuato a vederlo come
un sistema sincronicamente coerente e auto-riproducentesi.
La posizione
Che cosa vedrebbe invece un antropologo postmoderno? Clifford sostiene
dei che, “Se ‘la cultura’ non è un oggetto da descrivere, non è neanche un corpus uni-
postmoderni: la ficato e immodificabile di simboli e significati. La cultura è conflitto, è tempora-
fine degli nea, è in continua trasformazione ” (1986, p. 43). La coerenza culturale totaliz-
insiemi
coerenti
zante e funzionale che Malinowski dà per scontata dal punto di vista teorico non
ha più alcuna plausibilità3. Se non esiste alcun “insieme” totalmente coerente,
nessun grande concetto di “cultura” o “società” come unità integrate e non con-
traddittorie, non c’è neppure alcuna totalità logica capace di spiegare come si
possa integrare in modo plausibile ogni particolare elemento culturale. Senza un
“insieme” totale, l’idea che esistano connessioni logiche necessarie tra gruppi me-
no estesi di simboli e di pratiche diventa una domanda da porsi, piuttosto che
una risposta. E se la cultura è “contrastata, temporale, e emergente” le risposte
possono essere più di una.
Le prove
dell’aspetto
L’etnografo contemporaneo, al lavoro sul campo, dove può trovare una prova
processuale del continuo e molteplice formarsi e riformarsi dell’idea di proprietà? Non è forse
l’idea stessa di “proprietà”, così occidentalmente connotata, a porre i termini della
questione in un modo che non può produrre chiare risposte? La ricerca dovrebbe
forse partire dal concreto, dalla “vita sociale delle cose”, per poi andare da lì alle
persone che hanno a che fare con le cose, e da queste alle concezioni chiamate in
causa nelle loro interazioni (Appadurai 1986a, pp. 3-91)? Oppure l’attenzione et-
nografica dovrebbe incentrarsi sulle categorie culturali e sugli usi diversi cui ven-
Far partire la
ricerca dal gono destinate, sui significati in trasformazione, in quel processo che Sahlins defi-
concreto? O nisce il “dialogo simbolico della storia”? In Isole di storia Sahlins (1985, p. 145) sui
incentrarla significati in trasformazione sostiene:
sulle categorie
culturali e i
loro usi? Il problema si sposta sul rapporto fra concetti culturali ed esperienza umana, cioè di-
venta il problema della referenza simbolica: del modo in cui i concetti culturali vengono
impiegati attivamente per occuparsi del mondo (…). Dato che questi concetti sono as-
sunti per entrare in relazione con un mondo che possiede le proprie ragioni (…) niente
garantisce (…) che soggetti intelligenti e dotati di volontà, con i loro interessi sociali e le
loro biografie, impieghino le categorie esistenti nel modo prescritto.

Usate e trasformate contemporaneamente, le categorie culturali possono esse-


re facilmente arricchite da nuovi significati che acquisiscono dalle situazioni pra-
L’arricchimento
di significati nel tiche cui fanno riferimento. Mentre questa interpretazione del problema ha solo
tempo e la recentemente conquistato l’immaginazione degli antropologi, grazie anche all’ap-
common law passionante resoconto di Sahlins della comunità di Captain Cook (Hawaii), que-
sta prospettiva è, di fatto, l’auto-descrizione tradizionale della storia della “com-
mon law” (“legge non scritta”). Nella teoria della “common law”, i concetti legali
acquisiscono i loro significati nel tempo in virtù delle ripetute “applicazioni” ai
casi concreti. La legge è un contesto in cui la tensione tra continuità e cambia-
mento viene ripetutamente espressa nell’“applicazione” di categorie generali a ca-
si specifici. La legge utilizzata in situazioni pratiche è, inoltre, un eccellente argo-
mento per lo studio del “dialogo simbolico della storia”. Ma ce ne sono molti al-
tri. Il processo di ridefinizione categoriale è onnipresente. Nondimeno, dobbiamo
chiederci se il primo obiettivo dell’analisi consista nel valutare di quanto le tra-
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 443

sformazioni di significato si siano avvicinate a particolari idee. La sorte delle cate-


gorie culturali non consiste nell’avere un ruolo essenziale nel lavoro sul campo;
sono piuttosto le situazioni delle persone che le utilizzano a dover ricoprire que-
sto ruolo. Pregi e difetti
Di solito un periodo di lavoro sul campo è veloce e breve, abitualmente tra- del localismo
scorso in una sola località. Il localismo ha pregi e difetti. Come condurre l’analisi nella ricerca sul
terreno
per collegare gli eventi locali a un quadro di lungo termine e di larga scala? (Vedi
Barth 1978 sulle implicazioni che nell’analisi antropologica solleva una valutazio-
ne di ampio raggio). Come si deve impostare una connessione su larga scala? Il
problema è stato sviluppato negli ultimi decenni nell’economia politica; ma spes-
so non si riesce a conseguire alcuna integrazione. Frasi come “la penetrazione del
capitalismo” non significano nulla (nonostante il piacere che provano alcuni auto-
ri nell’usarle).

Sono convinta che se si riguarda agli eventi come a qualcosa che accade in L’utilità degli
quel particolare momento lungo il corso del tempo, proprio per questo gli eventi eventi come
assumono un ben diverso valore rispetto ai dati che non hanno dimensione tem- dati
porale. Dico questo non per eliminare qualsiasi altro tipo di informazione o meto-
do di analisi tra i tanti che gli antropologi hanno usato nel passato. Al contrario,
tutti quei metodi rimangono essenziali. Molti tipi di informazione che non siano
eventi, dai censimenti alle genealogie, dai miti ai resoconti delle azioni compiute
dagli spiriti degli antenati, hanno un grande valore etnografico. Essi possiedono
anche una specificità temporale a cui può essere data una certa importanza. Tutte
le informazioni del lavoro sul campo, a un certo punto, vengono messe assieme e
poi ricevono almeno una certa temporalità standardizzata e “da diario di campo”.
Ma gli eventi e le reazioni locali, così come sono osservati e riferiti, possiedono
un’altra natura: a differenza di molte forme di materiale dialogico derivato da
un’intervista, gli eventi più significativi non vengono generati, e neppure dedotti,
dalle indagini dell’antropologo. Essi possiedono, di conseguenza, una sorta di pu-
rezza in quanto sono informazione locale spontanea. L’azione o reazione è local- La temporalità
standardizzata
mente costituita e localmente prodotta. Fatto ugualmente importante, gli eventi e gli eventi
che coinvolgono un gran numero di persone sono spesso un crocevia dove si in- “puri”
tersecano interessi e opinioni differenti. Lo studio delle tracce confuse di tali in-
tersezioni è di grande interesse. Gli eventi situano le persone in un contesto inedi-
to che precede l’analisi. Cioè precedono quel processo in cui le idee culturali che
veicolano e le strategie che impiegano vengono estrapolate e sono assoggettate al-
la radicale riorganizzazione che costituisce il fine dell’analisi condotta dall’antro-
pologo. Contengono la possibilità di apprendere qualcosa di inatteso.

Se gli eventi devono avere una posizione centrale come dati, tutte le occorren-
ze devono allora avere la stessa importanza come fonti di informazione, o ve ne L’individuazione
di eventi
sono alcune che sembrano poter rivelare più cose di altre? Una conversazione è “diagnostici”
un evento? E se così è, cosa non è un evento? Ho suggerito che all’interno di una
specifica linea di ricerca certi eventi possono essere ritenuti “diagnostici” (Moore
1987). Ad esempio in Moore (1991), ho appuntato la mia attenzione sui principa-
li trasferimenti di proprietà avvenuti in diversi periodi di questo secolo in quanto
li considero elementi diagnostici ai fini dell’identificazione di trasformazioni eco-
nomiche e sociali. In un altro saggio (1977) proponevo l’esistenza di “eventi for-
mativi strutturanti” che mostrano l’articolazione, in una situazione data, di diffe-
renti interessi politici. Il caso utilizzato come esempio era quello di una disputa,
444 SALLY FALK MOORE

Gli “eventi in cui gli schieramenti di stirpe, di appartenenza politica, e di classe erano compe-
formativi titivamente coinvolti nel tentativo di controllarne l’esito. Non occorre dire che
strutturanti” molti altri elementi possono essere considerati diagnostici. La domanda riguardo
a quali eventi siano da ritenersi diagnostici dipende, naturalmente, dai tipi di do-
mande sulla cultura, sulla società e sulla storia cui si sta cercando di dare risposta.
Il punto è estremamente importante: non si deve applicare un significato fisso ad
azioni particolari, poiché un evento diviene diagnostico proprio in relazione alla
domanda.

Definire Il lavoro sul campo è “locale”, ma le conclusioni concettuali che l’antropologo


l’evento locale ne trae vanno al di là. Il lavoro sul campo è situato in un tempo specifico, ma il
in relazione a suo svolgersi è parte di un episodio che ha coordinate temporali più ampie. Dal
tempo e luogo
punto di vista metodologico questo implica che in una ricerca efficace sia fonda-
mentale un alto grado di consapevolezza dei limiti di un progetto di lavoro sul
campo delimitato nel tempo e nel luogo. Il compito implicito dell’analisi consiste
La
nel trascendere tali limiti. Quale tipo di lavoro sul campo sarà in grado di produr-
consapevolezza re dati conformi alle più vaste dimensioni e al più lungo periodo di tempo? Esi-
dei limiti del stono molte possibili risposte a questa domanda. Comunque, non è possibile ne-
lavoro sul gare l’enorme utilità degli eventi e delle analisi che ne sono state fatte in quanto
campo fonti della “storia attuale”. Non sorprenda che tale proposta venga da un antro-
pologo abituato a lavorare con tematiche giuridiche. Dopo tutto, nel modo in cui
gli antropologi giuridici si sono concentrati sulle dispute e sulla loro composizio-
ne, il loro reale soggetto di studio è stata la rielaborazione istituzionale di eventi
L’antropologia anteriori. E cosa dire della storia locale? È raro trovare materiale sulla storia loca-
giuridica e la
rielaborazione le che sia possibile mettere a confronto con le annotazioni raccolte sul campo.
istituzionale di Dalla comparazione sembrano emergere possibili traiettorie future. La direzione
eventi anteriori potenziale di ciò che può essere un processo cumulativo qualche volta si può
identificare abbastanza chiaramente (sebbene, naturalmente, non possa esservi al-
cuna certezza). Diventerà mai la vita del villaggio di X sempre più strettamente
connessa con la città vicina? La progressiva erosione del suolo nella zona di Y
preannuncia un aumento dell’emigrazione?
Quattro L’etnografo attento alla prospettiva temporale si trova dinanzi quattro questio-
questioni ni di natura tecnica: 1) È possibile inserire la scansione del tempo che regola la
tecniche
“società parziale” di una località nelle strutture temporali vigenti su una più am-
pia scala? 2) Può il “tempo del lavoro sul campo” essere analizzato come segmen-
to di un flusso temporale, se la storia passata di quella località è sconosciuta? 3)
Esistono tipologie di dati particolarmente adatti a mostrare legami tra fenomeni
I problemi di scala ridotta e quelli di più ampia scala? 4) Esistono tipologie di dati partico-
temporali o larmente rilevanti per le connessioni tra presente e futuro? In breve, quante sono
della scala di
indagine nel
le probabilità che ci si imbatta in tali questioni di scala o di tempo nel corso del
lavoro sul lavoro sul campo, e in quali tipi di attività e di eventi sono più specificatamente
campo presenti?

L’analisi di un evento
Il tentativo di
abbattere i
Un piccolo incidente che mi è “accidentalmente” accaduto illustrerà alcune
confini del delle possibilità e dei limiti della tecnica di utilizzare gli eventi come fonti chiave
concetto di di informazione. Fornisce anche una occasione per abbattere i confini del concet-
cultura come to di cultura come “tradizione tramandata di generazione in generazione” – anco-
tradizione ra sostenuto da Kottak recentemente e in modo veramente esemplare: “Tutti gli
tramandata
esseri umani crescono in presenza di una serie di regole culturali trasmesse tra le
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 445

generazioni… Queste sono le culture o tradizioni culturali che studia l’antropolo-


gia” (1987, p. 23); o, da Hatch: “la cultura è il modo di vivere di un popolo. Con-
siste di strutture convenzionali di pensiero e di comportamento… trasmesse da
una generazione alla successiva mediante apprendimento” (1985, p. 178). La clas-
sica definizione di Tylor del 1871, che definisce la cultura come “quell’insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro
di una società” senza limitare la cultura a ciò che è tramandato da una generazio-
ne alla successiva (1871, p. 7) era certamente più ampia sia concettualmente che La presenza di
nuovi
temporalmente. Senza dubbio, nella misura in cui la cultura è “emergente”, come ingredienti e di
ha opportunamente detto Clifford, non sempre viene ricevuta da una precedente trasformazioni
generazione e tramandata intatta alla successiva. Nuovi ingredienti, nuovi elemen- nell’emergere
ti e nuove possibilità di trasformazione, sono sicuramente “culturali” almeno della cultura
quanto lo erano quelli precedenti. Una visione della “storia attuale” del lavoro sul
campo deve rifiutare la prova della durata (e la concezione esclusivamente “tradi-
zionalista” che si è infiltrata in alcune definizioni di cultura) o rifiutare il concetto
stesso di cultura (un atto, forse, troppo drastico). Infatti basterebbe attuare una
radicale modificazione del significato di “cultura” cambiando l’uso che se ne fa.
Guardiamo l’esempio che segue.

Durante uno dei miei viaggi nelle zone rurali del Kilimangiaro ho incontrato Un incidente
particolare:
un anziano dei mchagga con il quale non avevo avuto contatti nelle precedenti l’anziano
visite. Il motivo per cui i nostri sentieri non si erano incrociati era che aveva vis- mchagga del
suto nella capitale Dar es Salaam, dove era stato un alto funzionario governativo Kilimangiaro
nella Tanzania di Nyerere, mentre io avevo trascorso la maggior parte del mio
periodo africano sul Kilimangiaro. Avevo sentito parlare di lui e avevo avuto oc-
casione di avvicinarlo quando ero passata per Dar, ma per una serie di motivi
non lo avevo fatto. Era tornato sul Kilimangiaro perché si era appena ritirato dal
servizio governativo ed era in procinto di riprendere a vivere nella sua casa e nel
suo giardino sulle montagne. Era incuriosito dai miei interessi e dal motivo della
mia presenza, e mi avvicinò attraverso degli intermediari. Diventammo presto
amici e iniziammo una corrispondenza che durò fino alla sua morte, avvenuta
pochi anni fa.

Lo chiamerò Danieli, sebbene non fosse il suo nome. La casa di Danieli, come La storia di
quella di molti altri wachagga di quell’area era vicina a quella di molti suoi paren- Danieli
ti in linea paterna. Vivevano tutti in giardini contigui formando uno dei tanti
gruppi di stirpe patrilineare che caratterizzano certi territori di antico stanzia-
mento della “cintura della banana” sulle montagne. Danieli, come la maggior par-
te dei wachagga, era cristiano e monogamo. Era stato, comunque, sposato tre vol-
te e aveva divorziato due volte. Al momento del matrimonio, ogni moglie aveva
ricevuto uno degli appezzamenti dei suoi possedimenti patrimoniali che gli era
stato ceduto o che aveva ereditato dal padre. Viveva con la sua attuale moglie, ma
aveva mantenuto regolari contatti amichevoli con le due precedenti. Al tempo in
cui Danieli era ritornato sul Kilimangiaro, la maggior parte dei bambini nati da
questi matrimoni erano adulti. I figli sposati avevano delle case sul luogo di loro
proprietà, costruite sui terreni del raggruppamento patrilineare cui Danieli aveva
dato vita, e le figlie si erano trasferite lontano dopo il matrimonio. Anche alcuni
dei figli erano andati lontano dalle montagne, dispersi dalle loro occupazioni, ma
alcuni erano rimasti lì e altri ritornavano quando potevano.
446 SALLY FALK MOORE

Quello di Danieli era un lignaggio élitario. Il privilegio di alcuni dei suoi


membri poteva essere fatto risalire ai tempi precoloniali. Naturalmente, le speci-
Il pericolo del
socialismo in
fiche basi del potere dei membri della stirpe era svanito quando il governo colo-
Tanzania niale, la coltivazione intensiva, e alcuni importanti trasformazioni demografiche
giunsero sino alle montagne a partire dal 1890. Cambiarono il loro modo di fare
affari, la loro religione, si aggiunse una nuova lingua. Ma ciò che non mutò per i
membri di successo di quella stirpe (c’era infatti anche chi non aveva avuto suc-
cesso) fu la loro posizione di relativo vantaggio rispetto alle altre famiglie wa-
chagga. Vi era stata quindi una certa continuità di livello e di posizione sociale in
alcune famiglie durante un secolo che vide travolgenti trasformazioni in molti al-
tri campi.
Danieli guardava avanti, verso una tranquilla vecchiaia, circondato dai nipoti,
con una serie di interessi economici e politici locali sui quali era intenzionato a
mantenere il proprio attento controllo. Era ricco e importante, e non vedeva con
favore molti aspetti dell’esperimento socialista tanzaniano. Quando mi mostrò
per la prima volta i suoi terreni, un uomo uscì da uno degli edifici adiacenti la co-
struzione principale e si affrettò verso il giardino. Chiesi a Danieli chi fosse.
“Oh”, disse, “quello è un servo. Ma adesso”, disse sghignazzando, “li paghiamo
quello che il governo ci dice di pagarli, e li chiamiamo ‘aiutanti’”. Parlava molto
bene in inglese.
Danieli era Era evidente che Danieli voleva apparire ai miei occhi una persona importante
amico di come, del resto, era ed era stato. Era un uomo di mondo e uno dei pochi wachag-
Malinowski ga che sapesse qualcosa di antropologia. Quando era un giovane e importante
funzionario locale aveva incontrato Malinowski sulle montagne. Danieli fu orgo-
Il “mistero” glioso di mostrarmi un pacco di corrispondenza di cui facevano parte alcune let-
della casa di tere che lui e Malinowski si erano scambiati.
proprietà Durante uno dei pomeriggi che avevamo passato insieme, Danieli mi mostrò
alcune sue fotografie in occasioni pubbliche a Dar es Salaam. Tra queste, alcune
foto di ricevimenti tenuti nella sua casa di Dar es Saalam. Ridacchiando, mi disse
che ne era ancora proprietario e che era stata affittata da uno straniero. La cosa
mi sorprese, perché la peggiore fra le possibili colpe indicate dal presidente Nye-
rere riguardava i “capi”/proprietari.
Il programma Nei primi giorni di ottimismo che seguirono l’indipendenza, il presidente
dei socialisti: Nyerere e gli altri pianificatori del Socialismo Africano dichiararono che sperava-
fine dello
sfruttamento e
no di cambiare le strutture dell’economia in Tanzania, per riuscire a cambiare le
dell’accumulo motivazioni degli individui. Volevano anche cambiare il carattere morale della cit-
di ricchezze tadinanza: anzitutto, volevano farla finita con le opportunità di sfruttamento e di
accumulo di ricchezze individuali; poi volevano creare le basi – in verità imporre
degli schemi – di una mentalità egualitaria.
L’importanza Un qualsiasi piano idealistico di questo tipo deve inevitabilmente porre l’ac-
del lavoro e cento sull’elenco dei mali da sradicare. I punti fissi della filosofia pubblica di
della Nyerere erano la virtù del lavoro e la malvagità dell’ozio e dell’egoismo. Non la-
socializzazione
dei beni
vorare voleva dire essere un parassita. Non essere d’accordo significava essere un
“individualista,” un accumulatore di beni, un competitore e uno sfruttatore inve-
ce che un cooperatore. Essere egoisti significava desiderare e promuovere l’ine-
guaglianza (Nyerere 1966, Introduzione).

L’abolizione In questi valori generali, nella retorica di Nyerere si innestava una sorta di
della proprietà idea evolutiva. L’Africa doveva passare da un modo di produzione precapitalista a
delle terre uno socialista; dovevano perciò essere sradicate ed eliminate tutte le tendenze
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 447

“feudali” e capitaliste. In particolare la “proprietà terriera”. E lo strumento per il


suo sradicamento era la legislazione.
Negli anni Sessanta fu approvata una serie di leggi per svincolare i fittavoli e
farla finita con i proprietari terrieri. Nel 1963, come primo passo, il governo abo-
lì i titoli di proprietà esclusiva. Seguirono varie leggi e dichiarazioni politiche che
avevano per bersaglio il governo centrale e la “proprietà terriera.” Nyerere (1966,
pp. 166-167) chiarì:

Nel rifiutare la mentalità capitalista che il colonialismo ha portato in Africa, dobbiamo


rifiutare anche i metodi capitalisti che ne derivano. Uno di questi è la proprietà indivi-
duale delle terre… I proprietari terrieri, in una società che riconosca la proprietà indivi-
duale delle terre, possono essere, e di solito sono, della stessa categoria dei… fannullo-
ni… dei parassiti.

La dichiarazione di Arusha del 1967 era esplicita: “nessun dirigente del TANU La
Dichiarazione
o di governo deve possedere case che affitti ad altri” (Dichiarazione di Arusha, di Arusha e il
1967, p. 19). Come faceva Danieli a conservare la propria casa di Dar e ad affit- divieto di
tarla? E come poteva averla fatta franca? possedere case
Danieli aveva semplicemente consultato un avvocato di Dar es Salaam e insie-
me a lui aveva elaborato un tipo di transazione apparentemente legittima. Niente
nella legislazione implicava in alcun modo che le terre e le case potessero essere
liberamente vendute e comprate. (Una politica che proibiva la compravendita
venne enunciata più tardi, nel 1983, ma non venne applicata, almeno non nella re-
L’ingegnoso
gione del Kilimangiaro). Quindi, una volta che le terre fossero diventate tutte accordo di
proprietà dello Stato, ciò che restava e poteva essere venduto o acquistato era il Danieli
diritto alla proprietà. Nell’accordo che aveva fatto Danieli, egli avrebbe “venduto”
allo straniero la sua casa, mantenendovi sopra un’ipoteca. Lo straniero avrebbe
pagato x scellini al mese sull’ipoteca nel periodo che avrebbe trascorso a Dar es
Salaam. Poi, quando fosse stato il momento di andarsene, l’occupante della casa
non avrebbe pagato l’ipoteca e Danieli sarebbe rientrato in possesso della propria
casa. Cioè quell’ipoteca era, di fatto, un accordo di affitto. Se nessuno avesse sco-
perto le regole del gioco, tutto sarebbe andato bene, e, fino a quando ho potuto
seguire la cosa, tutto sembrava aver funzionato secondo il piano stabilito.
Quindi un evento – il ritorno di Danieli alla sua stirpe patrilineare nel Kili- La storia di
mangiaro, alla posizione “tradizionale” di capo ereditario nella sua comunità na- Danieli e il
tale e il suo ritorno fra gli anziani della sua stirpe – ha consentito di farsi una vaga mantenimento
idea di un altro evento: un passaggio di proprietà. Questo racconto mostra il pro- della proprietà
da parte
cesso attraverso cui l’élite della Tanzania era riuscita a mantenere certi interessi di dell’élite della
proprietà nonostante la legislazione e a dispetto di un governo che esprimeva una Tanzania
forte opposizione ideologica a queste forme di ricchezza. Si tratta di eventi di am-
pia scala – l’architettura legislativa della politica nazionale di un governo – legati
a eventi di scala minore, le fortune di una vecchia volpe.

Che cosa ci svela questo esempio sulla concezione della “proprietà” dei chag- Percepire
ga? Sicuramente sarebbe necessaria per un’analisi completa l’ampia contestualiz- argomentazioni
zazione di cui Malinowski sosteneva la necessità, e questo esempio ha appena ac- più estese
cennato al complesso di idee che circonda il concetto di proprietà nel Kilimangia-
ro. Ma nella storia di Danieli si manifestano elementi sufficienti a porre alcune
domande sull’utilità della concezione classica di “una cultura”. Forse la nuova le-
gislazione non era parte della “cultura” della proprietà allora corrente tra i chag-
448 SALLY FALK MOORE

È ancora utile ga nella stessa misura in cui lo era la pratica locale di vivere in raggruppamenti
la concezione patrilineari. E cosa dire del fatto che Danieli fu costretto a consultare un avvocato
classica di “una
cultura?” per escogitare una via d’uscita? L’avvocato possedeva una competenza nelle con-
cezioni della proprietà che non erano parte della cultura “comune”. Solo un
chagga veramente benestante avrebbe potuto possedere una casa in città e impie-
gare un avvocato: si può facilmente comprendere che esisteva una cultura elitaria
che includeva gli avvocati, distinta dalla cultura della gente comune. Ma tutte le
proprietà di case rurali dei chagga erano incluse nella legislazione, attraverso l’im-
posizione di nuove categorie concettuali e di restrizioni sulla proprietà.
La forza della Ma una rondine non fa primavera. Le tattiche di un individuo appartenente a
economia
“illegale” in un’élite che riesce con successo ad aggirare la legislazione suggeriscono che ve ne
Tanzania possano essere altri come lui, ma non dimostrano la dinamica di un processo. Co-
munque, durante i miei intermittenti periodi di lavoro sul campo sul Kilimangiaro
vennero alla luce un certo numero di transazioni disoneste che coinvolgevano al-
tre persone molto meno importanti e benestanti di Danieli. Questo indicava la
forza dell’economia “illegale” e le molte falle presenti nella rappresentazione uffi-
ciale della realtà tanzaniana. Vi furono confische di proprietà e strategiche divul-
gazioni di avvenute violazioni e i funzionari governativi non perdevano occasione
per arricchirsi. Alcuni proprietari vennero fortemente penalizzati per impaurire
gli evasori. Tutto dipendeva da chi era coinvolto dalle mazzette. I funzionari loca-
li del partito erano protetti dai contatti influenti e dalla lealtà alla stirpe e al vici-
Lo Stato nato, resa più forte da un’atmosfera in cui l’illegalità economica e i suoi rischi era-
socialista si no la norma. Quasi tutti potevano tradire qualcun altro, se solo lo avessero desi-
autodistrugge
derato. Quasi tutti sapevano qualcosa di pericoloso per qualcun altro, o anche
per molti altri. Gli interventi dello Stato e del Partito, e le attività anti-funzionari
(spesso perpetrate dagli stessi funzionari) erano chiaramente parti interconnesse
di un processo a lungo termine. Ci sono forme di legislazione che quasi inevitabil-
mente danno luogo a forme speculari di illegalità. Lo Stato socialista causava la
sua stessa distruzione: come Penelope che tesseva di giorno e distruggeva la notte
mentre aspettava il ritorno di Ulisse, lo Stato socialista ha distrutto le sue stesse
costruzioni: il sogno non poteva avverarsi.
In una sola esperienza di lavoro sul campo non è possibile sapere con certezza
in quale delle diverse direzioni andranno le attività che si stanno osservando e
L’importanza
dei frammenti
ascoltando. Ma talora è possibile individuare i fattori che sono in gioco. E si pos-
locali e il sono certamente compiere visite successive. Ovviamente il carattere dello Stato
problema dei postcoloniale in Tanzania si è sviluppato in tanti elementi, differenti nelle diverse
materiali non regioni, e la “totalità” non può essere “immaginata” o ricostruita sulla base di
pubblicabili
questi piccoli frammenti come la storia dell’“operazione” di Danieli. Ma, senza
questi frammenti locali e particolari, dello Stato ne sapremmo ancora meno. Si
può parlare di “cultura” dell’illegalità dove l’illegalità è persistente e diffusa? Che
cosa può fare l’antropologo della rete di relazioni creatasi intorno a uno Stato che
sta costruendo nuove istituzioni burocratiche e insieme nuove forme di illegalità,
e che si definisce mediante una retorica religiosa di alta moralità politica? Che co-
sa si deve fare se gran parte del materiale non è pubblicabile, a meno di recare
danno a persone che stanno trattando affari o non riuscire più a ottenere permes-
L’importanza si per successive ricerche?
delle Il “giuridico”, come l’“economico”, sono dimensioni che pervadono quasi tut-
dimensioni ta la vita sociale. Ma sono scarsamente utilizzate da parte degli etnografi. Il diritto
giuridica ed
economica passa attraverso tutti i livelli della scala sociale, concede un gran numero di occa-
sioni per sottolineare le categorie culturali e le posizioni morali, coinvolge ogni
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 449

cosa – dal matrimonio ai poteri dello Stato – e spesso implica argomenti di im-
portanza tale che chi vi è coinvolto perseguirà il proprio interesse nonostante la
presenza dell’antropologo. Non si tratta di norme legislative astratte dalla vita so-
ciale, ma di leggi impresse nel processo della vita sociale che è l’oggetto da esplo-
rare: è la legge nelle transazioni, nelle dispute amministrative, nel controllo uffi-
ciale e di legittimazione, nelle contrattazioni, nelle attività illegali. La legge così
considerata può fornire all’etnografo una visione quasi priva di ostacoli di ciò che
accade in casa, in strada, e anche in alcuni uffici governativi.

Ulteriori argomenti a favore di un’analisi del processo


Il breve racconto del pensionamento del furbo Danieli collega questioni locali La storia di
a quelle su larga scala, l’individuo allo Stato; accenna all’ampia rete di relazioni e Danieli, la
pianificazione e
al persistente vantaggio di un’élite. Mostra che le attività in svolgimento durante la previsione
il periodo di lavoro sul campo erano affrontate con l’idea di un futuro pianificato
e previsto (ma, naturalmente, incerto) sia su scala locale che su larga scala. Questa
connessione con il futuro impregna i dati del lavoro sul campo di una temporalità
nozionale e rettilinea, diversa da una storia retrospettiva del passato. Quasi tutto
quello che accade in diversi luoghi è percepito come parte di una sequenza nel
tempo, poiché le persone coinvolte sono esse stesse pienamente consapevoli del
modo in cui vogliono dare forma al loro futuro. Tentando di “aggiustare” il risul- La connessione
tato, con leggi o transazioni strategiche, con l’arresto di alcune persone o la confi- con il futuro
sca, o con astute evasioni, le varie parti coinvolte nella scena dell’azione stanno
contestando il controllo sul loro oggi e sul loro domani (vedi, in questo contesto,
Bourdieu sulle regole e le strategie, 1977, pp. 5-9). Una prospettiva processuale
sembra essere particolarmente appropriata. Da sottolineare il fatto che il processo
non permette predizioni, ma suggerisce la possibilità quasi certa di eventi futuri.
E identifica sia il luogo di determinati conflitti sul controllo del futuro, sia i ter-
mini specifici in cui vengono concepiti.
La storia del passato illumina il lavoro attuale sul campo? La risposta è: “sem-
La storia del
pre”, ogni volta che esiste informazione sul passato. È sempre desiderabile per passato e
l’etnografo sapere quanto più possibile sul modo in cui si è determinato lo stato l’effettivo
presente, quale sequenza di trasformazioni ha avuto luogo prima che il presente lavoro sul
acquisisse la sua forma. E qualche volta il lavoro nel presente può dedicarsi a ren- campo
dere intellegibile il materiale esistente negli archivi. La forma particolare del rag-
gruppamento patrilineare in cui Danieli ha vissuto sulle montagne nel corso degli
anni Settanta era, per molti versi, un prodotto dei precedenti decenni, nonostante
la sua connessione storica con il localismo patrilineare del diciannovesimo secolo
(Moore 1986). Senza una documentazione storica contraria, la discendenza patri-
lineare poteva apparire completamente “tradizionale” durante gli anni Settanta,
tanto a uno straniero quanto ai locali.
L’essere a conoscenza del ruolo ricoperto dalla famiglia di Danieli per più di
un secolo, collocava le sue imprese personali nella prospettiva di relazioni ante-
cedenti, asimmetriche sul lungo periodo, di vantaggio e di svantaggio che aveva-
no influenzato la sua esistenza. Il suo presente era influenzato dalle connessioni
con il passato, ma non ne era completamente “determinato”. Il fatto di essere
ben introdotto nelle posizioni politiche locali, e poi nazionali, dipendeva dalla L’inadeguatezza
sua abilità nel possedere una combinazione di criteri di eleggibilità “tradizionali” della
correnti, una condizione non così insolita in molte società postcoloniali. Erano suddivisione tra
forse i legami patrilineari di Danieli e la sua idea di proprietà patrimoniale parte “vecchio” e
“nuovo”
della sua “cultura”, ma non lo erano anche la nuova struttura dello Stato in cui
450 SALLY FALK MOORE

ha agito e la nuova legislazione nazionale, con le idee e le pratiche che essa im-
plicava?

Dividere gli eventi sociali del lavoro sul campo e riporli in due comparti con-
cettuali rispettivamente identificati come “il vecchio” e “il nuovo”, non è certo il
modo per affrontare il problema temporale. Questa cernita sembra volerci dire
qualcosa sui criteri della sequenza. Ma l’effetto di tale classificazione è di nascon-
dere le connessioni e trattare il tempo semplicemente come un esercizio di cate-
gorizzazione dualistica (Comaroff 1984, pp. 571-583). Dal punto di vista del ma-
teriale del lavoro sul campo, l’approccio vecchio/nuovo smantella un complesso
di eventi contemporanei pieno di strategie contraddittorie, di idee e di attività, e
lo semplifica in due categorie seccamente definite che vengono in qualche modo
preconcepite e considerate entrambe essenziali. Una procedura come questa di-
strugge ogni prova che è possibile rinvenirvi una dinamica in atto. L’oggetto signi-
ficativo di un’analisi dinamica, invece, è stabilire in che modo una sequenza di
trasformazioni (o di ripetizioni) si produca nel tempo. Un eccesso di attenzione
alla polarità nuovo/vecchio può fortemente deformare il modo in cui tale questio-
ne viene formulata.
Un problema:
l’assenza di Ciò è tanto più vero nel caso in cui le fonti della storia locale siano inaccessi-
storia locale bili, e anche una parvenza di esotico viene considerata come indice di un’epoca
culturale. Dato che l’assenza di una storia locale non è così infrequente per le pic-
cole società studiate dagli antropologi, questo significa che un approccio proces-
suale è di conseguenza negato? La risposta è ovviamente “no”. Come si è già chia-
rito, un approccio processuale non è semplicemente una ricetta per avere un reso-
conto storico di cui “il presente del lavoro sul campo” figuri come il punto con-
clusivo. Un atteggiamento processuale nei confronti del problema del lavoro sul
campo non solo pensa il presente come un momento emergente, ma concepisce il
presente come tempo da cui emerge il momento successivo. L’attenzione è foca-
lizzata sullo svilupparsi degli eventi, sull’indagine ravvicinata del bagaglio di con-
tenuti che esso ha in sé, e di quel che in seguito viene portato via.
Riconcettualiz-
zare la cultura: L’antropologia non si è solo data l’illusione di una spiegazione totale, ma ha in
società realtà tratto notevoli profitti intellettuali dalle diverse filiazioni interne della pro-
composite, il spettiva “olista”. L’idea di una “cultura” condivisa come unità di studio, e dei
tutto e le parti,
ciò che è confini delle “culture” come tratti definitori delle unità sociali da analizzare sono
condiviso e ciò ancora, di conseguenza, gli ingredienti principali di molte teorie. Ma allo stesso
che non lo è modo in cui deve essere problematizzata l’idea della trasmissione della cultura di
generazione in generazione, così deve esserlo l’idea che la cultura sia una sorta di
totalità interamente “condivisa” come, ad esempio, nelle sommarie definizioni di
Rabinow e Sullivan, in cui della cultura si dice sempre che è determinata dai “si-
L’olismo e la
totalità
gnificati, le pratiche e i simboli condivisi che costituiscono il mondo umano”
culturale (1979, p. 6). A un primo sguardo sembra ineccepibile. Ma come la mettiamo con
condivisa le cose non condivise nelle entità sociali eterogenee o complesse? Le divisioni e le
esclusioni di classe e di occupazione all’interno delle società complesse sono or-
mai ben note (Bourdieu 1977, 1979; A. Cohen 1981). Il pluralismo culturale “et-
nico” e religioso sembrerebbe essere anche uno dei caratteri essenziali della mag-
Il pluralismo
culturale e le
gior parte dei paesi del mondo. Le migrazioni hanno anche “ri-pluralizzato” que-
migrazioni gli Stati-nazione d’Europa che un tempo pensavano di essere prossimi al raggiun-
gimento dell’omogeneità culturale. La questione del “condiviso” si riduce allora a
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 451

una questione relativa solo a quella unità sociale che è oggetto di discussione? E a
Gellner e la
quale tipo di unità sociale4? Naturalmente, il concetto di omogeneità culturale corrispondenza
non è solo euristico, utilizzato per l’analisi, ma ha anche delle implicazioni politi- fra standar-
che: è al centro di molte forme di politica “etnica”, locale e nazionale. I moderni dizzazione e
politici nazionalisti potrebbero consolarsi guardando il lavoro di alcuni antropo- Stato-nazione
logi secondo i quali l’uniformità culturale si identifica con il progresso organizza-
tivo di un governo e dei livelli tecnologici. Gellner, per citarne uno, ha sostenuto
che esiste una necessaria corrispondenza tra la presenza della standardizzazione
culturale e la realizzazione di un moderno Stato-nazione (1983). Che cosa ce ne
facciamo di una concezione che identifica la modernità con l’omogeneità in un’e-
poca in cui il pluralismo culturale all’interno di molti Stati del mondo è la norma,
piuttosto che l’eccezione? In che modo si possono combinare da un lato la forte
tendenza verso l’integrazione transnazionale implicita nello scambio dell’econo-
mia mondiale, l’enorme crescita in tempi recenti di organizzazioni transnazionali,
gli organismi comuni in continuo sviluppo prodotti da conoscenze e tecnologie
scientifiche condivise e dai sistemi di comunicazione di massa e dall’altro la si- La differenza
culturale come
multanea tendenza all’estremizzazione della pluralità dovuta all’affermazione, an- risorsa politica
che violenta, delle divisioni etniche, religiose e politiche? La differenza culturale
può essere sia una risorsa politica, sia un’entità culturale condivisa. E le entità
culturali comuni non escludono la possibilità che si profilino profonde divisioni
sociali. La congiunzione di queste diverse tendenze contraddittorie è di notevole
importanza per la maggior parte degli attuali lavori antropologici sul campo. Stu-
di locali compiuti con un occhio rivolto a tali questioni evidenziano il costituirsi
complesso di diversi e ampi “insiemi” sociali. Il lavoro etnografico sul campo può
contribuire a una comprensione di quanto strettamente o meno siano legate tra
loro le componenti di insiemi considerati su larga scala in quel particolare mo-
mento storico, e quale sia il potenziale per aumentarne la coerenza o per determi-
narvi frammentazioni esplosive.
Alcuni stili di lavoro antropologico, posti dinanzi a tali questioni, hanno fatto
marcia indietro: hanno semplicemente riportato i dati del lavoro sul campo di
L’importanza
scala minore, considerandoli “esperienza” locale, e lasciandola al proprio destino. della divisione
Come dice Ulf Hannerz, “la centralità dell’attore… può diventare un altro mezzo del sapere e
per evitare il confronto intellettuale con questioni di scala e di complessità”; egli della
si lamenta di quei “generi di scritti antropologici che selezionano porzioni etno- distribuzione
grafiche coerenti da un insieme sociale spesso vagamente definito” (1986, p. 365): sociale della
conoscenza
“una teoria culturale adeguata al compito di comprendere culture complesse deve
essere in grado di misurarsi con il fatto che la divisione del lavoro è in larga parte
una divisione del sapere, rendendo molto problematica la nozione di una cultura
condivisa per definizione” (Hannerz 1986, p. 363). Holy e Stuchlik (1983, p. 50)
sostengono, sulla stessa linea, che la distribuzione sociale della conoscenza

non è costituita dal fatto di essere organizzata come un sistema complessivo (ad es. la
cultura unificata), ma dal fatto che, sebbene la condivisione sia distribuita irregolar-
mente, vi sono continue catene di conoscenza condivisa sovrapposte tra i molti diffe-
renti gruppi componenti (gruppi caratterizzati, tra le altre cose, da un considerevol-
mente alto grado di conoscenza condivisa). Il concetto di condivisione rende possibile
riferire serie di nozioni a gruppi di individui, conservando la nozione di individualità
della conoscenza.
Dalla cultura
totalizzante alla
Fino a che punto questo suggerisce la possibilità di sostituire il concetto di conoscenza
“cultura” con quello di “conoscenza culturale”? Per molti il termine “cultura”, a culturale
452 SALLY FALK MOORE

causa della sua storia, implica insiemi di entità comuni di lunga durata, mentre
con l’idea di conoscenza è più facile problematizzare la questione su cosa sia con-
diviso e cosa non lo sia, e quanto la “conoscenza” possa essere effimera e di re-
cente acquisizione. Ma la “conoscenza” non coglie tutte le sfumature della “cultu-
ra”. Ovviamente, anche volendo, sarebbe impossibile cestinare il concetto di cul-
tura, perché è profondamente radicato nella storia delle idee e nella disciplina an-
tropologica. Ma certamente diventa sempre più ovvio che l’uso totalizzante della
idea di “cultura” e l’equiparazione di una cultura (che sia trasmessa di generazio-
ne in generazione) a una società, può essere un ostacolo che impedisce di vedere
l’importanza dei fattori temporali, della diversità individuale e categoriale e delle
giustapposizioni tra la dimensione locale e quella di più larga scala.

Le connessioni Esiste una lunga tradizione in antropologia che tenta di immaginare quell’invi-
all’“insieme” di sibile “insieme” di più ampia scala che si trova al di là del luogo di lavoro etno-
ampia scala al
di là del luogo
grafico. Tre approcci sono stati particolarmente importanti nel dare forma alla di-
di lavoro sciplina: uno ritiene che l’entità più ampia sia omogenea al campo culturale; un
etnografico altro immagina l’“insieme” come un’unità politica o regionale; e il terzo lo pensa
in termini di politica economica mondiale. In ogni caso il luogo di lavoro viene
connesso a una scena più ampia secondo una diversa modalità.

Tre approcci Dove l’estensione della cultura comune è il criterio per definire l’insieme, non
agli insiemi di è difficile incontrare il presupposto che la cultura registrata sul campo può essere
scala più ampia
generalizzata a una più vasta regione geografica o a una più ampia popolazione. Il
luogo del lavoro sul campo viene considerato tipico, un esempio di luoghi simili
in quell’area culturale. Nei casi in cui si assuma un atteggiamento più responsabi-
le, questo risultato allargato viene prodotto non solo da una immaginaria molti-
plicazione, ma mediante campionatura in una regione più vasta.

L’insieme come
Molte aree sono marcatamente eterogenee, e la diversità viene allora indivi-
estensione di duata nella concezione teorica dell’“insieme”: ad esempio, possono esserci un
una cultura paese o una città, così come un’area rurale, o un governo centrale, che domina su
comune diversi gruppi etnici. Se questo pluralismo culturale entra a fare parte dell’analisi,
il governo, che di fatto “contiene” il campo dell’analisi etnografica e ciò che gli
L’insieme come
sta attorno, sembra essere l’entità più ovvia da utilizzare come il più ampio e si-
unità politica gnificativo“insieme” delimitato. La “cultura” del luogo di lavoro è quindi conce-
eterogenea e pita come giustapposta o intrecciata a differenti sistemi culturali. L’“insieme” è
pluralista un composto complesso, con confini fisici politicamente definiti.

La terza versione dell’insieme, il modello dell’economia politica, è molto più


di un’astrazione teorica e considera come totalità rilevante il “sistema mondiale”.
L’insieme come Con questo approccio, la descrizione della scena del lavoro sul campo tende a en-
“sistema- fatizzare ovvi segni di connessione con l’economia mondiale, come le coltivazioni,
mondo” le migrazioni, il commercio, ecc. Dato che il raggio d’azione dell’economia mon-
diale non solo è considerevole ma anche dominante, nell’analisi la questione del
potere è regolarmente coinvolta. Nel lavoro sul campo svolto all’interno del para-
digma della politica economica, il centro dell’attenzione analitica è la penetrazio-
ne dell’economia mondiale nel luogo di lavoro. Nella maggior parte dei casi, la lo-
gica non può funzionare nella direzione opposta. Date le circostanze, insomma,
può sembrare inutile chiedersi “ma che genere di ‘insieme’ sarà mai questo con
questa marea di componenti?”. L’“insieme” così concepito è troppo vasto perché
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 453

se ne possa dare una descrizione che ne evidenzi almeno parte della forma com- L’eccessiva
plessiva, a partire da un singolo luogo di lavoro. Inoltre, sotto molti aspetti, il si- vastità
dell’insieme
stema mondiale non è abbastanza concreto per essere un’entità descrivibile, e
svolge più che altro il ruolo di grande postulato di causalità a lungo termine. Al-
cuni entusiasti vedono la speranza di un cambiamento teorico in direzione etno-
grafica. Marcus e Fischer così sostengono che “una scelta ovvia dell’economia po-
litica è quella di ricostruire alla base la comprensione dei sistemi macroeconomi-
ci” (1986, p. 153).

Queste tre versioni di ampia scala – culturale, politica, economica – hanno I difetti dei tre
tutte dei difetti. Uno dei principali obiettivi dell’antropologia è di raggiungere approcci su
una combinazione plausibile di queste prospettive. Se non riusciamo a ottenere vasta scala
questi risultati, i dati dello studio sul campo locale non avranno mai la portata e
l’impatto che dovrebbero avere. Il lavoro sul campo si ridurrebbe alla narrazione
di piccole storie di uomini.
Alcuni teorici delle società sono presi da problemi simili, sul rapporto tra am-
pia scala e scala ridotta. Così Habermas, ad esempio, ritiene che “il mondo della
vita” e “il sistema” siano ormai diventati sempre più slegati (1981, p. 103). Nella
sua schematizzazione, denaro e potere sono i “sistemi di manovra” che si immet- Habermas e lo
scollamento tra
tono nel mondo della vita, e ne distorcono l’integrazione sociale. Egli sottolinea “mondo della
come lo scollamento tra “il mondo della vita” e “il sistema” sia avvenuto contem- vita” e
poraneamente dal punto di vista empirico e da quello analitico, e che “il proble- “sistema”
ma fondamentale della teoria sociale sia come connettere in modo soddisfacente
le due strategie concettuali indicate dalle due nozioni di ‘sistema’ e di ‘mondo
della vita’” (1981, p. 151). I modelli totalizzanti stessi possono causare alcuni di
questi problemi di logica interna. Gli argomenti possono risultare meno difficili
quando sono affrontati come questioni empiriche, limitate, reali e temporalmente
specifiche.
Tutta la precedente discussione è stata condotta come se l’antropologia avesse La definizione
sotto controllo la definizione del proprio campo di ricerca. Ma l’antropologia del campo di
stessa è intrappolata nel proprio momento storico. “Nessuno dei contenuti analiz- ricerca
zati dalle scienze umane può rimanere stabile in se stesso o sfuggire alla dinamica
della Storia” (Foucault 1966, p. 310). Ben distinta dalla questione se ci siano limi-
ti concettuali inconsci così naturali da non esser per noi visibili, vi è anche la pre-
senza di seri problemi pratici, che sono invece perfettamente visibili. È un bene
per l’antropologia porsi l’obiettivo di studiare tutti gli aspetti della condizione I limiti allo
umana, poiché questa è una nobile ambizione. Ma non chiedersi se l’antropologia studio
prenda forma tanto da ciò che gli antropologi non possono studiare, quanto da etnografico
ciò che possono studiare, significa chiudere gli occhi davanti alla realtà. Oggi ci
sono molti luoghi violenti, in cui è troppo pericoloso fare ricerca sul campo; tut-
tavia ciò che sta accadendo è di grande importanza ai fini dell’analisi, vi sono altri
ambienti dove l’accesso viene rifiutato, e molti contesti in cui l’osservatore non
specialista, anche se ammesso, non può pienamente comprendere ciò che sta av-
venendo per carenza di conoscenze specializzate. Non possiamo farci illusioni
sulla miriade di limiti pratici che attualmente coinvolgono la scelta di un soggetto Scavare negli
di studio etnografico, e riducono l’ampiezza del materiale che può essere pubbli- eventi alla
ricerca di
cato, anche quando il contatto è stato ottenuto. sequenze
Ma nonostante le distorsioni della disciplina imposte da queste limitazioni processuali
pratiche, non dovrebbe esserci alcuna restrizione concettuale degli obiettivi della ampie
ricerca. Anzi, meno sono i luoghi a cui abbiamo accesso, più dobbiamo imparare
454 SALLY FALK MOORE

dall’osservazione compiuta al loro interno. Scavare negli eventi alla ricerca dei lo-
ro contenuti, una severa attenzione al significato delle congiunzioni e delle se-
quenze e un approccio processuale concettualmente ampio, possono rendere il la-
voro sul campo genuinamente esplorativo, e il presente comprensibile come storia
attuale.

1 Per precedenti analisi di questo argomento da parte dello stesso autore vedi Moore, 1978, 1986, 1987.
2 Fino a quando hanno tentato di manifestare ordine e coesione, i costruttori di sistemi hanno sviluppato un con-
sapevole programma politico che era il contrario di ciò che critici più recenti hanno ritenuto fosse il loro obiettivo in-
conscio: pensavano infatti di mostrare quanto fossero logiche le popolazioni native. I critici invece hanno sostenuto che
il modello della coesione culturale e della stasi giustificava di fatto la dominazione coloniale e le politiche di intervento
sistemico a esse associate.
3 Malinowski è rifiutato come teorico, ma Malinowski etnografo è ancora vivo. Cfr. Fardon (1990) per una vivace

discussione della resistenza intellettuale degli scritti etnografici opposta alla caducità della teoria in antropologia. In
questo volume di testi relativi ai fattori regionali negli scritti etnografici offre una interessante serie di commenti su un
dibattito in corso.
4 Da quando la situazione delle donne in società “semplici” è diventata un oggetto di studio più intensamente ana-

lizzato, è emerso con chiarezza che le divisioni culturali esistono anche fuori dalle società “complesse”.

Biografia intellettuale

Sally Falk Moore è professore di antropologia alla Harvard University, dove è


stata anche Dean della Graduate School dal 1985 al 1989. Insegna inoltre, regolar-
mente, “Approcci Antropologici al Diritto” alla Harvard Law School. Tra i suoi
libri Power and Property in Inca Peru (1938), Law as Process (1978), e Social Facts
and Fabrications: Customary Law on Kilimanjaro 1880-1980 (1986). È membro
della American Academy of Arts and Sciences ed è stata presidente della American
Ethnological Society e della Society for Political and Legal Anthropology.

Il mio sviluppo professionale è passato attraverso tre fasi principali: un primo


periodo come avvocato, seguito da alcuni anni in cui come giovane antropologa
(e giovane madre) svolgevo ricerche in biblioteca e pubblicavo, ma senza un inca-
rico professionale, e infine gli ultimi venti anni e più come africanista, teorica e
insegnante.
Alla Columbia Law School (1942-1945), sono stata profondamente influenza-
ta da Karl Llewellyn, e non tanto dalle sue incursioni in campo antropologico, ma
dal suo approccio alla legislazione americana. Due delle sue idee erano particolar-
mente importanti. Innanzitutto lo scetticismo nei confronti delle regole e delle
dottrine legali, la dimostrazione di come fossero generate tutte in coppia (o in se-
rie multiple), e di come avessero effetti differenti. Ne consegue che i giudici deci-
dono quali regole “usare,” che il giudice, e non la regola, determina la decisione.
L’ETNOGRAFIA DEL PRESENTE E L’ANALISI DEL PROCESSO 455

Un’altra sua convinzione fondamentale era che l’ambiente sociale in cui si stipula-
vano i contratti era parte del loro significato, vale a dire che il testo da solo non
poteva indicare tutte le conoscenze culturali e sociali in gioco tra le parti con-
traenti. L’immaginazione sociologica di Llewellyn e la sua irriverenza per le con-
cezioni del ragionamento giuridico allora ebbero su di me un impulso liberatorio.
Un anno trascorso a Wall Street ha contribuito a perfezionare la mia educazione
legale e sociologica. Ho appreso molte cose sul modo in cui il mondo degli affari
“operava”. Al termine del primo anno presi un anno di permesso per prestare
servizio tra il personale legale governativo al processo di Norimberga. Questa
esperienza mi ha scioccata e affascinata. Sia la natura del procedimento che la sto-
ria sociale dei processati approfondì il mio interesse, già intenso e ricco di passio-
ne, nei confronti della dimensione politica dell’azione sociale collettiva.
Fu dopo l’esperienza di Norimberga che mi interessai all’antropologia, inizial-
mente senza alcuna intenzione di diventare un’antropologa: semplicemente, desi-
deravo occuparmi per un anno dello studio comparativo delle società. Il mio sco-
po era quello di ampliare la mia conoscenza della causalità che regola l’agire col-
lettivo. Alla Columbia University subii l’influsso delle idee di un interessante
gruppo di docenti. Sebbene nessuno dei miei mentori si occupasse in modo parti-
colare dei problemi che mi interessavano, i docenti furono entusiasticamente in-
coraggianti. Fui particolarmente stimolata dal contatto con A.L. Kroeber, dalla
vastità della sua conoscenza e dalla sua apertura, anche in età avanzata, verso
nuove idee. Ho imparato molto dai miei insegnanti alla Columbia, e i loro interes-
si mi hanno certamente spinto a scrivere la mia dissertazione sul governo, la legge
e la proprietà negli inca del Perù. Comunque, in quel tempo fu il mio incontro in
biblioteca con le opere di Claude Lévi-Strauss ad avere il maggiore impatto teori-
co sul mio pensiero. Trovai inaccettabile il suo distacco analitico dal mondo del-
l’azione pratica e dalla storia, ma il modo in cui analizzava strutture di pensiero
stimolava e invitava a ulteriori indagini nel campo della ideologia e della retorica
della politica e del diritto.
Il mio primo bambino è nato nel 1952 e il secondo nel 1955; così non ho ini-
ziato a insegnare prima degli anni Sessanta, sebbene abbia continuato a scrivere e
a pubblicare. Il lavoro accademico di mio marito ci portò in Inghilterra nel 1954,
e ritornammo là più volte nei decenni successivi, per un totale di sette anni. Come
risultato, ebbi un buon numero di contatti con il mondo dell’antropologia sociale
britannica. Tali connessioni si rafforzarono molto dal momento in cui, nei primi
anni Sessanta, la mia famiglia si spostò a Los Angeles. Là mio marito entrò a fare
parte del dipartimento di storia della University of California, Los Angeles
(U.C.L.A.). E là incontrai Hilda Kuper, una sudafricana (che aveva studiato con
Malinowski) e M. G. Smith (un giamaicano, laureato a Londra, allo University
College), e diventammo presto tutti e tre buoni amici. The African Studies Center
di U.C.L.A. era in quel tempo un luogo di considerevole fermento intellettuale. La
fine del dominio coloniale aveva condotto a una radicale revisione della teoria e
della pratica antropologica in Africa. Sebbene insegnassi alla U.S.C., ho regolar-
mente frequentato i seminari tenuti all’U.C.L.A. Center e ho approfondito i miei le-
gami con molti antropologi britannici che venivano per partecipare alle attività
del centro, alcuni dei quali erano stati da me incontrati in precedenza. Hilda Ku-
per, Mike Smith e Max Gluckman, frequente visitatore di U.C.L.A., mi incoraggia-
rono insieme a intraprendere una ricerca sul campo in Africa. Iniziai nel 1968 sul
Kilimangiaro, e da allora sono tornata diverse volte. Gli interessi dei tre amici –
Kuper, Smith, e Gluckman – rispettivamente per la politica, la legge e la teoria e,
456 SALLY FALK MOORE

da questo punto di vista, le mie prospettive riguardo a queste materie non struttu-
rate e funzionali, fondate sul diritto e caratterizzate da un approccio storico, han-
no portato a molte ore di fruttuose discussioni e dibattiti. Per me, dalla fase bri-
tannica e da Los Angeles in poi, l’antropologia ha cessato di essere un’impresa so-
litaria perseguita in una biblioteca, ha ampliato gli obiettivi della mia vita profes-
sionale, diventata così più interessante. Naturalmente, da quanto ho detto, è chia-
ro come il mio interesse per “l’antropologia del presente” non costituisca un fatto
nuovo.
“Addio tristi tropi”: l’etnografia nel contesto storico del mondo moderno*
Marshall Sahlins

Il motivo per cui un antropologo studia la storia è che so-


lo tornando al passato, dopo aver osservato le strutture e
le trasformazioni, è possibile conoscere la natura della
struttura stessa
Bernard S. Cohn, Un antropologo tra gli storici e altri saggi

Nella confusione creata dalla nuova antropologia riflessiva, con la sua celebra-
zione dell’impossibilità di comprendere sistematicamente l’inafferabile Altro, più in
sordina si è sviluppato un altro tipo di scrittura etonografica, senza quasi che ce ne
accorgessimo, uno stile che senza dubbio non ha la stessa angoscia epistemologica. Un nuovo stile
Parlo dei numerosi lavori di etnografia storica il cui scopo è stato quello di sintetiz- di scrittura
zare il campo dell’esperienza di una comunità attraverso l’analisi del suo archivio etnografica:
d’eventi passati. Ormai da decenni, gli studiosi degli indiani d’America, dell’Indo- l’etnografia
storica
nesia e delle isole del Pacifico, dell’Asia meridionale e dell’Africa praticano questo
tipo di etno-storia. Ma solo alcuni – tra cui sono degni di nota Barney Cohn, Jean
Comaroff, John Comaroff, e Terry Turner – hanno costantemente ricordato come
un’etnografia strutturata sul tempo e sulla trasformazione è un modo diverso di co-
noscere l’oggetto antropologico, con la possibilità di cambiare il modo in cui la cul-
tura viene pensata.
Questo saggio è parte di un progetto di etnografia storica, considerato come
specifico genere antropologico. Soprattutto, vorrei fornire alcune giustificazioni Il
teoriche del ritorno allo studio di aree geografiche come il Nord America e la Poli- “declassamento”
antropologico
nesia, aree che sono state troppo a lungo trascurate dagli etnografi, sia dopo la lo- del Nordamerica
ro scoperta negli anni Trenta che, dagli anni Quaranta, quando hanno subito un e della Polinesia
forte processo di “acculturazione”. Queste persone sono state in grado di resistere
al loro declassamento antropologico, assumendosi la responsabilità culturale di ciò
che stava loro accadendo. Le varie modalità con cui le società si trasformano han-
no una loro autenticità, e la modernità globale si manifesta così, spesso, come di-
versità locale.

Il culturalismo: una sfida al moderno “sistema mondiale”


Quando ero uno studente di dottorato – il che risale all’era del paleolitico supe- La profezia
riore – i miei insegnanti stavano già annunciando la morte dell’etnografia. Sembra- marxiana del
Manifesto
va imminente il compimento della profezia di Marx, secondo cui il destino dell’uo-
mo era effetto dell’egemonia occidentale. Il Manifesto proclamava che grazie al ra-
pido sviluppo degli strumenti di produzione e di comunicazione la borghesia avreb-
be portato tutte le nazioni, “perfino le più selvagge”, alla “civiltà”.

I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le mura-
glie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo stranie-
ro. Essa constringe tutte le nazioni in via d’estinzione ad adottare le forme della produ-
zione borghesi se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddet-
ta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa crea un mondo a sua immagine e somi-
glianza (Marx, Engels 1848, p. 33).
458 MARSHALL SAHLINS

Questo argomento potrebbe effettivamente comunicare un senso di ineluttabili-


tà, dato che le conclusioni erano già contenute nella sua stessa premessa etnocentri-
ca. L’efficacia di quest’arma definitiva incarnata nei beni, presuppone già un sogget-
to borghese universale, un’egoista creatura del desiderio che agisce tenendo conto
La premessa solo dell’occasione di far fortuna. Eppure tale metafora appare ancora più ironica,
etnocentrica dato che la muraglia cinese ha mostrato di non essere poi così vulnerabile. Al con-
dell’argomenta-
zione: il trario, come segno dei limiti della “civilizzazione”, e quindi come limitazione alla
soggetto domanda e al passaggio dei beni, la muraglia assolve alla propria antica funzione,
borghese che (secondo Lattimore) è stata più quella di tenere rinchiusi i cinesi all’interno che
occidentale quella di fermare i “barbari” all’esterno. E anche quando i beni stranieri e i beni
“dei barbari” iniziarono a conquistare il mercato, la loro produzione locale e il loro
significato vennero presto sintetizzati. Il capitale occidentale e i beni prodotti in
Occidente, infatti, non si fanno strada solo grazie agli effetti che sono in grado di
raggiungere: basta alla loro penetrazione l’idea che riusciranno a raggiungerli. Que-
sto stesso ritornello sulla Cina è stato ripetuto ormai per tre secoli: tutti quei milio-
ni di compratori che aspettano la lana inglese, i tessuti di cotone, le posate d’ac-
ciaio, le navi e le armi, e di recente le jeep, i profumi e i televisori. Una versione mo-
derna della conquista dell’Eldorado, il sogno di conquistare la Cina con i prodotti
Teorie
occidentali, continua ancora, non fiaccato dalla continua sconfitta insita nei tentati-
sull’integrazione vi di farne una realtà. Ad eccezione del fatto che ora il tentativo di scoprire un pas-
in un universo saggio a nord-ovest verso il Catai sembra essere altrettanto frustrante di quello di
che si sgretola convertire le menti e i cuori degli asiatici. Leggiamo ad esempio una recente osser-
vazione tratta dal «New York Times»:

C’era un aspetto missionario in questo, con un quadro di dirigenti che profetizzavano un


enorme mercato di consumatori – “sapete, qualcosa come due milioni di ascelle che han-
no bisogno di un deodorante”, disse Matts Engstrom, presidente della California Sunshi-
ne Inc., una compagnia di beni alimentari che fa diversi affari in Cina. “Ma dopo l’even-
to di Piazza Tienanmen, hanno capito che è un progetto a lungo termine, e che comun-
que, se non sei nell’area giusta non ci riuscirai ugualmente”.

È paradossale che gli scienziati sociali occidentali elaborino teorie sull’integra-


zione globale proprio quando questo “nuovo ordine mondiale” si sta sgretolando
in tanti piccoli movimenti separati che marciano sotto le bandiere dell’autonomia
La culturale. Oppure, forse, queste rivendicazioni di “identità etnica” sono solo un
consapevolezza narcisismo determinato da differenze marginali – per adottare la caratterizzazione
culturale delle
vittime di
che Freud diede dei Balcani? Forse le richieste di indipendenza culturale sono so-
passati lo temporanee; alla lunga le forze egemoniche del sistema capitalista potranno
imperialismi prevalere su di esse. Eppure, come disse Durkheim riguardo a un’analoga previ-
sione, una scienza che ha a che fare col futuro non possieede una materia di cui
discutere.
La consapevolezza culturale che sta sorgendo tra le vittime dei passati impe-
rialismi è uno dei fenomeni più notevoli nella storia dell’ultima parte del ventesi-
mo secolo. La “cultura” – la parola stessa, o qualche equivalente locale – è sulla
bocca di tutti. I tibetani e gli hawaiani, gli ojibwa, i kwakiutl e gli eschimesi, i ka-
zakhi e i mongoli, i nativi australiani, i balinesi, gli abitanti del Kashmir e i maori
della Nuova Zelanda: tutti scoprono ora di avere una “cultura”. Per secoli, l’han-
no a malapena notato. Ma al giorno d’oggi, come ha detto quell’abitante della
Nuova Guinea all’antropologo, “Se non avessimo avuto kastom, saremmo stati
come l’uomo bianco”1.
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 459

Maurice Godelier racconta di persone istruite tra gli abitanti della Nuova Gui- I baruya e le
nea, i baruya – poliziotti, insegnanti e altri abitanti delle città – che vent’anni prima iniziazioni
avevano evitato le iniziazioni tribali, e che sono ritornati nel 1979 ai loro villaggi per tribali
colmare questa lacuna rituale:

E fu uno di loro a... spiegare pubblicamente a tutti gli uomini della tribù e ai nuovi ini-
ziati che le iniziazioni dovevano continuare perché c’era bisogno di forza per resistere al-
la vita di città e alla mancanza di lavoro e denaro; le persone dovevano difendersi in qual-
che modo. In mia presenza urlò, “Dobbiamo trovare la forza nei nostri usi tradizionali;
dobbiamo fondarci su quello che l’uomo bianco definisce come cultura”.

Nozioni reificate di differenze culturali, indicate da distinti costumi e tradizio-


ni, possono essere esistite, e lo sono di fatto, a prescindere da ogni presenza euro-
pea. Ciò che contraddistingue l’attuale “culturalismo” (lo si potrebbe definire co- Il
“culturalismo”
sì) è la rivendicazione di un personale modo di vivere come valore superiore e co- e il controllo
me diritto politico, proprio in opposizione alla presenza imperiale straniera. Più dei rapporti
che un’espressione di “identità etnica” – una normale nozione delle scienze sociali con la società
che riesce a impoverire il significato reale del movimento – questa consapevolezza dominante
culturale, come sottolinea Turner riguardo ai kayapo, implica il tentativo da parte
delle persone di controllare i propri rapporti con la società dominante, compresi i
mezzi tecnici e politici utilizzati fino a ora per farne delle vittime. L’impero colpi-
sce ancora. Stiamo assistendo a un generale moto spontaneo di sfida culturale, i
cui significati ed effetti storici devono ancora prodursi interamente.
Gli intellettuali occidentali sono stati troppo spesso inclini a cancellare i signifi-
cati culturali considerandoli banali, sulla base del fatto che le istanze di continuità
culturale erano false. Nell’attuale prospettiva accademica il cosiddetto revival è La cultura
una tipica “invenzione della tradizione” – sebbene ciò non presupponga nessuna “inventata”,
mancanza di rispetto nei confronti delle tradizioni maori o hawaiane, dato che tut- funzionale ma
inautentica
te le tradizioni sono “inventate” da e per gli scopi del presente. (Incidentalmente storicamente
questo disconoscimento funzionalista, mentre viene inteso come positivo nei con-
fronti dei popoli, ha l’effetto di cancellare le continuità logiche e ontologiche im-
plicate nei diversi modi in cui le società interpretano e rispondono alla congiuntu-
ra imperialista. Se la cultura deve essere concepita in costante cambiamento, per
timore di commettere il peccato mortale dell’essenzialismo, allora non può esistere
una cosa come l’identità, il buonsenso e, figuriamoci, la continuità). In ogni caso,
questa “cultura” maori o hawaiana non è storicamente autentica, perché è un valo-
re reificato e interessato, una pallida ideologia piuttosto che un modo di vivere,
che deve ancora la maggior parte del suo contenuto alle forze imperialiste piutto-
sto che a quelle indigene.
Senza volerlo, queste concezioni di antichi costumi si sviluppano fuori dell’espe- La “cultura”
rienza coloniale: una distintività etnica percepita dal punto di vista del vantaggio, se per i turisti
non da quello dello svantaggio, della cultura-del-dominio. All’aeroporto di Honolu-
lu, i visitatori vengono accolti da danzatori di hula che indossano gonnelline fatte
con foglie di plastica e che ondeggiano al suono di chitarre con le corde allentate
come unica espressione dello “spirito aloha”: esibiscono una cultura per i turisti
che viene poi ampiamente messa in vendita come merce nel magazzino aborigeno.
Furono proprio i missionari calvinisti americani – “i predicatori”, li chiamava Mark
Twain – con la loro ossessione della sessualità, a rendere emblematico l’essere ha-
waiano. E gli hawaiani, ora, non hanno altra immagine con cui presentarsi che quel-
la creata dagli altri per loro.
460 MARSHALL SAHLINS

In alternativa, si sostiene che i popoli indigeni acquisiscano una certa distanza


culturale solo quando sviluppano forme complementari o contrarie all’ordine colo-
La distanza niale. Uno storico (Nicholas Thomas) può allora trovare ascolto in quanto si fa in-
culturale come
opposizione al terprete della nuova teoria secondo la quale gli abitanti delle isole Fiji hanno solo
dominio recentemente, dall’inizio del ventesimo secolo, elaborato e oggettivato i loro noti
coloniale costumi di reciprocità generalizzata definiti kerekere, in parte accettando la defini-
zione coloniale di essere “organizzati in comunità” e – fatto ancora più importante,
– come una forma di reazione agli ancora più noti istinti commerciali dei bianchi.
Reificando la loro facilità nel prendere e dare merci, gli abitanti delle Fiji possono
rappresentarsi come generosi, in contrasto con l’interesse personale dei colonizzato-
ri. Ancora, un antropologo sostiene che il regno di Sukarta a Giava fu capace di so-
pravvivere sotto il dominio olandese spostando le proprie dimostrazioni di potere
dai fatidici ambiti della politica a innocui rituali di matrimonio.
Eppure, anche se queste argomentazioni erano accurate dal punto di vista storico,
La “tradizione”
come modalità
sarebbero comunque ancora insufficienti dal punto di vista culturale, dato che in con-
di testi coloniali simili gli abitanti delle isole Samoa non facevano il kerekere, né i balinesi
cambiamento si sposavano. Ritorno su questo punto ancora una volta: la “tradizione” spesso appare
culturale nella storia moderna come una modalità di cambiamento specificatamente culturale.
Lo scambio nelle Fiji o il kerekere sono anche un buon esempio di certa facile storio-
grafia, basata sul principio che “ci deve essere un uomo bianco dietro ad uno nero”
(come dice Dorothy Shineberg), di una “storiografia da élite”, nei termini di Guha,
che non tiene conto della cultura e delle azioni dei subalterni. Infatti i diari dei missio-
nari e dei commercianti dell’inzio del diciottesimo secolo non solo forniscono abbon-
danti prove che l’uso del kerekere fosse allora praticato in modo altrettanto cosciente
di quello in cui è descritto nelle etnografie moderne – il “mendicare” delle Fiji, come il
kerekere appare nei testi di storia, identificato da numerosi dizionari dei missionari che
risalgono nel tempo fino al 1839 –; questi documenti indicano anche dal punto di vista
storico cosa ci si doveva aspettare dal punto di vista logico: che il fallimento dei bian-
chi nel partecipare al kerekere conducesse gli abitanti delle Fiji a considerarli egoisti
(per la loro insistenza nel comprare e vendere) piuttosto che considerare se stessi gene-
rosi (per aver sviluppato la pratica del kerekere) in confronto all’egoismo dei bianchi.
Quindi, quando i missionari spiegavano di essere andati lì per amore degli abitanti del-
le Fiji e per salvarli, il capo obiettava che non poteva essere così:

“Venite qui e volete solo vendere e comprare, e noi odiamo comprare. Quando vi chie-
diamo una cosa dite di no. Se uno di noi dicesse no lo uccideremmo, sapete? Noi [di
Bau] siamo una terra di capi. Siamo ricchi... lo siamo senza mendicare. Odiamo compra-
re e odiamo il lotu [cristianesimo]”. Concluse questo discorso chiedendo un coltello per
uno dei suoi amici, che dopo tale conversazione pensai fosse meglio rifiutargli, nel modo
più rispettoso possibile (Lyth 1851, pp. 74-76).

La vera natura “Il mendicare”, osservò un commerciante americano, “è il peccato assillante di


del “mendicare
nelle Fiji” tutti loro: sia donne che uomini, non esitano a fare il fottuto Cery Cery – almeno
così lo chiamano”. “Il fottuto Cery Cery” fu la traduzione immortale che Warren
Osburn nel 1835 diede del kerekere vakaviti delle Fiji, il cui significato era “chiede-
re qualcosa al modo delle Fiji” – frase che prova anche come gli abitanti delle Figi
avessero reso oggettiva tale pratica qualche mese prima che i primi missionari arri-
vassero lì e qualche decennio prima che vi si fosse stabilita una colonia, sebbene
non prima di secoli di contatti e scambi con altre popolazioni di altre isole del Paci-
fico (Tonga, Rotuma e Uvea) (Osburn 1835, pp. 337-338).
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 461

Esiste anche una parte della storiografia che troppo spesso considera il “grande Il “grande
gioco” dell’imperialismo come l’unico da giocare. Assume che la storia sia stata gioco”
dell’imperia-
fatta dai colonizzatori, e che le sole cose che si debbono conoscere delle attitudini lismo: i
sociali delle popolazioni e della loro “soggettività” siano le forme di disciplina colonizzatori
esterne loro imposte: le politiche coloniali di classificazione, enumerazione, tassa- fanno la storia
zione, educazione, e le misure sanitarie. Alle popolazioni colonizzate non resta al- e i colonizzati
possono solo
tra forma di attività storica che fraintendere gli effetti di tale imperialismo, assu- fraintenderla
mendolo come propria tradizione culturale. Peggio ancora, la loro falsa consape-
volezza culturale si sta normalizzando. Nel nome di una pratica ancestrale, le po-
polazioni costruiscono una cultura essenzializzata: un’eredità che apparentemente
non muta, protetta da quelle trasformazioni proprie di una reale esistenza sociale.
Ripetono allora, come in una tragedia, gli errori sulla coerenza dei sistemi simboli-
ci che si suppone siano stati commessi da una generazione precedente e più inge-
nua di antropologi.
Più saggiamente, oggi, abbiamo scambiato l’ingenuità con la malinconia. Dopo Un’epoca di
il colonialismo, l’etnografia può solo contemplare la tristezza dei tropici (“i tristi malinconia e
tropici”). Come le baraccopoli arrugginite in cui vivono le persone, qua e là ci sono decostruzione
pezzi di strutture culturali, vecchie e nuove, riassemblate in forme alterate dall’im-
maginazione occidentale. Come si addice ai teorici della decostruzione postmoder-
na dell’“Altro”. Inoltre, i nuovi etnografi possono essere d’accordo con chi costrui-
sce sistemi, come James Clifford e Eric Wolf, basandosi sull’incoerenza delle cosid-
dette culture – e quindi con quella del concetto di cultura degli antropologi. Ma c’è
anche chi critica l’imperialismo: i postmoderni che lo biasimano per gli arroganti
progetti di totalizzazione etnografica, i sistematici per l’impossibilità empirica di
realizzarli. Non è forse vero che tutti questi ‘tristi tropi’ dell’egemonia occidentale e
dell’anarchia locale, del contrasto tra il potente sistema mondiale e l’incoerenza cul- Sistemi
turale delle popolazioni, non fanno che replicare sul piano accademico lo stesso im- dell’incoerenza e
perialismo che dicono di disprezzare? Attaccando l’integrità culturale e l’azione sto- critica
rica delle popolazioni periferiche, fanno in teoria proprio quello che l’imperialismo all’imperialismo
ha cercato di fare in pratica.
Tutti odiano la distruzione abbattutasi sulle popolazioni con la conquista plane-
taria del capitalismo. Ma appagando ciò che Stephen Grenblatt definisce come il
“pessimismo sentimentale” di chi vede sprofondare la propria vita all’interno di una
visione globale della dominazione, rendiamo tale conquista completa attraverso sot-
tili modalità ideologiche e intellettuali. Né si dovrebbe dimenticare che l’Occidente
deve il proprio senso di superiorità culturale a un’invenzione del passato così evi-
dente che i ‘nativi europei’ dovrebbero arrossire nel definire le altre popolazioni co-
me culturalmente contraffatte.

L’invenzione della tradizione in Europa


Nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo in Europa, diversi intellettuali e artisti
indigeni si riunirono e iniziarono a creare se stessi e le proprie tradizioni cercando
di far rivivere un’antica cultura che dichiaravano essere il prodotto dei loro antena-
ti, ma che non riuscivano a comprendere del tutto, dato che per secoli questa cultu- La creazione
delle tradizioni
ra era andata perduta e le sue lingue erano ormai dimenticate o trasformate. Anche in Europa nel
gli europei erano stati convertiti da secoli al cristianesimo; ma questo non impediva Quattrocento e
loro di invocare una restaurazione dell’eredità pagana. Avrebbero coltivato nuova- Cinquecento
mente le virtù classiche, e anche adorato gli dei pagani. Ciononostante, date le cir-
costanze – la notevole distanza degli intellettuali colti rispetto a un passato effettiva-
mente irrecuperabile – la loro nostalgia non era più la stessa: i testi e i monumenti
462 MARSHALL SAHLINS

che costruivano erano spesso solo copie epurate dei modelli classici. Creavano
un’autocosciente tradizione di canoni stabiliti e essenziali. Scrivevano la storia nello
stile di Livio, componevano versi in un latino manierato, tragedie al modo di Sene-
ca, e commedie nello stile di Terenzio; abbellivano le chiese cristiane con le facciate
Perché gli altri degli antichi templi classici e seguivano in generale i precetti dell’architettura roma-
popoli na forniti da Vitruvio, senza rendersi conto che tali precetti erano greci. Tutto que-
diventano sto venne definito all’interno della storia europea come Rinascimento, poiché aveva
“decadenti”
quando dato luogo alla nascita di una “civiltà moderna”.
anch’essi Cosa si può dire di più, se non che poche persone possiedono tutta la fortuna
reinventano le storica? Quando gli europei hanno inventato le loro tradizioni – con i turchi alle
proprie porte – è stata una spontanea rinascita culturale, l’inizio di un promettente futuro.
tradizioni?
Quando sono gli altri popoli a farlo, diventa un segno di decadenza culturale, una
fittizia ricostruzione, che può solo condurre a un simulacro del passato perduto.
D’altra parte, la lezione della storia potrebbe essere che non sempre tutto è perduto.

La hula hawaiana: non tutto è perduto


Le scuole di hula (halau hula) sono fiorite alle Hawaii a partire dagli anni Set-
tanta. Molte funzionano sotto il patronato di Laka, l’antica dea della hula, sono
condotte da insegnanti ispirati (kumu) e osservano vari rituali di preparazione e
rappresentazione. Le scuole di hula sono elementi significativi di ciò che alcuni par-
tecipanti amano definire “il rinascimento hawaiano”.
Non c’è nulla di essenzializzato: vi ritroviamo ogni sorta di differenza tra scuole
di stile, di musica e movimento, tra rituali e affermazioni su ciò che è moderno e ciò
che è “hawaiano”. Molte discussioni si incentrano sulle conseguenze derivanti dal-
l’opposizione alla cultura dell’haole (uomo bianco). Eppure la hula come segno del-
l’essere hawaiano, dell’indigeno, non è nata ieri e non è nemmeno un’invenzione
dell’associazione turistica hawaiana o degli interessi dei lascivi haole. La hula ha
funzionato come modalità di cooptazione culturale per più di centocinquant’anni –
un significato, comunque, che era già iscritto nei significati delle rappresentazioni
della hula prima che l’uomo bianco mettesse piede su queste isole. A questo riguar-
do, i primi visitatori haole, il capitano Cook e altri, vennero intrattenuti con nume-
La hula come rose e sensuali rappresentazioni di hula.
sistema di
cooptazione “Le giovani donne passano molto tempo cantando e ballando, cose che ama-
culturale no”, ha osservato David Samwell, poeta gallese minore e medico del Discovery,
durante il soggiorno di Cook alle isole Hawaii all’inizio del 1779. Il soggiorno di
Cook coincise con il Makahiki, la festa dell’annuale ritorno del dio originario e re
deposto Lono, che ritorna all’inizio dell’anno nuovo per rinvigorire la terra – o,
secondo un’altra metafora, per ripossedere la moglie e la terra sottrattegli da un
rivale emerso dal nulla. La visita di Lono era mediata ritualmente e celebrata dal
popolo con il ballo della hula, specialmente dalle sensuali danze delle giovani
donne. Naturalmente non tutta la hula hawaiana era di questo tipo, ma Samwell
registrò nel 1779 due canti hula a carattere amoroso. Le donne avrebbero così at-
tratto il dio – se la loro rappresentazione non avesse significato di fatto un matri-
monio sacro frazeriano. Ma poi, verso la fine del Makahiki, il sovrano regnante
offre in sacrificio Lono, rispedendolo indietro a Kahiki, la terra oltremare e fonte
ancestrale di vita: un allontanamento che trattiene i benefici del passaggio divino
per gli uomini.
La hula e la
funzione della
Umanizzandosi e appropriandosi dei poteri riproduttivi di Lono, la hula delle
sessualità donne esprime una funzione generale della loro sessualità, che è quella di mediare
femminile tali passaggi tra il dio e l’uomo – o in termini polinesiani, tra gli stati di tapu e di
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 463

noa (libero). Da qui l’ambiguità essenziale delle donne da un punto di vista teologi-
co: il loro potere di corrompere il dio corrisponde alle possibilità dell’umana esi-
stenza. Da qui deriva anche, come parte dell’umanità, il loro potere di sovversione
culturale. La nascita stessa era una forma della medesima capacità di portare il divi-
La hula come
no nel mondo umano, soprattutto la nascita di un erede reale. Di conseguenza, le forma di
nascite reali erano occasioni famose per la hula, così come lo erano gli arrivi e gli in- addomestica-
trattenimenti di nobili viaggiatori. E tutte le rappresentazioni di hula, inclusa l’an- mento del Dio
nuale seduzione di Lono, avevano la stessa finalità: l’addomesticamento del dio. Ma
bisogna sottolineare che dentro tale schema i valori particolari variavano dalla rein-
tegrazione di un re indigeno e benevolo (la tragica figura dello spossessato Lono),
alla neutralizzazione del re-straniero, la classica figura dell’usurpatore, di colui che
elimina Lono.
Ecco dunque la funzione storica della hula: la sua ricorrente comparsa durante i
due secoli di dominazione haole in difesa dell’antico regime, e in particolare del re
hawaiano i cui poteri erano stati in precedenza contestati da una santa alleanza di
pii convertiti e missionari puritani americani. Adattando l’etica protestante alla
proiezione dell’autorità hawaiana, i capi avevano imparato a condurre i loro interes-
si commerciali a scapito del re. Questa competizione tra i regnanti per la capacità
commerciale, basata su tradizionali concezioni del potere sacro e sulla creazione dei
legami con Kahiki, ha profondamente inasprito l’“impatto” del sistema mondiale
sulla cultura hawaiana.
Gli effetti storici del capitalismo non sono direttamente proporzionali alla sua Gli effetti
forza materiale, quasi si trattasse di un semplice fenomeno fisico. L’enorme debito storici del
ammassato dai capi è piuttosto una misura della forza data dai poteri di creazione capitalismo alle
Hawaii
del mana alle forze distruttive del capitale. I compratori e gli agenti stranieri del si-
stema mondiale assunsero la parte leggendaria degli “squali che arrivano sull’isola”,
stranieri rapaci provenienti da oltremare, e che hanno trasformato il re in una ver-
sione storica di Lono.
Per la stessa logica culturale, il periodo del ritorno di Lono, il Makahiki, fu tra-
sformato dai sostenitori reali in una festa di ribellione. Dopo decenni in cui non era
più stato celebrato nella forma dei consueti rituali di rinnovamento del mondo, la
stagione del Makahiki diventò un’occasione per improvvisare il recupero dei costu-
Il Makahiki
mi hawaiani che si espressero nella restaurazione del potere reale. diviene festa di
Attraverso tutto questo la hula, assieme a complementari pratiche di diverti- ribellione
mento, produsse una continuità di forma e contenuto. Certo, la hula rappresentò il
Makahiki solo nel 1820-1821, l’anno successivo alla famosa “rivoluzione religiosa”
che aveva abolito ogni genere di “idolatria” e quella cerimonia. Per molte settimane
tra dicembre e la fine di febbraio i missionari, che disapprovavano tali pratiche, rac-
contavano di persone che ballavano nei cortili di Honolulu “in onore del re”, Ka-
mehameha II, e davanti all’immagine del dio della hula (probabilmente Laka). L’ec-
citazione pareva essere il preludio a una serie di controrivoluzioni libertine che alla
fine del 1820 e all’inizio del 1830 esplodevano tutte in modo simile al tempo della
tradizionale cerimonia Makahiki, e suffragavano gli stessi sentimenti e pratiche nel- La ribellione
la causa politica del giovane re Kamehameha III. Oltre alla hula, vennero ripresi tut- del re
hawaiano
ti i vecchi giochi e divertimenti legati al Nuovo Anno, con effetti che venivano esal-
tati dalle generose libagioni di rum haole. Il re onorò la prima ribellione, nel 1827,
trascorrendo la notte con la sua sorellastra di parte paterna; nel 1834 ebbe un rap-
porto con la propria sorella davanti al gruppo di capi cristiani. Abolì tutte le inter-
dizioni calviniste sui rapporti sessuali, e chiamò a raccolta tutte le prostitute di Ho-
nolulu per corteggiare la sua amante del momento.
464 MARSHALL SAHLINS

La sessualità femminile venne nuovamente inserita nella lista dei principi dell’u-
manità: nel rendere le cose noa, come le concepivano gli hawaiani, poiché nel con-
La sessualità testo di tali eventi questo significava l’abolizione dei tabù cristiani e allo stesso tem-
femminile e po il ritorno dell’ordine hawaiano. Questo non era solo un mero gioco simbolico.
l’abolizione del La presa di possesso sessuale della terra da parte del re si trasformava a volte in
tabù cristiano
un’affermazione dei suoi diritti al regno, e più di una volta la sua opposizione car-
nevalesca ai capi cristiani divenne quasi un conflitto armato. Ma in ogni occasione
al re veniva chiesto di arrendersi. Alla fine, e per altri curiosi dettagli storici, egli eb-
be lo stesso destino del dio soppiantato.
Intorno al 1830 i religiosi cristiani misero al bando la hula, e dal 1851 venne te-
nuta a freno anche dalla legislazione. Comunque, scuole clandestine di hula conti-
nuarono a esistere nelle campagne, fino al momento in cui vennero nuovamente
La hula viene
aperte dai re. Dopo aver escluso gli stranieri, che non poterono assistere alla ceri-
bandita (ma monia, il re Kamehameha V nel 1866 lasciò che il popolo piangesse la morte della
resiste in forme sorella secondo gli antichi costumi, che includevano la hula. La hula venne favorita
clandestine) dai reali durante il regno tradizionalista di re Kalakaua (1871-1891). Kalakaua inco-
raggiò spettacolari rappresentazioni della hula alla sua incoronazione e per la cele-
brazione del suo cinquantesimo compleanno.
Dopo che le Hawaii furono annesse agli Stati Uniti, le funzioni della hula si divi-
sero tra un suo ‘addomesticamento’ commerciale per stranieri nel settore turistico,
e le scuole in provincia meno soggette a queste innovazioni moderne. La hula del-
l’attuale rinascimento hawaiano è una “invenzione” sviluppatasi soprattutto nelle
La hula attuale scuole di provincia. Ma non è semplicemente un’invenzione coloniale: un artefatto
“addomesticata”
occidentale dell’essere hawaiano o un artefatto hawaiano in risposta all’Occidente –
che certa storiografia coloniale, nella fretta di far passare gli etnografi come vittime
degli indigeni o viceversa, è stata prematuramente incline a scoprire.
Non che lo scopo dell’etnografia storica sia quello di dare salutari lezioni sulla
continuità culturale. Lo scopo più importante è di sintetizzare le forme e le funzio-
ni, le strutture e le variazioni, come processo culturale significativo che è il risultato
di uno specifico ordine culturale piuttosto che di una logica pratica eterna. Le fun-
zioni pratiche delle istituzioni appariranno sotto forma di relazioni significative tra
le forme costituite e i contesti storici: la modalità della hula e del festival Makahiki,
la hula e le sue traduzioni dal tapu al noa, il Makahiki e le sue reminescenze di una
sovranità perduta, venivano effettivamente contrapposte a una classe dominante
cristianizzata. In questo modo le popolazioni locali potevano includere il sistema
mondiale in qualcosa di ancor più inclusivo: il loro sistema del mondo.

Gli schemi culturali del capitalismo


Da parte sua, il sistema mondiale, come cultura, non è meno arbitrario. Solo la
familiarità con esso ci permette di sopportare la delusione per l’assenza di quell’or-
dine trasparente e disincantato, costruito singolarmente dalla nostra razionalità ma-
La doppia vita
delle forze teriale, dalla nostra disposizione umana alla “scelta razionale”.
materiali Comunque, le forze e le circostanze materiali spesso hanno una doppia vita all’in-
terno delle società umane; sono al tempo stesso fisiche e significative. Senza cessare di
essere oggettivamente irresistibili, esse sono dotate dei valori simbolici di un certo
ambito culturale; e in forma reciproca, senza cessare di essere simboliche, le categorie
e le relazioni culturali sono dotate di materialità. Nessun chimico, disse Marx una vol-
ta, ha mai situato il valore dell’oro nella sua composizione fisica. Eppure è per questo
valore simbolico che le caratteristiche oggettive dell’oro, così come la sua distribuzio-
ne naturale-geografica sulla terra, diventano fattori potenti nella storia mondiale.
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 465

A volte è necessario ricordarsi che il nostro falso discorso razionalista viene


pronunciato in un particolare dialetto culturale. Il capitalismo occidentale nella
sua totalità è veramente uno schema culturale esotico, bizzarro quanto ogni altro La bizzarria del
schema, e contrassegnato dalla classificazione della razionalità materiale all’inter- razionalismo
no di un vasto ordine di rapporti simbolici. Siamo, inoltre, eccessivamente dis- capitalista
tratti dall’apparente pragmatismo della produzione e del commercio. L’intera or-
ganizzazione culturale della nostra economia rimane invisibile, mistificata come la
razionalità pecuniaria da cui i suoi valori arbitrari sono realizzati. Tutte le idiozie
della vita moderna – dai walkman alle Reebok fino alle pellicce di visone e ai gio-
catori di baseball pagati fino a sette milioni di dollari l’anno, e i McDonald’s, e
Madonna e altre armi di distruzione di massa – tutto questo curioso schema cul-
turale appare nondimeno agli economisti come una serie di effetti trasparenti di
una saggezza pratica e universale. Eppure anche i produttori che stanno sostenen- Il feticismo
do questi gusti nell’astratto interesse del guadagno devono essere influenzati dal- delle merci e i
valori
l’ordine dei valori culturali, ovvero da cosa si vende. Il loro è un classico feticismo significativi
delle merci: i valori significativi sono intesi come valori economici. All’atto prati-
co, la mano invisibile del mercato economico funziona come una forma perversa
dell’astuzia della ragione di Hegel; è piuttosto un’astuzia della cultura, che, asse-
gnando un senso assoluto della razionalità a una logica relativa dei segni, introdu-
ce una (vera) età dell’oro della libertà simbolica.
Non deve quindi sorprendere se quando i prodotti occidentali tecnologica-
mente avanzati vengono venduti all’estero con successo, accanto agli esiti positivi
per la razionalità economica, la ragione pratica viene esposta a una certa sovver-
sione culturale.
Come direbbe Bachtin, i beni occidentali diventano gli oggetti di parole estra- Bachtin: i beni
nee. E non solo di parole, ma di un generale discorso estraneo. Nelle periferie occidentali
come oggetti di
planetarie i poteri del capitale sembrano essere forze di altri universi. Sebbene un discorso
possano trovarsi ai margini del sistema-mondo, le persone non sono (per adottare estraneo
un’immagine di Marx) individui isolati, dispersi qua e là nell’universo: sono esseri
sociali, coscienti di appartenere a uno specifico tipo sociale. Sono padri, cugini,
capi, membri di un clan dell’Orso, anziani, donne sposate, irochesi e tibetani:
persone che incarnano determinati rapporti di parentela, di genere sessuale, co-
munitari e d’autorità; rapporti che quindi implicano specifici doveri e obblighi,
amicizie e inimicizie; un modo di condurre la vita, allora, che si materializza in
modelli definiti di scambi e forme di benessere – dunque sono esseri umani che
operano all’interno delle nozioni cosmiche di potere, istinti quotidiani di morali-
tà, capacità selettive di percezione, modi di conoscenza relativi e un enorme amor
proprio. Non abbiamo a che fare con persone che non possiedono nulla e non so-
no nulla. La storia
Per dirla nei termini della semantica di Vološinov, le forme capitaliste in que- coloniale non
sti contesti alieni acquisiscono nuovi accenti locali. E qui almeno un riferimento coincide con la
al pensiero di Saussure risulta utile: i nuovi accenti sono anche valori posizionali, storia dei
colonizzatori
i cui rapporti differenziali con altre categorie dello schema indigeno costituiscono
una logica dei possibili effetti di “forze” intrusive. Si potrebbe riaffermare un ele-
mentare principio subalterno della storiografia: nessuna asserzione di una disci-
plina imperialista può essere compresa come evento della storia coloniale senza
un’analisi etnografica delle sue pratiche. Non possiamo mettere allo stesso livello
la storia coloniale e quella dei colonizzatori: bisogna ancora comprendere in che
modo le discipline dello stato coloniale vengono sabotate culturalmente.
466 MARSHALL SAHLINS

Il campo storico interculturale


Comunque, immaginare una semplice opposizione tra l’Occidente e il resto del
Contro le mondo è sotto molti aspetti una semplificazione. Le rappresentazioni della storia
visioni coloniale come prova di forza manichea tra le popolazioni indigene e le forze impe-
manichee rialiste, in cui si tratta di vedere quale delle due sarà capace di appropriarsi cultu-
ralmente dell’altra, non rendono affatto giustizia a quella storia.
Diversi antropologi – tra cui Bruce Trigger, Ann Stoller, John Comaroff e
Greg Dening – ci hanno insegnato a riconfigurare l’usuale opposizione binaria
come un campo storico triadico, che include una complessa zona interculturale
nella quale le differenze culturali entrano a fatica nella pratica politica ed econo-
mica: “la spiaggia”, come la definisce Dening – anche se potrebbe trattarsi della
piantagione o della città – dove i “nativi” e lo “straniero” giocano allo scoperto le
loro incomprensioni in linguaggi creoli. Qui si trovano complesse “strutture di
congiunzione”, quali le alleanze che attraversano i confini etnici e collegano le op-
posizioni interne alla società coloniale alle differenze politiche nell’ambito della
popolazione locale.
Pensiamo a quante volte le rivalità tra protestanti e cattolici sono state utilizzate
Le alleanze
interetniche
dai latino-americani e dagli abitanti delle isole del Pacifico per le loro dispute stori-
che. Ho già menzionato qualcosa di simile per le Hawaii. Un conflitto ricorrente tra
il re e i capi aristocratici, tradizionalmente avviatosi sotto forma di acquisizione del-
lo straniero con poteri divini, nel diciannovesimo secolo si unì alle invidie tra mer-
canti e missionari all’interno della comunità haole. Considerandosi i veri eredi del-
l’etica protestante, i mercanti competevano esplicitamente con i missionari per il
comando della missione civilizzatrice e per il controllo della devozione hawaiana
(che significava anche controllo del loro lavoro). Dato che i capi religiosi erano dal-
Il chiasmo la parte dei missionari, e il re da quella dei mercanti, si verificò un chiasmo intercul-
interculturale
hawaiano turale, una struttura che amplificava i conflitti tra gli hawaiani a causa delle diffe-
renze di interesse tra gli haole, e viceversa. Le energie di un’opposizione si sovrap-
ponevano alle ostilità dell’altra.
Un forte stimolo era dato dalla competizione per il potere tra eminenti perso-
nalità hawaiane, potere che si otteneva grazie all’invidioso accumulo di lussuose
merci straniere, soprattutto durante il prodigo periodo del commercio del legno
di sandalo per il mercato cantonese. “Manda articoli appariscenti”, scrisse un
mercante americano a Boston nel 1821, “qualsiasi cosa nuova ed elegante darà un
profitto; articoli di scarso valore non servono a nulla”. Anche se erano diventati
pii, i capi non impararono mai a mortificare la loro carne – il cui ammontare era
la testimonianza continua del favore delle antiche divinità: i governatori delle va-
rie isole pesavano più o meno 300 libbre. Eppure, anche se si erano spinti fino ai
loro limiti organici, i capi potevano metonimicamente arrivare alle terre lontane
nel cielo oltre l’orizzonte, fino alla Cina e all’Inghilterra, grazie all’importazione
di abiti alla moda e all’ostentazione dell’arredamento domestico. La Cina e l’In-
ghilterra avevano rimpiazzato l’antico Kahiki, terra degli dei, e la lucentezza delle
merci straniere evocava la brillantezza celeste degli antichi re. Fu questa l’origine
delle gonne aloha?
Assieme alle Naturalmente esistono rivendicazioni strettamente funzionali al mercato, adatta-
merci, sulla menti che possono penetrare in profondità all’interno della società indigena. E i si-
spiaggia delle
due culture si
gnificati, estranei agli atteggiamenti economici, arrivano sulla spiaggia assieme alle
incontrano merci straniere. D’altro canto, chi studia la storia del Pacifico è a volte sorpreso dal
significati modo in cui la famosa “penetrazione” capitalista può essere avvenuta: con uno sfor-
zo relativamente scarso, violenza e minaccia.
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 467

Culture e confini
Troppo spesso ne sono derivate malattia e distruzione, ma non furono questi fe-
nomeni a influire sul soddisfacimento dei desideri delle popolazioni locali, o sulla
disponibilità di forza lavoro per il commercio. Non che gli isolani (non più dei cine-
si) dessero modo agli occidentali di complimentarsi con se stessi per gli “effetti di-
mostrativi” delle loro merci di qualità chiaramente superiore, dato che le richieste
dei locali furono ben presto selettive piuttosto che eclettiche, e implicavano un cer-
to senso esotico dell’utilità. Ecco allora il fiorente commercio, nato nel diciannove- La “cultura”
simo secolo, di denti di balena alle Fiji, di coperte prodotte nella Baia di Hudson in un concetto
indeterminato?
America nord-occidentale, così come quello di seta cinese e tessuto inglese pettina-
to a doppia altezza alle Hawaii. Questo era un periodo di “sviluppo” indigeno, co-
me cercherò di dimostrare tra breve, in cui tutte queste merci straniere servivano ad
accrescere l’auto-consapevolezza dei nativi. Sarebbe quindi troppo facile conclude-
re dalla ricettività delle popolazioni che la “cultura delle Fiji” o la “cultura hawaia-
na” siano un concetto indeterminato, in quanto la cosiddetta cultura sembra man-
care di ogni confine, integrità o totalità.
Solo una breve parentesi sulla integrità o coerenza culturale, dato che quel che
ci interessa di più sono i confini. In effetti è poco probabile che udremo presto la
fine delle litanie poststrutturaliste sul carattere instabile e contestato della logica
culturale: su categorie e percezioni che sono diverse per uomini e donne, capi e cit- I limiti alla
tadini comuni, ricchi e poveri, questo e quel villaggio, ieri e oggi. Ciononostante, plurivocità
non tutto nel contesto viene contestato – il che prova ancora una volta che siamo etnografica
qui per parafrasare Durkheim, non per seppellirlo. Per quanto una monografia pos-
sa essere polifonica e plurivoca, non si può inserire una “voce” giapponese in un’et-
nografia degli indiani sioux.
Per poter contestare le categorie ci deve essere un sistema comune di intelligi-
bilità, che si estenda alle basi, ai mezzi, alle modalità e alle tematiche del disaccor-
do. Se già è difficile comprendere in che modo una società potrebbe funzionare,
figuriamoci allora ipotizzare i modi in cui la si potrebbe conoscere; naturalmente, La necessità di
se non vi fossero ordini significativi nelle differenze. Se riguardo a dati eventi o ritrovare ordini
significativi
fenomeni le donne della comunità dicono una cosa e gli uomini un’altra, non è nelle differenze
forse perché gli uomini e le donne hanno posizioni diverse a riguardo, e una di-
versa esperienza del medesimo universo sociale del discorso? Non sono le diffe-
renze in quello che dicono gli uomini e le donne espressione delle differenze so-
ciali nella costruzione del genere sessuale? Se così è, esiste un modo non contrad-
dittorio – o possiamo dire, una modalità totalizzante – di descrivere le contraddi-
zioni, un sistema delle e nelle differenze? Fine della parentesi: ritorno alla discus-
sione sui confini.
Credo che l’idea attuale secondo cui non vi è nulla che possa utilmente essere
chiamato “cultura”, nessuna entità reificata, dato che i limiti delle supposte “cultu-
re” sono indeterminati e permeabili, rappresenti una mancanza di limiti che è indi-
zio ancora di un’assenza di sistema. Paradossalmente, proprio la tesi dell’indeter-
La tesi della
minazione della cultura non è in grado di dare una corretta interpretazione di un indeterminazione
potere culturale di inclusione come l’incapacità di mantenere un confine. Si fonda non spiega la
infatti su una sottovalutazione dello scopo e della natura sistematica delle culture, capacità di
che sono sempre universali e dunque capaci di classificare oggetti e persone estra- inclusione della
nee in rapporti logici e coerenti. Per quanto si tratti di imperialismo occidentale – cultura e ne
sottovaluta la
la sola cultura che non è stata decostruita dal mutamento delle avanguardie intel- sistematicità
lettuali e politiche, e conserva la sua consistenza monolitica ed essenzialista come
sistema di potere – per le popolazioni locali l’europeo non è mai del tutto stranie-
468 MARSHALL SAHLINS

ro. Come dice Marilyn Strathern della Melanesia: “È stata una bella sorpresa per
gli europei rendersi conto che il loro arrivo non è stata una sorpresa”.
Gli occidentali non possiedono il monopolio sulla prassi della comprensione
Ogni cultura è culturale, né stanno sfidando al gioco di “costruire l’altro” dei novellini. Ogni socie-
un ordine tà con una storia è una società globale, ogni cultura è un ordine cosmologico. E in-
cosmologico cludendo l’universo all’interno del loro stesso schema culturale – come i maori o i
nativi australiani includono l’ordine della natura in quello della parentela – le per-
sone accordano agli esseri e alle cose al di fuori della loro comunità più prossima un
posto definito nel riprodursi della comunità stessa.
Divinità o nemici, antenati o congiunti, gli “altri” sono in modi diversi la condi-
zione necessaria dell’esistenza di una società. Fonte di potere e di beni culturali po-
sitivi, sebbene possano essere pericolosi, questi esseri dell’aldilà rappresentano una
Gli “altri”
categoria di dipendenza in cui tutti si riconoscono. Tutti devono costruire la loro
come esistenza in rapporto alle condizioni esterne, naturali e sociali, che non hanno crea-
condizione to, che non possono controllare e nemmeno evitare. Sono vincolati in qualche mo-
necessaria di do, se non in un unico modo, al passaggio delle stagioni, alla pioggia annuale, ai co-
esistenza in una stumi e alle azioni dei loro vicini. Da questo punto di vista, nessuna cultura è sui ge-
società
neris. E una più o meno autocosciente fabbricazione della cultura in risposta alle
imperiose “pressioni” esterne è un processo normale – dialettico, che determina
scissioni forse, ma non patogeno. La diversità delle culture umane, sottolinea Lévi-
Strauss, “dipende meno dall’isolamento dei vari gruppi che dai loro rapporti”.

La continuità culturale come modalità del cambiamento culturale


Differenze nei modi dell’invenzione e della riproduzione culturale appaiono con
La l’instaurarsi dello stato coloniale. È interessante che per molte popolazioni coloniz-
“dominazione” zate sia questo momento di dominazione, questa assunzione di uno stato di subal-
come ternità, a ricevere un più netto contrassegno nella coscienza storica, piuttosto che la
spartiacque dei
colonizzati e la prima apparizione dell’uomo bianco nel periodo di “contatto”. Per gli europei, na-
visione europea turalmente, la grande spaccatura nella storia del resto del mondo è iniziata dopo la
loro comparsa in quei luoghi; un’epifania che si suppone abbia prodotto un cam-
biamento nella qualità del tempo storico. Secondo estreme posizioni (ma non rare),
non stava succedendo nulla prima della “scoperta” europea (in luoghi che erano
abitati da millenni), solo una statica riproduzione di forme “tradizionali”; mentre,
dal momento in cui il primo esploratore occidentale vi è giunto, la storia di queste
popolazioni è diventata evenemenziale; e contraffatta dalla cultura straniera. Eppu-
re gli abitanti delle Fiji, così come molti altri popoli colonizzati, intendono la spac-
catura storica in modo diverso: “prima della bandiera” e “dopo la bandiera”, dico-
no, riferendosi allo stabilirsi del dominio britannico. Questo è l’a.C. e d.C. della lo-
ro storia, “Prima della Colonizzazione” e “Dopo la Dominazione”, e questo implica
un significato diverso delle qualità culturali di tempo e cambiamento.
“Prima” era il periodo in cui essi esercitavano un controllo culturale. I beni oc-
cidentali e perfino gli individui potevano essere considerati parte dei loro progetti
L’epoca del di “sviluppo”. L’opulenza straniera soccorreva ed era complementare ai loro schemi
Develop-man e culturali: il potere sovrano alle Hawaii, le feste cerimoniali in Ponape e nelle monta-
l’invasione gne della Nuova Guinea, la caccia e la guerra nelle pianure americane, il rito del
economica potlatch nella costa nord-orientale. Questo aiuta a spiegare perché alcuni oggetti di
occidentale
provenienza europea – non solo i cavalli, il tabacco, i coltelli e perfino la cristianità
– sono ancora percepiti localmente come cultura “tradizionale”. Si riferiscono a
un’epoca che può essere definita “develop-man” (sviluppo-uomo). “Develop-man”
è una parola che ho udito in una conversazione tra due abitanti della Nuova Gui-
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 469

nea, quando uno di loro inserì la parola inglese ‘sviluppo’ (development) in una fra-
se neo-melanesiana (in pidgin): per me suonava come “develop man”, un errore da
parte mia che sembrava esprimere il vero e originario rapporto intercorso fra molti
abitanti delle isole del Pacifico e l’invadente economia occidentale. Tale termine
riesce a cogliere una modalità nativa di trattare con il capitalismo, un momento di
passaggio che in certi luoghi è riuscito a sopravvivere per più di cento anni.
Il primo impulso commerciale delle popolazioni non è quello di diventare come
noi, ma di essere ancor più se stessi: rovesciano l’uso delle merci straniere e lo pon- Lo sviluppo
gono al servizio di idee domestiche, sino all’oggettivazione dei loro stessi rapporti e come
delle concezioni di cosa sia una “bella vita”. Condotti nell’orbita del sistema capita- continuazione
lista mondiale – questa crociata globale della razionalità economica – gli abitanti della cultura in
scala maggiore
delle montagne della Nuova Guinea hanno dimostrato di esser veloci nell’appren-
dere le capacità commerciali – che hanno utilizzato per mettere in scena le più stra-
vaganti cerimonie “tradizionali” che si possano ricordare. Più carne è stata mangia-
ta e più conchiglie di perle scambiate in queste recenti feste di quanto fosse mai sta-
to fatto nei bei tempi antichi, per non parlare della libera assimilazione di novità co-
me la birra e la carne in scatola. Lasciamo che i burocrati neocoloniali o gli econo-
misti dello sviluppo si lamentino come vogliono, questo non è né “spreco” né “arre-
tratezza”. È piuttosto sviluppo, dalla prospettiva delle persone coinvolte: la loro
stessa cultura in scala maggiore. “Sapete cosa intendiamo noi per sviluppo?” disse
un capo dei kewa a un etnografo. “Intendiamo il continuare la nostra stirpe, co-
struire le nostre case, uccidere i maiali. Ecco quello che abbiamo fatto”.
Naturalmente sotto il dominio di uno Stato coloniale che agisce sulla popolazio-
ne dominata con tecniche che uniscono disciplina, repressione e persuasione, le L’umiliazione e
condizioni della riproduzione culturale di tali popoli sono radicalmente mutate in l’acculturazione
peggio. È un periodo di umiliazioni, dove la prosaicità politica ed economica della forzata degli
hawaiani
dominazione è spesso accompagnata da una prosa poetica cristiana di degradazione
umana. I missionari americani lamentavano spesso il problema che gli hawaiani
mancassero di un sufficiente disprezzo di sé. Mangiavano, ridevano e facevano ses-
so in continuazione, senza mai lavorare troppo, gli abitanti non riuscivano a capire
quanto fossero corrotti. L’intera cosmologia giudeo-cristiana della condizione uma-
na, di una natura umana corrotta dal peccato, di una vita di punizioni, questo inte-
ro sistema di odio verso noi stessi doveva essere loro trasmesso – “il furioso, vendi-
cativo odio per la vita”, come disse Nietzsche, “un’avversione per la vita stessa”.
Solo allora, quando sarebbero stati sufficientemente disgustati da loro stessi sareb-
bero stati pronti a diventare come noi, “civilizzati”.
In molte zone del mondo, comunque, il progetto culturale universale dell’Occi- Dominazione
senza egemonia
dente non ha avuto successo. Il periodo di subalternità è una “dominazione senza
egemonia” – come dice Guha riferendosi all’Asia meridionale – contrassegnata dai
compromessi fra lo Stato coloniale e il particolarismo culturale delle popolazioni lo-
cali, che altrimenti non potevano essere governate. Nella dominazione senza ege-
monia, scrive Guha, “la vita della società civile non può mai essere completamente
assorbita nell’attività dello stato”. Il regime coloniale è “doppiamente alienato” dal- La duplice
le popolazioni native, sia in quanto straniero, sia in quanto Stato: è “un’assoluta alienazione del
esteriorità”. I colonizzati si adattano alle imposizioni attraverso permutazioni moti- regime
vate delle loro tradizioni culturali: donde la sublimazione della guerra nello scam- coloniale
bio cerimoniale, o i cosiddetti ‘culti del cargo’ che reinterpretano l’esperienza colo-
niale in una teoria nativa dei poteri ancestrali – per citare alcuni noti esempi oceani-
ci. Alla fine, l’umiliazione delle popolazioni è un’arma a doppio taglio, che si rivol-
ge contro il dominio straniero, come nell’attuale “culturalismo” o “invenzione della
470 MARSHALL SAHLINS

tradizione”. “L’espressione di cultura... non è solo prova di identità ma anche di di-


gnità”: sono parole del martire Amilcar Cabral.
E in che altro modo i nativi possono elaborare una risposta a ciò che è stato loro
inflitto, se non rivisitando la propria eredità, e comportandosi secondo le proprie
categorie, le proprie logiche e conoscenze? Dico “elaborare”, perché può non trat-
Tradizionalismo
senza arcaismo tarsi di una risposta improvvisata, qualcosa di mai visto o mai immaginato, anche se
non sarà certo un ripetersi irriflesso di antichi costumi. La “tradizione” funziona
qui come parametro mediante cui le persone misurano l’accettabilità del cambia-
mento, come mette in evidenza Lamont Lindstrom parlando degli abitanti delle iso-
le Tanna. La continuità culturale, dunque, appare nei modi di cambiamento cultu-
rale e al tempo stesso si identifica con essi. Le innovazioni nascono di conseguenza
– sebbene non in modo spontaneo, e da questo punto di vista non necessariamente
– dagli stessi principi che garantiscono l’esistenza di queste popolazioni. Un tradi-
zionalismo senza arcaismo. Allan Hanson riporta una conversazione con un anziano
tahitiano, un “mammuth” che “era riuscito abbastanza bene a combinare i valori
indigeni con l’influenza francese”. Sprofondando in una poltrona dopo un’eccellen-
te cena, indicando l’ampio spazio che il frigorifero occupava nella sua sala da pran-
zo, sorrise radiosamente a Hanson e disse “Il ma’a [cibo] nel frigorifero – ecco la
vita tahitiana!”

Una cultura mondiale fatta di culture


Bisogna sottolineare che per le popolazioni considerate il sincretismo non è in
contraddizione col culturalismo – con la rivendicazione nativa di autenticità e auto-
Sincretismo e
culturalismo nomia – ma ne è la condizione essenziale: la prima cosa è ovviamente sopravvivere.
Questa è la politica. Eppure il movimento non prevede quasi mai un utopico ritor-
no all’epoca primordiale e alle forme culturali ancestrali. La cultura tradizionale
possiede valori ritenuti superiori, ma i frigoriferi, i fuoribordo e i televisori non ne
fanno parte. Il culturalismo moderno esige che tutti posseggano tali oggetti, o più
precisamente che ci siano dappertutto oggetti domestici. I difensori dell’ordine na-
tivo sono pronti a scendere a utili compromessi con la cultura dominante, utilizzan-
do anche le sue tecniche e i suoi ideali – proprio mentre contribuiscono a distingue-
La formazione
re da quella i propri ideali. Gli hawaiani, gli abitanti dell’Amazzonia o i nativi au-
di un sistema straliani sostengono di essere i più grandi ecologisti al mondo, i veri protettori della
di culture terra (la Madre). Ma non stanno forse comportandosi come critici delegati dalla so-
mondiali cietà occidentale, ingannando e annullando loro stessi nel mistificare valori occi-
dentali come culture native? Questa non sembra essere la corretta interpretazione,
anche se si dà per scontata una peculiare ambiguità del movimento culturale mo-
derno – ciò che da una parte può essere letto come una resistenza politica, dall’altra
può essere interpretato come un tradimento ideologico. Sto cercando di andare ol-
tre, di uscire dalla mischia, dato che a quanto pare le politiche locali diventano
mezzi e espressioni di un più ampio processo di trasformazione strutturale: la for-
mazione di un sistema di culture mondiali, una Cultura delle culture – con tutte le
caratteristiche di una struttura delle differenze.
Assimilazione e In fin dei conti, in ogni settore locale del sistema globale la trasformazione assu-
differenziazione me il doppio aspetto di assimilazione e differenziazione. Le popolazioni locali si av-
vicinano all’ordine culturale dominante anche se ne prendono le distanze, ballano
al ritmo della musica mondiale mentre suonano la loro musica. Ciò giustifica la po-
sizione di Michael Greyer, secondo cui la similarità e la differenza si sviluppano
congiuntamente nella storia del mondo moderno, un’osservazione che potrebbe es-
sere confrontata alla posizione di Terry Turner nei riguardi del dualismo culturale
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 471

dei kayapo, che considerano il corpo, il villaggio e la società come un tutt’uno –


cioè li vedono, a ogni livello, brasiliani dall’esterno, e indiani dall’interno.
È interessante notare che coloro che in passato hanno studiato il fenomeno oggi
definito come “inversione culturale” – la predisposizione in virtù della quale popoli
in stretto contatto fra loro sviluppano i tratti contrastivi delle rispettive tradizioni –
lo hanno considerato sia come inversione culturale che come equilibrio strutturale. L’inversione
Questo ci fa tornare in mente che in origine Gregory Bateson aveva definito le “schi- culturale e
smogenesi complementari” come un fenomeno di acculturazione. E in Naven riten- l’organizzazione
delle differenze
ne che tali processi di mutua differenziazione sono generalmente limitati o neutraliz- in sistema
zati, pena la separazione totale e la potenziale distruzione. Naturalmente questa è l’i-
dea generale di come le strutture viaggino e siano trasformate, presente nei Mytholo-
giques di Lévi-Strauss. Anche in questo caso le opposizioni tra popoli in contatto
vengono bilanciate da somiglianze, dato che ognuno cerca di essere altrettanto capa-
ce dell’altro, anzi meglio dell’altro, quindi uguale e allo stesso tempo diverso da lui.
“Tutto funziona come se, sul piano delle convinzioni e delle pratiche, i Mandan o gli
Hidatsa fossero riusciti ad organizzare le loro differenze in un sistema”, scrisse Lévi-
Strauss in un notissimo saggio sui rapporti tra miti e riti di popolazioni limitrofe. I
miti stessi parlano della saggezza dei vicini tribali che sono abbastanza lontani da re-
stare indipendenti, ma al tempo stesso abbastanza vicini da essere interdipendenti.
Naturalmente, alla luce dell’attuale discorso teorico e morale di dominazione e
sottomissione, dissotterrare pittoresche vestigia quali l’“equilibrio strutturale” o la
“complementarietà strutturale” può apparire irresponsabile, se non politicamente
La tattica
perverso. Forse è meglio ignorare la conoscenza antropologica accumulatasi in pas- poststrutturale
sato: ecco la diffusissima tattica nota come “poststrutturalismo”.
D’altra parte, i tradizionalisti ci ricordano che una politica della cultura è un
processo strutturale. Piuttosto che come tentativi di rovesciare il sistema mondiale
– ormai dato di fatto irreversibile della loro esistenza – le invenzioni e le inversioni
della tradizione delle popolazioni locali possono essere interpretate come tentativi
di creare un diverso spazio culturale all’interno di quel sistema. E le azioni, che so-
no al tempo stesso un aspetto dell’essere indigeno e della modernizzazione, appaio-
no strutturali piuttosto che false.
Roger Keesing e altri sostengono che i leader dei moderni movimenti di rinno-
vamento culturale sono spesso persone colte, e hanno successo in quel mondo com-
merciale di cui ripudiano i valori. Non molto tempo fa ho trascorso una giornata
Il caso
con uno di loro nelle montagne della zona centro-meridionale di Taiwan; era un ar- dell’intellettuale
tista di quella popolazione dell’Oceania nota con il nome di paiwan, organizzatore di Taiwan
di un revival estetico che è, secondo lui, il tramite per un più ampio progetto di re-
staurazione culturale. Quando gli ho domandato per quale motivo volesse ritornare
alle tradizioni paiwan, mi rispose con una critica al materialismo e all’individuali-
smo moderno, una critica simile a quelle che si possono udire in molti paesi del Ter-
zo Mondo: “una vita trascorsa pensando al denaro è una vita inumana, a paragone
con la cultura paiwan”. Disse tutto questo mentre mangiava una bistecca in un ri-
storante occidentale, nella città cinese di Ping Dong, e il ristorante era una specie di
club di cui era socio, dove lui e la sua giovane moglie cinese ci condussero partendo L’assimilazione
dalle montagne su una jeep che aveva appena comprato – grazie ai guadagni dei della cultura
suoi negozi, dove vende i suoi lavori e altri prodotti etnici, inclusi tessuti che pro- dominante
come mezzo
vengono dall’Indonesia e dall’India. Eppure non c’era nulla di cinico in quest’uo- per sostenere
mo, al contrario; e come ogni altra cosa che ha fatto, il suo muoversi tra le culture una differenza
era elegante, piuttosto che incongruo. Ma allora, chi è in posizione migliore per me-
diare un rapporto interculturale? Come l’ecologista polinesiano e il capo amazzoni-
472 MARSHALL SAHLINS

co trasformatosi in un operatore video in rappresentanza del Brasilian Indian Servi-


ce, l’artista paiwan non fa forse dell’assimilazione della cultura dominante il mezzo
per sostenere una differenza?
Se tutto questo ha senso, se il mondo della Cultura sta diventando il mondo del-
le culture, allora ciò che deve essere studiato etnograficamente è l’indigenizzazione
della modernità – attraverso il tempo, e in tutti i suoi dialettici alti e bassi, dall’ini-
ziale ‘develop-man’ all’ultima invenzione della tradizione. Il capitalismo occidentale
è planetario quanto al proprio campo d’azione, ma non è una logica universale del
cambiamento culturale; in ogni caso, noi stessi siamo stati dominati eccessivamente
– da un punto di vista storiografico ed etnografico – dalle sue rivendicazioni impe-
rialiste. L’ordine del giorno è ora vedere come sia assunto e trasformato in culture
diverse.

Figi: l’indigenizzazione della modernità


I primi cinquant’anni di sviluppo dell’uomo (del develop-man) capitalista alle
Figi, più o meno dal 1800 al 1850, hanno visto la comparsa del cannibalismo a livel-
li senza precedenti, confermando in questo modo un incubo totemico che ha popo-
Il capitalismo lato l’immaginario occidentale almeno fin da quando sant’Agostino lo ha espresso:
alle Figi:
guerra,
se la venalità umana viene lasciata libera, il pesce più grande mangerà quello più
cannibalismo e piccolo. Ma i moderni venditori ambulanti del sistema-mondo hanno dato troppo
nascita dello credito al commercio dei moschetti europei in cambio di legno di sandalo locale e
Stato bêche-de-mer (cetriolo di mare): è la ragione degli sviluppi nell’arte della guerra,
nel cannibalismo e nella formazione dello Stato delle Fiji nel corso del diciannovesi-
mo secolo.
Si è detto che la potenza di fuoco del moschetto e le necessità lavorative legate
al commercio del cetriolo di mare hanno fatto la fortuna politica dei regni di Bau,
Rewa e di altri come loro. Eppure la struttura storica di questi potenti stati si era
già sviluppata prima che gli europei arrivassero in quei luoghi, come gran parte del
loro potere di dominio – certamente molto prima che il commercio del cetriolo di
mare, avviato nel 1830, introducesse un discreto numero di moschetti nelle guerre
Il ruolo dei delle Fiji. Senza dubbio fu il controllo del commercio occidentale da parte di Bau
moschetti e Rewa a esser dovuto al loro dominio sugli altri indigeni e non il contrario, dato
europei e che nel territorio dei due regni mancavano quasi del tutto le risorse di legno di
quello dei capi sandalo o cetriolo di mare. E i moschetti ottenuti per le guerre non furono nem-
indigeni
meno un elemento decisivo. Come è noto essi spesso non sparavano a causa del
caldo clima tropicale, e vennero presto neutralizzati da cambiamenti nelle fortifica-
zioni; in ogni caso, poi non erano utilizzati dagli abitanti delle isole con precisione
ed efficienza: i missionari raccontavano che i moschetti andavano armati con una
carica pari al peso dell’uomo che si sarebbe voluto uccidere – quindi più grande
era il bersaglio, maggiori le possibilità che il moschetto scoppiasse loro tra le mani.
I moschetti furono più utili nel momento in cui, all’incirca tra 1808 e il 1825, fini-
rono in mano ai disertori del Botany Bay e del Manila, che furono arruolati tra le
file degli eserciti dei capi nativi. I mercenari erano in grado di distinguere i capi
nemici e gli eroi di guerra (qoqa), e ne facevano il loro bersaglio: capi la cui perdi-
ta poteva lasciare un intero esercito allo sbando e alla mercé di un massacro gene-
rale – con i nativi delle Fiji che venivano dietro gli stranieri armati di archi, spade e
bastoni. Non furono quindi i moschetti europei a determinare storicamente la po-
tenza dei capi, quanto piuttosto i capi a trasformare i moschetti in oggetti impor-
tanti dal punto di vista storico. A causa dell’organizzazione della società delle Fiji,
per molto tempo la potenza di fuoco presente nelle isole fu minima: ciò in seguito
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 473

ai principi gerarchici delle Fiji, un sistema in cui il capo era colui che rendeva pos-
sibile l’esistenza sociale del proprio popolo. Il colpo giusto, e tutto sarebbe finito. Il commercio
dei denti di
Non furono nemmeno gli stranieri a sparare, relitti dell’imperialismo occidentale, balena
e responsabili delle forme politiche e delle ambizioni belliche sviluppatesi nelle Fi-
gi del diciannovesimo secolo. Vi era però un commercio di importanza notevole: il
commercio dei denti di balena, del tipo un tempo comprato dagli isolani di Tongan
e che ora si acquistano con facilità dai mercanti e dai balenieri europei. Gli intel-
lettuali delle Fiji avevano a lungo sostenuto che i denti del capodoglio fossero la
vera fonte della grandezza dei bau.
I denti di balena erano gli oggetti di valore più stimati alle Fiji. Per dirla con
Radcliffe-Brown, erano beni di massimo valore sociale, con il potere di costituire Lo scambio di
valore e la
eccellenti relazioni sociali e totalità. Offerti ritualmente nel modo appropriato, co- divinità dei
me transazione tra capi, contribuivano a concordare guerre, assassini e matrimoni denti di balena
tra nobili, a fare e disfare alleanze politiche, salvare villaggi e regni dallo sterminio e
supplicare benefici da parte degli dei. Poiché erano in grado di dar vita alla società
e vi rivestivano un potere di vita o di morte, i denti di balena erano come dei. In ef-
fetti i subalterni li presentavano ai capi in forma sacrificale: “possiamo noi vivere”,
diceva il primo; “prendo possesso del tesoro”, rispondeva il secondo, “possa tu vi-
vere; possa il tuo regno durare”. Ecco spiegata l’osservazione di Hocart sullo scam-
bio di valore attraverso i denti di balena, al punto che poche once di divinità vale-
van bene alcune libbre di materia prima. Da qui anche le argomentazioni secondo
cui nel diciannovesimo secolo gli abitanti delle Fiji, nel processo di formazione dei
loro Stati, avrebbero privilegiato i denti di balena rispetto ai moschetti: più denti di
balena erano in circolazione, più potere avevano le isole Fiji.
La prova? Lévi-Strauss parla del chimico che, avendo sintetizzato con cura il
cloruro di sodio in laboratorio e avendone confermato la composizione attraverso i
test standard, solo per essere sicuro che fosse sale, lo assaggiò. Una buona prova del
valore storico dei denti di balena è che etnograficamente li si può assaggiare. Non
solo perché i denti di balena continuano a dar forma alla vita delle Fiji – le alleanze Le
matrimoniali, il rispetto verso i capi, o qualunque kerekere “gravoso” di beni e per- trasformazioni
storiche del
sone – e non solo perché le formule rituali del loro scambio restano ancora, se le si bene
osserva a fondo, espressioni trasformate di una transazione riguardante benefici di-
vini: c’è anche il prezzo straordinariamente alto dei denti di balena presso le agen-
zie di pegno a Suva, la capitale. Il potere dei denti di balena si manifesta nelle sue
trasformazioni storiche.
Non lontano da Suva, nel villaggio di Cautata, qualche anno fa Poate Matairavu-
la mi mostrò una piccola cassetta di legno, posta nell’angolo più lontano dell’ultima
stanza da letto della sua casa in stile “europeo”. Lo spazio era quello moderno equi-
valente alla parte tabù delle antiche case delle Fiji (il loqi), dove il capo famiglia dor-
miva con la moglie e dove erano contenuti oggetti che si riteneva dessero benessere, Matairavula e il
inclusi i semi di igname e le armi che venivano utilizzate per le vittime sacrificali dei “cesto di
Stato”
cannibali. La cassetta di legno, spiegò Matairavula, era il “cesto del clan” (kato ni
mataqali), e conteneva un tesoro fatto di denti di balena. Il cesto passava di mano in
mano con la leadership del clan, era una protezione, una sacra salvaguardia per il
gruppo. Quindi, fino a quando fosse rimasto intatto, disse Matairavula, il vanua –
cioè la terra, comprese le persone che vi vivevano – sarebbe stato preservato. Nel
1984, Mataraivula mi stava mostrando un esempio di un vecchio “cesto di Stato”
(kato ni tu); cesti simili a questo (per quanto ne so) non sono stati notati da un pun-
to di vista antropologico in questa zona delle Fiji dai tempi della relazione di Hocart
del 1910, basata sui ricordi di un anziano di Namata, villaggio vicino a Cautata.
474 MARSHALL SAHLINS

Le successive spiegazioni di Matairavula continuavano a rieccheggiare queste


antiche memorie. Come capo del clan, lui stesso non poteva andare a prendere la
cassetta e tirare fuori i denti di balena. Quello era compito dell’araldo, il “viso della
Una cerimonia terra” (matanivanua), rappresentante della collettività di fronte al capo. Pochi gior-
figiana ni dopo, io, Matairavula e pochi altri uomini eravamo sul terreno cerimoniale di
Bau, insieme all’araldo di Cautata che stava portando un grosso dente di balena na-
scosto in una valigia di pelle nera. Ci trovavamo lì come delegazione del villaggio al
funerale dell’importante Bauan, del clan del re della guerra, e portavamo il dente di
balena come nostro “bacio” (ai reguregu) per il morto. La mia presenza come uomo
bianco sul terreno cerimoniale di Bau non era certo un evento storico mai accaduto:
al contrario, era quasi commovente pensare all’intreccio di storie tra bianchi e neri
susseguitesi in quel luogo nel diciannovesimo secolo.
La storia era presente e si poteva percepire anche nella cerimonia. Sul terreno di
Bau dovevamo indossare i costumi “tradizionali” delle Fiji, dei sarong di cotone con
disegni floreali. Costumi cristiani, sì, ma di “prima della bandiera”. Inoltre, la storia
era presente anche in tutti i villaggi che avevano contribuito a costituire la riserva di
denti di balena nelle lotte per il potere dei re di Bau. Il popolo cautata era là, perché
essi sono i tradizionali guerrieri dei confini del regno di Bau, ed è un ruolo che non
dimenticano. Uno studio recente indica che dei villaggi del dominio di Bau, Cautata
ha il più alto numero di persone arruolate nelle forze militari delle Fiji.
Riguardo a queste forze militari, fino ai due colpi di stato avvenuti nel 1987,
quando era al governo il colonnello Rabuka, l’esercito era noto per aver fornito il
contributo più importante a sostegno delle truppe di pace delle Nazioni Unite in
Libano e nel Sinai. Dopo il secondo colpo di stato, quando le Fiji si ritirarono dal
Commonwealth e smisero di celebrare il compleanno della regina, il colonello Ra-
buka, un ammiratore dell’esercito israeliano, proclamò il Fiji National Day – Yom
Kippur. Mi hanno detto che nel 1987, a Suva, si potevano vedere magliette con
scritto sul petto “Yom Kippur” in ebraico e, sulla schiena, “Fiji National Day”.
Il rito di Nello stesso anno, il colonello Rabuka aveva assunto il comando delle forze mili-
“ammenda” tari delle Figi – e di fatto era il leader dello Stato – con una cerimonia “tradizio-
nale”: vi sono articoli di giornale e foto che lo raffigurano come uno degli antichi
re-guerrieri. Se le cose stanno così, la traduzione appropriata dell’i soro, nome da-
to al rito in cui si chiede perdono alle autorità tradizionali per gli atti di usurpa-
zione – mediante la presentazione di denti di balena – potrebbe essere semplice-
mente “ammenda”.

Conoscere le culture nel tempo


Nel Saggio sull’intelletto umano John Locke formula un’acuta osservazione af-
fermando che dobbiamo necessariamente conoscere le cose relazionalmente, attra-
verso la loro “dipendenza” da altre cose. In ogni caso, per quanto assoluti e com-
Locke e pleti possano apparirci gli oggetti di percezione, essi “sono solo Contenitori di altri
l’importanza elementi della Natura”. Le qualità, azioni e poteri percepibili degli oggetti “sono
della dovuti a qualcosa che esiste a prescindere da essi; e non vi è parte della Natura a
“dipendenza”
per la noi nota così completa e perfetta che non debba il proprio Essere e le proprie Qua-
conoscenza lità alle cose Vicine”. Quest’osservazione può trovare magnifiche applicazioni in
delle cose campo antropologico – dato che ai filosofi queste “qualità secondarie, percepite in-
direttamente” non sono mai piaciute molto.
Locke ne trasse l’implicazione fondamentale che sia impossibile esaurire la de-
scrizione empirica di un qualsiasi oggetto, dato che le sue proprietà possono essere
conosciute solo attraverso l’interazione con un numero indefinito di altri oggetti.
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 475

Ne consegue che l’oggettività degli oggetti è costruita umanamente, vale a dire da La costruzione
una scelta storicamente relativa e da una valutazione simbolica di alcuni tra i molti umana degli
possibili referenti concreti. Le descrizioni essenzialiste allora non sono solo fantasie oggetti o
platoniche degli antropologi; sono condizioni generali della percezione e della co- essenze
municazione umana.
Ancor più rilevante, in questo caso, è il fatto che Locke dica anche che cono-
sciamo storicamente gli attributi delle cose: conosciamo le cose dai cambiamenti
che producono in altre cose, o subiscono da quelle. Sappiamo dell’esistenza del so-
le dal suo potere di sciogliere e sbiancare la cera, proprio come siamo a conoscenza
del fatto che la cera si scioglie al sole, si indurisce al freddo, è divisibile con un col-
tello ma non la si può marcare con una piuma, è impenetrabile all’acqua e indigeri-
bile – tanto che si può usarla per “incerare” qualcosa.
Lo stesso accade per l’universo del culturale: rivela le sue proprietà attraverso la Le proprietà
modalità con cui risponde a diverse circostanze, organizzandole in forme specifiche del culturale si
e in pratica cambiandone le forme in modi determinati. È allora in una etnografia rivelano in base
alla sua
storica – quale si è sviluppata durante più di due secoli – che ritroviamo un metodo risposta alle
per riconciliare forma e funzione in una logica del significato, per scoprire le di- circostanze
mensioni parzialmente invarianti e mutevoli delle strutture, per verificare le poten-
zialità storiche e i limiti dei diversi schemi culturali, per valutare e soppesare le con-
flittuali variazioni contestuali e, di conseguenza, render possibile una descrizione
nella quale i principi su cui si ordinano le culture appaiano come sistemi di diffe-
renze. Quanto ai problemi agitati nell’antropologia moderna e postmoderna, sarà la
storia a deciderne.
L’etnografia
Ma allora, è finito il tempo di un’etnografia che sia un’archeologia del vivere, che non dev’essere
cerchi sotto gli strati superficiali della modernità le tracce di una “primitiva” e origi- un’archeologia
naria esistenza. Le culture così scoperte sono sicuramente fossilizzate, ma anzitutto del vivere
da una forma di conoscenza che le separa dalla vita e dalla storia. Questo tipo d’et-
nografia rispondeva a un richiamo nostalgico, ispirato ai concetti teorici di progresso
che trasformavano le percezioni altrui in rapidi sguardi di un tempo passato – a con-
dizione che gli altri non fossero “colti”. Ora la storia ci risveglia da questo sonno
dogmatico. Le antiche opposizioni concettuali su cui l’etnografia scientifica era fon-
data si stanno dissolvendo: scopriamo la continuità nel cambiamento, la tradizione
nella modernità, persino gli usi e costumi nel commercio. Eppure, non tutto ciò che
era solido si è sbriciolato, come certi teorici del postmodernismo avevano prematu-
ramente presagito. Rimangono le differenze specifiche, le differenze culturali.

* Questa è una versione revisionata dell’articolo apparso in «Journal of Modern History», 1993 (65), pp. 1-25. ©
University of Chicago, Chicago, Illinois.
1 Può essere vero che (come disse Pascal) tre gradi di latitudine facciano la differenza tra giusto e sbagliato, ma ri-

guardo alla moderna consapevolezza della nozione di “cultura”, le cose non cambiano poi molto in metà del globo (in
longitudine). Consideriamo ad esempio le osservazioni di Terry Turner nella foresta tropicale sudamericana. Alla fine
degli anni Ottanta, nonostante il loro monolinguismo, i kayapo utilizzavano dei riferimenti alla “cultura” portoghese
per gli usi e i costumi tradizionali, comprese le rappresentazioni delle cerimonie, che avrebbero dovuto essere seguite
“per mantenere la ‘vita’, l’energia’, e la ‘felicità’ delle comunità sociali dei Kayapo”.
476 MARSHALL SAHLINS

Biografia intellettuale

Marshall Sahlins è Charles F. Grey Distinguished Service Professor di antropolo-


gia alla University of Chicago. È membro della American Academy of Arts and
Sciences e della National Academy of Science. Tra le sue pubblicazioni: Social Stratifi-
cations in Polynesia (1958), Evolution and Culture (co-curatore Elman Service,
1960), Moala: Culture and Nature on Fijian Island (1962), Tribesmen (1968), L’eco-
nomia dell’età della pietra (1972), The Use and Abuse of Biology (1976), Cultura e
utilità (1977), Historical Metaphors and Mythical Realities (1981), Isole di storia
(1985), e Anahulu: The Anthropology of History in the Kingdom of Hawaii, vol. I,
Historical Etnography (1992).

La biografia seguente è tratta da un articolo di Jocelyn Linnekin su Marshall Sah-


lins in Thinkers of Twentieth Century, a cura di Roland Turner, 1987, pp. 668-670.

Ciò che distingue l’opera [di Sahlins] è che indica delle soluzioni creative e ori-
ginali a difficili problemi teorici. Un recensore lo definì “una delle migliori menti
sintetizzatrici dell’antropologia”. La procedura analitica di Sahlins è più vicina al
razionalismo che all’empirismo “da ricerca sul campo” che molti antropologi riten-
gono inviolabile. In una prosa che è allo stesso tempo elegante e letteraria, anche se
a tratti oscura, egli analizza senza troppi problemi ambiti in cui l’antropologia si
connette alla filosofia, rafforzando le proprie posizioni con citazioni da fonti diverse
come Kant e Joseph Heller, Hobbes e Gilbert e Sullivan.
In generale, Sahlins si è dedicato alla ricerca dei rapporti tra natura e cultura, e
più in particolare al loro ordine di determinazione: è la cultura costruita sulla base
dell’azione pratica, o è arbitraria (in senso linguistico) e precede logicamente la na-
tura? Nei suoi primi lavori, Sahlins sostiene che in tale equazione la natura venisse
prima, riflettendo così l’insegnamento del suo maestro, Leslie White. La sua tesi si
basava su un’ipotesi di White sulla stratificazione sociale nelle società polinesiane
correlata a una diminuzione differenziale di energia: “il grado della stratificazione
varia in maniera direttamente proporzionale alla produttività”. In questa ricerca,
Sahlins adottava il modello di cultura “della torta a più strati” di White, con la “ba-
se tecno-ambientale” come strato antecedente e determinante, e la stratificazione
sociale relegata allo “strato superiore”. Ottimo lavoro di ricerca bibliografica, Social
Stratifications in Polynesia rimane tuttora un indispensabile testo di riferimento per
chi studia la Polinesia, che si sia o meno d’accordo con le sue conclusioni teoriche
(che Sahlins stesso ha disconosciuto). Sahlins ha sostenuto che la stratificazione,
piuttosto che essere una variabile dipendente dalla diminuzione di energia, è essa
stessa uno stimolo alla produzione, che costringe la popolazione a produrre più di
ciò che è necessario per preservare il gruppo: “la vita politica è uno stimolo per la
produzione”.
Dopo Moala, Sahlins si è decisamente allontanato dal paradigma materialista, ed
è diventato uno dei suoi principali critici. I saggi di L’economia dell’età della pietra
sottolineano le differenze fondamentali tra società moderne e primitive, e mettono
in guardia riguardo all’applicazione alle economie non occidentali di concetti come
quelli di scarsità, di domanda e di offerta, e di massimizzazione: “L’Uomo Econo-
mico è una costruzione borghese”. Influenzato dal lavoro di Karl Polanyi, Sahlins
accetta la posizione “sostanzialista” in opposizione al “formalismo” economico, che
ritiene i concetti economici occidentali appropriati per lo studio delle società primi-
tive. In un saggio spesso citato, Sahlins confuta la convenzionale visione antropolo-
“ADDIO TRISTI TROPI”: L’ETNOGRAFIA NEL CONTESTO STORICO... 477

gica dei cacciatori e dei raccoglitori preoccupati della ricerca del cibo e sempre sul-
l’orlo dell’inedia. Gli studi sul campo hanno rivelato che cacciatori e raccoglitori
hanno del “tempo libero” e allo stesso tempo hanno una dieta bilanciata. Sahlins
mette in ordine questo materiale per asserire che essi sono “l’originaria società del
benessere”.
L’attuale posizione teorica di Sahlins ha molto più in comune con lo strutturali-
smo francese e con la “semiotica”, la teoria dei segni derivata dal lavoro di Ferdi-
nand de Saussure, piuttosto che con l’antropologia simbolica americana. La sua sin-
tonia con Lévi-Strauss è ben nota. Sahlins è uno dei pochi antropologi americani
che lavorano con il concetto di struttura di Lévi-Strauss. Cultura e utilità, un bril-
lante e ampio saggio, documenta il passaggio di Sahlins dal materialismo all’ideali-
smo (o meglio, la sua idea di come l’antropologia soppianti in realtà tale opposizio-
ne). Qui esamina le ricerche dei maggiori teorici sociali alla luce di due paradigmi,
il “culturale” e il “pratico”…
Asserisce che la costruzione “pratica” della cultura riflette l’ideologia della so-
cietà occidentale. In alternativa a una visione della cultura come società occidentale,
Sahlins presenta “alcune dimensioni semiotiche della nostra economia” per illustra-
re “la Società Occidentale come Cultura”. In questa analisi decifra abilmente alcuni
dei “codici culturali” che collocano tali comportamenti apparentemente “pratici”
all’interno della nostra società.
Sahlins dà il meglio di sé quando esplora le dicotomie e i paradossi apparenti. In
Historical Metaphors and Mythical Realities cerca di risolvere l’“opposizione radica-
le” tra l’antropologia strutturale e la storia dimostrando in che modo la storia sia or-
dinata in base a categorie e precedenti culturali: “tutte le trasformazioni culturali
implicano la riproduzione strutturale, se non l’opposto”. Historical Metaphors è la
prima parte dell’analisi di Sahlins sull’incontro tra hawaiani ed europei nel periodo
dei primi contatti. Mostrando un inusuale entusiamo per le merci e gli usi stranieri,
i capi hawaiani hanno accelerato la distruzione della loro cultura. Sahlins spiega che
tale comportamento è dovuto ad alcuni precedenti culturali già completamente af-
fermati:

Questo apparente assalto impetuoso alla loro cultura è stato decretato dai capi, questa
specie di ‘acculturazione’, può essere vista come il riflesso dei basilari principi hawaiani,
e, in virtù di tali principî, è selettiva piuttosto che indiscriminata. Poiché nell’avvicinarsi
agli europei, la nobiltà hawaiana riproduceva una distinzione consuetudinaria tra sé e la
popolazione sottostante.

Contro coloro che vorrebbero subordinare la cultura alle determinanti biologi-


che e materiali, Sahlins asserisce l’unicità degli esseri umani e la priorità della facol-
tà simbolica… Malgrado la sua statura all’interno della disciplina, Sahlins rifugge
dal farsi discepoli, e non ha interesse a guidare una “scuola teorica”. Fa parte di
quella rara tipologia di studiosi che sono capaci di mettere in discussione i loro stes-
si preconcetti. Per questa ragione, da lui si può imparare, ma non lo si può seguire.
Sempre per questa ragione, gli antropologi aspettano con ansia ogni sua nuova pub-
blicazione.
Connessioni a molteplici livelli: longitudine e studi comparativi*
Conrad Kottak e Elizabeth Colson

L’antropologia deve proporrre modelli del proprio oggetto di studio in grado di


riflettere la struttura del mondo contemporaneo, e lo sta facendo. Diversi recenti
progetti di ricerca che analizzano una molteplicità di livelli nello spazio (multisite) e
nel tempo (multitime) illustrano questo sviluppo. Si tratta di progetti che indicano
una nuova attenzione per lo studio dei processi, un interesse per la storia e un’an-
L’analisi della tropologia preoccupata di considerare il ruolo del potere economico e politico nel
molteplicità di dar forma a ciò che Meyer Fortes ha chiamato “il settore delle relazioni sociali”, ter-
livello nello
spazio e nel mine con cui indica “la serie delle relazioni sociali, nel tempo e nello spazio” (For-
tempo tes 1945, p. XI).
Questa serie di rapporti è ora internazionale. Probabilmente ogni essere vivente
oggi ha incontrato almeno una persona proveniente da un altro paese. Anche nelle
zone più remote, gli abitanti traggono oggi le informazioni più importanti non certo
da altre popolazioni vicine, ma da una moltitudine di stranieri che influiscono su di
loro, direttamente o attraverso i mass media.

L’isolamento delle piccole comunità… è in forte declino per l’avanzata dell’urbanizzazio-


ne, dell’industrializzazione e della burocratizzazione. Significativamente, tutti questi pro-
cessi modificano non solo le relazioni oggettive, ma anche la qualità delle relazioni sog-
La fine gettive di coloro che vivono in piccole comunità. Queste dimensioni quantitative e quali-
dell’isolamento tative del cambiamento socioculturale, e la velocità con cui avvengono, ha condotto
di piccole
ovunque ad un aumento di interesse nei confronti della pianificazione sociale e ad una
comunità
centralizzazione dell’allocazione e della distribuzione delle risorse (Gallagher, Padfield
1980, p. 4).

Connessioni
Connessioni è un termine adatto a comprendere il coinvolgimento pluristratifi-
cato nel sistema-mondo di cui gli etnografi devono ora tener conto nel configurare
gli influssi concernenti i valori, le categorie, gli accordi istituzionali e altri sistemi
Il simbolici. La prospettiva delle connessioni è antitetica al tradizionale “olismo” an-
coinvolgimento tropologico, che guardava all’interno, ipotizzando l’esistenza di alcune entità com-
nel sistema- plete e autonome – una cultura o una società. Le connessioni, essenziali per la tra-
mondo come sformazione sociale, agiscono per destabilizzare, piuttosto che per mantenere intat-
alternativa
all’olismo ti, i sistemi locali nel corso del tempo.
Un gruppo di lavoro di antropologi riunitisi la prima volta nel 1986 si è posto
l’obiettivo di elaborare una definizione delle connessioni in relazione alla metodolo-
gia e al contenuto della ricerca1. Tutti noi eravamo interessati all’impatto delle forze
nazionali e internazionali, compresi i progetti di sviluppo, sui nostri ambiti di ricer-
ca locale. Questo interesse aveva fatto sorgere inevitabilmente questioni legate agli
effetti di retroazione (“feedback”) tra le istituzioni di livello locale, regionale, e na-
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 479

zionale. La maggior parte dei membri del Linkages Group aveva lavorato più di una
volta nella stessa regione. Conoscevano i vantaggi di osservare il modo in cui le per-
sone rispondono a differenti problemi e opportunità in diverse fasi della loro esi- La nascita del
stenza. La nostra consapevolezza che la mobilità geografica e i moderni sistemi di Linkages Group
comunicazione rendevano estremamente permeabili i confini delle comunità ci ha
indotti a mettere in questione le vecchie definizioni delle unità sociali.
Cercando il modo di affrontare la mobilità e di seguire le persone attraverso lo
spazio e il tempo, abbiamo riconosciuto il valore di campioni di ricerca (comunità e
individui in movimento) che potessero essere seguiti nel tempo. Che tipo di legami Mobilità
sociale,
avevano con gli altri, compresi i fattori esterni? Questa linea di ricerca ha definito comunicazioni
un approccio al materiale di censimento (per fornire informazioni sui cambiamenti e permeabilità
demografici, occupazionali e altro) e uno alle reti di relazione (per tracciare gli este- dei confini
si rapporti associati alla mobilità geografica e agli interventi esterni), uniti a ricerche
sul campo e a tecniche etnografiche. Per monitorare il cambiamento ci vogliono an-
che archivi d’epoca: di uffici governativi e non governativi, dei trasporti e di altre
infrastrutture, dei media, dei beni disponibili, degli oggetti domestici, dei prezzi, e Le molteplici
di eventi cruciali come le epidemie. Questi archivi forniscono le variabili in grado di dimensioni
differenziare le comunità e gli individui. della ricerca
Uno dei poli d’interesse della ricerca sulle connessioni è lo studio longitudinale.
Un altro polo d’interesse è la comparazione sistematica tra diverse comunità, per la
quale sono necessarie alcune popolazioni esemplari scelte in ragione del loro diver-
sificarsi rispetto ai criteri chiave. Questi casi esemplari possono provenire dalla stes-
sa regione, e i dati raccolti possono essere parte del medesimo studio. Oppure pos-
sono anche giungere da diverse regioni (anche da diversi paesi), se l’antropologo è
in grado di fornire un nucleo minimo comune di dati (T. S. Epstein 1978, p. 220) Lo studio
per rendere possibile la comparazione. La ricerca sulle connessioni si estende sino longitudinale e
la
ai livelli a cui vengono elaborate le diverse politiche, esaminando archivi e dati uffi- comparazione
ciali e intervistando i pianificatori, gli amministratori, e le altre persone coinvolte sistematica
nello studio della popolazione.
Queste fonti diversificate di dati forniscono risposte a specifiche questioni legate
ai risultati degli interventi. Sappiamo ad esempio che gli effetti non sono sempre im-
mediati; ci vuole del tempo per registrare conseguenze di lungo termine. Le persone
in situazione d’emergenza possono reagire in un certo modo, ma le loro risposte
cambiano quando vivono e valutano le alterazioni del loro ambiente. La ricerca sulle Le
connessioni è allora pianificata come un processo in continuo sviluppo, e richiede un conseguenze a
lavoro di gruppo. Sono necessari tempo e personale per seguire una popolazione di- lungo termine
spersa, per studiare diversi luoghi, per fare interviste a diversi livelli organizzativi, e la necessità di
un lavoro di
per esplorare dati e archivi, e per seguire veramente gli studi. Il coinvolgimento di gruppo con
colleghi del paese ospitante, inclusi assistenti locali e altri appartenenti alla comuni- membri della
tà, è una delle chiavi per portare avanti i progetti di ricerca. La ricerca è sprecata se comunità
non può essere comunicata; il lavoro di gruppo aiuta a rendere i dati utilizzabili da
altri. Il termine connessioni si riferisce perciò anche alla cooperazione tra persone
con interessi di ricerca comuni, alla creazione di una banca dati in comune.
Gli studi compiuti dal Linkages group sono esplicitamente comparativi. Foca-
lizzandosi sulla trasformazione e sullo sviluppo, essi mettono assieme scrittura et-
nografica e ricerca sul campo, sincronia e diacronia. In una situazione ideale, alcu-
ni antropologi lavorano insieme come una squadra internazionale; molti progetti
sulle connessioni riprendono precedenti studi in vista della realizzazione di nuovi
lavori etnografici. Un esempio è un progetto di ricerca sul contesto culturale, il si-
gnificato, e l’impatto della televisione brasiliana, sviluppato e diretto da Conrad
480 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

Kottak tra il 1983 e il 19872. Questo progetto derivava da un precedente lavoro di


Un progetto Kottak ad Arembepe, Brasile (iniziato nel 1962)3, ma comprendeva anche tre altre
specifico: comunità in precedenza studiate da altri antropologi. Kottak e i suoi colleghi (bra-
l’impatto della siliani e statunitensi) hanno proseguito il monitoraggio di alcune di queste comuni-
TV in Brasile
tà, costituendo un nucleo di dati longitudinali. Un esempio di ricerca in cui il mo-
nitoraggio del cambiamento era parte del disegno originale è lo studio longitudina-
le dei processi sociali ed economici nel distretto di Gwembe, in Zambia. Questo
studio, pianificato nel 1956 come progetto longitudinale da Elizabeth Colson e
Thayer Scudder, è stato portato avanti soprattutto da Colson, Scudder e Jonathan
Lo studio dei
processi sociali Habarad4.
ed economici Anche gli studi che prevedono visite ripetute creano connessioni, che assumono
in Zambia la forma del coinvolgimento per gli argomenti già studiati che continuano a eserci-
tare una forte attrattiva sugli antropologi. I moderni sistemi di comunicazione, del
resto, rendono inevitabile un continuo coinvolgimento: è difficile sfuggire alla con-
sapevolezza che la storia di coloro tra cui abbiamo lavorato prosegue.
L’antropologia è sempre più consapevole del ruolo svolto dal potere politico ed
economico, dalle gerarchie e dalle ineguaglianze. Come membri del sistema-mondo,
non possiamo più dare per scontata la struttura delle relazioni di potere che avvan-
Il ruolo del
potere politico taggiano alcuni e penalizzano altri. E neppure possiamo affrontarla in termini pura-
mente intellettuali, come strutture simboliche o tropi letterari. Come ha sottolinea-
to Eric Wolf (1982), queste relazioni hanno conseguenze concrete su persone reali;
sono qualcosa di più che mero discorso.

Dall’isolamento al sistema mondiale


I ricercatori del Linkages Group, ovviamente, non sono i soli a interessarsi al
cambiamento e allo sviluppo sociale, né sono gli unici a farsi sostenitori di un’idea
di cultura come processo piuttosto che come entità e della concezione che le comu-
nità siano costituite da persone con opportunità diverse, che compiono scelte diver-
Ripensare le se. Come molti altri antropologi, anche noi rimettiamo in questione le idee antiqua-
idee antiquate te del relativismo culturale. Il nostro mondo ha bisogno di trovare un consenso su
del relativismo: quali sono i diritti umani fondamentali e sui modi di garantirli. Gli antropologi han-
la necessaria no studiato popolazioni locali vittime di progetti di sviluppo, della violenza rivolu-
salvaguardia di
diritti umani
zionaria e di guerre provocate da interventi esterni e dalle imposizioni dei mercati
fondamentali internazionali. Non sorprende allora che nel mondo contemporaneo molti antropo-
logi incentrino oggi la loro attenzione sulla violenza e le violazioni (Carmack 1988;
Kapferer 1988; Loizos 1981; Parnell 1988; Tambiah 1986).
Molti funzionari di organizzazioni multinazionali ritengono di poter intervenire
nelle vite altrui in quanto ne promuovono “lo sviluppo”. Quando valutiamo le loro
Il mito attività, smettiamo di essere relativisti culturali; e non è un caso che negli anni Set-
dell’isolamento
dei centri del
tanta «Cultural Survival» abbia sviluppato una critica antropologica dell’intervento.
potere Gli studi delle organizzazioni per lo sviluppo e quelli che analizzano le loro politi-
economico e che sono oggi abbastanza diffusi (ad es. Colson 1982; Hoben 1982; Justice 1986;
politico Kottak 1985; Robertson 1982).
Gli etnografi non possono ancora continuare a sperare di studiare le persone
isolate dai mercati mondiali, quasi non fossero influenzate dai centri di potere eco-
nomico e politico. Gli storici e gli archeologi che hanno familiarità con i dati dell’A-
sia, dell’Africa, e del Pacifico, hanno anche messo in questione l’esistenza storica
del dato etnografico isolato. Eric Wolf (1982) ha focalizzato la sua attenzione sulla
secolare interrelazione tra i sistemi-Stato e “le popolazioni prive di storia”. Più
dell’80% delle “culture” presenti nel World Ethnographic Sample non sono certo in-
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 481

tatte – avendo avuto almeno un contatto importante con uno Stato-nazione prima La secolare
ancora che l’antropologo le abbia raggiunte (Bradley, Moore, Burton, White 1990). interrelazione
fra sistemi-Sta-
La maggior parte delle società sono state soggette al colonialismo o ad altre forme to e “popoli
di centralizzazione politica. Quale che sia il soggetto o la ricerca locale, abbiamo bi- senza storia”
sogno di considerare l’interdipendenza tra i sistemi locali e più ampie reti economi-
che e politiche come una pratica descrittiva e documentaria (cfr. Feirman 1985; Gu-
yer 1987).
Gli antropologi poterono credere a uno statico “presente etnografico” solo fin-
ché furono inconsapevoli del fatto che le culture locali erano il prodotto della storia
del mondo. Negli anni Trenta, quando erano state svolte ancora poche ricerche ar- Il mito
dell’equilibrio
cheologiche, quando le tecniche di datazione erano rudimentali e imprecise, e e della staticità
quando gran parte dell’informazione d’archivio non era ancora stata esaminata da- e la
gli storici, era più semplice pensare in termini di società statiche, di equilibri, e di demitizzazione
sistemi integrati. Un esempio recente dell’impatto avuto dalle testimonianze stori- storica e
archeologica
che e archeologiche sul pensiero antropologico è il fatto che si sia rimessa in discus-
sione la rappresentatività dei kalahari san come antica popolazione di cacciatori-
raccoglitori. Oggi sappiamo che per secoli i san sono stati, in tempi discontinui, pa-
stori e agricoltori; inoltre, essi erano in contatto con altre popolazioni di pastori e
agricoltori (Elphick 1977; Solway, Lee 1990).
Alcune discussioni sono nate anche come conseguenza dell’accumularsi di dati et-
nografici. Pochi antropologi oggi penetrano in territori dove nessuno ha mai lavorato.
La ricchezza di
Noi possediamo le loro pubblicazioni, qualche volta anche le annotazioni delle loro dati etnografici
note di campo. Dobbiamo rendere conto delle differenze tra le loro scoperte e le no- e documenti
stre – non ingaggiando un duello etnografico di tipo individualista (Freeman 1983), già prodotti
ma prestando piena attenzione alle forze storiche e alla variazione intraculturale. La
moderna ricerca antropologica risulta incompleta se si ignorano i documenti che cer-
tificano decenni di interrelazioni locali e regionali. Gli eventi e le risposte storiche
vengono oggi incorporate di routine nel dato etnografico – per un suo arricchimento.
I moderni dati etnografici dovrebbero essere pensati come se si riferissero a dif-
ferenti fasi dell’incontro di popolazioni locali con il sistema mondiale. L’etnografia
dovrebbe concentrarsi sugli adattamenti che avvengono continuamente quando le
persone fronteggiano sfide differenti. Che studino le cure mentali (Mullings 1984) o
l’agricoltura (Pottier 1988), gli etnografi contemporanei hanno accesso a dati non
disponibili ai loro predecessori.
La geografia ci limita anche meno che in passato, quando potevano servire mesi
per raggiungere un luogo di ricerca e le visite ripetute erano rare. Una volta sul
campo, l’universo sociale dell’etnografo era abitualmente la distanza che poteva co- La fine delle
limitazioni
modamente coprire a piedi, in bicicletta, in barca, o a cavallo. I nuovi sistemi di tra- geografiche
sporto che permettono ai locali di spostarsi consentono anche agli antropologi di
ampliare l’area di raccolta dei dati della loro ricerca, e ritornare più volte sul luogo.
Oggi gli articoli nelle principali riviste includono abitualmente dati etnografici trat-
ti da due o più luoghi di ricerca. La continuità e il cambiamento diventano parte in-
tegrante dell’esperienza dell’antropologo e delle sue annotazioni sul campo (Bond
1990). La percezione dei significati del cambiamento per gli abitanti del villaggio
diventa più interessante, quando i nostri vecchi amici valutano con noi ciò che sta
loro avvenendo e cosa il mondo tiene in serbo per i loro figli.

Una parte della nostra migliore etnografia è quella prodotta da studiosi che so- Il ritorno sul
no tornati sul campo di ricerca. Monica Wilson conosceva i nyakyusa da più di campo di
trent’anni quando scrisse For Men and Elders (1977). L’analisi compiuta da Wendy ricerca
482 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

James “del flusso e riflusso delle pratiche indigene e importate, e della crescita e de-
clino del Cristianesimo e dell’Islam” tra gli uduk del Sudan (1988, p. VII) è basata
su più di tre decenni di osservazione. Roger Keesing ha utilizzato le sue ripetute vi-
site a Guadalcanal per “situare la religione Kwaio non sul piano astratto di una
struttura formale, ma nelle menti e nelle azioni di individui e nella vita sociale delle
comunità” (1982, p. 3). Caroline Humphrey (1983) utilizza documenti governativi,
resoconti di altri etnografi e la sua seconda visita sul campo per documentare l’in-
terrelazione tra ideologia ed economia, il suo influsso sul modo in cui le cooperati-
ve di coltivatori in Siberia valutano il sistema sovietico, e come tutto questo ha un
effetto sulla loro produttività e sui loro rapporti reciproci.
Ritornare a studiare un contesto, per il ricercatore che ha svolto la ricerca ori-
Pianificare
ricerche di cui
ginaria che per un altro, giunto dopo di lui, è oggi pratica comune. Incoraggia lo
il fattore tempo sviluppo di metodi che affrontino il problema del divenire – anche se questo
è parte obiettivo non era quello che si intendeva raggiungere5. Le condizioni che favori-
integrante scono le pratiche di ritorno hanno anche consentito agli antropologi di pianificare
e condurre ricerche sul campo di tipo longitudinale, in cui il fattore tempo è par-
te del progetto di ricerca. Ciascuna di queste analisi deve avere a che fare con le
fluttuazioni economiche, con le migrazioni, con il mutare delle influenze politi-
che, e con i cambiamenti delle ideologie nazionali e locali. Gli antropologi che
pianificano questo tipo di studi concorderebbero con l’affermazione programma-
tica di John Bennet (1982, p. 298), il quale negli anni Sessanta iniziò un decennio
di ricerche sulle fattorie a conduzione familiare del Saskatchewan convinto che
“l’approccio tipologico-culturale”, con “la sua radicata presunzione di omeostasi
e di un ethos immutabile”, va rifiutato poiché non riesce a dare conto della rapi-
dità del cambiamento.
Il rifiuto
dell’approccio Gli assunti teorici soggiacenti alle analisi a lungo termine si scontrano con prece-
tipologico- denti formulazioni: infatti non diamo mai per scontati l’integrazione culturale, l’e-
culturale quilibrio sociale, l’armonia dei valori o l’uniformità delle risposte degli individui. Le
visite ripetute mostrano che le persone e le comunità rispondono in modi diversi alle
opportunità e alle sofferenze, in ragione delle loro risorse, della loro posizione socia-
le, delle precedenti esperienze e della misura in cui hanno avuto a che fare con agen-
ti esterni. Vi sono molteplici connessioni tra i locali, persone e istituzioni in giro per
I limiti alla
condivisione
il mondo. L’idea che i membri di una comunità condividano dei valori comuni è un
dell’esperienza mito che ha esercitato un forte impatto; ma l’esperienza può essere condivisa solo fi-
no a un certo punto. Non importa quanto le comunità possano sembrare egualitarie
o omogenee a un osservatore a breve termine; i loro membri sono in realtà portatori
di diversi valori e interessi. Questa è una delle fonti del cambiamento.

Gli interessi locali – salute, sussistenza, autostima, strutture cognitive che diano
senso all’esperienza – si sviluppano in funzione del loro rapporto con sistemi più
Il rapporto tra vasti. Gli abitanti di città distanti rappresentano perciò dei gruppi di riferimento su
interessi locali
e sistemi più cui i locali fondano il proprio giudizio. La velocità con cui gli stili si diffondono non
vasti fa che confermare l’interconnessione che è oggi parte dell’universo di studio del-
l’antropologo. Le T-shirt sono ovunque. Gli abiti e la gioielleria “etnica” ispirano i
designers occidentali e vengono riesportati in tutto il mondo. Gli abitanti dei barrios
sudamericani e delle città africane contraggono debiti per pagarsi matrimoni in stile
La diffusione
mondiale di
occidentale. I giovani nelle piccole cittadine e nelle zone rurali ballano musica “di-
stili e mode sco”. Molte comunità mantengono i loro stili di abbigliamento, di danza, e di spet-
tacolo soprattutto per attirare il turismo internazionale (Crick 1989; Kottak 1990;
Graburn 1983; V. Smith 1977; Volkman 1990).
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 483

Le connessioni tra le aree urbane e rurali sono antiche, sebbene abbiano attratto
l’attenzione degli antropologi già negli anni Trenta – ad esempio in ricerche sulla
migrazione lavorativa africana e sull’insediamento nelle nuove città del Sud e del
Centro dell’Africa (Schapera 1947; Hellman 1948; Richards 1940; Wilson 1941- Analisi di
1942). Questi studi sono stati i precursori di recenti lavori sulla migrazione e il rein- “reti” e
“situazionali”
sediamento (Eades 1986; Hansen, Oliver-Smith 1982; Morgan, Colson 1987; Talai
1989), incluso il reinsediamento involontario (cfr. «Practicing Anthropology»,
1990). Negli studi degli anni Quaranta e Cinquanta sull’adattamento alla vita urba-
na le ricerche condotte in Africa sono state prevalenti; questi studi hanno condotto
all’analisi di “reti” o analisi “situazionali” in grado di affrontare la rapidità con cui
le persone cambiavano il proprio comportamento in differenti contesti (cfr. J. C.
Mitchell 1987). Da allora, il Terzo Mondo ha visto una crescita esplosiva delle città:
da esse muovono oggi gli standard sulla base dei quali le persone valutano il succes-
so e il benessere (Lloyd 1979).

La nostra specie, con sorprendente rapidità, ha visto le città riempirsi di azione, Le promesse
fascino, varietà, opportunità; era promessa di una vita più facile, e lo si può dram- mancate
maticamente vedere sorvolando una qualsiasi capitale del Terzo Mondo, coi suoi dell’urbaniz-
sobborghi di bidonvilles pieni di emigranti venuti da fuori. Ogni nuovo arrivato zazione
spera di fare fortuna tra le “luci della città”, e confida nel fatto che sfuggirà al duro
lavoro che è stato, tradizionalmente, il suo modo di vivere (Schwartz 1980, p. VII).

I sistemi di comunicazione che si irradiano dalle città parlano alle popolazioni


rurali: dicono loro cosa gli manca, insegnano che devono cambiare se vogliono con-
dividere i piaceri e il benessere della città. Le politiche governative pospongono gli La
interessi rurali a quelli cittadini – in particolare a quelli delle élites burocratiche –, i subordinazione
cui gruppi di riferimento sono le élites internazionali del mondo industriale. Il con- degli interessi
rurali a quelli
tatto con istituzioni esterne e modi alternativi di vita passa attraverso vari canali, in- cittadini
clusi i media. La migrazione stagionale, temporanea e permanente, mantiene intatte
le reti di rapporti sociali tra la popolazione rurale e i parenti urbani. Il miglioramen-
to dei trasporti trasforma le città in centri di mercato e in luoghi nei quali si racco-
glie informazione relativa ad aree più vaste. Rappresentanti nazionali e internazio-
nali invadono i dintorni delle città come turisti, agenti di sviluppo, ambientalisti,
funzionari, rappresentanti di sette religiose in competizione. La radio, la televisione
e i videoregistratori, raggiungono le zone più distanti. Il diffondersi dell’alfabetizza- I media e la
zione è un obiettivo imprescindibile di ogni governo. I media, fornendo un prodot- omogeneiz-
to comune, contribuiscono alla omogeneizzazione degli standards. I registratori au- zazione degli
standard
dio e video, comunque, offrono, ben altre possibilità: i locali li usano per comunica-
re con i parenti lontani, per conservare le loro tradizioni, e per registrare i loro inte-
ressi (cfr. Michaels 1986 riguardo all’uso delle videocamere nella televisione locale
di Walbiri, Australia centrale).
Qualunque metodologia tenti di estrarre la cultura locale pura da sistemi più va-
sti è destinata a perdere buona parte di quel che accade, e buona parte di ciò che ri-
guarda la popolazione oggetto di studio. Per gran parte delle cose significative gli
antropologi non possono contare né sull’osservazione partecipante né su interviste
I metodi per
intensive di informatori selezionati, considerati depositari della tradizione. Gli in- l’analisi di
formatori locali possono essere ingannati, così come lo siamo noi, dal potere eserci- contesti più
tato da centri regionali, nazionali, e internazionali. La catena degli intermediari ha vasti
molte maglie, e molti nodi; la conoscenza così costituita può creare un senso d’alie-
nazione e di dipendenza.
484 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

Dobbiamo trovare il modo di esaminare contesti più vasti. Queste connessioni


molteplici devono essere parte del centro della nostra ricerca. Le città e i paesi vi-
sitati dai membri della popolazione-campione rappresentano un’ulteriore estensio-
ne dello studio, e alle persone che abitano i dintorni della città è offerta la possibi-
Gli svantaggi lità di partecipare a un più ampio universo sociale. Comunque, l’incorporazione
di un’incorpo- avviene in una forma che di solito è svantaggiosa, perché le capacità e le risorse
razione a
universi sociali
non consentono ai marginali di entrare da protagonisti nel sistema di cui aspirano
di dimensioni a far parte. Per un breve periodo, subito dopo la fine del sistema coloniale in mol-
maggiori te zone dell’Africa, dell’Asia e di Papua-Nuova Guinea, tutto questo non era vero:
allora all’ordine del giorno c’era l’idea di una rapida promozione delle popolazio-
ni, e anche che un’educazione primaria avrebbe aperto loro l’accesso ai più alti
gradi delle gerarchie civili. Bambini di villaggio potevano aspirare a diventare fun-
zionari di gabinetto, impiegati alle Nazioni Unite, professori universitari e alti di-
pendenti civili. I più giovani speravano che i loro fratelli maggiori li avrebbero aiu-
tati per l’istruzione e la ricerca del lavoro, mentre i parenti più anziani beneficiava-
no del successo dei giovani.
Tre decenni più tardi, le differenze di classe si sono cristallizzate. In buona parte
del Terzo Mondo, è difficile che l’educazione sia la strada maestra per ottenere un
L’effetto impiego sicuro. Ciononostante, il fatto che gli abitanti dei dintorni delle città condi-
suscitato dalla vidano quelli che ritengono i vantaggi di un concetto più ampio del mondo è all’ori-
consapevolezza gine di rapidi cambiamenti. Un mondo più ampio piace all’immaginazione e alla cu-
di un universo riosità umana, suscita un desiderio di informazione ed esperienza oltre alla ricerca
ricco di
contatti
di un maggiore benessere e di minor fatica. Le persone colgono al volo i contatti
che vengono loro offerti, oppure creano proprie connessioni, perché sperano di
sfruttare il sistema più ampio.
Riteniamo che alcune costanti della motivazione e della risposta umana siano
presenti, in forma soggiacente, nei modelli di incorporazione invalsi in varie parti
del mondo. Ciononostante, l’interrelazione tra i centri nazionali e regionali e le po-
polazioni nell’ambito delle proprie sfere di influenza varia in funzione di quanto la
comunicazione sia frequente, istantanea, e pervasiva; delle risorse che tali centri
possono utilizzare in cambio dell’incorporazione; e del potere esercitato dai centri.

La ricerca di molteplici livelli nello spazio e nel tempo in Brasile


Ecco alcune applicazioni della metodologia delle connessioni, in modo da illu-
strare i punti analizzati. In Brasile, dove la televisione è oggi diffusa ovunque, il
La televisione progetto di ricerca di Kottak sul contesto culturale e gli effetti che determina pren-
in Brasile: de in esame il modo in cui la televisione ha mutato la vita locale. La base razionale
come ha
trasformato la della ricerca era l’idea che la televisione sia nel mondo contemporaneo uno dei più
vita locale? potenti mezzi di diffusione d’informazione, un agente di socializzazione e uno
strumento in grado di plasmare l’opinione pubblica. Pochi sociologi tuttavia han-
no esaminato in profondità cosa accade quando alcune comunità sono esposte alla
televisione. Le precedenti ricerche erano state condotte per lo più in paesi di lin-
gua inglese, ed erano incentrate su gruppi limitati (di solito bambini) o su alcune
gamme di effetti (di solito psicologici – ad es. la violenza). A parte pochi studi sul-
La scarsa
la risposta fornita dagli indiani canadesi in seguito al contatto con la televisione
attenzione (Granzberg, Steinbring 1980; Molohon 1984), gli antropologi hanno prestato ben
dell’antropo- poca attenzione alla televisione – forse riflettendo la caratteristica resistenza della
logia per disciplina all’omogeneizzazione culturale, che la diffusione della televisione abi-
l’impatto della tualmente si ritiene incoraggi. Kottak e i suoi colleghi (per la maggior parte brasi-
TV
liani) hanno dovuto individuare una metodologia adatta alle connessioni create in
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 485

Brasile dalla nuova fonte di informazione. Hanno dovuto unire l’osservazione et-
nografica approfondita alla ricerca sul campo e all’analisi dei dati relativi ai media;
inoltre, hanno intervistato personaggi di rilievo nazionale e svolto un’analisi dei
contenuti dei programmi.
Il Brasile possiede la rete commerciale che conta il maggior numero di spettato-
ri al mondo (Rede Globo). Kottak venne attratto dagli effetti della televisione in
Brasile nel 1980, in occasione di una nuova visita ad Arembepe, nello Stato di Ba- La situazione
brasiliana: la
hia, la cui popolazione aveva studiata per la prima volta nel 1962. Rispetto agli anni TV incoraggia
Sessanta, periodo in cui gli abitanti di Arembepe erano affamati di informazione sul una maggior
mondo esterno, nel 1980 la loro familiarità con la nazione e con il mondo era molto familiarità col
progredita, e la televisione sembrava esserne la principale ragione. mondo
Richard Pace, un antropologo che aveva partecipato al progetto “televisivo” di
Kottak, giunse a conclusioni simili per la città amazzonica di Gurupa6, che aveva
studiato tra il 1984 e il 1986.

Prima della diffusione della televisione, la conversazione si incentrava spesso su eventi lo-
cali, su pettegolezzi, sul calcio, o su un commento occasionale diffusosi riguardo alla po-
litica regionale o nazionale. Ad un antropologo straniero venivano spesso fatte domande
vaghe: che tipo di foreste c’erano negli Stati Uniti, se tutti gli americani erano ricchi, e
come erano i cowboys. Con la diffusione della televisione, invece, la conversazione assun-
se una natura diversa, più cosmopolita. Gli eventi accaduti in Nordamerica, in Europa, e
in Medio Oriente venivano dettagliatamente discussi, si analizzava la politica nazionale.
(Era l’anno [1985], in cui il regime militare aveva ceduto il potere ad un governo civile).
Mi è capitato così di parlare degli obiettivi del programma spaziale americano, dell’ideo-
logia del presidente Reagan, della povertà negli Stati Uniti, del terrorismo internazionale,
e delle cause geofisiche dei terremoti (1987, pp. 20-21).

Nel 1980 il Brasile possedeva più apparecchi televisivi di tutto il resto dell’Ame-
rica Latina. La percentuale di famiglie brasiliane che avevano la televisione crebbe
dal 7% al 51% tra il 1964 e il 1979, e superò il 75% nel 1991. Attraverso la comu- La diffusione
nicazione satellitare, le antenne paraboliche e i ripetitori, la gente nei villaggi remo- del mezzo
ti era ora in grado di ricevere la programmazione nazionale. La classe media, coi televisivo e
l’ampliarsi del
suoi 40-50 milioni di persone, era un riflesso della vasta popolazione del Brasile mercato
(145 milioni) e del suo grado di sviluppo economico (la decima economia mondia-
le); essa costituiva perciò un seducente mercato (il secondo nell’emisfero occidenta-
le) per la televisione e per la cultura del consumo.
La rete Globo, nata al tempo in cui il Brasile era uno Stato autoritario, centralizza-
to, governato da una dittatura militare, si mosse rapidamente e con efficienza per ade- Il caso di Rede
Globo
scare una popolazione affamata di prodotti e informazione. Oggi rete Globo, che do-
mina l’etere brasiliano come nessuna singola rete televisiva ha mai fatto in Nordame-
rica, trasmette per lo più proprie produzioni e attira di conseguenza un’audience sera-
le di 60-80 milioni di persone. I programmi più visti sono i notiziari nazionali e le te-
lenovelas, che Globo trasmette a livello nazionale sei sere alla settimana e che raggiun-
gono da sole una percentuale di audience share compresa fra il 60 e l’80%.
Il progetto di ricerca diretto da Kottak dal 1983 al 1987 era uno studio a più li- Dal livello
velli, compiuto analizzando la televisione brasiliana sul piano nazionale e locale. La nazionale al
parte maggiore del lavoro a livello nazionale fu svolta tra l’agosto 1983 e l’agosto livello locale
1984. Kottak intervistò esperti e personale dell’industria televisiva e fece ricerche
statistiche e di archivio presso organizzazioni di ricerca sui media7. Al tempo stesso,
il progetto comprendeva un programma iniziale, a carattere principalmente qualita-
tivo, di studio dei contenuti.
486 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

Il passo successivo è stato uno studio dell’impatto a livello locale, che ha implica-
to un sistematico lavoro sul campo da parte di ricercatori brasiliani e americani.
Questo lavoro ha avuto inizio nel gennaio 1985, presso quattro comunità di differen-
ti regioni. Lo scopo era raccogliere dati qualitativi e quantitativi (utilizzando proto-
La raccolta dei colli standard) per permettere una comparazione sistematica fra comunità e persone
dati con differenti gradi di esposizione alla televisione. Il lavoro approfondito sul campo
si svolse dunque nelle quattro comunità appartenenti alle regioni del Sud (Ibirama),
del Centro-Sud (Cunha), del Nord-Est (Arembepe), e in Amazzonia (Gurupa).
Ogni luogo soddisfaceva anche un altro aspetto del progetto di ricerca – lo stu-
dio longitudinale – fondandosi su precedenti analisi. Ciascuna comunità era stata
studiata in precedenza, fornendo informazioni su come era la vita prima della tele-
visione. Uno degli aspetti deboli del progetto originario, comunque, era che le quat-
tro comunità erano tutte rurali e povere: quando i ricercatori tentarono di compara-
re i dati tratti dalle rispettive località con informazioni tratte da fonti urbane, capi-
rono di aver trascurato alcune connessioni essenziali. Avevano bisogno di estendere
le procedure sul campo, comprese le osservazioni etnografiche e le interviste strut-
Il riferimento turate, ai contesti profondamente difformi dal punto di vista socio-economico delle
ad analisi
precedenti
città in cui vivevano la maggior parte dei brasiliani. Nel 1986 si decise perciò di sce-
gliere due contesti urbani e economicamente più floridi nello Stato di Rio de Janei-
ro (Niteroi) e di San Paolo (Americana). Questi studi furono necessariamente più
brevi dei primi quattro.
Nel 1987, man mano che proseguiva il lavoro sul campo, il progetto prese in
esame i diversi effetti culturali, sociali, economici, e psicologici riscontrati presso le
popolazioni studiate in seguito all’introduzione della televisione8. Vennero analizza-
Il confronto
con i contesti te molte altre fonti di esposizione a situazioni esterne e a correnti di cambiamento9.
urbani La comparazione sistematica, alla quale fu integrata una dimensione temporale,
mostrò che l’effetto più profondo della televisione sulle persone, sulla società, e sul-
la cultura, aveva luogo gradualmente. Gli effetti potevano essere anche impercetti-
bili (sia per i nativi che per i ricercatori) in un momento dato. Comunque, il dise-
gno della ricerca (che studiava un’ampia gamma di comunità e persone esposte alla
televisione durante periodi di tempo variabili) rivelò di fatto diversi ambiti di in-
La gradualità fluenza del mezzo televisivo.
dell’effetto TV Il progetto confermò che l’impatto della televisione avviene per stadi. C’è uno sta-
dio iniziale (Stadio I – in atto a Gurupa) di novità e meraviglia. In questo stadio era il
medium (l’apparecchio televisivo) piuttosto che il messaggio (il contenuto) ciò che af-
fascinava. Lo Stadio II (Cunha, Arembepe) è un periodo di dieci o quindici anni ca-
ratterizzato da un estrema ricettività: la gente accetta, rigetta, interpreta e rielabora i
messaggi televisivi. Poiché la saturazione televisiva è ancora solo parziale, molte corre-
lazioni statistiche tra la visione e altri fattori risultano ovvie. La televisione produceva
le correlazioni più forti allo Stadio II presso le comunità di Arembepe e Cunha.
I quattro stadi Ibirama stava entrando nello Stadio III, mentre Americana e Niteroi c’erano
dell’impatto già in pieno. Una volta che la televisione ha raggiunto quasi tutte le case di una
della
televisione comunità, misurare il suo impatto in quei luoghi diventa meno ovvio: quando
una novità pervade una popolazione, la sua presenza si differenzia sempre di me-
no. Comunque, questo terzo stadio – in cui l’impatto della televisione sembra es-
sere minimo – ha delle conseguenze poco visibili, ma potenti. Lo Stadio IV,
esemplificato dagli americani della generazione del baby-boom e dai più giovani,
comprende gli effetti cumulativi della televisione sui nativi adulti che hanno tra-
scorso la loro vita in una società invasa dalla televisione, dalle strutture di com-
portamento e dalla cultura di massa che essa diffonde. Nel corso di questa quar-
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 487

ta fase, gli effetti socioculturali più profondi e di lunga durata della televisione
diventano ovvi (Kottak 1990).
Il ruolo svolto dalla televisione nel promuovere o ostacolare le interazioni socia- Le
trasformazioni
li dipende sia dalla cultura nella quale penetra, sia dallo stadio di saturazione della delle
comunità. Un effetto iniziale (Stadi I e II) è di promuovere i contatti sociali, riunen- interazioni
do assieme abitanti di case diverse per guardare la televisione. Negli Stadi I e II, si sociali
rinviene una netta correlazione fra il proprietario dell’apparecchio, le ore di tra-
smissione e il numero dei visitatori della casa. Nello Stadio III, invece, con il diffon-
dersi del possesso di apparecchi televisivi, la gente sta in casa a vedere la propria te-
levisione.
Il progetto ha anche confermato la prima idea dei ricercatori secondo cui le va-
riazioni culturali, politiche, e economiche nelle città, regioni, e nazioni, sono ele- Gli spettatori e
menti essenziali per comprendere gli effetti della tecnologia sul comportamento le loro scelte
umano. L’impatto della televisione non è una questione di semplice risposta auto-
matica e programmata a stimoli onnipotenti e irresistibili. La visione, l’interpreta-
zione, e l’effetto svolgono tutti un ruolo nel contesto della cultura precedente e nel-
le esperienze dei membri dell’audience. Gli spettatori non sono i passivi “pantofo-
lai” di cui brulicano i discorsi americani; sono, invece, esseri umani che fanno le lo-
ro scelte televisive e selezionano i programmi in modi che per loro hanno un senso.
Guardano la televisione per confermare credenze, sviluppare fantasie, e trovare ri-
sposte alle questioni che il contesto locale disapprova o condanna. La gente usa la
televisione per alleviare le frustrazioni, per costruire o migliorare la propria immagi-
ne, documentare un comportamento sociale e formulare arditi progetti di vita.
Qualche volta l’interazione tra lo spettatore e l’apparecchio conduce a progetti ir-
realizzabili, false speranze, rabbia, e frustrazione; ma il processo mediante il quale
la TV esercita il proprio effetto non è quello in cui un onnipotente Grande Fratello
colpisce un indifeso zombie.
Le scelte e le preferenze nei programmi riflettono categorie e contrasti sociali
preesistenti, differenze di potere, e diverse predisposizioni all’interno di una cul- Le telenovelas
come sfida alle
tura locale. Gli spettatori utilizzano la televisione in diversi modi: e continuano a nome locali
guardarla perché ritrovano un senso nelle sue immagini e nei suoi contenuti. A conservatrici
Ibirama, ad esempio, Alberto Costa (s.d.) concludeva che le donne e i giovani di
entrambi i sessi erano particolarmente attratti dalle telenovelas. Questi gruppi,
dal punto di vista sociale relativamente privi di potere, utilizzavano le telenovelas
di Globo per sfidare le norme locali conservatrici. Basandosi sull’esperienza tratta
dal progetto di ricerca sulla TV, Kottak e i suoi colleghi stanno conducendo altre Il progetto
ricerche in Brasile, sui rischi ambientali e sulla loro percezione. Il lavoro procede sulla
anche stavolta a livello locale e nazionale – prendendo in esame una serie di luo- percezione dei
rischi
ghi esposti ai rischi in modo differenziato (Costa, Kottak, Prado, Stiles 1991). ambientali
Due dei luoghi facevano già parte del precedente studio sulla televisione: in que-
sto modo il monitoraggio longitudinale continua. Il progetto si fonda su tre ipote-
si fondamentali:
1. L’innovazione culturale, la percezione del rischio e la consapevolezza ambien-
tale sono fenomeni culturali.
2. Si tratta di fattori nati attraverso un processo di cambiamento culturale e so-
Le dinamiche
ciale a livello nazionale e locale, in risposta alla posizione politica ed economica che dei modelli
un gruppo occupa nel sistema mondiale. culturali a
3. Questi mutamenti dipendono anche dalla dinamica interna dei modelli cultu- livello micro e
rali, che esistono in ogni società sia a livello macroscopico (nazionale) che micro- macro
scopico (locale).
488 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

Gli argomenti principali della ricerca – l’impatto della televisione e la percezio-


ne del rischio ambientale – illustrano il genere di questioni che possono essere af-
frontate quando l’associazione di lungo periodo tra ricercatori in una comunità di
ricerca li conduce a valutare le conseguenze di diversi interventi.

La trasformazione sociale nel distretto di Gwembe


Un altro studio comparativo che analizza a molteplici livelli, nello spazio e nel
tempo, il distretto di Gwembe in Zambia illustra anch’esso la metodologia delle
Connessioni. Il distretto di Gwembe mostra di esser connesso, attraverso una mol-
teplicità di percorsi, con più ampi sistemi sovrapposti – provinciale, nazionale e in-
Le molteplici ternazionale. La rete di trasporti e comunicazioni, il mercato del lavoro, i comitati
connessioni del di mercato per i prodotti destinati alla vendita, le agenzie internazionali e i processi
distretto di
Gwembe,
di mobilitazione politica si compenetrano coi sistemi locali di relazione e valutazio-
Zambia ne. La popolazione del Gwembe è consapevole di tutto questo in virtù dell’espe-
rienza sul territorio e attraverso i media (ai quali, comunque, sono molto meno
esposti dei brasiliani).
Negli anni Cinquanta molti uomini provenienti dal Gwembe lavoravano come
lavoratori stagionali in quello che è ora noto come Zimbabwe o nella Repubblica
Sudafricana; eppure, la gente andava ancora alla ricerca di frammenti d’informazio-
ne sul resto del mondo. Si chiedevano: L’Inghilterra è una città grande quanto Bula-
wayo? Si trova a nord o a sud? L’America è un’altra città?
La popolazione del Gwembe non si pone più queste domande. Sebbene solo
Lo sviluppo dei
tre città abbiano telefono e televisione, le persone vanno in città per visitare parenti
media e la e per cercare lavoro, e quindi sono esposte ai media. Negli anni Ottanta, solo pochi
crescita di quotidiani in più rispetto agli anni Sessanta e Settanta raggiungevano i villaggi: que-
informazioni sto fatto è un indizio del declino dell’economia nazionale, che ha avuto come esito
sul resto del la scarsità di carta per i giornali e il deterioramento delle strade. Ciononostante, la
mondo
gente può fare affidamento sulla radio (ve ne sono una o due in molti villaggi, fin
dai primi anni Sessanta) per ricevere informazioni sul resto del mondo, per le previ-
sioni del tempo, e per avere notizie sulla morte dei parenti che abitano in Zambia. Il
servizio postale, che non esisteva negli anni Cinquanta, non è sempre efficiente, ma
la posta arriva. I jet volano e collegano la capitale dello Zambia alle altre capitali
africane e a Londra, Parigi e New York. Tutti conoscono qualcuno che è stato in
Europa, America, India o Giappone.
Nei primi anni Cinquanta, gli stranieri – anche coloro che provenivano dalle re-
L’arrivo degli
stranieri in gioni vicine allo Zambia – visitavano di rado questo paese. Da allora, sono giunti in
Zambia molti: alcuni rimangono poche ore; altri mesi, o anni. Gli stranieri vengono in qua-
lità di turisti, antropologi, ricercatori, missionari, consulenti internazionali, operai
delle miniere e delle cooperative agricole, e lavoratori delle organizzazioni di volon-
tariato attive nel distretto fin dagli anni Settanta.
La popolazione locale sa qualcosa dei rapporti internazionali. Sono profonda-
mente consapevoli di quanto il declino dei prezzi del rame abbia inciso sull’econo-
mia dello Zambia, e di cosa significhi essere soggetti alle incursioni del Sudafrica.
Ogni villaggio ha vissuto una diaspora verso le città, e ricorda bene le fluttuazioni
Metodi di
dell’economia. Chi resta nei villaggi usa vecchie automobili e vecchi autobus per
ricerca spostarsi tra il villaggio e la città. Si considerano cittadini dello Zambia, un’entità
adeguati alla sempre più ampia nata negli ultimi trent’anni.
mobilità e al Lo studio longitudinale sul distretto di Gwembe, al pari di altre ricerche – come
radicamento quello su Tzintzuntzan, in Messico, iniziato nel 1945 (Foster 1978; Kemper 1978) – ha
internazionale
dovuto sviluppare una ricerca metodologica adatta alla mobilità geografica e sociale e
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 489

ai vari gradi di radicamento internazionale. È stato necessario, inoltre, trovare modi


per affrontare il fatto che le comunità hanno risorse diverse, un diverso accesso alle
strade e ad altri beni di consumo, diversi livelli di controllo amministrativo generale.
Il distretto del Gwembe si estende per 12.611 chilometri quadrati. La sua popo- Storia e
lazione è cresciuta da 55.000 abitanti nel 1956 a 96.879 nel 1980 (Serpell, Muna- descrizione del
chonga 1986, p. 48). Per decenni, circa il 45 per cento degli uomini in età da lavoro distretto di
sono emigrati come lavoratori stagionali. Il censimento del 1980 (il più recente che Gwembe
abbiamo) dà una proporzione sessuale dell’88.5; il distretto continua a perdere mol-
ti uomini. Molti abitanti del Gwembe vivono in villaggi con 100-800 abitanti. Negli
anni Sessanta nacquero piccole città; una di esse possiede una miniera di carbone, e
tre sono centri amministrativi. La popolazione del Gwembe usufruisce di molte più
risorse di quelle offerte dal distretto: hanno infatti accesso alle città e alle industrie
dello Zambia (fino al 1965, avevano anche accesso allo Zimbabwe).
I confini tra Zambia e Zimbabwe sono anche uno dei confini del distretto; ciò
rappresenta sia una fonte di opportunità che di pericoli. Durante la guerra d’Indi-
pendenza dello Zimbabwe negli anni Settanta, il Gwembe fu teatro di una guerri- Caratteristiche
glia che distrusse le infrastrutture e uccise molte persone. Comunque, il confine in- della ricerca
coraggia anche un commercio di merci di contrabbando, comprese le gemme
estratte in modo illecito nelle colline del Gwembe, e offre possibilità d’accesso alle
riserve dello Zimbabwe per i bracconieri.
Il progetto di ricerca del Gwembe richiede l’analisi di una molteplicità di luo-
ghi, perché nessun singolo villaggio o circondario può rappresentare in modo ade-
guato la diversità del Gwembe (Colson, Scudder 1975; Scudder, Colson 1978).
L’uso dei
Quattro villaggi e le zone circostanti, in località diverse, formano il nucleo della ri- censimenti e lo
cerca. I villaggi e i loro abitanti sono stati studiati per quattro decenni. I censimen- studio
ti periodici di villaggio (1956-57, 1962-63, 1965, 1973-73, 1981-82 e 1987-88) for- dell’emigra-
niscono dati essenziali sulla demografia, sull’economia e altre variabili scelte per zione
controllare i mutamenti nei rapporti di parentela e nei comportamenti rituali. Le
persone censite che si sono allontanate sono state rintracciate e intervistate (quan-
do è stato possibile), per confrontare le loro carriere con quelle di chi è rimasto
sempre nel villaggio. Le informazioni sull’emigrazione a scopi lavorativi, sugli spo-
stamenti tra città e campagne, e su altre forme di connessione mostrano fino a che
punto l’ambiente rurale e quello urbano appartengono a un singolo sistema. Oltre
ai villaggi-campione, Colson, Scudder e i loro aiutanti hanno utilizzato altri luoghi,
quando ciò era necessario per rispondere a domande specifiche. Un esempio è da-
to dalla valanga di dati statistici fornita dagli uomini e donne che hanno frequenta-
to la scuola secondaria prima del 1972. In quell’anno, essenziale per comprendere
le modalità di formazione di una élite, il numero delle persone che prendeva la li-
cenza di scuola secondaria era superiore al numero dei posti di lavoro per i quali
questo titolo era requisito necessario.
Alcuni assistenti di ricerca in Zambia hanno raccolto una documentazione degli Le
eventi e dei diari giornalieri sulla quantità di cibo comprata e consumata. Da queste trasformazioni
dei consumi
note sul campo è possibile ricostruire i prezzi nei diversi periodi. I cambiamenti
nelle preferenze del villaggio sono documentati da liste di acquisti degli abitanti,
che desideravano le merci dei negozi di città. Queste note contengono anche osser-
vazioni basate sulla frequenza alle riunioni, alle corti di giustizia locali, alle riunioni
del villaggio e del distretto, ai servizi religiosi, ai funerali, ai rituali associati con la
famiglia e il vicinato.
Queste informazioni sono integrate da interviste con commercianti e funzionari,
tecnici, politici, ed esuli impiegati nelle missioni e negli organismi internazionali di
490 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

volontariato. È stato anche possibile accedere a documenti del governo e ad altri


documenti, pubblicati e non, inclusi quelli di missioni speciali. Anche i sociologi
dello Zambia che hanno lavorato nel distretto hanno fornito alcune informazioni
sui mutamenti avvenuti.
Successivamente, diverse questioni sono venute alla luce, mentre si continuano a
raccogliere dati essenziali sulle comunità e sugli individui. Il primo punto nodale del-
Le lo studio è legato all’impatto ambientale di una grande diga idroelettrica, che ha alla-
conseguenze gato le pianure del fiume Zambesi e ha costretto gli abitanti a spostarsi in un nuovo
della
costruzione di
insediamento. In ogni caso, la diga ha anche causato la costruzione di strade e il sor-
una diga gere di altre attività che hanno messo la popolazione del Gwembe in contatto con il
resto dello Zambia (Colson 1971; Scudder 1982; Scudder, Habarad 1991).
Quando la diga venne costruita, l’educazione primaria era poco sviluppata, e
pochi uomini avevano frequentato quella secondaria. Nei tardi anni Sessanta l’edu-
cazione era diventata uno delle maggiori preoccupazioni del Gwembe, ed ebbe un
ruolo molto importante nei cambiamenti che stavano avvenendo. Di conseguenza,
Scudder e Colson (1980) strutturarono la ricerca in modo da esaminare il ruolo
svolto dal sistema educativo nazionale nel dare accesso a nuove opportunità facen-
Il ruolo svolto do crescere la differenziazione sociale nel distretto e nell’intera nazione. Allo stes-
dal sistema
educativo
so tempo, era evidente che quello del bere stava diventando un problema sempre
più grave. Un terzo studio, quindi, prese in esame l’interazione tra mercati, tra-
sporti ed esposizione ai valori della città prodotta dalla trasformazione della fab-
bricazione di birra domestica e dal cambiamento radicale nelle abitudini del bere
(Colson, Scudder 1988).
Utilizzando dati raccolti nel corso degli anni, è stato anche possibile esaminare il
ruolo del mercato, dell’estensione dei servizi, degli organismi di sviluppo e delle mi-
niere, che avevano trasformato l’agricoltura locale. Le connessioni hanno fatto del
Gwembe (e del resto dello Zambia) un distretto più sensibile alle alterazioni dei
prezzi internazionali, alle direttive della Banca Mondiale e del Fondo Monetario In-
ternazionale, e alle pressioni di altri organismi internazionali. Negli anni Ottanta gli
abitanti dei villaggi del Gwembe, così come ogni altro abitante dello Zambia, parla-
La no così del loro desiderio di forex (valuta estera), sono consapevoli del tasso di
trasformazione
dei tribunali cambio sul mercato legale e al mercato nero. A metà degli anni Ottanta, la vulnera-
locali bilità economica ha portato all’espropriazione della terra del villaggio da parte del
“transnational agribusiness” finanziato da Germania, Stati Uniti, Irlanda e Hong
Kong (Scudder 1985; Scudder, Habarad 1991).
L’insieme dei dati raccolti attraverso lo studio longitudinale del distretto di
Gwembe ha reso possibile l’esame di molti altri aspetti del cambiamento. Un esem-
pio è la trasformazione dei tribunali locali, soggetti a una supervisione centralizzata
L’uso delle e che ora continuano a utilizzare procedure standard stabilite dagli avvocati dello
strutture dei Zambia (formatisi in Europa e America) presso il Ministero della Giustizia (Colson
partiti 1976). I dati longitudinali sulle azioni politiche e i governi locali sono anche alla ba-
se del recente studio sull’uso innovativo, da parte degli abitanti dei villaggi delle fa-
sce più basse, delle strutture organizzative del partito politico come integrazione
delle istituzioni locali, che non funzionano più in modo efficace (Habarad s.d.).
Fin dall’inizio, lo studio sul Gwembe era pianificato per essere più di un reso-
conto etnografico, relativo a un singolo segmento temporale: l’idea era di esaminare
l’impatto di progetti di sviluppo su larga scala e di strategie di sviluppo nazionale.
Assieme ad altri studi longitudinali, anche questo ha messo in luce i limiti degli stu-
di sincronici e le trappole insite negli studi annuali, che per molto tempo hanno co-
stituito un parametro di riferimento.
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 491

I risultati della ricerca nel Gwembe si possono applicare alle esperienze di in-
corporazione e trasformazione vissute da gran parte del Terzo Mondo (vedi Bodley
1988). Negli ultimi cento anni il Gwembe è stato incorporato in un sistema colonia- Il Gwembe e le
le, i suoi uomini sono stati costretti all’emigrazione per lavoro, sono stati soggetti al esperienze di
dominio politico straniero e coinvolti in una politica di indipendenza, e infine sono trasformazione
del Terzo Mondo
stati convertiti alle religioni cristiane. Più di recente, il Gwembe è stato meta di mis-
sioni di sviluppo straniere, le sue condizioni ambientali sono state profondamente
alterate dalla creazione di uno dei bacini artificiali più vasti, e il paese si è orientato
verso un’economia di mercato dominata dall’agricoltura commerciale. Il Gwembe
sta ora perdendo molte terre, che vengono acquistate da imprese straniere. Le mi-
niere e i pesticidi utilizzati in agricoltura stanno mettendo in pericolo le risorse idri-
che e l’industria della pesca nei laghi.
L’immunizzazione dei bambini e altre misure sanitarie hanno abbassato la per-
centuale delle morti, ma le malattie provenienti dal resto del mondo mettono perio- Problemi
dicamente a rischio la vita degli abitanti. La siccità e gli alti prezzi del cibo aumen- sanitari e
climatici
tano i tassi di malnutrizione. Fin dai primi anni Ottanta, come il resto dello Zambia
e di molte parti dell’Africa centrale e orientale, il Gwembe è stato minacciato dal
dilagare dell’Aids, a cui la popolazione sta ancora cercando una spiegazione. La fre-
quenza delle recenti siccità, avvenute una dopo l’altra, può essere un’indice del fat-
to che il Gwembe è anche scosso da cambiamenti climatici legati all’aumento delle
sostanze inquinanti nell’atmosfera (largamente dovute ad attività nell’emisfero set-
tentrionale) e alla distruzione delle foreste tropicali pluviali, ulteriore riflesso dei
mercati internazionali.
Il Gwembe non è un’enclave remota ed esotica, unica nella sua esperienza. Al
contrario esso compendia l’endemica situazione del mondo contemporaneo. Que-
sto è ciò che fa di questo studio longitudinale un utile metro di valutazione per esa-
minare le connessioni tra i cambiamenti a livello locale, e le mutevoli linee di con-
dotta e necessità del sistema internazionale.

Questioni metodologiche
Né il progetto Kottak né lo studio sul Gwembe rientrano nella categoria di stu-
di di comunità. Essi non si basano su un campione casuale di popolazioni scelte per L’obiettivo dei
rappresentare un sistema più ampio. Ogni studio intende trarre vantaggio dagli progetti: lo
aspetti positivi legati ai metodi passati dell’etnografia. In ogni progetto, l’intento è studio della
di creare diversi campioni di popolazione in diversi luoghi, scelti perché si oppon- variazione e
delle
gono l’uno all’altro in modo significativo. Queste variazioni rappresentano l’aspetto trasformazioni
principale del progetto; l’obiettivo è il tentativo di analizzare i processi di cambia-
mento, piuttosto che trarre delle conclusioni sulla coesione culturale.
Ricerche così ampie e complesse forniscono una enorme quantità di dati; divie-
ne difficile così mantenere una prospettiva unitaria e utilizzare tutte le informazioni La sfida alla
in modo efficace. Questo è uno dei problemi irrisolti che si creano quando le ricer- ricerca: dati
che integrano i dati raccolti nel tempo, studiano le interazioni a più livelli, e compa- comprensibili e
forme di
rano campioni di popolazione e percorsi evolutivi individuali utilizzando diverse finanziamento
variabili. Per permettere ad altri ricercatori di utilizzare e proseguire il nostro lavo-
ro, i dati devono essere comprensibili. Per i nostri studi longitudinali e comparativi,
il loro scopo è fornire campioni noti che possano essere utilizzati non appena si pre-
sentino nuove questioni; è necessaria perciò un’adeguata preparazione e un oppor-
tuno immagazzinamento dei dati. Questo pone una sfida ai tradizionali organismi
che finanziano l’antropologia, di solito pronti a finanziare studi su scala ridotta per
un solo ricercatore, e che spesso non erogano fondi per questo tipo di analisi. I pro-
492 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

getti sulle connessioni producono dati di massa, e i budget delle sovvenzioni (come
in tutte le altre scienze sociali) devono contemplare la necessità di operazioni di co-
difica e analisi.
I database Il Linkages group ha utilizzato i dati del Gwembe come terreno di prova, per
come creare un programma informatico adatto alle ricerche longitudinali antropologiche.
strumento per Douglas White, della University of California, Irvine, James Lee, del California In-
altri ricercatori stitute of Technology e i loro studenti stanno analizzando dati temporali sulla mor-
talità, fertilità, matrimoni, emigrazione per lavoro, dimensione della famiglia e delle
fattorie, e altre mediazioni esterne.
Un successo in questa sede non solo fornirebbe strumenti ad altri che già com-
piono, o vogliono iniziare, ricerche simili, ma vorrebbe anche dire che i dati del
Gwembe possono essere utilizzati come strumenti di ricerca da altri antropologi.
Diversi database di questo tipo potrebbero aiutare gli antropologi a fornire argo-
mentazioni più efficaci quando criticano o prendono parte attiva alla progettazione
di interventi.

Conclusione
Le origini
I postulati teorici e le metodologie legate alla consapevolezza della moltepli-
dell’approccio cità di livelli nel tempo, nello spazio, e negli studi – ossia quel che possiamo de-
alle finire l’approccio alle “Connessioni” – si basano su lavori antropologici prece-
Connessioni: denti, come abbiamo già sottolineato. Le ricerche su larga scala e i progetti com-
Steward, parativi di Julian Steward (Steward et al. 1956, Steward 1967), pensati per ana-
Gluckman,
Mitchell e altri lizzare le trasformazioni culturali, hanno influenzato le nostre idee sul radica-
mento e sulle connessioni. Il lavoro di sperimentazione sull’urbanizzazione e sul
continuum rurale-urbano portato avanti da Max Gluckman, Clyde Mitchell e al-
tri al Rhodes-Livingstone Institute fornisce altri importanti riferimenti. Più di re-
cente, l’analisi regionale di Carol Smith (1984a, 1987) e gli approcci al sistema-
mondo di Mintz (1985), Wallerstein (1974, 1980) e Wolf (1982) hanno confer-
mato la nostra posizione, secondo cui le società locali non siano mai isolate ma
devono essere analizzate sulla base di più ampi contesti. Strumenti per analisi
comparative sono stati sviluppati da ricercatori e antropologi che lavorano con
lo Human Relations Area File e il World Etnographic sample, e da altri interessati
a una comparazione sistematica.
Quel che stiamo facendo e le tesi che sosteniamo sono sempre più comuni in
campo antropologico; tuttavia il contributo più importante dato dall’approccio
connessionista sta nel riuscire a combinare l’intensità dello studio a lungo termine
e le possibilità di istituire una comparazione, ritrovare un ordine e condurre un’a-
nalisi sistematica con l’ausilio della tecnologia del computer. La nostra metodolo-
gia consente comparazioni molto particolareggiate, sincroniche e diacroniche, per
valutare le intuizioni e le ipotesi sui significati delle interconnessioni in continuo
Comparazioni
mutamento, che uniscono la popolazione locale a sistemi di ampia scala.
particolareggiate Gli antropologi hanno raccolto informazioni di base per buona parte del mon-
e significati delle do. Comunque, fare oggi buona antropologia significa ammettere che quasi tutti i
interconnessioni fattori che danno origine all’azione locale vanno ricondotti al sistema-mondo, e che
dobbiamo fare attenzione al passato e al futuro tanto quanto al presente. La televi-
sione, la radio, i giornali, i viaggi, l’educazione, le religioni che fanno proseliti, le or-
ganizzazioni multinazionali, le macchine militari e i mercati internazionali sono isti-
tuzioni che hanno effetto su ognuno di noi. Queste connessioni moderne sono par-
te integrante dei dati antropologici.
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 493
* Thayer Scudder ha letto e commentato una precedente versione di questo saggio. Anche un nostro fellow mem-

ber del Panel on Social Transformations in Preindustrial and Industrializing Societies ha fatto interressanti commenti su
questo lavoro.
1 Il gruppo orginario includeva Lilyan Brudner-White, Michael Burton, Elizabeth Colson, Scarlet Epstein, Nancy

Gonzalez, David Gregory, Conrad Kottak, Thayer Scudder, e Douglas White. Più avanti si unirono anche Robert Van
Kemper e Chad McDaniel.
2 La ricerca sulla televisione di Kottak è stata finanziata da tre organismi, oltre che dalla University of Michigan

(che gli concesse un anno sabbatico): 1) la Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research, con una borsa di
studio “I mass media elettronici e il cambiamento sociale in Brasile” (1983-84); 2) la National Science Foundation con
una borsa di ricerca (NSF - G - BNS 8317856 Kottak) per studiare “L’impatto sociale della televisione nel Brasile rura-
le” nelle regioni di Bahia, Pará, Santa Catarina e São Paulo (6/84 -11/86); e 3) il National Institute of Mental Health
con una borsa di ricerca (DHHS - PHS - G- 5-RO 1-MH4388 1503 Kottak) per analizzare “Gli effetti sul comporta-
mento della televisione in Brasile” che ha finanziato il lavoro del gruppo sul campo e l’analisi di dati in sei comunità ru-
rali brasiliane (1/1/85 - 12/31/88).
3 Insieme a Isabel (Betty) Wagley Kottak, Conrad Kottak ha studiato Arembepe, nella regione di Bahia, una città

sulla costa la cui popolazione conta ora 2.000 abitanti, dal 1962 (Kottak 1983). Primo dei luoghi su cui è stata condotta
la ricerca sulla televisione, Arembepe venne fondata alla fine del diciannovesimo secolo da ex schiavi delle piantagioni
di zucchero nella regione di Bahia Reconcavo. Nel 1985, per il progetto sulla televisione, altri due ricercatori raggiunse-
ro i Kottak: Irani Escolano, un brasiliano, che era a quel tempo dottorando in ‘metodologia della ricerca’ all’Hunter
College of the City University of New York; e Pennie Magee, una studentessa di dottorato in antropologia alla Univer-
sity of Florida, che aveva vissuto in precedenza molti anni in Brasile.
4 Elizabeth Colson visitò per la prima volta il distretto di Gwembe nel 1949. Nel 1956 lei e Thayer Scudder inizia-

rono uno studio a lungo termine, inizialmente legato a una ricerca sull’impatto di una grande diga idroelettrica e l’inse-
diamento della popolazione dell’area che doveva essere allagata. Scudder e Colson hanno rivisitato il distretto di fre-
quente, nel 1956-1957, 1960, 1961-1962, 1965, 1968, 1972-1973, 1975, 1978, 1981-1982, 1983, 1987, 1989. Jonathan
Harabad si è unito al gruppo nel 1987 ed è rimasto diciotto mesi nel Gwembe. Douglas White, James Lee e i loro stu-
denti hanno lavorato all’analisi dei dati dei censimenti a partire dal 1987. La ricerca è stata finanziata dal Rhode-Living-
stone Institute (ora Institute for African Studies in the University of Zambia), la FAO, il Joint Committee on Africa of
the Social Sciences Research Council of Learned Societies, il John Guggenheim Foundation, e il National Science
Foundation con borse nel 1972-1973, 1981-1982, 1987 e 1987-1988.
5 Questo divenne chiaro alla prima conferenza sugli studi a lungo termine in antropologia sociale, tenutasi nel

1975 (Foster et al., a cura, 1979).


6 Gurupa o Ita è un’altra area longitudinale, originariamente studiata da Charles Wagley nel 1949 (Wagley 1953),

successivamente da Darrell Miller e Richard Pace (1987).


7 In seguito, per completare la parte di livello nazionale della ricerca, nell’estate del 1986 il dr. Joseph Straubhaar

del Department of Telecommunication della Michigan State University, la cui precedente ricerca era incentrata sulla te-
levisione brasiliana, lavorò con la consulente della ricerca a Rio, Lucia Ferreira Reis, raccogliendo informazioni aggiun-
tive a Rio e San Paolo. Trassero i dati dalle maggiori organizzazioni di ricerca sull’opinione pubblica e sui media. Que-
sti dati furono raccolti per le città che trasmettevano segnali televisivi ricevuti in ogni comunità del progetto, durante il
periodo in cui la ricerca nelle comunità continuava, per poterli confrontare con i dati raccolti nelle comunità e fornire
una prospettiva a livello regionale e nazionale sulla diffusione televisiva e sul suo impatto, dando un’idea del contrasto
urbano-rurale.
8 Oltre al libro di Kottak (1990), che fornisce una prospettiva generale dei principali risultati della ricerca, sono

stati scritti articoli su tematiche quali la televisione e la razza, la televisione e la pianificazione familiare, la televisione e
lo sviluppo economico.
9 Abbiamo anche analizzato vari rapporti con il mondo esterno, compreso l’uso del telefono, la frequenza, la desti-

nazione e i motivi del viaggio, del servizio militare, e la precedente residenza urbana. I nostri questionari contenevano di-
verse domande sulle fonti di informazione oltre alla televisione, inclusi i giornali, i quotidiani, i libri, la radio e il cinema.

Biografie intellettuali

Conrad Phillip Kottak è docente di antropologia alla University of Michigan,


dove insegna dal 1968. Kottak è l’attuale (1990-1992) presidente della General
Anthropology Division of the American Anthropological Association. Antropologo
culturale, ha lavorato sul campo in Brasile (dal 1962), Madagascar (dal 1966), e ne-
gli Stati Uniti. Tra i suoi libri: Assault on Paradise: Social Change in a Brazialian Vil-
lage (1983), Prime-Time Society: An Anthropological Analysis of Television and Cul-
ture (1990), The Past in Present: History, Ecology and Cultural Variation in Highland
494 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

Madagascar (1980), Anthropology: The Exploration of Human Diversity (1978), Cul-


tural Anthropology (1987). Ha inoltre curato Researching American Culture (1982) e
Madagascar: Society and History (1986).

Mi sono laureato (1963) e ho concluso il mio dottorato (1966) alla Columbia


University. Lì ho studiato con Marvin Harris, presidente della mia commissione di
dottorato, e Robert Murphy. Le mie letture e il rapporto coi miei professori alla
Columbia University e i miei colleghi alla University of Michigan, sono stati il tra-
mite attraverso il quale ho subito l’influsso di Leslie White e, in particolare, di Ju-
lian Steward. White, che è stato per molti anni una figura di primo piano nel Di-
partimento di Antropologia della University of Michigan, si è fatto interprete di
una ripresa dell’interesse nei confronti dell’evoluzione culturale. Al pari di White,
ero insoddisfatto dall’eccessivo interesse di Boas per gli eventi particolari, e non
riuscivo ad accettare la tesi secondo cui alcuni elementi della cultura giocano un
ruolo più importante di altri nel cambiamento sociale. Mi piaceva l’atteggiamento
di White che rifuggiva dalle generalizzazioni e dalle sintesi, combattendo a difesa
delle più importanti trasformazioni sociali. Ho incontrato Leslie White quando so-
no giunto alla University of Michigan, nel 1968; ma era prossimo alla pensione, e
non ci siamo mai conosciuti a fondo. Tuttavia alcune delle posizioni chiave di Whi-
te erano portate ancora avanti da alcuni suoi colleghi e studenti, Marshall Sahlins e
Elman Service (che avevano entrambi studiato alla Columbia, dove avevano subito
l’influsso di Steward).
Ancora più importante nella mia genealogia intellettuale è Julian Steward, che
non ho mai conosciuto. Molto prima che io arrivassi alla Columbia infatti si era
spostato all’University of Illinois, ma il suo l’influsso alla Columbia era ancora
molto forte, soprattutto sui miei professori: Harris, Murphy e Morton Fried. È a
partire da Steward (attraverso Harris – e più tardi grazie al mio collega Roy Rap-
paport della University of Michigan) che trae origine il mio interesse nei confronti
dell’ecologia culturale. Nel suo libro Teoria del mutamento culturale (1963), Ste-
ward spingeva gli antropologi a analizzare le relazioni causali tra elementi ambien-
tali e aspetti della cultura. Da Steward e dai suo allievi appresi che l’ecologia può
plasmare le culture in diverse direzioni; tale influsso si evidenzia ogniqualvolta si
comparano le culture nello spazio, o si studiano nel tempo. Accolgo l’idea di Ste-
ward di un “evoluzionismo multilineare” (la nozione cioè che le culture si svilup-
pino in modo diverso, a seconda delle condizioni ambientali e delle economie, ma
possano comunque essere comparate). Ho utilizzato alcuni dei modelli evolutivi
di Steward nel mio studio sulla diffusione culturale adattiva in Madagascar ( The
Past in Present: History, Ecology and Cultural Variation in Highland Madagascar ,
1980). Il lavoro di Steward sulla formazione degli Stati (Cultural Causality and
Law: A Trial Formulation of the Developmente of Early Civilization) ha ispirato le
mie ricerche in Uganda e Madagascar. (I miei professori Morton Fried e Elliott
Skinner sono stati a loro volta essenziali nello spingerni a interessarmi alla forma-
zione dello Stato africano). L’interesse di Steward per l’ecologia culturale e l’evo-
luzione ha influenzato nettamente il materialismo culturale di Marvin Harris, con
cui mi sono specializzato. Infine, Steward ha avuto su di me un influsso attraverso
il progetto di ricerca che ha diretto a Puerto Rico (pubblicato come The People of
Puerto Rico nel 1956). Da questo progetto ho appreso che gli antropologi dovreb-
bero fare attenzione alle forze internazionali, nazionali, regionali e all’ambiente lo-
cale. Il progetto di Puerto Rico di Steward mostra il valore della ricerca di grup-
po, della comparazione sistematica e di un’ampia prospettiva storica. La mia ge-
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 495

nealogia intellettuale può risalire a Steward anche passando attraverso il suo allie-
vo e collaboratore a Puerto Rico, Eric Wolf (un collega alla University of Michi-
gan). Il mio lavoro più recente è stato particolarmente influenzato dall’approccio
al sistema-mondo di Eric Wolf (come è stato elaborato nel suo L’Europa e i popoli
senza storia, 1982). Parte del mio interesse per il ruolo integrativo svolto dai media
nella cultura nazionale va anch’esso ricondotto al progetto di Puerto Rico diretto
da Steward. Dalla metà degli anni Ottanta il mio lavoro sui media, sulla cultura
popolare e sulle culture nazionali si è affiancato a quello dell’antropologo brasia-
liano Roberto Da Matta, ricollegandomi in tal modo anche alla sua genealogia in-
tellettuale.
A volte, la genealogia intellettuale diventa genealogia vera e propria: mio suoce-
ro infatti era Charles Wagley, professore di antropologia alla Columbia e famoso ri-
cercatore di studi brasiliani. Insieme a Marvin Harris (anch’egli suo allievo), Wagley
mi ha aiutato a perfezionare le mie ricerche in Brasile, e mi è inoltre stato di aiuto
nelle ricerche di gruppo e nella comparazione sistematica (attraverso il progetto di
ricerca descritto nel testo di Wagley Race and Class in Rural Brazil, 1952). Infine, la
mia ricerca in Madagascar è stata suggerita e sostenuta dall’antropologo sociale
francese George Condominas, con cui ho studiato alla Columbia e a Parigi. Condo-
minas ha stimolato il mio interesse per la formazione dello Stato in Madagascar.
Oggetto dei miei interessi generali sono i processi attraverso cui le culture locali
si connettono a sistemi più ampi. Questo interesse connette le mie precedenti ricer-
che sull’ecologia e sulla formazione dello Stato in Africa e Madagascar alle attuali
ricerche sulla dimensione umana del cambiamento ambientale globale, dello svilup-
po economico, della cultura nazionale e internazionale, e dei mass media. La mia ri-
cerca sulla cultura popolare negli Stati Uniti e soprattutto in Brasile, portata avanti
dal 1983 al 1987, ha condotto a Prime-Time Society, uno studio comparato sulla na-
tura e sull’impatto della televisione. La mia attuale ricerca (sia teorica che applicata)
si incentra sugli elementi ambientali e sui modi in cui le persone reagiscono a questi
ultimi. Credo che quello della conservazione ambientale sia un obiettivo che è ne-
cessario porsi – sia in una prospettiva globale, nazionale e di lungo periodo, sia in
una prospettiva locale. Comunque, se l’accesso alle risorse tradizionali deve essere
vietato, allora devono essere rimpiazzate da alternative culturalmente appropriate.
Come mostra il saggio scritto con Colson, sono interessato ai media, all’ecologia, al
cambiamento sociale, e agli studi comparativi e longitudinali.

Elizabeth Colson è professore emerito di antropologia alla University of Califor-


nia-Berkeley. Ha condotto ricerche su diversi gruppi, compresi i nativi americani, i
giapponesi-americani, e gli australiani. Il suo lavoro sul campo più noto è stato nel
Plateau Tonga e Gwembe Tonga in Zambia, durante un periodo di quarant’anni –
dal 1946 al 1989. Dalla sua ricerca sono nate diverse pubblicazioni, tra cui The Ma-
kah (1953), Marriage and the Family among the Plateau Tonga (1958), Social Organi-
zation of the Gwembe Tonga (1960), The Social Consequences of Resettlement
(1971), Tradition and Contract (1975), Planned Change (1982), e con Thayer Scud-
der, Secondary Education and the Formation of an Elite (1980) e For Prayer and Pro-
fit (1988). È membro della National Academy of Science, dell’American Academy
of arts and Sciences, e Honorary Fellow of the Royal Anthropological Institute.
All’inizio, all’University of Minnesota, ho studiato con Wilson Wallis, che a sua
volta aveva studiato alla Oxford University, e Robert Marrett, che era allievo di Ed-
496 CONRAD KOTTAK, ELIZABETH COLSON

ward Tylor. Wallis aveva seguito i seminari di Franz Boas. Sosteneva che l’antropo-
logia aveva a che fare con l’umanità in tutti i luoghi e tempi (e dunque non era solo
lo studio di gruppi “primitivi”). Come dottoranda alla University of Minnesota, ho
studiato anche con David Mandelbaum, allievo di Edward Sapir e Melville Hersko-
vits, che era stato influenzato da Clark Wissler. A Radcliffe, dove ho ottenuto il mio
dottorato, ho studiato con Clyde Kluckhohn; costui era stato Rhodes scholar a Ox-
ford, con Robert Marret, e aveva studiato a Vienna con Padre Schmidt e altri mem-
bri della Kulturkreise School. Al ritorno negli Stati Uniti, si era avvicinato a Ed-
ward Sapir sviluppando la problematica dell’interazione tra la personalità e la cultu-
ra e il suo interesse per i valori. Kluckhohn ha sostenuto con forza l’importanza de-
gli studi sul campo a lungo termine; egli desiderava che i suoi studenti leggessero
testi di vario tipo – compresi testi di psicologi, sociologi, e i cosiddetti “antropologi
sociali inglesi”. (Stava discutendo con Talcott Parsons e Gordon Allport sulla possi-
bilità di creare un dipartimento di relazioni sociali che riunisse antropologia, socio-
logia, e psicologia).
Come membro del New York University Field Laboratory di Scienze Sociali per
tre estati, ho condotto lavoro sul campo con Burt e Ethel Aginsky. Erano allievi di
Boas e Ruth Benedict, e a quel tempo stavano partecipando al seminario Kardener-
Linton alla Columbia, dove si studiava l’interazione tra personalità e cultura. Foca-
lizzando gli interessi del laboratorio su questioni contemporanee, gli Aginsky mi in-
dussero a considerare l’antropologia come uno studio delle azioni. Un altro mem-
bro del seminario Kardiner-Linton era Alexander Leighton, con cui ho studiato co-
me assistente analista in scienze sociali al Colorado War Relocation Camp, meglio
noto come Poston. A quel tempo, comunque, stavo abbandonando gli studi di cul-
tura e personalità per dedicarmi con più attenzione a ricerche sulla struttura socia-
le, incoraggiata a ciò da Edward Spicer, che aveva lavorato con Leighton. Spicer era
stato allievo di Radcliffe-Brown a Chicago, ed era particolarmente interessato alle
strutture sociali e al funzionalismo. Il suo impulso mi spinse a occuparmi dell’anali-
si delle attività a cui le persone prendevano parte, e ai modi con cui ne parlavano,
come mezzi per meglio comprenderle.
Nel 1946 sono giunta al Rhodes-Livingstone Institute, diretto a quel tempo da
Max Gluckman. Gluckman aveva studiato antropologia con Winifred Hoernle (che
a sua volta aveva studiato a Cambridge con Rivers), e si era recato a Oxford, dove
Marett era ancora una figura dominante dell’antropologia. Come tutti quelli della
sua generazione che avevano studiato in Inghilterra, Gluckman aveva seguito il se-
minario di Malinowski alla London School of Economics; ma quando Radcliffe
Brown arrivò a Oxford, Gluckman lo trovò più congeniale a sé dal punto di vista
intellettuale rispetto a Marett e Malinowski. Gluckman si interessava alle forme di
risoluzione del conflitto, e soprattutto al mantenimento di alcune forme di comuni-
tà in situazioni potenzialmente disgregative. Sottolineava anche, come già Kluc-
khohn, l’importanza della raccolta di dati demografici. La repulsione esercitata su
di lui dalla situazione in Sudafrica, il nazismo in Germania, e più in generale la mi-
seria della depressione lo avevano spinto, come tanti altri della sua generazione, a
leggere molti testi marxisti. L’emigrazione di intellettuali tedeschi significava anche
emigrazione delle tradizioni antropologiche tedesche, compreso il lavoro di Max
Weber, che divenne parte integrante degli interessi dell’epoca, anche se Durkheim e
la sua scuola continuavano a esercitare un maggiore influsso sugli antropologi ingle-
si. Sono stata per un anno, dal 1947 al 1948, a Oxford, insieme ad altri ricercatori
dell’Isituto (John Barnes e Clyde Mitchell), mentre Max Gluckman era Senior Lec-
turer, Meyer Fortes era reader, e Edward Evans-Pritchard aveva preso il posto di
CONNESSIONI A MOLTEPLICI LIVELLI: LONGITUDINE E STUDI COMPARATIVI 497

Radcliffe-Brown come professore. Era il massimo per chi si interessava allo studio
delle strutture sociali come problema principale dell’etnografia. In quell’anno, gli
allievi erano Paul Bohannan, Laura Bohannan, Mary Dougls e John Middleton.
Una volta alla settimana, andavo a Londra per il seminario di Raymond Firth della
London School of Economics e Daryll Forde dell’University College di Londra. Era
considerato la continuazione del seminario di Malinowski ed era portato avanti se-
guendo le stesse linee. Audrey Richards, Siegfried Nadel, Edmund Leach, John
Persitiany e Kenneth Little vi prendevano regolarmente e attivamente parte.
Ho insegnato vari argomenti, dall’antropologia politica all’organizzazione socia-
le comparata, dalla religione agli studi sull’emigrazione, sino alla storia della teoria
antropologica. Anche la mia ricerca è perciò stata multiforme, sia geograficamente
che in termini di teorie, ma si è incentrata sulle conseguenze dell’emigrazione forza-
ta, o della minaccia di dislocazione. Ho sostenuto l’importanza degli studi longitu-
dinali perché credo possano fornire una migliore base per lo studio antropologico
del processo di cambiamento e continuità. Sto attualmente lavorando su diversi ar-
ticoli che analizzano le risposte date a una dislocazione forzata, e con Thayer Scud-
der sto scrivendo un libro sulle risposte in ambito religioso emerse tra i parlanti di
Tonga nello Zambia del Sud, attraverso un secolo di cambiamenti.
Parte sesta
L’antropologia applicata
Introduzione alla parte sesta
Robert Borofsky

Coloro che credono nel ruolo attivo dell’antropologia come agente di cambia-
mento positivo – nel suo ruolo di scienza riformatrice (per dirla con Edward Tylor)
– hanno, oggi, poco di che rallegrarsi. Invece di sviluppo, democrazia e tolleranza
etnica – obiettivi che ispirarono la formazione delle Nazioni Unite, i programmi di
aiuto occidentali e una moltitudine di nazioni rese indipendenti dopo la seconda
guerra mondiale – nel mondo troviamo spesso povertà, dittature repressive e con-
flitti etnici. Non è ancora del tutto chiaro perché ciò è accaduto, nonostante i note-
voli sforzi compiuti per ottenere il contrario.

La visione dell’antropologia
Come indicato nell’introduzione, esiste un significativo divario tra gli ideali del-
l’antropologia e la realtà delle sue applicazioni pratiche. Nell’antropologia sono dif-
L’eguaglianza fra fusi tre concetti.
gli uomini Innanzi tutto, enfatizza l’uguaglianza degli esseri umani. Pone l’accento su ciò
che unisce i vari gruppi etnici e razziali, piuttosto che su ciò che li separa, allarga il
senso di comunità morale, fornisce – come asserisce Kluckhon (1949, p. 11) – “una
base scientifica per trattare il cruciale dilemma del mondo attuale: come possono
popoli d’aspetto diverso, di lingue reciprocamente inintelligibili e diversi sistemi di
vita coesistere pacificamente?”.
Secondo, valorizza la differenza culturale. Gli antropologi ritengono – e citan-
do ancora Kluckhon (1949, p. 284) – che “al mondo devono essere salvaguardate
le differenze. La conoscenza dei problemi degli altri e dei sistemi di vita estranei
La differenza deve diventare così generale da rendere possibile una tolleranza positiva”. Hersko-
culturale vits (1963, pp. 544-545) ritiene che “se una società nel mondo è in grado di uscire
dal conflitto dell’etnocentrismo che noi chiamiamo nazionalismo, ciò non può che
avvenire sulla base del ‘vivi e lascia vivere’, della disponibilità a riconoscere quei
valori che vanno ritrovati nei più differenti modi di vivere”. Dal punto di vista an-
tropologico, la differenza culturale è un bene, una risorsa cui attingere. Lévi-
Strauss, nel suo contributo a questo volume, osserva: “È la differenza tra le culture
a rendere fruttuoso il loro incontro” (p. 511) non la loro somiglianza. Osserva, ma-
liziosamente, che l’Occidente aveva previsto la scomparsa delle società “tradizio-
nali” entro il prossimo secolo. Eppure, nonostante i numerosi cambiamenti avve-
nuti in queste società, le loro identità culturali non sono state sacrificate a nessuna
“cultura mondiale” o “ordine moderno”. Le società conservano ancora il senso
della differenza culturale.
Terzo, l’antropologia si serve delle differenze culturali per criticare la società oc-
La critica cidentale. Rendendo noti altri comportamenti, altre credenze, l’antropologia ci spin-
della società ge a riflettere sul nostro stesso stile di vita. Ci induce a considerare nuove possibilità.
occidentale “Siamo andati comparando... la nostra civiltà a quella più semplicce di Samoa allo
INTRODUZIONE ALLA PARTE SESTA 501

scopo di chiarire i nostri metodi di educazione”, ha scritto Margaret Mead (1928, p.


189) in un suo famoso libro, L’adolescente in una società primitiva. “Se ora distoglia-
mo lo sguardo dal quadro samoano e consideriamo... la lezione principale... che l’a- La sfida delle
nuove possibilità
dolescenza non è necessariamente un periodo di tensione e turbamento, ma che di-
viene tale in conseguenza delle condizioni della civiltà, possiamo dedurre delle con-
clusioni feconde di bene per l’educazione dei nostri adolescenti?” La sua risposta è
sì. Ciò che ha suggerito è stato utile per il cambiamento dei costumi sessuali america-
ni. L’antropologia, per citare Carrithers (1992, p. 199) “sfida i popoli e li incoraggia a
considerare nuove possibilità nella condotta... delle relazioni [umane]”.

Applicazioni della visione antropologica


L’antropologia è in certa misura riuscita a far valere la propria visione. Ha fatto un Alcuni risultati
discreto lavoro nel registrare le differenze culturali e le testimonianze dei diversi modi
di vivere. Gli etnografi descrivono i modi di vivere dei popoli nelle diverse località –
dall’artico ai tropici, dai quartieri poveri alle savane. E grazie alla tecnologia moderna
– attraverso libri, film e programmi televisivi – favoriscono ormai la diffusione di una
buona conoscenza di queste popolazioni e del loro modo di vivere. I !kung del Sud
Africa, i samoani della Polinesia, gli yanomamo del Sud America, fanno ormai parte
della “coscienza culturale” di molte persone. Vengono citati in mille occasioni da
L’ingiustizia
molte persone; hanno, ora, un ruolo nella definizione di ciò che noi siamo (noi come sociale e la voce
americani, o canadesi, russi o brasiliani) e di cosa possiamo ancora divenire. Nel testi- dei deboli
moniare modi di vita diversi, gli antropologi sono anche stati capaci, a volte, di comu-
nicare un senso di ingiustizia sociale che ha suscitato indignazione al di fuori delle co-
munità interessate. Hanno dato a gruppi marginali e privi di potere una voce che al-
trimenti non avrebbero mai potuto avere. È quanto ha fatto Scheper-Hughes nel suo
recente libro Death without weeping: The Violence of Everyday Life in Brazil. Mooney
fece lo stesso nel suo Ghost-Dance Religion, che descrive il massacro di circa 200/300
indiani sioux a Wounded Knee nel 1890. E Cultural Survival (descritto più avanti)
continua questa tradizione attraverso i suoi rapporti, che descrivono dettagliatamente
le sofferenze di molte minoranze etniche del “Quarto Mondo”.
Il messaggio antropologico insito nel principio del relativismo culturale è stato
recepito da un gran numero di persone. Scrive Kroeber (1953, p. 375) “L’accetta-
zione della relatività delle morali e dei valori investe la nostra capacità di formarci
un concetto di ciascuna cultura con un certo grado di autonomia”. Molti sentono la
necessità di capire il contesto dei valori altrui prima di giudicarli.

Questi risultati sono stati ottenuti certo non senza difficoltà e conflitti. Prima di Alcuni problemi
tutto, gli antropologi non sono stati capaci di sfuggire il loro stesso contesto cultu-
rale. Hymes osserva (1969, p. 70) che l’antropologia, in quanto disciplina, “si è svi-
luppata accanto e nell’ambito della crescita delle potenze coloniali e imperialistiche. Antropologia e
Tramite i loro studi (e anche a causa di ciò che non hanno studiato), gli antropologi colonialismo
hanno appoggiato, o quanto meno accettato gli obiettivi della politica imperialisti-
ca”. Sebbene il rapporto tra antropologia e colonialismo sia ormai universalmente
accettato, è bene evitare eccessive generalizzazioni. Un attento esame di chi era co-
involto e con quali programmi farebbe scoprire, infatti, che molti antropologi si op-
posero alla dominazione coloniale e parlarono (forse non sempre energicamente) a
favore di una maggiore comprensione e rappresentatività degli indigeni (v. Lévi-
Strauss 1966, p. 123). Non sempre gli antropologi si sono adattati alla situazione,
anche se va detto che non sempre l’hanno contrastata. Clifford (1983, p. 142) così si
esprime: “La supremazia culturale era il contesto del loro lavoro ed essi assunsero
502 ROBERT BOROFSKY

alcune posizioni liberali al suo interno. Raramente ‘colonialisti’ in senso esplicito,


strumentale, gli etnografi accettarono certe limitazioni pur ponendole, a vari livelli,
L’ambiguità in discussione”.
verso Un altro problema per l’antropologia è quello dell’ambiguità verso il relativismo
il relativismo
culturale. Secondo la sua prospettiva, dobbiamo giudicare gli altri in base ai loro
parametri. Ma se gli altri non ci accordano la stessa tolleranza che noi accordiamo
loro, cosa succede? Kluckhon dice (1949, p. 282): “La prospettiva dell’antropologo
richiede tolleranza per gli altri sistemi di vita, fin tanto che questi non siano una mi-
naccia per le speranze di un ordine mondiale”. Ma a cosa si riferiscono “le speranze
di un ordine mondiale”? Chi la definisce? Con quali obiettivi?
Un terzo problema è stato l’incapacità dell’antropologia di proporre un’efficace
visione del cambiamento sociale, che fosse utile anche a portare miglioramenti senza
maggiori spargimenti di sangue. Implicita nella visione antropologica è la nozione
(derivata dall’Illuminismo) che gli altri sono ragionevoli (così come intendiamo noi),
e che la verità e la comprensione (così come le definiamo noi) prevalgono se cono-
sciute. Boas (1928, p. 11) scrive: “Spero di dimostrare che una chiara comprensione
dei principi dell’antropologia illumina le consuetudini sociali dei nostri tempi e può
indicarci, se siamo pronti ad ascoltare i suoi insegnamenti, cosa fare e cosa evitare”.
O, come dice Malinowski (1938, p. XI), gli antropologi cercano di “indicare il modo
di trasformare una solida conoscenza in utile pratica”. Ma l’esperienza ci insegna che
il cambiamento non è un processo semplice. La dinamica del potere – non soltanto
Antropologi e
potere politico la conoscenza – vi gioca un ruolo determinante. E spesso gli antropologi non hanno
un reale potere politico. “L’antropologo è egli stesso una vittima e il suo potere di
decisione mera finzione” scrive Diamond (1969, p. 379). Pochi sono gli antropologi
che raggiungono posizioni politiche di rilievo (forse il più importante è stato Jomo
Kenyatta che ha guidato il Kenya verso l’indipendenza e che ne fu il suo primo pre-
sidente). In fondo, si può ipotizzare che il vero potere del pensiero antropologico –
la sua qualità nobilitante, quasi sacra – derivi dal fatto che è un pensiero separato
dalla realtà pratica, politica della vita quotidiana. Chiaramente, occorre ben più che
l’ideale, per cambiare il mondo. E l’antropologia non è stata in grado di esprimere
con efficacia cosa realmente sia questo “ben più” o come dovrebbe operare.
Come esempio dell’ambiguità che avvolge i tentativi degli antropologi di appli-
care la conoscenza desunta dallo studio degli esseri umani (parafrasando Tax 1964,
Il progetto p. 254) possiamo prendere due progetti. Uno è quello Cornell-Perù, che tentò di
Cornell-Perù apportare cambiamenti alla Hacienda Vicos, comunità agricola situata in un’alta
valle andina del Perù. Ufficialmente, dal 1952 al 1966, si è cercato – secondo quan-
to detto da Holmberg (1955, p. 23), uno degli ideatori del progetto – di assistere
“una comunità contadina nel passaggio... da una posizione di relativa dipendenza e
sottomissione in un mondo molto ristretto e provinciale, a una posizione di relativa
indipendenza e libertà nell’ambito del più ampio contesto della vita nazionale peru-
viana”. L’Università di Cornell prese in affitto l’hacienda e, attraverso una serie di
programmi e vario personale, spesso preso all’esterno (e assistito, nei momenti chia-
ve, da specialisti anch’essi esterni), riuscì a ottenere cambiamenti significativi. Ma è
veramente durato nel tempo? Paige (1975, p. 175) afferma: “L’esperimento di Vi-
cos... dimostra i limiti di una reale riforma agraria in assenza di un radicale cambia-
mento politico... I Vicosinos erano oppressi non dalla cultura della povertà, ma dal-
la repressione... [e] dalle massicce forze sociali nazionali”. Mangin (1979, p. 83)
enigmaticamente osserva: “È duro... vedere che ora la comunità è in condizioni
peggiori”. Ma Doughty (1987, pp. 458-459) è positivo a questo riguardo: “Come
contributo all’antropologia applicata e al Perù, il progetto Vicos sarà ricordato per
INTRODUZIONE ALLA PARTE SESTA 503

quanto ha ottenuto: la riuscita attuazione del primo ampio programma di sviluppo


di una comunità e di riforma agraria, che ha fatto rispettare e migliorare la dignità,
le condizioni di vita e i diritti civili di miserevoli servi Indiani oppressi dal peso del-
la tradizione coloniale e della volontà delle élites”. In ultima analisi, la valutazione
del Progetto Vicos dipende da quanto lo si ritenga realizzabile all’interno di un si-
stema politico-economico in cui una élite ben radicata attua il proprio dominio sul-
la comunità contadina, a volte brutalmente, con il tacito consenso del governo.
L’altro programma antropologico è il Cultural Survival, impostato da David e Cultural Survival
Pia Maybury-Lewis. “Fin dal 1972, Cultural Survival ha sostenuto progetti elaborati
per aiutare le popolazioni indigene a sopravvivere, sia fisicamente sia culturalmente,
ai rapidi cambiamenti indotti dal contatto con la società industriale in espansione”
(«Cultural Survival Quarterl», 1984, p. 81). “Sopravvivere, come individui e come
cultura, significa [per le popolazioni indigene] adattarsi al cambiamento secondo i
propri modi e le proprie condizioni” (Action for Cultural Survival 1992, p. 6). Con-
trariamente al Progetto Vicos, questi tentativi hanno basi molto ampie e coinvolgo-
no una grande quantità di indigeni in svariate condizioni. Inoltre, sensibile all’au-
mentata globalizzazione delle reti politiche, economiche e di comunicazione di og-
gi, Cultural Survival opera non solo per rafforzare progetti nati da iniziative indige-
ne, ma anche per favorirne il loro collegamento con iniziative utili a stimolare la co-
scienza pubblica, con l’intento di supportare le stesse comunità coinvolte. Essa,
quindi, non solo assiste nella costruzione di “mercati per i prodotti che i nativi pos-
sono coltivare in modo sostenibile”, ma contemporaneamente cura “briefings... per
scuole, comunità e per i media” («Cultural Survival Quarterly», 1992, p. 2) su que- La lotta contro
stioni concernenti le popolazioni indigene. Tutto ciò nel tentativo di tenere a bada, la povertà
indigena
attraverso pressioni internazionali, le forze politiche ed economiche che stanno im-
poverendo, se non distruggendo, le comunità indigene. Finora, Cultural Survival ha
goduto di una pubblicità molto positiva. Non v’è dubbio che ha operato importan-
ti cambiamenti nella vita di molti popoli (molti di questi sono documentati nei rap-
porti annuali dell’Organizzazione). Tuttavia, nonostante i numerosi successi, molti
si domandano se tale attività possa divenire qualcosa di più di un’azione di soste-
gno. Le élites politico-economiche e le parti che sono responsabili di tanti abusi
nelle realtà del Terzo Mondo, possono essere tenute sotto controllo dagli sforzi di
Cultural Survival, ma non esserne trasformate. È difficile ottenere cambiamenti si-
gnificativi nelle comunità locali tentando di cambiare un intero paese, il mondo in-
tero. L’obiettivo è troppo grande per avere un autentico successo. Ma è anche mol-
to difficile aiutare le comunità locali senza tentare di cambiare un paese o il mondo
poiché, specialmente oggi, le forze esterne agiscono su di esse in mille modi. In que-
sti due programmi – Cornell-Perù e Cultural Survival – si coglie la fiducia che l’an-
tropologia nutre nel cambiamento, come anche alcuni dei problemi che gli antropo-
logi incontrano nel tentativo di portarlo avanti.

Conflitti etnici e teoria politica


Come qualsiasi altra forza sociale attuale, il conflitto etnico rappresenta una sfi-
da al punto di vista dell’antropologia. Hobsbawm (1992, p. 8) osserva che la xeno-
fobia (cioè l’odio per tutto ciò che è straniero) “sembra stia diventando l’ideologia Origini e cause
di massa della [fine del] ventesimo secolo)”. “Ciò che tiene unita l’umanità oggi” – dell’etnonazionalismo
egli afferma – “è la negazione di quanto la razza umana ha in comune”. Citando Ta-
gil, Tambiah (p. 524) pone un quesito critico: perché in alcune società in via di svi-
luppo le differenze etniche diventano causa di intensi conflitti politici? Il che coin-
cide con la domanda di Tishkov: Perché i risentimenti verso il vecchio sistema co-
504 ROBERT BOROFSKY

munista si sono trasformati in conflitti etnici e in etnonazionalismo (cioè nella ricer-


ca della sovranità politica da parte di ogni gruppo etnico)? Entrambi gli autori cer-
cano di dare una risposta a problemi che si collocano al limite della nostra capacità
di comprensione. In primo piano emergono le interazioni tra vari fattori.
Primo: con il declino del regime coloniale nei paesi del Terzo Mondo, le poten-
ze occidentali sono passate a più sottili forme di controllo. La dominazione conti-
nua, ma ora si manifesta in termini di commercio mondiale, di prestiti del Fondo
Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che incoraggiano la moderniz-
zazione e aumentano il debito. Il Terzo Mondo ambisce ad avere un più alto teno-
re di vita e una maggiore disponibilità di beni di consumo – ciò che noi chiame-
remmo ideologia consumistica – e incoraggia ulteriormente questa sottile forma di
dominazione. Mentre non c’è alcun dubbio che le condizioni di vita sono decisa-
mente migliorate in molti paesi, non si può pensare che ogni persona di ogni paese
possa raggiungere il livello di consumismo occidentale. L’iniziale speranza che ciò
potesse avvenire nel tempo, viene ora percepita dai più come un’illusione. È sem-
pre più un mondo di consumatori di “beni limitati” (in termini antropologici), in
cui il successo di un gruppo limita il successo dell’altro. Perciò, specialmente al-
l’interno di una nazione (la lotta per il controllo delle risorse può essere portata
avanti più efficacemente che su scala mondiale) un gruppo si scontra con un altro
per dimensioni e profitti di uno stile di vita orientato al consumo.
L’etnicità non è solo un modo per portare i gruppi alla competizione per otte-
La competizione nere più benefici: è anche un modo per mitigare i peggiori eccessi del consumi-
e gli eccessi del smo. I desideri del singolo consumatore si inquadrano in una struttura tradiziona-
cosumismo
le e/o religiosa nella quale vengono modellati (e rimodellati) da più ampi principi
di condivisione. Da questo punto di vista, quindi, le forti affermazioni etniche co-
stituiscono una risposta adeguata ai piaceri e ai problemi del consumismo nel Ter-
zo Mondo.
Il secondo fattore riguarda la sovranità popolare. La sovranità popolare – il po-
tere di molti di governare dal basso piuttosto che di pochi dall’alto – divenne una
grossa forza politica verso la fine del XVIII secolo e diede origine non solo alle rivo-
luzioni americana e francese, ma anche allo smembramento degli imperi coloniali
europei. In questo secolo, Woodrow Wilson e Vladimir Lenin sono stati i due
principali fautori dell’utilizzo dell’etno-nazionalismo come base dello Stato-nazio-
ne. Ma cos’è una nazione? Secondo Hobsbawn (1990, p. 7):

Tentativi di stabilire criteri oggettivi in ordine alla nazionalità o vòlti alla spiegazione del
perché certi gruppi siano diventati “nazione”... sono stati spesso basati su criteri quali la
lingua o l’etnia, oppure combinando diversi criteri quali una lingua, un territorio e una
storia comuni, certe caratteristiche culturali e altro ancora... Tali definizioni di tipo ogget-
tivo sono risultate fallimentari per il semplice motivo che... i criteri normalmente adottati
L’impossibilità [...sono] evanescenti, mutevoli, ambigui.
di definire
la nazione “L’identità nazionale” – osserva P. Sahlins (1989, p. 271) – diventa “spesso un
processo continuo, socialmente costruito, di definizione di ‘amici’ e ‘nemici’”. Sim-
mel (in Hobsbawn 1990, p. 206) fa un’osservazione simile: “Nell’ambito di certi
gruppi, ci potrebbe persino essere un pizzico di saggezza politica nel contemplare
la presenza di un nemico al fine di rendere effettiva l’unità degli appartenenti al
gruppo, e... al fine di mantenerne la coscienza dell’unità come interesse vitale”. Ci
si potrebbe chiedere – aggiungo io – fino a che punto il conflitto – o almeno l’op-
posizione – costituisca una parte intrinseca dell’etno-nazionalismo.
INTRODUZIONE ALLA PARTE SESTA 505

E a che punto termina la sovranità popolare all’interno dell’etno-nazionalismo? Il problema


degli Stati
Quanto piccola può essere una etno-nazione? Un milione di persone, un migliaio, un multietnici
centinaio? Connor (1973, p. 1) afferma: “In un mondo composto da migliaia di
gruppi etnici distinti e da solo, circa, centotrentacinque stati, il potenziale rivoluzio-
nario insito nell’auto-determinazione [etnica] è abbastanza evidente”. Nonostante la
retorica contraria, l’etnicità non ha dimostrato di rappresentare una base concreta
per la definizione delle nazioni-Stato. Per citare Connor (1973, p. 11): “L’insuccesso
delle applicazioni [dell’etno-nazionalismo] è una delle sue più sorprendenti caratte-
ristiche... meno del dieci per cento di tutti gli stati è essenzialmente omogeneo”.
I governi, specie quelli fondati sulla sovranità popolare, si trovano a fronteggiare
il tremendo problema politico posto dall’etno-nazionalismo. Connor (1973, pp. 18-
19) osserva: “Le reazioni dei governi alla minaccia dell’etno-nazionalismo sono state
le più varie. Tuttavia, nonostante la grande varietà di metodi e di tecniche, non sem-
bra che alcun governo abbia trovato una soluzione praticabile tranne quella moral-
mente inaccettabile del genocidio e dell’espulsione”. Siamo portati a chiederci: per-
ché la maggior parte degli Stati è di tipo multietnico? E a quali condizioni la sovrani-
tà popolare può coesistere con l’etno-nazionalismo in uno Stato multietnico?
Il ruolo
Terzo: ciò che oggi manca a molti Stati è un collante che tenga unite le sue di- delle élites
verse popolazioni. Molti Stati-nazione del Terzo Mondo nati dagli imperi coloniali indigene
dopo la seconda guerra mondiale sono puri casi della storia coloniale e mancano di
qualsiasi coerenza interiore. Sfortunatamente, molte élites indigene che hanno sosti-
tuito i regimi coloniali nel governo di questi nuovi Stati non hanno mai stabilito un
reale senso di coerenza culturale all’interno delle loro nazioni. Esse si preoccupano
soprattutto di promuovere se stesse. Lo psichiatra algerino Frantz Fanon (1961, pp.
106-107) nel suo famoso libro I dannati della terra così si esprime:

Dovunque... [la] borghesia nazionale si è rivelata incapace di dilatare sufficientemente la


sua visione del mondo, si assiste a un riflusso verso le posizioni tribaliste... La borghesia
nazionale, essendo contratta sui suoi interessi immediati, non vedendo più in là della
punta delle sue unghie, si rivela incapace di attuare la semplice unità nazionale... o di edi-
ficare la nazione su basi solide e feconde.

Le considerazioni di Fanon sollevano almeno due importanti quesiti: cosa tiene


insieme una classe politica se non il puro e semplice potere? Come si fa a dare ai
“nullatenenti” – coloro che hanno meno potere e/o meno ricchezza – un ruolo si-
gnificativo nell’ordine sociale?
Uno degli aspetti più interessanti della retorica dell’etno-nazionalismo nel vente-
simo secolo, è il modo in cui attenua i rapporti politici disarmonici attraverso l’af- L’utopia
fermazione di una comune identità culturale. Come mai la gente presume, verosi- dello Stato
milmente, che le élites del nuovo ordine – le loro élites culturali – daranno prova di ‘puro’
essere meno dominatrici e violente delle élites del vecchio ordine? Per citare Toland
(1993, p. 2): “L’idea di uno stato-nazione ‘puro’ con una sola, monolitica voce, non
è mai stato e probabilmente non sarà mai una realtà”. I conflitti di potere continua- La forza
no come prima. Potremmo chiederci se la retorica, politicamente volatile, dell’etno- dell’etnonazionalismo
nazionalismo, come le elezioni democratiche e i colpi di stato militari, non andreb-
bero viste come un modo per ribaltare il “carro” dell’ordine costituito. Negli Stati
in cui violenza e repressione politica impediscono una reale opposizione, l’etno-na-
zionalismo può rappresentare una potente forza coalizzante, un importante punto
di raccolta per la resistenza contro lo status quo. Negli Stati relativamente deboli –
e oggi sono molti, grazie alla moderna economia globale – l’etno-nazionalismo può
506 ROBERT BOROFSKY

disturbare in modo significativo, se non sopraffare per un periodo, le strutture poli-


tiche già affermate.
L’etno-nazionalismo che, nei discorsi di Woodrow Wilson e Vladimir Lenin all’i-
nizio di questo secolo, sembrava così promettente (e che nel secolo scorso fu d’aiu-
to alla formazione di vari Stati europei), sembra ora più un simbolo di dolore che
non una promessa. In definitiva, riflette il fallimento di vari Stati nel gestire effica-
cemente il problema politico della rappresentatività giacché, come nota Cohen
(1993, p. 235) “Il concetto di stato è correlato al multiculturalismo… gli stati mul-
tietnici sono un’eccezione, non la regola”. Nell’odio, nella violenza, nel genocidio
dell’etno-nazionalismo, noi vediamo distrutte le nostre speranze di comprensione
sociale e di tolleranza politica. Non è un’immagine piacevole, anche perché è esplo-
Cultura e sa vicino a noi: essa enfatizza le ambiguità che esistono nel nostro stesso sistema de-
intolleranza mocratico. E il concetto di cultura, come qualcosa dai confini ben definibili, risulta
infangato dal modo in cui molti lo hanno applicato in tempi recenti. Nel costituire
una struttura intellettuale per l’identità etnica (e, attraverso essa, per l’etno-naziona-
lismo), esso è diventato, tristemente, veicolo di maggior intolleranza.

Che valore può avere l’antropologia nel mondo moderno?


L’antropologia non ha enunciato un’efficace teoria del cambiamento senza spar-
gimento di sangue. Ma ha enunciato una visione morale entro la quale differenti po-
poli con differenti prospettive culturali possano vivere insieme attraverso la com-
prensione reciproca. L’antropologia sottolinea la necessità di un ordine morale che
La visione
morale unisca i popoli, piuttosto che separarli. Questo è il quesito che Geertz propone: co-
dell’antropologia me possiamo cavarcela con popoli diversi e dai diversi interessi? Dobbiamo essere
capaci, sottolinea, di cogliere le prospettive di altri popoli senza assimilarle alle no-
stre. “Comprendere ciò che ci è estraneo, in qualche modo e che resterà tale, senza
minimizzarlo con vaghi commenti di varia umanità... né respingerlo, perché attraen-
te ma illogico” scrive Geertz (p. 559) “é un’arte che dobbiamo faticosamente ap-
prendere; e, una volta appresala (sempre in modo imperfetto) dobbiamo continua-
mente sforzarci di tenerla in vita”.
Purtroppo non c’è gran che di nuovo in tutto ciò, ma c’è un senso di moralità
che offre uno spiraglio di luce in tempi così difficili.
Nota alla parte sesta
Vincenzo Matera

Questa sezione di Antropologia Culturale oggi affronta alcune importanti temati-


che, tutte centrate attorno a una questione di base: l’antropologia si occupa delle
differenze tra prospettive culturali, visioni del mondo, esperienze esistenziali delle
persone; in che modo allora essa può contribuire a migliorare le relazioni fra le per-
sone e fra i popoli, un miglioramento di cui, se pensiamo a quanto frequentemente
esse sono guastate da razzismi, da conflitti etnici, da nazionalismi, dall’intolleranza
e, non meno, da una profondamente diseguale distribuzione delle risorse, si avverte
decisamente la necessità?
Afferma Borowski, il curatore di tutto il volume, nel saggio che apre la sesta sezio-
ne, “coloro che credono nel ruolo attivo dell’antropologia come agente di cambia-
mento positivo (…) hanno, oggi, poco di che rallegrarsi”. Che oggi ci sia poco di che
essere allegri in tema di rapporti fra popoli è indubbio; meno condivisibile l’idea che
l’antropologia debba assumersi compiti riformatori e, ancor meno, che debba sentirsi
responsabile dello stato del mondo. Le polemiche sull’antropologia “figlia del colo-
nialismo” appartengono a un passato oggi superato, una volta riconosciuta la natura
inesorabilmente gerarchica del rapporto fra antropologo e nativi e una volta sancito il
carattere profondamente storico dell’antropologia, come una delle modalità del rap-
porto fra l’Occidente moderno e tutti gli altri popoli (Kilani 1994)1.
Tuttavia, è pienamente legittimo porre il problema e proporsi di “fare il punto”
della situazione intellettuale degli antropologi, quanto a ciò che possono fare per at-
tenuare i contrasti e gli squilibri ancora oggi frequenti nelle relazioni internazionali
e, più in generale, nelle relazioni fra le diversità.
La problematica non è di poco conto. I saggi che seguono ne mettono in evi-
denza alcuni aspetti, secondo due linee principali: Lévi-Strauss e Geertz secondo la
linea dell’analisi culturale, Tambiah e Tishkov secondo la linea della teoria politica.
Senza scendere nell’esame particolare dei singoli contributi, mi sembra importante
sottolineare, in questa breve nota introduttiva, il loro valore emblematico in relazio-
ne a una difficoltà che l’analisi culturale – quando vuol farsi guida per l’azione poli-
tica – avverte in maniera acuta: quella dei modi del dialogo fra, appunto, scienza e
prassi, fra livello accademico e senso comune e ancora azione politica. I saggi di Lé-
vi-Strauss e di Tishkov rappresentano due notevoli esempi di antropologia al servi-
zio – gradito o meno – della politica e degli stridori che tale incontro spesso, per
non dire sempre, provoca. Lévi-Strauss viene chiamato dall’UNESCO a parlare di raz-
zismo e di differenze culturali, ma la sua lucida analisi dell’etnocentrismo e dei rap-
porti fra culture diverse suscita perplessità e provoca fraintendimenti; Tishkov met-
te in evidenza egregiamente il notevole contributo dato da molta antropologia del-
l’ex Unione Sovietica alla nascita e al consolidamento degli etno-nazionalismi che
nell’ultimo decennio del secolo hanno provocato i tragici eventi che sono stati e so-
no ancora oggi sotto gli occhi di tutto il mondo. D’altra parte, i saggi di Geertz e di
508 VINCENZO MATERA

Tambiah costituiscono eccellenti analisi l’uno della differenza culturale e dei possi-
bili usi delle differenze culturali, l’altro delle dinamiche di base che portano il fatto-
re etnico a sostituire le differenze di classe, di età, di genere, di professione ecc. nel
ruolo di principale spinta al conflitto e al cambiamento sociale. Analisi che, tuttavia,
difficilmente entreranno a far parte dell’orizzonte politico mondiale (si veda, co-
munque, Geertz 1998)2. Su un punto, allora, è giusto che l’antropologia faccia auto-
critica: la sua incapacità di farsi ascoltare. In questo senso i saggi seguenti – al di là
della loro importanza intrinseca – assumono un valore aggiunto. Gli antropologi in-
fatti sono oggi in grado di elaborare analisi approfondite dei fenomeni di nazionali-
smo, di conflitto etnico, di contrasto fra culture, e sono sicuramente in grado di ela-
borare un pensiero utile a introdurre un po’ d’ordine nel mondo. Mettere in luce i
punti di mediazione, muovendosi lungo il crinale della differenza, fra persone e fra
popoli sempre più a contatto ravvicinato nel mondo contemporaneo, in cui la prati-
ca dello spostamento – fisico e immaginario – è uno dei fattori primari della produ-
zione di significati (Clifford 1999)3 e di identità diventa il compito al quale l’antro-
pologia deve far seguire quello di trovare il modo di “imporre la sua visione delle
cose”. Qui si cela la sfida dell’antropologia contemporanea, di tutta l’antropologia,
non solo di quella cosiddetta “applicata”: in un pianeta apparentemente globalizza-
to ma di fatto e, anzi, forse proprio a causa della globalizzazione, sempre più diviso
in frammenti, trovare le modalità del dialogo e obbligare il mondo ad ascoltarlo.

1 Cfr. M. Kilani, 1994, L’invention de l’autre: essais sur le discours anthropoogique, Paris, Payot; trad. it. 1997, L’in-

venzione dell’altro, Bari, Dedalo.


2 Cfr. C. Geerz, 1998, Mondo globale, mondi locali, Bologna, il Mulino.
3 Cfr. J. Clifford, 1999, Strade, Torino, Bollati Boringhieri; ed. or. 1997, Routes. Travel and Translation in the Late

Twentieth Century, Harvard University Press.


Antropologia, razza e politica: una conversazione con Didier Eribon*
Claude Lévi-Strauss

Il futuro dell’antropologia

D.E. (Didier Eribon): Nel suo primo corso al Collège de France, lei si domanda-
va quale poteva essere il futuro dell’antropologia. Cosa risponderebbe oggi?
C.L.-S. (Claude Lévi-Strauss): Oggi dovrei fare parecchie modifiche, poiché vi è
stata una certa evoluzione in questo quarto di secolo, e le cose non sono più pro-
prio le stesse, specie per quanto riguarda le società studiate dall’antropologia.
D.E.: Perché le società di interesse antropologico sono società tradizionali e
stanno scomparendo una dopo l’altra...
C.L.-S.: Lei sa che già nel diciottesimo secolo si diceva così? Le prime associazioni
di studiosi fondate per studiare l’uomo giustificavano la loro missione dicendo “Dob-
biamo far presto, non dureranno ancora a lungo”. Quando Frazer – era l’anno in cui La scomparsa del
nacqui – tenne il suo primo corso all’Università di Liverpool, disse la stessa cosa. È il “primitivo”,
ritornello della ricerca antropologica. Ammetto che i processi si sono velocizzati e che ritornello
dell’antropologia
possiamo ragionevolmente vederne la fine, tuttavia sono talmente tante le cose che so-
no state studiate poco e male in dozzine o centinaia di società che ancora esistono e
che continueranno a esistere per un buon numero di anni, che trovo necessario inten-
sificare i nostri sforzi piuttosto che abbandonarli. E inoltre, anche se immaginiamo un
tempo in cui queste culture saranno sparite... greci e romani sono spariti da lungo
tempo, ma noi continuiamo a studiarli e a scoprirne nuovi aspetti.
D.E.: Ma per quelle culture noi abbiamo documenti, monumenti.
C.L.-S.: Questi monumenti... siamo noi, è l’attenzione che abbiamo dedicato lo-
ro che li ha resi tali.
D.E.: Lei crede che sarebbe altrettanto facile creare documenti e monumenti di
una piccola popolazione del Brasile?
C.L.-S.: Se si trattasse di una popolazione studiata male o per poco tempo, lei
avrebbe ragione. La perdita sarebbe totale. Ma – limitandomi all’America, che co-
nosco meglio – le collezioni della Libreria del Congresso, dell’American Philoso-
phical Society e di altre, sono piene di manoscritti, molti dei quali non sono mai sta-
ti studiati e neppure catalogati.
D.E.: Si tratta di tesori dimenticati?
C.L.-S.: Sì, e probabilmente, per il loro volume, rappresentano qualcosa di para-
gonabile a quanto ci hanno lasciato greci e romani.

Il mutamento dell’antropologia
D.E.: Quindi l’antropologia non è una scienza in via di estinzione?
C.L.-S.: Cambierà. Se non vi saranno più oggetti da studiare sul campo, divente-
remo filologi, storici delle idee, specialisti di civiltà accessibili solo grazie a docu-
menti raccolti da osservatori precedenti. E può darsi che appaiano nuove differenze
in un’umanità che corre il grave pericolo di perdere le proprie diversità.
510 CLAUDE LÉVI-STRAUSS

La civiltà globale D.E.: Lei teme che l’umanità stia andando verso una totale uniformità?
C.L.-S.: Totale mi sembra un’espressione eccessiva, ma mai come ora si può par-
lare di civiltà globale con tanta convinzione.
D.E.: Ma l’antropologia non potrebbe continuare il suo lavoro interessandosi al-
le società contemporanee a noi più vicine, come la civiltà contadina francese?
C.L.-S.: Questi progetti non sono né una tattica di sopravvivenza né una ritirata.
Essi hanno un loro valore intrinseco. Se ce ne occupiamo in ritardo è solo perché
abbiamo avuto l’impressione di conoscere le nostre società meglio di quelle esoti-
Lo studio delle
nostre società
che; abbiamo sentito l’urgenza di studiare gli altri. Per di più, gli stadi più antichi
e il valore della nostra società ci sono noti prima di tutto attraverso gli archivi – uso il termine
della storia nella sua accezione più ampia – che coprono molti secoli. Per le società del Brasile
centrale e della Melanesia, solo dal 5 al 10% del materiale che abbiamo è storico: il
resto è lavoro degli etnografi. Nel caso delle nostre società, il rapporto è inverso.
Qui il ruolo dell’antropologo è limitato al completamento e all’arricchimento del la-
voro che, prima di tutto, è degli storici.
D.E.: Il futuro dell’antropologia è anche collegato alle materie istituzionali. Lei
ritiene che la situazione della disciplina sia oggi più soddisfacente di quanto non lo
fosse quando lei ha cominciato a occuparsene?
C.L.-S.: Quando ho iniziato la mia carriera di antropologo, non esisteva alcuna
cattedra di antropologia in nessuna università francese. Credo che il primo ad avere
un simile incarico sia stato Marcel Griaule, poco prima o durante la seconda guerra
mondiale, non ricordo bene. Oggi l’antropologia è diventata una disciplina a pieno
titolo, insegnata nelle università. Ma, rispetto alla quantità del lavoro che resta da
fare, i posti di lavoro e le cattedre sono ancora insufficienti.
D.E.: Come le altre discipline, anche la ricerca antropologica risente di mancan-
Il laboratorio za di fondi. Voi dovete avere un budget!
dell’antropologo C.L.-S.: Se parliamo di fisici o biologi, è facile vedere che hanno bisogno di
danaro per lavorare nei loro laboratori, dato che è lì che effettuano i loro esperi-
menti e verificano quelli dei colleghi. Meno facile è per i laboratori di antropolo-
gia, che sono lontani migliaia di miglia e richiedono abbondanti mezzi per recar-
visi e viverci.

Razza, diversità culturale, politica


Razza e storia D.E.: Nel 1952, con il piccolo libro Razza e Storia, lei è partito da un punto di
vista puramente antropologico per arrivare a una visione che potremmo chiamare
“politica”, una visione che aveva a che fare con problemi contemporanei, comun-
que.
C.L.-S.: Mi è stato chiesto di scriverlo. Non credo che l’avrei scritto di mia
iniziativa.
D.E.: Da chi proveniva la richiesta?
C.L.-S.: L’UNESCO chiese ad alcuni autori di scrivere una serie di opuscoli sulla
questione razziale. Lo chiesero a Leiris e a me.
D.E.: In questo opuscolo lei sostiene l’idea della diversità delle culture, si inter-
roga sull’idea di progresso e proclama la necessità di una “coalizione” delle culture.
Progresso e C.L.-S.: Prima di tutto, stavo cercando di conciliare la nozione di progresso con
relativismo
quella di relativismo culturale. La nozione di progresso implica l’idea che alcune
culture, in determinati tempi e luoghi, sono superiori ad altre perché hanno prodot-
to opere che le altre si sono dimostrate incapaci di produrre. Il relativismo cultura-
le, uno dei fondamenti del pensiero antropologico, almeno per la mia generazione e
per quella precedente (alcuni oggi lo contestano), afferma che non c’è alcun criterio
ANTROPOLOGIA, RAZZA E POLITICA 511

che consenta di esprimere un giudizio assoluto su come una cultura sia superiore a
un’altra. Se in certi momenti o in certi luoghi, alcune culture “avanzano” mentre al-
tre “stanno ferme” non è, dissi, per superiorità delle prime ma perché le circostanze
storiche o geografiche hanno portato a una collaborazione tra culture che sono non
diseguali (non abbiamo elementi validi per definirle così), ma diverse. Queste cultu-
re cominciano a muoversi non appena cominciano ad apprendere dalle altre o cer-
cano di opporsi a esse. In altri momenti o in altri luoghi, le culture che rimangono
isolate, come mondi chiusi, conducono una vita statica.
D.E.: Il Suo opuscolo è diventato un classico documento antirazzista; viene letto
persino nei licei (o scuole secondarie francesi). Nel 1971 ha scritto il secondo arti-
colo, Razza e Cultura, per reazione a questo vangelo?
C.L.-S.: Anch’esso mi fu commissionato dall’UNESCO per una conferenza intro-
duttiva all’anno internazionale di lotta al razzismo.
D.E.: In seguito lei ha detto: “Questo scritto ha provocato scompiglio, ed era
quanto volevo”.
C.L.-S.: L’espressione è, forse, un po’ forte. Una cosa è certa: ha creato davvero
Razza e cultura
scompiglio, almeno all’UNESCO. Vent’anni dopo Razza e Storia, mi chiesero di parla-
re ancora di razzismo, probabilmente aspettandosi che io ripetessi le cose già dette
altrove. A me non piace ripetermi, e soprattutto erano successe molte cose in quei
vent’anni, compresa la mia crescente irritazione per le periodiche manifestazioni di
buoni sentimenti, come se ciò potesse bastare. Mi sembrava che, da un lato, i con-
flitti razziali stessero solo peggiorando e che, dall’altro, ci fosse una gran confusione
sui concetti di razzismo e antirazzismo; e che per colpa di questa confusione il raz-
zismo si rinforzasse anziché indebolirsi.
D.E.: All’epoca, lei parlò delle differenze che separano e distinguono le culture
tra di loro, contraddicendo le Sue precedenti dichiarazioni.
C.L.-S.: Niente affatto. La gente legge le prime righe e pensa di aver letto tutto.
Un critico, credo fosse de «L’Humanité», volle dimostrare che avevo cambiato tatti-
ca e, come prova, riportò un lungo passo da Razza e Cultura: ora, il passo era già in
Razza e Storia. Poichè lo avevo trovato adatto, lo avevo ripetuto parola per parola.
D.E.: La cosa forse più sconvolgente di Razza e Cultura è l’idea che le culture
Un paradosso
vogliono opporsi l’una all’altra. sulla diversità
C.L.-S.: Alla fine di Razza e Storia ho voluto sottolineare un paradosso. È la dif- culturale
ferenza tra le culture a rendere fruttuoso il loro incontro. Ora, questo scambio por-
ta a una progressiva uniformità: i benefici che le culture ricavano da questi contatti
sono quasi sempre risultato delle loro differenze qualitative, ma nel corso di questi
scambi, le differenze diminuiscono fino al punto di scomparire. Non è quanto stia-
mo vedendo, oggi?…
Cosa possiamo concludere da tutto ciò, a parte il fatto che è auspicabile che le
culture mantengano la loro diversità o che in essa si rinnovino? Solo che – ed è
quanto dicevo nel mio secondo saggio – occorre essere pronti a pagarne il prez-
zo: occorre sapere che le culture, ciascuna delle quali è attaccata al proprio mo-
dello di vita e al proprio sistema di valori, incoraggiano le proprie peculiarità, e La resistenza
delle culture
che questa tendenza è salutare e non patologica – come la gente vorrebbe che
pensassimo. Ogni cultura progredisce nello scambio con le altre. Ma ognuna de-
ve opporre un po’ di resistenza: altrimenti molto presto non vi sarà nulla di unico
da scambiare. Sia l’assenza sia l’eccesso di comunicazione nascondono i loro peri-
coli.
D.E.: Come spiega che il suo primo testo abbia avuto tanto successo e il secondo no?
C.L.-S.: Il primo era un libretto, il secondo era il testo di un discorso e non è
512 CLAUDE LÉVI-STRAUSS

mai stato pubblicato da solo. E se il primo è stato accolto molto bene rispetto al se-
condo, non posso farci niente; i due si completano a vicenda. Vorrei aggiungere che
il secondo, in cui ho tentato di includere i risultati di un lavoro sulla genetica dei
popoli, è di più difficile lettura. E anche con Razza e Storia, non passa anno senza
che studenti liceali vengano da me o mi telefonino per dirmi: “Dobbiamo scrivere
una relazione e non abbiamo capito niente!”.
D.E.: Cosa farebbe se l’UNESCO le chiedesse, oggi, un altro saggio sullo stesso
problema?
La nozione
C.L.-S.: Non succederà mai!
di razzismo D.E.: Giornali e radio, però, spesso le chiedono la sua opinione sul razzismo e
Lei, in genere, si rifiuta di rispondere.
C.L.-S.: Non rispondo perché in questo campo regna la massima confusione e
già so che qualsiasi cosa io dovessi dire verrebbe interpretata male. Come antropo-
logo sono convinto che le teorie razziste sono tanto mostruose quanto assurde. Ma
banalizzando la nozione di razzismo, applicandola a casaccio, la svuotiamo del suo
significato e corriamo il rischio di ottenere un risultato opposto a quel che voleva-
mo. Cos’è il razzismo? Una precisa dottrina che può essere riassunta in quattro
punti. Primo: esiste una correlazione tra eredità genetica da un lato e attitudini in-
tellettuali e inclinazioni morali dell’altro. Secondo: questa eredità da cui queste atti-
tudini e inclinazioni dipendono, è condivisa da tutti i membri di certi raggruppa-
menti umani. Terzo: questi raggruppamenti, chiamati “razze”, possono essere valu-
tati in funzione della qualità della loro eredità genetica. Quarto: queste differenze
autorizzano le cosiddette “razze” superiori a comandare e sfruttare le altre e, even-
tualmente, a distruggerle. Sia la teoria che la pratica sono indifendibili per una serie
di ragioni che ho sviluppato in Razza e Cultura, dopo o contemporaneamente ad al-
tri scrittori, e con lo stesso vigore del mio Razza e Storia. Il problema delle relazioni
tra culture è su un altro piano.
D.E.: Per Lei, quindi, l’ostilità di una cultura verso un’altra non è razzismo?
C.L.-S.: L’ostilità attiva, sì. Nulla dà a una cultura il diritto di distruggerne un’al-
tra, e neanche di opprimerla. Questa negazione dell’altro si basa inevitabilmente su
La dottrina ragioni trascendenti: razzismo, o suoi equivalenti. Ma che le culture, pur rispettan-
del razzismo
dosi l’un l’altra, possano sentire maggiori o minori affinità con certe altre, è una si-
tuazione reale sempre esistita: è il normale andamento del comportamento umano.
Condannando questo sentimento definendolo razzista, si corre il rischio di cadere
nelle mani del nemico perché, come dicono molti ingenui, se questo è razzismo al-
lora io sono razzista.
Lei conosce la mia simpatia per il Giappone. Quando in metropolitana, a Parigi,
vedo una coppia che mi sembra giapponese, la guardo con interesse e simpatia,
pronto a darle una mano. È razzismo, questo?
D.E.: Se la guarda con gentilezza, no; ma se lei avesse detto “La guardo con av-
versione”, direi di sì.
C.L.-S.: Ad ogni modo, sto basando i miei sentimenti sull’apparenza fisica, sul
comportamento, sul suono della lingua. Nella vita quotidiana, ognuno fa lo stesso
nel tentativo di “collocare” uno straniero. Sarebbe proprio ipocrita pretendere di
Giudizi etnici e vietare questo tipo di approccio.
canoni estetici D.E.: Esistono particolari aspetti fisici che provocano la sua antipatia?
C.L.-S.: Intende tipi etnici? No, certamente no. Ognuno di loro sottende sotto-
tipi, alcuni dei quali troviamo attraenti e altri no. Presso alcune comunità indiane
del Brasile, io mi sono sentito circondato da bella gente; altri, li ho trovati davvero
pietosi. In genere, le donne nambikwara sono più attraenti degli uomini, mentre è il
ANTROPOLOGIA, RAZZA E POLITICA 513

contrario per i bororo. Quando esprimiamo questo tipo di giudizio, applichiamo i


canoni estetici della nostra cultura. In ogni circostanza, le sole regole seguite sono
quelle delle parti coinvolte.
Analogamente, io appartengo a una cultura che ha un sistema di valori e uno sti-
le di vita particolari, per cui culture molto diverse non suscitano automaticamente
le mie simpatie.
D.E.: Non le piacciono?
C.L.-S.: Non esageriamo! Se le studio come antropologo, lavoro con il massimo
dell’obiettività e con tutta l’empatia di cui sono capace. Il che non toglie che alcune
culture mi siano più congeniali… Robert Lowie è stato un grande antropologo che
mi ha onorato della sua amicizia. I suoi lavori sui crow e sugli hopi sono autorevoli.
Tuttavia, mi ha confessato che si trovava molto bene con i primi mentre sopportava
a fatica i secondi. “Società
D.E.: Mi dica la verità, quando la gente le pone quesiti sul razzismo, allude non multiculturale”
tanto al rapporto tra culture differenti di continenti differenti quanto a quello tra
l’odierna società francese e la cosiddetta “società multiculturale”. Girava voce, l’an-
no scorso, che il governo stava pensando di chiederle di guidare una commissione
incaricata di riformare le leggi sulla nazionalità, ma abbandonò l’idea perché poteva
sembrare scandaloso chiederlo a un antropologo.
C.L.-S.: Se quanto dice è vero, sarebbe molto interessante: il governo ha paura
di scandalizzare gli immigranti paragonandoli alle popolazioni studiate dagli antro-
pologi, come se esistesse un’implicita gerarchia tra le culture.
D.E.: Se ben comprendo la sua definizione del termine, lei ritiene che in Fran-
cia, oggi, non vi sia razzismo.
C.L.-S.: Esiste qualche fenomeno inquietante ma, a parte l’assassinio di un ara-
bo perché è arabo, atto che andrebbe punito immediatamente e senza pietà, non si
tratta di riflessi di un vero e proprio razzismo. Vi sono, e sempre vi saranno, comu-
nità attratte da altre i cui valori e stili di vita non contrastino con i propri, mentre
ne troveranno certo di meno facili da accettare. Ciò non significa che, perfino nel
secondo caso, i rapporti non possano e non debbano restare pacifici. Se il mio lavo-
ro richiede silenzio e una comunità etnica, invece, si trova bene con il chiasso e, an-
zi, le piace, io non biasimerò quella comunità né l’accuserò per il suo bagaglio gene-
tico. Tuttavia preferirò non viverle troppo vicino e mi seccherà molto se, con tale
pretesto, qualcuno volesse trovarmi colpevole.
D.E.: Nel 1988, una società può essere monoculturale, considerato il miscuglio
di popolazioni, le migrazioni e le immigrazioni?
C.L.-S.: Il termine è privo di senso poiché una tale società non è mai esistita.
Tutte le culture sono il risultato di mescolanze, di scambi, di misture che sono
occorse, anche in fasi differenti, fin dall’inizio dei tempi. Per il modo con cui si
sono formate, tutte le società sono multiculturali e con lo scorrere dei secoli rag- Le culture come
giungono una propria originale sintesi. Ciascuna di esse si atterrà più o meno “mescolanze”
strettamente a quella mescolanza che, a un dato momento, rappresenta la propria storiche
cultura. Chi può negare che – pur considerando le differenze interne – esistono
una cultura giapponese e una cultura americana? Nessun paese più degli Stati
Uniti è un prodotto di mescolanze, e tuttavia esiste uno “stile di vita americano”
al quale tutti i cittadini sono profondamente attaccati, qualunque sia la loro origi-
ne etnica.
Visto che mi chiede della Francia, le dirò che nel diciottesimo e diciannovesimo
secolo il suo sistema di valori divenne molto attraente per Europa e dintorni. Ma
l’assimilazione degli immigranti non creò alcun problema. Non ve ne sarebbero
514 CLAUDE LÉVI-STRAUSS

neanche oggi se, dalla scuola elementare in poi, il nostro sistema di valori fosse soli-
do e vitale quanto nel passato.
D.E.: È evidente che tutte le società occidentali hanno il problema di una im-
possibile assimilazione: Inghilterra, Germania... La coesistenza delle culture in quei
paesi sembra essere difficile come in Francia.
C.L.-S.: Se le società occidentali non riescono a mantenere o a generare valori
intellettuali e morali abbastanza forti da attrarre quella gente straniera cui vorreb-
bero farli adottare, allora c’è indubbiamente di che preoccuparsi.
Colonialismo e D.E.: I suoi lavori, specialmente Razza e storia e Razza e cultura che abbiamo ap-
decolonizzazione pena citati, sono stati spesso considerati vicini ai movimenti anticoloniali. Cosa ne
pensa?
C.L.-S.: L’ho letto qualche volta. Recentemente ho anche letto che il successo di
Tristi Tropici era legato al sorgere dell’idea del Terzo Mondo. È un’interpretazione
errata. Le società che io difendevo o per le quali tentavo di fornire testimonianza,
sono minacciate dal nuovo ordine politico molto più di quanto non lo fossero dalla
colonizzazione. I governanti dei paesi che hanno ottenuto l’indipendenza dopo la
seconda guerra mondiale non nutrono simpatia per le culture “arretrate” che anco-
ra esistono tra loro.
C’è una seconda ragione che può sembrarle cinica: non mi interessano i popo-
li in quanto credenze, abitudini e istituzioni. Io difendo le piccole popolazioni
che intendono rimanere fedeli al loro tradizionale modo di vivere, lontano dai
conflitti che dividono il mondo moderno. Coloro che abbandonano questo modo
di essere e partecipano ai nostri conflitti creano problemi politici e perfino geo-
politici; sappiamo tutti che, in questo campo, le colpe raramente stanno da una
sola parte.
D.E.: Lei diffida della nozione di Terzo Mondo più che di quella di decolonizza-
zione?
C.L.-S.: Il colonialismo è stato il grande peccato dell’Occidente. Tuttavia, per
quanto riguarda la vitalità e le pluralità delle culture, non mi sembra siano stati fatti
Il Terzo Mondo grandi passi avanti dopo la sua scomparsa.
e la D.E.: L’antropologia è stata accusata di collusione con il colonialismo. Lei ritie-
decolonizzazione
ne fondato questo punto di vista?
C.L.-S.: Che l’antropologia sia nata e si sia sviluppata all’ombra del colonialismo
è un dato di fatto. Tuttavia, diversamente dalle iniziative coloniali, gli antropologi
hanno sempre cercato di proteggere le credenze e i costumi che le culture stavano
sempre più rapidamente perdendo.
D.E.: Alcuni sono arrivati a dire che l’antropologia ha tenuto in vita la domina-
zione coloniale…
C.L.-S.: Quando i nativi, dopo aver subito una distruzione quasi totale, vollero
ristabilire i legami con il proprio passato, si appoggiarono spesso ai libri scritti dagli
antropologi. Conosco molti di questi casi.
L’osservatore e
l’osservato
D.E.: Tuttavia, secondo i critici, gli occidentali conservano la loro supremazia
sulle culture che osservavano.
C.L.-S.: Non si tratta di supremazia dell’osservatore ma di supremazia dell’os-
servazione. Per osservare occorre essere distaccati. Si può – ed è una scelta etica –
scegliere (ma è possibile?) di mescolarsi alla comunità in cui si vive e identificarsi in
essa. La conoscenza è al di fuori.
Lo sguardo
da lontano
D.E.: La conoscenza, allora, deriva solo dalla separazione tra oggetto e soggetto?
C.L.-S.: Questo è un aspetto. Solo in un secondo momento si cercherà di riunir-
ANTROPOLOGIA, RAZZA E POLITICA 515

li. Nessuna conoscenza sarebbe possibile senza una distinzione tra i due momenti;
ma l’originalità delle ricerche etnografiche sta proprio in questo infinito andare
avanti e indietro.
D.E.: Nel suo libro sulla logica della scrittura, Jack Goody solleva in modo affa-
scinante il problema delle relazioni tra l’osservatore e la società osservata; quando si
studiano le tradizioni orali, le civiltà prive di scrittura, il semplice fatto di trascriver- La distorsione
le le cambia e impone le categorie percettive dell’osservatore e, con esse, quelle del- dell’osservazione
la sua propria cultura. Lei ha qualcosa da dire, in proposito?
C.L.-S.: L’osservazione sembra corretta, ma banale. Essa è vera per ogni osserva-
zione, anche nelle scienze più avanzate. Naturalmente occorre essere consapevoli
del fatto che trascrivendo un’osservazione, qualunque essa sia, non si conservano i
fatti nella loro autenticità; essi sono stati trascritti in un’altra lingua e nell’operazio-
ne qualcosa si è perduto. Ma cosa possiamo dedurne? Che non dobbiamo né tra-
durre né osservare?

* Il seguente dialogo è ripubblicato, dopo revisione, da Conversations with Claude Lévi-Strauss di Claude Lévi-
Strauss e Didier Eribon, Chicago, University of Chicago Press, Chicago, Ill., 1991.
Le informazioni bibliografiche qui fornite sono desunte da A. Douglas (1992). Per un elenco dei numerosi ricono-
scimenti e titoli onorari, ottenuti da Lévi-Strauss, cfr. Redfield (1987, p. 455).

Biografia intellettuale

Claude Lévi-Strauss è un “etnologo francese… famoso quale esponente dello


strutturalismo… Dopo aver studiato legge (diploma) e filosofia (diploma e abilita-
zione all’insegnamento), Lévi-Strauss scelse l’etnologia quale area di specializzazio-
ne. Attratto dalla possibilità di fare ricerca sul campo, accettò un incarico presso
l’Università di S. Paolo del Brasile dal 1935 al 1937. Durante le vacanze scolastiche
e anche nel 1938 e 1939 organizzò spedizioni all’interno del Brasile per studiare i
bororo, i nambikwara e altri gruppi indiani. Richiamato alle armi nel 1939 e 1940,
dopo la sconfitta [francese] fu fatto sparire misteriosamente dalla Francia con un
Programma Rockerfeller di salvaguardia dei maggiori intellettuali ebrei. A New
York dal 1941 al 1945, insegnò alla New School for Social Research e, in un secon-
do soggiorno nel 1946-47, prestò servizio come addetto culturale francese. Durante
la guerra, Lévi-Strauss si unì a una comunità di esiliati negli Stati Uniti dominata
dai principali surrealisti e divenne grande amico di André Breton e di Max Ernst.
Dopo aver ricoperto numerosi incarichi presso il Centro Nazionale per la Ricerca
Scientifica, il Musée de l’Homme e l’École Pratique des Haute Études, nel 1959 ven-
ne nominato membro del Collège de France dove diresse un laboratorio di antropo-
logia sociale fino alla pensione, nel 1982. Nel 1973 fu nominato anche membro del-
l’Accademia di Francia”.
Le sue opere principali (date di edizione italiana tra parentesi tonde; date delle
edizioni francesi tra parentesi quadre) includono: La vita familiare e sociale degli In-
diani Nambikwara (1948), Le strutture elementari della parentela, (1947, 19692),
Razza e storia (1952), Tristi Tropici (1957), Antropologia strutturale (1958-1973), Il
516 CLAUDE LÉVI-STRAUSS

Totemismo oggi (1961), Il pensiero selvaggio (1962), Il crudo e il cotto - Mitologiche 1


(1966), Dal miele alle ceneri - Mitologiche 2 (1970), Le origini delle buone maniere a
tavola - Mitologiche 3 (1971), L’uomo nudo - Mitologiche 4 (1964-1971), Le but de
l’Anthropologie (1968), La via delle maschere (1975), Mito e significato (1978), Lo
sguardo da lontano (1983), La vasaia gelosa (1985) e Storia di Lince (1991). Inoltre i
lettori potranno far riferimento a Conversations with Claude Lévi-Strauss (1961) edi-
to da Charbonnier e De près et de loin [1988] di Lévi-Strauss e Didier Eribon [ed.
ingl. Conversation with Claude Lévi-Strauss, 1991, da cui provengono le citazioni
che seguono].

D.E.: Perché ha deciso di diventare antropologo?


C.L.-S.: È stata una combinazione di circostanze. Fin da bambino avevo la pas-
sione per le curiosità esotiche… Inoltre verso il 1930 cominciò a spargersi la voce
tra giovani filosofi che esisteva una nuova disciplina, l’antropologia, e che aspirava
ad essere riconosciuta ufficialmente… Poi ho letto un paio di testi di antropologi
inglesi e americani, in particolare Primitive Society di Robert Lowie, molto convin-
cente perché in esso teoria e ricerca sul campo si combinavano insieme. Stavo cer-
cando di conciliare la mia educazione professionale con il mio gusto per l’avventu-
ra… Infine, Paul Nizan, che ho incontrato due o tre volte in riunioni di famiglia…
mi disse che anche lui era stato affascinato dall’antropologia, e questo mi incorag-
giò (1991, pp. 16-17).

D.E.: Il lavoro [di Boas]… ha avuto importanza per lei?


C.L.-S.: È stato essenziale… Boas fu… uno dei primi – da qualche parte ho
scritto che era Saussure, ma in effetti Saussure non ha mai espresso opinioni al ri-
guardo, si desumono indirettamente dal suo lavoro – a insistere su un fatto essen-
ziale delle scienze umane: le leggi del linguaggio funzionano a livello inconscio, al
di là del controllo dei parlanti; quindi possono essere studiate come fenomeni og-
gettivi, rappresentativi di altri fatti sociali (1991, pp. 38-39).

D.E.: L’incontro [con il linguista Roman Jakobson]... è stato decisivo per lei?
C.L.-S.: È stato enormemente importante. All’epoca ero un rozzo strutturalista,
uno strutturalista inconsapevole. Jakobson mi ha rivelato l’esistenza di un tipo di
dottrina che era già stata inserita in una disciplina, la linguistica, che io ignoravo.
Per me fu una rivelazione…
D.E.: …E lei fu immediatamente in grado di applicare i suoi metodi al suo la-
voro sulla parentela.
C.L.-S.: Le cose non sono andate proprio così. Non ho applicato le sue idee,
ma ho capito che quello che lui diceva sul linguaggio corrispondeva a quello che
confusamente intuivo sui sistemi di parentela, sui ruoli matrimoniali e, più generi-
camente, sulla vita sociale (1991, pp. 41-99).

C.L.-S.: La natura e l’importanza di quanto ho preso in prestito dalla lingui-


stica sono state fraintese. A parte l’essere stata fonte di ispirazione generale –
che, ammetto, è stata enorme – il lascito della linguistica si riduce al riconosci-
mento del ruolo dell’attività mentale inconscia nella produzione di strutture lo-
giche; come ha ben messo in evidenza Boas, antropologo e linguista. Inoltre, c’è
il principio basilare che le parti componenti non hanno alcun significato intrin-
seco, che si evince, invece, dalla loro posizione. Il che è vero per il linguaggio
come è vero per altri fatti sociali. Non credo di aver chiesto altro alla linguistica
ANTROPOLOGIA, RAZZA E POLITICA 517

e Jakobson: nel corso della nostra conversazione, fu il primo a riconoscere che


avevo applicato in modo originale queste nozioni a un’altra area (1991, pp. 112-
113).

D.E.: L’idea della trasformazione gioca un ruolo chiave nelle sue analisi… Dove
l’ha trovata, nella logica?
C.L.-S.: Né nella logica né nella linguistica. L’ho trovata in un lavoro che ha
avuto un ruolo decisivo per me e che ho letto durante la guerra, mentre ero negli
Stati Uniti: On Growth and Form, in due volumi, di D’Arcy Wentworth Thomp-
son, pubblicato per la prima volta nel 1917. L’autore, un naturalista scozzese… in-
terpretava come trasformazioni le differenze visibili tra le specie o tra gli organi
animali o vegetali nel quadro degli stessi generi. Per me fu una folgorazione, so-
prattutto perché mi accorsi presto che questo modo di vedere faceva parte di una
lunga tradizione: prima di Thompson c’era la botanica di Goethe, e prima di Goe-
the, Albrecht Dürer e il suo Treatise on the Proportions of the Human Body. Oggi,
la nozione di trasformazione è insita nell’analisi strutturale. Direi persino che tutti
gli errori, tutti gli abusi commessi attraverso la nozione di struttura, sono dovuti al
fatto che chi ne ha scritto non aveva capito che è impossibile concepire una strut-
tura separata dalla trasformazione. La struttura non è riducibile a un sistema, a un
gruppo costituito da elementi e dalle relazioni che li uniscono. Per poter parlare di
struttura è necessario che esistano rapporti invariabili tra elementi e relazioni tra
vari gruppi, cosicché ci si può spostare da un gruppo all’altro attraverso una tra-
sformazione (1991, p. 113).

D.E.: …Una delle obiezioni che spesso le vengono mosse, [è che] lei ha letto
molto ma ha fatto poco lavoro sul campo.
C.L.-S.: È stata colpa delle circostanze. Se avessi ottenuto il visto per il Brasile
nel 1940 sarei tornato sui miei primi campi di lavoro e avrei fatto più ricerca. Se
non fosse scoppiata la guerra, avrei probabilmente effettuato un’altra missione. Il
fato mi ha spinto negli Stati Uniti dove, per mancanza di mezzi e a causa della si-
tuazione internazionale, non ero in grado di organizzare alcuna spedizione ma do-
ve, peraltro, ero completamente libero di lavorare su questioni teoriche… Mi ac-
corsi anche che nei precedenti venti o trent’anni era stato accumulato un bel po’
di materiale, che, però, era così disordinato che non si sapeva da che parte comin-
ciare o come utilizzarlo. Sembrava urgente scoprire il contenuto di tutta questa
massa di documenti. E infine, perché non ammetterlo? Mi accorsi presto che ero
un topo di biblioteca, non un ricercatore sul campo… Tuttavia ho fatto più ricer-
ca sul campo di quanto i miei critici non vogliano ammettere. In ogni caso, ne ho
fatta abbastanza da imparare e da capire cos’è un lavoro di campo: il che è un es-
senziale prerequisito per effettuare un’accorta valutazione e utilizzo del lavoro
svolto da altri (1991, p. 43-45).

D.E.: …Cosa l’ha spinta a scrivere un libro come Tristi Tropici?


C.L.-S.: Tutto è cominciato con una richiesta di Jean Malaurie... Non mi era mai
venuto in mente di scrivere un libro sui miei viaggi. D’altronde, in quel periodo mi
stavo convincendo che non avrei avuto futuro nel sistema universitario, per cui l’i-
dea di scrivere quanto mi accadeva, era molto allettante. Poi, col tempo, avevo pre-
so un po’ le distanze. Non si trattava più di scrivere il diario delle mie spedizioni:
dovevo ripensare le mie vecchie avventure, riflettere su di esse e trarre qualche con-
clusione (1991, p. 58).
518 CLAUDE LÉVI-STRAUSS

D.E.: …Mi ha detto, l’altro giorno, che la sua carriera si è sviluppata interamen-
te al di fuori del mondo universitario tradizionale.
C.L.-S.: …Ho insegnato in Brasile, negli Stati Uniti, poi in Francia all’École des
Hautes Études, ma mai all’Università.
D.E.: Quali furono i vantaggi di lavorare fuori del tradizionale mondo universitario?
C.L.-S.: Più libertà e, in un certo senso, più tolleranza verso uno spirito meno
inquadrato (1991, p. 75).

C.L.-S.: …Freud ha avuto un ruolo importante nel mio sviluppo intellettuale,


pari a quello di Marx. Mi ha insegnato che anche i fenomeni apparentemente più ir-
razionali possono essere sottoposti ad un’analisi razionale. L’opera di Marx ha avu-
to un impatto analogo per quel che riguarda le ideologie (che sono fenomeni collet-
tivi e non individuali, ed anche essenzialmente irrazionali); al di la delle apparenze,
è possibile arrivare a scoprire un fondamento logicamente coerente, indipendente-
mente dai giudizi morali che si possono esprimere al riguardo… (1991, pp. 107-
108).

C.L.-S.: Marx fu il primo ad usare sistematicamente nelle scienze sociali il meto-


do dei modelli. Tutto il Capitale, ad esempio, è un modello costruito in laboratorio
e proposto dall’autore per vederne i risultati insieme agli eventi osservati. Inoltre, in
Marx ho trovato la fondamentale idea che non si può capire cosa gira nella testa
della gente, se non lo si riferisce alle condizioni della loro esistenza pratica; è ciò
che ho cercato di fare attraverso i miei Mitologica... Solo poche lezioni mi sono ri-
maste dell’insegnamento di Marx, soprattutto che la coscienza verte sempre su se
stessa. E poi, come ho già detto, è grazie a Marx che ho scoperto Hegel e, dopo di
lui, Kant. Lei mi chiedeva delle influenze sul mio lavoro: fondamentalmente sono
un kantiano di buon senso e forse, allo stesso tempo, uno strutturalista nato… Già
[da piccolo] cercavo le invarianti (1991, pp. 107-108).

D.E.: Cosa ha più raccolto da Kant?


C.L.-S.: L’idea che la mente ha i suoi limiti, li impone su una realtà sempre im-
penetrabile e non può che raggiunge questa realtà attaverso essi (1991, p. 108).

D.E.: Fondamentalmente il suo metodo di ricerca nella serie dei Mitologica è ab-
bastanza vicino a quello di Dumézil: individuare un’area geografica e cercare di tro-
varvi le stesse strutture mentali. C’è, però, una differenza fondamentale: Dumézil
aveva a disposizione un’importante sequenza storica, mentre lei, quando analizza i
miti americani, non può trovarne la lontana origine storica.
C.L.-S.: Non occorre ricordarle quanto io debba al lavoro di Dumézil. Da esso
ho imparato molto e ho tratto grande incoraggiamento. Ma la differenza da lei rile-
vata non è la sola. Dumézil e io abbiamo diversi obiettivi. Lui voleva dimostrare
che un sistema di rappresentazioni, la cui presenza era stata rilevata in parecchie
parti dell’Asia e dell’Europa, aveva un’origine comune. Per me, invece, l’unità sto-
rico-geografica era un punto di partenza: l’America, popolata da ondate successive
di migranti provenienti generalmente tutti dallo stesso luogo d’origine, e il cui in-
gresso nel Nuovo Mondo ebbe luogo, secondo vari scienziati, tra 70.000 e 5.000
anni fa. Quindi ero alla ricerca di qualcos’altro: prima di tutto, spiegare le diffe-
renze tra le mitologie la cui unità era fondata su avvenimenti storici; e poi, partire
da un caso singolo per capire il meccanismo del pensiero mitico (1991, pp. 131-
132).
ANTROPOLOGIA, RAZZA E POLITICA 519

C.L.-S.: Wagner ha avuto un ruolo decisivo per il mio sviluppo intellettuale e nel
mio interesse per i miti… Wagner non ha soltanto fondato le sue opere sui miti, ma
ha proposto un modo per analizzarli che può essere chiaramente individuato nell’u-
so del leitmotiv. Il leitmotiv prefigura il mitema. E in più, il contrappunto tra leit-
motiv e poesia raggiunge una sorta di analisi strutturale, giacché lavora per slitta-
menti o spostamenti alla sovrapposizione di momenti dell’intreccio che altrimenti si
susseguirebbero in sequenza lineare. A volte il leitmotv, che è musicale, coincide
con il poema, che è letterario; altre volte richiama un episodio che ha una connes-
sione strutturale con l’episodio del momento, o per analogia o per contrasto. Io l’ho
capito solo più tardi, molto dopo aver iniziato la mia analisi dei miti, e in un mo-
mento in cui mi credevo completamente tagliato fuori dal linguaggio wagneriano.
Diciamo che ho meditato su Wagner per parecchi decenni (1991, p. 176).

D.E.: Alla fine de La vasaia gelosa, lei ha scritto che il mito è un “riflesso ingran-
dito” del nostro abituale modo di pensare. È stato questo il pensiero che l’ha guida-
ta attraverso questa lunga collana di libri?
C.L.-S.: Il pensiero è stato lo stesso espresso ne Le strutture elementari della pa-
rentela, solo che invece di trattare fatti sociologici tratta di fatti religiosi. Ma il pro-
blema non cambia; in presenza del caos delle pratiche sociali o delle rappresenta-
zioni religiose, vogliamo continuare a cercare spiegazioni parziali, differenti caso
per caso, o vogliamo cercare di scoprire un ordine sottostante, una profonda strut-
tura il cui effetto ci permetterà di spiegare questa apparente diversità e, in una pa-
rola, di superare questa incoerenza? (1991, p. 141).
La politica dell’etnicità
Stanley J. Tambiah

Sviluppo Una realtà cupa e le disillusioni proprie della nostra epoca, che sono emerse dal-
politico, guerre le ceneri della seconda guerra mondiale, derivano dal fatto che, nonostante il forte
civili, regimi
autoritari impulso verso lo sviluppo e la modernizzazione, lo sradicamento di malattie e la dif-
fusa alfabetizzazione, i programmi di sviluppo politico ed economico hanno genera-
to e stimolato, per collusione o per reazione, in buona fede e per scarsa capacità di
previsione, guerre civili pesanti e agghiaccianti spargimenti di sangue interrazziale e
interetnico. La stessa epoca è testimone della nascita di autoritarismi repressivi in
entrambe le forme, militare e democratica, rafforzati dagli armamenti occidentali,
infiammati da slogan populisti e dottrine fondamentaliste, e assistiti da evidenti ma-
nipolazioni dei mass media che ne hanno di molto esteso il raggio d’azione.
L’ottimismo dei sociologi, dei politologi e degli antropologi che avevano inge-
nuamente previsto l’imminente inizio della “rivoluzione dall’integrazione” e l’inevi-
tabile declino dei “legami primordiali” (quali parentela, casta, etnicità nei paesi del
La crisi dei Terzo Mondo), è ormai sprofondato nella delusione. L’avvento delle costituzioni e
rapporti centro- delle istituzioni democratiche che esaltano i diritti umani, il voto universale, il siste-
periferia e
conflitti etnici ma dei partiti, la legislatura elettiva, la regola della maggioranza e così via, ha spesso
dato origine a strane malformazioni ben lontane dagli obiettivi di libertà, giustizia e
tolleranza che costituivano il supporto ideologico delle “democrazie liberali” del-
l’Europa occidentale e del Nord America. Qualcosa è andato maledettamente stor-
to nei rapporti centro-periferia del mondo, e una manifestazione di tale malessere è
visibile nel verificarsi di vasti conflitti etnici, spesso accompagnati da violenze col-
lettive tra popolazioni che non sono straniere ma nemiche dichiarate1.

L’identità etnica
L’identità etnica è soprattutto un’identità collettiva: ci siamo autoproclamati se-
negalesi, malesi, ibo, thailandesi, e così via. È un’identità autocosciente e articolata
L’identità come che sostanzializza e naturalizza uno o più attributi – in genere il colore della pelle,
autocosciente la lingua, la religione, il territorio – e li ascrive alle collettività come loro possesso
naturalizzazione innato e come retaggio mitico-storico. Le componenti centrali di questa definizione
di attributi
di identità sono le idee di eredità, stirpe e discendenza, di luogo o territorio d’origi-
ne, e di legami di parentela; ciascuna di esse, sola o combinata con altre, può essere
invocata come un diritto, a seconda delle situazioni e dei vantaggi. Queste collettivi-
tà etniche pensano di essere unite, autonome e durature nel tempo.
Sebbene gli stessi attori, appellandosi a tali diritti, parlino come se i confini etnici
fossero ben definiti e fissati per sempre, e considerino le collettività etniche come grup-
La “dinamicità” pi che si riproducono al loro interno, è chiaro che da un punto di vista dinamico e pro-
della costruzione cessuale esistono molti precedenti fatti di “passaggi” e di cambi di identità, di incorpo-
etnica
razioni e assimilazioni di nuovi membri, oltre che di modifiche della dimensione e dei
criteri dell’identità collettiva. La realtà sfugge all’attribuzione di etichette etniche.
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 521

I gruppi etnici – soprattutto in questa epoca di espansione dei conflitti etnici –


sembrano essere una via di mezzo tra gruppi di parenti locali (lignaggi, clan, gruppi
cognatici, ecc.) e nazioni come massima espressione della collettività. Inoltre – spe-
cie nel contesto moderno e soprattutto in molte società del Terzo Mondo – è evi-
dente la crescente consapevolezza che aggregazione etnica e identità etnica stanno
superando altre divisioni sociali e si stanno sostituendo ad altre fonti di differenzia-
zione, per divenire il principio fondamentale e la principale identità su cui si fonda-
no le azioni sociopolitiche.
Questo stato di fatto, quindi, aumenta la possibilità che l’etnicità (progettata L’etnicità
sulla vecchia base dell’identità intesa in termini di lingua, “razza”, religione, luogo prende il posto
d’origine), riconosciuta come base per la mobilitazione a fini politici, provochi tale dei conflitti
mobilitazione da un lato nelle classi sociali e dall’altro negli Stati-nazione. Di conse- di classe?
guenza, due sono i quesiti importanti cui un’analisi generale deve dare risposta: in
che misura e in quale maniera l’etnicità modifica, incorpora o perfino si sostituisce
ai conflitti di classe quale massimo paradigma per interpretare i conflitti e i cambia- Gli influssi
menti sociali; e poi, in che modo l’etnicità influisce sulle aspirazioni e sulle attività sulla formazione
di formazione delle nazioni e di integrazione nazionale che si riteneva fossero i prin- delle nazioni
cipali obiettivi degli Stati-nazione di recente costituzione del Terzo Mondo. Non
posso, in questo studio, affrontare i problemi di classe, ma ho qualcosa da dire sul
secondo quesito.

L’ubiquità del conflitto etnico


Nessuno nega, naturalmente, che le divisioni e le identificazioni linguistiche, na-
zionali, religiose, tribali, razziali (e altre) e le competizioni e i conflitti basati su di
esse siano vecchi fenomeni, tuttavia la recente rilevanza del termine etnicità “riflette
una nuova realtà e il nuovo uso riflette un cambiamento della realtà” (Glazer, Moy-
nihan 1975, p. 5) su scala globale, nella seconda metà del ventesimo secolo, sia nel
Primo Mondo già industrializzato sia nel Terzo Mondo in via di sviluppo.
Si direbbe che l’improvvisa ricomparsa del termine etnicità nella letteratura del- L’importanza
le scienze sociali degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta sia avvenuta non solo “politica” dei
per descrivere alcune manifestazioni del Terzo Mondo, ma anche per reazione al- gruppi etnici
l’apparire di movimenti etnici nel mondo industrializzato e opulento, specie negli
Stati Uniti, in Canada e nell’Europa occidentale (cfr., ad es., Connor 1972, 1973;
Esman 1977).
La realtà della fine del ventesimo secolo è che i gruppi etnici, invece di essere dei
sottogruppi essenzialmente minoritari e marginali, destinati nel tempo a essere assi-
milati o indeboliti, sono risultati tra i più importanti elementi “politici” e i più im-
portanti attori politici in molte società. In più, se nel passato noi vedevamo un grup-
po etnico come sottogruppo di una più ampia società, oggi dobbiamo fare i conti an-
che con le istanze di gruppi etnici di maggioranza nei governi o nelle nazioni che,
forti del loro status maggioritario, esercitano politiche preferenziali o “affermative”.
La prima considerazione a conferma che il conflitto etnico è la principale realtà
del nostro tempo non è solo la sua ubiquità, ma anche il continuo aumento della Una lunga lista
frequenza e dell’intensità del suo verificarsi. Consideriamo quei conflitti, senza fa- di conflitti
re un elenco esaustivo, che si sono verificati a partire dagli anni Sessanta (alcuni
dei quali, naturalmente, hanno una lunga storia)2: conflitti tra anglofoni e franco-
foni in Canada; cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord; valloni e fiamminghi
in Belgio; cinesi e malesi in Malesia; greci e turchi a Cipro; ebrei e altre minoranze
da una parte e russi dall’altra nell’Unione Sovietica; ibo, haussa e yoruba in Nige-
ria; indiani dell’Est e creoli in Guyana. Aggiungiamo, a questi esempi, i tumulti di-
522 STANLEY J. TAMBIAH

venuti ciclici negli ultimi anni: la recente guerra tra singalesi e tamil nello Sri Lan-
ka, i confronti sikh-hindu e musulmani-hindu in India, gli scontri tra chackma e
musulmani in Bangladesh, i combattimenti tra figiani e indiani nelle Figi, gli scon-
tri pathan-bihari nel Pakistan e ultimo, ma non meno grave, l’inferno nel Libano e
la continua erosione dei diritti umani correntemente effettuata nelle azioni israelia-
ne a Gaza e nella West Bank. Che queste esplosioni possano essere inarrestabili e
quanto esse siano diffuse nel mondo, è parso evidente fin da quando, nel marzo
1988, esplose la secolare differenza tra cristiani armeni e musulmani dell’Azerbai-
gian nella ex Unione Sovietica.
La maggior parte di questi conflitti ha portato scontri e violenza, omicidi, in-
cendi e distruzioni. Le rivolte civili hanno provocato l’intervento delle forze di
Rivolte civili e
stragi di massa
polizia: a volte come reazione, per reprimerle, a volte in collusione con gli aggres-
sori civili, a volte con entrambe le azioni, in sequenza. Eventi di questo tipo si so-
no verificati in Sri Lanka, in Malesia, in India, in Zaire, in Guyana e in Nigeria.
Assassinii in massa di civili sono stati effettuati dalle forze armate in Uganda e in
Guatemala, e gravi perdite di civili si sono registrate anche in Indonesia, Paki-
stan, India e Sri Lanka3.
L’immorale contrabbando d’armi e il libero commercio di tecnologia della vio-
lenza hanno dato un considerevole impulso all’escalation dei conflitti etnici: non so-
lo consentono ai gruppi dissidenti di resistere con successo alle forze armate dello
Stato, ma anche ai civili di combattersi con armi letali. La definizione classica di
La crisi degli Stato come unico gestore delle forze armate, è diventata una logora presa in giro.
Stati e La tecnica della guerriglia, avendo decretato il successo di numerosi movimenti di
l’esportazione liberazione e di resistenza, costituisce ormai una tattica ben definita ed esportabile.
della guerriglia
Inoltre, al facile accesso alle tecnologie belliche da parte di gruppi attivi in paesi al-
trimenti privati di sviluppo culturale ed economico – abbiamo visto cosa ha potuto
fare la resistenza afghana con le armi americane – si affianca un altro tipo di fratel-
lanza internazionale tra gruppi di resistenza (che hanno ben poco in comune, tran-
ne l’opposizione allo status quo dei loro paesi), che si scambiano conoscenze di tat-
tica della guerriglia e dell’arte della resistenza. Gruppi militanti in Giappone, Ger-
mania, Libano, Libia, Sri Lanka e India si avvalgono di reti internazionali di colla-
L’internaziona-
lizzazione borazione non diverse – ma, forse, più solidali – rispetto ai canali diplomatici esi-
delle tecniche stenti tra paesi sovrani e grandi potenze. Risulta, così, che il “mestiere di uccidere”
terroristiche non è più un’esclusiva delle forze armate dello Stato e della polizia. L’internaziona-
lizzazione della tecnologia della distruzione, che si manifesta come terrorismo e
controterrorismo, ha rivelato un aspetto del libero mercato capitalista non previsto
da Adam Smith e da Immanuel Wallerstein.
La rivoluzione dei media, che con le loro trasmissioni radio e video collegano
centri metropolitani e località remote offrendo immagini di eventi nei notiziari
(qualsiasi essi siano: NBC, CBS o ABC), consente di presentare diversi eventi, che ac-
cadono in diversi luoghi, come una sola, sincrona realtà. Questi processi comuni-
cativi rendono tutti gli uomini contemporaneamente testimoni degli eventi del
mondo. Cominciamo a capire che i conflitti etnici che accadono un po’ ovunque
nel mondo sono dello stesso tipo e reciprocamente collegati: il conflitto nell’Irlan-
Sincronizzazione
e diffusione da del Nord; i sequestri di persona nel Libano; i soprusi nei territori occupati in
mondiale dei Israele; le bombe in Germania; l’uccisione di civili nello Sri Lanka; le dimostra-
conflitti zioni contro i sihk a Delhi; le manifestazioni dei giovani coreani contro il governo
conservatore; gli attacchi ai “negri della boscaglia” da parte dei cittadini del Suri-
name; gli agguati dei contras in Nicaragua; le tensioni esplosive tra armeni e azer-
bagiani: tutti appartengono al mondo contemporaneo tinteggiato di violenza.
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 523

L’internazionalizzazione della violenza e la simultaneità dei suoi eventi seguiti at-


traverso i nostri televisori ci rendono spettatori partecipi e sofferenti che reagisco-
no con le proprie simpatie e i propri pregiudizi.

Distribuzione etnica nella società pluralista contemporanea


Per rendersi conto dell’ubiquità dei conflitti etnici, sarebbe utile avere una map-
pa con indicati il numero dei gruppi etnici e delle loro dimensioni demografiche in
diversi paesi contemporanei. Queste distribuzioni, tra l’altro, influenzano notevol-
mente non solo i processi che portano ai conflitti, ma anche le strategie e l’efficacia
delle coalizioni che si sono formate nelle società pluralistiche, coalizioni che vanno
da alleanze e accordi costruttivi e di durata relativamente lunga a patti di conve-
nienza e opportunismo temporanei e fragili. Situazioni
La lista che segue fornisce un quadro generale che indica alcune delle combina- demografiche e
politiche etniche:
zioni demografiche che influenzano il corso delle politiche etniche. una tipologia
1. Paesi che sono virtualmente omogenei nella composizione etnica (uguaglianza
etnica pari al 90-100%): Giappone, Corea e Bangladesh.
2. Paesi che hanno una schiacciante maggioranza etnica che domina e costitui-
sce il 75-89% della popolazione: Bhutan, Birmania, Cambogia, Taiwan, Vietnam e
Turchia.
3. Paesi in cui il gruppo etnico più vasto costituisce il 50-75% della popolazione
e in cui sono presenti molti gruppi “di minoranza”: Thailandia, Sri Lanka, Laos,
Iran, Afghanistan, Pakistan, Singapore e (forse) Nepal.
4. Paesi in cui sono presenti due consistenti gruppi dominanti più o meno della
stessa dimensione (con o senza piccole enclavi minoritarie al loro interno): Malesia
(dove i malesi sono circa il 44% e i cinesi circa il 36%); Guyana (indiani dell’Est, il
gruppo più grande, con circa il 50%, e i creoli); Figi (figiani e indiani sono quasi
della stessa dimensione); Guatemala (dove latini e indiani si equivalgono).
5. La nostra ultima categoria riguarda i paesi realmente pluralistici, costituiti da I paesi realmente
molti gruppi etnici dove non si ha il predominio di uno o due di essi e dove non pluralistici
tutti i gruppi sono necessariamente coinvolti attivamente nella politica etnica.
Esempio ne sono la Nigeria (in cui ibo, yoruba, haussa, e fulani sono le principali
etnie), o paesi come l’Indonesia, le Filippine e l’India, le cui popolazioni sono mol-
to varie. Tuttavia, all’interno di queste società complesse la politica etnica interna
può assumere un duplice aspetto a seconda delle regioni, come nel caso dei Sikh nei
confronti degli indu del Pakistan, degli indigeni delle “tribù delle colline” nei con-
fronti dei bengalesi nel Mizoram (India) e dei cristiani nei confronti dei moros nelle
Filippine.
Nell’ultima categoria possiamo includere anche l’ex Unione Sovietica, nella Il caso della ex
quale esistevano, infatti, più di cento distinte nazionalità e gruppi etnici distribuiti Unione Sovietica
in quindici repubbliche. Oggi le tensioni etniche sono meglio comprese in termini
regionali.
Horowitz (1985, pp. 30-35) ha individuato un’importante distinzione che ri-
guarda la natura e le dinamiche dei conflitti etnici: se i gruppi in questione sono or- Gruppi ordinati
vs paralleli
dinati (in qualche tipo di gerarchia o di schema stratificato basato su valutazioni
asimmetriche) o non ordinati o paralleli, separati da divisioni verticali.
Esempi di gruppi etnici organizzati nell’ambito delle società sono presenti in
Ruanda (specialmente nel 1959), Zanzibar (nel 1966) e, con qualche incertezza,
Etiopia e Liberia. Tuttavia la categoria di gran lunga più significativa per uno studio
comparativo è quella dei paesi che presentano vasti gruppi etnici non organizzati
come malesi e cinesi in Malesia; singalesi e tamil in Sri Lanka; indiani dell’Est e
524 STANLEY J. TAMBIAH

creoli in Guyana; ibo, haussa, fulani e yoruba in Nigeria; cristiani-filippini e moros


nelle Filippine; thailandesi e musulmani in Thailandia4.
Secondo Tagil la questione principale da spiegare è “perchè l’etnicità diventa
più facilmente causa di conflitti politici nelle società moderne e in quelle sulla soglia
Modernizzazione della modernizzazione che non nelle precedenti fasi della storia” (Tagil 1984, p. 36).
e politicizzazione L’attuale contesto dell’etnicità politicizzata rappresenta chiaramente una fase ben
dell’etnicità distinta nella storia politica ed economica dei paesi di recente indipendenza. Se
prendiamo l’eredità coloniale come punto di partenza, possiamo grossolanamente
individuare tre fasi che si susseguono e in parte si sovrappongono.

L’eredità coloniale
Cominciamo dall’esperienza coloniale: il viceré inglese in India, Sri Lanka, Bir-
mania, Malesia; la presenza olandese nelle Indie Orientali Olandesi e francese in Al-
geria e Indocina; ecc. Ovviamente l’esperienza coloniale è stata molto variegata e
complessa, ma, per ciò che riguarda il nostro tema del conflitto etnico, risultano ri-
La parziale levanti le caratteristiche dell’eredità coloniale elencate qui di seguito.
arbitrarietà degli
Stati coloniali Nella gran parte dei casi, le potenze coloniali hanno aggregato popolazioni e ter-
ritori in Stati più grandi di quanto non fossero prima, a volte in modo arbitrario, a
volte tentando di seguire le costellazioni sociali e demografiche del territorio. L’in-
tero processo si complicò ulteriormente a causa della competizione geopolitica tra
le potenze imperiali che volevano allargare sempre più i propri territori. L’India,
nonostante l’imperatore Asoka e l’impero Mogol, raggiunse la sua massima aggre-
gazione sotto il dominio britannico; e così avvenne per Sri Lanka, Malesia, Birma-
nia, Nigeria, Kenia, ecc. Anche il controllo olandese di Giava, Sumatra e delle altre
isole portò, in qualche modo, a un’unificazione mai conosciuta prima.
La politica interna delle potenze coloniali ha rafforzato in modi complessi le dif-
ferenze già esistenti, stimolando inoltre gruppi di persone, in precedenza social-
mente divisi, a interagire in ambiti comuni. I poteri coloniali, come quello britanni-
L’introduzione co, se da una parte codificarono entità sociali o costumi “regionali”, “tribali”, “di
di codici
commerciali e casta” o “comunitari” in relazione al matrimonio, all’eredità, alle pratiche religiose
giudiziari unitari e così via, che per la maggior parte non erano in contraddizione con queste diffe-
renze socioculturali, dall’altra introdussero e formalizzarono codici e regolamenti
commerciali e una legislazione penale valida per l’insieme delle colonie. Questo
processo di standardizzazione e omogeneizzazione proseguì di pari passo con la po-
litica e le iniziative economiche imperiali e finì con il portare le colonie, anche se in
un ruolo di dipendenza, nell’orbita del capitalismo mondiale. Politica fiscale, com-
merciale e imprenditoriale diedero luogo a piantagioni o a imprese commerciali
(agenzie di mediazione) che, a loro volta, stimolarono attività come quelle di avvo-
cati, ingegneri, dottori (della medicina occidentale), contabili e così via.
Le colonie Queste politiche particolaristiche e standardizzanti costituivano entrambe un’ar-
nell’orbita del ma a doppio taglio, usata sia nell’interesse dello sviluppo e del progresso sia allo
capitalismo scopo di dividere e governare. Le si ritrova in diversi contesti coloniali tropicali –
mondiale
dalle Indie olandesi alle varietà giamaicane di “società plurali” che divennero ogget-
to d’analisi dall’opera di J. S. Furnivall sino a quella di M. G. Smith5. Del processo
di ampliamento degli orizzonti territoriali e dell’amalgama di sottogruppi creatosi
in Asia e in Africa durante il periodo coloniale, Donald Horowitz ha scritto nel suo
recente lavoro ampio e degno di nota, Ethnic Groups in Conflict:

I colonialisti hanno spesso costituito dei territori raggruppando villaggi e regioni scarsa-
mente legati tra loro (…). Dalla fusione di realtà confinanti, apparvero numerosi nuovi
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 525

gruppi, tra cui i malesi in Malesia, gli ibo in Nigeria, i kikuyu in Kenia, i bangala in Zaire La creazione di
e i moro nelle Filippine. Alcuni di questi gruppi furono creazioni “artificiali” delle auto- gruppi “artificiali”
rità coloniali e dei missionari che accelerarono la lenta fusione di popolazioni affini in en-
tità coerenti (1985, pp. 66-67).

È interessante notare, ad esempio, che i malesi che si proclamano bhumiputra,


“figli della terra”, sono il prodotto della fusione non solo di una maggioranza male- Il caso dei “figli
siana, ma anche di vari gruppi originari da luoghi lontani come Sumatra, le Celebes, della terra” malesi
il Borneo e Giava. La stessa rivendicazione costituisce un’identità di natura estre-
mamente emotiva e unificante che si è sviluppata a fronte del gran numero di immi-
granti cinesi che si erano installati in mezzo a loro (vedi anche Nagata 1979).

Le tre fasi dell’era dell’indipendenza


Credo sia importante mettere in evidenza le tre fasi in cui si articola la storia po-
litica di numerosi paesi del Terzo Mondo come India, Sri Lanka, Malesia, Guyana e
Nigeria, che raggiunsero l’indipendenza subito dopo la fine della seconda guerra
mondiale. Le caratteristiche di ciascuna fase sono determinate in egual misura dalla
retorica ideologica e dalle definizioni usate da politici e commentatori accademici.
Intendo queste fasi come semplici esempi dell’importanza assunta da fattori diversi
e non come movimenti discontinui.
1. La prima fase è costituita dall’effettivo processo di “decolonizzazione”, inizia-
to quando le potenze imperiali occidentali, dopo la seconda guerra mondiale, “tra- Prima fase: il
sferirono potere” a gruppi di élites locali. Mentre l’intero periodo coloniale aveva processo di
decolonizzazione
creato degli scombussolamenti relativi, la decolonizzazione venne preceduta e ac-
compagnata dalla violenza quando, come nel caso dell’Algeria, la colonia combatté
una “guerra di liberazione”. In altre colonie, come Sri Lanka e Birmania, il trasferi-
mento di potere fu più pacifico anche se non privo di manifestazioni di disobbe-
dienza civile o di altre forme di resistenza come, ad esempio, quelle attuate in India
dall’Indian National Congress o in Malesia dalla guerriglia dei comunisti cinesi.
2. La seconda fase, che parte dalla fine degli anni Cinquanta e prende forza ne-
Seconda fase:
gli anni Sessanta, fu caratterizzata da rivendicazioni ottimistiche e persino stridenti l’ottimismo nella
dei paesi di recente indipendenza, riguardo ai loro obiettivi di “costruire la nazio- “costruzione
ne”, rafforzare la “sovranità nazionale”, creare una “cultura nazionale” e una “iden- nazionale”
tità nazionale” e raggiungere una “integrazione nazionale”. Gli slogan del momen-
to, accentuando la dimensione “nazionale”, minimizzarono e delusero le diversità
interne e le scissioni sociali a favore della supremazia degli Stati-nazione come unità
accreditate presso le Nazioni Unite e il moderno sistema mondiale.
Questa fase di ottimistica costituzione della nazione fu archiviata come l’opera
I governi
dei “governi di coalizione nazionale”, rappresentati emblematicamente da Nehru, di coalizione
che presiedeva un monolitico Partito del Congresso; oltre che Cheddi Jagan, un nazionale
asiatico orientale, e L. F. S. Burnham, un creolo che nei primi anni Cinquanta gui-
dava il Peoples Progressive Party in Guyana; da Tengku Abdul Rahaman che, sem-
pre negli anni Cinquanta, presiedeva la Malaysian Alliance e da D. S. Senanayake
che, nello stesso periodo, presiedeva l’United National Party a Ceylon. Sembrava
che i partiti politici fossero desiderosi di collaborare piuttosto che di enfatizzare la
diversità dei loro interessi e la specificità del proprio elettorato.
Questa fase fu anche caratterizzata dalle buone aspettative di espansione degli Fiducia nella
pianificazione
orizzonti economici, basate sulla fiducia nella pianificazione e nello sviluppo econo-
mico e sui numerosi “piani quinquennali” dovuti agli aiuti esteri, il cui facile flusso
si sperava avrebbe assicurato il capitalismo e la democrazia nel mondo.
526 STANLEY J. TAMBIAH

Terza fase: 3. In un modo sconvolgente e, a volte, sconcertante, questa promettente fase


conflitti etnici e
società pluralista
espansiva di creazione delle nazioni è stata duramente messa alla prova, compro-
messa e anche avversata durante la terza fase, dagli anni Sessanta in poi, dallo scop-
pio dei conflitti etnici. La discordia riguardava questioni di lingua, razza, religione e
territorio. Di conseguenza, sono nuovamente cambiati slogan e concetti. “Gruppi
etnici” e “conflitti etnici” sono le principali etichette con cui si può parlare di que-
sti eventi. I termini “società pluralistica”, “decentramento dei poteri”, “patria tradi-
zionale”, “autodeterminazione” – vecchie parole che hanno acquistato nuova forza
e importanza – hanno cominciato a prendere piede nei dibattiti politici e nelle ana-
lisi accademiche. L’autorità politica centrale, lo Stato, che nella precedente fase di
creazione della nazione e di sviluppo economico veniva individuata come interprete
e motore principale nell’impostare, dirigere e controllare il futuro del paese e la sua
traiettoria storica, viene ora considerata, dopo anni in cui sono cresciute le divisioni
etniche e le coscienze pluralistiche, un “referente” che giudica le divergenze e per-
mette alle culture e alle società regionali di tutelare le loro “autentiche” identità e i
loro “veri” interessi.

La politica dell’etnicità
Parte della storia della politicizzazione dell’etnicità trova spiegazione a partire
dalla nostra breve descrizione del modo in cui molte persone, coinvolte oggi in poli-
La tica, siano diventate, o siano state indotte a diventare, consapevoli dell’identità etnica
consapevolezza e del modo in cui, a loro volta, abbiano trovato l’energia per ingaggiare, come collet-
dell’entità e
l’azione politica tività, un’azione politica. La consapevolezza che l’identità etnica della collettività
collettiva può essere usata e manipolata nell’azione politica è legata, naturalmente, alle cre-
scenti possibilità di contatto dovute al miglioramento dei trasporti, alla rapida acqui-
sizione e utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione, del miglior livello di educa-
zione e alfabetizzazione e alla diffusione di quello che Benedict Anderson (1983) ha
chiamato: “capitalismo della stampa”. Un’altra spiegazione sta nella proliferazione e
popolarizzazione di messe in scena nelle strade e negli stadi, occasioni per adunate
popolari che vanno da raduni politici, propagande elettorali e referendum a scioperi,
Manifestazioni
di massa e dimostrazioni, sit-in e proteste di massa. Tutte queste opportunità di azione politica
azione politica su vasta scala hanno coinciso con l’incremento della popolazione nei paesi del Terzo
Mondo, con la migrazione di un gran numero di persone dalla campagna alle città, ai
centri metropolitani e verso zone industriali o di risanamento agricolo. Altro elemen-
to significativo è la proliferazione di scuole, collegi e università che, proprio come le
fabbriche hanno fatto nella storia dello sviluppo industriale, sono diventate luoghi di
mobilitazione e raccolta di attivisti per l’azione politica.
Uno degli scenari della politicizzazione dell’etnicità è lo sviluppo dello Stato as-
sistenziale nelle economie industriali più avanzate del mondo e l’avvento dello Stato
socialista o degli Stati impegnati nella conduzione di politiche assistenziali, nello
“sviluppo” dei paesi del Terzo Mondo. In entrambi i contesti, lo Stato è diventato
“un arbitro determinante e diretto del benessere economico come pure dello status
politico e di qualsiasi altra cosa ne derivi” (Glazer, Moynihan 1975, p. 8).
Gli Stati assistenziali e socialisti sembrano essere particolarmente ricettivi nei
Stati assistenziali,
Stati socialisti e confronti delle richieste etniche. Nell’ambito del sistema governativo democratico,
ricettività verso le vi sono molte occasioni a livello municipale, regionale e centrale in cui i membri
rivendicazioni orientati all’etnicità possono mobilitare e rivendicare diritti a nome di gruppi, pic-
etniche coli e grandi abbastanza da verificare il reale vantaggio delle concessioni ottenute.
Questa “efficacia strategica” (come dicono Glazer, Moynihan 1975, p. 10) del-
l’etnicità nel rivendicare diritti sulle risorse dello Stato moderno rinforza e sostiene
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 527

inevitabilmente quei meccanismi etnico-politici – reti clientelari, padrini e protettori


– attraverso i quali si generano interventi positivi e operazioni di distribuzione clien-
telare. Il denaro destinato ai servizi sociali e assistenziali che finisce nelle mani di co-
loro che lo dispensano, è pari a quello che finisce in mano a coloro che lo ricevono.
Mentre queste considerazioni hanno valenza generale, esiste un particolare insie-
me di circostanze che induce le democrazie del Terzo Mondo a condurre le loro poli-
tiche in base all’etnicità. All’epoca della decolonizzazione, nei Caraibi, in molte parti Reti clientelari e
distribuzione
dell’Africa e nel Sud e Sud-Est asiatico, la garanzia dell’indipendenza e il passaggio delle risorse
dei poteri vennero ottenuti sulla base di costituzioni delineate alla luce dei principi
occidentali dei “diritti naturali” e delle libertà civili, e in base a procedure e istituzioni
occidentali relative al “governo rappresentativo”. Queste leggi occidentali, strutturate
nel secolare linguaggio politico dei diritti universali e dei governi rappresentativi, die- Le strutture
dero alle masse rurali e ai migranti una buona quantità di diritti e costituirono l’occa- costituzionali
“occidentali” e i
sione per il loro inserimento nel discorso politico (a un livello mai verificatosi prima). diritti della masse
Rapidamente passati da un’esistenza “passiva” a un’esistenza che li vedeva attori poli- nel Terzo Mondo
tici ed elettori, con il potere di eleggere uomini politici e portare partiti al potere, essi
scoprirono che potevano anche chiedere o estorcere ricompense, riforme e privilegi
dai partiti da loro votati, i quali furono, per un po’, l’autorità politica “centrale”.

Gruppi etnici come attori politici chiave


Divenne, però, rapidamente chiaro che le citate leggi e istituzioni secolari dei go- Il fallimento delle
verni rappresentativi basate sui diritti individuali dei cittadini, e la disponibilità del istituzioni
rappresentative
suffragio universale per dar vita a partiti sulla base di interessi competitivi, non aveva-
no prodotto i risultati sperati. Al contrario, le collettività che possiamo definire grup-
pi etnici sono diventate gli attori politici, che tentano di imporsi per raggiungere o ri-
pristinare privilegi e opportunità nel nome della parità etnica (o razziale). È la parità
etnica, piuttosto che la libertà e l’uguaglianza tra gli individui, la principale legge del-
la democrazia partecipativa in molte delle società pluralistiche e multietniche dei no-
stri tempi. Ed è quanto è successo in India, Sri Lanka e Malesia dove, una volta avvia-
te, sulla base delle appartenenze etniche, le istanze politiche per la distribuzione delle
risorse economiche, dei posti di lavoro e dei privilegi educativi, la norma delle “pari Dalle “pari
opportunità” è stata progressivamente e irreversibilmente sostituita dalla norma dei opportunità”
ai “pari risultati”
“pari risultati”6. Generalmente, riconoscimenti e distribuzioni di risorse sulla base di
condizioni di crisi o di arretratezza non sono utili a produrre risultati rapidi lungo la
scala delle pari opportunità e dell’accesso facilitato alle scuole e alle istituzioni forma-
tive. Ne consegue che, nel tempo, i gruppi svantaggiati premono per ottenere la pari-
tà dei risultati, per decreto se necessario, e per politiche redistributive dirette al fine
di livellare redditi e condizioni di vita; il tutto su basi etniche. Ma i pari risultati o la
politica della redistribuzione diretta sono essenzialmente inutili giochi, in cui si deli-
neano chiaramente vincitori e vinti. E, inevitabilmente, questi ingiusti risultati porta-
no ad altre competizioni e a conflitti politici. Infine, come esito della rivoluzione qua-
le fattore di incremento delle aspettative, più gli elettori ottengono i loro diritti politi-
ci di votare, di eleggere i Parlamenti, di esercitare il potere, più sostengono con forza
i propri diritti sociali – come il diritto al lavoro, ad adeguati servizi sanitari, a sussidi
di disoccupazione, ecc. – ritenendoli precisi doveri dello Stato.
Nel crescente universo delle politiche redistributive di opportunità e retribuzio-
ni, la parità dei gruppi, in una società pluralistica, può essere indifferentemente lo
slogan delle maggioranze o delle minoranze. Il linguaggio delle rivendicazioni viene
meglio definito come il linguaggio dei diritti dei gruppi etnici sulla base del recipro-
co confronto e delle reciproche carenze. Le rivendicazioni di questi diritti alla pari-
528 STANLEY J. TAMBIAH

tà sono puntigliosamente ricercate nell’uso privilegiato di una lingua o nell’adozio-


Politiche ne di un’altra lingua fino ad allora esclusa, o nell’imporre tassazioni speciali per
della parità, consentire l’accesso privilegiato a forme di istruzione superiore, occasioni di lavoro,
migrazioni e possibilità imprenditoriali. L’aura di inutilità di queste rivendicazioni quintessenzia-
alfabetizzazione
li, dimostra una visione del mondo ristretta, emersa con veemenza proprio quando
hanno avuto – e hanno – luogo massicce ed espansive migrazioni verso località ur-
bane ed entro progetti di riassetto rurale, e quando hanno trovato attuazione pro-
grammi di istruzione e alfabetizzazione di massa. Sostenere che uno sforzo naziona-
le di espansione produttiva, teso ad aumentare opportunità di lavoro e remunera-
zioni a vantaggio di tutti, annullerebbe o mitigherebbe i bisogni delle componenti
etniche, equivale a un’affermazione destinata a cadere nel vuoto, in parte perché
l’occupazione e il benessere migliorano lentamente mentre le disparità nella distri-
buzione dei redditi permangono, in parte perché la parità nella ripartizione tra
gruppi etnici è una richiesta politica crescente, che promette il rapido raggiungi-
mento di risultati concreti.
Nel quadro di un esame sistematico, i differenti scenari e le differenti dinamiche
dei conflitti etnici dovrebbero essere ricondotti a una struttura interpretativa7 che
Le richieste dei comprenda le problematiche connesse al modo in cui i gruppi etnici vedono se stes-
gruppi etnici: si; gruppi, cioè in grado di acquisire, portare avanti e salvaguardare le loro richie-
“capitali
simbolici”, ste-da-legittimare: 1) capacità e “capitali simbolici”, quali la formazione e l’occupa-
ricompense zione; 2) ricompense materiali, quali redditi e profitti e ricchi privilegi che consen-
materiali e tano un diverso stile di vita; 3) “onori”, quali titoli e incarichi, segni di orgoglio et-
“onori” nico o nazionale, e rispetto e stima religiosa e linguistica. Questi onori vengono ac-
cordati dallo Stato e/o da altre autorità, che sono i principali arbitri dei ranghi. Le
rivendicazioni dei meriti di gruppo, degli onori, della parità, ecc. sono i punti focali
di ogni politica dell’etnicità e sono componenti critici della spirale degli intensi sen-
timenti e della violenza esplosiva cui danno vita.

Tre scenari sovrapposti


Posso così prevedere tre scenari, parzialmente sovrapposti, che, sebbene parte
di un più vasto disegno, pongono istanze diverse e offrono diversi risultati. In essi si
inquadra buona parte dei recenti conflitti etnici.
1. Particolarmente adatta alle economie politiche dei paesi colonizzati dai gover-
L’immagine ni britannico e olandese in Africa occidentale, Africa orientale, Caraibi, Indonesia,
della società ecc., è l’immagine di quella società pluralista che Furnivall e Boeke, tra gli altri, cer-
pluralista carono di definire. In queste società, determinati gruppi etnici possono occupare
particolari nicchie economiche e sociali come il commercio e gli affari (libanesi e si-
riani in Africa occidentale, indiani in Uganda, cinesi in Malesia e Indonesia, indiani
nelle Figi), il lavoro nelle piantagioni (lavoratori indiani a contratto nella Guyana o
in Sri Lanka), o in veste di “banchieri” e finanzieri (nattukottai chettiars in Birmania
e Ceylon). Oltre a ciò, specialmente nelle capitali coloniali, possono esistere mosaici
più complessi, dato che certi commerci, certi mestieri, certe attività “bancarie” e cre-
ditizie locali possono essere monopolio di comunità sia indigene sia straniere. L’oc-
cupazione di tali nicchie e la specializzazione in determinate attività tendono a crea-
re una segmentazione del mercato del lavoro e impediscono la solidarietà tra le clas-
si sociali che attraversano i vari gruppi etnici. La suddivisione etnica del lavoro im-
Nicchie
economiche pedisce l’attività delle classi lavoratrici e i legami associativi delle classi medie.
e divisione Tale eredità coloniale tende a cristallizzare l’aspettativa di acquisire “diritti” pri-
del lavoro su vilegiati, in quanto collettività etnica. I dirigenti coloniali hanno contribuito a crea-
basi etniche re questo quadro politico distribuendo riconoscimenti di status e decidendo, in ba-
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 529

se a ciò che a loro più conveniva, quali gruppi dovevano essere premiati, protetti o Specializzazioni
incoraggiati. Ma le specializzazioni e le aspettative etniche, essendo rimaste nell’era etniche e
dell’indipendenza, hanno contribuito a generare conflitti etnici ogniqualvolta si so- conflitti
no sviluppate tensioni che mettevano in pericolo la salvaguardia dei singoli interes-
si. Queste tensioni si verificano per esempio allorché le importazioni di un certo ti-
po di manufatti provenienti dall’Occidente industriale minacciano i prodotti locali
o rendono superflua e inutile l’attività dei gruppi del luogo. Il declino delle loro
funzioni può minacciare la capacità del gruppo di accedere ai beni basilari di con-
sumo quotidiano e può, quindi, portare all’indigenza in un mercato ricco e a un
peggioramento delle condizioni in un clima politico di crescente “sviluppo”. Tutta-
via, la più grave erosione degli equilibri di nicchia è stata provocata da quei governi
dei nuovi Stati che hanno tentato di spezzare quanto essi ritenevano monopolio pri-
vilegiato di alcune enclavi etniche, accusandole di adottare pratiche restrittive nelle
assunzioni e nella fornitura di servizi. La spoliazione dei natukkottai chettiars da
Rangoon e l’espulsione dei commercianti indiani dall’Uganda sono esempi dell’in-
tromissione delle nuove autorità civili in quelle che considerano ricche riserve capa-
ci di arricchire se stessi e i propri sostenitori. Le minoranze straniere specializzate
divengono, così, vulnerabili di fronte alla politica di espulsione e/o di spoliazione
dei governi che promuovono gli interessi delle maggioranze “indigene”.
2. Il secondo scenario si riferisce non tanto al declino delle fortune delle comunità
ben inserite, quanto alle crescenti aspettative e capacità delle minoranze che si trova- Le crescenti
no sotto il dominio di maggioranze radicate che le relegano in periferia e che, a volte, aspettative
delle minoranze
tendono addirittura a sconfinare all’interno dei loro “territori”. Birmania, Thailandia,
Laos e India nord-orientale, ne sono un esempio, con i contrasti tra la “gente delle
colline” o “tribù delle colline” e la “gente delle valli”. Questa dicotomia comporta ul-
teriori contrasti nei metodi di coltivazione (sedentari contro slush and burn), fra tradi-
zione scritta e tradizione orale, fra l’adozione dell’induismo o del buddismo invece
della religione animista. A volte, queste comunità periferiche hanno creduto di poter
migliorare grazie alla mediazione dei missionari cristiani, e comunque, nella nuova
politica post-indipendenza, esse hanno chiesto di incidere in proporzione alla loro en- Richieste di
tità numerica, sia partecipando alla creazione di uno Stato-nazione, sia intervenendo partecipazione e
potenziali
nei programmi formativi dei gruppi dominanti. Queste minoranze etnico/tribali sono secessionisti
potenzialmente secessioniste e, come dice Horowitz, “la maggior parte dei secessioni-
sti possono essere definiti gruppi arretrati in regioni arretrate” (Horowitz 1985, p.
36). Ne sono un esempio i karens e gli shan nella Birmania settentrionale, i musulma-
ni (moros) nelle Filippine, i nagas e i mizos in India e i curdi in Iraq.
3. Il terzo scenario riguarda quel tipo di conflitti e tensioni etniche di cui mi oc-
cupo essenzialmente in questo lavoro. Al fine di ben caratterizzarli, ho adottato alcu-
ni concetti coniati da M. G. Smith (1969a, 1969b), il quale ha osservato come i pro- Dall’incorporazione
cessi di “incorporazione differenziata” conducano al “pluralismo strutturale”. Le so- differenziata
al pluralismo
cietà pluralistiche manifestano l’incorporazione differenziata all’interno della politica strutturale
statale quando alcune collettività si vedono attribuiti minori diritti legali, politici,
formativi e occupazionali e sono, pertanto, ridotte a uno stato di subordinazione.

Definire “cittadinanza di seconda classe” una categoria sociale caratterizzata dalle comu-
ni preclusioni ed esclusioni – siano esse razziali, religiose, economiche o altro – è sempli-
cemente un diffuso sistema di incorporazione differenziata. Elenchi comunali, limitate
concessioni di proprietà e disposizioni simili esprimono e mantengono anch’essi l’incor-
porazione differenziata di particolari collettività all’interno di una più ampia società.
Questi meccanismi vengono di solito sviluppati per aumentare il potere della classe do-
minante (Smith 1969b, p. 430).
530 STANLEY J. TAMBIAH

Sudafrica e Guatemala sono casi estremi e ben noti di incorporazione asimmetri-


ca, ma ne esistono anche forme meno cruente: i malesi, i singalesi nello Sri Lanka,
sono esempi tipici delle rivendicazioni maggioritarie il cui intento di affermazione si
basa sulla superiorità numerica e sulle legittimazioni mitico-storiche che li identifica-
no come figli di quella terra. Queste richieste portano inevitabilmente a un plurali-
smo strutturale asimmetrico cui le minoranze inevitabilmente resistono. Un esempio
istruttivo di queste speciali rivendicazioni della maggioranza al potere è The Malay
Dilemma, un trattato politico del Primo Ministro Mahathir bin Mohamad (1970).
Tali tentativi di relegare a un ruolo subordinato gruppi dotati di notevoli capaci-
Rivendicazioni tà e specializzazioni, prima estranei alla stratificazione sociale, per incorporarli in
maggioritarie e una società diseguale come cittadini inferiori, spingono alla rappresaglia e alla resi-
discriminazione
delle minoranze stenza. Allarmati dalle minacce di discriminazione e di subordinazione, questi grup-
pi dapprima lottano per essere inclusi nello Stato con parità di diritti, ma con il
peggiorare della situazione scivolano gradualmente – come è avvenuto nello Sri
Lanka – verso una politica di decentramento e, perfino, di secessione. Horowitz de-
scrive questi meccanismi molto appropriatamente in questo modo: “Diversamente
dai gruppi suddivisi in ceti, che formano una singola società, i gruppi privi di rango
costituiscono gli embrioni di intere società” (1985, p. 31).
I conflitti etnici esprimono e costituiscono una dicotomia. Da una parte c’è una
tendenza all’universalizzazione e all’omogeneizzazione che, nelle società e nei paesi
contemporanei, rende i popoli sempre più simili (quale che sia l’attuale effettivo ac-
cesso differenziato alle mansioni, ai consumi e agli onori) nel desiderare gli stessi
benefici materiali e sociali consentiti dalla modernizzazione, siano essi redditi, beni
La dicotomia dei
conflitti etnici:
materiali, abitazioni, alfabetizzazione e istruzione, lavori, svaghi e prestigio sociale.
omogeneità vs Dall’altra, questi stessi popoli chiedono anche – sulla base della loro riconosciuta
rivendicazione identità, della differenza linguistica, dell’appartenenza etnica e del diritto alla terra
delle differenze – di essere differenti, e non necessariamente uguali. In quest’ultima veste, essi affer-
mano che su queste differenze – e non su quelle della competenza tecnica o dei ri-
sultati raggiunti – dovrebbe basarsi la distribuzione delle ricompense e di benefici
moderni. Sono questi gli elementi che provocano, nelle popolazioni degli Stati mo-
derni, la tendenza al particolarismo e al separatismo.
Inoltre, nella odierna arena politica, il richiamo ad affiliazioni e distinzioni ren-
de anche possibile una mobilitazione popolare di entità mai conosciuta né possibile
prima, in parte grazie all’uso dei moderni mezzi di comunicazione e di propaganda,
alla diffusione di idee tendenziose attraverso i libri nelle scuole, sempre più nume-
rose, in parte grazie a un dispendio di energie, sia creative che distruttive, a livelli
mai raggiunti prima, nelle propagande elettorali e nell’attivismo di massa. Questi
Labilità dei sviluppi non danno semplicemente nuova forma a vecchi contenuti o viceversa, per-
confini di ché dipendono da processi di trasformazione molto più potenti, attraverso i quali
“nuove” passate categorie e definizioni di identità etnica e vecchi interessi vengono ripensati
collettività e acquisiscono nuove dimensioni e contorni. Ad esempio, nonostante si rifacciano a
definizioni antiche e rivendicazioni storiche, singalesi, malesi, figiani così come si
manifestano oggi sono collettività formatesi nell’epoca tardo-coloniale e postcolo-
niale. Le loro identità e i loro confini etnici sono veramente molto labili e flessibili.
Allo stesso tempo, vediamo che i nuovi valori della modernizzazione e del progres-
so – industrializzazione, professionalizzazione, pratica della medicina occidentale –
vengono ricatalogati come titoli e importanti privilegi e quindi considerati come
quote da assegnare a preesistenti gruppi etnici o razziali o indigeni. Il tempo per di-
ventare uguali è anche il tempo per rivendicare la diversità. Il tempo della moder-
nizzazione è anche il tempo per inventare tradizioni e per rendere tradizionali le in-
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 531

novazioni; per rivalutare vecchie categorie e ricatalogare nuovi valori; per burocrati- La violenza etnica:
ordine, disordine
che benevolenze e burocratici ricorsi alla forza; per la democrazia partecipativa e e conflitto
per la guerra civile dei dissidenti. Non è semplicemente il tempo dell’ordine o del
disordine o dell’anti-ordine: è un insieme dei tre. Il conflitto etnico, violento e
ovunque presente, è una delle caratteristiche di questi tempi intensi e difficili da
analizzare che stiamo vivendo. Queste esplosioni violente e diffuse sfidano e scon-
volgono le spiegazioni convenzionali di ordine, disordine o conflitto fornite dalle
nostre scienze sociali. Anche se con mezzi inadeguati, dobbiamo affrontare questo
fenomeno di violenza distruttiva che segna gli attuali conflitti etnici.

1 Il mio libro Sri Lanka: Ethnic Fratricide and the Dismantling of Democracy (1986) è un tentativo di analizzare que-

sto problema nel mio paese natale. Con questo lavoro spero di aver fornito qualche indicazione generale.
2 In Europa la storia delle rivendicazioni è ben più antica e continua ancora oggi: le proteste dei baschi in Spagna,

dei croati in Iugoslavia, di altre minoranze etniche nell’Europa orientale; le rivalità tra fiamminghi e valloni in Belgio e
il conflitto sempre più aspro nell’Irlanda del Nord. Alcuni studiosi aggiungerebbero a questo elenco di conflitti etnici la
lotta dei negri contro la discriminazione dei bianchi negli Stati Uniti e nel Sud Africa.
3 L’elenco dei conflitti etnici quale fenomeno mondiale è ben più vasto. Vedi, ad esempio, Tagil 1984 e Horowitz 1985.
4 In alcuni di questi paesi – Thailandia, Malesia, e Filippine – vi sono delle tribù isolate o delle minoranze “abori-

gene” che vengono considerate di status “inferiore” rispetto alle comunità dominanti, le quali tentano di imporre loro
determinate politiche pregiudizievoli per lo loro stessa sopravvivenza.
5 Nel suo Colonial Policy and Practice (1948, pp. 304-305), Furnival ha definito la società pluralistica come un in-

sieme di “diverse sezioni della comunità che vivono fianco a fianco, ma separatamente, all’interno della stessa unità po-
litica (...) ogni gruppo conserva la propria religione, la propria lingua e cultura, le proprie idee e usanze. Come indivi-
dui si incontrano, ma solo al mercato, nelle compravendite. Perfino nella sfera economica esiste una divisione del lavo-
ro secondo le appartenenze razziali. Nativi, Cinesi, Indiani ed Europei hanno tutti funzioni diverse, e ciascun gruppo
ha al suo interno sottosezioni cui competono particolari occupazioni”. Per un saggio delle analisi di Furnival e di Smith,
vedi Furnival 1939, 1948 e Smith 1969a, 1969b.
6 Queste espressioni sono di Bell 1975, pp. 146-147.
7 Questa proposta è frutto della combinazione di concetti derivati dagli scritti di Amartya Sen, Pierre Bourdieu e

Donald L. Horowitz.

Biografia intellettuale

Stanley J. Tambiah è professore di antropologia all’Università di Harvard, dove


insegna dal 1976. Ha iniziato a svolgere ricerca sul campo in Sri Lanka (1956-1959),
sua isola natale, e poi dal 1960 si è concentrato sulla Thailandia, paese al quale ha
dedicato tre monografie. Recentemente, dal 1983, ha ripreso a interessarsi dello Sri
Lanka, i cui disastrosi conflitti etnici lo hanno molto coinvolto. È autore dei se-
guenti libri: Buddhism and the Spirit Cults in Northeast Thailand (1970), World Con-
queror and World Renouncer: A Study of Religion and Polity in Thailand against a
Historical Background (1976), The Buddhist Saints of the Forest and the Cults of
Amuletes: A Study of Charisma, Hagiography, Sectarianism and Millennial Buddhism
(1984), Culture, Thought and Social Action (1985), Sri Lanka: Ethnic Fratricide and
the Dismantling of Democracy (1986), e Magic, Science, Religion and the Scope of Ra-
tionality (1990). Nella primavera del 1982 ha pubblicato un libro intitolato Bud-
dhism Betrayed? Religion, Politics and Violence in Sri Lanka. È stato presidente del-
l’Associazione per gli Studi Asiatici (AAS) dal 1989 al 1990 ed attualmente è mem-
bro dell’Accademia Americana delle Arti e delle Scienze.
532 STANLEY J. TAMBIAH

Le mie ricerche e i miei lavori si sono concentrati prevalentemente sull’Asia


Meridionale e Mediorientale e hanno riguardato i seguenti aspetti teorici: 1) rap-
porti di parentela e di matrimonio, 2) sistemi di classificazione e loro usi sociali, 3)
caratteristiche comunicative e performative dei rituali, 4) interrelazioni tra religio-
ne, politica e società nel passato e nel presente. Il mio attuale lavoro di ricerca sul-
l’identità etnica, sui conflitti etnici e sulla violenza collettiva, pur essendo concen-
trato essenzialmente sull’Asia meridionale, tiene necessariamente conto dei più im-
portanti eventi che si sono sviluppati nell’Europa orientale e nella ex Unione So-
vietica.
I miei studi universitari si sono svolti alla Cornell University (1952-1954) presso
la quale, allora, sociologia e antropologia facevano capo a un unico dipartimento.
Sopratutto sotto la guida di Robin Williams Jr., egli stesso allievo di Talcott Parsons
ad Harvard, ho conosciuto i lavori dei principali teorici sociali, specialmente Max
Weber, i cui studi comparativi e sulle principali “religioni del mondo”, sui sistemi
di autorità – compresi il carisma e il processo di assuefazione a quest’ultimo – sulle
forme della razionalità e sui processi di cambiamento storico, hanno avuto a lungo
un grandissimo influsso sulle mie formulazioni teoriche. Avvincente è stato anche
l’intenso studio dei principali lavori di Durkheim. Sul piano antropologico, a parte
la lettura di tutti i principali testi etnografici sull’Asia meridionale e mediorientale,
ho molto approfondito i lavori di Robert Redfield, le cui analisi delle società conta-
dine, del continuum campagna-città e delle civiltà primarie e secondarie sono state
di grande importanza per i miei studi dei processi di cambiamento in numerose co-
munità rurali dello Sri Lanka. Tra gli altri, ho avuto come maestri alla Cornell Uni-
versity Morris Opler, Bryce Ryan, Lauriston Sharp e Peter Blau.
Completati gli studi universitari, sono tornato in Sri Lanka dove ho insegnato per
alcuni anni, per recarmi, poi, nel 1960, in Thailandia dove mi sono occupato d’inse-
gnamento e ricerca per conto dell’UNESCO. Nel 1963 mi sono trasferito in Inghilter-
ra, all’Università di Cambridge, dove ho collaborato strettamente con Meyer Fortes,
Edmund Leach e Jack Goody. Ho così potuto acquisire un’approfondita conoscenza
dei loro contributi teorici ed etnografici allo studio della parentela e delle organizza-
zioni politiche e sociali; inoltre, ho potuto familiarizzarmi con gli studi classificati in
genere come “struttural-funzionalismo britannico”: ad esempio i lavori di Malinow-
ski, Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Audrey Richards, Max Gluckman e Victor
Turner. Tuttavia il mio più importante collega, amico e mentore a Cambridge è stato
Edmund Leach, il cui crescente interesse per lo “strutturalismo”, la linguistica strut-
turale, la semiotica e la classificazione, oltre agli adattamenti dei contributi di Roman
Jakobson e Claude Lévi-Strauss, hanno profondamente influenzato il mio lavoro. La
mia prima monografia sulla Thailandia e molti dei miei saggi su “Cultura, Pensiero e
Azione Sociale” risentono molto dell’influsso di Leach anche se, contemporanea-
mente, stavo io stesso indagando autonomamente le possibilità della filosofia lingui-
stica di Austin per una teoria performativa del rituale.
Nello stesso periodo, iniziai anche una nuova fase di ricerca sul campo in Thai-
landia e un approfondito studio della letteratura sulle relazioni tra buddismo The-
ravada, potere sovrano e Stato, nel passato e nel presente. Nel 1973 ho lasciato l’In-
ghilterra e mi sono trasferito negli Stati Uniti, al Dipartimento di Antropologia del-
l’Università di Chicago. Qui, i miei interessi per gli studi comparativi e storici, per
le relazioni dialettiche tra religioni, politica e società, e per le varie branche della se-
miotica (comprese le teorie di Charles Peirce) hanno ricevuto notevole impulso dal-
la collaborazione con Marshall Sahlins, Michael Silverstein, Frank Reynolds (della
Divinity School) e molti altri colleghi.
LA POLITICA DELL’ETNICITÀ 533

Nel 1976 mi sono trasferito ad Harvard e ho continuato a coltivare e ampliare


questi interessi in testi sia etnografici che teorici. Ma quando nel 1983 scoppiarono
i conflitti etnici in Sri Lanka tra singalesi e tamil, sentii un forte impulso personale e
la necessità intellettuale di cercare di capire questo conflitto, sia come nativo dello
Sri Lanka – membro della minoranza tamil – sia come antropologo. Il profondo in-
teresse per il conflitto in atto nel mio paese e la consapevolezza che conflitti simili
stavano infuriando nei paesi vicini, come l’India, il Pakistan e il Bangladesh (e in
molte altre parti del mondo inclusa, di recente, l’Europa orientale), mi hanno spin-
to a effettuare studi comparativi sulla violenza collettiva e sulle rivolte civili nell’A-
sia meridionale. Pur sapendo che tutte le mie precedenti conoscenze teoriche e pra-
tiche sono molto importanti per i miei attuali studi sui conflitti etnici e sulla violen-
za collettiva, ho la sgradevole sensazione di essermi addentrato in una realtà diffici-
le da definire e che richiederebbe più vaste capacità di elaborazione concettuale e
interpretazione.
Invenzioni e manifestazioni di etno-nazionalismo nel linguaggio sovietico
accademico e pubblico
Valery A. Tishkov

Gli uomini stanno tornando ad un processo di autocoscienza, ad una


ricerca delle proprie radici. Ogni popolazione – grande o piccola – è
creatura di Dio. Nessuno deve privare questi popoli, soprattutto i più
modesti, del diritto allo studio e alla comprensione di se stessi.
Mikhail Gorbaciov (1991)

In questo lavoro tratto alcuni temi relativi al nazionalismo, utilizzando esempi


desunti dalla passata Unione Sovietica – o da quella che oggi potrebbe essere defi-
I rapporti fra nita la (Dis)unione Sovietica – per ricavarne più ampie implicazioni. Esso è incen-
nazionalismo trato sui rapporti esistenti tra nazionalismo etnico, discorso intellettuale e politica
etnico, discorso
intellettuale e nel corso di questo secolo, e offre alcune riflessioni intorno a una situazione tuttora
politica in evoluzione. Non si tratta di riflessioni del tutto esaurienti, ma spero possano es-
sere di aiuto per migliorare il dialogo fra studiosi sovietici e occidentali dopo quello
che, per molti, è stato un lungo e doloroso silenzio. Le mie considerazioni riguarda-
no ciò che è recentemente diventato un problema critico per molti paesi del mon-
do, dando così luogo a un ampio dibattito tra gli antropologi. Mi chiedo anche qua-
li passi gli intellettuali, soprattutto gli antropologi, potrebbero fare per aiutare a mi-
tigare alcuni dei peggiori eccessi che sono sorti e per portare a una migliore com-
prensione delle problematiche a essi connesse.

Il coinvolgimento della politica nello studio dell’etno-nazionalismo


Ciò che negli ultimi decenni colpisce delle riflessioni accademiche degli studiosi
dell’Est europeo sull’etno-nazionalismo – l’intreccio tra nazionalismo e identità et-
nica – è il fatto che la questione sia stata esaminata in chiave politica piuttosto che
intellettuale (se mi è consentita questa distinzione). Gli studiosi hanno generalmen-
te appoggiato i regimi comunisti che vedevano con favore la proclamazione dei rag-
L’etno- gruppamenti etnici in “nazioni socialiste”, specialmente nella vecchia URSS (ove a
nazionalismo molti dei principali raggruppamenti etnici veniva garantito lo status di nazione), in
staliniano
nell’antropologia
Iugoslavia, in Cecoslovacchia e nella Germania orientale (ove la “nazione socialista
dell’Europa tedesca” veniva considerata un’entità etnica separata dal resto della Germania).
dell’Est L’etno-nazionalismo costituiva una categoria politica in cui il concetto staliniano di
etno-nazione – inteso come gruppo che condivide territorio, interessi economici,
lingua e una mentalità collettiva culturalmente consolidata – dominava ogni altro
concetto, all’interno e all’esterno dell’antropologia.
Nelle scienze sociali post-sovietiche, nonostante la recente liberalizzazione ideo-
logica, non ha avuto luogo nessuna seria rivalutazione né alcun ripensamento teori-
Gli “organismi co sul tema della nazionalità e delle questioni etniche a essa collegate, anche se pro-
etno-sociali” prio esse hanno contribuito alla distruzione della vecchia Unione Sovietica. Il con-
cetto sovietico di etnicità è ancora del tutto primordiale: è basato sulla teoria acca-
demica dell’“ethnos” che si sovrappone alla teoria marxista-leninista1. Per decenni i
sociologi sovietici hanno studiato i gruppi etnici come “organismi etno-sociali” (de-
L’etnogenesi finiti dall’appartenenza a territorio, lingua, cultura e identità comuni). In quest’otti-
delle “nazioni ca una quantità enorme di energie intellettuali è stata spesa nello studio dell’etnoge-
indigene” nesi e della storia etnica delle popolazioni dell’Unione Sovietica. Testi antropologici
e storici fornirono ai gruppi dominanti di particolari regioni, con i loro eroi cultura-
INVENZIONI E MANIFESTAZIONI DI ETNO-NAZIONALISMO... 535

li, le loro radici (che affondavano addirittura nel paleolitico superiore), l’orgoglio di
essere “nazioni indigene”.
Questa idea di etnicità era strettamente legata all’ideologia ufficiale dell’etno-na-
zionalismo che permeava lo Stato sovietico – una politica in cui i gruppi etnici legit- La classificazione
timavano i propri confini e il proprio status formando unità amministrative o re- dei tipi di entità
etniche
pubbliche. La classificazione tassonomica scolastica di “tipi di entità etniche” (tri-
bù, narodnost e nazione) – che comprende categorie concettuali come la ESO (Orga-
nizzazione Etno-Sociale) e la ETHNIKOS (gente di una stessa nazionalità che vive al
di fuori dei territori del “proprio” Stato) – giustificava la sovranità amministrativa
garantita a quelle che io chiamo nazionalità titolari (ad esempio, quelle definite re-
pubbliche)2.
L’etno-nazionalismo ha dominato gli studi accademici sovietici sia come para-
digma teorico sia come pratica politica. Questi stessi studi hanno condizionato le
definizioni e le argomentazioni di politici, intellettuali e “gente comune” riguardo
alla etnicità. Molto probabilmente, questa teoria sovietica ha costruito determinate
realtà sociali e rafforzato certe definizioni particolari di attivisti politici così come di
movimenti di popolo.
Il complesso dialogo tra scienza e prassi non faceva parte dell’orizzonte di ricer-
ca antropologica di questo paese. Veniva lasciato poco spazio, ad esempio, ad argo-
menti e spiegazioni basati su metodologie meno positivistiche che potevano essere
usate nello studio dei fenomeni etnici. Inaspettata dalla maggior parte degli specia-
listi sovietici e occidentali, l’esplosione di sentimenti nazionalistici e di conflitti etni-
ci nell’Unione Sovietica li ha posti in una difficile situazione e, inoltre, ha rivelato
l’inadeguatezza di buona parte di quanto precedentemente pubblicato sui temi et-
nici. Gli stessi specialisti si sono trovati nella necessità di rivedere i precedenti po-
stulati. Che genere di risposta poteva essere data a queste sfide?
Gli studi occidentali recenti relativi alla situazione etnica nell’ex Unione Sovieti-
ca appaiono caratterizzati dalle fedi politiche degli studiosi coinvolti. Per gli scritto-
ri occidentali, molti dei quali politologi, gli approcci prevalenti sono motivati dalla
lotta al comunismo e al totalitarismo, e dall’euforia per la vittoria liberale sul siste-
ma sovietico. Nazionalismo, agitazione etnica e smembramento dell’Unione Sovieti-
ca sono visti come logica conseguenza di un impero illegittimo e in lunga agonia. La sfida posta dai
Essi sono una manifestazione del processo di democratizzazione e del diritto all’au- conflitti inattesi e
l’approccio
todeterminazione3. Centrale, in questo dibattito, la disputa sul primato tra chi nel “di parte”
passato è stato il primo a dire tutto questo, o chi è stato abbastanza fortunato da al problema etnico
predire il recente corso degli eventi. Assolutamente scarso invece è l’interesse ad sovietico degli
approfondire la ricerca etnografica, per gli effettivi limiti di natura politica. Solo po- studiosi occidentali
chi gruppi che, peraltro, non rappresentano i casi più diffusi e attuali sono stati og-
getto di ricerche etnografiche4.
Per quanto concerne gli specialisti sovietici, la più importante divisione tra loro
si colloca lungo due linee che non sono teoriche o metodologiche ma, come ho già
detto, politiche ed etniche. Tra gli specialisti “periferici” delle repubbliche domina- Le due linee
no le interpretazioni etnocentriche. Essi sono indirettamente controllati dalle forze interpretative dei
nazionaliste e dalle istituzioni di potere. Tutti gli approcci e le opinioni diversi dalla sovietici: gli
posizione unilaterale pubblicamente accettata possono essere definiti “sovversivi”, “etnocentrici”
espressioni dei “nemici della nazione” e di “agenti del Cremlino”5. I loro scritti ver- periferici
tono sull’elaborazione di liste d’accusa contro altri, sulla difesa dei diritti territoria-
li, politici e culturali dei governi in carica e sulla ricerca di nemici esterni (soprattut-
to a Mosca o nelle repubbliche confinanti) responsabili dei conflitti etnici6. Descri-
zioni storico-etnografiche partorite dal gruppo, prive di un serio interesse per la ri-
536 VALERY A. TISHKOV

levanza delle interazioni etniche all’interno o all’esterno della regione, erano e sono
tuttora le più impressionanti caratteristiche di questa vecchia antropologia sovietica
“periferica”.
Gli studiosi Gli studi della corrente “centrale” (soprattutto di Mosca e di San Pietroburgo)
del centro e sono più “accademici”. Essi sono meno influenzati da sentimenti etnici personali,
l’approccio sebbene vi siano casi di evidenti interessi filorussi o di simpatie per le minoranze o
“accademico”
per i gruppi meno privilegiati da loro studiati7. All’interno di questo gruppo esisto-
no almeno due sottogruppi principali che si collocano metodologicamente insieme,
dalla stessa parte della barricata scientifica positivistica della primigenia interpreta-
zione dell’etnicità. Offrono essenzialmente spiegazioni motivate politicamente su
questioni di nazionalità, conflittualità etnica e prospettive per il futuro. Un gruppo
I radical-
democratici condivide l’ottica dei radical-democratici che criticano la politica del precedente re-
gime nei riguardi delle nazionalità. Le accuse si riversano anche sulle congiure dei
comunisti conservatori che cercano di ostacolare il “movimento storicamente inevi-
tabile” di ogni gruppo etnico verso l’acquisizione della propria autonomia quale ba-
se per conservare la propria identità culturale e per migliorare le proprie condizioni
socioeconomiche8.
L’altro gruppo ha un orientamento più centralista e antinazionalista. Mette in
I centralisti discussione i principi etnici dell’organizzazione statale, specie il rapido e incontrol-
lato processo, nelle repubbliche, di trasferimento dei poteri alle élites etniche, so-
stenendo che questo comportamento ha portato alla violazione dei diritti individua-
li e alla soppressione delle minoranze che, a loro volta, hanno indotto violenti scon-
tri etnici9.
Entrambi i gruppi spiegano gli eventi in termini materialistici, economici e di
classi sociali; con una semplicistica dicotomia culturale “noi-loro”; o attraverso
particolari teorie sul conflitto. Gli studiosi di etnicità sovietica hanno lasciato ine-
splorati quei promettenti nuovi sviluppi occidentali, come l’interpretazione post-
L’assenza moderna dell’etnicità intesa come fenomeno costruito e i recenti approcci alle origi-
di ricerche ni dei conflitti etnici in chiave di psicologia sociale e comportamento di gruppo.
sul campo Approcci, questi, che abbastanza spesso vengono visti come sofisticate mascherate
per sciovinisti, antidemocratici e filoimperialisti, o come approcci riduttivi al tema
dell’etnicità. Ma la più evidente debolezza dell’etnografia sovietica contemporanea
è la mancanza di una ricerca marcatamente empirica, “sul campo”, della situazione
attuale. Spesso non abbiamo altro che antiquate indagini sociologiche o illuminate
inchieste giornalistiche.

I contesti storici dell’etno-nazionalismo


Se osserviamo i contesti entro i quali si è sviluppato l’etno-nazionalismo in Eu-
ropa, specie nell’Est, notiamo che esiste un modello. Il collasso delle monarchie
Il modello di assolutiste e degli imperi coloniali dell’Europa orientale ha dato alla gente un’idea
sviluppo del
nazionalismo
della sua enorme capacità di creare miti e della sua immensa potenzialità politica:
etnico la nazione come mezzo attraverso il quale una società civile acquisisce il diritto al-
la sovranità e delega il potere politico. Idea, questa, che ha incoraggiato coloro
che aspiravano a costruire società civili e democratiche, a dar vita a movimenti
nazionali e a Stati sovrani basati su determinati elementi culturalmente dominan-
ti. Questi movimenti divennero la base dei nazionalismi etnici (o etno-) i quali
considerano le nazioni come una forma del raggruppamento etnico. In questo
senso lo Stato nazionale tende a trasformarsi in uno Stato etnico e ad accettare la
sua etnicità quale base legittima per il funzionamento dello Stato, della sua econo-
mia e delle istituzioni culturali.
INVENZIONI E MANIFESTAZIONI DI ETNO-NAZIONALISMO... 537

L’etno-nazionalismo è stato molto popolare tra i socialdemocratici europei nel Nascita degli
Stati-nazione e
XIX secolo e nei primi venti anni del XX. Esso ha contribuito a smembrare gli impe-
delle minoranze
ri ottomano e austroungarico così come a formare una nuova mappa politica del-
l’Europa orientale dopo la prima guerra mondiale. Ironicamente, i nazionalisti del-
l’Europa orientale – una volta ottenuta l’indipendenza per i propri paesi – hanno
scoperto che era impossibile realizzare contemporaneamente l’idea di un etno-na-
zionalismo e di uno Stato-nazione (un gruppo etnico-uno Stato). I confini tra i nuo-
vi Stati comprendevano, infatti, minoranze che si sentivano danneggiate dai nuovi
gruppi dominanti e dalle loro élites politiche. I nuovi leaders nazionali cominciaro-
no ad adottare nei confronti delle minoranze la stessa politica di intolleranza che
avevano subito per mano dei precedenti governanti imperiali. Indebolite da conflit-
ti interni ed esterni, queste entità politiche divennero facile preda dei progetti san-
guinari di Hitler e di Stalin che condussero alla seconda guerra mondiale10.
In quella vasta entità multietnica che era l’Impero russo, la formula feudale ed La situazione
eclettica della “ortodossia, autocrazia e immobilismo” prevalse sull’idea unificante russa
di nazione fino all’inizio del XX secolo. Il termine rossian, con il quale si individua-
no “tutti i russi”, deriva dal nome dello Stato e indicava un cittadino dell’Impero
indipendentemente dalla sua origine etnica11. Le leggi imperiali erano fondate sul
concetto di nazione che includeva etnicamente sia i russi, gli ucraini e i bielorussi
sia le popolazioni appartenenti alla regione del Volga-Urali (annesse all’Impero fin
dal XVI secolo). Tutti costoro agivano secondo un preciso insieme di leggi e di re-
golamenti. Le popolazioni delle periferie acquisite più di recente dalle repubbliche
vicine venivano trattate come inorodzi (“stranieri”) per i quali vigevano appositi
regolamenti.
La dicotomia tra i concetti di “rossian” e “russian” mette in luce una importante
distinzione – quella tra Stato imperiale e gruppo etnico – che è sopravvissuta a lun-
La dicotomia fra
go nel linguaggio degli intellettuali, inclusi i famosi scrittori prerivoluzionari e i per- Stato imperiale e
sonaggi politici. Eccezionali uomini di pensiero come Pjotr Struve (1990, pp. 247- gruppo etnico
248) concepivano la nazione come “una unità spirituale creata e supportata da una
comune cultura e da una comune identità nazionale”. Il processo complesso e con-
traddittorio di costruzione della nazione russa prima della rivoluzione del 1917
comprendeva anche potenti movimenti di identità nazionale in rapida ascesa tra
gruppi non-russi dell’Impero. Nell’ultima decade del XIX secolo, gli intellettuali del-
la Georgia, ad esempio, ebbero notevole influenza nella costruzione della nazione
georgiana e nel creare, nel 1918, una repubblica indipendente (cfr. Suny 1988b). Lo
stesso esempio fu poi seguito anche da altri importanti gruppi della periferia etnica
dell’Impero russo.
Durante la rivoluzione del 1917, in contrasto con l’opposizione politica che vo-
La rivoluzione
leva una Russia “una e indivisa”, Lenin e i bolscevichi utilizzarono come slogan il e il diritto alla
diritto all’autodeterminazione che si rivelò un’arma politica terribilmente efficace autodetermina-
per vincere l’opposizione delle regioni non-russe. Questo slogan non fu semplice- zione
mente un falso stratagemma politico; fu piuttosto una risposta tattica alle realtà po-
litiche esistenti sulla base di un progetto utopistico di un nuovo mondo basato sulla
“solidarietà proletaria e di classe”. Forti di queste asserzioni, nei primi anni liberali
del potere sovietico la Polonia, la Finlandia e le regioni baltiche riuscirono a fonda-
re Stati indipendenti (in altri territori come il Caucaso, invece, l’Armata Rossa si op-
pose a questi cambiamenti territoriali). Durante la guerra civile, la politica dello
Stato sovietico verso le nazionalità si rivelò spesso un fattore decisivo per conquista-
re territori gestiti da autorità nuove, garantendo una condizione di autonomia alle
principali regioni non russe della Repubblica Russa.
538 VALERY A. TISHKOV

Tutto ciò venne realizzato trascurando il fatto che il nazionalismo era ancora po-
Il nazionalismo
co più che un credo elitario cui aderiva un gruppo relativamente isolato di intellet-
come credo tuali urbani e che a stento sfiorava la massa della popolazione etnica dell’Impero
elitario russo, costituito essenzialmente da contadini che continuavano a identificarsi attra-
verso la propria regione e la propria religione (Suny 1988a). In alcune regioni, come
l’Asia centrale, le identità etniche erano così deboli e così offuscate dalla fedeltà ai
clan o alle regioni, che era impossibile fornire qualsiasi caratterizzazione etnica di
riferimento alle nuove repubbliche o alle nuove formazioni autonome (ad esempio
il Turkestan nella Federazione Russa e le Repubbliche di Bukharan e di Hore-
smian). In alcuni casi, il mosaico etnico era così complesso che i gruppi non si defi-
nivano affatto in termini etnici (come la Repubblica della Gente di Montagna, o il
Daghestan nel Caucaso).
Tuttavia, l’etno-nazionalismo fu la base sulla quale venne costruito il federalismo
L’etno- socialista. Il principio dello Stato nazionale (leggi: etnico) rappresentò il fondamen-
nazionalismo, to del federalismo sovietico. Uno Stato federato socialista era considerato costituito
base del da unità amministrative etno-politiche nell’ambito delle quali ogni “nazione sociali-
federalismo sta indigena” aveva un suo proprio “Stato”, in contrapposizione al “federalismo
socialista
borghese” le cui parti costituenti si consideravano essenzialmente formazioni eco-
nomiche regionali12.
Tutte le costituzioni sovietiche contenevano il principio del diritto delle etno-na-
zioni all’autodeterminazione, fino a includere il diritto alla secessione. Ma occorre
sottolineare che questo “coraggioso” esperimento sociale nasceva nell’ambito di un
partito unico, totalitario e strettamente centralizzato, imposto da Mosca e che vide i
Restrizioni nella suoi inizi nei primi anni dell’industrializzazione. La dichiarazione formale del prin-
applicazione del cipio di autodeterminazione, quindi, non comprendeva concrete procedure per la
principio di sua realizzazione.
autodeterminazione
etnica Perfino a livello formale, il principio era applicato solo ad alcune categorie di
gruppi etnici: quelli con uno stato di repubblica unitaria. Per gli altri si applicava
un principio gerarchico di relativa autonomia, fino a un livello tale da non prevede-
re alcuna struttura amministrativa. Per di più, tra i popoli dell’Unione Sovietica, vi
erano quelli privati dei territori che occupavano in precedenza e altri che subirono
“aggiustamenti” dei confini e/o modifiche delle organizzazioni amministrative.

La moderna tendenza all’etno-nazionalismo


Considerando le devastazioni che il regime sovietico ha prodotto praticamente
in tutti i gruppi etnici del paese, potrebbe sembrare facile spiegare le cause dell’at-
tuale esplosione di etno-nazionalismo attraverso un lungo elenco di rimostranze. Io
stesso ho contribuito alla diffusione di queste spiegazioni ampiamente accettate in
alcune mie precedenti pubblicazioni (Tishkov 1991). Ma un più attento esame della
situazione rivela una dinamica più sottile. La questione non riguarda soltanto il mo-
do in cui pochi anni di perestroika abbiano potuto rivelare la profonda insoddisfa-
zione dei cittadini sovietici nei confronti dell’ordine sociale esistente, ma anche il
perché tale insoddisfazione venne incanalata nell’etno-nazionalismo.
R. Suny (1989, p. 306) dice giustamente:

[Il] processo di costruzione delle nazioni secondo i regolamenti sovietici venne considere-
volmente facilitato dalla precedente politica bolscevica. In particolare dalla dedizione del
partito al concetto leninista di autodeterminazione nazionale e dall’istituzione di un siste-
ma amministrativo pseudo-federale, il primo al mondo costituito da unità territoriali basa-
te sull’etnicità per consolidare, piuttosto che corrodere, la coesione etnica e nazionale.
INVENZIONI E MANIFESTAZIONI DI ETNO-NAZIONALISMO... 539

A quest’analisi si può aggiungere l’osservazione di Zbigniew Brzezinski secondo Il comunismo


nazionalista e
la quale il comunismo, nonostante si proclamasse una dottrina internazionale, di intollerante
fatto fomentava i sentimenti nazionalistici popolari e si fondeva – anche rinforzan-
dolo – con il nazionalismo intollerante: “Produsse una cultura politica imbevuta di
intolleranza, di autogiustificazioni, di rifiuto di compromessi sociali nonché di una
massiccia inclinazione verso esagerate semplificazioni autocelebrative. Nell’espe-
rienza comunista, pertanto, il nazionalismo più che attutito venne alimentato”
(1989-1990, p. 2).
Negli anni Venti, partendo da una politica di “nativizzazione” venne compiuto
un immenso sforzo di formazione dei quadri professionali locali e degli educatori La politica di
del paese mirato allo sviluppo delle lingue locali, della scolarizzazione e alla realiz- “nativizzazione”
zazione di competenti istituti di alta cultura (letteratura, teatro, scienze, cinema,
editoria, ecc.). Prestigiose manifestazioni delle “fiorenti nazioni socialiste” vennero
sponsorizzate e incoraggiate dal potere politico centrale (a Mosca) anche in tempi
di repressione politica. Dopo cinquant’anni di politica di “nativizzazione”, la pro-
porzione di intellettuali e di laureati tra gruppi russi e non russi era praticamente
equivalente. Per alcuni gruppi (ad esempio armeni e georgiani) il numero di laurea-
ti era talvolta superiore a quello dei russi.
Nelle repubbliche, questo etno-nazionalismo ufficiale diede luogo a élites locali
piuttosto arroganti e inclini a un devastante utilizzo del proprio status a fini perso-
nali. Nelle repubbliche russe scarsamente modernizzate, tali élites – specialmente la
loro burocratica “nomenklatura” – molto spesso degenerarono in strutture di tipo
feudale o mafioso, nessuna delle quali tollerava alcuna opposizione. Le loro energie
venivano prevalentemente spese nello stabilire la priorità delle aspirazioni territo- Corruzione e
riali, tradizionali e culturali del proprio gruppo rispetto a quelle dei popoli confi- sciovinismo
nanti. Mostrarono, inoltre, chiari segni di sciovinismo, pretendendo non solo uno delle élites locali
status esageratamente elevato ma mostrando anche aspirazioni ad assimilare le pic-
cole, sparse enclavi di popolazioni etnicamente diverse, residenti nella repubblica.
In alcune delle prime repubbliche autonome, le élites locali sentivano che la princi-
pale minaccia alla loro autorità proveniva dalle popolazioni di lingua russa13, che
costituivano la maggior parte del paese, specie nei centri urbani. Questi precedenti
storici non possono essere ignorati dagli studiosi che cercano una risposta alla cre-
scita dell’etno-nazionalismo.
La situazione sovietica è complessa, e non può essere spiegata semplicemente
con il ripercuotersi della tendenza mondiale al risveglio etnico e con la crescita del
moderno nazionalismo postindustriale, anche se tali fattori hanno avuto senza dub-
bio la loro influenza. Né può essere spiegata con lo scontento accumulato e a lungo L’inadeguatezza
represso per le ingiustizie storiche subite o per il basso livello delle condizioni so- degli ordinamenti
ciali e culturali (in ultima analisi, i movimenti nazionali più forti e meglio organizza- politici
ti non hanno trovato spazio nelle regioni più arretrate del paese né tra i gruppi etni-
ci socialmente più oppressi). E non può neanche essere spiegata con gli “errori”
nello sviluppo della politica sovietica verso le nazionalità né con le “deviazioni” dai
principi leninisti: semplicistica idea di molti studiosi e politici.
Io ritengo – e ciò non vale solo per l’Europa orientale – che ci si debba concen-
trare sull’incapacità dell’ordinamento politico di creare una qualsivoglia istituzione
civile, anche in forma rudimentale, in grado di consentire un effettivo autogoverno
locale o di dar vita a strutture politiche e sociali attraverso le quali i cittadini e i
gruppi, anche etnici, potessero difendere e realizzare i loro interessi e i loro diritti
diversi e particolari. Non appena crollò l’allora onnipotente e onnipresente potere
del partito, assieme alla sua ideologia ufficiale, divenne subito evidente la fatale in-
540 VALERY A. TISHKOV

capacità della struttura gerarchica dello Stato di regolare e governare gli affari so-
Crollo del regime ciali. Milioni di cittadini sovietici politicamente attivi, di fronte alla mancanza di
e protesta formule realmente capaci di rispondere alle proprie aspettative, trovarono nella fe-
etno-nazionalista
deltà al proprio gruppo etnico e nell’idea nazionalista le sole e più comprensibili
basi per un’azione collettiva e per esprimere la propria protesta di fronte alle dispe-
rate condizioni sociali e alle profonde delusioni politiche. L’etno-nazionalismo di-
venne un’alternativa rilevante a uno Stato forte e centralizzato ma privo di un’effi-
cace rappresentatività a livello locale. Esso si richiamava a un’immagine romantica,
emotiva di una nuova forma di solidarietà, senza necessariamente risolvere i proble-
mi della rappresentanza democratica a livello locale. Naturalmente, che l’etno-na-
zionalismo possa risolvere questi problemi resta tutto da dimostrare.

La forza dell’etno-nazionalismo
Molti antropologi occidentali ritengono che le nazioni siano “comunità immagina-
te”, artefatti culturali costruiti da intellettuali (scrittori, storici, antropologi, ecc.). Ma
Le “comunità nessuna di queste interpretazioni postmoderne è stata applicata al contesto sovieti-
immaginate” e la co14. I miei modesti contributi al concetto di nazione come idea articolata piuttosto
nazione etnica come
realtà complessa e
che come un’ovvia realtà hanno incontrato totale incomprensione e rifiuto, nonostan-
costruita te il fatto che le realtà sovietiche passate e attuali tendano a confermare questa tesi15.
Dopo decenni di costruzione nazionale pratica e letteraria, l’etno-nazionalismo è
divenuto parte di una vasta gamma di ideologie pubbliche e di mentalità politiche.
Si è anche guadagnato, grazie al notevole aiuto della perestroika, un considerevole
supporto sociale. Attivisti di oltre una dozzina di gruppi etnici – a partire dalle for-
ti minoranze culturali e dai gruppi nativi del Nord – hanno cominciato anche loro a
parlare delle proprie “nazioni”. Richieste di essere riconosciuti come “ethnos” e
“nazioni” separate sono già state formulate dai gagauz in Moldavia, dai carpato-rus-
si in Ucraina, dai tartari siberiani e da quei gruppi nativi del Nord le cui autorità lo-
cali hanno proclamato le proprie repubbliche autonome. Altri leaders stanno anco-
ra combattendo per ottenere la condizione di Stato per i propri gruppi (come i
gruppi estremo-orientali del fiume Amur)16.
Molte élites etniche – abituate a vivere alle condizioni non competitive e di di-
pendenza imposte loro dal potere centrale – hanno contestato la loro condizione
subordinata chiedendo piena sovranità (o indipendenza) nell’ottica di una “rinasci-
Gli intellettuali ta nazionale” e della costruzione di uno “Stato nazionale”. Il nuovo clima politico
al potere ha permesso agli intellettuali di accantonare abbastanza facilmente il vecchio parti-
to e l’apparato statale, guadagnando così forza politica nella maggior parte delle re-
gioni del paese. La carenza, tra riformatori e nazionalisti, di politici specializzati ha
permesso a molti intellettuali forniti di titoli di studio avanzati e di forti credenziali
accademiche – soprattutto nell’ambito delle scienze sociali e letterarie – di raggiun-
gere importanti posizioni di comando.
Approfittando dell’alto tasso di alfabetizzazione del popolo, i nuovi leaders poli-
tici dei movimenti nazionalisti hanno usato la stampa come mezzo per favorire lo svi-
luppo di un senso di fedeltà collettiva esclusiva. Si sono serviti dei numerosi dati ac-
La fusione tra
dibattiti
cumulati nelle università locali in materia di lingua e letteratura, ricostruzioni stori-
accademici e che e archeologiche della cultura tradizionale come “fonte di recupero dei miti etni-
azioni politiche ci (nazionali)” (Gittelman 1991, p. 34). Gli effetti sciamanici e gli stimoli emotivi de-
gli interventi dei nuovi leader, nelle manifestazioni di massa prima e nelle trasmissio-
ni TV dei dibattiti parlamentari poi, divennero un’importante forza di mobilitazione.
È così praticamente scomparsa la distanza fisica ed emotiva tra dibattiti accade-
mici, discorsi pubblici e azioni politiche. Un articolo su un giornale o su una rivista
INVENZIONI E MANIFESTAZIONI DI ETNO-NAZIONALISMO... 541

scientifica poteva dar luogo a un incontro pubblico o a una dimostrazione di prote- Il caso
georgiano
sta. Un intervento parlamentare e una lettera di Gamsakhurdia (allora presidente
della Georgia) a proposito delle antiche iscrizioni su lapidi georgiane del ponte di
Sukhumi, ad esempio, provocarono, in quei paraggi, sanguinosi scontri tra georgia-
ni e abkhaziani. A sua volta, l’opposizione a Gamsakhurdia guidata da professori
universitari ed eminenti rappresentanti della cultura, che usavano il Palazzo del-
l’Accademia Georgiana delle Scienze come comando militare, riuscì a mobilitare la
popolazione per rimuovere il capo georgiano che la stessa popolazione aveva eletto,
quasi all’unanimità, non più di sei mesi prima.
Vista da questa prospettiva, la moderna ideologia etno-nazionalistica non sem-
bra certo il riflesso di una prassi sociale. Piuttosto, la prassi sociale etno-nazionali- La reazione alla
“etnostatizzazione”
stica venne modellata dal discorso ideologico e da postulati accademici. L’etno-na-
zionalismo sovietico era ed è tuttora il risultato della reazione alla “etnostatizzazio-
ne” (cioè alla creazione del socialismo di Stato) e alla strutturazione gerarchica dal-
l’alto dell’etnicità, quando i cittadini del paese venivano classificati e divisi in “na-
zioni”, “narodnosts” e “gruppi nazionali” sulla base di confini amministrativi defini-
ti spontaneamente e arbitrariamente.
Non è facile scrivere queste cose nell’odierno clima accademico, così altamente
politicizzato. Ma da queste analisi si evince che gli scontri e i conflitti interetnici,
per non parlare della disintegrazione dell’URSS, dipendono non solo dal fallito espe-
rimento social-comunista ma in egual misura dal “progresso” raggiunto nel trasfor-
mare in repubbliche le “nazioni socialiste” sovietiche. L’attuale folclore politico, co-
sì come molti accademici, non sono ancora pronti ad accettare tale conclusione, e
questo tema deve essere oggetto, quindi, di ulteriori ricerche e verifiche.
È necessario studiare l’etno-nazionalismo nel contesto sovietico e post-sovietico co- Il ritrovamento
dell’orgoglio e
me una forma di terapia poetica, come una forma di cicatrizzazione dopo il forte trau- dei valori perduti
ma subito dal popolo sovietico a livello individuale e collettivo. L’etno-nazionalismo
rappresenta un mezzo per ritrovare l’orgoglio perduto e i “valori individuali” (per usa-
re le parole di D. Horowitz del 1985). Molto spesso questa interpretazione poetica
cozza con la realtà. Richiama alla memoria norme di vita di questa o quella comunità e
invita la gente ad agire di conseguenza. In condizioni socio-politiche particolari, l’inter-
pretazione poetica può mobilitare immensi, creativi potenziali di etnicità. Può anche
essere causa dell’emergenza di una “cultura del Kalashnikov” di portata mondiale: una
cultura di intolleranza e distruzione in cui uomini armati rappresentano la forza attra-
verso la quale si sostengono gli “obiettivi nazionalisti”. Nell’attuale politica della
(Dis)unione Sovietica risultano evidenti entrambe le prospettive. Il loro futuro rimane
incerto, specie per ciò che riguarda le attuali tensioni tra ideologie nazionaliste e le ten-
denze multietniche che oggi dominano la scena politica post-sovietica. Su più vasta
scala, l’ampiezza e l’attuabilità politico-economica delle unità politiche – grandi o pic-
cole che siano e per quanto attive oggi in Europa e Asia – sono ancora incerte, così co-
me è incerta la dimensione con la quale le popolazioni locali potranno essere verosimil-
mente rappresentate in un più grande contesto di tendenze moderne.

Il ruolo degli intellettuali nell’attuale dramma storico


Quale ruolo possono avere gli intellettuali nell’attuale dramma storico così pie-
no di realtà militanti? M. Foucault (1980, p. 62) ha dato questa risposta:

L’intellettuale non deve più giocare il ruolo del consulente. I progetti, le tattiche e gli
obiettivi da raggiungere sono esclusiva competenza di coloro che combattono. L’intellet-
tuale può invece fornire strumenti di analisi – oggi ruolo essenziale degli storici. Ciò di
542 VALERY A. TISHKOV

Foucault e il cui si sente effettivamente la necessità è una profonda e chiara percezione del presente
ruolo che possa consentire l’individuazione delle debolezze, dei punti di forza, delle posizioni
dell’intellettuale
che i vari tipi di potere si sono assicurati stabilmente, grazie a un sistema organizzativo
come analista
del “campo di vecchio di 150 anni. In altre parole, il ruolo dell’intellettuale è l’analisi topologica e geo-
battaglia” logica del campo di battaglia. Ma certo non può dire “Ecco cosa dovete fare”.

Questo, però, non si è verificato nel caso sovietico. Generata da una visione pri-
La tenacia
della retorica migenia dell’etnicità e dalla mentalità storico-materialista propria dell’ingegneria
politica sociale, che contemplava la “realizzazione di leggi storiche”, la retorica politica e ac-
sovietica cademica sovietica non è molto cambiata dopo il collasso dell’Unione e della sua
ideologia. I principi leninisti come punti di riferimento dell’autorità sono stati facil-
mente sostituiti dal “carattere sacrale e provvidenziale della nazionalità”.

Demoralizzato per essere stato estromesso dal processo che lui stesso aveva av-
viato, M. Gorbaciov (1991) cominciò a parlare dei gruppi etnici in modo differente:
“Gli uomini stanno tornando ad un processo di autocoscienza, ad una ricerca delle
proprie radici. Ogni popolazione – grande o piccola – è creatura di Dio. Nessuno
deve privare questi popoli, soprattutto i più modesti, del diritto allo studio e alla
Le posizioni
“etniciste” di
comprensione di se stessi”. Questa tesi ebbe profonda eco nelle dichiarazioni di va-
Gorbaciov e ri scrittori e studiosi ai vertici degli incarichi politici. Lo scrittore bielorusso Basil
quelle di altri Bykov (1991), membro del precedente Parlamento dell’Unione, scrisse del “sacro e
intellettali divino diritto della nazione alla autodeterminazione”. Lo scrittore ucraino Boris
Oleinyk (1990), anch’egli membro del Presidio del precedente Parlamento dell’U-
nione, definì le nazioni “categorie eterne, come il sole e la luna”. La storica Elena
Guskova (1991), discutendo del caso iugoslavo, arrivò a concludere che la tendenza
storica universale dei gruppi etnici era quella a “disintegrarsi e definire se stessi in
primo luogo, e solo dopo reintegrarsi”. E l’etnografa Galina Starovoitova (1989) –
nel corso di una spettacolare carriera politica durante la quale fu, tra l’altro, mem-
bro di due Parlamenti e consulente del presidente Eltsin per le questioni dei nazio-
nalismi – molto spesso scrisse e dichiarò pubblicamente del “crescente interesse
della gente per quei valori eterni che sono la famiglia e la patria”. Essa presentava
l’“etno-nazione” come “la base per una società civile”. L’attuale presidente dell’Ar-
menia, già accademico e leader nazionalista, Levon Ter-Petrosyan (1991), ribadiva il
Il triste principio in modo molto più esplicito: “Il diritto di una nazione all’autodetermina-
presente zione è assoluto. E quando un popolo decide di tenere il proprio fato nelle proprie
dell’etno- mani, nulla, neanche la violenza, può arrestare questo processo”.
nazionalismo La scienza sociale post-sovietica è tuttora, come in passato, fortemente politicizzata
e le tendenze politiche emergenti post-comuniste soffrono il peso notevole dell’eredità
delle retoriche scientifiche passate e dei miti popolari. Oggi si crede concretamente che
l’“etno-nazione” sia uno strumento di definizione identitaria. Ma sono ancor più con-
crete le pratiche e le azioni dei suoi fautori che, in nome dei principi dell’etno-nazionali-
smo, hanno provocato milioni di rifugiati e ucciso migliaia di connazionali.

1 Per una migliore comprensione dell’argomento, vedi Connor (1984). Per un’analisi critica degli scritti accademici

sovietici sull’etnicità, vedi Skalnik (1986, 1988). Vedi anche John L. Comaroff (1991) e Shanin (1989).
2 Negli ultimi vent’anni, queste definizioni hanno dominato le analisi sovietiche relative ai cosiddetti “processi et-

nici”. In lingua inglese cfr. Bromley (1988), Kozlov (1988) e Bromley, Kozlov (1982).
3 Dal 1986 in poi sono stati pubblicati almeno una dozzina di libri e un centinaio e più articoli di antropologi e po-

litologi occidentali sulle nazionalità sovietiche. Cfr. ad esempio Nahalyo, Swoboda (1990), Graham Smith (1990), Motyl
(1990) e Hajda, Beissinger (1990).
INVENZIONI E MANIFESTAZIONI DI ETNO-NAZIONALISMO... 543
4 Citiamo qui solo quattro testi fra i molti: Caroline Humphrey (1983) sui buriati, Marjorie Balzer (in corso di

stampa) sui khanty, Tamara Dragadze (1988) sui georgiani e Martha Olcott (1987) sui kazachi.
5 Esistono numerosi casi di persecuzioni morali e fisiche perpetrate ai danni di intellettuali nelle Repubbliche Bal-

tiche, in Moldavia, in Ucraina, in Armenia, in Georgia, in Kazakistan, e ampiamente descritte sulla stampa locale e na-
zionale negli ultimi due o tre anni.
6 Molti di questi scritti sono in lingua locale. Ma molte brochures e articoli sono in russo, ad esempio quelle sulle

questioni transcaucasiche: Miminoshvili, Pandjikidze (1990), Barsegyan (1989), Arutyunyan (1990), La Verità su Nagor-
no-Karabakh (1989) e Nagorno-Karabakh (1988).
7 Vedi Kozlov (1990, 1991). Circa le affermazioni favorevoli alle minoranze, cfr. numerosi articoli nel giornale «Et-

nografia Sovietica», in particolare il saggio sulle condizioni delle popolazioni del Tagikistan in Pamir, 1989, nel n. 5.
8 Koroteeva, Perepelkin, Shkaratan (1988), Perepelkin, Shkaratan (1989), Krupnik (1990), Pain, Popov (1990).

Tutti i testi sono in lingua russa.


9 Cfr. Cheshko (1989), Bromley (1989a), Yamskov (1991), Guboglo (1989).
10 Le migliori analisi antropologiche e storiche di questo periodo, relativamente alla trasformazione e all’apogeo

del nazionalismo, sono state effettuate da Gellner (1993) e Hobsbawm (1990).


11 Per i concetti di “Russia” e di “tutti i russi” vedi gli scritti di N. N. Karamzin (1980).
12 Vedi la Costituzione dell’U.R.S.S., Commenti politico-giuridici (1982, pp. 207-2088).
13 La categoria, ampiamente usata e politicizzata, di “popolazioni di lingua russa” è attualmente ingannevole, per

molte ragioni. Innanzitutto un consistente numero di persone tra le popolazioni così definite parla russo; inoltre, alcune
minoranze di lingua russa nelle repubbliche hanno una padronanza della lingua russa molto inferiore a quella dei grup-
pi dominanti; infine, alcuni piccoli gruppi indigeni del Nord e della Siberia e alcune minoranze sparse parlano essen-
zialmente la lingua russa, pur conservando marcati tratti culturali nativi e le loro identità etniche.
14 Alcuni tentativi di ampliare le prospettive teoriche nel tentativo di spiegare l’etno-nazionalismo sovietico sono

Dutter (1990, pp. 311-334), Hough (1990, pp. 1-65) e Comaroff (1991).
15 Vedi Bromley (1989b); per il dibattito politico, vedi il XXVIII Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica.
16 Come Ministro delle Nazionalità e direttore dell’Istituto di Etnologia e Antropologia ho ricevuto, negli ultimi tre

anni, almeno una dozzina di tali richieste o petizioni, compresa una recentissima dei cosacchi: un esempio d’identità
emergente basata su tradizioni storiche e politiche piuttosto che su caratteristiche culturali.

Biografia intellettuale

Valery A. Tishkov è direttore dell’Istituto di Etnografia e Antropologia dell’Acca-


demia delle Scienze Russa ed è stato Ministro delle Nazionalità nel governo Eltsin.
Nato nel 1941, ha studiato all’Università di Stato di Mosca (laurea nel 1964) e all’Isti-
tuto di Pedagogia di Mosca (dottorato nel 1969). È stato assistente e professore asso-
ciato presso l’Istituto Pedagogico Magadan (1964-1966, 1969-1972), ricercatore pres-
so l’Istituto di Storia generale dell’Accademia delle Scienze russa (1972-1976) e Se-
gretario generale della Divisione di Storia dell’Accademia (1976-1982). Prima di assu-
mere l’attuale posizione in seno all’Istituto, nel 1989 è stato contemporaneamente di-
rettore e responsabile degli studi etnici americani. Le sue pubblicazioni comprendo-
no molti libri e articoli sulla storia, la storiografia e la politica contemporanea canade-
se, sui nativi del Nord America, sull’etnologia degli Stati Uniti e del Canada e sugli
avvenimenti contemporanei. Suoi articoli sono stati pubblicati in Occidente sul
«Third World Quarterly», «Theory and Society», «Journal of Soviet Nationalities»,
«New Times» e «Soviet Anthropology and Archeology». Attualmente sta completan-
do una monografia sui problemi etnici durante e dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

All’inizio del 1960 divenni studente di storia presso l’Università di Stato di Mo-
sca, laureandomi in storia occidentale moderna. Tale scelta fu determinata dalla cre-
scente consapevolezza dei valori occidentali che animava le generazioni più giovani
durante il disgelo post-staliniano. A quell’epoca, e per alcuni decenni successivi –
vale a dire fino a metà degli anni Ottanta, momento della reale liberalizzazione poli-
544 VALERY A. TISHKOV

tica – il marxismo-leninismo fu la dottrina dominante per studenti e professori. La


storia era considerata un processo deterministico, e l’evoluzione umana veniva per
lo più presa in esame in termini di formazione socioeconomica correlata alle classi e
alla lotta di classe. L’etnografia – termine sovietico per indicare l’antropologia socia-
le e culturale – non era considerata una disciplina a sé nell’ambito delle scienze so-
ciali; essa anzi, insieme all’archeologia, era considerata un sottosettore della storia.
Entrambe le discipline figuravano nel piano di studi di tutti gli studenti del Diparti-
mento di Storia.
Molti eminenti studiosi furono miei professori. Usavamo libri di testo scritti dal-
la vecchia generazione di storici sovietici (come M. D. Kosven per la storia della
cultura materiale, S. A. Tokarev per l’etnografia russa, Propp e Meletinski per i va-
lori spirituali e culturali, M. Bachtin per la storia del pensiero letterario, e così via).
Nel mio master mi sono occupato della storia occidentale contemporanea, e in
particolare della posizione assunta dagli Stati Uniti nel corso della Conferenza di
Potsdam. Per questo studio mi sono avvalso essenzialmente di importanti fonti an-
glo-americane e di testi scritti da studiosi di quei paesi. A causa del divieto di acces-
so agli archivi sovietici, la storia politica e diplomatica non poté rappresentare l’o-
biettivo delle mie ricerche più avanzate. Dopo due anni d’insegnamento presso l’Isti-
tuto di Pedagogia di Magadan (capitale dell’Arcipelago Gulag) cominciai a occupar-
mi della storia delle origini del Nord America per la discussione del mio Ph. D.
Per più di dieci anni, il principale obiettivo della mia ricerca divenne l’etnosto-
ria, con speciale riguardo ai rapporti franco-inglesi nel Nord America britannico.
Molte mie pubblicazioni, compresa la mia tesi di dottorato e una monografia, ri-
guardano la storia canadese precedente alla Confederazione. Durante questo perio-
do, in Russia si aprirono le porte a molti scambi accademici e io ebbi la fortuna di
effettuare parecchi viaggi di ricerca in Canada, ove potei lavorare in vari archivi e
incontrare alcuni eminenti storici canadesi come Ramsay Cook e Fernand Ouellet.
Nel 1982 fui invitato dall’accademico Y. Bromley a ricoprire la carica di Respon-
sabile degli studi americani presso l’Istituto di Etnografia dell’Accademia delle
Scienze dell’URSS. Dato che ho assunto l’incarico solo di recente, mi sento ancora
come l’ultimo arrivato nel campo dell’antropologia, che all’epoca teneva impegnata
una comunità abbastanza isolata di etnografi sovietici dediti ad approcci prevalen-
temente storici e che si occupavano soprattutto di etnogenesi e dell’interpretazione
dell’etnicità. Ciononostante questo Istituto ha avuto, e ha tuttora, standards profes-
sionali di ricerca empirica sul campo abbastanza alti. È stato, ad esempio, una delle
poche istituzioni accademiche sovietiche in cui le scienze sociali non sono state for-
temente limitate dall’ideologia e dalla politica del regime sovietico o dal controllo
del Partito comunista. Per quanto strano possa sembrare ai miei colleghi occidenta-
li, rivedendo le mie pubblicazioni, non trovo più di due o tre riferimenti ai lavori di
Karl Marx e non un solo riferimento ai lavori di Lenin. In effetti, non ho mai senti-
to la necessità di utilizzare le loro opere per la mia ricerca e non mi è mai capitato
di ricevere pressioni affinché li includessi nelle mie pubblicazioni presso la casa edi-
trice dell’Accademia.
Soltanto negli ultimi anni, da quando cioè sono vice direttore dell’Istituto, mi
sono interessato più seriamente agli orizzonti teorici del mondo dell’antropologia.
Tra quanti hanno maggiormente influenzato i miei lavori, devo ricordare gli autori
occidentali che hanno lavorato sull’etnicità e sul nazionalismo come Gellner, Hob-
sbawm, Smith, Wolf, Connor e Anderson. Questi pensatori mi hanno aiutato a su-
perare la visione, semplicistica e ristretta, che delle questioni etniche esisteva prima
e dopo la fine dell’Unione Sovietica. Ciò che più mi stupisce nelle mie recenti lettu-
INVENZIONI E MANIFESTAZIONI DI ETNO-NAZIONALISMO... 545

re d’antropologia filosofica postmoderna è la scoperta di forti “radici russe” in mol-


te delle innovazioni teoriche collegate alla contemporanea analisi epistemologica:
Vygotski, Bachtin, Chayanov, Propp e pochi altri nomi dimenticati o negletti dal
tempo di Stalin furono perfino annoverati tra i principali predecessori dell’antropo-
logia strutturalista e postmoderna occidentale. Queste opere testimoniano la nostra
passata, vigorosa tradizione intellettuale e sono essenziali per la futura modernizza-
zione dell’antropologia russa.
Gli usi della diversità*
Clifford Geertz

L’antropologia è stata fatalmente attratta per tutto il corso della sua storia (lunga,
se la si fa iniziare con Erodoto; piuttosto breve, se si sceglie Tylor come punto di par-
tenza) dalla straordinaria varietà di modi in cui uomini e donne hanno tentato di vi-
vere le proprie vite. In alcuni momenti, essa ha tentato di affrontare questa varietà
La scomparsa catturandola nelle maglie di una qualche teoria universalizzante: stadi evolutivi, idee
della varietà o pratiche pan-umane, forme trascendentali (strutture, archetipi, grammatiche sog-
culturale
giacenti). In altri, ha evidenziato la particolarità, l’idiosincrasia, l’incommensurabilità
– dalle stelle alle stalle, insomma. Recentemente, tuttavia, si è trovata di fronte a
qualcosa di nuovo: la possibilità che la varietà si stia rapidamente riducendo in una
gamma più limitata ed evanescente. È assai probabile che ci troveremo in un mondo
in cui non vi saranno più cacciatori di teste, popoli matrilineari o qualcuno in grado
di predire il tempo osservando le interiora di un maiale. Alcune differenze senza
dubbio resteranno – i francesi non mangeranno mai burro salato! – ma i bei vecchi
tempi delle vedove bruciate e del cannibalismo saranno finiti per sempre.
Da un punto di vista professionale, questo processo di lenta e progressiva dimi-
nuzione dei contrasti culturali (supponendo che sia reale) di per sé non è forse così
sconvolgente: gli antropologi dovranno soltanto imparare a utilizzare queste diffe-
renze più sottili e i loro scritti potranno diventare ancor più penetranti, anche se
Il futuro meno spettacolari. Ma vi è un’altra, più ampia questione, al tempo stesso morale,
dell’etnocentrismo estetica e cognitiva, ben più preoccupante e al centro di molte discussioni di oggi su
come possano esser giustificati i valori: per usare un termine che resti sufficiente-
mente impresso, lo chiamerò il problema del Futuro dell’Etnocentrismo.
Prima di entrare nel merito di questa tematica generale – che del resto costitui-
sce l’argomento principale che intendo affrontare – vorrei presentare come introdu-
zione una tesi che ritengo inusuale e alquanto sconcertante: quella che l’antropolo-
go francese Claude Lévi-Strauss sviluppa all’inizio della sua recente raccolta di sag-
gi, intitolata polemicamente (almeno per un antropologo) Lo sguardo da lontano –
Le regard éloigné (1983).

Lévi-Strauss e l’etnocentrismo
Lévi-Strauss sviluppò la propria tesi in primo luogo come risposta a un invito
Lévi-Strauss: dell’Unesco a tenere una lezione pubblica per inaugurare l’Anno internazionale per
l’eredità la lotta al razzismo e alla discriminazione razziale, che – se mai lo aveste dimentica-
di Razza e Storia to – cadeva nel 1971. Scrive l’Autore che la scelta dell’Unesco

era probabilmente motivata dal fatto che vent’anni prima io avevo scritto un testo, Race
et histoire, esso pure commissionato dall’Unesco, (…) che aveva provocato una certa ri-
sonanza. Sotto una presentazione forse nuova, vi enunciavo alcune verità primarie, e pre-
sto mi sono accorto che ci si aspettava soltanto che io le ripetessi. Ora, già a quel tempo,
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 547

per ottemperare alle istituzioni internazionali a cui, più che non oggi, mi sentivo tenuto a
dare credito, avevo nella conclusione del testo alquanto forzato il tono. Forse per via del-
l’età, certo per via delle riflessioni suscitate in me dallo spettacolo del mondo, questa
compiacenza adesso mi ripugnava: mi sentivo convinto che, per essere utile all’Unesco e
per adempiere onestamente alla missione che mi si affidava, mi dovevo esprimere in pie-
na franchezza (Lévi-Strauss 1983, pp. IX-X).

Come è ovvio, questa scelta non si rivelò una buona idea, e ne venne fuori una
specie di farsa: alcuni membri dello staff dell’Unesco erano sgomenti per il fatto che
“avevo criticato un catechismo […la cui assimilazione…] aveva permesso loro di
passare da un modesto impiego in qualche paese in via di sviluppo a quello, sacro-
santo, di funzionari di un ente internazionale” (Lévi-Strauss 1983, p. X). L’allora di-
rettore generale dell’Unesco, anch’egli un francese molto determinato, prese inaspet-
tatamente la parola in modo da ridurre il tempo concesso a Lévi-Strauss per il suo La critica alla
intervento e indurlo in tal modo a operare quei “miglioramenti”, sotto forma di tagli, confusione tra
razzismo ed
che gli erano stati suggeriti. Ma Lévi-Strauss, uomo incorreggibile, lesse il proprio te- etnocentrismo
sto per intero a velocità chiaramente accelerata e nel tempo che gli era rimasto.
A parte ciò – nient’altro che una normale giornata alle Nazioni Unite – il proble-
ma nel discorso di Lévi-Strauss era che: “insorgevo contro l’abuso di linguaggio per
cui, in misura crescente, si viene a confondere il razzismo in senso stretto con certi at-
teggiamenti normali, anzi legittimi, e in ogni caso inevitabili” (Lévi-Strauss 1983, p.
XI) – vale a dire con l’etnocentrismo, sebbene Lévi-Strauss non lo abbia definito così.

Aspetti positivi dell’etnocentrismo


L’etnocentrismo, sostiene Lévi-Strauss in quel famoso intervento dal titolo Razza
e storia – e con linguaggio un po’ più tecnico in un altro saggio, L’etnologo davanti
alla condizione umana, scritto circa dieci anni dopo il primo – non solo non è di per
se stesso un male, ma è anzi un fenomeno positivo – almeno fin quando non sfugge
al controllo. La fedeltà a un certo insieme di valori inevitabilmente rende le persone
Un etnocentrismo
“insensibili, in tutto o in parte, ad altri valori” (Lévi-Strauss 1983, p. XI) cui altri po- controllato è
poli, con eguale devozione, sono fedeli. “Non è affatto riprovevole porre un modo di positivo
vivere e di pensare al di sopra di tutti gli altri, e provare scarsa attrazione per deter-
minati individui il cui modo di vivere… si allontana troppo da quello cui si è tradi-
zionalmente legati”. Questa “incomunicabilità relativa” non autorizza nessuno a
schiacciare o distruggere i valori rifiutati o coloro che ne sono portatori. Se non c’è
questo, tuttavia, tale incomunicabilità “non ha nulla di spregevole”:

può anzi costituire il prezzo da pagarsi affinché i sistemi di valori di ogni famiglia spiri-
tuale o di ogni comunità si conservino, e trovino nel loro fondamento le risorse necessa- L’optimum
rie al proprio rinnovamento. Se... esiste fra le società umane un certo grado ottimale di di diversità
diversità che non deve essere superato, ma sotto il quale non si può neppure scendere e i rapporti
senza pericolo, si deve ammettere che questa diversità risulta in buona parte dal deside- fra culture
rio, presente in ogni cultura, di opporsi alle altre culture che la circondano, di distinguer-
sene, insomma di essere se stessa; le varie culture non si ignorano, all’occasione si scam-
biano prestiti, ma, per non dissolversi, hanno bisogno che sotto altri rapporti sussista fra
loro una certa impermeabilità (Lévi-Strauss 1983, p. XXI)

Perciò non è soltanto un’illusione che l’umanità possa liberarsi del tutto dal- Lo sguardo da
l’etnocentrismo, “ammesso pure che ciò fosse augurabile” (Lévi-Strauss 1983, p. lontano e
XII): non sarebbe stato un bene se lo avesse fatto. Questa “libertà” ci avrebbe por- l’integrità
tato ad avere un mondo “le cui culture, colte da passione reciproca, non aspiras- culturale
548 CLIFFORD GEERTZ

sero più che a celebrarsi a vicenda, in una confusione in cui ciascuna perderebbe
il fascino che poteva avere per le altre, e le sue proprie ragioni d’esistenza” (Lévi-
Strauss 1983, p. XII).
La distanza conduce, se non alla fascinazione, almeno all’indifferenza e quindi
all’integrità. Nel passato, quando le cosiddette culture primitive non avevano che
contatti marginali l’una con l’altra, quando gli uomini di ciascuna etnia chiamavano
Il rischio se stessi “i Veri Uomini”, “i Buoni” o semplicemente “gli Esseri Umani” e bandiva-
di entropia no quelli oltre il fiume o al di là del crinale, chiamandoli “scimmie della terra” o
morale
“uova di pidocchio” – vale a dire non-umani, o almeno non del tutto tali – l’integri-
tà culturale era mantenuta facilmente: una “profonda indifferenza alle culture altre
era... una garanzia per queste di poter esistere alla loro maniera e nel loro luogo”
(Lévi-Strauss 1983, p. 10). Tuttavia, ora che tale situazione non è evidentemente più
realizzabile e ognuno di noi, sempre più stretto in un piccolo pianeta, è profonda-
mente interessato ad ogni altro e ai suoi affari, si profila la possibilità della perdita
di tale integrità proprio a causa della perdita di indifferenza. L’etnocentrismo non
potrà forse mai scomparire del tutto, poiché è “consustanziale alla nostra specie”
(Lévi-Strauss 1983, XII), ma può diventare sempre più pericolosamente debole, la-
sciandoci preda di una sorta di entropia morale:

È indubbio che noi ci culliamo nel sogno che uguaglianza e fraternità possano un giorno
regnare fra gli uomini, senza che la loro diversità sia compromessa. Ma se l’umanità non
si rassegna a diventare la consumatrice sterile dei soli valori che ha saputo creare in pas-
La condanna sato, capace ormai solo di partorire opere bastarde, invenzioni grossolane e puerili, do-
della
comunicazione
vrà imparare che ogni creazione vera implica una certa sordità al richiamo di altri valori,
integrale con che può giungere fino al loro rifiuto o addirittura alla loro negazione. Infatti, non si può
l’altro simultaneamente sciogliersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui, e restare di-
versi. La comunicazione integrale con l’altro, se pienamente riuscita, condanna a breve
o lunga scadenza l’originalità della sua creazione e della mia. Le grandi epoche creatrici
furono quelle in cui la comunicazione era divenuta sufficiente perché corrispondenti
lontani fra loro si stimolassero, senza tuttavia essere tanto frequente e rapida da far sì
che gli ostacoli, indispensabili fra gli individui come fra i gruppi, si riducessero sino al
punto che gli scambi troppo facili livellassero e confondessero la loro diversità (Lévi-
Strauss 1983, pp. 29-30).

Qualunque cosa si pensi di queste affermazioni, e per quanto sorprenda sapere


che provengono da un antropologo, va riconosciuto che esse colgono senza dub-
bio un aspetto del nostro mondo contemporaneo. La “sordità al fascino di altri va-
Il richiamo della
lori” e un atteggiamento di facile accettazione della chiusura entro i confini delle
impermeabilité proprie tradizioni culturali sono così accattivanti da essere sempre più celebrati
nel pensiero sociale più recente. Incapaci di abbracciare il relativismo come l’asso-
lutismo – il primo perché rende inabili al giudizio, il secondo perché espunge il
giudizio stesso dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali si volgono a
quella sorta di impermeabilité del “noi siamo noi, voi siete voi” raccomandata da
Lévi-Strauss. Che si consideri quest’atteggiamento come frutto di arroganza giusti-
ficata dal pregiudizio o come espressione della splendida, onesta presa di posizio-
ne di O’Connor – “quando sei a Roma, fa’ come fossi a Milledgeville” – esso ov-
Il narcisismo viamente pone il problema del futuro dell’Etnocentrismo (e della diversità cultura-
morale è una le) in una luce alquanto nuova. Davvero tirarsi indietro, creare una qualche distan-
soluzione? za, adottare uno sguardo da lontano è il modo per sfuggire alla disperante tolleran-
za del cosmopolitismo dell’Unesco? Davvero il narcisismo morale è l’alternativa al-
l’entropia morale?
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 549

Rorty e la centralità culturale del sé


Le forze che hanno contribuito a rendere più plausibile l’idea della centralità
culturale del sé nel corso degli ultimi venticinque anni sono molteplici. Vi sono an- Il fallimetno
zitutto gli eventi relativi allo “stato del mondo” cui allude Lévi-Strauss, e più in par- dei progetti
ticolare il fallimento di molti paesi del Terzo Mondo nel tener fede alle speranze di politici del Terzo
Mondo e il crollo
rinascita diffusesi subito prima e subito dopo le loro lotte per l’indipendenza: Bo- del marxismo
kassa, Pol Pot, Khomeini tra gli estremisti, Marcos, Mobuto, Sukarno e Indira
Gandhi in modo meno sconvolgente hanno comunque spazzato via l’idea che vi so-
no altrove mondi che possono uscire chiaramente favoriti dal confronto con il no-
stro. C’è poi lo smascheramento delle utopie marxiste – in Unione Sovietica come
in Cina, a Cuba e in Vietnam. Ancora c’è il venir meno di quel pessimismo circa il
“declino dell’Occidente” indotto dalla guerra mondiale, dalla depressione e dalla
scomparsa degli imperi. Ma infine c’è anche – e credo si tratti di un fattore non me-
no importante – la consapevolezza crescente che un consenso universale – transna-
zionale, transculturale e persino transclassista – su questioni normative non sia in
vista: nessuno infatti – sikh, socialisti, positivisti o irlandesi – sembra intenzionato a
mettersi d’accordo con gli altri su cosa sia decente e cosa non lo sia, cosa sia o non
sia giusto, cosa sia bello e cosa non lo sia, cosa sia o non sia ragionevole; non ora al-
meno, e forse mai.
Se allora abbandoniamo l’idea (cosa che senza dubbio non tutti hanno fatto, e
La rinuncia
anzi forse neppure i più) che il mondo si stia muovendo verso un accordo essenzia- all’idea di un
le su questioni fondamentali, o se con Lévi-Strauss rinunciamo all’idea che ciò do- accordo
vrebbe accadere, allora ovviamente aumenta il fascino dell’etnocentrismo “rilassati universale
e goditela”. Se i nostri valori non possono essere scardinati dalla nostra storia e dal-
le nostre istituzioni e quelli di nessun altro possono esserlo dalle proprie, sembre-
rebbe non esserci altra possibilità che seguire Emerson e camminare sulle nostre
gambe parlando con la nostra voce. Afferma Richard Rorty in un recente scritto
dallo straordinario titolo Il liberalismo borghese postmoderno: “Credo di poter sug-
gerire come [noi liberali borghesi postmoderni] potremmo convincere la nostra so-
cietà che la fedeltà a se stessa è sufficiente… e che essa deve esser responsabile sol-
tanto delle proprie tradizioni…” (Rorty 1983, p. 585). Quello cui arriva un antro-
pologo in cerca delle “leggi d’ordine, sottostanti alla diversità osservabile delle cre-
denze e delle istituzioni”(Lévi-Strauss 1983, p. 43), attraverso il razionalismo e un
alto grado di scientificità, lo raggiunge ugualmente il filosofo persuaso che “non vi Rorty: il
sia alcun ‘fondamento’ per le nostre lealtà e convinzioni, salvo il fatto che le creden- pragmatismo e
l’etnocentrismo
ze, i desideri e le emozioni che le sostengono coincidono con quelle di molti altri del “rilassati e
membri del gruppo con cui ci identifichiamo in relazione alle nostre scelte morali e goditela”
politiche…” (Rorty 1983, p. 586), muovendo dal pragmatismo e da un’etica della
prudenza.
La somiglianza è ancora maggiore se si considerano i diversissimi punti di parten-
za da cui muovono questi due studiosi (un kantismo privo di soggetto trascendenta-
le e un hegelismo privo di spirito assoluto), così come i fini ancor più diversi verso i
quali tendono (un mondo ordinato di forme in grado di esser trasposte, un mondo
La dignità
scombussolato di discorsi coincidenti); il fatto è che anche Rorty considera le odiose del proprio
distinzioni tra gruppi non soltanto naturali, ma essenziali all’argomentazione morale: gruppo come
effetto di
[L’]adattamento hegeliano del concetto [kantiano] di “intrinseca dignità umana” è quel- contrasto
lo dell’analoga dignità di un gruppo con il quale una persona si identifica. Le nazioni o le
chiese o i movimenti sono, da questo punto di vista, luminosi esempi storici non perché
riflettono raggi emanati da una fonte più alta, ma a causa dell’effetto di contrasto che de-
550 CLIFFORD GEERTZ

riva dal confronto con comunità di entità minore. Le persone hanno una dignità non co-
me luce interiore, ma perché partecipano di tali effetti di contrasto. Un corollario di que-
sta visione è che la giustificazione morale delle istituzioni e delle pratiche del gruppo cui
si appartiene – ad esempio della borghesia contemporanea – è per lo più una questione
di narrazioni storiche (comprendenti gli scenari relativi a ciò che è probabile accadrà in
alcune circostanze future), piuttosto che di meta-narrazioni filosofiche. Il più importante
aiuto alla storiografia non giunge dalla filosofia ma dalle arti, che servono a sviluppare e
modificare l’immagine che di se stesso ha un gruppo – ad esempio, mediante l’apoteosi
dei suoi eroi, la demonizzazione dei suoi nemici, la crescita del dialogo fra i suoi membri
e l’esatta ridefinizione del proprio interesse (Rorty 1983, pp. 586-587).

Un punto di vista personale


Per tornare al mio personale punto di vista, in qualità di membro di entrambe
queste tradizioni intellettuali – lo studio scientifico della diversità culturale per pro-
fessione, e il liberalismo borghese postmoderno per generica convinzione – ritengo
L’incapacità di che una facile resa alle comodità del mero essere noi stessi, coltivando la sordità e
cogliere e portando sino alle estreme conseguenze la nostra gratitudine per non esser nati van-
coinvolgere gli
altri può far dali o ik, possa esser fatale per entrambe le tradizioni. Un’antropologia che ha così
perire paura di distruggere l’integrità culturale e la creatività, nostra e di chiunque altro,
l’antropologia per il solo fatto di avvicinarsi agli altri e coinvolgerli, cercando di coglierli nella loro
immediatezza e differenza, è destinata a perire a causa di un esaurimento che nessu-
na manipolazione né alcuna massa di dati resi oggettivi potrà contrastare. Analoga-
La sterile mente, qualunque filosofia morale che ha così paura di restare avvinta a un futile re-
filosofia morale lativismo o a un dogmatismo trascendente tanto da non saper pensare nulla di me-
della glio nei riguardi degli altri modi di essere al mondo se non fare in modo che appaia-
condiscendenza no peggiori del nostro, può solo esser destinata (come qualcuno ha detto degli scritti
di V. S. Naipaul, forse il più esperto nel costruire simili “effetti di contrasto”) a far sì
che il mondo si salvi grazie alla condiscendenza. Tentare di salvare contemporanea-
mente le due discipline da se stesse, può sembrare forse peccato di arroganza; ma
quando si ha una doppia cittadinanza, si ha anche un duplice obbligo.

Le alternative a noi contrapposte alle alternative per noi


A dispetto dei loro differenti atteggiamenti e delle differenti argomentazioni
preferite (devo tra l’altro confessare di sentirmi molto più vicino al populismo diso-
rdinato di un Rorty che al fastidioso mandarinismo di un Lévi-Strauss, anche se può
trattarsi di un’inclinazione culturale personale) queste due versioni della moralità
dell’“a ciascuno il suo” si basano, almeno in parte, su una visione comune della di-
versità culturale: in particolare esse ritengono che la sua importanza stia essenzial-
Alternative mente nel fornirci, per usare una formulazione di Bernard Williams, delle alternati-
a noi vs ve a noi piuttosto che delle alternative per noi. Le altre credenze, valori, modi di vi-
alternative ta, sono visti come credenze che avremmo potuto possedere, valori che avremmo
per noi
potuto sostenere, modi di vita che avremmo potuto adottare se fossimo nati in un
qualche altro luogo o in qualche altro tempo diversi da quelli in cui di fatto siamo
nati: se ciò fosse accaduto, sarebbe andata proprio così. Quest’ottica tuttavia sem-
bra al tempo stesso esagerare e sminuire più del necessario il fatto della diversità
culturale: sembra esagerarlo, perché suggerisce che aver avuto una vita diversa da
quella che di fatto abbiamo avuto sia frutto di una scelta pratica, sulla quale si deve
in qualche modo riflettere (avrei dovuto essere un bororo? non è stata per me una
sfortuna non esser stato un hittita?); sembra sminuirlo, perché oscura il potere che
tale diversità – quando riguarda la singola persona – ha di trasformare la nostra
comprensione di ciò che significa per un essere umano – bororo, hittita, strutturali-
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 551

sta o liberal-borghese-postmoderno – avere determinate credenze, valori e modi di


vita. Come ha notato Arthur Danto riecheggiando la famosa domanda formulata da L’etnocentrismo
ci impedisce
Thomas Nagel1 a proposito del pipistrello, questo atteggiamento equivale a “pensa- di capire da
re che il mondo sia piatto, che sono irresistibile nel mio abito alla Poirot, che il Re- dove
verendo Jim Jones avrebbe potuto salvarmi con il suo amore, che gli animali non osserviamo
hanno sensazioni o che i fiori ne hanno – o che il punk sta bene dove sta” (Danto il mondo
1984, pp. 646-647). Il problema dell’etnocentrismo non è tanto che ci obbliga al ri-
spetto dei nostri obblighi, perché per definizione noi siamo indotti a rispettarli tan-
to quanto siamo obbligati ad avere i nostri mal di testa; il problema è piuttosto che
l’etnocentrismo ci impedisce di scoprire, come per il Cavafy di Forster, da che tipo
di angolazione osserviamo il mondo, e che razza di pipistrello siamo in realtà.
Quest’ottica – secondo la quale i problemi dovuti alla presenza della diversità
culturale hanno a che fare più con la nostra capacità di penetrare sensibilità estra-
nee, modi di pensiero che non possediamo (come il punk rock e l’abito alla Poirot)
e che non sono simili ai nostri, che con il fatto di potervi sfuggire preferendo le no-
stre stesse scelte – ha un gran numero di implicazioni di cattivo auspicio per l’ap-
proccio ai fatti culturali del tipo “noi siamo noi, loro sono loro”. La prima implica-
zione, e forse anche la più importante, è che questi problemi non sorgono semplice-
mente ai margini della nostra società (vale a dire là dove ce li aspetteremmo in base
a un simile approccio), ma per così dire ai margini di noi stessi. L’estraneità non co-
mincia alla sponda del fiume, ma dalla pelle. In effetti l’idea, nutrita spesso sia dagli
antropologi (a partire da Malinowski) sia dai filosofi (a partire da Wittgenstein), se- L’estraneità
condo la quale – per esempio – uno Shi’is, essendo altro, rappresenta un problema, è ai margini
mentre i tifosi di calcio, essendo parte di noi, no, o almeno non allo stesso modo, è di noi stessi
semplicemente sbagliata. Il mondo sociale non crea una divisione alle proprie giun-
ture fra dei “noi” chiari ed evidenti con i quali possiamo facilmente identificarci – a
dispetto di quanto dissentiamo da loro – e degli “altri” enigmatici coi quali non pos-
siamo identificarci – per quanto ci sforziamo sino alla morte di difendere il loro di-
ritto di differire da noi. La nebbia cala molto prima di giungere a Calais.

Un accresciuto orizzonte mentale


Sia la recente antropologia del “punto di vista del nativo” (che io pratico) sia la
recente filosofia delle “forme di vita” (alla quale aderisco), si dice, rendono oscuro
questo fatto disapplicando costantemente una delle loro idee più potenti e impor-
tanti: che il significato sia socialmente costruito.
Dalla percezione che il significato, sotto forma di segni interpretabili – suoni,
immagini, sensazioni, artefatti, gesti – possa esistere soltanto all’interno di giochi Il significato è
linguistici, comunità di discorso, sistemi di riferimento intersoggettivi, concezioni socialmente
costruito e
del mondo; che possa emergere nell’ambito della concreta interazione sociale in cui storico
qualcosa è un qualcosa per un tu e un io, e non in un qualche segreto anfratto della
mente e che, infine, sia intrinsecamente storico, scaturito dal flusso degli eventi, si
trae l’implicazione (a mio parere né di Malinowski né di Wittgenstein, e, a questo
proposito, neppure di Kuhn o di Foucault) che le comunità umane sono, o dovreb-
bero essere, monadi semantiche, praticamente senza aperture. Per dirla con Lévi-
Strauss, siamo passeggeri di quei treni che sono le nostre culture: ciascuno si muove Le comunità
sono davvero
seguendo il proprio binario, con una propria velocità e una propria direzione. monadi
Quando guardiamo fuori dal nostro scompartimento, i treni che ci passano di fian- semantiche?
co andando nella stessa direzione e a velocità non troppo diversa dalla nostra ci ap-
paiono almeno abbastanza visibili, ma i treni che vanno lungo un binario obliquo o
parallelo e viaggiano in opposte direzioni non sono visibili:
552 CLIFFORD GEERTZ

non ne ricaveremo che un’immagine confusa e fugace, a stento identificabile, per lo più
ridotta ad un puro oscuramento momentaneo del nostro campo visivo, che non ci forni-
sce alcuna informazione su quanto avviene ma ci irrita soltanto, perché interrompe la
placida contemplazione del paesaggio che fa da fondale alle nostre fantasticherie” (Lévi-
Strauss 1984, p. 13).

Rorty è più cauto, meno poetico e, mi sembra, anche meno interessato ai treni
degli altri popoli, preso com’è dal suo proprio percorso; tuttavia anch’egli parla di
un “sovrapporsi” più o meno accidentale di sistemi di credenze tra le comunità “di
ricchi borghesi nordamericani” e altre con cui “abbiamo bisogno di parlare” per
rendere praticabile “qualunque conversazione tra nazioni possa ancora esser possibi-
I limiti del mio le” (Rorty 1983, p. 588). Il fatto che sensazioni, pensieri, e giudizi siano fondati su
linguaggio sono i
limiti del mondo:
una forma di vita – a mio giudizio, come pure secondo Rorty, la sola base su cui pos-
la comprensione sano esser fondati – viene spesso interpretato come se significasse che i limiti del mio
come mondo sono i limiti del mio linguaggio, il che non è proprio ciò che l’uomo ha detto.
ampliamento Senza dubbio quello che ha detto era che i limiti del mio linguaggio sono i limi-
dello spazio ti del mio mondo, e ciò implica non che il nostro orizzonte mentale – ciò che pos-
intellettuale,
emotivo e morale siamo dire, pensare, apprezzare e giudicare – sia intrappolato entro i contorni della
nostra società, del nostro paese, della nostra classe o del nostro tempo; ma che la
capacità delle nostre menti, la serie di segni che possiamo in qualche modo usare
per interpretare, è ciò che delimita lo spazio intellettuale, emotivo e morale entro il
quale viviamo. Più ampio è questo spazio, più ampio possiamo farlo diventare: ten-
tando di comprendere che razza di cose siano i “terrestri piatti”2 o il Reverendo Jim
Jones (o gli ik, o i vandali) e chiedendoci come sia essere loro, diventerà per noi
sempre più chiaro cosa di ciò che vediamo negli altri ci sembra remoto e cosa inve-
ce ci appare simile, cosa è attraente e cosa è repellente, cosa è ragionevole e cosa è
folle; opposizioni che, del resto, non possono essere schematizzate in modo sempli-
ce, dal momento che vi sono cose piuttosto attraenti relative ai pipistrelli e cose ab-
bastanza ripugnanti relative agli etnografi.
Come afferma Danto nello stesso articolo che ho citato un momento fa, è pro-
prio “la distanza tra me e quanti la pensano diversamente da me – vale a dire chiun-
que, e non soltanto quanti sono distanti a causa di differenze generazionali, di ses-
so, nazionalità, setta e persino razza – a definire i reali confini del sé” (Danto 1984,
p. 647). E – continua – sono queste asimmetrie o quasi tra ciò che crediamo o pro-
viamo e ciò che gli altri credono e provano a far sì che possiamo sapere dove siamo
collocati ora nel mondo, come ci sentiamo a star lì, e dove vorremmo o non vor-
remmo andare. Mascherare queste distanze e queste asimmetrie relegandole in un
campo di differenze che si possono sopprimere o ignorare, considerandole semplici
Difendere la
possibilità di dissomiglianze, vale a dire ciò che l’etnocentrismo fa e si ritiene debba fare (anche
cambiare le l’universalismo dell’Unesco oscura le distanze – in questo Lévi-Strauss ha quasi del
nostre idee tutto ragione – semplicemente negandone la realtà), significa tagliarci fuori da una
tale conoscenza e da una tale possibilità: la possibilità di cambiare letteralmente e
quasi completamente le nostre idee.

Sensibilità in conflitto nel mondo attuale


La storia di ogni singolo popolo, quella di tutti i popoli insieme e senza dubbio
I mutamenti di quella di ciascuna persona nella sua individualità, è una storia di tali cambiamenti
forme simboliche d’idee – in genere lenti, talora più rapidi; oppure, se l’aria un po’ idealista di questa
e il mondo
postmoderno e affermazione vi infastidisce (ma non dovrebbe, poiché non è idealista: non intende
conflittuale negare né le costrizioni naturali della realtà né le limitazioni materiali della volontà),
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 553

di mutamento di sistemi di segni, di forme simboliche, di tradizioni culturali. Que-


sti mutamenti non sono necessariamente stati dei miglioramenti, anzi è probabile
che questa non sia la norma; né hanno condotto a una convergenza di punti di vi-
sta, piuttosto a un rimescolamento di questi ultimi. Ciò che comunque, sin dal lon-
tano e felice neolitico, era un tempo qualcosa di molto simile al mondo lévistraus-
siano di società integre che comunicavano a distanza, si è trasformato in qualcosa di
molto più simile al mondo postmoderno di Danto, con le sue sensibilità conflittuali
e inevitabilmente in contatto. Come la nostalgia, anche la diversità non è più ciò
che soleva essere in passato: chiudere le vite dentro carrozze ferroviarie separate
per produrre un rinnovamento culturale o diradare i vagoni in virtù degli effetti di
contrasto per liberare energie morali è oramai impossibile, perché si tratta di sogni
romantici non privi di pericoli.

Considerazioni morali in questo contesto


La tendenza generale che ho sottolineato all’inizio – in base alla quale lo spettro
delle variazioni culturali si sbiadisce e sfuma senza peraltro diventare meno discri-
minato (e anzi, probabilmente, aumentando il numero di discriminazioni quanto
più le forme simboliche si scindono e proliferano) – modifica non soltanto il pro-
prio fondarsi su un’argomentazione morale, ma il carattere stesso di tale argomenta- Le “fastidiose
zione. Siamo ormai abituati all’idea che i concetti scientifici cambiano con il mutare asimmetrie”
del tipo di tematiche che gli scienziati affrontano, e che non vi sia perciò bisogno di
un calcolo matematico per determinare la velocità di un carro, né di conoscere l’e-
nergia dei quanti per spiegare l’oscillazione di un pendolo; ma siamo molto meno
consapevoli del fatto che la stessa cosa vale per gli strumenti speculativi (per ripren-
dere un vecchio termine coniato da I. A. Richards – il quale lo ha a sua volta preso
da Coleridge – che merita di essere resuscitato) del ragionamento morale. Le idee
sufficienti a sviluppare l’esaltazione delle differenze proposta da Lévi-Strauss non
bastano più a spiegare le fastidiose asimmetrie di Danto, ma è con tali asimmetrie
che noi oggi sempre più ci scontriamo.
Più concretamente, le problematiche morali derivate dalla diversità culturale (le
quali certo non esauriscono tutti i problemi morali esistenti) che nascevano, se na- La non-
scevano, perlopiù nel rapporto tra le società – quei “costumi contrari alla ragione e coincidenza tra
alla morale” dei quali poté alimentarsi l’imperialismo – ora nascono sempre più confini sociali e
spesso al loro interno. I confini sociali e quelli culturali, infatti, coincidono con culturali
sempre minor esattezza – vi sono giapponesi in Brasile come turchi nel Maine, e un
indiano occidentale può incontrarne uno orientale per le strade di Birmingham –
un processo onnipervasivo che senza dubbio è andato crescendo per un periodo di
tempo non breve (si pensi al Belgio, al Canada, Libano, Sudafrica; neppure la Roma
di Cesare del resto era un’entità socialmente omogenea) ma che sta proprio ai nostri
giorni raggiungendo le sue massime proporzioni diventando quasi universale. I
tempi in cui la grande città americana era il principale modello di frammentazione
culturale e di disordine etnico, sono ormai quasi del tutto andati; la Parigi dei nos
ancêtres les gaulois sta per diventare altrettanto poliglotta e policroma di Manhat-
tan, e potrà forse esservi addirittura un sindaco asiatico (è questo almeno ciò che
molti tra i gaulois temono) prima che New York ne abbia uno ispanoamericano.
Questa crescita nel corpo stesso di una società, entro i confini di un “noi”, di
questioni morali contorte centrate sulla diversità culturale, e ciò che implica per il
Le questioni
nostro problema più generale – “il futuro dell’etnocentrismo” – può esser forse morali nella
messo ulteriormente in risalto ricorrendo a un esempio. Non un esempio preconfe- nostra società
zionato e fantascientifico come quello relativo all’acqua su anti-mondi, o quello che
554 CLIFFORD GEERTZ

parla di persone che si scambiano i ricordi durante il sonno – esempi per i quali i fi-
losofi hanno di recente nutrito una passione a mio giudizio esagerata – ma un esem-
pio reale, o almeno presentatomi come tale dall’antropologo che me lo ha racconta-
to: il Caso dell’indiano alcolizzato e del rene artificiale.

L’indiano alcolizzato e il rene artificiale


Il caso è semplice, ma complicata la sua soluzione. L’estrema scarsità dei reni ar-
La scelta di vita tificiali dovuta all’enorme costo di questi macchinari, ha condotto in modo abba-
dell’indiano stanza naturale alla creazione, pochi anni fa, di una graduatoria per i pazienti che
alcolista avevano bisogno di dialisi nell’ambito di un programma medico governativo negli
Stati Uniti sudoccidentali diretto, anche questo è abbastanza naturale, da medici
giovani e idealisti provenienti da scuole mediche di prestigio, prevalentemente
nordorientali. Perché il trattamento medico avesse effetto era necessario, almeno
per un periodo di tempo abbastanza lungo, mantenere una disciplina severa da par-
te del paziente in relazione alla dieta e ad altri fattori. In qualità di impresa pubbli-
ca ispirata a codici contrari alla discriminazione e in ogni caso, come ho appena
detto, moralmente motivati, la lista di attesa era stata stilata non sulla base delle dis-
ponibilità economiche dei pazienti, ma semplicemente in base alla gravità del biso-
gno e all’ordine di presentazione delle richieste. Fu una politica che condusse, per i
consueti capovolgimenti della logica pratica, al problema dell’indiano alcolizzato.
Dopo aver ottenuto l’accesso a uno dei pochi macchinari, l’indiano rifiutò, con
gran costernazione dei dottori, di smettere e persino di limitare le sue davvero no-
tevoli bevute. La sua posizione, considerata da un punto di vista simile a quello di
Flannery O’Connor che ho menzionato in precedenza – “rimani te stesso qualun-
que cosa gli altri vogliano fare di te” – era la seguente: “certo: sono un indiano
ubriacone, lo sono stato per un bel po’ di tempo, e intendo continuare a esserlo fi-
no a quando sarete in grado di mantenermi in vita attaccandomi a questa vostra
dannatissima macchina!”. I dottori, i cui valori erano alquanto diversi, videro nel-
l’indiano un individuo che impediva l’accesso al macchinario ad altri pazienti in li-
sta in situazioni non meno disperate e che, per come la vedevano loro, avrebbero
potuto fare miglior uso dei suoi benefici – ad esempio un giovane della classe me-
Un caso difficile dia abbastanza simile a loro, destinato a seguire l’università e (chissà!) i corsi di
che incarna
l’odierno conflitto
medicina. Poiché l’indiano usufruiva già del macchinario all’epoca in cui il proble-
di valori nato ma venne alla luce, non potevano certo decidere di buttarlo fuori (né credo glielo
dalla diversità avrebbero concesso); ma erano davvero molto turbati – tanto quanto appariva ri-
soluto l’indiano, che era abbastanza disciplinato da presentarsi puntualmente a
tutti i suoi appuntamenti – e senza dubbio avrebbero escogitato una qualche ragio-
ne inequivocabilmente medica per rimuoverlo dal posto che aveva nella lista di at-
tesa, se solo si fossero resi conto in tempo di ciò che sarebbe accaduto. Per molti
anni l’indiano continuò così a usare il macchinario, e i medici a essere sconvolti: lo
immagino fiero e riconoscente (sebbene non ai dottori) per aver potuto avere in
qualche modo una vita più lunga durante la quale continuare a bere. Alla fine, sen-
za un’aria troppo contrita, l’indiano morì.
Il punto essenziale di questa piccola favola contemporanea non è mostrare
quanto possano essere insensibili i medici (non erano affatto insensibili, e avevano
comunque una buona ragione), o quanto gli indiani siano ormai alla deriva (non era
affatto alla deriva, sapeva esattamente quel che stava facendo); né si tratta di sugge-
rire che avrebbero dovuto avere la meglio i valori dei medici (che sono più o meno
i nostri), o quelli dell’indiano (che, approssimativamente, non sono i nostri), o un
qualche giudizio super partes ispirato alla filosofia o all’antropologia ed emesso da
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 555

uno dei giudici erculei di Ronald Dworkin. Si trattava di un caso difficile, terminato
in modo difficile; ma per quanto possa sforzarmi con l’immaginazione, non vedo
come un maggiore etnocentrismo, un maggior relativismo o una maggiore neutrali-
tà avrebbero potuto far andare meglio le cose. Il punto essenziale della favola – non
sono sicuro in effetti che abbia una vera e propria morale – è che sia proprio questo
genere di avvenimenti, non la tribù lontana chiusa in se stessa e nella propria co-
erente differenza (gli azande o gli ik che affascinano i filosofi solo un po’ meno del-
le creazioni fantascientifiche, forse perché possono esser trasformati in una sorta di
marziani sublunari e valutati di conseguenza) a rappresentare nel modo migliore,
anche se un po’ melodrammatico, la forma più generale che il conflitto di valori na-
to dalla diversità culturale assume al giorno d’oggi.
In questo tipo di conflitto gli antagonisti, se è possibile definirli così, non erano
rappresentanti di totalità sociali chiuse in se stesse che si incontravano accidental- Gli antagonisti
mente lungo i margini delle proprie credenze: gli indiani che gettano a mare il pro- sono parte dello
prio futuro con l’alcool sono parte dell’America tanto quanto lo sono i medici che stesso universo
cercano di cambiarne il destino con i loro macchinari (se volete constatare sino a che sociale
punto ciò sia vero, almeno per quanto concerne gli indiani – giacché per quanto ri-
guarda i medici suppongo lo sappiate già – basterà che leggiate il vibrante romanzo
di James Welch Winter in the Blood, nel quale gli effetti di questo contrasto emergo-
no in modo piuttosto strano). Se in tutta questa vicenda vi è stata qualche incapacità
(e a esser sinceri è difficile, considerando il fatto da una certa distanza, poter dire
quante ve ne siano state) si è trattato dell’incapacità di cogliere, da entrambe le parti,
ciò che essa doveva significare per l’altra – e dunque anche cosa doveva significare
per se stessi. Nessuno, almeno così sembra, ha imparato molto da questo episodio su
se stesso o su chiunque altro; e anzi non ha imparato proprio nulla, a parte le banali
reazioni di disgusto e amarezza, sul carattere del proprio incontro con gli altri. Non
è l’incapacità di quanti sono coinvolti nella vicenda ad abbandonare le proprie con-
vinzioni e adottare i punti di vista altrui a far sì che questa piccola storia appaia to-
talmente deprimente, né essa fa appello alla mancanza di una regola morale incorpo-
rea e separata – il Supremo Dio o il Principio di Differenza (che in effetti in questo
caso sembrerebbe di fatto dar luogo a risultati differenti); si tratta piuttosto dell’inca-
pacità di tutti anche solo di concepire, scrutando nel mistero della differenza, un
modo in cui si potrebbe eludere un’asimmetria morale inevitabilmente troppo au-
tentica. In questo senso, l’intero episodio è avvenuto nell’ombra.

Conoscersi
Ciò che di solito si verifica nell’ombra – le sole cose che una concezione della di- Il confronto
gnità umana come “una certa sordità al fascino di altri valori” o come “confronto con la differenza:
la forza,
con comunità di entità minore” potrebbe ammettere – è sia l’uso della forza per as- la tolleranza e
sicurare la conformità ai valori di coloro che possiedono la forza; sia una vacua tol- l’ambiguità
leranza che non cambia nulla poiché non affronta nulla; sia, infine (come nel caso
considerato, in cui la forza non è disponibile e la tolleranza non è necessaria), un
continuo dribblare che conduce a un esito ambiguo.

Cogliere una forma mentale estranea


È senza dubbio vero che esistono casi in cui queste sono, in effetti, alternative
pratiche: non sembra vi sia molto da fare col Reverendo Jones finché è in grado di
gridare a squarciagola, tranne fermarlo fisicamente prima che scialacqui i sussidi del
Kool-Aid; allo stesso modo, se la gente pensa che i punk rock stiano bene dove
stanno, allora, almeno fin quando non si metteranno a suonare nella metropolitana,
556 CLIFFORD GEERTZ

saranno affari delle loro orecchie – e saranno loro a creparci; infine è effettivamente
difficile (alcuni pipistrelli sono più pipistrelli di altri) sapere anche soltanto come
L’inutile comportarsi con chi ritiene che i fiori hanno sensazioni e gli animali no. Il paterna-
atteggiamento di lismo, l’indifferenza e persino l’arroganza possono essere, a volte, atteggiamenti uti-
indifferenza li per valutare le differenze e persino più consequenziali di quelli cui abbiamo ac-
cennato. Il problema è sapere quando questi atteggiamenti sono utili e la diversità
può senza alcun pericolo esser lasciata ai suoi “intenditori”, e quando – come credo
accada sempre più spesso e in misura crescente – essi non lo sono e non è possibile
ignorare la diversità. In quest’ultimo caso c’è bisogno di qualcosa in più: un ingres-
L’etnografo, so immaginario a una forma mentale a noi estranea (e la possibilità di accedervi).
intenditore delle Nella nostra società, l’intenditore par excellence delle forme mentali estranee è
forme mentali stato l’etnografo, che ha drammatizzato la stranezza, celebrato la diversità e predi-
estranee
cato l’apertura mentale (in una certa misura lo sono stati anche lo storico e, in mo-
do differente, il romanziere, ma preferisco occuparmi della figura cui ho deciso di
limitare la mia analisi). Per quante differenze di metodo ci abbiano separato, siamo
tutti accomunati dall’essere professionalmente ossessionati dai mondi altri, dal ten-
tativo di renderli comprensibili prima di tutto a noi stessi e in seguito – mediante
strumenti concettuali non troppo diversi da quelli degli storici, e mezzi letterari non
troppo diversi da quelli dei romanzieri – ai nostri lettori. E finché questi mondi era-
no realmente altrove, là dove li trovò Malinowski e li ricorda Lévi-Strauss, si tratta-
va di un compito relativamente non problematico da un punto di vista analitico,
sebbene alquanto difficile da un punto di vista pratico. Potevamo pensare ai “pri-
L’alterità vicina e mitivi” (“selvaggi”, “nativi”…) proprio come abbiamo pensato ai marziani: possibi-
il bisogno di li modi di sentire, ragionare, giudicare, comportarsi, e vivere senza legami rispetto
“distanza” ai nostri, alternativi a noi. Ora che questi mondi e queste forme mentali aliene per
lo più non sono realmente altrove ma sono delle alternative a noi, terribilmente vici-
ne, sembrerebbero necessarie una immediata “distanza tra me e quanti la pensano
diversamente da me” e un certo riassestamento delle nostre abitudini retoriche e
del senso della nostra missione.
Gli usi della diversità culturale, del suo studio, della sua descrizione, analisi e
comprensione, non si situano lungo un percorso che ricolloca noi stessi in rapporto
agli altri e gli altri in relazione a noi stessi al fine di difendere l’integrità del gruppo e
sostenerne la fedeltà; piuttosto, essi si pongono lungo un percorso atto a definire il
terreno che la ragione deve oltrepassare se intende conquistare i suoi pur modesti
traguardi e renderli effettivi. Questo terreno è scabroso, pieno di buche inaspettate e
Attraversare di passaggi pericolosi in cui gli incidenti possono accadere e di fatto accadono. At-
lo spazio traversarlo, o tentare di farlo, non vuol dire affatto livellarlo, trasformandolo in una
della diversità
liscia, sicura e ininterrotta pianura; al contrario se ne portano semplicemente alla lu-
ce le discontinuità e i contorni. Se i nostri perentori medici e il nostro intransigente
Indiano (o i “ricchi nordamericani” di Rorty e “[quelli] con cui abbiamo bisogno di
parlare”) debbono confrontarsi tra loro in un modo meno distruttivo (ed è ben lungi
dall’esser certo che possano realmente farlo, perché le discontinuità sono reali), allo-
ra essi dovranno esplorare le caratteristiche dello spazio esistente tra loro.

Il compito dell’etnografia
Saranno loro stessi che infine lo faranno, non vi è alcun soggetto che possa so-
stituirli nell’acquisizione di questa conoscenza del luogo, o che possa avere il co-
raggio necessario a farlo. Tuttavia mappe e carte possono ancora essere utili, co-
me pure tavole, racconti, disegni, descrizioni e persino teorie, se si attengono alla
realtà effettiva. I compiti dell’etnografia sono per lo più ancillari, ma nondimeno
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 557

reali: come la compilazione di dizionari o la molatura di lenti, anche l’etnografia


è, o dovrebbe essere, una disciplina che ci mette in grado di fare qualcosa. Quan-
do ci riesce ci consente di lavorare entrando in contatto con una soggettività mu- L’etnografia
e il contatto con
tevole: essa pone “noi” particolari in mezzo a particolari “loro”, e “loro” tra di la soggettività
“noi”; un tipo di rapporto che tutti, come ho tentato di dire, già di fatto vivono, mutevole
sebbene con difficoltà. L’etnografia è allora la grande nemica dell’etnocentrismo,
del confinare la gente entro pianeti culturali nei quali le sole idee importanti sono
“quelle che ci stanno attorno”; e non perché l’etnografia ritenga che le persone
siano tutte uguali ma perché sa quanto profondamente differiscono, incapaci tut-
tavia di non curarsi le une delle altre. Qualunque cosa sia stata possibile in passa-
to e qualsiasi cosa sia oggi auspicabile, il predominio di ciò che è familiare impo-
verisce chiunque; nella misura in cui avrà un futuro, oscurerà il nostro. Non vo-
glio dire che dobbiamo amarci l’un l’altro o morire (se fosse così credo che sa-
remmo condannati: basta pensare ai rapporti tra neri e afrikaners, arabi e ebrei,
tamil e singalesi); dobbiamo invece conoscerci l’un l’altro, e vivere con il possesso
di questa conoscenza – o altrimenti finiremo per restare bloccati in un mondo al-
la Beckett, di soliloqui stridenti.
Il compito dell’etnografia, o almeno uno dei suoi compiti, è pertanto fornire, as- Narrazioni e
sieme alle arti e alla storia, narrazioni e scenari che ci consentano di rimettere a fuo- scenari per render
co la nostra attenzione. Non, però, narrazioni e scenari che ci rendano accettabili a visibili noi stessi
noi stessi rappresentando gli altri ammassati in mondi cui non possiamo né voglia- in un mondo
pieno di stranezze
mo arrivare, ma che ci rendano visibili a noi stessi, rappresentando noi e chiunque
altro come parti di un mondo pieno di stranezze inamovibili e che non siamo in
grado di chiarire.
Sino a tempi piuttosto recenti (le cose oggi stanno cambiando, in parte perché è
mutato l’impatto dell’etnografia, ma soprattutto perché è il mondo stesso che sta
cambiando) l’etnografia era quasi la sola a svolgere questo compito. La storia, infatti,
dedicava di fatto molto del suo tempo a confortare la nostra autostima e a sostenere
la nostra sensazione di esser giunti da qualche parte esaltando i nostri eroi e demo-
nizzando i nostri nemici, o lamentando la nostra grandezza perduta; mentre la critica
sociale dei romanzieri era per lo più interna – una parte della coscienza dell’Occi-
dente che orientava uno specchio (piatto alla Trollope o curvo alla Dostoevski) verso È sempre più
un altro; e persino la letteratura di viaggio, che almeno si occupava di immagini eso- necessario
rappresentare
tiche (giungle, cammelli, bazar e templi), le utilizzava prevalentemente per dimostra- la differenza
re l’elasticità delle virtù tradizionali nel far fronte alle più svariate circostanze – così
l’inglese restava calmo, il francese razionale, l’americano innocente. Ora, proprio
quando l’etnografia non è più così sola e le stranezze di cui deve occuparsi sono di-
ventate più ambigue e sfumate, meno facilmente individuabili come anomalie “sel-
vagge” (uomini che pensano di essere discendenti dei canguri, o sono convinti di po-
ter essere uccisi dal malocchio), il suo compito di individuare queste stranezze e de-
scriverne le forme può in un certo senso essere più difficile – ma certamente non me-
no necessario. Rappresentare la differenza (che naturalmente non significa costruirla,
ma metterla in evidenza) rimane una scienza della quale abbiamo tutti bisogno.

Mantenere viva un’importante capacità


Tuttavia, il mio proposito in questa sede non è difendere le prerogative di una
scienza fatta in casa la cui esclusiva sullo studio della diversità culturale, se mai ne Il mescolarsi
indefinito di
ha avuta una, è ormai da tempo scaduta. Il mio proposito è invece di suggerire che approcci alla vita
siamo giunti a un punto tale della storia morale del mondo (una storia che senza
dubbio è essa stessa tutt’altro che morale) in cui siamo obbligati a pensare tale di-
558 CLIFFORD GEERTZ

versità in modo piuttosto differente da quello cui eravamo avvezzi. Se le cose stan-
no andando davvero così, e se invece di esser suddivisi in unità circoscritte e in spa-
zi sociali dai confini ben definiti assistiamo al rimescolarsi di approcci alla vita dav-
vero disparati, a un’espandersi indefinito in spazi sociali dai confini non fissi, irre-
golari e difficili da stabilire, allora la questione di come affrontare i dilemmi del giu-
dizio cui simili disparità danno origine assume un aspetto alquanto differente. Af-
frontare paesaggi e nature morte è una cosa, ma dinanzi a panorami variegati e col-
lage, le cose cambiano.

Nel collage culturale


Appare chiaro che è quest’ultimo lo scenario dinanzi al quale oggi ci troviamo:
ovunque, stiamo sempre più vivendo in mezzo a un enorme collage. Non è solo il
fatto che nei telegiornali ascoltiamo di assassini in India, bombardamenti in Libano,
Il mondo attale colpi di stato in Africa e attentati in Centroamerica mescolati a disastri locali (che
come enorme non ci appaiono affatto più visibili), cui fanno seguito serie discussioni sui metodi af-
“collage” faristici giapponesi, su forme di fanatismo persiano o sugli stili negoziali arabi. Sta
avendo luogo un’enorme esplosione di traduzioni (talora buone, talaltra cattive o in-
differenti) da e in lingue in precedenza considerate marginali e recondite – come il
tamil, l’indonesiano, l’ebraico e l’urdu; assistiamo a una migrazione di cucine, costu-
mi, oggetti d’arredamento e decorazioni (troviamo caffetani a San Francisco, Colo-
nel Sanders a Jakarta, sgabelli da bar a Kyoto), e all’apparizione di temi gamelan nel
jazz d’avanguardia, di miti indios nei romanzi latinoamericani, di immagini di maga-
zines nella pittura africana. Soprattutto, il fatto è che oggi la persona incontrata dal
fruttivendolo potrebbe con eguale probabilità essere originaria della Corea o di Gia-
va, quella in cui ci imbattiamo all’ufficio postale potrebbe essere algerina o dell’Au-
vergne, un tale incontrato in banca potrebbe venire da Bombay come da Liverpool.
Persino gli ambienti rurali, dove è probabile che la somiglianza sia meglio preserva-
ta, non sono immuni da questo fenomeno: troviamo così contadini messicani nel
Sudovest, pescatori vietnamiti lungo le coste del Golfo, dottori iraniani nel Midwest.
Non c’è bisogno che moltiplichi i miei esempi; vi basti pensare a quante delle
persone che vi circondano sono estranee al vostro ambiente. Non tutta questa di-
versità ha una medesima consequenzialità (la cucina jogja sopravviverà magari solo
Il mondo come per non privarci del piacere di leccarsi le dita), né una medesima immediatezza
un bazar, un
assemblaggio di
(non sentiamo il bisogno di scoprire le credenze religiose dell’uomo che ci vende i
diversità francobolli), e neppure emerge interamente da un contrasto culturale di tipo netto;
ma che il mondo si stia avviando, in ciascuna delle sue regioni locali, a somigliare
più a un bazar del Kuwait che a un club di gentiluomini inglesi (per citare quelli
che a mio parere sono due casi estremi, forse perché non sono mai stato in nessuno
dei due), sembra sorprendentemente chiaro. L’etnocentrismo che cerca il pelo nel-
l’uovo o quello del tipo “grazie alla cultura, non siamo ridotti come loro”, può co-
incidere oppure no con la specie umana; oggi tuttavia è abbastanza difficile per la
maggior parte di noi sapere anche soltanto dove rivolgerlo, nel vasto assemblaggio
di differenze giustapposte.

Capire cosa ci è alieno


La nostra risposta a questo evento a mio giudizio dominante, mi pare sia una del-
le più grandi sfide morali dinanzi alle quali ci troviamo, e sia virtualmente parte di
tutte le altre cui dobbiamo far fronte, dal disarmo nucleare a un’equa distribuzione
delle risorse mondiali. Nel fronteggiare questa sfida non ci saranno utili né i proposi-
ti di tolleranza indiscriminata, che non hanno mai un valore genuino, né quelli, che
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 559

qui più mi interessano, di resa, orgoglio, cordialità, difesa o rassegnazione ai piaceri


dell’odiosa comparazione – sebbene l’atteggiamento di rassegnazione sia forse il più
pericoloso, perché appare il più facile da seguire. L’immagine di un mondo pieno di
persone così amanti delle rispettive culture da aspirare soltanto a celebrarsi vicende- Abbandonare
volmente non mi sembra un pericolo reale e imminente; mi sembra lo sia invece l’im- tolleranza e
magine di un mondo pieno di persone felici di esaltare i propri eroi e demonizzare i rassegnazione,
vuoto
propri nemici. Non è affatto necessario scegliere, anzi è necessario non scegliere, tra cosmopolitismo
un cosmopolitismo senza contenuti e un campanilismo senza pietà: nessuno dei due e impietoso
ci è utile per vivere in un collage. campanilismo
Per vivere in un collage si deve in primo luogo diventare capaci di individuarne
gli elementi, di determinare cosa essi siano (il che, di solito, implica determinarne la
provenienza e l’importanza nei luoghi d’origine) e come, nella pratica, si rapporta-
no gli uni agli altri, senza al tempo stesso confondere il senso di appartenenza al
luogo di ciascuno e la sua identità all’interno di quel luogo. Parlando in modo me-
no metaforico, “capire”, inteso nel senso di comprendere, percepire e intuire, de-
v’essere distinto dal “capire” come concordanza di opinioni, unione di sentimenti o
comune fedeltà a dei valori. Dobbiamo imparare a comprendere ciò che non pos-
siamo accettare.
Farlo è enormemente difficile, ma lo è sempre stato. Comprendere ciò che ci è Comprendere
estraneo in qualche modo, e che verosimilmente resterà tale, senza minimizzarlo ciò che non si
con vaghi commenti di “varia umanità”, senza vanificarlo con un atteggiamento in- può accettare
differente alla “a ciascuno il suo” né respingerlo, considerandolo affascinante e per-
sino attraente ma illogico, è un’abilità che dobbiamo faticosamente apprendere; e,
una volta appresala (sempre in modo imperfetto) dobbiamo continuamente sforzar-
ci di tenerla in vita: non si tratta infatti di una capacità connaturata in noi come la
percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, su cui possiamo fare affida-
mento senza alcun timore.
È proprio in questo rafforzamento del potere della nostra immaginazione di com-
prendere ciò che ci sta di fronte che consistono gli usi della diversità e del suo studio.
Se proviamo (come credo) qualcosa in più di una simpatia sentimentale per quel ca-
parbio indiano d’America, non è perché accettiamo il suo punto di vista: l’alcolismo è
comunque un male, e le macchine del rene artificiale sono mal utilizzate se ne curano
le vittime. La nostra simpatia deriva dalla nostra conoscenza del punto sino al quale
egli ha con convinzione sostenuto le sue opinioni, e dal senso di amarezza che vi è
contenuto; dal comprendere la terribile strada lungo la quale l’indiano ha dovuto
viaggiare per arrivare a esse, e cosa l’ha resa tanto terribile – l’etnocentrismo e i crimi-
ni che esso legittima. Se vogliamo essere in grado di emettere un giudizio di larghe ve-
dute, e senza dubbio dobbiamo farlo, dovremmo essere noi stessi in grado di vedere
in modo ampio; ma per raggiungere questo scopo, ciò che abbiamo già visto – vale a
dire l’interno delle nostre carrozze ferroviarie, e i luminosi esempi storici delle nostre
nazioni, delle nostre chiese, dei nostri movimenti sociali – per quanto affascinante
possa essere l’uno e abbacinanti gli altri, semplicemente non è abbastanza.

* Ristampato e rivisto per la pubblicazione (sono stati aggiunti i titoli e altri piccoli aggiustamenti editoriali) dal vo-

lume a cura di Sterling McMurrin, 1986, The Tanner Lectures of Human Values, vol. VII, Salt Lake City and Cambridge,
University of Utah Press and Cambridge University Press, con l’autorizzazione dell’amministrazione della Tanner Lec-
ture Series.
1 Il testo di Thomas Nagel cui si fa riferimento è What Is It Like To Be a Bat?, «Philosophical Review», vol. 83, ot-

tobre 1974 (N.d.C.).


2 L’autore fa qui riferimento al mondo a due dimensioni di Flatlandia di Lewis Carrol.
560 CLIFFORD GEERTZ

Biografia intellettuale

Clifford Geertz è professore di scienze sociali all’Istituto di Studi Superiori del-


l’Harold F. Linder di Princeton. Ha condotto per oltre quarant’anni approfondite
ricerche sul campo in Indonesia e in Marocco ed è autore di tredici volumi e cura-
tore di altri due. Tre le sue opere principali citiamo: The Religion of Java (1960),
Agricultural Involution (1963), Islam. Analisi socio-culturale dello sviluppo religioso
in Marocco e in Indonesia, (1968), Interpretazione di culture (1973), Negara (1980),
Antropologia interpretativa (1983), Opere e vita (1988), Oltre i fatti. Due paesi, quat-
tro decenni, un antropologo (1995).
È membro della National Academy of Arts and Sciences, della American Aca-
demy of Arts and Sciences e della American Philosophical Society, inoltre è correspon-
ding member della British Academy.

Non ho avuto alcuna preparazione universitaria in campo antropologico (l’an-


tropologia non veniva insegnata all’Antioch College, dove ho studiato subito dopo
la seconda guerra mondiale) e molto poco in quello delle scienze sociali, a parte l’e-
conomia. Ero più attratto dalla filosofia e dalla letteratura, e l’antropologia mi fu
suggerita dal mio tutor, un filosofo deweyano. Questi conosceva Clyde Kluckhohn,
che aveva appena avviato il Social Relations Department ad Harvard con la collabo-
razione del sociologo Talcott Parsons, dello psicologo clinico Henry Murroy e dello
psicologo sociale Gordon Allport, e riteneva che avrei potuto avere successo in
questo ambiente. Così mi sono iscritto, e ho anche avuto successo studiando non
solo con antropologi come Kluckhohn, Benjamin Paul, Evon Vogt, Douglas Oliver,
David Schneider, ma in seguito anche con Cora DuBois (che divenne la relatrice
della mia tesi dottorale), e con numerosi sociologi e psicologi. Il Social Relations De-
partment era un esperimento di studi interdisciplinari che ebbe, almeno per un paio
di decenni, un certo successo. A me e a quella che fu poi mia moglie, Hildred
Geertz, anch’essa studente nel dipartimento, venne offerta l’opportunità di parteci-
pare a un progetto di ricerca di gruppo a Giava, che svolgemmo tra il 1952 e il 1954
insieme ai colleghi Alice Dewey, Donald Fagg, Rufus Hendon, Robert Joy e Ed-
ward Ryan. Ci suddividemmo il lavoro etnografico e io incentrai il mio soprattutto
sulla religione, pur approfondendo anche numerosi altri argomenti.
All’epoca la mia principale impostazione – dovuta in gran parte a Parsons e
Kluckhohn – era weberiana, e mi preoccupavo di scoprire se la sua “etica prote-
stante” si poteva adattare ai riformismi musulmani indonesiani. La conclusione –
peraltro poco sorprendente – fu che si poteva e, al tempo stesso, non si poteva
farlo.
Ad ogni modo, dopo un paio d’anni passati a Cambridge (durante i quali ho la-
vorato con alcuni economisti dello sviluppo del MIT, e ho scritto una storia analitica
dello sviluppo “involutivo” dell’agricoltura giavanese), sono tornato con mia moglie
in Indonesia, a Bali questa volta, dove mi sono occupato soprattutto di organizza-
zione sociale e di sviluppo delle condizioni di vita indigene.
Al ritorno da questa seconda ricerca sul campo ho trascorso un anno a Palo Al-
to, al Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences. Quello è stato “un anno
antropologico”, in cui ho avuto a che fare contemporaneamente con quello che è
forse il più straordinario gruppo di antropologi, tutti più anziani ed eminenti di me:
Fred Eggan, Meyer Fortes, George Peter Murdock, Cora DuBois, Joseph Green-
berg, Melford Spiro, Lloyd Fallers. L’anno successivo ho insegnato a Berkeley ma,
mentre ero al Centro, molti colleghi dell’Università di Chicago mi avevano invitato
GLI USI DELLA DIVERSITÀ 561

a unirmi a loro nella fondazione del “Committee for the Comparative Study of New
Nations” e, nel 1960, lo feci.
Il dipartimento di Chicago, dove sono stato per dieci anni, era straordinaria-
mente vivace; oltre a Eggan, Sol Tax, Milton Singer, Robert Braidwood, Norman
McQuown e altri seniores, c’era un folto grupo di juniores come me (Robert
Adams, McKim Marziott, Melford Spiro, Manning Nash, David Schneider, Lloyd
Fallers, Clark Howell), che si coalizzò per riformulare il programma di studi. Quel-
la che più tardi diventerà l’“antropologia simbolica” forse è stata delineata in quel
contesto, e si trattò comunque di un periodo molto vitale e per me estremamente
importante.
Mentre ero a Chicago ho cominciato anche una ricerca sul campo in Marocco,
dove sono andato tre o quattro volte e dove ho introdotto numerosi studenti laurea-
ti alla ricerca sul campo.
Nel 1970 sono stato invitato come primo professore in scienze sociali all’Institu-
te for Advanced Study, dove, da allora, sono l’unico antropologo della facoltà, anche
se sono riuscito a invitare per condurre ricerche annuali numerosi antropologi ed
esperti in scienze sociali. Attualmente sto cercando di scrivere un libro per riassu-
mere la storia della mia carriera, piuttosto fuori dall’ordinario: ho infatti lavorato
presso un dipartimento di antropologia in modo esclusivo forse solo per due o tre
anni; eppure ho insegnato parecchio, per lo più al di là dei confini dell’antropologia
in senso stretto. Nel mio libro, però, vorrei anche tentare di esprimere ciò che pen-
so di aver appreso nel corso di questa carriera.
Un obiettivo che si è rivelato scoraggiante: individuare ciò che ha influenzato il
nostro lavoro, cercare, retrospettivamente, di determinarne gli orientamenti genera-
li, decidere quali parti vadano considerate essenziali e quali meno, è un invito al-
l’auto-definizione. I problemi filosofici mi hanno sempre interessato, da quando ero
studente universitario; ma ho sempre desiderato occuparmene in modo non astrat-
to, sulla base di materiale concreto: a Giava, a Bali, in Marocco o in qualsiasi altro
paese.
Anche questo saggio, benché generico data la natura dell’argomento, segue la
stessa ottica: è un tentativo di inquadrare problemi intellettuali estremamente im-
portanti dal punto di vista di un antropologo.
Conclusioni
Una valutazione del campo di studi
Una valutazione del campo di studi
Robert Borofsky

Molti noti antropologi hanno presentato una serie di penetranti analisi sullo sta-
to presente e sulle direzioni future dell’antropologia culturale. Prima di elencare e
sintetizzare in queste conclusioni le varie tematiche affrontate, è necessario formu-
lare un’avvertenza: un capitolo conclusivo come questo non può essere se non una
valutazione personale. Se il libro ha raggiunto il proprio scopo – stimolando la ri-
flessione critica sullo stato presente della disciplina – i lettori si saranno forse fatti
una propria idea dell’antropologia. Il volume vuole essere una risorsa che tutti noi
possiamo condividere, sulla quale possiamo riflettere, e che possiamo usare nel pro-
porre il nostro modo di concepire l’antropologia. È un testo che ci induce a dibat-
Tre
preoccupazioni
tere – in quanto membri di una comunità – su dov’è oggi l’antropologia culturale, e
attuali: processo, su quali dovrebbero essere i suoi orientamenti futuri.
continuità, Se, come afferma Wolf (1980, p. 20), “una disciplina trae la propria energia
rilevanza della dalle domande che pone”, allora posso individuare tre preoccupazioni che attual-
disciplina mente vivificano il campo di studi: quelle legate ai problemi del processo, della
continuità e della rilevanza. Gli autori della raccolta discutono del processo in un
senso duplice. Da una parte essi mostrano una sensibilità verso i processi con cui
sviluppiamo il concetto di culturale: quali sono i limiti in relazione alle risorse con-
cettuali di cui disponiamo attualmente? Come si potrebbero migliorare? Dall’altra
parte, ci si preoccupa di analizzare le dinamiche complesse, processuali del cultu-
rale: come si sovrappongono continuità e trasformazione nel tempo in una situa-
zione locale? E come vengono rimodellate le forze regionali e globali nel processo
di formazione delle comunità? La seconda preoccupazione riguarda la continuità –
cioè i modi in cui quel che la disciplina ha prodotto in passato si ricollega con le
prospettive del presente. Alcuni autori si chiedono se, nel susseguirsi delle “manie
e mode”, la disciplina non venga reinventata a ogni generazione. In che senso, si
chiedono, stiamo (o non stiamo) costruendo una disciplina intellettuale? E infine,
c’è l’interrogativo relativo all’importanza dell’antropologia nel mondo moderno:
che valore ha come disciplina intellettuale? Che soluzioni offre alle aporie del no-
stro presente? Affronterò uno a uno questi temi, cercando di sviluppare alcune
delle loro implicazioni.

Lo spostamento di attenzione verso il processo


Lo spostamento di attenzione verso il processo è stato più di carattere evoluti-
Origini vo che rivoluzionario – dal momento che è avvenuto mediante una serie di picco-
dell’attenzione li mutamenti accumulatisi tra loro, piuttosto che manifestarsi come evento singolo
al processo
e appariscente. Possiamo perciò ritrovarne tracce nell’opera di antropologi di
una, due e forse addirittura tre generazioni passate (alcuni – come Morgan, Boas,
Sapir e Kroeber – sono menzionati nei saggi di questa raccolta e nelle introduzio-
ni del curatore; di altri, i lettori avranno già fatto esperienza nelle loro personali
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 565

letture). Questo è il motivo per cui è meglio far riferimento a ciò che è accaduto
come a uno “spostamento” di interesse: il “nuovo” è anche, almeno in parte, La ricchezza di
“vecchio”. dati etnografici
Cosa ha causato questo spostamento di attenzione verso il processo? Un fattore
che ha facilitato il mutamento di prospettiva è l’attuale ricchezza di dati etnografi-
ci: unendo le informazioni che ci giungono dalle etnografie passate con quelle at-
tuali, possiamo inquadrare i gruppi culturali in una prospettiva più chiara e con
una maggior profondità temporale. “Pochi antropologi oggi penetrano in territori
dove nessuno ha mai lavorato”, notano Kottak e Colson a p. 481; “noi possediamo
le loro pubblicazioni, qualche volta anche le annotazioni delle loro note di campo.
Dobbiamo rendere conto delle differenze tra le loro scoperte e le nostre… pre-
stando piena attenzione alle forze storiche e alla variazione intraculturale”. Accan-
to alla documentazione, la cui crescita è inarrestabile, bisogna citare anche l’im-
portanza crescente che assumono per gli antropologi i dati di natura storica: l’uso L’importanza
di una struttura temporale di lunga durata – in luogo del “presente etnografico” – della storia
ci consente di andare al di là delle affermazioni astratte sulla persistenza delle cul-
ture per realizzare analisi dettagliate di ciò che di fatto perdura (o non perdura) in
esse. Goody, ad esempio, si chiede a p. 313 “fino a che punto la cultura del con-
temporaneo New England sia la stessa degli inizi del diciannovesimo secolo, [o]
dell’antico periodo dominato dai puritani, dell’Inghilterra di epoca Stuart che ave-
vano lasciato, [o ancora] dell’antica Inghilterra chauceriana a cui appartenevano i
loro antenati”.
L’altro fattore chiave che ha prodotto uno spostamento di prospettiva – accan-
to all’attuale ricchezza di dati in nostro possesso – è un universo in mutamento.
Come nota Godelier, “il contesto dell’antropologia è cambiato dai tempi della sua
nascita” (p. 143); Tishkov discute i mutamenti drammatici di quest’ultimo decen-
nio nell’Europa dell’Est; e Tambiah (a p. 525) così si esprime su tre importanti
mutamenti nell’ambito del Terzo Mondo:

La prima fase è costituita dall’attuale processo di “decolonizzazione”, iniziato quando le


potenze imperiali occidentali, dopo la seconda guerra mondiale, “trasferirono potere” a
gruppi di élites locali... La seconda fase, che parte dalla fine degli anni Cinquanta e pren-
de forza negli anni Sessanta, fu caratterizzata da rivendicazioni ottimistiche e persino stri-
denti dei paesi di recente indipendenza, riguardo ai loro obiettivi di “costruire la nazio-
ne”, rafforzare la “sovranità nazionale”, creare una “cultura nazionale” e una “identità
nazionale” e raggiungere una “integrazione nazionale”.

Lo spostamento di attenzione verso il processo si manifesta all’interno di questo


volume in un gran numero di modi. Vorrei però sottolinearne in particolare, tre, in
riferimento: 1) alla concezione del culturale; 2) all’ampliamento degli aspetti fonda-
mentali dell’analisi; e 3) alle dinamiche del mutamento.

Ambiguità e limiti nelle passate concezioni delle dimensioni del culturale


Oggigiorno sia gli antropologi interpretativi che i positivisti riconoscono che
esistono seri problemi in relazione alle passate formulazioni del culturale. Gli antro- “Il culturale”
pologi d’orientamento intepretativo, ad esempio, sottolineano che concetti come “il come concetto
culturale” sono costruzioni sociali, imposizioni di un ordine sul flusso dinamico del costruito
comportamento umano. Anche gli antropologi di orientamento positivista, tuttavia,
fondando le proprie valutazioni sull’osservazione empirica dettagliata, sottolineano
che il concetto di “culturale” è ciò che struttura in modo evidente (e dunque spesso
fraintende) le sottili dinamiche e le fluide complessità della vita quotidiana.
566 ROBERT BOROFSKY

Come nota Levy a p. 225, “una delle conquiste fondamentali dell’antropologia è


rappresentata dall’isolamento della ‘cultura’ come mezzo coerente per riuscire a com-
prendere determinati aspetti del comportamento e dell’esperienza umana”. Ma come
lo stesso Levy sottolinea in seguito (p. 180), “mentre da un lato ha permesso la rifor-
mulazione di vecchi problemi in un nuovo linguaggio, dall’altro, ha scisso il mondo in
modo tale da far nascere problemi concettuali completamente nuovi”. Vari autori af-
La critica della
idea di cultura
frontano questo punto: Vayda (p. 397) critica la “ricerca della ‘congruenza’ e della
‘strutturazione simbolica unitaria’” implicita nel concetto di cultura; Keesing (a p. 367)
allude alla “invenzione e l’evocazione di questa… alterità radicale” da parte dell’antro-
pologia; Bloch (a p. 345) sottolinea che “la nostra comprensione della cultura è rimasta
parziale e superficiale”; e Moore (p. 452) osserva che “diventa sempre più ovvio che
l’uso totalizzante dell’idea di ‘cultura’, e l’equiparazione fra una cultura (che sia tra-
smessa di generazione in generazione) a una società, può essere un ostacolo che impe-
disce di vedere l’importanza dei fattori temporali, della diversità individuale e catego-
riale, e delle giustapposizioni tra la dimensione locale e quella di più larga scala”.
Questo è il motivo per cui, seguendo Keesing (p. 375), preferisco parlare del
“culturale” piuttosto che di “cultura”: in tal modo si cessa di accentuare la natura
reificata, oggettivata della cultura chiarendo come il concetto debba essere inteso
nel suo senso aggettivale e si riferisca a delle qualità descrittive (cfr. D’Andrade
1992a, p. 229). Al tempo stesso, è evidente che stiamo analizzando qualcosa che è
in movimento – qualcosa che riusciamo a cogliere solo mentre evolve, per poi eti-
chettarla in modo da poterci riferire a essa in seguito.
Strathern sviluppa un tema connesso a questo, in relazione al concetto antropo-
logico di “società”. L’autrice nota a p. 253 come “la società era un veicolo per un ti-
po occidentale di olismo, un concetto totalizzante attraverso il quale i moderni era-
no in grado di pensare gli olismi degli altri”; e alla nota 1 a p. 265 aggiunge, riassu-
mendo l’argomentazione di Thornton (1988), che “gran parte dell’importanza del
termine ‘società’ risiede nella sua forza retorica per l’organizzazione dei dati antro-
Strathern e le pologici. Stabilire delle componenti analitiche in grado di integrarsi a livello teorico
nozioni di
società di presupponeva una interezza dell’oggetto di studio, considerato come un insieme
gruppo composto da parti, cosicché la società appariva come un precipitato olistico dell’a-
nalisi”. Elaborando ulteriormente il problema, Strathern sottolinea due punti im-
portanti, di cui dobbiamo tener conto:

Il primo: come concettualizzare una società non composta da gruppi. Il secondo: come
inquadrare le relazioni delle parti con gli insiemi. Se i gruppi sono i veicoli con i quali le
società si presentano ai loro membri, allora, se non appartiene a un gruppo, di cosa è
parte una persona?
Il culturale
come concetto
storicamente Numerosi saggi del volume sottolineano che il concetto del “culturale” ha le
situato proprie radici storiche, e che questo fatto influisce sull’uso attuale del concetto
stesso. Keesing osserva a p. 374 che “l’identità culturale ha la sua origine nel na-
zionalismo culturale europeo del diciannovesimo secolo, che si espresse sotto for-
ma di un’intensa ricerca delle radici etniche e delle origini popolari, della primor-
dialità e delle tradizioni culturali”. Come afferma Goody (p. 315), è per questo
motivo che “il concetto di ‘una cultura’ tende ad avere una profonda connotazio-
ne nazionalistica e anche politica”. Immaginare una cultura come entità omoge-
nea, nota Goody, è un “modo per coprire i buchi nel tessuto della società”. L’in-
teresse per l’acquisizione di potere politico emerge invece nell’analisi che Sahlins
(a p. 459) dedica a quello che chiama il “culturalismo” attuale:
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 567

Ciò che contraddistingue l’attuale “culturalismo” (lo si potrebbe definire così) è la riven-
Il “culturalismo”
dicazione di un personale modo di vivere come valore superiore e come diritto politico, attuale
proprio in opposizione alla presenza imperiale straniera. Più che un’espressione di “iden-
tità etnica”… questa consapevolezza culturale… implica il tentativo da parte delle perso-
ne di controllare i propri rapporti con la società dominante, compresi i mezzi tecnici e
politici utilizzati fino a ora per farne delle vittime.

Sahlins aggiunge (p. 459) che noi antropologi, nel descrivere le forme culturali
indigene, “stiamo assistendo a un generale moto spontaneo di sfida culturale, i cui
significati ed effetti storici devono prodursi interamente”.
Dobbiamo indagare più in dettaglio in che modo le concezioni del culturale di
gruppi diversi interagiscano le une con le altre – come, ad esempio, i poteri coloniali
occidentali hanno utilizzato alcune tradizioni culturali per ordinare e pacificare po-
polazioni loro soggette (cfr. ad es. Anderson 1983, p. 153) e come queste popolazio-
ni, a loro volta, hanno fatto uso di alcune tradizioni culturali per opporsi al dominio
coloniale. Das mostra così come Dumont si sia appropriato delle interpretazioni
concettuali della società indiana elaborate dai bramini, nella speranza di spiegare L’uso “politico”
non solo l’India all’Occidente ma l’Occidente a se stesso. E Tishkov descrive il caso della cultura: il
sovietico, notando (a p. 537) che “Lenin e i Bolscevichi utilizzarono come slogan il caso sovietico
diritto all’autodeterminazione [etnica] che si rivelò un’arma politica terribilmente ef-
ficace per vincere l’opposizione delle regioni non-russe” durante la rivoluzione. Il ri-
sultato di questa politica è che “l’etnonazionalismo fu la base sulla quale venne co-
struito il federalismo socialista”: le unità culturali furono a fondamento delle unità
politiche. Ma la politica culturale, che aveva facilitato un tempo la formazione del-
l’Unione Sovietica, divenne in seguito un fattore chiave del suo crollo: la retorica po-
litica di uno Stato totalitario che predicava “il diritto delle etno-nazioni all’autodeter-
minazione, fino a includere il diritto alla secessione” (p. 538) cominciò a esser presa
sul serio non appena i poteri totalitari dello Stato si indebolirono – sotto il governo
di Gorbachev e durante la perestroika. Con le parole di Tishkov (pp. 540):

Milioni di cittadini sovietici politicamente attivi, di fronte alla mancanza di formule


realmente capaci di rispondere alle proprie aspettative, trovarono nella fedeltà al pro-
prio gruppo etnico e nell’idea nazionalista le sole e più comprensibili basi per un’azio-
ne collettiva e per esprimere la propria protesta di fronte alle disperate condizioni so-
ciali e alle profonde delusioni politiche. L’etno-nazionalismo divenne un’alternativa ri-
levante a uno Stato forte e centralizzato ma privo di una efficace rappresentatività a li-
vello locale. Esso si richiamava a un’immagine romantica, emotiva di una nuova forma
di solidarietà, senza necessariamente risolvere i problemi della rappresentanza demo-
cratica a livello locale.

Nell’analisi di Tishkov possiamo vedere come il culturale sia non solo un con-
cetto storicamente situato, ma anche una forza storica in se stessa – che configura i
diversi gruppi alla ricerca del potere ed è a sua volta da essi configurata.
Molti saggi nella raccolta sollevano dubbi sul grado in cui la coerenza e la parte- Coerenza e
cipazione comune si ritrovano all’interno dei raggruppamenti sociali. Nader (p. partecipazione
comune
119) afferma che “la cultura non è omogenea, né sempre consensuale”, Vayda (p.
392) sottolinea la comparsa di un’ottica anti-essenzialista in cui vedere “le variazio-
ni come la realtà fondamentale descritta”; io stesso noto a p. 412 che “la diversità è
in parte negli occhi dell’osservatore, e in parte nel fatto di vedere il proprio oggetto La critica
di ricerca come dotato di una forma rigida o flessibile”; e infine Harris (p. 89) so- all’essenzialismo
e alla coerenza
stiene che la definizione di cultura del materialismo culturale “si oppone nettamen-
te ai concetti statici, ‘essenzialisti’, che ispirano coloro che definiscono la cultura co-
568 ROBERT BOROFSKY

me il regno delle idee pure e uniformi che si librano sul frastuono della vita quoti-
diana di individui specifici”.
Questi dubbi recano con sé una preoccupazione crescente di definire empirica-
mente (invece che postulare filosoficamente) il grado in cui la coerenza culturale e
la partecipazione comune si ritrovano di fatto in ambienti particolari. Come afferma
con un certo garbo Moore a p. 442, “l’idea che esistano connessioni logiche neces-
sarie tra gruppi meno estesi di simboli e di pratiche diventa una domanda da porsi,
piuttosto che una risposta”. E Vayda (p. 399) afferma: “il fatto che specifici signifi-
cati e credenze siano o meno largamente condivisi e persistenti in una data società
è… una questione da valutare empiricamente piuttosto che da postulare a priori
sulla base di assunzioni essenzialiste”.
Da questo punto di partenza comune, i saggi del volume suggeriscono di imboc-
La natura della care l’uno o l’altro fra due percorsi possibili. In primo luogo vi sono gli sforzi di ri-
codivisione pensare la natura della partecipazione comune: cos’è in effetti che le persone condi-
vidono? Nel mio saggio ipotizzo che non si tratti soltanto di fatti, ma dei modi in
cui i fatti sono trattati e intrecciati assieme per risolvere i problemi che si pongono
nelle esperienze quotidiane. Quest’idea coincide con l’affermazione di Bloch a p.
343, secondo cui l’abilità non implica solo una “conoscenza acquisita” ma anche
degli “apparati dedicati alla gestione di famiglie di compiti correlati”; inoltre, essa
ci riconduce all’importanza che Strauss e Quinn annettono alle esperienze condivi-
se: “persone dello stesso ambiente sociale” – ossevano le autrici a p. 357 – hanno
“in comune le stesse esperienze”. Quel che è condiviso, allora, sono forse tanto i
processi con cui si ha a che fare col contenuto culturale quanto i contenuti stessi –
se non addirittura i primi in misura maggiore. Le nostre etnografie debbono metter
maggiormente in luce questo fatto.
In secondo luogo, e anch’esso connesso allo sforzo di ripensamento cui si è ac-
cennato, c’è il problema di capire i processi attraverso i quali nasce la partecipazio-
ne comune. Come nota Barth a p. 437, “ho a lungo sostenuto che dobbiamo passa-
re da modelli culturali totalizzanti a modelli generativi dei processi…”. Egli afferma
che “il compito di dare un resoconto realistico, in diverse condizioni culturali, di
come le persone raggiungono e riproducono un certo grado di accordo concettuale
e di condivisione dei presupposti, mi sembra attualmente il compito più importante
dell’antropologia”. Goodenough nota a p. 328 che “una teoria del linguaggio e del-
la cultura deve rendere conto di ciò che gli individui conoscono e del modo in cui
Processi ne vengono a conoscenza”; e Wolf ipotizza a p. 276 che “il coinvolgimento del po-
di produzione tere nel significato si realizza rendendo credibile la verità, l’utilità e la bellezza di
della diversità una versione contro altre possibilità che ne ostacolano la credibilità”. Questo aspet-
to implica due serie di processi: 1) quello della produzione (e riproduzione) di di-
versità conoscitiva (e/o di consenso) da una generazione all’altra e 2) quello dell’or-
ganizzazione della diversità (o del consolidarsi della conformità) come processo po-
litico in un periodo di tempo dato. Barth (1975, 1987), nei suoi lavori più recenti,
inclina verso il primo di questi processi, Wolf (nel saggio che compare in questo vo-
lume) verso il secondo. Dobbiamo osservare come operano entrambi i processi, in
particolare l’uno in rapporto all’altro.
Sahlins mostra un elemento importante cui fare attenzione in rapporto al proble-
ma della condivisione. Come i lettori ricorderanno, egli afferma a p. 475 che “le de-
scrizioni essenzialiste allora non sono solo fantasie platoniche degli antropologi; sono
condizioni generali della percezione e della comunicazione umana”; e anche che
“per poter contestare le categorie ci deve essere un sistema comune di intelligibilità,
che si estenda alle basi, ai mezzi, alle modalità e alle tematiche del disaccordo” (p.
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 569

467). Ciò che Sahlins vuole dire è che dobbiamo andar oltre la circostanza ovvia che
Le differenze
in un gruppo esistono delle differenze, chiedendoci se queste ultime siano sistemati- sistematiche
che – se cioè diversi tipi di persone (in termini di status, genere o di qualunque altra
caratteristica) esprimono differenze sistematiche: ad esempio, se gli uomini afferma-
no una cosa e le donne un’altra. Egli si sta chiedendo se vi possa essere un sistema di
differenze, in altre parole se vi sono “ordini significativi nelle differenze” (p. 467).
Torniamo così alle due questioni chiave sollevate in precedenza: in quale misura
e in quali modi si realizza la partecipazione comune nell’ambito di una comunità? E
inoltre, altrettanto importante, come nasce questa comune partecipazione che esiste
di fatto?

Non è difficile imbattersi in tesi che criticano le distinzioni tradizionali pre-


senti nelle prime opere dell’antropologia; ma leggendo i saggi di questo volume ci
si rende conto che queste critiche sono aumentate d’intensità. In primo luogo, so-
no state messe in questione le categorie istituzionali usate comunemente nelle et- Distinzioni
nografie – come quelle di parentela, economia, politica e religione. Tutti gli autori apparenti
si interrogano circa l’efficacia di queste distinzioni al giorno d’oggi: sebbene “nel-
le società occidentali funzioni separate sono svolte da istituzioni separate”, nota
Godelier a p. 135, in altre culture questo non accade necessariamente. E Yanagi-
sako e Collier, come si è già accennato nell’Introduzione, dimostrano a p. 238
“l’impossibilità di comprendere l’interazione all’interno delle ‘sfere domestiche’,
senza comprendere allo stesso tempo l’organizzazione degli ambiti politici ed eco-
nomici che forniscono gli obiettivi e le risorse a entrambi i sessi”. Quanto a
Goody, anche lui conclude che “è difficile individuare un qualche beneficio che
sia derivato dal trattare il livello dell’ideazione… come un distinto campo del sa-
pere” (p. 311).
Accanto a questo ripensamento circa le categorie etnografiche tradizionali, gli
autori del volume sottolineano il bisogno di comprendere i processi mediante i qua- La crisi delle
categorie
li le persone – tanto gli antropologi quanto gli informatori – costruiscono categorie tradizionali
culturali del mondo che li circonda. Yanagisako e Collier avanzano questa proposta
(p. 241): “invece di presumerli, dovremmo... cercare di comprendere gli ambiti di
relazioni socialmente significativi in ogni società, e chiederci... quali processi simbo-
lici e sociali rendano tali domini auto-evidenti e forse anche campi di attività ‘natu-
rali’ in ogni società”; e Strathern (a p. 264) ci avvisa che il “‘nostro’ progetto [cioè
le nostre categorie costruite su basi antropologiche] non deve essere confuso con il
‘loro’” (cioè con le categorie dei nostri informatori).
In secondo luogo, connesso al problema delle distinzioni analitiche, c’è il biso-
gno di ripensare quel che intendiamo con “il culturale”. “Spesso si parla di cultura
come se fosse un attributo limitato a particolari gruppi sociali”, nota Goody a p.
317, “ma questo non è assolutamente vero quando si presta attenzione a specifici
aspetti del comportamento”. Dobbiamo riflettere, cercando di capire sino a che
punto possiamo accettare la concezione del “culturale” oggi più comunemente ac- Il culturale
come
cettata – secondo cui esso è una proprietà di un gruppo ben definito di individui, “proprietà” di
dotato in qualche modo di confini formalizzati – o, come alternativa, tornare a un un gruppo
vecchio concetto del “culturale” inteso quale esempio ideale o elitario. Nella sua
analisi di T. S. Eliot, Goody (pp. 315-316) si sofferma su di una nozione elitaria di
cultura, e la nozione di “sistema di governo galattico” elaborata da Tambiah (1985,
p. 280) – “con la sua retorica e la rituale esibizione di un centro esemplare” – con-
duce esattamente a una prospettiva di esemplarità. Questa concezione del culturale,
del resto, ha solide radici storiche. Come osserva Anderson (1996, p. 35) “quando
570 ROBERT BOROFSKY

gli stati erano definiti dai centri, i confini erano porosi e indistinti” – definiti in ba-
se a ciò che veniva mostrato dal centro piuttosto che in base alle delimitazioni crea-
te alla periferia. Mi sembra che dovremmo tener conto del valore concettuale insito
nel concentrarsi sul culturale come qualcosa che è di un gruppo, invece che per un
gruppo – una proprietà condivisa invece che un ideale esemplare.
Connessa a questo problema vi è poi la critica della vecchia opposizione fra “in-
digeno” e “straniero”. “La cultura”, nota Goody a p. 320, “non è più rinchiusa in
comunità locali” – se mai in effetti lo è stata: quel che è importante in tal senso non
è delineare un confine – fra il domestico e l’estraneo, in qualunque modo si defini-
scano questi concetti – ma indagare le tensioni dinamiche esistenti fra i due. Come
La critica della nota Sahlins (p. 470), “in ogni settore locale del sistema globale la trasformazione
opposizione assume il doppio aspetto di assimilazione e differenziazione. Le popolazioni locali si
indigeno/straniero avvicinano all’ordine culturale dominante anche se ne prendono le distanze, ballano
al ritmo della musica mondiale mentre suonano la loro musica”.
Infine, vengono messi in questione gli sforzi, compiuti dalla tradizione, di co-
struire concettualmente la dimensione temporale. Vayda critica la nozione essenzia-
lista di “passato” inteso come contenitore di valori che durano; a p. 394 cita Col-
son: “valori ritenuti una volta fondamentali… sono situazionali e legati al tempo,
piuttosto che verità eterne utilizzate per predire il comportamento nel tempo e in
ogni circostanza”. E Moore (pp. 449-450) sottolinea:

Dividere gli eventi sociali del lavoro sul campo e riporli in due comparti concettuali ri-
spettivamente identificati come ‘il vecchio’ e ‘il nuovo’, non è certo il modo per affronta-
re il problema temporale. Questa cernita sembra volerci dire qualcosa sui criteri della se-
quenza. Ma l’effetto di tale classificazione è di nascondere le connessioni e trattare il tem-
po semplicemente come un esercizio di categorizzazione dualistica.
L’indagine su
connessioni e
interazioni Bisogna indagare le connessioni, le interazioni, i processi in virtù dei quali, per
citare Yanagisako e Collier (p. 246) “osservare i cambiamenti nei sistemi sociali e,
insieme, riuscire a comprendere meglio i processi che permettono loro di rimanere,
nel tempo, relativamente stabili”. C’è bisogno di analizzare più a fondo la modalità
complessiva con cui la riproduzione di modelli culturali dà origine al mutamento,
che a sua volta sembra seguire determinati modelli – un aspetto più volte messo in
luce da Sahlins nelle sue opere (1981, 1985) e che, potrei aggiungere, aveva sottoli-
neato anche Vogt trent’anni fa in un articolo dal titolo Struttura e processo.

Una tradizionale preoccupazione dell’antropologia – per citare Service (1985, p.


259) – è stabilire se il culturale “debba esser spiegato solo in base a se stesso, o sia
solo… un aspetto della mente… È composto da cose ed eventi reali… o è un’‘astra-
Il culturale come zione’ a partire dal comportamento la cui vera sede sono le menti delle popolazioni
concetto studiate?”. Molti dei saggi in questa raccolta concordano nel sostenere che il cultu-
imperniato sulle
attività
rale può essere utilmente analizzato sotto forma di attività in sviluppo. Goode-
nough afferma a p. 329: “ho trovato teoricamente interessante pensare alla cultura e
al linguaggio come fenomeni radicati nelle attività umane”; Bloch sostiene che “i
più importanti aspetti della cultura [sono] radicati negli elementari prerequisiti
Cultura e attività
in progress
mentali dell’agire” (p. 345); Barth sottolinea che “tutti i concetti sono radicati nella
pratica… La maggior parte dei concetti sarà evocata e utilizzata in situazioni coope-
rative e interattive” (pp. 433-444); Moore dice che non esistono “norme legislative
astratte dalla vita sociale, ma... leggi impresse nel processo della vita sociale che è
l’oggetto da esplorare” (p. 449); e infine Sahlins, citando Locke, afferma alle pp.
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 571

474-475 che le “proprietà [di un oggetto] possono essere conosciute solo attraverso
l’interazione con un numero indefinito di altri oggetti. Ne consegue che l’oggettivi-
tà degli oggetti è costruita umanamente, vale a dire da una scelta storicamente rela-
tiva e da una valutazione simbolica di alcuni tra i molti possibili referenti concreti”.
Goodenough nota a p. 333 che questa prospettiva concorda con l’analisi delle intui-
zioni di Malinowski; Richards, infatti, (1957, pp. 24-25) mette in luce come, nel de-
scrivere un’istituzione, Malinowski si incentrasse sul “funzionamento della partico-
lare attività considerata” – cioè su un’istituzione come insieme di attività in svolgi-
mento piuttosto che come insieme astratto di regole sociali o di categorie conosciti-
ve. Persino un elemento di cultura materiale come la canoa era analizzato “in rap-
porto ai gruppi di uomini che l’avevano costruita e usata, alla tecnica di costruzione
ed agli atti magici di cui costituiva oggetto”.
Da questo consenso generalizzato emergono tuttavia due differenti dibattiti. In
primo luogo, nei saggi di Goodenough e di Strauss e Quinn possiamo riconoscere Il dibattito
una prosecuzione del dibattito fra Goodenough e Geertz descritto nella quarta par- Goodenough-
Geertz
te del volume. Come nota Ortner (1984, p. 129), Geertz sostiene “che la cultura
non è qualcosa di rinchiuso nelle teste della gente, ma al contrario è incarnata in
simboli pubblici, attraverso i quali i membri di una società comunicano le proprie
visioni del mondo”; Goodenough, invece, afferma a p. 330 che “una teoria della
cultura si mette nei pasticci se considera la cultura come un’entità dotata di un’esi-
stenza distinta da quella degli individui dalle cui interazioni trae origine”; e Strauss
e Quinn (p. 371) si chiedono: “Come possono [gli attori] inventare, negoziare e
contestare i loro mondi culturali senza avere interiorizzato dei motivi per farlo?”
(quest’ultima è una posizione che, come sottolinea Levy alle pp. 226-227, ha salde
radici boasiane). Nell’analisi delle attività culturali dunque è in gioco una disputa Approcci sociali
relativa alla forza – e all’importanza – degli approcci simbolici e sociali rispetto a vs approcci
cognitivi
quelli, ad essi opposti, di tipo cognitivo e psicologico. Sia Strauss e Quinn che io
andiamo alla ricerca di modi per conciliare queste due prospettive. Basandomi sulla
recente ricerca relativa alla memoria implicita nel campo della neuroscienza, ad
esempio, ipotizzo a p. 416 che:

una parte notevole di ciò che possiamo definire come culturale sia immagazzinata nella
memoria implicita – il che significa che una larga parte di esso è accessibile principal-
mente attraverso la sua rappresentazione. Da questo punto di vista, il dibattito tra Geertz
e Goodenough… viene in certo senso meno, dato che la memoria implicita è sicuramen-
te localizzata nel cervello (come sottolinea Goodeenough), ma può essere meglio osserva-
ta nelle azioni pubbliche delle persone (in linea con la posizione di Geertz).

In secondo luogo, possiamo individuare una disputa sull’applicabilità dei mo-


Il problema
delli linguistici ai processi cognitivi. Goodenough in effetti (p. 328) sottolinea che del modello
“ciò a cui ci riferiamo come lingue e culture [sono] fenomeni dello stesso ordine… linguistico
Ciò che apprendiamo riguardo al linguaggio può essere d’aiuto nel pensare alla cul-
tura”; ma Bloch contesta questa posizione secondo cui la “cultura sia fondamental-
mente ‘strutturata come un linguaggio’, composta di proposizioni linearmente col-
legate”. Egli insiste sull’importanza delle forme di conoscenza non proposizionali,
derivate dalle attività dell’esperienza: “gran parte del sapere che gli antropologi stu-
diano”, sottolinea a p. 343, “esiste necessariamente nelle menti delle persone in for-
ma non linguistica”.
I problemi che abbiamo citati sono importanti. Sino a oggi, siamo stati capaci
di cavarcela abbasatanza bene senza addentrarci nelle complesse dinamiche che
572 ROBERT BOROFSKY

attorniano la conoscenza, e in particolare la conoscenza di simboli pubblici; e ci


siamo riusciti avanzando assunti ipotetici su ciò che ci sembrava ragionevole. Ma
oggi che i nostri dati e metodi etnografici si sono via via raffinati, dobbiamo esser
più precisi nelle nostre formulazioni – valutandole e perfezionandole – in modo
da comprender meglio in che modi e sino che punto il culturale è parte integran-
te dell’azione o, per citare l’analogia proposta da Levy, “i danzatori ‘sono’ la dan-
za che eseguono”.
Questo è il motivo per cui, come sottolineiamo Bloch, Strauss e Quinn e io, bi-
Gli sviluppi delle sogna esser più attenti agli sviluppi della scienza cognitiva: come nota Bloch a p.
scienze cognitive e 339 “alcune delle teorie che vengono dalle scienze cognitive risultano centrali per i
l’antropologia
problemi dell’antropologia, sia culturale che sociale, e dovrebbero condurre gli an-
tropologi a riesaminare molte delle premesse delle loro ricerche”.

Ampliare gli aspetti fondamentali dell’analisi


Nel libro emerge una chiara tendenza ad ampliare i processi e le tematiche giu-
Rapporti fra locale dicate pertinenti per l’analisi etnografica. Laddove le etnografie del passato si in-
e globale centravano prevalentemente su comunità locali, oggi spesso esse includono materia-
li consistenti relativi a contesti regionali, nazionali e/o internazionali. Marcus (pp.
68, 71) analizza “i modi in cui aprire la conoscenza locale classicamente rappresen-
tata e descritta dagli etnografi ai processi contemporanei di apparente omogeneiz-
zazione globale”; egli afferma perciò che “l’identità… di qualunque gruppo, si pro-
duce simultaneamente in molti e differenti luoghi di attività, da parte di molti agen-
ti differenti, per molti scopi differenti”. Nader (p. 123) prende in esame le percezio-
ni del genere sessuale fra le società, mettendo in luce come gli accordi relativi al ge-
L’ampliamento nere raggiunti a livello locale “sono legati a distinzioni di macro-livello fra ‘noi e lo-
dei processi e
delle tematiche ro’”; Wolf sottolinea anche lui a p. 273 l’importanza di analizzare “i processi attivi
d’analisi sia a un livello macro sia in ambienti circoscritti”; infine, Kottak e Colson (p. 492)
affermano: “fare oggi buona antropologia significa ammettere che quasi tutti i fatto-
ri che danno origine all’azione locale vanno ricondotti al sistema-mondo”. Gli auto-
ri notano che “connessioni è un termine adatto a comprendere il coinvolgimento
pluristratificato nel sistema-mondo di cui gli etnografi devono ora tener conto nel
configurare gli influssi concernenti i valori, le categorie, gli accordi istituzionali e al-
tri sistemi simbolici [locali]”.
Questo ampliarsi della prospettiva ha arricchito la nostra comprensione del pro-
getto antropologico. Oggi teniamo conto che la nostra ricerca si svolge nell’ambito
I rapporti di una struttura di relazioni globali fra centro e periferia. R. Rosaldo (1989, p. 217)
centro/periferia ribadisce con chiarezza questo punto: “Tutti noi” – egli nota – “abitiamo un merca-
to mondiale interdipendente del tardo secolo ventesimo, prendendo e dando in
prestito elementi attraverso confini nazionali e culturali permeabili ma colmi di ine-
guaglianza, potere e dominio”. “L’essenzialismo del nostro discorso”, afferma Kee-
sing a p. 369, riflette “l’interesse da noi conferito a una caratterizzazione esotica
dell’alterità”. “L’identità dell’antropologo e del suo mondo è con buona probabilità
profondamente correlata a quella del particolare ‘mondo’ che sta studiando”, sog-
giunge Marcus a p. 75 “[Il riconoscimento della] catena di pregressi collegamenti,
storici o contemporanei, tra l’etnografo e i suoi soggetti… [rimane] un tratto defini-
torio dell’attuale dimensione sperimentale in etnografia”.
Un esempio di quest’orientamento su cui val la pena riflettere è offerto da
Sweetness and Power di Mintz (1985), un testo che parla dell’importanza sempre
maggiore dello zucchero nella società inglese. Per usare le parole dello stesso Mintz
(1985, pp. 158, 180):
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 573

Le trasformazioni profonde nei modelli dietetici e di consumo nell’Europa dei secoli di- I legami tra
ciottesimo e diciannovesimo non erano casuali o fortuiti, ma erano conseguenza diretta colonia e
del moviemento stesso che aveva creato un’economia mondiale dando forma ai rapporti madrepatria: il
caso dello
asimmetrici fra i centri metropolitani e le loro colonie e satelliti… (p. 158). zucchero
Mentre le piantagioni [nelle colonie europee] erano state considerate a lungo come fonti secondo Mintz
di profitto mediante trasferimento diretto di capitale perché fosse reinvestito nella ma-
drepatria, o in seguito all’assorbimento di prodotti finiti provenienti dalla madrepatria,
l’ipotesi che avanzo in questa sede è che lo zucchero e altre droghe, approvvigionando,
saziando – e dunque drogando – i lavoratori delle aziende agricole e delle fabbriche, ri-
dussero notevolmente il costo complessivo legato alla creazione e riproduzione del prole-
tariato metropolitano (p. 180).

Come mostra il saggio di Mintz, l’ampliamento delle prospettive etnografiche La periferia


produce un arricchimento della comprensione di noi stessi nel tempo in relazione coloniale come
specchio della
agli altri. Sono venute alla luce nuove tematiche per l’analisi antropologica – com- metropoli
presa quella degna di nota che indaga sul comportamento degli occidentali in situa-
zioni di contatto o di tipo coloniale. Non sono solo gli “altri esotici” – i !kung, i sa-
moani, gli eschimesi inuit – a esser come degli specchi, in cui ritrovare una com-
prensione di noi stessi così come siamo oggi; lo stesso ruolo rivestono i nostri ante-
nati occidentali che viaggiarono in terre straniere nel passato. Le interazioni che
hanno luogo alla periferia del mondo coloniale, perciò, sono oggi viste come lenti
attraverso le quali interpretare la metropoli: come scrive Stoler (1989a, p. 652),
“non appena tentiamo di ampliare l’ambito delle nostre etnografie, iniziamo a co-
gliere l’eco della cultura europea e della politica di classe in ambienti coloniali, e i
modi in cui le discriminazioni di classe e genere… si sono ripercosse sulla metropo-
li” (cfr. Comaroff, Comaroff 1992). Dening (1986) e Borofsky e Howard (1989) sot-
tolineano che il periodo dei primi contatti con la Polinesia rappresenta un vero e
proprio tesoro di informazioni riguardo alle dinamiche culturali europee: nel modo
in cui “gli inglesi si impossessarono di Tahiti”, osserva Dening (1986, p. 112), “essi
misero in mostra… una sorta di immagine speculare di se stessi”.

Come nota Lamphere (in di Leonardo 1991, p. VIII) “portare al centro del no- Il genere
stro interesse il problema del genere ci consente di affinare, specificare e riorienta- sessuale
re i problemi antropologici tradizionali”. Come gli altri temi citati, quello del gene-
re sessuale rappresenta una prospettiva importante a partire dalla quale ripensare
alcune dinamiche sociali significative – per comprendere, come ha osservato di
Leonardo (1991, p. 25), “le mutue compenetrazioni fra genere, sessualità, parente-
la ed economia politica nelle nostre società ed altrove”. Questo è il punto su cui
insistono Yanagisako e Collier (a p. 236): “l’intento del nostro saggio è da un lato
rivitalizzare lo studio della parentela e, dall’altro, fare dello studio del gender il nu-
cleo teorico dell’antropologia, mettendo in discussione il confine tra questi due
ambiti”. Inoltre, facendo uso della categoria di genere, Yanagisako e Collier inau-
gurano nuovi modi di analizzare le diseguaglianze umane, inducendoci a prendere
in considerazione la stessa domanda posta da Godelier ma da una diversa prospet-
tiva: come si perpetuano le ineguaglianze che al tempo stesso vengono nascoste in
seno alle comunità umane?
Credo che ampliare la nostra consapevolezza degli aspetti pertinenti dell’analisi
– in modo da comprendere i rapporti locale-globale, la periferia coloniale, ed il ge-
nere sessuale – voglia dire qualcosa di più che limitarsi ad aggiungere nuove temati-
che di studio: significa far uso di queste prospettive per ripensare una gran quantità
di problemi antropologici.
574 ROBERT BOROFSKY

Le indefinibili complessità del mutamento nel corso del tempo


Una parte essenziale della svolta che ha condotto a occuparsi del processo è do-
vuta al coinvolgimento – o per esser più precisi, al nuovo coinvolgimento – della di-
sciplina nelle dinamiche processuali del mutamento. Così Harris sottolinea a p. 89
che “la cultura è in fondo un processo materiale di dispiegamento”; Wolf (p. 274) si
chiede come sia “possibile passare da una concezione dell’organizzazione come
prodotto o come risultato a una concezione dell’organizzazione come processo”; e
Barth (p. 437) insiste sull’importanza dei modelli processuali e generativi necessari
ad accrescere il potenziale dell’analisi antropologica.

L’importanza Un interesse di notevole importanza, nell’ambito di questa svolta, è legato alla


delle analisi crescente importanza assunta dalle analisi interazionali complesse: piuttosto che
interazionali considerare il modo in cui A influisce su B (o B su A), il problema oggi è piuttosto
complesse
di analizzare come A e B influiscono l’uno sull’altro. Ciò appare chiaro, come affer-
ma Rappaport (p. 198) in relazione al processo mediante il quale viene generato il
significato culturale: “se le persone agiscono, e non possono che agire, sulla base
dei significati che essi o i loro antenati hanno concepito, allora sono alla mercé di
tali concezioni tanto quanto queste ultime sono parte integrante del loro stesso
adattamento”. Come nota Murphy a p. 83, “il comportamento avviene quindi entro
storie in cui l’attore è insieme il prodotto e il produttore, creatore e vittima, guar-
diano e prigioniero”. Yanagisako e Collier (p. 247) sentono perciò la necessità di
considerare “azioni e... idee come elementi di un unico processo”, e Moore (p. 442)
allude al processo di “sempre diversa e… continua trasformazione” delle idee. Il
La teoria del
processo
fatto che questo spostamento di attenzione verso il processo si sovrapponga con il
precedente sviluppo della teoria della pratica da parte di Ortner mette in luce come
si tratti più di un impeto di sviluppo che di una radicale rottura rispetto al passato:
come scrisse Ortner nel 1984 (pp. 149, 152, 154), “quel che una teoria della pratica
cerca di spiegare è la genesi, riproduzione e mutamento di forma e significato… il
modo in cui il sistema dà forma alla prassi… e quello in cui la prassi modella il si-
stema” (è interessante notare che mentre la sua idea ha avuto seguito, a quanto pare
non altrettanto è accaduto per la denominazione che l’autrice ha riservato alla pro-
pria prospettiva d’analisi: nessuno degli autori della raccolta si riferisce direttamen-
te alla teoria della pratica).
Le complessità insite nelle interazioni sono ancora in corso di valutazione, come
è possibile constatare dalle diverse prospettive formulate in questo testo (e, in gene-
rale, nella più vasta produzione antropologica). Sia Harris che Godelier affrontano
direttamente questo problema, chiedendosi: vi sono alcuni fattori più importanti di
Il tema del potere altri nel dar forma al mutamento, e se sì quali? Come agiscono tali fattori? Si tratta
di domande cui è essenziale rispondere, se vogliamo comprendere le indefinibili di-
namiche del mutamento.
Un elemento fondamentale di queste dinamiche è il potere, tematica discussa in
numerosi saggi del volume. Scheper-Hughes e Moore illustrano alcune delle com-
plessità che sono parte del problema: proprio mentre si torna ad affermare che il
potere è qualcosa contro cui lottare per il cambiamento, il modo in cui lo si afferma
può contribuire a mettere in crisi una possibilità di trasformazione reale. La resi-
stenza alla dominazione può a volte contribuire a perpetuare lo status quo di domi-
nazione: “la malattia e le sue metafore rappresentano messaggi in codice in una bot-
tiglia gettata in acque turbolente da chi soffre ed è afflitto”, afferma a p. 290 la
Scheper-Hughes; “la difficoltà consiste nel fatto che, ad ogni modo, qualsivoglia ri-
fiuto o protesta siano espressi nel linguaggio corporeo dei sintomi, vi è sempre il
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 575

pericolo di una risposta individualizzata e medicalizzata”. E Moore aggiunge (p.


448): “come Penelope che tesseva di giorno e distruggeva la notte, mentre aspettava
il ritorno di Ulisse, lo Stato socialista [di Tanzania] ha distrutto le sue stesse costru-
zioni: il sogno non poteva avverarsi”. Ciò significa che dobbiamo osservare quel che
si nasconde dietro la retorica del mutamento, per osservare come e perché il muta-
mento tenda di fatto a sorgere in determinati contesti.

Un modo efficace per rendersi conto delle complessità in gioco è quello di ana- Integrare le
lizzare, nel corso del tempo, le interazioni fra comunità locali e più ampie reti regio- storie locali e
nali o internazionali. Mentre si è visto che gli influssi del “sistema mondo” sono or- globali
mai giunti ovunque – Hannerz (1990) parla di una “cultura mondiale” – le differen-
ze culturali locali continuano a esistere. Il problema è descritto in questi termini da
Tambiah (p. 530):

Da una parte c’è una tendenza all’universalizzazione e all’omogeneizzazione che, nelle so-
cietà e nei paesi contemporanei, rende i popoli sempre più simili (quale che sia l’attuale
effettivo accesso differenziato alle mansioni, ai consumi e agli onori) nel desiderare gli
stessi benefici materiali e sociali consentiti dalla modernizzazione, siano essi redditi, beni
materiali, abitazioni, alfabetizzazione e istruzione, lavori, svaghi e prestigio sociale. Dal-
l’altra, questi stessi popoli chiedono anche – sulla base della loro riconosciuta identità,
della differenza linguistica, dell’appartenenza etnica e del diritto alla terra – di essere dif-
ferenti, e non necessariamente uguali.

In gioco, come mette in luce Marcus (pp. 68 ss.), c’è la comprensione dei modi
elusivi, complessi in cui la resistenza e l’adattamento co-occorrono.
Ovviamente le reti internazionali hanno un impatto sugli ambienti locali; per
citare Kottak e Colson (p. 482): oggi “gli interessi locali – salute, sussistenza, auto-
stima, strutture cognitive che diano senso all’esperienza – si sviluppano in funzio-
ne del loro rapporto con sistemi più vasti”. È vero anche, però, che vi sono forme
di resistenza locali a queste reti più ampie: le genti indigene sono parte attiva del
proprio destino, poiché ordinano la “realtà” globale a modo loro. “Le popolazioni
locali” osserva Sahlins a p. 464, “potevano includere il sistema mondiale in qualco-
sa di ancor più inclusivo: il loro sistema del mondo”; è paradossale – egli osserva –
che “gli scienziati sociali occidentali elaborino teorie sull’integrazione globale pro-
prio quando questo ‘nuovo ordine mondiale’ si sta sgretolando in tanti piccoli mo-
vimenti separati che marciano sotto le bandiere dell’autonomia culturale” (p. 458).
E Tambiah aggiunge a p. 521: “La realtà della fine del ventesimo secolo è che i
gruppi etnici, invece di essere dei sottogruppi essenzialmente minoritari e margi-
nali, destinati nel tempo ad essere assimilati o indeboliti, sono risultati tra i più im-
portanti elementi ‘politici’ e i più importanti attori politici in molte società”. Nella Interconnessioni
sua analisi dell’Unione Sovietica, Tishkov ci mostra quanto possano esser potenti globali
forze simili.
Un problema essenziale è allora come si possa integrare l’Occidente e “il resto”
in un quadro unitario in cui possiamo individuare da vicino i processi complessi, in-
terattivi in gioco – “gli aggregati umani… interconnessi”, per usare le parole di
Wolf (1982, p. 537). Come notano Comaroff e Comaroff (1992, p. 45), “l’Occiden-
te ed il resto del mondo, che per molto tempo la storia ha tenuti legati in uno stret-
to abbraccio, non possono che essere interrogati asieme”: se un tempo l’integrazio-
ne fra Occidente e resto del mondo si presentava nei termini di stadi evolutivi ge-
rarchici – in cui l’Occidente si trovava al di sopra del resto del mondo – oggi la sfi-
da è configurare questa integrazione sulla base della storia mondiale. Il libro di
576 ROBERT BOROFSKY

Wolf L’Europa e i popoli senza storia (1982) è oramai a tale riguardo un’opera classi-
ca, e Smith (1984b, p. 196) illustra così la direzione che la disciplina sembra aver
imboccato:

Quel che spero di riuscire a fare in questo breve schizzo della storia del Guatemala è co-
gliere parte delle tensioni e della dialettica della vita sociale in una situazione in cui per-
sone che posseggono valori ed istituzioni non capitalisti si confrontano con il capitalismo
in espansione, dando vita ad un risultato storico unico… Voglio mostrare non solo in che
modo l’espansione capitalista abbia influito su un piccolo sistema locale, ma anche come
le istituzioni locali interagiscono con forze che si impongono dall’esterno, per dar vita ad
una particolare dinamica che influisce sulla stessa espansione capitalista.

Bisogna allora continuare a studiare – in un gran numero di luoghi e da un va-


Adattamento e sto insieme di prospettive – i processi di dai-e-prendi che si verificano nelle intera-
resistenza zioni con l’Occidente. I gruppi occidentali spesso tentano di definire i contesti nei
quali si sviluppano gli accordi e la resistenza, mettendo in opera forme elusive (an-
che se talora non troppo) di egemonia politica: regolamentano il commercio, defi-
niscono il valore di beni e status, stabiliscono quali forme di opposizione siano (o
non siano) accettabili. Ma i gruppi indigeni cercano di fare lo stesso, interpretando
le forze estranee nell’ambito dei propri quadri di riferimento. Queste interazioni
sono spesso facilitate da un insieme di conoscenze che si sovrappongono e consen-
tono sia forme di adattamento che di resistenza. Credo vi sia ben più che qualcosa
di vero nell’osservazione secondo cui la cultura è oggi sulla bocca di tutti (cfr. Sah-
lins a p. 459): la cultura rappresenta un simbolo condiviso per discutere di proble-
mi relativi al dominio, allo sviluppo, all’omogeneizzazione, all’identità, all’adatta-
mento e alla resistenza. Come gli antropologi sanno bene, i significati culturali so-
no oggi modellati e trasformati via via che si diffondono su di un territorio interna-
zionale e complesso.

L’“invenzione” Uno dei problemi più interessanti sorti da questo interesse per l’aspetto dinami-
della tradizione co riguarda quella che – dal titolo di un libro a cura di Hobsbawn e Ranger (1983)
– è stata denominata “l’invenzione della tradizione”.
Sia Tambiah che Tishkov affrontano questo tema in relazione alla creazione del-
l’identità etnica. “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono antiche”, afferma
Hobsbawn (1983, p. 3), “hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono
inventate di sana pianta”. E aggiunge (1983, p. 9): “tante istituzioni politiche, tanti
movimenti o gruppi ideologici [dei due secoli passati] erano davvero senza prece-
denti tanto che persino la continuità storica doveva essere inventata creando… un
passato talmente antico da valicarne i limiti effettivi: presonaggi a metà strada tra la
La creazione
realtà e la fantasia… o veri e propri falsi”. Alcune delle tradizioni inventate possono
dell’identità sorprendere i lettori occidentali: gli autori menzionano i kilt degli scozzesi, il retag-
etnica gio celtico del Galles e alcuni aspetti della pompa reale britannica. Mentre tuttavia
questo libro ha avuto un gran successo sia accademico che a livello di pubblico in
Occidente, lo sforzo da parte degli antropologi di riproporre questa stessa tematica
in altre regioni – ad esempio con la descrizione delle tradizioni hawaiane realizzata
da Linnekin (1983) e quella di Hanson delle tradizioni dei maori di Nuova Guinea
– è stato salutato da recensioni ambivalenti: se vi sono stati alcuni positivi riconosci-
menti accademici, hanno ricevuto anche aspre critiche da parte di attivisti indigeni.
A quanto pare, una cosa è definire inventate le proprie tradizioni, ma cosa ben di-
versa è chiamare così quelle di altri popoli; sembra peraltro che in questo contesto
interagiscano tre diversi elementi.
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 577

In primo luogo c’è la politica del dominio e della resistenza che abbiamo appena La politica di
citata, e che pervade l’attuale discussione del culturale. La “consapevolezza cultura- dominio e
le”, nota Sahlins a p. 459 citando a sua volta Turner, “implica il tentativo da parte resistenza
delle persone di controllare i propri rapporti con la società dominante”; e Keesing,
a p. 373, osserva che per le élites del Terzo Mondo “affermare che ‘quella’ è ‘la no-
stra cultura’ significa fare dichiarazioni riguardo all’identità, all’autenticità, alla resi-
stenza e all’elasticità”. Da questo punto di vista, accettare l’opinione degli antropo-
logi sul fatto che le loro tradizioni siano inventate serve solo a completare l’opera di
conquista, di subordinazione dell’altro, per usare le parole di Sahlins (p. 462; cfr.
anche Carter 1987, pp. 160-161). Das concorda su ciò muovendo da una prospetti-
va indigena (p. 173): “Per l’antropologo indiano... non c’è modo di partecipare alla
demistificazione di categorie ‘universaliste’, ‘reificate’ della sociologia occidentale,
mostrando le tracce lasciate da una cultura aliena nella costruzione di queste stesse
categorie”. La fluidità
In secondo luogo il culturale – come abbiamo più volte sottolineato – ha un ca- del culturale
rattere fluido, dinamico cui gli antropologi debbono ininterrottamente prestare at-
tenzione. Come emerge dal testo del mio saggio nel volume e da Borofsky (1987),
presso molti gruppi l’“invenzione” culturale può costituire la norma piuttosto che
l’eccezione. Sahlins (p. 470) afferma che la tradizione “funziona come parametro
mediante cui le persone misurano l’accettabilità del mutamento”; e Moore (p. 450)
nota: “un atteggiamento processuale nei confronti del problema del lavoro sul cam-
po… pensa il presente come un momento emergente”.
Il problema relativo alle opinioni antropologiche sull’argomento sta nel fatto che
– ed è questo il terzo elemento di rilievo – gli antropologi sono stati spesso meno at-
tenti di quanto avrebbero dovuto alle condizioni che abbiamo citate. Tradizional- La concezione
mente infatti gli antropologi hanno sottostimato gli elementi dinamici della cultura, a della “barriera
causa di un atteggiamento che Keesing definisce concezione della “barriera coralli- corallina”
na” che postula “strutture, sociali e ideali, senza tempo e che si auto-riproducono al-
l’infinito” (p. 367). Ma essi non sono neppure stati consapevoli (e/o si sono occupati
della) “politica culturale” che si accompagna al fatto di definire “inventate” le tradi-
zioni di altri popoli. Questo fatto avvalora l’affermazione di DaMatta (p. 165) secon-
do cui il dibattito in Nord America e in Inghilterra tende spesso a essere “considera-
to ‘teorico’, ‘tecnico’ e francamente ‘accademico’”: in tal modo gli antropologi non
tengono conto a sufficienza delle più ampie implicazioni politiche del loro lavoro.
Das afferma quasi la stessa cosa a p. 171: “Mentre per il lettore occidentale identifi-
care l’unità fondamentale dell’India con il sistema delle caste è una questione che ri-
guarda l’apprendere intellettualmente altri valori, è probabile che almeno alcuni let-
tori indiani faranno uso di questa affermazione sociologica come arma politica”.
Quel che voglio sostenere è che gli antropologi hanno frainteso la nostra inven-
zione della stabilità culturale, scambiandola per la loro invenzione del processo:
proprio perché le loro tradizioni non hanno seguito la nostra concezione astorica di La “nostra”
tradizione, le etichettiamo come “inventate”. Allo stesso tempo, gli altri hanno iso- stabilità, il
lato un concetto culturale storicamente situato – utilizzato nel corso delle lotte na- “loro” processo
zionaliste in Europa – come uno strumento di resistenza in grado di aumentare il
loro potere nella lotta che conducono contro di noi. È questo ciò cui allude Keesing
a p. 374 quando afferma che “i nostri mali concettuali… sono stati utilizzati contro
di noi”: muovendoci attraverso le indefinibili complessità e i conflitti sociali che so-
no implicati in tutto questo, troviamo molto su cui riflettere. Ascoltando con atten-
zione le risposte che gli altri ci danno quando utilizziamo i concetti antropologici,
abbiamo l’opportunità di far crescere la nostra disciplina.
578 ROBERT BOROFSKY

Il concetto Quattro saggi della raccolta (Das, Keesing, Sahlins, Strauss e Quinn) fanno rife-
di azione rimento alla nozione di azione. Mentre il concetto ha profonde radici nella filosofia
politica, la sua introduzione in ambito antropologico è relativamente recente: “il
problema essenziale per una teoria della pratica” concernente l’azione e gli attori,
afferma Ortner (1989, p. 14), “è quello del modo in cui gli attori, che sono in buo-
na misura prodotto del proprio contesto sociale e culturale, possano riuscire mai a
trasformare le condizioni della loro stessa esistenza, se non per caso”. E nel suo sag-
gio Levy riformula questo aspetto come bisogno di “prendere in esame la persona
La persona
come centro
come un centro attivo di storia e contesto”.
attivo Giddens, citando un libro di Willis divenuto ormai un classico della disciplina –
Learning to Labor: How Working Class Kids Get Working Class Jobs (1981) – for-
mula un’importante discussione riguardo l’azione. Secondo Giddens, Willis mostra
“come gli atteggiamenti ribelli assunti dai ragazzi nei confronti del sistema autorita-
rio della scuola posseggono conseguenze non volute ma specifiche, che hanno un
effetto sul loro destino”; o ancora, per citare la descrizione di Aronowitz nell’intro-
duzione all’edizione americana del testo di Willis (1981, p. XI):

Giddens e il Sottolineando l’importanza di una controcultura presso coloro che sono oggetto di una
coinvolgimento manipolazione educativa… Willis mostra come i ragazzi, attraverso la propria personale
attivo degli attività ed il loro sviluppo ideologico, riproducono se stessi come classe lavoratrice. Il
attori meccanismo è il modo in cui si oppongono all’autorità, il loro rifiuto di sottomettersi agli
imperativi di un percorso scolastico che incoraggia alla mobilità sociale raggiunta me-
diante l’acquisizione di credenziali.

I vincoli imposti dal capitalismo industriale, afferma Giddens (1984, p. 301),


“agiscono attraverso i moventi e le ragioni degli agenti, stabilendo… connessioni e
conseguenze che investono le opzioni aperte ad altri individui”.
Turner e i Victor Turner affronta il problema dell’azione da una prospettiva diversa. In Dra-
paradigmi mas, Fields, and Metaphors, ad esempio, Turner (1974, p. 13) analizza “i modi in cui le
culturali come
forze storiche
azioni sociali di vari generi prendono forma attraverso le metafore e i paradigmi nelle
teste degli attori… e in alcune circostanze di particolare intensità, danno vita a forme
senza precedenti che tramandano alla storia nuove metafore e paradigmi”. Il caso del-
l’omicidio di Thomas Becket e della successiva canonizzazione è di particolare inte-
resse: Turner indaga le personalità e i paradigmi culturali che condussero alla morte
di Becket, e discute il modo in cui questo omicidio divenne il punto di partenza di un
ulteriore paradigma culturale il quale, a sua volta, contribuì al precipitare di altri
eventi storici. Vediamo così che paradigmi culturali, ampie forze storiche e personali-
tà individuali interagiscono fra di loro in modi socialmente critici e con conseguenze
storiche importantissime. Scrive Turner (1974, p. 60): “il racconto ed il mito di Bec-
ket sono sopravvissuti per otto secoli e possono ancora dar vita a feroci odi partigia-
ni… [dovuti al fatto di essersi] verificati nel contesto di una rapida scissione fra chie-
sa e stato… che venne composta grazie ai primi seri sussulti del sentimento nazionali-
sta in Inghilterra”. Credo che la visione di Turner della dinamica culturale come
dramma sociale/paradigma fondativo potrebbe fornire molti nuovi spunti all’attuale
dibattito sui processi storici; essa costituisce un’importante prospettiva, attualmente
marginale ma che attende di esser riscoperta da parte degli antropologi.
Il ruolo degli La questione dell’azione solleva importanti problemi – concernenti il modo in
individui nel cui gli individui determinano (o non determinano) il mutamento, sostengono (o
mutamento
non sostengono) senza volerlo lo status quo nel loro ribellarsi contro di esso, e di-
ventano (o non diventano) figure chiave in grado di fornire motivazioni agli altri ri-
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 579

guardo a importanti rivendicazioni sociali. Poiché l’antropologia amplia la dimen-


sione temporale oggetto di analisi, e dato che i problemi legati al potere divengono
più importanti, in queste analisi vi è molto da riflettere riguardo al mutamento so-
ciale e al ruolo che in esso svolgono gli individui.

Un aspetto finale di questa svolta verso il processo è una presa di distanze dall’i- Ribadire i propri
interessi empirici
potesi che postula processi di mutamento, cui si sostituisce l’osservazione diretta di
questi ultimi (una svolta simile si verificò già negli anni Trenta, cfr. Herskovits 1965,
p. 412). “Che particolari credenze e significati persistano o meno in una società da-
ta” – afferma Vayda a p. 399 – “è una questione da valutare empiricamente piutto-
sto che da postulare a priori”; e Barth sostiene che “il nostro compito non è quello
di reificare fatti o strutture illusorie, e di incorporarli nella nostra raccolta di dati,
ma di registrare il flusso che possiamo osservare”(Barth, p. 435). Rifacendosi sia al- Il primato della
la “centralità degli eventi” di Moore che agli studi “comparativi su più livelli, con- osservazione
dotti in diversi tempi ed in luoghi molteplici” di Kottak e Colson, Barth (p. 435) diretta
ipotizza che “forse lavoreremmo meglio se smettessimo di privilegiare la rappresen-
tazione della ‘cultura’, e concentrandoci invece sul piano degli eventi, delle azioni,
delle persone e dei processi” – una tematica che secondo Harris (pp. 93-94) è il
presupposto di quell’accento posto sull’aspetto “etico” e comportamentale caratte-
ristico del materialismo culturale.

L’ansia di continuità in seno alla disciplina


Leggendo i saggi della raccolta, è possibile accorgersi di una evidente ansia di
continuità in seno alla disciplina – che si manifesta collocando le nostre spiegazioni Un percorso
attuali nel contesto delle conoscenze passate. In modo esplicito o implicito, le stesse cumulativo
domande emergono ripetutamente: come possiamo attingere al passato pur muo-
vendoci verso il futuro? Come disciplina intellettuale, l’antropologia sta progreden-
do? Wolf (a p. 270) crede che “in antropologia l’obiettivo di offrire una spiegazione
possa essere cumulativo, nel senso che la conoscenza e le conclusioni cui siamo
giunti in passato generano nuove domande, e che i nuovi orientamenti contengono
le acquisizioni del passato”; Barth (p. 425) afferma che “è necessario… individuare
gli orientamenti tradizionali che erano importanti ma che sono forse diventati meno
rilevanti nel corso del dibattito dell’ultimo decennio”; Kuper infine osserva (p. 153)
che “una fonte di vitalità intellettuale in antropologia potrebbe consistere nella ri-
scoperta dei nostri interessi teorici comuni”.

Il progresso dell’antropologia
Se riflettiamo su ciò che si è realizzato sino a oggi in antropologia ci sono molte
cose di cui possiamo essere orgogliosi. Due traguardi sembrano in particolare degni
di nota.
Il primo è dato dallo sviluppo di un vasto corpus di dati relativo ai diversi modi di Due successi
vita; basta pensare allo Human Relation Area Files o a una vasta serie di testi intro- essenziali
duttivi per rendersi conto dell’enorme quantità di dati etnografici raccolti dagli antro-
pologi nel corso di questo secolo. Per essere davvero esperto su di una determinata
regione, osserva Kuper (p. 152), ogni antropologo oggi “deve padroneggiare un’inte-
ra biblioteca di fonti secondarie”. Opere classiche come Noi, Tikopia di Firth, I Nuer
di Evans-Pritchard, The Web of Kinship among the Tallensi di Fortes, Gli Argonauti L’utilità delle
del Pacifico occidentale di Malinowski, The Crow Indians di Lowie e Crashing Thunder monografie
di Radin continuano a essere per gli antropologi, di generazione in generazione, non classiche
solo una ricca fonte di informazioni da analizzare, ma anche dei modelli di grande va-
580 ROBERT BOROFSKY

lore da emulare. E come osserva Lévi-Strauss (p. 514), quando i “nativi, dopo aver su-
bito una distruzione quasi totale, vogliono ristabilire i legami con il proprio passato,
accade spesso che si affidino all’aiuto di libri scritti da antropologi”.
Il secondo traguardo è che mentre gran parte dei problemi che hanno attratto
gli antropologi del passato restano ancora irrisolti (come mette in luce Service
1985), tuttavia siamo oggi in grado di elaborare in modo più preciso e complesso i
nostri quesiti di ricerca, la raccolta dei dati e l’analisi dei risultati. Ciò che affermava
Aumento della Firth quasi venticinque anni fa (1975, p. 7) è oggi ancora più vero – come un’accor-
complessità ta analisi di etnografie del passato confrontate con quelle attuali può mettere in lu-
nella ricerca ce: “A confronto col lavoro svolto venticinque anni fa… quello odierno mi sembra
molto più elaborato e molto più attento da molteplici punti di vista. L’analisi del-
l’interazione sociale è più complessa, tiene conto di un numero maggiore di variabi-
li e le riconnette in modo più sistematico per dar vita a generalizzazioni dal fonda-
mento più solido” (cfr. Colson 1992, p. 51).

Il progresso della disciplina è stato forse messo in questione soprattutto quando


si è elencata la lista dei pregiudizi intellettuali che si ritiene siano stati compiuti da
generazioni di antropologi del passato e/o attuali. L’elenco è sconvolgente: Nader
I pregiudizi nota a p. 116 che “è stato scritto molto sulle ragioni che dovrebbero spingere a pra-
degli ticare un’antropologia consapevole del fatto che l’esistenza vera e propria di se stes-
antropologi
sa come disciplina è dovuta al colonialismo e più in generale all’imperialismo”;
Marcus cita (a p. 67) la “discussione raffinata e seria, dal punto di vista storico, del-
l’antropologia come sedimentazione intellettuale interna alla storia del colonialismo
occidentale”; DaMatta osserva a p. 165 che “più un sistema accademico – [come
nel caso dell’America del Nord e dell’Inghilterra] è ben insediato, più individuali-
stica sarà la carriera intellettuale e maggiomente compartimentato, autonomo e
orientato al mercato sarà il sistema delle promozioni e degli aumenti, e così pure il
dibattito sarà considerato più “teorico”, “tecnico”, e francamente “accademico”.
Keesing infine afferma a p. 367: “il mondo di strutture, sociali e ideali, senza tempo
e che si autoripoducono all’infinito… è stato forgiato... sulla base delle ricerche e
delle concezioni della tradizione filosofica europa, ed è stato sovrapposto alle popo-
lazioni incontrate e soggiogate lungo le frontiere coloniali”.
Da un certo punto di vista, queste affermazioni sono un forte atto d’accusa nei
confronti dell’oggettività della disciplina: implicano infatti che la nostra impressio-
Il mito nante banca dati sia chiaramente viziata, e lo sia in modi ben definiti. Ma da un altro
dell’oggettività
punto di vista, queste affermazioni rappresentano una positiva vittoria dell’antropolo-
gia: come dice Bernard a p. 217, infatti, “non ho mai conosciuto nessuno nel campo
delle scienze sociali che ha pensato seriamente che gli esseri umani potessero divenire
dei ricercatori sul campo pienamente obiettivi... Essere obiettivi non vuol dire essere
esenti da ogni pregiudizio, ma divenire consapevoli dei propri pregiudizi cercando al-
lo stesso tempo di trascenderli”.
Siamo riusciti abbastanza bene a mettere in luce vari pregiudizi intellettuali nei di-
battiti che sono stati condotti all’interno della nostra comunità intellettuale. Alla fine
siamo giunti a considerare la stessa storia dell’antropologia, per parafrasare Hallowell
(1965), come un problema antropologico. Il progresso della disciplina è allora indiscu-
tibile non tanto nella capacità di evitare i pregiudizi – cioè qualcosa che, come implica
il discorso di Bernard, è parte integrante della condizione umana – ma nella capacità
che abbiamo acquisita di diventarne consapevoli col passare del tempo. “Ciò che l’an-
tropologia ha di unico…”, nota Das a p. 170, “è il suo uso dell’‘Altro’… per superare i
limiti della sua stessa origine e collocazione” (cfr. Carrithers 1992, pp. 177-199).
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 581

Un passo importante in vista della maggior sensibilità degli antropologi ai pregiu- L’ampliarsi della
comunità
dizi è dato dall’ampliamento ancora in corso della nostra comunità intellettuale: oggi intellettuale
non solo gli informatori indigeni sono in grado di retroagire sulla produzione antro-
pologica, ma anche l’antropologia è diventata una professione di carattere sempre più
globale, con un dialogo sempre più globale fra quanti la praticano. “Gli etnografi pro-
venienti dall’Occidente”, osserva Kuper (p. 151), “che vanno a lavorare in questi pae-
si ora… si uniscono alle comunità locali di studiosi, impegnandosi in discussioni co-
muni e trovandosi esposti a critiche pungenti per mancanza di empatia, di sensibilità
politica e conoscenza locale”.

Problemi da affrontare
Adottando un’ottica positiva, ho descritto il progresso compiuto dall’antropologia
sino a oggi come un bicchiere mezzo pieno. Ma lo si potrebbe considerare anche come
un bicchiere mezzo vuoto. Così Eggan (1977, p. 11) osserva che “l’antropologia ha or- La tensione fra
mai conquistato un proprio posto nel mondo accademico, ma la sua posizione è quella positivismo e
di una promessa più che di traguardi raggiunti”; e Firth nota (1975, p. 17): “sino ad interpretativismo
ora nella moderna antropologia sociale sono venute alla luce solo poche generalizzazio-
ni di natura davvero esplicativa”. La tensione fra quelle che Aporta ha chiamato le due
tradizioni dell’antropologia – la prospettiva positivista e quella interpretativa – si è ri-
velata utile nel contesto degli sviluppi passati della disciplina. Ognuna ha raffreddato
gli entusiasmi dell’altra: gli antropologi interpretativi hanno invitato a considerare con
cautela le affermazioni positiviste di “oggettività”, mentre i positivisti hanno messo in
luce i limiti pragmatici dei resoconti personalizzati e interpretativi ai fini dello sviluppo
della disciplina. Proprio nel loro disputare e opporsi, esse hanno contribuito a gettare
le basi della disciplina: in un certo senso, infatti, è proprio perché si sono opposte l’una
all’altra che è stato possibile portare alla luce molti dei pregiudizi su cui ci siamo già
soffermati. Ci si chiede tuttavia se quella che è stata una tensione benefica nei primi
tempi della disciplina sia oggi divenuta un fenomeno che ne smussa il potenziale – li-
mitando più che promuovendo lo sviluppo ulteriore della disciplina.
Buona parte del volume dovrebbe indurre i lettori a riflettere su tutto questo. Co-
me afferma Salzman (p. 57) “un problema risaputo... è il fatto che la gran parte delle
conferenze antropologiche, dei congressi, degli articoli, delle monografie e delle rac-
colte di saggi antropologici, mentre corrispondono a una montagna di carta… non
sembrano corrispondere a un effettivo integrato e coerente corpus di conoscenze che
possa fornire le basi per un’ulteriore avanzamento della disciplina”; e così prosegue
(p. 59): “La credibilità dei nostri resoconti dal campo si basa principalmente sulla lo-
ro unicità, cioè sull’assenza di altri resoconti che potrebbero presentare ‘risultati’ op- L’unicità come
posti, cioè che potrebbero verificarne l’affidabilità”. Questo si collega a ciò cui Da- fonte di
credibilità
Matta (p. 161) fa riferimento come alla “legge” di DeVoto: “più gli antropologi scri- etnografica
vono sugli Stati Uniti, meno credo a ciò che dicono quando parlano di Samoa”.
Il fatto di fondarsi sulle possibilità teoriche davvero promettenti rappresentate
da relazioni etnografiche senza precedenti ha conferito all’antropologia un parti-
colare stile intellettuale. Salzman (p. 59) allude così ai “vezzi e alle mode teoriche
che vanno e vengono in antropologia a una velocità abbacinante”; Wolf nota a p.
Paradigmi
270: “In antropologia i paradigmi vengono continuamente violati solo per vederli alla modda
rinascere come se fossero stati appena scoperti... Dal momento che ogni successi-
vo approccio recide di netto i precedenti, l’antropologia rischia di somigliare a un
progetto di deforestazione intellettuale”. E Barth, a pp. 426-427, fa allusione al-
l’andare “in cerca freneticamente della moda più recente, e abbandonando tutte
le prospettive precedentemente stabilite (e le loro alternative)”. “Uno scaltro stra-
582 ROBERT BOROFSKY

tega della sua carriera” – nota Salzman a p. 60 – “non farà della solida e seria et-
nografia, ma se ne uscirà con un’originale e seducente prospettiva, o uno slogan
che lo renderanno il campione di uno nuovo ‘-ismo’ antropologico”.

Costruire sulle Proprio questa tendenza a seguire nuove strade e a cambiare continuamente
fondamenta del paradigmi ha indotto molti autori della raccolta a esprimere la propria preoccu-
passato pazione circa la possibilità che la disciplina abbandoni gli aspetti ancora validi del
proprio passato. Nader, ad esempio, si preoccupa dello scotto da pagare se la co-
scienza comparativa viene sottostimata come forma di analisi (p. 118); Kuper (p.
153), Barth (p. 427), Kottak e Colson (p. 481) notano come rianalizzare i materia-
li etnografici del passato sia positivo per la disciplina; e Bernard (p. 224) si espri-
me positivamente circa i passati tentativi di congiungere ricerca quantitativa e
qualitativa.
Il senso della Il sentimento della continuità sul piano intellettuale rappresenta un fattore im-
continuità portante per una disciplina. Gli autori del volume sottolineano molte volte nelle pro-
disciplinare
prie biografie intellettuali il rapporto fra prospettive del presente e quelle del passa-
to. In questo senso si può dire che l’antropologia non è soltanto una successione di
“-ismi”, ma che implica un passaggio dell’autorità intellettuale, una serie di influssi
Influssi di
scuole e tra una scuola e l’altra, lo scambio e la verifica di idee tra vari individui. Le autobio-
personalità grafie di molti autori della raccolta, così, – ad esempio quelle di Bernard, Harris,
Kottak, Murphy, Rappaport, Vayda e Wolf – ci danno modo di apprezzare il peso
delle posizioni di Steward; Collier, Colson, Geertz e Nader ci parlano dell’importan-
za, nella loro formazione, dell’opera di Kluckhohn; Keesing, Levy, Nader, Rappaport
L’importanza e Scheper-Hughes sottolineano il ruolo svolto da Bateson; e infine DaMatta, Gode-
di Marx lier, Kuper, Moore, Murphy, Sahlins, Stratern e io stesso sottolineiamo l’importanza
per il futuro
di Lévi-Strauss. Quanto alla Benedict, essa è citata da Colson, Wolf e Yanagisako; il
nome della Mead compare nelle autobiografie di Harris, Levy, Rappaport e Scheper-
Hughes; quello di Leach nelle autobiografie di Barth, Bloch, Colson, Strathern e
Tambiah; Kroeber è citato da Bernard, Harris, Moore e Nader; Powdermaker da
Bernard, Scheper-Hughes e Wolf; Murdock da Bernad e Goodenough; infine
Gluckman da Colson, Moore e Nader. Nelle affermazioni autobiografiche degli au-
tori, perciò, ritroviamo importanti trame di una continuità che dura nel tempo.
Da questo punto di vista ci si può chiedere in che modo le generazioni future
considereranno Marx, dato il recente crollo dei regimi comunisti in Europa dell’Est.
Come sottolinea Godelier, molte delle idee di Marx sono ancora piuttosto importan-
ti: dovremmo forse uccidere il messaggero solo perché una parte del suo messaggio
non ha funzionato come egli sperava? Difficile erigere un simile atteggiamento a mo-
dello nei riguardi di qualunque studioso – e in particolar modo nei confronti di
Marx, di cui è noto l’impatto determinante esercitato sul pensiero dell’Occidente.

Criteri d’analisi Un passo importante necessario a superare il problema dell’atteggiamento ca-


comuni priccioso e incline a seguire le mode è il tentativo di superare l’attuale dibattito che
oppone antropologi positivisti e interpretativi, andando in cerca di forme alternati-
ve di controllo della qualità delle nostre analisi. Dobbiamo sviluppare una consape-
volezza del possesso di criteri d’analisi comuni, che vanno al di là delle nostre ri-
strette affiliazioni di scuola, al di là delle nostre particolari specializzazioni, e che
coinvolgono la disciplina nel suo complesso. Muovendo da questi criteri, gli autori
puntano la loro attenzione su due tematiche: 1) la possibilità di riuscire a distingue-
re fra asserzioni più o meno valide e altre, prive di valore e 2) il prestare particolare
attenzione ai punti di forza e ai punti deboli dei metodi attualmente in uso.
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 583

Riguardo al primo di questi temi, non molti autori propongono soluzioni inte-
ressanti, su cui riflettere. Harris, ad esempio, sottolinea a p. 90 che le asserzioni do-
vrebbero essere: “1) predittive (o retrodittive), 2) verificabili (o falsificabili), 3) in
numero non eccessivo, 4) di ampia portata e 5) integrabili o cumulative entro un
corpus di teorie coerente e in espansione” di dati. E Goodenhough (pp. 325-326)
afferma che le asserzioni dovrebbero essere replicabili (entro certi limiti), ricche
(nel senso di dar conto di un gran numero di dati) e se possibile di numero limitato.
Un esame complessivo dei contributi al volume, tuttavia, mostra che vi è uno scarso
consenso sui criteri comuni alla disciplina. Tutto ciò che si può dire in proposito è
che i diversi autori assumono posizioni differenti; e il fatto che si sia ancora alquan-
to incerti circa la validità da attribuire alle affermazioni contenute nei resoconti et-
nografici concorrenti della Mead e di Freeman su Samoa e di Redfield e Lewis su
Tepoztlan ci mostra che esistono ancora degli ostacoli da superare.
Credo che la soluzione del problema legato alla validità delle asserzioni stia nei Il dialogo tra
progetti a lungo termine che vedono la partecipazione di più persone, di cui si fan- le etnografie
no sostenitori in questo volume Kottak e Colson assieme ad altri studiosi (cfr. Fo- e la crescita
ster et alii 1979). Kottak e Colson mettono in chiaro come i dati raccolti nell’ambito del sapere
di questi progetti siano ricchi, “densi”: solo nel tempo, solo mediante una serie di
etnografie che si sovrappongono saremo in grado di distinguere i resoconti validi da
quelli che non lo sono. È proprio questo il punto che sottolineo nel mio Making Hi-
story (Borofsky 1987, p. 155): “La comprensione non nasce da una singola etnogra-
fia ma col tempo. Attraverso un dialogo con gli altri, che possiedono diverse costru-
zioni teoriche e prospettive, andiamo oltre l’autocompiacimento per le nostre teorie
accrescendo il nostro sapere”.
Quanto al secondo dei temi citati, Bernard analizza i limiti dell’osservazione
partecipante e accenna al bisogno di superarli. A p. 219 egli sottolinea (al pari di
Salzman e Levy) che “la formazione metodologica [dovrebbe] rivestire un ruolo
chiave negli studi antropologici a livello universitario e postuniversitario”. “Riuscire
a controllare metodi differenti per raccogliere e analizzare dati”, egli nota a p. 221,
“ci permette di indagare qualsiasi questione teorica possa interessarci”.

Se ci si avvia al possesso di una serie di criteri su cui converge in maggior mi-


sura il consenso dell’intera disciplina, e se si diviene più attenti ai nostri limiti me- Il valore della
todologici, allora sarà possibile attribuire alla sperimentazione – che vanta una sperimentazione
lunga tradizione in antropologia – sempre più il ruolo di forza positiva nell’ambi-
to della disciplina. Ecco perché, privi degli strumenti per valutare le nuove pro-
spettive intellettuali, vari autori non possono che guardare con perplessità alle in-
novazioni recenti come l’approccio postmoderno, in cui vedono una moda pas-
seggera che minaccia il progresso della disciplina. Ma con un insieme di criteri di
valutazione maggiormente condiviso, la sperimentazione può rappresentare un
importante strumento per lo sviluppo della disciplina; in passato del resto è senza
dubbio stato così. Come osserva Firth (1975, p. 5), “le ricerche passate oggi note
con l’etichetta di ‘classici’ – sul valore elogiativo della quale è possibile nutrire dei
dubbi – erano sperimentali: esse infatti tentavano di produrre un’etnografia più si-
stematica e pertinente; affrontavano una serie di problemi teorici che attendevano
una soluzione; e mettevano alla prova, con minor successo, il mercato, fornendogli
informazioni certo non esaltanti sui problemi sociali essenziali di comunità con mo-
di di vita del tutto estranei a quelli del mondo occidentale”. La sperimentazione, af-
ferma Marcus (p. 65), fornisce “lo spazio per formulare nuove domande, per con-
cretizzare nuovi oggetti di studio, e per esplorare nuovi ambiti discorsivi attraverso
584 ROBERT BOROFSKY

esperimenti sulla forma”; è un aspetto che si può ritrovare nell’innovativo approc-


cio all’antropologia medica sviluppato dalla Scheper-Huges – che integra “il corpo
sociale delle rappresentazioni, il controllo esercitato dalle forze del bio-potere sul
corpo politico e... l’attribuzione di significati all’individuale ed esistenziale corpo
personale” (p. 282) – ma anche nell’analisi di Yanagisako e Collier incentrata sulle
transazioni matrimoniali (pp. 245-246), nell’uso da parte di Nader della compara-
zione contrastiva per comprendere i rapporti tra generi sessuali (pp. 123 sgg.) e in
un gran numero di altri saggi contenuti nel volume.
Il punto è che per realizzare un produttivo sviluppo della disciplina, per andare
La ricerca di oltre il nostro passato mantenendo un rapporto di continuità con esso, c’è bisogno
una base di trovare una base comune fra le prospettive contrapposte del positivismo e dell’ap-
comune proccio interpretativo: scegliere solo l’una o l’altra prospettiva significa ignorare
problemi importanti, come Rappaport chiarisce efficacemente (p. 195):

La convenienza tra le due tradizioni non sempre è stata facile... Tuttavia, ogni separazio-
ne radicale tra le due è fuorviante… perché… la relazione tra le due tradizioni, in tutta la
sua ambiguità, esprime la condizione di una specie che vive, e non può che vivere, sulla
base dei significati che deve costruire in un mondo privo di significato intrinseco ma sog-
getto alle leggi della natura. Per essere adeguata, l’antropologia deve quindi tentare di
comprendere la pienezza della condizione del proprio soggetto.

Trovare una base comune fra le polarità rappresentate da queste prospettive, ri-
unirle assieme entro un quadro di riferimento comune, significa per la disciplina
andare verso il possesso di criteri condivisi e la pratica di sperimentazioni innovati-
ve, che si rafforzano vicendevolmente. Senza una simile base comune, non potremo
che girare a vuoto compiendo ben pochi progressi: continueremmo a parlarci gli
uni con gli altri, ma attraverso un muro invalicabile.
Non voglio certo nascondere le differenze che oppongono le prospettive inter-
pretative a quelle positiviste; senza voler sminuire l’importanza di ciascuna di es-
se, tuttavia, credo sia necessario trovare un modo per riconnetterle all’interno di
un quadro di riferimento comune. Dobbiamo considerarle come approcci com-
plementari, che si sovrappongono, perché assieme costruiscano la nostra discipli-
na e inoltre, come sottolinea Rappaport, ci aiutino a studiare la condizione uma-
na. Entrambi debbono esser parte integrante della nostra comunità, ed entrambe
Contro gli debbono collaborare per farci fare passi avanti. Credo sia questo che Nader in-
esclusivismi tende a p. 116, quando si preoccupa della “idea che accompagnava ogni critica
metodologici
successiva… che [il suo] approccio fosse superiore ed esclusivo”; ed è ciò che so-
stiene Godelier quando, a p. 144, rivendica la necessità di “una sorveglianza criti-
ca permanente, che non smetta mai di imparare… Dobbiamo costruire su quello
che abbiamo preso dai [nostri predecessori] per continuare la nostra strada co-
mune e controversa”.

In un mondo come il nostro, nel quale i luoghi sono sempre più connessi gli uni
Le “voci” agli altri – e nel quale gli informatori criticano le etnografie e gli antropologi pro-
degli altri vengono da un gran numero di paesi – gli antropologi occidentali non debbono pre-
sumere di poter dominare la conversazione intellettuale: altre voci, altre prospettive
sono parte integrante della nostra comunità – e ne rappresentano la coscienza critica.
Das (a pp. 171-172) solleva un importante problema in relazione al “doppio vin-
colo con cui l’antropologa indiana deve fare i conti”, in quanto è simultaneamente
etnografa e partecipe della società indiana. L’autrice osserva:
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 585

Il pericolo per l’antropologa indiana è che possa rendersi vulnerabile all’accusa di essere
“difensiva” o “sciovinista”. L’indù instruita non riesce a parlare con una voce autentica
su questioni che riguardano le caste o la religione poiché è condannata [secondo il socio-
logo francese Dumont] a vedere le istituzioni della sua società “da un punto di vista occi-
dentale”… Se però l’antropologa parla da un punto di vista che può essere definito “in-
diano”, o “indù” o “islamico” sarà accusata di essere “retrograda”.

E così continua:

La distanza spaziale fra l’India e l’Occidente permette agli studiosi occidentali di stu-
diare la “casta” e i suoi valori attraverso la lente dell’intelletto. Ma questi valori “ob- La posizione
soleti” non devono fornire né opportunità, né sfide politiche ai lettori occidentali. Per della Das
l’antropologa indiana che vive in società intrise di questi valori, secondo Dumont, la
sfida è invece di superare questi valori e istituzioni tradizionali per costruire un mo-
derno Stato-nazione. L’unico atteggiamento che l’indiana moderna può assumere nei
confronti delle proprie tradizioni è quello di collocarle nel passato. In nessun caso
queste tradizioni offrono una risorsa intellettuale alle società contemporanee. Le fun-
zioni espletate dalla distanza spaziale (per gli occidentali) vengono assolte dalla di-
stanza temporale (per gli indiani) così il suo passato indiano appare all’antropologa
come l’“altro”.

Ci rimane così da affrontare un problema importante: in che modi e a quali con-


dizioni gli studiosi non occidentali e gli informatori non occidentali sono integrati
Verso una
nella comunità antropologica? Si tratta di un problema che dev’essere affrontato comunità
quanto prima (cfr. Fahim 1982), che è rimasto implicito in passato ma ha assunto inclusiva
oggi un peso enorme; solo affrontandolo sarà possibile definire in che senso la “co-
munità degli antropologi” sia di tipo inclusivo, e non invece esclusiva. Problemi co-
me questo, infine, chiariscono come il ruolo degli antropologi occidentali non sia
solo quello di parlare e insegnare, ma anche di ascoltare e apprendere.

A p. 268, Wolf sostiene che “in realtà noi antropologi sappiamo molte cose ri-
guardo al potere, ma siamo riluttanti a elaborare sistematicamente quel che sappia- Questioni di
mo”. (Alcuni anni fa, in Wolf 1969, p. 251, aveva paragonato gli antropologi a dei potere
“bambini sperduti nel bosco nero”, quando si trattava di affrontare l’argomento).
“Questo fatto ha conseguenze insieme teoriche e metodologiche” – prosegue – “e
influenza il nostro modo di valutare le conclusioni cui siamo giunti in passato e di
sollevare nuove domande”.
Vari autori fanno riferimento al potere (sebbene non si possa esser certi che tutti
intendano la stessa cosa quando ne parlano) sollevando numerosi e importanti pro-
blemi. Alcuni si interrogano sul ruolo del potere nel fungere da stimolo al mutamento
e/o nel mantenimento dello status quo. Harris ad esempio (a p. 99) analizza il ruolo Il ruolo del
dei “detentori del potere”, mentre Nader (p. 123) prende in esame “i tentativi ma- potere nel
schili di mantenere l’autorità in società sempre più minacciate… dai rapporti di pote- mutamento e
nelle continuità
re internazionali”; Godelier invece discute a p. 139 “i ruoli che la violenza e il consen- culturali
so rispettivamente giocano nella genesi e nella perpetuazione delle disuguaglianze so-
ciali”. Alti autori si occupano di come il potere si intreccia alle strutture di credenze:
Keesing, ad esempio (p. 376), è interessato al “modo in cui la produzione simbolica è
connessa al potere e all’interesse”; Rappaport (pp. 201-202) analizza la tensione esi-
stente fra santità e potere nell’azione di sostegno all’autorità; e Wolf (p. 276) afferma
che è proprio il potere che “garantisce… le strutture del significato”. Altri autori an-
cora indagano le dinamiche della resistenza politica: Scheper-Hughes accenna alle ar-
586 ROBERT BOROFSKY

mi mediche del debole, e osserva che “la presenza della sofferenza, soprattutto quan-
L’importanza do viene espressa nel linguaggio dei sintomi, denuncia il divario tra corpi che rifiuta-
delle dinamiche
politiche
no di soffrire in silenzio e gli le richieste degli antagonisti ordini economici e sociali”
(p. 292). Sebbene si debba fare attenzione a non considerare il potere come un nuovo
termine del gergo antropologico – un termine dotato di un’importanza più retorica
che concettuale – la sola cosa che ci può esser d’aiuto è constatare come vi siano an-
cora importanti problemi da affrontare. In passato, gli antropologi hanno spesso tra-
scurato le dinamiche politiche interne e/o al di là delle comunità locali che studiava-
no. È giunto il momento di occuparci in prima persona di questi problemi.

L’importanza dell’antropologia nel mondo moderno


Se si considera la distanza esistente fra gli alti ideali della visione morale dell’an-
Il valore tropologia e la realtà di quanto ha compiuto nella pratica ne nascono domande im-
dell’antropologia portanti: che valore ha l’antropologia come disciplina intellettuale? A quali proble-
oggi
mi dovrebbe rivolgersi nel mondo attuale? Quali sono i traguardi che potrebbe rea-
listicamente raggiungere?
Come tutti i saggi della raccolta hanno riconosciuto, i risultati ottenuti dall’an-
tropologia nell’affrontare i moderni problemi sociali sono in certo senso diseguali.
Gli scarsi successi “Ciò che vi è di non-detto nella maggior parte degli attuali scritti antropologici par-
della disciplina in la in modo assordante se solo ci fermiamo a ascoltare”, osserva Keesing a p. 374;
ambito pratico l’antropologia infatti – nota l’autore – ha ignorato “il terrore di stato contempora-
neo… accettando passivamente l’economia politica del capitalismo mondiale che
continua a sottrarre ricchezze ai paesi del Terzo Mondo lasciandoli preda del debi-
to”. Quanto a Barth, egli nota a p. 426 che

L’antropologia ha purtroppo avuto ben poco da dire sul fenomeno della grande povertà
che sempre più affligge centinaia di milioni di persone in tutte le principali città del mon-
do. Né siamo stati capaci di assumere una posizione o anche di interessarci concretamen-
te al fatto che l’attività umana sembra distruggere l’ambiente dell’uomo nella sua totalità.
Infine ci stiamo occupando solo marginalmente del crescente pluralismo ed eterogeneità
culturale nel mondo nell’attuale contesto della comunicazione.

Salzman ipotizza a p. 54 che “il nostro lavoro rimane al margine delle vite [dei nostri
informatori]”; e Godelier si domanda: “Le scienze sociali sono capaci solo di inse-
guire gli eventi, di analizzare le società senza notare che sono già in via di dissolvi-
mento? Non sono mai in grado di prevedere nuovi sviluppi?” (p. 131). E rievocando
il proprio apprendistato ad Harvard, DaMatta ricorda (p. 157) “discussioni vivaci
fra professori gentili e studenti vociferanti, ma che rimanevano al di fuori di questio-
ni politiche non considerate parte della formazione di un antropologo sociale”.
Un quadro di Forse ciò in cui l’antropologia può riuscire meglio – dinanzi agli incontrovertibili
riferimento
morale
dati di fatto dei problemi e della politica moderni – è creare un quadro di riferimen-
to morale, in un mondo post-illuminista nel quale la razionalità secolare ha messo in
crisi – quando non ne ha addirittura preso il posto – i valori religiosi come metro di
valutazione e sviluppo dei rapporti umani. Proprio questo è il problema che si pose
a Durkheim nel ruolo di agente della trasformazione educativa in seno alla Terza Re-
pubblica francese – un problema che egli affrontò in modo diretto ne La divisione
del lavoro sociale, e indirettamente in Le forme elementari della vita religiosa.
Dai tempi in cui i giacobini avevano distrutto il cattolicesimo in Francia, tentando poi di
colmare il vuoto morale creatosi con l’invenzione di una artificiale Religione della Ragio-
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 587

ne, sino al Nuovo Cristianesimo di Saint-Simon ed alla Religione dell’Umanità di Comte, La moderna
i pensatori laici francesi erano stati alle prese col problema di come mantenere in vita la epistemologia e
moralità pubblica e privata senza sanzioni religiose: si erano chiesti, proprio come Ivan il rischio della
perdita del senso
Karamazov [nel romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov]: “Ora che Dio è morto,
non diviene forse lecita ogni cosa?” (Coser 1971, p. 137).

“Ci troviamo dinanzi a una terribile contraddizione”, nota Rappaport a p. 205:

Il nuovo ordinamento della conoscenza che ha liberato gli esseri umani, permettendo
loro di scoprire le leggi del mondo fisico, si oppone non solo alla superstizione, al
dogmatismo e all’irrazionalità ma anche ai processi reali attraverso i quali sono create
e ordinate le componenti specificamente umane del mondo. L’epistemologia della
scienza moderna minaccia di distruggere la base ontologica del significato. Detto altri-
menti, nel tentativo di scoprire gli aspetti fisici del mondo ne miniamo le fondamenta
convenzionali.

In relazione a questa tematica, Lévi-Strauss si chiede a p. 514 se le società occi-


dentali siano oggi capaci di “mantenere o generare valori intellettuali e morali abba-
stanza forti da attrarre quella gente straniera cui vorrebbero farli adottare”. E Das
(p. 179) parla di “ri-moralizzare aree della vita private di significato morale dalla cre-
scita di una razionalità impersonale e burocratica”. Citando Saran, poi, l’autrice pro-
segue: “Per lui lo sviluppo della tradizione è non tanto un ritorno a un passato glo-
rioso, quanto lo sviluppo di un concetto diverso di ‘normalità’ che può sfidare… le
patologie della società moderna” (p. 179). Ed è proprio questo il senso che Bellah,
Madsen, Sullivan, Swidler e Tipton (1991, p. 86), nel valutare la possibilità di una
Good Society in America, assegnano alla citazione di Lewis Mumford: “Il grande do-
no della civiltà… è duplice: una tradizione culturale in cui identificarci e una visione
di rinnovamento che ci spinga ad andare avanti”.
L’antropologia sottolinea tre elementi necessari a costituire un quadro di riferi- Il sentimento di
mento morale nel mondo moderno. In primo luogo, come ho più volte notato, l’an- comunità morale
tropologia amplia il nostro sentimento di essere una comunità morale: come affer-
ma Rappaport “l’etnografia dovrebbe mettere a disposizione dell’umanità intera ciò
che scopre… in singole società, in modo che l’umanità intera… possa dar vita a
concezioni più ampie di se stessa e del suo posto nella natura” (1986, p. 347). Inve-
ce di un individualismo di tipo lockiano (in cui i singoli individui, perseguendo i lo-
ro scopi personali, creano il bene comune mediante le “leggi” economiche), l’antro-
pologia mette in luce il nostro inestricabile rapporto gli uni con gli altri, la nostra
umanità condivisa che va al di là dell’individualismo, sino a dar vita a un senso di
appartenenza alla comunità degli umani.
È importante individuare questa prospettiva, soprattutto dovendo far fronte a
un’istanza critica: quali standard morali si debbono applicare nell’ambito di questa
comunità più vasta? I vari saggi abbozzano in proposito varie opzioni possibili:
Barth sottolinea a p. 427 il bisogno di una versione debole di relativismo che favo-
risca “il progetto che vuole trasformare l’antropologia in un fondamento comune
per l’umanità, un universo di discorso atto alla discussione di tutte le forme cultu-
rali in modo da permettere alle persone di diverse origini di incontrarsi da pari a
pari”; Kottak e Colson sottolineano invece il bisogno di “rimettere in questione le
idee antiquate del relativismo culturale. Il nostro mondo ha bisogno di un consen-
so su quali sono i diritti umani fondamentali, e sui modi di garantirli” (p. 480);
Geertz infine ipotizza un quadro di riferimento in cui possa svolgersi la nostra ana-
lisi su queste tematiche:
588 ROBERT BOROFSKY

Gli usi della diversità culturale… non si situano lungo un percorso che ricolloca noi stessi in
rapporto agli altri e gli altri in relazione a noi stessi al fine di difendere l’integrità del grup-
po… [ma] si pongono lungo un percorso atto a definire il terreno che la ragione deve oltre-
passare se intende conquistare i suoi pur modesti traguardi e renderli effettivi (p. 556).
[Il] “capire”, inteso nel senso di comprendere, percepire e intuire, dev’essere distinto dal
“capire” come concordanza di opinioni, unione di sentimenti o comune fedeltà a dei va-
lori. Dobbiamo imparare a comprendere ciò che non possiamo accettare (p. 559).

In secondo luogo, da questo sentimento della comunità emerge la preoccupazione


L’importanza
dell’olismo e del dell’antropologia per l’olismo – per un senso di interconnessione non solo l’uno con
rapporto con l’altro ma con l’ambiente. Dobbiamo riuscire a comprendere come le persone soprav-
l’ambiente vivano in situazioni difficili, ben al di là della nostra agiatezza – in insediamenti abusi-
vi, campi di rifugiati, nella “insuperabile povertà” cui sono costrette “centinaia di mi-
lioni di persone” (per citare le parole di Barth). Come può la gente resistere in condi-
zioni simili – cioè in quali modi, e come ciò influisce su loro stessi e sugli altri? (A
questo proposito ci viene in mente la poesia di Sandburg, La gente andrà avanti: “la
gente è così brava a rinnovarsi e a reagire / non si può ridere di questo, che sappiano
riuscirci”). L’importanza che l’antropologia attribuisce all’osservazione partecipante ci
dà modo di conoscere individualmente le persone che vivono in condizioni simili, e di
descriverle in termini personali che gli altri saranno in grado di comprendere.
Come sottolinea Rappaport, non viviamo solo in un ambiente, ma siamo parte di un
ambiente. Sia il nostro presente che il nostro futuro sono modellati dai mutui rapporti
che ci tengono uniti. “Dato il potere che ha l’umanità di costruire e distruggere, e la
sua posizione di dominio negli ecosistemi che essa stessa destabilizza, la sua responsa-
bilità non può più limitarsi a investire se stessa, ma deve riguardare il mondo come to-
talità”, sottolinea Rappaport a p. 208. “Se l’evoluzione, umana e non, deve continuare,
Il valore della l’umanità deve cominciare a pensare non solo al mondo, ma nell’interesse del mondo”.
diversità culturale In terzo luogo, infine, l’antropologia ci aiuta a ritrovare il valore della (compren-
sione della) diversità culturale diffusa sull’intero pianeta. Afferma Geertz a p. 557:

Qualunque cosa sia stata possibile in passato e qualsiasi cosa sia oggi auspicabile, il predomi-
nio di ciò che è familiare impoverisce chiunque; nella misura in cui avrà un futuro, oscurerà
il nostro. Non voglio dire che dobbiamo amarci l’un l’altro o morire (se fosse così credo che
saremmo condannati: basta pensare ai rapporti tra neri e afrikaners, arabi e ebrei, tamil e sin-
galesi); dobbiamo invece conoscerci l’un l’altro, e vivere con il possesso di questa conoscenza
– o altrimenti finiremo per restare bloccati in un mondo alla Beckett, di soliloqui stridenti.

E aggiunge:

Comprendere ciò che ci è estraneo in una qualche modo, e che verosimilmente resterà ta-
le, senza minimizzarlo con vaghi commenti di “varia umanità”, senza vanificarlo con un
atteggiamento indifferente alla “a ciascuno il suo” né respingerlo, considerandolo affasci-
nante e persino attraente ma illogico, è un’abilità che dobbiamo faticosamente apprende-
re; e una volta appresala (sempre in modo molto imperfetto) dobbiamo continuamente
sforzarci di tenerla in vita: non si tratta infatti di una capacità connaturata in noi come la
percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, su cui possiamo fare affidamento
senza alcun timore (p. 559).
Gli strumenti
limitati I poteri di persuasione dell’antropologia, comunque, sono limitati. Come nota
dell’antropologia Moore a p. 453, “l’antropologia stessa è intrappolata nel proprio momento storico”.
Ma vi sono almeno tre cose che la disciplina può fare per dar forza al realizzarsi del-
la sua visione.
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 589

Anzitutto essa può agire come pubblico testimone, registrando e raccontando i no-
stri tempi – trasmettendo ad altri il proprio modo di comprendere cosa significhi vive-
re negli angoli più remoti del pianeta, rendendo note le sofferenze e le gioie che esisto-
no nascoste nell’ombra, al di là delle nostre certezze. Quando scrittori locali, poeti ed L’antropologia
artisti si assumono questo ruolo, gli etnografi possono rappresentare un’influente voce testimone dei
in più, a sostegno di ciò che dicono – arricchendo la nostra comprensione moltiplican- nostri tempi
do le prospettive in gioco. Come scrive DaMatta a p. 160, “Non si può dimenticare
che testimoniare è una parte centrale della nostra pratica di studiosi”. L’etnografia, af-
ferma Nader (1969, p. 279) rende “visibile la condizione delle vittime” – ed è proprio
quanto la Scheper-Hughes fa nella sua descrizione delle condizioni di vita nel Brasile
nordorientale. Nel suo libro Death without Weeping, così, l’autrice afferma che “testi-
moniare è ciò che conferisce al nostro lavoro il suo carattere morale (a volte quasi teo-
logico)” (1992, p. XII). “Quelle che sto per descrivere non sono esistenze comuni”, af-
ferma, “ma vite brevi, violente e dominate dalla fame. Sto per indurvi a dare uno
sguardo… attraverso una lente oscurata”. “Senza l’etnografia”, osservano Marcus e Fi-
scher (1986, p. 156), “ci si può soltanto immaginare quello che accade agli attori socia-
li còlti all’interno di complessi processi macrodimensionali... è l’etnografia che registra
il cambiamento con la massima sensibilità sul piano dell’esperienza”.
L’antropologia ha fatto già molto a questo riguardo, e ha molto di cui andare or-
gogliosa. Ma vi sono anche alcune notevoli lacune nella sua testimonianza: infatti, Il bisogno di
per una disciplina come l’antropologia che più volte si è rimproverata i propri pas- descrivere gli
sati legami col colonialismo, l’assenza di una descrizione del moderno terrore nel orrori
contemporanei
Terzo Mondo è davvero degna di nota. E tuttavia gli orrori dei Khmer rossi (in
Cambogia), della Renamo (in Mozambico), dei “generali” (in Argentina e Cile), di
Mobutu (in Zaire), i conflitti etnici (in ex Iugoslavia) e la fame (in Somalia) si an-
nunciano tragicamente come fenomeni che devono esser descritti, se solo abbiamo
il coraggio di studiarli. Esemplari in tal senso sono studi antropologici come quello
di Taussig (1987) e quelli di Nordstrom e Martin (1992) (cfr. Timmerman 1981).
Nordstrom (1992, p. 261) riesce a trasmetterci una sensazione di ciò che può signi-
ficare il terrore politico.

Sia lo stato… che le forze della guerriglia [in Mozambico e nello Sri Lanka] fanno uso
del terrore… come di un meccanismo che consenta loro di acquistare e conservare il con-
trollo sociopolitico sulla popolazione… Le guerre sporche perseguono la vittoria non con
strategie militari e di battaglia, ma con l’orrore. Gli obiettivi tattici divengono i civili piut-
tosto che i soldati, la paura, la brutalità e il massacro sono le basi su cui fondare il rag-
giungimento del controllo.

Taussig (1987, p. 8) sottolinea anch’egli questo punto. I regimi repressivi fanno L’elaborazione
uso della “elaborazione culturale della paura” per “controllare intere masse di po- culturale della
polazione, intere classi sociali, e persino nazioni”. “Le culture del terrore si nutrono paura
di una miscela di silenzio e mito”. Inoltre, dobbiamo anche descrivere il rapporto
simbiotico che si è sviluppato fra le élites indigene e gli aiuti provenienti dall’ester-
no – cioè il modo in cui, con il sostegno di fondi stranieri, le élites indigene hanno
spesso reciso i vincoli morali che le univano alle proprie masse, maltrattandole ed
ignorandole quando erano in grado di farlo (cfr. K. E. Friedman 1994).
In secondo luogo, oltre a comportarsi da testimone, l’antropologia può aiutare a
elaborare una formulazione concettuale delle dinamiche alla base dei moderni pro-
blemi sociali. Comprenderle non è necessariamente facile: c’è spesso un eccesso di
informazioni e una disponibilità limitata di sintesi analitiche (“riceviamo tutti un
590 ROBERT BOROFSKY

numero talmente grande di informazioni per tutto il giorno da perdere il nostro


senso comune”, ebbe a dire una volta Gertrude Stein, 1973, p. 61). Dobbiamo capi-
re in che modo i diversi aspetti dei problemi attuali si intrecciano e adattano gli uni
con gli altri – cosa sia connesso in modo essenziale a cosa – per riuscire effettiva-
mente a dominarli e risolverli. L’antropologia occupa una posizione ideale in questo
processo: la disciplina può vantare la possibilità di far ricorso, per la soluzione dei
problemi, a un vasto insieme di ambiti disciplinari, a una miriade di prospettive dif-
Le aspirazioni ferenti. Rappaport allude a questo aspetto quando, a p. 206, afferma che “le qualità,
totalizzanti della che… spingono a volte a considerare l’antropologia come la più ‘arretrata’… tra le
disciplina
scienze sociali moderne, sono le stesse che le permetterebbero di assumere un ruolo
guida nello sviluppo della scienza postmoderna”. “Quanto più [gli economisti, i so-
ciologi e gli psicologi] sono attratti nei ristretti ambiti della predicazione meccanici-
stica”, afferma Tambiah (1985, p. 357), “tanto più cresce l’obbligo per l’antropolo-
gia di tener fede alle proprie aspirazioni totalizzanti”. (In relazione a questo fatto,
Kuper, a p. 153, prevede che “[per l’antropologia] la maggior parte delle innovazio-
ni teoriche della prossima generazione sarà interdisciplinare”).
Gli autori riescono a delineare importanti dinamiche. Godelier, ad esempio, af-
fronta il problema di come agisce il dominio in un gran numero di contesti (p. 139):
“quali sono i ruoli che la violenza e il consenso rispettivamente giocano nella genesi
e nella perpetuazione delle disuguaglianze sociali?”. Per timore che ci affrettiamo a
fornire risposte troppo semplici, egli ci ricorda a p. 140, seguendo Marx, la com-
plessità del problema: “L’ordine non dipende solo dalla repressione, ma dal silenzio
e dall’inganno” – un tema sviluppato anche da Willis nel suo libro Learning to La-
bor. Nader (alle pp. 125-126) formula ipotesi di lavoro riguardo alle condizioni, in
via di peggioramento, delle donne in alcuni ambienti moderni; Tambiah (p. 524) af-
fronta il problema (sollevato da Tagil) del “perché l’etnicità diventa più facilmente
causa di conflitti politici nelle società moderne e in quelle sulla soglia della moder-
nizzazione”; e Tishkov (a p. 447) si chiede perché il malcontento nei confronti del
La tematica dello
sviluppo vecchio sistema comunista sia stato incanalato in direzione dell’etnonazionalismo.
Mentre gli autori della raccolta non affrontano altre tematiche come ad esempio
quella dello sviluppo, recenti testi antropologici sull’argomento ci aiutano a definire
alcuni dei problemi implicati. Un esempio è The Anti-Politics Machine di J. Fergu-
son (1990, p. 256):

Riducendo senza cedimenti la povertà a problema tecnico, e promettendo soluzioni tec-


niche alle sofferenze di popoli inermi e oppressi, la problematica egemonica dello “svi-
luppo” è il mezzo principale attraverso il quale la questione della povertà è de-politiciz-
zata nel mondo attuale. Al tempo stesso, dando ai progetti internazionali per lo “svilup-
po” una grande visibilità, un progetto di “sviluppo” può realizzare operazioni politiche
estremamente delicate – tra cui il rafforzamento e l’espansione dei poteri dello stato isti-
tuzionale – in forma quasi invisibile, nascoste dietro la facciata di una missione neutrale,
tecnica, cui nessuno può opporsi. L’effetto è duplice: accanto all’effetto istituzionale del-
l’espansione del potere burocratico dello stato, infatti, vi è l’effetto concettuale o ideolo-
gico consistente nella depoliticizzazione della povertà e dello stato.

Il libro di Ritchie Becoming Bicultural (1992) e il saggio di Weiner Anthropolog-


y’s Lessons for Cultural Diversity sono parte di uno sforzo analogo di elaborare con-
cettualmente le complesse sottigliezze implicate dal multiculturalismo.
Infine, dato il fascino attuale che riveste nell’ambito delle scienze sociali, l’an-
tropologia ha un importante ruolo di persuasione da giocare nella nostra società. Si-
no a oggi, per la verità, l’antropologia ha conseguito solo limitati successi nello svol-
UNA VALUTAZIONE DEL CAMPO DI STUDI 591

gere questo ruolo; e come nota Das alle pp. 180-181 i problemi da superare in tal Il potere di
persuasione
senso non sono di facile soluzione: della disciplina

A differenza degli scienziati sociali [del passato] che giunsero nel mondo della conoscenza
come parte di un’impresa nazionalista e anticoloniale, la generazione moderna degli scien-
ziati sociali in India deve convivere con la distruzione della certezza in quanto condizione
nella quale impegnarsi per produrre conoscenza sulla società indiana. Non possono “rap-
presentare” l’India come se l’India fosse assente e silenziosa. Possono soltanto inserire le
loro voci all’interno di una pluralità di voci nella quale ogni tipo di affermazione – pre-
scrittiva, normativa, descrittiva, indicativa – intraprende una battaglia virtuale sulla natura
della società indiana e sullo spazio legittimo riservato alle scienze sociali in questa società.

Eppure c’è un potere di persuasione, esercitando il quale si può render possibi-


le il cambiamento. L’antropologia può avere un impatto notevole (come testimonia
il suo coinvolgimento in Cultural Survival); ma deve imporsi con maggior forza in
ambito pubblico. E deve parlare chiaro e tondo col potere che essa stessa ha contri-
buito a creare – diventando una voce autorevole nelle discussioni pubbliche e nei
progetti di mutamento.
C’è una buona dose di verità in ciò che afferma Rappaport a p. 207, sostenendo
che bisogna giudicare l’antropologia non solo per le sue idee ma per i risultati so-
ciali che ha ottenuti:

ciò che Toulmin definisce ‘scienza postmoderna’, rappresenta un ordine di conoscenza e


azione, nel quale sia chi cerca di scoprire leggi naturali, sia chi cerca di comprendere la Una sfida:
natura dei significati costruiti, finiscono per riconciliarsi con un mondo che non soltanto migliorare le
osservano entrambi, ma del quale, nel bene o nel male, sono parte. relazioni umane
su scala
Barth formula una preoccupazione simile a p. 426: planetaria

la nostra disciplina [dovrebbe] alzare la voce, per definire le tematiche in forma tale da
attrarre l’attenzione degli studiosi e del pubblico; e infine credo che dovremmo ammette-
re che le potenzialità delle nostre teorie spesso possono essere testate proprio alla luce
della loro rilevanza in questioni pratiche.

Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere; ma è un obiettivo verso cui ab-


biamo bisogno di tendere. Rappresenta una sfida per l’antropologia, che deve fare
di più di quanto abbia fatto in passato; ma al tempo stesso trae sostegno proprio da
questo passato. La sfida dinanzi alla quale si trova oggi l’antropologia è nientemeno
che di migliorare le relazioni umane su scala planetaria – un compito davvero diffi-
cile, in un’era come la nostra contrassegnata sempre più dalla globalizzazione. Un progetto per
il futuro
Riunire le prospettive di diversi autori in questo volume ci ha consentito di com-
prender meglio il senso dell’antropologia culturale attuale con le sue dinamiche.
Abbiamo appreso molto circa lo stato presente della disciplina, e qualcosa su quale
potrebbe essere il suo futuro. Voglio però sottolineare che questo testo non è e non
può essere un prodotto isolato: è parte di una discussione più ampia. Il suo valore
sta non solo in ciò che dice, ma in ciò che altri sono indotti a dire a partire da esso.
In un certo senso, prosegue una conversazione sul progetto dell’antropologia inizia-
ta più di un secolo fa, e formula prospettive assai significative perché questa con-
versazione possa svilupparsi negli anni a venire. Rappresenta insomma al tempo
stesso un’affermazione e una messa in discussione delle nostre tradizioni condivise,
delle nostre comuni speranze come comunità intellettuale.
Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre
quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre
alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito
riferimento.

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Indice dei nomi Batchelder, W. H., 219, 392
Bates, D., 14
Bateson, G., 128, 193, 194, 197, 206, 210,
230, 235, 286, 294, 315, 378-79, 390-91,
429, 471, 582
Bateson, W., 210
Battaglia, D., 252-53, 256, 267
Batterman, N., 341
Beaglehole, E., 235, 397, 401
Abedi, M., 76 Beaglehole, P., 397, 401
Abelson, R., 340 Beal, S., 123
Aberle, D., 299 Beattie, J. M., 26
Abruzzi, W., 101 Beauvoir, S. de, 84
Adams, R. N., 63, 191, 268, 272, 273 Beckenridge, C., 68
Agger, B., 398, 401 Beckett, T., 557, 588
Aginsky, B., 496 Beeman, B., 363
Aginsky, E., 496 Behar, R., 49
Alba, J., 362 Beidelman, T., 169
Alexander, J., 43 Beissinger, M., 542
Allen, R., 420 Bell, D., 78, 531
Alport, G., 96, 560 Bellah, R. N., 355, 587
al-Shidyaq, F., 121 Benedict, R., 90, 187-88, 249, 279, 299-300,
Althusser, L., 138, 139, 146 307, 315, 496, 582
Altorki, S., 216 Benfer, R., 422
Anderson, B., 302, 303, 526, 544, 567, 570 Bennett, W., 337
Anderson, J. P., 342, 403 Bentham, J., 81
Appadurai, A., 68, 236, 442 Berg, G. M., 278
Ardener, S., 49, 238, 496 Berlin, I., 80, 195, 395, 403
Arensberg, C., 86, 209, 274, 294 Bernard, H. R., 15-16, 20, 28, 35, 43, 184-
Arkusch, R. D., 123 85, 189, 212-224, 417, 580, 582-83
Armillas, P., 279 Bernardi, B., 309
Aronowitz, 578 Berreman, G. D., 222, 294
Arutyunyan, V. B., 543 Bhaskar, R., 401
Asad, T., 18, 58 Biersack, A., 123, 267
Austin, J. H., 197, 210, 532 Biglan, A., 101
Ayoub, V., 62, 63 Bilmes, J., 417, 422
Birdwhistell, R. L., 327
Babcock, B., 286 Blau, P., 532
Bachtin, M., 167, 292, 349, 465, 544, 545 Bloch, M., 11, 20, 22, 28, 34-35, 42, 96, 112,
Balandier, G., 145, 273 252, 266, 278, 300-301, 307, 339-47, 384,
Balee, W., 101 417-18, 566, 568, 570-72, 582
Ballard, D., 344 Boas, F., 12, 15, 17, 21-22, 25, 30, 37, 49, 50,
Balzer, M., 542 57, 67-68, 78, 90, 96, 102, 108, 149, 151,
Banfield, E., 184-85, 187, 214-15, 221-24, 227-28, 233,
Barnes, J., 24, 308, 497 249, 270, 279, 299, 300, 308-309, 377, 383,
Barnett, H. G., 16, 26 385, 494, 496, 502, 516, 564
Barrau, J., 146 Bodley, J. H., 491
Barsegyan, H., 543 Bohannan, L., 497
Barth, F., 12, 15-16, 19, 20-21, 23, 26, 29, Bohannan, P., 17, 51, 127, 322, 497
32-35, 54, 58, 63, 106, 210, 250, 382, 384, Boltanski, L., 289
395-96, 399-400, 403, 409, 422, 425-39, Bolton, R., 282
440, 443, 568, 570, 574, 579, 581-82, 586- Bond, G., 403, 481
88, 591 Bonjean, C. M., 310, 321
Bartlett, F. C., 362 Boon, J., 270
Basaglia, F., 295 Borgatti, S., 222
648 INDICE DEI NOMI

Borkenau, F., 166 Casagrande, J., 214, 223


Borofsky, R., 11-35, 37-38, 42-48, 49, 84, 89, Cassell, J., 219
106-114, 118-19, 184-93, 298-305, 307, Casson, R., 308, 362
361, 377, 382-91, 396-97, 400-401, 404- Castro Faria, L. de, 168
424, 430, 432, 500-506, 564-591 Cavafy, C., 551
Boster, J., 383, 392, 413, 422 Cavalli-Sforza, L. L., 400, 422
Bourdieu, P., 21, 150, 238, 244, 283-84, 288, Cavell, S., 78
349, 352, 355, 361-62, 375, 379, 411, 413, Chaiklin, S., 188
416, 449-50, 531 Chambers, E. K., 323
Bowerman, M., 341 Chapple, E. D., 128, 336
Boyd, R., 400 Chartier, R., 319
Boyer, P., 420 Chen, K., 422
Bradley, C., 481 Cheshko, S. V., 543
Bram, J., 279 Childe, V. G., 322, 385
Braroe, N. W., 22 Chock, P. P., 238
Braudel, F., 145 Chomsky, N., 118
Bricker, V., 350, 422 Chowning, A., 265, 267
Briggs, J., 60 Churchland, P. S., 344
Briskman, L., 400 Cirese, A. M., 38, 306-307, 309
Brislin, R. W., 216, 222 Cirese, E., 307
Bromley, Y. V., 542-44 Clark, M., 294
Bronson, B., 393 Claudi, U., 371
Brown, A., 420 Clemente, P., 38, 309
Brown, P., 267 Clifford, J., 45, 52, 68, 77, 79, 115, 156, 158,
Brown, Richard, 271 166, 185, 187, 193, 262-63, 374, 391, 399,
Brown, Roger, 340 442, 445, 461, 501, 508
Brudner-White, L., 493 Cocchiara, G., 308
Bruner, E., 223-24, 292 Cohen, A., 450
Brunton, R., 404, 411 Cohen, C., 98
Bryden, R., 399 Cohen, M. L., 401, 506
Buber, M., 199 Cohen, Y., 293
Bullemer, P., 420 Cohn, B., 29, 387-88, 457
Bultmann, R., 200 Colby, B. N., 250
Burghart, R., 174-75, 182 Cole, J. W., 280, 420
Burke, P., 301 Cole, M., 308, 422
Burling, R., 210, 419 Coleridge, S. T., 553
Burnham, L. F. S., 525 Collier, J. F., 20-22, 25-26, 31, 33-35, 106,
Burton, M., 481, 493 117, 184, 189-90, 236-251, 569, 570, 573,
Bykov, B., 542 574, 582, 584
Collingwood, 152
Cachia, P., 121 Collins, P., 402
Cafagna, A. C., 310 Colson, E., 15-16, 19-21, 24, 28, 30, 32-33,
Cancian, F., 218, 250 35, 111, 119, 129, 267, 294, 382, 386-87,
Cannell, F., 346 389, 394, 409, 422, 436, 478-97, 565, 570,
Cantoni, R., 305, 308-309 572, 575, 579-80, 582-83, 587
Cantor, N., 411 Comaroff, Jean, 27, 70, 292, 362, 450, 452,
Cardona, G. R., 308 543, 572, 575
Cardozo de Oliveira, R., 158-59, 168 Comaroff, John, 27, 362, 452, 466, 542, 572,
Carlson, N., 362 575
Carmack, R. M., 480 Comte, A., 43, 213, 221, 587
Carrier, J., 258 Conaway, M. E., 216
Carrithers, M., 44, 501, 580 Condominas, G., 495
Carsten, J., 347 Conklin, H. C., 146, 209, 333, 378
Carter, P., 577 Connerton, P., 411, 416
Cartesio, R., 194-95, 206 Connor, W., 505, 542, 544
INDICE DEI NOMI 649

Coon, C. S., 122, 336 Doughty, P., 502


Coppet, D. de, 252 Douglas, A., 515
Coser, L., 587 Douglas, M., 161, 186, 283, 292, 308, 310,
Costa, A., 487 423
Cotrell, L. S., 337 Dreyfus, H., 192, 342-43, 346, 417-18
Crapanzano, V., 27 Dreyfus, S., 342-43, 346, 417-18
Crick, M., 482 Driver, H., 224, 385
Croce, B., 306 DuBois, C., 78, 293
Cunha, C., 166 Dumézil, G., 519
Dumont, L., 21, 113, 137, 140, 158, 164,
Dahrendorf, R., 61, 250 166, 169-75, 177, 180-81, 322, 567, 585
Dalton, G., 146 Dunlop, I., 146
DaMatta, R., 15, 20-22, 27, 29-31, 35, 45, Durkheim, É., 17, 86, 109, 137, 150, 182,
112-15, 156-169, 187, 191, 286, 292, 577, 187, 210, 281, 283, 299, 308, 311, 322,
580-82, 586, 589 362, 412, 421, 439, 458, 467, 497, 532, 586
Damon, F., 252 Dutter, L. E., 543
D’Andrade, R., 188, 218, 308, 340, 355, 357, Dworkin, R., 555
362-63, 365-66, 410, 416, 566
Danto, A., 551-53 Eades, J., 483
Darnell, R., 100 Earle, T. K., 100, 275, 278
Darwin, C., 15, 103, 149, 395 Edmonson, M., 250
Das, V., 15, 20-21, 29, 31, 35, 112-15, 170- Eggan, F., 49, 62, 63, 107-109, 438, 560-61,
182, 187, 567, 577, 578, 580, 584, 587, 591 581
Davidson, D., 403 Eiseley, L., 12, 14, 23, 33
Davidson, L., 292 Eisenhart, M., 27
Davis, J., 57, 110 Eliot, T. S., 569
Davis, N. Z., 286 Elkana, Y., 38-39
de Certeau, M., 292 Ellen, R., 39, 411
DeHavenon, A. L., 99 Elphick, R., 481
Dei, F., 39 Elster, J., 400, 403
de la Fuente, J., 128 Ember, G., 11, 14
DeMan, P., 91, 101 Ember, M., 11, 14
De Martino, E., 50, 306, 309, 390 Emory, K., 209
Dening, G., 424, 466, 573 Engels, F., 47, 157-58, 270, 457
Derrida, J., 21, 91-92, 101, 368 Epstein, A. L., 273
De Sanctis, F., 306 Epstein, S., 493
Despres, L., 101 Epstein, T. S., 479
Deutsch, K. W., 167 Eraclito, 200-201, 208, 213
Deutscher, I., 218 Eribon, D., 24, 509-19
Devereux, G., 235 Erikson, E., 209, 294
DeVos, G., 294 Escolano, I., 493
DeVoto, B., 21, 161-62, 167, 581 Esman, M. J., 521
Dewey, A., 560 Estroff, S., 191
Diamond, N., 210, 502 Etienne, M., 245
Diamond, S., 86, 279 Evans-Pritchard, E. E., 14, 24, 26, 30, 38,
Diaz, M., 294 49, 53, 63, 78, 90, 125, 161, 167, 186-87,
Diener, P., 99 293, 312, 322, 385, 394, 423, 424, 441,
di Leonardo, M., 573 497, 532, 579
Dilthey, W., 44, 157
Divale, W., 101 Fabian, J., 38, 75, 116, 373, 385, 440, 441
Dollard, J., 337 Fabrega, H., 422
Dominguez, V., 422 Fagg, D., 560
Donham, D., 249-50 Fahim, H., 585
Dornbush, S., 422 Fallers, L. A., 62, 86, 129, 560-61
Dorsey, J. O., 383, 392 Fanon, F., 505
650 INDICE DEI NOMI

Fardon, R., 30, 401, 454 Garro, L., 422


Farr, J., 400 Gatens, H., 371
Favret-Saada, J., 285 Gattuso, B., 340
Feher, M., 292 Geertz, C., 11, 15, 20-22, 26, 28, 33-36, 44,
Feinman, G. M., 275 46, 49-50, 52-54, 60, 62, 78-79, 81, 91,
Feirman, S., 48 114, 129, 161, 163, 167, 172, 217, 270,
Feldman, J., 344 275, 283, 302, 304, 308, 310, 312, 330,
Feldman, M. W., 400, 422 361, 362, 391, 398, 401, 416, 441, 506,
Ferguson, B., 101 507-508, 546-561, 571, 582, 587-88
Ferguson, J., 590 Gellner, E., 37, 39, 63, 451, 543, 544
Fernandez, J., 30 Gerdes, G., 292
Fillmore, C., 340, 366 Gibson, J., 418
Finnegan, R., 422 Giddens, A., 150, 416, 578
Firth, R., 423, 438-39, 497, 579-81, 585 Gillison, G., 252, 267
Fischer, M. M. J., 16, 29, 33, 45, 73, 76, 78- Gittelman, Z., 540
79, 100, 184, 363, 368, 389, 453, 589 Givens, D., 10
Ford, C., 337 Glazer, M., 17
Forde, D., 388, 423, 497 Glazer, N., 521, 526
Forge, A., 261 Glenn, S., 101
Fortes, M., 14, 18, 22, 51, 78, 140-41, 155, Gluckman, M., 51, 78, 129, 152, 160, 166,
161, 187, 190, 237, 240, 253, 255-56, 258- 270, 286, 322, 454, 492, 496-97, 532, 582
60, 265, 312, 321-22, 347, 389, 423, 478, Glucksberg, S., 411
497, 532, 562, 579 Godelier, M., 18, 20-22, 26-28, 30, 32-36,
Foster, G., 129, 294, 404, 488, 493, 583 47, 49, 58, 106, 112, 113-14, 131-148, 190,
Foucault, M., 21, 84, 91, 101, 145, 157, 192- 272, 308, 397, 459, 565, 568, 572, 574,
93, 269, 282-84, 292, 294, 368, 372, 375, 582, 584, 586, 590
377, 379, 413, 453, 541, 551 Goffman, I., 86, 230
Fowler, H. W., 406, 432 Golde, P., 216
Fox, J., 169 Goldman, I., 270
Fox, R. G., 33-34, 240 Goldschmidt, W., 298
Frake, C., 378 Goldstein, L., 310
Frankenberg, R., 281, 292 Gonzalez, N., 483
Frazer, J., 12, 17, 25, 26, 67, 107, 157-58, Gonzalez Ventura, J., 222
185, 214, 311, 322-23, 346, 385, 509 Good, K., 101
Freedman, M., 307 Goodenough, E. R., 338
Freeman, D., 21, 32, 216, 259, 481, 583 Goodenough, R. G, 338
Freeman, L. C., 218 Goodenough, W. H., 15, 20, 30, 32, 35, 184,
Freeman, S., 218 240, 300-301, 304, 308, 311, 324-38, 378,
Freeman, W. J., 355, 362 416, 568, 570-71, 582
Freud, S., 63, 80, 82, 85-86, 140, 281, 287, Goody, E., 266
322, 458, 518 Goody, J., 20, 31, 34, 35, 36, 78, 112, 126,
Freyre, G., 164, 167 140-41, 238, 236, 300, 306, 308, 310-23,
Fried, M., 86, 102, 209, 279, 385, 402, 423, 494 399, 515, 532, 565, 566, 569, 570
Friedl, E., 223, 237 Gopal, S., 177
Friedman, J., 237 Gorbaciov, M., 534, 542
Friedman, K. E., 589 Gordon, D., 49
Furbee, L., 422 Gordon, R., 62
Furnivall, J. S., 524, 528 Gough, K., 323
Gould, J. S., 392-93, 396, 403
Gailey, C. W., 275, 398 Graburn, N., 482
Gallagher, A. Jr., 478 Graebner, F., 26, 385
Gamsakhurdia, 541 Gramsci, A., 21, 126, 305, 306-309, 375,
Gandhi, M. K., 122, 179-80, 549 377, 379
Gardner, P., 404 Granzberg, G., 484
Garfinkel, A., 401, 403 Graves, R., 317
INDICE DEI NOMI 651

Green, R., 209 Heine, B., 372


Greenberg, J., 560 Heizer, R., 130
Greenblatt, S., 461 Hellman, E., 484
Greenhouse, C., 120 Hendon, R., 560
Greenwood, J. D., 399 Herbert, C., 302
Gregory, D., 493 Herskovits, M., 12, 17, 26, 310, 497, 501, 580
Griaule, M., 30, 187, 190, 510 Herzfeld, M., 76
Grice, H. P., 412 Hewlett, B. S., 401
Gross, D., 101 Hicks, G. L., 22
Grossberg, L., 375 Hoben, A., 480
Guboglo, M. N., 543 Hobhouse, 386
Guha, R., 180, 372, 375-76, 379, 460, 468 Hobsbawm, E., 287, 324, 505, 544-45,
Guskova, E., 542 Hocart, 474
Guyer, J., 481 Hoebel, E. A., 120
Hoernle, W., 497
Haas, J., 101 Holland, D., 27, 189, 341, 347, 362-66, 414, 417
Habarad, J., 490 Hollos, M., 364
Habermas, J., 150, 452 Holmberg, A., 502
Haddon, A., 210 Holy, L., 106, 399, 451
Hahn, 32 Homans, G., 78, 322
Haier, R. J., 418 Honigman, J., 33
Hajda, L., 542 Honoré, A. M., 395
Hale, K., 223 Horowitz, D. L., 523-24, 529-31, 541
Hall, D., 319, 375 Hough, J. F., 543
Hall, P., 27 Howard, A., 423, 573
Hall, S., 375, 377, 379 Howell, C., 561
Hallowell, A. I., 186, 338, 386, 388, 580 Hoy, D., 101
Hallpike, C. R., 308, 394 Hsu, F., 166
Hammel, E., 294 Hubert, J., 261
Handler, R., 400 Hugh-Jones, C., 308
Hannerz, U., 236, 388, 450 Humphrey, C., 482, 542
Hanson, A., 481 Hünnemeyer, F., 371
Harkness, S., 355 Hunt, G., 221
Harner, M., 101 Hutchins, E., 343
Harrington, D., 415 Huyssen, A., 375
Harris, M., 11, 14-15, 20, 24, 30, 32-35, 36-37, Hymes, D., 29, 33, 129, 294, 501
39, 42-43, 46, 48, 50, 58, 80, 86, 88-104,
106, 112, 122, 137, 184, 186, 209, 298, 394, Illich, I., 286
397-98, 410, 422, 494-95, 568, 574, 579, I-Sha’rawi, S., 115-124
582-85 Ishihara, S., 122
Harris, O., 123
Harrison, J., 323 Jablonko, A., 146
Hart, H. L. A., 395 Jablonko, M., 146
Hasher, L., 418 Jacobs, A., 216
Hatch, E., 17, 33, 298, 445 Jacobs, S. E., 219
Haudricourt, A.-G., 341 Jakobson, R., 516-17, 532
Haviland, W., 404 James, A., 287
Hayden, B., 101 James, C. L. R., 279
Hays, T., 404, 410 James, Wendy, 482
Headland, T., 94 James, William, 363
Hebb, D. O., 351 Jameson, F., 74
Hecht, J., 398 Jessup, T., 403
Hefner, R. W., 401 Johnson, A., 100
Hegel, G. F., 83, 146, 270, 466, 519 Johnson, J., 219
Heidegger, M., 201 Johnson, M., 371, 416
652 INDICE DEI NOMI

Johnson-Laird, P., 340 Kozlov, V., 542-43


Jolly, M., 267, 373 Krieger, L., 217
Jones, J., 551-52, 555 Kroeber, A., 13, 17, 23-24, 25-26, 33, 49-50,
Junod, H., 103 102, 128-29, 187, 214-15, 221, 224, 298-
Justice, J., 480 301, 304, 309-11, 383, 385-86, 389, 440-
41, 455, 501, 564, 582
Kaberry, P., 188 Kronenfeld, D., 417
Kahn, C. H., 146, 199 Kuhn, T., 90, 551
Kahn, J., 347 Kung, H., 199, 202, 204
Kandel, E., 362 Kuper, A., 14, 15, 17, 18, 20-22, 32, 33-36,
Kant, I., 145, 362, 476, 518 106, 112-14, 149-55, 253, 265, 267, 377,
Kapferer, B., 118, 120, 480 426, 579, 581-82, 590
Kaplan, A., 43 Kuper, H., 455
Kaplan, D., 29 Kuper, J., 14, 18, 377
Karamzin, N. N., 543 Kuznar, L. A., 37, 39
Kardiner, A., 235, 338
Kay, P., 308, 401 Ladurie, L. E., 286
Keefer, C. M., 355 La Fontaine, J., 267
Keeley, L., 101 Laing, R. D., 294
Keesing, F. M., 13, 423 Lakatos, I., 90
Keesing, R. M., 13-15, 19-20, 21, 32-35, 111, Lakoff, G., 366, 371, 377
186, 298, 301, 302, 305, 310, 321, 328, Lakoff, R., 412
367-79, 387, 413, 422, 425, 471, 482, 566, Lamphere, L., 123, 573
572, 577-78, 580, 582, 585-86 Lan, D., 273, 347
Keil, F. C., 341 Lancaster, N. R., 292
Keller, C., 411 Lane, E. W., 120, 121
Keller, J. D., 411, 422 La Pierre, R. T., 218
Kelly, R., 333 Laraia, R., 169
Kemper, P. V., 488, 493 Latour, B., 71, 186
Kilani, M., 507-08 Lattimore, 458
Killworth, P. D., 218, 223-24, 417 Lave, J., 169, 188, 341, 409, 412, 418, 422-23
Kincaid, H., 403 Lawrence, P., 253, 254, 255
King, V. T., 394 Leach, E., 29, 54, 78, 128, 140, 144, 146,
Kinsey, A., 393 168, 186-87, 236, 266, 303, 347, 378, 390,
Kirch, P. V., 278 438, 439, 497, 532, 582
Kirk, G. S., 199 Leach, M., 267,
Kirkpatrick, J., 188 Leacock, E. B., 147, 189, 245
Kleinknecht, H., 200, 208 Leaf, M., 14, 16
Kleinman, A., 182, 191, 285, 287, 292 Leavitt, G., 101
Kligman, G., 292 Lee, J., 492, 493
Kluckhohn, C., 13, 21, 25, 30, 49-50, 52, 62, Lee, L. O., 90, 123
78, 118, 127-29, 185, 188, 250, 298, 309- Lee, R., 147, 481
11, 378, 385, 441, 496, 560, 582 Leeds, A., 402
Knauss, P. K., 124 Lees, S., 403
Knowlton, B., 415, 422 Lehman, D., 101
Kobben, A. J. F., 126 Lehman, K., 223
Koch, K. F., 78 Leighton, A., 235, 496
Koppers, C., 385 Lenin, V., 101, 504, 506, 537, 544, 567
Kopytoff, I., 401 Leroi-Gourhan, A., 341
Koroteeva, V. V., 543 Levi, C., 306, 309
Kosslyn, S., 418 LeVine, R., 188, 364
Kottak, B. W., 493 Lévi-Strauss, C., 24, 312, 363, 367, 390, 405,
Kottak, C. P., 11, 13-14, 19, 20, 32-34, 89, 424, 455, 468, 471, 473, 477, 500, 501,
101, 111, 169, 210, 298, 382, 386-87, 389, 507, 509-19, 532, 546-50, 552, 553, 556,
404, 444, 478-99, 565, 572, 575, 579, 582-87 580, 582, 586
INDICE DEI NOMI 653

Levy, R., 13, 20, 25, 35, 184, 187, 188, 209, Mangin, W., 502
225-35, 420, 566, 571, 572, 578, 582, 583 Manners, R., 29, 86, 279
Lewis, G., 185, 422 Manolescu, K. M., 331-32, 334
Lewis, I., 287 Mantegazza, P., 50
Lewis, M., 63 Marano, L., 93
Lewis, O., 21, 27, 50, 59, 106, 111, 117, 214, Marcus, G. E., 15-16, 18, 20-22, 27, 29, 33-
221, 223, 583 34, 36-37, 39, 42, 45-46, 49-50, 64-79, 88,
Lieban, R., 423 90, 100, 106, 112, 115, 184, 368, 374, 389,
Lienhardt, G., 322, 323 391, 430, 453, 572, 575, 580, 583, 589
Lima, R., 166 Marder, E., 415
Limon, J., 292 Marett, R., 128, 496
Lindesmith, A., 188 Margolis, M., 101
Lindstrom, L., 470 Marriot, M., 286
Lineton, J., 401 Martin, E., 191, 288
Linnekin, J., 476, 576 Martin, J., 127, 589
Linton, R., 25, 188, 304, 309, 338, 385, 388, Martin, M. K., 245
496 Martin, R., 395, 401
Lipset, M. S., 167 Marx, K., 21, 47, 63, 81, 103, 113, 137-40,
Lithman, Y. G., 377 143, 145-47, 150, 157-58, 203, 250, 269,
Little, K., 62, 497 271, 281, 322, 363, 375, 377, 379, 397,
Llewellyn, K. N., 454, 455 413, 421, 424, 439, 457, 464-65, 518, 544,
Llobera, J. R., 39 582, 590
Lloyd, P., 79 Mascia-Leeds, F., 98
Lock, M., 83, 191, 281, 282, 284, 288, 292 Mathews, H., 422
Locke, J., 474, 475, 570 Mauss, M., 25, 109, 187, 283-84, 308, 341,
Lodge, D., 36-8 416,
Loftus, E. F., 354 Maybury-Lewis, D., 78, 167-69, 363, 378,
Loizos, P., 480 503
Lombroso, C., 50, McClelland, J. L., 347, 342, 362
Lonner, W. J., 216, 222 McCloskey, M., 411
Lord, A., 412, 422 McCormack, C., 267
Loux, F. J. F., 38 McDaniel, C., 493
Lowie, R., 17, 22, 26, 30-32, 161, 187, 214, McDonogh, G., 27
270, 301, 309, 407, 422, 513, 516, 579 McNabb, S. L., 218
Lukács, G., 162 Mead, M., 14, 21, 32, 38, 59, 90, 102, 167,
Lutz, C., 362 184, 187-88, 209, 214, 216, 222, 235, 293-
Lyotard, J. F., 38-39 94, 307, 315, 501, 582-83
Lyth, R., 460 Meggitt, M., 146, 210
Meillassoux, C., 138, 145-46, 237
Maalouf, A., 122 Melatti, J. C., 169
MacCormack, C., 237 Mencher, J., 99, 101
Maclachlan, M.,101 Merleau-Ponty, M., 84, 163, 281
Madan, T. N., 181 Mervis, C., 410, 418
Madsen, W., 587 Messerschmidt, D. A., 217
Magnarella, P., Metzger, D., 223
Maine, Sir H., 157-58, 265, 322, 553 Miceli, S., 39
Malagodi, E., 101 Michaels, E., 483
Malaurie, J., 517 Middleton, J., 497
Malinowski, B., 17, 25, 28, 31, 37-39, 49, 53, Mill, J. S., 80, 212, 221
57, 67, 90, 128, 129, 151-52, 161, 167, 185, Miller, B.,101
187, 271, 279, 309, 322, 333, 336-37, 345, Miller, D., 493
347, 419, 423, 439, 441, 442, 446, 447, Mills, C. W., 217
454-55, 496-97, 502, 532, 551, 556, 571, Miminoshvili, R., 543
579 Miner, H., 161, 167
Mandelbaum, D., 14, 496 Mintz, S., 279, 492, 572-74
654 INDICE DEI NOMI

Miranda, E., 169 Neumann, K., 70


Miranda, P., 169 Newell, A., 343
Mischel, W., 409-11 Newell, L., 249
Mitchell, C., 492, 497 Niedenthal, P., 412
Mitchell, D., 379, 420 Nietzsche, F., 102, 182, 470
Mitchell, J. C., 273, 483 Nimuendajú, C., 161
Mohamad, M. bin, 530 Nissen, M. J., 421
Molohon, K., 484 Nonini, D., 100
Moody, A., 362 Nordstrom, C., 590
Mooney, J., 385, 500 Nyerere, J., 446
Moore, B., 78
Moore, S. F., 16, 18, 20-21, 30-33, 301, 310, Oakley, A., 267
382, 388, 440-56, 481, 566, 568, 570, 574- O’Connor, F., 549, 555
75, 577, 580, 582, 588 Oden, G., 411-12
Moreno, A., 292 O’Laughlin, M. B., 240, 250-51
Morgan, L. H., 12, 17, 22, 25, 26, 67, 107, Olcott, M., 544
112, 132, 134-35, 149, 158, 237, 270, 384, Oleinyk, B., 543
483, 564 Olesen, V., 124
Morgan, S., 191 Oliver, D., 129, 236, 290, 379, 420, 424, 561
Morren, G., 101, 403 Oliver-Smith, A., 484
Morsy, S., 118 O’Neill, J., 293
Mosko, M., 252, 256, 260 Ong, A., 118, 288, 292
Motyl, A. J., 542 Opler, M., 533
Moynihan, D. P., 521, 526 Ortner, S., 14, 33, 49, 124, 190, 237-38, 243-
Mullings, L., 285, 481 44, 246, 270, 282, 356, 362-63, 572, 574,
Mumford, L., 587 579
Munachonga, M., 489 Ortutay, G., 412
Murdock, G. P., 78, 108, 110-11, 140, 224, Osburn, J. W., 460
309, 337-38, 562, 582
Murphy, R., 15-16, 20, 23, 31-32, 34, 42, 44, Pace, R. B., 486, 494
46, 48, 80-87, 92, 94, 96, 106, 494, 574, 582 Padfield, H., 474
Murray, G. F., 99 Padiglione, V., 310, 391
Musen, G., 415, 420 Padoch, C., 394
Musen, H., 420 Paige, J., 503
Mussolini, B., 100 Pain, E. A., 544
Paine, R., 437
Naddaf, S., 120-21, Palerm, A., 280
Naddaff, R., 292 Pandey, G., 176
Nadel, S. F., 14, 26, 48, 50, 56, 62-63, 106, Pandjikidze, G., 544
109, 116, 384, 441, 497 Papa, C., 39
Nader, L., 15-16, 18, 20-21, 25, 27, 33-34, Parnell, P. C., 481
78, 106, 111-12, 114-15, 116-130, 191, Parry, J., 347-48
250, 567, 572, 580, 583-85, 589-90 Parsons, E., 130, 188
Nagata, J., 526 Parsons, J., 102
Nagel, T., 559 Parsons, T., 54, 64, 78, 86, 250, 292, 311,
Naipaul, V. S., 551 313, 323, 497, 533, 561
Nair, K. N., 102 Paul, B., 252, 561
Nash, J., 121 Paulsen, A., 102
Nash, M., 562 Pausewang, S., 219
Needham, R., 79, 141, 170, 237, 379, 442 PDP Research, 350, 363
Nehru., J., 526 Peacock, J., 33, 405
Neitzel, J., 276 Peirce, C. S., 196, 198, 210, 532
Nelson, C., 124 Pelto, G., 224,-25, 384, 393, 423
Nelson, G., 376 Pelto, P., 384, 393, 423
Netting, R. M., 333 Pemberton, J., 401
INDICE DEI NOMI 655

Perepelkin, L. S., 544 Richerson, P. J., 400


Persitiany, J., 323 Ricoeur, P., 44, 157, 161
Peters, E. L., 64, 323 Riesman, D., 233
Petitto, L. A., 347 Ritchie, J., 590
Piaget, J., 363 Rivers, W. H. R., 144, 496
Pike, K. L., 93, 335 Robertson, A. L., 322, 480
Pilcher, W., 27 Robkin, E., 99
Pitt-Rivers, J., 58 Rofel, L., 249
Plattner, S., 212, 219 Rogoff, B., 409, 422
Plog, F., 14 Roheim, G., 235
Pocock, J. G. A., 277 Romney, A. K., 219, 308, 392, 422
Polanyi, K., 145, 476 Romney, K., 218
Pool, R., 397 Rorty, R., 127, 549, 550, 552, 556
Popov, A. A., 543 Rosaldo, M., 49, 123, 189, 193, 237, 245-46,
Popper, K. R., 63, 90, 392-93, 397, 403 249-51
Pospisil, L., 333 Rosaldo, M. S., 251
Pottier, J., 481 Rosaldo, R., 119, 193, 245, 249-50, 299, 572
Powdermaker, H., 27, 223, 279, 293-94, 582 Rosch, E., 340, 366, 410, 418
Practicing Anthropology, 483 Rosenbloom, P. S., 342
Pratt, M. L., 115 Rosenthal, D., 399
Price, B., 84, 87, 101, 308 Ross, E., 99, 101
Ross, J., 101
Quinn, N., 20-21, 34-35, 188, 304-305, 340, Roth, P. A., 401
346, 348-66, 384, 416, 422, 568, 571-72, Rouse, I., 12, 14, 23, 33, 249, 337
578 Rubinstein, R., 422
Rumelhart, D., 349, 362
Rabinow, P., 43, 192, 450 Rushdie, S., 181
Radcliffe-Brown, A. R., 17, 25, 49, 57, 62, Ryan, B., 532
82, 181, 186, 254, 258, 266, 293, 299, 322, Ryan, E., 560
347, 438, 441, 473, 496-97, 532 Ryan, G., 222
Radin, P., 214-16, 221-22, 373, 579 Ryle, G., 362
Ramus, S., 415
Ranger, T. O., 273, 576 Sacks, K., 191, 245
Rapp, P., 191 Sacks, O., 289
Rappaport, R., 15, 21-22, 29, 32-35, 81, 146, Sahlins, M., 19, 20-21, 32-36, 47, 72, 88,
184, 187, 194-211, 233, 276, 279, 397, 402, 100, 137, 146-47, 209-10, 246, 278-79,
428, 494, 574, 582, 584-85, 587-88, 590-91 303-304, 308, 382, 388-89, 397-99, 422,
Rave, J., 214 424, 441-42, 457-77, 494, 532, 568-70,
Reber, A., 418-20 575-78, 582
Redfield, J., 515 Sahlins, P., 504
Redfield, R., 21, 23, 26, 59, 90, 385, 438, Sahur, A., 401
532, 583 Said, E., 18, 174, 263, 301, 374, 379
Reh, M., 371 Sailer, L., 417
Reis, L. F., 493 Saint-Simon, 43, 587
Reiter, R., 49, 188 Salinas, J., 222-23
Remotti, F., 38-39, 309 Salzman, P. C., 13, 15, 20-23, 31, 33-34, 37-38,
Rescorla, R. A., 422 42, 49-50, 52-63, 90, 106, 110, 581-83, 586
Revel, J., 317, 319 Samwell, D., 462
Reynolds, F., 532 Sanday, P., 189
Ribeiro, D., 158-59, 166-68 Sanders, W. T., 88, 101, 210
Rice, K. A., 312 Sanderson, S., 101
Richards, A., 152, 188, 266-67, 483, 497, Sangren, S., 46
532, 571 Sanjek, R., 382, 422
Richards, I. A., 553 Sankoff, G., 422
Richardson, J., 214, 286 Santley, R., 101
656 INDICE DEI NOMI

Sapir, E., 108, 128, 188, 214-15, 293, 299, Simonicca, A., 39
324, 335-36, 383, 385, 422, 496, 564 Singer, Merrill, 191, 292
Saran, A. K., 172-73, 178-80, 587 Singer, Milton, 310, 561
Sa Rego, E. de, 166 Skalnik, P., 242
Saussure, F. de, 477 Skinner, B.F., 81, 95, 103
Schacter, D., 414 Skinner, E., 86, 494
Schaden, E., 158-59 Slater, M., 223
Schama, S., 315 Smith, A., 81, 522
Schapera, I., Smith, C. A., 492, 576
Scheffler, H., 259, 265 Smith, E. E., 340
Scheper-Hughes, N., 15, 21, 27, 33-35, 83, Smith, G., 542
93, 184, 191-93, 216, 281-95, 305, 371, Smith, L., 340
574, 582, 584-85, 589 Smith, M. G., 441, 455, 529, 531, 544
Schiffer, M., 101 Smith, R., 322
Schlegel, A., 237 Smith, R. T., 238
Schmidt, 26, 128, 496 Smith, V., 482
Schneider, D. M., 62, 78, 86, 129, 136, 145, Smolensky, P., 362
236, 238-41, 243, 249, 260, 310-11, 321, Solinas, P. G., 39, 309
361, 560-61 Solway, J., 481
Schneider, L., 310, 321 Spencer, R., 299
Schneider, W., 343, 360 Sperber, D., 346-47, 435
Schofeleers, M., 273 Spier, L., 16, 108, 389
Schutz, A., 82 Spindler, G., 293, 378, 385
Schwartz, D., 483 Spiro, M. E., 37, 39, 234-35, 293, 355-56,
Scott, J., 362, 560
Scribner, S., 409, 422 Spradley, J., 129,
Scudder, T., 480, 489-90, 493, 496-97 Squire, L., 414-15, 418-20
Searle, J., 399-400, 403 Srinivas, M. N., 174-5, 181-82, 322
Sejnowski, T., 344 Stalin, J., 101, 537, 545
Senanayake, D. S., 525 Stannard, D. E., 398
Sera, M., 340 Stanner, W., 146
Serpell, N., 489 Stanworth, M., 266
Service, E., 15, 32, 42, 136, 210, 279, 385- Starovoitova, G., 542
86, 402, 472, 476, 494, 570, 580 Steedman, C. K., 74
Shakespeare, W., 318 Stein, G., 590
Shanin, T., 542 Steinbring, T., 484
Shanks, M., 91-92 Steward, J., 17, 47, 49, 81, 86, 102-103, 111,
Shapiro, J., 240 210, 223, 271, 279, 300, 385, 402, 423,
Sharp, L., 337, 532 440, 492, 494-95, 582
Sharpe, P., 98 Stiles, J., 487
Shiffrin, R. M., 343, 360 Stocking, G., 12, 17, 107, 233, 302, 377, 390
Shimkin, D., 223 Stokes, M., 121
Shkaratan, O. I., 543 Stoler, A., 27, 189, 387, 573
Shoda, Y., 410 Stowasser, B., 124
Sholem, G., 210 Strathern, A., 146, 347
Shore, B., 362 Strathern, M., 16, 20, 26, 33-35, 112, 123,
Shweder, R., 188, 218 144, 146, 184, 189-90, 237-38, 252-67,
Sichone, O. B., 273 468, 566, 569, 582
Siegel, B. V., 378 Strauss, A., 188
Sillitoe, P., 394 Strauss, C., 20-21, 34-35, 188, 304-305, 346,
Silver, D., 422 348-66, 384, 416, 422, 568, 571-72, 578
Silverstein, M., 532 Stromberg, P., 422
Simberloff, D., 392 Struve, P., 537
Simmel, G., 82, 86, 506 Stuchlik, M., 451
Simon, H., 210, 342 Sullivan, W. M., 43, 234, 450, 476, 587
INDICE DEI NOMI 657

Suny, R. G., 537-38 Turner, V., 169, 210, 283, 470, 532, 577-78
Super, C. H., 355 Tversky, A., 366
Swanson, G., 110 Twain, M., 84, 459
Swartz, M., 404, 413 Tyler, S., 79, 90-91, 308, 341
Swidler, A., 587 Underhill, R., 188
Swoboda, V., 542 Unger, R.-M., 179
Urry, J., 36, 377
Tagil, S., 503, 524, 531, 590
Tambiah, S. J., 15, 20-21, 34-35, 78, 347, Vaidyanathan, A., 101
363, 441, 480, 503, 507-508, 520-33, 565, Valeri, V., 277
569, 575, 576, 582, 590 Valery, P., 282
Taulbert, C., 362 Van Binsbergen, W. M. J., 273
Taussig, M., 73, 120, 191, 193, 290, 292, Van Gennep, A., 283
377, 589 Van Kemper, R., 493
Tax, S., 12, 14, 23, 27, 33, 106, 384, 388, Varenne, H., 166
438, 502, 561 Vargas, E., 101
Taylor, C., 398, 400 Vayda, A. P., 15-16, 20-21, 26, 32-34, 35, 38,
Taylor, E. B., 107, 312 89-90, 146, 209-10, 382, 384, 392-403,
Taylor, J., 27 409, 428, 566-68, 570, 579, 582
Tazi, N., 292 Verdon, M., 275
Tedlock, D., 75 Viazzo, P. P., 39
Tentori, T., 307, 309 Vico, G., 195, 206, 210
Ter-Petrosyan, L., 542 Vincent, J., 440
Terray, E., 138, 146, 237, 347 Voegelin, C., 12, 23, 33, 223
Thapar, R., 178 Voget, F., 17
Thomas, K. V., 313, 316 Vogt, E., 250, 570
Thomas, N., 88, 398, 460 Volkman, T. A., 482
Thomas, W., 22, 300, 385 Voorhies, B., 245
Thompson, D. W., 517
Thompson, E. P., 305, 323 Wagley, C., 86, 102, 493, 495
Thorndike, R.-M., 80, 216, 222 Wagner, R., 252, 266, 518-19
Thornton, R., 265, 566 Wallace, A. F. C., 24, 202, 210, 275-76, 328-
Thunder, C., 222 29, 338, 383-84, 417, 422
Tilley, C., 91-92, 398 Wallerstein, I., 21, 126, 492, 522
Tillich, P., 203, 207 Warner, R., 27, 101
Timmerman, J., 589 Watt, I., 323
Tipton, S. M., 587 Wax, R., 216
Tishkov, V., 15, 21, 34-35, 112, 503, 507, Weber, M., 21, 44, 137, 143, 150, 210, 249,
534-45, 565, 567, 575-76, 590 322, 357, 362-63, 413, 424, 438-39, 497,
Tjitradjaja, I., 403 532
Toland, J., 505 Webster, D., 101
Tonkinson, R., 422 Webster, S., 181
Tonnies, F., 179 Weiner, A., 49, 188, 256, 266, 590
Toulmin, S., 194, 206-207, 210, 591 Weinsheimer, J. C., 400-401
Trager, G., 337 Weisner, T. S., 359
Trajano Filho, W., 166 Weitlaner, R., 128-29
Treisman, A., 420 Welch, J., 555
Trigger, B., 466 Weller, S. C., 219, 392, 422
Trotter, R., 212 Wenger, E., 412
Trouillot, M.-R., 367 Werbner, R. P., 124, 273
Tsiang, H., 122-23 Weston, J. L., 323
Tsing, A., 249 Weston, K., 249
Turnbull, C., 217 Wexler, K., 422
Turner, B., 292 White, D., 481, 492-93
Turner, T., 169, 283, 457, 459, 475 White, G., 188
658 INDICE DEI NOMI

White, L., 47, 102-103, 136, 149, 166, 197,


209, 273, 385, 402, 476, 494
Whitehead, H., 237, 242-43, 245, 361
Whitehead, T. L., 216
Whiting, B., 110-11, 128, 365
Whiting, J., 128, 363, 365
Wikan, U., 431-32
Williams, B., 550
Williams, R., 73, 301, 323, 532
Willingham, D., 420
Willis, P., 305, 375, 578, 590
Wilson, B., 435
Wilson, E. K., 62
Wilson, G., 271, 385, 483
Wilson, M., 293, 385, 481
Wilson, P. J., 392, 401
Wilson, W., 496, 504, 506
Winch, P., 339, 401
Wissler, C., 214, 224, 385, 496
Wittfogel, K., 103, 279
Wittgenstein, L., 21-22, 282, 362, 401, 551
Wolf, E. R., 11, 15-16, 18-23, 30, 31, 33-35,
72, 86, 88, 100, 106, 109, 110, 126, 129,
184, 187-89, 191, 210, 268-80, 302, 383,
385, 387, 413, 440, 461, 480, 492, 495,
544, 564, 568, 578, 574-76, 579, 581-82,
585
Worsley, P., 323
Wright, J. C., 210, 217, 410
Wrong, D., 12

Yalman, N., 78, 363


Yamskov, A. N., 543
Yanagisako, S. J., 20-22, 25-26, 31, 33-35,
106, 117, 184, 189-90, 236-51, 569-70,
573-74, 582, 584
Yeats, W. B., 228, 233
Yengoyan, A. A., 16, 210, 236, 298
Yeo, R., 415
Young, A., 288, 292

Zacks, R. T., 418


Stampato per conto della casa editrice Meltemi
nel mese di marzo 2004
presso Arti Grafiche La Moderna, Roma
Impaginazione: Studio Agostini

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