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Collana diretta da
Luigi M. Lombardi Satriani
59
Edizione originale:
Assessing Cultural Anthropology
Copyright © 1994, McGraw-Hill
Meltemi editore
via dell’Olmata, 30 - 00185 Roma
tel. 064741063 - fax 064741407
info@meltemieditore.it
www.meltemieditore.it
a cura di
Robert Borofsky
Introduzione e cura
di Laura Faranda
MELTEMI
La casa editrice ringrazia tutti coloro che hanno contribuito a realizzare quest’opera e sa-
rà grata a chi vorrà segnalarci errori o inesattezze che, nonostante il nostro impegno, potran-
no essere sfuggite alla nostra attenzione.
Questo libro, già nato come un’opera collettiva, ha mantenuto e accentuato questa carat-
teristica anche nella sua traduzione italiana. A ciascuna delle introduzioni di Robert Borofsky
(la prima, generale e le sei che aprono le parti in cui è diviso il volume) abbiamo pensato di
far seguire una nota di antropologi italiani che contestualizza allo sviluppo degli studi antro-
pologici nel nostro paese le tematiche affrontate nei diversi saggi, rendendo così maggior-
mente comprensibili agli studenti italiani l’articolazione e i contenuti dei saggi presenti nel
volume.
La prima parte del volume è stata tradotta da Piero Vereni, la seconda da Sonia Di Lore-
to, la terza da Gianfranco d’Eramo, la quarta da Andrea Bernardelli, la quinta da Eleonora
Federici, la sesta da Fulvia Caruso. Antonio Perri ha tradotto prefazione, introduzione e con-
clusioni. La revisione finale delle traduzioni e dei riferimenti bibliografici è stata curata da
Antonio Perri e Piero Vereni.
Indice
p. 9 Prefazione e ringraziamenti
11 Introduzione, Robert Borofsky
36 Nota all’edizione italiana, Paola de Sanctis Ricciardone
Parte prima
Diversità e divergenze nella comunità antropologica
Parte seconda
La prospettiva comparativa
Parte terza
Ripensare le prospettive precedenti
Parte quarta
Ripensare il culturale
Parte sesta
L’antropologia applicata
564 Conclusioni
Una valutazione del campo di studi, Robert Borofsky
593 Bibliografia
647 Indice dei nomi
Prefazione e ringraziamenti
scun autore mette in luce come l’antropologia non venga reinventata ad ogni gene-
razione: nonostante l’attuale frammentazione della disciplina, infatti, ritroviamo
una effettiva continuità da una generazione di studiosi alla successiva: gli insegnanti
formano gli studenti, i professori più anziani influenzano i loro colleghi più giovani.
Quelle biografie, inoltre, rappresentano un efficace inquadramento dei problemi
chiave della disciplina, dandoci di volta in volta una prospettiva personale, ravvici-
nata dell’antropologia e dei suoi interessi.
Ringraziamenti
Molte persone hanno collaborato ad Assessing Cultural Anthropology, e voglio
qui ricordarle per dar loro una sia pur piccola testimonianza della mia gratitudine.
Anzitutto, devo molto a quanti hanno contribuito al volume con i loro saggi: è gra-
zie al loro aiuto e sostegno che questo volume ha potuto veder la luce. Nelle vesti di
rappresentanti dell’American Anthropologial Association (o delle sezioni a essa affi-
liate) vorrei poi ringraziare le seguenti cattedre che col loro programma del 1989
hanno sponsorizzato l’incontro dell’Associazione da cui è nato questo volume: Har-
riet Klein, Jim Peacock e Dorothy Holland. Presso l’Hawaii Pacific University (e in
particolare il campus di Hawaii Loa, all’epoca Haway Loa College) ho ricevuto il
prezioso aiuto di Marvin ed Eda Anderson, Chatt Wright, Jim Hochberg, John
Fleckles, Ruby Okano, Leslie Rodrigues, Janice Uyeda. In particolare Greg Molfino
ha fornito il suo inestimabile contributo controllando e ricontrollando all’infinito i
materiali; e offrendo numerosi suggerimenti. Voglio inoltre ringraziare, per l’assi-
stenza prestatami presso l’editore McGraw-Hill, Sylvia Shepard, Phil Butcher, Con-
rad Kottak, Sylvia Warren, Lori Pearson, Melissa Mashburn e Yannett Pena. In par-
ticolare Sylvia Shepard e Conrad Kottak mi hanno fornito un grande aiuto: Sylvia,
per i numerosi suggerimenti e consigli di natura editoriale; Conrad, perché è lui che
per primo mi ha dato l’idea di questo libro.
Più in generale, vorrei ringraziare un gran numero di persone che mi hanno aiu-
tato in molti modi: Fred e Ann Schildt, David Friedman, Iris Wiley, George e Jean
Campbell, Mimi Fox, Rachel Davis-Green, Ted Green, Helena Morrison, Dave
Hanlon, Abigail Lipson, Karen Peacock, Susan Murata, Jim Bauman, White/Eisen-
stein, Stan Bowers e Jerry e Richie Borofsky. Questo progetto è stato realizzato
mentre ero fellow dell’East-West Center’s Institute of Communication and Culture;
vorrei ringraziare in modo particolare Mary Bitterman per il sostegno che mi ha
fornito. Inoltre vorrei ringraziare per l’assistenza che mi hanno data mentre mi tro-
vavo all’East-West Center: Victor Lee, Meg White, Geoff White, Vimal Dissanaya-
ke, David Wu ed Helen Palmore. I lettori di questo volume meritano anch’essi la
mia gratitudine per il loro instancabile aiuto, le loro intuizioni e suggerimenti: Don
Brenneis, Elizabeth Colson, Virginia Dominguez, Janet Keller, Conrad Kottak e
Mary Jo Schneider. Il loro contributo, accanto a quello di Sylvia Shepard si è rivela-
to essenziale durante la realizzazione del libro.
Questo volume è dedicato a tre generazioni di donne che hanno svolto ruoli im-
portanti nel mio sviluppo intellettuale: mia madre, Ruth; mia moglie, Nancy; e le
mie due figlie, Amelia e Robyn. A tutti coloro che mi hanno assistito in quest’im-
presa ma in particolare a loro – a mia madre, a mia moglie e alle mie figlie – è diret-
to perciò il mio grazie.
Robert Borofsky
Kailua O’Ahu - Hawai’i
Introduzione
Robert Borofsky
Non è facile descrivere l’antropologia come disciplina intellettuale. Quel che an- L’eterogeneità
zi emerge in modo chiarissimo nella letteratura è la diversità dell’antropologia: in dell’antropologia
essa trovano posto un’enormità di tematiche, e quanti la praticano sono fedeli a un
gran numero di approcci. L’antropologo Clifford Geertz (1985, p. 623) ha osservato
di recente che “uno dei vantaggi dell’antropologia come disciplina accademica è
che nessuno, compresi coloro che la praticano, sa con esattezza cosa sia”.
Gente che osserva i babbuini mentre copulano, che riscrive miti in formule algebriche,
che estrae dal terreno scheletri del Pleistocene, che elabora correlazioni approssimate al
decimale fra l’abitudine all’igiene personale e le teorie della malattia, che decodifica i ge-
roglifici maya e che classifica i sistemi parentali sulla base di tipologie in base alle quali il
nostro sistema si rivela essere “Eschimese”; ecco, tutte queste persone si definiscono an-
tropologi.
Uno degli esiti di questa ampiezza di latitudini, continua Geertz, “è una perma-
nente crisi di identità”. Wolf (1980, p. 20) offre una formulazione più positiva dello
stesso concetto: “Il risultato dell’eclettismo antropologico è che il campo d’indagine
continua a stupire per la sua variegata e multiforme attività”.
Un’analisi dei manuali americani di introduzione alla materia – nel tentativo di
semplificare quanto appare complesso e ricco di sottigliezze, in modo da riuscire a
governare il problema – non offre che un aiuto parziale. Autori diversi infatti forni-
scono definizioni parzialmente diverse del campo di studi. Harris (1991, p. 1) affer-
ma che “l’antropologia è lo studio dell’uomo – dei popoli antichi e moderni coi lo-
ro modi di vita”; egli divide la disciplina in quattro rami principali: antropologia Suddivisioni del
culturale, archeologia, antropologia fisica (o biologica) e linguistica. Ember ed Em- campo di studi
ber (1981, p. 484) definiscono l’antropologia come “lo studio delle differenze e so-
miglianze, sia biologiche che culturali, fra le popolazioni umane”; gli autori divido-
no l’antropologia in due rami, antropologia fisica e culturale – quest’ultima divisa a
sua volta in archeologia, linguistica ed etnologia. Kottak (1991, p. 7) segue Harris,
suo maestro di un tempo, dividendo l’ambito di studi in due rami, ma ipotizza poi
che l’antropologia possa comprendere anche un quinto ramo, quello dell’antropo-
logia applicata. Queste divisioni contrastano con quelle formulate in Europa: in
Svezia ad esempio si distingue fra l’antropologia, che studia di prevalenza le culture
straniere e lontane (come quelle africane) e l’etnologia che si occupa delle culture
europee – volgendosi tradizionalmente allo studio delle comunità contadine. Men-
tre come nota Bloch (in questo volume, p. 339) la distinzione fra antropologia so-
ciale britannica e antropologia culturale americana “non è assoluta”, i due rami del
campo di studi hanno di solito sottolineato differenti aspetti: il primo si è incentra-
to sulla “struttura sociale”, il secondo sui “modelli culturali” (cfr. Herskovits 1965).
12 ROBERT BOROFSKY
pp. 41-42), fu per un motivo assai semplice: il potere. Poiché l’antropologia era (ed
è ancora) la scienza sociale dalle dimensioni più ridotte ma aveva e ha alti costi per
la ricerca, non aveva senso che gli antropologi si dividessero ulteriormente dando
vita a gruppi ancora più piccoli: la già limitata efficacia nell’ottenere riconoscimen-
to e sostegno finanziario si sarebbe infatti ridotta ulteriormente (quest’ultimo è un
aspetto affrontato da Salzman nel suo saggio).
L’unità dell’antropologia come disciplina intellettuale – coi suoi quattro sotto-
ambiti dell’antropologia culturale, fisica, archeologica e linguistica – appare oggi
nella sua forma più evidente quando affronta problemi che si sovrappongono a
quelli cui si erano dedicati gli antropologi del passato, come quelli del rapporto fra
biologia e cultura (discussi nel suo saggio da Levy) o quelli della ricostruzione stori-
ca. Se pensiamo a quanto tempo i Tasaday delle Filippine sono rimasti isolate cultu-
ralmente, o sino a che punto la moderna cultura sudafricana dei boscimani sia stata
modellata da influssi europei, i sotto-ambiti dell’antropologia si sovrappongono con
esattezza l’uno all’altro e ci forniscono tutti dei significativi indizi per rispondere a
questi interrogativi. Il problema è che l’antropologia attuale non solo si pone queste
domande tradizionali, ma ne formula anche di nuove – e da ciò nasce il problema
della frammentazione disciplinare.
Il tratto distintivo di questa definizione, per gli antropologi moderni, è che ben
pochi di loro oggi la citano. Ormai è fuori moda, e sembra troppo ampia – perciò
forse anche troppo poco maneggevole – per riuscire ad affrontare concreti proble-
mi di ricerca. Sono, in effetti, definizioni dello stesso tipo di quelle di Kottak e
Keesing che abbiamo citate più in alto a essere oggi le più diffuse in ambito antro-
pologico.
14 ROBERT BOROFSKY
Tendenze centrifughe
Non è difficile imbattersi in affermazioni riguardanti le tendenze alla frammen-
tazione dell’antropologia culturale. In una recente rassegna sul campo di studi, Ort-
ner (1984, p. 126) osserva: “Il campo appare come un insieme di pezzetti e toppe,
nel quale singoli ricercatori e piccole conventicole portano avanti indagini diverse e
parlano per lo più a se stessi”. Questa situazione dev’essere il risultato di un proces-
so protrattosi già da tempo, se già all’inizio degli anni Cinquanta l’antropologo in-
glese Nadel (in Tax, Eiseley, Rouse, Voegelin 1953, p. 90) affermava: “Gli studi sul-
la struttura sociale di Evans-Pritchard o Fortes, il ‘pescatore malese’ di Firth e il
‘carattere balinese’ della Mead semplicemente non appartengono allo stesso univer-
so di discorso”. Ma quali sono le ragioni di questa frammentazione?
“Oggigiorno”, osserva Leaf (1979, p. 3), “nel campo di studi vi sono modi al-
Due prospettive quanto diversi di concepire la teoria, la cultura e la comparazione culturale”. Non è
INTRODUZIONE 15
difficile constatarlo leggendo i vari saggi che costituiscono questo libro. Rappaport,
ad esempio, a p. 195 fa riferimento al fatto che
Sin dai suoi esordi, nell’antropologia si sono sviluppate due diverse tradizioni: una, che
aspira all’oggettività ed è ispirata alle scienze biologiche, va alla ricerca di spiegazioni ed
è preoccupata di scoprire cause o addirittura, nelle sue formulazioni più ambiziose, leggi;
l’altra, influenzata dalla filosofia, dalla linguistica e dalle altre scienze umane, è sensibile a
una forma di conoscenza maggiormente legata al soggetto, va alla ricerca di interpretazio-
ni e cerca di chiarire significati.
Kuper, a p. 149, cita due progetti di ricerca ormai ben radicati nell’ambito del-
l’antropologia americana:
Il primo, lanciato di fatto da Boas, si occupa della cultura, e in particolare della variazio-
ne culturale. Aspira a fornire un resoconto “dall’interno” dell’esperienza culturale, inter-
rogandosi sull’esperienza delle differenze culturali, sui modi in cui il linguaggio e il co-
stume infondono all’azione un significato e uno scopo, sul peso della tradizione. Si tratta
di un progetto relativista, più interessato a descrivere e interpretare che a spiegare, e que-
sto guardando più al particolare che al generale…
Il secondo programma ha rappresentato da sempre il principale antagonista di quello boa-
siano. Esso si occupa principalmente dell’evoluzione umana, e Darwin è il suo eroe; privi-
legia i fattori materiali del processo evolutivo… È un progetto che cerca principi generali,
modellando se stesso sulle scienze naturali – invece che sulle scienze umane – in seno alle
quali i boasiani di solito trovavano in propri alleati.
Anche Murphy discute queste due prospettive, e riferimenti a una di esse o a en-
trambe sono presenti nei saggi di Barth, Bernard, DaMatta, Das, Geertz, Harris, Kee-
sing, Kuper, Marcus, Nader, Salzman, Scheper-Hughes, Tambiah, Tishkov e Vayda.
Sul ruolo che l’una o l’altra di queste opposte prospettive dovrebbero giocare nel-
l’ambito della disciplina è in corso una disputa di vaste proporzioni – o, per dirla in
modo positivo, vi è una sorta di ambiguità. Wolf (1964, p. 88), in quella che sarebbe
diventata una citazione famosa, descrive l’antropologia come “la più scientifica delle
scienze umane, la più umanistica delle scienze” (cfr. Goodenough 1989). E Lévi- “Scienza” vs
Strauss (1966, p. 118), con un tocco di poesia, ipotizza che l’antropologia coltivi “interpretazione”
un sogno segreto: essa appartiene alle scienze umane, come il suo stesso nome [anthropo-
(dell’uomo) e logia (studio dell’)] afferma in modo opportuno; ma rassegnandosi a resta-
re nel purgatorio accanto alle scienze sociali, essa senza dubbio non dispera di risvegliar-
si fra le scienze naturali al momento del giudizio finale.
I lettori si saranno resi conto che esiste un’enorme frattura fra la “scienza” di
Harris e l’“interpretazione” di Geertz. Si tratta di differenze profonde, irresolubili.
In proposito Service così commenta (1985, p. 286):
L’antropologia del passato aveva raggiunto l’unità sotto l’egida del concetto di cultura…
Questo concetto unificava la disciplina attorno a una preoccupazione per le domande es-
senziali circa la natura della specie umana, la sua variabilità biologica e appresa, e i parti-
colari modi di valutare somiglianze e differenze.
Ma, egli nota, “il venticinquennio passato ha messo in crisi il senso di sicurezza in-
Il crollo del tellettuale. Il concetto relativamente incompleto di ‘cultura’… [ha subito] attacchi da
consenso
vari ambiti teorici”. In modo conforme alla diversità della disciplina, diversi interpre-
ti situano il crollo di questo consenso concettuale in periodi diversi. Colson ipotizza
che il crollo si sia verificato nel corso degli anni Trenta, Leaf (1979, p. 1) negli anni
Cinquanta, Yengoyan (1986, p. 38) all’inizio degli anni Sessanta e Murphy (1976, p.
19) tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Ma non v’è alcun dubbio che
oggi come oggi il concetto di cultura, e forse anche i metodi tradizionali della discipli-
na nel fare etnografia, siano meno in grado di fungere da paradigmi unificanti al ripa-
ro dei quali gli antropologi possono restare uniti.
Quest’aspetto si trova in numerosi saggi del libro. Moore, ad esempio (pp. 447-
448) si interroga circa “l’utilità dell’idea classica di ‘una cultura’”; Vayda (p. 397) criti-
ca le nozioni “essenzialiste” implicate da tale concetto; Nader (p. 126) suggerisce di
farla finita con “modelli che non producono più modi di pensare creativi”; Marcus cri-
tica il “discorso realista” dei primi scrittori etnografici; infine Bernard fa riferimento al-
la separazione crescente fra metodologie quantitative e qualitative. Sembra che qualco-
sa stia eclissandosi, sebbene una lettura più attenta di testi del passato – ad es. Barnett
(1940, p. 21) – ci metta in guardia dall’esagerare la coerenza interna dei tempi andati (a
questo proposito cfr. anche Barth 1992, p. 63). Inoltre, a differenza di una volta, siamo
in presenza, oggi, per citare Marcus e Fischer, dell’“esaurimento di una concezione
paradigmatica” (1986, p. 34). O ancora, per citare un’affermazione di Strathern (pp.
261-262), vi sono visioni plurime di come riconnettere i vari aspetti del campo di studi.
Cosa prenderà il posto di questo consenso ormai perduto è uno dei problemi es-
senziali che l’antropologia si trova ad affrontare. E per molti aspetti è proprio que-
Il futuro della
sto l’argomento del libro. Possono alcuni dei più eminenti antropologi, nelle loro
disciplina visioni e valutazioni della disciplina che in parte si sovrappongono, dare vita a un
nuovo ordine? Si tratta di una domanda che i lettori dovranno tener presente per
tutto il corso del libro; del resto quasi tutti i saggi contenuti nel volume affontano
questo tema – in modo diretto o indiretto. È in gioco il futuro della disciplina: qua-
le sarà il suo aspetto, e chi contribuirà a dargli forma? Ritorneremo su questo argo-
mento nel capitolo finale del libro, dopo che i lettori avranno avuto la possibilità di
prendere in esame i vari contributi. Per ora, in questa introduzione, vorrei chiarire i
motivi per cui si è verificato questo apparente crollo di paradigmi. Quali ne sono le
cause? Prenderò in esame tre fattori: 1) l’espansione dell’antropologia al di là dei
suoi primi “eroici maestri”, 2) le trasformazioni del contesto mondiale entro il qua-
le l’antropologia si è sviluppata e 3) le dinamiche interne alla disciplina. Anche altri
fattori hanno giocato un ruolo, come si potrà constatare leggendo Wolf (1969, pp.
245-255); ma i tre che ho citati sono stati essenziali.
INTRODUZIONE 17
In Boas erano presenti tutti e quattro i geni [cioè la generalizzazione scientifica, la com-
prensione storica, l’induzione rigorosa e la “penetrazione affettiva dei fenomeni come to-
talità”], sebbene il primo e l’ultimo fossero chiaramente recessivi. Nei suoi studenti, que-
sti tratti si manifestarono nei modi più vari: i boasiani più tipici tesero ad essere eterozi-
goti, sia a livello teorico (Goldenweiser) che metodologico (Spier), o ad entrambi i livelli
(Herskovits). Alcuni, tuttavia, (Kroeber) passarono attraverso fasi in cui ora una, ora l’al-
tra tendenza genetica si manifestò in modo chiaro.
Quando ci si volge a riconsiderare questo periodo – le prime due decadi del se-
colo negli Stati Uniti e in Francia per ciò che concerne Boas e Durkheim, gli anni
Venti e Trenta in Gran Bretagna per ciò che concerne Malinowski e Radcliffe-
Brown – è fondamentale ricordare quante poche persone si occupassero all’epoca La ridotta
di antropologia. Firth (1975, p. 2) afferma che “rispetto a oggi, le opere di grande comunità
antropologica
importanza erano assai limitate e gli studiosi coinvolti pochissimi”. L’American dell’inizio del
Anthropological Association annoverava 306 membri nel 1910, 666 nel 1930. “Al- Novecento
cuni anziani della nostra tribù”, nota Stocking (1976, p. 1), “ricordano ancora un’e-
poca in cui quasi tutti gli antropologi si conoscevano personalmente fra loro, ed era
possibile tenere [delle conferenze]… in una sala di modeste dimensioni”.
Non appena quelli che furono allievi di uno dei maestri trasmisero le proprie cono-
scenze ai propri studenti – Steward, ad esempio, era uno studente di Kroeber, che a
sua volta era stato allievo di Boas – si verificò una comprensibile diversificazione degli
interessi. Si può dire anzi che parte dell’attuale ampiezza dell’antropologia nasca dalla
normale espansione della disciplina al di là dell’epoca dei suoi eroici maestri. Questo
processo graduale è stato accentuato da una espansione più vasta della disciplina a par-
tire dagli anni Quaranta: i membri dell’American Anthropological Association, ad
esempio, aumentarono dai 1.101 del 1940 ai 2.260 del 1950, sino a raggiungere nel
1970 la cifra di 6.240. Oggi dell’associazione fanno parte circa 10.500 membri ed è cre-
18 ROBERT BOROFSKY
sciuto anche il numero dei corsi di laurea e dei laureati. Assieme a questa espansione,
si è verificata una crescente specializzazione: gli antropologi hanno tentato di perfezio-
nare le ampie formulazioni degli studiosi passati, finendo per differenziarsi progressi-
Espansione e vamente l’uno dall’altro da un punto di vista professionale. La divisione in varie antro-
specializzazione
della disciplina
pologie – antropologia medica, antropologia economica, antropologia giuridica, antro-
pologia politica, antropologia psicologica, ecc. – è parte integrante di questa tendenza.
L’eclissi del cosiddetto consenso intellettuale, allora, è in parte il risultato del suc-
cesso dell’antropologia come disciplina – la sua espansione dall’originario campo di
studi dei suoi eroici maestri a un ambito più vasto, che ha in sé un maggior numero di
problemi. La nostalgia che aleggia nei discorsi sul consenso dei tempi passati non tie-
ne conto di un fatto importante: per gli antropologi era più facile condividere una
medesima struttura concettuale quando vi era solo un gruppetto di persone che pren-
devano attivamente parte allo sviluppo della discliplina – gente che verosimilmente si
conosceva personalmente, che poteva aver frequentato la stessa università o almeno
aver avuto alcuni degli stessi professori. Oggi è assai meno probabile che ciò avvenga,
data l’ampiezza della disciplina e il numero dei corsi di laurea.
Veniamo così alla seconda ragione della diversità attuale dell’antropologia. Essa è
cambiata assieme al mondo nel quale è cresciuta, e le trasformazioni hanno rimesso
in questione concezioni passate senza chiarire cosa le avrebbe sostituite.
“Che l’antropologia sia nata e si sia sviluppata – osserva Lévi-Strauss a p. 617 –
Un nuovo all’ombra del colonialismo è un dato di fatto”. La decolonizzazione ha sollevato nuo-
contesto vi e difficili problemi che la disciplina deve affrontare. Come nota Godelier, gli an-
mondiale tropologi sono stati scacciati dalle popolazioni locali a causa delle associazioni antro-
pologiche imperialistiche; la sua preoccupazione per i gruppi marginali e meno svi-
luppati è stata interpretata da alcuni come un morboso interesse per l’arretratezza,
per il “primitivo” – un’immagine di cui i paesi che hanno appena conquistato l’indi-
pendenza si disfano con difficoltà. Prins (in Kuper, Kuper 1985, p. 870) ci dice che
Opere come quelle di Asad (1973) e Said (1978) hanno chiarito che il contesto
coloniale ha dato forma in modi sottili ai resoconti antropologici. Oggi sappiamo,
come mette in luce Godelier (p. 133), che le precedenti indagini etnografiche “ten-
devano a svolgersi in un ambiente in cui i rapporti fra osservatore ed osservato erano
di dominio, di ineguaglianza sociale e di potere”. Le immagini di stabilità e isola-
mento culturale elaborate dall’antropologia – basate su ottiche funzionaliste e su al-
cune immagini del “primitivo” – sottostimarono la natura distruttiva del controllo
occidentale e in apparenza la giustificavano. Si tratta di un punto citato anche nei
contributi di Wolf, Marcus e Nader.
Le cose, comunque, non sono così semplici. “Fino a quando hanno tentato di
Il programma
politico degli manifestare ordine e coesione”, osserva Moore in una nota a p. 454,
antropologi
i costruttori di sistemi hanno sviluppato un consapevole programma politico, che era il
contrario di ciò che i critici più recenti hanno ritenuto fosse il loro obiettivo inconscio:
pensavano infatti di mostrare quanto fossero logiche le popolazioni native
se noi collochiamo la realtà della società all’interno di allineamenti sociali mutevoli, imper-
fettamente definiti… e ramificati, il concetto di una cultura determinata... deve lasciare po-
sto ad una concezione che privilegi la fluidità e permeabilità delle configurazioni culturali.
capitalismo”, avverte Sahlins (p. 463), non sono “direttamente proporzionali alla sua
forza materiale, quasi si trattasse di un semplice fenomeno fisico”; sono invece rimo-
dellati dalle concettualizzazioni e dalle dinamiche culturali locali. La distinzione fra
“noi” e “loro” è diventata piuttosto ambigua, in un mondo odierno fatto di econo-
mie intrecciate fra loro e di comunicazioni ad alta velocità: le due categorie finiscono
a volte quasi per fondersi, pur restando irritantemente differenti. Il fatto che molti
tra gli scritti che compongono questa raccolta affrontino questa tematica – quelli di
DaMatta, Das, Geertz, Godelier, Keesing, Lévi-Strauss, Marcus, Moore, Nader, Sah-
lins, Strathern, Tambiah e Wolf, per citare solo alcuni dei casi più ovvi – evidenzia
quanto importante sia la problematica.
Può sembrare strano che la disponibilità sempre crescente di dati da parte del-
I dati
l’antropologia – dati che continuano ad aumentare sia per qualità che per ampiezza
etnografici della copertura etnografica – possa arrecare dubbi in seno alla disciplina. Ma è pro-
sempre prio ciò che è accaduto. Oggi gli antropologi sono in possesso di dati etnografici
maggiori e sufficientemente affidabili da individuare i problemi insiti nelle passate concettua-
migliori
lizzazioni e approcci. Molti dei saggi contenuti nel volume affrontano questo aspet-
to – quelli di Barth, Bernard, Bloch, Borofsky, DaMatta, Das, Godelier, Goode-
nough, Goody, Harris, Keesing, Kottak e Colson, Kuper, Lévi-Strauss, Levy, Mar-
cus, Moore, Nader, Sahlins, Salzman, Strathern, Strauss e Quinn, Vayda, Wolf, Ya-
nagisako e Collier.
Oggi più che mai è chiaro ad esempio che le culture non sono unità omogenee e
stabili, tendenti all’equilibrio, a mantenere la stessa forma nel tempo e coinvolgere
persone con conoscenze per lo più comuni. Colson (1984, p. 7), citato da Vayda a p.
394, chiarisce bene questo punto:
i valori ritenuti una volta fondamentali come guida all’interazione delle persone l’una con
Fine del mito
della “stabilità l’altra e con il proprio ambiente sono situazionali e legati al tempo, piuttosto che verità
culturale” eterne utilizzate per predire il comportamento nel tempo e in ogni circostanza.
E Goody, a p. 313, si chiede: “fino a che punto la cultura del New England con-
temporaneo sia la stessa degli inizi del XIX secolo, dell’antico periodo dominato dai
Puritani, dell’Inghilterra di epoca Stuart ormai abbandonata dai Puritani...”. La gran
messe di dati in nostro possesso in relazione a questi periodi chiarisce quanto poco
tengano alcuni degli assunti sulla stabilità culturale. Nel tentativo di ripensare mo-
delli e processi culturali, siamo perciò indotti a porci domande come: 1) Come co-
municano di fatto tra loro persone con conoscenze diverse (cfr. ad es. Goode-
nough)? 2) Quali elementi culturali tendono a restare coesi nel corso del tempo (cfr.
ad es. Vayda e Borofsky) e in quali modi (cfr. ad es. Strathern)? 3) In che modo la
stabilità resiste al mutamento, e quest’ultimo si oppone alla stabilità (cfr. ad es. Sah-
lins e Yanagisako e Collier)?
L’ampiezza crescente dei dati etnografici ci aiuta anche a spiegare la crescente spe-
La cializzazione del campo di studi: dato che i tratti culturali generali di molti gruppi so-
specializzazione no ormai noti, gli antropologi contemporanei si dedicano spesso a problemi più limi-
su tematiche tati e specifici. Kuper menziona questo fatto nel suo saggio – parlando di come gli an-
specifiche
tropologi siano passati dallo studio di totalità tribali come gli tswana a quello di tema-
INTRODUZIONE 21
tiche specifiche come l’associazione dei trivellatori con sonde. Va notato che il rap-
porto fra uno studio dettagliato e l’altro non è sempre ovvio, ed è comprensibile che
questo fatto contribuisca al senso di frammentazione nell’ambito della disciplina.
Ma non basta; l’autorità etnografica ha smesso di essere quella che era una volta.
“La credibilità dei nostri resoconti dal campo” non può più fondarsi “sulla loro unici-
tà, cioè sull’assenza di altri resoconti”, nota Salzman a p. 59 (cfr. anche Geertz 1983,
p. 28). Oggi come mai in precedenza questi vengono messi in discussione, dato che
un maggior numero ricercatori lavora su comunità locali che si sovrappongono, e
Trasformazione
sempre più indigeni leggono e pongono domande riguardo a ciò che gli antropologi dell’autorità
hanno scritto su di loro: è questo, in effetti, l’aspetto considerato da Das nella sua etnografica
analisi del lavoro di Dumont sulle caste indiane. Anche DaMatta, a p. 161, vi fa riferi-
mento prendendo in esame la “legge di DeVoto”, secondo cui “più gli antropologi
scrivono sugli Stati Uniti, meno credo a ciò che dicono quando parlano di Samoa”.
Le differenti prospettive di Redfield e Lewis sulla città messicana di Tepoztlan,
o della Mead e di Freeman sulle Samoa ci inducono a mettere in dubbio l’obiettivi-
tà e l’accuratezza di vari resoconti antropologici. Questa messa in questione condu- La riflessività
ce spesso alla preoccupazione tipicamente postmoderna per i modi in cui gli antro-
pologi creano l’autorità etnografica e l’autenticità mediante alcuni espedienti lette-
rari. La riflessività, “significa implicare nei testi etnografici un resoconto consape-
vole [delle] condizioni di produzione della conoscenza” (Marcus, p. 69), è diventa-
ta sempre più importante nella scrittura etnografica rimproverando – per usare an-
cora le parole di Marcus (p. 69) – “l’‘occhio’ obiettivo e osservatore dell’etnografo
con il suo ‘io’ personale…”.
Come risultato di queste tendenze, gli antropologi oggi parlano con molta mi-
nor fiducia e certezza che in passato. L’insieme di conoscenze condivise – riguar-
danti non solo i modi in cui concepiamo la cultura, ma anche i metodi che usiamo
per studiarla – sembra perciò sempre più soggetto a esser messo in discussione.
Dei sei autori che in questo volume citano Morgan – DaMatta, Godelier, Kuper,
Marcus, Wolf, Yanagisako e Collier – solo l’antropologo francese Godelier entra nel
merito della sua opera, per la quale mostra sincero apprezzamento. Anche Bloch fa
riferimento a questo stesso modello – cioè la tendenza a ispirarsi a pensatori stra-
nieri – ma in senso opposto: a p. 339 egli afferma che gli antropologi europei do-
vrebbero prestare maggior attenzione al lavoro degli scienziati cognitivi e degli an-
tropologi cognitivi americani.
La tendenza degli antropologi americani a importare idee dall’altra sponda del-
l’Atlantico si è semmai rafforzata durante lo scorso decennio, quando hanno cerca-
to di ispirarsi alla vita intellettuale europea (e in particolare francese). In una re-
cente intervista, Geertz (1991, p. 611) nota che in passato “gli antropologi [tende-
L’esterofilia vano di solito a] leggere altri antropologi” – “come Boas, Kroeber e Lowie”. “L’i-
intellettuale
degli
dea che si dovessero leggere filosofi, che Wittgenstein avesse qualcosa di interes-
antropologi sante da dire agli antropologi sarebbe apparsa del tutto fuori luogo”. Oggi al con-
trario, egli afferma, “…il campo di interessi è vastissimo… accade quasi l’oppo-
sto… questo è ciò che è accaduto negli anni ’80”. Una simile apertura ha condotto
a sviluppi intellettuali innovativi ma, osserva Geertz, “ha anche creato una certa
instabilità” nella disciplina.
Il punto è che se gli antropologi continuano a rivolgersi ad autorità esterne alla
propria disciplina, non c’è da sorprendersi che il campo di studi sia, in certa misu-
ra, frammentato, spinto com’è in direzioni diverse da ricercatori diversi.
“ubbidiscono, come è noto, solo agli ordini provenienti dall’interno della loro stes-
sa cerchia”. Altrove lo stesso Kroeber (in Tax, Eiseley, Rouse, Voegelin 1953, pp.
151-152) così si accalora sull’argomento:
L’antropologia è senza dubbio una delle scienze più centrifughe, ed ha conquistato un terri- Una scienza
torio enorme. Talora siamo amichevolmente derisi da gente che lavora in ambiti nei quali libera e
un numero di persone cinque o dieci volte superiore si occupa di una serie di problemi as- centrifuga
sai più ristretta. Come afferma Redfield, la nostra predisposizione ad occuparci di questioni
che si trovano ai margini di qualunque settore dell’immenso e variegato campo dello studio
dell’uomo… fa dell’antropologia la più libera ed esplorativa delle scienze. Credo che questa
affermazione sia legittima. Di recente, io stesso ho tracciato una distinzione fra antropolo-
gia culturale e sociologia sulla base degli adepti che ciascuna di esse annovera al proprio in-
terno: chi ha radicate tendenze centrifughe ed è attratto dal remoto e dal marginale diviene
antropologo, mentre chi è attratto dal familiare e dal ripetitivo, non desidera avventure in-
tellettuali e aspira ad agire in un orizzonte dai confini ben delimitati diventa sociologo.
La teoria culturale moderna soffre di una tale frammentazione e dispersione che sembra
rovesciare l’intero discorso all’interno della nostra comunità scientifica... i campioni di
ogni punto di vista... si parlano uno addosso all’altro in una confusione di lingue: si parla
molto, ma si dialoga ben poco.
non tanto, come sosteneva [Evans-Pritchard], a causa del pregiudizio antistorico dei [suoi
colleghi], ma perché affermando che gli antropologi avevano voltato le spalle alla storia egli
ignorava completamente i contributi già realizzati in tale ambito, in particolare da Schapera.
Tendenze centripete
Le forze che mantengono unita l’antropologia culturale sono numerose, ma le
Tre forze più importanti fra queste sono: 1) le tradizioni condivise dalla disciplina, 2) un in-
centripete
sieme simile di esperienze di ricerca sul campo fra quanti praticano la disciplina, 3)
la qualità sempre migliore dei dati etnografici a sua disposizione e 4) la sua natura
autocorrettiva e in continuo sviluppo.
INTRODUZIONE 25
logi dedicano un notevole spazio nelle loro etnografie all’analisi dei termini indigeni,
cercando di farci capire tutte le sottigliezze e la complessità delle percezioni indige-
ne: in questo modo si mette in luce il loro significato chiarendo – per citare Geerz
(1973, p. 54) – “ciò che accade in questi luoghi... [e] che tipi di uomini siano”. Inol-
tre, collocare elementi culturali in apparenza esotici nei contesti indigeni rappresenta
anche un antidoto contro il fanatismo: rende l’estraneo e il “selvaggio” più compren-
sibili, più razionali. La comprensione fra “noi” e gli “altri” progredisce se si tiene
conto dei contesti nei quali questi popoli “altri” conducono le proprie vite.
Sebbene gli antropologi, fino a tempi recenti, abbiamo spesso formulato i propri
Trasformazioni resoconti in un “presente etnografico’’ (fondendo in una mistura senza tempo rac-
e mutamento
colte di dati del passato e osservazioni sul presente tratte dalla ricerca sul terreno), e
sebbene i funzionalisti si siano concentrati, come nota Beattie (1955, p. 7), “sullo
stato presente della società” e abbiano evitato “di far congetture sulla remota origi-
ne delle cose”, gli antropologi si sono anche tradizionalmente occupati dei processi
e dei problemi del mutamento. E quest’interesse non sorse semplicemente con la
“ri-scoperta” della storia da parte di Evans-Pritchard: i primi evoluzionisti infatti –
Morgan, Frazer e Tylor – si occupavano delle trasformazioni culturali, e i primi dif-
fusionisti – come Schmidt e Graebner – erano interessati alla diffusione delle idee e
Evoluzionisti
diffusionisti e
della cultura materiale. Gli antropologi sono stati totalmente assorbiti da problemi
l’interesse per il del mutamento culturale per numerosi decenni sino a oggi. Bisogna ammettere che
mutamento il tema è stato affrontato con una gran varietà di denominazioni – non soltanto evo-
luzione, storia e processo ma anche acculturazione (Redfield, Linton ed Hersko-
vits), configurazioni di crescita culturale (Kroeber) e innovazione (Barnett).
Le questioni chiave relative al mutamento sono per lo più rimaste le stesse nel
corso del tempo. Esse si appuntano su relazioni causali: quali forme culturali sono
prodotte da quali fattori e in quali proporzioni. “Alla fine” nota Godelier (p. 142,
Le cause del
corsivo nostro) “la questione essenziale per le scienze sociali è: di tutte le molteplici
mutamento attività umane, quali sono quelle che causano non solo i cambiamenti nella socie-
tà… ma della società?”. Aggiungono Yanagisako e Collier (p. 246): “Abbiamo quin-
di bisogno di una strategia... in modo di poter osservare i cambiamenti nei sistemi
INTRODUZIONE 27
L’antropologo britannico Nadel (1953, p. 229), scrivendo nella stessa decade, Comparazione
sottolineò che l’antropologia era “sposata” alla comparazione: “Studiamo le variazio-
ni… e le mettiamo in correlazione affinché possano emergere regolarità generali” (p.
222); e Nader (a p. 126) afferma: “Gli antropologi negli ultimi cento anni, hanno co-
stantemente riconosciuto nell’antropologia una disciplina comparativa”.
Godelier (a p. 136) descrive due tipi di comparazione: in uno le culture sono se-
zionate, frammentate, e i loro specifici aspetti – come il sistema parentale, i modelli
di scambio economico o le pratiche religiose – sono comparati tra loro; nell’altro, le
28 ROBERT BOROFSKY
comparazioni sono condotte fra diverse “entità totali”. In quest’ultimo caso, sono in-
tere società denominate “Stati” o “regni” ad esser confrontate tra loro. Il problema
dinanzi al quale si trovano entrambi i tipi di comparazione è che essi possono, a vol-
Due tipi di te, contraddire altri orientamenti antropologici: così il primo tipo di comparazione
comparazione può opporsi alla preoccupazione per l’olismo (poiché in questo caso la cultura viene
frammentata in componenti, e le parti della cultura sono separate l’una dall’altra per
gli scopi dell’analisi); il secondo può invece contraddire l’importanza attribuita al
contesto (perché una cultura viene separata dalle condizioni regionali e storiche che
rendono comprensibili particolari credenze e pratiche).
Mentre la comparazione è un aspetto fondamentale della disciplina, dobbiamo
però riconoscere che essa rimane anche un concetto per molti versi problematico.
Quel che gli antropologi condividono sulla comparazione è non solo la percezione
dei suoi metodi e possibilità, ma anche la percezione dei problemi ancora irrisolti:
la comparazione è uno strumento che stiamo ancora imparando a usare.
rappresenta lo strumento che rende possibile sia agli interpretativisti che ai positivisti la
raccolta di documenti sulle storie di vita, la partecipazione a celebrazioni sacre, la discus-
sione con persone su argomenti significativi, la valutazione dei possedimenti terrieri, l’e-
numerazione delle prede, camminando a fianco dei cacciatori; essi possono intervistare
formalmente e informalmente le donne che commerciano, per comprendere come riesco-
no a recuperare le perdite subìte nel mercato giornaliero.
A dispetto delle loro differenze, perciò, gli antropologi possono vantare un co-
mune metodo di raccolta dei dati.
La visione
Infine l’antropologia si fa interprete di una particolare visione che punta a mi-
antropologica gliorare le relazioni sociali e, più in generale, la qualità della vita umana. Nel far ciò
essa sottolinea tre diversi aspetti.
INTRODUZIONE 29
In primo luogo, mette in luce le caratteristiche che gli uomini hanno in comune:
l’antropologia sottolinea quel che condividiamo con persone in apparenza diverse
da noi per comportamenti, credenze e luoghi in cui vivono. Parafrasando Hymes
(1979b, p. 73), l’antropologia amplia il nostro sentimento di comunanza morale,
sottolineando ciò che ci lega agli altri.
In secondo luogo, l’antropologia attribuisce un valore alla differenza culturale.
Gli antropologi testimoniano altre umanità (utilizzando le parole di DaMatta a p.
160) di altri modi di vita; li registriamo e proteggiamo, affinché non vadano perduti
per le generazioni future. Oggi molti occidentali non solo conoscono la vita che si
conduce in aree distanti dell’Africa o nelle lontane isole del Pacifico, ma – fatto al-
trettanto importante – ritengono che gli stili di vita di questi popoli abbiano un va-
lore. Conoscenze di ogni sorta, giunteci da ogni sorta di popolazione locale sono ac-
colte positivamente dalla coscienza occidentale grazie all’antropologia.
In terzo luogo, l’antropologia utilizza la differenza culturale come forma di criti-
ca culturale e – attraverso la critica – contribuisce a un arricchimento della cultura.
Essa mostra che esistono altre possibilità di risolvere i problemi e costruire esisten- Valorizzare le
ze dotate di senso – diverse da quelle che ci sono più familiari: è ciò cui alludono differenze
culturali
Marcus e Fischer quando affermano che “l’antropologia non è una collezione del-
l’esotico, bensì l’uso della ricchezza culturale per una riflessione e la crescita del
sé” (1986, p. 32). Ed è ciò che Rappaport vuol dire a p. 208, quando afferma che “il
futuro dell’antropologia consiste nell’aiutare l’umanità a realizzare, cioè a compren-
dere e mettere in atto, questa visione del suo posto nel mondo”. L’antropologia ci
dà modo di riconfigurare i rapporti sociali ed ecologici, per poter rinnovare la no-
stra comune umanità e interdipendenza. L’antropologia è una disciplina diversa dalle
altre, perché afferma che i marginali – i dominati, coloro che non hanno potere – han-
no un importante contributo da dare all’arricchimento degli altri, compresi coloro che
occupano i centri del potere.
Tuttavia farsi sostenitori di un’immagine di ciò che siamo e di ciò che dovrem-
mo essere è una cosa; realizzarla nei fatti è un’altra – e in quest’ultimo senso l’an-
tropologia ha collezionato un minor numero di successi. Ho citato più in alto
Barth e Keesing, ma anche altri autori di questa raccolta affrontano l’argomento:
Godelier (a p. 131) si chiede se le scienze sociali siano solo capaci di “inseguire
gli eventi”; Das rimette in discussione l’uso (e l’uso scorretto) dei dati etnografici; Scarsità di
Salzman (p. 54) nota che “il nostro lavoro rimane al margine della... vita dei po- successi pratici
poli che studiamo”; DaMatta infine analizza alcuni dei motivi che hanno reso gli
antropologi americani restii a impegnarsi in un’azione sociale più ampia. Per par-
te mia, ritengo che come antropologi non abbiamo in comune soltanto una solida
visione intellettuale, ma anche lo scarso successo conseguito quando si è trattato
di metterla in atto.
non solo l’‘espediente’ utilizzato dagli antropologi per raccogliere il materiale empirico
necessario alla disciplina, ma è diventata molto di più…: una sorta di pietra di paragone
dell’accettabilità di un’indagine, un rite de passage attraverso il quale si sancisce la pro-
pria appartenenza alla comunità degli antropologi.
Quanto a Leach (1961, p. 13), per lui si tratta della “base essenziale” dell’antro-
pologia, mentre per Cohn (1980, p. 200) è un “solenne rito”.
30 ROBERT BOROFSKY
Quasi tutti gli antropologi provano almeno una volta (e alcuni molte volte) l’e-
L’importanza sperienza al tempo stesso eccitante e frustrante di vivere in un luogo estraneo, con-
della ricerca sul frontandosi con saperi estranei. Le ambiguità nella raccolta dei dati, la preoccupa-
campo zione di astrarre modelli e processi dalle fluttuazioni della vita quotidiana, il bisogno
di dar senso all’estraneo sono tutte esperienze antropologiche condivise, sono parte
del processo che conduce a diventare e a essere antropologo. Come nota Salzman (p.
54) la ricerca sul campo è “una pratica rischiosa ed estenuante”; e gli antropologi si
riscoprono come comunità per il fatto di vivere tutti quanti questa esperienza.
Data la grande diversità nelle preoccupazioni teoriche dei decenni passati, que-
sta esperienza etnografica sembra spesso fornire agli antropologi un fondamento
comune. Come afferma Wolf (1964, p. 89), “in un certo senso, nel sistema gerarchi-
co privato degli… antropologi, l’eccellente ricercatore che ha raccolto minuti detta-
gli etnografici è considerato superiore al più dotato fra i teorici”. E Fernandez
(1975, p. 191) aggiunge:
Noi antropologi condanniamo spesso l’abitudine di fare della ricerca sul campo una vera
e propria mania; tuttavia quasi sempre sono i ricchi dati risultanti da una esperienza di ri-
cerca sul campo portata a compimento a costituire il punto di partenza di ogni traguardo
significativo cui è giunta la nostra disciplina (...) praticamente tutte le figure più significa-
tive nell’ambito della disciplina possono essere ricondotte ad un corpus etnografico:
Boas ai Kwakiutl, Malinowski alle Trobriand, Lowie ai Crow, Kluckhohn ai Navajo,
Evans-Pritchard ai Nuer, Griaule… ai Dogon, [e] Firth ai Tikopia.
sia derivato dal trattare il livello dell’ideazione… come un distinto campo del sape-
re”; quanto a Yanagisako e Collier, esse ribadiscono a p. 238 “l’impossibilità di I limiti della
comprendere l’interazione all’interno delle ‘sfere domestiche’, senza comprendere specializzazione
allo stesso tempo l’organizzazione degli ambiti politici ed economici”; Moore, infi-
ne, osserva: “il ‘legale’ così come l’‘economico’, sono dimensioni che pervadono
quasi tutta la vita sociale” (p. 449). L’aumento della specializzazione nella raccolta
dei dati ha perciò messo in luce il bisogno di una maggiore integrazione.
Gli antropologi hanno in comune anche una certa stima per le etnografie ecce-
zionali: le citano più volte nei loro scritti, e sono proprio queste etnografie a fornir
loro la base per sviluppare un discorso comune, un comune quadro di riferimento.
Ad esempio DaMatta, Goody e Salzman fanno tutti riferimento al lavoro di Evans- Etnografie
“eccezionali”
Pritchard sui nuer, mentre Moore e Salzman citano l’opera di Malinowski nelle Tro-
briand: si tratta di etnografie che rappresentano dei modelli, dei parametri in base
ai quali misuriamo la nostra ricerca e quella degli altri. Inoltre, esse fungono da uti-
li fonti, consentendoci di analizzare vecchi materiali in modi nuovi molti anni dopo
la realizzazione della ricerca originaria. Il documento etnografico insomma, come
nota Kuper (p. 154), è la nostra “eredità essenziale e condivisa”.
Goodenough (p. 334) sottolinea anche lui questo punto quando afferma che
l’etnografia “è un’impresa di vasta portata, cumulativa e necessariamente cooperati-
va”. Infine, anche Harris insiste su questo nella conclusione del suo L’evoluzione del
pensiero antropologico (1968, p. 924): “La riabilitazione della strategia del materiali-
smo culturale” egli nota, sta nella sua capacità di dare “origine a ipotesi esplicative
fondamentali, sottoponibili ai collaudi della ricerca etnografica e archeologica, mo-
dificabili se necessario e incorporabili in un corpus di teoria ugualmente capace di
spiegare i caratteri più generalizzati della storia universale, e le particolarità meno
comuni di culture specifiche”. Solo col tempo, con tentativi ripetuti, con il succe-
dersi di etnografie accumulatesi una dietro l’altra, saremo finalmente in grado di co-
noscere la validità di vari resoconti.
Il bisogno di una conoscenza cumulativa in antropologia si è rivelato traguardo
difficile, e i progressi sono stati lenti. Service (1985, p. 318) accenna a questo aspet-
to nella sua conclusione a A Century of Controversy: Ethnological Issues from 1860
to 1960, e dopo aver esaminato numerosi e importanti questioni afferma che l’an-
tropologia culturale (Service parla di etnologia)
non è progredita in modo molto rapido… Oggi non vi è alcuna opinione netta o comune-
mente accettata riguardo al ‘significato’ dei termini di parentela, o delle forme essenziali di
struttura sociale e del totemismo, o delle origini dello stato, della legge,… della proprietà e
delle forme di scambio economico, o persino dello stesso concetto chiave di cultura.
nello spazio di cinquant’anni sono stati risolti un gran numero di problemi… Nessuno
oggi difende ancora la teoria dei tre stadi del progresso economico, mentre la distinzione
INTRODUZIONE 33
formulata da Hahn tra coltivazione con l’aratro [cioè agricoltura] e coltivazione con zap-
pa e semina [cioè orticoltura] resta valida. [Allo stesso modo] che oggi la promiscuità
non esista in alcun luogo e che si tratti di un’ipotesi inverificabile riguardo al passato è
opinione di molti noti antropologi.
Lowie aggiunge anche alla sua lista (1937, p. 252) l’abbandono della teoria del
prelogismo dei primitivi; ora, che molti fra i lettori non abbiano mai sentito parlare
di questi problemi dimostra quel che ho sostenuto: se guardiamo con attenzione al
passato, vediamo che c’è stato un progresso.
Gli antropologi si sono posti domande molto generali disponendo, almeno sino a
tempi recenti, di una massa di dati limitata e imperfetta. Il fatto che la base di dati sia
migliorata ci dà maggiori speranze per il futuro: possiamo continuare ad affrontare i
“grandi problemi” via via che il nostro materiale etnografico si accresce in ampiezza
e profondità, mentre sempre più antropologi lavorano negli stessi luoghi adottando
prospettive che si sovrappongono, e nella misura in cui un dialogo riguardo alle dif-
ferenze continui a svolgersi e svilupparsi nell’ambito della comunità antropologica.
Vorrei concludere con una notazione positiva. In antropologia ci si preoccupa
senza dubbio più della disciplina, e di dove sta andando; ma fuori della disciplina, co- L’antropologia
me sottolinea Peacock (comunicazione personale, 1991), il prestigio dell’antropologia vista
dall’esterno
è piuttosto elevato. Non a caso Geertz (1985, p. 624) nota che gli antropologi “sono
citati ovunque e da tutti, per ogni sorta di finalità. La ‘prospettiva antropologica’ è
dunque, per quanto attiene alla più vasta comunità scientifica, decisamente ‘in’”.
de invece la misura in cui le prospettive dei vari autori si sovrappongono: si può così
seguire il filo rosso di numerose tradizioni antropologiche discusse più in alto – rela-
tive all’olismo, alla contestualizzazione, al mutamento, al dominio, alla comparazio-
ne, ai metodi e alla visione del lavoro sul campo. Ad esempio Barth, Bloch, Goody,
Goodenough, Harris, Keesing, Levy, Strathern, Strauss e Quinn, Vayda, Yanagisako
Prospettive e Collier nonché io stesso teniamo tutti conto dell’interrelazione fra elementi cultu-
teoriche e rali; ma da questa base comune, ci volgiamo poi in direzioni differenti discutendo si-
tematiche che
si
no a qual punto, in quali modi e per quali ragioni esista questa interrelazione. Così
sovrappongono Bernard, Bloch, Goodenough, Harris, Levy, Marcus, Murphy, Rappaport, Salzman e
io ci siamo occupati degli aspetti antropologici della conoscenza; i problemi legati al
dominio e al potere sono affrontati da Harris, Sahlins, Scheper-Hughes, Tambiah,
Tishkov, e Wolf; DaMatta, Das, Godelier, Harris, Kottak e Colson, Kuper, Nader
prendono in esame la comparazione; Barth, Bloch, Godelier, Harris, Keesing, Kot-
tak e Colson, Levy, Moore, Rappaport, Sahlins, Strathern, Strauss e Quinn, Tam-
L’utopia del
consenso biah, Tishkov, Wolf e io indaghiamo i problemi relativi ai processi culturali; e infine
generalizzato Barth, Geertz, Harris, Keesing e Lévi-Strauss rimettono in questione la visione del-
l’antropologia più diffusa e lodata. Tutto questo è piuttosto confortante per quanti
vedono l’antropologia come una comunità intellettuale, in particolare perché un’at-
tenta lettura dei vari saggi rivela che altri nomi potrebbero essere aggiunti a ognuna
delle liste citate. Ne nasce un senso di speranza, cui fa seguito un’importante doman-
da: possono gli antropologi dar vita a un consenso generalizzato riguardo a dove sia-
mo e dove dovremmo andare?
Vi è inoltre un’altra domanda, implicita, che nasce dalla lettura del volume – re-
lativa allo status e al potere. Quasi tutti coloro che hanno contribuito all’opera sono
studiosi affermati, che hanno un forte potere di orientare lo stato attuale della disci-
plina; col tempo, è probabile che molti tenderanno a mantenere una continuità con
il presente che hanno contribuito a creare. Se gli autori fossero stati più giovani di
una generazione, avrebbero forse manifestato un maggior interesse a crearsi proprie
nicchie, muovendosi in svariate direzioni per tentare di crearsi identità proprie sen-
za sentirsi legati al presente. Siamo così indotti a porci un’ulteriore domanda: può il
vecchio aiutarci a dar forma al nuovo? Bisogna che il cambiamento nasca, come
ipotizza Fox (1991, p. 16), da un “pensionamento in massa degli ‘anziani’”? O gli
“anziani” possono, con le intuizioni, abilità ed esperienze che hanno accumulate,
aiutarci a guidare la disciplina verso il futuro?
I trentuno saggi del libro non erano parte di un’organizzazione già esistente;
l’ordine delle parti (e dei saggi) si è sviluppato solo a poco a poco, man mano che
riflettevo sul grado di sovrapposizione fra i diversi contributi.
La prima parte espone alcune delle cacofonie, delle divergenze e diversità che so-
L’organizzazione no oggi tipiche della disciplina. Le posizioni enunciate da Salzman e Marcus riecheg-
delle parti giano in filigrana il dibattito fra positivisti e interpretativisti che si è protratto per de-
cenni in antropologia; il problema è quello di dar vita a una disciplina dinamica e pro-
duttiva. Murphy e Harris affrontano un’altra controversia: quella fra le prospettive
idealista e materialista di analisi del processo culturale; in questo caso, il nocciolo del-
la discussione erano le dinamiche generali che soggiacciono al mutamento culturale.
La seconda parte utilizza uno dei punti forti dell’antropologia, la comparazione,
per riflettere sullo stato presente della disciplina. Fondandoci su valutazioni prove-
nienti da Europa e Terzo Mondo, potremo avere una prospettiva sulla disciplina di-
versa da quella dell’ottica nordamericana della prima parte. Nel suo contributo,
Nader enuncia il bisogno di una “coscienza comparativa”; quanto alle due valuta-
INTRODUZIONE 35
zioni europee – quella di Godelier (un antropologo francese) e di Kuper (un britan-
nico) – possono sconcertare un poco gli americani: i primi infatti vedono nel campo
di studi un consenso maggiore rispetto a questi ultimi, e glissano su alcune opposi-
zioni: cominciamo così a renderci conto di ciò che affascina e al tempo stesso di-
sturba i lettori indigeni riguardo alle etnografie scritte su di loro da individui estra-
nei al gruppo. Le due prospettive che ci giungono dal Terzo Mondo proseguono su
questa tematica, prendendo in esame alcuni usi e abusi dell’antropologia. DaMatta,
un antropologo brasiliano, e Das, un’indiana, sollevano importanti questioni in me-
rito alle prospettive e alle inclinazioni attuali della disciplina.
Nella terza parte gli autori recitano il ruolo – che ormai da tempo gli antropolo-
gi si sono visti assegnare – di critici delle verità comunemente accettate. Rappaport
e Bernard sviluppano suggestive notazioni riguardo al dibattito fra positivisti e in-
terpretativisti; Levy, Yanagisako e Collier, Strathern tornano a riflettere sulle vec-
chie categorizzazioni della disciplina in modi nuovi e profondi. Infine Wolf e Sche-
per-Hughes prendono in esame questioni relative alle dinamiche del potere e dello
spossessamento: Wolf delinea le nuove strategie che si aggiungono agli approcci an-
tropologici tradizionali all’argomento, mentre Scheper-Hughes esamina in che mo-
do i rapporti di potere siano inscritti nei corpi sofferenti dei lavoratori malati.
La quarta parte prende in esame il concetto antropologico di cultura. Goody e
Goodenough ci aiutano a ripensare ciò che intendiamo col termine cultura – quali di-
stinzioni dovremmo tracciare, quali modelli dovremmo utilizzare affinché ci aiutino a
interpretare i fenomeni sulla base di concetti dati. Bloch, Strauss e Quinn, Keesing ri-
mettono in questione le vecchie prospettive, interrogandosi sull’uso dei modelli lin-
guistici, chiedendosi sino a che punto la cultura sia un fenomeno pubblico che si op-
pone a un fatto privato e quale sia il ruolo giocato dal potere nell’ordine della cultura.
La quinta sezione affronta la cultura muovendo da una prospettiva dinamica –
vedendola in movimento, in trasformazione nel tempo e nello spazio. Vayda, Barth
e io ci occupiamo della dimensione della diversità individuale, e di come dobbiamo
concettualizzare al meglio la natura aperta, fluida di ciò che la gente sa; Moore,
Sahlins, Kottak e Colson esaminano le dinamiche processuali legate al mutamento,
al pari delle interconnessioni fra reti locali e globali: per noi, la cultura si configura
come un insieme fluido di processi, e per questo analizziamo i problemi che gli an-
tropologi debbono affrontare nel descrivere questi processi.
La sesta parte si occupa del ruolo dell’antropologia al di là dell’accademia. In un
mondo in cui l’eterogeneità culturale può dar vita sia a intuizioni che a esiti violen-
ti, i contributi di Lévi-Strauss, Tambiah, Tishkov e Geertz analizzano problemi con-
nessi al conflitto etnico e al pregiudizio culturale: mentre Tambiah e Tishkov pren-
dono in esame questioni specifiche, Lévi-Strauss e Geertz si interrogano sui proble-
mi più ampi relativi a questi aspetti.
Un capitolo finale presenta le mie opinioni sulla sovrapposizione di tematiche fra
gli autori che hanno partecipato al volume: dopo aver chiarito dove siamo giunti noi
antropologi, mi chiedo dove dovremmo andare. In quelle conclusioni, sottolineo co-
me il libro sia parte di una conversazione in corso riguardo alla disciplina: è parte di
un dialogo antropologico che continua, e a cui prendono parte gli stessi lettori – al
pari degli studiosi che vi hanno contribuito. Tenuto conto di tutto ciò, possiamo af-
frontare le sei parti, ciascuna con i propri saggi, di cui il volume si compone.
Nota all’edizione italiana
Paola de Sanctis Ricciardone
tigiose scuole che hanno caratterizzato, sin dalla sua nascita, l’antropologia cultura-
le come disciplina autonoma. Oppure, per i più navigati, può essere un mezzo di
sollecitazioni ulteriori e anche un aiuto per prospezioni di scenari futuri.
Certo, dal corposo dibattito internazionale presentato da Borofsky mancano del
tutto contributi italiani; e questo ci dovrebbe indurre a una qualche riflessione, non
tanto sulla validità dei nostri studi – che in diversi casi, proprio a uno sguardo com-
parativo, appare fuori discussione – quanto sulle nostre strategie di comunicazione
scientifica all’esterno dei confini nazionali. Molte delle tematiche e dei campi di stu-
dio affrontati in Assessing Cultural Anthropology hanno traversato e continuano a
traversare anche la comunità antropologica italiana, sebbene, come è ovvio, con
uno stile locale che in qualche misura ci caratterizza3. E anche dal punto di vista ac-
cademico, con le recenti riforme universitarie in tema di autonomia finanziaria, an-
che noi, come tante altre comunità di studiosi nel mondo4, cominciamo ad avere –
assieme a Roger Sheldrake – il problema di rendere apprezzate le nostre ricerche “ai
ragazzi dell’amministrazione”.
Finita l’era del consenso (sebbene travagliato e talvolta mitizzato nella manuali-
stica) intorno a dei nuclei teorico-metodologici comuni siamo ormai traghettati al di
là dei tracciati disegnati dagli “eroici maestri”, come dice Borofsky.
Malinowski, nelle capanne di fango, attorniato da “selvaggi” tipo gli oof paven-
tati dall’antropologo del turismo di Lodge, ci andò e anche molto precocemente,
sin dal 1914. Eroico maestro dunque, uno dei fondatori dell’antropologia moderna
e inventore di quel cosiddetto “realismo etnografico” su cui oggi però si appunta la
critica delle strategie etnografiche postmoderniste (cfr. infra, Marcus, pp. 64-79).
Eppure qualcosa del cinico Sheldrake albergava anche in lui, a giudicare da come si
lamentava dei suoi disagi da fieldwork (capanne di fango e “selvaggi puzzolenti”
compresi) nei suoi privatissimi diari5 pubblicati più di vent’anni dopo la sua morte.
E quanto a consenso non fu mai un gran campione sia nei confronti di altri “eroici
maestri” del passato sia di quelli a lui contemporanei; pensiamo solo, tanto per fare
un esempio ricordato dal suo allievo Raymond Firth6, a come aveva ribattezzato
l’antropologia boasiana: Boasinine Anthropology.
E l’insinuazione che dietro l’eccessivo successo odierno dell’antropologia post-
modernista, o postprocessuale, come dice Harris (cfr. infra, pp. 88-104), si nasconda
in realtà un proliferare di antropologie asinelle può cogliersi in vari saggi del pre-
sente volume. Un colpo basso, questo, sferrato reiteratamente e da più parti, si veda
per esempio il quadro irriverente e graffiante dell’antropologia interpretativa ameri-
cana fornito dall’ultimo Ernest Gellner7.
Insomma tutto questo per dire che in fondo ieri come oggi le relazioni tra le va-
rie scuole antropologiche non sono state mai troppo pacifiche, e soprattutto quelle
tra le “due prospettive” avverse che hanno sempre caratterizzato, come ci ricorda
Borofsky nell’Introduzione, gli studi: una dalla vocazione “scientifica” e l’altra dalla
vocazione “umanistico-letteraria”. Ma, al di là dei dissidi, si può cogliere da più
parti, nell’ambito della vasta comunità degli studiosi, una sincera preoccupazione
che la vena individualista, antimetodologica e frammentaria dell’antropologia fini-
sca per compromettere il suo stesso futuro. Le preoccupazioni espresse da Salzman
(pp. 52-63) in questo volume, sulla credibilità e l’affidabilità dell’antropologia (an-
che in relazione alla possibilità di creare sbocchi lavorativi e di ottenere finanzia-
menti) rispetto ad altre discipline “sorelle”, possono rintracciarsi anche altrove, co-
me ad esempio nei saggi di Melford Spiro o del più giovane Lawrence A. Kuznar8.
Il quadro contemporaneo della nostra disciplina è estremamente complicato,
proprio perché (v. infra p. 52) non solo essa stessa è cambiata, ma è cambiato “il
38 PAOLA DE SANCTIS RICCIARDONE
1 Lodge, D., 1997, Notizie dal Paradiso, Milano, Sonzogno; ed. or. 1991, Paradise News, Londra, Seckes e Warburg.
2 Small World è il titolo del suo più famoso romanzo, tradotto in italiano come Il Professore va a Congresso, Milano,
Bompiani, 1990.<
3 Sulla storia degli studi italiani esiste una letteratura abbondantissima, soprattutto per ciò che riguarda le origini;
si veda, solo a titolo esemplificativo, Cirese, A.M., 1997, Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma, Meltemi
(che raccoglie scritti compresi tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta); Clemente, P., et alii, 1985, L’Antropologia italia-
na. Un secolo di storia, Bari, Laterza. Per uno sguardo su una storia più recente e sulla contemporaneità si veda, oltre al
saggio polemico di F. Remotti, “Tendenze autarchiche”, in id., 1986, Antenati e antagonisti, Bologna, il Mulino, pp. 277-
332, il numero monografico di «Ethnologie Française», n. 3, 1994, Italia, régardes d’anthropologues italiens, a cura di
Françoise Loux e Cristina Papa.
4 Il tema dei finanziamenti pubblici e privati ai programmi accademici e di ricerca antropologica è toccato da Salz-
Roma, Armando.
NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA 39
6 “Malinowski in the history of social antrhropology”, in Ellen, R., Gellner, E., et alii, a cura, 1988, Malinowski bet-
tural Anthropology, Durham and London, Duke University Press, pp. 124-151; Kuznar, L. A., 1997, Reclaiming a Scien-
tific Anthropology, Walnut Creek and London, AltaMira Press. Una eco italiana di queste polemiche può cogliersi nei
Commenti (di Olivia Harris, Pier Giorgio Solinas, Silvana Miceli, Pier Paolo Viazzo) al saggio di Josep R. Llobera, Il
compito degli anni ’90: ricostruire l’antropologia; tr. it. 1994, in «Ossimori», n. 4, 1° semestre. Gli interventi italiani sugli
scenari antropologici contemporanei sono numerosi, ricordiamo, solo per citarne alcuni a titolo esemplificativo e in or-
dine cronologico, Miceli, S., 1990, Orizzonti incrociati, Il problema epistemologico in antropologia, Palermo, Sellerio; Re-
motti, F., 1990, Noi primitivi, Torino, Bollati Boringhieri; Dei, F., Simonicca, A., 1990, “Razionalità e relativismo in An-
tropologia”, Introduzione a Ragione e forme di vita, Milano, Angeli; Lombardi Satriani, L. M., 1994, La stanza degli
specchi, Roma, Meltemi; de Sanctis Ricciardone, P., 1996, “Immagini della scienza tra seduzione e repulsione”, in id., Ne-
mici immaginari, esercizi di etnografia, Roma, Meltemi; Sobrero, A., 1999, L’antropologia dopo l’antropologia, Roma,
Meltemi.
9 Gellner, a differenza di molti studiosi americani e di altri paesi – anche presenti in questo volume – tese invece a
sdrammatizzare e a minimizzare il rapporto tra antropologia (soprattutto britannica) e colonialismo, v. Gellner, E.,
1987, Culture, Identity and Politics, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 69 sgg. In Italia la tematica è stata af-
frontata da Colajanni, A., 1998, Gli usignoli dell’imperatore. Antropologia applicata e colonialismo britannico, Roma, Eu-
Roma.
10 Lyotard, J. F., 1991, La condizione post-moderna, Milano, Feltrinelli; ed or. 1979.
11 Elkana, Y., 1989, Antropologia della conoscenza, Bari, Laterza; ed. or. 1981.
Parte prima
Diversità e divergenze
nella comunità antropologica
Introduzione alla parte prima
Robert Borofsky
Positivismo/interpretativismo
Bernard (p. 213) fa notare che ci sono in realtà due tipi di positivismo. Entram-
bi pongono l’accento sulla “esperienza verificata e sistematizzata piuttosto che… Due tipi di
sulla speculazione indisciplinata” (Kaplan 1968, p. 89). Ma i due tipi sviluppano positivismo
questo aspetto in modi diversi.
Il primo tipo di positivismo si basa su testi degli inizi del XIX secolo, soprattutto
sull’opera di Saint-Simon, un socialista francese. Questi coniò il termine “positivi-
smo” per riferirsi all’applicazione di metodi scientifici a questioni filosofiche. Com-
te in seguito applicò il termine a una concezione a tre stadi del progresso umano:
quello religioso, quello metafisico e quello scientifico. Il positivismo implicava i Il modello
principi verificabili e razionali dell’era della scienza. Comte (nota Bernard) si era comtiano
però fatto trascinare dall’entusiasmo nell’enunciare questi principi scientifici, e la
sua concezione perse di credibilità.
Il secondo tipo di positivismo è spesso etichettato come positivismo logico (ma
è noto anche come empirismo logico, empirismo scientifico o neopositivismo logi-
co). Questa prospettiva è stata elaborata da un gruppo di scienziati interessati a
questioni filosofiche (e filosofi interessati a questioni scientifiche) che si incontraro- Il neo
positivismo
no spesso a Vienna negli anni Venti e Trenta. Il gruppo, chiamato il “circolo di logico
Vienna”, considerava la scienza come un’attività rivolta alla descrizione dell’espe-
rienza. Si opponeva alla speculazione metafisica non perché questa non fosse inte-
ressante, ma perché spesso si dimostrava impossibile da verificare. Il gruppo soste-
neva che “le proposizioni non dovrebbero essere considerate dotate di significato se
non possono essere verificate [empiricamente]” (Passmore 1967, p. 55).
Nella sua forma odierna, orientata empiricamente, il moderno positivismo (o
neopositivismo) si può meglio considerare come un insieme di principi operativi,
una gamma di strumenti per sviluppare un corpus cumulativo di conoscenze. Esso Principi
sostiene che: 1) la formulazione di teorie dovrebbe basarsi sull’induzione dall’osser- operativi del
positivismo
vazione, 2) in caso di dispute teoriche dovrebbero essere le verifiche empiriche – e moderno
non le affiliazioni politiche – a fornire il metro di valutazione della correttezza e 3)
dato che le dispute teoriche si possono risolvere nel corso del tempo, la conoscenza
scientifica può essere considerata cumulativa e progressiva (cfr. Alexander 1985, p.
632). La prospettiva positivista è ben espressa nel saggio di Harris, il quale afferma
(p. 90) che la conoscenza scientifica: “si ottiene per mezzo di operazioni pubbliche
e replicabili”, e che lo scopo della ricerca scientifica è “formulare teorie esplicative
che siano… verificabili (o falsificabili), [e] cumulative entro un corpus di teorie co-
erente e in espansione”. Harris conclude il suo saggio – nella tradizione di Saint-Si-
mon e Comte – con l’invito a basare il giudizio morale e la politica sociale sulla co-
noscenza scientifica piuttosto che su valori relativisti.
Geertz è una figura chiave nello sviluppo della moderna antropologia interpre-
tativa. Afferma (Geertz 1973, p. 41):
La cultura
e la rete di Ritenendo, insieme con [il sociologo tedesco] Max Weber, che l’uomo è un animale im-
significati pigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in
queste reti e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca
di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato.
Egli è interessato al “tessuto di significato nei cui termini gli esseri umani inter-
pretano la loro esperienza e guidano le loro azioni” (Geertz 1957, p. 33). Sostiene
che “la spiegazione interpretativa… concentra la propria attenzione su ciò che le
istituzioni… significano per quelli a cui quelle istituzioni appartengono” (Geertz
1983, p. 28). Ancora (Geertz 1973, pp. 54-55):
Non è nei confronti di una massa di dati non interpretati, di descrizioni radicalmente thin
[o superficiali] che dobbiamo misurare la forza delle nostre spiegazioni, ma con la capacità
dell’immaginazione scientifica di metterci in contatto con le vite delle persone estranee.
La cultura
come insieme
di testi Coerente con questa prospettiva è il suggerimento di Geertz (1973, p. 444) di
esaminare “la cultura come una insieme di testi” e che “le forme culturali possono
essere trattate… come opere dell’immaginazione costruite con materiali sociali”. Le
opere culturali possono essere interpretate (e reinterpretate) per i loro significati.
Feste, rituali e combattimenti di galli non sono da questo punto di vista semplice-
mente degli eventi: rappresentano anche degli insiemi di significati. Per coloro che
vi sono coinvolti, veicolano conoscenza, emozione e senso.
Geertz non è antiscientifico. “Io non credo – afferma (cit. in Carrithers 1990, p.
274) – che l’antropologia non sia o non possa essere una scienza, o che il valore del-
le opere antropologiche stia tutto nella loro forza di persuasione”. Ma di certo si
Il rifiuto della oppone alla quantificazione ossessionata dalla metodologia, e all’austera ricerca di
ossessione
nomotetica leggi. E lavora all’interno di una tradizione – che si definisce ermeneutica e com-
prende studiosi come Weber, Dilthey, Gadamer e Ricoeur – che sostiene che lo stu-
dio delle questioni sociali e storiche richieda metodi differenti da quelli impiegati
nelle scienze naturali. Geertz è attento alla natura aperta e stratificata del significato
e si preoccupa di “opporsi all’idea che ‘vi sia… [un’unica] rappresentazione corret-
ta del mondo’” (Geertz 1990, p. 274). Ci sono implicazioni sociali importanti nella
sua prospettiva per quanto riguarda la tolleranza, come chiarisce egli stesso nel suo
saggio (p. 663):
Comprendere ciò che ci è estraneo in qualche modo, e che verosimilmente resterà tale,
senza minimizzarlo con vaghi commenti di “varia umanità”, senza vanificarlo con un at-
teggiamento indifferente alla “a ciascuno il suo” né respingerlo, considerandolo affasci-
nante e persino attraente ma illogico, è una abilità che dobbiamo faticosamente appren-
dere; e una volta appresala (sempre in modo molto imperfetto) dobbiamo continuamen-
te sforzarci di tenerla in vita: non si tratta infatti di una capacità connaturata in noi come
la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, su cui possiamo fare affidamento
senza alcun timore.
...una volta che sono rese palesi le convenzioni e la natura retorica del discorso realista, si
apre lo spazio per formulare nuove domande, per concretizzare nuovi oggetti di studio, e
per esplorare nuovi ambiti discorsivi attraverso esperimenti sulla forma.
Ciò che risulta particolarmente importante, nella discussione che verte sui testi sperimen-
tali auto-consapevoli, non è tanto la sperimentazione per se stessa, ma lo spunto teorico
prodotto da una determinata tecnica di scrittura e la sensazione che una innovazione con-
tinua nella natura dell’etnografia possa essere un mezzo utile allo sviluppo della teoria.
(p. 81) si riferisce alla “scrittura densa” (un gioco di parole sulla “descrizione den-
sa” di Geertz) “in cui oscure allusioni letterarie e forme retoriche barocche diventa-
L’oscurità della no armi, in una specie di rap per teste d’uovo”. Invece di descrizioni etnografiche,
“scrittura densa” ci troviamo per le mani “contemplazioni del proprio ombelico” (come le chiama
Jarvie, cfr. Sangren 1988, p. 428), esercizi di narcisismo. Gli studi antropologici di-
ventano un mezzo di contrasto per parlare di sé. Secondo, l’antropologia postmo-
derna sottostima il contesto della sua produzione, trascurando i propri giochi di po-
tere, come se oggetto di analisi dovessero essere solo i giochi di potere e le costru-
zioni intellettuali degli altri. Sangren (1988, p. 414) sostiene che nelle analisi inter-
pretative o postmoderne:
Materialismo/idealismo
Non sarebbe corretto considerare il dibattito tra materialismo e idealismo come
una semplice variazione sul tema di quello tra positivismo e interpretativismo. La
relazione tra le due opposizioni è più complessa. Si può considerare Harris un
esponente allo stesso tempo del positivismo e del materialismo, ma Marcus, che è
un interpretativista, sembra individuare degli aspetti da valorizzare anche nel mate-
Il materialismo di rialismo. Facendo riferimento all’antropologia “come sedimentazione intellettuale
Marcus
interna alla storia del colonialismo occidentale” (p. 67), Marcus lega l’evoluzione
dell’antropologia alla politica e all’economia del colonialismo. E Murphy (pp. 81-
82), nonostante la sua distanza da Harris, concede molto al materialismo quando
suggerisce che: “le realtà del potere, del sesso e del bisogno economico sono ampia-
mente prioritarie e generative rispetto alle forme simboliche”.
INTRODUZIONE ALLA PARTE PRIMA 47
Questo compito può essere perseguito studiando le costrizioni materiali cui è soggetta
l’esistenza umana. Queste costrizioni sorgono dal bisogno di produrre cibo, rifugio, stru-
menti e attrezzi, e di riprodurre la popolazione umana entro i limiti stabiliti dalla biologia
e dall’ambiente. Queste costrizioni sono dette materiali… per distinguerle da costrizio-
ni… imposte da idee e da altri aspetti mentali o spirituali della vita umana… Per i mate-
rialisti culturali, le cause più probabili delle maggiori variazioni negli aspetti mentali o
spirituali della vita umana sono da rinvenire nelle differenze di costi e benefici materiali
nella soddisfazione del bisogni di base in un determinato ambiente.
Non esiste alcuna logica materiale al di fuori dell’interesse pratico, e l’interesse pratico
degli uomini per la produzione è simbolicamente costituito. Le finalità non meno che le
modalità della produzione provengono dal lato culturale.
Non si può negare che il confronto generato dal dibattito nei decenni scorsi tra
diverse forme di materialismo e idealismo sia stato particolarmente acceso. Ortner
(1984, pp. 133-134) afferma in proposito che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio
dei Settanta: “Bisognava essere proprio digiuni di teoria antropologica per non es-
Asperità nel
dibattito sere a conoscenza della feroce polemica” tra queste due prospettive. Gli antropolo-
gi di impronta materialista consideravano quelli con un’impostazione idealistica co-
me “dei mentalisti dalle idee confuse… che si lasciano andare a interpretazioni sog-
gettive non verificabili”, mentre erano a loro volta criticati dagli idealisti per il fatto
che “ignoravano a bella posta l’evidenza che… la cultura media tutto il comporta-
mento umano” (ib.).
In un certo senso, quel che emerge da questo dibattito sono i punti forti e debo-
li della prospettiva olistica. In forma più o meno esplicita, sia Harris che Murphy si
interessano dei modi sottili e complessi in cui gli elementi culturali sono interrelati.
Ma l’olismo non specifica in maniera chiara fino a che punto e con quali modalità
gli elementi culturali interagiscano tra di loro, e così i due autori esplorano possibi-
lità differenti. E non c’è accordo neppure sull’importanza relativa dei diversi ele-
menti nel favorire il mutamento e/o la stabilità.
Sviluppare la disciplina
Leggendo questa sezione, potrebbe facilmente venire il mente la poesia di Ro-
bert Frost, Riparare il muro. Sorge cioè il desiderio di conoscere non solo quel che è
racchiuso da una particolare prospettiva – ciò che essa include esplicitamente, ciò
su cui getta luce – ma anche quel che il muro eretto da ogni prospettiva lascia al di
fuori – ciò che viene escluso, sottovalutato, trascurato. Gli autori di questa parte del
volume non risolvono le polemiche intellettuali che abbiamo indicato. Ma i lettori
I temi ignorati possono meditare su alcune questioni a riguardo: quali sono i temi che questi auto-
e i problemi nello ri mettono in luce in modo specifico? Quali sono quelli ignorati? Che problemi
sviluppo della
disciplina
pongono al procedere della ricerca?
Come ultima cosa, quel che dobbiamo tenere a mente nel leggere questa sezione
è come usare a vantaggio dell’antropologia i diversi orientamenti qui inclusi. Come
possiamo cioè imbrigliare le tensioni tra le opposte – e tuttavia parzialmente so-
vrapposte – prospettive di questi autori per far avanzare l’antropologia come disci-
plina intellettuale?
Nota alla parte prima
Vanessa Maher
Leggere questa sezione è stato un po’ come guardare un dramma che si svolge
su un palcoscenico lontano. Qual è la comunità antropologica di cui parla Borofsky
nel titolo? L’elenco degli autori del volume non lascia dubbi: si tratta di autori an-
glofoni, con alcuni ospiti d’onore francesi come Lévi-Strauss e Godelier; del resto,
anglofoni sono quasi tutti i riferimenti nel testo. Come verrà recepita questa tradu-
zione in Italia? Ripercorrendo in forma riflessiva la storia della disciplina nel nostro
paese, ci rendiamo conto di come vi siano molti fattori che la rendono differente da
quella americana. Gli autori di questa sezione hanno studiato e insegnato in alcune
delle università il cui nome è associato a quello dei fondatori dell’antropologia cul-
turale statunitense: Columbia, Harvard, Chicago, California, senza contare i sog-
giorni in vari e importanti dipartimenti di studio britannici. Tutti hanno svolto ri-
cerche sul campo lontano dal proprio paese, e redatto lavori etnografici. Ritengono
superate le fasi evoluzionista e funzionalista della disciplina. Fanno riferimento a un
corpus comune di concetti e procedure: etnografia, osservazione partecipante, cul-
tura, struttura sociale, relativismo, contestualizzazione, ecc. e riconoscono gli stessi
“antenati mitici”: Boas, Kroeber, Kluckhohn, Eggan, Nadel, Steward, Radcliffe-
Brown, Evans-Pritchard, Malinowski, Lévi-Strauss e persino Geertz. Il dibattito in-
torno a questi comuni concetti e agli altri proposti dagli antenati è costante. Condu-
ce a posizioni divergenti per quanto riguarda, ad esempio, il ruolo degli approcci
positivisti o ermeneutici nella ricerca antropologica, le prospettive sono – come dice
Borofsky – in gran parte “sovrapposte”. I termini del dibattito sono astratti, concer-
nono lo sviluppo della disciplina in università che assomigliano molto a “torri d’a-
vorio”: il campo è lontano, una “rappresentazione” dei contendenti che non inter-
ferisce con il corso del dibattito intellettuale. Salzman così vorrebbe una definizione
ancor più rigorosa dell’antropologia, in modo che possa esser meno contaminata da
discipline vicine (come se non vi fosse una storia economica o religiosa, o varie
branche della psicologia), e rivendica una preparazione linguistica e tecnica più se-
ria. Marcus critica le varie retoriche con le quali gli antropologi si sono arrogati au-
torità etnografica, e si augura che giunga una fase di sperimentalismo e plurivocità
nella ricerca antropologica.
Questi saggi mi colpiscono sia per la loro convergenza nella divergenza, sia per
le omissioni comuni. Mi chiedo perciò, con Ruth Behar e Deborah Gordon in Wo-
men Writing Culture (19925), come hanno fatto gli autori di questa sezione e i criti-
ci delle “retoriche etnografiche” a ignorare quasi completamente l’antropologia
femminista, che ha percorso la strada, all’epoca più accidentata, della messa in dis-
cussione dell’autorità dell’etnografia androcentrica e dell’antropologia “dialogica”
fin dagli anni Settanta (cfr. Annette Weiner, Women of Value, Men of Renown, 1976
su Malinowski, o gli importanti volumi curati da Shirley Ardener, o ancora l’opera
di Michelle Rosaldo o di Rayner Reiter; si veda, infine, Barbara Myerhoff, Peyote
50 VANESSA MAHER
Hunt, del 1974). I consigli paternalisti di Harris suonano quasi comici, se visti nel
contesto delle ricerche di genere contemporanee. Mi chiedo anche dove sia finita
l’antropologia biografica degli anni Sessanta (si pensi a Lewis, I figli di Sanchez e a
molti altri), oppure la scuola di Manchester e l’analisi situazionale, con la sua pro-
posta di più “narrazioni” di una stessa situazione. Infine mi chiedo: cosa significano
questi dibattiti in Italia?
In Italia l’antropologia s’innesta su altre tradizioni di studio e gli antropologi la-
vorano in circostanze diverse. I problemi sono differenti e così pure le divergenze
tra antropologi. Una delle condizioni che tende a influire sulla ricerca antropologica
in Italia è la forte continuità fra le università e la società civile. Le università sono
ubicate nelle città e risentono degli avvenimenti nella società circostante. I docenti
hanno spesso come interlocutori certi settori della popolazione locale e le loro ricer-
che sono frequentemente legate a questioni poste da questi stessi interlocutori, as-
sumendo connotazioni pratiche e politiche estranee all’antropologia statunitense.
Tali questioni, dato lo status minoritario dell’antropologia, vengono poste nei termi-
ni di discipline più tradizionali e familiari al senso comune: la medicina, la filosofia,
la teologia, la sociologia. Questa circostanza spiega sia la fortuna che la sfortuna
dell’antropologia culturale in Italia. Le tesi positiviste dell’antropologia biologica di
Cesare Lombroso e Paolo Mantegazza hanno accompagnato il pensiero sul sociale
per tutto il periodo fascista e non è raro ancora oggi sentire ragionamenti giuridici e
leggere sui quotidiani delle interpretazioni biologiche di comportamenti sociali (p.
es.: “il divorzio è ereditario”). Mi sembra che il grande lavoro sul concetto di cultu-
ra fatto, e continamente aggiornato, dagli antropologi negli Stati Uniti (da Boas,
Kluckhohn, Kroeber, fino a Geertz) fin dagli anni Quaranta e Cinquanta per far
fronte ai problemi sociali posti da una popolazione culturalmente eterogenea sia
qui ancora da fare e si impone con urgenza nella nuova situazione mondiale.
Inoltre, le ricerche di Ernesto De Martino, ispirate allo storicismo e al marxi-
smo, ponevano insieme problemi filosofici e problemi inerenti al riscatto culturale
ed economico delle popolazioni dell’Italia meridionale. La formazione di questi
studiosi e i materiali che ritenevano pertinenti ai loro studi erano molto diversi tra
loro ma diversi anche da quelli dell’antropologia culturale anglofona. De Martino
non svolgeva un’osservazione partecipante nell’accezione statunitense; ma d’altra
parte, dove osservava e raccoglieva materiali non aveva problemi di comprensione
linguistica. In Italia, anche dopo l’introduzione dell’antropologia statunitense nel
secondo dopoguerra, gran parte delle ricerche si sono svolte con l’intento di racco-
gliere e analizzare le tradizioni culturali italiane, e raramente in una prospettiva
comparativa. Non era molto presente l’idea dell’“unità del genere umano”, concet-
to che emergeva di più negli scritti di Pettazzoni e altri studiosi legati a un approc-
cio religioso. Qualche volta queste ricerche si avvalevano di un linguaggio e un im-
pianto concettuale marxista oppure assumevano il colore della denuncia sociale.
Un’ulteriore diversità dell’antropologia italiana riguarda la profonda influenza di
Lévi-Strauss e dello strutturalismo su molti antropologi di formazione filosofica.
La ricerca sul campo e l’etnografia come “generi” sono stati sviluppati da pochi
africanisti e studiosi dell’America Latina, spesso in contatto con l’antropologia
francese e anglofona.
Oggi molti giovani antropologi seguono con attenzione tutte le proposte di de-
costruzione dell’etnografia anglofona senza conoscerne l’oggetto. Per esempio, per
valutare le accuse di Marcus di “astoricità” dell’etnografia, bisognerebbe prima leg-
gere Nadel oppure Shapera; per valutare le critiche di Salzman alle competenze lin-
guistiche dei giovani antropologi anglofoni, bisognerebbe leggere Beidelman, o
NOTA ALLA PARTE PRIMA 51
Quali che siano i vanti degli Stati Uniti nella coorte delle nazioni, nel mondo ac-
cademico è senza dubbio l’antropologia culturale a essere “la terra dell’uomo libero
e la casa del coraggioso”. I modi in cui concepiamo l’insegnamento, la ricerca e la
L’antropologia conoscenza testimoniano tutti il primato accordato alla libertà e al coraggio. I pregi
“terra della e i difetti, i successi e i fallimenti dell’antropologia culturale derivano proprio da
libertà”
queste apprezzate caratteristiche della disciplina.
ro vita, spesso conducono i nostri informatori fuori dal nostro raggio di azione e dai
nostri piani, rallentando così o inibendo il procedere del nostro lavoro. Alla fine
quindi, per quanto sappiamo come fare le cose, siamo ostacolati da restrizioni di
tempo ed energia. Nonostante queste restrizioni, abbiamo comunque la convinzio-
ne che non dobbiamo isolare gli elementi culturali dal loro contesto più ampio, che
dobbiamo tendere a uno studio olistico, e che siamo tenuti a fornire un resoconto
completo della società e della cultura che studiamo. Sappiamo che tendiamo all’im-
possibile, tanto impossibile da essere assurdo, eppure siamo pronti a non vedere
l’assurdità, per puntare coraggiosamente verso la necessaria completezza.
Il nostro coraggio si manifesta forse più che mai nel modo in cui affrontiamo le
La conoscenza
difficoltà della ricerca etnografica senza una grande abilità di comunicare con le
delle lingue persone che stiamo studiando. Spesso andiamo sul campo con una conoscenza solo
locali rudimentale delle lingue locali. Dopo tutto, concentriamo i nostri sforzi e il nostro
tempo nello studio dell’antropologia, e solo in una fase avanzata decidiamo esatta-
mente dove fare la nostra ricerca e quali lingue saranno necessarie. Di solito rimane
ben poco tempo per studiarle, e spesso non abbiamo accesso a corsi di apprendi-
mento per le lingue di cui abbiamo bisogno. Le nostre università non li garantisco-
no, e non ci sono fondi disponibili per consentire altrove lo studio delle lingue. Il
problema è poi peggiorato dal fatto che spesso abbiamo bisogno di conoscere una
lingua nazionale o regionale assieme a una locale. Io stesso mi sono trovato in que-
sta situazione ogni volta che mi sono avventurato sul campo: per la ricerca nel Balu-
chistan iraniano erano necessari persiano e baluchi, per la ricerca in Jodhpur hindi
e marwari, e in Sardegna italiano e sardo. La conseguenza di questi problemi nella
preparazione linguistica è che dobbiamo imparare la lingua sul campo, mentre fac-
ciamo la nostra indagine. Così, partiti per una località straniera per fare ricerca,
dobbiamo imparare a vivere lì e iniziare a lavorare senza essere veramente in grado
di comprendere o di farci comprendere. Ci vuole del coraggio a fare questo, come
Finanziamenti e ce ne vuole, in tali circostanze, a pianificare il completamento del lavoro entro il ca-
permessi nonico anno di ricerca sul campo. Faccio notare a riguardo che c’è tra i nostri colle-
ghi antropologi una forte resistenza all’idea che la ricerca sul campo possa richiede-
re più di un anno. In risposta a una recente richiesta di finanziamento, che mi è sta-
ta poi concessa, tutti i membri della commissione giudicatrice hanno criticato il pe-
riodo di due anni indicato per la ricerca, anche se la durata non influiva sull’am-
montare dei fondi richiesti. Quando risposi ai commissari, giustificando la richiesta
di due anni, cominciò a sembrarmi sempre più improbabile che anche due anni fos-
sero abbastanza, dati gli ostacoli da superare e gli obiettivi da raggiungere.
Tutto questo presuppone ovviamente l’autorizzazione da parte delle autorità
politiche a entrare nel paese prescelto e a procedere verso il luogo di lavoro desi-
gnato. Spesso infatti il problema dei permessi di ricerca o di residenza si dimostra
un vero azzardo. Diversi dottorandi nel mio dipartimento hanno passato recente-
mente un anno in attesa spasmodica di sapere se sarebbe stato loro concesso di en-
trare nei paesi per i quali si erano preparati negli anni precedenti. Io stesso ho pas-
sato lunghi mesi a Teheran prima della rivoluzione cercando di farmi dare un per-
Problemi messo per andare in Baluchistan, permesso che finalmente mi venne concesso, par-
politici
zialmente e di mala voglia. Alla fine ebbi l’onore di essere espulso dal Baluchistan
dalla polizia, dato che mi muovevo troppo liberamente sul territorio tribale. In se-
guito ho studiato le caste pastorali in Jodhpur, Barmer e Jaisalmir, i distretti deser-
tici del Rajasthan, a poca distanza dal confine con il Pakistan, provocando così una
serie di frenetici interrogatori di colleghi e altri amici indiani da parte della polizia
segreta indiana, fatto che non mi sembrò proprio di buon augurio per futuri per-
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 57
metodi della raccolta delle informazioni, e se comunque non c’è tempo per una rac-
colta sistematica delle informazioni, dovremmo forse sorprenderci se troppo spesso le
nostre etnografie sono superficiali, frammentarie e inaffidabili?
sta e postmoderna sostiene che i resoconti etnografici sono soggettivi per costituzio-
ne – interpretazioni di interpretazioni secondo Geertz, storie che uno si porta dietro
dal campo, secondo J. Briggs – ed è quindi inutile e anzi fuorviante pretendere vali-
dità, attendibilità eccetera. Ora, sono d’accordo sul fatto che gli esseri umani siano
soggettivi, un’opinione del resto condivisa dalle scienze naturali, la cui metodologia
L’esasperazione si incentra proprio su questa premessa. Sono però convinto che la teoria secondo cui
del le etnografie siano espressioni personali del ricercatore, che hanno un rapporto inde-
soggettivismo finito con la “realtà” (se osiamo metterla in questi termini) del contesto studiato, non
etnografico è tanto un profondo riconoscimento di saggezza epistemologica, come spesso si dice,
ma piuttosto una razionalizzazione dell’istruzione manchevole, della disorganizzazio-
ne e della trasandata metodologia della ricerca etnografica, nonché una giustificazio-
ne dello spirito di corpo degli antropologi basato sulla libertà e l’avventura. Come
conseguenza, all’interno dell’antropologia si banalizza l’etnografia e ci si concentra
su approcci teorici euristicamente originali, su nuove concettualizzazioni, nuove pa-
role chiave per comprendere ogni cosa, nuove ideologie, nuove parole d’ordine, fino
alla nausea. Uno scaltro stratega della sua carriera non farà della solida e seria etno-
grafia, ma se ne uscirà con un’originale e seducente prospettiva, o uno slogan che lo
renderanno il campione di uno nuovo “-ismo” antropologico. C’è quindi una retroa-
zione positiva tra la letteratura etnografica inverificabile e ambigua da un lato e la fa-
stidiosa promozione dello slogan “teorico” del momento dall’altro.
Se il mio giudizio sullo stato attuale dell’antropologia sembra troppo severo e
ingiustamente aspro, si dovrebbe tenere in considerazione la posizione che l’antro-
pologia detiene tra le discipline consorelle, tra i potenziali ed effettivi suoi utilizza-
L’impegno degli tori e tra coloro che danno lavoro agli antropologi, e quanto questo pesi sul futuro
antropologi nel della disciplina. È vero che l’antropologia può probabilmente tirare avanti nel
mondo del mondo accademico allettando studenti in cerca di un’opzione morbida, in cui si
lavoro possano evitare corsi propedeutici, esami di statistica e così via, e attraendo ancor
più verso i nostri corsi universitari gli avventurieri solitari. Ma gli antropologi nel
mondo del lavoro, che sono impiegati da agenzie governative o da ospedali, o da
compagnie commerciali, e che devono presentare i loro risultati e sostenere le loro
opinioni di fronte a economisti e agronomi, medici e membri dei comitati a tutela
dei pazienti, avvocati e politici, questi antropologi devono avere argomentazioni
solide, legate in qualche modo alla possibilità di comprendere il reale, altrimenti i
loro progetti di ricerca e il loro lavoro verrebbero semplicemente derisi. Anche
nell’ambiente accademico, gli specialisti d’area e i colleghi nelle discipline affini
avanzano seri dubbi sul fatto che gli antropologi facciano seriamente qualcosa, a
parte passare lunghe e piacevoli vacanze in posti esotici. Di certo gli amministrato-
La scarsità dei ri delle università, quelli che garantiscono i fondi ai dipartimenti di antropologia,
finanziamenti
sembrano spesso ben poco impressionati dai meriti accademici della nostra disci-
plina. Perché un’università dovrebbe finanziare l’insegnamento e la ricerca antro-
pologica, quando ci sono discipline accademiche serie da sovvenzionare? Egual-
mente, come mai il Programma di Antropologia Sociale e Culturale del National
Science Foundation riceve solo 1.400.000 dollari all’anno per sovvenzionare la ri-
cerca per i diecimila antropologi statunitensi, il che fa la bella media di 140 dollari
a testa? Se l’antropologia non è considerata una cosa seria da finanziatori governa-
tivi, amministratori universitari e datori esterni di lavoro, dovremmo chiederci il
perché. Forse non si tratta solo di ignoranza e rozzezza da parte loro, ma di un se-
rio limite di quel che l’antropologia è in grado di offrire.
Mentre la libertà nell’antropologia è portatrice di apertura e creatività, e il co-
raggio degli antropologi garantisce tenacia di fronte alle difficoltà, l’individualismo
LO STRANIERO SOLITARIO NEL CUORE DI TENEBRA 61
L’unione fa la forza
È possibile che l’individualismo istituzionalizzato nei nostri programmi di inse-
gnamento e nelle nostre strategie di ricerca possa, con cura e determinazione, esse-
re progressivamente attenuato da strutture più ampie che soddisfino il bisogno del-
l’antropologia di un programma formativo più adeguato, di una strategia di ricerca
più efficace, un più vasto quadro di riferimenti comuni, un processo di valutazione
più solido, e una base per un valido esercizio dell’attività critica? Molte altre disci- Una nuova
pline, da quelle più vicine come l’archeologia preistorica fino alle più distanti scien- comunità di
ricerca
ze biologiche e fisiche, arricchiscono la creatività degli individui attraverso strutture
di scambio e cooperazione, iniziative collettive e divisione delle responsabilità. Di-
versi ricercatori spesso si concentrano su questioni correlate nello stesso settore, o
indagano diversi aspetti dello stesso fenomeno, e sono così in grado di specializzar-
si senza trascurare il punto di vista più generale. In questo modo possono costituire
una piccola comunità di ricerca, cooperare nella divisione dei compiti in modo che
ognuno abbia un carico di lavoro ragionevole, fornire critiche competenti e costrui-
re un corpus di conoscenze comuni sul quale progredire. Queste cooperazioni di la-
voro, reti, gruppi o squadre, forniscono allo stesso tempo un’efficace struttura di ri-
cerca e un luogo di scambio intellettuale produttivo per filtrare e raffinare risultati e
idee. Come ha detto Ralf Dahrendorf, la verità non è funzione di un occasionale im-
pegno nei riguardi dell’oggettività, ma piuttosto di un effettivo luogo di scambio
delle idee. In questo spazio aperto, “la verità” dei risultati delle ricerche e delle teo-
rie può essere messa alla prova attraverso il libero esercizio della critica tra ricerca- La verità e il
tori. Oppure, se il termine “verità” è troppo osé per la nostra epoca postmoderna, libero esercizio
della critica
possiamo dire che stiamo cercando di lavorare in maniera più solida, su di un fon-
damento più stabile, con maggior sensibilità, attraverso nuove strutture che ci assi-
stano in questo compito.
Trovo paradossale che gli antropologi riflettano così di rado sulla struttura del-
la loro disciplina e non sembrino tenere in considerazione i costi dei modelli attua-
li. Siamo perfettamente in grado di istituire modifiche tali da produrre un aumen-
to del livello di coordinamento e cooperazione nella ricerca, della condivisione di
conoscenze e della collaborazione critica. Lavorando assieme per un ragionevole
periodo in uno o più siti di ricerca, gli etnografi, all’inizio delle loro carriere o già Lavorare
affermati, possono suddividersi le responsabilità della ricerca in modo comple- assieme per
mentare e più realistico, possono costituire un quadro conforme di concezioni co- creare nuove
muni, fornire solide valutazioni e critiche costruttive, e insieme offrire alla più am- concezioni
comuni
pia comunità intellettuale un corpus di risultati più raffinato, condiviso e profon-
do, sul quale è più facile condurre ulteriori ricerche.
Certo, potremmo continuare come abbiamo fatto finora, mantenendo l’aleato-
rietà dell’avventura individualista, con la sua pochezza di armonia e giustificazione
62 PHILIP CARL SALZMAN
Biografia intellettuale
Sperimentazione
La quarta possibilità, la sperimentazione, è una prospettiva ben più concreta e
argomentabile. È la possibilità su cui intendo soffermarmi, con un’attenzione parti-
colare all’etnografia, la pratica che si trova al cuore dell’antropologia socioculturale
contemporanea. La parola “esperimento” evoca la modalità essenziale delle scienze
naturali oppure quella dell’avanguardia del modernismo estetico storico in Occi- IV:
dente tra la fine del secolo scorso e gli anni Sessanta. Attraverso sperimentazioni Sperimentazioni
formali furono ribaltate concezioni elaborate ma ingenue del realismo nell’arte. È formali
questo secondo significato del termine “esperimento” che intendo evocare qui.
Quel che provoca la sperimentazione è il fatto che una volta che sono rese pale-
si le convenzioni e la natura retorica del discorso realista, si apre lo spazio per for-
mulare nuove domande, per concretizzare nuovi oggetti di studio, e per esplorare
nuovi ambiti discorsivi attraverso esperimenti sulla forma. Il rischio storico dei mo-
vimenti di rivitalizzazione intellettuale basati su esperimenti formali può essere lo
66 GEORGE MARCUS
dente. Può liberarsi dalla sua storica identificazione con l’esotico e il primitivo – ca-
tegorie di assai dubbio valore empirico ed etico, almeno alla fine del ventesimo se-
colo – ed essere invece l’esempio di una disciplina che non solo dà ascolto alla criti-
ca continua delle sue pratiche e dei suoi discorsi, ma accoglie quella critica come la
reale fucina del suo progetto di ricerca.
L’etnografia è al cuore dell’antropologia culturale da più di settant’anni. Ha gio-
cato un ruolo essenziale nel rovesciare il paradigma evoluzionista su cui si era fonda-
ta molta della ricerca antropologica nel diciannovesimo secolo. Si potrebbe addirit-
tura considerare l’etnografia proprio come la forma storica della sperimentazione L’etnografia
trasformata in dottrina da Boas negli Stati Uniti e da Malinowski in Inghilterra al fi- come
ne di superare le grandi schematizzazioni universalizzanti ed evoluzioniste di autori sperimentazione
come James Frazer e Lewis Henry Morgan. Tuttavia, anche un’antropologia scienti- trasformata in
fica e basata sull’etnografia mantiene gran parte dell’attenzione centrale originaria dottrina
della disciplina per le condizioni dell’“Uomo universale”, concepito come un primi-
tivo che vive al di fuori della modernità, lo spazio deputato in cui si possono porre le
questioni essenziali sull’umanità. Si poteva allora pensare che l’antropologia cultura-
le non avesse altro proposito generale se non quello di creare un archivio etnografico
dettagliato dell’esotico ad uso dell’Occidente moderno, così da poter finalmente de-
terminare qualche nozione di quel che è (o non è) universale tra gli esseri umani.
Di certo gli sviluppi di questa fine secolo in altri campi, come le scienze cogni-
tive, e il generale discredito di schemi evoluzionisti progressivi, hanno lasciato il
grande progetto dell’antropologia culturale e il suo archivio etnografico in preca-
rie condizioni. Quel che rimane è un approccio alla produzione della conoscenza
chiaramente interpretativo, unico tra la scienze sociali o quelle umanistiche. L’et-
nografia si è modellata in massima parte al di fuori della nozione occidentale di
storia, attraverso l’uso di strategie retoriche come il “presente etnografico”. Si è
La retorica del
basata sulla dimensione romantico-scientifica della ricerca sul campo – lo studio “presente
della vita in altre comunità chiaramente diverse (se non esotiche). Il difficile com- etnografico”
pito di traduzione culturale e di interpretazione ha assorbito le energie intellet-
tuali e ha definito l’ethos della disciplina contemporanea. In effetti qualcuno ha
resistito all’astoricità implicita nel paradigma etnografico. Soprattutto dopo la se-
conda guerra mondiale, per esempio, l’attenzione rivolta al primitivo si è aperta
fino a includere i contadini, gli emigranti urbani, e la formazione dei gruppi etni-
ci nell’epoca della nascita di nuove nazioni, della decolonizzazione, e dell’ideolo-
gia dello sviluppo economico. Tuttavia anche nell’etnografia attenta al mutamento
sociale, che aveva trovato un rifugio intellettuale nell’economia politica marxista,
le convenzioni di base e la retorica della produzione etnografica della conoscenza
sono rimaste centrali.
la ricerca sul campo. Terzo, gli antropologi, assieme agli storici delle idee e a critici
culturali, hanno prodotto una critica del soggetto storicamente distinto della loro
La visione disciplina, il primitivo ed esotico “altro” e, dietro questa rappresentazione, una cri-
ermeneutica tica dell’“Uomo universale” o dell’umanità.
della ricerca
Questi filoni importanti si sono unificati in modo sistematico durante gli anni
Ottanta in quella critica della retorica e del discorso etnografico espressa forse con
maggior chiarezza nel volume che ho curato nel 1986 assieme a Jim Clifford: Scrive-
La critica al re le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia. Al cuore della critica c’era il modo
discorso in cui l’autorità etnografica è costruita retoricamente nella produzione testuale della
etnografico: conoscenza antropologica. Per esempio, la legittimità e la validità delle etnografie si
Scrivere le
culture sono basate sulla capacità di veicolare la sensazione di “essere stati lì”. La diretta
esperienza di un altro mondo, inclusa la conoscenza della lingua e delle forme della
quotidianità degli altri, rende l’etnografo un traduttore competente di una forma
distintiva di vita che dovrebbe essere presentata in modo vivido e olistico ai lettori
dell’etnografo rimasti a casa. Diversi abbagli, evasioni, e vere e proprie finzioni, ne-
cessarie per raccogliere gli importanti risultati conoscitivi che l’etnografia ha pro-
dotto, e la loro esposizione nell’attuale atmosfera di scetticismo intellettuale, sugge-
riscono il bisogno di nuovi vocabolari, nuovi concetti, e nuove retoriche. In breve,
c’è bisogno di nuovi modi, aldilà dell’eredità di cui disponiamo dalla teoria sociale
del diciannovesimo secolo, per descrivere il sociale e il culturale.
A partire dal diciannovesimo secolo l’innovazione nel pensiero antropologico
non è stata generalmente supportata da un più ampio discorso metateorico, ma piut-
tosto da un tipo di teoria che è rimasto vicino al modo in cui i fatti etnografici veni-
vano determinati (ad esempio il particolarismo storico di Boas). Non è quindi sor-
prendente che la critica della retorica etnografica abbia prodotto esperimenti con la
forma semiletteraria reclamata dai modelli conoscitivi dell’etnografia. Per esempio,
L’etnografia nel un interessante problema analitico dell’odierna antropologia culturale riguarda i mo-
contesto del di in cui aprire la conoscenza locale classicamente rappresentata e descritta dagli et-
sistema-mondo nografi ai processi contemporanei di apparente omogeneizzazione globale. Non si
tratta più soltanto di porre l’etnografia nel contesto di metanarrazioni storiche, dato
che queste sono oggetto di analisi critica, ma di trovare nuove retoriche di descrizio-
ne per costituire oggetti di indagine che non siano inconsapevoli del potere dei pro-
cessi transculturali (compresi ancora solo parzialmente) che diversificano e deterrito-
rializzano le culture proprio mentre le omogeneizzano (per una recente panoramica
su questi temi, rimando il lettore alla rivista «Public Culture», da poco fondata da
Arjun Appadurai e Carol Beckenridge). Questo è il tipo di doppio livello di discorso
modernista (o postmoderno come si dice ora) che l’etnografia deve essere in grado
di dimostrare che può essere reso in un progetto di ricerca ricco di opportunità. L’et-
nografia condivide questo tipo di tematiche con altre discipline, ma il suo vantaggio,
come ho fatto notare, è che riesce a funzionare bene e in maniera creativa senza sen-
tire la necessità di un paradigma teorico positivo – cioè di una teoria sociale conven-
zionale – che la guidi. Essa si nutre invece della critica della sua stessa retorica.
Per la fine degli anni Ottanta l’interesse tradizionale dell’etnografia per la cul-
tura (in quanto esperienza vissuta a livello locale) e il bisogno riconosciuto di com-
Nuovi interessi prenderla in una prospettiva globale si sono esplicitamente rivolti al problema di
per nuovi come le identità individuali e collettive siano negoziate nei diversi luoghi in cui gli
argomenti antropologi fanno ricerca sul campo. Quest’etnografia ha la responsabilità di spie-
gare come la diversità emerga in modo paradossale, in un mondo transculturale,
nei contesti locali abituali e nei siti familiari della ricerca etnografica. Di fronte a
processi di creolizzazione globale sta sorgendo un rinnovato interesse tra gli antro-
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 69
Problematizzare la dimensione spaziale (ovvero: la rottura con il topos della co- Riconfigurare
munità). Il concetto di comunità – nel senso classico di condivisione di valori e l’osservato
identità, e quindi di cultura – ha preso forma letteralmente entro il concetto di loca-
lità, al fine di definire uno schema di riferimento basilare per l’etnografia. Le con-
notazioni di solidità e omogeneità (correlate alla nozione di comunità) sono state
rimpiazzate nel quadro della modernità dall’idea che la produzione dell’identità –
sia di un individuo, di un gruppo, o anche di un’intera società – non dipende sola-
mente, e neppure sempre principalmente, dalla compresenza di attività osservabili
entro un luogo specifico. L’identità di chiunque, e di qualunque gruppo, si produce Luoghi, contesti
e scopi nella
simultaneamente in molti e differenti luoghi di attività, da parte di molti agenti dif- produzione delle
ferenti, per molti scopi differenti. L’identità di un individuo in termini del luogo identità
dove vive – vicini, amici, parenti, estranei – è solo uno dei contesti sociali, e forse
neppure il più importante, in cui l’identità prende forma. Sono i vari elementi di
questo processo di costituzione di identità disperse – rappresentazioni mobili e cor-
relate in molti luoghi differenti di carattere diverso – che devono essere afferrati in
quanto fatti sociali. Questo pone certamente all’etnografia problemi di metodi di ri-
cerca e di rappresentazioni testuali del tutto nuovi e in alcuni casi estremamente
difficili. Ma riuscire a cogliere la formazione dell’identità (di identità multiple, in
realtà) in un particolare momento della biografia di una persona, o della storia di
un gruppo di persone, attraverso la messa a fuoco di siti o luoghi di attività tra loro
assai diversi, permette di riconoscere sia i potenti impulsi integrativi (razionalizzan-
ti) dello Stato e dell’economia nella modernità, sia la conseguente dispersione del
soggetto (persona o gruppo) in frammenti multipli e sovrapposti di identità che al-
trettanto chiaramente caratterizza la modernità (a questo proposito si veda Marcus
[1989] per una discussione della complessità dei resoconti etnografici che si occu-
pano di classi agiate).
Le questioni in gioco in questa elaborazione per così dire parallela di identità
pluridislocate sono: 1) quali identità si sedimentano, e in quali circostanze? 2) qua-
li diventano quelle centrali o dominanti, e per quanto tempo? 3) in che misura il
gioco delle conseguenze non intenzionali influenza il risultato nella sedimentazio- Identità
ne di un’identità rilevante in questo spazio di costituzione multipla e controllo di- pluridislocate
sperso delle identità di una persona o di un gruppo? 4) qual è la natura delle poli-
tiche che controllano l’identità in ciascuno dei siti all’interno e all’incrocio dei qua-
li essa si forma?
La differenza o diversità culturale non sorge in questo caso da una qualche lotta
locale per l’identità, ma è funzione di un complesso processo che coinvolge tutti i
siti in cui si definisce l’identità individuale o di gruppo. È compito dell’etnografia
sperimentale contemporanea riuscire ad afferrare la costituzione di specifiche iden-
tità in tutte le loro migrazioni e dispersioni. Questa visione multilocale di identità
disperse riconfigura e rende complesso il piano spaziale in cui l’etnografia si è mos-
sa concettualmente in passato.
Il libro di Bruno Latour (1989), che tratta della diffusione della scienza di Pa-
steur nella società francese, ne è un esempio. Latour cerca di costruire uno spazio
eterogeneo (e discontinuo) in cui rendere conto di un processo che si rifrange nelle
72 GEORGE MARCUS
giate fonti di prospettiva. Sono invece considerate come i prodotti del complesso
insieme di associazioni ed esperienze che le compone.
Il libro di Carolyn Kay Steedman (1987) è un buon esempio di questo approc-
cio. Resoconto in parte autobiografico di una madre inglese di estrazione operaia e
di sua figlia, questo lavoro cerca di dare espressione alla storia entro strutture teori-
Rendere la che date, e fallisce in modo provocatorio. Ciò che lo caratterizza è il fatto di soste-
qualità del
complesso nere con successo la qualità della voce, senza determinazioni strutturali immediate
insieme di voci dello spazio sociale in cui i suoi discorsi sono evocati in quanto voce. In realtà, sfida
direttamente le fantasticherie teoriche che immaginano una qualche struttura in
grado di racchiudere le voci che l’autrice orchestra.
Ci sono diversi modi in cui tutto ciò può essere rappresentato dal punto di vista
testuale. Ma il punto chiave è che l’intelaiatura concettuale dell’antropologo non
dovrebbe rimanere intatta, se quella del soggetto viene fatta analiticamente a pezzi.
L’opera poetica di Dennis Tedlock (1989) si appropria in maniera più seria e co- Le concezioni
dell’antropologo
erente di qualunque lavoro antropologico che io conosca di una struttura derivata non possono
dialogicamente dalla ricerca sul campo, e la rende sua. Rappresenta un anno della rimanere intatte
vita di un viaggiatore occidentale nei termini della complessa organizzazione tem- se quelle del
porale dei maya quiche. Così facendo, fornisce un nuovo vocabolario che modifica soggetto vengono
fatte a pezzi
in modo convincente il modo in cui il tempo è concepito nell’esperienza occidenta-
le contemporanea.
Bifocalità (guardare almeno in due direzioni). Una forte dimensione comparati-
va è sempre stata un aspetto più o meno implicito di ogni progetto etnografico.
Nella globale modernità in evoluzione del ventesimo secolo in cui si è praticata l’an-
tropologia fin quasi dalla sua fondazione come professione, la sincronicità dell’et-
nografo e dell’“Altro” (in quanto soggetto di indagine) è stata tuttavia quasi sempre
negata (Fabian 1983). C’è in etnografia una storia di giustapposizioni tra il nostro
mondo e quello dell’“Altro”, ma l’attenzione è rivolta a mondi separati, distanti. La La negazione
relazione assai sfocata tra la società dell’antropologo e quella del soggetto etnografi- della
co (sotto dominazione coloniale) è stata messa in discussione solo dalla critica del sincronicità
rapporto dell’antropologia con il colonialismo occidentale. dell’“altro”
Ora che la modernità occidentale viene ripensata come un fenomeno globale e
del tutto transculturale, l’uso dichiarato della bifocalità nei resoconti etnografici sta
diventando sempre più esplicito e apertamente critico nei confronti della superata
distinzione tra “noi” e “loro”. Oggi, l’identità dell’antropologo e del suo mondo è
con buona probabilità profondamente correlata a quella del particolare “mondo”
che sta studiando. Tuttavia, solo la riconfigurazione dell’osservato (delineata nel
paragrafo precedente) rende possibile questa revisione del carattere bifocale dell’et-
nografia. La catena di pregressi collegamenti, storici o contemporanei, tra l’etnogra-
fo e i suoi soggetti può essere più o meno lunga, rendendo così la bifocalità una
questione di giudizio personale. Ma la sua scoperta e il suo riconoscimento riman- I legami tra
gono un tratto definitorio dell’attuale dimensione sperimentale in etnografia. Sono l’etnografo e i
suoi soggetti e
una dichiarazione critica contro ogni sforzo conformista di mantenere separati dei la bifocalità
mondi (e separate le loro determinazioni) in un mondo fortemente integrato.
Anthropology through the Looking Glass di Michael Herzfeld (1987) mostra gli
elementi in comune nello sviluppo del concetto di cultura in antropologia e nella
lotta per definire la cultura contemporanea della Grecia da parte dei greci stessi (in
cui l’antropologia, gli studi folklorici e quelli classici hanno giocato un ruolo decisi-
vo). Herzfeld sviluppa la dimensione bifocale dell’etnografia rivelando nel suo pro-
getto la complessa relazione storica tra lo sguardo etnografico e ciò su cui esso si
posa. La riflessività, da semplice atto personale, viene fatta diventare una pratica
critica per l’etnografia, che dimostra la relazione tra osservatore e osservato in uno
specifico momento dell’indagine.
Giustapposizioni critiche e considerazione di possibilità alternative. La funzione La critica
principale dell’etnografia sperimentale è la critica culturale. Ciò implica la critica culturale
non solo della propria disciplina (attraverso un’alleanza intellettuale con il soggetto impone alla
voce
etnografico) e della propria società (che nell’accelerata situazione di integrazione dell’etnografo
globale è sempre correlata al sito d’interesse etnografico in maniera bifocale attra- di diventare
verso processi transculturali e attraverso la prospettiva storica), ma anche della si- evidente
tuazione all’interno del luogo stesso della ricerca, il mondo locale indagato. Dato il
generale impegno delle etnografie sperimentali a esplorare l’intero ventaglio delle
76 GEORGE MARCUS
1 Voglio sottolineare che la sperimentazione non è una mia profezia, basata sulla raffinata anticipazione di pochi
esempi, ma è invece una tendenza documentata, non solo nell’attuale allentamento del modello educativo iniziatico del-
l’etnografia in termini di ciò che si può presentare in una dissertazione dottorale, ma anche nel modo in cui sono gesti-
te le “seconde ricerche” intraprese da ricercatori già affermati che hanno compiuto le loro prime indagini tra la fine de-
gli anni Sessanta e la metà dei Settanta. Dopo tutto, l’etnografia non è solo la pratica intellettuale centrale dell’antropo-
logia, ma è anche il rito di passaggio che plasma le carriere individuali. Il progetto educativo iniziale della ricerca etno-
grafica – uno o due anni di ricerca sul campo, scrittura della dissertazione dottorale seguita dalla pubblicazione di una
monografia – costituisce il capitale in base a cui vengono assegnate e in seguito mantenute le posizioni accademiche. Se
da un lato il modello educativo è prevedibilmente conservatore e tende all’ortodossia, dall’altro ciò che è ortodosso, nel
bene e nel male, sia per i soggetti d’indagine che per le convenzioni di scrittura, è cambiato notevolmente negli ultimi
dieci anni, secondo me tanto su richiesta degli studenti quanto per volontà dei docenti.
Ma per quel che mi riguarda e per quelli della mia generazione, il momento di sperimentazione più interessante su
come condurre una ricerca, si verifica lungo quella linea di rottura con il progetto di ricerca iniziale, necessario a dare il
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 77
via a una carriera e tendenzialmente conservatore. Lungo quella linea di rottura il ricercatore o la ricercatrice cerca og-
gi di intraprendere qualcosa di assai diverso da quello per il quale era stato/stata addestrato. Dato che il primo proget-
to di ricerca, che può durare spesso un decennio, non consente certo di padroneggiare a fondo una forma di vita diffe-
rente anche nel caso – comune nell’etnografia convenzionale – di ricerche condotte su di uno spazio estremamente ri-
stretto come un villaggio, una cittadina o un quartiere urbano, si è sempre guardato con favore al ritorno ulteriore sul
sito originario di ricerca, per spingersi al di là di esso sia concettualmente sia geograficamente con estrema cautela. Ma
oggi pochi antropologi costruiscono le loro carriere di ricerca in questo modo. È più comune adesso che le divergenze
rispetto al primo progetto di ricerca siano delle vere fratture ed esperimenti sia nella concezione che nella conduzione
della ricerca. Tuttavia, visto che le carriere non dipendono da questo tipo di progetti di ricerca, questi tendono a essere
sviluppati in modo più silenzioso, personale, in un modo più intenso e più ambizioso, nonché a essere realizzati con un
po’ di insicurezza. La tendenza sperimentale che ho individuato si manifesta in maniera diffusa nell’antropologia con-
temporanea proprio nella produzione relativamente silenziosa di questi secondi progetti.
Il problema di fondo di questi progetti è proprio quello di ripensare le convenzioni dell’etnografia per scopi, luo-
ghi e soggetti non convenzionali, soprattutto superando l’idea di comunità locale come luogo di ricerca sul campo a fa-
vore di fenomeni più frammentari che pongono una seria sfida al modo in cui l’etnografia classica è concepita e assume
prestigio. Ciò avviene, per esempio, spostando la ricerca da un paese italiano al Parlamento europeo multinazionale,
dalla giungla amazzonica ai centri di trattamento del dolore a Boston, dallo studio di una fabbrica giapponese all’indu-
stria internazionale della moda, dallo studio del culto degli antenati in un villaggio taiwanese alla comparazione delle
concezioni del corpo nella medicina ufficiale e nel pensiero femminista americano, dai contadini della Transilvania agli
intellettuali rumeni, dallo studio degli sherpa del Nepal a quello dei propri compagni di classe del liceo. Questi, e molti
altri casi di slittamento di interessi, implicano tutti una verifica dei limiti del paradigma etnografico, e soprattutto una
mutazione delle forme dell’etnografia. Per esempio, come si devono ripensare le forme dell’evidenza e dell’autorità et-
nografica quando si ha a che fare con soggetti non localizzati, fenomeni culturali ancora in via di costituzione, slegati da
storie locali o tradizioni ben assestate, in mondi che a prima vista non sono del tutto estranei all’etnografo? Se da un la-
to assistiamo a un’esplicita discussione sulla critica e le trasformazioni dell’etnografia, pratica al cuore dell’antropologia,
questa critica e queste trasformazioni si stanno effettivamente concretizzando ad ampio raggio nel silenzioso problema
professionale di come lanciare secondi progetti di ricerca, che è esattamente il problema di come trovare e rendere con-
cettualmente plausibile una via di uscita da una tradizione che si vuole, allo stesso tempo, conservare e mutare.
2 L’autore gioca sull’omofonia tra eye (occhio) e I (io), che in italiano si potrebbe forse rendere come assonanza tra
Biografia intellettuale
Sono stato attratto dall’antropologia quand’ero ancora uno studente liceale all’i-
nizio degli anni Sessanta, grazie alle lettere dal campo di una coppia di miei cognati
(lui era allora dottorando a Yale) che si trovavano tra i semai nell’allora Malaya. La
trasformazione professionale di questo interesse non può essere raccontata in sem-
plici termini genealogici (del tipo: Boas generò X che generò Y, da cui io fui genera-
to). Mi è capitato invece di passare di continuo attraverso particolari istituzioni an-
tropologiche che si trovavano di volta in volta alla fine di un particolare percorso o
progetto, così che, per quanto fossi interessato e affascinato dall’esperienza antro-
pologica, mi sono sempre trovato ad avere un rapporto obliquo o distaccato con i
particolari modelli di antropologia professionale con i quali mi trovavo in contatto.
Per prima cosa, ero a Yale alla metà degli anni Sessanta, quando l’influenza felice di
Murdock da un lato e l’etnoscienza dall’altro avevano già passato il loro zenit.
Quindi, pur seguendo i corsi di antropologia, la mia vera fonte di entusiasmo furo-
no le lezioni di Paul Mus e Harry Benda sulla storia del Sud-Est asiatico (con una
buona dose di Geertz come esperto di Indonesia), per cui finii per laurearmi con un
programma speciale in politica ed economia (formato in buona parte da teorici del-
la politica, economisti dello sviluppo e studiosi di estrazione europea).
Poi, tra il 1969 e l’anno seguente, passai tre semestri a Cambridge, studiando
antropologia sociale per il BA Tripos. Si era al tramonto del funzionalismo britanni-
co, e il triumvirato composto da Goody, Leach e Fortes (ma insegnava anche Tam-
biah) si mantenne stranamente unito di fronte al radicalismo dei loro stessi studen-
ti e di molti studiosi americani in visita. Mi ricordo chiaramente una serie di confe-
renze presentate dai “grandi” – Evans-Pritchard, Needham, Gluckman eccetera –
e di come tutti (assieme al gruppo di Cambridge) apparissero esausti, almeno in
confronto alle promesse suscitate dai loro scritti, che in quell’anno stavo leggendo
in modo sistematico.
In seguito, dopo due anni nell’esercito nella Carolina del Sud (durante i quali ho
insegnato antropologia ai corsi serali dell’università e ho fatto qualche approccio et-
nografico tra coloro che parlano gullah a Sea Island), entrai a far parte del Diparti-
mento di Relazioni Sociali di Harvard (antropologia sociale). Talcott Parsons e
George Homans erano ancora nomi di rilievo, ma il programma del dipartimento
non aveva più da offrire (almeno agli antropologi) quel che aveva offerto in passato,
quando Clyde Kluckhohn dirigeva la sezione antropologica e David Schneider e
Clifford Geertz erano studenti. Anche se ho imparato molto da Cora DuBois e Da-
vid Maybury-Lewis, di nuovo mi allontanai dall’antropologia per rivolgermi ai corsi
di altri settori, che mi sembravano potenzialmente promettenti per l’antropologia,
corsi tenuti per esempio da Stanley Cavell, Barrington Moore e Daniel Bell.
Ho potuto constatare che la mia esperienza è stata molto simile a quella della
maggior parte dei miei colleghi studenti di antropologia sociale a Harvard all’inizio
degli anni Settanta. Eravamo liberi di prendere parte a un ampio spettro di propo-
ste intellettuali, ma prima o poi la maggior parte degli studenti si associava con l’u-
no o l’altro dei principali progetti che fornivano opportunità di ricerca dopo la lau-
rea. Mi unii al progetto sulle Fiyi dello scomparso Klaus Friedrich Koch (un antro-
pologo legale che era stato allievo di Laura Nader a Berkeley), visto che mi dava la
possibilità di lavorare nel regno di Tonga, una società monarchica che si era adatta-
ta in modo interessante a una lunga storia di colonialismo e modernizzazione. A
Harvard, l’esperienza di antropologia che mi ha dato più soddisfazioni, e senza
dubbio la più importante, è stata la mia partecipazione come teaching fellow al cor-
so di teoria sociale di David Maybury-Lewis e Nur Yalman. Gli incontri all’ora di
pranzo con quest’ultimo e la mia partecipazione come teaching fellow al corso ri-
DOPO LA CRITICA DELL’ETNOGRAFIA: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ 79
Materialismo
Alcuni materialisti affermano che la “mente” semplicemente non esiste. C’è,
piuttosto, solo il cervello umano, entro cui fluiscono gli stimoli esterni e da cui sca-
turiscono le risposte comportamentali. Per quanto riguarda il cervello, non c’è biso-
gno di conoscere cosa contiene o come funziona, ma solo quel che vi entra e quel
La cultura come
“comportamento
che ne esce. Quel che ne esce è tutto quel che fornisce il miglior risultato con il mi-
appreso e nimo sforzo, concetto che si definisce elegantemente “condizionamento operativo”.
condiviso” Dato che la cultura è definita dagli stessi materialisti “comportamento appreso e
condiviso”, ne segue che quando un numero sufficiente di persone ottiene gli stessi
risultati e reagisce allo stesso modo, nasce la cultura. Ma John Stuart Mill, nella sua
formulazione del massimo benessere per il maggior numero di individui, aveva
espresso meglio lo stesso concetto già 150 anni fa. E 42 anni fa ho seguito i corsi di
psicologia sperimentale al Columbia College con il mio vecchio amico Marvin Har-
ris. Lui è diventato un fedele del vangelo secondo Thorndike mentre io, in reazione
al comportamentismo, sono diventato un fedele di Sigmund Freud.
Isaiah Berlin (1966) ha diviso gli intellettuali di professione in due categorie: le
volpi e gli istrici. Le volpi sono persone che hanno molte idee, tipi come Clifford
LA DIALETTICA DI FATTI E PAROLE 81
Geertz (o come me). Il problema è che dopo un po’ il lettore non sa più da che par-
te stanno queste persone (cosa questa che diventa un problema serio solo quando al
lettore la questione non interessa più). Gli istrici, al contrario, sostengono un’idea
sola, ma si tratta della GRANDE IDEA. Questo atteggiamento, com’è ovvio, ben descri-
ve Marvin Harris, che ha subito una conversione materialista in una fase precoce Marvin Harris e
della sua carriera. Questa conversione, assieme al comportamentismo del college, è il materialismo
culturale
diventata il Materialismo Culturale. Harris sostiene testardamente questa teoria da
trentacinque anni, modificando qualche cosa qui e lì, ma senza deviare di una virgo-
la dalle sue linee essenziali. La teoria è tuttavia meno in debito con Karl Marx di
quanto non lo sia con scrittori come Jeremy Bentham, Adam Smith e B. F. Skinner.
Può essere questa la ragione per cui durante gli anni Settanta e Ottanta molti stu-
denti radicali si sono orientati invece verso diversi tipi di marxismo, un movimento
adesso in via d’estinzione nel culto delle mode che ora infesta la nostra professione.
Roy Rappaport (1989) ha sostenuto che gli studi ecologici devono diventare più
culturali e basarsi di meno sui modelli delle scienze naturali, il che costituisce una
chiara presa di distanza dal cieco determinismo meccanicista del materialismo cul-
turale. Da questo punto di vista, ho sempre creduto che l’approccio ecologico-cul-
turale di Julian Steward [descritto nell’introduzione alla quarta parte] rimanga tut-
tora la direzione più promettente per noi, perché sposta l’attenzione dall’ambiente
naturale alla cultura, e in maniera più specifica alla penetrazione e al radicamento L’approccio
del lavoro – cioè delle relazioni sociali di produzione – nel tessuto totale della socie- ecologico-cultu-
tà (cfr. Murphy 1970). Vorrei aggiungere il corollario che questo stesso radicamento rale
del lavoro è il cammino attraverso cui aspetti della cultura interni al sistema di valo-
ri e significati rifluiscono ad articolare e influenzare l’organizzazione del lavoro, da-
to che si tratta in qualche misura di una strada a due direzioni. Io sostengo che que-
sto è il contributo centrale della teoria di Steward, per quanto con i miei aggiusta-
menti, un contributo che può evitare il fardello di concetti rigidi come “nucleo cul-
turale” o “infrastruttura”.
Postmodernismo
Dopo aver presentato alcuni moderni, rivolgo ora la mia attenzione ai postmo-
derni e a quelli di atteggiamento affine. Il postmodernismo, con le nuove antropo-
logie interpretative e riflessive, con il decostruzionismo, il dialogismo e qualche al-
tro caso che ora non mi viene in mente, è una tendenza in crescita in questo paese. La minoranza
Nonostante il suo successo, rimane sotto il controllo di una minoranza, per quanto postmoderna e
ben posizionata. Per quel che riguarda tutti gli altri, credo di non travisare il loro il suo “oscuro”
stile di scrittura
atteggiamento se dico che gran parte di loro sospetta che ci sia nel postmodernismo
una cospicua dose di mistificazione. Ho l’impressione che buona parte di questo
stato d’animo verso l’antropologia postmoderna derivi dallo stile di scrittura dei
suoi seguaci, che scrivono alternando frasi di una parola a rompicapi sintattici di
frasi subordinate. In tutta franchezza, devo tuttavia far notare che i maggiori rap-
presentanti di quel che io chiamo la “scrittura densa” sono maschi, che sembrano
impegnati in uno strano gioco competitivo in cui oscure allusioni letterarie e forme
retoriche barocche diventano armi, in una specie di rap per teste d’uovo.
Dopo questa premessa, la maggior parte dei lettori si aspetterà probabilmente da La rottura col
me una critica totale della dottrina post-strutturale e postmoderna ma, per quanto fa- positivismo
stidiosa possa essere la loro sintassi, io trovo condivisibili, addirittura familiari, alcuni
aspetti di questi scritti. Mi soffermo ora su questi aspetti, e lascio per dopo i punti in
cui credo abbiano perso il senso della misura. Il postmodernismo e l’interpretativismo,
nelle loro grandi linee, hanno marcato una profonda rottura con il paradigma del posi-
82 ROBERT F. MURPHY
tivismo funzionalista che ha dominato le scienze sociali per gran parte del ventesimo
secolo, e che tuttora fornisce l’intelaiatura intellettuale di una buona fetta della nostra
professione. Il modello funzionalista di società – una rete di entità empiriche correlate
in maniera causale e funzionale a formare dei sistemi naturali – si basava sull’implicita
assunzione positivista dell’autonomia e oggettività degli osservatori scientifici che rac-
Una nuova colgono questi nuclei fattuali. A sua volta, questa cosiddetta obiettività derivava dalla
fenomenologia convinzione che noi, in quanto soggetti, potessimo metterci in un angolo con i nostri
del discorso e quaderni di appunti e studiare i nativi nei loro villaggi come oggetti. Era una convin-
della
costruzione del zione innocente, ma rivelava un soggiacente atteggiamento imperialista.
reale La nuova antropologia ha spostato l’attenzione dalla struttura al modello e al pro-
cesso, alla fenomenologia del discorso, e ai processi attraverso cui la cultura, e la stessa
realtà, sono costruite. L’interesse per i confini dei sistemi e per il mondo lineare e mec-
canico del funzionalismo strutturale (abbracciato da Radcliffe-Brown e da altri) è finito
per sempre. È sparito anche l’osservatore oggettivo che si distacca dai suoi informatori,
e al suo posto c’è ora l’osservatore contestuale e culturalmente costituito, che non può
più separarsi dalla sua etnografia. Do il benvenuto a queste nuove tendenze, e quindi
spero che non la prenderete a male se mi chiedo: cos’altro c’è di nuovo?
prioritarie e generative rispetto alle forme simboliche nelle quali sono espresse (od oc-
Un’antropologia
cultate). La mia generazione non ha maturato questa convinzione dai libri o dagli inse- realista
gnanti. Abbiamo imparato la tirannia della privazione negli anni Trenta, e negli anni
Quaranta abbiamo scoperto che il potere e la legittimità vengono dalle armi. Questo
ha dato alla nostra antropologia un tono di concreto realismo che non deve andare
perduto per inseguire l’iconografia culturale. Sotto varie bandiere, molti studiosi si so-
no recentemente allontanati da questa ragionevole attività per dedicarsi solo alla se-
Gli eccessi del
miotica e al significato. Sono stati così trascinati in indagini interpretative che conside- testualismo
rano sia la vita sociale che le etnografie su di essa come dei testi, avvicinandosi così pe- postmoderno
ricolosamente alla critica letteraria, il settore più sterile della ricerca moderna.
Per quanto riguarda i materialisti, non riescono a riconoscere che le forme cul-
turali hanno una loro vita autonoma, e non sono semplici epifenomeni di “infra-
strutture” sottostanti. Non esiste un brodo primordiale di prassi bruta all’interno I limiti del
materialismo
del quale la cultura verrebbe creata. Il comportamento sociale deve prendere luogo
all’interno di strutture di significato, che sono significati costruiti. Le nostre azioni
sono modellate entro le nostre memorie del passato, le anticipazioni del futuro e la
realtà del presente e sono estremamente pericolose perché, una volta rese pubbli-
che, sono irrevocabili. Ma le nostre azioni, in quanto performances pubbliche, av-
vengono nelle nostre menti e nelle menti di coloro che ci osservano. La loro coeren-
za dipende dalle conflittuali interpretazioni che di esse danno sia gli attori che gli
spettatori, e che rendono spesso la vita sociale una commedia o una tragedia, che
poi sono la stessa cosa. Il comportamento avviene quindi entro storie in cui l’attore
è insieme il prodotto e il produttore, creatore e vittima, guardiano e prigioniero. È
proprio perché preso nell’angoscia di questa trappola che Stephen Dedalus escla-
ma: “La storia è un incubo dal quale cerco di svegliarmi”. Noi antropologi interpre-
tiamo questi incubi, ma anche li sogniamo, e quindi siamo in loro balia.
Sono consapevole del fatto che i materialisti culturali ammettono un rispetto for- Il fatto e la
male per i simboli e le norme, come i postmodernisti, i semiologi e gli interpretativisti parola: due
scienze
dicono di rispettare l’attività pratica. Ma insisto che nessuno dei due fronti tiene in se- dell’uomo?
ria considerazione il punto di vista dell’altro. Il materialismo culturale rimane abbar-
bicato a un modello meccanico e naturalista che non riesce a tener presente che la
mente è ben di più di una tabula rasa e ha il suo ordine interno e i suoi processi. I
postmodernisti e compagnia cadono nell’intellettualismo rifiutando di riconoscere in
pieno che i significati devono essere verificati e forgiati nello spazio dell’azione sociale
concreta. È in questo spazio che desideriamo e bramiamo, lavoriamo e sudiamo, e in
cui la nostra comprensione del mondo deve adattarsi ai nostri umani bisogni. Il mate-
rialismo culturale si interessa soprattutto del Fatto, e molti postmodernisti solo della
Parola. È come se ci fossero due scienze dell’uomo, una che studia l’uomo dal collo in
giù, l’altra dal collo in su, un Uomo in un caso senza testa, nell’altro senza corpo.
Un’eterna contraddizione
Da questo punto di vista, apprezzo l’interesse di Nancy Scheper-Hughes (Sche-
per-Hughes, Lock 1987) per le metafore culturali del corpo, perché illustrano bene
la differenza tra l’approccio interpretativo e un trattamento dialettico. Il corpo è un
soggetto di cui ho trattato per la prima volta in un articolo (Murphy 1977) sui ruoli La battaglia dei
sessuali e l’anatomia dei sessi, che indagava le implicazioni del fatto ben noto che le sessi e le
donne hanno dal punto di vista sessuale una ricettività ben maggiore rispetto agli uo- modificazioni
mini. In quell’articolo sostenevo che la cultura inibisce questa abbondanza naturale imposte dalla
di sessualità femminile, rendendola un bene a disponibilità limitata rispetto a una cultura
sessualità maschile che è invece limitata naturalmente ma trasformata dalla cultura in
84 ROBERT F. MURPHY
1 Questo articolo è una versione leggermente modificata di un intervento presentato all’incontro annuale dell’Ame-
rican Anthropological Association il 6 novembre 1989 a Washington, D.C., in un simposio intitolato “Gli sviluppi del-
l’antropologia”, organizzato da Robert Borofsky. Precedenti versioni di questo articolo sono state lette dai dottori Tho-
mas de Zengotia, Barbara Price e Joel Wallman. Sono loro grato per gli utili commenti e suggerimenti.
LA DIALETTICA DI FATTI E PAROLE 85
Biografia intellettuale*
menologia nell’antropologia. Mentre era alla Columbia, scrisse anche Cultural and
Social Anthropology e, assieme alla moglie Yolanda, Women of the Forest.
A metà degli anni Settanta Murphy era già gravemente malato, ma continuò a
insegnare e pubblicare. Il suo studio divenne un salotto in cui docenti e studenti
potevano incontrarsi, discutere e scambiarsi opinioni. La sua stessa malattia diven-
ne una sfida per pensare alla paralisi come a un problema intellettuale, una metafo-
ra di qualcosa radicato nella condizione umana. Di conseguenza, iniziò un nuovo
progetto di ricerca per studiare le vite delle persone disabili. In The Body Silent, il
suo ultimo libro, che è allo stesso tempo autobiografico e generalizzante, tentò di
integrare e sintetizzare il pensiero di tutta una vita, e soprattutto di sviluppare da
Dialectics quel che lui considerava fosse rimasto incompiuto o inespresso nell’opera
precedente. Citiamo da The Body Silent (pp. 221-222):
In ospedale, pensando a ruota libera alla malattia e al declino fisico, ho avuto l’ossessio-
nante sensazione di aver fatto in tutti gli anni passati nient’altro che le prove generali per
il presente, di rivivere la mia storia in un’iperbole, di subire una tremenda parodia della
vita stessa. Ero intrappolato in un processo per il quale non c’è via di scampo, talmente
inevitabile che non potevo resistergli, ma solo guardarlo ammaliato. In un modo perver-
so, il progresso della mia degenerazione fisica sembrava qualcosa di appropriato, perché
in ogni momento della mia esistenza erano contenuti tutti i miei ieri e tutti i miei domani.
E il mio ricapitolare il passato – e il futuro – non era un’attività idiosincratica, il mio in-
cubo strettamente personale. Era invece, in qualche modo, la messa in atto in forma esa-
sperata del corso di tutta la vita sociale.
Cultura
Non è un caso che tutti coloro che ignorano, implicitamente o esplicitamente,
gli aspetti biologici o archeologici dell’antropologia, operino con una definizione di
cultura che è strettamente limitata a fenomeni mentali ed emici (vedi oltre, il para-
grafo sui principi epistemologici). Per costoro la cultura costituisce il regno delle
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 89
pure idee, accessibile solo attraverso il dialogo interattivo tra etnografi viventi e vi-
venti “nativi” (vedi Harris [1980] per una storia della definizione di cultura come I limiti della
pura idea). Questo errore grossolano separa per forza di cose lo studio degli umani cultura come
nel presente da quello degli umani vissuti nel passato e che non hanno lasciato do- regno delle
“pure idee”
cumenti scritti, visto che è impossibile dialogare in modo interattivo con dei morti.
Per mantenere i collegamenti tra antropologia culturale, archeologia e antropologia
fisica è necessario dunque un concetto di cultura che comprenda non solo le com-
ponenti mentali ed emiche (vedi oltre) della vita sociale umana, ma anche quelle eti-
che e comportamentali.
Per cultura, secondo il materialismo culturale, si intendono i repertori social-
mente condizionati di azioni e di pensieri che sono associati a particolari gruppi so-
ciali o popolazioni. Questa definizione di cultura si oppone nettamente ai concetti La definizione
statici, “essenzialisti”, che ispirano coloro che definiscono la cultura come il regno di cultura per il
materialismo
delle idee pure e uniformi che si librano sul frastuono della vita quotidiana di indi- culturale
vidui specifici. Per i materialisti culturali gli elementi culturali sono costruiti (più
specificamente: sono astratti) dal nocciolo duro dei pensieri e dei comportamenti
immensamente variabili di specifici individui (Harris 1964a). In perfetto accordo
con la sottolineatura di Borofsky della variabilità individuale, i materialisti culturali
affermano da tempo che la cultura è in fondo un processo materiale di dispiega-
mento (cfr. il concetto di “flusso di comportamento”) piuttosto che l’emanazione di
un archetipo platonico (vedi la discussione sulla variabilità e l’ambiguità delle cate-
gorie brasiliane di colore/razza – Harris 1964b, 1970; Kottak 1967). Sarebbe tutta-
via del tutto autodistruttivo limitare la definizione di cultura e lo scopo delle scien-
ze sociali al nocciolo duro del pensiero e dell’azione individuale (come sembra pro- La realtà delle
porre il saggio di Vayda alle pp. 392-401). Anche se non possiamo vedere o toccare entità culturali
entità come un modo di produzione o una multinazionale o un sistema sociocultu-
rale, nella misura in cui queste sono astrazioni logiche ed empiriche costituite a par-
tire dall’osservazione di eventi di livello individuale, sono dotate di realtà in misura
non inferiore a qualsiasi altra realtà. È un vero imperativo per la sopravvivenza e il
benessere degli uomini imparare a sollevarsi dai pensieri e dalle azioni individuali
per giungere al livello in cui possiamo iniziare ad esaminare gli effetti combinati
della vita sociale e del comportamento di entità di questo ordine superiore come le
istituzioni e i sistemi socioculturali. Le economie politiche sono reali quanto gli in-
dividui che vivono sotto il loro influsso, e ben più potenti di loro.
Paradigmi
I paradigmi stabiliscono i principi che governano la conduzione della ricerca. I
principi si dividono in due classi: regole per acquisire, testare e validare conoscenza
(cioè principi epistemologici) e regole per produrre e valutare teorie (cioè principi
teorici). Un aspetto ampiamente frainteso dei paradigmi scientifici è il fatto che né i
principi epistemologici o teorici, né il paradigma nel suo complesso godono dello Principi
epistemologici e
status di teoria scientifica. Principi come il creazionismo, la selezione naturale o il teorici
primato delle infrastrutture non sono falsificabili. Ciò non significa però che i para-
digmi siano occulti, come “navi che passano di notte”. I paradigmi possono essere
comparati l’un l’altro e valutati da due punti di vista: a) la loro struttura logica e co-
erenza interna e b) la loro rispettiva capacità di produrre teorie scientifiche confor-
mi ai criteri che esporremo fra poco. Da questo punto di vista, le alternative al ma-
terialismo culturale hanno ben poca speranza di farcela. Vedo un bel po’ di navi af-
fondate nelle acque torbide del post-postmodernismo – navi costruite con resocon-
ti viziati della storia della teoria antropologica, progetti provinciali, concezioni cao-
90 MARVIN HARRIS
tiche sulla natura delle società e delle culture umane, e una sostanziale mancanza di
principi epistemologici e teorici o di risultati concreti utili che potrebbero giustifi-
care un futuro – qualsiasi futuro – per l’antropologia.
l’inappropriato processo della retorica scientifica che implica “oggetti”, “fatti”, “descri-
zioni”, “induzioni”, “generalizzazioni”, “verifiche”, “esperimento”, “verità”, e concetti
simili che, se non come vuote indicazioni, non hanno corrispondenza né nell’esperienza
della ricerca etnografica, né nella scrittura delle etnografie. L’urgenza di confermarsi ai Tyler:
l’abbandono dei
canoni della retorica scientifica ha reso il facile realismo della storia naturale l’aspetto do- paradigmi
minante della prosa etnografica; ma è stato anche un realismo illusorio, che spingeva as- “totalizzanti”
surdamente a “descrivere” non-entità – “cultura”, “società” – come insetti, e con in più
la ridicola pretesa comportamentista del “descrivere” schemi ripetitivi dell’azione isolan-
doli dal discorso che gli attori usano per costruire e situare il loro agire. E tutto con la
semplicistica certezza che il discorso fondante dell’osservatore è una forma oggettiva ade-
guata alla descrizione degli atti.
Se le generalizzazioni fatte non sono leggi, non ci si può aspettare di applicarle in ogni
caso. Quindi perché queste generalizzazioni ci sarebbero utili? Perché la questione di fa-
re scienza dovrebbe essere necessariamente equiparata alla capacità o alla volontà di ge-
neralizzare? Sembra esserci una regola procedurale fondata sul principio che generalizza-
re, invece che considerare tutte le particolarità del caso individuale, sia una forma supe-
riore di attività. Non sembrano esserci ragioni necessarie per cui dovremmo accettare
tutto ciò (Shanks, Tilley 1987, p. 38).
Domande e risposte
Gli errori che sostengono queste domande sono così evidenti che ci si chiede
per forza se chi le ha formulate voglia veramente essere preso sul serio, e questa è
una seria preoccupazione da parte mia, visto che Derrida e i suoi seguaci non disde-
gnano di celebrare gli aspetti ludici del decostruzionismo. Ma vista l’attuale popola-
rità dell’antiscientismo, le loro domande, serie o no, non possono essere lasciate
senza risposta.
Domanda: Quanto spesso un evento si deve ripetere per poter servire come base
per una generalizzazione?
Risposta: Più volte si ripete e meglio è.
Domanda: Se non ci si può aspettare che le generalizzazioni siano applicabili a
ogni caso specifico, che cos’hanno di buono?
Risposta: Migliore la generalizzazione, più probabile la sua applicabilità al caso
particolare e più utile la generalizzazione stessa. È certamente utile sapere che una
persona particolare che fuma quattro pacchetti di sigarette al giorno ha una proba-
bilità dieci volte maggiore di prendersi un cancro al polmone di uno che non fuma,
anche se non tutti i grandi fumatori contraggono il cancro ai polmoni.
Domanda: Perché la scienza dovrebbe essere equiparata alla generalizzazione?
Risposta: Perché la scienza è per definizione una forma generalizzante di cono-
Le aporie del scenza.
particolarismo Domanda: Il mandato a generalizzare non è altro che una “regola procedurale”?
per la scienza Risposta: Ovviamente, e ognuno è libero di ignorare la regola, ma farlo significa
cessare di fare scienza, ed è probabile che vi faccia rimanere secchi la prossima vol-
ta che scendete dal marciapiedi senza rispettare il semaforo pedonale, o la prossima
volta che accendete un fiammifero per guardare nel serbatoio della benzina.
Ultima domanda: Invece di generalizzare, perché non considerare “tutte le parti-
colarità del caso individuale”?
Risposta: Perché non ci sono limiti alle particolarità. Qualsiasi progetto che si
proponga di dar conto di tutte le particolarità di un evento macrofisico, umano o
non umano, fa quindi un’affermazione assurda sul nostro tempo e sulle nostre risor-
se. Per questo motivo, per la scienza la particolarità senza fine equivale esattamente
all’ignoranza senza fine.
Principi teorici
Importanza e Si basano sul presupposto che alcune categorie di risposte comportamentali e
scelta dei mentali siano importanti in modo più diretto per la sopravvivenza e il benessere de-
comportamenti gli individui rispetto ad altre e che sia possibile misurare l’efficacia con la quale
queste risposte contribuiscono al mantenimento della sopravvivenza e del benessere
di un individuo. Questo presupposto sta alla base della “valutazione” di modelli al-
ternativi di comportamento che è a sua volta essenziale per identificare un compor-
tamento o un pensiero ottimizzante (vedi oltre) e per sviluppare teorie materialiste
delle cause delle differenze e somiglianze socioculturali.
Bisogni, impulsi Le categorie di risposte i cui costi e benefici assicurano la selezione e l’evolu-
e tendenze zione culturale sono derivate empiricamente dalle scienze biologiche e psicologi-
comporta- che che studiano i bisogni, gli impulsi, le avversioni e le tendenze comportamenta-
mentali
nell’homo
li geneticamente prestabilite dell’Homo sapiens: sesso, fame, sete, sonno, acquisi-
sapiens zione del linguaggio, bisogno di cure affettive, processi nutritivi e metabolici, vul-
nerabilità alla malattia fisica e psichica e allo stress a causa di buio, freddo, caldo,
altitudine, umidità, mancanza d’aria e altri eventi ambientali. Questa lista non pre-
tende ovviamente di comprendere l’intera natura umana. Rimane aperta e flessibi-
le a nuove scoperte sul biogramma umano e su differenze genetiche specifiche a
certe popolazioni.
Materialismo e Questo mi conduce a un’altra caratteristica del materialismo culturale perenne-
rifiuto della mente attribuitagli e perennemente confutata. Con le parole di Murphy (p. 83): “Il
tabula rasa materialismo culturale rimane abbarbicato a un modello meccanico e naturalista
che non riesce a tener presente che la mente è ben di più di una tabula rasa”. Am-
messo e non concesso che la condizione minima per sostenere una concezione
“meccanica” o “naturalistica” sia l’adesione alla dottrina della lavagna mentale vuo-
ta, si può davvero trovare questa lavagna incorporata nei principi teorici del mate-
rialismo culturale? Assolutamente no, perché quando insistiamo che gli esseri uma-
ni hanno precisi impulsi biopsicologici determinati geneticamente, stiamo ovvia-
mente dicendo che le nostre menti non sono vuote alla nascita. Forse i postmoder-
nisti e altri critici del materialismo culturale possono non gradire quel che il mate-
rialismo culturale pone nel cervello-mente alla nascita, ma questa è un’altra questio-
ne. Io non credo, come fa Murphy per esempio, che noi siamo obbligati a pensare
dialetticamente, sebbene sia disposto a cambiare opinione se qualcuno riesce a for-
nirmi qualche evidenza empirica di questo principio grazie alle scienze cognitive o
alla neurofisiologia.
Materialismo Per continuare: si possono utilizzare diverse unità di misura per misurare i costi
culturale vs e i benefici di un comportamento che abbia conseguenze ottimizzanti, ad esempio i
sociobiologia livelli di morbilità e mortalità, l’accesso differenziale in base al sesso, i costi e bene-
fici crematistici, i costi e benefici energetici, e i costi e benefici nutrizionali. (Si noti
la mancanza di unità di misura direttamente collegate al successo riproduttivo diffe-
renziale, dato che questa omissione racchiude la differenza fondamentale tra il ma-
terialismo culturale e i paradigmi sociobiologici. Cfr. Harris (1991) per una critica
argomentata del paradigma sociobiologico).
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 95
Femminismo e antiscienza
Mi sembra a questo punto giunto il momento per fare alcune considerazioni sul-
la relazione tra materialismo culturale e femminismo. L’antropologia femminista co-
stituisce una tradizione intellettuale distinta che cerca di ristabilire un equilibrio tra
prospettive, teorie e basi di dati androcentriche e ginocentriche. A causa della vir-
Materialismo tuale egemonia dell’androcentrismo in antropologia per tutti i primi sessanta o set-
culturale e tant’anni di questo secolo, è naturale che il femminismo in pratica sembri spesso in-
femminismo tenzionato a sostituire l’androcentrismo con il ginocentrismo. Ci vorrebbe molto di
più dello spazio a disposizione anche solo per iniziare a passare in rassegna i punti
forti e quelli deboli degli specifici mutamenti di basi di dati e di teorie che sono sta-
ti introdotti sotto gli auspici del femminismo o in risposta a critiche femministe, ma
c’è un rilievo generale che va fatto, se si vuol capire l’ondata di antiscientismo e re-
lativismo postmoderni.
Il corpus delle teorie positiviste-scientiste sul tema del genere sessuale era del
tutto povero, quando non totalmente opposto alla realtà, prima del sorgere del fem-
minismo. Le femministe sono state perciò inclini a identificare la scienza con l’an-
drocentrismo. Consideravano le teorie scientifiche pasticci dei maschi orditi per
confondere e depotenziare le donne. Una simile reazione ha investito anche il mar-
xismo, per la sua pretesa di essere una scienza della società, mentre si concentrava
sullo sfruttamento di classe a discapito dello sfruttamento sessista. In questo conte-
sto, gli attacchi postmoderni alla distinzione tra osservatore e osservato e la difesa
dell’idea che la verità sia relativa e costruita politicamente sembravano costituire un
paradigma appropriato per portare avanti il progetto femminista in antropologia
(alcune femministe sostengono però che queste posizioni si erano sviluppate entro
il femminismo indipendentemente e in una fase antecedente, si veda ad esempio
Mascia-Leeds, Sharpe, Cohen [1989]).
Da un punto di vista cultural-materialista, la risposta femminista alle manchevo-
lezze delle formulazioni positiviste riguardo al genere sessuale è tuttavia contropro-
I limiti della ducente sia intellettualmente sia politicamente. A lungo andare il femminismo an-
reazione tropologico non ha nulla da guadagnare facendo pesare la sua rendita sul versante
femminista al
positivismo
antiscientifico. L’antropologia scientifica è ampiamente se non completamente aper-
ta alle ricercatrici femministe e al loro contributo per migliorare le teorie antropolo-
giche in qualunque settore di loro interesse. La risposta intellettuale più efficace per
smascherare pregiudizi, progetti occulti e carenza di certezze in antropologia non
consiste nell’adottare paradigmi che, fin dall’inizio, promettono pregiudizi anche
maggiori, progetti ancora più impenetrabili e una totale incertezza. Consiste invece
nel lavorare all’interno di paradigmi scientifici per ridurre i pregiudizi, portare alla
luce i progetti occulti e diminuire le incertezze.
Per le femministe, i cui interessi politici sono prevalenti, l’adozione del pro-
gramma postmoderno fa presagire conseguenze sociali impreviste in cui le donne
Lavorare per vengono più danneggiate che aiutate. Alcuni esempi: la relazione tra le leggi sul “di-
ridurre i vorzio senza colpa” (concesso ai mariti) e la femminilizzazione della povertà; la rela-
pregiudizi
zione tra femminilizzazione della forza lavoro e l’aumentata emarginazione dei ma-
schi afroamericani, con conseguente moltiplicazione di famiglie povere mantenute
da una donna di colore; la bassa priorità concessa dalle femministe delle classi me-
die alla sindacalizzazione, e il calo dei salari effettivi per maschi e femmine. Come
IL MATERIALISMO CULTURALE È VIVO E VEGETO 99
per il fallimento dei teorici del marxismo sovietico nel calcolare l’effettiva ineffica-
cia della loro economia pianificata, non si tratta di problemi che possono essere in-
dividuati, né tanto meno risolti, stando lì a rimuginare sulla relatività della verità, o
sulla non esistenza di cose come “i fatti”.
ressi delle compagnie di commercio, del business agricolo, delle multinazionali pe-
trolifere, dei proprietari terrieri, delle banche e così via.
Mi pare che nel suo contributo a questo volume Eric Wolf abbracci una pro-
spettiva molto simile quando dice, riguardo la subordinazione di Sahlins della storia
hawaiana alla “cultura” hawaiana: “Per spiegare cosa è successo alle Hawaii o da
qualunque altra parte, dobbiamo comprendere le conseguenze dell’esercizio del po-
tere” (p. 278). Vorrei inoltre far notare in margine al contributo di Wolf che il suo
appello – per “un’antropologia che non si contenta semplicemente di tradurre, in-
terpretare o giocare con un caleidoscopio di frammenti culturali, ma che cerca spie-
gazioni di fenomeni culturali” (p. 278) – è del tutto isomorfo agli obiettivi del mate-
rialismo culturale. Ma al di là di presentare esempi specifici degli effetti del potere,
Wolf non offre un insieme coerente di principi per ottenere la tanto auspicata alter-
nativa al relativismo e al nichilismo postmoderni. Forse Wolf è un materialista che
si cela a se stesso.
che erano all’oscuro o violentemente contrarie alla scienza sociale positivista (per
esempio Lenin, Stalin, Hitler, Mussolini). Sembra che troppi antropologi abbiano Relativismo,
dimenticato che ogni relativismo, fenomenologia e antipositivismo hanno anche un antipositivismo
altro lato della medaglia – il lato su cui i relativisti che denunciano la ragione e la e fascismo
conoscenza scientifica costruiscono il mondo a loro immagine. Benito Mussolini
poneva la questione in questi termini:
La constatazione che c’è una relazione tra relativismo antiscientifico e fascismo Decostruzio-
non può essere messa da parte come un semplice trucco intellettuale per terrorizza- nismo ed
re l’avversario. La filosofia fascista di Mussolini prese in prestito a piene mani da eredità
Fredrich Nietzsche, soprattutto dal suo tardo concetto di “volontà di potenza” co- nietzschiana
me sorgente della verità. Paul DeMan, che è stato importante come Derrida nello
sviluppo del decostruzionismo, si appassionò al suo ruolo di critico letterario stu-
diando Nietzsche e trasmettendo propaganda per i nazisti durante la seconda guer-
ra mondiale, un fatto che nascose con successo ai suoi colleghi di Yale fino al 1988
(Lehman 1988). E Michel Foucault, il postmodernista il cui credito tra gli antropo-
logi è in crescita, anche lui deve molto a Nietzsche, come rivela il suo aforisma: “Al-
tro potere, altro sapere” (citato in Hoy 1986, p. 133).
1 Nella sessione del 1989 “Gli sviluppi dell’antropologia” il mio compito era quello di commentatore. Visto che la
mia reazione critica agli articoli raccolti in questo volume è guidata dalla difesa di un paradigma cultural materialista, e
visto che i principi del materialismo culturale sono travisati in diversi articoli, la mia argomentazione consisterà in buo-
na parte nell’esposizione di quel che è e non è il materialismo culturale.
2 L’aver sostituito “determinismo infrastrutturale” con “primato dell’infrastruttura” costituisce un cambiamento
puramente strategico o cosmetico, inteso a placare una generazione che considera la sua dignità compromessa da qual-
siasi paradigma deterministico e che sceglie di ignorare la natura probabilistica di questo determinismo. Allo stesso mo-
do, ho suggerito altrove di sostituire “sovrastruttura” con “struttura simbolico-ideazionale”, al fine di non veicolare l’i-
dea che questa componente sia superflua o irrilevante.
3 Questo corpus include teorie riguardo: l’evoluzione generale: Leavitt (1986); Sanderson (1990). L’origine e l’evo-
luzione dei ruoli sessuali e di genere: Divale, Harris (1976); Harris (1979a, 1981a); Hayden et al. (1986); Maclachlan
(1983); Margolis (1984); Miller (1981); Leavitt (1989). Guerra: B. Ferguson (1984, 1989); Morren (1984); Balee (1984);
Harris (1984); J. Ross (1984). Classe, casta e relazioni etniche: Harris (1964b, 1964c); Despres (1975); Mencher (1980);
Abruzzi (1982, 1988); E. Ross (1978a). Origine delle religioni: Harner (1977); Harris (1979a, 1991a). Origine delle pre-
ferenze e delle evitazioni alimentari e delle tradizioni culinarie: E. Ross (1980b, 1983, 1987); Harris (1990); Vaidyana-
than, Nair, Harris (1982). Modelli di insediamento, tendenze demografiche e modi di regolazione della popolazione:
Good (1987); Gross (1975); Harris, Ross (1987); Hayden (1986); Keeley (1988). Origine dell’agricoltura: Hayden
(1990). Origine dei domini e dello Stato: Kottak (1972); Sanders, Price (1968); Price (1984); Webster (1985); Sanders,
Santley, Parsons (1979); Haas (1982); Paulsen (1981). Per evitare polemiche, spesso gli antropologi che intraprendono
ricerche in conformità ai principi del materialismo culturale non si definiscono come contributori del corpus del mate-
rialismo culturale. Questa influenza “senza etichetta” del materialismo culturale è particolarmente rilevante nell’archeo-
logia americana, di cui un archeologo ha scritto: “Il principio del determinismo infrastrutturale soggiace ovviamente al-
la moderna archeologia, almeno in Nord America” (Schiffer 1983, p. 191). Va infine fatto notare un interesse per il ma-
terialismo culturale da parte degli psicologi comportamentisti: Biglan (1988); Glenn (1988); Malagodi (1986); Vargas
(1985); R. Warner (1985).
102 MARVIN HARRIS
Biografia intellettuale
Marvin Harris è stato membro del collegio docente del Dipartimento di Antro-
pologia della Columbia University dal 1953 al 1980 e direttore del Dipartimento dal
1963 al 1966. Dal 1980 è Graduate Research Professor di antropologia all’Università
della Florida. Ha condotto ricerche in Brasile (la più recente, nel 1992, a Rio de
Contas, Bahia, dov’era stato la prima volta nel 1950), Mozambico, India, e East
Harlem, a New York. Ha inoltre condotto programmi di addestramento alla ricerca
sul campo in Brasile ed Ecuador. Tra i suoi diciassette libri, i più famosi sono Pat-
terns of Race in the Americas (1964); L’evoluzione del pensiero antropologico (1960)
(che nel 1991 è stato designato del titolo “classico della citazione nelle scienze so-
ciali”); Culture, People, Nature: An Introduction to General Anthropology (sei edi-
zioni dal 1971); Antropologia culturale (tre edizioni dal 1983); Cows, Pigs, Wars, and
Witches: The Riddles of Culture (1974); Cannibali e re. L’origine delle culture (1977);
Materialismo culturale (1979); America Now: The Anthropology of a Changing Cul-
ture (1981a); Buono da mangiare (1985) e La nostra specie (1989). Questi libri sono
stati tradotti in sedici lingue diverse. Harris è stato direttore della Divisione di An-
tropologia Generale dell’American Anthropological Association, e Distinguished Lec-
turer nell’anno 1991.
I miei progetti per il prossimo futuro includono un rinnovato sforzo per contra-
stare l’atteggiamento elitista, oscurantista e nichilista dell’antropologia postproces-
suale e postmoderna. Considero questo non un obiettivo in sé, ma il mio contributo
al tentativo di garantire all’antropologia una maggior rilevanza intellettuale e una
dimensione più applicativa di fronte alle grandi questioni odierne: ad esempio le
conseguenze ecologiche della diffusione del consumismo e del capitalismo, la diffu-
sione di corporazioni globali senza una base statale, il riaffiorare di tensioni etniche
e razziali, la dimensione mondiale della povertà, e la prevenzione della guerra.
Parte seconda
La prospettiva comparativa
Introduzione alla parte seconda
Robert Borofsky
260) poteva scrivere “Negli ultimi cinque anni è apparso un numero insolitamente
ampio di scritti teorici che trattano del metodo comparativo in antropologia”, ed
Eggan (1965, p. 357) poteva osservare che “negli ultimi dieci anni c’è stato un nu-
mero insolitamente ampio di scritti teorici in antropologia che trattano il metodo
comparativo”. Un problema sul quale i saggi che seguono ci inducono a riflettere
concerne la possibilità di arricchire la disciplina antropologica nel suo complesso,
grazie a un rinnovato vigore della prospettiva comparativa.
uno studio dettagliato dei costumi nei loro rapporti reciproci e della cultura nella sua to-
Il metodo talità della tribù che li pratica, assieme ad un’indagine della loro distribuzione geografica
storico fra le tribù vicine… [Questo] ci concede quasi sempre un mezzo per determinare con ac-
curatezza considerevole le cause storiche che hanno condotto alla formazione dei costu-
mi in questione e ai processi psicologici attivati durante il loro sviluppo.
“Se l’antropologia desidera stabilire le leggi che governano la crescita della cul-
tura”, continua ancora Boas (1940, p. 280), “non deve limitarsi solo alla compara-
zione dei risultati della crescita, ma ogni volta che questo sia possibile, deve compa-
rare i processi della crescita”. Sapir ha ricapitolato in modo esauriente molti dei
principi legati a questa forma di metodo comparativo nel libro Time Perspective in
Aborigenal American Culture (1916).
Il testo di Spier The Sun Dance of the Plains Indians (1921) – che traccia la dif-
fusione della Danza del Sole attraverso le Grandi Pianure a partire da una origine
che si postula fra gli arapaho e i cheyenne – è un classico esempio di questo approc-
cio. Ma un esempio più recente e forse più calzante di questa prospettiva è la com-
L’analisi parazione di Eggan (1955; 1968, pp. 396-397) della terminologia di parentela e dei
comparativa modelli di sussistenza fra gli indiani delle Pianure dell’America del Nord. Eggan ha
degli Indiani suddiviso la parentela degli indiani delle Pianure del Nordamerica in due grandi ti-
del Nordamerica
di Eggan
pologie: una che sottolinea l’unità del lignaggio, l’altra che evidenzia l’unità genera-
zionale. Gli indiani della parte più orientale delle Grandi Pianure erano fondamen-
talmente orticoltori e vivevano in villaggi stabili, organizzati in gruppi di discenden-
za unilineare (ad esempio gli omaha, iowa, illinois, hidatsa e pawnee). Gli indiani
INTRODUZIONE ALLA PARTE SECONDA 109
delle High Plains erano invece cacciatori seminomadi divisi in gruppi bilaterali che
si raccoglievano intorno a un accampamento circolare (ad esempio i cheyenne, i
kiowa e i dakota). Il loro sistema parentelare classificatorio si articolava in base alla
generazione e al sesso, e (diversamente dal sistema di discendenza degli orticoltori)
coinvolgeva una vasta gamma di altre relazioni, con un senso molto vago dei limiti
esterni. Eggan ha sostenuto che il principio di unità di lignaggio – così come si ma-
nifestava nell’organizzazione unilineare – forniva agli orticoltori stanziali delle Pia-
nure orientali un senso di stabilità e continuità nel tempo. Al contrario la preoccu-
pazione degli indiani delle High Plains per il mantenimento dell’unità generazionale
favoriva legami molto estesi, ma di scarsa profondità: uno schema che ben si
attagliava alle forme flessibili di solidarietà che occorrevano a cacciatori seminomadi
che dovevano adattarsi a sistemi variabili di condizioni ecologiche. Quello che ha re- I rapporti fra
so l’analisi di Eggan particolarmente interessante è stata l’ipotesi secondo la quale parentela e
dei gruppi di indiani, come i crow, avrebbero alterato il loro sistema di parentela in adattamento
ecologico
relazione al loro spostamento da una regione all’altra delle Pianure. In altri termini,
Eggan ha posto in relazione differenze negli schemi di parentela con differenze nelle
strategie di sopravvivenza all’interno di una data regione geografica, per spiegare co-
me alcune pressioni all’adattamento influenzassero l’organizzazione della parentela.
Durkheim e Mauss hanno utilizzato una comparazione degli schemi classificato-
La comparazione
ri di australiani, zuñi, sioux, e cinesi per mostrare quella che loro consideravano es- in Durkheim e
sere la base sottostante il pensiero classificatorio: l’organizzazione sociale degli esse- Mauss: pensiero
ri umani. In questo modo essi, nel 1903, hanno posto il nesso tra pensiero classifica- classificatorio e
tore e organizzazione sociale: organizzazione
sociale
La società non è stata semplicemente un modello in base al quale il pensiero classificatorio
avrebbe lavorato… i suoi stessi quadri... sono serviti da schemi per il sistema. Le prime ca-
tegorie logiche sono state categorie sociali; e le prime classi di cose sono state classi di uo-
mini. Poiché gli uomini erano raggruppati, e si rappresentavano sotto forma di gruppi, es-
si hanno idealmente raggruppato gli altri esseri, e i due modi di raggruppamento hanno
cominciato col confondersi fino al punto da non poter più essere distinti (1901, p. 109).
Lo studio di Nadel (1952) di quattro società africane è una originale compara- Nadel e lo studio
zione controllata che riguarda le dinamiche sottese alla stregoneria. (Per problemi comparativo
di spazio, limito le mie ricapitolazioni alle due società dell’Africa occidentale). I nu- della stregoneria
pe e i gwari, nota Nadel, avevano in comune un gran numero di somiglianze cultu- in Africa
rali riguardanti l’organizzazione sociale, economica e politica, ma differivano su un
punto significativo. Fra i nupe solo le donne erano streghe, mentre fra i gwari lo
erano sia gli uomini che le donne. Perché questa differenza? Nadel faceva notare
che le donne nupe erano commercianti, e il loro commercio spesso forniva loro po-
tere economico e ricchezza. Inoltre permetteva alle donne nupe la libertà di essere
coinvolte in relazioni sessuali extramatrimoniali. Le donne gwari non possedevano
questa libertà, non erano in grado di sfidare le norme culturali della dominazione
maschile che esistevano in entrambe le culture; solo le donne nupe potevano farlo.
Nadel suggerisce che la distanza fra il potere ideale (degli uomini) e il potere reale
(delle donne) si concentrava sulle accuse di stregoneria mosse contro le commer-
cianti donne presso i nupe. Le tensioni sociali fra i gwari erano più diffuse, e di con-
seguenza lo erano anche le accuse di stregoneria.
Wolf e la
Wolf (1957) ha utilizzato materiale storico ricavato da vari archivi per sviluppa- comparazione
re una comparazione fra la Mesoamerica e Giava centrale nel periodo coloniale. tra Giava e
Wolf ipotizza che un certo tipo di villaggio rurale – denominato “comunità chiusa la Mesoamerica
corporativa” – si costituì in entrambi i luoghi a causa di pressioni simili durante
110 ROBERT BOROFSKY
Verso una nuova tri hanno di noi in relazione a come vediamo loro e/o noi stessi. Nei suoi suggeri-
forma di
comparazione?
menti vi è la speranza di una nuova forma produttiva di comparazione – differente,
ma che si fonda su quelle precedenti.
Ispirandomi alle sue idee, potrei chiedere ai lettori di questa parte di compara-
re diverse valutazioni dell’antropologia – sia in questa parte, sia nell’intero volume
– al fine di esplorare i modi in cui sarebbe possibile potenziare la disciplina. Tutti
gli autori di questo volume, in un modo o nell’altro, valutano l’ampio settore del-
l’antropologia culturale. Ma ho selezionato quattro autori, due europei (Godelier e
Kuper) e due che non appartengono ai tradizionali centri dell’antropologia (Da-
Matta e Das) per indagare su come persone diverse valutino le questioni che l’an-
tropologia deve affrontare negli anni Novanta. Nelle loro valutazioni, divergenti
ma sovrapposte, che fanno il punto sull’antropologia attuale e le direzioni da pren-
dere, si avverte molto del presente stato dell’antropologia e qualcosa, forse, di un
possibile futuro.
Invito i lettori non solo a comparare fra di loro le prospettive enunciate in que-
sta parte del libro ma anche a comparare le prospettive di questa sezione – singolar-
mente e collettivamente – con quelle delle altre parti del volume. Le prospettive di
questa parte, ad esempio, differiscono in modo interessante da quelle della prima,
sia per le questioni sollevate sia per le preoccupazioni espresse. Mentre la prima se-
Le differenze fra zione contiene valutazioni americane e canadesi, gli ultimi quattro contributi della
i contributi presente sezione includono valutazioni europee e provenienti dal Terzo Mondo.
di questa e della Harris e Godelier condividono un orientamento “materialista”, ma i loro approcci
precedente parte
del volume
sono diversi. E anche se Marcus e Das condividono l’interesse per le prospettive
interpretative, sviluppano questo interesse in modi distinti. Inoltre autori diversi ci-
tano diversi studiosi. È interessante infine che sia l’antropologo francese Godelier a
rendere maggiormente omaggio all’antropologo americano Morgan, più di quanto
non facciano gli antropologi americani in questo volume.
Non si dovrebbero considerare le prospettive di un singolo (o di una sezione)
corrette, e quelle di altri sbagliate. Piuttosto, si dovrebbe essere in grado di co-
gliere le sottili sovrapposizioni e divergenze nelle loro valutazioni e considerare
quali riflessioni possiamo trarre da una loro comparazione. Ad esempio, quali so-
no le ragioni che sottendono le diverse valutazioni della disciplina condotte da
Harris e Godelier o da Marcus e Das? Come suggerisce Nader, porre queste do-
mande ci conduce verso un diverso senso della comparazione. Siamo indotti a
chiederci cosa chiariscano le loro differenze e somiglianze rispetto a chi valuta e a
chi viene valutato.
Nei quattro contributi, in linea con il saggio iniziale di Nader, assistiamo alla
La complicazione
della polarità complicazione della polarizzazione del mondo in “noi” e “gli altri”. Quattro degli
“noi” - “altri” autori di questa parte del volume sono antropologi non americani. Sono “noi”, in-
tendendo con questo termine antropologi? O sono “gli altri”, intendendo non ame-
ricani? In qualsiasi modo si suddividano le categorie, Occidente contrapposto a
Terzo Mondo, americano contrapposto a non americano, le ambiguità abbondano.
Però il dialogo fra prospettive risulta stimolante ed è la base per molte riflessioni.
Godelier e Kuper forniscono due valutazioni europee della disciplina (Bloch,
Goody, Lévi-Strauss, Strathern e Tishkov ne forniscono altre nelle parti seguenti).
Godelier, Kuper
e la coerenza del Risulta interessante notare che Godelier e Kuper avvertono una maggiore coerenza
campo di studi nel campo di studi, rispetto a quanto potrebbero percepire molti antropologi ame-
ricani. Le loro descrizioni sembreranno probabilmente un poco sconcertanti a qual-
che antropologo americano (i lettori possono iniziare a percepire il disagio che
emerge quando si diventa l’oggetto descritto, piuttosto che colui che descrive). Os-
INTRODUZIONE ALLA PARTE SECONDA 113
cato nel loro preciso contesto. Un ampio comparativismo ci permette dunque di ca-
pire meglio anche gli stessi antropologi (certo Clifford, Marcus, Pratt e via dicendo
lo hanno già affermato) e di non banalizzare le loro battaglie: come quella di Da-
Matta per assegnare il giusto valore all’impegno sociale e politico dell’antropologia
brasiliana e quella di Veena Das a favore della rivalutazione dei saperi antropologici
religiosi e locali indiani.
Un comparativismo differente, messo in atto dall’“altro” e al servizio del con-
trollo sociale, è presentato da Laura Nader attraverso un’analisi dei ruoli e della po-
sizione della donna in Egitto così come emergono da un noto manuale-guida per le
donne musulmane curato da Shaykh I-Sha’rawi. Nader non avalla certo i condizio-
namenti imposti alle donne, ma dimostra come il comparativismo sia uno strumen-
to flessibile e dalle molte potenzialità. La sua conclusione può valere come conclu-
sione generale (p. 127):
Il messaggio essenziale del presente saggio è che una coscienza comparativa ben tempe-
rata conduce a scoperte importanti. Il punto di vista da cui questo viene affermato sostie-
ne la necessità di una maggiore discussione fra i comparativisti sui vantaggi di un meno
rigido controllo tecnico nella comparazione esplicita, e invita gli etnografi a intensificare
le comparazioni implicite nel lavoro etnografico. Se la conoscenza è potere, la compara-
zione è fondamentale nella dinamica della produzione di conoscenza.
La coscienza comparativa*
Laura Nader
Introduzione
È stato scritto molto sulle ragioni che dovrebbero spingere a praticare un’antro-
Due presupposti
sull’antropologia:
pologia consapevole del fatto che l’esistenza vera e propria dell’antropologia come
le origini disciplina è dovuta al colonialismo e, più in generale, all’imperialismo. L’antropolo-
coloniali e lo gia è stata anche descritta da molti come lo studio dell’“Altro” non occidentale. Da
studio dei questi presupposti – che l’antropologia affonda le sue radici nell’imperialismo e che
non-occidentali consiste nello studio da parte dell’Occidente di popolazioni non occidentali – è de-
rivata una critica, a volte illuminata, a volte viziata, del lavoro sul campo e degli
scritti riguardanti altre culture. Gran parte di questa critica ad ampio raggio, alla
quale hanno partecipato persone esterne alla disciplina, implicava che la ricerca sul
campo sia stata parte di uno sforzo a “mantenere un certo tipo di relazione fra l’Oc-
cidente e il proprio Altro” (Fabian 1983, p. 175).
Siegfried Nadel nel suo libro The Nuba (1947) ha scritto sulla relazione fra l’Oc-
cidente e il suo Altro e sull’importante ruolo giocato dalle religioni importate nei
cambiamenti delle strutture sociali africane. Ha osservato che “l’educazione religio-
sa per prima cosa sradica, e in seguito ricostruisce. Il cristianesimo, ancor più del-
L’atteggiamento l’Islam, pianifica la costruzione di una nuova società” (1947, p. 512). Comunque
posizionale l’osservazione di Nadel, una ipotesi di ricerca interessante e importante, da decenni
dell’antropologia giace dimenticata proprio a causa di quello che io definisco atteggiamento posizio-
occidentale
nale dell’antropologia occidentale, che esclude l’osservazione dell’Occidente da par-
te di altre culture e che potrebbe essere parte di uno sforzo per gestire una certa re-
lazione con l’“altro” occidentale.
coloro che erano interessati all’enorme complessità della materia, 2) per coloro che
combattevano i problemi derivanti da una antropologia “occidentale” o incentrata
sull’Occidente; 3) per coloro che erano interessati alla comparazione innanzitutto La necessità di
come processo di scoperta. L’insoddisfazione venne seguita da valutazioni che indi- una teoria
cavano la necessità di una teoria composita – alcuni la chiamano unificata (Collier, unificata
Yanagisako 1987), e la necessità di approcci multidimensionali che comprendano
diverse modalità di conoscenza (Ong 1987). Ma l’evidente domanda è: come mai
l’antropologia – disciplina che si compiace della sua prospettiva olistica – è andata
sviluppando dei modelli unidimensionali e, come corollario, metodi che devono
escludersi l’un l’altro?
Gli antropologi tendono a conformarsi ai canoni delle loro società di appartenen-
za – in questo caso i canoni di una scienza positivista basata su un modello ideale di
laboratorio, nel quale sono fondamentali la specializzazione dei metodi e un control-
lo sempre maggiore sulle variabili2. Le critiche degli ultimi vent’anni hanno attirato
la nostra attenzione sulla retorica della scienza e sulle limitazioni di una scienza posi-
tivista in antropologia, un antidoto utile all’arroganza degli scienziati nell’era nuclea-
re. Hanno anche rivelato i limiti degli umanisti non scientifici che nel periodo post- L’ossessione
moderno, in modo altrettanto arrogante, ritengono che la comprensione possa pro- per il metodo e
venire da schemi unidimensionali. In entrambe le tendenze l’ossessione per il meto- quella per la
scrittura
do è stata costante, e l’ossessione per i modelli, le tabelle, i numeri, e la concretezza
illusoria che ne deriva, è stata replicata da quelli ossessionati dalla scrittura, coloro
che considerano l’antropologia una forma artistica narrativa. Alcuni dei miei colleghi
funzionalisti definiscono questa ossessione per la scrittura “una sciocchezza”, una
preoccupazione per l’estetica, non una seria preoccupazione per i problemi di rap-
presentazione, e certo non un’antropologia responsabile. Se mettiamo l’accusa e la
disputa da parte, le critiche ci mostrano che l’antropologia è una disciplina florida.
La comparazione non è un tema centrale nelle discussioni contemporanee. In
ogni caso, l’assenza di interesse si può illustrare ricordando l’inchiesta sull’antropo-
logia condotta da Oscar Lewis nel 1956, nella quale riporta l’esame di un totale di
248 scritti che avevano a che fare con la comparazione (dal 1950 al 1954). Il puro e
semplice numero di articoli comparativi e di libri pubblicati in quel periodo ci ri-
corda che nell’antropologia odierna mancano validi dibattiti sulla collocazione in-
tellettuale della comparazione.
Rivitalizzare la comparazione
Gli approcci comparativi che possono chiarificare i tipi di connessione sopraci-
tati dipendono dalla violazione di due canoni di ricerca comparativa generalmente I canoni
comparativi
accettati: 1) che gli elementi comparati debbano avere in comune alcuni tratti fon- classici.
damentali (il concetto di comparazione controllata) e 2) che gli elementi comparati Presenza di tratti
debbano essere discontinui, vale a dire non devono influenzarsi in modo diretto. in comune e
Questi due presupposti metodologici restringono le questioni della ricerca solo a discontinuità
quelle che possono essere espresse con chiarezza ed eleganza e, di conseguenza, so-
no servite a far emergere risultati particolaristi.
Le metodologie comparative che sono utili per esaminare la situazione mondiale
attuale devono includere gli aspetti interattivi del movimento globale di persone,
merci e idee4. Le monografie scritte alla ricerca del nativo, e i comparativisti alla ri- Metodi
cerca della “verità” scientifica talvolta hanno trattato il colonialismo, l’opera missio- comparativi e
naria e la scolarizzazione come aspetti che inquinano il soggetto di studio. Ad esem- sistema-mondo
pio Llewelyn e Hoebel nel 1941 hanno descritto i procedimenti di disputa dei che-
yenne senza menzionare che erano una cultura e una popolazione decimata. Al con-
trario, io ho recentemente (1990) descritto i procedimenti di disputa degli zapote-
chi considerandoli inseriti in modo inestricabile in considerazioni locali di valenze
globali, che trascendevano quindi i confini del microcosmo per incorporare un’e-
sperienza comune in ambienti sparsi.
L’attenzione alla coscienza comparativa e lo sviluppo di una pluralità di compa-
razioni sono modi per comprendere più adeguatamente la nostra materia di studio.
Le scoperte della
Attraverso una coscienza comparativa, gli antropologi hanno sviluppato un modo comparazione
di pensare la vita umana come risposta a osservazioni ripetute che in altre discipline
potrebbero essere considerate scoperte: 1) la cultura non è omogenea, né sempre
consensuale; 2) la cultura può essere costruita e diffusa in modo strumentale; 3)
l’organizzazione sociale non opera in base a principi che prevedono tutto ciò che è
importante; 4) l’organizzazione può rimanere immutata mentre il significato cam-
bia; 5) il cambiamento è onnipresente; 6) alcuni cambiamenti indicano la forza del-
l’impatto globale lungo il corso di millenni; e in ultimo 7) gli antropologi non han-
no inventato lo studio della società e della cultura, ma solo lo studio disciplinare
dell’“uomo”, dando spazio così a osservazioni che i nostri soggetti di studio potreb-
bero fare su di noi.
Gli antropologi hanno fornito risposte creative a queste scoperte: 1) il tempo ri-
ordina sia gli antropologi che i loro informatori (Colson 1984); 2) la storia è parte
degli strumenti interpretativi (R. Rosaldo 1980); 3) sia la popolazione che l’antropo-
logo fanno storia (Borofsky 1987); e 4) il peso di ideologie vecchie di secoli può es-
120 LAURA NADER
Le risposte sere ritrovato nella routine quotidiana sia di popolazioni occidentali che di popola-
creative degli
antropologi
zioni occidentalizzate (Nader 1990). Le strutture comparative possono emergere da
etnografie all’interno di regioni geografiche piccole o grandi, ma sono collocate en-
tro una struttura complessiva di interazione fra sistemi mondiali che conducono a
cambiamenti locali (Nash 1979; Taussig 1980). Attraverso una coscienza comparati-
va facciamo emergere le interazioni storiche fra vaste aree del mondo da interazioni
regionali più limitate, un approccio che ci consente di catturare la dinamica pur
mantenendo una prospettiva olistica o ecologica (Nader 1989a). La comparazione
può anche spiegare, attraverso la giustapposizione, le componenti specifiche di una
certa area, un approccio che ha condotto alla scoperta delle culture nazionaliste
(Kapferer 1988) e al riconoscimento dell’impatto della storia nazionale sulla storia
locale, e un’intolleranza per il conflitto (Greenhouse 1986) che in seguito torna a ri-
percuotersi sulla cultura nazionale (Nader 1989).
La tendenza attuale contro la comparazione (specialmente contro gli esperimen-
Approcci ti controllati) può essere attribuita a un’incapacità, da parte di qualsiasi tipo di
comparativi comparazione, di gettare luce sulle condizioni in un mondo che è sempre più carat-
compositi terizzato dall’interdipendenza, nel contesto di relazioni dinamiche e globali di pote-
re, pur mantenendo l’integrità delle comunità descritte. La soluzione per evitare
questa predisposizione contro esperimenti controllati o transculturali, o per una
predilizione verso un particolare tipo di comparazione, è di utilizzare tutte le com-
parazioni nelle loro forme storiche, funzionali e contrastive, in modo da non inibire
l’emergere e il concentrarsi su questioni interessanti, relative alle dinamiche dell’in-
terazione. Gli approcci compositi non sono mai netti, e se paragonati a posizioni
più ortodosse non attraggono un folto gruppo di sostenitori. Tuttavia allargare una
coscienza comparativa in modo da giovare alla sfida universale posta all’antropolo-
gia, non vuol dire restringere o costringere il concetto di comparazione, ma amplia-
re la sua portata metodologica e il suo stile intellettuale.
Filtrare l’Occidente5
Le culture cosiddette primitive o del Terzo Mondo sono state descritte dagli an-
Il “laboratorio
tropologi come laboratori, luoghi di esplorazione che si pensava potessero essere
primitivo” usati per scoprire la “verità”. Un’altra prospettiva offerta dallo studio dell’attività
umana è che può cambiare le nostre idee rispetto a cosa significhi conoscere qual-
cosa. A tale proposito è interessante comprendere i modi funzionalmente equiva-
lenti attraverso i quali le altre culture hanno percepito il loro “Altro”. Nelle pagine
seguenti, i miei esempi saranno tratti dalla lettura delle letterature “orientalista” e
“occidentalista” in termini di dialogo. Mi soffermerò sugli “occidentalismi”, mate-
Gli riali riguardanti l’Occidente scritti da non occidentali. Ci sono solo riferimenti spo-
“occidentalismi”
radici sul modo in cui l’Occidente è stato percepito, ed è stato scritto e tradotto re-
lativamente poco sull’Occidente in alcune regioni dell’Oriente. I materiali a disposi-
zione dovrebbero essere esaminati attentamente perché sono particolarmente rile-
vanti per il concetto di atteggiamenti posizionali.
Dal 1826 al 1831 il direttore egiziano della prima spedizione scientifica di Mo-
hammad Ali in Europa, Rifa’ah al-Tahtawi, viaggiò in Francia. Nel 1836 Edward W.
Lane, un rappresentante inglese del Ministero degli Esteri britannico, pubblicò il
suo libro sul Cairo. Sandra Naddaf (1986) ha pubblicato in un articolo una compa-
Lo “specchio” razione fra questi due lavori, in cui mostra le differenze fra i due autori. Entrambi
di Lane e il descrivono un’istituzione che l’Oriente ha in comune con l’Occidente, ed entrambi
Cairo: il distacco
usano i giochi di specchi come tecnica descrittiva e narrativa. Il viaggiatore inglese
istituisce se stesso come un osservatore distaccato, nasconde la sua presenza nelle
LA COSCIENZA COMPARATIVA 121
scene che descrive, e sostiene lo specchio per riflettere la società egiziana senza es- Lo “specchio” di
al-Tahtawi e
sere parte dell’immagine riflessa. Nella sua descrizione dei caffè del Cairo, Lane Parigi:
fonda il caffè come un’istituzione specifica della cultura attraverso un uso massiccio l’integrazione
della terminologia araba, che può essere tradotta solo tra parentesi. Il viaggiatore
egiziano sostiene lo specchio in modo da riflettere sia il soggetto sia l’oggetto.
Nonostante al-Tahtawi parli di Parigi, egli mantiene la tradizione orientale come
sfondo. Come sottolinea Naddaf, la sua rappresentazione di un’altra cultura non è
un mezzo per distanziare se stesso dall’Altro, ma uno strumento di integrazione. In-
fatti, poiché al-Tahtawi assume il ruolo di mediatore fra le due culture tende a tro-
vare punti di riferimento in comune, ed elementi di autoriconoscimento. Entrambe
queste tradizioni – l’approccio particolarista e un approccio più universale – sono
presenti nell’antropologia, sebbene, (come ho menzionato in precedenza) l’approc-
cio particolarizzante recentemente abbia sopraffatto le possibilità creative di una
coscienza comparativa.
Il resoconto ottocentesco del libanese Faris al-Shidyaq circa il suo incontro con
la musica europea è consapevolmente comparativo, poiché si concentra sulle di-
stinzioni fra la musica occidentale e quella araba. Per al-Shidyaq, come per il suo
al-Shidyaq e la
contemporaneo al-Tahtawi, il primo contatto ha ispirato la comparazione. Nella comparazione fra
sua descrizione di quella che denomina “musica franca” al-Shidyaq cita molte dif- musica
ferenze fra la musica di questi due mondi. La prima ha a che fare con l’innovazio- occidentale e
ne della notazione musicale. Al-Shidyaq si meraviglia che “anche senza la cono- musica araba
scenza precedente di un brano musicale, se venti di loro si radunassero con questi
segni grafici davanti a sé, li trovereste che lo eseguono all’unisono” (Cachia 1973,
p. 43). Comunque al-Shidyaq è consapevole delle limitazioni che la notazione pone
al musicista, poiché la musica araba ha sempre tenuto in grande considerazione la
dote dell’improvvisazione abile. Una seconda differenza riguarda l’armonia. La
musica araba è caratterizzata dall’eterofonia, uno stile di musica nel quale tutti gli
strumenti e le voci suonano una singola sequenza melodica, ognuno con il proprio
stile di ornamento musicale. L’armonia occidentale impiega invece voci e strumen-
ti che suonano diverse sequenze melodiche contemporaneamente. Al-Shidyaq con-
tinua notando effetti differenziati delle due musiche, riferendosi all’uso, da parte
della musica “franca” di strumenti militari, legati tematicamente alla lotta, alla ven-
detta o alla difesa della verità. Al contrario, la musica araba è interessata alla tene-
rezza e all’amore, aspirando a creare uno stato di incantesimo. Infine egli nota che
la musica occidentale tende a usare soltanto due modi, mentre la musica araba usa
regolarmente più dei due modi maggiore e minore. Riassume la sua comparazione
ripentendo che “le loro canzoni di entusiasmo e ardore da noi sono sconosciute”
(Cachia 1973, p. 46).
Queste osservazioni sono significative perché i cambiamenti che in seguito sa-
rebbero avvenuti nella musica araba avrebbero condotto verso una maggiore am-
piezza drammatica ed espressiva allontanandosi dalle forme improvvisate. Il punto
di vista arabo sulla musica occidentale, così come era stato costruito, divenne un
modello per il cambiamento musicale nella musica araba del ventesimo secolo: la
musica diventò un luogo per affermare una competenza culturale internazionale,
causando spesso delle controversie locali (Stokes 1992).
Il termine coscienza comparativa implica che le persone non sono sempre con-
sapevoli della comparazione, sebbene l’atto del pensare in modo comparativo è Coscienza
probabilmente universale. Nelle osservazioni di viaggio la comparazione è talvolta comparativa e
implicita, talvolta esplicita a seconda del contesto. Ma la comparazione è sempre consapevolezza
parte del sostrato dell’osservazione.
122 LAURA NADER
più di 1200 anni fa. Un esame dell’intero manoscritto suscita rispetto per l’abilità di
Hiuen Tsiang nel descrivere le strutture sociali incontrate (Beal 1957, p. 58).
Un commento simile può essere rivolto a una raccolta di lavori, che vanno da
metà Ottocento a oggi, scritti da autori cinesi sull’America. In Land without Ghosts
(Arkusch, Lee 1989) gli autori formulano delle osservazioni esplicite sulla cultura de- I cinesi si
gli Stati Uniti, contrastando il mutamento di atteggiamento dei cinesi nei confronti confrontano
con gli USA
degli USA visti di volta in volta come un modello esotico, minaccioso, da emulare o
guasto. Mentre ci muoviamo attraverso questi diversi atteggiamenti, comunque in-
fluenzati da eventi reali sia in Cina (come la rivolta dei Boxer ai primi dell’Ottocen-
to), sia in America (soprattutto in relazione al trattamento americano dei lavoratori
cinesi), il tono cambia: da residui di esotismi barbari, al rispetto per il processo de-
mocratico e alla paura di introdurre l’individualismo e la democrazia liberale in Ci-
na. Ci sono delle annotazioni molto tristi nella discussione sul razzismo negli Stati
Uniti, che si alternano alla gioia per le navi da guerra e i fucili. Gli usi della compara-
zione cambiano sebbene una critica costante della famiglia americana si espanda at-
traverso più di un secolo di osservazione. I cinesi sono particolarmente schietti ri-
guardo al modo in cui gli americani trattano i loro familiari, sia giovani che anziani.
Si ha la netta sensazione che queste osservazioni provengano da membri di una civil-
tà antica e duratura che guardano ai membri di una civiltà molto giovane.
ture di genere emergono come qualcosa in più di un prodotto del dibattito interno
fra maschi e femmine di particolari società. Essere portatori di dogmi differenti nel-
la costruzione del genere, nella disputa della comparazione, rivela le dimensioni ge-
nerali e quelle particolari della subordinazione delle donne che potrebbero essere
offuscate dall’assenza della comparazione.
Sono utili sia i metodi comparativi storici, sia i metodi funzionali. Quando lo sta-
tus di una donna in una disputa sociopolitica viene affiancato all’Altro e ai movimen-
ti economici globali, diventa chiaro che le donne, in virtù della loro posizione di cu-
Le dinamiche di stodi, sono fondamentali per meccanismi di controllo indigeni più vasti (Knauss
divulgazione 1987). I sistemi del primo e del terzo mondo sono parte di un processo interattivo
comune nel quale le idee vengono trasmesse da un mondo all’altro, modellando e ri-
modellando la costruzione di genere. Le dinamiche della diffusione possono intrap-
polare le donne in una spirale. Senza una coscienza comparativa le osservazioni sulle
dinamiche e sulla comparsa dei sistemi multipli di genere in singole località possono
passare inosservate. I processi interattivi generati dalla dipendenza economica e poli-
tica fra aree culturali determinano la divulgazione. Nella disgiunzione risultante dal
concentrarsi sul particolare, o sul transculturale, il genere è un elemento mancante,
come dimostro nel seguente esempio di comparazione come controllo.
L’uso della comparazione come controllo può venire illustrato da un breve rife-
rimento al materiale riguardante l’immagine Oriente/Occidente (si veda Nader
La comparazione
come controllo 1989b). I giudizi di valore non sono pertinenti in questo caso; il soggetto è costitui-
to dalle immagini più diffuse delle donne nelle altre culture. Sfortunatamente gli
studi sulle donne arabe musulmane sono stati tenuti separati dagli studi sulle donne
occidentali, e questo trattamento separato ha esacerbato la costruzione di immagini
opposte attraverso i media.
Nel 1987 una specialista del Medio Oriente, Barbara Stowasser, ha analizzato una
guida contemporanea, molto diffusa, per le donne musulmane, scritta dall’egiziano
Shaykh I-Sha’rawi. Sha’rawi ha pubblicato la sua guida considerandola il paradigma
ideale al quale una donna deve attenersi per essere considerata veramente islamica nel
Cairo del 1982. Nella selezione che presenta Stowasser ricorrono molte affermazioni
La guida per comparative circa l’Oriente e l’Occidente. Sha’rawi celebra i diritti civili delle donne
donne islamiche islamiche, notando i diritti che le donne in Occidente non possiedono: “quando una
di I-Sha’rawi
donna si sposa in Europa, chiama se stessa con il nome del marito. Non ha il diritto di
mantenere il suo nome o il nome di suo padre o di sua madre. Per la legge francese
non ha il diritto di stipulare contratti per proprietà individuali per sé. L’Occidente
non fornisce alla donna nessun diritto, né circa il suo nome, né circa la sua ricchezza”.
I-Sha’rawi continua notando che “come madri, le donne hanno molta più considera-
zione nell’Islam che in Occidente” (Stowasser 1987, pp. 267-268).
Questo lavoro è un esempio di un genere ora comune, di un’attività che utilizza
la comparazione per difendere l’ordine islamico, per correggere gli errori di una in-
L’Occidente e la terpretazione esterna, per rispondere alle critiche provocatorie provenienti dall’Oc-
femminilità cidente e, cosa ancora più importante, per impedire che le donne islamiche si occi-
islamica dentalizzino. Gli esempi di questo genere letterario illustrano che l’Occidente gioca
un ruolo importante nella costruzione islamica della femminilità islamica e che, co-
me dimostrerò, è fondamentale per mantenere le donne occidentali al loro posto. I
paradigmi vengono legittimati proprio dal loro contrasto con l’Occidente, special-
mente con un Occidente barbarico e materialista.
I-Sha’rawi non è un teologo, o un rivoluzionario, o uno studioso, ma piuttosto
una personalità dei media molto in vista, una figura istruita, uno dei tradizionalisti
contemporanei che considera se stesso come uno di quelli che riarma le donne isla-
LA COSCIENZA COMPARATIVA 125
punto di inizio (1983). Parti di questa ipotesi generale potrebbero includere le se-
guenti ipotesi più specifiche:
1. La subordinazione femminile può aumentare nel contesto di tentativi maschi-
li di mantenere l’autorità in società minacciate sempre più dalla dinamica di relazio-
ni di potere internazionali. Nelle condizioni di colonialismo, emigrazione, immigra-
zione e modernizzazione, la subordinazione femminile tende ad aumentare, sebbe-
ne gli indicatori possano variare dall’aumento di probabilità di stupro in una socie-
tà all’aumento di isolamento in un’altra.
2. La subordinazione femminile aumenta con l’aumentare delle “civiltà” perché
i sistemi multipli di subordinazione femminile risultano dalla conquista, dal cam-
biamento e dall’aumento generale di interazione comune alle diverse civiltà. Questo
potrebbe essere il caso, ad esempio, di una donna messicana che sposasse un uomo
egiziano e vivesse a Dallas, in Texas, soggetta ai modelli di subordinazione prove-
nienti da tutte e tre le culture.
3. Le categorie di subordinazione femminile seguono linee di distribuzione com-
plementari quando la superiorità posizionale del “primo mondo” viene asserita o
La
complementarietà
quando la superiorità posizionale viene innalzata a difesa contro le possibilità delle
delle categorie di donne del “terzo mondo” di occidentalizzarsi. Ad esempio la costruzione musulma-
subordinazione na della subordinazione femminile in Occidente include l’alta percentuale di stupri,
la pornografia, le donne come oggetti sessuali, la perdita del proprio cognome con
il matrimonio, l’assenza di rispetto come viene indicato da sistemi di pagamento ini-
qui. La costruzione occidentale della subordinazione musulmana femminile include
il matrimonio forzato, indossare il velo, la clitoridectomia, il divorzio facile e l’esclu-
sione generale delle donne dalla vita pubblica.
L’idea è di usare la comparazione nelle sue forme storiche, contrastive e control-
late per rompere con i modelli che non producono più modi di pensare creativi.
Altro. Non è soltanto in relazione ai caffè e alla subordinazione femminile che la co- Comparazione e
ideologia
scienza comparativa e la consapevolezza dell’uso della comparazione diventano dell’armonia
centrali per la comprensione. Nel mio lavoro sull’ideologia dell’armonia, l’esercizio
della coscienza comparativa ha stimolato una ricerca degli usi, passati e presenti,
fatti di questa ideologia dai missionari cristiani e dai governi coloniali (Nader 1990).
La coscienza comparativa, inoltre, mi ha aiutato a capire che la stessa armonia cri-
stiana, usata con intenti pacificatori nell’iniziale colonizzazione europea dei popoli
era, e ancora è, impiegata per reprimere la tendenza alla critica da parte degli ame-
ricani nel periodo successivo agli anni Sessanta (Nader 1989a). Una coscienza
Il messaggio essenziale del presente saggio è che una coscienza comparativa ben comparativa ben
temperata
temperata conduce a scoperte importanti. Il punto di vista da cui questo viene af-
fermato sostiene la necessità di una maggiore discussione fra i comparativisti sui
vantaggi di un meno rigido controllo tecnico nella comparazione esplicita, e invita
gli etnografi a intensificare le comparazioni implicite nel lavoro etnografico. Se la
conoscenza è potere, la comparazione è fondamentale nella dinamica della produ-
zione di conoscenza.
* Vorrei ringraziare per l’aiuto e gli stimoli che mi hanno forniti Saddeka Arebi, Joann Martin, Lori Powell e Tarek
Milleron e i molti studenti partecipanti al mio seminario “Orientalism, Occidentalism and Control”.
1 Il discorso critico ha anche messo in dubbio la fissità del significato. Anche questo, durante i politicizzati anni
lavoro; hanno tratto beneficio da una maggiore consapevolezza del modo in cui viene prodotta la conoscenza. I dibatti-
ti hanno affinato le nostre valutazioni critiche sulla conoscenza prodotta da generazioni precedenti e hanno fatto com-
prendere agli antropologi che anche questo momento nel tempo diventerà “il lavoro di generazioni precedenti”, e ma-
teria che produrrà un proprio dibattito e una propria citica.
3 Alla fine degli anni Cinquanta Clyde Kluckhohn tenne un corso sulla società americana all’Università di Harvard
utilizzando solo romanzi come letture. Affermò che solo i romanzi potevano colmare quei vuoti che risultano quando
gli antropologi sono unidimensionali e quando alcune tematiche (come studiare le élite) sono tabù.
4 Se sviluppiamo molteplici varietà di comparazione, gli antropologi faranno uso della comparazione con rinnova-
to vigore perché le etnografie estremamente localizzate e le comparazioni che comprimono il particolare nelle ristrette
definizioni delle variabili scientifiche mascherano sia influssi egemonici che controegemonici, trascurando quindi i pro-
cessi storici.
5 L’affermazione di Paul Bohannan (comunicazione personale) che oggi “la cultura è libera per le strade” e l’osser-
vazione di Richard Rorty che “abbiamo una mente così aperta che i nostri cervelli sono caduti fuori” (1989, p. 526) mi
hanno stimolato a pensare attentamente al costo della perdita del potere della comparazione in antropologia. La rispo-
sta alla mia domanda mi spinge a rivolgere l’attenzione ad alcune situazioni difficili dell’antropologia socio-culturale
contemporanea.
6 L’analisi di Goody (1984) delle strutture orientali e occidentali utilizza un metodo di comparazione nel quale le
caratteristiche comparate vengono guardate non solo dal punto di vista dell’Oriente o dell’Occidente, ma anche da una
terza angolatura. Viste da questa prospettiva, le differenze possono sembrare relativamente lievi.
Biografia intellettuale
Le sue ricerche sono note attraverso i numerosi articoli pubblicati. I suoi libri più
importanti sono Talea and Juquila - A Comparison in Zapotec Social Organization
(1964); The Ethnography of Law (1965); Law in Culture and Society (1969); The Di-
sputing Process (1978); No Access to Law (1980) e Harmony Ideology - Justice and
Control in a Zapotec Mountain Village (1990). Ha inoltre pubblicato in collabora-
zione con altri colleghi Energy Choices in a Democratic Society (1980) e un testo sul
futuro dei bambini americani (All Our Children, 1980). Fa parte dell’American Aca-
demy of Arts and Sciences.
Ho iniziato i miei studi nel Dipartimento di Antropologia all’Università di Har-
vard, sotto la guida di Clyde Kluckhohn, dopo la lettura del suo famoso libro Lo
specchio dell’uomo in una congiuntura intellettuale critica. Sebbene Kluckhohn
avesse studiato a Oxford sotto la guida di Robert Marett e lavorato a Vienna con
Padre Schmidt e altri della Scuola storico-culturale di Vienna, quando io l’ho in-
contrato era molto influenzato dal suo studio linguistico con Edward Sapir ed era
coinvolto nel lavoro di A. L. Kroeber sul concetto di cultura. È stato grazie a Kluc-
khohn che frequentai il Summer Institute of Linguistics ad Ann Arbor nell’Universi-
tà del Michigan (estate 1956). Quando in seguito espressi il mio interesse a passare
un anno di studi in Inghilterra, data la mia ammirazione per il lavoro di E. R. Leach
e Raymond Firth, Kluckhohn mi disse che avrei certo potuto leggere quello che gli
inglesi avevano da dire, ma che il pensiero immaginativo era in Francia, fra persone
come Lévi-Strauss. Rimasi ad Harvard. Per Kluckhohn, l’istruzione in antropologia
era una questione di ampiezza di vedute, non di specialismo; incoraggiava gli stu-
denti a leggere attentamente Antropologia (1948) di Kroeber, a visitare gli psicologi
sperimentali di Mem Hall, a essere critici nelle letture dei sociologi, a non dimenti-
care l’importanza di leggere i romanzi (che era il suo modo di insegnare la società
americana), a riconoscere l’importanza della biologia evoluzionista e l’importanza
del tempo. L’antropologia ci riguardava tutti, ovunque.
Douglas Oliver tenne il corso del primo anno ad Harvard; anche lui aveva stu-
diato a Vienna. Introdusse gli studenti all’antropologia attraverso un anno duran-
te il quale leggemmo le monografie classiche. Tra queste letture ho incontrato Na-
ven di Gregory Bateson. Bateson era cosciente della costruzione dell’etnografia
quando quasi nessuno sembrava esserlo, e insieme a Kluckhohn sollevava la que-
stione della differenza fra la modalità scientifica e quella artistica di presentare
una cultura. Contemporaneamente Oliver istruiva la classe sul suo lavoro nel Pa-
cifico discutendo le innovazioni metodologiche che erano applicazioni del lavoro
di Eliot Chapple. Oliver puntava a una ricerca sul campo meticolosa, ma fu grazie
al contatto con Beatrice e John Whiting del Laboratory of Human Development
della School of Education che conobbi l’importanza della comparazione per com-
prendere gli universali e le variazioni umane. I Whiting avevano completato i loro
studi a Yale e l’influenza di Sapir e Malinowski, che era lì in visita, è stata una
grossa parte di quello che mi hanno insegnato. Le influenze ad Harvard erano di
natura eterogenea.
Come studente fra gli zapotechi di montagna mi trovai a lottare per realizzare
un’etnografia estremamente dettagliata, mentre percepivo che stavo perdendo
quello che venne in seguito messo in luce attraverso i film e l’analisi culturale.
Comparai due villaggi molto simili: ma piuttosto che porre delle variabili di pre-
senza/assenza, lavorai su un continuum. Gli antropologi messicani che mi in-
fluenzarono erano Julio de la Fuente e Roberto Weitlaner. La monografia di de la
Fuente sugli zapotec yalalag e il suo lavoro con Malinowski sui sistemi di mercato
indigeni furono importanti punti fermi per l’etnografia dell’Oaxaca. Il modello
LA COSCIENZA COMPARATIVA 129
della ricerca sul mercato illustrava una rete di relazioni fra villaggi apparentemen-
te autonomi. De la Fuente mi mise in guardia rispetto all’insuccesso in cui incorse
E. C. Parson nel documentare la variazione nel suo lavoro sui mitla a causa del-
l’eccessiva dipendenza da un informatore singolo. Roberto Weitlaner mi portò nei
villaggi otomi dove mi insegnò a prender nota di una genealogia, e a porre delle
domande che avessero senso per gli otomi. Weitlaner era un modello per ciò che
concerne la costruzione di un rapporto di ricerca: era stato istruito come ingegne-
re, poi istruito in linguistica americana e le molte ore passate davanti al caffè a
Sanborns erano i migliori seminari sul campo che ognuno potesse avere sulla rico-
struzione storica.
Nel 1960 sono entrata a far parte del Dipartimento di Antropologia dell’Univer-
sità della California a Berkeley. In quello stesso anno morirono Clyde Kluckhohn e
A. L. Kroeber, mentre Geertz, Fallers e Schneider erano partiti per Chicago, la-
sciando così un notevole divario generazionale fra gli antropologi più giovani e più
anziani a Berkeley. Io dovevo insegnare antropologia giuridica. Legge non era una
materia che mi era stata insegnata a Harvard, ma conoscevo la letteratura a fondo.
Il lavoro condotto da Malinowski sul diritto mi attirava, poiché il suo era un punto
di vista molto ampio, e sebbene ammirassi il lavoro di Gluckman trovavo la sua at-
tenzione specifica per i tribunali troppo “da avvocato”. Quando prese inizio il Ber-
keley Village Law Project, decisi di continuare a incentrare il lavoro su una causa in
giudizio (come aveva fatto Gluckman) perché pensavo fosse un’unità minima, com-
parabile a unità come i fonemi e i morfemi in quanto parti del discorso in linguisti-
ca. Dibattere è un fenomeno universale nella cultura umana, anche se non va confu-
so con il paradigma della risoluzione della controversia, che trovo venga usato a
volte in modo non contestualizzato. Come unità d’azione il caso in giudizio può es-
sere manipolato dalle parti o dalle strutture di potere. Fu il lavoro di Eric Wolf che
mi aiutò a comprendere tali manipolazioni in quanto meccanismi potenti di colo-
nizzazione globale e di pacificazione.
Berkeley negli anni Sessanta aveva un grande impatto intellettuale. Sherwood
Washburn stava scrivendo sulla razza come concetto culturale e sociale; Elizabeth
Colson stava scrivendo sulla tradizione e sul cambiamento; George Foster stava stu-
diando il modo in cui le persone si comportano in situazioni di deprivazione; Ro-
bert Heizer stava studiando le lunghe permanenze nelle grotte del Nevada nel con-
testo di un’era nucleare. Dell Hymes incoraggiava molti di noi a occuparci di antro-
pologia critica: Antropologia radicale (a cura, 1969) comprendeva il mio pezzo sullo
studio approfondito, uno sforzo di ampliare l’ambito etnografico. Fu proposto il
concetto di etnografia di interesse pubblico (Spradley 1970), ma il tentativo fu som-
merso dalla scarsa tolleranza verso i precursori in antropologia e dalla passione per
un’antropologia che riusciva a utilizzare sia metodi scientifici che artistici di cono-
scenza. Tuttavia per me rimase valida l’eterodossia del periodo precedente, e si
aprirono nuovi mondi.
Il mio insegnamento e la mia ricerca riflettono queste influenze eterogenee. Inse-
gno: “introduzione all’antropologia socioculturale”, “antropologia giuridica” e tengo
un corso chiamato “Comparative Society”. Le mie aree di interesse sono l’America
Centrale e il Medio Oriente. Negli ultimi anni tengo un corso per i primi anni sui
“processi di controllo”, le componenti dinamiche del potere. Del seminario legato a
questo corso, “Orientalismo, occidentalismo e controllo”, parlo nel presente volume
come di una nuova impresa dell’etnografia storica. L’ispirazione per questo lavoro
viene dalla scoperta che un uso simultaneo di metodologie comparative produce una
comprensione nuova e più profonda rispetto all’uso di approcci singoli. Al momento
130 LAURA NADER
sto scrivendo una serie di saggi sulle pratiche contemporanee che usano i concetti di
controllo sociale e culturale accanto all’idea, oramai accettata, che gli etnografi e le
loro culture sono uno strumento per scrivere l’etnografia, e dunque, parte dell’analisi
sulle forme egemoniche della cultura.
“Specchio, specchio delle mie brame…”.
Il ruolo passato e futuro dell’antropologia: un tentativo di valutazione
Maurice Godelier
Chi siamo?
Gli antropologi commerciano in conoscenza. Il nostro scopo esplicito è scoprire L’antropologia
come funzionano le società umane, come mai le varie società che vivono una accanto come scienza
all’altra su questo pianeta – che comprendono l’attuale essenza dell’umanità dalle universale
molte sfaccettature – vivono e pensano a quel modo e cosa questo significhi. La no-
stra ambizione è di imparare abbastanza di ognuna di queste società in modo da po-
terle comparare. Sia che lo ammetta o meno, l’antropologia mira a essere una scienza
universale. Ciò può essere compreso in uno di questi due modi: 1) universale perché
è una scienza, vale a dire, un campo di pensiero che sostiene che le sue affermazioni,
metodi e conclusioni possano essere soggette, come in fisica e in biologia, alla valuta-
zione e all’esame oggettivo, sia l’antropologo un americano, un giapponese o un
messicano; 2) universale poiché, per definizione, nessuna società è esclusa dalla sua
sfera di analisi in quanto punta a scoprire i meccanismi presenti in tutte le società.
Detto questo, comunque, i paradossi saltano agli occhi. Se l’antropologia deve
essere lo studio comparato di tutte le società umane, deve allora invadere la sfera Antropologia,
storia, sociologia:
abitualmente attribuita alla storia e aggiungere alle società di oggi tutte quelle del un compromesso
passato? L’altro paradosso è che pur attenendosi solo alle società odierne come può
l’antropologia combinarsi con la sociologia, che ha anch’essa come oggetto di stu-
dio queste società?
Tutti sappiamo che questi paradossi rimangono irrisolti e che stiamo lavorando
all’interno di un compromesso che le tre discipline hanno tacitamente accettato. In
132 MAURICE GODELIER
pratica, gli antropologi lavorano più sulle società odierne che su quelle del passato e
più su società altre che non sulle proprie; più sulle società non occidentali che su
quelle occidentali. Questo compromesso è presente sin dall’inizio. Dove, allora, ab-
biamo iniziato?
Da dove veniamo?
I due aneddoti personali che seguono saranno d’aiuto per portare alla ribalta le
Il contesto storico nostre origini. Nel 1967, sei mesi dopo il mio arrivo fra i baruya – una tribù isolata
nelle montagne della Nuova Guinea, che nel 1960 era appena passata sotto il con-
trollo del governo australiano – mi fu chiesto dall’ufficiale di polizia australiano a
capo della postazione militare e, separatamente, dal missionario tedesco responsabi-
le della missione luterana, di fornire informazioni che potessero essere loro utili.
L’ufficiale voleva che gli fornissi i nomi dei tradizionali “capi di guerra” della tribù,
sapendo perfettamente che gli uomini che lui aveva designato, in nome di Sua Mae-
stà la Regina, come capi del villaggio non possedevano una reale autorità sugli altri.
Due aneddoti Per quanto riguardava il missionario, era ansioso che io gli insegnassi la religione di
personali questa popolazione, i loro riti segreti, e soprattutto le loro pratiche magiche. Come
il suo collega militare, anch’egli voleva sapere i nomi degli uomini e delle donne che
si credeva fossero “streghe” e “stregoni” (si noti che i baruya chiamano queste per-
sone con un termine che indica rispetto e che significa “uno che tratta con gli spiri-
ti”). Naturalmente la mia etica professionale mi proibiva di dire alcunché e io ero
guardato con sospetto da questi altri bianchi.
In un’altra occasione, al contrario, accettai di collaborare con le autorità austra-
liane. Ecco il perché. Un uomo era tornato dopo molti anni di lavoro alle piantagio-
ni e aveva scoperto che la moglie aveva lasciato la loro casa per andare a vivere con
il suo amante sposato. Il marito andò a richiedere indietro sua moglie, ma l’amante
lo picchiò e umiliò di fronte a tutto il villaggio. Il giorno seguente l’uomo seguì la
moglie nei campi e la colpì a morte con un’accetta. Quindi si consegnò a un agente
che lo arrestò. Fu accusato di omicidio. Il giudice mi chiamò perché io spiegassi in
tribunale le usanze dei baruya. Io dissi che uccidendo la moglie, l’uomo aveva agito
in accordo con la legge baruya. La donna gli apparteneva di diritto, pertanto ora il
lignaggio di lei doveva all’uccisore una donna. Il giudice tenne questi fatti in consi-
derazione quando emise la sentenza.
Vi era certamente più di una ragione per la mia condotta. Ovviamente accettan-
do o rifiutando – secondo il caso – di collaborare con l’amministrazione coloniale o
con una Chiesa occidentale, stavo seguendo dei principi che non sono tutti parte in-
Le ragioni etiche, trinseca della nostra professione. Tutte le volte che ho potuto ho cercato di attenua-
scientifiche,
politiche e la re l’impatto che le pressioni e il potere esercitati dall’Occidente avessero sui baruya.
condotta Il mio atteggiamento era condizionato da ragioni etiche e scientifiche, ma anche po-
dell’antropologo litiche. E tutti conosciamo antropologi che hanno agito in modo diverso, e non
avrebbero necessariamente condiviso i miei scrupoli nell’aiutare a diffondere la “ve-
ra” fede. Ma, e sono sicuro di ciò, a parte queste divergenze, tutti gli antropologi
avrebbero voluto essere lì prima che lo stato di cose cambiasse, per la semplice e lo-
gica ragione che non è possibile misurare il cambiamento se non si conosce lo stato
precedente. Ogni antropologo sogna di essere il primo ad arrivare sul posto. Que-
sto è il sogno “scientifico” che tutti condividiamo.
Ma in una situazione coloniale, principale contesto di lavoro dell’antropologo
fino a dopo la seconda guerra mondiale, l’antropologo non era il solo ad arrivare
sulla scena. Questi era preceduto o seguito da altre figure, le cui funzioni erano in-
dispensabili in questo tipo di scenario: soldati, missionari, mercanti e a volte euro-
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 133
pei proprietari di miniere o piantagioni. Questi aneddoti personali mostrano che Utilità e criteri
nell’uso
1) l’antropologia può essere utile agli altri ed essere riconosciuta come tale; e 2) dell’antropologia
che, come ogni altra scienza, l’antropologia non contiene in se stessa i criteri per
decidere come dovrebbe essere usata. Questi criteri esistono ma sono al di là del-
l’antropologia.
In che modo questi aneddoti ci riconducono alle nostre origini, almeno per
quelli di noi che vivono in Occidente? L’antropologia non è semplicemente apparsa
un giorno già in tutto il suo vigore nel mondo occidentale a fissare le sue rivendica-
zioni come scienza universale. È emersa gradualmente dalla necessità di compren-
dere due aree che erano all’inizio completamente separate. Da un lato c’erano le L’antropologo e i
suoi “compagni
popolazioni dell’Africa, dell’America precolombiana e dell’Asia che lentamente ve- di viaggio”
nivano scoperte e soggiogate dalle lusinghe del commercio dell’Occidente o dai
suoi potenti armamenti. Ogni volta che i colonizzatori volevano commerciare, go-
vernare o evangelizzare dovevano apprendere le lingue locali (per lo più non scrit-
te), osservare le usanze locali e prenderne nota. Anche in Europa, perlomeno dal
sedicesimo secolo, molti impiegati di vari Stati o sacerdoti di diverse Chiese scrive-
vano sulle usanze dei baschi, degli sloveni, dei valacchi, dei lituani, ecc. Questo fu
fatto per molte ragioni – al fine di risolvere le divergenze con una comunità quan-
do, ad esempio, la terra di quest’ultima era stata espropriata e la popolazione prote-
stava in nome dei propri “diritti precedenti”. In breve, vi erano molte ragioni per
cui l’Europa ricercava una conoscenza migliore dei diversi gruppi etnici o delle co-
munità agricole, che (in misura maggiore che nelle città) mantenevano le loro usan-
ze e le facevano valere nella lotta per resistere al cambiamento. Quindi l’antropolo-
go professionista era preceduto da un certo numero di figure che facevano più o
meno le stesse cose che avrebbe fatto lui, ma per ragioni diverse. Questi viaggiatori,
amministratori, mercanti e missionari rimasero i suoi compagni di viaggio, anche
quando l’antropologia si era ormai costituita in tutta la sua differenza. E qui arrivia-
mo al nodo fondamentale: qual è questa differenza?
Il lavoro di Lewis Morgan mi aiuterà a definire in cosa l’antropologia è diversa da Cosa rende
attività apparentemente simili. Ma prima dobbiamo dare un ultimo sguardo alle con- l’antropologia
dizioni nelle quali la nostra disciplina si è andata costituendo. L’antropologia è una diversa
strategia di acquisizione della conoscenza che deve essere utilizzata quando una so-
cietà vivente non ha archivi scritti o altri documenti storici che ci spieghino come
funziona. È una tecnica che rende possibile estrarre la conoscenza dall’osservazione,
dalle informazioni raccolte all’interno della società sottoposta allo studio. Essenzial-
mente la nostra disciplina si è costruita intorno a un metodo, l’osservazione parteci-
pante, che postula la più o meno prolungata immersione di un osservatore (general- Contesti di
mente un esterno) nel gruppo osservato. I due contesti all’interno dei quali l’antro- sviluppo
dell’antropologia
pologia occidentale si è sviluppata – 1) l’espansione coloniale occidentale e 2) in Eu-
ropa, la subordinazione di gruppi etnici e comunità agricole ai processi di formazio-
ne dello Stato nazionale e dello sviluppo di una economia di mercato – indicano che
le indagini etnografiche tendevano a svolgersi in un ambiente in cui i rapporti fra os-
servatore e osservato erano di dominio, di ineguaglianza sociale e di potere. Questo
sfondo si intromette di continuo durante l’intero corso dell’indagine.
Ma l’Occidente non è unico in questo. Altre civiltà hanno assoggettato molte Relazioni di
popolazioni sulle quali, in seguito, hanno cercato una conoscenza più precisa. Non potere
è necessario rivolgersi al Medioevo o alle relazioni dei viaggiatori e degli ammini-
stratori cinesi. Nell’attuale Cina “comunista” l’antropologia è quasi esclusivamente
riservata allo studio delle “minoranze” nazionali, vale a dire i gruppi etnici come gli
134 MAURICE GODELIER
L’antropologia yao e i lesu che si crede non abbiano raggiunto lo stesso grado di civiltà dei cinesi
in Cina
han. Questi gruppi sono oggetto di speciali misure politiche che sottolineano la loro
inferiorità. Lo slogan “un figlio per famiglia” non li riguarda perché sarebbe un af-
fronto troppo grande per le loro usanze. Alle famiglie sono concessi fino a tre figli,
da qui il paradosso: oggi vediamo i cinesi rivolgersi allo Stato per essere riconosciu-
ti non-han e poter quindi beneficiare dei vantaggi di questo status. In India, paese
L’antropologia dove vive una delle maggiori civiltà del mondo, all’inizio l’antropologia sembrava
in India destinata a essere relegata allo studio di quelle tribù ancora non incluse nel sistema
di casta. Insomma, in questi paesi, come nell’Occidente, l’antropologia è vista come
lo studio di popolazioni e gruppi culturalmente arretrati, meno sviluppati economi-
camente e socialmente. La nostra professione ancora porta i segni di questo atteg-
giamento. Quanto detto spiega perché oggi molti paesi di recente indipendenza ri-
fiutino i permessi d’ingresso agli antropologi. Dicono “Non siamo selvaggi kanaka
[indigeni dei mari del Sud] che gli europei osservano”, “siamo gente normale, inte-
ressata alla sociologia, non all’antropologia”.
Questo rifiuto è una delle ragioni per cui l’antropologia, a cui viene riservata
un’accoglienza gelida in alcune zone dell’Oceania e dell’Africa, sta volgendo la sua
L’antropologia attenzione all’Europa e all’America. Ma ci sono ragioni più positive per spiegare
in Europa e in questo riorientamento. Sono state sviluppate tecniche di osservazione sofisticate ed
America
è emersa una consapevolezza critica che ora rende possibile agli antropologi andare
oltre le limitazioni imposte dal contesto originale. Ora gli antropologi si impegnano
ad analizzare città, sistemi educativi, relazioni uomo/donna in tutte le classi e socie-
tà. In breve siamo coinvolti in un movimento doppio, in qualche modo contraddit-
Un doppio torio. I miglioramenti nel nostro metodo hanno allargato il campo di applicazione,
movimento includendo molte aree che precedentemente non erano state individuate. Allo stes-
so tempo la nostra storia, le nostre associazioni passate, le complicità con le relazio-
ni di potere che le nostre società intrattenevano con altre culture, tendono a esclu-
derci oggi dalle aree che abbiamo occupato in passato.
Nulla di tutto questo è misterioso, e il lavoro di Lewis Morgan, uno dei nostri
padri fondatori, spiegherà perché. Questo avvocato proveniente da Rochester, Stato
di New York, amico e difensore degli indiani, iniziò a interessarsi allo studio delle
usanze degli irochesi. Nel corso della sua ricerca scoprì che le relazioni parentali
degli irochesi non sono assurde, ma seguono una logica diversa dalla nostra. Sono
Lewis Morgan
basate su una regola di discendenza matrilineare che serve come principio per re-
clutare membri in una unità sociale e anche per definire quelli a cui è proibito spo-
sarsi. Per designare questo tipo di gruppo lineare esogamico Morgan ha utilizzato il
termine latino gens. Ciò non è stato casuale. Morgan aveva scoperto che i termini
parentali e le regole di discendenza e residenza costituivano un “sistema”. Partì egli
stesso per comparare una dozzina di altre società indiane che già vivevano nelle ri-
serve. In seguito, dopo aver scoperto degli schemi regolari, ebbe l’idea di lanciare
uno studio a livello mondiale. Più di mille questionari furono mandati a missionari,
L’etnografia
come studio dei
amministratori, ecc. Sulla base dei dati ottenuti, che costituivano la più ampia gam-
“sistemi” sociali ma di fatti mai raccolti sulla parentela, Morgan ha sviluppato una prima sintesi nel
libro Systems of Consaguinety and Affinity of the Human Family (1870).
In ciò sta la differenza fra l’etnografia professionale e le annotazioni fatte dai
missionari e dai viaggiatori. Consiste nell’idea che le relazioni sociali formano un
“sistema”, nell’ipotesi che la loro enorme diversità può essere “ridotta” a pochi tipi
fondamentali e che la loro evoluzione e le loro trasformazioni seguono degli schemi
o addirittura obbediscono a delle leggi. L’antropologia non divenne una disciplina
veramente scientifica fin quando non adottò l’obiettivo esplicito di scoprire queste
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 135
logiche, di ridurre le diversità a pochi tipi, e di scoprire (fra i molti incidenti della
storia) cosa produceva queste trasformazioni. Per portare a termine tutto ciò ha do-
vuto perfezionare i propri concetti, rendendoli sistematici e verificabili.
Ma Morgan era anche un uomo del suo tempo. Mentre stava fondando la nostra
disciplina come scienza, contemporaneamente la indeboliva poiché ingabbiava le
sue scoperte in un modello imposto e artificiale che presentava l’evoluzione umana Evoluzionismo e
come una marcia verso il progresso. Credeva di poter tracciare gli stadi dell’evolu- relazione di
zione partendo da lunghi periodi di stato selvaggio e barbarie fino ad arrivare allo dominio
Stato civilizzato che, per l’Occidente, culminava in Europa e nell’America dell’Ot-
tocento. A questo punto la relazione di dominio che era sempre rimasta sullo sfon-
do viene alla ribalta nel cuore della teoria antropologica. Tutte le società non occi-
dentali, così come i gruppi etnici europei e le comunità agricole, venivano rappre-
sentati non solo come residui, ma come vestigia di stadi attraverso i quali l’umanità
era passata nel suo cammino verso la civiltà. Il mondo divenne lo specchio nel qua-
le l’umanità poteva contemplare le sue origini e la sua evoluzione. L’Occidente di-
ventò non soltanto lo specchio, ma la misura della storia nel suo insieme. Ecco la ra- La gens di
Morgan
gione per cui Morgan scelse un termine latino per designare la discendenza matrili-
neare irochese. Egli considerò gli irochesi come le vestigia dell’organizzazione della
gens che aveva caratterizzato l’Europa ai tempi dei greci e dei romani e che era sta-
ta ora dimenticata.
Proprio questo tipo di evoluzionismo, questa particolare visione ideologica del-
l’umanità si è dimostrato essere il punto debole della teoria di Morgan e l’ostacolo
da superare se si volevano fare ulteriori passi in avanti. Le scuole di antropologia
che si sono sviluppate dai tempi di Morgan hanno tutte dovuto iniziare ripudiando
questa versione unilineare dell’evoluzionismo.
Cosa abbiamo fatto da allora?
te al quadro che i membri di queste società avevano della loro organizzazione so-
Prospettive ciale. Dall’inizio l’antropologia si è trovata di fronte al problema di prendere sul
“emiche” ed serio e di spiegare la discrepanza fra i propri quadri di riferimento di analisi e i
“etiche”
concetti e principi delle popolazioni il cui modo di vita cercava di comprendere.
La nostra teoria esprime questa differenza attraverso l’idea che l’antropologia de-
ve combinare un’analisi “emica” (analisi delle rappresentazioni degli attori nativi)
con un’analisi “etica” (analisi delle rappresentazioni “scientifiche” degli osserva-
tori). Alcuni antropologi come D. Schneider (1984) portano questa distinzione fi-
no ai suoi limiti logici, e non sono lontani dal pensare che l’approccio “emico”
esclude o distrugge quello “etico”, che la parentela così come viene concepita e
vissuta dai “nativi” non ha nulla a che fare con la versione concepita e ricostruita
dagli antropologi.
I compiti degli Quali che siano queste differenze, gli antropologi si trovano di fronte tre compiti.
antropologi
1. Descrizione. Fare una descrizione esaustiva delle società individuali, rico-
struendo con maggior fedeltà possibile i loro modi di pensare e i principi che go-
vernano le loro azioni, seguiti esplicitamente dai membri di queste società. Questo
sforzo si è materializzato nella montagna di monografie basate sul lavoro di campo
prodotte dagli antropologi.
tecnologiche o ideologiche. In altri termini siamo alla ricerca di una logica della sto-
ria. Non faccio dell’ironia a proposito di questo tentativo. L’antropologia ecologica, La ricerca della
ad esempio, ci ha insegnato molto. Si è presa il compito difficile di identificare e mi- logica della storia
surare le costrizioni materiali imposte su una società dalle sue tecniche e dall’ecosi-
stema (dal quale trae i mezzi di sussistenza). Ha anche aperto il campo tutto nuovo
dell’etnoscienza, poiché ai ricercatori occorreva scoprire come i gruppi umani rap-
presentavano le piante, gli animali domestici e selvaggi, le stagioni, la foresta, la pia-
nura, il mare. Oggi, grazie all’interesse teorico intorno alle condizioni materiali del-
l’esistenza dei gruppi umani e delle loro rappresentazioni dell’ambiente naturale, di- Antropologia
ecologica ed
scipline come l’etnobotanica, l’etnozoologia e l’etnoecologia sono fiorenti. Ma in un etnoscienza
altro ambito i sogni di alcuni ricercatori non si sono avverati perché, come ricordò
Marshall Sahlins a Harris, tutto ciò che questo tipo di riflessione ci può dire riguarda
quello che è materialmente possibile mettere in atto in una società, non la ragione
per cui una di tali possibilità è diventata socialmente necessaria.
C’è qualcosa collocato all’interno dell’individuo (ma che non è identico alla sua
irriducibile singolarità) che sia la fonte di questi mondi sociali e culturali?
Lévi-Strauss. Durkheim, Lévi-Strauss e altri guardano oltre l’individuo singolo, Scavare nelle
alle strutture inconscie e alle regole di funzionamento della mente umana in genera- metateorie di
le. Essi postulano che la mente ordina la realtà naturale e culturale in base a due Lévi-Strauss e
fondamentali regole dell’analogia: metafora e metonimia1. Pensare significa scoprire Marx
o porre delle relazioni di equivalenza (o non equivalenza) fra esseri e cose e fra
aspetti di questi esseri e delle cose. Su un livello più astratto, significa pensare a re-
lazioni fra relazioni. La metafora e la metonimia sono dei modi per stabilire delle
relazioni. Questo è stato il punto di partenza di Lévi-Strauss per la sua analisi dei Metafora,
miti e dei sistemi di pensiero, e gli ha dato un buon vantaggio. Ha chiarito nel det- metonimia e
taglio il ruolo giocato, nella formazione dei miti e nei rituali che spesso li accompa- funzionamento
della mente
gnano, dalle coppie di principi e opposizioni binarie (come caldo/freddo; cru- umana
do/cotto; terra/cielo; maschio/femmina) che a loro volta possono entrare in combi-
nazioni anche più complesse.
A questo punto ci troviamo di fronte a due problemi irrisolti. Se i principi che
operano nei miti e nelle religioni si trovano nella mente e se la parte inconscia della
mente umana è la stessa in ogni persona, allora perché ci sono diverse classificazioni
nel mondo? Potrebbe essere che altri principi mentali o contenuti diversi di pratica
138 MAURICE GODELIER
Lévi-Strauss, gli sociale entrino nella genesi del mito e della religione e quindi spieghino la diversità?
empiristi e i
marxisti
Questo suscita una seconda domanda. Anche se non neghiamo il ruolo creativo gio-
cato dal pensiero nella produzione delle relazioni sociali, non corriamo il pericolo di
considerare le relazioni sociali come pensieri “applicati”? Con questa argomentazio-
ne gli empiristi accusano Lévi-Strauss di “intellettualismo”, mentre lui al contrario li
incolpa di funzionalismo semplicistico, e i marxisti distruggono i primi senza rispar-
miare i secondi. Potrebbe sembrare che ci si trovi a confrontare fra visioni opposte e
che però, per quanto i protagonisti tengano alle loro differenze, le loro tesi non siano
mai state interamente in contraddizione l’una con l’altra.
Lévi-Strauss critica gli empiristi perché confondono la descrizione delle forme
visibili dell’organizzazione sociale – le istituzioni e le loro interconnessioni visibili –
con l’analisi della loro logica reale, che è quella delle proprietà strutturali di queste
relazioni sociali. Comunque queste proprietà non possono mai essere viste a occhio
nudo, e devono quindi essere ricostruite mentalmente con l’aiuto di modelli. Lévi-
Strauss rifiuta l’accusa di idealismo affermando che se i suoi modelli forniscono una
spegazione migliorata rispetto alla realtà nel suo insieme è perché corrispondono a
qualcosa “all’interno della realtà”. E insiste dicendo di essere un “realista”, se non
un vero e proprio materialista. In Il pensiero selvaggio arriva a scrivere che quando
tratta i sistemi di parentela e i miti sta trattando solo le “sovrastrutture” della vita
Marx e sociale e dichiara di accettare l’affermazione di Marx sul “primato delle infrastrut-
Lévi-Strauss ture” (il primato delle strutture che organizzano la produzione materiale) sulle so-
vrastrutture (le strutture che riguardano idee e ideali). In questo modo postula l’esi-
stenza di un “ordine degli ordini”, un concetto che non eplorerà mai completamen-
te, ma del quale attribuisce a Marx il merito dell’invenzione. Quando Lévi-Strauss
sostiene che studiando i miti primitivi e le religioni sta studiando semplicemente le
ombre sulle pareti della caverna, la metafora platonica suggerisce che la realtà (che
non è un gioco d’ombre) esiste da qualche parte fuori della caverna. Per compren-
dere la realtà è necessario venire fuori dalla caverna delle rappresentazioni e delle
ideologie. In questo Lévi-Strauss non è lontano da Marx che nel Capitale (1867-
1894) parla del carattere “feticistico” delle merci, che deriva dal fatto che l’aspetto
di una merce non rivela il segreto della sua essenza. Il suo aspetto nasconde il fatto
che il valore di una merce risiede nel lavoro umano necessario per la sua produzio-
ne.
Marx. Ora ci rivolgiamo a Marx, quindi e a quelli che, come me, hanno cercato
La produzione di applicare il marxismo all’antropologia. (Nei fatti molti hanno seguito Althusser
delle forme piuttosto che Marx, almeno fra gli antropologi francesi, ad esempio Terray e Meil-
sociali
lassoux. Io non sono stato uno di loro).
Prendiamo in considerazione le idee principali che sono state prese in prestito
da Marx o a lui attribuite e che hanno influenzato le scienze sociali. Il punto princi-
pale è che le persone non vivono in società come gli altri animali sociali, perché
producono la società (e le sue relazioni sociali) per vivere. Se producono nuove for-
me di società è perché (diversamente dagli animali) sono capaci di modificare il lo-
ro ambiente naturale proprio attraverso quelle relazioni che intrattengono con la
natura e con le altre persone. Gli esseri umani hanno addomesticato piante e ani-
mali, hanno sviluppato l’agricoltura e la zootecnia e così facendo sono entrati in un
nuovo stadio di sviluppo sociale. Questa linea di pensiero non è solo caratteristica
di Marx. Molti credono che lo sviluppo dell’agricoltura e della zootecnia le rese più
utili della caccia e della raccolta nel creare le condizioni per la produzione regolare
di un surplus, che rese possibile la comparsa di classi o caste specializzate nelle fun-
“SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME...” 139
zioni politiche o religiose (e che non dovevano produrre i loro mezzi materiali di so-
pravvivenza). Tutto ciò, dal loro punto di vista, fu l’origine dei regni e degli stati.
Il “marxismo” postula quindi che lo sviluppo delle forze materiali e intellettuali
di produzione implichi una serie di conseguenze per l’organizzazione della società.
Questa ipotesi non è priva di verità, ma vi è un’enorme riserva: le forze produttive
non si sono mai sviluppate in isolamento, l’economia non è guidata solo da ragioni
e forze economiche. Marx questo lo sapeva. La sua teoria oscilla fra due ipotesi. L’ipotesi del
Un’ipotesi è che la comparsa di nuove forze produttive ha dato origine a nuovi primato delle
rapporti di produzione, che a loro volta hanno influenzato le corrispettive sovra- infrastrutture
strutture (sistemi di parentela, strutture politiche e religiose, forme artistiche, ecc.).
Questo è Marx rivisto da Althusser. Le infrastrutture determinano le sovrastrutture
e le ideologie, che sono le sovrastrutture delle sovrastrutture. Qui le idee sono dav-
vero le ombre sulle pareti della caverna.
Ma vi è una seconda versione di Marx, che inizia con il rifiuto, da parte sua, del-
l’idea che le forze produttive si sviluppino da sole. Egli, al contrario, postula che
queste si sviluppino solo all’interno e sotto la spinta di rapporti di produzione dati.
Questa volta sono le relazioni sociali che attorniano la produzione e non le forze
produttive a essere il punto di partenza per le trasformazioni sociali.
Sorge quindi un problema seguendo entrambe le ipotesi. Solo nelle società capi- Il primato delle
taliste i rapporti di produzione (all’interno di aziende o nell’ambito del mercato) so- relazioni sociali
no completamente separati dalle relazioni politiche e religiose. Nelle società non ca-
pitaliste le relazioni che organizzano la produzione sono inserite e costituiscono le
funzioni e gli aspetti di quelle che noi chiamiamo relazioni di parentela (come fra
gli aborigeni australiani) o relazioni politiche o religiose (come nei regni dell’Africa
o negli antichi imperi pre-colombiani).
L’intera teoria di Marx in questo caso rischia di vacillare, perché vorrebbe dire
che sono la parentela o la religione a strutturare le forme sociali di produzione e a Problemi della
teoria marxiana
imporre alle forze produttive un certo tipo e ritmo di sviluppo. Inoltre, più nume-
rosi sono i fattori non economici che incidono sulla configurazione del modo in cui
una società divide il lavoro fra i sessi, le caste, gli ordini, meno questa divisione cor-
risponderà direttamente a un livello dato di forze produttive, e minore sarà la possi-
bilità che l’ipotesi di Marx – che esistano “leggi di corrispondenza” fra le forze pro-
duttive e i rapporti di produzione – sia vera.
Questo slittamento di prospettiva prova che la metafora infrastruttura/sovrastrut-
ture/ideologie non funziona e deve essere eliminata. Una società non ha un sopra e un
sotto. Quando parliamo di prime o ultime cause, vogliamo soltanto intendere che
un’attività umana pesa più o meno delle altre nel processo di produzione e riprodu-
zione della società, non che è la causa prima o la causa finale della sua esistenza.
Dobbiamo ancora considerare con attenzione alcune delle altre idee di Marx
che hanno causato non pochi dubbi e discussioni. Ad esempio Marx pensava che le
relazioni materiali che le persone intrattengono fra di loro sono anche relazioni di
potere. Chiunque controlli l’accesso delle persone ai mezzi di sussistenza e ai mezzi
per produrre ricchezza, ha potere su queste e le subordina a se stesso. Questa è una
verità fin troppo evidente. Il problema coinvolge le condizioni che governano la ri-
cezione di questa diseguaglianza di accesso alle fonti di sussistenza e ricchezza.
Questa diseguaglianza d’accesso è considerata legittima (o no) da quelli che ne be-
neficiano così come da quelli che sono ad essa assoggettati?
La questione fondamentale qui è: quali sono i ruoli che la violenza e il consenso Violenza,
rispettivamente giocano nella genesi e nella perpetuazione delle diseguaglianze so- consenso e
ciali? A questa domanda Marx risponde con la famosa affermazione “in una società diseguaglianza
140 MAURICE GODELIER
classista le idee dominanti sono quelle della classe dominante”. Aggiunge inoltre
che queste ideologie sono accettate dai più miseri perché spacciano le relazioni di
sfruttamento come condizioni per raggiungere un illusorio “bene comune” e per-
ché tacciono su un’intera parte della realtà. Per Marx le funzioni dell’ideologia, al
contrario di quelle della conoscenza scientifica, sono di mascherare la realtà e di
creare un silenzio nella coscienza. (Freud avrebbe insistito sulle stesse idee in un al-
L’ideologia come tro ambito, portando alla luce la sublimazione del desiderio, la rimozione del signi-
inganno ficato e la censura del corpo o dei pensieri consci). L’ordine non dipende solo dalla
repressione, ma dal silenzio e dall’inganno.
Niente di tutto ciò risolve il problema di come e per quale ragione le rappresen-
tazioni siano condivise da classi, caste e sessi che hanno interessi opposti. Proprio
questa condivisione, insieme con la violenza diretta riversata sui gruppi dominati, è
la fonte del loro consenso volontario (anche quando è passivo) all’ordine sociale
che li domina. Affinché questo consenso esista, le relazioni diseguali (che contengo-
Le relazioni di no forme di dominazione od oppressione) devono in un modo o nell’altro – attra-
dominio come verso qualche misterioso processo che dobbiamo ancora analizzare – presentarsi co-
relazioni di
scambio
me scambio reciproco di servizi. L’esercizio del potere deve infine essere visto come
un servizio fornito dal gruppo dominante a quelli che domina, e deve far sentire
questi ultimi debitori per questi servizi e legati a ripagare il debito donando la loro
ricchezza, il loro lavoro, i loro servizi, le loro vite. Da questo punto di vista è possi-
bile mostrare come, in India ad esempio, la religione funzioni come una relazione di
dominazione e produzione. Poiché la casta dei bramini, grazie alla sua purezza,
sembra essere l’unica casta in grado di compiere i riti religiosi e di offrire i sacrifici
adatti, si considera che questa adempia a un servizio insostituibile per le altre caste.
Ciò a sua volta autorizza i bramini a prendere come dono il lavoro e i servizi delle
altre caste. Questo monopolio d’accesso a quelle che consideriamo realtà immagi-
narie e condizioni immaginarie di riproduzione dell’universo e della società consoli-
da la disuguaglianza d’accesso alle condizioni materiali dell’esistenza, alla terra, al
lavoro, alla ricchezza.
Dove collocarsi dunque, ora che siamo arrivati al termine del nostro tentativo di
districare i vari approcci teorici, ognuno dei quali contiene elementi di verità ma
solleva domande per le quali, a causa delle loro ipotesi fondamentali, non sono cer-
ti di avere una risposta?
Una prospettiva A livello teorico sembra corretto dire che non vi è diretta corrispondenza fra un
aperta sulla dato modo di produzione e una particolare regola di discendenza o un sistema pa-
parentela rentale. Questo era già evidente prima di Murdock o Meyer Fortes. Allo stesso tem-
po nessuno ha ancora spiegato perché così tanti sistemi diversi di parentela – patrili-
neare, matrilineare, cognatici, ecc. – siano sparsi sulla faccia della terra. Il conflitto
fra coloro che si sono concentrati sui legami di discendenza (Fortes, Goody, ecc.) e
coloro che si sono concentrati sul matrimonio o sui legami di affinità (Lévi-Strauss,
Dumont, Needham e un esponente più cauto, Leach) come fondamentali per stabili-
re legami di parentela, è stato di grande aiuto per agevolare la nostra comprensione
della materia.
accettare l’idea che alcune regole di discendenza (che favoriscono alcune linee di fi- Meyer Fortes:
discendenza e
liazione a sfavore o con l’esclusione di altre) operano insieme ad altre relazioni so- strutture di
ciali come le relazioni politiche. In questo caso il modo in cui le discendenze sono potere
organizzate può essere posto in relazione con le strutture di potere. Ma pur avendo
proposto l’idea e stimolato una seria ricerca sui sistemi politici dell’Africa, Fortes
non fu in grado di spiegare le ragioni della diversità dei sistemi africani (che anda-
vano da tribù acefale, senza capi, a domini e regni).
Né si sbagliava Lévi-Strauss affermando che le regole matrimoniali siano una
parte intrinseca della logica della parentela – sono molto di più di un elemento se-
Lévi-Strauss:
condario aggiunto, utile solo per la riproduzione di gruppi di discendenza. A que- l’incesto e le
sto punto la questione dell’incesto viene alla ribalta. L’esistenza di questa proibizio- regole
ne è ciò che rende le alleanze fra i gruppi di parentela una condizione necessaria e matrimoniali
permanente per la loro riproduzione. Ma è necessario accettare la sua affermazione
che il tabù dell’incesto è all’origine dell’“autentica” società umana e la fonte della
cultura? Questo non attribuisce erroneamente agli uomini l’“invenzione” della so-
cietà? Noi non abbiamo dovuto inventare la società. Siamo animali sociali per natu-
ra, e l’evoluzione naturale ci ha resi così. L’uomo però è l’unico animale che abbia la
capacità di modificare le sue condizioni originarie di esistenza, di produrre nuove
forme di esistenza sociale. Questa è una capacità probabilmente dovuta alla gran-
dezza del cervello dell’uomo (che gli rende possibile comprendere le relazioni fra
relazioni) e alla sua posizione eretta (che rende libere le mani e concede una capaci-
tà eccezionale di agire sull’ambiente che lo circonda).
Ma Lévi-Strauss avanzò un’altra idea che oggi appare inaccettabile. Dire che il
matrimonio è uno scambio è vero. Ma affermare che questo scambio deve sempre Il matrimonio
come scambio
prendere la forma di uno scambio di donne fatto da uomini vuol dire considerare la di donne
dominazione maschile come un fatto di natura, un presupposto transculturale e
trans-storico delle relazioni parentali. Ciò non significa dire che la dominazione ma-
schile non esista. Ma tutto quello che può essere dedotto dall’analisi dei sistemi pa-
rentali è che, quando la dominazione maschile esiste (e può esistere per molte ra-
gioni che non hanno nulla a che fare con la parentela), si fa largo nelle relazioni pa-
rentali e le usa per la propria riproduzione. Nelle nostre attuali società occidentali,
il matrimonio non si presenta come uno scambio di donne fra uomini ma come uno
scambio fra famiglie di uomini e donne. Il matrimonio in quanto tale non presup-
pone una dominazione maschile anche se questa pervade le nostre società.
parentela appaiono come sistemi di supporto – sono dei canali per trasmettere da
una generazione all’altra titoli politici e/o diritti sulla terra e/o compiti religiosi. Le
relazioni sociali, politiche, economiche e religiose subiscono continuamente delle
metamorfosi, facendosi largo nel funzionamento dei sistemi di parentela dove di-
ventano attributi, aspetti di alcune relazioni di parentela.
L’imposizione di una regola di discendenza sottomette le relazioni di filiazione a
Teorie “native” manipolazioni che hanno l’effetto di sottovalutare alcune relazioni perché sopravva-
sull’eredità
lutano altre. Questo è quello che è alla base delle teorie “native” che riguardano il
corpo e le rappresentazioni di ciò che ogni bambino o bambina riceve da sua madre
o suo padre (sangue, ossa, carne, sperma, ecc.). È il meccanismo per l’appropriazio-
ne di bambini da parte degli adulti (che affermano di essere in una certa relazione
parentale con essi) che viene legittimato.
La recente ricerca sulla parentela e sulle rappresentazioni dell’individuo presso
varie culture ha mostrato che il sesso agisce come il pupazzo del ventriloquo, ossia
che sin dall’inizio la cultura e la società impongono al genere sessuale di funzionare
come un linguaggio – di legittimare aspetti della realtà che non hanno direttamente
nulla a che fare con i sessi e con la riproduzione sessuale. In tutte le società studiate
i corpi erano utilizzati non solo per testimoniare, ma anche per testimoniare a favo-
re o contro l’ordine esistente.
Ma né la parentela, né la sessualità spiegano questo ordine. Il fatto che un siste-
ma di parentela sia cognatico piuttosto che patrilineare non spiega e non getta luce
sulla ragione per cui i titoli che vengono trasmessi attraverso la parentela da una ge-
Il ridotto potere nerazione all’altra siano titoli feudali. Né tantomeno la parentela spiega la ragione
esplicativo della per cui la proprietà ereditata dai discendenti di una persona prenda la forma di una
parentela
proprietà privata o di una proprietà feudale della terra. Non vi è quindi una diretta
connessione in forma di una corrispondenza necessaria, in nessuna società, fra la
natura delle relazioni di parentela, da un lato, e la natura delle forme di proprietà e
potere dall’altro. Però esse si compenetrano l’un l’altra. Un’analisi simile può essere
applicata alla religione e potrebbe mostrare che il cristianesimo, i cui dogmi origi-
nari si cristallizzarono più di duemila anni fa in Medio Oriente, in seguito si unì al-
lo sviluppo del feudalesimo e del capitalismo, nessuno dei quali ha avuto la benché
minima connessione con le origini dei dogmi della religione cristiana.
Marx occupa un posto importante in questa visione. Ma la sua ipotesi che la sfe-
ra economica costituisca il fondamento generale della vita sociale – che è l’infra-
struttura sulla quale tutte le altre relazioni sociali sono costruite e dalla quale pro-
vengono – è invalidata da quella che ora può essere esibita come prova: che non esi-
ste una corrispondenza necessaria fra questo nucleo, le sfere economica e politica, e
gli altri aspetti della pratica sociale.
logia è all’avanguardia tra le discipline che esplorano questa area. Dietro la que-
stione delle relazioni fra i sessi si affacciano il problema delle relazioni intergenera-
zionali, delle relazioni fra adulti e giovani, e tutti i problemi che accompagnano i
cambiamenti negli atteggiamenti generazionali, cambiamenti che chiamano in cau-
sa i sistemi educativi.
Su un piano più astratto l’antropologia è favorita anche fra le discipline in grado
I meccanismi di analizzare i meccanismi e le caratteristiche fondamentali della “fede”. Il fatto di
della fede condividere le stesse rappresentazioni, di credere nelle stesse idee quando si è sepa-
rati da interessi opposti, rimane un problema fondamentale all’interno dei compor-
tamenti umani, e rappresenta un punto di particolare difficoltà per la teoria. Quali
furono le circostanze relative alla morte delle divinità greche: cessarono di essere
oggetto di fede e culto attivo? Non siamo ancora andati molto lontano nella ricerca
della scatola nera che contiene i meccanismi della fede, e non sappiamo ancora la
ragione e il modo in cui una certa fede o pratica venga associata a un dato simbolo.
I simboli non sono semplicemente ornamenti derivati da alcune pratiche e rappre-
sentazioni. Sono una delle componenti interne, una parte intima, attraverso la quale
la fede e le pratiche prendono vita.
Ma risulterà evidente, a questo punto, che, se deve affrontare tutti questi pro-
blemi, l’antropologia non può essere governata da una dottrina singola. È giunto il
Una funzionalità momento di optare per un razionale pragmatismo radicato in una sorveglianza criti-
di dottrine ca permanente, che non smetta mai di imparare – imparare dal nostro passato, dal-
le nostre origini e dalla nostra evoluzione. Non tutti gli studi, tutte le teorie, tutte le
posizioni antropologiche sono uguali. Quelle che hanno dimostrato la loro utilità –
come il lavoro di Lévi-Strauss, Leach, Firth, Rivers ad esempio – devono avere il
giusto credito. Dobbiamo costruire su quello che abbiamo preso da loro per conti-
nuare la nostra strada comune e controversa.
1 La metafora, o associazione per analogia, avviene ad esempio quando la bellezza di un fiore viene paragonata alla
bellezza di una donna. La metonimia, o associazione per connessione fisica, avviene quando una corona è associata con
una regina, perché la regina generalmente indossa la corona (NdC).
Biografia intellettuale
Quando iniziai i miei studi a Lille nel 1951 non avevo idea che un giorno sarei
diventato un antropologo. La mia passione era la filosofia ma ero anche interessato
alla psicologia. Nel 1952 Michel Foucault, fresco di Ecole Normale Supérieure e con
la sua agrégation de philosophie, venne a Lille come professore di filosofia e psicolo-
gia. Diventammo amici e fu lui a consigliarmi di andare a Parigi a continuare i miei
studi.
Entrai alla Ecole Normale Supérieure nel 1955 e iniziai a lavorare sulla logica in
Husserl, Kant e Hegel, quindi mi misi a leggere il Capitale di Marx da cima a fondo.
Nel 1958 passai l’agrégation de philosophie. In quel periodo imperversava il dibatti-
to intorno alla morte della filosofia, che secondo molti non avrebbe potuto resistere
allo sviluppo delle scienze e ai cambiamenti rivoluzionari che avvenivano nella so-
cietà. Io ero convinto che ciò con cui bisognava farla finita era la presunzione che la
filosofia da sola potesse scoprire i fondamenti delle scienze e della pratica sociale.
Arrivai alla conclusione che mi occorreva più della filosofia per filosofare su tutto, e
decisi di continuare i miei studi. Ero indeciso fra medicina ed economia, ma a cau-
sa del mio interesse per Marx e per la mia attività politica, scelsi economia.
Nel 1960 lo storico Fernand Braudel mi introdusse alla Ecole Pratique des Hautes
Études, della quale era presidente. Era una grande opportunità per me. Braudel mi
concesse due anni di completa libertà per fare ciò che volevo e io lessi moltissimo.
In fondo tre domande mi affascinavano: in quali condizioni i sistemi economici
possono essere “comparati”? Cosa spiega la loro comparsa e scomparsa in alcuni
momenti della storia? Fino a che punto la concezione occidentale di “razionalità
economica” può essere usata nel comparare sistemi socioeconomici? L’ultima do-
manda sembrava essere al centro di discussioni violente che scoppiavano fra gli eco-
nomisti ogni volta che qualcuno voleva dimostrare la superiorità del capitalismo e
dell’economia di mercato sul socialismo e l’economia pianificata, o viceversa. Men-
tre ero alla ricerca di risposte a queste domande, mi volsi all’antropologia. Mi sem-
brava che sarebbe stato più produttivo studiare i sistemi economici nelle società vi-
venti contemporanee organizzate secondo logiche sociali e culturali completamente
differenti dai nostri modelli occidentali.
A questo punto mi si presentò una seconda opportunità. Avendo già pubblicato
tre articoli sul concetto di “struttura” nel Capitale di Marx, li mandai a Lévi-
Strauss, che non conoscevo personalmente. Mi rispose con un biglietto, dicendomi
che questi testi lo interessavano, tanto più che, durante la sua giovinezza, prima del-
la sua agrégation de philosophie, aveva scritto un saggio su La struttura logica del Ca-
pitale di Marx. Mi invitò anche ad andarlo a trovare, e quando gli dissi che volevo
occuparmi di antropologia, mi suggerì di unirmi a lui al Collège de France.
Nel 1962 Il Pensiero selvaggio era stato appena pubblicato, e in questo testo Lé-
vi-Strauss aveva adottato la posizione di Marx il quale riteneva che le infrastrutture
prevalgano sulle sovrastrutture, presentandosi come specialista delle sovrastrutture.
Un giorno, scherzando, mi suggerì di dedicarmi alle infrastrutture e ricercare tutto
il materiale antropologico sull’economia delle società primitive. Nel 1963 fui nomi-
nato Senior Lecturer del dipartimento e organizzai il primo corso in Francia di an-
tropologia economica. In quel periodo l’unico studioso francese a lavorare in quel-
l’area era Claude Meillassoux, che aveva studiato con George Balandier. Vi era un
vivace dibattito fra sostantivisti (Polanyi e i suoi seguaci) e formalisti (Firth, Schnei-
der, ecc.). Mi sembrava che la discussione portasse nella direzione sbagliata. Sentivo
146 MAURICE GODELIER
cora una volta la storia inizia con il mio lavoro sui baruya. La sensazione che ci de-
ve essere qualche connessione fra l’esistenza di un sistema di parentela basato sullo
scambio diretto di donne e l’esistenza di una organizzazione politica e simbolica –
le iniziazioni maschili – che uniscono gli uomini contro le donne mi spingeva a
comparare i sistemi di parentela trovati all’interno della Nuova Guinea, prima di
tutto, e poi ancora più lontano. Negli ultimi tre anni ho esaminato numerosi lavori
sulla parentela con l’intenzione, un giorno, di scrivere qualcosa su “Incesto, paren-
tela e potere”, e devo ammettere che trovo molte delle teorie più ampiamente
discusse poco convincenti.
I futuri dell’antropologia
Adam Kuper
Cosa possiamo aspettarci dall’antropologia degli anni Novanta? Penso che l’og-
gi sarà come il passato, poiché gli elementi costitutivi dell’antropologia sono rimasti
stabili per tutto il ventesimo secolo. Allo stesso tempo, le tendenze che condurran-
no ad alcuni cambiamenti di direzione e di enfasi sono già evidenti.
destra e una sinistra, una più interessata alle costrizioni biologiche, l’altra più alla
tecnologia e all’ambiente). Nonostante ciò, è giusto dire che la maggior parte degli
antropologi, nella gran parte dei dipartimenti di antropologia americani, ha lavora-
to all’interno di uno di questi due programmi abbozzati e, tendenzialmente, rifiuta-
to l’altro.
Non ci sono solo differenze intellettuali fra questi programmi. Oguno di loro ha
ricevuto fondi da diverse istituzioni e i dipartimenti di antropologia si sono spesso
divisi politicamente fra i sostenitori di una o dell’altra traiettoria di ricerca.
Il terzo programma – caratteristico dell’antropologia sociale in Europa occiden-
tale – tende a seguire Durkheim (nonostante abbia accettato letture di Weber e
Marx). Questo programma è interessato alla relazione fra la struttura sociale e ciò
Il programma
dell’antropologia che viene variamente etichettato come cultura, religione o ideologia. Se il program-
sociale ma boasiano è a suo agio fra le scienze umanistiche e il programma evoluzionista
aspira a essere accettato dalle scienze naturali, allora l’antropologia sociale è una
scienza sociale, strettamente legata alla sociologia. Fra le due guerre mondiali il suo
centro era in Inghilterra, ma le sue più recenti trasformazioni sono avvenute a Pari-
gi. Queste comprendono lo strutturalismo di Lévi-Strauss negli anni Sessanta e il
marxismo strutturalista negli anni Settanta, eppure la tradizione è stata straordina-
riamente risparmiata da altri movimenti parigini riguardanti la filosofia e la teoria
letteraria, movimenti che hanno influenzato l’antropologia culturale contemporanea
americana. Oggi l’antropologia sociale si ispira a idee provenienti dalle sociologie
di Bourdieu, Habermas e Giddens, e dalla storia strutturale che la scuola degli «An-
nales» ha sviluppato da Durkheim.
Questo programma ha una posizione virtualmente monopolistica nell’antropo-
logia sociale europea; l’antropologia sociale in Europa sta iniziando una fase di cre-
scita istituzionale e demografica, specialmente nei paesi di lingua tedesca e in Spa-
gna e Portogallo. È stata fondata una nuova “European Association of Social Anth-
ropologists” e le sue prime conferenze, tenute in Portogallo nel 1990 e a Praga nel
1992, hanno dato prova di una fresca vitalità. Gli europei occidentali sono ora più
aperti a influenze provenienti dall’antropologia culturale americana di quanto lo
fossero in passato e alcuni recenti lavori di antropologia culturale americana sono
stati emulati in Europa (come testimoniano il numero di dicembre 1989 de «L’-
Homme» e le recenti conferenze della “British Association of Social Anthropo-
logy”). Negli Stati Uniti, comunque, l’antropologia sociale rimane un interesse mi-
noritario, sebbene abbia alcuni avamposti ben evidenti. In Europa l’antropologia
sociale ha poca o nessuna relazione con l’antropologia fisica e solo un legame remo-
to e occasionale con l’archeologia. Queste discipline tendono a prendere spunto da-
gli sviluppi che emergono negli Sati Uniti.
I tre progammi di ricerca sono ben definiti, attuabili, dinamici e istituzional-
Le tradizioni di
mente radicati. Saranno certo tutti al loro posto nella prossima generazione. Que-
studio sto non vuol dire però che le discipline accademiche siano immortali, sebbene sia-
minoritarie no indubbiamente forti. All’interno dell’antropologia le tradizioni europee di et-
nologia intrecciate agli studi di folklore sono oggi così deboli da non poter proba-
bilmente sopravvivere. Sono state spinte in una periferia non accademica nella
maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e nell’Europa orientale, dove era-
no più presenti, saranno probabilmente fra le vittime che passeranno inosservate
nell’attuale riorientamento politico. Al contrario, la vitalità delle tre tradizioni de-
scritte è molto evidente. Un sintomo è la loro capacità di produrre delle trasfor-
mazioni nuove, spesso inaspettate e a volte affascinanti sulla scorta dei loro pro-
grammi di base.
I FUTURI DELL’ANTROPOLOGIA 151
viaggio per condurre uno studio sulle associazioni di trivellatori. Il progetto è per-
fettamente ragionevole e realizzabile perché ora si conosce molto della vita rurale in
Botswana. Probabilmente numerosi altri scienziati sociali sono impegnati in ricer-
che che ora si sovrappongono una sull’altra. Avranno contatti con gli ufficiali presso
il Ministry of Local Government a Gaborone e forse con i funzionari della Banca
Mondiale che potrebbero finanziare progetti riguardanti risorse idriche o vendita
del bestiame, o le conseguenze ecologiche della pastorizia.
Non voglio esagerare il contrasto: Malinowski diceva ai suoi studenti di studiare
La tendenza alla i problemi, non le popolazioni (parafrasando il monito di Collingwood agli storici,
specializzazione che dovevano studiare i problemi, non i periodi). Ma se invece di contrapporre due
estremi esagerandoli, io suggerissi che c’è stata una chiara tendenza di sviluppo, ci
sarebbe ben poco da ribattere. La tendenza è stata verso un lavoro sul campo più
specializzato e un’ampiezza di trattazione etnografica più complessa e dettagliata.
In breve, l’etnografia sta diventando sempre più diffusa e approfondita.
Ci sono molte consequenze importanti. Ne menzionerò due. Prima di tutto ogni
etnografo contemporaneo deve controllare padroneggiare una intera biblioteca di
fonti secondarie e tenersi aggiornato rispetto ad un flusso di studi locali rilevanti –
condotti da antropologi, ma anche da linguisti, storici, studiosi della religione, demo-
Il lavoro grafi, economisti e geografi. In secondo luogo non è più necessario per l’etnografo
dell’etnografo rivolgersi ad un pubblico accademico metropolitano e formulare un argomento teo-
oggi: molte fonti,
un nuovo rico generale. I lettori dell’etnografo sono sempre di più persone con una competen-
pubblico locale za locale. Potrebbero essere perfettamente soddisfatti di un testo di critica etonogra-
fica sull’interpretazione eccessivamente letteraria e orientata verso i bramini di qual-
che culto popolare Hindu. O potrebbero apprezzare una descrizione dei modi in cui
una popolazione dedita alla pastorizia ha reagito alla deviazione di un fiume messa in
atto per alimentare un bacino d’acqua. E poiché l’etnografo si rivolge a lettori locali,
deve tenerne in considerazione le sensibilità politiche e culturali.
Queste forse sono tutte tendenze sufficientemente familiari, ma vale la pena di
considerare alcune implicazioni per lo sviluppo dell’antropologia sociale e cultura-
le. La comparazione non è più l’interesse centrale di molti antropologi che lavorano
sul campo, e in ogni caso, l’impresa comparativa – che io credo sia il nucleo dell’an-
tropologia teorica – sta cambiando la sua natura. Oggi le comparazioni più interes-
santi e acute sono regionali come campo d’azione e storiche come concezione. Ci
sono buone ragioni teoriche per questo, ma derivano anche dall’intensa ricerca et-
nografica caratteristica del nostro tempo.
A causa di queste tendenze alcuni dei dipartimenti più avanzati delle università
del Terzo Mondo diventeranno i centri per tale comparazione regionale di ispirazio-
ne teorica, come Leiden una volta lo era per gli studi indonesiani, od Oxford per gli
studi sul Sudan. Il vecchio Rhodes-Livingstone Institute sotto la guida di Max Gluck-
man o l’East African Institute of Social Research sotto la guida di Audrey Richards
forse prefiguravano alcuni dei centri antropologici della prossima generazione.
Ricerca interdisciplinare
In questi sviluppi è implicita un’altra grande questione, vale a dire la relazione
Interdisciplinarietà fra le nuove direzioni prese dalla nostra disciplina e quelle prese dalle altre discipli-
e innovazioni ne. Gli antropologi sociali e culturali al di fuori dei centri metropolitani danno per
teoriche scontato il fatto di lavorare in un ambiente interdisciplinare. Dopo tutto essi sono
interessati soprattutto alla regione. Consumano tutte le informazioni che possono
trovare su essa e si impegnano in continue discussioni con altri che condividono i
loro interessi. Nonostante ciò le innovazioni teoriche continueranno ad arrivare so-
I FUTURI DELL’ANTROPOLOGIA 153
prattutto dai centri metropolitani, proprio a causa del loro orientamento meno re-
gionale e più generale, ma anche perché è qui che i nuovi sviluppi tendono ad avve-
nire nelle altre discipline e diventano quindi disponibili agli antropologi.
Una predizione sicura è che la maggior parte delle innovazioni teoriche della
prossima generazione sarà interdisciplinare, ma la fonte degli stimoli esterni negli
anni a venire sarà difficile da prevedere. Nell’ultimo quarto di secolo abbiamo
tratto modelli e idee dalla sociologia, storiografia, linguistica, filosofia, teoria let-
teraria, ecologia e sociobiologia. Ho stranamente omesso la psicologia cognitiva
perché le sue vivaci promesse stanno iniziando a essere sfruttate solo ora dagli an-
tropologi.
Biografia intellettuale
Ogni antropologo sociale è educato per lavorare sia come etnografo che come
teorico comparativista o sociale. Sembra che stia cercando di giustificare me stesso
su entrambi i fronti, ma forse attraverso progetti non troppo convenzionali. Il mio
lavoro ha due centri d’interesse primari: uno è costituito dall’etnografia comparati-
va dell’Africa del Sud; l’altro è costituito dalla storia e dalla teoria dell’antropologia
sociale. La mia ricerca attuale riguarda i sistemi politici precedenti alla conquista.
Tendo a passare regolarmente da un insieme di progetti all’altro dopo un po’ di an-
ni, ma questo non è un ritmo pianificato, e ne sono consapevole solo quando mi
guardo indietro verso quello che è accaduto realmente.
Sebbene il mio periodo più intenso di formazione si sia svolto a Cambridge, sot-
to la guida di Meyer Fortes, la maggiore influenza intellettuale sul mio lavoro è sta-
ta esercitata dai lavori di Lévi-Strauss. Dirigere «Current Anthropology» ha amplia-
to i miei orizzonti intellettuali e mi ha messo in contatto con antropologi di tutto il
mondo. Più recentemente, comunque, sono stato catturato dal risveglio dell’antro-
pologia sociale europea.
Alcune notazioni preconcette sull’antropologia interpretativa: un punto di
vista dal Brasile
Roberto DaMatta
Vorrei discutere alcuni aspetti della prospettiva “interpretativa” che si sono svi-
luppati recentemente nell’antropologia culturale americana. Non intendo scrivere
uno studio dettagliato ed esaustivo, né voglio formulare una tesi contro un movi-
mento che ha molti punti sui quali concordo e che tendo ad accettare. Gli antropo-
logi brasiliani hanno sempre lavorato in ambienti politici fortemente autoritari e
hanno scritto i primi studi sulle “situazioni di contatto”, caratteristiche delle società
tribali oggetto delle loro etnografie, che erano sull’orlo dell’estinzione, non soltanto
culturale, ma anche e tragicamente fisica. Penso che per questi antropologi non sa-
rebbero una sorpresa le affermazioni che: 1) il mondo si sta restringendo; 2) si fa
della retorica ogni volta che si parla dell’“altro”, che si parla di coloro che vengono
studiati dagli antropologi; 3) l’“autorità etnografica” deve essere continuamente sfi-
data e sottoposta a verifica1.
Tenterò di presentare la mia opinione su una prospettiva che, dal mio punto di
Alcuni limiti vista, possiede dei difetti molto seri. Mi riferisco al fatto che l’“antropologia inter-
dell’antropologia pretativa” americana, oltre a scivolare in astratti argomenti filosofici, tende all’esa-
interpretativa gerazione programmatica e retorica, cadendo a volte in quello che si può definire
un’irritante rettitudine. Inoltre tende a ridurre i problemi antropologici esclusiva-
mente a narrazioni sul lavoro di campo, evitando sistematicamente una contestua-
lizzazione storica e teorica, che è stata la base delle rivendicazioni scientifiche e
umanistiche dell’antropologia2.
Il punto centrale è che discutendo questioni di questo tipo emergono due pro-
blemi fondamentali. Il primo è che le basi dell’autorità etnografica vanno oltre un
semplice fatto di stile. Sono legate al successo con cui gli studi etnografici presenta-
no, risolvono o sciupano una questione teorica nel periodo durante il quale è stato
scritto il lavoro. Il secondo problema è che la posizione interpretativa deve essere
appresa e giudicata in riferimento a un contesto particolare – vale a dire, all’interno
dei confini di un universo sociale in cui la vita accademica (e sto pensando natural-
mente alla vita accademica americana) ha alcune caratteristiche. Una di queste ca-
ratteristiche è la sua estrema compartimentazione; un’altra è la sua grandezza e la
sua enorme sicurezza politica e istituzionale; una terza è la sua ferma convinzione
Le caratteristiche
dell’accademia che il mondo stia subendo una frammentazione verso l’individualismo (con una
americana “cosmopolitizzazione” di ogni cosa e ogni persona, nella quale la scelta individuale
gioca un ruolo fondamentale). Nessuno ha riassunto ciò meglio di James Clifford
(1986, 1988), il leader intellettuale di questa posizione. Per Clifford – professore al-
la cosmopolita e fiorente Università californiana di Santa Cruz – il mondo è un luo-
go in cui “i frutti puri impazziscono”.
Io credo che molto dell’“antropologia interpretativa” abbia una correlazione
diretta con il panorama culturale e accademico americano – un universo costituito
da un individualismo egualitario e cosmopolita, dove si può mangiare “cibo” cine-
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 157
se, messicano o francese, e dove si vive in un contesto sociale caratterizzato dal fat-
to che la cultura locale viene definita negativamente e attraverso la sua paradossale
assenza3.
Si può sviluppare, credo, un’interessante discussione intorno alla posizione “in-
terpretativa” basandosi sull’osservazione delle proprietà ideologiche e/o culturali
del movimento, specialmente quando si hanno a mente i tipi di antropologia con-
trastanti prodotti in Brasile. Senza questo sforzo di valutazione reciproca e comune,
la nostra critica verrà sempre fatta in termini di presupposizioni universalistiche.
Quello che dovrebbe essere un dialogo “dialogico” e polisemico diventa ancora una
volta un monologo autoritario.
ficherebbe tracciare una caricatura troppo semplicistica del discorso etnografico, Le ragioni della
perdendo di vista il fatto che tali narrazioni iniziano e finiscono con un insieme di retorica
quesiti posti prima di intraprendere il lavoro sul campo. Negli esempi usati prece- etnografica
brasiliana
dentemente, Cardoso de Oliveira, Schaden e Ribeiro hanno tutti formulato le loro
riflessioni sul problema del “contatto culturale” – un argomento centrale per l’an-
tropologia brasiliana. Questo colma la distanza fra la diversità locale delle culture
native e la rappresentazione della nazione come totalità dominante. Tocca inoltre la
questione classica dell’identità nazionale, un problema centrale per un paese, come
il Brasile, che si autodefinisce “mestizo”6. Ogni tentativo di produrre un testo meno
formale, pomposo e impersonale potrebbe correre il rischio di essere attaccato in
quanto narrazione falsa e fantasiosa.
Prima di screditare categoricamente (e universalisticamente) il “realismo et-
nografico” occorre comprendere i contesti storici e culturali nei quali viene pro- L’uso del “noi”
dotto. Nel caso brasiliano quello che emerge come formalismo monologico può come strumento
politico
essere inteso in quanto parte di uno stile culturale ben noto, in cui esprimersi
con un “io” individualizzante era (ed è ancora) spesso visto come un segno di
immodestia, egocentrismo e cattivo gusto. Inoltre l’uso di un “noi” solenne e
formale, che fonde l’autore e la disciplina, vale anche – attraverso la combinazio-
ne ambivalente di autorità e modestia – da potente strumento per richiamare
l’attenzione delle élite governative in un contesto pubblico segnato dalla gerar-
chia, dal centralismo corporativista e dall’assenza di una rappresentazione egua-
litaria democratica.
In conclusione, quindi, una comparazione con altri approcci culturali, come
quelli delle cosiddette “antropologie periferiche” nelle quali l’individualismo non
è il valore dominante, mostra che né l’uso della prima persona, né un “dialogi-
smo” ispirato all’individualismo può essere preso come un segno sicuro di un’an-
tropologia nuova e libera dai pregiudizi. In tal modo, per raccontare un caso che
conosco molto bene, quando ho scritto il libro sugli Apinayé, l’ho scritto in prima
persona. L’ho fatto perché volevo mostrare che questo stile più individualista e
monografico di fare antropologia, nel quale ogni società è considerata come un
“caso”, in Brasile dovrebbe essere tentato con più regolarità. Quello che mi ha Il ricercatore
portato a sperimentare questo stile individualista è stata la voglia di disturbare come osservatore
l’autorità etnografica diventata abituale, ispirata da un grossolano evoluzionismo fragile
marxista che ha condotto alla produzione di narrazioni etnografiche intorpidite e
piatte7. Il mio scopo era mostrare la possibilità di costruire un testo dove il ricer-
catore si collocasse come un osservatore fragile, concreto e in carne e ossa, all’in-
terno della situazione sul campo – come un autore reale e responsabile della sua
narrazione8.
Il lettore attento noterà ancora che i discorsi e gli stili possono avere diverso va- Relatività
lore in diverse situazioni culturali e storiche. Quello che sembra ortodosso e persi- degli stili
no “autoritario” agli antropologi interpretativi americani potrebbe avere una valen-
za positiva e liberatoria nell’antropologia brasiliana e in antropologie non indivi-
dualistiche di altro tipo.
l’“indiano” non è solo, poiché con la categoria “nero” formano la base di una sin-
golare e affascinante visione dell’immediata diversità umana per i brasiliani. Il
L’alterità “nero” (fondamentalmente l’ex schiavo) è un elemento, intrinseco alla struttura
brasiliana: sociale brasiliana, che ossessiona con la sua enorme presenza la “bianchezza” di
l’“indio”, uno stile di vita borghese. L’indiano è un escluso, che genera le fantasie romanti-
il “Nero” che del nobile selvaggio che deve essere isolato e protetto dai mali della civiltà,
oppure eliminato dal panorama nazionale per la sua incapacità di prendere parte
al progresso moderno.
In questo contesto, per un antropologo brasiliano, essere con gli “indiani” è
qualcosa di più di avere l’opportunità di vivere con un’altra umanità. È anche il pri-
vilegio di essere in contatto con un’alterità mitica; e così facendo avere l’onore di
superare tutti i generi di disagi per descrivere un nuovo modo di vita nel bel mezzo
Gli indiani
come alterità
della civiltà brasiliana. Così, per gli antropologi brasiliani, “essere lì” vuol dire ave-
mitica re l’opportunità di essere testimone di un modo di vita di una società diversa. Que-
sto è vero in particolar modo quando quel modo di vita corre il rischio di soccom-
bere a una situazione di contatto che è brutalmente diseguale in termini politici.
Dal mio punto di vista questa consapevolezza di testimoniare altre umanità re-
cupera il progetto umanistico dell’antropologia, e allo stesso tempo ci ricorda le se-
vere limitazioni di quel progetto. Claude Lévi-Strauss disse molte cose belle e sagge
in Tristi Tropici (1955), un libro il cui titolo sembra cercare di salvare quella nostal-
gia – quella immensa saudade luso-brasiliana – con la quale ogni antropologo parla
delle sue esperienze sul campo. Senza quella miscela multivocale di nostalgia, amo-
Tristi tropici:
autorità e fragilità re, simpatia, follia giovanile e, ultima ma non meno importante, ansia di oggettività,
del discorso nessuna monografia sarebbe mai stata scritta a proposito di nessun “altro”. Proprio
antropologico questa mescolanza di autorità e fragilità caratterizza il discorso antropologico. L’au-
torità deriva dal fatto di essere la persona che testimonia e produce il resoconto. La
fragilità viene dalla dolorosa percezione che il “presente etnografico” è un’illusione
che in pochi anni sarà corretta da un altro etnografo che, in un altro progetto di ri-
cerca, porrà delle domande diverse.
I “tropici” sono tristi davvero. Non perché Lévi-Strauss li sdegnasse del tutto,
ma perché invitano, con quelle sensazioni dubbie di intensa convivialità (che porta-
L’etnografia come no a una comprensione debole) e quella distanza formidabile (che conduce all’auto-
confessione e
romanzo
rità oggettiva) a sentimenti che, nei momenti più ottimistici, il ponte antropologico
(o per meglio dire, l’antropologia come ponte) spera di superare. Da qui deriva l’in-
tima relazione fra buona antropologia e confessione (percepita da Lévi-Strauss) e
fra buona etnografia e romanzo. Secondo me c’è da rammaricarsi del fatto che i so-
stenitori dell’antropologia interpretativa abbiano perso di vista l’aspetto testimonia-
le del lavoro sul campo, cercando di sostituirlo – secondo la moda americana – con
un’altra formula: quella dialogica, interpretata individualmente.
La pratica della Non si può dimenticare che testimoniare è una parte centrale della nostra prati-
testimonianza ca di studiosi. Soprattutto in Brasile, dove una reale tristezza tropicale giunge con il
riconoscimento che alcune delle società che studiamo con tanto affetto, sacrificio e
simpatia stanno per perire! È stato solo per questa ragione che, copiando Lévi-
Strauss, ho parlato di un “blues antropologico” associato alla ricerca sul campo
(DaMatta 1987b). Un doppio obiettivo mi ha spinto a sostenere questa posizione:
Il “blues
antropologico” cercare di registrare la malinconia che deriva dal lavorare con società che il mio
paese non riconosce come nazioni, e riflettere sullo sradicamento che io stavo su-
bendo. Può essere che tutto appartenga al passato, che oggi queste società non si
distinguano l’una dall’altra e dalla comunità brasiliana come culture distinte?
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 161
Perciò quando ci riferiamo a tikopia, tallensi, crow o nuer, non possiamo fare a
meno di citare Firth, Fortes, Lowie e Evans-Pritchard. Non soltanto scrivevano in
un inglese eccellente ed erano “esperti” di quelle realtà. I loro lavori hanno anche
creato il modo più completo o esclusivo di parlare sociologicamente di quelle uma-
nità. Se non fosse così, a nessuno occorrerebbe citare il lavoro di Curt Nimuendajú
(Nimuendajú 1939, 1946) una raccolta di pezzi etnografici che descrive collettività
mai conosciute prima.
Nimuendajú aveva una scarsa formazione antropologica precedente al lavoro sul
L’opera di
campo. E la scrittura etnografica di Nimuendajú implica uno stile etnografico tutto Nimuendajú
suo – un modo di scrivere nel quale l’interesse “dialogico” per il destino delle socie-
tà studiate va di pari passo con una descrizione distaccata e realistica nel miglior sti-
le di Malinowski. Potrebbe essere il risultato dei rapporti di lavoro fra Nimuendajú
(uno studioso senza un’affiliazione istituzionale stabile) e Robert H. Lowie (un pro-
fessore affermato e conosciuto internazionalmente, affiliato all’Università della Cali-
fornia, al già famoso Dipartimento di Antropologia di Berkeley)? Quello che i rap-
porti di lavoro fra Lowie e Nimuendajú rivelano è la prospettiva di discutere l’“etno-
grafia” come una narrazione fondamentalmente cumulativa. Senza il legame con Lo-
wie, che pose a Nimuendajú gli interrogativi in grado di aiutarlo a ordinare la realtà
che aveva visitato, Nimuendajú non sarebbe riuscito a produrre testi etnografici ve-
ramente autorevoli. Chiunque abbia studiato il lavoro di Nimuendajú sa che i suoi Il rapporto
con Lowie
studi precedenti presentavano una narrazione con seri problemi descrittivi, dovuti a
una ovvia assenza di un punto di vista, o se vogliamo, di “teoria”. Questo è in netto
contrasto con il lavoro che ha prodotto negli anni seguenti, sotto l’egida di Lowie.
Nel lavoro successivo c’è una narrazione – un testo, nell’accezione di Ricoeur (1971)
– concisa e unitaria che caratterizza la moderna scrittura etnografica.
Horace Miner e il contrario) – descrive pratiche americane come lavarsi i denti o andare dal dentista
problema della
“distanza
con la prospettiva di uno straniero che considera queste esperienze come riti magici
etnografica” (finalizzati a migliorare l’attrazione sugli altri)10. Poiché queste descrizioni distan-
ziate vengono fatte raramente, nel descrivere la nostra società tendiamo a scivolare
nell’ambito delle “interpretazioni” trasformate in un batter d’occhio in “opinioni”,
che minano la presunta autorità delle nostre descrizioni “oggettive”. Questo accade
in Brasile, dove l’autorità è per definizione sospettata e dove nessuno ha un atteg-
giamento schietto e sincero verso la “legge” e i suoi rappresentanti. Le pompose de-
scrizioni “oggettivistiche” di fatti e istituzioni ben conosciute possono, contraria-
mente alla normale e accettata aspettativa americana, condurre al ridicolo e a una
critica dilagante11.
Si potrebbe dire, richiamando una vecchia e famosa distinzione formulata da
György Lukács (1965), che quando si parla di società strane, “descriviamo”, quando
parliamo del nostro sistema “narriamo”. Questi studi inevitabilmente hanno con-
La “narrazione”
della nostra dotto a un atteggiamento critico in relazione alla cultura propria del ricercatore, fa-
cultura cendo in modo che l’idilliaca distanza fra osservatore e osservato venga spazzata
via. In questo modo, il metodo più saggio per proteggere da questi dibattiti una di-
sciplina sociale che aspiri a essere “scientifica” – dibattiti nei quali la materia della
ricerca e l’opinione del ricercatore possono intrecciarsi pericolosamente – sarebbe
Il distanziamento porre molte miglia di distanza fra i due inventando il mito del lavoro sul campo in
come scelta luoghi lontani. Non potrebbe essere per questa ragione che molti dei grandi centri
oggettivante accademici dell’Occidente tendono a evitare e a resistere agli studi sulla loro cultu-
ra12? È come se lo studio dell’“altro distante” a volte fosse una scusa per impedire
la “defamiliarizzazione” di noi stessi – per poter vedere noi stessi come esterni, in
modi insoliti. Evita un certo tipo di interrogativi politicamente radicali che spesso
pervadono le antropologie dei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”.
Il punto è che, nel classico caso di studio delle culture distanti, il risultato tende
a essere una descrizione, mentre parlando della propria cultura la tendenza è quella
di sostituire la descrizione con narrazione interpretativa che (come ha provato la
battuta di Bernard DeVoto), diventa velocemente “opinione”. Come ho rilevato an-
ni fa (DaMatta 1976b) vi è una tendenza, nell’atropologia tradizionale, a stabilire
un’associazione totemica fra il ricercatore e l’oggetto studiato. Nello stesso modo in
cui gli “scienziati naturali” battezzano con i loro nomi le specie di animali, piante e
microbi appena scoperte, ogni antropologo o antropologa ha la “sua” tribù.
problema che ogni antropologia deve affrontare: come studiare l’“altro” può condur-
re a una migliore comprensione di se stessi. Come ha notato Maurice Merleau-Ponty
(1962, p. 183), la questione non è, per l’antropologia, di
sconfiggere il primitivo, o dargli ragioni per opporsi a noi, ma invece di situare noi stessi su
un piano dove possiamo essere reciprocamente intellegibili l’uno all’altro, senza riduzione
né fragile trasposizione… Il compito... consiste nell’allargare la nostra ragione per essere in
grado di comprendere quello che, in noi e negli altri, precede e va oltre la ragione .
Nei miei studi sulla società brasiliana mi sono sempre trovato ad affrontare ver-
sioni e variazioni di fenomeni che sin dall’inizio potevano avere testi multipli. In
questo contesto vale la pena riflettere se tutti i fenomeni sociali hanno un “testo”.
La cultura come Quello che veramente sorprende nello studiare la propria società è la scoperta che
testo e i limiti ci sono pratiche sociali, istituzioni e valori virtualmente senza una forma fissata (o
della
testualizzazione un testo). In ogni società ci sono delle cose di cui si parlerà e altre che sono nasco-
ste. Queste ultime vengono classificate come tabù, mistero, segreto, dogma – quello
che non può essere detto e nemmeno pensato. Un nativo della Nuova Guinea po-
trebbe “testualizzare” la sua iniziazione segreta? Un prete potrebbe rivelare i segre-
ti di una confessione, trasformandola in una storia allettante? Un apinayé potrebbe
descrivere apertamente un caso di stregoneria? Un brasiliano potrebbe tradire un
amico, raccontandone ad altri i peccati e le paure?
1 Scrivo partendo da un atteggiamento “relativista”, con preconcetti strutturalisti, mosso da quello che ritengo es-
sere un sano scetticismo giustificato dalla mia esperienza professionale. Le mie discussioni hanno come bersaglio molti
aspetti dell’“antropologia interpretiva”, su alcuni dei quali, mi pare, non si è sufficientemente meditato. Sono anche
motivato dal fatto che ho sperimentato un vasta gamma di “antropologie”. Nei miei trenta anni di pratica antropologi-
ca ho studiato sia due società tribali (i gavies di lingua gê e gli apinayé del Brasile centrale) che il mio sistema di valori.
Ho anche sperimentato lo studio sociologico di testi letterari che ho trattato come documenti etnografici.
2 Abbiamo a che fare con una antropologia che, come ha notato Wilson Trajano Filho (1988), si è preoccupata più
come un “melting pot” (crogiolo), o come una società che possiede una molteplicità di “usanze” che sono “naturali”
e “universali”, verità chiare e ovvie. Questo è in contrasto con la ben nota procedura legale e/o civile nordamericana
che, oltre a essere locale, è applicata rigidamente e definita dall’espressione “È la legge!”. Queste procedure sono on-
nipresenti nella vita collettiva degli Stati Uniti. Si può dire che gli Stati Uniti negano di essere una “società” solo per
affermarsi come “nazione”. Come sostiene Louis Dumont, “noi stessi siamo rinviati alla nostra cultura e alla società
moderna come a una forma particolare dell’umanità, che è eccezionale per il fatto di negarsi come tale in virtù dell’uni-
versalismo che professa (si veda Dumont 1993, p. 228, cors. in originale).
4 Dal mio punto di vista l’idea del “dialogico”, che è strettamente legata al concetto di “carnevalizzazione”, non
esclude una visione olistica (e dinamicamente ambivalente) della società. Inoltre l’idea dialogica non garantisce neces-
sariamente delle etnografie non autoritarie, non fredde e meno distanti, cosa di cui è consapevole anche Clifford. In-
fatti è possibile essere molto autoritari e dialogici, come pure essere dialogici e produrre etnografie impersonali – reso-
conti dove le relazioni con l’“altro” sono represse o soppresse. Sulla questione dell’individualismo come valore impli-
cito nelle scienze sociali americane si veda Hervé Varenne (1989). Per importanti, sebbene dimenticati, pensieri sul-
l’assenza delle emozioni (e io aggiungerei anche coinvolgimento personale) nel lavoro sul campo antropologico si veda
Francis Hsu (1983, pp. 172-173).
5 In portoghese l’uso di un “plurale di modestia” normativo indica l’uso simultaneo (e ambiguo) di una retorica di
umiltà e autorità. Come hanno sottolineato degli specialisti questa modalità del plurale indica anche “maestà” (Cunha
1975, p. 206) e/o “autorità sovrana” (Lima 1975, p. 290). Queste notazioni, come pure la bibliografia a riguardo, mi so-
no state segnalate dal professor Enylton de Sa Rego. Per considerazioni provocatorie sulla comparsa della prima persona
singolare in inglese e alcune delle sue implicazioni sociali, psicologiche e politiche, si veda Franz Borkenau (1981).
6 Secondo me è l’indigenismo come ideologia che riferirà la poco flessibile diversità delle culture tribali – con pic-
cole popolazioni e poca voce negli ambiti nazionali – a una concezione tipicamente centralizzata (ed essenzialistica e
antimoderna) ibero-brasiliana di “società nazionale”. In questo modo gli studi di “acculturazione” e “assimilazione”,
così noti nell’antropologia, possono essere letti come modi per “sorvegliare” le traiettorie delle società tribali che de-
vono prendere un unico percorso – che le condurrà alla “società nazionale”.
7 Va notato che fino al 1960 gli studi antropologici brasiliani erano dominati dal classico “schema indigenista”
proposto da Darcy Ribeiro. Questo è un paradigma basato sulla reinterpretazione dell’evoluzionismo di Leslie White.
Per Darcy Ribeiro, nello stesso modo in cui le società evolvono dallo stadio primitivo a uno civilizzato, i gruppi tribali
all’interno del territorio nazionale sarebbero evoluti nella direzione del sistema nazionale, i due processi essendo paral-
leli l’uno all’altro. In questo modello viene postulato che le società tribali entrano nell’ordine nazionale attraverso un
processo graduale, evolutivo. Prima entrano in un “contatto intermittente” con i pionieri; quindi, in una fase di “con-
tatto permanente”, stabiliscono dei legami abituali con segmenti della società nazionale; infine sono integrati nella na-
ALCUNE NOTAZIONI PRECONCETTE SULL’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA 167
zione. Questo schema dimentica che le società indigene in effetti non sono dei blocchi uniformi, in grado di essere inte-
grati “massicciamente” nell’ordine nazionale. Come ho già notato altrove (DaMatta 1976b), l’integrazione economica,
politica e territoriale può avvenire senza una assimilazione automatica di altre sfere della vita tribale. Un gruppo tribale
può essere assimilato economicamente rimanendo relativamente “isolato” (e autonomo) in termini di sistema di paren-
tela, di convinzioni religiose e cerimoniali.
8 Per fare ciò, avevo in mente l’esempio di David Maybury-Lewis, che era stato il mio relatore ad Harvard e che,
nei suoi lavori, tratta questa fragilità in modo molto franco (si veda Maybury-Lewis 1967, 1965). Quando sono entrato
in contatto con il lavoro di Maybury-Lewis sono rimasto sorpreso da due fatti: per prima cosa, di trovare un antropolo-
go che aveva viaggiato con la sua famiglia – cosa molto rara fra ricercatori sul campo brasiliani; seconda cosa, di trovare
un antropologo che raccontava tutto. Per noi brasiliani il progetto di viaggiare fino a una località di ricerca certamente
comprendeva un certo grado di distanza, ma la nostra relazione con gli indiani e le popolazioni rurali acquistava presto
un tono familiare attraverso i legami di patrocinio e i rapporti con gli uffici governativi, il prestigio politico potenziale e
l’onnipresente gerarchia brasiliana. Inoltre la tradizione del lavoro sul campo in Brasile era molto più personalizzata e
il viaggio diventava una sorta di avventura “machista” nello spirito del “bandeirante”, lo storico eploratore e sfruttatore
delle selvagge zone interne brasiliane.
L’esperienza di viaggiare con la moglie e il figlio, comunque, come viene raccontata da Maybury-Lewis indica un
notevole grado di isolamento e fragilità. La somma di queste esperienze certamente spiega la percezione distanziata, ma
acuta, di Maybury-Lewis dell’ambiente sociale e istituzionale visitato. Così quello che penso debba essere sottolineato è
che la ricerca sul campo accentua questa fragilità, che viene gestita diversamente da diverse tradizioni antropologiche.
Lo stile etnografico inglese tende a incorporarla in un resoconto impersonale e scientifico. In Brasile queste esperienze
non vengono neanche menzionate.
A una buona etnografia si possono adattare le osservazioni di Oscar Wilde sull’arte di Dostoevskji, che “non ha
mai completamente spiegato i suoi personaggi” (Bachtin 1996, p. 50). A me sembra che il lavoro di Evans-Pritchard e
di Malinowski sia un buon esempio di autentico “dialogismo” – una situazione dove le pratiche native, le convinzioni e
le cosmologie sono più importanti delle convinzioni e della preparazione dell’etnografo. I personaggi delle buone mo-
nografie antropologiche subentrano all’autore, parlando e vivendo per se stessi.
9 La battuta di Bernard DeVoto era diretta ai lavori di Margaret Mead sulla società americana e viene citata da
parte dell’igiene fisica, tutti questi comportamenti sono relativizzati e trasportati dall’ambito della “scienza” applicata e
inserita nel nostro buon senso, all’ambito della “cultura” e ideologia pura da un osservatore “alieno”. Il risultato è una
diatriba contro la distinzione fra magia e scienza – “selvaggio” e “civilizzato” – e a livello di etnografie e di ermeneutica,
un’elegante dimostrazione del potere della distanza e dello straniamento. L’articolo di Miner afferma che ciò che conta
davvero non è solo retorica, ma un punto di vista o “prospettiva teorica” – qualcosa di cui gli antropologi interpretativi
non gradiscono parlare. In questo modo, anche quando si cerca di decostruire le modalità standardizzate di descrizione
“oggettiva”, non bisogna dimenticare che gli argomenti rappresentano anche una “posizione teorica” e che anche la
nuova modalità proposta presenta un altro modo di fare – un’altra formula.
11 Dopo tutto solo un “tranquillo” antropologo potrebbe veramente pensare (e credere) che le etnografie che leg-
ge siano sempre state scritte in modo freddo e onesto, e devono essere considerate espressione della “realtà” in modo
vero e obiettivo. Il Diario di Malinowski avrebbe potuto scioccare solo la classe accademica angloamericana, abituata a
pensare che nessuno dovrebbe mentire o mostrare profonde contraddizioni e ambiguità. Quando viene letto dagli stu-
denti brasiliani questo lavoro è preso come una prova che, grazie a Dio, almeno uno di loro è umano!
12 È cosa nota che a Oxford e a Cambridge tendeva a essere un tabù condurre studi sulla propria cultura. Tali stu-
di erano condotti a Manchester, dove Max Gluckman si comportava in modo non ortodosso, provocando reazioni ne-
gative al suo lavoro. Anche oggi gli studenti del dottorato in antropologia in molti importanti dipartimenti dell’accade-
mia nordamericana non vengono incoraggiati a studiare la loro cultura.
13 Mentre scrivevo dell’“originalità” di Gilberto Freyre (in DaMatta 1987a), ho sottolineato che quando Freyre
scrisse della “realtà brasiliana”, la trattò come un avvolgente universo morale – un mondo nei confronti del quale lui
aveva degli evidenti interessi. Freyre ha adottato raramente un atteggiamento “disinteressato”, “distante” o “scientifi-
co” verso la sua materia. Al contrario è sempre stato completamente di parte (DaMatta 1987a, p. 4). Freyre stesso era
consapevole del suo atteggiamento quando scriveva, in Casa Grande e Senzala, che la pratica della sociologia non impli-
ca scoprire formule scientifiche, ma piuttosto “volere completare noi stessi” (Freyre 1933, in DaMatta 1987a, p. 5). In
Gilberto Freyre, all’interno della serie ibero-americana di veri “antropologi dialogici”, la posizione ermeneutica è pre-
sentata in modo ricco e i personaggi tendono a superare l’autore, parlando per loro stessi. Bisogna conoscere e prende-
re questa tradizione più seriamente se si vuole essere così assertivi sulla natura della descrizione e della scrittura nelle
scienze sociali.
14 Nota del curatore. Come indicato nell’Introduzione alla prima parte, Diversità e divergenze, Geertz (1973, pp.
448-449) suggerisce di indagare “la cultura come un insieme di testi” e che “le forme culturali possono essere trattate…
come opere dell’immaginazione costruite con materiali sociali”.
15 Per una discussione classica della posizione sociologica degli “intellettuali americani” si veda Lipset (1959). Si ri-
cordi che in tale saggio Lipset, e ciò è significativo per quello che sto trattando ora, fornisce una definizione molto ri-
stretta di “intellettuale”. Questo fu notato e criticato da un commentatore di origine europea, il professor Karl Deutsch
(si veda Deutsch 1959).
16 Si potrebbe suggerire che dietro il movimento “interpretativo” vi sia la speranza di cambiare la vita accademica ame-
ricana, portandola fuori dai ghetti dove tendono a chiudersi gli accademici. In questo senso le loro opinioni rivelano forse
una profonda insoddisfazione non solo verso l’antropologia, ma verso l’organizzazione della vita intellettuale americana.
17 Il lettore mi permetterà di soffermarmi su un’esperienza personale. Nel 1979 scrissi una risposta ad alcune opi-
nioni di Darcy Ribeiro (“A Antropologia Brasileira em Questo”, in Encontros com a Civilizaáo Brasileira, Settembre
1979) che erano critiche nei confronti del tipo di antropologia praticata nel programma di dottorato del Museu Nacio-
168 ROBERTO DAMATTA
nal, dove ero stato direttore e avevo un posto. Avevo tre obiettivi nel rispondere a Ribeiro. Prima di tutto volevo dimo-
strare che era possibile esercitare la libertà individuale in modo tangibile rompendo il vecchio sistema autoritario e ge-
rarchico che governava la vita intellettuale brasiliana e che implicava che nessuno doveva sfidare una persona così nota
e rispettata come Darcy Ribeiro. In secondo luogo volevo mostrare che il mondo sociale poteva veramente essere egua-
litario e permettere a varie antropologie di coesistere contemporaneamente (cioè che la scelta di uno stile antropologico
non avrebbe delegittimato o eliminato tutti gli altri). Infine volevo mostrare che era possibile praticare un’antropologia
che si concentrava sui problemi teorici, un’antropologia che impedisse che un indigenismo “evoluzionista”, vittoriano,
fosse utilizzato per stigmatizzare alcune scuole teoriche e servire come camicia di forza per ostacolare alcune esperien-
ze. Se l’“indigenismo” era un lascito prezioso, non doveva essere trasformato in una demagogia che parlava molto di di-
fendere gli “indiani” mentre faceva ben poco per capirli o rispettarli. Insomma, stavo schierandomi contro l’autorità di
uno dei “capi” della disciplina. Ma appena la mia risposta fu pubblicata, mi resi conto immediatamente di essere solo e
che il mio punto di partenza era diventato una questione politica.
Biografia intellettuale
nazione democratica e del modo di vita americano. Nel 1963-64 anche Thomas Bei-
delman insegnava ad Harvard, e lui, insieme a James Fox (che era lì nel 1967-70 ed
era molto interessato ed entusiasta per gli studi strutturali) hanno avuto su di me un
grosso influsso. Poiché Maybury-Lewis, Beidelman e Fox erano stati tutti studenti
di Rodney Needham a Oxford, diventai presto un lettore avido di teoria della pa-
rentela e organizzazione sociale. Il lavoro di Lévi-Strauss ebbe un grande impatto
sulla mia vita intellettuale. Questa fase divenne sempre più importante con l’inizio
dell’Harvard-Central Brazil Research Project che portò un gruppo di giovani, intel-
ligenti e preparati dottorandi di Harvard a lavorare sul campo in Brasile: Terry Tur-
ner, Joan Bamberger, Jean Carter Lave, Dolores Newton, Jon Cristopher Crocker e
Cecil Cook Jr. Loro diedero un tocco metropolitano e uno stile più fiducioso al no-
stro modo di pensare. Le nostre discussioni congiunte a Harvard, dove eravamo an-
che in stretto contatto con Pierre ed Elli Miranda, e a Rio, dove c’era Julio Cezar
Melatti (che aveva studiato i kraho ed era membro del Progetto) e Roque Laraia so-
no stati certamente i momenti più intensi di questi fondamentali anni formativi. La
mia relazione con Harvard durò fino al 1970, quando scrissi la mia tesi sugli apina-
yé e tornai in Brasile per diventare direttore del dottorato in antropologia sociale
del museo nazionale.
Negli anni Settanta il Brasile era sottomesso a un regime brutale e autoritario.
Affrontando molte sfide difficili ho riorientato il mio interesse intellettuale e ho ini-
ziato a studiare il Brasile. Questo aumentò il mio interesse per il lavoro di Victor
Turner e di Louis Dumont che hanno influenzato molto il mio lavoro sui riti nazio-
nali brasiliani, la vita quotidiana, gli eroi mitici e la letteratura. Il cambiamento di
interesse mi fece pensare di usare le mie esperienze brasiliane e americane in modo
comparato. Volsi così la mia attenzione al lavoro di Conrad Kottak. Mi ha anche
condotto a leggere la storia sociale e le scienze politiche. Al momento sto lavorando
sulle implicazioni delle pratiche sociali liberali ed egualitarie e dei valori nelle socie-
tà fondate sulla parentela come il Brasile.
Il discorso antropologico sull’India: la ragione e l’altro
Veena Das
Beninteso il lettore può rifiutare di uscire dai suoi valori, può affermare che per lui l’uo-
mo comincia con la Dichiarazione dei diritti, e condannare puramente e semplicemente
quanto se ne allontana. Così egli senza dubbio si limita e la sua pretesa di essere “moder-
no” diventa discutibile, per ragioni non solo di fatto ma anche di diritto. In realtà qui
non si tratta per niente, sia ben chiaro, di attaccare i valori moderni in modo diretto o
subdolo. Sono del resto valori che ci sembrano abbastanza saldi per non avere niente da
temere di per sé dalle nostre indagini. Si tratta soltanto di tentare di comprendere intel-
lettualmente altri valori.
All’interno di una simile descrizione del progetto antropologico, che spazio in-
tellettuale l’antropologia può crearsi in India? È meglio definire la sociologia/antro-
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 171
pologia come in India, nel senso che l’India fornisce un’ubicazione per l’osservazio- Antropologia in
ne della differenza culturale e della sua articolazione? Oppure è preferibile pensare India e
a una “sociologia dell’India”, come sostiene Dumont, sociologia in grado di fornire antropologia
i mezzi attraverso i quali il desiderio occidentale di sfuggire intellettualmente i limi- dell’India
ti della propria ideologia possa essere esaudito?
Il pericolo per l’antropologa indiana è che possa rendersi vulnerabile all’accusa
di essere “difensiva” o “sciovinista”. L’indù istruita non riesce a parlare con autenti-
cità su questioni che riguardano le caste o la religione poiché è condannata a vedere
le istituzioni della sua società da un punto di vista occidentale.
Ai giorni nostri gli indù dichiarano spesso agli Occidentali che la casta è una questione
sociale e non religiosa. È evidente che la motivazione è qui completamente diversa dalle
precedenti: in primo luogo si tratta di giustificare in qualche misura le istituzioni da un
punto di vista occidentale, punto di vista che l’indù istruito accetta il più delle volte (Du-
mont 1966a, p. 105).
L’antropologia
Se però l’antropologa parla da un punto di vista che si può definire “indiano”, “sciovinista” e
“retrograda”
“indù” o “islamico” sarà accusata di essere “retrograda”. L’unico orientamento le-
gittimo permesso, nei confronti delle tradizioni della propria società, sembra sia di
collocarle totalmente nel passato. Rivediamo una vecchia controversia fra Dumont
e due antropologi indiani, per comprendere bene il doppio vincolo con cui l’antro-
pologa indiana deve fare i conti.
Qualcuno dei lettori indiani non ha forse trovato nell’affermazione dell’unità fondamen-
tale della società di caste indiana qualcosa di più di una semplice affermazione sociologi-
ca, qualcosa come una affermazione politica, per non parlare di un’arma?… Per chiarire
tutti i malintesi sarà sufficiente ricordare che l’unità alla quale ci siamo riferiti non è solo
un’unità politica ma un’unità religiosa. Nei termini degli “scopi dell’azione”, artha è mes-
so al servizio di dharma… questo vuol dire disunione politica nell’interesse della supre-
mazia religiosa. E il corso della storia indiana nel suo insieme lo conferma.
Valenza politica quale è stato istituito) e di una particolare consapevolezza del tempo (che vede il
delle tesi di passato come una minaccia al futuro e alla stabilità politica dell’India) diano vita a
Dumont un importante dibattito nella cultura pubblica della società indiana. Attraverso que-
sti duplici concetti di “nazione” opposta a comunità (leggi casta), e di un “passato”
di cui ci si deve consapevolmente liberare, prende forma il dibattito politico.
“Nazione”,
“passato” e Dumont tratta le relative implicazioni politiche attraverso un accorgimento me-
dibattito politico todologico. La distanza spaziale fra l’India e l’Occidente permette agli studiosi occi-
indiano dentali di osservare la “casta” e i suoi valori attraverso la lente dell’intelletto. Ma
questi valori “obsoleti” non devono fornire né opportunità, né sfide politiche ai let-
tori occidentali. Per l’antropologo indiano che vive in società intrise di questi valori,
secondo Dumont, la sfida è invece di superare questi valori e istituzioni tradizionali
per costruire un moderno Stato-nazione. L’unico atteggiamento che l’indiano mo-
derno può assumere nei confronti delle proprie tradizioni è quello di collocarle nel
Distanza spaziale passato. In nessun caso queste tradizioni offrono una risorsa intellettuale alle socie-
e distanza tà contemporanee. Le funzioni espletate dalla distanza spaziale (per gli occidentali)
temporale
vengono assolte dalla distanza temporale (per gli indiani): così il suo passato india-
no appare all’antropologo come l’“altro”.
Mentre l’antropologo sociale occidentale desidera vedere la propria cultura – cioè la cul-
tura che al momento domina materialmente il mondo – “in prospettiva”, il dottor Saran
vuole essere lasciato in pace nel beato godimento del suo credo neo-indù. Questo è com-
prensibile, perché la religione e la filosofia indù sono a loro modo onnicomprensive, al-
meno quanto ogni altra teoria socio-logica (1966a, p. 26).
Quello che trovo più inquietante è che il dottor Saran non sembra essere consapevole dei
pericoli insiti nelle implicazioni della sua posizione su larga scala. Noi europei abbiamo
IL DISCORSO ANTROPOLOGICO SULL’INDIA: LA RAGIONE E L’ALTRO 173
avuto un maestro che voleva insegnarci l’impenetrabilità delle culture (lui le chiamava
razze): il suo nome era Adolf Hitler. Il solipsismo è lungi dall’essere incompatibile con la
violenza… Spero che su questo ci venga resa giustizia: che abbiamo spianato la strada al-
la comprensione, senza sottovalutare le difficoltà e gli ostacoli. Avrei pensato che uno
studioso del calibro del dottor Saran non avrebbe teso una mano ai sentimenti “provin-
ciali” e arretrati neo-indù (1966a, p. 27).
esempio, Dumont può parlare delle caste così come appaiono nelle leggi di Manu
nel secondo secolo dopo Cristo, e delle caste come funzionano nelle società di vil-
laggio dell’India contemporanea come se si riferissero alla stessa realtà etnografica.
La distinzione fra circostanze locali (per le quali erano valide regole abitudina-
Circostanze
rie) e conoscenza autorevole (che era contenuta solo nei testi) era fondamentale per locali e
la costruzione braminica della tradizione. Srinivas fece i conti con questa separazio- conoscenza
ne stabilendo una forte differenza fra “visione del libro” e “visione del mondo” nel- autorevole
la società indiana e facendo coincidere quest’ultima con l’ambito legittimo di inda-
gine per l’antropologo5. Dumont, secondo Burghart, imitava semplicemente questa
distinzione fra verità empiriche e ideologia, che permetteva a lui, come ai bramini,
di trattare la diversità come marginale, o come residuale, in relazione alle verità te-
stuali. L’India era lontana dall’essere una proiezione dell’immaginazione europea, e
l’immaginazione braminica faceva in modo di dare forma alla rappresentazione eu-
ropea dell’India sulla base di un processo di mimesi.
Se è corretta la caratterizzazione che Burghart dà del lavoro di Dumont come imita-
zione della visione braminica della tradizione, allora diventa ancora più interessante
il fatto che la controparte di Dumont, i bramini, vengano collocati nel passato in-
diano. Per molti ogni tentativo di sviluppare un linguaggio sociologico che abbia ra-
dici nella tradizione indiana non è degno di un confronto intellettuale. Viene sem-
plicemente considerato pericoloso per la costruzione di una nazione indiana fonda- Gli antropologi
ta su valori moderni. Burghart non spinge oltre le sue riflessioni, ma i quesiti riman- nativi come meri
gono aperti. Gli antropologi sociali nativi devono essere considerati come dei porta- portavoce?
voce nativi? Vengono forse accolti nella comunità antropologica a condizione che
non soltanto trascendano, ma rinuncino a tutte le forme di conoscenza acquistate
attraverso la partecipazione a una società della quale ora scrivono6? Con questi pro-
blemi torniamo alla domanda iniziale: che spazio intellettuale può creare l’antropo-
logia per se stessa in India?
Situare il ruolo del discorso antropologico (e della scienza sociale) nella società in-
diana odierna
Nell’introduzione a questo saggio si affermava che l’antropologia come discipli-
na non rispecchia solo i conflitti ideologici della società indiana moderna, ma ha an- Critica delle
che aiutato a creare nuovi spazi per la loro articolazione e rappresentazione. Mi oc- politiche passate:
il programma
cuperò di un conflitto contemporaneo che è stato materia di vasta discussione in In- implicito nelle
dia, sia nella sfera pubblica, che nella letteratura delle scienze sociali. Non entro in rappresentazioni
questa discussione per fornire una “soluzione” a un dibattito burrascoso ma piutto- coloniali
sto per mostrare come molta della letteratura delle scienze sociali in India condivi-
da le ipotesi del moderno Stato-nazione e le costruisca essa stessa in risposta ai bi-
sogni politici contemporanei.
La controversia alla quale mi riferisco è conosciuta come la disputa Ramjanmab- La disputa fra
humi-Babri Masjid e riguarda rivendicazioni opposte fatte da indù e musulmani su indù e
uno stesso luogo sacro nella città di Adodhya. Alcuni gruppi indù hanno affermato musulmani su
che, sulla base di prove storiche, si può provare che nel sito era stato costruito un Adodhya
tempio per commemorare il luogo di nascita del dio Rama, divinità regale molto ri-
spettata dagli indù. Essi affermano che questo tempio fu distrutto per ordine di Ba-
bur, un re musulmano nel XVI secolo, per costruire una moschea al fine di comme-
morare la vittoria sui regni indù. Molte organizzazioni musulmane, d’altro canto,
sostengono che non vi è nessuna prova storica certa che la moschea sia stata co-
struita sul luogo del tempio precedente. Questa questione ha condotto a una mobi-
litazione senza precedenti da entrambe le parti. Ogni grande partito politico è stato
176 VEENA DAS
La storia moderna dell’India, in questo senso, è stata scritta ai tempi della colonizzazione e
dai colonizzatori. Furono gli scrittori coloniali che stabilirono lo schema del passato indiano
così come lo conosciamo ora. E in quello schema la lotta settaria era un tema importante.
Alla fine del XIX secolo il tratto dominante nella storiografia colonialista rappresentava
l’intolleranza religiosa e i conflitti fra persone di diversa fede religiosa come una delle ca-
ratteristiche peculiari della società indiana, passata e presente – un segno della parte in-
diana dell’“oriente”.
quale i concetti britannici sulla società indiana, configurazioni alterate di forze loca-
li e regionali e nuovi modi per definire la legittimità, giocarono un ruolo nello svi-
luppo di questa e molte altre simili dispute. Il testo prodotto dallo Stato coloniale
era costruito in modo da dare un’impressione di isolamento dei codici locali di con-
dotta nei confronti delle istituzioni legali e burocratiche circostanti, che il potere
coloniale aveva introdotto in modo illegittimo.
Gopal vede questa disputa come immagine di una generale malattia nella socie-
tà indiana. “La questione Ramjanmabhumi… mostra con una chiarezza maggiore
che in ogni altra occasione dal 1947, una malattia che l’India libera non è stata in Definire la
religione in
grado di scrollarsi di dosso e che chiede una rivalutazione di molte caratteristiche termini di ragion
fondamentali della nostra società” (1991, p. 11). Questa malattia che si presenta co- di Stato
me “principi civilizzati di coesione nazionale” (1991, p. 13) è direttamente in rela-
zione con il profondo radicamento della religione sul suolo indiano. “L’atteggia-
mento logico di liberarsi del tutto della religione” dice Gopal, “era troppo utopico
per la società indiana, dove molte religioni erano radicate” (1991, p. 13). Così la
soluzione pratica non è stata quella di opporsi alla religione, ma di relegarla alla vi-
ta privata dell’individuo, allontanandola da tutte le forme di vita pubblica. Questo Il radicamento
non è il luogo per esaminare in dettaglio tale versione del secolarismo; posso solo della religione
in India
sottolineare che la distinzione fra pubblico e privato non è affatto semplice o senza
complicazioni come Gopal pensa che sia.
Quello che mi interessa è il tentativo di definire la religione in modo tale da po-
ter essere coerente con le necessità dello Stato-nazione. Sulla vera natura dell’indui-
smo Gopal (1991, p. 14) dice quanto segue:
Mentre non vi è una religione indù, nel senso in cui questo termine viene comunemente
usato, c’è un’atmosfera, una struttura di sentimento che governa le diverse sette e le porta Gopal e la vera
natura
ad un livello più elevato. Questo elemento comune nella fede che lega insieme coloro che si
dell’induismo
definiscono indù nelle varie parti dell’India, è l’accettazione della religione come esperienza
spirituale, come comprensione della realtà di un supremo Spirito Universale. La devozione
alla verità e al rispetto di tutti gli esseri umani, un approfondimento della consapevolezza
interiore e un impegno per la compassione formano l’essenza della religione indù.
Ritrarre le Romila Thapar usa l’espressione “comunità religiose immaginate” per caratte-
comunità
religiose sulla
rizzare la natura della comunità come se fosse “immaginata” nel discorso ammini-
base strativo dei governanti britannici. Il senso di “immaginato” qui è quello di qualcosa
dell’immagine che è fabbricato, e quindi falso. È importante ricordare che Benedict Anderson
amministrativa (1983), che ha utilizzato questa espressione per caratterizzare la natura delle nazioni
moderne, era interessato a cogliere la natura costruita delle nazioni piuttosto che a
definirle non autentiche o false. Nel proporre la definizione di nazione come comu-
nità politica immaginata, ha anche suggerito che noi trattassimo tutte le comunità,
ad eccezione delle comunità di villaggio dove tutti si conoscono, come comunità
immaginate, nel senso che i loro membri non si conoscono l’uno con l’altro nella lo-
ro esistenza reale, eppure in ogni membro vive un’immagine del loro essere comu-
La nazione nità. Per Anderson il potere “politico” del nazionalismo è pari solo alla sua povertà
immaginata in filosofica e persino alla sua incoerenza. È quindi interessante notare che nonostante
Anderson
questa povertà il discorso del nazionalismo fornisce immagini da applicare ad altre
comunità, comprese le comunità religiose nell’India moderna.
Come controparti dello Stato-nazione anche le “comunità” religiose creano
delle immagini di comunità fra persone che non hanno alcuna relazione reale l’u-
na con l’altra. Nella controversia riguardante il tempio e la moschea, ad esempio,
alcuni gruppi indù avevano come progetto principale la creazione di tali immagi-
L’idea ni di comunità. La letteratura prodotta da gruppi indù militanti mette in rilievo
“numerica” di
comunità questioni come l’alto grado di fecondità dei musulmani e la paura che gli indù di-
ventino “minoranze” nella loro stessa terra. Chiaramente questa visione della co-
munità come un’entità puramente numerica può esistere solo all’interno di un
quadro di riferimento di un tipo di governo che dà per scontata la raccolta di in-
formazioni statistiche regolari sulle diverse comunità che formano la “nazione”,
perché non possiede altra definizione di comunità se non quella numerica.
Dal punto di vista dello Stato-nazione, la religione occupa uno spazio illegittimo
quando avanza la pretesa di costruire un passato che è in conflitto con i ricordi isti-
tuzionalizzati e sacralizzati dallo Stato-nazione. Quello che i gruppi indù in questo
caso sembrano fare è sfidare questa distribuzione delle funzioni, immaginando se
La comunità stessi nello stesso modello dello Stato-nazione. Anderson ha affermato che la nazio-
religiosa e lo
Stato-nazione ne in quanto comunità immaginata ha forti radici religiose, ma che d’altra parte è
attraverso la limitazione dell’immaginazione religiosa che la nazione come comunità
sovrana ed essenzialmente limitata può essere immaginata.
Vediamo che collocando se stessa fondamentalmente all’interno della stessa are-
na storica dello Stato-nazione, la comunità religiosa limita le proprie possibilità di
affrontare le questioni umane fondamentali della sofferenza e della redenzione e di-
venta limitata e ristretta. Questo, comunque, non rappresenta una perversione della
religione, ma piuttosto una semplice testimonianza del potere e della povertà filoso-
fica delle ideologie dello Stato-nazione.
Vi è una visione nella costruzione tradizionale della comunità che possa sfuggire
al potere immaginativo dello Stato-nazione, che agisce come pietra di paragone di
tutti i valori moderni? Nel paragrafo seguente consideriamo il tentativo di Saran di
formulare una tale possibilità e critichiamo la rappresentazione nostalgica della co-
munità tradizionale che costituisce l’altro polo della ricerca nelle scienze sociali nel-
l’India contemporanea.
Saran considera la sfera politica come il settore per l’esercizio di tale critica “ra-
dicalmente spirituale”. In questa critica è fondamentale l’esame della vita umana
sulla base di tre tipi di relazioni: quella dell’uomo con la natura, dell’uomo con l’uo- Le relazioni
uomo/natura,
mo, dell’uomo con il divino. Saran sostiene che la frammentazione nella vita umana uomo/uomo,
giunta con la visione modernista della vita, ha come presupposto la divisione fra uomo/divino
questi tre tipi di relazioni. Ne segue che concetti moderni come il principio della
competizione, il desiderio di superare la sofferenza e l’idea del progresso sono basa-
ti su “non verità”. In tal modo Saran non ha difficoltà nel sostenere le idee di
Gandhi riguardo ai mali della medicina occidentale moderna, come quelli dell’istru-
zione occidentale moderna. Saran (1989, p. 721), fra l’altro, basa il suo sostegno a
Gandhi non solo sugli eccessi della medicina moderna, ma su una teoria della soffe-
renza totalmente diversa.
180 VEENA DAS
La malattia e la La malattia può colpire sia il corpo che la mente dell’uomo, ma la distinzione fra malattia
sofferenza per fisica e malattia mentale e spirituale non è segnata in modo netto nelle civiltà tradizionali,
Saran che provvedono sempre contemporaneamente ai bisogni di entrambe. Tutte le malattie e
le sofferenze hanno un significato spirituale e cosmologico, così come l’ignoranza in fon-
do è l’ignoranza rispetto a chi si è. Nello stesso modo, tutta la conoscenza è conoscenza
del proprio vero “io”… e tutte le guarigioni sono guarigioni dalla ferita dell’ignoranza
del proprio “io” reale.
Questo brano esprime anche i limiti di una tale visione per la costruzione di uno
spazio antropologico in India, nel contesto delle teorie contemporanee della cono-
scenza. Quello da cui Saran è stato sedotto è stata la visione della tradizionale civil-
tà indiana come “altro”. Mentre Dumont si ingannava nel suggerire che Saran fosse
capace solo di solipsismo culturale, la tendenza totalizzante del suo pensiero fa sì
che il concetto di tradizione si elevi al di sopra dei luoghi contestati. Eppure l’espe-
rienza della tradizione nella società indiana, come in molte società simili, ha un
doppio radicamento: uno nelle istituzioni che possono essere considerate tradizio-
nali, come le caste e la religione; e il secondo nelle istituzioni che possono essere
considerate moderne, come la burocrazia e la legge.
Questa doppia articolazione trasforma istituzioni come le caste e la comunità re-
La
trasformazione ligiosa in entità nuove e originali; non si tratta di una aggregazione, nella quale nuo-
della tradizione ve caratteristiche vengono sommate a quelle vecchie. Quando, ad esempio, Gandhi
usa satyagraha come una forma di resistenza non violenta al dominio britannico,
trasforma il concetto tradizionale in un concetto nuovo. Soltanto all’interno della
teoria braminica del tempo, a cui ci si è riferiti in precedenza, Saran può trattare
questo come esempio di pensiero “tradizionale”.
1 Questo saggio non intende fornire una rassegna completa del problema. Intende solo sottolineare alcuni aspetti
nella letteratura delle scienze sociali per chiarire alcuni problemi nel discorso antropologico della società indiana.
2 Per un’analisi di queste opinioni si veda Stephen Webster (1982).
3 Dumont si sbagliava a immaginare che le “altre culture” sarebbero rimaste ermeticamente separate all’interno
della vita moderna occidentale. In Francia la decisione delle ragazze musulmane di indossare il velo a scuola ha creato
molte controversie. Il caso Salman Rushdie ha portato alla luce il fatto che in Inghilterra le leggi contro la blasfemia ri-
guardano il cristianesimo, ma non le altre religioni. Sembra che nel contesto delle moderne società globali diventerà
molto difficile tenere le culture separate in compartimenti stagni. L’alterità vissuta in luoghi lontani è già parte della vi-
ta del mondo nelle società europee.
4 L’importanza degli scritti di Dumont sull’India è attestata da molti convegni sul suo lavoro, ai quali gli indiani
(me compresa) hanno partecipato e nei quali hanno espresso la loro ammirazione per le sue notevoli abilità di mettere
insieme una grande vastità di materiali all’interno di uno stesso quadro teorico. Quello che si percepisce, però, in Du-
mont come in altri studiosi, è un’insofferenza nei confronti degli studi indiani che vengono considerati intrisi dell’espe-
rienza del colonialismo – come se essere toccati dalla propria storia volesse dire diventare inautentici.
5 Per una critica di questa distinzione, si veda Das (1977).
6 L’obbligo di segnalare l’ingresso nel campo di ricerca, come se questo fosse una terra aliena, è evidente nel reso-
conto di Rampura fatto da Srinivas (1977). L’espressione più forte può essere trovata comunque in Madan (1978), che
parla di vivere intimamente con degli “stranieri”. Gli stranieri erano Kashmiri Pandits, membri della sua stessa comuni-
tà in un villaggio non distante da dove era cresciuto. Troviamo molte riflessioni interessanti in Srinivas sulle conseguen-
ze del suo essere un bramino. Ma mentre si è prestata molta attenzione ai problemi della rappresentazione dell’altro che
è al di fuori, l’alterità all’interno ha ricevuto pochissima attenzione.
Biografia intellettuale
Non riesco a trovare nessun piano sistematico nel mio sviluppo come antropolo-
ga. Ho avuto il privilegio di studiare con M. N. Srinivas all’Università di Dehli. Sri-
nivas era stato uno studente di G. S. Ghrye all’Università di Bombay e di Radcliffe
Brown all’Università di Oxford. Sebbene si trovasse all’Università di Dehli, Srinivas
metteva in rilievo la “visione del lavoro sul campo” della società indiana, in con-
trapposizione alla “visione del libro”, e mi incoraggiva a usare la mia conoscenza
del sanscrito per la costruzione di problemi sociologici. In questo modo iniziai a la-
vorare su testi sanscriti Gujarat poco conosciuti del XIII secolo per la tesi di dottora-
to. Poiché avevo un enorme interesse a ricollocare i testi sanscriti nei sistemi di co-
noscenza moderni, trovai il lavoro di Dumont assolutamente affascinante. Il meto-
do strutturalista per lo studio del mito mi aprì molte porte quando avevo poco più
182 VEENA DAS
di venti anni. Immaginavo che Claude Lévi-Strauss forse era una moderna incarna-
zione di uno studioso sanscrito antico o medievale, che aveva messo a repentaglio la
propria stessa salvezza quando scelse una teoria del linguaggio rispetto a un’altra!
Tutto ciò per dire che le idee dello strutturalismo e in seguito della narratologia mi
si rendevano disponibili non solo nei testi in cui erano formulate, ma anche creando
per esse una diversa genealogia nella tradizione sanscrita. Nel 1982, nella conferen-
za Henry Myers che ebbi il privilegio di tenere, affrontai questo metodo in modo
esplicito ponendo la scuola mimamsa dell’antica filosofia indiana come interlocutri-
ce per le teorie antropologiche contemporanee sul sacrificio. Sono felice che le cate-
gorie della conoscenza derivanti da culture non occidentali impegnino gli antropo-
logi sociali, ma mi trovo a disagio con i quadri di riferimento totalizzanti all’interno
dei quali queste vengono formulate.
Quando penso al passato, riesco a riconoscere nei miei interessi intellettuali il
bisogno disperato di fuggire verso un passato collettivo che avrebbe vinto la violen-
za intorno a me. Ma il presente premeva, e io iniziai a esser stanca del ruolo di “fab-
brica di sogni” dell’antropologia. Lentamente imparai a impegnarmi nei problemi
dell’ambiente circostante. Dal 1984 sono stata assorbita nello studio della violenza e
del modo in cui le comunità morali vengono create attraverso la sofferenza. Questi
interessi derivano da altri aspetti della mia biografia personale, alcuni eventi contin-
genti che mi gettarono nel bel mezzo della violenza catastrofica, e dal consiglio che
mi diede una volta Srinivas: che un antropologo sociale deve cogliere il proprio per-
corso nell’ambiente circostante come lo percepisce un animale – non solo come un
interesse intellettuale, ma come un modo di essere. Se sarò stata capace di tradurre
questa visione, lo si potrà verificare nel mio prossimo libro, Critical Events, dove ho
cercato di mostrare come l’antropologia sociale ci aiuti a ridescrivere eventi critici
come le sommosse all’interno della comunità durante la spartizione dell’India, la
comparsa del sati nell’India moderna, il disastro chimico a Bhopal, dando corpo al
dolore come oggetto antropologico. Durante questo processo ho imparato a leggere
studiosi classici come Durkheim e Nietzsche, fortemente interessati al problema del
dolore. Sebbene io non possa vantare una discendenza nella lunga fila di autorevoli
studiosi che hanno creato l’antropologia sociale come disciplina, penso che il tipo
di lavoro condotto nei cosiddetti spazi marginali come l’India e il Brasile potrà ri-
vendicare questa tradizione e modellerà il futuro.
La comunità di studiosi a Dehli, specialmente Andre Beteille, Ashis Nandy, J. P.
S. Uberoi, Ritu Menon e Upendra Baxi, e altrove Richard Burghart, Audrey Canta-
lie e Arthur Kleinman, sono stati dei punti fermi nel mio sviluppo. Non riesco a
emularli e a definire il nucleo centrale della mia ricerca, poiché sembra che io viva
intellettualmente un’esistenza del tutto contingente. Anche questa, diceva Kierke-
gaard, è una scelta riflessiva.
Parte terza
Ripensare le prospettive precedenti
Introduzione alla parte terza
Robert Borofsky
I criteri di valutazione
Come è possibile giudicare, in antropologia, il “ripensamento” delle prospetti-
ve? Come è possibile riuscire a separare il grano dal loglio, il positivo dal negativo?
Non è facile. Idealmente sarebbe preferibile poter esaminare le nuove prospettive
con dati specifici, per chiarire fino a che punto riescono a spiegare quanto resta an-
cora da chiarire.
Harris (p. 90), Goodenough (p. 325) e altri autori stabiliscono criteri utili per
orientarsi in questo genere di analisi. Tuttavia, come è stato già chiarito nelle prime
due parti del volume, l’antropologia non ha in generale raggiunto (o almeno, non
ancora) lo stadio di maturità in cui è possibile porre in atto verifiche precise, effica-
INTRODUZIONE ALLA PARTE TERZA 185
briand) hanno chiarito fino a che punto i pregiudizi androcentrici abbiano influen-
zato le dinamiche sociali delle interazioni.
La questione del dominio maschile, e l’essenzialismo di natura biologica in
essa implicito, rappresenta un altro importante tema su cui si è soffermato l’in-
teresse degli antropologi. Un aspetto di questo problema ha riguardato la for-
L’uguaglianza
mulazione di polarità trans-culturali nelle relazioni di genere, ad esempio tra na- sessuale delle
tura e cultura (Ortner 1974) e tra pubblico e domestico (M. Rosaldo 1974), che origini: le bande
hanno rivisitato il problema del dominio maschile. Un altro elemento è stata l’i-
potesi che le prime società di banda fossero caratterizzate dall’uguaglianza tra i
sessi, perduta in seguito con l’evoluzione culturale verso forme organizzative di
tipo statuale (vedi ad esempio Leacock 1981). Il “dominio” maschile (tra virgo-
lette perché è stato definito, al pari dei concetti di “natura” e “cultura”, in una
miriade di modi) non fu ritenuto universale. Al contrario, come precisava San-
day (1981, p. 11): “il dominio maschile ed il potere femminile sono conseguenze
dei modi in cui i popoli si pongono in relazione con i propri ambienti storici e
naturali”.
La tendenza più recente negli studi sul genere ha abbandonato l’interesse per
ciò che è stato tralasciato a causa dell’esclusione di problemi relativi al gender ed è
andata interessandosi, piuttosto, a tutto ciò che è stato incluso, analizzando attenta- Genere sessuale
e implicazioni
mente proprio tali questioni. Dal momento che gli aspetti del genere si sovrappon- culturali
gono e si intrecciano a numerosi altri aspetti culturali, costituiscono un mezzo vali-
do per esaminare una serie di argomenti. Collier (1988), ad esempio, prende in esa-
me le implicazioni culturali, sulla base della concezione del mondo e del rituale, dei
diversi tipi di transazioni matrimoniali nelle società prive di classi. Stoler (1989a, p.
634) puntualizza “che le categorie caratterizzanti il ‘colonizzatore’ e il ‘colonizzato’
erano consolidate in misura crescente attraverso le forme di controllo sessuale che
definivano i comuni interessi politici dei coloni europei e gli investimenti culturali
con i quali questi ultimi si identificarono”.
La parentela, una volta oggetto di gran parte dell’analisi antropologica, è scadu-
ta di importanza teorica negli ultimi decenni (e anche questo rappresenta un esem-
pio di quella violazione di paradigmi di cui parla Wolf). Si potrebbero fornire una
serie di spiegazioni a riguardo: un’analisi più accurata, un mondo in trasformazione,
differenti interessi antropologici. Tuttavia, è importante notare che i temi politici,
economici e religiosi cui si erano rivolti a suo tempo gli studi di parentela non sono La riscoperta
del tutto scomparsi, ma sono stati semplicemente riformulati dal punto di vista con- della parentela
cettuale. Attraverso l’analisi del gender, Yanagisako e Collier propongono un mezzo
per ricondurre la parentela nell’ambito della corrente antropologica tradizionale.
Vedremo in che modo l’attenzione alle problematiche del genere arricchisca visibil-
mente l’analisi etnografica.
Strathern si confronta con un tema diverso ma correlato. Come rileva (1992, p.
150) a proposito del suo recente The Gender of the Gift: “considero un esercizio in-
tellettuale fuori luogo, il modo in cui gli antropologi occidentali hanno interpretato il
concetto di ‘società’ nei termini melanesiani… Mi sono posta l’obiettivo di immagina-
re quale potrebbe essere la controparte intellettuale plausibile di tale concetto”. Co-
me nota nel suo saggio (p. 264), “il ‘nostro’ progetto non deve essere confuso con il
‘loro’”. Esaminando come concettualizzare una società “che… non [è] composta da
gruppi” (p. 254) Strathern riflette sugli ordinamenti alternativi delle relazioni tra par-
ti e totalità o, come sostiene a p. 254, “se i gruppi sono il tramite con i quali le società
si presentano ai loro membri, allora, se non appartiene ad un gruppo, di cosa è parte
una persona?”.
190 ROBERT BOROFSKY
per “genere” intendo quei modi di categorizzare persone, oggetti, eventi, sequenze ecce-
tera che fanno riferimento alle immagini sessuali, ai modi cioè in cui le specifiche partico-
Il gender secondo larità dei caratteri maschili e femminili danno concretezza alle idee delle persone sulla
Yanagisako
natura delle relazioni sociali (Strathern 1988, p. IX)
e Collier
Questo spiega perché Strathern (p. 256) prenda in considerazione “la divisione
interna delle persone... in elementi maschili e femminili”. Piuttosto che su quanto
tiene assieme e lega le collettività, l’accento viene posto sulla differenziazione delle
relazioni. Per citare ancora l’autrice (a p. 264):
...ad essere “separate” l’una dall’altra erano le persone e le stesse relazioni: persona da
persona, relazione da relazione, e non persone isolate dalle relazioni. Invece di essere fis-
sate per sempre al momento della nascita, le relazioni costituivano la vita attiva delle per-
sone, qualcosa su cui non si smette di lavorare.
Quello che differenziava le relazioni, in Melanesia, era lo scambio delle prospettive con
cui le persone si ponevano in rapporto tra loro....
Per molti antropologi, senza dubbio, Strathern non è un’autrice agevole da se-
guire. I suoi scritti sono ricchi di sottigliezze, complessità e connessioni parziali che
necessitano di continui approfondimenti. Tuttavia il suo approccio ci lascia una lun-
INTRODUZIONE ALLA PARTE TERZA 191
di Foucault (cfr. ad esempio, 1975, 1976, 1980, 1984) le cui “analisi del corpo”,
L’influsso di nelle parole di Dreyfuss e Rabinow (1982, p. 111), indicano che “anche le pratiche
Foucault sociali più minute e locali sono collegate all’organizzazione del potere su larga sca-
la”. Questa prospettiva critica viene esemplificata nel saggio di Scheper-Hughes,
nel quale vengono analizzate le relazioni tra classe sociale e genere a livello del cor-
po. L’autrice riconcettualizza la convenzionale analisi freudiana della conversione
isterica e il modello psicologico della somatizzazione, per sostenere che la produ-
zione di segni corporei e dei sintomi non controllati nelle persone non deve essere
considerata una patologia, ma una forma legittima di “prassi corporea”, nella qua-
le il corpo “dice il vero al potere” sotto forma di sintomi, che rivelano le “inespri-
mibili” condizioni e la violenza quotidiana dei tagliatori di canna da zucchero del
Nord-Est del Brasile.
Infine, bisognerà riflettere su una serie di questioni nate da queste operazioni di
ripensamento delle prospettive: in che modo, ad esempio, si basano sulle analisi
precedenti, come riorientano il pensiero attuale e se riescono a suggerire nuovi ap-
profondimenti e possibilità di ricerca.
Nota alla parte terza
Massimo Canevacci
Sin dai suoi esordi, nell’antropologia si sono sviluppate due diverse tradizioni:
una, che aspira all’oggettività ed è ispirata alle scienze biologiche, va alla ricerca di Due tradizioni
antropologiche
spiegazioni ed è preoccupata di scoprire cause o addirittura, nelle sue formulazioni
più ambiziose, leggi; l’altra, influenzata dalla filosofia, dalla linguistica e dalle altre
scienze umane, è sensibile a una forma di conoscenza maggiormente legata al sog-
getto, va alla ricerca di interpretazione e cerca di chiarire significati. Le nostre radi-
ci affondano sia nell’Illuminismo sia in ciò che Isaiah Berlin (1980) definiva “con-
tro-Illuminismo”. Discendiamo da Cartesio, quindi, ma anche da Vico.
La convivenza tra le due tradizioni non sempre è stata facile anche, o forse so-
prattutto, quando hanno coabitato nelle stesse menti. Tuttavia, ogni separazione ra-
dicale tra le due è fuorviante, non solo perché i significati sono spesso causali, e le
cause sono spesso significative, ma perché, fondamentalmente, la relazione tra le
due tradizioni, in tutta la sua ambiguità, esprime la condizione di una specie che vi-
ve, e non può che vivere, sulla base dei significati che deve costruire, in un mondo
privo di significato intrinseco ma soggetto alle leggi della natura. Per essere adegua-
ta, l’antropologia deve quindi tentare di comprendere la pienezza della condizione
del proprio soggetto.
In realtà, le critiche succedutesi negli ultimi venti anni hanno tutte sottolinea-
to il crescente allontanamento tra le due tradizioni. Il distacco non dovrebbe
comunque essere esagerato, né tantomeno valutato sulla base dell’estremismo del-
le asserzioni radicali. È ancora lontano il divorzio, e anche la separazione potreb-
be essere stata in certo senso utile, per aver permesso a ciascuna tradizione non
solo di esplorare i limiti delle proprie possibilità ma, nel far ciò, di riscoprire la
propria dipendenza dall’altra. Crediamo tuttavia sia giunto il momento di una
loro, pur problematica, riunificazione.
Molto può dipendere da questo, più che dal futuro di una branca specifica del-
l’antropologia. Torniamo ora dalla nostra disciplina al suo oggetto specifico. La no-
stra è, dopotutto, non solo una specie in via di estinzione, ma una specie il cui ri-
schio di estinzione mette in pericolo la vita di tutte le altre specie. Sono convinto
che l’antropologia non sia in grado di dare risposta a tutti e forse, nemmeno ad al-
cuni tra i più urgenti problemi che affliggono il mondo. Può, però, almeno fornire
dei modi utili per concepire quei problemi. Modi, per molti aspetti, ben diversi dal-
le concezioni (dominanti nel dibattito pubblico) immaginate dagli economisti, che
spesso fanno ricorso a quel capolavoro di ingenuità mentale detto “calcolo di costi
e benefici”. D’altronde, avere a che fare con simili problemi rappresenterà per noi
uno stimolo, sia dal punto di vista teorico sia da quello pratico.
Sono convinto che, tra le possibili cause del pericolo di estinzione, riveste no-
tevole importanza lo iato tra la legge naturale e i significati che costruiamo. Per
“legge naturale” intendo le regolarità della natura e le loro cause, siano o meno L’incommensu-
conosciute o comprese. Da un lato, è decisamente poco probabile che le leggi na- rabilità fra la
turali potranno mai essere pienamente conosciute; anche se così fosse, però, i fe- natura
nomeni della natura sono di tale complessità e così soggetti al caso che le loro e i significati
conseguenze resterebbero per sempre imprevedibili. Dall’altro, non c’è niente costruiti
nella natura del pensiero umano che possa impedire la nascita di follie autodi-
struttive: follie che, rafforzate da tecnologie sempre più potenti, sono ormai in
grado di distruggere il mondo. Il fatto che questa affermazione sia scontata non è
che una conferma della sua verità.
Noterò solo per inciso che uno dei problemi del relativismo, nella sua forma più
estrema, è che non sembra in grado di affrontare quel tipo di errori che possono
impossessarsi di intere culture. Per “errori” intendo quelle idee, qualunque sia la
196 ROY RAPPAPORT
Il relativismo loro provenienza, così lontane dal conformarsi alla struttura del mondo, da causare
e gli “errori”
delle culture
azioni a carattere distruttivo. La prevalente concezione economica dei sistemi eco-
logici, che li considera, in sostanza, alla stregua di concentrazioni di risorse (una
concezione che contribuisce quindi, in questo modo, alla distruzione dello strato di
ozono e all’effetto serra) rappresenta soltanto un esempio che – per la familiarità
che abbiamo con esso ma anche per la sua gravità estrema – permette di dimostrare
che gli “errori” non dipendono soltanto (o soprattutto) da malintesi empirici, ma
sono, in un certo senso, funzionali al potere. Tuttavia, ciò che intendo affermare è
che se le due tradizioni rimarranno radicalmente separate, l’antropologia non potrà
neanche accostarsi al problema più generale dello iato tra sistemi naturali e costru-
zioni culturali.
Prima di passare a considerare il futuro dell’antropologia nel quadro di questo
iato che potrebbe ben rappresentare l’essenza di ciò che definiamo, spesso piutto-
sto solennemente e forse pretenziosamente, “condizione umana”, sarà utile prende-
re in esame la natura di questa frattura e il suo emergere nel corso dell’evoluzione
dell’umanità.
Il linguaggio e l’umanità
Non mi riferisco, lo ripeto, all’“evoluzione” umana o a quella degli “ominidi”,
ma all’“evoluzione dell’umanità”. C’è una differenza di connotazione: le espressioni
“evoluzione degli ominidi” o “evoluzione umana” avrebbero permesso di sottoli-
neare ciò che accomuna la nostra specie alle altre, il fatto cioè che siamo animali
che vivono in mezzo ad altri organismi e dipendiamo da essi e inoltre, il fatto che la
nostra specie si è evoluta attraverso processi di selezione naturale per nulla differen-
ti, in linea di principio, da quelli che hanno prodotto le sanguisughe o i leoni. Pur
L’evoluzione
dell’umanità e il
ammettendo queste affinità, tuttavia, l’espressione “evoluzione dell’umanità” ci
linguaggio consente di porre in evidenza le caratteristiche che contraddistinguono la nostra
specie e la differenziano dalle altre. I nostri antenati ominidi divennero “pienamen-
te umani”, per usare un termine generico ma afficace, con lo sviluppo del linguag-
gio. Tutti gli animali comunicano; persino le piante trasmettono informazioni, ma
solo gli esseri umani, per quanto ne sappiamo, possiedono un linguaggio che com-
prende, in primo luogo, un lessico fatto di simboli nel senso indicato da Peirce
(1960, vol. II, pp. 143 sgg.) – segni connessi a ciò che denotano esclusivamente me-
diante “leggi”, vale a dire in virtù di una convenzione; e, in secondo luogo, da
grammatiche, serie di regole in grado di combinare simboli dando vita a un discor-
so semanticamente illimitato.
Sottrarsi Il possesso del linguaggio rende possibili modi di vita inconcepibili per esseri
all’immediatezza che ne sono privi, e la stessa capacità di utilizzarlo è il prodotto di uno specifico
del presente processo di selezione. Con il linguaggio, la comunicazione non solo può sottrarsi al-
l’immediato hic et nunc e fare riferimento al passato ma può anche, entro un certo
limite, preordinare il futuro, rendendo così possibili ed efficaci la pianificazione e la
coordinazione. Ne derivano altre implicazioni, che pure non presentano vantaggi
altrettanto evidenti. Grazie al linguaggio, infatti, il discorso è in grado di sfuggire al-
l’immediatezza del presente non solo per registrare l’effettivo passato o per configu-
rare un futuro prevedibile, ma anche per esplorare quei “mondi paralleli” rappre-
sentati da espressioni come “potrebbe essere stato”, “dovrebbe essere”, “può sem-
pre darsi che sia”. Rende possibile, per così dire, la ricerca negli universi del deside-
rabile, della morale, della possibilità, dell’immaginario, del generale.
Indagare questi universi non significa semplicemente scoprire quel che già esiste,
L’espansione del
pensabile ma crearlo. Il linguaggio espande straordinariamente tutto ciò che è pensabile.
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 197
Alcune implicazioni
Se, conformemente quanto sosteniamo, il linguaggio è fondamentale per l’adat-
tamento umano, è chiaro che questa affermazione risulta inadeguata o addirittura
L’invasione tra
fuorviante come descrizione del rapporto tra il linguaggio e il parlante. Se le persone
apparato adattivo agiscono, e non possono che agire, sulla base dei significati che essi o i loro antenati
e specie in hanno concepito, allora sono alla mercé di tali concezioni tanto quanto queste ultime
adattamento sono parte integrante del loro stesso adattamento. Nel corso dell’evoluzione umana si
verifica, cioè, un’inversione, o una parziale inversione, nella relazione tra apparato
adattivo e specie in adattamento. La capacità essenziale per l’adattamento umano dà
vita a concetti come quelli di dio, paradiso e inferno, che finiscono col dominare chi
li ha concepiti. Non ha quindi senso sostenere che questi concetti, o le azioni cui
danno origine, contribuiscono alla sopravvivenza e alla riproduzione degli organi-
smi che li affermano.
Se le implicazioni di quanto proposto sono ovvie, non per questo tuttavia sono
meno profonde. In primo luogo, se la metafora dell’inversione (ovviamente una
semplificazione) risulta adeguata, la misura in cui concetti come “idoneità comples-
siva” e “selezione della specie” sono in grado di spiegare i fenomeni culturali è piut-
tosto limitata. In secondo luogo, e strettamente collegata al primo aspetto, qualsiasi
cosa accada tra le altre specie, la selezione del gruppo (ovvero, quella selezione fina-
lizzata alla continuazione dei tratti che contribuiscono in maniera positiva alla so-
La selezione pravvivenza dei gruppi in cui compaiono e negativamente alla sopravvivenza dei
di gruppo particolari individui in loro possesso) non è soltanto possibile tra gli esseri umani,
ma è di grande importanza nell’evoluzione dell’umanità. Tutto ciò che occorre, per
rendere possibile la selezione di gruppo, è uno strumento in grado di spingere gli
individui a distinguere le loro concezioni del benessere o del vantaggio dalla so-
pravvivenza biologica. Concetti come dio, paradiso, inferno, eroismo, onore, vergo-
gna, patria e democrazia, codificati in quei processi di inculturazione che li rappre-
sentano come reali, naturali, pubblici, sacri (e, perciò, normativi), hanno dominato
ogni cultura della quale possediamo una conoscenza etnografica o storica. In termi-
ni più generali, ciò significa che se i sistemi adattivi possono essere descritti come
sistemi che operano (consciamente o inconsciamente) per preservare il valore di ve-
rità di certe proposizioni di fronte alle minacce di falsificazione, allora è possibile
ipotizzare che le proposizioni più idonee, a questo proposito, nei sistemi umani ri-
guardino concezioni come dio, onore, libertà, bene. Va da sé che la loro conserva-
Conservazione zione ha spesso richiesto sacrifici grandi, talora anche estremi, da parte degli indivi-
di postulati dui. I postulati relativi alla natura una o trina di Dio sono fra quelli per i quali innu-
adattivi
merevoli individui hanno sacrificato le loro vite, al pari di slogan “terreni” come
“meglio la morte che il disonore” o “meglio morti che rossi”.
Un’implicazione finale: ci accostiamo qui a una legge o regola evolutiva che in
genere non viene riconosciuta, quasi l’equivalente evolutivo del vecchio adagio
per cui non esistono pasti gratuiti: nel momento in cui fornisce un’adeguata ri-
sposta e contribuisce alla risoluzione dei problemi precedenti, ogni progresso
evolutivo pone nuovi problemi; in tal senso, il linguaggio non ha fatto eccezione.
Da una sorta di celebrazione del linguaggio siamo così giunti a riconoscerne gli
I difetti
aspetti più problematici. Oltre alle illimitate possibilità di contraddizione esistenti
del linguaggio tra la conservazione delle costruzioni simboliche e la sopravvivenza degli organismi
che le concepiscono, due altri problemi sono strettamente correlati alla natura stes-
sa del linguaggio. In primo luogo, quando un segno è collegato soltanto convenzio-
nalmente a ciò che denota, nel senso indicato da Peirce, il segno ricorre anche in as-
senza del significato a cui si riferisce, mentre gli eventi possono accadere senza do-
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 199
ver essere denotati da segni. La stessa relazione convenzionale che permette al dis-
La menzogna
corso di sfuggire l’immediatezza del presente, perciò, rende possibile anche la men-
zogna. Se gli esseri umani non sono i primi e gli unici bugiardi al mondo, sono sicu-
ramente i principali. In secondo luogo, il linguaggio rende inevitabile concepire
delle alternative alle condizioni e consuetudini dominanti. La stessa capacità che
permette di aumentare la flessibilità rappresenta una sfida costante al prevalente or-
dine sociale e concettuale. L’altra faccia della medaglia della maggiore flessibilità è La sfida
la maggiore possibilità di disordine. È interessante notare che Buber (1953) consi- all’ordine sociale
derava la menzogna e l’alternativa come il fondamento di ogni male. Ad ogni modo,
se la presenza delle parole è inevitabile, diventa necessario definire in modo univo-
co il concetto di parola; la “parola vera”, contrapposta al potere corrosivo delle pa-
role mendaci e della moltitudine di parole, della falsità e della babele.
La questione che stiamo affrontando è molto vicina a quella posta da Hans
Kung (1980, p. 1) nel primo paragrafo del suo monumentale Does God Exist?
Da quando è nato l’uomo moderno e razionale abbiamo assistito ad una lotta quasi di-
sperata con il problema della certezza umana. Dove, ci chiediamo, è possibile trovare una
certezza salda ed incrollabile su cui poter costruire tutta la convinzione umana?
Il Logos
Uso il termine “Logos” per designare una categoria di concezioni in base alle qua-
li sono ordinate molte, forse la maggior parte, delle società premoderne. Ogni conce-
zione è unica nel suo genere per quanto attiene i particolari, ma tutte presentano tra
loro una “somiglianza di famiglia”. In alcune società esse restano sottintese, ma in
molte hanno invece un nome: Ma’at nell’antico Egitto, l’Asha zoroastriano, l’Hozho Il “principio
dei navajo, il Nomane dei maring. Naturalmente, c’è poi il Logos dell’antica Grecia, la d’ordine”
“specie-tipo”, per così dire, da cui facciamo derivare il nome della categoria.
Nel Nuovo Testamento, Logos viene tradotto in generale con il termine “ver-
bo”. Io, tuttavia, lo considero nella sua precedente accezione pre-socratica. Al tem-
po di Eraclito, il termine denotava un principio permanente e divino che ordina il
mondo (Debrunner 1967; Kahn 1979). Il Logos possedeva determinate caratteristi-
che generali, alcune delle quali abbastanza diffuse tra i Logoi del mondo. In questa
sede prenderemo tuttavia in considerazione soprattutto l’accezione greca.
Innanzitutto, la nozione di unità implicita in ogni concetto di ordine è una ca-
ratteristica esplicita del Logos. Uno dei frammenti più importanti viene tradotto da
G. S. Kirk (1954, p. 65) come segue: “non prestate ascolto a me, ma al Logos; è del
saggio riconoscere che tutte le cose sono una”.
In secondo luogo, il Logos è accessibile alla comprensione umana perché lo stes-
so Logos, che ordina l’universo, ordina le menti umane come parti dell’universo.
C’è solo un atto veramente saggio: comprendere che tutto al mondo è parte di uno
stesso insieme. Questo genere di comprensione è radicalmente differente da altre
forme di consapevolezza, ed è solo attraverso di essa che gli esseri umani possono
sentirsi parte integrante dell’insieme ordinato di cui sono membri. Ne derivano di-
verse osservazioni.
200 ROY RAPPAPORT
Sacralità e rituale
Nelle parti essenziali del discorso che fonda i Logoi e che viene rappresentato
nella liturgia, sono fondamentali determinate affermazioni, che definiamo “postula-
L’EVOLUZIONE DELL’UMANITÀ E IL FUTURO DELL’ANTROPOLOGIA 201
ti sacri essenziali”. Un esempio che ci è familiare è: “il Signore è il nostro Dio, Uno I “postulati sacri
è il Signore”. Tali affermazioni solitamente non fanno riferimento a termini materia- essenziali”
li e, a volte, sembrano internamente auto-contradditorie. Sembrano, quindi, invul-
nerabili alla falsificazione empirica e al di là della falsificazione logica: non possono
essere verificati e, nonostante tutto, sono considerati indiscutibili. Credo che questa
non discutibilità sia fondamentale e, in altra sede, ho definito la sacralità come “la
qualità dell’indiscutibilità, attribuita da un insieme di fedeli a postulati che sono per
loro natura assolutamente infalsificabili e oggettivamente non verificabili ” (1971, p.
29; 1979c, p. 209). In quanto tali, possono sembrare indistinguibili dagli assiomi,
ma esistono delle differenze. Innanzitutto non possono essere derivati, come teore-
mi, da logiche di tipo superiore. Allo stesso modo, le affermazioni che da essi di-
pendono non sono derivate logicamente ma sono, invece, sacralizzate, cioè a dire
certificate.
Questa definizione, sia chiaro, considera la sacralità come una caratteristica del
discorso piuttosto che dell’oggetto del discorso: ad esempio non è sacro Cristo, ma
è sacra l’espressione della sua divinità (nel discorso). Dai postulati sacri essenziali,
la sacralità fluisce verso tutte le parti fondamentali del discorso fondativo dei Logoi,
alla cui sommità essi si trovano e in questo flusso la sacralità promana dal rituale
per entrare, in generale, nei processi sociali. Se, ad esempio, la regalità fa parte del
Logos e se i re vengono incoronati nel nome di Dio, allora anche le loro direttive
terrene saranno sacre. Espressioni abitualmente sacralizzate sono, ad esempio, gli
assiomi cosmologici, i comandamenti, la professione di fede, i giuramenti e anche
quei rituali che consacrano e legittimano le autorità. La sacralità, insomma, proma-
na dal rituale non solo per rendere sacri i Logoi, ma per sottoscriverne, in generale,
il discorso. In questo flusso, la generale non discutibilità che rappresenta l’essenza
della sacralità acquista determinate caratteristiche, correlate ma più specifiche: la
decenza, la moralità, la legittimazione, l’efficacia, la verità.
Dobbiamo ora chiederci in che modo determinati postulati raggiungono la loro
condizione di sacralità essenziale, vale a dire la non discutibilità. Ritengo che tale Il rituale come
condizione sia conferita loro dalla rappresentazione nel rituale: il rituale è un mez- mezzo per
produrre sacralità
zo, forse l’unico, per produrre sacralità. La definizione di rituale che accettiamo de-
nota “la rappresentazione di sequenze più o meno invarianti di atti formali ed
espressioni non codificate dagli esecutori” (cfr. Rappaport 1979c, p. 175).
In altra sede (1979c), ho sostenuto che il rituale basa la non discutibilità di ciò
che è sacro su tre modalità, due delle quali dipendenti dalle caratteristiche relativa-
mente invarianti della forma rituale. Per ragioni di tempo non posso qui discuterle
in dettaglio. Basterà notare in primo luogo che, per rappresentare un ordine inva-
riante e non codificato dagli stessi esecutori, è indispensabile la conformità a quel-
l’ordine. È necessario cioè, come minimo, riconoscere l’autorità dell’ordine. Ma c’è
qualcosa di più. Rappresentare una liturgia vuol dire parteciparvi; parteciparvi, si-
gnifica divenirne parte. Riteniamo contraddittorio, quindi impossibile, negare un L’importanza
ordine del quale siamo parte. Quindi, rappresentare un ordine liturgico significa ac- dell’invarianza
cettare qualsiasi cosa sia stata codificata nel suo canone. Accettarlo significa essere
d’accordo e non metterlo in discussione: è questo il primo fondamento della non
discutibilità. È importante notare che accettare un ordine liturgico non implica né
la credenza, né la conformità: l’accettazione crea un obbligo a conformarsi, ma non
garantisce essa stessa la conformità. Il secondo fondamento della non discutibilità,
allora, si fonda sull’importanza dell’invarianza per il testo in se stesso.
Se il rituale è una forma di comunicazione, in termini di teoria dell’informazio-
ne, si tratta di una forma particolare. Se un ordine rituale è invariante, il suo mani-
202 ROY RAPPAPORT
l’oppressione. Nelle società tribali, semplici, l’esistenza di forme definite di autorità La sacralizzazione
dell’autorità nelle
dipende, per le prerogative di cui godono, dalla sacralizzazione derivante dai rituali società tribali
a cui partecipano coloro che presumibilmente sono soggetti a esse. Ciò significa che
in tali società è attivo un processo cibernetico. Nel caso in cui le autorità dovessero
operare in modo incompetente o oppressivo, i soggetti possono privarle della sacralità,
sia in modo passivo, rinunciando alla partecipazione ai rituali che santificano l’auto-
rità, sia in modo attivo, partecipando a rituali alternativi o a riti di degradazione.
Nelle società più sviluppate, dove le autorità hanno al loro servizio uomini ar-
mati, la situazione cambia. Le autorità possono in questo caso mantenersi in vita
grazie al potere, piuttosto che alla sacralità. Tuttavia non rinunciano a rivendicare la
loro sacralità, ma il rapporto con quest’ultima risulta ora invertito: mentre nelle so-
cietà più semplici l’autorità dipende dalla sua sacralizzazione, in società più sviluppate
la sacralità può essere degradata alla condizione di strumento dell’autorità.
La partecipazione rituale può continuare, naturalmente; ma se diventa obbliga-
toria, come a volte accade, non implica l’accettazione e, anche quando è entusiasti-
ca, è probabile che differisca profondamente dalla sacralità tribale quanto a orienta-
mento e a conseguenze. Le religioni affermatesi nelle società organizzate in Stati, in-
fatti, tendono a concentrarsi sulla salvezza ultraterrena e ad abbandonare la pro-
spettiva di curare i mali del presente. Come sosteneva Marx, la religione diventa
l’oppio dei popoli.
La sacralità pone ulteriori problemi specifici. In primo luogo, caratteristica del-
l’evoluzione sociale è la crescente differenziazione della società in sottosistemi spe-
cializzati, che tendono inevitabilmente a differenziarsi per quanto riguarda il pote-
re. La conseguenza è che i ristretti interessi dei più potenti arrivano a dominare i
valori della società intera. Come risultato, questi sottosistemi conseguono un grado Le società evolute
di sacralità maggiore di quanto sia adeguato alla loro natura specializzata e stru- e la creazione
della “idolatria”
mentale. Se, ad esempio, l’America è, come si afferma in alcuni atti e nella promes-
sa di fedeltà, “una nazione governata da Dio”, e se “gli affari dell’America sono gli
affari”, come dichiarò uno dei nostri presidenti (un uomo, cioè, che ha prestato giu-
ramento per rivestire la carica più elevata nella nostra società), allora anche gli affa-
ri vengono profondamente sacralizzati, e la logica del “ciò che va bene per la Gene-
ral Motors va bene per il paese” – una dichiarazione resa da una delle nostre più al-
te cariche – assume un carattere obbligatorio. In base alla nostra precedente discus-
sione sull’adattamento, determinate proposizioni assolutamente specifiche sono sta-
te elevate alla condizione di verità ultime. L’innalzamento di ciò che è specializzato,
strumentale e profano allo stato di verità generale, fondamentale e sacralizzata rap-
presenta un esempio di quello che il teologo Paul Tillich (1957) chiama “idolatria”,
in cui ciò che è relativo e contingente viene scambiato per l’assoluto, mentre que-
st’ultimo viene di conseguenza relativizzato. Tillich dà un’interpretazione negativa
di questo processo, tuttavia, al di là del giudizio morale, è necessario notare che in-
vestire determinate istituzioni specializzate e strumentali, come il mondo degli affa-
ri, di un alto grado di sacralità le rende incredibilmente resistenti al cambiamento:
in tal modo la flessibilità adattiva si riduce, impedendo le regolari trasformazioni
evolutive (cfr. Rappaport 1979d).
L’“eccesso di sacralizzazione”, di cui l’idolatria non costituisce che un caso speci- Chiesa cattolica,
fico, può anche svilupparsi all’interno delle stesse tradizioni religiose. Leggi di im- controllo delle
nascite ed eccesso
portanza minore possono essere confuse con leggi fondamentali, e possono essere at- di sacralizzazione
tribuite loro gradi elevati di sacralità, impropriamente. Un caso tipico è la posizione
della Chiesa cattolica a proposito del controllo delle nascite. Un determinato grado
di sacralità, adeguato solo alle questioni di fede – come, ad esempio, alla dottrina
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