Collana diretta
da Luigi M. Lombardi Satriani
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Copyright © 1996 Meltemi editore srl, Roma
Perché il corpo
Utopia, sofferenza, desiderio
MELTEMI
A Guglielmo e a Bill
Indice
p. 9 Il corpo nomade.
Mariella Pandolfi
Mariella Pandolfi
Professore ordinario di Antropologia, Letteratura compa-
rata e Teoria della cultura nel Dipartimento di Letteratura
comparata dell’Università di Montreal. Ha curato l’edizione
italiana de La follia degli altri di Tobie Nathan (1990), e pub-
blicato, tra le altre opere, Itinerari delle emozioni. Corpo e
identità femminile nel Sannio campano (1991). Si occupa at-
tualmente di antropologia del corpo e delle emozioni. Prepara
un volume per Laterza sull’antropologia delle emozioni e The
Body Speaks per Cambridge University Press.
Margaret Lock
Professore ordinario di Antropologia medica nel Diparti-
mento di Studi Sociali di Medicina e nel Dipartimento di Antro-
pologia dell’Università McGill di Montreal. È autrice, tra i molti
saggi e volumi curati e pubblicati, di East Asian Medicine in Ur-
ban Japan: Varieties of Medical Experience (1980) e di Encounters
with Aging: Mythologies of Menopause in Japan and Nordamerica
(1993), entrambi pubblicati con University of California Press.
E’ membro dell’Accademia reale canadese e dell’Istituto canade-
se per le ricerche avanzate nel programma sulla popolazione.
Vinh-Kim Nguyen
Assistente nel Dipartimento di Medicina familiare dell’Uni-
versità McGill di Montreal, è dottore in medicina. Lavora pres-
so il Centro di trattamento delle immunodeficienze dell’Ospe-
dale generale di Montreal. Prepara un dottorato in Antropolo-
gia Medica all’Università McGill.
Judith Farquhar
Professore associato (Bowman and Gordon Gray Associate
Professor) di Antropologia nell’Università della Carolina del
Nord a Chapel Hill. Specialista di antropologia medica e in
particolare di medicina tradizionale cinese. Ha pubblicato nelle
maggiori riviste americane di antropologia e recentemente con
Princeton University Press un volume dal titolo Knowing Prac-
tice: the Clinical Encounter of Chinese Medicine. Attualmente
prepara un volume sulla medicina e la cultura popolare nella
Cina post-Mao.
Giulia Sissa
Ricercatrice del C.R.N.R.S. nel Laboratoire d’Anthropolo-
gie Sociale al College de France, è professore ordinario di An-
tropologia del mondo classico alla John Hopkins University a
Baltimora. È autrice, tra l’altro, di: Madre materia. Sociologia e
biologia della donna antica, con S. Campese e P. Manuli (Bo-
ringhieri, 1983); La verginità in Grecia (Laterza, 1992); La vita
quotidiana degli dei greci, con M. Detienne (Laterza, 1991). Si
occupa ora di sessualità, parentela e scetticismo.
Wladimir Krysinski
Professore ordinario di Letteratura comparata, Teoria let-
teraria e Letterature slave presso l’Università di Montreal. Tra
le altre opere ha pubblicato i volumi: Carrefours de signes. Es-
sais sur le roman moderne (Mouton, 1981) e Il paradigma in-
quieto. Pirandello e lo spazio comparativo della modernità
(E.S.I.T., 1988). Le sue ricerche vertono in particolare sulla
modernità, la semiotica del romanzo, le avanguardie e la lette-
ratura moderna e post moderna. Prepara il volume: Il romanzo
e la sua modernità. Per e contro Bachtin.
Diane Elam
Professore ordinario di Teoria femminista e Teoria critica
dell’Università del Galles a Cardiff. Tra le numerose opere, ha
pubblicato: Feminism and Decostructionism ed ha curato Fe-
minism Beside Itself, entrambi per Routledge. Si occupa di
teoria critica, femminismo e postmodernità. Attualmente pre-
para il volume: Why Read?
Vincent Crapanzano
Professore ordinario di Antropologia e Letteratura compa-
rata (Distinguished Professor), al Graduate Center della City
University of New York. È autore, tra l’altro di Tuhami. Portrait
of a Moroccan (1980) apparso recentemente nella versione italia-
na (Meltemi, 1995), di The Hamadsha: A Study in Moroccan
Ethnopsychiatry (1973), di Waiting: The Whites of South Africa
(1985) e di Herme’s Dilemma and Hamlet’s Desire: On the
Epistemology of Interpretation (Harvard University Press, 1992).
Il corpo nomade
Mariella Pandolfi
Il corpo urbano
Le rapide accelerazioni o le ontologiche paralisi fanno
infatti del corpo il luogo in cui si inscrivono queste nuove
IL CORPO NOMADE 13
Lo spazio negato
Rappresentandosi come “virtualità” senza memoria, si-
mulacro in movimento, elusivo senza essere pulsionale, il
corpo nomade percorre altri spazi che delineano i confini
mobili dei nuovi corpi attraverso le diaspore, le emigrazioni
infra e transnazionali, mostrando tutta la fragilità della pre-
sunta egemonia del discorso occidentale.
L’accelerazione del tempo e dello spazio, socializzati e
localizzati attraverso complesse pratiche di performance, di
rappresentazioni e di azioni, ha segmentato il corpo in una
pluralità di corpi, disintegrato l’ottimismo di una soggetti-
vità che può controllarlo, creando un unico spazio-corpo in
cui prendono forma e si disarticolano poi tutti i modelli
identitari, nazionali, transnazionali. È un corpo che vuole
mostrarsi come carne e apparenza, come materialità e desi-
derio, che ha come progetto utopico il nomadismo planeta-
rio e l’autonomia nell’apparire, nel desiderare, nel definire
l’identità sessuale come identità politica. Un contropotere ai
poteri del sacro dunque, ai poteri statuali, ai poteri del ge-
nere per estirpare la secolare querelle della separazione car-
tesiana e finalmente dimenticare l’ingiusto giudizio sulla
materialità trasformato per secoli in un silenzio elusivo.
Nel lungo viaggio dell’occidente lo spazio politico ha scaccia-
to, nascosto il corpo, il corpo come necessità biologica, il cor-
IL CORPO NOMADE 15
Il rischio e la necessità
Vi è un rischio a mio avviso nel progetto seducente di un
“oltre” che si libera da un passato preconfezionato da altri e
che tende a liquidare ogni complessità e ambiguità dell’espe-
rienza umana accelerando il presente per impedire ogni pos-
sibile ritorno su percorsi del passato, sui percorsi di una sto-
ria causale e ufficiale svincolata dal testo e soprattutto inca-
pace di dare voce alla dissonanza e ai petits recits (Lyotard,
1981) che la costruiscono. Il rischio si traduce nel considera-
re il progetto dell’attraversare spazi e tempi senza senso, non
lieux, spazi degli altri senza la presenza degli altri (Augé,
1994) come il solo luogo del possibile; il vissuto fenomenolo-
gico in questa prospettiva annega nella dimensione virtuale
di un oltre che tende ad autolegittimarsi proprio in virtù del-
la negazione di un prima. Una virtualità che a volte nascon-
de sotto ambigue superfici di materialità un ben più ambi-
guo desiderio di trascendenza: e nell’utopia della non appar-
tenenza, o meglio della liberazione dall’appartenenza, consi-
dera il proprio corpo il solo luogo del possibile.
Se Ricoeur ricordava l’autismo onnipotente del cogito
cartesiano e il rischio dell’abisso, anche la vertigine dell’uto-
pia di simulacri senza memoria, possibili corpi-soggetti o
soggetti incarnati in un tempo che non si trasforma mai in
storicità, può precipitarci nell’abisso dell’ottimismo. Vi è
dunque un’altra possibile e diversa figurazione dell’uso no-
made dei confini corporei: non negarli attraverso il trans,
ma creare un continuo via vai fra la località e l’altrove, fra
deterritorialità utopiche e territorialità incarnate. La sfida
18 MARIELLA PANDOLFI
Il corpo nomade
È un progetto insito in molti dei movimenti poststruttu-
ralisti che ha finalmente obbligato molte utopie disciplinari
a fare i conti con l’attuale rivoluzione dei saperi. Il pensiero
“guida” europeo appare sempre più lontano: le molteplici
rivoluzioni culturali che hanno attraversato il Nord America
negli ultimi vent’anni hanno evidenziato la forza della cultu-
ra del frammento, come riflesso in ombra di una realtà forte
rispetto alla cultura della totalità (Deleuze, 1993) e, oppo-
nendosi alle diverse forme di ideologia istituzionale del sa-
pere, cercano nella cultura del frammento una forma conti-
nua di resistenza. In questo progetto radicale di sovversione
dei “discorsi” (Foucault, 1972) e delle “fratture” della sto-
ria, della decentralità del soggetto, contro ogni essenza,
struttura, irriducibilià della natura, scompare anche la me-
moria, l’interiorizzazione del trauma come storia frammen-
tata, ma pur sempre legame, continuità, appartenenza.
Materialità, figurazione retorica, palcoscenico del so-
ciale, topos delle energie sfuggenti alle norme e alle istitu-
zioni, spazio di negoziazione e frammentazione di ogni po-
tere e di ogni resistenza, voce, segno o silenzio, è il corpo
attraverso i suoi percorsi trasversali a permettere una più
libera articolazione dello spazio interdisciplinare. Il corpo
infatti si sottrae ad ogni logica miope, rivendica ogni qual
volta lo si tenti di normalizzare, nicchie di senso che ne ac-
compagnano la fragile materialità e la fluttuante significa-
zione (Gil, 1985).
Vi è dunque la necessità di tradurre in un linguaggio
pluridisciplinare una riflessione sul corpo che attraversi la
materialità, la virtualità, la figurazione retorica e discorsiva,
20 MARIELLA PANDOLFI
Memoria nomade
Nelle deterritorialità politiche, storiche, utopiche, il cor-
po nei suoi infiniti linguaggi di appartenenza, può continua-
re ad essere memoria, una memoria che a sua volta può tra-
sformarsi in memoria nomade. Quello stesso linguaggio che
a volte il piacere trasforma in suono inarticolato, in gemito,
in grido, ma che ben più spesso è reso frammentato e inarti-
colato dalla sofferenza e dalla violenza, appartiene ad una
materialità stanziale che occupa frammenti di spazi, ma che
può dilatarne la temporalità.
Memoria nomade significa vivere non il passato, ma er-
rare fra i satelliti del passato, attraversare gli “altri” non co-
me un trickster, ma come una sonda che rileva e amplifica i
sussurri, le grida, i palpiti trasformandoli poi in frammenti
di materialità. Tracce fatte di organi, liquidi, nomadismo del
corpo capace di rilevare ogni orma di temporalità passata.
Memoria nomade significa una memoria che è nel sog-
getto e va oltre il soggetto, che rende mobili e volatili i con-
fini del sé e dell’altro, e che nel proprio corpo traccia una
storia in parallelo, ma non antagonista con la storia dei po-
teri, delle norme, della tradizione. La memoria nomade vive
fra voci magnetiche dei telefoni che ci guidano nei percorsi
quotidiani, partecipa alla sensualità virtuale che ci rende on-
nipotenti nell’attraversare il mondo di internet, ma evita il
rischio dell’autismo affettivo, poiché dell’avvenimento rifiu-
ta la sola logica del frammento come separazione, come
evasione, rifiuta di avere un rapporto elusivo con l’oblio. Il
suo rapporto con il passato non risponde ad una sola logica,
22 MARIELLA PANDOLFI
La violenza, la sofferenza
“Di fronte a me, con gli occhi sbarrati mi vedevo im-
provvisamente guardato (...) con occhi terrorizzati da due
anni vivevo senza viso, nessun viso su questo mio corpo ri-
dicolo” (Semprun, 1994, p. 13). Eppure era un corpo or-
mai trasparente, ma ancora vivo, usato ma ancora disponi-
bile a sopravvivere, quello dello scrittore Jorge Semprun a
Buchenwald nel ’45 davanti a tre ufficiali britannici. “Non
resta che il mio sguardo che possa davvero incuriosirli, è
l’orrore del mio sguardo che riflette il loro terrorizzato. Se i
loro occhi sono uno specchio io devo avere uno sguardo
folle, devastato” (Semprun, 1994, p. 14). La dialogicità ri-
torna: la possibilità di riscoprirsi nello sguardo dell’altro,
sia pure come immagine di terrore, riporta il corpo nei
margini della comunicazione attraverso lo sguardo e il lin-
guaggio. Nella tortura, nel genocidio, nella guerra, nella
violenza in generale si annullano fra gli esseri umani lo spa-
zio dello sguardo, il tempo della comunicazione. È in que-
sti spazi che la microfisica dei poteri è costretta a cedere il
passo a un Leviatano incontrastato che ritrascrive l’espe-
rienza corporea individuale senza più alcuna negoziazione
con le strategie di potere o di dominazione nelle quali il
soggetto è coinvolto nell’esperienza di vita quotidiana. La
violenza sui corpi inverte il rapporto spazio tempo e annul-
la ogni possibile nomadismo creando recinti, spazi stretti,
camere piccole in cui i corpi vivono ogni istante la riduzio-
ne dello spazio come temporalità iniziatica verso la propria
morte. La vita costretta tutta nello spazio di un corpo allar-
ga i confini del tempo: ricordare per continuare a desidera-
re, ricordare per difendersi, ricordare per occultare, ricor-
dare per poter non dire, ricordare per scrivere. Una memo-
ria nomade percorre quegli spazi negati: il rapporto spazio
temporalità ancora una volta si inverte e il diritto alla vita
cancellato ritorna proprio attraverso di essa. Una nuova di-
IL CORPO NOMADE 25
Perché il corpo
I frammenti di materialità e di mondo fin qui attraversati
troveranno una legittimità maggiore, leggendo i saggi pre-
senti nel libro. Vi è in ognuno di essi l’esigenza di entrare in
una gabbia disciplinare, per poi uscirne in gran fretta, te-
mendo di venirne soffocati. Vi è il desiderio di dialogare
con gli altri, e con se stesso senza il timore della trasgressio-
ne, della corrosività, permettendo di attraversare l’antropo-
logia, la letteratura, la filosofia, la psicoanalisi, per interro-
garsi senza rispondersi o, senza confondere, la radura nel
bosco heideggeriano come una luce di verità. Vi è il deside-
rio di attraversare spazi istituzionali (Lock, Nguyen, Far-
quhar) protetti da verità di potere e da nuove tecnologie,
che permettono poi di far emergere ciò che de Certeau con-
sidera come forme clandestine della creatività dispersa: for-
me emergenti dalla violenza dell’ordine che diventano poi
tecnologie della disciplina. Vi è il desiderio di navigare il
pensiero moderno attraverso la critica femminista utilizzan-
do i percorsi spezzati della decostruzione per far emergere
le molteplici aporie del pensiero occidentale dall’illumini-
smo ad oggi (Elam) proponendo il luogo dell’utopia come
solo spazio politico del soggetto e quindi del corpo femmi-
nile. Vi è il desiderio di ritrovare nel corpo i piani inclinati
di miti di fondazione interdisciplinari, intersoggettivi, inter-
tematici che mettano in rilievo come il “simbolismo e la re-
torica premono sul ‘biologico’, che a sua volta resiste ad en-
trambi in senso fenomenologico” (Crapanzano). Vi è il desi-
derio di disarticolare l’ortodossia dei testi (Sissa, Krysinski)
e riscoprire la brutalità seducente del desiderio.
Il percorso del libro segue la sofferenza, il desiderio e
l’utopia. Ogni saggio vive le tre dimensioni anche se gli spa-
zi di analisi cercano luoghi e tempi non di certo omogenei.
La sofferenza in Lock e Nguyen vive nell’istituzione biome-
dica, in Farquhar nel gioco delle ombre di un passato e un
26 MARIELLA PANDOLFI
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28 MARIELLA PANDOLFI
Rifare la morte
Con lo sviluppo dei respiratori artificiali, in diversi con-
sessi internazionali si tentò di formulare un chiaro concetto
di morte. Nel simposio CIBA, a Londra nel 1966, e nella
conferenza dell’Associazione medica mondiale, a Sydney
nel 1968, i delegati lavorarono basandosi sull’assunto che,
di fronte alle nuove tecnologie mediche, si dovesse radical-
mente ridefinire la concezione della morte (Rado, 1981).
Ariès, nello scrivere la storia della morte in un’ottica di lon-
gue durée sostiene che in Europa, per almeno un millennio
fino al XIII secolo, è esistita ciò che lui definisce la “morte
addomesticata”. Sostiene che una familiarità con la morte
priva di paura e di disperazione, “a metà strada tra la rasse-
gnazione passiva e la fiducia mistica” era tipica di quel pe-
riodo storico (1978, p. 82). Il destino si rivelava con la mor-
34 MARGARET LOCK
La morte utile
In America, il primo passo per ridefinire la morte fu fat-
to nel 1968 dal Comitato ad hoc dell’Harvard Medical
School poco dopo il primo trapianto di cuore, in Sud Afri-
ca nel 1967. I medici del Comitato dichiararono unilateral-
mente che individui in stato di “coma irreversibile” cui era
stata diagnosticata la “sindrome da morte cerebrale”, pote-
vano esser dichiarati deceduti (Ad Hoc Committee of the
Harvard Medical School, 1968). Prima la morte era conven-
zionalmente dichiarata al momento dell’arresto cardiaco;
ma con il respiratore artificiale e la possibilità di mantenere
l’attività cardiaca anche in assenza di attività cerebrale,
questa convenzione non fu più praticabile. Il comitato
individuò due ragioni per stabilire una chiara definizione
della morte: le “crescenti pressioni” cui erano sottoposti
pazienti, famiglie e personale ospedaliero per “i progressi
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 37
Il dibattito in Giappone
Riguardo ai trapianti d’organi vi sono oggi, tra gli Stati
Uniti e il Giappone, notevoli differenze: p.e., in America nel
1990 sono stati eseguiti quasi 2000 trapianti di cuore, in
Giappone nessuno. Questa differenza non può trovare una
spiegazione in carenze di tecnologia o di risorse economi-
che. Dobbiamo ritenere che differenze culturali debbano
essere determinanti. All’inizio ero incline a chiedermi di
quale sapere dispongono i giapponesi da renderli refrattari
all’estensione tecnologica della vita. Un approccio che sem-
brava particolarmente pertinente poiché il Giappone, utiliz-
za ed esporta complesse tecnologie mediche più di qualsiasi
altra nazione al mondo (Ikegami, 1989). Il Giappone non è
così secolarizzato e razionale, così “moderno” come la sua
immagine ci fa ritenere? O in Giappone operano condizio-
namenti culturali sulla produzione del discorso scientifico
sulla morte e sui morenti?
C’è qualcosa di strano nel non operare per “salvare” vite
in una società secolarizzata priva di limitazioni economiche
o tecnologiche. La risposta ce la può dare l’analisi delle so-
pravvivenze di un passato arcaico che si cela nella tarda mo-
dernità giapponese. Questo approccio non rende giustizia
delle prevalenti spiegazioni che gli stessi giapponesi danno
del fenomeno negando che la cultura, intesa come “cultura
tradizionale”, c’entri qualcosa. Al contrario sono per una
spiegazione pragmatica che sottolinei le implicazioni politi-
che, i rapporti di potere tra gli esperti coinvolti, tra mondo
medico e opinione pubblica (Nudeshima, 1991). Una
preoccupazione ricorrente nelle argomentazioni dei giappo-
nesi è che, nel considerare anomala la situazione giappone-
se, le concezioni nordamericane su benessere e giustizia so-
ciale non sono problematizzate, ma implicitamente conside-
rate la norma.
44 MARGARET LOCK
Sviluppando la naturalità
Ringraziamenti
La ricerca è stata finanziata dal Social Sciences and Humanities
Research Concil of Canada, finanziamento numero 410-93-0544.
Una parziale versione di questo saggio sarà pubblicata, in
inglese, nella rivista Daedalus. Journal of the American Aca-
demy of Arts and Sciences.
52 MARGARET LOCK
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RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 55
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corse all’ospedalizzazione solo in casi assolutamente necessa-
ri - devono aver fede nella biomedicina e nei suoi rituali.
Sono i rituali e le routines della medicina, piuttosto che
l’autorità del suo sapere, ad essere importanti per la cura del
morente. Per funzionare gli ospedali devono scomporre i
corpi dei malati in parti di diversa importanza. Quel che
queste parti sono, quel che non funziona di esse, dove ven-
gono situate all’interno dell’ospedale, tutto questo sembra
spesso avere un interesse maggiore di quello che accade
all’identità del malato o essere più importante del senso della
sua sofferenza. Le categorie di tale riduzione perdono rile-
vanza di fronte al malato terminale, l’inventario dei possibili
interventi non risponde più ad esse. Sia quelle di ordine bio-
logico (gli organi) che di ordine psicologico (la personalità).
L’immagine del corpo comunitario è comunque di alto
potenziale esplicativo. Quel continuo ripetere le stesse do-
mande su questo o quell’altro dettaglio del corpo del moren-
te, mi faceva rispondere in modo insoddisfacente? Non che
le persone non capissero o non ascoltassero le mie risposte o
che fossero refrattarie ai miei tentativi di elaborazione psico-
logica, tentativi peraltro efficaci in clinica o negli incontri in
ospedale con i familiari. Queste domande testimoniavano
l’apparizione di un corpo comunitario. Questi interrogativi
durante la visita al malato erano un modo, credo, di tenere
insieme il corpo come oggetto comunitario; o, forse più pro-
vocatoriamente, queste domande sul morire potrebbero ri-
velarci qualcosa del corpo collettivo. Il morire come proces-
so riflette forse, non l’“espressione” di istanze psicologiche
della personalità di chi sta morendo ma il tentativo di elabo-
rare la morte fisica del corpo; forse è un disfare o un riorga-
nizzare le forze sociali che ci costituiscono in corpi e in indi-
vidui. Un corpo che ridiventa della collettività per spiegare la
sua finale evasione dallo sguardo medico e dall’individuazio-
ne della sofferenza.
La produzione dell’esperienza
Nell’Aids, la transizione dal corpo asintomatico, ma
medicalmente marcato, al corpo sintomatico e soggetti-
72 VINH-KIM NGUYEN
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Ibridità testuale e culture del desiderio nella Cina
post-socialista.
Judith Farquhar
La febbre sessuale
Dalla metà degli anni ‘80, la sessualità ha costituito un
argomento di crescente importanza nella letteratura e
nella cultura di massa cinese. Nella vita di ogni giorno la
distinzione tra i due sessi, tra i giovani in particolare, è
estrema nell’abbigliamento, nei cosmetici, nella gestua-
lità; assemblaggi, rococò di guarnizioni, nastrini, lustrini
e raso per le donne; giacche di pelle, accessori da cow-
boy e stivali da motociclista per gli uomini. La prostitu-
zione si è estesa ben oltre le peccaminose città del Sud e
viene, ampiamente quanto inefficacemente, denunciata
dalla propaganda di Stato. Romanzi e riviste pornografi-
che circolano privatamente e proliferano sulle bancarelle
per le strade; le librerie abbondano di manuali sessuali
che dispensano consigli alle nuove coppie e alle famiglie
(da notare che alcuni di essi sono “americani”). Classici
della manualistica erotica cinese insieme a testi minori
recentemente ritrovati, vengono pubblicati in collane
pseudo-specialistiche, mentre la Psicologia del sesso di
Havelock Ellis è stata recentemente ripubblicata in edi-
zione integrale. Allo stesso tempo, mentre la narrativa re-
cente trae sempre più spesso ispirazione dal fallimento e
dall’ossessione sessuale, le opere che in anni non lontani
avevano utilizzato la sessualità come allegoria della politica,
sono state oggi sostituite da un genere narrativo che ignora
qualsiasi riferimento politico in favore della pura esaltazio-
ne del desiderio. Benché il boom erotico sia esclusivamente
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 77
rente alla fatica e alla fame. Lavorava mentre gli altri si ri-
posavano, continuando anche quando essi andavano a
mangiare. Alcuni dei lavoranti alla trebbiatura venivano pa-
gati all’ora o a cottimo. Solo lei lavorava senza paga. Tutti
fissavano attoniti quella piccola e fragile giovane donna pe-
rennemente sorridente; la sua apparentemente inesauribile
fonte di energia era sorprendente, straordinario era quel
così nobile, solenne e virgineo splendore che si irradiava
dal quel viso affatto ordinario. Era impossibile distogliere
lo sguardo da lei (Barlow, 1989, p. 347).
Il racconto è pieno di espressioni nazionaliste ancora
più liriche di queste. Molte di esse sono peani alla Cina e al
Partito comunista, sia sotto forma di pensieri “intimi” di
Du Wanxiang che come elogi collettivi ispirati al suo servi-
zio semplice e disinteressato. Dal punto di vista dello Stato
maoista, lealtà e lavoro non erano sufficienti; era anche ne-
cessario servire il popolo per produrre un “nobile, solenne
e virgineo splendore” in cittadini il cui patriottismo impre-
gnava interamente i loro corpi.3
Al pari di altri numerosi etnografi e studiosi, ho altrove
scritto del progetto estremamente ambizioso per l’edifica-
zione di uno Stato nazionale sotto Mao. Recentemente,
però, le femministe hanno cominciato ad intravedere le im-
plicazioni per le donne, il gender e la sessualità nel tentativo
rivoluzionario cinese di “creare un uomo nuovo”. Uno stu-
dio particolarmente rilevante del processo maoista di de-
sessualizzazione è stato condotto dalla critica letteraria
Meng Yue sulla letteratura ufficiale degli anni ’50 e ’60, Fe-
male Images and National Myth (1993). Le opere da lei
prese in esame - tra cui The White-Haired Girl, Song of
Youth e Sons and Daughters of the Landlord - sono molto si-
mili a Du Wanxiang. Esse stabiliscono gli spazi e le possibi-
lità della narrativa all’interno del discorso maoista.4 Nell’ac-
certare (in maniera incontrovertibile) che durante i primi
decenni della Repubblica popolare socialista la letteratura
era un mezzo per il cui tramite “i discorsi statali si impos-
sessarono dei discorsi pubblici attraverso una graduale ri-
collocazione al proprio interno di tutte le possibili articola-
zioni e rappresentazioni del privato”, Yue dimostra che no-
nostante l’estrema importanza del gender per il progetto
82 JUDITH FARQUHAR
Conclusione
Ho sostenuto che la pubblicità per cliniche del sesso
sfrutta ed evoca ansietà e desideri assolutamente nuovi.
Non voglio dire che il sesso, l’ansia, o il desiderio siano in
qualche modo fenomeni nuovi, ma che le particolari forme
in cui attualmente si configurano in Cina sono più interes-
santi nella loro specificità storica che come espressioni di
astoriche “pulsioni” (poiché in materia di sessualità parlare
di forma e contenuto non ha molto senso, ci potremmo
chiedere che aspetto potrebbe avere una sessualità astori-
camente intesa). Studiosi di letteratura e cultura cinese
hanno recentemente analizzato l’emergere, a partire dalla
metà degli anni ‘80, di tanti piaceri privati; sono gli anni
che hanno segnato l’inizio del riflusso del discorso maoista
sul collettivismo puritano e sull’etica del lavoro. L’esplosio-
ne di prodotti erotici può esser vista come parte di un pro-
cesso di re-invenzione del privato e come un voltare le
spalle al discorso nazionale una volta che il valore del col-
lettivo è stato screditato dalla diffusa critica alla Rivoluzio-
ne culturale. Oggi, negli anni ‘90, mentre il consumo priva-
to e gli affari sono le forme privilegiate di partecipazione
alla vita collettiva e l’arricchimento è ormai l’unico valore
da tutti riconosciuto, non vi è più alcun ideale o grande
progetto cui dedicarsi; niente, al di fuori dell’attività econo-
mica privata, può ormai mobilitare istintive passioni. Non
ci si può sorprendere se in tali condizioni molti, da un
momento all’altro, scoprano il desiderio di privati piaceri
parzialmente proibiti, né che trovino gratificazione nella
fantasia letta o vista in prodotti stranieri dove il lusso è ab-
binato ad improbabili avventure sessuali.
Cosa può offrire la medicina nanke, col suo supposto
potere di “curare la radice”, ad un pubblico maschile re-
centemente sessualizzato? Contrariamente alla medicina
occidentale, che nell’immaginario popolare include tecni-
che meccaniche e localizzate (ad esempio, la chirurgia) o
medicine efficaci anche se pericolose, la nanke fornisce un
interpretazione del corpo in grado di collegare i disturbi di
carattere sessuale ai processi vitali fondamentali. Forse il si-
stema jing, entità dinamica minimale, complessa, cangian-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 95
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L’atto nel desiderio
Giulia Sissa
Già
Cosa fanno i filosofi cristiani? Come pensano, o ri-
pensano, l’articolazione tra desiderio e piacere? Prolun-
gano questa visione nichilista che rivela il vuoto, il non
essere, la sofferenza sotto l’apparenza della gioia, dell’in-
tensità e della pienezza di ciò che proviamo? Continuano
a disperdere l’illusione ridicola di coloro che mangiando,
bevendo, facendo l’amore, si ostinano a compiacersene
come se fosse veramente piacevole e come se non si trat-
tasse del più funesto e mediocre modo di vivere?
Per Tertulliano, Agostino e Gregorio di Nissa, il pia-
cere sessuale non è inesistente a causa del desiderio che
lo suscita, cioè a causa di una sensazione di mancanza
102 GIULIA SISSA
Fantasia
Quali sono dunque i presupposti filosofici di questa co-
sì nuova valorizzazione dell’oggetto, sia che appaia nel so-
gno o nella percezione visiva? Per quali ragioni la sua im-
magine si impone con una presenza talmente forte, talmen-
106 GIULIA SISSA
22 Seneca, Lettere a Lucilio, 113, 18 (SVF, III, 169): “Omne rationale ani-
mal nihil agit, nisi primum specie alicuius rei inritatum est, deinde impetum
cepit, deinde adsensio confirmavit hunc impetum. Quid sit adsensio dicam.
Oportet me ambulare; tunc demum ambulo, cum hoc mihi et adprobavi hand
opinionem meam.” Plutarco, Moralia, 1057a (SVF, III,177): “Non esiste azio-
ne, né intenzione sensa consenso, ma esiste una finzione e una vana ipotesi di
credere che, una volta sopraggiunta la rappresentazione conveniente, l’intenzio-
ne prende avvio senza che si abbia ceduto e dato il proprio assenso a questa
rappresentazione.” Stobee, II, 88, 1W (SVF, III,171): “Tutte le intenzioni sono
consensi”. (Voelke, 1973, pp. 50-55).
23 Nouveaux livres académiques, I, 10. Cf. Tusculanes, III, 11, 24-25: “Se ar-
riveremo a scoprire la causa del dispiacere, ne scopriremo il rimedio. La causa è
interamente nell’opinione, e non soltanto quella del dispiacere, ma anche quella
di tutte le altre passioni delle quali ci sono quattro tipi e una varietà di specie.”
Tusculanes, IV, 7, 14-15: “Omnes perturbationes iudicio censent fieri et opinio-
ne. Itaque eas definiunt pressius, ut intellegatur, non modo quam vitiosae, sed
etiam quam in nostra sint potestate. (...) Opinationem autem, quam in omnis
definitiones superiores inclusimus, volunt esse imbecillam adsensionem.” È so-
prattutto Plutarco che, nel suo trattato Sulla virtù morale, approfondisce e criti-
ca l’idea della natura intellettuale, consenziente e volontaria delle passioni se-
condo gli Stoici. Sulla passione come “ragione interiormente modificata”, come
“alterazione della ragione”, che non sarebbe “possibile se non attraverso la stes-
sa ragione”, cfr. Voelke, 1973, pp. 81-91.
24 Voelke, 1973, p. 122. Posidonio, ap; Galieno, De H ac P, V, 6; 473-474
Kuhn. Questo passaggio è problematico perché Posidonio contesta, dall’inter-
no, la teoria stoica delle passioni come effetti di giudizi espressi sulle apparenze.
Per lui, il desiderio è provocato dalla phantasia stessa, per questa “sorta di pit-
tura rassomigliante alla realtà percepita” che è una rappresentazione. C’è dun-
que un impatto diretto della prefigurazione sull’anima, indipendentemente da
tutte le trasposizioni del visivo in un contenuto propositivo. Allo stesso tempo
l’assenza di una mediazione razionale e discorsiva non implica l’assenza di con-
senso. Qui la parte irrazionale dell’anima dice sì, senza che la ragione se ne im-
mischi, all’immagine tale e quale.
25 Cicerone, Tusculanes, IV, 7, 14.
26 Gli effetti della phantasia consentita sul sesso si devono comprendere nel
contesto della “connaturalità” dell’anima e del corpo. Su questa teoria fonda-
mentale, il libro di Verbeke, L’évolution de la doctrine du pneuma du stoïcisme à
saint Augustin, resta un riferimento estremamente prezioso. Vi si misura, in
particolare, la persistenza del materialismo stoico nel pensiero cristiano di Ter-
tulliano. J. Pigeaud (1981, pp. 10-23) scrive: “La passione, per gli stoici, fin dal-
la sua genesi, è giudizio e fisiologia resi in un tutto indiviso.” (pp. 17-18). Ne La
maladie de l’âme. Étude sur la relation de l’âme et du corps dans la tradition mé-
dico-philosophique antique (1981) lo stesso autore consacra un lungo ragiona-
mento al monismo di Crisippe e di Seneca e all’interpretazione ciceroniana del-
lo stoicismo (pp. 265-353). Insiste sul fatto che: “Le passioni non seguono i giu-
dizi, sono i giudizi stessi” (p. 265). “Intenderemo per monismo di Crisippe,
quale si manifesta al livello della teoria delle passioni, scrive J. Pigeaud, l’idea
che è impossibile dissociare il giudizio dalla manifestazione fisiologica che l’ac-
compagna. Si tratta di un solo ed unico atto: la passione è costituita da questo
recto verso indissociabile del giudizio e del movimento della contrazione o della
dilatazione” (pag; 267). Cita Galieno descrivendo le manifestazioni corporali
del desiderio che “cresce come un vapore (anathumiomenou), invade il viso e le
mani” (p. 266). Non allude al movimento dell’erezione, ma ci fornisce il conte-
sto etico-psicologico nel quale occorre pensarlo. Più recentemente, sul rappor-
to tra anima e corpo nel pensiero stoico si veda Long, 1982, pp. 34-57.
27 Agostino, Le Confessioni, X, 30, 41.
L’ATTO NEL DESIDERIO 119
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120 GIULIA SISSA
due l’una non cercare altro quel che potrebbe essere d’altro
tante cose dire sacco vecchia parola prima venuta due sillabe o
alla fine non cercarne altre tutto si cancellerebbe un sacco sì
andrà la parola la cosa è nelle cose possibili in questo mondo
così poco possibile sì mondo che mai si può desiderare di più
una cosa possibile vedere una cosa possibile vederla nominar-
la vederla basta riposo ritornerò un giorno riconoscente.
Un corpo cosa importa dire un corpo vedere un corpo tutto il
rovescio bianco all’origine alcune macchie rimaste grigio chia-
re dei capelli spuntano ancora basta una testa dire una testa
aver avuto una testa visto tutto tutto il possibile un sacco dei
viveri un intero corpo in vita sì che vive smettere di ansimare
che smetta di ansimare dieci secondi quindici secondi sentire
questo respiro garanzia di vita sentirlo dire sentirlo be’ ansi-
mare della più bella (Beckett, 1965, p. 105-106).
Che ripetono queste ripetizioni? Che dicono queste pa-
role che avanzano verso il limite dell’ultima parola? Pulsione
e non-pulsione, libido non-libido. Respirazione del corpo
non respirato. La morte posta in approssimazione verbale.
Beckett pone il corpo come prima ed ultima riduzione
dell’esserci dell’uomo. Il ritornello del soma, il soffio del
non-desiderio nel vissuto somatico della morte: il corpo al
di qua della doxa, della ortodossia. Un gioco senza nome, di
movimenti, di succo, di fango, di superfici.
attraverso la juta gli spigoli delle ultime scatole mi dilaniano
le costole spigoli confusi juta fradicia costole superiori lato
destro un po’ sopra di dove ce le si tiene tenevo la mia vita
quel giorno mi sfuggirà questa vita non ancora. (Beckett,
1965, p. 37).
Dopo Artaud, Genet, Beckett e Bataille, Guyotat scardi-
na definitivamente l’ortodossia di una testualità che si fa ca-
rico del corpo. La funzione genitale va di pari passo con la
funzione cinetica della scrittura. La sessualizzazione in
Eden, Eden, Eden si esprime con una ripetizione incessante
della violenza corporea. I verbi vanno oltre il loro significa-
to e fanno tutt’uno con i corpi:
i soldati sonnecchiano; il loro sesso tinto riverso sulla coscia,
sgocciola; l’autista del camion dove sono ammucchiati maschi,
bestiame, fagotti, sputa una saliva nera, una puntura di ma-
schi, bestiame, fagotti, sputa una saliva nera, una puntura di
vespa gli gonfia la guancia, ha un gonfiore sotto l’occhio, le
borse degli occhi nere e pesanti come uva: la testa lavorata dal
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 135
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Riflessioni frammentarie sul corpo, il dolore, la
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parte del suo dolore e, nel riversare nei sordi venti i suoi do-
lorosi gemiti, inspirare almeno dall’aereo vuoto circostante
una novella forza”. La natura non ha comunque fatto l’uo-
mo in “blocchi di pietra scolpiti” o a somiglianza di “egoi-
stiche monadi”. Le sue grida non sono solamente espressio-
ni di un sé isolato, di un corpo isolato. Al pari delle “più fini
corde del sentimento animale”, esse sono anche rivolte ad
altre creature, anche in assenza di ogni consapevole solida-
rietà da parte loro. “Esse assolvono al loro naturale dove-
re”. Esse risuonano. Esse pretendono un’”eco solidale”, an-
che se nessuno è presente, anche in assenza di speranza, di
aspettative, di risposta.
Possiamo scorgere, in Herder, una progressione: nel de-
rivare il linguaggio naturale dal sentimento condensato in
un isolato, originario, attimo. Uno stimolo esterno che pro-
voca dolore, o altra intensa passione, es-pressione convo-
gliata tramite grida ad un altro (anche assente) che le rie-
cheggia. È l’unità del corpo - il corpo senziente - simboliz-
zata in termini musicali nel suono della corda pizzicata,
strappata, da una chiamata repentina. Dalla richiesta di
un’eco solidale? Di una risposta? Herder sottolinea la sim-
patetica natura della relazione tra il grido e l’eco. Al contra-
rio di Scarry secondo la quale chi viene messo al corrente
della sofferenza di un altro ne dubita la realtà (poiché, ver-
balmente elusiva, io non sono in grado di averne conferma).
Herder, romanticamente, osserva, che coloro che odono le
altrui grida di dolore entrano in empatia con quella soffe-
renza. “I loro nervi subiscono una tensione uguale, la loro
anima risuona allo stesso modo...” (1954, p. 15). Le grida,
se gridate nell’immediato contesto del dolore o della passio-
ne, esprimono nettamente, e senza discriminarne le distinte
origini, le ferite dell’anima o del corpo, la paura o le passio-
ni dell’amore. Esse richiamano l’attenzione alla totalità di
una scena che si rappresenta (1954); la loro è intenzione,
suono, non descrizione. Herder, comunque, ammette che
queste grida, strappate dal loro contesto vivente, non po-
trebbero essere altro che cifre. La voce della natura si tra-
sformerebbe allora in lettere arbitrariamente delineate. Al
pari del corpo, Herder identifica il suono con la natura. Il
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