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Gli Argonauti

Collana diretta
da Luigi M. Lombardi Satriani

9
Copyright © 1996 Meltemi editore srl, Roma

Le traduzioni dei saggi raccolti in questo volume sono state


curate, per l’inglese, da Andrea Aureli e Mariella Pandolfi,
per il francese da Cristina Caracchini e Luisa Capelli.
E’ vietata la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
a cura di
Mariella Pandolfi

Perché il corpo
Utopia, sofferenza, desiderio

MELTEMI
A Guglielmo e a Bill
Indice

p. 9 Il corpo nomade.
Mariella Pandolfi

28 Ripensando il corpo della morte: il dibattito in


Nord America e Giappone.
Margareth Lock

55 Il corpo critico e la critica della razionalità: l’Aids


e la produzione di esperienza in un ospedale
universitario nordamericano.
Vinh-Kim Nguyen

73 Ibridità testuale e culture del desiderio nella Cina


post-socialista.
Judith Farquhar

97 L’atto nel desiderio.


Giulia Sissa

119 La dissidenza del corpo oltre l’ortodossia del


testo.
Wladimir Krysinski

136 Solidarietà amorfa: il femminismo, il decostru-


zionismo, il corpo politico.
Diane Elam

156 Riflessioni frammentarie sul corpo, il dolore, la


memoria.
Vincent Crapanzano
Ringraziamenti

Questo libro è nato da un progetto e da un dono. Il progetto si è


sviluppato lungo l’anno accademico 1994-95 quando la Facoltà di Stu-
di superiori dell’Università di Montreal e il Dipartimento di Letteratu-
ra comparata mi hanno offerto di dirigere il Seminario pluridisciplinare
di master e dottorato “La cultura, le sue pratiche, le sue istituzioni”,
con la collaborazione dei Dipartimenti di Antropologia, Sociologia,
Storia dell’arte, Filosofia. Mi è sembrato opportuno scegliere il corpo
come la tematica più idonea a superare ogni confine disciplinare: ne è
nata un’esperienza intellettuale così straordinaria da poter essere consi-
derata un dono. Alcuni dei partecipanti, stimolati dalle discussioni e ri-
flessioni con studenti e colleghi presenti hanno successivamente elabo-
rato i saggi tradotti in questo volume. Il mio ringraziamento va innanzi
tutto a loro, agli studenti e ai professori dell’Università di Montreal pre-
senti al Seminario, particolarmente a Bill Reading amico e collega inso-
stituibile a cui il libro è dedicato per continuare a pensarlo fra noi. Ad
Andrea Aureli, Cristina Caracchini e Luisa Capelli che hanno avuto
cura delle traduzioni. E inoltre a Olga Duhamel mia assistente nell’or-
ganizzazione del Seminario, a Rosario Sapienza, Antonella Crudo,
Laurence Montifroy, Carla Solivetti, Drasko e Anelie Bubalo.
Luigi Lombardi Satriani e Matilde Callari Galli insieme agli editori
Meltemi, Marco Della Lena e Luisa Capelli, hanno con entusiamo
pensato ad un’edizione italiana di questa esperienza. Anche questo è
un dono.
Gli autori

Mariella Pandolfi
Professore ordinario di Antropologia, Letteratura compa-
rata e Teoria della cultura nel Dipartimento di Letteratura
comparata dell’Università di Montreal. Ha curato l’edizione
italiana de La follia degli altri di Tobie Nathan (1990), e pub-
blicato, tra le altre opere, Itinerari delle emozioni. Corpo e
identità femminile nel Sannio campano (1991). Si occupa at-
tualmente di antropologia del corpo e delle emozioni. Prepara
un volume per Laterza sull’antropologia delle emozioni e The
Body Speaks per Cambridge University Press.

Margaret Lock
Professore ordinario di Antropologia medica nel Diparti-
mento di Studi Sociali di Medicina e nel Dipartimento di Antro-
pologia dell’Università McGill di Montreal. È autrice, tra i molti
saggi e volumi curati e pubblicati, di East Asian Medicine in Ur-
ban Japan: Varieties of Medical Experience (1980) e di Encounters
with Aging: Mythologies of Menopause in Japan and Nordamerica
(1993), entrambi pubblicati con University of California Press.
E’ membro dell’Accademia reale canadese e dell’Istituto canade-
se per le ricerche avanzate nel programma sulla popolazione.

Vinh-Kim Nguyen
Assistente nel Dipartimento di Medicina familiare dell’Uni-
versità McGill di Montreal, è dottore in medicina. Lavora pres-
so il Centro di trattamento delle immunodeficienze dell’Ospe-
dale generale di Montreal. Prepara un dottorato in Antropolo-
gia Medica all’Università McGill.

Judith Farquhar
Professore associato (Bowman and Gordon Gray Associate
Professor) di Antropologia nell’Università della Carolina del
Nord a Chapel Hill. Specialista di antropologia medica e in
particolare di medicina tradizionale cinese. Ha pubblicato nelle
maggiori riviste americane di antropologia e recentemente con
Princeton University Press un volume dal titolo Knowing Prac-
tice: the Clinical Encounter of Chinese Medicine. Attualmente
prepara un volume sulla medicina e la cultura popolare nella
Cina post-Mao.
Giulia Sissa
Ricercatrice del C.R.N.R.S. nel Laboratoire d’Anthropolo-
gie Sociale al College de France, è professore ordinario di An-
tropologia del mondo classico alla John Hopkins University a
Baltimora. È autrice, tra l’altro, di: Madre materia. Sociologia e
biologia della donna antica, con S. Campese e P. Manuli (Bo-
ringhieri, 1983); La verginità in Grecia (Laterza, 1992); La vita
quotidiana degli dei greci, con M. Detienne (Laterza, 1991). Si
occupa ora di sessualità, parentela e scetticismo.

Wladimir Krysinski
Professore ordinario di Letteratura comparata, Teoria let-
teraria e Letterature slave presso l’Università di Montreal. Tra
le altre opere ha pubblicato i volumi: Carrefours de signes. Es-
sais sur le roman moderne (Mouton, 1981) e Il paradigma in-
quieto. Pirandello e lo spazio comparativo della modernità
(E.S.I.T., 1988). Le sue ricerche vertono in particolare sulla
modernità, la semiotica del romanzo, le avanguardie e la lette-
ratura moderna e post moderna. Prepara il volume: Il romanzo
e la sua modernità. Per e contro Bachtin.

Diane Elam
Professore ordinario di Teoria femminista e Teoria critica
dell’Università del Galles a Cardiff. Tra le numerose opere, ha
pubblicato: Feminism and Decostructionism ed ha curato Fe-
minism Beside Itself, entrambi per Routledge. Si occupa di
teoria critica, femminismo e postmodernità. Attualmente pre-
para il volume: Why Read?

Vincent Crapanzano
Professore ordinario di Antropologia e Letteratura compa-
rata (Distinguished Professor), al Graduate Center della City
University of New York. È autore, tra l’altro di Tuhami. Portrait
of a Moroccan (1980) apparso recentemente nella versione italia-
na (Meltemi, 1995), di The Hamadsha: A Study in Moroccan
Ethnopsychiatry (1973), di Waiting: The Whites of South Africa
(1985) e di Herme’s Dilemma and Hamlet’s Desire: On the
Epistemology of Interpretation (Harvard University Press, 1992).
Il corpo nomade
Mariella Pandolfi

È scritta nel corpo la trama delle successive


disavventure dell’anima
Umberto Galimberti, Parole nomadi

Gli spazi critici


Alla fine del secolo e del millennio troviamo noi stessi in
un momento di transito dove lo spazio e il tempo incrocian-
dosi producono complesse figure di differenza e identità, di
passato e presente, di esclusione e inclusione. Parlare di cul-
tura in questi “spazi critici” (Virilio, 1984) significa parlare
di strategie di sopravvivenza soggettive, transnazionali e so-
prattutto transtraduttrici. Significa parlare di un passaggio
obbligato e senza ritorno, da una cultura della città ad una
cultura urbana, segnato da tre momenti di crisi: la crisi delle
forme di socializzazione legate all’habitat, la crisi della rap-
presentazione del conflitto sociale e delle sue forme di at-
tuazione, e infine la crisi delle forme di comunicazione isti-
tuzionalizzate e quindi della comunicazione sociale, dello
scambio politico e della rappresentazione politica (Roman,
1994). Di conseguenza la dimensione transnazionale delle
trasformazioni culturali instaurerà un processo continuo di
traduzione attraverso i dislocamenti e le rilocalizzazioni dei
soggetti, producendo poi nuove nicchie di resistenza e di
concentrazione dei luoghi della differenza, e rinegoziando-
ne tutte le esperienze intersoggettive (Bhabha, 1994). Nel
suo saggio DissemiNation: Time, Narrative and the Margins
of Modern Nation Homi Bhabha (1990) sviluppa un tema
ricorrente, nella teoria critica contemporanea e nella teoria
postcoloniale, che insidia e incalza la riflessione antropolo-
gica anche la più sovversiva: la delocalizzazione e la riloca-
lizzazione planetaria dei nuovi soggetti sociali.
La locality1 è intesa: “come una forma di vita più iden-
tificabile nella temporalità che nella storicità, più comples-
12 MARIELLA PANDOLFI

sa della comunità, più simbolica della società, meno conno-


tativa di paese, più mitologica che ideologica, più ibrida nel-
le articolazioni delle differenze culturali e nelle identificazio-
ni (genere, razza, classe) che nella possibilità di rappresen-
tarsi in qualsiasi strutturazione gerarchica o binaria dell’an-
tagonismo sociale” (Bhabha, 1990, p. 292, mia traduzione).
Una località che ridisegna tutti gli spazi sociali individuali
attraversando e frammentando le categorie identitarie (Cal-
lari Galli, 1996). I nuovi soggetti postcoloniali, negli spazi
urbani, che si sono sviluppati come contenitori “neutri”di
diaspore e delocalizzazioni, elaborano profili culturali sov-
versivi e in profonda conflittualità con quelli rassicuranti del
passato (Chambers, 1987). Il passaggio successivo e necessa-
rio alla profonda trasformazione del vivere la crisi della mo-
dernità nel sociale, è estendere la vertigine della località im-
posta dalla teoria critica postcoloniale (Bhabha, 1994) ai
nuovi percorsi della corporeità urbana, attraverso i quali le
deterritorialità urbane Nord Americane, osservatorio privile-
giato sulla contemporaneità, evidenziano una temporalità
quotidiana sovraccarica di spazi mobili da percorrere. In
questi “non luoghi” (Augé, 1993) le categorie della sessua-
lità, etnicità, identità si opacizzano: la classe, il genere, la raz-
za, l’età perdono sempre più la loro legittimità per definire
l’identità, diventando solo tele di fondo di più complesse e
conflittuali figurazioni.
La dimensione relazionale, contestuale, ma soprattutto
spaziale della località viene considerata da Appadurai (1995)
come una complessa qualità fenomenologica, costituita da
una serie di legami fra il senso dell’immediatezza sociale, del-
le tecnologie, dell’interattività e la relatività dei contesti; lega-
mi che saranno poi proiettati in un progetto di mondo delo-
calizzato. E il diverso rapporto fra località, spazio urbano e
corpo ne sarà il segno più evidente mostrando la frattura ir-
reparabile che si produrrà fra urbs e civitas (Choay, 1994).

Il corpo urbano
Le rapide accelerazioni o le ontologiche paralisi fanno
infatti del corpo il luogo in cui si inscrivono queste nuove
IL CORPO NOMADE 13

territorialità identitarie: vestito, svestito, narrato, smembrato


e riassemblato, cerca infatti con ogni possibile sforzo di tra-
sformarsi in un soggetto corrosivo. È un corpo urbano e no-
made, definito dalle teorie critiche contemporanee postmo-
derno e postcoloniale, che vive nel paradosso di essere poli-
ticamente corrosivo e ideologicamente seduttivo. Il corpo
urbano attraversa ogni giorno territorialità che non gli ap-
partengono e che gli appaiono svincolate da ogni tempora-
lità di longue durée; considera di aver pagato, ai fili della sto-
ria mossi dagli altri, la perdita del desiderio e della negozia-
zione di spazi familiari e istituzionali, e vive i residui della
temporalità concentrandoli sul bisogno istantaneo non ela-
borato. Ecco perché la materialità corporea come pulsione,
come desiderio, come necessità, trova nelle nuove tecnolo-
gie di cui si circonda garze derridiane attraverso cui è per-
messa l’esperienza comunicativa: prossimità virtuali, vici-
nanze emotive virtuali convalidate da procedure retoriche
che si allontanano dal muthos aristotelico come la sola capa-
cità di metamorfosi senza dover perdere l’identità, come la
sola possibilità di giocare con le origini, senza dover fare a
meno di un legame di affiliazione.
In geometrie urbane senza centri, in strade senza piazze,
topos di una territorialità virtuale, il corpo “urbano” tende a
muoversi in una deterritorialità utopica e la sua “pelle
sociale” (Turner, 1979) ha come progetto l’attraversare, l’ol-
tre, affermando una propria transnazionalità genetica e
ideologica, riconoscendola poi come sola identità politica. È
rivestito di una pelle sociale che sfida le nozioni di apparte-
nenza, di lignaggio, di gruppo familiare, che utopicamente
rifiuta la nozione di classe, che rimuove quella di età, di ac-
cidente, di morte. Della propria ibridità ne porta tracce non
più inconsapevoli o velate: iridescenza sociale in cui il ma-
schile e il femminile fanno entrambi le loro parti per poi
soccombere al gioco dell’apparenza. Un solo e unico corpo
che legittima il nostro spazio e il nostro tempo vivendo da
sempre la propria temporalità in fuga e immaginando possi-
bili traiettorie che lo liberino dalla memoria. L’ipotesi di un
corpo nomade si delinea attraversando la categoria della
molteplicità per poter infine sottrarsi al rassicurante percor-
14 MARIELLA PANDOLFI

so della separazione. Separazione dalla madre, dall’onnipo-


tenza sessuale, separazione del maschile dal femminile, del
bene dal male, della vita dalla morte. Filo di Arianna è la fra-
gilità della materia che, dal mito della caverna a quello delle
moderne tecnologie, viene occultata attraverso il ritmo alter-
no della costruzione e decostruzione delle ideologie e delle
utopie, ma che a tratti nelle nicchie di senso deleuziane
esplode mostrando l’impossibilità di eludere la materialità
del corpo.
Quel nomadismo corporeo a ben guardare è fuga, che
si manifesta come necessità di riconoscersi, in quanto esse-
re umano, prima nell’articolazione di un dialogo e poi nel
terrore che il dialogo obblighi a legittimare l’alterità accet-
tandone la dipendenza.

Lo spazio negato
Rappresentandosi come “virtualità” senza memoria, si-
mulacro in movimento, elusivo senza essere pulsionale, il
corpo nomade percorre altri spazi che delineano i confini
mobili dei nuovi corpi attraverso le diaspore, le emigrazioni
infra e transnazionali, mostrando tutta la fragilità della pre-
sunta egemonia del discorso occidentale.
L’accelerazione del tempo e dello spazio, socializzati e
localizzati attraverso complesse pratiche di performance, di
rappresentazioni e di azioni, ha segmentato il corpo in una
pluralità di corpi, disintegrato l’ottimismo di una soggetti-
vità che può controllarlo, creando un unico spazio-corpo in
cui prendono forma e si disarticolano poi tutti i modelli
identitari, nazionali, transnazionali. È un corpo che vuole
mostrarsi come carne e apparenza, come materialità e desi-
derio, che ha come progetto utopico il nomadismo planeta-
rio e l’autonomia nell’apparire, nel desiderare, nel definire
l’identità sessuale come identità politica. Un contropotere ai
poteri del sacro dunque, ai poteri statuali, ai poteri del ge-
nere per estirpare la secolare querelle della separazione car-
tesiana e finalmente dimenticare l’ingiusto giudizio sulla
materialità trasformato per secoli in un silenzio elusivo.
Nel lungo viaggio dell’occidente lo spazio politico ha scaccia-
to, nascosto il corpo, il corpo come necessità biologica, il cor-
IL CORPO NOMADE 15

po come passione , il corpo come malattia, per poi utilizzarlo


come metafora figurale del suo ordine (Cavarero, 1995, p. 8).
Un percorso segnato da una profonda somatofobia2
(Grosz, 1994) sulla quale il pensiero occidentale ha
allontanato e negato un corpo che ritorna continuamente a
conquistarsi altri spazi teorici per costruire un ordine dal qua-
le sia stato continuamente allontanato (Cavarero, 1995, p. 8).
In un certo senso il destino della modernità è di aver le-
gittimato, nella nozione di un soggetto incarnato, la plura-
lità di soggetti e la pluralità di corpi. Questi ultimi dopo
Foucault (1977) possono costituirsi simultaneamente come
meccanici e fenomenologici, situazionali (Galimberti, 1994)
e virtuali, flessibili (Martin, 1994) o volatili (Grosz, 1994):
sono corpi che si moltiplicano e che contaminano attraverso
tecnologie scientifiche e tecnologie del sé i percorsi di vita e
di morte.
Adeguandosi o sottraendosi alle tecniche di resistenza e
di dominazione i discorsi politici sul corpo ne costruiscono
altri delineando nuovi confini, spazi, alterità, dissonanze.
Disseminare il corpo nei corpi sociali, che attraversano il
mondo o che legittimano il divino, significa fondare nell’ec-
cesso di temporalità la sola fragile continuità a cui si può ave-
re accesso. La tecnologia contemporanea e la mistica cri-
stiana sembrano allora congiungersi oggi per svelare il pa-
radosso della vita: siamo corpi perché abbiamo un corpo.
Se nel passato erano i veli di Salomé a costruire il potere
del gioco delle trasparenze, oggi è la pelle nuda degli umani
bionici a porre membrane, filtri; se nel passato era la malin-
conia il luogo del sottrarsi al teatro del corpo, oggi è l’ano-
ressia che si propone come Die Brücke di un corpo precon-
fezionato e manufatto industriale. Se il potere dell’apparenza
produce la seduzione, quest’ultima è alimentata dal teatro
della stessa apparenza: attraverso questo innocente gioco
Derrida scoprirà una vera “imenologia” nella descrizione di
tutte le membrane, le garze, le stoffe (Juranville, 1993).
La forza sotterranea e corrosiva di negoziazione sociale,
il tentativo di trasgredire e rimanere soffocati dalle maglie
dell’apparenza fanno della malinconia uno stato d’animo
16 MARIELLA PANDOLFI

emblematico dell’oltre per sottrarsi, sia pur senza un atto


esplicito, alla costruzione del corpo come topos dell’appa-
renza. Una melanconia occultata dalla metamorfosi e dalla
contaminazione, rifiutata come percorso etico, vissuta inve-
ce come voracità di spazi virtualmente “neutri”. Ma le città
occidentali non si accontentano di umani bionici o anores-
sici: sempre più spesso propongono altri percorsi per co-
struire contemporanei teatri dell’apparenza in cui non vi
sia più spazio per i diaframmi, né per le stoffe, né per i
gioielli. Si spogliano di ogni modello del sentire e del desi-
derio, si strappano di dosso la nozione di storia, di passato,
di tradizione, mostrando attraverso un’ironia situazionale
l’impossibilità di eludere il conflitto, le contraddizioni indi-
viduali e collettive. La pelle sociale (Turner, 1979), diafram-
ma fra l’individuo psicofisico e il dramma della socializza-
zione che si compie sul palcoscenico culturale in cui egli si
rappresenta, rende il corpo luogo della sofferenza e della
trasparenza: il corpo nomade vuole sentire, attraverso il do-
lore, attraverso la gioia, senza più mediazioni e contrasti. Se
seduzione e malinconia erano costrette nel passato a coesi-
stere, pur opponendosi nel loro percorso fenomenologico,
oggi è il corpo stesso ad essere bucato, attraversato da og-
getti di metallo, a confondere dolore e seduzione strappan-
dosi ogni membrana nella pretesa di sfuggire alla dimensio-
ne della propria storicità.
È un corpo che sembra non potersi liberare dall’espe-
rienza “traumatica” di essere stato riconosciuto come pro-
tagonista della riflessione filosofica solo per un attimo ed
esserne poi liquidato e per sempre nel momento strategico
del dubbio cartesiano, quel momento in cui il dubbio si
trasforma in certezza e il corpo sarà allontanato dal “para-
diso” della ragione (Deneys-Tunney, 1992). Soggetto al
dualismo cartesiano il corpo è stato per secoli luogo di ma-
lattia, di magia, di peccato; sotto il potere della ragione è
diventato il possibile luogo del naufragio della ragione e
per ciò stesso “normalizzato” attraverso la tortura, il fuoco,
o le istituzioni, tutto ciò che il Galileo di Brecht chiama
“strumenti” o che Foucault definisce il biopotere (1977).
IL CORPO NOMADE 17

Prigioniero della separazione è stato confinato nella


differenza di genere, di classe, di ruoli: oggi rivendicando
il diritto dell’andare oltre la separazione, oltre il biologico e il
fenomenologico appare memoria senza voce, tempo senza
movimento, spazio virtuale che afferma:
il trionfo dell’immagine sull’oggetto rappresentato, del visi-
bile solo nella misura in cui diventa visuale, vale a dire ogget-
to di consumo visivo e iperrealisticamente rappresentato (...),
oggetto che rimane sostanzialmente assente (Braidotti, 1995,
p. 115).

Il rischio e la necessità
Vi è un rischio a mio avviso nel progetto seducente di un
“oltre” che si libera da un passato preconfezionato da altri e
che tende a liquidare ogni complessità e ambiguità dell’espe-
rienza umana accelerando il presente per impedire ogni pos-
sibile ritorno su percorsi del passato, sui percorsi di una sto-
ria causale e ufficiale svincolata dal testo e soprattutto inca-
pace di dare voce alla dissonanza e ai petits recits (Lyotard,
1981) che la costruiscono. Il rischio si traduce nel considera-
re il progetto dell’attraversare spazi e tempi senza senso, non
lieux, spazi degli altri senza la presenza degli altri (Augé,
1994) come il solo luogo del possibile; il vissuto fenomenolo-
gico in questa prospettiva annega nella dimensione virtuale
di un oltre che tende ad autolegittimarsi proprio in virtù del-
la negazione di un prima. Una virtualità che a volte nascon-
de sotto ambigue superfici di materialità un ben più ambi-
guo desiderio di trascendenza: e nell’utopia della non appar-
tenenza, o meglio della liberazione dall’appartenenza, consi-
dera il proprio corpo il solo luogo del possibile.
Se Ricoeur ricordava l’autismo onnipotente del cogito
cartesiano e il rischio dell’abisso, anche la vertigine dell’uto-
pia di simulacri senza memoria, possibili corpi-soggetti o
soggetti incarnati in un tempo che non si trasforma mai in
storicità, può precipitarci nell’abisso dell’ottimismo. Vi è
dunque un’altra possibile e diversa figurazione dell’uso no-
made dei confini corporei: non negarli attraverso il trans,
ma creare un continuo via vai fra la località e l’altrove, fra
deterritorialità utopiche e territorialità incarnate. La sfida
18 MARIELLA PANDOLFI

antropologica nei prossimi decenni si consumerà fra il ri-


schio dell’oltre e la permanenza di nicchie di storie locali.
Questo rischio è comunque intrinseco alla stessa crisi della
modernità, né è possibile sottrarsene distruggendo ideolo-
gie, costruendo utopie: basti riflettere sul senso del tempo e
dello spazio e di come
le molteplici concezioni di entrambi nella vita sociale, abbiano
cancellato la presunzione di vivere il tempo e lo spazio come
qualità oggettive indipendenti dai processi materiali” (Harvey,
1993, p. 258).

D’altro canto sappiamo bene come il corpo urbano, im-


prigionato in spazialità normative e quindi repressive, tenti
percorsi di resistenza molteplici attraverso la virtualità senza
tempo e spazialmente mobile.
Harvey nel suo studio sulla crisi della modernità crea un
interessante dialogo critico fra le forme di repressione orga-
nizzata descritte da Foucault e la riflessione di de Certeau
che considera la creatività insita in ogni azione umana come
potenzialità per rendere più liberi gli spazi repressivi.
Proprio perché le pratiche sociali si spazializzano e si localiz-
zano in una rete repressiva di controllo sociale (...). de Certeau
riconosce che le pratiche della vita quotidiana possono con-
vertirsi e in effetti si convertono, nelle totalizzazioni di uno
spazio e di un tempo razionalmente ordinati e controllati
(Harvey, 1993, p. 263).

I particolari spazi della città sono creati da una miriade


di azioni, ciascuna delle quali porta il segno dell’intenzione
umana che tenta di leggere nelle forme di resistenza risposte
autonome. Spesso i conflitti generazionali o interculturali
appaiono proprio determinati dal diverso uso che si fa del
tempo e dello spazio.
Il rapporto fra corporeità e l’essere imprigionati in spazi
di controllo sociale è di certo una delle tematiche più com-
plesse dell’organizzazione della vita moderna. Foucault ne
ha fatto un tema centrale della sua riflessione fra potere e
corpo, focalizzando la dimensione della spazialità e inter-
pretandone l’autonomia da una specifica logica temporale.
IL CORPO NOMADE 19

Il corpo per Foucault, esiste nello spazio e deve sottomettersi


all’autorità oppure ritagliarsi particolari spazi di resistenza e li-
bertà in un mondo altamente repressivo (...). L’irriducibilità del
corpo umano significa che è soltanto da quel luogo di potere
che si può mobilitare la resistenza nella lotta per liberare il de-
siderio. Lo spazio è una metafora di un luogo o di un conteni-
tore di potere che di solito limita, ma a volte libera i processi
del divenire” (Harvey, 1993, pp. 261-262).

Il corpo nomade
È un progetto insito in molti dei movimenti poststruttu-
ralisti che ha finalmente obbligato molte utopie disciplinari
a fare i conti con l’attuale rivoluzione dei saperi. Il pensiero
“guida” europeo appare sempre più lontano: le molteplici
rivoluzioni culturali che hanno attraversato il Nord America
negli ultimi vent’anni hanno evidenziato la forza della cultu-
ra del frammento, come riflesso in ombra di una realtà forte
rispetto alla cultura della totalità (Deleuze, 1993) e, oppo-
nendosi alle diverse forme di ideologia istituzionale del sa-
pere, cercano nella cultura del frammento una forma conti-
nua di resistenza. In questo progetto radicale di sovversione
dei “discorsi” (Foucault, 1972) e delle “fratture” della sto-
ria, della decentralità del soggetto, contro ogni essenza,
struttura, irriducibilià della natura, scompare anche la me-
moria, l’interiorizzazione del trauma come storia frammen-
tata, ma pur sempre legame, continuità, appartenenza.
Materialità, figurazione retorica, palcoscenico del so-
ciale, topos delle energie sfuggenti alle norme e alle istitu-
zioni, spazio di negoziazione e frammentazione di ogni po-
tere e di ogni resistenza, voce, segno o silenzio, è il corpo
attraverso i suoi percorsi trasversali a permettere una più
libera articolazione dello spazio interdisciplinare. Il corpo
infatti si sottrae ad ogni logica miope, rivendica ogni qual
volta lo si tenti di normalizzare, nicchie di senso che ne ac-
compagnano la fragile materialità e la fluttuante significa-
zione (Gil, 1985).
Vi è dunque la necessità di tradurre in un linguaggio
pluridisciplinare una riflessione sul corpo che attraversi la
materialità, la virtualità, la figurazione retorica e discorsiva,
20 MARIELLA PANDOLFI

che attraversi politicamente i piani dell’utopia, della soffe-


renza, del desiderio. Ma
quale corpo vogliamo rimettere in gioco: il corpo a tutto ton-
do, il corpo desiderante, il corpo portatore di differenza ses-
suale o il corpo di ‘organi senza corpo’ per il quale l’anatomia
non è più un destino? E tuttavia questo organismo vivente
sessuato ha una sua unità autonoma che resta appesa ad un
filo: il filo del desiderio nel suo inestricabile rapporto con il
linguaggio e dunque con gli altri (Braidotti, 1995, p. 120).

La Braidotti conduce con una rara e complessa eleganza


il femminismo a rinterrogarsi sul riposizionamento della
soggettività femminile in epoca poststrutturalista. Il discor-
so è di certo esportabile ad altri percorsi nomadi del corpo
per seguirne le strategie che li costruiscono fino a raggiun-
gere quell’itinerario contemporaneo che cerca di negare o
di annegare, nello spazio urbano, nei non lieux, i confini del
soggetto incarnato. Il corpo nomade che attraversa i non
lieux capovolge la nozione di corpo sociale di Mauss e
Douglas avvicinandosi a quella più sovversiva sviluppata da
Baudrillard (1979) e poi da Bourdieu (1995). Questi ultimi
anche se in modo diverso hanno disegnato un corpo che at-
traversa il sociale come uno specchio che assorbendo da
quel sociale ne riflette poi immagini deformate, ma comun-
que sempre interdipendenti. Un corpo che ha come proget-
to politico il nomadismo non dissimile da quello stesso no-
madismo che Rosi Braidotti attribuisce al soggetto donna.
Se è vero che il corpo femminile è stato costretto e norma-
lizzato lungo tutto il percorso dell’occidente, e non solo
dell’occidente, è pur vero che esso ha costruito tecniche di
evitamento al controllo. Un corpo nomade appunto, poiché
capace di costruire, all’ombra di organi, di liquidi, di fisiolo-
gie normative, le ermeneutiche più trasgressive. Il nomadi-
smo dell’esperienza è viaggio, è utopia, ma è anche memo-
ria e il ruolo del corpo entra proprio in questa piega dell’esi-
stere che si fa memoria.
Non dico nulla di nuovo poiché nelle culture non occi-
dentali la memoria dei legami parentali, il rapporto con gli
spiriti ancestrali, sono inscritti nel corpo (Augé, 1984) e
IL CORPO NOMADE 21

l’antropologia da sempre ha costruito un dialogo fra corpo


sociale e corpo individuale. Da Marcel Mauss a Mary Dou-
glas, da Marcel Foucault a Pierre Bourdieu, da Victor Tur-
ner a Terence Turner il percorso se pur nelle differenze ap-
pare costante: l’impossibilità di separare ogni corpo dal sog-
getto che lo incarna, e parimenti l’impossibilità di separarlo
dal corpo sociale.
Il nomadismo come progetto deve coinvolgere anche
chi è stanziale, sedentario, apparentemente legato al territo-
rio, al gruppo familiare al ruolo sociale che il gender impone
(Pandolfi, 1991).

Memoria nomade
Nelle deterritorialità politiche, storiche, utopiche, il cor-
po nei suoi infiniti linguaggi di appartenenza, può continua-
re ad essere memoria, una memoria che a sua volta può tra-
sformarsi in memoria nomade. Quello stesso linguaggio che
a volte il piacere trasforma in suono inarticolato, in gemito,
in grido, ma che ben più spesso è reso frammentato e inarti-
colato dalla sofferenza e dalla violenza, appartiene ad una
materialità stanziale che occupa frammenti di spazi, ma che
può dilatarne la temporalità.
Memoria nomade significa vivere non il passato, ma er-
rare fra i satelliti del passato, attraversare gli “altri” non co-
me un trickster, ma come una sonda che rileva e amplifica i
sussurri, le grida, i palpiti trasformandoli poi in frammenti
di materialità. Tracce fatte di organi, liquidi, nomadismo del
corpo capace di rilevare ogni orma di temporalità passata.
Memoria nomade significa una memoria che è nel sog-
getto e va oltre il soggetto, che rende mobili e volatili i con-
fini del sé e dell’altro, e che nel proprio corpo traccia una
storia in parallelo, ma non antagonista con la storia dei po-
teri, delle norme, della tradizione. La memoria nomade vive
fra voci magnetiche dei telefoni che ci guidano nei percorsi
quotidiani, partecipa alla sensualità virtuale che ci rende on-
nipotenti nell’attraversare il mondo di internet, ma evita il
rischio dell’autismo affettivo, poiché dell’avvenimento rifiu-
ta la sola logica del frammento come separazione, come
evasione, rifiuta di avere un rapporto elusivo con l’oblio. Il
suo rapporto con il passato non risponde ad una sola logica,
22 MARIELLA PANDOLFI

nè a un telos preciso: la memoria è il Minosse dell’ottimi-


smo virtuale poiché ogni accadimento disarticolato dal pas-
sato e dal futuro viene bloccato, e il giudizio che ne segue
diventerà traccia somatica, l’odore del rancore diventerà
odore del proprio corpo, i propri pensieri organi disartico-
lati, le proprie emozioni fluidi che circolano nascosti per poi
riuscire a salire a volte fino alla superficie e mostrarsi al
mondo. Una lettura più complessa di individuazione che
vedrà nella scelta tutta fucoltiana di passare da un soggetto
“esangue” ad un soggetto incarnato la risposta politica all’
errore metodologico posto alla base di ogni interpretazione
psicosomatica, che nata per rapportarsi a “un’anima disin-
carnata, diventa infine, senza l’opacità della carne, facile da
addomesticare” (Galimberti, 1994, p. 41).
Passare allora dalla soggettività sempre meno incarnata e
sempre più autistica alla folla, alla massa, alla collettività è
una modalità di evitamento, di elusività, di epoché per allon-
tanare la memoria come luogo in cui si fondono le diverse
intonazioni di temporalità. L’eccesso di temporalità nel di-
ventare sospensione della memoria contiene il rischio più
grande: quello di aprirsi ad una implicita legittimazione di
nuove barbarie.

Soggetto virtuale, corpo reale: l’utopia


L’utopia del corpo postmoderno, è un’utopia senza me-
moria che tende a cancellare il dolore come emozione e il
dolore come sofferenza corporea. Essere corpo o avere un
corpo, espressione oggi forse già passata di moda che non
sembra accompagnare la tragicità del corpo quando il dialo-
go fra corpo individuale e corpo sociale si interrompe e
quest’ultimo diventa un kronos insaziabile. Improvvisamen-
te dai piccoli recits che sottolineano il ritmo dell’umano si
alza come un’onda anomala un grande recit e da quell’istan-
te mille, centomila, milioni di corpi entrano nei luoghi della
sofferenza, del terrore, della violenza trasformando il tempo
della vita in un tempo adatto a vivere la morte. È accaduto
così da sempre e forse continuerà ad accadere producendo i
genocidi, l’olocausto, le guerre, la tortura, quando nelle pie-
ghe del quotidiano non appare più alcuno spazio per la me-
IL CORPO NOMADE 23

moria e il corpo nomade transurbano e transnazionale cer-


cherà di vivere nell’illusione che solo i piccoli recits possano
segnare i confini del piacere, del bisogno, del desiderio.
La definizione di politiche della memoria ben rappre-
senta ogni costruzione retorica e ideologica che sottende al
rapporto fra azione politica e memoria (Boyarin, 1994). È
con Benjamin3 (1947) nel saggio sulla filosofia della storia
che l’articolazione della memoria viene tematizzata come ri-
sorsa centrale per l’azione politica. La sua prospettiva è tut-
ta centrata contro lo storicismo e sarà ripresa poi da de Cer-
teau nella sua lettura della psicoanalisi e della storiografia. Il
ritmo storiografico costruisce con una sequenza lineare cau-
sa-effetto, dividendo il passato dal presente; la psicoanalisi
invece costruisce le relazioni umane attraverso la loro intrin-
seca indissolubilità fra passato e presente. In altre parole vi
è una nozione del tempo che non considera la corporeità
come luogo di mediazioni delle politiche della memoria,
un’altra invece che sottolinea la centralità della memoria in-
corporata (embodied memory) nella trasmissione generazio-
nale e in genere nella complessità del rapporto fra presente
e passato. Vi è un indissolubile intreccio fra una politica col-
lettiva della memoria e una politica individuale di essa: basti
ricordare come la psicoanalisi si legittimi lavorando in que-
sto spazio intermedio. L’esperienza traumatica può essere
considerata come il corto circuito della negoziazione fra
memoria individuale e memoria collettiva; ed è nel corpo
mediatore, fra le due memorie, che spesso restano le cicatri-
ci più profonde. Una topografia iniziatica marca sovente le
relazioni fra la memoria e i corpi in gruppi o collettività che,
attraverso quei segni sul corpo, creano un’appartenenza o
un’esclusione. Spesso i segni hanno un profondo carattere
ideologico e si rivolgono alla comunità umana perché attra-
verso di essi nulla venga dimenticato. Spesso il corpo diven-
ta il luogo in cui si elaborano le possibili scelte fra le memo-
rie collettive, ideologicamente veicolate, e la memoria indi-
viduale. In questo spazio intermedio la cultura può essera
considerata il modulatore che allarga o stringe gli spazi di
negoziazione. È in questo spazio intermedio che possiamo
ritrovare frammenti di identità sopravvissuti all’improvvisa
legittimazione collettiva della violenza, capace di trasforma-
24 MARIELLA PANDOLFI

re milioni di soggetti in gruppi identificati per genere, ses-


sualità, religione, etnia. Questa identità, costruita senza me-
moria, genera mostri e i gruppi “identificati” si trasformano
in folla di corpi delegati a vivere la morte.

La violenza, la sofferenza
“Di fronte a me, con gli occhi sbarrati mi vedevo im-
provvisamente guardato (...) con occhi terrorizzati da due
anni vivevo senza viso, nessun viso su questo mio corpo ri-
dicolo” (Semprun, 1994, p. 13). Eppure era un corpo or-
mai trasparente, ma ancora vivo, usato ma ancora disponi-
bile a sopravvivere, quello dello scrittore Jorge Semprun a
Buchenwald nel ’45 davanti a tre ufficiali britannici. “Non
resta che il mio sguardo che possa davvero incuriosirli, è
l’orrore del mio sguardo che riflette il loro terrorizzato. Se i
loro occhi sono uno specchio io devo avere uno sguardo
folle, devastato” (Semprun, 1994, p. 14). La dialogicità ri-
torna: la possibilità di riscoprirsi nello sguardo dell’altro,
sia pure come immagine di terrore, riporta il corpo nei
margini della comunicazione attraverso lo sguardo e il lin-
guaggio. Nella tortura, nel genocidio, nella guerra, nella
violenza in generale si annullano fra gli esseri umani lo spa-
zio dello sguardo, il tempo della comunicazione. È in que-
sti spazi che la microfisica dei poteri è costretta a cedere il
passo a un Leviatano incontrastato che ritrascrive l’espe-
rienza corporea individuale senza più alcuna negoziazione
con le strategie di potere o di dominazione nelle quali il
soggetto è coinvolto nell’esperienza di vita quotidiana. La
violenza sui corpi inverte il rapporto spazio tempo e annul-
la ogni possibile nomadismo creando recinti, spazi stretti,
camere piccole in cui i corpi vivono ogni istante la riduzio-
ne dello spazio come temporalità iniziatica verso la propria
morte. La vita costretta tutta nello spazio di un corpo allar-
ga i confini del tempo: ricordare per continuare a desidera-
re, ricordare per difendersi, ricordare per occultare, ricor-
dare per poter non dire, ricordare per scrivere. Una memo-
ria nomade percorre quegli spazi negati: il rapporto spazio
temporalità ancora una volta si inverte e il diritto alla vita
cancellato ritorna proprio attraverso di essa. Una nuova di-
IL CORPO NOMADE 25

mensione sociale del tempo e dello spazio è al centro di


una riflessione che considera questa memoria nomade ere-
de della modernità, ridefinendone i suoi rapporti con la
storia e con l’oblio.

Perché il corpo
I frammenti di materialità e di mondo fin qui attraversati
troveranno una legittimità maggiore, leggendo i saggi pre-
senti nel libro. Vi è in ognuno di essi l’esigenza di entrare in
una gabbia disciplinare, per poi uscirne in gran fretta, te-
mendo di venirne soffocati. Vi è il desiderio di dialogare
con gli altri, e con se stesso senza il timore della trasgressio-
ne, della corrosività, permettendo di attraversare l’antropo-
logia, la letteratura, la filosofia, la psicoanalisi, per interro-
garsi senza rispondersi o, senza confondere, la radura nel
bosco heideggeriano come una luce di verità. Vi è il deside-
rio di attraversare spazi istituzionali (Lock, Nguyen, Far-
quhar) protetti da verità di potere e da nuove tecnologie,
che permettono poi di far emergere ciò che de Certeau con-
sidera come forme clandestine della creatività dispersa: for-
me emergenti dalla violenza dell’ordine che diventano poi
tecnologie della disciplina. Vi è il desiderio di navigare il
pensiero moderno attraverso la critica femminista utilizzan-
do i percorsi spezzati della decostruzione per far emergere
le molteplici aporie del pensiero occidentale dall’illumini-
smo ad oggi (Elam) proponendo il luogo dell’utopia come
solo spazio politico del soggetto e quindi del corpo femmi-
nile. Vi è il desiderio di ritrovare nel corpo i piani inclinati
di miti di fondazione interdisciplinari, intersoggettivi, inter-
tematici che mettano in rilievo come il “simbolismo e la re-
torica premono sul ‘biologico’, che a sua volta resiste ad en-
trambi in senso fenomenologico” (Crapanzano). Vi è il desi-
derio di disarticolare l’ortodossia dei testi (Sissa, Krysinski)
e riscoprire la brutalità seducente del desiderio.
Il percorso del libro segue la sofferenza, il desiderio e
l’utopia. Ogni saggio vive le tre dimensioni anche se gli spa-
zi di analisi cercano luoghi e tempi non di certo omogenei.
La sofferenza in Lock e Nguyen vive nell’istituzione biome-
dica, in Farquhar nel gioco delle ombre di un passato e un
26 MARIELLA PANDOLFI

futuro carico di ideologia dove sempre de Certeau ci ricor-


da come l’insorgere di pratiche popolari in un’economia
moderna non sono di certo legate ad ingenui ritorni di un
passato o della tradizione, ma rientrano invece come nuove
creatività di resistenza nel cuore di forme di potere e di eco-
nomie contemporanee. “Quest’epoca di rapida globalizza-
zione che destino riserva alle forme di desiderio più vecchie,
geograficamente circoscritte? E comunque, quanto tenace
(relativo alla doxa?) è l’habitus sessuale? E infine, quanto
può un habitus intimo e discorsivamente non esplicito esse-
re indagato attraverso i testi?” “Se la sessualità ha una sto-
ria, ciò è in parte dovuto al fatto che non sia poi così facile
astrarre il desiderio dal dominio e dalle contraddizioni del
potere” (Farquhar).
In Krysinski e Sissa la sofferenza profondamente legata
al desiderio, all’insaziabilità del desiderio si cortocircuita
nell’eterodossia del corpo, producendo energie sfuggenti
dentro e oltre il testo; poiché come ricorda Crapanzano: “Il
corpo stesso sovente fornisce una matrice (immagine effica-
ce ed effettuante) della società - la stessa società che l’ha
‘creata’ - diventando, secondo un movimento circolare, le
fondamenta della configurazione della società medesima”.
Desiderio e sofferenza convivono nel corpo della vita e
della morte mentre “l’apparente consenso sulla presunta ra-
zionalità del progresso tecnologico nasconde gli interessi
dominanti costruendo discorsi pubblici” (Lock). Desiderio
e sofferenza sono rappresentati nel percorso del corpo ver-
so la malattia: il corpo non ancora malato è infatti “il corpo
paradigmatico della medicina, poiché è già segnato dalla
possibilità del suo disfunzionamento, e deve essere control-
lato con la più avanzata tecnologia medica” (Nguyen).
L’utopia è presente in ogni saggio come percorso neces-
sario per legittimare l’“oltre”, un’utopia che a volte è resa
esplicita (Elam, Crapanzano, Nguyen), a volte resta in di-
sparte, all’ombra delle negoziazioni storiche e sociali “forti”
(Lock, Farquhar), a volte deve trovare strategie testuali che
ne opacizzino tutta la provocazione che essa può produrre.
(Sissa, Krysinski). Labirinti, frammenti, dissonanze, storie di
corpi, appunto.
IL CORPO NOMADE 27

1 Negli studi postcoloniali, si sottolinea la necessità di muoversi oltre le


singolarità di classe e di genere, sia come concettualizzazioni primarie che
come categorie organizzate, per poter sviluppare una diversa consapevolezza
individuale distante dalle posizioni tradizionali degli attori sociali. In questa
prospettiva si situa il dibattito sulla locality non più istituzionale ma come
progetto di istituzione parallela. (Spivak, Bhabha, Ahmad, Said, Mitchell,
Chatterrjee, etc.). In tal modo le teorie critiche contemporanee si avvicinano
alla radicalità degli autori postcoloniali. Mi riferisco ai social movements
(queer, gay, lesbian, minorities, etc.). Una nuova geopolitica locale, nel piane-
ta nordamericano contemporaneo, dove l’orientamento sessuale è alla base
di ogni rivendicazione dell’identità come piattaforma contrattuale da cui ne-
cessariamente partire.
2 La somatofobia attraversa in modo diverso il pensiero occidentale co-
me i recenti e corrosivi studi sull’identità sessuale della Judith Butler mostra-
no (vedere bibliografia). Per un’altra prospettiva fra corpo, etica e antropo-
logia medica vedere i recenti studi di Emily Martin citati in bibliografia.
3 Il rapporto fra memoria, storia e città trova nei diversi momenti
dell’opera benjaminiana le risposte più pertinenti al nostro percorso.
Vedere anche l’interessante ed esaustiva opera di Alberto Sobrero
(1992) sull’antropologia della città che percorre le diverse tappe del pensiero
antropologico fino a dialogare con la postmodernità. Anche il recente saggio
di Matilde Callari Galli (1996) percorre con straordinaria intuizione i nuovi
percorsi identitari delineando gli spazi dell’incontro.
Vedere inoltre, in una prospettiva diversa, il saggio di Francesco Remot-
ti, citato in bibliografia, che sviluppa un’interessante riflessione sul rapporto
corpo, luogo, tempo. Scrive Remotti: “ogni società è fatta di luoghi e di cor-
pi, ovvero di corpi che vivono, operano, interagiscono, abitano certi luoghi.
Rispetto a una qualsiasi dimensione immaginativa o simbolica corpi e luoghi
rivendicano una loro evidente e innegabile fisicità” (Remotti, 1993, p. 31).

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Ripensando il corpo della morte: il dibattito in
Nord America e Giappone.
Margaret Lock

I confini delimitanti la Vita dalla Morte sono innegabilmente


tenebrosi e vaghi. Chi può dire dove quella finisca e questa in-
cominci?
Edgar Allan Poe, Le esequie premature

Ho un intenso ricordo che risale alla seconda guerra


mondiale quando, sopravvissuta alla distruzione della no-
stra casa, colpita da un missile che aveva mancato il suo
bersaglio londinese, finii in ospedale. Un polmone d’ac-
ciaio si ergeva massiccio e inquietante fuori della corsia
dov’era il mio letto. Noi bambini sapevamo bene che il
polmone d’acciaio serviva per casi gravi di poliomelite, una
malattia infettiva che allora - con la scarlattina e la difterite
ormai sotto controllo e la TBC confinata tra le “classi lavo-
ratrici” di Londra, Birmigham e Glasgow - faceva strage
fra noi. Insieme ai bombardamenti notturni, questo ogget-
to ci ricordava la morte sempre in agguato e noi nasconde-
vamo il nostro terrore raccontando storie sul polmone
d’acciaio e su chi vi era morto dentro, scherzando sulle tec-
nologie della guerra e della medicina.
La storia della tecnologia è stata raccontata come
un’eroica vittoria sul nemico, umano o del mondo naturale,
storia di progresso e miglioramento della vita umana. Natu-
ralmente, questa ideologia dominante è stata accompagnata,
almeno nell’ultimo secolo, da una critica ambigua e allarma-
ta sui rischi di una tecnologia fuori controllo. Da Mary Wol-
lstonecraft Shelley a Charles Dickens fino a Kurt Vonnegut
ed altri, leggiamo di disastri e miserie che la tecnologia può
creare. Anche le scienze umane e sociali hanno regolarmen-
te suonato l’allarme; secondo Ellul: “La tecnica è diventata
autonoma; ha plasmato un mondo onnivoro che obbedisce
a leggi proprie rinunciando a qualsiasi tradizione” (1954,
corsivo mio), un sentimento condiviso da autori come John
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 31

Kenneth Galbraith, Rene DuBos e Martin Heidegger. Nella


tradizione kantiana, l’autonomia è associata alla libertà di
scelta di un individuo non più soggetto a leggi create
dall’esterno. Come ha osservato Winner, l’idea stessa di una
tecnologia autonoma pone un’ “irrisolvibile ironia; poiché il
rapporto tra soggetto e oggetto è invertito” (1977, p. 16).
Noi, benché ormai sconfitti da questo mostro, ossessiva-
mente creiamo nuovi marchingegni. Per Pfaffenberger la
tecnologia, perlomeno nella sua accezione moderna è, come
Shiva nell’iconografia Indù, una forza distruttrice e insieme
creatrice, che realizza la promessa di un benessere futuro e
la minaccia di distruzione (1992, p. 495).
In genere si ritiene che forza propulsiva della creazione
tecnologica sia il soddisfacimento di universali bisogni
umani. Marcuse era di questa opinione e, benché preoccu-
pato di come i prodotti del progresso tecnico potessero es-
sere per fini ideologici sovvertiti in nome della razionalità,
riteneva che, se ben applicato, il dominio sulla natura pote-
va coniugarsi con libertà e autonomia (1980). Su questa
scia, Habermas, sottolinea che l’apparente consenso alla
presunta razionalità del progresso tecnologico cela gli inte-
ressi delle classi dominanti e sottrae il dibattito all’opinione
pubblica (1983). Basalla (1988) e Sahlins (1976) hanno po-
sizioni più radicali condivise da gran parte degli antropolo-
gi. Ritengono che - soddisfatti i requisiti vitali per la so-
pravvivenza - la cultura e non la natura definisce i bisogni.
Il bisogno non predetermina invenzioni, anzi: la tecnologia
è una “manifestazione concreta dei molteplici modi in cui
uomini e donne hanno concepito le finalità dell’esistenza”
(Basalla, 1988, p. 14). La tecnologia è dunque parte inte-
grante della storia delle aspirazioni umane e “la pletora di
cose realizzate è il prodotto della mente umana, piena di
fantasie, brame, bisogni, desideri” (Basalla, 1988, p. 14).
Coniugare tecnologia e potere, significa ignorare l’ideolo-
gia egemone del progresso come processo razionale auto-
nomo dal contesto culturale.
È facile pensare che la tecnologia relativa alla medicina,
che riduce la sofferenza ed evita la morte prematura, abbia
fini prettamente umanitari. E non credo sia un caso se fino
32 MARGARET LOCK

ad oggi, ad eccezione dei problemi connessi alla necessità


di crescenti investimenti o ad effetti collaterali negativi, vi
siano state poche critiche di principio all’applicazione della
tecnologia in medicina. Anche se gli interessi delle élites do-
minanti ne condizionano creazione, produzione, distribu-
zione ed applicazione (Kimbrell, 1993; Lock, 1993, p. 341 e
segg.), si pensa che queste tecnologie siano un bene, poiché
ci permettono di penetrare le profondità del corpo, allevia-
no il dolore, prolungano la vita.
Negli ultimi vent’anni, è diventato chiaro che le tecno-
logie biomediche non sono autonome e la definizione della
sofferenza, culturalmente costruita, ne condiziona forte-
mente sviluppo, discorsività e applicazioni. L’applicazione
delle nuove tecnologie nella riproduzione, le cure neonatali
intensive, l’ingegneria genetica, il trapianto d’organi e la
morte sono gli ambiti in cui le critiche sono più evidenti.
Non ci sorprende: sono sfere in cui l’intervento umano im-
plica una riflessione sulla vita e la morte.
In questo saggio mi concentrerò sulle controversie su-
scitate, in Nord America e in Giappone, dai trapianti d’or-
gano e sulla conseguente necessità di ridefinire la morte
per rendere praticabile quella tecnologia, che, caratterizza-
ta dal prelievo di fluidi o di organi dal corpo del donatore e
trapiantati in un altro, non può essere considerata priva di
implicazioni etiche poiché nasce su un’implicita tensione
altruistica (Fox e Swazey, 1992). Quando alcuni pazienti,
attaccati al respiratore artificiale, vennero coinvolti
nell’eroica quanto spettacolare tecnologia dei trapianti, fu
evidente, almeno per gli operatori sanitari, la necessità di
riflettere sul senso della morte biologica.
Molti di noi, cresciuti nella tradizione euroamericana in
cui la morte è punto di non ritorno, ritengono che il senso
da dare alla morte debba essere senza implicazioni ideolo-
giche. Il Giappone, come il Nord America, è una società
largamente secolarizzata guidata da principi di razionalità e
progresso scientifico. In Giappone, la discussione sulla
morte ha esacerbato timori che trascendono il carattere in-
dividuale dell’evento. In Nord America la morte è stata ri-
definita nel 1968 da un ristretto gruppo di medici di Har-
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 33

vard e successivamente aggiornata nel 1981. La “morte ce-


rebrale” è oggi per l’Uniform Determination of Death Act la
definizione ufficiale della morte. Se, verso la fine degli anni
’60, l’opinione pubblica ha per un po’ mostrato preoccupa-
zione per un tale mutamento concettuale oggi, nella gran
parte degli ospedali nordamericani, la morte cerebrale è ac-
cettata come fine della vita, e la “raccolta” di organi è ormai
prassi comune.
Questo contrasto tra il Nord America e il Giappone
rende necessaria una comparazione tra le diverse forme as-
sunte, nella tarda modernità, dalla lotta contro la sofferen-
za e dalla creazione di un ordine morale giusto, in rapporto
alla produzione e applicazione della conoscenza scientifica
e tecnologica. Oggi, in gran parte del mondo, la scienza - e
in particolare la biomedicina - è da molti considerata una
forma di neoimperalismo. In un periodo di lotte per la
creazione e la ricreazione di identità culturali, o per fondar-
ne la differenza reciproca, la conoscenza scientifica, o il suo
rifiuto - in quanto inautentica o culturalmente riprovevole -
è uno strumento non autonomo per legittimare a livello lo-
cale poteri e forme di dominio. La sofferenza, allora, legit-
timerà le contrapposizioni ideologiche mentre la miseria
individuale scomparirà o diventerà strumentale agli interes-
si delle élites straniere dominanti.

Rifare la morte
Con lo sviluppo dei respiratori artificiali, in diversi con-
sessi internazionali si tentò di formulare un chiaro concetto
di morte. Nel simposio CIBA, a Londra nel 1966, e nella
conferenza dell’Associazione medica mondiale, a Sydney
nel 1968, i delegati lavorarono basandosi sull’assunto che,
di fronte alle nuove tecnologie mediche, si dovesse radical-
mente ridefinire la concezione della morte (Rado, 1981).
Ariès, nello scrivere la storia della morte in un’ottica di lon-
gue durée sostiene che in Europa, per almeno un millennio
fino al XIII secolo, è esistita ciò che lui definisce la “morte
addomesticata”. Sostiene che una familiarità con la morte
priva di paura e di disperazione, “a metà strada tra la rasse-
gnazione passiva e la fiducia mistica” era tipica di quel pe-
riodo storico (1978, p. 82). Il destino si rivelava con la mor-
34 MARGARET LOCK

te e il morente era partecipe di una cerimonia pubblica do-


ve “la propria personalità non è annientata, ma addormen-
tata” (1978, p. 82). Ariès suggerisce che dal Medio Evo in
poi la morte si individualizza e, nell’iconografia del tempo,
c’è consapevolezza della condizione mortale della persona
e della caducità della vita. Dopo l’Illuminismo, appare un
mutamento nella mentalité e la morte “viene sfidata e furti-
vamente esclusa dal mondo delle cose familiari”. L’interes-
se si spostò sulla morte dell’altro - sul “caro estinto” - e le
nostre morti divennero asociali e innominabili.
Ariès è stato a ragione criticato per aver sottovalutato il
“tormento e dolore” che caratterizzano molte morti, e per
aver dato eccessiva importanza alla rappresentazione sociale
della morte (Elias, 1985). Era più interessato alla rappresen-
tazione culturale della morte che alle esperienze quotidiane
individuali o collettive. Zygmut Bauman (1992) ha com-
mentato che la morte, almeno in linea di principio, fu “ad-
domesticata” prima dell’Età della Ragione poiché non po-
neva alcuna sfida reale all’ordine sociale; come parte inevi-
tabile del ciclo vitale e sociale, non c’era bisogno di combat-
terla. Per Bauman, la rappresentazione sociale della morte,
è una spinta verso la trascendenza che dà forza propulsiva
alla creatività culturale: “cultura è espansione dei limiti spa-
ziali e temporali dell’essere la cui prospettiva è quella di
smantellarli del tutto (...) la primaria attività della cultura è
la sopravvivenza - il ritardare il momento della morte, l’al-
lungare l’aspettativa di vita” (1992, p. 5). E ancora: “la mor-
talità è nostra senza che lo chiediamo, ma l’immortalità è
qualcosa che in prima persona dobbiamo costruire. L’im-
mortalità non è mera assenza di morte: è sfida e negazione
della morte” (1992, p. 7). Per Bauman la costruzione cultu-
rale dell’immortalità è la principale fonte di senso in tutte le
società e trasforma la morte biologica - “un fatto naturale” -
in artefatto culturale che, a sua volta, “fornisce il materiale
primario per l’edificazione delle istituzioni sociali e degli
schemi di comportamento cruciali alla riproduzione delle
società nelle loro forme distintive” (1992, p. 9).
L’approccio scientifico, confinando la morte in un ge-
lido angolo sottratto all’intervento culturale, ha fatto
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 35

piazza pulita di ogni “senso eccetto quello che definisce il


cadavere nel momento della fine biologica. Come ben sap-
piamo la medicina, almeno fin dai tempi di Cartesio, ha
progressivamente considerato il corpo come un ‘cadavere
animato’ e l’autopsia quale principale mezzo per raccoglie-
re dati sulla biologia umana” (Leder, 1990). La mortalità
venne dunque medicalizzata per la morte stessa e la malat-
tia. Oggi la morte è “misurabile”, legalmente definita come
assenza di funzionamento neuronale o di attività respirato-
ria e cardiaca. Spogliata della cultura, la morte non trascen-
de più la biologia per fondare il senso del limite della vita
umana; almeno per la medicina, viene concepita come pu-
ro cedimento biologico, come scarto.
La morte è principalmente considerata un’infermità o
un’aberrazione non qualcosa di naturale e il medico deve cer-
tificarla e stabilirne la causa (...) Questi certificati illustrano
inoltre la credenza che, nonostante gli esseri umani muoiano
per molteplici cause contemporaneamente, sia possibile iso-
larne la causa decisiva. (Prior, 1989, pp. 32-33).
Narrazioni come quella di Ariès, organizzata con una
progressione che porta da una morte socialmente significa-
tiva e fatale ad un’altra nella quale il morente è il fulcro di
una concezione secondo cui la morte è un evento da con-
quistare, sono raccontate come un grand recit; come se le
culture fossero monolitiche e potesse esistere una netta di-
visione tra cultura (la creazione umana) e la natura regolata
da leggi biologiche a-storiche. Nel suo meraviglioso libro,
Death Dissection and the Destitute, Ruth Richardson
(1988, p. 31) mostra come nell’Inghilterra del XIX secolo,
le “strategie di vita” del popolo comune non coincidessero
minimamente con quelle degli scienziati che assumevano
ladri di cadaveri per ottenere corpi da sezionare. La mag-
gior parte dei cittadini riteneva la dissezione dei cadaveri
non solo degradante ma letteralmente crudele e anche la
letteratura medica si chiedeva se il distacco clinico non fos-
se in realtà disumano, anche se di una “necessaria disuma-
nità”. Il corpo morto può essere stato spogliato del signifi-
cato sociale e individuale nelle menti dei medici patologi
ma, per la maggior parte delle persone dell’Europa del
36 MARGARET LOCK

XIX secolo la morte aveva un significato trascendente, la


fine fisica dell’individuo. Nel tardo XX secolo, partecipi
della medicalizzazione e sterilizzazione della morte confi-
nata negli ospedali, ci siamo in teoria arresi alla visione del-
la morte come mero evento biologico. Naturalmente, ciò è
conforme all’ideologia dominante che concepisce il corpo
fisico come pre-culturale, aggregato di fatti naturali oggetto
di sperimentazione e di manipolazione razionali. Alla cul-
tura è riconosciuto solo il compito di eliminare il cadavere
ed elaborare il lutto. Molti autori confermano che non sap-
piamo più come comportarci verso i morenti al cui cospet-
to proviamo senso di panico e di fallimento. Un ulteriore
paradosso: i media sono pieni di immagini di morti violen-
te di cui nulla si occulta né si sterilizza, e la cui spettacola-
rità rende la morte estranea, facilitando forse così la rimo-
zione della nostra caducità. Eppure, vi sono segnali che ri-
velano una crescente sensibilità critica dell’opinione pub-
blica verso la rimozione della morte e della strenua lotta
contro di essa. Osserva Pernick: “Oggi, forse per la prima
volta, una critica aperta esprime sia la paura di venire erro-
neamente dichiarati deceduti, che la paura di venire erro-
neamente dichiarati in vita” (1988, p. 58).

La morte utile
In America, il primo passo per ridefinire la morte fu fat-
to nel 1968 dal Comitato ad hoc dell’Harvard Medical
School poco dopo il primo trapianto di cuore, in Sud Afri-
ca nel 1967. I medici del Comitato dichiararono unilateral-
mente che individui in stato di “coma irreversibile” cui era
stata diagnosticata la “sindrome da morte cerebrale”, pote-
vano esser dichiarati deceduti (Ad Hoc Committee of the
Harvard Medical School, 1968). Prima la morte era conven-
zionalmente dichiarata al momento dell’arresto cardiaco;
ma con il respiratore artificiale e la possibilità di mantenere
l’attività cardiaca anche in assenza di attività cerebrale,
questa convenzione non fu più praticabile. Il comitato
individuò due ragioni per stabilire una chiara definizione
della morte: le “crescenti pressioni” cui erano sottoposti
pazienti, famiglie e personale ospedaliero per “i progressi
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 37

in materia di rianimazione e assistenza”; ed il fatto che “gli


obsoleti criteri che definivano lo stato di decesso potevano
portare a controversie nell’ottenimento di organi per tra-
pianti” (1968, p. 337). La necessità, da parte dei medici, di
raggiungere un consenso sulla definizione di decesso come
morte cerebrale fu fin dall’inizio collegata alla domanda di
organi per trapianti. Queste controversie ebbero una breve
popolarità nell’opinione pubblica (si veda ad esempio il Ti-
me del 1968).
Nei primi anni ’70 il concetto di “sindrome da morte ce-
rebrale” fu oggetto di controversie giudiziarie. Nel 1981, la
commissione presidenziale emanò l’Uniform Determination
of Death Act, che ricevette subito l’appoggio dell’Associa-
zione medica americana e dell’Associazione forense ameri-
cana e venne progressivamente adottato da molti parlamen-
ti statali.
La commissione presidenziale, opponendosi alla posi-
zione di un numero consistente di medici, filosofi e teologi
(che peraltro scrivevano prevalentemente in riviste specia-
lizzate), decise di razionalizzare e di definire giuridicamente
la morte (Annas, 1988, p. 621). La commissione racco-
mandò l’adozione del concetto di “morte cerebrale” come
equivalente alla “perdita irreversibile di tutte le funzioni ce-
lebrali” distinguendola da “stato vegetativo persistente”. La
precedente definizione di “coma irreversibile” aveva creato
dubbi sulla morte “reale”. I medici, con un concetto
“uniforme” di morte, si tutelavano da controversie giudizia-
rie e si assicuravano organi da persone “legalmente morte”.
Molti medici, filosofi e scienziati sociali ritennero il do-
cumento ambiguo nel voler mantenere due criteri per defi-
nire la morte: cessazione irreversibile delle funzioni circola-
torie e respiratorie e cessazione irreversibile di ogni funzio-
ne cerebrale, funzioni neurovegetative incluse. Nel riassu-
mere la controversia, il filosofo Lamb, suggerisce che l’am-
biguità deriva dal tentativo della commissione di evitare una
rottura radicale fra la definizione di decesso precedente
l’avvento del respiratore artificiale e la necessità di una nuo-
va definizione giuridica della morte (1985, p. 23). La com-
missione trasformò la morte da processo in evento, renden-
38 MARGARET LOCK

do possibile la registrazione precisa del decesso. Le pressio-


ni causate dalla necessità di prelevare tempestivamente gli
organi da trapiantare, resero dunque essenziale la trasfor-
mazione della morte in evento intellegibile e scientificamen-
te diagnosticabile. Anche se la diagnosi di morte cerebrale è
ormai apparentemente una routine e c’è una maggiore for-
malizzazione della diagnosi, la dimensione etica di come la
morte possa essere definita suscita ancora dubbi (Byrne,
Nilges, 1993; Veatch, 1993). L’immagine eroica della medi-
cina che prolunga la vita ha occultato la ricostruzione della
morte, dimenticando che due sono le morti: quella del do-
natore e quella del ricevente. Ma in America l’immaginario
collettivo si entusiasma solo per la vita “donata”. La vita e la
morte del paziente dal quale gli organi sono “raccolti” ven-
gono rimosse con la parola “donatore” (ma l’uso di bambi-
ni anencefalici ha cambiato le cose; vedi Lock in corso di
stampa). I media concentrano la nostra attenzione sui mo-
menti immediatamente precedenti e successivi l’intervento,
sulla vita che verrà “salvata”; il tasso di sopravvivenza oltre
le prime settimane dall’intervento, ha scarsa copertura e po-
chissime persone conoscono la prognosi di chi ha ricevuto
un trapianto, o i risultati a lungo termine o la “qualità della
vita” dopo l’operazione.
Tra il 1982 e il 1992, il numero dei trapianti negli Stati
Uniti è triplicato; oggi si stima che circa 35.000 americani
abbiano nel loro corpo un organo trapiantato (Prottas,
1994). L’attuale spinta per “massimizzare” la disponibilità
di organi si fonda sull’assunto utilitaristico che debbano es-
sere messi a disposizione per il bene dei più; da qui il dibat-
tito sulla legittimità o meno della compravendita di organi.
Il dibattito è sull’ottenimento di organi, compresa la più ef-
ficace forma di contratto con i donatori e le loro famiglie
(Somerville, 1985); oppure se sia giusto o no creare un mer-
cato di organi (Prottas, 1994; Williams, 1985) e se il corpo
possa considerarsi un bene di proprietà come un altro.
Dunque negli Stati Uniti, qualsiasi discussione relativa
alla riconcettualizzazione della morte è condizionata dal fat-
to che il trapianto di organi provenienti da donatori cere-
bralmente morti è ormai pratica comune. Inoltre l’opinione
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 39

pubblica, plasmata dai media, si concentra quasi esclusiva-


mente sull’eroismo dei trapianti e sul “salvataggio” della vi-
ta umana.
Una situazione che Ivan Illich ha definito: feticizzazione
della vita (1992, p. 224). Contrariamente ai dibattiti sulla
morte precedenti il respiratore artificiale, oggi la questione
è più complessa: ci sono due vite e due morti inestricabil-
mente collegate dal malfunzionamento delle loro parti cor-
poree. C’è una reciproca incompatibilità dei diritti dei due
pazienti (donatore/ricevente), ma in una società razionale e
secolarizzata non ha senso, per usare il neologismo di Wil-
liam Gaylin (1974), soffermarsi sulle disavventure dei
“neomorti”. Forse è più “sano” pensare ad individui che
continuano a “vivere” in corpi altrui e vedere nei trapianti
una tecnologia che salva vite, un procedimento che evita la
morte, e apparentemente la sconfigge.
Nel 1991, negli Stati Uniti, più di 2000 persone erano in
lista d’attesa per trapianti di cuore mentre il numero dei
donatori in questi ultimi anni è costantemente diminuito.
Un chirurgo ha parlato di “un numero allarmante di pa-
zienti che muoiono nell’attesa” (Peters, 1991, p. 1302), una
situazione descritta come “emergenza sanitaria” (Randall,
1991, p. 1223) su cui peraltro vi sono opinioni contrastanti.
Di recente, Leon Kass ha riassunto la questione della ven-
dita di organi in modo assai diverso.
Oggi, imbarcatici in un viaggio di sola andata, non possiamo
più tornare indietro. Al tempo stesso, siamo sempre più
preoccupati dalla crescente consapevolezza che non c’è alcun
limite naturale o razionale. I precedenti giustificano gli svi-
luppi successivi secondo un principio di razionalità calcolata:
siamo in un bagno in cui la temperatura dell’acqua aumenta
impercettibilmente e noi non sappiamo quando gridare
(Kass, 1992, p. 84).
Pochi commentatori sono espliciti come Kass, ma il nu-
mero dei dubbiosi, benché di rado si esprimano pubblica-
mente, va oltre quello dei critici interni al mondo della me-
dicina, come avveniva nel secolo scorso. Le conclusioni di
Fox da un sondaggio Gallup del 1985, sono che “molti de-
gli interpellati erano preoccupati dell’eventualità che una
40 MARGARET LOCK

volta accettato di diventare donatori d’organi, i medici po-


tessero repentinamente dichiararne il decesso, o perfino ac-
cellerarlo, per poter prelevare gli organi” (Fox e Swazey,
1993, p. 57). Un’altra inchiesta rivelò che, rispetto alle classi
medie, erano meno disponibili a farsi donatori coloro (par-
ticolarmente i neri) che si sentivano ai margini (Childress,
1989). Macabra ironia dal momento che, per i chirurghi, i
“migliori” organi sono quelli di vittime di incidenti stradali,
di ferite da arma da fuoco, di accoltellamenti e via di seguito
le cui vittime sono prevalentemente neri e ispanici.
Uno studio recente dalla Scandinavia, mostra che nel
1950 su un campione di svedesi scelti a caso tra diversi
gruppi d’età, quasi il 70% esprimeva disagio nei confronti
dell’autopsia e della donazione d’organi. Alcuni dicevano di
provare disagio al pensiero di cadaveri sezionati e molti te-
mevano che il paziente potesse essere ancora in vita al mo-
mento del prelievo (Sanner, 1994). Come la pubblica opi-
nione, molti studi dimostrano che, almeno in Nord Ameri-
ca, numerosi operatori sanitari provano grande disagio al
momento della selezione dei donatori o quando devono
parlare con la famiglia per ottenerne il consenso (Caplan,
1988; Prottas e Batten, 1988; Youngner et al., 1989b).
Youngner e i suoi colleghi ritengono che non riusciamo a
parlare semplicemente di morte invece che di “morte cere-
brale” perché la vita è vivida nella nostra mente. L’uso del
termine morte cerebrale, è in sé un esempio dell’ambiguità
e dell’incertezza dell’intera questione. Questi ricercatori sot-
tolineano come i giornali o la televisione spesso riportano
che un paziente dichiarato cerebralmente morto poi
“muoia”appena rimossi i macchinari che lo “tenevano in vi-
ta” e come termini usati dal personale sanitario “implicano
che il paziente muoia due volte” (1989, p. 2205).

Lo slittamento del concetto di persona


La commissione presidenziale che realizzò il Death Act
affermò che la morte può essere diagnosticata con la cessa-
zione delle funzioni cerebrali, inclusi i riflessi controllati dal
sistema neurovegetativo. Da quel momento vi è assenza di
“integrazione neurologica” e ciò che rimane “non è più
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 41

un’unità organica funzionale, ma solo un complesso mec-


canico” (Bernat et al., 1981, p. 391). Per Zaner chi concor-
da con questa impostazione, ritiene che “è l’organismo bio-
logico (o, più precisamente, il sistema nervoso anatomo-fi-
siologico) e non la persona cui appartiene l’organismo, ad
avere un ruolo decisivo di vita e di morte (1988, p. 7). Za-
ner e la maggioranza degli autori di Death: Beyond Whole
Brain Criteria, ritengono che la commissione, nel tentativo
di basare un concetto di morte su un insieme standardizza-
to di analisi cliniche, abbia messo il carro avanti ai buoi evi-
tando al contempo la questione centrale della morte come
esperienza individuale. Affinché ci possa essere una defini-
zione della morte umana uniforme e concordata vi deve es-
sere, secondo Zaner, un consenso generale su ciò che si in-
tende con “persona” o “identità personale” (1988, p. 5). In
assenza del consenso, la commissione osservò che su una
questione dibattuta per secoli, si poteva aggirare il proble-
ma con un’argomentazione biologica in cui criteri operativi
ed analisi cliniche dovevano costituire la soluzione.
Le definizioni fondate sull’idea di scomparsa della per-
sona, sono state definite “ontologiche” e si contrappongo-
no alle definizioni scientifiche basate sul concetto di fun-
zione cerebrale (Gervais, 1987). Secondo Lamb chi è favo-
revole a ridefinire la morte sulla base di criteri ontologici ri-
tiene che la perdita delle funzioni cerebrali superiori equi-
valga alla morte. Per Lamb queste argomentazioni conside-
rano solo criteri che descrivono “le qualità minimali per la
costituzione della persona, definita in termini di capacità
psicologiche”, e afferma che in queste argomentazioni un
dualismo cartesiano traccia il limite tra vita e morte nel mo-
mento in cui il “fantasma” lascia la macchina (1990).
Gervais ha criticato Lamb per il fatto di prediligere
l’ipotesi psicologica. L’autrice ritiene che egli vede la morte
come un “fenomeno in attesa di essere scoperto” mentre lei
ritiene che l’approccio ontologico si fondi su una riflessione
etica (Gervais, 1987, p. 155). Lamb ha ribattuto che l’ipote-
si cerebrale è una “formulazione eticamente superiore” per-
ché “in questioni di vita e di morte, criteri in grado di verifi-
care oggettivamente la presenza o meno di funzioni vitali
42 MARGARET LOCK

sono più affidabili di incerte riflessioni sulla vita, sul concet-


to di persona o sui requisiti necessari al prelievo di organi”
(Lamb, p. 1985). Insiste che l’identità personale non ha col-
locazione anatomica e che ha una qualità analoga a “spiri-
to”, “volontà” o “anima”, con implicazioni religiose, giuri-
diche e politiche. La scomparsa della persona o la perdita
dell’integrità morale sono concezioni culturali e, quindi,
soggette a varie interpretazioni, a manipolazioni e sopraffa-
zioni ove il pragmatismo e l’utilitarismo siano egemoni.
Analogalmente per Fost il problema delle giustificazioni
utilitariste, è che si invoca la ridefinizione ogni volta che un
criterio di utilità lo richieda; con la conseguenza di genera-
re “non solo instabilità, ma la percezione che sia ammissi-
bile che, persone scomode, possano venire concepite come
morte (ogni qual volta) il bene comune lo richieda.” (1988,
p. 7). In questo clima Lamb e i fautori della morte cerebrale
ritengono prioritaria la ricerca di un “preciso” criterio di
misurazione del funzionamento neurologico; egli infatti cri-
tica un’interpretazione della vita culturalmente costruita ed
emotivamente condizionata e vede in una precisa definizio-
ne biologica minor pericolo di sopraffazione (se la diagnosi
è formulata con cura). Questa argomentazione dà per scon-
tato che la morte sia misurabile, e che le misurazioni siano
accurate e verificabili. Su questo punto una recente inchie-
sta condotta su 195 medici e paramedici ha dato risultati in-
quietanti. Youngner e i suoi colleghi ricordano che il con-
cetto di morte cerebrale venne inizialmente adottato perché
si riteneva che “in mano a medici competenti” una diagnosi
di perdita irreversibile delle funzioni cerebrali fosse clinica-
mente pratica e affidabile. Scoprirono però che solo 35%
degli interpellati conosceva il concetto di morte cerebrale
e poteva applicarlo correttamente (Youngner et al., 1989,
p. 2208); il 58% non aveva usato uno stesso concetto di
morte coerentemente; queste concezioni variavano moltissi-
mo da un operatore sanitario all’altro (1989, p. 2209).
Per i possibili conflitti di interesse, neurochirurghi e
neurologi possono solo suggerire alle famiglie dei pazienti
cerebralmente morti di considerare la donazione d’organi.
Medici e chirurghi specializzati in trapianti possono en-
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 43

trare in scena solo dopo che la morte cerebrale è diagno-


sticata in due separate occasioni. Infine la morte viene
rapidamente trasformata, con l’accordo della famiglia
sconvolta, in una celebrazione di immortalità.

Il dibattito in Giappone
Riguardo ai trapianti d’organi vi sono oggi, tra gli Stati
Uniti e il Giappone, notevoli differenze: p.e., in America nel
1990 sono stati eseguiti quasi 2000 trapianti di cuore, in
Giappone nessuno. Questa differenza non può trovare una
spiegazione in carenze di tecnologia o di risorse economi-
che. Dobbiamo ritenere che differenze culturali debbano
essere determinanti. All’inizio ero incline a chiedermi di
quale sapere dispongono i giapponesi da renderli refrattari
all’estensione tecnologica della vita. Un approccio che sem-
brava particolarmente pertinente poiché il Giappone, utiliz-
za ed esporta complesse tecnologie mediche più di qualsiasi
altra nazione al mondo (Ikegami, 1989). Il Giappone non è
così secolarizzato e razionale, così “moderno” come la sua
immagine ci fa ritenere? O in Giappone operano condizio-
namenti culturali sulla produzione del discorso scientifico
sulla morte e sui morenti?
C’è qualcosa di strano nel non operare per “salvare” vite
in una società secolarizzata priva di limitazioni economiche
o tecnologiche. La risposta ce la può dare l’analisi delle so-
pravvivenze di un passato arcaico che si cela nella tarda mo-
dernità giapponese. Questo approccio non rende giustizia
delle prevalenti spiegazioni che gli stessi giapponesi danno
del fenomeno negando che la cultura, intesa come “cultura
tradizionale”, c’entri qualcosa. Al contrario sono per una
spiegazione pragmatica che sottolinei le implicazioni politi-
che, i rapporti di potere tra gli esperti coinvolti, tra mondo
medico e opinione pubblica (Nudeshima, 1991). Una
preoccupazione ricorrente nelle argomentazioni dei giappo-
nesi è che, nel considerare anomala la situazione giappone-
se, le concezioni nordamericane su benessere e giustizia so-
ciale non sono problematizzate, ma implicitamente conside-
rate la norma.
44 MARGARET LOCK

Poco dopo il primo trapianto di cuore eseguito in Sud


Africa, furono fatti analoghi tentativi in varie parti del
mondo incluse, nel 1968, Sapporo e Hokkaido. Come al-
trove, l’operazione di Sapporo ricevette grande copertura
dai media e fu salutata come un grande trionfo della me-
dicina. Alcuni mesi dopo il medico che aveva condotto
l’operazione, il dott. Wada fu accusato di omicidio e solo
dopo sei anni prosciolto. La maggioranza dei giapponesi
ritenne che il paziente da cui era stato prelevato il cuore
non fosse cerebralmente morto e che il ricevente, morto
due mesi e mezzo dopo l’operazione, non avesse vera-
mente bisogno di un nuovo cuore (Gotô, 1992). Nel
1991, in un dibattito nazionale sulla morte cerebrale, il
caso fu ufficialmente riaperto e il presidente dell’Associa-
zione medica giapponese, testimoniando di fronte ad una
commissione del governo, disse che 23 anni prima, subito
dopo il prelievo, il cuore malato del ricevente era stato
manipolato, suggerendo implicitamente che i dottori
avessero proditoriamente esagerato il grado di deteriora-
mento dell’organo (Mainichi Shinbun, 1991). Oggi il caso
viene giudicato un barbaro esperimento medico condot-
to da un dottore molto presuntuoso che ha studiato in
America.

Definizioni contestate di morte


La prima definizione di morte cerebrale in Giappone
fu formulata nel 1974 dall’Associazione encefalografica.
Nel 1985 il Ministero della salute e del benessere istituì
un Consiglio consultivo sulla morte cerebrale il cui rap-
porto finale contiene la definizione di morte cerebrale og-
gi in vigore (Kôseishô, 1985). Nel rapporto si dice che “la
morte non può essere definita come morte cerebrale”.
Nonostante la diagnosi venga fatta spesso, non porta allo
spegnimento del respiratore artificiale, serve solo a prepa-
rare i parenti alla morte del congiunto (Ohi et al., 1986).
Il rapporto stimolò altri gruppi a prendere posizione.
L’Associazione giapponese degli psichiatri e neurologi,
politicamente molto presente, temette che la morte cere-
brale potesse essere equiparata alla morte tout court e che
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 45

ciò conducesse ad un’eccessiva disinvoltura nel dichiara-


re clinicamente morti handicappati, ritardati mentali,
ecc. per poterne prelevare gli organi. (Asahi Shinbun,
1991a; Yamauchi, 1990). Sotto la leadership del dott.
Honda del Dipartimento di medicina interna dell’Uni-
versità di Tokyo, medici e comuni cittadini hanno costi-
tuito un comitato per i diritti dei pazienti e denunciato
come omicidio molti casi di trapianti di organi. L’ufficio
del procuratore non ha fino ad oggi preso alcuna decisio-
ne, benché abbia dichiarato non ammissibili due dei casi
denunciati con la motivazione che in Giappone non vi è
consenso in merito alla definizione di morte (Nakayama,
1989). Poiché il dibattito, abbondantemente seguito dai
media, non ha portato ad alcuna conclusione, il governo
è stato costretto nel 1989 a istituire un Comitato del ga-
binetto sulla morte cerebrale e i trapianti d’organi per ri-
solvere la questione. Dalla sua composizione era chiaro
che il governo volesse prendere posizione a favore della
morte cerebrale. I membri avrebbero dovuto raggiunge-
re una posizione comune, ma non fu così. La maggioran-
za sembrava favorevole alla morte cerebrale; il trapianto
d’organi da persone cerebralmente morte era ammesso e
la definizione ufficiale di decesso era ritenuta corretta.
La minoranza esprimeva il bisogno di un dibattito ap-
profondito sugli aspetti sociali e culturali del problema; e
il fatto che la discussione si fosse concentrata eccessiva-
mente sugli aspetti “scientifici” era considerato un limite
(Kato Chiku Kôchôkai, 1992; Yomiuri Shinbun, 1992b).
La Federazione delle associazioni forensi giapponesi
(Nichibenren) ha mantenuto la sua posizione contraria al-
la morte cerebrale. L’organizzazione si è espressa a favore
della “sacralità della vita” e ha mostrato preoccupazione
verso possibili “sperimentazioni” mediche sottolineando
il pericolo di conseguenze impreviste su atti testamentari
(Asahi Shinbun, 1991b). Il giorno dopo l’annuncio uffi-
ciale della pubblicazione del rapporto, il Ministero di
giustizia, l’Agenzia nazionale di polizia e l’Ufficio del
procuratore espressero il loro parere negativo (Asahi
Shinbun, 1992a).
46 MARGARET LOCK

Sviluppando la naturalità

La diffidenza dell’opinione pubblica giapponese verso i


medici acuisce il “problema” morte cerebrale. I media af-
frontano questioni come la scelta consapevole, l’eutanasia e
le nuove tecnologie riproduttive, ma il dibattito sulla morte
cerebrale e i trapianti è centrale (Umehara, 1992). Un velo-
ce esame di articoli, libri ed editoriali pubblicati sull’argo-
mento dal 1986 (più di 500), rivela la frequenza di espres-
sioni come “innaturale” (fushizen; la morte cerebrale viene
descritta come troppo “innaturale” per essere chiamata
“morte”; Hirosawa, 1992). Contro l’istituzionalizzazione dei
trapianti si sollevano preoccupazioni sull’interferenza uma-
na verso l’ordine naturale delle cose, ma la loro articolazio-
ne rimane comunque limitata all’uso di aggettivi emotiva-
mente forti o a riferimenti ad un “Occidente” “freddo” e
troppo razionale.
Gi odierni atteggiamenti giapponesi verso la conoscenza
scientifica e la tecnologia sono connessi con una generaliz-
zata ambivalenza nei confronti della modernizzazione. E
non si possono capire se non tenendo conto delle varie in-
terpretazioni, giapponesi e straniere, del rapporto tra Giap-
pone e Occidente. In Giappone il dibattito sulle tecnologie
del corpo - legittimità o meno di manipolare i confini tra
natura e cultura e definizione di questi stessi confini - riflet-
te preoccupazioni più generali su modernità, post-moder-
nità ed “occidentalizzazione”.
In Giappone, per tutto il XIX secolo l’entusiasta adozio-
ne della scienza e della tecnologia occidentali “si fondava
sul senso di sicurezza culturale” (Najita, 1989); la consape-
volezza che il “cuore” o il “là” (koso), la nota bassa della
cultura giapponese, non ne sarebbe stato influenzato. La
tecnologia, consapevolmente associata all’ “Altro”, era con-
trapposta alla cultura con espressioni idiomatiche come
wakon yosai (spirito giapponese e tecnologia occidentale) e
toyo dotoku, seiyo gijutsu (morale orientale, tecnologia occi-
dentale). Najita ed altri hanno mostrato come questa fiducia
nella cultura “tradizionale” sia venuta meno. Dai primi del
secolo culminano dopo la II Guerra Mondiale le tensioni
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 47

conseguenti all’internazionalizzazione del Giappone e alla


complessità tecnologica (Najita, 1989).
Si cominciò a temere per la cultura giapponese e una
reazione comune fu l’affermazione dell’irriducibilità cultu-
rale del Giappone (Harootunian, 1989). In molti giappone-
si, lo spettro dell’individualismo, dell’utilitarismo e dell’iper-
razionalismo occidentali, genera una retorica della differen-
za, per quanto se ne rigettino le implicazioni nazionalistiche.
È questo il retroterra discorsivo del dibattito sulla morte ce-
rebrale. A molti, termini come “tradizione” e “religione”
danno un senso di superstizione e sentimentalismo premo-
derno, ma c’è una grande confusione perché commentatori
giapponesi e stranieri descrivono la modernizzazione giap-
ponese come un processo particolare che fonderebbe la
specificità del Giappone. Chi affronta la questione riferen-
dosi a temi culturali difende generalmente lo status quo af-
fermando che i giapponesi non gradiscono cose “innatura-
li” e che è un pericolo ignorare questa radicale differenza
con l’“Occidente”. C’è qualche tentativo di argomentare in
modo più articolato la questione. Morioka (1991), invece di
concentrarsi sulla standardizzazione della morte cerebrale,
propone di concentrarsi sulla persona clinicalmente morta
come crocevia di relazioni umane e mediche specificata-
mente giapponesi. Egli tenta esplicitamente una ridefinizio-
ne del problema secondo una prospettiva sociale.
L’intera discussione sulla manipolazione della morte è
complessa, emotiva e piena di contrapposizioni ideologiche
e non deve sorprendere se fino ad oggi non è stato possibile
raggiungere un compromesso, perché le persone celano die-
tro discorsi scientifici, posizioni culturalmente determinate.

Il discorso sulla morte sociale


In Giappone la morte biologica viene normalmente in-
terpretata come processo, non come evento (Uozumi, 1992;
Hirosawa, 1992; Komatsu, 1993); molti inoltre distinguono
tra morte biologica e morte sociale che si ritiene avvenga in
un momento successivo alla morte fisica. Benché pochi fac-
ciano esplicito riferimento a credenze di derivazione confu-
ciana a proposito di antenati, la loro influenza nel dibattito
48 MARGARET LOCK

sulla morte cerebrale è forte. Durante le interviste prelimi-


nari con 50 giapponesi di entrambi i sessi, è emerso che il
destino del corpo dopo la morte biologica e la preoccupa-
zione nei confronti di chi è recentemente deceduto contri-
buiscono alla riluttanza nel donare e nel ricevere organi.
Tutti gli intervistati hanno affermato di non credere più
nell’elaborato sistema degli antenati che prima della guer-
ra caratterizzava la famiglia estesa, più della metà degli in-
tervistati ha affermato di eseguire, spesso quotidianamen-
te, rituali in casa e sulle tombe dei genitori o dei nonni. La
maggior parte ritiene che la famiglia e gli obblighi sociali
richiedono che i corpi e il ricordo dei defunti debbano es-
sere rispettati.
Un sondaggio del 1981 ha mostrato che il 60/70% dei
giapponesi ritiene che la data e il luogo di nascita e di morte
siano preordinati e che ciò non dovrebbe essere cambiato
per intervento umano (Maruyama et al., 1981). Una corret-
ta separazione dell’anima dal corpo al momento della morte
è una credenza centrale nella concezione giapponese della
morte (Woss, 1992). In un recente sondaggio, il 40% degli
interpellati ha affermato di credere che il reikon (anima/spi-
rito) sopravviva alla morte fisica (Shôwa 61 nenpan yoron
chôsa nenkan, 1987). Questa stessa inchiesta ha rilevato che
tra i giovani dai 16 ai 29 anni, la credenza nella sopravviven-
za dell’anima dopo la morte è assai diffusa (Shôwa 54 nen-
pam yoron chôsa nenkan, 1979).
In Giappone, la linea di separazione tra sociale e natura-
le non è stata mai rigidamente definita. Gli antenati erano
entità immortali che agivano nel quotidiano, ma che alla fi-
ne diventavano animisticamente parte dell’ordine naturale
fungendo così da ponte vitale tra le sfere spirituale, sociale e
naturale. Nonostante le influenze confuciane, il filosofo
Omine collega la visione animistica degli antenati allo Shin-
toismo, la religione tradizionale giapponese che lui ritiene
caratterizzata da “curiose credenze locali largamente diffuse
nella poco spirituale regione dell’arcipelago e incomprensi-
bili alla maggior parte del mondo esterno” (1991, p. 69). Lo
Shintoismo, associato all’imperatore ed al nazionalismo, è
argomento particolarmente delicato per l’opinione pub-
blica progressista. Omine osserva che benché l’animismo
condizioni gli atteggiamenti nei confronti dei morti, “è so-
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 49

stanzialmente incapace di affrontare la questione della ri-


definizione del confine tra la vita e la morte” (1991, p. 69).
Commenti come questo di Omine esprimono la grande an-
sietà che il discorso e la pratica quotidiani riguardanti la
morte sociale producono tra i giapponesi desiderosi che la
loro nazione venga considerata sostanzialmente razionale.
Questione importante poiché questi discorsi portano ac-
qua al mulino di chi (giapponese o straniero) sottolinea co-
me nel Giappone tardo-moderno, la “tradizione”, il “vec-
chio ordine morale”, il culto degli antenati come espressio-
ne di continuità culturale siano tuttora intatti e funzionanti.
Sull’argomento dei trapianti d’organi, molti sottolinea-
no che in Giappone la formalità del dono sia tuttora cen-
trale nei rapporti di reciprocità e che contribuisce al man-
tenimento dell’ordine morale. Per molti, l’idea di ricevere
un organo anonimamente donato, sarebbe difficile da ac-
cettare senza un enorme senso di colpa e senza violare il
buon comportamento (Ohnuki-Tierney, 1994). Inoltre, al-
cuni con cui ho parlato hanno espresso un’evidente repul-
sione fisica per l’idea stessa di trapianto. Per loro il passag-
gio di parti corporee tra persone sconosciute viola i limiti
di ciò che è “naturale” e comporta un’inaccettabile confu-
sione tra il sé e l’altro. Un eminente immunologo ha de-
scritto la tecnologia del trapianto: l’unione del “sé” con il
“non-sé” (Tada, 1993).

Tarda modernità, identità culturale e l’Altro


La cultura e i valori dell’“Occidente” sono criticati at-
traverso il dibattito sulla morte cerebrale. Noi sentiamo
parlare e leggiamo molto sul cristianesimo (niente sul giu-
daismo), sulla razionalità e sul cervello come centro del
corpo, sull’altruismo, individualismo ed anche sull’egoismo
- tutti valori associati all’“Occidente”. Ma, nonostante l’ap-
pello a andare oltre una discussione sul processo decisiona-
le della scienza, i valori giapponesi vengono raramente esa-
minati esplicitamente. Qualcuno ha suggerito che se il pri-
mo trapianto di cuore, il caso Wada, non avesse scatenato
una battaglia legale, l’intero dibattito sulla morte cerebrale
forse non ci sarebbe stato e il mondo medico avrebbe uni-
lateralmente proseguito come in Nord America. La ricerca
50 MARGARET LOCK

di un consenso a livello nazionale sull’argomento sarebbe


un esercizio consolatorio prima che il potere istituzionalizzi
il trapianto d’organi. Un progetto di legge in materia giace
attualmente in parlamento.
Le persone particolarmente sensibili riconoscono che se
la morte cerebrale è un argomento delicato, la definizione
stessa della morte, benché fulcro del dibattito, ha implica-
zioni metaforiche dalle vaste ripercussioni ideologiche che
vanno oltre la medicina. L’odierno dilemma, per i pensatori
progressisti, è come sia possibile superare i resti di un at-
teggiamento patriarcale e paternalista - il lato reazionario
della tradizione confuciana - senza scadere in un linguaggio
che ossessivamente persegua l’affermazione dei valori “oc-
cidentali” incentrati sull’autonomia e sui diritti individuali.
Qui si colloca la discussione sulla morte cerebrale e, come
in Occidente, è una discussione dai caratteri laici a cui
esponenti religiosi rimangono estranei (Becker, p. 1993). A
livello più astratto, l’angoscia attuale è espressione del pe-
renne quanto turbolento dibattito sul Giappone e il suo
rapporto con l’“Occidente”, che procede ininterrotto da
ormai 200 anni e nel quale l’“Occidente” viene associato
ad idee universalmente valide mentre il Giappone viene as-
sociato alla specificità locale. Ha detto di recente un pedia-
tra: “Se imitassimo passivamente gli occidentali ci trasfor-
meremmo in occidentali con facce asiatiche” (Newsweek
Nihon Han, 1993). Benché vi sia una certa dose di passio-
ne nei confronti degli individui le cui vite sono direttamen-
te coinvolte, non si sa molto delle opinioni dei pazienti e
delle loro famiglie. Una donna la cui figlia presto avrà biso-
gno di un trapianto di fegato, rispondendo ad un giornali-
sta dell’edizione giapponese di Newsweek: “Perché dob-
biamo soffrire per la sola ragione che abbiamo la sfortuna
di essere giapponesi?” (Newsweek, 1993).
Finora, il dibattito non ha affrontato la questione della
sofferenza individuale, è stato un confronto sull’ordine mo-
rale nel Giappone contemporaneo che ha coinvolto citta-
dini e militanti di diverse convinzioni politiche. Chi ricono-
sce la morte cerebrale, generalmente accetta l’ideologia
“modernista” del ruolo propulsivo della tecnologia nel
progresso contro la sofferenza umana. Chi è contrario ritie-
ne che il Giappone abbia una sua specificità culturale e ri-
RIPENSANDO IL CORPO DELLA MORTE... 51

schi la decadenza morale. Intervistando e osservando giap-


ponesi attivamente coinvolti a vario titolo nella questione,
ho potuto percepire come un terreno di incontro stia lenta-
mente e dolorosamente emergendo dalla sincera preoccu-
pazione per la sofferenza dei singoli individui. Oggi, in Eu-
ropa e Nord America si parla di “ricompensa del dono” e
di “spreco di organi”; è un segnale del crescente bisogno di
organi e del costante progredire verso una mercificazione
di parti umane su larga scala. Parliamo poco del flusso di
organi dai poveri verso i ricchi, dal Terzo Mondo al Primo
Mondo, ancor meno parliamo delle possibili atrocità nono-
stante i rapporti di Amnesty International.
Per concludere vorrei ricordare che il mostro è tra noi,
e abbiamo bisogno di un coraggio maggiore di quello esibi-
to da Frankenstein se vogliamo utilizzare la tecnologia in
modo equilibrato per lenire la sofferenza. Un primo passo
sarebbe riconoscere quanto sia facile utilizzare la sofferen-
za per fini ideologici o politici. Su entrambe le sponde del
Pacifico, qualora il dibattito sulla tecnologia e il corpo sia
ridotto ad un riconoscimento dell’accuratezza scientifica, o
ad una discussione politica, o, magari, ad una discussione
etica, sparirà il bisogno di affrontare questioni ben più
profonde. Come la necessaria riflessione sul rapporto tra
assunti epistemologici culturalmente plasmati e produzio-
ne del sapere e della pratica scientifici. E come la necessa-
ria riflessione sui conflitti, sia all’interno della società che
tra società diverse, per la legittimazione del sapere in quan-
to verità. Naturalmente, la cosa più importante è l’effetto
che una simile discussione può avere sul riconoscimento
della sofferenza ed, eventualmente, sugli aspetti che tra-
scendono l’ambito dell’operare culturale.

Ringraziamenti
La ricerca è stata finanziata dal Social Sciences and Humanities
Research Concil of Canada, finanziamento numero 410-93-0544.
Una parziale versione di questo saggio sarà pubblicata, in
inglese, nella rivista Daedalus. Journal of the American Aca-
demy of Arts and Sciences.
52 MARGARET LOCK

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Il corpo critico e la critica della razionalità: l’Aids e la
produzione di esperienza in un ospedale universitario
nordamericano
Vinh-Kim Nguyen

Siamo in una città del Nord America, in un grande


ospedale universitario, e precisamente in un reparto per la
cura dell’Aids. Un luogo che di norma non dovrebbe esse-
re considerato “spazio” di indagine etnografica e di ricerca
sul terreno, ma che può diventarlo se un medico che vi la-
vora da anni, io stesso, decide di farne il proprio luogo di
riflessione antropologica. Col tempo, si sono accumulate
molte storie, di malattia e di sofferenza, storie di impotenza
e, raramente, di guarigione. Possono essere raccontate in
tanti modi, tanti quante sono le esperienze che si narrano.
Il mio modo di raccontarle vuole essere un tentativo di in-
terpretare la malattia e il suo strutturarsi nel setting clinico
ripercorrendo alcune linee dei più recenti sviluppi dell’an-
tropologia del corpo in Nord America secondo due pro-
spettive. Da un lato cercherò di delinearne lo sviluppo teo-
rico, esplorando il modo in cui le potenziali applicazioni in
medicina delle recenti riflessioni dell’antropologia del cor-
po possono sollevare questioni importanti per l’antropolo-
gia nel suo complesso. Dall’altro esaminerò come l’espe-
rienza “sul campo” (nel nostro caso, il proliferare di corpi
malati e morenti in un reparto per malati di Aids) ci fa ca-
pire la malattia in modo diverso e alternativo da quello im-
posto dalla biomedicina o dalla psicologia.

Lo studio delle pratiche e la critica alla razionalità


L’improvvisa e irruente incursione di Bourdieu (1995)
nell’antropologia può considerarsi un momento centrale
per gli studi dell’antropologia del corpo. Infatti, l’universo
delle pratiche, per Bourdieu, rivela quanto il nostro appel-
larci ad una razionalità universale, o, specularmente, ad
58 VINH-KIM NGUYEN

un’universale irrazionalità (l’inconscio, nelle sue espressioni


strutturaliste), ci abbia ostacolato nello studio della cultura,
dei gruppi e delle istituzioni sociali ecc. In questa prospetti-
va le pratiche sociali e culturali, hanno la loro più importan-
te collocazione nel corpo. Il luogo di fondazione della cultu-
ra è la pratica, che impone una logica propria direttamente
osservabile e che non dipende dalla contraddittorietà dei re-
soconti degli informatori, dalle nevrosi dell’etnografo, e dal
prodotto delle loro interazioni: non obbliga più l’antropolo-
go a costringere i dati in camicie di forza teoriche. Al posto
della mente, che può generare confusione, Bourdieu sceglie
il corpo come luogo della pratica e su di esso costruisce la
sua nozione chiave di habitus.
Lo studio delle pratiche si accompagna spesso, nell’an-
tropologia del corpo in particolare e più in generale nell’an-
tropologia medica, ad un’incessante critica della razionalità
occidentale. Il corpo come luogo delle pratiche, è dunque
un luogo dove, al riparo dalle distorsioni dell’indagine an-
tropologica, si rivelano forme di resistenza; dove la storia
impara a dispiegarsi senza l’unitaria soggettività occidentale
e infine dove altre forme di soggettività si costituiscono. La
scienza delle pratiche vuol fornire alla ricerca antropologica
salde fondamenta epistemologiche sul campo e in aula, e
sottrarla alle più recenti e corrosive denuncie che considera-
no esaurita l’impresa antropologica in quanto colonialista. I
recenti dibattiti teorici infatti hanno trasformato il campo in
sabbie mobili, privando l’antropologia della sua implicita
missione principale: l’umanistica tendenza ad aprire l’occi-
dente all’“altro”. Vari i recenti tentativi di risolvere l’attuale
crisi di identità; da Nancy Scheper-Hughes (1992) che tenta
di recuperare la prospettiva umanistica radicalizzandola,
trasformando l’etnografo in un “testimone” che sollecita
una partecipazione quanto meno empatica del lettore alle
condizioni di vita descritte; ad altri, più sofisticati, tentativi
di critica alla modernità e alla razionalità occidentale. Il cor-
po sembra diventato il luogo privilegiato dove costruire
questa critica.
Se l’antropologia del corpo si costituisce in discorso
critico della modernità, allora deve avere il coraggio di
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 59

andare ben oltre la solita descrizione del rapporto tra corpo


e società, sia che prenda in esame società “primitive” o cul-
ture occidentali metropolitane.
Le tante descrizioni del rapporto corpo-società presen-
tano infatti un triplice limite. In primo luogo, è vero che si
costruiscono pratiche e concezioni del corpo, ma si ricorre a
schemi interpretativi in cui queste realtà sono manifestazio-
ni di totalizzanti strutture narrative o simboliche (siano esse
incorporate alla struttura della mente o delle rappresenta-
zioni collettive). Queste strutture universali, messe in luce
dall’antropologo stesso per convalidarne l’interpretazione,
gli permetterebbero di conoscere il punto di vista dei nativi
che tautologicamente si fonderebbe su queste stesse struttu-
re. In secondo luogo, questo tipo di etnografie tendono ad
occultare non solo il carattere intuitivo, o meglio incorpora-
to dell’interpretazione, ma le condizioni materiali della ri-
cerca sul campo e quindi le condizioni materiali dell’inter-
pretazione stessa. Infine, riproducono acriticamente il duali-
smo corpo/mente, costruzione tipicamente occidentale e
dunque sintomo di etnocentrismo.

Etnografia come esperienza incorporata


Per superare ogni implicito riferimento ad una qualche
forma di universale razionalità, è epistemologicamente fon-
damentale tener presente l’esperienza incorporata (embodi-
ment) dell’etnografo, il suo habitus. Una sorta di intuizione
incorporata, la cui veridicità è convalidata sempre dall’espe-
rienza successiva che regola sia la maggior parte della nostra
quotidianità che altre situazioni considerate ben più struttu-
rate: ad esempio l’incontro terapeutico (la cui versione “ar-
chetipica” può essere considerata la seduta analitica). La
suggestiva ipotesi di Foucault (1976) in Nascita della clinica,
mostrando in che modo la clinica ha storicamente struttura-
to la percezione e l’intuizione, ci porta ad ipotizzare che an-
che nell’etnografia la percezione possa essere stata struttura-
ta storicamente, attraverso un analogo processo che ha “di-
sciplinato” il lavoro sul campo come lungo apprendistato e
l’incontro con l’Alterità (banalmente patologizzato come
“choc culturale”) come esaltazione della particolare “espe-
60 VINH-KIM NGUYEN

rienza incorporata” dell’etnografo. Il concetto di contro-


transfert, con l’implicita convinzione che tramite le proprie
reazioni (che sono emotive, perfino viscerali) si possa acce-
dere alle verità del malato ne è, forse, l’esempio a noi più fa-
miliare. Alcune prospettive della più recente antropologia
medica sottolineano proprio l’aspetto di pratiche incorpora-
te e non teoretiche della medicina (Lock, 1992), aspetto del
resto presente nelle medicine tradizionali colte o popolari
(esempio recente: il lavoro di Judith Farquhar, 1994).
Se questo è quel che accade nell’interpretazione etno-
grafica, la riflessività degli approcci postmoderni spesso in-
vece dimentica come essa sia un’esperienza incorporata. Ma
se chi interpreta (nell’intuitiva accezione etnografica) è il
corpo (quando non sia il costrutto di un processo induttivo-
deduttivo), oppure l’inconscio (nel paradigma psicoanaliti-
co), si potrebbe ipotizzare che l’esperienza incorporata è un
orizzonte interpretativo privo di valenza critica se viene rin-
chiusa in una spiegazione puramente cognitivista. Sia che la
si inscriva nella razionalità simbolica o la si concepisca come
narrato soggettivo sovrapposto alle interpretazioni avanzate.
Vorrei sottolineare che si deve dar spazio a quella che
definirei “pratica “ dell’interpretazione. Cosa la rende pos-
sibile? Come parlare di universali in situazioni particolari,
senza presumerne l’esistenza nell’atto stesso dell’interpreta-
zione? E queste interpretazioni che verifica hanno sul cam-
po? Poiché l’interpretazione è prodotta dalla ricerca sul
campo e dall’esperienza incorporata, un’antropologia del
corpo che espliciti condizioni materiali e pratiche reali
dell’interpretazione deve produrre due risultati: primo, de-
intellettualizzare l’interpretazione; secondo, riposizionarla
per comprendere non sulla base di una facoltà razionale,
ma di un Dasein fondamentalmente incorporato e pre-teo-
retico. Se le antropologie del corpo non danno conto di tali
attività, rischiano di riprodurre una struttura razionale uni-
versale che si autoconferma nei risultati che produce.
Inoltre, sottolineando che in ogni interpretazione vi è
un processo di embodiment, di realtà incorporata, ci si
può sottrarre ad un’interpretazione che tenda verso univer-
sali proprietà della mente (la possibilità di proiettare una
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 61

concezione occidentale della mente su civiltà altre). C’è un


pericolo in questo tipo di approccio: se infatti una tale frat-
tura epistemologica ci permette di sfuggire all’interpretazio-
ne razionalistica delle culture, ma soddisfa il nostro deside-
rio di elaborare una critica alla razionalità occidentale, non
si rischia forse di “essenzializzare” la stessa “esperienza in-
corporata”? Forse gran parte dell’antropologia è intrappo-
lata nell’idea che la cultura, come variabile specifica, sia col-
locata tra un universale chiamato corpo e il sociale, soggetto
ad analisi antropologica che si basa su strutture? Se è così,
non c’è bisogno di far appello ad universali strutture menta-
li accessibili alla panottica ragione occidentale, potremmo
tranquillamente metterci a fianco dei biologi e dei neurofi-
siologi nel riprodurre il corpo universale e legittimare l’er-
meneutica in base a percorsi neurologici. In tal modo il cor-
po e la mente saranno forse e per sempre unificati?
Questa mia posizione teorica non vuole cancellare ogni
tendenza degli universali, e precipitare così nel relativismo
culturale e nel silenzio dell’incommensurabilità. Questo
può affascinare qualche accademico, ma per me è fallimen-
tare sia empiricamente (in quanto esseri umani noi non sia-
mo immersi nel silenzio), che politicamente: molti eventi di
questo secolo ci devono far riflettere sul fatto che la lotta
contro il male, il “loro” e il “nostro”, deve pur fondarsi su
qualcosa. Quel che mi preme sottolineare è che i fenomeni,
per essere universali, non devono necessariamente risiedere
in strutture mentali o in reazioni fisiologiche, possono be-
nissimo essere anche il prodotto dell’incontro etnografico.
Ho accennato all’asimmetria del progetto etnografico ri-
spetto alla mente e al corpo. La difficoltà nel differenziare il
socio-culturale dal mentale è riconosciuta e riflessa nell’in-
tricato carattere delle teorie utilizzate per rappresentare
questa tensione. Eppure la scissione tra corporeo e sociale
viene sostanzialmente ignorata dalla letteratura antropologi-
ca. È evidente che la pelle è il limite, la superficie sulla quale
corpo e società si incontrano, luogo privilegiato nel quale
leggere la cultura. Ogni cosa intenzionale che facciamo con
il nostro corpo - gestualità, andatura, danza - definisce ed è
la cultura; ogni cosa interna al corpo - sangue, visceri, orga-
62 VINH-KIM NGUYEN

ni, orifizi - definisce ed è il corpo. E se questi stessi confini


fossero categorie entnocentriche? Quale processo costrui-
sce, agisce, reifica il confine tra corpo e società?
Sembra che gran parte dell’antropologia non metta in
discussione che l’idea del corpo sia di per sé un universale.
Cioè, più precisamente, la certezza della variabilità culturale
si arresta di fronte a qualcosa chiamato corpo. Non potreb-
be dipendere dal procedimento etnografico? Un procedi-
mento che divide i fenomeni dei mondi di vita in universali
(corpi) e particolari (cultura) e crea un confine che ne me-
dia la relazione attraverso la trasformazione materiale e il
simbolismo. Rimane inesplorato il procedimento mediante
il quale questo confine viene creato, sia dall’etnografo che
dagli stessi processi culturali.
Ho fin qui sostenuto che l’ermeneutica del corpo si fon-
da su una manovra per cui strutture mentali universali ne
permettono l’interpretazione e sulla ipotetica divisione tra
corpo e società. Questa ermeneutica disegna un ragiona-
mento circolare con cui il processo ermeneutico conferma
se stesso. Inoltre, presenta implicazioni etnocentriche,
quando riproduce acriticamente presunte categorie univer-
sali (corpo e società), o liquida come “falsa coscienza” quei
saperi locali che non possono essere inseriti nello schema
interpretativo dell’etnografo. Se l’antropologia del corpo
può aiutarci a costruire una particolare critica della moder-
nità e della razionalità, e se la sua condizione epistemologica
ci rivela la sua originaria natura incorporata, allora non solo
il separare il corpo dalla società, ma anche la forma in cui
l’universale viene individuato nelle rappresentazioni colletti-
ve da una parte e nella biologia dall’altra, diventano que-
stioni da problematizzare. Si rappresenta e si interviene sul
corpo attraverso categorie biologiche. E il confine tra il cor-
poreo e il sociale definisce l’epidemiologia dell’Aids, in base
ad una scienza binaria per la quale i corpi, trasformati in sie-
ropositivi o sieronegativi, sono disposti su un’asse tempo-
rale che ne determina l’incidenza e la diffusione. Si costi-
tuisce così un tipo di biosocialità in cui i probabili effetti
dell’attraversamento del confine (siero-contaminazione)
sono misurati e, in base a queste stesse misurazioni, vengo-
no dedotte alcune pratiche. E, insieme, le superfici sociali
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 63

si trasformano in comunità definite in base al rischio di


contagio o alla vulnerabilità socioeconomica.

Ricerca sul campo in biomedicina.


Nessuno dubita che la medicina sia un’istituzione con
specifici repertori di pratiche simboliche e inscrizioni buro-
cratiche, né che il sapere medico sia fondamentalmente de-
finito su essi. Eppure, come sostiene Margaret Lock (1994),
la concezione di un corpo biologico universale non è critica-
ta dall’antropologia. L’etnografia del corpo nella biomedici-
na può essere utile per criticare quest’assunto.
In tale prospettiva la seconda parte di questo saggio non
sarà il resoconto etnografico di un contesto biomedico, ma
il tentativo di mostrare come sia possibile, anche nel ruolo
di medico, estendere all’esperienza clinica il discorso antro-
pologico. Ne deriverà che la difficoltà di ogni esperienza cli-
nica non dipende dalle strategie istituzionali che la control-
lano, ma da quel suo essere esperienza incorporata.
Come medico che in ospedale lavora con pazienti affetti
da Aids e da altre gravi patologie, non so rimanere insensi-
bile davanti alla capacità dell’istituzione ospedaliera di con-
trollare l’orrore e la disperazione, producendo con il lin-
guaggio neutro e specifico della complessa routine burocra-
tica, una totale esperienza di disintegrazione del corpo.
La mia esperienza quotidiana di “operatore sanitario”
non ha il carattere repressivo così straordinariamente de-
scritto da Taussig (1992), per cui l’incontro clinico assume il
carattere di una vera lotta di classe. Ogni operatore sanita-
rio deve confrontarsi con l’innegabile sofferenza individuale
e il kafkiano rituale burocratico, una sovrapposizione che
nella realtà assume i contorni dell’assurdo. Se la burocratica
pignoleria può essere una modalità utilizzata dalla logica
istituzionale per concentrare ed eludere l’immensa sofferen-
za con cui si è a contatto, più difficile, in questa rete orga-
nizzata, è trovare uno spazio per relazionarsi con la soffe-
renza altrui. Ma si possono elaborare molte strategie per
controllare un contesto istituzionale assurdo dal punto di
vista della sofferenza umana: sono strategie offerte dal vario
intrecciarsi delle esperienze individuali e collettive.
64 VINH-KIM NGUYEN

Il lavoro in ospedale ci espone ad una sottile e subdola


violenza: il pervasivo ammutolire la voce del malato fino a
sostituirla con la perfetta formalizzazione del caso clinico.
C’è molto dolore, molta sofferenza negli ospedali: purtrop-
po la maniera in cui l’ospedale regola la sofferenza è spesso
foriera di un’altra forma di sofferenza. È questo processo
che voglio analizzare. L’aspetto più drammatico dell’ospe-
dale non è tanto la visione di un corpo sofferente, la pro-
gressiva decadenza somatica, la morte, ma la riduzione
dell’esperienza e della persona ad un racconto medicalizza-
to e indistinto. Negli ospedali a volte si può curare il dolore
fisico, ma esso è spesso accompagnato alla negazione e an-
nientamento della persona che soffre.
Va ricordato che molte retoriche sul corpo, o tecnologie
somatiche e discorsive impiegate per controllare le tensio-
ni, vanno oltre i confini ospedalieri, penetrando dentro la
nostra esperienza quotidiana. Benché l’ospedale non possa
considerarsi il luogo principale di questa particolare forma
nordamericana di esperienza incorporata, è lì che, alla fine
del ventesimo secolo, si riscontra la più forte articolazione.
Sono convinto che é frutto di una lunga esperienza diretta:
l’assurda formulazione del corpo umano fatta dal discorso
medico e la conseguente esperienza di ironia, indicano che
il segreto del corpo moderno si nasconde nell’ospedale. Un
fenomeno che si rivela chiaramente nella cura dei malati di
Aids. Il malato “sano”, asintomatico, è il corpo paradig-
matico della medicina. Un corpo già segnato dalla possibi-
lità del suo disfunzionamento, un corpo profondamente
in pericolo che deve essere controllato con la più avanzata
tecnologia medica di sorveglianza. Il numero delle sue cel-
lule T viene monitorato, ogni sintomo è un possibile segna-
le di pericolo; deve essere scrutato tramite esami clinici
messi a punto per identificare gli agenti più efficaci nel ri-
tardare la diminuzione delle cellule T, segnali, come ormai
tutti sanno, dell’inevitabile apparizione della malattia.

La dietetica della sieropositività


Nel definire l’incontro clinico, come esperienza condi-
zionata da una specifica tabella di marcia biomedica, non si
affronta la questione di come questo condizionamento
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 65

contribuisca a plasmare ogni nosologia. È una questione che


sovrasta l’istituzione ospedaliera dove i pazienti sottometto-
no i propri corpi ad un autorevole parere: corpi i cui sintomi
loro stessi ansiosamente scrutano, corpi che sono luoghi pri-
vilegiati per la localizzazione dei segni di una futura malattia,
corpi la cui imperscrutabilità motiva un’ansiosa e perpetua
alleanza con lo sguardo. Ogni sieropositivo o paziente inter-
roga lo sguardo del medico, utilizza il proprio sguardo per
porre domande: come vanno le mie cellule T, potete farmi
una radiografia, avete già controllato il mio DNA?
Spesso la lotta alla malattia diventa una questione di
controllo, di regimi, di diete, di rapporti per avere un giu-
sto equilibrio tra intimità e capacità di trasporto emotivo.
Una vigorosa forma di autocontrollo governata dalle me-
tafore delle scienze mediche: la fisiologia, l’immunologia,
la psicologia, e forse una nuova soggettività; un’incorpora-
zione specificata e definita, perfino creata, dalle tecnologie
della sorveglianza. Forse, in assenza di cure efficaci per
sieropositivi asintomatici, il discorso di un generalizzato
screening per l’HIV, motivato dal rischio, ha creato un’ine-
dita forma di soggettività?
Le tecnologie sociali che dipendono dall’esecuzione di
uno screening generalizzato e dal controllo del rischio e del-
la malattia, benché eterogenee si ricollegano all’infezione.
Non avrebbe senso parlare delle cosiddette categorie a ri-
schio se non all’interno di una tecnologia discorsiva della
sessualità e delle sue trasgressioni. Alcune di queste catego-
rie sono troppo facilmente organizzate in base a categorie
morali negative: il razzismo è l’esempio più evidente. Le co-
munità considerate a rischio si sono unite per combattere il
diffondersi dell’epidemia al loro interno, e il nostro sapere
sul rischio è esploso a tal punto che gli atti sessuali sono in-
terpretati in base al linguaggio della probabilità fra rischio e
intimità. E in alcune comunità, la sessualità e le altre forma-
zioni del desiderio, sono inscritte in tale linguaggio.

Il corpo trasformato dalla malattia


Tragicamente, il corpo ancora sano ma in ansia per la
possibilità di ammalarsi si trasforma nel corso degli anni in
66 VINH-KIM NGUYEN

un corpo malato, un luogo di sofferenza, che svela quella


precedentemente invisibile capacità di muoversi nel mondo.
Allora quel che diventa importante non è più la rappresen-
tazione della malattia - le cellule T, l’emoglobina ecc. - ma la
disperazione, il dolore, le febbri, la tosse che non va via. E
poiché molte delle medicine sono pericolose, devono essere
somministrate con parsimonia. Il resto non é altro che la
malattia nella sua drammatica cronicità: piena di mali, dolo-
ri e allarmanti sintomi che oscillano quotidianamente tra
miglioramento e peggioramento.
Pian piano non solo il buon umore e la salute scompaio-
no, ma stranamente anche l’angoscia, scompare. La prece-
dente occasionale ironia sul proprio stato di salute è sosti-
tuita dalla valutazione dei sintomi, dal dosaggio delle medi-
cine, la scelta della cura perde la sua qualità teoretica per di-
ventare immediata e concreta: ogni quanto devo farmi
l’analisi del sangue? Devo ricoverarmi? Mi cadranno i ca-
pelli? Quanto costeranno queste pillole? Mi faranno recu-
perare un po’ di forza? E progressivamente emerge in que-
ste consultazioni una diversa modalità narrativa. Per para-
frasare Lawrence Kirmayer (1988) il corpo stesso insiste -
quasi voglia espellere l’altro narrato di controllo - su una vi-
ta vissuta al limite della spontaneità. L’isolamento del corpo
- potente metafora del contagio che per Bourdin (1995), e
per molti altri, traducendosi in una terribile solitudine, un
isolamento della soggettività, e descritta come questione di
controllo, di profilassi - diventa realtà. Immediatamente
esperita, piuttosto che regolata, la potente metafora del con-
tagio è dunque in un certo senso incorporata.
Ma quando la malattia da attesa si fa manifesta il dialogo
con i pazienti cambia in un modo che è difficile da descrive-
re. Un osservatore “neutro” potrebbe sottolineare come si
parli sempre più di sintomi corporei. Un dolore o una con-
tusione vengono di continuo descritti, e nulla di nuovo vie-
ne comunicato al medico: sono procedure comunicative
che rendono più facile il dialogo. Parlare del sintomo, infatti
anche se impegna tempo, appare la cosa più sensata da fare:
si riconosce la realtà del sintomo, e si fa in modo che il ma-
lato lasci lo studio con la sensazione di essere stato curato.
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 67

La mia ipotesi è che l’apparizione di un corpo dolorante


durante gli incontri clinici annunci l’emergere di un corpo
radicalmente nuovo: un repentino mutamento incorporato,
un diverso modo di essere al mondo, un diverso senso del
sé. Questi incontri rivelano emblematicamente come il
mondo cambi agli occhi dei malati. Salire o scendere le sca-
le diventa un’attività improvvisamente minacciosa, una pas-
seggiata o una gita fanno correre al malato il rischio di esse-
re lontano da una toilette: una nuova sensibilità per la dieta
alimentare si forma, e varia pian piano il gusto dei cibi.
Cambiano dunque gli oggetti, le cose, le esperienze del
mondo che ci circonda poiché cambia il modo in cui si avvi-
cinano al nostro corpo - e così anche il sé cambia. Gli ob-
biettivi non cambiano, ma si riconfigurano pian piano di-
versamente. Il mondo materiale diventa, come dire, meno
strumentale, meno suscettibile di manipolazione, e sempre
più c’è per aiutarci a sopravvivere, qualcosa di stranamente
familiare o terrificante, che intimorisce in modi strani. I ba-
stoni, le stampelle, le sedie, ma anche i telefoni, i libri, e la
radio assumono il significato profondamente diverso dell’
inserimento del malato di Aids nel mondo degli altri.
E, fatto ancor più sorprendente, è l’ospedale ad assolvere
questa funzione. Non voglio con ciò dire che non vi sia un
qualche tipo di progressione normativa, una sorta di storia
naturale della fenomenologia della malattia. Ma è sorpren-
dente come, per molti pazienti, l’ospedale, che prima era
uno spaventoso labirinto di corridoi con incomprensibili no-
mi, popolato da indaffarati esseri dall’andatura autoritaria,
diventa quasi un luogo accogliente. Come se tutti quegli es-
seri che sistematicamente sembravano violare la soggettività
altrui, cupi preannunci della malattia e della deumanizzazio-
ne future, oramai apparissero in una luce diversa, meno se-
vera. Luci accese tutta la notte, lo stanco conversare delle in-
fermiere, assumono ora connotati rassicuranti. Quegli strani
rituali di esami e di visite, quello spostarsi da stanza a stanza,
diventano gradualmente familiari, un nuovo mondo con cui
dialogare, che può essere anche manipolato, per alcuni pa-
zienti in maniera più efficace di quando erano “fuori”. Alcu-
ni giungono perfino ad apprezzare il cibo, che insipido e ir-
68 VINH-KIM NGUYEN

riconoscibile, viene descritto come rassicurante. In alcuni ca-


si, ciò si traduce in una forte dipendenza dall’ospedale. Alcu-
ni pazienti non vogliono più andarsene: l’ospedale si trasfor-
ma nel solo mondo familiare e rassicurante. Un luogo dove
si incontrano visi familiari, disposti ad ascoltarti, a risolvere
qualsiasi problema assilli il malato di Aids in quel momento.

Corpo psicologizzato o corpo del potere?


Gli operatori sanitari (medici, infermieri, tecnici) reagi-
scono psicologizzando questi fenomeni. Un modo come un
altro di affrontare una simile mole di sofferenza, di dipen-
denza e di incapacità di dare affetto in un contesto profes-
sionalizzato. Una dipendenza che è, in alcuni individui, di
forte intensità e a cui si fa riferimento come “limite”. I pa-
zienti, diciamo noi, hanno bisogno che gli si traccino limiti
da rispettare affinché l’attività clinica (la terapia) possa
svolgersi. Gli appuntamenti si devono fissare secondo ne-
cessità e disponibilità, l’orario rispettato, il sostegno e il
coinvolgimento emotivo devono avere un limite.
La dipendenza dei pazienti è argomento di molti com-
menti. Le richieste più pressanti vengono dai pazienti che
hanno avuto poco dalla vita. Pazienti con un retroterra so-
cio-familiare di indifferenza, che spesso hanno subito abusi
di ogni tipo. È interessante come, quasi per cancellare la
propria sofferenza, riproducano quel retroterra di cui sono
stati vittime: mettendo gli infermieri gli uni contro gli altri,
ossessionandoli con richieste emotive, idealizzando in un
rapporto di dipendenza reciproca malato bisognoso ed
eroico dottore. Il linguaggio della psicologia, con il suo
schema di rapporti oggettivi, storicizzati dal narrato del ma-
lato, parrebbe la prospettiva ideale per comprendere la
profonda realtà del malato e le implicazioni che una condi-
zione terminale ha per il sistema sanitario. Ma forse accade
l’inverso: il sistema sanitario, con le sue tecnologie di nor-
malizzazione discorsiva blocca il malato in un racconto di
necessità, bisogni e mancanze. Con il corpo malato, l’ospe-
dalizzazione ristruttura il soggetto sia in termini di malattia
che di storia di vita.
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 69

Il morire e la rottura epistemologica.


La cura, in clinica, non è solo diagnosi o terapia. Spes-
so per i pazienti è meglio discutere un piano per i molte-
plici interventi biologici da fare sui loro corpi malati e do-
loranti. Molti di questi invadenti esami e terapie più che
curare il malato, alleviano il senso di colpa del medico (di
non essere in grado di curare). Quanto deriva dalla rilut-
tanza dei medici ad affrontare la questione della morte? In
termini psicologici, la difficoltà di affrontare questi temi
deriva dal fatto che vi è sempre il rischio di immaturità
emotiva. Gli psicoanalisti la chiamerebbero fusionalità. La
posta è troppo alta per tutti. Ma forse la difficoltà nell’af-
frontare la morte in clinica, è di carattere epistemologico.
Il corpo morente è una sfida per l’epistemologia medica in
due sensi: in primo luogo, disobbedisce alle regole fisiolo-
giche della prognosi, fatto noto fin troppo ai medici che
tentano di evitare qualsiasi prognosi di morte. Infatti an-
che quando esistono modelli epidemiologici sul tasso di
sopravvivenza ad una diagnosi non si fa alcun tentativo
prognostico. In secondo luogo, il corpo morente non è il
corpo individualizzato del soggetto medico, ma quello col-
lettivo dell’impegno comunitario: una collettività che in
definitiva elude l’epidemiologia biomedica.
Per molti di noi, condotti dai nostri corpi ciecamente
per il mondo, c’è un che di incomprensibile nella lenta tra-
sformazione del “corpo della malattia” (il corpo che ha tra-
sformato il rapporto col mondo in cui abita e che trova
conforto solo nell’ospedale). È per questo che gli aspetti
de-umanizzanti dell’ospedale sono mitigati? O forse i no-
stri corpi accettano anche gli attacchi alla propria identità
in cambio della promessa terapeutica, del miglioramento,
perfino della cura? O è il nostro modo di concepire la no-
stra identità a mutare pian piano nel “corpo della malat-
tia”? Forse il processo di trasformazione è una forma di
elaborazione psicologica, o un mero fenomeno culturale in
cui le relazioni si socializzano e sono trasformate?
La cura del malato morente, quando torna a casa o è
trasferito dal letto in corsia ad un letto in camera privata,
rivela una nuova dimensione del corpo. Colpisce non solo
70 VINH-KIM NGUYEN

l’intensità con cui la famiglia, e spesso non solo essa ma an-


che gli amanti, gli amici, i vicini - un’intera comunità -
prende l’iniziativa della cura e se ne assume la responsabi-
lità, ma anche come la cura del malato possa diventare im-
provvisamente un nuovo progetto collettivo. Orari vengo-
no informalmente concordati, attività vengono pianificate,
e il corpo del malato diventa un progetto comune pieno di
angoscia e di attesa: per il malato, per chi gli sta intorno,
per chi vive e lavora nel sistema sanitario. Ma è veramente
sorprendente come il malato si fa corpo collettivo, e come
questa collettivizzazione gli dia una nuova vitalità.
Non è raro che un malato in punto di morte, e perciò
dimesso, ritorni a casa e viva per mesi, in un limbo, solo a
sprazzi lucido, ma sempre al centro di quel che accade in-
torno. Chi lo circonda pensa sia l’ultimo lampo di vita, un
fenomeno chiaro in termini psicologici: l’ultima apparizio-
ne della personalità (“è sempre stata tenace”; “ha lottato fi-
no alla fine”), una fase esaltante e stupenda in cui il sé riaf-
ferma l’attaccamento ai propri affetti prima della fine (“gli
devi dire che fa bene ad andarsene. Sta aspettando il tuo
permesso”; “Lei sta aspettando che arrivi lui”). Ma non
sempre è così: mentre un malato definito in stadio termi-
nale può vivere mesi, altri, apparentemente per piccole
complicazioni, muoiono all’improvviso. Alcuni muoiono
appena hanno dato le ultime disposizioni e gli ultimi addii.

Il morire come apparizione di un corpo collettivo.


Questo interesse per il corpo del morente non dipende
dalla figura del malato né dalla sua personalità, né da un
processo rituale collettivo; ha, piuttosto, un suo carattere
iatrogeno. Il processo con cui l’ospedale, mediante rituali e
routine specifici, costruisce la cura del malato e la sovranità
del discorso medico su questo spazio dell’esistenza spinge
la comunità a farsi carico di procedure e cure analoghe a
quel discorso. Non saranno così tecnologizzate, ma ritua-
lizzate e standardizzate secondo le stesse procedure quan-
do il malato torna a casa per morire. Non fare, o fare me-
no, sarebbe una terribile forma di abbandono. Ma questo
significa che per operare in modo analogo le comunità -
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 71

anche quelle che, critiche sul ruolo della medicina, sono ri-
corse all’ospedalizzazione solo in casi assolutamente necessa-
ri - devono aver fede nella biomedicina e nei suoi rituali.
Sono i rituali e le routines della medicina, piuttosto che
l’autorità del suo sapere, ad essere importanti per la cura del
morente. Per funzionare gli ospedali devono scomporre i
corpi dei malati in parti di diversa importanza. Quel che
queste parti sono, quel che non funziona di esse, dove ven-
gono situate all’interno dell’ospedale, tutto questo sembra
spesso avere un interesse maggiore di quello che accade
all’identità del malato o essere più importante del senso della
sua sofferenza. Le categorie di tale riduzione perdono rile-
vanza di fronte al malato terminale, l’inventario dei possibili
interventi non risponde più ad esse. Sia quelle di ordine bio-
logico (gli organi) che di ordine psicologico (la personalità).
L’immagine del corpo comunitario è comunque di alto
potenziale esplicativo. Quel continuo ripetere le stesse do-
mande su questo o quell’altro dettaglio del corpo del moren-
te, mi faceva rispondere in modo insoddisfacente? Non che
le persone non capissero o non ascoltassero le mie risposte o
che fossero refrattarie ai miei tentativi di elaborazione psico-
logica, tentativi peraltro efficaci in clinica o negli incontri in
ospedale con i familiari. Queste domande testimoniavano
l’apparizione di un corpo comunitario. Questi interrogativi
durante la visita al malato erano un modo, credo, di tenere
insieme il corpo come oggetto comunitario; o, forse più pro-
vocatoriamente, queste domande sul morire potrebbero ri-
velarci qualcosa del corpo collettivo. Il morire come proces-
so riflette forse, non l’“espressione” di istanze psicologiche
della personalità di chi sta morendo ma il tentativo di elabo-
rare la morte fisica del corpo; forse è un disfare o un riorga-
nizzare le forze sociali che ci costituiscono in corpi e in indi-
vidui. Un corpo che ridiventa della collettività per spiegare la
sua finale evasione dallo sguardo medico e dall’individuazio-
ne della sofferenza.

La produzione dell’esperienza
Nell’Aids, la transizione dal corpo asintomatico, ma
medicalmente marcato, al corpo sintomatico e soggetti-
72 VINH-KIM NGUYEN

vamente sofferente e quindi al corpo collettivo del mo-


rente, è per la medicina moderna un’esperienza nuova e
probabilmente unica. Nella formazione di particolari e
contingenti soggettività, l’importanza del corpo, come
noi lo abitiamo, cosa sono in grado di dirci questi tre
corpi della sofferenza? Per la capacità della medicina in
genere e dell’ospedale in particolare di alleviare la soffe-
renza, è meglio svelare gli aspetti di potere presenti nella
capacità di manipolare il corpo, e quindi di disfare e di
rifare il corpo della sofferenza. Penso che la medicina
non arrivi ad organizzare un’esperienza, direi, pre-cultu-
rale o pre-linguistica della sofferenza in una codificata e
normalizzata esperienza della malattia (sickness); ma che
la medicina crei specifiche esperienze della malattia: in-
dipendentemente dalla presenza di un sostrato biologico.
È discutibile dire che la sofferenza è sofferenza e il valo-
re che le attribuisce la psicologia o la cultura è assolutamen-
te irrilevante per chi soffre e per coloro che vogliono alle-
viargli la sofferenza. Ma il presupposto implicito, nell’affer-
mazione che la sofferenza è un’esperienza universale, è ri-
duttivo anche quando la sofferenza-malattia è liberata dai
legacci culturali e psicologici, e dall’universalizzante istitu-
zione dell’ospedale nordamericano. Questa riduzione ci fa
presupporre che la sofferenza debba essere affrontata in
modo uguale per tutti, e che a soffrire sia sempre lo stesso e
unico corpo, lo stesso e unico soggetto. La sofferenza è co-
munque organizzata dal contesto in cui emerge (cancro,
Aids, sono malattie simili con simili sofferenze benché bio-
logicamente diverse; condividono la stessa temporalità e la
stessa cornice medica di intervento). Vi è la necessità di sta-
bilire un’universale e pre-culturale esperienza della soffe-
renza (Good, 1994) per fornire alla biomedicina basi uma-
nistiche più solide dell’universalismo biologico, ignorando-
ne, al contempo, il potere istituzionale di produrre espe-
rienza ben al di là delle proprie giurisdizioni. Il carattere on-
tologicamente primordiale di tali istituzioni, fabbriche di sa-
peri ed esperienza, viene problematizzato nel caso dell’Aids
in modo peculiare. Dopo tutto, l’Aids è reale, non un artifi-
cio istituzionale. La possibilità di intervenire efficacemente
IL CORPO CRITICO E LA CRITICA DELLA RAZIONALITÀ... 73

trascende il progetto produttivo di tali istituzioni ed è diffi-


cilmente immune dalla discorsività universalizzante.
Gli scopi principali dell’antropologia del corpo, sono
dunque la costruzione di una critica della razionalità e la ne-
cessità di fondare una più complessa critica della moder-
nità, obiettivi che devono intrecciarsi: l’antropologia del
corpo per il suo storico situarsi nel dibattito teorico dell’in-
sieme della disciplina, può assumersi questo compito. Ri-
tengo comunque che questi due temi costituiscano la pro-
blematica centrale dell’Aids: questa viene compresa attra-
verso categorie sociali con un ruolo importante nella produ-
zione dei relativi saperi (epidemiologia, sociologia, antropo-
logia, immunologia, ecc.), che rispettivamente producono e
forse reificano, queste stesse categorie. L’Aids quindi appa-
re in qualche modo indissociabile dalla modernità, o post-
modernità (O’Neill, 1994), dal modo in cui la cultura e
l’economia, la rappresentazione e lo scambio, il desiderio e
l’identità, sono stati organizzati in questo ultimo ventennio
del secolo ventesimo.
La nostra comprensione dell’Aids come particolare di-
stribuzione della malattia nei corpi, è indissociabile dalla
nostra comprensione della sessualità e del modo in cui essa
è organizzata dalla cultura e dall’economia. Penso, in effetti,
che la trasmissione sessuale dell’Aids non avrebbe potuto
assumere questa forma storica senza il complesso sostrato
socio-economico che la fonda; un sostrato che potremmo
identificare in riferimento a categorie come l’urbanizzazio-
ne, l’emigrazione, la povertà, l’identità sessuale e le relazioni
di gender, categorie preminenti che condensano il particola-
re ordine mondiale di questo fine secolo. Un sostrato che ha
bisogno della circolazione non solo dei corpi, ma anche de-
gli aerei, delle tecnologie sessuali (come il preservativo,
l’identità “eterosessuale” e “omosessuale”), di fluidi corpo-
rei (sangue e i suoi derivati) e di specifiche forme di capitali-
smo. L’Aids non è riducibile all’esperienza o alla biologia,
né è una finzione del potere, è piuttosto la sua estrema ma-
terialità (nei corpi, nelle cose e nelle menti) a spiegare il suo
devastante sfuggire alle nostre attuali modalità di rappre-
sentazione e d’intervento.
74 VINH-KIM NGUYEN

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post-socialista.
Judith Farquhar

È dato ormai per acquisito che le sessualità sono stori-


camente determinate e che i soggetti desideranti sono pro-
dotti interni ai progetti statuali e (oggi) ai flussi transnazio-
nali. Se la sessualità ha una storia, è in parte dovuto al fatto
che non è poi così facile astrarre il desiderio dal dominio e
dalle contraddizioni del potere. Ce l’hanno insegnato Fou-
cault, il femminismo, la ricerca omosessuale e lesbica, l’et-
nografia e, forse banalmente, la nostra esperienza persona-
le. In un certo senso, la sessualità è sempre localmente cir-
coscritta: le pratiche sessuali hanno tendenzialmente un ca-
rattere privato (Friedl, 1994), il desiderio (nel migliore dei
casi) tende a rimanere inarticolato; allo stesso tempo le pe-
culiari forme che evocano e placano i nostri desideri non
sono concepibili al di fuori della specificità storica e lingui-
stica da cui emergono, e nemmeno del gioco dell’immagi-
nario che le determina. Del resto, oggi che Madonna è or-
mai diventata un fenomeno culturale globale, sarebbe ridi-
colo se ci limitassimo ad analizzare la sessualità nelle sue
espressioni locali o nazionali; i mass media della postmo-
dernità transnazionale dispiegano infatti un imperialismo
sessuale quasi altrettanto irresistibile di quello culturale,
economico e politico.
In questo saggio esplorerò la sessualità, il gender e i
progetti statuali nel loro interagire con la realtà del postco-
lonialismo. Cercherò inoltre di forzare i confini che separa-
no i discorsi dal desiderio e le testualità dai corpi. Ci sono
domande che nascondono grandi problemi: quali forme
potrebbe assumere una sessualità transnazionale?
Quest’epoca di rapida globalizzazione che destino riserva
alle forme di desiderio più vecchie, geograficamente circo-
76 JUDITH FARQUHAR

scritte? E comunque, quanto tenace (relativo alla doxa?) è


l’habitus sessuale? E infine, quanto può un habitus intimo e
discorsivamente non esplicito essere indagato attraverso i
testi? Per affrontare tali questioni analizzerò discorsività e
pratiche della medicina tradizionale cinese, in particolare
quelle della “medicina maschile”, nuova branca della me-
dicina tradizionale. E lungo il percorso, farò riferimento ad
altri materiali (la manualistica, gli studi sull’ars erotica) che
si occupano di comportamenti ed esperienze sessuali. Ma è
necessario partire da una panoramica sulla Cina tra gli anni
‘80 e gli anni ‘90.

La febbre sessuale
Dalla metà degli anni ‘80, la sessualità ha costituito un
argomento di crescente importanza nella letteratura e
nella cultura di massa cinese. Nella vita di ogni giorno la
distinzione tra i due sessi, tra i giovani in particolare, è
estrema nell’abbigliamento, nei cosmetici, nella gestua-
lità; assemblaggi, rococò di guarnizioni, nastrini, lustrini
e raso per le donne; giacche di pelle, accessori da cow-
boy e stivali da motociclista per gli uomini. La prostitu-
zione si è estesa ben oltre le peccaminose città del Sud e
viene, ampiamente quanto inefficacemente, denunciata
dalla propaganda di Stato. Romanzi e riviste pornografi-
che circolano privatamente e proliferano sulle bancarelle
per le strade; le librerie abbondano di manuali sessuali
che dispensano consigli alle nuove coppie e alle famiglie
(da notare che alcuni di essi sono “americani”). Classici
della manualistica erotica cinese insieme a testi minori
recentemente ritrovati, vengono pubblicati in collane
pseudo-specialistiche, mentre la Psicologia del sesso di
Havelock Ellis è stata recentemente ripubblicata in edi-
zione integrale. Allo stesso tempo, mentre la narrativa re-
cente trae sempre più spesso ispirazione dal fallimento e
dall’ossessione sessuale, le opere che in anni non lontani
avevano utilizzato la sessualità come allegoria della politica,
sono state oggi sostituite da un genere narrativo che ignora
qualsiasi riferimento politico in favore della pura esaltazio-
ne del desiderio. Benché il boom erotico sia esclusivamente
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 77

eterosessuale e la letteratura “sessuologica” affronti l’argo-


mento omosessualità con disapprovazione, a Pechino vie-
ne pubblicato anche un giornale per lesbiche ed omoses-
suali. Inoltre, per quanto sia difficile trovare difensori di
questi piaceri asociali, anche la masturbazione è oggetto di
dibattito .
Cliniche specializzate per la cura di disturbi sessuali e
malattie veneree si sono moltiplicate in tutto il paese; quel-
le private pubblicizzano i loro servizi tramite locandine su
muri e pali telefonici che rassicurano i potenziali clienti sul-
la propria capacità di “andare alla radice” (zhi gen) delle
malattie di origine sessuale perché utilizzano metodi tradi-
zionali e (spesso) famosi quanto segreti preparati a base di
erbe. Queste cliniche sono una risposta all’aumento epide-
mico delle malattie veneree (soprattutto gonorrea e sifilide)
nelle aree urbane a partire dal 1985 (Cohen e Henderson,
1994) ma anche un modo abile di offrire prestazioni medi-
che private nell’ambito delle nuove regole dell’economia di
mercato.1 Questo tipo di pubblicità evoca e sfrutta ansie e
desideri che ritengo affatto nuovi. Su quest’argomento tor-
nerò più avanti.
Per quanto vasta, questa sessualizzazione si può meglio
comprendere nel contesto dei più vasti mutamenti recente-
mente denunciati dallo stesso Li Peng quali “idolatria per il
denaro, ultra-individualismo e stili di vita decadenti” (cita-
to in Schein, 1994, p. 149). Mali della modernizzazione e
del capitalismo che forse sono le logiche conseguenze
dell’“apertura” al capitalismo globale e del relativo impe-
gno ufficiale per le riforme economiche. Un processo che
prevedibilmente condurrà all’emergere di una più aperta
espressione sessuale, ad una desublimazione delle pulsioni
sessuali universali e ad una nuova quanto “libera” cultura
di massa inondata dalle immagini sessualmente esplicite
della cultura di massa internazionale.
Certamente questo si aspettano, e promuovono, alcuni
dei nuovi sessuologi cinesi. Tra petizioni di principio a fa-
vore del matrimonio e della monogamia, prevalentemente
espresse nell’uso normativo del termine fuqi - marito e mo-
glie - per definire la coppia, i manuali sessuali sembrano
78 JUDITH FARQUHAR

oggi spudoratamente prediligere i dettagli piccanti (vedi


Cao et al., 1992; Luo, 1993; Wu e Quan, 1993). Nondime-
no, alcuni di questi lavori forniscono un’introduzione stori-
ca nella quale viene delineata una seconda Liberazione ere-
de di quella che nel 1949 ha portato alla Repubblica popo-
lare cinese:
Due erano le cose di cui, durante il lungo periodo feudale,
era assolutamente impossibile parlare. I criteri di dominio
delle classi dirigenti e le tecniche del talamo per i piaceri ma-
schili e femminili. Nel primo caso, le persone inorridivano al
solo pensiero (letteralmente: cambiavano colore al solo sentir
nominare la tigre), evitando completamente l’argomento; nel
secondo, tutti mantenevano un ansioso riserbo (letteralmen-
te/ erano muti come cicale in inverno), riluttanti ad affronta-
re la questione. Oggi, dopo 100 e più anni dalla nuova rivo-
luzione democratica, benché possiamo parlare delle ovvietà
del dominio feudale, governanti feudali continuano ad atteg-
giarsi a severi difensori della morale tradizionale e custodi-
scono nei loro cuori la maligna eredità di ladri e prostitute
(nandao nuchang). A tutt’oggi, nell’ottavo decennio del ven-
tesimo secolo, quando Europa e America hanno ormai attra-
versato la regressione civica del “sesso facile come un bic-
chiere d’acqua” e della “liberazione sessuale” (xing jiefang),
e stanno ormai attraversando un periodo di riflessione in ma-
teria sessuale, questioni relative al sesso rimangono nel no-
stro paese un territorio vergine, una zona proibita da nessu-
no risolutamente esplorata. La grande maggioranza del po-
polo cinese ha fino ad ora considerato il sesso come argo-
mento salace o volgare, addirittura un argomento sporco di
cui si deve immaginare, ma non parlare. Poiché la gente ha
evitato questo argomento, essa non ha né gestito né si è inte-
ressata dell’educazione sessuale dei propri figli e delle pro-
prie figlie. Di conseguenza i giovani, incapaci di leggere le
menti, o non riescono ad ottenere informazioni da alcuno
giungendo a sposarsi e mettere su famiglia in uno stato di as-
soluta ignoranza; o sviluppano sentimenti e curiosità mistifi-
cati imbarcandosi in spericolate sperimentazioni nelle quali
l’errore di un momento può trasformarsi nel rimpianto di
una vita (Sui e Xu, 1989, p. 1).
Questo paragrafo, il primo di un noioso opuscolo edi-
to dalla casa editrice governativa, sviluppa un’interessan-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 79

te analisi storica. Suggerisce, ad esempio, che una qualche


forma di “feudalesimo” è per lungo tempo sopravvissuta a
quella stessa vittoria comunista che avrebbe dovuto inau-
gurare un’era socialista post-feudale. È un’opinione diversa
dalla retorica sulle sopravvivenze feudali che tra gli anni
‘50 e gli anni ‘80 veniva impiegata per denunciare i nemici
del collettivismo, dell’egualitarismo e del patriarcato. Con-
trariamente alle chiacchiere sulle sopravvivenze feudali che
si ostinano a ostacolare l’illuminato egualitarismo governa-
tivo, questa denuncia del feudalesimo coinvolge implicita-
mente lo stesso regime comunista. Si invoca una seconda
Liberazione, ma questa volta dalla “severa” ipocrisia della
moderna società socialista con il suo ascetico corredo di
etica del lavoro, produttività e stabilità familiare. Una logi-
ca che può essere compresa solo nel contesto del progetto
statuale socialista precedente l’attuale fase riformatrice.

Potere statuale e dedizione


In un racconto scritto alla metà degli anni ‘60 e dopo-
rivisto e pubblicato nel 1978, la scrittrice Ding Lin de-
scrive l’eroina Du Wanxiang in maniera sorprendente-
mente asessuata. In occasione del suo matrimonio a 13
anni, la piccola Wanxiang è felice solamente perché la
sua nuova famiglia è in grado di fornire alla giovane cop-
pia un letto caldo e una coperta pulita; nessun riferimen-
to al marito, solo che è il più piccolo della famiglia; ad
esclusione della nascita di una figlia descritta in una pro-
posizione subordinata, non vi è nessuna indicazione che
la piccola Wanxiang abbia mai avuto rapporti sessuali. Il
momento di più grande intimità matrimoniale è quando
suo marito, di ritorno dalla guerra antiamericana (la
guerra di Corea), annuncia di essere entrato nel Partito
comunista. Du Wanxiang “quasi morì dalla gioia. Pensa-
va a lui ormai non più solo come un marito. Ora il loro
rapporto era reso sacrosanto da una lingua comune, da
ideali da entrambi condivisi”.
Prima di affrontare la più vasta questione del gender
e della sessualità nell’epoca maoista, seguiamo Du
Wanxiang ancora per un po’. Nel racconto, Du Waxiang
80 JUDITH FARQUHAR

progressivamente diventa una lavoratrice modello, una


figura molto popolare nella letteratura cinese degli anni
’50, ’60 e ’70. Chiamata dal marito a raggiungerlo nel
“Grande deserto del nord” e costretta ad accudirlo, Du
Waxiang comincia a servire il popolo come volontaria:
Le case popolari, messe su alla meglio per le trenta fami-
glie, cominciarono a cambiare. La lurida latrina che nessu-
no aveva mai pulito, improvvisamente divenne immacolata,
veniva giornalmente pulita e coperta da uno strato di calce
così che le persone non dovessero più soffocare dalla puz-
za. Gli androni rilucevano, spariti i pezzi di carbone, i rifiu-
ti e le cicche (...) Alcune delle donne che avevano molti figli
e che trovavano difficile uscire a comprare grano e olio, ve-
dendo che Wanxiang non aveva figli la convinsero a far la
spesa al loro posto o a teneregli i bambini. Gradualmente
un maggior numero di persone fece ricorso al suo
aiuto...Quando la sorpresero a far scarpe di stoffa le chiese-
ro di farne altre paia per i loro figli. Vedendola cucire,
prendevano indumenti dei mariti e glieli portavano perché
li riparasse. Alcune prendevano addirittura in prestito buo-
ni per il grano e qualche moneta, che non restituivano.
Wanxiang non li deludeva mai (Barlow, 1989, p. 345).
In questo brano, le attività svolte dalla nostra eroina, so-
no fortemente sessuate, non solo per il loro carattere do-
mestico, ma anche perché, svolte gratuitamente, implicano
aspetti inferiori e impuri. Assumendosi in silenzio la re-
sponsabilità dello sporco collettivo, Wanxiang ricopre il
ruolo di “figlia del partito”,2 consolidando in tal modo la
concezione dello Stato comunista quale padre e madre del
popolo. Ogni “famiglia” deve occuparsi della propria spor-
cizia e le figlie, o le donne più giovani, sono coloro cui tale
incombenza viene assegnata. Come ha sottolineato Tani
Barlow nel suo commento al racconto, il lavoro di Du
Wanxiang nel subordinare ogni desiderio, incluso quello di
un felice matrimonio, all’amore per lo Stato, trascende poli-
ticamente la divisione sessuale del lavoro. Questo, però, non
è un trascendere solamente ideale, esso viene costantemente
rappresentato in forme fisicamente terrene:
Du Wanxiang lavorava (nell’aia) con intensa gioia, indiffe-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 81

rente alla fatica e alla fame. Lavorava mentre gli altri si ri-
posavano, continuando anche quando essi andavano a
mangiare. Alcuni dei lavoranti alla trebbiatura venivano pa-
gati all’ora o a cottimo. Solo lei lavorava senza paga. Tutti
fissavano attoniti quella piccola e fragile giovane donna pe-
rennemente sorridente; la sua apparentemente inesauribile
fonte di energia era sorprendente, straordinario era quel
così nobile, solenne e virgineo splendore che si irradiava
dal quel viso affatto ordinario. Era impossibile distogliere
lo sguardo da lei (Barlow, 1989, p. 347).
Il racconto è pieno di espressioni nazionaliste ancora
più liriche di queste. Molte di esse sono peani alla Cina e al
Partito comunista, sia sotto forma di pensieri “intimi” di
Du Wanxiang che come elogi collettivi ispirati al suo servi-
zio semplice e disinteressato. Dal punto di vista dello Stato
maoista, lealtà e lavoro non erano sufficienti; era anche ne-
cessario servire il popolo per produrre un “nobile, solenne
e virgineo splendore” in cittadini il cui patriottismo impre-
gnava interamente i loro corpi.3
Al pari di altri numerosi etnografi e studiosi, ho altrove
scritto del progetto estremamente ambizioso per l’edifica-
zione di uno Stato nazionale sotto Mao. Recentemente,
però, le femministe hanno cominciato ad intravedere le im-
plicazioni per le donne, il gender e la sessualità nel tentativo
rivoluzionario cinese di “creare un uomo nuovo”. Uno stu-
dio particolarmente rilevante del processo maoista di de-
sessualizzazione è stato condotto dalla critica letteraria
Meng Yue sulla letteratura ufficiale degli anni ’50 e ’60, Fe-
male Images and National Myth (1993). Le opere da lei
prese in esame - tra cui The White-Haired Girl, Song of
Youth e Sons and Daughters of the Landlord - sono molto si-
mili a Du Wanxiang. Esse stabiliscono gli spazi e le possibi-
lità della narrativa all’interno del discorso maoista.4 Nell’ac-
certare (in maniera incontrovertibile) che durante i primi
decenni della Repubblica popolare socialista la letteratura
era un mezzo per il cui tramite “i discorsi statali si impos-
sessarono dei discorsi pubblici attraverso una graduale ri-
collocazione al proprio interno di tutte le possibili articola-
zioni e rappresentazioni del privato”, Yue dimostra che no-
nostante l’estrema importanza del gender per il progetto
82 JUDITH FARQUHAR

statuale, il “sesso” fu completamente cancellato. La donna


era naturalmente una categoria del gender:
Da una parte, il discorso politico dello Stato divenne, con
la mediazione delle donne, il contesto del desiderio,
dell’amore, del matrimonio, del divorzio e della famiglia;
dall’altra, trasformò la donna in agente per la politicizzazio-
ne del desiderio, dell’amore e dei rapporti familiari delimi-
tando e rappresentando la sessualità, il sé e tutte le emozio-
ni private (Yue, 1993, p. 118).
Tale processo è evidente in Du Wanxiang e in molti altri.
Ci si ricordi inoltre degli stupendi manifesti propagan-
distici del realismo socialista maoista dove donne risolute
addette alle gru, al volante di trattori, come dottoresse scal-
ze o come elettriciste, sorridevano con gioia nel contribuire
all’edificazione del socialismo cinese. La radiosa passione
delle donne nel servire il popolo e il partito era la prova più
pura che questo progetto statuale costituiva una piena tra-
sformazione di tutto il popolo in cittadini socialisti;5 le on-
nipresenti immagini di donne su pali telefonici o dietro i
comandi di escavatrici, nell’elevarle ad un ruolo teorica-
mente paritario a quello degli uomini, non poteva che cam-
biare radicalmente anche gli assunti relativi alla mascoli-
nità. Il matrimonio tradizionale di Du Wanxiang non ha al-
cuna importanza in confronto al suo ruolo di “esempio”
comunitario e statale. La sua corporeità sessuata è estrema-
mente evidente ma totalmente pubblica, priva di qualsiasi
connotazione sessuale.
Molto ci sarebbe da dire sulla “realtà concreta” dei rap-
porti di gender e la sessualità sotto il maoismo. Che il dirit-
to di famiglia sia stato formulato e applicato in modo rigo-
roso a partire dal 1949, è un fatto di indubbia importanza,
così come nei racconti dell’epoca era leggendaria l’inva-
denza poliziesca dei comitati di strada e la manipolazione
dei pettegolezzi. Contemporaneamente, se questa fitta ma-
glia delle autorità teneva sotto relativo controllo la vio-
lenza domestica più grave, l’insistenza ufficiale per una in-
differenziazione tra i sessi incoraggiava anche altre oppres-
sioni quotidiane. Se la divisione sessuale del lavoro, almeno
nei nuclei familiari urbani, mutò grazie all’entrata in massa
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 83

delle donne nella realtà lavorativa dopo il 1949, aspetti più


sottili della politica di gender dello Stato non erano fuori
dalla sua portata quanto estranei ai suoi interessi. La cultu-
ra ufficiale (public discourse) non poteva ammettere la per-
sistenza del patriarcato storico senza al tempo stesso rico-
noscere i limiti delle conquiste rivoluzionarie. La reale con-
dizione delle donne non era in sé una questione politica.
In una situazione in cui quasi tutti vivevano in famiglia
e la stabilità della famiglia fondava la stabilità politica, il
controllo dell’immensa popolazione cinese, mediante cen-
simenti demografici e permessi di residenza, prese la fami-
glia come gruppo sociale di riferimento; matrimoni e divor-
zi furono sottoposti a stretti controlli. Un sistema legale che
privilegiava la riconciliazione rese il divorzio virtualmente
impossibile; prima della metà degli anni ‘80 praticamente
nessuno sopra i 25 anni viveva fuori dal matrimonio.
La privacy era un privilegio. Il dormitorio era una ne-
cessità per molti di coloro che abitavano nelle aree urbane
e industriali, vecchie abitazioni che in origine ospitavano
un solo gruppo familiare, venivano suddivise in modo da
alloggiare più famiglie. Nelle zone rurali, nonostante l’ab-
bondanza di spazio, venne privilegiato lo sfruttamento
agricolo e furono imposte severe restrizioni all’uso del ter-
reno per scopo abitativo. I servizi in comune si combinaro-
no con gli intensi controlli sull’ora della sveglia per ridurre
al minimo la sfera del privato e del personale. Le persone
non avevano poche opportunità di indugiare in passioni
private, ma vivevano in un mondo strutturato come se il
privato fosse privo di utilità, come se il personale fosse una
sottrazione alla tanto agognata rivoluzione.
La gente che faceva l’amore, aveva figli, si amava e si
odiava segretamente, tendeva ad avere elaborate fantasie.6
Ma il linguaggio dell’amore e della passione a loro disposi-
zione per articolare i desideri era un linguaggio politico; la
relazione erotica era quella tra compagni, totalmente ases-
suata. Du Wanxiang quasi morì di gioia quando scoprì che
poteva condividere l’impegno politico col marito da tanto
assente. Ardeva di piacere nel lavoro fisico per il collettivo.
La sua bellezza derivava dalla sua disinteressata disponibi-
84 JUDITH FARQUHAR

lità a soddisfare i bisogni altrui. Il contatto con la sporcizia


della comune aumentava la perfezione del suo corpo.
Dopo tutto, una simile strutturazione del desiderio non
è poi così improbabile. Per quanto si possa essere tentati di
pensare il mondo maoista in termini di sublimazione, tale
nozione freudiana, e i concetti storicamente specifici di
pulsione e inconscio che implica, può essere evitata. Pos-
siamo, invece, considerare la passione di Du Wanxiang per
sé e tentare di immaginare una soggettività dove il deside-
rio può “naturalmente” investire oggetti astratti quali lo
Stato e il Popolo come pure altri individui.

Dalla Rivoluzione all’interdizione (dopo il 1980)


La grande mobilitazione della popolazione cinese dopo
il 1949 ridispiegò corpi e ristrutturò spazi, radicalmente. A
questo proposito, è emblematico che le prostitute arrestate
in massa dopo la Liberazione del 1949, vennero rimandate
ai loro rispettivi villaggi per partecipare alla produzione
agricola o inserite in corsi di formazione che garantivano
loro l’accesso ad attività lavorative rispettabili e certe. Coe-
rentemente con le parole d’ordine rivoluzionarie del tem-
po, le trasformarono in persone nuove e i loro corpi furo-
no, al pari dello Stato, trasformati. Prima dell’era delle
riforme, per ragioni specifiche alla Repubblica popolare, la
prostituzione e i crimini a carattere sessuale non erano
neanche realmente “criminalizzati”; altri ostacoli nella mar-
cia verso la società socialista erano crimini non contempla-
ti. I trasgressori della morale pubblica erano sopravvivenze
dell’ordine feudale proto-capitalista precedente la Libera-
zione; non venivano mandati in prigione, ma a lavorare in
remoti centri di rieducazione. In breve, questa creazione di
un mondo socialista creò realmente un mondo; la prostitu-
zione intesa come la combinazione di commercio privato e
attività sessuale scomparve quasi ovunque.
Fu solo nel 1980, dopo la caduta della banda dei quat-
tro e l’inaugurazione dell’attuale fase di riforme, che venne
promulgata la prima legge penale con articoli contro cri-
mini a carattere sessuale e altri “atti contro i diritti persona-
li e democratici dei cittadini” (Ruan, 1991, p. 76). Nel
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 85

1982, durante il mio primo viaggio in Cina, c’era chi veniva


perseguito (e a volte giustiziato) per “teppismo” sessuale e
una rinata industria della prostituzione veniva periodica-
mente repressa dalla polizia. Nel 1985 fu promulgata una
nuova legge amministrativa che reintroduceva il divieto di
distribuire e di consumare materiale pornografico (Ruan,
1991, p. 100). Da allora la polizia ha condotto periodiche retate
contro case editrici e stazioni radiotelevisive nel tentativo
di reprimere l’entrata in Cina di materiale pornografico.
Va notato che le iniziative giuridiche per tentare di te-
nere sotto controllo la febbre sessuale sono leggi penali e
amministrative. Lo Stato delle “riforme”, ormai privato del
suo potere di ridispiegare i corpi e di ri-configurare lo spa-
zio e il tempo in funzione dell’edificazione del socialismo, è
ridotto a ricorrere a una legge che proibisce. Prima poteva
tentare di offrire (e di imporre) a tutto il popolo un modo
di vita totalizzante benché ascetico, ora può solo sperare di
limitare i danni mentre le persone riprendono il controllo
sulla propria vita e “i mali del capitalismo” trionfano. Al
pari delle economie di mercato capitaliste, la legge penale,
nel privilegiare la figura del trasgressore, individualizza e
crea capri espiatori; il deviante non è più un sintomo di un
ordine sociale imperfetto ma corpo del reato su cui proiet-
tare le paure del collasso dei valori civici (wenming).
Questo spostamento, dall’edificazione di un mondo
nuovo alla repressione del crimine, ha cambiato il carattere
delle campagne di massa in Cina. Lo stesso apparato di
propaganda che prima articolava pensiero e linguaggio in
un vasto (ma sostanzialmente quanto inevitabilmente limi-
tato) discorso maoista, ora rivolge al popolo una retorica di
Stato. L’idioma della dirigenza socialista è ormai estraneo
alla molteplicità dei discorsi di massa che si inventano e si
adottano nella Cina postcoloniale, post-socialista e post-
maoista. Le parole d’ordine governative possono oggi esse-
re accolte con ironia politica, perché altre articolazioni - sia
autoctone che importate - sono ormai a disposizione7.
Tuttavia, l’aneddoto che mi ha raccontato un antropo-
logo al ritorno da una recente visita alla zona rurale di
Shanxi, fa ritenere che le risposte popolari all’interdetto
86 JUDITH FARQUHAR

statuale siano più dinamiche di quanto il proverbiale “cum


grano salis” possa suggerirci. Jia Huanguang, un dottoran-
do in antropologia ed ex funzionario del servizio sanitario
cinese, era appena rientrato nel suo distretto di nascita per
condurvi la ricerca sul campo. Durante il suo soggiorno, il
Ministero della sanità lanciò una campagna per l’allatta-
mento al seno nelle zone rurali. La campagna includeva av-
vertimenti contro l’utilizzo del latte in polvere. Poco dopo
l’inizio della campagna, le madri della zona cominciarono a
andare dal dott. Jia, l’esperto sanitario locale, per chiedere:
“Cos’è il latte in polvere, dove possiamo trovarlo?”
Dovremmo forse sorprenderci che l’interdizione generi
desiderio? La storia stessa dell’amministrazione della ses-
sualità nella Cina moderna conferma questa intuizione
freudiana, ma solo limitatamente. Nel 1985, anno della leg-
ge contro la pornografia, si tenne a Shanghai il primo semi-
nario nazionale sull’educazione sessuale e Ruan Fangfu
pubblicò quello che, secondo lui, è “il primo e il solo detta-
gliato manuale sessuale pubblicato in Cina dal 1949”
(Ruan, 1991, pp. 77,192). Benché vi siano state iniziative
legislative precedenti il 1985, le operazioni di polizia con-
tro violazioni sessuali più estese sono successive. Sembra
che solo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 il
flusso di letteratura erotica, proveniente da case editrici ci-
nesi all’estero verso i grandi centri urbani cinesi e da questi
verso le zone rurali dell’interno, si sia trasformato in un’al-
luvione. Dinamiche parallele che sembrano sempre più os-
sessioni sociali strettamente intrecciate che si rinforzano re-
ciprocamente. In parole povere, nel contesto cinese, avulso
da un positivo progetto di vita complessivo e totalizzante,
l’interdetto è preda dell’ironia e oggetto di ribellione e as-
sume così lo specifico carattere di divieto. Trasformatosi da
reale processo di produzione statale di docili e asessuati cit-
tadini in un flebile ma insistente apparato propagandistico,
il mondo socialista di Du Wanxiang è diventato poco più
di una retorica dello Stato assediato. C’era una volta
un’egemonica immagine positiva di quello che la Cina e i
cinesi potessero e dovessero essere; ultimamente il suo lin-
guaggio ormai a brandelli è un costante monito di ciò che
essi non devono diventare.
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 87

Nanke (medicina maschile)


Nanke è una nuova branca della medicina tradizionale
cinese che contiene specifiche interdizioni e ossessioni. In-
sieme espressione e risposta alla diffusa preoccupazione
verso la sessualità, fu inventata circa dieci anni fa nello stes-
so periodo in cui fu promulgata la legge contro la porno-
grafia e i sessuologi cominciavano a crearsi una figura pro-
fessionale. Nell’identificarsi esplicitamente con le istituzio-
ni della “medicina cinese tradizionale”, questa nuova bran-
ca vuole collocarsi dentro una logica medica premoderna.
Che non distingue tra fisiologia maschile e femminile né
prende in considerazione apparati corporei quali gli organi
genitali esterni. Perché, mi chiedo, questa strana attenzione
della nanke verso l’anatomia maschile? Questa distinzione
sessuale basata su criteri biologici sembra fondare lo stesso
campo d’applicazione della nuova specializzazione.8
Gran parte dei libri di testo e degli studi sull’argomento
sono stati pubblicati dopo il 1985. Nelle loro prefazioni,
secondo un tipico canone storiografico, l’origine della di-
sciplina viene fatta risalire ai classici della medicina della
dinastia Han. Ma vi si ammette anche che la nanke è stata
riconosciuta come branca della medicina nel corso degli ul-
timi 10 anni.
Questa disciplina deve dunque tuttora definire il pro-
prio ambito. Nella sua pratica si differenzia dalla medicina
interna generalmente nel trattamento delle disfunzioni ses-
suali. Gran parte dei casi di cui si occupano i dottori nanke
nelle cliniche che ho visitato sono forme di impotenza, eia-
culazione precoce, polluzioni notturne, sterilità e dolori
durante il rapporto, disordini funzionali sconosciuti alla
sessuologia occidentale (squilibrio tra yin e yang, vento ai
reni, “koro”). I sintomi sono concentrati nei genitali e tra-
discono una “naturale” ansia da prestazione e un (forse
meno naturale? o comunque meno familiare) interesse per
il controllo dello sperma.
I libri di testo sono meno tecnici, adeguandosi all’impe-
rativo occidentale di privilegiare la “teoria”; e spesso defi-
niscono la disciplina in riferimento all’anatomia maschile:
sia l’apparato genitale esterno che interno. Il che è total-
88 JUDITH FARQUHAR

mente estraneo alla medicina tradizionale. (È ormai usuale


che la terminologia biomedica compaia nei testi medici ci-
nesi, anche se sembra più un’intrusione stilistica e concet-
tuale. Per quanto mi riguarda, con la mia formazione ade-
rente alla tradizione, la lettura di questi passaggi non signifi-
ca solamente ricercare il significato di numerosi termini nel
vocabolario ma usare vocabolari completamente diversi).
Eccone un esempio:
Gli organi riproduttivi maschili si dividono in due parti. L’una:
gli organi interni, inclusi i testicoli, i condotti, e le relative
ghiandole. La ghiandola riproduttiva è il testicolo; i condotti
includono l’epididimo, i condotti seminali e l’uretra, le ghian-
dole sessuali includono la vescicola seminale, la prostata e le
ghiandole uretrali. L’altra parte: gli organi sessuali esterni. Il
pene e lo scroto (Wang and Cao, 1988, p. 7).
Ognuno di questi elementi anatomici viene poi de-
scritto strutturalmente:
Testicoli: situati dentro lo scroto, uno a destra e uno a sinistra,
di forma vagamente ellittica. Le dimensioni dei testicoli di un
maschio adulto sono mediamente costanti, ognuno di essi pesa
tra i 10 e i 20 grammi. Un testicolo è costituito da più di 200
lobuli. Ogni lobulo contiene 3-4 condotti seminiferi intrecciati
nel mediastino testicolare formando il reticolo testicolare (rete
testis). Dal reticolo si possono individuare 15-20 condotti effe-
renti che si riuniscono in un unico condotto che esce dal testi-
colo verso l’epididimo. Il testicolo produce sperma e secrezioni
ormonali maschili (Wang and Cao, 1988, p. 7-8).
Rispetto alla scrittura medica cinese - anche nella sua
versione moderna - ciò appare davvero strano. È un sa-
pere che può solo basarsi sulla dissezione, la manipola-
zione, il peso e la misurazione delle parti di un cadavere.
Sebbene i dati anatomici vengano in questi testi presenta-
ti senza commenti, vi si afferma che la letteratura medica
cinese non ignorava completamente le strutture anatomi-
che, ma ne scriveva in maniera particolare:
In gran parte della letteratura medica cinese vi è una cono-
scenza approssimativa della terminologia anatomica degli or-
gani riproduttivi maschili.(...) Leggendo l’(antica) terminolo-
gia sulla fisiologia riproduttiva maschile, possiamo riscontrare
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 89

una sensibilità per le funzioni, vi si può per esempio riscon-


trare come il condotto attraverso cui viene evacuata l’urina
convoglia anche lo sperma. Erano le funzioni ad essere diver-
se, da una parte lo si faceva risalire alla vescica urinaria,
dall’altra alla ‘sacca spermatica’ (jingshi). Da ciò, l’osservazio-
ne (della dinastia Han) che ‘il pene è una struttura al centro
del corpo, il punto di fermata (huo) dell’essenza seminale yin
e la via dei fluidi corporei’. (Wang and Cao, 1988, p. 7).
Questo è l’unico tentativo nei testi di medicina nanke di
riconciliare il linguaggio strutturale dell’anatomia biomedi-
ca con le rappresentazioni spaziali e funzionali usate dalla
medicina cinese. (Esistono altri testi ancor meno interessati
a superare il divario.) Dopo un iniziale inserimento degli or-
gani genitali maschili tra la storia della disciplina e la lunga
presentazione delle sue conoscenze diagnostiche e terapeu-
tiche, il linguaggio e i costrutti concettuali riassumono il più
“puro” stile medico cinese che mi è familiare.
Immediatamente dopo la lezione d’anatomia, il libro ri-
torna alla tradizione. Il capitolo sulle “Caratteristiche anato-
miche e fisiologiche del maschio” si conclude con un lungo
paragrafo intitolato “Sperma” o “Essenza seminale” (jing):
Jing è la sostanza di base che forma e mantiene le attività
della vita. Nella sezione Semplici questioni, nel capitolo 4, si
dice: “jing è la radice della vita (shen).” Nel capitolo 8, Il
fulcro divino, si dice: “Ciò da cui proviene la vita si chiama
jing” che equivale al concetto di essenza seminale eredita-
ria. Quando nella sezione Semplici questioni del capitolo
21, si osserva “lo jing pervade il fegato”, “lo jing pervade i
peli corporei”, “lo jing è tutt’uno con i capillari”, “lo jing è
distribuito dal qi della milza”, perciò “i quattro centri
dell’acqua jing” comprendenti il qi, il sangue, i liquidi cor-
porei e gli elementi nutritivi essenziali del cibo, sono conce-
piti come la sostanza materiale minima. Di conseguenza il
termine jing ha sia un senso lato che un senso specifico. Il
senso lato fa riferimento allo sperma (jing), al sangue, ai
fluidi corporei, ecc. ed è la sostanza e l’energia basilare del-
le attività vitali del corpo umano; il senso specifico fa riferi-
mento al sistema renale jing che regola la riproduzione e la
crescita, che produce il midollo cerebrale, e che trasforma
il qi primordiale, sede della volontà. È l’essenza seminale
ereditaria, la radice del Vero qi.9
90 JUDITH FARQUHAR

Invece di tentare una traduzione coerente e compren-


sibile di questo complesso passaggio, noterò solamente
che nonostante le citazioni dai classici, esso non è né
realmente “tradizionale” (è scritto in Cinese moderno e
adotta uno stile molto da XX secolo), né completamente
“cinese” (la nozione di sostanza materiale minima fa rife-
rimento ad un materialismo di stile occidentale che ha
fatto la sua comparsa nella medicina cinese tramite la
mediazione teorica del maoismo). Questa svolta in favore
di una scrittura medica cinese tradizionale che - secondo
alcuni - è una caricatura dell’anatomia, ha dunque un ca-
rattere decisamente ibrido. Ciononostante, non la si po-
trebbe comprendere se non come una descrizione del
corpo quale complesso dinamico di processi interconnes-
si, una fisiologia che deve essere osservata dal vivo trami-
te un’analisi dei segni, sintomi e dell’apparato sensoriale
soggettivo. Ciò è in contrasto con un’anatomia che con-
cepisce il corpo come oggetto eterogeneo fatto di ele-
menti separabili, pesabili, manipolabili e inerti. In questa
parte finale del capitolo, lo jing non viene mai caratteriz-
zato come una sostanza da analizzare chimicamente o de-
scrivere analiticamente; non si fa, ad esempio, neanche lo
sforzo di distinguere tra seme e sperma.10
Lo jing è piuttosto una figura funzionale che ricopre
una serie di ruoli tra loro interconnessi secondo un’attiva
economia corporea che non può localizzare la sostanza o
fissarne la struttura.
Lo jing gioca quindi un ruolo importante sia nella fi-
siologia maschile che in quella femminile; fatto mai nega-
to dai testi di medicina maschile. A volte tuttavia intro-
ducono un interessante slogan che recentemente ha ac-
quisito un carattere sessuato: “per il maschio, lo jing è la ra-
dice”. Nella medicina cinese lo jing è al centro di ogni tra-
sformazione fisiologica (“il sistema renale accumula lo jing,
lo jing produce sangue, il sangue è trasformato in jing, per-
ciò lo jing e il sangue sono le rispettive fonti l’uno dell’al-
tro”), è dunque strano concepirlo alla radice della fisiologia
maschile. Del resto la medicina femminile, fuke, tende a
definire il sangue come specificità femminile, cosa assoluta-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 91

mente sensata tenuto conto dell’interesse che questa bran-


ca ha nei confronti della regolamentazione dei flussi me-
struali. In entrambi i casi una sostanza corporea fondamen-
tale per la vita umana e centrale in ogni trasformazione fi-
siologica, viene concepita come specifico elemento di uno
dei due sessi.
Certo, a partire non solo dai rapporti di reciproca tra-
sformazione tra il sangue e lo jing ma anche dalla serie di
relazioni riproduttive esistenti tra entità corporee presenti
nella fisiologia medica cinese, si possono immaginare stu-
pende teorie dinamiche sulle relazioni tra i sessi. Ma forse
la medicina cinese indulge troppo sulle allegorie. Io, qui,
voglio concentrarmi sul particolare modo in cui il gruppo
di clinici e studiosi che sta sviluppando la medicina nanke,
ha adottato la fisiologia classica. Fin dalle sue origini, la
medicina femminile si è particolarmente interessata al san-
gue - non solo relativamente alla regolazione delle mestrua-
zioni, ma anche alla sua funzione nel nutrimento e nella
protezione del feto, nel controllo delle emorragie, nel trat-
tamento delle anemie post-parto, ecc. La medicina maschi-
le sembra aver adottato una sostanza corporea parallela, il
seme, che in modo analogo al sangue femminile, è parte
della fisiologia riproduttiva. Impropriamente lo jing è stato
dichiarato “la radice” del “maschio”.
Da un punto di vista grammaticale, è facilmente com-
prensibile - per mille anni la donna è stata la categoria me-
dicalmente connotata come oggetto, soprattutto in riferi-
mento alla fertilità, di una branca specifica della medici-
na.11 Ogni persona, escluso che per gravidanza e mestrua-
zioni, era indistintamente soggetta all’astratta analitica della
medicina cinese per la quale l’anatomia non solo non era
un destino, ma era letteralmente ignorata. Conseguente-
mente, nella medicina cinese (ma anche in quella occiden-
tale) sarebbe scorretto riferirsi alla donna in termini di di-
stinzione, mentre gli uomini, favoriti da un ordine patriar-
cale, escludono le donne dalla neutralità del linguaggio.
Mentre è opportuno sottolineare come, fino a pochi anni
fa, l’unica specializzazione che si occupava della riprodu-
zione si concentrasse sulle donne, individuando nelle “mo-
92 JUDITH FARQUHAR

gli” le responsabili di un costante flusso di sani bambini.


Per quanto siano prevalentemente le donne a richiedere
cure mediche contro la sterilità,12 ai mariti si richiede soli-
tamente di sottoporsi ad analisi del seme e, spesso, la cura
tradizionale viene prescritta per entrambi i partner. Il fatto
che la nanke si occupi di sterilità, potrebbe motivare la sua
comparsa come risposta ad una idea di sanità pubblica più
egualitaria; gli uomini hanno minori possibilità di incolpare
le mogli dell’impossibilità di avere figli.
Ma la medicina nanke non si occupa principalmente di
sterilità; la maggioranza dei casi sono rappresentati dall’im-
potenza e dai fallimenti in relazione al controllo e alla pre-
stazione sessuale. Inoltre, molti degli uomini che ho visto
nelle cliniche sono sposati da molti anni. Il loro cruccio è
chiaramente un aspetto della virilità, cosa diversa dalla ste-
rilità. Dopo tutto, per quanto la costruzione medica del
proprio malessere possa interessare poco ai pazienti, i dot-
tori cui si rivolgono tendono a concentrarsi sull’antica en-
tità jing: fluido seminale (evidente quanto indubbio pro-
dotto del corpo maschile) e, insieme, “la sostanza basila-
re che forma e mantiene le attività della vita”.13
La peculiarità della concezione medica cinese dello
jing, e di conseguenza della moderna virilità, sta proprio
nel legame che questa sostanza, il fluido seminale, ha con
l’insieme della fisiologia corporea e che governa non solo
la riproduzione e la crescita (anche quella dei capelli) ma
anche la stessa trasformatività fisiologica del corpo ed il
suo essere sede di intenzionalità e riflessività. Appare ov-
vio quindi che una qualsiasi clinica per “disordini sessua-
li maschili” si definisca in grado di “curare la radice”
(zhi gen)! Probabilmente queste cliniche, dotate dei più
recenti testi e manuali nanke, curano il gambo (normal-
mente, nella letteratura medica ci si riferisce al pene come
yinjing, gambo yin, io sono attratta dal termine antico jing-
chui, gambo ammosciato) e le sue complesse e estese radici
nello jing corporeo. Coerentemente con l’antica logica del-
la medicina cinese, una volta rettificate le generali origini fi-
siologiche di una malattia, i suoi sintomi scompariranno
spontaneamente; se la produzione e la distribuzione con-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 93

trollata dello jing nel sistema renale (soprattutto), nel fega-


to e nel sistema milza-stomaco, giungono gradualmente ad
un livello di produttività armonica e tonica, il paziente non
dovrebbe provare più difficoltà nel secernere il fluido se-
minale, semplice sottoprodotto del suo stato di salute.
In questa prospettiva olistica, ci sarebbe molto da dire
su un altro fondamentale interesse dei testi di medicina
nanke: il controllo e la ritenzione del seme. La concezione
delle polluzioni notturne come patologia è l’unica indica-
zione che ho del fatto che il controllo del seme è questione
di estremo interesse sia per gli uomini che per i dottori. Ma
i testi qui citati, e i manuali sessuali e la ricerca sull’ars ero-
tica classica, sono netti nel difendere una “regolata” vita
sessuale. Per gli uomini significa coltivare la capacità di
rapporti sessuali senza eiaculazione, in modo da conservare
e rimettere in circolo il seme per scopi fisiologici. Molti si
accorgeranno che queste tecniche derivano dalle arti taoi-
ste della longevità; un’eccessiva dispersione di jing significa
sprecare una preziosa sostanza corporea generativa e diffi-
cilmente rinnovabile. Morte e vecchiaia si possono tenere
sotto controllo limitando la dispersione di essenza semina-
le. La particolarità più interessante del sapere sessuale e
della longevità che la medicina nanke ha riattualizzato è la
potente immagine di una dinamica fisiologia corporea in
cui sostanze basilari come lo jing e il qi rientrano in circola-
zione a beneficio dell’intero organismo.
Dal punto di vista di una tale concezione del corpo, i
genitali non sono né centrali né tabù. Contro un feticismo
che sposta l’attenzione dalle strutture anatomiche
“naturali” a oggetti casualmente scelti, la moderna medici-
na maschile sembra aver costituito il pene stesso in feticcio
scientifico, per quanto oggettificato. Questa strana espres-
sione non-comunista di una moderna differenza di gender
si sovrappone alla più antica concezione medica di un cor-
po diffusamente erotizzato e attivamente mutevole. Espres-
sione di una gestualità postcoloniale stranamente isolata,
ostinatamente a favore di una “moderna” eterosessualità
contraria all’egualitarismo statuale di gender, nel bene o nel
male, ormai crollato.
94 JUDITH FARQUHAR

Conclusione
Ho sostenuto che la pubblicità per cliniche del sesso
sfrutta ed evoca ansietà e desideri assolutamente nuovi.
Non voglio dire che il sesso, l’ansia, o il desiderio siano in
qualche modo fenomeni nuovi, ma che le particolari forme
in cui attualmente si configurano in Cina sono più interes-
santi nella loro specificità storica che come espressioni di
astoriche “pulsioni” (poiché in materia di sessualità parlare
di forma e contenuto non ha molto senso, ci potremmo
chiedere che aspetto potrebbe avere una sessualità astori-
camente intesa). Studiosi di letteratura e cultura cinese
hanno recentemente analizzato l’emergere, a partire dalla
metà degli anni ‘80, di tanti piaceri privati; sono gli anni
che hanno segnato l’inizio del riflusso del discorso maoista
sul collettivismo puritano e sull’etica del lavoro. L’esplosio-
ne di prodotti erotici può esser vista come parte di un pro-
cesso di re-invenzione del privato e come un voltare le
spalle al discorso nazionale una volta che il valore del col-
lettivo è stato screditato dalla diffusa critica alla Rivoluzio-
ne culturale. Oggi, negli anni ‘90, mentre il consumo priva-
to e gli affari sono le forme privilegiate di partecipazione
alla vita collettiva e l’arricchimento è ormai l’unico valore
da tutti riconosciuto, non vi è più alcun ideale o grande
progetto cui dedicarsi; niente, al di fuori dell’attività econo-
mica privata, può ormai mobilitare istintive passioni. Non
ci si può sorprendere se in tali condizioni molti, da un
momento all’altro, scoprano il desiderio di privati piaceri
parzialmente proibiti, né che trovino gratificazione nella
fantasia letta o vista in prodotti stranieri dove il lusso è ab-
binato ad improbabili avventure sessuali.
Cosa può offrire la medicina nanke, col suo supposto
potere di “curare la radice”, ad un pubblico maschile re-
centemente sessualizzato? Contrariamente alla medicina
occidentale, che nell’immaginario popolare include tecni-
che meccaniche e localizzate (ad esempio, la chirurgia) o
medicine efficaci anche se pericolose, la nanke fornisce un
interpretazione del corpo in grado di collegare i disturbi di
carattere sessuale ai processi vitali fondamentali. Forse il si-
stema jing, entità dinamica minimale, complessa, cangian-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 95

te, alla costante ricerca di riequilibrio, è l’oggetto di una


specifica fantasia postmaoista? Forse il corpo della medici-
na cinese maschile è un sé nostalgico, nel quale le azioni
funzionali degli organi sono espressione della dinamica sa-
lute dell’organismo? Forse i pazienti e i loro dottori delle
cliniche maschili sognano il perduto sogno nazionale: una
collettività cui uomini di mezz’età, coetanei di Du
Wanxiang, hanno dedicato la giovinezza, e che ormai si sta
disintegrando per senilità precoce?
Sono sicura che, in passato, quando la produzione e la
riproduzione erano esclusivi attributi dello Stato socialista,
il sesso esisteva, ma senza il beneficio di un’articolazione
teorica o politica. Il gender era in alcuni contesti elevato a
supremo dramma di Stato, da cui la sessualità convenzio-
nale era esclusa. Oggi, che gran parte delle strutture pro-
duttive e distributive sono state relegate al “libero merca-
to” di un’economia non particolarmente sistematica né au-
to-regolata, oggi che tutti, meno un pugno di burocrati sta-
tali, rifiutano la visione maoista del sesso, del gender e della
riproduzione, mi sembra ci sia bisogno di risposte persona-
li in cui siano incluse pratiche corporee che eccedano e tra-
sgrediscano le funzioni produttive e riproduttive letteral-
mente intese. L’apparizione della medicina nanke, come
specificità maschile di un sogno materialisticamente e pro-
duttivamente focalizzato su sistemi ben oliati, fa tuttavia in-
travvedere come alcuni aspetti della rinascita sessuale cine-
se mostrino una paura che è prodotta sia a livello delle pre-
stazioni individuali che di quelle nazionali.

1 Non c’è da meravigliarsi se queste cliniche private pubblicizzino preva-


lentemente i loro servizi di medicina tradizionale, e il loro “curare la radice”.
La maggior parte delle piccole strutture sanitarie private nate in Cina a partire
dalla metà degli anni ‘80 è zhongyi per la semplice ragione che cliniche di que-
sto tipo non hanno bisogno di macchinari e medicinali costosi. È molto più
semplice ed economico aprire una clinica zhongyi che una clinica biomedica.
Senza dubbio queste cliniche somministrano anche antibiotici ed altre medici-
ne “occidentali”.
2 Questo era uno tra i molti cliché utilizzati per indicare la donna modello
nei primi decenni del regime comunista.
3 Du Wanxiang può venir considerato un esempio di realismo socialista
maoista solo limitatamente. Tani Barlow lo pone nel contesto dell’intera pro-
96 JUDITH FARQUHAR

duzione dell’autrice, Ding Ling, e in tal modo ne evidenzia la complessità della


storia politica (e di gender) che tale racconto esprime. Ciononostante, esso è
più influenzato dalla tradizione letteraria dei primi decenni della Repubblica
Popolare piuttosto che dalla successiva produzione degli anni ’80, di carattere
introspettivo e apolitico. Utilizzo questo racconto a mo’ di esempio per chiari-
ficare la periodizzazione che qui propongo.
4 “Discorso maoista” è un concetto preso in prestito da Li Tuo, il cui stu-
dio di questo vasto fenomeno è attualmente in fase di stampa. Secondo l’auto-
re il linguaggio e le concettualizzazioni maoiste emersero nella loro totalità nei
primi quattro decenni della Repubblica Popolare e avrebbero perso il loro ca-
rattere egemonico intorno al 1985.
5 Anche Meng Yue sottolinea come nei primi decenni della Repubblica
Popolare, l’egalitarismo di gender andò al di là della semplice parità di diritti
politici secondo una “concezione, equiparazione, o non-differenziazione tra i
due sessi” (1993, p. 118).
6 Ci sarebbe molto da dire a questo proposito prendendo spunto dalla
produzione cinematografica del periodo maoista. In essa la funzione fantasma-
tica venne usata con grande effetto, ma il contenuto delle fantasie era sempre
politically correct. Si potrebbe fare la stessa osservazione in relazione all’esplo-
sione letteraria a carattere più personale apparsa immediatamente dopo la fine
del periodo maoista. Il presente lavoro si occupa dei tardi anni ’80 e ’90.
7 Mi ricordo il vivo interesse degli accademici cinesi quando, alla metà de-
gli anni ’80, vennero tradotti testi accademici americani ed europei. La scoper-
ta di nuovi linguaggi sembra essere stata un’esperienza particolarmente intensa
per intellettuali che per anni erano stati costretti a far esclusivo riferimento alla
versione maoista del materialismo dialettico. La repressione del movimento
studentesco del 1989 ha fortemente rallentato tale processo, ma non lo ha ar-
restato.
8 Una storia della regolamentazione medica dei disordini funzionali ma-
schili ha in tutti i testi una posizione centrale. In altre parole, questa nuova
branca della medicina cinese viene considerata come facente a pieno titolo
parte della tradizione (che oggi viene fatta risalire ai manoscritti di Ma Wang
Dui). Tali affermazioni, al pari delle nozioni anatomiche qui esaminate, vengo-
no poste all’inizio di tutti i manuali ed opere divulgative di medicina nanke. È
un importante contrappunto al ruolo dell’anatomia, ma al contempo è anche
una comune scelta storiografica di tutta la medicina cinese. Un aspetto che qui
affronterò.
9 Vedi Sivin (1987, pp. 164-165) per un diverso punto di vista riguardo al
ruolo dello jing nella letteratura medica cinese. Coerentemente con la conce-
zione moderna (maoista), questi autori hanno enfatizzato la caratteristica di so-
stanza particolare dello jing. Affermano che esso è la radice di tutta la vita in
ragione del suo carattere minimale o microscopico che gli permette di essere
una componente del qi, del sangue, dei fluidi, ecc. anch’essi definiti sostanze a
sé stanti. Sivin individua alcune ragioni importanti della problematicità di
questa interpretazione alla luce delle complessità dei testi, citati da questi au-
tori, ma ignorati da molti altri.
10 Sperma (zhongzi) è un termine medico occidentale che qualche volta
appare nella letteratura medica nanke in materia di seme come sostanza. Es-
so, però, non è definito né gli viene data una funzione propria diversa da
quella del seme (jing).
11 È importante notare che la traduzione letterale di fuke, che qui tradu-
co con il moderno “medicina femminile”, è “la specialità delle mogli”. Ciò in
accordo con l’osservazione di Tani Barlow che non vi sono “donne” nella Ci-
IBRIDITÀ TESTUALE E CULTURE DEL DESIDERIO... 97

na premoderna, piuttosto termini che potrebbero corrispondere all’occiden-


tale concezione dualistica del genere sono stati recentemente inventati o presi
in prestito per essere utilizzati dal nazionalismo e dal femminismo.
12 Oggi, per motivi pratici, l’infertilità in Cina viene definita come l’im-
possibilità di rimanere incinte entro i primi 18 mesi di matrimonio.
13 Penso che sia preferibile che il fluido seminale sia una sostanza esterna
e visibile, la cui materialità può venire accettata sia dalle scienze anatomiche
che da quelle non-anatomiche. La medicina cinese può insistere che il sistema
renale jing regoli la riproduzione e la crescita, che generi il midollo cerebrale,
che trasformi il qi primordiale, che sia la sede della volontà, mentre la biome-
dicina lo considererebbe semplicemente come una sostanza relegandolo ai ge-
nitali esterni ed interni. Ciononostante, nessun ostinato positivista potrebbe
accusare la medicina nanke di occuparsi esclusivamente di entità (anatomica-
mente) fantastiche, quali la “porta della vita” (ming men) o il “triplice bracie-
re” (sanjiao). Oggigiorno, essere in palese disaccordo con la scientifica conce-
zione occidentale del reale non è saggia politica epistemologica.

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98 JUDITH FARQUHAR

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L’atto nel desiderio
Giulia Sissa

Fumando senza sosta, seduta accanto al guidatore


gli dice: “Guida piano per favore, lo sai che sto
per fare un peccato mortale”. Lui ride e le lancia
uno sguardo ironico. “Ma se non hai fatto ancora
niente”? “È vero, ma ne ho l’intenzione e dunque
è già qualcosa di grave, forse è ancora peggio”.
“Peggio?”
David Lodge, Anime e corpi.

Dobbiamo domandarci quale è il modo di comportarsi


onestamente nei confronti dei desideri. Come si può pro-
teggere, cioè, il desiderio nell’atto, la relazione del deside-
rio con l’atto? Il desiderio, generalmente, trova nell’atto il
suo collasso più che la sua realizzazione e, al massimo, l’at-
to presenta al desiderio solo il suo risultato, il suo gesto
eroico. Come proteggere, dico, il desiderio nell’atto, quella
relazione che si può definire semplice, o benefica?1
Jaques Lacan si chiedeva come fare affinché il deside-
rio possa restare vivo nonostante i piaceri che lo appaga-
no. Questa stessa domanda era già presente nel modello
freudiano, meccanico, dell’eccitazione. Se il piacere è flus-
so, scarico di energia, come ricominciare, come ricaricar-
si? E la risposta lacaniana si scinde in due tempi. In un
primo tempo: distinzione tra godimento (estasi e dolore
mescolati, gusto tirannico per sofferenze delle quali non si
può fare a meno) e piaceri plurali, meno intensi ma ripetu-
ti, il cui paradigma sarebbe l’erotismo fallico; il desiderio
sessuale, e quello degli uomini in particolare, si appaga e
risorge indenne; la soddisfazione non lo sfinisce: lo rilan-
cia. In un secondo tempo: spiegazione di questa vitalità at-
traverso ciò che potrebbe sembrare una debolezza, ma
che, al contrario, conferisce al desiderio la sua capacità di
resistenza, la mancanza. Il piacere non uccide il desiderio
perché non lo satura.
100 GIULIA SISSA

A questa domanda si possono pensare anche altre ri-


sposte, ad esempio una greca e una cristiana. Si tratta di
un’analisi storica, certo, e di un’ottimo modo per ripensare
la storia della sessualità2. Nella risposta greca risuonerà, ini-
zialmente, la sorpresa di sentir formulare una simile inquie-
tudine. “Come si può proteggere il desiderio nell’atto?”.
Niente di più semplice, replicherebbe un filosofo classico:
il desiderio è nell’atto. Non se ne separa mai. È ciò che ren-
de la soddisfazione aleatoria. Proprio per questo il sesso è
un problema. Il desiderio è insaziabile per natura. Ecco ciò
che il pensiero antico mette al centro della riflessione etica.
Il desiderio (di sesso, di cibo, di denaro) è tale che rispon-
dergli equivale a condannarsi, abbandonarsi ad un tiranno
che ignora la misura. L’inquietudine lacaniana per la so-
pravvivenza del desiderio, nonostante il godimento, sareb-
be parsa assurda a quei filosofi che si domandavano, piut-
tosto, se raggiungere il piacere fosse possibile dato che il
desiderio, ai loro occhi, era chiaramente instancabile.
È in questa convinzione, in un giudizio di ordine onto-
logico, che la riflessione greca sulla sessualità trova la sua
coerenza. Se il gusto per il sesso merita lo sdegno del filo-
sofo è perché tutte le epithumiai (per il denaro, il bere, il ci-
bo e l’amore) sono per natura incapaci di appagarsi. Strut-
turalmente asintotico, il desiderio fallisce sempre il suo
obiettivo. Nel momento in cui la presenza dell’oggetto bra-
mato sembra soddisfare e dare piacere, il desiderio, cioè la
mancanza, non cessa di approfondirsi e quindi di guastare
il godimento. La filosofia stigmatizza epithumia e orexis in
nome della loro incapacità a soddisfare l’anima, un’anima
rappresentata sotto forma di vaso incrinato, di piviere, di
corpo da nutrire..., in breve di un recipiente che non si rie-
sce mai a riempire. Il desiderio è speranza di pienezza, ma
il piacere che gli risponde non è in grado di realizzare que-
sto stato di felicità. Poiché il desiderio è insaziabile, il pia-
cere non è possibile. Ora, in rapporto a una teorizzazione
del desiderio che condanna il soggetto a sentirsi vuoto, in
una condizione di mancanza e continuamente infelice, il
pensiero dei primi filosofi cristiani opera uno spiazzamen-
to. Per Tertulliano, ma anche per Agostino e Gregorio di
L’ATTO NEL DESIDERIO 101

Nissa, non è più il desiderio ma il piacere che conta e meri-


ta attenzione. L’esperienza immediata di ogni impulso di
ordine sessuale, è una voluttà più o meno intensa. E questa
voluttà deve essere riconosciuta ed evitata. Questo nuovo
orientamento dell’etica implica un giudizio radicalmente
diverso sulla potenza del desiderio. Il godimento diviene il
vero problema, infatti, perché è provocato da un desiderio
talmente “performativo”, talmente efficace, che anticipa e
realizza a suo modo gli atti che ancora non sono accaduti.
Come nel Filebo di Platone il piacere è impossibile perché
godere è sempre anche desiderare, e dunque mancare e
soffrire, così per i Padri della Chiesa il piacere è irresistibile
perché desiderare è già godere, fantasticare una presenza
viva, piacevole, eccitante, i cui effetti si fanno sentire real-
mente nel corpo. Ogni percezione di un oggetto desidera-
bile possiede il potere, per così dire, “pornografico”, di si-
mulare un avvenimento il cui godimento non ha nulla di
fittizio. La teoria stoica della conoscenza e della phantasia
avrà permesso al cristianesimo di ripensare la sessualità e di
farne, per noi, un’esperienza irriducibile al modello antico.
Come si può proteggere il desiderio nell’atto?
La risposta cristiana sarà che l’atto è nel desiderio, un
desiderio che trova la sua causa nella tentazione perma-
nente della quale è costituito il mondo.

Già
Cosa fanno i filosofi cristiani? Come pensano, o ri-
pensano, l’articolazione tra desiderio e piacere? Prolun-
gano questa visione nichilista che rivela il vuoto, il non
essere, la sofferenza sotto l’apparenza della gioia, dell’in-
tensità e della pienezza di ciò che proviamo? Continuano
a disperdere l’illusione ridicola di coloro che mangiando,
bevendo, facendo l’amore, si ostinano a compiacersene
come se fosse veramente piacevole e come se non si trat-
tasse del più funesto e mediocre modo di vivere?
Per Tertulliano, Agostino e Gregorio di Nissa, il pia-
cere sessuale non è inesistente a causa del desiderio che
lo suscita, cioè a causa di una sensazione di mancanza
102 GIULIA SISSA

dolorosa che rovina la felicità e la rende impossibile. Al


contrario: per loro il piacere - hedone, voluptas - ha una
presenza così viva, che è il desiderio ad impallidire e farsi
istantaneamente amorfo. Appena percepito, nel suo pri-
missimo impulso, anche esitante e incerto - sguardo, vo-
ce, fantasia, qualsiasi sensazione - un desiderio è già vo-
luttà. Si percepisce un’emozione deliziosamente piacevo-
le e non la sofferenza del vuoto. E questa percezione pia-
cevole dura tutto il tempo che ci si abbandona ad essa.
Il rappresentante più eloquente di questo rigore nella
denuncia del piacere in atto è senza dubbio Tertulliano.
Una delle questioni che lo preoccupano di più è quella
del secondo matrimonio delle vedove. Tutte le sue argo-
mentazioni contro la legittimità morale delle seconde
nozze obbediscono ad un principio che fonda la propria
autorità su un testo: Matteo, V, 28. Colui che avrà guar-
dato una donna con desiderio, l’avrà già posseduta ses-
sualmente nel suo cuore. Il testo prende spunto, a sua
volta, dalla parola di Dio.
Ipse dominus, qui viderit, inquit, mulierem ad concupiscen-
dum, iam stupravit corde suo3.
Iam, già. È in questa determinazione temporale che si
radica la severità di Tertulliano contro il matrimonio delle
vedove. Un secondo matrimonio non è altro che uno stu-
prum, perché esso comporta una forma di attenzione (solli-
citudo) identica a quella implicita in ogni seduzione: la con-
cupiscenza. Cioè, il desiderio. È il desiderio che squalifica
il secondo matrimonio. Ma non in ragione della sua natura,
non perché è insaziabile. Al contrario. Il desiderio è illecito
perché è già atto, già stuprum realizzato. Non ha avuto luo-
go nello spazio esterno al soggetto. Ha avuto luogo in un
altro posto, il cuore, scena non meno reale di una camera
da letto. Rappresenta un avvenimento, il solo che conta per
il giudizio etico. Seguiamo Tertulliano parola per parola:
Le leggi sembrano operare una differenza fra matrimonio e
dissolutezza: è a causa della diversità tra le forme di trasgres-
sione, non in ragione della causa stessa4.
L’ATTO NEL DESIDERIO 103

Tertulliano si sbarazza della differenziazione introdotta


dalla casistica giuridica, come una funzione estranea alla res
ipsa, alla cosa stessa che è, invece, identica e indifferenziata:
il sesso, nella sua evidenza reale di “mescolanza di carne”.
Qual’è dunque la cosa (res) che, negli uomini come nelle don-
ne, incita al matrimonio e alla dissolutezza? L’unione della
carne, il cui desiderio fu assimilato dal Signore alla dissolutez-
za (commixto carnis, cuis concupiscentiam dominus stuprum
adaequavit)5.
La simultaneità tra desiderio e stuprum, precede sem-
pre, nella coscienza, ciò che accadrà fuori dal soggetto co-
me semplice ricaduta di un fatto compiuto; ne consegue
necessariamente che ogni forma di sessualità - adulterio, se-
condo matrimonio delle vedove, matrimonio cristiano - ri-
porta comunque alla stessa cosa. Le varianti “legali” della
sessualità riconducono a questa cosa che è la causa comune
sia del matrimonium che dello stuprum, ma che si situa in-
teramente dalla parte dello stuprum, in virtù del desiderio
da cui dipende. Perché questo desiderio, il Signore l’ha di-
chiarato esplicitamente, equivale allo stuprum.
Ma Tertulliano, si dirà, non rappresenta la dottrina cri-
stiana della sessualità. Già negli anni precedenti il 212,
quando egli scrive sul secondo matrimonio delle vedove,
aveva aderito al montanismo. La sua visione della carne
porta dunque le tracce di un rigorismo eterodosso. Certo.
Ma le manifestazioni estreme della severità cristiana per la
carne non mostrano a quali conseguenze può portare la lo-
gica già presente nelle posizioni moderate? Tertulliano è
soltanto troppo coerente. Torniamo allora verso Agostino,
riparo più sicuro in materia di matrimonio nella disciplina
cristiana.
Nel La Città di Dio (412-426) Agostino medita sul pro-
blema della violenza subita dalle vergini cristiane durante
le persecuzioni6. Come devono essere considerate queste
donne? Ancora vergini e sante, oppure corrotte? E cosa
deve essere loro raccomandato: la penitenza o la rassegna-
zione? In breve: la perdita della verginità materiale è un
ostacolo alla salvezza? È un caso spinoso data la situazione
limite di un atto sessuale non voluto, non cercato, ma im-
104 GIULIA SISSA

posto con la violenza e che dunque ha avuto luogo storica-


mente senza desiderio; un atto che turba l’armonia tra cor-
po e anima, tra imene e intenzione, armonia che si trova al
centro di tutto il pensiero sulla verginità. Qui gli autori so-
no unanimi: l’integrità riguarda prima l’anima e poi il cor-
po; la verginità somatica, come un sostegno, aiuta la vergi-
nità essenziale della castità perfetta. Di fronte allo stupro, a
stupri incontestabili che materializzano una violenza rico-
nosciuta contro l’identità cristiana, come mantenere salda
la priorità dell’intenzione e della virtù? Ma come ammette-
re che la rottura della membrana non comporti, al tempo
stesso, davvero niente altro; non modifichi assolutamente e
oggettivamente uno stato valorizzato?
Tuttavia se Tertulliano riconduce l’avvenimento sessua-
le interamente dalla parte della conscientia, che interviene
per prima e con efficacia, Agostino, nel caso dello stupro,
avrà la forza di riconoscere la contingenza dell’avvenimen-
to nella sua indipendenza dalla volontà e dal desiderio? In
breve, la vergine stuprata è colpevole o innocente, intatta o
insozzata? Agostino esita, e si perde in un’elaborata argo-
mentazione, senza sottrarsi al sospetto che, anche nel caso
dello stupro, l’essenziale è sapere se c’è o no desiderio.
Forse non come causa, ma eventualmente come effetto. Lo
stupro è pericoloso perché rischia di eccitare. Forse suscita
inevitabilmente un consenso da parte della vittima, una vo-
luntas. Una voluntas complice che sarà vissuta, senza tran-
sizione, come voluptas, come godimento. Come errore. Il
trauma, l’oltraggio alla persona, non conta nulla. L’atten-
zione cristiana alla soggettività si attua, per Agostino, nello
spiare la nascita delle passioni per sorprenderle nella loro
apparizione immediatamente voluttuosa.
Così, due situazioni opposte, la semplice tentazione per
Tertulliano e lo stupro effettivamente subito per Agostino,
vengono trattate con la stessa preoccupazione, quella di
collocare l’avvenimento sessuale al suo vero posto: il cuore,
la volontà, là dove il desiderio verrebbe soddisfatto nel pre-
ciso istante in cui appare. Questo spostamento implica una
concezione estremamente realista della fantasia. Situare
l’atto nell’interiorità, là dove l’intenzione si manifesta, si-
L’ATTO NEL DESIDERIO 105

gnifica riconoscere, al tempo stesso, una presenza concreta


ed efficace alla rappresentazione psichica dell’oggetto desi-
derato. Con i cristiani la fantasia sessuale acquisisce una
nuova importanza. I sogni e le fantasie divengono vere rea-
lizzazioni dei desideri7.
Se si ripensa alla chiarezza con la quale Platone8 distin-
gue i desideri fantasticati dai desideri realizzati - solo il ti-
ranno, che è personaggio unico e asociale per eccellenza,
può passare all’atto e mettere in opera ciò che tutti gli altri
immaginano solo nell’irrealtà del sogno - si misura la di-
stanza che separa Platone dai cristiani. Per Agostino la vita
è una tentazione permanente, tota temptatio, e la fantasia
erotica fornisce al soggetto l’occasione di provare la pro-
pria impotenza di fronte al potere performativo del desi-
derio che si manifesta in lui9. Nel sonno, il desiderio ses-
suale guadagna in efficacia: sognati, i desideri, trovano una
rapida soddisfazione, una emissione di sperma in risposta
alla simulazione visiva. Ma non è solo il corpo, purtroppo,
ad essere chiamato in causa. L’esperienza onirica mostra lo
scacco della buona volontà nel controllo della rappresen-
tazione. Le visioni si presentano alla nostra anima, infatti,
perché gliene diamo il permesso. Fantasticare significa ac-
consentire (consensio) alle immagini che dimorano vive
nella memoria affinché si compia un piacere (delectatio) e
quasi un fatto (factum simillimum). L’anima rifinisce (per-
petrat) le turpitudini che le immagini le suggeriscono fino
al fluire della carne (usque ad carnis fluxum), ma, soprat-
tutto, dà loro il consenso (consentit). Simultaneità di una
intenzione incosciente, ma complice del fatto compiuto.
Simultaneità tanto più perfetta perché la volontà non
può costituire un ostacolo alla temibile efficacia fisica del
desiderio10.

Fantasia
Quali sono dunque i presupposti filosofici di questa co-
sì nuova valorizzazione dell’oggetto, sia che appaia nel so-
gno o nella percezione visiva? Per quali ragioni la sua im-
magine si impone con una presenza talmente forte, talmen-
106 GIULIA SISSA

te intensa da far godere?


Tra Platone e i Padri della Chiesa sono passati gli Stoici.
E grazie a loro è stata elaborata una teoria della conoscenza
i cui principi permettono ai cristiani di codificare la loro
etica e la loro concezione della sessualità11.
... riguardo ai sensi (Zenone), ha espresso alcune opinioni
nuove, ravvisando che essi siano collegati ad un impulso che
arriva dall’esterno, e che lui chiama phantasia12.
A queste apparizioni, che i sensi recepiscono e non
possono che accettare passivamente, Zenone aggiunge il
consenso dell’anima che, invece, dipende da noi. Lo dia-
mo volontariamente13, possiamo infatti rifiutarlo, conce-
derlo, sospenderlo. La conoscenza è un processo di ade-
sione, di consenso a un’immagine, a un’impressione senso-
ria ricevuta.
Una volta ricevuta l’apparenza e dato il consenso (...) si
avrebbe una comprensione, così chiamata in analogia con gli
oggetti che si prendono in mano14.
Comprendere è cogliere, afferrare. Ma già percepire
non è possibile che con il consenso dato dall’anima alle ap-
parenze, alle phantasiai15.
In questo incatenamento - ricevere, acconsentire, pren-
dere in mano - il momento critico è naturalmente quello
del consenso. E’ dicendo sì o no all’immagine accolta dai
sensi che il soggetto agisce come tale, e manifesta il potere
attivo della sua anima16. Il consenso è deliberato, discende
da un giudizio. Ma la decisione non va presa lentamente,
perché le immagini, quando sono evidenti, suscitano una
adesione immediata.
Come difatti è necessario che un piatto della bilancia si inclini
sotto il peso di cui è carico, così è necessario che l’anima ceda
alle cose evidenti17.
Grazie a questa armonia quasi fisica tra le phantasiai -
quando sono chiare e distinte - e l’anima di cui l’animale
umano è dotato, i processi percettivi e cognitivi si sviluppa-
no senza arresto e alimentano l’attività simbolica: la memo-
L’ATTO NEL DESIDERIO 107

ria, la nozione delle cose, i saperi e le scienze si formano e


si arricchiscono grazie al lavoro di consenso che filtra le ap-
parenze e ordina la comprensione18.
Così, per gli Stoici, le immagini si impongono e l’anima
è libera di accettarle o respingerle19. Due poteri si incontra-
no: quello dell’evidenza inerente all’oggetto (perspicuitas) e
la forza (vis) dell’anima che esercita il suo ruolo di giudice.
Ora, è qui che ritroviamo il desiderio, poiché i consensi al-
tro non sono che impulsi di desiderio (di comprensione)
mentre, reciprocamente, i desideri (amorosi e altri) sono
dei consensi.
Le cose, apparendo, ci colpiscono. Questo choc suscita
un “appetito”. La pulsione a prendere, afferrare, cogliere,
ci arriva direttamente dall’impulso delle cose percepite (ap-
petitio ab his pulsa sequeretur), dall’impatto della loro im-
magine sull’anima. È fisiologico: siamo fatti per essere
aperti ai mondi e per legarci alla conoscenza, per abbrac-
ciarla (amplecti)20. Il sapere, così, è il risultato di un movi-
mento, di uno slancio affettivo. Lo sappiamo a partire da
Platone, ma, a differenza di Platone, gli Stoici sono, come
si dice, sensualisti.
Mentre Platone distingue e oppone le parti dell’anima
che sovrintendono, rispettivamente, ai desideri e alla cono-
scenza, loro rifiutano di separarle. Lo spirito (mens) e i sen-
si sono la stessa cosa21.
Questa indistinzione è evidentemente capitale per l’eti-
ca e per il problema della sessualità. È a causa di essa che
ogni slancio, ogni intenzione, ogni azione comporta un
uso, buono o cattivo, della ragione consenziente22. È grazie
ad essa che i desideri sessuali, in luogo di manifestare incli-
nazioni bestiali e impensate, provenienti da una certa re-
gione dell’anima indipendente dall’intelligenza, costituisco-
no atti di ordine intellettuale e cognitivo, cioè consensi.
Noi pensiamo e desideriamo con lo stesso organo, un’ani-
ma indifferenziata che prima giudica e quindi si slancia ver-
so le phantasiai che ha scelto. Dunque desideriamo delibe-
ratamente, e liberamente. Desiderare è acconsentire. Gli
antichi filosofi consideravano le emozioni come un feno-
meno naturale ed estraneo alla ragione. Le situavano d’al-
108 GIULIA SISSA

tronde in una certa parte dell’anima, e ponevano la ragione


da un’altra, scrive Cicerone. Zenone, al contrario, pensava
che tutti i turbamenti dell’anima fossero volontari. Nasco-
no da un giudizio mal fondato e, più precisamente, da una
eccessiva precipitazione23.
Fermiamoci su queste due idee: la natura intellettuale
dei sentimenti e l’importanza del tempo. Tutti i turbamenti
dell’anima discendono da errori di valutazione. Sovrasti-
miamo un pericolo, e ne abbiamo paura; esageriamo un
male, e a causa di questa esagerazione soffriamo; facciamo
grande attenzione ad un bene, e siamo affascinati dal go-
derne; idealizziamo un bene a venire, e diveniamo impa-
zienti di possederlo. Tutti i turbamenti dell’anima si posso-
no quindi interpretare come effetti di opinioni alle quali si
acconsente, acconsentendo così a ciò che appare. Il deside-
rio, in particolare, non è che un consenso che si appoggia
sul godimento virtuale di un oggetto che ci sembra eccessi-
vamente bello, prezioso, pregevole. È una febbre, un appe-
tito smisurato, senza proporzioni con il valore “oggettivo”
del suo scopo. Così come le altre passioni, non è in re, nella
cosa, ma nell’anima di colui che esagera.
Come Platone, gli Stoici collegano desiderio e piacere a
un errore di giudizio. Ma, mentre per Platone si tratta di
un giudizio di fatto - tu credi di gioire, quando desideri,
dunque soffri -, per gli Stoici si tratta di un giudizio di valo-
re - tu credi che possedere una certa cosa sia meraviglioso,
e invece non ne vale la pena, né adesso, né domani. La dif-
ferenza è dirimente, perché per Platone il piacere è reso
impossibile dalla mancanza delle cose concrete e dal movi-
mento infinito che le sottrae alla presenza, mentre per gli
Stoici, il piacere è eccessivo, ma reale; il desiderio è ingiu-
stificato, ma capace di anticipare il godimento. Il piacere è
godimento delle cose presenti, il desiderio è impazienza di
godere di queste cose.
Per gli Stoici, quindi, il desiderio non è il volto nascosto
di un piacere ridotto a un’illusione. È speranza di godi-
mento, è godimento atteso e anticipato, poiché la sensazio-
ne attuale - ciò che l’oggetto provocherà quando ci sarà - si
trova progettata nel desiderio. Ci si rappresenta il fine.
L’ATTO NEL DESIDERIO 109

Ora, la rappresentazione non è presenza, certo, ma nella


phantasia si immagina già ciò di cui si godrà e come se ne
godrà. Il presentimento non è senza conseguenze, perché
il corpo si prepara a godere: fa come se l’oggetto fosse
veramente lì.
Avviene così che alcuni si lasciano prendere dal desiderio a
seguito di un racconto24.
Non si può dire che desiderare sia godere. Desiderare è
acconsentire da subito a un godimento futuro o virtuale
che ci si prefigura molto, troppo bello. Godere sarà accon-
sentire, con entusiasmo eccessivo, all’oggetto sovrastimato
quando sarà presente e posseduto. Ma, in una definizione
che crea una sorta di ricombinazione tra desiderio e piace-
re, il desiderio è “l’opinione di un bene futuro di cui si sa-
rebbe molto contenti che fosse già presente e alla nostra
portata”25.
Un desiderio è dunque un “sì” pronunciato troppo ve-
locemente, l’approvazione riflessa, ma mal riflessa, di una
phantasia che gli occhi hanno lasciato presentarsi allo spiri-
to. Attraverso l’idea del consenso, l’etica Stoica apre la stra-
da alla concezione cristiana della responsabilità morale - si
scelgono sempre non soltanto i propri atti esteriori, ma an-
che gli atti interiori, le intenzioni. Ripetiamolo, desiderare è
acconsentire. Attraverso la nozione temporale di precipita-
zione, l’etica stoica stabilisce la sorgente dell’errore morale
in un eccesso di velocità. Desiderare, in effetti, è acconsen-
tire subito. Già, come dirà Tertulliano. E, dato che la con-
seguenza immediata del consenso è afferrare la phantasia,
desiderare è possedere. Dunque godere fantasmaticamen-
te, certo, ma attualmente e fisicamente, poiché il consenso
suscita nel corpo una risonanza istantanea26. Fino al fluire,
come dice Agostino nelle Confessioni.
La teoria stoica della conoscenza ci conduce dunque al
cuore dell’etica cristiana e ce ne dà la chiave. Agostino par-
la letteralmente la lingua degli stoici quando analizza il fe-
nomeno delle fantasie erotiche - questi consensi dati furti-
vamente dall’anima e che provocano il godimento del cor-
po. Ancora una volta si tratta di un caso particolare, ma
110 GIULIA SISSA

con esso viene illustrata una teoria generale del desiderio e


del suo controllo. Le immagini (imagines, visa), attraverso i
sensi, si presentano al soggetto sveglio e vigile, che le giudi-
ca e, se vuole, le respinge. Questo atto cosciente e volonta-
rio di rimozione sbarazza la coscienza di alcune rappresen-
tazioni, ma non le distrugge: le rinvia nella memoria. In
questo spazio immenso, strutturato come un palazzo, pie-
no di corridoi e camere oscure, si dispongono le immagini
censurate e vi dimorano vive, anche se inosservate. Sono lì,
presenti in noi senza essere presenti allo spirito: nascoste,
dimenticate nella memoria. La notte, quando dormiamo,
questi ricordi si liberano, si manifestano alla nostra anima,
forzano il nostro accordo e scatenano una simulazione
dell’atto sessuale al quale il corpo partecipa realmente27.
Siccome il desiderio è approvazione di un’immagine, e dal
momento che l’approvazione provoca immediatamente
un’appropriazione, il desiderio-consenso sfocia in un pia-
cere tanto realistico quanto rapido. Per Agostino la memo-
ria alimenta una pornografia interiore, a circuito chiuso, di
cui la coscienza può governare la riproduzione, ma che il
sonno, fatalmente, favorisce. Addormentati, proviamo un
giudizio non soltanto falso sulla consistenza della phantasia
- crediamo di vedere un vero corpo desiderabile -, ma catti-
vo, poiché non decidiamo di rifiutare il nostro consenso.
Libera da se stessa, l’anima dice “sì”, dà la sua assensio, e il
corpo la segue.
Tertulliano, sul quale l’influenza stoica è stata determi-
nante28, fa interamente sua la concezione antiplatonica di
un’anima non differenziata ed omogenea, capace di ragio-
nare come di sentire.
L’anima è a volte totalmente razionale e totalmente
“sensuale”29.
Comprendere è sentire e sentire è comprendere.
Negli esseri corporei cosa è che sente? Se è lo spirito, allora
lo spirito è dotato anche di sensus, e non soltanto intellettua-
le, poiché comprendendo esso sente, visto che, se non sente,
neppure comprende. Se è l’anima che sente, negli esseri cor-
porei, allora la proprietà dell’anima è anche intellettuale, e
L’ATTO NEL DESIDERIO 111

non soltanto dotata di sensus, poiché sentendo essa com-


prende, visto che, se non comprende, neppure sente30.
La simultaneità di una percezione e della sua compren-
sione spiega il corto circuito tra visione, concupiscenza e
possesso sessuale. Poiché Tertulliano, più sensualista degli
stoici, ritiene che la comprensione degli esseri corporei sia
“esercitata dalla carne e attraverso la carne”31.
Ora, si vede bene perché la teoria stoica dell’anima e
della conoscenza si adatta come un guanto ai valori cri-
stiani e aiuta a formularli: se non siamo divisi, possiamo e
dobbiamo rendere conto di tutti i nostri atti psichici. Li
abbiamo scelti ed essi sono già atti. Ma ci si accorge an-
che di quanto sia pericolosa una tale teoria per l’idea stes-
sa di responsabilità. A causa del ritmo richiesto per impe-
dire il consenso precipitoso. Qui è tutto velocissimo. Una
fantasia mi sorprende. La sua evidenza mi invita ad ac-
consentire. Dico sì e desidero. La scelgo, la faccio mia. Ed
ecco che ne godo. Colui che ha desiderato con gli occhi,
ha già fornicato nel suo cuore. Perfetto per smascherare il
peccato, già nell’interiorità. Ma questo rende molto diffi-
cile resistere alle tentazioni. Perché si tratta di non cede-
re... all’evidenza, a questa chiarezza sfolgorante della bel-
lezza o della prospettiva del piacere che mi appare così
persuasiva. Devo trattenere il mio consenso, non pronun-
ciare un giudizio mal fondato e frenare il processo di ap-
provazione ed appropriazione. In una vera e propria gara
di velocità, devo anticipare il consenso che tanto facil-
mente si incatena alla percezione. Attraverso l’accento
posto sul potere dell’evidenza, in effetti, la teoria stoica
della conoscenza rischia di comportare, anche suo mal-
grado, un certo determinismo, di cui il paragone con la
bilancia che si inclina necessariamente da una parte, ren-
de chiaro l’aspetto meccanico. Non posso non arrender-
mi all’evidenza. E sono molto esposta ai consensi precipi-
tosi. Ecco perché, mentre si mostra tanto esigente nella
individuazione del peccato, il cristianesimo non cessa mai
di deplorare la debolezza della carne e l’assillo tentatore
al quale il cristiano è sottomesso. Ci sono talmente tante
evidenze convincenti alle quali non si deve cedere! Uno
112 GIULIA SISSA

stoico virtuoso agisce allo stesso modo di uno scettico.


Guadagna tempo.
Complicità
Con gli stoici e i cristiani, eccoci dunque lontani dall’an-
goscia del vuoto e della mancanza. Al contrario, è la pre-
senza che disturba, per la sua intensità o per la sua durata.
Per misurare ancora meglio lo scarto con la teoria platoni-
ca, un trattato di Plutarco, Sulla virtù morale, ci offrirà un
chiarimento estremamente preciso.
Plutarco critica la teoria stoica delle passioni, proprio
perché non è platonica. Gli stoici, si duole, affermano che
l’anima non è né complessa, né differenziata, che non ci so-
no conflitti tra ragione e passioni, tra pensiero e desideri.
Per loro, il logos è un’entità unica che si converte, a volte,
in epithumiai. Questo cambiamento di regime, tra argo-
mentazioni e desideri, si produce con tale immediatezza e
rapidità da passare inosservato e restare incosciente.
Non vediamo che è con la stessa parte dell’anima che noi de-
sideriamo e rimpiangiamo, che ci arrabbiamo e temiamo, che
siamo trascinati verso il brutto dal fascino dei piaceri e che re-
sistiamo a questo trascinamento32.
La velocità, nella lettura che Plutarco fa degli stoici, è
dunque all’origine di una certa difficoltà a governare le
scelte tra lasciarsi trascinare e resistere al trascinamento.
Poiché, a causa della rapidità, quasi non si percepisce la
conversione da un registro all’altro. Non comporta alcuno
strappo, alcuna impressione di dissonanza interiore, perché
è la stessa facoltà di scelta propria dell’anima che acconsen-
te e dunque desidera o si arrabbia o si affligge. E si trasfor-
ma, senza rendersene conto. Come gli atti, che si sviluppa-
no in noi senza che niente gli si opponga, perché non c’è
niente, nell’anima, che funziona come un’istanza separata e
sempre allerta33.
Ora, obietta Plutarco, ciò è smentito dall’esperienza:
certo che ci troviamo divisi tra sensibilità ed intelligenza, lo
avvertiamo continuamente. Non desideriamo argomentan-
do, dando consensi, formulando giudizi, attraverso atti di
ordine intellettuale. C’è una differenza sostanziale tra senti-
L’ATTO NEL DESIDERIO 113

menti e ragionamenti. E c’è un conflitto psichico, ne siamo


coscienti. Ma, soprattutto, quale etica si può costruire se
non si ammette l’esistenza, di fronte ai desideri, di un’altra
forma di potenza eterogenea, distinta e capace di tenerli a
bada? Il disaccordo cosciente tra sé e sé fonda la morale.
L’opposizione tra giudizi e affetti appare indispensabile per
lasciare alla ragione, che va considerata come parte dell’ani-
ma, il suo potere di controllo permanente sulle manifesta-
zioni irrazionali della soggettività.
Bisogna conservare al logos il posto e la forza suoi pro-
pri che prima degli stoici la filosofia gli ha sempre ricono-
sciuto. E, per sostenere la sua perorazione, Plutarco invoca
un’ipotesi che mostra qual’è il risultato, per il desiderio ses-
suale, di una teoria tanto dualista dell’anima. La prova che
la ragione mantiene sempre la sua identità, resta sempre in
allerta e può dunque lottare contro il desiderio è che “ac-
canto a belle ragazze e bei ragazzi che la ragione o la legge
ci vietano di toccare, il sesso si contrae e si ripiega conser-
vando la calma e la tranquillità”34. Questo sesso intimidito,
impaurito, ripiegato su se stesso, malgrado la percezione di
un oggetto bello e desiderabile, mostra l’esistenza di un po-
tere in presa diretta sul corpo: il potere della ragione e del-
la legge.
Se si separa l’intelligenza dalle inclinazioni, afferma Plu-
tarco, se ci si sbarazza della teoria del desiderio-assenso, si
scopre che, in realtà, il corpo non esegue. La phantasia non
può nulla sull’anima, perché la ragione si erge contro il de-
siderio che se ne lascerebbe prendere. Il sesso resta fermo,
si fa piccolo piccolo e si tiene docilmente in disparte.
Questa allusione esplicita all’erezione, movimento per il
quale il desiderio si manifesta e si incarna nel corpo ma-
schile, ci è particolarmente prezioso. Perché l’erezione è in-
terpretata da Agostino come il sintomo del peccato origi-
nale, la traccia del primo peccato iscritta nel corpo. L’auto-
nomia del pene definisce la stessa condizione dell’uomo
cacciato dal paradiso, la sua decadenza, la sua finitezza35. E
questo in esplicito accordo con la teoria stoica del deside-
rio-assenso.
Dopo il peccato originale, l’uomo è divenuto un anima-
114 GIULIA SISSA

le al quale il proprio corpo non obbedisce più. Prima del


peccato il pene funzionava come un dito, agli ordini della
volontà. L’atto generatore non si accompagnava ad alcun
piacere, dunque non suscitava attrattiva, propensione, in-
clinazione. Il desiderio sessuale coincideva con la buona
volontà, una volontà che andava dritta allo scopo deciso da
Adamo: procreare in amicizia. Dopo il peccato, e a causa
della sua natura, il sesso si è trasformato in questo organo
non sottomesso, sul quale l’uomo decaduto non esercita
più alcuna autorità. Per aver disobbedito a Dio, eccolo af-
flitto da un membro che non rispetta più la sua volontà.
Per aver oltrepassato gli ordini divini, eccolo schernito, co-
stretto ad inseguire un’anima volubile che acconsente trop-
po velocemente al piacere, mentre, non meno velocemente,
il pene si dilata, si tende, si slancia verso l’immagine di ogni
oggetto desiderabile, sperando di possederlo. E la gioia di
goderne sarà il suo castigo.
Alle prese con il sesso, “lo spirito non sa comandare a
se stesso con sufficiente efficacia”36 e perde ogni controllo
sul corpo. È la libido che fa muovere l’organo sessuale. Ma
questo potere che prevale su tutte le altre forme di volontà,
non è niente altro che volontà, volontà consenziente con
un oggetto particolare.
Cos’è il desiderio o il godimento, se non la volontà che ac-
consente a ciò che vogliamo? (...) Quando questo consenso
ci conduce verso ciò che ci piace, lo chiamiamo desiderio;
quando ci fa godere è la gioia37.
Desiderare è volere, volere intensamente38. E siccome
volere è acconsentire, desiderare è slanciarsi in un con-
senso pieno di forza. È nel quadro di una definizione del
desiderio come assensio, definizione interamente stoica,
che Agostino sviluppa l’idea che la conseguenza del pec-
cato originale - un errore di giudizio e l’accettazione di
un oggetto che si sarebbe dovuto rifiutare - si traduce
nella tragica fatalità dell’erezione.
I corollari della teoria stoica, così disprezzata da Plu-
tarco, si ritrovano così nel filosofo cristiano. Dato che il
desiderio erotico è una modificazione della volontà39, e
dato che la volontà non è una parte dell’anima ma “una
L’ATTO NEL DESIDERIO 115

relazione con un oggetto qualsiasi, che impegna l’anima


tutta intera”40, non c’è conflitto con un’altra istanza, come
nel caso di Platone, dove l’epithumia recalcitrava sotto l’im-
perio della ragione. Come già Zenone41, Agostino ricusa la
psicologia platonica nel suo far nascere le passioni nel cor-
po, come degli istinti indipendenti spontanei e non voluti e
nella sua indifferenza alle metamorfosi, gli smarrimenti del-
la volontà42. Seguendo in questo punto essenziale l’etica
stoica, Agostino afferma che l’anima prova le sue perturba-
zioni per se stessa, come inclinazioni mal orientate, diver-
genti, perversae, della volontà consenziente43. È l’assenso a
ciò che piace che stimola l’impulso dell’erezione, impulso
con il quale la volontà sbaglia strada, si devia e si manifesta
sotto forma di quello che noi chiamiamo desiderio. E se
questo è vero, se desiderare è volere, la volontà si trova
completamente compromessa nel movimento della concu-
piscenza e niente rimane per opporglisi.
Quando un uomo si eccita, non c’è più buona volontà,
poiché essa si è trasformata nel desiderio che, precisamen-
te, si incarna nell’alterazione dell’organo. E non c’è nean-
che la ragione, perché anche la ragione si è smarrita. Volere
è acconsentire, acconsentire è dire sì a ciò che si ritiene de-
gno di essere desiderato e posseduto. In un consenso c’è
un’opinione. Dunque, se desiderare è volere e volere è ac-
consentire giudicando, desiderare è giudicare. Ogni appeti-
to implica una valutazione del valore dell’oggetto44. Il desi-
derio è un atto intellettuale. Eccitarsi è scegliere male.
Per Platone i desideri sono irrazionali e selvaggi, ma
l’intelletto li frena. Di fronte ad un corpo desiderabile si
può non desiderare, poiché, come vuole Plutarco, sono la
ragione e la legge che intimidiscono le pulsioni. Per gli
stoici, i desideri sono razionali e volontari, in quanto con-
sentiti dall’anima, ma irrefrenabili. Una volta dato il con-
senso, per disprezzo o debolezza, niente più li ostacola. È
troppo tardi. Il male è fatto. È già intercorso qualcosa.
L’automatismo di un sesso che si drizza materializza il
“sì” che l’anima tutta intera dice ad una phantasia. Que-
sto è vero anche per Agostino, e rende pienamente il
dramma delle confessioni sulla lotta mai vinta contro la
116 GIULIA SISSA

sensualità e della visione dell’uomo messo in scacco dai


capricci della virilità.
Agostino fa di ciò che noi chiamiamo “potenza sessua-
le” la stigmate del potere che l’uomo ha perduto ergendosi
contro Dio. A questa nuova antropologia gli stoici hanno
apportato un concetto chiave, quello della volontà consen-
ziente, del desiderio come modificazione del volere, che
implica un giudizio. È soltanto per aver fatto del desiderio
un atto poco ragionevole ma razionale, involontario ma
dell’ordine di una cattiva volontà, che l’etica agostiniana è
tragica. Da una parte, ci rende responsabili dei nostri desi-
deri, per il loro essere perversioni nelle quali la volontà
stessa si sfigura. Dall’altra parte, questa etica del peccato
originale sanziona la fatalità della nostra disposizione a
malvolere e il carattere irrefrenabile, incoercibile e irrever-
sibile del desiderio-assenso che si manifesta nell’erezione.
Se Plutarco avesse letto Agostino avrebbe certamente
protestato. Contro gli effetti paradossali dell’intellettualiz-
zazione stoica della passione, che lascia l’uomo disarmato
di fronte al sopraggiungere del suo desiderio. Contro l’idea
di un desiderio-assenso che, domandando unicamente al
soggetto di rispondere dei suoi appetiti, lo condanna
all’umiliazione di obbedire al suo sesso.

Una versione in francese di questo saggio è apparsa su Revue


Internationale de Psychopathologie, n. 19/1995, pp. 417-436.

1 Lacan, J., Le Séminaire, livre 8, Le transfert, Paris, Édition du Seuil, 1991,


p. 14.
2 Le riflessioni contenute in questo saggio fanno parte di una lunga ricerca
sulla storia della sessualità occidentale, in particolare sul versante cristiano. L’im-
presa si impone per tornare sui testi filosofici che Foucault utilizza e “medicaliz-
za” e per ritrovarvi la dimensione ontologica loro essenziale e che Foucault, pur-
troppo, aveva deciso di abolire. Due parti sono state pubblicate (Sissa, 1992; Sis-
sa, 1993). Due saggi, Le plaisir négatif. Penser l’assuétude e Histoire de la sexua-
lité dans l’Antiquité et le premier christianisme stanno per essere pubblicati (que-
st’ultimo da Laterza, Plon e Yale University Press).
3 Tertulliano, Esortazione alla castità, IX, 2.
4 Ibid., IX, 3.
5 Ibid., IX, 3.
6 Agostino, La città di Dio, I, 16, 18, 22.
7 Esiste, naturalmente, una documentazione molto interessante sulle fantasie
L’ATTO NEL DESIDERIO 117

erotiche nell’Antichità pre-cristiana, in particolare tra i medici (Pigeaud, 1981, p.


10-23). Ciò che sembra costituire il motivo principale nella trattazione è qui la
questione della vanità, pure in questo terribile testo di Lucrezio nel quale l’eia-
culazione provocata da un’immagine è offerta come la verità dell’amore, que-
sta eccitazione retorica suscitata da “impalpabili simulacri”. Sull’influsso dei
Greci a vedere nei ritratti delle sostituzioni defaillants - per la loro evanescenza
- oggetti in carne ed ossa, si segnala Bettini, 1992.
8 Platone, La Repubblica, IX, 1.
9 Peter Brown sottolinea giustamente che la fantasia erotica prova la potenza
della sessualità e l’impotenza del cristiano più devoto a eliminare il desiderio una
volta per tutte. Questa indisciplina della carne separa l’uomo e gli dà l’impressio-
ne di non poter mai fare interamente corpo con sé stesso (1992, pp. 380-81).
10 Agostino, Le Confessioni, X, 30, 41-42.
11 L’influenza degli stoici sul pensiero cristiano è stata largamente ricono-
sciuta. Ci si riferisce specificamente a Rohmer, 1954, pp. 490-498; Spanneut,
1957; Verbeke, 1958, pp. 67-89; Testard, 1958; Voelke, 1973; Colish, 1985;
Kahn, 1988. Comunque, l’argomento specifico che sviluppo, per le mie cono-
scenze, non viene trattato nei lavori sulla storia dello stoicismo. A proposito di
passioni, al contrario, si può osservare una tendenza a sottolineare la critica di
Agostino alla nozione stoica di impassibilità - e ciò è vero - senza riconoscere
d’altra parte che egli attribuisce agli stoici dei concetti essenziali, come si vedrà
più avanti (Bochet, 1982; Thonnard, 1959, pp. 531-539).
Tengo anche a sottolineare che frapponendo gli stoici tra Platone e i cri-
stiani, non cerco di eliminare lo scarto tra antichità e critianesimo, ma di far
apparire la disgiunzione prodotta da questo pensiero molto particolare che è
la filosofia stoica.
12 Cicerone, Nuovi Libri Accademici, I, 11. Watson, 1988; Long, 1991.
13 Ibid., “Sed ad haec quae visa sunt, et quasi accepta sensibus, assensio-
nem adiungit animorum, quam esse vult in nobis et voluntariam.”
14 Ibid.
15 R. Sorabji ha insistito sul fatto che, per gli stoici, anche le percezioni di-
pendono dal consenso e che le phantasiai non sono ancora delle percezioni:
Appearences are received by the senses, but distincts from these is the assent of
the soul (anima), mind (animus) or (in humans) reason (logos, logike dunamis).
And something more important to the Stoics than belief depends on this assent,
namely perception (aisthesis, sensus). Perception is not the same as appearence
(cf. SVF, II, 71-74) (1993, pp. 40-41).
16 Cicerone, Lucullo, 12.
17 Ibid.
18 Ibid., 10; 12.
19 Ciò a cui diamo o rifiutiamo il nostro consenso sono in effetti “le tradu-
zioni discorsive delle rappresentazioni” e non le immagini visive. Ma i contenuti
propositivi ai quali prestiamo fede non sono che la trasposizione verbale e silen-
ziosa delle immagini. Approvando le parole, volendo, l’opinione che esprime lin-
guisticamente la phantasia, è alla phantasia - essendo stata traslitterata - che dico
sì. Mentre P. Hadot (1992) sottolinea la priorità della parola sulla rappresenta-
zione, C. Imbert insiste giustamente sull’“assoggettamento delle forme discorsi-
ve ai segni rappresentativi”, sulla “subordinazione del campo discorsivo alla sin-
tesi enigmatica di un’immagine” sulla “subordinazione del discorso (in quanto
descrizione e analisi) a uno stato rappresentativo o costruito” (1992, pp. 93-94).
Non tutte le stesse sorgenti doxografiche, d’altra parte, precisano che il consenso
poggia sull’opinione, deriva linguistica dell’immagine. Alcune lasciano intendere
che questa costituisce l’oggetto del consenso tale e quale, cf. infra, n.20.
20 Cicerone, Lucullo, 10.
21 Ibid.
118 GIULIA SISSA

22 Seneca, Lettere a Lucilio, 113, 18 (SVF, III, 169): “Omne rationale ani-
mal nihil agit, nisi primum specie alicuius rei inritatum est, deinde impetum
cepit, deinde adsensio confirmavit hunc impetum. Quid sit adsensio dicam.
Oportet me ambulare; tunc demum ambulo, cum hoc mihi et adprobavi hand
opinionem meam.” Plutarco, Moralia, 1057a (SVF, III,177): “Non esiste azio-
ne, né intenzione sensa consenso, ma esiste una finzione e una vana ipotesi di
credere che, una volta sopraggiunta la rappresentazione conveniente, l’intenzio-
ne prende avvio senza che si abbia ceduto e dato il proprio assenso a questa
rappresentazione.” Stobee, II, 88, 1W (SVF, III,171): “Tutte le intenzioni sono
consensi”. (Voelke, 1973, pp. 50-55).
23 Nouveaux livres académiques, I, 10. Cf. Tusculanes, III, 11, 24-25: “Se ar-
riveremo a scoprire la causa del dispiacere, ne scopriremo il rimedio. La causa è
interamente nell’opinione, e non soltanto quella del dispiacere, ma anche quella
di tutte le altre passioni delle quali ci sono quattro tipi e una varietà di specie.”
Tusculanes, IV, 7, 14-15: “Omnes perturbationes iudicio censent fieri et opinio-
ne. Itaque eas definiunt pressius, ut intellegatur, non modo quam vitiosae, sed
etiam quam in nostra sint potestate. (...) Opinationem autem, quam in omnis
definitiones superiores inclusimus, volunt esse imbecillam adsensionem.” È so-
prattutto Plutarco che, nel suo trattato Sulla virtù morale, approfondisce e criti-
ca l’idea della natura intellettuale, consenziente e volontaria delle passioni se-
condo gli Stoici. Sulla passione come “ragione interiormente modificata”, come
“alterazione della ragione”, che non sarebbe “possibile se non attraverso la stes-
sa ragione”, cfr. Voelke, 1973, pp. 81-91.
24 Voelke, 1973, p. 122. Posidonio, ap; Galieno, De H ac P, V, 6; 473-474
Kuhn. Questo passaggio è problematico perché Posidonio contesta, dall’inter-
no, la teoria stoica delle passioni come effetti di giudizi espressi sulle apparenze.
Per lui, il desiderio è provocato dalla phantasia stessa, per questa “sorta di pit-
tura rassomigliante alla realtà percepita” che è una rappresentazione. C’è dun-
que un impatto diretto della prefigurazione sull’anima, indipendentemente da
tutte le trasposizioni del visivo in un contenuto propositivo. Allo stesso tempo
l’assenza di una mediazione razionale e discorsiva non implica l’assenza di con-
senso. Qui la parte irrazionale dell’anima dice sì, senza che la ragione se ne im-
mischi, all’immagine tale e quale.
25 Cicerone, Tusculanes, IV, 7, 14.
26 Gli effetti della phantasia consentita sul sesso si devono comprendere nel
contesto della “connaturalità” dell’anima e del corpo. Su questa teoria fonda-
mentale, il libro di Verbeke, L’évolution de la doctrine du pneuma du stoïcisme à
saint Augustin, resta un riferimento estremamente prezioso. Vi si misura, in
particolare, la persistenza del materialismo stoico nel pensiero cristiano di Ter-
tulliano. J. Pigeaud (1981, pp. 10-23) scrive: “La passione, per gli stoici, fin dal-
la sua genesi, è giudizio e fisiologia resi in un tutto indiviso.” (pp. 17-18). Ne La
maladie de l’âme. Étude sur la relation de l’âme et du corps dans la tradition mé-
dico-philosophique antique (1981) lo stesso autore consacra un lungo ragiona-
mento al monismo di Crisippe e di Seneca e all’interpretazione ciceroniana del-
lo stoicismo (pp. 265-353). Insiste sul fatto che: “Le passioni non seguono i giu-
dizi, sono i giudizi stessi” (p. 265). “Intenderemo per monismo di Crisippe,
quale si manifesta al livello della teoria delle passioni, scrive J. Pigeaud, l’idea
che è impossibile dissociare il giudizio dalla manifestazione fisiologica che l’ac-
compagna. Si tratta di un solo ed unico atto: la passione è costituita da questo
recto verso indissociabile del giudizio e del movimento della contrazione o della
dilatazione” (pag; 267). Cita Galieno descrivendo le manifestazioni corporali
del desiderio che “cresce come un vapore (anathumiomenou), invade il viso e le
mani” (p. 266). Non allude al movimento dell’erezione, ma ci fornisce il conte-
sto etico-psicologico nel quale occorre pensarlo. Più recentemente, sul rappor-
to tra anima e corpo nel pensiero stoico si veda Long, 1982, pp. 34-57.
27 Agostino, Le Confessioni, X, 30, 41.
L’ATTO NEL DESIDERIO 119

28 Verbeke, 1945, pp. 440-451; Spanneut, 1957, pp. 210-222.


29 Ibid., p. 213.
30 Tertulliano, De Anima, XVIII, 8.
31 Tertulliano, De carnis resurrectione, XLVI.
32 Plutarco, Sulla virtù morale, 7.
33 La stessa insistenza su questo movimento dell’anima tutta intera, e dun-
que del suo carattere irrefrenabile, si trova in Cicerone, Tuscolane, IV, 9, 22:
“Omnium autem perturbationum fontem esse dicunt intemperatiam quae est to-
ta mente a recta ratione defectio sic aversa a praescriptione rationis, ut ullo mo-
do adpetitiones animi nec regi nec contineri queant”, da intendere: “Gli Stoici
affermano che la fonte di tutte le passioni sta nell’intemperanza, la quale è una
rinuncia di tutto lo spirito alla retta ragione, un rifiuto così decio alle norme della
ragione che in nessun modo si possono più regolare e contenere gli appetiti
dell’anima.”
34 Ibid., 442 E.
35 L’analisi più suggestiva della struttura simbolica, speculare, della poena
reciproca - questo castigo dove lo sbaglio si trova rappresentato al contrario, co-
me sintomo - si legge dalla penna di P. Brown, 1992, pp. 371-82.
36 Agostino, La città di Dio, XIV, 23.
37 Ibid., XIV, 6.
38 Poiché amore e volontà non differiscono per natura, ma soltanto per in-
tensità, l’amore è una volontà intensa, ardente. Questa definizione si applica tan-
to bene alla cupidigia che alla carità, come mostrano questi due testi del De Tri-
nitate: “Se il suo impeto (della volontà) è talmente forte da meritare di essere
chiamato amore, concupiscenza o passione...” (XI, 2, 5); “... la nostra volontà, o
l’amore o dilezione, non è altro che la volontà in tutta la sua forza” (XV, 21, 41)
(Bochet, 1982, p. 104).
39 Agostino, La città di Dio, XIV, 7.
40 Bochet, 1982, p. 102.
41 Cicerone, Nuovi libri accademici, I, 10,; Tuscolane, IV, 7.
42 Ibid., XIV, 5.
43 Ibid., 5-6.
44 Bochet, 1982, p. 330-331.

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La dissidenza del corpo oltre l’ortodossia del testo
Wladimir Krysinski

Se la letteratura riproduce la struttura politica e religiosa


del potere, essa la riproduce anche come pullulare dei reti-
coli di dissidenza rispetto al Logos che unifica e riassorbe
l’individuo nel gioco incessante della retorica prestabilita,
della narrazione accettabile, e dello slittamento nelle para-
frasi della schiavitù. La dissidenza svolge la sua parte di li-
bertà contro la deriva del soggetto robot nel verbo coman-
dato che ha luogo con la prostrazione del proprio corpo
gettato in pasto al Verbo del Padre.
Prima che la dissidenza si manifesti, il fatto letterario go-
de dell’autorità che gli deriva dalla manipolazione dei sim-
boli proliferante dal Verbo del Padre. Gli operatori della
dissidenza vengono offuscati dall’asservimento al Verbo, a
quella che S. Agostino chiama Potestas. La straordinaria po-
tenzialità della dissidenza e la sua attuazione forzatamente
mancata a causa dell’asservimento all’autorità del Padre si
riscontrano in maniera clamorosa in S. Agostino e in S. Gio-
vanni della Croce. La loro modernità può essere letta come
manifestazione di una dissidenza a ritroso, come progressi-
vo annullamento del corpo messo al servizio del Verbo.
Questi due scrittori del corpo sono scrittori della Chiesa.
Questi scrittori della Chiesa sono dissidenti potenziali am-
mansiti dallo Spirito dell’Ortodossia.
Il loro esempio si configura narrativamente, retorica-
mente, poeticamente e soggettivamente attraverso l’Azione
del Verbo sul corpo. Il corpo è l’oggetto di una simbologia
che lo porta a rifiutare se stesso. Questa simbologia presta-
bilita conferma l’ordine ricorrente e permanente, sanzio-
nando lo scivolare del corpo nelle forme restrittive che ne
fanno un oggetto posseduto, pre-posseduto dal Padre. Il
linguaggio dell’Es subisce la caduta verbale, colando pro-
122 WLADIMIR KRYSINSKI

gressivamente negli stampi dell’ortodossia. Il fatto letterario


conferma l’ordine costituito, rigetta sistematicamente i foco-
lai della dissidenza, i reticoli in cui il corpo dissidente fa do-
no della sua natura pulsionale.
Le Confessioni sono nello stesso tempo la disseminazio-
ne delle strutture della dissidenza potenziale e la loro eclis-
se, determinata dalla potenza invisibile del Verbo. Il pro-
gressivo passaggio del soggetto da una funzione volontaria-
mente squalificata di “mercante di parole” (venditor verbo-
rum), fino al ruolo di oggetto volontariamente sottomesso
alla Potestas, riflette la penetrazione dell’interiorità del sog-
getto da parte dell’ortodossia del Verbo. La retorica di S.
Agostino, analizzata come “azione verbale” (Verbal Action)
da Kenneth Burke, rivela una notevole frequenza di prefissi,
di verbi e di particelle che indicano l’azione del soggetto e
del Padre sull’interiorità. Questa azione è una scena verbale
dove si recita il teatro dell’amore simbolizzato dalla perma-
nenza della struttura apparentemente oppositiva: Tu - Ego.
Kenneth Burke stabilisce una frequenza discorsiva che chia-
ma “una imitazione impressionistica della fontana agostinia-
na dell’Io-Tu”. Questa sequenza ha la forma seguente:
In te, Signore, io sono me stesso. Una volta ero il mercante di
parole, flagellato dai miei vizi. Ora sono flagellato dai colpi
del tuo verbo. Tu sei nella mia memoria, ecco dunque me, e
la mia memoria, e la mia memoria di Te, Signore, eternamen-
te in Te.
Burke insiste sulla frequenza di strutture quali: in... in-
tus... inter... intra... intrare... internus... interior... intimus...
inde... unde... (Burke, 1970, p. 57). L’interiorizzazione del
soggetto si attua nelle Confessioni come tensione verbale a-
dialettica tra l’autorità del Padre e la sottomissione dell’io.
Il Tu del Padre è un polo che reprime il desiderio irrigidito
in una retorica che unifica e umilia il soggetto. Quest’ulti-
mo si sottrae alle pulsioni del corpo, ne fa dono all’Auto-
rità, e ricorda l’Eternità piuttosto che la memoria. Burke
osserva:
Il passaggio da una narrativa delle memorie ai principi della
Memoria è esso stesso un passaggio tecnico, equivalente a quel-
lo logico tra il “tempo” e “l’eternità”. (Burke, 1970, p. 124).
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 123

Burke mette così in evidenza un principio importante


per il testo che chiameremo ortodosso, cioè quello che
mette in scena l’autorità superiore, sia essa quella dell’istitu-
zione del Padre, del Verbo o dello Spirito. Un tale testo
gioca sulla continua ripetizione e sull’onnipresenza del ve-
nerato, del riconosciuto e del castratore. Cos’è l’ortodossia
se non questo rifiuto del soggetto di far parlare il suo cor-
po, di strappare il Logos dal regno dell’uniformità, questo
riconoscere il già noto dentro il flusso verbale che devia
dalla sincerità del pulsionale e del desiderio, a favore del
permanere della retorica ostracizzante? Questo rifiuto, infi-
ne, di una dialettica che metterebbe tra parentesi la Parola
del Padre e che farebbe sentire il canto del corpo lanciato
nella melodia soggettivante delle proprie intensità? In que-
sto modo il testo ortodosso pone il soggetto e lo colloca in
modo permanente nella dimensione di quello che definire-
mo con Burke, soggetto logologico. Si tratta di un soggetto
che ad-viene, si realizza nel discorso delle parole sulle paro-
le; la “logologia” definisce questo discorso delle parole sul-
le parole dell’autorità, come una conseguenza del fatto che
la teologia è costituita da parole su Dio (Burke, 1970, p. 1).
Il soggetto logologico reprime simbolicamente e retorica-
mente i focolai della dissidenza. Questa vi si profila come
presenza del corpo proprio e soggettivo, struttura libera e
idiosincratica che si rifiuta alla libertà, che non si dice attra-
verso il discorso del delirio o delle fantasie. Si tratta di un
soggetto a-libidinale per decisione dell’Autorità e per l’ob-
bedienza a questo verdetto. L’Es vi trova spazio come torto
fatto all’Autorità, torto punito in anticipo, come luogo del-
la perversione possibile e antidivina. Per cui il termine for-
nicatio designa per S. Agostino ogni interesse che non trovi
in Dio la sua esplicita motivazione. (Burke, 1970, p. 99).
Anche il procedere di S. Giovanni della Croce è misura-
bile in termini di ortodossia testuale, malgrado il fatto evi-
dente che la sua poesia si fonda sull’interrelazione costante
tra il corpo desiderante e il corpo desiderato. Infatti, il pro-
cedere del testo di S. Giovanni della Croce, dipende da quel-
la che potremmo definire meta-logologia. Questa procede da
una parola esplicativa che riprende dallo strato carnale e libi-
dinale della sua poesia il contenuto pulsionale e lo proietta
124 WLADIMIR KRYSINSKI

nella simbologia dell’ortodossia religiosa. In questo senso,


le strofe del Cantico Espiritual commentate nell’“Esposizio-
ne del cantico tra la sposa e lo sposo” devono confermare
l’annullamento di ciò che potremmo chiamare la matrice li-
bidinale del testo. Citiamo solo qualche esempio:
... e andiamocene a vedere la tua bellezza (S. Giovanni del-
la Croce, 1946, XXXVI, 2).
Commento:
Si tratta dell’adozione dei figli di Dio che potranno dire con ve-
rità quello che il Figlio stesso dice all’Eterno Padre, nel testo di
S. Giovanni: Omnia mea tua sunt et tua mea sunt, cioè: Tutto
ciò che è mio è tuo e tutto ciò che è tuo è mio, poiché lui è per
essenza il Figlio naturale e noi, per partecipazione, siamo figli
adottivi. E lo dice non solo per Lui che è il Capo ma anche per
tutto il suo corpo mistico che è la Chiesa. (S. Giovanni della
Croce, 1959, p. 891).
Quindi all’alte caverne
tosto il pié porterem dell’alma pietra
ben profonde ed interne.
Là entro ne andrem poi.
L’umor suggendo dé granati tuoi. (S. Giovanni della Croce,
1946, p. 309).
Commento:
La pietra qui menzionata è Cristo, giusta il detto di S. Paolo (I
Corinzi, X, 4). Le alte caverne di questa pietra sono i sublimi e
profondi misteri della sapienza di Dio nascosti in Cristo. (1946,
p. 310).
L’umor suggendo dé granati tuoi.
I granati o melograne significano i misteri di Cristo, e i giudizi
della divina sapienza, come pure le virtù e gli attributi di Dio,
che, dal conoscimento di tali misteri e giudizi si scoprono in lui,
e che sono innumerabili. (1946, p. 313).
Anche se il commento disgrega la poesia, ne chiarisce
però il discorso pre-orientato verso una finalità totalizzante
e prestabilita: quella di un testo ortodosso che pensa il sog-
getto come dipendenza, come anti-libertà. L’ortodossia po-
sta come sovrastruttura ideologica al testo rinvia così ad
una chiusura strutturale e all’attuazione di una unità retori-
ca e stilistica che nessuna deriva, nessuna soggettivizzazio-
ne pulsionale turba.
Pensare il testo in termini di ortodossia implica che que-
sto si realizzi in un contesto oppressivo non necessariamen-
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 125

te riconosciuto come tale. Esso lega il soggetto ad una ripe-


titività tematica e ad una ripetizione dei codici referenziali,
che fanno del testo una enclave dell’aura, dell’unità dove è
fissato in anticipo il movimento dialettico del soggetto alle
prese con il Logos che circoscrive il corpo all’interno di un
partito preso ideologico.
Il testo ortodosso intrattiene così una parentela evidente
con quella che Adorno definisce opera auratica o unita
(Adorno, 1959).. Esso non si fonda sulla negatività dialettica
che dà alla letteratura il marchio della conoscenza, che ne fa
un punto di incontro di ideologie e di pulsioni contrastanti.
L’ortodossia testuale si compie come Parola che riproduce il
rapporto Padre-Figlio, e sostituisce le opposizioni di natura
dialettica con l’interazione predeterminata delle omologie.
Ancora una volta Burke ci chiarisce la natura profonda di
questa struttura quando afferma che l’idea di opposizione
può lasciare il posto all’idea dell’omologia. Quest’ultima
trova il suo sostegno retorico nei tre termini greci: anti-
strophos, che secondo Aristotele definisce la retorica come
omologo della dialettica; antimorphos, che significa “forma-
to secondo, corrispondente a”; e antitimae, che vuol dire:
onorare come segno di riconoscenza. (Burke, 1970, p. 30).
Cosa può significare il linguaggio eterodosso rispetto al-
la narratività piana, monotonizzante e monoparadigmatica?
Un simile linguaggio nasce da un’istanza e un’istanziazione
enunciativa che decondizionano il testo orientato verso la
norma o verso la molteplicità delle norme. Decondizionare
il testo ortodosso è un’operazione propria del soggetto libe-
ro che si riconosce non-condizionato dal potere e dall’auto-
rità. L’eterodossia politica è così la manifestazione di una
lotta ineguale non di classe, ma di individui rivolti contro le
classi, contro gli apparati repressivi. I dissidenti sono i mes-
saggeri di una verità ipostatizzata dai loro corpi, dalle loro
pulsioni e infine dai loro linguaggi che, al di là della dimora
dei morti, si slanciano nel palazzo di vetro della vita utopica,
invisibile ma paradossalmente concreta. Il regno del Lé-
viathan è un regno di terrore finemente organizzato, contro
cui urtano le forme inprevedibili della libertà. Nella visione
di Hobbes, in cui si agitano le conseguenze che sono tanto
lo stato quanto la filosofia individuale, la libertà gioca
126 WLADIMIR KRYSINSKI

ugualmente la sua carta di imprevedibilità. Sembra che a


questo prezzo, e solamente a questo prezzo, l’uomo sia li-
bero. La libertà è riconosciuta da Hobbes come predicato
del corpo, del desiderio, dell’inclinazione e della volontà:
Libero è colui che nelle cose, che è capace di fare con le sue
forze e con la sua iniziativa non trova impedimento alla sua
volontà. Ma quando le parole libero e libertà sono riferite ad
altre cose che non siano i corpi, sono usate abusivamente,
perché, quel che non è soggetto a moto, non è neppure sog-
getto a impedimento. (Hobbes, 1948, p. 145).
Infine, col dire libero arbitrio, non intendiamo la libertà del-
la volontà, ma la libertà dell’uomo che vuole, e quindi, essa
consiste nel fatto che l’uomo non trova ostacolo nel fare ciò
che ha volontà di fare. (Hobbes, 1948, p. 75).
Ma pur essendo il predicato del corpo, l’uomo di Hob-
bes è un cittadino dello Stato, braccato da mille conseguen-
ze che uniscono l’angoscia alla libertà. Per Hobbes il corpo
è libero, ma la sua libertà non lo è. Libertà e Necessità sono
inseparabili. Tutto deriva dall’uomo artificiale, un Common-
Wealth. Il Soggetto è libero nella misura in cui tutte le sue
azioni sono state predeterminate dal Sovrano. Se anche la li-
bertà è dunque completamente predeterminata, se anche
fissa chiaramente la schiavitù dei corpi individuali, ciò non
toglie che solo nel corpo individuale essa prenda origine.
Ma allora si confonde proprio con la dissidenza, perché tra-
scende le leggi che Hobbes chiama catene artificiali. I sim-
boli, le parabole, i ragionamenti di Hobbes fissano un mo-
dello generale dell’ortodossia circostante. Questa è la forza
che, invisibile ma coattiva, dà al corpo la libertà fittizia che
l’Uomo Artificiale offre agli uomini veri.
Il cammino che porta dalla politica alla letteratura è lo
stesso in cui l’ortodossia e la dissidenza si incontrano neces-
sariamente. Il corpo vi funziona come luogo reversibile
dell’accettazione o del rifiuto dell’ortodossia. Collegare il
corpo alla dissidenza nel lavoro e nel movimento del testo
significa riconoscergli la sua dimensione politica, perché co-
me dice Daniel Sibony:
Il corpo è politico poiché in tutte le sue gesta parlate o silen-
ziose, pone la questione dell’insieme, della collezione di ele-
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 127

menti; e si pianta lì come un cuneo infisso nell’illusione del


loro assemblamento Unitario; mantenendo l’apertura, impe-
disce che questa concluda la questione politica. (Sibony,
1974, p. 19).
Il testo riflette l’insieme nella misura in cui il corpo vi fa
irruzione come libertà nominale, come azione libera della
sua struttura somatica, posta anarchicamente di traverso ai
modelli testuali ortodossi che fanno del corpo la strategia
organizzata dei suoi tabù. La dissidenza posta come termi-
ne di una semiotica deve essere riconosciuta nelle pratiche
testuali che la riagganciano alle “gesta parlate” del corpo.
Queste possono prendere le forme molteplici di una poli-
topicalizzazione del linguaggio che rende al corpo quello
che l’ortodossia vorrebbe riprendergli facendogli subire il
proprio camuffamento.
Gli effetti semiotici del corpo nel testo meritano che se
ne svelino le caratteristiche specifiche e l’investimento pul-
sionale. Nella modernità letteraria e teatrale, che va da Sade
fino a Guyotat, non c’è più spazio per l’ortodossia. Il pro-
gredire irresistibile della scrittura moderna libera il corpo e
ne svela la realtà politica. Tra l’autorità e il corpo l’ortodos-
sia non può più imporre il suo codice. Il corpo la trascina
con il suo flusso, le sue epifanie, la sua discontinuità etero-
dossa. La realtà politica, sussunta nell’opposizione tra dissi-
denza e ortodossia, si traduce nel testo moderno in un
profondo rifacimento della testualità. Questa pavimenta il
cammino del corpo che disarticola l’ortodossia del testo.
Proviamo a ripensare le strutture semiotiche di questa
opposizione nello spazio della seguente serie di autori che
rappresentano la modernità: Sade, Joyce, Biély, Bataille,
Beckett, Guyotat. La domanda alla quale cercheremo di da-
re una risposta può essere formulata così: quali sono le di-
verse strutture della scrittura che esprimono il corpo, oppu-
re che consentono al corpo di esprimersi liberamente al di
qua e al di là delle strutture ortodosse repressive?
L’ortodossia non è forse una categoria troppo debole
per esprimere antiteticamente la strategia dell’eccesso sulla
quale si fonda tutta l’impresa dialettica di Sade? Certamen-
te sì, essa però è funzionale nello spazio riduzionista e te-
128 WLADIMIR KRYSINSKI

stuale che limita arbitrariamente il corpo. La tensione, tra il


linguaggio e il corpo, che segna incontestabilmente l’orto-
dossia testuale è risolta da Sade grazie ad una strategia di
rottura, di dissidenza del corpo che rivendica il linguaggio
suo proprio. A questo proposito Sollers nota in maniera
pertinente:
Se il corpo è diventato, per il linguaggio, un continente rea-
le, se, da parte sua, il linguaggio è diventato reale per il cor-
po, è proprio grazie a Sade, la cui scrittura, che introduce
una sorta di radiografia generalizzata e terribile, è pensata
per traversarci corporalmente come traversa i corpi che de-
ve distruggere. (Sollers, 1968, p. 87).
Se dopo Sade, nello spazio della modernità, la differenza
tra corpo e scrittura, e quella tra ortodossia e dissidenza
(eterodossia) sono considerate strutture semiotiche, questo
avviene nella misura in cui tali opposizioni rinviano ad alcu-
ne funzioni strutturali e semantiche del corpo. Queste fun-
zioni a loro volta comandano la strategia della scrittura inte-
sa come riserva mobile e duttile dei segni. Chiamiamo que-
ste funzioni: flussuale, epifanica, tmesica, genito-cinetica. Es-
se ricoprono il ruolo di regolatori scritturali delle pulsioni,
della motilità dell’io, della struttura corporale dell’io, della
rappresentazione del corpo.
Queste quattro funzioni sono infatti legate le une alle al-
tre senza essere però totalmente interdipendenti. Vedremo
che la loro manifestazione è legata al corpo, al quale daremo
il nome di referente complesso. Questo rinvia al sorgere so-
matico del desiderio, all’insistenza pulsionale, alle rotture
narrative. Il flusso contiene lo straripamento; l’epifania ma-
nifesta lo scoppio; la tmesi elimina la materia narrativa di-
versa dal corpo; la funzione genitale in movimento perpetua
la gestualità sessuale del soma.
È Joyce che inaugura la funzione flussuale del linguag-
gio. Questa inaugurazione ha luogo nel monologo interiore
di Molly Bloom. Ulisse termina con una serie di flussi, una
musica continua-discontinua, eseguita da una voce che
scandisce con insistenza l’“I” anaforico. Il flusso di coscien-
za è allo stesso tempo uno spostamento topografico e fun-
zionale del soggetto in funzione della moltiplicazione degli
oggetti del desiderio. Il corpo della donna diviene il centro
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 129

e il punto di osservazione di un investimento pulsionale, il


corpo di Molly Bloom è il soggetto-oggetto dei flussi che lo
definiscono nella motricità pulsionale che la narrazione vei-
cola come struttura di agganciamento monologico dell’“I”
deittico. I flussi sono legati alle epifanie del desiderio e della
carica pulsionale che segnano la presenza costante del cor-
po-soggetto sulla scena mobile della scarica libidinale. Sot-
tomesso al flusso del linguaggio, il corpo di Molly Bloom si
trasforma in funzione epifanica dell’oggetto del desiderio e
del soggetto desiderante che si auto osserva.
Il romanzo di Andréi Biély, Kotik Létaïev del 1915, pre-
figura la funzione flussuale della scrittura, legata alla posi-
zione del corpo nella struttura della coscienza. L’impresa di
Biély è unica nel romanzo moderno. Il suo romanzo, che ha
l’aspetto di un romanzo autobiografico o di un romanzo di
formazione, diventa l’iscrizione e la registrazione del corpo
attraverso la scrittura che si ascolta e che si percepisce farsi
a partire dal corpo. La catena scritturale trascende la catena
romanzesca proprio perché il corpo vi si introduce come
struttura epifanica. L’epifanizzazione del corpo va di pari
passo con l’epifanizzazione della coscienza. Quest’ultima,
proprio come l’io, si inscrive nella ricerca ossessiva di un
punto definitivo, cruciale, dove il soggetto potrebbe situarsi
come certezza cognitiva e somatica. Il testo di Biély acquisi-
sce volutamente una dimensione cosmica per poter ri-situa-
re il soggetto in un luogo somatico, psichico, cognitivo e fi-
losofico dove l’ “io sono me stesso” avrebbe il senso di una
proposizione che può essere sottoposta all’equazione defini-
tiva tra l’io ed il cosmo. Biély orienta la sua scrittura in dire-
zione del riconoscimento e del ritrovamento di quel punto
della coscienza che confermerebbe la legge di Heackel se-
condo la quale l’ontogenesi riproduce la filogenesi. Kotik
Létaïev è una ricerca che ritma le sue istanze nel circolo: io /
corpo / coscienza / memoria / cosmo. L’identità della co-
scienza è così tributaria del riconoscimento del fatto che es-
sa presuppone un corpo ed è presupposta da esso, da una
storia somatica, da un trauma di nascita, da una apparte-
nenza alla madre.
La scrittura segna questo riconoscimento attraverso una
mobilità, una frammentazione, una atomizzazione degli
istanti della memoria e della sua ri-produzione.
130 WLADIMIR KRYSINSKI

Il primo “TU-ES” si impadronisce di me sotto forma di deliri


senza immagini
-deliri molto antichi, conosciuti da sempre: inesplicabil-
mente, incredibilmente ecco che la coscienza è nel corpo ed
è l’impressione matematicamente esatta che tu sei tu e che tu
non sei tu ma piuttosto un rigonfiamento del nulla diretto
verso nessun luogo, incontrollabile, e
-“Che c’è?”. (Biély, 1973, p. 15).
La frammentazione della scrittura e della rappresen-
tazione narrativa in Kotik Létaïev riposa sulla tensione
pulsionale e concettuale presente tra la coscienza ed il
corpo. Il corpo frazionato e la coscienza rinchiusa nel
corpo entrano in un rapporto speculare, interminabile.
La loro posizione reciproca di contenitore e di contenu-
to, di macchina e di mito, proietta la scrittura di Biély
nella ripartizione, nel ritorno e nella negatività delle epi-
fanie somatiche e psichiche:
E la coscienza era l’apprensione dell’impercettibile, percezio-
ne dell’inapprensibile; la lontananza insormontabile degli spa-
zi atterriva le sensazioni, e la sensazione si scollava dalla pe-
riferia di questa apparenza sferica e correva a tastare più
lontano, laggiù, all’interno di se stessa; essa acquisiva una
conoscenza oscura... E la coscienza si muoveva: in spesse
nubi ali-cornute, essa galleggiava dalla periferia verso il
centro e soffriva:... (Biély, 1973, p. 16).
Se la scrittura di Biély in Kotik Létaïev è eterodossa o
paradossale, lo è nella misura in cui supera senza ricorso, at-
traverso la pulsione somatica dello psichico, le strutture
doxali del romanzo autobiografico. Queste ultime dipendo-
no da una opposizione narrativizzata tra io e mondo, che
acquisisce nella scrittura autobiografica la forma di un ob-
bligo tematico come nel romanzo di formazione (Bildung-
sroman). L’io è in formazione come soggetto sociale in dive-
nire, il mondo è il formante dove si forgia la resistenza del
soggetto. Abbiamo visto come in Biély questo rapporto di-
venga complesso.
Ponendo il problema dei “rapporti del linguaggio poeti-
co alla serie” e quello della letteratura che “cerca di ugua-
gliare la musica” Kristeva osserva, a proposito del soggetto-
destinatario di una tale letteratura, che esso
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 131

riproduce delle operazioni fondamentali della semiosi: opera-


zioni di seriazione, di strutturazione ecc. disponendo di sup-
porti sensorio-motorii (il proprio corpo, le sue fissazioni libidi-
nali, l’erogenità dei suoi organi ecc.). (Kristeva, 1977, p. 189).
E Kristeva aggiunge:
Le conseguenze di una tale concezione musicata della prati-
ca translinguistica sono che il linguaggio cessa di apparire come
uno strato sottile di senso puro o di forma pura, e si presenta co-
me una serie di funzioni che smembrano ed articolano il corpo
ed il soggetto nella sua relazione pulsionale all’altro ed all’ogget-
to (Kristeva, 1977, p. 189).
Lo smembramento e l’articolazione del corpo attraver-
so il linguaggio garantiscono il superamento dell’ortodossia
testuale e la permanenza di una scrittura d’avanguardia.
Le funzioni che noi abbiamo chiamato epifanica, flus-
suale, tmesica e genito-cinetica illustrano anche le osserva-
zioni della Kristeva. Si può notare come esse si manifestino
in Bataille, Beckett e Guyotat.
Riprendendo la strategia di Sade della narrativizzazione
naturalizzante dello “scandaloso” del corpo, dell’oscenizza-
zione, Bataille pone allo stesso tempo la problematica del
corpo nella prospettiva della dialettica del continuo, del
gioco, della morte e del nulla. Gli schemi stabiliti in margi-
ne alla sua opera Sur Nietzsche situano il corpo al livello del
“continuo” e della “particolarità”, della “negazione vuota”
continuo dei corpi che mantiene la particolarità che l’ani-
ma umile negherà (Bataille, 1970, VI, p. 455).
Il corpo partecipa al “continuo” in due maniere, sempre
in uno “stato di trance elementare, il continuo della festa”:
come a una tragedia e a una commedia. In relazione al cor-
po, Bataille attribuisce alla prima direzione: bellezza, purez-
za, divinità, immortalità. Alla seconda (“posizione del comi-
co al di sotto del corpo”): bruttezza, escrezione, sensualità,
animalità, corruttibilità. Bataille dà così al corpo la seguente
posizione concettuale nella dialettica tra l’essere ed il nulla:
Il corpo è definito come il dominio del nulla dato in pasto al
nulla, come tale separato dall’essere (Bataille, 1970, VI, p. 457).
Anche se questi schemi sono segnati da una netta in-
fluenza hegeliana, resta il fatto che Bataille situa già il corpo
come struttura economica nella problematica della spesa.
132 WLADIMIR KRYSINSKI

Questa ultima, si sa, è riservata da Bataille ad attività quali:


Il lusso, lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti
suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perver-
sa (cioè deviata dalla finalità genitale). (Bataille, 1972, p. 44).
Tutte queste attività hanno secondo Bataille un denomi-
natore comune, la perdita . Essa deve essere “più grande
possibile perché l’attività assuma il suo vero significato”. La
perdita è la “spesa incondizionata”. Nel sistema di Bataille,
la perdita si associa anche alla nozione di potlatch, di dono:
Il dono deve essere considerato come una perdita e anche
come una distruzione parziale: il desiderio di distruggere vie-
ne riversato in parte anche sul donatario. Nelle forme incon-
scie, come sono descritte dalla psicanalisi, esso simbolizza
l’escrezione che pure è legata alla morte in conformità alla
connessione fondamentale dell’erotismo anale con il sadi-
smo. (Bataille, 1972, p. 48).
La nozione di spesa che in Bataille orienta la posizione
simbolica del corpo, rinvia ad una referenzialità chiusa: cor-
po-dono-perdita-niente-escremento-festa. Si comprenderà
facilmente come sia soprattutto questa referenzialità a de-
terminare l’immagine e la funzione del corpo nel testo di
Bataille. Se il corpo impone una funzione testuale specifica,
lo fa al di fuori della “attività sessuale perversa”, soprattutto
se si tratta della funzione epifanica, strutturata in maniera
gnomica, concettuale piuttosto che flussuale. È così che il
corpo fa irruzione in Bataille, nello spazio poetico dove assi-
cura ed incarna la struttura e la funzione della poesia, “olo-
causto del linguaggio che ritrova tutti gli elementi non vuoti
del nulla nel crogiolo della festa prima della loro segregazio-
ne” (Bataille, 1970, VI, p. 455).
Il corpo
del delitto
è il cuore
di questo delirio. (Bataille, 1970, III, p. 370)
Bataille proietta nella poesia la funzione del nulla attra-
verso il corpo, misura, fine e strumento della festa che si
svolge nel gioco dell’impossibile. Il corpo è, prima di tut-
to, la pratica della perdita sulla scena di un teatro metafisi-
co, di una semiotica nella quale i segni del corpo-nulla si
trasformano in segni di pienezza della morte.
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 133

Avrei di me stesso un’idea sublime: per questo ho la forza


necessaria. Uguaglierei l’amore (l’indecente corpo a corpo) all’il-
limitatezza dell’essere - alla nausea, al sole, alla morte.
L’oscenità dà un momento di fiume al delirio dei sensi. (Ba-
taille, 1970, III, p. 228).
Cuore avido di chiarore
ventre avaro di carezze
il sole falso gli occhi falsi
parole dispensatrici di peste
alla terra piacciono i corpi freddi. (Bataille, 1970, III, p. 197).
Beckett, in Comment c’est, organizza un discorso di-
scontinuo che si attua in una de-sintassi, una sintassi quasi
direzionale che non porta da nessuna parte. La despazia-
lizzazione, la detemporalizzazione del discorso assicurano
a questo dire convulso, traballante, regressivo-progressivo,
una stasi semiotica di ritorno pulsionale e somatico alla
corporeità, ad una presenza vocale rumorosa e stridente.
Al di là delle soffocate epifanie, al di là dei flussi che po-
trebbero risuscitare il ritmo, si profila il corpo.
Questo opera una tmesi narrativa, discorsiva, un taglio
che si narrativizza come struttura della sua presenza ricor-
rente, evanescente.
Beckett parla del corpo corporale, tormentato, indiffe-
rente, dice che il “carapace” (corazza) è somatico, e ritiene
la tautologia e la ripetizione organiche al corpo. Questo si li-
bera dei blocchi, delle tmesi che attraversano lo spazio delle
parole, delle ripetizioni, dei ritmi che parlano della pienezza
del vuoto, il vuoto della pienezza, vuoto e pienezza rivolti
verso una gestualità sempre antecedente, sempre futura. È il
corpo rivelato dai segni della sua presenza intercalati nelle
frasi senza torto né ragione, nella musica del dire accresciti-
vo para-narrativo, para-discorsivo, né lamento, né reporta-
ge, musica né funebre né nuziale, glorificazione di rotture
senza giustificazione. Tmesi filata, tmesi organica al ritmo
del nulla, il corpo è in questo testo come il segno indelebile
del suo esserci, della sua arroganza, della sua relazione con
lo spazio ed il tempo unificati, né solidali, né nemici, due
parentesi che lo concretizzano e lo derealizzano.
un sacco oh ci siamo color fango nel fango presto dire che è un
sacco color dell’ambiente l’ha sposato ce l’aveva sempre delle
134 WLADIMIR KRYSINSKI

due l’una non cercare altro quel che potrebbe essere d’altro
tante cose dire sacco vecchia parola prima venuta due sillabe o
alla fine non cercarne altre tutto si cancellerebbe un sacco sì
andrà la parola la cosa è nelle cose possibili in questo mondo
così poco possibile sì mondo che mai si può desiderare di più
una cosa possibile vedere una cosa possibile vederla nominar-
la vederla basta riposo ritornerò un giorno riconoscente.
Un corpo cosa importa dire un corpo vedere un corpo tutto il
rovescio bianco all’origine alcune macchie rimaste grigio chia-
re dei capelli spuntano ancora basta una testa dire una testa
aver avuto una testa visto tutto tutto il possibile un sacco dei
viveri un intero corpo in vita sì che vive smettere di ansimare
che smetta di ansimare dieci secondi quindici secondi sentire
questo respiro garanzia di vita sentirlo dire sentirlo be’ ansi-
mare della più bella (Beckett, 1965, p. 105-106).
Che ripetono queste ripetizioni? Che dicono queste pa-
role che avanzano verso il limite dell’ultima parola? Pulsione
e non-pulsione, libido non-libido. Respirazione del corpo
non respirato. La morte posta in approssimazione verbale.
Beckett pone il corpo come prima ed ultima riduzione
dell’esserci dell’uomo. Il ritornello del soma, il soffio del
non-desiderio nel vissuto somatico della morte: il corpo al
di qua della doxa, della ortodossia. Un gioco senza nome, di
movimenti, di succo, di fango, di superfici.
attraverso la juta gli spigoli delle ultime scatole mi dilaniano
le costole spigoli confusi juta fradicia costole superiori lato
destro un po’ sopra di dove ce le si tiene tenevo la mia vita
quel giorno mi sfuggirà questa vita non ancora. (Beckett,
1965, p. 37).
Dopo Artaud, Genet, Beckett e Bataille, Guyotat scardi-
na definitivamente l’ortodossia di una testualità che si fa ca-
rico del corpo. La funzione genitale va di pari passo con la
funzione cinetica della scrittura. La sessualizzazione in
Eden, Eden, Eden si esprime con una ripetizione incessante
della violenza corporea. I verbi vanno oltre il loro significa-
to e fanno tutt’uno con i corpi:
i soldati sonnecchiano; il loro sesso tinto riverso sulla coscia,
sgocciola; l’autista del camion dove sono ammucchiati maschi,
bestiame, fagotti, sputa una saliva nera, una puntura di ma-
schi, bestiame, fagotti, sputa una saliva nera, una puntura di
vespa gli gonfia la guancia, ha un gonfiore sotto l’occhio, le
borse degli occhi nere e pesanti come uva: la testa lavorata dal
LA DISSIDENZA DEL CORPO... 135

sole, erubescente sotto il pelo bianco, di un vecchio sussulta


sulla lamiera, sotto il cambio: con il tallone chiodato, l’autista,
con la saliva nera che si secca sul mento, schiaccia, tira i ciuffi
immacolati dell’osso occipitale, sulla lamiera percossa, da di
sotto, da scaglie di pietre; / al campo, il soldato: “cani, lavate-
mi le lamiere!”; / le femmine attaccano ai cespugli gli stracci
dei neonati; / i maschi alzano le tende lungo il fossato delle
immondizie: il fango dei rifiuti di carne, di vomito, scintilla,
rugiada, sotto gli archi delle canne atone; i soldati respingono
con il calcio del fucile le femmine che depongono i loro bam-
bini sotto le tende montate. (Guyotat, 1970, p. 17).
La violenza sessuale così come la violenza tout court si
svolgono su una scena indeterminata ma allusiva. Si tratta di
una Africa vista come terreno di una guerra trasformata in
aggressione permanente da un narratore che partecipa an-
che lui alla concertazione della gestualità incessante del ses-
so e della violenza. Il ripetersi degli attori e dei gesti sotten-
de un immenso fare genitale dove la differenziazione narra-
tiva degli avvenimenti mette in risalto la pancromia del mo-
vimento sessuale e pulsionale. Guyotat a proposito del suo
romanzo sottolinea:
Qui non c’è, “desiderio”, c’è invidia: il movimento è esclusi-
vamente economico non c’è “amore”, ma scriptoséminalo-
gramma, se posso dirlo, nel senso di elettrocardiogramma.
(Guyotat P, 1972, p. 31).
Più che la dissidenza del corpo Guyotat opera defini-
tivamente il rovesciamento del rapporto fondamentale
tra l’individuo e la sessualità secondo l’esatta formula di
Foucault:
Non sono più i personaggi che si cancellano a vantaggio de-
gli elementi, delle strutture, dei pronomi personali, ma la
sessualità che passa dall’altra parte dell’individuo e smette
di essere “assoggettata”. (Foucault, 1972, p. 161).
La metaforizzazione e la realizzazione testuale del rap-
porto tra l’ortodossia e la dissidenza rivelano la funzione
centrale e seminale del corpo nel superamento dell’ortodos-
sia. Il corpo è il punto di non ritorno dell’ortodossia nel te-
sto moderno e segna l’avanzamento delle strutture signifi-
cative da Sade fino a Guyotat. Nella funzionalità semiotica
del testo, il corpo è così il riflesso e lo strumento di una de-
centralizzazione e di uno spostamento delle strutture del
136 WLADIMIR KRYSINSKI

potere: censura, autorità, oppressione, asservimento


all’ideologia dominante.
La posizione topica del corpo nel testo moderno rende
trasparente la contrapposizione tra normatività, leggibilità e
rappresentazione, che sono ripetitive garanti dell’ortodossia,
e l’organizzazione polisemica delle strutture testuali che mi-
mano, concettualizzano o rappresentano il corpo. Queste
strutture sono i segni operatori delle omologie significative:
corpo/libertà e scrittura/dissidenza dell’inconscio.

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Solidarietà amorfa: il femminismo, il decostruzionismo,
il corpo politico.
Diane Elam

Il femminismo è di fronte ad un’apparente contraddizio-


ne: non può permettersi di perdere di vista il corpo, né di
mantenere la distinzione tra il linguistico e la materialità, tra
l’astratto e il concreto. Le donne non sono mere astrazioni
(costrutti ideologici) né mera corporeità (oggetti storici): so-
no le due cose insieme.1
È importante dunque il pensiero utopico: non perché il
femminismo o il decostruzionismo esprimano l’utopia di
modelli ideali - donne modello, corpi modello, società mo-
dello - in grado di risolvere tale contraddizione. Ma perché
l’impulso utopico del femminismo e del decostruzionismo
consente un’indeterminatezza radicale che permette di af-
frontare questa contraddizione senza darla per risolta. La
radicale indeterminatezza del pensiero utopico è insita nel
modo in cui il femminismo e il decostruzionismo indagano
la categoria donne come corporeità sociali e materiali. Si
tratta di affrontare le potenzialità etiche e politiche del pen-
siero utopico non come confuso idealismo ma sviluppando
il rapporto con quel che si può definire “corpo politico”.
Una discussione su questioni politiche e morali verrà, dun-
que, ricollocata in un registro ontologico. Ma è una scelta
che non deve essere considerata un tentativo di integrazione
organica o di soluzione delle questioni riguardanti il corpo
appellandosi ad universali. Considerare il corpo politico
una metafora sintetizzante può generare il rischio di costrui-
re un microcosmo basato su un presunto ordine e una ge-
rarchia dei corpi individuali. Questa è l’eredità della tradi-
zione contrattualistica, di cui il Leviatano di Hobbes è forse
l’esempio più rappresentativo. Al contrario, il corpo politi-
co, nella specifica elaborazione del pensiero femminista e
decostruzionista, non è fondato su una concezione contrat-
138 DIANE ELAM

tualistica della società che promette un ordine razionale ai


soggetti individuali, tramite la totalità della politica o l’etica
universale. Questo è, piuttosto, un corpo politico che si ap-
pella (e viene costituito da) una solidarietà amorfa; è un’al-
leanza prodotta da negoziazioni continue, né astratte né pu-
ramente concrete.
Forse è meglio esaminare con più attenzione il ruolo gio-
cato dal pensiero utopico. Pensare il femminismo come
un’utopia non è certamente una novità, e a prima vista non
sembra un approccio specificatamente decostruzionista. Il
femminismo è stato spesso concepito come un moderno,
utopico progetto. Uso deliberatamente la parola “progetto”,
nel senso che il femminismo viene frequentemente articola-
to come un progetto utopico di liberazione ; una lotta per
l’emancipazione del soggetto femminile, che, diciamo, pro-
mette di liberare la donna dai limiti di un’immaturità che lei
stessa si è inflitta.
Un progetto utopico nel senso in cui Habermas immagi-
na la modernità (Habermas, 1962; 1973; 1985). Secondo
Habermas, il progetto della modernità (chiaramente, in-
completo) prospetta un quotidiano sempre più razionale,
reso possibile da una tradizione culturale che integra le di-
verse sfere della società (le weberiane distinzioni tra arte,
morale e scienza). Questo progetto ha la sua forza propulsi-
va nella razionalità comunicativa, la cui responsabilità è
“trasmettere una tradizione culturale di integrazione sociale
e socializzazione”. Ritengo che il progetto della modernità
sia necessariamente abbinato ad una tensione per la realiz-
zazione di soggetti autonomi, auto-riflessivi e, anche se per
Habermas non è così, pienamente trascendentali. Il proget-
to della modernità rimane utopico, perciò, finché la moder-
nità resta incompleta, dal momento che il suo compito con-
siste ancora nel realizzare la piena integrazione delle varie
sfere con il mondo della vita, ed emancipare pienamente il
soggetto tramite la razionalità auto-riflessiva.
Tradotto in termini femministi: finora l’identità delle
donne e la liberazione sarebbero entrambe incomplete, e il
progetto utopico del femminismo sarebbe parte della più
ampia traiettoria della modernità. Rischiando una rozza
analogia, descrivere l’identità femminile (e insieme l’eman-
cipazione del soggetto femminile) assomiglierebbe ad un
SOLIDARIETÀ AMORFA... 139

cavalcavia autostradale lasciato incompiuto che attende


l’arrivo del femminismo per potersi collegare con la spon-
da opposta. In senso più pregnante, il femminismo, in
quanto progetto utopico, è come sognare una rete stradale
finalmente completata.
Ma vorrei essere più cauta nell’equiparare modernità e
femminismo. Associare una qualsiasi versione del femmini-
smo con l’interpretazione della modernità proposta da Ha-
bermas è un po’ fuorviante. Non nego che il progetto uto-
pico del femminismo possa muovere una propria critica al-
la liberazione illuminista. Il progetto illuminista di realizza-
re l’uomo universale può concepire la differenza di genere
solo come una barriera da superare nel tempo, così che uo-
mini e donne possano partecipare all’universale “Uma-
nità”. Il femminismo, mettendo in evidenza l’implicita elu-
sione della specificità femminile, ha individuato i limiti del-
la formulazione habermasiana del progetto della modernità
sottolineando la mancanza di qualsiasi riferimento alla dif-
ferenza sessuale, al genere, o al femminismo tout court. E
qui non lamento solo il fatto che Habermas ignori le don-
ne. La critica ad x o y di non parlare delle donne ha senso
solo se tale silenzio è motivato da una necessità strutturale.
Quando dico che Habermas non parla del genere, non in-
tendo inserirmi in un filone di critica politica ormai diffuso
negli Stati Uniti2. Io penso che Habermas non parli delle
donne perché non ne può parlare: è il suo concetto di pro-
getto che gli impedisce di percepire la differenza di genere.
E questo non ha niente a che vedere con l’eventualità che
Habermas possa essere sessista. È una distinzione che il
femminismo deve tenere sempre presente.
Riassumendo: il progetto illuminista di emancipazione
dell’uomo universale è strutturalmente insensibile alla dif-
ferenza di genere. E il femminismo, contemporaneamente -
questo è di importanza estrema -, nella sua critica a specifi-
ci aspetti del progetto illuminista, non prende necessaria-
mente le distanze dal più ampio progetto della modernità.
Può quindi continuare a rimanere un progetto utopico
coerente con l’Illuminismo, senza tuttavia distinguersi
dall’insistenza di Habermas verso il potenziale emancipato-
rio della razionalità comunicativa3.
140 DIANE ELAM

E’ facile collocare il femminismo dentro le traiettorie


della modernità. Ma sorgono alcuni problemi. Il femmini-
smo deve per forza aderire all’utopia del pensiero illumini-
sta? Può conservare il proprio carattere utopico senza esse-
re direttamente un progetto utopico? Cioè, il pensiero illu-
minista e il pensiero utopico devono per forza essere equi-
valenti? La svolta decostruzionista nel femminismo suggeri-
sce direzioni diverse da quelle indicate (o predestinate)
dall’Illuminismo: può essere utopico senza essere immedia-
tamente un progetto. L’eredità dell’Illuminismo consiste
nell’assunto che il pensiero può acquisire criticità solo se
informato dalla struttura del progetto, solo se teleologica-
mente organizzato. Separare l’utopia dal progetto, equivale
a dire che il femminismo può essere qualcosa che va oltre il
tentativo di ottenere una completa identità per le donne.
Non deve necessariamente essere un angelo che annunci la
buona novella della liberazione nel senso modernista del
termine. Il femminismo, cioè, non deve obbligatoriamente
aderire al progetto della modernità, né portare Kant alle sue
habermasiane conclusioni.
Il valore strategico di pensare il femminismo solo come
progetto ormai non è scontato e può perfino essere nocivo.
In questo contesto, mi sembra significativo che, molte delle
deluse dal femminismo, tendano ad accettarne la valutazio-
ne di progetto illuminista, uno tra i tanti che tentano di rea-
lizzare la potenzialità umana. Ritengo, invece, necessario
riesaminare i termini con cui descrivere il lavoro femmini-
sta: se è chiaro che molto rimane da fare, non è chiaro che
l’Illuminismo offra l’unica articolazione possibile alla
espressione e realizzazione del femminismo. Ciò è partico-
larmente vero se si pensa alla sua dimensione utopica.
Ma che potenziale politico c’è nel continuare a pensare il
femminismo in termini utopici senza pensarlo anche come
un progetto specifico alla modernità ed all’Illuminismo? Ri-
spondere significa esaminare il motivo per cui il pensiero
utopico non sempre è stato collegato ad un progetto tempo-
rale o all’Illuminismo. Questo aspetto viene evidenziato da
Bloch e da Adorno e, più recentemente, anche da Peter
Uwe Hohendahl4. Ognuno di loro delinea tre diversi mo-
menti (non hegeliani) del pensiero utopico. Ne darò descri-
SOLIDARIETÀ AMORFA... 141

zione in ordine cronologico, anche se coesistono e ci ap-


paiono sincronicamente.
Innanzitutto, Utopia, lo scritto esplicitamente utopico
di Tommaso Moro del 1516. È di certo un testo noto, ma
spesso si dimentica, come Bloch, Adorno e Hohendahl
fanno notare, che per Moro utopia è un non-luogo, è l’am-
bito del pensiero critico. Per Moro l’utopia è uno spazio
critico, non un luogo temporale suggerito dal gioco di pa-
role greche tra “utopia” (“non-luogo”) e “eutopia” (“buon
luogo”), dalle dimensioni etiche e politiche. Il pensiero
utopico può dunque affrontare la questione della vita giu-
sta senza assumere immediatamente intenti prescrittivi.
Nel tardo Illuminismo, l’utopia cessa di avere una di-
mensione spaziale per assumere una dimensione tempora-
le, ovvero diventa un progetto razionale. È il passaggio che
più interessa Bloch. L’utopia diventa un obiettivo realizza-
bile, non un non-luogo ma un luogo futuro. In questo sen-
so, sia Habermas che Gadamer sono i pensatori utopici
della tarda tradizione illuminista, e hanno opinioni diverse
da quelle dei loro professori della scuola di Francoforte -
Bloch, Adorno e Horkheimer - i quali costituiscono il terzo
momento dell’utopia5. Il contributo più significativo di
Bloch, Adorno e Horkheimer al pensiero utopico è di resti-
tuirgli le potenzialità critiche6; di prendere le distanze dal
progetto utopico dell’Illuminismo e tentare di dimostrare
come sia divenuto “un ingannare le masse in grande stile”7.
Per loro, le potenzialità critiche del pensiero utopico non
implicano un progetto realizzabile, un orizzonte da rag-
giungere nel tempo. La forza di un’utopia critica, la sua
“forma di speranza” come Adorno la definisce in Dialettica
negativa (1970), potrebbe risiedere nella definizione stessa
di dialettica negativa: “non si ripiega su se stessa, come fos-
se una totalità”8. In breve, non vi è alcuna finalità nel pen-
siero utopico critico, nessun assoluto, nessuna riconcilia-
zione finale, nessuna fede nelle potenzialità comunicative
della ragione. Per Adorno, e per Horkheimer, questo è il
pensiero utopico dopo Auschwitz.
Questa mia descrizione della rivalutazione del pensiero
utopico non vuole trasformare Adorno e Horkheimer in
142 DIANE ELAM

pensatori femministi: con le loro osservazioni sulle donne,


sarebbe arduo. Le affinità tra il pensiero di Adorno e il de-
costruzionismo sono chiare, e sono state già indicate9. A me
interessa sostenere che il pensiero utopico femminista ha un
carattere spaziale privo di finalismo - è un problema critico
e non un progetto realizzabile nel futuro -, o che perlomeno
non si pone una finalità etico-politica. Non mi interessa rin-
tracciare la possibile genealogia critica del femminismo e
del decostruzionismo.
Al pari di altre opposizioni binarie, la distinzione euristi-
ca che qui stabilisco tra lo spazio e il tempo - tra il progetto
utopico dell’Illuminismo a carattere temporale, e il pensiero
critico dell’utopia a carattere più propriamente spaziale - ha
bisogno di un intervento decostruzionista. Il progetto politi-
co di un femminismo anti-illuminista che qui propongo po-
trebbe apparire nient’altro che la decostruzione della sua
pretesa di fondarsi su un’opposizione binaria tra spazio e
tempo.
Vorrei affrontare la temporalità in una prospettiva diver-
sa da quella dei pensatori illuministi (Habermas e Gadamer
inclusi). Il progetto illuminista considera il futuro un oriz-
zonte. È come se il futuro iniziasse nel momento stesso in
cui viene descritto dal progetto utopico. Il fine del pensiero
utopico temporale è quello di raggiungere il futuro che ha
sempre desiderato10.
Al contrario, il pensiero utopico critico tenderebbe a
proporre, come fa Levinas in Il tempo e l’altro, che “il futu-
ro è assolutamente sorprendente”11 (1987, p. 76). Non è il
presente-futuro del pensiero utopico illuminista o della teo-
ria sistemica di Luhman. Quando Levinas dice che il futuro
è una sorpresa, intende proprio dire che non è un orizzonte.
Mi rendo conto che rischio di confondere Adorno con Le-
vinas, cosa che non voglio fare, nonostante pensi che vi sia-
no tra i due importanti analogie da esplicitare12. Il mio ra-
gionamento vuole ritornare alle dimensioni etico-politiche
del pensiero utopico critico. Come sostiene Drucilla Cor-
nell, “il concetto di orizzonte, necessario al progetto utopi-
co dell’Illuminismo, implica un contesto in qualche modo
prestabilito che a sua volta implica una qualche visione del
bene” (Cornell, 1992, p. 119). Ciò che unisce il decostru-
zionismo, Adorno e Levinas è il rifiuto “di ridurre le aporie
SOLIDARIETÀ AMORFA... 143

della Giustizia ad un orizzonte” (1992, p. 119). Difficile, se


non impossibile, districare l’interesse per gli orizzonti dalla
giustizia normativa.
Per il femminismo, questo significherebbe abbandonare
l’impegno per un futuro in cui i fini morali sono realizzati
mediante un progetto politico e, insieme, affrontare il rap-
porto con la giustizia. Il femminismo non assumerebbe,
quindi, una posizione di superiorità morale che ne informi
la visione del futuro, ma, al contrario, quel che il femmini-
smo sarà e farà, non potrà che essere una sorpresa e potreb-
be perfino mettere in questione quanto abbia reso giustizia
alle donne.
Questo non significa né determinare uno specifico futu-
ro per il femminismo, né un futuro specificato dal femmini-
smo e dal decostruzionismo. L’utopia critica è un modo di
pensare la storicità del femminismo insieme al suo futuro,
senza concepire il femminismo come un progetto. Non si
tratta, dunque, di porre temporalità e progetto utopico da
un lato, e spazio e utopia dall’altro. Senza ricorrere a Hegel
o Marx, si può riconoscere nella differenza storica la fonda-
zione del pensiero critico. Cioè, il femminismo, se vuol esse-
re responsabile della sua storia e del suo ruolo critico, non
può chiudersi in un solo corno dell’opposizione.
È un modo di accettare la sfida di quel che Foucault de-
finiva “ontologia critica”, una “critica permanente della no-
stra epoca storica” (1984). La critica, in questo senso, è un
lavorare trasgressivamente a lato della nostra condizione
ontologica: è un “atteggiamento-limite”. L’attitudine limita-
ta del femminismo non sarebbe dunque né interna né ester-
na ad esso, piuttosto accanto ad esso. “Il femminismo ac-
canto a se stesso”, è questa la condizione di cui parlo.13 Una
condizione che non è pienamente del passato né pienamen-
te del presente, l’auto-consapevolezza del femminismo sa-
rebbe contingente: non sarebbe assolutamente chiaro cosa
aspettarsi dalla temporalità o storicità del femminismo, ov-
vero quale futuro potrebbe avere il femminismo.
Un atteggiamento-limite non va confuso con un orizzon-
te. L’orizzonte funge da limite accettato. Anche se ricono-
sciuto come arbitrario o storicamente specifico (in Gada-
mer, per esempio), il pensiero illuminista determina consen-
so in quanto fusione di orizzonti. E uno spostamento di
144 DIANE ELAM

orizzonte ha come fine la sostituzione di un orizzonte con


un altro più stabile perché più ampio. L’atteggiamento-li-
mite, invece, sostiene che l’arbitrarietà o la storicità del
concetto di limite non può fungere da alibi o da scusa per
smettere di pensare: al contrario può essere concepito co-
me implicitamente auto-trascendente. Questo punto è alla
base della lettura che Foucault fa di Deleuze ed è, come ha
dimostrato Cornell, anche alla base del pensiero di Derrida
(Foucault, 1971; Cornell, 1992). Non si indaga sulla possi-
bilità di un pensiero per fondarne la validità generale, ma
per analizzarne il rapporto con essa, che a sua volta si fon-
da su una repressione; è ciò che Derrida definisce l’ordina-
ria violenza del pensiero. Inoltre - e questa è una cruciale
differenza con la critica habermasiana - questa contrappo-
sizione non prevede una violenza originaria da risolvere,
una necessità da superarsi. L’atteggiamento-limite ricono-
sce sia la violenza che la necessità del limite, in modo da
rendere impossibile affermare che la necessità spieghi la
violenza (è questa la critica di Lyotard a Hegel in Le diffe-
rend) e anche concepirla come aprioristicamente necessaria
(Lyotard, 1985). L’atteggiamento-limite è, dunque, il pen-
siero di una situazione etica che riconosce al tempo stesso
la necessità e l’impossibilità di rispondere all’imperativo
etico. La critica non risponderà ai nostri doveri, ci renderà
solamente coscienti della loro complessità.
Un esempio è la questione della generazione e il suo im-
patto sul femminismo. La storicizzazione del femminismo
provoca conflitti ed ansie generazionali. Pensare la tempo-
ralità dei conflitti generazionali del femminismo senza con-
cepirli come interni alla struttura di un progetto illuminista,
ci permetterà di evitare i tropi (tipo: nani-sulle-spalle-di-gi-
ganti) o conflitti edipici. E un’attenzione alle differenze in-
tergenerazionali ci può portare a pensare l’utopia femmini-
sta come un atteggiamento-limite e non come un orizzonte
per il pensiero e l’azione politica.
Con la mia analisi desidero unire due importanti filoni
della critica all’Illuminismo: 1) la questione dell’”anecono-
mia” del dono e la sua insistenza sullo spreco e la perdita (la
dépense), come eccedente i limiti dell’economia ristretta; 2)
la questione della temporalità degli scambi intergenerazio-
SOLIDARIETÀ AMORFA... 145

nali, che la modernità vuole raffigurare in termini di movi-


menti progressivi o reazionari.
Ma torniamo al tema della generazione. La generazione
non è l’unica differenza tra le donne: è sbagliato pensare
che le differenze generazionali si possano comprendere iso-
latamente, senza considerarle parte della complessa matrice
della differenze tra donne. La generazione non è, inoltre,
solo una funzione dell’età ma anche della collocazione isti-
tuzionale e di quella all’interno dello stesso movimento fem-
minista.
Sarebbe meglio pensare la generazione dal punto di vi-
sta della tradizione che della cronologia. E la tradizione è
ciò che viene trasmesso da una generazione all’altra, come
ci ricorda la radice latina “traditio”. La scissione tra genera-
zioni non è determinata solamente dall’età o da una storia
generale, ma dall’atto di trasmissione14. Le generazioni sono
strutturalmente divise da ciò che l’una trasmette all’altra.
Una generazione riceve la tradizione come un dono, con
tutta l’ambivalenza strutturale, messa in evidenza da Mauss
(1969), Bataille (1970) e Derrida (1991), che tale relazione
comporta. L’altra generazione trasmette la tradizione come
un dono, ma si trova di fronte alla prospettiva di non poter
prevedere ciò che otterrà in cambio. Come fa notare Derri-
da, il dono che unisce le generazioni, al tempo stesso le divi-
de in distinti gruppi generazionali. Tale dinamica struttura
le generazioni a seconda che la tradizione ricevuta provenga
da gruppi tra loro in conflitto o che venga trasmessa a grup-
pi sui quali non si ha alcun controllo. Trasmettere una tradi-
zione implica la rinuncia al monopolio su di essa, riceverla
in dono pone il ricevente, costretto dai limiti della tradizio-
ne stessa, nella condizione di non poter controllare le azioni
dei propri antenati.
In questa prospettiva appare chiaro che il conflitto gene-
razionale ha una necessità strutturale, ma non nel senso di
un progetto modernista, dato che la struttura stessa del do-
no è quella dello spreco, dell’eccesso. Ogni successiva gene-
razione o ogni atto di donazione non ha orizzonti da allar-
gare o da riaffermare Il conflitto e la tensione sono le moda-
lità con cui le persone affrontano l’impossibilità di control-
lare sia i propri predecessori che i loro successori. Allo stes-
146 DIANE ELAM

so modo tutti i doni provengono dal non-luogo, nel senso


che chi riceve non è mai in grado di determinare in modo
definitivo il significato originario del dono. I doni vengono
gettati nel vuoto; e il donatore non saprà mai con certezza
quale significato il ricevente darà al dono15.
Questa struttura del dono lo distingue dalla transazione
economica (nella quale un criterio generale permette la valu-
tazione dello scambio) e ha profonde implicazioni per la
questione della tradizione nel femminismo. Il conflitto inter-
generazionale necessariamente emerge nel momento in cui
definisce la propria posizione verso la tradizione - il dono
che si trasmetterà alle generazioni successive, o che si riceve
dalle generazioni precedenti. Precisamente, “il dono” non è
un oggetto di scambio tra soggetti. Come Derrida (1991) at-
tentamente sottolinea in Donner le temps, la relazione sog-
getto/oggetto, rendendo il dono valore di scambio, lo di-
strugge. Il conflitto che ne scaturisce potrebbe dunque esse-
re definito come il risultato della distruzione del dono.
Vorrei che la mia riflessione spingesse a non pensare la
tradizione come un orizzonte di aspettativa. L’intenzione è
di confrontarsi con la direzione che Gadamer ha preso nel
perseguire il progetto illuminista, una direzione che in qual-
che modo si distingue da quella di Habermas. Gadamer
(1983) sottolinea l’importanza di un singolo orizzonte che
abbraccia ogni coscienza storica e che unisce il presente al
passato in un’unica tradizione vivente16. In questa accezione
la tradizione include perfino la razionalità, un aspetto che
Habermas critica sulla base del fatto che Gadamer, non for-
nendo alcuna permeabilità al suo circolo ermeneutico, non
può evitare gli impulsi pericolosamente conservatori del suo
lavoro. Da parte sua, Gadamer ritiene che la ristretta defini-
zione di tradizione di Habermas possa facilmente tramutar-
si in cieca obbedienza. Si accusano reciprocamente di in-
consapevole conservatorismo.
La differenza tra la posizione di Gadamer e quella di
Habermas appare piccola se confrontata con l’alternativa di
pensare la tradizione come un dono che eccede qualsiasi
orizzonte perché parte di un’aneconomia dello spreco che
minaccia le fondamenta stesse di ogni autorità, sia essa ra-
zionale o meno.17 Lo spreco del dono impedisce la fusione
SOLIDARIETÀ AMORFA... 147

della coscienza storica in un unico orizzonte che abbracci


una tradizione unificante.
Infatti, la nozione di tradizione intesa come dono intro-
duce, nel rapporto intergenerazionale, un’assoluta e impli-
cita alterità che comporta l’impossibilità di comprendere il
femminismo dentro la linearità di una storia unica, e di
concepirlo, correttamente o retrospettivamente, come pro-
getto. Se le differenze temporali tra le donne non vengono
tematizzate come progetto storico, il femminismo si troverà
continuamente a difendersi da tali interpretazioni.
È questo il problema che la “politica dell’identità” deve
affrontare. La “politica dell’identità” assume il progetto
utopico dell’Illuminismo quando l’identità è assunta come
orizzonte politico; per essa, l’identità è insieme obiettivo e
finalità della politica. La “politica dell’identità”, caratteriz-
zata da questa ubiquità, è un chiaro tentativo di tematizza-
re la differenza temporale tra donne come progetto politi-
co, il cui scopo sarà un corpo politico integrato affine alla
tradizione politica contrattualistica.
Il problema è innanzitutto l’acritica assunzione
dell’identità come fine desiderabile. E comprendere la ra-
gione per cui possa non esserlo, serve a chiarire la relazione
tra la soggettività illuminista e l’identità. In primo luogo, vi
sono due importanti, per quanto tra loro irrelate, concezio-
ni dell’identità. La prima è il principio di identità in senso
filosofico. L’identità come uguaglianza, in cui il soggetto,
come direbbe Hume (1978) “è identico a se stesso”. Que-
sto principio, A=A, può venir concepito sia come relazione
(Frege, 1892) che come proprietà degli oggetti. Si tratta di
una distinzione assai semplificata. Di recente, e in modo
per me più interessante, l’identità è stata collegata - non so
se consapevolmente - a certi aspetti della psicologia dell’Io,
in particolare nei lavori di Erik Erikson, il “convitato di
pietra” di molti dibattiti su questo tema. Per Henry Aber-
love, l’identità viene concepita nell’accezione eriksoniana
di “processo localizzato al centro dell’individuo e anche al
centro della cultura comunitaria” (Abelove, 1994). Con un
colpo di mano intellettuale, l’illuministico soggetto auto-
fondante assume le fattezze dell’identità della psicologia
dell’Io. E l’identità diventa proprietà di soggetti.
148 DIANE ELAM

Ciò può apparire positivo. Infatti, è stato il trampolino


di lancio della politica dell’identità: il progetto di rendere ai
soggetti la loro integrale identità. Eppure, l’identità non è
un obiettivo politico così neutrale. Come afferma Levinas,
“l’identità non è solo un punto di partenza dal sé; è anche
un ritorno al sé” (1987, p. 55). Il sé esce da se stesso per in-
contrare l’altro e, dopo averlo oggettivato nel sapere, ritorna
a sé, come identico a se stesso. L’identità non è dunque pas-
siva - qualcosa che accade, lo stato originario di un sé isola-
to. Più precisamente, secondo Levinas, “l’identità non è
un’inoffensivo relazionarsi con se stessa, ma un incatena-
mento a se stessa; è la necessità dell’essere occupato da se
stesso” (1987, p. 55). In termini derridiani, nell’identità c’è
una violenza originaria, una violenza fatta all’altro attraverso
l’oggettivazione e fatta al sé con l’incatenare il sé a se stesso.
Per Levinas, l’identità non è etica perché oggettiva l’altro
come conoscenza di se stessi, in un provvisorio (e necessa-
rio) oblio della responsabilità nei suoi confronti.
Ritornando alle generazioni, esse assumeranno il senso
di identità di gruppo quando ognuna di esse vorrà assumere
un gruppo di referenza identitario. La lotta politica interge-
nerazionale diventa allora quella di decidere quale genera-
zione è, come dire, più femminile (o femminista). In questo
caso una generazione funziona da parametro storico per
stabilire un’identità, così che l’identità diventa, per dirla con
Saussure, la parole nella langue della storia. Nel caso della
politica dell’identità (e proseguendo ancora con Saussure),
il significato di ogni generazione viene stabilito in termini
differenziali; l’identità si definisce in relazione sia alla gene-
razione che precede che alla generazione successiva. Il signi-
ficato della “generazione X” viene determinato dalla sua re-
lazione di opposizione alle generazioni “W” e “Y”, e via di
seguito. In tal modo le generazioni vengono erroneamente
concepite come unità separate di significato - un significato
che può venir infine calcolato.
Una tale concezione, però, nel considerare le generazio-
ni in termini di unità oppositive, interpreta erroneamente la
funzione della tradizione. La tradizione colloca le genera-
zioni in rapporti differenziali, ma tali rapporti non sono
semplici opposizioni. Le generazioni non sono identità che
si trasmettono la tradizione; ogni generazione (sia donatri-
SOLIDARIETÀ AMORFA... 149

ce che ricevente) deve piuttosto presumere l’altra come in-


commensurabile, non come oggetto di sapere. Di conse-
guenza, la differenza generazionale emerge all’interno di
ogni generazione come rischioso riconoscimento dell’esi-
stenza di un’altra generazione in ultima istanza inaccessibi-
le. Proprio perché è impossibile appartenere contempora-
neamente a due generazioni, è impossibile appartenere ad
una sola. Ogni generazione è infatti scissa dal pensiero che
ci sono, che ci devono esser state, altre generazioni. Il fem-
minismo, dunque, non può creare un corpo politico fonda-
to sulla strutturale unità generazionale, né può risolvere le
differenze tra donne e ad esse interne con un appello gene-
razionale per un corpo politico integrante ed integrato.
Vorrei ancora sottolineare che se un’esplicita opposizio-
ne produce identità in entrambi i termini dell’opposizione
stessa, la differenza intergenerazionale non produce identità
stabili per il suo carattere di continua negoziazione18. Lo
scambio non è mai faccia a faccia; il dono proviene sempre
da un non-luogo. Cioè, il dono interviene sempre per ren-
dere la relazione incommensurabile e conflittuale.
La politica dell’identità dovrebbe essere dunque il desi-
derio di trasformare il dono in scambio quantificabile tra
generazioni determinate. È il volerne conoscere in anticipo
il preciso valore che la tradizione avrà per i suoi eredi. Ma
soprattutto, è un voler identificare e designare gli eredi de-
gni di tale dono. C’è dunque un terribile desiderio da parte
di chi pratica la più accanita politica dell’identità sia di esse-
re le vere eredi delle madri che di designare i propri eredi.
Ovviamente, si può tentare di realizzare questo desiderio
solo ignorando il peso, e il carattere conflittuale, della tradi-
zione, poiché il dono (la tradizione) dissolve l’identità.
Nonostante questi desideri da parte di alcune femmini-
ste, un aspetto interessante del femminismo - uno degli
ostacoli che la politica dell’identità continuamente trova sul
proprio cammino - è proprio l’incapacità di designare le
eredi, di individuare con certezza la seconda generazione di
sorelle-figlie. Penso che il femminismo abbia almeno impli-
citamente compreso che tradizione significa assenza di ere-
di. Ovvero, se per Freud la paternità è una finzione legale,
alla stessa maniera la maternità lo è per il femminismo.
Uno dei punti di forza del femminismo è la sua riluttanza
150 DIANE ELAM

ad individuare madri fondatrici, e a definire la propria ere-


dità. Il femminismo vede la maternità legale come un’altra
forma di patriarcato.
Nel sottolineare il carattere problematico dell’eredità
per il femminismo, potrebbe sembrare che vi siano alcune
questioni non ancora esaminate: ad esempio, il femminismo
può venir trasmesso come tradizione in assenza di una poli-
tica dell’identità? Come riconoscere le eredi e le antenate?
Vorrei rispondere che queste sono domande sbagliate. For-
mulate secondo una politica dell’identità, e il femminismo
non riuscirà mai a pensarsi al di fuori di essa se non formu-
lerà queste domande in maniera diversa. Perché pensare al
femminismo solo come politica dell’identità, come si è fatto,
è fondamentalmente sbagliato. Il femminismo non è mai
stato una politica dell’identità: sono alcune femministe che
hanno praticato la politica dell’identità. È la ragione per cui
ho sostenuto che la conflittualità intergenerazionale è una
necessità e che la politica dell’identità sopprimerà sempre
questo conflitto perché la differenza intergenerazionale ne
attacca le fondamenta.
La mia risposta al problema della politica dell’identità e
la mia reazione al conflitto intergenerazionale non vogliono
avere, d’altra parte, un carattere normativo. Non esiste alcu-
na femminista in grado di rendere giustizia a tutte le altre
femministe di tutte le generazioni. Non vi sono eredi rico-
nosciute, né vi sono madri legittime. Quelle che aderiscono
alla politica dell’identità vogliono essere l’unica, moralmen-
te pura, femminista: è questa la sua forza seduttiva.
Forse per il femminismo è difficile accettare di non ave-
re alcun soggetto modernista da emancipare, nessuna auto-
realizzazione da prospettare come fine ultimo della lotta.
Forse il segreto consiste nell’accettare che per lungo tempo
la scelta politica è stata vista dal femminismo come definita
sia dal pericolo di una politica totalizzante che dal particola-
rismo della politica dell’identità. Ripeto: la risposta a questi
problemi del femminismo non può essere costituita dal ten-
tativo di immaginare una migliore politica dell’identità o un
corpo politico integrato, razionale e naturale. Al contrario,
ritengo che la capacità di immaginare nuovi modi di fare
politica possa essere il risultato del pensare in termini di
utopie critiche.
SOLIDARIETÀ AMORFA... 151

Pensare le relazioni tra donne è un modo di sganciarsi


sia da una tradizione illuminista che da una concezione illu-
minista della tradizione. Ma tali relazioni - formulate sia in
termini di costrutti ideologici che di oggetti storici - non so-
no in se stesse identità. Fino a quando penseremo in questo
modo, ricadremo sempre nel livello temporale del progres-
so che struttura la modernità, con la relativa economia ri-
stretta del calcolo politico.
In Feminism and Deconstruction (1994) ho sottolineato
che ancora non sappiamo cosa possono essere e possono fa-
re le donne. Vorrei suggerire che l’incertezza non è una de-
bolezza quanto piuttosto il rifiuto da parte del femminismo
di venir costretto sia in un’unilineare storia di progresso che
in una quantificabile economia ristretta; è anche il rifiuto di
accettare i termini del corpo politico organico della teoria
contrattualistica. Nel far riferimento alle generazioni, ho
tentato di fornire un esempio di quel che significa pensare il
femminismo come eccentrico nei confronti sia della moder-
nità illuminista, che del corpo politico comunemente inteso.
Questo non significa assolutamente ritirarsi dalla lotta poli-
tica o abbandonare l’azione politica. Significa pensare la lot-
ta femminista in termini di solidarietà amorfa, una solida-
rietà politica che può affermarsi senza dimenticare la diffe-
renza interna. Questo sarebbe un corpo politico che non è
metafora del corpo reale; vorrebbe dire riconoscere l’assen-
za di fondamento della propria metafora non appellandosi,
dunque, ad una condizione politica naturale o ad identità
reali. Insieme, femminismo e decostruzionismo pensano il
politico come l’ambito della negoziazione continua priva di
responsabilità istituzionali. Il mio vuole essere un appello
all’etica intesa come un modo per problematizzare la re-
sponsabilità sociale, un modo per pensare la questione della
comunità e la questione del corpo politico senza immediata-
mente appellarsi alla verità di un’identità pre-sociale. Nego-
ziazioni esterne all’orizzonte della giustizia, il femminismo e
il decostruzionismo pensano la politica come un incontro
tra differenze, come un tentativo di gestire quelle differenze
che costantemente appaiono sempre nuove.
1 Ho presentato la parte iniziale di queste riflessioni in un altro contesto.
Cfr. Diane Elam and Robyn Wiegman (1994).
152 DIANE ELAM

2 Negli Stati Uniti un numero crescente di femministe critiche continua


con insistenza a sostenere che se le questioni del gender e delle donne non
vengono poste in modo esplicito, allora anche l’opera e il suo autore non pos-
sono che essere sessisti. Si tratta di una posizione secondo cui la questione del-
le donne è, politicamente, non solo di primaria importanza, ma assolutamente
indipendente da qualsiasi altro ordine di problemi. Nel richiamare l’attenzione
sul carattere riduttivo della loro analisi politica effettuata in nome del femmini-
smo statunitense, non ritengo questa posizione in ogni caso rappresentativa di
tutto il femminismo e di tutte le femministe negli USA.
3 Richard Bernstein sostiene che la razionalità comunicativa segna una presa
di distanza dalla “filosofia della coscienza e [dalla] filosofia di un soggetto auto-
sufficiente” (1988, p. 18). Se, come riconosce Bernstein, l’”azione comunicativa
è un tipo specifico d’interazione sociale - orientato alla comprensione reciproca”
- non è altrettanto chiaro per quale motivo essa debba avvenire oltre che tra due
soggettività kantiane. La “reciprocità intersoggettiva”, premessa centrale alla ha-
bermasiana azione comunicativa, potrebbe venir riformulata nella kantiana “uni-
versalità soggettiva”, l’”operazione” che rende possibili giudizi estetici. Come
chiarisce Kant (Critica del giudizio) il giudizio estetico fonda la comunicazione e il
sensu communis. La differenza fondamentale (ciò che distingue un determinato
atto comunicativo da un aprioristico riconoscere il bello) sarebbe in questo caso,
come nota Bernstein, la presa di distanza da parte di Habermas da Kant, quando
quest’ultimo colloca “il programma della ragione che riflette sulle condizioni uni-
versali necessarie al proprio impiego” (p. 17), come un a priori dell’indagine em-
pirica. Una tale presa di distanza dalla filosofia kantiana necessariamente influen-
za il modo in cui Habermas concepisce il soggetto: non solo come pura trascen-
denza ma anche come realtà empirica. Ma, di nuovo, la distanza tra Habermas e
Kant non è così grande come sembra. Dove Kant inizia con il Soggetto trascen-
dentale, dal quale derivano i singoli soggetti empirici, Habermas inizia con tra-
scendentali, singoli, soggetti empirici che necessitano un Soggetto trascendentale
e razionale.
4 Vedi Ernst Bloch (1975). Peter Uwe Hohendahl ha fatto questa osserva-
zione rispondendo a Niklas Luhman in occasione di un incontro svoltosi pres-
so l’Indiana University nel 1994.
5 Habermas non è un pensatore utopico nel senso marxista o hegeliano del
termine. Come sostiene Bernstein: “Habermas rifiuta nettamente un’utopia che ci
seduce a pensare che esiste una necessità dialettica che inevitabilmente porta ad
una ‘società giusta’”. Bernstein, inoltre nota che Habermas “rifiuta anche l’imma-
gine speculare di questa concezione che afferma la totale rottura con la storia, o
che ‘colloca’ le aspirazioni utopiche in un mondo fantastico. Le aspirazioni utopi-
che del marxismo e della teoria critica ne escono trasformate. La speranza sociale
assume fondamenta razionali” (Bernstein, 1988, p. 24). Tenuto conto della di-
stanza che separa la concezione dell’utopia di Habermas da quella di Adorno,
molto ci sarebbe da riflettere sull’ironia che ha portato Habermas, in occasione
dell’ottenimento del Premio Theodor W. Adorno, ad intitolare la sua conferenza
in quell’occasione “Modernity, an Incomplete Project”.
6 È imporante notare come a volte Adorno sembri proporre un progetto uto-
pico. Come sostiene Martin Jay, Adorno riteneva che “l’arte genuina conteneva
un momento utopico anticipante una futura trasformazione politica e sociale”
(Jay, 1984, p. 155). Ma se Adorno si può dire che abbia avuto un progetto utopi-
co, esso è al tempo stesso un progetto esplicitamente anti-illuminista. Si potrebbe
scrivere un altro saggio su come Adorno possa offrire non solo un modo di ripen-
sare l’utopia, ma anche un modo di ripensare la natura stessa dei progetti.
7 Adorno e Horkheimer tracciano anche le contradditorietà del pensiero
utopico da Kant a Marx, mettendo in evidenza un’importante ambiguità impli-
cita al pensiero utopico di Kant (Adorno, Horkheimer, 1966, pp. 89-90).
SOLIDARIETÀ AMORFA... 153

Fredric Jameson ha esteso il filo del ragionamento, concludendo che l’uto-


pia può essere un’ideologia, nel senso che “l’opposizione dell’ideologico
all’utopico, o dello strumentale-funzionale al collettivo, diventerà una falsa op-
posizione” (Jameson, 1981, p. 293). In altre parole, “la gratificazione utopica”
e “la manipolazione ideologica”(1981, p. 288) non sono necessariamente in
opposizione tra loro.
8 Come prevedibile, Habermas non ha una concezione particolarmente al-
ta di questo testo, giungendo a dire perfino che è “un vuoto esercizio di auto-
riflessione”, (1971, p. 649).
9 Martin Jay (1984, p. 21); vedi anche Terry Eagleton (1981) e Michael
Ryan (1982). Jay commenta anche questi testi.
10 La teoria sistemica di Luhman è da questo punto di vista interessante.
Luhman, nel tentativo di de-ontologizzare il tempo, concepisce una temporalità
che è sempre presente. Nell’insistere sulla persistenza dei due tempi centrali - il
passato-presente e il futuro-presente - Luhman sostiene che il futuro non comin-
cia mai, perché è sempre già presente come futuro-presente. Una tale affermazio-
ne la si potrebbe interpretare come una strana riconfigurazione del pensiero illu-
minista, che tenta di rendere presente il futuro come utopia razionalmente realiz-
zabile. Vi sono inoltre spiacevoli implicazioni nel pensare il passato come presen-
te. In un certo senso, in Luhman il passato non è mai accaduto; il presente crea
il passato che desidera come se il passato non esercitasse alcuna influenza, alcun
obbligo nei confronti del presente o del futuro (vedi le osservazioni di Luhman
sul tempo, 1974); si veda anche il commento di Drucilla Cornell a riguardo del
concetto di tempo in Luhman (1992, pp. 124-33).
11 Levinas (1987, p. 76). Si noti che per Levinas il futuro ha un rapporto con
il presente: “La relazione col futuro, la presenza del futuro nel presente, sembra
equalmente compiersi nel faccia a faccia con l’Altro. La situazione del faccia a fac-
cia sarebbe il risultato stesso del tempo; la pressione del presente sul futuro non è
un prodotto del soggetto, ma della relazione intersoggettiva. La possibilità del tem-
po è determinata dalla relazione tra esseri umani, o dalla storia” (1987, p. 79).
12 Le osservazioni di Adorno sulla “detemporalizzazione del tempo” in
Dialettica negativa sono in questo contesto, estremamente rilevanti.
13 Per una discussione più ampia in merito, cfr. Diane Elam e Robyn
Wiegman (1994).
14 Qualcuno potrà qui percepire l’eco di T.S. Eliot, quando sostiene che la
tradizione “non può ereditarsi”. Per Eliot, “la tradizione deve essere elaborata;
deve essere attivamente ricercata, non passivamente ricevuta” (Eliot, 1975, p. 38).
Esiste, comunque una notevole differenza tra il progetto esplicitamente moderni-
sta di Eliot e la sua concezione di cosa debba essere elaborato della tradizione,
ovvero il canone letterario della cultura. Il ragionamento di Eliot è sia organicista
che vitalista, come chiaramente si evidenzia nel passaggio che segue: “I monu-
menti esistenti costituiscono di per sé un ordine ideale, che viene modificato dal
sopraggiungere della nuova (della veramente nuova) opera d’arte. L’ordine esi-
stente è completo prima dell’arrivo della nuova opera d’arte; perché esso possa
persistere dopo il sopraggiungere della novità, l’intero ordine deve, per quanto
leggermente, mutare; come anche i rapporti, le proporzioni; e questo in confor-
mità col vecchio e col nuovo” (1975, pp. 38-39).
Quella di Eliot è un’economia ristretta della tradizione nel pieno senso del
termine.
15 Tali complesse questioni relative all’eredità (che il dono presuppone) po-
trebbero venir formulate in termini di “genealogia” nel senso che questa parola
ha assunto prima in Nietzsche e poi in Foucault. È quel che fa Karin Cope quando
sostiene che il vantaggio di una critica genealogica è che essa “non è investita nella
costruzione o nella conservazione di lignaggi particolari, la sua forza è piuttosto co-
stituita dal fatto che essa mette a nudo le procedure per la richiesta dell’eredità
154 DIANE ELAM

rendendo visibili i loro meccanismi più o meno razzisti”(1994, p. 172).


Ci sarebbe anche da confrontare la concezione di Adorno e Horkheimer della
tradizione come un’”esperienza integrata” o Erfahrung. Specialmente per Adorno,
la dialettica negativa non sarà mai completa, non sarà mai completamente integrata
in un senso hegeliano. Dal punto di vista della dialettica negativa, la tradizione ne-
cessiterebbe, produrrebbe, un’esperienza integrata nella misura in cui l’esperienza e
l’integrazione debordino in un’economia dello spreco priva di Aufhebung. Per una
discussione di questo aspetto, cfr. Martin Jay (1973).
16 Cfr. Hans-Georg Gadamer (1983). Per una mia valutazione dell’impossibi-
lità di integrare Gadamer nel femminismo, cfr Diane Elam (1991). Per un eccel-
lente resoconto del dibattito tra Habermas e Gadamer, cfr. Martin Jay (1988).
17 Habermas, chiaramente, non condivide il ragionamento di Bataille sul
dono e sull’economia generalizzata dello spreco. In uno saggio curiosamente con-
traddittorio, Habermas muove molteplici critiche a Bataille. Sostiene che Bataille
non era in realtà “interessato alla funzione socialmente integrativa dello scambio del
dono come l’instaurarsi di obblighi reciproci” (1984, p. 95). Ciò lo si potrebbe ac-
cettare nella misura in cui il dono collega individui e gruppi in modi che eccedono
l’ordine sociale costituito; è un modo di concepire la funzione di integrazione del do-
no come realizzazione ed eccesso di “integrazione sociale” nel senso habermasiano.
Habermas, comunque, prosegue la sua critica a Bataille rilevando altri aspetti
contraddittori. Due sono le obiezioni da parte sua che ritengo rilevanti in questo
contesto: 1) Bataille non è in grado di spiegare il successo e l’espansione del capi-
talismo; 2) il ragionamento di Bataille, fondandosi sulle osservazioni di Weber
sulla religione, non è utilizzabile per analizzare “l’impresa di totale secolarizzazio-
ne dell’industrializzazione sovietica sotto una direzione autoritaria” (1984, p. 99).
Queste obiezioni mi sembrano speciose, dato che Bataille, nel ragionare sul-
la possibilità di economie generalizzate, sostiene che esse esistono accanto alle
economie ristrette a cui Habermas fa riferimento. Inoltre, il fatto che Habermas
abbia problemi nel confrontarsi con il carattere esplicitamente erotico dell’opera
di Bataille, è forse un sintomo della difficoltà che Habermas incontra nel situare
Bataille in un contesto a lui comprensibile.
18 Si potrebbe dire che la generazione è un differend, cfr. Jean-François Lyo-
tard (1985).

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Riflessioni frammentarie sul corpo, il dolore, la
memoria.
Vincent Crapanzano

Le mie riflessioni hanno un carattere preliminare e per


questo saranno necessariamente frammentarie. Il testo, o
meglio il corpo del testo che le contiene suggerisce infatti
un corpo frammentato che silenziosamente infierisce su
ogni immaginaria costruzione corporea, un corpo sofferen-
te, un corpo traumatizzato in quello che può essere conside-
rato il suo “mito di fondazione” dell’alienazione primordia-
le - ovvero il sé, il sé incorporato, che emerge in quel spetta-
colare momento in cui l’enfans rispecchiandosi nella pro-
pria immagine (le semblable), afferra la propria insufficienza
-. Jacques Lacan osserva che tale momento
è un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficien-
za all’anticipazione - che per il soggetto, ingannato dall’identi-
ficazione spaziale, crea le fantasie che da un’immagine fram-
mentata del corpo conducono ad una forma che noi chiame-
remo ortopedica della sua totalità - e all’amarezza infine assun-
ta da un’identità alienante la cui struttura rigida segnerà il suo
intero sviluppo mentale (1974, p. 91).
Questo corpo frammentato si rivela in sogno (nello stes-
so modo in cui l’analizzando prova un’aggressiva disintegra-
zione della propria individualità ), nei dipinti di Hierony-
mus Bosch, nell’isteria e nella schizofrenia; ciò avviene an-
che - aggiungerei - nelle mistiche regressioni del buddismo
tibetano, dove il corpo viene fantasmaticamente smantella-
to; e inoltre in quegli intensi momenti erotici, così ben de-
scritti da Jean Genet (1949), in cui i corpi degli amanti si
confondono l’un con l’altro in un gioco sado-masochistico.
Per Lacan il corpo frammentato è sempre supporto tempo-
ralizzato del corpo “ortopedico”. Di volta in volta, e sempre
inaspettatamente, questo corpo frammentato, al pari
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 157

dell’intrusione del reale nel mondo simbolicamente struttu-


rato del soggetto, infrange le difese che proteggono il corpo
totalizzato, assemblato e coordinato e, rammentandocene
così perversamente l’artificiosità della sua integrità, Lacan
costruisce un’etica cartesiana del fatalismo. Il suo mito di
fondazione pone il corpo in una struttura di anticipazione
(sufficienza, soddisfazione e completamento) votata al falli-
mento. Egli riesce così a restituire al corpo la dimensione
temporale che viene negata o sistematizzata (secondo una
terminologia biologico-evolutiva) fino ad esserne negata in
quella che è la nostra immagine costitutiva di un corpo “in-
tegrale”. Visione peculiare, culturalmente e storicamente
specifica che fonda un pessimismo che noi correliamo ad
un realismo e che interpretiamo come alienazione del “sé”
dal sé, del “corpo” dal corpo; una frattura tra il mondo in-
teriore e il mondo esteriore, una ferita primordiale, un trau-
ma, una cesura che (secondo la psicoanalisi) è stata metafo-
rizzata come castrazione e relativa angoscia.
Non abbiamo bisogno di accettare in toto la visione di
Lacan - anche se per me in questo momento è l’interlocuto-
re privilegiato - per apprezzarne la tormentata apparizione.
Apparizione come fantasie di smembramento che molto
meno inconsciamente di quanto vorremmo, si nascondono
dietro il corpo immaginato, come un incubo appena ricor-
dato. Il corpo è dentro il tempo - tempo entropico che infi-
ne lo condurrà alla dissoluzione -; veicolo di memoria è in-
terno ad essa. La memoria, la sua stessa possibilità, ci pro-
tegge dalla schiacciante intensità della percezione. In Aldilà
del principio di piacere, Freud osserva: “Per l’organismo vi-
vente la protezione dagli stimoli è una funzione quasi più
importante della ricezione degli stessi” (1975, p. 46-47). Se
non fosse per la memoria, noi ci troveremmo, dal punto di
vista della percezione, in una posizione simile a quella di chi
nella caverna platonica contempla le Idee. Ancor prima di
percepire qualcosa, sappiamo che ciò che noi percepiremo
sarà ricordato e che dunque non abbiamo bisogno di me-
diarne la piena, dolorosa, terrificante intensità. La memoria
assolve per noi una funzione simile a quella di queste om-
bre. Noi dunque afferriamo il nostro corpo al tempo stesso
158 VINCENT CRAPANZANO

dentro e tramite la memoria che al contempo media e pro-


tegge. Il corpo non lo si può considerare avulso dalla soffe-
renza, dalla sofferenza del percepire. Per via della sua inten-
sità, la sofferenza è in grado sia di obliterare la memoria,
che di offrire una via di fuga - l’illusione della fuga - dalla
memoria stessa e di costituirsi, iscrivendovisi, anche come
dimenticanza, movimento che perpetua la memoria, il cor-
po e la sofferenza medesima.
È in questa prospettiva, certamente imparziale, poiché
mia, che ho scelto di riflettere sul corpo, la sofferenza e la
memoria.
Per quale ragione il corpo ha improvvisamente suscitato
così tanta attenzione teorica?1 Forse esso offre - o così viene
ritenuto - una via d’uscita dalle insidie del pensiero post-
strutturalista? Il “corpo” ha reso possibile un mutamento di
prospettiva filosofica; ha facilitato un’apertura al fenomeno-
logico (non parlerò qui degli approcci scientifici che consi-
derano il corpo quale loro campo di studio). Una prospetti-
va fenomenologica, attenta all’intenzionalità della coscienza,
può ben prestarsi ad essere compiacente nelle scienze uma-
ne, concentrandosi sui fenomeni “superficiali”, e assumen-
do apoditticamente la propria ego-centrica esperienza.
Terence Turner ritiene che la recente preminenza teorica
del corpo
sia in parte effetto e in parte causa di una generale tendenza ri-
duzionista che rifiuta categorie astratte e totalizzanti costrutti
teorici che non sono direttamente accessibili alla percezione,
alla coscienza e alla partecipazione individuale.
Con categorie e costrutti egli intende riferirsi a
tutti i livelli collettivi della realtà sociale e culturale e del pro-
cesso storico e a tutte le costrizioni strutturali in absentia, a so-
la esclusione della diretta esperienza in praesentia quale ambi-
to dell’autenticità (1995, p. 144).
Nonostante Turner semplifichi radicalmente molte delle
attuali teorie sul corpo (si veda, ad esempio, Pinkus, 1995),
la sua osservazione è fondata. Egli scrive:
In quanto partecipe della coscienza, della sensibilità e dei
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 159

desideri individuali, e di alcune (mai di tutte) forme di con-


trollo sociale, come anche obiettivo di alcune (mai di tutte)
rappresentazioni culturali del mondo materiale e sociale; e
sia come oggetto materiale che come categoria discorsiva, il
corpo sembra offrirsi come punto di partenza di una nuova e
diversa teorizzazione delle dimensioni sociali e culturali
dell’esistenza individuale, e ciò a rischio di ridurre l’aspetto
rilevante delle prime alle seconde (1995, pp. 144-145).
L’approccio di Turner sottolinea il carattere sociale del
corpo, quale luogo e oggetto di attività produttiva. La sua
“sovrapposizione e partecipazione nei più diversi processi
sociali” dimostra che “ci si può aspettare un’ampia oscilla-
zione nel grado e nelle modalità in cui i corpi verranno ma-
nipolati sia in termini di costrizione che in termini di indivi-
dualità autonome, in società diverse come anche in contesti
diversi di una stessa società” (1995, p. 145). Vero, ma come
in tanti altri scritti sul corpo, Turner non è chiaro su che co-
sa sia il corpo. Il corpo a cui egli si riferisce è un “oggetto
materiale”? O forse una “categoria discorsiva”? O ancora
una combinazione delle due? Nel nostro discorso (e meta-
discorso) “occidentale” esiste perlomeno un imperativo a
confondere il corpo con il “corpo”; a confondere l’esperien-
za del corpo con la sua espressività e le descrizioni - le sue
esteriori apparenze - che noi di esso facciamo.
Il corpo è il costrutto di complessi processi sociali, cultu-
rali e linguistici che non solo ne influenzano il carattere
“biologico” ma anche il potenziale simbolico e retorico.
Simbolismo e retorica premono sul “biologico”, che a sua
volta resiste ad entrambi in senso fenomenologico. Il corpo
stesso sovente fornisce una matrice (immagine efficace ed
effettuante) della società - la stessa società che l’ha “creata”
- diventando, secondo un movimento circolare, le fonda-
menta della configurazione della società medesima.2 Jean
Comaroff nota come
la ‘naturale’ costituzione della forma corporea umana ha un
enorme potenziale di elaborazione e rappresentazione simbo-
lica - per la strutturazione dello spazio, per i processi tempora-
li e, aspetto particolarmente significativo, per l’interrelazione
fra i due (1985, p. 8).
160 VINCENT CRAPANZANO

Aggiunge che il corpo è in grado di generare multiple e


rispettivamente contraddittorie percezioni.
Non c’è molto da sorprendersi, dunque, se nel momento stes-
so in cui le metafore biologiche rappresentano realtà sociocul-
turali, esse non solo esprimono rapporti e categorie, ma anche con-
traddizioni nell’esperienza quotidiana (Comaroff, 1985, p. 8)
A titolo d’esempio, l’autrice fa notare come conflitti so-
cioculturali vengano spesso compresi metaforicamente co-
me disordini fisici.
Ma che cos’è la “naturale” costituzione del corpo?
Per i Sar del Chad meridionale, il corpo non è tanto una
matrice della società, quanto, secondo Jacques Fédry
(1976), “una sorta di attrezzo polivalente” o uno “schele-
tro” della loro lingua. “Il mondo delle cose (sia naturali che
artificiali) viene rappresentato in base al modello del corpo
umano” (Fédry, 1976, p. 72). Il corpo permette la descrizio-
ne relazionale delle cose. Il tetto di una casa viene chiamato
“testa-casa”; l’interno, “stomaco-casa”; e l’entrata, “bocca-
casa”. Le parti del corpo e i suoi atteggiamenti sono utiliz-
zati come preposizioni: “testa” e “occhio”, per esempio, per
relazioni di interiorità (come in “testa-campo” per indicare
“nel” campo o “occhio-fuoco” per indicare “nel” fuoco),
“essere sdraiati” indica qualsiasi cosa che si estende sulla
terra, ovvero in orizzontale, come un serpente. Le parti cor-
poree articolano anche forme di discorso, lo spazio e il tem-
po (concepiti dai Sar come strettamente collegati sono indi-
cati con la stessa parte corporea), concetti quali assenza,
presenza, scambio, conformità e responsabilità - “tutti parte
della vita psicologica”. I Sar dicono “la fronte del villaggio”
per indicare l’ovest, “un corpo soffice” per indicare timi-
dezza, modestia e vergogna, “la gamba di un camion” per
indicare una ruota, e “la parte di mezzo della schiena della
notte” per indicare notte fonda. Essi fanno uso del corpo in
locuzioni ancor più (metaforicamente) complicate. “Io
estraggo la mia bocca” significa “Io do la mia solenne bene-
dizione” o “Io do la mia solenne maledizione”. “Io getto la
mia gola” significa “Io prometto.”
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 161

Certamente possiamo trovare in molte altre lingue l’arti-


colazione di relazioni e di orientamento in termini corporei.
Basti pensare alla “destrezza” - nel pionieristico studio di
Hertz (1978). Non ho intenzione di affrontare la preminen-
za delle metafore corporee (penso che il dibattito sia in sé
stesso indicativo del modo in cui il corpo possa acquisire
una preminenza retorica). È certamente possibile, nono-
stante l’evidenza psicologica ed etnografica della preminen-
za metaforica del corpo, considerare la corporeità Sar come
una metaforizzazione di relazioni astratte, una modalità per
costituire le relazioni astratte. Ciononostante, dobbiamo es-
sere particolarmente attenti a non equiparare il corpo mate-
riale dei Sar al nostro e a naturalizzarli entrambi quasi fosse-
ro immuni dall’effetto dell’uso retorico e figurativo che se
ne fa. Faremmo meglio a chiederci: quale esperienza è,
quella dei Sar, in cui il corpo serve da “scheletro” alla loro
lingua? È un modello per articolarne le relazioni?
Il corpo in quanto oggetto o più correttamente, ma non
completamente, il “corpo” in quanto entità linguistica, può
servire per mediare retoricamente, per dare l’illusione della
mediazione, per chiudere, per dare l’illusione della chiusu-
ra; la scissione della significazione in significante e significa-
to. È precisamente questo privilegio che diamo al corpo, in
quanto ci sembra intimamente legato a noi stessi da essere
contemporaneamente oggetto e soggetto della nostra espe-
rienza (cosciente), a conferirgli questo ruolo di mediatore. È
questo che determina la confusione tra corpo (significato) e
“corpo” (significante) e che dà al corpo una speciale funzio-
ne retorica, che “àncora” la significazione. Tale mediazione
riflette un’interpretazione della lingua e del suo uso, ciò che
Michael Silverstein (1979) chiama “ideologia linguistica”,
che asserisce, o perlomeno sottolinea, una scissione nella si-
gnificazione, la possibilità della sua mediazione, e l’impossi-
bilità (almeno nel normale, ordinario, linguaggio) della sua
chiusura.3 Questa “scissione” facilita la metaforizzazione,
oggi così frequente nel pensiero poststrutturalista. Essa vie-
ne usata per descrivere la putativa alienazione dell’uomo, la
sua autoalienazione, la sua intima frattura con se stesso e col
mondo circostante. Essa evoca le ferite, i traumi, la castra-
162 VINCENT CRAPANZANO

zione che si ritiene producano questa condizione. L’univer-


sale presunzione della nostra ideologia linguistica (lungi, in
verità, dall’essere universale) dà a questa metaforizzazione
della scissione tra significanti e significati un carattere di
inevitabilità. Ferite, traumi, castrazione e via di seguito sono
così a loro volta resi inevitabili. Il linguaggio diventa, nel no-
stro mondo secolarizzato, fonte, se non il fondamento, di
fatalità. È anche all’interno di questa figurazione che il cor-
po/“corpo” deve essere pensato.
L’esperienza del corpo è certamente qualcosa di cui non
si può dubitare. Il corpo, quell’esperienza corporea evocata
dal “corpo”, diventa il simbolo dell’incontestabile, ciò che,
paradossalmente, è esterno al simbolico, esterno al linguag-
gio; perché resiste alla scissione in simbolo e simbolizzato,
in corpo e “corpo”. Eppure, noi siamo in grado di parlare
del corpo, della sua esperienza, delle sue divisioni, della sua
storia e, nel parlarne, l’esperienza corporea si aliena da se
stessa, diventa oggetto di formazioni discorsive: diventa cor-
po parlato. Apparentemente incontestabile, l’esperienza del
corpo lo è meno di quanto si possa pensare. Essa è almeno
per una cultura ostinatamente cartesiana come la nostra, un
prodotto della separazione tra il corpo e la mente, di ciò che
essa parla: una separazione che è facilitata, vorrei suggerire,
dalla scissione determinata dalla significazione.
Fino qui, ho assunto una prospettiva referenziale, ma
potrei assumerne anche una di carattere performativo. Par-
lare il/del corpo equivale ad agirlo.4 Si pensi ad una visita
medica, alla formulazione del malessere, ad un “mal di te-
sta” (quindi una formulazione), un dolore penetrante dietro
gli occhi, e si pensi al cambiamento esperenziale generato
dall’articolare il malessere, in questi termini - “mal di te-
sta” -. Naturalmente, agire il corpo, come nel caso della
danza, vuol dire anche parlarne. Elisabeth Kendall sostiene
che la danza moderna ha letteralmente fatto danzare, in una
nuova percezione, una nuova esperienza del corpo. I corpi
dei ballerini moderni “con i loro leggeri drappeggi e gioiel-
li”esercitavano una grande attrazione tra le donne di fine se-
colo proprio a causa della loro libertà.
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 163

Essi non erano immagini dipinte o scolpite; erano reali e


proiettavano una sconvolgente fisicità. Le signore dell’alta so-
cietà tra il pubblico erano, nonostante la popolarità delle bici-
clette e l’avvento della educazione fisica nelle scuole femmini-
li, confinate in corsetti che amplificavano il seno, allargavano
i fianchi e riducevano drasticamente la vita... Questa tarda ca-
ricatura vittoriana, per quanto rassicurante per chi indossava
e per chi guardava, aveva ormai fatto il suo tempo. Non era
più adatta al nuovo secolo che esaltava la velocità e la potenza
della meccanica, e la fluidità e nudità nell’arte. Niente da me-
ravigliarsi se le donne affollassero le matinées per vedere bal-
lerini “classici”: il solo spettacolo di quei movimenti aggrazia-
ti, musicali e liberi diventava una stimolante visione, quasi
una profezia (1979, pp. 80-81).
Proiettato nel tempo, nella storia, il corpo è, ed interpre-
ta se stesso, di fronte a un pubblico - anche se esso stesso è
questo pubblico - davanti o dentro, uno specchio, reale o
immaginario che sia.
Può esistere un corpo senza pubblico?
Se ci si scopre attraverso la propria immagine riflessa, at-
traverso il proprio semblable, tale domanda dovrebbe avere
una risposta negativa. Ma chi è questo semblable? Possiamo
designarlo come il bambino nello specchio. Il bambino, al
contrario, non ha ancora la capacità di identificarlo. Può so-
lo evocarlo, giocare con lui, accarezzarlo nel momento in
cui egli si trova davanti a uno specchio, una situazione che
non può controllare come il seno materno. Il semblable ap-
pare e scompare. No, non come il seno materno, che può
essere richiesto e tale richiesta, per quanto mediata, viene
normalmente compresa. Forse lo specchio può anche venir
invocato? E il semblable? E la primordiale esperienza del
sé? E il corpo? E la totalità? Non vorrei invocare, alla ma-
niera di Melanie Klein, le allucinazioni dell’oggetto assente;
allucinazioni che possono alleviare la “nostra” ansia poiché
dobbiamo dimostrare che esse accadono e che alleviano
l’ansia infantile. La mia ipotesi è che se anche ignoriamo i
problemi del riconoscimento, del riconoscersi del bambino
nel proprio semblable (come ritiene Lacan) invero mediante
corporee - cannibalistiche - metafore di incorporazione,
164 VINCENT CRAPANZANO

dobbiamo immediatamente riconoscere la contingenza pri-


mordiale dell’apparizione del semblable e, per estensione,
del sé, del corpo, della totalità e dell’impotenza che ciò in-
dubbiamente produce. Un grande potere alberga nel sem-
blable, il potere non solo di assemblare e di oggettivare, ma
anche di apparire e, come conseguenza dell’apparire, di as-
semblare e oggettivare. Il corpo non è, qualora accettassimo
le conseguenze del lacaniano mito di fondazione, solamente
costituito da un’insufficienza che precede la propria imma-
gine specchiata, ma è anche costituito dalla sua incapacità
di suscitare quella stessa immagine di insufficienza e
dall’implicita (impossibile) anticipazione di sufficienza e to-
talità. La memoria del semblable, e non la momentanea allu-
cinazione, offrirebbe dunque al corpo il continuum negato-
gli dalla contingente apparizione del semblable stesso, e
dunque la possibilità, per quanto illusoria, di anticipare to-
talità e sufficienza.
E così sono giunto ad un altro mito di fondazione, quel-
lo della memoria.
Lo spettatore osserva il corpo di un altro e nell’osservar-
lo proietta su quel corpo, il proprio corpo, come una sola
unità. Lacan scrive:
Ora, di questa stessa immagine egli percepisce l’unità solo al
di fuori e in modo anticipato. Per il fatto di avere questa rela-
zione doppia con se stesso, è sempre intorno all’ombra errante
del suo proprio io che si struttureranno tutti gli oggetti del suo
mondo. (...) In tale percezione è continuamente evocata per
l’uomo la sua unità ideale, che non è mai raggiunta come tale e
continuamente gli sfugge (1991, p. 213).
La percezione sembra, non possa separarsi dal desiderio.
Chi è, dunque, lo spettatore, la cui percezione del corpo
“crea” il corpo? Delineare lo spettatore, il corpo dello spet-
tatore, la sua differenziazione dall’osservato, dal corpo osser-
vato, non è così chiaro come avremmo potuto immaginare.
Hans Belmer, il pittore surrealista tedesco, scriveva in
modo stravagante:
Certamente, a tutt’oggi non ci si è domandati con la dovuta
serietà in che misura l’immagine della donna desiderata sia
predeterminata dall’immagine dell’uomo che la desidera.
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 165

Dunque, in ultima istanza, da una serie di proiezioni del fallo


che progressivamente procederebbero dal dettaglio della don-
na verso il suo insieme in modo tale per cui il dito della donna,
la mano, il braccio, la gamba diventino il sesso dell’uomo; che
il sesso dell’uomo diventi la gamba inguainata in una corta cal-
za da cui rigonfia fuoriesce la coscia, che diventi la coppia di
natiche ovoidali che danno slancio alla spina dorsale, legger-
mente incurvata, che diventi il doppio seno attaccato al collo
sostenuto o liberamente sospeso sul tronco - che infine diventi
la donna intera, seduta, il dorso piegato, con o senza cappello
o in piedi...(1977, p. 30-32).
Belmer si chiede se non sia, per le donne, vero il contra-
rio e conclude il suo surreale (e rivelatore) delirio - che è il
rifiuto di rinunciare alla priorità sessuale del maschio - scri-
vendo che la vagina, per potersi proiettare in modo analo-
go, ha bisogno di essere stimolata dall’organo maschile.
Hélène Cixous ha osservato che le donne che hanno volta-
to le spalle al proprio corpo, “sono diventate vittime di un
tranello”, e si chiede con stupore: “ma chi saranno mai gli
uomini che danno alle donne il corpo che esse ciecamente
gli donano?” (Cixous, 1985, p. 310) I due sono così aggro-
vigliati in questa smembrante fantasia (per Belmer, neces-
sità) coitale che è facile capire perché i francesi chiamino
l’orgasmo “la piccola morte”. Dovremmo, comunque, te-
ner presente che per Lacan (1974), secondo Malcom
Bowie
la tragica vicenda di Narciso non parla solo di un’allucinatoria
auto-ammirazione, poiché l’eroe è schiavo della peculiare for-
za di una superficie riflettente, e è talmente infatuato dalla sua
immagine riflessa al punto dell’auto-distruzione (1991, p. 34).
Fuga dal narcisistico aggrovigliamento della percezio-
ne, o infine della percezione erotizzata, tramite l’auto-di-
struzione o la distruzione dello spettatore, dell’altro, del
semblable (è sempre un suicidio, se il semblable è la matri-
ce percettiva del sé) sarebbe, da questo punto di vista, un
determinante essenziale (per quanto nascosto) della perce-
zione, infine degli altri simili a se stessi. In genere, hegelia-
namente, parliamo con compiacente astrazione della nega-
zione dell’oggetto della percezione. Nel citare Jeune Parque
166 VINCENT CRAPANZANO

di Paul Valéry, “Io mi vedevo vedermi” Je me voyais, me


voir, Lacan (1979) sottolinea il ruolo determinante del per-
cepito che percepisce ogni percezione. È questa percezione
del percepiente da parte del percepito, al pari del maloc-
chio, una minaccia mortale? Che, come lo sguardo della
Medusa, pietrifica? Medusa et l’error mio m’àn fatto un sas-
so... (Petrarca 1964, poesia 366, v.111). Oggettivante a tal
punto che il percepiente si assenta dalla propria percezione
definendola significativamente oggettiva?
Dov’è dunque il corpo? Percepito per necessità per es-
sere corpo è, dunque, perennemente sull’orlo della tomba?
Come il corpo anche il dolore fisico, e, a quanto sembra
con maggior successo, può giocare il ruolo di mediatore tra
significante e significato, tra parola e cosa. Si dice che il do-
lore non sia esprimibile a parole. Esso è lì, in se stesso, opa-
co, monolitico, intransigente, dentro il tempo e fuori di es-
so, in quel “punto fermo”, per usare le parole di T. S. Eliot,
che il linguaggio non può afferrare, ma che al contempo ne
costituisce l’origine. Esso può servire retoricamente, come a
volte è avvenuto, o, come altre volte, teoricamente, quale
punto d’attracco della e per la significazione. Ne La sofferen-
za del corpo, un libro che ha suscitato un vasto interesse,
Elaine Scarry sostiene, sintomaticamente, che “il dolore fisi-
co occupa una posizione eccezionale nell’intero tessuto degli
stati psichici, somatici e percettivi perché è l’unico stato
privo di un oggetto” (1990, p. 277-278). Per “oggetto”,
l’autrice apparentemente intende un oggetto nel mondo
esteriore.
Si odono e si toccano oggetti posti al di fuori dei confini del
corpo, un desiderio è un desiderio di x, la paura è paura di y,
la fame è fame di z: ma il dolore non è “di” né “per” qualcosa
- è soltanto se stesso. Questa mancanza di oggetto, la totale
assenza di un referente, impedisce di solito la sua espressio-
ne linguistica: privo di oggetto, non può essere facilmente
oggettivato in nessuna forma, materiale o verbale. Ma que-
sta mancanza di oggetto può anche originare l’immagina-
zione, mettendo innanzitutto in moto il processo che alla fi-
ne fa emergere la marea di artefatti e simboli che produco-
no e fra cui ci muoviamo. (Scarry, 1990, p. 278).
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 167

Possiamo certamente criticare alcune delle riflessioni di


Elaine Scarry. Non vi sono, infatti, altri “stati”, anch’essi
“privi di oggetto”, anch’essi interni, al pari del dolore?
Penso ad alcuni tipi di piaceri: il godimento e, naturalmen-
te, l’angoscia (distinta dalla paura). Potremmo sostenere
che un’intera, moralizzante quanto totalmente problemati-
ca psicologia è implicita alla predilezione del dolore da par-
te di Scarry. L’autrice sembra confondere il “contenuto re-
ferenziale” con l’oggetto grammaticale di un verbo sostan-
tivato. Forse con l’oggetto della coscienza intenzionale? È
forse priva di intenzionalità la coscienza del dolore, l’essere
in dolore? O, forse, la sua intenzionalità è ripiegata in se
stessa? Forse che noi non possiamo intendere ciò che è in-
terno a noi stessi? Potrebbe sembrare che noi esterniamo
sempre l’interno o interiorizziamo l’esterno. Ne consegue
forse che la “mancanza oggettuale” di uno stato tende a
impedirne, o quasi, l’articolazione? Se fosse in tal modo
dovremmo arrivare a negare la potenza della figurazione. E
di consequenza la nostra tradizione poetica nella sua inte-
rezza. In realtà - e questa è la mia ipotesi - non è ben chiaro
se Scarry parli del dolore o del “dolore” interpretato, an-
che se, quando interpreta il dolore come privo di oggetto e
irriducibile al linguaggio, vuole forse sottolineare che di-
mensioni intensionali e estensionali del “dolore” si confon-
dono a tal punto da unificarsi? Sono esperienze interne o
esterne equivalenti (a metafore) per “intensionalità” e
“estensionalità”?
Tutti gli altri stati, proprio perché assumono un oggetto, da
principio ci invitano soltanto ad entrare nel mondo naturale,
piuttosto che ad accrescerlo (Scarry, 1990, p. 278).
Il loro oggetto invita all’espressione. Altrove Scarry so-
stiene che
il dolore fisico non resiste semplicemente al linguaggio, ma lo
distrugge attivamente, provocando un ritorno immediato ad
uno stato anteriore al linguaggio, ai suoni e ai gemiti che un
essere umano emette prima di apprenderlo (1990, p. 19).
La presunta resistenza del dolore al linguaggio mostra
l’attrazione di questo verso il linguaggio stesso, verso
168 VINCENT CRAPANZANO

l’espressione. La distruzione del linguaggio da parte del


dolore (come anche la sua resistenza ad esso) indica fino a
che punto la “fusione” dell’“intensionale” nell’“estensiona-
le”, e del significato nel significante, riesce ad ancorare la
significazione. Paradossalmente, nel “chiudere” il divario
della significazione, realizzando la possibilità stessa della si-
gnificazione, il dolore si stacca dal linguaggio. Nel momen-
to in cui fonda la significazione collegandone il significante
al significato e l’“intensionale” all’“estensionale”. Dobbia-
mo allora chiederci per quale ragione il dolore venga as-
sunto come “figura” di questo fondare la nostra interpreta-
zione linguistica e psicologica, un’interpretazione che è in-
sita nel ragionamento di Scarry. Contrariamente a Scarry,
che si basa su generici assunti fenomenologici, noi non
possiamo semplicemente proclamare l’unicità del dolore. Il
fenomenologico stesso può essere retorico e giustificazioni-
sta come, in un altro contesto, ho cercato di dimostrare per
quanto riguarda le emozioni (1992; 1994).
Quando Scarry sostiene che la “mancanza oggettuale”
della paura produce “il denso mare degli artefatti e dei
simboli da noi creati e nel mezzo dei quali vaghiamo”,
quando fa riferimento a “suoni e grida” anteriori al lin-
guaggio, essa si arrende al mito di fondazione del linguag-
gio condiviso dall’intero pensiero europeo e che, ritengo,
rifletta la peculiare figurazione conferita da noi stessi, nel
nostro linguaggio, al dolore. Johan Godfried Herder, ad
esempio, inizia il suo Saggio sull’origine del linguaggio os-
servando che “già nella sua qualità di animale, l’uomo è
dotato di linguaggio”.
Tutte le sue sensazioni fisiche, e fra le violente, ancor più le
sensazioni violentissime, quelle di dolore, tutte le passioni vi-
gorose della sua anima si esprimono immediatamente con
gridi e voci, con suoni selvaggi e inarticolati. (Herder,
1954, p. 5).
Per Herder, il dolore è all’origine del linguaggio. Preten-
de l’espressione mediante grida, suoni e rumori. È vero che
Herder parla di altre intense passioni, ma è il dolore a moti-
varne il ragionamento. Quasi che un animale o un eroe sof-
ferente come Filottete, confinato nell’isola, “potesse gemere
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 169

parte del suo dolore e, nel riversare nei sordi venti i suoi do-
lorosi gemiti, inspirare almeno dall’aereo vuoto circostante
una novella forza”. La natura non ha comunque fatto l’uo-
mo in “blocchi di pietra scolpiti” o a somiglianza di “egoi-
stiche monadi”. Le sue grida non sono solamente espressio-
ni di un sé isolato, di un corpo isolato. Al pari delle “più fini
corde del sentimento animale”, esse sono anche rivolte ad
altre creature, anche in assenza di ogni consapevole solida-
rietà da parte loro. “Esse assolvono al loro naturale dove-
re”. Esse risuonano. Esse pretendono un’”eco solidale”, an-
che se nessuno è presente, anche in assenza di speranza, di
aspettative, di risposta.
Possiamo scorgere, in Herder, una progressione: nel de-
rivare il linguaggio naturale dal sentimento condensato in
un isolato, originario, attimo. Uno stimolo esterno che pro-
voca dolore, o altra intensa passione, es-pressione convo-
gliata tramite grida ad un altro (anche assente) che le rie-
cheggia. È l’unità del corpo - il corpo senziente - simboliz-
zata in termini musicali nel suono della corda pizzicata,
strappata, da una chiamata repentina. Dalla richiesta di
un’eco solidale? Di una risposta? Herder sottolinea la sim-
patetica natura della relazione tra il grido e l’eco. Al contra-
rio di Scarry secondo la quale chi viene messo al corrente
della sofferenza di un altro ne dubita la realtà (poiché, ver-
balmente elusiva, io non sono in grado di averne conferma).
Herder, romanticamente, osserva, che coloro che odono le
altrui grida di dolore entrano in empatia con quella soffe-
renza. “I loro nervi subiscono una tensione uguale, la loro
anima risuona allo stesso modo...” (1954, p. 15). Le grida,
se gridate nell’immediato contesto del dolore o della passio-
ne, esprimono nettamente, e senza discriminarne le distinte
origini, le ferite dell’anima o del corpo, la paura o le passio-
ni dell’amore. Esse richiamano l’attenzione alla totalità di
una scena che si rappresenta (1954); la loro è intenzione,
suono, non descrizione. Herder, comunque, ammette che
queste grida, strappate dal loro contesto vivente, non po-
trebbero essere altro che cifre. La voce della natura si tra-
sformerebbe allora in lettere arbitrariamente delineate. Al
pari del corpo, Herder identifica il suono con la natura. Il
170 VINCENT CRAPANZANO

suono identificandosi con l’oggetto che lo produce, diventa


per l’uomo, che è naturalmente dotato del potere della ri-
flessione, il tratto distintivo di quello stesso oggetto. Una
pecora bela, e quel belare, quel suono, lo impressiona - egli
se lo sente dentro - e per lui diventa il tratto distintivo della
pecora, il nome di questa. Così, per Herder, il linguaggio è
un linguaggio che discrimina, che inventa. Il dolore, all’ori-
gine del linguaggio, diventa un motivo dominante nell’alie-
nante traiettoria che conduce dal naturale linguaggio del
sentimento verso il linguaggio della riflessione che discrimi-
na; dall’immediatezza del suono, attraverso la decontestua-
lizzazione e la dislocazione figurativa di quel suono medesi-
mo, al suono della rappresentazione scritta.
Si è spesso osservato che il dolore intensifica l’esperienza
del corpo, delineandone, ad esempio, i contorni e creando
un senso di interiorità. Si pensi al paziente di un dentista
che, nel momento in cui il dentista comincia a trapanare,
conficca le unghie nel palmo delle proprie mani per creare
un contro-dolore che in un certo senso può riuscire a con-
trollare. Naturalmente, tale intensificazione dell’esperienza
corporea avviene solo fino a un certo punto, prima che su-
bentrino sentimenti di annientamento, prima del collasso
della struttura psichica.
In ciò noi siamo certo influenzati dal modo in cui co-
struiamo il corpo. Abbiamo accettato il corpo come un’en-
tità separata da altre entità da noi esperite. Lo abbiamo pri-
vilegiato. Siamo a questo punto soggetti forse a ciò che Ba-
chtin (1979) definisce “un nuovo canone del corpo”, che
circa quattrocento anni fa ha rimpiazzato nella nostra tradi-
zione orale e letteraria la grottesca rappresentazione del cor-
po dominante per millenni. Contrariamente al corpo grotte-
sco, sempre in movimento, mai completo, in perenne co-
struzione, assorbito “dal” e assorbente “il” mondo, trascen-
dente i propri limiti, indifferente alle proprie superfici, esal-
tante i propri orifizi, creante un “secondo corpo” - il fallo,
lo stomaco - in grado, perfino, di condurre un’esistenza au-
tonoma, il corpo moderno è rigorosamente definito, chiuso,
esposto all’esterno, individuale ed espressivo. Esso, aggiun-
gerei, soffre della sua autonomia. Esso è il luogo del dolore;
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 171

impedisce il riconoscimento della dimensione interpersona-


le del dolore, eccetto, ovviamente, come afflizione imposta-
gli. Scarry osserva che il sentimento del dolore implica la
sensazione di essere agiti. Colui che soffre “può esprimere
questo sia nei termini di un’azione subita da oggetti esterni
(‘è come se un coltello...’) sia nei termini di un’azione scatu-
rita dal proprio corpo che su di lui agisce (‘è come se le ossa
trapanassero...’)” (1990, p. 35).
Ma nonostante il nostro “corpo moderno”, dobbiamo
sforzarci di riconoscere la dimensione impersonale - interlo-
cutoria - del dolore. Dobbiamo ricordarci che la principale
punizione di Filottete non era il suo dolore, ma il suo essere
confinato nell’isola di Lemno. Egli si rivolge a Neottolemo:
Ma è la voce, che chiedo di riudirne.
Non mi restate là, turbati e inerti
per spavento dell’esule ferino,
ma la pietà per l’infelice, il solo,
l’abbandonato, il senz’affetti, il vinto,
dal male trovi voce, e dite almeno
se v’accostate amici. Oh, rispondetemi:
bene non è che questo sia negato
né a me da voi, né a voi da me: parlate. [224-229]
Più in là egli chiede a Neottolemo di
pensare quale fosse allora
il mio risveglio, quando mi riscossi
dal sonno... ed essi erano già lontani?
Quanto dolore non urlai, non piansi?
Tutte vedere perdersi remote
le navi del viaggio; e più nessuno
che mi fosse d’accanto, e più nessuno
alla stanchezza mia sollievo umano,
che il peso dividesse del mio male. [227-283]
Il dolore qui è decisamente intransigente, ripiegato su
se stesso, un buco nero le cui grida non hanno altra eco
che quel chiacchiericcio impersonale, inumano, che da
lontano si precipita dalla montagna di Ermes (1460), dalla
“vuota caverna”, affollata dalle sue grida di dolore, alle
quali egli chiede di testimoniare la sua morte (1085-1090).
Egli non ha un luogo interlocutorio mediante il quale og-
172 VINCENT CRAPANZANO

gettivare, anche a se stesso, il proprio dolore articolando-


lo.“Lui soffrì”, dice il Coro, “e non vi erano compagni al
suo dolore, nei quali le sue grida potessero trovare rispo-
sta, coi quali lamentarsi della piaga sanguinosa che lo tor-
mentava”(692-695).
È la parola, di altra provenienza, e non un’eco imper-
sonale che risuona in qualche grotta o caverna e che offre
a colui che soffre un sollievo qualsiasi che possa derivare
dall’oggettivazione e dall’articolazione del dolore - il suo
diventare “dolore” - rimanendo risolutamente tale. È, pa-
radossalmente, la parola dell’altro o dell’altra, la sua rispo-
sta alle inarticolate grida di dolore, la loro supplica, che,
vorrei dire, dà a chi soffre il dono di comunicare il proprio
dolore. All’inizio di Sussurri e grida (tra le più impietose
esplorazioni della sofferenza che io possa immaginare) di
Ingmar Bergman, Agnese, ammalata di cancro e incapace di
dormire, scrive su un pezzo di carta, “È lunedì mattina, e
sto soffrendo” poi si addormenta. Sembra una figura della
solitudine causata dalla sofferenza e isolata, come Filottete
su Lemno, nella sua insonnia, nonostante che una delle sue
sorelle, sveglia, le sieda accanto. Agnese è costantemente
accudita da entrambe le sorelle e da Anna, una cameriera,
tutte aggrovigliate nella sua sofferenza e nel suo passato.
Sussurri e grida non parla solo della sofferenza di Agne-
se, ma anche della trasmissione di questa sofferenza alle
donne che la circondano. Sia che il dolore abbia una conti-
nua risonanza in noi, secondo Herder, o che produca il
dubbio della sua stessa esistenza, secondo Scarry, esiste
sempre un protocollo che ne governa la comunicazione.
All’interno dei limiti di questo protocollo ci possono in
realtà essere notevoli differenze nel modo in cui il dolore
viene articolato, trasmesso e ricevuto. Ad esempio, il dolore
può apparire in modo dimostrativo o al contrario empatica-
mente calmo5.
Gli può essere permesso di sollecitare il proprio dolore
o il ricordo di passati dolori. E perfino diventarne metafora.
Nonostante il suo egoismo, l’apparente insensibilità, e la
sua volgare sensualità, Maria, la sorella più giovane di Agne-
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 173

se, è più aperta, quasi in modo promiscuo, al dolore di Ka-


rin, la maggiore, fredda e turbata. Maria soffre per Agnese o
almeno soffre del proprio dolore per la sofferenza della so-
rella. Ha paura. Piange davanti ad Agnese. La propria soffe-
renza, il mostrarla, e l’effetto che ciò ha su Agnese, disgusta
invece Karin, che combatte ogni passionale simpatia sco-
perta dentro se stessa. Karin è una realista, Karin è un effi-
ciente guardiano. Come altri personaggi bergmaniani, an-
che lei soffre di un vuoto interiore, insensibile al sentimen-
to. È sposata con un uomo presuntuoso, cattivo e tirannico.
In un flashback, che Bergman pone subito dopo la morte di
Agnese, Karin prova un piacere autoerotico mutilandosi i
genitali con una scheggia di vetro, e mostrando poi la ferita
al marito si spalma il sangue sul viso.
Anna, in seguito, coerentemente con il suo status,
conforta Agnese fisicamente, abbracciandola, baciandola,
accarezzandola, ma anche sussurrandole parole semplici e
infantili. Sembra quasi che allatti Agnese, mentre tenta inva-
no di prenderne il dolore, di assumerlo dentro di sè. E di
questo sembra quasi trarne piacere.
Al limite dell’osceno, potrebbe essere possibile conside-
rare il dolore nello spazio del dialogo in cui se ne negozia la
collocazione. Ma chi possiede il dolore? Il dolore è forse il
principale creatore di contesto a nostra disposizione. Ineso-
rabilmente esso sancisce una situazione come dolorosa.
Nell’assumersene l’onere, colui che soffre definisce la situa-
zione controllandola nei limiti delle sue facoltà e del preva-
lente protocollo della sofferenza. Benché gli altri ne possano
sapere di più, è colui che soffre ad avere l’ultima parola.
Quando Maria, in presenza di Agnese, comincia a piangere,
il contesto improvvisamente cambia. Maria diventa il centro
dell’attenzione e il centro dell’inquadratura della cinepresa.
Bergman ci conduce verso - e attraverso - un erotismo
della malattia e del dolore. La stessa Agnese - attraverso la
sua sofferenza e il suo morire - non è priva di erotismo. Le
sorelle, Anna, il dottore, tutti sono presi in una sensualità
deficitaria che non gli può offrire alcuna via di fuga dall’on-
nipresenza della sofferenza e della morte. È come se il loro
174 VINCENT CRAPANZANO

desiderio fosse moribondo, congelato nel tempo e nello


spazio. La cinepresa lascia la villa dove vivono le sorelle solo
alla fine del film, come per sottolinearne il dramma. Il loro
desiderio offre nel migliore dei casi ripetizioni sterili del
passato o frequenti anticipazioni del futuro. Tutti, perfino
Maria con la sua sensualità o con il suo fascino sono aneste-
tizzati. Impantanati, si tormentano gli uni con gli altri, rima-
nendo comunque soli e isolati. Ironicamente, solo Agnese,
attraverso la morte, riesce a sfuggirne.
Interno alla memoria, il corpo è parimenti luogo della
sua inscrizione. Mariella Pandolfi osserva che le donne del
Sannio percepiscono la vita quotidiana “come una serie di
avvenimenti, fratture, buchi neri che si inscrivono diretta-
mente nel corpo” (Pandolfi, 1991, p. 31). La loro memoria
della sofferenza e del dolore è più forte di ciò che esse stesse
hanno vissuto come esperienza. E ciò trascende il livello
soggettivo e si condensa in quello storico e collettivo. Nei
loro corpi “attraverso il racconto di malattie, di sintomi, di
ogni sofferenza, veniva inscritta e fermata la storia del pae-
se” (Pandolfi, 1991, p. 29). Molte sono le volte che l’inscri-
zione viene associata, sia direttamente che figurativamente,
al dolore. Noi ci interroghiamo sul dolore della memoria. Il
termine stesso di inscrizione deriva dall’indoeuropeo per in-
dicare il graffiare, l’incidere. Nietzsche ha osservato:
Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò
non avvenne mai senza sangue, martiri, sacrifici (...) Tutto
ciò ha la sua origine in quell’istinto che colse nel dolore il coa-
diuvante più potente della mnemonica” (1968, p. 259).
I marocchini con cui ho lavorato avevano l’abitudine di
dire che la circoncisione avrebbe dovuto essere fatta il più
presto possibile in modo da poter essere meno dolorosa
possibile ma non così presto da poter venir dimenticata
(Crapanzano, 1992).
E infatti, in tutto il mondo possiamo trovare la dolorosa
inscrizione della memoria nel corpo. Circoncisione, subinci-
sione, castrazione, clitoridectomia, infibulazione, estrazione
di un dente, taglio di una falange, perforazione di parti del
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 175

corpo, scarnificazione, tatuaggio, sevizie, giocano un ruolo


importante, rituale e ritualizzante, nella costituzione di ciò
che si ricorda e del sé che ricorda. Si pensi come spesso riti
idiosincratici, a volte anche psicotici, sono accompagnati
dall’induzione del dolore fisico. Si pensi anche alle nostre
dolorose esperienze. Esse rimangono forti nella nostra me-
moria, a meno che non siano troppo “intense”. In questo ca-
so, diciamo che sono state soppresse, represse o rimosse. Di-
ventano “traumi”. Freud definisce traumatici “quegli eccita-
menti esterni abbastanza potenti da infrangere lo scudo pro-
tettivo” (1975, pp. 49-50) che, secondo lui, avvolge l’organi-
smo umano. Esse stimolano il principio di piacere. Sono “in
grado di provocare un disturbo in larga scala nel funziona-
mento dell’energia dell’organismo e scatenare ogni possibile
misura difensiva.” Tra queste risposte vi sarebbe il continuo
sognare l’“evento traumatico” (Freud, 1975, pp. 52-53).
Sia in senso fisico che in senso psicologico, i traumi stan-
no a cavallo fra il corpo e la psiche. Dalla radice indoeuro-
pea ter strofinare, girare, storcere, perforare, la parola “trau-
ma” giunge a noi attraverso il greco ferire. Etimologicamen-
te, sembra far riferimento essenzialmente alla lesione corpo-
rea. Termine chirurgico indicante una lesione fisica, esso ap-
pare “psicologizzato” negli ultimi decenni del diciannovesi-
mo secolo, in Francia, dove il “trauma morale” era ben co-
nosciuto prima che vi arrivasse Freud nel 1885 per studiare
con Charcot (Hacking, 1995). Nei più recenti e conosciuti
dibattiti sul trauma, le due accezioni vengono spesso confu-
se. Il corpo dà forma e peso allo psicologico. Suggerisce un
evento letteralmente descrivibile, unico e storicamente
determinabile.
Per quanto i traumi fisici possano essere evidenti e quelli
psichici no, io sostengo che i traumi psichici non presenta-
no un referente specifico. Lacan (1979) sostiene che poiché
i traumi sono dolorose incursioni del reale nel funziona-
mento simbolico della vita psichica, essi, come ogni incon-
tro con il reale, sono esterni alla significazione. Conseguen-
temente, essi non possono avere un referente specifico, an-
che se ritengo che la loro “intrusione” venga dalla nostra at-
tuale concezione psicologica organizzata in modo da assu-
176 VINCENT CRAPANZANO

mere un referente. Le psicologie come la psicoanalisi, spe-


cialmente quelle che si affermano in grado di liberare i loro
pazienti dagli effetti del trauma “riconducendoli” alla
“realtà” della loro esperienza traumatica, incesto, traumi in-
fantili, l’essere testimoni di un omicidio, cadono in questa
trappola articolatoria e di conseguenza non comprendono
le dimensioni traumatiche dell’“esperienza traumatica”
stessa, il suo non avere un referente ultimo.
Indipendentemente dal fatto che accettiamo o meno
l’interpretazione lacaniana del trauma come dolorosa intru-
sione del reale, dobbiamo comunque riconoscere la struttu-
ra temporale e temporalizzante all’interno della quale
l’”evento traumatico” viene collocato. Indipendentemente
dalla sua realtà storica, il trauma “ricordato” ritengo che
possa venir collegato ad un ricordo di copertura, un ricordo
dietro il quale se ne nasconde un altro il quale a sua volta ne
cela un terzo. Freud che non ha mai avuto il coraggio di ab-
bandonare completamente la fede nella possibilità di deter-
minare gli eventi responsabili della “malattia mentale”, cre-
deva che l’analisi potesse svelare il ricordo sepolto “in grado
di riportare alla luce il contenuto di quegli anni infantili co-
perti dall’oblio” (1978, p. 182). Mi sembra che la tempora-
lità della vita psichica precluda qualsiasi referente ultimo o
interpretazione referenziale; gli eventi riferiti rimandano
sempre ad altri eventi precedenti e ne anticipano quelli fu-
turi in un continuo e caratteristico gioco di spostamento e
condensazione.6 Riferiti o meno, gli “eventi traumatici” so-
no essi stessi inseriti nel traumatico, più precisamente nella
storia traumatogena del soggetto: una storia che si fonda su,
e si articola intorno a, un vuoto, un buco, un’assenza, un
manque-à-être (per usare l’espressione di Lacan) che può es-
sere compreso solo in senso figurato come, per esempio,
una ferita, un trauma.7 I “referenti ultimi”, includendo i
traumi, che vengono svelati dalla psicoanalisi e da altre psi-
cologie ermeneutiche, sono così numericamente limitati, co-
sì ripetitivi, e così ben integrati nel racconto psicologico che
si può ben sospettare siano essi stessi a conferire il carattere
ultimativo a tali referenti.
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 177

Non voglio negare che un trauma corporeo possa essere


“catturato” dalla psiche, e diventare la fonte di un trauma
psichico. Succede, ma paradossalmente può anche fungere
da meccanismo di difesa contro i traumi psichici o mitigar-
ne almeno l’“effetto traumatico”. Freud, in Al dilà del prin-
cipio di piacere ha osservato come una ferita o una contusio-
ne che accompagna un evento potenzialmente traumatico,
possa impedire lo sviluppo di una nevrosi da trauma (1975,
pp. 24-25). Forse che in tal modo offra un definito e defini-
tivo referente? Forse che in tal modo possa condensare tutti
i traumi della vita dell’individuo in un evento singolo, ben
definito e ben localizzato? Può essere considerato come un
sacrificio? Un tipo di sacrificio, come tutti i sacrifici del re-
sto, i cui effetti sono illusori; poiché si fonda sull’“irreferen-
za” (un neologismo che vuole evocare irrilevanza e irrive-
renza) dei traumi indicati come psichici. Il trauma può sola-
mente offrire l’illusione di un referente ultimo, definitivo.
Non è in grado di riempire una mancanza, né è in grado di
fermare il tempo, nonostante la ripetizione di un doloroso
ricordo realmente ricordato.
Sia Freud (1975, p. 25) che Lacan (1979) hanno posto
l’attenzione sul modo in cui l’evento traumatico continua-
mente si ripresenta nei sogni del nevrotico. Almeno secon-
do Freud tale ripetizione è un tentativo di controllo. Po-
tremmo chiederci allora: controllo di cosa? Controllo forse
della paura che Freud considerava come una delle due cau-
se del trauma? O forse della sorpresa, considerata la secon-
da causa? Freud prediligeva la prima. Lacan che collega
ogni incontro con il reale, compreso il trauma, alla casualità
(tuché), privilegerebbe la seconda. È l’“irreferenzialità” de-
gli eventi, la loro casualità, che fonda la nostra storicità. Per
quanto tentiamo di mascherare questa irreferenza con l’in-
tensità dei nostri ricordi o con la certezza proclamata dai
nostri stessi miti di fondazione veniamo comunque sempre
ricondotti alla mancanza dell’essere, la cui “presenza” pos-
siamo solo limitatamente asserire e figurare. Certamente,
con questa affermazione ho immediatamente prodotto il
mio personale mito di fondazione non tanto della memoria
quanto della storia. Vorrei riprendere, a questo punto, quel
178 VINCENT CRAPANZANO

primo mito di fondazione della memoria che non ho con-


cluso e considero parassitario. L’ho costruito, infatti, impos-
sessandomi, per queste mie riflessioni, di chi potremmo
momentaneamente considerare il mio alterego: “Lacan”.
Quella storia evocava l’apparizione improvvisa del sembla-
ble, un’alterità che si dà, che dà corpo, che annuncia al
bambino la propria insufficienza soggettiva e corporea, che
lo perseguiterà in sogno motivandone la vita col dono di
una frammentaria ontologia. Il corpo, reale e riflesso (poi-
ché l’anima, nonostante i nostri misticismi, non può venir
riflessa, non da uno specchio almeno) è complice di questa
intrusione del reale, forse traumatica, nella nostra psiche
con tutto quel che ne consegue, inclusa la figurazione del
corpo, il corpo nel dolore o soggetto al dolore, come società
o cosmo. Il dolore, come il corpo, non può comunque mai
darci l’ancoraggio che noi desideriamo, poiché l’assenza di
rottura nella significazione, sarebbe immediatamente assen-
za di desiderio.

1 Si veda, per l’antropologia, Lock, 1993.


2 La figurazione corporea della geografia sociale può ben rimanere implici-
ta. Si pensi, ad esempio, al divario tra il nord e il sud dell’Europa. Il nord è as-
sociato, ed a sua volta stereotipicamente si associa, a funzioni intellettuali, a di-
sciplina morale, ad un severo regime sessuale; mentre il sud evoca emotività e
passionalità, rilassatezza morale, licenza sessuale. Si pensi alla circospezione di
Gustav Aschenbach nei confronti del sud in La morte a Venezia di Thomas
Mann. La vista di una palude tropicale dentro il cimitero suscita in Aschenba-
ch una forte emozione, il cuore che batte “di paura e di sconvolgenti desideri”,
costituisce il sostrato emotivo del suo viaggio in Italia. Vi è forse un corpo na-
scosto dietro queste associazioni: la testa e la parte superiore al nord, la parte
inferiore al sud?
3 Se tale rottura sia universalmente assunta da tutte le ideologie linguisti-
che, rimane tutt’ora da stabilire. In quanto prodotto degli strumenti concet-
tuali con i quali noi interpretiamo il linguaggio come ideologia, una sua deter-
minazione “empirica” apparirebbe necessaria. In questi miei Frammenti utiliz-
zo “significante” e “significato”, “parola” e “cosa”, “intensionale” ed “esten-
sionale”, “simbolo” e “simbolizzato” in maniera lata, quali figure di tale rottu-
ra - per enfatizzare fino a che punto tutto questo permei il nostro pensiero.
4 Come per le emozioni (Crapanzano, 1992; 1994), la performatività
dell’espressione linguistica del corpo, dipende dall’offuscamento dell’esperien-
za, dell’espressione e della descrizione. Non posso qui entrare nel merito, ciò
richiederebbe un’analisi delle specifiche espressioni mediante le quali il “cor-
po” viene figurato.
5 Si veda il saggio di M. Pandolfi “Il corpo, i corpi: per un’etnografia
dell’esperienza migrativa”, 1994, in bibliografia.
6 Ciò sarebbe particolarmente vero qualora accettassimo l’atemporalità
RIFLESSIONI FRAMMENTARIE SUL CORPO... 179

dell’inconscio postulata da Freud (p. e., 1975, p. 48)


7 Tale manque-à-être è dato nel nostro Dasein - qualcosa che, secondo
me, può venir collegato all’insufficiente referenzialità del linguaggio. Non mi
riferisco solamente all’intrusione del réel o alla rottura della significazione,
così care a Lacan, ma anche all’impossibilità di una locuzione referenziale
capace di descrivere senza mediazioni l’immediatezza da essa generata. Na-
turalmente, il mio insistere sulla primordiale mancanza, è sintomatico del
mio condizionamento culturale.

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