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antropologia/etnografia
Meltemi editore
via Merulana, 38 – 00185 Roma
tel. 064741063 – fax 064741407
info@meltemieditore.it
www.meltemieditore.it
Massimo Canevacci Ribeiro
LA LINEA
DI POLVERE
I miei tropici tra mutamento
e autorappresentazione
MELTEMI
Indice
p 7 Premessa
11 Introduzione
23 Capitolo primo
Dialogiche
23 Roma/Meruri
25 Leonida
30 Jerson
33 Kleber
38 Nominação
46 Funerale bororo
57 Capitolo secondo
Transiti
57 Rappresentazioni
63 Eteronomie
69 Nativi de-nativizzati
74 Lo xavante e il video
79 Euclide tra i mundurucú
85 Transizione
87 Capitolo terzo
Racconto
121 Capitolo quarto
Mito bororo
121 Né crudo né cotto
126 Maracá
128 Mito
235 Bibliografia
Premessa
7
cemento vicino alla missione salesiana; a nord, dove tra
Premessa
grandi difficoltà vive il villaggio di Garças con le malocas di
paglia, fango, legno. L’équipe al completo mi aspettava al vil-
laggio. Era partita qualche giorno prima per risolvere la que-
stione della vacca: la mia presenza doveva essere scambiata
con un dono che avrebbe favorito e compensato la mia par-
tecipazione al funerale. Aivone aveva fatto da intermediaria
con il maestro dei canti che era anche il marito della morta
(rendendo la cosa più complicata quanto straordinariamente
interessante e quasi unica). Lo avevo conosciuto nel primo
viaggio e mi aveva trattato con durezza, consapevole del “va-
lore” della sua sapienza rituale: un valore simbolico che tra-
duceva in termini immediatamente economici che allora mi
ero rifiutato di riconoscere in quanto ritenevo di svolgere
un’azione a favore dei bororo, tra l’altro su loro esplicito invi-
to. Si trattava di una nominação, un rituale durante il quale
si dà il nome al bambino appena nato.
La sera del 16 era accaduto un fatto straordinario, a causa
del quale – anziché andare subito all’hotel dove alloggiavo
per preparare le valige e tutte le attrezzature per il viaggio –
avevo un appuntamento con Sheila Ribeiro, la donna che cer-
cavo dal primo anno in cui ero venuto in Brasile (1984); era
stata lei a trovarmi per questo appuntamento di lavoro.
Avevamo interessi in comune: la metropoli, il corpo, l’arte, la
pubblicità, i paesaggi sonori e danzanti, e soprattutto cercare
di rappresentare e manifestare questi flussi attraverso la pro-
pria autonomia irrequieta e i possibili incroci sensibili.
Coreografia e antropologia.
Ma c’era anche qualcosa di più che ci attirava l’un l’altro, dif-
ficile da definire e il cui odore ci girava intorno. Eravamo
usciti a cena la sera prima, transitando da un ristorante liba-
8
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siderio – un coagulo di pulsioni immesse dalla violenza sim-
Premessa
bolica dei media e da cariche irriducibili – e un’arte come et-
nografia di corpi-feticci che entrano dentro i nuovi panorami
visuali per dissolverne il potere reificante. Entrambe le arti ri-
schiano di oltrepassare quella linea sottilissima tra dominio e
liberazione. Ma non esitano a mettersi in gioco. E anche que-
sto contribuisce a dare quel senso un po’ disperato ed este-
samente felice di un incontro tutt’altro che fortuito. Dove
amore, erotismo, tenerezze, ricerche, fantasie, banalità danza-
no senza trovare soluzioni finali.
Allo sguardo di Sheila: dagli occhi leggermente obliqui come
traccia di mescolamenti indigeni, sguardo acceso, tagliato da
un brillare di luminosità inquietante e inquieta. Occhi a volte
stretti come fessure che mi attirano dentro, come se mi vo-
lessero risucchiare dentro le sue pupille grandi e scure o qua-
si invisibili, occhi fissi senza che neanche le palpebre si chiu-
dano per attenuare l’illuminazione dello sguardo, sguardo fis-
sato: occhi fissati, occhi dilatati, occhi espansi al di fuori del-
l’incavo per inumidirmi dei suoi fluidi.
Al tuo sguardo, Sheila.
Per altri aspetti, il libro non può che essere dedicato ai boro-
ro, in particolare a quelli che considero fraterni amici: Kleber,
che libera un’autonoma visione della propria cultura anche
grazie all’uso delle nuove tecnologie; Leonida, la cui vista
mentre si scarificava ha provocato in me un’emozione indi-
menticabile e, insieme, la ferma volontà di continuare la par-
tecipazione al rituale; Gerson, che mi ha spiegato molte cose
e spinto a tenere presenti i problemi legati all’agricoltura. Ma
tante altre sono le persone cui mi lega questa esperienza, tra
cui il giovanissimo Rodrigo, che amava giocare con la mia
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verso.
Infine, voglio ricordare tutto il gruppo di ricerca da me coor-
dinato già nei seminari precedenti la partenza per definire
compiti e metodi: in particolare Aivone Brandão, che nella de-
dizione ai bororo ha trovato il proprio mutamento esistenzia-
le e professionale; Sergio Sato, con il suo entusiasmo e una
continua gioia di vivere ogni problema per risolverlo senza
mai stancarsi; Viviane, la cui freschezza giovanile, unita a una
tristezza oscura, rendeva la sua presenza silenziosa e discre-
ta, anche nel suo compito etnografico con una donna afro-
brasiliana i cui figli esprimevano un ambiguo desiderio di an-
dar via; e infine Paulinho, giovane e instancabile bororo che
filmò l’intero rituale definendo il suo ruolo centrale verso
l’auto-rappresentazione.
Introduzione
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Qui sta per avere luogo un funerale. Non il famoso funeral
Introduzione
bororo, studiato e mostrato tante volte dagli antropologi co-
me uno dei più straordinari esempi della complessità cultura-
le indigena legata al rapporto morte/vita. Un funerale cattoli-
co, esercitato dal giovanissimo salesiano Marcelo, essendo a
Brasilia il missionario anziano. Dopo una fervente discussione
notturna, Marcelo ha indossato i paramenti religiosi, pesan-
tissimi e fortemente istituzionali. Insieme aspettiamo sulla so-
glia della chiesa l’arrivo del pick-up con la bara e sempre in-
sieme eravamo stati poco prima nella maloca dove la morta
era esposta al lamento dei suoi cari. Una capanna molto ma-
landata, forse per affinità con la malattia della donna – cirrosi
epatica – determinata quasi sicuramente dall’abuso di alcool;
tanto più stridente con lo stile urbano delle altre case, le au-
toconstruções diffuse nelle periferie di tante metropoli brasi-
liane, che non sono composte di fango, foglie e rami, ma di
cemento, mattoni e tegole. E sono ovviamente pulite.
Nella maloca la bara era aperta per rendere visibile un’ulti-
ma volta la morta ai parenti. Quando viene delicatamente
deposta dal pick-up a terra, la bara è (o appare) chiusa, ep-
pure si avverte che il tipo di chiusura non è ermetica, il co-
perchio appare poggiato sopra piuttosto che serrato con
chiodi. I parenti della morta sollevano la bara e la portano
dentro la chiesa. Domando al mio informatore quasi casual-
mente perché la bara pare non essere ancora chiusa. La ri-
sposta è sorprendente. I salesiani hanno da tempo iniziato
una offensiva contro il funeral bororo, che non è solo un ri-
tuale funebre sopravvissuto a un passato ormai finito (come
vedremo), ma è parte costitutiva dell’intera visione del
mondo bororo, in una cultura che sta cambiando senza per-
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culturazione è probabilmente uno solo, neo-colonialismo, che
Introduzione
permane anche nella questione post-coloniale. L’episodio del
funerale bororo attesta che questo termine – molto usato per
indicare un processo storico-culturale di ampio respiro – è
inadeguato per diverse ragioni, la principale delle quali è che
il post non ha realizzato le sue premesse. La fase storica e
politica che stiamo vivendo, infatti, è regressiva rispetto alle
speranze che un processo articolato e liberato si mettesse in
moto a partire dai contesti che avevano subito il dominio co-
loniale, e da cui erano usciti dopo la seconda guerra mondia-
le. La confusione che il prefisso post ha configurato su diver-
si modelli (post-moderno, post-industriale ecc.) è palesemen-
te inadeguata o fallita nel caso del colonialismo. O di una
sua parte significativa.
Ma la mia critica è un’altra: nei testi post-coloniali la questio-
ne indigena è assente per una causa evidente. Ai tempi del
descubrimento, molte popolazioni pre-colombiane erano so-
cietà senza Stato. Per cui una società – termine già problema-
tico in sé, che pur tuttavia utilizzo come Clastres – senza es-
sere anche Stato non può, per logica implicita, passare dal
coloniale al post-coloniale. Ulteriore attestato di una discrimi-
nazione che queste popolazioni si portano addosso da secoli.
Nel contesto del Mato Grosso, la storia dei salesiani oscilla
costantemente tra il difendere le popolazioni indigene e,
nello stesso tempo, inserirle dentro il proprio universo cul-
turale e religioso: affondare nelle loro radici (vocabolario,
mitologie, rituali) e transitarle più o meno autoritariamente
verso gli itinerari decisi dai missionari. E da Roma. La reli-
gione non appare una semplice sovrastruttura, bensì (come
tante ricerche etnografiche hanno da tempo dimostrato) un
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mento culturale; oppure se sono obbligati ad accettare un’ac-
Introduzione
culturazione di impostazione coloniale che ha l’evangelizza-
zione come ago perforante della bilancia.
La mia personale situazione è esemplificativa. L’invito mi è
stato rivolto – come vedremo meglio – sia dai bororo, che so-
no venuti a trovarmi in Facoltà a Roma, sia da Aivone, la dot-
toranda orientata da me per la propria tesi sui bororo che la-
vora presso l’Università Don Bosco di Campo Grande, dove sta
costruendo un importante museo indigeno. Per cui, in quel
primo viaggio, che ripeto si svolge nell’aldeia di Meruri, tutti
dormiamo e mangiamo nella missione salesiana. È ovvio che
tale appoggio non è neutrale e che veniamo percepiti tutti –
più che altro io, in quanto gli altri erano già dentro questa
cornice – come “interni” ai salesiani. O proprio salesiani, co-
me è accaduto a me, quando mi accorsi di essere considerato
da loro un padre… Si tratta di un problema etico fondamenta-
le che decido di affrontare esplicitamente, anche perché alcuni
bororo ben presto percepiscono la mia esplicita distanza criti-
ca dai missionari e mi chiedono con discrezione una presa di
posizione. Che io ovviamente dichiaro e vivo immediatamente,
ma non è sufficiente. L’ospitalità delicata e gentile diventa un
problema per chi – come me in quella occasione – si trova a
intervenire da esterno in difesa della cultura bororo. Da qui la
necessità di definire un mio posizionamento che esca da un’e-
vidente connotazione di ambiguità. E non sarà facile…
Per cui decido di essere (come penso sia giusto) cortese al
massimo con la mia orientanda e i miei ospiti missionari,
senza però nascondere le mie profonde convinzioni. La difesa
dei bororo si fa favorendo la loro autonoma visione del mon-
do, anche e soprattutto religiosa, non separabile dal resto
16
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”modernità” è avvertita come obbligata e, insieme, percepita
Introduzione
come uno smarrimento della propria identità.
Sempre più spesso numerose culture contemporanee (si pen-
si alle diverse culture arabe e musulmane) si trovano avvolte
da questi lacci contraddittori secondo i quali o ci si deve rivi-
talizzare per morire culturalmente; oppure, per non cambiare,
ci si deve rifugiare in atteggiamenti passivi e anomici: il vec-
chio modello di vita è inservibile; quello nuovo inutilizzabile…
Molte cadute dell’autostima da parte di queste persone sono
determinate dalla difficoltà di tagliare questo doppio vincolo
tra una seduttiva modernità, cui si accede perdendosi o da
cui ci si ritira frustrandosi. Salesiani e fazendeiros giocano
entrambi con i doppi lacci di queste quotidiane ambiguità co-
municazionali, tra i quali rimangono “vincolati” i bororo. Per
questo vedo l’auto-rappresentazione e l’uso decentrato delle
nuove tecnologie digitali come una possibilità di tagliare il
doppio vincolo affermando la propria autonoma visione del
mondo e gestendo con i loro linguaggi e le loro soggettività
le potenzialità della cultura digitale dentro la loro storia.
Per tornare alla mia difficile situazione, ero perfettamente
consapevole che ogni autonoma visione del mondo ha a che
fare con il potere (e con la politica nel suo significato tradi-
zionale), e io certamente non sono in grado di offrire un con-
tro-potere né una presenza continua, visto che la mia perma-
nenza non può che essere breve oltre che solitaria.
Cerco di dare la soluzione più limpida possibile, e per mani-
festare il massimo rispetto verso Aivone, i salesiani, i bororo
e me stesso, non posso che essere coerente con quella che è
la mia verità fondata sul nesso antropologia, mutamento cul-
turale, autonomia individuale di ciascuno, “nativo” o “metro-
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politano” che sia. Non pretendo che sia la verità generale (cui
tra l’altro non credo), né che io mi sostituisca con un “terzo
La linea di polvere
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l’Egitto. Ma per i tupi-guaraní, gli xavante, i bororo – società
Introduzione
senza Stato – si è passati direttamente dalla condizione di li-
bertà a quella di soggetti privati di tutto. Anche di essere co-
lonizzati. E persino di essere esclusi come parte del processo
post-coloniale. Ulteriore paradosso: si pensi agli eredi di
quelle popolazioni che invece hanno avuto uno Stato – come
inca, aztechi, maya – distrutto più di 500 anni fa: anche loro
sono esclusi dai movimenti post-coloniali in quanto il loro, di
Stato, fu distrutto dai conquistadores. Questo è un parados-
so singolare che riproduce la discriminazione e allontana la
soluzione progressiva per queste persone e per queste aree
geografiche. Le vene aperte dell’America Latina…
Il mancato raggiungimento di questo post non riguarda solo
molti paesi “legittimamente” ex coloniali, ma tutte quelle po-
polazioni indigene che fanno parte degli stessi paesi coloniali,
e che vengono uniformati a essi perdendo ogni loro specificità
e differenza. Sbagliando due volte, in quanto i “nativi” sono
stati i primi a essere dominati dall’Occidente, per cui a volte
(come nel caso del Brasile) non esiste alcuna uniformità sim-
metrica tra paesi coloniali e popolazioni indigene. Anzi…
Queste ultime, stando fuori dagli Stati ex coloniali e avendo
una loro storia non riducibile a “la” storia occidentale, devono
avere una loro autonomia giuridica e politica che li diversifichi
dai loro stati di appartenenza pur facendone ormai parte. E
questi stati dovrebbero finalmente avere una politica indigeni-
sta. È uno strano paradosso che il Brasile, che ha avuto – pae-
se unico al mondo – un presidente sociologo e la sua consorte
antropologa per ben due mandati, e l’attuale suo successore,
Lula, esponente del movimento progressista dei lavoratori, non
sia riuscito a favorire questa autonomia politica e culturale del-
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abbandonare il loro funerale in conseguenza dell’evangelizza-
Introduzione
zione, questa sarebbe una sconfitta principalmente per loro e
per la loro autonomia culturale, ma anche per tutti quelli che
desiderano avere una visione critica sulle relazioni di potere
e autonoma sui processi di liberazione.
La bara piena di sassi, anziché un’astuzia dal basso che cerca
di sopravvivere nei confronti di un potere frontalmente trop-
po forte, mi si presenta come il lato duro di un doppio vinco-
lo dentro cui i bororo sono collocati e per uscire dal quale
dovrebbero trovare soluzioni del tipo che mostrerò durante la
ricerca. Ma essa resta un indicatore estremo quanto inoppu-
gnabile di come la violenza dell’evangelizzazione costringa
queste persone a trovare drammatiche vie d’uscita per una
situazione insostenibile. Il funeral bororo non si può sincretiz-
zare con il funerale cattolico.
E allora la conclusione della storia per me è chiara ed è la
seguente: antropologi, politici e missionari dovrebbero collo-
carsi a lato dei bororo, non sopra le spalle o di fronte, e
nemmeno di dietro, perché si dialoga di lato proprio per fa-
vorire la libertà di decidere senza costrizioni esogene di ca-
rattere ideologico-materiale le proprie visioni del mondo. E
del proprio funerale… Questo può essere l’inizio di un proces-
so “post-coloniale” che includa anche i bororo o altre popola-
zioni indigene.
22
La linea di polvere
Massimo Canevacci Ribeiro
Capitolo primo
Dialogiche
Roma/Meruri
23
museologa brasiliana cui avevo dato alcuni consigli per la
Dialogiche
tesi di dottorato. L’incontro era stato quasi eccessivo per
bellezza e scambi di doni: loro mi offrirono un bokodori
inogi, collana rituale composta da due grandi unghie di ar-
madillo (tatu) unite al centro da resina nera, con un laccio
di cotone rosso da mettere intorno al collo. Akaruio
Bokodori è anche il nome di un eroe mitico di un clan dallo
stesso nome, che si è esteso a tutti i bororo. Un nome su
cui ha fatto le sue celebri ricerche Lévi-Strauss (Il crudo e il
cotto), una collana che gli stessi bororo avevano offerto an-
che a lui. Ovviamente la relazione è eccessiva, forse con un
unico passaggio significativo che sottolinea una differenza
forte e imprevista dal grande etnologo: questi bororo, anzi-
ché tristi e in via di sparizione, stanno rappresentando la
loro cultura secondo procedure innovative rispetto all’antro-
pologia tradizionale, non solo nella sua declinazione “strut-
turale”. Quello stesso anno, infatti, i bororo costruiscono
oggetti per l’occasione, li collocano in un museo nella loro
aldeia e poi li esportano al museo delle culture di Genova.
Siamo nell’autorappresentazione, che Lévi-Strauss non pote-
va assumere come tema delle sue ricerche strutturaliste e
che ora sta sconvolgendo metodologie e linguaggi accade-
mici. E che invece è il mio tema.
Cosa sorprendente per il sistema tassonomico delle colle-
zioni museali a carattere etnografico, nel catalogo accanto
al nome dell’oggetto rituale c’è anche quello della sua autri-
ce, Leonida Akirikurireudo. E la stessa Leonida sta accanto a
me. È un soggetto che parla, produce, si interpreta non solo
attraverso i propri rituali, ma anche con le proprie riflessio-
ni. E i propri viaggi tra Parigi, Genova e Roma. Il sistema di
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della loro cultura. È qui che si ripresenta con delicatezza e
Dialogiche
forza il tema dell’auto-rappresentazione. Per me è il massi-
mo che si possa chiedere a un antropologo: affrontare il te-
ma della svolta insieme ai soggetti che questa stessa svol-
ta stanno compiendo da tempo. Si chiamano Kleber e
Jerson. Anche Kleber mi ricorda qualcuno che ha a che fare
con guerre e rivoluzioni.
Leonida
27
forma conica. È lei Meruri, da cui deriva il nome dell’aldeia.
Dialogiche
29
Dialogiche
torno ai pentoloni tirando fuori strane cose argentee. È la
festa della nominação per tre bambini. E quello è un dolce,
pó de arroz.
Saliamo tutti in macchina e torniamo alla missione. Lì ci
vengono assegnate delle piccole stanze, pulite e con l’indi-
spensabile. Ma io esco subito. Sono curioso. Seduta per
terra, con le spalle appoggiate al muro, Leonida ha ripreso
a lavorare in questo modo: pone su una bottiglia di plasti-
ca vuota l’ornamento che si fissa sulla superficie ricurva;
dentro una busta ci sono piume di diversi colori e grandez-
ze, a fianco una boccetta con la resina. Leonida sceglie con
cura una piuma, ne misura le proporzioni rapidamente, poi
con un bastoncino raccoglie la resina e la spande sulla ba-
se dell’ornamento fissata sulla bottiglia vuota che tiene in
grembo, quindi vi adagia la piuma che si incolla subito. In
poco tempo è pronto un bellissimo braccialetto dai colori
sgargianti e proporzioni perfette. Le chiedo il permesso di
fotografarla.
30
La linea di polvere
Jerson
31
Le città come le aldeias si conoscono meglio camminando, e
Dialogiche
così accade anche questa volta. Quello che mi sembrava uno
spazio scomposto, pieno di erbaccia cresciuta disordinata, sco-
pro essere circondato da filo spinato. Premesso che tradizional-
mente lo spiazzo al centro del villaggio è considerato sacro,
domando il perché del recinto e la risposta mi sorprende.
“La protezione – spiega Jerson – serve a far crescere bene
l’erba (gramado) prima di tagliarla rasa: perché quello è il
campo del fute-bol. A volte ci sono le partite di calcio con gli
xavante che spesso finiscono in rissa, si strappano le ma-
gliette e io una volta ne avevo tre”. Isolata dalle altre case e
molto più grande vi è la casa degli uomini, vicino al campo
di calcio. Purtroppo Jerson in quel momento non ha la chiave,
per cui non possiamo entrare: “Una volta i missionari diceva-
no che la casa degli uomini era la casa del diavolo. Così l’-
hanno bruciata. Adesso non la pensano più così. Una volta ci
si portavano anche donne indie”. “Prostitute?”, “Não!!!”.
Passa un cane magrissimo: “Il cachorro è simbolo dei bororo.
I nostri clan sono otto e la parentela è matrilocale. Si difen-
dono sempre i membri del proprio clan”, “Sempre sempre?”,
domando. Jerson, che è anche professore, riflette seriamente
e mi risponde in un modo che mi stimola una profonda con-
siderazione dei processi di mutamento in corso: “No, a scuo-
la devo essere giusto”.
Poi Jerson mi porta a visitare la sua casa come si fa con
qualsiasi ospite. È in ordine e pulita, due stanze con un
patio sul retro, provvista di ogni tecnologia. Quando andia-
mo sul retro, emerge la condizione comunitaria che coinvol-
ge donne e bambini. Su un grande calderone sta bollendo
qualcosa che viene girato con un mestolo, di lato c’è un pi-
32
33
delle nostre storie. Non possono più essere solo antropologi e
Dialogiche
missionari a raccontarci. Le loro scritture non coincidono con
le nostre visioni del mondo. Specie i salesiani, che pur ci aiu-
tano su tante cose, ci costringono dentro le loro visioni che
significano evangelizzazione. In questo modo non è tanto la
penetrazione del cattolicesimo che ha un effetto devastante,
quanto la costante distruzione delle nostre visioni, dei nostri
riti, della nostra storia e della nostra cultura… e allora io ho
iniziato a filmare perché in questo modo voglio mostrare l’im-
portanza e l’autonomia della nostra cultura, senza che sia mo-
dificata da un intervento esterno. Noi abbiamo la nostra reli-
gione e i nostri rituali. Non possiamo assistere alla loro disso-
luzione. E il mio strumento fondamentale è questa”. Mi mo-
stra la sua videocamera digitale come un’arma.
Gli dico che per me ha ragione e che questo è un processo che
ho visto emergere anche tra gli xavante, vicino al suo villaggio,
a Sangradouro, specie in un giovane che si chiama Divino
Tserewau. Kleber glissa su Divino, capisco subito che lo cono-
sce e che non ama essere messo in relazione con uno xavante
per i decennali conflitti con i bororo. E mi chiedo se proprio que-
sta benedetta videocamera non potrebbe essere lo strumento
per andare oltre e trovare punti di convergenza. Visioni autono-
me in video. Mi posiziono su un piano di ascolto e di non preva-
lenza del mio punto di vista. Penso che dovrà emergere dalla
nostra relazione dialogica una soluzione scelta da lui e non pro-
posta da me. Altrimenti sarebbe cambiare di segno a un medesi-
mo modello di indottrinamento, magari “politicamente corretto”,
ma sostanzialmente poco diverso da quello dei salesiani.
“Filmando i nostri rituali, uso la videocamera come uno stru-
mento di lotta politica. E sono io, cioè io come bororo, a do-
ver esprimere quello che penso e vedo. Non loro”.
34
Kleber.
collocava nel soggetto che vive una determinata cultura la
prima istanza interpretativa sullo svolgimento di un rituale;
mentre la seconda apparterrebbe sempre all’antropologo. È
una prospettiva troppo neutrale e che non risolve la questio-
ne determinante di un posizionamento non oggettivo da par-
te del ricercatore quando si debbano compiere scelte precise:
qui c’è una precisa svolta anche metodologica basata sulla
critica culturale e l’auto-rappresentazione. Non basta ricono-
scere che il primo livello di ogni interpretazione si collochi
nel soggetto portatore della sua cultura, quando poi si sa be-
ne che è il secondo livello quello che conta: l’interpretazione
dell’intepretazione antropologica. Kleber (e Jerson e Leonida)
mette in discussione questa neutra circolarità dell’interpreta-
zione. È Kleber che vuole filmare, perché in questo modo è
sulla sua soggettività bororo che si sposta il potere del lin-
guaggio e della rappresentazione, mettendo in discussione
35
chi interpreta chi in tutti i vari livelli. Insomma qui Kleber sta
Dialogiche
interpretando non solo se stesso (troppo ovvio e facile): sta
interpretando e criticando la penetrazione invasiva dei sale-
siani e anche di qualsiasi altro soggetto comunicazionale che
cerchi di spostare il potere della rappresentazione dal suo
sguardo interno – suo o di ogni altro bororo – a quello ester-
no. Anche quello di un antropologo progressista.
Insomma, la tecnologia fa compiere un salto alle forme della
narrazione, spostando il potere del linguaggio dalla scrittura
– che è in sé determinata da una logica immanente del sape-
re occidentale – alla video-comunicazione. Le nuove tecnolo-
gie favoriscono i salti autonomi tra soggetti che sono stati
sempre e solo narrati e interpretati attraverso il potere della
scrittura, a soggetti che si narrano e si interpretano perché si
filmano. “Ci” filmano…
Mi racconta una storia, mentre mi mostra alcune sequenze da
lui filmate.
“Qui vi sono ormai due tipi di funerale: quello bororo e quel-
lo cattolico. Il nostro funerale è legato al rapporto con la
morte e anche con il modo in cui ‘conviviamo’ con i nostri
morti, con i nostri antenati. I salesiani non vogliono che fac-
ciamo il nostro funerale. Dicono che è pagano. E così ci im-
pongono il loro, cattolico. E allora è nata una specie di lotta
sotterranea e complicata. Sai cosa è successo? Che mandava-
mo le bare alla chiesa, per fare appunto il loro funerale. Ma
erano vuote! Il cadavere stava al fiume per essere lavato e
poi impiumato secondo la nostra tradizione. Poi i salesiani se
ne sono accorti e hanno imposto che le bare arrivassero
aperte dentro la chiesa, in modo che fosse ben chiaro che il
cadavere stesse là. Ma è giusto tutto questo?”.
36
“Sì, certo. Chi decide ora sono i parenti del morto. Io ho già
deciso il mio funerale” – e mi sorride serio e ammiccante –
“solo che ci possono essere molti motivi per decidere il fune-
rale cattolico, anzi salesiano. Olha, Massimo, vedi, tutto que-
sto si relaziona al pajé”.
Massimo Canevacci Ribeiro
37
incomprensibili, come se la natura si rivelasse improvvisa-
Dialogiche
mente incontrollabile. Dall’invisibile vaiolo nasce la sconfit-
ta sciamanica e la spiegazione di numerosi eccessi che si
sono verificati per tentare disperatamente di ricollocare la
natura al suo posto, come le stragi di bisonti senza motivo
da parte dei nativi (gli indiani delle pianure). Ma non era la
nautura a rivelarsi improvvisamente troppo forte per il po-
tere sciamanico: era la cultura, quella che non si poteva
fronteggiare con i saperi della tradizione fito-terapeutica
perché bianca… Da questo nascono le difficoltà a trovare
vocazioni, in quanto si “è chiamati” non solo per favorire
le cosmogonie autonome con i relativi rituali, quanto anche
per affrontare quello che è ineludibile per ogni essere vi-
vente: la malattia e la morte. Ma se malattia e morte in
gran parte derivano da un morbo invisibile e imbattibile
portato da “loro”, la forza terapeutica sciamaica vacilla. A
nulla servono danze o piante contro il vaiolo.
Queste mutazioni culturali e biologiche assumono un’importan-
za particolare per i bororo, il cui funerale è uno dei più com-
plessi e grandiosi mai inventati nelle diverse culture umane.
“Io sono un testardo – continua Kleber – ho le mie idee, e
qualcuno mi prende anche in giro per questo. Ma io voglio
andare avanti su questa strada: filmare la nostra cultura, sen-
za intromissioni dei salesiani e di nessun altro. Sono un po’
isolato ma credo fermamente in queste mie scelte”.
Certo, carissimo Kleber, fai bene e hai più che ragione, anche
quando io purtroppo non sarò qui a condividere queste scel-
te: “Sai che Kleber era il nome di un generale francese duran-
te la rivoluzione?”. “No, non lo sapevo, ma mi fa piacere sa-
perlo ora”. Già, mi pare proprio che Kleber sia il nome adatto
38
Nominação
Si è fatta sera e insieme con Kleber vado di lato alla casa de-
gli uomini dove si svolgerà il rituale della nominação. Sono
Massimo Canevacci Ribeiro
39
morte è arrivata mentre si svolgeva la festa per la vita, il rito
della nominação.
Dialogiche
41
Il cielo stellato è sopra di noi, ma non c’è libertà dentro di
Dialogiche
noi, o forse non c’è più un “noi”: ci sono tanti “io” o tanti
“ii”. Vi è un’idea di libertà in senso religioso che continua a
essere intrusiva; l’evangelizzazione è portatrice di una libertà
estranea al contesto e tale estraneità è rivendicata sulla base
dell’universalismo che la presenza divina manifesta attraverso
la missione dei salesiani. L’universale è più forte del partico-
lare, come sempre. In questo senso, la stessa metafora kan-
tiana del cielo stellato “sopra” immette una concezione della
libertà “dentro” un soggetto che non è neutrale, bensì ap-
punto universale. La poeticità tremante delle stelle è stata
proiettata in una concezione implacabile come logica pietista
che schiaccia ogni differenza, in quanto inutile, sporca, margi-
nale o, al meglio, desiderosa “oggettivamente” di eliminarsi –
purificarsi – entrando dentro lo spirito dell’universale. E lo
spirito universale non può che essere uno. Uno. Marcelo. È
proprio e solo lui, il salesiano, che incarna la missione reden-
trice della verità evangelizzatrice. Marcelo è il vettore missio-
nario dell’universale.
La discussione tra i due giovani, entrambi belli e tranquilli
quanto appassionati dei rispettivi punti di vista, verte su altre
cose, ma il senso è questo. Il diritto della Chiesa a trasforma-
re ogni differenza religiosa, rituale, comportamentale, amoro-
sa, cosmologica dentro l’alveo della propria universalità. Una
universalità propria.
Li ascolto in silenzio con lo sguardo alla ricerca di trame che
legano disegni stellari secondo orditi di volta in volta diversi. Il
gioco delle costellazioni. Comporre e scomporre le relazioni tra
le stelle facendo emergere e scomparire sempre nuove costel-
lazioni. Forse le costellazioni mobili non orientano, forse dis-
42
43
che dense di dominio dualista e universalista, razzializzato e
Dialogiche
scientificizzato. Ancora e sempre evoluzionista.
Non si tratta solo di applicare la critica (peraltro giusta) di
Rosaldo a Turner, secondo cui il rito non è in atto solo du-
rante lo spazio-tempo in cui formalmente si mette in atto,
ma entra in scena prima, durante e dopo. Giusto, ma il pro-
blema cui ci troviamo di fronte – drammaticamente, cioè co-
me intreccio di ritualità e teatralità che il linguaggio non ri-
esce a esprimere – è che i bororo vivono la contemporaneità
esattamente come noi e, nello stesso tempo, secondo moda-
lità culturali affini e diverse. Sono pienamente dentro questa
fase che possiamo definire post-industriale – giocano al cal-
cio, recitano drammi, mimano teatralmente il dominio colo-
niale – e ci stanno con le loro profonde differenze continuan-
do a praticare rituali. Riti e teatri. Per questo il rito si spezza
secondo le impostazioni “classiche” (razzializzate ed evolu-
zionizzate), il suo potere unificatore si scioglie secondo mo-
dalità che vanno affrontate di volta in volta. Come sarà chia-
ro all’alba del giorno dopo.
Ora arriva la notizia che la morte ha vinto, come ci si poteva
aspettare. La festa per questi tre bambini appena “nominati” è
sospesa. Come se tutto questo fosse già chiaro, le persone si
erano da tempo distaccate per andare nelle loro case. Lì rima-
niamo noi quattro: un bororo che con intelligenza e diplomazia
vuole mettere in discussione il potere degli altri, e in particolare
dei salesiani, oltre che di fazendeiros e politicanti (e di antropo-
logi), nel rappresentare sia il passato che alita nei rituali, sia il
presente che è inventato da loro come da qualsiasi altra popo-
lazione con le proprie soggettività. Una giovane studentessa di
archeologia ed etnologia di Campo Grande che mette in discus-
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ne cattolica. Filmo le tradizioni per modificare oggi – qui e
Dialogiche
ora – i rapporti di potere politico e comunicazionale che vor-
rebbero farle sparire, con lo scopo di vivere la nostra storia e
la nostra cultura con la nostra autonoma visione del mondo,
con la mia individualità, dentro i processi di mutamento cul-
turale, esaltando le nostre differenze, anche utilizzando que-
sti strumenti vostri, che non sono neutrali, cioè che non han-
no dentro solo la logica dell’Occidente, ma possono essere
piegati ai nostri, ai miei interessi: dare visibilità alla mia cul-
tura non in quanto museificata oppure omologata. Io, Kleber,
sono la terza via. Anzi una via multipla”.
Questo dice Kleber. Viviane e io lo ascoltiamo guardandoci
commossi da tanta chiarezza. Marcelo sorride perplesso ed
enigmatico. Quando ci allontaniamo, Viviane mi fissa seria e
mi ripete: “Non dimenticare quello che Kleber ha detto: lui ha
bisogno di te”. In pochi giorni, quella che sembrava una stu-
dentessa subordinata alla sua professoressa, si è rivelata una
persona autonoma e ricca di infinite potenzialità, schierata
sulle posizioni dell’autonomia indigena.
Funerale bororo
47
e anche del Mato Grosso; a sinistra, un Cristo in croce affian-
Dialogiche
cato da una scritta bororo.
Poco dopo arriva un pick up con la bara. Dentro, poche per-
sone piangono in modo composto. La bara viene portata al-
l’interno e chiusa, lasciandomi stupefatto, anche se Kleber
mi aveva anticipato tale possibilità. Marcelo entra vestito
con dei paramenti bianchi che lo coprono sontuosamente
dal collo ai piedi. Cosa che appare subito eccessiva, specie
per un contesto così denso di calore e per le abitudini a
non utizzare simboli dai toni troppo forti, come mi dicono
facesse il salesiano ora assente. Inizia l’omelia e parla con
una grande enfasi retorica, allarga improvvisamente le brac-
cia, dilata le pupille, agita la tonaca, si muove come fosse a
teatro, la voce modulata come recitasse, con improvvisi cre-
scendo e allentamenti sui bassi di un’intimità irriducibile. Si
crea un senso di disagio per questo eccesso di retorica qua-
si televisiva. Qualcuno esce.
Dunque, penso, questa è la scelta finale di Marcelo: invece
di compiere chiarezza teologica contro una supposta rein-
carnazione, accentuare la teatralità del rito funebre. In real-
tà, sembra di assistere a un rituale-senza-rito, qualcosa che
si potrebbe chiamare – qui con un voluto doppio senso –
una messa-in-scena.
Sommessamente come era iniziata, la messa finisce.
Conoscendo le scene di dolore, con pianti, flagellazioni, ur-
la, che riempiono a lungo il funerale bororo, rimango per-
plesso su quanto sta accadendo. La bara viene di nuovo
collocata sul pick up e portata via. Ma via dove? È molto
probabile che sarà sepolta in un piccolo cimitero, mi viene
però raccontato un particolare sconvolgente.
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questo gioco possono solo stravincere.
Dialogiche
Ricordo le parole di Kleber: “io ho già deciso il mio funera-
le”. In questa scelta è concentrato tutto un insieme – un
grappolo – di scelte autonome attraverso cui il soggetto bo-
roro non può più rinviare il suo posizionamento, per quanto
difficile, rischioso e isolato possa essere. Kleber dice che il
funerale nella tradizione bororo non è solo “tradizionale”:
esso è anche e direi soprattutto una sfida collocata sul pre-
sente che costruisce un futuro basato sull’autodeterminazio-
ne. La scelta non è restaurativa di un’identità perduta, bensì
afferma una dissoluzione di quel doppio vincolo che può
essere pagato con l’isolamento di Kleber, considerando la
situazione attuale nei rapporti di forza a tenaglia tra fazen-
deiros e salesiani, senza una minima presenza difensiva e
affrancante dello Stato brasiliano.
In questa prospettiva, è chiaro come la collocazione di Kleber
sia quella decisiva per il processo di auto-determinazione, in
quanto parte del più vasto movimento post-coloniale. La svol-
ta fondamentale sta nella sua scelta che intreccia in modo
limpido e determinato la pratica dell’auto-rappresentazione at-
traverso le nuove tecnologie digitali, pratica che non è ester-
na, ma immanente al suo posizionamento critico radicale.
Il video fissa le loro identità cultuali solo perché smuove le
identità individuali. Filmare significa entrare in un presente
che non cerca di scivolare nel potere restaurativo del passa-
to, bensì di svincolarsi nella potenza di un futuro in movi-
mento. O, come scrivevano i poeti antropofagici paulisti, nel
pressauro, un mix di presente-passato-futuro. Montaggio, cut-
up, morphing tra diversi spazi-tempi.
Il campo potenziale che si sta aprendo nella ricera etnogra-
fica e nella sua trasposizione testuale scritta, visuale, sonica
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L’arrivo della bara con il pick-up. Il recinto separa il villaggio di Meruri dalla missione.
L’albero oltre il recinto. Sullo sfondo, le case bororo in mattoni e cemento. Al centro
53
si vede il baito, la casa degli uomini.
Dialogiche
55
Dialogiche
Pó de arroz.
Capitolo secondo
Transiti
Rappresentazioni
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dialogica e anche il conflitto tra etero e auto-rappresenta-
zione secondo procedure non più unificate, ma decentrate e
Transiti
multiple. Le procedure metodologiche secondo cui tradizio-
nalmente l’antropologo/a rappresentava l’altro con le sue lo-
giche esterne, con scritture o fotografie aliene, con le sue
autorità discutibili si sono – se non esaurite – almeno atte-
nuate. Questo sia per le spinte post-coloniali, che hanno
denunciato un persistente contesto politico-culturale mon-
diale che impediva la realizzazione sociale di questo “dopo”
che sembrava non arrivare mai; sia grazie all’affermarsi, an-
che se minoritaria, di una nuova antropologia critica verso il
monologismo imperante. Il “chi ha il potere di rappresentare
chi” sta diventando un nodo centrale aggrovigliato al domi-
nio “scientifico” che una parte maggioritaria dell’Occidente
continua a esercitare verso e contro l’altro.
Detto in un altro modo, una nuova critica al potere della rap-
presentazione si posiziona tra una spinta esterna post-colo-
niale e una interna all’autorità della scrittura. Tra chi è entra-
to nella costruzione del proprio sé dal quale era stato esclu-
so in quanto subalterno, e chi ha messo in discussione le
modalità classiche di questa stessa rappresentazione. La
scrittura applicata nella modernità etnografica mostra tutto il
suo dominio politico in senso stretto e retorico come “gene-
re” linguistico non neutrale. I limiti di entrambi questi movi-
menti a tenaglia forse si possono riassumere in questi punti:
- assenza di interesse per le popolazioni indigene (l’aldeia
ibrida) da parte della critica post-coloniale;
- assenza delle nuove aree metropolitane (la metropoli comu-
nicazionale) dagli scenari fluttuanti post-coloniali;
- assenza del tema dell’auto-rappresentazione in dialogo con
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l’etero-rappresentazione;
- assenza della comunicazione visuale e della cultura digitale
La linea di polvere
59
effetti dirompenti. Facilità d’uso, prezzi contenuti, accelerazio-
ne dei linguaggi, decentramento di ideazione, editing, consu-
Transiti
mo. La divisione comunicazionale del lavoro tra chi narra e
chi è narrato – tra auto- ed etero-rappresentazione – si espri-
me nella contraddizione emergente tra produzione delle tec-
nologie digitali (legate ai centri del potere occidentale) e uso
di queste stesse tecnologie da parte di soggetti con un’auto-
noma visione del mondo.
Tale divisione e tale contraddizione ridefiniscono lo scenario
di potere dentro il quale l’antropologia della comunicazione
digitale si dispone per confliggere contro e oltre ogni persi-
stente tentativo di appiattire e folklorizzare l’altro. L’etero-rap-
presentazione ha avuto e continuerà ad avere un ruolo impor-
tante, ma non più unico e tanto meno centrale, in quanto in-
cardinata nell’unica figura possibile di un ricercatore esterno
al contesto culturale, il quale non ha più il diritto di affermarsi
nella sua assolutezza. Solo posizionandosi in una definita par-
zialità processuale che favorisca l’autonomia narrativa dell’al-
tro – attraverso una tensione dialogica tra soggetti differenti e
non gerarchicamente caratterizzati – potrà rinnovare non solo
metodologie ossificate (si pensi a un certo persistente revival
del termine “tribale”), quanto anche i rapporti di potere basati
sulle logiche coloniali.
Accanto, di lato e spesso contro tale potere discorsivo si col-
loca con sempre maggiore forza espressiva e concettuale la
auto-rappresentazione, cioè i modi, anch’essi plurali, attraver-
so cui quelli a lungo considerati solo oggetti di studio – un
paesaggio di sfondo – si rivelano soggetti che interpretano in
primo luogo se stessi e poi anche la cultura dell’antropologo.
Queste modalità interpretative non si possono più relegare al-
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gico-museale verso uno spettatore congelato delle proprie
certezze “civili” o, peggio ancora, “morali”. Le accese diffe-
Transiti
renze che le culture “native” esprimono, riguardano i modi in
cui i linguaggi vengono costantemente costruiti, esposti e
modificati in ogni aspetto della vita quotidiana: dalla sessua-
lità alla mitologia, dalla cosmesi ai grafismi corporali, dalla
religione ai rapporti tra i sessi e tra le generazioni. E anche ai
rituali della morte. Queste rappresentazioni plurali, proprio in
quanto composte da soggetti che riflettono dall’interno delle
loro culture secondo modalità proprie, innovano la comunica-
zione digitale rendendola performativa e processuale.
- performativa: nel senso che i soggetti nativi utilizzano com-
plessi linguaggi attraverso cui dare senso al proprio essere
qui e ora in quanto appartenenti a culture vive;
- processuale: nel senso che le modalità sono significative
nel loro farsi più ancora che nel prodotto finale: nulla è dato
una volta per tutte e quindi la processualità metodologica sfi-
da l’immobilità a-temporale e a-individuale con cui troppo a
lungo si è (etero)-rappresentato l’altro.
Questa ricerca si colloca esattamente su questo punto critico.
Le vecchie antropologie, anche quelle che hanno sottoposto
a revisione l’autorità delle scritture, devono attraversare un
multi-verso intreccio di sincretismi culturali e tecnologici,
identità fluide in mutazione non più fissate in un passato a-
storico. Molte persone native dell’America Latina – che intrec-
ciano la cultura indigena con quella brasiliana o peruviana e
con quella globale – si stanno appropriando dei linguaggi
multi-comunicazionali, così come delle loro complesse filoso-
fie e mitologie che coabitano spesso conflittualmente dentro
i processi di mutazione e ibridazione delle culture contempo-
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sguarnita o indifferente tutta la mia interiorità, come se l’altro
fosse solo bororo e non anche una mia alterità interna che si
Transiti
contornava come qualcosa di perturbante. Improvvisamente
tutto mi apparve stretto e impreciso, mi sentivo auto-recluso in
una condizione di identità statica rispetto al rituale dei bororo,
i quali soli potevano viversi e narrarsi processualmente nel
proprio sé: insomma rischiavo di legittimare l’autonomia del sé
solo per loro, escludendo il mio sé, i miei selves.
La mia fluttuante identità si rivelò scoperta, in particolare per
quanto accadeva – processualmente quanto inaspettatamente
– al mio interno e le logiche dualiste da me sempre osteggia-
te rischiavano di ripresentarsi in modo ambiguo ma non me-
no determinante: a loro spetta l’auto-rappresentazione e a
me l’“etero”. Una nuova pericolosa dicotomia bella e pronta
quanto inaccettabile. E fu proprio il movimento interno alle
mie identità che fece entrare in crisi il modello, con le sue ri-
sorgenti posizioni dicotomiche.
La tensione individuale (intra-viduale) tra la mia eteronomia
di ricercatore esterno al contesto culturale e la mia autono-
mia – in quanto soggetto portatore di identità in movimento
e non di un’identità data – veniva a saltare. Fortunatamente e
imprevedibilmente.
Ciò che scoprii nel processo stesso dell’opera è semplice: l’e-
teronomia rispetto ai bororo penetrava con i suoi filamenti
dentro la mia internità identitaria. E la mia identità si altera-
va, assumendo l’eteronomia. Diventavo eteronomo, altro ri-
spetto a me stesso. Se da tempo la mia riflessione su questo
termine – eteronomia – stava attraversando circuiti contorti
quanto laterali, qualcosa di ancora più inquietante mi si sta-
va conficcando dentro, sbriciolando la compattezza trasparen-
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ore prima della partenza dalla mia seconda città.
Quell’etero-rappresentazione che inizialmente mi appariva un
Transiti
corretto posizionarmi, si intrecciava, moltiplicava e fluidifica-
va nel dentro/fuori della stessa auto-rappresentazione. Non
quella dei bororo: la mia… Ogni riga parla anche di me, di
un me altro che ha incontrato un amore alterante che – con
la forza della sua alterazione – entra dentro un metodo trop-
po preciso e inizia a modificarlo. Mi narro e mi rappresento
in questa processualità identitaria mutante che confligge con
dualismi e monismi. Le passioni accese a loro volta si inne-
stano in una ricerca sul campo straordinaria e altrettanto ap-
passionante, al punto da apparire attirarsi reciprocamente.
Una sorta di trasbordo passionale tra etnografia ed erotismo.
L’intrigo tra auto/etero scardina il gioco delle simmetrie
parallele e rivendica l’insopprimibile desiderio di penetrare
all’interno di un’autonomia identitaria che si altera sotto i
miei occhi. L’amore intacca l’eteronomia come qualcosa che
appartiene solo a un altro esterno, mentre l’autonomia ero-
tizzata penetra nel mio altro interno, nelle mie fluidificate al-
terità che liberano una composizione (termine che inizia a
sembrarmi migliore di rappresentazione) alterata e alterante.
L’incontro amoroso non può restare confinato nella dedica,
uno spazio previsto che non si esaurisce in una premessa
ma dilaga nella sezione più dura del metodo, surriscaldan-
dolo. E nemmeno sceglie di uscire in maldestre trame auto-
biografiche dalle dubbie capacità empatiche.
La scelta è trasparente, insieme al transito linguistico e meto-
dologico: trasbordare in una diversa prospettiva di senso del-
la etero-rappresentazione a partire dal concetto di etero-no-
mia, facendo deflagrare la sua dipendenza dall’altro come au-
66
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rónimos, a insaciabilidade ontológica de suo genio. Ele foi
Transiti
muitos” (Galhoz 1980, p. 2). Un arcipelago di eus, di “ii”.
In definitiva, l’incontro imprevisto ha in qualche misura muta-
to all’ultimo momento il mio metodo di ricerca basato su una
certa idea di “rappresentazione”. Come ho detto, da qualche
anno lavoravo sulla tensione tra etero- e auto-rappresentazio-
ne, mettendo in discussione quel modello classico della de-
scrizione-interpretazione dell’altro sempre e solo in mano alla
soggettività dell’antropologo (ma anche di giornalisti, filosofi,
architetti, filmaker ecc.), per affermare dialogiche conflittuali
basate sulla centralità dell’auto-rappresentazione. Vorrei preci-
sare lo slittamento che è gradualmente penetrato all’interno
della mia – per quanto rivendicata sempre come fluida – iden-
tità: con stupore, quella che era una decisiva svolta politica-
culturale, l’auto-rappresentazione, è finita per entrarmi dentro.
Sin dall’inizio della mia ricerca sul campo, ho percepito un
forte coinvolgimento emotivo legato agli eventi che mi ac-
cadevano intorno: la poeticità drammatica del funerale, le
osservazioni notturne dell’aldeia circondata dai fuochi e dai
sinistri scoppiettii dei rami, il fumo denso che sembrava
nascondere altri sguardi, forse anche di derisione, i morsi
di una fame inusuale e ancor peggio dei mosquitos che en-
trano dappertutto, le foto scattate e strappate alla mia lo-
gica e infine i primi tentativi di appunti alla luce della mia
piccola torcia. Ebbene, in tutti questi momenti io non ero
solo un antropologo che praticava l’etero-rappresentazione
politicamente corretta; nello stesso tempo e ancora più
fluidamente e passionalmente stavo saltando anche dentro
la mia pressante esigenza auto-rappresentativa. Senza una
chiara visione di regole o di metodi, in quei momenti si di-
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crescenti me, per cui quello che doveva essere un mio posi-
zionamento etero, mutava in un’inquietante e disordinante
auto-rappresentazione che si indirizzava non più solo verso
l’altro, l’altro tradizionale, i bororo durante il loro funerale,
quanto anche verso il mio altro interno, i miei altri me, le
mie alterità interne. My-selves. Me multividuo. I miei “ii”.
Parlare dell’altro o fotografarlo era nello stesso spazio-tem-
po parlare o fotografare me.
In questo modo la mia iniziale definizione di auto-rappresen-
tazione si muoveva tra il pulsare delle dita, lo sbattere degli
occhi, le direttive del naso, il serrare i denti. Diventavo altro
rispetto a me stesso. E questo precipitava dentro la mia pri-
ma scrittura. Un precipitare al contrario, un colare vertiginosa-
mente verso l’alto; un colare innalzato di parole, visioni, frasi
che riuscii a imprimere in una mail furiosa spedita pochissimi
giorni dopo il mio ritorno a Campo Grande. E dalla cui riela-
borazione inizia il capitolo seguente…
Funerale bororo e tessitura amorosa si compenetravano. E que-
sta compenetrazione tra vita e morte – paradossalmente ma
non troppo – non riguardava solo me: riguardava anche loro.
Nativi de-nativizzati
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dei termini da loro stessi adottati: cherokee, xavante, textal,
per impegnarsi a lottare contro l’uso di tassonomie che ripro-
Transiti
ducono linguisticamente (e non solo) il dominio coloniale.
In questa nuova produzione espressiva – un’area spesso indi-
stinta tra video, musica, arte, etnografia – i giovani cherokee o
xavante (non più “nativi” né “tribali”) mettono in discussione il
comodo pregiudizio per cui loro, gli “altri”, sono fuori da quel-
la Storia singolare-universale che appartiene solo al “noi” occi-
dentale. Il nuovo nesso arte-etnicità problematizza tutti i termi-
ni e afferma un’etnografia della differenza che vive in una mul-
ti-prospettiva di storie plurali, irriducibili a una storia unificata.
L’“altro” si è de-nativizzato. E la nuova etnografia comunica-
zionale, decostruendo il concetto di nativo, ne moltiplica le
soggettività. Una breve storia di questo termine è indicativa
della specifica difficoltà nel fissare l’altro. Le passate etichette
di selvaggio, primitivo, senza-scrittura, semplice, orale, ven-
gono oggi ambiguamente sostituite dal termine solo apparen-
temente “per bene” o “politicamente corretto” di nativo. Nella
parola si afferma una vicinanza – solo per i creduloni inno-
cente – con l’essere-nato, nato-lì, come se la persona nativa
fosse precedente e quindi più autentica perché più-nata.
Eppure tutti noi siamo nati in qualche “lì” e questo non dà
diritto ad alcuna precedenza o purezza. Solo l’“indio” è nati-
vo, campione di amore-natura-animali, misticamente sciama-
no, sessualmente puro e pre-tecnologico. A essere confinato
in tale immagine di nativo-al-naturale, qualche presunto “nati-
vo” non ci sta più, come Jimmie Durham.
basato sul numero tre, viene dalla stessa radice). Non è una paro-
La linea di polvere
71
ha domandato: “Cosa mangiavano gli indiani?”. Uno dei nostri
Transiti
anziani ha risposto senza ironia: “Mangiavano granturco, fagioli
e zucca” (tipica risposta presente nei libri scolastici degli Stati
Uniti) (Durham 2002, p. 75).
73
coloniali, direi che è totalmente coloniale. Un problema può
nascere se moltissime persone appartenenti a culture “native”
Transiti
usano per se stesse il termine tribale e indio: la terminologia
di matrice occidentale e coloniale è stata assorbita come neu-
tra da queste popolazioni e così utilizzata per autodefinire la
propria identità “tribale”, appunto, di indio. La soluzione per
sciogliere questo intrigo in cui il discriminato ha introiettato il
sistema linguistico del potere discriminatorio è per me chiaris-
sima, basta spostare l’osservazione su “chi nomina chi”.
Poiché non esiste un unico sistema classificatorio valido per
tutti in un modo universale e oggettivo, le definizioni sono
posizionate nel punto di vista di chi usa tale termine. Il signi-
ficato più o meno corretto quindi non dipende dall’oggettiva
chiarezza (della cui inesistenza tutti dovrebbero essere consa-
pevoli) della parola, ma dal fatto che chi definisce se stesso
indio lo può fare in quanto – come Jimmie Durham, che ha ri-
percorso il significato storico di questi termini – esplicita l’am-
biguità di tale tassonomia; se invece lo stesso termine indio è
usato dal giornalista, mass-mediologo o politologo, in esso si
conferma la presunta oggettività di una terminologia piena di
una storia schiacciata contro l’altro.
La verità sull’uso di concetti come tribù, indio, nativo non è
neutra, ma si posiziona nella soggettività che parla: se io
chiamo una persona african-american negro, ha un senso e
produce una certa reazione; se è lui stesso che si chiama nig-
ger ha ben altro significato. Fare la prova per credere… I si-
gnificati sono fluttuanti e si deve cogliere questa sottile leg-
gerezza come una sfida e un piacere.
Lo stesso accade quando si estende tale sistema classificatorio
“tribale” al multiverso giovanile contemporaneo. Una moda che
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Lo xavante e il video
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Le sue riprese di voci e immagini sono dedicate poi a una se-
Transiti
rie di macuxi: un cacique dalla evidente autorità, una donna
particolarmente vivace vestita con i costumi tradizionali, af-
fiancata da un’altra vestita all’“occidentale”, durissima contro
l’esercito, con lo sguardo fisso nella camera fiero e implacabi-
le nella sua requisitoria. I macuxi sono anche brasiliani, non
solo brasiliani: sono una nazione indigena o come la si vo-
glia chiamare, che ha una sovranità “non-statuale” sopra le
proprie terre, che sono tali perché “riservate a loro” e non
perché loro sono stati rinchiusi – “riservati” – lì dentro. Si al-
ternano scene di danza e canti rituali con performance, in cui
giovani mettono in ridicolo garimpeiros e fazendeiros, sma-
scherano i politici che sono spesso coronel, uomini duri dal
potere assoluto. Un canto corale di giovani donne intonato
contro l’alcol e chi lo beve, uomini che recitano il diventare
aggressivi con le donne e sottomessi con i “bianchi”.
Ogni tanto Divino – con discrezione ma con un chiaro signifi-
cato comunicazionale – è ripreso mentre riprende: è lui il
soggetto che interpreta sia nel momento etnografico sul cam-
po e sia in quello antropologico durante il montaggio. Il cli-
max: la sua cinepresa si insinua tra le pieghe di una tenda
come un’arma – un’arma piena di conflitti visuali che si ag-
giungono a quelli etnografici e politici – per riprendere la dis-
cussione tra un ufficiale dell’esercito e il cacique appoggiato
da donne risolute. Punta l’ufficiale, riprendendone gesti e pa-
role: lì vicino c’è il confine con il Venezuela e la costruzione
dell’avamposto con una caserma di alloggiamenti, depositi
ecc. servirebbe a controllare i movimenti del paese confinan-
te. Primo piano di una donna: “questo è illegale, dovete an-
dar via”, grida seria. Tutto il villaggio è mobilitato. Scorrono i
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Transiti
Il cacique Domingos
Mahoro’e’o durante
un rituale xavante.
presentazione; poi il video realizzato da Divino e gli altri ri-
sultò di gran lunga migliore del mio e per molti motivi (e lo
dico senza alcun “populismo”). La spiegazione è semplice:
oltre alla mia partecipazione parziale all’intero rituale, che
dura circa 4 mesi (un tempo per me infelicemente impossi-
bile), Divino, proprio in quanto interno alla sua cultura, co-
glieva elementi significativi che a me erano preclusi. E non
erano elementi secondari, in quanto attestavano quei mo-
menti di vita quotidiana anche dentro il rituale, così come
era vissuto dai giovanissimi protagonisti. Per me e (credo di
poterlo affermare) per la stragrande maggioranza dei ricer-
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79
sentazione.
Le strisce della globalizzazione sono spesso sottili, impreve-
Transiti
dibili e sempre rischiose. A volte, come nel caso che presento
qui, ancora più pericolose, in quanto si insinuano nella lunga
storia del dominio logico che un certo Occidente continua a
professare imperterrito come una macchina da guerra scienti-
sta e universalista. In questo caso, l’alleanza tra prestigiosi
centri di ricerca istituzionali (Collège de France), riviste la cui
serietà è al di sopra del dubbio («Science»), giornali compia-
centi a fare da cassa di risonanza “neutra” («la Repubblica»),
è implacabile e indistruttibile come le bottiglie di plastica
buttate nei fiumi. La peggiore globalizzazione si incorpora nei
paradigmi di una certa epistemologia che si presenta nei pan-
ni lucidi e stirati di una tradizione filosofica (il solito Platone)
e che, di conseguenza, non può che essere vera.
Tale aspetto della globalizzazione è in genere meno evidente,
ma è politico quasi quanto le azioni di G. W. Bush. È un lato
oscuro – travestito di oggettività scientista – altrettanto peri-
coloso di quello che ha un’immediata ricaduta militare o teo-
logica e contro cui le difese sembrano più facili perché sim-
metricamente “politiche”.
La rivista «Science» presenta la ricerca curata da Dehaene,
Izard, Pica del Collège de France sui mundurucú, una popolazio-
ne che vive nello Stato del Pará (Brasile), dove si afferma che la
geometria (si badi bene, “la” geometria) è innata, che esistereb-
bero “concetti inerenti” euclidei nella mente dell’Homo Sapiens
che non hanno bisogno di apprendimento. Il perché secondo
loro sarebbe chiarissimo.
Sulla base di test cognitivisti, basati su interviste comparate
tra bambini e adulti mundurucú e statunitensi, hanno sco-
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ghi” maschi, il che favorisce la caduta di pregiudizi sessisti.
Gli dirò che per sua fortuna qualcuno ha scoperto che an-
Transiti
che lui conosce la geometria. E che questa geometria non
può che essere la nostra. Immagino le sue taglienti battute
per questa ennesima “scoperta” che da 500 anni continua
a farsi contro la sua cultura.
I mundurucú hanno la loro cultura locale e, nello stesso
tempo, vivono nei nostri tempi “globalizzati”. Ma non sono
omologati. Globalizzazione può non coincidere con omolo-
gazione, anzi. La globalizzazione diventa agenzia dell’omo-
logazione grazie all’“Alleanza Neutra” tra istituzioni universi-
tarie, riviste scientiste, giornali che lanciano settimanalmen-
te una moda. Come questa sulla geometria euclidea innata.
I mundurucú – come tantissime culture pre-colombiane –
hanno loro arti plumarie, grafismi corporei, monili, masche-
re, cesti, armi, composizioni dei villaggi che esprimono infi-
nite variazioni geometriche. Di una loro geometria. Esse –
anziché affondare in una presunta matrice euclidea archeti-
pica (le banalità razziste junghiane che continuano a pro-
durre calchi su cui infilare le differenze culturali) – stabili-
scono intrecci complicatissimi con i loro miti, le loro filoso-
fie e cosmogonie: per cui un cerchio non è mai solo un cer-
chio, ma ha profondi significati simbolici che appartengono
alla loro cultura specifica e che sono interpretabili solo as-
sumendo il punto di vista altrui. Cioè relativizzandosi.
Relazionandosi con uno sguardo diverso dal proprio.
Insomma le differenze culturali sull’organizzazione dello spa-
zio, e sulla trasposizione del territorio in mappe, esprimono
intrecci complessi tra la geometria di matrice euclidea e la lo-
ro geometria, che non applica le formule matematiche elabo-
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dive appendici dell’orientalismo, con il trucco pesante di una
logica neo-coloniale scientista («Science»), indifferenti verso
Transiti
ogni istanza critica espressa dalle ricerche contemporanee,
autoritari silenziatori dell’altro che viene sempre escluso nella
sua autonomia espressiva. Per loro, l’altro – in questo caso i
mundurucú – è assente come soggetto e ridotto a pulviscolo
stellare da testare in laboratorio.
Questa è una matrice spessa e dura della globalizzazione che
favorisce ricadute oggettiviste nella politica (vedi la nozione
di “democrazia” come export) e che ha come cornice una cer-
ta epistemologia che lega un’obsoleta tradizione scientifica
con una stesura mediatica effervescente come un trailer.
Un po’ di test cognitivisti, molto Platone, l’immancabile
Rousseau e il gioco è fatto. Ma questo è un dannato gioco
del potere presentato da un certo Occidente sotto la veste
globalizzata della scienza, che continua a classificare il
mondo culturale altro indifferente a come questo stesso al-
tro da tempo si racconta, si rappresenta, si interpreta. E ci
interpreta!
Un giovane
xavante durante
un rituale.
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La linea di polvere
Massimo Canevacci Ribeiro
La scuola di forma
tradizionale con i
materiali di oggi.
Una lezione al
computer con un
professore e
alunni xavante.
La maloca tradizionale di Domingos.
85
Transiti
Danza xavante.
Transizione
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una ventina di giorni, dopo i quali inizia uno dei funerali più
Racconto
straordinari elaborati da esseri umani. Così Aivone organizza
un viaggio verso il fiume Paraguay dove incontro il camalote
(Eichornia Crassipes), una pianta che viaggia sull’acqua, le cui
radici sono appunto acquatiche e diasporiche. Possibile che
nessuno finora si sia innamorato delle uniche radici che si
possono amare proprio perché non sono fissate nella terra
ma galleggiano e viaggiano lungo gli argini del Paraguay!
Sento immediatamente il camalote come parte di me… Molte
di queste piante si aggrappano sulle sponde del grande fiu-
me come una prateria galleggiante, ma col tempo si staccano
e viaggiano sulle acque usando le radici come galleggianti.
Sergio Sato (il japonesinho paulistano) mi spiega tutto alla
perfezione e insieme scendiamo sotto un ponte da dove si
arriva alla riva del fiume e lui afferra alcuni camalote e me li
mostra sorridendo. Li prendo anche io, sollevando dall’acqua
questi cespugli mobili; li carezzo, cari camalote…
Non voglio contrapporre il camalote al rizoma, ma questa
prateria fatta da cespugli singoli, che si raggruppano e si di-
vidono seguendo i flussi delle correnti lungo il fiume, il largo
Paraguay, costituiscono una prateria galleggiante veramente
mobile, a differenza del rizoma che rimane fisso in un deter-
minato luogo con le sue radici, per quanto piccole.
Nelle tradizioni indigene, non solo brasiliane, gli sciamani
curano le malattie dei corpi e della natura secondo comples-
se procedure, alcune delle quali affondano in un’antichissima
sapienza curativa di tante piante diffuse nel territorio. Tra i
kraho, per esempio, le piante si fanno bollire perché possa-
no lasciare un succo che è chiamato carõn, un succo-esssen-
za che si può grossolanamente tradurre con “spirito della
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si su danza e metropoli, che è appena tornata dal Canada
Racconto
dove ha lavorato per dieci anni. Così mi invita a cena per
parlare di un suo progetto di studio: la sera successiva è l’u-
nica possibilità che ho. Succede una cosa strana, unica nella
mia vita, ci rivediamo nei giorni seguenti senza parlare mai
dei suoi progetti e decidiamo di sposarci, con un’ironia molto
seria e una felicità un po’ disperata…
Gli appuntamenti sono tutti sbagliati: dall’aeroporto di
Goiania arrivo a Barra do Garças, un piccolo paesino dove
non c’è nessuno ad aspettarmi, i cellulari di Aivone e di
Sergio non funzionano, ma ho imparato da tempo che certe
cose in Brasile bisogna lasciarle andare, scorrere come un ca-
malote, e poi sono quasi contento di rimanere ancora solo
per mantenere i ricordi recenti. Metropoli e aldeia: questa è il
mia ricerca, anzi, è molto, molto di più. Gironzolo in un posto
che sembra nowhere land: vedo solo qualche bambino, un
cane magrissimo; ma sbaglio, in uno slargo c’è un gran daffa-
re, arrivano camion, carretti, si sistemano tavoli e prodotti va-
ri: sta per aprirsi una feira! Mi siedo su un muricciolo per os-
servare divertito i preparativi e parlo con una persona dolce
e gentile, che mette sul tavolo blocchi di ghiaccio per fare
caipirinhas e me ne offre una… Appena finisco di bere sento
una frenata: è Sergio con la sua Land Rover, non so come ma
è così, lui mi trova in questo paesino sperduto del Mato
Grosso mentre osservo la preparazione di una feira, senza sa-
pere che fossi lì... queste cose succedono solo in Brasile,
penso, e sorrido alla faccia degli stereotipi…
Partiamo per Meruri, e una volta arrivati, dormo qualche ora
nella missione salesiana in una piccola stanzetta pulita; sono
stanchissimo, ma le forze mi sono tornate, il mal di gola pre-
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le presenze familiari dei nidi di termiti. Ce ne sono tantissimi,
Racconto
alti circa una trentina di centimetri, a forma di cuneo, aperti
verso l’alto come bocche affamate o urlanti, imploranti, inna-
morate. Hanno forme bizzarre e sembrano opera di un estro-
so artista che ha scelto il cerrado per metterle in mostra. La
mia strana idea – fin dalla prima volta che li ho visti nelle vi-
cinanze dell’aldeia xavante a Sangradouro – è di tagliarli di
netto alla base ed esporli in un museo d’arte contemporanea
con la scritta dell’autore in bororo o xavante: termiti del cer-
rado, Mato Grosso, 2005.
L’arrivo al villaggio si avverte dalla presenza di alberi di man-
go, alti, verdi, con i frutti migliori del mondo, la cui importan-
za sarà vitale per tutti. Parcheggiamo all’ingresso sotto uno
di questi alberi. Lì ci incontriamo di nuovo tutti, Aivone,
Viviane e Sergio; siamo alloggiati in una capanna (maloca)
dove dormiremo a terra sopra leggere stuoie per difenderci
dall’umidità del terreno, la prima notte anche senza coperte,
con un freddo cui pensavo di non sopravvivere. Per un dis-
guido, coperte e acqua arrivano il giorno dopo e io ho solo
un leggero impermeabile per proteggermi dal freddo e dal
mal di gola. Ci mettiamo vicini per riscaldarci un po’. È prefe-
ribile non bere la loro acqua e non abbiamo le pillole disin-
fettanti. Lo spazio della maloca è grande e il nostro gruppo
ne occupa un quarto; sugli altri lati ci sono i membri della fa-
miglia bororo che ci ospita e che hanno le amache. Essendo
reduce dalla malattia, sono sicuro di avere una ricaduta alla
gola che avrebbe conseguenze disastrose per la ricerca. Ma il
funerale incomincia domani... e la terribile notte passa senza
danni, alla ricerca di centimetri di stoffa per difendermi.
Aivone mi porta da José Carlos Kuguri, il maestro dei canti
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che è anche marito della morta. Diventa chiaro quello che sta
per accadere: sarà la cosa più amorosamente estrema cui si
La linea di polvere
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viene da una certa “regalità”, forse dallo sguardo in genere ri-
Racconto
volto in basso, che diviene imperioso e definitivo quando si al-
za a fissarti: uno sguardo cui è difficile replicare. Già a marzo
mi aveva come sfidato, impedendomi di fotografarlo mentre
cantava per la festa di nominação. Conosce tutti i canti rituali
bororo, che sono decine e decine, tutti assai complessi musi-
calmente e ritualmente e li esegue con una voce roca che sem-
bra sempre sull’orlo della rottura e che invece continua a mo-
dularsi seguendo il rituale. Successivamente, tornato a Roma,
ho ricostruito che il disco di vinile (regalatomi da un’antropolo-
ga paulistana che faceva ricerca lì, Silvia Caiuby Novaes, da me
tante volte ascoltato e fatto ascoltare anche a lezione) ha co-
me voce solista proprio la sua: era José Carlos che lo aveva in-
ciso! Ora mi trovo di fronte a lui che mi impone la sua autorità.
Posso solo rimanere in silenzio, sconcertato. Penso che abbia
molta più ragione di quanto volessi ammettere. Certo, sono
convinto di non essere là per motivi strumentali e credo di
essere profondamente corretto non solo con la sensibilità
della mia professionalità. Eppure le cose non sono così sem-
plici. Mi classifica come ogni altro “bianco” venuto da fuori e
inoltre da Roma – quindi ricco – facendomi sentire rinchiuso
in un’“alterità” da lui eternamente separata. Sento di essere
espressione di una dicotomia estrema per lui indiscutibile
quanto per me inaccettabile, avendola sempre combattuta. Io
non faccio parte di questi “loro”, mi dico, questi “loro” come
alterità che usano una persona come lui o un rituale come il
funerale per fare i propri “affari”, “loro” che ho sempre dis-
prezzato e contro cui ho lottato, “loro” da cui mi sono sem-
pre tenuto fuori e anche per questo la mia carriera, non solo
universitaria, si è bloccata. Eppure sento che mi presenta una
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po di osservazione alto e denso. Ma qui e ora, Paulinho non è
Racconto
più un “informatore”: si è scrollato dalle spalle questa tartaru-
ga di antropologo, possiede videocamere digitali; e, come av-
viene per molti studenti delle nostre università, anche lui può
incontrare un docente degno di questo nome che gli insegni le
semplici procedure tecniche per filmare liberandone l’autono-
mia attraverso cui può inventare montaggio ed editing.
Paulinho – da informatore di un sapere non suo, che avrà co-
me scopo un libro non suo, che frutterà riconoscimenti non so-
lo accademici – si trasformerà in videomaker che interpreta se
stesso rappresentandosi e rappresentando il suo funerale. Ciò
riguarda il potere del linguaggio, la divisione comunicazionale
del lavoro, il dominio politico, i ruoli strutturati, le gerarchie
economiche che si riproducono all’infinito. O si spezzano…
Con Paulinho – o con Divino – è praticabile la prospettiva di
un posizionamento laterale e discreto che favorisca al massi-
mo ogni loro espressione autonoma sulla propria cultura (e
non certo per affermare autenticità o maggiore conoscenza
allo sguardo interno); sappiamo come lo sguardo straniero a
volte abbia la capacità di cogliere aspetti percepiti come “na-
turali” o insignificanti da parte di chi li vive. Per questo i due
sguardi basati sulla differenza tra etero- e auto-rappresenta-
zione può moltiplicare le possibilità di comprensione e non
restringerle a un unico soggetto.
La visione dell’auto-rappresentazione – depurata da ogni es-
senzialismo, autenticità o populismo – è dentro un processo,
ancora bloccato, attraverso cui il soggetto altro assume la
propria storia in parte autonoma dalla “Storia” (quella occi-
dentale) che continua a essere insegnata e rivendicata come
unica e universale. Ma la storia dei bororo non coincide con
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Racconto
Iniziano i canti. Senza esitare ulteriormente sulla questione
del dono o del prezzo, comincio a fare foto con la mia nuova
Canon digitale, comprata in una loja cinese accompagnato
da un caro amico, Sérgio Bairon, nell’Avenida Paulista. Sono
consapevole dell’importanza di quello che sto facendo e che
ogni immagine è finalizzata con delicatezza a celebrare, oltre
che capire, questo straordinario processo culturale che coin-
volge la morte e la sospende per tutto il periodo del rituale,
come se le musiche, le danze e tutto quel complesso di
azioni avessero tra le tante cose anche il compito di fissare
questa morte. Di fissarla in senso stretto, con gli occhi, an-
che quando sono obliqui o bassi; e in senso attivo, pragma-
tico, per bloccarla nella sua attività dissolutiva, renderla co-
me sospesa in una condizione di incertezza, di presenza-as-
senza. Presenza, per la concretezza del cadavere inumato e
pronto per l’esumazione; assenza, per la simbolica certezza
che – finché il suo odore sarà nell’aria – la morte non potrà
colpire ancora.
Lui sta al centro del baito, sotto l’asse che – come un palo
– sostiene la casa, il villaggio circolare e il resto del cosmo:
canta e suona da solo, poi esce, va alla casa della moglie
morta, che non era la sua casa, in quanto i bororo sono
matrilocali e lo sposo vive nella metà della moglie, dove ri-
mane in qualche modo altro, “straniero”. Per cui ora va nel-
l’altra metà dell’aldeia, dove è solo un ospite dei parenti
della moglie. Entriamo nella maloca della morta, dalle scar-
se quanto povere suppellettili e ci sediamo per terra, Aivone
e io, obliquamente rispetto all’entrata dove si è seduto José
Carlos: la schiena dritta, le gambe incrociate, lo sguardo
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Si dorme poco e male, con un freddo terribile, senza coperte
Racconto
e per terra, ogni notte penso di morire, invece la mattina do-
po, senza bere né mangiare, iniziano di nuovo i canti nel bai-
to. È sempre lui a coordinare i canti e solo dopo un certo
tempo la guida musicale passa a un altro, fisico forte, il cor-
po tutto dipinto di urucum, il rosso acceso estratto da un ve-
getale, voce roca che sembra incepparsi ogni volta che esce
dalla bocca, la testa che oscilla a destra e sinistra ad accom-
pagnare il ritmo della maracá, lo sguardo volto all’interno…
Poi, poco dopo mezzogiorno, sotto un sole cocente, inizia l’e-
sumazione. Siamo in pochi a stare vicino al tumulo, un legge-
ro strato di sabbia ricopre il cadavere insieme a foglie di buri-
tí… Un tubo connesso a un rubinetto a lato del baito consen-
te di irrigare il cadavere per facilitare l’opera di putrefazione
e svolgere l’intero rituale senza dover andare al fiume come
nella tradizione… mi colloco a pochi metri di distanza da José
Carlos in uno dei momenti forse più drammatici del rito, nel
centro assolato dell’aldeia… forse, penso, non dovrei fare fo-
to in questo momento supremo, eppure non ci riesco, l’istan-
za di documentare questo evento così straordinario è più for-
te di me o di qualsiasi “rispetto”: o forse no, forse il mio più
profondo rispetto per quanto sta accadendo sta proprio in
questo, nel fotografare delicatamente e con occhi spalancati
tutto quello che accade. E così timidamente, quasi di nasco-
sto, faccio alcune foto.
Altri tre uomini si affiancano a José Carlos e iniziano a tirare
via le foglie di burití, anch’esse quasi putrefatte come la car-
ne della morta. Non c’è quell’odore terribile di cui parla Darcy
Ribeiro, a causa, dicono, delle medicine prese dalla malata.
Mi avvicino a pochi metri da solo, mentre intorno al tumulo i
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ci. Vedo che il cranio lo prende lui, lui che è sia marito che
mestre dos cantos. Lo lava con cura, sembra essere insieme
impassibile e tenero in questo atto così estremo di purifica-
zione e trasfigurazione delle ossa e della morte: con lentezza,
scuotendo il cranio infiltrato d’acqua, tira fuori la massa cele-
Massimo Canevacci Ribeiro
101
sero a velocità inaudita nella mente per sciogliersi come la
massa cerebrale putrefatta della morta… Penso a cosa avreb-
Racconto
be detto Artaud e prima ancora Nietzsche... Ne sento l’alito
ma cerco di non farmi influenzare dalla mia formazione euro-
centrica, dalla crudeltà-senza-organi o dallo scrutare l’oltre-
uomo. Ora guardo tutto, fisso come mai, tutto il mio sistema
percettivo è acceso, specialmente lo sguardo, ma non solo:
scopro le narici dilatate, le orecchie tese, la pelle aperta,
quando voglio fotografo tutto quello che posso e poi control-
lo subito l’immagine, che sia fissata nella camera. La mia
sensibilità è tesa al massimo e il corpo mi risponde senza re-
spiro. Come nell’amore, come nella ricerca. Come l’ansia di
stare tra le cose, tra le ossa, tra la pelle.
103
re il sangue verso le ossa usando denti di piranha. Il sangue
è ovunque... odore forte di urucum e dolce di sangue, me-
Racconto
scolato all’odore del sudore. Sangue anche sotto i miei pie-
di. Mi sorprendo a camminarci sopra come fosse normale…
Subito dopo viene tolto il “sipario” e inizia la roda, una dan-
za circolare intorno al palo-cosmo sotto cui sono adagiati i
cesti ancora aperti con le ossa irrorate; arrivano anche gio-
vani donne con piume e urucum, danzano e la loro presenza
è un’ulteriore ripresa del rituale: è una roda continua, un
giovane bororo canta con una forza che dà i brividi, continui
crescendo, mentre le donne più anziane sedute fanno il con-
trocanto... Le due ceste con cranio e ossa vengono prima cu-
cite e poi messe entrambe in una cesta più grande, bellissi-
ma, con sopra piume coloratissime. Intorno continuano i
canti, come solisti si alternano alcuni uomini, mentre tutti gli
altri accompagnano il choro con le maracas dal suono sem-
pre più compulsivo che a volte struscia nel rifluire dei semi
interni verso una cavità inesausta. Il controcanto delle donne
continua triste e lento. Ora il canto si chiama roia kurireu,
per il quale pare che i bororo abbiano una particolare parte-
cipazione emotiva ed è considerato
Il canto più importante tra tutti i canti funebri (…). È il canto per
eccellenza che rende omaggio al morto, sempre in presenza del
corpo. È composto di cinque parti differenti che vengono cantate
poco dopo la morte, quando è dissotterrato e alla fine del fune-
rale. In generale è accompagnato da diverse paia di bapo (mara-
cas), ragione per cui è tanto difficile registrarlo con un nastro
magnetico (De Jesus, Fernandes Silva 1986, trad. mia).
stanno intorno, tutti con pariko dai colori dei vari clan, ri-
spondono in coro mentre le maracas suonano all’unisono con
un forte stridore ritmico. Poi si siede su una stuoia di fronte
alla cesta grande con le ossa e il cranio della moglie, si ac-
cende una lunga sigaretta, sputa e comincia a piangere: o
Massimo Canevacci Ribeiro
105
quel momento alla frontiera di Tijuana. Forse perché è così
anche con José Carlos: io non entro dentro di lui. Non potrei
Racconto
neanche mostrargli la mia umana vicinanza. Non la vorrebbe.
Non lo posso abbracciare come si fa in questi casi. Posso so-
lo fissarlo e domandarmi se c’è una relazione tra me e lui af-
fine alla distinzione tra canto e choro. Ha innalzato un muro
invisibile e per me insormontabile.
Per il mestre canto e choro sono mescolati tra loro come i li-
quidi che in quel momento gli colano da occhi, naso e bocca,
come i suoni gutturali che gli escono dalla gola e si attorci-
gliano nel finale della voce come a dare un graffio finale.
Canto e choro non sono la stessa cosa, cerco di essere chiaro
anche con me stesso, eppure è come se il canto trasmigrasse
dentro il choro e poi quest’ultimo, già così misturado, si ri-
volgesse ancora e ancora verso il canto e così via. Per me, in
quel momento di calma solitaria, il canto è canto con delle
regole date e tutto quello che sappiamo, così come il pianto,
anche quello rituale, ha un suo significato preciso. Lì, a pochi
metri da lui, osservandolo senza riuscire a fotografarlo, forse
per rispetto, forse per paura, fissandolo senza perdere un
movimento, sentivo che il choro è canto. Forse è un incanto,
qualcosa di incantato che sporca il viso e i suoni e tutto il
corpo, e in quel momento ho avvertito come possono nasce-
re le cose. Si inventano perché presentano un incanto che im-
mobilizza. La drammaticità della scena, il suo dolore così
compulsivo che non si può trattenere e si deve mostrare non
per formalità, non è il lutto ipocrita da offrire in pasto a cu-
riosi o parenti che vogliono vedere la sofferenza per pensare
le cose più orribili, non è un’offerta pubblica dello strazio, è
proprio il senso che questa separazione (pubblico-privato,
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gene sono cominciate con loro, i potenti xavante. La mia ami-
cizia con Domingos risale agli inizi degli anni Novanta: ci sia-
Racconto
mo incontrati in un villaggio guaraní dal lato argentino, vicino
a uno dei luoghi più belli del mondo, Iguaçú. Poi è venuto di-
verse volte in Italia, ha fatto lezioni strepitose ai miei studen-
ti, ha una forza oratoria fuori dal comune e un’idea di se stes-
so e del suo popolo di estrema serietà e profondità. Il primo
seminario sull’auto-rappresentazione l’abbiamo organizzato
con lui e Vincent Carelli nel 1998 nella mia facoltà. Poi mi ha
invitato nella sua aldeia, dove sono stato diverse volte e dove
ho partecipato al rituale della foraçao das orelhas che avviene
circa ogni sette anni. Ho accennato all’importanza, anche me-
todologica, che per me ha avuto questa etnografia, e proprio
mentre scrivo sono trascorsi sette anni da allora.
Gli xavante furono costretti a migrare dalle loro terre, sconfitti
con la forza dalle armi dell’esercito brasiliano. Un popolo guer-
riero, fiero, forte che, costretto a convivere con i bororo in un
momento di debolezza politica di questi ultimi, ha esercitato
una forte predominanza contro i più antichi abitanti della zona.
Il rituale della foraçao das orelhas dura circa quattro mesi e ad
agosto si svolge una delle fasi finali con la transizione dei gio-
vani dallo stato di adolescenti a quello di guerrieri. La classe
d’età riunisce grosso modo tutti i nati tra un rituale e l’altro,
giovani che hanno tra loro una differenza di età di circa sei-set-
te anni. In alcuni momenti fondamentali del rituale, i giovani,
dipinti di urucum, con solenni ornamenti plumari e vegetali e
con xocalhos (cavigliera con sonagli) alle caviglie, eseguono la
danza del sole, che afferma la ripresa del ciclo vitale grazie al-
l’arrivo di questa nuova generazione. I giovani, addestrati dagli
anziani, colpiscono violentemente la terra con il piede facendo
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del cosmo. I lobi delle loro orecchie sono stati forati dai padri-
ni e nei buchi collocati i palitos, orecchini rossi (tinti con uru-
cum), il cui nome è affine alla parola che designa il pene (bo).
Solo dopo essere stati forati, gli adolescenti diventano adulti e
quindi possono a loro volta “forare” le donne e sposarsi.
Massimo Canevacci Ribeiro
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quello che passa per la sua testa contro i vicini xavante.
Eppure tutti rimangono tranquilli. Garças per fortuna è circon-
Racconto
data da una splendida corona di mangos, alberi sempre verdi
e forti, che difficilmente vengono attaccati dalle fiamme… una
vera cintura di sicurezza che in quel momento percepisco co-
me la salvezza. Ma il pericolo è presente, più di quanto si
possa immaginare: il giorno dopo questo tramonto “rosso
fuoco”, Sergio rischiò di rimanere imprigionato dal fuoco xa-
vante e si salvò solo grazie a Paulinho. Il bororo videomaker
si avvicinò alle fiamme e gli indicò la direzione sicura da cui
uscire, perché lui conosce i movimenti del fuoco che corre nel
suo territorio. Tutto questo Sergio ce lo racconta, dopo esse-
re arrivato di corsa sorridendo e tutto sporco di terra e fulig-
gine, mentre finalmente mangiamo dopo un giorno e mezzo
di digiuno. Come al solito scherza con quello che gli è acca-
duto e mangia con grande appetito, mentre ci racconta quel-
lo che Paulinho gli ha insegnato: se ti trovi circondato dal
fuoco, spogliati nudo – i vestiti in fiamme si attaccano alla
carne e diventano pericolosissimi –, metti i vestiti piegati vici-
no alla faccia, cerca di vedere dove il fuoco è più corto, e con
bocca e occhi protetti corri il più rapido possibile….
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mettono seduti su delle panche accostate ai lati interni del
baito, ascoltando le musiche all’inizio un po’ stupiti, guardan-
Racconto
dosi intorno per familiarizzare con l’ambiente dove filtra poca
luce, poi assumendo comportamenti più ironici e ludici. È co-
me se le varie fasi del rito fossero percepite pienamente serie
e altrettanto pienamente giocose. Ogni aspetto della cultura
bororo sembra scorrere sempre al limite, trasbordando da
ogni lato senza tracciare nessuna regolarità, almeno secondo
i nostri parametri di classificazione ordinata. Tra loro c’è
Rodolfo, carinissimo, più vivace di tutti e che meriterebbe
una storia intera: è un “meticcio”, figlio di padre bororo e
madre nera (Maria do Rosário Uibo), discriminata da molti
bororo che (come tante culture indigene brasiliane) sono for-
temente diffidenti verso gli altri, specie se di matrice afro. Ma
le cose sono, al solito, più complesse: il padre, con un in-
fluente ruolo “politico”, è più o meno un vice-cacique, da cui
l’ambivalenza estrema tra marginalità e centralità vissuta dai
genitori e che precipita sui figli. Insomma, tutto è complica-
tissimo e ogni aspetto si rovescia sempre nel suo contrario o,
meglio, scopre lati nascosti di una relazione intricata. Per
esempio, la sorellina più piccola di Rodolfo rifiuta di vivere
nel villaggio, non si sente bororo e vuole andare via, in parte
assecondata dalla madre, favorendo nei comportamenti di
Rodolfo una vivacità “irregolare” rispetto ai coetanei. Viviane
cerca di studiare biograficamente – partendo dalla madre –
questa complessità etno-culturale. Comunque, anche Rodolfo
ha il corpo dipinto di urucum, gioca e mi viene spesso vicino
per “rubare” la macchina fotografica, vedere le foto fatte e
cercare di fotografare gli amici; gli mostro un disegno del bai-
to sul mio taccuino e ne è entusiasta, lo prende con mio
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to nel fiume contro le pareti delle capanne provocando un for-
te rumore e altrettante grida dall’interno. Il fango ha una chia-
Racconto
ra dimensione simbolica: è nella lama che vivono gli aijé… tut-
ti cospargono i propri corpi e visi di fango e dipingono anche
me con questa lama che è anche un eroe mitico, forse antago-
nista all’eroe fondatore, forse anche la moglie tramutata in
fango. Grida, urla, corse, sibili, botti, pianti… tutta la notte sa-
rà agitata da questi aijé terrificanti.
La mattina dopo il villaggio appare come addormentato e fatica
a svegliarsi. Solo verso mezzogiorno sembra riprendere il corso
finale del rituale. Dopo un po’ il baito è di nuovo pieno di gente
mentre, lentamente, alla guida dei canti si alternano diversi bo-
roro. José Carlos è seduto al centro, vicino al palo, fuma e sem-
bra concentrato, ogni tanto sputa per terra. Il tempo sembra al-
lentarsi, forse a causa della forza ripetitiva dei canti, lo struscia-
re delle maracas, forse la stanchezza inizia a farsi sentire.
115
o a una religiosità gestita da altri attraverso dubbie teodicee.
Che il terrore della morte, e più ancora il possibile ritorno dei
Racconto
morti, si possa attraversare e non rinchiudere igienicamente in
agenzie a questo predisposte, che proprio in tale drammatico
attraversamento ci si incontri con “loro” e se si vuole anche
con “lei”, rifiutando così di delegare a un corpo separato e in-
vestito di un’autorità violata, defraudata e falsificata, la re-
staurazione di una normalità efficiente. Che si inventi – ciascu-
no sulla base del suo rapporto di parentela – un fascinoso e
alterante umanesimo. Che il destino di ognuno di noi, o alme-
no di me singolo, possa essere quello di sentire trasformato il
proprio cranio in una lucente opera d’arte che connette – non
unifica – vita e morte, passato e presente, umani e animali, a
opera della persona amata, ebbene penso che sia una delle
cose più alte che si possano immaginare e vivere nell’intensità
irriducibile di qualche ora o di qualche eternità. E forse, come
diceva Marx per gli occhi di Jenny, für ewig…
Ci stiamo avvicinando al finale. Il maestro dei canti comincia
una complessa e stupefacente vestizione davanti a tutti noi:
è in piedi e diversi uomini iniziano a implumarlo. Usando la
resina, gli incollano manciate di piume bianche sui polsi e sul
viso dove normalmente c’è la barba; sul petto vengono incol-
late altre piume, più scure. Portano un grande pariko da in-
dossare sulla testa, mentre sulla fronte ne mette uno più pic-
colo, con un diadema di falção e uno di arara. Quindi porta-
no un gonnellino fatto di lunghe foglie di burití intrecciate e
unite alla vita: lui lo prende, lo apre facendogli fare una gira-
volta ruotando in sincronia il corpo (in modo simile alla vero-
nica nella corrida), poi lo pone sui fianchi e qualcuno lo serra
da dietro: è come evocare la presenza dei mondi vegetali e
116
117
e improvvisi bagliori. Paulinho gli è vicino e filma ogni istan-
te. Dopo questo lungo giro, questo essere pieno di esseri tor-
Racconto
na vicino al baito. È stato acceso un gran fuoco lungo l’asse
che va dai resti del tumulo alla casa della morta. Il tramonto
si avvicina alla fine, tutti escono dalla casa-degli-uomini:
qualcuno ha portato vicino al tumulo tutte le cose di lei, ve-
stiti, suppellettili, ornamenti, tutto e tutto sarà queimado da
lui. Marito e mestre. Ora il silenzio dell’aldeia è assoluto, lui
afferra il giaciglio della morta e con un ampio gesto di rota-
zione lo getta nel fuoco che lo divora subito; poi seguono le
sue cose: vestiti, coperte, oggetti di uso quotidiano. Tutto di
lei deve sparire o trasformarsi, come è successo con il suo
cadavere. Anche la maloca sarà queimada. Ma è uno strano
sparire, questo, ed è difficile cogliere il senso di questa paro-
la che sottintende un’eliminazione: forse è piuttosto un ani-
mare, un rendere fuoco le cose, capisci? Smuovere, rimescola-
re le cose, le cose – che sono lei – si innalzano al cielo, si
mescolano con l’aria e, (se questa parola non fosse troppo
inquinata) si “spiritualizzano”. Rimescolare le cose significa
anche rimescolare la vitamorte proprio quando il sole è al
tramonto, un estremo infuocare l’animato/inanimato.
Dopo qualche ora e una breve cena a base di panini portati dal
solito Sergio, arriva una luna che piena così raramente si vede
e che illumina a giorno l’aldeia, insieme a un gocciolare di stel-
le. Un lucore potente biancolatte, del tipo che innalza la sauda-
de all’estremo sopportabile, quando è difficile vivere senza la
persona amata che comunque si evoca e con cui si dialoga an-
che se lontanissima. È l’ultima notte e non si dorme nelle malo-
cas. Ci sdraiamo tutti per terra tra il baito e ciò che rimane del
tumulo. Lì passeremo la notte, freddissima, con una leggera co-
118
119
tornati. E sono lì. Intorno a lui e a noi, a me.
Racconto
Quando torno a Roma, scopro che nel piede ho un bicho do
pe’ proprio sotto l’unghia già in parte deformata, e forse non
solo lì. Provavo un dolore strano camminando, un elogio del
dolore. Prima che entri completamente dentro, con un ago ro-
vente ne apro la testa e strizzando forte faccio uscire un cor-
po filamentoso di un bianco sporco. Un verme che si stava
nutrendo di me. Mi sorprende quanto è lungo e solo dopo di-
versi tentativi esce del tutto, lasciando scoperto un vero e
proprio foro sotto l’unghia. Un piccolo buco, ora vuoto e pri-
ma riempito della sua carne molle. Una culla o una bara. Ci
vorrà del tempo prima che si richiuda e si cicatrizzi.
Penso che non ho assistito alla deposizione finale e, se la tra-
dizione verrà rispettata, il grande cesto colorato e piumato,
contenente le ossa e il cranio, verrà collocato nel fiume, dove
il fango è spesso, come per preservarlo. E anche per farla tor-
nare – lei morta e arara vivente – tra la molle dolcezza del mi-
to di cui la lama è impregnata e fecondata come da un eroe.
Capitolo quarto
Mito bororo
(dal canto xobogeu, clan paiwoé, in Colbacchini,
citato da Lévi-Strauss 1964)
Né crudo né cotto
121
altre discipline. Forse è stato l’ultimo testo antropologico che
Mito bororo
si è diffuso tra specialisti e non con tale forza: la forza sistemi-
ca che parte dall’assolutamente particolare – un mito bororo –
per arrivare alla struttura generale del mito. Eppure, questa et-
nografia del mito si rivela una vera e propria mitologica in un
senso diverso dal titolo e la forma testuale ha un a priori che
rinserra dall’inizio ogni micrologico racconto. La geniale com-
posizione musical-narrativa accompagna il lettore-ascoltatore in
un groviglio sinfonico per variazioni e fughe di grande erudizio-
ne e tutto è inserito in un déjà vu di stile prettamente illumini-
sta. Lo stesso illuminismo degli ideologues francesi prima che
venissero disciolti da Napoleone. I miti sono disposti sul tavo-
lo da pranzo come pietanze e la logica assume le opposizioni
binarie come costitutive dei passaggi dalla natura cruda a una
cultura cotta, mentre lo strutturalismo viene usato come chiave
classificatoria che pretende di definire con la potenza oggettiva
della logica. Il crudo e il cotto rappresenta forse l’ultimo tenta-
tivo di produrre una scienza oggettiva e universale basata su
un mix di linguistica, psicoanalisi e marxismo. Il testo è un’e-
semplare dimostrazione di come, se si assume un’ipotesi agen-
do su un metodo (ipotesi trasformata in metodo), quello stes-
so metodo seleziona, dispone, classifica, interpreta e infine
struttura le infinite variabili contenute in ogni segmento della
narrazione mitica. Il metodo strutturalista dispone il mito, lo
accentra e lo risolve nella sua chiave di violino basata su sette
note, inserendo le variazioni mitiche dentro la logica della mu-
sica occidentale, forse per rendere “maestosa” l’alterità etnica
normalmente disprezzata come primitiva o selvaggia. Ma in
questo modo si è prodotto l’opposto: dovrebbe essere eviden-
te a ogni amante della musica (oltre che dei miti) che la logica
122
123
nala, classifica e struttura i miti attraverso una logica dualista
Mito bororo
basata sul principio di identità classico della cultura occiden-
tale. Lo strutturalismo è l’a priori metodologico simmetrico al-
le metafore musicali; entrambi di matrice eurocentrica, svol-
gono le opposizioni binarie come proposizioni sue (dell’auto-
re) e non dei bororo. In questo senso, lo strutturalismo è un
esempio ormai quasi “classico” (o, per essere ancora più ra-
dicali, storico) di una logica neo-coloniale che l’attuale fase
apparentemente post-coloniale deve mettere in discussione.
Lo strutturalismo attesta che il principio di identità, come si è
sedimentato nella cultura occidentale, sia intimamente duali-
sta e universalista; la catena logica che lo anima – tra gli ulti-
mi tentativi di elaborare un modello moderno – è la seguente:
identità-dualismo-universalismo-strutturalismo. Ovvero: la logi-
ca dell’identità, attraverso la dialettica di opposizioni binarie
(crudo/cotto), si costituisce come universale nella versione
strutturalista riassunta dall’opposizione generale natura-cultu-
ra. La sintassi discorsiva si basa sui concetti di simmetria, in-
versione, equivalenza, omologia, isomorfismo (p. 53).
Nello stesso tempo, molte riflessioni anaclastiche di Lévi-
Strauss – raggi riflessi e rifratti dal mito – sono straordinarie,
come la critica al pensiero filosofico ossessionato dalla ricerca
dell’origine, che informa il senso comune mentre ne è informa-
to1. E così, giornalisti e media si conformano nell’attestare l’ori-
gine di ogni fenomeno attraverso inchieste, domande, intervi-
ste: dal tatuaggio alla bellezza, tutto si distende lungo questo
asse dell’origine. Sono filosoficamente addestrati e rappresen-
tano il risultato della filosofia, altro che la loro negazione! I
media sono la fenomenologia della filosofia occidentale.
Lévi-Strauss critica con un linguaggio di estesa eleganza la
124
125
per cui “nulla, meglio della mitologia, permette di illustrare
Mito bororo
questo pensiero oggettivato” (p. 27). Escludendo che i “sog-
getti parlanti… possano prendere coscienza della struttura e
del modo di operare (dei miti)”, la conclusione è stringente:
“è per lo meno dubbio che gli indigeni del Brasile centrale
concepiscano realmente, in vari racconti mitici che li affasci-
nano, il sistema dei rapporti ai quali noi stessi li riduciamo”
(p. 27). Il ruolo – o meglio, l’autorità – dell’antropologo rove-
scia, oggettivizza e reifica i rapporti tra soggetto e oggetto.
“Noi non pretendiamo di mostrare come gli uomini pensino i
miti, ma viceversa come i miti pensano negli uomini, e a loro
insaputa” (p. 27). Di più: questi stessi miti “pensano fra di
essi” (p. 28). L’antropologia del mito diviene feticista non per
dissolvere i poteri del feticismo stesso, bensì per rafforzarlo e
legittimarlo. Un’enorme oggettività indifferente verso ogni
soggetto, come un dio misterioso e terribile, si distende sui
miti trasformati in pezzi di scacchi che la scienza universale
del giocatore-antropologo inizia a muovere con le sue regole,
mettendo in scacco matto all’inizio – e non alla fine – il suo
avversario. Per questo la mia critica non parte dalla sua mito-
logica, bensì dal funeral bororo, e si espande su scenari in cui
concreto e astratto non sono in successione (questa “dialetti-
ca” mi è sempre apparsa di un’ingenuità tale da pensare si
trattasse solo di una retorica per apparire, appunto, più “con-
creti”: come se in ogni concreto non fossero già sedimentati i
più diversi livelli di astrazione), ma risultano intrecciati e in re-
ciproca sfida nei vari capitoli, paragrafi, fotografie, frasi, paro-
le, corsivi, indici. Per questo l’immagine finale, per riprendere
la metafora degli scacchi, mi sembra sia quella di Lévi-Strauss
in una posizione di stallo di fronte al suo vero avversario: lo
strutturalismo da cui non riesce a staccarsi.
126
La linea di polvere
Maracá
O bororo nasce, para isso ele canta e dança. O bororo vive, para
viver ele canta e dança. Canta e dança para caçar e pescar. O bo-
roro canta e dança para morrer.
È chiaro che vi sono relazioni tra canti e miti bororo. Non è
necessario essere strutturalisti o funzionalisti per cogliere que-
sta ovvietà. Il problema che emerge è che queste relazioni
istruiscono elementi disgiuntivi con le norme classificatorie oc-
cidentali: immaginare che tutte le musiche possano rientrare
all’interno del paradigma tonale occidentale è di una superfi-
cialità imbarazzante e la riproduzione di un eurocentrismo da-
tato. Lo stesso vale per i miti: non è necessario essere antro-
pologi o musicologi per cogliere questa ulteriore banalità, co-
me può evincere chiunque lavori sul campo in questi ambiti.
127
musicalmente il suono di un flauto bororo – sia ika, panna o pa-
rira – è un lavoro quasi impossibile all’interno della prospettiva
Mito bororo
musicale occidentale (De Jesus, Fernandes Silva 1986, trad. mia).
La base ritmica per ogni canto è data in primo luogo dal bapo,
nome con cui i bororo designano la maracá (ma anche cuore,
coraçao, e seme, xocalho), quella grande – usata nei grandi riti
come i funerali – e quella piccola, per i canti connessi a caccia
e pesca. Nei momenti più solenni del funerale, possono com-
parire fino a otto paia di bapos. Come per gli altri strumenti
musicali – ká (tamburo), ika (flauto traverso), parira (flauto),
panna (il flauto principale composto da due o tre cabaças o
zucche che accompagnano il canto come percussioni, essendo
il tamburo uno strumento secondario) – le loro emissioni di
suoni non si limitano a rappresentare i morti, sono i morti.
Da queste semplici relazioni, simboliche per la “natura” degli
strumenti come esseri e compositive per le scale musicali dai
parametri diversi, dovrebbe emergere con estrema chiarezza
che durante un funerale bororo non vi è posto per sinfonie,
cantate, fughe. E che impostare la relazione tra canti e miti
bororo fino a includere l’intero panorama panamericano nella
logica strutturale inficia ogni possibilità di comprendere – sia
dal punto di vista nativo che occidentale – il senso dei miti e
delle musiche. Entrambi sono da localizzare nel loro contesto
determinato che, nel caso in esame, è il funerale in una zona
che ora si chiama Mato Grosso.
Miti, canti, religioni, danze, cibi, iniziazioni, rituali si irradiano
a partire da questo evento, il funerale, centro da cui osserva-
re le sue articolate diramazioni. È inquietante e illuminante al
tempo stesso che al funerale Lévi-Strauss dedichi solo alcune
notazioni fugaci: la sua non è etnografia, bensì l’applicazione
128
Mito
129
pertica, il padre la spezza, lui si salva con il bastone e il padre va
Mito bororo
via. Il figlio si arrampica su una liana, cattura e mangia lucertole
con arco e frecce. Il fetore delle lucertole richiama gli avvoltoi (uru-
bu) che gli mangiano le natiche e che infine, sazi, lo portano in sal-
vo. Essendo senza ano non può trattenere il cibo ma, grazie al rac-
conto della nonna, lo ricostruisce con dei tuberi schiacciati.
Il giovane torna al villaggio abbandonato assumendo le sem-
bianze di lucertola. Incontra e si rivela alla nonna e al fratellino.
Tempesta al villaggio: i fuochi sono tutti spenti tranne quello
della nonna. La seconda moglie riconosce il figliastro e lo dice al
padre che accoglie l’eroe con canti. Ma l’eroe si vuole vendicare:
durante una caccia, si colloca in testa un nido d’api in forma di
cervo, carica, infilza il padre e lo getta nel lago, dove ci sono i
buiogoé, spiriti maligni e pesci cannibali. Rimangono solo le os-
sa scarnificate e i polmoni che galleggiano.
Infine, l’eroe torna al villaggio e si vendica delle spose del padre.
Rapporti di parentela
La nonna difende il nipote contro il genero perché il primo è
parente e il secondo no: il marito della moglie (il “padre”) è
uno straniero che viene da un clan diverso, appartenente al-
l’altra metà esogamica. Tra i bororo vige la regola matrilocale
(il marito va a vivere nella metà della moglie), ma la solida-
rietà clanica è di gran lunga più forte della filiazione paterna.
Nello stesso tempo, la discendenza matrilineare non costitui-
sce un potere matriarcale: nell’alleanza nonna-nipote non c’è
traccia di una “immaginaria” potenza da grande madre primi-
genia. Anche qui si afferma piuttosto un potere maschile del-
l’eroe appoggiato matrilinearmente dalla nonna, la quale di-
fende il nipote contro la figlia perché il mito esprime un pun-
to di vista maschile e ne legittima l’egemonia.
Veniamo al punto centrale: l’alleanza per l’egemonia deve
saltare una generazione, proprio quella del padre-genero che
è uno “straniero” (esogamico) cui non si riconosce l’autorità
che invece si desidera dare al nipote in quanto campione en-
dogamico matrilineare e matrilocale.
Oltre ad affrontare e “risolvere” le tensioni inter-generazionali
(saltando la generazione di mezzo, paterna), si palesa un altro
conflitto generazionale, quello tra madre/figlia: per essere più
precisi, il conflitto tra queste due figure femminili emerge solo
quando la prima diventa nonna e la seconda moglie. Dal pun-
to di vista della nonna, la figlia in qualche modo “tradisce” (o
fuoriesce da) la compattezza clanica a causa della regola eso-
gamica. E l’incesto in questo caso la riconduce a quello che è
uno dei desideri espressi e tabuizzati: l’endogamia. Un deside-
rio incestuoso totalmente diverso da quello di Edipo.
Il nipote vince anche perché è la figura maschile che vive la
matrilocalità: vivendo fin da piccolo nella metà materna, egli
si configura come campione dell’endogamia e antagonista del-
l’esogamia paterna. La relazione matrilineare per eccellenza –
131
qui confermata come dominante o vincente – è tra nonna/ni-
Mito bororo
pote, ed è molto più forte di quella madre/figlia. Se l’asse pa-
rentale vincente fosse quello madre-figlia, attesterebbe una
presenza matriarcale, ma il mito afferma chiaramente che ma-
trilineare non è matriarcale, se ancora ce ne fosse bisogno.
Il potere maschile è ereditato dalla parentela matrilocale/matrili-
neare, di cui l’eroe è protettore devoto in quanto unifica il pro-
prio clan dalle “incursioni” esterne. Detto in altri termini, il lega-
me nonna/nipote è percepito valorialmente come più “puro” di
quello tra moglie/marito: per questo vince. È il trionfo dello
stesso “sangue”. Il clan celebra se stesso contro ogni esterno.
L’incesto è meno grave della persecuzione del padre verso il
figlio: questa è la mia conclusione, che emerge fin dall’inizio
del mito (differenziandolo ancora una volta nettamente da
un’analogia con Edipo/Giocasta). È l’elemento drammatico
che scatena lo svolgimento della storia, ma è singolare come
questa simbolica – che non giudica l’incesto un’infrazione
grave (visto tale solo dal padre cera, non dal figlio né dalla
nonna tugaré) – venga ignorata dall’autore delle Strutture
elementari della parentela, dove egli cerca di risolvere pro-
prio la questione del tabù dell’incesto. L’unico accenno è pre-
sente quando allude alla “colpevolezza [che] sembra esistere
nella mente del padre che desidera la morte del figlio” (p.
76), ma non è svolto fino alle logiche conseguenze.
È chiaro come il desiderio incestuoso – intrecciato con la co-
abitazione clanica di due metà differenti con cui allearsi e dif-
ferenziarsi – non è condannato perché bloccherebbe il trans-
ito dalla natura alla cultura, bensì è svolto come un argomen-
to cui non è data soluzione finale. È un enigma interno alla
cultura, non esterno: come ogni mito, che appena risolto si
132
L’ano mancante
Già Paul Radin nella sua celebre analisi sul “briccone divino”
winnebago (trickster) dipana una serie di moduli narrativi in
cui l’ano ha una funzione “vitale”, come un essere vero e
proprio, che nello stesso tempo favorisce elementi comici de-
finiti da Bachtin basso-corporei. Per cui l’ano parla, appunto,
come un soggetto; oppure si brucia con un tizzone ardente a
opera dello stesso “proprietario”, o ancora per colpa di una
cipolla purgativa emette montagne di escrementi su cui ri-
schia di cadere. Anche in questo caso a me pare che l’eroe
bororo senza ano svolga un momento comico, quando non ri-
esce a trattenere il cibo. Immagino che, quando lo storyteller
racconta questa parte, gli ascoltatori non possano che ridere
e questo mi permette di sottolineare che il mito ha sempre
anche un aspetto performativo nella sua interpretazione. La
dimensione “teatrale” favorisce una correlazione tra narrato-
re, contesto e ascoltatori che modula la narrazione, solleci-
tando reattività emotive che si possono dedurre dalle varie
fasi: meraviglia, orrore, disgusto, gioia, riso…
Quello che caratterizza questa sezione del mito (e che lo diver-
sifica così nettamente dalle retoriche greco-romane) si concen-
tra sull’animazione in soggettiva dell’ano. Anche l’ano è quindi
133
parte dell’aroe, spirito ancestrale che si manifesta nella sua par-
Mito bororo
ziale individualità. È come se ogni singola parte del corpo uma-
no avesse la propria diffusa soggettività, in particolare quella
zona corporea tra le più vilipese ed esaltate che è l’ano. Così, il
mito presenta anche la sua veste comica generando il riso, un
riso vitale che a sua volta rigenera la vita: la ricostruzione del-
l’ano è l’ultima azione prima del ritorno al villaggio, introducen-
do come momento ironico e autopoietico la tragedia finale.
Zoomorfismi
La relazione con gli animali mitici sviluppa un’altra dimensione
fondamentale del mito come riflessione sugli esseri che cir-
condano la vita quotidiana degli umani. Gli animali sono zoo-
morfizzati e rientrano dentro l’universo vitale che il mito sog-
gettivizza. Gli animali non sono antropomorfizzati, ricondotti
cioè a proiezioni di vizi e virtù umane: essi compongono le
traiettorie dell’eroe, ne incorniciano alleanze e antagonismi,
ne accettano le metamorfosi. Il cervo incorpora l’eroe nel mo-
mento culminante della morte del padre, come se il figlio tra-
sformato in cervo, grazie alle forme duttili del nido d’api (fa-
vo), compisse l’atto finale non solo come figlio e umano, ben-
sì mutato nella sostanza vitale in essere ancestrale. Il padre
viene punito per la sua vendetta cieca dalla sacralità mutante
dell’aroe. Il padre rimane solo padre, mentre il figlio diventa
eroe perché incorpora la potenza di esseri/animali clanici.
I buiogoé, i piranha, scarnificando il corpo del padre e ridu-
cendolo a ossa ripulite di ogni frammento di carne, pelle,
tendini, massa cerebrale ecc., inseriscono un altro elemento
fondamentale della filosofia bororo connesso al più potente
rituale della propria cultura: il funerale. Tratterò in dettaglio
134
S/oggettistica
Infine, due oggetti entrano fin dall’inizio nella scena mitica
proprio in quanto entrambi segnano momenti decisivi nei ri-
tuali bororo: il primo non poteva che essere il ba, l’astuccio
penico fatto con foglie (folíolo de broto) di babaçu, una palma
dai semi oleosi. Durante la cerimonia, che precede il funerale
(l’iniziazione degli adolescenti dura finché non muore qualcu-
no, per cui la sua fase terminale coincide con il rito funebre)
si preparano i ba, che hanno i colori dei clan e che il giovane
avrà cura di custodire con grande attenzione contro ogni sorta
di influenza negativa. Ba significa anche uovo e testicolo, e –
per la sua forma rotonda come per la funzione generatrice –
capanna (cfr. Ochoa 2005). Tutto il dramma mitico inizia con la
preparazione dell’oggetto simbolicamente sessuato per eccel-
lenza, che assorbe, incorpora, trasfigura il contenente simboli-
co in contenuto fallico determinando le azioni successive: il
ba generato dalla madre anticipa le mosse successive dell’al-
tro essere da lei generato (il figlio), come se il contenente (l’a-
stuccio penico) sia il contenuto (il fallo filiale).
135
Il secondo è il bapo, grande e piccolo, con funzioni distinte nei
Mito bororo
rituali. Nella lingua bororo, bapo vuol dire anche cuore, per la
forma che ricorda l’intimità pulsante della vita o chocalho, cioè
uno strumento che emette suoni con i semi contenuti al suo in-
terno, semi che ruotano, scivolano, saltano a seconda dei movi-
menti del nesso braccio-mano-polso (Ochoa). Bapo a sono an-
che i semi estratti da una canna silvestre, la cui composizione
favorisce il suono. Il fatto che l’eroe debba partire due volte
non è solo una scelta drammaturgica: i bapo sono di due tipi
fondamentali, il bapo kurireu o maracá grande, che si usa nelle
solennità rituali più significative, tipo il funerale, e baporogu o
maracá minore, maggiormente connesso alla caccia e pesca.
Sottolineo la complessità decisiva e specificatamente bororo di
questo che non è solo uno strumento musicale, come si potreb-
be immaginare. Alcuni bapo possono essere utilizzati solo dalla
mano sinistra marcando il ritmo dei canti e delle danze (butu-
reu); altri solo dalla destra, generalmente in una stretta relazio-
ne compositiva con il canto; i colori dei bapo variano a seconda
dei clan di riferimento, per cui piume, cotone, semi esterni
adornano e svelano queste differenze interne. Insomma il bapo,
come maracá, è un mezzo fondamentale di interconnessione tra
i “diversi” mondi bororo, parte vitale degli aroe ekeroia: agitan-
dosi, fanno smuovere ogni essere; pulsando, fanno pulsare in-
sieme vivi e morti; ruotando, fanno vivere cose, animali, umani,
spiriti. I bapo non sono oggetti, ma densamente soggetti.
Metamorfosi
L’eroe – come ogni essere – sviluppa una pragmatica dell’i-
dentità non fissa. Questo vale per ogni elemento che compa-
re nella narrazione: le lucertole non possono essere lette solo
136
137
Mito bororo
1 “Nel metodo etnografico si esclude che le funzioni mitiche abbiano significazioni
assolute” (p. 84). “Così come i simboli non hanno un significato intrinseco e inva-
riabile, non sono autonomi nei confronti del contesto. La loro significazione è di
posizione”. Purtroppo questa impostazione di matrice relativista viene contraddetta
dal suo stesso metodo, che è più forte di lui: “Noi ci proponiamo che invece si trat-
ta sempre dello stesso mito” (p. 183) – “L’ossatura si conserva, il codice si trasfor-
ma, il messaggio si inverte” (p. 265). E così, le sue avventure strutturaliste sui miti
diventano un fugato.
2“Una volta gli uomini del clan bokodori (cera) erano spiriti soprannaturali che viveva-
no felicemente in capanne fatte di lanugine e piume, chiamate ‘nidi d’arara’” (p. 131).
Capitolo quinto
Funeral bororo
Camalote
139
questione dei tempi diventa fondamentale, in quanto la possi-
bilità di continuare le mie ricerche in Brasile dipende dagli in-
Funeral bororo
viti di istituzioni universitarie locali (in questo caso il Mac-Usp,
Museo di Arte Contemporanea di San Paolo dove la direttrice
mi ha invitato a presentare una mia ricerca su corpi, arte e an-
tropologia), più che da quelle italiane. Un bel paradosso.
La complicazione è dovuta ai tempi di decomposizione della
carne della morta rispetto ai miei impegni, per cui quando arri-
vo a Campo Grande, nel Mato Grosso del Sud, si decide di non
partire per il nord. Per lo svolgimento del rito è importante
aspettare la luna piena, che significa 19 agosto, proprio l’ultima
giornata del mio corso al Mac. Devo muovermi immediatamen-
te, quindi scrivo una mail alla direttrice del museo per chiederle
di finire il corso un giorno prima, poi riunisco il gruppo di ricer-
ca a casa di Aivone, che, come ho detto, ha svolto la sua tesi di
dottorato tra i bororo con una forte sensibilità empatica e una
presenza costante e che sta lavorando alla costruzione del mu-
seo nell’aldeia di Meruri e di un grande museo etnografico a
Campo Grande. In entrambi i casi è decisivo il rapporto e l’in-
fluenza dei salesiani, sia economica che museografica.
All’incontro mancano purtroppo Paulinho e Kleber, i due bororo
che parteciperanno alla ricerca per dare il senso della differen-
za metodologica basata su auto ed etero-rappresentazione; ol-
tre ad Aivone, sono presenti Sato e Viviane. Il primo è un gio-
vane attivissimo, ottimo fotografo, che vuole studiare antropo-
logia; la seconda è la giovane studentessa che collabora alla
costruzione del museo etnografico. Il gruppo è coeso e motiva-
to. Si decide di usare il tempo a disposizione per precisare il
progetto di ricerca e per alcune lezioni di antropologia che
svolgerò sulle metodologie da applicare sul campo. Tutti com-
prendono l’importanza dell’auto-rappresentazione, per cui non
140
una ragazza che rifiuta la sua identità bororo e una terza appe-
na nata. L’interesse di questo caso non consiste solo nella sua
atipicità, ma perché coinvolge problemi che potrebbero diven-
tare sempre più numerosi tra i bororo (e non solo): il rapporto
sessuale e parentale con persone diverse da loro, e come que-
sto mutamento culturale incida nella costruzione delle identità.
Aivone, che ha partecipato già a numerosi funerali, svolge il
ruolo di mediazione interna al villaggio e cercherà di leggere
questo specifico funerale alla luce delle nuove acquisizioni
metodologiche. Io, coordinerò la ricerca e parteciperò all’inte-
ro processo, tentando di fotografare ogni volta lo reputerò
possibile senza invadere l’intimità coinvolgente del funerale.
Oltre alla Canon, ho il mio taccuino. È decisivo non solo “co-
gliere il punto di vista nativo”, quanto che siano gli stessi
bororo coinvolti a esprimerlo, in tensione dialogica con cia-
scuno di noi. La ricerca sarà quindi polifonica, moltiplicando
punti di vista, linguaggi, rappresentazioni.
Questa definizione di compiti e ruoli resisterà poco: già prima
dell’inizio della ricerca, per poi accentuarsi nel corso del suo
svolgimento, emergerà un coinvolgimento processuale della
mia soggettività come parte fondamentale dell’esperienza et-
nografica. L’incrocio di dialogica e polifonia interne/esterne fa-
vorirà l’apertura di parti di me – dei miei altri “me” – appena
socchiusi. E proprio questa sottile linea rugosa tra la grande
metropoli di San Paolo e la piccola aldeia di Garças costitui-
sce la sfida di un’interconnettività tra scambi culturali sincreti-
ci, coinvolgimenti personali e attenzione verso ogni minimo
dettaglio del funerale. Polifonie e dialogiche interne tra i miei
“me” sono affini o in tensione con quelle esterne tra San
Paolo e Garças: amore e fieldwork si connettono in modi
strani ed estranianti. Sento questo pulsare tra la condizione
estrema del funerale e quella, altrettanto estrema, di un amo-
141
re che dopo due giorni decide di vivere le reciproche vite in-
sieme. Un amore del funerale.
Funeral bororo
Questo funerale si presenta straordinario: la morta, infatti, è la
moglie di José Carlos, il mestre dei canti, una persona dura,
già incontrata nel mio primo viaggio, che mi era stata molto
ostile, non solo per le sue richieste economiche, quanto per la
sua chiusura piena di diffidenze verso un bianco, immagino
per le tante volte in cui nella sua vita deve aver capito di es-
sere stato usato. José Carlos sa che in ogni caso il “bianco”
trarrà profitto dalla sua presenza nel villaggio e di conseguen-
za chiede in anticipo gli interessi. Discutiamo a lungo con
Aivone su questa relazione e del modo per contenerla. La sua
proposta è precisa e arriva con molta timidezza e circospezio-
ne dopo diversi giorni per non essere fraintesa da me: devo
regalare una vacca al villaggio. Il dono verrà interpretato come
il modo per bilanciare la mia presenza sotto il segno della re-
ciprocità, in particolare da José Carlos. L’immagine di me, men-
tre entro nell’aldeia con una vacca al seguito, mi procura un
senso di giocosa ilarità quasi teatrale, ma naturalmente accet-
to. Pensando anche che la somma per acquistare la vacca è
infinitesima rispetto all’importanza dell’evento cui potrò parte-
cipare “di diritto” e alle condizioni sempre così precarie dei
bororo cui non posso essere estraneo.
Affermate e accettate le proposte metodologiche e la divisione
dei compiti, il gruppo decide di aspettare il 19 percorrendo la
grande regione del pantanal, uno dei parchi ecologici più vasti
e belli del mondo, con gli animali liberi di vivere in un habitat
ancora in gran parte intatto, anche se molto frequentato da
turisti. Sato guida la Land Rover che ci porterà anche tra i bo-
roro: è un conducente entusiasta e infaticabile, come per ogni
cosa che lo riguarda, una potenza vitale sempre in movimento
142
BR 070 km 112
147
Con Sato, abbiamo prima girato la Land Rover verso Meruri
dove c’è la missione salesiana e dove vengo accolto con gran-
Funeral bororo
de ospitalità, anche se non partecipo ai rituali religiosi duran-
te la cena. Un missionario – Mario Bordignon – mi regala alcu-
ne sue opere sulla cultura bororo, preferisco ascoltare le sue
esperienze come missionario e come ricercatore piuttosto che
esporre il mio punto di vista: per discrezione e ricambiare l’o-
spitalità, ma anche perché sono lì a fare etnografia. La sua
preoccupazione maggiore sta nella perdita della cultura bororo
e non riesco a capire se ha piena consapevolezza che l’attività
di missionario è parte del problema di questa perdita. Nello
stesso tempo vi è una logica che sprofonda nei valori dei sa-
lesiani: per loro formazione essi devono difendere sempre e
comunque la tradizione, e questo è un valore costitutivo della
loro missione, come è un valore difeso strenuamente dalla re-
ligione cattolica contro la maggior parte delle trasformazioni
tecnico-scientifiche. Ma allora come risolvere la questione che
la religione cattolica è una delle componenti, spesso la princi-
pale, di tale rottura? La risposta emerge con sorprendente in-
genuità dalle interviste di Bordignon agli anziani bororo nel
1994: la religione cattolica è la tradizione (non la cultura boro-
ro), i missionari di una volta sono la tradizione, così come i ri-
tuali di battesimo, matrimonio, messa. Il problema allora è
semplice: si tratta di ristabilire quella forza della tradizione
appartenuta a quei missionari e che ora è perduta. La trasfor-
mazione della missione in tradizione è il capolavoro logico e
politico di questo ragionamento.
La tradizione sono i canti, la caccia, l’artigianato, il mangiare,
le danze e specialmente la lingua, la cui centralità viene da
tutti considerata costitutiva della cultura bororo. Per cui si
tratta di salvare queste tradizioni, separandole dalle visioni
148
149
zione nel presente su tale questione che salva il passato.
Non il contrario. Di conseguenza è la pragmatica nel presente
Funeral bororo
che deve essere rivendicata, non il restauro della tradizione.
Questo diventa ancora più chiaro se si osservano con atten-
zione le foto a pagina 53, dove una linea di fil di ferro – non
di polvere – separa la missione dall’aldeia di Meruri. La linea
del villaggio è a forma di “L” su influenza salesiana. Oltre al-
l’aspetto esterno, attraverso cui l’intero cosmo circolare boro-
ro viene stravolto, anche l’architettura interna – non solo per
l’uso di mattoni e laterizi inadatti a proteggere dal calore –
viene ridisegnata dall’ideologia missionaria: le nuove case,
infatti, hanno stanze separate. Il peccato, su cui tace
Bordignon, è entrato nella conformazione della casa attraver-
so i salesiani. Vi è una lunga tradizione salesiana contro la
forma circolare dell’aldeia e contro la presunta “immoralità”
dello spazio aperto della capanna; così il tentativo di difesa
di Bordignon su tale duplice aggressione, non solo urbanisti-
ca ma sessuale ed etica, appare debole e ingenua: sarebbe
un’erronea scelta del passato ora rifiutata anche dai missio-
nari. Purtroppo non è convincente, perché ignora la relazione
“etica” interna ed esterna della controriforma urbanistica e ar-
chitettonica, e accusa ingiustamente (direi immoralmente)
l’antropologa Sylvia Caiuby Novaes (oltre che lo stesso Lévi-
Strauss) che prese posizione contro questa de-culturazione
missionaria.
Canto iniziale
Funeral bororo
Funeral bororo
po l’esumazione.
155
Sergio filma Paulinho, io fotografo Paulinho e Sergio.
Funeral bororo
documentazione dell’antropologia visuale classica (monologi-
ca). Paulinho, Sergio e io incrociamo le nostre tecnologie visua-
li polifoniche, documentando il senso del procedimento rituale.
Questo articolato incrocio specchiato – che ha nell’accecante
apertura solare della porta il suo codice di accesso – rende an-
cor più complessa la mia soggettività di ricercatore che com-
partecipa, nella sua richiesta di autonomia riflessiva, al deside-
rio di entrare nella mia stessa voglia di auto-rappresentazione,
scoprendo una mia intera e frammentata persona.
Una cosa da sottolineare è la dimensione ibrida e sincretica
dei codici. Contro ogni visione purista, che cerca di affermare
una sorta di essenzialismo nativo, la contemporaneità vissuta
dalle popolazioni indigene esprime, vive e gestisce i flussi
della comunicazione e degli stili attuali più o meno come al-
trove nel mondo, e – nello stesso tempo – mantiene e svilup-
pa la propria autonoma visione del mondo. La quale si moti-
va e costituisce ulteriormente attraverso persone che afferma-
no, anche tecnologicamente, questa visione.
156
La linea di polvere
Il mestre esce dalla casa della moglie e si reca verso il tumulo. A sinistra il baito.
157
se aurea secondo cui tutta la generazione dei fratelli sarebbe-
Funeral bororo
ro uguali di fronte alla Grande Madre. In genere la condizione
della donna in tali culture è leggermente migliore che in quel-
le patrilineari, ma deve essere chiaro che il potere risiede sal-
La sorella della morta (a destra) porta la cesta insieme alla parentela femminile.
damente nelle mani maschili. Tra i bororo, ad esempio, tutti i
ruoli che hanno a che fare con l’intermediazione tra vivi e
morti, la conoscenza dei canti, le cacce propiziatorie ecc. so-
no di pertinenza maschile.
La casa degli uomini è al centro asimmetrico del villaggio, in
una composizione architettonica sincretica: da fuori è visibile
il tetto di lamiera, a differenza dalle altre malocas che sono di
paglia (come si vede nello sfondo). All’interno c’è la luce elet-
trica, ovviamente, e nel lato posteriore – qui fuori campo – vi
sono un gabinetto semplice per gli uomini e uno strumento
che ha mutato un aspetto significativo del rituale: un rubinet-
to di acqua corrente che, collegato a una lunga pompa, riesce
158
Il baito.
Qui dormono gli scapoli e qualsiasi altro uomo anche durante
il giorno; considerando il poco tempo dedicato al lavoro tra-
dizionale, per la maggior parte della giornata gli uomini stan-
no lì, nelle loro amache, dove riposano, raccontano storie,
battute, cantano e fumano. La configurazione spaziale è arti-
colata tra capanne disposte in cerchio in base a clan e sotto-
clan e il baito definisce chiaramente la relazione tra territorio
e cosmologia: la visione del mondo bororo si manifesta spa-
zialmente. Mutare questa (come hanno tentato di fare i sale-
siani), significa disordinare la loro intera fisionomia simbolica
per spingerli verso una de-culturazione violenta.
Nel 1914, padre Colbacchini – che scrisse uno dei testi di ba-
se per la “comprensione” della cultura bororo – raccontò, in
una lettera pubblicata nel «Bollettino Salesiano», che “il gior-
no prima della festa di Nostra Signora della Concezione” eb-
159
be l’ispirazione di proporre agli indios la distruzione della ca-
sa centrale e pensò che gli indios gli avessero dato un se-
Funeral bororo
gnale di approvazione. Approfittando del momento, padre
Colbacchini suggerì loro di andare a cercare gli strumenti da
mettere sotto la capanna (baito) e accendere il fuoco (p. 48).
A lungo i salesiani hanno tentato di modificare la struttura ar-
chitettonica dell’aldeia bororo che vedevano come “pagana” e
tentato di allineare le case secondo una planimetria cristiana.
Allora accadde qualcosa di simile a quanto ora accade per il
funerale nella chiesa: i bororo costruirono un nuovo baito in
una zona nascosta al controllo dei missionari. E anche se in
questo modo mancava la dimensione centrale della capanna,
fu un modo di resistere alla violenta acculturazione salesiana.
Durante il rituale del funerale e della nominação, il baito si
apre alle donne, mentre normalmente è assolutamente proi-
bito loro, anche se le diverse modalità del corteggiamento
amoroso spingono di notte alcune donne a cercare il proprio
innamorato lì dentro, il che comporta normalmente quello
che noi chiamiamo fidanzamento o giudizi discriminativi su
quella donna.
160
La linea di polvere
Funeral bororo
patata, su cui si sputa per sciogliere il colore rosso vivo che
viene spalmato sul corpo. L’urucum ha una serie di aspetti
simbolici significativi, il primo sta proprio nel colore, che
esprime qualcosa di forte e solare attraverso cui la vita co-
smica continua a fluire. Altre funzioni sono medicamentose
e riguardano la capacità di scacciare i mosquitos e cicatriz-
zare le eventuali punture.
Il pariko è parte dell’arte plumaria di cui i bororo vanno fa-
mosi: utilizzando secondo un preciso ordine tradizionale il
colore delle penne di arara, queste vengono assemblate e
poi, nella parte bassa, le piume più piccole di colore giallo-
oro vengono innestate e incollate a raggiera sopra quelle blu
o rosse, componendo tre filari di penne dove il giallo si alter-
na con il nero e che attestano l’appartenenza a un determina-
to clan; infine, più in basso, ci sono altre piume rosse picco-
le. Il tutto è connesso a un legno molto flessibile che sostie-
ne l’intera struttura in una corona che si pone sulla testa
stretta dietro la nuca da una cordicella ben resistente.
Esumazione
163
Funeral bororo
Preparazione all’esumazione.
Il tumulo è scoperto.
164
La linea di polvere
Funeral bororo
gine proprio il momento iniziale della decostruzione del tumu-
lo. Vengono tolte le cose ormai inessenziali per esumare quel
che resta del cadavere. E lui sta lì in prima fila a compiere an-
che l’atto più semplice di portare via rami e foglie.
Nella seconda immagine, è visibile il tubo di acqua collegato al
baito; alcune ossa sono già pulite e giacciono sui fasci di burití
appena tolti che ricoprivano il tumulo. È visibile anche il cranio
già ripulito: la mia decisione è avvenuta esattamente nell’atti-
mo successivo a questo evento. È come se fossi riuscito a de-
cidermi ed eliminare i miei dubbi solo dopo che lui ha termina-
to la missione più dura e amorosa che si possa immaginare.
Lavare il cranio, infatti, risulta molto più complicato delle altre
ossa. Non è facile svuotarlo dell’intera materia cerebrale, per le
interconnessioni con pelle, cartilagini, sistemi nervosi. Più volte
inserisce l’acqua direttamente dalla pompa al suo interno, poi
lo scuote come fosse una maraca, e la svuota rovesciando il
contenuto organico dal lato basso, dove il cranio si apre verso
il busto da cui si è separato. Poi infila le dita dentro, non ri-
esco a vedere se anche dentro le orbite, dove tutto è pieno di
tessuti difficili da staccare, una mano aiutata da foglie raschia
la calotta cranica, un’altra entra dentro la bocca o dal buco do-
ve iniziava la colonna vertebrale. Vedo bene che con un’unghia
cerca di togliere qualche pezzo di carne sul teschio che non
vuole staccarsi. Lentamente l’unghia sembra carezzare l’osso,
lui accovacciato, la testa bassa quasi incassata tra le spalle e
io che non riuscirò mai a dimostrargli che potrei stargli vicino
in quel momento. Ho capito che non lo potrò mai abbracciare
per testimoniargli la mia presenza umana. E così fotografo, co-
me per dargli la mia vicinanza umana attraverso questo scatto.
Fotografo con un occhio e osservo con l’altro anch’esso aperto:
166
167
Ora la distinzione tra sacro e religioso diventa più chiara: qui
è il sacro che muove. Per entrare in questo processo di pulitu-
Funeral bororo
ra delle ossa devo percepire che la sacralità sta dilagando in
ogni interstizio, tra il tumulo, le ossa, le piante, il baito, l’inte-
ro villaggio. E dilaga anche dentro me tramite lo sguardo, il
suono, l’odore… È iniziato un transito, ed è il punto fonda-
mentale: le ossa stanno transitando da una condizione data,
Il cranio
della moglie.
Massimo Canevacci Ribeiro La linea di polvere 168
169
Funeral bororo
La mutazione
del cranio
in arara totemico.
da una certa identità, quella della morta, che si è come sospe-
sa dopo il decesso e che ora sta per mutarsi, verso un’altra
identità. Le ossa transitano e voglio sentire come e dove.
Trasfigurazione
condizioni dell’identità.
La sequenza mostra il processo di trasformazione del cranio
sacralizzato in arara e di conseguenza in antenato. La questio-
ne che mi si pone, in un momento così delicato del rituale, ri-
guarda qualcosa che gira intorno al concetto di arte che nella
Massimo Canevacci Ribeiro
171
mia irriducibile alterità culturale. Questa iniziale suggestione
presenta una diversa applicazione della nozione di alterità
Funeral bororo
che coinvolge la mia auto-rappresentazione proprio in quanto
altro: solo essendo altro dai bororo posso avvicinarmi e spe-
rimentare a mia volta la loro e la mia alterità. La mia radicale
alterità dai bororo segnata dalla linea di polvere è il presup-
posto per penetrare nella mia alterità e, in parte, anche nella
loro. Un gioco degli specchi si mette in moto sprofondando le
prospettive verso infiniti scenari “falsiveri”, che proprio nella
loro geometrica falsità riescono a dare un senso di approssi-
mativa verità a quanto è distorto. Solo in quanto altro, posso
vivere (e vivermi) l’alterità del funerale bororo. Questa alterità
mi “appartiene”, nel senso che può entrare nella mia espe-
rienza (e quindi appartenermi), solo in quanto sono io stesso
altro. Altro per i bororo e altro per me stesso, un me stesso
sfaccettato in myselves. L’alterità bororo e la mia stessa alte-
rità – anziché separasi dicotomicamente – si incrociano e co-
abitano, si vivono e si sperimentano in quanto basate su un
senso di irriducibile differenza. Allora il brusco taglio di terra
che mi divide per sempre da José Carlos si sfaccetta in un ul-
teriore senso: noi – lui e io, seduti per terra dentro il baito in
quel preciso momento estremo legato alla morte della moglie
– siamo non solo irriducibilmente altri, ma proprio grazie a
questa reciproca alterità siamo uniti in un possibile dialogo
che attraversa differenze e diffidenze per metterle in contatto,
pur nell’impossibilità di recidere i legami che ci separano.
Attraverso questa logica distorta, una logica che mi prende
proprio in quanto disloca, distorce e si distende su un fluire
logicamente non identitario, posso pensare la cosa altrimenti
impensabile: potrei disossare, scarnificare, pulire e infine
danzare e dipingere il cranio della donna che amo? Mi do-
172
173
all’urucum, si sparge dappertutto, anche fuori del cranio, si
disperde tra le piume bianche. Una volta esaurita la mutazio-
Funeral bororo
ne frontale, inizia quella posteriore che conclude la trasfigura-
zione: lunghe piume di arara vengono incollate obliquamente
sotto la zona ossea occipitale, in modo da dare un effetto di-
namico definitivo. Le lunghe penne conferiscono a quello che
era un cranio – a questo “qualche altro” – la nuova identità
di arara. Non di un semplice arara, di un arara vivo, bensì di
un arara ancestrale, totemico, in qualche modo eterno, un
arara fondatore di una cultura, un arara antenato eternamen-
te vicino ai vivi e ai morti.
Scarificazione
175
Funeral bororo
Le donne si scarificano.
176
La linea di polvere
vimenti delle dita che stringono gli aculei si fanno ancora più
Massimo Canevacci Ribeiro
177
sempre incuriosito e rattristato. A volte anche infuriato.
Ebbene, quanto accaduto nel momento stesso in cui scopro
Funeral bororo
Leonida che si scarifica appartiene proprio a questa strana e
imprevedibile discesa di una spontaneità fortemente emozio-
nale che forza le mie barriere cognitive e culturali. Vedo
Leonida e mi viene da piangere – e così piango nel bel mez-
zo del baito. Le sue espressioni di dolore e la velocità con
cui si colpisce scuotono improvvisamente il mio equilibrio
partecipante e bagnano il mio corpo con queste emozioni.
Mi gira la testa, ma sento che non posso abbandonarmi to-
talmente a questo flusso umido, perché sarebbe un errore
sotto tanti punti di vista: per me, per la sfida alla logica uni-
taria, per non riprodurre i dualismi del tipo dove finisce la
razionalità iniziano le emozioni. Non penso che devo resiste-
re alle lacrime, ma che devo rimanere là per la morta e per
la stessa Leonida. E anche per le persone che amo o di cui
sono amico, per la profonda serietà con cui partecipo a que-
sto evento cercando di attraversare quella linea di polvere
che mi è stata gettata contro. Tutto questo penso nella mia
emotività spontanea… Ma no, non è un “pensare”, è più un
agire conseguente: una forza della conseguenza – attiva e
pragmatica – che si innesta spontaneamente nel processo.
Agisco, fotografo mentre piango e vorrei che questo mio agi-
re fosse collegato nel processo che incrocia e attraversa le
rigide distinzioni classificatorie tra emozione e ragione e che
il livello di comprensione possa dilatarsi in moduli includenti
e non identificativi (in senso restrittivo). L’immagine è tra le
più dense di complessi significati che non si possono estrar-
re dalla semplice visione, né tanto meno esplicitare con un
sottotitolo chiarificatore. La potenza evocativa ed espressiva
dell’immagine si connette a processi significativi che attra-
178
Funeral bororo
Choro bororo.
Carlos ha il colore verde, mentre la persona alla sua destra
ha i colori giallo e rosso; queste ultime potrebbero ulterior-
mente variare con piccole piume nere orizzontali e via di se-
guito. Tutti hanno due maracas (bapo rogu e bapo kurireu)
in mano ed è chiara la differenza di dimensioni tra la destra
maggiore e la sinistra minore. Il canto (choro) ha luogo in-
torno al palo che costituisce il centro del baito, mentre nel-
l’altra metà si continua la trasformazione del teschio e delle
ossa in antenato; alcuni strumenti musicali stanno alla sua
base, tra cui l’ika (flauto traverso), altre maracas e buste di
plastica con resina e piume. Alcune sigarette sono pronte e
già rollate ai piedi dell’uomo-dei-canti, sul cui petto sono in-
180
183
Funeral bororo
Paulinho Ecerae Kadogjeba.
185
che appartiene alla cultura hip hop brasiliana.
È chiaramente visibile un teschio sorridente e la scritta
Funeral bororo
Conspiração che si riferisce alla marca. Una donna triste,
che presenzia con discrezione uno dei momenti clou del fu-
nerale, probabilmente parente della morta, morta che ades-
so è anche lei un teschio, un teschio implumato e trasfor-
mato in arara tra le braccia del marito che ne piange la di-
partita. Due teschi presenti nella stessa scena: uno apparte-
nente alla più potente tradizione culturale bororo che agisce
sulla morte per contenerla e guidarla verso una soluzione
benevola per i vivi, che afferma nella trasfigurazione del te-
schio il significato profondo del concetto di simbolo. Il cra-
nio-simbolo, proprio in quanto parte staccata dalla totalità
cosmica degli antenati arara, riesce a ristabilire questa inter-
connessione. Questo è il potere dei simboli, che agiscono
da intermediari tra una parte disconnessa e il tutto per ri-
comporre la frattura originaria che ha causato la scissione
del significante dalla potenza totalizzante del significato. Il
cranio-arara-antenato si distende come simbolo con il com-
pito supremo di ristabilire il tutto come totalità e riesce a
svolgere la connessione profonda (mitica, mistica, sacrale)
con il cosmo respirante.
La tradizione simbolica vive tra i bororo perché c’è la video-
camera di Paulinho e perché c’è il cappello hip hop. Il contra-
rio sarebbe inconcepibile o semplicemente un orrore: pensare
che una cultura indigena viva rinchiusa nel suo passato, un
passato senza storia, un passato da incubo, senza mutamen-
ti, conflitti, trasformazioni – un passato visto come “puro” e
“autentico” in quanto “originario” – è un falso che riproduce
un potere coloniale discriminante e oggettivante. Il dominio
che non vuole morire, “travestito” da buoni sentimenti puri-
186
187
ogni ricercatore è tenuto a posizionarsi. Una cultura bororo
che facesse oggi – qui e ora – il proprio funerale esattamente
Funeral bororo
come 30 anni fa sarebbe un incubo, una oscena ibernazione
di una cultura che dovrebbe rimanere ferma, cristallizzata in
un passato mitico per far piacere ai puristi che vengono, os-
servano, fotografano e tornano a casa delusi per aver notato
che gli “indios” hanno l’antenna parabolica e ascoltano il
funk carioca. Invece, proprio in quanto questa donna indossa
il codice conspiração è possibile ammirare José Carlos che
abbraccia il cranio trasfigurato della moglie. Il cappuccio è un
segno in quanto significante e significato qui coincidono e
l’ingresso di codici segnici (sign-flation) è una parte che defi-
nisce una parziale continuità con le culture metropolitane.
Quasi tutti i giovani bororo indossano più o meno gli stessi
vestiti dei loro coetanei carioca o paulisti, ma questo non si-
gnifica omologazione, come nelle banalità moralistiche di
gran parte dei commentatori “politici”. Se si cambiasse codi-
ce di ingresso, per così dire, e si assumesse la molteplicità
fluida dei sincretismi culturali, tutto potrebbe avere un senso
diverso e più adeguato a quello (“emico”) dei bororo. La
donna non è una giovane, con molta probabilità sorella della
donna a lei vicina e parente della morta. Il motivo per cui il
codice-conspiração sia pervenuto alla sua testa può avere in-
finite interpretazioni. Potrebbe essere una scelta legata a
quella precisa occasione: indossare quel capo che normal-
mente sta sulla testa di suo figlio per attestare un’ulteriore
vicinanza affettiva al teschio della donna.
Segni e simboli coabitano nelle aree metropolitane e nelle al-
deias indigene. Una vita composta solo di simboli sarebbe
un’ossessione che imprigionerebbe ogni atto dentro una tota-
lità onnicomprensiva. Per questo è possibile osservare la pro-
cessualità delle mutazioni dei simboli in segni e viceversa co-
188
L’abbraccio finale.
stare una attenzione delicata verso la morta e il vedovo di ri-
simbolizzazione: un atto che sposta il cranio-conspiração dal-
l’appartenere al solo universo dei segni a quello dei simboli in
quanto affine figuralmente al cranio-arara. In ogni caso, que-
sta molteplicità significativa del secondo cranio-fashion sfida
la banale lettura basata sull’omologazione e imprime un’acce-
lerazione emozionale verso la moltiplicazione ibrida/sincretica.
José Carlos abbraccia. La questione che potrebbe sembrare
semplice mi si ripresenta in una complessità infinita e forse
irrisolvibile come da rifrazioni di specchi uno quasi di fronte
all’altro. È l’abbraccio finale, ma a cosa? La domanda gira in-
torno al baito e allo schermo del mio pc. Se leggessi quanto
accade sulla base della potenza simbolica che il rituale mette
in scena, dovrei dire che sta abbracciando un’antenata tote-
mica. Se tutto il rito di cui è stato il principale attore compie
189
la trasfigurazione simbolica del cranio morto e scarnificato in
arara vivo e totemizzato, il marito non sta abbracciando quel
Funeral bororo
che resta della moglie morta, ma la sua mutazione simbolica
in qualcosa-qualcuno che è presente. Forse si potrebbe anche
dire “vivo”. Mi domando se la discrezione e la fierezza delle
persone presenti al rito non abbiano a che fare con questa
ambiguità identitaria e ricompare non casualmente il concetto
più problematico attraverso cui il potere “scientifico” della
cultura occidentale tenta di comprendere ciò che gli sta di
fronte. La problematicità del “José Carlos abbraccia cosa o
chi” deriva solo da questo assunto: che vi sia un ordine iden-
titario in grado di stabilire la processione dal cranio-morto al
cranio-arara; come se ci si trovasse di fronte a due identità
diverse che il funerale ha il compito di favorire in modo
transitivo. José Carlos abbraccia. Abbraccia una lei che è un
groviglio di identità, costantemente in transito tra le varie
parti che si conformano alla sua (di lei) “cosa” essere.
Piange José Carlos con il corpo segnato dalla lama, il fango che
gli conferisce un’ulteriore identità transitiva. Il fango sul quale
sarà depositata “lei” e che accoglierà la trasfigurazione o con-
190
La linea di polvere
L’essere trasfigurato della morta in arara dopo che è stato abbracciato dal marito
maestro dei canti, tra maracas, pelle della onça, colla di resina, pariko.
Massimo Canevacci Ribeiro
191
Funeral bororo
La chiusura finale
delle ossa e del
cranio trasfigurati.
192
La linea di polvere
Massimo Canevacci Ribeiro
La chiusura finale
delle ossa e del
cranio trasfigurati.
Nella cultura bororo, gli spiriti associati alle cerimonie e alle di-
verse specie animali e vegetali sono ordinati sotto forma di pro-
prietà associate agli eroi mitici o iedaga mage che, nel passato –
come atto eroico – si trasformavano in animali, piante, esseri
193
fantastici, animati o inanimati, come se fossero maschere transi-
torie per la loro manifestazione (Viertler 1976, p. 75).
Funeral bororo
José Carlos abbraccia: con una mano afferra dal basso come
a sorreggere l’intero essere, sostenendo delicatamente con
la mano larga e aperta quello che rimane del peso di lei;
con l’altra circonda dall’alto la cesta che contiene e nascon-
de “aora ra”, il viso leggermente reclinato che libera il pian-
to, qualcosa si mescola con la musica e con il sacro, per uni-
ficare il corpo squassato piangente con un corpo alterato
viaggiante.
Inizialmente gli uomini cuciono la cesta grande che contiene
sia le ossa che il cranio con lunghi aghi di legno protetti dal
recinto; le mani impregnate di urucum e sangue, che rimane
vivamente impresso nel suolo, mentre Paulinho continua a
filmare. I codici danzano come le identità. L’uomo dal cap-
pello e la maglietta gialla che pubblicizza una marca di birra
è concentrato nell’operazione che sta compiendo come l’al-
tro dai calzoni rossi e il corpo pieno di urucum. Durante que-
sta intera fase del funerale è lui a occuparsi della cesta.
194
La linea di polvere
Mentre sullo sfondo la grande cesta viene presa con cura dagli
uomini impegnati nella riunificazione delle ossa, inizia una roda
(danza circolare) intorno al grande palo cosmico del baito. Anche
in questa occasione assisto a una novità che collega il funerale
alla tradizione passata: le ragazze partecipano alle danze con i
simboli tradizionali. Accanto al reggiseno, che da tempo è in uso
tra le donne bororo per l’influenza salesiana e urbana, le mani
strette a pugno sul petto attestano un modo classico di esprime-
re la danza femminile tra diverse culture indigene (“Una cosa
m’addolorava assai: non avere vestiti per tenere coperte quelle
creature. Povera gente!”, don Balzola, 1932, p. 46). La bellezza
degli ornamenti è degna del momento solenne: ruotare intorno
al cosmo per riaffermare la centralità della vita. Va notato un al-
tro apparentemente minimo dettaglio pieno di significati: alla co-
rona a forma di visiera composta con piume di uccelli diversi
(boe e-kiga) è ancora attaccato il cartellino che indica il prezzo o
l’autore del pezzo; probabilmente la donna ha preso la visiera
nel museo accanto al villaggio di Meruri, dove Leonida costrui-
sce e insegna la sua arte plumaria. L’uomo ha il corpo tutto di-
195
Paulinho riprende da vicino le donne che accompagnano il cranio-arara della morta.
Funeral bororo
pinto di urucum e ho ancora impresso quel suo forte odore me-
scolato al sudore che impregna l’aria. Se si osserva l’intera sce-
na con la forza dei canti e suoni, la rotazione dei corpi, l’emo-
zione dolorosa, discreta e alterata del maestro dei canti, forse si
riesce a cogliere la bellezza perturbativa di un evento che cele-
bra la morte per svincolarla dal suo aspetto funebre.
Astuccio penico
Iniziazione del-
l’astuccio penico
Iniziazione del-
l’astuccio penico
197
al suo contrario, la morte. Questo dualismo compulsivo di
vita-morte si intreccia in un groviglio le cui fila sono difficili
Funeral bororo
da dipanare, ma è certo che esse sono collegate, e in qual-
siasi momento inizi il rito di passaggio dei giovani, a un
certo punto si deve arrestare nell’attesa di una morte che
dia senso e bilanciamento alla vita.
Ancora una volta è visibile come alcuni giovani abbiano ripre-
so l’arte plumaria tradizionale e il grafismo corporale che in-
dividua precisi clan, mentre altri sono semplicemente dipinti
di urucum con pantaloni larghi uguali a quelli che indossano i
loro coetanei in tante parti del mondo. Non ci sono obblighi
o prescrizioni per i giovani o per le loro famiglie e ciascuno
può seguire uno stile senza alcuna sanzione o emarginazione,
ma nella prima foto è visibile come un ragazzo, che ha solo i
grafismi clanici nella fronte, guardi con ammirazione e forse
un po’ di invidia la bellezza plumaria dell’amico. Il quale a
sua volta, proprio come la ragazza danzante, ha ancora il car-
tellino che penzola ben in vista sulla nuca.
L’arrivo degli astucci penici (bá) portati dai padrini costitui-
sce il momento solenne del rito, mentre sullo sfondo un
gruppo di ragazze coetanee guarda i loro probabili futuri
mariti con attiva partecipazione. La costruzione degli astuc-
ci penici è semplice: si prende un broto de babaçu, si fa
compiere un primo giro lasciando l’apertura adatta per fare
entrare il pene e poi si chiude con una striscia lunga una
decina di centimetri. La funzione rituale si coniuga con la
maturità sessuale e con l’esigenza di proteggere la sessuali-
tà da forze esterne negative. Attualmente l’astuccio non vie-
ne più indossato quotidianamente dai bororo, in quanto si
è persa questa usanza un po’ igienica e un po’ magica, ma
tutti lo conserveranno come attestato del passaggio alla
198
Rodrigo un momento dopo il rituale di passaggio, con la sua aria irrequieta e ludica.
199
Canto serale sul tumulo ormai vuoto ricoperto di foglie di burití, in preparazione di
uno dei momenti finali del funerale.
Funeral bororo
ca sia la casa che l’astuccio penico; bá è uovo, testicolo,
capanna, aldeia.
I giovani che hanno passato il rituale dell’astuccio penico sono
incaricati di costruire di sera, vicino al fiume e quindi al fango
(lama) i celebri rombi, pesci rotanti che – attaccati a semplici
bastoni con fili di nylon e ruotati circolarmente sopra le teste –
producono il loro caratteristico fischio terrorizzante. Gli stessi
ragazzi si fotografano per immortalare l’evento, e anche questa
sequenza è significativa del filo conduttore del funerale che ri-
mescola contemporaneità e tradizione in modi sincreticamente
vitali e non omologati.
Più è rapida e orizzontale la rotazione e più acuto è l’ululato,
più lento e obliquo è il movimento e il suono risulta più sordo
e grave. Alternare le gradazioni delle oscillazioni e la velocità
impressa dalle braccia costituisce una vera e propria arte musi-
cale di un oggetto sacro che è anche uno strumento musicale.
200
La linea di polvere
Massimo Canevacci Ribeiro
La costruzione degli aijé, esseri terrifici che vivono nelle profondità delle acque.
Ma essenzialmente è qualcosa di altro, di alterato, uno spirito
terrifico, un aijé che torna dal fango per terrorizzare. Infatti si
manifesta non solo con questi sibili orribili, ma anche con gri-
da spaventose emesse dai ragazzi, da manciate di fango getta-
te violentemente sulle capanne per impaurire donne e bambi-
ni, che non potranno uscire di casa finché sentiranno aggirarsi
questi esseri. I giovani già iniziati si cospargono il corpo di la-
ma e il mio viso ha subito lo stesso destino. Pur se fortemente
tabù, ho potuto partecipare a questa fase del rituale, fotografa-
re la produzione di queste maschere sonanti e mi è stato offer-
to anche di “suonare” gli aijé, cosa che ho fatto con grande
soddisfazione ricordando certi giochi della mia adolescenza.
Un coltellino è sufficiente per costruire questi rombi, le cui di-
mensioni determinano ulteriori variazioni significative del
suono. Quando tutto è pronto, a notte fonda, i giovani corro-
no dal sentiero vicino al fiume fino al villaggio, urlando, sca-
201
gliando fango sulle capanne, ruotando i rombi con i loro ter-
Funeral bororo
rorizzanti ululati.
Queimada
La linea di polvere
Paulinho filma il tumulo dove vengono collocati gli oggetti usati durante il funerale: a
sinistra pariko e maracas, a destra la grande cesta piumata contenente le ossa trasfi-
gurate della morta, mentre proseguono i canti e i suoni dei flauti. José Carlos è seduto
di fronte alla moglie. Canta e suona le maracas con la stessa forza del primo giorno.
José Carlos
che fuma.
204
La linea di polvere
Massimo Canevacci Ribeiro
La vestizione
di José Carlos.
sta fermo, che lo stiano vestendo o stia ascoltando il suono
dei flauti; non ha le maracas, come raramente è accaduto
durante il funerale. È impressionante il modo pieno di atten-
zioni con cui viene seguito dai suoi compagni. Nel candom-
blé, la religione di origine africana diffusa in Brasile e con al-
tri nomi nell’intera America Latina, chi va in trance è sempre
seguito con premura quasi commovente da persone predi-
sposte a tale scopo. Sono adepti che hanno scelto di non
essere posseduti e hanno il compito di asciugare il sudore di
chi è in trance e stargli vicino, spesso abbracciandolo/a forte
con un senso di vicinanza e di protezione solidale in un
viaggio che incrocia in modalità complesse dolore e piacere.
Qui la trance non è da possessione, non si è “cavalcati” da
una divinità: è una trance che spinge il soggetto a fuoriusci-
re da sé. E in questa uscita dai suoi vincoli identitari il me-
205
stre – continuamente assistito – transita lungo una serie di
elementi simbolici che incorpora e assembla in un montag-
Funeral bororo
gio ibrido sul proprio corpo.
Sul corpo vengono disordinatamente incollate con la resina
piume che gli conferiscono una prima “identità” animalesca,
specie per la ridondanza sul mento e sui polsi: il mento per-
ché vicino al viso e quindi alla sua umanità muta la sua iden-
tità e la trasforma in un essere alterato; sui polsi perché vici-
ni alle mani che a loro volta caratterizzano la peculiarità del-
l’essere umano. Il pariko maestoso, con la prima corona di
piume claniche verdi e la seconda visiera coabitano nella par-
te alta della testa: una sorta di ruota di arara che si allarga
sull’orizzonte come raggi plumati di sole. Una cordicella allac-
cia sotto le spalle l’imponente pelle di onça, animale mitico
per eccellenza, che conferisce sacralità e autorità a chi la in-
dossa rivestendo la schiena fino ai piedi. Il cinto di foglie, an-
ch’esse allineate al suolo, che espandono i simboli tra le for-
ze arboree. Infine, con una mano sostiene una lunga pertica
cosparsa di piume e contemporaneamente tra le mani sorreg-
ge un tappeto di foglie.
Il mestre esce dal baito accompagnato dal suono di due flau-
ti traversi ika che tradizionalmente annunciano l’inizio del pa-
sto dedicato alle aroe (“anime”) o, come in questo caso, la fi-
ne di un rituale, un suono cupo e quasi compulsivo; sullo
sfondo, Paulinho filma proprio quando scende un tramonto
luminoso e dolcissimo.
206
La linea di polvere
Massimo Canevacci Ribeiro
Il mestre in trance.
José Carlos è completamente in trance ed è guidato per la cin-
tola da un uomo che poco dopo eseguirà una potente danza
degli aijé; scegliendo una corda molto lunga, questi riesce a
imprimere evoluzioni molto estese e curvilinee alla maschera-
pesce, ottenendo un suono veramente cupo e terrifico che si
snoda su una scala molto estesa di alti e bassi su cui oscilla
con stridori diversi, salendo e discendendo improvvisamente.
L’intero movimento del suo corpo, insieme all’estrema mobilità
del braccio e in particolare del polso, conferisce all’intreccio
danza-suono-rito una potenza performativa che evoca visioni
misteriche e ossessive. La potenza degli aijé, questi esseri mi-
tici che fuoriescono dal fango per terrorizzare donne e bambi-
ni, non sarebbe tale se l’arte corporea del suono danzato non
conferisse in ogni minimo dettaglio un profondo senso di an-
goscia per “qualcosa/qualcuno” che torna nello spazio dedica-
207
to alla vita riaffermando l’irriducibilità della morte.
Questo sembra in contrasto con l’ironia che è parte del ritua-
Funeral bororo
le e che spesso i ricercatori non colgono, selezionando solo
gli aspetti drammatici, che conferiscono solennità all’evento e
in qualche misura anche a chi lo osserva. Ma i giovani vivono
gli aspetti più duri dei rituali di passaggio con una dose di
distaccata ironia, che può avere diversi significati: è il modo
di mostrare a se stessi e agli altri coetanei la capacità di es-
sere forti, di saper gestire le emozioni, di stare dentro ma an-
che fuori, di distaccarsi, vedendo crescere la propria autosti-
ma e dimostrando di poter gestire anche la complessità emo-
zionale della performance. L’ironia dei giovani è anche uno
stile per assorbire i simboli attenuando esteriormente le pro-
prie credenze su quanto sta accadendo e di cui loro stessi
sono attori. Infine, la dimensione ludica dell’ironia attesta che
ogni rito, anche il più connesso alla morte, non può essere
fissato solo nella seriosità dell’evento gerarchicamente stabi-
lito dal mondo adulto, ma la giocosità espressa da un corpo
disordinante e da risa o ammiccamenti sorprendenti è parte
costitutiva del rito quanto la serietà.
Insomma, non è possibile penetrare in un funerale ritualmen-
te elaborato senza cogliere i momenti ludici e le parodie
espresse specialmente dai giovani ma anche da personaggi
che assumono il tradizionale ruolo di burlone, tra il trickster
e l’emarginato un po’ ubriaco. Separare la serietà dall’ironia è
il risultato di una repressiva dialettica della civiltà sedimenta-
ta nella cultura occidentale a partire dal cristianesimo, cui si
è sovrapposto un marxismo ortodosso che viveva con “serie-
tà auto-cosciente” la transizione rivoluzionaria rovesciatasi in
inibizione della spontaneità ludica. La prospettiva dell’auto-
rappresentazione spezza questa dialettica perversa e favori-
208
209
Immagino sia dentro la cesta, cercando di abbracciare le ossa
Funeral bororo
impiumate della moglie per favorirne il transito verso un viag-
Funeral bororo
Il mestre brucia.
Massimo Canevacci Ribeiro La linea di polvere 212
Il mestre brucia.
Assistito da un gruppo costante di persone, José Carlos avvia
la fase conclusiva del funerale che per certi versi aumenta la
commozione partecipata invece di diminuirla, come se il cli-
max rituale fosse costantemente tracciato verso l’alto. Ha ap-
pena lanciato verso il fuoco alcuni oggetti appartenuti alla
moglie: i vestiti, l’amaca, le suppellettili, il materasso (che si
nota sullo sfondo), e cose più personali, come anelli, diade-
mi, braccialetti, orecchini, oggetti di arte plumaria che carat-
terizza la cultura bororo e che una donna di rango come la
morta doveva possedere. Anche nei materiali usati – legno,
foglie, piume, corde – vi è come una tendenza immanente al-
la dissoluzione e nello stesso tempo alla facile riproduzione.
Questo aspetto, molto diffuso tra le culture di questa area
consegna una visione del mondo assolutamente specifica che
va intesa appieno. Spesso, in una certa tradizione classifica-
213
trice museografica e antropologica, si parla di “cultura mate-
riale”: una terminologia che esprime solo la miseria semplifi-
Funeral bororo
catrice e ultra-riduzionista di tanta “logica” occidentale. Se si
continua a ridurre la produzione di una ciotola o di uno stru-
mento musicale e persino di un paio di orecchini all’idea di
cultura materiale, si sta compiendo un’affermazione continui-
sta, mantenendo in piedi uno strumento logico occidentalista
che divide sulla base di più o meno precise derivazioni filo-
sofiche o religiose il concetto di materiale da quello spirituale
o simbolico. È un sistema logico insopportabile che ha come
unico scopo quello di mantenere un dominio fazioso, mutila-
to e mutilante, repressivo e regressivo, che divide le moltepli-
cità di aspetti vissuti da una determinata cultura con un ar-
mamentario concettuale calato dall’esterno e senza la minima
rispondenza con quanto viene vissuto, elaborato e partecipa-
to localmente. Una vera e propria pratica di guerra, agita, an-
ziché con le armi tradizionali, con quelle delle tassonomie.
Ogni oggetto elaborato dai bororo esprime una variegata
molteplicità di significati che includono relazioni sacrali, clani-
che, totemiche, feticiste, parentali, familiari, generazionali, co-
smiche, sessuali e individuali: definirli indistintamente cultura
materiale significa applicare una lobotomia epistemologica e
oggettuale. La scelta che si dovrebbe compiere non conduce
obbligatoriamente verso l’olismo, altra banalità secondo cui
tutto sarebbe collegato con tutto e che in genere viene utiliz-
zata dai fautori di questo termine (simmetricamente a quella
riduzionista), per cui il tutto spiega la parte. Da qui le cadute
nell’irrazionalismo fosco, nello spiegazionismo misterico e nei
totalitarismi assorbenti che inglobano ogni minima parzialità
vivente. L’alternativa potrebbe consistere nello sviluppare un
progressivo svolgimento reticolare e connettivo tra le varie
214
215
La mia prospettiva è che l’identità della morta sia reticolare
e connettiva oltre i semplici confini del proprio corpo e pe-
Funeral bororo
netri tutti gli oggetti che hanno costituito la sua vita quoti-
diana, rendendo problematici i confini dell’io. L’io funerario
segue una complessità di itinerari non definibili con opposi-
zioni binarie, secondo una logica strutturalista a lungo ege-
mone che non riesce a individuare quanto accade in quanto
la supremazia metodologica è di gran lunga più potente e
ingabbiatrice dell’evento empirico o etnografico. Interpretare
la putrefazione della carne, la sua scarnificazione manuale,
la trasfigurazione delle ossa in arara ancestrale, l’inceneri-
mento di ogni oggetto quotidiano come transizione dall’ac-
qua al fuoco è inutile, privo di senso ed errato. Questa vi-
sione del mondo che si muove per opposizioni dualiste
sembra dovere continuamente affermare una logica di so-
praffazione che taglia e assembla a proprio piacimento ogni
alterità. Elementi vitali e infiammanti sono presenti in ogni
momento rituale, la stessa musica svolge una sua autono-
ma affermazione di presenze nell’area del villaggio, mesco-
lando la normale distinzione tra vivi e morti, come quella
tra oggetti inorganici e corpi organici. L’identità della donna
sta nella sua carne e nelle sue ossa scarnate e dipinte,
nell’“opera d’arte” che è la cesta funeraria e nel materasso
su cui ha dormito per tanta parte della sua vita, nei diademi
con cui ha abbellito il suo corpo e nel fumo che sale verso
il cielo diluendo quello che resta delle sue cose, nella cene-
re rimasta una volta spento il fuoco e nel concime in cui si
trasformerà la sua carne raschiata nella fossa ricoperta di
terra. Questa molteplicità di elementi, che è inutile tentare
di classificare con formule binarie, si coagula in un atto fi-
nale altamente drammatico, dispari. E la semiotica struttura-
216
217
di Amerigo, solo di fronte a questo tumulo-urna riempito di
ogni identità possibile, come se fosse di fronte al nulla, un
Funeral bororo
nulla pieno di esseri morti e vivi, provenienti da ogni spazio-
tempo bororo, con la discreta presenza di alcune donne se-
dute, avvolte in coperte per proteggersi dal freddo pungente,
Maracá.
che lo accompagnavano nel controcanto. Il canto più possen-
te – solitario e affollato – cui abbia assistito nella mia vita.
Mi interrogai a lungo sul senso di questo canto-choro senza
nessuno, cosa assurda per ogni rituale che si conosca, che
pretende la presenza di persone per essere appunto rituale.
La piccola pila presto scarica, la decisione di scrivere nel mio
piccolo quaderno d’appunti, di continuare a farlo anche solo
con la luce della luna, trasparente e limpida come tutto il cie-
lo. La fine della scrittura non fu determinata dalle batterie im-
provvisamente scariche, ma dalla fine della carta: il blocchet-
to era esaurito. Rivedendo le ultime parole, le vedo come de-
formate. Amo la scrittura sottile e corsiva, l’ultima pagina si
218
Il sacro e il tremendo
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Un interrogativo pressante, quasi quotidianamente presente
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sono tutti sostantivi che cercano di trovare espressione nel
Sacro e religione
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tà interpretativa e persino ogni fissità trascrittiva. Perché il
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La linea che smuove la polvere divide chi sta da una parte
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ze. L’elogio delle differenze comunicazionali significa dilatare
alterità illimitante.
E allora quando il mestre canta, danza, suona e sposta il suo
La linea di polvere
229
tutti gli esseri, distinzione che proprio questo feticismo
Relativismi sincretici
230
231
di Bossi o all’“universalismo implacabile” di Ratzinger, il relati-
1 L’origine del termine feticcio si deve agli esploratori portoghesi che tentarono di
tradurre una cultura sacrale diffusa in molte popolazioni africane, nella definizio-
ne di “pagano”, “idolatra”, “magico”. Il feticismo viene collegato a un oscuro sta-
dio barbarico, primitivo, “pre-logico”, al feticismo fu legato l’animismo, una de-
generazione dell’anima, e per il colonialismo culturale, la religione appartiene
all’Occidente, l’animismo all’Africa. Il portoghese fetiço deriva dal latino facticius,
qualcosa di fabbricato riguardante le “cose” che si animano, un “ibrido” di orga-
nico e inorganico al cui interno o nella cui superficie ha sede il sacro: lo “spirito
che muove”. Il feticcio muove il sacro come un’incontrollabile e incontenibile sfi-
da alla morte.
2 È singolare notare come lo stesso Otto, nel definire il concetto di sacro come
numinoso, ricorra alla parola inglese canny, che – al negativo uncanny – è usato
per tradurre in inglese il perturbante Unheimlich. Sottolineo che rendere “familia-
re lo straniero” è un classico compito dell’antropologia.
233
Sacri feticismi e relativismi sincretici
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-da-
ta è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di
pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi biblio-
grafici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.
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Massimo Canevacci Ribeiro
Stampato per conto della casa editrice Meltemi
nel mese di febbraio 2007
presso Arti Grafiche La Moderna, Roma
Impaginazione: www.studiograficoagostini.com