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Universale Meltemi

17
Copyright © 1994 Meltemi editore srl, Roma
Collana “Gli Argonauti” diretta da
Luigi M. Lombardi Satriani

Prima edizione luglio 1994


Seconda edizione luglio 1995
Terza edizione novembre 1998
Quarta edizione novembre 2001

Nuova edizione: novembre 2005

È vietata la riproduzione, anche parziale,


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Meltemi editore
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Luigi M. Lombardi Satriani

La stanza
degli specchi

MELTEMI
Indice

p. 7 Introduzione

Parte prima
Il viaggio nell’alterità

13 Capitolo primo
L’etnologo e il bastone

26 Capitolo secondo
La stanza degli specchi

43 Capitolo terzo
Antropologia ed etica

50 Capitolo quarto
L’intervista: ascolto e cecità

59 Capitolo quinto
L’“altro” nell’esperienza antropologica

74 Capitolo sesto
Della stupidità
Parte seconda
La datità dell’io e la comunità del noi

91 Capitolo settimo
Amicizia, coppia, tradimento

101 Capitolo ottavo


Spalancan varchi entro ogni muro cieco…

114 Capitolo nono


La ferita

129 Capitolo decimo


La conquista del pianto
o della cognizione del dolore

143 Capitolo undicesimo


L’oscenità dell’amore

163 Bibliografia
Introduzione

L’eventuale utilità di un libro, la sua potenzialità di rap-


presentare qualcosa di più che la gratificazione per il narci-
sismo dell’autore sono dimostrabili solo dal libro stesso,
dalla sua capacità o incapacità di trasmettere sollecitazioni
problematiche, puntuali acquisizioni critiche, modalità per
la formulazione di nuove domande.
Nessuna introduzione – da quella clamorosamente en-
fatica a quella apparentemente sommessa – può affermare
una siffatta utilità, anzi, sotto questo riguardo, può soltanto
dimostrare il patetico desiderio dell’autore di essere legitti-
mato in quanto tale. Né il ricorso, pur così frequente, al
motivo delle insistenze degli amici può conferire, dato il
suo carattere stereotipato, unità e utilità alle parti di un li-
bro, se questo non riesce, per i suoi contenuti e per la for-
ma con la quale essi sono espressi, a conquistare l’interesse
e l’adesione dei lettori. Tutto questo si potenzia a dismisura
quando si tratta, come in questo caso, di scritti elaborati in
momenti e in occasioni diverse1.
Se essi fossero stati momenti di una riflessione del tutto
rapsodica su tematiche differenziate, ne avrei comunque ri-
vendicato l’appartenenza al mio itinerario intellettuale, per-
suaso come sono che anche le divagazioni – direi, provoca-
toriamente, soprattutto le divagazioni – possono illuminare
alcuni aspetti della realtà. In questa prospettiva possono es-
sere utili anche gli equivoci, anche riflessioni apparente-
mente futili o che il futile assumono come proprio oggetto.
Ma rileggendo questi scritti – superando, a volte, una
notevole ritrosia – ho notato che essi sono organizzabili in
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

un impianto unitario e che, pur nella notevole differenzia-


zione di tematiche e di accenti, presentano tratti comuni al
di là dell’ovvia notazione dell’essere stati tutti pensati dalla
stessa persona.
Essi rinviano – sia essa esplicitamente affermata o pre-
supposta – a una medesima concezione dell’antropologia, a
un tipo di attenzione e a una sensibilità pronta ad assume-
re, come ugualmente importanti perché strettamente con-
nesse all’umano nelle sue infinite articolazioni, le riflessioni
sulla rifondazione dei quadri teorici delle scienze dell’uo-
mo e sulla stupidità, sulla convergenza e sulle specificità
degli ambiti antropologici e storiografici e sull’amicizia in-
tesa anche come modalità di conoscenza, sui rapporti tra
antropologia ed etica e sull’orizzonte del dolore nel quale
si dispiega l’inesausta esistenza dell’uomo, sulla produzio-
ne dell’“altro” e sull’amore, forma storica dell’essere e
quindi storicamente, cioè umanamente, sua essenza.
Questi scritti – sorretti, dunque, al di là della consape-
vole finalizzazione del loro autore, da un impianto unitario
– si articolano secondo una bipartizione di cui tenterò di il-
lustrare i tratti essenziali.
Anzitutto essi si avventurano in un viaggio nell’alterità.
Viene accentuato così l’essere l’antropologia, costituti-
vamente e ineludibilmente, viaggio.
Presentando le relazioni base al I Congresso dell’Asso-
ciazione Italiana per le Scienze Etno-antropologiche (Co-
lajanni, Di Cristofaro Longo, Lombardi Satriani, a cura,
1994) abbiamo avuto modo di sottolineare come la doman-
da che l’attuale società rivolge all’antropologia, i compiti
che ci si attende essa svolga possono essere assunti sempre
più da un’antropologia critica, che abbia realizzato il suo
essere essenzialmente, ineludibilmente viaggio.
Viaggio verso l’altro, viaggio verso se stessi, ché a volte
niente ci è più estraneo e sconosciuto di noi stessi.
Comunque si intenda l’esperienza antropologica, come
viaggio nello spazio o nel tempo, viaggio verso l’altro o ver-
so se stessi, viaggio nell’altro o in noi stessi; o, più ve-
rosimilmente, come insieme magmatico e creativo di tutti
INTRODUZIONE 

questi viaggi, gli antropologi possono legittimamente decli-


narsi come viaggiatori consapevoli.
Il viaggio di cui questo volume intende costituire il pro-
tocollo si sviluppa attraverso una riflessione sulle caratteri-
stiche di fondo dell’antropologia, su alcuni nodi problema-
tici che essa si trova di fronte, su alcune modalità nelle
quali si è storicamente concretata la tensione comunicativa
presente nella nostra come nelle altre società.
Il viaggio nell’alterità consente di rivolgere lo sguardo
su alcuni tratti del labirinto della città. Per le sue innume-
revoli contraddizioni e articolazioni, la città rinvia a una
problematica estremamente complessa, che sollecita molte-
plici piani di lettura e ordini di riflessione sui quali ho avu-
to modo di soffermarmi in un lavoro che sarà pubblicato
prossimamente in questa stessa collana.
Che questa prima fase del viaggio si concluda con una
riflessione sulla stupidità mi sembra un adeguato omaggio,
ancorché ironico, all’attuale temperie culturale e politica.
Viaggio nell’alterità, viaggio nell’altrove; viaggio infine
in noi stessi, nel nostro quotidiano patire, nella nostra im-
placata esigenza di trascendimento della datità.
La seconda parte, La datità dell’io e la comunità del noi,
rappresenta conclusivamente questo viaggio nell’altrove,
delineando la percezione del dolore, la ricorrente ricerca
della parola, la tensione dell’amore a farsi discorso, a porsi
come trascendimento di quella radicale solitudine che cia-
scuno di noi è, nella nostra assoluta singolarità e precarietà.
Il volume si conclude con il balbettio della parola amo-
rosa; a un livello più generale ogni modalità culturale, frut-
to di un impegno plurisecolare di plasmazione, è balbettio,
tentativo dell’uomo di conferire domesticità al mondo e
senso alla propria esistenza.
La ricerca antropologica tenta di interpretare tale balbet-
tio, nella consapevolezza che vanno intesi ogni voce e ogni
silenzio, degli altri come di noi stessi, grumi irripetibili di
umanità, prossimi a essere risucchiati nel nulla dell’inesisten-
za. Attraverso questo ascolto si può tentare di rendere un
po’ più percorribile l’esistenza, la sua irrinunciabile ferita.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

1
Il primo capitolo rappresenta la relazione al I Congresso nazionale di
Antropologia delle Società complesse svoltosi a Roma e pubblicata in Tentori,
a cura, 1990, pp. 83-92; il secondo la relazione al Convegno internazionale di
Antropologia storica su “Cultura planetaria o pianeta multiculturale” svoltosi
a Cassino nell’aprile 1994 i cui Atti sono ancora inediti; il terzo l’intervento a
un Colloquio sul tema “Scienza e Etica” promosso dal Centro-Culturale a
Saint-Vincent, da cui è stato tratto Jacobelli, a cura, 1980, pp. 107-112; il
quarto l’intervento presentato al Convegno svoltosi a Roma nel marzo 1986
sul tema “L’intervista: strumenti di documentazione. Giornalismo - antropo-
logia - storia orale” e pubblicato negli Atti editi dall’Istituto Poligrafico dello
Stato, Roma, 1987, pp. 103-109; il quinto la relazione al Convegno internazio-
nale svoltosi a Pavia nell’ottobre 1991 su “Il sapere dell’antropologia. Pensa-
re, comprendere, descrivere l’Altro” e pubblicato in Fabietti, a cura, 1993,
pp. 141-153; il sesto è stato pubblicato con il titolo Elogio della stupidità in
«OZ - Rivista internazionale di utopie», 1, 1994, pp. 63-71; il settimo la rela-
zione presentata a una serie di incontri promossi dal Comune di Firenze pub-
blicata in Bianca, a cura, 1986, pp. 121-129; l’ottavo la relazione presentata a
un Convegno su “Il piacere e il dolore” svoltosi a Roma e pubblicata in «Riza
Scienze», 10, dicembre 1985; il nono la relazione presentata al VII Congresso
internazionale di Studi Antropologici svoltosi a Palermo nel dicembre del
1986 su “Il dolore - pratiche e segni” i cui Atti sono stati pubblicati in D’A-
gostino, Vibaek, a cura, 32/33, pp. 129-138; il decimo l’introduzione a Faran-
da 1992; l’undicesimo la relazione presentata con il titolo Il silenzio dell’amo-
re - L’amore del silenzio: venti tesi per una ricerca al VI Congresso internazio-
nale svoltosi a Palermo nel dicembre 1984 su “Amore e cultura - Ritualizza-
zione e socializzazione dell’Eros” i cui Atti sono stati pubblicati in D’Ono-
frio, a cura, 1985, pp. 299-312.
Parte prima
Il viaggio nell’alterità
Capitolo primo
L’etnologo e il bastone

Lamberto Loria, in un breve scritto del 1912, raccon-


ta un “aneddoto della sua vita di viaggiatore”. “Mi trova-
vo – narra l’illustre studioso – in compagnia di un fun-
zionario governativo nella punta nord-est della Papuasia,
quando un indigeno, rivolgendosi a me, chiese se era ve-
ro che il padre del funzionario governativo era morto:
per tutta risposta bastonai l’indigeno. E si noti che è se-
veramente proibito maltrattare i papuani: eppure io ciò
feci in presenza del funzionario che poteva anche arre-
starmi e punirmi”.
Quale la ragione di queste bastonate, sulla cui legitti-
mità Loria non ha alcun dubbio?
“Io ricordo – prosegue l’etnologo –, come se fosse ora,
il viso meravigliato dell’inglese quando, a spiegazione del
mio atto, gli dissi che l’indigeno non avrebbe potuto offen-
dere più fortemente la maestà della legge che domandan-
domi notizie di suo padre morto; giacché nessun papuano
di quella regione oserebbe ciò fare con un suo simile. Il
morto è talmente rispettato che il nome che esso portava
non si può pronunciare; e poiché i nomi propri di persona
si traggono sempre dai nomi comuni, come ad esempio al-
bero, terra, fiume, ecc., il non poter più pronunciare questi
nomi alla morte delle persone che li portavano, fa sì che la
lingua locale debba variare di anno in anno continuamen-
te. L’offesa fatta ad una persona nominando uno dei suoi
cari estinti, non può essere vendicata se non con la morte
dell’offensore. Se io non fossi stato presente all’atroce in-
sulto fatto al funzionario governativo, questi avrebbe preso
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

per cortesia ciò che non era che mancanza di rispetto, e


l’autorità della legge ne avrebbe grandemente sofferto”.
La conoscenza etnologica ha evitato dunque che l’indi-
scussa “autorità della legge” occidentale venisse vulnerata
e le bastonate date dall’etnologo all’indigeno impudente ri-
stabiliscono l’ordine e l’autorità. A buona ragione Loria
può dunque affermare: “se la conoscenza degli usi e costu-
mi dei popoli soggetti ad una nazione civile rende a questa
più facile la conservazione del dominio, a più forte ragione
la conoscenza degli usi e costumi del nostro popolo ren-
derà dei servigi inaspettati alla nazione nostra”. E con non
meno buona ragione Loria può intitolare il suo breve scrit-
to L’etnografia: strumento di politica interna e coloniale
(«Lares», 1912, vol. I, pp. 73-79).
Per Lamberto Loria, per la sua generazione, per la sua
classe sociale, per quella società di cui Loria era significati-
vo esponente non vi erano dubbi su cosa dovesse essere
l’etnografia e le altre scienze etno-antropologiche, quali be-
nefici esse dovessero arrecare.
Significativo il titolo dello scritto loriano; significativa
l’utilizzazione, indubbiamente non solo italiana, della “co-
noscenza etnologica”.
Come l’etnografia e l’etnologia, anche le altre scienze
dell’uomo godevano di tale indiscussa sicurezza.
A puro titolo esemplificativo, Guglielmo Schmidt inizia-
va il suo Manuale di metodologia etnologica, che viene tra-
dotto nel nostro paese alla fine degli anni Quaranta, con le
seguenti apodittiche affermazioni:
“È proprio della vera scienza il tendere alla certezza;
una scienza che volesse fondarsi soltanto sulla verosimi-
glianza e sulle possibilità o su sole ipotesi e teorie non si
potrebbe dir tale”.
Padre Schmidt sviluppa una serie di considerazioni dal-
le quali deriva “tre conseguenze”: “L’etnologia è una scien-
za dello spirito: tutto ciò che essa tratta è in qualche modo
nato dallo spirito, ne è pervaso, ne porta l’impronta, ed an-
zi proprio per questo diviene un oggetto di cultura. Nes-
sun oggetto puramente di natura appartiene per sé alla ri-
L’ETNOLOGO E IL BASTONE 

cerca dell’etnologia. Attraverso questo provenire dall’ani-


ma si forma l’oggetto, ma anche più precisamente l’anima
stessa e questa formazione, questo sviluppo, dell’anima è la
cultura propria e reale e non ciò che la ricopre e riveste di
beni culturali esterni, cioè ‘l’anima della cultura e la cultu-
ra dell’anima’ – secondo un detto arguto di un Principe
della Chiesa (Cardinale Faulhaber)”.
L’etnologia è anche, per Schmidt (1949, pp. 15-20), una
“scienza essenzialmente storica” .
Per Pio Rajna: “Folklore ed etnologia quali ora l’uno e
l’altra si concepiscono, nonché essere strettamente affini,
differiscono solo come estensione, in quanto giuridicamen-
te il primo è tutto compreso nella seconda” (Rajna 1930,
vol. I).
Raffaele Pettazzoni proponeva, per la definizione del
campo del folklore, “lo studio dei volghi nei moderni po-
poli civili”, cui corrisponde l’affermazione di Saintyves: “Il
folklore studia la vita popolare, ma nella vita civilizzata”;
Paolo Toschi sottolineava come questa scienza avesse “co-
me oggetto di studio quella parte di popolo che chiamiamo
volgo o popolino”, mentre Raffaele Corso ribadiva che si
trattava del “vulgus in populo”.
Certo, a volte tali monolitiche certezze presentavano
qualche crepa più o meno rilevante, che in ogni caso pote-
va far presagire che l’edificio epistemologico, con i suoi
spazi accuratamente delimitati, non era così saldo come
amavano ritenere gli studiosi e che gli scricchiolii e le lesio-
ni più che crisi di assestamento preannunciavano futuri,
rovinosi crolli.
Anche qui a titolo esemplificativo, lo stesso Ralph Lin-
ton – che pure afferma, in maniera alquanto discutibile,
che “l’antropologia viene comunemente definita lo studio
dell’uomo e delle sue opere; questa definizione dovrebbe
comprendere alcune delle scienze naturali e tutte quelle so-
ciali, ma, per una sorta di tacito accordo, gli antropologi si
sono riservati come principali campi di ricerca lo studio
delle origini umane, la classificazione delle varietà umane,
e l’analisi della vita dei cosiddetti popoli ‘primitivi’” – non
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

può che sottolineare che “l’antropologia, senza ombra di


dubbio, è riuscita a dimostrare che tutti i popoli e tutte le
razze sono, fondamentalmente, identiche: se vogliamo
comprendere la natura della società e della cultura in
astratto, qualunque società e qualunque cultura ci aiuterà a
far luce sul problema” (Linton 1936, pp. 6-7).
Complessivamente però la situazione si presentava chia-
ra e distinta e la ragione poteva, sol che lo volesse, passare
in rassegna i diversi e nettamente differenziati ambiti de-
mo-etno-antropologici.
Nel corso di questi ultimi anni, abbiamo faticosamente
conquistato qualche dubbio e qualche non lieve incertezza.
Abbiamo riflettuto, ad esempio, sulle zone che restava-
no scoperte in questa differenziazione di campi disciplinari
che pur appariva esaustiva, su strane “terre di nessuno”
sulle quali non veniva avanzata alcuna pretesa conoscitiva
specifica. Ad esempio, se lo studio delle società “primiti-
ve”, “extra-europee” veniva affidato all’etnologia e quello
degli strati popolari delle società occidentali, dei “volghi
dei moderni popoli civili” alla demologia o storia delle tra-
dizioni popolari, chi mai avrebbe avuto legittimità istitu-
zionale per studiare, in ottica antropologica, la cultura del-
le classi dominanti?
Inoltre, gli stessi quadri epistemologici delle diverse di-
scipline vacillano e l’attribuzione a esse dei rispettivi ambiti
non gode più della luminosità delle idee chiare e distinte.
Nell’Introduzione alla sua Storia dell’antropologia Paul
Mercier (1966, p. 11) afferma: “Fra le scienze sociali, l’an-
tropologia è oggi una delle discipline che suscita maggior
interesse. Al rilievo assunto non corrisponde però ancora
una univoca e consolidata delimitazione di ambiti: se è ve-
ro che esiste una prospettiva d’indagine che si viene sem-
pre più decidendo unitariamente, è anche vero che in essa
confluiscono esperienze e tradizioni di ricerca che risento-
no del diverso humus culturale entro il quale si sono svi-
luppate. Lo stesso termine ‘antropologia’, pur essendo eti-
mologicamente il più efficace per definire oggi la discipli-
na, se è pacifico in alcuni paesi, non lo è in altri. Nei paesi
L’ETNOLOGO E IL BASTONE 

europei, il tipo di indagini che oggi si classificano d’antro-


pologia erano – e in parte ancora sono – sviluppate sotto
l’etichetta di ‘etnologia’”.
Dopo aver affermato che l’etnologia “è una scienza
comparativa, che attraverso i differenti usi dei popoli pri-
mitivi e delle loro civiltà tende a dare un apporto alla cono-
scenza della storia dello spirito umano e dei suoi prodotti
nel mondo”, Vittorio Maconi è costretto ad ammettere:
“Nell’uso corrente tuttavia non vi è un’unica terminologia.
Nei paesi latini e germanici è stata definitivamente accetta-
ta la parola etnologia, alla quale è stato dato il valore speci-
fico sopraccennato, in contrapposizione con antropologia.
Nel mondo anglosassone il termine viene invece usato rara-
mente come succedaneo di quello più vasto di Antropolo-
gia. Sotto quest’ultima espressione nei paesi di lingua in-
glese veniva e in parte viene anche oggi compresa tutta la
storia dell’uomo sia quella fisica che quella spirituale. Per
distinguerla si chiama, l’ultima, Antropologia sociale.
Pur avendo un significato preciso l’etnologia non ebbe
mai e non ha neppure attualmente campo di studio ben li-
mitato a causa dell’incertezza della misura discriminatoria.
All’inizio venivano compresi nell’etnologia i popoli egizia-
no e indiano che possedevano una scrittura, ma inaccessi-
bile a tutti, ai più. Adesso l’egittologia e l’indiologia sono
diventate una sottosezione della storia. Tuttavia la fluidità
del campo etnologico rimane ancora. Infatti si continua a
considerare fra i popoli primitivi gli Amerindiani in posses-
so d’alta civiltà come gli Incas e i Maya, che possedevano
una scrittura o pittura o dei segni tuttora indecifrabili”
(Maconi 1953, pp. 9-10).
Copans (1971, p. 11) ha sottolineato come: “Di fatto, la
distinzione società ‘europee’ società ‘non europee’, che sta
a fondamento del ‘messianesimo’ occidentale della fine del
secolo XIX nella teoria evoluzionistica come nella pratica
storica della colonizzazione, appaia oggi una distinzione re-
lativa. La storia mondiale si unifica: il sottosviluppo e lo
sfruttamento delle società ‘non europee’ non sono che la
contropartita necessaria dello sviluppo delle società euro-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

pee. Le trasformazioni economiche, politiche e sociali delle


prime, determinate dalle seconde, rendono arbitraria una
distinzione scientifica, la cui ragion d’essere appare chiara-
mente ideologica; era necessario che il ‘buon selvaggio’ fos-
se pensato come differente e distinto, perché lo si potesse
definire come oggetto di conoscenza e di... sfruttamento.
D’altra parte, si fa strada una necessità ulteriore, quella di
un campo scientifico unificato al livello delle problemati-
che e delle elaborazioni concettuali. Lo sviluppo delle ri-
cerche interdisciplinari, pur essendo espressione d’una cer-
ta moda, indica propriamente che ogni singola disciplina
non può darsi da sola il complesso dei metodi e dei concet-
ti necessari alla spiegazione di tutte le determinazioni del
funzionamento del proprio oggetto” .
Grande è il disordine sotto il cielo e dunque, come è
stato affermato, la situazione è eccellente. Si profila allora
come necessario un ripensamento radicale degli ambiti del-
le scienze demo-etno-antropologiche dei loro statuti, delle
loro pratiche.
Secondo una famosa formulazione marxiana “l’uomo
non si pone che i problemi che può risolvere”; richiaman-
do tale formulazione, Copans rileva: “Sembra proprio che
sia giunto il momento, per le scienze antropologiche, di
pensare la loro pratica in rapporto alla propria teoria, di
costituire una ‘coscienza di sé’ esplicita e critica” (p. 31).
Necessità, dunque, di una nuova pratica della ricerca,
di una rifondazione dei quadri teorici, di una prospettiva
teorica unificante, pur rispettosa delle diverse articolazioni,
frutto di riflessioni a volte ultrasecolari. Occorrerà supera-
re le rigide contrapposizioni, gli schieramenti dicotomici
delle diverse discipline demo-etno-antropologiche, spesso
nominalisticamente arroccate nel loro territorio riservato,
protese a che i rigidi cippi confinari non siano in alcun mo-
do spostati e che il “loro” terreno non subisca l’oltraggio di
immigrati clandestini.
Chi attribuisce alle nostre discipline un siffatto compi-
to poliziesco-burocratico non può che irridere alla tensio-
ne teorica ed etico-politica di Ernesto de Martino e alla
L’ETNOLOGO E IL BASTONE 

sua sottile ironia sulle “buone abitudini accademiche”.


Per de Martino, “in tutte le epoche nelle quali più pun-
gente diventa l’esperienza della possibilità di smarrire
l’uomo e l’umano, le partizioni tradizionali delle compe-
tenze e delle sensibilità accennano a diventare meno rigi-
de, e dialoghi intermessi vengono ripresi, o dialoghi nuovi
iniziati: la ricerca dell’uomo e dell’umano al di là delle
aiuole territoriali si fa pressante, e i cippi confinari comin-
ciano a essere oltrepassati con maggiore frequenza. Il peri-
colo di questo fenomeno è naturalmente il dilettantismo e
la confusione della lingua; ma se la inquietudine per l’u-
mano che agonizza spinge a queste sortite, ne verrà sem-
pre alla fine un po’ di bene, e comunque sempre un bene
maggiore di quello che è capace di dare colui che ha per-
duto ogni sensibilità per i dolenti messaggi della sua epo-
ca, e chiama solennemente questa perdita ‘fedeltà al pro-
prio compito di specialista’”1.
Non s’intende in alcun modo tentare di delegittimare
le distinzioni scientifiche, in nome di un generico appello
a una dimensione emotiva improbabilmente superiore alle
conquiste razionali. Ma proprio perché le acquisizioni
scientifiche e, più in generale, intellettuali sono prodotti
storici, sono intrise dei valori dell’epoca in cui vennero
elaborate, esiti più o meno maturi, comunque rappresen-
tativi della temperie culturale di cui sono espressioni; in
quanto prodotti storici non possono che essere storica-
mente mutevoli.
Se determinate denominazioni e delimitazioni di ambiti
disciplinari riflettono le esigenze del tempo in cui vennero
stabilite quelle specifiche articolazioni problematiche, non
si vede perché a distanza di parecchi decenni, quando non
di secoli, non si debba procedere a un radicale ripensa-
mento problematico che investa ambiti, denominazioni,
apparati teorici, quadri epistemologici, pratiche di ricerca,
e così via.
In un ripensamento siffatto, ad esempio, si potrà proce-
dere a una riorganizzazione degli ambiti specifici dell’etno-
logia nelle sue diverse accezioni. Come è stato sottolineato,
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

mentre “antropologia è parola di antico conio”, “etnologia


risale solo al secolo scorso e sembra trovarsi per la prima
volta in un quadro sistematico delle scienze concepito da
Ampère. Il primo uso pubblico del termine si registra in
Francia con la fondazione, nel 1839, della Sociéte d’ethno-
logie. Solo in seguito, nel 1859, si ebbe un’altra società pa-
rallela, detta Societé d’anthropologie. L’una e l’altra di que-
ste società proponevano una definizione dell’etnologia e
dell’antropologia come ‘scienza di tutto l’uomo’, ma gli in-
teressi particolari dei loro membri portarono a una distin-
zione netta secondo la quale antropologia indicava soprat-
tutto, e poi esclusivamente, lo studio paleontologico e
morfologico dell’anatomia umana e quindi delle razze,
mentre l’etnologia denotava lo studio degli aspetti culturali
o spirituali e sociali dell’attività umana. Questa distinzione
fu adottata, almeno inizialmente, in tutti i paesi d’Europa”
(Bernardi 19827, p. 11).
Successivamente, però, l’ambito dell’etnologia fu deli-
mitato alle società altre, ai popoli “primitivi” o, come si
preferisce dire con ipocrisia terminologica, ai popoli in via
di sviluppo. Oggi la sicurezza di una tale esaustiva delimi-
tazione è andata perduta e possono dispiegare la loro pre-
gnanza problematica le osservazioni demartiniane, secondo
le quali “si è venuta raccorciando la distanza che separava
le forme culturali subalterne interne alla civiltà occidentale
e le culture indigene dell’epoca coloniale: la differenza fra
le une e le altre appare sempre più esser di misura e non di
qualità, e sempre meno appare giustificabile una distinzio-
ne rigorosa dell’oggetto dell’etnologia da quello delle tradi-
zioni popolari, poiché in entrambi i casi oggi stanno davan-
ti sincretismi interculturali, rapporti fra livelli diversi di
culture, dinamiche messe in movimento da questi rappor-
ti” (de Martino 1977, p. 392).
Riflettendo su Promesse e minacce dell’etnologia lo stes-
so de Martino aveva sottolineato che “nella nuova prospet-
tiva della scienza dell’etnos, costituiscono potenzialmente
un problema di ricerca tutte le ‘umanità’ viventi che, in un
modo o nell’altro, in tutto o in parte, stanno al di là del li-
L’ETNOLOGO E IL BASTONE 

mite di espansione e di plasmazione della civiltà occidenta-


le: che queste ‘umanità’ formino civiltà più o meno autono-
me rispetto all’Occidente o si riducano a gruppi viventi nel
suo stesso seno e partecipino in misura più o meno ampia e
impegnata ad altre epoche culturali, potrà avere una im-
portanza decisiva per la formulazione del problema storico
particolare e per il metodo della ricerca, ma non in rappor-
to alle motivazioni fondamentali che alimentano la scienza
dell’etnos. In particolare ciò comporta una relativa svaluta-
zione della distinzione fra scienza delle civiltà cosiddette
primitive e scienza delle tradizioni popolari o folklore in
quanto in entrambi i casi si tratta di umanità che, attraver-
so l’incontro etnografico, mettono in causa la nostra, obbli-
gandola ad uscire dalle sue angustie corporative e a far giu-
stizia della feticizzazione dei suoi valori” (de Martino 1980,
pp. 164-165).
L’esigenza, oltre che la mera possibilità, di un’etnologia
europea è emersa ormai nettamente in ambito scientifico,
né è un caso che parecchi anni fa iniziasse le pubblicazioni
una rivista internazionale la cui testata era costituita ap-
punto da tale denominazione (nel comitato direttivo l’Italia
era rappresentata da Alberto Cirese, ora lo è da Carla
Bianco), o che sia apparso recentemente in Francia, a cura
di Chiva e Jeggle, un volume di saggi di etnologia europea.
È necessario, inoltre, che l’antropologia non si esaurisca
nello studio della cultura dei popoli altri o degli strati so-
ciali subalterni o delle piccole comunità delle società occi-
dentali, ma rivolga la sua tensione conoscitiva alla cultura
delle nostre società contemporanee nelle sue numerosissi-
me articolazioni, nel relativo intreccio, nel loro vario di-
spiegarsi.
A tale compito, estremamente articolato e complesso,
l’antropologia – nella sua accezione di disciplina accademi-
ca – si rivelerebbe del tutto insufficiente se non si provve-
desse anche nel nostro paese all’introduzione, a livello isti-
tuzionale, di numerose, specifiche discipline antropologi-
che, fra le quali, a puro titolo esemplificativo, possono es-
sere ricordate l’antropologia delle società complesse, l’an-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

tropologia economica, religiosa, dei processi simbolici, del-


la comunicazione, giuridica, psicologica, dell’educazione,
dei processi migratori, visuale, e così via.
In questa sede appare del tutto superfluo soffermarsi
sulla dignità teorica di tali discipline, sulla loro, ovviamente
relativa, autonomia di statuto scientifico. Eppure di nessu-
na di esse è stato possibile sinora l’inserimento nell’ordina-
mento universitario: ogni volta che tale inserimento è stato
richiesto (o si sono poste le premesse per la richiesta) si so-
no incontrate notevolissime, e purtroppo sinora insormon-
tabili, resistenze burocratiche e accademiche.
Appena un esempio relativo alla mia personale espe-
rienza. Nel 1982, la Facoltà di lettere e filosofia dell’Uni-
versità della Calabria, di cui ero preside, richiese all’unani-
mità al Ministero della Pubblica istruzione, nell’ambito
della formulazione per il piano quadriennale, l’istituzione
di un corso di laurea in analisi e valorizzazione delle risorse
storico-territoriali, facendo propri la relazione e il parere
del CUN, presentati in data 11 settembre 1981, con modifi-
cazioni circa l’indirizzo etno-antropologico. Tale corso di
laurea si articolava secondo quattro indirizzi: archeologico,
storico-artistico-architettonico, etno-antropologico, archi-
vistico-librario, e prevedeva numerosissime discipline de-
mo-etno-antropologiche, la maggior parte delle quali non
sono ancora presenti nell’ordinamento universitario del
nostro paese. La richiesta, pur corredata da tutti i pareri
dovuti, giace negli archivi ministeriali e nessuna risposta
ufficiale è mai arrivata. Alla legittima esigenza di crescita
del settore demo-etno-antropologico si contrappongono
dunque notevoli resistenze.
Ma perché le resistenze hanno avuto sinora ragione del-
le esigenze dell’ambito antropologico, dell’impegno per la
loro realizzazione pur profuso da numerosi antropologi in
diverse sedi istituzionali? Certo, influiscono in maniera de-
terminante su tali resistenze l’ottusità politica e burocrati-
ca, la ristrettezza di orizzonti di tanta parte della cultura in-
tellettuale italiana, un esasperato senso di corporativismo
disciplinare diffuso nei raggruppamenti disciplinari di più
L’ETNOLOGO E IL BASTONE 

antica tradizione e quindi abituati a indiscussi privilegi ac-


cademici, persistenti nostalgie di improbabili gerarchie di-
sciplinari secondo le quali l’antropologia, quando non ne-
gata, dovrebbe restare confinata nel ruolo di docile ancilla,
e così via. Ma le responsabilità sono solo al di fuori di noi?
Fino a che punto ciò cui ho appena accennato è stato po-
tenziato, quando non legittimato, dallo stato di divisione,
di frammentazione, di dispersione, di conflittualità perma-
nente di noi tutti che operiamo nelle discipline demo-etno-
antropologiche?
Non voglio simulare ingenuità o avventurarmi in gene-
rici appelli all’unità, come se divisioni consolidatesi nel
tempo per ragioni ideali, ideologiche, accademiche, carat-
teriali, potessero sparire d’incanto e le crepe, a volte mol-
to ampie, potessero essere cementate dal richiamo a una
comune condizione burocratico-amministrativa. E allora?
Se non ci si vuole avventurare in richieste frustranti ep-
pur si lamenta l’attuale condizione di conflittualità per-
manente, che cosa si può ragionevolmente richiedere, an-
zitutto a se stessi?
Possiamo realizzare una pratica di lavoro scientifico,
politico-culturale e organizzativo di gruppi omogenei per
orientamenti ideali, scientifici e culturali, nell’accezione
più lata, e operare perché tali gruppi sviluppino una capa-
cità di aggregazione sempre maggiore. Programma appa-
rentemente minimale, ma indubbiamente realizzabile e da-
gli esiti forse insospettati.
Non si tratta di una crescita in termini di potere accade-
mico, o almeno non si tratta soltanto di una crescita in ter-
mini di potere accademico. Si tratta, anzitutto e decisiva-
mente, di una crescita di aree disciplinari, di una dilatazio-
ne dello spazio entro il quale le scienze demo-etno-antro-
pologiche possano dispiegarsi: soltanto ponendo le pre-
messe istituzionali perché tale spazio sia possibile potremo
ragionevolmente ipotizzare tale crescita.
Nell’orizzonte problematico sin qui delineato andran-
no rifondati – lo si è già accennato – i quadri teorici e gli
ambiti specifici delle diverse discipline demo-etno-antro-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

pologiche. Dovrà essere ripensato, ad esempio, l’ambito


dell’antropologia filosofica.
Ho avuto già modo di notare in altra sede le ragioni
storiche per le quali le discipline antropologiche sottoli-
neano in particolare la loro attenzione verso l’empirico, la
loro costitutiva vocazione al “terreno”, a realizzarsi cioè
attraverso le “ricerche sul campo”: si trattava, nella prima
fase di vita di tali discipline, di distaccarsi da quell’acce-
zione dell’antropologia che la configurava come mera par-
te della filosofia. I processi di costituzione di uno specifico
statuto scientifico hanno “particolarizzato”, per così dire,
tali discipline, ma non hanno interrotto il rapporto con il
“tronco comune”, anche se esso è fortemente attenuato.
Oggi questa fase iniziale delle nostre discipline è ampia-
mente conclusa, per cui esse possono agevolmente ricono-
scere un maggiore spazio alla loro, anch’essa costitutiva,
vocazione teorica.
Se la denominazione “antropologia filosofica” può su-
scitare in alcuni di noi perplessità e dubbi, si potrà optare
per “antropologia teorica”. È chiaro che ogni disciplina è
anche teorica, per cui la specificazione che sto auspicando
può apparire o tautologica o fonte di ulteriori equivoci. In
questo caso, però, la specificazione “teorica” sottolineereb-
be l’esigenza di una particolare attenzione agli aspetti teori-
ci dell’antropologia, alla sua dimensione teoretica.
Anni fa Clara Gallini ironizzava giustamente su ricerche
quali la determinazione dell’area di diffusione dell’usanza
di porre una bandiera o altro segno sugli edifici in costru-
zione. Certo, ogni aspetto, anche il più marginale, può es-
sere oggetto di ricerca, ché non esistono argomenti degni e
argomenti non degni di attenzione scientifica, come non
esistono l’importante e l’ovvio; ovvio semmai è il nostro
sguardo, banalizzante, a volte, alcuni aspetti della realtà.
Comunque, anche se non in termini assoluti d’impor-
tanza, una priorità di tematiche in termini di urgenza può
essere tentata. Primum vivere deinde philosophari, è stato
detto; come se la vita potesse permanere nel tempo se non
si desse una qualche ragione; come se il bisogno di senso
L’ETNOLOGO E IL BASTONE 

che accompagna le nostre giornate potesse essere accanto-


nato irrisolto, quasi aspetto marginale di un non meglio
identificato “vivere”. Proprio perché si “filosofa” è possi-
bile “vivere”, proprio perché gli innumerevoli aspetti del-
l’esistenza sono oggetto di un’intensa opera di valorazione
simbolica, l’io può permanere nel tempo mantenendo la
propria identità.
E proprio perché è necessario vivere e le ragioni della
vita possono affermarsi se viene fondata e garantita la vita
delle ragioni, una particolare attenzione andrà rivolta alla
plurisecolare, se non plurimillenaria, plasmazione culturale
del dolore e dell’amore che si accompagnano inestricabil-
mente alla vicenda umana. Non è un caso che due dei con-
vegni internazionali di studi antropologici siciliani siano
stati dedicati, appunto, all’amore e al dolore; come non è
un caso che a tali tematiche sia rivolta nel nostro paese la
tensione conoscitiva di numerosi antropologi.
Secondo una vecchia battuta – diffusa sino a divenir lo-
gora –, chi non è contento di sé fa lo psicologo, chi non è
contento della società fa il sociologo, chi non è contento né
di sé né della società fa l’antropologo.
Antropologia come segno di un’inquietudine di fondo;
antropologia come ricerca del senso, quale elaborato nel
tempo e nello spazio dai diversi raggruppamenti umani;
antropologia come domanda, radicale interrogare e inter-
rogarsi. Accanto all’antropologia come rimorso – suggerita
dalla famosa pagina di Tristi tropici – un’antropologia co-
me domanda, radicale e ineludibile.
Domanda, dunque, ma anche balbettio di risposta, pri-
ma che il buio dal quale siamo emersi sommerga definitiva-
mente il barlume di conoscenza che faticosamente andiamo
conquistando anche attraverso lo sguardo antropologico.

1
de Martino, in A. Pierro, “Il mio villaggio”, in Brienza, a cura, 1959, p.
95, che ha premesso agli scritti demartiniani una densa introduzione.
Capitolo secondo
La stanza degli specchi

Nel 1950 Evans-Pritchard tenne a Oxford una confe-


renza in onore di Marett e, in quell’occasione, affermò che
a suo parere “l’antropologia sociale doveva essere conside-
rata più strettamente connessa ad alcuni tipi di storia che
alle scienze naturali”. Lo stesso Evans-Pritchard dichiara
che, “come dimostrarono le critiche mossegli in quell’occa-
sione, era andato a urtare contro i peggiori aspetti del pre-
giudizio anti-storico. L’influenza esercitata in Inghilterra da
Malinowski e da Radcliffe-Brown, ambedue estremamente
ostili nei confronti della storia, era ancora preponderante,
ma anche altrove si era manifestata ostilità o quantomeno
indifferenza per il metodo storico. Durkheim, che forse
non può essere definito anti-storico, era stato astorico, al-
meno nel senso che i suoi studi sullo sviluppo sociale si
svolgevano nel campo della tipologia evoluzionistica piut-
tosto che in quello della storia propriamente detta. Il suo
atteggiamento verso la storia fu ambiguo (…)” (Evans-Prit-
chard 1951, p. 163). Il celebre antropologo non ha esitazio-
ni ad ammettere che, “nonostante le apparenze, l’antropo-
logia sociale negli Stati Uniti è stata nel suo insieme, come
disse Kroeber, ‘tendenzialmente anti-storica’; e anche la
scuola della Kulturkreislehre in Germania e in Austria, seb-
bene formalmente storica, trasse in larga misura i suoi con-
cetti, come ha osservato Kluckhohn, non dalla storia ma
dalle scienze naturali, per esempio, dal concetto fonda-
mentale di Schichten (strati o strata)” (p. 164).
D’altro canto, se riflettessimo sulle maggiori tradizioni
storiografiche avremmo modo agevolmente di constatare
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

come in esse sia minima, quando non del tutto assente,


un’attenzione antropologica. Tale constatazione è talmen-
te facile che non ha bisogno di alcun supporto di tipo
esemplificativo.
Non può essere taciuto però come sempre di più in
opere antropologiche e storiografiche siano fortemente av-
vertite istanze proprie di ambedue i campi disciplinari e
come ci si faccia carico di alcune acquisizioni maturate nel-
l’uno o nell’altro ambito.
Concluderemmo allora in un generico auspicio di una
sempre più intensa collaborazione o addirittura conversione
dell’antropologia nella storiografia o viceversa, nel quadro di
una enfatizzata conoscenza esaustiva dell’uomo? Se proce-
dessimo in questa direzione resteremmo di fatto sul piano di
quelle generiche omelie che non vanno al di là di una di-
mensione patetica o risentita, sulle quali oltre vent’anni fa
appuntava la sua pungente ironia Diego Carpitella introdu-
cendo i lavori del primo Convegno sugli studi etnomusicolo-
gici in Italia (Carpitella, a cura, 1975, pp. 23-24).
Altro, e forse meno ovvio, l’itinerario da percorrere.
Anzitutto, potrebbe essere utile differenziare nettamen-
te, come non sempre è stato fatto, storia e storiografia. An-
che se dovrebbe essere ovvio ribadirlo, una cosa sono i
processi estremamente complessi vissuti dalle diverse so-
cietà umane con l’insieme delle sue produzioni comprese
quelle intellettuali, tra le quali l’idea stessa di storia; altra
cosa le discipline scientifiche che assumono tali processi
secondo ottiche differenziate.
Può risultare fuorviante parlare dell’antropologia o del-
la storiografia come blocchi monolitici sostanzialmente
inalterati nel tempo e senza significative articolazioni, per
cui si tratterebbe di individuare in tali blocchi dei possibili
varchi perché l’uno si “apra” alle istanze dell’altro e vice-
versa. Il panorama si presenta infinitamente più frastagliato
e in realtà sono individuabili concretamente numerosissi-
me antropologie e non meno numerose storiografie. Molte
prospettive antropologiche si mostrano estremamente re-
frattarie alla storiografia, analogamente alla refrattarietà nei
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

confronti dell’antropologia testimoniata da un altrettanto


elevato numero di prospettive storiografiche. È affermazio-
ne, questa, che potrebbe essere rivolta a onore di Monsieur
de La Palisse; si tratterà, semmai, di interrogarsi sulle ra-
gioni storiche e culturali di tali refrattarietà1.
Accanto a tali rigide chiusure sono riscontrabile anche,
in ambedue i campi disciplinari, aperture problematiche,
attenzioni, prospettive dialoganti.
Superate le fasi dell’autarchia disciplinare e quella del-
l’ideologico auspicio – spesso soltanto tale – di una tauma-
turgica e imprecisata “interdisciplinarietà”, assistiamo a un
inizio o, se si pensa al momento iniziale degli studi antro-
pologici e all’opera dei loro padri fondatori, a una ripresa
di scambio, di dialogo.
“Oggi il concetto di interdisciplinarietà corrisponde
molto esattamente ai luoghi di incompiutezza e di incertez-
za di ogni disciplina, all’incrocio degli smarrimenti intellet-
tuali; l’interdisciplinarietà è il nome altisonante della in-
quietudine disciplinare. Ma questa inquietudine è in se
stessa sana, di modo che, se nessuno prende più veramente
sul serio il termine di interdisciplinarietà (ci fu un’epoca
eroica in cui partivano per l’Africa coppie ‘disciplinari’ –
un etnologo e un geografo – da cui si attendeva senza dub-
bio che coprissero più agevolmente l’insieme del campo
sociale) tutti sono divenuti molto più attenti alla realtà che
le corrisponde.
L’antropologia e la psicoanalisi, malgrado il loro lungo
passato di mutue curiosità e irritazioni e gli apporti di alcu-
ni, continuano a scambiarsi i biglietti da visita senza riusci-
re a unire i loro destini. (…) Non è lo stesso fra la storia e
l’antropologia. Ciascuna di queste due discipline ha risenti-
to e ammesso il bisogno dell’altra. Non che, a nostro avvi-
so, esse debbano mai confondersi totalmente: i loro metodi
e i loro oggetti differiscono nella misura in cui alcuni cam-
pi esplorati dallo storico (l’evoluzione dei prezzi, lo stato
del mercato mondiale, l’evoluzione demografica) sfuggono
per loro natura all’apprensione dell’antropologia. Ma gli
antropologi hanno scoperto che le società che studiavano
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

avevano una storia nel momento in cui gli storici scopriva-


no con Fernand Braudel la dimensione strutturale della
lunga durata. Jacques Le Goff osserva che la storia, scienza
del cambiamento della società, tende maggiormente a dive-
nire una storia del quotidiano, una storia delle profondità e
delle ‘mentalità’ che allo stesso tempo si ispira agli orienta-
menti della psicoanalisi (particolarmente nell’opera di au-
tori come Alain Besançon o Michel de Certeau) e si impos-
sessa degli oggetti tradizionalmente assegnati all’antropolo-
gia (come il mito, la donna, il bambino, la morte…). Si de-
vono ugualmente menzionare i tentativi fatti da alcuni sto-
rici per scrivere delle vere monografie etnologiche di cui
l’esempio più ragguardevole è fino ad ora Montaillou di
Emmanuel Le Roy Ladurie” (Augé 1979, pp. 136-137).
Qualche volta si giunge al punto che, quasi per espiare
le chiusure precedenti del proprio campo disciplinare, al-
cuni autori finiscono per farsi paladini della risoluzione
della propria disciplina nell’altra, in una sorta di palingene-
si a partire dalla quale si dispiegherebbe una nuova e final-
mente luminosa antropologia, scientifica perché integral-
mente storica, o un’abbagliante storiografia, scientifica per-
ché integralmente antropologica. Maitland ha sostenuto
che l’antropologia deve scegliere se trasformarsi in storia o
annullarsi (Maitland 1936, p. 249); lo stesso Evans-Prit-
chard (1951, p. 190) scrive che “l’antropologia sociale e la
storia sono ambedue branche della scienza sociale o degli
studi sociali e che perciò c’è fra loro un rapporto di coinci-
denza”, anche se conclude questa stessa frase con le parole
fortemente limitative la “coincidenza” appena affermata:
“e ciascuna delle due può apprendere molto dall’altra” .
In una canzonetta di alcuni decenni fa si narrava dell’a-
more tra due persone di colore diverso che nella tensione a
divenire come l’altro riuscivano a cambiare il proprio colore
assumendo quello dell’altro, con la conseguenza paradossale
del mantenimento della loro negata diversità. Non vorrei
che le due discipline di cui stiamo parlando percorressero il
fallimentare percorso esemplificato nella canzonetta da me
citata. Non per caparbia volontà di arroccamento nel pro-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

prio campo ma per la consapevolezza che il potenziamento


di una prospettiva critica è possibile solo nella misura in cui
si mantiene comunque una propria prospettiva, pur con tut-
te le progressive acquisizioni e modifiche, ritengo che non
dobbiamo farci attrarre dai miraggi di una sorta di annega-
mento amoroso – con tutte le sue ambivalenze – nell’altro.
S’intende che la differenza tra storiografia e antropolo-
gia non è di scopi, ma, come ha rilevato Lévi-Strauss, di
orientamento e che pertanto esse sono indissociabili.
“Lungi dal diffidare degli etnografi, lo storico pensoso
dell’avvenire della sua scienza dovrebbe invece invocarli.
Ma il parallelismo metodologico che si pretende di trac-
ciare fra etnografia e storia, per contrapporle, è illusorio.
L’etnografo è uno che raccoglie i fatti, e che li presenta (se
è un bravo etnografo) conformemente a esigenze che sono
le stesse di quelle dello storico. Spetta allo storico utilizzare
questi lavori solo quando osservazioni scaglionate su un
periodo di tempo sufficiente glielo permettono; spetta in-
vece all’etnologo, quando osservazioni dello stesso tipo, ri-
guardanti un numero sufficiente di regioni diverse, gliene
danno la possibilità. In ogni caso l’etnografo stabilisce do-
cumenti che possono servire allo storico. E se esistono già
documenti, e se l’etnologo scegliesse di integrarne la so-
stanza al suo studio, lo storico non deve forse invidiargli –
purché, naturalmente, l’etnografo abbia un buon metodo
storico – il privilegio di fare la storia di una società di cui
possiede un’esperienza vissuta?
La questione, dunque, si riduce ai rapporti tra la storia
e l’etnologia intese in senso stretto. Ci proponiamo di mo-
strare che la loro differenza fondamentale non è né di og-
getto, né di scopo, né di metodo; ma che avendo lo stesso
oggetto (la vita sociale), lo stesso scopo (una migliore intel-
ligenza dell’uomo) e un metodo in cui varia soltanto il do-
saggio dei procedimenti di ricerca, esse si distinguono so-
prattutto per la scelta delle prospettive complementari: la
storia organizza i suoi dati in base alle espressioni coscien-
ti, e l’etnologia in base alle condizioni inconscie, della vita
sociale” (Lévi-Strauss 1958, pp. 30-31).
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

Problema del tutto diverso, come già si è accennato, è


quello del rapporto tra antropologia e storia.
Anche a questo riguardo non è del tutto inutile la ripe-
tizione di alcune affermazioni, ancorché lapalissiane.
Qualsiasi oggetto un’analisi antropologica assuma – si
tratti di manufatti o di simboli, di azioni o di credenze – es-
so sarà comunque un prodotto storico, e quindi indagabile
anche sotto questo specifico profilo. Il risultato di tale ana-
lisi antropologica sarà anch’esso un prodotto storico, e
quindi storicamente condizionato, storicamente indagabile,
suscitatore di ulteriori effetti.
La storia è realtà da cui l’antropologo non può comun-
que prescindere, ritenga o meno di utilizzarla e comunque
la utilizzi.
Per Evans-Pritchard, ad esempio, evoluzionisti e diffu-
sionisti utilizzarono inadeguatamente la storia, suscitando
così radicali critiche da parte dei funzionalisti, che, a loro
volta, sbagliarono profondamente nell’attaccarli perché
“avrebbero dovuto accusarli non del fatto di scrivere la
storia, ma di scrivere una cattiva storia” (Evans-Pritchard
1951, pp. 165-166).
Marc Augé (1979, pp. 19-20), dopo aver notato che
“l’antropologia è giunta a un punto di maturazione para-
dossale, a partire dal quale il suo prestigio, o in ogni caso,
la sua influenza cresce in proporzione al suo smarrimento
interiore e alle sue divisioni interne”, sottolinea, fra l’altro:
“l’antropologia è nella storia; non solamente (…) perché i
suoi problemi, i suoi interessi e le sue tentazioni partecipa-
no di quelli dell’epoca; non soltanto perché, confrontata
alla realtà degli altri, solo al prezzo di una cecità sorpren-
dente potrebbe ignorare rapporti di forza e di senso dei
quali, ogni giorno di più, gli uni si oppongono o si impon-
gono agli altri; ma anche, e forse soprattutto, perché essa
partecipa, magari all’insaputa di coloro che la praticano, al
prezzo della sua specificità come disciplina, al progresso
delle conoscenze che in tutti i campi si identifica col cam-
mino della storia. Si può senza dubbio affermare, senza
tuttavia mostrarsi paradossali o ingenui, che più l’antropo-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

logia prende coscienza della sua implicazione nella storia


(contemporaneamente perché la sua esistenza come disci-
plina e i suoi terreni come oggetti d’osservazione ne sono il
prodotto e perché essa stessa come pratica scientifica è an-
che pratica storica, raramente più e a volte meno innocente
che ogni altra pratica), più essa ha la possibilità di sfuggire
ai suoi determinismi storici e di non alienarsi a se stessa, se
così si può dire” .
L’osservazione antropologica di un popolo, di un ritua-
le, di un istituto, di uno spaccato di vita comunitaria, di
un’organizzazione sociale, e così via, non può prescindere
dalle vicende storiche che li hanno plasmati in quella speci-
fica maniera, come non può non riflettersi anche sulla rap-
presentazione che lo stesso popolo ha della propria storia.
Clyde Kluckhohn (1949, p. 64) nel suo Mirror for Man
ha ribadito: “Le culture non sono immobili, bensì in conti-
nua trasformazione. L’evoluzione biologica non si arresta
mai. Gli eventi della storia, sia culturale che biologica, non
sono fenomeni isolati, ma si modellano su strutture fisse; la
storia è un insieme di strutture e di eventi. Se il passato e il
presente sono svincolati l’uno dall’altro, la conoscenza del
passato non aiuta molto a risolvere i problemi del presente.
Ma se una parte del passato vive nel presente, anche se ce-
lata sotto le apparenze contraddittorie e spesso ingannatri-
ci del presente, allora la conoscenza della storia può pro-
durre una visione illuminante anche nei riguardi delle cir-
costanze attuali. Il tessuto culturale può essere anche para-
gonato a una seta cangiante e di vario colore, trasparente,
ma non opaca. All’occhio esperto, il passato traspare, anzi
brilla, sotto la superficie del presente. Tocca all’antropolo-
go storico mettere in luce le circostanze meno appariscenti
che potrebbero, soprattutto oggi, sfuggire ad un occhio
poco esercitato” .
Evans-Pritchard (1951, pp. 172-173) ha sottolineato:
“la storia tradizionale di un popolo è importante anche per
la ragione che essa fa parte del modo di pensare dei suoi
componenti e quindi anche della vita sociale che l’antropo-
logo può osservare direttamente. Prendendo come esem-
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

pio la battaglia di Waterloo, dobbiamo distinguere le con-


seguenze dell’avvenimento dalla parte che esso giuoca, nel
ricordo, sulla vita del popolo, la rappresentazione che se ne
fa nella tradizione orale e scritta; dobbiamo distinguere tra
Geschichte e histoire, fra storia e storiografia. Suppongo che
Croce, nell’affermare che ogni storia non è che storia con-
temporanea, usi il termine storia in questa seconda accezio-
ne, ma egli non pose la questione nei termini chiari di Col-
lingwood il quale vide la storia del passato racchiusa nel
contesto del pensiero presente, e distinta dal presente pur
essendone patrimonio vivo”.
Che le analisi antropologiche siano anch’esse prodotti
storici può apparire constatazione estremamente ovvia, ma
tale ovvietà si attenua radicalmente solo che si pensi alla
pretesa di tanta antropologia di porsi come assoluta verità
scientifica di un popolo che presenterebbe una sua realtà
dinanzi allo sguardo “superstorico” dell’antropologo, desti-
nato, non si sa bene come e perché, a ratificare le determi-
nazioni ontologiche di tutto il mondo a lui circostante, an-
che se puntualmente settorializzato per aree geografiche e
per argomenti. Opportunamente Marc Augé (1979, pp. 16-
17) ha rilevato: “sullo sfondo del discorso dotto, c’è (…)
questo stesso pallore del pensiero, questa stessa sfocatura
dello sguardo, questa stessa misconoscenza – o, in termini
nobili ma ingannevoli, questo stesso inconoscibile o questo
stesso sconosciuto – che suscitano in molti con l’incertezza,
il desiderio. Il discorso antropologico è tanto meno inno-
cente quanto è nella storia, nella storia degli altri, certo – vi
è intervenuto con il militare, l’amministratore e il missiona-
rio – ma anche nella sua propria storia, prodotto e accolto
dagli uomini di un’epoca e di una società, in una congiuntu-
ra intellettuale e politica determinata. Così si spiegano in
parte le sue difficoltà, i suoi rimorsi, le sue ambiguità e le
sue predilezioni. Purtuttavia il discorso antropologico è an-
che senza storia, se si vuole: fuori della storia. Le difficoltà
che esso incontra sono anche difficoltà propriamente intel-
lettuali che né la diversità dei ‘terreni’ né quella delle epo-
che né quella delle teorie permettono di evitare”.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Il problema del rapporto, multiforme e mutevole nella


successione diacronica, antropologia-storiografia, che inte-
ressa più specificamente il nostro discorso, conosce oggi
una nuova fortuna e viene affrontato da numerosi autori e
da molteplici angoli visuali.
A evitare un, comunque infecondo, acritico appiatti-
mento dell’una sull’altra, ritengo vada sottolineato che,
una volta accertate le convergenze, ci si deve interrogare
sulle peculiarità di tali discipline, perché il dialogo si in-
stauri realmente e non costituisca un insieme di due mo-
nologhi truccati da dialogo, in cui l’interlocutore è co-
struito secondo le proprie aspettative e le proprie miopie
o errori ottici. Non è caratteristica esclusiva di Don
Quijote vedere nei mulini a vento dei cavalieri coi quali
instaurare l’agognata tenzone. L’antropologia e la storio-
grafia, pur convergendo nello scopo, hanno – ed è bene
che mantengano – una strumentazione concettuale e me-
todologica diversa.
Non si tratta di trovare la differenza nell’oggetto di stu-
dio attribuendo, come a volte è stato fatto a mio avviso in
maniera non persuasiva, all’antropologia lo studio delle so-
cietà primitive e alla storiografia quello delle società com-
plesse. Lo stesso Evans-Pritchard, qui più volte citato, si
mostra tributario di tale concezione restrittiva. L’oggetto di
studio di ambedue le discipline è lo stesso: le società uma-
ne indagate in alcuni dei loro innumerevoli aspetti e con
dettagliate delimitazioni temporali e spaziali. La prevalenza
di alcune aree geografiche va rapportata ai condizionamen-
ti ideologici e alla temperie nel cui ambito si svilupparono
gli studi demo-etno-antropologici.
Differenziante, si diceva, è la strumentazione concettua-
le e metodologica. Per l’antropologia, gli aspetti indagati lo
sono comunque attraverso le maglie della cultura elaborate
da quella specifica società; non un’improbabile realtà, og-
gettiva e impermeabile dalle soggettività che la subirebbe-
ro, ma una realtà “oggettivamente” dispiegantesi e “sogget-
tivamente” esperita, storicamente oggetto di una continua
plasmazione culturale che si svolge nella storia, sostanzia la
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

riflessione antropologica tesa a cogliere le modalità dell’u-


mano attraverso la sua produzione culturale.
Ne consegue, fra l’altro, che lo stesso concetto ha o può
avere accentuazioni profondamente diverse a seconda che
si moduli sul piano antropologico o su quello storiografico.
Si pensi, esemplificativamente, al concetto di verità. Per lo
storico esso rinvia alla veridicità, ricostruzione di un feno-
meno quale si è attuato effettivamente e come deve essere
compreso attraverso la riscoperta dei suoi tratti costitutivi,
nelle sue origini, motivazioni, strutture esplicite e implicite,
connessioni con altri aspetti della realtà, e così via. Per
l’antropologo esso non può che significare verità culturale,
elaborazione fantasmatica di aspetti della realtà a prescin-
dere da una eventuale loro rispondenza sul piano della og-
gettività. Esemplificativamente, godono di una loro verità
culturale sia l’ippogrifo che l’asino che vola, che i poteri
magici, a prescindere dall’accertamento di tipo giudiziario
di una loro eventuale esistenza fenomenica. Ma se tutto ciò
che gli uomini pensano o hanno pensato ha una sua verità
culturale e ha prodotto effetti sulla realtà – si pensi all’inci-
denza realistica della idea, senza riscontro scientifico e rea-
listico, della inferiorità degli ebrei – e se gli uomini vivono,
e non possono non vivere, nella storia, esso ha anche una
sua “verità storica” proprio perché ha “verità culturale”.
Come si pone nei due ambiti disciplinari il problema
delle fonti? Non potremo risolverlo attribuendo esclusiva-
mente agli storici l’ambito cartaceo e agli antropologi quel-
lo impalpabile di una non meglio precisata mentalità, in
quanto la mentalità si può cogliere anche attraverso le
“carte” e la credenza in un’idea può avere avuto rilevanti
esiti storici che non possono non riguardare gli storici di
professione; si pensi – ma gli esempi potrebbero essere le-
gione – alla credenza nella stregoneria. Non possiamo
quindi procedere a una spartizione delle fonti come se do-
vessimo ridisegnare le mappe delle discipline e dei loro ri-
spettivi possedimenti. Niente è ontologicamente fonte e
ogni cosa può esserlo se adeguatamente interrogata. E allo-
ra potremmo ritenere che il problema delle fonti non va ri-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

solto in astratto ma a partire dalle domande che quella spe-


cifica ricerca pone. Intendo dire che è la domanda a selezio-
nare le possibili risposte, è il problema della ricerca che in-
dividua le proprie fonti. Ampliando una problematica sif-
fatta potremmo dire che antropologia e storia costituisce
una questione non da affrontare sul piano astratto della
formulazione teorica ma nella concretezza della specifica
ricerca, che realizzerà un equilibrio tra prospettiva domi-
nante e prospettiva integrativa, per cui lo stesso problema
avrà andamento e quindi esiti puntualmente diversi se sarà
affrontato da un antropologo o da uno storico, senza ov-
viamente che tali risultati siano gerarchizzabili secondo
vecchie e perverse logiche di imperialismi disciplinari.
Senza eccessive valenze narcisistiche e con valore
esemplificativo, vorrei soffermarmi brevemente su alcuni
problemi che ho dovuto affrontare nel corso di una ricer-
ca nella quale sono impegnato da alcuni anni riguardanti
l’ethos aristocratico nella società meridionale dell’Otto-
cento. Su tale tematica non vi sono scritti antropologici
mentre vi sono alcuni rilevantissimi studi storiografici
quali, ad esempio, quelli di Pier Luigi Donati, Paolo Ma-
cry, Marta Petrusewicz, Maria Antonietta Visceglia. Di es-
si ho fatto tesoro e ho utilizzato e sto continuando a uti-
lizzare una molteplicità di fonti: opere letterarie, genealo-
gie, lettere, diari privati, testamenti, registri di conti di ca-
sa, manufatti quali i palazzi aristocratici, i quadri di fami-
glia, e così via. S’intende che questi materiali ritrovano la
loro unitarietà problematica nell’angolo visuale da me
adottato che conferisce a essi la caratteristica di testimo-
nianze di specifiche modalità culturali, mentre altra sa-
rebbe stata la loro utilizzazione se l’angolo visuale pre-
scelto fosse stato quello dello storiografo. Andando anco-
ra più in dettaglio, per individuare i tratti di questa cultu-
ra aristocratica, analizzo juxta propria principia le diverse
modalità di vita dei “signori”, si tratti di nobili o di quan-
ti vissero nei paesi more nobilium; prescindo, perché non
interessa il mio discorso, dalla verifica oggettiva della no-
biltà delle diverse famiglie, in quanto il mio interesse non
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

è quello della loro eventuale iscrizione in un registro aral-


dico, ma la convinzione di essere partecipe di una cultu-
ra, quella aristocratica, e parte di un ceto sociale, quello
signorile appunto.
L’antropologia, disciplina, dunque, dialogante con la
storiografia, sua disciplina sorella.
L’antropologia inevitabilmente ancorata nella storia;
“tutte le società codificano i rapporti fra gli uomini, i rap-
porti con la terra e la produzione, i rapporti dei sessi e del-
le generazioni, e questi codici rispettivi sono in se stessi,
nei confronti dell’osservatore, portatori di un’esigenza di
comparazione (in questo senso l’antropologia è nella sto-
ria)” (p. 22).
Ma l’esigenza che spinge molti di noi a parlare di an-
tropologia storica è data dalla volontà di contrapporre a
un approccio esclusivamente culturologico e destorificato
una metodologia di analisi dei fatti culturali che li assuma
integralmente come prodotti storici e, quindi, si faccia ca-
rico di un’interpretazione che tenga conto dei numerosis-
simi loro condizionamenti socio-economici e delle loro
intricatissime relazioni con tutti gli altri aspetti della
realtà. Un’antropologia critica non può non essere, a mio
avviso, che antropologia storica, un’antropologia cioè sto-
ricizzante il suo oggetto e se stessa, con i suoi quadri di ri-
ferimento, i suoi metodi, i suoi valori spesso veicolati in-
consapevolmente.
In questa prospettiva, l’antropologia è sempre, direi
piegando al mio discorso critico un’espressione di Leach
(1961), un’“antropologia ripensata” .
Un’antropologia critica che rinuncia alle sue pretese de-
finitorie della realtà, deve riformulare il suo problema fon-
damentale, che “è sempre quello di coniugare lo stesso e
l’altro sotto i loro aspetti più vari (l’identità umana e le
specificità culturali, la cultura e le culture, l’inconscio e le
pratiche, l’individuo e la società) (…)” (Augé 1979, p. 25).
La dialettica identità-alterità è sullo sfondo dell’atten-
zione antropologica, suo nodo centrale, suo ineludibile
quadro di riferimento.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

“Il problema dello statuto dell’altro non è stato né risol-


to né scongiurato dall’antropologia: esso è allo stesso tem-
po il suo tormento e la sua ragione d’essere. Teoricamente,
e trattandosi di società, le posizioni non sono di numero il-
limitato: o si considera l’altro come lo stesso differito o ri-
tardato (è l’evoluzionismo), o si considerano i vari altri co-
me altrettante identità irriducibilmente differenti (è il cul-
turalismo che si adatta molto bene ad una analisi funziona-
lista delle differenti componenti di ogni società), o, ancora,
si considerano le alterità come relative (questa relatività
non essendo più necessariamente rapportata ad una di-
mensione cronologica ed evoluzionista delle società) e si si-
tua l’identità dalla parte dell’inconscio (è il procedimento
strutturalista). Naturalmente queste possibilità sono for-
mulate qui in modo particolarmente rigido e i procedimen-
ti antropologici effettivi, inoltre, tentano a diversi gradi, di
conciliarle o di coniugarle. D’altronde, è a questo punto
che cominciano le difficoltà; infatti, per quanto tali possibi-
lità non si presentino più come delle opzioni esclusive,
nondimeno diventano evidenti e, per quanto diventino evi-
denti, sono difficili da mettere in relazione” (p. 25).
Buona parte dei fallimenti dell’antropologia, come pure
dei suoi successi, sono dovuti al suo costitutivo impegno
conoscitivo nei confronti dell’alterità, zona oscura del pen-
siero antropologico, suo margine di resistenza, sua insidia
e, nonostante tutto, suo approdo.
“Le difficoltà imputabili alla necessità intellettuale di
pensare l’altro al tempo stesso come differente e come
identico, si complicano per un certo numero di considera-
zioni supplementari. In primo luogo, la categoria dell’altro
non si applica soltanto alla distinzione di società diverse
fra loro ma anche alle differenze interne a ciascuna di que-
ste società. Pensare le società in termini culturalisti signifi-
ca, al limite, eliminare il problema delle differenze interne
alle società, e questa eliminazione autorizza tutte le idea-
lizzazioni della società primitiva che costellano la nostra
storia filosofica e caratterizzano certe correnti di pensiero
contemporaneo. Al contrario, l’attenzione esclusiva porta-
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

ta al meccanismo interno delle differenze all’interno di


una società, per utile e preziosa che sia, può, ad un certo
livello d’analisi, far eliminare una riflessione necessaria
sulla comparazione fra società e sul divenire di ogni so-
cietà: sotto questo aspetto, sarebbe come eliminare la sto-
ria. È notevole, da questo punto di vista, che anche un au-
tore come Malinowski, al termine delle sue riflessioni sulle
Trobriand, che costituiscono il fondamento esemplare del-
l’approccio monografico e della teoria funzionalista, sia
stato condotto a considerare inutile, e per così dire triviale
(dal punto di vista di una società concepita come spiega-
zione dei meccanismi di integrazione) ogni approccio sto-
rico. Il fatto è tanto più notevole che Lévi-Strauss – il cui
strutturalismo ha bisogno, per manifestare le strutture in-
consce dello spirito umano all’opera nella vita sociale, di
una pluralità di casi sociologici – qualifica di ‘truismo’ l’af-
fermazione secondo cui ogni società funziona, ma che non
accorda nessuna importanza scientifica allo studio del
cambiamento” (pp. 26-27).
Conoscere l’altro, banco di prova, dunque, dello sguar-
do antropologico.
Ma se l’altro fosse radicamente tale, senza alcuna somi-
glianza, analogia, coincidenza con il soggetto portatore del-
lo sguardo, convenzionale detentore dell’identità, restereb-
be definitivamente irraggiungibile nella sua alterità, mono-
lite inconoscibile, impossibile interlocutore di un impossi-
bile dialogo.
In effetti l’identico tende a ritrovare nell’altro, al di là
delle puntuali differenze, i tratti che rinviano alla comune
umanità e che consentono ad ambedue una reciproca co-
noscenza. Possiamo conoscere l’altro, in quanto egli è co-
me noi; è una diversa, eppure analoga se non identica, for-
mulazione di noi stessi.
L’antropologia rappresenta, in questa prospettiva, il no-
stro sforzo di ritrovarci nell’altro, di rifletterci in esso.
Se ci rispecchiamo nell’altro per conoscerlo e conoscer-
ci, l’antropologia si costituisce di fatto come ininterrotta,
anche quando inconsapevole, autobiografia, frutto del no-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

stro sforzo inesausto di comprenderci attraverso l’altro, di


comprendere l’irripetibile paradigma di umanità che rap-
presentiamo per noi stessi, soggetto e oggetto di discorso,
inizio e approdo di itinerari di conoscenza, che non po-
trebbero essere se uno dei due termini venisse a cadere.
L’antropologia è, a mio avviso, sempre e comunque au-
tobiografia, ma questo non va inteso come celebrazione di
un’impossibile autarchia, se non, addirittura, autismo.
Lo sguardo antropologico parte dal soggetto e a questi
ritorna. Ma dopo un viaggio necessario in cui ha incontrato
l’altro e si è impegnato profondamente a conoscerlo.
La conoscenza di sé, frutto della tensione antropologi-
ca, non è la stessa di quella che si avrebbe comunque, sen-
za l’intenso lavorio di cui qui si discorre; è conoscenza ar-
ricchita di questo itinerario extra moenia; è conoscenza
frutto del colloquio instaurato con l’alterità; è, integral-
mente e compiutamente, sapere, se sapere è – come ci ha
recentemente ricordato Gadamer – “superare la resistenza
dell’alterità”2.
Ho detto dello sforzo di rifletterci nell’altro, del nostro
rispecchiarci in lui.
Si delinea così il tema dell’antropologia come specchio.
Ma l’antropologia consiste essenzialmente, come si è
appena detto, in un’ininterrotta, anche se quasi sempre in-
consapevole, autobiografia. Lo specchio, allora, rinvia a un
altro specchio, si riflette in esso e questo a sua volta rinvia
le sue immagini al primo, che le restituisce in una sequela
automoltiplicantesi, perché non di uno specchio soltanto si
tratta, ma di una pluralità di specchi e, quindi, di un’este-
sissima molteplicità di immagini.
L’antropologia, così, non è più soltanto lo “specchio
dell’uomo”, ma una stanza degli specchi, che trasmette al
singolo uomo una miriade di immagini, in un groviglio di
sguardi incrociantesi, attraverso i quali gli uomini dicono il
loro bisogno di non essere soli, la loro esigenza di un sen-
so, purchessia, del loro esistere.
Victor Turner, sottolineando che “riti, drammi e altri
generi performativi sono spesso orchestrazioni di media,
LA STANZA DEGLI SPECCHI 

non espressioni in un unico medium”, polemizza con alcu-


ni strutturalisti che hanno sostenuto che “si emette lo stes-
so messaggio con codice media diversi per meglio sottoli-
nearlo mediante la ridondanza. Lo ‘stesso’ messaggio in
media diversi è in realtà una serie di messaggi che variano
leggermente l’uno dall’altro, poiché ogni medium aggiunge
il proprio messaggio generico al messaggio che veicola”.
Per Turner (1986, pp. 78-79), “il risultato è qualcosa di si-
mile a una stanza degli specchi – specchi magici, ognuno
dei quali, oltre a riflettere le immagini che gli giungono
rimbalzando da uno specchio all’altro”.
Nel mio discorso, l’espressione stanza degli specchi assu-
me un significato più ampio, volendo comprendere con es-
sa l’intero ambito antropologico, il suo interrogare interro-
gandosi, il suo inesausto tentativo di decodificare la molte-
plicità dei linguaggi, spesso criptici, che accompagna l’u-
mana fatica di essere nel mondo senza restare schiacciati
da una irrimedibile datità.
Stanza degli specchi come luogo ideale nel quale, attra-
verso l’infinita rifrazione di parole e immagini si rendono
possibili juxta propria principia – perché soltanto juxta pro-
pria principia sono possibili – le nostre strategie conosciti-
ve, che realizzano un nostro costitutivo desiderio di cono-
scerci conoscendo. Rifrazione di parole e immagini attra-
verso la quale si dispiegano e si riflettono gli umani lin-
guaggi e i multiformi codici per intenderli.
Ma anche gli specchi non sono innocenti; ce lo ricorda
fra gli altri Schnitzler. Il protagonista della sua Fuga nelle
tenebre si reca nella stanza da bagno, che, lo si vedeva be-
ne, solo per esigenze di tempi nuovi riconosciute a malin-
cuore, da una qualche soffitta inutilizzata era stata adattata
all’uso attuale. Una lampada giallastra incastrata nel soffit-
to diffondeva scarsa luce nello spazio senza finestre, e at-
traverso lo specchio bislungo, che pendeva alla parete in
una liscia, vecchia cornice dorata, andava dall’alto in basso
un’incrinatura.
L’incrinatura segna, deformandolo, il nostro volto ri-
specchiantesi e il nostro tempo è insidiato dalla percezione
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

che noi stessi, come ha visto un poeta cieco, “siamo il no-


stro ricordo, / un museo immaginario di mutevoli forme, /
specchi rotti in un mucchio” (Borges 1969, p. 269).

1
Per una messa a fuoco di alcuni tratti di tale complessa problematica
vedi Musio, a cura, 1993, con interventi di F. Cardini, Z. Ciuffoletti, P. Delo-
gu, P. Desideri, M. Fantoni, R. Fubini, M. Martellone, N. Migliorini, G. Mu-
sio, E. Ruffaldi, B. Wandrooij, C. Wickham. Il volume comprende fra l’altro
“una rassegna dei contributi più significativi di storici e antropologi culturali
al dibattito su ‘Storiografia e antropologia storica’ svoltosi in sei incontri di
studio in Firenze tra gli anni ’82-’90”.
2
Relazione tenuta da Gadamer al Goethe Institute di Roma il 17 marzo
1994.
Capitolo terzo
Antropologia ed etica

Il rapporto antropologia-etica può essere affrontato sot-


to un duplice aspetto. Anzitutto, qualsiasi etica si articola
secondo un codice più o meno ampio e particolareggiato;
questo esplicita o sottintende un sistema di valori. “Per
molti altri studiosi i valori rappresentano, tra i simboli di
una cultura, la chiave di volta per comprenderla. Per molti
altri (...), pur non avendo essi questa preminenza, costitui-
scono però, senza alcun dubbio, uno dei fuochi centrali
nella vita di qualsiasi gruppo sociale” (Catemario 1989).
L’etica, dunque, costituisce uno dei nodi essenziali del-
l’indagine antropologica, che ha sottolineato la varietà e la
storicità dei diversi sistemi normativi e dei parametri valu-
tativi a essi correlati.
Le valutazioni, dunque, anche quando ritengano di ri-
farsi ad assoluti etici, immutabili, quasi fossero connotazio-
ni della stessa natura umana, sono ispirate da specifici valo-
ri (attributivi e normativi) che si sono formati storicamente
e sono quindi storicamente differenti e mutabili.
Così, “l’apprezzamento delle attrattive fisiche, della for-
za, della salute (in molti gruppi la malattia è una vergogna) è
un fenomeno ricorrente. Ma lo standard varia. Tra gli Ara-
pesh essere forti non è un valore. E, quanto al modello di
bellezza, varia non poco, per esempio tra l’Occidente con-
temporaneo e certe tribù dell’Africa occidentale. La malattia
può in certi casi non essere affatto giudicata una vergogna,
neanche quella cronica, date le spiegazioni spesso magiche
che fornisce la eziologia ‘primitiva’. Il coraggio, l’ardimento
hanno naturalmente una grande importanza presso i popoli
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

guerrieri: p.e., tra gli Indiani delle Pianure, dove al coraggio


sono strettamente associate destrezza, agilità, resistenza; tra
gli Indiani della costa nord-occidentale d’America il valore
maggiore è dato all’aggressività, all’ostilità.
Tra le capacità più propriamente psichiche, morali e di
status l’intelligenza, l’astuzia, il buon umore, la generosità,
l’onestà, il possesso di poteri possono essere variamente
giudicati. L’astuzia, per esempio, tra i Batutsi, viene valuta-
ta molto positivamente.
Purtroppo, a tutt’oggi, manca (...) una trattazione com-
parata in dettaglio sugli attributi valutati dai vari popoli
nei vari tempi. Goldschmidt ha tentato qualcosa ma appe-
na illustrativamente (...). Sappiamo così, molto scarsamen-
te e genericamente: che, in un individuo, tra gli Zuni è
molto valutata la conoscenza, in Melanesia il potere magi-
co o mana, che fa avere buoni raccolti, buona caccia di te-
ste, ecc.; che tra gli Indiani della California nord-occiden-
tale bisogna possedere beni cerimoniali; che tra i Ruanda,
società fortemente stratificata, gli attributi variano con le
classi (per i dominanti Mututsi, amaboko, il potere di esi-
gere dagli altri ciò che si vuole, è la qualità più ambita, ma
poi anche ubugabo, cioè fedeltà, generosità con gli amici,
liberalità con i poveri e coraggio della responsabilità, e,
non ultimo, itonde, l’autocontrollo mentre per i Muhutu,
classe intermedia, ha importanza la ricchezza e il possesso
di terre e bestiame: mugaboe mukungu). (...) Fromm ha
parlato di mercato delle personalità, di valori mercantili
attribuiti agli altri, e a se stessi, nella civiltà industriale
contemporanea, in conformità al nostro sistema economi-
co, senza, però, alcuna verifica a livello di ricerca empiri-
ca” (ib.).
Spesso si è ritenuto che i sistemi normativi etici coinci-
dessero esaustivamente con i sistemi normativi religiosi.
Ora se è vero che una religione articola i propri dettati ela-
borando un sistema etico, non ogni sistema etico ha un
quadro religioso di riferimento.
Le azioni umane sono regolamentate dettagliatamente
da norme di diverso ambito e livello. “Dove non arriva la
ANTROPOLOGIA ED ETICA 

legge arrivano i precetti religiosi, dove questi non arrivano


arrivano i mores, dove i mores non arrivano si costituiscono
‘zone franche’: vecchie norme non vengono più percepite
come vincolanti, sorgono nuove aree non regolate e addi-
rittura si crea un ‘vuoto normativo’ (anomia). Altra causa
di anomia è l’elasticizzazione o la difficoltà di applicazione
al caso, che finiscono col trasformare lentamente o annulla-
re la norma. In realtà, però (...) sono i mores il sistema più
ricco di norme: miriadi di attività vengono disciplinate da
miriadi di regole, spesso implicite (vissute o inconsce) e
ben lungi dall’essere state a tutt’oggi studiate, malgrado la
cura programmatica di un Durkheim o la attenta segnala-
zione di un Sorokin” (ib.).
Ogni sistema normativo può essere presentato come co-
dice etico, per cui avremo, accanto all’etica dei principi,
l’etica del costume, l’etica del contro-costume in via di for-
mazione, l’etica del proprio gruppo di appartenenza, e così
via. Tali etiche sono compresenti e possono essere netta-
mente alternative, per cui il conflitto tra i diversi imperativi
etici si scarica sul singolo, destinatario di una molteplicità
di norme, spesso contraddittorie, con costi elevatissimi in
termini di sofferenza e di disadattamento.
Quest’ordine di problemi ci introduce al secondo
aspetto del rapporto antropologia-etica. L’antropologia de-
ve rapportarsi all’etica o deve prescindere da essa?
Secondo numerosissimi studiosi le scienze devono esse-
re constatative, procedere sperimentalmente, verificare le
ipotesi elaborate, dichiarare volta a volta la metodologia se-
guita. In questo quadro, le valutazioni sono accuratamente
tenute fuori, in quanto ritenute impertinenti rispetto al di-
scorso scientifico. Mescolare, poi, a tale discorso conside-
razioni di ordine etico viene giudicato dai più particolar-
mente negativo, segno di un atteggiamento “moralistico” e
profondamente antiscientifico.
Ma tale giudizio di impertinenza non può essere esso
stesso frutto di un’ideologia – quella della doverosa asetti-
cità della scienza – tanto più pericolosa quanto più ma-
scherata?
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Nella nostra società si sono andate enucleando, all’ini-


zio della civiltà moderna, una svalutazione dell’etica, og-
getto di irrisione da parte della cultura intellettuale che de-
ve atteggiarsi a spregiudicata, e un’esaltazione dei poteri,
ritenuti illimitati, della scienza. Tali atteggiamenti si sono
sviluppati in progressione geometrica, per cui oggi il di-
scorso etico appare materia da “anime belle” o da spiriti
“deboli”, mentre la scienza si è posta come causa e garante
di un inarrestabile progresso dell’uomo.
L’esplosione della conflittualità – interpersonale, inter-
nazionale, interetnica – e l’evidenza sempre maggiore dei
limiti della scienza e, ancor più, dello scientismo hanno po-
sto radicalmente in crisi le intellettualistiche ed etnocentri-
che certezze ereditate dalle epoche precedenti, imponen-
do, fra l’altro, una profonda revisione degli stessi quadri
epistemologici delle diverse scienze.
In questo processo l’antropologia – una delle scienze
dell’uomo – rivendica come suo specifico ambito di indagi-
ne le modalità attraverso le quali le diverse società hanno
attuato la domesticità del mondo, rendendolo possibile ca-
sa dell’uomo.
Tale plasmazione culturale ha portato, fra l’altro, all’ela-
borazione dei diversi linguaggi, nell’accezione più lata, at-
traverso i quali gli uomini hanno potuto dire il mondo e di-
re se stessi.
La parola, nel senso più lato, è, in questa prospettiva,
fondamento; significativamente è stato detto: “In principio
erat Verbum”, mentre, nella riflessione heideggeriana, il
linguaggio è stato definito “dimora dell’essere”.
Attraverso il linguaggio gli uomini hanno detto l’amore,
il dolore, il desiderio di felicità, l’esigenza di trascendere la
datità dell’io, la sua costitutiva finitudine, la tensione alla
solidarietà.
È un linguaggio spesso criptico, che va accuratamente
inteso e che si pone come domanda, cui l’antropologia non
può esimersi dal tentare qualche risposta.
La riflessione antropologica, dopo essersi fatta carico
dell’analisi delle contraddizioni che ostacolano, quando
ANTROPOLOGIA ED ETICA 

non rendono del tutto impossibile, la realizzazione di un’e-


tica umanistica universale, nella sua ineliminabile tensione
progettuale riscopre, così, la sua costitutiva vocazione teo-
rica e trova puntuali convergenze con momenti centrali
della riflessione filosofica.
Un’antropologia che ritenga che la sua massima realizza-
zione si attua nell’individuazione delle modalità che meglio
consentano l’autorealizzazione di tutti gli esseri umani nelle
diverse situazioni storiche della loro esistenza tende all’etica
della solidarietà universale come al suo compimento.
In questa prospettiva il problema se la scienza, nelle
sue numerosissime articolazioni, debba essere sottoposta
a dei limiti di ordine etico o le sia consentita la rivendica-
zione di un’assoluta autonomia può essere affrontato sot-
tolineando che per nessuna attività umana, a qualsiasi li-
vello si situi, è possibile costituire una sorta di “zona
franca” nella quale il valore, universale e assoluto, del ri-
spetto della vita di ciascun uomo sia, magari momenta-
neamente, annullato.
Qualsiasi attività scientifica, e dunque qualsiasi scienza,
non può non avere limiti assolutamente invalicabili. Altro il
discorso della fonte di tali limiti; se la scienza, cioè, possa
patire limiti fissati dall’esterno senza cessare di essere.
Contro tendenze, continuamente insorgenti nei detentori
del potere, di dirigere le scienze, tentando di condizionar-
ne lo sviluppo e di orientarne contenuti e ricerche, va sot-
tolineato decisamente che i limiti etici alle scienze non pos-
sono che essere fissati da esse stesse nel loro concreto di-
spiegarsi, in una prospettiva che coniughi rigorosamente
tensione conoscitiva e consapevole ancoraggio etico a valo-
ri universali, perché integralmente umanistici.
Nel quadro qui schematicamente delineato può essere
totalmente condivisa da parte antropologica l’affermazione
filosofica secondo la quale “L’uomo è la radice dell’essere e
l’approdo degli enti. (...) L’uomo è un dover essere che è. Il
suo essere un dover essere che è non è però un’essenza, cioè,
ancora una volta, un’appartenenza compiuta e statica, bensì
un’attività che egli compie affermandosi non nella puntua-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

lità creativa dell’atto, ma nella distensione processuale dell’o-


pera trasformatrice del mondo naturale e umano.
L’affermazione deontologica è attività integrale e uni-
versale. (...) Ne consegue che ogni uomo è assolutamente
indispensabile a tutti gli altri e che tutti sono assolutamente
indispensabili a ciascuno.
L’affermazione deontologica è originariamente rivolta
contro la negazione dell’uomo. Quindi è, per l’uomo, il suo
essere contro la morte.
Ma poiché l’uomo non ha esperienza della propria mor-
te, bensì soltanto della morte altrui, dalla quale solo per ri-
flesso può immaginare e temere la propria, e poiché l’ap-
prodo e la radicazione interumana costituiscono l’essere
umano dell’uomo, dunque l’affermazione deontologica è
originariamente l’essere dell’uomo contro la morte di cia-
scun altro uomo, ancor prima che contro la propria.
Quindi l’esistenza fisica di ciascun ente umano e di tutti
è il fondamento ultimo e la condizione invalicabile di qual-
siasi possibile etica umanistica, cioè di qualsiasi etica che
possa riguardare gli uomini” (Rossi 1974, pp. 31-33).
Rispetto alla riflessione filosofica, quella antropologica
ha come compito specifico l’individuazione delle modalità
che rendano possibile l’attuazione dei principi solidaristici
universali.
“Certamente, i principi dell’etica dovrebbero coprire
tutto l’ambito dell’agire umano: ama il tuo prossimo, la ‘re-
gola aurea’, la formulazione della giustizia non dovrebbero
lasciare il minimo spazio a un comportamento esente da
orientamento desiderabile. Eppure, chi si dispone a mette-
re in pratica l’etica si rende conto della sua impraticabilità
senza quelli che MacBeath chiamò qualche tempo fa ‘ideali
operativi’. (...) Inoltre sono in continuo mutamento e la so-
cietà e la conoscenza: mutando le situazioni e la loro consa-
pevolezza muta l’applicazione.
E perciò che nei paesi scandinavi è apparsa la necessità,
formulata esplicitamente, di una ‘etica applicata’, sebbene
già Dewey avesse affrontato, agli inizi del secolo, egli stesso
e i suoi collaboratori, problemi economici, politici e sociali
ANTROPOLOGIA ED ETICA 

come parte integrante della disciplina etica. Ofstad, una


delle figure più rappresentative di questa tendenza, propo-
neva fin dalla fine degli anni Cinquanta, due tipi di ricerca
ampiamente interdisciplinare” (Catemario 1988, pp. 46-47).
L’antropologia, in questa prospettiva, lungi dall’espunge-
re l’etica come impertinente, riceve da essa il suo inveramen-
to e articola il proprio discorso dispiegando la propria ten-
sione progettuale, volta a rendere più umana per tutti la vita.
E in questo l’antropologia – proprio perché sorretta
dall’etica, proprio perché radicalmente etica – si realizza
integralmente come scienza.
Capitolo quarto
L’intervista: ascolto e cecità

Nella Enciclopedia Italiana, nota come Enciclopedia


Treccani, il lemma “intervista” è del tutto assente. Dopo
“intertrigo”, “intertrigine”, dopo un breve “intervallo” si
passa a “intervento”, quindi a “interziazione”, infine a
“intesa”, e via dicendo. L’intervista, e si tratta dell’edizio-
ne del 1949, non ha diritto di menzione e quindi di citta-
dinanza culturale. D’altro canto, è a partire dagli anni
Sessanta che nel nostro paese si va infittendo la letteratu-
ra relativa alla metodologia delle scienze sociali sia attra-
verso traduzioni, in particolare dai paesi anglosassoni, sia
attraverso l’impegno scientifico degli studiosi italiani. In
questo clima culturale l’intervista occupa giustamente un
posto di rilievo. Per quanto riguarda specificamente la
tradizione demologica, è stata prevalentemente usata una
tecnica che solo per alcuni versi è equiparabile all’intervi-
sta: il questionario. Il più antico questionario demologico
noto è probabilmente, quello della Academie Celtique del
1808. In Italia i questionari con domande parzialmente o
esclusivamente demologiche sono presenti fin dalle in-
chieste dell’epoca napoleonica. Se ne sono poi avuti altri,
più specifici e validi, ma anche in questo campo sono
mancate tra noi adeguate riflessioni. Sui modi di costru-
zione dei questionari stessi, opportunamente Cirese ha ri-
levato che “i questionari giovano solo nella misura in cui
sono adeguatamente calibrati rispetto agli obiettivi che si
vogliono raggiungere; un questionario generico ed esten-
sivo (per esempio su tutto il ciclo dell’anno) serve poco
per un’indagine specifica ed approfondita (per esempio
L’INTERVISTA: ASCOLTO E CECITÀ 

su una sola cerimonia o sulle trasformazioni culturali)”


(Cirese 1978, pp. 255-256).
Il questionario, in ambito demologico, è stato utilizzato
ampiamente anche in tempi relativamente recenti. Giovan
Battista Bronzini imposta tutto il suo lavoro sulle tradizioni
popolari lucane sui dati acquisiti attraverso un lungo que-
stionario inviato a parroci e a notabili dei diversi paesi del-
la Basilicata.
Sui questionari sono state avanzate, come è noto, obie-
zioni radicali. Chi risponde al questionario non è coinvolto
direttamente in esso, siamo ben lontani da quel reciproco
adattamento creativo su cui si è soffermato più volte Dani-
lo Dolci. Ogni mediazione introduce, anche se involonta-
riamente, tratti di inautenticità, il questionario al massimo
rileverà ciò per cui è stato predisposto.
Si continua così la tradizione di demologi “seduti”,
quella tradizione sulla quale si appuntò la pungente ironia
di Ernesto de Martino.
L’intervista invece presuppone un rapporto diretto tra
intervistatore e intervistato, ambedue comunque collo-
quianti. Se abbiamo interviste rigide, in cui cioè le doman-
de sono rigorosamente concatenate, abbiamo anche delle
interviste libere, quelle secondo le quali una serie di do-
mande ruotano, in maniera non rigida, attorno ad alcuni
nuclei tematici. L’intervista però non è tecnica neutra che
possa essere applicata indifferentemente ed egualmente in
tutte le scienze umane e in tutti i settori di ciascuna di esse.
Essa, per poter essere utilizzata in campo demologico, va
posta in essere secondo alcune specifiche cautele. A mio
avviso, e in maniera esemplificativa, vorrei ricordare come
un’inchiesta di marketing possa far ricorso sistematicamen-
te all’intervista senza particolari cautele preliminari, non
così l’inchiesta demologica. Occorre comunque cominciare
a parlare con le persone che dovranno essere successiva-
mente intervistate, entrare in qualche modo in familiarità
con loro, e a seconda poi dell’oggetto dell’inchiesta si po-
tranno porre direttamente le domande o si dovrà ricorrere
a mediazioni più o meno complesse. Non si tratta soltanto,
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

come si potrebbe pensare a una prima riflessione, della dif-


ferenza tra argomenti generalmente accettati e argomenti
sui quali pesa un rigido sistema di interdetti e di censure,
quali ad esempio quelli relativi alla sessualità. Per la tratta-
zione in sede di inchiesta di questi ultimi, vera e propria
dinamite etnografica secondo Goldstein, sono stati messi a
punto una serie di avvertimenti metodologici, che non è il
caso di richiamare in questa sede. A seconda del tipo di da-
ti che andiamo rilevando, anche quando sono sostanzial-
mente omogenei, la domanda diretta può non sortire alcun
effetto. Ad esempio: nessun dubbio che i racconti popola-
ri, i proverbi, facciano parte del folklore letterario forma-
lizzato, eppure se noi domandiamo ai nostri informatori,
dei racconti, li avremo relativamente senza difficoltà, ov-
viamente se da loro conosciuti; se domandiamo loro dei
proverbi, non li avremo, neanche se da loro conosciuti. È
che il proverbio viene usato, nell’orizzonte popolare, quan-
do occorre, cioè fa parte del linguaggio quotidiano, difficil-
mente viene decontestualizzato da quel flusso quotidiano
di cui è parte per divenire oggetto di un sapere specifico.
Così si può verificare che il ricercatore, se parteciperà alla
vita della comunità in cui sta svolgendo la sua ricerca, avrà
modo di ascoltare, prendendo parte appunto ai colloqui
della vita reale, molti proverbi, anche se non era riuscito a
conoscerne uno quando ne aveva fatto oggetto di una spe-
cifica domanda ai suoi intervistati.
Certo, bisogna conoscere i tratti caratterizzanti i diver-
si aspetti della cultura folklorica per poter decidere intor-
no all’opportunità dell’intervista e alle sue specifiche mo-
dalità. Un uso oculato di essa può produrre ottimi risulta-
ti, sempre che l’intervista sia posta in essere, come ricor-
davo prima, con le dovute cautele; ed è stato sottolineato,
in sede demologica, come assuma essenziale importanza il
rapporto che si stabilisce tra l’intervistatore, o rilevatore,
e gli intervistati, nell’operazione particolarmente delicata
del colloquio. Esiste ovviamente una tecnica del colloquio
che però è difficile ridurre in formule e che è affidata so-
prattutto alla sensibilità del ricercatore. In linea generale
L’INTERVISTA: ASCOLTO E CECITÀ 

va ricordato innanzitutto che l’inchiesta (è stato ribadito


più volte) è, essenzialmente, un rapporto tra uomini e
non tra uomini e oggetti o documenti. Tutto ciò rinvia a
quelle cautele metodologiche alle quali ci dobbiamo atte-
nere e alle quali dobbiamo agganciare, se facciamo pro-
fessionalmente ricerca antropologica, il nostro impegno
di rilevatori. Eppure resteremmo molto al di qua dei ri-
sultati, se non tenessimo ben ferma la consapevolezza che
udire è in fondo un fenomeno fisiologico e invece ascolta-
re è un atto psicologico. Barthes nota con particolare vi-
vezza tutto ciò. Si possono applicare con estrema, perfino
maniacale, precisione tutte le prescrizioni metodologiche,
si potrà essere diligentissimi nel fare tutto ciò che i ma-
nuali di ricerca demo-etno-antropologica prescrivono di
fare e non intendere alcunché; si può ascoltare, meglio,
credere di ascoltare e non intendere, non vedere. L’ascol-
to può essere un meccanico prestare orecchio, registrare
fedelmente ciò che si è udito e restare, nonostante ciò, al
di qua della comprensione. L’esito di questo meccanico
prestare orecchio è la miopia, se non addirittura la cecità.
L’ascolto non è operazione distaccata dallo sguardo; la so-
norità, ma anche la luminosità, di ciò che viene percepito
rinvia a una globalità di ricezione. L’intervista, pur appli-
cata con correttezza metodologica, può non condurre a
esiti di reale conoscenza perché inserita in una cultura
della sordità e della cecità.
Tale cultura è omogenea alla logica del dominio perché
al massimo porta e abitua a udire e non ad ascoltare.
Quando Barthes richiama ciò, sottolinea come sia possibile
“descrivere le condizioni fisiche dell’audizione (i suoi mec-
canismi) facendo ricorso all’acustica e alla fisiologia dell’u-
dito; l’ascolto, invece, può essere definito soltanto a partire
dal suo oggetto, ovvero, se si preferisce, dal suo obiettivo.
Lungo la scala degli esseri (la scala viventium dei naturalisti
antichi) e lungo la storia degli uomini, l’oggetto dell’ascol-
to, considerato nel suo tipo più generale, subisce o ha subi-
to delle variazioni. Semplificando al massimo, s’individue-
ranno tre tipi di ascolto.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Nel primo tipo di ascolto l’essere vivente rivolge la pro-


pria audizione (l’esercizio della facoltà fisiologica di udire)
verso degli indizi. A questo livello, nulla distingue l’anima-
le dall’uomo: il lupo ascolta quello che potrebbe essere il
rumore di una preda, la lepre quello di un aggressore; il
bimbo, l’innamorato ascoltano i passi di chi si avvicina e
che sono forse quelli della madre o dell’essere amato. Que-
sto primo tipo di ascolto è, se così si può dire, un allarme.
Il secondo è una decifrazione. Quel che si cerca di captare
con l’orecchio sono dei segni, e questo, certo, è proprio
dell’uomo. Ascolto come leggo, ossia in base a certi codici.
Per finire, il terzo tipo di ascolto – del tutto moderno, an-
che se ovviamente non soppianta gli altri due – non prende
in considerazione, non si basa su segni determinati, classifi-
cati; non riguarda ciò che è detto, o emesso, quanto, piut-
tosto, chi parla, chi emette. Questo ascolto ha luogo in uno
spazio intersoggettivo, dove ‘io ascolto’ vuol dire anche
‘ascoltami’; ciò di cui esso s’impadronisce, per trasformarlo
e rilanciarlo all’infinito nel gioco del transfert, è una “signi-
ficanza generale”, inconcepibile al di fuori della determina-
zione dell’inconscio”.
In quest’ordine di riflessioni Roland Barthes afferma
che “l’ascolto è anche un ‘sondare’. Non appena la religio-
ne s’interiorizza, con l’ascolto si sonda l’intimità, il segreto
del cuore; la colpa, il peccato. Una storia ed una fenome-
nologia dell’interiorità (che forse non esiste ancora) do-
vrebbe affiancarsi ad una storia e ad una fenomenologia
dell’ascolto, in quanto proprio all’interno della civiltà della
Colpa (la civiltà giudeo-cristiana, diversa dalla civiltà del-
l’Onta) l’interiorità si è costantemente sviluppata. (...) Così
come si è configurato attraverso la storia stessa della reli-
gione cristiana, l’ascolto mette in rapporto due soggetti;
anche quando si vuol mettere in una situazione d’ascolto
un’intera folla, un’assemblea politica, per esempio (‘Ascol-
tate!’), lo scopo è quello di far accogliere il messaggio di
uno solo e di farne capire la singolarità (enfasi). L’ingiun-
zione di ascoltare è l’appello totale di un soggetto ad un al-
tro: essa pone al di sopra di tutto il contatto quasi-fisico
L’INTERVISTA: ASCOLTO E CECITÀ 

dei due soggetti (tramite la voce e l’orecchio), crea il tran-


sfert per cui ascoltatemi sta per toccatemi, sappiate che esi-
sto. Per usare la terminologia di Jakobson, ascoltatemi è un
fàtico, un operatore di comunicazione individuale. Lo stru-
mento archetipico dell’ascolto moderno, il telefono, asso-
cia i due attori del processo comunicativo entro un’inter-
soggettività ideale (al limite, intollerabile, tanto è pura), dal
momento che abolisce tutti i sensi, tranne l’udito: l’ordine
di ascolto che apre ogni comunicazione telefonica invita
l’altro a far convergere tutto il suo corpo nella voce e av-
verte ch’io mi raccolgo tutto nel mio orecchio. Mentre il
primo tipo di ascolto trasforma il rumore in indizio, questo
secondo ascolto trasforma l’uomo in soggetto duale: l’in-
terpellazione porta ad una interlocuzione, nella quale il si-
lenzio dell’ascoltatore sarà tanto attivo quanto la parola del
locutore: l’ascolto parla, si potrebbe dire; è a questo stadio,
storico oppure strutturale, che interviene l’ascolto psicana-
litico” (Barthes 1985, pp. 237-243).
Oggi l’ascolto è divenuto una tecnica delegata a una ca-
tegoria di professionisti che, dietro adeguato compenso, si
impegnano ad ascoltare quanto diranno i loro pazienti. Si è
cioè sempre più lontani, da una civiltà del colloquio, da
una civiltà di reale comunicazione tra due colloquianti in
una situazione tendenzialmente paritetica, perché è certo
vero, come ci ha avvertito Danilo Dolci, che “una comuni-
cazione unidirezionale è una comunicazione violenta”, ma
comunicazione violenta può attuarsi anche quando non vi
è forma unidirezionale; se chi parla è colui che domina, in
quella situazione, anche se la vittima risponde e comunica,
non abbiamo un colloquio reale, abbiamo una imposizio-
ne, una trasmissione violenta di messaggi; la preda può ri-
volgersi al suo cacciatore, può parlare, ma in realtà siamo
lontani da quelle posizioni tendenzialmente paritetiche in
assenza delle quali non si realizza un’effettiva esperienza
comunicativa.
L’ascoltare, lo si è già accennato, è strettamente connes-
so al guardare. Ma cos’è il guardare? Come si articola que-
sto senso, questa facoltà che inerisce così profondamente
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

all’uomo? Sembrerebbe che lo sguardo diretto, con peren-


toria lealtà, rappresenti la garanzia di un rapporto sincero,
autentico. Non a caso si dice “guardami negli occhi”,
“guardiamoci negli occhi”; si dice con disprezzo – lo ha
notato Barthes – “il suo sguardo fuggiva”. Come se lo
sguardo dovesse essere diretto, imperioso. Tuttavia, l’eco-
nomia psicanalitica dice qualcos’altro, e non a caso Lacan
ha scritto che “nel nostro rapporto con le cose quale si è
costituito attraverso la visione delle figure della rappresen-
tazione, qualcosa scivola, passa in secondo piano per essere
sempre eliso in qualche misura – ecco ciò che si chiama lo
sguardo”. Ed è ancora Lacan a sottolineare: “In modo ge-
nerale, il rapporto dello sguardo con ciò che si vuol vedere
è un rapporto di inganno, il soggetto si presenta come altro
da ciò che è e quello che gli si dà da vedere non è ciò che
vuole vedere”. Non è di tale sguardo diretto e brutale che
ha bisogno l’intervista per dispiegarsi nell’insostituibile
tensione diadica, ma di uno sguardo consapevole della sua
ambiguità, del suo inerire a tutti i sensi dell’uomo; non più
soltanto funzione fisiologica della vista. Per Barthes “come
luogo di significanza, lo sguardo provoca una sinestesia,
una indivisione dei sensi (psicologici), che accomunano le
loro impressioni in modo tale da poter attribuire all’uno,
poeticamente, quanto accade all’altro. Vi sono profumi fre-
schi come carni di bambino: tutti i sensi possono dunque
guardare e, inversamente, lo sguardo può sentire, ascoltare,
tastare ecc. Goethe: ‘Le mani vogliono vedere, gli occhi vo-
gliono accarezzare’”.
Lo sguardo non garantisce automaticamente il vedere.
La zecca può restare per mesi inerte su un albero aspettan-
do che un animale a sangue caldo, pecora, cane, passi sotto
il ramo... anche su questo ha espresso le sue considerazioni
Barthes, la cui intelligenza non accademica, non sistemati-
ca, non maniacalmente disciplinare, ha dato una serie di ri-
flessioni che possono essere stimoli a quanti non credono
che sia doveroso leggere solo ciò che scrivono gli specialisti
della propria materia e niente altro, per evitare che il pro-
prio sapere specialistico sia contaminato dalle fatiche, dal
L’INTERVISTA: ASCOLTO E CECITÀ 

rumore di una società che si interroga, si riflette, a prescin-


dere dalle partizioni accademiche. Ora, la zecca si lascia
cadere, si incolla alla pelle, succhia il sangue, quando passa
un animale a sangue caldo. La sua percezione è selettiva,
del mondo non conosce che il sangue caldo.
Analogamente un tempo lo schiavo era percepito solo
come strumento, non come individuo umano.
Quanti sguardi sono così gli strumenti di una sola fina-
lità: “Guardo ciò che cerco”. E poi, se si può azzardare
questo paradosso: “Vedo solo ciò che guardo”1.
Si guarda, quindi, solo se e nella misura in cui si vuole
guardare. Lo sguardo in questa prospettiva è ascolto, e un
ascolto siffatto è pienamente tale, molto più e soprattutto
qualitativamente diverso da quel meccanico udire, quel-
l’oggettivo prestare orecchio, che, come si è già detto, resta
al di qua della comprensione. Quest’ultimo pseudo ascolto
conduce alla cecità, lontananza dall’altro, sorda incom-
prensione che lascia soltanto lo spazio per un monologo,
frutto, lucido o confuso, di solitaria follia. Lo sguardo ri-
chiama una relazione, evoca l’altro, guardare è anche, e co-
stitutivamente, essere guardati. A volte al ricercatore posso-
no essere applicate, ancora una volta, le parole di Barthes
secondo le quali “a forza di guardare si dimentica che si
può essere guardati”.
Si è sempre tesi a parlare del mondo e dell’ambiente en-
tro il quale si è andati a fare ricerca con una significativa
dichiarazione di estraneità rispetto al mondo di cui si parla
e in questo si realizza, quale che sia l’opzione scientifica e
politica del ricercatore, una sostanziale, abissale estraneità
tra il ricercatore e il mondo di cui parla; con un gigantesco
e multiforme processo gli altri vengono resi oggetto per po-
ter essere oggetto della comprensione, mentre comprensio-
ne si attua solo se si tenta, nonostante tutto, di restituire
soggettività e di cogliere la soggettività altrui in un incontro
con la propria soggettività. Nel verbo guardare, le frontiere
dell’attivo e del passivo sono incerte. Se, come abbiamo
appena visto, l’ascolto parla, allora ascolteremo se saremo
consapevoli e capaci di essere ascoltati. Vedremo, se capaci
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

di guardare. Guarderemo, se consapevoli e capaci di essere


guardati. In questa prospettiva l’intervista, come qualsiasi
altra forma di ascolto, è esperienza rischiosa. Siamo ben
lontani da quell’ottuso ottimismo scientista che ritiene suf-
ficiente l’applicazione di alcune regole, magari da pagina
diciassette a trentatré del manuale, per garantire l’esito del-
la conoscenza. E siamo anche lontani da un appello secon-
do il quale basterebbe una generica buona volontà per ga-
rantire la “riuscita” ottimale dell’incontro. Qualsiasi incon-
tro umano è sempre esperienza radicale e rischiosa, perché
confronto tra due esperienze umane irripetibili nella loro
singolarità, appartenenti magari a orizzonti culturali diver-
si, eppure ambedue accomunate dalla ineludibile fatica di
vivere, dal suo ininterrotto patire.
L’altro è specchio, nel quale mi rifletto con il rischio del
naufragio di Narciso. Ed è anche irriducibile ulteriorità.
Nell’incontro continuamente rinnovantesi “io-altro” si di-
spiega, prima ancora che la dinamica dell’intervista demo-
etno-antropologica, la dinamica della vita, gigantesca inter-
vista nella quale siamo coinvolti e in cui siamo, volta a vol-
ta, intervistatori e intervistati, ascoltanti e parlanti prima di
divenire definitivamente silenti. E la dinamica “io-tu”, può
reggersi nella misura in cui tende al “noi”, orizzonte entro
il quale anche l’impegno antropologico tocca il suo punto
più alto, la sua storica verità.

1
Pp. 302-305; il riferimento è a Lacan 1973 pp. 75 e 106.
Capitolo quinto
L’“altro” nell’esperienza antropologica

Mathieu de Paris, uno dei memorialisti del Medioevo,


riporta nei “primi dispacci che giunsero in Occidente a
proposito dei mongoli”:
“Sono esseri inumani e paiono bestie, che si devono
chiamare piuttosto mostri che uomini, esseri che hanno se-
te di sangue e che ne bevono, che ricercano e divorano la
carne dei cani e perfino la carne umana (…) Non conosco-
no le leggi (…)”1.
Così adeguatamente scandalizzati, si può riferire che
“(…) I capi di codesti tartari si pascevano dei cadaveri
come se fossero del pane e non lasciavano agli avvoltoi
nient’altro che le ossa. (…) Le donne vecchie e brutte veni-
vano date a questi antropofagi, come li si chiama comune-
mente, per servir loro da cibo durante la giornata. Quanto
a quelle che erano belle, si astenevano dal mangiarle, ma
nonostante le loro grida e i loro lamenti, le soffocavano
sotto la moltitudine delle violenze carnali che facevano lo-
ro subire. Lordavano le vergini fino a far rendere loro l’ani-
ma; poi, tagliando loro le mammelle che riservavano per i
loro cari come una prelibatezza, si pascevano con golosità
di questi corpi vergini” (Roux 1961, p. 31)
Il motivo di pascersi, con golosità e con ferocia, di car-
ne umana ritorna in numerose descrizioni che delineano
l’altro – si tratti di mongoli, di tartari, o di altri, appunto,
popoli – in tutta la sua inquietante, sino ad apparire mo-
struosa, diversità.
Così, nel primo resoconto di Simon Varda del 20 marzo
1493 e del 10 maggio 1494 che completa le relazioni del se-
condo viaggio di Colombo è detto:
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

“Si adoperarono per ottenere delle informazioni dagli


indigeni, ma senza riuscirci, poiché questi ultimi erano
molto diversi dagli abitanti delle isole scoperte in prece-
denza. Quelli erano miti e fidati, mentre questi sono so-
spettosi e crudeli, nutrendosi di carne umana” (Affergan
1987, p. 90).
Nel Dizionario della lingua francese del XVI secolo alla
voce “selvatico” si legge: “Smembrando i corpi dei defunti,
li mischiavano a pezzi di diverse bestie selvatiche e dome-
stiche. Il che è selvaggio. Coloro che abitano questo paese
hanno caratteristiche più vicine alle bestie e alla selvaggina
da penna che all’uomo” (Huguetì 1925 e Didier 1945).
F. G. de Oviedo a proposito dei caribi afferma: “Questa
gente è di colore nerastro, e per lo più di statura inferiore e
di minore nobiltà dei francesi o degli spagnoli (…) E, inol-
tre ancora, la gente di questo paese è nell’indole sua pro-
pria oziosa, viziosa, e poco laboriosa, malinconica, vile,
sporca, in condizioni precarie, bugiarda con poca memoria
e priva di costanza e di fermezza” (Oviedo 1556, p. 39).
Non sono soltanto i popoli variamente “esotici” – che
Mariano Meligrana e io in un lavoro di demologia giuridica
definimmo “primitivi esterni” (Lombardi Satriani, Meligra-
na 1975) – che vengono rappresentati con questi toni; an-
che gli appartenenti alle classi subalterne – se tale espres-
sione può essere ancora adoperata senza incorrere negli in-
terdetti dell’attuale temperie culturale e politica, nella qua-
le si coniugano nelle più svariate forme autoritarismo bece-
ro e banalità sorridente – che definimmo correlativamente
“primitivi interni” (Indios por allá, Indios por accá),
hanno goduto il privilegio di questo sguardo scandalizzato,
inorridito, inconsapevolmente affascinato. Così la relazione
Massari non aveva esitazioni nell’affermare, nella seconda
metà dell’Ottocento, che i briganti del Sud d’Italia soleva-
no pascersi delle carni delle loro vittime.
L’antropofagia attribuita all’altro può rappresentare
emblematicamente l’atteggiamento di estraneità, di disgu-
sto, di valutazione gerarchizzante, con il quale l’uomo occi-
dentale ha rivolto il suo sguardo all’alterità confinandola in
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

un universo radicalmente diverso dal proprio, anzi costitui-


to per negazione, in opposizione al proprio. Al proprio
universo dell’umanità corrispondeva specularmente l’uni-
verso della ferinità. A titolo esemplificativo, per Vespucci:
“Questa terra è popolata da gente tutta nuda, sia quella di
sesso maschile sia quella di sesso femminile. Non hanno né
legge, né nessuna fede, vivono secondo natura e non cono-
scono l’immortalità dell’anima. Non hanno niente che sia
di loro esclusiva proprietà e tutto è comune fra di loro; non
hanno province e regni, non hanno re e non obbediscono a
nessuno” (Vespucci 1745).
P. Du Jarric annota: “Quelli della flotta portoghese fu-
rono parimenti stupefatti e sbalorditi, vedendo questi sel-
vaggi brasiliani tutti nudi, e così difformi che creavano in
loro un senso di orrore (…). Il che li rende estremamente
schifosi e brutti da vedere” (Du Garzic 1608, p. 257).
A. Thevet avverte: “Gli Americani sono esseri sorpren-
dentemente strani e selvaggi, senza fede, senza legge, senza
religione, senza nessuna civiltà, ma che vivono come bestie
prive di ragione, così come la natura li ha creati, che man-
giano radici, che rimangono sempre nudi non importa che
siano maschi o femmine, fintantoché, forse, non staranno
in contatto con i cristiani, grazie ai quali potranno a poco a
poco liberarsi di questa rozzezza, per assumere modi più
civili e più umani” (Thevet 1983, p. 49).
È tale il potere di contaminazione, direi di ferinizzazio-
ne dell’altro, che se uomini – dove con uomini si intende
esaustivamente uomini occidentali – vengono in contatto
con l’alterità, sono inevitabilmente attratti da questa nella
zona del selvaggio, della bestialità. J. De Léry narra, fra
l’altro, la cattura, da parte di “selvaggi” del Brasile di in-
terpreti della Normandia e sottolinea: “Con mio grande
rincrescimento, devo narrare qui che degli interpreti della
Normandia, che erano rimasti otto o nove anni in quel
paese, si uniformarono al comportamento dei selvaggi e
conducevano un’esistenza da atei: non soltanto si erano
insozzati di ogni tipo di dissolutezza e di mascalzonata
con le donne adulte e con le ragazze (uno, fra gli altri, ai
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

miei tempi aveva un figlio di circa tre anni), ma superando


i selvaggi per crudeltà, ho sentito parlare di taluni che si
vantavano di aver ucciso e mangiato dei prigionieri!” (De
Léry 1927, p. 203).
Attraverso un’incessante attività di valorazione simbo-
lica di spazi e di figure vengono delineati gli scenari del-
l’altrove.
“L’immaginario, i simboli, il rito imprimono – lo ha sot-
tolineato Balandier – il loro marchio ai luoghi, organizzan-
do una topologia in cui vengono opposti l’ordinario e lo
straordinario, il normale e l’anormale o il mostruoso, lo
spazio umanizzato e l’altrove in cui l’uomo si trova in peri-
colo, preda dell’ignoto. Questa appropriazione mentale
dello spazio distingue una natura ancora selvaggia, luogo
delle forze e delle potenze più varie, dai luoghi appaesati in
cui l’uomo è maggiormente padrone del gioco, essendo es-
si il risultato della sua opera. È l’opposizione fra la selva e
il villaggio o, più astrattamente, fra l’esterno e l’interno: la
natura appare così dotata di un’esistenza soprannaturale e
sembra quindi meno affidata al controllo degli uomini di
quanto questi non siano alla legge delle potenze che essa
nasconde (…)”. Con riferimento alla letteratura medievale
e alla cultura orale popolare, l’antropologo sottolinea:
“Questa topologia immaginaria non si riduce tuttavia ad
una rappresentazione dualistica della spazialità: i due uni-
versi hanno limiti incerti; margini mal definiti li separano;
dall’uno verso l’altro restano aperti dei passaggi, soglie da
varcare compiendo delle prove. (…) Dallo spazio civilizza-
to allo spazio del disordine assoluto, quello dei mostri, so-
no tracciati spazi di transizione dove ciò che è disordinato
si manifesta sotto forma di ordine e dove il disordine resta
ordinabile. (…) Il disordine, il caos non vengono solo col-
locati nello spazio, ma anche personificati: alla topologia
immaginaria, simbolica, si associa un complesso di figure
che manifestano la loro azione all’interno stesso dello spa-
zio civilizzato. Figure comuni, nel senso che si trovano ba-
nalmente presenti nella società, ma in posizione ambivalen-
te per ciò che si dice di loro e per ciò che esse designano.
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

Esse sono l’altro, complementare e subordinato, oggetto di


diffidenza e di timore in ragione della sua differenza e del
suo statuto inferiore, fonte di sospetto e generalmente vitti-
ma di accuse. Nel sistema di rappresentazioni collettive do-
minanti, queste figure occupano la periferia del campo so-
ciale, spesso in contraddizione con la loro condizione reale
e con il riconoscimento di fatto del loro ruolo. Sono con-
temporaneamente gli strumenti dell’ordine e gli agenti po-
tenziali del disordine. La donna, il cadetto, lo schiavo o
l’asservito, lo straniero – usati come significanti – appaiono
fra queste figure come quelle più frequentemente utilizzate
dalla cultura delle società tradizionali” (Balandier 1991,
pp. 123-128).
Questi scenari dell’altrove sono popolati da una serie di
figure, alcune delle quali sono state già ricordate. Sono in-
dividuabili, infatti, molte figure nelle quali in un certo sen-
so si è particolarmente addensata l’alterità. Storicamente
altre sono apparse come se fossero ontologicamente altre: il
primitivo, il nero, l’ebreo, la donna, l’omosessuale, con va-
rietà di accenti, ma con uguale sistematicità, hanno rappre-
sentato l’ambito di realizzazione della tensione gerarchiz-
zante delle società o, meglio, di quella parte della società
che si è autoeletta punto di riferimento e custode assoluta
dell’identità-umanità-normalità.
Eppure, non esistono soltanto le figure altre, per così
dire, istituzionalizzate, perché non esiste l’alterità assoluta:
l’alterità, cioè, non è connotato ontologico, anche se a vol-
te è stata presentata come tale. Si è altri rispetto a qualcu-
no o a qualcosa che si costituisce o viene costituito come
punto di riferimento, fonte dei parametri. Quasi sempre
attraverso l’alterità è stata veicolata una gerarchia dei sa-
peri, copertura di una radicale gerarchia dei poteri. L’alte-
rità è stata costituita storicamente come supporto del do-
minio, sua legittimazione.
Se si sposta il punto di vista e ci si pone dalla parte del-
l’altro storicamente definito, ci si accorgerà che per lui al-
tro è lo stesso datore di alterità, che a sua volta sarà costi-
tuito anch’esso per questo diverso occhio, non a partire
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

dall’altrui identità ma per negazione. La situazione è ribal-


tata: altro, rispetto al primitivo, è il civilizzato; altro, rispet-
to al nero, è il bianco; altro, rispetto all’ebreo, l’ariano; al-
tro, rispetto alla donna, il maschio; altro, rispetto all’omo-
sessuale, l’eterosessuale.
Si può riflettere su se stesso come altro dall’altro. La co-
noscenza è ugualmente vanificata, ché non si conosce l’al-
terità se non uscendo, nella misura in cui è possibile, dalla
propria esclusivistica identità.
Non è detto che l’altro debba essere considerato
senz’altro inferiore – anche se questo è quanto è per lo più
avvenuto –; l’altro può essere considerato anche superiore.
Si pensi che Dio è stato detto totalmente altro e l’esperien-
za mistica conosce lo scacco e l’estasi di questo tentativo di
rapportarsi dell’umano al totalmente altro.
Inferiore o superiore, l’altro comunque non viene posto
come uguale, la possibilità della conoscenza è negata da
questo ostacolo radicale, da questo incolmabile dislivello.
Quanto ho detto sinora è riferito allo sguardo dell’uomo
comune occidentale, del viaggiatore, dell’intellettuale, ai
quali può essere attribuita abbastanza agevolmente una
qualche ingenuità; ben altrimenti lucido sarebbe – o alme-
no dovrebbe essere – lo sguardo scientifico, cui la scientifi-
cità, appunto, conferirebbe indiscutibile lucentezza, potere
penetrativo, carica di veridicità.
Ma è esattamente così?
Nello sguardo scientifico non si annida forse miopia o,
a volte, addirittura cecità?
L’inferiorità attribuita via via a portatori storici di alte-
rità è stata, come sappiamo, legittimata attraverso l’affer-
mazione scientifica.
Così, esemplificativamente, “(…) salvo lodevoli ecce-
zioni (come, per esempio, W. E. Castle), la genetica si è li-
mitata in ogni periodo a fornire l’avallo alle ideologie del
momento affermando di possedere le prove scientifiche
che le giustificavano. La sua posizione ufficiale ha di regola
coinciso con mirabile coerenza con la posizione più como-
da, e spesso è stata condizionata dai fatti in misura talmen-
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

te trascurabile che gli stessi dati che in una certa epoca ve-
nivano considerati come le prove di certe tesi sono stati poi
citati come prove delle tesi opposte.
Già ai suoi albori, cioè in un’epoca che si può definire,
di fatto, se non cronologicamente, premendeliana (tra
Mendel e la riscoperta delle sue leggi), la genetica dava per
scontato, in assenza della benché minima prova, che la raz-
za caucasica era geneticamente più intelligente delle altre.
Ed era questo appunto che ci si aspettava da essa: alla fine
dell’Ottocento il colonialismo è al suo apice.
Con l’inizio del Novecento si entra in epoca mendelia-
na. Il razzismo raggiunge il suo massimo sviluppo nel pe-
riodo compreso tra le due guerre mondiali. Malgrado che
in questo stesso periodo la genetica conosca un rigoglio ec-
cezionale, ciò non impedisce che si affermino quasi senza
opposizione (almeno così risulta dalla letteratura genetica
dell’epoca) idee come le seguenti: caratteri come la crimi-
nalità e il nomadismo sono caratteri mendeliani unifattoria-
li; gli incroci tra i Bianchi e i Negri sono una forma di al-
truismo dei primi – che si abbassano – verso i secondi –
che si elevano – col risultato di una perdita netta di intelli-
genza da parte della società; la prole di questi incroci è
esposta a forti rischi di essere disarmonica in base alla sor-
prendente teoria (che ha avuto molti seguaci) che i caratte-
ri quantitativi sono ereditati settorialmente, per cui la prole
di un genitore alto e di un genitore basso potrebbe eredita-
re braccia lunghe da uno e gambe corte dall’altro o presen-
tare addirittura gravi discrepanze tra i visceri e lo scheletro
che li contiene (‘large frames and inadequate viscera’). Va
da sé che la prole di individui di statura anche altrettanto
diversa, ma appartenenti alla stessa razza non correrebbe
rischi di questo genere.
Si tenga conto che alcune di queste affermazioni ‘scien-
tifiche’ erano basate su dati che – solo che fossero stati
guardati senza idee preconcette – avrebbero dimostrato il
contrario” (Modiano 1980, p. 1050).
Non sembri ormai superato tutto ciò. Abbiamo assistito
in questi ultimi anni a un’esplosione di manifestazioni raz-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

ziste e non possiamo non ricordare che, al termine di una


guerra che aveva visto gli orrori del tentato genocidio, tra il
1945 e il 1964 almeno ventuno edizioni del Mein Kampf di
Hitler sono apparse negli Stati Uniti, in Francia, Spagna,
Messico, Grecia, Libano e Giappone. Lo afferma George
L. Mosse rifacendosi a «The Wienez library bullettin» (XIX,
2, p. 23) e prosegue: “Dopo la seconda guerra mondiale la
letteratura razzista ha continuato a trovare editori e lettori”
(Mosse 1980, p. 1062).
Il discorso è diverso se da una riflessione sullo sguardo
“genericamente scientifico” passiamo a quella sullo sguardo
antropologico, che per statuto, diciamo così, dovrebbe esse-
re indenne da una siffatta miopia, da una siffatta cecità?
Non possiamo passare in rassegna la letteratura etno-
antropologica per verificare se in essa l’altro è presentato
secondo categorie depurate dalle nostre valutazioni ideolo-
giche, dai nostri sistemi di valori, pur variamente articolati;
sia consentito però qualche rapido esempio.
Con il tono dell’invettiva Colin M. Turnbull, parla del-
la condizione attuale degli ik. “(…) I loro villaggi di mon-
tagna erano ben lungi dall’essere vivibili, il cibo era im-
mangiabile poiché non ce n’era, e la gente era così ostile,
egoista, inospitale e generalmente ignobile, come più non
si può essere. Infatti, le qualità positive che noi tanto va-
lutiamo, non avevano più alcuna funzione tra gli Ik; ancor
più che nella nostra società, esse significavano rovina e
disastro. (…) La tanto reclamata distanza tra l’uomo e i
cosiddetti animali ‘inferiori’ in tal caso si riduce a nulla,
eccetto che in questo caso la maggior parte degli animali
inferiori avrebbero tutto da guadagnare nel paragone, in
quanto mostrano un maggior numero di qualità ‘umane’
di quanto non facciano gli Ik. Tuttavia, il rapporto causa-
effetto è così evidente, che non si possono biasimare gli
Ik; se mai ammirarli, poiché sopravvivono a dispetto di
loro stessi. (…) Fortunatamente gli Ik non sono numero-
si. Circa duemila… Sicché io spero che il loro isolamento
resterà sempre così totale, fino alla loro estinzione”
(Turnbull 1972, passim)2.
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

Passando alla riflessione etno-antropologica italiana, mi


limiterò a ricordare che Renato Boccassino sotto la voce
“Primitivi” dell’Enciclopedia Cattolica, dopo aver posto la
scrittura come “la divisione più comprensiva che si possa
fare della civiltà umana”, afferma: “Al primo periodo ap-
partengono i popoli senza la scrittura, che chiameremo
‘p.’, caratterizzati da un pensiero ancora ingenuo; al secon-
do i popoli con la scrittura, caratterizzati da un pensiero
critico e riflessivo” (Enciclopedia Cattolica, vol. X, 1953).
Lo stesso autore del resto, sotto la voce “Etnologia” –
dopo aver sottolineato che “i cosiddetti primitivi non sono
resti di civiltà decadute, ma popoli che hanno avuto una
stasi nel loro sviluppo” – non esita ad affermare: “Lo stu-
dio delle condizioni che hanno favorito tale arresto nella
cultura porterebbe ad entrare in argomenti che sono in
gran parte estranei all’e.[tnologia]. Notiamo soltanto che
sono ostacoli allo sviluppo e alla diffusione della civiltà tut-
te le condizioni geografiche, ambientali e psicologiche che
impediscono la formazione di popolazioni numerose” (En-
ciclopedia Cattolica, vol. V, 1950).
Tra le foto che illustrano tale voce, accanto alle figure
nobilmente ritratte di Tylor, Frazer, Ankermann, Schmidt,
ci sono quelle di “una ragazza con il cranio della sorella”,
dal momento che “gli Andamanesi conservano e portano al
collo il teschio ed altre ossa di parenti defunti” e di un
eschimese sorridente “che si ciba di carne cruda”.
Nell’Enciclopedia Treccani il termine “primitivo” è as-
sunto nella sua accezione matematica. Ma alla voce
“Razza” l’antropologo Gioacchino Sera, dell’Università di
Napoli, così argomenta: “Se si ammette la realtà morfologi-
ca delle razze diverse, necessariamente si deve ammettere
la singolarità psichica di ogni razza. Ora, siccome negare la
realtà morfologica delle razze è un non senso, la logica
vuole che si ammetta la specializzazione psichica di esse.
L’ammettere che il cane ha un comportamento psichico di-
verso da quello del gatto, o per fare un paragone più cal-
zante, l’ammettere che le diverse razze canine abbiano qua-
lità psichiche diverse non ripugna a nessuno; ma l’ammet-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

tere lo stesso fatto per le razze umane pare difficile a molte


persone colte e anche di elevata cultura. È curioso osserva-
re come non siano preconcetti d’ordine religioso, ma so-
prattutto preconcetti filosofici e in particolare politici, che
ostacolano il riconoscimento di una psicologia razziale
(sic!). Ed è il dogma laico dell’eguaglianza degli uomini, af-
fermato e fatto trionfare dalla rivoluzione francese, che,
sotto questo rispetto, in certi paesi, soprattutto di cultura
latina, è il principale ostacolo ideologico per molti studiosi,
anche di formazione naturalistica, ad ammettere l’esistenza
di differenze psichiche nelle diverse razze” (Enciclopedia
Italiana, vol. XXVIII, 1949).
Certo, si può obiettare che la data della prima pubbli-
cazione dell’Enciclopedia, alla fine degli anni Trenta, ren-
de ampiamente conto di tali affermazioni, ma a tale ovvia
constatazione va aggiunto che questa voce viene riprodot-
ta, senza alcuna modifica, nelle edizioni successive. Del
resto nella seconda Appendice 1938-1948 dell’Enciclopedia
non si tace del movimento di emancipazione dei popoli di
colore, ma non si ha esitazione ad affermare: “Il movi-
mento di emancipazione (come lotta per l’indipendenza e
contro lo straniero conquistatore; o come lotta per l’effet-
tiva eguaglianza civile) è forte soprattutto in Cina, nel
mondo negro (Africa, Stati Uniti), in Malesia e in Indone-
sia. Le opposizioni e le difficoltà che esso incontra sono:
l’elemento istintivo irrazionale, quello economico e l’ef-
fettiva inferiorità culturale nel momento presente di molti
popoli di colore” .
Gli esempi potrebbero essere legione, ma i limiti di spa-
zio non consentono ulteriore documentazione. Sia suffi-
ciente notare che nell’atteggiamento qui esemplificato, an-
che se per tratti generalissimi, l’altro, proprio perché tale,
viene di fatto espulso dall’umanità, che inerisce esclusiva-
mente e apoditticamente al soggetto dello sguardo mai al-
l’oggetto di esso. Posti nella ferinità, i selvaggi – esterni o
interni alla nostra stessa società – sono descritti e interpre-
tati per successive negazioni: noi siamo…, loro non so-
no…; noi abbiamo…, loro non hanno.
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

Coerentemente con tale visione di radicale negatività, il


linguaggio degli altri viene recepito come non linguaggio,
come rumore o, che è lo stesso, come silenzio. Parlano ma
è come se tacessero, loquaci è come se fossero silenziosi.
Questo tipo di silenzio è il silenzio della caduta della
comunicazione, della mancanza del rapporto. È il silenzio
che rinvia al soliloquio, al monologo in cui l’uomo occi-
dentale appartenente a classi dominanti ha parlato degli al-
tri come se li avesse ascoltati mentre si era limitato a
proiettare su di loro, deformati sino a essere irriconoscibili,
i propri tratti, le proprie fobie, i propri desideri, le proprie
elaborazioni fantasmatiche. Ma l’incapacità di ascoltare,
sulla quale ci siamo soffermati nel precedente capitolo, in-
fluisce decisivamente sulla stessa possibilità di parlare e
tende a diventare anche incapacità di parlare. L’assenza del
dialogo vanifica la stessa possibilità del monologo. Dal si-
lenzio inflitto agli altri alla propria afasia. All’opposto, la
tensione dialogica impegna a intendere la pluralità dei lin-
guaggi interpretandoli iuxta propria principia. È su questa
tensione dialogica che si struttura la stessa possibilità della
scienza antropologica, la cui storia è costellata, oltre che da
puntuali acquisizioni critiche, da equivoci, fraintendimenti
e rovinosi naufragi.
Com’è stato sottolineato di recente da Affergan (1987,
p. 243), “quello che l’etno-antropologo ha talora preso per
un’esperienza autentica dell’alterità spesso è stato solamen-
te uno pseudo-dialogo in cui l’Altro è previsto e manipola-
to dal gioco dei questionari-interrogatori, o sommerso da
una multivocità che finisce col divenire equivoca a furia di
voler fare parlare tutta la gente”. Eppure, l’antropologia
può essere, accanto a numerosi altri, strumento di cono-
scenza critica, di intendimento della pluralità di voci, nel-
l’attuale torre di Babele, che non è detto debba essere
senz’altro immagine di confusione e può essere assunta a
immagine di una coesistenza, tendenzialmente armonica,
di linguaggi, di culture, di paradigmi di umanità, diversi
ma paritetici realmente in dignità e nel reciproco rispetto.
Obiettivo, questo, da realizzare con tenace volontà che su-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

peri il silenzio dell’afasia e intenda gli altrui linguaggi svi-


luppando un’efficace metodologia dell’ascolto.
Per il raggiungimento di un obiettivo siffatto l’antropo-
logia deve affrontare alcuni ostacoli e compiere alcune ri-
nunce e alcune decisive aperture. Occorre prendere atto
che l’accettazione dell’altro non può essere auspicata con
un generico appello al relativismo culturale o con un non
meno generico slancio di ordine etico. L’altro può essere
portatore di una serie di valori alternativi ai nostri valori –
anche qui gli esempi potrebbero essere legione –, per cui
l’auspicio di una coesistenza armonica di ambedue gli ordi-
ni di valori testimonia un’aspirazione, ma si dimostra vel-
leitario, se non demagogico.
Da tali difficoltà non si esce proclamando la pariteti-
cità delle culture; queste per essere praticate paritetica-
mente richiedono opzioni, a volte radicali, quasi sempre
difficili da compiere. In ogni caso, perché tale pariteticità
sia concretamente esperita occorre una duplice trasfor-
mazione: di noi stessi e dell’altro, della nostra cultura e
della cultura altra.
Questi processi non si concludono mai una volta per
tutte, essi sono continui, anche se con ritmi spesso imper-
cettibili. Comunque possiamo dire che, compiuta la fase
più urgente, clamorosa, di tale trasformazione, abbiamo
soltanto posto le premesse per una coesistenza delle cultu-
re – nostre e altrui –, ma corriamo il rischio di avere deli-
neato, con notevole sforzo, lo scenario per una possibile
confederazione di culture; abbiamo raggiunto la possibilità
del multiculturalismo – si pensi al Canada –, niente altro.
È certamente molto, specie se paragoniamo tale meta
raggiunta con le società del razzismo, esplicito od occulta-
to, istituzionalizzato o strisciante.
Ma se vogliamo di più, dobbiamo delineare lo spazio
per una coesistenza tendenzialmente armonica delle diver-
se culture, del loro possibile mescolarsi, intrecciarsi, rag-
giungere lo stesso grado di fruibilità.
Ho detto anche che l’antropologia deve compiere alcu-
ne rinunce e alcune decisive aperture.
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

Ricorderò una passeggiata notturna di Malinowski:


“Mi recai al villaggio: la notte, rischiarata dalla luna, era
luminosa. Non mi sentivo troppo stanco. Nel villaggio die-
di a Kavakava un po’ di tabacco. Poi, visto che non c’era-
no danze né riunioni, andai a Oroobo a piedi passando
per la spiaggia. Meraviglioso. Era la prima volta che vede-
vo questa vegetazione al chiaro di luna. Troppo strano,
troppo esotico. L’esotismo si fa strada a poco a poco, at-
traverso il velo delle cose familiari. Mi addentrai nella
macchia. Per un attimo ebbi paura. Mi dovetti riprendere.
Cercai di sondare il mio cuore. ‘Che ne è della mia vita in-
teriore?’. Non ho alcun motivo per essere soddisfatto di
me stesso. Il lavoro che sto facendo è una specie di oppio
piuttosto che un’espressione della mia creatività. Non cer-
co di collegarlo a origini più profonde; di organizzarlo”
(Malinowski 1967)3.
Rinunciare alla descrizione etnografica – rifugio delle
proprie insicurezze –, rinunciare alla sindrome dell’occhio
di Dio – direbbe Geertz – secondo la quale noi antropologi
guardiamo gli altri così come sono, li descriviamo, li inter-
pretiamo. Afferreremmo così l’altro una volta per tutte, ir-
rigidendolo nel nostro resoconto scientifico, nella nostra
monografia. Fulvio Papi ha ricordato che l’altro era – ma
per tanta antropologia possiamo dire è – l’oggetto dell’os-
servazione in un mondo che poteva essere tradotto in
un’enciclopedia, in una biblioteca; ma – aggiungeva Papi –
lo sguardo non è ingenuo, è diretto dal significato4.
Crapanzano dichiara: “Sono sempre stato affascinato
dalla descrizione che D’Annunzio fa nel Trionfo della Mor-
te (1900) del desiderio dell’eroe e dell’eroina di conoscersi
totalmente l’un l’altro. La presunzione che questa cono-
scenza possa essere raggiunta può avere due diversi fonda-
menti: credere nel totale possesso sessuale – un possesso
che giunge, come aveva capito D’Annunzio, ad un annien-
tamento totale – oppure ridurre l’Altro a qualcosa che può
essere afferrato una volta per tutte, un esemplare. L’uno
oggetto di passione, e l’altro prodotto di scienza, in realtà
non possono essere separati così facilmente, e, naturalmen-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

te, tutti e due sono illusori” (Crapanzano 1984, p. 134).


Forse sarà utile rinunciare all’arroganza conoscitiva della
scienza posta come punto fermo cui ancorare le nostre
apodittiche certezze antropologiche, posto che “Non esi-
stono più punti fermi da cui uno di noi potrebbe sperare di
recuperare, sia pure nella forma più semplice, la configura-
zione del sapere e, in tal modo, proporre la chiusura. Non
è la tentazione che manca, ma lo strumento che permette-
rebbe di cedervi in modo convincente. Oggi non troviamo
né dalla parte del soggetto, né dalla parte del concetto, né
da quella della Natura qualcosa con cui sostanziare e com-
pletare un discorso totalizzante. È meglio prenderne atto e
rinunciare a ingaggiare su questo punto un’anacronistica
battaglia di retroguardia” (Desanti 1971).
Un’antropologia rifondata anche attraverso queste ri-
nunce e queste aperture può essere allora discorso sugli al-
tri e discorso sul sé, biografia delle altrui vite e autobiogra-
fia, se è vero che “una disciplina la quale dice che cosa so-
no gli altri, nello stesso tempo dice come sono quello che
sono, quello che non sono e, tramite il gioco e il regime
delle differenze, quello che non sono ancora. Dietro la de-
scrizione dell’essere si nasconde sempre il progetto di un
fare, poiché l’essere è innanzitutto valore per l’uomo” (Af-
fergan 1987, p. 251).

1
Le affermazioni di Mathieu de Paris sono riportate da Roux 1961, p. 30
e, successivamente, da Affergan 1987, p. 57.
2
Ernesta Cerulli (1986, p. 77), soffermandosi su tale opera sottolinea: “Il
resoconto di Turnbull, in effetti, è più vicino al genere ‘thrilling’ che alla mo-
nografia etnologica e per questo motivo esso ha ottenuto poco favore tra gli
specialisti, mentre è evidentemente piaciuto al di fuori di questa ristretta cer-
chia, se il ben noto autore Peter Brook ne ha tirato fuori una pièce teatrale,
recentemente presentata al festival di Spoleto. Noi stessi siamo rimasti incre-
duli o per lo meno perplessi di fronte a questo saggio: e, se qui ne parliamo,
non è sulla scia di un successo di pubblico, ma perché l’autore, nelle sue ope-
re passate, almeno una delle quali ‘L’africano solitario’, ha ottenuto larghissi-
mi consensi a tutti i livelli, ha dato prova di grande acume nella ricerca, rive-
landosi una personalità forte e moderna, capace di una analisi non solo passi-
va delle culture altre, ma anche di una profonda comprensione delle stesse.
L’“ALTRO” NELL’ESPERIENZA ANTROPOLOGICA 

Gli vogliamo quindi dare credito anche per quest’opera, che apparentemente
mira più a scioccare che non a informare, e presentare la tragica situazione at-
tuale di un popolo di cacciatori-raccoglitori nomadi che, alla vigilia dello
scoppio del secondo conflitto mondiale, fu incoraggiato a trasferirsi dalla se-
de avita, trasformatasi in riserva di caccia, nella zona attuale ove, non essen-
dovi selvaggina, l’unica occupazione possibile poteva essere l’agricoltura, con
la conseguenza della sedentarizzazione”.
3
Questo brano, assieme ad altri, è riportato da Clifford Geertz (1988,
pp. 81-82, 107), che dichiara: “Ho fuso insieme dei paragrafi, unito delle fra-
si, sciolto delle abbreviazioni, interpretato dei termini indigeni, e compiuto
alcuni altri ritocchi cosmetici per rendere la lettura un po’ più scorrevole” .
4
F. Papi, Introduzione al seminario “Comprendere, descrivere e inter-
pretare l’altro”, organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di
Pavia e svoltosi nell’ottobre 1991, i cui Atti sono stati pubblicati.
Capitolo sesto
Della stupidità

a Giulia

“Non è vergogna al campagnuolo né al bifolco l’essere


idioto” affermava, in anni lontani, Tesauro, cui facevano
eco Cavalca: “Molto più conosce Iddio un santo idioto,
che un savio peccatore” e Boccaccio: “Fu un uomo idioto,
ma d’assai buon sentimento naturale e ne’ suoi ragiona-
menti e costumi ordiato e laudevole”.
I riferimenti letterari potrebbero continuare a lungo,
ché l’idiozia, la stupidaggine hanno attirato interesse, at-
tenzione, quando non simpatia, partecipazione.
Non sorprenda, quindi, che nel 1866 Johann Eduard
Erdmann, allievo di Hegel e professore a Hale, abbia tenu-
to una conferenza intitolata Della stupidità, debitamente
stampata.
All’inizio il conferenziere dichiara che il suo annuncio
era stato accolto da grasse risate, per cui Robert Musil che
si intrattiene anch’egli Sulla stupidità in una conferenza te-
nuta a Vienna l’11 e il 17 marzo 1937 su invito della Lega
austriaca del Lavoro, confessa: “Da quando so che una co-
sa del genere può capitare perfino a uno hegeliano, sono
convinto che un simile comportamento degli uomini nei
confronti di coloro che vogliono parlare della stupidità sia
un caso del tutto particolare”. Per Musil, “oggi chi si azzar-
da a parlare della stupidità corre pericolo di rimetterci da
più di un punto di vista. L’iniziativa può essere interpretata
come presunzione, può addirittura essere interpretata co-
me disturbo del progresso contemporaneo”, per cui è com-
prensibile che egli dichiari di sentirsi “assai insicuro, nella
DELLA STUPIDITÀ 

convinzione di aver sfidato una forza psicologica immensa


e profondamente contraddittoria”.
Vi sono grosse difficoltà iniziali, alcune delle quali
ostruirono l’itinerario nella stupidità dello scrittore austria-
co: “(…) chiunque voglia dire oppure ascoltare con profit-
to una cosa qualunque a proposito della stupidità, deve
presupporre di non essere egli stesso stupido. Perciò egli
ostenta la sua intelligenza, benché ciò sia generalmente
considerato un segno di stupidità! Ma se ci domandiamo
perché sia considerato da stupidi ostentare la propria intel-
ligenza, la risposta che per prima s’impone sembra emerge-
re dalla polvere dei tempi andati. Perché tale risposta suo-
na: è più prudente non mostrarsi intelligenti. È probabile
che questa prudenza, così malfidata e oggi, a tutta prima,
addirittura incomprensibile, trovi la sua origine in una si-
tuazione nella quale, per il più debole, era davvero più in-
telligente non farsi passare per intelligente: la sua intelli-
genza avrebbe potuto minacciare la vita del più forte! La
stupidità, al contrario, sopisce la diffidenza, la ‘disarma’,
come diciamo ancora al giorno d’oggi. Infatti tracce di
questa furberia, di questa stupidità ‘astuta’, si trovano real-
mente tuttora in alcune situazioni di dipendenza. In esse le
forze sono distribuite in modo così disuguale, che il più de-
bole cerca la propria salvezza nel far finta di essere più stu-
pido di quel che è. Pensiamo per esempio alla cosiddetta
scaltrezza contadina; al comportamento dei domestici
quando parlano con dei padroni colti e dalla lingua sciolta;
ai rapporti del soldato con i superiori, dello scolaro con il
maestro e del bambino con i genitori. Chi detiene il potere
si sente meno provocato da un debole che non può, piutto-
sto che da un debole che non vuole. La stupidità lo riduce
addirittura ‘alla disperazione’: cioè innegabilmente in una
condizione di debolezza!
A questo corrisponde in modo perfetto che l’intelligen-
za lo mette facilmente ‘sul chi vive’! Essa viene certamente
apprezzata nei subordinati; ma solo finché è unita a un’in-
condizionata devozione. Nell’istante in cui questo certifica-
to di buona condotta viene a mancare, quando non è più
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

tanto sicuro se l’intelligenza serve ancora al tornaconto del


padrone, essa di solito non viene più chiamata intelligenza
ma presunzione, insolenza, o malizia. E spesso ne nasce un
rapporto nel quale l’intelligenza sembra, se non altro, me-
nomare l’onore e l’autorità del padrone, anche se in realtà
non attenta alla sua sicurezza. In campo educativo la stessa
cosa si esprime nel fatto che un alunno intelligente e capar-
bio viene assai più strapazzato di un alunno indolente e ot-
tuso. In campo morale ne è nata l’idea che una volontà
debba essere tanto più cattiva, quanto migliore è il sapere
contro il quale essa agisce. Neppure la giustizia si è del tut-
to sottratta a questo pregiudizio personale, tanto è vero
che giudica per lo più con particolare sfavore, come ‘raffi-
nata’ e ‘crudele’, l’esecuzione intelligente di un delitto. E
per trovare esempi nella politica ciascuno avrà solo l’imba-
razzo della scelta”.
È prudente, dunque, che il debole non appaia intelli-
gente, ché tale dote potrebbe risultare provocazione.
In questa prospettiva, si intende che Pulcinella debba
essere stupido e ignorante, anzi che tale debba apparire.
Centinaia di Pulcinellate, indagate per anni da Domenico
Scafoglio e da me, testimoniano come tali caratterizzazioni
siano essenziali per la maschera di un servo che, apparente-
mente stupido e ignorante, ha la meglio sul signore; di un
finto medico che attraverso un improbabile latino attua uno
stratagemma che risolve una situazione pericolosa; di un ot-
tuso materialista pronto a contrapporre ai valori alti di una
spiritualità del tutto ideologica i valori bassi e ineludibili di
una corporeità che reclama i suoi diritti. Il trionfo finale di
Pulcinella – che riesce al termine delle sue peripezie, pro-
prio grazie alla sua ostentata stupidità, a evitare la prigione,
la morte, lo scacco e a conseguire gli obiettivi fissati, siano
essi un piatto di maccheroni o la conquista, per sé e per il
suo padrone, dell’amore, o altro – è trionfo di un’astuzia
che ha dovuto subire tatticamente il mascheramento della
stupidità. È significativo che l’immaginario folklorico anno-
veri tra le proprie figure emblematiche Giufà, intorno a cui
abbiamo le lucide annotazioni di Mariano Meligrana.
DELLA STUPIDITÀ 

“La metafora contadina istituisce un circuito di signifi-


cati che si scioglie e si consolida e, comunque, si orienta
storicamente nei vari contesti socio-culturali secondo la lo-
gica del dominio e la possibilità di resistenza. L’erosione
totale – in quanto metaforica – della metafora è rappresen-
tata dalla figura dello sciocco – si pensi, ad esempio, a
Giufà – che sconta fino in fondo la letteralità della parola e
che appare per noi privo di razionalità, intesa come orga-
nizzazione delle regole del discorso. Ed allora il poeta e lo
sciocco rappresentano due possibilità della verità contadi-
na in un circuito che si completa e si definisce in relazione
ad altri poli dialettici. Solo il poeta e lo sciocco possono di-
re impunemente la verità in un mondo in cui le parole han-
no una carica giudicativa e si caricano di dominio. Ma il
poeta è tale proprio in quanto sta alle regole della metafora
e lo sciocco è appunto sciocco cioè è colui che per defini-
zione non può essere preso sul serio, in quanto si attua una
sospensione delle regole sociali del discorso”.
Il tema dello sciocco nella cultura folklorica rinvia a
una figura emblematica: lo scemo del villaggio, intorno al
quale si è formata, com’è noto, una vasta letteratura, sia
narrativa che saggistica. Va comunque ricordato che tale
figura si iscrive in una dimensione comunitaria che ha ca-
ratterizzato la vita dei paesi e che, certamente, non era
scevra da conflitti, ma rispondeva anche a istanze solida-
ristiche fortemente presenti nella cultura contadina tradi-
zionale. Si potrebbe dire, sintetizzando una realtà molto
più complessa, che dietro ogni scemo c’era un villaggio,
che costituiva comunque per lui scenario e quadro di rife-
rimento. Sullo scemo veniva canalizzata, spesso, notevole
crudeltà, specie da parte infantile, ma la vita paesana, con
la sua fitta rete di relazioni connesse ai ruoli, dispiegan-
dosi sul piano del noto, costituiva, pur con tutte le sue in-
terne contraddizioni, una rete di protezione per l’esisten-
za dello scemo che lo garantiva dal pericolo dell’assoluta
solitudine e irrilevanza.
Scomparso – per processi socio-economici, politici e
culturali dalle dimensioni gigantesche e che hanno condot-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

to all’attuale società e alla sua cultura urbanocentrica – il


villaggio, lo scemo che ne costituiva parte organica è stato
confinato nella sua irrimediabile solitudine, murato in una
tragica afasia.
Stupido equivale dunque a rozzo; è forse, o è stata for-
se, una connotazione classisticamente marcata?
Per Johan Eduard Erdmann, la rozzezza è la prassi del-
la stupidità. “Uno stato spirituale non si manifesta soltanto
con le parole, ma si rivela anche nelle azioni. Così anche la
stupidità. Non soltanto essere stupidi ma agire da stupidi,
commettere delle stupidaggini”; appunto, con Musil, “‘la
prassi della stupidità’ o, detto altrimenti, la stupidità in
azione, noi la chiamiamo rozzezza”.
Idiotismi son detti l’espressione o il costrutto caratteri-
stico di un dialetto o di un determinato ambito sociale. Co-
sì, per Fioretti “Gli idiotismi son propri della plebe”; per
Monti “Gl’idiotismi (…) sono modi di favellare che, non
essendo propri dell’intera nazione, non si dovrebbero nel
Dizionario alloggiare”.
Idiotismo e dialetto finiscono per coincidere. Così per
Botaro “Nelle Filippine si usano lingue diverse, ma di po-
co: come la lombarda, la toscana, la napolitana in Italia; di
maniera che non sono questi linguaggi, ma idiotismi o dia-
letti differenti”; per Baretti “Perché troppo peculiari a’ fio-
rentini e troppo dipendenti dall’idiotismo loro”; per Car-
ducci “Tal maggiorità fuori del campo d’ogni dialetto e
d’ogni idiotismo, non poteva trovarsi d’accordo, tutta e per
tanto tempo a sproposito”.
Tutto ciò che attiene alla parlata dialettale o al vernaco-
lo potrà essere detto idiotico. Così, ad esempio, per Salvi-
ni “Alle volte da queste maniere idiotiche e volgari si trae
qualche buona immagine e si vengono ad annobilire”; per
Viani “Giovan Battista Morganti, poeta idiotico, alla vene-
randa età di anni ottantatré fu processato per adulterio
consumato sotto il tetto famigliare”; ancora per Viani
“Giovanni Battista Morganti, (…) autore del poemetto
idiotico ‘La calata del Re Albuino’(…) fu il nonno mater-
no di Fortunato I”.
DELLA STUPIDITÀ 

Progressivamente, per contiguità concettuale, stupido,


ignorante, idiotico e, dunque, zotico, villano, privo di istru-
zione e di cultura.
Casalicchio scrive: “Chiamatemi tosto qui quel sciocco
del cuoco, quell’ignorante, quella bestia, quel demonio in-
carnato”; Sbarbaro: “Laurea è di solito dispensa da impa-
rare: il pezzo di carta su cui ci si siede per difendere l’alfine
acquisito diritto all’ignoranza”.
Non sempre e necessariamente ignoranza deve essere
intesa come globale e quindi stigma sociale; può anche es-
sere ignoranza specifica, relativa a un determinato argo-
mento o materia.
Così, per Malpighi “M’è (…) parso bene scrivere in ita-
liano acciocché meglio m’intendino anche gl’idioti”; per
Roseo “Essendo la maggior parte de gli uomini in esse lin-
gue idioti”; per Leopardi “Mi duole assai che nell’Archeo-
logia e nella Numismatica io sia poco meno che idiota”;
per Gozzi “Tu, o Micillo, se’ ingannato da una certa tua
idiotaggine intorno alle faccende de’ ricchi”.
Parlare “idiotamente” può significare parlare semplice-
mente, dire qualcosa in parole “povere”; così, per l’Aretino
“Il tutto sua Eccellenza ha conferito ‘nobiscum’, cioè com-
ponga il sermone nuziale, parlandoti idiotamente”.
Ma resta, essenziale, il significato di bruto, rozzo e San
Bernardino da Siena si scaglia: “L’altro nostro inimico è la
nostra carne fragile e idiota”.
In ogni senso, come ha rilevato Musil, “‘stupido’ e ‘vol-
gare’, qualunque sia il loro significato, sono usati anche co-
me insulti. Il significato degli insulti, si sa, non dipende
tanto dal loro senso intrinseco, quanto dall’uso che ne vie-
ne fatto. Molti di noi ameranno senza dubbio gli asini, ma
si offenderebbero se venissero chiamati così. L’insulto non
rappresenta ciò che dice, ma un misto di idee, di sentimen-
ti e di intenti che l’insulto non può ‘esprimere’ ma solo ‘se-
gnalare’”. Anche quando la stupidità, nei vari termini in
cui viene articolata, non ha marcata connotazione classista,
attiva comunque disprezzo e senso di ostile superiorità da
parte del soggetto giudicante.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Giusti ironizza: “Guardi me, che so il mestiere, / e che


faccio il mio dovere / propagando gli ebeti. / Per antido-
to al progresso, / al mio popolo ho concesso / di non sa-
per leggere”.
Se Buonarroti il Giovane scrive: “Il sonno amico agli
ebeti, a i vinosi, / fumosi e ben pasciuti e lonzi e grulli”,
Praga ribadisce: “Conobbi tutte le basse ebbrezze delle ani-
me volgari, tutte le abbiette consolazioni che offre una città
agli ebeti, ai perversi ed agli infelici”; D’Annunzio non esita
a scagliarsi: “Incettatrice di senatori èbeti, / di generali
slombati, / di principi bastardi!”
L’ebetudine può essere così considerata quasi forma
della ferinità, per cui possiamo avere descrizioni quali
quella di Dossi: “Agonizzante ei s’aggira, gli occhi ebetiti,
le labbra schiumose, barcollando sull’usta di un’inarrivabi-
le donna, ch’ei bramerebbe inghiottire ne’ suoi epilettici
amplessi”.
Su tutt’altra, e ben più delicata, sponda si situa Gatto,
con il suo “ebete velo” della malinconia: “Spunta – ma
sfugge l’ansia e già s’oblia / vago in estasi il tempo e s’ad-
dormenta. / Morbido desiderio che mi tenta, / ebete velo,
la malinconia / come origine pallida del mondo”.
Balugina, allora, il possibile fascino dell’ebetudine,
per cui Stuparich dice come “l’espressione dei nostri volti
s’avvicini di giorno in giorno all’ebetudine, che potrebbe
essere anche una beatitudine”. La “sciocchezza” ha eser-
citato il suo fascino anche in altre tradizioni intellettuali;
si pensi, ad esempio, al giapponese Junichiro Tanizaki e al
suo romanzo L’amore di uno sciocco, il protagonista del
quale, Joji, come nota Alberto Moravia, “in qualche mo-
do con la mia ironica ‘sciocchezza’ fa da portavoce all’au-
tore”.
La stupidità non ha significato se non in relazione al-
l’intelligenza; si tratta di termini dialetticamente connessi;
Musil ci ha avvertiti che “ogni intelligenza ha la sua stupi-
dità” e, correlativamente, ogni stupidità ha la sua intelli-
genza. Stupidità rinvia a un determinato ordine di valori ri-
spetto ai quali si è definibili, appunto, stupidi.
DELLA STUPIDITÀ 

Essa è, pertanto, mutevole storicamente in connessione


con i mutamenti storici dell’ordine dei valori che la fissa,
definendola.
Ancora Musil sottolineava che “abbiamo bisogno del-
l’aiuto di idee che ci dicano che cosa è stupido. Ma quale
concetto, sia pure parziale, potremmo formarci della stupi-
dità, se i concetti di intelletto e di saggezza vacillano? I
punti di vista mutano con i tempi”.
Lo scrittore austriaco prosegue: “Quanto mutino, vor-
rei chiarirlo con un piccolo esempio. In un manuale psi-
chiatrico assai noto ai suoi tempi, si adduceva come esem-
pio di imbecillità – alla domanda: ‘che cos’è la giustizia?’
questa risposta: ‘che sia punito l’altro!’ Oggi invece questa
è la base di una concezione del diritto discussa molto e se-
riamente”.
Dal manuale di psichiatria di Eugen Bleuler, lo psichia-
tra svizzero che ebbe tra i suoi collaboratori Jung, Musil
ricava alcuni esempi di imbecillità e li commenta mostran-
do come possano essere guardati anche da altri punti di
vista: “Un imbecille esprime la situazione che noi liquide-
remmo sbrigativamente con la formula ‘medico accanto al
letto del malato’ con queste parole: ‘un uomo che tiene la
mano a un altro che sta nel letto, e poi c’è in piedi una
suora’. È il modo di esprimersi di un pittore primitivo!
Una domestica non eccessivamente sveglia pensa a uno
scherzo di cattivo gusto, quando le raccomandano di de-
positare in banca i suoi risparmi, dove le frutterebbero un
interesse: nessuno può essere così stupido da darle dei sol-
di per custodire il suo denaro! – è la risposta. In essa si
esprime una certa cavalleria, un rapporto con il denaro
che esisteva ancora, quando io ero giovane, in pochi casi
isolati, nelle persone distinte di un’altra generazione! Nel-
la cartella clinica di un terzo imbecille, per concludere, si
registra fra i sintomi una sua osservazione: una moneta da
due marchi vale meno di una moneta da un marco più due
da mezzo marco, perché – egli spiega – bisogna cambiarla:
e allora se ne ricava troppo poco! Spero di non essere l’u-
nico imbecille in questa sala al approvare cordialmente
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

questa teoria del valore. Almeno per coloro che non fanno
attenzione quando cambiano!”.
Bachisio Bandinu ha rilevato che “c’è una ricca aned-
dotica sulla vicenda della compravendita dei terreni che
poi formeranno la Costa Smeralda. ‘Quanto denaro vuole
per i suoi terreni?’ viene chiesto a un anziano capraio.
‘Molto denaro’ risponde. ‘Un miliardo?’. ‘Eh no, molto di
più’ replica quello, ‘dovete sborsare molti milioni’. Quella
aneddotica ci dice che lo stazzo della Gallura è un mondo,
e la banca di Zurigo è un altro mondo, e che il gioco del
dare e dell’avere regolato da una scala di valori non si
svolge nel riconoscimento di classifiche sociali comuni al-
l’indigeno e al conquistatore. Quella casistica a volte tra-
boccante di comicità è invece il ritorno di una afasia e cioè
di un disturbo del linguaggio causato dall’ordine del di-
scorso turistico”.
Mariano Meligrana ha commentato a questo riguardo:
“Nella forma del contratto si scambiano – senza che il pa-
store ne avverta il rapporto, la proporzionalità, l’equiva-
lenza, se non in termini indefiniti e, direi, per un sospetto
metodologico, – due ‘beni’, la terra e il denaro, come fos-
sero due ‘doni’, prestazioni separate e parallele che nel-
l’incantesimo giuridico e per il capriccio del compratore
possono incontrarsi. ‘Il dono – commenta conclusivamen-
te Bandinu – è stato la metafora del potere, la forma di
una violenza istituzionalizzata dal contratto”. Nel luogo
della transazione, nella forma del contratto si incontrano
e si consegnano due culture già reciprocamente segnate a
tal punto che l’una vivrà della morte dell’altra: la cultura
egemone, industriale, urbana; la cultura paesana, agro-pa-
storale, subalterna”.
In ogni caso, quand’anche si volesse assegnare a un’in-
telligenza non meglio definita la supremazia assoluta, non
si potrebbe attribuire a essa l’onnipotenza. Se dell’intelli-
genza, infatti, è possibile accedere a molti piani e a buona
parte di realtà, una parte consistente di questa non si la-
scia rischiarare dalla luce dell’intelligenza e richiede altro
ordine di investigazioni.
DELLA STUPIDITÀ 

Con l’intuito dei poeti e dei grandi evocatori, ciò è stato


rilevato, fra gli altri, da Proust, che afferma: “Trovo molto
ragionevole la credenza celtica che le anime di coloro che
abbiamo perduto sono prigioniere in qualche essere infe-
riore, in una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, per-
duta di fatto per noi sino al giorno, che per molti versi non
viene mai, in cui noi ci troviamo a passare attraverso l’albe-
ro, ed entriamo in possesso dell’oggetto che è la loro pri-
gione. Allora esse trasalgono, ci chiamano, e appena le ab-
biamo riconosciute, l’incanto è rotto. Liberate da noi, han-
no vinto la morte e tornano a vivere con noi. Così è del no-
stro passato. È fatica perduta cercare di evocarlo, tutti gli
sforzi della nostra intelligenza sono inutili. Esso è nascosto
fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche ogget-
to materiale (nella sensazione che ci potrebbe dare questo
oggetto materiale) che noi non sospettiamo. Questo ogget-
to dipende dal caso incontrarlo prima di morire o non in-
contrarlo mai”.
La stupidità non è mai definitiva, sempiterna, dunque,
né è mai globale. Non si è mai esclusivamente e irrimedia-
bilmente stupidi, né si è mai esclusivamente e irrevocabil-
mente intelligenti.
Oggi stupido può essere ritenuto qualsiasi atteggiamen-
to, comportamento che trasgredisce la norma del costume
prevalente, della sua etica; discostarsi dalle mete sociali im-
poste, e quasi unanimamente condivise; non tendere a qual-
siasi costo al raggiungimento, sia esso perseguibile o del tut-
to improbabile, del successo, del potere, del prestigio.
Stupido è – è ritenuto – in questa prospettiva, l’atteg-
giamento diverso, il comportamento altro; estensivamente
stupido è – è ritenuto – il diverso, l’altro.
Stupido sarà, allora, l’eretico, il trasgressore, il riforma-
tore religioso, il rivoluzionario; la maschera, si tratti di Pul-
cinella o altro, che mette in discussione la definitoria legit-
timità del nostro volto. Nella galleria di stupidi che qui vie-
ne richiamata si stagliano alcune figure che rappresentano
paradigmi di una stupidità che incarna altri valori da quelli
prevalenti nella loro epoca e segnalano altre inquietudini:
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Alioska, l’idiota dostojevskiano, e Ulrich, uomo senza qua-


lità. Frutto di una spiritualità tormentata, a cavallo tra epo-
che rette da ordini di valori diversi, Alioška e Ulrich testi-
moniano una crisi individuale, di una società, di un’epoca;
l’irresolutezza e il divagare di Ulrich non erano stati antici-
pati dai “turbamenti” del giovane Törless, gli uni e gli altri
significativamente narrati dallo stesso Musil che fa, come
abbiamo ampiamente visto, della stupidità l’oggetto della
sua conferenza viennese?
Stupido l’ingenuo, il problematico, il trasgressore, l’e-
retico, il riformatore religioso, il rivoluzionario, lo si è già
detto. S’illumina di significato, alla luce di queste conside-
razioni, l’episodio ottocentesco riportato da Croce, ripre-
so da Lacan e da Fontana, del gesuita che a largo Castello
brandendo il crocifisso apostrofava la plebe napoletana in-
vitandola: “Qui, qui, è il vero Pulcinella!”. Stupidità, ebe-
tudine, follia, forme dall’accentuazione diversa, ma conti-
gue, sì che il passaggio dall’una all’altra può avvenire qua-
si impercettibilmente.
Aleardi potrà dire: “Incognito profondo / dove scompa-
re Iddio, dove il delirio / ebete ride o scompigliato corre, / e
si rovescia e voltola facendo / i sonagli squillar de la follia”.
Follia, certo, è stata spesso considerata azione stolta e
da riprovare, per cui G. Villani può ricordare: “Negli anni
di Cristo 1200, i Samminiatesi disfeciono il borgo a Sangi-
niegio, (…) e per più fortezza si tornaro ad abitare al pog-
gio e rifare il castello di Samminiato, il quale avevano di-
sfatto poco tempo dinanzi, sicché in corto tempo feciono
due follie” e Tasso affermare: “Siffatte picciole letterarie e
pubbliche, appellate accademie, somigliano più spesso che
non piace alla ragione, a quella plebea comunanza di Ate-
ne, la quale proscrisse Aristide e Temistocle, e nominò ge-
nerale il salsicciaio Cleone! Ma di quella almeno erano le
follie scorbacchiate e derise da Aristofane; di queste si
piange e non si ride: e talora si gongola alle condanne delle
opere altrui, né si prevede ugual sorte alle proprie”.
Ma follia è anche azione che muove da altre, non meno
degne ragioni.
DELLA STUPIDITÀ 

I versi di Sbarbaro: “Io sono ancora giovane, inesperto


/ col cuore pronto a tutte le follie” hanno molti illustri pre-
cedenti e a essi si accompagneranno altre espressioni con-
temporanee; Bonagiunta: “S’io servo e voi dispiace / veg-
gio ben ch’è follia, / ma d’amare è la via / omo di sua offe-
sa render pace”; Guittone: “Però, per cortesia, / sosten la
mia follia; / poi de doler cagione / mi da’, s’io n’ho ragio-
ne”; Cino: “Ma, se non vi calesse / di mie follie, per tanto /
de’ star lo vostro cor non disdegnoso, / ché questo Amor
ch’allotta vi furai, / per se stesso me ancide”; Romanzo di
Tristan: “Non pensava l’uno dell’altro altro che tutto onore
e già il loro cuore non si pensava follia neuna di folle amo-
re”; Lorenzo de’Medici: “Amore a tal follia / m’indusse, al-
lor c’i’ ruppi / i tuoi amorosi gruppi e ti lassai”; Garzoni:
“Pone a costoro dinanzi a gli occhi le dolorose passioni
d’amore, i desiderii vani, le speranze incerte, (…) le folie, i
sfogiamenti, le gelosie, le vendette”; Morando: “È follia
d’amante insano / dir ch’uno guardo lo ferì”; Metastasio:
“Ah! che dissi! Alle mie / amorose follie, / gran genitor,
perdona; io n’ho rossore”; Soldati: “Era stata una giornata
estenuante. Chi può vivere senza tregua dentro la follia di
un solo amore?”.
Ma anche l’amore per Dio, l’ardore mistico è stato det-
to follia.
“O sublime follia di Carlo Cafiero, il quale fuggiva dal
raggio di sole che penetrava nella sua camera d’ammalato,
perché non c’era sole per tanti altri nelle miniere, nelle of-
ficine, nelle stive, nelle prigioni! ‘Io non voglio sole che
non sia di tutti!’. È la follia della croce, dunque: è la follia
di S. Francesco” (Pascoli); “Se lo vide davanti inginocchia-
to dinanzi la balaustrata, con gli occhioni imbambolati,
spalancati e lucenti quasi di follia divina” (Pirandello); “Il
Vangelo ha creato fra i popoli di fede latina la follìa in Cri-
sto; il Vecchio Testamento, fra i protestanti, la follìa in Mo-
sè” (Bacchelli).
L’universo della stupidità si articola secondo vari perso-
naggi, dalla diversa carica di emblematicità e significanza:
lo sciocco, l’ingenuo, lo stolto, il folle, il riformatore reli-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

gioso, il rivoluzionario. Si tratta di figure che hanno in co-


mune la devianza dai valori e dai paradigmi dominanti e
dunque, anche se in grado diverso, l’alterità. Ognuna di ta-
li figure esprime un linguaggio che ha proprie valenze e
specificità, che a volte si dispiega sul piano verbale, più
spesso su quello dei comportamenti, ma tali linguaggi sono
frutto di diversi gradi di consapevolezza, sino al grado ze-
ro, per cui lo sciocco, pur esprimendosi attraverso i propri
comportamenti, non si situa consapevolmente su un piano
di comunicazione e resta murato nella irrimediabile datità
della sua solitudine.
È con la pluralità dei linguaggi della stupidità che dob-
biamo fare i conti, elaborando anche strumenti culturali –
“linguistici” nell’accezione più lata – per individuare e,
quindi, decodificare i linguaggi apparentemente muti, co-
me se fossero inesistenti. Ché ogni società si attrezza per
intendere, oltre al linguaggio “ufficiale”, qualche altro lin-
guaggio, ma non è capace di intendere – almeno immedia-
tamente – tutti i linguaggi possibili dei diversi soggetti, de-
gli universi dell’alterità, della devianza, della marginalità.
Se non vengono elaborati gli strumenti per la decodifica
di tali innumerevoli linguaggi non avremo criteri per l’in-
staurazione di rapporti intersoggettivi con figure di stupidi
che resteranno irrelate, definitivamente fuori dal nostro
orizzonte di praticabilità interattiva. Resterà la possibilità
residua di definirli giudicativamente con i criteri di una
psichiatria reificante, ma sappiamo che la reificazione ri-
verbera la sua carica sugli stessi soggetti che la pongono in
essere, per cui i rapporti tra soggetti umani tendono a dive-
nire rapporti tra cose, cioè di fatto negazione di rapporti.
Alla consapevolezza dei linguaggi elaborati su molteplici
piani dalle diverse figure di stupidi è connessa una dimen-
sione essenziale per differenziare la stupidità di cui qui si
sta tessendo l’elogio dalla stupidità del mero dato biologico
di una totale assenza di intelligenza e dal potere furbesca-
mente autocelebrantesi: la dimensione dell’ironia. Arma
per non prendere troppo sul serio la realtà data, la società
con le sue gerarchie, le sue mete, le sue scale di valori e se
DELLA STUPIDITÀ 

stessi, l’ironia fornisce allo stupido la forza per mettere ra-


dicalmente in discussione i valori dominanti. A volte tale
ironia può essere inconsapevole; sono i comportamenti de-
gli stupidi, anche a prescindere dalla consapevolezza dei
soggetti, a rappresentare di fatto il contrappunto ironico di
una costruzione sociale che ha fissato solennemente ed
esaustivamente gerarchie, mete, liturgie.
Non è un caso che la cultura giovanile di protesta, ela-
borata a metà degli anni Settanta, proclamasse, rivolta ai
detentori del Potere, non senza enfasi e ingenuità: “Una ri-
sata vi seppellirà”.
Siamo giunti al termine di questa passeggiata nella stu-
pidità.
Alla stupidità greve e mascherata sino ad assumere le
sembianze dell’intelligenza, quando al massimo di furbizia
si dovrebbe parlare, non è stato del tutto inutile, forse,
contrapporre una “stupidità” carica di trasgressione rispet-
to ai valori dominanti, alla temperie attuale, nella quale bo-
ria, arroganza e brutale voracità da “vincitori” celebrano il
loro trionfo.
Di una stupidità siffatta, purtroppo rara, ho inteso tes-
sere l’elogio, nella speranza che molti siano attratti da essa
e possano contrastare la definitiva affermazione di un pote-
re dell’“intelligenza” che è essenzialmente l’intelligenza del
potere.
Ma tale stupidità non è forse una più sottile e adeguata
intelligenza delle cose? E non è stato detto, icasticamente,
stultus fiat ut sit sapiens?
Parte seconda
La datità dell’io e la comunità del noi
Capitolo settimo
Amicizia, coppia, tradimento

Amicizia, coppia e tradimento rinviano a realtà esisten-


ziali che si modificano storicamente secondo quadri di va-
lore che hanno connessioni – più o meno complesse, più o
meno mediate – con la struttura della società. Il quadro dei
valori che viene richiamato da questi termini nella nostra
temperie culturale potrebbe essere delineato nel modo se-
guente. Dato che oggi la massa di informazioni di cui
ognuno di noi dispone si dilata progressivamente, abbiamo
maggiori possibilità di incontri e di contatti, maggiori pos-
sibilità di amicizia. La nostra emotività si realizza al massi-
mo nei rapporti di coppia: non a caso oggi assistiamo, do-
po i tormentati anni Sessanta, a un ritorno all’esigenza di
coppia. Tra la pluralità di rapporti, una coppia più o meno
salda, – che attraversa alcuni momenti di crisi, ma che in
fondo anche grazie ai nuovi metodi anticoncezionali, alla
vitalità sessuale che essi concorrono a far esplicitare, al ter-
rore provocato dall’Aids che incombe devastante sul plura-
lismo sessuale – realizza un suo equilibrio e il problema
della solitudine viene abbastanza rimosso. Resta la possibi-
lità del tradimento e della sofferenza che questo porta,
però c’è la possibilità di recuperare attraverso ideologie
“avanzate” la legittimità del tradimento stesso; al massimo
vi saranno alcuni irriducibili soli e allora si tratterà con enti
locali particolarmente attenti di risolvere questo assieme a
tutti gli altri problemi sociali della realtà contemporanea;
in ogni caso, si risolve il tutto ritenendo che un certo nu-
mero di emarginati rappresenta il costo ineliminabile di
qualsiasi progresso.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Il tutto quindi sembrerebbe abbastanza ottimistico; se


non nel migliore dei mondi possibili vivremmo in una si-
tuazione di forte avanzamento, se non di italica riscossa,
beneficiati da sorridenti, ancorché vacue, rassicurazioni
dell’attuale presidente del Consiglio e delle sue reti televisi-
ve, efficienti propagatrici di slogans pubblicitari, anche
quando più o meno abilmente travestiti da argomentazioni
“politiche”.
Un convincimento siffatto risulta gratificante; ognuno
di noi, appoggiandosi a esso, può ritenere che tutto som-
mato non va tanto male e che se alcuni si suicidano giudi-
cando questo carico di dolore insopportabile si tratterà di
disadattati che non avranno sviluppato secondo le regole
sociali accreditate la loro integrazione con gli altri, e noi
non possiamo farci carico del dolore del mondo, dobbia-
mo portare avanti la nostra vita, la nostra carriera, abbia-
mo i nostri problemi familiari, i problemi del nostro suc-
cesso, e così via. L’ottica che ho qui richiamato è profon-
damente erronea, perché assume ognuno di questi tre ter-
mini isolatamente; essa è profondamente omogenea all’i-
deologia contemporanea, quell’ideologia che, come ho già
accennato, realizza il sistema della conoscenza attraverso
la pluralità di notizie reiterate; ciò che viene taciuto è che
una realtà può non essere intesa o perché di essa si tace o
perché di essa si dice, si dice, si dice sino al punto di supe-
rare la soglia del rumore, della comprensibilità.
Una notizia può essere fatta oggetto di censura radicale
o di tale ripetizione da renderla per eccesso di evidenza
non più comprensibile. Il che significa che questa nostra
civiltà del rumore elimina la civiltà della consapevolezza,
del giudizio.
Quando si parla della pluralità delle forme di amici-
zia, si allude alla pluralità di rapporti possibili tra due
persone, ma il termine amicizia ha avuto una dilatazione
semantica abbastanza interessante. Noi tendiamo a defi-
nire amici i nostri conoscenti, i colleghi del lavoro, qual-
siasi persona si conosca e con la quale si stabilisca in
qualche maniera una sorta di connivenza o di complicità,
AMICIZIA, COPPIA, TRADIMENTO 

contro qualcuno o contro qualcosa: questo fatto significa


“essere amici”.
Questa è una maniera molto riduttiva di vivere la ten-
sione amichevole: il rapporto di coppia diventa così esau-
stivo della possibilità e del bisogno ineludibile di amore.
L’istituzionalizzazione della coppia può attuarsi a livello
matrimoniale, extra-matrimoniale, non matrimoniale; l’im-
portante, secondo l’ideologia attuale, è che questa coppia
si protragga nel tempo e risolva monopolisticamente la
tensione amorosa. Vi è anche la tendenza a differenziare
nettamente amicizia e amore; l’amore riguarda prevalente-
mente il rapporto uomo-donna, o uomo-uomo, o donna-
donna anche se in maniera molto limitata, e si esaurisce
nella coppia. Tra l’altro, con un successivo impoverimento
dell’amore, viene sottolineata, anche per reazione alle eti-
che sessuofobiche precedenti, una sessualità che sfocia
nella pansessualizzazione, ma a questa dilatazione corri-
sponde, paradossalmente, una restrizione, per cui si tende
ad assumere la sessualità come genitalità. L’amore è vissu-
to solo come rapporto con il corpo dell’altro e il corpo
dell’altro, come si avrà modo di ribadire nell’ultimo capi-
tolo, è ridotto in particolare agli organi sessuali, ciò che
inerisce più direttamente alla genitalità è percepito come
esclusiva fonte di piacere.
Da questo punto di vista il tradimento diventa il consu-
mare con altri un’esperienza che dovrebbe essere data dal-
l’altro, attentato all’esclusivismo del possesso degli organi
o, al massimo, delle zone erogene del partner istituzionale.
Tutto ciò delinea una logica del possesso, i rapporti se-
condo la dimensione dell’avere; l’assunzione dell’altro sot-
tostà a un’ottica da macellai, da squartatori: il corpo viene
segmentato in parti su alcune delle quali scatta un privile-
gio di uso esclusivo. Il tutto mi sembra abbia spostato il
concetto di oscenità. È vero che oggi non è più osceno ciò
che si considerava tale anche in epoche a noi vicine: si trat-
ta di un progresso, salutare reazione al moralismo esterno,
astratto e penitenziale, che rapportava la tensione etica al-
l’assunzione della penitenza e quindi toglieva qualsiasi pos-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

sibilità di vivere la vita secondo gioia, secondo progetto di


felicità. Questa trasformazione della mappa dell’osceno ha
sostituito i termini, ma non il concetto di osceno. Nella no-
stra temperie culturale attuale – lo ha già notato Barthes e
lo ritroveremo nell’ultimo capitolo – è diventata oscena, ad
esempio, la sentimentalità, la dimensione dei sentimenti.
Sui sentimenti, sulla loro esplicitazione, pesano rigidi
interdetti, per cui essi devono essere taciuti, tranne che
nell’ambito amicale e del tutto privato; la pubblicizzazio-
ne del privato non a caso è stata una rivendicazione del
movimento femminista; ma quanta ironia si è scaricata su
tale rivendicazione, avanzata anche dalla cultura giovanile
di protesta. Un’assunzione globale del progetto di vita,
della ricerca della felicità, ha connotato alcune elabora-
zioni del movimento studentesco in Germania e, nella
prima fase, anche in Italia; ma di tutto ciò si è parlato
sempre meno anche nella stessa cultura giovanile di pro-
testa. Non parliamo della cultura ufficiale, “moderna” o
“postmoderna” quanto necessario, che queste cose ha eli-
minato contribuendo così a delineare questa nuova map-
pa dell’oscenità.
Non tento di accreditare una visione negativa del cor-
po; questo discorso sulla pansessualizzazione non è teso a
rilanciare il concetto di anima sganciata dal corpo; il nostro
corpo, il corpo di ogni persona, può essere strumento del-
l’amore ma non è il fine dell’amore. L’amore non è godi-
mento dell’altro reificato, ridotto a cosa, ma è tensione che
vive e si rapporta all’altro e con l’altro vive l’esperienza del
trascendimento di sé, trascendimento della sua solitudine,
pur nel pieno, reciproco godimento dei corpi.
Oggi il discorso sull’amore nonostante l’apparente li-
beralizzazione ha guadagnato al linguaggio la cosiddetta
parolaccia, ma ha costituito altri tipi di parolacce, che non
si dicono per non essere oggetto di ironia, di scherno, per
non suscitare l’impressione di essere datati, arcaici, nostal-
gici: e qui v’è un uso terroristico di questi aggettivi. Appa-
rire datato, arcaico, nostalgico è delitto di lesa modernità e
quindi equivale a essere contro l’avanzata della società ita-
AMICIZIA, COPPIA, TRADIMENTO 

liana verso forme più alte di vita sociale, come se un’anali-


si critica di questa società comportasse automaticamente
la mitizzazione del passato e il desiderio di ritornare a li-
velli sociali più arretrati. Il che è oggettivamente un ricatto
perché significa: o accetti questa società, queste modalità
di sviluppo, o sei un nostalgico, un individuo che vuole la
miseria e lo sfruttamento ancora più macroscopico che ca-
ratterizzavano i rapporti sociali sino ai tempi recenti. Ma
la nostra società attuale può essere benissimo criticata in
nome di un progetto di altra società, non soltanto in nome
di un ritorno a un passato quanto mai discutibile. Non si
tratta di negare il corpo, ma di tentare di vedere se è pos-
sibile un’accezione di corpo-anima, di unione inscindibile
di spiritualità e materialità, altra opposizione che è un
prodotto storico e culturale. Nessuna esperienza dell’uo-
mo è puramente materiale, nessuna è puramente spiritua-
le, perché noi non siamo solo materia, ciò che è stato tra-
dizionalmente definito come materia è corporeità; e non
siamo neppure solo spirito, perché se così fosse non po-
tremmo neppure comunicare.
L’assunzione dell’essere umano come insieme inscindi-
bile di corporeità e di tensione spirituale rende possibile il
vivere l’amore come tensione fondamentale che restituisca
all’esistenza significato; che comunichi all’esistenza indivi-
duale fondamento, progetto, tepore e ulteriorità.
Non riusciamo a vivere se non abbiamo un tessuto
connettivo culturale e se non abbiamo un rapporto reale
con l’altro, perché noi siamo costitutivamente colloquio;
questo l’ha intuito la parola poetica e non è un caso che
Hölderlin ribadisca che ogni essere umano è costitutiva-
mente colloquio.
Il colloquio restituisce il senso di solidarietà, dell’essere
con. La solitudine non è un problema che riguarda turba-
menti adolescenziali, magari del periodo della pubertà, o la
condizione del pensionamento. Certo vi sono periodi della
vita individuale in cui tutto esplode con maggiore dramma-
ticità, ma la perdita di significati e di rapporti è una possi-
bilità costante della nostra esistenza.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

La solitudine da questo punto di vista è radicalmente


insopportabile. Non mi riferisco alla possibilità di sottrarsi
al rumore contemporaneo per vivere la riappropriazione di
sé; in questo caso è esigenza di acquisire il senso della pro-
pria singolarità, non è solitudine. Questa – densa e cupa
come una pena inflitta – comporta l’impossibilità di rap-
porto con l’altro e la perdita della praticabilità dell’amore.
Barthes in Italia è stato spesso recepito come fenomeno di
moda, simbolo di uno status intellettuale (aver letto
Barthes è stato uno degli obblighi degli intellettuali con-
temporanei); al di là della ricezione da parte dell’industria
editoriale e delle liturgie che essa impone, Barthes ha for-
mulato alcune considerazioni illuminanti sulla condizione
dell’uomo contemporaneo. All’inizio dei Frammenti di un
discorso amoroso, sui quali avremo modo di soffermarci
nell’ultimo capitolo, Barthes parla dell’estrema solitudine
del discorso dell’amore: tentando di restituire, in nome
dell’esperienza fondante che l’amore fornisce, centralità al-
l’amore e non al potere; ma lo stesso discorso sull’amore è
eversivo degli apparati di potere e, quindi, può essere detto
impolitico. E dire oggi di una cosa che è impolitica è l’ac-
cusa peggiore che possa essere fatta. Inoltre, la politica che
si contrappone a questa impoliticità, è la politica come tec-
nica del potere, dell’acquisizione e del mantenimento del
potere, non è la politica come ricerca delle migliori condi-
zioni di esistenza per gli appartenenti a una data società.
Allora il discorso sull’amore è tollerato nell’artista, nel poe-
ta, nell’intellettuale stravagante, nell’adolescente, ma non
viene accettato come discorso a partire dal quale si dovreb-
be ripensare la società e l’insieme dei nostri rapporti.
Dire dell’amore tutto questo, cioè dire che è sete, forna-
ce ardente ed esperienza di trascendimento della solitudine
e della datità significa anche sottrarlo alla paccottiglia sen-
timentalistica (quale viene, ad esempio, proposta strumen-
talmente dalla Perugina per vendere più baci il giorno di
San Valentino, festa degli innamorati, analoga ad altre feste
pubblicitarie, quella della mamma il 10 o l’11 maggio,
quella del papà il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, e così
AMICIZIA, COPPIA, TRADIMENTO 

via). L’uso dell’ideologia neo-capitalistica del consumo del-


l’amore è una parcellizzazione intollerabile di qualche cosa
che può essere applicato al rapporto uomo-donna, uomo-
uomo, donna-donna, di tipo sessuale, ma può essere ugual-
mente applicato all’amicizia. L’amicizia è un rapporto d’a-
more, ma il fatto che oggi venga vissuta come connivenza-
complicità è l’ulteriore prova di quanto essa rappresenti un
bisogno estraniato.
Qualche anno fa Vincenzo Padiglione ha pubblicato
con la Savelli una densa antologia di testi sull’amicizia, dal
titolo L’amicizia – Storia di un bisogno estraniato, nella qua-
le, accanto a teorizzazioni “classiche” quale quella di Cice-
rone, sono riportate testimonianze, quali le lettere a ‘Lotta
continua’, in cui viene detta la propria disperazione per il
suicidio di numerosi compagni delusi del ’68 e quindi del
progetto della rifondazione della società; tutto ciò rivela un
enorme bisogno di amicizia come bisogno di amore.
L’amicizia in questo senso è certo sentimento, ma non è
soltanto sentimento, è una modalità di conoscenza del
mondo; conoscere la realtà anche secondo amore, e non
soltanto secondo intelletto, dà un risultato qualitativamen-
te diverso; non si tratta di aggiungere qualcosa in più al
pacchetto di nozioni che può essere acquisito con il puro
intelletto. Questa visione estremamente razionalistica ha
caratterizzato il nascere della società moderna, ha portato
allo scientismo, all’assolutizzazione e alla superfetazione
del concetto di scienza e delle possibilità della ragione, ma
la cultura critica contemporanea ha scoperto i limiti della
ragione; il che ovviamente, non significa che della ragione
si possa fare a meno, significa soltanto che occorre tener
conto dei limiti degli strumenti della razionalità: noi non
viviamo solo secondo ragione, che è un bene irrinunciabile
ma non l’unico per rapportarci alla realtà.
L’amore così inteso è una modalità di conoscenza e di
essere nel mondo; in questo senso è coppia qualsiasi rap-
porto vissuto da un io che si rapporta al tu non secondo lo-
gica di possesso ma secondo logica di avvicinamento e di
ascolto. Il tradimento, nell’ottica che sto tentando di deli-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

neare, cessa di essere sottrazione momentanea o perma-


nente, dell’uso esclusivo di una parte del corpo al titolare
del diritto relativo e diventa chiudersi al compito costituti-
vo che ognuno di noi rappresenta, cioè riconoscersi come
colloquio, e tendere alla realizzazione di sé secondo bana-
lità. Da questo punto di vista la società contemporanea è
densa di tradimento, non tanto e non solo per l’aumento
delle relazioni extra-coppia, le relazioni adulterine, rispetto
a coppie di sposati o non sposati, ma in quanto rinuncia a
vivere la propria vita sviluppando le potenzialità di collo-
quio e finendo invece con l’accettare di essere irretiti se-
condo una logica di ruoli e di sopraffazione.
Naturalmente, non si tratta tanto di scelte individuali,
né di essere più intelligenti, più cattivi o più ottusi. La so-
cietà contemporanea si regge secondo modelli, quadri di
valore, che rendono alcune mete culturalmente obbligato-
rie e altre impraticabili o comunque più difficili. La società
contemporanea, proprio perché potenzia l’uso della notizia
in termini di rumore e non in termini di coscienza critica,
pone le condizioni per un sempre minore colloquio. Vi so-
no delle pagine famose, alle quali faccio solo riferimento:
se penso a una serie di considerazioni della scuola di Fran-
coforte sull’impossibilità del colloquio nella società con-
temporanea, alle osservazioni di Adorno, concluderei che
oggi, nonostante le apparenze, abbiamo un’afasia, una per-
dita progressiva di possibilità di discorso che ci invade sen-
za che ce ne rendiamo conto, in maniera insidiosa; se si
trattasse di una espropriazione esplicita in un regime ditta-
toriale si potrebbe creare un meccanismo di reazione; una
espropriazione insidiosa di alcune possibilità che avviene
in maniera ufficialmente indolore e una imposizione sotter-
ranea di modelli di aggressività, competitività, come mo-
delli sociali da perseguire, vanifica la possibilità di realiz-
zarci come tensione amorevole, ci lascia infinitamente più
soli, ma senza che ce ne rendiamo conto. Ci scarica un do-
lore di cui non riusciamo a comprendere le radici, i motivi,
per cui non abbiamo possibilità, eliminando i motivi, di eli-
minare il dolore stesso.
AMICIZIA, COPPIA, TRADIMENTO 

Il quadro attuale della società, dei valori ufficiali, uffi-


cialmente proposti, è permeato dalla competizione sfrena-
ta, perché la società continua a reggersi costitutivamente
sui valori del successo, del potere e del prestigio. Ciò com-
porta, fra l’altro, un’intensa competizione interindividuale,
una concezione della politica come violenta determinazio-
ne e imposizione dei propri obiettivi. Non è un caso che
oggi ci venga riproposto il modello di una “nuova” bruta-
lità, nel quadro di una rinnovata cultura dell’arroganza;
nella gestione della cosa pubblica il modello ufficiale, rap-
presentato da figure che presiedono gli organismi che de-
terminano la vita pubblica in Italia, è caratterizzato da una
prassi sostanzialmente autoritaria e arrogante che non è ri-
ducibile soltanto a un problema di carattere, ma costituisce
di fatto l’affermazione che la competitività e l’arroganza so-
no valori in sé, che il raggiungimento dei fini prescinde to-
talmente dai mezzi, alibi per consentirsi qualsiasi azione
anche quelle eticamente condannabili, come se i mezzi non
veicolassero ideologie e valori e non vanificassero, spesso,
la possibilità dei fini, pur dichiarati. Va sottolineato, dun-
que, che i mezzi radicalmente eterogenei ai fini che si di-
chiara di perseguire sono mezzi inaccettabili, altrimenti è
molto più che la tela di Penelope, significa disfare attraver-
so il “mezzo” ciò che ancora non si è iniziato a costruire.
Non è un caso che nell’ambito della politica sia stata
sottolineata l’importanza di valori come la decisione, il pi-
glio, la “grinta”, un non meglio precisato “nuovo”, consi-
derati come mezzi essenziali per affrontare vittoriosamente
i problemi della società italiana. Il fatto che si possa pro-
porre come valore la grinta è un segnale dei tempi correla-
tivo all’assunzione della violenza come metodo; sarà, spes-
so, violenza verbale, sarà violenza che non si chiama tale
ma si chiama “parlare chiaro”, “parlare come parla la gen-
te”, come prima si chiamava “decisionismo”, ma è ugual-
mente, o ancor più perché più insidiosa, distruttiva; ogni
volta che nella società si sottolinea positivamente, attraver-
so qualsiasi motivazione, il valore della violenza si introdu-
ce un fattore particolarmente disgregante.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

In questa situazione a me sembra che parlare di solitu-


dine come se fosse un fatto individuale e non rinviasse a un
quadro di valori organici, rischia di essere fuorviante.
L’amicizia e la coppia sono possibili nella misura in cui
ognuno di noi non tradisce la possibilità che ha di realiz-
zarsi secondo un progetto amorevole, ma questo significa
anche un’inversione della linea di tendenza culturale pre-
sente nella nostra società, altrimenti – che ce ne rendiamo
conto o meno – di solitudine finiremo per essere sempre
più afflitti, e non solo nelle fasce emarginate. V’è una soli-
tudine ancora più strisciante che è nostra e che crediamo
di non avere solo perché ci chiudiamo alle enormi poten-
zialità di vita che ognuno di noi avrebbe, ma che vengono
mutilate da quadri sociali e culturali esterni che rendono
impraticabili percorsi altri da quelli ufficiali e che consen-
tono margini minimi per le opzioni individuali. Quali che
siano gli orientamenti religiosi e politici di ciascuno, ci
dobbiamo rendere conto che sin quando non decideremo
di sostituire ai valori competitivi una tensione solidaristica,
sin quando non tenteremo di recuperare la capacità rivolu-
zionaria dell’amore, la solitudine potrà apparire inerente
soltanto alla dimensione psicologica, come se non investis-
se in pieno il quadro culturale della nostra società e non
entrasse quindi, massicciamente, nella nostra vita.
Possiamo agevolmente cullarci in tale prospettiva illuso-
ria ma, ce ne rendiamo conto o meno, quando si parla di
solitudine si parla di noi stessi e del tradimento che a noi
stessi facciamo accettando di non realizzarci come collo-
quio, volendo invece realizzarci come competitori, magari
con grinta, più o meno “nuova”, più o meno “sorridente”
o ghignante.
Capitolo ottavo
Spalancan varchi entro ogni muro cieco…

“Forse non sai come pesan sugli uomini / le notti in cui


non posson dormire, / ed è l’angoscia, a tutti quanti, egua-
le (…) / Ai vecchi. Alle fanciulle. Anche ai piccini. / Sob-
balzano chiamati dalla Morte, / stretti d’intorno dalle cose
nere / e tremano le loro bianche mani, / impigliate nel fol-
to della vita / come segugi in caccia entro una selva (…)”
Con lo sguardo inutilmente profetico dei poeti, Rilke
delinea lo spazio dell’angoscia che intride di sé le nostre
notti, appesantendole insopportabilmente. Poli dialettici di
tale campo nel quale l’angoscia si dispiega: l’essere chiama-
ti dalla Morte e l’essere le nostre bianche mani impigliate
nel folto della vita.
I versi rilkiani possono introdurci emblematicamente a
una riflessione sul dolore, universo che si accompagna alla
vicenda dell’uomo nella storia, al punto da imporre a chi vi
si accosti “timore e tremore”.
Nell’opera di Rilke, infatti, è essenziale il riferimento
“alla morte, all’esperienza suprema che essa rappresenta,
esperienza tremenda da cui lo spavento ci allontana, men-
tre essa s’impoverisce per questo allontanamento. Gli uo-
mini hanno indietreggiato di fronte alla loro parte oscura,
l’hanno respinta e esclusa, e così essa si è fatta loro estra-
nea, è per loro una nemica, una potenza malvagia a cui si
sottraggono in una continua distrazione, che snaturano con
la paura che li tiene lontani da essa. Ciò è desolante, fa del-
la nostra vita una regione che è un deserto di paura, dop-
piamente impoverita: impoverita della povertà di questa
paura che è una cattiva paura, e, da questa povera paura,
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

impoverita dalla morte che essa rigetta ostinatamente fuori


di noi” (Blanchot 1955, p. 108).
Si è sottolineata la permanenza nel tempo e nello spazio
del dolore.
Si è patito e si patisce il dolore in tutte le società e in
ogni tempo (tranne che nello spazio e nel tempo mitici
dell’Eden); ciò che è mutato e non può non mutare nelle
diverse aree e nella successione diacronica è il discorso
del dolore, le modalità culturali, cioè attraverso le quali il
dolore viene fruito e in qualche modo superato; le specifi-
che modalità quindi attraverso le quali il dolore, artico-
landosi come discorso, trova orizzonte, inevitabilmente
parziale, di riscatto.
Una riflessione sul dolore sarà quindi – come ogni altra
riflessione, ma più di ogni altra riflessione – parziale, fram-
mentaria, ma non per questo, si spera, inutile.
Anzitutto, è possibile parlare del dolore in generale, a
un livello di massima astrazione? Non si rischia così di de-
storificare gli eventi determinati, puntuali nella loro stori-
cità, che sono all’origine dei dolori, pur sempre individuali,
quand’anche universalmente validi? Perché, poi, quando
nelle scienze umane ci si accosta a tale problematica, si
parla sempre del dolore degli altri tenendosi accuratamen-
te al riparo dalle implicazioni della propria, pur inelimina-
bile, soggettività? Tale ritrosia è riconducibile esclusiva-
mente al topos dell’asetticità del discorso scientifico, quale
garanzia per la sua presunta oggettività?
Domande, specialmente le prime, radicali, che impon-
gono almeno tentativi di risposta.
Data l’universalità dell’esperienza del dolore, a me sem-
bra del tutto legittimo parlare anche a livello di massima
astrazione del dolore, purché ci si attenga ad alcune cautele.
Occorre, anzitutto, evitare che un discorso di ordine
generale, pur legittimo, diventi mistificante, in quanto teso
alla destorificazione di specifici dolori prodotti da specifi-
che condizioni socio-economiche, politiche e culturali.
Una tale destorificazione non sarebbe priva di effetti: se la
sofferenza qualsiasi forma essa assuma, inerisce all’uomo
SPALANCAN VARCHI ENTRO OGNI MURO CIECO... 

per il suo essere uomo, qualsiasi progetto per l’eliminazio-


ne, totale o parziale, di essa è del tutto illusorio e inutile.
Si dovrà, dunque, distinguere nettamente tra i diversi
tipi di dolore di cui sono tramate le nostre esistenze. Mol-
te sofferenze sono rapportabili, direttamente o attraverso
mediazioni più o meno complesse, al dominio, nelle sue
innumerevoli forme, alla discriminazione, allo sfruttamen-
to, alla violenza.
Tali sofferenze, con il loro insopportabile carico, ri-
chiedono un impegno radicale perché siano eliminate tut-
te le condizioni che sono all’origine di esse e al loro po-
tenziamento.
Non mi soffermerò su tali aspetti perché mi sembrano
del tutto indiscutibili, almeno per chi non abbia perso di
vista, magari pensando all’uomo, i concreti uomini con i
quali condivide di fatto, qui e ora, l’esistenza.
Ciò su cui ci si dovrà soffermare, per quanto brevemen-
te, è che porsi nella prospettiva della doverosa eliminazio-
ne di tutte le condizioni economiche, socio-politiche e cul-
turali che producono sofferenza comporta operazioni
estremamente complesse. Andranno preliminarmente ana-
lizzate, infatti, le condizioni nelle quali il dominio, la discri-
minazione, lo sfruttamento, la violenza si concretano e le
modalità culturali – le costellazioni di valori, i temi cultura-
li, le norme, gli istituti – che in qualsiasi maniera le legitti-
mano, quando non le impongono. Alla rimozione di tali
condizioni si dovrà accompagnare la rimozione di tutti i
quadri culturali di cui esse sono specifica concretazione
storica, a evitare che i valori del dominio e della violenza
permeino nuove condizioni che, pur diverse dalle prece-
denti, ne continuino a veicolare l’orizzonte dei valori. Si in-
tende sostenere, cioè, che per l’eliminazione del dolore
connesso al dominio e alla violenza non è sufficiente opera-
re per l’eliminazione della loro attuale fenomenologia, ma
occorre impegnarsi nell’elaborazione di una diversa cultura
organizzata su fulcri radicalmente diversi da quelli attorno
ai quali ruota la nostra attuale organizzazione sociale. Ope-
razioni complesse che dovranno essere sostenute dallo
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

sforzo di diverse generazioni, ché le trasformazioni radicali


richiedono cadenze secolari; ma che siano complesse non
attenua neanche un poco la loro perentoria urgenza.
Ma altre sofferenze non sono originate da tali condizio-
ni e sembrano essere inestricabilmente connesse alla natura
umana, all’itinerario esistenziale del singolo (non in quanto
appartenente a un sesso, a una razza, a una classe sociale, a
un’area territoriale, a una classe di età, e così via), denso di
umano patire.
Si pensi, per tutte, all’esperienza radicale data dalla
morte, che sperimentiamo nell’angoscia per la nostra mor-
te – di cui, ovviamente, non avremo mai diretta esperienza
– e nel dolore per la morte di una persona cara che “è l’in-
crinatura più profonda nella vita fenomenica. Son rimasto
solo allorché, lasciando solo il morente nell’ultimo istante,
non l’ho potuto seguire. Niente si può far tornar da capo.
È la fine per sempre. A chi muore non si può più rivolgere
la parola. Ciascuno muore solo. La solitudine in presenza
della morte sembra totale per chi muore come per chi ri-
mane. Il fatto dell’essere insieme fino a che c’è la coscien-
za, questo dolore del separarsi è l’ultima povera espressio-
ne della comunicazione” (Jaspers 1946, pp. 197-198).
L’attenuazione sino all’eclisse degli aspetti soggettivi nel
discorso sulla morte, quale prevalentemente viene articola-
to nei diversi settori delle scienze umane, non è dovuto
tanto alla perversa ideologia del “distacco” o della “neutra-
lità scientifica”, quanto a una più profonda ritrosia a guar-
darsi, a mettersi in discussione, a conoscersi. Lo sguardo
sugli altri molte volte è, per gli “scienziati dell’uomo”, tec-
nica per non rivolgere lo sguardo su se stessi, alibi per non
discutersi, occasione per una distrazione da sé perché non
venga alterato il proprio equilibrio.
Ma chiunque abbia meditato davvero sul dolore e sulla
morte sa che un discorso su di essi, quali che siano le for-
me nelle quali si articola, è, né può non essere, anche un
discorso sul dolore e sulla morte secondo noi stessi.
Mariano Meligrana e io – impegnati da tempo in un or-
dine di riflessione e di ricerca sul tema della morte, che si è
SPALANCAN VARCHI ENTRO OGNI MURO CIECO... 

concretato in un lavoro sull’ideologia della morte nella so-


cietà contadina del Sud – abbiamo sottolineato come “l’in-
terrogazione sulla morte ‘secondo gli altri’ non possa pre-
scindere da quella più sotterranea sulla propria esperienza,
in una dialettica implicita di piani speculari” (Lombardi
Satriani, Meligrana 1982, p. 8).
Soltanto nella consapevolezza di questa profonda impli-
cazione tra elementi soggettivi e “oggettivi”, del fatto che
gli altri si riflettono in noi e che noi stessi ci riflettiamo ne-
gli altri, che, per molti versi, gli altri sono fatti anche da noi
e che noi stessi siamo fatti anche dagli altri, che gli altri so-
no l’insieme delle persone che hanno conosciuto, amato,
per le quali hanno patito e patiscono, che noi stessi siamo
l’insieme delle persone che abbiamo conosciuto, amato,
per le quali abbiamo patito e patiamo; soltanto nello spazio
prodotto da questa consapevolezza può dispiegarsi una ri-
flessione sul dolore che ambisca a una qualche plausibilità.
Il dolore e la morte sembrano essere termini di un bi-
nomio inscindibile ed è soprattutto per l’ombra della
morte che la vita conosce la morsa del dolore. Avvertiamo
con tutte le fibre del nostro essere come le nostre mani
siano impigliate nel folto della vita e, contemporaneamen-
te, che la nostra esistenza va, in maniera inarrestabile, in-
contro alla morte; che essa è, giorno dopo giorno, esisten-
za sempre più breve.
Non è un caso che il dolore – “Moltiplicherò/i tuoi do-
lori e le tue gravidanze, / con dolore partorirai figli / (…)
maledetto sia il suolo per causa tua! / con dolore ne trarrai
il cibo / per tutti i giorni della tua vita. / Spine e cardi pro-
durrà per te / e mangerai l’erba campestre. / Con il sudore
del tuo volto mangerai il pane; / finché tornerai alla terra, /
perché da essa sei stato tratto: / polvere tu sei e in polvere
tornerai!”, risuonano le parole divine nel Genesi – sia pena
inflitta per la ribellione iniziale dell’uomo e della donna al
divieto del creatore che sbarrava loro la conoscenza del be-
ne e del male.
Dolore come maledizione, dunque, e come cifra di una
trasformazione ontologica, verificatasi all’inizio dei tempi.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Dolore e morte, termini di un binomio inscindibile, si è


detto; è comprensibile dunque come la cultura urbanocen-
trica attuale, segnata decisivamente dall’estroversione col-
lettiva e dall’edonismo predatorio, tenda, rifuggendo dal
dolore, a rimuovere la morte. La rimozione della morte,
certamente illusoria e quindi inutile se non profondamente
dannosa nei suoi molteplici effetti, non può essere soltanto
rilevata e, se mai, stigmatizzata. Essa va compresa nelle sue
complesse ragioni, oggetto della riflessione fra gli altri, di
Jaspers, per il quale: “per l’illimitata volontà di vivere, che
considera il mondo e se stessa dal punto di vista affatto
pratico e positivo, e prende in modo assoluto la durata co-
me regolo misuratore dell’essere, l’inevitabilità della morte
è motivo di stolta e dissennata disperazione. La disposizio-
ne a non pensare alla morte e a dimenticarla, dato che nella
nostra consapevolezza è affatto incerto e indeterminato il
momento del suo arrivo, è il solo mezzo di sfuggire a tale
disperazione.
Se l’incondizionata e illimitata volontà di vivere non sa
sottrarsi alla situazione-limite mediante l’oblio, allora essa
finisce appunto col trasformare in limite il senso della mor-
te. Essa vorrebbe in certo modo persuadersi che il terrore
della morte riposa su un semplice errore, il quale potrebbe
essere evitato mediante un esatto modo di pensare. Quel
terrore deriverebbe da rappresentazioni di una situazione
dolorosa dopo la morte, la quale invece non c’è; o derive-
rebbe dall’angoscia che precede l’evento stesso della mor-
te e come tale è affatto trascurabile, dato che certamente
per chi si trova in vita non c’è dolore che non gli possa ac-
cadere, e non c’è dolore dal quale non sia stato possibile
tornare alla vita. Tutto dipenderebbe dal rendersi ben
chiaro lo stato delle cose: se io ci sono, la mia morte non
c’è; e se la mia morte c’è, io non ci sono. E per questo la
mia morte non mi riguarda per nulla. Ognuno di questi
pensieri è giusto, e riesce a combattere effettivamente del-
le rappresentazioni infondate che provocano un’angoscia
straordinaria. Ma nessuno di essi riesce a eliminare l’orro-
re che si prova anche solamente a immaginare di non es-
SPALANCAN VARCHI ENTRO OGNI MURO CIECO... 

serci più. In verità pensieri di tal genere pare che guardino


in faccia la morte. Ma per quanto riguarda la parte essen-
ziale, essi non fanno che contribuire a farla dimenticare.
Vien meno il fatto che io ancora ho da portare a termine il
mio compito, che io non ancora son pronto, che io ancora
ho da riparare a qualche cosa. Specialmente poi vien mes-
so da parte il fatto che sempre da capo mi si fa avanti e mi
assale una consapevolezza dell’essere come semplice esser-
ci, la quale, attraverso la rappresentazione della fine in
senso assoluto, viene a perdere ogni significato; il fatto
cioè che, ridotto a cosa puramente e semplicemente tran-
sitoria e caduca, tutto diventa indifferente. E se questo si
presenta alla mente, allora, ancora una volta, è reso possi-
bile l’oblio, mediante uno spostamento di significato, nella
rappresentazione di un’immortalità in senso materiale e
temporale. Io raggiungo così un’altra forma di esserci, nel-
la quale proseguo quel che era cominciato, e la mia anima
erra attraverso queste forme di esserci, delle quali la pre-
sente non è che una” (Jaspers 1946).
A parte la considerazione che di nessuna disperazione
può essere detto che sia “stolta e dissennata”, ché il para-
metro rispetto al quale si pretende di misurare la stoltezza
e la dissennatezza può essere, esso sì, stolto e dissennato, le
considerazioni di Jaspers indicano come la rimozione della
morte, oltre a essere risposta, si pone essa stessa come do-
manda, rinviando a un agglomerato di problemi che non
possono essere elusi con il facilistico biasimo. Può essere
notato, comunque, che la rimozione individuale o colletti-
va della morte, quale che sia l’intreccio problematico che le
dà origine, “non è mai operazione definitivamente vincen-
te. La morte ritorna come spettro, presenza cangiante, che
percorre sotterranei, meandri, scorciatoie e diffonde ango-
scia irriconosciuta, nullificando lo sforzo dell’uomo.
In questo spazio l’antropologia può ritrovare la sua fun-
zione di parola critica e l’antropologia della morte può di-
ventare l’antropologia radicale, che recuperi il pensiero
della realtà della morte come segno anarchico della vita. Si
tratta, da un lato, di sfuggire all’uso ricattatorio del me-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

mento mori, che mutila il dispiegarsi dell’attività umana;


dall’altro, di contrastare al potere il suo monopolio, basato
sull’espropriazione ai singoli del loro rapporto con la mor-
te” (Lombardi Satriani, Meligrana 1982, p. 7).
In questa prospettiva si è dispiegato il tentativo di Ma-
riano Meligrana e mio “di delineare i luoghi espliciti del
mondo contadino in cui si rifugia o si affronta la morte; di
delineare, cioè la cultura della morte, intesa come sua te-
matizzazione, strategia di superamento dell’evento luttuo-
so, sistema di relazioni con i morti, configurazione del
mondo ultraterreno. Ma tutta la cultura contadina, anche
nelle sue manifestazioni apparentemente lontane, ci è ap-
parsa segnata dal senso della morte, percorsa dalla perce-
zione di una dipendenza sacrale del mondo e della storia,
da una sistematica ipoteticità dell’esistenza e dell’iniziativa
individuali, da un’ironia che esclude presunzioni e tende a
ridimensionare la boria della storia. Un fitto intreccio di
esorcizzazione e di presenza della morte pervade la pur va-
riegata fenomenologia folklorica” (p. 7).
Mi sto soffermando sulla società contadina del Sud,
perché su di essa si esplica da anni il mio impegno di ricer-
ca, ma ogni società ha elaborato, in forme più o meno
complesse, una sorta di “grammatica del dolore” per con-
sentire ai singoli appartenenti a essa di esplicitare il pro-
prio dolore secondo un linguaggio, appoggiandosi così alle
maglie protettive di un discorso (gestuale, comportamenta-
le, verbale).
Si apre qui lo spazio per una contraddizione, forse, ra-
dicale: niente è più personale, inestricabilmente legato alla
nostra intimità, alla profondità del nostro essere, quale ci è
dato percepire, del nostro dolore; eppure niente è più col-
lettivo, nel senso della fruizione, della cultura del dolore; es-
so in una determinata società, viene patito e può diventare
discorso, comprensibile, quindi, da tutti; condivisibile,
quindi, da tutti.
Ogni essere umano rappresenta, nella sua irripetibile
singolarità, un segreto, in quanto tale insondabile. Tra noi
e noi stessi scorre continuamente un’intensa comunicazio-
SPALANCAN VARCHI ENTRO OGNI MURO CIECO... 

ne, di cui percepiamo la profondità sul piano concreto del-


l’erlebnis. La cultura plasma il nostro vissuto, ci fornisce le
maglie attraverso le quali lo viviamo, predispone per noi si-
stemi normativi e discorsivi perché ci sia possibile ordinare
la nostra realtà (sul piano esteriore e su quello interiore),
raggiungendo così il dominio, per quanto provvisorio, su
di esso. Come il dolore può essere detto, come superare gli
eventi dolorosi lo attingiamo dall’insieme delle soluzioni
predisposte dalla nostra società attraverso un lavoro pluri-
secolare, ed è essenziale per non essere sopraffatti dal dolo-
re, per non morire con la morte di chi amiamo. In un capi-
tolo successivo vedremo come si è articolata una rigorosa e
suggestiva lettura antropologica della rappresentazione del
pianto nella Grecia antica, esempio di come, per rendere
sopportabile il dolore, gli uomini lo abbiano reso percorri-
bile attraverso la conoscenza e lo abbiano articolato come
linguaggio. Ma al di qua di tutti i sistemi discorsivi resta il
segreto che noi siamo, irriducibili a qualsiasi discorso, resi-
duo che nessun discorso potrà raggiungere, perché si porrà
sempre, quali che siano gli avanzamenti storici del discor-
so, al di qua di esso, grumo non rischiarato dalla parola ep-
pur nucleo che personalizza la nostra forma peculiare di
essere nel mondo, che caratterizza la nostra unicità.
In questa radicale contraddizione, che è contraddizione
della realtà non di chi la rileva, attingono la loro parziale ve-
rità affermazioni altrimenti contraddittorie: ognuno soffre
come gli altri, ognuno soffre in maniera singolare. L’aspetto
collettivo e quello singolare del dolore individuale coesisto-
no nell’esperienza concreta, per cui il mio dolore è unico,
uguale soltanto a se stesso; io sono il dolore degli altri, io so-
no il mio dolore. Universalità e collettività della sofferenza-
unicità e solitudine della sofferenza: scandalo insanabile, fe-
rita aperta dell’Essere nella quale si rinnova implacabilmente
l’umano patire nella sua costitutiva contraddittorietà.
Dolore e morte: si è già parlato di questo binomio per
cui il dolore si coniuga come dolore della morte e la morte,
lungi dal rappresentare la morte del dolore, si costituisce
come vita del dolore, suo insopportabile alimento.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Ma il dolore è associato, e non soltanto come topos del-


l’ideologia romantica, anche a un’altra, decisiva, esperienza
dell’esistenza individuale: quella dell’amore.
Il singolo sperimenta nella quotidianità la propria pre-
carietà, la propria datità, avvertendo, con ciò stesso, il pro-
prio radicale bisogno di trascendimento.
L’esperienza dell’amore gli svela che tale trascendimen-
to è possibile, ma inerisce a un piano che ha ben poco a
che fare con la gioia. L’amore è sperimentazione della pie-
nezza e, contemporaneamente ma non contraddittoriamen-
te, della mancanza; estasi e sofferenza, piacere e dolore,
non soltanto nell’accezione resaci familiare dalla scienza
antropologica.
In questa prospettiva, l’amore – in quanto unica forma
di esperienza calda della vita – sembra rappresentare il
fondamento della vicenda esistenziale del singolo, l’espe-
rienza datrice di senso, forse l’Essere stesso o almeno la no-
stra maniera di percepirlo.
Ma se l’Essere è amore, o almeno solo come amore pos-
siamo attingerlo, l’essere individuale è proporzionalmente
alla propria realizzazione come io amoroso; diviene o, me-
glio, può divenire progressivamente essere, nel senso pre-
gnante del termine, senza d’altronde poter mai raggiungere
definitivamente l’Essere, senza poterlo mai possedere. In
questa incapacità, nella percezione di essa, come nella per-
cezione che l’Essere forse è il nostro assoluto bisogno di es-
sere “Assoluto”, nasce l’oscuro universo del dolore, che
costituisce il continente su cui poggiano le nostre vicende
esistenziali, isole di questo umano arcipelago che vorrebbe
dilatarsi come arcipelago della gioia ed è continuamente ri-
gettato nella condizione del dolore.
Se queste considerazioni possono apparire verosimili,
sarebbe del tutto illusorio ritenere che il dolore, magari
con l’aiuto di determinate tecniche, possa sparire dall’oriz-
zonte della nostra vita. Certo, possono sparire – e quindi
devono sparire – tutti i dolori che sono effetto di specifiche
condizioni economiche, sociali e politiche, conseguente-
mente, devono essere eliminate, come già sottolineato, tut-
SPALANCAN VARCHI ENTRO OGNI MURO CIECO... 

te le cause che a loro volta, le producono. Ma non può spa-


rire – perché è dell’uomo, è nell’uomo – il dolore della
condizione umana, il dolore di chi esistendo e percependo-
si come essere non può che tendere all’Essere, con la dolo-
rosa consapevolezza che non può comunque raggiungerlo
e dovrà continuamente proporsi come tensione irrisolta,
come desiderio inappagato.
È il dolore che si traduce nell’attesa, che si protrae per
tutta la vita, presso una porta, che non è varcata da alcuno e
che si saprà, ma solo al termine della vita, che solo noi – che
nei suoi pressi abbiamo bruciato in attesa tutta la nostra esi-
stenza – avremmo potuto varcare, secondo lo struggente
racconto di Kafka, che riporterò nel prossimo capitolo, è il
dolore che fa confermare a Rilke: “Come si spenga tramon-
tando il giorno, / io sono tutta una ferita; un orfano; / un
esule dal mondo, estraneo e solo (…) / E stanno intorno a
me, mute, le cose / siccome chiostri in cui mi sento chiuso”;
che spinge Jaspers a sostenere che “non attraverso la gioia di
chi vive pienamente soddisfatto, ma sulla via della sofferen-
za, con lo sguardo fisso sulla faccia inesorabile dell’esserci
nel mondo, e nella incondizionatezza basata sul proprio es-
sere personale in comunicazione con gli altri, l’Esistenza
possibile può raggiungere quel che non rientra in nessun
piano, e come cosa desiderata diventa un controsenso: speri-
mentare l’essere nel naufragio” (Jaspers 1946, p. 278).
È il dolore, non eliminabile attraverso tecniche corpo-
rali e/o terapeutiche, che attraversa la poesia e il pensiero
elaborati dagli uomini, nelle diverse epoche, perché non
sparissero senza aver lasciato traccia di parola.
“(…) E tremano le loro bianche mani, / impigliate nel
folto della vita / come segugi in caccia entro una selva
(…)”; a questa riflessione sul dolore siamo stati introdotti
dai versi di Rilke, che prosegue: “La notte sta come una ca-
sa immensa. / E col terrore di mani ferite, / spalancan var-
chi entro ogni muro cieco: / ànditi lunghi, che non hanno
fine; / ma porta alcuna non conduce fuori”.
Nessuna analisi, nessuna considerazione potrà essere
per noi porta che conduca fuori; né l’antropologia, né nes-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

sun’altra scienza dell’uomo potranno eliminare il dolore –


nostro inalienabile e duro “privilegio”, di cui nessuna ri-
vendicazione o tecnica potrà espropriarci –, per cui, col
terrore di mani ferite, continueremo a spalancare varchi
entro ogni muro cieco. Ma l’antropologia, come tutte le al-
tre scienze dell’uomo, riguardanti il dubbio e le loro pro-
prie costitutive incertezze, potranno abituarci a conferire
domesticità, per quanto umanamente possibile, al nostro
dolore dando a esso orizzonte di discorso.
Il nostro itinerario potrà essere, così, ricerca di un volto
da conquistare, interrogazione di un volto. Può tornare uti-
le, e per molti versi omogeneo a questo discorso, quanto
nota nel suo taccuino Edmond Jabés (1982, pp. 68-69):
“Dio ha creato l’uomo a Sua immagine, poi ha cancellato
l’immagine cancellando così Se stesso.
L’uomo, non avendo conosciuto il volto di Dio, a fortiori
non potrà conoscere mai il proprio volto. Conosce soltanto
il dolore della perdita. Sa che quel che viene indicato come il
suo volto in fondo è solo la nostalgia per una figura assente.
L’immagine di Dio è, allora, l’immagine d’una cancella-
zione infinita? In questo caso anche l’uomo lo sarebbe. E
la rassomiglianza tra le due immagini sarebbe la rassomi-
glianza tra un’immagine assente ed un’assenza d’immagine.
Rassomiglianza, tutto sommato, del Nulla col Nulla.
Per la creatura cercare d’avere un volto nonostante tut-
to significherà doverselo inventare poggiando sulla propria
inguaribile volontà d’esistere.
Ma ogni creazione è legata ad una frazione di tempo
che, priva com’è di futuro, è anch’essa cancellazione.
Quale volto mostreremo, allora? Soltanto l’immagine
d’un’immagine di cui abbiamo ereditato sin dalla nascita il
sogno d’un’appropriazione?
Non c’è dubbio che dietro d’essa c’è il vero volto, sorto
dalla sua cancellazione e con i tratti nuovi continuamente
cancellati: volto di sabbia, scolpito nella sabbia.
Solo a partire dal niente possiamo interrogare quel volto”.
Nel perenne sforzo di conquistare il bene ardente della
conoscenza e nella perenne pena per il dolore inflittoci dal-
SPALANCAN VARCHI ENTRO OGNI MURO CIECO... 

la morte delle persone care, il nostro destino oscilla tra


Prometeo e Niobe. Così, con le parole di Kerényi (1979, p.
301): “Prometeo, l’astuto avversario di Zeus, e Niobe, la
superba amica e rivale di Leto, sono presenti in tutti gli uo-
mini e in tutte le donne. Essi, con le loro caratteristiche pe-
ricolose, rappresentano potenze determinanti della psiche
e in qualunque momento possono esser richiamati a vita,
con tutti i loro pericoli, nei caratteri umani. Anzi, essi, co-
me possibilità dei patimenti e delle passioni dell’anima so-
no più o meno il destino di ogni singolo essere umano. Essi
sono immagini più ampie – quasi tridimensionali – dell’uo-
mo, prototipi che mostrano quei tratti di carattere nella lo-
ro connessione con l’esistenza umana e nelle loro conse-
guenze per questa esistenza, portandoli per sempre come
figure paradigmatiche. E appunto perché essi perciò non
rispecchiano soltanto l’uomo, ma anche il ‘mondo dell’uo-
mo’, essi sono figure divine greche (…). Figure che non so-
no oggetto di culto per adoratori di dèmoni, bensì oggetto
di contemplazione per saggi. E forse sono anche un aiuto
per i filosofi nello sforzo di chiarire la condizione umana in
tutti i suoi aspetti storici e attuali”.
Capitolo nono
La ferita

Il “medico di campagna”, interpellato per “un malato”,


così descrive la ferita per la quale è stato chiamato: “Sul
fianco destro, verso l’anca è aperta una ferita grande come
il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni,
scura di fondo, più chiara verso gli orli, leggermente gra-
nulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la
bocca d’una miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino
appare ancor più grave. E come guardarla senza ansar lie-
vemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mi-
gnolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano,
trattenuti nell’interno della ferita, colle testine bianche e le
numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo,
nessuno ti può aiutare. Ho scoperto la tua orrenda ferita;
questo fiore nel tuo fianco ti farà morire”. Il giovane di-
chiara al medico: “‘Sai (...) la mia fiducia in te è molto scar-
sa. Anche tu sei capitato chissà da dove, non sei venuto di
tua volontà. Invece di soccorrermi mi togli un po’ di spazio
perfino nel mio letto di morte. Ti caverei volentieri gli oc-
chi’. ‘E giusto’ dico io [gli risponde il medico] ‘è una ver-
gogna. Ma io sono un medico, cosa devo fare? Credimi, la
vita non è facile neanche per me’. ‘Di questa scusa mi devo
accontentare? Ahimè, lo farò. Sempre mi devo accontenta-
re. Son venuto al mondo con una bella ferita; è stato tutto
il mio corredo’”.
A partire da questo brano di un famoso racconto pos-
siamo iniziare a riflettere sul tema del dolore nei racconti
di Kafka, anche se sono opportune alcune precisazioni pre-
liminari.
LA FERITA 

Anzitutto, la sofferenza infinita che questo termine ad-


densa, impone che al dolore o al discorso su di esso ci si
accosti con estrema serietà e che, in un certo senso, sia le-
gittimato a parlare di dolore chi sappia cosa esso sia, ne
abbia inteso la profondità, la sua indicibile lacerazione,
chi sia consapevole della sua ontologica afferenza alla con-
dizione umana. È pur vero che qualsiasi discorso autenti-
co sul dolore, qualunque mediazione o sistema di media-
zioni istituisca tra soggetto del discorso stesso e suo conte-
nuto, è sempre, se ne sia consapevoli o meno, autobiogra-
fico. Qualsiasi “favola” si intrecci su tale tema, mai come
in questo caso può essere detto, nel suo senso più pieno,
“de te fabula (...) narratur”.
Per quanto riguarda l’opera kafkiana, le diverse migliaia
di scritti su di essa, la pluralità di interpretazioni – quasi
tutte avanzanti pretese esclusivistiche – dovrebbero dissua-
dere dal tentare un discorso su uno degli autori più indaga-
ti della letteratura moderna e contemporanea. Eppure ba-
sta prendere in mano gli scritti di questo allucinato veggen-
te del tempo dell’angoscia per restarne del tutto catturati,
subendo l’attrazione di un universo descritto con implaca-
bile lucidità, da cui difficilmente si può prescindere, per-
ché è anche il nostro universo. Kafka, notava Remo Canto-
ni, “ha percorso e descritto l’inferno che era in lui ed è an-
che in noi. (Non si può certo dire che il suo viaggio senza
Virgilio sia l’avventura corrotta di un uomo cui piaccia il
soggiorno negli inferi!). Kafka desidera rivedere le stelle,
ma ha descritto con estrema lucidità e coraggio un mondo
senza luce. Questa testimonianza non è un documento o
un messaggio di salvezza. Essa è piuttosto un annuncio di
dolore, una registrazione drammatica di tutto il negativo
che ci minaccia. (Ma solo il riconoscimento aperto della
nostra negatività consente di individuare e medicare il no-
stro male). Kafka ha ancora negli occhi lo spavento della
sua visione infernale. Per questo Kafka può essere un peri-
colo. Ma il messaggio di sventura non è responsabile della
sventura che annuncia. Egli prepara, o lascia sperare, la
possibilità del rimedio. L’uomo Franz Kafka non ci dice
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

quale sia questo rimedio e suscita il sospetto che rimedio


vero e definitivo non vi sia. Invano cercheremo una terapia
ove è presente soprattutto una diagnosi. Ma la diagnosi,
per quanto amara, è sempre preferibile al rifiuto di cono-
scere il nostro male”.
Per quanto riguarda la pretesa esclusivistica della mag-
gior parte delle interpretazioni, è persuasivo il sereno equi-
librio di Camus, che nello stesso momento in cui avanza
una sua lettura del “segreto di Kafka” sottolinea l’uguale
legittimità di altre interpretazioni. Così, Camus si sofferma
sulla “fondamentale ambiguità” nella quale “consiste il se-
greto dello scrittore di Praga”. “Le sue perpetue alternanze
fra il naturale e lo straordinario, l’individuale e l’universale,
il tragico e il quotidiano, l’assurdo e il logico si ritrovano in
tutta la sua opera e gli danno, insieme, la sua risonanza e il
suo significato. Sono questi i paradossi che bisogna enume-
rare, le contraddizioni che bisogna rafforzare per compren-
dere l’opera assurda. Un simbolo, infatti, suppone due pia-
ni di idee e di sensazioni e un dizionario di corrispondenza
fra l’uomo e l’altro. È questo lessico la cosa più difficile da
stabilire. Ma assumere coscienza dei due mondi, messi uno
di fronte all’altro, significa mettersi sulla strada delle loro
segrete relazioni. In Kafka, i due mondi sono quelli della
vita quotidiana da una parte e dell’inquietudine sopranna-
turale dell’altra”. Ma Camus si affretta ad aggiungere a piè
di pagina: “Bisogna notare che, in modo altrettanto legitti-
mo, si possono interpretare le opere di Kafka nel senso di
una critica sociale (per esempio nel Processo). D’altronde, è
probabile che non vi sia da scegliere. Le due interpretazio-
ni sono buone. In termini assurdi, lo abbiamo visto, la ri-
volta contro gli uomini è diretta anche contro Dio: le gran-
di rivoluzioni sono sempre metafisiche”.
Il problema, allora, è di non restare ancorati a un’unica
interpretazione abbracciandola come un dogma. Uno di ta-
li dogmi, “che potremmo chiamare il dogma psicologico, è
formulato da quei critici che si sentono particolarmente at-
tirati dal rapporto, indubbiamente difficile, di Kafka con
suo padre. Ma interpretare i romanzi di Kafka sotto l’ango-
LA FERITA 

lo visuale di Edipo ci aiuta a progredire nella comprensio-


ne della sua opera pressappoco quanto l’affermare che
Kafka sarebbe stata una persona del tutto diversa (e forse
niente affatto uno scrittore), se avesse avuto un altro padre:
pensiero acuto, di cui sarebbero state capaci anche età me-
no iniziate in materia di psicologia, se soltanto lo avessero
considerato degno di essere pensato. Un tal genere di psi-
cologia può contribuire alla spiegazione di un’opera d’arte
nella stessa identica misura in cui l’anatomia ornitologica
può contribuire alla misurazione del canto di un usignolo”.
Possiamo allora, anche se incauti, se non temerari, re-
stare in questo universo kafkiano e ritornare al medico di
campagna. Egli che ha seguito “il richiamo notturno ha
scoperto nel fianco del suo paziente una ferita che è senza
dubbio la verità ed il male della sua esistenza, il desiderio
di morire. ‘Dottore, lasciatemi morire’”, e al tempo stesso
l’unica ricchezza della vita umana: “Con questa bella ferita
io venni al mondo; questo fu tutto il corredo”.
Ma egli è assolutamente impotente a guarirla. “Esigono
sempre l’impossibile dal medico. Hanno perduto l’antica
fede. Il parroco se ne sta seduto in casa a sfilacciare i suoi
documenti sacri, uno dopo l’altro”. L’allusione a un mondo
che non crede più alla possibilità della rivelazione religiosa
è evidentissima. Ma sarebbe molto imprudente pensare a
una problematica teologica risolta in un linguaggio onirico
e surreale. La sostanza del racconto – si può concordare
con Baioni – è piuttosto nella percezione di un’estrema alie-
nazione dell’uomo della propria verità. Quella ferita, più
che il dolore in sé, è il segno di quella “ferita spirituale” –
come Kafka interpreterà nel settembre del 1917 la sua tu-
bercolosi – che rivela una irredimibile condizione dell’uo-
mo il quale, invocando quella superiore verità redentrice
che si cela dietro le opprimenti forme del mondo quotidia-
no, evoca invece forze incontrollabili che lo trascinano alla
rovina. Ma il medico potrà giungere alla sua casa ove “im-
perversa lo schifoso stalliere” e “Rosa è la sua vittima”: “In-
gannato. Ingannato. Una volta che tu abbia seguito il falso
allarme della campana notturna – sei perduto per sempre”.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

La ricerca dell’uomo è pertanto un itinerario senza me-


ta in uno spazio caotico e senza confini. Quell’esigenza in-
sopprimibile di verità e di libertà che è inscindibile dalla
sua condizione umana e lo spinge a abbandonare la prigio-
ne dell’ingannevole realtà empirica, ad evadere verso l’Es-
sere e a riconoscere in questa sua ricerca la propria ipseità,
lo pone di fronte all’angosciosa esperienza dell’Assoluto
che è la meta, ma anche la sua dannazione, tanto che la
creatura che abbia obbedito al superiore comandamento
del “via di qui”, (La partenza) deve ben presto cercare la
sua salvezza nuovamente nella prigione del mondo. Si leg-
ge ad esempio il brevissimo apologo del topo Piccola favola
(Kleine Fabel): “Che cosa spinge il topo che è libero, asso-
lutamente libero, nella trappola? Appunto l’angoscia e la
vertigine della libertà assoluta che lo porta a cercare rifugio
in un mondo ben definito nelle sue dimensioni e nelle sue
prospettive, il quale però altro non è che la trappola in cui
lo attende il fato”.
Nostalgia di ordine, di felicità; angoscia di chi dalle tene-
bre che lo rinserrano tende con tutto se stesso alla luce. Da-
vanti alla legge ne testimonia lo struggente bisogno. “Davan-
ti alla legge c’è un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di
campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano
dice che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflet-
te e chiede se almeno potrà entrare più tardi. ‘Può darsi’ ri-
sponde il guardiano, ‘ma per ora no’”. Siccome la porta che
conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da
parte, l’uomo si china per dare un’occhiata, dalla porta, nel-
l’interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ride-
re: “Se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la
mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltan-
to l’infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardia-
no, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non rie-
sco a sopportarla nemmeno io”. L’uomo di campagna non si
aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere
accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano
avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta,
la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piut-
LA FERITA 

tosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il


guardiano gli dà uno sgabello, e lo fa sedere di fianco alla
porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi ten-
tativi per passare e stanca il guardiano con le sue ricerche. Il
guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede
notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono do-
mande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla
fine gli ripete sempre che ancora non lo può far entrare.
L’uomo che per il viaggio si è provveduto di molte cose dà
fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrom-
pere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: “Lo
accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qual-
cosa”. Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano
quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo
il primo gli sembra l’unico ostacolo all’ingresso della legge.
Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce,
poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé, e siccome
studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pul-
ci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutar-
lo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume de-
gli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più
buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma
ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe
inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a
lungo. Prima di morire tutte le esperienze di quel tempo si
condensano nella sua testa in una domanda che finora non
ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può er-
gere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a
piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di
statura è mutata molto a sfavore dell’uomo di campagna.
“Che cosa vuoi sapere ancora?”. Il guardiano si rende conto
che l’uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da
quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida:
“Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era
destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”.
In un’annotazione del 24 novembre 1917 Kafka scrive:
“Non c’è un avere, ma solo un essere che desidera l’ultimo
respiro, che desidera soffocare”.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

“Che cosa significhi per Kafka vivere la verità, – nota


Baioni – lo spiega ancora la sua parabola. Essere o vivere la
verità vuol dire entrare, senza porre domande, nella casa
della vita e riconoscere che le forme della sua organizzazio-
ne, non sono la verità assoluta, cui aspira nella sua hybris
l’uomo kafkiano, ma semplicemente una necessità poiché
senza di esse non potrebbe esistere la comunità dell’uomo.
Che il campagnolo abbia trascorso la propria esistenza di-
nanzi a quella porta che era destinata solo per lui, vuol dire
allora che quella rappresenta esclusivamente la legge della
sua vita, di quella vita che non ha vissuto, perché ha nutri-
to la dinamica ambizione di essere la verità e al tempo stes-
so di avere la verità”.
In questa condizione di esilio si dispiegano e infierisco-
no sull’uomo “dolore e gioia, colpa e innocenza, come due
mani indissolubilmente intrecciate che bisognerebbe ta-
gliare recidendo carne, sangue e ossa”, come recita un’an-
notazione dell’8 dicembre 1919.
È la “(...) situazione di esilio dalla quale Kafka guarda al
suo mondo. Da questo limite che nessuno certo ha toccato
prima di Kafka, l’esistenza è una immensa contraddizione,
il punto di incontro dell’umano e del divino che si escludo-
no eppure coincidono, ed appare sublime e meschina, divi-
na ed immonda ad un tempo. Nella fantasia dell’uomo che
non è ancora nato – ‘la mia vita’, scriverà Kafka, ‘fu un in-
dugiare di fronte alla nascita’ – dell’uomo cioè che per esse-
re stato esiliato dal mondo è costretto a vivere il mondo co-
me un’irraggiungibile trascendenza, il dramma metafisico
deve svilupparsi tutto sul terreno del finito o, se si vuole, il
finito deve muoversi sul piano metafisico, ma comunque
sempre in uno spazio in cui l’uno e l’altro devono scambiar-
si gli attributi che sono loro propri, per cui Kafka è costret-
to da una parte a trascinare il divino entro le forme del
mondo ed a viverlo virulento e faunesco, volgare e puttanie-
re e ad adorare, dall’altra, ‘religiosamente’ come perfetto
l’imperfettismo mondo della società borghese”.
E da questo esilio, è da questo abisso che sale l’invoca-
zione – presente in un gruppo di annotazioni del 6 luglio
LA FERITA 

1916: “Prendimi nelle tue braccia, cioè nell’abisso, accogli-


mi e, se rifiuti ora, fallo più tardi. Prendimi, prendimi, in-
treccio di follia e dolore”. E vien fuori la confessione:
“Avere una donna significherebbe avere sicurezza da tutte
le parti, significherebbe avere Dio. Anche nel talmud sta
scritto: un uomo senza una donna non è un essere umano”.
Ma nessuno può accoglierci nell’abisso delle sue braccia e
l’amore resta nostro insopprimibile bisogno, agonia dell’es-
sere, meta irraggiungibile, lancinante ferita, scaglia di asso-
luto e augurio o doloroso tradimento di esso. A Milena che
gli scrive: “Voi non avete la forza di amare”, Kafka rispon-
de: “Amore significa che tu sei per me il coltello col quale
io rimesto in me stesso”.
Il 22 ottobre 1913 Kafka scrive: “Dolcezza della malin-
conia e dell’amore. (...) Desiderare sempre di morire e reg-
gersi ancora, soltanto ciò è amore”. Bisogno radicale di
dolcezza, forse possibile, ma comunque “vietato a lui che è
miseria” e che ha “due tavolette avvitate contro le tempie”:
“Travaglio della convivenza. Estorto alla compassione, alla
voluttà, alla vigliaccheria, alla vanità, e soltanto in fondo
forse un rivolo sottile, degno di essere chiamato amore,
inaccessibile alla ricerca balenante talvolta nel momento di
un momento”.
Dal dolore dell’amore – che non può essere amore del
dolore – nasce la favola kafkiana. “La metamorfosi – Cle-
mens Heselhans ha pienamente ragione – è veramente una
favola, una favola negativa, attraverso la quale Kafka riesce
a farci credere qualcosa di terribile, che cioè la metamorfo-
si possa accadere senza colpa di alcuno e che pure vi sia
una colpa immensa, ignota e radicata in ognuno che fa sì
che un uomo si trasformi in un insetto senza più speranza
di ritorno e che coloro che avrebbero la possibilità della
sua salvezza non riescano più a vedere al di là della sua for-
ma immonda quella sostanza umana che pure vive ancora
in lui e che potrebbe essere nutrita soltanto con un atto
d’amore incondizionato. L’incomparabile, agghiacciante
terribilità del racconto, la sua ‘bellezza gorgonica’ – come
ha scritto G. Anders – non è quindi nella metamorfosi in
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

sé, bensì – è ancora Baioni a ricordarlo – nel fatto che l’u-


niverso sia ormai svuotato di ogni forza detentrice e che
tutti gli uomini si siano inariditi e imbestialiti e che l’imma-
gine dell’insetto non sia che lo specchio nel quale essi ve-
dono, senza comprenderlo e senza volerlo veramente com-
prendere, il vero volto.
È questo (...) il ‘messaggio’ di Kafka ed è veramente
inutile chiedersi se la metamorfosi debba prendersi alla let-
tera, cioè nel senso di un incubo, o non piuttosto in senso
simbolico. È naturale che la metamorfosi è un simbolo, co-
me lo è ogni immagine di poesia se poesia è un’interpreta-
zione dell’uomo. E del resto Kafka lo ha espresso più chia-
ramente in una lettera all’editore Walff del 25 ottobre 1915
nella quale afferma, categoricamente, che “‘l’insetto non
deve essere disegnato sulla copertina e nemmeno mostrato
da lontano’ e raccomanda al disegnatore Ottomar Starke di
rappresentare semmai i genitori e la sorella dinanzi alla
porta aperta della stanza di Gregor nel buio”.
Ciò che è scritto è ciò che deve essere scritto, l’uomo
riesce a decifrarlo solo se condannato e solo “con le sue fe-
rite”. “L’erpice – spiega all’esploratore l’entusiasta ufficiale
nella Colonia penale comincia a scrivere; una volta che lo
scritto è stato segnato una prima volta sulla schiena dell’uo-
mo, lo strato di ovatta si arrotola facendo girare così il cor-
po lentamente da una parte, per offrire all’erpice nuovo
spazio (i punti piagati della scrittura vengono a trovarsi in-
tanto a contatto dell’ovatta che, per la sua speciale prepara-
zione, arresta subito l’emorragia e prepara il corpo a una
più profonda incisione della scrittura. Questi denti all’orlo
dell’erpice strappano via a ogni movimento del corpo, l’o-
vatta dalle ferite e la gettan nella fossa, sicché l’erpice può
riprender il suo lavoro). E così, per dodici ore, scrive sem-
pre più profondamente. Nelle prime sei ore il condannato
vive quasi come prima, non sente che dolore. Dopo due
ore vien levato il feltro, poiché l’uomo non ha più la forza
di gridare. (Qui, in questa scodella a capo del letto, scalda-
ta elettricamente, c’è una pappa di riso caldo e l’uomo, se
ne ha voglia, può mangiare quanto gli riesce di prenderne
LA FERITA 

con la lingua. Nessuno si lascia sfuggire questa occasione.


Non ne ho conosciuto neppur uno che non lo facesse e la
mia esperienza è grande. Soltanto verso la sesta ora perde il
gusto di mangiare. E allora mi metto di solito in ginocchio
qui vicino per osservare il fenomeno. L’uomo inghiotte di
rado l’ultimo boccone, lo rigira soltanto in bocca per spu-
tarlo nella fossa. Mi devo chinare allora, altrimenti mi viene
in faccia. Ma come si quieta l’uomo). Ma dopo la sesta ora!
Al più ottuso si dischiude l’intelligenza. Comincia a diffon-
dersi dagli occhi. (È una vista che potrebbe tentare qualcu-
no a mettersi accanto al condannato sotto l’erpice). In fon-
do non succede che una cosa: l’uomo comincia a decifrare
lo scritto; stringe le labbra come se stesse in ascolto. Lo ha
visto lei stesso, non è facile decifrare lo scritto cogli occhi;
ma il nostro uomo lo decifra con le sue ferite. È certamente
una gran fatica e gli ci voglion sei ore per compierla. Ma in
quel punto l’erpice lo trafigge completamente e lo getta
nella fossa, dove cade con un tonfo sull’ovatta e l’acqua in-
sanguinata. Allora la sentenza è stata eseguita e noi, io e il
soldato, lo sotterriamo”.
È stato già sottolineato che “l’uomo-ponte kafkiano che
– come ha scritto l’Eruzich – tenta di superare in forza del
suo pensiero le anatomie dell’esistenza, può redimersi – ed
annientarsi – soltanto attraverso la distruzione della co-
scienza, che è appunto per Kafka quel suo assurdo stato di
sospensione tra l’inganno e la verità. Perciò la vita dell’uo-
mo è una serie di distruzioni; perciò la ricerca razionale, la
conoscenza, può essere interpretata da Kafka (...) come il si-
gnificato ultimo della morte. Volere la conoscenza insomma
è per Kafka volere la morte, poiché – come ci ha insegnato
nella Colonia penale – soltanto nel tormento estremo della
morte l’uomo può riuscire a leggere le parole della legge”.
Siamo giunti così al punto nodale dell’itinerario kafkia-
no, cominciamento del dolore, sua insopprimibile fonte,
sua interpretazione, suo trascendimento e riscatto: la mor-
te. “(...) Non soltanto quando muoiono, ma, si direbbe,
quando vivono, è nello spazio della morte – lo ha notato
Blanchot – che i personaggi di Kafka si muovono, è al tem-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

po indefinito del ‘morire’ che essi appartengono. Fanno


prova di questa estraneità e Kafka, in essi, è egli stesso alla
prova. Ma gli sembra che potrà condurla ‘a buon fine’, ri-
cavarne racconto e opera soltanto se, in un certo modo,
egli è già in accordo col momento di questa prova, se è
uguale alla morte”.
(È stato ancora rilevato che “se essa è ciò davanti a cui ci
si perde d’animo, ciò che non si può contenere” allora la
morte sottrae le parole da sotto la penna, toglie la parola; lo
scrittore non scrive più, grida, un grido maldestro, confuso,
che nessuno sente o che non commuove nessuno). Kafka
sente qui profondamente che l’arte è relazione con la mor-
te. Perché la morte? Perché essa è l’estremo. Chi ne dispo-
ne, dispone in maniera estrema di sé, è legato a tutto ciò
che può, è integralmente potere. L’arte è padronanza del
momento supremo, suprema padronanza”. Io direi che è la
parola – nel suo significato più denso – a costituirsi come
padronanza del momento supremo, suprema padronanza.
Il dolore rende impossibile la vita che resta come radi-
cale nostalgia di totalità, di quiete, sogno irrealizzabile di
felicità. E allora la vita, da un lato, dovrà dare in qualche
misura spazio al dolore, perché non ne resti totalmente ir-
retita, schiacciata nel silenzio cadaverico e lo potrà fare co-
stituendogli un orizzonte di percorribilità, guadagnando
continuamente la parola come interminabile agonia dell’es-
sere, pianto per la sua morte eternamente incompiuta; dal-
l’altro dovrà rendere possibile la morte.
“Poter morire cessa dunque di essere una domanda priva
di senso e si capisce come lo scopo di un uomo sia la ricerca
della possibilità della morte. Questa ricerca, tuttavia, diventa
significativa solo quando è necessaria. Nei grandi sistemi re-
ligiosi la morte è un avvenimento importante, ma non solo è
il paradosso di un fatto bruto senza verità: è rapporto con
un altro mondo dove proprio il vero avrebbe origine, è la via
della verità e se le manca la cauzione delle certezze com-
prensibili che sono le nostre quaggiù, ha la garanzia delle
certezze incomprensibili, ma incontrollabili, dell’eterno. Nei
grandi sistemi religiosi dell’Occidente, non c’è dunque diffi-
LA FERITA 

coltà a considerare la morte come vera, essa ha sempre luo-


go in un mondo, è un avvenimento del più grande mondo,
un avvenimento situabile e che a sua volta ci colloca.
Posso morire? Ho il potere di morire? Questa domanda
ha forza solo quando tutte le scappatoie sono state rifiuta-
te. (Dal momento che si raccoglie completamente su di sé
nella certezza della sua condizione mortale, allora la preoc-
cupazione dell’uomo diventa quella di rendere la morte
possibile. Non gli basta essere mortale, comprendere che
deve diventarlo, che deve essere due volte mortale, sovra-
namente, estremamente mortale. È la sua vocazione uma-
na. La morte, nell’orizzonte umano, non è ciò che è dato, è
ciò che è da fare: un compito, cioè di cui prendiamo pos-
sesso attivamente, ciò che diventa la sorgente della nostra
attività e del nostro controllo). L’uomo muore (...), ma
l’uomo è a partire dalla sua morte, si lega fortemente alla
sua morte, con un legame del quale è giudice, fa la sua
morte, si fa mortale, e, con ciò, si dà il potere di fare e dà a
quello che fa il suo senso e la sua verità. La decisione di es-
sere senza essere è questa possibilità della morte.
I tre pensieri che cercano di rendere conto di questa
decisione e che a causa di ciò, sembrano meglio illuminare
il destino dell’uomo moderno, quali che siano i movimenti
che li oppongono, il pensiero di Hegel, quello di Nietzsche
e quello di Heidegger, tendono tutti e tre a rendere la mor-
te possibile”.
“Desiderio di un sonno più profondo che risolve di più
il bisogno metafisico non è che bisogno di morte”, scrive
l’8 aprile 1912, un sabato santo.
“(...) Anche altri vacillano ma in regioni più basse, con
energie maggiori; e se minacciano di cadere sono accolti
dal presente che per questo scopo cammina al loro fianco.
Io invece vacillo lassù e non è purtroppo la morte, bensì
l’eterna tortura del morire”, annota il 6 agosto 1914.
“La sua mano contro la mia gola”, dice Kafka parlando
dell’angoscia, di “questa” angoscia, in una lettera a Milena,
e si dipinge come quel “folle Diogene” che prega Alessan-
dro di scostarsi e lasciarlo esposto ai raggi implacabili del
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

sole, di un sole “invariabilmente bruciante tale da farlo im-


pazzire”. Così con quello stesso sudore d’angoscia Kafka
supplica di essere giustiziato dalla verità che è un sole nei
cui raggi terribili si torce e si denuda lo spasimo umano.
Questa “verità” accecante dinnanzi alla quale unica nostra
“arte” è quella di lasciarsi accecare: “la luce smorfiosa del
viso che rilutta”, questa Verità ci ricorda la Necessità spi-
noziana che bisogna aequo animo ferre e di fronte alla qua-
le non vale ridere, leggere, detestarsi, quella crudele Beati-
tudine che – secondo Scestov – da Socrate a Nietzsche, a
Kierkegaard costituisce la triste filosofia dell’accettazione
ed è la “belva qua non occisa homo non potest vivere”.
La morte è dunque – lo ha sottolineato Marini – il casti-
go stesso della liberazione: “La felicità consisteva in questo,
che veniva il castigo ed io libero, persuaso e felice gli davo
il benvenuto: uno spettacolo che doveva commuovere gli
Dei e anche questa commozione degli Dei io la sentivo fino
alle lacrime”.
E Kafka invoca questo “‘tribunale invisibile’ che na-
sconde un Dio crudele. È dunque la morte la nostra salute,
ma non questa poiché questa è soltanto una fine apparente
che causa un dolore reale. Se la morte è il castigo della libe-
razione dovrà essere anche la liberazione dal castigo: sono
queste due possibilità che si implicano paradossalmente
nel fatto stesso della morte”. La morte è dunque verità su-
prema, totale oscurità e datrice di luce, incomprensibilità
conferitrice di senso. Nella cornice della morte può intra-
vedersi l’orizzonte di verità.
Claudio Magris ha scritto, a proposito di Wittgenstein e
di Kafka: “La verità non è qualcosa che si possa dire, un
oggetto del discorso filosofico, ma è qualcosa in cui si do-
vrebbe stare, riposare; solo chi è avvolto nella verità e tro-
vandosi in essa, vi dovrebbe stare, riposare; solo chi è av-
volto nella verità e trovandosi in essa, può confidare di non
preferire menzogne o errori”. In quest’orizzonte di verità si
situa la voce di Kafka.
Alle parole di Nietzsche: “Chiunque abbia costruito un
nuovo cielo, ne ha trovato la forza soltanto nel proprio in-
LA FERITA 

ferno” fanno riscontro quelle di una lettera di Kafka: “Nes-


suno canta con voce così pura come coloro che si trovano
nel più profondo dell’inferno; quello che noi prendiamo
per il canto degli angeli è il loro canto”. È dal più profon-
do dell’inferno che ci giunge questa parola che dice l’uma-
no patire: l’insopportabile dolore dell’uomo e l’impossibi-
lità dei suoi sogni; parola del dolore, dolore della parola,
che è l’unico “canto” che nell’inferno della nostra condi-
zione possiamo intendere.
“Raabe sul punto di morire, mentre sua moglie gli passa
una mano sulla fronte: ‘Questo è bello’, così in un’annota-
zione del 20 dicembre 1921. Sappiamo bene che nessuna
mano sulla fronte ci sarà data, e quand’anche una mano di
donna (‘avere una donna (...) significherebbe avere Dio’) si
soffermasse con dolcezza sul nostro volto devastato non
potrebbe assorbire il dolore, sanare ‘la ferita’, quella ‘bella
ferita’ con la quale siamo venuti al mondo e che ‘è stato
tutto il nostro corredo’. Sappiamo bene che ‘l’imperatore
(...) ha inviato [a noi], a un singolo, a un misero suddito,
minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze
del sole imperiale, proprio [a noi] l’imperatore ha inviato
un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare
il messaggero al letto, sussurandogli il messaggio all’orec-
chio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orec-
chio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di
quel che gli veniva detto’. Il portatore di questo messaggio
esatto e personalizzato s’è messo subito in moto; è un uo-
mo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con
l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, ac-
cenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più
facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le
sue dimore non hanno fine (...) ancora cerca di farsi strada
nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a su-
perarle; e anche se gli riuscisse non servirebbe a nulla; do-
vrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se
gli riuscisse, non servirebbe a nulla: c’è ancora da attraver-
sare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così
via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

dell’ultima porta – ma questo mai potrà avvenire – c’è tutta


la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno
di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto
meno col messaggio di un morto”.
Sappiamo tutto questo – lo sappiamo da anni, quale
che sia l’età nella quale ci riconosciamo o che ci viene im-
placabilmente inflitta, – lo sappiamo da anni, “la mia vita
fu un indugiare di fronte alla nascita”, ma non possiamo –
né forse, vogliamo – non stare alla finestra e sognare, quan-
do giunge la sera.
Capitolo decimo
La conquista del pianto o della cognizione del dolore

“Il dolore spezza. È lo spezzamento. Ma esso non


schianta in schegge dirompenti in tutte le direzioni. Il do-
lore, sì, spezza, divide, però in modo che anche insieme
tutto attira a sé, raccoglie in sé. Il suo spezzare, in quanto
dividere che riunisce, è al tempo stesso quel trascinare, te-
so in opposte direzioni, che diversifica e congiunge ciò che
nello stacco è tenuto distinto. Il dolore è la connessura del-
lo strappo. Questa è la soglia. La soglia regge il frammezzo,
il punto in cui i Due si staccano e s’incontrano. Il dolore
salda lo spezzamento della differenza stessa” (Heidegger
1959a, p. 39).
Il dolore su cui riflette Heidegger, a partire da una rilet-
tura della poesia di Trakl, è percepito dalla cultura contem-
poranea come inerente alla stessa condizione umana.
Di questa radicale organicità potrebbero essere addotte
innumerevoli testimonianze, teoriche e poetiche, ché ogni
volta che si è affrontato seriamente il problema dell’esi-
stenza dell’uomo con ciò stesso ci si è posti dinanzi all’ine-
ludibile nodo del dolore.
Lo spezzamento heideggeriano è frattura, scissione ori-
ginaria, ferita non dissimile da un’altra ferita scoperta, in
un racconto famoso, su cui ci siamo soffermati nel capitolo
precedente, da un medico di campagna che è assolutamen-
te impotente a guarire una ferita siffatta, verità e male del-
l’esistenza umana e al tempo stesso unica ricchezza.
Come ha testimoniato Kafka, profeta e veggente di que-
sto nostro tempo tormentato, nella condizione di esilio in
cui è situato l’uomo si dispiegano e infieriscono su di lui
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

“dolore e gioia, colpa e innocenza, come due mani indisso-


lubilmente intrecciate che bisognerebbe tagliare recidendo
carne, sangue e ossa”, come recita l’annotazione dell’8 di-
cembre 1919 già riportata.
Non è soltanto di questo nostro tempo la percezione
del nesso dolore-condizione umana. Se il libro di Giobbe
afferma “(…) l’uomo nasce per soffrire / come le faville
per volare in alto”, tale “sconsolata constatazione (…) ri-
sulta scontatamente condivisa dalle più svariate e diverse
civiltà (…), le quali, ben consce del profondo malessere in-
sito nella condizione umana, parrebbero quasi smaniose di
vincolare, già biologicamente, la sorte di ciascuno all’ineso-
rabile condanna del dolore, sia fisico che morale”.
Non fa, certo, eccezione il mondo classico, anch’esso
proteso a spacciare la sofferenza come profondamente
connaturata all’uomo. L’etimologia del dolore la presenta,
infatti, quale gravame inevitabile, che, stando alla fonte let-
teraria più antica, Zeus gli avrebbe imposto fin dalla nasci-
ta: appunto per questo motivo si distinguerebbe sia dagli
altri esseri terreni – comunque meno lacrimevoli di lui –,
sia dagli dei – privi di affanni – per la sorte infelice che gli
è toccata. In questa prospettiva sviluppa la sua significanza
l’episodio mitico “in cui Odysseus optò per il dolore deci-
dendo una volta per tutte la condizione umana col dichia-
rarsi pronto a sopportare ogni sofferenza i numi volessero
ancora mandargli, in quanto dotato di animo avvezzo alle
pene” (Piccaluga 1989).
Ma questo dolore, di cui testimoniano filosofi, narratori
e poeti, è pur sempre dolore umanato, sofferenza che è sta-
ta caricata di significato, per quanto enigmatico. Altro sa-
rebbe il dolore che frantuma, lascia irrimediabilmente l’uo-
mo nella sua datità, soffoca.
Dolore, questo sì, totalmente insopportabile, mortale.
Per renderlo in qualche modo sopportabile, per non
morire nel dolore che si riversa su di lui, l’uomo lo rende
percorribile attraverso la conoscenza. Conosciuto, il dolore
è in qualche modo organizzato, dominato, trasceso; può es-
sere rappresentato, può articolarsi come linguaggio. Il do-
LA CONQUISTA DEL PIANTO... 

lore si trasmuta nella cognizione del dolore: “solo chi sof-


fre, sa” è l’altissimo ammonimento eschileo, la conoscenza
ha nel dolore il suo fondamento, la sua radicale cifra di le-
gittimazione, di verità. La verità, per l’uomo, non è dono,
non si accompagna alla gioia; è faticosa, inesausta conqui-
sta, è enigmatico volto che già contemplare è mortalmente
rischioso. La verità non può essere vista impunemente; non
è un caso che l’aedo – significativamente “maestro di ve-
rità” nell’antica Grecia – sia spesso rappresentato cieco,
come ci suggerisce emblematicamente la figura di Omero.
La verità del mondo acceca, e acceca anche, forse so-
prattutto, la verità di noi stessi, del nostro destino, che pun-
tualmente eseguiamo come un’antica condanna, decisa in
un irraggiungibile Castello o secondo un insondabile Pro-
cesso, come, a noi vicini, ci suggeriscono protagonisti di
opere famose e come, più lontana nel tempo, ci ammonisce
la vicenda di Edipo. La verità ha un costo, in termini di ri-
schio e di sofferenza e lo ha anche la verità del futuro, la sua
visione. Non si diventa impunemente profeti; lo sperimenta
con la perdita della vista, il veggente Tiresia, reo di avere vi-
sto la nudità di Atena. Verità, veggenza, profezia: nodi di un
itinerario alla conoscenza che la sofferenza rende possibile e
sostiene; ancora una volta, “solo chi soffre, sa”.
La conoscenza si realizza attraverso il linguaggio, si arti-
cola come linguaggio, significativamente detto, in alcune
elaborazioni filosofiche contemporanee, come già ricorda-
to in un precedente capitolo, “dimora dell’Essere”.
Materiale di questo linguaggio primigenio, qui ricorda-
to attraverso rapidissimi tratti, il corpo umano, i suoi umo-
ri. Il sangue, lo sperma (per molti versi assimilabile al san-
gue), le lacrime sono investiti da un’intensa carica di valo-
razione simbolica, per cui possono veicolare significati e
dispiegarsi come linguaggio.
Roland Barthes (1977, p. 159) si domandava anni fa “in
quali società, in quali epoche si è pianto?”; Laura Faranda
tenta di rispondere, puntualmente e quindi parzialmente a
un interrogativo siffatto, delimitando rigorosamente l’am-
bito temporale e spaziale della sua ricerca e riflettendo an-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

che su come e perché si piangesse nella Grecia antica. Si


tratta di una suggestiva e criticamente sorvegliata lettura
antropologica della rappresentazione del pianto, attuata “ri-
costruendo e sorvegliando l’iter culturale di questo istituto
entro un universo di pensiero che va dall’epica omerica ed
esiodea alla produzione tragica di Eschilo, fino al messag-
gio pedagogico-filosofico di Platone” (Faranda 1992).
Ronsard, riflettendo sulla sua Elena, afferma: “Anche
Marte gioisce delle lacrime come Amore”; il motivo delle
lacrime nell’antica Grecia è denso di significati, di radica-
li ambivalenze e suscettibile di diverse interpretazioni.
Esemplificativamente, Nicole Loraux si domanda: “Che
cos’è dunque Elena per sé e per gli altri? Oggetto? Sog-
getto?” e prosegue: “sembra che talvolta si debba rinun-
ciare a distinguere tra i due. Prendiamo ad esempio il
motivo delle lacrime. È evidente che le lacrime sono fami-
liari ad Elena, e in genere nell’epopea si può distinguere
tra quelle da lei versate e quelle che lei fa versare ai com-
battenti nella guerra, altra fonte di pianto insieme a lei
(…). Ma talvolta è difficilissimo scegliere tra il soggetto e
l’oggetto. Che cosa dobbiamo intendere, infatti, quando
nel II canto dell’Iliade per ben due volte agli Achei o a
Menelao viene attribuito il desiderio di “vendicare le ri-
bellioni e i gemiti di Elena”? (…) Gli Achei devono ri-
scattare le lacrime di Elena o quelle che lei fa versare lo-
ro? La prima soluzione, scelta ad esempio da Paul Ma-
zon, del quale seguo la traduzione, è molto seducente.
(…) Nestore, valente oratore che sa riaccendere l’ardore
delle truppe, e Menelao, marito tradito, hanno tutto l’in-
teresse a credere o a far credere ai singhiozzi di un’Elena
rapita contro la sua volontà. Ma neppure la seconda solu-
zione, che consiste nel far sussultare e piangere i guerrieri
e Menelao per primo, a causa o a proposito di Elena, è
priva di fondamento nel contesto preciso del canto II co-
me anche nella tradizione, e del resto era già ritenuta ac-
cettabile dai critici d’età ellenistica. Chi potrà mai decide-
re in modo definitivo tra Elena-soggetto e Elena-ogget-
to?” (Loraux 1989, pp. 210-211).
LA CONQUISTA DEL PIANTO... 

Consapevole di simili ambivalenze e resistendo alla pro-


spettiva della traducibilità interculturale del pianto come
modello espressivo, Laura Faranda, dopo aver individuato
i tratti essenziali della letteratura specifica, sceglie di inve-
rare le sollecitazioni ricevute ancorando saldamente le pro-
prie argomentazioni alle fonti documentarie.
Il quadro teorico di riferimento è molto ampio e com-
prende de Martino e Mauss, Granet e Leach, Havelock e
Goody, Gernet e Vernant, Vidal-Naquet e Loraux e nume-
rosi altri studiosi, i cui contributi vengono richiamati se-
condo criteri di estrema pertinenza. Tali contributi hanno
consentito a Faranda l’organizzazione di un discorso di sal-
do impianto teorico-metodologico e denso di puntuali ac-
quisizioni critiche.
Con tale corredo problematico la studiosa procede a
una lettura dei poemi omerici che le consente “di sor-
prendere l’esperienza del pianto come progressiva con-
quista di un linguaggio inaugurale che proietta la fisicità
del corpo nel regno della parola. ‘Parole fermentanti’
emesse dal corpo storico di una cultura, le lacrime dell’e-
roe omerico si venivano infatti articolando tra una nozio-
ne arcaica del dolore – contrassegnata dal grido – e una
nuova percezione della sofferenza che converte il grido in
linguaggio, articolandone e plasmandone la sonorità at-
traverso le forme espressive del lamento e del pudore”
(Faranda 1992, p. 18).
Al modello eroico omerico si collega il ciclo mitico di
Oreste: “e l’accezione simbolica del motivo-pianto si offri-
va di fatto nell’Orestea come vibrante prolungamento del-
l’eredità epica, come frutto di una ‘fonte orale’ del genio
ellenico, entro cui la parola si organizza e si riplasma anco-
ra secondo le esigenze di una memoria culturale prelettera-
ria” (p. 21).
Altro è il pianto nel modello platonico, “significativa-
mente plasmato dalla coscienza critica di chi ha compreso
appieno le potenzialità della scrittura nell’accumulo del sa-
pere e nella crescita delle facoltà analitiche, di sintesi e di
astrazione della mente umana” (p. 22).
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

È il Platone del III libro della Repubblica (377e-388a)


ad affermare “Avremo dunque ragione ad abolire i lamenti
degli uomini celebri e a farne materia da donne, anzi da
donnicciole e da uomini vili, affinché coloro che diciamo
di educare per la difesa del paese disdegnino di compor-
tarsi in modo simile a loro. E torneremo a pregare Omero
e gli altri poeti di non rappresentare Achille, figlio di una
dea, giacente ora sul fianco, ora supino, ora bocconi (…)
né in preda a tutti quei gemiti e pianti che il poeta gli ha
attribuito” .
Sottolinea Laura Faranda: “emblematico gesto extra-
linguistico sottomesso ai codici simbolici di una cultura
per la quale l’unica prepotente metafora conoscitiva del-
l’io era il corpo vivente, il pianto poteva farsi ‘vocabolo so-
noro’ di un soggetto storico solo fin quando lo spirito gre-
co soggiaceva alla ‘forza ipnotica’ della tradizione” (Fa-
randa 1992, p. 23).
Ho delineato con le sue stesse parole l’itinerario che
Laura Faranda compie nell’universo culturale della Grecia
antica, tesa ad ascoltare il linguaggio – spesso criptico,
sempre eloquente – delle lacrime, “parole fermentanti” e
quindi dense di una pluralità di significati.
“Solo chi soffre, sa”, ammonisce, l’ho già ricordato, il
Coro dell’Agamennone; solo chi piange rende intellegibile
il dolore, ne consente l’umanizzazione, la percorribilità e,
quindi, il trascendimento.
Il discorso di Laura Faranda parte dalla nascita degli
uomini, siano essi frutto delle lacrime di Helios o di quelle
di Ra, il dio del sole, secondo un mito egizio.
Le lacrime di Kronos sono, per i pitagorici, all’origine
dell’oceano; quelle di Prometeo, secondo una narrazione
attribuita a Esopo, all’origine dell’uomo; quelle di Niobe,
trasformata in roccia presso il monte Sipilo nell’Asia Mino-
re, perché colpevole di superbia nei confronti della dea Le-
to, scorrono in eterno, secondo la narrazione sofoclea, lun-
go il suo collo di pietra; quelle di Mirra, figlia del re del Li-
bano, amante incestuosa del padre Tia con il quale conce-
pisce Adone, giovane amante di Afrodite, consentono la vi-
LA CONQUISTA DEL PIANTO... 

ta al figlio, una volta trasformata, per espiare la propria


colpa, in un albero dalla cui corteccia sgorgano le lacrime
in forma di aromatica mirra; numerosi altri pianti mitici
delineano l’universo rendendolo scenario per la vita del-
l’uomo. “Pianto come principio liquido che segnala la pre-
potenza della vita in un cosmo regolato dall’azione divina,
e al tempo stesso pianto come soglia espressiva di ricompo-
sizione mitica della dialettica vita/morte: entro tale duplice
funzione simbolica le lacrime divine rifluiscono nella sim-
bologia acquatica con esemplare coerenza morfologica.
Niobe, madre primordiale, si tramuta in roccia che piange
sotto forma di sorgente; all’arido dolore di Demetra fa da
contrappunto catartico la sorgente Ciane; Adone, figlio
delle lacrime di Mirra, si dilegua nel mare, mentre Fetonte
viene risucchiato dalle acque di un fiume sulle cui rive
svettano pioppi che stillano sotto forma di ambra le lacri-
me delle sorelle. Se ancora ci lasciassimo guidare dal lin-
guaggio del mito (dove nulla è mera suggestione etimologi-
ca e dove ogni segno va interpretato) non potremmo non
ricordare Pènteo, mitico eroe greco, vittima del furore dio-
nisiaco, il cui nome richiama etimologicamente il pianto, e
che fu generato da Agave, una delle Nereidi, le famose dee
del mare da cui gli uomini appresero i misteri di Dioniso e
Persefone: quasi che dall’acqua si disveli agli uomini il se-
greto racchiuso nella fecondità e nella morte, per materia-
lizzarsi, infine, nelle lacrime” (p. 35).
L’autrice è pienamente consapevole che in tali esempi il
linguaggio del mito spesso è stato rielaborato poeticamente,
ma è consapevole anche del rapporto di profonda organi-
cità tra il poeta e la collettività e della funzione, nella Grecia
arcaica, del poeta stesso, “maestro di verità”, lo si è già ri-
cordato, e collaboratore nell’ordinamento del mondo. Nella
prospettiva delineata, Laura Faranda individua una serie di
“concordanze mitiche di lacrime divine” che presentifica-
no, fra l’altro, sia il pianto di Iside per la morte del dio Osi-
ride che origina la piena del Nilo, che l’epopea di Gilgame-
sh, nella quale viene individuata “una nuova prospettiva
fondante del motivo simbolico del pianto”. Il quadro che
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Laura Faranda tratteggia utilizzando questa vasta mole di


materiali mitici è di notevolissima suggestione e ci si potreb-
be smarrire in esso. Saremmo in ogni caso debitori di una
seducente esperienza letteraria, ma abbandoneremmo il
piano del discorso scientifico, che è soltanto uno dei possi-
bili approcci alla realtà, ma che comunque ha sue norme,
una sua interna coerenza e deve garantire continuamente la
sua verificabilità. L’autrice non occulta i pericoli di alcuni
richiami e di alcune analogie, ove non siano organizzati se-
condo rigorosi itinerari critici. “Esiste tuttavia il rischio (…)
che una simile operazione associativa possa indurci a un va-
gabondaggio asistematico entro i sentieri criptici di un uni-
verso mitico del tutto insondabile, in realtà, senza il ricorso
a quei ‘funzionari della sovranità’ che nella tradizione greca
si fecero depositari, attraverso la parola poetica, del lin-
guaggio del mito. L’unica via possibile per ovviare a questo
rischio ci sembra risieda allora nel tentativo di inverare, sor-
vegliare e rafforzare storicamente le nostre ipotesi, ripen-
sando i miti di emergenza, le cosmogonie e le teogonie al-
l’interno della tradizione epica: accanto alle storie divine, le
gesta individuali e le imprese umane di eroi accomunati agli
uomini da una fondamentale prerogativa esistenziale: il de-
stino e la coscienza della morte” (pp. 51-52).
Ancora una volta, è alla dialettica vita-morte che si
giunge, dialettica sottesa a qualsiasi impegno umano di pla-
smazione culturale del caos. La morte, con la sua potenza
nullificante viene puntualmente assorbita in elementi di vi-
ta e pertanto neutralizzata nella sua radicalità. Attraverso
una serie di mediazioni che comprende istituti, figure, sce-
nari simbolici la vita riafferma – anche articolando il lin-
guaggio del pianto – la sua supremazia. Per molti versi, po-
trebbe essere sostenuto che tutta l’opera di plasmazione
culturale nella quale le diverse società si sono profonda-
mente impegnate, quali che siano le loro modalità specifi-
che, abbia avuto come finalità essenziale la neutralizzazio-
ne della morte, il suo trascendimento.
Società per società, periodo storico per periodo storico,
si potrà tentare di ricostruire, collazionando tratto su trat-
LA CONQUISTA DEL PIANTO... 

to, la griglia complessiva con la quale, in un determinato


ambito storico-culturale, la morte è stata assoggettata alle
ragioni della vita. Possono mutare le tonalità specifiche, ma
non il linguaggio complessivo, la sua interna necessità, la
sua finalità. È, sempre e comunque, la vita ad affermare la
sua insopprimibilità, la sua volontà di permanere, contro la
morte, oltre la morte.
In questa prospettiva problematica, e a questo livello di
generalizzazione, tutte le culture possono essere viste come
una contestazione radicale della morte, come un’organizza-
zione delle ragioni della vita.
Ritornando alla cultura greca classica e al tema del
pianto, potrà essere ricordato, con Eschilo, l’intrecciarsi di
lacrime del dio, delle Oceanine e della gente asiatica. È nel
pianto che dei e uomini si incontrano, è nel pianto che si
attua per eccellenza la comunicazione. Si intende, quindi,
la confessione alle Oceanine di Prometeo che giustifica il
suo amore per l’uomo: “Io sì, io ho pianto / fu quella la
mia scelta / sugli esseri umani”.
Affrontando i poemi omerici, Laura Faranda indaga an-
che le tracce di sangue disseminate nel testo impegnandosi
a intenderne le valenze simboliche.
Il sangue – l’ho sottolineato anche in altra sede – è uno
degli elementi che sono stati fatti oggetto di intensa valora-
zione simbolica, utilizzato per dire sia la morte che la vita
nelle sue molteplici forme e per poter celebrare, infine, la
vittoria della vita.
Non sorprende, quindi, che tale filo rosso percorra cul-
ture classiche e culture folkloriche; connetta istituti lonta-
nissimi nel tempo e nello spazio, esiti di processi storici e
culturali molto diversi; si ritrovi in modalità estremamente
differenziate; inerisca, nell’uomo, alla dimensione dell’esse-
re, non a quella dell’avere.
Linguaggio, questo del sangue, fondante ed enigmatico;
elemento, il sangue, primigenio – lo si è già accennato – at-
traverso il quale l’uomo ha conquistato la parola e, con il
linguaggio, la possibilità di trascendere la propria datità e
la datità del mondo.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Il dolore – si è già detto e la ricerca di Laura Faranda lo


testimonia con lucida persuasività – viene ordinato e tra-
sceso nel linguaggio delle lacrime; tale linguaggio e quello
del sangue percorrono sentieri paralleli che hanno signifi-
cativi punti di confluenza e di intreccio.
In questa prospettiva il complesso rituale della vendet-
ta, quale si dispiega nei poemi omerici, mostra notevoli
analogie e si iscrive nello stesso scenario simbolico della
vendetta nelle culture folkloriche mediterranee, secondo
l’analisi compiutane da Mariano Meligrana (Lombardi Sa-
triani, Meligrana 1982).
Una volta attuata la vendetta, il lamento di Achille sulla
salma di Patroclo costituisce un nodo decisivo del processo
di plasmazione culturale del dolore che Laura Faranda ri-
costruisce con acutezza interpretativa. “Da questo momen-
to il grido di Achille approda definitivamente nel registro
espressivo del linguaggio. Un linguaggio ancora mutuato
dal pianto, ma ormai pienamente articolato (…) nel regno
della parola. Achille piange il proprio morto e al tempo
stesso lo chiama per nome: alla conquista di un nome da
evocare, da riplasmare attraverso il circuito della sofferen-
za, e infine da ricomporre nel terreno della memoria, con-
segue per Achille il recupero e la riconquista di una pro-
pria presenza, la rivendicazione di un sé restituito alla vita
e alla sapienza, e quindi l’adesione a un regime di sofferen-
za contrassegnato dal pudore” (p. 97).
In questo processo di conquista del linguaggio del pian-
to un’ulteriore evoluzione viene individuata nell’incontro
tra Priamo e Achille.
Con analoga tensione problematica Faranda si rivolge
al pianto di Odisseo per intenderlo e per giungere attraver-
so esso a delineare “la conquista di un tempo storico”.
Nella sua riflessione sull’Odissea la studiosa elabora, fra
l’altro, una nuova categoria semantica del pianto: le lacrime
di invocazione. Si tratta di quelle lacrime che fondano lo
spazio di incontro e di comunicazione tra umanità e divi-
nità. Il riferimento specifico è al pianto di Penelope, al suo
rapporto con Atena, “la dea dagli occhi lucenti e dalla folta
LA CONQUISTA DEL PIANTO... 

chioma”, sensibile e partecipe al pianto dei mortali. Ma le


considerazioni di Faranda sono applicabili anche ad altre
forme del rapporto uomo-divinità, ad altre lacrime che la
letteratura mistica, anche cristiana, testimonia ampiamente
e che dicono, pur nella mutevolezza storica, l’umano biso-
gno di rapportarsi alla Trascendenza per riceverne senso e
giustificazione.
Il potere di trascendimento conquistato attraverso il
pianto rifulge – nella riflessione di Faranda – nell’incontro
decisivo tra Odisseo e i Proci. “Ci sembra estremamente si-
gnificativo – nota la studiosa – che in presenza di Odisseo i
Proci ridano ‘con le mascelle’, mentre nel loro intimo si ac-
cende un cocente desiderio di pianto: un pianto che sareb-
be al tempo stesso atto di consapevole consonanza con
l’imminente morte ma anche rinnovato iter salvifico, di ri-
conquista di una titolarità storica. I Proci invece non pos-
sono piangere perché è loro costitutivamente precluso il
disegno conoscitivo avviato da Achille e portato a compi-
mento da Odisseo, che ha piegato il linguaggio del pianto
all’imperativo della vita. Una vita intesa come progetto in-
tenzionale di rifondazione culturale e quindi una vita in cui
sapienza e sofferenza diventano tratti distintivi e impre-
scindibili dell’esistenza” (pp. 133-134).
Il ciclo mitico di Oreste, ripercorso attraverso la trilogia
eschilea, consente alla studiosa di completare la sua rifles-
sione sugli umori corporei e sui poteri a essi conferiti nel-
l’universo simbolico indagato.
Zenone di Cizio, caposcuola dello stoicismo, opportu-
namente richiamato da Laura Faranda, motiva il potere ge-
nerativo dello sperma, sottolineandone la caratteristica di
spirito, parte staccata dell’anima degli antenati: “Lo sper-
ma che l’uomo emette è spirito misto a liquido, ed è parte
staccata dell’anima contenente in sé la fusione e la miscela
di parti degli antenati, che proviene da ogni parte di esse.
Poiché ha in sé tutte quante queste ragioni, lo sperma
quando penetra nell’utero viene avvolto da un altro spirito,
che è parte dell’anima della femmina, e connaturatosi ad
esso nascostamente si fortifica, si muove agitato da quello,
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

aspira ogni liquido e, tramite quello, cresce”. Nelle culture


folkloriche meridionali lo sperma è assimilato al sangue, è
sangue maschile e del sangue ha la potenza e i significati.
Nell’Orestea “tre sono in realtà gli umori corporei che ac-
compagnano l’azione drammatica: i primi due – lacrime e
sangue – li abbiamo conosciuti nella loro efficacia simboli-
ca in entrambi i poemi omerici. (…) Un terzo umore
‘omesso’ emana dall’urlo straziato di Agamennone, evirato
da una sposa perennemente assetata di sangue. Clitemne-
stra conosce bene l’efficacia rituale del suo gesto sacrilego:
mutilando lo sposo prima di inumarlo, ella ha sottratto al
defunto la residua forza vitale, il mana che si annida nello
sperma, come in ogni altro umore liquido dell’individuo”
(p. 144).
Nell’Orestea Laura Faranda coglie con sensibilità non
viziata da superfetazioni ideologiche anche le modalità
espressive di figure femminili quale quella di Elettra, che in-
tende e utilizza arcani saperi realizzati al femminile. Anche
il percorso delle Eumenidi ci conduce alle soglie simboliche
del tema vita-morte; quelle “ignote lacrime” di cui le Erin-
ni-Eumenidi regoleranno i flussi sembrano alla studiosa “la
più riuscita sintesi di un percorso concentrico in cui il pian-
to si situa ancora una volta tra i due poli dialettici di queste
irriducibili categorie dell’esistenza umana” (p. 164).
Dopo aver verificato che “la via proposta dall’eroe
omerico e da quello tragico verso i sentieri della conoscen-
za è una via costantemente aspersa dall’umore del pianto”
(p. 165), l’autrice si impegna a “comprendere (…) in che
misura la rappresentazione del pianto ha risentito dell’av-
vento della parola scritta nella cultura greca, e quindi della
nuova ortodossia morale e conoscitiva introdotta da questa
rivoluzionaria innovazione nella trasmissione del sapere”
(p. 169). Sappiamo che la lotta contro il pianto rituale non
è stata definitivamente vinta, se tale pianto si dispiegava nei
paesi lucani nei nostri anni Cinquanta, come è stato accer-
tato dalla ricerca di de Martino, e se esso si dispiega ancora
oggi nei paesi meridionali, come ho avuto più volte modo
di constatare nella mia esperienza di ricerca.
LA CONQUISTA DEL PIANTO... 

È significativo, comunque, che la polemica di Platone


nei confronti del pianto, l’espulsione di esso dal suo mo-
dello pedagogico ricadano nelle parole che lo stesso Pla-
tone attribuisce a Socrate, quando per consolare l’amico
Assioco agonizzante gli ricorda che “solo nei fanciulli è
consentita la debolezza del pianto, perché essi non hanno
altra voce per esprimere la loro sofferenza” (Platone, As-
sioco, 366d) e invoca la fede nell’immortalità dell’anima.
Le tavolette di bronzo nelle quali sarebbe scritto, se-
condo la sapienza di un mitico mago, il destino dell’ani-
ma immortale sono ricordate quale ulteriore testimonian-
za di come “la logica della scrittura sia chiamata a soccor-
rere e a delimitare i confini delle oscure regioni del senti-
mento” (p. 185). Si conclude così il percorso conoscitivo
che Laura Faranda ci ha fatto compiere, facendoci adden-
trare con lei nelle molteplici coordinate della poesia e del
pensiero greci.
Percorso realizzato con lucidità teorica e con un rigore
antropologico che riconosce la necessità dell’esattezza fi-
lologica, ma non per questo rinuncia alla creatività, alla
suggestione della parola, sottoposta comunque a vigilanza
critica.
La logica della scrittura ha sconfitto la pienezza del
linguaggio delle lacrime ed è chiamata, lo abbiamo appe-
na visto, a delimitare le oscure regioni del sentimento, ep-
pure è con la scrittura – come l’opera qui analizzata testi-
monia in maniera eccellente – che si possono indagare le
oscure regioni del sentimento e tentare di restituire al lin-
guaggio delle lacrime la molteplicità e la pienezza dei suoi
significati. Paradosso, certo, ma non l’unico.
L’ombra di Tiresia dichiara a Odisseo: “Voglio bere del
sangue e poi dirti la verità”; forse la verità è nel sangue,
nelle lacrime, anche se di tali linguaggi abbiamo smarrito i
codici. Ma alla vita non resta forse – come ci ricorda Laura
Faranda riprendendo un’espressione di Natoli – fame di
pianto? È legittimo affermare: “questo io greco – che ormai
si governa da solo e che di fronte alla sfida del pathos ha
cessato di ‘frantumarsi in una serie interminabile di stati
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

d’animo’ – se ancora non ha cessato di piangere, ha co-


munque rinunciato a vivere il pianto come riverbero e me-
tafora della propria dimensione umana” (p. 185). Ma è an-
che vero che il pianto resta per noi, a dispetto di qualsiasi
rinuncia, “riverbero e metafora della dimensione umana”.
Capitolo undicesimo
L’oscenità dell’amore

I. L’amore è l’amore. Nessuna definizione dell’amore


può predicare di esso altro che non sia compreso nello
stesso termine amore. L’apparente tautologia rischia di non
fare intendere come l’amore sostanzi di sé qualsiasi realtà
esso investa e di occultare, quindi, l’estrema ampiezza del-
l’ambito semantico del termine; essa sottolinea come qual-
siasi azione fatta in amore è amore, come i comportamenti
possano essere estremamente differenziati e, al limite, in-
tercambiabili. L’amore, cioè, è relativamente indifferente ai
suoi contenuti; essendo fuoco che può investire ogni cosa,
ogni cosa può esprimerlo.
Il soggetto amoroso ama perché ama. Le motivazioni che
possono essere fornite non dicono alcunché della causa. D’al-
tro canto, l’oggetto del desiderio è il risultato di una plasma-
zione culturale e, in quanto tale, precisa formazione storica.
Ontologia dell’amore e, contemporaneamente e non
contraddittoriamente, sua sostanziale storicità.
Il discorso amoroso costituisce una metafisica. Ma è
dell’amore utilizzare la fisicità, essere fisicità e tendere con-
tinuamente a una metafisica che deve restare incompiuta.
L’ideologia dell’amore è parte organica dell’amore; l’io
amoroso ama secondo le forme che gli trasmette, in un
punto determinato nel tempo e nello spazio, la cultura nel-
la quale egli vive e che in parte egli stesso diventa.
L’apparente tautologia, che è tale solo terminologica-
mente, costituisce la fondazione dell’amore; la ripetizione
di essa è la celebrazione del suo trionfo nella vita dell’io
amoroso.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Rivolgendosi a Cristo, Maria Maddalena de’ Pazzi pro-


rompe in un grido che costituisce una delle più vibranti
esaltazioni dell’amore:
“Amore, Amore; Amore non amato né conosciuto da
nessuno.
Amore, Amore, Amore, non mi sazierò di chiamarti
Amore. Cor meum et caro mea exultateruit in te, Amor mio.
O Amore, dammi tanta voce che chiamando te, Amore,
io sia sentita dall’oriente insino all’occidente e da tutte le
parti del mondo, etiam dall’inferno, accioché da tutti tu sia
conosciuto e amato, Amore.
Amore, Amore, tu sei forte e potente, Amore. Amore,
Amore, tu solo penetri e trapassi, rompi e vinci tutte le co-
se. Amore, Amore tu sei cielo e terra, fuoco e aria, sangue e
acqua. O Amore, tu sei Dio e uomo, amore e odio, gioia di
nobiltà divina, antiqua e nuova verità. O Amore non amato
né conosciuto.
(...) O Amore, sei ancora fortissimo e poi ti veggo debo-
lissimo. Fortissimo che nessuno ti può resistere, sei debo-
lissimo che una creatura tanto vile quale sono io ti vince, ti
supera a chiamarti Amore.
O Amore, Amore, ben dicesti: Desiderio desideravi.
(…) O Amore, Amore, antica e nuova verità, tu sei
Amore, Amore, Amore.
O Amore, Amore, è possibile che tu non abbia altro no-
me che Amore? Sei però sì povero di nomi, o Amore! N’hai
ben sì, n’hai ben sì, e quanti, Amore, ma ti diletti più di es-
ser nominato con questo, Amore, perché in questo ti sei più
dato a conoscere alle creature. Ancora i Santi in cielo ti
chiameranno con questo nome di Amore; dicono sempre
Amore, Amore; tutti gli altri sono in questo, Amore. (...)
Mai, mai mi sazierò chiamarti per questo nome di Amore.
O Amore, Amore, felice e beata è quell’anima che ha te,
Amore, Amore, da quanti pochi, Amore sei amato e cono-
sciuto.
O Amore, Amore, tu sei incomprensibile, tu sei gran-
dissimo e degno di ogni laude; ma chi è, Amore, quello che
sia bastante (…)”.
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

II. A differenza di quanto si ritiene abitualmente, non


siamo noi a vivere l’amore, ma è l’amore che vive noi. Il
nostro orgoglio di soggetti recalcitra dinanzi alla dipen-
denza radicale che investe l’io amoroso, ma questa ritrosia
è più in chi parla dell’amore o tenta di analizzarlo: in que-
sti l’esternità alla vita amorosa può essere attutita dalla
memoria di altri, passati o contemporanei, momenti di
profonda implicazione in cui la sua vita e l’amore coinci-
devano pienamente.
L’io amoroso, in quanto tale, è interessato soltanto all’e-
pifania del trasporto amoroso.
In questa prospettiva si chiariscono le parole di Barthes
secondo le quali la dipendenza è “figura nella quale l’opi-
nione intravede la condizione stessa del soggetto amoroso,
asservito all’oggetto amato”.

III. La dialettica soggetto-oggetto nella vita amorosa ha


peculiarità e ribaltamenti insospettati e remoti dall’orizzon-
te quotidiano dell’esistenza. Se il soggetto amoroso costi-
tuisce l’altro come oggetto del suo amore, contemporanea-
mente tende a essere assunto da questi come suo oggetto di
amore. Se non sono memori di ciò, le analisi, pur storica-
mente esatte, della reificazione dell’altro nella sessualità
possono riuscire del tutto fuorvianti.

IV. La sessualità non si esaurisce nella genitalità, ma in-


veste tendenzialmente l’universo. Il corpo – tutto il corpo –
del soggetto amoroso è esso stesso soggetto, oggetto e in-
strumentum amoris.
Al contrario di quanto sostiene una letteratura che,
per esaltare un non meglio precisato “spirito”, separa net-
tamente nell’essere umano la sua spiritualità e una mate-
rialità che di fatto degrada (schematismo manicheo o spi-
ritualismo antiumanista), io non ho il mio, ma sono il mio
corpo.
L’io amoroso scopre nell’esercizio dell’amore di essere il
suo corpo e quindi di poter dire servendosi di tutto il suo
corpo cioè di tutto se stesso, il proprio amore – cioè l’amo-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

re – all’altro e di poter ascoltare l’amore dell’altro – cioè


l’amore – attraverso il corpo di questi.
La concezione dell’eros in chiave di esclusiva genitalità
– che può apparire ai portatori di essa estremamente reali-
stica – è in realtà tributaria di un’ottica da macellai, co-
stretti a suddividere le parti degli animali che macellano.
Nell’orizzonte amoroso il corpo recupera tutta la sua
incorrodibile verità.
“Io posso fare tutto con il mio linguaggio ma non con il
mio corpo. Ciò che riesco a nascondere con il mio linguag-
gio, il mio corpo lo dice. Posso modellare a mio piacimen-
to il mio messaggio, ma non la mia voce” (Barthes).
L’amore è aspro, duro; può essere, a volte, infinitamen-
te amaro. Ed è, anche, dolcissimo. Indicibilmente dolce.
Dolce come la pelle e le carni della donna amata che si ba-
ciano, si mordono, si succhiano per ore e non ci si stanche-
rebbe mai di baciarle, morderle, succhiarle. Fisicità dell’a-
more e, contemporaneamente e non contraddittoriamente,
lo si è già detto, sua spiritualità; immanenza dell’amore e,
contemporaneamente e non contraddittoriamente, sua tra-
scendenza.
All’altro, persona amata, può essere riferito ciò che
Rilke dice della terra: “(...) il nostro compito è quello di
compenetrarci, così profondamente, dolorosamente e ap-
passionatamente con questa terra provvisoria e precaria,
che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. Noi sia-
mo le api dell’invisibile. Nous butinons éperdument le
miel du visible, pour l’accumuler dans la grande ruche d’or
de l’Invisible”.
V. L’eros non si esaurisce nella sessualità – spesso lin-
guaggio dell’amore, non sua essenza –, ma si pone come
fondamento dell’esistenza, fonte insostituibile del suo calo-
re vitale. “Il piacere sessuale non è metonimico: una volta
appagato, esso è troncato: era la Festa, sempre inaccessibi-
le, che si esplicava attraverso la temporanea, ma controlla-
ta, rimozione della proibizione. Al contrario, la tenerezza
(il delizioso affiatamento di una serata) non può interrom-
persi che con strazio: tutto sembra essere messo nuova-
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

mente in causa: ritorno del ritmo – vritti –, allontanamento


del nirvana” (Barthes).
La pansessualizzazione dell’amore è, forse, rivalsa stori-
ca rispetto all’espulsione della sessualità dall’amore che ca-
ratterizzò altre temperie culturali.
Ciò ha determinato la delineazione di un’altra mappa
dell’osceno.
“Screditata dall’opinione moderna, la sentimentalità
dell’amore deve essere recepita dal soggetto amoroso come
una grave trasgressione, che lo lascia solo ed esposto; attra-
verso un rovesciamento di valori, ciò che oggi rende osce-
no l’amore è quindi proprio questa sua sentimentalità. (...)
(Rovesciamento storico: ciò che è indecente non è più la
sessualità, ma la sentimentalità – censurata in nome di ciò
che, in fondo, non è che un’altra morale). (...) Tutto ciò che
è anacronistico è osceno. Come divinità (moderna), la Sto-
ria è repressiva; la Storia ci proibisce di essere inattuali.
Del passato, noi sopportiamo solo le rovine, i monumenti,
il kitch o il rétro, che è divertente; questo passato, noi lo ri-
duciamo al suo solo autografo. Il sentimento amoroso è an-
tiquato, ma questo essere fuori moda non può neppure es-
sere recuperato come spettacolo: l’alone cade fuori del
tempo interessante: nessun significato storico, polemico,
può essergli dato; la sua oscenità sta in questo” (Barthes).
In questa nuova mappa dell’osceno si delinea l’irrile-
vanza sociale dell’io amoroso.
“Come l’antico mistico, mal tollerato dalla società ec-
clesiale nella quale viveva, io, soggetto amoroso, non af-
fronto né tantomeno contesto: semplicemente, non dialo-
go: non dialogo con gli apparati di potere, di pensiero, di
scienza, di gestione, ecc.; io non sono necessariamente
‘spoliticizzato’: la mia devianza sta nel fatto di non essere
‘eccitato’. In cambio, la società mi infligge un’insolita pu-
nizione, a cielo aperto: nessuna censura, nessuna proibi-
zione: io sono solamente sospeso a humanis, allontanato
dalle cose umane con un tacito decreto d’insignificanza: io
non faccio parte di nessun repertorio, nessun asilo mi ac-
coglie” (Barthes).
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

VI. La libertà del soggetto amoroso è nella possibilità di


riconoscersi dipendente dall’altro, cioè dall’Amore.
In questa prospettiva l’amore può risolversi nell’“assun-
zione demenziale della Dipendenza (io ho assolutamente
bisogno dell’altro)” (Barthes).
All’assenza dell’altro, all’assoluto bisogno della sua pre-
senza rischiaratrice del mondo, Barthes riferisce giustamen-
te quanto affermato da un Koan buddhistico: “Il maestro
tiene a lungo sott’acqua la testa del discepolo; poco a poco
le bollicine d’aria si diradano; all’ultimo momento, il mae-
stro tira fuori il discepolo e lo rianima: quando desidererai
la verità come hai desiderato l’aria, allora saprai cos’è”.
Analogamente, “l’assenza dell’altro mi tiene la testa
sott’acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più ra-
refatta: ed è attraverso quest’asfissia che io ricostituisco la
mia ‘verità’ e preparo l’intrattabile dell’amore” (Barthes).
La libertà si esplica come libertà di accettarsi dipenden-
te, scelta di fedeltà all’amore. Fedeltà totale, ché l’amore è
impegno radicale, incompatibile con progetti mercantilisti-
ci della vita e con le logiche a essi omogenee dell’accumu-
lazione, dell’affermazione e del successo. In questa sua ere-
sia rispetto alle verità ufficiali sta lo scandalo radicale del-
l’amore e della sua indiscutibile essenza-verità. “Figli – am-
moniva nel XIV secolo Giovanni Tauler –, quando l’uomo è
in preda alla tempesta d’amore, non deve riflettere sui pec-
cati, sulle sue umiltà e su qualche cosa d’altro; ma su que-
sto soltanto egli favorisce l’amore nella sua opera. Egli si
deve perdere totalmente nell’amore, deve mantenergli fe-
deltà e rimanere libero da tutto quello che non è amore.
Col perenne e ardente desiderio dell’amore, con la piena
confidenza in esso, egli potrà provare molte e grandi cose,
quali mai uomo ebbe concesse. Se la sua fedeltà però non è
totale, anche il desiderio si smorza, l’amore si spegne, più
nulla si ottiene”.

VII. L’amore è varco per il superamento della chiusa


datità dell’individuo; l’esperienza amorosa è, dunque,
esperienza del trascendimento.
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

Lo testimonia, fra l’altro, la sostanziale convergenza


della letteratura “amorosa” e di quella mistica, non meno
amorosa della prima.
Nell’esperienza amorosa l’io tende con l’altro, attraver-
so l’altro, per l’altro a infrangere le ineliminabili barriere
della sua pesante singolarità e a realizzarsi trascendendosi.
Ma non si è mai noi, sin quando vita ci lega a essere sogget-
to; si può tendere al noi, tensione continua verso una meta
per definizione incorreggibile. L’io amoroso tende così a
incorporare l’altro e a farsi da lui incorporare; sperimenta
così non la dimensione del noi, ma la tensione a essa. Ha-
dewjich, in una delle sue lettere, che “sono i massimi docu-
menti della mistica beghina” (Zolla), accenna a “tutti quei
segni che io scopersi tra Lui e me nel rapporto intimo del-
l’amore, a quel modo che l’amico all’amico ben poco suol
nascondere e molto rivela, il che di regola accade nel sen-
tirsi vicini l’uno all’altro, nell’assaporarsi a parte, sino a di-
vorarsi e bersi e inghiottirsi l’uno nell’altro”. Che l’altro sia
una persona, scaglia di Assoluto, o Dio è, in questa pro-
spettiva, del tutto irrilevante. Ciò che i mistici comunicano
della loro esperienza, per altro ineffabile, può essere inteso
e condiviso da qualsiasi altro amante.
VIII. L’amore si concreta come economia politica del de-
siderio e come strategia dello sguardo.
L’economia politica del desiderio si iscrive nell’immagi-
nario e si dispiega attraverso ferite continuamente rinnova-
te; la ferita è “una piaga radicale (alle ‘radici’ dell’essere)
che non riesce a richiudersi, e da cui il soggetto scola via,
componendosi come soggetto proprio in questo fluire”
(Barthes).
Lo sguardo è movimento e stasi, è fluire al di fuori di sé
e ritorno in sé, è circolare ma è iscritto in una circolarità
che lo potenzia, ed è estasi.
“Scrutare vuol dire frugare: io frugo il corpo dell’altro,
come se volessi vedere cosa c’è dentro, come se la causa
meccanica del mio desiderio si trovasse nel corpo antagoni-
sta (sono come quei bambini che smontano una sveglia per
sapere che cos’è il tempo) (...).
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Lo sguardo celebra il suo trionfo come contemplazio-


ne dell’enigma che l’altro rappresenta costitutivamente
per l’io amoroso (...) l’altro è impenetrabile, sgusciante,
intrattabile; non possono smontarlo, risalire alla sua origi-
ne, sciogliere il suo enigma (…). Fare dell’altro un enig-
ma irrisolvibile da cui dipende la mia vita, significa conse-
gnarlo come dio; io non riuscirò mai a risolvere l’enigma
che egli mi pone: l’innamorato non è Edipo. Quindi, non
mi resta altro che volgere a mia ignoranza in verità”
(Barthes).

IX. Fedeltà – infedeltà possono essere variazioni inter-


ne di una radicale fedeltà. L’io amoroso può essere costan-
temente infedele rispetto all’altro, ma – con ciò stesso o,
più decisivamente, per ciò stesso – essere profondamente
fedele all’amore.
“L’Olandese maledetto è condannato a errare sui mari
fino a quando non avrà trovato una donna la cui fedeltà
sia eterna. Io sono questo Olandese Volante; non posso
impedirmi di errare (di amare) a causa di un marchio
che, nei tempi remoti della mia infanzia mi ha destinato
al dio Immaginario infliggendomi una turba di parole che
mi porta a dire ti amo di tappa in tappa, fino a che qual-
cun altro raccolga questa parola e me la restituisca; ma
nessuno può far sua la risposta impossibile (di una com-
pletezza insopportabile) e così il vagamento continua”.
(Barthes).
L’amore può diventare desiderio di perdersi nell’altro o,
a volte, di perdersi allontanandosi dall’altro, pensiero do-
minante, presenza assoluta nella propria vita, punto di rife-
rimento costante, sino all’ossessione, delle proprie azioni.
La dipendenza radicale dall’altro può essere forma storica
di attuazione della propria libertà ma può, a volte, suscita-
re reazioni o velleità autonomistiche.
È una sorta di “ribellione dello schiavo”, anche se l’ac-
cettarsi schiavo d’amore è la forma più alta di realizzazione
dell’io, che attraverso l’annullamento di sé si realizza com-
pletamente come amore, cioè come vita in atto.
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

X. L’io amoroso abbracciando l’altro lo comprende;


scaglie di assoluto lo pervadono e può sperimentare nel-
l’appagamento la pienezza, il completamento. L’estasi ap-
pagata della contemplazione amorosa è l’esito del ricon-
giungimento delle due metà separate “quando i giorni non
erano ancora” (Meligrana). Il tempo dell’amore è, dunque,
tempo vivente e in esso dispiega tutta la sua eloquenza fon-
dante il silenzio o la parola, aspetti comunque di quel lin-
guaggio costitutivo dell’esistenza individuale che è, anche e
decisamente, colloquio.
In questa prospettiva possono essere ripensati sia alcu-
ne riflessioni dell’ermeneutica contemporanea, sia alcuni
versi famosi che affidano alla parola poetica – direi alla pa-
rola amorosa, alla parola in quanto azione amorosa – la
fondazione di “ciò che dura”, di ciò che – nonostante la
morte o forse proprio data l’esistenza della morte o l’esi-
stenza per la morte – è.
L’amore è, costitutivamente, conoscenza. La realtà che
viene conosciuta dall’io nella condizione di amore ha uno
spessore qualitativamente diverso da quando viene assunta
dall’intelligenza non irrorata dall’amore.
L’altro è per il soggetto amoroso occasione, strumento
di conoscenza, partner, maestro.
“Debbo bere dalle tue labbra non solo il piacere dell’a-
more, ma l’infinita bevanda della tua amicizia. Insegnami
prima la mia umanità, insegnami poi a non dimenticare. Io
non ti voglio assolutamente dimenticare. Viviamo insieme
nella più completa, piacevole ebbrezza di bevande scono-
sciute. Salviamoci da queste paure, da queste ineluttabilità”.
La chiarità della conoscenza attende coloro che si amano.
In uno dei Sonetti ad Orfeo Rilke ammette: “ignoti ci
sono i dolori, e oscuro rimane l’amore (...)”; la condizione
amorosa non elimina la costitutiva oscurità dell’amore,
enigmatico e sfuggente a qualsiasi definizione, ma elimina
la necessità di penetrare tale oscurità e di sconfiggerla. La
condizione amorosa non sostituisce l’oscurità con la lumi-
nosità, ma fa sparire l’estraneità dell’oscurità dell’amore fa-
cendolo vivere come chiarezza, ineffabile e appagante.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

L’amore, espulso dal pensiero come eterogeneo alla di-


gnità della teoresi, deve essere da questa riassunto quale
oggetto centrale del suo travaglio, in quanto è nell’amore
che l’umano si realizza ai suoi livelli più alti. In tale resti-
tuzione all’amore della sua centralità nell’esistere dell’uo-
mo, il pensiero non deve essere eccessivamente preoccu-
pato per il pericolo di una sua “contaminazione” o per
un’ansia di utilità, terroristicamente assunta a criterio di
validità.
Come è stato sottolineato, “il delitto degli intellettuali
moderni contro la società non sta tanto nella loro alterigia,
nel loro volersi chiudere in una torre d’avorio, quanto nel
loro sacrificare le contraddizioni e le complessità del pen-
siero al cosiddetto senso comune. Nella mentalità dell’uo-
mo moderno, manipolata con sistemi perfezionatissimi, è
ancora presente un elemento caratteristico dell’uomo delle
caverne: l’ostilità per lo straniero, che si esprime nell’odio
non solo per coloro che hanno pelli di colore diverso dalla
nostra o portano abiti d’altra foggia ma anche per il pensie-
ro quando è strano e insolito, anzi per il pensiero stesso
quando persegue la verità oltre i limiti segnati dalle esigen-
ze di un dato ordine sociale. Troppo spesso, ai giorni no-
stri, il pensiero è costretto a giustificarsi in base alla pro-
pria utilità per qualche gruppo costituito più che in base
alla propria verità” (Heidegger).

XI. L’amore è forma storica dell’essere e quindi – stori-


camente, cioè umanamente – sua essenza.

XII. Se, come è stato ricordato da Giovanni e da tutta la


tradizione mistica, Dio è amore, sotto molti riguardi l’amo-
re è Dio e l’esperienza amorosa sperimentazione dell’essere.
L’amore è, dunque, pienezza di luce.
“Ma la luce splende nelle tenebre e le tenebre non
l’hanno capita. Tenebre sono le stolte menti dell’uomo, ac-
cecate da prava cupidigia o da infedeltà. Al fine di curarle
risanandole il Verbo grazie a cui tutte le cose sono state fat-
te ‘si è fatto carne ed ha abitato in noi’ (Giov., 1, 14). L’illu-
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

minazione è la nostra partecipazione al Verbo, cioè a quella


vita che è luce degli uomini” (Heidegger).
La Parola è amore ed è fondatrice di realtà; l’amore è,
in questa prospettiva, fondamento della realtà e suo senso
profondo.
La stessa vita è balbettio d’amore e tensione continua
verso l’essere, la cui lontananza è “spina nella carne”, tor-
mento del tempo.
La dialettica parola-silenzio va approfondita nella sua
complessità, che può, apparire, a volte, insanabile contrad-
dittorietà.
L’amore si rivela come stupore e si dispiega nella di-
mensione del silenzio. Avendo bruciato come scorie tutto il
resto, nel silenzio e dopo il silenzio può concretarsi come
parola, parola amorosa, e quindi fondatrice.
“Weil ein Wortklang des echten Wortes nur aus der
Stille entspringen Kann (...)” (Heidegger); l’affermazione
heideggeriana può essere attribuita essenzialmente alla pa-
rola autentica per eccellenza, alla parola amorosa, che può
essere detta parola “poetica”, recuperata nonostante l’abis-
so del nulla, della morte.
“Alla base di ogni fondazione, anche di quella operata
dai poeti che ‘fondano ciò che dura’, sta un abisso di sfon-
datezza. Il linguaggio fondante del poeta fonda davvero
solo se e in quanto è in relazione con quell’altro da lui che
è il silenzio. Il silenzio non è solo l’orizzonte sonoro di cui
la parola ha bisogno per risuonare, cioè per costituirsi nel-
la sua consistenza di essere: è anche l’abisso senza fondo
in cui la parola, pronunciata, si perde. Il silenzio funziona
nei confronti del linguaggio come la morte nei confronti
dell’esistenza”.
La parola amorosa è, in molteplici sensi, parola rischiosa.

XIII. L’amore è rischio, radicale. L’accettazione dell’a-


more da parte dell’io espone questi a una condizione di ri-
schio, mortale. L’uomo – lo ha notato Heidegger commen-
tando versi di Rilke – “è, talvolta, più arrischiante del ri-
schio stesso, più essente dell’essere dell’ente. Ma l’essere è
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

il fondamento / Grund / dell’ente. Chi è più arrischiante


del fondamento se arrischia là dove il fondamento difetta,
nell’abisso senza fondamento / Ab-grund /”.
Per questa costitutiva rischiosità dell’amore molti si ri-
traggono da esso, timorosi di vivere il rischio assoluto che
l’amore rappresenta; ma se, nella sorda vita degli uomini,
soltanto l’amore “perde”, è attraverso l’amore che si profi-
la la possibilità di salvezza. Hölderlin ci ha avvertito: “Do-
ve ha luogo il pericolo, là sorge / anche il salvatore” e, dun-
que, proprio nella misura in cui può perdere, soltanto l’a-
more salva.
In senso generale, “l’accadimento della parola compor-
ta un rischio perché l’altro dal linguaggio non è soltanto lo
sfondo muto su cui la parola risuona; né soltanto il silen-
zio che marca gli intervalli e le differenze tra parola e pa-
rola; bensì è, positivamente, il silenzio della temporalità
vissuta che ha come suo limite e come suo fondamento co-
stitutivo la morte”.
In senso specifico, la parola amorosa, in quanto parola
autentica, fondatrice, rischia di spazzare via l’inessenziale,
l’inautentico, cioè la maggior parte delle azioni quotidiane
e delle relazioni interpersonali con le quali gli uomini, spe-
cie nel nostro tempo e nella nostra temperie culturale, han-
no coperto – a volte del tutto sotterrato – il loro costitutivo
bisogno d’amore.

XIV. L’amore è fornace ardente, è esperienza di fuoco,


inestinguibile .
Per questo l’amore è tensione radicale verso l’altro, ten-
tativo di comprenderlo, istituendo così un cerchio in cui
nessun’altra tensione appare essenziale, nessun altro ogget-
to, al di fuori della persona amata, può realmente distrarre
l’io amoroso dalla sua costitutiva funzione di portatore del-
l’amore, sua unica forma di integrale realizzazione.
“Il vero amore è contento di se stesso. Ha un premio:
l’oggetto stesso amato. Tutto ciò che tu ami in ragione d’un
altro, tu lo ami certo per quell’oggetto che è fine dell’amo-
re, e non per ciò che serve di mezzo. (...) Il vero amore non
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

cerca un premio, lo merita. Il premio non viene proposto a


chi ama: gli si deve dare, ed in realtà si dà a chi persevera
nell’amore” (Heidegger).
In quanto esperienza di fuoco, l’esperienza amorosa è
esperienza di follia o, in ogni caso, tale può apparire a una
società che ha consacrato come valori assoluti la modera-
zione e la cautela considerando, conseguentemente l’ecces-
so, in qualsiasi campo, vizio da cui guardarsi con puntiglio-
sa ossessione.
I mistici che eccedono nel loro amore hanno percepito,
ancor più, hanno sperimentato l’eccesso che è dell’amore:
non a caso San Gregorio del Sinai sottolinea: “L’amore di
Dio è di sua natura ardente, e quando investe violentemen-
te un’anima, la travolge. Perciò il cuore non la può separa-
re dall’amore che riceve, né frenarla, ma per il suo stesso
essere e per l’amore che la travolge, avviene nell’anima
un’insolita metamorfosi ... E se fa qualcosa, nemmeno se
ne accorge, perché il suo spirito si aggira continuamente
nel vortice della contemplazione, e il suo pensiero è in con-
tinua conversazione con quell’altro, in un altro luogo. Gli
apostoli e i martiri erano inebriati da questa ebbrezza spiri-
tuale; gli uni vagavano per tutto il mondo, si affaticavano e
si caricavano di maledizioni, altri versavano come acqua il
sangue dai corpi straziati e sebbene soffrissero tormenti
spaventosi, non s’intiepidivano, nel loro ardore, ma sop-
portavano coraggiosamente. E sebbene fossero dei saggi,
furono considerati pazzi: altri erravano per deserti e mon-
tagne, rovine e spelonche, ma in questa irrequietezza non
impazzivano”. In questa dimensione, lo stesso San Grego-
rio implora: “Iddio ci conceda simile follia!”.
Il mistico Gregorio ricorda: “Anche Giovanni Dama-
sceno dice in uno dei suoi inni alla beata e purissima ma-
dre di Dio: ‘Il fuoco nascosto nel mio cuore mi spinge a
cantare dell’amore per la Vergine’. E Sant’Isacco scrive:
‘Dal lavoro continuo nasce uno straordinario calore che si
infiamma nel cuore sugli ardenti desideri che traboccano
dal pensiero. Questo cauto amore rende trasparente lo spi-
rito col suo calore, così che giunge alla contemplazione’. E
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

continua: ‘Da questo calore, che nasce dall’amore per la


contemplazione, zampilla la sorgente delle lacrime’”.
L’amore è, dunque, arsura totale, sete inestinguibile, ti-
more e tremore. Contrariamente a quanto solitamente si ri-
tiene, esso ha ben poco a che fare con la felicità; esso si di-
spiega molto più frequentemente nel segno della sofferenza,
di una radicale inadeguatezza dell’io e del rapporto amoro-
so stesso, con tutte le loro contraddizioni e tutti i loro limiti,
rispetto al desiderio, assoluto e “divino”, dell’altro.
Per tale indicibile sofferenza, molti, pur essendo stati
investiti almeno una volta dall’amore, se ne ritraggono at-
territi – l’amore è fascinans, ma è anche tremendum –, atte-
standosi, quando non sul piano dei surrogati, su quello de-
gli “amori”, con la loro dinamica di noncuranza e di inter-
scambiabilità, con la loro ideologia bellica, con le loro gra-
tificazioni in termini di “avere”.
Il piano dell’amore – arsura totale, bruciore implacabile
– viene ovattato e conservato nel ricordo, reso forzatamen-
te inattuale nel rinnovato culto della felicità e nel conse-
guente rifiuto dello scandalo della sofferenza.
Ma chi ha conosciuto, almeno una volta, l’amore-arsura
sa che l’amore è altro dagli amori e intuisce, anche se vuole
dimenticarlo, che l’amore è vita e che la condizione di so-
gno è vita dimidiata.
L’amore è vita, si è detto; ma è anche, inestinguibilmen-
te, nostalgia della vita. Analogamente, l’amore è linguaggio
dell’Essere e, inestinguibilmente, nostalgia dell’essere, in
quanto nostalgia di pienezza. Lo ricordano a quanti inten-
dessero dimenticarlo, o lo avessero occultato quale prospet-
tiva “oscena” e quindi impraticabile, le parole di Raimondo
Lullo: “(...) essendo il disamore morte e l’amore vita”.

XV. “L’amore è amare. È amare senza sosta, senza re-


spiro. Non è la stessa cosa amare ed essere amati. Accre-
scere il fatto di essere amati, dargli un’altra forma e poi il
fatto di plasmarlo non è in nostro potere. Invece si può
plasmare il nostro amore secondo i nostri desideri, possia-
mo dargli la forma che vogliamo. Nell’amore sono i nostri
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

sforzi, i nostri desideri, la nostra intelligenza. Non esistia-


mo quando amiamo. Amore significa creare, essere amato
significa anche essere creato”.
In questa dimensione la voce dell’altro è per il soggetto
amoroso fondazione e trascendimento.
“Avvolge ogni parte di me la gioia di sentire la tua voce
che perfino quando mi dice ‘Come stai?’ mi riempie il cuo-
re di emozione, mi infiamma il sangue.
Voglio che il nostro colloquio non abbia mai fine. Al-
l’infuori di te non c’è nulla che io pensi, non mi importa
nulla del mondo” (Yasar Oguzcan).
Se l’io è vissuto dall’amore, gli altri, il mondo non spari-
scono dal suo orizzonte, ma vivono per lui a partire dalla
sua condizione amorosa. In questo senso niente esiste, per
l’amore, al di fuori di esso e tutto esiste in nome dell’amore.

XVI. L’amore è fuoco; l’io lo avverte dentro di sé come


bruciore, continuo e doloroso; essendo il radicalmente op-
posto al gelo della morte, fa avvertire vivi, con tutta la cari-
ca di struggente enigmaticità che questo comporta. Chi ha
conosciuto realmente la solitudine, con il suo gelo invinci-
bile, sa quanto disperato sia il bisogno di amore, del suo
fuoco che è vita.
Sa anche che l’esperienza amorosa scioglie buona parte
del gelo e fa come se questo sia del tutto scomparso, ma un
grumo di gelo – lebbra da cui non si può essere del tutto
mondati – resta a segnare la vita di chi nella solitudine ha rag-
giunto la consapevolezza che questa inerisce ontologicamen-
te alla condizione umana e ne costituisce ferita insanabile.
Soltanto chi è stato sfiorato dal potere glaciale della
morte e dal suo freddo paralizzante e si è fermato, magari
per poco, a guardarla ed è stato dilaniato dai suoi effetti,
Attis dalle cui membra disseminate nessuna nuova vita ger-
moglia; chi sa momento per momento che si muore conti-
nuamente e non si può non morire continuamente; chi sa
che tra vita e morte alla fine è la vita a essere sconfitta può
riconoscere la sostanziale equivalenza tra amore e vita, tra
l’esperienza nella propria carne del fuoco amoroso (il “ro-
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

veto ardente”, epifania divina) e l’irrinunciabilità comun-


que alla vita, pur nella sua precarietà di senso nonostante il
bisogno assoluto di senso che accompagna l’umano patire

XVII. Se la verità è, essenzialmente, ricerca della verità,


l’amore, che è verità-limite, si risolve essenzialmente, nella
ricerca dell’ amore.
L’esperienza amorosa può configurarsi, dunque, come
strategia della speranza, dove la speranza, con le parole di
Diadoco, “è un’emigrazione della mente con amore verso
le cose sperate”.

XVIII. La vita è sogno, espressione famosa di un autore


non meno famoso, per cui sulla sua ripetizione incombe il
pericolo della banalità.
Ma, nell’ottica in cui queste tesi vengono pensate, la vi-
ta è sogno di amore; ricerca, a volte disperata, di quella
pienezza che almeno una volta l’io ha sperimentato quando
è stato vissuto dall’amore.
“Solo a momenti l’uomo sopporta pienezza divina / So-
gno di essi è, dopo, la vita”: i versi di Hölderlin costituisco-
no sprazzi di luce su questa ricerca, compito spesso disatte-
so per paura della radicalità dell’ardore e perché frastorna-
ti dal rumore contemporaneo.

XIX. L’amore è a volte, dolorosamente, nostalgia dell’a-


more, bisogno inappagato di esso e sua acuta memoria.
L’amore può essere, dunque, rimpianto per la sua pie-
nezza, la memoria della quale è spina tanto più acuminata
quanto più l’amore illanguidisce tendenzialmente nella du-
ra opacità delle nostre grevi giornate.
Rimpianto struggente, ma profondamente inutile per la
vita dell’amore, che richiede dedizione assoluta, di cui
spesso preferiamo ritenerci incapaci.
L’amore può costituirsi, quindi, come allarme per la sua
diminuzione, grido per la sua mancanza, paura per la sua
sparizione che oscurerebbe il mondo, privandolo radical-
mente di senso.
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

XX. Il linguaggio dell’amore è memoria dell’amore.


“Amore, sotto un certo aspetto, è essere condannato a non
potere dimenticare” (Yasar Oguzcan) o attesa dell’amore:
quando l’amore è, tale linguaggio sparisce e tutto l’amore
diventa linguaggio, contemplazione estatica dell’altro e del
proprio assoluto appagamento o, che è lo stesso, tutto il
linguaggio diventa amore.
“Appagamenti: non vengono detti – di modo che, falsa-
mente, la relazione amorosa sembra ridursi a essere un lun-
go lamento. Il fatto è che, se è incoerente, esprime mala-
mente l’infelicità, per contro, nel caso della felicità, sareb-
be una colpa sciuparne l’espressione: l’io parla solo quan-
do è ferito; quando mi sento appagato o mi ricordo di es-
serlo stato, il linguaggio ci appare angusto: io sono traspor-
tato fuori del linguaggio, cioè fuori del mediocre, del gene-
rico” (Barthes).
E ancora “voler scrivere l’amore, significa affrontare il
guazzabuglio del linguaggio: quella zona confusionale in cui
il linguaggio è insieme troppo e troppo poco, eccessivo (per
l’illimitata espansione dell’io, per la sommersione emotiva)
e povero (per i codici entro i quali viene costretto e appiat-
tito dall’amore)” (Barthes).
L’amore è linguaggio, ma, per altro verso, è assenza del
linguaggio, scomparsa di esso, venir meno della parola e,
quasi, del respiro, ché la persona amata copre tutto il cam-
po dello sguardo dell’io amoroso, della sua tensione vitale.
L’amore è pienezza, abundantia cordis e contempora-
neamente senso di radicale innovamento; esaltazione vitale
e malessere profondo.
L’amore è la celebrazione del fallimento della propria
autonomia, scoperta della ineliminabilità della persona
amata dalla propria vita, della sua assoluta non intercam-
biabilità.
L’amore è stupore nel ritrovarsi del tutto dipendente
ed è desiderio di fuga. L’amore è scoperta della propria
datità, della propria inadeguatezza, della propria privazio-
ne; esso è, dunque, né può non essere sofferenza, lanci-
nante, smarrimento.
 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Ma è anche calore, luce nella nera foresta del proprio


tempo, nella propria opaca esistenza.
L’amore è sguardo, ma è anche insopportabilità dello
sguardo; è sorriso ma è anche desiderio di lagrime; è supe-
ramento della finitudine dell’io ma anche riscoperta della
costitutiva arsura dell’amore.
L’amore è il senso.
In questa prospettiva, l’amore e la vita tendono a coin-
cidere: l’amore è la possibilità di valorazione della vita.
L’amore svela così la sua costitutiva inerenza alla vita,
cioè la propria immanenza e, assieme, la sua ineludibile
trascendenza.
L’amore è desiderio struggente di assoluto, bisogno di
lealtà, di chiarezza solare e purezza di una notte di luna
piena o di un’immensa distesa di neve senza orme e può
essere, anche e contraddittoriamente, tradimento, inutile e
continuo tradimento.
L’io amoroso può fuggire dall’amore e nella fuga da un
amore a un amore riaffermare con ogni fibra del suo essere
il suo inestinguibile bisogno di amore, la sua radicale di-
pendenza da esso.
Anche per questo, ogni autentica storia di amore è vi-
cenda drammatica di slanci e ritrosie, di incontri e fughe,
di solari lealtà e di oscuri tradimenti, di quiete e di disordi-
ne, di chiarezza e di follia, di appagamenti totali e di do-
mande inappagate.
Ogni autentica storia di amore è, per colui cui è dato vi-
verla, ricapitolazione della vita e inguaribile nostalgia di essa.
Ogni autentica storia di amore è, dunque, impolitica e,
contemporaneamente, iuxta propria principia compiuta-
mente politica. L’io amoroso e l’altro – oggetto del suo
amore e soggetto, a sua volta, della tensione amorosa verso
il partner del colloquio amoroso – fondano, nell’amore e
attraverso l’amore, il mondo.
Ogni autentica storia di amore è realizzazione dell’uma-
no; la perdita della disponibilità ad amare è, perciò, inizio
dell’agonia dell’umano, sua sparizione dall’esistenza degli
uomini, murati nei ruoli e nella loro afasia.
L’OSCENITÀ DELL’AMORE 

Nella prospettiva delineata da queste tesi, la parola mi-


stica e la parola amorosa tendono a coincidere. Esse nella
società occidentale (nell’elaborazione teorica e nella pro-
duzione poetica, nella letteratura e nell’iconografia, nell’e-
sperienza storica e nell’immaginario che ci è stato trasmes-
so e che ci ha plasmato) frequentemente sono state “loca-
lizzate” nel sangue, “sentite” nel proprio sangue, balbetta-
te (ogni discorso autentico non può che configurarsi come
balbettio) attraverso il sangue.
Poiché, come ci ha avvertito Maria Maddalena de’ Paz-
zi, l’Amore e soltanto l’Amore “penetra e trapassa, rompe e
vince tutte le cose”; “Amore. Amore tu sei cielo e terra,
fuoco e aria, sangue e acqua”.
Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema au-
tore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora ne-
gli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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Stampato per conto della casa editrice Meltemi
nel mese di novembre 2005
presso Arti Grafiche La Moderna, Roma
Impaginazione: Studio Agostini

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