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gine dell’Italia di primo ‘600 e rappresenta il prototipo delle carte pregeodetiche europee
apparse fino all’avanzato ‘700; la seconda e la terza, che risalgono, rispettivamente, quasi
alla metà dello stesso secolo e all’inizio del sec. XVIII, sono prodotti di due storiche fami-
glie di cartografi-editori, quella olandese dei Bleau e quella romana dei De Rossi; seguono
una carta di fine ‘700, del Von Reilly, a carattere più divulgativo, e una amministrativa stila-
ta nel 1830 dal Marzolla. Il titolo esatto e le peculiarità di queste rappresentazioni (ripro-
dotte nelle figg. da 1 a 5) saranno di volta in volta illustrati.
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
indi combinando l’interpretazione dei nomi con gli altri aspetti della carta
(disegno delle sagome, simboli adottati per i vari oggetti geografici rappre-
sentati, eventuali elementi decorativi di rilevanza geografica, ecc.). Ciò signi-
ficherà, innanzitutto, prendere atto della competizione perenne, densa di
effetti comunicazionali, tra due elementi (quello geometrico-grafico e quello
“letterario”-umanistico) nel campo di rappresentazione. Ne verrà fuori una
sorta di trattamento dei toponimi, a metà strada tra analisi statistica, demo-
geografica, geoculturale e delle sedi, non senza un tentativo di tracciare una
rudimentale gerarchia funzionale di queste ultime.
Anteponendo per una volta la filologia alla geometria e alla semiolo-
gia, adoperando il più classico approccio geografico, evitando di analizzare
solo ciò che è facile da spiegare (per il resto rifugiandosi “nelle generali”,
magari con supponenza metodologica) e vestendosi invece dell’umiltà dello
studioso che sa arretrare tatticamente di fronte a difficoltà mai nascoste, ma
è pronto a ritornare successivamente alla carica, c’è speranza che,
dall’analisi diacronico-comparativa del bagaglio toponimico e del disegno
cartografico sempre incrociati, vengano fuori acquisizioni diverse dal solito,
qualche “sorpresa” e perfino qualche rettifica di valutazioni o luoghi comu-
ni dati troppo per scontati su prodotti cartografici e/o relativi autori.
Di fronte a una ricerca quasi artigianale, ma a suo modo “pioniera”,
assolutamente aperta e in una prima fase di sperimentazione, si chiede ve-
nia al lettore per tutte le semplificazioni che inevitabilmente potrebbero af-
fiorare (non ci sarà spazio per ricostruire, da fonti extra-cartografiche, la
storia dei contesti analizzati nell’intreccio locale/generale, una storia territo-
riale che pure “si farà valere”, grazie alle modeste conoscenze a monte di
chi scrive), ma lo si invita a non sottovalutare i vantaggi scientifico-didattici
e perfino applicativi del metodo. Frutti attesi sono, come minimo, la possi-
bilità (fondamentale specie per i linguisti) di valutare le varianti trascrittive
di ciascun toponimo, da carta a carta (ma talora anche nella stessa carta!),
quindi un profilo, almeno in abbozzo, delle mutazioni territoriali (paesaggio
e strutture profonde invisibili); infine, una implicita microstoria
dell’esplorazione regionale e locale della superficie terrestre, collegata a
quella delle differenti tecniche impiegate nel tempo per la resa cartografica.
Il tutto, ovviamente, nella consapevolezza di muoversi in un campo – la
carta – nel quale il soggettivo e l’oggettivo, il reale e il simbolico-ideologico,
il tecnico e l’immaginario si mescolano, producendo una mirabile sintesi tra
pensiero noetico e pensiero psichico (fino all’onirico) o, per dirla altrimenti,
tra esprit de géometrie (disegno) ed esprit de finesse (toponomastica).
Proprio alla carenza di quest’ultimo nelle carte si riferiva tempo ad-
dietro il Gambi, attribuendo ad esse un ruolo solo integrativo nella ricerca
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2. La carta del Principato Citra del Magini (1606), “contenitore” toponimico di base e
modello per secolari ricopiature europee
La ricerca non poteva partire che da una carta realizzata da colui che
è riconosciuto come il più grande rappresentante italiano della cartografia
empirica, Giovanni Antonio Magini, peraltro celebre astronomo e matema-
tico (Padova, 1555-1617). Senza contraddire la scelta di privilegiare l’esame
dei toponimi in essa riportati, è conveniente descrivere i caratteri fonda-
mentali del “contenitore”, la cui grafica condiziona peraltro la disposizione
della copertura toponimica, essendone a sua volta condizionata. Si tratta di
uno dei 61 pezzi inseriti nell’arcinoto atlante delle regioni italiane, pubblica-
to postumo a Bologna nel 1620, a cura del figlio Fabio, presso S. Bonomi, e
dedicato a Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato; in esso
è ritratto il Principato Citeriore3, cioè il territorio corrispondente grosso
modo alla futura provincia di Salerno, quale risulta ai primi del XVII seco-
lo, stando alla affidabile datazione della carta, fatta da un grande maestro
della cartografia (Almagià, 1922 e 1974).
2.1 Caratteri della cartografia maginiana e sue fonti per il disegno del Regno
Se per un verso questa tavola, come quasi tutte le altre dell’atlante
maginiano dell’Italia, ebbe tanto riconosciuto valore da essere ricopiata solo
con modeste modifiche nelle più prestigiose raccolte di carte dell’Olanda e
della Francia (che avevano strappato all’Italia il primato cartografico), per
l’altro essa è largamente debitrice (salvo che per i particolari dell’isola di
3 Va precisato che la sinonimia “olim Picentia” risale alla divisione regionale codificata da
Leandro Alberti (Aversano, 2003a e 2003b). Per altri versi, siamo di fronte al prodotto ini-
ziale più perfetto di quella che viene comunemente definita la «cartografia del principe».
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
Capri e lo sfoltimento “forzato” del numero delle torri costiere) alla eccel-
lente carta del Principato Citra, realizzata da Mario Cartaro pochi anni pri-
ma (Valerio, 1994, pp. 60-61). Non è questa, tuttavia, una colpa del Magini,
al quale anzi viene ascritto in generale, come merito, quello «di aver conser-
vato e perpetuato il frutto di molti lavori che, altrimenti, non avrebbero
trovato traccia nei progressi della cartografia» (Lago, 1992, p. 436), grazie a
una minuziosa e scrupolosa opera di rielaborazione e omogeneizzazione
delle fonti.
Fig. 1 Giovanni Antonio Magini, Principato Citra, olim Picentia, 1606. Cm 25 x 47. Scal (sic!)
di miglia 15 (1:330.000 ca., sul grado di meridiano). Orientamento: nord in alto.
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
gli è a ridosso, si mostra sempre più dilatata nel senso dei paralleli, a mano a
mano che si procede verso sud, congiurando visivamente l’ampliamento del
principato verso l’alta valle dell’Agri (zona di Grumento nova, allora Sapo-
naria, Marsico Nuovo, ecc.). Questa parte dell’Appennino lucano, come tut-
ta la Catena della Maddalena, è morfologicamente presentata con coni (me-
glio si direbbe gobbe) da una a tre punte, lumeggiati dalla sinistra in alto e
leggermente più grandi di dimensione e più pesantemente chiaroscurati ri-
spetto a simil-gobbe raffiguranti le altre montagne provinciali (Lattari, Pi-
centini, Polveracchio e Alburno-Cervati, Bulgheria, ecc.), che pure hanno le
stesse caratteristiche altimetrico-clinometriche. Non sempre gli spartiacque
emergono con precisione e comunque restano ignorate le forme tabulari,
che pure sappiamo esistere (nell’Alburno, ad esempio).
Passando al disegno delle rete idrografica, che notoriamente è il “fio-
re all’occhiello” della Italia maginiana, se ne può nell’insieme confermare la
sostanziale precisione nella nostra carta, anche se non sempre è plausibile il
dettaglio degli affluenti, subaffluenti e molteplici rami sorgentiferi, che
l’autore “si poté permettere” di tracciare avendo del tutto ignorato il dise-
gno delle strade e limitato nello spazio di rappresentazione l’”invasione” del
rilievo e della vegetazione (segnalata con gruppi di alberelli, stilizzati sempre
allo stesso modo). Questi scostamenti rispetto alla realtà, oltre a dipendere
da una malferma informazione sull’andamento e la lunghezza degli assi
principali e secondari del reticolo, sono in qualche modo condizionati dalla
ricostruzione complessiva del perimetro esterno del Principato e dalla risul-
tante superficie, relativamente scorretti, come si è visto: ci troviamo infatti
in presenza di una rappresentazione di carattere empirico che, benché nobi-
litata da una graduazione della latitudine relativamente plausibile (meno per
la longitudine), segnata sulle cornici esterne, non è sorretta da rilievi geode-
tici né dalla griglia di una proiezione di cui si controllino le deformazioni4.
All’importanza grafica, data alla ragnatela idrografica tracciata, non fa
riscontro un’adeguata assegnazione di idronimi. Solo 6 corsi d’acqua si sot-
traggono a tale carenza designatoria: fra i beneficiari di un nome spicca ov-
viamente il Selo f. con un’asta che, partendo da Capo aselo, è ben direzionata
verso sud in senso meridiano, fino all’incontro col Negro f. (attuale Tana-
gro), altrettanto ben disegnato da sud-est a nord-ovest. Sorprende negati-
vamente, a questo proposito, il fatto che l’idronimo erudito-latinizzante (Si-
4 Come è invece nel caso attuale della Campania del noto Atlante De Agostini (scala
1:1.000.000: proiezione conica modificata) o della Carta generale del territorio redatta dalla
Regione Campania al 200.000, sulla base dei rilievi I.G.M. al 100.000, che sono stati i nostri
punti di paragone, quando non si è avuta necessità di consultare le tavolette al 25.000 e la
cartografia manoscritta “minore”, per procedere all’analisi di dettaglio.
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laro f.) risulti apposto a un subaffluente dell’attuale fiume Platano, che sfocia
nel Negro, evidenziando una madornale confusione, attribuibile o ai trascrit-
tori del laboratorio maginiano o alla percezione di una maggiore importan-
za da assegnare al solco proveniente da est. Sta di fatto che lo stesso Tana-
gro, peraltro ben reso nell’asta principale e nei numerosi confluenti (specie
dell’alto corso), è disegnato con una doppia linea perfino più larga di quella
riservata al Sele, quasi a volergli conferire più risalto geografico, accentuato
peraltro da un ampio e profondo arco spinto verso nord; poiché, dal canto
suo, il Calore lucano (nome attuale), col suo ultimo tratto, confluisce ad an-
golo retto nel Sele, ne risulta dilatata e di forma rettangolare l’area mesopo-
tamica costituita dal bosco di Persano-Serre (Presciano e le Serre), sottolineata
da simboli di alberelli. Salvo l’anomalia segnalata, il corso del Calore, privo
di qualsivoglia denominazione coeva, risulta ben ritratto sia nella direzione
che nelle numerose ramificazioni. Prima di gettarsi nel Tirreno con un clas-
sico delta, ospitante al centro dei due rami una torre costiera, il Sele riceve
da sinistra due fiumiciattoli paralleli tra loro, il Corno e il Lacoso, il quale ul-
timo, essendo stato “tradotto” nella cartografia attuale (I.G.M. in testa)
come Torrente la Cosa, frusta l’arroganza di quei linguisti-etimologi che, nelle
loro “elucubrazioni” monodisciplinari, ancora si ostinano a ostracizzare
l’informazione geo-cartografica.
È perfetto l’andamento del Sarno o Safati fl, che fa da appoggio al con-
fine provinciale e riceve da sinistra il molto più lungo e innominato Solo-
frana, che accusa solo qualche sproporzione direzionale e dimensionale nei
suoi affluenti. Resta da spiegare, infine, come mai soltanto un altro fiumi-
ciattolo, il R.S. Fomia, venga fatto degno di designazione, trattandosi di un
minuscolo rio, affluente di destra dell’alto corso del Mingardo.
Il paesaggio idrografico si completa con la rara indicazione di ponti
sui fiumi (che lasciano appena immaginare i lacunosi assi di collegamento
terrestre dell’epoca) col disegno di cinque laghi: i due provvisti di nome so-
no il Lago di Buda, da cui esce un emissario del Melandro, affluente del Ta-
nagro, e il Lago piccolo, collocato sulla costa subito a nord del Tusciano; gli
altri tre sono un lago più grande, a metà strada tra Sele e Tusciano, con a
ridosso una florida foresta planiziale, quindi uno specchio d’acqua più am-
pio di tutti, che sappiamo essere il Lago di Palo, oggi prosciugato, come del
resto i due gemelli retrodunali appena ricordati; infine, un laghetto tra Serra
longa e S. Gargios, nell’angolo meridionale di sud-est del Principato (al di là
del confine, a esso fa da pendant un invaso ancora più minuscolo e, subito a
nord-est, il simbolo e il nome di Lago negro).
In relazione alle imprecisioni delle superfici territoriali e dei connessi
andamenti fluviali, come dell’approssimativo inquadramento orografico, è
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5 Per le problematiche della necrosi delle sedi, cfr. Aversano, 1987 (ivi, alla p. 93 carta della
distribuzione di villages désertés nel Salernitano e in Basilicata). Anche a tal proposito si rivela
l’importanza documentaria dei toponimi cartografici: nel caso specifico viene ribadita
l’esistenza di una città sulla vetta della Stella (quel Castellum Cilenti che ha dato il nome alla
subregione: Aversano, 1982) e di Amalfi vecchio oltre l’indicazione di Molpa, il che inge-
nera dei dubbi storiografici, dato che generalmente quel castello viene individuato, più o
meno leggendariamente, come la patria originaria degli amalfitani; lo stesso valga per Ca-
paccio vecchio, segnato in pianura e in una ubicazione a sud di Capaccio nuovo, contro la
consolidata opinione che il suo sito sia su un’altura a nord; infine, nella zona dell’attuale
Sala Consilina, centro testimoniato già da epoca romana, la carta non riporta abitato alcu-
no, salvo Fonte S. Giovanni e, più in là, S. Lorenzo (cioè la Certosa), Padula e Laserrela. Si trat-
ta proprio e solo di carenza di informazioni maginiane?
6 Il che è stato definitivamente dimostrato dal Valerio (1994, pp. 59-60). Va aggiunto che,
rispetto a questa fonte, il Magini non è altrettanto preciso nel disegno dei citati prospettini.
7 Per dare un’idea di tale assetto, si farà riferimento alla sempre valida partizione subregio-
nale della Campania proposta anni addietro dal Ruocco (1976, in particolare la carta a p.
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22), con qualche necessario aggiustamento o ulteriore specificazione, tenuto conto di cen-
tri, come Salerno, di assoluta primazia diocesana, o come Cava e Vietri (che avendo forma-
to per secoli una sola entità amministrativa, possono essere considerati una micro-
subregione a parte), di posizioni “a cavallo” tra una partizione e l’altra (area tra la con-
fluenza del Tanagro nel Sele e l’ex lago di Palo) e del fatto che Capri, la parte meridionale
dell’attuale provincia irpina e la parte occidentale dell’odierna provincia di Potenza (alta
Valle dell’Agri) nel primo ’600 rientravano nel Principato Ulteriore. N.B.: da qui in avanti
si userà l’abbreviazione sbr per indicare appunto una subregione.
8 Si dà per scontato che questa simbologia, in una fase successiva della ricerca, andrà con-
trollata con i tanti elenchi di centri, testimoniati da fonti più o meno coeve, a stampa (L.
Alberti, il Galanti, il Sacco, il Giustiniani, ecc.) o manoscritte (il Nicolosi, per cui vedi A-
versano-Cantalupo, 1987; il Del Mercato, ecc.).
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nali del territorio, di cui ci siamo appena serviti come griglia interpretativa
di un dualismo demo-economico-funzionale, al presente solo parzialmente
sanato: ciò è dimostrato dalla scarsissima presenza di designazioni coroni-
miche. Infatti, se si eccettuano i coronimi marittimi (Parte del Mar Tirreno,
scritta che pervade con volute baroccheggianti parte del Golfo di Napoli e
tutto quello di Salerno; Golfo di Salerno, in grassetto dimensionalmente mag-
giorato; Golfo di Policastro e Isola di Capri, in maiuscoletto, cioè stampatello
con alto/basso delle lettere iniziali), registriamo solo l’oronimo M. Apenni-
no, impiegato due volte, col solito grassetto risaltato, ai confini settentriona-
le e meridionale con la Basilicata. Un dubbio è posto da Tardiano, da con-
frontare con Le Diane, e che forse richiama il Vallo di Diano come corru-
zione di Thal Diane (vedi successivo commento della carta di Von Reilly).
Tab. 1. I gangli della “gerarchia urbana” del Principato secondo la carta del Magini
Tenimenti di sole città (tot. 3): Alburno-Cervati (tot. 9):
Salerno Aquara (Valle del Calore), Castelluzzo, Contro-
Vietri e Cauva (il cui territorio rientra, secon- ne, Felitto, Ottati, Postiglione, Sanza, Sicignano,
do il Ruocco, nel Subappenino campano). Sacco.
Penisola Sorrentina con Capri (tot. 14): Vallo di Diano (tot. 6):
Amalfi, C.- a’ Mare di Stabia, Citrara, Gragnano, Athene, Bona abitacolo, Diano, Padula, Polla, S.
Il Castello (isola di C.), Lettere, M. Apuzza, Mi- Arsiero.
nuri, Pasitano, Paterno, Pimote, Rauello, Scala,
Pasitano.
Agro sarnese-nocerino (tot. 3): Monte Marzano (tot. 7):
Angri, Nocera, Sarno. Auletta, Bucino, Cogliano, Lauiano, Palo, Va-
luano, Loleuito.
Agro Sanseverinese-braciglianese (tot. Cilento storico (tot. 2):
2): C. dell’abbate, Lastella.
Braccigliano, S. Seuerino.
Piana del Sele (anche centri di collina che Cilento (tot. 13):
vi si affacciano; tot. 4, di cui nessuno in pia- Ca’ Mare della bruca, Camerotta, Campora, Ca-
nura): sella, Laurito, Glibonati, Il casteilio (capo Pa-
Albanella, Altauilla, Capaccio nuouo, Euli. lin.), Laurito, R. Gloriosa, Rofrano, Roscigno, S.
Seuerino, Policastro.
Picentini (tot. 9): Catena della Maddalena-Alta Val d’Agri
Calabritto, Cãpagna, Capo asele, Castelluzza, Ca- (tot. 2):
stiglione, Contursi, Gifoni, M. Coruino, S. Cipria- Saponara, Marsico nuovo.
no.
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(con 17 alberelli) risalta tra i bassi corsi del Sele e del Tusciano, a ridosso
del grande lago retrodunale, ed è contrassegnata dal toponimo Arnosora (at-
tuale Arenosola); quasi in continuità si sviluppa verso est un’altra area me-
sopotamica compresa tra Tanagro, Sele e Calore, dove insistono tre spez-
zoni boschivi, il più consistente (13 alberi) tra Selua Nera, Presciano e la duch
bost., un altro di 8 elementi (detto Selua Nera) a ridosso del grande arco al
cui culmine il Tanagro si immette nel Sele, il terzo, di soli 3 fusti, in corri-
spondenza del toponimo Piano delle tecole, affiancato dall’immancabile cer-
chietto. Un esteso bosco planiziale, dunque, l’unico presente in provincia,
cui si contrappone un gemello di montagna, con 14 alberelli, tra i toponimi
Fistola Mazziota e Rofrano uetere, in una zona accerchiata dagli attuali monti
Antilia, Centaurino e Scuro. Per trovare superfici forestali di quasi pari con-
sistenza (9 unità) bisogna spostarsi verso il nord-est del Principato, nella
subregione del M. Marzano, tra l’Ogna, Laualua, Cogliano e il Carvello, mentre
altrove siamo su una dimensione che definiremmo di “media boscosità” (6-
7 alberi), nell’aspra montagna cilentana, tra Uorio, Lasasana, Locaio e Omigna-
no, alla sinistra del medio Alento (ma sappiamo trattarsi di un territorio mal
disegnato) oppure sul versante sud del Monte Vesole (tra i toponimi Comin-
genti, Vesali e Fenocchito e con al centro il toponimo Caualluzzo) o, infine, tra
Feghine, il Castello, Gragnano e Chiunzi, zona dei Lattari “dichiarata” più bo-
scosa dall’autore, insieme a una sola altra superficie più vicina al mare, ad
est di Vico (3 alberi tra i toponimi Le Franche e capo de auila).
A parte questi ultimi, altri brani di selve, ma di ristretto àmbito (da 2
a 4 simboletti), sono segnalati: nell’alta valle del Sele, sulle groppe del Cer-
vialto (tra Ponticchio e Acque de Abeti); sul Monte Cervati (tra Fonte spina, Lo-
ratio e S. Iacouo); nel Cilento, e precisamente alle sorgenti del fiume Mingar-
do (a nord di M. Centaurina e la Farnetta) e a quelle del fiume Negro (tra
Cantaro, la Cadossa e Casale Nuovo); sull’Alburno, tra Ottati, Serranera e Petina
(qui è specificata, unica volta in assoluto, anche l’essenza vegetale nel topo-
nimo Li Faghi); ad ovest del Monte Corvino (tra Rovella, Faiano e Cagna-
no) e infine sulla Catena della Maddalena, ma come esigua porzione confi-
naria di un bosco estesissimo soprattutto nella attigua Basilicata, in direzio-
ne di Picierno.
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10 Si sarà notato, specie da questi ultimi casi, come uno dei fattori di maggiore occultamen-
to (con connessa impossibilità di decifrazione) è l’assorbimento dell’articolo, al singolare e
al plurale, maschile o femminile, nel nome; ma, paradossalmente, si registra anche un caso
opposto, e cioè la “creazione” di un articolo separato dal nome (Il Cerello), di fronte a un
non compreso fitonimo in forma diminutivo-vezzeggiativa (Elcerello). Superfluo ricordare
quanto l’approccio spaziale della Geografia, appuntando l’attenzione sui siti, sia spesso più
utile del pur necessario ricorso alla fenomenologia linguistica nel risolvere i problemi in-
terpretativi!
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11 Una vero richiamo all’umiltà ci sembra venire, ad esempio, da toponimi come Chiane so-
prane e Chiane sottane, che contestano gli attuali Piaggine (interpretati di solito in riferimento
al pietrisco o sabbia del detrito di falda: AAVV, 1990, sub voce Piaggine), mentre qui si fa-
rebbe riferimento solo a due pianori di diversa altezza. E così, Cetara in Costa d’Amalfi è
citata come Citrara (scombinando, col pertinente significato agrumicolo, il riconosciuto
etimo di “tonnare”), il noto Monte Cervati compare come Cervaro, M. Arsano (c/o Buona-
bitacolo) è sicura corruzione del maginiano Monte Rossano, Pollica è registrato in carta come
Bollecia, Ascea come Aseigo, Palinuro come Palenuda/o, Positano come Pasitano, Mandia co-
me La mania (con assimilazione dell’articolo), Massascusa come Massaconia, Camerota co-
me Camerotta, Torre Orsaia come Tosai (dove la T, senza puntino, è incorporata nel nome),
Sicilì (accentata) come Le Sicelie, Orria come Vuorio, Corleto Monforte come Cornito (si ri-
cordi che la diffusione di questo toponimo, come di tanti altri, complica l’individuazione
del centro di riferimento, possibile solo con l’osservazione del sito in carta), Fogna (poi
“migliorata” in Villa Littorio per alleviare il senso di vergogna degli abitanti…) come Fagna
(versione che, se fosse vera, avrebbe risolto alla base il problema della sua “decenza”), Stio
come Sõtae, Figlino di Tramonti come Beghine, e via enumerando.
12 Cfr. Aversano, 2006, schema n. 1, p. 143. In questa prima prova si è preferito utilizzare
la classificazione più semplice anziché quella, assai più articolata per tipi toponimici, ripor-
tata ivi alle pp. 174-178.
13 Posizione del luogo ed esposizione; elementi meteorologici e fenomeni astronomici;
salvo caccia e pesca; prediali; agionimi e nomi legati alla sfera ecclesiastico-religiosa.
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centri, anche importanti, che non rientravano nelle sei classi selezionate; i-
noltre, avendo espunto preventivamente dal conteggio le 58 torri costiere,
le specificazioni spesso attribuite loro non sono state affatto esaminate. Nel
complesso, dunque, sono stati classificati 198 toponimi su 444 di base.
Questi i risulatati emersi: la categoria in assoluto più rappresentata (e
c’era da aspettarselo, data la diffusa religiosità e pietà popolare di quei tem-
pi) è quella agionimica, con 66 toponimi (il 33% del totale), di cui ben 60
dedicati a santi o a Maria (S. Angelo, S. Arsiero, S. Maria della neve, ecc.) e solo
6 di formulazione diversa (c. dell’abbate, la trinita, ecc.). La graduatoria vede al
secondo e terzo posto i fitonimi e gli oronimi (rispettivamente con 35 e 34
nomi, cadauno pari a poco più del 17% dei toponimi considerati), a loro
volta seguiti quasi a pari merito da prediali e idronimi (29 e 28 attestazioni:
siamo sul 14% abbondante, nell’uno e nell’altro caso). In fondo alla gradua-
toria troviamo il settore primario, con 6 nomi di luogo (riferiti più
all’agricoltura che all’allevamento), rappresentanti appena il 3% del com-
plesso toponimico sottoposto a classificazione.
Ci sono tuttavia da aggiungere ulteriori considerazioni, riguardanti
innanzitutto la tipologia degli idronimi e dei fitonimi, rispetto ai quali ho
operato una distinzione tra quelli a carattere naturale e quelli relativi ad a-
spetti antropici. Mentre l’idrografia toponimizzata si mostra in larga parte
naturale (23 casi: Acqua de abeti, Acqua della frecaglio, Negro f., Selo f., ecc.) e so-
lo 5 volte riflette l’esistenza di opere idrauliche semplici (Fistola mazziota,
Fonte spina, ecc.), la fitonimia attiene maggiormente (22 presenze) alla vege-
tazione spontanea (Calabritto, Li faghi, Lentiscosa, Seluanera, Cornito, ecc.) e un
po’ meno (13 casi) alle specie coltivate (Arboro, Le Ceuze, Loleuito, Perito, Ce-
raso, ecc.). Se però a queste ultime si aggiungono le 6 attestazioni afferenti al
settore primario, si arriva a 19 toponimi rivelatori dell’attività agricola, che
rappresentano una percentuale nient’affatto trascurabile (quasi il 10%) sul
totale toponimico, a testimonianza di un territorio salernitano abbastanza
controllato dalla mano dell’uomo, almeno in certe aree, fermo restando
che, come di massima risulta da indagini svolte in altri contesti, gli aspetti
fisico-naturali sono la fonte prevalente della creazione toponimica da parte
delle collettività del passato.
3. La carta del Bleau (1640) conferma una quasi pedissequa ricopiatura maginiana,
con variazioni formali e utili correzioni astronomiche
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Fig. 2 Joan Blaeu, Principato Citra olim Picentia, Amsterdam, 1640. Cm 61,5 x 73 [nel riqua-
dro: cm 42 x 54]. Scala di miglia dieci Italiane (1:350.000 ca.). Orientamento: nord in alto.
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15 Sulla storia della famiglia De Rossi e su altri particolari tecnici di questa carta, si rinvia a
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plessiva del Principato, se non per una maggiore sporgenza verso occidente
di Punta Licosa, chiamata Capo del isola (nel Magini erratamente posta molto
più a sud e senza il disegno del prospiciente isolotto), nonché per
l’andamento della linea di confine con Terra di Lavoro nella Penisola Sor-
rentina: stavolta, registrando effettive modifiche amministrative, quella linea
si allunga sino alla foce del Sarno, ritagliando una striscia costiera rivolta al
Golfo di Napoli, che si interrompe solo per acquisire ancora, al Principato
Citra, residuamente, la città di Castellammare.
Fig. 3 Domenico de Rossi, Provincia / del Principato Citra / già delineata dal Magini / e nuova-
mente ampliata secondo lo stato presente / Data in Luce da Domenico de Rossi, / e Dedicata /
All’Ill.mo Sig.re / Il Sig.r Auocato Diego de Pace, 1714. Cm 60 x 71 [nel riquadro: cm 46 x 57]
Scala di Miglia quindici Italiane. Orientamento: nord in alto.
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4.2 La rete dei centri: aree “forti” e aree “deboli” della provincia alla luce dei
simboli grafici e dei toponimi inediti
La gerarchia demo-funzionale dei centri viene innanzitutto indicata
con caratteri tipografici diversi per i rispettivi toponimi (maiuscoletto a e-
saltare le città più importanti; tondo ingrandito e un po’ grassetto per città
di medio rango; corsivo per la maggior parte dei centri affiancati al tondi-
no); i tondini son però di tre tipi, a significare tre gradi crescenti di impor-
tanza: cerchietto vuoto; centralmente puntinato; pieno, cioè annerito del
tutto. Alla diversità del carattere della scritta fanno riscontro dei prospetti di
torri, recanti al centro sempre un tondino, come nella carta del Magini, ma
con maggiore meticolosità esercitata nel distinguere il rango con due o tre
torri, che talvolta salgono a cinque per città capoluoghi o di un certo presti-
gio storico (Salerno e Castellammare della Bruca). Da tre torri in su i simboli
vengono colorati, dando più l’impressione di mura merlate di un castello,
come del resto avviene per quelli inerenti a centri con particolari funzioni
16Si badi bene a questa buffa deformazione del toponimo Fistola, che dimostra come an-
che nel passato, quando un cartografo (o il suo copista) non comprendeva il significato di
un nome, tendeva a modificarlo con uno di significato plausibile, rientrante nella propria
esperienza. Un fenomeno che si ritrova anche nella vita quotidiana.
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cent’anni prima si trovava a 9 centri (il 2,08% del totale); lo stesso accade
per la Piana del Sele, che da 4 passa a 12 centri, e per il Cilento, compreso
quello storico (37 centri in totale). Parecchie città settentrionali beneficiano
inoltre di un rapporto diretto con la corona (con qualifica di terra di domi-
nio o regia), come Salerno, Capri, Amalfi, Minori, Scala, Lettere.
Ancora più plausibile, data l’omogeneità dei dati, è la comparazione
col Magini per quel che che riguarda i centri con funzioni religiose, laddove
l’area settentrionale considerata detiene 15 città con Arcivescovado (Salerno
e Amalfi) o Vescovado (Cava, Capri, Amalfi, Minori, Scala, Ravello, C. a mare di
Stabia, Lettere, Sarno, Nocera), e abbadie (Vietri, La Trinita, Li Porlati = a ri-
dosso di Positano, Materd.ne), mentre solo la Piana del Sele beneficia di due
vescovadi (Campagna e Capaccio nuovo, che controlla quasi tutto il Cilento e
l’Alburno-Cervati) e due abbadie (Eboli e S. Leonardo), essendo queste auto-
revoli funzioni (vescovili) diradate e alquanto ridimensionate altrove (nel
Cilento, Policastro e C.re della Bruca; nel M. Marzano, Cagiano).
Altrove sono segnalate rare abbadie: nel Vallo di Diano, a Padulla (la
celebre Certosa), nel Cilento storico a Pattano (nota per il rito bizantino),
nell’Alburno-Cervati a Controne e S. Pietro, dove è segnato l’unico caso di
una bandiera alludente a un potere civile periferico (la Regia Udienza), con
qualche dubbio sulla leggibilità del simbolo (che si confonde con una lettera
alfabetica).
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Tab. 2 - Toponimi presenti nella carta del De Rossi e non in quella di Magini (torri escluse)
ACERNO Battipaglia f. Fiume Bianco Lago di Buda Caiano
Calore fiume La Cangena Carintella Carnati M. Celito
Celso Cirasa Compri La Croce Valle di Diano
Bosco d’Euoli Forli Rio Furore Li Galli Lago grande
S. Idelfonso Lafarnetta Lammia Lazzarolo Learola
Liporelli Lomente Lunatonte Massacouia Massicello
Mater dñe Nocera Noue Oleuano Oliuito
Pantano Passitano Petroco Porano Bosco di Presciano
Prignano Quaglietta S. Angelo S. Angelo delle Fratte S. Leonardo
S. Lorenzo S. M. della Torre S. Maria S. Maria S. Maria
S. Maria S. Maria S. Maria S. Mattia S. Mauro
S. Mennaio La Sala Salfone Rio Saua Serre
Solaro Tauerna Terminella LaToricella Borraccia
Torricella Tramonti Trecchia Trinita Vicentino F.
18 Nella prevista riscrittura più completa e sistematica di questa ricerca saranno sempre
contemplate tre tabelle per il blocco di toponimi presente in ogni carta, possibilmente con
l’ausilio di un data base, onde avere una visione incrociata e dinamica del fenomeno. Con
questo sistema saranno monitorate (nei toponimi e nei simboli) decine di carte storiche,
fino alle attuali, con la possibilità di ricavare, fra l’altro, l’indice di dispersione (o obliterazione),
l’indice di rinnovamento e quello di persistenza dei toponimi.
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per quanto riguarda i rilievi, che vi appaiono ancora nella simbologia di de-
rivazione maginiana, nella fattispecie delle gobbe lumeggiate di De Rossi,
ma liberate definitivamente dal cerchietto che le faceva confondere coi cen-
tri abitati; per il resto, dal principale prototipo è stato ricavato solo
l’essenziale della geografia fisica ed antropica (toponomastica compresa,
come si vedrà), non senza tuttavia che sia riprodotta la vera novità territo-
riale e cartografica, ossia il tracciato della strada delle Calabrie (merito di
Carlo III di Borbone), che taglia trasversalmente il Principato e ha come
unico diverticolo il tratto che da Eboli porta al casino reale di Persano. An-
che il bosco compare nel suo esatto perimetro, calibrato sul perfetto angolo
di confluenza (finalmente reso acuto!) del Calore nel Sele.
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ni più vicine a quelle che siamo abituati a leggere nelle carte attuali, a parte
il suffisso berg: Adler, Alburno, Antilia, Calimarco, Cavallero, Centaurino, Cervati,
Lagorosso, Latario, Magadalena (oronimo che si credeva attribuito solo recen-
temente dal T.C.I. alla catena omonima), Majano, Modulo, Novara, S. Adutore,
ecc. Il Von Reilly, oltre al Diano Thal, riporta anche il Raja Thal, mostrando
un minimo di propensione in più per i coronimi vallivi, oltre i soliti riguar-
danti i golfi e i mari.
Nonostante l’apparato dei nomi sia di 165 unità inferiore a quello ri-
portato dal De Rossi, questa carta propone, grazie naturalmente alle acqui-
sizioni tratte dal rilevamento del Galiani-Rizzi Zannoni, ben 155 nuove de-
signazioni (a parte le quattro citate torri), delle quali un assaggio si è appena
fatto riferendo degli idronimi e degli oronimi. Lo scarso spazio a disposi-
zione e il rischio di ripetizioni sconsigliano di procedere, diversamente da
quanto si è fatto con le precedenti carte, all’analisi tipologico-categoriale
della neo-toponomastica qui esibita, che riflette maggiormente quelle zone
del Principato meglio rilevate nella Carta della Sicilia Prima, in quanto più
raggiungibili attraverso le disagevoli vie di comunicazione terrestre all’epoca
esistenti.
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Fig. 5 Benedetto Marzolla, Provincia di Principato Citra [Atlante Corografico Storico e Statistico del
Regno delle Due Sicilie], 1830. Cm 56 x 72,5 [nel riquadro: cm 41 x 58,5]. Scala di miglia 90 da
60 al grado (1:416.000). Orientamento: nord in alto.
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
6.2 Confronto tra toponimi della carta di Marzolla e toponimi delle carte prima
considerate
19 I criteri di ripartizione amministrativa e la definizione della taglia dei centri risaliva alla
riforma murattiana (legge n. 489 del 1809), modificata successivamente dai Borboni. A ri-
dosso della data di pubblicazione di questa carta del Marzolla c’era stato il Decreto n. 1876
del 25 Gennaio 1820, che apportava alcune rettifiche «sulla circoscrizione de’ Comuni e
circondarj de’ domini al di qua del Faro» (Coll. LL.DD., a. 1820, p. 79 e sgg.).
20 Quello di Salerno riporta 113 toponimi e uniti; Sala è dotato di soli 32 toponimi, mentre
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
cadaspide, Rocche, Rocchetto, Avanzi di Pesto, Vetrale, Villa). A pari merito (11
casi) seguono centri dedicati al nome di un santo o comunque nobilitati dal-
la presenza di una riconosciuta autorità religiosa (Laureana, Piscopia, S. Cesa-
reo, S. Clemente, S. Egidio, S. Giacomo, S. Nazaro, S. Nicola, S. Tecla, S. Valenti-
no, Sperandei), insieme a prediali romani (Brignano, Calabrano, Cesarano, Corsa-
no, Fasano, Fasciano, Ostigliano, Pasciano, Pucciano e Spiano), impregnati di sicu-
ra vocazione agricola, che fa tutt’uno con quella insita in altri 8 toponimi
denotativi dell’attività primaria (Campora, Caprecano, Capriglia, Oria, Pagliarone,
Pastena di Salerno e Pastena di Amalfi, Pastorano). Completano ma non chiu-
dono l’elenco, rispettivamente con 6 e 5 testimonianze, toponimi da co-
gnomi e nomi personali e collettivi (Arcari, Baronissi, Benincasa, Cicalesi, Rufo-
li, Santesi) o evocanti attività extragricolo-artigianali di un certo peso nella
società ottocentesca (Ferrari, Fusara, Giffoni Valle e Piana, Molina, Pellare).
Comparando questi toponimi con quelli incontrati nelle quattro carte
precedenti, non si può non annotare, da un lato, quanto la trascrizione sia
in genere molto più “corretta” o per lo meno controllata, dall’altro la netta
preponderanza dei loro significati antropici, che superano i due terzi del to-
tale, a fronte di denominazioni legate – nelle carte sei-settecentesche – a
fatti quasi esclusivamente naturali, se non fosse per l’abbondanza degli a-
gionimi, chiara espressione di una civiltà ancora legata, nella sua insicurez-
za, a comprensibili “mitologie” religiose (fatto salvo il rispetto che si deve
alla fede autentica del popolo) e non ancora sconvolta dalla “rivoluzione”
culturale e tecnologica borghese.
Quanto tale “rivoluzione” fosse radicata su alcuni territori anziché al-
tri, lo si ricava dall’analisi distributiva, all’interno del Principato, di questi
nuovi nomi, condotta sempre secondo la subregionalizzazione del Ruocco,
sia pur adattata a quella amministrativa del Marzolla, che si è preferito non
scegliere, in quanto non avrebbe consentito un confronto con le riflessioni
spaziali fatte sui toponimi delle carte precedenti, benché nella sua precisio-
ne di ritaglio avrebbe facilitato il nostro compito localizzativo.
In tutta evidenza la sezione nord-occidentale del Principato, corri-
spondente all’intorno di Salerno (Picentini meridionali, agro sanseverinese-
montorese-fiscianese, Valle dell’Irno, Cava e Vietri), all’agro nocerino-
sarnese e alla Costa Amalfitana – in assenza ormai del versante sorrentino –
, viene valorizzata amministrativamente e sotto il profilo toponimico, rac-
cogliendo 67 località censite, di cui 46 nel primo gruppo e 21 nel secondo.
In realtà, queste varie sbr erano state accorpate dai Napoleonidi nel vasto
distretto di Salerno, comprendente 113 circondari e una popolazione di
202.933 abitanti sui 505.556 della provincia (40,2% del totale), certamente i
più attivi e produttivi del contesto provinciale. Anche il Cilento e il Cilento
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21 Per una opportuna distinzione di queste “figure” di assalitori, cfr. Aversano, 1976, p.
395.
22 Le torri costiere esistevano invero già prima dei romani, che «le usarono contro i pirati
fino a quando ebbero il completo predominio del Mediterraneo, perciò detto Mare No-
strum» (Aversano, 2004, p.1), per essere ulteriormente edificate nel corso del Medioevo.
23 Ciò avvenne con un provvedimento del 1532 a firma del Vicerè don Pedro di Toledo,
ripreso e concretizzato nel 1563 dal suo successore, don Parafan de Ribera duca d’Alcalà, a
seguito delle frequenti e rovinose scorrerie turche agli inizi del XVI secolo e in previsione
dei possibili attacchi della flotta francese, tradizionalmente ostile alla Spagna (Mafrici,
1988, p. 75). Furono così erette oltre 300 torri lungo le coste del Regno di Napoli (cfr. no-
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
(58 toponimi, di cui 20 semplici e 38 composti, cioè con un appellativo aggiunto al termine
“torre”), del Blaeu (58 toponimi, di cui 23 semplici e 35 composti) e del De Rossi (93 to-
ponimi, di cui 2 semplici e 90 composti). La carta del von Reilly, stilata a meri scopi cultu-
rali, ne riporta infatti solo 4 (T. Piana, T. Pinta, Il Capitello, a Gaisella), mentre la carta ammi-
nistrativa del Marzolla non ne riporta alcuno.
25 Da altre fonti si apprende che nel 1567 il Regno di Napoli conta 313 torri (aumentate a
339 nel 1580), di cui 91 costruite nel Principato Citra e in Basilicata (Mafrici, 1988, p. 42).
Tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, il numero aumenta di sole due unità, rima-
nendo stabile sino al 1748, quando le 93 torri del Principato Citra fanno parte delle 379
costruite in tutto il Regno (ridottesi a 359 nel 1879, molte delle quali, però, cadenti: Vassal-
luzzo, 1989, p. 576).
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aggressioni notturne26.
Alla presenza dei terribili mori fa esplicito riferimento anche il topo-
nimo “Torre Calamoresca” (T. Calamoresca in Magini e Blaeu, T. cala More-
scha in De Rossi), collocato a sud-ovest della precedente, con il suo eviden-
te richiamo ai musulmani berberi, «gente peligrosa y poco segura que, naturalmente,
nos ha da tener odio y aborrecimiento» (Mafrici, 1988, pp. 33-34), che evidente-
mente avevano ivi stabilito una “testa di ponte” da cui partire per incursioni
in zone viciniori. Quanto ciò corrispondesse al vero e quanto timore ci fos-
se nei loro confronti è confermato dalla prossimità, a questa torre, di molte
altre consimili, tra cui quelle di Infreschi (T. l’Infresco in Magini e Blaeu, T. de
C. Lanfrescho in De Rossi)27 e di Cala Bianca (T. Calabianca in Magini e Bla-
eu, T. del C. Bianco in De Rossi), poste a protezione di un territorio più volte
colpito dalle incursioni corsare28, sia per la presenza di un porto naturale,
dove sostavano felucche e vascelli diretti dalle città del Regno verso la capita-
le (Brigantino-Il Portale del Sud, 2008), sia per la esistenza di numerose e
appetibili sorgenti d'acqua dolce lungo la costa (cosiddette “acquate”, rifor-
nimenti indispensabili per i navigli turchi), la cui costituzione rocciosa e cal-
careo-dolomitica (per la sua permeabilità e il colore chiaro) è puntualmente
richiamata dai toponimi29.
Alla necessità di un’adeguata difesa armata sembrano invece fare allu-
sione la “Torre delle armi”, la “Torre Petrosa” e la “Torre del Mortaro” (T.
dell’arme e T. lapetrosa, in Magini e in Blaeu, nel Golfo di Policastro; T. del
Mortaro in De Rossi, nel Golfo di Salerno), tre toponimi denotanti funzioni
26 È noto, infatti, che «turchi o mori […] sbarcavano, con il favore delle tenebre o alle
prime luci del giorno nascente, sulle spiagge del Regno, seminando il terrore in villaggi i-
nermi» (Mafrici, 1988, pp. 33-34) e che pertanto le torri avevano innanzitutto il compito
«di avvistare e segnalare la presenza del nemico, al fine di sottrargli il vantaggio del fattore
sorpresa» (Aversano, 1976, pp. 398-399). Non è poi tanto difficile immaginare il suono
incessante della campana d’allarme all’avvistamento di un naviglio corsaro, le segnalazioni
dell’imminente sbarco inviate alla città o al villaggio più vicino, l’accorrere delle truppe di-
sponibili, mentre la popolazione, abbandonando ogni attività, metteva in salvo il salvabile.
27 La torre di Infreschi, di più antica costruzione, è riportata nel 1277 in un documento di
Carlo d’Angiò con cui il sovrano ordinava al Giustiziere di Principato Citra di assegnare la
custodia e la manutenzione della torre alle università di Camerota e S. Giovanni a Piro
(Camera, 1876, p. 14).
28 Le cronache ricordano il funesto saccheggio di Lentiscosa, Camerota e Licusati per ope-
ra dei corsari di Dragut Rayiz, capitano-pascià e comandante della marina turca (Briganti-
no-Il Portale del Sud, 2008 e Mafrici, 1988, p. 33).
29 Da Cala Moresca si potevano anche controllare le partenze dei navigli che i Mori prefe-
rivano assaltare sotto costa, secondo quanto ha meritoriamente dimostrato il Russo (Rus-
so, 2001, pp.123-124).
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
orsaja) e la spinta all’”integrazione funzionale” tra il mare e le alture. Le torri furono inol-
tre impiegate anche per ulteriori scopi: da cordone sanitario contro la peste che infierì vio-
lentemente nel Regno di Napoli nell’anno 1656, a luogo di appuntamento per il contrab-
bando, a nascondiglio di armi e di cospiratori, dopo i moti insurrezionali anti-borbonici
della prima metà del XIX secolo (Vassaluzzo, 1989, p. 580).
32 Non erano infatti rari i casi in cui costruttori disonesti, abili nell’erigere muri vuoti, usa-
vano abitualmente materiali inadeguati, come malta scadente e acqua di mare. Di questo
mondo brulicante di miserie, brogli e truffe offre fedele testimonianza un toponimo origi-
nale come Torre Spacca la preta (presente nella sola carta del De Rossi), cosiddetta appunto
perché nel 1600, dopo appena «due anni dalla costruzione, crollò per “mala fabbrica”» (A-
versano, 1976, p. 399).
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33 È il caso di Torre S. Angelo (T. S. Ango in Magini e Blaeu), Torre S. Marco (T. S. Mar in
Magini e Blaeu; T. S. Marco in De Rossi), Torre S. Pietro (T. S. Pietro in Magini, Blaeu e De
Rossi), Torre S. Francesco (T. S. Francesco in De Rossi), Torre S. Stefano (T. S. Stefano in
De Rossi).
34 Tali trasformazioni sono state rese possibili perché le torri costiere, in dipendenza delle
leggi 21 agosto 1862, n. 793, e 24 novembre 1864, n. 2006, mediante la Società Anonima
per la vendita dei beni del Regno d’Italia, furono cedute, dietro pagamento, a privati citta-
dini (Vassalluzzo, 1989, p. 580).
35 L’elenco del Palumbo comprende i toponimi ricadenti entro i 2 km dalla linea costiera
della Campania.
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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale
sante, a riguardo, osservare come alcuni dei toponimi più ricorrenti e lon-
gevi emersi dal confronto richiamino costanti geomorfologiche, idrografi-
che, vegetali, religiose, agricole e socio-economiche in genere, legate alla
cultura mediterranea nel suo complesso.
Un messaggio rassicurante, forse, per il disorientato uomo contem-
poraneo che, alle prese con una società in costante mutamento, cerca infine
di riscoprire, nella interazione tra passato e presente, i punti fermi della
propria storia.
* * *
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