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Fr. 208a V
Non comprendo la direzione dei venti: di qua unʼonda rotola, di là unʼaltra; e noi in mezzo siamo
portati con la nera nave dal gran turbine duramente fiaccati; lʼacqua della sentina sormonta la base
dellʼalbero, la vela è ormai tutta squarciata e larghi brandelli ne pendono giù; sʼallentano le sàrtie ...
e ambedue le scotte restano salde nelle corde: questo soltanto può salvare anche me; il carico
sbalzato fuori … è trascinato in alto ...
ALCEO (VI a. C)
Fr. 6 V
Ecco, di nuovo, unʼonda del precedente vento avanza, sarà duro per noi vuotare la sentina se
lʼacqua invade le nave. […] Al più presto sbarriamo le fiancate, corriamo in un porto sicuro, non
(vi) colga la fiacca esitazione; è in vista un grande (rischio) innanzi a voi, siate memori delle passate
(pene), ora ciascuno dia proa di coraggio e non disonoriamo (per viltà) i nostri nobili padri che
giacciono nel grembo della terra. (…)
Tutto il carico (è perduto?) e, percossa dallʼonda, dice di non volere combattere con la pioggia…,
ma (si è fracassata) cozzando contro uno scoglio insidioso. Quella, se tale è il suo stato, (vada in
malora), io del ritorno scordandomi … (voglio) con voi stare allegro e gioire e con Bicchide …
Uno dei primi autori ad utilizzare il mondo della navigazione come allegoria è Alceo,
poeta della città lesbica di Mitilene, nato attorno al 620 a.C.
In questi frammenti, Alceo utilizza la nave come rappresentazione simbolica della
πόλις, prima minacciata dal vento, poi nel bel mezzo della tempesta, ovvero la
tirannide. Così, Alceo inaugura un modo puramente politico di intendere la
navigazione: un archetipo, che verrà ripreso anche dal poeta latino Orazio.
ORAZIO, Odi I, 14
O navis, referent in mare te noviBattaglia di Azio
fluctus. O quid agis? Fortiter occupa
portum. Nonne vides, ut
nudum remigio latus
Sì come vedemo in una nave, che diversi offici e diversi fini di quella a uno solo fine sono ordinati,
cioè a prendere loro desiderato porto per salutevole via: dove, sì come ciascuno officiale ordina la
propria operazione nel proprio fine, così è uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli ne
lʼultimo di tutti; e questo è lo nocchiero, a la cui voce tutti obedire deono…
Né ʼl mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che a la voce di un solo,
principe del roman popolo e comandatore, fu ordinato, sì come testimonia Luca evangelista. E
però che pace universale era per tutto, che mai, più, non fu né fia, la nave de lʼumana compagnia
dirittamente per dolce cammino a debito porto correa.
Nella terzina del canto VI, Dante definisce l’Italia una nave in tempesta, in preda al
caos, senza una guida, una giusta autorità che la controlli.
Nei passi del Convivio, per la prima volta compare la figura del nocchiero, ripresa poi
anche nei già riportati vv. 78-80 del canto VI del Purgatorio.
Qualche decennio più tardi, anche Francesco Petrarca utilizza l’allegoria della nave,
questa volta, però, in chiave decisamente diversa: la nave non è più un ente politico,
ma simboleggia la vita stessa, nelle diverse fasi della sua vicenda amorosa. Il poeta
esegue questa scelta stilistica probabilmente prendendo come riferimento i testi
religiosi; un’altra tesi prende in esame alcune lettere che Petrarca scrive, in cui
racconta di un naufragio accaduto durante il viaggio dalla Provenza a Roma per
incontrare Giovanni Colonna (Familiares IV, 6).
PETRARCA, Canzoniere, Canzone LXXIII, vv. 44-56
Questi versi ritraggono la figura del nocchiero in alto mare, in balia dei venti, ma
guidato da due fari: gli occhi lucenti dell’amata.