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 APPUNISCE ‘A PARLESIA?

 Il gergo è una forma di linguaggio che, in senso stretto, ha la caratteristica di essere un


codice verbale, piuttosto che un modo di esternare la propria appartenenza a un
gruppo, come accade nel caso dello slang giovanile. Il suo scopo principale è quello di
impedire a chi è estraneo a un determinato gruppo sociale di poter comprendere quello
che si dice. I motivi di questa codificazione sono da ricercare nella clandestinità di alcuni
gruppi, di solito di tipo criminale o eversivo, oppure nella miseria in cui versano, che
porta inevitabilmente alla diffidenza verso le classi sociali più agiate. I musicanti, ad
esempio, come pure i teatranti, appartenevano ad una categoria che versava in
condizioni precarie (non che adesso si navighi nell'oro, eh!), ed era costretta a fare una
vita itinerante... sovente venivano accomunati ai vagabondi e ai delinquenti (e, x la
verità, molto spesso era anche vero). In Campania si è quindi sviluppato un gergo
comune tra musicanti e camorristi, che, pur sfruttando la sintassi della lingua
napoletana, usava termini comprensibili solo agli appartenenti dei suddetti gruppi.

Il gergo in questione si chiama parlèsia.

E' dal XV secolo che l'autorità ha cercato di svelare i gerghi, come ulteriore tentativo di
combattere il brigantaggio e la malavita, x informare la gente sulle abitudini dei
vagabondi, e quindi metterla in guardia. Fino ad oggi, comunque, la parlèsia è
sopravvissuta, non tanto x motivi di segretezza, ma piuttosto come affermazione del
proprio stato sociale di musicista... ed io in particolare appartengo proprio alla categoria
dei musicisti. Se devo proprio dire la verità, non mi va molto giù che siano venuti fuori
pian piano i termini che noi musicisti utilizziamo x parlare di determinati argomenti
davanti ai non addetti ai lavori, perché ora non ci si sente liberi di poter più usare la
parlèsia con disinvoltura. Quindi, x coerenza, non dovrei dirvi più un bel niente su
quest'argomento... ma chi se ne fotte, tanto se cercate in rete trovate lo stesso
qualcosa, spesso scritta anche male.
Tanto vale allora šbianchì ‘a situènzia (cioè svelare la cosa).

Gli argomenti trattati in questo particolare gergo sono molto limitati e settoriali... x la
verità i termini si riferiscono principalmente alla musica, ai soldi e ai bisogni fisiologici,
compreso il sesso. Ci sono termini che hanno significati differenti a seconda di come
vengono usati, e viceversa ci sono vocaboli diversi che indicano una stessa cosa o
concetto. Due verbi molto usati sono appunì e il suo contrario, špunì. In realtà non
hanno un significato preciso, ma lo assumono in funzione del contesto. In generale
appunì ha un'accezione positiva, e špunì una negativa.

Adesso, un po' perché non mi va di svelare troppo del nostro gergo, un po' perché mi
caco il cazzo di scrivere tutto quello che c'è da scrivere (anche perché il tutto si
ridurrebbe ad una lista di vocaboli), preferisco scrivere qualche espressione comune,
con la relativa traduzione, e qualche curiosità.

Un termine che si usa spesso è ‘o jammë, cioè il tizio; il femminile è ‘a jamma, e i


plurali sono rispettivamente ‘e jammë e ‘e gghiàmmë. Alcune varianti sono: jammëtèlla
(ragazza), jammëtiéllë (ragazzino, tizio poco importante, figlio piccolo), jammëtellìna
(sorella), jammònë (uomo importante), jammòna (donna importante).
S’annë appunìtë ‘a chidderìa d’o jammë (Si sono presi la roba del tizio, l'hanno
derubato)

Appuniscë ‘a situènzia a llàuttë! (Prendi quella cosa là!)

‘O jammë base špunìsce ciéntë stèrë a ccapa (Il proprietario del locale paga cento euro
a persona)
Il termine stèra si traduce "moneta", ma anche "vagina": è questo il caso di
un'associazione di una cosa (la vagina) con ciò che serve x ottenerla (la moneta). Il
pene, invece, si traduce ‘o ‘ngrì, che deriva direttamente da "ingrillato", riferito al
grilletto del fucile quando è alzato.

‘A jamma ‘a ‘ppunìtë ‘o ‘ngrì (La tizia è incinta)

Appunìmmë ‘a chiarènza! (Beviamo!)

‘O jammë sta acchiarùtë (Il tizio è ubriaco)

Appunìmmë ‘o pròsë (Sediamoci)

‘A jamma ‘o ‘ppunìscë ‘mbròsë (La tizia pratica sesso anale)

‘A jamma appunìscë a ‘ndindàllë (La tizia pratica sesso orale)

Aggia špunì ‘o cocchë (Devo fare una scorreggia)

‘A crocca nun šbaiòcca (La vecchia non ci vede bene)

Appunìmmë ‘o valzer! (Andiamocene!)

Aggia appunì ‘o valzer in do minore (Devo lasciare la donna con cui sto)

Abbozza... ‘e ggiustìnë stannë appunènnë ‘o vënèsië (Attento... stanno venendo i


carabinieri)

Appunìscë ‘a cammënatèsia! (Accellera il passo!)

Spunìscë ‘a tabbacchèsia! (Spegni la sigaretta!)

‘E lëngùse so’ bbachërë (i maccheroni non sono buoni)

‘O cròcchë s’è bbacuniàtë (il vecchio è morto)

Nun appunìtë bbagarìe! (non fate bagattelle!)

‘O jammë è bbachërë ‘ngoppë ‘e bbanë (il tizio è cattivo sui soldi, cioè non paga bene)

Appunìscë ‘e bbanë ‘ind’ ‘a vèrtëla (Mettiti i soldi in tasca)

Fa’ addò và, ca ‘o jammëtiéllë è amedeo (Fai finta di niente, il ragazzino qui è
omosessuale)
Amedeo era un personaggio del dramma "Ferdinando" di Annibale Ruccello, ed era
appunto omosessuale.
‘O jammë è addò và, è bacònë (il tizio è inaffidabile, è incapace)

‘O jammë tenë ‘a zi’ muscèsia (Il tizio ha la guàllera, cioè è lento)

‘O pìzzëca ‘ndèrra s’è ffattë ‘mbrusà (I pollo si è fatto imbrogliare)

‘O pistòlfë s’è arciùtë ‘a jammëtèlla (Il prete si è scopato la ragazza)

‘O prufëssòrë ‘e trillàndë è tochë (Il mandolinista è in gamba)

Per finire, quando si vuole dire che un musicista ha preso una stecca mentre sta
suonando, ci sono varie espressioni:
- ‘O jammë fa ind’ ‘e cchiavèttë (le chiavette sono le leve che si alzano e si abbassano
sui fori degli strumenti a fiato, o le biette x allentare o tendere le corde)
- ‘O jammë ‘a pigliàtë ‘na fella (metafora dello stridìo che produce il coltello sul piatto
quando si taglia qualcosa)
- ‘O jammë s’a magnàtë ‘na pastièra (riferito al precedente, nel caso in cui si tagli una
fetta di pastiera)
- ‘O jammë stà chinë ‘e zucchërë (x il fatto di aver mangiato una fetta di pastiera)

STORIA DELLA ”PARLESIA”


La “parlesia” era il linguaggio o gergo parlato dai teatranti napoletani nell’Ottocento. Inizialmente questo gergo
venne designato con il termine di “furbesco”, lingua furba, furfantina, furfantesca. Era questo il linguaggio dei
vagabondi, dei posteggiatori e dei teatranti. Oggi il termine vagabondo è considerato un termine dispregiativo,
mentre nell’Ottocento aveva una connotazione diversa legata ad una concezione di civiltà e di progresso,
“mercé la diffusione della cultura, delle arti, delle idee di libertà e di emancipazione, che sono recate in giro
dagli operai fuggenti, dai frati senza licenza, dagli uomini fuori della legge” (Florian-Cavaglieri, 1897). La
“parlesia” è una commistione tra cultura alta e cultura bassa. Essa è una ”weltanschauung” tutta napoletana in
cui, nonostante la distanza abissale sul piano delle condizioni economiche tra ceti alti e bassi, tuttavia entrambi
questi ceti si incontravano sul piano strettamente culturale della “parlesia” che contribuiva ad assicurare una
sorta di coesione interclassista. Non è un caso che dai ceti medio-alti napoletani trapelassero dei tratti plebei,
specie nel linguaggio. Il caso più eclatante è quello di Ferdinando I di Borbone dello il “re lazzarone”, o si pensi
a Ferdinando Russo, il grande poeta dialettale napoletano, avversato da Croce e avversario di Di Giacomo.
Fintantoché la città non si è allargata con i quartieri periferici, dal Traiano fino a Secondigliano, la
differenziazione tra le classi non era così netta come lo è stata ai primi del Novecento. E come tuttora si
evidenzia dalle ultime vicende del quartiere Scampia. Non era netta questa differenza, dicevo, ove si pensi che
nella stessa costruzione non periferica della città, nel basso abitava e abita il popolino; mentre al primo piano,
detto anche piano nobile, abitava (ora non più) il “signore”. Gli altri piani erano abitati dai ceti borghesi. Oggi
come si sa il problema con l’ascensore non esiste più.
Negli ultimi anni dell’800 i principali conduttori di questo gergo furono i posteggiatori e la loro struttura
lavorativa era racchiusa nel termine “posteggia”. Essi avevano un ruolo ben definito poiché erano la categoria
più vasta di esecutori di canzoni napoletane. Tra i più noti e celebrati posteggiatori abbiamo Enrico Caruso, che
nel 1880 esordì nei Caffè e nei ritrovi della città.
Nella “parlesia” subentra l’inventiva fantastica dell’autore, cioè del creatore di un gergo particolare la cui nascita
si può far risalire fin dal 1400. Anche nel Sei e Settecento, specialmente gli scrittori di teatro, attestano una
buona conoscenza di questo gergo che troverà il suo massimo sviluppo nell’Ottocento. Questo gergo non era
parlato solo dai teatranti e poi dai posteggiatori, ma anche dagli spettatori che frequentavano il teatro e i locali
dove imperava la canzone napoletana. Su di esso ha influito anche l’italiano letterario. Finora della “parlesia”
erano conosciute poche voci. Fu l’Artieri, nel 1961, che cominciò a collegare il fenomeno dei posteggiatori, e
quindi il loro linguaggio, a quello dei vagabondi.
La “parlesia” non ha niente a che vedere con il linguaggio zingaresco e quello della malavita. È un gergo
esclusivamente urbano della teatralità e della musica extracolta napoletana. La massima fioritura, abbiamo
detto, parte dalla fine dell’Ottocento a tutta la Belle Epoque. Non si può capire la “parlesia” se non si parla il
dialetto napoletano. Questo gergo è rimasto poco divulgato, quasi segreto, fino alla metà degli anni Cinquanta
del secolo scorso. Nemmeno Raffaele Viviani ne fa menzione, lui che, per provenienza sociale e per la sua
attività teatrale, avrebbe dovuto ben conoscere questa particolare lingua. La “parlesia” è ancora considerata il
genere ufficiale di chi fa musica extracolta, ossia popolare, tanto che Pino Daniele, noto cantautore napoletano
a carattere internazionale, nel suo impasto musicale sotto il profilo linguistico ha usato nella canzone
“Marumbà” lo slang americano e la “parlesia” unitamente a termini del dialetto napoletano vero e proprio. Egli
ha inserito i termini “jammone” (che significa uomo importante) e “bbacone” (uguale a sciocco), ecc.
Non a caso l’etichetta discografica di Daniele si chiama ”Bagaria” che nel gergo della “parlesia” significa
disordine, confusione, etc. Così ne hanno fatto uso Enzo Moscato, Tullio De Piscopo, e altri.
Quando questi signori, Daniele, De Piscopo e compagni, trovandosi a Milano con altri musicisti vogliono
comunicare senza farsi capire dai loro colleghi del Nord, usano la “parlesia”, ovvero “appuniscono la parlesia”,
ovvero parlano la “parlesia”.
Non è escluso che altre etnie italiche abbiano anch’essi una loro “parlesia”. Noi qui, comunque, proponiamo al
lettore, a partire dal prossimo numero di venerdì 8 aprile, questo lessico che a molti, ne siamo sicuri, risulterà
completamente sconosciuto. ACCHIARI’ – v. intr. “ubriacarsi”; `o jammë acchiariscë: “il tizio si ubriaca”.
ACCIARATO – part. pass., agg. “ubriaco”; anche acchiarutë, `o jammë acchiarutë: “il tizio è ubriaco.
ACCHIARUTË – v. ACCHIARATO.
ACCIBBUÍ – v. tr. “mangiare”; a che ora së accibbuiscë: “a che ora si mangia?”.
ADDIETARMË – v. ADDITARMË.
ADDITARMË – avv. “dietro”; sta additarmë a nnuiarmë: “è dietro di noi”.
ADDÓ VA (1) – loc. sost. m. o f. 1. “balzano; tale da non potersene fidare”; o jammë è addó va: “il tizio è tale
da non potersene fidare”; 2. “pederasta passivo”.
ADDÓ VA (2) – loc. escl. “fa’ silenzio, attenzione”; addó va, sta appunenno ‘o iammo d’a tashca: “fa’ silenzio,
smettila, sta arrivando il padrone del locale”.
l’ALLAGROSA – “la chitarra”, anche ALLËRÓSA.
l’ALLËRÓSA – v. ALLAGROSA.
l’ALZÈSIA – s. f. “l’atto di alzare”.
AMEDEO – “pederasta passivo, frocio”.
ANDARE PER LA CHETTA – loc. v. intr. “girare il piattino fra i clienti”.
l’ANTÍCIPË – s. m. “la caparra”.
APPUNÌ – 1. “parlare (la parlesia)”; 2. “capire (la parlesia)”, `o jammë appuniscë a parlèsia: “il tizio
parla/capisce il nostro gergo”; 3. “capire, arrivare, combinare, lasciar credere, e via di seguito secondo porta il
discorso”.
ARCÍ – v. tr. “fare all’amore (secondo la posizione detta: il missionario”; m’arcessë a jamm’a ccauttë: “farei
all’amore con quella donna là”; m’arcessë chella jammëtella, com’è chiddé: “farei all’amore con quella ragazza,
quanto è bella”.
l’ARCIUTA – s. f. “l’atto di fare all’amore, scopata”; m’aggë fattë n’arciuta cu chella jamma èia vëré che era:
“mi sono fatto una scopata con quella tizia. Dovevi vedere cosa è stato”.
ARRETRÒNICA – v. RETRONICA.

o BBÀBBIË – s. m. “il carcere”; `o jammë è gghiutë o bbabbië: “il tizio è andato in carcere”.
BBÀCHËNË – agg. “inetto”: `o jammë bbàchënë: “il tizio non vale niente”; stàtëvë attientë ca o jammë è
bbàchënë ncopp’e bbanë: “state attenti! Il tizio non paga”; e lenguse so` bacune no bachere: “i maccheroni
sono cattivi, non buoni”; per estensione ìo jammë bbàchënë: “il pederasta passivo, il frocio”.
BBÀCHËRË – agg. 1. “poco serio, che vale poco”; `o jammë bbàchërë: “il tizio è poco serio”; `stu pezzë è
bbàchërë: “questo pezzo (di musica) vale poco; 2. bachero: “cattivo”; e lenguse so` bacune o bachere: “i
maccheroni sono cattivi, non buoni”.
BBACONË – s. m. “persona cattiva, sciocca, inetta”; nu bbaconë: “chi non fa bene ciò che deve fare”; chillë è
ppropië `nu bbaconë: “colui è proprio un inetto”.
BBACUNIATË – part. pass., agg. “finito, morto”; `o jammë s’è bbacuniatë: “il tizio si è reso inutile”.
a BBAGARIA – “l’atto sciocco, inutile, dannoso”; `o jammë a ffrundinë sta appunnenë bbagarië: “l’uomo di
fronte sta facendo discussione”; nun appuni` bbagarië stannë vënènnë o ggiustinë: “non fare sciocchezza!
Stanno arrivando le guardie”; amm’appuní stabbagaria appuniscë: “dobbiamo farla questa sonata? Falla!”.
e BANNË - s. m., pl. “i soldi, il danaro”; `o jammë è bbàchënë ncoppë e bbanë: “il tizio non paga”; ‘e bbane: “il
danaro”; bano: nu bbano: “un soldo”.
a BBANÈSIA – s. f. “il danaro”; `o jammë ra bbanèsia: “il tizio del danaro”.
nu BBANO- v. BANË.
o BBIANCH’E NNIRË – loc. sost. “il pianoforte”.
BBICICLETTA – loc. sost. f. a jammë d’a bicicletta: “la tizia con la macchinetta per i denti”.
o BBUFFO – “palcoscenico”.

`a CAMMËNETÈSIA – s. f., “l’atto di camminare”; appuniscë `a cammënatèsia: “affretta il passo”.


`a CANNUCCIA A CINQUE PERTOSE – loc. sost. “il flauto”.
e CARRUP(B)P(B)Ë – s. m. pl. “i carabinieri”.
`a CASA – s. f. “la caserma”.
CAUTTË, A CCAUTTË – loc. avv. “qui, a destra”: `o jammë a ccauttë: “l’uomo che sta alla nostra destra”; mo
ci’appunimmë `a jammë a ccauttë: “ci portiamo a letto questa tizia”; puortë `nu pochë `e `nzalata a cauttë:
“portaci dell’insalata qui”.
`na CAVÌ’ – “una lira”.
`e CAZUNÈSIË – s. m., pl. “i calzoni”; accattë e cazunèsië a e jammëtiellë: “comprerò i calzoni per i bambini”.
la CHETTA – “la questua o richiesta di volontario compenso per le canzoni cantate”.
`o CHIACCHIARONË – s. m. “il pianoforte”.
`o CCHIARË – s. m. “il vino (sia rosso che bianco)”.
`a CHIARÈNZA – s. f. “il vino”; appunimmë a chiarènza: “beviamo”.
`a CHIARÈNZIA – s. f. “il vino”.
CHIARÍ – v. tr. “bere”.
` CHIARÓSA – s. f. “l’osteria, la cantina, la trattoria”; ddoië o tre cchiaròsë: “due o tre trattoriole”; a chiaròsa
na cantënella: “una modesta cantina, un’osteria, una trattoria”.
CHIAVETTË, FA’ IND’E CHIAVETTË – loc. verb. intr. “prendere una stecca”.
CHIDDÉ – agg. “bello”; m’arcessë chella jammëtella, com’è chiddé: “farei all’amore con quella ragazza, quanto
è bella”; comm’è chiddé, chella jamma: “com’è bella, quella donna”.
`a CHIDDERIA – s. f. 1. “la cosa”; nun appuniscë a chidderia: “non è buono a fare l’amore”; `o jammë nun
appuniscë a chidderia a spillà è bbàchënë: “il tizio non suona bene, nel suonare è uno sciocco”; 2. “la roba”;
s’annë appunitë a chidderia d’`o jammë: “hanno preso la roba del tizio”.
CHIDDÒ – agg. “buono”, valido”; `a jammë è cchiddò: “la tizia è buona”.
CHIN’E ZÙCCHËRË, STA CHIN’E ZÙCCHËRË – “prendere una stecca”.
`a CHIBUENZA – s. f. “il mangiare”.
`a CHIBBUÈNZIA – s. f. “il cibo”.
CIBBUÍ – v. tr. “mangiare”.
`a CLITENNESTRA – “la chiatarra elettrica”.
`o COCCHË – s. m. “la scorreggia”; aggia spuní `o cocchë: “debbo fare una scorreggia”.
la COMUNE IN RE MINORE – s. f. “una serie di variazioni e svolazzi (del faluto con l’accompagnamento di un
tremolo sostenuto dalle chitarre)”.
`a CROCCA – s. f. 1. “la vecchia”; 2. “la nonna”.
`o CROCCHË – s. m. 1. “il vecchio” 2. “il nonno”.
o CROSCHË – s. m. “il bordello, il casino”.
a` CUMMARA – “ la chitarra”.
`a CUSISTÀ – s. f. 1. “la cosa”; appuniscë `a cusistà `a llà ngoppa: “prendi la cosa da lì sopra”; 2. “il pene
(quello che sta qui sotto)”; anche quisistà.
DONDE VAS – loc. agg. “addò va’”, cioè balzano.
* ll’EVËRA – “i baffi”. ËVERA A U SCOGLI: i baffi sotto il naso; “nun fa appunì o jammë cu ll’èvëra a u scoglio”:
non far parlare l’uomo coi baffi.
* FA’ – fare.
FA’ ADDÓ VA – loc. verb. intr., fare silenzio, attenzione; “fa addò va, o jammë appuniscë”: taci! Sta attento! Il
tizio capisce (il nostro gergo); “chillë è bbacònë rifardë fa addò va”: quello è inetto e un po’ maligno. Taci! Sta
attento! Escludilo!; “facitë addò va”: lasciateli stare! Non curatevene!.
FA’ IND’E CCHIAVETTË – v. CHIAVETTA.
a FANGÓSA – s.f., scarpa.
e FFANGÓSË – s.f., le scarpe.
a FELLA, PRENDERE NA – loc. verb. intr., sbagliare una nota, fare una stecca.
a FLAUTAMMA – s.f. “il flauto”.
a FLAUTÈNZIA – s.f., il flauto.
FRUNDINË, A FFRUNDINË – loc. agg., di fronte; “o jammë a ffrundinë”: il tizio di fronte.
a FUMÈNZA – s.f., la sigaretta.
a FUMÈNZIA - s.f., la sigaretta.
a FUMÈSIA - s.f., la sigaretta.
FUMMË – s.m., omosessuale maschile, frocio; “o jammë è ffummë”: il tizio è frocio.
a FUMÓSA - s.f., la sigaretta.
* i GAVOTTISTI – s.m., cantori e suonatori a orecchio, assai popolari.
e GGHIAMMË BBÀCHËNË – loc. sost. f. pl., le prostitute.
e GGHIAMMË CHË FANNË MESTIERË – loc. sost. f. pl., le prostitute.
a GGIRÈSIA – s.f., un giro, un andare intorno sia casuale che motivato.
o GGIUSTINË – s.m., 1. la guardia; “fa addò va sta appunennë o ggiustinë”: sta attento! Sta arrivando la
guardia. 2. poliziotto di tribunale.

o IAMMO s. m. il proprietario.

a JAMMA s. f. la donna.
a JAMMA D’ ‘A TASHCA loc. sost. f. la proprietaria.
o JAMMË l’uomo. “O jammë d’ ‘o matrimonië” il committente della festa di matrimonio; “o jammë è addó va” il
tizio è frocio; “o jammë ca špuniscë e bbanë” il tizio che paga; “o jammë ra bbanèsia” il tizio che paga. Anche
“jammo”: “o jiammo” il proprietario; “o iammë ra tašca” 1. il tizio che paga, 2. il padrone della casa, 3. il
padrone del locale; “o jamma d’ ‘a tashca: addo va, sta appunenne o jammo da tashca” fà silenzio, smettila,
sta arrivando il padrone del locale; al f. “a jamma”, “a jamma nu šbaiocca” la tizia non vede; “a jamma addó
va” la prostituta; al f. pl. “ghiamme”: “e ghiamme” le donne; “e gghiammë bbàchënë”.
a JAMMË CA BBICICLETTA la tizia con la macchinetta per i denti.
a JAMMË STA A PPÈRË loc. sost f. la tizia si è tolta la macchinetta per i denti.
o JAMMË CA ŠPUNISCË E BBANË loc.sost. m. il tizio che paga, il committente.
o JAMMË C’A BBANÈSIA loc. sost. m. il tizio che paga, il committente.
o JAMMË R’A TAŠCA loc. sost. m 1. il tizio che paga, 2. il padrone della casa, 3. il padrone del locale.
a JIAMMË D’ ‘A TASHCA: addo va, sta appunenne `o jiamme d``a tashca” fà silenzio, smettila, sta arrivando il
padrone del locale.
a JAMMËTELLA s. f. la donna.
a JAMMËTELLINA s. f. sorella; “jammëtellinë” le sorelle.
o JAMMËTELLINË s. m. bambino.
o JAMMËTIELLË s. m. un uomo poco importante; “o jammëtiellë” un tizio poco importante.
o JAMMO s. m. il proprietario.
a JAMMONA s. f. la donna importante.
o JAMMONË s.f. l’uomo importante; “che bella sammone” che grand’uomo.
o JAMMONË D’E BBANË loc. sost. m. il tizio che paga, il committente.
o JAMMONË A CCAUTTË loc. sost. m. il padre.
a JAMMONË A CCAUTTË loc. sost. f. la madre.

LANZÍ intr. orinare; “aggia i a llanzí” debbo andare ad orinare.


a LANZITA s. f. l’orinata.
o LANZITURË s. f. il cesso.
o LASAGNË s. m. il portafogli; “s’annë pigliatë o lasagnë” mi hanno rubato il portafogli.
LAUTTË, A LAUTTË loc. avv. Di là, a sinistra; “o jammë a lauttë” il tizio alla nostra sinistra.
a LËNDÍSIA gli occhiali; “appuniscë a lëndísia lla ngoppë” prendi gli occhiali da lì sopra.
a LLËNGUSË s. f. pl. i maccheroni; “appunimmë nu piattë e lëngusë” prepariamo un piatto di maccheroni.
a LOFFIA v. lofië.
LOFIË agg. Cattivo, brutto, scadente; “è llofia a pusteggia” la pusteggia è cattiva.
LLURTË v. l’urtë.
a LUTAMMA s. f. fango, cosa di spregevoli; “si ppropriië na lutamma” non vali niente

a MADAMA s. f. la polizia.
MANGIA’ mangiare.
(SË) MANGIA’ NA PASTIERA v. PASTIERA.
MANCHÈSIA, A MMANCHÈSIA a sinistra; “o jammë a mmanchèsia a mmiònichë” quel tale alla mia sinistra.
a MANÈSIA s. f. la mano; ”o ngrì a mmanèsia“ la masturbazione.
a MBANÈSIA s. f. il danaro.
e MBANË danaro; “quanti mbani cë stannë” quanti soldi ci offrono.
MBROSË v. PROSË.
MBRUSA’ v. tr. Imbrogliare, perndere per i fondelli.
MESTIERË v. “e gghhiammë chë fannë mestierë”.
MIÓNICHË, A MMIÓNICHË me a me.
o MOVIMÈNTË s. m. un’attività da svolgere; “tenghë nu movimèntë a fa’” debbo organizzare una cosa.
MUSCESIA, A ZI loc. sost. f. l’ernia; “o jammë tènë a zi muscèsia” il tizio è lento.

NDARDISCË O NGRI’ loc. sost. la masturbazione.


a NARDITA s. f. la cacata; “aggia špunì a ndartita” debbo fare una cacata.
NGASANZA loc. avv. La galera; “o jammë è statë ngasanza” il tizio è stato in galera.
o NGRI’ s. m. il membro dell’uomo; “o ngrì a mmanèsia” la masturbazione; ”a jamm’a ‘ppunitë o ngrì” la tizia è
incinta.
NTERRA, O PÍZZËCA v. O PÍZZËCA NDERRA.
NTINDALLË, A loc. avv. il rapporto orale (eseguito da una donna); ”a jamma appuniscë a ntindallë” la tizia
accetta rapporti orali.
a PADRUNÈSIA s. f. la padrona (del casino).
a PARLÈSIA s. f. denominazione del gergo usato dai posteggiatori; “nun appuniscë a parlèsia” non parla la
parlèsia.
o PARLÈSIË la parlèsia; “nun appuniscë o parlèsië” non parla la parlèsia.
a PASTIERA, (SË) MANGIÀ NA PASTIERA loc. verb. rifl. Prendere una stecca.
a PENNA s. f. il plettro.
a PËNNÈSIA s. f. il plettro; “a pënnèsia è mmalamendë, appuniscë meglië” il suono è brutto, fa’ meglio.
PPÈRË: A JAMMË STA A PPÈRË.
o PERETTE s. m. il mandolino.
PESANTË agg. importante; “o jammë è ppesantë” il tizio è importante.
o PISTO s. m. il prete.
u PISTOLFË s. m. 1. il prete; 2. il frate.
a POSTEGGIA v. PUSTEGGIA.
POSITIVË agg. importante; “o jammë è ppositivë” il tizio è importante; “o jammonë è ppositivë” il tizio è
importante.
PRENDERE NA FELLA v. FELLA.
PRESUTTE, L’UOSSE E – v. L’UOSSË E-
u PROSË s. m. il culo; “appunimmë o prosë” sediamoci; “a jammë o pigli’a pprosë” la tizia pratica il rapporto
anale; “a jammë o ppuniscë mbrosë” idem.
o PRUFESSORË s.m. colui che suona nella posteggia.
a PUSTEGGIA s. f. 1. l’arte del posteggiatore; 2. il complesso musicale che esegue canzoni in pubblico; 3. il
tempo occorrente per le esecuzione tra una “chetta” e l’altra.
o PUSTEGGIATORË s. m. colui che suona o canta canzoni napoletane, da solo o con altri, in luoghi o locali
pubblici.
PUSTIGGIÀ v. intr. esecuzione seguite da “chetta”, ma anche approccio.

i QUISISTÀ s. m. il rapporto orale (da parte della donna).


QUO VADIS “addó va’” cioè balzano.

O rastë s.f. il piattello per la questua.-


A rastiera s.f. i denti, la dentatura.
Retrònica, a rretronica loc. avv. dietro.
A richignènza s.f. i testicoli.
A richignèzia s.f. l’ernia.
Rifardë 1° cattivo; 2° infame.
A santona s.f. la sentenza.
Šbaciuccà v. intr. vedere Shbianchì v. tr., svelare, mettere a nudo la verità.
O šbirrë s.m. la spia.
O šbuffo v. buffe.
Shcancià v. intr. girare la “chetta: girare per la questua.
Shcancianese s.m. o agg. Avaro.
O sciusciande s.m. il fazzoletto.
A sciusciosa1 s.f. la fisarmonica.
A sciusciosa2 ls.f. la notizia soffiata all’orecchio.
O sciusciuso s.m. il naso.
O scoglio s.m. il naso.
A ëntosa s.f. la serenata.
‘E sentose s.f. pl. le orecchie A šfumósa s.f. le sigarette.
A situènzia s.f. la cosa a cui si riferisce: appunisscë a situènzia: prendi la macchinetta del caffè.
Šmurfì tr. Mangiare
Špillà v. intr. suonare.
A špillantë s.f. la fisarmonica.
O špillesië s.m. il suonare.
O špillosë s.m. l’atto del suonare.
Špunì v. tr. non parlare.
A šquillantë s.f. la fisarmonica.
Sta’ stare, essere.
Sta’ chin’ e zúcchërë: prendere una stecca, sbagliare una nota.
A stèra s.f. l’organo genitale della donna.
A stera² s.f. lia: ‘na stera” una lira.
E stèrë s.f. mille lire; cinghë stèrë cinquemila lire.
O straccë s.m. la carne.
A strillandë s.f. la fisarmonica.
O striscio s.m. voce con incrinatura triste che conferisce tristezza al canto.

Tabbacchèsia s.f. la sigaretta. Sunisci ‘a tabbacchésia: spegni la sigaretta


‘O tagliero s.m. il violino.
Tartì verbo intr. cacare.
‘A tartita s.f. la cacata.
‘O tartituro s.m. il cesso.
‘Atashca s.f. la casa, la ditta.
‘E tennuse s.f. le mammelle.
Tionichë a tionichë, te, a te.
Tochë valido, capace ecc.
‘O trillandë s.m. il mandolino.
‘A trioffa s.f. la carne. L’uosse ‘e presutto, sost. m. il violino.
L’urtë s.m. il pane.
O valzer, s.m. l’andare via.
O valzer in do mminorë, loc. sost. l’abbandonare una donna dopo una relazione.
O venésië, ls.m. l’atto del venire.
A vèrtëla, s.f. la tasca.
E vigliandë, s.m. gli spettatori.
E zzemèsië, le cicche (delle sigarette).
A zi’ muscèsia, v. muscèsia.
Zùcchërë, zucchero.

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