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Piccola Biblioteca

Cento50libri

LA MIA VOCE
(lettura e public speaking per ragazzi)

a cura di Pasquale Larotonda

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Piccola Biblioteca 150libri

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LA MIA VOCE

(lettura e public speaking per ragazzi)


a cura di

Pasquale Larotonda

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… una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di
superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni
a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini,
analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che
interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio,
complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla
rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare
e respingere, collegare e censurare, costruire, distruggere.

Gianni Rodari

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LEGGERE AD ALTA VOCE

Devi sapere che la tua voce è unica e irripetibile in mezzo a


miliardi di voci diverse degli abitanti di questo pianeta, di quelli
che ti hanno preceduto e di quelli che verranno dopo di te.
Questo vale per ognuno di noi, fermo restando che la tua voce
cambierà con la tua crescita. Ma già da ora puoi educarla,
renderla migliore all’ascolto così che, quando avrai una voce di
donna o uomo adulto, tutto sarà più semplice e parlerai in modo
corretto e gradevole.
La voce proviene dal nostro corpo ed è rivolta verso l’esterno,
verso gli altri, per comunicare loro i nostri sentimenti. Spesso la
nostra voce però non viene curata, educata e conservata al
meglio delle sue possibilità. Infatti, a causa della nostra
trascuratezza essa assume un suono approssimativo, poco
credibile, non incisivo, coinvolgendo anche ciò che vogliamo
dire, che spesso risulterà noioso, poco importante, non
interessante per chi ci ascolta.
Anche alla tua età è necessario curare l’espressività e incisività
nel parlare. Non solo, ma spesso noi esageriamo anche nei
concetti, diciamo bugie; troppo spesso anticipiamo le nostre
opinioni prima di esporre un fatto così come è avvenuto. Gli
altri se ne accorgono e non ci ascoltano o fanno finta di farlo e
non vedono l’ora di andarsene.

Quindi, se possibile, cerca di non:

giudicare, spettegolare, essere negativo, lamentarti troppo,


trovare scuse, incolpare gli altri, dire bugie, esagerare e
confondere i fatti con le opinioni.

Tutto questo è già molto difficile e se aggiungiamo anche una


voce carente, provochiamo una vera e propria catastrofe.

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Quindi fai tesoro di questi consigli nella vita di ogni giorno:
ogni volta che parli cerca di correggere i tuoi difetti per ottenere
una migliore conversazione. Di volta in volta cerca di non
spettegolare né di incolpare gli altri o essere negativo in genere.

Poi ti parlerò delle tecniche per parlare in pubblico.

Già, perché anche alla tua età ti capiterà di rivolgerti a una


platea, a scuola, in famiglia, tra amici, ed è bene che tu lo faccia
il meglio possibile.

Ma, intanto, c’è qualcosa che puoi fare subito: migliorare la tua
voce.

In particolare, puoi dotarti, attraverso appropriati esercizi (è


come frequentare una palestra), degli strumenti che ti
consentono di migliorare la tua voce. È come avere una cassetta
degli attrezzi a portata di mano, nella quale conservi le capacità
che hai acquisito per utilizzarle in ogni occasione, quindi nel
caso del parlare, praticamente tutti i giorni.

Per prima cosa dovrai avere consapevolezza e conoscenza degli


organi del tuo apparato fonatorio e di come il tuo corpo
partecipa alla formazione del suono; una volta capito questo,
esamineremo uno a uno gli elementi espressivi della voce: il
tono, il volume, il tempo, il ritmo, il mordente e il colore.

Per ognuno di questi potrai fare specifiche esercitazioni.

A questo si aggiungeranno moltissimi scioglilingua ed esercizi


specifici per i comuni difetti che ogni giorno mettiamo nel
nostro parlare trascurato: le gl, gli incontri di consonanti, nt, nd,
mp, mb, la s, la z, la r, la c, per integrare poi il lavoro anche con
la dizione, al fine di ottenere una corretta pronuncia italiana.
Non che i dialetti non siano belli, anzi! Bisogna però essere in
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grado di separare i due modi di parlare; magari con gli amici in
dialetto, mentre ogni volta che si parla in pubblico, per esempio
a scuola quando si è interrogati, in un italiano corretto.

Alla fine di questo libro troverai delle riflessioni di Edmondo De


Amicis, l’autore del libro Cuore, proprio sull’importanza di
avere una lingua comune per tutti gli italiani.

Inizieremo col fare un percorso attraverso la lettura ad alta voce


utilizzando brani e poesie di grandi autori, filastrocche, poesie e
favole, cercando di applicare le regole della punteggiatura,
l’utilizzo delle pause, identificare la parola chiave, ottenere una
buona dizione, conferendo a ogni lettura gli elementi espressivi
della voce che avremo imparato nel frattempo.

La lettura ad alta voce ti porterà a una naturale attitudine a


leggere e parlare in pubblico e in privato in maniera corretta,
con espressione e, insieme a un miglioramento nei contenuti, ne
risulterà un complessivo miglioramento nel tuo modo di
comunicare.

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MUSICA PER LE TUE ORECCHIE

La parte centrale di questa guida alla lettura ad alta voce è


dedicata agli elementi espressivi della voce; elementi ben
distinguibili all’ascolto che dovrai padroneggiare e gestire con la
tua sensibilità per restituire a chi ti ascolta una vera lettura
espressiva.

Questo metodo discende direttamente dalla musica, tanto che gli


stessi elementi sono indicati con termini musicali, per di più in
italiano; devi sapere infatti che le indicazioni sugli spartiti,
classici e non, contengono, all’inizio, oppure all’interno, parole
italiane, anche nelle lande più remote di questo nostro pianeta.
Perché? Semplice! Perché l’Italia è stata la culla della musica!

Avrai probabilmente letto negli spartiti musicali parole come:


pianissimo, con dolcezza, con ritmo, mordente, eccetera. Beh,
noi useremo gli stessi termini che ti prego di imparare a
memoria; è la sola cosa che dovrai imparare a memoria.

Fallo subito, solo sei parole, più facile dei nomi dei 7 nani,
ricorda:

Volume, Tono, Tempo, Ritmo, Mordente e Colore

Facile no? Non dimenticarle, ti torneranno molto utili ogni volta


che leggerai ad alta voce, parlerai agli altri, reciterai una poesia
o racconterai semplicemente una barzelletta.

Sì, perché mica è facile raccontare una barzelletta: ci sono le


voci dei personaggi, la descrizione dell’ambiente, bisogna creare
attesa, curiosità, ma tu avrai a disposizione la famosa cassetta
degli attrezzi che contiene gli elementi espressivi della voce e
tutto sarà più facile.

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Quindi non devi fare altro che applicare al tuo strumento gli
elementi utilizzati per le partiture delle opere e che troverai nella
tua cassetta degli attrezzi, dove sono riposti gli elementi
espressivi della voce che hai ormai imparato a padroneggiare.

Infatti potrai usare un tono più alto (TONO), un volume più


basso (VOLUME), puoi andare piano o più veloce (TEMPO),
puoi articolare di più o di meno (MORDENTE), creare delle
pause a piacere per creare attesa, suspence (RITMO), puoi
aggiungere tristezza o allegria (COLORE) alle tue letture ad alta
voce.

Non ti allarmare! Li guardiamo uno per uno. Ma prima parliamo


dell’impronta vocale.

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VOLUME E TIMBRO

Nella maschera, formata dalle cavità e dalle ossa del cranio,


localizzate tra la fronte e la mascella, gli zigomi, la zona palatale
anteriore, e le labbra, risiede la chiave per arrivare al timbro
della voce, ossia a quella sensazione di corposità della voce.

Attenzione: per corposità non si intende la qualità più o meno


scura della voce (ossia il registro), ma la sua capacità di rendersi
perfettamente risonante e perciò udibile.

L'udibilità della voce non è quindi un fattore legato al volume,


cioè alla quantità di suono emesso, ma al timbro, cioè alla
qualità della risonanza.

Pensa ad esempio ad un impianto stereo. Se avesse gli


altoparlanti rotti, anche se alzassimo il volume al massimo, il
suono che ne verrebbe fuori sarebbe sempre estremamente
povero. Se si cambiano gli altoparlanti, la corposità del suono
sarà tale da permetterci di godere la musica anche a un volume
bassissimo.

Esercizio per il volume e il timbro

L'esercizio si compone di due strofe di una canzoncina inventata


appositamente da Vittorio Gassman. Ovviamente non è
necessario cantarla. Si può recitare seguendo le istruzioni che le
stesse strofe indicano.

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PUNTO PRIMO IL VOLUME

NELLE SUE VARIETÀ

SI PARLA AD ALTA VOCE

E SE PARLI A UN TAL CHE PASSA

IL VOLUME CAMBIERÀ

TU PUOI PARLARE AGLI ALTRI

O PUOI PARLAR PER TE

PARLARE A UN GRANDE PUBBLICO

PARLARE A DUE O A TRE

PUÒ SEMBRAR MOLTO FACILE

MA FACILE NON È

IUOAE

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PUNTO SECONDO IL TIMBRO

NELLE SUE MODALITÀ

SI PARLA RAUCHI O LIMPIDI

DI GOLA OPPUR SI VA

CERCANDO ANCHE NEL NASO

ALTRE SONORITÀ

UN SOFFIO APPENA UDIBILE

UN URLO UN CRA CRA CRA

DI PETTO DALLE VISCERE

DI TESTA E ANCOR CE N'È

CERTO CHE SEMBRA FACILE

MA FACILE NON È

IUOAE

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L’APPARATO FONATORIO

Ora devi sapere che il tuo corpo dispone di strumenti musicali


naturali: gli organi del tuo apparato fonatorio, l’aria dei tuoi
polmoni, il diaframma, l’apparato di risonanza dato dai muscoli
e ossa del cranio. Insomma, ce n’è abbastanza per dire che tu
stesso sei un vero e proprio strumento musicale, una specie di
sassofono che sa fare molte più cose, come ad esempio cantare.

Non spaventarti se prendo in prestito la definizione della


enciclopedia Treccani:

“Il termine fonazione (derivato da greco ϕωνή, “voce, suono”)


indica il processo fisiologico in base al quale si produce un
suono o un rumore per mezzo degli organi vocali. Concorrono
alla fonazione: un meccanismo vibratorio, rappresentato dalle
corde vocali vere; una forza, prodotta dalla corrente aerea
espiratoria, che dai polmoni, per mezzo dei bronchi e della
trachea, raggiunge e attraversa la glottide, mettendo in
vibrazione le corde vocali vere; un apparato di risonanza,
costituito da tutte le cavità situate al di sopra della glottide (la
porzione superiore della laringe, la faringe e le cavità nasali e
orali). Il sistema nervoso interviene nella fonazione svolgendo

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un’azione di coordinamento fra le varie componenti e una di
controllo dell’udito.”

Prova a mettere un dito in orizzontale proprio sotto la gola e


pronuncia la zzzzzz, come una zanzara: senti la vibrazione?
Sono le corde vocali che, come le corde di una chitarra, vibrano
e producono un suono; in questo caso hai messo in funzione
molte parti del tuo apparato fonatorio.
I polmoni, per espellere l’aria; l’apparato laringeo, che contiene
le corde vocali vibranti; l’apparato risuonatore, formato dalle
cavità nasali e dalla bocca.
Parliamo dell’apparato risuonatore. Pensaci un attimo: una corda
di violino non emetterebbe alcun suono se non ci fosse la cassa
armonica (astuccio) che permette al suono di amplificarsi nello
spazio e arrivare alle nostre orecchie in modo che noi possiamo
ascoltarlo. Quindi anche noi abbiamo bisogno di una cassa
armonica, altrimenti le nostre corde vocali non emetterebbero
alcun suono udibile.
Beh, il nostro apparato risuonatore è composto dal cranio, la
bocca, il naso; infatti la vibrazione viene amplificata proprio da
questa struttura naturale e il suono può tranquillamente uscire
dalla bocca per essere ascoltato.
Come puoi notare facendo una zzzzz non hai avuto bisogno di
usare la lingua, le labbra, le guance. Ma se tu volessi
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pronunciare una B o una R o una P saresti costretto a far
intervenire le labbra, la lingua, quindi altri organi fonatori, cioè
che producono il suono.
Solo alcune consonanti come la t o la f, dette sorde, vengono
prodotte in assenza di vibrazione delle corde vocali; mentre le
altre, dette sonore, come la d o la b, richiedono una vibrazione
delle corde vocali.
Ora prova a pronunciare di seguito le vocali: AAEEIIOOUU.
Noterai che la bocca è sempre aperta, non si muove gran che, la
lingua fa dei piccoli spostamenti e così anche le labbra. Infatti le
vocali non sono così difficili da pronunciare.
Invece, per le consonanti, dobbiamo fare una serie di esercizi,
movimenti strani con la lingua, unire le labbra, anche i denti
sono chiamati a muoversi a seconda della consonante che
vogliamo pronunciare. È come se mettessimo un ostacolo
all’uscita del suono dalla bocca, ed è proprio quell’ostacolo a
permetterci di ottenere una consonante. Se facciamo OOOO,
apriamo solo la bocca ed emettiamo il suono con facilità, ma se
chiudiamo e riapriamo improvvisamente le labbra viene fuori
BOOOO.

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Fai: AHAHAHAHAHA – per scaldare le corde vocali.
Fai: BO… BO… BO… – è una labiale (da labbra).
Fai: BR BR BR BR – soffia come fanno i cavalli (è una
ginnastica per le labbra).
Fai: RRRRRRRRR – si dice “arrotare la R”.
Fai: LA LA LA LA – è una palatale (perché si appoggia al
palato).
Fai: uiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii – partendo dalla nota più alta e viceversa e
capirai di quante note puoi ascoltare dalla tua voce.

Gli ostacoli alla fuoriuscita del suono che avrai preparato


mettendo la lingua contro il palato, chiudendo le labbra, facendo
vibrare la lingua per pronunciare la R, ti permetteranno di
pronunciare tutte le consonanti.

Spesso il posizionamento degli elementi della bocca, lingua


soprattutto, prende delle strane abitudini, cioè non vengono
posizionate correttamente; come ad esempio la C e la gl
producendo un suono tipico che scivola nella cadenza dialettale
(a Roma, per esempio, molti dicono moje, ajio, duescento,
scescilia).

Ancora un’informazione legata alla musica: per emettere una


nota corrispondente al Do centrale della tastiera del pianoforte,
le corde vocali devono vibrare a circa 262 Hz (1 Hz = 1 ciclo al
secondo); per emettere un Do un’ottava sopra, devono vibrare a
524 Hz, quindi esattamente il doppio.
Anche le nostre corde vocali vibrano allo stesso modo. Non è un
miracolo?

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Cos’è il diaframma?

È una parte muscolare a forma di cupola, un velo, che separa la


cavità toracica da quella addominale.

Metti una mano sulla pancia e pronuncia la parola: Opportunità

Senti come spinge il diaframma?

Ma a cosa serve il diaframma?

Gli attori, i cantanti, soprattutto quelli lirici, usano normalmente


il diaframma per ottenere una voce più forte, udibile fino alle
ultime file del teatro, evitando di rovinarsi le corde vocali, dato
che ogni sera devono cantare o recitare.

Fanno in modo che l’emissione della voce sia controllata dal


diaframma, lo abbassano, creando una colonna immaginaria che
dà più intensità e forza alla loro emissione di parole o canto.

Si dice pure “tecnica dell’appoggio” perché è come se le parole


si appoggiassero proprio lì, dove c’è una contrapposizione, una
lotta, tra il diaframma che si abbassa e i muscoli ventrali che,
per reazione, tentano di spingere verso l’alto.

Per raggiungere una buona capacità di utilizzo del diaframma è


necessario conoscere la respirazione diaframmatica.

Tanto per dirla tutta i bambini piccoli la fanno naturalmente:


basta guardare il loro pancino come va su e giù mentre
dormono; poi, crescendo, se ne dimenticano.

E comunque le urla dei bambini spesso sono così potenti che


diventano insopportabili: ma è perché loro sanno usare il
diaframma e i grandi no.
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Insomma, è chiaro che in ogni caso si respira con i polmoni, è
ovvio, ma con la respirazione diaframmatica cerchiamo di
utilizzare la parte bassa, verso la pancia (facendo un palloncino
con la nostra pancia), lasciando libera la parte alta dei polmoni e
ottenendo così più spazio a disposizione per altra aria, qualora
ne avessimo bisogno.

In questo modo non restiamo mai senza aria a metà della frase.

ALCUNI ESERCIZI

1. Questo esercizio si effettua supini con le gambe piegate,


i piedi poggiati a terra e le braccia lungo i fianchi.

- Espira completamente. Prendi l'aria dal naso, molto


lentamente, presta attenzione al dilatarsi dell'addome
(simile ad una palla che si gonfia).
- Espira liberamente.

Se, mentre lo fai, appoggi un vocabolario sulla pancia, puoi


verificare se lo stai facendo bene; infatti il vocabolario dovrebbe
fare su e giù.

Ora complichiamoci la vita con l’emissione del suono.

2. In piedi, alziamo le braccia all’altezza delle spalle e,


pensando al diaframma, inspiriamo, poi contiamo
lentamente fino a dieci mentre abbassiamo le braccia
fino ad arrivare al numero 8 proprio nel momento in cui
arriviamo a toccare i fianchi.

- E facciamo il contrario partendo dalle braccia lungo i


fianchi fino ad arrivare all’altezza delle spalle.

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L’obiettivo è controllare il movimento, il respiro e l’emissione
della voce: dobbiamo perciò imparare ad arrivare, al n. 8 o al n.
1, esattamente nel momento in cui termina l’esercizio, non
prima e non dopo.

3. Esercizio

Scandisci lentamente i seguenti monosillabi realizzando


l’appoggio vocale. Man mano che svuoti i polmoni, abbi cura di
tenere tesi gli addominali bassi. Il diaframma risalirà lentamente
sostenendo la colonna d’aria che metterà in vibrazione le corde
vocali in modo deciso e vigoroso.

bra bre bri bro bru


cra cre cri cro cru
dra dre dri dro dru
fra fre fri fro fru
gra gre gri gro gru
lra lre lri lro lru
mra mre mri mro mru
nra nre nri nro nru
pra pre pri pro pru
rra rre rri rro rru
sra sre sri sro sru
tra tre tri tro tru
vra vre vri vro vru
zra zre zri zro zru

4. Esercizio

Esegui la scansione delle sillabe appoggiando la voce sul


diaframma. Alla fine di ogni periodo, riposati per trenta secondi.
Svolgi l’esercizio per tutto il testo. Quindi rileggi con voce e
velocità naturali.

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C’era una volta una storia che non
voleva essere raccontata… Un giorno,
una zia si stava divertendo con i suoi
nipotini e aveva deciso di legger loro
una bella storia. I piccini si sedettero
tutti per terra davanti a lei, mentre lei
si appollaiò su una grossa sedia di
vimini, stringendo tra le braccia un
enorme libro di fiabe che però
conteneva solo figure e non parole

5. Esercizio

Pronuncia ogni parola elencata, scandisci ciascuna sillaba ad alta


voce mettendo in vibrazione il torace. Cerca di spostare la
risonanza dal cranio al petto. Soffermati sia sulle vocali che
sulle consonanti.
Esempio: bbbeeellliiisssiiimmmooo.

bellissimo
opportunità
casa
estrazione
desistere
calzare
ripetitività
deflagrazione
cangiante
validità
trotterellare
ostruire
avvinazzare

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6. Fissazioni fisiognomiche.

Affinché le posture mimiche del volto associate ai puremi


diventino abitudine, puoi eseguire una specifica tipologia
di esercizi: le fissazioni fisiognomiche.
Si tratta di scandire a voce alta frasi, appositamente composte, in
cui il purema ricorre più volte nella stessa parola o in parole
ravvicinate:

Che piaccia la focaccia che


s’abbraccia la faccia con le
braccia.
Fa bréccia la cortéccia caseréccia.
Sènza e con l’assènza di Lorènza la
sfida è pèrsa già in
partènza.

Esercizi per le labbra:

1° esercizio: Con i denti serrati muovi le labbra come se dovessi


pronunciare in rapida successione una A e una U.

2° esercizio: Partendo con le labbra atteggiate come a


pronunciare una O chiusa, allargale lentamente fino ad arrivare
con le labbra nella posizione per pronunciare una O molto
aperta.

Esercizi per la lingua:

1° esercizio: Aprendo bene la bocca, spingi bene in fuori la


lingua appuntendo il più possibile le sue estremità e senza
appoggiarla sui denti. Muovi la punta della lingua a destra e a
sinistra. Pausa. Ripeti l'esercizio muovendo la punta della lingua

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in alto e in basso. Pausa. Ripeti facendo toccare alla lingua tutte
le posizioni destra-alto-sinistra-basso.

Fai attenzione a non irrigidire i muscoli della nuca durante


l'esercizio.

2° esercizio: Con la bocca chiusa, fai ruotare la lingua all'interno


del palato. Almeno dieci volte in senso orario e altrettante in
senso antiorario.

ALLENAMENTO PER L'ARTICOLAZIONE

1° esercizio: Leggi scandendo con una matita tra i denti. La


matita deve essere bloccata con i due incisivi centrali, in modo
che l'articolazione ne sia resa più difficoltosa ma comunque
possibile.

2° esercizio: Leggi mantenendo i denti serrati. Prima scandendo


bene tutte le parole, poi sempre più fluidamente, mantenendo la
chiarezza.

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ESERCIZI PER GLI INCONTRI DI CONSONANTI

Ripeti rapidamente scandendo bene le seguenti sillabe

BRA-CRA BRA-DRA BRA-FRA BRA-GRA BRA-PRA

BRA-SRA BRA-TRA BRA-VRA

Varia poi gli accoppiamenti:

CRA-DRA DRA-FRA CRA-GRA TRA-VRA

Varia poi le vocali:

BRE-CRE BRI-CRI BRO-CRO BRU-CRU

Ripeti rapidamente a denti stretti i seguenti gruppi di sillabe:

Dì-Tì Tì-Dì Dì-Dì-Tì Tì-Dì-Dì

Ripeti rapidamente aprendo bene la bocca i seguenti gruppi di


sillabe:

Cà-Gà Gà-Cà Cià-Scià Scià-Cià

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LA MASCHERA

Per maschera si intende quel complesso composto dalle cavità e


dalle ossa del cranio, localizzate tra la fronte e la mascella, le
ossa e gli zigomi, la zona palatale anteriore, e le labbra. È qui
che si concentrano le sensazioni fonatorie di natura vibratoria.
Si capisce quindi quanto sia importante questa particolare zona
ai fini della fonazione, tanto che “quando la voce è emessa
correttamente il soggetto ne ha coscienza essenzialmente per gli
effetti di risonanza nella maschera e non nella zona di
produzione del suono (laringe) o della gola”.

Lavora mantenendo rilassate la gola e le spalle. La


concentrazione deve essere dedicata al diaframma, su cui si
realizza l'appoggio del fiato, e alla maschera, dove il fiato reso
sonoro nel passaggio attraverso le corde vocali viene amplificato
(si dice infatti che la maschera è il risuonatore della voce).

Esercizi per la localizzazione delle vibrazioni in maschera:

1° esercizio:

Espira emettendo un leggero suono tra la M e la N (simile


all'ohm buddista).

2°esercizio:

Ripeti rapidamente P-T-P-T...

Esercizi per rinforzare la risonanza:

Con piena risonanza toracica e con piena emissione energica:

na no na no

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ma mo ma mo

da do da do

Esattamente come gli altri muscoli del corpo, anche le corde


vocali, se sottoposte a un improvviso sforzo, rischiano di
lesionarsi. Sarebbe bene, quindi, riscaldarle opportunamente,
prima di recitare, cantare, ecc.

Esercizi per il riscaldamento delle corde vocali:

1° esercizio:

Inspirare. Prima di cominciare l'espirazione, spalancare bene la


bocca e appoggiare la lingua sulle labbra inferiori. Poi espirare
cercando di avere la sensazione del correre del fiato nella cavità
orale, come se “accarezzasse” le corde vocali.

2°esercizio (preferibilmente da effettuarsi al termine di una


sessione di rilassamento):

Emettere nell'espirazione una leggera è.

È importante non forzare il suono. È il fiato che lentamente


prende corpo sonoro, adagiandosi sul fiato.

EMISSIONE SONORA

Fermiamo ora l'attenzione sulle vocali. È su di loro, infatti, che


si basa principalmente l'emissione sonora.

Nella lingua italiana le vocali pure sono 7, come si vedrà più


dettagliatamente nel capitolo relativo alla dizione. Ognuna di
esse scaturisce da un preciso atteggiamento degli organi fonatori
(laringe, lingua, palato, labbra), che è importante “sentire” per
25
poter capire la corretta posizione fisiologica di ognuna di loro, in
modo da utilizzarla, poi, coscientemente.

Alcune vocali presentano delle affinità tra loro, così da poter


essere classificate in gruppi:

1° GRUPPO:

A - È aperta - Ò aperta

2° GRUPPO:

I - É chiusa

3° GRUPPO:

U – Ó chiusa

Esercizi per le posizioni delle vocali:

1° esercizio:

Emetti le vocali del 1° gruppo lentamente e legandole tra loro.

IÈÉAÒÓU

Controllare sempre che non ci siano tensioni nel collo, nelle


spalle, nelle braccia e nel viso durante l'esecuzione
dell'esercizio.

E infine fai velocemente tutto l’alfabeto in questo modo:

ba be bi bo bu – bu bo bi be ba

ca che chi co cu – cu co chi che ca


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cia ce ci cio ciu – ciu cio ci ce cia

da de di do du … du do di de da

fa fe fi fo fu – fu fo fi fe fa

gia ge gi gio giu – giu gio gi ge gia

ga ghe ghi go gu – gu go ghi ghe ga

la le li lo lu – lu lo li le la

ma me mi mo mu – mu mo mi me ma

na ne ni no nu – nu no ni ne na

pa pe pi po pu – pu po pi pe pa

qua que qui quo qu – qu quo qui que qua

ra re ri ro ru – ru ro ri re ra

sa se si so su – su so si se sa

ta te ti to tu – tu to ti te ta

va ve vi vo vu – vu vo vi ve va

za ze zi zo zu – zu zo zi ze za

Tratto in parte da Antonio Juvarra, Il canto e le sue tecniche,


Ricordi, Milano 1987

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E ORA DIVERTIAMOCI UN PO’

Leggi bene il testo cercando di sostenere le finali di ogni parola,


dalla prima all’ultima facendo attenzione a rispettare gli accenti
gravi e acuti nelle lettere e ed o:

La prima còsa ché ti chièdo è lèggere ad alta vóce il tèsto. Nón


impòrta sé nón comprèndi tutto: l’obiettivo è quéllo di attuare
un’anteprima, in mòdo tale ché la tua ménte pòssa farsi un’idèa
dèl contenuto essenziale délla lirica e prènda confidènza cón
alcuni tèrmini apparenteménte complicati. Fallo, dunque, óra:
lèggi ad alta vóce ciò ché ségue, comprési nóme e cognóme dél
poèta e titolo délla lirica. Prènditi tutto il tèmpo ché occórre,
sofférmati sulle paròle, sèntine il suòno e soprattutto procèdi cón
calma. Sé né avrai vòglia, rilèggi anche una secónda e magari
una tèrza vòlta, tenèndo presènte ché uno déi segréti pér
comprèndere e gustare appièno la bellézza délla poesia è
l’indugio.

Ora leggi il testo al contrario, partendo dall’ultima parola


andando verso la prima anche se non capisci il senso: questo ti
aiuterà a perdere le inflessioni dialettali. Anche leggendo al
contrario dovrai sempre rispettare gli accenti grave e acuto delle
lettere e ed o.

FILASTROCCHE

Non sbaglia
la cagna
di Baia
se abbaia
nel buio
già prima
che appaia
la luna di luglio

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che subito
abbaglia
la baia
di Baia.

L’ape che fuma pepe


lo stipa nella pipa
lo aspira come un papa
lo sputa cupa cupa
oltre le siepi in fior.

O magre gru, magari,


magari, grigie gru,
raggiungervi laggiù.
Vedervi aprir le ali sulle paludi blu.

Ho una mosca chiusa in pugno


presa al volo il primo giugno.
L’ho sentita far subbuglio
Fino a circa metà luglio.

Sono in Asia ed Asia sia


vedo una sosia che mi spia
l’ansia è falsa compagnia
stapperò la malvasia.

Dall’oblò vedo l’oblio


Ed il blu dovunque spio
Vedo all’alba il balenio
Di un gabbiano dirmi addio.

Sotto un cespo di rose scarlatte


offre il rospo tè caldo col latte.
Sotto un cespo di rose paonazze
tocca al rospo sciacquare le tazze.

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Un tordo vive in ozio
Nell’orto di mio zio:
appena fa uno zirlo
mio zio corre a zittirlo.

S’apre l’Arca ed Arca sia


sbarca all’alba qualche arpia
suona l’arpa per la via
rischierò la nostalgia.

Una zanzara di Zanzibàr


andava a zonzo, entrò in un bar,
«Zuzzerellona!» le disse un tal
«mastica zenzero se hai mal di mar».

Bella è la balia di Bologna


bagna il bicchiere nel bordogna
butta un bacio nel bacile
bagna il becco nel badile
brinda alla barba di un barbone
blocca la biglia nel bidone
poi bastona col battente
un bambino in ballottaggio brucia
un bullo e poi va a Baggio.

Bizze buffe e baffi breve


Briglia brada nel bordello
baci e bubbole bislacche son
del babbo le bevande.

Cinque cimici cilene


cinguettavano in cinese tra le

30
ciglia circonflesse della cincia tra
i cipressi circondavano le cime e
cianciavano di aceti cinquecento
sono i cigni della celebre cicuta.

Sul camion carican Carla e


Checchina cuscini cuori
cacciatori custode è un cuculo col
collo corto con la carotide sul
callo stracco con la canicola dei
convettori caccia un carisma
scrolla un cosacco col chianti in
tavola col cul nel sacco.

Chiudi il chiodo schiudi il


Chianti chiama il chiurlo chiedi il
chiasso chi del Chianti chiede a
Chiasso chiude il chiodo e
chiama il chiurlo.

31
ESERCIZI PER L’ARTICOLAZIONE VELOCE

BLA-BRA-CLA-CRA-GRA-SBRA-SCRA-SDA-SDRA-SFA-
SFRA-SGRA-SLA-SRA-SNA-SPA-SPLA-SPRA-STA-STRA-
SVA-TRA-GNA-GLI-GLO-GLU

Farò incetta di chiavacci, lucchettini, catenacci, serrature,


chiavistelli, toppe, chiodi, spranghe, arpioni, non son poi di quei
babbioni che si fanno infinocchiare.

Chiama gli abitator dell’ombre eterne


Il rauco suon della tartarea tromba
Treman le spaziose atre caverne
L’aer cieco a quel romor rimbomba
SCIOGLILINGUA
Sopra la panca la capra campa
Sotto la panca la capra crepa
Trentatre trentini entrarono a Trento
Tutti e trentatre trotterellando
Tre tigri contro tre tigri
tre pigri contro tre pigri

Se l’Arcivescovo di Costantinopoli
Si disarcivescovocostantinopolizzasse

32
Vi disarcivescovocostantinopolizzereste voi
come si è disarcivescovocostantinopolizzato
l’Arcivescovo di Costantinopoli?

ESERCIZIO SULLA “C”

Lucia va dal macellaio.


Luciano Cecioni
in via Cacialli, 13, angolo via della Pace, 18.
Voglio 300 grammi di noce e 500 braciole da fare alla brace
dice Lucia con voce veloce.
Per 12, 13, 14, 15 persone, sono sufficienti 16 braciole,
dice Luciano.
Ieri le feci cucinare a Cecilia la vicina, che ha fatto un macello
le ha sbruciacchiate in modo atroce,
dice Lucia,
invece io le cucino speciali.
Ecco 200, 300, 400, 500 lire per Lucio il garzone
che è preciso pacioso e precoce.

ESERCIZIO SULLA “S”

Anselmo il falso andò in Alsazia


Si era persuaso a falsificare il balsamo dell’incenso
così scarso in Pennsylvania.
Colà, gelsi e gelsomini sparsi nella salsedine
snervavano in un fantasmagorico schierarsi pulsando e
snaturando
l’insulso e sregolato snodarsi dei pensieri
sino a renderli insicuri.
Di conseguenza, alzarsi nell’immenso della salsa spiaggia
e pulsare con il pensiero con insolito insulso nonsenso
sragiona sgretola srotola
il buonsenso e insieme fa scarso il discorso.

33
SCIOGLILINGUA

Una rana nera e rara sulla rena errò una sera.


In un coppo poco cupo poco pepe pesto cape.
Treno troppo stretto e troppo stracco stracca troppi storpi e
storpia troppo.
Sopra la panca la capra campa sotto la panca la capra crepa.
In una conca nuotano a rilento tre trote, cinque triglie e tinche
cento.
Guglielmo coglie ghiaia dagli scogli, scagliandola fa in mar
mille gorgogli.
Oggi seren non è, doman seren sarà, se non sarà seren si
rasserenerà.
Pipa pesa e pesta il pepe al papa, il papa pesa e pesta il pepe a
Pisa.
Trentatré trentini andarono a Trento tutti e trentatré
trotterellando.
Eccoti un fico secco e risecco, seccato al forno dal vecchio
Cecco.
Tre asini vennero dalla Sardegna carichi di fischi, fiaschi e legna
La ruota rotonda ruotava rovente, restando rasente la rete.
I signori generali regolino i loro orologi.
Sette acciughette se ne stavano strette strette nelle scatolette,
poverette.
Volevo vedere dove viveva Viviana.
Sedendo carponi, cogliendo foglioni, foglioni cogliendo, carponi
sedendo.
Apelle figlio di Apollo fece una palla di pelle di pollo e tutti i
pesci venivano a galla per vedere la palla di pelle di pollo fatta
da Apelle figlio di Apollo.
Tre tozzi di pansecco in tre strette tasche stanno.

34
LETTURA DI UN TESTO DISEGNANDO
BENE CON LE LABBRA OGNI LETTERA

La nebbia a gl'irti colli


piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma pér lé vie del borgo


Dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
L'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi


Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi


Stormi d'uccelli neri,
Cóm'esuli pensieri,
Nél vespero migrar.

DAL GRAVE ALL’ACUTO E VICEVERSA

Nél mèzzo dél cammin di nòstra vita


mi ritrovai pér una sélva oscura
ché la diritta via èra smarrita.

Ahi quanto a dir qual èra è còsa dura


ésta sélva selvaggia e aspra e fòrte
ché nél pensièr rinòva la paura!
Tant'è amara ché pòco è più mòrte;

35
ma pér trattar dél bèn ch'i' vi trovai,
dirò dé l'altre còse ch'i' v'hò scòrte.

Io nón sò bèn ridir cóm'i' v'intrai,


tant‘èra pièn di sónno a quél punto
ché la verace via abbandonai.

DOMANDA RETORICA

Che cos’è? È una domanda che già contiene in sé la risposta.


Consiste nel fare una domanda che non rappresenta una vera
richiesta di informazione, ma implica invece una risposta
predeterminata. Ovviamente deve essere fatta con una certa
espressione. Se ti chiedo “Ma chi te l’ha fatto fare?” non voglio
conoscere il nome della persona che ti ha convinto a fare quella
cosa, voglio solo dirti che hai fatto male a farla. Quindi non è
una vera domanda.
Prova con tutta l’espressione che riesci a metterci dentro:

Ma chi té l’ha fatto fare?

Vorrésti farmi crédere ché hai già finito i cómpiti?

Nón c’entrerà mica Luigi in quésta stòria?

Adèsso mi vièni a dire ché hai litigato cón Marcèlla?

Crédi ché sarèi così matto da buttarmi?

A ché gli servirà prèndersela tanto?

Ti pare ché potrèi dargli ragióne?

E allóra ti sbrighi?

36
E ORA CHIAMA “MASSIMILIANO!”

Dovrai chiamarlo modificando la tua pronuncia


del solo nome del tuo amico mettendo dentro
l’espressione di gioia, di tristezza, di rabbia, a
seconda di cosa vorresti dirgli:

1. invitandolo a giocare con te;


2. ordinandogli di ricostruire il castello di
Lego che ti ha distrutto;
3. per mostrargli il povero canarino che hai trovato
morto nella gabbia;
4. per mostrargli lo straordinario regalo che ti ha appena
portato il nonno dall’Australia.

PRONUNCIA OGNUNA DELLE SEGUENTI FRASI

Ti ricòrdi l’ultima vòlta?


Dimmi dov’èri, ièri séra dópo céna
Lé vocali fòniche sóno sètte

37
IN MODO:

allegro, triste, arrabbiato, annoiato, spaventato, soddisfatto,


irritato, sconsolato, meravigliato, affettuoso, feroce, solenne,
tenero, ingrugnato.

METTI L’ACCENTO ENFATICO SULLE PAROLE


SOTTOLINEATE

Hò pèrso l’orològio (senso: L’ho perso, non l’ho trovato);


Ho perso l’orologio (senso: Non ho perso il braccialetto);

La ròsa è sbocciata (senso: La rosa, non il garofano)


La rosa è sbocciata (senso: non è appassita)

Dov’è Stefano?
Dov’è Stefano?

Doménica vèngo.
Domenica vengo.

La gattina ha disfatto il gomitolo rósso!


La gattina ha disfatto il gomitolo rosso!
La gattina ha disfatto il gomitolo rosso!
La gattina ha disfatto il gomitolo rosso!

Lunedì Giovanni ha portato dal ciclista la biciclétta dél nònno.


Lunedì Giovanni ha portato dal ciclista la bicicletta del nonno.
Lunedì Giovanni ha portato dal ciclista la bicicletta del nonno.
Lunedì Giovanni ha portato dal ciclista la bicicletta del nonno.
Lunedì Giovanni ha portato dal ciclista la bicicletta del nonno.
Lunedì Giovanni ha portato dal ciclista la bicicletta del nonno

38
LEGGI A VOCE ALTA IL TESTO SEGUENTE
COME SE FOSSI

1) UN AVVOCATO IN TRIBUNALE;
2) UN PROFETA DELL’ANNO MILLE;
3) UNA SPIA CHE TRASMETTE MESSAGGI
SEGRETI;
4) UN DISC-JOCKEY

Raviòli

Staccate dalla vérza dièci fòglie, lé più gròsse,


lavatele e asciugatele.
A parte, preparate alcune fétte di pancétta. nón
dimenticate il vino bianco.
Affettate il cuòre délla vérza il più fineménte
possibile, dópo avér tòlto il tórsolo e lé còste
dure. Sistemate lé fétte di pancétta in una
padèlla e fatele rosolare a fuòco medio.
Versate il vino bianco, aggiungéte lé vérze,
salatele e rigiratele nél condiménto.
Fatele appassire a fuòco mèdio, sènza ché si
asciughino tròppo.

39
Sistemate una porzióne di raviòli sópra una
gròssa fòglia, cospargéte di parmigiano,
avvolgéte il tutto in un’altra fòglia.
Legate ógni pacchétto cón un giro di còrda,
sènza stringere. E óra, buòn appetito!

LEGGI A VOCE ALTA IL SEGUENTE BOLLETTINO


COME SE FOSSE UNA STORIA TRAGICA, COMICA,
TERRIFICANTE, MALINCONICA

Sul Mediterraneo centrale è ancora presente un’area di bassa


pressione. Una perturbazione di rilevante intensità interesserà le
regioni meridionali italiane.
Al sud e sulle isole maggiori avremo nuvolosità irregolare con
piogge sparse ed occasionali temporali. Nel corso della giornata
accentuazione dei fenomeni. Sulle altre regioni addensamenti
cumuliformi associati a qualche temporale nelle zone a ridosso
dei rilievi.
La temperatura è in lieve diminuzione.
I venti da deboli a moderati settentrionali. I mari saranno
generalmente mossi. Molto mosso il Mare di Sardegna.

PAROLA CUORE

È la parola chiave della frase, quella più importante, quella


che contiene un sentimento che tu dovrai far emergere dalla
tua voce nel momento in cui la pronuncerai.

Puoi farlo in diversi modi:

• aumentando improvvisamente il volume della voce;


• rendendo il tono più acuto;
40
• rallentando vistosamente il ritmo;
• anteponendo una pausa inaspettata;
• sillabando.

Queste tre frasi sono identiche ma la parola cuore è ogni volta


diversa perché si vuole enfatizzare ogni volta un aspetto in
particolare.

“Se solo svolgeste i compiti che vi sono stati assegnati, forse


a quest’ora non stareste a rinfacciarvi l’un l’altro cose di cui
tutti siete responsabili.”

“Se solo svolgeste i compiti che vi sono stati assegnati, forse


a quest’ora non stareste a rinfacciarvi l’un l’altro cose di cui
tutti siete responsabili.”

“Se solo svolgeste i compiti che vi sono stati assegnati, forse


a quest’ora non stareste a rinfacciarvi l’un l’altro cose di cui
tutti siete responsabili.”

Nella poesia Itaca prova a mettere il sentimento sulle parole


in grassetto: puoi sillabare o alzare il volume o sussurrare,
mettere una piccola pausa prima della parola. Per cominciare
prova alzando semplicemente il volume per sottolineare il
concetto che vuoi trasferire all’ascoltatore.

41
Itaca

Struggente poesia sul senso della vita concepita come viaggio


verso una meta che si raggiungerà dopo lunghe
peregrinazioni. Il riferimento mitologico è al celeberrimo
viaggio di Ulisse nell'Odissea. Il poeta afferma in questa
lirica che non bisogna avere fretta di giungere a destinazione,
alla propria "Itaca", ma bisogna approfittare del viaggio (e
quindi della vita) per esplorare il mondo, crescere
intellettualmente e ampliare il proprio patrimonio di
conoscenze. In ultima analisi, il senso di Itaca è proprio
quello di fungere da stimolo per il viaggio, più che da meta
da raggiungere e fine a se stessa. "Itaca" è un viaggio nel
quale non è importante se la meta è poi deludente. È giusto
apprendere il più possibile durante il viaggio, vivere
esperienze, tenendo sempre presente il sentimento forte e
deciso che porterà a destinazione. E se poi Itaca sarà peggio
di quanto ci si aspettava, valeva la pena

ITACA

Quando ti metterai in viaggio per Itaca


Devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

In Ciclopi e Lestrigoni, no certo


né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

42
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente, e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta, più profumi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca –


raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo


Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Konstantinos Kavafis (1863-1933, grande poeta e giornalista


greco.

43
INTERPRETA I PERSONAGGI CON UN AMICO

A sbagliare le storie (G. Rodari)

- C'era una volta una bambina che si chiamava Cappuccetto


Giallo.
- No, Rosso!
- Ah, sì, Cappuccetto Rosso. La sua mamma la chiamò e le
disse: Senti, Cappuccetto Verde...
- Ma no, Rosso!
- Ah, sì , Rosso. Vai dalla Zia Diomira a portarle questa buccia
di patata.
- No: vai dalla nonna a portarle questa focaccia.
- Va bene. La bambina andò nel bosco e incontrò una giraffa.
- Che confusione! Incontrò un lupo, non una giraffa.
- E il lupo le domandò: Quanto fa sei per otto?
- Niente affatto. Il lupo le chiese: Dove vai?
- Hai ragione. E Cappuccetto Nero rispose...
- Era Cappuccetto Rosso, Rosso, Rosso!
- Sì, e rispose: Vado al mercato a comperare la salsa di
pomodoro.
- Neanche per sogno: Vado dalla nonna che è malata, ma non so
più la strada.
- Giusto. E il cavallo disse...
- Quale cavallo? Era un lupo.
- Sicuro. E disse così: Prendi il tram numero settantacinque,
scendi in Piazza del Duomo, gira a destra, troverai tre scalini e
un soldo per terra, lascia stare i tre scalini, raccatta il soldo e
comprati una gomma da masticare.
- Nonno, tu non sai proprio raccontare le storie, le sbagli tutte.
Però la gomma da masticare me la comperi lo stesso.
- Va bene: eccoti il soldo.
E il nonno tornò a leggere il suo giornale.

44
Il professor Grammaticus

Il professor Grammaticus, viaggiando in treno, ascoltava la


conversazione dei suoi compagni di scompartimento. Erano
operai meridionali, emigrati all'estero in cerca di lavoro: erano
tornati in Italia per le elezioni, poi avevano ripreso la strada del
loro esilio.
Io ho andato in Germania nel 1958 - diceva uno di loro. Io ho
andato prima in Belgio, nelle miniere di carbone. Ma era una
vita troppo dura.
Per un poco il professor Grammaticus li stette ad ascoltare in
silenzio. A guardarlo bene, però, pareva una pentola in
ebollizione. Finalmente il coperchio saltò, e il professor
Grammaticus esclamò, guardando severamente i suoi compagni:
Ho andato! Ho andato! Ecco di nuovo il benedetto vizio di tanti
italiani del Sud di usare il verbo avere al posto del verbo essere.
Non vi hanno insegnato a scuola che si dice: "sono andato"?
Gli emigranti tacquero, pieni di rispetto per quel signore tanto
perbene, con i capelli bianchi che gli uscivano di sotto il
cappello nero.
Il verbo andare, – continuò il professor Grammaticus, è un
verbo intransitivo, e come tale vuole l'ausiliare essere. Gli
emigranti sospirarono.
Poi uno di loro tossì per farsi coraggio e disse: - Sarà come dice
lei, signore. Lei deve aver studiato molto. Io ho fatto la seconda
elementare, ma già allora dovevo guardare più alle pecore che ai
libri. Il verbo andare sarà anche quella cosa che dice lei.- Un
verbo intransitivo.- Ecco, sarà un verbo intransitivo, una cosa
importantissima, non discuto. Ma a me sembra un verbo triste,
molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d'altri... Lasciare la
famiglia, i bambini.
Il professor Grammaticus cominciò a balbettare, i bambini. -
Certo... Veramente... Insomma, però... Comunque si dice, sono
andato, non ho andato. Ci vuole il verbo essere: io sono, tu sei,
egli è...- Eh,- disse l'emigrante, sorridendo con gentilezza, - io

45
sono, noi siamo!... Lo sa dove siamo noi, con tutto il verbo
essere e con tutto il cuore? Siamo sempre al paese, anche se
abbiamo andato in Germania e in Francia. Siamo sempre là, e là
che vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare, e
belle case per abitare. E guardava il professor Grammaticus con
i suoi occhi buoni e puliti. E il professor Grammaticus aveva
una gran voglia di darsi dei pugni in testa. E intanto borbottava
tra sé: - Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli
errori nei verbi... Ma gli errori più grossi sono nelle cose!

IL LUPO PARLA VELOCEMENTE, L’AGNELLO


LENTAMENTE, POI IL CONTRARIO. VELOCITA’ MEDIA
PER IL NARRATORE

Sospinti dalla sete,


erano scesi a bere, lupo e agnello,
allo stesso ruscello.
Più a monte stava il lupo
più a valle assai l’agnello.
Ed ecco, il lupo ingórdo, l’assassino,
cérca un pretesto per attaccar lite:
«Tu m’intórbidi l’acqua mentre bevo!»
Timido, quel batuffolo di lana:
«Ma no, scusami, lupo, non può essere:
L’acqua scorre da te verso me».
Poiché il discorso era giusto, il lupo:
«Sei mesi fa tu m’insultasti!» seguita.
«Ma come, se non ero ancora nato!»
«Allora fu tuo padre!» E detto fatto,
salta addosso all’agnello e te lo sbrana.
La favola è per quelli
che con pretesti gl’innocenti opprimono

46
IMPARA A IMITARE UNA VOCE ASCOLTATA

Provate in due, alternativamente: un lettore legge un verso e


l’imitatore lo ripete con lo stesso stile, intonazione, pause e tutto
il resto.

C'era una volta una gatta


che aveva una macchia nera sul muso
e una vecchia soffitta vicino al mare
con una finestra a un passo dal cielo blu.

Se la chitarra suonavo
la gatta faceva le fusa ed una
stellina scendeva vicina, vicina
poi mi sorrideva e se ne tornava su.

Ora non abito più là,


tutto è cambiato, non abito più là,
Ho una casa bellissima,
bellissima come vuoi tu.

Ma, io ripenso a una gatta


che aveva una macchia nera sul muso
a una vecchia soffitta vicino al mare
con una stellina, che ora non vedo più.
......
Ma, io ripenso a una gatta
che aveva una macchia nera sul muso
a una vecchia soffitta vicino al mare
con una stellina, che ora non vedo più...

Ora fate la stessa cosa cantandola.

47
IMPRONTA VOCALE

Ognuno di noi ha un’impronta digitale particolare: l’impronta


vocale.

Non ci sono due Timbri di voce uguali

Ci sono voci più chiare, più scure, chi limpida, chi rauca, chi
secca, chi nasale ecc.

La voce del gatto Silvestro (nasale e scura) ha un’impronta o


timbro molto diverso da quella di Titti (dolce e delicata)

Proviamo ad imitarli:

Titti: - Mi è semblato di sentile una collente sul mio colpicino,


si potlebbelo congelale le piume della mia piccola coda! Oh
Oh! Mi è semblato di vedele un gatto! L’ho visto! Ho visto
davvelo un gatto! Un gatto molto calino, è venuto a giocale con
me!

Silvestro: - E hai visto bene! Oh, avanti! Stai fermo! Come


pensi che possa acchiapparti se salti come una pulce su un sasso
bollente!

Titti: - Dovlei stale felmo? D’accordo gatto, stalò felmo!

Silvestro ne fa un sol boccone…

48
PAUSE

Cara Susanna Esposito // salta la corda

Cara // Susanna Esposito salta la corda

Cara Susanna // Esposito salta la corda

- E’ più facile che un cammello // passi per la cruna di un ago


// piuttosto che un ricco entri // nel regno dei cieli.
- E’ più facile che // un cammello passi per la cruna di un ago
// piuttosto che un ricco // entri nel regno dei cieli.
- E’ // più facile // che un cammello passi per la cruna di un
ago // piuttosto che un ricco entri // nel regno dei cieli.
- E’ più facile che un cammello passi // per la cruna di un ago
piuttosto che un ricco // entri // nel regno dei cieli.

METAMORFOSI DI KAFKA

(pause a piacere da seguire dopo averle segnate a matita nel


testo seguente)

Quando Gregor Samsa si svegliò un mattino da sogni inquieti, si


ritrovò trasformato, nel proprio letto, in un immenso insetto.

Giaceva sulla schiena corazzata e dura, e, se alzava un tantino la


testa, si vedeva la pancia marrone, convessa, divisa da ricurve
nervature. La coperta del letto, pronta a scivolare giù, era
trattenuta appena in cima.

Le sue molte zampe, pietosamente sottili in rapporto alla sua


solita mole, gli tremolavano inermi davanti agli occhi.

“Che cosa mi è successo?” pensò. Non era un sogno.


49
CANZONI//PAUSE E RIME
BUONANOTTE FIORELLINO

Francesco De Gregori
(Fate una lettura espressiva e poi cantatela)

Buonanotte, buonanotte amore mio, buonanotte tra il telefono e


il cielo
ti ringrazio per avermi stupito, per avermi giurato che è vero
il granturco dei campi è maturo, ed ho tanto bisogno di te
la coperta è gelata e l'estate è finita
buonanotte, questa notte è per te.
Buonanotte buonanotte fiorellino, buonanotte tra le stelle e la
stanza
per sognarti devo averti vicino, e vicino non è ancora
abbastanza
ora un raggio di sole si è fermato, proprio sopra il mio biglietto
scaduto
tra i tuoi fiocchi di neve e le tue foglie di tè
buonanotte, questa notte è per te.
Buonanotte buonanotte, mogliettina, buonanotte tra il mare e la
pioggia
la tristezza passerà domattina, e l'anello resterà sulla spiaggia
gli uccellini nel vento non si fanno mai male, hanno ali più
grandi di me
e dall'alba al tramonto sono soli nel sole
buonanotte, questa notte è per te.

SOSPENSIONI

Prendiamo la prima frase; se devo dire “non esco mai senza


ombrello” chiuderò in basso la mia ultima parola “ombrello” Se
invece dopo “ombrello” la frase non è finita e bisogna dire

50
“quando il cielo è nuvoloso”, la parola ombrello resterà come
sospesa a mezz’aria per poi chiudere in basso con la parola
finale della frase e cioè “nuvoloso”

Ogni coppia contiene una sospensione: ma solo la seconda frase:

a. Non esco mai senza ombrello.


Non esco mai senza ombrello, quando il cielo è
nuvoloso.
b. Giovanni perde facilmente la calma.
Giovanni perde facilmente la calma, se lo prendono in
giro.
c. Ti regalo una casa.
Ti regalo una casa, se vinco al totocalcio.
d. Non ti porterò al Luna Park.
Non ti porterò la Luna Park, finché non avrai finito i tuoi
compiti.
e. Mi piacciono i serpenti.
Mi piacciono i serpenti, purché mi stiano alla larga.

RIDERE

Ridendo mettiamo in modo il diaframma; provate a svuotare


l’aria dei polmoni e poi cominciate a ridere. Vedrete come balla
questo organo misterioso.

Ci sono mille modi di ridere

Prova le seguenti alternative:

A bocca aperta: Ah! ah! Ah! Questa sì che è buona!Ah! ah!


Ah!

A bocca chiusa: Mh! mh! mh! Questa sì che è buona! Mh!


mh! mh!

51
Su diverse vocali: Uh! uh! Uh! Chi te l’ha raccontata? Uh!
uh! Uh!

Su diverse vocali: Ih! ih! ih! Chi te l’ha raccontata? Ih! ih!
ih!

Con diversa intensità: (forte) Ah! ah! Mi farai morire!

Con diversa intensità: (sottovoce) Ah! ah! Mi farai morire!

Con diverso timbro: (aspro, gutturale) Ci è cascato un’altra


volta!

Con diverso timbro: (nasale) Ci è cascato un’altra volta!

VELOCITA’ E ARTICOLAZIONE

La lettura completa richiede un massimo di 3 minuti,


ovviamente avendo l’accortezza di dire ogni parola fino
all’ultima lettera. Leggete piano, concentrate vie seguite il
ragionamento di Achille Campanile; vedrete che ci riuscirete.
Provate poi a registrarvi con il telefonino e risentitevi per
identificare i vostri errori e correggerli.

Achille Campanile, Le seppie coi piselli

Le seppie coi piselli sono uno dei più strani e misteriosi


accoppiamenti della cucina. Le seppie, da vive, ignorano in
modo assoluto l’esistenza dei piselli. Abitano le profondità
marine, nuotano lente e quasi trasparenti in una limpida luce
d’acquario, fra strane masse sospese, tra ombrelli fosforescenti
che pigramente s’aprono da soli sul vuoto e da soli camminano
come fantasmi; tra lanternini che occhieggiano e si spengono,
tra lievi alghe lucenti che ondeggiano appena, mentre nessun
alito di vento le carezza, fra forme enigmatiche e lunghe, nere,
52
bisce immobili. Laggiù non arriva notizia del mondo esterno,
dell’aria, delle nuvole. Le seppie non hanno e non possono avere
alcuna idea di quelle leguminose. Bisogna dire di più: non hanno
alcuna idea delle leguminose in genere e degli ortaggi. Ma che
dico: ortaggi? Esse ignorano addirittura gli orti, la terra, le
foglie, l’erba, gli alberi e tutto il mondo fasciato d’aria. Non
sanno che in qualche parte lontana esistono i prati su cui si
rincorrono fanciulle con grandi cappelli di paglia e lunghe vesti
leggere tra piccole margherite; ignorano i canneti. Non vengono
a contatto coi piselli che dentro il tegame sul fuoco, quando
sono già spellate, tagliate a pezzi e quasi cotte, che non è certo la
condizione ideale per apprezzare la vicinanza di chicchessia, si
tratti pure di personaggi rispettabili come i piselli. Dal canto loro
questi — ammesso che abbiano delle idee non possono avere
nella migliore ipotesi che un’idea molto vaga del mare. Più che
altro per sentito dire. Sono chiusi nel baccello, poveri
pallottolini ciechi che non si sa, davvero per chi esistano, là
dentro, e, se non ci fossero gli uomini a tirarli fuori, ben
difficilmente vedrebbero il sole. Non vedono nemmeno i prati,
l’orto in cui nascono, figurarsi il mare e le profondità di esso. E
probabilmente delle seppie non avranno mai sentito nemmeno il
nome. Eppure si direbbero fatti gli uni per le altre. Ma l’uomo è
uno strano animale. Fabbrica le barche, la fiocina, le lampade.
Non si contenta di pescare in modo semplice e primitivo con la
canna, o le reti, o le nasse, pesci più a portata di mano. Vuole
anche le seppie. Di notte va sul mare lentamente costeggiando
gli scogli in silenzio. Da lungi si vede l’abbagliante lampada, la
luce che penetra nell’acqua e la colora, fruga le anfrattuosità
degli scogli e dà qualche bagliore fuggitivo al volto intento del
pescatore. Intanto coltiva gli orti, pianta i piselli, li cura e
sorveglia, li coglie. Poi porta tutto al mercato. Una mattina, ecco
le seppie sul banco della pescheria, da una parte; e dall’altra,
lontano, ecco i piselli nel reparto ortaggi. Ancora non si
conoscono, ignorano l’esistenza gli,uni delle altre. Fa freddo.
Arriva la donna; qui entra in campo solitamente la femmina

53
dell’uomo che, non paga di fare i figli, vuol fare anche le seppie
coi piselli; quel giorno; perché non le fa tutti i giorni; questo non
è il cibo particolare dell’uomo; è un capriccio, una raffinatezza,
un di più; quel giorno le è saltato il ticchio di fare le seppie coi
piselli; senza interpellare le seppie, senza domandare ai piselli se
sono d’accordo. La femmina del re del mare, della terra e del
cielo, compera le seppie e i piselli mediante il denaro
guadagnato e fabbricato; perché l’uomo ha inventato anche il
denaro, e lo fabbrica, lo guadagna, lo contende, lo nega.Ma
torniamo alla donna. Va a casa. Spella, taglia, scafa. Seppie e
piselli – partiti rispettivamente le une dagli abissi del mare, gli
altri dalle viscere della terra, s’incontrano in un tegame
sfrigolando. Da questo momento i loro destini sono legati. Nel
primo istante c’è un po’ di freddezza, ma dopo poco, bon gré
mal gré, s’accordano a meraviglia. Insieme vengono scodellati,
insieme arriveranno a tavola, insieme verranno assaporati e
lodati, né cercheranno di sopraffarsi l’un l’altro. Consummatum
est. Rientrano nel tutto. Hanno percorso fino in fondo le
traiettorie del loro lungo viaggio e delle loro brevi vite che, con
un’effimera fosforescenza nel buio dell’universo, si sono
incontrate, fuse e spente. (da Manuale di conversazione, 1973)

Alcuni esercizi sono tratti da: “Leggere e parlare toccando


mente e cuore” di Francesco Ventura

- “Laboratorio di dizione e lettura espressiva” del prof.


Francesco Schipani
- “La voce espressiva – Manuale di educazione alla oralità e
alla lettura – di Carlo Delfrati – Ed. Principato
- Vignette di Roberto Zaccagnini.

54
E ORA METTIAMOCI AL LAVORO

Senza saperlo, facendo questi esercizi divertenti hai già


affrontato il nucleo centrale di questo manuale: gli elementi
espressivi della voce. Ma prima di affrontarli uno ad uno,
parliamo di un argomento fondamentale a cui spesso non diamo
molta importanza.

LA PUNTEGGIATURA E LA PAUSA

Spesso, parlando di punteggiatura, si fa unico riferimento alla


forma scritta: il punto, la virgola, il punto e virgola o i due punti
servono ad organizzare la costruzione dei periodi fra loro.

Questo nella forma scritta. Ma cosa succede quando leggiamo


ad alta voce un brano? Qui interviene il nostro corpo che,
attraverso la voce, dovrà dosare sapientemente le pause che sono
indicate nella punteggiatura.

In certi punti del discorso è bene sospendere la voce e frapporre


quella che chiamiamo “Pausa” tra una parte e l’altra.

Un segno di due punti divide sintatticamente in due blocchi il


testo, e cioè in una esposizione e una narrazione, tanto per citare
un possibile caso. Bene, proprio nel medesimo punto anche la
voce dovrà subire una pausa particolare: ecco tradotto il segno
grafico grammaticale in espressione vocale.

Sarebbe veramente inutile che tutto l’apparato di regole che


l’uomo ha inventato per ordinare i periodi prosastici, rimanesse
ancorato al solo scritto.

Oltre ai segni della punteggiatura possono esserci pause di altro


tipo, create dall’oratore o dal lettore.
55
Grosso patrimonio di attori ed oratori: la “pausa” soccorre a
tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore.

E’ questo un modo valido per riuscire a far giungere alla


comprensione altrui tutto un discorso e non solamente alcune
frasi di esso.

Le pause sono quelle che, per intonazioni e contenuto suscitano


una speciale corrente di simpatica attesa di curiosità, di
divertimento.

Tutte queste componenti debbono essere presenti sempre, ma,


attenzione, distribuite con oculatezza, con estremo senso della
misura.

Le sospensioni vocali non possono e non debbono essere dei


buchi incolmabili nel fluire del ritmo espositivo, bensì servire a
preparare un concetto, una parola che si voglia investire di
particolare efficacia; oppure ancora a dilazionare un effetto
satirico, comico, triste, o di qualsiasi altro tipo.

Così operando si creerà quella accattivante corrente di interesse


che non stancherà l’uditore, ma lo costringerà a ricevere
lucidamente i concetti e il significato del discorso ascoltato.

L’oratore potrà così ottenere l’attenzione senza quella penosa


sensazione di sforzo e di inerzia, triste esperienza degli inesperti.

56
LA LETTURA: UN ATTO D’AMORE

Come saprai la lettura ad alta voce – tranne eccezioni - non si


insegna nella scuola, a vantaggio del bombardamento quotidiano
di immagini e suoni d’ogni tipo, col risultato che i ragazzi
perdono la passione, il gusto di entrare con la propria
personalità, nelle immagini scritte e si accontentano di quel poco
che può arrivare ad una prima sommaria lettura.

Eppure le mamme sanno bene quanto sia importante la lettura di


una bella favola con tanto di interpretazione e voci dei
personaggi; lo stesso interesse potrebbe suscitare una buona
lettura ad alta voce ma, per questo, anche senza essere un attore,
è necessario che tu tenga presente alcuni aspetti:

La punteggiatura e la pausa

Già applicando nella lettura ad alta voce le funzioni che


svolgono il punto (chiude un periodo e apre un nuovo
concetto), la virgola (la pausa più breve di un periodo, è un
segno di passaggio), il punto e virgola (una pausa un po’ più
lunga, serve per staccare pur mantenendo lo stesso concetto) o i
due punti (pausa d’attesa o di spiegazione ulteriore oppure
introduce un discorso diretto), si dona maggiore chiarezza e
godibilità d’ascolto a qualsiasi brano.

La parola chiave (appoggiature e accenti)

Scegli una parola della frase e appoggia intenzionalmente il


tono su questa piuttosto che su un'altra; vedrai come si modifica
il senso della frase:

o “Stasera vado a cena dalla nonna” (non ci vado domani,


ci vado stasera perché domani non posso);

57
o “Stasera vado a cena dalla nonna” (finalmente mi decido
e vado a cena dalla nonna);

o “Stasera vado a cena dalla nonna” (è’ così brava a


cucinare oppure non vado a pranzo ma a cena);

o “Stasera vado a cena dalla nonna” (la lasciamo sempre


sola ma io vado a farle compagnia oppure: può essere
dolcissima ma anche una rompiscatole).

Devi sempre tenere conto del sottotesto: paroline non scritte che
sono il vero significato della frase. Non possiamo certo
pronunciare il sottotesto ma possiamo enfatizzare la parola
chiave.

58
GLI ELEMENTI ESPRESSIVI DELLA VOCE

Ed eccoci alle parole che hai già imparato a memoria: Tono,


Volume, Tempo, Ritmo, Mordente e Colore.

L’espressività non è soggetta a regole precise, è intuitiva;


abbassare la voce o cambiare tonalità all’interno di un periodo
assume un valore espressivo particolare che non è segnalato
dalla punteggiatura.

Ma noi, governando sapientemente gli elementi espressivi della


voce – che hai imparato a memoria – e soprattutto variandoli
spesso, otteniamo una lettura interessante ed espressiva.

Ma quali sono gli elementi espressivi della voce?

 Tono: è un elemento misurabile; come per i tasti di un


pianoforte può andare dalla nota più bassa a quella più
acuta, fino al grido, allo strillo, nei limiti delle possibilità
umane che per il canto è due ottave e per il semplice
parlare è un’ottava e mezza. Aggiunge espressione alla
lettura e, in misura equilibrata secondo il nostro senso
estetico, evita la monotonia o il monocorde.

 Volume: Dipende dall’impiego di fiato che determina


l’ampiezza dell’onda sonora emessa. Quanto più si
impiega il fiato, tanto maggiore sarà il volume;
smorzando, invece, questa potenza espulsiva,
diminuiremo di conseguenza il volume. Quindi il volume
sarà più debole su un punto intimo e delicato del
discorso e forte, fino a parole e sillabe scagliate come
strali, nel caso di un passo aggressivo. Può essere
modestissimo – medio – fortissimo. Sempre con un certo
equilibrio.

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 Tempo: E’ la maggiore o minore velocità con cui
leggiamo, affidato alla sensibilità individuale,
paragonabile alla buona esecuzione di un pezzo
musicale. Le variazioni del tempo non stridono mai fra
loro ma compongono un tutto armonico che suscitano
emozioni e reazioni diverse nell’ascoltatore. Le
variazioni di tempo possono essere: lentissimo – lento –
adagio – mosso – veloce.

 Ritmo: E’ dato dal succedersi degli accenti di frase. La


differenza tra una lettura con il pensiero ed una ad alta
voce o un discorso improvvisato sta nel diverso rapporto
tra l’oratore e il testo. Nel primo caso una virgola sarà
sempre una virgola, così come un punto; nel rivolgersi
ad un pubblico, invece, questa potrebbe avere una
sospensione più lunga e il punto potrebbe addirittura
essere ignorato. Il ritmo può essere piano – incalzante –
tormentato. Col ritmo si possono sconvolgere le leggi
sintattiche di punteggiatura. Cambiando spesso ritmo
all’interno delle frasi, l’uditorio troverà più piacevole ciò
che gli viene proposto. In doppiaggio si usano due segni
per la pausa: “/” per la pausa corta e “//” per la pausa
lunga; si possono usare anche frecce corte o lunghe per
indicare un rallentamento o una accelerazione o segnare
delle legature tra le parole.

 Mordente: Esprime il grado di manifestazione globale


dell’articolazione e dipende dalla muscolatura
dell’apparato fonatorio. Combatte la monotonia nella
lettura. Il mordente rappresenta l’insieme delle
vibrazioni, contrazioni e fremiti della nostra voce che
trasmette emozioni e affetti. Si perviene al mordente con
una grande concentrazione sul testo da leggere ed una
cosciente spersonalizzazione nei confronti o a favore del

60
suo autore. Si può avere una scala da 1 a 10 a partire
dalla contrazione più modesta fino ad arrivare alla più
forte dell’apparato fonatorio.

 Colore: è paragonabile a un sentimento. La voce


restituisce all’ascoltatore una immagine sonora riflessa
di uno stato d’animo. Es.: “C’è chi non agisce e pensa”
– Si può dire in maniera riprovevole o conciliante oppure
accusatorio o noncurante. Le coloriture possono essere:
Affettuoso, bonario, scherzoso, drammatico, solenne,
grave, afflitto, lacrimoso, implorante, umile, minaccioso,
fiero, ironico, cordiale, amoroso, sincero malizioso,
accondiscendente, romantico, narrativo, indifferente,
aggressivo, violento, volgare, triste, affermativo,
ansioso, conclusivo, esplicativo, sensuale.

61
TONO

E’ un elemento espressivo della voce misurabile; è infatti


individuato dall’altezza dell’onda sonora emessa e si estende dal
massimo della profondità sonora possibile, fino al grido, allo
strillo, sempre nei limiti delle possibilità vocali umane.

Ricordi la lettura dei primi versi della Divina Commedia che hai
letto negli esercizi, dal grave all’acuto e viceversa? Quello che
hai fatto è proprio variare i toni in una lettura.

Come se cantassimo le note dei tasti di un pianoforte.

Quando ci esprimiamo normalmente, nella voce, soggetta al


nostro temperamento, il TONO sale e scende senza che ce ne
rendiamo conto.

Per l’uomo comune la gamma dei toni è, per il canto, di due


ottave e, per il semplice parlare, di un’ottava e mezza. In questo
ambito una voce ben usata può passare da un tono all’altro.

L’istintiva modulazione, più o meno ricca, ci aiuta e ci è fedele


fino a che, nell’esprimere concetti o brani riportati, riusciamo a
far loro assumere un andamento spontaneo.

Spesso però ci rendiamo conto che non ne siamo capaci.

Quindi a volte l’istinto non basta ma bisogna imparare qualcosa


che, in realtà, sappiamo già fare o che credevamo di saper fare:
cioè distribuire le tonalità in modo efficace ed armonico,
tendendo a valorizzare ciò che più interessa.

Per imparare a distribuire il tono in una lettura ci serviamo di un


artificio: poniamo dei numeri da 1 a 10 sotto le parole e ci
sforziamo di rispettare la diversa variazione di tono.

62
Anche se la tecnica è spesso guardata con diffidenza, specie in
un campo di indagine come questo, sarebbe impossibile volersi
cimentare negli elementi espressivi della voce senza conoscere,
tecnicamente, quali possibilità di TONO esistano.

E quindi, anche senza essere degli attori, abituiamoci a


considerare a nostra disposizione circa dieci tonalità diverse che
si possono riassumere in questo schema:

1 - nota più bassa


5o6 - nota centrale
10 - nota acuta

L’esercizio che segue può essere eseguito anche in modalità


diverse, determinate dal nostro gusto estetico; infatti le melodie
e le variazioni di TONO possibili sono illimitate.

63
ESERCITAZIONI SUL TONO

1 nota bassa
5 o 6 nota centrale
10 nota acuta

U. Foscolo – “Un tramonto”

“Sulla cima del monte indorato dai pacifici raggi del sole, che va
( 7 )( 5 )( 3

mancando, ìo mi vedo accerchiato da una catena di colli, su cui


3 ) ( 6 )( 5 )( 4 )( 3 ) ( 5

ondeggiano le messi, e si scuotono le viti, sostenute in ricchi festoni


5 )( 4 )( 5 )( 4 ) ( 5 )( 6

dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani van sempre


6 )( 4 )( 7 )( 6 )( 7)( 6 )

crescendo, come se gli uni fossero imposti sugli altri.


( 5 )( 4 )( 4 )( 2 )

Di sotto a me, le coste del monte sono spaccate in burroni infecondi,


( 6 )( 5 )( 7 )( 5 )( 6 )( 5 )( 4 )( 3 )

fra i quali si vedono offuscarsi le ombre della sera, che a poco a poco
( 5 )( 6 )(4 )(3) ( 2

s’innalzano; il fondo oscuro è orribile; sembra la bocca di una


2 )( 3 )( 5 )( 4 )( 2

voragine…”
2 )

64
VOLUME

Il volume è dato dall’ampiezza dell’onda sonora. Quindi esso è


fisicamente individuato dalla spesa di fiato nell’emissione
vocale.

Ricordi la prova di Gassman? Parlare ad alta voce ecc.? Anche il


volume l’hai già sperimentato.

In ogni testo o frase detta vi è una parola indicativa del volume


che è più opportuno impiegare, sia essa individuata con
un’analisi a tavolino, sia reperita nell’inventiva personale.

A volte le condizioni ambientali richiedono un determinato


dispendio di fiato oppure dipende dal tenore o dell’assunto di
ciò che si legge.

Fai attenzione a non confondere il VOLUME con il TONO!

E’ come abbassare o alzare il volume della TV con il


telecomando: non cambiamo i toni e tutti gli altri elementi
espressivi rimangono invariati. Solo il Volume aumenterà o
diminuirà a seconda delle tue preferenze.

Il telecomando del tuo corpo è la quantità di aria che impieghi.

Esiste un VOLUME debole, come un VOLUME forte, con tutta


una scala graduale intermedia dell’impiego di fiato.

Tanto più questo sarà maggiore, cioè, quanta più aria


spenderemo e quanta più forza espulsiva impiegheremo, tanto
maggiore sarà il VOLUME.

Smorzando questa potenza espulsiva e la quantità d’aria


impiegata allo scopo, diminuiremo di conseguenza il volume.

65
Così, mentre un volume debole suggerirà il raccoglimento di un
passaggio intimo o delicato oppure soffuso del discorso, il
VOLUME forte, ne individuerà un altro invece aggressivo, ad
esempio, conferendogli una marcatura con parole e sillabe
scagliate come strali.

Spesso gli insegnanti per farsi ascoltare utilizzano questo tipo


di arma comunicativa quando non ricevono la giusta attenzione
da parte degli allievi, con ottimi risultati ma, inevitabilmente,
perdendo la voce.

Anche il VOLUME dovrebbe essere intuitivo ma spesso, nella


lettura, viene male utilizzato oppure assolutamente dimenticato
non conferendo alcuna variazione durante tutto il brano letto.

Come per il TONO ( lettura mono-tona) anche per il VOLUME


avremo una lettura debole, sciatta, senza espressione.

Anche per il VOLUME viene suggerita una scala di valori da 1


a 10, analoga a quella già vista per il tono:

1 - volume modestissimo
5o6 - volume medio
10 - volume fortissimo

Vale quanto detto per il tono: l’esercizio che segue può essere
eseguito anche in modalità diverse, determinate dal nostro gusto
estetico; anche le variazioni di VOLUME possibili sono molte.

66
ESERCITAZIONI SUL VOLUME

1 volume modestissimo
5o6 volume medio
10 volume fortissimo

Calvino: “I nostri antenati”

“C’era una guerra contro i Turchi. Il Visconte Medardo di Terralba, mio


( 5 )( 6 )( 3

zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei


3)( 5 5 5 5 5

Cristiani. Lo seguiva uno scudiero a nome Curzio. Le cicogne


5 )( 3 3 )( 2

volavano basse, in bianchi stormi, traversando l’aria opaca e ferma.


2 2 2 )

Perché tante cicogne? – chiese Medardo a Curzio, - dove volano?


( 7 )( 4 )( 6 )

Mio zio era nuovo arrivato, essendosi arruolato appena allora per
( 5 )( 3 3

compiacere certi Duchi nostri vicini impegnati in quella guerra. S’era


3 3 3 3 3 )( 5

munito di un cavallo e di uno scudiero all’ultimo castello in mano


5 5 5 5

cristiana, e andava a presentarsi al quartiere imperiale”.


5 )( 4 4 4 )

67
TEMPO

E’ rappresentato dalla maggiore o minore velocità del nostro


eloquio; si può quindi individuare con delle espressioni
misurabili e si poggia in gran parte sulla sensibilità e
disponibilità estetica del soggetto parlante o leggente.

Ricordi Il lupo e l’agnello: il lupo parla velocemente e l’agnello


lentamente?

Una buona lettura interpretativa o un discorso efficace si


fondano su un certo tipo di musicalità paragonabile
all’esecuzione di un pezzo, nel senso più artistico del termine.

Pensa alla Gazza ladra di Rossini: è un pezzo entusiasmante,


dove la variazione di velocità acquista un fascino irresistibile;
prova ad ascoltarla.

Così pure il nostro eloquio e la lettura di brani altrui, grazie alla


mobilità espressiva del nostro linguaggio, potrà risultare ancor
più diretto e rapido nelle variazioni.

Le variazioni di tempo sono: lentissimo – lento – adagio –


mosso – veloce e si possono indicare con questi segni:

__ lentissimo
_ lento
o adagio
+ mosso
++ veloce

68
ESERCITAZIONI SUL TEMPO

G. Arpino – “Le conferenze”


_ _ lentissimo
_ lento
o adagio
+ mosso
++ veloce
“ Sarò definito un po’ all’antica, ma io penso che se a un uomo viene
( o o o )( _ )(__ __ __ __
tolto il fumo, il bere, la tavola e le donne, tanto vale che gli si dia una
__ __ __ __ _ _ ) ( ++ ++ ++ ++
pistola carica. Nel pieno della vita, tra vizi e virtù e ansie virtuose si
++ ++ ) ( o o o o o o o o o
muove il narratore di storie. E’ un pesce nell’acqua, e un pesce non
o o o o o )( _ _ _ _ )( o o o
congettura sull’acqua, sono i pescatori dell’una e dell’altra sponda,
o o o )(+ + + + +
sono questi dottori di pesca che hanno il compite di cogitare
+ + + + + + +
sull’acqua e sui pesci, ammesso che riescano a vederli.” Un narratore
+ + )( o o o )(_ _
di storie non è mai un giudice dell’uomo, che gli è fratello, non è il suo
_ _ _ _ _ )(__ __ __ )( o o
crudele accusatore o il suo implacabile confessore. Non è mai
o o o o o o )(o o
un’occhiuta spia che lo sorveglia dall’alto. Egli è l’orecchio, è lo
o o o o o )(__ __ __ _: __
specchio dell’uomo. Non è mai un prezioso manipolatore di idee,
__ __ __ __ )( + + + + + )
perché le idee se le porta oscuramente e naturalmente nel corpo
(__ __ __ __ __ __ __ __ __ __ __ __ __ __
come il sangue porta i suoi globuli rossi.”
__ ______ __ __ __ __ __ )

69
RITMO

Definizione tecnica: il ritmo prosodico, che non ha niente a che


vedere con quello che gli accenti metrici scandiscono nei versi, è
dato dagli accenti di frase. La successione di questi poi, viene a
regolarsi su alcuni punti-cardine di ogni discorso, come, ad
esempio, le interpunzioni cioè i segni della punteggiatura.

Ricordi Cara Susanna Esposito// e la Metamorfosi di Kafka? Lì


hai usato le pause in modi diversi.

La differenza fra una lettura con il pensiero ed una a voce alta


oppure un discorso improvvisato, sta nel diverso rapporto fra
oratore, testo e frasi.

L’eloquio rivolto verso un uditorio è per sua stessa natura


sempre in divenire, mai uguale a se stesso, mentre un testo è
consegnato irrimediabilmente ad un suo modo di esistere grafico
e grammaticale; una virgola sarà, lì, sempre e solo una virgola.

Nel leggere o parlare, invece, questa stessa potrà assumere


valore di punto oppure dare adito ad una sospensione più o
meno lunga. Un punto potrà essere addirittura ignorato.

Puoi giocare con questo; come fanno i grandi oratori o gli attori
che inseriscono delle pause inaspettate, talora lunghissime, nei
loro discorsi.

Questo processo di personalizzazione porterà ad avere una


impostazione più spontanea e comunicativa anche a brani, passi
e discorsi parto di altra mentalità e sensibilità.

Il ritmo dunque è dato dal succedersi degli accenti di frase.

70
Pensate per un attimo all’intensità, alla capacità di attrazione
che può avere una pausa al momento giusto. Una pausa, in un
fiume di parole, è un diversivo. Qualcosa che può sorprendere
l’uditorio, che si chiederà: “E ora che succede? Perché si è
fermato?”

Ritmo è quindi indice di emotività del discorso (quando è


improvvisato) o dello studio che si è fatto di una lettura.

Se una tesi ci accalora, facciamo fluire le parole come un


torrente; non esisteranno pause ma solo un vortice di parole e
concetti con il tempo solo per prendere fiato. Invece il ritmo è
importante per dare alla nostra lettura una cadenza accattivante
oppure soporifera.

Come si usa nel doppiaggio è utili inserire le pause che


costituiranno il nostro personale ritmo di lettura con una
diagonale (/) semplice per le pause brevi e con una doppia
diagonale (//) per le pause lunghe.

Anche qui non esiste un metodo assoluto ma solo la diversa


sensibilità del lettore; in ogni caso sono sottolineate le pause
indispensabili.

71
ESERCITAZIONI SUL RITMO

/ pausa breve

// pausa lunga

B. Fenoglio: “Gli inizi del partigiano Raoul”

“Sergio P. / partì una mattina da Castagnole delle Lanze / per

andare a Castino ad arruolarsi in un importante presidio badogliano. / /

Aveva diciotto anni scarsi, / un impermeabile chiaro, un cinturone

da ufficiale / e scarpe da montagna nuove con bei legacci colorati,

/ / ma rimaneva quello che era sempre stato sino / / a un minuto

dalla partenza; / / un ragazzo di paese che i suoi sono possidenti e

l’hanno mandato in città a studiare. / / E lo stesso rimase anche

quando, / perso di vista Castagnole, / da una tasca sotto

l’impermeabile / tirò fuori una pistola nuovissima / e ne riempì la

fondina / dando così un significato al cinturone da ufficiale”. //

72
MORDENTE

Il mordente esprime il grado di manifestazione globale


dell’articolazione e dipende dalla tensione della muscolatura
dell’apparato fonatorio.

La monotonia guasta il rapporto oratore-uditore, non riesce a


lasciar filtrare emozioni ed affetti, affidati alle vibrazioni, alle
contrazioni, ai fremiti della nostra voce.

Quando hai fatto il ricalco fisiognomico, hai letto tutti gli


scioglilingua e le seppie coi piselli, hai dovuto fare uno sforzo
dei muscoli dell’apparato fonatorio esterno, la bocca, le guance,
la lingua, per pronunciare bene con la massima articolazione le
parole, sostenendo le finali per non perderne neanche una.

Il MORDENTE è dato dall’insieme di queste vibrazioni,


contrazioni e fremiti.

Esso modula e gradua queste componenti, conferendo il giusto


peso ed inquadramento alle singole parti del discorso, lasciando
emergere certi impeti di calore umano o particolari trasporti
interni.

Nella lettura, sensibilità e profondità di elaborazione interiore ci


indicheranno il mordente, al quale perveniamo per il tramite di
una grande concentrazione sul testo da leggere ed una cosciente
spersonalizzazione nei confronti e a favore del suo autore.

Anche per il mordente si potrà avere una scala indicativa da 1 a


10, a partire dalla contrazione più modesta, fino ad arrivare alla
più forte (10) sell’apparato fonatorio.

73
ESERCITAZIONI SUL MORDENTE

Proviamo a leggere un brano dall’Uomo dal fiore in bocca (Luigi


Pirandello) concentrandoci sulla scala del mordente: articolazione
della muscolatura dell’apparato fonatorio, vibrazioni, contrazioni, fremiti
della nostra voce:

Articolazione più modesta 1


Articolazione più forte 10

“A casa io non ci sto. Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle


( 1 )( 2 2 2 2 2 2
botteghe, io, ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché,
2 )( 3 3 3 3 3 )( 5
lei capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro … lei lo capisce,
5 )( 6 6 6 6 6) ( 4 )
posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non
( 7 7 7 7 7 7 7 7
conosco … cavare la rivoltella e ammazzare uno che come lei, per
7 ) (8 8 8 8 8 8 8 8
disgrazia, abbia perduto il treno … No no, non tema, caro signore: io
8 8 8 8 ) ( 3 3 3 3
scherzo! Me ne vado. Ammazzerei me, se mai… ma ci sono, di
3 ) ( 1 )( 3 3 3 ) ( 1 1
questi giorni, certe buone albicocche … Come le mangia lei? Con
1 1 1 1 1 ) ( 2 2 2 2
tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita,
2 2 2 )( 1 1 1 1 1
per lungo… come due labbra succhiose … Ah che delizia!”.
1 1 1 1 1 1 1 1)

74
COLORE

E’ difficile definire il COLORE perché, mentre per gli altri


elementi espressivi della voce possiamo utilizzare un criterio
quasi matematico con quantità misurabili, qui ci troviamo di
fronte a qualcosa di imponderabile, paragonabile ad un
sentimento.

Hai chiamato Massimiliano, hai fatto le previsioni del tempo in


modo drammatico, divertente, hai fatto l’avvocato in tribunale
leggendo una ricetta di cucina; ti sei già esercitato
abbondantemente.

Qui entra in gioco il sistema dell’emotività con cui il soggetto


parlante assume la paternità emotiva ed intellettuale della frase
espressa.

La voce, flettendosi di necessità, restituirà all’ascoltatore una


“immagine sonora” riflessa, di uno stato d’animo.

Va fatta una distinzione tra il dire originale e la lettura o


riportare frasi di altri.

Nel primo caso, per quanto riguarda la COLORITURA di un


discorso di cui siamo noi stessi gli autori, ci risulterà più facile
perché essa è legata profondamente al nostro intimo, alla nostra
personalità emotiva ed intellettuale.

Nel secondo caso, leggere brani di altri, la limpidezza e


comprensività della comunicazione della “immagine sonora”
sarà più complessa.

E’ necessario che la preparazione sul testo da leggere sia


approfondita, cosciente, al fine di riuscire ad inquadrare
esattamente le condizioni in cui è stata scritta, i convincimenti e

75
le giustificazioni umane dell’autore per ridonare lo smalto
originale ad un discorso altrimenti inerte, scarsamente
comunicabile, e nel contempo, mostrare all’ascoltatore come
l’oratore lo abbia rivissuto e filtrato attraverso la propria
personalissima individualità.

Nel caso della lettura di brani altrui coesistono due personalità:


quella dello scrittore e quella del lettore senza che nessuna delle
due venga mortificata.

Non andiamo quindi, nella lettura, alla ricerca spasmodica del


COLORE; che esso venga solo se l’oratore, ormai educato, ne
senta l’imprescindibile esigenza, e mai per il solo timore di
risultare monotoni.

Bisognerà dunque saperla dosare, senza che la troppa


partecipazione ci porti a sporcare, invece che rendere più
trasparente, il nostro eloquio.

Ecco che il giusto, la sensibilità, il senso estetico verranno in


nostro soccorso e ci guideranno verso quel giusto equilibrio di
chiaroscuri e flessioni vocali di cui abbiamo bisogno.

Queste sono le principali coloriture:

1. Squillante
2. Grave
3. Solenne
4. Affettuoso
5. Drammatico
6. Bonario
7. Scherzoso
8. Convincente
9. Imperioso

76
10. Afflitto
11. Lacrimoso
12. Iroso
13. Implorante
14. Umile
15. Minaccioso
16. Fiero
17. Ironico
18. Cordiale
19. Amoroso
20. Sincero
21. Malizioso
22. Accondiscendente
23. Romantico
24. Narrativo
25. Indifferente
26. Accorto
27. Aggressivo
28. Violento
29. Volgare
30. Triste
31. Affermativo
32. Ansioso
33. Interrogativo
34. Conclusivo
35. Esplicativo
36. Sensuale

Il brano che segue, di Edmond Rostand, contiene le indicazioni


del COLORE da utilizzare per ogni singola frase che lo stesso
protagonista, CIRANO, suggerisce al suo rivale, nel corso di
una sfida.

77
ESERCITAZIONI SUL COLORE
( paragonabile a un sentimento)
La voce restituisce all’ascoltatore una immagine sonora riflessa
di uno stato d’animo

CIRANO DI BERGERAC di Edmond Rostand

IL VISCONTE: Voi … voi … avete un naso … eh … molto grande!


CIRANO: Infatti!
IL VISCONTE: Ah!
CIRANO: Questo è tutto? …
IL VISCONTE: Ma …
CIRANO: E’ assai ben poca cosa! Se ne potevan dire … ma ce
n’erano a iosa, variando di tono, si potea, putacaso,
dirmi in tono

AGGRESSIVO: Se avessi un cotal naso, immediatamente lo farei


tagliare!”
AMICHEVOLE: “Quando bevete, dée pescare nel bicchiere: fornitevi
di un qualche vaso adatto!”
DESCRITTIVO: “E’ una rocca! … E’ un picco! … Un capo affatto …
Ma che! L’è una penisola, in parola d’onore!”
CURIOSO: “A che serve quest’affare, o signore? Forse da
scrivania, o da portagioielli?
VEZZOSO: Amate dunque a tal punto gli uccelli che vi
preoccupate con amor paterno di offrire
alle lor piccole zampe un sì degno perno?”
TRUCULENTO: Ehi, messere, quando nello starnuto il vapor del
tabacco v’esce da un tale imbuto,
non gridano i vicini al fuoco nella cappa?”
CORTESE: “State attento, che di cotesta chiappa il peso non vi
mandi per terra a capo chino!”
TENERO: “Provvedetelo di un piccolo ombrellino, perché il suo
colore non se ne vada al sole!”

78
PEDANTE: “L’animale che Aristofene vuole che si chiami
ippocampelofantocamaleone. tante ossa e tanta carne
ebbe sotto la fronte!”
ARROGANTE: “Ohi, compare, è in moda quel puntello? Si può infatti
benissimo sospendervi il Cappello!”
ENFATICO: “Alcun vento, o naso magistrale, non può infreddarti,
eccetto il Maestrale!”
DRAMMATICO: “È il Mar Rosso, quando ha l’emorragia!”
AMMIRATIVO: “Oh, insegna di gran profumeria!”
LIRICO: “E’ una conca? Siete il genio del mare?!”
SEMPLICE: “Il monumento si potrà visitare?”
RISPETTOSO: “Soffrite vi si ossequi, messere, questo sì che vuol
dire qualcosa al sole avere!”
RUSTICO: “Ohè, corbezzole! Dàgli, dàgli al nasino! E’ un cavolo
gigante o un popon piccolino?”
MILITARE: “Puntate contro cavalleria!”
PRATICO: “Lo vorreste mettere in lotteria? Sarebbe il primo lotto!”

O infin, parodiando Piramo, tra i singhiozzi: “Eccolo l’esecrando naso


che la bellezza del suo gentil signore distrusse! Or ne arrossisce,
guardate, il traditore!”.
Ecco, ecco, a un di presso, ciò che mi avreste detto se qualche po’ di
spirito e di lettere aveste. Ma di spirito, voi, miserrimo furfante, mai non
ne aveste un’oncia, e di lettere tante quante occorrono a far la parola:
cretino! Avreste avuto, altronde, l’ingegno da potermi al cospetto
dell’inclita brigata servirmi tutti i punti di questa cicalata, non ne avreste
nemmeno la metà proferito del quarto di una sillaba, ché, come avete
udito, ho vena da servirmeli senza alcuna riserva, ma non permetto
affatto che un altro me li serva.

79
DISTRIBUZIONE DI TUTTI I VALORI ESPRESSIVI IN UN
TESTO

Ed ora vediamo come regolarci per distribuire tutti i valori


espressivi in un contesto; esercizio utile e raccomandabile per
educare l’orecchio a questa tecnica onde ottenere naturalmente
melodie e variazioni anche nell’eloquio improvvisato, nella
conversazione.

Prendiamo una pagina e dividiamola in frasi o periodi,


trascrivendola su un foglio e lasciando, tra una riga e l’altra, lo
spazio sufficiente per gli appunti che riguarderanno, in questo
ordine:

COLORE (utilizzeremo la C con la descrizione del colore (es


esplicativo)
TONO T da 1 a 10
VOLUME V da 1 a 10
TEMPO TM -- - o + ++
MORDENTE M da 1 a 10

Per il RITMO, invece, sarà contrassegnato dalle diagonali ///


direttamente sulla frase, tra una parola e l’altra o tra gruppi di
parole.

Occorrerà leggere attentamente il brano per poi passare alla


elaborazione tecnica.

80
PROMESSI SPOSI – Cap. XXXIV Il brano inizia con

“Scendeva d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una


donna …”

E’ una pagina che riflette la pietà umana dell’autore, dove l’arte


del Manzoni tocca il vertice nell’espressione del sentimento
materno e della serenità del dolore in un’armonia di toni che si
effondono in musicali riprese e in paragoni gentili.
Come rendere con la voce tutto ciò?

Il COLORE da scegliere sarà “grave” e “triste”


I toni saranno tutti medio-bassi partendo dal 6 per arrivare al 2 e,
ad ogni ripresa ripartire dal 6 o 5.
I VOLUMI non variano molto perché è già il TONO che
contiene variazioni sufficienti.
Il TEMPO si muove tra misure di lento o molto lento
Per il RITMO metteremo diagonali semplici dopo soglia, usci,
convoglio e diagonali doppie dopo trascorsa e mortale.
Per il MORDENTE, un brano come questo, non accetterebbe
contrazioni laringee o tensioni articolatorie. Quindi sarà 1. (vedi
la pagina di testo con le indicazioni)

IL GATTOPARDO – La pagina di Tomasi di Lampedusa è


l’esatto opposto ed offre i più svariati spunti melodici.
Ci sarà qui la possibilità di spaziare tra un tono 8 e un tono 2 e
di esprimersi con variazioni di MORDENTE e con passaggi di
COLORE oltre a diverse cadenze di TEMPO e di RITMO.
Siamo al terzo capitolo: la battuta di caccia. Don Fabrizio è
assillato dai molti “fastidi” degli ultimi mesi che paragona a
vocianti truppe ammutinate.
Ecco un modo per risolvere lo schema interpretativo (vedi
pagina di testo con indicazioni).

81
Quindi: leggiamo il primo periodo, distribuiamo il COLORE
voluto, passiamo al TONO. Rileggiamo il periodo mantenendo
il COLORE e il TONO fissati e aggiungiamo il VOLUME.
Dopo, il TEMPO, il RITMO e il MORDENTE, mantenendo
sempre gli altri valori fissati.

Ripetiamo, in conclusione, che non esiste un solo modo di


interpretare o leggere ma molti, quante sono le capacità
espressive umane, subordinate naturalmente all’autore, che ne
predispone la costruzione e ne indica i salienti significati.

Da I promessi sposi di A. Manzoni La madre di Cecilia

Il brano è tratto dal capitolo XXXIV dei Promessi sposi: c’è la


peste, e Milano è una città sconvolta dal dilagare della morte.
Renzo ne percorre le strade desolate, invase dai carri funebri e
riecheggianti delle urla terribili dei monatti. Una scena, in
particolare, attira la sua attenzione e suscita in lui una profonda
pietà.

In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona


parte del suo cammino, quando, distante ancor molti passi da
una strada in cui doveva voltare, sentì venir da quella un vario
frastuono, nel quale si faceva distinguere quel solito orribile
tintinnìo. Arrivato alla cantonata della strada, ch’era una delle
più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un
mercato di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un
caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel
luogo: monatti ch’entravan nelle case, monatti che n’uscivan
con un peso su le spalle, e lo mettevano su l’uno o l’altro carro:
alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con
uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che
quegli sciagurati portavano come per segno d’allegria in tanto
pubblico lutto. Ora da una, ora da un’altra finestra, veniva una

82
voce lugubre: «qua, monatti!». E con suono ancor più sinistro,
da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva:
«ora, ora». Ovvero eran pigionali che brontolavano, e dicevano
di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non
guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per
iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto
singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a
contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il
convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza
avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata
e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un
languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa,
che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata,
ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan
segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che
di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta
consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto
che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà
e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito
ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni,
morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte,
con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero
adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per
premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un
braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva;
se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una
parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sul
l’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno:
della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse
fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due
ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per
levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito
rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi

83
indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse:
«non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro:
prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa,
e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò:
«promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che
altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così». Il monatto si
mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi
ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come
soggiogato che per l’inaspettata ricompensa, s’ affaccendò a far
un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a
questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce
l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime
parole: «addio Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche
noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io
pregherò per te e per gli altri». Poi voltatasi di nuovo al monatto,
«voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere
anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un
momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra
bambina più piccola, viva ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima,
finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve.
E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le
rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il
fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora
in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del
prato.

IL GATTOPARDO Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidî in questi due


ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti come formiche
all’arrembaggio di una lucertola morta. Alcuni erano spuntati
fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati
buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i più
mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioè dalle

84
irrazionali reazioni sue alla politica ed ai capricci del prossimo
(capricci chiamava, quando era irritato, ciò che da calmo
designava come passioni); e questi fastidî se li passava in rivista
ogni giorno, li faceva manovrare, comporsi in colonna o
spiegarsi in fila sulla piazza d’armi della propria coscienza
sperando di scorgere nelle loro evoluzioni un qualsiasi senso di
finalità che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva. Gli anni
scorsi le seccature erano in numero minore e ad ogni modo il
soggiorno a Donnafugata costituiva un periodo di riposo: i
crucci lasciavano cadere il fucile, si disperdevano fra le
anfrattuosità delle valli e stavano tanto tranquilli, intenti a
mangiare pane e formaggio, che si dimenticava la bellicosità
delle loro uniformi e potevano esser presi per bifolchi
inoffensivi. Quest’anno invece, come truppe ammutinate che
vociassero brandendo le armi, erano rimasti adunati e, a casa
sua, gli suscitavano lo sgomento di un colonnello che abbia
detto: «Fate rompere le righe!» e che dopo vede il reggimento
più serrato e minaccioso che mai.

85
LA MADRE DI CECILIA

Scendeva sulla soglia / d’uno di quegli usci, / e veniva verso


(T6/V4/TM--/M1) (T5/V4/TM--/M1) (T2/V4/TM--/M1)
Colore: grave-triste…………………………………………………….
il convoglio, / una donna / il cui aspetto / annunziava una
(T2/V4/TM--/M1) ( T4/V4/TM--/M1 )
Colore: grave-triste…………………………………………………….
giovinezza avanzata, // ma non trascorsa; // e vi traspariva una
(T2/V4/TM-- --/M1) ( T6/V4/TM--/M1 )
Colore: grave-triste…………………………………………………….
bellezza velata e offuscata ma non guasta, da una gran passione,
(T5/V4/TM--/M1) (T4/V4/TM-- --/M1) ( (T6/V4/TM--/M1)
Colore: grave-triste…………………………………………………….
/ e da un languor mortale: // questa bellezza / molle a un tempo e
(T4/V4/TM--/M1) (T2/V4/TM--/M1) (T4/V4/TM--/M1) (T2/V4/TM--/M1)
Colore: grave-triste……… Colore: grave………………………….
maestosa, che brilla nel sangue lombardo. // La sua andatura /
(T4/V4/TM--/M1) (T3/V3/TM--/M1) ( T6/V5/TM--/M1 )
Colore: grave…………………………………………………………
era affaticata. / ma non cascante; // gli occhi non davan lacrime,
(T4/V4/TM--/M1) (T6/V5/TM--/M1)
Colore: grave…………………………………………………………
ma portavan segno / d’averne sparse tante; // c’era in quel dolore
(T4/V4/TM--/M1) (T3/V4/TM—M1)(T2/V4/TM--/M1)
Colore: grave…………………………………………………………
/ un non so che di pacato / e di profondo / che attestava un’anima
( T4/V3/TM-- --/M1 ) (T3/V3/TM-- --/M1) (T3/V4/TM-- --/M1)
Colore: grave………………………………………………………..
/ tutta consapevole e presente a sentirlo. //
( T2/V3/TM-- --/M1 ) (T1/V3/TM-- --M1)
Colore: grave………………………………………………………..

86
IL GATTOPARDO

Quest’anno invece, / come truppe ammutinate che vociassero


(T7/V5/TMo/M2) (T5/V5/TMo/M2)
C: narrativo esplicativo………………………………………

brandendo le armi / erano rimasti adunati e, / a casa sua, /


( T6/V5/TMo/M2 ) (T4/V4/TMo/M2)
C: narrativo esplicativo………………………………………

gli suscitavano lo sgomento di un colonnello / che abbia detto:


(T5/V5/TMo/M2) (T7/V5/TMo/M2) (T4/V5/TMo/M2)
C: narrativo esplicativo………………………………………

“Fate rompere le righe” / e che dopo / vede il reggimento /


(T8/V6/TM--/M5) (T5/V4/TM+/M2)
C: Imperativo………… C: narrativo esplicativo……………

più serrato e minaccioso che mai. // Bande, / mortaretti, /


(T4/V4/TM+/M2) (T3/V4/TM+/M2) (T7/V5/TM+/M2)
C: narrativo esplicativo………………………………………

campane, / zingarelle e Te Deum / all’arrivo, / Va bene: //


(T7/V5/TM+/M2) (T5/V5/TM+/M2
C: narrativo esplicativo………………………………………

ma dopo: // La rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel


(T6/V6/TM+/M2) (T6/V5/TM+/M2)
C: narrativo esplicativo………………………………………

frac di Don Calogero, / la bellezza di Angelica / che poneva in


(T6/V5/TM+/M2) (T5/V5/TM+/M2) ( T4/V4/TM+/M2)
C: narrativo esplicativo………………………………………

87
ombra la grazia contegnosa della sua Concetta, / Tancredi /
(T4/V4/TM+/M2) ( T6/V6/TM+M3)
C: narrativo esplicativo………………………………………

che precipitava i tempi dell’evoluzione prevista e cui anzi /


(T5/V5/TM+M3)
C: narrativo esplicativo………………………………………

l’infatuazione sensuale / dava modo di infiorare i motivi


(T5/V5/TM+/M3)
C: narrativo esplicativo………………………………………

realistici; // Gli scrupoli e gli equivoci del Plebiscito; // le


(T6/V5/TM+/M3)
C: narrativo esplicativo………………………………………

mille astuzie / alle quali doveva piegarsi lui, / lui il


(T7/V5/TM+/M3)
C: narrativo esplicativo………………………………………

Gattopardo, / che per anni aveva spazzato via le difficoltà / con


(T8/V6/TM+/M4) (T7/V5/TM+/M3)
C: narrativo esplicativo………………………………………

un rovescio della zampa. //


(T5/V5/TMo/M2) (T4/V4/TMo/M1)
C: narrativo esplicativo………

88
DIZIONE E PRONUNCIA

Se domandassimo a un bimbetto di sei anni:

- Quante sono le vocali?

- Cinque! - ci risponderebbe trionfante. E rimarrebbe sbigottito


se noi gli rivelassimo che, invece, le vocali sono sette.

Sette, appunto: “a”, “e aperta”, “e chiusa”, “o aperta”, “o


chiusa”, “i”, “u”.

Sette suoni, ben diversi l'uno dall'altro.

E non basta. Non dobbiamo far torto alle consonanti. Anche il


loro drappello va ingrossato. Ci sono, infatti, due “s” e due “z”.

PROMEMORIA

I quattro “punti dolenti” della pronuncia italiana sono:

La “e” (aperta o chiusa)

La “o” (aperta o chiusa)

La “s”(sorda o sonora)

La “z” (sorda o sonora)

Ecco i segni fonetici che ci fanno riconoscere gli otto suoni nelle
pagine seguenti:

Accento grave: per la “e” aperta: è (cèlla)

per la “o” aperta: ò (òro)


89
Accento acuto: per la “e” chiusa: é (féde)

per la “o” chiusa: ó (dolóre)

“s” per la “s” sorda (sasso)

ʃ per la “s” sonora (poeʃia)

“z” per la “z” sorda (amicizia)

ʒ per la “z” sonora (ʒelo)

LE REGOLE DELLA PRONUNCIA ITALIANA

Le regole ci sono, benché pochi lo sospettino. Non sono molte,


non sono esaurienti, patiscono più d'una eccezione, ma bisogna
lealmente ammettere che, una volta che le abbiamo imparate,
dobbiamo a loro se ci salviamo da parecchi errori, se non da
tutti. Le elencheremo dunque con diligenza.

La “e” aperta (è)


In italiano si ha sempre la “e” aperta (è) nei casi seguenti

Nelle terminazioni verbali dei condizionali in -èi, -èbbe, -


èbbero:
vorrèi, cadrèi, verrèi, tornerèi, andrèi...
saprèbbe, vorrèbbe, giungerèbbe, finirèbbe...
dirèbbero, protesterèbbero, griderèbbero, partirèbbero...

Nei diminutivi in -èllo e nei nomi che terminano in -èllo, -èlla:


bambinèllo, somarèllo, vinèllo, stupidèllo, scioccherèllo...
anèllo, carosèllo, castèllo...
novèlla, pulzèlla, zitèlla...

Nei nomi che terminano in –èma:


90
tèma, problèma, teorèma, schèma, sistèma, patèma, poèma...

Nei nomi che terminano in ènda:


agènda, aziènda, faccènda, ammènda, tènda, vicènda, merènda,
bènda, leggènda...

Negli infiniti in –èndere:


accèndere, comprèndere, difèndere, estèndere, fraintèndere,
prèndere, rèndere, tèndere...
Negli aggettivi in -èndo.
orrèndo, stupèndo, tremèndo...

Nel gerundio in èndo:


piangèndo, uscèndo, partèndo, scendèndo, dividèndo,
sottraèndo, finèndo...

Negli aggettivi in -ènse, -ènso, -ènte, -ènto.


castrènse, circènse, estènse, forènse...
dènso, immènso, melènso, propènso...
coerènte, cosciènte, effervescènte, furènte...
attènto, contènto, lènto, turbolènto...

Nel participio presente in -ènte.


accogliènte, balbuziènte, diffidènte, esauriènte,
fervènte,impellènte, piangènte...

Nei nomi che terminano in –ènza:


coesistènza, cointeressènza, concorrènza, evanescènza,
influènza, insolvènza, scadènza...

Nei nomi e aggettivi in -èrio, -èria.


critèrio, desidèrio, deletèrio, semisèrio...
artèria, macèria, matèria, misèria...

91
Nei numerali in -èsimo.
dodicèsimo, sedicèsimo, ventèsimo, centèsimo...

Nei nomi e aggettivi in -èstre, -èstro, -èstra.


alpèstre, silvèstre, terrèstre...
canèstro, capèstro, malèstro...
finèstra, ginèstra, palèstra...

Nelle terminazioni verbali in -ètti, -ètte, -èttero.


io dètti (verbo “dare”),
egli dovètte (“dovere”),
essi stèttero (“stare”).

Nei nomi in -èzio, -èzia.


lèzio, scrèzio, trapèzio...
facèzia, inèzia, spèzia...

Nel dittongo -iè.


chièsa, dièci, ièri, mièle, cavalière, carrièra, corrièra,
mongolfièra, vièni...

Nei nomi tronchi d'origine straniera.


aloè, bignè, caffè, canapè, tè, tsè-tsè...

La “e” chiusa (é)

In italiano si ha sempre la “e” chiusa (é) nei casi seguenti:

Nei monosillabi.
che, me, re (sovrano), te (pron.pers.), tre [pronuncia: ché, mé,
ré, té, tré]

Nei polisillabi tronchi in -é accentata.


finché, giacché, perché, trentatré, mercé...

92
Nei nomi e aggettivi terminanti in -éccio.
caseréccio, cicaléccio, mangeréccio, pateréccio, villaréccio...

Nei nomi e aggettivi terminanti in -éfice.


artéfice, carnéfice, oréfice, pontéfice...

Nei nomi (o vici verbali) in -éggio, -éggia.


diléggio, postéggio, sortéggio...
dardéggia, disorméggia, occhiéggia, villéggia...

Nelle forme verbali in -éi, -ésti, -é, -émmo, -éste, -érono.


teméi, volésti, poté, dovémmo, sapéste, credérono...

Nell'infinito dei verbi in -ére.


bére, cadére, potére, sapére, sedére, temére, tenére, vedére...

Nei nomi in -ésa.


attésa, difésa, distésa, contésa, imprésa, offésa, sorprésa...

Negli aggettivi in -ésco.


ariostésco, ciarlatanésco, donchisciottésco, giullarésco,
marinarésco, studentésco...

Nei nomi in -ése.


cortése, francése, inglése, maionése, marchése, mése, paése...

Nei nomi in -éssa.


dottoréssa, duchéssa, contéssa, principéssa, scomméssa...

Nelle forme verbali in -éssi, -éesse, -éssero.


sapéssi, voléssi, credésse, leggésse, facéssero, dicéssero...

Nelle forme verbali in -éte.


faréte, cadréte, godéte, piangéte, potréte...

93
Nei nomi e diminutivi in -étto, -étta.
architétto, bozzétto, fogliétto, poverétto, strétto, tétto...
ariétta, casétta, baiétta, burlétta, civétta, fossétta...

Nelle forme verbali in -éva.


credéva, mordéva, sapéva, scrivéva, voléva...

Negli aggettivi in -évole.


amorévole, arrendévole, conversévole, mutévole, piacévole...
scorrévole, strabocchévole, svenévole...

Nei nomi in -ézza.


amarézza, bellézza, compitézza, delicatézza, giovinézza, finézza,
tristézza...

Negli avverbi in -ménte (si aggirano sui duemila).


agilménte, balordaménte, civilménte, distrattaménte,
eleganteménte, fuggevolménte, gioiosaménte, implacabilménte,
liberaménte, loquaceménte...

Nei nomi in -ménto.


abbigliaménto, casaménto, esauriménto, fidanzaménto,
sfollaménto...

Nelle forme verbali in -rémo, -réte.


dirémo, saprémo, sognerémo...
faréte, vedréte, verréte...

Nella terminazione in -ésimo dei nomi astratti.


cristianésimo, feudalésimo, incantésimo, protestantésimo...

La “o” aperta (ò)

Si ha sempre la “o” aperta (ò) nei casi seguenti:

94
Nei nomi che terminano in -iòlo.
canciaiòlo, crogiòlo, figliòlo, mariòlo, mostacciòlo, vaiòlo...

Nei nomi che terminano in -òccio.


bambòccio, baròccio, cartòccio, figliòccio...

Nelle terminazioni verbali in -òlsi, -òlse, -òlsero.


còlsi, sciòlse, tòlsero...

Nel participio passato in -òsso.


commòsso, promòsso, scòsso...

Nei nomi in -òtto.


bergamòtto, chiòtto, decòtto, fiòtto, pancòtto...

Nei nomi in -òzio.


equinòzio, negòzio, òzio, sacerdòzio...

Nei nomi in -òzzo, -òzza.


abbòzzo, maritòzzo, predicòzzo, tòzzo...
carròzza, còzza, piccòzza, tavolòzzo...

Nei nomi in -sòrio.


accessòrio, illusòrio, provvisòrio...

Nel dittongo -uò.


buòno, cuòre, cuòce, duòmo, fuòco, muòre, nuòvo, nuòra, ruòta,
scuòla, suòno, suòra, suòcera, uòmo, vuòle, vuòto...

Nei monosillabi.
no, so, do [pronuncia nò, sò, dò].

Nei polisillabi tronchi in “o” accentata.


dirò, farò, pagherò, però, rococò...

95
La “o” chiusa (ó)

Si ha sempre la “o” chiusa (ó) nei casi seguenti:

Nelle parole che terminano in -óce.


atróce, feróce, cróce, nóce, velóce, vóce...

Nei nomi in -ógna, - ógno.


carógna, cicógna, fógna, menzógna, rampógna, vergógna,
zampógna...
bisógno, cotógno, sógno...

Nei nomi che terminano in -óio.


avvoltóio, accappatóio, mattatóio, rasóio, vassóio...

Nelle parole in -ónda, - óndo.


baraónda, fiónda, grónda, spónda...
bióndo, fecóndo, girotóndo, móndo...

Nei nomi che terminano in -òne.


battóne, cannóne, carbóne, cartóne, educazióne, garzóne...

Nelle forme verbali che terminano in -óno.


abbandóno, confezióno, ispezióno, perdóno, sóno...

Nei nomi in -óre.


accusatóre, amóre, attóre, aviatóre, ambasciatóre, calóre,
compositóre...

Nelle forme verbali in -ósi, -óse, -ósero.


pósi, nascóse, rispósero...

Negli aggettivi in -óso.


affettuóso, astióso, bellicóso, chiassóso, delizióso, fiducióso,
misterióso...

96
La “s” sorda (s)

La consonante “s” si pronuncia sempre “sorda” (come in


“sasso”) nei casi seguenti:

Quando è doppia.
rosso, assai, assessore...

Quando si trova in principio di parola ed è seguita da una


vocale.
sale, sazio, sigaro, sole, superare...

Quando è seguita, sia all'inizio sia nel corpo della parola, da una
delle seguenti consonanti: c, f, p, q, t.
scansare, asfalto, aspetto, Pasqua, astio...

Quando è preceduta da un'altra consonante.


psicanalisi, abside, censo, falso, corsa, borsa...

La “s” sonora (ʃ)

La consonante “s” è sempre sonora (come in “roʃa”) nei casi


seguenti:

Davanti alla “b” (ʃbaciucchiare, ʃbadato, ʃbadigliare... )


Davanti alla “d” (ʃdegno, ʃdentato... )
Davanti alla “g” (ʃgabello, ʃgabuzzino... )
Davanti alla “l” (ʃlancio, ʃlittare, biʃlacco... )
davanti alla “m” (ʃmagrire, ʃmaltire, aʃma... )
Davanti alla “n” (ʃnello, ʃnobismo, ʃnocciolare... )
Davanti alla “r” (ʃradicare, ʃragionare, ʃregolatezza... )
Davanti alla “v” (ʃveglia, ʃvenire, ʃvolazzare... )

Nella maggioranza dei casi la “s” che si trova fra le due vocali è

97
sonora:

aʃilo, aʃola, auʃiliare, alluʃo, baʃe, baʃetta, baʃilica, biaʃimo,


biʃogno, biʃonte, biʃunto, bruʃio, caʃerma, caʃo, cauʃa, ceʃello,
ceʃoie, clauʃuram, eʃame, eʃempio, fiʃica, iʃola, marcheʃe,
miʃeria, muʃo, paradiʃo, scuʃa, spoʃo, teʃoro, vaʃo, viʃo...

La “z” sorda (z)

Nelle parole che terminano in:

-azia (grazia, disgrazia... )


-azie (grazie... )
-azio (sazio, spazio... )
-èzia (inezia, spezia... )
-èzio (lezio, screzio, trapezio... )
-izia (amicizia, delizia, pigrizia... )
-izie (calvizie, canizie... )
-izio (armistizio, comizio, fittizio... )
-òzio (negozio, ozio, sacerdozio... )
-uzia (astuzia, arguzia, minuzia... )
-uzie (balbuzie... )

Nelle parole che terminano in -ézza, -òzza, uzzo.

bellezza, bruttezza, debolezza,


carrozza, piccozza, tinozza...
merluzzo, spruzzo, struzzo...

La “z” è sonora (ʒ)

La “z” è sempre sonora (come in “biʒʒarro”) nelle terminazioni


seguenti:

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-iʒʒarre (elettriʒʒare, sintetiʒʒare, sonoriʒʒre... )
-iʒʒire (imbiʒʒire... )
-iʒʒatore (vaporiʒʒatore, sonoriʒʒatore... )

NOTA: Ecco, ora, un elenco di parole che cominciano con la


“z” sorda:
zacchera, zaffata, zampata, zampillo, zappa, zattera, zecca,
zingaro, zio, zitella, zittire, zitto, zoccolo, zoppo, zucca,
zucchero...

Ed ecco un elenco di parole che cominciano, invece, con la “ʒ”


sonora:
ʒabaione, ʒafferano, ʒaffito, ʒanzara, ʒebra, ʒelo, zenit, ʒenzero,
ʒerbino, ʒero, ʒibaldone, ʒizzania, ʒabaione, ʒafferano, ʒodiaco,
ʒonzo, ʒotico, ʒulù, ʒenzero, ʒaffiro, ʒibaldone, ʒinco...

Nel corpo della parola la “z”, semplice o doppia, è ora sorda ora
sonora.

Abbiamo già incontrato le “z” disciplinate da regole: quelle che


incontreremo adesso sono le... indisciplinabili:

-aguzzo, aguzzare
- ma: agu(ʒʒino)
-amaʒʒone, arʒillo, aʒienda, aʒʒardo, aʒʒurro
-azzittire, azzuffare, balza, balzare, balzello
.barʒelletta, baʒʒecola
-bazzicare
-biʒantino, biʒʒa, biʒʒarro
-bozzetto, bozzolo
-breʒʒa, bronʒo, buʒʒurro
-calzetta, calzone, canzone
-doʒʒina
-drizzare, Enzo, fidanzato

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-friʒʒo, friʒʒante, garʒone, gaʒʒarra
-gozzo, guazzabuglio, gozzoviglia, guizzo, impazzire,
intenzione
-laʒʒo, leʒʒo
-lizza
-magaʒʒino
-mazzo, Mazzini, merluzzo, nunzio, nuziale
-oleʒʒo, oleʒʒante
-paranza, pazzo, pozzo
-pranʒo
-prezioso, profezia, punzecchiare
-raʒʒo, roʒʒo, sbuʒʒare
-scherzo, senza
-sgabuʒʒino, soʒʒura
-spezia, sprizzo, sprazzo, spruzzo, stizza
-trameʒʒo, uʒʒolo, verʒura
-vezzoso, vizio, vezzo, Venezia...

[tratto da “LA PAROLA CHE CONQUISTA”, Anna Maria


Romagnoli, ed. Mursia, Milano 1986].

100
LETTURE
BRANI E POESIE PER ESERCITARSI

I brani a completamento di quelli già utilizzati per le


esercitazioni saranno:

 L’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia


Marquez;
 L’incipit del Canto di Natale di Dickens;
 J.D. Salinger – Il giovane Holden
 George Orwell – La fattoria degli animali
 L’arte della poesia e poesie per esercitarsi

IL GIOCO DEGLI INCIPIT

Il gioco degli incipit consiste nell’individuare i più belli e


leggerli per poi farne una speciale classifica.

L’incipit è il biglietto di visita dell’autore; ti introduce al suo


mondo cercando di stuzzicare la tua curiosità per andare avanti
nella lettura. E’ fondamentale tanto e più del titolo di un libro; ti
cattura, se è ben scritto, e non ti lascia più, fino all’ultima
pagina. Ce ne sono di descrittivi, di traumatici, spesso nella
prima pagina è già successo tutto, un delitto, una morte
accidentale; ma non è questo che ti impedirà di continuare nella
lettura, anzi, è proprio questo che ti cattura e ti affascina.

Nel corso di lettura ognuno porterà il suo incipit preferito ma


eccone alcuni sui quali faremo un ragionamento relativo al tipo
di lettura ad alta voce da applicare.

101
Gabriel Garcìa Màrquez – Cent’anni di solitudine

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello


Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto
pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il
ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla
e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque
diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed
enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che
molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle
col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di
zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con
grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove
invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro
corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si
presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta
manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava
l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di
casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti
sbigottirono vedendo i paioli, le padelle, le molle del focolare e i
treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per
la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di
schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo
ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si
trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di
Melquìades. “Le cose hanno vita propria,” proclamava lo
zingaro con aspro accento, “si tratta solo di risvegliargli
l’anima.” Josè Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione
andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora
più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile
servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l’oro dalla
terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: “Per
quello non serve.” Ma a quel tempo Josè Arcadio Buendìa non
credeva nell’onestà degli zingari, e così barattò il suo mulo e
una partita di capri coi due lingotti calamitati. Ursula Iguarìn,

102
sua moglie, che faceva conto su quegli animali per rimpinguare
il deteriorato patrimonio domestico, non riuscì a dissuaderlo.
“Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricare la casa,” ribatté
suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità
delle sue congetture. Esplorò la regione palmo a palmo,
compreso il fondo del fiume, trascinando i due lingotti di ferro e
recitando ad alta voce l’esorcismo di Melquìades. L’unica cosa
che riuscì a dissotterrare fu una armatura del quindicesimo
secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine,
la cui cavità aveva la risonanza vacua di un’enorme zucca piena
di sassi. Quando Josè Arcadio Buendìa e i quattro uomini della
sua spedizione riuscirono a disarticolare l’armatura, vi trovarono
dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un
reliquiario di rame con un ricciolo di donna.

Come vedete c’è tutto, e tutto è raccontato già nella prima


pagina: il protagonista, colonnello Aureliano Buendìa, muore
nella prima riga di questo straordinario romanzo. Quindi bisogna
che la voce sottolinei questo concetto definitivo, perché tutto il
resto è accaduto prima, in uno sterminato flash-back, le cui
prime righe ci presentano un mondo arcaico, in una terra
sconosciuta, quasi l’inizio della storia dell’umanità. E ci sono i
capostipiti di questa saga, Arcadio e Ursula e poi gli zingari e
tutto il resto.

La voce deve restituire questo alone di magia e di crudezza in


equilibrio tra gli elementi espressivi della voce.

Charles Dickens – Canto di Natale

Marley era morto, tanto per incominciare, e su questo punto non


c’era dubbio possibile. Il registro della sua sepoltura era stato
firmato dal sacerdote, dal chierico, dall’impresario delle pompe
funebri e da colui che conduceva il funerale. Scrooge lo aveva
firmato, e alla Borsa il nome di Scrooge era buono per qualsiasi

103
cosa che egli decidesse di firmare. Marley era morto come un
chiodo confitto in una porta. Badate bene che con questo io non
intendo di dire che so di mia propria scienza che cosa ci sia di
particolarmente morto in un chiodo confitto in una porta;
personalmente, anzi, propenderei piuttosto a considerare un
chiodo confitto in una bara come il pezzo di ferraglia più morto
che si possa trovare in commercio. Ma in quella similitudine c’è
la saggezza dei nostri antenati, che le mie mani inesperte non
possono permettersi di disturbare, altrimenti il paese andrà in
rovina. Vogliate pertanto permettermi di ripetere con la massima
enfasi che Marley era morto come un chiodo confitto in una
porta. Scrooge sapeva che era morto? Senza dubbio; come
avrebbe potuto essere altrimenti? Scrooge e lui erano stati soci
per non so quanti anni; Scrooge era il suo unico esecutore
testamentario; il suo unico procuratore, il suo unico
amministratore, il suo unico erede, il suo unico amico e l’unico
che ne portasse il lutto; e neanche Scrooge era così terribilmente
sconvolto da quel doloroso avvenimento da non rimanere un
eccellente uomo di affari anche nel giorno stesso del funerale e
da non averlo solennizzato con un affare inatteso e
particolarmente buono. Menzionare il funerale di Marley mi ha
ricondotto al punto dal quale ero partito. Non c’è alcun dubbio
che Marley era morto. Questo deve essere perfettamente chiaro;
altrimenti nulla di meraviglioso potrà uscire dalla storia che sto
per narrare. Se non fossimo perfettamente convinti che il padre
di Amleto era morto prima che cominciasse la tragedia, nel fatto
che egli passeggiasse di notte, al vento di levante, sui bastioni
del proprio castello non ci sarebbe niente di più notevole di
quello che ci sarebbe se qualunque altro signore di mezza età
spuntasse fuori improvvisamente, dopo il tramonto, in una
località battuta dal vento – diciamo, per esempio, nel cimitero di
St. Paul’s Churchyard – per impressionare la mente debole di
suo figlio. Scrooge non aveva mai cancellato il nome del
vecchio Marley. Anche dopo qualche anno si poteva leggerlo
sopra la porta del magazzino: Scrooge e Marley. La ditta era

104
conosciuta come “Scrooge e Marley”. A volte le persone, che
non erano molto al corrente, chiamavano Scrooge Scrooge e a
volte lo chiamavano Marley, ma egli rispondeva ad ambedue i
nomi. Per lui era perfettamente lo stesso. Oh … però Scrooge
era un uomo che aveva la mano pesante; duro e aspro, come la
cote, dalla quale non c’era acciaio che fosse mai riuscito a far
sprizzare un scintilla di fuoco generoso; segreto, chiuso in se
stesso e solitario come un’ostrica.

Anche qui c’è un decesso nelle prime tre parole del capolavoro
di Dickens; ma qui si tratta di un fatto già avvenuto, la morte del
socio di Scrooge per fissare l’attenzione del lettore sul
personaggio superstite. La narrazione percorre un sentiero molto
diverso dal precedente. Dickens gioca con se stesso, è un
affabulatore, si lancia in citazioni del teatro inglese, parla delle
tradizioni della sua terra, dei modi di dire e infine, dopo aver
disegnato lo scenario, arriva al punto. E questo punto,
l’immensa carenza umana di Scrooge, l’avarizia, è il punto di
partenza di questa grande favola universale, simbolo della
redenzione umana.

La voce deve accompagnare una lettura chiara ma anche


affabulatoria; una favola, appunto, con contrappunti di comicità,
di tristezza, di allegria. Quindi la lettura deve essere un po’
sopra le righe, ma non troppo.

J.D. Salinger – Il giovane Holden

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete


saper prima dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa
e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che
arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Coppelfield, ma
a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca,
e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d’infarti per
uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono

105
tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio
padre. Carini e tutto quanto – chi lo nega – ma anche
maledettamente suscettibili. D’altronde, non ho nessuna voglia
di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e
compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi
sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da
dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente più di quello
che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fratello e quel
che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da
questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine
settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci
andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar.
Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all’ora. Gli
è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lì. E’
pieno di soldi adesso. Mica come prima. Era soltanto uno
scrittore in piena regola, quando stava casa. Ha scritto quel
formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso
non l’avete mai sentito nominare. Il più bello di quei racconti
era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non
voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché
l’aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Se
c’è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate
nemmeno. Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che
lasciai L’Istituto Pencey. L’Istituto Pencey è quella scuola che
sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate
sentito parlare. Probabile che abbiate vistogli annunci
pubblicitari, se non altro. Si fanno pubblicità su un migliaio di
riviste, e c’è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una
siepe. Come se Pencey non si facesse altro che giocare a polo
tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì,
né nei dintorni. E sotto a quel tipo a cavallo c’è sempre scritto:
“Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee
chiare”. Buono per i merli. A Pencey non forgiamo un
accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non
ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e

106
via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano
così prima di andare a Pencey. Ad ogni modo, era il sabato della
partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a
Pencey, era un affare di stato. Era l’ultima partita dell’anno e
pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio
Pencey non vinceva. Mi ricordo che verso le tre del pomeriggio
me ne stavo là sul cucuzzolo di Thomas Hill, proprio vicino a
quel cannone scassato che aveva fatto la Guerra di Secessione e
tutto quanto.

Raccontato in prima persona; quindi bisogna restituire in


qualche modo la voce di chi parla. E’ un giovane che usa un suo
linguaggio, un po’ strafottente. Il suo fastidio nel raccontare la
storia deve essere tangibile ma anche quel tanto di ribellione
verso i formalismi, tanto da coniare un vero e proprio linguaggio
giovanile, frasi brevi, quasi slogan, bandiere della propria
protesta verso il mondo adulto. Holden è un personaggio famoso
e proverbiale negli Stati Uniti e in tutto il mondo, eroe e
personaggio mitico di una generazione.

George Orwell – La fattoria degli animali

Il signor Jones, della Fattoria Padronale, serrò a chiave il pollaio


per la notte, ma, ubriaco com’era, scordò di chiudere le
finestrelle. Nel cerchio di luce della sua lanterna che danzava da
una parte all’altra attraversò barcollando il cortile, diede un
calcio alla porta retrostante la casa, da un bariletto nel
retrocucina spillò un ultimo bicchiere di birra, poi si avviò su,
verso il letto, dove la signora Jones già stava russando. Non
appena la luce nella stanza da letto si spense, tutta la fattoria fu
un brusio, un’agitazione, uno sbatter d’ali. Durante il giorno era
corsa voce che il Vecchio Maggiore, il verro Biancocostato
premiato a tutte le esposizioni, aveva fatto la notte precedente un
sogno strano che desiderava riferire agli altri animali. Era stato
convenuto che si sarebbero tutti riuniti nel grande granaio, non

107
appena il signor Jones se ne fosse andato sicuramente a dormire.
Il Vecchio Maggiore (così era chiamato, benché fosse stato
esposto con il nome di Orgoglio Willington) godeva di così alta
considerazione nella fattoria che ognuno era pronto a perdere
un’ora di sonno per sentire quello che egli aveva da dire. A
un’estremità dell’ampio granaio, su una specie di piattaforma
rialzata, il Vecchio Maggiore già stava affondando sul suo letto
di paglia, sotto una lanterna appesa a una trave. Aveva dodici
anni e cominciava a divenire corpulento, ma era pur sempre un
maiale dall’aspetto maestoso, spirante saggezza e benevolenza,
benché mai fosse stato castrato. In breve cominciarono a
giungere gli altri animali e ognuno si accomodava a secondo
della propria natura. Vennero prima i tre cani, Lilla, Jessie e
Morsetto, poi i porci che si adagiarono sulla paglia
immediatamente davanti alla piattaforma, le galline si
appollaiarono sul davanzale delle finestre, i piccioni
svolazzarono sulle travi, pe pecore e le mucche si
accovacciarono dietro ai maiali e cominciarono a ruminare. I
due cavalli da tiro, Gondrano e Berta, arrivarono assieme,
camminando lentie appoggiando cauti i loro ampi zoccoli pelosi
per tema che qualche piccolo animale potesse trovarsi nascosto
nella paglia. Berta era una grossa, materna cavalla di mezza età
che, dopo il quarto parto, non aveva più riacquistato la sua linea.
Gondrano era una bestia enorme, alta quasi diciotto palmi e forte
come due cavalli comuni messi assieme. Una striscia bianca
lungo il naso gli dava un’espressione alquanto stupida, e, in
realtà, non aveva una grande intelligenza, ma era universalmente
rispettato per la sua fermezza di carattere e per la sua enorme
potenza di lavoro. Dopo i cavalli, vennero Murie, la capra
bianca, e Benjamin, l’asino. Benjamin era la bestia più vecchia
della fattoria e la più bisbetica. Parlava raramente e quando
apriva bocca per fare ciniche osservazioni; per esempio, diceva
che Dio gli aveva dato la coda per scacciare le mosche ma che
sarebbe stato meglio non ci fossero state né coda né mosche. Se
gli si domandava il perché, rispondeva che non vedeva nulla di

108
cui si potesse ridere.. Ma senza dimostrarlo apertamente era
devoto a Gondrano: i due usavano passare assieme la domenica
nel piccolo recinto dietro all’orto, brucando erba a fianco a
fianco senza mai aprir bocca.

L’incipit di Orwell si concentra, dopo un siparietto del signor


Jones che va a dormire ubriaco, sulla presentazione dei
personaggi, i loro caratteri, l’aspetto, i rapporti tra loro. Si arriva
quindi al terribile discorso del Vecchio Maggiore quando già
conosciamo ognuno degli animali; siamo quindi entrati
nell’allegoria del potere, rappresentato dal Verro, come se si
trattasse di umani, senza nessuna differenza. Quindi la voce non
deve raccontare una favola ma, già dall’incipit, conferire dignità
umana ai singoli animali, preparando il dramma che si sta per
compiere. Il colore è narrativo esplicativo ma con più forza di
una normale lettura per catturare l’attenzione e far dimenticare
all’ascoltatore quello che è sempre stato il suo bagaglio culturale
riguardo agli animali, cambiare il suo punto di vista.

109
POESIE

E ora alcune poesie. Ti prego di imparare almeno l’infinito a


memoria; rimarrà per sempre con te, ovunque tu vada, in ogni
momento della tua vita e potrai sempre recitarla, in un bosco, su
una barca, nella tua stanza. Non ti tradirà mai.

Giacomo Leopardi

L’Infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,


E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

Emily Dickinson

Son più miti le mattine

Sono più miti le mattine


e più scuri diventano le noci
e le bacche hanno un viso più rotondo,

110
la rosa non è più nella città.
L’acero indossa una sciarpa più gaia,
e la campagna una gonna scarlatta.
Ed anch’io, per non essere antiquata,
mi metterò un gioiello

Il vederla è un quadro

Il vederla è un quadro
Sentirla una canzone
Conoscerla un eccesso
Innocente come giugno
Non conoscerla una pena
Averla per amica
Un calore tanto vicino come se il sole
ti splendesse in mano

Costantino Kavafis

Per quanto sta in te

Per quanto sta in te


E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balía del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea

111
Wislawa Szymborska

Elogio dei sogni

In sogno
dipingo come Vermeer.
Parlo correntemente il greco
e non solo con i vivi.
Guido l’automobile,
che mi obbedisce.
Ho talento,
scrivo grandi poemi.
Odo voci
non peggio di autorevoli santi.
Sareste sbalorditi
dal mio virtuosismo al pianoforte.
Volo come si deve,
ossia con le mie forze.
Cadendo da un tetto
so cadere dolcemente sul verde.
Non ho difficoltà
a respirare sott’acqua.
Non mi lamento:
sono riuscita a trovare l’Atlantide.
Mi rallegro di sapermi sempre svegliare
prima di morire.
Non appena scoppia una guerra
mi giro sul fianco preferito.
Sono, ma non devo
esserlo, una figlia del secolo.

112
Qualche anno fa
ho visto due soli.
E l’altro ieri un pinguino.

Con la più grande chiarezza

Sibilla Aleramo
Nome non ha

Nome non ha,


amore non voglio chiamarlo questo che provo per te,
non voglio che tu irrida al cuor mio
com'altri a' miei canti, ma, guarda,
se amore non è pur vero è
che di tutto quanto al mondo vive nulla m'importa come di te,
de' tuoi occhi de' tuoi occhi donde sì rado mi sorridi,
della tua sorte che non m'affidi,
del bene che mi vuoi e non dici, oh poco e povero, sia,
ma nulla al mondo più caro m'è,
e anch'esso, e anch'esso quel tuo bene

nome non ha …

Eugenio Montale
La casa dei doganieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri


sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera,
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

113
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana


la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.

Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende


rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta

Ho sceso dandoti il braccio

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale


e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio


non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

114
POESIA LATINA
INNO A VENERE (LUCREZIO, De rerum natura, I, 1-43)

Degli Eneadi progenitrice, voluttà degli uomini e degli dei,


alma Venere, che sotto gli astri erranti del cielo
il mare solcato da navi e la terra portatrice di messi
vivifichi, poiché per opera tua ogni specie di viventi
è concepita e, appena nata, vede la luce del sole.
Te, o dea, te fuggono i venti, te fuggono le nubi del cielo
al tuo arrivo, a te la terra ingegnosa
fa nascere fiori soavi, per te ridono le onde del mare
e, tornato sereno, brilla il cielo di un diffuso chiarore.

Non appena infatti si schiude il tempo di primavera


e, liberatosi, prende vigore il favonio fecondatore,
per primi gli uccelli dell’aria te ed il tuo arrivo annunciano,
o dea, dalla tua potenza percossi nel cuore.

Poi le fiere e gli armenti per i pascoli fioriti saltellano


e i rapidi fiumi attraversano: così dal tuo fascino
presi, avidamente ti seguono dove ti piaccia condurli

Infine per mari e monti e per fiumi vorticosi


e le case frondose degli uccelli e i verdi campi,
a tutti in petto incutendo desiderio d’amore,
fai sì che, bramosamente propaghino per generazioni le specie.

Fa sì che, per i mari e le terre tutte, placati,


s’acquietino i travagli feroci della guerra;
tu sola puoi soccorrere i mortali con una pace
tranquilla, poiché Marte, signore delle armi, che le fiere
opere della guerra governa, spesso, si abbandona sul tuo

115
grembo, vinto dall’eterna ferita d’amore,
e così guardandoti, reclinato il collo tornito,
verso di te proteso pasce d’amore, o dea, i suoi avidi sguardi,
e dalla tua bocca pende il respiro di lui supino.
Tu, o dea, china su di lui, abbracciandolo, adagiato, col tuo
corpo divino, dalla tua bocca effondi dolci parole,
chiedendo, o gloriosa, per i Romani una pace serena.

Orazio (65-8)
Carpe diem (Odi 1, 11)

Presentazione “filosofica” del concetto: non siamo


personalmente responsabili del passato, non siamo padroni del
futuro, possiamo soltanto vivere attimo per attimo il presente.

Tu, non chiederti – è sacrilegio saperlo – a me, a te


quale termine abbiano dato gli dèi,
e non chiederlo agli oroscopi
di Babele, o Leuconòe;
meglio accettare quel che sarà.
Se parecchi inverni ancora ti ha concesso Giove
o ultimo questo che contro le opposte scogliere
fiacca il mare
Tirreno, sii saggia, filtra il vino,
da una vita che è breve taglia le lunghe speranze.
Mentre parliamo, sarà già fuggito, invidioso,
il tempo:
afferra l’attimo, credendo nel futuro il meno possibile.

116
Properzio (47-14)
Quaeris, cur veniam tibi tardior? (Elegie, II, XXXI)

Vuoi sapere perché ho fatto tardi a venire:


è stato aperto dal grande Cesare il portico d’oro di Febo.
Ci sono splendide colonne di marmo africano
per tutta la lunghezza,
e in mezzo a loro tante statue quante erano le figlie
del vecchio Danao.
Là, ho visto un dio di marmo, più bello dello stesso Apollo,
che recita i suoi canti sulla lira,
e intorno all’altare quattro vacche , opera d’arte di Mirone,
che sembrano vive.
Poi nel mezzo sorge il tempio di Febo, in marmo bianco,
un tempio più caro al dio della sua patria Ortigia.
E poi ci sono il carro del Sole in alto sul frontone,
e i due battenti della porta, stupenda fattura
di avorio africano:
rappresentano da un lato i Galli precipitati giù dalla cima del
Parnaso, dall’altro la morte dell’infelice Tantalide.
Poi, lo stesso Dio Pizio, fra la madre e la sorella,
nel suo lungo mantello suona le sue musiche

117
LA CONVERSAZIONE

Una buona lettura ad alta voce include le giuste pause (collegate


ad un uso corretto della punteggiatura), un tono variabile (quindi
diverse note musicali), un volume ben calibrato (da non
confondere con il tono), un ritmo piacevole (qua e là pause e
silenzi gradevoli), scale di mordente (diversa articolazione degli
organi fonatori, bocca, lingua…), un tempo interessante
(velocità di lettura nelle varie frasi o parole), il giusto colore ai
brani letti (tradurre in sentimento le parole che leggiamo (ira,
allegria etc.).

Quindi una cassetta degli attrezzi che possiamo utilizzare ogni


volta che ci capita di leggere in pubblico ma anche di parlare in
pubblico e, infine, nelle conversazioni che facciamo ogni giorno
con persone diverse. Un pessimo esempio di conversazione ci
viene ogni giorno proposta dai talk show, dove i partecipanti si
parlano addosso l’un l’altro con il risultato di renderci
incomprensibile il loro pensiero; quello che ci rimane è il loro
atteggiamento (ira, rabbia, insulti) desumibili anche dalle loro
espressioni; capite che non possiamo fare la stessa cosa con le
persone con cui conversiamo ogni giorno. Ecco alcune
riflessioni ricavate da una conferenza di TED, che riporto perché
attinente all’argomento e al nostro BLOG “Lettura ad alta voce”
di wordpress:

Celeste Headlee ha lavorato come intervistatrice radio per


decenni e conosce gli ingredienti per un’ottima conversazione:
onestà, concisione, chiarezza e una sana dose di ascolto. In
questo intervento illuminante, condivide 10 utili regole per avere
una conversazione migliore.

“Mai come oggi siamo estremi nelle nostre conversazioni.


Quando il tuo lavoro dipende da quanto sai parlare con le
persone, impari molto sul modo di fare conversazione. La

118
maggior parte di noi non conversa poi così bene. Non ci
ascoltiamo: ogni conversazione richiede un equilibrio tra il
parlare e l’ascoltare ma a un certo punto abbiamo perso questo
equilibrio. I giovani mandano una media di 100 messaggi al
giorno; hanno molte più possibilità di scrivere che di parlare
faccia a faccia, riducendo sempre più la loro capacità di
sostenere una conversazione. Come sostenere una civile
conversazione, considerando che bisogna parlare sia con quelli
che ci piacciono sia con quelli che non ci piacciono e con quelli
con cui dissentiamo completamente su tutti i fronti. Come si
parla e come si ascolta?

Ci sono molti consigli in giro:

- Guarda la persona negli occhi;


- Pensa in anticipo ad argomenti su cui è interessante
discutere;
- Guarda, annuisci e sorridi per dimostrare che sei
interessato;
- Ripeti ciò che hai appena sentito o riassumilo.
Tutte cavolate! Non c’è nessuna ragione per dimostrare
che sei attento se già sei attento!

Imparando ad intervistare le persone si impara anche a


migliorare una conversazione, senza annoiarsi, senza
offendere nessuno e senza perdere tempo.

10 Regole:

1. Mentre parlate non fate altre cose (telefono, tablet, chiavi


della macchina in mano), siate presenti, non pensate alle
liti con i figli o a cosa vi cucinerete per cena;
2. Non pontificate (se volete affermare la vostra opinione
senza ammettere replica, discussione, aprite un blog).
Iniziate ogni conversazione pensando che potete
119
imparare qualcosa. Ognuno può essere un esperto in
qualche campo;
3. Usate domande a risposta aperta (5 W: Chi, Cosa, Dove,
Quando e Perché) oppure chiedete “come è stato?” ma
non “non eri terrorizzato?”, che prevede solo un si o no;
4. Seguite il flusso della conversazione (lasciate andare
pensieri che vi vengono in mente perché smettereste di
ascoltare; i pensieri devono entrare e subito uscire dalla
vostra mente);
5. Se non sapete, dichiarate ciò che non sapete (non
esponetevi a dire cose di cui non siete esperti);
6. Non mettete sullo stesso piano la vostra esperienza con
la loro (se parlano della perdita di un familiare non
raccontate la vostra e se parlano di problemi sul lavoro,
non dite che voi odiate il vostro lavoro; non è la stessa
cosa, non lo è mai);
7. Cercate di non ripetervi: è paternalistico e noioso
(tendiamo a farlo spesso, nelle conversazioni di lavoro o
con i nostri figli e, se vogliamo chiarire, ripetiamo
troppe volte lo stesso concetto);
8. State lontani dai dettagli (alla gente non interessa, gli
anni, nomi, cognomi, date, voi fate fatica a tenerli a
mente e a loro non interessa; sono interessati a voi,
come siete, cosa avete in comune, perciò dimenticate i
dettagli, lasciateli fuori);
9. La più importante: ascoltate (Buddha dice: se la tua
bocca è aperta, non stai imparando). Non ascoltiamo
perché ci piace parlare; quando parlo ho il controllo, non
devo ascoltare ciò che non mi interessa, sono al centro
dell’attenzione, posso rinforzare la mia identità. Ma se
non ascoltiamo ci distraiamo (una persona parla al ritmo
di 225 parole al minuto,ma possiamo ascoltarne, nello
stesso tempo, almeno 500, perciò la nostra mente può
riempire con quelle 275 parole mancanti; spesso lo
facciamo,ma purtroppo parlando contemporaneamente).

120
Bisogna invece ascoltarsi l’un l’altro. Molta gente non
ascolta con l’intento di capire cosa gli viene detto, ma
con l’intento di cercare parole ed argomenti che
costituiranno la sua risposta;
10. Siate brevi e siate pronti a stupirvi; tutti hanno qualcosa
di incredibile nascosta e non sarete mai delusi.”

Tratto da:

TED - Ideas worth spreading – Celeste Headlee: 10 regole per


migliorare una conversazione

121
LEGGERE E PARLARE IN PUBBLICO

La lettura in pubblico è il risultato di due operazioni che tutti


facciamo normalmente: leggere e parlare. Il carattere pubblico
della lettura, però, richiede che siano rispettati alcuni principi:

Non si legge in pubblico come si legge per proprio conto un


giornale o un romanzo e non si parla in pubblico come si fa
una conversazione fra due o tre persone;

Elemento chiave è la conoscenza del testo. Questa permette di


arricchire la lettura con una serie di elementi che conferiscono
significato e rendono evidente la partecipazione emotiva del
lettore. Si può ad esempio ribadire qualche particolare, qualche
frase o elemento che risveglia l’attenzione;

Nella lettura in pubblico si dovrebbe parlare con un volume più


alto di quello che si usa nella comune conversazione:
bisognerebbe parlare ad alta voce, un po' come quando si è in
collera.... ma senza esserlo! Inoltre bisognerebbe parlare
spingendo la voce "in avanti" (PORTARE LA VOCE), cioè non
si dovrebbe trattenere il suono della voce in fondo alla gola, ma
al contrario proiettarlo lontano, davanti a sé, come quando si
chiama qualcuno che è lontano. D'altra parte, in pubblico,
bisognerebbe sempre parlare rivolgendosi alle persone che sono
più lontane.

Si dovrebbe evitare la cantilena che ricorda il modo di recitare le


poesie. D'altra parte si dovrebbero evitare anche gli sbalzi
eccessivi dei toni. Capita spesso che le vocali o addirittura le
sillabe finali di una parola non vengano pronunciate
chiaramente, soprattutto se si è al termine della frase. La finale
di una frase non è quasi mai caratterizzata da una caduta della
voce, ma dal mantenimento della stessa intonazione fino al
punto fermo!

122
Il lettore non dovrebbe esimersi dal 'DARE COLORE', cioè
dall'interpretare la lettura: l'importante è farlo nel modo giusto,
con un estremo senso della misura. Non si dovrebbe né leggere
in modo piatto (come se non ci interessasse ciò che leggiamo),
né eccedere nel colore (per il solo timore di essere monotoni o
per voler dare un'interpretazione troppo personale);

Quindi prepariamo la lettura, identifichiamo il COLORE che più


si adatta alle frasi e al brano che vogliamo leggere e
memorizziamolo (ad es. stile narrativo esplicativo);

Quando si avrà la certezza di aver distribuito nelle parole lette il


colore voluto, si potrà passare al TONO;

Rileggete il periodo con il rispetto di tutte le variazioni di


TONO, mantenendo rigorosamente il COLORE già fissato;

Potete scrivere nel testo da leggere a matita alcune note che


individuano le vostre scelte riguardo gli elementi espressivi, così
come evidenziato nelle esercitazioni;

Ora prendere in esame il periodo con la distribuzione dei


VOLUMI senza perdere i TONI e il COLORE fissati;

Dopo, il TEMPO, mantenendo i VOLUMI, i TONI e il


COLORE;

Infine il RITMO e il MORDENTE, rispettando tutti gli altri


valori già considerati;

Quando ci sentiremo paghi, pur nel rispetto dei valori fissati, di


una lettura sciolta e sicura, potremo passare al periodo
successivo;

123
L’uso di questo esercizio ci consentirà di abituare l’orecchio a
modulazioni nuove, a diverse disposizioni dei nostri mezzi
vocali, e a una più ricca casistica di capacità espressive che si
verificheranno prima nella lettura e in seguito sicuramente nella
conversazione.

Altri consigli per la lettura

Una respirazione profonda aiuta a controllare le proprie


emozioni, ma può anche trasmetterle o provocarle. Prima di
iniziare la lettura rallenta il respiro e concentrati sul libro;
Sii consapevole della tua voce;
Migliora la tua voce naturale invece di cercare di cambiarla;
In una lettura o presentazione la tua voce sia forte e chiara;
Usa la respirazione diaframmatica;
Non parlare né troppo lentamente né troppo velocemente;
Lavora sempre molto su: tono, volume, ritmo, mordente, tempo.
Variali spesso;
Non è indispensabile semplificare il linguaggio (un concetto
contorto o una parola difficile) per renderlo più comprensibile:
se il narratore o il lettore è partecipe trasmette comunque il
senso e l’emozione;
Elimina i SUONI che possono disturbare;
Guarda spesso il pubblico, per stabilire sintonia tra il testo, il
lettore e l’ascoltatore. Con uno sguardo “complice” si può
commentare silenziosamente quanto appena letto;
Leggi sempre con passione. Se il testo non ti piace ci vorrà più
concentrazione e tecnica per trasmettere comunque emozioni;
Attenzione ai “TIC” (toccarsi la faccia, la testa…) e alle parole
ricorrenti (anche vocali: ehm… ahm…. ecco…. come dire…
comunque sia… appunto… diciamo così… Se li fai, dopo un
po’ l’attenzione dell’ascoltatore si concentrerà sull’attesa del
prossimo tic. Se hai questo tic (vocale) sforzati di sostituirlo con
la respirazione;

124
Attenzione alla POSTURA: non deve ostacolare la respirazione.
Se leggi in piedi non appoggiarti a scrivanie o altro, a meno che
non sia funzionale alla situazione, se leggi seduto, non
appoggiarti né premere sullo schienale. In entrambi i casi si
spreca energia preziosa per la comunicazione;
Non sottovalutare il LINGUAGGIO DEL CORPO e non
sprecare energie con troppi movimenti, evita di ripetere più
volte lo stesso gesto;
Una posizione eretta ma non rigida (in piedi o seduti) dà un
senso di fiducia;
Ricorda che i nostro corpo può esprimere molti segnali:
diffidenza, approvazione, ansietà, attrazione, sicurezza,
benessere, superiorità, inferiorità, arroganza, irritazione,
appagamento, possesso del territorio;
Ricorda che l’attenzione è alta all’inizio della lettura, poi cala. È
compito del lettore/narratore ristabilire il contatto e
riconquistare l’attenzione;
Ricorda che il messaggio che trasmetti agli ascoltatori dipende:
per il 50% dal linguaggio del corpo (faccia, mani postura,
ecc…), per il 40% dalle varie componenti della voce (tono,
volume …..) e solo per il 10% dalle parole, cioè dal testo che
leggete o esponete;
Ricorda anche che è dimostrato la gente ricorda: il 10% di
quello che legge – il 10 % di quello che sente – il 30% di quello
che vede – il 50 % di quello che vede e sente;
Impara a fare PAUSE ad effetto;
La pausa è un elemento di “suspense”. Una pausa ben calcolata
prima dell’espressione di un’idea o di una frase letta o di
un’azione descritta, contribuisce in modo rilevante a rafforzarne
il significato. Le pause vanno programmate prima
dell’intervento;
Le pause servono anche a dare il tempo al cervello di recepire ed
elaborare l’informazione ricevuta;
Ricorda che il silenzio è bello, è un elemento della lettura (con le
pause) e va riempito di emozioni;

125
Si può restare sorpresi per l'abbondanza e per la durata di queste
pause. Ma esse sono necessarie! E' appunto durante queste pause
che l'ascoltatore comprende, perché i suoni che giungono alle
sue orecchie hanno il tempo di arrivare al cervello e di assumere
un significato. I silenzi nel corso di una lettura permettono a chi
non legge di comprendere ciò che ascolta. Il lettore deve sempre
tener presente che se lui ha il testo sotto gli occhi, non l'ha
invece chi ascolta.
Ricordiamo infine che vi sono pause sintattiche che vengono
stabilite in base alla sintassi della frase (cioè alla 'struttura' della
frase) e pause espressive che invece non sono soggette a regole
precise ed il cui uso è a discrezione del lettore.
Le frasi di un testo hanno un ritmo che il lettore dovrebbe saper
rendere. Si tratta del modo in cui viene regolata la successione
delle sillabe e delle parole. Per rendere bene il ritmo di una
frase, è necessario aver stabilito in precedenza tutte le pause.
In alcuni casi si tende a leggere troppo in fretta. Ricordiamo che
chi ascolta ha bisogno di tempo per poter organizzare i suoni che
sente in una frase dotata di senso. E questo dipende dalle pause e
anche dalla velocità con cui si parla.

Parlare in pubblico

Preparati:

conoscere la materia e aver affrontato il discorso di fronte ad


uno specchio o a degli amici ti permette di affrontare il tuo
discorso pubblico con maggior sicurezza. Prova inoltre a
sintetizzare il tuo intervento in 7-10 punti chiave in modo da non
perdere mai il filo del discorso.
Parla ad una persona alla volta Ciò che c’è di veramente
terrorizzante nel parlare in pubblico è… il pubblico. Un insieme
indistinto di occhi che ti fissano, in silenzio, in attesa del tuo
discorso: sembra quasi un film dell’orrore! Obama ha tenuto il
suo discorso di insediamento di fronte a circa 320.000 persone,

126
per non parlare dei milioni di telespettatori; ma lo ha fatto con
tranquillità sfruttando un segreto da vecchio oratore: ha parlato
ad una persona alla volta.
Sfrutta umiltà Iniziare un discorso ammettendo la propria paura
di parlare in pubblico o il proprio nervosismo è allo stesso
tempo un modo per esorcizzare tale paura e per accattivarsi le
simpatie del pubblico.
Evita il perfezionismo. Ricercare la perfezione in un discorso,
come nella vita, è una delle maggiori fonti di stress ed ansia.
Non sottovalutare la fase di preparazione del tuo intervento, ma
una volta sceso nell’arena impara ad affrontare gli imprevisti
con disinvoltura: non pretendere di essere perfetto, cerca di
essere il migliore.
Non avere fretta. Se hai avuto l’occasione di assistere al
discorso di un oratore impreparato, avrai avuto certamente la
sensazione che quel palco scottasse. La paura di parlare in
pubblico ci porta a parlare velocemente e a non concludere il
nostro discorso in modo esaustivo, pur di terminare il più
velocemente possibile questa tortura. Ma superare la paura di
parlare in pubblico richiede un comportamento diametralmente
opposto: impara a parlare lentamente, inserendo pause nel tuo
discorso. Affronta ogni punto chiave del tuo intervento in modo
esaustivo, chiarendo tutti i passaggi logici. Evita quei finali
brutali, generalmente accompagnati da frasi del tipo: “io avrei
finito”, “tutto qua”, etc; il pubblico vuole essere accompagnato:
chiarisci fin dall’inizio la scaletta del tuo intervento e
riproponila più volte durante il tuo discorso come fosse una
mappa. Insomma, dai un ritmo al tuo discorso e crea enfasi
intorno al finale.

127
IL DOPPIAGGIO

Una breve digressione sul doppiaggio, sia per l’attinenza di


questa professione con l’attività della lettura ad alta voce – in
Italia solo i doppiatori sanno parlare italiano – sia per il mio
amore per il doppiaggio, che è alla base della motivazione per la
quale mi occupo di lettura ad alta voce. Come tutti sanno il
doppiaggio è essenzialmente un trucco, un inganno utile che,
sostituendo la voce dell’attore originale con la voce di una
doppiatore italiano, permette a milioni di persone di godere della
visione di un film senza ricorrere ai sottotitoli. Questo trucco è
diventata una vera professione a partire dal ventennio dove, a
causa del regime dove ogni parola non italiana veniva ostacolata
(Luis Armstrong era diventato Luigi Braccioforte). Quindi il
doppiaggio, con l’invasione dei film americani e l’impossibilità
di arrivare a tutti con i sottotitoli, data anche la grande
maggioranza di analfabeti, si è notevolmente sviluppato
migliorando anche nella qualità, tanto che oggi i doppiatori
italiani sono considerati i migliori al mondo. Personalmente,
quando mi trovo a vedere un film con grandi attori, cerco di
vederlo in originale; è tutta un’altra cosa. Se seguo un dialogo
tra Matt Damon e Michael Douglas (Dietro i candelabri) oppure
un monologo di Al Pacino (Profumo di donna) preferisco
ascoltare le loro voci originali, magari con i sottotitoli in italiano
o in inglese, anche se, per esempio nel caso di Al Pacino,
l’interpretazione di Giancarlo Giannini non si può configurare
come un semplice doppiaggio ma come una sua propria
interpretazione, anche se solo vocale. Ho avuto la fortuna di
partecipare nell’85 ad uno straordinario anno di corso sul
doppiaggio finanziato dalla regione Lazio che prevedeva lezioni
giornaliere di recitazione in aula (la mattina) e doppiaggio in
sala (il pomeriggio) tenute dai maestri dell’epoca, Giuseppe
Rinaldi (il più grande, inarrivabile!), la famiglia Izzo, Tonino
Accolla, Pino Colizzi, Emanuela Andrei, Sergio Fiorentini e
molti altri le cui voci amiamo ancora oggi. Finito il corso ho

128
cominciato con i miei compagni a frequentare le sale per fare i
provini ma ho dovuto subito interrompere avendo ricevuto una
buona offerta di lavoro nel settore attinente i miei studi che non
potevo rifiutare, visto che era appena nata la mia prima figlia.
Così, a malincuore, ho dovuto cedere alla realtà (comunque ci
tengo a dire che ho sempre amato il mio lavoro); nonostante ciò
ho sempre continuato a praticare le mie passioni con
registrazioni per i non vedenti, teatro amatoriale e cose simili.
Fino a quando, in pensione, ho creduto di poter riprendere la mia
passione facendo alcuni costosissimi corsi che, ancorché mi
abbiano insegnato qualcosa, non sono stati sufficienti a farmi
entrare in questo mondo. Ho frequentato molte sale dove sono
stato sempre trattato con gentilezza ma, ad un certo punto, non
vedendo risultati pratici, ho detto Stop, decidendo quindi di non
alimentare più questa mia illusione. Quindi sembrerebbe una
sconfitta; invece è proprio da qui che parte l’attività di lettura ad
alta voce con cinque anni di corsi come tutor, letture in
biblioteca, presenza su youtube con alcuni tutorial, il Blog, il
manuale di lettura ad alta voce e public speaking, e, soprattutto,
l’incontro con tantissimi appassionati con i quali mi vedo in
biblioteca per leggere la poesia e la prosa di grandi autori di
tutto il mondo. Da un default quindi, nasce una cosa molto più
bella, che non ha limiti e che ci può portare non si sa dove;
personalmente credo che la lettura ad alta voce debba essere
materia scolastica ma, purtroppo, nessuno insegna a leggere ad
alta voce. Ma noi ce la metteremo tutta per trovare nuovi
appassionati che vogliano accogliere questa bella attività nella
loro vita di tutti i giorni.
L’ultimo corso che ho realizzato mi è stato richiesto da un
Tribunale (ne sto facendo un secondo data la richiesta), per
migliorare l’eloquio e il public speaking delle persone che usano
professionalmente la voce. Infatti spesso si sentono voci deboli,
senza espressione, poca capacità di convincimento, dizione
approssimativa, forme dialettali non opportune e molto altro. Un
avvocato deve riuscire in pochi minuti a descrivere

129
efficacemente una causa al giudice; deve poi rivolgersi ai giurati
correttamente con il contenuto del suo eloquio ma anche con la
forma espressiva e, possibilmente, con una dizione corretta.
In questo corso ho inserito proprio elementi di doppiaggio; i
bravi doppiatori sono gli unici a parlare italiano in questo paese.
Fermatevi ad ascoltare giornalisti, conduttori, politici; insomma
guardate la televisione e vi accorgerete che la dizione è un
optional, non viene assolutamente curata. I giornalisti del nord
parlano con tutte le ‘e’ le ‘o’ sbagliate come del resto quelli del
sud e non fanno niente per correggersi, ritenendo di parlare un
buon italiano. Altri urlano durante i servizi e alzano
continuamente il tono (nota musicale) fino a raggiungere picchi
inascoltabili per poi dimenticare di sostenete le finali delle
parole. Allora se dico che solo i doppiatori parlano italiano non
dico una cosa sbagliata; è difficile sentire il romanesco in un
cow boy oppure il meneghino in una commedia di Shakespeare.
Ci sono molti film in proposito; ve ne propongo due.
Andate su youtube e cercate divorzio all’italiana di Pietro Germi
(scena del processo) dove l’avvocato difende Mariannina
Terranova, accusata di aver ucciso il marito per gelosia.
Abbassate il volume e provate a sincronizzare la vostra voce sui
movimenti della bocca dell’avvocato badando bene a copiare le
espressioni anzi, se ci riuscite, ad imitare la voce che ascoltate
con le sue espressioni roboanti di retorica e solennità. Ricordate
ch imitare le voci ascoltate è un buon esercizio per la voce;
fatelo con i vostri figli imitando i personaggi dei cartoni,
Braccobaldo, orso Yoghi e anche i più moderni.

130
DIVORZIO ALL’ITALIANA (Arringa)

GIUDICE: Mariannina Terranova, come vi procuraste l’arma


del delitto?
MARIANNINA: Me la diede lui.
GIUDICE: Lui chi?
MARIANNINA: Lui, mi disse “se un giorni ti tradissi, uccidimi
con questa!”
AVVOCATO: E dopo?
GIUDICE: E dopo?
MARIANNINA: Dopo… mi disonorò!
DONNA DEL PUBBLICO (BRUSIO): Bene facisti Mariannina,
bene facisti!
GIUDICE: Mandate fuori quella donna!
DONNA DEL PUBBLICO (BRUSIO): Bene facisti! Bene…
AVVOCATO: Signori della corte. Bocca baciata non perde
ventura. Ma io vi dico, parafrasando un testo ben più alto e ben
più sacro: “Chi guarda una donna con desiderio ha già
commesso peccato nel cuor suo”. Perciò, mentre il treno
trasportava Mariannina verso la sua tragica meta; mentre la
trasportava inarrestabile, come inarrestabile era il fato che la
spingeva, lei, piccola e povera creatura del Sud, avvolta
nell’antico scialle scuro, simbolo del pudore delle nostre donne,
le mani congiunte a torturarsi il grembo, quel grembo da Dio
condannato – sacra condanna – ai beati tormenti della maternità,
mentre il treno correva, così, come un incubo incessante, dové
risonare il ritmico fragore delle ruote e degli stantuffi, alle
orecchie deliranti della povera Mariannina Terranova,
disonorata disonorata disonorata disonorata disonorata
disonorata disonorata.
Ma l’onore signori miei., che cos’è l’onore? Terremo ancora
per valida la definizione che di esso dà il Tommaseo nel suo
monumentale dizionario della lingua italiana, quando lo
definisce come ‘il complesso degli attributi morali e civici che
rendono un uomo rispettabile e rispettato nell’ambito della

131
società in cui vive’ o lo butteremo noi tra il ciarpame delle cose
vecchie e inutili, sorpassate. Lettere, lettere vergate da anonime
ma simboliche mani, lettere illeggibili, che offenderebbero la
dignità di quest’aula, tacitiale, tra l’altre come questa, in una
sola parola compendia la sorte della infelice Mariannina,
Cornuta, o come questa, che addirittura affida alla icasticità
dell’immagine, l’espressione del pensiero!

Un altro film: “Scent of a woman” nella scena in cui Al Pacino


difende il suo attendente davanti ai giudici e agli studenti di un
prestigioso college americano. Memorabile interpretazione
dell’attore e grande doppiaggio di Giancarlo Giannini. Cercate
la scena su youtube e andate al punto 3,14.
Qui provate a fare lo stesso esercizio direttamente ascoltando la
voce di Al Pacino; c’è molto da imparare.

Discorso Al Pacino Scent of a woman

Entrando qua dentro, ho sentito queste parole: “La culla della


leadership”.
Beh, quando il supporto si rompe, cade a pezzi la culla; e qua è
già caduta. E’già caduta!
Fabbricanti di uomini, creatori di leader, state attenti al genere di
leader che producete qua.
Io non so se il silenzio di Charly in questa sede sia giusto o
sbagliato; non sono giudice né giurato, ma vi dico una cosa:
quest’uomo non venderà mai nessuno per comprarsi un futuro.
E questa, amici miei si chiama onestà, si chiama coraggio e cioè
quelle cose di cui un leader dovrebbe essere fatto. Io mi sono
trovato spesso ad un bivio nella mia vita. Io ho sempre saputo
qual era la direzione giusta, senza incertezze sapevo qual era;
ma non l’ho mai presa, mai, e sapete perché? Era troppo dura
imboccarla!

132
Questo succede a Charly, è giunto ad un bivio ed ha scelto una
strada, ed è quella giusta; è una strada fatta di principi, che
formano il carattere.
Lasciatelo continuare nel suo viaggio.
Voi adesso avete il futuro di questo ragazzo nelle vostre mani, è
un futuro prezioso, potete credermi; non lo distruggete,
proteggetelo, abbracciatelo, è una cosa di cui un giorno andrete
fieri, molto fieri!
Harry ti presento Sally

(provate in due e, se avete il film, tanto meglio)

Harry Ci ho pensato tanto, / e il risultato è che ti amo.


Sally Cosa?
Harry Ti amo.
Sally E cosa pensi che ti risponda adesso?
Harry Per esempio “Anch’io ti amo”.
Sally Preferisco “Me ne vado!”
Harry (COP.) Allora (IC) non significa niente per te?
Sally Mi dispiace Harry, lo so che questa è la notte di
capodanno, lo so che ti senti solo, ma tu non
puoi arrivare qui, dirmi che mi ami e aspettarti
che questo risolva tutto. Le cose non funzionano
in questo modo!
Harry Beh, e come funzionano?
Sally (DS) Non lo so! (IC) Ma non in questo modo.
Harry (DS) Allora proviamo così. (IC) Ti amo quando
hai freddo e fuori ci sono trenta gradi, ti amo ci
metti quando un’ora a ordinare un sandwich,
amo la ruga che ti viene qui (DS) quando mi
guardi come se fossi pazzo. / Mi piace (IC) che
dopo una giornata passata con te sento ancora il
tuo profumo sui miei golf e sono felice che tu sia
l’ultima persona con cui chiacchiero prima di

133
addormentarmi, la sera. / (DS) E non perché mi
sento solo, / e non perché è la notte di
capodanno, (IC) sono venuto stasera perché
quando ti accorgi che vuoi passare il resto della
vita con qualcuno, vuoi che il resto della vita
cominci il più presto possibile.
Sally Ecco, / (FIATO) tanto sei il solito imbroglione,
dici cose de genere e mi spieghi poi come faccio
ad odiarti io? / (DS) E invece ti odio. (PIANGE)
Ti odio, sul serio. / Ti odio. (BACIO) / (FIATO)
Harry Mi dici che significa?
Sally (DS) Cosa?
Harry E’ una vita che mi arrovello su questa canzone.
(DS) Cioè, il ritornello. Significa che dobbiamo
dimenticare i vecchi amici o (IC) che se li
abbiamo dimenticati li dovremmo ricordare? Il
che è impossibile se li abbiamo già dimenticati.
Sally (ACC) (FIATO) / Beh, forse significa che
dovremmo ricordare che li abbiamo dimenticati.
(RIDE) Comunque parla di vecchi
amici. (FIATO)
Harry (FC) La prima volta che ci siamo incontrati ci
siamo odiati.
Sally (FC) Tu non mi odiavi, io odiavo te! (RIDE) E
la seconda volta… non ti ricordavi neanche di
me.
Harry (FC) Altroché se me ne ricordavo! / La terza
volta, invece, siamo diventati amici.
Sally (FC) Siamo stati amici per molto tempo.

(COP.) = COPERTO
(IC) = IN CAMPO
(DS) = DI SPALLE
(ACC) = ACCAVALLATO
(FC) = FUORI CAMPO

134
LETTURE

Vocale “E”

Un arciere cieco che aveva fatto carriera si pestò il piede con il


manico della bandiera. Eravamo a Trieste, c’era un gran vento e
l’arciere indossava una maglietta molto leggera, portava un fez
da vero gentleman, aveva un cane setter ed era fidanzato con
una soubrette molto sexy, che abitava in un hotel di gran lusso.
“Amerei vederti più spesso” le disse un giorno il nostro arciere
che si chiamava Romeo. “Volerei sempre da te e berrei con te un
bicchiere di alchermes se solo potessi” gli rispose la vedette, ma
il palcoscenico mi chiama e devo stare lontana da te. Prometto
che ti telefono appena posso”. La soubrette partì e scrisse al suo
arciere una lunga lettera: “Romeo carissimo ti aspetto, presto
affronteremo insieme l’intrepida avventura. Sulla mia finestra
c’è una scia di salsedine e io sono in piedi. Dio, come ti vorrei
vedere! A proposito, ieri ho dimenticato l’ombrello nell’ostello
dove c’era quella brutta zitella che assomiglia a tua sorella
Luisella. Ti attendo con impazienza. Dalla finestra vedo in
questo momento un ventenne e un cinquantenne a braccetto: uno
sembra cileno, l’altro deve essere madrileno. Sai che ieri hanno
trovato una balena attaccata alla carena di una nave? A me
pareva fosse attaccata alla catena dell’ancora. In questa stanza ci
sto bene, è molto accogliente ed io sono contenta: l’unico
inconveniente è che senza di te non mi diverto: se ci fossero
almeno Roberto e Lamberto… ma uno è partito per Firenze,
l’altro per Cosenza… non ho neanche un servo che serva in
modo decente. È un’indecenza. L’arredo poi in questa stanza è
orrendo. Detesto l’inverno e sento che sta già arrivando, ma
verrà presto la primavera e torneranno le capinere.
Passata la bufera dell’inverno spero, nel momento del disgelo, di
andare spesso in discoteca con te, devo smuovere la tua flemma!
Acciderba! Mi dimenticavo dell’arciprete. Mi ha detto di
rompere il riserbo consueto: debbo tornare al vecchio

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passatempo di andare in centro a fare compere e di prendere
sempre in braccio i bambini che incontro. Comunque non voglio
che tu debba sentirti un merlo. Tua per sempre”.
Leda.
Mauro l’extraterrestre
(suffissi “esimo” “ello” “estre”)

Era il penultimo giro – l’undicesimo – e poi la corsa campestre,


col suo dodicesimo giro, si sarebbe conclusa. Mauro
l’extraterrestre, così lo chiamavano per via della sua forza e
della sua tenacia era, come prevedibile, saldamente in testa.
Aveva dato la sua vita per la corsa campestre, Mauro
l’extraterrestre, sacrificando le sue giornate e i suoi sogni: ad
ogni pasto niente dolci ma solo carne di agnello e minestra; in
ogni giornata, nove-dieci ore di chiusa massacrante in palestra.
Non era stanco, Mauro (avrebbe corso anche un tredicesimo,
forse un quattordicesimo giro) ed era pronto a salire l’ultima
altura rupestre, superare il ruscello, il suo ponticello di legno e
dopo, consegnarsi vincente al traguardo. Durante la corsa
campestre, le nuvole dense e asserragliate nel cielo, sembravano
voler coprire l’intera volta terrestre. Molti spettatori avevano
portato con sé ombrelli e mantelli ma ora, grazie a un venticello
leggero e penetrante – un po’ alpestre – cominciavano ad
affacciarsi nell’aria i primi raggi di sole, qualche chiazza
d’azzurro, i riflessi dorati del verde delle valli.
Mauro accelerò la sua corsa. Strinse i denti, fece leva sui
muscoli delle gambe e dei fianchi e non si accorse che un
uccello – per l’esattezza un fringuello – gli stava roteando,
allegramente, attorno. Mauro fece per scacciarlo, il fringuello
improvvisò una deliziosa piroetta e il tenace corridore
campestre, per un attimo, brevissimo e bello, gli sorrise.
L’uccello sopravanzò e lo guardò come chiedesse “che fai
fratello, giocherelli con me?”
Mauro tentennò (era il suo ultimo, dodicesimo giro) ma poi vide
il giallo sfolgorante di una ginestra e decise – tanto era

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comunque in vantaggio – di fermarsi per un momento. I fiori
della ginestra sembravano gioielli incastonati sui ramoscelli; dal
fiumicello sul ponticello si respirava il profumo del muschio e
della rugiada e qualche contadino stava servendo sulla tavola,
accompagnato da un leggero vinello, mozzarella, rucola
campestre. Il fringuello beccò la mozzarella e Mauro, dimentico
della corsa, assaggiò il delicato vinello. Poi, dimentico di tutto,
mangiò la mozzarella.
Gli altri corridori proseguirono la corsa e conclusero, fiacchi e
sudati, il loro dodicesimo giro. Qualcuno – nessuno ricorda chi –
vinse la corsa campestre ma tutti, giacché la notizia corse più
veloce del venticello, raggiunsero Mauro. E lì, tra fringuelli e
ginestre, mozzarelle e sentieri rupestri, cantarono le lodi di
Mauro, campione indiscusso ma non più soggetto rigido ed
extraterrestre.

L’aglio
(gruppo “gl”)

A mia moglie piaceva l’aglio e ogni sera, con una foglia di


miglio che coglieva su uno scoglio dietro casa, lo mangiava.
Avreste dovuto chiederglielo: in quegli attimi era raggiante,
sembrava un foglio di cielo, una paglia dorata.
Non era una bella figliola: tartagliava, senza ciglia, aveva
caviglie grosse e poco vogliose, piene di smagliature, e poi, non
ci crederete, ragliava. D’estate, da luglio a settembre, spigliata e
sorridente, ragliava. Io sbadigliavo: invece di vegliarla avrei
dovuto spogliarla e tagliarla, darla in pasto a cani e conigli,
come una sogliola, e io a ridere, a far vento col ventaglio, a mia
moglie e al suo aglio.
Negli anni successivi, cogli ultimi sbadigli, alle soglie della
morte, al ciglio estremo, mi limitavo a sorvegliarla e a fare,
all’occorrenza, parapiglia. Ora che sono spirato, niente di meglio
che al danno aggiungere il resto: mi ha seppellito, mi ha sepolto

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e sono finito qui, nel cimitero più spogliato e ventilato: in un
campo squallido e deserto, coltivato ad aglio.

Le ciocche ricce

“Cerco un acconciatore che mi faccia le ciocche ricce: ho un


ciuccio reuccio che mi riceverà a braccia aperte, la mia criniera è
tutta eccitata e abbacinata: che qualcuno si spicci!”
A recitare questa minaccia era una ciuccia capricciosa e
incamiciata nel centro del salone dell’acconciatore Ciccio;
clienti di successo, principesse accigliate e corrucciate
guardavano, accidiose, la ciuccia. Arrivò l’acconciatore Ciccio,
cianotico, e, velocemente, cercò un accidente gli togliesse
l’impaccio dell’impiccio della ciuccia e le spiaccicò la sua
risposta: “Ho un codice preciso: non faccio ciocche a ciucci e
poi che capriccio, ricce!”. Alla ciuccia luccicavano gli occhi, era
un po’ accecata dal rifiuto ma dolcissima, con voce scivolosa e
languida gli disse: “Sa, io son ciuccia; se lei dice che la ciocca
riccia è disdicevole, non importa, mi faccia una treccia o faccia
pure lei: io accetterò ciò che lei sceglierà per me!”.
L’acconciatore Ciccio, nella celeste cornice del suo ufficio, era
una goccia di sudore e pensava, cinico, al suo fucile da caccia, al
machete e a sciogliere un cinghiale che aveva conservato, nella
cella, per le cene di dicembre, mentre le donne d’alto ceto e
certo ceppo, clienti dell’acconciatore, ritirarono l’anticipo della
mancia e uscirono alla ricerca, in città, di acconciatori più lucidi
e tenaci.
La ciuccia, nella circostanza, piangeva e tremava, dai polpacci
alla capoccia e fu così che, senza cerebralismi, gli disse: “Ciò
che ti brucia Ciccio, il cruccio certo è che, semplicemente, non
sei capace a far ciocche ricce. E poi, c’è dell’altro: sei geloso del
reuccio!”.
Punto sul vivo, l’acconciatore cercò comunque acido e shampoo
e preciso, alzando le ciocche, cominciò a fargliele ricce; e fu

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così che, per un istante, per la prima volta, vide con gioia il
luccichio dei suoi occhi riflesso negli occhi della ciuccia. La
ciuccia, era vero, gli piaceva. Anche la ciuccia non pensava più
al reuccio, ma cominciava a far breccia nel suo cuore
l’acconciatore Ciccio: le piaceva quel suo cipiglio sincero e
pensava a piacevoli giacigli, a oceani di ciucci, Cicci e cicche.
Poi, la ciuccia fu riccia, fece un inchino, bocciò il suo
comportamento precedente, in parte ammise il capriccio e diede
un bacio vorace, felice, al dolcissimo acconciatore Ciccio.

Lettura (UO)

Un cuoco ruppe un uovo in un paiolo, sennonché parte del


tuorlo cadde a terra sulla stuoia. Arrivò in quel momento un
uomo con un pullover verdognolo e chiese della vodka; non
possedendola, il cuoco andò all’emporio per acquistarne una
bottiglia dal vetro azzurrognolo e ritornò allo zoo comunale. Era
talmente accaldato che si fece una doccia gelata e si lavò ben
bene gli occhi, ginocchia, nocche e bocca, poi prese una
bagnarola e uscì al sole per buttare dell’acqua su di una zolla
arida sotto l’albero di more. Dovendo per cena preparare
l’arrosto, prese dell’alloro fresco e, per legarlo, una corda che si
trovava nel cruscotto della macchina; tornò al suo alloggio e nel
rientrare incontrò la sua sposa che, con un tono di acrimonia, gli
disse: “Porco boia, come osi tornare così tardi! Nonno Leopoldo
vuole mangiare tonno e tu insisti per l’arrosto! Prepara piuttosto
due cosce di pollo e muoviti, che quel gaglioffo di Alfonso s’è
portato via la scrofa!”
A quelle parole il povero cuoco ammutolì: non era mai stato
sgridato da sua moglie in modo così astioso. Si disse umiliato:
“Io che sgobbo dalla mattina alla sera devo subire questo
scorno? Questa poco di buono goffa e per di più storpia osa
trattarmi da manigoldo! Se solo potessi vincere al totocalcio
chiederei il divorzio!”

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Il giorno dopo, con lo schioppo riuscì ad uccidere un topo
grosso e nero, lo cucinò al girarrosto, lo ornò con un fiocco
rosso e con moine affettuose lo propinò all’ingorda moglie che
lo gustò a tal punto che volle conoscerne la ricetta.
Quando il cuoco le disse che aveva mangiato un topo, cadde di
colpo come una ricotta, poi, presa dalle doglie, partorì il figlio
che aspettavano da nove mesi.

Lettura

Giulietta parteciperebbe volentieri al gioco dell’oca se avesse


dieci bandiere di sette biechi Romeo e sedici oliere del
premuroso Piero, e tutti insieme accenderebbero Siena con una
rosa rosa, rosa da una maglietta giunta incredibilmente nona al
concorso di bellezza per vassoi di oro grezzo. Fu aperta
un’inchiesta immediatamente, e in un pozzo modello: “facessi il
buono tante volte, ti darei tre belle pesche”, fu proiettata una
pellicola della serie: “vieni quando vuoi perché tanto non mi
trovi”, candidato con enormi possibilità di successo al premio
Nobel per la gentilezza e ospitalità; avrebbe dovuto guardarsi
soltanto dal pesce Daniele, suo dodicesimo rivale, che era in
gara con lo sconvolgente clip: “datemi una rozza zanna di
zucchero e vi trasformo mio zio in otto bietole di zolfo”. La
spuntarono, con sommo gaudio dei pasticcieri, i piacevoli venti
di brezza del pozzo.

Lettura

Se avesse senso ogni tua sfrontatezza disarticolante, mi potrebbe


far comodo anche la tua sfuggevole illustrazione dei nostri
numerosi facessimo, affinché essi potessero illimitatamente
illeggiadrire la cresta dei loro gradirei stretti da circostanze
irrisorie, quasi fosse inarrestabile la seconda mongolfiera dei
nostri ardimentosi emolumenti, e vorrei proprio sapere chi ha

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potuto mai insinuare che da solo sarei in grado di ingoiare dieci
zanne di cammello e sei foglie di avvoltoio con la polvere di
Alfonso. Lo studierei, lo smarrirei, se facesse nove salti in tre
specchi apparirei, ma se fosse un gioco agevole gli direi:
“ricomporre questa somma? Lo facesse anche di giorno,
troverebbe buone idee, consapevoli e azzardate, ma giammai
raffazzonate. Ricomponga ogni sua essenza, catechizzi la sua
pesca e vada a pesca con le zolle, perché è questo che vorrebbe,
se mordesse, se potesse, se attendesse e se spingesse tutto il
pesce dal suo cesto che mi pare fosse in forse”.

Lettura (consonante “Z”)

Lazzaro era un ragazzo rozzo e lazzarone con una zazzera nera


che gli copriva le spalle: era un vero zuzzurellone. Viveva in
casa di una zia zitella che lo chiamava Belzebù. La loro bicocca
si trovava tra la stazione, la chiesa e una casa di riposo per
anziani; l’unica stanza era sempre esposta all’erosione dello
zefiro che si infilava per tutti i pertugi sibilando. Lazzaro si
occupava della manutenzione della carrozza ormai bisunta e
dell’anziano ronzino. La zia si sforzava di dirozzare lo zotico
nipote ma erano sforzi vani. Era il terzo di tre fratelli e il
dodicesimo nipote del defunto zio Nazareno.
Le mansioni che la zia Zaira preferiva erano: andare in chiesa,
ballare la mazurca, fare la zuppa con zanne d’elefante, sbattere il
burro nella zangola e bere zabaione. Non era una brava cuoca,
infatti nella zuppa, oltre alle zanne in polvere, metteva una tazza
di zucchero, una dozzina di zucche e una manciata di una rara
specie di zagare: diceva a tutti che era una ricetta dello Zar
Nicola dal quale era stata a servizio in gioventù. Lazzaro era
solito poltrire a letto, ma quando gli arrivava alla nari una
zaffata di lezzo che uscendo dalla pentola filtrava anche
attraverso la zanzariera, si infilava zitto zitto i pantaloni alla
zuava, prendeva la lenza e andava a pescare nell’azzurro
laghetto detto dello Zodiaco. Stendeva un fazzoletto color

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zaffiro su di una zolla secca e con la speranza di pescare
qualcosa, mangiava zucchine crude, si toglieva gli zoccoli e si
metteva a zufolare o si accendeva una sigaretta con uno
zolfanello.
Quando rincasava passando vicino al lazzaretto e alla fontana
che zampillava allegramente, con zelo e prudenza perché lì
depresso c’era sempre accampata una tribù di zingari, spesso
incontrava l’amico Costanzo che giocava d’azzardo tutte le sere;
era zoppo e si doveva consolare in qualche modo! Regolarmente
la tozza figura della zia lo agguantava trascinandolo in chiesa:
cercava di fare avvicinare Lazzaro al cristianesimo e a lui non
restava che abbozzare.

I carabinieri e i rei

Il pieno di benzina era finito: tra sei, sette minuti, l’aereo che
volteggiava nel cielo sarebbe piombato al suolo e, con loro, i
dodici poco eteri occupanti: sei giovani carabinieri e sei
pericolosi delinquenti, rei del furto di milioni di ghiaccioli,
nuovi, buoni e al gusto di ciliegia.
Il maggiore dei carabinieri chiese: “Chi ha l’idea adatta a salvare
la pellaccia, e quindi il paese e la nazione? Rei dico pure a voi e
dei vostri reati mi scorderò!”
Da sotto, l’assemblea dei cittadini guardava il dispiegarsi
dell’aereo, un odioso suicidio, una saetta senza meta. I religiosi
avevano cominciato la questua: alcuni sospettavano fosse per il
risarcimento dei ghiaccioli, altri per i figlioli dei sei rei; i più
lungimiranti teorizzavano già “la fiera del carabiniere, tenero
ricordo” questa era la chiosa “per gli amici di ieri”, mentre solo
in pochi si animavano in chiesa per gli eroici carabinieri che, in
quei minuti, saettavano nel cielo.
Su, nel cielo, nell’aereo, nel momento di massima tensione, il
più anziano dei rei parlò: “Io avrei una soluzione: dietro la mia
abitazione c’è un mucchio sterminato di fieno, dove io e i miei
compagni giochiamo, dopo qualche bicchiere di quello buono,

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giochiamo a saltare e a cantare. Vi chiederei di buttarci: non ci
faremo niente”.
“È un’idea!”, dissero i rei, “e per niente idiota”, aggiunse il
bieco brigadiere, il quale, subito dopo, chiese al pilota di
eseguire la missione. Caddero così, uno dietro l’altro sul fieno,
tra la gioia e gli applausi della sottostante assemblea. La suocera
di uno dei due rei preparò una torta all’uovo, miele e pan di
spagna e spiegava, tagliandola in sessantasei porzioni: “di più
non potrei: sapete, mio genero, col mestiere che fa… “
Le donne si lanciarono sul fieno coi loro uomini, i bambini
all’arrembaggio de ghiaccioli e il brigadiere, calcolando i reati
consumati, arrestò l’aereo. Il pieno di benzina, celatosi nel cielo,
si rese subito latitante e straniero. Per togliersi ogni pensiero.

Lo zingaro
(La “Z” aspra)

Era lo zimbello del paese: ogni sera, in piazza, con la zampogna,


suonava l’avemaria. Accanto alla fontana, lo zampillo
dell’acqua gli faceva da controcanto. Molti pensavano fosse uno
zingaro.
Non era bello, era un po’ zoppo, ma vantava una parentela
altolocata: sua zia, un’altera zitella, proprietaria di zolle
sterminate di terreno, era contessa. Di lei, a sera, senza una
parola, sempre zitto, rimediava un po’ di zuppa di fagioli, di
fave, zucche lesse e il gelato zuccherato. Non le voleva bene;
fosse stato per lui, l’avrebbe cosparsa di zolfo e avrebbe dato
fuoco. Ma per amore dei pasti (in special modo dello zampone,
la domenica), desisteva.
Per lavorare si arrangiava in campagna: zappava la terra, un
pezzo di podere pieno zeppo delle cose più varie. La notte
sognava una zattera; né zar o principesse, né zecche o zecchini,
ma solo un’isola sperduta, un cavallo con grandi gambe robuste
e zoccoli efficaci. Quattro zampe capaci di tutto, un elefante con
zanne lunghe e pericolose, capaci di difenderlo da ogni agguato.

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Poi alla fine, come sempre si svegliava. “La vita – diceva – è
una zampata funesta”. E nella piazza, accanto allo zampillo della
fontana, tornava a suonare lo zufolo.

Il premio superpanza
(lettera “Z” aspra e sonora)

Ce ne erano a bizzeffe. Forzati e richiamati dalla fragranza del


premio s’erano precipitati, nella piazza, tutti i più ambiziosi
possibili vincitori. Il super panza dell’anno avrebbe premiato,
era facile intuirlo, la spaparanzata. Si erano preparati per mesi,
con coerenza e costanza, sovrappesando ogni pranzo,
elasticizzando indumenti, garze e cinghie, per allargarsi a
dismisura, per obesizzarsi e crescere, per allargarsi e vincere il
super panza premio dell’anno. Banditi dai pasti blandizie, inezie
e fronzoli culinari, avevano, chi più chi meno, puntato sulla
quantità pesante: niente frullati, pane azzimo e insalate, in quelle
panze in concorrenza si intuivano chili di manzo, di pizze, di
pesci nuotanti, verdure galleggianti, traffici di pietanze, di pasti
a prezzi fissi e a prezzi pazzi.
La piazza frenetica rumoreggiava mentre i panzoni, vietato ogni
tipo di pasto aggiuntivo, nervosi, ozianti, mangiavano unghie e
pollici in attesa della valutazione che una terrorizzata,
disgraziata bilancia avrebbe sentenziato.
Il gioco dei volumi portava all’inganno: il concorrente altissimo
pareva avere immagazzinato meno panza, quello tappo il
contrario. A vincere, era precisato, sarebbe stata solo la
proporzione massima tra peso e circonferenza della panza.
Azalee e canzoni, pettegolezzi e danze amazzoniche facevano da
strabuzzante corollario all’organizzazione generale: il pubblico,
i giurati, la tifoseria e gli scettici, da lontano, esterni alla piazza,
aspettavano l’inizio del riscontro. La bilancia disgraziata fu
ulteriormente rafforzata mentre un giudice azzimato e
scapestrato rinnovò l’obbligo all’assenza di pietanze nei calzoni
dei panzoni: solo una pompa d’acqua per allontanare eventuali

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sudori e odori era concessa, fissata frizzante con rozzezza al
centro della piazza. Nel frattempo, la puzza di panze sudate
miste a sanza cancellava la brezza della piazza, aumentava a
oltranza e pazzi furiosi i panzoni sbevazzavano senza ritegno né
decenza. La fame, sinistra e spettrale, dopo un po’ si profilò
perfida ai panzoni: stanchi dell’attesa del giudice azzimato
sbranarono feroci, striscioni, addobbi e le timide azalee zeppe di
fragranza e di innocenza. La piazza, miracolosamente, sembrava
rinsecchirsi e rimpicciolirsi mentre loro, smaniosi e affranti,
sembravano allargarsi. La piazza rivelava l’oggettiva
insufficienza mentre le circonferenze allargate, incastrate e
sgominanti, a ridosso di muri e pareti, rivendicavano spazio a
oltranza. Dall’alto dei palazzi uno spettacolo avvilente: obesi e
ciccioni, stomaci giganteschi e molli non riuscivano, paralizzati,
a muoversi e a ordinarsi mentre il giudice azzimato scompariva,
azzannato senza grazia dalla ferocia delle panze.
Era successo l’irreparabile e a furia di bere s’erano rozzamente
gonfiati. Paonazzi pur di piazzarsi nei posti primari, avevano
bevuto e sbranato all’impazzata; la gonza super panza fu
azzerata e annullata: il paese tutto fu evacuato, la piazza
dell’azzardato premio fu regalata, cinica, nella voluta
dimenticanza e da allora, in ogni zona della terra, ogni panzone
porta con sé, con penitenza, il segreto della piazza spiazzata
dalle circonferenze allargate, strozzate e incastrate dalla
gaudente incontinenza.

ESERCIZI CON “R”

Sulle rive del fiume si abbevereranno mandrie di animali,


immergeranno il muso alterandosi con altri predatori che
cercheranno di mangiarseli in una dura lotta per la
sopravvivenza.
La sera la marea coprirà le terre riarse creando un temporaneo
confortevole rifugio per le piccole prede. Gli alberi sulla riva
attireranno stormi di aironi pronti a nidificare mentre varani e

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coccodrilli daranno prova di grande strategia cercando di
catturare tutti coloro che proveranno ad avvicinarsi.
Numerosi granchi proveranno ad aprire le ostriche per
mangiarsele ma dovranno arrendersi a lasciarle andare perché
troppo dure.
Tartarughe di mare osserveranno l’acqua decrescere in un arco
di tempo incredibilmente breve e quando si ritirerà cercheranno
temporaneo rifugio nelle nere grotte di roccia calcarea. Vibranti
girini e rane in grande fermento tenteranno di spostarsi e
fuggire, ma è arduo credere che sopravviveranno al loro destino.
Nel regno degli animali le madri partoriscono ad intervalli
regolari i loro cuccioli e vanno a caccia per nutrirli, per questo
percorreranno numerosi chilometri sull’arido territorio e saranno
pronte a spostarsi ad ogni strano rumore per difendere la prole
dai predatori che vorrebbero divorarli.
Era la prima volta che si recava al mare, le previsioni della radio
parlavano di perturbazioni e addensamenti cumuliformi nel
corso della giornata con probabile rasserenamento in serata.
L’arenile romagnolo era gremito di vacanzieri che avevano
prenotato ad aprile per avere un ombrellone e una sdraio al
prezzo concordato.
Senza proferire parola si diresse verso il bagnino Alberto, forte
come un toro, merito della sora Rosa.
“Potrei avere una sdraio?” disse cercando di catturare la loro
attenzione.
I due ridevano felici della loro ilarità, quando si girarono
strabuzzarono gli occhi come per una revolverata e
mormorarono a fior di labbra: “Sire, siamo onorati di averla tra
noi”.
“Ma io non sono il re e poi non c’è più la monarchia!”. Con aria
spettrale Alberto e Rosa presero un bicchiere con il rosolio e
glielo offrirono per brindare e scacciare le loro traversie, poi lo
costrinsero a sedere e iniziarono a sciorinare una serie di
disgrazie e problemi irrisolti pregandolo di risolverli per piacere,

146
ché loro non erano forti da opporsi all’avversario malaugurato,
infernale destino.
Chiacchierarono per circa quattro ore, il mare ormai era un
miraggio, quando lo lasciarono ripartire era frastornato, ubriaco
e con un colorito sepolcrale.
I raggi del sole al tramonto si irradiavano sull’arenile e nei
giardini irrorati una sorta di rugiada copriva le erbette e i
fiorellini colorati. L’aria era frizzantina e uno zefiro leggero
altrettanto fresco si artigliava agli alberi stordendoli di piacere.
Poteva sembrare marzo o settembre e nell’azzurro del cielo si
alternavano gruppi di passerotti canterini. Un’atmosfera perfetta
per creare una straordinaria particolare romantica storia
d’amore.
Margherita e Ranuncolo roridi di rugiada si guardarono
trasecolando per la sorpresa.
Erano entrambi veramente meravigliosi, lei era rosa con le
foglie verde smeraldo e lui rosso con le foglie verde marcio.
Insieme formavano uno straordinario contrasto cromatico.
Senza troppi preliminari Ranuncolo disse a Margherita che
moriva d’amore per lei e che era pronto a farla sua e proteggerla
come una reliquia.
Margherita non voleva riporre il suo cuore in una relazione
pericolosa e con un sospiro chiese di poter riflettere sulla
proposta. Ad un certo punto arrivò un giardiniere con l’ordine di
cogliere i fiori e, incredulo di fronte al meraviglioso colore di
Margherita, la strappò dal terreno, lei si fece raccogliere senza
uno strillo, reclinò la bella corona di petali e sorrise a Ranuncolo
che con un gesto disperato si recise lo stelo.
Un refolo di vento lo prelevò e lo disperse all’orizzonte.

ESERCIZIO CON “X”

“Arbatàx, Alcatràx, o Excalibur?”


La scelta era difficile, ma Alexis e Alex non ebbero esitazioni.

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“Excalibur!”. Il deus ex machina con la faccia eczematosa li
fece accomodare su una specie di Orient Express, azionò la leva
e i due si ritrovarono immersi in una dimensione extrasensoriale.
Un extracomunitario su una spiaggia suonava un fox-trot una
volta allo xilofono e una volta con il sax tenore, poco distante
una extraparlamentare vendeva ex voto ed ex libris e come extra
si potevano acquistare ex dono.
Una muta di fox terrier in un improvviso exploit si avventò
contro Alexis e Alex che si salvarono in extremis rifugiandosi
nella ex foresteria dell’albergo Excelsior.
Il cuore batteva così forte da provocare extrasistole. Dopo
questo excursus cominciarono a gridare: “Pax! Pax!”, ma il deus
ex machina era intento a compilare la schedina e ripeteva “1-X-
2”.
Distratto azionò la leva ex novo. I due stanno ancora alle giostre,
padiglione Excalibur.

ESERCIZI CON “C”

Concetta cuciva con pazienza certosina, cominciava la mattina


alle dieci e finiva alle sedici.
Cuciva soprattutto camicie da notte, camicette e camici da
lavoro.
Non si concedeva mai una distrazione, solo il circo quando
veniva nella sua città.
Circolavano cattive voci sul suo conto ma lei continuava con
costanza a cucire.
Andava a lavorare in bicicletta e si era fatta dei polpacci
spaventosi, sembrava un ciclista, anche il petto era procace,
centodieci, quando si misurava con il centimetro un po’ si
spaventava, ma certo non avrebbe mai cercato di dimagrire.
Era una bellezza casareccia con una testa piena di ricci.
Fra la sua clientela c’era un tipaccio che andava sempre a caccia
di cinghiali, con lei era appiccicaticcio e poco dolce. Le chiese
delle camicie col collo sedici e un motivo a treccia ricamato.

148
Concetta fece le dodici camicie e gliele consegnò.
Il tipaccio disse che non gli piacevano e che non le accettava.
“Cosa è successo”, disse Concetta “questo è un capriccio, che
accidenti le prende, si spicci a darmi i soldi!”. Il tipaccio
imbracciò il fucile e la minacciò, ma Concetta veloce come una
freccia gli diede un calcio così preciso che quello con voce fioca
disse: “Accidenti che polpacci!”.

ESERCIZI CON “STR”

La strada era resa sdrucciolevole dallo straordinario acquazzone


che aveva fatto straripare i fiumi provocando una strage di
storioni.
Coperto da un pastrano sdrucito, stretto e stropicciato, stranito
dal vento e stordito dalla strombazzata di una macchina, aveva
cominciato a starnutire e a stramaledire il tempo che lo avrebbe
costretto a costruire una struttura di riparo per gli struzzi che
strepitavano con grida strazianti, ma non se la sentiva di
strapazzarsi e pensò ad uno stratagemma per stravolgere le cose.
Aveva la faccia stralunata e strattonava il compagno che
trafelato e stracco cercava di stargli al passo e strillava che
sarebbe stramazzato visto che era anche strabico e strabuzzava
gli occhi per evitare lo strapiombo.
Distrutti arrivarono nella stamberga di un castracani che si
strafogava di minestra di stracciatella e beveva vino stravecchio.
Una donna brutta come una strega e con gli occhi bistrati come
la maitresse di un postribolo, cantava uno strambotto e
strimpellava una chitarra come se fosse uno Stradivari, lo stridio
li costrinse a tapparsi le orecchie, l’avrebbero voluta strangolare.
Si accomodarono su uno strapuntino e tolsero gli abiti
stracarichi di acqua, le scarpe lasciavano uno strato di fango sul
pavimento di lastroni di ardesia.
Il nostro protagonista si industriava per attirare l’attenzione del
castracani distratto da una giostra di moscerini sulla finestra e si
destreggiava in strepitosi esempi sulla straordinaria offerta.

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Gli offriva gli struzzi in cambio di una cifra striminzita. “Ma io
castro i cani non gli struzzi” strillò quello ascoltando quella
mostruosità.
La donna estrasse da una scatola piena di stracci dei nastri
multicolori e li mostrò dicendo: “Credo che i vostri struzzi
starebbero benissimo con questi nastri”.
La sua maestria fu tale che i due stroncati dal troppo parlare
comprarono i nastri e uscirono strisciando con la faccia olivastra
pensando che era successo un pastrocchio e che dovevano
consultare uno strizzacervelli. Fuori tirava un vento di
maestrale.
C’era una strana atmosfera intorno alla giostra, l’orchestrina
strimpellava.
Stormi di uccelli stramazzavano e stravaganti personaggi
giravano intorno alle finestre. Il prestigiatore era molto stressato,
la sua maestria era stata messa a dura prova. Gli altri artisti si
trastullavano con aria stralunata. Lo strapparono dalla poltrona e
lo stordirono con uno strano oggetto trovato nel camerino della
star. Era un sequestro.
Si svegliò e si trovò incatenato nel cofano della loro
stramaledetta macchina mentre i rapitori cantavano una
filastrocca. Riuscì con estrema fatica a strapparsi il nastro che
gli chiudeva la bocca e ad allentare la corda che gli stringeva le
mani e i piedi. Si districò magistralmente da quei lacci e attese
che l’auto si fermasse. La strada era dissestata e le buche lo
strattonavano a destra e a sinistra. Meno male che era striminzito
e che quello straziante viaggio stava per finire. I rapitori lasciata
la strada maestra presero per un viottolo campestre
fiancheggiato da ginestre e scesero per trasportare il sequestrato
in un antro stretto e buio. Quando aprirono il cofano non
poterono fare a meno di strillare: mentre erano distratti dalla
guida il prestigiatore era riuscito a uscire e strisciando per terra
era scappato. I rapitori si stropicciarono gli occhi increduli e si
strapparono i capelli.

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ESERCIZI CON “PS”

Lo psichiatra Epstein e lo psicanalista Epsom avevano in cura il


signor Simpson che presentava problemi psichici molto curiosi.
Era convinto che nella sua psiche, per una pseudo metempsicosi,
si fosse insediato un gatto che aveva visto ad Uppsala in un
convegno sulla psoriasi. Il suo problema gli creava dei raptus
improvvisi ed ipso facto si ritrovava a miagolare. Questo
atteggiamento psicotico analizzato dai sue esperti in problemi
della psiche lo aveva molto prostrato tanto da tenerlo nascosto a
tutti, insomma, era top secret. Un giorno il signor Simpson sentì
l’impulso di entrare in una chiesa, si fermò come ipnotizzato
davanti all’abside, cominciò a vedere luci psichedeliche e a
sentire vivere uno psicodramma. Prese un lapis e cominciò a
scrivere le parole della rapsodia che lasciò attaccate con una clip
al confessionale, poi uscì miagolando. I dottori Epstein ed
Epsom, saputo il fatto, dissero al signor Simpson che si trattasse
di uno psicopatico e che necessitava di una biopsia al cervello,
gli consigliarono anche di scegliersi uno pseudonimo e di
nascondersi in uno ospizio insieme al gatto.
Presero una penna di pseudo penne di pavone, la intinsero in una
pepsi e firmarono con una enorme ipsilon.

ESERCIZIO CON “GLI”

Gli alunni scrivevano sui fogli con gli stessi pennarelli scelti fra
le migliaia consigliati dalle famiglie, ma un parapiglia si scatenò
per la biglia e il fermaglio che la figlia dell’ammiraglio aveva
strofinato con l’aglio.
Un odore di coniglio arrosto provocò nella marmaglia la voglia
di paglia e fieno.
I consiglieri della scuola, attorcigliate la biglia e il fermaglio in
un foglio di carta stagnola a forma di conchiglia, gettarono il
pacco in un convoglio che deragliò.

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Con un grande ventaglio di Siviglia, un mazzo di gigli e glicine
e sapone di Marsiglia si profumò l’aria.
La figlia dell’ammiraglio si fermò sulla soglia perché la
maniglia della porta di legno aveva stampigliate le impronte
della marmaglia.
Sbadigliando emise un raglio al sapore di aglio.
Con sua grande meraviglia le misero un bavaglio.

È una mattina di luglio, egli si sveglia attorcigliato alla


maglietta, con un sapore di aglio in bocca e piglio battagliero.
Senza distogliere lo sguardo dalla moglie prende una pastiglia
secondo il consiglio scritto dal medico di famiglia su un blocco
di fogli sparpagliati.
Con una meraviglia sente un rumore proveniente dal ripostiglio.
Si avvicina per sciogliere il mistero, gira la maniglia e tra i
giocattoli del figlio raccoglie un coniglio di ciniglia con un
bavaglio grande come una mantiglia. “Meglio essere cauti”,
bisbiglia.
La voglia di chiamare la moglie è grande ma sceglie di glissare e
si assottiglia per entrare nel ripostiglio che somiglia ad una
piccola bastiglia.
All’improvviso la moglie ormai sveglia e in vestaglia emette
uno sbadiglio simile a un raglio.
Lui spaventato scaglia il coniglio contro la moglie che non
trovando alcun appiglio, cade per lo spavento, comincia a
tartagliare a briglia sciolta dandogli del troglodita.

ESERCIZI CON “GN”

Era un sogno degno di una diagnosi.


In una verde e amena campagna si teneva un convegno sulla
vergogna.
Una bella insegna di legno con un disegno di una donna che
faceva il bagno insieme a un cigno. Era di giugno. Nell’aria un

152
odore di sugna e di fogna con una cagna con la rogna che faceva
la lagna.
I partecipanti al convegno si facevano accompagnare dalle loro
signore, segno che non riuscivano a svolgere l’impegno senza
sentire il bisogno di compagnia. Ognuno scriveva il proprio
cognome sulla lavagna e con contegno strappava un assegno con
il quale pagava anche gli agnolotti e l’agnello arrosto.
Ogni tanto facevano una grande cagnara ma in generale regnava
molta armonia soprattutto quando bevevano il cognac e
perdevano quell’aria arcigna.
Spesso si mettevano d’impegno a danzare nella vigna al suono
della zampogna sembravano personaggi di sogno, gnomi e
matrigne nel regno dei ragni, si erano dati anche dei nomignoli.
E così c’era Ordigno perché troppo violento, Giallognolo perché
pallido, Taccagno perché tirchio, Pigna perché non capiva,
Spagna perché amava il flamenco, Vigogna perché vestiva
sempre di lana.
È strano ma si chiamavano con i nomignoli e non provavano
nessuna vergogna.
“Signore e signori, sono consapevole delle consegne che mi fate
ma ho bisogno di un attimo di pausa”.
Non ricordava il cognome di nessuno e fece segno che come
impegno era troppo gravoso e che la testa di legno che aveva
organizzato il convegno era veramente uno gnocco.
La diagnosi era perfetta e ricordò che in sogno aveva visto degli
gnomi. Chiamò la più contegnosa delle signore, si fece dare un
assegno e disegnò una casa di campagna, si fece accompagnare
dalla sua compagna e lagnandosi della montagna di cose ancora
da fare, prese una zampogna e si infognò in un concerto pieno di
ignominia.
Fu preso e messo alla gogna, morì dalla vergogna.

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ESERCIZI CON LA “Z” SONORA E “Z” SORDA

Nel Lazio ci sono molte aziende dove si coltiva lo zafferano e si


allevano alcune razze di animali.
Nello spazio antistante le case, scorrazzano delle zebre. Costanti
zaffate arrivano dalle stalle dove in silenzio dormono i cavalli.
Una fontana zampilla al centro di un’aiuola di zagare e azalee
color zaffiro, curate con costanza e pazienza da uno zelante
giardiniere un po’ anziano e giallo come lo zolfo.
Lo spazio è diviso in zone, da una parte coltivazioni di zucchero
e zibibbo, dall’altro zucca e semi di colza, tutto organizzato alla
perfezione e con perizia.
C’è anche un laghetto di media grandezza pieno di zanzare dove
si pesca con la lenza.
All’ora di pranzo si alza un leggero zefiro che porta un olezzo di
spezie. Le gazzelle battono gli zoccoli sulle zolle con
impazienza, dopo la pulizia hanno fame, alzano il muso nella
speranza che il fattore Ezio non sia fazioso e non porti il pranzo
solo alle gazze, sarebbe un’ingiustizia.
Ma Ezio sta leggendo il gazzettino godendosi la brezza. Le
gazzelle, su istigazione delle zebre, spezzano le cavezze, saltano
la palizzata e iniziano a danzare su due zampe.
Ezio non pronunzia nemmeno una parola, strabuzza gli occhi e
stramazza nel mezzo della piazza.

Lo zio Ezechiele era uno zuzzurellone, amava viaggiare


sprezzante del pericolo. Era stato in Amazzonia e con la zattera
aveva attraversato mari dove la brezza gli aveva bruciato la
zazzera.
Era stato punto da molte zanzare che lo consideravano uno
zimbello.
Ma la ferita allo zigomo se la procurò con la zanna di un
elefante che era appesa su una tavolozza di zampe di animali
selvatici.

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Lo zio Ezechiele aveva comprato uno zaffiro bellissimo da
regalare a Zaira. Era blu come quello dello zar che viveva in
Nuova Zelanda vicino ad una miniera di zolfo. Zaira portava
sempre zoccoli ai piedi ed ogni volta che entrava in casa
inciampava nello zerbino e cominciava a zoppicare.
Allo zio, Zaira preparava sempre la zuppa per pranzo, ma ci
metteva lo zucchero e un pezzetto di zucca, allo zio faceva
ribrezzo per quel terribile olezzo che soffiavo in cucina come
zefiro.
La gente faceva pettegolezzi su quella zingara così zozza, ma
Ezechiele amava Zaira e non voleva che restasse zitella. Così un
giorno zitti zitti convolarono a giuste nozze. Con un vestito
color zafferano erano una bellezza. Entrarono in un gran bazar
dove mangiarono pane azzimo e spararono razzi.
Le zebre per la puzza impazzirono e corsero all’impazzata nella
piazza fino al pozzo, ruzzolando sulle zolle.

ESERCIZI CON LA “S” SONORA E “S” SORDA

Chiese alla sposa in quale chiesa si sarebbero spostati e pretese


un impresario che con riserbo trovasse in paese trentasei e un
cinese della buona borghesia per presiedere l’ennesimo
matrimonio.
Il marchese traslocò, prese di peso il vanitoso marsigliese che
rimase ad occhi chiusi e con il sorriso sulle labbra, lo chiuse in
casa e d’improvviso pretese una frase o una poesia con musica.
Il marsigliese preciso e invasato infuse nella poesia così palesi
cineserie che il marchese rimase persuaso che quasi quasi non
era il caso che sei facesse una cosa così in chiesa.
Curioso chiese in quale paese avesse frequentato il ginnasio e il
marsigliese con orgoglioso sorriso rispose: “A Brindisi”.
Il Presidente biasimò l’operato del primo ministro e pretese le
scuse in inglese. Il poveretto che era francese trasecolò e chiese
se poteva andare a casa per un mese al suo paese.

155
Il Presidente disse sì a quel desiderio e così rosso in viso prese il
treno e andò a Pisa.
Si chiuse in casa e quasi pensò al suicidio e poi persuaso che
avrebbe risolto il problema, si fece un infuso di girasoli,
rosicchiò un po’ di riso e roso dalla collera rimase a casa ad
ascoltare la musica.
Ad un tratto, socchiuse gli occhi e improvvisamente decise di
andare in Malesia a trovare un amico filosofo. L’idea era curiosa
e risolutiva, allora finalmente sorrise.

ESERCIZI CON “UO”

Suole andare dai suoi suoceri con il carro trainato dai buoi,
generalmente porta delle uova da cuocere, perché le sue cognate
sono delle buone cuoche anche se adoperano solo il tuorlo,
sanno anche scuoiare i conigli.
Mentre i bambini sono a scuola o a giuocare, dopo il pranzo
aiuta a scuotere la tovaglia, quando vuole aiuta il suocero a
portare la cazzuola, si ammalò di cuore quando era luogotenente
del duodecimo fuochisti e la fatica può nuocergli.
Insomma, si comporta come una buonissima nuora.

Un uomo e una donna si rifugiarono nel Duomo spaventati da un


tuono e dalla pioggia che aveva rovinato le suole delle scarpe.
Ci sarebbe voluto un bel fuoco per asciugarsi e magari un
bicchiere di liquore di quelli che fanno a Nuoro.
Una suora disse che in quel luogo non potevano stare e
dovevano andare fuori.
Uno stuolo di uccelli faceva la ruota intorno a un banchetto di
semi.
“Se non mangio qualcosa muoio”, disse la donna, “ho un
languore e lo stomaco è troppo vuoto”.
L’uomo era possente e forte come una sequoia, capì che si
doveva muovere e conscio del suo ruolo disse alla donna:
“Vuole che la prenda in braccio o vuole andare a nuoto?”

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Lei, sinuosa, gli balzò in braccio e sentì i loro cuori che
battevano in un solo suono.

La famiglia Gigliotti

La famiglia Gigliotti è gelosa di quaglie che cucinano sempre


con l’aglio con contorno di sogliole e dolce di millefoglie.
Una volta Guglielmo, il capo famiglia, volle, in un giorno di
luglio, mangiare, invece delle quaglie con l’aglio, del coniglio e
disse ad Azeglio, suo figlio: “vammi a cercare del coniglio che
abbiamo finito le quaglie con l’aglio”. Ma Azeglio, il figlio, con
fiero cipiglio, disse “no padre, non caccio il coniglio, perché è
difficile che lo piglio. Una volta l’ho rincorso vicino al ciglio del
burrone, col sole ho preso un abbaglio che per poco non mi
stampiglio su quella roccia dove nasce il giglio vermiglio”.
Guglielmo arrabbiato sgridò Azeglio suo figlio dicendogli: “se
tu non vuoi cacciare il coniglio cosa mangerà la nostra famiglia?
Abbiamo finito le quaglie con l’aglio, le sogliole, il miglio ed il
millefoglie con il tiglio”. Allora Azeglio, senza voglia, va nel
bosco e sente un raglio, si volta e vede un asino che mangia la
paglia. Lo uccide e lo porta alla famiglia. Allora Guglielmo
guarda la moglie e dice: “mio figlio è pazzo, gli ho chiesto un
coniglio e mi porta un asino che una volta ragliava”. Ma Azeglio
rispose: “nessuna pazzia, famiglia mia, ho solo pensato che
senza aglio e coniglio, senza sogliole e millefoglie, se uccidevo
solo un coniglio, domani e gli altri giorni dovevo tornare a
cacciare. Siccome vostro figlio ha ucciso un animale più grosso,
che mangia la paglia e raglia, potremo mangiarne fino al
prossimo luglio”.

Le tredici commesse
(verbi “mettere”, “porre”, “correre”)

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Era stato bandito un pubblico concorso per un posto da
commessa e le ammesse erano, per l’esattezza, tredici. La prova
selettiva proposta prevedeva la padronanza di un discorso, una
seconda prova per vedere quanto la candidata fosse composta e,
infine, un’ultima per verificare quanto ella fosse credibile nel
lanciare promesse: di sconto, di acquisto, di bontà del prodotto.
Il selezionatore del concorso cominciò il suo lavoro
intravedendo nelle concorrenti – ne era certo – personalità
dimesse e malmesse, probabilmente provenienti da aree
geograficamente dimesse. Invece, successe l’opposto. Le
aspiranti commesse affrontarono la prima parte del concorso e
ognuna improvvisò un discorso: alcune parlarono della vita che
scorre, altre analizzarono i corsi e ricorsi della loro storia, altre
lamentarono come sia triste vivere di rimessa e do come
l’esistenza sia purtroppo, a volte, un abito mai messo.
Per la prova successiva, fecero una proposta: smetterla con
concetti di “composto” e “scomposto”, di “malposto” e di
“imposto”, ma porre le basi per un mondo sereno e
indipendente: l’unico in cui ognuno si potesse sentire al suo
posto.
Il selezionatore chiese qualcuno in soccorso. Aveva riposto in
quel concorso per commessa una scarsa considerazione e quei
discorsi e quelle proposte lo stavano disorientando: si sentiva
invecchiato, scaduto, trascorso.
Sulla terza – e ultima – prova del concorso, le aspiranti
commesse fecero una scommessa: ipotizzare una realtà in cui
fosse deposta ogni ipocrita promessa e in cui, al contrario,
propositivamente, fossero esposti i limiti, lacune, inesattezze di
ogni prodotto.
Il selezionatore si sentì male e cominciò a rimettere. Accorse il
medico che gli consigliò pillole e cerotti, e poi siringhe, fiale e
supposte, ma le aspiranti commesse, fedeli a quanto già
promesso, chiesero al dottore di privilegiare solo un unico
prodotto, per l’esattezza l’ultimo proposto.

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Tale rimedio, in effetti, funzionò. Il selezionatore capì l’errore
commesso e annunciò la sua intenzione di dimettersi. Alle
tredici commesse invece furono procurati altrettanti posti e i loro
prodotti e le loro si rivelarono sempre più giuste, coerenti e
corrette. Senza nessun oneroso permesso, né alcuna imposta da
aggiungere e, soprattutto, senza nessuna rincorsa al guadagno.

L’incendio doloso
(lettera “S” aspra o sonora)

Si desumeva fosse doloso: disgustoso, sovrumano e,


sicuramente colposo. Aveva raso al suolo i boschi e le riserve,
spingendosi fin quasi a ridosso del paese, in misura esasperata,
minacciosa, pericolosa.
L’autore, era palese, era Cesare il torinese, preso d’amore per la
sua Teresina e per il suo viso, la sua bocca, il suo naso: tutto di
lei. Aveva raso al suolo, e non casualmente, tutti gli alberi su cui
insieme, Cesare e Teresina, avevano inciso e disegnato le loro
reciproche, innamoratissime, frasi d’amore. Ventisei, così
diceva il resoconto, susini incendiati a cui il caso aveva imposto
la sfortuna di sentirsi appoggiati, felici, i due ex innamorati.
Si erano conosciuti in un caseificio: lui le disse: “buonasera” e
lei prima gli rispose e poi sorrise; lei dissertò dal peso esatto,
della bilancia e dell’asiago stagionato, lui la vide già come sua
sposa. E Cesare era come risorto. Interi mesi, dolcissime attese e
baci, pianti, risa e corse per prati rigogliosi e maggesi. Poi
l’esito comune ai più: dopo i primi mesi, le prime fasi, lei
disattese le sue aspettative e lui, roso dalla gelosia, la accusò.
Così finì.
Adesso lui vive sopra un’isola. A volte riposa, altre, più spesso,
confessa, nelle rosee sere d’estate, senza nessuna scusa, ogni
cosa e ogni caso. Senza posa.

Il monte Rotondo
(suffisso “ondo” e i suoi derivati)

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Aveva un unico impegno e uno scopo preciso: trovare il monte
rotondo.
L’avrebbe cercato nel Congo, tra i bisonti e camaleonti, uccelli
sonda e pesci rombi; l’avrebbe conquistato utilizzando zattere di
fronde e gondole di tronchi, superando ponti e tombe, onde
zombi: tutto, pur di compiere il suo trionfo, la scoperta del
monte rotondo.
Quando partì era bello e biondo, con una fronte spaziosa e
sgombra, con lo sguardo altero e tronfio. Già dopo tre mesi,
però, lo raccontano coi piedi gonfi e molli, con gli occhi concavi
e l’espressione tonta, come quella di un tonno quando ha sonno,
o quando ronfa. Era insomma, l’ombra di se stesso.
Sgomento ma non sconfitto provò l’estrema soluzione. “Per
questa mia avventura, non pongo alcun limite, son pronto a
tutto: convoco i migliori uomini del Congo, compro i loro
attrezzi e armi (vanghe, trombe, bonghi, fionde e bombe) e vado
alla ricerca del monte. D’altronde, se non riesco, mi farò
monco!”
Convocò, in effetti, gli uomini e dopo averli edotti in un
incontro (e dopo aver dato loro un congruo acconto) diede vita a
una corsa collettiva e intensa. Corsero e corsero, di giorno e a
notte fonda, girarono tra fiordi e valli, persero il computo dei
giri e non si resero conto che stavano ormai – e da un pezzo –
girando sempre attorno allo stesso monte. Che, complici le
impronte dei piedi ai bordi del monte, stavano rendendo
quest’ultimo sempre più ordinato, circolare e rotondo.
Dopo tanto, arrotondante percorso, stanco, spossato – come
prevedesse l’imminente trionfo – l’eroico conquistatore si
addormentò. Furono allora i rombi delle trombe e dei bonghi
nelle valli a ridestarlo e lì, pulito, bellissimo, intonso, vide
finalmente a sé di fronte, il monte rotondo. Tutti applaudirono.
Lui ridivenne bello e biondo; sulla vetta riuscì a far sgorgare una
purissima fonte d’acqua e, d’allora in poi, in tutto il Congo, fu

160
considerato console unico dell’irripetibile (ormai al maiuscolo)
Monte Rotondo.

Lettura (GL)

Una moglie indossava un fermaglio e si soffiava con un


ventaglio mentre scriveva su di un foglio la storia di un
pagliaccio.
Il figlio che molto le somiglia, portò un po’ di scompiglio
rompendo un gheriglio. La mamma allora gli disse: “È meglio
che trovi un appiglio, altrimenti prendo un maglio e ti taglio”.
Il figlio, pensando di essere migliore della mamma, chiamò il
babbo che intanto era alle prese con un conguaglio e gli chiese
di dirle se era quella l’accoglienza da riservare al buon figlio.
Il babbo gagliardo, approfittando della situazione, pensò ad un
meraviglioso mazzo di fiori. Fece qualche miglio, attraversò il
cespuglio e disse alla moglie: “io mi spoglio”.

ESERCIZI CON “IE”

Visto che siete peccatori potete venire in chiesa insieme a me e


chiedere se dietro una lieve penitenza sarete assolti.
Purtroppo il sacerdote viene solo alle dieci.
Ieri, durante la predica, non si spiegava bene e non si capiva
niente, anche se andava fiero del discorso fatto.
Io quando mi parla mi siedo in piena luce, vado dietro ai miei
pensieri pieni di bandiere che sventolano nel cielo. Non ci sono
molti cavalieri tra i fedeli e spesso mi fa male la schiena perché
devo stare in piedi e mi appoggio all’acquasantiera e mi chiedo
se le preghiere pieghino solo la mia mente.

Vicino all’Aniene camminano a piedi un alfiere, un aviere, un


arciere e un allievo. Tutti e tre fischiettano lieti di avere bevuto
un bicchiere pieno di vino e mangiato una fetta di pane con il

161
miele e anche della pastiera da un panettiere dalla faccia di
alieno.
Ad un tratto avviene che sentono un lieve rumore, “Proviene da
dietro quella siepe”, dice l’aviere con aria bieca.
Tutti e tre si dirigono verso l’obiettivo e scorgono un ariete,
“Tienilo per le corna” dice l’allievo, ma l’ariete si siede e
comincia a dire l’oroscopo.
Ai tre viene da ridere e pensano che un ariete che parla è una
miniera d’oro e cominciano a recitare preghiere per riuscire a
iniettare un sonnifero all’animale, dato che uno di loro è anche
un infermiere.
Ma non c’è niente da fare, l’ariete sfugge dietro una fioriera e
l’infermiere interviene maldestramente e infierisce con
l’iniezione sull’arciere che riesce a dirgli: “Deficiente!” e poi
sviene.

162
IL MALANNO DELL’AFFETTAZIONE - E. De Amicis

Vi sono due modi per parlare male: la sciatteria e l’affettazione.


Ma questo è peggiore di quello, perché chi parla sciatto è
soltanto ridicolo, e chi parla affettato è ridicolo e insopportabile.
Non occorre ch’io ti dica che cos’è l’affettazione. Te lo dicono i
modi proverbiali che la deridono: - Star sul quinci e sul quindi –
Parlar come un libro stampato. – È un misto di pedanteria e
leziosaggine. È la consuetudine di scegliere fra i modi della
lingua i meno comunemente usati, credendo che il parlar bene
consista nel parlare diversamente dagli altri; è il servirsi di
vocaboli e di frasi proprie della poesia, anche nei discorsi
famigliari per dire le cose più usuali e più semplici; è l’usar
locuzioni e costrutti del bello stile letterario, per sfoggio di
cultura e d’eleganza, in luogo d’altre locuzioni e d’altri costrutti
alla mano, che si degnano come volgari, e che paiono volgari
per la sola ragione che tutti li sanno.
Hai visto mai dei bellimbusti che atteggiano la bocca a forma di
cuore e par che sorridano continuamente alla propria immagine,
o tengono la bocca sempre aperta per mostrare i denti bianchi;
che pigliano atteggiamenti d’Apolli, gestiscono coi gomiti stretti
al busto e camminano in punta di piedi, dondolandosi come
anitre e guardando intorno con gli occhi socchiusi o sgranati o
languenti? Sono caricature buffe e antipatiche, non è vero? E lo
stesso effetto producono quelli che parlano affettato. Ci
dispiacciono perché, parlando diversamente da noi, hanno l’aria
di dirci che noi parliamo male e che dovremmo parlare come
loro; non ci paiono sinceri perché la sincerità parla
semplicemente, ed essi parlano con artificio; e non li possiamo
prender sul serio perché, lambiccando a quel modo il proprio
linguaggio, mostrano di dar più importanza alle parole che alle
cose e di parlar soltanto per farci sentire parlan bene.
Senti un po’. Se uno t’annunzia la morte d’un suo amico
dicendoti: - Ieri, dopo una malattia lunga e dolorosa, morì il tal
dei tali, mio carissimo amico; morì fra le mie braccia; le sue

163
ultime parole furono per raccomandarmi i suoi poveri bambini,
che stavano accanto al letto piangendo –, tu sei preso da un
sentimento di pietà. Ma se ti dice invece: – Ieri, dopo un lungo e
fiero morbo, mancò ai vivi il tal de’ tali, amico mio dilettissimo;
spirò sul mio seno, e i suoi supremi accenti furono per
commettere alle mie cure i suoi sventurati pargoletti, che
stavano all’origliere lacrimando; – tu, invece di commuoverti,
non credi al suo dolore, e gli dai del buffone.
L’affettazione falsa l’espressione d’ogni affetto, spunta
l’arguzia, toglie forza alla ragione, vela la verità, distorna la
confidenza, getta il ridicolo su ogni cosa, rende uggiose e
moleste, e qualche volta anche odiose, facendole apparire sotto
un falso aspetto, persone dotate di eccellenti qualità d’animo. Ed
è un difetto terribile, che guai a chi gli s’attacca, perché diventa
in lui come una seconda natura, della quale egli perde la
coscienza, e non se ne libera più per la vita. Ed è un difetto
disgraziatissimo, che il mondo deride e flagella anche nelle
persone più rispettabili, senza tregua e senza pietà, fino alla
morte.

BELLA MUSICA SONATA MALE

Impara a pronunziar bene. Non parla bene chi pronunzia male. E


noi, quasi tutti, pronunziamo l’italiano scelleratamente.
Una bella lingua pronunziata male è come una bella musica
sciupata da un cattivo sonatore. Che vale che la nostra sia una
lingua ammirabilmente musicale se noi in mille modi ne
alteriamo i suoni, come se fosse per noi una lingua straniera? A
che serve che tanti grandi poeti, nei quali erano profondi e
finissimi il senso e l’arte dell’armonia, abbiano faticato a
comporre tanti versi squisitamente armoniosi, quando noi li
pronunziamo in maniera che se ci sentisse chi li fece ci
tratterebbe di cani e si tapperebbe gli orecchi? Che giova che la
lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili,
graziose, che suonano come note di canto, se le dolci inaspriamo

164
pronunziando delle s che sembrano fischi di serpente, se
fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se
facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti
semplici, se aggraviamo le leggiere e deformiamo le graziose
strascicando o strozzando le vocali, e dando all’u un suono
barbaro che trapassa l’orecchio come lo stridore d’un
chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l’armonia
della nostra lingua! E ci vantiamo d’aver orecchio musicale! C’è
da riderne, e da averne vergogna.

Ciascun dialetto è parlato con certe intonazioni, modulazioni,


cadenze, strascicamenti di voce e raggruppamenti di suoni, che
noi, quasi tutti, facciamo sentire anche parlando italiano, e che
danno al nostro italiano il colorito musicale, per dir così, del
dialetto medesimo. Dirai che questa musica dialettale essendo
naturale in noi, noi non la sentiamo, e quindi non possiamo
liberarcene. No: la sentiamo, chi più chi meno, perché mettiamo
in canzonatura chi la esagera. La sentiamo in ogni modo quando
udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno
d’un’altra, perché, anche non conoscendolo di persona, lo
riconosciamo dei nostri. Ebbene, quando questo t’accade,
osserva le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e
t’avvedrai che sono proprie a te pure. E non pensare che perché
tu non le avverti abitualmente o non ti riescono sgradevoli, non
siano sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano
sgradevoli neppure a loro. Tanto le sentono che non son pochi
quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto, ci rifanno
il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura;
la quale essi non farebbero se la nostra musica dialettale non li
facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segua un caso simile, sta’
bene attento, ché ti può molto giovare. Io mi corressi di certe
intonazioni del dialetto udendo un artista drammatico che
imitava mirabilmente il modo di recitare d’un celebre attore
piemontese, perché sentii la prima volta in quella imitazione
quelle intonazioni, come un’eco della mia voce. E credi che non

165
riuscirai a pronunziare bene l’italiano fin che non ti sentirai
liberato da questa specie di melopea vernacola, perché è quella
che ti fa forza, in certo quasi ti costringe, senza che tu te
n’avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all’uso dialettale, in
maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo caso il proverbio
francese, che dice: è la musica quella che fa la canzone.

Un mazzetto di consigli, per finire. Avvezzati a leggere a voce


alta scolpendo bene le parole. Quando vai al teatro, sta’ attento
alla pronunzia degli attori che pronunziano bene, e paragonala
con quella di quegli altri attori, dei quali riconosci alla prima il
dialetto nativo. Fa’ attenzione al modo di pronunziare di tutti
quegli italiani, dei quali non ti riesce di capire in che parte
d’Italia sian nati. E non dar retta ai pigri che ti dicono: – È
tempo perso; a nascondere il dialetto nella lingua non si riesce. –
Non è vero, e non è tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni
d’Italia, anche quelle dove si parla un dialetto più dissimile dalla
lingua, danno oratori forensi e politici, attori drammatici,
conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano
l’italiano perfettamente, o quasi; nei quali non si sente l’indizio
alcuno dei loro propri dialetti. Fa’ il proposito di riuscire a
questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar
l’italiano da italiani, e induci a farlo anche la signorina di casa
tua; poiché io m’immagino che tu abbia una sorella, una almeno.
E poiché me l’immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo,
mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte
nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei
il pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli
labiali fini ed elastici; perché a che serve avere la voce dolce se
la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d’Italia vedrà
molte volte degli stranieri, che l’avranno riconosciuta italiana,
porger l’orecchio per raccogliere dalla sua bocca la musica
decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E
faccia anche propaganda di buona pronunzia, perché la può fare
senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca

166
quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come
un fiure, o splendida come una stela; o seducende come una
dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non
risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di
pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una
caricatura stucchevole.

STRETTA FINALE

Animo, dunque. Comincia fin d’oggi ad avvezzarti a parlar


bene, e vedrai come sarai presto incoraggiato a proseguire dei
vantaggi che ne riceverai. Primissimo dei quali sarà quello di
pensar meglio, perché dal parlar chiaro, proprio, preciso,
scolpito, dalla consuetudine di esprimer tutto il proprio pensiero
nel miglior modo che ci è possibile, s’è immancabilmente
condotti a “spiegarci con noi stessi e a meglio intenderci noi
medesimi”, a formulare con maggior chiarezza e maggior
precisione il pensiero anche nell’officina silenziosa della nostra
mente. E sarai anche incoraggiato a proseguire dalla
soddisfazione che il tuo parlar bene produrrà evidentemente
negli altri, poiché è un fatto che chi parla con chiarezza,
precisione, facilità e speditezza, facendoci risparmiar tempo e
sforzo d’attenzione e imprimendoci nette nella mente quelle
cose che ci preme ricordare, ci procaccia, oltre che un piacere di
natura artistica, un vantaggio, di cui gli siamo grati. E ti sarà
incoraggiamento e compenso quello ch’io molte volte osservai
ed osservo: che è per quasi tutti una soddisfazione d’amor
proprio il sentir parlar bene l’italiano da un concittadino della
loro stessa regione, perché vedono in lui una prova che essi
pure, volendo, ci riuscirebbero, un argomento vivente contro
l’opinione di quegli italiani d’altre regioni, i quali li dicono e li
stimano inetti (la cosa è frequente e reciproca) a parlare un
italiano italiano. E queste soddisfazioni avrai per tutta la vita, e
con queste molte altre, in mille casi, a mille diversi propositi, in
mille forme diverse e inaspettate, poiché non puoi immaginare

167
quante simpatie, quanti atti cortesi, quanti consensi, quante
agevolezze non ci derivan da altro nel mondo che dalla
scioltezza, dalla grazia, dalla convenienza della parola.

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IL CORSO BASE

IL CORSO DI LETTURA AD ALTA VOCE IN 10 LEZIONI

I temi da affrontare: uso ed esplorazione della voce,


articolazione dei suoni, analisi del testo e di come renderne
comprensibile il senso, le sfumature della voce, la postura, la
presenza, lo sguardo, l'uso delle pause. Il tutto con un approccio
graduale, pratico e piacevole, dando grande importanza al
gruppo, e calibrando il lavoro a seconda delle esigenze dei
partecipanti.

PROGRAMMA

LA PUNTEGGIATURA E LA PAUSA: Organizzazione,


costruzione e struttura dei periodi;

LA PAROLA CHIAVE: Appoggiature e accenti: Scegliere una


parola della frase e appoggiare intenzionalmente il tono su
questa piuttosto che su un’altra, per modificarne il senso.

ESERCITAZIONI SUGLI ELEMENTI ESPRESSIVI DELLA


VOCE

COLORE: Paragonabile a un sentimento, uno stato d’animo (


Affettuoso, bonario, scherzoso ecc.);
TONO: Come per i tasti di un pianoforte può andare dalla nota
più bassa a quella più acuta;
VOLUME: Quanto più si impiega il fiato, tanto maggiore sarà
il volume; smorzando, invece, questa potenza espulsiva,
diminuiremo di conseguenza il volume;
TEMPO: Le variazioni del tempo non stridono mai fra loro ma
compongono un tutto armonico;
RITMO: E’ dato dal succedersi degli accenti di frase. Col ritmo
si possono sconvolgere le leggi sintattiche di punteggiatura.

169
MORDENTE: Esprime il grado di manifestazione globale
dell’articolazione e dipende dalla muscolatura dell’apparato
fonatorio. Combatte la monotonia nella lettura.
LETTURA DI ALCUNI PASSI di Autori classici e
contemporanei applicando le regole sugli elementi espressivi
della voce;
GIOCO DEGLI INCIPIT: Lettura incipit del libro che ci ha
cambiato la vita;
L’ESPERIENZA DEL DOPPIAGGIO: Cenni storici e tecniche
utilizzate;
LA FONAZIONE: Cenni anatomici e controllo degli organi
dell’apparato respiratorio;
LA RESPIRAZIONE: Padronanza del respiro ed esercizi per il
riconoscimento e rafforzamento del diaframma;
L’ARTICOLAZIONE: Ginnastica facciale ed allenamento con
esercizi di incontri di consonanti;
EMISSIONE VOCALE: Esercizi per la risonanza e prova di
Gassman su VOLUME E TIMBRO;
ESERCITAZIONI: Tempo, tono, volume, ritmo, colore,
mordente;
LA DIZIONE: Le regole della pronuncia italiana - Vocali
aperte o chiuse, s e z sonore e sorde ed esercizi per sostenere le
finali;
ESERCIZI PER L’ARTICOLAZIONE VELOCE: Scioglilingua
vari;
LETTURE CON ESERCIZI SULLA C, S, Z, GL, R –
Filastrocche e brani con specifiche difficoltà di pronuncia;
SPEECH e PUBLIC SPEAKING; Spiegazioni e prova in aula
con speech finale di 5/10 minuti.

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171
NOTA

Questa guida alla lettura ad alta voce e public speaking è stata


realizzata sulla base delle mie esperienze nel doppiaggio e
teatro amatoriale e successivamente come tutor e docente nei
diversi corsi di lettura realizzati negli ultimi dieci anni, diretti a
tipologie diverse di partecipanti, nelle biblioteche e nelle sedi di
associazioni culturali oltre che on line. Vi hanno partecipato
insegnanti, professionisti, avvocati, bambini e gente di diversa
estrazione, interessati a migliorare il loro modo di parlare e
leggere ad alta voce, sempre con grande soddisfazione mia e
loro. Ogni nuova tipologia di partecipanti mi ha insegnato cose
nuove che ho cercato di inserire nei corsi successivi, soprattutto
per fare in modo di canalizzare gli argomenti verso le esigenze
delle singole persone. Dunque i workshop per avvocati hanno
visto l’inserimento di anelli di doppiaggio con arringhe di
famosi film, per cercare di riprodurre un tono aulico o assertivo,
convincente, insomma di dare il giusto colore alle parole,
soprattutto se devi convincere i giudici. Altra categoria
importante sono gli insegnanti che possono apprendere queste
tecniche e trasferirle gradualmente nel corso dell’anno
scolastico ai ragazzi con un miglioramento complessivo delle
loro performance di lettura, di espressività e di capacità di
sintesi e spiegazione a un pubblico; senza contare la parte più
importante: lo sviluppo e diffusione dell’amore per il libro,
romanzo o poesia o saggio, che porteranno con sé per tutta la
vita. Altre categorie che affronterò a breve sono i dipendenti di
una grande distribuzione, laddove un datore di lavoro illuminato
ritiene che sia utile un workshop dedicato a loro per un
miglioramento nei rapporti con il pubblico oltre a creare un
affiatamento maggiore tra loro stessi; ragazzi del carcere che
potrebbero trovare un momento dedicato alla cultura nel quale
sono essi stessi protagonisti con letture ad alta voce di grandi
autori o poesie che potrebbero avvicinarli all’amore per la
letteratura. E l’amore per i libri è un amore che non finisce mai.

172
Gi argomenti trattati in questo volume e in quello dedicato a
persone adulte vanno dalla dizione alla respirazione,
all’emissione vocale, con molti esercizi, spesso divertenti (quasi
dei giochi) per arrivare al nocciolo, cioè il metodo vero e
proprio per costruire la propria cassetta degli attrezzi, la capacità
di utilizzare gli strumenti che portiamo con noi da utilizzare in
qualunque momento: siamo capaci di modulare la nostra voce e
di darle l’espressione voluta in qualunque circostanza.
Tutto nasce da alcune pagine di un libro, di chissà quanti fa,
fotocopiate malamente che mi sono state regalate da un
compagno di corso di doppiaggio nel 1985 (corso di un anno
intero, memorabile). Si trattava di pagine che affrontavano
argomenti legati all’espressività e, in particolare, agli elementi
espressivi della voce: tono, volume, tempo, ritmo, mordente e
colore. La trattazione dell’argomento era così precisa e rigorosa
che, oltre a spiegazioni, dal linguaggio un po’ aulico, d’altri
tempi, ma chiaro e incisivo, proponeva un metodo per esercitarsi
che ho trovato geniale. Senza troppe parole o ricorso al grande
teatro, all’immedesimazione nel personaggio e via dicendo,
proponeva dei segni e dei numeri sotto le parole da leggere che
indicavano al lettore la variazione che egli doveva fare
nell’utilizzo dei vari elementi espressivi, costringendolo così ad
alzare il volume, abbassare il tono, variare il mordente, cambiare
il colore, modificare il ritmo e cambiare il tempo e la velocità di
lettura. Quasi come le istruzioni di montaggio IKEA, che,
come sappiamo, funziona sempre.
Non so davvero chi devo ringraziare per aver realizzato questo
vecchio metodo (non ho trovato indicazioni sulle fotocopie poco
leggibili) ma lo ringrazio di cuore perché mi ha aperto le porte
ad un mondo ancora più complesso e interessante che ha
prodotto questa attività che svolgo da molti anni ormai.
Altri argomenti, derivanti dalle mie esperienze e
dall’osservazione del mondo della lettura e del doppiaggio a cui
sono sempre molto legato, sono entrati a far parte di queste
guide.

173
:Devo quindi ringraziare alcuni autori - cui ho fatto ricorso per
integrare il volume - che si sono occupati nel tempo di questi
argomenti:
- Antonio Iuvarra, Il canto e le sue tecniche, Ricordi,
Milano 1987
- Anna Maria Romagnoli: La parola che conquista, ed.
Mursia, Milano 1986
- Francesco Ventura, Leggere e parlare con la mente e il
cuore
- Francesco Schipani, Manuale di lettura espressiva, ed.
La rondine 2017
- Carlo Delfrati, Manuale di educazione alla oralità e alla
lettura, Ed. Principato
- Maurizio Falghera, Come realizzare audiolibri in home
studio, Ed. Enea
- TED – Ideas worth spreading – Celeste Header: 10
regole per migliorare una conversazione

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Indice

LEGGERE AD ALTA VOCE .................................................... 5


MUSICA PER LE TUE ORECCHIE ......................................... 8
VOLUME E TIMBRO.............................................................. 10
L’APPARATO FONATORIO .................................................. 13
LA MASCHERA ...................................................................... 24
E ORA DIVERTIAMOCI UN PO’ .......................................... 28
LA PUNTEGGIATURA E LA PAUSA ................................... 55
LA LETTURA: UN ATTO D’AMORE ................................... 57
GLI ELEMENTI ESPRESSIVI DELLA VOCE ...................... 59
TONO........................................................................................ 62
ESERCITAZIONI SUL TONO ................................................ 64
VOLUME.................................................................................. 65
ESERCITAZIONI SUL VOLUME .......................................... 67
TEMPO ..................................................................................... 68
ESERCITAZIONI SUL TEMPO.............................................. 69
RITMO ...................................................................................... 70
ESERCITAZIONI SUL RITMO .............................................. 72
MORDENTE ............................................................................ 73
ESERCITAZIONI SUL MORDENTE ..................................... 74
COLORE ................................................................................... 75
ESERCITAZIONI SUL COLORE ........................................... 78
DISTRIBUZIONE VALORI ESPRESSIVI IN UN TESTO .... 80
LA MADRE DI CECILIA ........................................................ 86
175
IL GATTOPARDO ................................................................... 87
DIZIONE E PRONUNCIA ....................................................... 89
LETTURE BRANI E POESIE PER ESERCITARSI ............. 101
LA CONVERSAZIONE ......................................................... 118
IL DOPPIAGGIO ................................................................... 128
LETTURE ............................................................................... 135
IL MALANNO DELL’AFFETTAZIONE - E. De Amicis ... 163
IL CORSO BASE ................................................................... 169
NOTA...................................................................................... 172

176
177
Finito di stampare nel mese di agosto 2019

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