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Dipartimento di Medicina e Chirurgia

dell’Università degli Studi di Padova

BIOLOGIA PER IL TEST DI AMMISSIONE

a cura di: Aaron Romano


Il seguente compendio è stato realizzato integrando fra loro i libri
Zanichelli utilizzati in tutti i licei d’Italia e i manuali di preparazione
AlphaTest, UniTutor, ArtQuiz.

Buona lettura e buono studio!


1. Le biomolecole

I GRUPPI FUNZIONALI
I composti organici si possono suddividere in classi che si differenziano per uno o più gruppi funzionali,
ossia gruppi di atomi con proprietà chimiche specifiche:
1. La classe degli alcoli è caratterizzata dal gruppo ossidrilico (-OH), un gruppo funzionale polare che
tende ad attrare molecole d’acqua, e che rende la molecola che lo contiene, facilmente solubile in
acqua;
2. Le aldeidi e i chetoni sono caratterizzate dal gruppo aldeidico (-CHO) o chetonico (-CO), fortemente
elettronegativi, in grado di attrarre l’atomo di idrogeno portato da un altro atomo elettronegativo
formando legame a idrogeno;
3. Gli acidi carbossilici sono caratterizzati dal gruppo carbossilico (-COOH), che in soluzione acquosa
libera ioni idrogeno H⁺, conferendo alla molecola proprietà acide;
4. Le ammine sono composti organici che possiedono un gruppo amminico (-NH₂), in soluzione si
comportano come basi;

CARBOIDRATI
I carboidrati sono molecole contenenti atomi di H e gruppi ossidrile (H–C–OH), legati ad atomi di C.
Hanno funzione energetica, funzione strutturale (materiali di sostegno e rivestimento), e costituiscono
scheletri carboniosi.

I monosaccaridi (monomeri) contengono da 3 a 7 atomi di C e sono D-stereoisomeri (quelli nei viventi).


Un C porta il gruppo carbonilico (C=O), tutti gli altri l’ossidrile (H–C–OH). Si dividono infatti in:
1. aldosi se C=O è all’inizio della catena;
2. chetosi se C=O è al secondo posto nella catena.
Possono essere a catena lineare o ad anello, più comune e stabile. Possono essere:
1. esosi (a 6 atomi di C) sono il glucosio, fruttosio, mannosio e galattosio (aldoesosi);
2. pentosi (a 5 atomi di C) sono il ribosio (ossatura dell’RNA) e il desossiribosio (del DNA).
Ribosio e desossiribosio differiscono perché nel desossi- è andato perso un O legato al C in posizione 2.
Il glucosio è il principale monosaccaride, dal momento che è fonte di energia cellulare attraverso la
glicolisi/respirazione.

I disaccaridi sono formati da 2 monosaccaridi legati covalentemente. I principali sono:


1. il saccarosio (glucosio + fruttosio), il lattosio (glucosio + galattosio);
2. il maltosio, che deriva dall’idrolisi dell’amido, il cellobiosio, che deriva dalla glicolisi della cellulosa

Gli oligosaccaridi derivano dall’unione mediante legame glicosidico (covalente) di singoli monosaccaridi (da
3 a 20). Presentano spesso ulteriori gruppi funzionali che conferiscono loro proprietà specifiche: si legano,
per esempio, alle proteine per formare glicoproteine, e ai lipidi per formare glicolipidi.

I polisaccaridi sono polimeri di grosse dimensioni. I polisaccaridi con funzione di riserva energetica sono:
1. l’amido, un polimero di α-glucosio formato da amido e amilopectina, poco ramificato;
2. il glicogeno, un polimero di α-glucosio con funzione di riserva energetica in fegato e muscoli,
dalla struttura molto più ramificata.

I principali polisaccaridi con funzione strutturale sono:


1. la cellulosa, un polimero di β-glucosio, più stabile dell’amido, forma pareti cellulari nelle piante;
2. gli zuccheri fosfati (in cui il gruppo fosfato ha sostituito –OH), come il fruttosio 1,6-difosfato,
prodotto intermedio delle reazioni energetiche cellulari;
3. gli amminozuccheri (in cui il gruppo amminico –NH₂ ha sostituito –OH), che svolgono ruoli
importanti nella matrice cellulare (è un amminozucchero il principale costituente della cartilagine);
4. la chitina, un polimero di N-acetilglucosammina, forma lo scheletro di insetti la parete di funghi;
5. i glicosamminoglicani (GAG), polimeri lineari formati da amminozuccheri e glucidi acidi.
PROTEINE
Le proteine sono polimeri dei 20 amminoacidi legati dal legame peptidico, che si ripiegano su se stessi fino
ad assumere una precisa struttura tridimensionale (ripiegamento della catena polipeptidica).

Gli amminoacidi presentano due gruppi funzionali ionizzati legati ad un atomo di C):
1. il gruppo amminico, che ha acquistato un H aggiuntivo passando da –NH₂ a –NH₃⁺;
2. il gruppo carbossilico, che ha perso un H passando da –COOH a –COO⁻.
Si trovano legati all’atomo di C (detto α) anche un H e una catena laterale/gruppo radicale (R), che
determina la specificità chimica dell’amminoacido. Possono essere polari, elettricamente carichi o
idrofobici (fanno eccezione la cisteina che presenta ponti di solfuro, la glicina e la prolina).

La presenza dei due gruppi funzionali conferisce agli amminoacidi proprietà anfotera (si comportano sia da
acidi che da basi). Essendo il Cα asimmetrico, ha due forme stereoisomeriche D ed L, ma gli amminoacidi
sono di norma tutti della serie L.
Gli amminoacidi essenziali (ossia assumibili solo tramite l’alimentazione) sono 9, mentre 11 sono quelli
prodotti regolarmente dall’organismo, per un totale di 20 amminoacidi.

Il legame peptidico fra 2 amminoacidi si realizza quando il gruppo carbossilico (COO⁻) reagisce con il
gruppo amminico (NH₃⁺) dell’amminoacido seguente. E’ un legame rigido e planare, che favorisce la
formazione di legami H.
L’ossatura della catena polipeptidica è determinata dalla successione N-C-C (amminico-α-carbossilico),
conferendo un ordine lineare alla catena. La catena inizia con l’N-terminale (gruppo amminico del primo
amminoacido), e finisce con il C-terminale (gruppo carbossilico dell’ultimo amminoacido).

La struttura primaria è data dalla posizione esatta di ogni specifico amminoacido nella catena polipeptidica,
non è biologicamente attiva perché necessita avvolgimenti e ripiegamenti ulteriori, ed è determinata da
legami covalenti.
La struttura secondaria consiste nella regolare ripetizione di ripiegamenti caratteristici, determinati dai
legami H. Si individuano così due strutture:
1. ad α-elica, una spirale destrogira, tipica delle cheratine di peli e unghie;
2. a β-foglietto pieghettato, che si forma a partire da due o più catene polipeptidiche affiancate.
La struttura terziaria è determinata dal ripiegamento successivo della struttura secondaria, e produce una
macromolecola funzionale (proteina globulare) con una precisa forma tridimensionale (es: il lisozima
presente nelle lacrime e nella saliva).
La struttura quaternaria è il risultato del legame fra due o più subunità proteiche terziarie (es: l’emoglobina
è formata da 4 subunità).

Forma e struttura di una proteina le permettono di legarsi non covalentemente ad un’altra molecola
specifica, per realizzare importanti eventi biologici (trasporto, ricezione, attività enzimatica, ecc.).
Una proteina si legherà ad una molecola solo se c’è un’elevata corrispondenza fra le loro rispettive forme
tridimensionali (modello chiave-serratura), mentre i gruppi funzionali posti sulla superficie sono adibiti a
favorire interazioni chimiche con altre sostanze (formazione di legami idrofobici, ionici, a idrogeno).

La struttura tridimensionale di una proteina più andare incontro a denaturazione in seguito a variazioni del
pH o aumento della temperatura. I legami deboli (a idrogeno, Van der Waals, disolfuro) che tengono
insieme le strutture II, III, IV vengono rotti, mentre rimane inalterata la struttura primaria.
La denaturazione comporta la perdita di funzionalità della proteina, e può essere irreversibile o reversibile.
LIPIDI
I lipidi svolgono funzioni diverse: immagazzinano energia (grassi e oli), i fosfolipidi svolgono funzioni
strutturali nelle membrane, gli steroidi e gli acidi grassi svolgono un ruolo di regolazione ormonale e
vitaminica (“messaggeri” chimici).

I lipidi sono biomolecole idrofobiche insolubili in acqua a causa dei loro legami covalenti apolari che
formano fra loro polimeri non covalenti tramite legami deboli di London.
I più semplici sono i trigliceridi, che vengono chiamati rispettivamente:
1. grassi se sono solidi a temperatura ambiente;
2. oli se sono liquidi a temperatura ambiente.

I trigliceridi sono costituiti da tre molecole di acidi grassi (catene idrocarburiche apolari di CH₂ che
terminano con un gruppo carbossilico COOH) e una molecola di glicerolo (formata da tre gruppi ossidrilici
–OH). Fra i gruppi carbossilico e ossidrilici si forma un legame estere che origina il trigliceride.
Negli acidi grassi saturi tutti i legami fra gli atomi di C sono covalenti semplici.
Negli acidi grassi insaturi le catene idrocarburiche contengono doppi o tripli legami (es: acido oleico è un
acido grasso monoinsaturo).
Svolgono un ruolo importante nel metabolismo come fonti di energia (es: trigliceridi idrolizzati
nell’intestino ad acidi grassi e glicerolo).

Nei fosfolipidi, a differenza dei trigliceridi, un acido grasso è sostituito da un composto contenente un
gruppo fosfato, che conferisce carica elettrica negativa e idrofilia alla porzione della molecola (testa).
I due acidi grassi restanti (coda) sono invece idrofobici.
In ambiente acquoso, i fosfolipidi si allineano in modo che le teste interagiscono con l’acqua e le code si
radunano le une vicino alle altre. Si forma così un doppio strato fosfolipidico, che forma le membrane
biologiche.

I glicolipidi sono molecole in cui la molecola di attacco lega anche uno zucchero o un oligosaccaride.
Svolgono un ruolo importante nel riconoscimento fra cellule e nell’identificazione di sostanze.

Si individuano anche classi lipidiche non conformi alla struttura glicerolo-acidi grassi:
1. i carotenoidi, pigmenti che assorbono la luce. Il β-carotene si scinde in due molecole di vitamina
A che servono a sintetizzare il pigmento rodopsina, necessaria alla vista;
2. gli steroidi, composti organici con uno scheletro ad anelli. Il colesterolo, sintetizzato nel fegato,
costituisce le membrane e serve a produrre il testosterone;
3. le vitamine, piccole molecole che il corpo non può sintetizzare autonomamente ma devono
essere assunte tramite l’alimentazione. Sono lipidi le vitamine A, D, E, K, ma non quelle del gruppo B;
4. le cere sono formate da un acido grasso saturo legato ad un alcol. Alcune ghiandole cutanee
secernono un rivestimento ceroso impermeabile all’acqua.
ACIDI NUCLEICI
Gli acidi nucleici sono polimeri specializzati nel custodire, trasmettere e utilizzare l’informazione genetica.
Ne esistono due tipi:
1. il DNA, che contiene l’informazione genetica;
2. l’RNA, che usa il messaggio genetico per dirigere correttamente la sintesi proteica.

Gli acidi nucleici sono polimeri di nucleotidi, i quali sono formati da uno un gruppo fosfato e un nucleoside
(zucchero pentoso + base azotata). Adenosina, guanosina, timidina, citidina e uridina sono i nomi dei
nucleosidi contenenti, rispettivamente, la adenina, la guanina, la timina, la citosina e l’uracile.
Le basi sono legate agli zuccheri mediante un legame N-glicosidico in posizione 1’. Quando i gruppi fosfato
nel nucleotide sono più di uno (difosfato e trifosfato) essi sono legati tra loro mediante un legame anidrico.

Sono basi azotate ad anello singolo le pirimidine C, T, U, e a doppio anello le purine A, G.


Nel DNA lo zucchero pentoso è il desossiribosio, nell’RNA è il ribosio (che ha un atomo di O in più).
L’ossatura del DNA consiste in una doppia catena di zuccheri pentosi alternati a gruppi fosfato (legati
covalentemente in direzione 5’ → 3’), in cui le basi azotate sono legate allo zucchero pentoso e sporgono
rispetto alla catena, andandosi a legare tramite legami a idrogeno con quelle dell’altra catena, che corre in
direzione opposta formando una doppia elica. Le molecole di RNA, al contrario, sono a catena singola.
Il gruppo fosfato si lega tramite legame fosfoestereo con l’ossidrile in 3’ e quello in 5’ del desossiribosio: per
questa ragione i desossinucleotidi nel DNA sono legati da legami fosfodiesterei.
I gruppi fosfato portano una carica negativa, che rende così negativi i due filamenti di DNA, i quali
risentirebbero di una rilevante repulsione che tenderebbero a dividerli, se non ci fossero in soluzione
acquosa ioni positivi che schermano questa repulsione.
La struttura a doppia elica è particolarmente stabile in quanto le coppie di basi sono planari essendo tutti i
loro atomi ibridizzati sp2, e gli elettroni dei rimanenti orbitali p formano legami π delocalizzati, quindi liberi
di muoversi su tutta la superficie degli anelli purinici e pirimidinici: tale mobilità genera dipoli elettrici
fluttuanti sul piano degli anelli, le cui interazioni fra una coppia di basi con quelli delle coppie poste al di
sopra e al di sotto genera una forza di attrazione molto forte (forza di stacking).
I dipoli nelle coppie G-C sono più forti di quelli che si creano nelle coppie A-T, quindi i DNA che presentano
molte coppie G-C sono più stabili di quelli in maggior contenuto di A-T. La natura ha sfruttato questo fatto
arricchendo di coppie A-T le zone di DNA che debbono aprirsi per prime.

Le quattro basi azotate si appaiano secondo il principio di complementarietà:


1. l’adenina (A) si appaia sempre con la timina (T) formando due legami a idrogeno;
2. la citosina (C) si appaia sempre con la guanina (G) formando tre legami a idrogeno;
Una purina grossa si appaia sempre con una pirimidina, più piccola.
I nucleotidi dell’RNA (ribonucleotidi) si differenziano per una sola base azotata: al posto della timina vi è
l’uracile (U).

Svariati nucleotidi hanno molteplici funzioni:


1. l’ATP agisce da trasportatore di energia;
2. il GTP è fonte di energia nella sintesi proteica;
3. il cAMP (adenosinmonofosfato ciclico) è fondamentale nei processi ormonali e la trasmissione di
segnali nervosi.
2. La cellula

Il volume di una cellula varia da 1 μm³ a 1000 μm³ (1 μm = 10⁻⁶ m, ossia un millesimo di millimetro).
Le dimensioni ridotte dipendono dalla necessità di mantenere un adeguato rapporto superficie-volume
(ossia fra la quantità di sostanze scambiabili e la quantità di attività chimica), per cui organismi di grandi
dimensioni devono essere comporti da molte piccole cellule.

Il potere risolutivo è la distanza che deve separare due oggetti perché l’occhio li percepisca come distinti,
ed è pari a circa 0,2 mm. I microscopi lo accrescono, in modo tale da osservare le cellule. Vi sono:
1. il microscopio ottico, che accresce di 1000 volte la risoluzione (permette di vedere forma e
dimensioni di alcune cellule, batteri, cromosomi in movimento e strutture interne tipo i mitocondri);
2. il microscopio elettronico, che accresce di 1.000.000 volte la risoluzione: con esso è possibile
distinguere i particolari di molte strutture sub-cellulari.

Le cellule si distinguono in:


1. procariotiche, senza membrane interne (archei, batteri, eubatteri, cianobatteri, cianoficee);
2. eucariotiche, molto più grandi e complesse (protisti, vegetali, funghi, animali).

LE CELLULE PROCARIOTICHE
Le cellule procariotiche sono avvolte da membrana plasmatica costituita da un doppio strato di fosfolipidi
che rivolgono le teste verso l’ambiente acquoso (interno ed extracellulare), mentre le code sono rivolte le
une verso le altre. I mesosomi sono invaginazioni della membrana coinvolte in vari processi fra cui
respirazione, fotosintesi e scissione binaria (i procarioti si riproducono per scissione binaria).
All’interno della membrana si trova il citoplasma in cui avvengono le reazioni cellulari. Si possono
distinguere varie parti:
1. il citoplasma è la parte fluida acquosa contenente ioni e molecole in soluzione;
2. i ribosomi sono aggregati di RNA e proteine dove avviene la sintesi proteica (traduzione);
3. il nucleoide contiene il DNA sotto forma di unica molecola circolare non proteica, in cui i geni
batterici sono organizzati in operoni, cioè una unità trascrittiva contenente l’informazione per più di un
polipeptide;

Alcuni procarioti più sviluppati presentano inoltre:


1. una parete cellulare rigida esterna alla membrana plasmatica (fatta di amminozuccheri o
peptidoglicani), che sostiene e protegge la cellula. Può esserci anche una capsula (anche detta glicocalice),
ossia uno strato di muco polisaccaridico che dona al batterio capacità adesive e resistenza alla fagocitosi;
2. un sistema di membrane interne (ripiegamenti della plasmatica) necessarie alla fotosintesi;
3. flagelli, necessari per il movimento del procariote, e pili (più corti) che servono al batterio per
aderire ad un'altra cellula e scambiare materiale genetico (coniugazione, trasformazione, trasduzione) o
sostanze;
Un procariote è costituito da un’unica cellula, anche se spesso i procarioti si aggregano in gruppi o colonie.

I batteri sono organismi unicellulari procarioti. Possono essere aerobi obbligati (necessitano di ossigeno),
aerobi e anaerobi facoltativi (possono utilizzare l’ossigeno ma anche vivere in condizioni di anaerobiosi),
anaerobi obbligati (non sono in grado di sopravvivere in presenza di ossigeno).
Una ulteriore distinzione dei batteri in base alle loro interazioni con gli organismi con i quali convivono:
1. Batteri commensali, che vivono in simbiosi con l’organismo in un rapporto di reciproca utilità:
a. Flora batterica intestinale (es: Escherichia Coli), la quale è per la maggior parte anaerobia;
b. Flora batterica vaginale (es: Lactobacillus), responsabili dell’ambiente acido della vagina.
2. Batteri patogeni, i quali possono dividersi in:
a. Patogeni facoltativi, che normalmente non causano patologia, ma possono divenire
patogeni per aumento del loro numero o colonizzazione di determinate regioni;
b. Patogeni obbligati, che causano sempre una patologia.
LE CELLULE EUCARIOTICHE (animali)
Le cellule eucariotiche sono caratterizzate da organuli, compartimenti delimitati da membrana.

Tutte le cellule eucariotiche, come i procarioti, sono delimitate da una membrana plasmatica, un involucro
che regola gli scambi, costituita in primis da un doppio strato fosfolipidico (caratteristica fisico-chimica
anfifilica) con teste idrofile che si dispongono verso l’ambiente acquoso (interno ed esterno)
spontaneamente (sistema dinamico), ma anche da proteine di membrana, colesterolo e carboidrati.
I carboidrati di membrana sono associati a lipidi (glicolipidi) o proteine (glicoproteine o proteoglicani):
1. Le glicoproteine di membrana, responsabili della comunicazione cellula-cellula, sono proteine alla
cui catena polipeptidica è legata una catena olisaccaridica (fatta di carboidrati e definita glicano):
un polipeptide di questo tipo viene anche definito proteina glicosilata. Il glicano è attaccato
mediante una modificazione post-traduzionale della proteina mediante un processo di
glicosilazione che avviene nell’apparato del Golgi. I glicani sono spesso aggiunti a proteine che
presenta un segmento extracellulare. Le proteine intrinseche sono ad esempio quasi sempre
glicosilate;
2. I glicolipidi sono molecole formate da oligomeri di carboidrati legati a lipidi (la porzione lipidica
garantisce l’ancoraggio alla membrana), e fungono da siti di riconoscimento per sostanze chimiche
specifiche provenienti dall’esterno.
Il colesterolo si inserisce vicino ad un acido grasso insaturo, conferisce maggior resistenza agli stimoli
meccanici e regola la fluidità della membrana (la quale è regolata anche dal grado di insaturazione degli
acidi grassi componenti). Le proteine di membrana possono essere:
1. intrinseche se attraversano completamente il doppio strato fosfolipidico;
2. estrinseche se sono legare solo ad una delle due facce.
Fosfolipidi e proteine possono effettuare movimenti laterali (modello a mosaico fluido).
Possono essere enzimi, proteine di trasporto o recettori cellulari. Recentemente sono state scoperte
proteine di membrana specifiche per trasportare l’acqua, dette acquaporine.

La membrana ha tre significati:


1. strutturale, in quanto separa gli ambienti e dà forma alla cellula;
2. funzionale, in quanto regola gli scambi di materiali;
3. di comunicazione/integrazione: in quanto presenta recettori che possono modificare il
metabolismo, aderire ad altre cellule, avere funzione inibitoria da contatto o essere antigeni.

Il nucleo contiene il DNA. E’ la sede della duplicazione e del controllo genetico dell’attività cellulare.
Contiene il nucleolo, dove ha inizio il montaggio dei ribosomi a partire da RNA e proteine, e molti complessi
multienzimatici, come lo spliceosoma (deputato alla rimozione degli introni dall’ mRNA immaturo e
costituito da proteine e piccole molecole di RNA nucleare snRNA). Nel nucleolo si trovano anche gli snoRNA
(small nuclear RNA), che hanno varie funzioni. Nel nucleo e nel citoplasma, inoltre si trovano i
microRNA/siRNA, che hanno la funzione di regolare l’espressione genica.
E’ avvolto da una doppia membrana (involucro nucleare/nucleolemma), perforata da migliaia di pori
nucleari che mettono in relazione nucleo e citoplasma tramite scambi selettivi. I pori nucleari sono
composti da 8 proteine canale disposte ad ottamero e da centinaia di altre proteine che formano le diverse
subunità. Molecole e proteine più piccole passano per diffusione, mentre alcune proteine particolarmente
grandi necessitano di un meccanismo di trasporto attivo che prevede il riconoscimento di una particolare
sequenza di localizzazione nucleare (NLS) da parte di proteine di trasporto dette recettori per il trasporto
nucleare a cui appartengono le carioferine che funzionano come importine o esportine. La membrana più
esterna può estroflettersi e mettersi in continuità col RE (sistema continuo di endomembrane).

Le molecole di DNA associate a proteine strutturali (istoni) formano la cromatina (ammasso indistinto di
filamenti despiralizzati), che prima della divisione cellulare si addensa in cromosomi densi e compatti.
Le cellule anucleate, come i globuli rossi, le piastrine o le cellule dello strato corneo della pelle, sono
impossibilitate a dividersi, e il loro numero viene mantenuto costante grazie a continui processi
differenziativi che portano le cellule precursori (dotate di nucleo funzionale) a diventare cellule
differenziate prive di nucleo.
I ribosomi sono composti da due subunità (maggiore e minore), sono formati da RNA ribosomiale (rRNA), e
sono i siti dove vengono sintetizzate le proteine a grazie all’mRNA. Sono assemblati dai nucleoli,
fuoriescono tramite i pori nucleari e il possono trovare liberi nel citoplasma, all’interno di mitocondri o
cloroplasti, e attaccati al RER. Gruppi di ribosomi che si associano allo stesso mRNA sono detti polisomi.

Il reticolo endoplasmatico costituisce una rete di membrane interconnesse che si dirama per tutta la
cellula. Lo spazio interno del RE si chiama lume. Dal momento che alcune regioni del RE sono costellate di
ribosomi, si distingue in:
1. reticolo endoplasmatico ruvido (RER), adibito a sintetizzare membrane, proteine di secrezione
(destinate a espletare la loro funzione fuori dal citoplasma) e proteine da inviare ad altri organuli (dopo
essere sintetizzate passano nel lume dove vengono modificate e poi inviate a destinazione tramite vescicole
di trasporto);
2. reticolo endoplasmatico liscio (REL), privo di ribosomi, è in comunicazione col RER, ed è: la sede
della sintesi dei lipidi anch’essi trasferiti all’apparto del Golgi (fosfolipidi e steroidi, es: reticolo di
ovaie/testicoli sintetizza ormoni sessuali steroidei), dell’idrolisi del glicogeno, della trasformazione chimica
di tossine, e immagazzina ioni calcio (necessari nei muscoli per la contrazione).

L’apparato di Golgi è un insieme di sacchetti non comunicanti e vescicole circondate da membrana.


Svolge varie funzioni: riceve le proteine di secrezione del RE e le elabora ulteriormente (si occupa quindi
delle modifiche post-traduzionali tramite, per esempio, la glicosilazione), elabora e smista le proteine prima
della loro destinazione ultima, è la sede della sintesi dei polisaccaridi nei vegetali.
L’apparato di Golgi presenta un orientamento definito: le cisterne del lato cis-Golgi sono rivolte verso il
nucleo mentre il lato opposto verso la membrana citoplasmatica viene definito trans-Golgi: le proteine di
secrezione immature arrivano dal RER al cis-Golgi, e lasciano il Golgi stesso dal suo lato trans.
Nelle cellule con attività secretoria è molto sviluppato

I lisosomi sono costituiti da enzimi digestivi racchiusi in un organulo a singola membrana.


Vengono prodotti dal RER, che origina enzimi e membrane, e dal Golgi, che rielabora e libera i lisosomi per
gemmazione. Nei lisosomi le macromolecole (che arrivano nella cellula, per esempio, per fagocitosi tramite
il vacuolo alimentare) vengono idrolizzate in monomeri, grazie al pH molto basso dell’ambiente lisosomiale
e gli enzimi litici prodotti dal RER (fosforilati da una fosfotransferasi), di cui i lisosomi sono colmi.
La membrana lisosomiale isola gli enzimi digestivi (idrolitici) dal resto del citoplasma così da non rischiare
che la cellula si auto-digerisca. I lisosomi digeriscono inoltre i propri organuli vecchi o danneggiati per
autofagia, in maniera da rendere disponibili le singole molecole per assemblarne di nuovi; distruggono
inoltre i batteri nocivi, sono infatti abbondanti nei globuli bianchi. Hanno infine un ruolo essenziale nello
sviluppo embrionale, dove distruggono le cellule delle membrane interdigitali dell’embrione, e nello
sviluppo delle ossa, dove vanno incontro ad autolisi (morte programmata). Sono particolarmente sviluppati
nei granulociti neutrofili.

I perossisomi, a membrana singola, contengono enzimi (catalasi e perossidasi) che demoliscono i perossidi
tossici che si formano come prodotti intermedi di alcune reazioni. Gli enzimi provvedono alla deaminazione
degli amminoacidi grazie alla loro capacità di produrre acqua ossigenata a partire da ossigeno molecolare.

I mitocondri sono le “centrali energetiche” della cellula; trasformano l’energia chimica dei nutrienti in ATP.
La demolizione delle molecole di nutrienti inizia nel citosol e ha termine infatti nei mitocondri, dove i
composti parzialmente demoliti vengono trasformati in molecole di ATP grazie al consumo di O₂ tramite la
respirazione cellulare. Presentano due membrane (le membrane mitocondriali sono prive di colesterolo ma
presentano cardiolipina):
1. una esterna liscia con funzione protettiva, permeabile alle piccole molecole e gli ioni;
2. una interna molto estesa che si ripiega più volte su se stessa a formare varie creste per
aumentare la superficie che permette di disporre di un numero maggiore di complessi di ATP sintetasi,
permeabile a tutti gli ioni e le molecole polari. Per essere attraversata sono necessarie proteine di
trasporto.
Lo spazio delimitato dalla membrana interna è la matrice mitocondriale, che contiene enzimi, DNA e
ribosomi che sintetizzano proteine utili alla respirazione. E’ il sito dove avviene il ciclo di Krebs.
La membrana interna ha un rapporto proteine/lipidi di 3:1. L’elevato contenuto proteico è rappresentato
da tutti i complessi deputati alla fosforilazione ossidativa e alla produzione di ATP tramite il complesso
dell’ATP sintetasi, che genera ATP sfruttando la differenza di concentrazione di protoni che si è generata sui
due lati della membrana. Le due facce della membrana interna vengono chiamate, rispettivamente,
versante della matrice e versante citosolico, oppure versante N (negativo) e versante P (positivo).
Possiedono un proprio DNA circolare con cui producono proteine e si dividono per scissione binaria
(secondo la teoria endosimbiontica essi sarebbero infatti cellule procariotiche inglobate). Il mitocondrio
inoltre è dotato di ribosomi ed effettua un’autonoma sintesi delle proteine codificate dai geni
mitocondriali. I mitocondri dello zigote provengono dalla cellula uovo, sono infatti trasmessi per
ereditarietà materna.

Il citoscheletro presente nel citoplasma eucariotico sostiene la cellula, le dà forma ed è alla base del
movimento. I suoi componenti essenziali sono:
1. i microfilamenti sono polimeri di actina (proteina contrattile), che possono essere singoli o in
fasci. Contribuiscono al movimento della cellula o di alcune sue parti; ne determinando e mantengono la
forma;
2. i filamenti intermedi sono composti da proteine fibrose (cheratine). Rafforzano la struttura
cellulare e oppongono resistenza alla tensione (es: desmosomi). La lamina nucleare è una struttura di
filamenti intermedi che mantiene in posizione in nucleo cellulare;
3. i microtubuli sono costituiti da 13 filamenti di tubulina (proteina globulare), e formano uno
scheletro interno rigido. La struttura dinamica del microtubulo prevede che molecole di tubulina possano
essere aggiunte o rimosse per modulare la lunghezza. Essi servono anche da “binari” per le proteine
motrici, che utilizzano ATP cambiare forma e spostarti, trasportando materiali nella cellula.
I centrioli sono organelli cilindrici fatti da 9 gruppi di 3 microtubuli. Nella cellula animale ne sono presenti 2
disposti ad angolo retto, la regione centrale dei centrioli è il centrosoma.
La citocalasina, impedendo la formazione dei microtubuli, impedisce la mitosi e la meiosi.

Prolungamenti citoplasmatici derivanti dal montaggio di microtubuli e circondati da membrana, possono


muovere la cellula nell’ambiente acquoso. Sono principalmente di due tipi:
1. le ciglia, più corte e molto numerose;
2. i flagelli, lunghi e singoli o in coppia, producono un movimento serpentiforme.
Lo schema di queste estroflessioni è il 9+2, ossia 9 coppie di microtubuli fusi a doppiette formano un
cilindro esterno che contiene una coppia di microtubuli liberi e si collega ad essi.
Il moto di ciglia e flagelli deriva dallo scorrimento l’una sull’altra delle doppiette di microtubuli, grazie
all’azione di una proteina motrice alimentata dall’ATP cellulare.

Le cellule animali sono circondate da una matrice extracellulare composta da proteine fibrose come il
collagene e da una matrice di proteoglicani. Essa tiene unite cellule di un tessuto, filtra i materiali che
attraversano i tessuti, orienta i movimenti delle cellule (es: durante lo sviluppo embrionale o la
rigenerazione dei tessuti), svolge un ruolo nell’invio di segnali chimici.
Al contrario dei tessuti cerebrali dove è molto scarsa, è molto abbondante nella cartilagine e nelle ossa
(dove le cellule sono immerse in una matrice di collagene e fosfato di calcio).
COMUNICAZIONE FRA CELLULE
Il raggruppamento delle cellule in tessuti è reso possibile dal riconoscimento cellulare (una cellula si lega ad
un’altra uguale) e l’adesione meccanica, entrambi processi a carico della membrana cellulare. Questi
processi dipendono dalle proteine della membrana plasmatica. Vi sono inoltre strutture specializzate,
chiamate giunzioni cellulari, che le tengono unite:
1. nelle giunzioni occludenti, determinate proteine di membrana determinano l’adesione delle
cellule tramite una “cintura” che serra le cellule insieme. Garantiscono un flusso direzionale di materiali fra
i due lati della membrana;
2. giunzioni ancoranti (desmosomi) presentano una struttura una placca alla quale sono attaccate
fibre di cheratina e proteine per l’adesione cellulare che, partendo dalla placca, attraversano la membrana
e lo spazio intercellulare, fino a legarsi con la placca dell’altra cellula;
3. le giunzioni comunicanti (o serrate, o gap junctions) sono composte da canali proteici detti
connessioni (le proteine di tali canali sono dette connessine) che attraversano le membrane di due cellule
adiacenti e facilitano il passaggio di ioni e micromolecole.
Cellule distanti comunicano tramite messaggeri chimici trasportati dal sangue, che si legano ai recettori
della cellula bersaglio.

LE CELLULE EUCARIOTICHE (vegetali)


Oltre a contenere gli organelli delle cellule animali (membrana, nucleo, ribosomi, RE, Golgi, perossisomi),
quelle vegetali sono dotate di alcune strutture specifiche.

La parete cellulare, una struttura semirigida composta da fibre di cellulosa, che: fornisce sostegno alla
cellula e dà forma alla pianta, fa da barriera contro infezioni fungine. Presenta plasmodesmi che
permettono il passaggio di sostanze e sono essenziali nella comunicazione fra cellule vegetali adiacenti.

I vacuoli, che contengono soluzioni acquose e sostanze disciolte. Sono circondati da una sottile membrana
chiamata tonoplasto, costituita da numerose proteine e da fosfolipidi. All’interno del tonoplasto troviamo il
succo vacuolare, soluzione composta per la maggior parte da acqua. Il tonoplasto svolte un ruolo attivo nel
trasporto di sostanze e nella loro ritenzione all’interno del vacuolo.
I vacuoli prodotti tossici e sostanze di scarto, e hanno funzione di sostegno in quanto costituiscono spesso
più del 90% del volume cellulare vegetale (si ingrossano con l’invecchiamento). Conferiscono turgore, ossia
quando la cellula assorbe acqua si genera una pressione contro la parete cellulare rigida che impedisce
l’ingresso di ulteriore acqua. Sono la sede, nei vegetali, della funzione lisosomiale.
I protozoi hanno vacuoli nutritivi e contrattili.

I cloroplasti sono plastidi prodotti solo dalle piante. Contengono il pigmento verde clorofilla e sono la sede
della fotosintesi, fornendo nutrienti ad autotrofi (ed eterotrofi).
Come i mitocondri, sono circondati da due membrane, e possiedono una serie di membrane interne a
forma di sacchetti discoidali (tilacoidi, che contengono la clorofilla) impilati gli uni sugli altri, chiamati grani.
I tilacoidi dei grani sono interconnessi in una serie estesa di membrane interne. I vari grani si trovano
sospesi nello stroma, un liquido contenente DNA e ribosomi. Altri plastidi sono:
1. i leucoplasti, che contengono sostanze di riserva (amidi e grassi) e non contiene pigmenti. Lo si
ritrova nelle radici e nei tessuti non fotosintetici delle piante;
2. i cromoplasti, che contengono pigmenti rossi;
3. gli amiloplasti.
Unite da plasmodesmi, le cellule vegetali si comportano come un’unica unità funzionale definita continuum
simplastico o più semplicemente simplasto.
I MECCANISMI DI SCAMBIO
La semipermeabilità delle membrane determina il passaggio selettivo di sostanze, che si esplica in vari
meccanismi di trasporto. Possono essere attivi o passivi, a seconda se richiedono energia per avvenire o no.
I meccanismi di trasporto passivo (no energia, secondo gradiente) comprendono:
1. diffusione semplice, ossia il movimento casuale e spontaneo delle particelle verso l’equilibrio,
secondo il proprio gradiente di concentrazione (da una zona molto concentrata a una meno concentrata).
La velocità con cui avviene cresce al crescere della distanza da percorrere, per cui è efficace solo negli
scambi fra singole cellule o micro-tessuti. Raggiunto l’equilibrio, le molecole continuano a diffondere in
entrambe le direzioni secondo un equilibrio dinamico. Le piccole molecole e le idrofobiche (solubili non in
acqua ma nei lipidi) penetrano facilmente nella membrana, mentre quelle polari o ioniche (amminoacidi,
zuccheri, ioni) non attraversano facilmente la membrana in quanto formano molti legami con l’acqua che
impediscono loro di attraversare la membrana, il cui interno è idrofobico, quindi repulsivo nei confronti di
quelle sostanze idrofile;
2. l’osmosi (diffusione semplice di acqua), si verifica in relazione alla concentrazione dei soluti
disciolti in essa: l’acqua diffonde dalla zona in cui la propria concentrazione è maggiore (ipotonica, diluita)
verso quella dove essa è minore (ipertonica, concentrata). La direzione dell’osmosi è determinata dalla
differenza di concentrazione totale dei soluti (una zona in cui è presente molto soluto rispetto ad un’altra
richiederà, da essa, un apporto di acqua, che renderà le due zone isotoniche). Le cellule vegetali in
soluzione ipertonica subiscono plasmolisi, ossia il distacco della membrana dalla parete e la fuoriuscita di
acqua;
3. la diffusione facilitata riguarda molecole più grosse o polari, che transitano tramite canali
proteici o proteine di trasporto, senza consumo di energia. I canali proteici (canali ionici) sono proteine che
presentano un poro centrale che, se opportunamente stimolato, si può aprire consentendo il passaggio
delle molecole polari idrofile. Le proteine di trasporto (es: trasportatore del glucosio) consentono il
passaggio di molecole polari implicano la formazione di un legame tramite il sito tridimensionale della
proteina (che cambia conformazione) e la molecola, che viene rilasciata nell’altro versante.

I meccanismi di trasporto attivo che avvengono pompando soluto nella direzione contraria a quella del
gradiente idrolizzando ATP, invece, comprendono:
1. le pompe proteiche (proteine trasportatrici) che spostano ioni, e possono essere: vettrici se
legano la sostanza e poi cambiano conformazione rilasciandola, o canale, che formano pori di forma
specifica e si aprono tramite segnali elettrochimici o legami con molecole specifiche. Le tre modalità di
trasporto sono: uniporto (una sostanza unidirezionalmente), simporto (due sostanze unidirezionalmente),
antiporto (due sostanze in direzioni opposte).
La pompa sodio-potassio (Na⁺-K⁺), costituita da una glicoproteina intrinseca, idrolizza ATP e usa l’energia
per far entrare nella cellula 2 K⁺, ed esportare 3 Na⁺ (tipico meccanismo dei neuroni).
Queste pompe proteiche creano un potenziale di membrana.

Macromolecole polari troppo grosse per attraversare la membrana entrano nella cellula per endocitosi; la
membrana si introflette attorno alla molecola generando una vescicola (vacuolo alimentare) che si stacca
dalla membrana. L’endocitosi può essere costitutiva o regolata. Nell’endocitosi costitutiva, la vescicola
viene immediatamente rilasciata dalla membrana plasmatica per fondersi con altri organuli cellulari.
Nell’endocitosi regolata, il rilascio definitivo delle vescicole è controllato da un’ulteriore segnalazione di
alcune proteine intrinseche della membrana della vescicola. Si conoscono tre meccanismi:
1. la fagocitosi, che prevede appunto la formazione di un vacuolo (fagosoma), che una volta entrato
si fonde con un lisosoma, che digerisce il suo contenuto (es: leucociti incorporano per fagocitosi sostanze
estranee). La fagocitosi richiede da parte della cellula l’emissione di espansioni citoplasmatiche delimitate
da membrana, chiamate pseudopodi, costituite da un’impalcatura esterna formata da filamenti di actina
che avvolge completamente il materiale da ingerire;
2. la pinocitosi, che serve a importare soprattutto sostanze liquide;
3. l’endocitosi mediata da recettori, nella quale l’assunzione di determinate sostanze è innescata da
una reazione specifica sulla superficie (recettori proteici che si legano a specifici ligandi).
L’esocitosi è il processo inverso, che riversa fuori dalla cellula tramite vescicole che si fondono con la
membrana le sostanze da secernere (es: gli enzimi digestivi prodotti dal pancreas o i neurotrasmettitori).
L’autofagocitosi è una modalità con cui la cellula decide di degradare dei suoi organuli per rinnovarli:
avvolge l’organulo con membrane del suo REL (di solito avviene nei lisosomi). Quello che si forma in seguito
sarà una grossa vescicola chiamata autofagosoma che sarà poi espulsa per esocitosi.

MORTE CELLULARE: APOPTOSI E NECROSI


L’apoptosi indica una forma di morte cellulare programmata. E’ un processo biochimico che può
coinvolgere il mitocondrio e che si sviluppa in modo ordinato e regolato, con consumo di ATP. Fa parte
integrande dei processi di sviluppo embrionale e generalmente porta ad un vantaggio durante il ciclo vitale
dell’organismo. Processi difettosi di apoptosi riguardano numerose malattie: un’eccessiva attività
apoptotica può essere indice di malattie neuro-degenerative (es: morbo di Parkinson), mentre un’apoptosi
carente può implicare una neoplasia.
Una cellula apoptotica diventa sferica, perde contatto con le cellule adiacenti, presenta una cromatina
degradata e condensata, specifiche caspasi degradano le proteine dei pori nucleari e il nucleolemma, che
diventa discontinuo e le molecole di DNA sono frammentate il un processo detto carioressi; il plasmalemma
si rompe, e la cellula è fagocitata oppure si divide in più vescicole chiamate corpi apoptotici grazie ad un
processo di bledding.
Nella necrosi al contrario si osserva la lisi, ossia la disgregazione parziale o totale della cellula: il nucleo si
distrugge fino a uniformare la cromatina con il citoplasma, la membrana cellulare si disgrega velocemente e
il citoplasma si riversa all’esterno danneggiando le pareti di altre cellule, determinando una reazione
immunitaria e una probabile risposta infiammatoria.
Invece, l’apoptonecrosi (o necroptosi) è il processo mediante il quale una cellula che comincia i processi
apoptotici, se giunta ad un punto di non ritorno e non ha più disponibilità di ATP, termina la sua morte
programmata con le caratteristiche della necrosi.
3. Il metabolismo energetico
Il metabolismo è l’insieme delle reazioni chimiche che trasformano energia e materia nella cellula, e
necessita un apporto energetico esterno.
Le reazioni anaboliche sintetizzano molecole complesse a partire da molecole semplici; richiedono energia
per avvenire, sono quindi endoergoniche.
Le reazioni cataboliche demoliscono molecole complesse in molecole più semplici; liberano energia dei
legami chimici, sono quindi esoergoniche.

L’ATP
Le cellule utilizzano il nucleotide ATP (adenosintrifosfato) come moneta energetica per alimentare le
reazioni, dato che la sua idrolisi genera grandi quantità di energia. L’ATP è formato dall’adenina legata ad
un ribosio (zucchero pentoso) a formare l’adenosina, e da tre gruppi fosfato. Può scindersi in ADP e AMP
perdendo rispettivamente uno o due gruppi fosfato.
L’idrolisi di 1 mol ATP libera -7,3 kcal/mol (ATP → ADP + fosfato), la sintesi (ADP + fosfato → ATP) richiede
la stessa quantità di energia: sintesi e idrolisi di ATP costituiscono il “ciclo di accoppiamento energetico”.
L’idrolisi è spesso accoppiata alla fosforilazione, ossia il legame fra il gruppo fosfato perduto dall’ATP
divenuto ADP, che va a legarsi covalentemente ad un’altra molecola donandole l’energia necessaria per
compiere il suo lavoro; una volta terminato, il fosfato si unisce nuovamente all’ADP per ricostruire ATP.
La respirazione cellulare è la più importante reazione metabolica che cattura l’energia liberata dalle
molecole di nutrienti e sintetizza ATP spendibile per le reazioni anaboliche (es: trasporto attivo, ecc.)

GLI ENZIMI
Gli enzimi accelerano le reazioni cellulari, accrescendone la velocità.
La lentezza di alcune reazioni è dovuta alla soglia energetica, una piccola quantità di energia supplementare
necessaria a spezzare i legami chimici chiamata energia di attivazione, che i reagenti richiedono per
innescare la reazione.
Gli enzimi sono catalizzatori biologici altamente specifici il cui compito è abbassare l’energia di attivazione.
Un enzima riconosce un singolo reagente (substrato) in accordo con la sua specificità, e si lega ad esso nel
sito attivo, che ha una precisa forma e struttura tridimensionale; si forma così il complesso enzima
substrato (ES). Catalizzata la reazione, l’enzima libero riacquista la sua forma chimica originaria.
Talvolta l’enzima richiede la partecipazione di altre molecole: coenzimi, cofattori (ioni inorganici), gruppi
prostetici. Gli enzimi, avendo una complessa struttura proteica, sono sensibili a variazioni di pH e
temperatura; se vengono sottoposti a temperature alte o repentine variazioni di pH vanno incontro a
denaturazione (le interazioni deboli della struttura terziaria si spezzano).

LA GLICOLISI
L’insieme di reazioni coinvolte nel medesimo processo costituisce una via metabolica, in cui ogni reazione è
catalizzata da un enzima specifico, che ne determina la velocità.
Le cellule hanno bisogno di ricavare energia dai nutrienti, in particolare dal glucosio (C₆H₁₂O₆), nel quale, tra
l’altro, devono prima trasformarsi grassi e proteine per venire utilizzati.
La via metabolica più importante per ricavare è la glicolisi, che dà l’avvio al metabolismo del glucosio
scindendolo in due molecole di piruvato/acido piruvico (CH₃-CO-COOH), ha come risultato 2 ATP. Può
proseguire con:
1. la fermentazione (in assenza di ossigeno), che completa la glicolisi trasformando il piruvato in
acido lattico (fermentazione lattica) o alcol etilico (fermentazione alcolica). E’ un processo anaerobico, che
non produce un ulteriore guadagno energetico;
2. la respirazione cellulare, che utilizza O₂, e trasforma ciascuna molecola di piruvato in tre molecole
di CO₂. E’ un processo aerobico, che libera molta energia per sintetizzare ATP.
Molte reazioni del metabolismo del glucosio sono ossidoriduzioni (redox), in cui una sostanza cede uno o
più elettroni:
1. la sostanza che cede elettroni (agente riducente) si ossida;
2. la sostanza che acquista elettroni (agente ossidante) si riduce.
Dal momento che: H (idrogeno) = H⁺ + e⁻, una molecola che cede H si ossida, una che acquista H si riduce.
Ossidazione e riduzione avvengono sempre insieme.
Nella glicolisi il glucosio è l’agente riducente (cede e⁻/H ossidandosi), l’ossigeno l’agente ossidante (riceve
e⁻/H riducendosi).

Il coenzima NAD (nicotinammide adenin dinucleotide) agisce come trasportatore di elettroni.


Si presenta in due forme chimicamente distinte: la forma ossidata (NAD⁺) e la forma ridotta (NADH + H⁺),
che si ottiene facendo reagire il NAD⁺ con 2 atomi di idrogeno.
Al pari del NAD, il FAD (flavin adenin dinucleotide) trasferisce elettroni durante il metabolismo del glucosio.

La glicolisi è un processo di ossidazione parziale del glucosio in 9 tappe (ciascuna catalizzata dallo specifico
enzima) che ha luogo nel citoplasma. Può essere divisa in due fasi:
1. la prima fase comprende le prime 4 reazioni endoergoniche (che consumano energia): vengono
idrolizzate due molecole di ATP per fosforilare due volte lo zucchero, che viene scisso in due molecole di
G3P (gliceraldeide 3-fosfato), uno zucchero fosfato a tre atomi di C. Bilancio: -2 ATP, +2 G3P;
2. la seconda fase comprende le altre 5 reazioni esoergoniche (liberano energia): le due molecole di
G3P vengono ossidate e trasformate in due molecole di piruvato. Bilancio: +4 ATP, +2 NADH + H⁺, +2
piruvato.
Il bilancio netto è la produzione di 2 molecole di ATP, 2 molecole di piruvato (CH₃-CO-COOH), e la riduzione
di due molecole di NAD⁺ a NADH + H⁺, per ogni glucosio consumato.

Perché la glicolisi continui, è necessaria la riossidazione di NADH a NAD⁺.

LA RESPIRAZIONE CELLULARE
Nelle cellule aerobie l’ossidazione del glucosio è completata dalla respirazione cellulare, una via metabolica
in più tappe che avviene nei mitocondri.

Il piruvato prodotto dalla glicolisi viene ossidato (ossidazione del piruvato) ad acetile (una molecola a 2
atomi di C) grazie alla perdita di un CO₂ per ogni piruvato (quindi 2 CO₂ in totale), e successivamente
trasformato in acetil-CoA grazie al legame con il coenzima A, catalizzato dalla piruvato deidrogenasi, un
complesso enzimatico addossato alla membrana del mitocondrio, in cui entra il piruvato. Inoltre una
molecola di NAD⁺ è ridotta a NADH + H⁺.
L’acetil-CoA così prodotto è il punto di partenza per il ciclo di Krebs/dell’acido citrico, che avviene nella
matrice mitocontriale, che porta all’ossidazione completa dell’acetile.
Il ciclo inizia con il legame del gruppo acetile dell’acetil-CoA all’ossalacetato, per formare così il
citrato/acido citrico (a 6 atomi di C). Successivamente, il gruppo acetile viene completamente ossidato,
liberando 2 CO₂, riducendo 3 molecole di NAD⁺ a NADH + H⁺, 1 di FAD⁺ a FADH₂ e producendo 1 ATP.
Dato che le molecole di piruvato trasformate in acetil-CoA sono due per ogni glucosio, il ciclo di Krebs si
compie due volte, producendo: 4 CO₂, 6 NADH + H⁺, 2 FADH₂.

Nella fase seguente il NADH e il FADH₂ generati dal ciclo di Krebs si ossidano, cedendo elettroni
all’ossigeno, che si riduce ad acqua.
Nella catena di trasporto degli elettroni (detta anche catena respiratoria), gli elettroni di NADH e FADH₂
passano in 4 complessi proteici posti sulla membrana interna dei mitocondri, in grado di accettarli e cederli
cambiando stato di ossidazione (trasportatori di elettroni), ciascuno con affinità maggiore (per gli e⁻) del
precedente, fino di arrivare all’ossigeno, l’accettore finale degli elettroni.
Il citocromo è una piccola proteina estrinseca che sta addossata alla membrana mitocondriale interna.
Il coenzima Q (ubichinone) è anch’esso un trasportatore di elettroni.
La produzione di ATP accoppiata al trasporto degli elettroni nella catena respiratoria è detta fosforilazione
ossidativa e avviene grazie a un meccanismo di accoppiamento chemiosmotico: durante il trasporto degli
elettroni, i protoni (ioni H⁺) sono pompati nello spazio tra le due membrane generando un gradiente
elettrochimico; essi rientrano poi nella matrice attraverso un canale della proteina ATP sintetasi e il loro
flusso fornisce l’energia necessaria per sintetizzare ATP partendo da ADP e fosfato.
Al pari dei carboidrati (idrolizzati a glucosio), lipidi e proteine possono essere trasformati in prodotti
intermedi della glicolisi, e utilizzati come fonte di energia. Similmente, questi prodotti intermedi possono
formare glucosio tramite la gluconeogenesi, ed essere sfruttati per la sintesi di ATP.

RIASSUNTO DEL METABOLISMO DEL GLUCOSIO


LA FERMENTAZIONE
La fermentazione avviene nel citoplasma, ed è la tappa successiva alla glicolisi che si verifica in condizioni
anaerobiche (mancanza di ossigeno). Vi sono due tipi di fermentazione:
1. la fermentazione lattica (es: cellule muscolari durante un’intensa attività fisica rimangono in
carenza di O₂, batteri del latte), in cui il piruvato viene ridotto dal NADH (aggiunti 2 H) e trasformato così in
acido lattico (e viene rigenerato il NAD⁺);
2. la fermentazione alcolica (es: lievitazione del pane, cellule vegetali), in cui il piruvato viene
convertito in acetaldeide (perde 2 CO₂), e successivamente ridotto dal NADH, producendo alcol etilico e
rigenerando il NAD⁺.
La resa energetica della fermentazione è nulla (non produce ATP), ma serve a riossidare il NADH a NAD⁺.

LA FOTOSINTESI
Gli organismi autotrofi, al contrario degli eterotrofi, ricavano energia dalla luce solare attraverso la
fotosintesi: si chiamano infatti fotoautotrofi, e la sfruttano per l’organicazione del carbonio per trasformare
CO₂ in glucosio.
Avviene nei cloroplasti, in cui l’energia è catturata da alcuni pigmenti:
1. le clorofille (a, b che assorbono le lunghezze d’onda del blu e del rosso), con conformazione ad
anello con un atomo di Mg (magnesio) centrale, e una lunga coda idrocarburica periferica, che serve ad
agganciare la molecola di clorofilla alle proteine di membrana tilacoidale dei cloroplasti;
2. i pigmenti accessori quali carotenoidi o ficobiline assorbono le lunghezze d’onda intermedie.

Il processo fotosintetico avviene in due fasi:


1. la fase luminosa, che avviene sulla membrana dei tilacoidi, in cui la luce viene catturata dalla
clorofilla e trasformata in energia chimica (sotto forma di ATP e NADPH);
2. la fase oscura (indipendente dalla luce), che comprende il Ciclo di Calvin, che si svolge nello
stroma, in cui l’ATP e il NADPH vengono usati per ridurre CO₂ e sintetizzare glucosio.

Nel ciclo di Calvin, il C della CO₂ lega il RuBP producendo un composto intermedio che viene scisso in due
molecole di 3PG, processo catalizzato dal rubisco, la proteina più abbondante della terra. Il 3PG viene
ridotto a G3P (gliceraldeide 3-fosfato), grazie all’ATP e il NADPH sintetizzato durante le reazioni luminose.
Ogni 6 molecole di CO₂ vengono prodotte 12 molecole di G3P, 2 delle quali costituiscono il guadagno netto
del ciclo (le altre 10 riprendono il ciclo formando RuBP), in quanto si uniscono per formare fruttosio
difosfato dal quale si origina glucosio fosfato, che può essere usato per produrre saccarosio, o sintesi di
amido o cellulosa.

L’equazione globale del processo è: 6 CO₂ + 6 H₂O + energia → C₆H₁₂O₆ + 6 O₂


4. La divisione cellulare

La divisione cellulare è il processo grazie al quale una cellula ne genera un’altra. Può essere:
1. sessuata, il processo riproduttivo prevede l’unione di due gameti che portano con sé una copia
dei genomi dei genitori, i cui discendenti presenteranno un genoma diverso ma con caratteristiche di
entrambi;
2. asessuata, quando avviene a partire da un solo genitore che genera figli geneticamente uguali.
I procarioti si riproducono per scissione binaria, asessuata, le cellule eucariotiche vanno in mitosi o meiosi.

RIPRODUZIONE ASESSUATA
Nei procarioti (unicellulari) la scissione binaria coincide con la riproduzione dell’intero organismo.
I tipici segnali riproduttivi che spingono i procarioti a dividersi sono la temperatura (es: E. coli) e la
concentrazione di nutrienti. Quando le condizioni sono favorevoli, il cromosoma circolare (molecola singola
di DNA) si compatta ripiegandosi su se stesso grazie a proteine basiche che legano il DNA acido. La
duplicazione inizia nella regione ori (origine) e termina in corrispondenza della regione ter (terminazione).
Durante la segregazione del DNA ormai duplicato, le due regioni migrano verso le estremità opposte della
cellula, garantendo l’equa distribuzione di materiale genetico alle due cellule. La duplicazione e
segregazione del DNA avviene nel citoplasma in concomitanza con la citodieresi, la quale inizia con una
strozzatura (setto trasverso) della membrana plasmatica che si stringe fino a separare completamente le
due cellule.

La gemmazione, negli unicellulari (es: lievito), consiste in una mitosi seguita da una divisione ineguale del
citoplasma. La nuova cellula, più piccola, si accrescerà successivamente.
La sporulazione prevede la formazione di particolari cellule riproduttive, dette spore, in seguito a mitosi. La
spessa parete di queste spore permette loro di resistere in condizioni ambientali avverse, per poi generare
un nuovo individuo quando l’ambiente diventa favorevole.

IL CICLO CELLULARE
Il ciclo cellulare è l’insieme degli eventi compresi fra la nascita di una cellula e la sua divisione.
L’interfase è il periodo in cui la cellula svolge le proprie attività metaboliche e cresce di dimensioni.
Comprende tre sottofasi:
1. la sottofase G₁, in cui i cromosomi non sono ancora duplicati e la cellula non sente la necessità di
dividersi. E’ la fase di attività biosintetica, in cui la cellula raddoppia le proprie dimensioni e produce
organuli ed enzimi. Uno stato di quiescenza mitotica prolungata (temporanea o permanente, es: neuroni)
prende il nome di G₀. Fra G₁ e S per la cellula scatta l’obbligo di dividersi;
2. la sottofase S, in cui si duplica il DNA della cellula;
3. la sottofase G₂, in cui la cellula compie i preparativi per la mitosi, sintetizzando proteine.
Segue all’interfase la fase mitotica (M), in cui si verificano mitosi e citodieresi.

Per innescare il passaggio da G₁ a S e da G₂ a M, è fondamentale il ruolo delle chinasi ciclina-dipendenti


(CdK = cycline-dependent kinase), enzimi che catalizzano la fosforilazione di un enzima, attivandolo e quindi
permettendogli di catalizzare reazioni che innescano i processi della fase S e M.
Le CdK vengono attivate dalle cicline prodotte dalla cellula (es: cellule tumorali producono cicline in eccesso
che inducono mitosi incontrollate).
La mitosi può essere indotta anche da ormoni o fattori di crescita (es: prodotti dalle piastrine), come le
interluchine del sistema immunitario.
LA MITOSI
Affinché la segregazione del DNA avvenga equamente, è necessario che quest’ultimo si spiralizzi e si
condensi in un numero finito di cromosomi da ripartire equamente.
La spiralizzazione del DNA è resa possibile da proteine dette istoni, che interagiscono con il DNA formando
un complesso detto nucleosoma (unità fondamentale della cromatina), formato da 8 istoni, unito ad altri
nucleosomi da tratti di DNA linker intervallati da un istone aggiuntivo per compattare ulteriormente il DNA.
Gli istoni del nucleosoma sono di quattro tipi, H2A, H2B, H3, H4. Nel cromosoma i nucleosomi possono
presentarsi “a grani di rosario”, e allora la cromatina viene chiamata eucromatina, oppure in forma
condensata perché tenuti insieme da un quinto tipo di istone (H1) e allora la cromatina viene chiamata
eterocromatina: la differenza funzionale sta nel fatto che l’eucromatina è facilmente trascrivibile, mentre
l’eterocromatina non lo è. E’ possibile modificare la forma e la posizione del nucleosoma mediante l’azione
di complessi proteici chiamati complessi di rimodellamento.
Quando la cellula si divide, la cromatina si spiralizza ulteriormente fino a formare corpi tozzi, i cromosomi,
visibili nel nucleo appena prima della fase S. Le estremità dei cromosomi sono chiamate telomeri.

Dopo la duplicazione del DNA, ogni cromosoma risulta formato da due molecole di DNA identiche
(cromatidi fratelli), uniti in corrispondenza di una regione centrale, il centromero. Al termine della mitosi, i
cromatidi fratelli si separano l’uno dall’altro e si distribuiscono tra le due cellule figlie.
In una cellula umana in mitosi vi sono 46 cromosomi doppi, nelle due cellule figlie 46 cromosomi singoli.

Perché la ripartizione cromosomica avvenga correttamente, durante la mitosi compare una struttura
denominata fuso mitotico, costituito da microtubuli che si originano da due centrosomi, duplicatisi
anch’essi durante la duplicazione del DNA (2 centrosomi formati da 2 centrioli ciascuno disposti ad angolo
retto). Nel passaggio da G₂ a M, i due centrosomi migrano ai poli opposti della cellula.

Per maggiore chiarezza è necessario dividere la mitosi in vari stadi, sebbene essa sia un processo continuo.
La cellula uscente dalla fase S che ha DNA e centrosomi duplicati, entra in profase, che dà il via alla mitosi.
I cromosomi si spiralizzano e ciascuno appare formato da due cromatidi fratelli uniti nel centromero, nella
cui regione si sviluppa un cinetocore per ciascun cromatidio. I microtubuli iniziano a venire assemblati,
inizia a formarsi il fuso mitotico, i centrosomi si allontanano, la membrana nucleare si frammenta.
La prometafase è caratterizzata dalla completa scomparsa della membrana nucleare, dall’adesione di
ciascun cromosoma ai microtubuli in corrispondenza del cinetocore e dalla loro migrazione verso il centro
della cellula.
Durante la metafase i cromosomi raggiungono il centro della cellula e si allineano lungo il piano equatoriale
formando la piastra metafasica.

In ogni cromosoma metafasico si distinguono i bracci corti (indicati con la lettera p) e i bracci lunghi (indicati
con q). I cromosomi metacentrici sono quelli in cui il centromero è quasi al centro del cromosoma (bracci
corti e lunghi hanno quasi la stessa lunghezza). Nei cromosomi submetacentrici il centromero è spostato
verso l’estremità del cromosoma (il braccio corto è più piccolo del braccio lungo). I cromosomi acrocentrici
hanno un braccio corto estremamente ridotto, appena visibile. Nei cromosomi telocentrici il centromero
corrisponde al terminale del cromosoma (ossia al telomero): nel corredo cromosomico umano non sono
presenti cromosomi di questo tipo.

Durante l’anafase i centromeri di ciascun cromosoma si staccano, separando i cromatidi fratelli che si
spostano alle estremità opposte del fuso mitotico, e termina quando le due serie di singoli cromosomi
hanno raggiunto i poli opposti della cellula, grazie all’accorciamento delle fibre del fuso.
Nella telofase si dissolve il fuso mitotico, i cromosomi si despiralizzano, gli involucri nucleari si riaggregano.

Successivamente si verifica la citodieresi, ossia la ripartizione del citoplasma.


Le cellule animali si dividono per invaginazione della membrana plasmatica tramite una strozzatura di
filamenti di actina e miosina (anello contrattile) che divide la cellula a metà.
Nelle cellule vegetali, al termine della mitosi, lungo la piastra equatoriale compaiono vescicole
membranose prodotte dal Golgi che si fondono formando una nuova membrana plasmatica, e il cui
contenuto contribuisce alla formazione della nuova parete cellulare.
Al contrario dei cromosomi, gli organuli non devono per forza essere ripartiti equamente.

I meccanismi di controllo del ciclo cellulare comprendono checkpoints nei quali la cellula è monitorata
prima di procedere lungo il ciclo:
1. Il primo è il G1/S checkpoint: sono controllate le dimensioni della cellula e la presenza di eventuali
danni al DNA;
2. Il secondo è il G2/M checkpoint: viene controllata la replicazione del DNA e la sua riparazione;
3. Il terzo è l’M checkpoint, a livello del quale si controlla la formazione del fuso mitotico e la corretta
interazione al livello del cinetocoro.
Questi processi sono controllati da proteine dette cicline e enzimi fosforilanti detti cdc chinasi. Questi
enzimi fosforilano le cicline influenzando l’attività di quest’ultime a livello dei vari checkpoint. Una cdc
chinasi che controlla il ciclo cellulare assieme ad una ciclina viene detta Cdk protein, ossia proteina chinasi
ciclina dipendente. Una proteina molto importante è la p53, coinvolta nel controllo dell’integrità del DNA,
la quale induce l’apoptosi qualora il DNA danneggiato non sia riparabile.

LA MEIOSI
La riproduzione sessuata richiede sempre la meiosi, il processo di formazione dei gameti sessuali che
produce 4 cellule figlie con un corredo cromosomico dimezzato (assicurando variabilità genetica), e la
fecondazione, la fusione di due gameti che porta alla formazione dello zigote.

Le cellule somatiche sono diploidi (2n), ossia contengono una doppia serie di cromosomi (autosomi), in cui i
due cromosomi sono detti omologhi e portano un’informazione genetica corrispondente (due varianti
alleliche alternative dello stesso gene) ma non identica. La posizione occupata da un gene su un
cromosoma è detta locus genico; nei loci di due omologhi si trovano appunto varianti alternative (alleli)
dello stesso gene.
Ogni essere umano possiede 46 cromosomi omologhi: 23 provenienti dal padre e 23 dalla madre.
I gameti sessuali, invece, sono aploidi (n), in quanto contengono una sola serie di cromosomi (un solo
omologo), casualmente estratta dal corredo cromosomico diploide parentale.
La totalità dei cromosomi di una specie, ordinati per forma e dimensioni costituisce il cariotipo.

La meiosi I è preceduta da un’interfase che comprende una sottofase S durante la quale ciascun
cromosoma si duplica; dopo la duplicazione apparirà costituito da due cromatidi fratelli (geneticamente
identici). Nel corso della profase I la cromatina si compatta, e i cromosomi omologhi (geneticamente affini
ma diversi) ciascuno composto da due cromatidi fratelli, si accoppiano (sinapsi) aderendo per tutta la loro
lunghezza. Ne deriva che i quattro cromatidi di ciascuna coppia omologa formano la tetrade.

Nella meiosi I la profase I si divide in 5 stadi: leptotene, zigotene, pachitene, diplotene, diacinesi.
Durante il leptotene i cromosomi duplicati iniziano a compattarsi e inizia l’appaiamento dei due omologhi.
Durante lo zigotene continua il compattamento dei cromosomi e i due omologhi si appaiano (bivalenti).
Durante il pachitene i cromosomi continuano a compattarsi e in ogni bivalente, i due omologhi sono
intimamente appaiati a formare le cosiddette sinapsi: queste strutture vengono chiamate tetradi.
Durante il diplotene i cromosomi di una tetrade possono incrociarsi dando luogo ai chiasmi, a livello dei
quali si ha lo scambio di segmenti di cromosoma fra gli omologhi, durante il fenomeno del crossing-over.

Durante il passaggio dalla profase alla prometafase è possibile che i cromosomi formino chiasmi, ossia
punti di contatto fra cromatidi non fratelli (cromatidi ricombinanti) di cromosomi omologhi, in cui due pezzi
di cromatidi adiacenti si spezzano e si ricongiungono invertiti di posizione. Questo scambio di materiale
genetico viene chiamato crossing-over, e accresce la variabilità genetica.
Durante la prometafase I l’involucro nucleare si dissolve, si forma il fuso i cui microtubuli si attaccano ai
cinetocori dei cromosomi.
Durante la metafase I tutti i cromosomi hanno raggiunto la piastra metafasica.
Nell’anafase I i cromosomi omologhi (formati ancora da 2 cromatidi ciascuno) si separano e migrano ai poli,
determinando una divisione riduzionale del corredo cromosomico, che viene dimezzato e distribuito alle
due cellule figlie che vengono così prodotte.

La meiosi II assomiglia molto alla mitosi, in quanto: durante la profase II i cromosomi si condensano
nuovamente, nella metafase II i cromosomi si allineano sulla piastra equatoriale, i cui centromeri dei
cromatidi fratelli si separano e, nell’anafase II, i cromosomi figli migrano verso i poli, determinando una
divisione equazionale (il corredo cromosomico rimane invariato in quanto si separano i cromatidi fratelli,
geneticamente identici, e non le coppie di omologhi), e generando così quattro gameti aploidi diversi.

La gametogenesi è la formazione dei gameti:


1. spermatogenesi: gli spermatogoni (2n) si differenziano in spermatociti primari che diventano
secondari (n) in seguito alla meiosi I; dopo la meiosi II diventano spermatidi che matureranno in
spermatozoi;
2. ovogenesi: gli ovogoni (2n) diventano ovociti primari che diventano secondari in seguito alla
meiosi I, producendo anche un globulo polare; gli ovociti secondari fecondati in seguito alla meiosi II
producono una cellula uovo e un altro globulo polare.
Da uno spermatogonio si producono 4 spermatozoi funzionali, da un ovogonio solo 1 cellula uova
funzionale e 3 cellule non funzionali.

Un tipo di riproduzione sessuata che prevede la formazione dei gameti ma non la loro fusione è la
paternogenesi. Il nuovo individuo avrà origine da una cellula uovo non fecondata; il processo viene invece
avviato da stimoli meccanici e fisici (es: invertebrati e alcuni rettili).

Nelle divisioni cellulari, sia meiosi che mitosi, i geni localizzati sullo stesso cromosoma possono non seguire
la legge della segregazione indipendente: essa è seguita se tra i geni avviene crossing-over. La frequenza
con cui avviene il crossing-over tra due geni dipende dalla loro distanza relativa. Più due geni sono lontani,
più facilmente potrà avvenire il crossing-over.
5. Genetica

GENETICA MENDELIANA
Grazie al lavoro dello scienziato Gregor Mendel (seconda metà dell’Ottocento), questa disciplina acquisisce
veridicità scientifica. Mendel, tramite un procedimento sperimentale, scelse piante di pisello che si
riproducevano velocemente, e focalizzò la sua attenzione sui caratteri genetici unitari (es: colore del fiore,
forma del seme) che potevano presentarsi in due sole forme alleliche alternative; selezionò linee pure, ossia
una generazione parentale che originava sempre piante con lo stesso carattere e iniziò a eseguire incroci.

Due generazioni parentali (P) di piante linea pura che presentavano forme alleliche opposte del medesimo
carattere (es: colore del seme) vennero incrociate (incrocio monoibrido).
Il risultato dell’esperimento fu che i piselli della prima generazione filiale F₁ avevano fenotipo uguale ad uno
solo dei due genitori P, mentre l’altro sembrava scomparso.
Mendel definì dominante il tratto che si manifestava, e recessivo quello che non si manifestava, e formulò
la legge della dominanza (prima legge di Mendel): incrociando due linee pure differenti per un carattere,
gli individui ibridi della generazione F₁ manifestano solo uno dei due caratteri della generazione parentale.

Successivamente Mendel lasciò libere le piante F₁ di autoimpollinarsi, producendo una seconda


generazione filiale F₂, in cui ricompariva il tratto fenotipico che non si era espresso in F₁ (recessivo) in un
rapporto numerico costante fra il tratto dominante e quello recessivo di 3:1.
Per spiegare i risultati inaspettati della F₂, Mendel ipotizzò che ogni carattere è determinato da un gene
presente nell’organismo in due forme alleliche alternative (uno ricevuto per via materna, uno per via
paterna), i quali con la meiosi si separano (cosicché i gameti possiedono un solo allele per carattere) e
vengono trasmessi dai genitori ai figli attraverso i gameti con la riproduzione.
Mendel formulò così la legge della segregazione (seconda legge di Mendel): quando un individuo produce
gameti, i due alleli di un gene si separano, cosicché ciascun gamete ne riceve soltanto una copia.

Se i due alleli del genotipo sono uguali, l’individuo è omozigote (LL o ll) per quel carattere (due alleli
dominanti: omozigote dominante, due alleli recessivi: omozigote recessivo), se i due alleli sono diversi,
l’individuo è eterozigote (Ll).
L’insieme degli alleli di un individuo è detto genotipo. Il fenotipo è l’insieme delle caratteristiche osservabili
che si manifestano, e può essere dominante (omozigote dominante o eterozigote), o recessivo (omozigote
recessivo).
Per prevedere le combinazioni alleliche risultanti da un incrocio, si usa il quadrato di Punnett, una griglia
che riporta tutti i possibili genotipi del gamete maschile lungo un lato, e tutti quelli femminili lungo l’altro.

Per verificare la natura genotipica di un individuo a fenotipo dominante (omozigote dominante o


eterozigote?), occorre eseguire un testcross, ovvero un incrocio di controllo con un omozigote recessivo,
con due possibili risultati:
1. se l’incrocio produce tutti individui con fenotipo dominante, possiamo dedurre che l’individuo
porta un genotipo omozigote dominante (in accordo con la prima legge di Mendel);
2. se l’incrocio produce individui con fenotipo dominante e recessivo in rapporto 1:1, possiamo
dedurre che l’individuo porta un genotipo eterozigote.
Mendel a questo punto considerò un incrocio fra due linee pure per due coppie diverse di geni considerate
congiuntamente (LLGG x llgg), e ottenne una F₁ che presentava genotipo LlGg (a caratteri fenotipici
esclusivamente dominanti). Mendel continuò l’esperimento fino alla generazione F₂ lasciando che queste si
autoimpollinassero, compiendo quindi un incrocio diibrido fra piante F₁, e verificò che gli alleli L e l si
distribuivano indipendentemente da come si distribuivano G e g, producendo quattro tipi di gameti: LG, Lg,
lG, lg, dalla cui combinazione casuale si sarebbe generata una F₂ con nove genotipi differenti. I rapporti
fenotipici comparivano in rapporto 9:3:3:1.
Questi risultati indussero Mendel a formulare la legge dell’assortimento indipendente dei caratteri (terza
legge di Mendel): durante la formazione dei gameti, geni diversi si distribuiscono l’uno indipendentemente
dall’altro).
Una malattia genetica autosomica dominante si trasmette con uguale frequenza nei due sessi, e metà
della prole di un genitore malato è malata (eterozigote affetto).
Una malattia genetica autosomica recessiva si trasmette con uguale frequenza nei due sessi, ma di solito
gli individui malati hanno genitori sani (portatori sani eterozigoti), mentre la malattia si manifesta negli
individui figli di due eterozigoti portatori sani (es: matrimonio fra consanguinei).

EREDITARIETA’ NON-MENDELIANA
I diversi alleli di uno stesso gene esistono perché i geni sono soggetti a mutazioni, fenomeni casuali che
producono varianti diverse di un gene.
E’ detto allele selvatico quel particolare allele presente in natura nella maggior parte degli individui che
produce un fenotipo atteso, mentre gli alleli mutanti sono gli altri alleli che producono un fenotipo diverso.

Esistono varie eccezioni all’ereditarietà mendeliana:


1. la poliallelia/allelia multipla è l’esistenza di più di due alleli di un certo gene (es: colore del
manto dei conigli) ed accresce il numero di fenotipi possibili;
2. la dominanza incompleta è la condizione per cui dati due alleli, nessuno domina sull’altro,
producendo un fenotipo eterozigote intermedio (es: bocche di leone di color rosa, intermedio fra il rosso e
il bianco);
3. la codominanza determina, in un eterozigote, l’espressione fenotipica contemporanea di
entrambi gli alleli (es: antigeni dei gruppi sanguigni umani del sistema AB0);
4. un allele che abbia effetti fenotipici multipli è detto pleiotropico (es: colorazione del pelo dei
gatti siamesi, fenilchetonuria);
5. l’epistasi è un fenomeno per cui un gene influenza l’espressione fenotipica di un altro gene; un
dato tratto fenotipico risulta così determinato da due geni contemporaneamente (es: manto dei labrador,
sordità congenita). Nel caso dei labrador, un allele recessivo funge da soppressore, inattivando
l’espressione fenotipica dell’allele di un altro gene;
6. molti caratteri complessi si manifestano con grande varietà di fenotipi, presentando una
variabilità continua (es: colore degli occhi, della pelle, statura) e sono spesso associati a caratteri fenotipici
quantitativi; si tratta di caratteri poligenici, regolati da molti geni che agiscono cumulativamente.

Esperimenti sull’ereditarietà dei caratteri “colore del corpo” e “forma delle ali” nella drosofila, hanno
dimostrato che la legge dell’assortimento indipendente (terza legge di Mendel) vale solo se i geni che
codificano i due caratteri sono situati su cromosomi diversi, e non si tratti quindi di geni concatenati,
perché in tal caso verrebbero ereditati insieme. Gran parte della prole dei drosofila analizzati ereditava
entrambi quei caratteri congiuntamente, però non tutti. La prole che presentava uno solo dei due fenotipi
parentali doveva essere quindi stata soggetta ad un episodio di ricombinazione genica tramite crossing-
over, che aveva separato il cromosoma a metà fra i loci dei due geni, separandoli.

L’intesa serie di loci di un dato cromosoma costituisce un gruppo di associazione.


Maggiore è la distanza fra due geni, più numerosi sono i punti del cromosoma nei quali può avvenire la
rottura e la ricombinazione, più frequentemente i due geni possono venire ereditati separatamente.
Le mappe genetiche mostrano la disposizione dei geni lungo il cromosoma.

GRUPPI SANGUIGNI
Un esempio molto noto di allelia multipla e di varianti polimorfiche è quello dei gruppi sanguigni del
sistema AB0. Il tipo di gruppo sanguigno nell’uomo è determinato da 3 alleli: IA, IB, I0, con gli alleli IA e IB che
sono codominanti. Sulla superficie dei globuli rossi si trovano delle glicoproteine diverse la cui
composizione glucidica è rappresentata dagli antigeni del gruppo AB0.
Le persone di gruppo A presentano sulla membrana dei globuli rossi l’antigene A e anticorpi anti-B.
Le persone di gruppo B presentano sulla membrana l’antigene B e anticorpi anti-A.
Gli individui di gruppo 0 non hanno antigeni A e B, ma hanno anticorpi anti-A e anti-B.
Gli individui di gruppo AB presentano entrami gli antigeni di membrana A e B, e non hanno anticorpi.
Il fattore Rhesus (Rh) viene trasmesso secondo le leggi di Mendel, ma indipendentemente dai gruppi del
sistema AB0. Per il fattore Rh gli alleli sono due: D (dominante, responsabile di Rh+) e d (recessivo, Rh-).
Il sangue scambiato tra le persone deve essere gruppo compatibile e cioè: il sangue della persona ricevente
non deve contenere anticorpi contro le proteine presenti sulla membrana di quello del donatore.
Un soggetto del gruppo 0 Rh- viene definito donatore universale, mentre il ricevitore universale è un
soggetto del gruppo AB Rh+.

EREDITARIETA’ AUTOSOMICA
I soggetti affetti da malattia autosomica dominante sono in genere eterozigoti: un carattere autosomico
dominante segrega secondo le leggi di Mendel e quindi si manifesterà fenotipicamente anche ad opera di
un solo allele presente nella coppia di omologhi. Un eterozigote ha una probabilità del 50% di trasmettere
la mutazione ai figli. Questa modalità di trasmissione ha alcune peculiarità: la mutazione è presente in
proporzioni simili nei maschi e nelle femmine, le persone affette possono essere presenti in tutte le
generazioni senza salto di generazione (trasmissione verticale), sia maschi che femmine trasmettono la
mutazione, ciascun individuo portatore di mutazione può trasmetterla al 50% dei figli, il fenotipo degli
omozigoti (molto rari) è clinicamente più grave di quello degli eterozigoti.

I caratteri recessivi sono quelli che si esprimono solo negli omozigoti, quindi per manifestarsi
fenotipicamente necessitano della doppia dose allelica. I soggetti eterozigoti per geni che danno origine a
malattie recessive vengono chiamati portatori sani. I soggetti affetti (omozigoti) originano dall’unione tra 2
soggetti eterozigoti portatori sani e si manifestano in media nel 25% dei figli, a prescindere dal sesso. Anche
questa modalità di trasmissione ha alcune peculiarità: i genitori di soggetti affetti non manifestano il
carattere e quindi saranno eterozigoti (portatori sani) dell’allele causa di malattia, la malattia ricorre tra i
fratelli e spesso c’è un salto di generazione (trasmissione orizzontale), maschi e femmine sono colpiti con la
stessa frequenza, da genitori eterozigoti portatori sani di un carattere nasceranno 25% figli affetti, 25% figli
sani, 50% figli eterozigoti portatori sani.

EREDITARIETA’ LEGATA AL SESSO


In alcuni tipi di trasmissione ereditaria è importante l’origine parentale di un allele. I caratteri determinati
da geni localizzati sui cromosomi sessuali sono infatti caratteri legati al sesso, e non vengono ereditati in
rapporti mendeliani, tipici invece dei geni situati sugli autosomi.

Oltre alle 22 coppie di autosomi, ogni individuo possiede una coppia di cromosomi sessuali:
1. le femmine (XX) portano una coppia di cromosomi X (sesso omogametico, gameti uguali);
2. i maschi (XY) invece hanno un cromosoma X e un cromosoma Y (sesso eterogametico).
Per un totale di 46 cromosomi (corredo diploide).
I soggetti di sesso maschile, avendo una sola copia di cromosoma X, per ogni gene localizzato su questo
cromosoma sono emizigoti, cioè nel corredo genetico diploide presentano solo una copia.

Nei gameti, invece troviamo 22 autosomi e un singolo cromosoma sessuale:


1. il gamete maschile può contenere X o Y;
2. il gamete femminile può contenere solo X.
Per un totale di 23 cromosomi (corredo aploide).
A seconda che il gamete maschile che feconda la cellula uovo contenga X o Y, possono nascere con uguale
probabilità femmine (XX) o maschi (XY).

Nell’uomo, i caratteri legati al cromosoma Y si ereditano solo per via paterna, sono sempre trasmessi a
tutti i figli maschi manifestandosi a livello fenotipico, e mai alla progenie femminile. Il cromosoma Y è molto
più piccolo del cromosoma X, e contiene essenzialmente geni che determinano lo sviluppo dell’embrione in
senso maschile e geni importanti per la fertilità. Nel braccio corto del cromosoma Y è presente il gene SRY,
la cui funzione è necessaria per lo sviluppo dell’embrione in senso maschile.
EREDITARIETA’ X-LINKED
Per quanto riguarda l’ereditarietà X-linked dominante, una femmina affetta avrà un genotipo eterozigote,
dunque ogni figlio che viene generato (indipendentemente dal sesso) avrà un rischio del 50% di ereditare
l’allele dominante responsabile della malattia. Un soggetto maschio affetto trasmetterà sicuramente il suo
unico cromosoma X alla totalità delle figlie femmine e a nessuno dei figli maschi (a cui verrà trasmesso Y).

Per quanto riguarda l’ereditarietà X-linked recessiva, un maschio è emizigote per tutti i geni localizzati su X,
dunque, se uno di questi geni conterrà una mutazione responsabile della malattia, il soggetto sarà affetto.
Un soggetto femminile perché sia malato è necessario che sia omozigote per l’allele responsabile della
malattia. Una femmina eterozigote sarà una portatrice sana. Le malattie X-linked recessive quindi sono
molto più frequenti nei maschi che nelle femmine, infatti perché sia generata una femmina omozigote per
l’allele responsabile della malattia, è necessario che sia il padre che la madre trasmettano il cromosoma X
con la mutazione responsabile della malattia. Dunque, il padre dev’essere affetto. Un maschio affetto è
generato da una femmina portatrice sana, la quale avrà un rischio del 50% di generare figli affetti (se di
sesso maschile). Una portatrice sana con partner sano non genererà mai figlie femmine malate, però ogni
figlia femmina avrà il 50% di essere portatrice sana.
Alle estremità dei cromosomi X e Y sono presenti le cosiddette regioni pseudoautosomiche, omologhe fra
loro. A livello delle regioni pseudoautosomiche può avvenire crossing-over tra i cromosomi X e Y.

INATTIVAZIONE DEL CROMOSOMA X


L’espressione dei geni autosomici è di solito biallelica, cioè entrambi gli alleli sono trascritti. Alcuni geni
autosomici funzionano invece in maniera monoallelica: in ogni cellula un allele è trascritto e l’altro è
silenziato. Ciò è dovuto all’imprinting genomico: funziona solamente l’allele trasmesso dal padre o dalla
madre (per esempio IGF2 ha silenziato l’allele materno, H19 ha silenziato quello paterno).
Per ciò che riguarda i geni localizzati nel cromosoma X, maschi e femmine hanno un dosaggio genico
diverso (ossia differisce il numero di copie di un gene presente nel genoma). Però, se si osservano i prodotti
genici (mRNA e proteine) in maschi e femmine, si osservano gli stessi livelli. Il fenomeno di compenso del
prodotto genico avviene tramite inattivazione trascrizionale di uno dei due cromosomi X. Questo fenomeno
di inattivazione viene anche detto lyonizzazione del cromosoma X. Il silenziamento trascrizionale avviene
tramite eterocromatizzazione del cromosoma che viene silenziato. Il cromosoma X inattivo appare come un
corpo sferoidale detto corpo di Barr. L’inattivazione ha varie caratteristiche: avviene durante lo sviluppo
embrionale quando si ha la blastocisti (precoce), ogni cellula inattiva l’X materno o paterno a caso, in modo
indipendente (casuale), una volta scelto l’X da silenziare, l’inattivazione dello stesso cromosoma avviene in
tutte le cellule figlie (permanente e propagata in maniera clonale), alcuni geni localizzati sul cromosoma
inattivo continuano ad essere espressi (non completa).
L’inattivazione casuale dell’X e la propagazione nella progenie determina che l’organismo femminile sia un
mosaico: alcuni gruppi di cellule esprimono i geni localizzati sul cromosoma X paterno, altri gruppi
esprimono i geni localizzati sull’X materno.

EREDITARIETA’ MITOCONDRIALE
Quando si verifica un danno mitocondriale la quantità di ATP all’interno della cellula è alterata.
La fosforilazione ossidativa è regolata da due sistemi genetici: il genoma nucleare e mitocondriale.
Geni contenuti nel DNA nucleare (nDNA) codificano per la maggior parte delle proteine mitocondriali,
comprese alcune subunità proteiche dei complessi respiratori, mentre le altre subunità sono codificate dal
DNA mitocondriale (mtDNA), il quale è una molecola costituita da una doppia elica circolare presente in
copie multiple nei mitocondri. Questo mtDNA presenta un alto tasso di mutazione, e assenza di istoni e
introni e pochi sistemi di riparo. E’ presente in 2-10 copie per mitocondrio, per un totale di centinaia o
migliaia di copie per cellula (poliplasmia). Se esiste una mutazione nel mtDNA questa può interessare tutte
le cellule (omoplasmia), oppure solo una parte, e dunque si avrà la coesistenza di due popolazioni di
mtDNA, di cui uno normale e l’altro mutato (eteroplasmia). Il mtDNA viene ereditato esclusivamente dalla
madre perché i mitocondri degli spermatozoi sono localizzati nella coda, che non penetra nella cellula uovo
durante la fecondazione. Quindi figli e figlie di donne affette sono a rischio di essere affetti, mentre i maschi
non trasmettono il carattere.
GENETICA DI POPOLAZIONI: L’EQUILIBRIO DI HARDY-WEINBERG
Per popolazione s’intende un gruppo di individui della stessa specie che vivono nella stessa area geografica
e che, dunque, possono incrociarsi tra loro e generare progenie.
Se si considera un certo locus, ogni gamete può avere un certo tipo di allele. La proporzione di gameti di un
pool genico che contiene un certo tipo d’allele rappresenta la frequenza di quell’allele nella popolazione.

L’equilibrio di Hardy-Weinberg mostra come sono relate tra loro frequenze alleliche e genotipiche in una
popolazione “ideale”, costituita da soggetti con genoma diploide nelle cellule somatiche che danno origine
ad una nuova generazione tramite riproduzione sessuata. Si fanno le seguenti ipotesi: individui con vari
genotipi hanno lo stesso tasso di sopravvivenza e lo stesso successo (fitness) riproduttivo, non ci sono
mutazioni, non ci sono migrazioni di popolazioni, la popolazione è estremamente numerosa, e gli incroci
sono casuali. In poche parole, non esistono spinte al cambiamento (forze evolutive).
L’allele A ha una frequenza p; l’allele a ha una frequenza q, dunque, essendo presenti per questo gene solo
gli alleli A e a, si ha: p + q = 1. In una situazione di random mating, i genotipi AA, Aa e aa saranno presenti
con le frequenze p2, 2pq, q2, quindi in definitiva si ha: p2 + 2pq + q2 = 1
Se una popolazione è in equilibrio di H-W, le frequenze genotipiche non cambiano da una generazione
all’altra.

Nelle popolazioni ci possono essere fenomeni che determinano una situazione di squilibrio;
1. La selezione: individui con un certo genotipo possono avere fitness riproduttiva più elevata;
2. Le mutazioni: l’unico fenomeno con cui vengono creati nuovi alleli;
3. Le migrazioni: lo spostamento di individui da una popolazione all’altra, con modifiche nella
frequenza allelica della popolazione ricevente, proporzionali alla frazione di individui provenienti
dalla popolazione donatrice rispetto alla ricevente, e alla differenza di frequenze alleliche tra le due
popolazioni;
4. La deriva genica: in popolazioni poco numerose si può assistere ad una variazione delle frequenze
alleliche dovute unicamente al caso;
5. Gli incroci non casuali: incroci assortativi positivi si effettuano fra soggetti con genotipo simile,
mentre incroci assortativi negativi quando tendono a incrociarsi soggetti con genotipo diverso.
L’incrocio assortativo positivo è molto più frequente di quello negativo e non modifica le frequenze
alleliche ma modifica le frequenze genotipiche. L’incrocio tra consanguinei aumenta la frequenza
dei genotipi omozigoti, e dunque nell’uomo aumenta la frequenza di malattie ad ereditarietà
autosomica recessiva.

EVOLUZIONE E SPECIAZIONE
L’equilibrio di H-W è da considerarsi l’ipotesi zero, valido in assenza di evoluzione. Tutti i fenomeni che
allontanano le popolazioni dall’equilibrio di H-W contribuisco all’evoluzione. L’evoluzione può essere:
1. Evoluzione filetica (anagenesi), nella quale tutti gli individui di una specie diventano una seconda
specie, cioè da una specie si forma un’altra specie;
2. Cladogenesi, quando da una specie si separano due specie.
Quando in una specie non avvengono cambiamenti allora si parla di stasi.

L’evoluzione avviene tramite selezione naturale, come proposto da Darwin e Wallace:


1. Tra gli individui di una specie esistono delle variazioni di fenotipo che sono ereditabili;
2. Gli organismi tendono a riprodursi in maniera esponenziale. Ad un certo momento saranno
generati più individui rispetto a quelli che possono sopravvivere, si genera dunque una lotta per la
sopravvivenza, nella quale individui con fenotipi particolari avranno più successo di altri e si
riprodurranno più degli altri;
3. I fenotipi più adatti alla sopravvivenza diventeranno sempre più comuni, mentre quelli meno adatti
tenderanno a scomparire.
Quando la selezione di un determinato carattere è determinata dall’uomo, si parla di selezione artificiale.
6. Genetica molecolare

IL DNA
All’inizio degli anni Venti gli scienziati divennero consapevoli che i cromosomi erano fatti di DNA e proteine,
però rimaneva da chiarirne il ruolo nella trasmissione delle informazioni genetiche. Gli scienziati partivano
dal presupposto che il materiale genetico dovesse essere contenuto nelle proteine, in quanto sono
biomolecole che presentano grande varietà di strutture e funzioni.
Nel 1928 Frederick Griffith tramite il suo esperimento, dimostrò che esisteva un fattore di trasformazione,
che passava da batteri virulenti morti e rendeva virulenti batteri vivi non virulenti.
Successivamente Avery sottopose il ceppo virulento a tre diversi enzimi che distruggono selettivamente
RNA, proteine e DNA. Aggiungendo i campioni così trattati a colture di batteri vivi non virulenti, gli unici che
risultavano non trasformati (in cui il “fattore di trasformazione” di Griffith non aveva agito) erano quelli in
cui era stato distrutto il DNA.
Ad ulteriore riprova, Hershey e Chase dimostrarono che i batteriofagi inoculavano DNA, per introdurre il
proprio materiale genetico nelle cellule da infettare.

Tramite cristallografia a raggi X, Rosalind Franklin suggerì che il DNA fosse di forma elicoidale o spirale.
James Watson e Francis Crick misero insieme in un unico modello coerente tutto ciò che era stato
appurato sulla struttura del DNA: suggerirono un modello elicoidale in cui due catene polinucleotidiche
affiancate correvano in direzioni opposte (antiparallele), in cui le basi azotate fossero legate secondo
rapporti quantitativi ben precisi, scoperti da Chargaff (regole di Chargaff):
1. la quantità di A eguaglia la quantità di T, come la quantità di G eguaglia la quantità di C;
2. la quantità totale delle purine (A + G) è uguale alla quantità di pirimidine (T + C).

Oggi sappiamo che la molecola di DNA è costituita da due catene polinucleotidiche appaiate e avvolte in
modo da formare una doppia elica. Ogni nucleotide di ciascuna catena polinucleotidica è formato da uno
zucchero pentoso (desossiribosio) legato ad un gruppo fosfato e ad una base eterociclica azotata che
sporge, e che si lega tramite legame a idrogeno con la base complementare dell’altra catena
polinucleotidica (ogni nucleotide, quindi, lega altri due nucleotidi: uno verticalmente e uno
orizzontalmente).

il gruppo fosfato si lega tramite legame fosfoestereo con l’ossidrile in 3’ e quello in 5’ del desossiribosio: per
questa ragione i desossinucleotidi nel DNA sono legati da legami fosfodiesterei.
I gruppi fosfato portano una carica negativa, che rende così negativi i due filamenti di DNA, i quali
risentirebbero di una rilevante repulsione che tenderebbero a dividerli, se non ci fossero in soluzione
acquosa ioni positivi che schermano questa repulsione.
La struttura a doppia elica è particolarmente stabile in quanto le coppie di basi sono planari essendo tutti i
loro atomi ibridizzati sp2, e gli elettroni dei rimanenti orbitali p formano legami π delocalizzati, quindi liberi
di muoversi su tutta la superficie degli anelli purinici e pirimidinici: tale mobilità genera dipoli elettrici
fluttuanti sul piano degli anelli, le cui interazioni fra una coppia di basi con quelli delle coppie poste al di
sopra e al di sotto genera una forza di attrazione molto forte (forza di stacking).
I dipoli nelle coppie G-C sono più forti di quelli che si creano nelle coppie A-T, quindi i DNA che presentano
molte coppie G-C sono più stabili di quelli in maggior contenuto di A-T. La natura ha sfruttato questo fatto
arricchendo di coppie A-T le zone di DNA che debbono aprirsi per prime.

L’appaiamento delle basi azotate segue il principio di complementarietà individuato da Chargaff: l’A si
appaia con la T formando due legami a idrogeno, la G si appaia con la C formando tre legami a idrogeno.
Oltre ad essere complementari, le due catene sono antiparallele, in quanto sono orientate in direzioni
opposte: ogni filamento ha un’estremità 5’ che corrisponde all’estremità 3’ dell’altro filamento.
LA DUPLICAZIONE DEL DNA
Ogni filamento funge da stampo per un nuovo filamento di DNA, cosicché la duplicazione si dice
semiconservativa, dato che le due molecole di DNA neoformate hanno un filamento vecchio e uno nuovo.

La duplicazione richiede che il filamento stampo interagisca con un enorme complesso proteico, detto
complesso di duplicazione, che si lega al DNA in corrispondenza di una sequenza di basi (ori).
Qui, nella forcella di duplicazione, la DNA-elicasi rompe i legami a idrogeno fra le basi “srotolando” la
doppia elica, mentre un altro enzima impedisce che i filamenti despiralizzati si riassocino.
I procarioti possiedono un'unica origine della duplicazione, mentre gli eucarioti possono averne diverse.
Successivamente la DNA-polimerasi, dopo che la primasi abbia sintetizzato un breve filamento singolo di
RNA detto primer, inizia ad aggiungere nucleotidi ed allungare così il filamento polinucleotidico (funzione
polimerasica), lavorando in direzione 5’ → 3’.
Dal momento che la DNA-polimerasi catalizza l’aggiunta di nucleotidi in una sola direzione, i due filamenti
procedono a velocità diverse:
1. un filamento veloce sintetizzato in maniera continua (serve un unico primer/innesco);
2. un filamento lento che procede in modo discontinuo e a ritroso, in cui vengono sintetizzati brevi
segmenti (frammenti di Okazaki), che poi vengono uniti insieme (ogni segmento ha bisogno di un primer).
E’ compito della DNA-ligasi unire i vari frammenti di Okazaki, producendo un filamento lento completo.

Dopo la rimozione del primer terminale, non è più possibile sintetizzare il DNA che lo sostituisca, perché
non c’è un’estremità da prolungare, pertanto il cromosoma formatosi presenta ad entrambe le estremità
un pezzo di DNA a filamento singolo, che viene tagliato insieme ad una parte di filamento doppio,
accorciando il cromosoma ad ogni divisione cellulare. Queste estremità, prive di significato genetico, sono
chiamate telomeri, e la loro perdita spiega perché le cellule non durano per tutta la vita dell’organismo.
Le cellule che continuano a dividersi, contengono l’enzima telomerasi, che catalizza l’aggiunta di una
sequenza ripetitiva ai due terminali 3’ di un cromosoma lineare. Tale meccanismo non risolve però il
problema della perdita di DNA a ogni replicazione. Per le cellule post-mitotiche la telomerasi è inattiva.

ERRORI DI DUPLICAZIONE
La DNA-polimerasi compie una quantità notevole di errori, ma le cellule dispongono di enzimi di restauro
del DNA che intervengono mettendo in atto vari meccanismi di riparazione:
1. la correzione di bozze, che agisce mentre il filamento è in formazione, in cui la DNA-polimerasi,
se si accorge di aver aggiunto una base sbagliata, la scambia con quella corretta (funzione esonucleasica);
2. la riparazione delle anomalie di disappaiamento, che prevede l’esaminazione del filamento
neoformato (al termine della duplicazione) da parte di apposite proteine che individuano gli errori di
appaiamento sfuggiti alla correzione di bozze;
3. la riparazione per escissione, che elimina le basi anomale o danneggiate a causa di agenti
mutageni, tagliando via il filamento, sostituendo la base anomala e quelle adiacenti, mentre la DNA-
polimerasi e la DNA-ligasi sintetizzano e attaccano una nuova sequenza.

DALL’IPOTESI “UN GENE, UN ENZIMA” AL DOGMA CENTRALE DELLA BIOLOGIA MOLECOLARE


Il DNA contiene tutte le informazioni per definire lo sviluppo e la fisiologia della cellula.
Studiando le mutazioni, i genetisti scoprirono l’esistenza, per ciascuna mutazione, di un corrispondente
enzima funzionante in modo anomalo: ipotizzarono quindi che l’espressione genica potesse avvenire solo
tramite un enzima (ipotesi “un gene, un enzima”). Ma dal momento che non tutte le proteine che
influiscono sul fenotipo sono enzimi, è più giusto usare l’espressione “un gene, una catena polipeptidica”.
In altre parole, la funzione di un gene è il controllo della produzione di un singolo polipeptide specifico.

Il messaggio di un gene viene copiato (trascritto) sotto forma di RNA nel nucleo, che viene poi trasferito nel
citoplasma dove il messaggio viene tradotto e utilizzato per la sintesi di una proteina.
L’informazione non può tornare indietro dalle proteine al DNA: il dogma centrale della biologia molecolare
consiste proprio nell’unidirezionalità dell’informazione genetica (DNA → RNA → catena polipeptidica).
L’unica eccezione è costituita dall’enzima trascrittasi inversa, che può sintetizzare cDNA partendo da RNA.
L’RNA
L’RNA è l’intermediario fra DNA e proteine, che rende possibile la codifica e l’espressione dell’informazione
genetica intervenendo nei meccanismi di trascrizione e traduzione ipotizzati da Crick. E’ di tre tipi:
1. RNA messaggero (mRNA) che copia le informazioni genetiche in una sequenza lineare;
2. RNA transfer (tRNA) che posiziona gli amminoacidi in sequenza grazie alla sua struttura;
3. RNA ribosomiale (rRNA) che costituisce i ribosomi che realizzano la sintesi proteica.
Nonostante sia anch’esso, come il DNA, un acido nucleico, presenta alcune differenze: è a filamento unico
invece che doppio, presenta come molecola di zucchero il ribosio invece che il desossiribosio, ha come
quarta base l’uracile (U) al posto di T, che si appaia comunque con A.

LA TRASCRIZIONE
La trascrizione avviene nel nucleo ed è il processo di codifica dell’informazione genetica in un filamento
complementare di mRNA che servirà a dirigere la sintesi proteica nel citoplasma. E’ responsabile anche
della sintesi di tRNA e rRNA. E’ comodo dividere in tre fasi la trascrizione:
1. l’inizio della trascrizione richiede un promotore, ossia una sequenza specifica di DNA che indichi
alla RNA polimerasi da dove iniziare a trascrivere, quale filamento di DNA, e in quale direzione. Negli
eucarioti, l’RNA polimerasi si lega al DNA soltanto dopo che sul cromosoma si sono associate varie proteine
regolatrici dette fattori di trascrizione: il primo di essi si lega al TATA box (una sequenza ricca di coppie di
basi AT), favorendo così il legame di altri fattori, fra cui l’RNA polimerasi, che vengono a formare il
complesso di trascrizione. La trascrizione può quindi avere luogo, cominciando dal sito di inizio;
2. l’allungamento: l’RNA-polimerasi apre il DNA a circa 10 basi per volta e legge il filamento stampo
aggiungendo nucleotidi all’estremità 3’ (direzione 5’ → 3’), senza correggere o revisionare il proprio lavoro;
3. la terminazione del processo è stabilita dal segnale di terminazione, una sequenza specifica di
basi che spinge l’RNA-polimerasi a interrompere il processo.
Il prodotto della trascrizione è un filamento singolo di mRNA, chiamato trascritto primario, complementare
al filamento stampo che è stato usato per la trascrizione. Prima di migrare nel citoplasma e venire tradotto
dai ribosomi, l’mRNA immaturo deve essere modificato. L’mRNA immaturo viene anche chiamato hnRNA
(heteronuiclear RNA).

Il fatto che il DNA (e quindi i geni) sia discontinuo, implica che vi siano sequenze codificanti (esoni) e
sequenze non codificanti (introni). Un gene comincia sempre e finisce sempre con un esone, mai con un
introne. Questo DNA discontinuo viene trascritto interamente, copiando esoni e introni, quindi prima di
lasciare il nucleo, l’mRNA va incontro a splicing, ossia la rimozione degli introni e la saldatura in sequenza
degli esoni per formare mRNA maturo.
Inoltre, all’estremità 5’ viene aggiunto un “cappuccio” di 7-metilguanosina che lo protegge dalla
degradazione, e all’estremità 3’ viene aggiunta una coda di 100-250 nucleotidi di adenina (poli-A) nel
processo di poliadenilazione, che favorisce il passaggio al citoplasma e un corretto inizio della traduzione.

IL CODICE GENETICO
Per mettere in relazione la sequenza di mRNA con gli amminoacidi che compongono le proteine, occorre un
codice genetico che specifichi l’amminoacido da utilizzare di volta in volta. L’informazione dell’mRNA è una
serie lineare di triplette di basi, dette codoni, i quali specificano ognuno un particolare amminoacido.
Con le quattro basi esistenti si possono ottenere 64 combinazioni, sufficienti per codificare i 20
amminoacidi. Il codice genetico ha varie caratteristiche:
1. contiene un codone di inizio (AUG), che avvia la traduzione e che specifica la metionina e tre
codoni di stop, che non specificano nessun amminoacido, ma arrestano la traduzione;
2. è ridondante ma non è ambiguo: un amminoacido è in genere specificato da più codoni (i codoni
sinonimi abbassano la probabilità di inserire amminoacidi sbagliati ,provocando mutazioni, durante la
sintesi proteica), ma ogni codone specifica un solo amminoacido;
3. è universale: in tutte le specie un codone specifica sempre lo stesso amminoacido (eccezion fatta
per il DNA mitocondriale e dei cloroplasti che è un po’ diverso, e per alcuni protisti).
LA TRADUZIONE
La traduzione delle informazioni portate dall’mRNA ha come risultato la produzione di una catena
polipeptidica. Avviene nel citoplasma, e necessita della mediazione del tRNA che mette in relazione
l’informazione contenuta nei codoni dell’mRNA con gli specifici amminoacidi.
I ribosomi (fatti di rRNA) sono la sede in cui avviene la traduzione.

All’estremità 3’ di ogni tRNA si trova il suo sito d’attacco (di legame) per l’amminoacido che quel tRNA
specifica (c’è almeno un tRNA specifico per ogni amminoacido), mentre verso la metà della struttura
tridimensionale del tRNA vi è un gruppo di tre basi, l’anticodone, che costituisce il sito di appaiamento fra
le basi complementari (attraverso legami a idrogeno) con l’mRNA.
Il legame fra ciascun tRNA e il suo amminoacido è catalizzato da enzimi amminoacil-tRNA-sintetasi, che
riconoscono il tRNA specifico grazie alla sua struttura tridimensionale, e catalizzano il legame
dell’amminoacido all’estremità 3’ grazie ad un legame molto energetico, formando un tRNA carico.

I ribosomi servono per assemblare correttamente la catena polipeptidica permettendo l’interazione fra
mRNA e tRNA. Sono costituiti da due subunità normalmente separate, che si assemblano durante la sintesi
proteica, tenute insieme da forze ioniche. La subunità maggiore è composta da 3 molecole diverse di rRNA
e varie proteine, mentre quella minore da un solo tipo di tRNA e proteine.

I ribosomi possiedono tre siti di legame, uno per l’mRNA, nella subunità minore, e due per il tRNA: il sito P
(peptidico) e il sito A (amminoacilico). Anche la traduzione può essere divisa in tre fasi:
1. nella fase di inizio, l’mRNA si lega alla subunità minore (estremità 5’), si associano poi la subunità
maggiore e il primo tRNA carico (amminoacil-tRNA), che si appaia con l’anticodone al codone di inizio e va
a occupare il sito P. Il codone di inizio è sempre AUG che specifica la metionina, che è il primo amminoacido
di ogni catena polipeptidica (N-terminale), anche se spesso dopo la traduzione viene rimossa da un enzima.
mRNA, le subunità ribosomiali e l’amminoacil-tRNA sono tenuti insieme da proteine dette fattori di inizio;
2. la successiva fase di allungamento inizia con l’inserimento nel sito A di un secondo amminoacil-
tRNA, a questo punto si forma un legame peptidico fra i due amminoacidi, e il tRNA che occupava il sito P
esce dal ribosoma, il quale si sposta di un codone lungo l’mRNA (direzione 5’ → 3’), di modo che il secondo
tRNA che lega i due amminoacidi vada ad occupare il sito P. Nel sito A tornato libero si porta un terzo
amminoacil-tRNA, e il processo si ripete finché la catena polipeptidica è completa. Le tappe
dell’allungamento si svolgono grazie a proteine dette fattori di allungamento;
3. quando il ribosoma arriva ad uno dei tre codoni di stop, si ha la terminazione: un fattore di
rilascio si lega all’mRNA, la traduzione si interrompe, la proteina si stacca dal tRNA e le due subunità si
dissociano.

Lo stesso filamento di mRNA può essere letto contemporaneamente da più ribosomi, in tal caso si parla di
polisoma. L’energia per la traduzione è fornita dall’idrolisi dell’ATP.
La catena polipeptidica così sintetizzata assume la conformazione che la compete e si dirige al posto giusto
nella cellula per compiere la sua funzione. Il raggiungimento della forma funzionale finale spesso è assistita
da proteine specializzate chiamate chaperonine, che sono anche adibite a ripristinare questa forma su
quelle proteine che l’avessero perduta per vari stress.

LE MUTAZIONI
Le principali fonti di errore nella sequenza degli amminoacidi sono i cambiamenti del DNA, ossia le
mutazioni. Possono essere distinte in due categorie, in base al tipo di cellula che colpiscono:
1. mutazioni somatiche colpiscono le cellule del soma, si trasmettono alle cellule figlie ma non
vengono ereditate dalla prole generata per riproduzione sessuata;
2. mutazioni nella linea germinale si verificano nelle cellule specializzate nella produzione dei
gameti i quali, in seguito alla fecondazione, se contengono una mutazione la trasmettono al nuovo
organismo.
A livello molecolare, una classificazione ulteriore distingue le mutazioni in:
1. mutazioni puntiformi che riguardano un solo gene, e comportano la perdita, aggiunta o
sostituzione di un solo nucleotide;
2. mutazioni cromosomiche, ossia alterazioni più estese che riguardano un segmento di DNA che
può subire un cambiamento di posizione o ordinamento, o essere duplicato o eliminato;
3. mutazioni genomiche (del cariotipo) che riguardano il numero dei cromosomi, che possono
essere in più o in meno rispetto alla norma.

Le mutazioni puntiformi sono il risultato dell’aggiunta o della perdita di una base nucleotidica, oppure della
sua sostituzione con un’altra. Si verificano in seguito a errori nella duplicazione del DNA o a causa di agenti
mutageni ambientali. Possono essere transizioni, qualora si ha lo scambio di una purina con un’altra o di
una pirimidina con un’altra, oppure transversioni, qualora una purina viene sostituita da una pirimidina o
viceversa. Si distinguono in:
1. mutazioni silenti, che per effetto della degenerazione del codice genetico (più codoni per un
singolo amminoacido) non producono alcun cambiamento nella sequenza amminoacidica, dal momento
che la sostituzione di una base produce un codone sinonimo che codifica per lo stesso amminoacido;
2. mutazioni missenso, che modificano il messaggio genetico in modo tale che nella proteina
troviamo un amminoacido al posto di un altro (es: l’anemia falciforme, determinata dalla sostituzione di A
con T nella catena β dell’emoglobina produce la sostituzione dell’acido glutammico con la valina). Tali
mutazioni producono proteine attive, ma dall’efficienza di solito ridotta;
3. mutazioni non senso, hanno un effetto più distruttivo, e comportano la sostituzione di una base
che determina nell’mRNA un codone di stop, che interrompe la sintesi della proteina, che sarà quindi più
breve e normalmente non attiva;
4. mutazioni per scorrimento della finestra di lettura (frame-shift mutation), riguardano
l’inserimento o la rimozione di una base, mandando fuori registro il messaggio genetico (i codoni scalano di
una lettera), producendo proteine non attive. Qualora vi sia inserimento o rimozione di un numero di basi
pari a 3 o multipli di 3, avremo l’aggiunta o la perdita di uno o più amminoacidi.

Sequenze ripetute di pochi nucleotidi tendono a far scivolare la DNA polimerasi durante la duplicazione del
DNA, determinando un aumento o una diminuzione delle unità ripetute. Se abbiamo una sequenza in cui il
dinucleotide 5’-CA-3’ viene ripetuto otto volte (5’-CACACACACACACACA-3’), la mutazione può consistere in
un aumento (9) o diminuzione (7) del numero di dinucleotidi. Sequenze ripetitive di pochi nucleotidi sono
chiamate microsatelliti.
La mutazione da amplificazione di triplette può generare l’aumento del numero di sequenze ripetute
formate da unità di tre basi (ad esempio 5’-CAG-3’) durante la duplicazione del DNA, causando l’insorgenza
di malattie del sistema nervoso o neuromuscolare, come per esempio la malattia di Huntington, o la
distrofia miotonica.

L’intera molecola di DNA si può spezzare e ricongiungere alternando la sequenza dell’informazione genetica
a causa di agenti mutageni o grossolani errori nella duplicazione dei cromosomi. Tali alterazioni
cromosomiche possono essere bilanciate, quando tramite il riarrangiamento del cromosoma non si ha
perdita o guadagno di genoma, oppure sbilanciate, quando l’anomalia strutturale implica perdita o
guadagno di frammenti di genoma. Queste mutazioni cromosomiche possono essere di quattro tipi:
1. delezione, in cui una molecola di DNA si spezza in due punti, il segmento intermedio viene
rimosso e gli estremi si ricongiungono, producendo un segmento di DNA più breve (alterazione sbilanciata).
Le delezioni possono essere terminali o interstiziali: terminali qualora si perde la parte terminale di un
cromosoma, la quale viene perduta dalla cellula; interstiziali quando invece il cromosoma si rompe in due
punti e si perde un frammento all’interno del cromosoma. Quando si hanno nello stesso cromosoma due
delezioni terminali, i terminali del cromosoma residuo possono unirsi, generando il cromosoma ad anello.
La sindrome del Cri Du Chat è caratterizzata dalla delezione del braccio corto del cromosoma 5;
2. duplicazione, che si può verificare contemporaneamente alla delezione, in cui fra due omologhi
vi è uno scambio di segmenti di DNA: un cromosoma sarà privo di un segmento (delezione), l’altro invece
ne conterrà due copie (duplicazione). Anche questa è ovviamente una alterazione sbilanciata;
3. inversione, in cui un segmento di DNA può staccarsi e reinserirsi nello stesso punto ma al
contrario. Consistono quindi nel cambio di polarità di un segmento cromosomico: possono essere
pericentriche, quando il segmento invertito coinvolge il centromero, paracentriche, quando il segmento
invertito non coinvolge il centromero. E’ un’alterazione bilanciata;
4. traslocazione, quando un segmento di DNA si distacca dal proprio cromosoma e va a inserirsi in
un cromosoma diverso. Quando vi è scambio di materiale genetico fra cromosomi non omologhi si parla di
traslocazione reciproca, la quale può essere sia bilanciata che sbilanciata. La traslocazione robertsoniana
(detta anche fusione centrica) prevede invece la fusione di due cromosomi acrocentrici attraverso i bracci
corti. Anche le traslocazioni robertsoniane possono essere sia bilanciate che sbilanciate.
Un’alterazione cromosomica sbilanciata è quella dovuta alla creazione di un isocromosoma, ossia di un
cromosoma che, invece di un braccio corto e un braccio lungo, presenta due bracci corti o due bracci
lunghi. A causa di un piano di segmentazione anomalo, si verifica quindi la duplicazione di un bracco e la
delezione dell’altro.

Le mutazioni genomiche (o cariotipiche) si verificano quando un organismo presenta cromosomi


sovrannumerari o mancanti (aneuploidia). La mancanza di un cromosoma nella coppia di omologhi è la
monosomia, la presenza di un cromosoma in più nella coppia è detta trisomia.
Con euploidia s’intende un numero di cromosomi pari a due o più set cromosomici aploidi.
Con poliploidia s’intende un numero di cromosomi in più rispetto al corredo diploide, multiplo dei corredo
aploide: così si potranno avere le triploidie (3n), tetraploidie (4n). Fanno parte delle euploidie.
Le poliploidie sono sempre incompatibili con la vita.

Le aneuploidie possono essere causate da una non-disgiunzione meiotica (la mancata separazione degli
omologhi durante la meiosi), o da una traslocazione di gran parte di un cromosoma. Le trisomie compatibili
con la vita sono la sindrome di Down (trisomia 21), la sindrome di Patau (trisomia 13), e la sindrome di
Edwards (trisomia 18).
Le alterazioni legate ai cromosomi sessuali possono dar luogo alla sindrome di Turner (delezione di un
cromosoma X con nascita di femmine 45 X0) o alla sindrome di Klinefelter (non-disgiunzione con nascita di
maschi 47 XXY).
7. I virus
I virus non sono cellule, ma “oggetti biologici”: sono formati solo da un acido nucleico e proteine, non
eseguono funzioni metaboliche (infatti non risentono dell’azione degli antibiotici) e non sono in grado di
riprodursi autonomamente. Sono parassiti endocellulari obbligati, in quanto si riproducono soltanto
all’interno delle cellule di determinati ospiti, sfruttandone gli apparati cellulari per la sintesi delle proprie
proteine strutturali. La cellula ospite viene spesso distrutta dall’azione virale, ma ne libera le particelle virali
figlie, che infetteranno nuove cellule ospiti.

Il virione, l’unità fondamentale del virus, è formato da un acido nucleico (DNA o RNA a filamento lineare o
circolare, singolo o doppio) che porta solo l’informazione genetica relativa alla sintesi dei propri elementi
costitutivi, e da un capside proteico che lo riveste. Il capside a sua volta è formato da unità proteiche
strutturali dette capsomeri, codificate dal genoma virale. Talvolta è avvolto da una membrana o una parete
esterna, composta da fosfolipidi e proteine (come nel caso dell’HIV), la quale favorisce la fusione con le
membrane cellulari. Nascono come frammenti di acido nucleico sfuggito ad alcune cellule, il loro materiale
genetico è infatti più simile a quello dell’ospite che infettano, piuttosto che a quello di altri virus.

L’infezione virale può avvenire con diverse modalità: tramite insetti ematofagi (zanzare, pidocchi), per
inalazione di aerosol (goccioline di saliva), mediante contaminazione di cibo con materiale fecale e
mediante inoculazione diretta di sangue o altri liquidi biologici. Il complesso di effetti del virus sulle cellule
ospiti vengono detti effetti citopatici.

I VIRUS BATTERICI (dei procarioti)


I virus che infettano batteri sono detti batteriofagi o fagi, e spesso sono muniti di una coda fagica, un
complesso molecolare in grado di iniettare l’acido nucleico del fago attraverso la parete batterica
dell’ospite, dando il via a due possibili scenari:
1. il virus compie un ciclo litico, cioè assume il controllo dell’attività metabolica della cellula,
riproducendosi immediatamente e provocando la lisi della cellula, che libera la progenie del fago. Un virus
che compie solo cicli litici si dice virulento;
2. il virus compie un ciclo lisogeno, ossia inserisce il proprio acido nucleico nel genoma della cellula
ospite, posticipando la propria riproduzione. Il DNA fagico integrato nel cromosoma batterico è un’entità
non infettiva detta profago, i batteri che ospitano particelle virali sono detti lisogeni. Il profago può
rimanere inattivo per molti cicli di divisione cellulare (nelle fasi di crescita e produzione cellulare), ma può
attivarsi dando il via ad un ciclo litico, qualora sia più conveniente. Sono definiti virus temperati.

I VIRUS ANIMALI (degli eucarioti)


Alcuni virus sono semplici acidi nucleici racchiusi da capside, altri presentano una membrana derivata dalla
membrana citoplasmatica della cellula ospite precedentemente infettata (virus con rivestimento), possono
essere a DNA o RNA, compiono un ciclo litico penetrando nella cellula ospite in due modi: per endocitosi o
per fusione tra la membrana cellulare e il rivestimento virale.
Nei virus a DNA, il DNA virale si replica normalmente, venendo trascritto in mRNA che dirige la sintesi dei
costituenti virali utilizzando i bioelementi della cellula. Altri virus possono integrare il proprio DNA virale
nella cellula eucariotica ospite (provirus) senza distruggendola immediatamente, ma rimanendo quiescenti
come nel ciclo lisogeno.

Nei virus che penetrano per endocitosi (es: influenza umana), la membrana del virus e quella della
vescicola endocitotica si fondono, il capside degenera e l’RNA virale si libera, fungendo da stampo per la
produzione di mRNA grazie ad una RNA polimerasi virale RNA dipendente. L’mRNA viene tradotto in
proteine virali e trascritto in RNA virale. Il virione viene assemblato e si libera per gemmazione.

I retrovirus a RNA (es: HIV) penetrano per fusione diretta tra il rivestimento virale e la membrana
plasmatica, il capside degenera e l’RNA virale viene liberato, insieme all’enzima trascrittasi inversa, tipico
dei retrovirus. La trascrittasi inversa catalizza un processo di retrotrascrizione che sintetizza un filamento
singolo di cDNA (DNA complementare) a partire dall’RNA virale, il quale poi degenera. La trascrittasi inversa
sintetizza un secondo filamento di DNA, di modo che il neoformato DNA virale possa integrarsi nel
cromosoma della cellula ospite, originando un provirus. Se attivato, il provirus dirige la sintesi di RNA virale
poi trascritto in proteine virali nel citoplasma. Il virus viene assemblato e si libera per gemmazione.

I viroidi sono molecole circolari di RNA a filamento singolo (agenti patogeni delle piante), i prioni sono
particelle proteiche responsabili di malattie del sistema nervoso (es: encefalopatia spongiforme bovina
negli animali, malattia di Jakob-Creutzfeldt nell’uomo).
8. Regolazione dell’espressione genica

LA RICOMBINAZIONE GENICA NEI PROCARIOTI


Pur riproducendosi per via asessuata, i procarioti dispongono di meccanismi di ricombinazione genica per
creare quella variabilità genetica che permette loro di sopravvivere. Ve ne sono principalmente tre:
1. la trasformazione è la ricombinazione che avviene quando un batterio acquisisce DNA libero
dall’ambiente (proveniente da cellule morte), che si integra nel cromosoma circolare incorporando i geni;
2. la trasduzione è un meccanismo di trasferimento del DNA per opera di un virus (vettore virale),
che durante il ciclo litico, incorpora nel capside un frammento del DNA batterico (invece di quello virale), e
lo trasferisce quando infetta un’altra cellula batterica, iniettandolo e innescando la ricombinazione con il
cromosoma ospite;
3. la coniugazione prevede che vi sia un batterio donatore (che cede il proprio materiale genetico) e
uno ricevente. Il donatore si avvicina tramite pili sessuali al ricevente e forma un ponte citoplasmatico
detto tubo di coniugazione, attraverso il quale trasferisce un filamento singolo di DNA del proprio
cromosoma circolare (l’altro filamento serve da stampo per ricostruire il materiale genetico donato), ma dal
momento che il contatto è breve, il batterio ricevente ottiene soltanto una porzione di DNA (non l’intero
genoma). A questo punto il frammento ricevuto si affianca al cromosoma circolare del ricevente, e specifici
enzimi tagliano e riattaccano il DNA, in maniera che il DNA del donatore si ricombini con quello del
ricevente. La capacità di costruire pili sessuali e tubo di coniugazione è data dalla presenza del plasmide F.

Alcuni batteri ospitano cromosomi circolari più piccoli chiamati plasmidi (hanno una regione ori), che si
duplicano in contemporanea col cromosoma principale ma hanno un’esistenza indipendente da esso.
Hanno la caratteristica di trasferirsi da una cellula all’altra durante la coniugazione, e ne esistono diversi:
1. plasmidi F (fattori di fertilità): rendono possibile la coniugazione, codificando per le proteine dei
pili sessuali e del tubo di coniugazione. Una cellula che li possiede si chiama F⁺, e può rendere tale una F⁻
che non li possiede. Talvolta possono integrarsi nel cromosoma principale, portando con sé parte di esso
durante la coniugazione;
2. plasmidi metabolici: possono conferire capacità metaboliche alle cellule che li contengono, tipo
demolire gli idrocarburi per utilizzarli come fonte di carbonio, grazie agli enzimi codificati dal plasmide;
3. plasmidi R (fattori di resistenza): conferiscono la resistenza a particolari antibiotici, oltre ai geni
che rendono possibile la coniugazione.

I trasposoni (presenti anche negli eucarioti), sono in grado di spostarsi all’interno del genoma andando a
inserirsi in un punto diverso dello stesso o di un altro cromosoma. Questo meccanismo consente di
spostare alcuni geni all’interno di una singola cellula, producendo effetti fenotipici osservabili, in quanto, se
l’inserzione del trasposone avviene al centro di un gene, ne distrugge l’integrità (verrà trascritto un mRNA
inappropriato). Trasposoni di grosse dimensioni possono portare con sé alcuni geni batterici, aumentando
la variabilità.

L’ESPRESSIONE GENICA NEI PROCARIOTI: L’OPERONE


Il genoma procariotico è soggetto a una serie di meccanismi che rendono i batteri in grado di adattarsi
rapidamente alle variazioni ambientali, regolando con precisione la sintesi delle proteine, attivando o
disattivando determinati geni. Il metodo più comune è il controllo della trascrizione.

Escherichia coli, un batterio intestinale, utilizza come fonte primaria di energia il glucosio, ma può
metabolizzare alternativamente il lattosio, scindendolo nei suoi due monomeri costitutivi, galattosio e
glucosio, usando come fonte di energia quest’ultimo, quando il glucosio scarseggia.
Se vi è molto glucosio nell’ambiente, le tre proteine necessaria a catalizzare la scissione del lattosio sono
presenti a livelli molto bassi, mentre se vi è molto lattosio e poco glucosio, vengono attivati i geni che
codificano queste proteine, che vengono prodotte in abbondanza.
I geni strutturali che codificano per proteine correlate sono posizionati uno accanto all’altro sul cromosoma
e vengono regolati insieme (il loro DNA trascritto in un’unica molecola di mRNA, la cui presenza o assenza
attiverà o meno la sintesi proteica), infatti condividono anche uno stesso promotore, la sequenza a cui si
lega la RNA polimerasi. Fra il promotore e i geni, vi è un operatore, capace di legare una proteina
regolatrice detta repressore: l’intero complesso si dice operone.

Ogni operone è controllato da un gene regolatore (che può trovarsi anche a notevole distanza), che
codifica la proteina repressore. Il repressore può agire in due modi:
1. nel caso di un operone inducibile come l’operone lac, la proteina repressore presenta due siti di
legame: uno per l’operatore e l’altro per una molecola induttore, che nel caso di E. coli è proprio il lattosio.
Il legame fra la molecola induttore e il repressore, cambia la struttura tridimensionale di quest’ultimo
inattivandolo, in modo che il repressone non possa legarsi all’operatore, e l’RNA polimerasi possa legarsi al
promotore e trascrivere i geni strutturali necessari al metabolismo del lattosio. Quando la concentrazione
di lattosio si abbassa, l’induttore si separa dal repressore, che quindi si attiva bloccando la trascrizione;
2. nel caso di un operone repremibile come l’operone trp, la proteina repressore, oltre al sito di
legame con l’operatore, presenta la possibilità di legarsi ad un corepressore che è proprio il prodotto finale
della via metabolica catalizzata dalle proteine codificate dai geni strutturali dell’operone (in trp è il
triptofano): quando il triptofano/corepressore è assente, il repressore è inattivo e l’RNA polimerasi
trascrive i geni che codificano la sintesi degli enzimi adibiti alla sintesi del triptofano, quando il
triptofano/corepressore è presente, si lega al repressore attivandolo e bloccando la sintesi di ulteriore
triptofano.
In genere, sistemi inducibili controllano le vie cataboliche, quelli reprimibili controllano le vie anaboliche.

IL GENOMA EUCARIOTICO
Sebbene condividano le stesse basi genetiche dei procarioti, il genoma degli eucarioti (protisti, funghi,
piante, animali), presenta alcune differenze:
1. è più grande, contiene tantissimi geni che codificano per proteine assenti nei procarioti (proteine
di adesione cellulare, di differenziamento, di comunicazione, sequenze regolatrici);
2. presenta telomeri alle estremità dei cromosomi che prevengono la perdita di nucleotidi;
3. presenta molti geni interrotti, ossia sequenze codificanti alternate a sequenze non codificanti;
4. presenta geni con funzionalità affine dispersi nel genoma;
5. presenta molte sequenze ripetitive che non vengono trascritte in mRNA e tradotte in proteine.
Le sequenze altamente ripetitive (non trascritte in mRNA maturo) comprendono minisatelliti, ossia 10-40
coppie di base che si possono ripetere anche mmigliaia di volte, e microsatelliti, sequenze di 1-3 basi che si
trovano in piccoli gruppi.
Le sequenze moderatamente ripetitive sono geni che codificano tRNA e rRNA della sintesi proteica.
I trasposoni (sequenze moderatamente ripetitive) comprendono i trasposoni a DNA, che si spostano in
nuove sedi del genoma senza duplicarsi (“taglia e incolla”), retrotrasposoni che, senza spostarsi, copiano sé
stessi in RNA che fa da stampo per nuovo DNA, che si inserisce in un altro punto del genoma.
La presenza dell’enzima trasposasi è responsabile del movimento.
L’inserimento di un trasposone in una sequenza codificante può danneggiarla gravemente, distruggendo la
capacità del gene di codificare proteine.

Un tipico gene eucariotico è una sequenza di DNA compresa fra il promotore e il terminatore (che non
fanno parte del gene), due sequenze segnale non codificanti che servono a dare inizio e ad arrestare la
trascrizione. Non vanno confuse con il codone d’inizio e il codone di stop, primo e ultimo codone del tratto
codificante (fanno parte del gene).
Molti geni sono geni interrotti, in quanto contengono insieme a sequenze nucleotidiche codificanti (esosi),
altrettante sequenze non codificanti (introni), che saranno eliminate con la rielaborazione e la maturazione
del pre-mRNA (trascritto primario).
La rimozione degli introni e la giustapposizione degli esoni avviene tramite lo splicing dell’RNA in cui
intervengono particolari ribonucleoproteine nucleari (snRNP) che si legano ad esso in corrispondenza di
sequenze consenso poste al confine fra esone-introne. Due snRNP differenti si legano all’estremità 5’ e 3’
dell’introne da rimuovere per appaiamento delle basi.
Tramite l’energia dell’ATP e il legame di alcune proteine, si forma un complesso RNA-proteine detto
spliceosoma, che taglia il pre-mRNA, elimina gli introni e ricuce gli esoni, producendo mRNA maturo.
Inoltre, all’estremità 5’ viene aggiunto un “cappuccio” di 7-metilguanosina che lo protegge dalla
degradazione, e all’estremità 3’ viene aggiunta una coda di 100-250 nucleotidi di adenina (poli-A) nel
processo di poliadenilazione, che favorisce il passaggio al citoplasma e un corretto inizio della traduzione.

Negli eucarioti i geni sono sempre monocistronici, cioè codificano per un solo polipeptide, mentre nei
procarioti alcuni geni sono policistronici (operoni), cioè codificano per più proteine (in genere enzimi che
intervengono in un determinato processo metabolico). Nei procarioti, inoltre, trascrizione e traduzione
sono processi contemporanei, che avvengono simultaneamente.
Metà geni eucariotici sono presenti in singola copia, l’altra metà è presente in copie multiple, le quali
possono subire mutazioni diverse. Una mutazione utile si può mantenersi nelle generazioni successive,
dando origine ad un gruppo di geni affini, detti famiglia genica.
Una mutazione dannosa produce uno pseudogene inattivo la cui funzionalità è compromessa.

LA REGOLAZIONE PRIMA DELLA TRASCRIZIONE


Ogni cellula somatica contiene un corredo completo di geni, ma esprime soltanto quelli necessari per il
proprio sviluppo e le proprie funzioni.
Alcuni meccanismi regolatori agiscono prima della trascrizione, modificando la struttura della cromatina: la
sua trascrizione dipende infatti dalla struttura. Quando il DNA è avvolto attorno agli istoni a formare il
nucleosoma, la cromatina è molto densa, e la trascrizione viene impedita.
L’inizio della trascrizione richiede un rimodellamento della cromatina, ossia un cambiamento strutturale a
livello dei nucleosomi (rimozione degli istoni), che li rende meno compatti grazie all’azione di proteine
rimodellanti. Questo rende il DNA accessibile al complesso di trascrizione, che durante l’allungamento può
agire senza disgregare i nucleosomi, grazie all’azione di una seconda proteina rimodellante.
L’eucromatina è poco condensata ed in genere viene trascritta, l’eterocromatina è più condensata e poco
accessibile all’RNA polimerasi, che di solito non la trascrive.

Il corpo di Barr è un esempio di cromosoma X che in individui di sesso femminile assume forma compatta, e
non è trascrizionalmente attivo. Si trova nel nucleo di tutte le cellule somatiche, ma non viene mai
espresso. La scelta di quale cromosoma X compattare viene fatta allo stato embrionale iniziale. Per tale
motivo si dice che il corpo femminile è un mosaico, cioè fatto da raggruppamenti di cellule (con la stessa
origine embrionale) che hanno silenziato un cromosoma X, e da altre cellule che hanno silenziato l’altro.
Il silenziamento di un X nelle femmine è necessario per permettere una uguale espressione dei geni in esso
contenuti rispetto al maschio, che a un solo X (compensazione del dosaggio).

LA REGOLAZIONE DURANTE LA TRASCRIZIONE


Negli eucarioti, geni che svolgono funzioni correlate possono trovarsi molto distanti, ma devono essere
regolati in modo coordinato. I cosiddetti geni “domestici” (housekeeping o geni costitutivi), che codificano
proteine coinvolte in processi fondamentali per la vita di ogni cellula vivente, sono trascritti da tutti i tipi di
cellule. Geni che codificano proteine specifiche sono regolati dal meccanismo di trascrizione differenziale.

L’RNA polimerasi degli eucarioti necessita di specifici fattori di trascrizione, con cui forma il complesso di
trascrizione che dà il via al processo partendo a trascrivere dal promotore del gene.
Il promotore è formato da un sito per il legame dell’RNA polimerasi e, a monte, altre due sequenze
regolatrici: su una si lega il complesso di fattori di trascrizione, sull’altra invece le proteine regolatrici con il
compito di attivare il complesso di trascrizione.
Molto più lontano si trovano altre sequenze amplificatrici che legano proteine attivatrici che stimolano
ulteriormente l’attività del complesso di trascrizione.
Esistono sequenze che hanno effetto posto, i cosiddetti silenziatori, che legano specifici repressori proteici.
Qualora geni lontani contengano medesime sequenze regolatrici (che necessitano quindi le medesime
proteine regolatrici), viene sintetizzata la proteina regolatrice che coordina tali geni, di modo che essi
possano produrre le rispettive, diverse proteine.

Il meccanismo di amplificazione genica, invece, consiste nel creare più copie del relativo gene e trascriverle
tutte, in modo da aumentare la velocità di trascrizione (es: geni che regolano la produzione di rRNA).

La regolazione della maturazione del pre-mRNA, rimuovendo in maniera selettiva anche particolari esoni
oltre agli introni per sintetizzare proteine diverse partendo da un unico gene, si chiama splicing alternativo.
Un esempio il gene che codifica la tropomiosina, che viene tagliata in maniera differente in cinque tessuti
distinti.

LA REGOLAZIONE DOPO LA TRASCRIZIONE


I controlli post-traduzionali regolano l’intensità della traduzione e la longevità delle proteine.
Il meccanismo che attiva la degradazione di una proteina comincia con il legame tra una lisina della
proteina bersaglio e una proteina chiamata ubiquitina. Alla catena iniziale di ubiquitina se ne attaccano
altre, formando il complesso poliubiquitinico. Il complesso proteina-poliubiquitina si lega ad un enorme
complesso proteinco detto proteasoma che denatura la proteina bersagli, riducendola a piccoli frammenti
peptidici e amminoacidi liberi.
Un esempio è il papillomavirus umano, bersaglia la proteina inibitrice della divisione cellulare, e la indirizza
verso la distruzione nel proteasoma, determinando la divisione cellulare incontrollata, cioè il cancro.
9. Biotecnologie

La tecnologia del DNA ricombinante consiste nell’isolare e tagliare brevi sequenze di DNA per inserirle nel
genoma di altre cellule, modificando solo i geni che controllano i caratteri su cui si vuole agire, in maniera
mirata, per determinare un miglioramento genetico nell’individuo ricevente.
Per tagliare i geni sono necessari specifici enzimi di restrizione, che agiscono in corrispondenza di una
specifica sequenza di basi definita sito di restrizione, riconoscendo sequenze palindrome di basi e operando
un taglio “sfalsato” nel DNA (digestione da restrizione).
Questi enzimi agiscono solo sul DNA estraneo, e non tagliano mai il DNA della cellula batterica che li ha
prodotti, in quanto essa si protegge metilando il proprio DNA (aggiungendo un -CH₃) in corrispondenza dei
punti che potrebbero essere riconosciuti dagli enzimi di restrizione.
Se incubato in provetta con un enzima di restrizione, il DNA di qualsiasi organismo verrà tagliato in tutti i
punti in cui è presente il sito di restrizione, ottenendo brevi tratti chiamati frammenti di restrizione, di
diversa lunghezza, che verranno separati tramite elettroforesi su gel.

Per separare i frammenti di DNA dopo il taglio, è necessaria l’elettroforesi su gel. Si utilizza infatti un gel di
agarosio immerso in una sostanza tampone tra due elettrodi posti alle estremità. A una delle estremità del
gel si vano piccole cavità chiamate pozzetti in cui vengono depositati i frammenti di DNA colorato con una
sostanza blu. Quando viene applicato un campo elettrico agli elettrodi, i frammenti di DNA migrano verso il
polo positivo ad una certa velocità, che dipende dalle dimensioni del frammento. Interrompendo la
corrente elettrica, si esamina la distanza percorsa dai frammenti, che ne determina le relative dimensioni.

E’ stato possibile verificare che ciascun individuo possiede una propria impronta genetica, ossia
caratteristiche diverse da persona a persona, però esistono somiglianze fra consanguinei, una caratteristica
definita polimorfismo della lunghezza dei frammenti di restrizione (RFLP). L’impronta genetica è utile per
identificare una persona, stabilire parentele, o cercare geni responsabili di malattie ereditarie.

Per ottenere la ricombinazione fra i singoli frammenti, è importante che il taglio del DNA ad opera degli
enzimi di restrizione venga operato a livelli sfalsati. In tal caso, i frammenti di restrizione terminano con due
estremità a filamento singolo, che contengono quindi una sequenza di basi capace di legarsi ad un’altra per
complementarietà (estremità adesive) grazie all’azione di una DNA ligasi. Per ottenere estremità coesive, è
necessario che i due frammenti siano stati tagliati dal medesimo enzima di restrizione.
Per clonare un particolare gene, per studiarlo o ottenere grandi quantità del suo prodotto proteico, il DNA
ricombinante deve essere inserito in cellule ospiti definite transgeniche. Viene messo a contatto con una
popolazione di cellule ospiti, penetrando in alcune di esse. Dato che si moltiplicano molto velocemente, per
stabilire quali contengono la sequenza da clonare, bisogna contrassegnare la sequenza inserita con dei geni
reporter dei quali è facile osservare il fenotipo, che servono da marcatori genetici.

Confrontando la lunghezza dei frammenti derivati da una certa regione di DNA trattata con diversi enzimi di
restrizione, si può determinare la posizione di ogni sito di taglio, e costruire una mappa di restrizione, che
descrive un tratto di DNA indicando la posizione dei siti di restrizione.
Il progetto Genoma Umano si prefigge lo scopo di identificare e mappare tutti i geni umani, la loro
sequenza e la loro localizzazione sui cromosomi.

Se si volesse fare copie multiple di una sequenza di DNA, è necessario ricorrere alla reazione polimerasica a
catena (PCR), un processo che prevede che il filamento di DNA a doppia elica venga sottoposto a un
riscaldamento tale da denaturare la doppia elica, che quindi si separa in filamenti singoli, l’aggiunta alla
soluzione di un breve primer sintetizzato in laboratorio (richiede quindi la conoscenza delle sequenze di
basi all’estremità 3’ di ciascun filamento, in modo da sintetizzare artificialmente il primer complementare),
insieme alle quattro basi e alla DNA polimerasi (Taq-polimerasi), la quale catalizzerà la produzione di nuovi
filamenti complementari, ottenendo numerose copie del DNA originale.
Per verificare la presenza di un certo gene su un cromosoma, si usa l’ibridazione, una tecnica che sfrutta la
complementarietà dei filamenti di DNA. Una volta che è nota la sequenza nucleotidica del gene da cercare,
si prepara una sonda di DNA a filamento singolo formata da una sequenza di basi complementare a quella
del gene che viene marcata con coloranti fluorescenti.
Il DNA in esame viene trattato con enzimi di restrizione, separato tramite elettroforesi su gel, e viene infine
denaturato in maniera da sciogliere la doppia elica. A questo punto viene messo in contatto con la sonda
marcata, e si va a vedere quali tratti di DNA risultano fluorescenti, ossia hanno legato la sonda.

A titolo informativo, è necessario spiegare che l’ibridazione può avvenire anche tra un filamento di RNA e
uno di DNA, purché complementari. Inoltre, poiché le interazioni di stacking sono molto forti, il processo di
appaiamento può avvenire anche tra basi appartenenti allo stesso filamento mediante ripiegamento dello
stesso (intracatena, quello che avviene normalmente in un RNA a filamento singolo).

L’analisi dei frammenti di DNA grazie ai microarray a DNA, consiste in supporti di materiale plastico su cui si
trovano migliaia di pozzetti, ciascuno contente una diversa sonda di DNA a singola elica. L’mRNA di due
tessuti vengono isolati, e vengono prodotti due cDNA, marcati con due coloranti fluorescenti diversi, e
vengono ibridati con le sequenze di DNA bersaglio. Le macchie di colore fluorescente indicano l’espressione
genica di uno o dell’altro cDNA nel dato tessuto.
1. I tessuti

Un tessuto è un insieme di cellule con lo stesso aspetto e la stessa funzione. E’ il primo stadio di
organizzazione cellulare, che ha luogo in seguito al differenziamento cellulare (forma e funzione specifica),
permessa dalla trascrizione selettiva del genoma. Le cellule staminali sono le cellule indifferenziate che
possono generare queste diverse linee cellulari. Possono essere:
1. unipotenti: si trovano in quasi tutti i tessuti e generano solo le cellule del tessuto in cui si
trovano;
2. multipotenti: si trovano nel midollo osseo rosso (e nel cordone ombelicale), generano tutti gli
elementi cellulari del sangue;
3. totipotenti: cellule embrionali della prima fase dello sviluppo, generano tutti i tipi cellulari
dell’organismo.

In base all’attività proliferativa che manifestano le cellule di un tessuto, questi possono essere:
1. elementi labili, soggetti ad un continuo rinnovamento perché le cellule proliferano attivamente;
2. a elementi stabili, costituiti da cellule che, una volta adulte, non si moltiplicano più ma possono
riacquisire questa capacità qualora venissero danneggiati;
3. a elementi perenni, costituiti da cellule che, una volta adulte, perdono definitivamente la
capacità di moltiplicarsi e non possono rimpiazzare le eventuali perdite (tessuto nervoso e muscolare).

TESSUTO EPITELIALE
Il tessuto epiteliale è formato da cellule contigue, unite strettamente da giunzioni cellulari e pochissima
sostanza extracellulare. Generalmente sono in contatto con un tessuto connettivo sottostante mediante
una lamina basale (struttura proteica e polisaccaridica). Le cellule che poggiano sulla membrana basale
conservano per tutta la vita la capacità di duplicarsi, infatti gli epiteli si rinnovano quando vengono usurati.
Non contengono vasi sanguigni ma sono nutriti per diffusione dai tessuti sottostanti.
L’origine embrionale del tessuto epiteliale deriva da tutti e tre i foglietti embrionali (dall’endoderma:
mucose, dal mesoderma: sierose, epitelio dei geniali e dei vasi, dall’ectoderma: cute).

Possono essere semplici, ossia costituiti da un solo strato di cellule (es: alveoli polmonari, capsula di
Bowman, endotelio dei vasi sanguigni), pluristratificati, ossia costituiti da più strati cellulari (es: cute,
mucose della bocca e faringe), oppure pseudostratificati, ossia costituito da un unico strato di cellule di
altezza diversa (es: vie aeree di trachea e bronchi). Un aspetto caratteristico delle cellule epiteliali è di
essere polarizzate: la superficie apicale è diversa dalla superficie.
Le cellule possono essere cubiche, cilindriche o quasi totalmente appiattite (pavimentose).

Gli epiteli di rivestimento ricoprono e proteggono la superficie esterna e le cavità interne, delimitando i
vasi sanguigni e definendo i confini fra i compartimenti del corpo. Gli epiteli che rivestono le cavità interne
in comunicazione con l’esterno sono detti mucose, quelli che rivestono le cavità non comunicanti sono
dette sierose (es: pleura, pericardio, peritoneo). L’epitelio pluristratificato che costituisce il rivestimento
esterno del corpo è l’epidermide (o cute).

Gli epiteli ghiandolari sono costituiti da cellule specializzate nella produzione e secrezione di varie sostanze
(ormoni, sudore, enzimi digestivi, ecc), dette secreti. Nonostante alcuni epiteli di rivestimento contengano
singole cellule secernenti, in genere esse si raggruppano formando una ghiandola. Si dice esocrina quando
riversa la sostanza secreta all’esterno o in cavità comunicanti con l’esterno (es: salivari, sudoripare)
mediante un dotto, si dice endocrina quando riversa le sostanze prodotte nella circolazione sanguigna.

Gli epiteli sensoriali sono costituiti da cellule specializzate per recepire stimoli provenienti dall’ambiente
esterno o interno, e trasmetterli al sistema nervoso (es: recettori dell’odorato, gusto). Le cellule epiteliali
sensoriali sono disperse negli epiteli di rivestimento e sono avvolte da fibre nervose che ricevono da esse le
informazioni.
TESSUTO MUSCOLARE
Il tessuto muscolare è costituito da cellule contrattili di forma allungata, che possono generare forze e
causare movimento (eccitabilità e contrattilità). Il meccanismo di contrazione si verifica in risposta ad uno
stimolo proveniente dal sistema nervoso, consuma molta ATP ed è casato dallo scorrimento di miofilamenti
costituiti da due proteine contrattili: l’actina e la miosina, di cui il citoplasma di queste cellule è pieno. Per
sostenere l’elevato consumo di energia metabolica, le cellule muscolari sono ricche di mitocondri.

Il tessuto muscolare scheletrico striato costituisce i muscoli scheletrici dell’apparato locomotore che
consentono il movimento dell’organismo, spostando le ossa a cui sono ancorati mediante i tendini.
E’ responsabile dei movimenti volontari, e di alcuni movimenti involontari (es: respirazione, tremori, ecc).
E’ formato da cellule allungate e polinucleate chiamate fibre muscolari, nel cui citoplasma i miofilamenti
sono riuniti in fasci detti miofibrille, in cui i filamenti di actina e miosina sono disposti ordinatamente
determinando una successione di bande chiare e scure. L’unità contrattile della miofibrilla è il sarcomero.

Il tessuto muscolare liscio riveste molti organi interni cavi (es: intestino, vasi sanguigni), ed è sotto il
controllo del sistema nervoso autonomo, risponde quindi a stimoli nervosi o ormonali. Le cellule sono
fusiformi e provviste di un solo nucleo, i filamenti di actina e miosina non sono organizzati in sarcomeri, ma
sono organizzate in guaine che avvolgono gli organi, unite mediante giunzioni serrate che permettono una
contrazione coordinata.

Il tessuto muscolare miocardico costituisce esclusivamente la muscolatura del cuore. Presenta proprietà
intermedie fra quelle del muscolo striato e di quello liscio: i miofilamenti sono organizzati in sarcomeri, ma
le cellule sono mononucleate e la loro contrazione è involontaria e generata da alcune cellule specializzate
nel generare e condurre impulsi elettrici (il SNA modula l’attività delle cellule). I dischi intercalari, particolari
giunzioni, permettono la trasmissione degli impulsi elettrici da una cellula all’altra.

TESSUTO CONNETTIVO
Il tessuto connettivo è costituito da cellule di varia natura (macrofagi, fibroblasti, plasmacellule,
condroblasti, mastociti, adipociti) disperse in una matrice extracellulare ricca di fibrille proteiche secrete
dalle stesse cellule connettivali: le più abbondanti sono il collagene (costituito per il 35% da glicina, e per il
21% di prolina), usato come sostegno o connessione nella pelle, tra le ossa, o fra le ossa e i muscoli,
l’elastina, abbondante nelle pareti dei polmoni o le grandi arterie e le fibronectine, che hanno la capacità di
legarsi a recettori proteici presenti sulle membrane plasmatiche cellulari.
Abbondanti nella matrice cellulare e costituenti fondamentali della lamina basale sono i proteoglicani,
macromolecole costituite da un filamento centrale (core) di natura proteica, cui sono attaccati
glicosamminoglicani (GAG), uniti ad un asse centrale di natura polisaccaridica.

Il tessuto connettivo propriamente detto riempie, protegge e circonda gli organi.


Le cellule da cui è costituito sono i fibroblasti. La matrice è composta da acqua, sali, sostanze organiche,
collagene e elastina. Può essere:
1. connettivo denso, in cui la matrice è molto addensata, in cui prevale il collagene riunito in fibre
abbondanti organizzate in fasci, formando una struttura compatta e resistente. E’ caratteristico dei tendini
(che uniscono muscoli e ossa), dei legamenti (che uniscono le ossa) e del derma;
2. connettivo lasso, in cui la matrice è poco addensata, e le fibre poco intrecciate. Riempie gli spazi
fra organi e tessuti diversi lasciandoli liberi nei movimenti;
3. tessuto adiposo, che funge da deposito di grassi (funzione protettiva e di riserva energetica). La
matrice è quasi assente, le cellule, chiamate adipociti, contengono una goccia lipidica di grandi
dimensioni o tante piccole gocce che ne occupano quasi tutto il volume. Può essere:
a) adiposo bianco, si trova al di sotto della cute dover forma il pannicolo adiposo;
b) adiposo bruno, produce calore corporeo, è formato da cellule con molti mitocondri.

La cartilagine è un connettivo consistente e flessibile, formata da una matrice contenente cellule chiamate
condrociti, fibre di collagene, polisaccaridi e proteine. E’ priva di nervi e vasi sanguigni, infatti i condrociti
ricevono nutrimento e ossigeno per diffusione dai tessuti circostanti: per questo motivo il processo di
rigenerazione della cartilagine è molto lungo e spesso incompleto. Il condroitinsolfato conferisce resistenza
alla compressione. Forma le articolazioni, la laringe, il naso, i padiglioni auricolari, i dischi intervertebrali e
lo scheletro embrionale (che viene sostituito poi dal tessuto osseo).

Il tessuto osseo è un connettivo mineralizzato che sostiene i muscoli e il corpo. E’ formato da fibre di
collagene, ma deve la propria durezza ad una matrice ricca di cristalli di carbonato e fosfato di calcio
(idrossiapatite). E’ prodotto da cellule dette osteoblasti (che producono nuova matrice) che maturano in
osteociti una volta circondati interamente dalla matrice mineralizzata prodotta. Le ossa vengono
continuamente rimodellate dagli osteoclasti, responsabili del riassorbimento e la distruzione dell’osso.
Tale rimodellamento è regolato dall’ormone paratiroideo (che stimola gli osteoclasti facendo aumentare la
concentrazione di Ca²⁺), dalla calcitonina, dall’ormone della crescita (che stimola l’accrescimento delle
ossa), dagli ormoni sessuali (accelerano la maturazione dello scheletro).
Le ossa sono formate da due tipi di tessuto osseo:
1. tessuto osseo compatto, formato da unità strutturali definite osteoni, a loro volta costituiti da
lamelle disposte in strati concentrici intorno ad un canale centrale (canale di Havens) in cui decorrono fibre
nervose, vasi sanguigni e linfatici;
2. tessuto osseo spugnoso, meno compatto e costituito da lamelle (trabecole) disposte
disordinatamente a formare una rete molto fitta.
Esternamente le ossa sono rivestite dal periostio.

Il sangue è un tessuto connettivo fluido, formato da cellule disperse in una matrice detta plasma.

TESSUTO NERVOSO
Il tessuto nervoso è formato da neuroni, le unità di base, e le cellule gliali.
I neuroni sono cellule eccitabili, ossia in grado di ricevere stimoli e trasformarli in impulsi nervosi, e
conducibili, cioè capaci di trasportare gli impulsi e trasmetterli ad un'altra cellula.
Il neurone è formato da un corpo cellulare (pirenoforo) che contiene il nucleo e gli organuli, da cui si
dipartono: un assone e uno o più dendriti. I dendriti sono estensioni citoplasmatiche corte e sottili che
raccolgono i segnali provenienti dall’esterno e li trasmettono al corpo cellulare, il quale elabora la risposta e
la trasmette all’assone, un prolungamento lungo e sottile, che la invia sotto forma di impulso elettrico alla
cellula bersaglio con cui è a contatto, attivando il rilascio di segnali chimici che si legano ad appositi
recettori sulla cellula. La zona di contatto tra assone e cellula bersagli è la sinapsi. Gli assoni sono uniti in
fasci e costituiscono i nervi, che collegano il SNC a tutto il corpo.

Gli assoni sono in genere rivestiti da una guaina mielinica, una sostanza grassa periodicamente interrotta
dai nodi di Ranvier, e ogni internodo deriva dalla membrana di una cellula di Schwann (cellula gliale del
SNP) avvolta ripetutamente attorno alla fibra nervosa, con la funzione di nutrire e sostenere i neuroni.
Altre cellule gliali sono gli oligodendrociti (che avvolgono gli assoni del SNC), la microglia e gli astociti.
I corpi cellulari dei neuroni si raggruppano formando nuclei nel SNC e gangli nel SNP.

I neuroni sono cellule perenni (anche dette “post-mitotiche”), perché una volta differenziati perdono la
capacità di riprodursi (diminuiscono costantemente). Nella regione dell’ippocampo, però, ricerche recenti
hanno dimostrato che si generano nuovi neuroni.
2. Apparato tegumentario

La superficie esterna del corpo è rivestita dalla cute, un involucro resistente ed elastico che protegge
dall’ingresso di sostanze dannose, è provvisto di recettori sensoriali ed è coinvolto nella termoregolazione.
La cute è divisa in due strati: epidermide e derma.

LA CUTE
L’epidermide è un epitelio pavimentoso pluristratificato, il cui strato più profondo è detto strato basale o
germinativo in quanto produce costantemente nuove cellule (cheratinociti), che producono cheratina (una
proteina fibrosa) e che spingono le cellule sovrastanti verso l’esterno le quali, man mano che si avvicinano
alla superficie, si riempiono di proteine del citoscheletro (cheratine). Inoltre produce melanociti, cellule che
a loro volta producono melanina, che protegge la pelle dai danni delle radiazioni solari.
Lo strato più superficiale è detto strato corneo, formato da cellule morte anucleate altamente
cheratinizzate. L’α-cheratina è il principale costituente dello strato corneo dell’epidermide, delle unghie e
dei capelli.

Il derma è formato da connettivo ricco di collagene e vasi sanguigni, contribuisce alla termoregolazione,
contiene recettori tattili, terminazione nervose libere e gli annessi cutanei: follicoli piliferi che producono
peli, ghiandole sudoripare, ghiandole sebacee che producono il sebo.

La cute poggia sulla sottocute (ipoderma), uno strato di tessuto connettivo lasso molto adiposo (contiene
adipociti) che funge da riserva energetica e la connette ai tessuti più profondi.

Fanno parte degli annessi cutanei anche le ghiandole mammarie nella donna, ossia ghiandole sudoripare
che producono latte durante la gravidanza (regolata dagli ormoni prolattina e ossitocina). Ogni mammella
presenza un capezzolo dove sboccano i dotti galattofori. Internamente, ogni mammella è formata da lobi
separati da tessuto adiposo e connettivo: i lobi sono suddivisi in lobuli (alveoli) che secernono latte.
3. Apparato locomotore

SISTEMA SCHELETRICO
Il sistema scheletrico è l’insieme delle ossa che formano lo scheletro (206 ossa), le quali danno supporto
all’organismo, permettono il movimento e proteggono gli organi.
Possiamo trovare ossa lunghe (es: l’omero), ossa corte (es: le vertebre), ossa piatte (es: le scapole).

Un osso lungo è costituito da una diafisi centrale formata da tessuto osseo compatto che al suo interno
presenta midollo giallo, e un’epifisi a ogni estremità, formata da tessuto osseo spugnoso rivestito da uno
strato di tessuto osseo compatto, che al suo interno presenta midollo rosso, in cui ha luogo l’emopoiesi.
Le ossa sono rivestite dal periostio, una membrana di connettivo che comprende uno strato di cellule che in
caso di fratture generano osteoblasti, che riparano il tessuto osseo (si forma un manicotto cartilagineo, un
callo temporaneo che viene sostituito con un callo osseo transitorio, rimpiazzato da un callo definitivo).

I movimenti delle ossa sono possibili grazie alla presenza delle articolazioni, ossia le zone di collegamento
fra osso e osso: vi sono articolazioni mobili (es: gomito, ginocchio), semimobili (es: vertebre) e fisse (es:
suture del cranio), in base all’ampiezza dei movimenti.
Un’articolazione mobile è circondata da una guaina di tessuto connettivo detta capsula articolare che
mantiene in posizione le superfici articolari, le quali sono rivestiti da cartilagine e immerse nel liquido
sinoviale (lubrificante). Nelle articolazioni sottoposte a sforzo intenso, le epifisi ossee sono collegate anche
da legamenti, cordoni di connettivo ricchi di collagene ed elastina.
Le articolazioni possono essere: sinartrosi, ossia giunzioni fra capi articolari continui (es: suture craniche),
oppure diartrosi, ossia giunzioni fra capi articolari contigui.

Nello scheletro umano è possibile distinguere una porzione assiale (cranio, colonna vertebrale e cassa
toracica) e una appendicolare (ossa degli arti, cinto scapolare e pelvico).

Il cranio è un complesso di ossa piatte unite tramite suture, tranne la mandibola, unico osso mobile.
Possiamo individuare una parte superiore a calotta, il neurocranio, che comprende: osso frontale,
occipitale, due ossa temporali, due ossa parietali; e una inferiore, lo splancnocranio, che comprende: la
base del cranio (che comprende lo sfenoide), le ossa lacrimali, le ossa delle cavità nasali (che comprendono
le due ossa nasali, il vomere, i cornetti nasali, l’etmoide), le ossa del massiccio facciale (che comprende le
ossa zigomatiche in continuità con due mascellari, ossa palatine, e la mandibola, che comprende gli alveoli
dentari). Nello spessore di alcune ossa sono presenti cavità dette seni paranasali, che comunicano con le vie
respiratorie, rivestite da mucosa. La regione occipitale del cranio prende contatto con la prima vertebra
tramite l’articolazione occipito-atlantoidea rafforzata da robusti legamenti.
Sotto la mandibola è posto l’osso ioide, a semicerchio, che serve a tener aperta la faringe.

La colonna vertebrale costituisce il sostegno principale del corpo e protegge il midollo spinale.
Le ossa della colonna vertebrale sono le vertebre, particolari ossa piatte formate da un corpo vertebrale,
dall’arco vertebrale che delimita il canale vertebrale all’interno del quale si trova il midollo spinale. Sporge
in posizione mediana un processo spinoso, e lateralmente due processi trasversi.
Sono articolate fra loro in corrispondenza dei processi articolari che sporgono verso l’alto e il basso e sono
separate da dischi intervertebrali di cartilagine, che permettono una notevole mobilità.
Fra due vertebre adiacenti si vengono a formare dei forami intervertebrali attraverso cui passano i nervi e i
vasi spinali.

La colonna vertebrale è suddivisa in 5 regioni: cervicale (7 vertebre di cui la prima, l’atlante, si articola col
cranio), dorsale (12 vertebre su cui si articolano le costole), lombare (5 vertebre), sacrale (5 vertebre fuse
nell’osso sacro), coccigea (3-6 vertebre fuse fra loro).
La colonna vertebrale presenta una curvatura in avanti (lordosi cervicale), una curvatura indietro (cifosi
dorsale e di nuovo una in avanti (lordosi lombare).
La gabbia toracica delimita il torace, contiene e protegge cuore e polmoni. E’ delimitata inferiormente dal
diaframma, e formata da 12 paia di costole (24 in totale) articolate posteriormente con le 12 vertebre
dorsali, e anteriormente si congiungono allo sterno, mediante cartilagine.
Le prime 7 paia (vere) si uniscono direttamente allo sterno, le 3 paia successive (spurie) raggiungono lo
sterno tramite la cartilagine del settimo paio, le ultime 2 non sono unite allo sterno (fluttuanti).

Il cinto scapolare articola gli arti superiori alla colonna vertebrale. E’ formato anteriormente da due
clavicole articolate allo sterno (articolazione sterno-clavicolare), e posteriormente da due scapole articolate
alle clavicole (articolazione acromio-clavicolare) e collegate alla colonna vertebrale tramite tessuto
muscolare e connettivo. Ogni scapola comprende una cavità glenoidea che permette l’articolazione con
l’omero (articolazione scapolo-omerale) e quindi con l’arto superiore.

Il cinto pelvico (o bacino) articola gli arti inferiori che così si rapportano alla colonna vertebrale. E’ formato
da due anche, articolare posteriormente all’osso sacro (articolazione sacro-iliaca). Ogni anca è formata da
tre ossa saldate fra loro: ilio, ischio e pube; le ossa pubiche sono unite dalla sinfisi pubica, un’articolazione
semimobile. Ai lati del bacino le ossa fuse formano l’acetabolo, che si articola col femore (articolazione
coxo-femorale).

La mano è formata da 27 ossa disposte in tre gruppi: il carpo (polso), che comprende 8 ossa irregolari
disposte su 2 file (scafoide, semilunare, piramidale, pisiforme, trapezio, trapezoide, capitato, uncinato), che
si articolano con le 5 del metacarpo (palmo), che a loro volta si articolano con la falange basale di ogni dito.
Le falangi sono 3 per ogni dito (prossimale, intermedia, distale), tranne il pollice che è formato da 2 falangi.

Il piede è formato da 26 ossa disposte in tre gruppi: il tarso, che comprende 7 ossa irregolari (calcagno,
astragalo, cuboide, scafoide, cuneiforme esterno, cuneiforme intermedio, cuneiforme interno), che si
articolano con le 4 del metatarso, che a loro volta si articolano con la falange prossimale di ogni dito.
Le falangi sono 3 per ogni dito (prossimale, intermedia, distale), tranne l’alluce che è formato da 2 falangi.
Il calcagno è l’osso più voluminoso, che forma il tallone, mentre sull’astragalo si articola la tibia.

SISTEMA MUSCOLARE
Il sistema muscolare è formato da 620 muscoli scheletrici che contraendosi permettono lo spostamento dei
segmenti ossei su cui sono inseriti, e quindi i movimenti volontari.
I movimenti tipici permessi dai muscoli sono: abduzione (allontanamento di un arto dall’asse mediano del
corpo), adduzione (contrario di abduzione), flessione (riduzione dell’angolo fra due segmenti ossei contigui),
estensione (contrario di flessione), torsione (rotazione attorno al proprio asse).

I muscoli scheletrici sono ancorati alle ossa mediante i tendini, strutture elastiche e robuste di connettivo
contenente abbondante collagene. Le estremità muscolari sono ancorate su due ossa diverse: l’estremità
ancorata all’osso stazionario è detta origine, quella attaccata all’osso che si muove si dice inserzione.
I muscoli lavorano in gruppi: il responsabile di un movimento è l’agonista, quelli che collaborano i sinergisti.
Il muscolo che svolte un’azione contraria (estensione/flessione) ad un agonista è detto antagonista.

Un muscolo scheletrico è costituito da un fascio di fibre muscolari unite da tessuto connettivo,


vascolarizzate e innervate. Il sarcoplasma (citoplasma) contiene un gran numero di miofibrille suddivise in
sarcomeri (unità contrattili), circondate da un reticolo sarcoplasmatico contenente molti ioni calcio Ca²⁺.
Il sarcolemma (membrana cellulare) è collegato ad un sistema di tubuli trasversi (tubuli T) a contatto con il
liquido extracellulare e orientati perpendicolarmente alle miofibrille, che svolgono la funzione di canali per
il flusso degli ioni, consentendo la propagazione dell’impulso nervoso, insieme al sarcolemma.
Ogni miofibrilla è costituita da: filamenti spessi di miosina, filamenti sottili di actina.
I sarcomeri sono costituiti da un’alternanza di bande A (in cui actina e miosina si sovrappongono) e bande I
(in cui vi è solo l’actina). Ogni banda A comprende una zona H centrale in cui vi è solo la miosina. Il
sarcomero è delimitato da due linee Z (a cui è ancorata l’actina) e la linea M lo divide a metà.
I filamenti sottili di actina sono costituiti da due catene di actina avvolte ad elica ed associate a due
proteine: la troponina e la tropomiosina.
I filamenti spessi di miosina sono formati da catene di miosina in cui sono distinguibili due regioni: una
coda, e una testa globulare che sporge dal filamento.
La contrazione muscolare è dovuta allo slittamento dei filamenti sottili sopra i filamenti spessi, reso
possibile dalla testa della miosina che si aggancia sull’actina, formando ponti trasversali actina-miosina.
Ruotando, le teste di miosina fanno scivolare i filamenti sottili verso il centro del sarcomero che, da
contratto, è formato dall’avvicinamento delle linee Z, la riduzione della banda I, la scomparsa della zona H.
La contrazione muscolare è regolata dagli ioni calcio Ca²⁺.
In condizioni di riposo la concentrazione sarcoplasmatica di ioni calcio Ca²⁺ è molto bassa, e l’interazione fra
i filamenti di actina e le proteine regolatrici (troponina e tropomiosina) impedisce l’attacco della miosina.
L’arrivo di un impulso nervoso provoca rilascio di ioni calcio Ca²⁺ dal reticolo sarcoplasmatico, che si lega
alle proteine regolatrici dell’actina modificandone la conformazione e liberando i siti di attacco per la
miosina. Quando cessa lo stimolo, la pompa del calcio pompa lo ione nel reticolo sarcoplasmatico.

Il rilascio del calcio nel sarcolemma avviene in risposta ad un impulso nervoso che arriva alla fibra
muscolare attraverso un neurone motore. Il punto di congiunzione è una sinapsi detta giunzione
neuromuscolare o placca motrice. L’arrivo di un impulso nervoso stimola il rilascio del neurotrasmettitore
acetilcolina che si lega ai recettori del sarcolemma, generando un potenziale d’azione che determina il
rilascio di Ca²⁺ dal reticolo sarcoplasmatico nel sarcoplasma, innescando la contrazione.

Ogni neurone motore si collega con più fibre muscolari in un complesso detto unità motoria. Maggiori sono
le fibre innervate da un unico neurone motore, maggiore è la potenza del movimento, minore la precisione.

La contrazione muscolare richiede un’elevata quantità di ATP, necessario per distaccare le teste di miosina
dall’actina e riattaccarle successivamente in un punto all’estremità del sarcomero. Per rigenerare
rapidamente ATP a partire da ADP, i muscoli sono ricchi di fosfocreatina, una molecola capace di favorire la
rapida rigenerazione di ATP. A riposo, l’ATP richiesto viene prodotto in maniera aerobia, a livello
mitocondriale, mentre nel caso in cui le capacità di produrre ATP mediante metabolismo aerobio siano
sopravanzate dalle richieste metaboliche del muscolo, queste ultime saranno soddisfatte dalla glicolisi
anaerobia, con acidificazione dell’ambiente muscolare e produzione di metaboliti quali acido lattico
(provocando affaticamento e crampi), che viene trasportato al fegato dove viene utilizzato per produrre
glucosio.

La mioglobina è una proteina muscolare trasportatrice e di riserva dell’ossigeno necessario all’idrolisi


dell’ATP. La sua struttura, simile all’emoglobina, è formata da una sola catena polipeptidica (non quattro), e
un solo gruppo eme. E’ dotata di un’affinità maggiore per l’ossigeno, che cattura dal sistema circolatorio e
facilita la diffusione di ossigeno nelle cellule muscolari quando la richiesta metabolica è alta, e il flusso
sanguigno viene interrotto a causa della contrazione muscolare. Agisce rilasciando l’ossigeno legato quando
i valori di pO₂ sono bassi e il rifornimento emoglobinico insufficiente.

Le fibre rosse (a contrazione lenta) formano muscoli che sostengono contrazioni prolungate, possiedono
un’abbondante vascolarizzazione, notevoli quantità di mitocondri e mioglobina, necessari per produrre ATP
necessario a sostenere lunghi periodi di contrazione.
Le fibre bianche (a contrazione veloce) formano muscoli soggetti a contrazioni rapide e intense, sono meno
vascolarizzati e poveri di mioglobina e mitocondri, ma contengono grandi quantità di glicogeno e enzimi
della glicolisi, per produrre ATP rapidamente ma per un lasso di tempo non molto prolungato.
4. Apparato cardiovascolare

L’apparato cardiovascolare è costituito da una pompa muscolare, il cuore e una serie di vasi sanguigni
permettono al sangue di raggiungere tutto il corpo per trasferire da un tessuto all’altro gas respiratori,
nutrienti, prodotti di scarto, ormoni, cellule del sistema immunitario, ecc.

IL CUORE
Il cuore è un organo muscolare cavo situato nella cavità toracica (nel mediastino), diviso in quattro camere:
atrio e ventricolo destro, atrio e ventricolo sinistro (cuore destro, cuore sinistro) separati da un setto.
Gli atri ricevono il sangue dalle grandi vene, e ciascuno lo trasferisce al sottostante ventricolo, che lo
spingono con forza nelle arterie che percorreranno due circuiti distinti: circolazione polmonare (piccola
circolazione), con lo scopo di ossigenare il sangue ed eliminare l’anidride carbonica, e la circolazione
sistemica (grande circolazione), che distribuisce l’ossigeno e i nutrienti, prelevando l’anidride carbonica e le
sostanze di scarto. Sono presenti quattro valvole cardiache: due valvole atrio-ventricolari che separano atri
e ventricoli impedendo il reflusso del sangue, due valvole semilunari che separano i ventricoli dalle arterie.

La parete cardiaca è costituita da tre strati:


- l’endocardio, un sottile strato epiteliale che riveste le cavità interne e forma le valvole;
- il miocardio, lo strato muscolare che forma la parete del cuore (è rinforzato da un connettivo fibroso);
- l’epicardio, una sottile membrana sierosa che riveste esternamente il cuore.
Esternamente si trova un’ulteriore membrana sierosa che mantiene in posizione il cuore nel torace, che
insieme all’epicardio forma il pericardio. Il miocardio riceve nutrimento e ossigeno dalle arterie coronarie,
che derivano da una ramificazione dell’aorta e corrono sulla superficie del cuore.

LA CIRCOLAZIONE
L’AD riceve il sangue deossigenato (venoso) dalle due vene cave, che raccolgono il sangue di ritorno dal
corpo dopo aver ossigenato i tessuti e, tramite la valvola tricuspide, lo immette nel VD, dove ha inizio la
circolazione polmonare. Tramite le arterie polmonari il sangue arriva ai polmoni, dove nei capillari libera
l’anidride carbonica e si carica di ossigeno. Il sangue ossigenato (arterioso) quindi arriva nell’AS tramite le
vene polmonari, e da qui tramite la valvola bicuspide (o mitrale) giunge nel VS, da cui ha origine la
circolazione sistemica. Il sangue esce dal VS tramite l’aorta, che lo trasporta a tutto il corpo.
La circolazione polmonare ha inizio dal VD e termina nel AS, quella sistemica inizia dal VS e finisce nell’AD.

L’aorta è l’arteria che porta il sangue ossigenato fuori dal cuore, la quale si ramifica in varie arterie
secondarie: le arterie carotidi destra e sinistra (portano il sangue ossigenato al SNC e alle strutture facciali),
l’arteria succlavia (irrora gli arti superiori, torace e collo), l’arteria celiaca che si ramifica in tre arterie (irrora
lo stomaco, il pancreas, la milza, il fegato e l’intestino), le arterie mesenteriche (irrorano le varie parti
dell’intestino), l’arteria renale (irrora il rene), l’arteria iliaca (irrora la zona pelvica) e l’arteria femorale che è
una ramificazione della precedente (irrora gli arti inferiori). La circolazione sistemica comprende tre sistemi
portali: l’arteria epatica che arriva al fegato, l’arteria renale, e l’arteria che arriva all’intestino, dal quale si
diparte la vena porta epatica che sbocca nel fegato.

La vena cava raccoglie tutto il sangue deossigenato: è divisa in due vasi, la vena cava superiore, che drena il
sangue dagli altri superiori, collo e testa, sulla quale confluiscono, direttamente o indirettamente, la vena
succlavia e la vena giugulare (che formano insieme la vena anonima); e la vena cava inferiore, che drena il
sangue dal torace, addome, pelvi e arti inferiori, sulla quale confluiscono la vena iliaca, vena femorale e
vena safena.

Tra le arterie è classificata anche l’arteria polmonare, sebbene porti sangue deossigenato ai polmoni
perché venga ossigenato; mentre fra le vene è annoverata la vena polmonare, quantunque, partendo dai
polmoni, porti sangue ossigenato al cuore. Esse costituiscono due eccezioni.
SISTOLE E DIASTOLE
Atri e ventricoli alternano fasi di contrazione (sistole) e rilassamento (diastole) per pompare il sangue nel
corpo. La sequenza diastole-sistole ha durata di 0,8 s e costituisce il ciclo cardiaco.
La diastole (0,4 s) consiste nel rilassamento del cuore: le valvole atrio ventricolari sono aperte e il sangue
entra spontaneamente negli atri e nei ventricoli; le semilunari sono chiuse.
La sistole atriale (0,1 s) consiste nella contrazione degli atri, che si svuotano, spingendo il sangue nei
ventricoli, che sono ancora rilassati in diastole.
La sistole ventricolare (0,3 s) consiste nella contrazione dei ventricoli, le valvole atrio ventricolari sono
chiuse e la pressione cresce fino a provocare l’apertura delle valvole semilunari, che fanno fluire il sangue
nell’aorta e nelle arterie polmonari. Durante la sistole ventricolare gli atri sono in diastole e si riempiono.

Il muscolo cardiaco è in grado di contrarsi autonomamente grazie a cellule pacemaker che possono
generare ritmicamente stimoli elettrici e condurli lungo le pareti del cuore. Le cellule del muscolo cardiaco
sono in contatto tramite giunzioni serrate che consentono di propagare più velocemente lo stimolo.
Il pacemaker primario del cuore è un ammasso di cellule localizzate sulla parete dell’atrio destro chiamato
nodo seno-atriale, che origina lo stimolo del battito cardiaco. Questo si diffonde velocemente lungo le
cellule degli atri stimolandone la contrazione, e stimolando il nodo atrio-ventricolare, che genera impulsi
che vengono condotti ai ventricoli attraverso il fascio di His e le sue diramazioni, le fibre di Purkinje.
Il sistema nervoso può accelerare o rallentare il battito influenzando le cellule pacemaker: un rilascio di
acetilcolina da parte del nervo vago ne rallenta l’attività, un rilascio di adrenalina accelera il battito.

I VASI SANGUIGNI
Le arterie sono i vasi che portano il sangue dal cuore ai tessuti. Hanno pareti spesse ed elastiche, in quanto
devono sopportare una pressione notevole e intermittente. Sono formate da tre strati: un epitelio
monostratificato che riveste il lume interno (endotelio), una tonaca media di tessuto muscolare liscio, e una
tonaca avventizia formata da tessuto connettivo ricco di fibre elastiche, che permettono alle arterie di
contrarsi per aiutare l’avanzamento del sangue attraverso i tessuti.
Le vene raccolgono il sangue che confluisce dai capillari e lo riportano verso il cuore. Dato che la pressione
del sangue che fluisce dai capillari alle vene è molto bassa, insufficiente a spingere il sangue verso il cuore,
la forza più importante è la compressione delle vene dovuta alle contrazioni dei muscoli scheletrici, che
favorisce il ritorno venoso contro gravità. Sono formate anch’esse da tre strati, ma hanno pareti sottili ed
estendibili. Lungo le vene sono dislocate valvole a nido di rondine che impediscono il reflusso del sangue.
I capillari sono vasi dalle pareti sottilissime, costituite da un endotelio monostratificato che permette
scambi di gas, nutrienti, enzimi, ormoni e sostanze di rifiuto per diffusione. Il flusso sanguigno nei capillari è
molto lento, così da facilitare gli scambi tra il sangue e i tessuti circostanti.

LA PRESSIONE SANGUIGNA
La pressione sanguigna è la forza esercitata dal sangue sulle pareti dei vasi sanguigni.
Nell’ambito della circolazione sistemica, è massima nel VS in sistole, minima nell’AD in diastole.
Nell’ambito della circolazione polmonare, è massima nel VD in sistole, minima nell’AS in diastole.

La regolazione della pressione dipende dal volume sanguigno circolante e dal grado di vasocostrizione:
- recettori del volume sanguigno circolante sono presenti nell’atrio destro del cuore;
- sensori di pressione sono posti sulla parete dell’arco aortico e nella carotide.

Le informazioni provenienti da questi sensori raggiungono i centri regolatori del midollo allungato da cui
hanno origine risposte finalizzate al ripristino della pressione fisiologica:
- in seguito all’aumento di pressione sanguigna rilevato dalla carotide, viene inibita l’attività del sistema
ortosimpatico e stimolata quella del sistema parasimpatico, che agisce determinando una diminuzione
della frequenza e della gittata cardiaca, oltre che vasodilatazione periferica;
- in seguito all’aumento di volume sanguigno rilevato dagli atri cardiaci, il peptide natriuretico atriale (ANP)
inibisce la produzione di renina a livello dei reni, che a sua volta inibisce la secrezione di aldosterone a livello
delle surrenali, con produzione di urina diluita e riduzione del volume plasmatico del sangue;
- in seguito alla diminuzione di pressione sanguigna rilevata dalla carotide, viene inibita l’attività del sistema
parasimpatico e stimolata quella del sistema ortosimpatico, che agisce determinando un aumento della
frequenza e della gittata cardiaca, oltre che vasocostrizione periferica;
- in seguito alla diminuzione di volume sanguigno rilevato dagli altri cardiaci, viene stimolata la secrezione
di renina, che stimola a sua volta la secrezione di aldosterone a livello delle surrenali, e di vasopressina a
livello della neuroipofisi, che concorrono a determinare ritenzione idrica a livello renale, e quindi un
maggior volume plasmatico del sangue.
Riassumendo: il sistema parasimpatico determina una diminuzione dei valori e vasodilatazione, il sistema
ortosimpatico determina l’aumento dei valori e vasocostrizione; renina e aldosterone concorrono a
stimolare la ritenzione idrica che favorisce l’aumento del volume sanguigno che innalza la pressione.

IL SANGUE
Il sangue è un tessuto connettivo fluido formato da una matrice extracellulare fluida (plasma) e da elementi
figurati in sospensione: eritrociti (cellule anucleate) leucociti (cellule) e piastrine (frammenti cellulari).
Ha il compito di trasportare ossigeno, ormoni e nutrienti ai tessuti del corpo, prelevando CO₂ e sostanze di
scarto, oltre che funzione difensiva e riparativa dei tessuti danneggiati.

Il plasma rappresenta il 55% del volume sanguigno, è formato per il 90% da acqua, e per il restante 10% da
una miriade di sostanze diverse: gas disciolti, ioni sodio e calcio, proteine attive nella coagulazione e nel
trasporto, molecole segnale, ormoni, sostanze di scarto, glucosio, amminoacidi, colesterolo,
immunoglobuline, fibrinogeno, albumine (che determinano la pressione osmotica del sangue), ecc.
Nel sangue vengono anche trasportate le scorie del metabolismo proteico, sotto forma di urea: poiché
queste scorie contengono azoto, la loro misura è espressa sotto forma di azotemia.
Gli eritrociti (globuli rossi) sono cellule anucleate (perdono il nucleo durante il differenziamento) il cui
citoplasma contiene quasi esclusivamente molecole di emoglobina, una proteina che si lega all’ossigeno
polmonare e lo rilascia nei tessuti, legando alternativamente l’anidride carbonica per liberarla nei polmoni.
Sono privi di mitocondri, quindi non possono dar luogo alla respirazione cellulare a al ciclo di Krebs. Hanno
la forma di dischi biconcavi flessibili per transitare attraverso i capillari più stetti.
I leucociti (globuli bianchi) possiedono un nucleo, hanno funzione difensiva: riconoscono e neutralizzano
virus, batteri e cellule tumorali. Possono abbandonare l’apparato circolatorio richiamati da segnali chimici
per entrare negli spazi intercellulari, proliferando e aggredendo gli agenti patogeni. Vi sono diversi tipi di
leucociti: granulociti (divisi in neutrofili, eosinofili e basofili), monociti e linfociti T, B (si differenziano in
plasmacellule) e NK (natural killer), che partecipano alle difese specifiche riconoscendo un patogeno e
attaccandolo in maniera mirata producendo anticorpi. Granulociti e monociti (che si trasformano in
macrofagi) esercitano attività fagocitaria (difesa aspecifica), i linfociti sono i responsabili della difesa
immunitaria specifica.
Le piastrine sono frammenti cellulari anucleati derivanti dai megacariociti midollari, sono piene di enzimi e
sostanze necessarie ad avviare la coagulazione sanguigna, ossia la riparazione della parete lesionata di un
vaso per evitare la fuoriuscita di sangue.

Il pH sanguingo viene mantenuto nell’intervallo 7,38-7,42 dai meccanismi dell’omeostasi. Quando il sangue
va in acidosi, ossia diminuisce oltre 7,38, vuol dire che c’è troppa anidride carbonica nel sangue.

L’EMOPOIESI
Le cellule del sangue sono prodotte da organi emopoietici mediante l’emopoiesi (o eritropoiesi).
Il midollo osseo rosso produce eritrociti, leucociti e piastrine, mentre gli organi linfoidi come timo e milza
producono solo linfociti. Le cellule staminali multipotenti da cui hanno origine danno vita a due linee:
- la linea linfoide, da cui derivano i precursori dei linfociti;
- la linea mieloide, che origina i precursori di eritrociti, piastrine, granulociti e monociti.
Stimoli enzimatici e ormonali trasformano i precursori in cellule mature che si immettono nel circolo
sanguigno. Gli eritrociti hanno vita breve, dopodiché vengono distrutti dalla milza, che presenta cavità
dette seni venosi che fungono da riserva di eritrociti.
L’emopoiesi è stimolata dall’eritropoietina, prodotto dai reni in risposta ad una carenza di ossigeno.
TRASPORTO DI GAS
L’ossigeno nel sangue è trasportato dall’emoglobina, una proteina globulare formata da quattro subunità,
ognuna costituita da una catena polipeptidica α o β, e da un gruppo eme (molecola di ferro che lega O₂).
La struttura quaternaria dell’emoglobina è caratterizzata da interazioni di natura idrofobica molto forti tra
le quattro subunità. L’eme è formato da protoporfirina IX a cui è legato uno ione ferroso attraverso sei
legami di coordinazione: di questi, quattro sono impegnati con i quattro atomi N dell’anello porfirinico,
mentre degli altri due, uno lega un residuo di istidina, mentre l’altro lega reversibilmente l’ossigeno. Ogni
molecola di emoglobina, contenendo quattro gruppi eme, può legare quattro molecole di O₂. Se lo ione
ferroso viene ossidato a ione ferrico, l’emoglobina non è più capace di legare l’ossigeno, per cui esistono
nel globulo rosso dei sistemi antiossidanti che mantengono l’emoglobina allo stato ridotto.
L’affinità dell’emoglobinica per l’ossigeno è maggiore se questo è abbondante, minore quando scarseggia:
così, l’emoglobina rilascia O₂ nei capillari periferici deossigenati, e se ne carichi nei polmoni, ricchi di O₂.
L’associazione tra emoglobina e ossigeno è definita cooperativa, e l’emoglobina è definita una proteina
allosterica, cioè che modifica le proprietà strutturali/funzionali in seguito al legame di un ligando.
Una diminuzione di pH (elevati valori di CO₂) inibisce l’affinità con l’ossigeno, che viene rilasciato.
Il gruppo eme dell’emoglobina può legare anche altre sostanze velenose con affinità maggiore: CO e CN⁻.

L’anidride carbonica è trasportata da tre meccanismi diversi: 10% disciolta nel plasma sanguigno, 20% si
lega all’emoglobina in siti diversi da quelli per l’O₂, il 70% invece è trasportato nel plasma sotto forma di
ione bicarbonato (HCO₃⁻): quando passa per diffusione dai tessuti al sangue, si combina con l’acqua e
forma acido carbonico (H₂CO₃), che si dissocia in ione idrogeno (H⁺) e ione bicarbonato (HCO₃⁻), che si
riassociano successivamente nei polmoni. Formazione/dissociazione degli ioni sono catalizzati dall’anidrasi
carbonica. La formazione di ione bicarbonato promuove la liberazione di ioni H+, il cui aumento di
concentrazione influenza negativamente il legame dell’emoglobina all’ossigeno, favorendone quindi il
rilascio. L’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno viene diminuita anche da un altro ligando, il BPG prodotto
dagli eritrociti in condizioni di bassa pressione parziale di ossigeno. L’emoglobina fetale ha un’affinità
particolarmente bassa per il BPG e quindi mantiene un’affinità molto elevata per l’ossigeno, che sottrae
dall’emoglobina della madre.

Prima di arrivare ai tessuti, le sostanze che diffondono per gradiente di concentrazione dal sangue devono
passare attraverso il liquido interstiziale. Lo scambio dipende dalla differenza fra pressione idrostatica, che
tende a spingere i liquidi verso le sostanze interstiziali, e la pressione osmotica, che tende a richiamare
liquidi dagli spazi interstiziali.
All’estremità arteriosa: p. idrostatica > p. osmotica, provoca un flusso netto di liquido fuori dal capillare.
All’estremità venosa: p. osmotica > p. idrostatica, provoca un flusso di liquido verso l’interno del capillare.
Quando il flusso in entrata supera il flusso in uscita, il capillare arterioso diventa venoso.

L’ELETTROCARDIOGRAMMA
La variazione del campo elettrico cardiaco nel tempo può essere registrato alla superficie del corpo
mediante l’elettrocardiogramma. In esso si osserva una prima deflessione detta onda P dovuta alla
depolarizzazione atriale, un complesso QRS dovuto alla depolarizzazione ventricolare e un’onda T dovuta
alla ripolarizzazione ventricolare.

LA COAGULAZIONE
La coagulazione comprende un insieme di reazioni a cascata che portano alla formazione del coagulo
sanguigno nel processo di emostasi, ossia l’arresto di una emorragia.
Prima di tutto il vaso leso si contrae, le piastrine quindi aderiscono alle fibre di collagene dell’endotelio del
vaso e liberano fattori della coagulazione che attirano altre piastrine, che si aggregano in un coagulo
temporaneo. Successivamente questo si dissolve per far spazio al coagulo permanente, un reticolo di
fibrina che si genera in seguito ad una serie di reazioni a cascata: i fattori della coagulazione, in presenza
dello ione calcio Ca²⁺ attivano il fattore X, catalizza la formazione di trombina (a partire dalla forma inattiva
prototrombina), la quale a sua volta catalizza la trasformazione del fibrinogeno (inattivo) in fibrina.
IL SISTEMA LINFATICO
Il liquido non riassorbito che esce dai capillari arteriosi forma la linfa, e torna al sangue attraverso il sistema
linfatico, che comprende l’insieme dei vasi linfatici. I capillari linfatici a fondo cieco raccolgono la linfa dai
tessuti e la conducono in vasi maggiori, che confluiscono nel dotto toracico e nella grande vena linfatica,
che riversano il loro contenuto nelle vene succlavie, alla base del collo.
Il flusso linfatico è determinato dalla contrazione dei muscoli scheletrici (come quello venoso), e presenta
anch’esso valvole che impediscono il reflusso.
Il sistema linfatico ha il compito di drenare il liquido in eccesso, trasportare i grassi assorbiti dall’intestino al
sangue, e collaborare col sangue alla difesa immunitaria, distribuendo linfociti.
Lungo il decorso dei vasi linfatici sono disseminati linfonodi (collo, ascelle, inguine), organi spugnosi che
filtrano la linfa e la arricchiscono di linfociti. Oltre ai linfonodi, partecipano vari organi linfoidi quali il timo,
le tonsille, le placche di Peyer, e la milza, che funge da serbatoio e filtro di sangue, produce linfociti e
distrugge piastrine e eritrociti invecchiati, fagocitandoli tramite i macrofagi e trasformando il gruppo eme in
bilirubina, ceduta al fegato.
5. Apparato respiratorio

L’apparato respiratorio è responsabile degli scambi gassosi tra l’aria e il sangue, in maniera tale da rifornire
l’organismo di ossigeno (necessario a produrre ATP nella respirazione cellulare) ed eliminare l’anidride
carbonica, e comprende le vie aeree superiori (naso, faringe, seni paranasali e la rinofaringe) e le vie aeree
inferiori (laringe, trachea, bronchi e polmoni). L’attività dell’apparato respiratorio si esplica con la
ventilazione polmonare.

IL PERCORSO DELL’ARIA NELLE VIE AEREE


L’aria entra nell’apparato respiratorio attraverso le aperture nasali (in tal caso viene riscaldata e filtrata) o
la cavità orale, che si uniscono a livello della faringe, un condotto dotato di una parete muscolare che
conduce comunemente cibo e aria.
Dalla faringe l’aria passa nella laringe, un condotto rivestito da cartilagine e mucosa che accoglie le corde
vocali (è l’organo della fonazione), membrane che emettono suoni quando fatte vibrare dalla pressione
dell’aria (le cavità nasali e i seni paranasali fungono da cassa di risonanza). L’apertura superiore della laringe
è delimitata dall’epiglottide, una struttura cartilaginea che si abbassa per impedire al cibo di finire nelle vie
aeree. Esternamente è rivestita da una struttura scudiforme, più accentuata negli uomini (carattere
sessuale secondario), detta “pomo d’Adamo”.
Dalla laringe l’aria passa nella trachea, un condotto rigido rinforzato da anelli cartilaginei e rivestito di
cellule ciliate e secernenti muco, che intrappolano ed eliminano le particelle estranee.
La trachea si ramifica successivamente in due bronchi (ognuno dei quali porta ad un polmone), che a loro
volta si diramano in 5 bronchi lombari e ripetutamente in bronchioli (prive di rinforzo cartilagineo, ma
dotati di muscolatura liscia), che terminano in grappoli di alveoli, punto di arrivo finale delle vie
respiratorie, ossia sacchetti cavi di tessuto epiteliale monostratificato, in cui avviene lo scambio gassoso.
Ogni alveolo è circondato da una fitta reti di capillari sanguigni. Sono immersi in uno stroma connettivo
elastico che conferisce forma e resistenza ai polmoni e la loro superficie interna è ricoperta da un leggero
strato di materiale surfattante (fosfolipidi, lipidi, colesterolo e proteine) che ha il compito di diminuire la
tensione superficiale polmonare e impedire agli alveoli più piccoli di collassare durante la fase di
espirazione. Dopo lo scambio di gas, l’aria percorre le vie aeree in senso inverso, e fuoriesce.

I POLMONI
I polmoni sono due organi spugnosi posti nella cavità toracica. Posteriormente, si estendono dalle clavicole
fino al diaframma; anteriormente, si appoggiano alle coste. Il polmone sinistro presenta una fossa cardiaca
in cui trova posto il cuore. Profondi solchi dividono i polmoni in lobi (tre e due), ciascuno dei quali accoglie
un bronco lombare. Esternamente ogni polmone è rivestito da una doppia membrana detta pleura: la
pleura viscerale aderisce alla superficie esterna del polmone, la pleura parietale aderisce alla parete
toracica. La cavità pleurica così delimitata presenta al suo interno uno strato di fluido lubrificante.

LA VENTILAZIONE POLMONARE
La ventilazione polmonare è il movimento bidirezionale dell’aria, che dapprima fluisce all’interno
(inspirazione) e quindi rifluisce verso l’esterno (espirazione): è un processo meccanico che dipende dai
cambiamenti di volume e pressione, causati a loro volta dal diaframma e i muscoli intercostali.
L’inspirazione ha inizio con l’abbassamento del diaframma (contrazione) che espande la cavità toracica e di
conseguenza del volume dei polmoni, ancorati al diaframma tramite le pleure. In seguito si contraggono i
muscoli intercostali esterni, che ampliano ulteriormente il torace trascinando le costole verso l’esterno.
All’interno dei polmoni viene a crearsi una depressurizzazione, poiché la pressione al loro interno diventa
minore di quella atmosferica (in seguito all’aumento di volume), che viene bilanciata dall’ingresso dell’aria.
L’espirazione ha inizio con il rilassamento del diaframma e dei muscoli intercostali esterni, che provocano il
ritorno dei polmoni al volume iniziale, causando un aumento di pressione che fa fluire all’esterno l’aria.
A riposo la ventilazione polmonare è un processo involontario, mentre durante il respiro forzato
intervengono i muscoli intercostali interni, che diminuiscono il volume della cavità toracica, premendo le
costole verso l’interno e incrementando il volume d’aria espulso.
CONTROLLO NERVOSO DELLA RESPIRAZIONE
Il controllo della ventilazione è sottoposto all’attività del sistema nervoso centrale, che tramite i centri
respiratori posti nel midollo allungato, invia impulsi ai muscoli del torace. Il centro inspiratorio regola il
respiro di base, generando impulsi che innescano la contrazione del diaframma e degli intercostali esterni
(la distensione dei muscoli avviene passivamente). Il centro espiratorio è attivo solamente durante la
respirazione forzata, e regola la contrazione dei muscoli intercostali interni.
I chemiorecettori di O₂, CO₂ e pH dell’aorta e le carotidi inviano segnali ai centri nervosi che regolano.

GLI SCAMBI DEI GAS RESPIRATORI


Gli scambi gassosi avvengono per diffusione attraverso l’endotelio di capillari e alveoli polmonari, in base
alla propria pressione parziale, ossia la pressione del singolo gas (la pressione totale atmosferica è la
somma delle pressioni parziali dei gas che compongono l’aria). Ogni gas diffonde dalle aree in cui la sua
pressione parziale è maggiore, verso quelle in cui è minore (gradiente di concentrazione).
Nell’aria che respiriamo, la pO₂ è molto maggiore della pCO₂: negli alveoli vi è quindi un flusso netto di
ossigeno verso il sangue venoso (deossigenato), la cui pCO₂ supera la pO₂. A mano a mano che il sangue
scorre nei capillari polmonari, preleva quindi ossigeno cedendo l’anidride carbonica acquisita dai tessuti
durante la circolazione sistemica: per lo scambio di gas è essenziale che la superficie totale dell’area di
scambio sia elevata. Una volta che il sangue è stato ossigenato, ritorna al cuore attraverso le vene
polmonari, e viene pompato nell’aorta, che lo conduce a contatto con tutti i tessuti del corpo.
Le cellule dei tessuti, aventi un’elevata concentrazione di CO₂ e una bassa concentrazione di O₂ a causa
delle attività metaboliche che svolgono, richiamano l’ossigeno dal sangue cedendo ad esso anidride
carbonica. Il sangue deossigenato quindi si immette nelle vene che raggiungono il cuore destro e i polmoni.

EMOGLOBINA
Il 98,5% dell’ossigeno è presente nel sangue legato a molecole di emoglobina degli eritrociti tramite un
legame reversibile che dipende dalla pressione parziale del gas, oltre che dalla pressione parziale di
anidride carbonica, dell’acidità di un tessuto (es: i muscoli producono acido lattico che promuove il rilascio
di ossigeno) e della temperatura (temperature elevate aumentano la quantità di ossigeno rilasciato).
L’anidride carbonica è trasportata principalmente nel plasma sotto forma di ione bicarbonato (HCO₃⁻):
quando passa per diffusione dai tessuti al sangue, si combina con l’acqua formando acido carbonico
(H₂CO₃), che si dissocia in ione idrogeno (H⁺) e ione bicarbonato (HCO₃⁻): il secondo passa dall’eritrocita al
plasma sanguigno, scambiandosi con uno ione Cl⁻. Ione idrogeno e bicarbonato si riassociano
successivamente nei polmoni, grazie all’azione dall’anidrasi carbonica.

MIOGLOBINA
Anche le cellule muscolari possiedono una molecola in grado di legare ossigeno: la mioglobina. La sua
struttura, simile all’emoglobina, è formata da una sola catena polipeptidica (non quattro), e un solo gruppo
eme. E’ dotata di un’affinità maggiore per l’ossigeno, che cattura dal sistema circolatorio, e facilita la
diffusione di ossigeno nelle cellule muscolari quando la richiesta metabolica è alta, e il flusso sanguigno
viene interrotto a causa della contrazione muscolare. Agisce rilasciando l’ossigeno legato quando i valori di
pO₂ sono bassi e il rifornimento emoglobinico insufficiente.
6. Apparato digerente

L’apparato digerente è il complesso degli organi adibiti alla masticazione del cibo, alla degradazione delle
macromolecole e all’assorbimento dei nutrienti. E’ formato da un lungo tubo digerente.

Il cibo viene introdotto nell’apparato digerente attraverso la cavità orale (o bocca), dove viene masticato
meccanicamente dall’azione dei denti. Alla bocca sono annessi anche lingua e tre paia di ghiandole salivari:
le parotidi, le sottomandibolari e le sottolinguali, che secernono la saliva (regolazione del SNA), una miscela
composta al 99% di acqua, muco ed enzimi: fra questi ultimi, il lisozima ha il compito di uccidere i batteri, e
la ptialina (amilasi salivare) che idrolizza l’amido (iniziando la digestione chimica dei carboidrati), liberando
molecole di maltosio. Il cibo così rimescolato si trasforma in bolo, viene spinto verso la gola dalla lingua e
deglutito una volta che entra in contatto con il palato molle, arrivando, attraverso la faringe, fino
all’esofago.

Per operare la masticazione sono necessari i denti. La dentatura dell’uomo è costituita da 32 denti, di cui 12
molari, 8 premolari, 4 canini e 8 incisivi. I denti hanno una parete esterna chiamata corona, formata da
dentina che, a sua volta, è ricoperta di smalto (tessuto mineralizzato), prodotto da un organo detto abbozzo
dentario. La radice è la parte del dente inserita nell’osso: è fatta anch’essa di dentina che però è ricoperta
di cemento. La dentina del dente contiene una cavità dove si trova la polpa del dente, che accoglie cellule,
vari sanguigni e nervi. La dentina è un tessuto calcificato composto per la maggior parte di cristalli di
idrossiapatite.

L’esofago è un canale muscolare che inizia dalla parte posteriore della trachea e attraversa il diaframma
(attraverso un foro detto iato), connettendosi allo stomaco. Perché avvenga correttamente la deglutizione,
l’epiglottide impedisce che il cibo finisca nella laringe e da qui nelle vie aeree. Una volta nell’esofago, il bolo
viene spinto verso lo stomaco dai movimenti peristaltici: il primo terzo dell’esofageo è composto di
muscolatura scheletrica volontaria, mentre i due terzi successivi è composto da due foglietti di muscolatura
liscia (foglietto circolare e longitudinale), che si contraggono in risposta al passaggio del bolo, spingendolo
verso lo stomaco. La rete neuronale che intercorre fra i due foglietti muscolari li coordina in modo che la
contrazione sia sempre preceduta da un’onda anticipatoria di rilassamento, che fa sì che il segmento
successivo ad uno in contrazione sia sempre rilassato, in maniera che il bolo possa percorrere una sola
direzione (verso il basso). Fra esofago e stomaco si trova uno sfintere esofageo, detto cardias,
normalmente contratto, che impedisce il movimento a ritroso del cibo: si apre quanto basta per far passare
il bolo quando giungono le ondate peristaltiche.

Lo stomaco è una dilatazione del tubo digerente con lo scopo di immagazzinare il cibo e mescolarlo con i
secreti della mucosa che lo riveste; essa forma infatti profonde depressioni dette fossette gastriche, che
contengono ghiandole gastriche formate da tre tipi di cellule secretrici:
1. le cellule principali secernono pepsinogeno, un enzima inattivo;
2. le cellule parietali producono acido cloridrico (HCL), con lo scopo di uccidere i microrganismi, di
scindere le particelle di cibo e di convertire il pepsinogeno nella sua forma attiva, la pepsina (che digerisce
le proteine);
3. le cellule mucose secernono muco contenente sostanze tampone che alzano il pH rendendolo
meno acido, e neutralizzando così l’azione del succo gastrico (HCL e pepsina) e riportando il pH da 1< a
vicino a 7.
Quando il bolo raggiunge lo stomaco, le ghiandole piloriche producono l’ormone gastrina che innalza il pH
e stimola le onde di mescolamento (insieme ai segnali nervosi del sistema parasimpatico), modesti
movimenti peristaltici generati dalla tonaca muscolare: il cibo si mescola al succo gastrico e diventa chimo.
Nello stomaco ha inizio la digestione chimica delle proteine, idrolizzate a brevi peptidi dalla pepsina, e dei
lipidi, ad opera della lipasi gastrica, prodotta anch’essa dalle ghiandole gastriche, che inizia il processo di
digestione die lipidi. Sostanze quali l’acqua, gli ioni, le molecole liposolubili, l’alcol, l’aspirina e la caffeina
possono essere assorbine anche dalle pareti dello stomaco. Ogni onda di mescolamento spinge spruzzi di
chimo nell’intestino tenue attraverso il piloro, così che lo stomaco si svuoti in maniera graduale.
Nell’intestino tenue prosegue la digestione dei carboidrati, delle proteine e dei lipidi, e l’assorbimento delle
sostanze nutritive: è un organo molto esteso la cui superficie interna, riccamente pieghettata, forma villi
intestinali e microvilli, che conferiscono all’intestino un’area di assorbimento assai vasta, con cellule che
secernono muco ed enzimi che idrolizzano disaccaridi, proteine e lipidi a costituire il succo enterico
(maltasi, lattasi, saccarasi, proteasi, peptidasi, lipasi), e che assorbono le sostanze digerite. L’intestino tenue
è diviso in tre sezioni: il duodeno, il tratto connesso al piloro in cui avviene la maggior parte della
digestione, il digiuno e l’ileo. La digestione intestinale richiede numerosi enzimi e secrezioni fornite da
fegato e pancreas. Digiuno e ileo sono le porzioni di intestino in cui è massimo l’assorbimento: per facilitare
ciò esistono delle proteine presenti sulla superficie delle cellule epiteliali intestinali che trasportano
attivamente o facilitano la diffusione di nutrienti elementari (es: zuccheri, amminoacidi), mentre gli acidi
grassi a catena corta diffondono rapidamente dal lume ai villi e da qui al sangue venoso.

Il fegato è situato sotto il diaframma, avvolto da connettivo e circondato dal peritoneo; presenta verso il
basso una piccola cistifellea (colecisti). Il fegato è suddiviso in lobuli, composti da cellule specializzate dette
epatociti, disposti attorno ad una vena centrale. Le cellule di Kupffer sono adibite a distruggere gli eritrociti
e i batteri. Per quanto riguarda la digestione, gli epatociti del fegato producono la bile, una miscela di sali,
pigmenti biliari, colesterolo e lipidi, che viene riversata nei dotti biliari che si fondono nel dotto epatico.
Il dotto epatico si unisce al dotto cistico proveniente dalla cistifellea per formare il dotto biliare comune
(coledoco), che sbocca nel duodeno insieme al dotto pancreatico, proveniente dal pancreas. La bile non
svolge funzione digestiva (non contiene enzimi) ma i sali biliari che contiene emulsionano le grosse gocce di
grasso intestinale trasformandole in piccole goccioline (micelle), aumentando l’area superficiale di
digestione ad opera delle lipasi. Quando l’intestino è vuoto, la bile prodotta dal fegato si immagazzina nella
cistifellea. In corrispondenza dei sinusoidi, le cellule del fegato assorbono le sostanze nutritive provenienti
dall’intestino e le immagazzinano, oppure le convertono in molecole di glicogeno (glucosio, saccarosio,
fruttosio), in proteine o trigliceridi (lipidi), e le immettono nella circolazione sanguigna quando la loro
concentrazione diminuisce. Nel processo della gluconeogenesi, il fegato converte il piruvato in glucosio.
E’ inoltre il principale controllore del metabolismo dei grassi, attraverso la produzione di lipoproteine,
particelle composte da un nucleo idrofobico di grassi e colesterolo, ricoperti da uno strato di proteine
idrofile, che le permettono di galleggiare in acqua. Si distinguono principalmente le:
1. lipoproteine ad alta densità (HDL): che rimuovono il colesterolo dai tessuti e lo portano al fegato
dove viene usato per sintetizzare la bile: sono il “colesterolo buono” in quanto lo diminuiscono;
2. lipoproteine a bassa densità (LDL): trasportano il colesterolo nell’organismo affinché sia utilizzato
nelle biosintesi oppure immagazzinato: sono il “colesterolo cattivo” in quanto lo aumentano;
3. lipoproteine a densità molto bassa (VLDL): contengono trigliceridi destinati alle cellule adipose.
Inoltre sintetizza amminoacidi non essenziali e proteine, deamina gli amminoacidi in eccesso, incorpora lo
ione tossico NH4+, metabolizza l’alcol, produce l’ormone somatomedina (IGF-1), se stimolato dall’ormone
della crescita (GH). I corpi chetonici sono sintetizzati dalle cellule epatiche in caso di eccesso di acetil-CoA.

Il pancreas è una grossa ghiandola composta da una frazione esocrina, le cui cellule producono il succo
pancreatico (una miscela di enzimi digestivi: tripsinogeno, chimotripsinogeno, clastasi, lipasi, amilasi,
fosfolipasi, nucleasi pancreatiche), e una frazione endocrina, costituita dalle cellule delle isole di
Langherhans che producono insulina (cellule α) e glucagone (cellule β), per la regolazione della glicemia.
Le cellule δ (3-10% della cellularità totale) secernono somatostatina, le cellule F secernono il polipeptide
pancreatico (PP) e le cellule ε secernono l’ormone grelina.
Il succo pancreatico viene riversato nel dotto pancreatico che confluisce con il dotto biliare comune
(coledoco) che sfocia nel duodeno: questo liquido contiene ioni bicarbonato (HCO₃) che neutralizzano
l’acidità del chimo, e alcuni enzimi in forma inattiva, fra cui il tripsinogeno, attivato dall’enterochinasi
prodotta dalle cellule duodenali, che lo convertono in tripsina. Quest’ultima agisce a sua volta attivando il
tripsinogeno stesso per produrre altra tripsina (autocatalisi) e attivare alter proteine pancreatiche.
Tripsina, chimotripsina, elastasi e carbossipeptidasi sono tutte proteasi capaci di continuare la digestione
delle proteine iniziata nello stomaco. L’amilasi pancreatica è responsabile della digestione dei carboidrati,
mentre le lipasi (insieme a quelle dell’intestino), proseguono la digestione dei lipidi iniziata dall’emulsione
della bile. La secrezione del succo pancreatico è stimolata dall’ormone secretina, rilasciato dal tenue.
In caso di aumento della glicemia (dopo i pasti), il pancreas secerne insulina che stimola l’assorbimento di
glucosio da parte delle cellule (attiva enzimi che catalizzano la sintesi di glicogeno e grassi); qualora la
glicemia si abbassi, il pancreas secerne glucagone che stimola la gluconeogenesi, ossia scissione di
glicogeno nel fegato, rilasciando glucosio.

L’intestino tenue spinge gradualmente i suoi contenuti nell’intestino crasso, la cui parete è rivestita da un
epitelio semplice, pieno di microvilli. E’ diviso in tre regioni: il cieco, collegato all’ileo tramite lo sfintere ileo-
cecale, alla cui estremità si trova l’appendice, il colon (ascendente, trasverso, discendente), e il retto, la cui
parte finale (canale anale) termina con l’ano, che è circondato da uno sfintere di muscolatura scheletrica
(volontaria). Una volta che il chilo raggiunge il colon, la flora batterica fermenta gli zuccheri e decompone
le proteine rimaste, sintetizzando vitamine B e K assorbite dal colon. Il colon quindi assorbe l’acqua e gli
ioni residui, producendo feci che vengono immagazzinate nel retto fino al momento della loro eliminazione.
L’appendice vermiforme è ricca in tessuto linfoide ed è coinvolta principalmente nella difesa immunitaria.
Per questa sua attività frequentemente può infiammarsi e può rendersi necessaria una sua asportazione.
LE VITAMINE
Le vitamine sono sostanze organiche assunte con la dieta, indispensabili per il corretto funzionamento del
nostro organismo. Esse sono considerate micronutrienti che devono essere introdotti con la dieta poiché
non possono essere sintetizzati dall’organismo. Possono essere distinte in base alla solubilità in:
1. liposolubili, ossia le vitamine A, D, E, K, F, Q;
2. idrosolubili, ossia le vitamine del gruppo B, la vitamina C.
Frequentemente fungono da coenzimi, indispensabili per facilitare la catalisi delle reazioni chimiche.

Vitamina A (retinoidi e carotenoidi) ha funzioni implicate nella visione e nel differenziamento cellulare.

Vitamina B1 (tiamina) è il coenzima delle decarbossilasi ossidative del piruvato e dell’ α-chetoglutarato nel
ciclo di Krebs. La sua carenza provoca la malattia denominata “ber iberi” che danneggia il sistema nervoso.
Vitamina B2 (o vitamina G o riboflavina) i suoi metaboliti sono componenti essenziali degli enzimi flavinici e
dei gruppi prostetici, che intervengono in reazioni redox del metabolismo di carboidrati, lipidi e proteine.
Vitamina B3 (o vitamina PP o niacina o acido nicotinico) è una componente fondamentale del NAD e del
NADP, coinvolti in reazioni redox di vie anaboliche e cataboliche. La sua carenza provoca pellagra.
Vitamina B5 (o vitamina W o acido pantotenico) è un componente del CoA.
Vitamina B6 (o vitamina Y o piridossina) è coinvolta nel metabolismo degli amminoacidi come coenzima.
Vitamina B8 (o vitamina H o biotina) svolge il ruolo di cofattore di diverse carbossilati ATP-dipendenti,
favorendo il trasferimento di una molecola di anidride carbonica da un donatore ad un accettore.
Vitamina B9 (o vitamina Bc, vitamina M o acido folico) interviene nel trasferimento di unità
monocarboniose e funge da trasportatore, oltre che intervenire nella sintesi di nucleotidi e amminoacidi.
Vitamina B12 (o cobalamina) è coinvolta nel metabolismo di acidi nucleici, lipidi e amminoacidi.

Vitamina C (o acido ascorbico) ha forte funzione antiossidante.

Vitamina D (costituita da 5 diverse vitamine: D1, D2, D3, D4, D5) favorisce il riassorbimento di calcio a
livello renale, l’assorbimento intestinale di fosforo e calcio e i processi di mineralizzazione dell’osso, oltre
che essere coinvolta nel differenziamento cellulare, e nelle funzioni immuno-modulanti. E’ contenuta in
grande quantità nell’olio di fegato di merluzzo e la sua deficienza provoca rachitismo.

Vitamina E (o tocoferoli) ha un ruolo importante come antiossidante, tipo nella prevenzione della
perossidazione degli acidi grassi.

Vitamina K (o naftochinone) è importante per l’attivazione di proteine coinvolte nella cascata coagulativa e
per proteine della matrice dell’osso.

Vitamina F (o omega 3) sono acidi grassi presenti nelle membrane ed essenziali per la loro integrità, oltre
che per la sintesi di molecole coinvolte nell’infiammazione.

Vitamina Q (o ubichinone) è presente nelle membrane biologiche, specie nel mitocondrio ed è coinvolto
nelle fasi aerobiche e nella produzione di energia.
7. Apparato urinario
La capacità di mantenere costante il proprio ambiente interno è detta omeostasi. Per ottenere ciò è
necessario eliminare le sostanze di scarto e mantenere costante l’equilibrio idrico dei fluidi interstiziali:
queste funzioni sono svolte dal sangue che raccoglie le sostanze di scarto. Il sangue però dev’essere
depurato dall’apparato urinario, che comprende due reni, due ureteri, la vescica urinaria e l’uretra.

LE FUNZIONI DEL RENE


I reni sono una coppia di organi rivestiti da uno strato fibroso chiamato capsula renale e avvolti da una
massa adiposa che li mantiene in posizione. Hanno varie funzioni: di escrezione di sostanze di scarto
(ammoniaca, urea), regolazione della concentrazione ionica del sangue (sodio, potassio, calcio, cloruro,
fosfato), regolazione del volume sanguigno (recuperano acqua dal filtrato oppure la eliminano con l’urina) e
della pressione del sangue (tramite l’ormone renina), la regolazione del pH sanguigno (controllano la
concentrazione ematica degli ioni idrogeno e bicarbonato), produzione di ormoni (calcitrolo, eritropoietina).
Dal momento che l’equilibrio idrico del fluido interstiziale è fondamentale per la sopravvivenza delle cellule,
i reni si occupano del controllo della concentrazione e del volume dei liquidi extracellulari, eliminando i
soluti in eccesso e conservando i soluti necessari o presenti in scarse quantità.
I cataboliti, cioè i prodotti di scarto del metabolismo cellulare, sono di varia natura: acqua e diossido di
carbonio (metabolismo dei grassi e dei carboidrati), e cataboliti azotati (metabolismo delle proteine) che
vengono eliminati sotto forma di urea, un prodotto ottenuto dalla demolizione dello ione ammonio che
avviene nel fegato (gli amminoacidi nei mitocondri vanno incontro alla deaminazione ossidativa).

La filtrazione del sangue produce urina tramite quattro operazioni: filtrazione del plasma sanguigno,
secrezione di sostanze all’interno dell’urina, riassorbimento di sostanze utili dall’urina e escrezione.
L’urina è una soluzione acquosa di ioni e sostanze tossiche e di scarto (urea, acido urico, solfati, creatinina).
Viene rilasciata da ciascun rene in un dotto chiamato uretere, che conduce ad un’unica vescia urinaria dove
l’urina viene immagazzinata, per poi venire espulsa dall’uretra che si apre verso l’esterno del corpo.
La minzione (svuotamento della vescica) è controllato da due sfinteri che circondano la base dell’uretra, dei
quali uno è un muscolo liscio controllato dal SNA (recettori di tensione sulle pareti dell’uretra attivano un
riflesso spintale che rilassa lo sfintere), mentre l’altro è un muscolo scheletrico volontario.

IL RENE
Nel rene si distinguono una regione corticale esterna e una regione midollare interna, la quale è
organizzata in piramidi renali a forma di cono. L’urina che si forma confluisce in una cavità detta pelvi
renale, da cui si diparte l’uretere. I reni sono molto vascolarizzati: in ogni rene di distingue una vena renale
e un’arteria renale, che si divide in numerose arteriole che entrano in contatto coi nefroni, le unità
funzionali dei reni che filtrano il sangue e modificano la composizione del filtrato fino a produrre l’urina.

Il nefrone è una struttura composta da un glomerulo e da un lungo tubulo ricurvo detto tubulo renale,
attorno al quale si estende una rete di capillari chiamati capillari peritubulari. Il glomerulo è un gomitolo di
capillari, e appare infossato dalla capsula di Bowman (insieme costituiscono i cosiddetti corpuscoli di
Malpighi), una struttura a coppa dalla quale si diparte il tubulo renale. Le cellule della capsula di Bowman
che entrano in contatto diretto coi capillari del glomerulo sono detti podociti. Sia il glomerulo che la capsula
di Bowman si trovano nella regione corticale esterna. Il glomerulo opera la filtrazione del plasma sanguigno
producendo un filtrato glomerulare che scorre poi nel tubulo renale.

Nel tubulo renale avviene il riassorbimento e la secrezione, che modificano la composizione del filtrato
renale. Si distinguono tre diversi tratti chiamati: tubulo contorto prossimale, ansa di Henle, tubulo contorto
ditale. Il tubulo contorto prossimale si trova per la maggior parte nella corticale, ma si estende per un tratto
nella midollare formando un’ansa a U chiamata ansa di Henle. Quando raggiunge la corticale, il tratto
ascendente dell’ansa di Henle diventa il tubulo contorto distale, il quale si riunisce, insieme agli altri tubuli
contorti distali, nel dotto collettore, che scende nella piramide renale (parallelamente alle anse di Henle)
per svuotarsi nella pelvi renale.
Dall’arteria renale si ramificano arterie sempre più piccole; infine un’arteriola afferente porta il sangue a
ciascun glomerulo. Il sangue in uscita dal glomerulo è racchiuso da un’arteriola efferente che dà origine ai
capillari peritubulari, i quali sono siti di scambio tra il filtrato presente nei tubuli renali e il liquido
extracellulare. I capillari peritubulari provenienti da un nefrone si riuniscono in una venula che, a sua volta,
si riunisce con le venule provenienti da altri nefroni per raggiungere la vena renale.

LE TAPPE DELLA FORMAZIONE DELL’URINA


La formazione di urina nei nefroni avviene in quattro tappe fondamentali:
1. La filtrazione. Un’arteriola afferente fornisce sangue al glomerulo, il sito dove viene filtrato il
sangue, dato che è altamente permeabile a determinate sostanze ma impermeabile alle molecole
più grandi. La filtrazione avviene attraverso le pareti dei capillari grazie alla spinta fornita dalla
pressione del sangue. L’acqua e le molecole a basso peso molecolare attraversano le pareti dei
capillari e passano all’interno della capsula di Bowman, mentre i soluti a peso molecolare elevato e
le cellule rimangono nel sangue. La composizione del filtrato glomerulare (ultrafiltrato glomerulare)
è quindi privo di soluti a elevato peso molecolare come le proteine. A questo punto un’arteriola
efferente porta via il sangue dal glomerulo;
2. Il riassorbimento tubulare. Dal glomerulo il filtrato passa nel tubulo renale, le cui cellule
modificano il filtrato attraverso il riassorbimento di specifici ioni, sostanze nutritive e acqua,
trasferendo questi ultimi nel sangue e concentrando gli ioni in eccesso e i prodotti di scarto come
l’urea. I capillari peritubulari assorbono dal liquido interstiziale le sostanze riassorbite e le
restituiscono al sangue venoso. In questo tratto viene riassorbito circa il 98% del volume del filtrato
glomerulare. Il tubulo contorto prossimale, in particolare, riassorbe la maggior parte dei soluti
tramite processi passivi (diffusione) e attivi (trasportatori di membrana) tramite cellule dotati di
microvilli. Tali cellule trasportano attivamente fuori dal filtrato gli ioni sodio (il potassio segue
passivamente), glucosio, amminoacidi. Il trasporto attivo di soluti porta l’acqua a seguire
passivamente per osmosi il medesimo movimento. L’ansa di Henle riassorbe i sali, aumentando la
concentrazione dei liquidi interstiziali così da creare una differenza di pressione necessaria a
riassorbire acqua per osmosi;
3. La secrezione tubulare. Il filtrato che giunge dal glomerulo è ulteriormente modificato dalle cellule
del tubulo renale che secernono sostanze di scarto rimaste nel sangue dopo la filtrazione; che
vengono trasportate dal plasma dei capillari peritubulari nell’urina. Così vengono eliminati anche
molti farmaci;
4. L’escrezione. Il filtrato processato (l’urina) dai singoli nefroni entra nel dotto collettore e infine è
consegnato a un dotto comune, che lascia il rene.

Quando il nostro corpo è in equilibrio idrico, si forma circa 1 L di urina isotonica al giorno.
Se assumiamo troppa acqua, i reni producono un grande volume di urina diluita, eliminano acqua in
eccesso, mentre se l’organismo è disidratato, i reni producono piccoli volumi di urina concentrata.
La capacità di produrre urina a concentrazione variabile è dovuta a un meccanismo di moltiplicazione
controcorrente, reso possibile dalla disposizione anatomica dell’ansa di Henle, le quali aumentano in modo
graduale l’osmolarità (cioè la concentrazione complessiva di tutte le particelle che determinano la
pressione osmotica di una soluzione) del liquido interstiziale a livello della regione midollare.

I MECCANISMI REGOLATORI
Diversi meccanismi regolatori agiscono sui reni in modo che la loro attività si moduli adeguatamente.
Il mantenimento di una velocità di filtrazione glomerulare (VFG) costante dipende dal mantenimento i un
valore corretto di pressione.
Quando la pressione sanguigna cala bruscamente, la dilatazione delle arteriole renali aiuta a mantenere
una pressione sanguigna stabile all’interno del glomerulo. Se questo meccanismo non è sufficiente, il rene
rilascia nel sangue la renina, che agisce si una proteina in circolo per convertirla in un ormone attivo,
chiamato angiotensina, che riporta la VFG alla normalità provocando una serie di effetti:
1. Il restringimento preferenziale delle arteriole renali efferenti che aumenta la pressione del sangue
nei capillari glomerulari e in generale il restringimento dei vasi sanguigni periferici di tutto il corpo,
aumentando la pressione sistemica;
2. Stimola la corteccia surrenale a rilasciare l’ormone aldosterone, che insieme all’angiotensina
stimolano il riassorbimento di sodio da parte del rene, rendendo così più efficace il riassorbimento
di acqua, aiutando a mantenere stabile il volume ematico e anche la pressione sanguigna sistemica;
3. Agisce sul cervello stimolando il senso della sete.

Gli osmocettori che rilevano un aumento della concentrazione dei soluti nel sangue stimolano il rilascio di
ADH (ormone antidiuretico o vasopressina) che aumenta il riassorbimento di acqua a livello del tubulo
contorto distale e del dotto collettore. Stimolano inoltre la sete, così da aumentare il volume del sangue e
produrre urina più concentrata.
I recettori di tensione, invece, inibiscono il rilascio di ADH, favorendo un minor riassorbimento di acqua e
quini una diminuzione del volume ematico e della pressione sanguigna. Se la pressione sanguigna cala,
l’ipotalamo aumenta il rilascio di ADH, comportando un maggiore riassorbimento di acqua e di
conseguenza un ristabilimento della pressione e del volume sanguigno.
8. Apparato riproduttore

ANATOMIA DELL’APPARATO RIPRODUTTORE MASCHILE


L’apparato riproduttore maschile comprende i testicoli, le vie spermatiche, le ghiandole e i genitali esterni.
I testicoli (gonadi maschili) sono localizzati in una piega cutanea sotto lo scroto. Si trovano all’esterno del
corpo in quanto la temperatura ottimale per la spermatogenesi è leggermente inferiore a quella corporea:
particolari muscoli annessi permettono una retrazione in caso di basse temperature, o un distanziamento in
caso di caldo eccessivo. La funzione primaria dei testicoli è produrre spermatozoi immaturi (non ancora
capaci di movimento autonomo), che vengono raccolti nell’epididimo. I testicoli producono anche ormoni
essenziali per lo sviluppo dei caratteri sessuali.
Nell’epididimo gli spermatozoi completano la maturazione diventando mobili. Ogni epididimo, annesso al
rispettivo testicolo, prosegue in un vaso deferente che si connette ad una vescichetta seminale, ghiandole
che producono il 60% del volume dello sperma (muco, fibrinogeno, fruttosio). Ciascun epididimo è in
connessione all’uretra, che prende origine dalla vescia e si apre all’esterno del pene, servendo sia da via di
transito dell’urina che dello sperma.
La prostata è una ghiandola posta lungo il primo tratto dell’uretra che produce il 30% del volume dello
sperma: un fluido alcalino che neutralizza l’acidità delle vie genitali, oltre che un enzima addensante che
facilita l’espulsione dello sperma. Le ghiandole bulbouterali, annesse anch’esse all’uretra, secernono
anch’esse un secreto mucoso e alcalino che lubrifica l’uretra facilitando il passaggio dello sperma.
Pene e scroto formano i geniali esterni: il pene è formato da tre masse cilindriche di tessuto cavernoso
erettile unite da connettivo e avvolto da cute. Le due masse laterali prendono il nome di corpi cavernosi
(che si riempiono di sangue e sono responsabili dell’erezione) del pene, mentre quella centrale è detta
corpo spongioso dell’uretra. Il glande è ricoperto da un epitelio più sottile sensibile alla stimolazione,
coperto da una piega cutanea detta prepuzio.

La stimolazione sessuale induce il rilascio di un neurotrasmettitore gassoso, l’ossido nitrico (NO), che
stimola la produzione di GMP ciclico (cGMP) che causa la dilatazione dei vasi, l’aumento dell’afflusso
sanguigno e il conseguente rigonfiamento del tessuto spugnoso ed erettile che forma la struttura del pene,
che si ingorga di sangue causando l’erezione, che facilita l’introduzione del pene nella vagina.
Lo sperma in transito durante l’orgasmo attraversa i vasi deferenti e l’uretra mediante due fasi distinte:
- durante l’emissione, le contrazioni della muscolatura liscia fanno procedere lo sperma lungo l’uretra;
- durante l’eiaculazione la contrazione di altri muscoli spingono lo sperma lungo l’ultimo tratto dell’uretra, e
poi all’esterno del pene.

ANATOMIA DELL’APPARATO RIPRODUTTORE FEMMINILE


L’apparato riproduttore femminile comprende le ovaie, le vie genitali e i genitali esterni.
Le ovaie sono corpi ovoidali al cui interno sono presenti numerosi follicoli ovarici (vescicole cave) che
contengono ognuno una cellula uovo immatura, circondata da uno strato di cellule follicolari che
producono estrogeni. I follicoli ovarici maturano ciclicamente (uno alla volta): durante questo processo il
follicolo si ingrossa, l’oocita va incontro a gametogenesi e viene espulso dall’ovaia (ovulazione) nelle tube.
Le tube di Falloppio sono canali che si estendono dalle ovaie (con cui sono in contatto) all’utero.
Presentano un’apertura sfrangiata le cui estroflessioni sono chiamate fimbrie e circondano le ovaie, in
modo che la tuba possa accogliere l’oocita quando viene espulso dal follicolo ovarico dell’ovaia. Nelle tube
ha luogo la fecondazione; successivamente l’epitelio ciliato che ne ricopre la parete interna fa avanzare
lentamente lo zigote verso l’utero.
L’utero è un organo muscolare cavo, fissato alla cavità pelvica mediante legamenti, ed è la sede dove ha
luogo lo sviluppo embrionale dopo la fecondazione. La parete uterina è formata da tre strati di tessuto:
l’endometrio, una muscosa molto vascolarizzata a cui si attacca l’embrione, il miometrio, uno spesso strato
muscolare liscio di fibre incrociate, il permimetrio, il rivestimento esterno dell’utero. L’utero si restringe in
corrispondenza della cervice, al confine con la vagina. La vagina è un condotto che si apre all’esterno del
corpo. Presenta due serie di pieghe cutanee (grandi e piccole labbra) che ne circondano l’apertura. Nel
punto di unione anteriore delle piccole labbra è situato il clitoride, una struttura a bulbo di tessuto erettile
(stessa origine embrionale del pene) molto sensibile. Può essere coperta da una membrana detta imene.
SPERMATOGENESI
La spermatogenesi avviene nei testicoli, all’interno dei tubuli seminiferi. Le pareti dei tubuli sono costituiti
da gameti in formazione in vari stadi di maturazione: verso la parte più esterna (membrana basale) si
trovano le cellule più immature; procedendo verso il lume vi sono cellule in via crescente di maturazione.
Le cellule di Sertoli poste tra gli spermatozoi sostengono e forniscono nutrimento ai gameti in maturazione.
Le cellule di Leydig, collocate nel tessuto fra i tubuli, producono gli ormoni sessuali maschili.
Ogni spermatogonio (diploide) si divide per mitosi producendo una cellula staminale indifferenziata e uno
spermatocita primario (diploide) che in seguito alla meiosi I produce due spermatociti secondari (aploidi
dicromatidici), i quali compiono la meiosi II originando quattro spermatidi (aploidi monocromatidici). Gli
spermatidi passano nell’epididimo dove completano la maturazione trasformandosi in spermatozoi.
La maturazione implica: l’eliminazione del citoplasma, la formazione di un flagello che si raccorda alla testa
(corpo cellulare) mediante il segmento intermedio e il collo, lo sviluppo di un mitocondrio a spirale
necessario a produrre l’ATP indispensabile per il movimento.
La spermatogenesi produce quattro spermatozoi per ogni spermatocita primario.

OVOGENESI
L’ovogenesi avviene nell’ovaia e implica la maturazione completa degli oogoni (diploidi) che, per mitosi,
maturano subito a oociti primari (diploidi) durante lo sviluppo embrionale. Questi sono cellule quiescenti
bloccate in profase della meiosi I, contenute nei follicoli ovarici (solo uno per ogni follicolo) che si attivano
in pubertà. Nel corso della profase la cellula immagazzina le riserve di necessiterà per dividersi e maturare.
Dall’inizio della pubertà gli oociti primari si attivano e completano la meiosi I dividendosi in due cellule
tramite una citodieresi ineguale: l’oocita secondario (aploide dicromatidico) riceve gran parte del
citoplasma, mentre il corpuscolo polare eliminano solo i cromosomi in eccesso, degenerando. L’oocita
secondario viene espulso dall’ovaia e passa nelle tube durante la metafase della meiosi II, dove può vivere
72 ore, e se non viene fecondato degenera e muore senza terminare la meiosi.
Se viene fecondato, diversamente, il nucleo dello spermatozoo penetra nell’oocita secondario e “attende”
mentre il nucleo dell’oocita si divide completando la meiosi II tramite una seconda citodieresi ineguale:
l’ootide (aploide monocromatidico) riceve il citoplasma, mentre il corpuscolo polare secondario viene
espulso e degenera. Le cellule follicolari che continuano a proliferare formando il corpo luteo che produce
estrogeni e progesterone, e che degenera se non avviene la fecondazione. L’ovogenesi è un processo ciclico
che comporta l’attivazione un solo follicolo e produce una sola cellula uovo per ogni oocita primario.

IL CONTROLLO ORMONALE MASCHILE


Stimolato da segnali provenienti dall’encefalo, l’ipotalamo libera l’ormone di rilascio delle gonadotropine
(GnRH) che stimola le cellule dell’ipofisi anteriore a secernere ormone luteinizzante (LH) e follicolo-
stimolante (FSH), i quali stimolano le cellule di Leydig a produrre androgeni e testosterone.
Il FSH e il testosterone agiscono sulle cellule di Sertoli, stimolando la produzione di spermatozoi.
Il testosterone, in accordo con l’ormone inibina prodotto dalle cellule di Sertoli, stimola l’ipofisi a inibire la
sintesi di GnRH e LH (feedback negativo).
Il controllo ormonale maschile quindi, durante la pubertà, stimola la produzione di ormoni sessuali che
determinano lo sviluppo dei genitali, la comparsa dei caratteri secondari e l’inizio della spermatogenesi.

IL CONTROLLO ORMONALE FEMMINILE


L’attività ciclica dell’apparato riproduttore comporta due cicli distinti sincronizzati dagli ormoni sessuali:
1. il ciclo ovarico (28 giorni) consiste nella maturazione dell’oocita primario a secondario: durante
la fase preovulatoria 6-12 follicoli iniziano a maturare di cui solo uno solo continua la maturazione per
andare incontro a ovulazione, mentre gli altri regrediscono. Durante l’ovulazione avviene la meiosi, la
liberazione dell’oocita secondario nella tuba ed eventualmente la fecondazione. Nella fase post-ovulatoria
le cellule follicolari non maturate formano il corpo luteo;
2. il ciclo uterino (o mestruale) consiste nell’ispessimento dell’endometrio (per accogliere
l’embrione) e nel suo successivo sfaldamento se non avviene la fecondazione: raggiunge lo spessore
massimo 5 giorni dopo l’ovulazione e lo mantiene per altri 9 giorni. Se non avviene la fecondazione,
comincia a sfaldarsi e viene eliminato attraverso producendo il flusso mestruale, della durata di 5 giorni.
Il ciclo ovarico e uterino sono coordinati da tre livelli ormonali: durante la pubertà l’ipotalamo incrementa il
rilascio di GnRH, che stimola l’ipofisi anteriore a produrre LH e FSH che agiscono determinando una
proliferazione del tessuto ovarico, secernendo estrogeni e progesterone, che determinano lo sviluppo dei
genitali, la comparsa dei caratteri sessuali secondari, e l’inizio del ciclo mestruale.
Prima della mestruazione l’ipotalamo libera GnRH stimolando l’ipofisi a secernere FSH e LH, che innescano
l’inizio della maturazione dei follicoli e la produzione di estrogeni, che stimolano l’inspessimento
dell’endometrio. Gli estrogeni agiscono (feedback negativo) inibendo la sintesi di LH e FSH, i cui livelli
rimangono bassi durante i primi 12 giorni del ciclo ovarico (fase preovulatoria). Quando si avvicina il
momento dell’ovulazione, gli estrogeni raggiungono il picco inducendo a l’ipotalamo a stimolare l’ipofisi a
produrre grandi quantità di LH e FSH (
feedback positivo), che inducono l’ovulazione e stimolano i follicoli a trasformarsi in corpo luteo.
Quest’ultimo produce progesterone ed estrogeni, che inibiscono il rilascio di LH e FSH (feedback negativo),
che impedisce la maturazione di nuovi follicoli.
Se non avviene la fecondazione, il corpo luteo degenera cessando di produrre estrogeni e progesterone,
determinando lo sfaldamento dell’endometrio e la mestruazione, e innescando la produzione di GnRH, FSH
e LH dando inizio a un nuovo ciclo.
Nel corso della vita fertile di una donna si verificano circa 450 cicli ovarici.

LA FECONDAZIONE
La fecondazione è l’evento che stimola il completamento della meiosi II e la formazione dello zigote: i
nuclei aploidi dei gameti si fondono a livello delle tube, e lo zigote va incontro alle prime mitosi (embrione).

La fecondazione inizia con il riconoscimento specifico tra i gameti: l’oocita secondario espulso dal follicolo è
circondato da un rivestimento detto cumolo ooforo (aggregazione di cellule follicolari in una matrice
gelatinosa), sotto al quale si trova una zona pellucida, sulla cui superficie specifiche glicoproteine fungono
da siti di riconoscimento per particolari molecole presenti sulla testa dello spermatozoo. Quando la
membrana dello spermatozoo viene a contatto con quella dell’ovocita, proteine dette bindine si legano ai
recettori situati sulla membrana dell’uovo: l’interazione tra bindine e recettori è specie-specifica.
Gli spermatozoi depositati in vagina che hanno raggiunto le tube (attraversando cervice e utero) grazie al
flagello e sospinti dalle contrazioni delle vie genitali, possiedono un organulo detto acrosoma (un lisosoma
di notevoli dimensioni) contenente enzimi acrosomiali che si aprono un varco nella zona pellucida, quando
questo viene a contatto coi recettori dell’oocita.
Alcune proteine quindi facilitano l’adesione e la fusione fra le membrane dei gameti: in tal modo il nucleo
dello spermatozoo penetra nell’oocita insieme al centriolo spermatico. A questo punto la zona pellucida si
separa dalla membrana plasmatica, perdendo i recettori per gli spermatozoi, e indurendosi, trasformandosi
nella membrana di fecondazione. La membrana plasmatica diventa impermeabile ad altri spermatozoi.
La fusione fra le membrane dei gameti provoca il rilascio di calcio nel citoplasma, che attiva l’oocita che
completa la meiosi II. I nuclei dei due gameti si uniscono dando origine al corredo diploide dello zigote.

PRIMA SETTIMANA: SEGMENTAZIONE E BLASTULAZIONE


In seguito alla fecondazione, ha inizio lo sviluppo embrionale, la cui prima fase è detta segmentazione, e
consiste in una rapida serie di divisioni cellulari che hanno inizio mentre lo zigote scende passivamente dalle
tube all’utero (1-3 gg.). Queste divisioni non comportano un aumento delle dimensioni dell’uovo. Le prime
divisioni producono una massa cellulare detta morula (4 g.), costituita da cellule totipotenti chiamate
blastomeri: allo stadio di 8 cellule, queste formano giunzioni serrate e cessano di essere totipotenti.
Nel passaggio da 16 a 32 cellule, i blastomeri si separano in due gruppi: la massa cellulare interna originerà
l’embrione, le cellule più esterne formeranno un rivestimento detto trofoblasto. A questo stadio l’embrione
è detto blastula/blastocisti (5 g.). Quando la blastocisti arriva nell’utero, il trofoblasto produce molecole che
favoriscono l’adesione alla parete uterina (enzimi proteolitici), iniziando così ad impiantarsi (6 g.).
Se la blastocisti si impianta mentre si trova nelle tube, darà origine ad una gravidanza ectopica (fuori sede).
SECONDA SETTIMANA
La massa cellulare interna si differenzia in due strati (8 g.): l’epiblasto quello più interno (da cui avrà origine
l’amnios), e ipoblasto quello più esterno (da cui avrà origine il sacco vitellino).
La blastula si trova completamente immersa nell’endometrio. Il trofoblasto produce la gonadotropina
corionica umana (HCG) che induce il corpo luteo a produrre estrogeni e progesterone, e inizia a formare il
corion, una membrana che protegge l’embrione.

TERZA SETTIMANA: GASTRULAZIONE


La gastrulazione è la differenziazione della massa cellulare interna (embrione) in tre foglietti embrionali:
- endoderma (più interno): originerà il rivestimento dell’apparato digerente, respiratorio, pancreas, fegato;
- ectoderma (più esterno): originerà il sistema nervoso, gli organi di senso, l’epidermide, le ghiandole;
- il mesoderma (intermedio): originerà tessuti e organi come il cuore, i vasi sanguigni, i muscoli, le ossa.

Si differenziano anche le membrane extraembrionali indispensabili per nutrimento e scambi gassosi:


1. le cellule dell’epiblasto originano l’amnios (membrana più interna) che circonda l’embrione e si
riempie di liquido amniotico che lo proteggerà fino al parto;
2. le cellule dell’ipoblasto producono il sacco vitellino, una struttura di piccole dimensioni che
produce le prime cellule del sangue e le progenitrici dei gameti;
3. una tasca del sacco vitellino va a formare l’allantoide, che contribuisce a formare il cordone
ombelicale;
4. il corion è la membrana più esterna che si forma a partire dal trofoblasto; dalla sua superficie si
originano protuberanze dette villi coriali, al cui interno si insinua il mesoderma embrionale che forma vasi
sanguigni. I villi coriali sono la componente embrionale della placenta.

LA PLACENTA
La placenta è costituita sia da tessuti embrionali (villi coriali) sia da tessuti materni (l’endometrio).
La connessione fra placenta ed embrione è assicurata dal cordone ombelicale, all’interno del quale
scorrono due arterie ombelicali (che portano sangue deossigenato) e una vena ombelicale (che porta
sangue ossigenato). Serve per assicurare nutrienti, scambi di gas respiratori, eliminare i cataboliti e regolare
le funzioni endocrine connesse alla gravidanza.
I villi coriali, immersi nel sangue materno, sono attraversati da capillari embrionali collegati a vene e arterie
ombelicali: in tal modo l’ossigeno e i nutrienti passano dal circolo materno a quello embrionale, senza che
sangue materno ed embrionale entrino in contatto. Le arterie ombelicali trasportano ai villi le sostanze di
rifiuto prodotte dal feto, che diffondono nel sangue della madre per essere eliminate.
Il dotto di Botallo viene usato durante la vita intrauterina per collegare l’arteria polmonare del feto con
l’aorta e dirottarvi tutto il sangue: questo perché nel feto i polmoni non hanno nessuna funzione e gli
scambi avvengono a livello di placenta.
La placenta funge da ghiandola endocrina secernendo: estrogeni (per lo sviluppo dell’endometrio),
progesterone (favorisce la vascolarizzazione della mucosa uterina e inibisce l’attività muscolare del
miometrio), l’ormone lattogenico placentale (che stimola la produzione di latte), la tireotropina placentale
(agisce sulla tiroide).

La specificazione delle strutture anatomiche durante lo sviluppo embrionale di un organismo è definito da


una classe di geni detti geni omeotici (nell’uomo geni HOX) che codificano per fattori di trascrizione e che
controllano l’identità dei singoli segmenti del corpo.

QUARTA-NONA SETTIMANA: L’ORGANOGENESI e LA NEURULAZIONE


Dopo la gastrulazione comincia l’organogenesi: il cuore inizia a battere (4 sett.), gli arti si sviluppano (8
sett.), a 9 settimana l’embrione viene clinicamente e legalmente considerato feto.
Segue immediatamente alla gastrulazione e precocemente rispetto all’organogenesi, lo sviluppo del
sistema nervoso, o neurulazione. Dopo la gastrulazione, nell’embrione compaiono:
- la notocorda, un cordone di connettivo che si sviluppa dal mesoderma, che fornisce sostegno all’embrione
e verrà sostituita dalla colonna vertebrale;
- la placca neurale si forma dall’inspessimento dell’ectoderma sovrastante alla notocorda; dalla placca
neurale si forma il tubo neurale, da cui avranno origine encefalo (prosencefalo, mesencefalo e
rombencefalo), e midollo spinale.
Contemporaneamente alla comparsa del tubo neurale si realizza la segmentazione del corpo: il mesoderma
ai lati della notocorda forma blocchi separati di segmenti definiti somiti, che producono cellule da cui
avranno origine le vertebre, le costole, i muscoli del tronco, degli arti, e lo strato inferiore dell’epidermide.
I somiti dirigono in parte la formazione dei nervi periferici, sebbene questi si originino dal mesoderma.

SECONDO TRIMESTRE
La placenta produce progesterone, che determina la degenerazione del corpo luteo.
L’addome materno aumenta di dimensioni e il feto si accresce rapidamente: gli arti si allungano e si
evidenziano le dita di mani e piedi, e i tratti somatici.

TERZO TRIMESTRE
Il feto continua ad accrescersi, raggiungendo l’autonomia per la vita extrauterina.
Gli organi interni si attivano e si preparano per funzionare fuori dall’utero materno.

IL PARTO
I muscoli della parete uterina subiscono contrazioni deboli e ritmiche che si fanno progressivamente più
intense (false doglie). L’inizio del parto è stimolato da fattori ormonali e meccanici:
1. gli estrogeni aumentano, determinando l’aumento della contrattilità della muscolatura uterina,
che fa aumentare in frequenza e intensità le contrazioni, che diventano molto dolorose (travaglio). Inoltre
la produzione di ossitocina da parte dell’ipofisi stimola ulteriormente le contrazioni uterine;
2. lo stiramento dell’utero in seguito all’accrescimento del feto e la pressione esercitata dalla testa
sulla cervice uterina aumentano il rilascio di ossitocina.

La fase di espulsione del travaglio inizia con la completa dilatazione della cervice: il feto procede attraverso
la vagina, agevolato dalle spinte volontarie della madre. Appena giunto alla luce, si rende indipendente
dalla circolazione sanguigna della madre: in seguito alla cessazione degli scambi gassosi con la placenta, nel
sangue del bambino si verifica un aumento di anidride carbonica che stimola i centri respiratori a compiere
il primo atto respiratorio. Il segmento di cordone ombelicale si seccherà dando origine all’ombelico.
9. Il sistema nervoso
Il sistema nervoso (SN) permette di percepire quanto accade nel mondo esterno, e di realizzare risposte
adeguate agli stimoli, coordinando l’attività delle diverse parti del corpo tramite tre passaggi fondamentali:
- la raccolta di stimoli (input) mediante l’impiego di neuroni sensoriali o afferenti (i cui corpi cellulari si
trovano nei gangli del SNP), che conducono le informazioni dai recettori sensoriali al SNC;
- l’integrazione e l’analisi degli stimoli mediante l’impiego di interneuroni o neuroni di associazione (i cui
corpi cellulari si trovano nell’encefalo). Si occupano di facilitare le comunicazioni fra afferenti e efferenti;
- l’attivazione degli organi effettori mediante l’impiego di neuroni motori o efferenti (i cui corpi cellulari si
trovano nel SNC), che portano i comandi del SNC agli effettori fisiologici, ossia muscoli o ghiandole.
Quasi tutti i recettori sensoriali e tutti gli organi effettori non sono costituiti da tessuto nervoso.
I neuroni motori possono essere distinti in somatomotori (innervano la muscolatura striata volontaria) e
visceromotori (innervano la muscolatura involontaria per mezzo dei neuroni autonomi contenuti nei gangli
simpatici o parasimpatici).

IL NEURONE
Il sistema nervoso è formato da tessuto nervoso le cui unità funzionali sono i neuroni.
I neuroni sono cellule eccitabili e conducibili: possono generare potenziali d’azione (segnali elettrici) e
propagarli dal punto di origine fino alle estremità più lontane del sistema nervoso.
Il corpo cellulare del neurone detto pirenoforo contiene nucleo e organuli; da esso si dipartono i dendriti,
strutture ramificate che trasportano al corpo cellulare le informazioni in entrata, e l’assone, un singolo
prolungamento su cui viaggiano le informazioni in uscita dal corpo cellulare. Il terminale assonico è la parte
terminale che prende contatto con la cellula bersaglio: le sinapsi sono i rigonfiamenti dei terminali assonici
attraverso i quali avviene il passaggio dell’impulso da una cellula all’altra.
Le cellule gliali (tessuto nervoso) sostengono e orientano i neuroni, fornendo loro le sostanze nutritive di
cui necessitano: le cellule di Schwann (nel SNP) e gli oligodendrociti (nel SNC) formano la guaina mielinica,
un rivestimento isolante che aumenta la velocità di conduzione dell’impulso nervoso, avvolgendosi diverse
volte attorno al pirenoforo e agli assoni, ricoprendoli con strati concentrici di mielina. Intervallati lungo
l’assone si trovano spazi vuoti chiamati nodi di Ranvier dove l’assone è scoperto.
Altre cellule chiamate astrociti contribuiscono a formare la barriera ematoencefalica, che protegge il
cervello dalle sostanze tossiche presenti nel sangue. Le cellule endoteliali che compongono i vasi del SNC
sono unite da giunzioni occludenti a formare un endotelio continuo che limita il passaggio di molecole di
grandi dimensioni. Gli astociti circondano con i loro prolungamenti i vasi cerebrali creando un ulteriore
ostacolo al passaggio di molecole. La barriera ematoencefalica è però permeabile a sostanze liposolubili
quali anestetici e alcol. Non tutti i neuroni sono mielinizzati.

LA CONCENTRAZIONE IONICA DELLA MEMBRANA PLASMATICA


L’eccitabilità dei neuroni dipende dalle proprietà della membrana plasmatica del neurone: l’esistenza di un
potenziale elettrico di membrana (differenza di carica fra versante interno ed esterno), e la presenza di
canali ionici specifici che polarizzano il neurone tramite flussi di ioni che transitano in entrata e uscita.
Quando il neurone è a riposo, il potenziale di riposo è -70 mV: l’interno della cellula è negativo rispetto
all’ambiente extracellulare, a causa della diversa concentrazione ionica ai lati della membrana: il liquido
interstiziale è ricco di ioni sodio Na⁺ e Cl⁻, mentre nel citoplasma vi sono in abbondanza ioni potassio K⁺.

Gli ioni K⁺, a cui la membrana plasmatica è molto permeabile (molti canali K⁺), diffondono passivamente
all’esterno della cellula per gradiente di concentrazione, rendendo il versante plasmatico sempre più
negativo. Gli ioni Na⁺, invece, molto abbondanti nel liquido interstiziale tendono a diffondere verso il
citoplasma nonostante la membrana sia poco permeabile ad essi (pochi canali Na⁺), rendendo meno
negativo il citoplasma. La pompa Na⁺-K⁺ mantiene stabile il potenziale di riposo (-70 mV), trasportando
contro gradiente (con ATP) Na⁺ fuori dal citoplasma e K⁺ all’interno della cellula (3 Na⁺ fuori, 2 K⁺ dentro).
Oltre ai canali ionici, i canali voltaggio-dipendenti sono essenziali per la propagazione dei potenziali
d’azione: la loro apertura e chiusura infatti perturba il potenziale di membrana.

IL POTENZIALE D’AZIONE E LA PROPAGAZIONE DELLO STIMOLO NERVOSO


Il potenziale d’azione consiste in una serie di eventi che diminuiscono il potenziale di riposo fino ad
annullarlo, per poi ripristinarlo. Tale sequenza si attiva in seguito ad uno stimolo: se questo innesca una
depolarizzazione (apertura dei canali voltaggio-dipendenti Na⁺ che ne determinano il flusso all’interno della
cellula rendendola meno negativa) superiore ad un valore soglia di -50 mV, si genera un potenziale d’azione
che si trasmette lungo l’assone, determinando una depolarizzazzione crescente (feedback positivo) fino a
+35/50 mV. A questo punto si ha una ripolarizzazione (chiusura dei canali voltaggio-dipendenti Na⁺ e
apertura dei canali voltaggio-dipendenti K⁺, che ne determinano il flusso all’interno della cellula) seguita da
una iperpolarizzazione, in cui il potenziale di membrana diventa ancor più negativo di quello di riposo.
La chiusura dei canali voltaggio-dipendenti K⁺ determina il ripristino del potenziale di riposo a -70 mV.
Il potenziale d’azione è uno stimolo “tutto o nulla”: si verifica infatti solo se viene superato il valore soglia.

Uno stimolo elettrico provoca l’apertura dei canali voltaggio-dipendenti del sodio; se si raggiunge il valore
soglia la depolarizzazione genera un potenziale d’azione che si propaga lungo l’assone provocando
l’apertura dei canali voltaggio-dipendenti del sodio delle zone adiacenti della membrana, e così via lungo
tutto l’assone. Nella zona che si era depolarizzata per prima, nel frattempo si sono aperti i canali voltaggio-
dipendenti del potassio, che hanno riportato la membrana al potenziale di riposo.
I potenziali d’azione si propagano in una sola direzione a causa del periodo refrattario al quale vanno
incontro i canali voltaggio-dipendenti per il sodio, che non possono aprirsi nuovamente dopo aver condotto
il potenziale d’azione.

Questo tipo di propagazione è detta propagazione continua, ed è tipica degli assoni non mielinizzati.
Negli assoni mielinizzati, si verifica una propagazione saltatoria che differisce da quella continua perché la
conduzione del segnale può avvenire solamente in corrispondenza dei nodi di Ranvier (dove si trovano i
canali voltaggio-dipendenti), dato che il resto dell’assone è isolato dalla guaina mielinica.
La velocità dell’impulso dipende dalla mielinizzazione delle fibre nervose, e dal diametro assonico: se
queste sono mielinizzate e con diametro maggiore, l’impulso viene condotto più velocemente, mentre negli
assoni amielinici l’impulso nervoso è continuo, non saltatorio, e molto più lento.

LE SINAPSI
I neuroni comunicano con le cellule bersagli a livello delle sinapsi: fra neurone presinaptico (che manda il
segnale) e neurone postsinaptico (che lo riceve) vi è un fessura sinaptica (le due cellule non si toccano).
Le giunzioni neuromuscolari sono sinapsi chimiche poste tra i neuroni motori e le cellule del muscolo
scheletrico; ogni terminale assonico contiene molte vescicole piene di un neurotrasmettitore (in questo
caso l’acetilcolina), per il quale la membrana della cellula postsinaptica possiede recettori e canali ionici.

L’arrivo di un potenziale d’azione nel terminale assonico della cellula presinaptica determina l’apertura dei
canali voltaggio-dipendenti Ca²⁺, che entra per diffusione nel terminale assonico (è più abbondante
all’esterno), provocando la fusione delle vescicole contenenti acetilcolina (prodotta nel terminale assonico)
con la membrana presinaptica, e quindi lo svuotamento del loro contenuto nella fessura sinaptica.
L’acetilcolina diffonde e si lega ai recettori ACh della membrana postsinaptica, ossia canali ionici regolati
chimicamente che si aprono in seguito al legame con essa, provocando l’ingresso di ioni positivi (Na⁺, K⁺,
Ca²⁺) che depolarizzano la cellula postsinaptica: se la depolarizzazione supera il valore soglia, si aprono i
canali voltaggio-dipendenti Na⁺ generando un potenziale d’azione, che si diffonde nella cellula muscolare
provocandone la contrazione.
L’azione di specifici enzimi (acetilcolinesterasi) demoliscono l’acetilcolina rimasta legata ai recettori, o libera
nella fessura sinaptica, riassorbendola a livello del neurone, o disperdendola nel liquido interstiziale.

Le sinapsi chimiche utilizzano lo schema di azione delle giunzioni neuromuscolari, seppur con qualche
differenza: possono essere sia eccitatorie che inibitorie (le giunzioni neuromuscolari solo eccitatorie), e
possono integrare diversi input (eccitatori e inibitori), fornendo un output che è la sommazione dei vari
stimoli (avviene nel cono di emergenza, la regione di connessione fra corpo cellulare e assone).

Le sinapsi elettriche invece presentano neuroni connessi direttamente tramite giunzioni serrate e
complessi proteici detti connessori che provvedono a mettere in comunicazione il citoplasma delle due
cellule formando un canale di scambio di ioni e molecole. Non necessitano di neurotrasmettitori e sono più
rapide, l’impulso può procedere in entrambe le direzioni, seppur siano solo eccitatorie.

ALCUNI NEUROTRASMETTITORI
Vi sono vari tipi di neurotrasmettitori: alcuni vengono sintetizzati direttamente nel terminale assonico
(come l’acetilcolina), mentre altri come i neurotrasmettitori peptidici, vengono prodotti nel corpo cellulare.
Nel SNC troviamo perlopiù amminoacidi che svolgono la funzione di neurotrasmettitori: il glutammato con
funzione eccitatoria, la glicina e l’acido γ-amminobutirrico (GABA) che svolgono funzione inibitoria.
Le monoammine includono la dopamina, la noradrenalina e la serotonina.
Le endorfine e le encefaline sono neurotrasmettitori delle vie del dolore.
Il monossido di carbonio (CO) e il monossido di azoto (NO) sono neurotrasmettitori gassosi.

IL SISTEMA NERVOSO CENTRALE


Il sistema nervoso centrale comprende l’encefalo e il midollo spinale, entrambi costituiti sia da sostanza
grigia (i corpi cellulari dei neuroni e i dendriti) che da sostanza bianca (gli assoni mielinizzati).
Il midollo spinale porta le informazioni dalla periferia verso l’encefalo tramite le vie sensoriali ascendenti, e
conduce le risposte al SNP grazie alle vie motorie discendenti. L’encefalo invece è formato da due lobi
appaiati, al di sotto dei quali si trovano cervelletto e tronco encefalico. I neuroni encefalici (soprattutto
interneuroni e neuroni di associazione) sono organizzati in nuclei di sostanza grigia da cui partono e a cui
giungono fibre nervose mielinizzate. Si divide in: telencefalo, diencefalo, tronco encefalico e cervelletto.

Il telencefalo (o cervello) è costituito da due emisferi cerebrali uniti dal corpo calloso, una struttura di
sostanza bianca le cui fibre collegano l’emisfero destro a quello sinistro.
La superficie degli emisferi detta corteccia cerebrale è caratterizzata da uno strato di sostanza grigia; si
ripiega su sé stessa per adattarsi alla cavità cranica formando pieghe chiamate circonvoluzioni, separate da
solchi chiamati scissure. La sostanza bianca cerebrale consiste in assoni (mielinizzati e non) che trasmettono
segnali da una circonvoluzione all’altra, da un emisfero all’altro, e da cervello alle altre parti dell’encefalo e
del midollo spinale. All’interno di ogni emisfero si trovano tre nuclei della base (di sostanza grigia), che
regolano il movimento e il tono muscolare. Il sistema limbico è la parte più profonda del telencefalo, che è
responsabile del controllo dei bisogni fisiologici essenziali e della percezione di sensazioni come la paura:
l’amigdala in particolare percepisce e memorizza gli stati di paura, mentre l’ippocampo trasferisce le
informazioni dalla memoria a breve termine, a quella a lungo termine.

Il diencefalo, posizionato in profondità sotto gli emisferi cerebrali, comprende tre strutture:
1. il talamo è costituito da nuclei di sostanza grigia intervallati da sostanza bianca. I nuclei
rappresentano una tappa intermedia per le vie sensoriali provenienti dal midollo spinale e da varie zone
dell’encefalo: qui i dati vengono elaborati, suddivisi e inviati alla corteccia cerebrale (dove verranno
interpretati e integrati);
2. l’ipotalamo controlla le attività connesse con l’omeostasi, coordinandosi con l’apparato endocrino.
Controlla le attività involontarie del sistema nervoso, regola l’attività dell’ipofisi e la produzione di ormoni,
coopera col limbico nella produzione di emozioni, regola la temperatura corporea e i ritmi sonno-veglia;
3. l’epifisi (o ghiandola pineale) produce la melatonina, l’ormone che regola i periodi di attività
giornalieri in base alla quantità di luce proveniente dall’ambiente.

Il tronco encefalico, compreso fra il midollo spinale e il diencefalo, è diviso anch’esso in tre regioni:
1. il mesencefalo, nel quale si trovano grossi fasci di fibre su cui viaggiano li informazioni fra midollo
spinale e le aree cerebrali superiori: comprende il nucleo rosso e la sostanza nera, che regolano i
movimenti;
2. il ponte comprende nuclei e fasci di fibre che connettono i vari distretti dell’encefalo;
3. il midollo allungato (o bulbo) comprende la sostanza bianca in cui si trovano le vie sensoriali
ascendenti e motorie discendenti che si estendono tra l’encefalo e il midollo spinale; nei nuclei, inoltre, si
trovano il centro cardiovascolare e il centro respiratorio.
Il cervelletto è posto sotto al cervello e dietro a bulbo e ponte. E’ ricco di circonvoluzioni, ed è formato in
superficie da sostanza grigia, mentre la parte sottostante è formata da sostanza bianca.
Riceve informazioni riguardo allo stato delle articolazioni, la tensione dei tendini, al livello di contrazione
dei muscoli, oltre che informazioni riguardanti udito, vista ed equilibrio del corpo. Riceve inoltre dalla
corteccia informazioni relative al controllo del movimento e della postura, che regola in maniera inconscia.

Il SNC presenta alcune cavità: il canale ependimale nel midollo spinale, e quattro ventricoli nell’encefalo.
Due ventricoli laterali si trovano negli emisferi, il terzo si trova nel diencefalo, il quarto tra il midollo
allungato e il midollo spinale. Queste cavità sono comunicanti (per esempio tramite l’acquedotto di Silvio),
e contengono il liquido cerebrospinale, prodotto per filtrazione dal sangue dei capillari dei plessi corioidei.
Il liquido cerebrospinale fornisce nutrimento ai neuroni, contiene globuli bianchi ed elimina i rifiuti.
L’encefalo e il midollo spinale sono avvolti da tre membrane di connettivo chiamate meningi: la più esterna
e dura è detta dura madre, sotto si trova l’aracnoide (dalla struttura molto lassa), e infine la pia madre.
Fra aracnoide e pia madre (spazio sub-aracnoideo) vi è un velo di liquido cerebrospinale (o cefalo-
rachidiano), prodotto dai plessi corioidei, che protegge il sistema nervoso dagli urti, isola idraulicamente e
nutre il SNC.

Il midollo spinale si estende dal midollo allungato fino alla seconda vertebra lombare. Da esso emergono a
destra e a sinistra i nervi spinali che raggiungono le diverse parti del corpo.
Una sezione di midollo spinale mostra un’area centrale a forma di H (sostanza grigia), le cui sporgenze
posteriori sono dette corna dorsali, quelle anteriori corna ventrali. E’ circondata di sostanza bianca.

I nervi spinali, facenti parte del SNP, collegano il midollo spinale ai recettori sensoriali, muscoli e ghiandole;
ve ne sono 31 e sono misti, ossia formati da una componente afferente e una efferente:
1. la componente afferente è formata da assoni sensoriali (i cui corpi cellulari si trovano nei gangli
spinali all’esterno del midollo) che raggiungono il corno dorsale tramite la radice dorsale, trasmettendo
informazioni direttamente al SNC;
2. la componente efferente è formata da assoni (i cui corpi cellulari si trovano nel corno ventrale
del midollo spinale), che formano la radice ventrale del nervo, trasportando informazioni provenienti dal
SNC dirette a muscoli e ghiandole, tramite vie volontarie e autonome. Può generare risposte autonome
(riflesso spinale).

I nervi cranici si dipartono o terminano a livello dell’encefalo, formando 12 paia:


I. olfattivo (S): Assoni provenienti dalla mucosa nasale. E’ il nervo dell’odorato;
II. ottico (S): Assoni provenienti dalla retina. E’ il nervo della vista;
III. oculomotore (M): Assoni dei nervi che stimolano i muscoli della palpebra, muovono il bulbo oculare,
regolano l’apertura della pupilla e la forma del cristallino;
IV. trocleare (M): Assoni dei nervi dei muscoli del bulbo oculare. E’ il nervo dei movimento dell’occhio;
V. trigemino (S/M): La parte sensoriale contiene assoni proveniente da testa, faccia, denti, naso, labbra,
lingua: è responsabile delle sensazioni tattili, dolorifiche e termiche. La parte motoria contiene assoni dei
neuroni motori che stimolano i muscoli masticatori;
VI. abducente (M): Assoni dei nervi dei muscoli del bulbo oculare. E’ il nervo dei movimenti dell’occhio;
VII. facciale (S/M): La parte sensoriale contiene assoni dei recettori di lingua e palato. La parte motoria
contiene assoni dei neuroni che stimolano le ghiandole salivari, lacrimali e i muscoli della faccia;
VIII. vestibolococleare (S): Assoni provenienti dagli organi dell’orecchio. E’ il nervo di udito ed equilibrio;
IX. glossofaringeo (S/M): La parte sensoriale contiene assoni dei recettori gustativi della lingua e dei
recettori di pressione della carotide. La parte motoria contiene assoni dei neuroni che stimolano i muscoli
della faringe, della lingua e delle ghiandole salivari. E’ il nervo del gusto, e della percezione della lingua, del
monitoraggio della pressione del sangue, della concentrazione ematica di CO₂, di deglutizione e salivazione;
X. vago (S/M): Parte dal midollo allungato e si dirige verso il torace e l’addome. La parte sensoriale contiene
assoni dei recettori della pressione dei vasi arteriosi, dei visceri toracici e addominali. La parte motoria
contiene assoni dei nervi che regolano la muscolatura liscia delle vie aeree, dell’esofago, dello stomaco,
dell’intestino, del muscolo cardiaco e le ghiandole gastrointestinali;
XI. accessorio (M): Assoni di motoneuroni della muscolatura di testa e collo. E’ responsabile dei movimenti
di testa e spalle, oltre che della deglutizione;
XII. ipoglosso (M): Assoni di motoneuroni che stimolano i muscoli della lingua. E’ responsabile dei
movimenti della lingua.

SISTEMA NERVOSO PERIFERICO


Il sistema nervoso periferico (SNP) comprende i nervi e i gangli, e si può suddividere in: sistema nervoso
somatico (volontario), costituito da neuroni sensoriali e motoneuroni, e il sistema nervoso autonomo (SNA),
che regola l’ambiente interno controllando la muscolatura liscia.

Il SNA comprende due gruppi di neuroni che costituiscono il sistema ortosimpatico (o simpatico) e il
sistema parasimpatico, che in genere inducono azioni contrarie a livello degli organi effettori:
l’ortosimpatico è il responsabile della risposta “combatti o fuggi”: l’aumento della frequenza cardiaca,
l’innalzamento della pressione, il parasimpatico è responsabile della risposta “digerisci e rilassati”: il
rallentamento dell’attività cardiaca, l’abbassamento della pressione e lo stimolo dell’apparato digerente.
Anche il sistema enterico localizzato nello spessore della parete intestinale fa parte del SNA: controlla le
secrezioni, la muscolatura liscia, e la sua attività è regolata dal sistema ortosimpatico e parasimpatico.

Ogni via efferente del SNA inizia da un neurone colinergico (che ha come neurotrasmettitore l’acetilcolina)
il cui corpo cellulare è localizzato nel tronco encefalico o nel midollo spinale, detti neuroni pregangliari:
infatti il secondo neurone efferente è localizzato a livello di un ganglio autonomo (esternamente al SNC).
L’assone del neurone postgangliare esce dal ganglio e raggiunge le cellule bersaglio degli organi effettori.
I corpi cellulari dei neuroni pregangliairi del parasimpatico si localizzano nel tronco encefalico e a livello
della regione sacrale; i neuroni ortosimpatici pregangliari si localizzano invece nel tratto di midollo spinale
compreso tra regione cervicale e sacrale. I gangli parasimpatici sono molto vicini agli organi effettori.
I neuroni postgangliari dell’ortosimpatico utilizzano la noradrenalina, mentre quelli del parasimpatico sono
prevalentemente colinergici.

L’ORGANIZZAZIONE DELLA CORTECCIA CEREBRALE


La corteccia cerebrale ricopre la superficie degli emisferi formando pieghe e solchi: quelli più profondi
dividono ciascun emisfero in lobi. Al di sotto della corteccia è presente sostanza bianca formata dagli assoni
mielinizzati dei neuroni corticali. Nella corteccia si distinguono aree che svolgono funzioni specifiche
(corteccia motoria e sensoriale) e aree con la funzione di integrare e associare le informazioni (corteccia
associativa). I lobi della corteccia cerebrale sono:
1. Lobo temporale. La corteccia sensoriale del lobo temporale riceve e elabora le informazioni uditive;
le aree associative sono invece coinvolte nel riconoscimento e nell’attribuzione di un nome agli
oggetti. L’area di Wernicke, in particolare, è coinvolta nella percezione e la comprensione. Danni al
lobo temporale provocano incapacità di identificare gli stimoli (agnosie) o di riconoscere volti;
2. Lobo frontale. La corteccia motoria primaria del lobo frontale controlla l’attività dei muscoli del
corpo: alle regioni del corpo che eseguono movimenti più precisi, corrisponde un’area di corteccia
motoria più estesa; le aree associative svolgono funzioni che contribuiscono a definire la
personalità di un individuo. Contiene l’area di Broca, che esercita un ruolo fondamentale
nell’espressione linguistica. La scissura di Rolando separa il lobo frontale e parietale;
3. Lobo parietale. La corteccia somatoestesica primaria del lobo parietale è un’area sensoriale che
riceve le informazioni di natura tattile e pressoria (dopo essere state filtrate dal talamo): alle
regioni del corpo che possiedono una più elevata capacità di discriminare gli stimoli, corrisponde
un’area di somatoestesica più vasta; le aree associative interpretano gli stimoli complessi;
4. Lobo occipitale. La corteccia visiva primaria del lobo occipitale riceve ed elabora stimoli di natura
visiva; le aree associative sono indispensabili per realizzare la percezione delle informazioni visive
provenienti dall’ambiente, sia per tradurre l’esperienza visiva in linguaggio.
La metà sinistra del corpo è connessa soprattutto con la parte destra dell’encefalo, e viceversa: eccezion
fatta per la testa, nella quale ogni metà è sotto il controllo dell’emisfero che sta sullo stesso lato.
Embriologicamente l’encefalo è distinto in prosencefalo (diencefalo e telencefalo), mesencefalo,
romboencefalo (metencefalo e mielencefalo).
10. Il sistema endocrino

GLI ORMONI
Il sistema endocrino comprende ghiandole o cellule endocrine che secernono ormoni, ossia messaggeri
chimici che, trasportati dal sangue o riversati nel liquido interstiziale, modificano l’attività di cellule
bersaglio, regolando l’attività di altri organi. In base alla distanza che percorrono, si distinguono:
1. Ormoni circolanti, che vengono trasportati dal sangue e agiscono su cellule bersaglio molto distanti
da quelle che li hanno secreti;
2. Ormoni paracrini che diffondono dal sito di rilascio e riconoscono recettori posti su cellule vicine a
quelle che li hanno secreti (es: fattori di rilascio RH);
3. Ormoni autocrini, che riconoscono recettori posti sulla cellula stessa che li ha prodotti.

In base alla composizione chimica si distinguono:


1. Ormoni peptidici, ossia proteine o brevi catene polipeptidiche. Sono idrosolubili, di conseguenza
vengono trasportati dal sangue ma non attraversano facilmente le membrane cellulari (lipidiche).
Vengono immagazzinati in vescicole nel citoplasma delle cellule endocrine, e rilasciati per esocitosi;
2. Ormoni steroidei, ossia derivati del colesterolo. Sono liposolubili, di conseguenza una volta nel
circolo sanguigno devono legarsi a proteine di trasporto (non sono solubili nel sangue);
attraversano con facilità le membrane cellulari, diffondendo fuori dalle cellule che li sintetizzano;
3. Ormoni derivati da amminoacidi, ossia singoli amminoacidi spesso uniti a gruppi funzionali diversi:
possono quindi essere sia idrosolubili che liposolubili.

Gli effetti che può indurre un ormone che lega il recettore della cellula bersaglio sono molteplici: aumento
del ritmo mitotico/metabolico, variazione della permeabilità cellulare, attivazione o disattivazione di geni.
Il meccanismo di azione di un ormone dipende dalla sua natura chimica, in particolare dal tipo di solubilità:
1. Ormoni liposolubili (steroidei) diffondono attraverso la membrana plasmatica e raggiungono i
propri recettori che si trovano nel citoplasma o nel nucleo della cellula. A questo punto il complesso
ormone-recettore entra nel nucleo dove, legando sequenze specifiche DNA, attiva o inattiva geni;
2. Ormoni idrosolubili (peptidici), non potendo attraversare con facilità la membrana, si legano ai
propri recettori glicoproteici sulla superficie cellulare, determinando reazioni a cascata che attivano
o disattivano enzimi citoplasmatici o generano segnali chimici che raggiungono il nucleo e
modificano l’espressione genica.

Il sistema endocrino è formato da organi/ghiandole endocrine presenti come entità autonome (non in
continuità), ossia: ipofisi, ipotalamo, pancreas, tiroide, paratiroidi, gonadi, surreni, timo, e epifisi.
Gonadi e pancreas hanno anche funzione esocrina; quasi tutte le ghiandole endocrine sono formate da
tessuto epiteliale (come le esocrine), ma non sono dotate di un sistema di dotti, e secernono i loro secreti
nella circolazione sanguigna, tranne ipotalamo, ipofisi ed epifisi che sono formate di tessuto nervoso

L’attività secretoria viene modulata in seguito a stimoli di varia natura: viene attivata da ormoni prodotti da
altre ghiandole (l’ipotalamo stimola l’ipofisi che a sua volta stimola un’altra ghiandola), dalle modifiche
della concentrazione di alcune sostanze disciolte nel sangue (pancreas endocrino e paratiroidi), o in seguito
ad un impulso elettrico prodotto da cellule nervose (surrenali).
Le ghiandole sono di solito influenzate dalle molecole prodotte dalle loro cellule bersaglio tramite un
meccanismo di feedback negativo: una ghiandola secerne un ormone la cui concentrazione aumenta
inibendo l’attività della ghiandola che lo ha prodotto; quando il tasso ematico dell’ormone scende, l’attività
della ghiandola viene riattivata. Nel caso degli ormoni delle gonadi femminili, si ha anche feedback positivo.
Il sistema endocrino interagisce col sistema nervoso in due modi: i neurotrasmettitori fungono da segnali
per entrambi i sistemi: trasmettono l’impulso nervoso e vengono prodotti come ormoni (es: l’adrenalina
prodotta dai neuroni e dalle surrenali); l’ipotalamo fa parte del sistema nervoso e produce ormoni che
regolano l’attività dell’ipofisi, la quale a sua volta controlla l’attività di molte altre ghiandole endocrine.
IPOTALAMO ED IPOFISI
L’integrazione fra funzioni nervose ed endocrine avviene a livello dell’ipofisi e dell’ipotalamo: l’ipofisi, una
piccola ghiandola endocrina, è collegata tramite un penducolo all’ipotalamo (facente parte del SNC), una
struttura contenente neuroni neurosecretori, che oltre a trasmettere segnali elettrici, producono ormoni.

L’ipofisi si divide in due regioni: neuroipofisi (ipofisi posteriore), e adenoipofisi (ipofisi anteriore):
La neuroipofisi rilascia in circolazione due ormoni peptidici secreti dall’ipotalamo: l’ormone antidiuretico
(ADH) e l’ossitocina. Sono considerati neurormoni in quanto prodotti nei corpi cellulari delle cellule nervose
dell’ipofisi, e trasportati lungo gli assoni che terminano a livello della neuroipofisi.
1. L’ormone antidiuretico (ADH o vasopressina) agisce sui reni aumentando il riassorbimento di
acqua con produzione di urina concentrata e aumentando la pressione sanguigna. La sua
secrezione viene innescata dall’abbassamento di pressione o dall’aumento di alcuni elettroliti;
2. L’ossitocina è rilasciata al momento del parto, in quanto stimola la muscolatura dell’utero a
contrarsi facilitando l’espulsione del bambino. Il suo rilascio è stimolato anche dalla suzione del
capezzolo, induce infatti la produzione di latte.
L’adenoipofisi è una ghiandola vera e propria che produce ormoni peptidici o proteici fra cui le tropine:
1. L’ormone tireotropo o tireotropina (TSH);
2. L’ormone adrenocorticotropo o corticotropina (ACTH);
3. L’ormone luteinizzante (LH);
4. L’ormone follicolo-stimolante (FSH).
5. L’ormone somatotropo o somatotropina (ormone della crescita) stimola la crescita dell’organismo
e induce il fegato a produrre alcuni messaggeri chimici detti somatomedine (o fattori di crescita
insulino-simili) che stimolano la formazione di tessuto osseo e cartilagineo;
6. La prolattina stimola la crescita delle ghiandole mammarie e la produzione e secrezione di latte;
7. Le endorfine e le encefaline svolgono il ruolo di neurotrasmettitori nelle vie del dolore.
L’ipotalamo controlla l’attività dell’adenoipofisi producendo neurotrasmettitori (neurormoni ipotalamici)
chiamati fattori di rilascio e di inibizione: vi sono quelli della somatotropina, della corticotropina, ecc.

TIROIDE E PARATIROIDE
La ghiandola tiroide è posta davanti alla trachea, ed è formata da due lobi contenenti strutture cave dette
follicoli, entro i quali è contenuta una sostanza detta colloide; l’istmo è la regione che collega i due lobi.
Le pareti dei follicoli contengono due tipi di cellule secernenti l’ormone tiroideo e la calcitonina:
1. L’ormone tiroideo (TH) è prodotto dai tireociti: dapprima questi producono una glicoproteina detta
tireoglobulina, immagazzinata nel lume del follicolo (è il componente principale del colloide) dove
viene legata ad un certo numero di atomi di iodio; quando l’organismo necessita di ormone
tiroideo, i tireociti la inglobano per endocitosi e ne ricavano tiroxina (T₄) e tiiiodotironina (T₃), i due
costituenti dell’ormone tiroideo. La sua funzione è incrementare il metabolismo cellulare nei
tessuti e la promozione della sintesi proteica. Il meccanismo che regola la sua secrezione è il
seguente: l’ipofisi produce il fattore di rilascio (TRH) che stimola l’adenoipofisi a produrre
tireotropina (TSH) che stimola la tiroide a produrre l’ormone tiroideo (TH). L’ormone tiroideo
inibisce la risposta dell’ipofisi al TRH, oltre a inibire il rilascio dello stesso TRH (feedback negativo);
1. La calcitonina è prodotta dalle cellule C, e regola i livelli ematici di calcio, riducendo la calcemia: la
calcitonina aumenta la perdita di calcio attraverso le urine, inibisce l’attività degli osteoclasti (che,
demolendo l’osso, fanno aumentare la calcemia), incrementa l’attività degli osteoblasti (che
producono tessuto osseo) e diminuisce l’assorbimento di calcio a livello gastroenterico.
La calcemia viene incrementata invece dall’azione dell’ormone paratiroideo/paratormone (PTH) prodotto
dalle cellule delle paratiroidi, i cui chemiocettori monitorano la calcemia: una diminuzione dei livelli di
calcio stimola la sintesi di paratormone, che sortisce effetti antagonisti a quelli della calcitonina: stimola
l’attività degli osteoclasti, ne aumenta il riassorbimento renale e intestinale.
La vitamina D (non essenziale) viene sintetizzata nella pelle a partire dal colesterolo e rielaborata nel fegato
dove viene trasformata nella sua forma attiva, il calcitrolo (sotto lo stimolo del PTH), che insieme al
paratormone aumenta il riassorbimento renale e intestinale di calcio, la sua eliminazione con le urine, e
esercita un feedback negativo sulle cellule paratiroidee, inibendo la sintesi di paratormone.
Il PANCREAS ENDOCRINO
Il pancreas è una ghiandola con funzione sia esocrina che endocrina, che regola il tasso di glucosio
ematico. Le cellule che assolvono quest’ultima funzione si trovano isole di Langerhans, sono di tre tipi e
secernono ciascuna un differente ormone:
1. L’insulina, secreta dalle cellule β, abbassa la glicemia quando il tasso di glucosio ematico è troppo
elevato: il legame dell’ormone a un recettore sulla membrana plasmatica della cellula bersaglio
determina una cascata di eventi che fa entrare glucosio all’interno della cellula. Nel fegato, oltre a
stimolare l’assorbimento di glucosio, attiva il suo accumulo sotto forma di glicogeno;
2. Il glucagone, secreto dalle cellule α, aumenta la glicemia quando il tassi di glucosio si abbassa
troppo. Il glucagone agisce sul fegato con effetti antagonisti a quelli dell’insulina: stimola le cellule
epatiche (epatociti) a scindere il glicogeno e rilasciare in circolo le molecole di glucosio prodotte.
3. La somatostatina, secreta dalle cellule δ, viene rilasciata in seguito ad un rapido aumento nel
sangue di glucosio e amminoacidi. Viene rilasciato in genere dopo i pasti, e svolge una funzione
inibitoria nei confronti di insulina e glucagone. Inoltre rallenta l’attività dell’apparato digerente,
prolungando il tempo di assorbimento dei nutrienti. Viene rilasciata anche da alcune cellule
ipotalamiche: a livello dell’adenoipofisi inibisce il rilascio di somatotropina e tireotropina (TSH).

IL SURRENE
Le ghiandole surrenali sono posizionate al di sopra di ciascun rene e comprendono due regioni distinte: un
nucleo profondo detto regione midollare, e una componente più esterna che l’avvolge, la regione corticale.

La regione midollare, sotto il controllo del sistema nervoso, produce l’adrenalina e la noradrenalina,
ormoni a struttura amminica (derivati della tirosina) che agiscono anche come neurotrasmettitori in caso di
stress. Sono molecole idrosolubili che riconoscono i medesimi recettori: l’adrenalina riconosce i recettori α-
adrenergici e quelli β-adrenergici, mentre la noradrenalina prevalentemente gli α-adrenergici.
L’adrenalina agisce sulle cellule bersaglio provocando diversi effetti: un aumento della frequenza cardiaca e
contrattilità del miocardio (per pompare un maggior volume di sangue e soddisfare l’esigenza muscolare di
un maggior apporto di ossigeno), vasocostrizione dell’apparato digerente (per convogliare il flusso ematico
alla muscolatura), lisi del glicogeno per ottenere glucosio a livello degli epatociti, e demolizione dei depositi
lipidici per ricavare acidi grassi (fonte di energia) a livello degli adipociti.

La regione corticale produce tre classi di ormoni steoridei a partire dal colesterolo:
1. I glucocorticoidi, che influenzano la concentrazione ematica del glucosio e intervengono nel
metabolismo di lipidi, proteine e carboidrati. Il principale è il cortisolo, la cui concentrazione
ematica aumenta in seguito ad uno stimolo stressante: stimola le cellule a ridurre il consumo di
glucosio e a utilizzare come fonte di energia lipidi e proteine, inoltre blocca le reazioni del sistema
immunitario (il cortisone è utilizzato nel trattamento di reazioni infiammatorie o allergiche). Il suo
rilascio è sotto il controllo della corticotropina (ACTH) prodotta dall’adenoipofisi, la cui secrezione è
stimolata a sua volta dal fattore di rilascio della corticotropina prodotto dall’ipotalamo;
2. I mineralcorticoidi, che regolano l’equilibrio idro-elettrolitico dei liquidi extracellulari. Il principale è
l’aldosterone, che stimola il rene a riassorbire sodio e eliminare potassio;
3. Gli steroidi sessuali che durante la pubertà sono coinvolti nello sviluppo sessuale.

LE GONADI
Le gonadi sono la sede in cui vengono sintetizzati gli ormoni sessuali.
Gli steroidi maschili (androgeni) sono sintetizzati dalle cellule interstiziali dei testicoli: il testosterone è il più
importante. Gli steroidi femminili comprendono il progesterone e gli estrogeni, il più rappresentativo dei
quali è l’estradiolo, derivante dalla conversione del testosterone grazie all’enzima aromatasi.
Gli steroidi sessuali sono responsabili della comparsa dei caratteri sessuali primari (sviluppo delle gonadi e
vie genitali), secondari (distribuzione dei peli, tono di voce, sviluppo di masse adipose e muscolari), per lo
sviluppo dei gameti, e nella donna provocano i cambiamenti dell’utero durante il ciclo mestruale e uterino.
Durante lo sviluppo embrionale (settima settimana), se il feto ha ricevuto il cromosoma Y, le informazioni
contenute nei geni dirigono la sintesi degli ormoni sessuali maschili: gli androgeni determinano la
differenziazione delle gonadi che si sviluppano in senso maschile. Se non si verifica la sintesi di androgeni, il
prodotto del concepimento assumerà un sesso fenotipico di tipo femminile.
L’azione degli ormoni sessuali si manifesta in maniera evidente solo il occasione della pubertà: l’ipotalamo
aumenta in maniera consistente la sintesi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH), stimolando il
rilascio di due ormoni ipofisiari, l’ormone luteinizzante (LH) e l’ormone follicolo-stimolante (FSH), detti
gonadotropine. Le gonadotropine inducono una maggiore sintesi di ormoni sessuali: nelle femmine
stimolano le ovaie a produrre steroidi sessuali che determinano la comparta dei caratteri secondari
femminili (aumento del senso, delle dimensioni della cavità uterina, del diametro del bacino, ecc), inoltre
inducono il menarca (prima mestruazione) e controllano il succedersi dei cicli mestruali.

EPIFISI E TIMO
L’epifisi è una ghiandola localizzata nella regione dell’ipotalamo, al quale è connessa tramite un breve
penducolo: produce la melatonina, un ormone rilasciato con il buio (un indicatore della durata della notte),
la cui sintesi è inibita dall’esposizione alla luce. E’ coinvolta nella regolazione dei ritmi biologici.

Il timo produce la timosina, che stimola la produzione delle cellule coinvolte nella risposta immunitaria, e la
timopoietina, coinvolta nel processo di definizione del self.
11. Il sistema linfatico e la difesa immunitaria

IL SISTEMA LINFATICO
Il sistema linfatico è un sistema di vasi unidirezionali a fondo cieco entro i quali scorre la linfa, un liquido
con composizione simile al fluido interstiziale: i capillari raccolgono la linfa dai tessuti e la conducono in vasi
maggiori che confluiscono nei dotti toracici, i quali si svuotano nelle vene succlavie, poste alla base del
collo. La linfa è sospinta verso il cuore dalle contrazioni dei muscoli scheletrici e dai movimenti respiratori; i
vasi linfatici, come le vene, possiedono valvole a nido di rondine contro il reflusso.
Il sistema linfatico svolge due funzioni: preleva dai tessuti e riversa nel sangue i grassi assorbiti
dall’apparato digerente e il liquido interstiziale in eccesso, è implicato nella difesa immunitaria grazie ai
linfonodi, masse di tessuto spugnoso che si trovano lungo il decorso dei vasi linfatici (collo, ascelle, inguine),
implicati nella proliferazione dei globuli bianchi, nel filtraggio della linfa e nella distruzione di cellule morte,
danneggiate o tumorali.

Gli organi linfatici primari comprendono il midollo osseo e il timo.


Nel midollo osseo sono presenti le cellule staminali da cui derivano tutte le cellule del sangue, fra cui i
leucociti: i linfociti B maturano nel midollo osseo e diventano attivi all’interno dei linfonodi.
Nel timo invece si completa lo sviluppo dei linfociti T.

Gli organi linfatici secondari comprendono la milza, le placche di Peyer e le tonsille (tessuto connettivo).
La milza filtra il sangue eliminando i microrganismi, inoltre recupera le sostanze utili dagli eritrociti
invecchiati (trasforma il gruppo eme in bilirubina) e le invia al fegato; funge da deposito di piastrine, sangue
e produce linfociti.
Le tonsille fermano ed eliminano batteri e altri microrganismi che entrano attraverso la bocca e il naso.
Le placche di Peyer distruggendo gli agenti patogeni che possono penetrare nell’apparato digerente.

LA RISPOSTA IMMUNITARIA ASPECIFICA


L’immunità aspecifica comprende diversi sistemi di protezione generica: barriere fisiche e difese cellulari.
La cute è il primo sistema di difesa aspecifica: costituisce una barriera che impedisce agli organismi
patogeni di penetrare nel corpo, inoltre la flora normale (insieme dei batteri e funghi che proliferano sulla
cute senza creare malattie) è in competizione con gli agenti patogeni per lo spazio disponibile e i nutrienti.
I rivestimenti mucosi superficiali di vari apparati possiedono difese chimiche e fisiche: il lisozima contenuto
nel liquido lacrimale, nel muco nasale e nella saliva attacca le pareti cellulari di molti batteri; il muco stesso
intrappola i microrganismi dell’aria, che vengono poi spinti all’esterno del corpo dall’azione delle ciglia che
rivestono l’epitelio delle vie aeree; le difensine (molecole peptidiche) prodotte dalle mucose sono tossiche
per un’ampia varietà di patogeni, in quanto provocano aperture nella membrana plasmatica.
Le secrezioni altamente acide come il succo gastrico rappresenta un ambiente letale per molti batteri, i sali
biliari uccidono alcuni batteri, mentre l’intestino crasso ne rimuove altrettanti con le feci.

I patogeni che penetrano all’interno dei tessuti, incontrano sistemi di immunità aspecifica più complessi:
1. I fagociti sono globuli bianchi che comprendono i granulociti e i macrofagi (i cui precursori sono i
monociti). Circolano liberamente nel sangue e nel sistema linfatico: penetrano nei tessuti
infiammati ingerendo i patogeni (fagocitosi), liberando difensine, che uccidono le cellule inglobate;
2. Il sistema del complemento è costituito da 30 proteine del complemento antimicrobiche che
agiscono a cascata: le proteine aderiscono ai microbi, permettendo ai fagociti di riconoscerli,
successivamente attivano la risposta infiammatoria attraendo altri fagociti verso la sede di
infezione e provocando la lisi delle cellule estranee;
3. Gli interferoni costituiscono una classe di glicoproteine che agiscono in caso di infezione virale:
cellule infette producono piccole quantità di interferoni che agiscono stimolando le cellule (infette
e non) ad aumentare le difese antimicrobiche. Inoltre incrementano l’attività lisosomiale che
degrada le proteine virali, che, esposte sulla membrana cellulare, attivano l’immunità specifica;
4. I linfociti NK (natural killer) riconoscono e lisano cellule infette o tumorali rilasciando perforine, che
distruggono la membrana plasmatica.
L’INFIAMMAZIONE
La risposta aspecifica più importante è l’infiammazione.
Il processo infiammatorio inizia nella regione dove si è verificata la lesione: qui i mastociti, i granulociti
basofili e le piastrine liberano istamina, che induce dilatazione e aumento della permeabilità dei vasi
sanguigni nel tessuto danneggiato, in modo da permettere ai fagociti circolanti di raggiungere l’area infetta
e la diffusione di proteine del complemento anticorpi e fattori della coagulazione verso la zona lesa.
I fagociti (granulociti neutrofili e macrofagi) inglobano patogeni e cellule morte, producendo citochine che
segnalano all’encefalo di aumentare la temperatura corporea: la febbre inibisce la proliferazione dei
patogeni e accelera le reazioni di riparazione. Contemporaneamente si attiva la coagulazione, che
impedisce la diffusione dell’infezione. Infine anche i macrofagi muoiono e vanno a costituire il pus, un
ammasso di cellule morte e detriti che fuoriesce dal corpo venendo disperso, o riassorbito dai tessuti.
In alcune gravi infezioni, la risposta infiammatoria diffonde a tutto il corpo, una condizione definita sepsi.

LA RISPOSTA IMMUNITARIA SPECIFICA


Le difese aspecifiche spesso non sono sufficienti, per cui il corpo attua un sistema di difese specifiche
realizzate grazie ai linfociti B e linfociti T che lavorano insieme per attuare la risposta immunitaria specifica.
La risposta immunitaria specifica si attiva quando un linfocita B o T viene in contatto con un antigene, ossia
una molecola in genere non-self (estranea all’organismo) in grado di provocare una risposta immunitaria.
Possono agire come antigeni, per esempio, le glicoproteine presenti nelle membrane di cellule
eucariotiche, batteriche o virus. La risposta allergica, invece, si attiva quando vengono riconosciuti come
antigeni molecole innocue come pollini, coloranti, farmaci.

Il riconoscimento dell’antigene viene effettuato da recettori antigenici, molecole presenti sulle membrane
dei linfociti T e B: ogni linfocita presenta sulla membrana un gran numero recettori tutti uguali tra loro ma
diversi da quelli presenti sugli altri linfociti prodotti dall’organismo.
Sulla membrana dell’antigene si trovano determinanti antigenici, che possono essere diversi fra loro se
l’antigene è di grandi dimensioni. Il legame fra il recettore antigenico del linfocita e il determinante
antigenico dell’antigene è altamente specificamente (come l’enzima-substrato).
L’organismo umano è in grado di rispondere a diversi milioni di antigeni tramite altrettanti recettori
antigenici: tale varietà è generata da riarrangiamenti genetici e mutazioni nel DNA dei linfociti in
maturazione negli organi linfatici. Al termine di questo processo ciascun linfocita B diventa
immunocompetente ed è capace di produrre un solo tipo di recettore antigenico. I linfociti B che sviluppano
recettori antigenici per molecole self vengono eliminati durante la vita fetale.
Una volta avvenuto il riconoscimento fra recettore del linfocita e determinante dell’antigene, il linfocita
prolifera generando un gruppo di cellule geneticamente identiche (con lo stesso recettore) durante il
processo di selezione clonale. Successivamente i linfociti così prodotti si differenziano in due cellule figlie:
1. Le plasmacellule che attaccano l’antigene con metodi diversi a seconda che il linfocita sia B o T;
2. Le cellule della memoria che perpetuano il clone e mantengono la capacità di dividersi.

I linfociti B innescano la risposta immunitaria umorale: dopo la selezione clonale e la differenziazione dei
linfociti B in plasmacellule, queste svolgono un’intensa attività di sintesi proteica, producendo un numero
elevatissimo di anticorpi, molecole con la stessa struttura dei recettori antigenici e specifici per ogni
antigene, secreti nel circolo sanguigno e nella linfa.
Gli anticorpi sono proteine dette immunoglobuline, formate da quattro catene polipeptidiche che insieme
formano una Y: si distinguono due catene leggere e due catene pesanti, ciascun paio identiche fra loro.
Ogni anticorpo possiede inoltre una regione costante, ossia la sequenza amminoacidica che determina la
classe dell’anticorpo (IgG i più abbondanti, IgA, IgM, IgD e IgE) e una regione variabile, ossia le sequenze
amminoacidiche che costituiscono il sito di legame, e che sono responsabili della specificità degli anticorpi.

Le modalità di azione degli anticorpi secreti dalle plasmacellule sono vari: gli anticorpi legano siti specifici di
virus o batteri, impedendo loro di danneggiare le cellule (neutralizzazione); ogni anticorpo lega due
molecole di antigene alla volta, formando un complesso voluminoso con altri anticorpi e antigeni, facile
bersaglio per la demolizione ad opera dei fagociti (agglutinazione); gli anticorpi attivano le proteine del
complemento rendendo più efficace la loro azione sull’antigene (fissazione del complemento).
La risposta immunitaria cellulare è diretta contro qualsiasi fattore che rende anomala una cellula, e
coinvolge in particolare l’azione dei linfociti T: anch’essi possiedono specifiche glicoproteine che fungono da
recettori di superficie, formate da due catene polipeptidiche. Si legano a antigeni o frammenti di
determinanti antigenici, esposti sulla superficie di una cellula che presenta l’antigene.

La capacità di distinguere self e non self è determinata dalle proteine esposte sulla superficie della
membrana plasmatica: sono dette proteine MHC, sono codificate dai geni del complesso maggiore di
istocompatibilità, e nell’uomo prendono il nome di antigeni umani leucocitari (HLA). Ve ne sono due tipi:
1. Proteine MHC I che si trovano sulla superficie di tutte le cellule nucleate di un organismo;
2. Proteine MHC II che si trovano sui linfociti B, sui macrofagi e altre cellule immunocompetenti.
Il ruolo principale delle proteine MHC è di legare in corrispondenza del proprio sito specifico di legame
l’antigene (distinguendo fra self e non self) ed esporlo così ai recettori dei linfociti T. Questi riconoscono
solo complessi proteina MHC-antigene, non antigeni liberi nell’ambiente. Vi sono due tipi di linfociti T:
1. Linfociti T citotossici (TC), che riconoscono cellule infette da virus o mutate e ne inducono la lisi.
Riconoscono solo antigeni legati a molecole MHC I (cellule “somatiche”)
2. Linfociti T helper (TH), coinvolti sia nella risposta cellulare che in quella umorale: rilasciano segnali
chimici destinati ai linfociti B e i linfociti T citotossici. Riconoscono solo antigeni legati a molecole
MHC II (cellule immunocompetenti).
Una cellula infettata che degrada l’antigene penetrato al suo interno, ne espone i frammenti sulla
membrana plasmatica, legati ad una proteina MHC I. I linfociti TC quindi si legano all’antigene esposto
tramite il proprio recettore, e si legano alla proteina MHC I grazie ad una proteina di superficie (CD8).
Un fagocita che ingloba un antigene non self e lo demolisce (per esempio un virus), ne espone i frammenti
sulla membrana plasmatica, legati ad una proteina MHC II. I linfociti TH quindi si legano all’antigene esposto
tramite il proprio recettore, e si legano alla proteina MHC II grazie ad una proteina di superficie (CD4).

I linfociti TH si attivano in presenza di un macrofago che espone l’antigene legato alle sue proteine MHC II.
In caso il TH abbia il recettore specifico per l’antigene, si lega al macrofago e innesca la risposta umorale.
1. Fase di attivazione: il macrofago libera interluchina-1 che promuove la liberazione di citochine dal
linfocita TH, che inducono lo stesso linfocita a generare cloni indifferenziati di se stesso;
2. Fase di attuazione: i linfociti TH attivano i linfociti B (che iniziano a produrre anticorpi specifici):
questi ultimi inglobano per endocitosi l’antigene legato ai loro recettori di superficie, lo degradano
e ne espongono i frammenti legati alle proprie proteine MHC II. Quando un linfocita TH si lega al
complesso proteina MHC II-antigene, esso libera citochine, che inducono il linfocita B a proliferare e
differenziarsi in plasmacellule, che secernono anticorpi, completando la risposta umorale.

I linfociti TC si attivano in presenza di una cellula infetta che espone il complesso proteina MHC I-antigene.
In caso il TC abbia il recettore specifico per l’antigene, si lega alla cellula infetta e inizia la risposta cellulare.
1. Fase di attivazione: il linfocita TC prolifera in seguito al legame fra il suo recettore e il frammento
antigenico (es: proteina virale) esposto sulla membrana dalla proteina di membrana MHC I;
2. Fase di attuazione: il linfocita TC riconosce nuovamente un frammento antigenico legato ad una
proteina MHC I e rilascia perforina, che induce la lisi della cellula infetta oppure, in alternativa, i
linfociti TC possono legarsi ad uno specifico recettore che induce l’apoptosi della cellula.
I linfociti TC riconoscono sia proteine MHC legate ad antigeni non self (eliminando le cellule infette), sia
proteine MHC legate ad antigeni self mutati o alterati (eliminando le cellule tumorali).
In caso di trapianti, i tessuti provenienti da un altro organismo vengono riconosciuti come non self e
rigettati, a meno che il donatore non sia un gemello monozigote, oppure trattando il pz con ciclosporina.

La memoria immunologica è dovuta alla presenza di anticorpi di lunga durata: le risposte immunitarie
adattive (umorale e cellulare) sono più rapide ed intense durante una seconda esposizione all’antigene, in
quanto dopo l’incontro iniziale si rendono disponibili migliaia di cellule della memoria attive per molti anni.
Durante la risposta primaria (prima esposizione all’antigene), inizialmente la quantità di anticorpi nel
plasma (titolo anticorpale) è molto ridotta, per poi aumentare lentamente (IgM e IgG) e ridursi in seguito.
La risposta secondaria (seconda esposizione all’antigene) il titolo anticorpale è di gran lunga superiore
rispetto alla risposa primaria e consiste principalmente in IgG.

IMMUNOGLOBINE
Esistono 5 classi di anticorpi che differiscono nella loro struttura molecolare e localizzazione:
1. IgG (forma monomerica): costituiscono il 75% delle immunoglobine sieriche, stimolano il
complemento e favoriscono la fagocitosi dei microbi;
2. IgA (forma monomerica o dimerica): costituiscono il 20% delle immunoglobine sieriche, sono
presenti nelle secrezioni (saliva, lacrime, mucose), sono un mezzo di difesa nelle infezioni locali, e
stimolano il complemento;
3. IgM (forma pentamerica): costituiscono il 5-10% delle immunoglobine sieriche, sono la classe di
anticorpi sintetizzata dopo la maturazione del linfocita B a plasmacellula
4. IgE: sono molto poco abbondanti nel siero, sono responsabili della risposta immunitaria ai parassiti
e della loro fagocitosi. Si legano, con la base a Y, a recettori presenti sui mastociti e inducono
liberazione di mediatori della risposta allergica presenti in queste cellule in seguito al legame
dell’antigene.
5. IgD (forma monomerica): costituiscono lo 0,2% delle immunoglobine sieriche, sono presenti sulla
membrana ei linfociti B e ne inducono la maturazione a plasmacellule;

IMMUNITA’ ACQUISITA
L’immunità ad uno specifico invasore viene acquisita naturalmente in seguito all’infezione naturale, ma può
essere innescata anche tramite la vaccinazione, ossia la somministrazione di un preparato contenente
agenti patogeni trattati per essere inoffensivi, ma mantenenti le proprietà antigeniche; le cellule della
difesa immunitaria vengono infatti stimolate a produrre la difesa contro il patogeno innocuo. Vi sono:
1. Vaccini attenuati, costituiti da patogeni vivi trattati per limitare la loro virulenza e la riproduttività;
2. Vaccini uccisi, basati su agenti patogeni morti o trattati in modo da mantenere le proprietà
antigeniche perdendo la capacità di provocare la malattia;
3. Vaccini a subunità, preparati a partire da componenti isolati dei patogeni (non tutto il
microrganismo), utilizzati come protezione contro malattie così pericolose da rendere rischioso
persino l’uso di vaccini uccisi;
4. Vaccini ricombinanti, ottenuti grazie alla tecnologia del DNA ricombinante: possono essere stati
rimossi alcuni geni per ridurre la virulenza, oppure essere stato inserito un determinante antigenico
all’interno di un microrganismo innocuo.
In quanto ad efficacia, vengono in ordine: vaccini attenuati, vaccini uccisi e vaccini a subunità. Per
aumentare l’efficacia di un vaccino si utilizzano adiuvanti che prolungano la dispersione del vaccino nei
tessuti oppure richiamano i fagociti e i linfociti T nel punto della somministrazione.
Le vaccinazioni conferiscono l’immunità di gruppo, ossia con l’aumentare della popolazione vaccinata, la
diminuzione della probabilità che un agente infettivo possa scovare un individuo non vaccinato.

L’immunità passiva (o sieroterapia) consiste nell’inoculazione di anticorpi dall’individuo che li ha prodotti


ad un altro soggetto. E’ un’immunità temporanea e non è associato ad una memoria immunitaria (perché
l’organismo non è stimolato a produrre anticorpi, li riceve già pronti). Può essere acquisita naturalmente,
tramite il passaggio di anticorpi dalla madre al figlio, oppure indotta artificialmente tramite l’iniezione di un
siero.

Se la risposta immunitaria dà luogo ad una reazione eccessiva al contatto con un determinato antigene,
spesso innocuo, si manifesta una reazione allergica. Ne esistono di due tipi:
1. L’ipersensibilità immediata, si origina quando un individuo esposto ad un particolare antigene
presente nell’ambiente produce un’elevata quantità di anticorpi IgE ad opera delle plasmacellule; i
mastociti e i leucociti basofili si legano quindi all’estremità costante dell’IgE. In seguito
all’esposizione all’antigene (allergene), il legame fra l’allergene e l’IgE dei mastociti e leucociti
basofili induce il rilascio di quantità elevate di istamina, provocando infiammazione e difficoltà
respiratoria. Una reazione allergica dev’essere trattata quindi con antistaminici;
2. L’ipersensibilità ritardata corrisponde ad una reazione allergica che inizia dopo alcune ore
dall’esposizione ad un antigene, ad opera dei linfociti T.
12. I sistemi sensoriali
Nel corpo umano sono presenti diversi sistemi sensoriali specializzati a percepire stimoli interni e esterni.
Alcuni sono veri e propri organi: gli occhi, che percepiscono la luce e definiscono il senso della vista, e le
orecchie, deputate a percepire i suoni e a mantenere l’equilibrio.
Altri sono aggregati cellulari: i meccanocettori, sensibili a stimoli meccanici come il tatto e la pressione, i
chemiocettori, sensibili a diverse sostanze chimiche (sapore e odore), i termocettori, che rispondono alle
variazioni della temperatura, i nocicettori, che si attivano in seguito a danni fisici o chimici suscitando
sensazioni di dolore, gli osmocettori rilevano la pressione osmotica dei fluidi corporei.
Tutti i sistemi sensoriali elaborano le informazioni sotto forma di potenziali d’azione trasmessi attraverso gli
assoni che entrano nel SNC a livello del midollo spinale, e interpretati diversamente in base alla zona del
SNC in cui arrivano. L’intensità della sensazione è codificata in base alla frequenza dei potenziali di azione.

ODORATO
Il senso dell’odorato dipende da chemiocettori (cellule olfattive) costituiti da neuroni le cui terminazioni
dendritiche formano ciglia olfattive che sporgono sulla superficie dell’epitelio olfattivo, ricoperta da un velo
protettivo di muco. Le cellule olfattive proiettano i loro assoni nei bulbi olfattivi del telencefalo.
Una molecola odorosa si lega ad una proteina recettoriale olfattiva presente sulle ciglia delle cellule
olfattive, generando un potenziale di azione trasmesso nel bulbo olfattivo: quanto maggiore è il numero
delle molecole che si legano al recettore, tanto più alta è la frequenza dei potenziali d’azione generati e
dunque sarà maggiore l’intensità dell’odore percepita. Alcuni animali usano segnali chimici detti feromoni.

GUSTO
Il senso del gusto dipende da aggregati di chemiocettori cellulari che formano unità funzionali chiamate
calici gustativi, inseriti nell’epitelio della lingua in corrispondenza delle papille gustative (ai lati).
La superficie esterna del calice gustativo presenta un poro gustativo che permette alle cellule gustative
recettoriali di esporre il proprio apice, ossia microvilli che presentano proteine recettoriali sulla propria
membrana plasmatica, a cui si legano le molecole che stimolano il senso del gusto: questo stimolo cambia il
potenziale di membrana delle cellule recettoriali che influenzano il rilascio di neurotrasmettitori nel punto
in cui formano sinapsi con i neuroni sensoriali, i quali inviano tramite gli assoni il potenziale d’azione
generato al SNC, dove l’informazione viene letta come sensazione di uno specifico sapore. Le cellule della
lingua sono continuamente rinnovate. I sapori percepiti sono il dolce, il salato, l’aspro, l’amaro e l’umami.

TATTO
La distorsione fisica della membrana plasmatica dei meccanocettori (recettori del tatto e della pressione)
causa l’apertura di canali ionici regolati meccanicamente, alternando il potenziale di membrana, generando
potenziali d’azione, che comunicano al SNC l’intensità dello stimolo fisico ricevuto. I meccanocettori sono:
1. I dischi di Merkel che si trovano negli strati superficiali del derma, si adattano lentamente e
forniscono continue informazioni su ciò che è in contatto con la pelle;
2. I corpuscoli di Meissner che si trovano anch’esso in superficie, si adattano molto rapidamente e
sono molto sensibili: forniscono l’informazione che riguarda piccoli cambiamenti di pressione;
3. I corpuscoli di Ruffini, situati nella profondità del derma si adattano lentamente agli stimoli e sono
capaci di rilevare le vibrazioni a bassa frequenza;
4. I corpuscoli di Pacini, ancora più profondi, si adattano rapidamente agli stimoli e rispondono alle
vibrazioni caratterizzate da frequenze elevate;
5. Alcuni dendriti dei neuroni sensoriali si avvolgono interno ai follicoli piliferi: quando i peli toccano
un oggetto, le terminazioni nervose vengono stimolate.

I meccanocettori che si trovano nel muscolo scheletrico sono detti fusi neuromuscolari, organi recettoriali
di tensione (fibre inserite in connettivo e innervate da neuroni sensoriali) che rilevano l’allungamento del
muscolo allungandosi anch’essi, e inviando al SNC tramite potenziali d’azione lo stimolo rilevato.
I meccanocettori che si trovano nei tendini e nei legamenti sono detti organi di Golgi, e forniscono
informazioni riguardanti l’entità della forza generata dalla contrazione muscolare. Se è eccessiva, i
potenziali d’azione generati dall’organo di Golgi inibiscono i motoneuroni causando il rilassamento.

UDITO
L’orecchio percepisce i suoni e percepisce le informazioni riguardo l’equilibrio del corpo. Gli stimoli
percepiti come suoni sono onde di pressione che transitano attraverso l’orecchio esterno e l’orecchio
medio, per poi arrivare nell’orecchio interno, che costituisce il sistema acustico. Vi sono:
1. L’orecchio esterno comprende il padiglione auricolare che raccoglie le onde sonore, il canale
uditivo e il timpano, una membrana che ricopre la parte terminale del canale uditivo e vibra in
risposta all’arrivo delle onde di pressione;
2. L’orecchio medio è una cavità piena d’aria che si sviluppa al di là del timpano (nell’osso temporale);
è in connessione con la faringe attraverso la tromba di Eustachio, anch’essa piena d’aria: si
stabilisce quindi un equilibrio di pressione fra interno ed esterno. Contiene tre ossicini, il martello,
l’incudine e la staffa, che trasmettono la vibrazione del timpano ad un’altra membrana localizzata
in corrispondenza di un’apertura detta finestra ovale;
3. L’orecchio interno si sviluppa dietro la finestra ovale ed è formato da un labirinto osseo costituito
da varie cavità che si aprono nell’osso temporale; contiene un fluido detto perilinfa che circonda il
labirinto membranoso, formato da vescicole e canalicoli, che seguono la forma del labirinto osseo e
contengono a loro volta un fluido detto endolinfa. Le cavità del labirinto comprendono la coclea
(organo dell’udito) e l’apparato vestibolare (organo dell’equilibrio).

La coclea è una lunga camera che si avvolge a forma di elica: è composta da tre canali paralleli separati da
due membrane fibrose: il canale medio si trova fra il canale vestibolare (separato dalla membrana di
Reissner o membrana tettoria) e il canale timpanico (separato dalla membrana basilare).
L’organo di Corti (dell’udito) si trova sulla membrana basilare e contiene stereociglia che sono in contatto
con la membrana tettoria al loro apice e formano sinapsi con i neuroni sensoriali del nervo cocleare.

Le onde di pressione raccolte dal padiglione auricolare vengono convogliate nel condotto uditivo e fanno
vibrare il timpano alla stessa frequenza del suono emesso; questa vibrazione viene trasmessa al martello,
all’incudine, alla staffa e infine giunge amplificata alla finestra ovale. Le vibrazioni della finestra ovale
producono onde di compressione nel liquido all’interno della coclea: le onde pressiorie dell’endolinfa
trasmettono vibrazioni alla membrana basilare che spinge le cellule ciliate dell’organo del Corti contro la
membrana tettoria. La flessione delle stereociglia stimola le cellule ciliate a rilasciare neurotrasmettitori in
corrispondenza delle sinapsi coi neuroni sensoriali. I potenziali d’azione quindi percorrono il nervo cocleare.
Gli assoni del nervo vestibolococleare terminano nel midollo allungato, risalgono al mesencefalo, poi al
talamo e infine all’area uditiva primaria del lobo temporale della corteccia.

L’apparato vestibolare costituisce l’organo dell’equilibrio nell’orecchio interno:


1. L’equilibrio statico serve a mantenere la postura e l’equilibrio rispetto alla forza di gravità: i suoi
recettori si trovano sulle pareti interne di due vescicole dette utricolo e sacculo, in corrispondenza
della macula, una regione specializzata che rileva la posizione della testa nello spazio: la macula
contiene cellule ciliate le cui stereociglia sono immerse in una sostanza gelatinosa cosparsa di
otoliti, cristalli di carbonato di calcio. Il movimento della testa provoca la flessione delle
stereociglia, che inviano lo stimolo al nervo vestibolare;
2. L’equilibrio dinamico che corrisponde al mantenimento della posizione del corpo durante il
movimento è affidato a tre canali semicircolari membranosi: sono orientati secondo le tre direzioni
dello spazio, e ciascuno mostra una porzione ingrossata detta ampolla, all’interno della quale si
trova una cresta contenente cellule ciliate sormontate da una cupola gelatinosa. I movimenti del
capo generano correnti nell’endolinfa che agisce sulle cupole, le quali a loro volta flettono le
stereociglia, innescando potenziali d’azione lungo i neuroni sensoriali del nervo vestibolare. Le vie
nervose dell’equilibrio entrano nel midollo allungato e si dirigono al cervelletto, quindi al midollo
spinale (per regolare il tono muscolare) e la corteccia motoria (per il controllo dei movimenti).
VISTA
L’occhio è l’organo della vista, una struttura sferica (bulbo oculare) contenente un mezzo fluido che ne
mantiene la forma e protetto da due pieghe cutanee dette palpebre. E’ rivestito esternamente da tre strati:
1. Il rivestimento più esterno è un connettivo chiamato sclera che, anteriormente, forma la cornea
(attraverso la quale la luce entra nell’occhio). La congiuntiva ricopre la sclera e la porzione interna
delle palpebre, ma non la cornea;
2. Sotto la sclera si trova la coroide, una membrana riccamente vascolarizzata e ricca di melanociti
che producono melanina, con la funzione di assorbire la riflessione e la diffusione della luce
all’interno del bulbo (disturberebbe la visione). Anteriormente la coroide presenta un foro circolare
detto pupilla e circondato dall’iride, un anello muscolare pigmentato sotto il controllo del SNA che
dà all’occhio il suo colore. In relazione alla luminosità dell’ambiente: il parasimpatico restringe la
pupilla in caso di intensa luminosità, il simpatico dilata la pupilla quando la luce è scarsa.
Posteriormente all’iride si trova il cristallino, una lente che ha il compito di mettere a fuoco i raggi
luminosi sulla retina. I muscoli ciliari alterano la forma del cristallino durante l’accomodazione;
3. La retina è l’involucro più interno del bulbo oculare, ed è il punto d’inizio della via visiva.
L’uvea, posta all’interno della sclera, ha la funzione vascolare di nutrimento del bulbo oculare: è divisa
anatomicamente in iride, corpo ciliare e coroide.

La retina è costituita da uno strato pigmentato, una pellicola di cellule contenenti melanina posta tra la
coroide e lo strato nervoso, e da uno strato nervoso, un’estensione periferica dell’encefalo che comprende i
fotocettori e le vie che arrivano alla corteccia. I fotocettori comprendono i coni (grossi) che discriminano i
colori, e i bastoncelli (lunghi e sottili) che discriminano le varie tonalità di grigio. Essa può essere
considerata un’estensione periferica dell’encefalo.
La fovea corrisponde al punto di densità massima dei coni, ossia il centro del campo visivo.
Per eccitare queste cellule, la luce deve attraversare la retina: una volta eccitati, i coni e i bastoncelli
rilasciano neurotrasmettitori diretti alle cellule bipolari (che modulano l’informazione), le quali formano
sinapsi con le cellule gangliari che costituiscono lo strato anteriore della retina. I potenziali d’azione
generati dalle cellule gangliari trasportano l’informazione visiva al cervello tramite il nervo ottico (II nervo
cranico). Il punto cieco è la posizione in cui il nervo ottico emerge dalla retina, è vascolarizzato e privo di
fotocettori.
Le opsine sono pigmenti che determinano la sensibilità alla luce dei fotocettori. Vi sono tre opsine dei coni
(per il rosso, per il verde, per il blu), i bastoncelli contengono un singolo pigmento, la rodopsina.
La fotosensibilità dipende dalla capacità delle opsine di assorbire l’energia luminosa dei fotoni e subire un
cambiamento nella propria conformazione: avviene una cascata di reazioni che inducono una variazione del
potenziale di membrana, che determina il rilascio del neurotrasmettitore a livello delle sinapsi.

Il cristallino divide l’interno del bulbo oculare in due cavità:


1. La camera anteriore dell’occhio (davanti al cristallino) contiene umore acqueo, un fluido simile al
liquido cerebrospinale che mantiene la forma dell’occhio e nutre il cristallino e la cornea;
2. La camera posteriore (dietro al cristallino) contiene una sostanza gelatinosa detta umore vitreo,
che si forma durante la vita embrionale e non viene più sostituita.
Patologie, farmaci e disturbi connessi ai sistemi e gli apparati
Si definisce patologia l’alterazione dello stato di benessere di un individuo, capace di ridurre o eliminare le
funzioni normali del corpo. La patologia viene diagnosticata utilizzando la semeiotica medica, ossia la
scienza che studia i sintomi della patologia. L’anamnesi è la raccolta dei dati fisiologici, patologici ed
ereditari di un pz. L’agente causale di una patologia viene definito agente eziologico, mentre l’insieme dei
processi che portano allo sviluppo della malattia prendono il nome di patogenesi.

I farmaci sono sostanze organiche o inorganiche dotate di attività biologica, somministrati allo scopo di
diagnosi, cura, trattamento o prevenzione di un processo patologico: essi contengono il cosiddetto
principio attivo che è la molecola sulla quale si basa l’efficacia del farmaco. Si chiama farmaco generico un
farmaco che contiene lo stesso principio attivo di un farmaco di marca. La posologia è la quantità di
medicinale e i tempi della sua somministrazione per ottenere l’effetto terapeutico atteso. Nel tempo il
dosaggio può essere aumentato a causa della progressiva riduzione della risposta terapeutica al farmaco,
definita come tolleranza.
Tra i farmaci più usati ci sono gli antibiotici, che sono in genere molecole prodotte da batteri, funghi o
muffe (il primo ad essere scoperto da Fleming è la penicillina che inibisce la formazione della parete
batterica) che interferiscono con alcuni processi vitali del batterio. Un batterio può diventare resistente
all’antibiotico perché ha acquisito l’informazione (mediante DNA plasmidico) per sintetizzare un enzima che
modifica la natura dell’antibiotico rendendolo inefficace: l’uso eccessivo di antibiotici favorisce la selezione
di cloni batterici resistenti ad essi. Gli antibiotici non sono in grado di combattere le infezioni virali, contro
le quali è efficace la risposta infiammatoria o l’uso di farmaci antivirali, ossia sostanze che interferiscono
nel meccanismo di riproduzione del virus a seguito dell’infezione cellulare.

PATOLOGIA NEOPLASTICA (O TUMORALE)


Una patologia neoplastica è dovuta alla formazione di una massa anomala di tessuto che cresce in eccesso
e in modo scoordinato rispetto ai tessuti normali. Sulla base dell’aggressività e della tendenza a formare
foci di disseminazione a distanza (metastasi), si distinguono tumori benigni, generalmente delimitati e non
invasivi né localmente né a distanza in cui le cellule mantengono le caratteristiche istologiche del tessuto, e
tumori maligni, dotati di crescita invasiva localmente e/o a distanza, formato da cellule indifferenziate che
hanno perso le caratteristiche del tessuto d’origine.
I tumori maligni più frequenti sono quelli di origine epiteliale (carcinoma) in particolare al polmone, al
colon-retto, mammella e prostata. Le neoplasie sono dovute alla perdita dell’inibizione per contatto fra le
cellule, alla inibizione a feedback delle sintesi cellulari, ad alterazioni del patrimonio genetico, ad alterazioni
del normale ciclo cellulare o alla resistenza alla morte cellulare. Le cellule che si staccano da un tumore
maligno si spostano tramite la circolazione sanguigna o linfatica e, quando incontrano un organo adatto a
una nuova proliferazione, vi penetrano grazie a particolari proteine di superficie. Le cellule tumorali inoltre
liberano fattori che favoriscono la crescita dei vasi sanguigni, in modo da essere abbondantemente rifornite
di ossigeno e nutrienti.
Il cancro invece è una malattia genetica, nel senso che la sua insorgenza è dovuta a mutazioni che
riguardano alcuni geni: i proto-oncogeni, i quali stimolano la divisione cellulare e sono normalmente
inattivi, ma possono attivarsi trasformandosi in oncogeni, che codificano per fattori di crescita e la loro
espressione alterata scatena la divisione cellulare; i geni tumoresoppressori, normalmente attivi che
inibiscono la proliferazione cellulare, possono provare il cancro quando sono disattivati da una mutazione; i
geni del sistema di riparazione del DNA. Essi hanno una probabilità più alta di insorgenza quanto più elevata
è l’età dell’individuo.

DISTURBI DELL’APPARATO LOCOMOTORE


L’artrite è l’infiammazione di un’articolazione. Le cause possono essere di tipo infiammatorio (artrite
reumatoide, gotta), traumatico (distorsioni, lussazioni), o infettivo (tubercolosi, gonorrea).
L’artrosi è una malattia delle articolazioni caratterizzata da riduzione delle cartilagini articolari.
L’eritema è un arrossamento della pelle generato dalla dilatazione dei vasi arteriosi dovuta principalmente
a sovraesposizione ai raggi solari.
La cifosi, oltre ad essere una curvatura fisiologica della regione dorsale della colonna vertebrale, indica la
patologia in cui tale curvatura è eccessivamente accentuata, con formazione di una gibbosità.
La scoliosi è una curvatura della colonna vertebrale in senso laterale o anche in senso antero-posteriore.
La distorsione è una lesione traumatica di un’articolazione, con allungamento o lacerazione dei legamenti.
L’ernia del disco è una condizione anomala in cui parte del disco intervertebrale sporge fra le due vertebre,
andando a comprimere i nervi spinali.
L’osteoporosi è una malattia caratterizzata da degenerazione e aumento della fragilità del tessuto osseo, a
causa della diminuzione di contenuto minerale (osteoporosi primaria) causata dell’avanzare dell’età. Si
presenta in particolare nelle donne dopo la menopausa a causa del calo di estrogeni, ma può essere
provocata anche da carenze nutrizionali (calcio o vitamina D).
Le distrofie muscolari sono malattie ereditarie caratterizzate da degenerazione progressiva del sistema
muscolare. Se ne conoscono di diversi tipi:
1. La distrofia muscolare miotonica colpisce uomini e donne comportando debolezza muscolare e
contratture. Consente di raggiungere l’età adulta ma è incurabile;
2. La distrofia muscolare di Duchenne è dovuta ad un gene situato sul cromosoma X e colpisce solo
i bimbi maschi fra i 3 e i 5 anni di età, causando un progressivo indebolimento fino all’inabilità.

DISTURBI DELL’APPARATO CARDIO-CIRCOLATORIO E DEL SANGUE


L’anemia è una condizione clinica caratterizzata da una ridotta concentrazione di eritrociti o emoglobina
nel sangue, che si manifesta con debolezza, pallore, tachicardia, vertigine. Le cause possono essere diverse:
1. Un’ingente perdita di sangue;
2. Carenze alimentari che causano una produzione insufficiente di globuli rossi: la carenza di ferro
causa anemia ferropriva, la carenza di vitamina B12 causa anemia perniciosa;
3. Alcuni farmaci o esposizione a radiazioni possono determinare una insufficiente produzione di
globuli rossi e precursori delle cellule del sangue nel midollo osseo, causando anemia aplastica;
4. Reazioni autoimmuni, carenze enzimatiche o ingestione di sostanze tossiche possono determinare
una rapida distruzione degli eritrociti (che aumenta la bilirubina), causando anemia emolitica;
5. Malattie genetiche possono determinare: l’anemia falciforme, dovuta ad una mutazione
puntiforme che causa la sostituzione dell’acido gluttammico con la valina nella catena β
dell’emoglobina, oppure l’anemia mediterranea (talassemia) caratterizzata da emoglobina alterata,
con diversi gradi di gravità: la più lieve (minor, eterozigote) non causa a chi ne soffre gravi
insufficienze, come nel caso della più grave (maior, omozigote), caratterizzata da emoglobine
basse, bilirubina elevata e deformazione delle ossa craniche.
L’aneurisma è la dilatazione del tratto di un’arteria: può essere congenito o dovuto a patologie delle pareti.
L’aritmia cardiaca è un’anomalia del ritmo e della frequenza delle pulsazioni cardiache, dovuta
all’alterazione degli impulsi elettrici: si distinguono la tachicardia (battito accelerato) e la bradicardia.
L’arteriosclerosi è il generico inspessimento e indurimento delle pareti arteriose, con perdita di elasticità.
L’aterosclerosi è il caso più comune di arteriosclerosi, caratterizzato dalla presenza di lesioni accompagnate
da notevoli quantità di grassi, accumulatesi in corrispondenza di placche di ateroma che si dormano in
condizioni di elevata colesterolemia sulla parete dei vasi: questo inspessimento riduce il lume dei vasi
ostacolando il flusso del sangue (causando trombosi, emorragie cerebrali, infarto). Fattori di rischio sono
iperlipidemia e ipercolesterolemia (livello eccessivamente alto di colesterolo nel sangue, in particolare
quello contenuto nelle LDL), fumo, abitudini di vita sedentarie, obesità, stress, ipertensione, diabete.
Per trattarla si usano farmaci ipocolesterolemizzanti, anticoagulanti e antiaggreganti piastrinici.
L’ischemia è lo stato di sofferenza di un tessuto dovuto a insufficiente apporto di ossigeno nel sangue.
L’embolia è l’occlusione di un vaso sanguigno da parte di un corpo estraneo: colpisce le arterie degli arti, e
la causa più frequente è la presenza di un grosso coagulo (trombo) che si frammenta in coaguli più piccoli,
che si arrestano dove il vaso diventa troppo stretto, provocando ischemia dei tessuti a valle dell’occlusione.
L’embolia gassosa è l’entrata in circolo di una bolla d’aria.
L’ictus (colpo apoplettico) è la morte improvvisa di parte delle cellule cerebrali: le cause possono essere
l’occlusione di un’arteria con conseguente ischemia cerebrale, o emorragia di un’arteria.
L’infarto è la degenerazione (necrosi) di una parte di un organo in seguito ad un’ischemia. L’infarto
miocardico è la necrosi di parte del tessuto cardiaco dovuta all’occlusione delle arterie coronarie.
L’ittero è la patologia connessa all’aumento di bilirubina nel sangue. Le cause possono essere anemia
emolitica (rapida distruzione dei globuli rossi) oppure la diminuita funzionalità del fegato a causa di processi
infiammatori, come in caso di epatite. Nei neonati si assiste alla comparsa di ittero fisiologico, in quanto
l’emoglobina fetale è diversa da quella post-natale e viene distrutta e sostituita da nuovi eritrociti.
La leucemia è la proliferazione incontrollata e conseguente accumulo nel sangue di leucociti. Le cellule
leucemiche non compiono il differenziamento terminale rimanendo bloccate in fasi diverse della
maturazione mantenendo le loro capacità di autoriprodursi e proliferare in maniera incontrollata.
Lo shock è una condizione clinica caratterizzata da insufficienza circolatoria, ridotta ossigenazione e
conseguente sofferenza dei tessuti: è caratterizzato da ipotensione arteriosa accompagnata da debolezza
muscolare, confusione, cute pallida e sudorazione abbondante. Nei casi più gravi può preludere al coma. Le
cause possono essere diverse: un’emorragia, disidratazione eccessiva, anomalie cardiache o lesioni del
midollo spingale. Lo shock anafilattico è una reazione allergica estremamente violenta dovuta al fatto che
l’allergene scatena una risposta immunitaria che causa forte vasodilatazione e fuoriuscita di liquidi dai vasi,
con conseguente calo della pressione sanguigna.
La policitemia è un aumento del numero dei globuli rossi per compensare mutazioni dell’emoglobina che
essendo più affine per l’ossigeno non è in grado di rilasciarlo ai tessuti.
La stenosi è il restringimento delle valvole cardiache a causa di infiammazione.
La trombosi è la formazione di trombi, ossia grossi coaguli all’interno del cuore o dei vasi. Può essere
dovuta ad alterazioni della parete dei vasi, al rallentamento della circolazione, ad alterazioni dei fattori
plasmatici responsabili della coagulazione. Interessa spesso le vene degli arti, le arterie cerebrali, le
coronarie. Se colpisce le arterie terminali, il tessuto va in necrosi provocando un infarto. Se colpisce vasi
venosi causa ristagno sanguigno ed edema.
Le vene varicose si formano quando le valvole a nido di rondine non funzionano e si ha quindi un
rigonfiamento delle vene, specialmente negli arti inferiori.

DISTURBI DELL’APPARATO RESPIRATORIO


L’asma bronchiale è una malattia infiammatoria cronica delle vie respiratorie che si manifesta con crisi
periodiche caratterizzate da difficoltà respiratorie, affanno e tosse secca. E’ causata da una predisposizione
genetica e fattori scatenanti (polveri, pollini, peli). La terapia si basa su broncodilatatori ad azione rapida.
L’enfisema è una patologia dei polmoni caratterizzata da una dilatazione anomala degli alveoli polmonari,
con perdita di elasticità delle pareti, che riduce gli scambi di ossigeno causando insufficienza respiratoria.
La pleurite è un’infiammazione della pleura, causata da patologie del polmone (polmonite), da agenti
infettivi, sostanze che entrano nello spazio pleurico o traumi che interessano la pleura.
La sinusite è un’infezione che colpisce le mucose dei seni paranasali. E’ causata da virus o batteri, e i
sintomi sono muco purulento e dolore al viso in corrispondenza degli zigomi o della fronte. La terapia si
basa su mucolitici, antinfiammatori o antibiotici.

DISTURBI DELL’APPARATO DIGERENTE


I calcoli biliari sono masse dure che si formano nella cistifellea o nelle vie biliari in seguito a precipitazione
delle sostanze biliari quando si alterano i rapporti fra quei composti. La loro comparsa è favorita da diete
ipercaloriche, uso di farmaci e alterazioni delle vie biliari. Se un calcolo si incastra nel coledoco, la
muscolatura si contrae al massimo per espellerlo, scatenando le coliche biliari.
La celiachia è una forma di intolleranza alimentare ereditaria al glutine. La risposta immunitaria contro il
glutine danneggia gravemente la mucosa intestinale (riducendo la capacità di assorbimento), con gonfiori
addominali, diarrea, deperimento, carenze vitaminiche.
La cirrosi epatica è una patologia del fegato che comporta alterazioni della struttura dell’organo e morte
delle cellule epatiche. E’ responsabile di disturbi digestivi, alterazioni nella circolazione sanguigna, edemi
agli arti inferiori. Deriva da un eccessivo consumo di alcol, e può essere una conseguenza dell’epatite B.
La diarrea è la produzione di abbondanti feci liquide o semiliquide. Può essere causata da alcuni alimento,
intolleranza al lattosio, indigestione, sostanze tossiche, microrganismi, stress psicologico.
La gastroenterite virale è una forma infettiva molto contagiosa detta anche influenza intestinale.
La dispepsia è un termine generico per indicare i disturbi digestivi, come gonfiore o pesantezza.
La gastrite è un’infiammazione della mucosa gastrica, causata da stress o da alcuni farmaci. E’ causata da
una ridotta produzione di muco da parte delle ghiandole gastriche, e dall’ “autodigestione” che esercitano i
succhi gastrici sulla mucosa, che a lungo andare possono provocare un’ulcera gastrica.
La peritonite è una grave infiammazione del peritoneo causata da processi infettivi che colpiscono gli
organi addominali (come l’appendicite).
L’ulcera gastrica è una lesione della mucosa dello stomaco dovuta all’azione dei succhi gastrici sulle pareti
di questo organo, comunemente relazionata all’eccessiva produzione di HCl e la ridotta secrezione di muco
da parte delle ghiandole gastriche.
Il vomito è un riflesso di difesa dell’organismo, utile per eliminare cibo avariato, indigeribile o sostanze
tossiche. Il meccanismo del vomito è causato dalla contrazione del diaframma e dei muscoli addominali che
spingono verso l’alto il contenuto dello stomaco, fino a causarne la fuoriuscita. E’ controllato da un riflesso
nervoso, che prende origine dal centro del vomito nel midollo allungato. E’ causato anche da disturbi della
sfera psichica.

DISTURBI DELL’APPARATO URO-GENITALE


Il criptorchidismo è la mancata discesa del testicolo che rimane bloccato nell’inguine e se non si interviene
può andare incontro ad atrofia. Se non si risolve naturalmente è opportuno somministrare ormoni e
intervenire chirurgicamente.
L’endometriosi è la presenza di endometrio al di fuori della normale sede, per esempio nelle ovaie, nelle
tube di Falloppio o nella porzione muscolare dell’utero. Provocano cisti e sanguinamento mestruale.
La glomerulonefrite è un processo infiammatorio a carico dei glomeruli renali in conseguenza di una
infezione localizzata in un’altra parte del corpo, come per esempio una tonsillite.
La sterilità, cioè l’incapacità di avere figli, può essere causata da diversi fattori:
1. La sterilità maschile è dovuta a ridotta o assente produzione di spermatozoi a causa di anomalie
strutturali o infiammazioni dei testicoli. Anche fumo, alcol e droga ne riduce la produzione;
2. La sterilità femminile è dovuta a mancata ovulazione, che si verifica in conseguenza a squilibri
ormonali, malattie dell’ovaio, stress, anomalie cromosomiche, ostruzione delle tube, problemi a
carico dell’utero (fibromi, endometriosi) che impediscono l’impianto della cellula uovo.
L’orchite è l’infiammazione dei testicoli.

DISTURBI DEL SISTEMA NERVOSO E DEGLI ORGANI DI SENSO


La cataratta è un’alterazione del cristallino che si opacizza non permettendo più il passaggio dei raggi
luminosi. Può essere congenita, dovuta alla vecchiaia, oppure conseguenza di un trauma o malattie.
L’encefalite è un processo infiammatorio che colpisce l’encefalo. Può essere dovuta alla propagazione di
infezioni batteriche (otiti, sinusiti) oppure virali (rabbia, poliomielite), in seguito a malattie esantematiche
(morbillo, rosolia, varicella), o molto raramente in seguito a vaccinazioni (antipolio, antimorbillo).
L’epilessia è una malattie neurologica caratterizzata da un’alterazione dell’attività elettrica del cervello che
si manifesta con crisi improvvise.
Il morbo di Alzheimer è una malattia degenerativa che si manifesta con perdita della memoria e delle
capacità intellettive, fino a portare alla demenza.
Il morbo di Parkinson è una malattia che colpisce maschi sopra i 40 anni e consiste in una degenerazione di
strutture del SNC responsabili del controllo dei movimento di testa, tronco e arti.
La spina bifida è una grave malformazione che interessa il SN e consiste nella mancata saldatura delle
vertebre durante lo sviluppo embrionale, con eventuale sporgenza di parte del midollo spinale. Può essere
asintomatica nei casi lievi, oppure causare alterazione della sensibilità degli arti inferiori, paralisi o essere
incompatibile con la vita. La carenza di acido folico e la predisposizione genetica sono fattori scatenanti.
La meningite è una malattia infiammatoria che colpisce le meningi a livello dell’encefalo o del midollo
spinale, causata da batteri o da virus.
DISTURBI DEL SISTEMA ENDOCRINO
Il diabete insipido è una malattia caratterizzata da eliminazione di abbondante urina, a causa di patologie
dell’ipotalamo e dell’ipofisi che determinano un’insufficiente produzione di antidiuretico/vasopressina.
Il diabete mellito è una malattia che si manifesta con l’incapacità di regolare il tasso di glucosio nel sangue,
e viene diagnosticato in caso di glicemia eccessivamente alta. La scarsa produzione di insulina o la presenza
di un numero insufficiente di recettori per questo ormone causa un eccesso di glucosio, pericoloso perché
altera la funzione delle proteine. Il diabete primario può essere di due tipi:
1. Diabete insulino-dipendente (giovanile, tipo I), correlato a una carenza di insulina, è considerato
una malattia autoimmune; le difese immunitarie distruggono le cellule β del pancreas responsabili
della secrezione di insulina. I tessuti non riescono ad utilizzare il glucosio alimentare, quindi viene
favorita la gluconeogenesi (sintesi di glucosio a partire dalle proteine) e l’ossidazione degli acidi
grassi, con produzione di corpi chetonici che accumulandosi nel sangue possono causare coma;
2. Diabete non insulino-dipendente (tipo II) colpisce individui anziani e obesi, e non può essere
curato con somministrazioni di insulina, perché in questo caso l’ormone viene prodotto, ma i
tessuti non ne sono sensibili. Il glucosio alimentare non viene utilizzato dai tessuti, mentre il fegato
produce continuamente glucosio tramite gluconeogenesi. L’accumulo di quantità eccessive di
glucosio può causare il coma iperglicemico.
Il diabete secondario è causato da qualsiasi agente (traumi, infezioni, ecc) che danneggi il pancreas
riducendone la funzionalità.
Il morbo di Basedow è una malattia della tiroide caratterizzata dall’aumento dell’attività della ghiandola,
comparsa del gozzo e alterazioni della pelle.

DISTURBI DEL SISTEMA IMMUNITARIO


Le immunodeficienze primarie sono malattie genetiche in seguito alle quali una persona risulta priva di
difese immunitari. I linfociti possono non svilupparsi mai, oppure perdono la capacità di differenziarsi in
plasmacellule. La perdita dei linfociti TH costituisce il caso più grave di deficit immunitario.
Nel caso delle malattie autoimmuni, vi è un errore nel funzionamento della risposta immunitaria, che
attacca antigeni self tramite “cloni proibiti” di linfociti B e T.

AIDS
La sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) colpisce direttamente le cellule del sistema
immunitario. L’AIDS insorge in seguito all’infezione ad opera del virus dell’immunodeficienza umana (HIV),
il quale è un virus a RNA che infetta i linfociti T e i macrofagi. Dopo il momento dell’infezione (detto
infezione primaria) il virus inizia una lunga fase (9-10 anni) di persistenza nell’organismo senza dare sintomi
evidenti, anche se il numero dei linfociti T circolanti nel sangue decresce costantemente.
A un certo punto, però, i linfociti diventano insufficienti e si ha una generale compromissione del sistema
immunitario (fase di AIDS). Nelle fasi acute della malattia, un individuo è pertanto estremamente
vulnerabile a infezioni che sarebbero altrimenti combattute con successo dall’organismo (polmonite,
tubercolosi, esofagiti, diarrea cronica, toxoplasmosi, e aumenta il rischio di contrarre tumori). La
sopravvivenza media, dal momento della diagnosi di AIDS conclamato, è di 4-5 anni con terapia
antiretrovirale, mentre senza questi farmaci la morte sopravviene entro un anno.
Attualmente l’AIDS è curabile con numerosi farmaci ma non è possibile eradicare totalmente il virus
dall’ospite. Le terapie odierne riescono a ridurre a livelli bassissimi la quantità di virus presente nel sangue
(viremia), in questo modo i linfociti possono rigenerarsi e la vita prosegue senza malattie opportunistiche.
Il virus si trasmette quando i liquidi corporei (sangue, liquido seminale, secrezioni vaginali, latte) di una
persona infetta penetrano nei tessuti di un’altra persona.

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