Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Riassumendo, un sistema:
1. Se presenta una sola fase è fisicamente omogeneo:
a. se è costituito da una sola sostanza, è chimicamente omogeneo (sistema puro);
b. se è costituito da due o più sostanze è chimicamente eterogeneo (miscuglio
omogeneo/soluzione).
2. Se presenta più fasi è fisicamente eterogeneo:
a. se è costituito da una sola sostanza è chimicamente omogeneo;
b. se è costituito da due o più sostanza è chimicamente eterogeneo (miscuglio eterogeneo).
Atomi, molecole e ioni si combinano per formare materiali macroscopici dotati di proprietà fisiche.
Lo stato di aggregazione dipende dalla temperatura: maggiore è la temperatura, maggiore sarà l’energia
interna, l’agitazione delle particelle, la loro distanza media e minori saranno le forze attrattive esercitate le
une sulle altre. Si assiste infatti, fornendo calore, al passaggio da uno stato ordinato ad uno più caotico.
Riscaldando una certa quantità di una sostanza pura, in questo caso benzene (C6H6) allo stato solido, si
ottiene la curva di riscaldamento di una sostanza pura.
A -20°C il benzene è solido. Fornendo calore, la temperatura aumenta fino a 5,5°C: qui il benzene inizia a
fondere, e la temperatura rimane costante fino a che si sia sciolto l’ultimo cristallo di benzene.
A 5,5°C il benzene è liquido. Fornendo calore, la temperatura aumenta fino a 80,5°C: qui il benzene inizia a
bollire, e la temperatura rimane costante fino a che sia scomparsa l’ultima goccia di benzene liquido.
I tratti in cui la temperatura rimane costante sono dette soste termiche, e la loro lunghezza dipende dalla
quantità di sostanza che deve fondere o vaporizzare.
La prima sosta termina (5,5°C) corrisponde al punto di fusione, in cui coesistono fase solida e liquida.
La seconda sosta termina (80,5°C) avviene al punto di ebollizione, in cui coesistono fase liquida e aeriforme.
Durante il passaggio di stato la temperatura resta costante nonostante si continui a fornire calore: la
quantità di calore scambiata durante il passaggio di stato è detta calore latente di fusione/vaporizzazione
(J/kg), ed è definita come la quantità di energia necessaria per fondere/vaporizzare completamente 1 kg di
sostanza pura, alla temperatura di fusione/ebollizione.
Il calore fornito durante il passaggio di stato non aumenta la temperatura della sostanza in quanto esso è
impiegato per spezzare i legami fra le particelle, e non per aumentarne l’agitazione termina.
In genere il calore latente di vaporizzazione è maggiore di quello di fusione, in quanto è necessaria più
energia per vincere le forze di coesione fra le particelle di un liquido, che per indebolire quelle di un solido.
La curva di riscaldamento di un miscuglio presenta una differenza fondamentale rispetto a quella di una
sostanza pura: mancano le soste termiche, infatti la temperatura aumenta gradualmente durante la fusione
e l’ebollizione. Rispetto all’acqua distillata, tanto più una soluzione è concentrata, tanto minore sarà la
temperatura di solidificazione (<0°C) e tanto maggiore sarà quella di ebollizione (>100°C).
Il termine evaporazione indica il vapore che si forma solo sulla superficie del liquido, senza coinvolgere gli
strati sottostanti, che appaiono in quiete. L’ebollizione si ha con formazione di bolle di vapore in tutto il
liquido e comporta l’agitazione di tutta la massa.
La tensione di vapore di un liquido, a una certa temperatura, è la pressione che esercita un vapore in
equilibrio con il proprio liquido puro. Essa è tanto maggiore quanto più alta è la temperatura.
Riscaldando un liquido a pressione atmosferica, finché la sua tensione di vapore è inferiore alla pressione
atmosferica si ha solo evaporazione superficiale; quando la tensione di vapore uguaglia la pressione
atmosferica, le bolle di vapore si formano in tutti il liquido e inizia l’ebollizione.
GLI ELEMENTI
E’ possibile distinguere tre classi fondamentali di elementi:
1. I metalli. Sono lucenti, buoni conduttori di calore e elettricità, duttili e malleabili. A temperatura
ambiente sono solidi, ad eccezione del mercurio. Le leghe metalliche sono miscugli omogenei;
2. I non metalli. Sono cattivi conduttori di calore e elettricità (ad eccezione del carbonio), non sono
duttili o malleabili. A temperatura ambiente possono essere gassosi (ossigeno, azoto, fluoro, cloro),
liquidi (bromo) e solidi (zolfo, carbonio, iodio);
3. I semimetalli. Sono solidi a temperatura ambiente, e hanno proprietà intermedie. Non sono né
conduttori né isolanti (si chiamano anche semiconduttori). La loro conducibilità elettrica è
direttamente proporzionale alla temperatura dell’ambiente in cui si trovano.
LE LEGGI PONDERALI
John Dalton dedusse che atomi di gas diversi non potevano essere identici, ma dovevano avere dimensioni
e masse differenti. La sua ipotesi si basava sui seguenti punti: la materia è fatta da atomi piccolissimi,
indivisibili e indistruttibili, tutti uguali in uno stesso elemento. Non possono essere convertiti in atomi di
altri elementi, si trasferiscono interi da un composto all’altro, e si combinano soltanto con numeri interi di
altri atomi per formare un composto.
Secondo Lavoisier, in una reazione chimica la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei
prodotti, e gli atomi cambiano soltanto la loro posizione reciproca (legge di conservazione della massa).
Secondo Proust, le masse degli elementi che reagiscono per formare un composto devono essere in una
proporzione ben precisa perché atomi di elementi diversi si combinano tra loro secondo numeri interi
caratteristici di quel composto; in altre parole il rapporto fra le masse degli elementi di un composto è
definito e costante (legge delle proporzioni definite).
Secondo lo stesso Dalton, masse uguali di uno stesso elemento devono contenere uguale numero di atomi
e quando un elemento si combina con la stessa massa di un secondo elemento per formare composti
diversi, le masse del primo elemento stanno tra loro in rapporti semplici, esprimibili mediante numeri interi
piccoli (legge delle proporzioni multiple).
Molte sostanze risultano formate da altre particelle elettricamente cariche, gli ioni. Si definiscono ioni gli
atomi con una o più cariche elettriche, positive (nel caso dei cationi) o negative (nel caso degli anioni).
Le sostanze formate da ioni sono composti ionici. Contengono schiere di ioni positivi e negativi che si
alternano in modo ordinato nel reticolo cristallino. A temperatura ambiente i composti ionici sono solidi.
I GAS IDEALI E LA TEORIA CINETICO-MOLECOLARE
Dal punto di vista macroscopico tutti i gas si comportano in modo pressoché identico: sono molto sensibili
alle variazioni di temperatura e pressione. Il modello ideale da prendere in esame è quello del gas perfetto,
le cui particelle sono puntiformi, non si attraggono reciprocamente, sono separate da spazio vuoto e si
muovono in modo caotico in tutte le direzioni urtandosi elasticamente e urtando le pareti del contenitore
senza disperdere energia.
L’energia cinetica media (EC)delle particelle del gas è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta
(T) di quest’ultimo secondo la relazione: EC = 3/2 KT dove K è la costante di proporzionalità.
La temperatura macroscopica è interpretabile microscopicamente come la conseguenza della maggiore o
minore velocità delle molecole che costituiscono un corpo.
La pressione è l’effetto macroscopico complessivo degli urti delle particelle di gas sull’unità di superficie e
nell’unità di tempo. Si misura in pascal (Pa) e la pressione atmosferica a livello del mare è di 101 325 Pa.
1 atm = 101 325 Pa = 1,013 bar = 760 mmHg
La legge di combinazione dei volumi afferma che il rapporto fra volumi di gas che reagiscono tra loro è
espresso da numeri interi e piccoli.
Il principio di Avogadro afferma che nelle stesse condizioni di temperatura e pressione, volumi uguali di gas
diversi contengono lo stesso numero di molecole (non di atomi).
L’EFFETTO SERRA
L’anidride carbonica nell’atmosfera produce l’effetto serra, in quanto cattura le radiazioni infrarosse
emesse dalla terra riscaldata dal sole e ne impedisce il raffreddamento. Questo sta portando ad un
progressivo riscaldamento dell’atmosfera terrestre. Negli strati alti dell’atmosfera è presente anche l’ozono
(O3), una forma allotropica dell’ossigeno che è capace di bloccare buona parte delle radiazioni ultraviolette
emesse dal sole. Lo strato di ozono è però in pericolo per la presenza nell’atmosfera dei cosiddetti CFC
(clorofluorocarburi), con cui l’ozono reagisce.
Un altro inconveniente provocato dall’atmosfera è la cosiddetta pioggia acida, dovuta alla presenza
nell’aria, per effetto della combustione di combustibili fossili, di ossidi di azoto e di zolfo, che con l’acqua
danno ossiacidi dello zolfo e dell’azoto.
2. La mole
1 L di ossigeno (O2) ha massa pari a 1,43 g, mentre 1 L di idrogeno (H2) ha massa pari a 0,089 g.
Se ne deduce che il rapporto fra le masse è di 1:16, e che le molecole di ossigeno hanno massa 16 volte
maggiore di quelle dell’idrogeno, una proporzione rispetta anche dai singoli atomi.
Il rapporto tra le densità di due gas a parità di temperatura e pressione è uguale al rapporto fra le masse
delle loro singole molecole. Inoltre, a temperatura e pressione costante, il volume di un gas è direttamente
proporzionale al suo numero di molecole.
Ogni composto è caratterizzato da una formula che evidenzia il rapporto di combinazione fra gli atomi che
lo costituiscono. E’ possibile calcolare la percentuale in massa di ciascun elemento presente nel composto.
La composizione percentuale mette in relazione il rapporto di combinazione tra le masse e il rapporto di
combinazione tra gli atomi: è utile per determinare la massa di un elemento presente in una data massa di
composto. Per calcolare la composizione percentuale degli atomi costituenti una molecola CD, si imposta
una proporzione: MAC : MMCD = %C : 100 in seguito si ricava %D = 100 - %c
In caso volessimo calcolare la massa di un determinato elemento (C) contenuta in tot grammi di una
molecola (ABC), si può procedere così: mc : m(g) di ABC = MAC : MMABC
Gli atomi di tutti gli elementi sono formati da tre particelle fondamentali: elettrone, protone e neutrone.
L’elettrone ha una massa di 9,11 x 10-31 kg e una carica elettrica negativa pari a -1,60 x 10-19 C.
Il protone ha una massa di 1,67 x 10-27 kg (1836 volte maggiore di quella dell’elettrone), e una carica
elettrica pari a quella dell’elettrone ma di segno positivo, quindi pari a +1,60 x 10-19 C.
Il neutrone ha massa leggermente superiore a quella del protone, e carica neutra.
Ogni atomo contiene un nucleo, una zona densa di materia in cui sono confinati protoni e neutroni,
appunto detti nucleoni.
LA SCOPERTA DELL’ELETTRONE
Racchiudendo un gas rarefatto in un tubo trasparente alle cui estremità sono fissate due placche metalliche
dette elettrodi, e collegando ciascuna placca ai poli, positivo (catodo) e negativo (anodo), di un generatore
elettrico, venivano emessi raggi cationici di natura sconosciuta. Si scoprì che consistevano in particelle
cariche negativamente, chiamate elettroni.
L’ESPERIMENTO DI RUTHERFORD
Si dimostrò che gli elettroni erano parte integrante dell’atomo, emerse quindi l’idea che all’interno
dell’atomo vi dovesse esistere una corrispondente carica positiva. Thomson suggerì l’idea che l’atomo fosse
costituito da una sfera di carica positiva in cui gli elettroni erano disseminati “come l’uvetta nel panettone”.
Rutherford, utilizzando particelle α (atomi di elio privi di 2 elettroni), bombardò una sottilissima lamina
d’oro, e le raccolse le particelle α dopo l’urto su di uno schermo capace di evidenziare l’angolo di
deviazione. I risultati furono i seguenti: gran parte delle particelle attraversavano la lamina senza subire
deviazioni, alcune venivano deviate ad angoli più o meno grandi, pochissime rimbalzavano indietro con
grande violenza. Rutherford concluse quindi dovesse essere composto da un nucleo centrale in cui sono
concentrate la carica positiva e la massa dell’atomo, mentre gli elettroni dovevano occupare lo spazio
vuoto intorno al nucleo e ruotare attorno ad esso; inoltre la loro carica doveva bilanciare quella positiva del
nucleo. Il modello di Thomson non era in grado di spiegare i risultati sperimentali, in quanto se l’atomo non
avesse un nucleo, le particelle non sarebbero dovute risultare deviate rispetto alla direzione iniziale.
A causa della presenza del nucleo positivo, invece, alcune particelle sono respinte dalla sua carica, altre
deflesse oppure lasciate proseguire indisturbate.
Analisi tramite lo spettrografo di massa dimostrò che gli elementi naturali non erano costituiti da atomi
tutti uguali tra loro, come aveva asserito Dalton, ma contenevano atomi di massa leggermente diversa.
Gli isotopi sono atomi dello stesso elemento aventi le stesse proprietà chimiche ma masse diverse, perché
contengono un diverso numero di neutroni nel nucleo.
L’idrogeno si trova come singolo protone nel nucleo (prozio), oppure come un isotopo avente A = 2 detto
deuterio, che contiene un protone e un neutrone, o come un isotopo A = 3 detto trizio, con due neutroni e
un protone nel nucleo.
Gli elementi sono costituiti da una miscela di vari isotopi in percentuali ben determinate e costanti.
La massa atomica relativa deve quindi essere una massa media che tiene conto della percentuale in cui tale
isotopo si presenta in natura e della sua massa: tale media si chiama media ponderata.
Lo strumento necessario a determinare le masse atomiche degli elementi è lo spettrometro di massa.
La stabilità dei nuclei dipende dal numero di protoni e neutroni che essi contengono.
I nuclei con Z compreso tra 1 e 20 circa sono stabili se hanno circa tanti neutroni quanti protoni.
I nuclei con Z maggiore di 20 sono stabili se hanno un numero di neutroni superiore a quello dei protoni.
Tutti i nuclei con Z maggiore di 83 sono instabili e quindi radioattivi.
I nuclei instabili possono decadere emettendo particelle α o β accompagnate da radiazioni γ.
IL DECADIMENTO RADIOATTIVO
I tipi di decadimento radioattivo sono determinati da uno squilibrio tra il numero di protoni e neutroni,
oppure un’eccessiva abbondanza di entrambi.
Il decadimento α è tipico dei nuclidi che hanno un elevato numero di protoni (maggiore di 83) e di neutroni
(maggiore di 137): l’emissione di una particella α comporta la perdita di 4 nucleoni, cioè 2 protoni e 2
neutroni. Il numero atomico del nucleo di partenza diminuisce di due unità e il suo numero di massa di
quattro unità. Il nuovo nucleo risulta spostato di due posizioni indietro nella tavola periodica.
Il decadimento β è tipico dei nuclidi troppo ricchi di neutroni rispetto ai protoni. Tali nuclei devono
aumentare il numero di protoni per stabilizzarsi: decadono emettendo raggi β, ossia elettroni veloci.
Il nucleo, nonostante contenga solo protoni e neutroni, può emettere elettroni, in quanto il neutrone può
disintegrarsi spontaneamente originando un protone e una coppia di particelle: l’elettrone e l’antineutrino.
L’antineutrino porta con sé solo energia, rendendo più stabili i nuclei da cui sono emessi.
Nel decadimento β il numero atomico del nucleo che si forma è superiore di un’unità rispetto al nucleo di
partenza, mentre rimane inalterato il numero di massa (in quanto il neutrone si “trasforma” in protone).
Il nuovo nuclide risulta spostato di una posizione a destra nella tavola periodica.
Quando il numero di protoni è troppo elevato rispetto ai neutroni, si può avere la trasformazione di un
protone in un neutrone; essa può avvenire in due modi:
1. Per emissione β+ di un positrone, ossia una particella con massa uguale a quella dell’elettrone ma
carica positiva, che viene emesso da un protone, che si trasforma così in un neutrone;
2. Per cattura di un elettrone tra quelli più vicini al nucleo, che trasforma il protone in un neutrone.
Nell’emissione β+ e nella cattura elettronica, il numero atomico del nucleo diminuisce di una unità, mentre
rimane inalterato il numero di massa. Il nuovo nuclide risulta spostato di una posizione a sinistra nella
tavola periodica.
L’intensità di una radiazione dipende dall’attività della sorgente, cioè dal numero di disintegrazioni nucleari
che essa genera in un secondo. Le radiazioni hanno potere ionizzante in quanto trasportano una quantità di
energia sufficiente a strappare elettroni agli atomi o alle molecole che incontrano.
Le radiazioni α provocano danni 20 volte maggiori rispetto alle radiazioni β e γ.
L’ENERGIA NUCLEARE
L’energia nucleare è l’energia che bisognerebbe spendere per separare i nucleoni l’uno dall’altro; la stessa
quantità di energia viene ceduta, invece, nel processo inverso di aggregazione dei nucleoni.
L’energia nucleare di un nucleo corrisponde al difetto di massa registrato quando i nucleoni di cui è
costituito si aggregano per formare il nucleo, il quale ha sempre massa effettiva inferiore alla somma delle
masse dei nucleoni che lo compongono.
Si ha fissione nucleare quando un nucleo pesante si scinde in due nuclei più piccoli di massa confrontabile.
Può avvenire spontaneamente, o può essere stimolata bombardando con neutroni un nucleo pesante, che
in tal caso è definito fissile: dalla fissione si producono molti nuclei leggeri, isotopi di vari elementi a loro
volta instabili e radioattivi (scorie radioattive).
La fusione nucleare prevede che due nuclei leggeri si fondono per darne uno pesante.
Nella bomba atomica si usa come combustibile 235U. In natura l’uranio è presente sotto forma di due isotopi
235
U e 238U. Per costruire la bomba è necessario separare 238U da 235U. Questo processo prende il nome di
arricchimento dell’uranio.
Alcuni isotopi radioattivi come il 60 Co sono utilizzati per la terapia dei tumori (radioterapia). Il principio è
quello di indirizzare le radiazioni sulla massa tumorale, per provocarne la distruzione. Poiché le radiazioni
sono genotossiche esse sono anche causa di cancro.
L’ANTIMATERIA
I protoni, gli elettroni e i neutroni hanno la loro corrispondenza in particelle opposte che costituiscono
l’antimateria. Gli antiprotoni hanno la stessa massa dei protoni ma carica negativa, gli antineutroni hanno
la stessa massa e sono senza carica, gli antielettroni (detti anche positroni) hanno la stessa massa ma
carica positiva. Quando due particelle di antimateria si incontrano si annichilano ed emettono una grande
quantità di energia pari a E = mc2, in cui E è l’energia emessa, m la massa delle particelle annichilite e c la
velocità della luce.
4. La struttura dell’atomo
L’insieme delle onde elettromagnetiche costituisce lo spettro elettromagnetico: lo spettro del visibile è un
insieme continuo di colori dal rosso (λ = 700 nm) al violetto (λ = 400 nm).
Le caratteristiche che distinguono le onde l’una dall’altra sono la frequenza (ν) e la lunghezza d’onda (λ).
La velocità c con cui viaggiano le onde nel vuoto è quella della luce: 300 000 km/s.
La frequenza si misura in hertz (Hz), le frequenze dello spettro del visibile sono dell’ordine di 10 14 Hz: a ogni
colore corrisponde una determinata frequenza, e l’insieme di tutte le radiazioni visibili appare ai nostri
occhi come luce bianca. La lunghezza d’onda è la distanza dopo la quale un’onda si riproduce uguale a se
stessa, e si misura in nanometri o in angstrom.
La relazione che lega le tre grandezze della radiazione elettromagnetica è: c = λ ν
Frequenza e lunghezza d’onda sono grandezze inversamente proporzionali.
La prova più evidente della natura ondulatoria della luce è legata alla diffrazione: se un fascio di luce giunge
su una fenditura molto piccola, il fascio non si propaga in linea retta ma si allarga formando zone chiare di
interferenza positiva, in cui le onde in fase fra loro si rinforzano alimentando la luminosità, e zone scure di
interferenza negativa, in cui onde in opposizione di fase annullano le rispettive ampiezze, facendo
scomparire la luminosità. Le frange chiare si trovano anche dietro l’ostacolo, dove particelle che viaggiano
in linea retta non potrebbero mai giungere.
Non appena la luce interagisce con la materia, però, emerge la natura corpuscolare. Per esempio,
proiettando un fascio di luce su una lastra di zinco, possiamo provocare l’espulsione di elettroni dalla
superficie del metallo: l’effetto fotoelettrico misura il numero di elettroni emessi in un secondo e la velocità
di emissione.
Utilizzando una radiazione più intensa, aumentava il numero di elettroni emessi ma non la loro velocità.
Utilizzando una radiazione di frequenza maggiore, aumentava la velocità di emissione degli elettroni.
Tale comportamento si spiega pensando ai raggi di luce come insiemi di quanti di energia (fotoni), tanto più
numerosi quanto più intenso è il raggio, e tanto più grandi quanto più alta è la frequenza del raggio.
Affinché gli elettroni possano venire emessi dal metallo, devono acquisire l’energia necessaria a vincere la
forza attrattiva che li lega al metallo stesso: una parte dell’energia ricevuta è utilizzata per allontanarsi dal
metallo, la parte restante per acquisire velocità.
Tutte le radiazioni elettromagnetiche sono composte di fotoni capaci di cedere la loro energia agli elettroni
con cui interagiscono. Questo comportamento è riassunto dalla relazione di Planck-Einstein: E = h ν
dove: E è l’energia del fotone, ν la frequenza della radiazione, h la costante di Planck = 6,63 x 10-34 J s
La presenza della costante di Planck indica la natura discontinua dell’energia.
L’ATOMO DI BOHR
Bohr si rese conto che un fotone che viene assorbito da un atomo cede tutta la sua energia a uno degli
elettroni che passa così a uno stato energetico più elevato. Applicando le leggi dell’elettromagnetismo al
modello atomico planetario di Rutherford, egli riuscì a superare le inesattezze fisiche di quest’ultimo.
Il modello di Bohr afferma che l’elettrone può percorrere solo determinare orbite circolari (orbite
stazionarie) e che quando ruota su di essere non assorbe o emette energia: all’elettrone sono permesse
solo certe orbite, corrispondenti a determinati valori di energia (tanto più grande quanto più ampia è
l’orbita, ossia distante dal nucleo); l’elettrone non può, quindi, assumere tutti i valori energetici: la sua
energia è quantizzata. Per passare da un’orbita all’altra, l’elettrone assorbe o emette energia (ossia fotoni
di opportuna frequenza). L’energia del fotone emesso o assorbito corrisponde alla differenza di energia fra
le due orbite.
Il livello di energia più basso corrisponde al numero quantico n = 1, e viene detto stato fondamentale; i
livello di energia superiori sono detti stati eccitati. Il passaggio dallo stato fondamentale a quello eccitato
comporta l’assorbimento di un fotone; in seguito l’elettrone, attratto dal nucleo, ritorna allo stato
fondamentale direttamente (per esempio passa dalla 5 orbita a quella stazionaria): a ogni “salto di orbita”
corrisponde l’emissione di energia sotto forma di un fotone: si ha, così, una transizione energetica.
La frequenza e l’energia del fotone emessi si ricavano dall’equazione di Bohr: ΔE = h ν
Nello spettro di emissione si registrano tante righe quante sono le transizioni dell’elettrone da uno stato
eccitato a uno di più bassa energia.
L’insieme delle righe che compaiono nella porzione visibile dello spettro dell’atomo di idrogeno è detto
serie di Balmer. Il modello di Bohr spiega lo spettro dell’atomo di idrogeno, non è però altrettanto
esauriente a giustificare atomi con molti elettroni (polielettronici), e non dà ragione degli spettri atomici
ottenuti in presenza di un campo magnetico. La meccanica classica non poteva spiegarne la natura.
Il numero quantico principale n definisce l’energia dell’elettrone e può assumere solo valori interi positivi
(cioè 1, 2, 3, …). A ogni n corrisponde un particolare valore dell’energia dell’elettrone, tanto maggiore
quanto è più grande n (ossia quanto più aumenta la distanza dell’elettrone dal nucleo).
Orbitali caratterizzati dallo stesso valore di n appartengono allo stesso livello energetico. Il numero di
orbitali di un certo livello energetico corrisponde a n2.
Il numero quantico secondario l può assumere tutti i valori compresi tra zero e n – 1 (es: n = 3, l = 0, 1, 2).
Il numero quantico l determina le caratteristiche geometriche della funzione di distribuzione della
probabilità. Negli atomi polielettronici, l’energia dipende anche dal numero quantico secondario.
Il valore di l definisce il sottolivello energetico a cui appartiene quel certo orbitale.
I sottolivelli sono indicati con lettere: 0 = s 1 = p 2 = d 3 = f
Il quarto numero quantico, è il numero quantico magnetico di spin mS (spin dell’elettrone). Esso può
assumere esclusivamente due valori, pari a +1/2 o -1/2, poiché per ciascun elettrone sono possibili due
diversi stati energetici. Quando gli elettroni sono immersi in un campo magnetico esterno, possono
disporsi in due soli modi, cioè parallelamente o antiparallelamente al campo, con la conseguente
differenziazione della loro energia.
Lo spin è una proprietà intrinseca dell’elettrone che si manifesta quando l’elettrone, sottoposto all’azione
di un campo magnetico esterno disomogeneo, assume due diversi stati energetici.
Il principio di esclusione di Pauli afferma che un orbitale può descrivere lo stato quantico di due soli
elettroni; essi devono avere spin opposto, cioè antiparallelo.
Due elettroni che hanno la stessa serie di numeri quantici n, l, m devono avere allora un diverso numero di
quantico di spin mS.
Quando in un atomo ci sono elettroni appartenenti allo stesso sottolivello, essi tendono ad avere spin
parallelo. In tal caso risultano descritti da distinti orbitali e ciò comporta che si attenuino le forze repulsive
che agiscono tra di loro. La regola di Hund infatti afferma che nella configurazione elettronica più stabile di
un atomo, gli elettroni appartenenti ad un medesimo sottolivello tendono ad assumere lo stesso spin.
5. Il sistema periodico
Gli elementi presenti nella tavola periodica sono 118: il posto che ciascun elemento occupa nella tavola
periodica dipende dal suo numero atomico Z.
1. Le righe orizzontali formano 7 periodi: la successione delle righe del sistema periodico corrisponde
alla successione dei livelli energetici nell’atomo. Il numero che indica il periodo a cui appartiene un
elemento coincide infatti con il numero quantico n del livello più esterno, occupato dai suoi
elettroni di valenza. In ciascun periodo il numero di elettroni di valenza cresce da sinistra verso
destra, e le proprietà cambiano sistematicamente lungo il periodo stesso.
I primi tre periodi sono detti periodi brevi: contengono elettroni che riempiono i sottolivelli s e p.
I periodi dal 4 al 7 sono detti periodi lunghi: gli elettroni vanno a completare i sottolivelli d e f
appartenenti a livelli energetici inferiori rispetto a quello di valenza.
Gli elementi che chiudono i periodi sono i gas nobili, caratterizzati da reattività nulla data dalla
configurazione elettronica stabile.
2. Le colonne verticali formano i gruppi. Otto di questi, i cui elementi hanno elettroni di valenza
soltanto nei sottilivelli s e p, sono detti gruppi principali, i quali contengono elementi detti tipici.
La denominazione dei gruppi suggerita da IUPAC è in numeri arabi da 1 a 18, mentre quella in
numeri romani interessa solo i gruppi principali e va da I a VIII.
Fra il gruppo II e III si trovano i numerosi elementi di transizione, ossia elementi metallici che hanno
elettroni sia nel sottolivello s, sia nel d del livello energetico inferiore rispetto a quello di valenza.
Gli elementi del primo gruppo sono detti metalli alcalini, quelli del secondo gruppo metalli alcalino-terrosi,
quelli del settimo gruppo sono gli alogeni mentre quelli dell’ottavo gruppo sono i gas nobili.
In fondo alla tavola periodica ci sono due file di 14 elementi che costituiscono le serie dei lantanidi e degli
attinidi, che hanno elettroni sia nel sottolivello s sia nel sottolivello f.
Dato che gli elettroni esterni di un elemento condizionano le sue proprietà chimiche, è importante fornire
una rappresentazione chiara degli elettroni di valenza di un atomo, attraverso i simboli di Lewis.
Per scrivere il simbolo di Lewis di un elemento, si riporta il suo simbolo chimico e intorno a esso si
dispongono gli elettroni di valenza, un punto per ciascuno dei quattro lati. Quando un atomo possiede più
di quattro elettroni, i punti si dispongono in modo da creare coppie di punti.
Se un atomo cattura uno o più elettroni si trasforma in ione negativo (anione). L’affinità elettronica è
l’energia che si livera quando l’atomo di un elemento in fase gassosa (e quindi isolato) cattura un elettrone.
Il suo andamento è simile a quello dell’energia di ionizzazione: aumenta lungo un periodo e diminuisce
lungo un gruppo.
Se un atomo interagisce con un altro atomo, i loro elettroni, e in particolare quelli di valenza, sono soggetti
all’attrazione di entrambi i nuclei. Agli elettroni maggiormente coinvolti nell’interazione fra due atomi si dà
il nome di elettroni di legame.
L’elettronegatività esprime la tendenza di un atomo che interagisce con un altro ad attrarre a sé gli
elettroni di legame. L’elettronegatività aumenta lungo un periodo da sinistra a destra e diminuisce lungo un
gruppo, dall’alto verso il basso:
1. Procedendo lungo un periodo aumenta la carica nucleare, diminuisce il raggio atomico e aumenta
la forza con cui il nucleo attira a sé qualsiasi elettrone esterno, cioè aumenta l’elettronegatività;
2. Scendendo lungo un gruppo aumenta notevolmente il raggio atomico e diminuisce la forza con cui
il nucleo attira a sé qualsiasi elettrone esterno, cioè diminuisce l’elettronegatività dell’atomo.
I valori di elettronegatività sono largamente impiegati per prevedere il tipo di σchimico che si instaura fra
due atomi: la natura del legame dipende infatti dal modo in cui due atomi attirano gli elettroni.
L’ENERGIA DI LEGAME
Affinché si instauri un legame chimico fra due o più atomi è necessario che l’aggregato risultante abbia
energia potenziale minore degli atomi separati, assicurando una maggiore stabilità al prodotto che si forma.
Ogni sistema infatti tende spontaneamente a raggiungere lo stato a cui corrisponde la minore energia
potenziale possibile: in altre parole si forma un legame solo se il processo di aggregazione libera energia.
Per allontanare due atomi e riportarli allo stato di atomi isolati bisogna fornire una quantità di energia
identica a quella liberata durante la formazione dell’aggregato. La quantità di energia che è necessario
fornire a una mole di sostanza per rompere il legame che tiene uniti i suoi atomi è detta energia di legame,
ed è tanto più grande quanto più stabile è l’aggregato, e quanto più è forte il legame che unisce gli atomi.
La natura del legame determina spesso il comportamento chimico e fisico dell’aggregato.
IL LEGAME COVALENTE
Il legame covalente è responsabile della formazione delle molecole; si forma quando due atomi mettono in
comune una o più coppie di elettroni. Gli elettroni messi in compartecipazione al fine di raggiungere la
configurazione del gas nobile più vicino appartengono contemporaneamente ai due atomi che li
condividono, e sono attirati in egual modo da entrambi i nuclei positivi.
La tendenza a mettere in comune elettroni si manifesta anche fra atomi di natura diversa.
Se gli atomi mettono in compartecipazione due o tre coppie di elettroni, i legami covalenti che si formano si
dicono rispettivamente legame doppio e legame triplo.
La distanza a cui gli atomi si dispongono in una molecola non è casuale e dipende dalle forze attrattive e
repulsive che agiscono all’interno dell’aggregato. La lunghezza di legame è la distanza che intercorre tra i
nuclei di due atomi uniti da legame covalente.
IL LEGAME IONICO
Quando la differenza di elettronegatività fra i due elettroni che si legano è elevata, la coppia di elettroni
messi in comune risulta molto spostata verso l’atomo più elettronegativo. Si può considerare che tra i due
atomi sia avvenuto un trasferimento di elettroni: l’atomo più elettronegativo acquisisce l’elettrone dell’altro
e diventa ione negativo; l’atomo che lo perde diventa ione positivo.
L’attrazione che si stabilisce tra ioni di segno opposto determina la formazione del legame ionico.
Il legame ionico si ottiene quando la differenza di elettronegatività tra gli atomi è alta, superiore a 1,9.
Tanti ioni positivi e negativi che si attraggono l’un l’altro andranno a costituire un cristallo ionico: dal
processo complessivo si libera energia, ma la fase determinante è proprio la formazione del legame tra tutti
gli ioni che si aggregano nel cristallo; esso è molto più stabile dei singoli atomi che lo compongono.
Il legame ionico è dovuto alla forza di attrazione che tiene uniti gli ioni di carica opposta.
I metalli appartenenti ai gruppi I, II e III tendono a perdere elettroni e diventare ioni positivi, mentre i non
metalli dei gruppi V, VI, VII tendono ad acquistare elettroni e a trasformarsi in ioni negativi. Quando i
metalli e i non metalli dei gruppi citati si incontrano, si scambiano gli elettroni, diventano ioni e fra di essi si
stabilisce la forza di attrazione che rappresenta il legame ionico.
Gli ioni sono disposti secondo uno schema ben preciso: il tipo di disposizione degli atomi
(impacchettamento) corrisponde alla ripetizione di una cella elementare in un reticolo cristallino
caratteristico.
La formula di un composto ionico indica soltanto il rapporto di combinazione tra gli ioni positivi e negativi
affinché esso risulti elettricamente neutro.
L’esistenza di reticoli ionici, caratterizzati da intense forze attrattive tra gli ioni, spiega anche l’elevato
punto di fusione di questi composti solidi. Tutti i composti ionici sono buoni conduttori di elettricità allo
stato fuso. Gli ioni che portano una carica doppia risentono di una forza attrattiva superiore.
L’acqua è capace di sciogliere molte sostanze ioniche e di formare soluzioni con esse.
IL LEGAME METALLICO
I metalli sono solidi a temperatura ambiente, e quindi caratterizzati da un particolare reticolo cristallino.
Il reticolo cristallino dei metalli è una sequenza ordinata di ioni positivi tra i quali vagano gli elettroni esterni
di tutti gli atomi del cristallo. All’insieme degli elettroni vaganti nel reticolo si dà il nome di mare di elettroni
o mare di Fermi. E’ proprio questo mare che tiene uniti i cationi metallici.
Le proprietà tipiche dei metalli, come la conducibilità elettrica e termica, sono proprio dovute alla libertà di
movimento degli elettroni più esterni.
1. Gli atomi dei metalli formano tra loro legami metallici;
2. Gli atomi dei non metalli formano tra loro legami covalenti;
3. Se gli atomi di un non metallo sono uguali il legame è covalente puro;
4. Se gli atomi di un non metallo sono diversi il legame è covalente polare;
5. I metalli e i non metalli fra loro formano legami ionici o covalenti fortemente polari;
6. Il carattere ionico del legame aumenta all’aumentare della differenza di elettronegatività fra gli
atomi del composto: esso può essere considerato un caso estremo di legame covalente polare.
7. Le nuove teorie del legame
LA FORMA DELLE MOLECOLE E LA TEORIA VSEPR
Gli atomi di una molecola sono distribuiti nello spazio secondi particolari “architetture”. Oggi sappiamo ce
molte proprietà delle sostanze dipendono proprio dalla forma delle loro molecole.
Per descrivere la forma di una molecola è necessario definire la lunghezza di legame e l’angolo di legame,
ossia l’angolo formato dagli assi congiungenti i nuclei degli atomi.
Secondo la teoria VSEPR (Valance Shell Electron-Pair Repulsion), le coppie di elettroni esterni si respingono
reciprocamente. Secondo tale teoria, la disposizione degli atomi in una molecola dipende dal numero totale
di coppie elettroniche, libere e condivise, appartenenti al livello di valenza, c circondano l’atomo centrale;
poiché tali coppie elettroniche di uguale segno si respingono, esse si collocano alla maggiore distanza
possibile l’una dall’altra:
1. Fra due coppie elettroniche (entrambe di legame) la repulsione fra tali coppie è minima soltanto se
esse si trovano più distante possibile l’una dall’altra, ossia da parti opposte, determinando così un
assetto lineare della molecola, con angoli di legame di 180°;
2. Fra tre coppie elettroniche (tutte di legame) la repulsione è minima soltanto se esse vengono
collocate ai vertici di un triangolo equilatero intorno all’atomo centrale, ossia determinando un
assetto triangolare planare della molecola con angoli di legame di 120°;
3. Fra quattro coppie elettroniche (tutte di legame), la molecola assume forma tetraedrica
(tridimensionale), con angoli di legame di 109,5°.
Le molecole con legami multipli o coppie di elettroni liberi (non di legame) sull’atomo centrale seguono
geometrie leggermente diverse, a causa del fatto che gli elettroni liberi sono soggetti all’attrazione di un
solo nucleo atomico, risultando coì più vicine a esso. Tali coppie generano una repulsione maggiore sulle
coppie di legame, che sono così costrette ad avvicinarsi:
1. Una molecola che forma tre legami covalenti e possiede una coppia di elettroni liberi (per un
totale di quattro gruppi elettronici) si disporrà secondo una geometria piramidale triangolare, con
angoli di legame di 107,3°;
2. Una molecola che forma due legami covalenti e possiede quindi due coppie di elettroni liberi
genererà una repulsione ancora maggiore: l’angolo di legame sarà a 104,5° con geometria piegata;
3. I legami covalenti doppi e tripli, ai fini della geometria molecolare, valgono quanto un legame
covalente singolo, quindi possiamo trattare il doppio e il triplo legame come se fossero semplici.
In generale, la repulsione fra due coppie elettroniche libere è maggiore della repulsione tra una coppia di
elettroni liberi e una di legame, che è a sua volta maggiore della repulsione tra due coppie di elettroni di
legame.
Tra una molecola e l’altra devono agire forze di coesione che prevalgono sull’agitazione termica delle
molecole e le mantengono vicine. Tali forze intermolecolari sono di natura elettrostatica.
I legami chimici fra le molecole possono essere: forze di Van der Waals, ossia interazioni dipolo-dipolo e
forze di London, oppure legami a idrogeno. La natura e l’intensità delle forze intermolecolari sono
influenzate sia dalla polarità dei legami interni della molecola, sia dalla geometria molecolare.
A causa del moto caotico degli elettroni, la carica elettrica della molecola può risultare per brevissimi istanti
sbilanciata: gli elettroni possono addensarsi da una parte soltanto della molecola che, per quell’istante,
diventa un dipolo elettrico: a questo tipo di dipolo si dà il nome di dipolo temporaneo; esso genera un
campo elettrico capace di rendere polari le molecole vicine, cioè di creare al loro interno un momento
dipolare indotto, variabile anch’esso nel tempo.
Fra un dipolo temporaneo e l’altro si stabiliscono forze attrattive dette forze di London (a corto raggio).
L’intensità delle forze di Van der Waals decresce molto rapidamente con la distanza fra le molecole; essa
aumenta invece al crescere delle dimensioni e della massa delle molecole.
IL LEGAME A IDROGENO
Il legame a idrogeno è un’interazione dipolo-dipolo che ha origine dalla differenza di elettronegatività fra
l’atomo di ossigeno e l’atomo di idrogeno (nel caso più comune delle molecole d’acqua).
L’ossigeno possiede una parziale carica negativa, i due idrogeni una parziale carica positiva: per questo ogni
atomo di idrogeno è attratto dall’atomo di ossigeno di una molecola vicina (da uno dei suoi doppietti non
condivisi). La forza attrattiva che si stabilisce fra l’idrogeno di una molecola e l’ossigeno della molecola
vicina è chiamata legame a idrogeno.
Il legame a idrogeno si forma fra molecole che contengono un atomo di idrogeno legato covalentemente a
un atomo piccolo e molto elettronegativo che possiede almeno una coppia elettronica libera (N, O, F).
E’ la più intensa delle forze attrattive intermolecolari, tanto da influenzare nettamente le proprietà fisiche
delle sostanze in cui è presente: molecole legate tramite legami a idrogeno hanno infatti per esempio punti
di ebollizione più elevati, proprio a causa della presenza di tale legame.
I legami a idrogeno sono inoltre responsabili della geometria delle proteine: esse contengono atomi di
idrogeno legati all’azoto (N-H), e atomo di ossigeno legati al carbonio (C=O). Fra idrogeno e ossigeno si
stabiliscono forze attrattive capaci di far ripiegare la catena secondo la caratteristica struttura elicoidale.
I cristalli ionici sono il risultato dell’aggregazione di un numero grandissimo di ioni fra cui agisce una forza
di natura principalmente elettrostatica, ossia il legame ionico; esso si forma tra metalli e non metalli con
elettronegatività molto diversa, oppure fra anioni poliatomici e cationi poliatomici (o metallici).
Le sostanze di natura ionica sono sempre solide a temperatura ambiente e hanno un alto punto di fusione.
La struttura cristallina di questi solidi assume un ordine tale da rendere massima l’attrazione fra ioni di
segno opposto e minima repulsione tra ioni con la stessa carica: essi sono quindi fragili e indeformabili.
I solidi reticolari sono caratterizzati da una rete tridimensionale di legami covalenti. Ne sono un esempio il
diamante e il quarzo. Non sono essi buoni conduttori di elettricità in quanto gli elettroni esterni sono tutti
impegnati in legami covalenti con gli atomi vicini, quindi non sono disponibili per il trasporto di corrente (ad
eccezione della grafite). Data la robustezza del legame covalente, essi sono solidi a temperatura ambiente e
hanno punti di fusione elevatissimi. Sono estremamente duri e insolubili in acqua.
I cristalli molecolari sono costituiti da molecole (polari o apolari). Possono essere quindi di due tipi:
1. I solidi molecolari apolari sono costituiti da molecole apolari tenute vicine da forze di London. Si
trovano allo stato solido a basse temperature, poiché basta una debole agitazione termica per
impedire alle molecole di riunirsi nel solido. Hanno spiccata tendenza a sublimare, e sono solubili in
solventi apolari, ma insolubili in acqua;
2. I solidi molecolari polari sono costituiti da molecole polari tenute insieme da legami dipolo-dipolo o
legami a idrogeno, quindi da forze intermolecolari più intense. Hanno punti di fusione molto più
bassi dei cristalli covalenti e allo stato fuso non conducono l’elettricità. Sono solubili in acqua o in
solventi polari. Le loro soluzioni acquose non conducono la corrente elettrica.
I cristalli metallici presentano buona conducibilità sia elettrica che termica: essa dipende dal fatto che gli
elettroni più esterni di ciascuno degli atomi del cristallo sono liberi di muoversi in ogni direzione e generano
il mare di elettroni caratteristico del legame metallico.
I metalli sono in grado di assorbire la luce visibile di tutte le frequenze e gli elettroni mobili riemettono poi
rapidamente radiazione luminosa della stessa frequenza e intensità: per questo i metalli sono lucenti.
La malleabilità e la duttilità, cioè la capacità di lasciarsi forgiare in lamine o fili sottili, sono conseguenza
della flessibilità del legame metallico: gli elettroni mobili infatti consentono ai piani ionici di scivolare l’uno
sull’altro, perché annullano le forze repulsive che provocano la frattura dei solidi ionici.
Molti metalli si sciolgono nel mercurio. Soluzioni di più metalli allo stato solido sono chiamate leghe.
POLIMORFISMO E ISOMORFISMO
Le condizioni in cui un cristallo si forma posso determinare una diversa struttura del suo reticolo: elementi
e composti possono cristallizzare diversamente a seconda delle condizioni in cui avviene la cristallizzazione.
Le sostanze che presentano questa caratteristica vengono dette polimorfe; quando la sostanza polimorfa è
un elemento, diciamo che essa presenta più forme allotropiche. Gli allotropi sono forme alternative di uno
stesso elemento che si diversificano per il modo in cui gli atomi sono legati.
Esistono sostanze che pur essendo di natura diversa cristallizzano nella stessa forma. Le sostanze che hanno
questa caratteristica sono chiamate isomorfe. L’isomorfismo è il fenomeno per cui sostanze diverse
formano cristalli aventi lo stesso reticolo.
Nel diamante ogni carbonio è legato ad altri quattro atomi di carbonio disposti ai vertici di un tetraedro.
Il diamante non conduce la corrente elettrica, ma è un ottimo conduttore di calore. La durezza del
diamante gli consente di scalfire qualsiasi superficie.
La durezza è la resistenza che un cristallo oppone alla scalfitura e può essere valutata facendo riferimento
alla scala di Mohs, una scala empirica e indicativa che assume come riferimento la durezza di dieci sostanze
cristalline numerate progressivamente da 1 a 10: ciascuna di essere è in grado di scalfire quella che la
precede ma è scalfita da quella che la segue.
I fullereni sono un’altra forma allotropica del carbonio: il fullerene più stabile è costituito da molecole
sferiche di formula C60 ed è chiamato buckminsterfullerene. Altri esempi di molecole giganti di carbonio,
tutte appartenenti alla famiglia dei fullereni sono la C70 e la C36.
I nanotubi sono un’altra forma del carbonio riconducibile ai fullereni: essi presentano bassa densità,
un’eccellente resistenza alle sollecitazioni meccaniche e sono in grado di condurre la corrente elettrica.
Una molecola situata all’interno di un liquido è circondata da altre molecole ed è attratta da ciascuna di
esse: le forze attrattive si bilanciano perché sono pressoché equivalenti in tutte le direzioni.
Le molecole che si trovano sulla superficie del liquido sono attratte soltanto dalle molecole sottostanti e da
quelle laterali: esse risentono di una forza che le attira verso l’interno del liquido e provoca la contrazione
della superficie. Tale superficie si comporta quindi come una membrana tesa che si oppone a qualsiasi
ulteriore stiramento. La tensione superficiale è l’attitudine della superficie di un liquido a lasciarsi attrarre
verso l’interno, ed è tanto maggiore quando più intense sono le forze attrattive fra le molecole.
La tensione superficiale diminuisce all’aumentare della temperatura, perché l’agitazione termica delle
molecole allenta i legami che agiscono tra di esse, oppure per aggiunta di sostanze dette tensioattivi.
Quando immergiamo un tubicino di vetro in acqua, quest’ultima risale all’interno del capillare e raggiunge
un’altezza tanto maggiore quanto più piccolo è il diametro del capillare. Quando l’acqua è a contatto col
vetro si stabiliscono forze attrattive fra le sue molecole e la superficie interna del vetro dette forze di
adesione e si contrappongono alle forze di coesione che tendono a raggruppare le molecole d’acqua.
Se le forze di adesione prevalgono su quelle di coesione, si ha un innalzamento capillare del livello del
liquido, viceversa, se le forze di coesione superano quelle di adesione, si ha un abbassamento capillare.
La capillarità è un fenomeno che provoca l’innalzamento o l’abbassamento del livello di un liquido
all’interno di un capillare.
La tensione di vapore di un liquido esprime la tendenza delle sue molecole a passare allo stato gassoso.
La tensione di vapore è la pressione esercitata dalle molecole che evaporano da un liquido in un recipiente
chiuso, quando la velocità di evaporazione e di condensazione si eguagliano: è tanto più elevata quanto più
elevata è la temperatura.
Le molecole di un liquido, pur attraendosi reciprocamente, sono in continuo movimento. Alcune di esse
raggiungono valori di energia cinetica superiori alla media e possono sfuggire dal liquido, occupando lo
spazio sovrastante ed esercitando una pressione all’interno del recipiente. All’aumentare della
temperatura, aumenta l’agitazione termica e di conseguenza il numero di molecole che sfuggono dal
liquido. Se le forze attrattive fra le molecole sono deboli, si avrà una tensione di vapore più elevata.
I liquidi che hanno un’elevata tensione di vapore si dicono volatili.
La viscosità è una proprietà di tutti i fluidi che esprime la resistenza che essi oppongono al flusso.
Viene determinata misurando il tempo che un certo volume di liquido impiega a scorrere attraverso uno
stretto tubo di diametro rigorosamente determinato. Tanto maggiore è la viscosità, più lento è il flusso.
I liquidi con alta viscosità sono detti liquidi viscosi.
9. Classificazione e nomenclatura dei composti
L’enorme numero di sostanze rende necessaria l’individuazione di criteri con cui assegnare a ciascun
composto un nome che consenta di riconoscerlo rapidamente. Oggi la nomenclatura chimica è regolata
dalla IUPAC: sono comunque ancora utilizzate sia la nomenclatura tradizionale sia quella di Stock.
La classificazione dei vari composti si basa sulle loro proprietà chimiche. Queste dipendono dalla natura
metallica o non metallica degli elementi che li costituiscono e dal mondo con cui essi reagiscono con le
sostanze più importanti sulla terra: acqua e ossigeno.
Se i numeri di ossidazione sono diversi, la strada più veloce per arrivare alla formula consiste nell’usare il
n.o. di un elemento come indice dell’altro e viceversa (talvolta semplificando quando è necessario, travve
per esempio nell’acqua ossigenata H2O2).
I COMPOSTI BINARI
Secondo la nomenclatura di Stock: prevede invece l’indicazione del numero di ossidazione degli elementi
tramite l’utilizzo di numeri romani posti tra parentesi. Esso è utilizzato per assegnare il nome ai composti
dei metalli che formano più di un catione.
Secondo il sistema tradizionale, per distinguere due sali che si differenziano per il n.o. del catione metallico,
si utilizzano i suffissi –oso, assegnato al n.o minore, e –ico, assegnato al n.o. maggiore.
ESEMPIO: il Fe ha n.o. possibili +2 e +3, forma con il cloro: FeCl2 (cloruro ferroso) e FeCl3 (cloruro ferrico).
Secondo la nomenclatura tradizionale, il nome degli idracidi inizia con il termine acido, seguito dal nome del
metallo a cui si aggiunge il suffisso –idrico (es: HCl = acido cloridrico, HBr = acido bromidrico, HCN = acido
cianidrico, che è un composto ternario).
I COMPOSTI TERNARI
Le sostanze tendono spontaneamente a miscelarsi tra loro. Tale fenomeno si deve soprattutto
all’agitazione termica delle particelle che le posta a disperdersi disordinatamente le une in mezzo alle altre.
Il processo di dispersione richiede che le particelle di una stessa sostanza si separino le une dalle altre e ciò
comporta la rottura di legami: affinché si formi una soluzione è necessario che si rompano tutti i legami tra
le particelle di soluto e molti dei legami tra quelle di solvente: si formeranno nuovi legami fra soluto e
solvente. La rottura di legami richiede energia, mentre la formazione di nuovi legami libera energia: ogni
sistema materiale tende a raggiungere il minor valore possibile di energia potenziale.
Le forze attrattive che si instaurano fra soluto e solvente inducono le molecole di solvente a circondare
quelle di soluto: tale fenomeno è detto solvatazione; qualora il solvente fosse l’acqua, è detto idratazione.
Tutti i composti che in soluzione acquosa formano ioni per dissociazione o ionizzazione sono chiamati
elettroliti. Le soluzioni di elettroliti, dato che contengono ioni elettricamente carichi, conducono sempre la
corrente elettrica. In altre parole un elettrolita è una sostanza che rende elettricamente conduttrice la
soluzione acquosa in cui è disciolto.
I solidi ionici (e certi composti polari come HCl), che liberano grandi quantità di ioni e formano soluzioni ad
alta conducibilità elettrica, sono detti elettroliti forti.
Alcuni composti polari si ionizzano in acqua soltanto in parte: soluti che presentano conducibilità elettrica
inferiore a quella di un elettrolita forte di uguale concentrazione sono detti elettroliti deboli.
Le soluzioni in cui il soluto è disciolto sotto forma di molecole elettricamente neutre non conducono la
corrente elettrica: si dicono quindi non elettroliti.
La forza di un elettrolita viene misurata da una grandezza che si chiama grado di dissociazione: esso è il
rapporto tra le moli dissociate e le moli totali (un numero compreso fra 0 e 1).
La molarità è data dal rapporto tra la quantità di soluto in moli e il volume della soluzione espresso in litri:
Molarità = M = nsoluto (mol)/Vsoluzione (L)
Una soluzione 1 M (mol/L) contiene una mole di soluto in un litro di soluzione.
Il numero di moli n è dato dal rapporto fra la massa del campione (g) e la sua massa molare (g/mol).
La molarità dipende dalla temperatura: al variare varia il volume della soluzione che si dilata o si contrae.
Per preparare soluzioni a concentrazione nota, ossia titolate, bisogna diluire soluzioni più concentrate: il
procedimento comporta l’aggiunta di solvente a una soluzione fino a ottenere la molarità desiderata.
Con la diluizione il numero di moli di soluto resta invariato.
La molalità è data dal rapporto tra la quantità di soluto in moli e la massa del solvente espressa in kg:
molalità = m = nsoluto (mol)/msolvente (kg)
Una soluzione 1 m (mol/kg) contiene una mole di soluto in un kilogrammo di solvente.
La concentrazione molale non cambia al variare della temperatura.
Se una soluzione è costituita da tanti componenti, può essere utile esprimere la concentrazione di un
componente specificando il suo numero di moli in rapporto al numero totale di moli presenti: la frazione
molare X di ogni componente di una soluzione è il rapporto tra la quantità di sostanza in moli di quel
componente e il numero totale di moli di tutti i componenti. La frazione molare XA del componente A è:
XA = nA/nA + nB + nC + … + nZ
La frazione molare è adimensionale, perché deriva dal rapporto di grandezze uguali. La somma di tutte le
frazioni molari di una soluzione è uguale a 1. Se si moltiplica per 100 il valore della frazione molare, si
ottiene la percentuale molare, che indica quante moli di quel componente sono presenti su 100 moli totali.
LE PROPRIETA’ COLLIGATIVE
Tutte le volte che si aggiunge a un solvente puro un soluto non volatile (che non può evaporare dalla
soluzione), il soluto altera il comportamento del solvente puro, perché ne innalza il punto di ebollizione e
ne abbassa il punto di congelamento: si parla di innalzamento ebullioscopico e abbassamento crioscopico.
Entrambi gli effetti sono causati dalla diminuzione della tensione di vapore della soluzione rispetto a quella
del solvente puro. Le proprietà delle sostanze che non dipendono dalla natura del soluto ma soltanto dal
numero delle sue particelle presenti in soluzione vengono dette proprietà colligative, ed è il caso, oltre che
dell’innalzamento ebullioscopico e dell’abbassamento crioscopico, anche della pressione osmotica.
Il punto di congelamento e il punto di ebollizione, nel caso di soluzioni di elettroliti, è rispettivamente più
basso e più alto rispetto a quello di un soluto molecolare: la diversità si deve al fatto che la dissoluzione di
una mole di elettrolita comporta la liberazione di più di una mole di particelle. Un elettrolita, infatti, è
capace di liberare un numero più o meno grande di ioni: bisogna tenere conto del numero di moli di ioni
che si formano dopo la dissociazione o la ionizzazione.
La pressione osmotica è la pressione che bisogna esercitare sulla soluzione più concentrata per impedire il
flusso di solvente attraverso la membrana semipermeabile che la separa dal solvente puro.
Se si applica alla soluzione più concentrata una pressione maggiore della pressione osmotica, si ottiene il
passaggio delle molecole di solvente dalla soluzione più concentrata alla soluzione più diluita: tale processo
è chiamato osmosi inversa. Quanto maggiore è il numero delle particelle disciolte, tanto più alta è la
pressione osmotica: fra le proprietà colligative è infatti quella più sensibile alla concentrazione.
Le soluzioni che presentano uguale pressione osmotica sono dette isotoniche. Se due soluzioni hanno
pressione osmotica diversa, quella con concentrazione inferiore viene detta ipotonica, quella con
concentrazione maggiore ipertonica (NB: una soluzione ipotonica rispetto al sangue causa la lisi della
membrana dei globuli rossi perché l’acqua penetra al loro interno ed essi esplodono).
COLLOIDI E SOSPENSIONI
I colloidi sono sistemi che hanno caratteristiche intermedie fra le soluzioni e i miscugli eterogenei.
Se le particelle disperse hanno dimensioni comprese fra 10-6 e 10-9 m, il miscuglio è detto colloide, presenta
la stessa stabilità delle soluzioni, è caratterizzato da proprietà ottiche, meccaniche ed elettriche particolari.
Se le particelle disperse hanno dimensioni superiori a 1000 nm, il miscuglio viene chiamato sospensione:
essa rimane tale fino a quando la si mantiene in agitazione perché le sue particelle tengono a sedimentare
per effetto della forza di gravità.
In un colloide, invece, le particelle sospese tendono a rimanere stabili e non precipitano neppure in assenza
di agitazione. I colloidi sono considerati sistemi bifasici, perché è possibile distinguere l’una dall’altra le due
fasi: i termini “fase disperdente” e “fase dispersa” prendono il posto di solvente e soluto.
La stabilità delle dispersioni colloidali è garantita dal moto browniano: sono animate da moto continuo e
irregolare, causato dall’insieme degli urti con le molecole del mezzo in cui sono disperse.
Le diverse combinazioni possibili di agenti disperdenti e fasi disperse (i principali colloidi) sono i seguenti:
1. Sol: sistema formato da una fase solida dispersa in un liquido e in grado di essere versato come un
liquido;
2. Gel: aumentando la concentrazione delle particelle solide disperse in un liquido, un sol può passare
allo stato di gel perché presenta consistenza gelatinosa;
3. Emulsione: è un sistema caratterizzato dalla dispersione di un liquido in un altro liquido (es: latte);
4. Aerosol: a seconda che le particelle disperse siano solide o liquide, si distinguono aerosol solidi (es:
fumo) e aerosol liquidi (es: nebbia).
11. Le reazioni chimiche
Le reazioni chimiche sono trasformazioni che comportano una variazione della composizione chimica delle
sostanze originarie, i reagenti, con formazione di nuove sostanze, i prodotti: quando i reagenti si
trasformano in prodotti, gli atomi dei reagenti si ricombinano tra loro in modo diverso.
Davanti alle formule dei reagenti e dei prodotti si introducono numeri opportuni, chiamati coefficienti
stechiometrici: tale operazione è chiamata bilanciamento. Quando si bilancia una reazione chimica è
necessario individuare i coefficienti minimi interi: essi devono essere i più piccoli possibile.
Allo schema di reazione così completato si dà il nome di equazione di reazione: le specie atomiche e il loro
numero si sono conservati identici durante la trasformazione dei reagenti in prodotti.
I coefficienti stechiometrici vanno scelti di volta in volta fino a che il numero di atomi di ciascuna specie non
coincide da una parte e dall’altra della freccia. Per bilanciare correttamente è necessario:
1. Bilanciare per primi gli atomi dei metalli e dei non metalli;
2. Se nello schema di reazione compaiono ioni poliatomici, bilanciarli come gruppo di atomi;
3. Bilanciare per ultimi gli atomi di idrogeno e ossigeno se presenti.
L’equazione di reazione di una qualsiasi trasformazione chimica rende evidente i rapporti secondo cui si
combinano i reagenti e si formano i prodotti.
I CALCOLI STECHIOMETRICI
I calcoli relativi ai rapporti di reazione sono chiamati calcoli stechiometrici e si impostano a partire
dall’equazione di reazione che rappresenta la trasformazione chimica. I rapporti secondo cui si combinano
reagenti e si formano i prodotti sono validi anche a livello macroscopico, a patto che si faccia ricorso al
concetto di mole: il rapporto esistente tra le moli delle sostanze coinvolte in una trasformazione chimica
non corrisponde al rapporto tra le loro masse. Le masse molari delle sostanze sono diverse le une dalle
altre proprio perché sono costituite da particelle diverse.
I coefficienti di una reazione bilanciata indicano sia il numero di molecole delle sostanze coinvolte, sia il loro
numero di moli. Il procedimento da seguire nei calcoli stechiometrici si articola nelle seguenti fasi:
1. Scrivere e bilanciare l’equazione di reazione del processo;
2. Determinare le masse molari delle sostanze coinvolte;
3. Trasformare in moli i grammi o i litri delle sostanze di cui si conosce massa o volume;
4. Utilizzare i coefficienti stechiometrici per determinare le moli delle sostanze richieste;
5. Trasformare le moli in grammi o in litri.
LA RESA DI REAZIONE
La maggior parte delle reazioni chimiche non procede sino all’esaurimento di tutti i reagenti poiché esse
sembrano arrestarsi: si parla di reazioni incomplete. Inoltre, alcuni processi conducono anche a una
reazione secondaria non desiderata.
Diciamo allora che la resa effettiva della trasformazione è inferiore alla resa teorica. La resa teorica di un
prodotto è la quantità massima di quel prodotto che può essere ottenuta da una certa massa di reagente in
base alla stechiometria della reazione. Conoscendo resa teorica e effettiva, possiamo calcolare la resa
percentuale. Quando la trasformazione è incompleta o è accompagnata da reazioni secondarie, la resa
percentuale è sempre inferiore al 100%.
LE REAZIONI DI SINTESI
Sono reazioni in cui da due o più sostanze si ottiene un solo composto (A + B -> C ).
Il simbolo Δ indica che la reazione richiede un riscaldamento iniziale per essere avviata. Un esempio di
reazione di sintesi sono le reazioni di combustione.
Tutti i metalli, tranne i cosiddetti metalli nobili (oro, argento, platino) si combinano con l’ossigeno puro.
La formazione di un ossiacido (da ossido acido + acqua) e di un idrossido (ossido basico + acqua) sono
reazioni di sintesi.
LE REAZIONI DI DECOMPOSIZIONE
Sono reazioni in cui un unico reagente si decompone in due o più prodotti (C -> A + B); per questo motivo
possono essere considerate l’inverso delle reazioni di sintesi. Tutte le decomposizioni sono favorite dal
riscaldamento a temperatura elevata. In genere portano alla liberazione di ossigeno gassoso, diossido di
carbonio, o acqua.
Tutti i carbonati, eccetto quelli dei metalli alcalini (I gruppo), e i bicarbonati si decompongono liberando
diossido di carbonio. Gli idrossidi, esclusi quelli dei metalli alcalini, si decompongono per riscaldamento e
formano l’ossido del metallo e acqua.
La scienza che si occupa dei trasferimenti di energia che interessano la materia è la termodinamica.
La termochimica è una branca della termodinamica che si occupa degli scambi di calore che avvengono
durante una trasformazioni chimica: l’oggetto dell’indagine è chiamato sistema (reagenti e prodotti), ciò
che lo circonda costituisce l’ambiente; all’insieme di sistema e ambiente si dà il nome di universo.
I sistemi chimici e fisici che partecipano alle trasformazioni chimiche della materia possono essere:
1. Aperti, ossia scambiare con l’ambiente sia materia sia energia;
2. Chiusi, ossia scambiare con l’ambiente soltanto energia, ma non materia;
3. Isolati, ossia non scambiare con l’ambiente né materia né energia.
Per energia si intende la capacità di un corpo di trasferire calore o di eseguire un lavoro: hanno infatti la
stessa unità di misura, il joule (J). Il calore non è da confondere con la temperatura: quest’ultima è una
grandezza intensiva che fornisce informazioni sull’energia cinetica media delle particelle di un corpo,
mentre il calore è energia in transito tra due corpi con differenti temperature.
Le trasformazioni fisiche e chimiche accompagnate da produzione o assorbimento di una certa quantità di
calore si verificano nei passaggi di stato, nella formazione delle soluzioni e nelle reazioni chimiche.
Le reazioni che avvengono con produzione di calore (trasferiscono energia dal sistema all’ambiente) sono
dette esotermiche (o esoergoniche) e determinano un riscaldamento sia del sistema che dell’ambiente (es:
combustione del carbone, respirazione cellulare), mentre sono dette endotermiche (o endoergoniche) le
reazioni che assorbono calore dall’ambiente determinando un raffreddamento sia del sistema sia
dell’ambiente circostante (il sistema preleva energia dall’ambiente).
Per formare molecole d’acqua, è necessario rompere i legami dell’idrogeno molecolare (H-H) e l’ossigeno
molecolare (O-O): in questa fase aumenta l’energia potenziale dei reagenti, ma nella fase successiva essa
diminuisce in modo ancora più marcato; si formano così nuovi legami con produzione di molecole d’acqua.
La formazione delle molecole d’acqua, quindi, è accompagnata da una diminuzione del contenuto di
energia chimica del sistema di reazione; la formazione di idrogeno e ossigeno gassosi a partire da acqua, è
accompagnata invece da un aumento del contenuto di energia chimica del sistema.
Nella reazione di formazione dell’acqua, alla diminuzione dell’energia chimica (energia potenziale) degli
atomi che si legano corrisponde un aumento dell’energia termica del sistema, e di conseguenza della sua
temperatura. Se il sistema non è isolato si ha un trasferimento di energia sotto forma di calore dal sistema
all’ambiente: la trasformazione è considerata esotermica.
In tutte le reazioni esotermiche diminuisce l’energia chimica del sistema e aumenta la sua energia termica:
il risultato complessivo è la trasformazione di energia chimica in energia termica
Nella reazione di formazione di idrogeno e ossigeno gassosi dalle molecole d’acqua, l’energia chimica
(potenziale) del sistema in questo caso aumenta, poiché gli atomi si sono allontanati tra loro: l’energia
termica pertanto è diminuita e la temperatura del sistema si abbassa.
Se il sistema non è isolato, si ha un trasferimento di calore dall’ambiente al sistema di reazione: in questo
caso si ha una reazione endotermica.
In tutte le reazioni endotermiche aumenta l’energia chimica del sistema e diminuisce la sua energia
termica: il risultato complessivo è la trasformazione di energia termica in energia chimica.
Le reazioni endotermiche sono favorite da una temperatura elevata; l’energia che una particella può
trasferire a un’altra per urto dipende dalla sua velocità che aumenta all’aumentare della temperatura.
LE FUNZIONI DI STATO
Quando si descrive lo stato termodinamico vanno specificate le relazioni energetiche fra i componenti del
sistema. Per rappresentare lo stato di un sistema è utile l’equazione di stato di un gas ideale: pV = nRT
Le grandezze pressione (p), volume (V), temperatura (T) sono chiamate funzioni di stato (sono funzioni di
stato anche l’energia interna (U), l’entalpia (H), l’entropia (S) e l’energia libera (G)). Le variazioni delle
funzioni di stato dipendono soltanto dallo stato iniziale e dallo stato finale della trasformazione e non dal
percorso attraverso il quale si realizza la trasformazione stessa.
Non sono funzioni di stato il calore e il lavoro, in quanto possono cambiare da una trasformazione all’altra.
Il calore e il lavoro sono forme di energia in transito: ciò che si accumula, è l’energia del sistema che è
denominata energia interna (U): essa è una grandezza estensiva che corrisponde alla somma dell’energia
cinetica e dell’energia potenziale di tutte le particelle che compongono il corpo o il sistema.
Per tutti i sistemi c’è un’energia interna iniziale Ui, prima del processo di trasferimento, e un’energia
interna finale Uf, dopo il processo di trasferimento. La variazione di energia interna è: ΔU = Uf – Ui
L’energia interna U dipende quindi soltanto dallo stato iniziale e finale: è pertanto una funzione di stato.
Possiamo anche dire che l’energia interna U, per un sistema chimico, è la somma dell’energia chimica e
dell’energia termica. La variazione di energia interna ΔU si può anche esprimere tramite il primo principio
della termodinamica come: ΔU = q+ w dove q = calore e w = lavoro
Lavoro e calore sono negativi se determinano una riduzione dell’energia interna del sistema, sono positivi
se l’aumentano. In ogni caso, la quantità di energia scambiata tra sistema e ambiente è uguale alla
differenza tra l’energia interna dei prodotti e quella dei reagenti: ΔU = Uprodotti - Ureagenti
L’energia interna dei sistemi isolati rimane costante, cioè ΔU = 0
Per determinare la quantità di calore emesso o assorbito da una reazione, si può misurare l’aumento o la
diminuzione dei temperatura dell’ambiente esterno.
LE REAZIONI DI COMBUSTIONE
La combustione è una reazione tra un combustibile e un comburente dalla quale si libera una quantità
rilevante di energia. Il combustibile è di solito un composto contenente idrogeno o carbonio, mentre il
comburente è una sostanza contenente atomi a elevata elettronegatività, fra cui il più diffuso è l’ossigeno.
Nel caso una reazione a pressione costante, l’energia che deriva da una reazione esotermica di questo tipo
non sempre si trasforma completamente in calore. Quando in una reazione chimica sono coinvolte
sostanze gassose, può accadete che il loro numero di moli vari durante la trasformazione, cioè aumenti o
diminuisca. Se si formano sostanze gassose, il volume aumenta perché il volume una mole di gas occupa più
spazio del volume di un solido o un liquido. La variazione di volume corrisponde a: ΔV = Vfinale - Viniziale
Se una reazione esotermica conduce all’espansione volumica del sistema, l’atmosfera che circonda il
sistema deve essere respinta, e per fare ciò il sistema deve compiere un lavoro: tale lavoro è pari a p ΔV,
dove p è la pressione esterna, e ΔV la variazione di volume. In definita non tutta l’energia esce dal sistema
sotto forma di calore, perché parte di essa viene utilizzata per compiere il lavoro di espansione.
Per tenere conto di questa situazione, si introduce l’entalpia (H), che è definita come: H = U + pV
Essa dipende sia dall’energia interna del sistema, sia dal prodotto pV associato al lavoro subito o effettuato.
La variazione ΔH corrisponde esattamente al calore scambiato (QP) tra il sistema e l’ambiente durante una
reazione a pressione costante: ΔH = QP o anche: QP = ΔH = Hprodotti - Hreagenti
La variazione di entalpia del sistema è uguale al calore ceduto o assorbito a pressione costante.
L’entalpia è una funzione di stato e quindi la sua variazione dipende solo dallo stato iniziale e dallo stato
finale.
L’ENTALPIA DI REAZIONE
La variazione di entalpia viene riportata a fianco dell’equazione di reazione, che, così completata, viene
chiamata equazione termochimica.
L’entalpia di reazione dipende sia dalla temperatura sia dalla pressione: normalmente i valori che si
riportano sono relativi alla temperatura di 25 °C e alla pressione di 1 atmosfera.
Una reazione che riveste particolare importanza in termochimica è la reazione di formazione di una mole di
comporto a partire dagli elementi che lo costituiscono, quando essi sono nel loro stato standard.
La variazione di entalpia associata alla reazione di formazione di un qualsiasi composto si chiama entalpia
di formazione del composto, ed è la variazione di entalpia che accompagna la formazione di una mole di
composto a partire dagli elementi che lo costituiscono, ciascuno nel proprio stato standard.
Quando essi presentano valori negativi di ΔHf hanno una grande stabilità.
Mediante l’entalpia standard di formazione dei composti è possibile calcolare l’entalpia di reazione di un
qualsiasi processo senza far ricorso a lunghe misure sperimentali: essa può essere ottenuta sottraendo la
somma delle entalpie standard di formazione dei reagenti dalla somma delle entalpie standard di
formazione dei prodotti, ossia: ΔHreazione = ΣΔHf (prodotti) – ΣΔHf (reagenti)
L’ENERGIA LIBERA
Il secondo principio della termodinamica ci consente di prevedere se una trasformazione chimica o fisica è
o non è spontanea soltanto se conosciamo sia la variazione di entropia del sistema sia quella dell’ambiente.
Possiamo introdurre una grandezza legata esclusivamente al sistema di reazione, detta energia libera (G):
essa è una grandezza termodinamica che dipende dall’entalpia, dalla temperatura assoluta e dall’entropia
del sistema: G = H – TS.
L’energia libera ha le proprietà di un’energia potenziale, cioè tende a un minimo in una trasformazione
spontanea. Durante una trasformazione a pressione e temperatura costanti, abbiamo una variazione di
energia libera espressa dalla relazione: ΔG = ΔH – TΔS
Una qualsiasi trasformazione chimica o fisica risulta spontanea se: ΔG < 0
Poiché la variazione di energia libera di un sistema dipende sia dalla variazione di entropia sia da quella di
entalpia, essa tiene conto di entrambe le tendenze che sappiamo caratterizzare i processi spontanei:
1. La tendenza al rafforzamento dei legami, propria delle reazioni esotermiche (con ΔH < 0) (la
maggior parte delle reazioni spontanee è esotermica);
2. La tendenza all’aumento del disordine, e quindi all’aumento dell’entropia (quindi ΔS > 0).
Nel caso delle reazioni endotermiche spontanee, l’aumento dell’energia immagazzinata nei legami (ΔH > 0)
che li rende più deboli, è compensata da un aumento di entropia sufficientemente alto, tanto che il termine
TΔS diventa maggiore di ΔH, e il risultato ΔG diviene negativo.
Nel caso delle reazioni che conducono a una diminuzione di entropia (ΔS < 0), che rende positivo il termine
–TΔS, è compensata dalla diminuzione di entalpia (ΔH < 0), cioè dal rafforzamento complessivo dei legami.
Ora siamo in grado di stabilire in quale verso procede spontaneamente una reazione.
Se l’energia libera dei reagenti è maggiore di quella dei prodotti, la reazione porterà alla formazione dei
prodotti; in caso contrario assisteremo alla trasformazione inversa, cioè i prodotti si trasformeranno
nuovamente in reagenti.
13. La velocità di reazione
LA VELOCITA’ DI REAZIONE
Lo studio di tutti gli aspetti relativi alla velocità delle trasformazioni chimiche è affrontato dalla parte della
chimica detta cinetica chimica. Una reazione chimica è tanto più rapida quanto più reagente si consuma, o
quanto più prodotto si forma, nell’unità di tempo.
La velocità di reazione può essere definita dal rapporto fra a quantità di reagente trasformato e il tempo
impiegato per la trasformazione. Nel caso di reazioni che avvengono in soluzione, la quantità dei reagenti
introdotti è espressa come concentrazione: al procedere della trasformazione diminuisce quindi la loro
concentrazione mentre aumenta quella dei prodotti.
La velocità di reazione è la variazione della concentrazione dei reagenti, Δ[R], o dei prodotti Δ[P]
nell’intervallo di tempo Δt: v = -Δ[R]/Δt = Δ[P]/Δt il segno meno davanti alla concentrazione dei
reagenti serve per rendere positivo il valore della velocità di reazione; le parentesi quadre indicano le
concentrazioni molari. La velocità di reazione si esprime in mol/L*s
La velocità calcolata il ciascun intervallo di tempo è una velocità media; rendendo brevissimo l’intervallo di
tempo fra due misure successive, la velocità è, di fatto, una velocità istantanea.
L’EQUAZIONE CINETICA
L’equazione cinetica è una relazione matematica che lega la velocità (v) di una data reazione alla
concentrazione molare dei reagenti, e descrive come varia la velocità al variare della concentrazione dei
reagenti. Per la reazione aA + bB ---> prodotti, possiamo scrivere l’espressione: v = k[A]n[B]m dove n e m
sono numeri interi, k è un fattore che dipende dalla temperatura a cui la reazione procede, ed è detto
costante specifica di velocità, che corrisponde, di fatto, alla velocità della reazione quando la
concentrazione dei reagenti è 1 M.
Quando l’esponente n è uguale a 1, si dice che l’equazione cinetica è del primo ordine; mentre quando è
uguale a 2 si dice che è del secondo ordine, quanto è uguale a zero, la reazione ha ordine zero.
L’ordine di reazione corrisponde alla somma degli esponenti a cui sono elevate le concentrazioni dei
reagenti che compaiono nell’equazione cinetica.
1. Nelle reazioni di ordine zero, la velocità è indipendente dalla concentrazione del reagente, e
l’equazione cinetica è: v = k Queste reazioni avvengono a velocità costante fino alla completa
scomparsa di tutto il reagente (es: la decomposizione della vitamina B12 attivata dalla radiazione
ultravioletta). In una reazione di ordine zero la velocità di diminuzione della concentrazione del
reagente nell’unità di tempo è sempre la stessa: riportando in un grafico la concentrazione in
funzione del tempo si ottiene una retta;
2. In una reazione del primo ordine, è costante il tempo di semitrasformazione t1/2, cioè il tempo
necessario a ridurre della metà la concentrazione del reagente; i processi di decadimento
radioattivo sono un tipico esempio. In una reazione del primo ordine la velocità è direttamente
proporzionale alla concentrazione del reagente;
3. Nelle reazioni del secondo ordine, la concentrazione del reagente decresce meno nel tempo.
L’ENERGIA DI ATTIVAZIONE
Quando una molecola di NO2 è colpita da un’altra molecola, i suoi atomi, a causa dell’urto, si avvicinano
oltre la distanza di equilibrio. La sua energia potenziale aumenta a causa dell’eccessiva vicinanza di cariche
elettriche di segno uguale. Le forze repulsive che ne derivano possono essere tanto intense da consentire a
uno dei due atomi di ossigeno di staccarsi definitivamente dall’atomo di azoto: è necessario però che l’urto
iniziale trasferisca alla molecola di NO2 energia sufficiente a raggiungere quel particolare livello di energia
potenziale. In generale, le molecole possono reagire soltanto in seguito ad uno specifico aumento della loro
energia potenziale. Tale eccesso di energia, definito da Arrhenius energia di attivazione Ea è proprio la
quota di energia potenziale in eccesso che occorre ai reagenti per rompere alcuni dei loro legami e iniziare
una reazione. L’energia di attivazione è nientemeno che una barriera da superare.
A temperatura ambiente, procedono a velocità apprezzabile le reazioni con Ea inferiore a 80 kJ/mol, come
le reazioni di precipitazione e di neutralizzazione, che avvengono fra ioni in soluzione, quindi non è
necessario rompere legami di apprezzabile forza per attivarle.
Lo stato energetico raggiunto dalle molecole dei reagenti a seguito di un urto efficace è detto stato di
transizione. L’energia di attivazione corrisponde, pertanto, alla differenza di energia tra il livello dei reagenti
e lo stato di transizione. Una volta superato lo stato di transizione, l’energia scende nuovamente fino al
livello dei prodotti. Il dislivello energetico tra reagenti e prodotti corrisponde alla variazione di entalpia ΔH.
Nelle reazioni esotermiche il valore ΔH è negativo poiché l’energia dei prodotti è minore di quella dei
reagenti; nelle reazioni endotermiche invece i prodotti hanno un’energia maggiore dei reagenti e il valore
di ΔH è positivo. Quando le molecole dei reagenti si avvicinano e collidono, la loro energia cinetica si
trasforma in potenziale: se l’urto è efficace si raggiunge l’energia potenziale caratteristica dello stato di
transizione e in tal caso la reazione procede, si formano i nuovi legami, e l’energia potenziale diminuisce
fino a raggiungere il livello proprio dei prodotti. La differenza di energia va a incrementare l’energia cinetica
media delle molecole che si muovono più rapidamente.
La relazione matematica che descriver l’effetto della temperatura sulla velocità di reazione è l’equazione di
Arrhenius: k = Ae-E(a)/RT dove A è una costante specifica e R è la costante universale dei gas.
IL MECCANISMO DI REAZIONE
La maggior parte delle trasformazioni chimiche avviene attraverso una successione di stadi. La successione
degli stadi, o reazioni elementari, attraverso cui i reagenti si trasformano in prodotti, costituisce il
meccanismo di reazione. Quando la molecola reagente è una sola, la reazione viene detta monomolecolare.
Quando le molecole sono due, la reazione si dice bimolecolare.
La molecolarità di una reazione elementare indica il numero di molecole di reagenti che vi partecipano.
Per passare dai reagenti ai prodotti in una reazione a più stadi (più collisioni successive), si devono superare
più barriere energetiche. Lo stadio con la più alta energia di attivazione è il più lento; esso viene detto
stadio limitante della velocità proprio perché limita la velocità con cui procede le reazione nel suo
complesso. Poiché lo stadio più lento del meccanismo di reazione determina la velocità dell’intero
processo, determina anche la sua equazione cinetica.
In molti casi il meccanismo di reazione è complesso, e oltre alla reazione diretta può svolgersi anche quella
inversa, oppure un reagente può trasformarsi contemporaneamente in due modi diversi.
Se vogliamo accelerare una trasformazione chimica dobbiamo aumentare la velocità dello stadio limitante.
Possiamo raggiungere lo scopo diminuendo la sua energia di attivazione grazie ai catalizzatori: un
catalizzatore accelera una reazione chimica perché a fa avvenire lungo un percorso alternativo la cui
energia di attivazione è inferiore a quella del percorso non catalizzato. In un processo catalizzato, i reagenti
e i prodotti sono gli stessi della reazione non catalizzata, il ΔH di reazione non cambia e il catalizzatore, pur
prendendo parte alla reazione, non si consuma. Esistono catalizzatori omogenei, che operano nella stessa
fase dei reagenti, e catalizzatori eterogenei, che operano in una fase diversa.
14. L’equilibrio chimico
L’EQUILIBRIO DINAMICO
In generale, le reazioni non arrivano a compimento perché raggiungono uno stato detto equilibrio chimico.
Se mettiamo dei cubetti di ghiaccio in un bicchiere d’acqua, il ghiaccio fonde ma nel contempo alcuni
cubetti si saldano fra loro: infatti le molecole di H2O(s) passano in continuazione allo stato liquido ma sono
bilanciate da altrettante molecole che si trasformano in ghiaccio: è un caso di trasformazione reversibile a
equilibrio dinamico; comportando il passaggio di stato solido/liquido, esso viene detto equilibrio di fase.
Un sistema è in equilibrio quando non variano più le sue proprietà macroscopiche osservabili; l’equilibrio è
detto dinamico quando, a livello microscopico, è il risultato di due processi opposti che avvengono a uguale
velocità. All’equilibrio, le condizioni di reversibilità e dinamicità sono indicate da una doppia freccia.
Le situazioni di equilibrio dinamico richiedono sistemi chiusi (senza scambi di materia con l’ambiente) la cui
temperatura rimanga costante. Anche in una soluzione satura di glucosio in acqua si instaura un equilibrio
dinamico: a livello macroscopico solubilizzazione e precipitazione avvengono con uguale velocità.
Supponiamo ora di chiudere in un secondo pallone quantità equivalenti di H2 e I2 gassosi, in modo che la
concentrazione complessiva sia 0,5 M: lo iodio colora di viola la miscela gassosa ma, col tempo, tale
colorazione sbiadisce. Lo iodio infatti reagisce con l’idrogeno formando HI: H2 + I2 ---> 2HI
Tuttavia la colorazione viola non scompare del tutto, segno che non tutto lo iodio si trasforma nel prodotto.
L’intensità del colore viola nei due palloni risulta identica, possiamo pertanto concludere che:
1. La reazione di decomposizione e la reazione di sintesi dell’acido iodidrico sono incomplete;
2. La trasformazione 2HI ---> H2 + I2 è reversibile; avviene anche la sua opposta: H2 + I2 ---> 2HI ;
3. Si è stabilito un equilibrio chimico: le concentrazioni di reagenti e prodotti sono costanti nel tempo;
4. Pur partendo da situazioni opposte, si è raggiunto lo stesso stato di equilibrio: coincidono infatti le
concentrazioni di tutte le specie presenti.
In entrambi i palloni si raggiunge l’equilibrio perché la velocità con cui si forma acido iodidrico HI è uguale
alla velocità con cui esso si decompone. La reazione di equilibrio dinamico è: 2HI <---> H2 + I2
A temperatura e pressione costanti, un sistema chimico chiuso è in equilibrio se la concentrazione (o la
pressione) dei reagenti e dei prodotti è costante nel tempo.
Non bisogna però concludere che tutti i sistemi le cui specie hanno concentrazioni costanti nel tempo siano
in equilibrio: alcune miscele sono costanti perché non hanno abbastanza energia per avviare la reazione.
Se Keq >> 1 ossia è molto grande, la concentrazione del prodotto è molto grande e quella dei reagenti è
molto piccola: l’equilibrio è spostato a destra, quindi la reazione è pressoché completa.
Se Keq è circa uguale a 1, la concentrazione dei prodotti è molto simile a quella dei reagenti, quindi la
reazione ha una resa intermedia, del 50% circa (circa metà dei reagenti si trasformano in prodotti).
Se Keq << 1 ossia è molto piccola, la concentrazione del prodotto è molto piccola e quella del reagente è
molto grande: l’equilibrio è spostato verso sinistra, quindi la reazione praticamente non avviene.
Nelle reazioni omogenee in fase gassosa possiamo esprimere la costante di equilibrio, oltre che in funzione
della concentrazione molare, anche in funzione delle pressioni parziali dei gas (si indicheranno con Kc e Kp).
Nella legge dell’equilibrio chimico possono quindi essere presenti le pressioni parziali dei gas oltre che alle
concentrazioni molari appena viste. Per la reazione generica: aA(g) + bB(g) <---> cC(g) + dD(g) si scriverà
quindi una diversa espressione: Kp = (pC)c(pD)d/(pA)a(pB)b
Kp e Kc relative alla stessa reazione possono assumere valori numericamente diversi a parità di temperatura,
senza però indicare due differenti equilibri. Sono infatti in relazione, in quanto: Kp = Kc (RT)Δn
Δn all’esponente indica la differenza tra la somma dei coefficienti stechiometrici dei prodotti e la somma
dei coefficienti stechiometrici dei reagenti: quando la reazione avviene senza variazione del numero di moli
(quindi con Δn = 0), il fattore (RT)Δn è uguale a 1, pertanto le due costanti sono uguali (Kp = Kc).
A parità di temperatura, le concentrazioni delle varie specie all’equilibrio cambiano a seconda della
composizione iniziale del sistema: se sappiamo che una certa trasformazione è all’equilibrio, non possiamo,
quindi, prevedere la composizione del sistema; se invece conosciamo il valore della costante di equilibrio e
la composizione iniziale del sistema, riusciamo a stabilire quali siano le concentrazioni delle diverse specie
all’equilibrio.
IL QUOZIENTE DI REAZIONE
Un sistema in equilibrio chimico si riconosce per la costanza delle concentrazioni o delle pressioni parziali.
Esso è caratterizzato dallo svolgersi incessante e alla stessa velocità di due processi in opposizione: prima di
raggiungere lo stato di equilibrio, però, le concentrazioni variano nel tempo: possono diminuire quelle due
reagenti e aumentare quelle dei prodotti (in tal caso la reazione diretta sta procedendo più velocemente di
quella inversa), oppure, se prevale la velocità della reazione inversa, può aumentare la concentrazione di
reagente e diminuire quella di prodotto.
A temperatura costante, il rapporto fra il prodotto delle concentrazioni dei prodotti e quello delle
concentrazioni dei reagenti, elevate ciascuna al proprio coefficiente stechiometrico, viene chiamato
quoziente di reazione (Qc). Nel caso le concentrazioni siano espresse in termini di pressioni parziali è Qp.
Quando un sistema non ha ancora raggiunto l’equilibrio, i valori di Qc e Kc non corrispondono:
1. Se Qc < Kc, prevale la reazione diretta e aumenta nel tempo la concentrazione dei prodotti.
2. Se Qc > Kc, prevale la reazione inversa e aumenta nel tempo la concentrazione dei reagenti.
I valori di Qc e Kc corrispondono soltanto all’equilibrio.
La differenza fra Kc e Qc è presto detta: Kc esprime il rapporto di concentrazione molare fra prodotti e
reagenti all’equilibrio, quando tali concentrazioni sono costanti nel tempo; mentre Qc esprime tale
rapporto di concentrazione in funzione del tempo: le concentrazioni iniziali hanno un valore Qc che varia nel
tempo fino a eguagliare Kc all’equilibrio.
LA TERMODINAMICA DELL’EQUILIBRIO
Una trasformazione è spontanea se è negativa la variazione di energia libera del sistema (ΔG = Greagenti -
Gprodotti < 0): l’energia libera del sistema diminuisce sino a raggiungere il suo valore minimo quando tutti i
reagenti si sono trasformati in prodotti. Il valore dell’energia libera del sistema dipende quindi dalla sua
composizione: la reazione procede soltanto se alla nuova composizione del sistema corrisponde un valore
di energia libera minore del precedente. La reazione si arresta quando non c’è più differenza tra due valori
successivi di energia libera del sistema, cioè quando ΔG = 0. Il valore minimo di energia libera si raggiunge
quando la reazione diretta e quella inversa procedono fino a che le concentrazioni di reagenti e prodotti
sono quelle di equilibrio. Qualsiasi cambiamento rispetto a questa condizione comporta un aumento
dell’energia libera, per cui non avverrà spontaneamente.
A temperatura e pressione costanti, l’equilibrio chimico (in un sistema chiuso) corrisponde alla situazione di
minima energia libera. All’equilibrio si ha ΔG = 0 perché il valore di energia libera del sistema rimane
costante nel tempo.
IL PRINCIPIO DI LE CHATELIER
Lo stato di equilibrio di un sistema chiuso rimane inalterato a patto che non si modifichino le condizioni in
cui esso è stato raggiunto. Il principio dell’equilibrio mobile afferma che un sistema all’equilibrio perturbato
da un’azione esterna, reagisce in modo da ridurne l’effetto e raggiunge, se possibile, un nuovo stato di
equilibrio.
Se si modifica la concentrazione di una delle specie presenti aggiungendone o sottraendone una certa
quantità, si distrugge l’equilibrio: il sistema reagisce consumando parte della specie aggiunga o
reintegrando parte della specie sottratta, di modo che rimanga costante il valore di K eq. Aggiungendo un
reagente, l’equilibrio si sposta nella direzione che consente la scomparsa di parte del reagente aggiunto e la
formazione del prodotto; se aggiungiamo un prodotto provochiamo la reazione opposta.
In altre parole, cambiando la concentrazione dei prodotti e dei reagenti, il loro rapporto (cioè la costante di
equilibrio), resta invariato, purché la temperatura rimanga costante prima e dopo l’aggiunta.
Le reazioni riguardando liquidi e solidi sono pressoché insensibili ai cambiamenti di pressione; questi invece
condizionano le reazioni in fase gassosa, purché esse avvengano con variazione del numero di moli gassose.
L’aumento di pressione di un sistema gassoso all’equilibrio comporta lo spostamento dell’equilibrio nella
direzione in cui è presente il minor numero di moli: alla diminuzione del numero di moli gassose
corrisponde una diminuzione della pressione e ciò riduce l’effetto della perturbazione apportata. Se invece
si diminuisce la pressione l’equilibrio si oppone favorendo la reazione che porta all’aumento del numero di
moli gassose.
Fornendo calore a un sistema all’equilibrio ha luogo la reazione che ne riduce l’effetto, cioè la reazione
endotermica che assorbe calore. Raffreddando un sistema all’equilibrio, cioè sottraendo a esso calore, ha
luogo la reazione esotermica che, liberando calore, ne riduce la perdita subita dal sistema.
Se si riscalda un sistema all’equilibrio si favorisce la reazione endotermica, se invece lo si raffredda si
favorisce la reazione esotermica.
Il catalizzatore non ha alcun effetto sulla posizione dell’equilibrio poiché non compare nell’equazione di
reazione. Non influenza il valore della costante di equilibrio ma agisce sulla velocità con cui si raggiunge
l’equilibrio, accelerando in ugual misura sia la reazione diretta sia quella inversa.
Consideriamo una soluzione satura di cloruro di piombo(II), PbCl2: PbCl2 <---> Pb2++ 2Cl-
Se alla soluzione di cloruro di piombo aggiungiamo NaCl, quest’ultimo si dissocia liberando ioni Na + e Cl-,
quindi la sua aggiunta provoca un aumento della concentrazione degli ioni Cl- presenti in soluzione.
L’equilibrio viene perturbato e per consumare parte degli ioni Cl-, esso si sposta verso sinistra: la
conseguenza è la precipitazione di altro PbCl2. Quando l’equilibrio si ristabilisce, in soluzione è presente una
concentrazione inferiore di ioni Pb2+: l’effetto complessivo è la diminuzione della solubilità del sale PbCl2.
Poiché lo ione cloruro Cl- è presente in entrambi i sali, è chiamato ione comune.
La solubilità di un composto poco solubile diminuisce se si aggiunge alla soluzione un altro composto
avente con esso uno ione in comune. Viceversa, l’introduzione di una sostanza che reagisce con uno degli
ioni del composto poco solubile sottraendolo alla soluzione, ne aumenta la solubilità perché induce il
passaggio in soluzione di altro solido.
15. Acidi e basi
Nelle soluzioni acquose di acidi, in realtà, non esistono ioni H+ liberi: questi infatti si combinano
istantaneamente con una molecola di acqua con cui, attraverso un legame dativo, formano lo ione H3O+
detto ione idronio. Quest’ultimo si idrata legandosi ad altre molecole di acqua.
Per semplicità useremo il simbolo H+ al posto del più corretto ione idronio idratato.
I chimici Bronsted e Lowry proposero la seguente definizione di acido e base: qualsiasi molecola o ione che
può donare un protone è un acido; qualsiasi molecola o ione che può accettare un protone è una base.
Un acido quindi agisce da donatore solo in presenta di una sostanza che accetti il protone, cioè di una base;
una base d’altro canto accetta un protone soltanto se c’è una specie chimica (un acido) che lo cede.
Ci deve quindi essere una reazione di trasferimento del protone affinché possano manifestarsi le proprietà
acide e basiche delle sostanze. Un donatore di protoni è una qualsiasi specie che possiede atomi di
idrogeno legati covalentemente ad altri atomi più elettronegativi. Un accettore di protoni può essere
qualsiasi molecola neutra o anione che abbia disponibile una coppia di elettroni.
Si può notare quindi come gli acidi di Arrhenius rientrino nella definizione di Bronsted-Lowry.
Per comprendere i vantaggi della definizione di Bronsted-Lowry, si consideri la reazione tra i gas HCl e NH3:
HCl + NH3 ---> NH4+Cl-
HCl agisce da acido perché cede un protone a NH3 che, ricevendolo, si comporta da base: il comportamento
acido di HCl e basico di NH3 è indipendente dalla presenza dell’acqua come solvente e non è necessaria la
presenza del gruppo OH per giustificare la basicità di NH3.
Una reazione acido-base consiste quindi in un trasferimento protonico: un acido e una base reagiscono fra
loro per formare un altro acido e un’altra base.
Ogni acido, donando il proprio protone, si trasforma in una base, chiamata base coniugata (in questo caso
l’acido HCl si trasforma nella sua base coniugata Cl-, capace a sua volta di accettare un protone).
Analogamente, ogni base, accettando il protone, si trasforma in un acido, chiamato acido coniugato (la
base NH3 si trasforma nel suo acido coniugato NH4+, capace a sua volta di cedere un protone).
Alcune specie chimiche, come l’acqua, sono in grado sia di accettare sia di donare protoni e possono essere
pertanto classificate sia come acidi sia come basi: tali specie si dicono anfiprotiche.
Un’ulteriore estensione dei concetti di acido e base fu realizzata da Lewis, secondo cui sono acidi e basi le
specie chimiche in grado di formare un legame covalente coordinato nel quale entrambi gli elettroni
provengono da un solo atomo. In altre parole, si dicono acidi le specie che possono accettare una coppia di
elettroni; si dicono basi le specie che possono mettere a disposizione una coppia di elettroni libera da
legami. Le specie acide e basiche possono essere sia molecole neutre sia ioni.
Lo ione H+ è un acido secondo Lewis perché può accettare un doppietto elettronico da un donatore.
Molti cationi metallici, soprattutto quelli di transizione, si comportano in acqua da acidi di Lewis accettando
i doppietti elettronici delle molecole di acqua e trasformandosi in ioni complessi che possono a loro volta
reagire con l’acqua. Altri acidi di Lewis sono molecole con struttura elettronica incompleta.
LA IONIZZAZIONE DELL’ACQUA
L’acqua è una sostanza anfiprotica che può comportarsi sia da acido o da base a seconda delle specie con
cui reagisce. L’acqua pura è un cattivo conduttore di elettricità, infatti è costituita da pochissimi ioni liberi
che derivano dalla ionizzazione delle sue molecole. La formazione degli ioni avviene grazie allo scambio di
un protone tra due molecole d’acqua, secondo la reazione: H2O + H2O <---> H3O+ + OH-
A questa reazione si dà il nome di autoprotolisi o autoionizzazione: la doppia freccia indica l’esistenza di
equilibrio fra le pochissime molecole ionizzate e quelle integre. Se per semplicità utilizziamo il simbolo H+ al
posto del più corretto H3O+, l’equilibrio diventa: H2O <---> H+ + OH-
Poiché H2O si può considerare un liquido puro, la sua concentrazione non compare nell’espressione della
costante di equilibrio che pertanto risulta così definita: KW = [H+][OH-]
KW è la costante dell’equilibrio di autoionizzazione e viene definita prodotto ionico dell’acqua (w = water).
Le concentrazioni in acqua pura degli ioni idronio e idrossido si equivalgono (rapporto 1:1), quindi risulta
che: [H+] = [OH-] = 10-7 mol/L pertanto KW = [H+][OH-] = 10-14
Il valore KW varia con la temperatura: poiché il processo di autoionizzazione è endotermico, all’aumento
della temperatura corrisponde un aumento della concentrazione dei prodotti e quindi del valore di KW.
A temperatura costante la KW si mantiene costante in acqua pura e in tutte le soluzioni acquose di sali, acidi
e basi. L’acqua pura, che contiene quantità equivalenti di ioni H+ e OH- si considera neutra.
Si dice neutra una soluzione in cui [H+] = [OH-]-
Se la concentrazione degli ioni H+ è maggiore di quella degli ioni OH- la soluzione si dice acida.
Se la concentrazione degli ioni OH- è maggiore di quella degli ioni H+ la soluzione si dice basica.
Quando [H+] > 10-7 M la soluzione è acida; quando [H+] < 10-7 M la soluzione è basica.
Dato che il prodotto delle concentrazioni è costante, le due concentrazioni ioniche sono inversamente
proporzionali: all’aumentare dell’una diminuisce l’altra in modo che il prodotto resti costante (“perenne
altalena”). Una soluzione acida si ottiene sciogliendo in acqua pura una specie più acida dell’acqua, cioè
capace di aumentare la concentrazione degli ioni H+, diminuendo così la concentrazione degli ioni OH-.
Sciogliendo in acqua pura una sostanza più basica dell’acqua, accade che l’aumento della concentrazione
degli ioni OH- che la base provoca determina la diminuzione della concentrazione degli ioni H+.
La scala di pH fu introdotta per esprimere la concentrazione degli ioni idrogeno nelle soluzioni diluite.
La lettera p posta davanti a una grandezza significa che bisogna calcolare il logaritmo negativo di quella
grandezza: p corrisponde a –ln. Pertanto, si definisce pH il logaritmo decimale negativo della
concentrazione molare degli ioni H+: pH = -ln[H+].
Possiamo dire che il pH corrisponde all’esponente, cambiato di segno, della concentrazione molare degli
ioni H+ quando essa è espressa come potenza del 10, cioè: [H+] = 10-pH.
Si considerano generalmente valori della scala del pH compresi fra 0 e 14.
Le soluzioni acide hanno pH minore di 7, e le soluzioni basiche maggiore di 7.
E’ conveniente definire anche il pOH, che corrisponde a: pOH = -ln[OH-]
Per individuare la relazione tra il pH e il pOH calcoliamo il logaritmo negativo dell’espressione della KW,
ossia: -lnKW = -ln[H+] – ln[OH-] quindi pKW = pH + pOH = 14
Con questa relazione è possibile calcolare sia il pH sia il pOH di qualsiasi soluzione acida o basica.
La forza delle basi viene definita in modo analogo a quella degli acidi. La costante di ionizzazione basica Kb
esprime la tendenza delle basi ad accettare protoni dall’acqua, ed è tanto più grande quanto la tendenza ad
accettare protoni è accentuata. Le basi forti più comuni sono gli idrossidi dei gruppi I e II, che sono tipici
solidi ionici contenenti cationi metallici e ioni OH-. L’idrossido libera gli ioni OH- in soluzione acquosa per
semplice dissociazione, senza che avvenga ionizzazione. Alcuni idrossidi del II gruppo sono poco solubili.
A parità di concentrazione e di volume, una soluzione di base forte e una di base debole non contengono lo
stesso numero di ioni OH-.
A ciascuna specie acida corrisponde una base coniugata e a ciascuna base corrisponde un acido coniugato.
Il prodotto delle costanti di ionizzazione di una coppia acido-base coniugata (o base-acido coniugato) in
soluzione acquosa corrisponde al prodotto ionico dell’acqua: Kb Ka = KW
All’aumentare della forza di una specie, diminuisce la forza della specie coniugata.
Analogamente, le basi forti in soluzione acquosa sono completamente dissociate in ioni. Dalla [OH-] si
calcola prima il pOH e poi il pH ricordando che pH + pOH = 14.
COME MISURARE IL pH
Esistono alcune sostanze dette indicatori che hanno la proprietà di assumere colori diversi a seconda del pH
della soluzione a cui sono aggiunte. I chimici hanno approntato una miscela di più indicatori capace di
assumere un diverso colore per ogni valore di pH della soluzione: tale miscela è stata chiamata indicatore
universale e viene utilizzata sia in forma liquida sia assorbita su strisce di carta.
Dato che nelle neutralizzazioni acido-base gli ioni H+ devono reagire con un ugual numero di ioni OH-, è utile
esprimere la concentrazione delle soluzioni acide e basiche non più in molarità, ma in normalità.
La normalità N corrisponde a np volte la molarità M, dove np è il numero di protoni donati o accettati dalla
specie: N = np M per esempio una molecola di HCl può donare a una base un solo ione H+, cioè un solo
protone: in tal caso np = 1 quindi N = M; una molecola che può cedere due protoni a una base avrà np = 2 e
pertanto normalità doppia rispetto alla molarità. In conclusione, la normalità di una soluzione è il rapporto
tra il numero di equivalenti di soluto e il volume della soluzione, espresso in litri.
Un equivalente può essere definito come la quantità di composto a cui corrisponde una mole di unità
reattive: un equivalente di acido è la quantità di acido che può fornire una mole di ioni H+; un equivalente di
base è la quantità di base che può accettare una mole di ioni H+.
LA TITOLAZIONE ACIDO-BASE
La reazione di neutralizzazione può essere utilizzata per determinare la quantità precisa di acido o di base
contenuta in una soluzione a concentrazione incognita: la tecnica che si utilizza a tal fine è detta
titolazione, in quanto la concentrazione di una soluzione è detta anche titolo.
In generale, la titolazione è una tecnica di analisi quantitativa che serve a determinare la concentrazione
incognita di una soluzione tramite aggiunte progressive di un’altra sostanza a titolo noto, detta titolante.
In una titolazione acido-base, a una soluzione di acido (o base) a concentrazione incognita si aggiungono
piccole porzioni di una soluzione basica (o acida) a concentrazione nota.
Le aggiunte si protraggono fino a quando il numero di equivalenti di acido corrisponde al numero di
equivalenti di base, ossia fino alla neutralizzazione della soluzione iniziale. Dal volume di titolante utilizzato
si risale poi alla concentrazione incognita della soluzione di acido (o base).
A mano a mano che le due soluzioni si mescolano, si avvia la reazione di neutralizzazione che porta alla
formazione di sale e acqua. Quando la neutralizzazione è completata, diciamo che siamo al punto
equivalente della titolazione, indicato dal cambiamento di colore di un opportuno indicatore
preventivamente addizionato alla soluzione da titolare.
Tutte le reazioni in cui gli elettroni di legame si avvicinano all’atomo più elettronegativo dei due,
allontanandosi dall’altro, sono reazioni di ossido-riduzione (o redox). Il termine ossidazione ricorda che
spesso in queste reazioni è convolto l’ossigeno, che dopo il fluoro è l’elemento più elettronegativo.
Quando in una reazione redox i reagenti si trasformano in prodotti, variano le distanze medie degli
elettroni di legame degli atomi coinvolti: per prevedere quale atomo abbia il sopravvento, si fa ricorso
all’elettronegatività e al numero di ossidazione (n.o.), il quale rappresenta la carica che ogni atomo
assumerebbe se gli elettroni di legame fossero assegnati all’atomo più elettronegativo.
Il n.o. non è una carica elettrica ma comunque viene indicato da un numero relativo (preceduto da + o -).
Sono tipici ossidanti l’ossigeno molecolare (O2) e il cloro molecolare (Cl2); mentre un tipico riducente è
l’idrogeno (H2) e il carbonio (C). I prodotti principali delle reazioni redox sono acqua, anidride carbonica,
ioni metallci, e ioni idrogeno.
Possiamo pensare ai reagenti di una reazione redox come a specie che si contendono elettroni: la più forte
attira verso di sé gli elettroni di legame e si riduce fungendo da agente ossidante per la più debole, che
rilascia elettroni ossidandosi, fungendo da agente riducente dell’altra.
Ci sono poi reazioni redox in cui una stessa specie chimica si ossida e si riduce contemporaneamente: a tali
reazioni si dà il nome di dismutazioni o disproporzioni: la dismutazione è una reazione redox in cui una
stessa specie chimica in parte si ossida e in parte si riduce. I prodotti di una dismutazione sono due diverse
specie chimiche contenenti lo stesso elemento iniziale ma con stato di ossidazione differente.
COME SI BILANCIANO LE REAZIONI REDOX
Le determinazione dei coefficienti delle reazioni redox non è sempre un’operazione facile e immediata.
Se conosciamo i n.o. vale la pena utilizzare il metodo della variazione del numero di ossidazione.
Consideriamo la seguente reazione:
(-1) ----------------------------------> (0)
(+7) --------------------------------> (+2)
KMnO4 + KI + H2SO4 ---> MnSO4 + I2 + K2SO4 + H2O
Manganese (Mn) e iodio (I) sono gli elementi che presentano variazioni del n.o.
1. Riconosciamo l’elemento che si riduce e quello che si ossida e scriviamo le loro trasformazioni
separatamente (semireazione di riduzione e semireazione di ossidazione); per ciascun elemento è
necessario riportare il numero di atomi presenti nelle rispettive formule.
(+7) ------> (+2) (-1) ----> (0)
Il manganese si riduce: Mn ---> Mn Lo iodio si ossida: I ---> I2
2. Se necessario, bilanciamo gli atomi da una parte e dall’altra della freccia; nel nostro caso è
sufficiente anteporre il coefficiente 2 allo iodio (-1). Calcoliamo poi la variazione n.o. (Δn.o.):
(+7) ------> (+2) Δn.o. = -5 (-1) ----> (0) Δn.o. = +2
Il manganese si riduce: Mn ---> Mn Lo iodio si ossida: 2I ---> I2
Nella riduzione il n.o. decresce di 5 quindi Δn.o. = -5, nell’ossidazione aumenta di +1 per ogni iodio che
si riduce: ci sono due atomi di iodio quindi l’aumento complessivo è Δn.o. = +1 +1 = +2
3. Facciamo coincidere le due variazioni del n.o. (facendo il m.c.m.) individuando gli opportuni
coefficienti numerici; il coefficiente per il manganese è 2, quello per lo iodio è 5.
Δn.o.Mn = [-5 * 2] = -10 Δn.o.I = [5*(+2)] = +10
Riportiamo i coefficienti davanti ai rispettivi elementi facendo i calcoli necessari come di seguito:
2Mn ---> 2Mn [5*2] 10I ---> 5I2
4. Riportiamo i coefficienti così determinati nello schema di reazione e bilanciamo gli altri elementi
applicando le regole note.
LE PILE
Quando l’ossidante e il riducente vengono a contatto in una reazione redox spontanea, gli elettroni si
spostano rapidamente fra i reagenti e si ha liberazione di energia sotto forma di calore. Essa può essere
trasformata in energia elettrica se separiamo il sito dell’ossidazione dal sito della riduzione e se gli elettroni,
per trasferirsi dal riducente all’ossidante, sono costretti a muoversi lungo un filo metallico esterno che
collega i due siti di reazione. In tal modo si genere una corrente elettrica.
Il dispositivo capace di trasferire gli elettroni di una reazione redox spontanea e di trasformare l’energia
chimica in energia elettrica è chiamato cella galvanica o più comunemente pila. Essa è costituita da due
semicelle: una contiene i componenti della semireazione di ossidazione e l’altra quelli della semireazione di
riduzione. Un esempio di pila è la pila Daniell, in cui avviene la reazione tra ioni Cu2+ e zinco metallico.
Una delle due semicelle è costituita da una lamina di zinco immersa in una soluzione di un suo sale solubile
(per esempio ZnSO4), mentre l’altra è una lamina di rame immersa anch’essa in una soluzione di un suo sale
solubile (per esempio CuSO4).
Le due lamine metalliche prendono il nome di elettrodi e sono collegate dal filo conduttore che permette il
passaggio degli elettroni. Le due soluzioni invece sono collegate da un ponte salino, che consiste in un tubo
di vetro contenente una soluzione salina molto concentrata (per esempio KCl): la sua funzione è
permettere il passaggio di ioni da una semicella all’altra senza che le loro soluzioni si mescolino.
A collegamenti effettuati il filo conduttore è percorso da corrente: gli elettroni si trasferiscono
effettivamente da un elettrodo all’altro. Se dopo un certo intervallo di tempo controlliamo le masse degli
elettrodi, possiamo notare che la lamina di zinco si è consumata, quella di rame è aumentata.
All’interno della pila, lo zinco metallico (dell’elettrodo) passa in soluzione ossidandosi a Zn2+ e libera
elettroni secondo la semireazione di ossidazione: Zn ---> Zn2+ + 2e-
Attraverso il filo conduttore gli elettroni passano all’elettrodo di rame dell’altra semicella e agiscono da
richiamo per gli ioni Cu2+ della soluzione; essi si riducono a rame metallico secondo la semireazione di
riduzione: Cu2+ ---> 2e- + Cu
Nella prima semicella si accumulano ioni Zn2+; nella seconda invece diminuisce il numero di ioni Cu2+ e in
soluzione rimane un eccesso di ioni negativi (SO42-). Se l’equilibrio elettrico non venisse ristabilito dagli ioni
del ponte salino, questo fenomeno interromperebbe la reazione. Invece, gli ioni negativi del ponte salino
(Cl-) sono richiamati nella semicella dallo zinco e bilanciano l’eccesso di ioni Zn2+; gli ioni positivi del ponte
salino (K+) fluiscono nella semicella del rame e bilanciano l’eccesso di ioni negativi in soluzione.
Volendo schematizzare il circuito elettrico, possiamo immaginarlo costituito da due parti:
1. Un circuito esterno in cui gli elettroni fluiscono attraverso il conduttore metallico e si trasferiscono
dall’elettrodo sede dell’ossidazione a quello su cui avviene la riduzione;
2. Un circuito interno in cui gli ioni trasportano la carica attraverso la soluzione elettrolitica: i cationi
migrano verso la semicella sede della riduzione, mentre gli anioni migrano verso la semicella in cui
ha luogo l’ossidazione.
L’elettrodo su cui avviene l’ossidazione è chiamato anodo e costituisce il polo negativo della pilla;
l’elettrodo sede della riduzione è chiamato catodo e costituisce il polo positivo.
Gli elettroni forniti dall’anodo viaggiano quindi in direzione del catodo, mentre gli anioni si muovono in
direzione opposta, cioè verso l’anodo. In una qualsiasi pila, all’anodo avviene la semireazione di ossidazione
e al catodo la semireazione di riduzione.
La pila Danill ha voltaggio di 1,1 volt. Si definisce voltaggio di una pila o di una batteria la differenza di
potenziale (d.d.p.) fra i due elettrodi, e si misura in volt. La differenza di potenziale in chimica è chiamata
forza elettromotrice (fem), e indica la forza con cui gli elettroni sono spinti attraverso il circuito.
La forza elettromotrice di una pila corrisponde alla differenza di potenziale del catodo e quello dell’anodo.
LA CORROSIONE
La corrosione è un processo di deterioramento dei metalli. Il meccanismo con cui si forma la ruggine può
essere spiegato attraverso la formazione di una minuscola cella elettrochimica tra il ferro e l’ossigeno
dell’aria umida. Il ferro è il polo negativo e si ossida, l’ossigeno si riduce e costituisce il catodo della pila.
La goccia d’acqua agisce da soluzione elettrolitica, tanto più efficiente quanti più ioni essa contiene: l’acqua
salata accelera notevolmente il processo di corrosione.
L’ossido di ferro(III) idrato che si forma è la sostanza di colore bruno che chiamiamo ruggine.
Durante l’elettrolisi dell’acqua, affinché possa condurre corrente elettrica, deve contenere un elettrolita
come per esempio Na2SO4. L’ossidazione e la riduzione riguardano solo l’acqua: al polo negativo avremo la
riduzione con formazione di H2 gassoso e al polo positivo avremo l’ossidazione dell’acqua con produzione di
O2 gassoso. Gli ioni H+ prodotti all’anodo e gli ioni OH- formatisi al catodo si ricombinano per dare 4
molecole di acqua che dovremo sottrarre a quelle presenti fra i reagenti: 2H2O ---> 2H2 + O2
Il numero di moli di H2 prodotte è il doppio di quelle di O2: dall’elettrolisi dell’acqua si ottiene pertanto un
volume di idrogeno doppio di quello dell’ossigeno.
18. La chimica del carbonio
I COMPOSTI ORGANICI
Tutti i composti contenenti carbonio sono, con poche eccezioni, da considerarsi composti organici.
Vengono considerati inorganici carbonati, cianuri e carburi: CO, CO2, H2CO3, HCN.
Tutte le molecole organiche contengono oltre al carbonio, pochi elementi: idrogeno, ossigeno, e pochi altri.
La grande varietà di composti organici a cui dà luogo il carbonio dipende dalla sua particolare natura, infatti
la presenza di quattro elettroni nello strato di valenza determina la possibilità di formare lunghissime
catene di atomi di carbonio tramite la condivisione di una, due o tre coppie di elettroni:
-C-C-C-C- -C=C- -C≡C-
legami semplici legame doppio legame triplo
Il suo valore di elettronegatività (2,5) è tale per cui può legarsi covalentemente con tutti i non metalli e con
quasi tutti i metalli.
Il più semplice degli alcani è il metano (CH4). La sua struttura è perfettamente tetraedrica con angoli di
legame di 109,5°. I quattro atomi di H che circondano il C sono legati ad esso mediante legami σ.
Secondo la teoria dell’ibridazione, il carbonio tetraedrico presenta quattro orbitali ibridati sp3, derivati dalla
combinazione dei suoi tre orbitali 2p con l’orbitale 2s.
In tutti gli alcani, gli atomi di carbonio si uniscono tra loro per formare una catena; ciò comporta che essi
non possano più legarsi a quattro atomi di idrogeno come nel caso del metano.
Ciascuno dei due atomi di carbonio dell’etano, per esempio ha intorno a sé tre atomi di idrogeno; dei tre
atomi di carbonio del propano, quello centrale lega soltanto due idrogeni.
Osservando la struttura degli idrocarburi, si nota che etano e propano si differenziano per la presenza di un
gruppo –CH2– (metilene). In generale, a partire dall’etano, la struttura dell’alcano successivo si ricava
aggiungendo un gruppo –CH2– all’interno della catena. Per questa caratteristica gli alcani sono una serie
omologa. Una serie omologa è una serie di composti in cui ciascun termine differisce dal precedente di una
unità costante. La formula generale della serie omologa degli alcani è CnH2n+2
A partire dal propano (C3H8) è possibile chiudere la catena di atomi di carbonio; si forma così il
corrispondente cicloalcano. La chiusura della catena comporta la perdita di due atomi di idrogeno (uno per
ciascuno dei due atomi di carbonio che devono unirsi tra loro). La formula generale dei cicloalcani è CnH2n.
La struttura più interessante è quella del cicloesano: essa può assumere diverse conformazioni spaziali.
Le due più importanti sono la conformazione a sedia e la conformazione a barca (isomeri conformazionali).
Nella conformazione a sedia si individuano due diverse disposizioni degli atomi di idrogeno: una assiale,
ossia parallela all’asse di simmetria della molecola, l’altra equatoriale, cioè a raggiera intorno al perimetro
della molecola. La conformazione più stabile è quella a sedia, in cui gli atomi di idrogeno risultano meno
ravvicinati, minimizzando le forze repulsive e le nuvole elettroniche.
L’ISOMERIA
L’isomeria è un fenomeno per cui a una stessa composizione chimica corrispondono diverse disposizioni
spaziali degli atomi costituenti. Gli atomi di carbonio possono infatti concatenarsi in modo differente.
Alla formula grezza del butano C4H10 corrispondono due distinte molecole: una lineare una ramificata.
Sono isomeri quei composti che hanno la stessa formula bruta ma che differiscono per il modo in cui gli
atomi sono legati tra loro o sono disposti nello spazio. Negli isomeri di struttura, gli stessi atomi sono legati
in modo diverso. Per esempio n-butano e 2-metilpropano si dicono isomeri di catena e sono caratterizzati
da diverse proprietà fisiche. All’aumentare del numero di atomi di carbonio dell’alcano, aumenta anche il
numero di isomeri possibili.
Se le molecole organiche contengono atomi diversi da C e H, possono presentare altre isomerie di struttura:
1. Isomeria di posizione. L’atomo di ossigeno nel composto C3H8O può legarsi ad un carbonio o
all’altro della catena e formare così due differenti isomeri di posizione:
2. Isomeria di gruppo funzionale. L’atomo di ossigeno potrebbe inserirsi tra due atomi di carbonio e
originare, a parità di formula grezza, una struttura ancora diversa: CH3-CH2-O-CH3
Talvolta la differenza tra un isomero e l’altro è ancora più sottile perché essi si distinguono solo per la
diversa orientazione nello spazio dei loro atomi. Isomeri di questo tipo sono chiamati stereoisomeri.
La stereoisomeria può essere isomeria geometrica (alcheni che formano doppi legami) oppure ottica.
Tutti gli oggetti che mancano di un piano di simmetria sono chiamati chirali, ovvero distinguibili dalla loro
immagine speculare. Sono invece achirali tutti gli oggetti che presentano un piano di simmetria, perché
sovrapponibili alla loro immagine speculare tramite traslazioni e rotazioni. Le molecole possono essere
chirali a patto che la loro struttura non presenti piani di simmetria: ciò accade spesso quando l’atomo di
carbonio lega secondo geometria tetraedrica quattro atomi diversi. In tal caso si dice che l’atomo di
carbonio è un centro chirale o stereocentro, e coppie di molecole con queste caratteristiche sono isomeri
ottici o enantiomeri. Gli enantiomeri hanno proprietà achirali identiche, ma proprietà chirali diverse.
Un miscuglio al 50% di due enantiomeri è detto racemo e non è otticamente attivo.
Prima di tutto è necessario individuare la più lunga catena continua di atomi di carbonio contenente tutte
le insaturazioni (doppi e tripli legami), di modo da individuare l’idrocarburo corrispondente. I gruppi legati
alla catena principale sono considerati dei sostituenti: se presentano solo atomi di carbonio e idrogeno, e
sono saturi, vengono chiamati radicali alchilici (R-).
I radicali alchilici si ricavano formalmente per allontanamento di un atomo di idrogeno dall’alcano
corrispondente e il loro nome si ottiene sostituendo il suffisso –ano con il suffisso –ile.
A partire dal propano, uno stesso alcano può dare vita a gruppi alchilici diversi. Per distinguerli è utile
classificare gli atomi di carbonio in primari, secondari, terziari o quaternari a seconda che siano legati,
rispettivamente, a uno, due tre, o quattro altri atomi di carbonio.
Se dal propano o dal butano si allontana un idrogeno legato a un carbonio secondario si ottengono
rispettivamente il sec-propile e il sec-butile. Il radicale che deriva dall’isomero ramificato del butano, per
allontanamento dell’idrogeno dall’atomo di carbonio terziario, si chiama invece ter-butile (iso = sec).
Dopodiché, è necessario numerare gli atomi della catena principale in modo da attribuire il numero più
basso possibile agli atomi di carbonio che legano i radicali alchilici (non è importante se da dx o da sx).
A questo punto i radicali alchilici vanno elencati in ordine alfabetico (etil- precede metil-) e se sono presenti
due o più radicali identici, si adoperano i prefissi di-, tri-, tetra-. Se due radicali sono legati allo stesso atomo
di carbonio il numero che indica la posizione deve essere ripetuto.
I nomi vanni scritti senza interruzioni, il trattino separa il numero del carbonio dal nome del radicale a cui è
legato, la virgola separa i vari numeri nel caso in cui lo stesso radicale sia presente più volte.
Per la nomenclatura dei cicloalcani si seguono le stesse regole generali degli alcani. Se è presente un solo
sostituente, non c’è bisogno di numerazione. Se invece sono presenti due o più sostituenti, gli atomo di
carbonio devono essere numerati in modo da utilizzare i numeri più piccoli possibile.
Alcani e cicloalcani reagiscono in condizioni opportune anche con gli alogeni (cloro e bromo): si parla allora
di reazioni di alogenazione. Il risultato della reazione è la sostituzione di uno o più atomi di idrogeno
dell’alcano con atomi di alogeno.
Le reazioni in cui uno o più atomi ne sostituiscono altri sono reazioni di sostituzione radicalica.
1. Inizio: Nel caso dell’alogenazione di un alcano, è necessario spezzare il legame covalente nella
molecola di alogeno gassoso fornendo energia; quando il legame si rompe, ciascun atomo si
riappropria del suo elettrone: in tal caso si parla di rottura omolitica del legame e si formano due
radicali alogeni;
2. Propagazione: A questo punto il radicale alogeno strappa un atomo di idrogeno all’alcano, che
rimane così con un elettrone spaiato, sotto forma di radicale alchilico. Si forma in questo passaggio
anche l’acido alogenidrico (HX). Il radicale, a sua volta, strappa un atomo a una molecola di
alogeno: il risultato è la formazione dell’alogenuro alchilico e di un radicale alogeno.
Raggiunta la fase di propagazione la reazione può seguire un andamento a catena.
3. La catena di reazione termina quando si combinano tra loro due specie radicaliche:
R- + X ---> R-X 2R- ---> R-R 2X ---> X2
GLI IDROCARBUTI INSATURI: ALCHENI E ALCHINI
Gli alcheni sono idrocarburi che presentano nella molecola un doppio legame carbonio-carbonio.
Gli alchini invece, sono caratterizzati da un triplo legame carbonio-carbonio.
>C=C< -C≡C-
alcheni alchini
Ciascuno dei due atomi di carbonio coinvolti nel legame multiplo non è legato a quattro atomi (come negli
alcani) ma soltanto a tre negli alcheni e a due negli alchini. Alcheni e alchini sono idrocarburi insaturi, infatti
presentano carboni che non hanno “saturato” la loro capacità di legame.
La geometria che caratterizza l’unità >C=C< è triangolare planare con angoli di legame a 120° a ibridazione
sp2, mentre nel caso del triplo legame -C≡C- la geometria è lineare e gli angoli di legame sono di 180° a
ibridazione sp.
Il primo idrocarburo della serie omologa degli alcheni è l’etene o etilene, mentre il primo degli alchini è
l’etino o acetilene. Il legame doppio è l’insieme di un legame σ e di uno π, mentre il triplo legame
comprende un legame σ e due legami π. La presenza del legame π comporta l’impossibilità di rotazione.
La formula generale degli alcheni è CnH2n e quella degli alchini è CnH2n-2. Gli alcheni hanno la stessa formula
grezza dei cicloalcani. Un cicloalcano e il corrispondente alchene sono quindi isomeri.
A partire dal butene, C4H8 gli alcheni presentano il fenomeno dell’isomeria di posizione del doppio legame
lungo la catena. Lo stesso tipo di isomeria riguarda anche gli alchini. Si ricorda che gli atomi di carbonio di
un alchino impegnati nel triplo legame non possono portare ramificazioni.
I punti di ebollizione degli alchini sono un po’ più alti, mentre alcani e alcheni non si discostano molto.
La nomenclatura di questi idrocarburi prevede la sostituzione del suffisso –ano del corrispondente alcano,
con il suffisso –ene per gli alcheni e –ino per gli alchini. Le regole per assegnare il nome a un idrocarburo
insaturo sono le seguenti:
1. Individuare la catena di atomi di carbonio più lunga che contenga tutte le insaturazioni presenti;
2. Numerarla in modo da attribuire il numero più basso possibile ai doppi e ai tripli legami;
3. Nominare la catena principale indicando il numero di atomi di carbonio e sostituendo –ano con
–ene o –ino. Il nome della catena principale dev’essere preceduto dal numero più basso del
carbonio coinvolto nel legame doppio o triplo. Quando nella catena ci sono due o più legami
multipli, al suffisso –ene o –ino si antepone il prefisso di- tri- e via dicendo;
4. Se sono presenti delle ramificazioni, si procede come per gli alcani. Il nome di una ramificazione in
cui compare un’insaturazione termina in –enil o –inil a seconda che si tratti di un doppio o di un
triplo legame.
La geometrica che caratterizza l’unità >C=C< è planare: le loro posizioni sono fisse perché la presenza del
legame π impedisce la rotazione degli atomi di carbonio insaturi intorno al doppio legame. Se a ciascuno di
essi sono legati due atomi o due gruppi diversi, a seconda della loro disposizione rispetto al doppio legame,
si possono avere due differenti strutture molecolari chiamate isomeri cis e isomeri trans.
Se i due gruppi si trovano dalla stessa parte del piano rispetto al doppio legame, l’isomero si definisce cis;
se invece i due gruppi sono situati da parti opposte, l’isomero si definisce trans.
Gli isomeri cis-trans sono stereoisomeri, ossia differiscono solo per la disposizione spaziale degli atomi.
Per la maggiore simmetria della sua molecola, l’isomero trans è meno polare o del cis (se non apolare).
L’isomeria cis-trans è un fenomeno che riguarda anche gli idrocarburi ciclici, come i cicloalcani disostituiti.
La reattività di alcheni e alchini si discosta molto da quella degli alcani e la causa principale è la presenza del
legame π: gli elettroni sono meno vincolati ai nuclei, e in condizioni opportune di reazione possono essere
utilizzati per formare nuovi legami con altri atomi.
La reazione tipica di alcheni e alchini è l’addizione elettrofila: gli atomi provenienti dal reagente molecolare
si congiungono con i due carboni del legame multiplo, che vengono così saturati.
L’energia liberata durante la formazione dei nuovi legami è superiore a quella necessaria per rompere i
vecchi legami: la reazione è quindi esotermica. I reagenti che vanno ad addizionarsi sono detti elettrofili.
Gli elettrofili sono molecole o ioni che possono accettare un doppietto elettronico.
Lo ione H+ per esempio è un elettrofilo; tutti gli acidi forti, donatori di protoni, reagiscono con gli alcheni.
La reazione di addizione elettrofila, a differenza della sostituzione radicalica, comporta la rottura eterolitica
dei legami: gli elettroni condivisi vengono assegnati a uno solo dei due atomi che partecipavano al legame.
Quando si fa reagire l’etene con HCl, i due elettroni del legame π vanno a formare il legame σ fra il protone
H+ (l’elettrofilo) dell’acido e uno dei due atomi di carbonio; l’altro, invece, perde uno dei suoi elettroni e
diventa positivo. La specie chimica così originata è detta carbocatione.
Un carbocatione si forma in seguito alla rottura di un legame, quando il doppietto elettronico inizialmente
condiviso è acquistato da uno solo dei due atomi.
I carbocationi sono molto reattivi e si combinano facilmente con le specie in grado di fornire una coppia di
elettroni, cioè i nucleofili. I nucleofili sono anioni o molecole neutre con doppietti elettronici disponibili.
Lo ione cloruro in questo caso è un nucleofilo perché può fornire al carbocatione un doppietto elettronico.
La reazione di addizione nucleofila si sviluppa in due stadi: nel primo si ha la formazione del carbocatione,
mentre nel secondo esso è attaccato dal nucleofilo.
La posizione dell’elettrofilo e, di conseguenza, del nucleofilo segue la regola di Markovnikov, ossia quando
un reagente asimmetrico si addiziona ad un alchene simmetrico (che possiede un piano di perpendicolarità
perpendicolare al doppio legame che divide la molecola in due metà uguali), l’elettrofilo si unisce all’atomo
di carbonio a sua volta legato al maggior numero di atomi di idrogeno.
Per spiegare le proprietà chimiche e fisiche del benzene bisogna far ricorso alla teoria della risonanza.
Bisogna assumere che ogni atomo di carbonio dell’anello abbia tre orbitali ibridi sp2 e un orbitale p puro
non ibridato perpendicolare al piano degli altri tre. Ciascuno dei quattro orbitali è associato a un elettrone.
La sovrapposizione degli orbitali ibridi sp2 porta alla formazione dell’anello e dei legami con gli atomi di
idrogeno. La sovrapposizione due a due dei sei orbitali p origina i legami π; essi però possono instaurarsi
con l’uno o con l’altro degli atomi di carbonio adiacenti: sono quindi possibili due diverse disposizioni.
Per questo motivo il benzene, secondo la teoria della risonanza, è rappresentato come ibrido tra due forme
limite che differiscono solo per la posizione dei doppi legami.
I sei elettroni sono delocalizzati su tutto l’anello, e formano una nube elettronica che si distribuisce sopra e
sotto il piano della molecola conferendo una particolare stabilità. Per evidenziare la delocalizzazione
elettronica, si traccia un cerchio dentro alla scrittura semplificata, e si omettono anche gli idrogeni.
La presenza di elettroni π delocalizzati garantisce una particolare stabilità ai composti aromatici.
Quando due degli atomi di idrogeno dell’anello aromatico sono sostituiti da altri atomi o gruppi atomici, si
formano isomeri diversi a seconda della posizione. Per distinguerli, si ricorre alla numerazione degli atomi
di carbonio, o alla denominazione orto-, meta-, para-. I sostituenti orto sono legati a carboni adiacenti
(posizione 1,2); sono meta se in posizione 1,3 e para quando sono legati a carboni opposti (posizione 1,4).
Il benzene e gli altri idrocarburi aromatici sono eccellenti solventi di sostanze poco polari o apolari.
Nel caso della reazione tra bromo molecolare Br2 e benzene, si ha la sostituzione di un atomo di idrogeno
dell’anello con un atomo di bromo della molecola di Br2, che si trasforma in HBr, acido bromidrico.
Per un generico elettrofilo E+ il meccanismo si sviluppa in due stadi: nel primo stadio risultano legati al
carbonio dell’anello sia l’idrogeno che l’elettrofilo; si forma così un carbocatione la cui carica positiva è
distribuita su tutto l’anello. Il distacco dello ione H+ nel secondo stadio porta alla formazione del prodotto
elettricamente neutro.
19. I gruppi funzionali
I gruppo funzionale di una molecola ne costituisce il centro di reattività, mentre il resto della catena è detto
scheletro molecolare. Alcuni gruppi funzionali sono costituiti da atomi legati insieme con o senza carbonio,
mentre altri sono formati da atomi singoli (come gli alogeni -X). Le molecole che contengono un stesso
gruppo funzionale costituiscono una classe di composti.
ALOGENURI
Gli alogenuri organici sono prodotti di laboratorio sintetizzati a partire dagli alcani, con la reazione di
sostituzione radicalica. La nomenclatura IUPAC li considera composti derivati degli alcani in cui l’atomo di
alogeno ha sostituito un atomo di idrogeno (es: clorometano)
Il nome di un alcol si ricava da quello del corrispondente idrocarburo sostituendo l’ultima vocale con il
suffisso –olo. Si sceglie come struttura di base la catena più lunga di atomi di carbonio che non contiene il
gruppo ossidrile, il quale deve essere legato al carbonio col numero minore possibile (es: 2-butanolo).
Nel caso che su uno stesso scheletro molecolare siano inseriti due, tre o più gruppi alcolici, il suffisso
diventa –diolo, –triolo, ecc. (es: 1,2-etandiolo).
I fenoli hanno in genere nomi comuni. Il primo composto della serie è proprio chiamato fenolo.
Secondo la nomenclatura IUPAC, i fenoli vengono denominati secondo le regole valide per i composti
aromatici, ma come radice è impiegato il termine –fenolo, mentre il gruppo ossidrile considerato come
sostituente è chiamato –idrossi (es: 2-idrossifenolo, paracetamolo).
Non bisogna confondere fenolo e fenile; quest’ultimo è il radicale C6H5– proveniente dal benzene.
Per quanto riguarda gli eteri, si premettono alla parola etere i nomi, in ordine alfabetico, dei due
raggruppamenti legati all’ossigeno (es: dimetiletere).
A parità di massa molecolare, alcoli e fenoli hanno punti di ebollizione più elevati sia degli idrocarburi sia
degli eteri: i legami a idrogeno che si instaurano tra le molecole di alcol e tra quelle di fenolo sono molto più
robusti delle forze intermolecolari di idrocarburi ed eteri. I legami a idrogeno giustificano la miscibilità dei
primi tre alcoli (metanolo, etanolo, propanolo) con l’acqua. All’aumentare del numero di atomi di carbonio
dell’alcol, la solubilità diminuisce perché prevale il carattere idrofobico della catena idrocarburica rispetto
al carattere idrofilo del gruppo alcolico. Gli eteri non possono associarsi tramite legami a idrogeno, ma
possono accettare legami idrogeno da composti contenenti il gruppo ossidrile: questo spiega la solubilità in
acqua e in alcol degli eteri più semplici.
Gli alcoli sono acidi molto deboli, mentre i fenoli sono molto più acidi degli alcoli. A causa della maggiore
elettronegatività dell’atomo di ossigeno, il carbonio che lega il gruppo ossidrile è parzialmente positivo, per
cui in condizioni opportune esso è esposto agli attacchi di agenti nucleofili che portano alla rottura del
legame C–O. Inoltre, negli alcoli primari e secondari l’atomo di carbonio che lega l’ossidrile possiede ancora
atomi di idrogeno che possono essere rimossi da un opportuno agente ossidante.
L’ossidazione di un elemento è una trasformazione che comporta l’aumento del numero di ossidazione n.o.
degli atomi che lo costituiscono. Ogni volta che il carbonio si lega a un elemento più elettronegativo come
l’ossigeno, subisce un aumento del suo n.o. per cui diciamo che si ossida. Invece il carbonio si riduce
quando si lega a un elemento meno elettronegativo, come l’idrogeno, e il suo n.o. diminuisce.
Il carbonio è tanto più ossidato quanti più legami forma con l’ossigeno e quanti meno ne forma con
l’idrogeno. Il carbonio del gruppo funzionale alcolico, per esempio, è più ossidato di quello dello scheletro
molecola, ma è meno ossidato del carbonio del gruppo funzionale aldeidico (carbonile).
I prodotti dell’ossidazione degli alcoli primari e secondari sono diversi: gli alcoli primari sono ossidati prima
ad aldeidi e poi ad acidi carbossilici; gli alcoli secondari sono invece ossidati a chetoni.
Anche i fenoli si ossidano facilmente: il prodotto appartiene alla categoria dei chinoni. L’interconversione
dalla forma chinonica a quella idrochinonica avvine negli ubichinoni, detti coenzimi Q.
ALDEIDI E CHETONI
Il gruppo funzionale caratteristico delle aldeidi (R–CHO) e dei chetoni (R–CO–R’) è molto simile.
Entrambi contengono il raggruppamento >C=O chiamato carbonile, che nelle aldeidi lega un atomo di
idrogeno e un radicale alchilico/arilico; mentre nei chetoni lega due radicali. Nelle aldeidi il carbonile è al
termine di una catena carboniosa, nei chetoni è in posizione interna.
Come negli alcheni, il carbonio del gruppo carbonilico è ibridato sp2 e gli angoli di legame che esso forma
con gli atomi adiacenti sono di 120°. Il doppio legame carbonio-ossigeno è costituito da un legame σ e da
un legame π, che si forma per sovrapposizione del rimanente orbitale p del carbonio con un orbitale p
dell’ossigeno. A causa dell’elevata elettronegatività dell’ossigeno, il legame è polarizzato e ciò condiziona la
reattività delle molecole: tra aldeidi e chetoni si formano legami dipolo-dipolo intensi, così che i loro punti
di ebollizione sono più elevati degli idrocarburi di massa corrispondente. Non si formano legami a idrogeno
fra aldeidi e chetoni, ma l’atomo di ossigeno del carbonile forma legami a idrogeno con le molecole
d’acqua; per questo motivo aldeidi e chetoni a basso peso molecolare sono molto solubili in acqua.
Il nome delle aldeidi deriva da quello dell’alcano corrispondente sostituendo alla –o finale il suffisso –ale
(es: metanale, etanale), nei chetoni, invece, il suffisso è –one (es: propanone, 2-pentanone).
Se il gruppo –CHO è legato a un anello, si aggiunge il suffisso –carbaldeide al nome dell’anello (es:
benzencarbaldeide). Nelle aldeidi il gruppo –CHO è sempre a un’estremità della catena.
La reazione caratteristica di aldeidi e chetoni è l’addizione nucleofila.
Per ossidazione delle aldeidi si ottiene un acido carbossilico con lo stesso numero di atomi di carbonio.
Sia le aldeidi che i chetoni possono per riduzione formare, rispettivamente, alcoli primari o secondari.
I nomi IUPAC degli acidi carbossilici derivano da quello dell’alcano corrispondente in cui si sostituisce alla –o
finale il suffisso –oico, si premette poi il termine acido (es: acido metanoico, acido etanoico, ecc).
Le proprietà fisiche degli acidi carbossilici sono condizionate dalla formazione di legami a idrogeno
intermolecolari che portano spesso all’unione a due per due delle molecole di acido. Gli acidi carbossilici
presentano pertanto punti di ebollizione abbastanza alti.
Solo i primi tre acidi carbossilici (formico, acetico e propionico) sono solubili in acqua. Alcuni acidi
carbossilici diffusi in natura sono caratterizzati da una lunga catena carboniosa non ramificata costituita da
un numero pari di atomi di carbonio. Sono presenti sotto forma di gliceridi nei grassi animali e vengono per
questo chiamati acidi grassi. Si trovano anche acidi bicarbossilici (acido ossalico: HOOC–COOH) e
idrossiacidi (CH3–CHOH–COOH). Quando c’è più di un doppio legame gli acidi grassi si chiamano polinsaturi.
Tra di essi sono importanti i cosiddetti omega 3 e omega 6.
Gli acidi carbossilici sono acidi deboli la cui acidità è superiore a quella dei fenoli e ancora di più rispetto a
quella degli alcoli. Lo ione carbossilato è una formula di risonanza:
L’acidità di un acido carbossilico può variare a seconda dei gruppi presenti nella molecola.
L’acidità aumenta con l’aumentare del numero degli atomi di cloro che sostituiscono l’idrogeno. A causa
della maggiore elettronegatività del cloro, il legame C–Cl è polarizzato e il carbonio, parzialmente positivo,
attrae gli elettroni del carbossilato. Gli acidi carbossilici reagiscono con le basi forti e formano dei sali.
Gli acidi carbossilici reagiscono secondo il meccanismo della sostituzione nucleofila acilica per trasformarsi
in esteri quando il carbonio del gruppo C=O è attaccato dal nucleofilo R–OH.
ESTERI E SAPONI
Quando un acido carbossilico e un alcol sono riscaldati insieme si producono un estere e acqua
(esterificazione di Fischer). La reazione inversa all’esterificazione prende il nome di idrolisi.
Il nome degli esteri, R–CO–OR’, si ricava da quello del corrispondente acido carbossilico eliminando il
termine acido e sostituendo la desinenza –oico con –ato, segue poi il nome del radicale alchilico (es:
palmitato di cetile). Esteri naturali di elevato peso molecolare sono le cere, i grassi e gli oli.
I grassi e gli oli, rispettivamente solidi e liquidi a temperatura ambiente, si formano dalla reazione tra
glicerolo e acidi carbossilici, saturi o insaturi, a lunga catena e privi di ramificazioni, con un numero pari di
atomi di carbonio variabile da 12 a 20. Essi sono triesteri del glicerolo, e quindi sono detti trigliceridi.
Gli acidi che formano un grasso sono prevalentemente saturi; gli oli invece contengono una percentuale
elevata di acidi grassi insaturi. Maggiore è il numero dei doppi legami tanto più basso è il punto di fusione
del trigliceride.
Quando un grasso o un olio sono riscaldati con una soluzione acquosa di NaOH, la caratteristica struttura
del trigliceride si perde e si liberano le parti componenti (il processo è una idrolisi alcalina). Da una parte si
forma il glicerolo, dall’altra i gruppi –C=O si trasformano in ioni carbossilato R–COO- che insieme agli ioni
Na+ costituiscono i corrispondenti sali di sodio.
I saponi sono i sali di sodio (o di potassio) degli acidi grassi a lunga catena. Il termine saponificazione indica
l’idrolisi alcalina di un qualsiasi estere. I saponi sono in genere solubili in acqua, dove liberano ioni sodio e
carbossilato. Ogni ione carbossilato è costituito da una lunga catena idrocarburica (coda) alla cui estremità
si trova lo ione –COO- (testa). La coda apolare ha comportamento idrofobico, mentre la testa ionica è
idrofila. Le teste idrofile degli ioni carbossilato sono rivolte verso lo strato acquoso mentre le code
idrofobiche si dirigono verso l’ambiente interno.
I saponi hanno la proprietà di ridurre la tensione superficiale dell’acqua, per cui si dicono tensioattivi.
LE AMMINE
Le ammine derivano dall’ammoniaca NH3 per sostituzione dei suoi atomi di idrogeno con uno, due o tre
radicali alchilici o arilici e si distinguono, rispettivamente, in primarie, secondarie e terziarie a seconda che
abbiano uno, due o tre gruppi organici legati all’atomo di azoto.
La loro struttura è di tipo piramidale, simile a quella dell’ammoniaca: gli orbitali dell’azoto sono ibridati sp3
ed è presente un doppietto elettronico non condiviso.
La nomenclatura prevede di indicare uno a uno i nomi dei gruppi organici legati all’azoto e di aggiungere la
desinenza –ammina; se i gruppi sono uguali si usano i prefissi di- o tri- (es: metilammina, dietilammina, ecc).
Le ammine primarie e secondarie formano legami a idrogeno intermolecolari. I loro punti di ebollizione
sono più alti di quelli degli alcani di corrispondente massa molecolare e le ammine con pochi atomi di
carbonio risultano solubili in acqua. La caratteristica chimica più saliente delle ammine è la loro basicità
determinata dalla disponibilità del doppietto elettronico libero sull’atomo di azoto. Le ammine sono più
basiche dell’acqua, ma sono basi deboli.
Tutte le ammine alifatiche sono basi poco più forti dell’ammoniaca, mentre le ammine aromatiche sono
invece basi più deboli dell’ammoniaca. In queste ultime infatti la coppia solitaria dell’atomo di azoto è
condivisa con la nuvola elettronica dell’anello aromatico, e quindi è poco disponibile a legare un protone.
Le ammine insolubili in acqua possono essere solubilizzate mediante un acido: dalla reazione fra base
debole ammina e acido forte si ottiene un sale solubile.
Le ammine sono enormemente diffuse in natura, poiché insieme ai gruppi carbossilici sono tipiche di tutti
gli amminoacidi, ossia le unità di base delle proteine.
LE AMMIDI
Le ammine primarie e secondarie possono dare origine alle ammidi attraverso reazioni di sostituzione
nucleofila acilica. Le ammidi primarie hanno formula R–CO–NH2, mentre se gli atomi di idrogeno legati
all’azoto sono sostituiti da uno o due gruppi R, la formula è rispettivamente R–CO–NHR (ammide
secondaria), e R–CO–NR2 (ammide terziaria).
Il nome dell’ammide si ricava sostituendo il suffisso –oico dell’acido carbossilico corrispondente con il
suffisso –ammide (es: metanammide, etanammide). La presenza di almeno un atomo di idrogeno legato
all’azoto consente alle ammidi primarie e secondarie di formare legami a idrogeno tra le molecole; i loro
punti di fusione e ebollizione sono quindi elevati.
Le ammidi hanno geometria planare e presentano un legame C–N più corto del comune legame semplice e
con parziale carattere di doppio legame. Il gruppo ammidico si rappresenta con la formula di risonanza:
Le soluzioni acquose delle ammine sono basiche, quelle delle ammidi risultano neutre. Infatti il doppietto
elettronico dell’azoto è poco disponibile a legare un protone, perché delocalizzato.
COMPOSTI ETEROCICLICI
I composti eterociclici sono molecole formate da uno o più anelli condensati in cui sono presenti uno o più
atomi diversi dal carbonio. Una prima classificazione li divide in aliciclici e aromatici, dove i composti
eteociclici atomatici si dividono in base al numero di elettroni forniti dall’eteroatomo al sistema aromatico.
I POLIMERI DI SINTESI
Il termine polimero indica una molecola di massa molecolare elevata costituita da una unità strutturale che
si ripete. I polimeri sono lunghe catene, chiamate macromolecole. Le macromolecole si ottengono da
molecole a basso peso molecolare, i monomeri, che hanno uno o più doppi legami oppure due o più gruppi
funzionali in grado di reagire tra loro.
I polimeri di sintesi, i cui monomeri sono estratti dal petrolio, dal carbone o dal gas naturale, sono
numerosi. In base ai meccanismi di polimerizzazione, tali composti possono essere raggruppati in due classi
principali: i polimeri di addizione e i polimeri di condensazione.
Per quanto riguarda i polimeri di addizione, le molecole di molti alcheni sono in grado di congiungersi l’una
all’altra tramite una reazione di addizione al doppio legame C-C che si ripete tantissime volte. Il polietilene,
in presenza di un opportuno iniziatore, polimerizza con un meccanismo radicalico.
L’iniziatore si lega a una unità monomerica. Ciò provoca la separazione della coppia di elettroni del legame
π e la formazione di un radicale carbonio che ha un elettrone spaiato. Il radicale si addiziona a un’altra unità
monomerica e poi a un’altra ancora. Il processo si ripete anche migliaia di volte. La catena si chiude, per
esempio, per accoppiamento di due radicali.
Dato che la polimerizzazione avviene con un meccanismo di addizione, il polietilene trattiene nella catena
tutti gli atomi presenti nelle unità monomeriche.
I polimeri di condensazione si formano dalla reazione tra due diversi gruppi funzionali che, combinandosi
tra loro, eliminano una molecola di piccole dimensioni. A differenza dei polimeri di addizione non
contengono quindi tutti gli atomi presenti nei monomeri di partenza. Un tipico esempio è il PET, o
polietilentereftalato, si tratta di un poliestere.
Le catene dei poliesteri, a differenza di quelle ottenute nella polimerizzazione per addizione, non sono quasi
mai ramificate e possono formare fibre polimeriche. Una fibra polimerica è un polimero le cui catene sono
quasi completamente allungate e allineate una vicino all’altra, sullo stesso asse.
A mantenere vicine le catene di un poliestere contribuiscono i legami dipolo-dipolo.