HEPTAPLUS
o
LA SETTEMPLICE INTERPRETAZIONE
DEI SEI GIORNI DELLA GENESI
EDIZIONI ARKTOS
1996
Finito di stampare
nel mese di Maggio 1996
presso la STARGRAFICA s.r.l.
Via Vili Marzo 14, Grugliasco (TO)
Giovanni (Pico detta MirandoCa
I
qualsivoglia esercizio letterario. Da quivi la sua decisione, di lf a
poco tempo, di distruggere le poesie, in lingua italiana e latina, che
aveva composte sotto la guida ideale e “pratica” dell'umanista G.
B. Guarino.
Nel biennio 1480-82 Pico frequenta il celebre Studio di Padova
e ha modo di accostarsi alle fonti filosofiche, arabe ed ebraiche,
grazie ai rapporti di amicizia che stabilisce con l'erudito ebreo, Elia
del Medigo. Accoglie nel suo intelletto quelle acquisizioni, ma
senza dimenticare le sorgenti della civiltà occidentale, dedicando
si allo studio della lingua greca e della filosofia platonica. Un
duplice impegno che gli consentirà nel 1484, a Firenze, di subito
inserirsi da co-protagonista, nella cerchia patrocinata da Lorenzo
il Magnifico e che contava fra gli esponenti di maggior rilievo il
filosofo Marsilio Ficino, il “vecchio” amico Angelo Poliziano e
tutta la schiera degli adepti della Accademia Platonica solita
riunirsi nella villa di Careggi.
L'anno successivo, Pico della Mirandola è a Parigi e con lo
specifico intento di studiare le avverse correnti della Scolastica e
dell’averroismo, ma non già per polemizzare con i rispettivi
rappresentanti di esse, bensi con il segreto scopo di estrame quegli
assunti e deduzioni che potessero servire alla formazione del suo
pensiero. Se ne avrà la prova nel dicembre 1486 quando pubbliche
rà 900tesi, sotto il titolo complessivo di Conclusionesphilosophicce,
cabalistica et theologìcce, nel cui contesto è per l'appunto sanzio
nata la tesi che brandelli di verità sono estraibili da ogni formula
zione filosofica o dottrina religiosa alla condizione che si ricono
sca, in via preliminare, che l'Uomo è figura centrale, anzi regale
nel mondo della Natura, essendo in sua facoltà di ascendere agli
stati superiori dell'Essere (al regno del divino) o di immiserirsi in
una condizione bestiale.
Una visione, codesta, che susciterà un'immediata reazione
negativa da parte delle autorità di Roma, anche perché vi era
II
inglobata la teoria che nella simbolistica cabalistica fosse da
sempre cifrata ogni saggezza, incluso il messaggio evangelico.
Inevitabili le conseguenze: Pico risponderà subito e perle rime agli
inquisitori con un'apposita Apologia, ma ottenendo soltanto una
condanna ancora piu recisa delle 900 tesi e da parte di Innocenzo
V ili, in persona, al quale il giovane filosofo aveva voluto appellar
si. A questi non resterà perciò che la fuga, almeno come soluzione
del momento, potendo contare sulla protezione del sovrano di
Francia, Carlo Vili, con il quale era entrato in buoni rapporti,
durante il soggiorno parigino di due anni prima.
Le speranze del fuggiasco hanno una battuta d'arresto a Lione,
dove viene arrestato dalle autorità locali, a seguito di un'esplicita
richiesta da due delegati pontifici. Si evita tuttavia di imprigionarlo
in un comune carcere, assegnandogli un domicilio coatto nel
castello di Vicennes. Ma per breve, brevissimo tempo. Da tutti gli
stati italiani, dalla Sorbona e dagli ambienti di corte francese si
eleva un'unanime protesta e cosi il 10 marzo 1488, dopo sole tre
settimane dall'arresto, Giovanni Pico della Mirandola è nuova
mente libero e con il solo, tacito e graditissimo obbligo di soggior
nare a Firenze, sotto l'alta e compiaciuta protezione di Lorenzo il
Magnifico. Condizione che Pico rispetterà con poche eccezioni:
un viaggio compiuto a Venezia insieme al Poliziano e all'umanista
Pietro Crinito, partecipe dell'orientamento neoplatonico; brevi
soggiorni a Padova, Bologna e Ferrara con incarichi bibliografici
per il Signore di Firenze.
Sono questi gli anni di maggiore fervore creativo per Pico della
Mirandola, confrontandosi tanto con Ficino quanto con il
Savonarola, chiamato di malavoglia dal Magnifico a reggere la
chiesa di San Marco, in Firenze, il 29 aprile 1489, su sollecitazione
dello stesso Pico. Ma non si equivochi. Sedifatti è pur vero che, con
il passare degli anni, l'ascetismo del Mirandola e la sua fiera
avversione all'astrologia oroscopica avevano finito con l'allonta
III
narlo dal Maestro (Ficino, per l'appunto) permane indiscutibile il
fatto che ambedue rimasero per sempre fedeli a procedimenti
mentali triadici, logici e immaginativi, presumibilmente derivati
da Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che si era invano battuto
per una duratura conciliazione della Chiesa greca con la Chiesa
latina, riuscendo a ottenere unicamente una fragile riunificazione
fra il 6 luglio 1443 e il 29 maggio 1453, giorno della caduta di
Costantinopoli in mano turca.
Per quanto concerne poi i rapporti con Savonarola va sottoline
ato che, di là da taluni, comuni auspici a proposito di un'indispen
sabile riforma della Chiesa di Roma, resta fuor di dubbio che la
spiritualità del frate, aggressiva e intollerante, poco aveva da
spartire con l'orientamento a cui aderiva Pico e che sognava di
giungere un giorno a Una religio in rinomi varietale, come già
proposto da Nicolò Cusano con sguardo ecumenico verso un
imprecisato futuro. E ciò sia detto a scorno di quanti hanno parlato
e parlano di una “conversione” di Pico, poco dopo il ritiro della
condanna ecclesiastica, voluta da Alessandro VI, il Borgia, e prima
della misteriosa sua morte avvenuta il 17 novembre 1494, forse a
causa di un veneficio.
Il fatto è che l'ardente fede cristiana di Giovanni Pico della
Mirandola aveva ben potuto subire il fascino di quanto l'Ecclesia
offriva sotto il profilo liturgico e guardando alla coerenza dialet
tica dei teologi che essa aveva generato, ma la sua intelligenza si
era troppo nutrita di amicizie e di testi ermetici e cabalistici, per
non essere intimamente convinta che plurimi significati fossero
comunque celati nella letteratura sacra, a cominciare dalla Bibbia,
cosi come nella tradizione filosofica e misterica dei tempi anteriori
alla predicazione di Gesù.
E di ciò si trova traccia o eloquente testimonianza nell'intiera
produzione mirandolana, oltre che nelle accennate Conclusiones:
nelle pagine dell 'Heptaplus (1489), nel Decente et uno (1491),
IV
volto a dimostrare una sorta di conciliabilità trascendente di
Platone con Aristotele, l'incompiuto trattato Controfìdei Christiance
septem hostes del quale si è tramandata la parte dedicata alle
Disputationes in astrologìam divinatricem, asperrimamente pole
mica contro l'aspetto deterministico insito in qualsivoglia formu
lazione oroscopica (le Disputationes usciranno postume, nel 1496).
Dopo la morte di Pico verrà altresì pubblicata, come opera a sé
stante, la Oratio de hominis dignitate ch'egli aveva scritta nel 1486,
come premessa e a “giustificazione” delle novecento Tesi.
Né vanno dimenticati il giovanile Commento sopra una canzo
ne de amore composta da Girolamo Benivieni (èdito una prima
volta nel 1519 e nel contesto delle opere del poeta fiorentino; nel
1731 pubblicato come testo autonomo con il titolo Dell'amore
celeste e divino. Canzone di G. B. fiorentino, col Commento di G.
Pico della Mirandola) e le Regulce XII , concepite quale proiezione
attiva e battagliera delle meditazioni troppo intrise di soavità,
codificate nel famoso libro De Imitatione Christi con ogni proba
bilità attribuibile all'oblato Tommaso da Kempis.
Fino a qui taluni dei dati biografici di maggior peso culturale.
Per chi volesse saperne di più, si rinvia al volume di Jader
Jacobelli, Pico della Mirandola, arricchito da una prefazione di
Eugenio Garin e pubblicato nel 1986 dalla Editrice Longanesi &
C. di Milano.
V
viso in sette capitoli, più un proemio. Il solo libro primo non ha una
prefazione specifica, poiché preceduto, innanzi tutto, da un'avver
tenza del primo editore, l'eccellente stampatore Roberto Salviati,
al dedicatario dell'opera, Lorenzo de' Medici, e poi, da un proemio
generale, in due parti, nel cui contesto l'autore si premura di
illustrare con quali intenti si sia mosso nella redazione del lavoro
e quali esiti dottrinari vi abbia raggiunto.
Superfluo aggiungere che, sotto un profilo scientifico, stretta-
mente inteso, Heptaplus appare opera per più di un verso superata
o inattuale, laddove si sofferma sugli aspetti meramente fisici
dell'Universo. Pertanto, sarebbe più che controproducente tentare
di dimostrarne la validità in siffatta prospettiva. Ma non è men vero
che in una prospezione invece analogica, la validità dell'opera non
solo permane ben salda, bensì si dimostra in grado di offrire
all'Uomo d’oggi concreti strumenti illuminativi. Né potrebbe esse
re altrimenti, poiché Giovanni Pico della Mirandola si dimostra
nelle sue pagine padrone del metodo cabalistico in maniera oculata
e approfondita, cosicché la sua volontà di dimostrare il pieno
accordo tra l’antica filosofia e il primo libro del Genesi vi trova
accenti e accenni di grande suggestione, per chi sappia appellarsi
all'intelligenza del cuore, ovverossia all'intuizione intellettiva.
Esemplifichiamo. Nel capitolo secondo del Libro primo è detto
che: “In principio dunque pose due cause (con riferimento aM osè,
quale emblematico autore del primo libro dellAntico Testamento)-.
lacausa agente elacausamateriale, cioè la potenza e l'atto. Chiama
quella cielo, questa terra . .. la qual cosa, ha un preciso significato
quando si debbano vivificare certe istanze od operatività esoteriche,
rimanendo sottinteso che l'atto debba avere radici in cielo e la
chioma nel mondo delle forme. Il che è come dire che qualsiasi
creatività (artistica, scientifica e ...m agica) per realizzarsi
compiutamente dovrà nascere nel regno intelligibile e procedere
da questo ai mondi celesti (laddove si dispongono i nove cori
VI
angelici), per dispiegarsi infine nei regni della Natura, assolvendo
l’Uomo l'opera di artefice, a somiglianza del Creatore.
Difficile da intendersi, indubbiamente. Ancor piu da realizzar
si, nel caso si vogliano per l'appunto interpretare la cosmogonia e
la cosmologia tratteggiate da Pico non soltanto quali schemi
attinenti alla storia dei mondi, bensì quali modelli vivificabili entro
1'esistenza di ogni singolo uomo. Ci spieghiamomeglio. A conclu
sione del capitolo sesto del Libro quinto Pico osserva che: “In
questo corpo dell'uomo, spesso e terreno, il fuoco, l'acqua, l'aria e
la terra sono nella massima perfezione della loro natura. Oltre a
questo vi è anche un altro corpo spirituale più nobile degli elementi
(come dice Aristotele) di natura analoga al cielo. Nell'uomo c'è
pure la vita della piante, rivolta in lui a quelle medesime funzioni
di nutrimento, crescita e produzione che sono anche in esse. C'è il
senso dei bruti, interno ed esterno. C'è l'animo fornito di ragione
celeste. C'è la partecipazione alla mente angelica. C'è un possesso
veramente divino di tutte queste nature che confluiscono in uni
tà ...”.
Ebbene, se cosi è con un raccordo che sfiora e abbraccia le
multiple realtà che sono in noi e intorno a noi. Se è possibile che
si alternino nelle nostre idee la ragione celeste e una viva parteci
pazione alla mente angelica, allora risulterà intuibile che il proces
so di confronto e concordia con la creazione ed emanazione
dell’Universo esige che l’essere umano ne ripercorra interiormente
le varie fasi, dominando con il sapere i diversi regni e affidando
all'intuizione il superiore compito di trasformare il Caos in Cosmo,
come dovrebbe essere cognito a determinate cerehie, perla verità
in tult'altre faccende affaccendate.
Sia detto come fra parentesi: i concetti di creazione e di
emanazione non si escludono vicendevolmente nella visione
esoterica, quando si consideri che la nascita o fabbricazione dei
mondi ebbe per metafisico preludio il sollevamento delle Tenebre
VII
contro l'irradiarsi del Sommo Bene al di sopra dell'Abisso. Una
verità che solleva problemi di angelologia da sviscerarsi in altra
occasione, ma che ci aiuta a dedurre che Giovanni Pico della
Mirandola, nella pagine di Heptaplus, suggerisce un’operatività
destinata ad assumere via via i seguenti caratteri: a) alchemici, in
rapporto con il livello naturalistico (scienze della Terra e della
Vita); b) matematici e speculativi in connessione con le
problematiche cosmogoniche e cosmologiche e quando la mente
debba soffermarsi sulle implicazioni che le astrazioni geometriche
possono suggerire (appello alla ragione celeste)-, c) artistici,
musicali e filosofici, nella accezione “alta” che tali concetti richie
dono in modo perentorio, laddove nascenti da un'immaginazione
creatrice che sia effettivamente partecipe della mente angelica.
Non senza pericoli, in quest'ultimo caso, poiché dovrebbe
essere noto che in ogni uomo guidato dal pensiero si urtano sempre
e si combattono l'ultravioletto spirituale e l'infrarosso psichico e
con pari fascinazione, quando il Sé non abbia appreso ad obbedire
al primo degli elementi suddetti e ad aggiogare il secondo. Se ne
vuole una prova inequivocabile? Ebbene, si provi allora ad ascol
tare con un'intelligenza del cuore mirandolana le Sinfonie, Settima
e Ottava di Anton Bruckner e l'Ottava e Nona di Gustav Mahler e
si comprenderà il senso primo e ultimo dì questo paragone. Solo a
tale condizione Heptaplus potrà trasformarsi per il lettore in un
utile strumento di lavoro.
Vili
H{p6erto Salviati a Lorenzo dei tMèdici
%p<EMlO
7
In questi giorni poi mi è accaduto di occuparm i a lungo
della creazione del m ondo, e della fam osa opera dei sei
giorni, e m i si presentano serii m otivi per ritenere che in essa
siano contenuti tutti i segreti della natura. Invero, p e r non
parlare del fatto che il nostro Profeta accolse tutto ciò m entre
era pieno di D io e lo spirito celeste, m aestro di ogni verità,
gli dettava, forse che la testim onianza dei nostri, dei suoi,
delle genti infim e, non ce lo ha rivelato eccellentissim o per
um ano sapere e per ogni dottrina e conoscenza? Esiste
presso gli E brei, sotto il nom e del sapientissim o Salom one,
un libro intitolato La Sapienza, non quello che abbiam o ora,
opera di Filone, m a un altro, scritto in quel linguaggio
esoterico che chiam ano jerosolom itano, in cui l ’autore,
interprete, com e si crede, della natura delle cose, dichiara di
aver ricevuto tutta la sua sapienza dalle profondità della
legge m osaica.
Per quanto riguarda i nostri, L uca e Filone sono testim oni
autorevolissim i della grandissim a erudizione di M osè in
tutte le dottrine degli Egizii. E agli Egizii com e ai m aestri si
riv o lsero tutti i G reci piu celebrati: Pitàgora, P latone,
E m pédocle, D em ocrito. È noto quel detto del filosofo
N um énio che Platone altro non era se non un M osè attico.
M a anche il pitagorico Erm ippo attesta che Pitàgora m o ltis
sim e cose trasferì nella propria filosofia dalla legge m osaica.
Ché, se nei suoi libri M osè sem bra incolto e talora piuttosto
un divulgatore che non un filosofo o un teologo o l’artefice
di una grande sapienza, dobbiam o ricordare una fam osa
consuetudine degli antichi saggi: o astenersi addirittura
dallo scrivere di cose divine, o scriverne copertam ente; e per
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questo son chiam ati m isteri (né sono m isteri le cose non
occulte). C iò è stato osservato d a g l’indi, dagli E tìopi che
presero il soprannom e dalla nudità, dagli Egizii. E questo
significavano le Sfingi davanti ai tem plii. Istruito da loro
Pitàgora divenne m aestro di silenzio: né per parte sua affidò
niente allo scritto alE infuori di pochissim e cose che m o ren
do dette in custodia alla figlia Dam o. Infatti quei carm i àurei
che vanno in giro non sono di Pitàgora, com e com unem ente
si crede anche dai piu dotti, m a di Filòlao. I Pitagòrici, con
tradizione ininterrotta, m antennero quella legge col m assi
m o tim or religioso e L iside deplora che sia stata v io lata da
Ipparco. Che su di essa giurarono i discepoli di A m m ònio,
O rigéne, Plotino e d Erénnio, è testim one Porfirio.
Il nostro Platone, a tal segno nascose le proprie credenze
con veli enigm atici, sim boli di m iti, im m agini m atem atiche
e argom enti di senso oscuro, da dire egli stesso nelle epistole
che da quanto aveva scritto nessuno avrebbe capito ch iara
m ente il suo pensiero sulle cose divine: e lo avrebbe provato
coi fatti a chi non ci credeva.
Q uindi, se riterrem o popolari gli scritti di M osè perché
non hanno a prim a vista niente di elaborato, niente di
raffinato, per la m edesim a ragione dovrem o condannare per
rozzezza e ignoranza tutti gli antichi filosofi che veneriam o
m aestri di ogni sapienza. E la stessaco sap o ssiam o osservare
nella C hiesa: G esù Cristo, im m agine della sostanza di Dio,
non scrisse il V angelo, m a lo predicò. Predicò alle turbe con
le parabole e, separatam ente, a pochi discepoli a cui era
concesso intendere i m isterid ei regno dei cieli, apertam ente
e al di là delle im m agini. Né tutto svelò a quei pochi, poiché
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non erano capaci di tutto, e di m olte cose non avrebbero
sopportato il peso fino a che la venuta dello Spirito Santo
non avesse insegnato tutte le verità. Q uei pochi discepoli del
Signore, eletti fra tante m igliaia, non potevano com prendere
tante cose; e l ’intero popolo d ’Israele, sarti, cuochi, beccai,
pastori, servi, ancelle, a cui si dava a leggere la legge,
avrebbe potuto portare il peso di tutta la sapienza m osaica o,
m eglio ancora, di tutta la sapienza divina? Sulla cim a di quel
m onte dove anche il Signore spesso parlava ai discepoli, il
P rofeta risplendeva in m odo m irabile illum inato in tutto il
volto dalla luce del sole divino; m a, poiché il popolo con gli
occhi incerti, com e la civetta, non poteva sostenere la luce,
gli riv o lg ev a la parola col viso velato.
M a torniam o ai Cristiani. M atteo scrisse per prim o il
V angelo e, com e dice il Profeta, «N ascondendo in c u o r suo
p er non peccare la parola di D io», nella sua storia tenne
dietro soltanto a ciò che riguardava l ’um anità del C risto
perché non cadesse n e ll’oblio la m em oria delle sue azioni;
attraverso questo dobbiam o capire che nella m istica visione
di E zechiele n e ll’uom o è sim boleggiato G esù. G iovanni
che, quando già erano diffusi i tre V angeli, rivelò in m isura
m olto superiore agli altri i segreti della divinità, m olti anni
dopo il m altirio della croce, p er distruggere l ’eresia degli
Ebionfti che afferm a C risto uom o negando fosse anche Dio,
fu costretto a dire ciò che a lungo aveva taciuto d e ll’eterna
generazione del Figlio, m a parlò brevem ente ed oscuram en
te. Di qui l ’inizio: «In principio era il V erbo».
Pàolo nega ai C orinti il cibo verace perché ancora vivono
nelle leggi della carne, non dello spirito, e solo agli eletti
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p a rla il linguaggio della sapienza. Il discepolo di Pàolo
D ionigi l ’A reopàgita scrive che nelle chiese vi fu la santa e
rispettata usanza di non com unicare p er iscritto i dogm i più
riposti, m a solo a voce e a coloro che erano debitam ente
iniziati.
M i sono ferm ato piuttosto a lungo su questo argom ento
perché ci sono m olti che, prendendo m otivo dalla ro zza
scorza delle parole, disprezzano e respingono il libro di
M osè com e qualcosa d i com une e di triviale. E nulla è m eno
credibile p er loro del fatto che esso abbia in profondità
qualcosa di più divino di ciò che prom ette in apparenza. Se
la m ia confutazione è stata esauriente, sarà orm ai facile
credere che, se in qualche luogo è stata da lui trattata la
natura d e ll’intera creazione, cioè se da lui sono stati sepolti
in qualche p arte d e ll’opera sua com e in un cam po i tesori di
tutta la filosofia verace, ciò è avvenuto specialm ente là,
dove, quasi di proposito, parla d e ll’em anazione di tutte le
cose da D io, del grado, del num ero, d e ll’ordine delle p arti
del m ondo, con elevatissim a capacità filosofica. D i q ui la
legge degli antichi E brei ricordata anche da G irolam o che
nessuno, p rim a d ’aver raggiunto la m aturità, si occupasse di
q uesta creazione del m ondo. Sem brerà dunque che valesse
forse la p en a d e ll’im presa se, essendom i applicato m olto a
lungo con grande scrupolo e con grande fatica (per quanto
era possibile alle m ie scarse capacità), sarò arrivato a p e n e
trare il significato della parola di M osè. M a, poiché vedevo
che m olti Latini e G reci si erano affaticati a esporlo, e anche
antichi interpreti E brei e Caldei e un num ero quasi infinito
d ’interpreti m oderni, quasi non osavo neanche di pensare a
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scrivere qualcosa di nuovo e ad aggiungere qualche co m
m ento originale su questo argom ento.
Però ricordavo anche la prescrizione della legge m osaica,
ch e nessuno m ietesse com pletam ente tutto il suo cam po, m a
che ognuno ne lasciasse una parte ai poveri e ai bisognosi
perché traessero di là, a saziare la loro fam e, covoni e
m annelle. E, com e m i venne in m ente questo, com inciai a
indagare con occhi attenti g l’im m ensi cam pi del P rofeta per
vedere se i com m entatori dottissim i, essendo non m eno
buoni cultori della legge che i suoi interpreti, ne avessero
lasciato, secondo il suo com ando, qualche parte intatta
perché potessim o m ieterla noi che eravam o m eno dotati,
perché di là an c h ’io potessi raccogliere sia pure poche
spighe d a offrire com e prim izia votiva della m esse sugli
aitali della C hiesa, p er non essere privato dei privilegi del
tem pio com e un falso israelita o del tutto m ancante di
iniziazione.
Il voto si avverò, non nel senso che potessi a n iv a re dove
quelli non erano riusciti, m a perché an c h ’essi, secondo il
precetto della legge, si erano astenuti dal precludere la strada
allo studio accurato dei posteri; inoltre tale è la v astità e
fecondità del cam po che nessun num ero di m ietitori è
adeguato al suo raccolto; per quanto attività quasi infinite e
di grande valore ci si siano dedicate con tutte le forze,
possiam o ripetere ancora il detto evangelico: «M olta la
m esse, i m ietitori pochi». Pertanto ciò che su questo libro
hanno scritto dei santi uom ini com e A m brogio e A gostino,
Strabo e B eda, R em igio e, fra i piu recenti, E gidio e A lberto;
ciò che fra i G reci hanno scritto Filone, O rigéne, B asilio,
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T eodoreto, A pollinare, D idim o, D iodoro, Severo, Eusébio,
G iuseppe, G ennàdio, C risòstom o, sarà lasciato da m e del
tutto invariato. Poiché è tem erario ed inutile che un uom o
dappoco si avventuri là dove già si sono esercitati d e g l’in g e
gni robustissim i. N é in questo lavoro farem o m enzione
alcuna di ciò che scrissero in lingua caldaica Jònatan,
O nchelos e l ’antico Sim eone, e, tra i prim i E brei, E leàzaro,
A bas, G iovanni, N eanias, Isacco, G iuseppe, o, tra i piu
recenti, G ersònide, Saadia, A braam , i due M osè, S alom on e
M enahem .
N oi a tutto ciò aggiungerem o sette altre esposizioni che
racchiudono il frutto delle nostre scoperte e m editazioni; in
queste cercherem o in prim o luogo di superare, se sarà
possibile, tre difficoltà con cui sem bra abbiano lottato a
lungo e penosam ente quanti presero ad esporne questo libro.
L a prim a è che niente appaia detto da M osè in m odo
m anchevole e con scarsa dottrina e sapienza; difficoltà che
alcuni superarono cosi: dicendo che non trattò di tutto e non
giunse a espressioni particolarm ente elevate perché p arlav a
a un popolo rozzo che non era preparato a ll’intelligenza di
ogni verità. N oi possiam o credere che facesse abbastanza
p er esso, se offriva il lum e di scienza entro cui potevano
guardare i sapienti celato da term ini popolari com e da un
guscio perché gli occhi m eno acuti non ne fossero abbagliati.
P ortava dunque la luce per giovare ai sani, m a la po rtav a
nascosta e velata per non offendere gli uom ini di v ista
debole. N é era suo dovere, potere o proposito di giovai-m eno
ai dotti che a g l’ignoranti.
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L a seconda difficoltà consiste nel tenere un unico criterio
d ’interpretazione, coerente, p er sé adatto, e nel fare in m odo
che quasi p er u n ’unica linea l ’intera serie si riconduca, com e
guidata d a un piano prestabilito, a quel m edesim o senso da
cui inizialm ente è partita così che, se qua abbiam o p rese n
tato M osè che parla delle idee, alla prossim a occasione non
pretendiam o che p arli degli elem enti o d e ll’uom o. G enere
d ’esposizione, questo, arbitrario e violento. T uttavia e v ita r
lo nel com m ento di questo libro è parso a m olti non solo
difficile, m a addirittura im possibile e a tutti certam ente
faticoso, tanta è l ’incertezza, l ’am biguità, la v arietà dei
m otivi in tutta l ’opera. V edi che im presa grave e difficile da
attuarsi è questa che ho concepita (e Dio voglia che io possa
p o rtarla a term ine), di interpretare senza nessun aiuto di
com m entatori precedenti l ’intera creazione del m ondo, non
in un senso solo, m a in sette sensi, prendendo sem pre a
trattare d a ll’origine ogni nuovo argom ento con un ordine
d ’esposizione continuato libero da confusioni.
L a terza difficoltà sta in questo, n e ll’evitare di far d ire al
P rofeta cose inconsuete o m iracolose o estranee alla natura
delle cose che qui s ’indaga e a quella verità che, ritrovata dai
m igliori filosofi, è stata accettata anche dai C ristiani. A nzi
dobbiam o considerare che lo spirito divino parli p er bocca
del Profeta.
P erché poi siano da m e offerte sette interpretazioni, per
qual ragione siano state intraprese, quale sia il m io disegno
e qual necessità m i ci abbia spinto, che sia questa verità che
m i sforzo di apportare, chiarirò nel prossim o capitolo. In
esso, presentando l ’idea di colui che doveva scrivere di
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q uesta m ateria, cioè della creazione del m ondo, in m odo del
tutto com piuto, em ulando la stessa natura, ci sforzerem o di
provare che in effetti il nostro Profeta non si è m ai staccato
da essa quasi da un archètipo, m a l ’ha seguita in tutte le
caratteristiche in m odo tale che tutti dobbiam o proporci
quale m odello lui stesso, la cui grandezza è più facile ad
am m irarsi che non da valutarsi secondo il m erito.
Q uesti m iei lavori, per quanto grezzi ed im m aturi p o ssa
no essere, sono dovuti a te, nobilissim o Lorenzo, sia perché
appartengono a m e che da tem po ti ho votato la m ia d ed izio
ne, sia perché tu m i offristi il ritiro fiesolano nella cui pace
essi sono nati. R itiro che anche è allietato dalle frequenti,
m eglio ancora dalle continue visite del tuo am ico A ngelo
Poliziano, il cui piacevole e fertile ingegno mi pare p rom etta
frutti filosofici altrettanto im portanti e m aturi quanto v arii in
passato furono i suoi fiori letterari. Si aggiunga la co n su etu
dine di rallegrarci non solo a parole quando a quelli che
am iam o o veneriam o accade qualcosa di solenne o di lieto,
m a, per cosi dire, di partecipare con qualche dono alla loro
felicità e testim oniare davanti a loro la letizia d e ll’anim o
nostro.
O pportunam ente dunque questa m ia trattazione ti giunge
nel m om ento in cui, a u n ’età senza precedenti, tuo figlio
G iovanni è stato destinato dal som m o Pontefice Innocenzo
V ili al suprem o collegio del sacerdozio cristiano, cosa
giusta e dovuta, sia p er l ’indole sua che dà a sperare bene di
sé, sia per i tuoi m eriti e per la tua autorità. Che possa in
avvenire m ostrarsi degno quanto desideriam o di questo
onore; e questo gli accadrà se assum erà com e esem pio di vita
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colui che gli fu padre e che lo condusse a tale dignità: in lui
avrà un esem pio di saggezza e di virtù. A ddio.
16
tSecondo tP iroemio
di tutta ['Opera
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vicenda di vita e di m orte; là eterna vita e continua attività;
in cielo stabilità di vita, m a avvicendarsi di attività e di
posizioni.
Il m ondo terrestre è costituito dalla caduca natura dei
corpi; il m ondo intelligibile dalla divina natura della m ente;
il cielo dal corpo, m a incorruttibile, e dalla m ente, m a
assoggettata al corpo. Il terzo è m osso dal secondo; il
secondo è retto dal prim o; e vi sono inoltre fra di essi
m oltissim e differenze che non sarebbe opportuno en u m era
re qui, dove di tali cose trattiam o di sfuggita, senza appro
fondirle. M a non tralascerò d i dire che questi tre m ondi
M osè raffigurò in m odo chiarissim o nella costruzione di
quel suo m irabile tabernacolo. Infatti egli divise il tab ern a
colo in tre parti, ciascuna delle quali rappresenta i m ondi che
dicem m o in m odo tale che più chiaro sarebbe im possibile;
infatti la prim a parte, non protetta da nessun tetto o riparo,
era m olto esposta alla pioggia, alla neve, al sole, al calore, al
freddo, e, ciò che si adatta benissim o a u n ’im m agine del
nostro m ondo sublunare, la abitavano non solo uom ini puri
e im puri, sacri e profani, m a anche anim ali di ogni genere;
ed era in essa una continua v icenda di vita e di m orte anche
p er v ia dei sacrificii espiatorii. A m bedue le altre parti erano
p rotette e da ogni lato im m uni da offesa esteriore alla
m aniera dei due m ondi, celeste e sopraceleste che sono
appunto al di sopra di ogni offesa; am bedue insignite del
titolo di sante, in m odo tuttavia che la più riposta fosse
onorata del term ine di santa dei santi, l ’altra sem plicem ente
santa. Infatti per quanto tutti e due i m ondi, celeste ed
angelico, siano santi (poiché, dopo la caduta di L ucifero, al
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di sopra della luna né vi è né può esservi alcun peccato)
tuttavia il m ondo angelico è ritenuto di gran lunga più divino
e più santo.
M a perché ci attardiam o in im m agini tanto im proprie?
C hé, se l ’ultim a parte del tabernacolo era com une agli
uom ini e agli anim ali, la seconda che rifulgeva tutta di àurei
splendori era illum inata da un candelabro a sette braccia che
indicano, secondo g l’interpreti latini, greci, ebrei, i sette
pianeti; nella terza parte, tra tutte più sacra, erano i C heru
bini alati. E forse che non stanno ora sotto i nostri occhi i tre
m ondi? Q uesto, che abitano gii anim ali e gli uom ini; il
m ondo celeste, dove risplendono i pianeti; il sopraceleste,
d im o ra degli A ngeli. D i qui siam o anche richiam ati al p iù
elevato sacram ento del V angelo. Infatti poiché dalla croci-
fissione e dal sacrificio di Cristo ci è stata riaperta la v ia del
m ondo sopraceleste, della com unione con gli A ngeli, p er
ciò, nel m om ento della sua m orte, si è squarciato il velo del
tem pio p er cui il Santo dei Santi che abbiam o detto sim bo
leggiare il m ondo angelico era separato dalle altre parti. E
questo significò che p er l ’uom o si apriva l ’accesso al regno
di D io, a D io stesso che vola coi C herubini, l ’accesso chiuso
in origine dai decreti della giustizia divina p er il peccato del
prim o padre.
Q ueste considerazioni saranno sufficienti a proposito dei
tre m ondi, nei quali soprattutto si deve porre attenzione a ciò
da cui m uove quasi esclusivam ente il m io proposito : che i tre
m ondi sono uno solo, non solam ente perché tutti si riportano
d a un unico principio a un unico fine, o perché regolati da
leggi determ inate sono collegati da un certo arm onico leg a
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m e di n atura e da un ordinam ento per gradi; m a perché tutto
ciò che è nella totalità dei m ondi è anche in ciascuno, né vi
è alcuno di essi in cui non sia ciò che è in ognuno degli altri;
e, se vogliam o ritenere che fosse nel vero, credo che questo
fosse il pensiero di A nassàgora, esposto dai P itagorici e dai
Platonici.
D unque, ciò che è nel m ondo inferiore è anche nei
superiori, m a in form a piu elevata; del pari, ciò che è nei
superiori si vede anche nel più basso, m a in una condizione
degenere e con una natura p er cosi dire adulterata. Il calore
è presso di noi qualità elem entare; nei cieli virtù calorifica;
nelle m enti angeliche idea di calore. D irò con m aggior
precisione. È presso noi il fuoco com e elem ento; il sole è il
fuoco del cielo; nella regione oltrem ondana il fuoco serafico
è l ’intelletto. M a considera la loro differenza: il fuoco
e le m e n ta re b ru c ia , il fu o co c e le ste a v v iv a , il fu o c o
sopraceleste am a. C ’è l ’acqua presso di noi; c ’è nei cieli
un ’acqua m otrice e signora di questa, e cioè la luna vestibolo
dei cieli; vi sono acque sopra il cielo, che sono le m enti
cherubiche. C onsidera quindi la diversità di condizione
nella stessa natura: l ’um ido elem entare soffoca il calore di
vita; quello celeste lo alim enta; quello sopraceleste lo in ten
de.
N el prim o m ondo Dio, unità prim a, presiede a nove
ordini di A ngeli, quasi ad altrettante sfere e, im m obile, tutte
le m uove a sé. N el m ondo m ediano, cioè in quello celeste,
l ’em pireo presiede ugualm ente a nove sfere celesti com e un
duce a ll’esercito e, m entre ognuna di esse si volge con m oto
incessante, quello tuttavia a im m agine di D io sta im m oto.
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N el m ondo elem entare, dopo la p rim a m ateria che ne è il
fondam ento, sono nove sfere di form e corruttibili: tre di
corpi privi di vita, che sono gli elem enti e i corpi m isti e
quelli interm edii, m isti m a im perfetti, com e i fenom eni che
avvengono n e ll’alto. T re di natura vegetale, divisa nei tre
prim i generi delle erbe, degli arbusti e degli alberi. T re
d e ll’anim a sensibile, che è im perfetta com e negli zoòfiti, o
perfetta, m a entro i lim iti della fantasia irrazionale, o capace
di una obbedienza a ll’uom o, il che è il term ine m assim o dei
bruti, quasi m edio fra l ’uom o e il bruto, cosi com e lo zoòfito
è m edio fra il bruto e la pianta.
M a di ciò si è detto anche troppo; aggiungerem o solo
questo, che il m utuo accordo dei m ondi è indicato anche
dalla Scrittura, poiché è scritto nei Salmi: «C olui che crea i
cieli n e ll’intelletto», e leggiam o che gli A ngeli d i D io sono
spiriti e i suoi m inistri fiam m a di fuoco ardente. Di q ui le
frequenti denom inazioni dal cielo, e spesso anche dalla
terra, date alle cose divine, raffigurate ora com e stelle, ruote
e anim ali, ora com e elem enti; di qui i nom i celesti attribuiti
spesso anche a cose terrene. Infatti, legati d a v incoli di
concordia, tutti questi m ondi si scam biano con reciproca
liberalità com e le nature cosi anche le denom inazioni. D a tal
principio, se v ’è ancora qualcuno che non l ’ha com preso, è
d eriv ata ogni disciplina d e ll’interpretazione allegorica. N é
potevano quei padri antichi opportunam ente rappresentare
l ’u n a cosa con l ’altrui im m agine, se non avessero co n o sciu
to le occulte am icizie e le affinità di tutta la natura. A ltrim en
ti non vi sarebbe stata ragione alcuna per rappresentare una
cosa con u n ’im m agine piuttosto che con l ’opposta. M a tutto
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conoscendo e anim ati d a quello spirito che l ’universo non
solo conobbe m a fece, m olto abilm ente apprezzavano le
nature di un m ondo con quelle che sapevano corrispondenti
negli altri m ondi. Perciò coloro che vogliono adeguatam en
te interpretare i loro sim boli e le loro figure, se non sono
assistiti dal m edesim o spirito, hanno bisogno della stessa
conoscenza.
C ’è, oltre i tre di cui abbiam o parlato, un quarto m ondo
in cui si trovano tutte le cose che sono negli altri. E questo
è l ’uom o, che appunto perciò, com e dicono i dottori c a tto li
ci, è indicato n e ll’E vangelo col nom e di ogni creatura,
quando è detto che il V angelo va predicato a tutti gli uom ini,
e non tuttavia ai bruti e agli A ngeli, m a, secondo il com an
dam ento di C risto, a ogni creatura. È espressione com une
nelle scuole che 1’uom o è m icrocosm o, in cui il corpo è m isto
agli elem enti, in cui v ’è lo spirito celeste, l ’anim a vegetale
delle piante, il senso dei bruti, la ragione, la m ente angelica
e l ’im m agine di Dio.
Se dunque poniam o questi quattro m ondi, è da ritenersi
che M osè, dovendo parlare a sufficienza d e ll’universo,
abbia trattato di tutti; e raffigurando egli la natura, ed
essendo di essa esperto, se altri ve ne fu m ai, è da credersi che
la spiegazione di essi non sia stata diversam ente disp o sta da
com e in loro stessi li dispose D io artefice onnipotente, si che
veram ente questa scrittura di M osè è la vera im m agine del
m ondo, secondo che leggiam o che a lui fu com andato sul
m onte, ove gli fu im posto di fa r tutto in conform ità del
m odello che là aveva visto.
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L a prim a cosa, che di tutte, com e abbiam o m ostrato, è la
più grande, sta nel fatto che le cose disperse in ogni m ondo
sono contenute in ciascuno; dovette M osè, a gara con la
natura, trattare di ciascuno in m odo che nelle stesse parole
e nello stesso contesto trattasse ugualm ente di tutti. D i qui
nasce subito una quadruplice esposizione di tutta la lettera
m osaica, sicché in prim o luogo noi interpretiam o ciò ch e vi
è scritto a proposito del m ondo angelico e invisibile, senza
riferirci affatto agli altri m ondi. In secondo luogo ugualm en
te del m ondo celeste; quindi di questo sublunare e corruttibile;
in quarto luogo della natura d e ll’uom o. Infatti se, p er esem
pio, si tratterà in qualche luogo del m ondo intelligibile,
contenendo in sé la stessa espressione tutte le successive
nature, essa ci insegnerà anche a proposito degli altri m ondi
cose che certo possiam o, anzi dobbiam o riferire tutte anche
a tutti gli altri. A ncora, a quel m odo che le nature, benché si
accolgano reciprocam ente fra loro, hanno tuttavia avuto in
sorte sedi distinte e caratteri peculiari, cosi, benché nelle
varie parti della presente opera si parli della quadruplice
natura secondo l ’ordine scritturale, bisogna ritenere che
nella prim a parte si tratti in m odo più specifico della p rim a
natura e delle altre, nel m edesim o ordine, nelle successive;
dal che nasce la necessità di una quinta esposizione. Si
aggiunge che, essendo queste distinte, non essendoci m olti
tudine che non sia unità, esse sono legate da una discorde
concordia e quasi da m ultiform i catene. A l che essendo
verosim ile che M osè si riferisca in tutta l ’opera, già siam o
tratti anche nostro m algrado alla sesta esposizione. N ella
quale m ostrerem o che son quindici i m odi in cui una cosa si
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può intendere congiunta o collegata a u n ’altra, e non p o treb
bero essere né più né m eno; essi sono stati espressi dal
P rofeta cosi am piam ente e chiaram ente che niente di più
preciso scrisse m ai A ristòtele intorno alla natura. Infine,
com e ai sei giorni della creazione segue il sabato, e cioè il
riposo, conviene che anche noi in una settim a esposizione,
p e r cosi dire sabbatica, trattati gli ordini delle cose che
procedono da D io, la loro unione e la diversità, i legam i e le
abitudini, esponiam o una interpretazione della felicità delle
creature e del loro ritorno a Dio, concesso attraverso la legge
m osaica e cristiana a ll’uom o cacciato per colpa del prim o
padre, svelando le cose che chiaram ente nascose M osè nella
presente scrittura, si che sia evidente che quivi si scorge un
chiarissim o annunzio della venuta di C risto, del progresso
della C hiesa, della vocazione delle genti.
Sicché davvero questo libro, se altro ve ne fu m ai, è
contrassegnato da sette sigilli, pieno di tutta la sapienza di
tutti i m isteri. E noi non im iterem o quelli che qualche volta
hanno tentato di esporre questa creazione del m ondo. E ssi vi
raccolsero tutto ciò che ovunque è stato discusso, di D io,
degli A ngeli, della m ateria, del cielo e di tutta la natura, da
filosofi e da teologi. E in questo specialm ente peccarono
presso gli Ebrei Isaac Persiano e Sam uel O fìnide. M a solo
cercherem o di chiarire nella m isura delle nostre forze che
cosa voglia esprim ere la lettera m osaica, che cosa indichi o
significhi il contesto. Cosi, se per esem pio m ostrerem o che
col firm am ento si indica l ’ottava sfera, non com incerem o
tosto a discutere del com e essa im prim a il m oto alle altre
sfere, d i quanti segni e im m agini la distinguano, se ru o ti per
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m oto sem plice o piuttosto per due o tre m oti. N é, se in
qualche luogo avrem o detto che con un certo term ine si
in d ica l ’anim a d e ll’uom o, passerem o ad esporre tutto ciò
che si è detto su ll’anim a; m a intorno a ciascun argom ento ci
lim iterem o a ricordare brevem ente e rapidam ente le cose di
cui l ’autore fa esplicita m enzione. H o detto brevem ente e
rapidam ente perché non è proposito di q u e st’opera che chi
non ha im parato altrove queste cose le im pari qui p er la
p rim a volta, m a che qui si riconosca nelle parole del P rofeta
ciò che già si tiene p er vero e che, com prendendo perché il
legislatore ha raccolto qui e celato in poche parole le verità
che si sono lette esposte da filosofi e teologi in im m ensi
volum i, lo si ascolti m entre ne parla col viso svelato. C he se
poi alcuno, tratto dallo spirito di una santa rudezza, non solo
non approverà questi cosi profondi m isteri, m a piuttosto
bram erà una più sem plice e a sé più adatta spiegazione del
sacro testo, dirò di ricordare prim a il precetto di Pàolo che
«chi m angia non disprezzi chi non m angia e chi non m angia
non giudichi chi m angia». E lo apostroferò poi non con
parole m ie, m a con le parole d ’A gostino nella esposizione
della G ènesi: «Se puoi, apprendi queste cose, se non puoi
lasciale a chi vale più di te. Tu procedi con la S crittura che
non abbandona la tua debolezza e che m isura m aternam ente
i suoi passi sui tuoi: essa infatti parla cosi per irridere co n la
sua elevatezza i superbi, per atterrire con la sua p ro fondità
gli accorti, per pascere di verità i grandi, p er nutrire d ’affa
b ilità gli um ili».
M a torniam o a noi e, prendendo le m osse da questo stesso
m ondo corruttibile che abitiam o, offriam o, nella m isura del
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possibile, ciò che abbiam o prom esso. D ’altronde anche
nelle grandi im prese basta la buona volontà e, com e dice
P om èrio, un grande sforzo è principio di grandi cose.
26
da commentare
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acque che son di sopra d ’essa. E cosi fu . E d Iddio nominò la
distesa cielo. C osi f u sera e poi fu mattina che fu il secondo
giorno.
Poi Iddio disse: «Siene tutte Tacque che son sotto al
cielo raccolte in un luogo ed apparisca Tasciutto». E
cosi fu . E d Iddio nominò l’asciutto terra e la raccolta delle
acque m ari. Ed Iddio vide che ciò era buono.
Poi Iddio disse: «Produca la terra erba minuta, erbe
che facciano sem e ed alberi fruttiferi che portino
frutto secondo le loro spezie, il cui sem e sia in e sso
sopra la terra ». E cosi fu. La terra adunque produsse erba
minuta, erbe che fa n n o seme secondo le loro spezie ed alberi
che portano frutto il cui seme è in esso secondo le loro
spezie. E d Iddio vide che ciò era buono. C osi fu sera e p o i
f u mattina che f u il terzo giorno.
Poi Iddio disse: «Sienvi de’ luminari nella distesa
del cielo per far distinzione tra 1 giorno e la notte e
quelli sieno per segni e per distinguer le stagioni e ’
i giorni e gli anni. £ sieno per luminari nella distesa
del cielo per recar la luce in su la terra». E cosi fu .
Iddio adunque fe c e i due grandi luminari (il maggiore per
avere il reggim ento del giorno e ’l minore p er avere il
reggim ento della notte) e le stelle. E d Iddio gli mise nella
distesa del cielo p e r recar la luce sopra la terra. E p er avere
il reggimento del giorno e della notte e p er separar la luce
dalle tenebre. E d Iddio vide che ciò era buono. Così f u sera
e p o i fu m attina che fu il quarto giorno.
P oi Iddio disse: «Producano Tacque copiosamente
rettili che sieno animali viventi e volino gli uccelli
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sopra la terra e per la distesa del cielo». Iddio
adunque creò le gran balene ed ogni anim ai vivente che va
serpendo, i quali animali l’acque produssero copiosam ente
secondo le loro spezie, ed ogni sorte d ’uccelli c’hanno ale
secondo le loro spezie. E d Iddio vide che ciò era buono. E d
Iddio gli benedisse dicendo: «Figliate, mulHplicate ed
empiete Tacque ne’mari; multiplichino parimenti gli
uccelli nella terra». Cosi fu sera e p o i fu m attina che f u il
quinto giorno.
Poi Iddio disse: «Produca la terra animali viventi
secondo le loro spezie; bestie domestiche, rettili e
fiere della terra secondo le loro spezie». E cosi fu .
Iddio adunque fe c e le fiere della terra secondo le loro spezie
e gli animali domestici secondo le loro spezie ed ogni sorte
di rettili della terra secondo le loro spezie. E d Iddio vide che
ciò era buono.
P oi Iddio disse: «Facciamo l’uomo alla nostra im
magine, secondo la nostra somiglianza; ed abbia la
signoria sopra i pesci del mare e sopra gli uccelli del
cielo e sopra le bestie e sopra tutta la terra e sopra
ogni rettile che serpe sotto la terra». Iddio adunque
creò l’uomo alla sua immagine; egli lo creò a ll’im m agine di
D io.»
29
aggiunge che, essendo le sette esposizioni distinte in sette
libri e i sette libri in sette capitoli, tutto viene a corrispondere
ai sette giorni della creazione.
E sem pre con deliberato proposito si è fatto in m odo che,
com e il settim o giorno è in M osè sabato o giorno del riposo,
cosi ogni nostra esposizione sem pre concluda col settim o
capitolo in Cristo, che è il fine della legge, il nostro sabato,
la nostra pace, la n o stra felicità.
30
rp
JL- rima J s ’sposiziotie
C apitolo P rimo
31
m ateria ch e è potenza si fa a volte anche atto, com e la cera
m olle ed inform e, forgiata dalle m ani, assum e form e diverse
secondo il disegno di chi la m odella. E poiché la natura non
fa n iente a caso, m a sem pre in vista di qualche bene, ecco
com parire la causa fin a le ; e il fine più vicino della causa
agente è la form a che scaturisce dal grem bo della m ateria.
Infatti la causa finale travaglia questa con la sua azione
illu m in ata p er condurla a perfetto abito di form a. P erciò
A ristòtele pose la form a com e terzo principio. Essa p o i può
essere tratta solo dal seno di una m ateria preparata e disp o sta
c o n opportune qualità, e in questo si consum a tutta la fatica,
tu tta l ’attività d e ll’artefice, finché la specie d ’un tratto,
n e ll’istante, riluce quasi coronam ento d e ll’opera.
I Peripatetici chiam ano l ’artefice stesso piuttosto causa
ch e principio. I divini Platonici, sem pre rivolti alle cose
divine, ci fanno presente che, se gli agenti naturali ci sem bra
no soli ad im prim ere form a e m ovim ento ai corpi, essi non
sono in realtà cause prim arie di ciò che avviene, m a piuttosto
strum enti d e ll’arte divina a cui obbediscono e servono. A llo
stesso m odo, se anche son le m ani del fabbro a com porre,
ordinare e m utare tutta la m ateria della casa, pietre, legni,
cem ento, e niente altro all'in fu o ri di esse sem bra attendere
alla costruzione, noi sappiam o tuttavia che le m ani servono
com e un docile strum ento a q u e ll’arte che, p osta n e ll’anim o
d e ll’architetto, al tem po stesso concepisce e attua nei detta
gli e dispiega il piano della casa nella m ateria insensibile;
perciò avviene che i Platonici pongano due cause, organica
ed esem plare. E neppure i Peripatetici lo negano, anzi presso
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d i loro lo conferm a quel vecchio detto, che ogni opera di
natura è opera d ’intelligenza.
Q u e sto è q u an to si d ice c o m u n e m e n te d e lle co se
corruttibili, tutte cose di cui M osè ha trattato com plessiva
m ente nell ’ppera del prim o giorno, in m odo tale che i filosofi
più celebrati non hanno m ai parlato di essa con p iù v e rità o
proprietà.
C apitolo Secondo
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E questo vien da loro riferito anche a ll’apparenza buia e
deform e della m ateria, perché quando tendiam o a co n o scer
la essa ci rende attoniti; p er tale m otivo A ristotele disse che
la conosciam o con l ’analogia, P latone con un ragionam ento
illegittim o. B ou invece, dalla forza del term ine, m olti in ter
pretano com e principio iniziale di form a. Infatti, se ren d ia
m o la paro la alla lettera, dire bou è com e dire « vi è» o « vi
è qualcosa». Se ci atteniam o a questo, oltre la po ten za del
soggetto intenderem o in esso l ’inizio della form a. E non solo
ciò hanno creduto A lberto e parecchi Peripatetici, m a anche
gli antichi E brei, com e rileviam o chiaram ente dalla testim o
n ian za d e ll’antichissim o Sim eone. M a M o sè spiega com e si
deb b a intendere q u e st’inizio aggiungendo: «E le tenebre
erano sopra l ’abisso». C h iam aaò /rco la terra, cioè la m ateria
estesa secondo tre dim ensioni in grandi profondità. S opra
q u esta sono le tenebre, cioè la privazione, principio fam o sis
sim o tra i Peripatetici, a cui nessuna denom inazione m eglio
si conviene che quella di tenebre. Infatti la privazione in
quanto differisce dalla negazione, com e sem pre riafferm a
A lberto M agno, è questo stesso principio di form a di cui
parliam o e di cui il m edesim o filosofo ha trattato diffusam ente
e sottilm ente.
Inoltre, se la terra sta sotto le acque e irrigata da esse
concepisce ciò che in seguito partorisce, forse che qui le
acque non significheranno gli accidenti, le qualità e le
affezioni d e lla m ateria? A ccidenti, qualità e affezioni che,
p er il loro scorrere e per la loro natura fluida, hanno l ’aspetto
delle acque che, rendendo per cosi dire um ida la m ateria, la
rendono gravida di quelle form e che alla fine essa dà alla
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luce. G iustam ente si dice che su queste acque è portato com e
organo e strum ento di D io lo Spirito del Signore, cioè la
fo rza della causa efficiente. N on si dice che è portato sulla
terra perché con la sua azione non tocca o p en etra il soggetto
se non p er m ezzo di quelle qualità; e m en d e la travaglia e
spinge, sorge la luce, ossia la bellezza e lo splendore della
form a, che m ette in fu g a le tenebre suddette, cioè la p riv a
zione. E ciò avviene perché la voce di D io com anda cosi;
infatti le cause naturali non fanno nulla che l ’arte divina non
abbia preordinato.
C osi della m attina e della sera si fa un solo giorno; po ich é
dalla natura della potenza e d e ll’atto balzò una terza sostan
za che chiam iam o com posta; ed è orm ai m anifesta, secondo
q u esta spiegazione, la ragione p er cui disse un solo giorno,
non il prim o giorno ; e giustam ente essa vide la luce perché
era buona, dato che la natura della form a non è se non una
pallida im m agine e u n ’um bratile copia del prim o bene.
F in qui, in genere, della sostanza corruttibile; e tale è ogni
sostanza del m ondo sublunare dove vediam o il cielo e la
terra, cioè la natura che determ ina il m utam ento e quella che
lo riceve, vediam o la terra stessa, cioè la m ateria, p riva di
ogni specie di sostanza e di ogni form a accidentale, e sopra
questa, che si estende sugli abissi secondo tre dim ensioni,
stendersi le tenebre della privazione; non interne ad essa
(infatti, com e A ristotele dice, la privazione non è l ’essenza
della m ateria), m a collocate sulla sua superficie esterna.
E vediam o qui che sopra le acque, cioè sulle tendenze
fluide presenti nella m ateria, ossia nella terra, è portato lo
S pirito del Signore; esso esprim e la fo rm a della causa
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agente, non com e causa principale, m a com e Spirito di Dio,
organo d e ll’arte divina a quel m odo che il nostro spirito è
organo della vita. E subito, agendo lo Spirito su quelle acque
e determ inandole, p er ordine del Dio artefice sorse la luce,
ossia lo splendore e la bellezza della form a.
C apitolo T erzo
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qualità non sono certo, com e credette A lessandro di A frodisia,
le stesse form e sostanziali degli elem enti, m a, ciò che i
Platonici afferm ano efficacem ente, doversi riferire ogni
specie che è nella m ateria piuttosto alla condizione d e ll’ac
cidente che non della vera sostanza. M entre a rag io n e
rivendicano questo titolo le cose che stanno per sé, fondan
dosi su sé ed essendo quello che sono con vera ragione;
im m uni da m escolanze estranee e p er niente adulterate.
E ràclito chiam ò il m are sostanza delle cose sensibili e i
poeti, che son soliti celare con veli m itici la filosofia, avendo
diviso dopo l ’unità di Saturno (cioè dopo l ’unione del
m ondo intelligibile che raccoglie in sé tutto) il m ondo
sensibile in tre parti, ascrivevano a G iove la regione celeste,
a Plutone la sotterranea, a N ettuno poi quella m edia, che si
stende dalla luna alla terra, di cui ora si tratta; e chiam arono
Signore del m are N ettuno, che i P latonici intendono com e
qu ella v irtù che presiede alle generazioni.
M a torniam o a M osè che divide le acque dalle acque per
m ezzo del firm am ento. T riplice infatti è la partizione dei
co rpi sublunari. G li uni stanno al di sopra della m edia
regione d e ll’àere, e cioè la parte piu alta di tale elem ento e
il fuoco purissim o, cui si attribuisce n e ll’insiem e il nom e di
ètere: ivi gli elem enti sono puri, senza m istura, governati da
leggi. P oi sotto la parte m ediana d e ll’àere sono quei corpi
che sussistono nel nostro m ondo, dove non è niente di puro
(non è infatti puro l ’elem ento sensibile), m a tutto è m esco
lanza costituita dalla parte più bassa e grossolana del corpo
del m ondo.
37
L a regione d e ll’àere p o sta fra m ezzo è quella che q ui si
chiam a firm am ento, da cui M osè fa venire gli uccelli che
volano sotto il firm am ento; è la regione dove com paiono
certi fenom eni celesti, com e piogge, nevi, folgori, tuoni,
com ete e altri del genere. V edi ora quanto giustam ente, non
solo p er la posizione, m a anche p er le p roprietà naturali,
questo firm am ento divide e distingue gli elem enti superiori
d a g l’inferiori com e le acque dalle acque.
Sopra di esso stanno gli elem enti puri; sotto di esso, con
perfetta m escolanza, abbandonano la sem plicità elem en ta
re; in esso sono m isti m a im perfetti e, per parlare con
assoluta proprietà, di natura interm edia fra le cose m iste e i
p rincipii elem entari.
C apitolo Q uarto
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norm e, com e se ci fossero dei custodi a prescriverla, si
riuniscano in u n ’unica form a.
C iò che accade alle acque inferiori, com e abbiam o m o
strato, non accade anche alle superiori, dove la m escolanza
o non sussiste o è im perfetta.
C hé, se l ’anim a vegetativa segue subito alla fo rm a della
m escolanza, che altro aspettavam o dal nostro filosofo se non
ch e subito dopo aver descritto tale riunione delle acque
trattasse della terra feconda di erbe, di frutti e di alberi?
C apitolo Q uinto
39
più parole a provarlo o perché possa sem brar strano ad
alcuno che noi riferiam o ad essi ciò che qui si dice delle
stelle. E poiché ogni diversità di queste si rip o rta a due cause
prim e, caldo e freddo, a ragione ricondurrem o ciò che è
causato dal calore al sole, ciò che è causato dal freddo alla
luna. N é questi fenom eni m eritano il nom e di sole e di luna
e degli astri solo perché nel cielo inferiore sono lo stesso che
quelli nel loro, che pure è più nobile, m a anche perché, con
sim ile aspetto, del pari lucenti e risplendenti si m ostrano agli
uom ini, e perché seguono ciascuno una di quelle stelle nel
cielo com e principe e guida. Perciò anche sono segni di
quelle cose che le stelle d a cui furono suscitati sogliono
inviare agli uom ini. A conferm a di ciò serve il fatto che
seguono il m oto degli astri, per la cui forza e influenza
derivano dalla m ateria terrestre m ediante esalazione di v a
pori.
C apitolo Sesto
40
terrestri. Som m o e prim o di tutti è l ’uom o, a cui giunta la
natura del m ondo corruttibile si ferm a e si raccoglie.
C apitolo Settimo
41
<F
econda Iss-posizione
P roemio
43
luce anziché form a, e cosi le com ete, le folgori e le cose del
genere non chiam ò coi loro nom i, m a astri e stelle, e
parim enti le altre cose?
A gli in izii noi abbiam o addotto com e spiegazione, sia la
consuetudine degli antichi di scrivere di grandi cose naturali
e divine in m aniera occulta e figurata, sia l ’ignoranza degli
uditori: infatti non potendo essi reggere allo splendore della
sapienza m osaica, fu necessario parlar loro col viso velato,
p e r non accecare con l ’eccessivo fulgore chi ci si proponeva
di illum inare. O ra abbiam o una opportunità di offrire una
terza spiegazione, e cioè che, se avesse detto materia, form a,
qualità e causa agente, quei term ini sarebbero potuti servire
p er trattare del m ondo corruttibile, m a non degli altri. Perciò
im pensato e m irabile e degno di abilità veram ente divina,
non um ana, è quel ritrovato di M osè, di servirsi d i certi
term ini e disporre il discorso in m odo che parole, contesto,
ordine convengano pienam ente a raffigurare i segreti di tutti
i m ondi e di tutta la natura. Ed è questo il punto in cui il libro
di M osè supera in m odo assoluto la sapienza, l ’eloquenza e
l ’ingegno um ano.
Q uesto il lato nuovo e finora inesplorato che ho tentato di
m ettere in luce, per dim ostrare ai m iei contem poranei che
M osè aveva fatto ciò.
Q u e sta è l ’idea, q u esto l ’esem p lare d ello sc ritto re
insuperabile, non solo perché, com e sopra ho dim ostrato, un
tal genere di stile riproduce ed em ula la natura, m a anche
perché, com e fra le m enti angeliche, secondo la testim onian
za di D ionigi e di San T om m aso, splendore della nostra
teologia, quella è più elevata che per m ezzo delT intelligenza
44
com prende con pochissim e nozioni e form e ciò che le m enti
inferiori com prendono con nozioni varie e m olteplici, cosi
fra le scritture, quella è som m a, quella sta a ll’apice d ’ogni
perfezione, che in pochissim e parole abbraccia in m odo
adeguato e profondo la totalità delle cose e le cose singole.
M a perché trattiam o più a lungo il Profeta che si fa avanti col
volto svelato per parlarci dei m isteri celesti? T uttavia p rim a
di sentire p arlare lui, perché siam o più preparati ad ascoltare
le sue parole, sarà utile prem ettere qualche m odesta notizia
sul decim o cielo.
C apitolo P rimo
45
sette braccia, su cui sta una lam pada e sulla lam pada stanno
due olive. P oiché infatti le sette lucerne indicano i sette
pianeti, e la lam pada l ’ottava sfera che risplende di tante luci,
m entre con le due olive vuole indicare la nona e la d ecim a
sfera, poiché dalle olive scaturisce l ’olio per nutrire la
fiam m a della lam pada e d elle sette lucerne; perciò siccom e
tra i cieli che vediam o è da quei due più alti che la luce em ana
e si conserva (ché chi dà la luce anche la conserva), g iu sta
m ente, a guisa di paragone, quei due sono ravvicinate alle
olive, gli altri alle lucerne e alla lam pada.
M a, se per una sola acqua non si possono p orre due
sorgenti prim e, di necessità una di quelle due sfere suprem e
d e v ’essere il principio di tutta la luce. E se questa si deve
attribuire ad una, cioè alla decim a, com e ad origine assoluta,
perché sia questo principio unificatore delle luci, allora la
no n a p er p rim a accoglierà la luce con tutta l ’essenza della
sua sostanza; di qui, in terzo luogo, arriverà con piena
p artecipazione al sole, dal sole poi in quarto luogo e orm ai
perciò fino all'ultim o grado si partirà fra tutte le stelle.
P oniam o dunque sopra i nove cieli il decim o che i teologi
chiam ano empireo.
D a alcuni si è m esso in dubbio se la sua natura fosse
corporea o piuttosto incorporea. Infatti conviene forse al
l ’unità, corrispondente per analogia di natura al num ero
elem entare, non essere tuttavia dello stesso genere. M a,
com unque si concluda su questo punto, resti p er ferm o che
ivi sono i tesori della luce, e che là, com e d a una fonte deriva
nelle altre cose tutta la luce che si trova e si vede nei corpi.
E non im porta se qualcuno, con più ostinazione che veracità,
46
non vorrà crederla natura veram ente corporea, poiché nella
teo lo g ia dei Fenici, com e scrive G iuliano n e ll’orazione sul
sole, si crede che la luce corporea deriva da una natura
incorporea. E ssa dunque sta a capo dei nove cieli ordinati in
serie successive, com e il generale guida l ’esercito, com e la
fo rm a dirige la m ateria, e, realizzando in sé l ’unità, com pleta
la schiera dei dieci.
C apitolo S econdo
47
elem enti, m olto sim ile a quella per l ’opacità della sostanza
e p er la presenza di m acchie. Q uindi acqua M ercurio, astro
am biguo e m utevole, chiam ato perciò in Lucano arbitro
d e ll’onda; aria V ènere, vivificatrice per tem perato calore; il
Sole fuoco p er ragioni elevatissim e. E, in ordine inverso,
M arte fuoco, G iove aria collegata per sua natura a V ènere,
Saturno acqua, cioè vecchio di frigidità invincibile; resta che
noi chiam iam o l ’ottava sfera, quella delle stelle fisse, terra,
richiedendo questo lo stesso ordine del com puto.
G iustam ente quindi chiam ò terra questo com plesso sopra
cui non possiam o ved er nulla e che è com e racchiuso fra due
terre. E soggiunge: e la terra era manchevole e vuota, certo
p er la m ancanza della luce che ancora non le giungeva dal
prim o cielo e dalle altre virtù d i cui la luce è veicolo.
N é diciam o questo di nostro, m a lo afferm a lo stesso
autore chiarendo di che sia questa m ancanza: e le tenebre
erano sulla superficie dell’abisso, chiam ando a buon diritto
abisso l ’altezza si grande per tanto num ero di giri e la
straordinaria profondità. M a perché non credessim o che tra
l ’ottava sfera e le regioni d e ll’Em pireo non ci fosse nulla di
m ezzo, com e credettero alcuni seguendo soltanto g l’indizi
del senso, ci ricordò la sfera interposta che, raffigurata da lui
nelle acque, in m odo conform e dai più recenti è stata detta
cristallina. Sopra questa si m oveva lo Spirito del Signore o,
com e dice la sapienza ebraica e É ffrem Siro tradusse, «lo
Spirito del Signore la covava», cioè il cielo spirituale, sede
degli spiriti del Signore, standole im m ediatam ente a contat
to, la riscaldava con la sua luce vivificatrice. E avvenne
opportunam ente che il cielo, che è prossim o a ll’origine della
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luce, con tutto il suo corpo e con tutta la sua m ole assorbisse
la luce a noi invisibile perché non trova un term ine in corpo
più solido. G iacendo dunque im m ediatam ente su di esso,
l ’E m pireo gli dava la sua luce che tosto, scacciate per ordine
di D io le tenebre, si diffondeva nelle altre sfere che abbiam o
viste designate con la terra e con l ’abisso; e della sera e del
m attino si fece un giorno solo, poiché per effetto della luce e
d e ll’influenza divina, i cieli inferiori sono congiunti ai prim i.
C om plessivam ente dunque, col prim o giorno si indicano la
superiorità del prim o cielo sugli astri e la trasm issione della
luce da quello a questi; coi nom i d ’acqua e di terra s’indica
una m olteplicità di caratteristiche del nono cielo e degli altri.
C apitolo T erzo
49
Q ueste acque sono riunite in un sol luogo perché ogni
virtù dei pianeti è raccolta nel sole; e questo conferm ano ad
una voce tutti i filosofi e tutti i m atem atici; e se questa m assa
d ’acqua è stata detta mare, verosim ilm ente si tratterà di
q u e ll’o c e a n o che è detto padre degli dei e degli uom ini da
coloro che hanno gratificato i pianeti del nom e di dei.
E che altro direm o sia terra se non la luna chiam ata terra
da A ristòtele e dai Pitagorici? E ssa che, quando è tutta
coperta dalle onde del suddetto m are, non ci è né utile né
visibile; m a quando, p er lo scostarsi crescente del m are si
ren d e visibile, allora diviene utile agli anim ali e a noi. A llora
essa è fertile, allora è feconda specialm ente di quelle cose
ch e appartengono alla natura vegetale i cui com piti sono: lo
sviluppo, la nutrizione, la generazione. In queste cose spe
cialm ente si afferm a la forza della luna, com e dissero i
C aldei. E ciò è m ostrato m olto chiaram ente anche qui da
M osè, q uando la presenta com e il principio cha al suo prim o
apparire genera erbe, frutti e alberi. V edi com e brevem ente
ci ha tratteggiato la natura della luna e del sole. M a perch é
tace degli altri cieli m entre abbiam o prom esso nei proem ii
ch e avrebbe trattato di tutto esauriente e dotto? Perché,
chiederò, m entre h a fatto m enzione della decim a, della
nona, dell 'o ttav a sfera, di Satum o, del Sole e della L una, non
dice u n a paro la dei quattro cieli che restano, V ènere e
M ercurio, G iove e M arte?
Si po treb b e dire che lo ha fatto perché quella gente
prim itiv a conosceva soltanto il sole e la luna. M a m i sono
p recluso d a m e questa via d ’uscita, né posso senza arrossire
giungere a questo io, che più sopra ho attestato niente essere
50
stato om esso d a M osè di ciò che poteva giovare alla p ien a
intelligenza di tutti i m ondi. A ltri potrà dire che le cose
afferm ate p er il Sole e per la L una valgono per il resto:
poiché questi due astri hanno il governo del cielo ed e serc i
tano u n ’influenza universale, m entre gli altri hanno una
p o ten za particolare.
M a neppure questo ci soddisfa; p er la m edesim a ragione
avrebbe dovuto tralasciare anche Saturno di cui tuttavia ho
m ostrato che fa m enzione. Credo che p iù profondam ente
stia qui nascosto un m istero d e ll’antica sapienza eb raica fra
i cui dogm i sul cielo questo è fondam entale: che G iove e
M arte sono lim itati dal Sole, V ènere e M ercurio dalla Luna.
E se indaghiam o scrupolosam ente la natura di questi astri
non riesce oscuro il senso di tale opinione benché quelli non
offrano alcuna spiegazione del loro asserto.
R iscalda G iove, riscalda M arte e riscalda il Sole; m a il
calore di M arte è acre e violento, quello di G iove benefico;
nel Sole vediam o l ’acre violenza di M arte e la p roprietà
b en efica di G iove, cioè una natura m ista di questi, tem perata
e in qualche m odo interm edia: benefico G iove, infausto
M arte; il Sole parte buono, parte cattivo, buono n e ll’irrad ia
zione, cattivo nella congiunzione. L ’A riete è la casa di
M arte, il C ancro la dignità di G iove, il Sole, rag g iu n ta nel
C ancro la m assim a altezza, n e ll’A riete lap o ten za, m anifesta
la p ropria natura congiunta a entram bi gli astri.
E veniam o alla Luna che in m odo evidente partecipa delle
acque di M ercurio e che m ostrala sua grande affinità con V ènere
specialm ente in questo fatto, che nel segno del Toro, sede di
Vènere, a tal punto si sublima da essere giudicata più propizia e
51
benefica che in qualunque altro posto. Fin qui dunque ha
illustrato a sufficienza il cielo empireo, la nona sfera, il firm a
mento, la stella di Saturno, il Sole e la Luna che abbracciano le
altre cose, insegnando il resto col suo stesso silenzio.
C apitolo Q uarto
52
E aggiunse: secondo le costellazioni, il che io tralascio
perché è stato chiarito abbastanza dagli altri interpreti.
Indicò inoltre espressam ente q u e ll’altra attività degli astri
che consiste n e ll’illum inare, quando disse che erano stati
creati per risplendere nel cielo e per illum inare la terra.
S ebbene i pareri degli antichi circa le influenze celesti sulle
cose terrene siano diversi, le parole di M osè si adattano bene
a qualunque teoria. Infatti, se non influiscono p er altro che
p e r la luce, com e sem bra sostenesse A ristòtele, se ne in ter
pretiam o le parole con senso religioso e non ad arbitrio, non
si p o trà pensare nulla di più concordante con l 'afferm azio n e
m osaica. Se, oltre alla luce, trasm ettono anche calore e oltre
a questo nient’altro, com e vogliono 1’arabo A verroè e A braam
giudeo, è sufficiente aver fatto m enzione della luce da cui i
m edesim i autori fanno derivare anche il calore. Se poi m olte
altre diverse virtù si diffondono dal cielo sulla terra, com e
hanno creduto A vicenna e i babilonesi, non alla leggera è
stata fatta m enzione della luce sola, poiché, com e scrive
A vicenna, è solo la luce che porta a noi tutte le virtù del cielo.
D unque i corpi della luna, del sole e delle stelle sono delegati
a queste varie funzioni.
C apitolo Q uinto
53
richiedono la trattazione gli anim ali acquatici e terrestri,
quelle acque che sono sopra i cieli e la terra che è lo stesso
firm am ento, com e è stato provato più sopra. I segni infatti
ch e si vedono in quei due giri del sole com e figure d ’anim ali
terrestri furono individuati dagli Egizii e dagli Indiani, che
poterono fare ciò con m aggiore facilità ed esattezza, aiutati
dalla stessa am piezza dell ’orizzonte e serenità del cielo. D el
resto la produzione degli anim ali m ortali che sono qui non
rig u ard a questi due elem enti, terra e acqua, più che non gli
altri due, cioè il fuoco e l ’aria: e M osè, poiché ha dato il nom e
di acque al cielo cristallino, ha chiam ato pesci gli anim ali
che sono li; gium ente e bestie invece quelli che sono nel
firm am ento che chiam a terra.
C apitolo S esto
54
non differisce in niente da quelli. N el V angelo è scritto:
«Q uesto ha fatto l ’uom o cattivo». D io dunque ha aggiunto
alla m acchina celeste una sostanza v iv a e ragionevole,
p artecipe d ’intelletto: e perciò volle che essa, a im m agine e
som iglianza sua, fosse a fondam ento di quelli che abbiam o
chiam ato p o c ’anzi esseri anim ati, cioè di tutti i segni zodiacali
e pianeti del cielo: segni e pianeti che si volgono al suo cenno
e obbediscono alla sua parola, senza alcun indugio, senza la
m inim a resistenza, diversam ente da ciò che avviene ai corpi
elem entari. N é si potrebbe trovare facilm ente qualcosa in
cui i Peripatetici si affatichino più che nel provare non
esservi affatto nei corpi celesti quella resistenza al loro
m otore che si trova invece nei nostri. Perciò dal m oto
perpetuo non viene ad essi, com e a noi, noia o uggia o
stanchezza; questo è l ’im pero divino d e ll’uom o celeste sugli
anim ali che M osè trattò. D el p ari non è senza m istero che
D io lo abbia creato m aschio e fem m ina.
È infatti questa la prerogativa degli anim i celesti, di
assum ere contem poraneam ente i due com piti di contem pla
re e di governare i corpi, e non può verificarsi che l ’uno si
opponga a ll’altro o che com unque gli sia d ’ostacolo. S pe
cialm ente presso gli antichi, c ’è l ’uso che notiam o anche
n e g l’inni orfici, di indicare coi nom i di maschio e di fe m m i
na queste due forze insite in una m edesim a sostanza, l ’una
d e lla quali contem pla, l ’altra presiede al corpo. Q uesto dice
il P rofeta del m ondo celeste, cioè del corpo divino, del
num ero delle due sfere, della sua natura, delle sue p roprietà
e delle sue funzioni. Infine parla della sua forza m otrice,
d e lla sostanza razionale e della sua intelligenza.
55
C apitolo Settimo
56
non d e v ’essere n e ll’opera niente di più perfetto di ciò che è
n e ll’artefice. T em iam o dunque am iam o e veneriam o C olui
in cui, com e dice Pàolo, sono state create tutte le cose,
v isibili ed invisibili; che è il principio in cui D io creò il cielo
e la terra, cioè il Cristo. E gli stesso, poiché gli chiedevano
chi fosse, con perfetta coscienza di sé rispose: «Io che vi
p arlo sono il principio». N on m odelliam o perciò nei m etalli
figure astrali, m a negli anim i nostri la figura di Lui, del
V erbo di D io, e non chiediam o ai cieli, che non ce li
darebbero, la salute del corpo o i beni di fortuna, m a al
Signore del cielo cui appartiene il dom inio di tutti i beni, in
cielo e in terra, chiediam o i beni presenti nella m isura in cui
sono buoni e la verace felicità della vita eterna.
57
rt rp
J-erza J s sposizwne
P roemio
59
E siccom e a proposito di questa natura angelica e in v isi
bile m olte cose sono state tram andate dagli antichi E brei,
m olte da D ionigi, m i proponevo di esporre la parola di M osè
secondo la dottrina di questo e di quelli.
M a poiché le cose dette dagli Ebrei, essendo nuove p er i
L atini, non potrebbero essere intese facilm ente dalla nostra
gente se non esponessi la m assim a parte, anzi quasi la
totalità dei dogm i del popolo ebraico, prendendo le m osse
d a ll’origine prim a, ho pensato d i rim andare la cosa fino a
q uando, altrove, io abbia scritto di ciò in form a più am pia, e
abbia rese note ai m iei contem poranei le loro opinioni,
esam inando quanto si accordino con la sapienza egiziana,
quanto con la filosofia platonica, quanto con la verità c a tto
lica. E cosi quando troverem o che in qualcosa si accordano
co n noi, com anderem o agli E brei di attenersi alle antiche
tradizioni dei loro padri; quando troverem o qualche luogo in
cui si scostano da noi, schierati nelle file cattoliche ci
scaglierem o contro di essi.
Infine, tutto ciò ch e troverem o di estraneo alla verità
ev an g elica confuterem o secondo il nostro dovere, m entre
ogni principio santo e vero trasferirem o dalla Sinagoga,
co m e d a possessore illegittim o, a noi che siam o i veri
Israeliti.
Frattanto, calcando le orm e di D ionigi o piuttosto di
P àolo e di Ieroteo che quegli segui, nella m isura delle m ie
forze, cercherò di portare la luce sulle tenebre della legge
nelle quali D io, autore della legge, pose i suoi penetrali.
60
C apitolo P rimo
61
attribuirem o alla natura m olteplice d ell'A n g elo , che gli
viene d a ll'e sse re num ero, cioè creatura; tutto ciò che è
perfetto, a ll’unità di cui partecipa per il suo essere congiunto
a D io.
N e ll'A n g e lo troviam o una duplice im perfezione: l ’una
co nsiste nel fatto che non è l ’essere stesso, m a soltanto
u n ’essenza a cui l ’essere appartiene per partecipazione;
l ’altra, nel fatto che non è l ’intelligenza stessa, m a p artecipa
d e ll’intelligenza, poiché per sua natura è intelletto capace
d ’intendere. L a seconda deriva dalla prim a: poiché ciò che
non dipende d a sé p er l ’essere, neanche dipende d a sé per
l ’intendere: poiché nulla può esistere assolutam ente in ciò
ch e non è l ’essere stesso. E ntram be le im perfezioni sono
dunque n e ll’A ngelo in quanto m olteplicità, m entre la capa
c ità di elevazion e com piuta è dovuta a ll’unità che gli si
accosta d a ll’alto. D io è l ’unità d ’onde deriva a ll’A ngelo
l ’essere, la vita e ogni perfezione.
C om e poi è duplice l ’im perfezione, quasi duplice fo rm a
di m olteplicità, cosi, perché in entram bi gli aspetti e ssa sia
colm ata, dobbiam o am m ettere due form e di partecipazione
a ll’unità. L a p rim a è quella per cui c ’è l ’essenza ro zza ed
inform e, p riv a di vita e di essere, cioè la terra sterile e vuota
che D io creò. N é devi credere, com e alcuni hanno creduto,
che al creatore spetti soltanto di plasm are l ’essenza, non di
crearla. Insiem e alla terra creò anche il cielo, cioè l ’atto di
q u e ll’essenza e l ’uno nel m olteplice, ossia l ’essere stesso; di
m odo che la creazione del cielo e della terra è quasi tu tt’uno,
riferendosi a cose che rientrano nello stesso am bito e a due
nature che convengono, p er leggi analoghe, a un unico fine.
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N é ci scostiam o dagli antichi chiam ando cielo lo stesso
essere p artecipe della divinità, se Senofane chiam ò il m ondo
archètipo sfera e se D io è chiam ato dai Saraceni e dai nostri
circolo.
C apitolo Secondo
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scienza qualche volta allontana da D io, m entre l ’am ore
accosta sem pre a Dio. Se l ’am ore non si m uove su qu el
l ’abisso, la luce non si può fare. Perché com e l ’occhio non
accoglie la luce se non rivolto al sole, cosi l ’A ngelo non
accoglie la luce spirituale se non rivolto a Dio. E questo
rivolgersi della natura angelica verso D io non è e non può
essere ch e un m oto d ’am ore.
Lo Spirito di D io, il suo Spirito in quanto am ore, era
dunque su ll’abisso, ossia su ll’intelletto angelico ( l’am ore
infatti v ien e dopo l ’intelligenza), e la m ente d e ll’À ngelo
spinta e sollecitata da questo am ore, si volge a D io. D io
disse: «L a luce sia», e n e ll’A ngelo si fece la luce, la luce
delle form e intelligibili, e un unico giorno scaturì dal m atti
no e dalla sera, poiché, com e prova A verroè, d a ll’intelletto
e d a ll’intelligibile si form a u n ’unità più che non dalla
m ateria e dalla form a, e la m edesim a cosa scrive M aim ònide,
ch e la verità si coglie m olto m eglio negli A ngeli che n e ll’u o
m o. E, p er non sofferm arci su questi autori, ci basta questa
ragione: ch e le specie intelligibili sono unite alla m ente
angelica con un legam e inscindibile e d eterno, anziché
instabile e tem poraneo com e accade a ll’intelletto um ano.
C apitolo T erzo
64
distribuiscono le schiere degli A ngeli. L eggiam o ch e il
firm am ento è stato posto in m ezzo alle acque, e qui ci
vengono indicate tra gerarchie di A ngeli (infatti le ch iam e
rem o sem pre cosi, col vocabolo consueto). L a p rim a e
l ’ultim a di queste si indicano con le acque: l ’una con le
acque che sono sopra il cielo, l ’altra con le acque che sono
sotto il cielo; la schiera interm edia che le divide è detta
firm am ento. E se ponderiam o tutte queste cose troviam o che
non potrebbero accordarsi di più con la d o ttrina di D ionigi:
la gerarchia suprem a, attendendo, com e egli scrive, alla sola
contem plazione, a ragione è raffigurata nelle acque ch e sul
cielo sono p o ste al di sopra di ogni azione m ondana, celeste
e terrestre, e lodano D io indefinitam ente, con perpetuo
suono. La schiera interm edia, delegata alle funzioni celesti,
non poteva essere indicata in m odo più appropriato che col
firm am ento, cioè col cielo. L ’ultim a gerarchia, anche se per
sua natura è al di sopra d ’ogni corpo e al di sopra del cielo,
tuttavia ha cu ra delle cose che stanno sotto il cielo e, po ich é
si d ivide in P rincipati, A rcàngeli ed A ngeli, ogni attiv ità di
questi si riferisce soltanto alle cose che sono sotto la luna:
l ’attività dei P rincipati, com e apprendiam o d a D aniele, agli
Stati, ai Re, ai principi; quella degli A rcàngeli, ai m isteri e
ai riti sacri; gli A ngeli attendono alle cure private e vengono
assegnati ciascuno a un singolo uom o. A ragione dunque
q uesta schiera è raffigurata con le acque che stanno sotto il
cielo, poiché presiede alle cose m utevoli e passeggere m en
tre sta al di sotto della schiera che attende alle cose del cielo.
65
C apitolo Q uarto
66
m ondo corruttibile. E intorno a questo, anche A gostino
afferm ò costantem ente che non c ’è presso di noi alcuna cosa
visib ile cui non presieda una potenza angelica e che tu tti i
corpi sono governati da un intelligente spirito d i vita; questo,
in seguito, conferm ò anche G regorio. S im ilm ente O rigéne,
nei com m entari al libro dei N um eri, dice che il m ondo ha
bisogno degli A ngeli che governino gli anim ali e le loro
nascite e anche la fecondità dei virgulti e delle piantagioni e
delle altre cose.
Il Dam asceno, essendo di questo stesso parere, pensò che
l ’Àngelo caduto fosse di quelli di natura m eno pregevole,
preposti alle cose terrene. M a, come tutte queste cose al disotto
v
dell’uom o si riferiscono all’uomo, cosi ogni cura degli Angeli
relativa a tali cose si subordina e serve soprattutto aH’uomo,
studiandosi di operare in modo da aver cura delle cose um ane e
da farci vivere, soccorrendo alla nostra debolezza, per quanto ci
è possibile, piam ente e religiosamente.
E perciò M osè pose subito il perché di quel raccogliersi
delle acque; perché la terra produca frutti, erbe, alberi. C he
altro è q u esta terra, se non quella di cui si p a rla nel V angelo,
ch e a volte frutta cento, a volte sessanta, a volte trenta? L a
terra d e ll’anim o nostro, di cui P àolo dice cosi: «Se una terra
accogliendo la pioggia che spesso la bagna genera erb a utile
a coloro d a cui è coltivata, sarà benedetta da Dio; q u ella terra
invece che produce triboli e spine è m alvagia, vicin issim a
alla m aledizione, la sua fine è n e ll’infem o». Facciam o
dunque anche noi in m odo che la nostra terra dia frutti
tem pestivi; che dia com e erbe le virtù espiatorie, la scienza
e la sapienza com e piante più grandi, l ’assoluta e perfetta
67
virtù com e cedri del L ibano; perché la sua fine sia la
benedizione e non il rogo. E ascoltiam o il Padre che dice:
«E cco il profum o di m io figlio che è com e l ’olezzo del
cam po fecondo che il Signore ha benedetto». E non ci
stupisca se altro significano p er noi il cielo e la terra nel
prim o giorno, altro il firm am ento e l ’àrida (il che abbiam o
osservato anche nei libri precedenti), se anche B asilio e
O rigéne e parecchi altri vogliono che p er M osè altro siano il
cielo e la terra nel prim o giorno, altro il firm am ento e la terra
asciutta nel secondo.
C apitolo Q uinto
68
intende q u e st’uom o m ortale e fragile che noi vediam o, m a
colui che regge l ’uom o che vediam o.
E secondo la lettera ebraica, nella storia dei Re, leggiamo
questa preghiera di Salomone: «O cielo, ascoltami», dove
invoca non il cielo, ma Dio, reggitore e Signore del cielo e della
terra. Cosi anche noi, in questo luogo, quando sentiamo il sole
e le stelle, non dobbiam o intendere gli astri, m a gli Angeli che
reggono gli astri, gli Angeli che, invisibili, illuminano una terra
pure invisibile, la sostanza dell’animo nostro. N é il dire che sono
stati assegnati a diffondere la luce è cosa temeraria o profana, m a
è tanto strettamente concorde con i documenti prodotti, che di lf,
più che da ogni altra parte, sarà confermata la nostra esposizione.
Poiché infatti (come dice Dionigi) le funzioni angeliche sono tre:
purificazione, illuminazione e perfezione; esse sono distribuite
cosi: in m odo che l’ultima schiera purifichi, la somm a tragga a
perfezione, la media, di cui ora parliamo, illumini. Le acque
inferiori pertanto purificano la nostra terra, e perciò essa diviene
risplendente; le acque celesti illuminano la terra purificata; le
acque sopracelesti, con una vivificatrice pioggia di fuoco,
traggono a perfezione e fecondano, guidando spesso a tal grado
di beatitudine, da far si che germogli in noi, non soltanto erba
risanatrice, m a lo stesso Salvatore, e che si formi in noi, non una
sola virtù, m a Cristo, pienezza di tutte le virtù.
C a p it o l o Sesto
69
sarei trovato in grande difficoltà, com e non m ai in altri
luoghi di questa m ia opera, se non m i avessero soccorso
Isaia, nei cui scritti troviam o Serafini alati, ed E zechiele,
secondo cui, stando a ciò che dicono gli E brei, gli uccelli e
gli anim ali sim boleggiano forze spirituali, e gli antichi E brei
che, concordem ente, ritengono venisse indicata in questo
luogo da M osè la m oltitudine degli A ngeli. S eguendo le
orm e di costoro, dobbiam o dunque dire che qui è respinto
dal P rofeta l ’errore dei filosofi i quali, p u r credendo vi
fossero alcune sostanze intellettuali più im portanti, n eg aro
no che ciascuna di esse dirigesse una m oltitudine num erosa,
com e il capo e la legione, secondo la dottrina dei teologi.
P oiché dunque conosciam o nove schiere d ’À ngeli e ogni
schiera ha avuto in sorte il suo capo, rappresentiam oci
m entalm ente quel duce e principe com e una grandissim a
sfera, e la schiera che lo segue com e gli abitatori e l ’o rn a
m ento di q u ella sfera, cosi com e n e ll’acqua pensiam o i
pesci, n e ll’aria gli uccelli, in terra le bestie, nella sfera ottava
le stelle; e sarà vero il detto di D aniele: «D iecim ila lo
assistevano e un m ilione lo servivano».
C apitolo S ettimo
70
proprio e i due estrem i, incorporeo ed elem entare, tra i quali
è collocato m edio in m odo che sia posto com e fine d e ll’uno
e principio d e ll’altro. M a vedo un laccio teso alla nostra
esposizione: poiché si soggiunge che l ’uom o sta al di sopra
dei pesci del m are, degli uccelli e delle bestie. Infatti, se
questi ci indicano la natura angelica, in che m odo p otrà
essere vero ciò che si scrive, che al di sopra di essi sta
l ’uom o, inferiore agli A ngeli secondo la sapienza dei filo so
fi e la testim onianza del Profeta? Ci aiuti e spezzi il laccio
Q uegli che spezzò sotto i nostri piedi il laccio di Sàtana,
G esù C risto, prim ogenito di ogni creatura. E gli spezza il
laccio, scioglie e rom pe ogni nodo: poiché, non solo in Lui,
in cui abitò corporalm ente la totalità divina, a tal segno è
sublim ata la natura um ana che l ’uom o C risto, in quanto
uom o, insegna agli A ngeli, li illum ina e li trae a perfezione,
se crediam o a D ionigi, di tanto, com e dice Pàolo, superiore
agli A ngeli di quanto è più elevato del loro il nom e che
ereditò; m a anche noi tutti, a cui, per la grazia di C risto, è
dato il potere di diventare figli di D io, possiam o elev arci al
di sopra della natura angelica.
71
C ^uarta ^lE/sposizione
P roemio
73
di sé (per lasciar da parte il m otto del D elfo) fu dim ostrato
da P latone nell 'Alcibiade prim o, in m odo da non lasciare ai
po steri quasi niente di nuovo da recare su questo argom ento.
E p er certo è disonesto e tem erario lo studio di colui che,
ancora ignaro di sé, non sapendo ancora se può sapere
qualcosa, aspira tuttavia con tanta audacia alla conoscenza
delle cose che sono tanto lontane da lui.
T orniam o d unque a noi e vediam o (com e dice il P rofeta)
quanti beni D io creò p er l ’anim a nostra. A ffinché p er esser
stata poco diligente nella conoscenza di sé stessa, non senta
il padre dire nei cantici: «Se non conosci te stessa, o
b ellissim a fra le donne, vattene e segui le orm e del tuo
gregge».
V edete che pena ci aspetta per l ’ignoranza di noi stessi.
B isogna infatti allontanarsi dal padre; in seguito a tale
allontanam ento si è diseredati (e che potrebbe esser peggio
di questo?); bisogna anche uscire in m odo assoluto da noi
stessi. N on è in sé stesso l 'anim o che non vede sé stesso. Chi
esce da sé si strappa da sé; e che più penoso di questo? In
terzo luogo bisogna andare dietro le orm e del nostro gregge,
cioè dei bruti che sono in noi, di cui parlerem o in m odo
esauriente nel corso d e ll’esposizione; e che più m iserevole
di questo? C he più avvilente e spregevole di questo, dell 'a n
dare dietro a quelle bestie cui la natura ci aveva p reposti
com e guida?
Procedendo dunque, non sulle orm e dei bruti, m a di
M osè, entriam o in noi stessi, entriam o, m entre il P rofeta
m edesim o ce ne apre la via, nei penetrali d e ll’anim o, per
conoscere felicem ente in noi tutti i m ondi, il Padre, la patria.
74
C apitolo P rimo
75
spirito sostanza particolarm ente lum inosa e nel dire che per
nessu n a cosa si riscalda e si ristora più che per la luce.
Si aggiunge che, com e ogni virtù dei cieli (com e scrive
A vicenna) è trasm essa alla terra dalla m ediazione della luce,
cosi ogni virtù d e ll’anim a, che abbiam o chiam ata cielo, ogni
potenza, la vita, il m oto e il senso, giungono e si insinuano
in questo corpo che abbiam o chiam ato terra p er la m ed iazio
ne dello spirito lum inoso.
M a veniam o ormai alla parola del Profeta, secondo cui
vediam o che in prim o luogo sono stati creati il cielo e la terra, gli
estrem i cioè della nostra sostanza, la forza razionale e il corpo
terreno che, alla fine, quando si fa la luce, cioè quando soprag
giunge la luminosità dello spirito, si uniscono in modo che dalla
sera e dal mattino, cioè dalla natura notturna del corpo e
m attutina delFanim a, si forma un uom o solo; e discendendo
ogni capacità di vita e di senso (come abbiamo dimostrato) alla
nostra terra attraverso questa luce, a ragione, prim a del sorgere
della luce, la terra era vuota e sterile. A d essa il cielo non poteva
elargire il beneficio della vita e del moto se non attraverso la
propria irradiazione luminosa. E perciò il Profeta si affrettò a
porre la causa della vacuità della terra nel fatto che, prim a del
sorgere della luce, la ricoprivano ancora le tenebre.
C a p it o l o Secondo
76
sale, che si viene specificando m eglio nel secondo giorno,
quando il Profeta insegna che altro son le acque collocate
sopra il cielo, altro quelle collocate sotto il cielo. Se desid e
riam o conoscere il vero senso di tutto ciò, consultiam o la
stessa natura che il Profeta (com e spesso si è detto) m ostra
e rappresenta fedelm ente.
Si è visto far m enzione di tre parti della sostanza um ana:
cioè della parte razionale, di questo corpo m ortale e dello
spirito che sta nel m ezzo. N e restano ancora due. Infatti, tra
la parte razionale per cui siam o uom ini e tutto ciò ch e di
corporeo è in noi (che sia pesante o leggero o sottile) sta la
p arte sensuale p er cui com unichiam o coi bruti.
E poiché non abbiam o m inor relazione con gli A ngeli che
coi bruti, com e al di sotto della ragione c ’è il senso p er cui
com unichiam o con gli anim ali, cosi al di sopra della ragione
c ’è l ’intelletto che rende possibile il detto di G iovanni: «L a
nostra com unione è con gli A ngeli». V edi che cosa sta al di
sotto e che cosa al di sopra della nostra ragione. C hé, se la
ragione (com e si è provato), è detta cielo, è evidente che
significhino in noi le acque sopracelesti e subcelesti. L a
denom inazione di acque conviene alle due parti intellettuale
e sensuale per due diverse ragioni: a ll’una perché p artico lar
m ente trasparente ai raggi della luce divina; a ll’altra perché
accoglie dilettandosene le cose caduche e fluenti. A questa
diversità M osè ci richiam a a sufficienza quando co lloca la
seconda sotto il cielo, dove sono tutte le cose passeggere e
caduche; la prim a sopra il cielo d o v ’è l ’attività della p u ra ed
etern a intelligenza. Q uando dunque leggiam o che il prim o
giorno «Lo Spirito di Dio stava sopra le acque», significando
77
le acque due cose, non dobbiam o credere si parli di quelle
acque che sono sotto il cielo; poiché su queste non si stende
lo Spirito del Signore, m a piuttosto il cielo.
R esta dunque da intendere che si parli di quelle collocate
sopra il cielo. D ’onde ci si svela una som m a verità a proposito
d e ll’anim a. Infatti l ’intelletto che risiede in noi è illum inato
d a un intelletto superiore e veram ente divino, sia questo D io
(com e taluni vogliono) o sia invece una m ente più vicina e
legata a ll’uom o, com e vogliono quasi tutti i G reci, gli A rabi
e m oltissim i degli Ebrei. Q uesta sostanza, i filosofi ebrei e
A lbunasàr A lfarabi nel libro D eiprincipii ha chiam ato espres
sam ente Spirito del Signore. E non a caso, prim a della
creazione d e ll’uom o p e rii connettersi d e ll’anim a e del corpo
attraverso la luce, si ricorda il distendersi dello Spirito sulle
acque, m a lo si ricorda per questo: perché a volte non
crediam o che lo Spirito non fosse presente al nostro intellet
to, se non dopo l ’unione di questo corpo. Il che credettero a
torto M aim ònide, l ’arabo A bu B acher ed alcuni altri.
C apitolo T erzo
78
E non direm o una cosa insostenibile afferm ando che da
questo m are i cinque sensi corporei che vediam o, udito,
v ista, gusto, tatto, olfatto, penetrano diffondendosi com e
cinque m ari m editerranei nel continente del corpo: q u esta fu
evidentem ente la dottrina di P latone nel Teeteto. E poiché
dal perfetto com pim ento delle virtù sensitive, che in ten d ia
m o sim boleggiato in questo raccogliersi alla loro fonte,
derivano vita, salute e nutrim ento a quel corpo che abbiam o
chiam ato terra, giustam ente, al raccogliersi delle acque fa
subito seguire la presentazione della terra verdeggiante e
germ ogliante. I sensi infatti sono stati dati dalla natura a tutti
i m ortali p er procurare al corpo la vita e la salute; perché per
m ezzo loro conoscano le cose che nuocciono e quelle che
giovano e, dopo averle conosciute, p er l ’istinto legato al
senso, disdegnino le prim e, desiderino le seconde; e, infine,
p e r la connessa capacità m otrice, fuggano le cose dannose,
ricerchino le utili. L ’occhio vede il cibo, l ’olfatto ne sente
l ’odore, i piedi portano ad esso, le m ani lo prendono, il palato
lo gusta.
Tutto questo diciam o perché si sappia che con l ’o rd in a
m ento delle acque, cioè delle virtù sensitive, una feconda
felicità è debitam ente congiunta alla terra che orm ai p e r noi
sim boleggia il corpo.
C a p it o l o Q uarto
79
alla sua nuda sostanza. R esta ora da parlare d e lla sua
bellezza e, per cosi dire, del suo ornam ento regale. C ioè di
quando il P rofeta scrive che furono collocati nel firm am ento
il sole, la luna, le stelle. I filosofi più recenti intenderebbero
forse il sole com e l ’intelletto che è in atto, la luna com e
quello che è in potenza. M a, poiché io sono in viv a p o lem ica
con loro, perciò, intanto, esporrò in m odo che l ’anim o, per
qu ella parte che rivolge alle acque superiori, allo Spirito del
Signore, poiché in q u e st’atto tutto riluce, sia chiam ato sole\
p e r quella parte che guarda alle acque inferiori, cioè alle
potenze sensuali, d ’onde contrae qualche m acchia, ab b ia il
nom e luna. In questo senso i P latonici greci chiam erebbero,
in base alle loro dottrine, il sole dianòia, la luna d o ra . Poiché
d ’altronde, durante questo nostro esilio dalla patria v e ra e la
notte buia di questa nostra vita, facciam o m oltissim o uso
della parte di noi che piega verso il senso, e partecipiam o
perciò più d ’opinione che non di scienza; m entre quando
risplenderà il giorno della v ita futura, staccati dal senso,
rivolti alle cose divine, intenderem o con la nostra p arte più
nobile; è giusto dire che questo nostro sole governa il giorno,
questa nostra luna la notte.
E poiché, deposta questa veste m ortale, con la sola luce
del sole contem plerem o ciò che nella presente tristissim a
notte del corpo, con m oltissim e virtù e capacità, cerchiam o
di vedere più che non vediam o, per questo il giorno risplende
d ’un 'u n ica luce; la notte invece chiam a a racco lta e riunisce
in aiuto della luna troppo debole m oltissim e stelle, cioè la
capacità di com porre e di dividere, di ragionare e di definire,
e q u an te altre funzioni esistono.
80
C apitolo Q uinto
81
la procreazione dei figli nei quali sopravviviam o quando,
p e r parte nostra, siam o giunti alla fine. D i questi noi abusia
m o, allettati oltre i lim iti del lecito dallo stim olo del piacere,
riv o lg en d o ci col desiderio per via della gola e della libidine
a ll’am ore della carne, com e dice Pàolo. N elle cui parole
bisogna sottolineare questo: che non è detto «N on dovete
curarvi della carne», m a «N on dovete curarvene nei d esid e
ri»; di essi infatti bisogna usare nei lim iti del necessario, non
p e r nostro piacere, e tanto m eno per fondarci la nostra
felicità.
Q uesti im pulsi dobbiam o intendere adom brati nelle g iu
m ente e nelle fiere; essi son detti parti della terra piuttosto
che non delle acque, poiché sono saziati ed eccitati da questo
corpo si pesante e ci sono stati dati d a D io per la sua salute,
benché divengano esiziali per chi si snerva nella c rap u la e si
annienta nel piacere.
R iportiam o invece alle acque, cioè al senso della fantasia,
quelle tendenze che possono considerarsi più che altro
spirituali e prodotte più dal nostro pensiero che non dal
senso. A ppartengono a tale gruppo le tendenze che ci spin
gono agli onori, a ll’ira, alla vendetta e a tutte le altre ad esse
legate. Sono tendenze necessarie ed utili a chi ne u sa con
m oderazione. B isogna adirarsi, m a con m isura; la v endetta
spesso è opera di giustizia; ciascuno deve salvaguardare la
p ro p ria dignità e non rifiutare gli onori ottenuti con m ezzi
onesti. E dico questo perché, avendo D io creato e poi
benedetto questi anim ali che indicano g l’im pulsi sensuali,
ritenendoli cattivi p e r loro natura, non li crediam o coi
M anichei dovuti a un principio di m ale anziché a un D io
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buono. T utte quelle cose dunque sono buone e necessarie
a ll’uom o, m a noi, trasm odando a ll’am bizione, al furore,
a ll’escandescenza, alla superbia, rendiam o cattive, p e r c o l
p a nostra, cose che quel som m o principio di bene aveva
create buonissim e.
C a p it o l o Sesto
83
C apitolo S ettimo
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C ^uinta ‘E s p o s t a n e
P roemio
85
sua in ordine successivo. E per m ostrar questo com incerò a
interpretare una prim a parte del prim o m ondo, cio è del
m ondo angelico; quindi altre p arti degli altri, acutam ente
intendendo secondo le parole di M osè quella fam osa catena
om erica e gli anelli platonici pendenti dalla viva virtù
d e ll’artefice com e dalla vera pietra d e ll’indom ito Ercole.
C apitolo P rimo
86
le quali, com e per raggi di luce invisibile, è colta chiaram en
te la verità intelligibile. N é per questo si deve dire, com e
abbiam o spiegato con l ’esem pio d e ll’occhio, che le in telli
genze non sono intelligenti per sé e che accidentalm ente,
analogam ente ai nostri anim i, abbiam o avuto in sorte la
capacità intellettuale. D i qui viene la teoria di coloro che
stim ano l ’intelletto denom inazione indegna di D io. Poiché,
se consideriam o l ’intelletto com e l ’occhio che non vede per
sé, m a p er la partecipazione della luce, essendo D io luce
(infatti la luce è verità) ed essendo la vista l ’atto p er cui
l ’occhio attinge la luce, D io non ha bisogno di q uesta
operazione, perché è la luce m edesim a, di tanto più lontano
degli A ngeli d a ll’ignorare le cose, di quanto la natura della
luce è p iù distante dalle tenebre che non la natura d e ll’o c
chio.
M a torniam o agli A ngeli. L ’occhio, cioè la sostanza
intellettuale, non è del tutto sem plice: altrim enti non soppor
terebbe di accogliere la luce. Di qui quella d ottrina com une,
che l ’A ngelo consta di atto e di potenza, benché ci sia v iv a
p o lem ica sulla natura di q u e ll’atto e di quella p otenza e sul
m odo della com posizione e su ciò che h a voluto dire l ’arabo
A verro è afferm ando che entram bi gli intelletti, quello in atto
e quello in potenza, sono in tutti gli intelletti al di qua di D io;
m a, com unque s ’intenda, la dottrina com une a noi basta per
quanto riguarda questo luogo.
M osè ci spiega tutto ciò che abbiam o detto nel prim o
giorno. E gli divide infatti la sostanza angelica in cielo e
terra, cioè in natura d e ll’atto e natura della potenza. Le
m edesim e cose, com e hanno diversi aspetti, cosi hanno
87
anche div ersi nom i. P erciò questo m edesim o atto, assunto in
quanto virtù che dà la vista a ll’occhio e perfezione della
potenza, è chiam ato cielo poiché è rispetto alla potenza nella
m edesim a relazione del cielo con la terra. Invece, in quanto
è privo di luce e non può avere p er sé il dono d e ll’in tellig en
za, è sim boleggiato nelle acque, corpo capace di accogliere
la luce m a p er nulla lum inoso p er sua natura. E c ’è un altro
m otivo di som iglianza: poiché q u e st’atto è im m ediatam ente
vicino alla p o tenza che chiam a terra, com e l ’acqua alla terra.
M a torniam o orm ai alla parola del Profeta. D io creò il
cielo e la terra, la natura d e ll’atto e la natura della potenza,
e di q ueste consta l ’À ngelo; la terra, cioè la pura potenza, è
vuota, priva d ’atto e senza luce; non accoglie la luce se non
p e r la m ediazione delle acque, e poiché i contrari si rife risco
no al m edesim o soggetto e al m edesim o spetta di accogliere
la luce e le tenebre, aggiunse: «E le tenebre si stendevano
sopra l ’abisso». N on disse «Sopra la terra», infatti l ’abisso
(se non sforziam o il term ine) non era altro che la p ro fondità
delle acque. Sopra queste acque si m uoveva lo Spirito del
Signore, quello Spirito che è detto d a ll’apostolo G iàcom o
padre delle luci, dal quale tosto sopra le acque, cioè sopra le
m enti angeliche, sorge la luce delle form e intelligibili. E
questo intesero anche i Saraceni quando dissero che d a D io
gli A ngeli furono tratti dalle tenebre alla luce e colm ati di
letizia eterna. Infatti a ll’intelligenza segue un p iacere di cui
nessun altro è più grande, nessuno è più verace e duraturo.
88
C apitolo S econdo
89
C apitolo T erzo
90
posi la sabbia com e confine del m are»; e ancora: «T u ponesti
quel lim ite che non sarà violato e che le acque non sorpas
seranno». M a poiché tutta la costituzione degli elem enti è
riv o lta specialm ente a quelle cose m iste che sono vive,
perciò, subito dopo l ’ordinam ento fondam entale della terra
e delle acque, dispose che la terra desse vita alle piante. M a
d ’altra parte la trattazione di q u est’opera spettava piuttosto
la quinto giorno.
C apitolo Q uarto
91
l ’aver detto M osè che D io p ose le stelle com e segni, a una
scienza del divinare m ediante gli astri e del prevedere gli
eventi futuri; scienza del divinare che non solo è aspram ente
stigm atizzata dai nostri, com e d a B asilio, che giustam ente la
chiam ò una sciocchezza m olto faticosa, da A pollinare, da
C irillo e da D iodoro; m a che anche i buoni P eripatetici
respingono; la disprezzò A ristòtele e, ciò che è più grave,
T eodoreto testim onia che era rifiutata da Pitàgora, d a P lato
ne e da tutti gli Stoici.
A d alcuni sem brerà forse che qui sia anche da indagare
intorno alla natura, al m oto e al governo degli astri; intorno
alle m acchie lunari e ad ogni scienza astrale. M a, se ci
spingessim o fino a queste cose, benché belle e degne d ’e s
sere conosciute, sentirem m o forse il detto oraziano: «Il
m om ento non era questo». Perciò le rim ando a ll’o pera che
m i propongo di dedicare ad esse dove, conciliando A ristòtele
e Platone, ho preso a trattare e ad approfondire secondo le
m ie forze tu tta la filosofia.
C apitolo Q uinto
92
degli anim ali, se sia an c h ’essa tratta dal seno della m ateria,
o se ogni vita non derivi piuttosto da un principio divino,
com e afferm a con assoluta costanza Plotino che p resto il
nostro M arsilio Ficino, con pubblica utilità, ci p erm etterà di
leggere in lingua latina chiarito anche da am pio com m ento.
E col parere di Plotino sem brerà forse accordarsi questo
luogo del Profeta, quando, dopo aver detto: «Producano le
acque un rettile d ’anim a vivente», aggiunse poi: «D io creò
ogni anim a vivente». D ove qualcuno potrebbe osservare,
non solam ente che le acque producono dietro com ando di
D io e poi D io stesso produce, m a anche questo: che dove si
tratta d e ll’opera divina è scritto: «D io creò l ’anim a vivente»,
dove si tratta delle acque, non l ’anima vivente, m a un rettile
d ’anima vivente, com e se alle acque si attribuisse piuttosto
il veicolo d e ll’anim a, cioè la partecipazione alla m istione
corporea, a D io invece, cioè al principio divino, la sostanza
d e ll’anim o, che, fonte di vita, di m oto e di senso, viene dal
di fuori a dar la sua luce al corpo già costituito.
M a di questo in altro luogo. Fra gli anim ali della terra
M osè ne ricorda tre: gium ente, rettili e belve; con queste
partizioni, non essendocene più di cosi, ci indica le d ifferen
ze dei bruti privi di ragione. Le belve infatti, che sono dotate
di p erfetta fantasia, hanno una posizione di m ezzo fra gli
esseri irrazionali e non si lasciano né educare, né addom esti
care d a ll’uom o.
I rettili hanno fantasia im perfetta e stanno quasi fra gli
anim ali e le piante.
Le gium ente, anche se m ancano di ragione, essendo in
qualche m odo capaci d i disciplina um ana, sem brano p a rte
93
cipare di un certo grado di ragione; la loro condizione è quasi
in term ed ia tra i bruti e gli uom ini.
C a p it o l o Sesto
94
N oi invece cerchiam o n e ll’uom o una n ota che gli sia
peculiare, con cui si spieghi la dignità che gli è pro p ria e
l ’im m agine della sostanza divina che non è com une a
nessuna altra creatura. E che altro può essere se non il fatto
ch e la sostanza d e ll’uom o (com e afferm ano anche alcuni
G reci) accoglie in sé, p er propria essenza, le sostanze di tutte
le nature e il com plesso di tutto l ’universo? D ico p e r p ro p ria
essenza, perché anche gli A ngeli e qualunque creatu ra
intelligente, in certo m odo, racchiudono in sé il tutto, q u an
do conoscono avendo in sé le form e e le rag io n i di tutte le
cose.
M a, com e D io è D io, non solo perché intende tutto, m a
perché in sé stesso riunisce e riassum e tutta la perfezione
d ella sostanza delle cose: cosi anche l ’uom o (benché in altra
m aniera, com e dim ostrerem o, ché altrim enti sarebbe D io,
non l ’im m agine d i D io) riunisce e connette n ella p ien ezza
d ella sua sostanza tutte le nature di tutto il m ondo.
È questo non possiam o dire di n essu n ’altra creatura,
angelica, celeste e sensibile. C ’è poi, tra D io e l ’uom o,
q u esta differenza: che D io contiene in sé tutto com e p rin c i
pio di tutte le cose, m entre l ’uom o contiene in sé tutto, com e
term ine m edio di tutte le cose, d ’onde deriva che in D io tutte
le cose sono con una perfezione pili elevata che non in sé
stesse; m entre n e ll’uom o esistono con una perfezione m ag
giore le cose inferiori e subiscono invece una dim inuzione
le cose superiori a lui.
In questo corpo d e ll’uom o, spesso e terreno, il fuoco,
l ’acqua, l ’aria e la terra sono n ella m assim a p erfezione della
loro natura. O ltre a questo vi è anche un altro corpo spirituale
95
più nobile degli elem enti (com e dice A ristotele), di natura
analoga al cielo. N e ll’uom o c ’è pure la v ita delle piante,
riv o lta in lu i a quelle m edesim e funzioni di nutrizione,
crescita e riproduzione che sono anche in esse. C ’è il senso
d ei bruti, interno ed esterno. C ’è l ’anim o fornito di ragione
celeste. C ’è la partecipazione alla m ente angelica. C ’è un
possesso veram ente divino di tutte queste nature che c o n flu
iscono in unità, si che piace esclam are con M ercurio : « G ran
de m iracolo è l ’uom o, o A sclépio».
D i questo nom e d ’uom o, soprattutto, può gloriarsi la
n atura um ana: per questo accade che nessuna sostanza
creata disdegni di servire ad essa.
A un cenno d e ll’uom o son pronti a servire la terra, gli
elem enti, i bruti; per lui si affaticano i cieli; a lui procurano
salvezza e beatitudine le m enti angeliche, se è vero ciò che
scrive P àolo che tutti gli spiriti attivi devono assistere coloro
cui è d estinata com e eredità l ’eterna salute. Né ci si deve
m eravigliare se tutte le creature am ano l ’uom o, poiché in lui
tutte riconoscono q ualcosa di sé, anzi tutto il proprio essere.
C apitolo Settimo
96
dobbiam o sem pre tener presente com e una v erità d eterm in a
ta, provata, e fu o r d ’ogni dubbio, questo: che, com e tutte le
cose ci sono propizie quando osserviam o la legge ch e ci fu
im posta, cosi, se violando la legge col peccato ce ne scoste
rem o, avrem o tutte le cose ostili e nem iche. Infatti è ra g io
nevole che, com e noi rechiam o offesa, non solo a noi, m a
anche a ll’universo che abbracciam o in noi, anche a D io,
artefice onnipotente d e ll’universo, cosi pure sperim entiam o
tutte le cose che sono nel m ondo, e Dio per prim o, p o te n tis
sim i punitori e terribili vendicatori d e ll’o ffesa ricevuta. D i
qui possiam o m isurare le pene e i torm enti che aspettano chi
v io la la legge divina. C ostoro son quelli che (com e dice
l ’oracolo) si aggirano intorno alla terra e al m are e sem pre
vengono puniti d alla sferza divina. Q uesti fulm ina e p e rse
g uita il cielo, questi la terra, questi tutta l 'incrollabile g iusti
zia d ella C ittà universale.
Sono infatti rei di aver violato l ’universo, la m aestà
d iv in a , la c u i im m ag in e o ffu scaro n o con la m a c c h ia
turpissim a della loro iniquità. P er questo forse, n ei lib ri dei
Profeti, quando si rip o rta un com ando o un divieto di D io, si
invocano a testim oni il cielo e la terra, poiché, siccom e la
violazione d ella legge offende anche loro, anche loro, p o r
gendo il loro aiuto a D io, trarranno vendetta dai m alvagi per
l ’o ffesa com une. Supera ogni follia lasciarsi indurre a cred e
re lecito al cittadino d ’uno stato, insignito di som m i onori,
peccare im punem ente contro il Sovrano, contro la città cui
lo legano grandissim i obblighi; dobbiam o piuttosto credere
che sarà consegnato ai littori e al carnefice, perch é lo
torturino e lo torm entino, o alla m oltitudine popolare perch é
97
d a essa ven g a lapidato. In questa città d ivina ci sono d ei
carnefici, ci sono dei littori, dèm oni m alvagi addetti a questa
vilissim a funzione p er castigo d ’u n ’antica colpa. D i qu i il
d etto di P àolo: «Lo ho abbandonato a S àtana p er la distru zio
ne d ella carne».
D i qui, anche in O rfeo, se prestiam o m inor fede ai nostri,
la denom inazione di dèm one vendicatore. C om e p o i ogni
creatu ra odia fino a ll’esecrazione i delitti d e ll’uom o, cosi la
sua v ita bene ordinata è cara a tutti, piace a tutti. P er c o si dire,
tutte le cose, essendo a lui legate e congiunte con un v incolo
tanto stretto, debbono necessariam ente partecipare al suo
bene e al suo m ale. A questo allude il detto evangelico: «S e
un p eccato re si pente esultano in letizia tutti gli A ngeli»; cosi
si svela il significato di quel m istero nascosto nei secoli, che
la n o stra n atura corrotta nel prim o A dam o e degradata d alla
sua condizione si redim e attraverso la C roce di C risto.
P er cau sa nostra il Figlio di D io si è fatto uom o ed è stato
crocifisso. Fu in arm onia con tutto ciò che C olui che è
im m ag in e del D io invisibile, prim ogenito di ogni creatura,
sede in cui tutto fu creato, si uni con legam e ineffabile a colui
ch e è im m agine di D io, legam e di tutte le creature, sintesi di
tu tte le cose. E, se con l ’uom o era in pericolo tutta la natura,
non si potev a trascurare la sua caduta né alcuno poteva po rv i
rim edio se non chi aveva creato tutta la natura.
98
4S i s t a <Lsposizione
Su( Legame dei Mondi
fra loro e con Ce Cose Latte
P roemio
99
condottiero. Q uesta triplice unità è presente in ogni cosa,
derivando ad ogni cosa nella sua sem plice unità una, da
q u e ll’u n o che è il prim o uno e insiem e trino e uno, dico dal
P adre, dal F iglio e dallo Spirito Santo. Infatti la p o te n za del
P adre, producendo le cose, dispensa loro la propria unità; la
sapienza d el Figlio, ordinando tutte le cose, le unisce e le
conn ette fra loro; l ’am ore dello Spirito, rivolgendo tutto a
D io, congiunge l ’intera opera a ll’artefice col nodo d ’am ore.
A quel m odo poi che, quanto più D io è intim o a noi, tanto
p iù la sua unità con noi supera l ’unità nostra con noi stessi,
co si ciascuna cosa è unita a sé più strettam ente ch e co n le
altre parti del m ondo. Perciò, conosciuto l ’ordinam ento
d e ll’am ore universale, se vorrem o seguire la legge d iv in a
scritta sulle tavole della natura, in prim o luogo am erem o D io
stesso al di sopra di noi, e al d i sopra di tutto; in secondo
luogo noi stessi; in terzo luogo il prossim o.
Il nostro Profeta parlò a sufficienza di quella unità p er cui
ciascu n a cosa è una in sé, quando esam inò separatam ente la
n atura di tutte le cose. D e ll’unità p er cui siam o legati a D io
si p arlerà n el prossim o trattato, dove discuterem o d ella
suprem a beatitudine.
R esta q u e lla p er cui le diverse parti si uniscono fra loro
con reciproco legam e, e di questa tratterem o ora.
C apitolo P rimo
100
credere che l ’unità d e ll’universo sia dovuta solo a questo
m utuo rapporto che le singole cose (com e si è detto sopra)
hanno tra loro relativam ente alla propria condizione; il
P ro feta nel suo testo volle anche indicare quali e quanti
erano i m odi per cui le varie nature delle cose si univano tra
loro, non solo p er appagare una nostra curiosità, m a p er
istruirci con questo m ezzo e p er m ostrarci p er quale v ia e in
che m odo possiam o unirci a ciò che ci giova di piu. E m entre
riflettevo, p rim a d ’iniziare la lettura, a quanti e quali m odi
c ’erano e si potevano pensare per cui le cose trovassero
u n ’affinità o un legam e reciproco, e m entre scorrevo le
dottrine di tutti i filosofi su cui ho sudato fin da ragazzo, non
m i sono venuti in m ente più di quindici generi. E questi,
venendo poi alla lettura di M osè, trovai sottolineati con tale
lu cidità e appropriatezza da non credere che alcuno possa, in
proposito, istruirsi m eglio altrove.
C apitolo S econdo
101
cielo e la terra; la terra e l ’inanità; l ’abisso e le tenebre; lo
S pirito di D io e le acque; la luce e i corpi.
L a p rim a form a di congiungim ento ci è indicata dalla
terra sterile e vuota, poiché la terra, cioè la m ateria, è p e r sua
n atu ra vuota, se non accolga le form e dal di fuori.
Il secondo tipo di unione indicano le tenebre sulla su p er
ficie d e ll’abisso, poiché l ’abisso per sua natura non è né
lum inoso né tenebroso, m a è nella sua natura di accogliere
le tenebre se una sopravveniente luce non le fughi, com e la
m ateria inform e e sterile accoglie le tenebre d ella p rivazione
finché la sopraggiungente specie non le scaccia.
L a terza unione è svelata dalla luce sorta sui corpi: infatti
la luce è ad essi com e la form a al soggetto.
L a quarta, il cielo e la terra; poiché il cielo non è legato
alla terra com e la form a o l ’accidente inerisce alla co sa che
ren d e perfetta, m a si congiunge ad essa com e l ’azione alla
passio n e o com e la causa di m utam ento al corpo ch e ne è
m utato.
D e ll’ultim o tipo di unione è un esem pio lo S pirito del
S ignore che si m uove sulle acque. Infatti la sapienza c rea tri
ce del S ignore e la natura spirituale del tutto staccata dal
com m ercio del corpo, non si possono pensare congiunte ai
co rp i se non com e l ’arte che è nella m ente d e ll’architetto si
congiunge al cem ento, al legno, alle pietre.
C onsidera ancora questa conseguenza, che la terra è p er sé
vuota, tutta tenebre; che quindi si congiunge alla luce, al cielo
m ediante la luce, m ediante il cielo alla sostanza spirituale.
M a vediam o in che m odo queste cose stanno in noi. L a terra
è il corpo terreno privo di vita, insensibile: su di esso stanno
102
le tenebre, la m orte, il torpore, l ’im potenza, l ’im m obilità,
l ’insensibilità; la luce è la v ita che lo rende vegeto, lo spinge,
lo m uove e lo fornisce di sensibilità; il cielo è l ’anim o, fonte
di quella luce e lo Spirito di D io è l ’intelletto, luce del volto
divino. E su questo, p e r ora, si è detto anche troppo.
C apitolo T erzo
103
C apitolo Q uarto
104
M a il m ezzo non ha la m edesim a essenza degli estrem i;
risultando d a un loro contem peram ento differisce d a ciasc u
no di essi quel tanto che gli perm ette di com unicare con
entram bi. E questo nesso ci è indicato da M osè quando pone
il firm am ento in m ezzo alle acque, a dividere quelle che
sono sopra il cielo d a quelle che sono sotto il cielo; ove
chiarisce a sufficienza la natura del term ine m edio, com e
abbiam o m ostrato largam ente nel proem io del prim o libro e
nel secondo capitolo del quinto.
C apitolo Q uinto
105
p latoniche e p itagoriche nascono e si concludono con le
sacre preghiere, di cui niente è p iù utile, anzi più necessario
a ll’uom o, secondo quanto P orfirio e T eodoro e tutti quanti
gli accadem ici afferm ano ad una voce. Si legge che i bram ini
indiani e i m aghi persiani non fanno m ai n ulla se non dopo
av er pronunciato una preghiera.
A dduco queste testim onianze dei gentili, perché chi,
p ersu aso d a uno spirito m aligno, crede più a loro e non alla
C hiesa, im pari anche d a coloro cui presta fede non essere né
ridicolo, né inutile, né indegno d ’un filosofo dedicarsi m olto
e assiduam ente a sacre preghiere, a m isteri, a voti, a inni. Se
p oi questo giova e si addice m oltissim o a taluni uom ini, è
p articolarm ente utile e bello p er chi si è dato allo studio delle
le ttere e alla vita contem plativa. A costoro niente è più
necessario del purificare con integrità di v ita q uegli occhi
ch e rivolgono a D io e d e ll’illum inarli con luce più viva
otten u ta d a ll’alto, pregando in m odo che, ricordando la
p ro p ria debolezza, possan dire con l ’A postolo: «L a nostra
forza viene da D io».
C a p it o l o Sesto
106
precip ita su di noi com e una m assa d ’acqua. D alle acque
dobbiam o im parare che esse non furono ritenute adatte a dar
v ita ai pesci prim a di riunirsi nella totale unità d el loro
elem ento. Infatti anche noi, se sarem o distratti e riv o lti a una
varietà di cose, se, radunate tutte le nostre energie, non ci
orienterem o tutti verso un unico fine, non potrem o generare
una p role degna d ella nostra divinità. N ella distribuzione
d elle acque è anche adom brato questo m istero p iù profondo:
com e p e r le gocce d ’acqua la felicità consiste nel versarsi
n e ll’O ceano, dove è la pienezza delle acque, co si la no stra
felicità consiste nel p oter congiungere un giorno q u ella
scintilla di luce intellettuale, che è in noi, con la stessa
in telligenza prim a, con la prim a m ente dove è la pienezza,
d o v ’è la totalità d e ll’intelligenza.
C apitolo S ettimo
107
d iv in a p er noi: non potersi l ’uom o congiungere a D io se non
p e r la m ediazione di C olui che, avendo congiunto in sé
stesso l ’uom o a D io, fatto vero m ediatore, può congiungere
a D io gli uom ini in m odo tale che, com e in lui il Figlio di D io
assunse fo rm a um ana, cosi gli uom ini diventino figli del
Signore. E se è vero ciò che abbiam o detto: che gli estrem i
non possono riunirsi se non attraverso un term ine m edio, e
che a ragione è chiam ato m edio quello che in sé h a già riuniti
gli estrem i; se q u e ll’inneffabile grazia del V erbo che si fa
carne si attua solo in C risto, solo attraverso C risto la carne
può ascendere al V erbo, né (com e scrisse bene G iovanni) c ’è
sotto il cielo un altro nom e in cui gli uom ini debbano
salvarsi. Ed a ciò riflettano con cura quelli che, pur dicendo
di credere in C risto, ritengono che la religione com une o
q uella in cui ciascuno è nato, basti p er raggiungere la felicità.
N on prestino fede a me, non ai ragionam enti, m a a G iovanni,
a P àolo, a C risto stesso che dice: «Io sono la via; io sono la
porta; chi non passa attraverso m e è un ladro o un bandito».
108
ettima E sposizione
(Detta (felicità
che ì la Vita 'Eterna
P roemio
109
naturale, da M osè è stato detto abbastanza, poiché, co n o
sciuta la n atu ra delle cose, è conosciuta anche la loro felicità
naturale.
G li resta dunque d a chiarire la seconda, più in v este di
P rofeta ch e non di dottore, giacché, quando M osè scrisse, la
grazia non esiste v a ancora, m a doveva esistere in avvenire.
M a m i sem bra di vedere dei saputelli, o p er d ir m eglio
degli sciocchi e dei fannulloni, che, chiam andosi filosofi
m entre non lo sono, si affrettano a ridere d ella grazia e d ella
felicità soprannaturale com e fossero v an i n om i e fav o le d a
vecchierelle; perciò ho dovuto collocare a guisa di proem io
del settim o libro una breve discussioncella con loro, in sé
u tile a tutti e m olto necessaria a ll’opera che ci siam o assunti,
dove proviam o che il parere dei teologi si fonda saldam ente
su p rofondissim e radici di filosofia.
Io definisco cosi la felicità: il ritorno di ciascuna cosa al
suo principio. La felicità infatti è il som m o bene; il som m o
b en e è ciò che tutti desiderano; ciò che tutti desiderano è il
principio di tutto, com e A lessandro d ’A frodfsia attesta nei
com m entarii della prim a filosofia d ’A ristotele e g l’interpre
ti greci nei com m enti a ll’etica. L a fine e il principio d ella
cose si identificano: sono il m edesim o D io uno, onnipotente,
benedetto, m igliore di tutte le cose che possono esistere o
essere pensate; presso i P itagorici ha quei due fam osi ap p el
lativi: l ’U no e il B ene. Si chiam a infatti U no p erché è il
p rincipio di tutto, com e l ’unità è il principio d i ogni num ero;
si chiam a B ene perché è il fine, il riposo, la p erfetta b eatitu
d in e di tutto. O rm ai, con un p o ’ di buona volontà, possiam o
scorgere l ’essenza di questa d uplice beatitudine. L a felicità
110
infatti è possesso e raggiungim ento di questo som m o bene.
L e cose create possono raggiungerlo in due m odi: o in sé
stesse, o in lui. Infatti, in sé stesso, questo bene si le v a al di
sopra di tutto, celato negli abissi d ella propria divinità; nelle
cose, si tro v a diffuso dappertutto, q u a più perfetto là m eno,
secondo la condizione delle cose che ne partecipano.
P erciò (com e scrivono i poeti) G iove è dovunque tu
guardi, e tutte le cose sono piene di G iove. O gni n atura
dunque avendo in sé in qualche m odo D io, poiché ha tanto
di divino quanto di bene (e son buone tutte le cose che D io
h a creato), quando ha raggiunto sotto ogni rispetto la p ro p ria
p erfetta natura, raggiungendo sé stessa raggiunge anche
D io, e, se il raggiungim ento di D io, com e abbiam o dim o stra
to, è la felicità, in qualche m odo è felice in sé stessa. Q uesta
è la felicità naturale che le diverse cose, secondo la div ersità
d ella loro natura, hanno ottenuto in sorte, in m isura più o
m eno grande. Il fuoco è una cosa inanim ata, m a p arte cip a di
D io p er m olti rispetti. Infatti, in prim o luogo esiste, ed ogni
co sa esiste in quanto partecipa di D io che è l ’essere stesso;
inoltre, in q uanto fuoco e specie d eterm inata e atto, è sim ile
a D io, che è la specie prim a, l ’atto prim o; infine quando il
fuoco g enera il fuoco, im ita nei lim iti d ella propria n atura la
fecondità divina; quando si tiene entro i confini d ella sua
sfera im ita la giustizia; quando ci serve im ita la benevolen
za. F acendo cosi, realizzando la pro p ria natura, il fuoco è
felice, p er quanto è capace di felicità; p iù felici le pian te che
hanno anche la vita; p iù ancora gli anim ali che, o ttenuta in
sorte la conoscenza, trovano in sé stessi una m aggiore
p erfezione e quindi una traccia più v iv a d ella divinità.
Ili
In una condizione superiore a q uella di tutti i m o rtali è
l ’uom o che, com e p e r natura, cosi p er felicità naturale sta al
di sopra degli altri, fornito d ’intelligenza, di libero arbitrio,
d i d o ti precip u e m olto atte a condurre alla beatitudine.
S uprem a fra le creature la m ente angelica, p e r n obiltà di
sostanza e p er capacità di raggiungere il fine, di cui p arte cip a
in grado particolare perché gli è unita più da vicino. M a,
co m e s ’è d etto p o c ’anzi, con questa felicità, né le p iante, né
i bruti, n é l ’uom o, né l ’A ngelo raggiungono D io, il bene
som m o, in D io stesso, m a in sé stesse.
Q uindi il tipo di beatitudine varia anche gradualm ente in
rapporto alla capacità naturale. Perciò i filosofi che parlarono
solo di questo collocarono la felicità di ciascuna cosa nella
com piuta perfezione d e ll’operare in rapporto alla propria
natura; e a proposito degli A ngeli, che chiam ano m enti e
intelligenze, anche se posero in ciò la lo ro som m a perfezione,
n e ll’intelligenza di D io, non am m isero tuttavia altra cogni
zione di D io a ll’infuori di quella con cui conoscono sé stessi;
sicché com prendono di Dio quel tanto che è im presso nella
loro sostanza. Intorno a ll’uom o, anche se ci fu v arietà d ’opi
nioni, tutti ad ogni m odo si tennero nei lim iti delle capacità
um ane, ponendo la beatitudine d e ll’uom o o nella stessa
ricerca d ella verità, com e dissero gli A ccadem ici, o nella sua
conquista attraverso studii filosofici, com e disse A lfarabi.
S em brarono concedere d i p iù A verroè, A vicenna, A bu
B acher, A lessandro e i Platonici, fondando la nostra ragione,
co m e nel proprio fine, n e ll’intelletto che è in atto o in altro
intelletto superiore, m a collegato a noi; m a neppure costoro
guidano l ’uom o al suo principio o al suo fine. Io né rim p ro
112
v ero né disprezzo queste discussioni purché p retendano solo
di parlare d ella felicità naturale. M a è certo che, attraverso
questa, né l ’uom o né gli A ngeli potranno elevarsi p iù di quel
ch e essi dicono.
E ciò è conferm ato specialm ente dal fatto che, se niente
fondandosi sulle proprie forze può raggiungere qualcosa di
superiore a sé (altrim enti sarebbe più forte di sé stesso), del
p ari nulla, tendendo p er sé alla felicità, p otrà raggiungere
qualcosa di più alto o perfetto della propria natura. M a m i
dicano questi filosofi perché, se n e ll’ordine delle cose esiste
questa sola felicità, essi stessi riconoscono che, fra gli anim a
li, solo l ’uom o è nato p er la felicità. Infatti, poiché anche altre
cose oltre l ’uom o raggiungono i loro fini, possiam o dire che
la loro felicità è inferiore a quella um ana; m a in ch e m odo
potrem m o negarla? C hé anzi, poiché gli esseri inferiori non
escono m ai dal lim ite im posto da natura, m entre l ’uom o ne
esce quasi sem pre, la sua condizione, se non vanterà altro
privilegio sem brerà più infelice di tutte. A scoltiam o dunque
i sacri teologi che ci richiam ano alla dignità della nostra
natura e ci esortano a non respingere, crudeli verso noi stessi
e ingrati verso D io creatore, quei beni divini che ci vengono
offerti spontaneam ente dal Padre generosissim o.
In p recedenza abbiam o detto che la suprem a felicità è
n ella conquista di D io, som m o bene e principio d i tutto;
inoltre, che tale conquista può avvenire in due m odi, p o ic h é
raggiungiam o D io nelle creature che egli fa partecipi di sé,
o in D io stesso. A bbiam o anche m ostrato, e su ciò to rn ere
m o, che le cose create non possono giungere con le loro forze
a q u e s t’ultim a felicità, m a solo a quella. E quella, se ben
113
riflettiam o, è più u n ’om bra di felicità che una felicità vera,
com e la creatura in cui si coglie D io non è la som m a bontà,
m a u n a p allid a om bra della som m a bontà divina.
Si aggiunga che, attraverso questa felicità, le cose tornano
a sé stesse p iù che non a D io, ottenendo cosi, non di ritornare
al proprio principio, m a sem plicem ente di non scostarsi da
sé. M entre la v era e com piuta felicità ci riconduce e ci guida
alla contem plazione di D io che è il bene assoluto, com e disse
d a sé, e alla perfetta unione con quel principio d a cui
scaturim m o. A questa gli A ngeli possono essere sollevati, m a
non possono ascendere da sé. Perciò Lucifero peccò dicendo:
«Salirò al cielo». A questa l ’uom o non può venire, può essere
solo guidato; perciò Cristo che è la stessa felicità disse di sé:
«N essuno viene a m e se non lo ha condotto il Padre m io». Le
bestie e in genere le cose inferiori a ll’uom o non possono né
andare d a sé né essere condotte a quella felicità.
P erciò solo l ’uom o e l ’A ngelo sono creati p er qu ella
felicità che è la felicità vera. Il vapore può salire in alto, m a
solo attratto d ai raggi del sole; la p ie tra e ogni sostanza
corp u len ta non può né accogliere in alcun m odo un raggio né
essere d a esso sollevata verso l ’alto. C hiam iam o g razia
questo raggio, questa forza divina, q u e st’influsso, poich é
ren d e l ’uom o e l ’A ngelo grati a D io.
D i siffatta dottrina i filosofi hanno un chiaro esem pio nei
corpi. M a tti alcuni di questi si m uovono in linea retta, altri
circolarm ente. Il m oto rettilineo, da cui gli elementi son portati
ai loro luoghi naturali, rappresenta quella felicità che rafforza le
cose nella perfezione della propria natura. Il m oto circolare, per
cui il corpo è ricondotto al m edesim o punto d ’onde parti, è
114
im m agine evidentissim a della felicità vera, per cui la creatura
tom a al m edesim o principio d ’onde è scaturita.
M a v edi che com pleta rispondenza d a am be le parti.
C ircolarm ente si m uovono solo i corpi im m ortali e im m uni
d a corruzione. A D io rito rn a solo la sostanza im m ortale ed
eterna. G li elem enti, p er com piere il loro m oto, non hanno
bisogno d ’altra forza se non del principio ad essi connaturato
di gravità o di levità, cosi com e le singole cose sono tratte
alla felicità n aturale p er proprio im pulso, p er forza propria.
M a i corpi celesti, anche se suscettibili di m oto circolare, non
bastano p e r sé a realizzarlo; è d ovuta al divino m otore la
forza che li m uove circolarm ente. Infine l ’attitudine di q uei
corpi al perpetuo m oto circolare consiste, non nella cap acità
di produrlo, m a n ella capacità di accoglierlo. Lo stesso
avviene p er q uanto riguarda noi e gli A ngeli.
P er n atura non siam o tali d a poterci m uovere in giro e
riflettere, m a possiam o essere v olti dalla forza m otrice d ella
g razia e rifletterci in D io. D i qui il detto: «Q uelli che son
tratti dallo Spirito di D io sono figli di D io». D isse: quelli che
son tratti, non quelli che traggono. Ci differenziam o dal
cielo perché esso è m osso d alla necessità d ella sua natura,
m entre noi ci m uoviam o secondo la nostra libertà. Infatti la
spirituale forza m otrice batte di continuo alle soglie d e ll’ani-
m o tuo; se ti chiuderai in te, m isero e infelice sarai lasciato
al tuo torpore, alla tua debolezza; se la accoglierai, tosto,
pieno di D io, attraverso il ciclo religioso, sarai rico n d o tto al
P adre, al Signore, p e r conseguire la v ita etern a in L ui che ti
racchiudeva in sé p rim a ancora che tu fossi in vita. Q ui è la
v e ra felicità: n e ll’essere uno spirito solo con D io p er p o sse
115
d ere D io, non in noi, m a in sé, conoscendolo cosi com e ne
siam o conosciuti. E gli n o n ci conobbe infatti in noi, m a in sé;
cosi anche noi lo con o scerem o in sé anziché in noi. Q ui è il
som m o prem io, qui la v ita eterna, qui la sapienza che i d otti
di questo m ondo hanno ignorato: n e ll’essere ricondotti d a
ogni im perfezione del m olteplice alF unità, attraverso il
legam e inscindibile con C olui che è l ’unità stessa.
P er q u esta felicità C risto pregava il Padre cosi: «P adre,
fai in m odo che com e tu ed io siam o uno, co si anche essi
siano uno con noi». Q u esta felicità sperava P àolo nel dire:
«L o conoscerò, non parzialm ente, m a nella sua essenza», e
se lo sperava non av ev a ragione a dire: «C hi m i separerà
d a ll’am ore di C risto»? E desiderava dissolversi, p e r farsi
uno con C risto. D a q u esta felicità decadde il diavolo, poiché
v o lle salire ad essa, non esservi sollevato, e cosi p erse ciò
che avrebbe avuto se fo sse rim asto nella sua condizione. Su
queste basi si spiega la sorte dei bam bini che m orirono p rim a
d el battesim o. E ssi restano p er conto loro, senza p erdere i
loro beni e senza arricchirsi di quelli divini.
N oi dobbiam o finire in uno d i questi due m odi: o in
som m a m iseria o in suprem a felicità. Poiché chi non acco
glie lo spirito m otore, non solo si priva della grazia, m a
abbassa la p ro p ria natura; infatti fa parte d e ll’integrità di
q u esta che, conosciuto lo spirito, lo ricerchi e non lo rifiuti,
e senza dubbio non può essere natura retta q u ella che
resp in g e o disp rezza la speranza d ’un m aggiore bene. P erciò
chi, dopo aver conosciuto C risto, non ne abbraccia la fede,
non solo è priv o d ella felicità prim a, m a anche d ella seconda,
cio è d ella felicità naturale, poiché il non v o le r la g razia è
116
proprio solo di una natura corrotta e m acchiata. C om e noi,
vivendo nel precetto evangelico, accogliam o in noi C risto,
virtù e sapienza di D io, lo am iam o com e g ià concesso al
genere um ano e ci stringiam o a lui, cosi anche i P adri, sotto
la vecchia legge, lo accoglievano poiché credevano ferm a
m ente alla sua venuta, ci speravano con forza, lo d esid era
vano con ardore. M a accogliendolo com e futuro, n o n com e
presente, non godettero com e presente il frutto dello S pirito
se non quando lo Spirito fu venuto, quando, com piutosi
l ’ineffabile sacrificio della croce, scendendo C risto a loro,
da lui, com e da u n a forza m otrice, furono, con travolgente
bufera, tratti a libertà ed elevati al grado d ella felicità
som m a. L a religione ci indirizza, ci guida e ci spinge a
questa felicità, com e p e r la felicità naturale ci serviam o d ella
filosofia. C hé se la natura è un p rincipio d i grazia, anche la
filosofia è un principio di religione, né esiste filo so fia che
allontani l ’uom o dalla religione.
G iustam ente pertanto anche noi, dopo avere, rifacen d o ci
a M osè, filosofato p er sei giorni della natura, il settim o
giorno, dedicandoci alle cose divine, parlerem o della felicità
soprannaturale.
C apitolo P rimo
117
m otivo di dilungarsi p iù oltre sul cielo, perché non deve
scrivere la legge d egli A ngeli, m a degli uom ini. V enendo
quindi agli uom ini dice: «L a terra e ra sterile e v u o ta e le
tenebre si stendevano sulla superficie d e ll’abisso». D io non
crea la sterilità, non c re a le tenebre, m a, com e il P ro feta dice:
«V uota era la terra e c ’erano le tenebre»; non dice che erano
state create, m a che erano. Perché poi ciò sia detto sarà
evidente quando avrem o saputo che cosa è questo vuoto,
q uali sono queste tenebre. La natura um ana, che è d etta
terra, si parag o n a agli A ngeli, subito, fin d a ll’inizio, perché
subito peccò; e ra sterile, priva d ella giustizia originaria, e la
sua superficie, cioè la ragione, era coperta dalle tenebre del
peccato. C iò non fece Dio: fu la m alizia d e ll’uom o che
v o lontariam ente lo privò d i quei beni di cui D io lo aveva
dotato. C o si è descritto dal P rofeta lo stato d ella natura
corrotta; in seguito dim ostrerà com e essa p oi sia stata
restitu ita alla prim itiva dignità e p reparata alla som m a
felicità d a A bram o, d a M osè, dai Profeti e, u ltim am ente dal
F iglio unigenito di D io. M a, anche quando le acque erano
coperte d i tenebre, cioè inquinate d a ll’antica m acchia del
peccato originale, lo Spirito del Signore stava su di esse.
E questo va inteso in due sensi: nel senso che gli uom ini
erano guidati dalla luce del volto divino che è im presso in
noi, cioè d a lla lu c e d e ll’intelligenza naturale; e nel senso che
neanche allora il genere um ano era privo d ella cu ra d ella
d ivina P rovvidenza, m a lo Spirito d el Signore si stendeva
sulle acque, quello Spirito che (com e dice l ’A postolo)
in tercede p e r noi con inenarrabili lam enti, e continuam ente
pen sav a al m odo di purgarle dal veleno con cui l ’antico
118
serpente le aveva inquinate; ed ecco, d ’un subito, com anda
alla lu c e di sorgere, e la luce è.
A bram o sapientissim o fu il prim o fondatore d ella v era
religione; il p rim o a sciogliersi dalla leg g e di n atu ra e a
m editare sulla legge divina. Il prim o a spingere gli u om ini al
culto d i un solo D io contro g l’idoli delle genti; il prim o a
fugare le tenebre d e ll'e rro re e a fa r guerra ai m alvagi dèm oni
che si chiam ano principi delle tenebre: perciò giustam ente è
chiam ato luce. E poiché lo stesso fecero anche tutti i d isce
p o li del Signore, tutti sono chiam ati dal S ignore luce del
mondo. Q uesta è la prim a luce che rischiarò il m ondo e che
distinse la religione in culto dei dèm oni e del v ero D io, a
sim iglianza d ella distinzione in luce e tenebre.
C apitolo Secondo
119
venerano e gli tributano culto. L e genti p er opposto m otivo
sono invece le acque collocate sotto il cielo, perché adorano
e v enerano i dèm oni abitatori d e ll’àere caliginoso, reg io n e
p o sta sopra le acque, e si fanno dei e signori il cielo visibile,
le stelle e i pianeti.
C apitolo T erzo
120
e infatti le genti cingevano la terra di G iuda chiusa tra confini
di regione non grande, com e ora, d a ogni parte, l ’O ceano
circonda questa piccola porzione di terra che abitiam o. M a in
p iù luoghi in m odo assai chiaro, nella Scrittura cristian a le
genti sono indicate con le acque. Infatti è scritto: « L e acque
che avete veduto sono popoli» e quando G esù nostro S ignore
fece d a ll’acqua il vino nella casa del Fariseo, com e scrivono
i nostri, sim bolicam ente volle indicare che le acque, cioè le
genti, dovevano esser chiam ate a quella fede che in avvenire
sarebbe m ancata ai G iudei tra i quali prim a era diffusa. A llo
stesso m odo nei m isteri insegnano a questo proposito che
l ’acqua si m escola col vino perché le genti assorbano e
bevano il sangue di G esù attraverso il sacrificio d ella croce.
Q uella parte pertanto fu sottratta all’invasione d elle ac
que; perché, se il resto della terra, coperto dalle onde d ella
nequizia spirituale, stava p e r diventare inutile, abbandona
to, incapace di dare i frutti della v era relig io n e, ci fosse
alm eno questa parte che, dopo aver raccolto la luce del
prim o giorno, fecondata d alla rugiada del secondo, cioè
d alla dottrina della legge, germ inasse com e erbe, pian te ed
alberi, giudizii, cerim onie e buoni costum i, finché, giunto il
tem po a com pim ento, germ inasse con som m a felicità lo
stesso Salvatore, secondo il voto di Isaia.
C apitolo Q uarto
121
esp rim erà forse la perfezione tra i giorni? V edete dunque
ch e ci po rti il quarto giorno. N el secondo giorno si era posto
il cielo, cioè la legge, senza sole e senza luna e senza stelle,
capace di luce in futuro, m a p er il m om ento ancora oscuro e
p rivo di qualunque notevole sorgente di luce.
V enne il quarto giorno: allora il sole, signore d el firm a
m ento, cio è C risto, signore d ella legge, e la C hiesa, co m p a
gna e sposa di C risto, sim ile alla luna, e i dottori apostolici,
ch e dovevano educare alla giustizia le m oltitudini, com e
stelle risplendettero n el firm am ento p er l ’eternità, ch iam an
do il m ondo alla vita eterna. Il sole non distrugge il firm a
m ento, m a lo trae a perfezione: C risto non è venuto a
distru g g ere la legge, m a a com pierla.
L a legge del prim o giorno, cioè il religiosissim o A bram o,
v id e il quarto giorno, che è il giorno di C risto, e ne gioì. V ide
il raggio d ella sua luce, ossia d ella v era religione, che, recato
n el m ondo dal sole d ella giustizia, doveva diffondersi am
piam en te p e r tutto l ’universo attraverso la luce di v erità che
illum ina tutti gli uom ini. V ide G esù C risto, fulgore d ella
sostanza p atem a, risplendere a coloro che erano nelle te n e
bre e n e ll’om bra di m orte, e scacciare il p rincipe delle
tenebre, il p rincipe di questo m ondo, e sterm inarlo dalle
m enti d egli uom ini. V ide queste cose e ne esultò, vide il
quarto giorno e ne fu beato; questo è il giorno che il S ignore
creò, in cui il S ignore si fece uom o, in cui D io abitò fra noi;
esultiam o anche noi in questo giorno e rallegriam oci in esso.
O fratelli C ristiani, io vi prego di badare attentam ente alla
fondata verità della m ia esposizione, d ’onde anche a voi
saranno largiti, contro quella pietra che gli E brei hanno per
122
cuore, strali potentissim i tolti dalle loro armi. Proverem o poi
in prim o luogo che, dalle testim onianze giudaiche, attraverso
l ’opera del quarto giorno, ci è indicata la venuta di C risto. In
secondo luogo m ostrerem o che il M essia non ci può v enir
presentato da nessun sim bolo m eglio che dal sole, e p er quel
che riguarda il tem po concluderem o con assoluta evidenza
che il C risto non deve venire nel futuro, m a che G esù di
N àzareth, figlio della V ergine, fu il M essia prom esso agli
Ebrei. È detto nelle tradizioni d e ll’antica sapienza giudaica
che coi sei giorni della G ènesi sono cosi sim boleggiati i
seim ila anni del m ondo: in m odo che opere qui assegnate al
prim o giorno costituissero la profezia di quanto sarebbe
avvenuto nel prim o m illennio del m ondo; le opere del secon
do di ciò che sarebbe avvenuto nel secondo m illennio, e cosi
via, m antenendo sem pre il m edesim o ordine di successione
parallela; dottrina questa che conferm a tra i m oderni anche
M osè di G erona, teologo di grande fam a presso gli Ebrei. L a
ricorda p ure San G iròlam o n e ll’esposizione del salm o che
s ’intitola a M osè, e una tale opinione sem bra avere il più
saldo appoggio in quel principio per cui m ille anni, com e dice
il P rofeta, sono per la divinità un giorno solo.
Il quarto giorno dunque, se è v era questa dottrina, è
pro fezia di quanto avverrà nel quarto m illennio del m ondo.
O ra m ostrerem o, secondo gli annali degli E brei e il com puto
che essi stessi approvano, che G esù com parve nel quarto
m illennio del m ondo.
E ssi contano 1556 anni da A dam o al diluvio; 292 anni dal
diluvio ad A bram o; e cosi, d a A dam o ad A bram o, si c a lc o
la n o c o m p le ssiv a m e n te 1848 anni. D alla g e n e ra z io n e
123
d ’Isacco alla rovina del secondo tem pio, che fu dopo la
m orte di C risto, calcolano 1660 anni circa (non tengo conto
d ei rotti). D a Isacco alla fuga d a ll’E gitto, calcolano 430
anni, e d alla fuga alla costruzione del tem pio di S alom one
p re s s ’a poco altrettanti. D a S alom one alla d istruzione del
tem pio p er opera d ei B abilonesi 410 anni; d alla fondazione
del tem pio sotto E sdra alla sua prigionia sotto T ito 420 anni.
C osi, facendo la som m a com plessiva, d a ll’origine del
m ondo a C risto conterai, secondo il m etodo d egli stessi
E brei, 3508 anni, dim odoché alla m età del quarto m illennio
si realizzi l ’avvento di C risto, e nei lim iti dello stesso
m illennio com e nei lim iti del quarto giorno, la luce della
luna, cioè d ella C hiesa, risplenda a tutto il m ondo, e l ’in n u
m erevole m oltitudine di m artiri, apostoli, dottori, che fio ri
rono tutti nei 500 anni successivi alla m orte di C risto,
illum ini l ’o scurità d el firm am ento, ossia d ella legge, e le
tenebre d ella nostra notte. M a diranno gli Ebrei: « S ia pu r
v ero che G esù è venuto a questo tem po. N on ne p uoi ancora
concludere che G esù fosse il C risto, se non si dim ostri che
i nostri correligionari credevano a ll’avvento d el C risto in
q u el tem po». Sta bene, ed essi chiedono il giusto; noi
p ossiam o accondiscendere con facilità alla loro giu sta ri
chiesta. Infatti sono diffusi nella loro tradizione popolare gli
oracoli d ’E lia che predicano apertam ente, senza nessun
p arlare figurato o sim bolism o, la venuta del M essia nel
q uarto m illennio; e perché questi non sem brino in ventati o
interpretati arbitrariam ente da m e, addurrò la testim onianza
degli stessi T alm udisti con cui io sono in polem ica; essi ne
fanno m enzione, e, p er la v erità dei fatti, confessano che il
124
tem po d ella venuta del M essia predetto d a E lia è passato. In
q uella parte che si intitola Abodazara sono queste p arole
che, tradotte alla lettera, significano: «D issero i figli o
discepoli d ’Elia: Il m ondo ha seim ila anni. P er duem ila il
creato, p e r duem ila la luce, per duem ila il giorno del M essia,
e p e r i nostri peccati, che sono m olti, sono passati q uelli che
sono passati». C osi essi dicono. E ora, poiché essendo le
p arole stesse davanti agli occhi di tutti, io non posso in tro
durre nessun com m ento troppo libero o ad dirittura arb itra
rio, discutiam o ed esam iniam o le parole d e ll’oracolo per
venir subito a capo d ella questione.
Il m ondo, dice il Profeta, è di seimila anni; e questo potrem m o
interpretare nel senso che dopo seimila anni, com e hanno
creduto anche molti dei nostri, avverrà la fine del m ondo, simile
al sabato; oppure (il che è più esatto) se nessuno conosce il giorno
della fine, intenderem o nel senso che nella legge non si profetiz
za nulla circa l ’avvenire; m a ciò non riguarda la questione
proposta. Vediam o quel che segue: duem ila anni il vuoto,
duem ila anni la legge, poi il Messia.
C hiam a vuoto (com e intendono tutti i com m entatori
ebrei) il tem po in cui da D io non era stata data nessuna legge.
M a vedo il G iudeo saltar su e dire che, se duem ila anni sono
prim a d ella legge e duem ila dopo la legge, il M essia non
verrà nel quarto giorno, cioè nel corso del quarto m illennio,
m a piuttosto nel quinto giorno, cioè dopo il quarto m illen
nio. M a è facile la risposta poiché è appoggiata d alla forza
della verità. Il detto d ’Elia: «D uem ila il vuoto, d u em ila la
legge», non va preso com e se il m ondo, per un periodo
com piuto di duem ila anni, dovesse restare senza legge, e
125
sim ilm ente, d uem ila anni dovesse durare la legge, bensì nel
senso che la legge di natura durerà fino al secondo m illennio
e il tem po d ella legge giungerà fino al quarto. M a p rim a che
sia passato il secondo verrà la legge, e prim a ch e sia
trascorso il quarto il M essia.
Io né invento né sogno queste cose: m e le insegna lo stesso
E lia, m e le insegnano gli stessi Talm udisti. A nche a te, serpe
giudaica, se non ti turi gli orecchi, saranno tosto palesi. D ice
Elia: «D uem ila anni il vuoto; duem ila la legge». V ediam o in
che senso sia vero ciò che si dice del m ondo vuoto e d i q ui
im pariam o il m odo di esporre ciò che è detto della legge.
P rendiam o l ’inizio della legge o da M osè o da A bram o. N on
si può prenderlo d a M osè perché il vuoto sarebbe durato oltre
duem ilatrecento anni o giù di lf. T anti ne currono infatti da
A dam o a M osè. D obbiam o dunque assum ere l ’inizio delle
legge da A bram o a cui fu dato il patto di circoncisione, radice
e fondam ento d e ll’antica legge; se poi gli E brei consultano le
loro storie, trovano che da A dam o a A bram o non c ’è un intero
periodo di duem ila anni, m a solo di m illeottocentoquarantotto.
D ’onde deriva che, non dopo il secondo m illenario, m a entro
i suoi lim iti, la pienezza della legge succedette al vuoto. E per
la m edesim a ragione la pienezza evangelica dovette succede
re al vuoto della legge, non dopo il quarto m illenario, m a
durante il quarto m illenario. E, se gli Ebrei tendono a negarlo
con im pudente insistenza, ascoltino i loro T alm udisti che
danno il m assim o appoggio alla nostra versione. Infatti, già
quando scrivevam o, essi confessavano trascorso il tem po
d elle v enuta del M essia predetto da E lia e lo im putavano ai
loro peccati. Se le parole d ’E lia dovessero intendersi nel
126
senso che Cristo verrà dopo trascorso il quarto m illennio, e
non entro i lim iti di esso, i T alm udisti non avrebbero detto (né
avrebbero potuto dirlo) che era passato il tem po del M essia
prom esso dai Profeti, perché quando fu scritta la dottrina
talm udica che noi riportiam o, non erano ancora trascorsi
quattrom ila anni d a ll’origine del m ondo.
Com e si è mostrato poc’anzi, Gesù apparve 3508 anni dopo
l ’origine del m ondo secondo il computo degli Ebrei. Il Talm ud
Gerosolimitano (com e essi scrivono) è scritto 300 anni dopo la
m orte di Cristo; il Babilonese cento anni dopo il Gerosolimitano.
Perciò entram bi sono stati scritti nei lim iti del quarto millennio
e tuttavia riconoscono passato il tem po predetto da Elia sul
Cristo venturo e se ne dolgono. D ove si nasconderanno ora,
quale luogo riposto cercheranno, per fuggire del tutto, per non
vedere assolutam ente questo nostro sole che a loro dispetto
rifulge per tutto l ’universo?
I T alm udisti confessano (se non credono agli antichi) che
son passati i tem pi predetti dai Profeti p er la v en u ta del
C risto. C onfessano che, secondo la credenza dei Profeti,
sarebbe appunto venuto quando, a quel che essi stessi
dicono, venne G esù. E i loro dottori non sono del tutto
lontani dalla verità quando afferm ano che il M essia non
venne a causa dei loro peccati. Infatti egli non v en n e per
loro, che non lo riconobbero. N on è il M essia, il R edentore
dalla terribile prigionia, il R e benefico, il retributore della
terra prom essa, cioè della G erusalem m e superna, se non p er
quelli ch e lo proclam arono M essia.
Ché, se i suoi non lo accolsero quando venne sulla sua terra,
i suoi non sono più quelli che erano i suoi per l’addietro, m a da
127
levante e da ponente vengono quelli che riposano nel seno di
Abram o, m entre i figli prediletti vengono gettati fuori, nelle
tenebre. Cosi si risolve il loro infondato problem a aproposito del
fatto che il M essia doveva venire per la salvezza degli Ebrei,
m entre Cristo è stato per loro rovina e perdizione. Infatti non
sono Ebrei quelli che non solo non seguono e venerano il Re e
Signore della stirpe di Dàvid promesso agli Ebrei, ma, com e un
ladrone, com e un sacrilego, com e un profanatore, con ogni
offesa più ingiuriosa lo mettono in croce. Se fossero figli di
A bram o, rim arrebbero fedeli ai precetti di A bram o e accoglie
rebbero con gioia la venuta di questo quarto giorno di cui egli
gioì solo nel prevederlo.
Il M essia ha portato la pace agli uom ini, m a non a tutti.
Infatti dagli A ngeli non fu detto sem plicem ente: «E in terra
pace agli u o m in i... », m a fu aggiunto: «A gli uom ini di buona
V
128
A bbiam o provato attraverso l ’ordine del quarto giorno e
il tem po d e ll’avvento di C risto, che d e v ’essere riferito a lui
ciò che qui è detto. Proviam o la stessa cosa attraverso la
som iglianza della figura, poiché in nessun altro m odo p o s
siam o im m aginare m eglio C risto che paragonandolo al sole.
Infatti p ose nel sole il suo tabernacolo; usci dalla tribù di
G iuda, che ha p er sim bolo il leone, anim ale solare, e, se
P latone nella Repubblica chiam a il sole figlio v isib ile di
D io, p erch é noi non intenderem o che sia im m agine del figlio
invisibile? Se Egli è luce vera che illum ina tutte le m enti, ha
com e sim ulacro fedelissim o questo sole, luce sensibile che
illum ina tutti i corpi. M a che altro cerchiam o? Interro g h ia
m o lo stesso sole, che durante la passione di C risto, o scuran
dosi p e r l ’opposizione della luna, rivelò l ’intim a sim patia
della p ropria natura.
Sicché, a buon diritto, per non toccare di un m otivo più
elevato, il giorno che i m atem atici chiam ano giorno del sole,
noi abbiam o chiam ato giorno del Signore e lo abbiam o
consacrato tutto al suo culto. M ostrando anche cosi che non
c ’è più m otivo di venerare (com e una volta le genti) il sole
corporeo com e re e signore del cielo, poiché il sole invisibile,
coeterno e d eguale al Padre, autore del cielo e della terra, ha
illum inato gli uom ini che sedevano n e ll’om bra della m orte.
C apitolo Q uinto
129
carono d opo la venuta di Cristo, per ritenere alla fine questa
nostra esposizione vera e definitiva vedendo che tutto il
resto si accorda e si conform a ad essa. V ediam o che avviene
dopo il quarto giorno. Le acque producono i pesci e gli
uccelli; la terra produce bestiam e e gium ente. R icordiam o
ciò che prim a abbiam o detto esser sim boleggiato nelle acque
che, p o ste sotto il cielo, furono riunite in un luogo solo; e che
cosa abbiam o detto esser sim boleggiato nella terra: che è
resa im m une dal loro dilagare. A bbiam o detto che n e ll’ac
qua sono raffigurate le genti, nella terra gli Israeliti, e lo
abbiam o conferm ato con m olte testim onianze dei Profeti e
con m otivi di som iglianza. A bbiam o anche visto che, prim a
del sorgere del sole, le acque sterili non producevano niente
di buono; la terra invece produceva, m a frutti m eschini,
legum i ed erbe. D opo la venuta del sole le acque, con
feco n d ità anche m aggiore della terra, producono due generi
d ’anim ali: uccelli e pesci. La terra, non più paga di alberi e
di piante da frutta, produce grande quantità di b estiam e e
gium ente. N on vedete (anche se io non lo dico) adem piuta
qui la pro fezia del buon Sim eone, che questo nostro sole
sarebbe stato luce p er illum inare i gentili e p er la gloria del
tuo popolo Israele? N on abbiam o noi sotto gli occhi, se non
interpretiam o altrim enti, l ’invito delle genti e la trasform a
zione della G erusalem m e terrestre e della sinagoga um bràtile
in vera C hiesa e in perpetua città celeste d i D io? Le acque
non producono nulla prim a del sorgere del sole. L a terra
produce qualcosa, m a qualcosa di scarso, di m eschino.
Poiché p rim a della venuta di C risto non c ’era presso le genti
nessuna form a di vita, nessun frutto della vera religione.
130
P resso gli Israeliti v i fu qualche speranza di v ita e in parte
essi conobbero la v ita della luce e coltivarono la v era
religione, m a una religione prim itiva, im perfetta, in attesa di
C olui ch e è la via, la verità e la vita. E, se non ricorriam o a
questo m istero, m i d ia qualcuno la ragione p er cui d iv ise i
frutti e gli anim ali della terra, in m odo d a produrne alcuni
prim a del sole, altri dopo il sole. P erché le acque non
producono nulla prim a del sorgere del sole, m entre la terra
produce qualcosa? Perché dalle acque son pro d o tti due
generi d ’anim ali, dalla terra uno solo? P erché l ’uccello,
anim ale d e ll’aria, viene assegnato alle acque? Infatti (per
parlare del prim o) non ci soddisfa il dire, com e dissero
alcuni, che le erbe e le piante son tratte dalla terra p rim a della
creazione del sole perché non sem brino prodotte dalla p o
tenza di questo. In questo caso m olto più, p er la stessa
ragione, avrebbero dovuto esser creati prim a del sole i pesci,
gli uccelli e tutte le perfezioni degli elem enti perché non si
credessero opera della potenza solare.
M osè avrebbe lasciato un dubbio: che, se non c ’e ra stato
bisogno della luce del sole per produrre le piante, com e
creazioni più perfette, ce n ’era stato bisogno invece per
produrre gli anim ali che sono più perfetti.
C hé, se indipendentem ente d a ll’aiuto del sole fossero
venute alla luce le cose più perfette, ne sarebbe deriv ata la
p o ssib ilità di realizzarsi senza di esso anche p er le cose m eno
perfette; m entre non si dà l ’inverso che, se sono state create
senza di esso le cose m eno nobili com e le piante, infim o
genere di viventi, possa anche v enir prodotto senza il suo
aiuto ogni genere di natura anim ale.
131
C on più esattezza dunque si approfondisce l ’intenzione
del Profeta sulle basi che ho detto. Sim ilm ente, se qualcuno
dice attribuiti alle acque anim ali che stanno nelle acque,
v e d rà che si sarebbe dovuto piuttosto attribuire ad esse un
solo genere di anim ali, due generi invece alla terra, po ich é
la terra p iù che non l ’acqua è abitata dagli uccelli.E se,
indipendentem ente d a ogni discussione, consideriam o la
natura d e ll’anim ale, l ’uccello è anim ale terrestre o aereo, in
nessun m odo acquatico.
M a ascoltate le ragioni più profonde di tutte che, anche
contro nostra voglia, c i attirano ai m isteri di C risto e della
C hiesa. E se tutte le cose, com e dice A ristòtele, si accordano
con la verità, al m assim o grado devono accordarsi con C risto
ch e è la stessa verità; con Cristo, che non senza rag io n e
d iceva tante volte agli Ebrei: «Indagate le Scritture; esse
offrono la loro testim onianza su di m e». E afferm ava che
m olte cose, anzi tutte le cose che lo riguardavano, erano
pred ette nella legge, nei salm i, nei libri dei Profeti; m a
spesso noi siam o ciechi a tanta luce e senza la sua rivelazione
non possiam o scorgere le m eraviglie della sua legge. C ol suo
aiuto volgiam oci a penetrare i m iseri ed i sim boli. D alle
acque si producono due generi di anim ali, uno dalla terra,
perché più num erosa fu la m oltitudine dei credenti fra i
gentili ch e non fra gli Ebrei. L a terra poi produce anim ali più
perfetti, anche se m olto m eno num erosi di quelli che p ro d u
cono le acque, cioè gium ente e tutti i quadrupedi. P oiché, se
fra i gentili i credenti furono più num erosi, tuttavia furono
più perfetti quelli che credettero fra gli E brei dai quali
uscirono gli A postoli fondatori di tutta la religione.
132
Del pari l ’acqua produsse due generi e una duplice natura di
animali, quella dei pesci e quella degli uccelli; la terra invece una
natura sola, poiché fra i gentili alcuni si convertono a Cristo
dall’adorazione dei dèmoni, altri dalla legge di natura.
O gni E breo è E breo in quanto a lui non è perm esso vivere
nei lim iti della legge di natura poiché gli è stata data com e
peculiare la legge di D io che non è com une alle altre genti.
D io infatti non fece altrettanto con tutte le nazioni e non
m anifestò loro i suoi giudizi. I pesci dunque ci indicano
quelli che vennero a noi dal culto dei dèm oni, non solo
perché le acque (com e m ostram m o in precedenza) raffig u
ran o l ’em pietà dei gentili, m a perché spesso nelle Sacre
S critture, com e attesta Jònathan C aldeo, negli anim ali che
vivono n e ll’acqua si raffigurano i dèm oni m alvagi; gli
uccelli rappresentano coloro che dalle leggi d i natura sono
elevati alla grazia, e la ragione ne è chiara da quanto
scrivem m o diffusam ente nel proem io di questo libro sulla
felicità naturale e soprannaturale. M ostram m o infatti che il
cielo è sim ulacro fedelissim o della felicità soprannaturale,
m entre la felicità naturale è piuttosto secondaria e im m ag i
naria che non vera; perciò chi consegue questa seguendo la
legge di natura è sim boleggiato m olto opportunam ente negli
uccelli, abitatori non del prim o e vero cielo, m a d e ll’àere,
che prende pure il nom e di cielo per una ragione secondaria
e im m aginaria. P erciò nelle Sacre S critture sono chiam ati
tanto spesso volatili del cielo e uccelli del cielo.
V edete con quanta profonda saggezza gli uccelli non
sono assegnati a ll’aria, m a a ll’acqua. Poiché quelli che
vivevano secondo natura erano stim ati a n c h ’essi gentili,
133
chiam andosi da sé gentili e vivendo tra i gentili, com e
S òcrate e la m aggior parte dei filosofi. Per questo en tram b i
i generi sono riferiti in com une alle acque. M a quanto q u esta
esposizione si accordi con la dottrina evangelica, quanto con
l ’apostolica, è m olto facile dim ostrare. Infatti gli A postoli
convertiti d a ll’ebraism o sono sim boleggiati da Pàolo nei
bovi, anim ali terrestri, e dai nostro dottori d e ll’E vangelo
sono raffig u rati in quel luogo dove sono cacciati dal tem pio
i m ercanti e dove C risto chiam a pecore gli Ebrei.
G li A postoli poi, a cui fu affidata la conversione delle
genti, son chiam ati dal Signore pescatori, e di q u esti il
prin cipe è Pietro che a Rom a, signora delle genti, d o v ev a
divenire com e un pescatore n e ll’O ceano, com e un pescatore
di balene. C risto che di sé disse d ’essere m andato solo p e r le
pecore della casa d ’Israele che erano perite, non prese il
nom e di pescatore, m a di pastore.
C apitolo Sesto
134
firm am ento, q uando D io disse: «S ia fatto il firm am ento»; e
la distinzione delle acque quando Dio disse: «E il firm am en
to divida le acque dalle acque».
E il raccogliersi delle acque che è detto mare, e lo
scoprirsi della terra, e il prodursi delle piante, com e hanno il
loro fondam ento in u n ’altra opera, cosi furono com piuti nel
giorno a cui appartenevano, cioè il terzo.
B isogna dunque indagare un m istero più profondo. Il
firm am ento, com e abbiam o dim ostrato prim a, rap p resen ta
la legge. E il firm am ento era, oltre che inform e, anche
im perfetto, finché non fu ornato del sole, della luna e delle
stelle.
C osi com e la legge non era cattiva (com e dicono i
M anichei), m a neppure assolutam ente buona, cioè perfetta,
finché non venne Cristo che com pletò la legge; se il firm a
m ento fosse stato cattivo, non avrebbe accolto il sole, se
fosse stato buono, non avrebbe avuto bisogno del sole. M a
il firm am ento era buono in quanto e ra capace di accogliere
il sole e le altre stelle, com e la legge non era buona se non in
quanto ci guidava in Cristo: e M osè per la rozzezza del suo
popolo perm ise m olte cose che sono poi v ietate nel V angelo.
L o stesso P rofeta insegna m olto chiaram ente che, se non
possiam o chiam are cattiva la legge, com e credette M ani,
neanche possiam o chiam arla buona: infatti, per bocca di
M osè, D io dice parlando degli Ebrei: «H o dato loro leggi
non buone». N on disse leggi cattive, m a leggi non buone,
cioè non perfette, non com piute, non definitive. Lo co n fe r
m ano anche gli antichi dottori ebrei che, com m entando il
detto del VEcclesiaste «V anità delle vanità e tutto è vanità»,
135
vana, dicono, è anche la legge fino a che non sia venuto il
M essia.
E di ciò basti.
C apitolo Settimo
136
Eposizion e deC^Prim o ^ L )i'etto
cioè
iiCIn ^Principio”
O rm ai siam o arrivati alla fine d e ll’opera con l ’e sp o sizio
ne chiarificatrice di tutto il testo nelle sue sette form e. M a
riconosco che ci resta ancora da affrontare e d a discu tere
q u alche punto che sem brava si dovesse esporre p e r prim o:
cioè che co sa significhi la prim a espressione della legge, che
è: «In principio». N é alla leggera né senza ragione ho voluto
parlare di questo principio alla fine d i tutta l ’opera. Io non
discuterò qui del Figlio di D io che è il principio attraverso
cui sono state fatte tutte le cose (è infatti la sapienza del
P adre), e non starò a dim ostrare che, in questo luogo, gli
antichi E brei consentono coi nostri: lo farò altrove. M a
cercherò di far gustare ai lettori il gusto della pro fo n d ità
eb raica con un nuovo m etodo di interpretazione. N on farò
137
questo prim a di aver detto alcune poche cose di un certo
dogm a, che è davvero esem pio m irabile d e ll’antica sapienza
giudaica. È salda convinzione di tutti gli antichi, da loro
afferm ata ad una voce com e assolutam ente certa, che nei
cinque libri della legge m osaica sia racchiusa l 'in te ra co g n i
zione di tutte le arti, di ogni sapienza divina ed um ana, m a
dissim u lata e n ascosta nelle stesse lettere di cui la fo rm u la
zione della legge si com pone, com e ora dim ostrerem o.
P rendiam o p er esem pio la prim a particella del libro d ella
G ènesi, cio è d a ll’inizio fino al luogo dove è scritto: « E D io
vid e la luce che era un bene». T utta questa scrittura si
com pone di centotré lettere che, disposte com e sono, co sti
tuiscono le parole che abbiam o lette, in apparenza com uni e
volgari, poiché tale disposizione di lettere form a solo la
scorza di u n ’essenza d i riposti m isteri, ascosi in questo testo.
M a se, scom poste le parole, prendiam o separatam ente le
m edesim e lettere e, secondo le regole tram andate dagli
E brei, ricom poniam o giustam ente le parole che se ne p o sso
no form are, dicono che, se ne sarem o capaci, vedrem o in
p ien a luce m irabili verità segretissim e d i una riposta sapien
za, a proposito di m olte cose; e che, facendo lo stesso per
tu tta la legge, alla fine, da questa esatta disposizione e
co n n essio n e di elem enti, scaturirà ogni dottrina e i segreti di
tutte le discipline liberali. H o detto però, se siam o capaci di
sapienza occulta. P erciò può darsi che, affaccendandoci noi
a sciogliere e com porre alcune parole, nascano dalla n o stra
attività m olti vocaboli e una varietà di discorsi ric c a di
grandi insegnam enti e profondi significati, m a inutile, fo r
138
tu ita e necessariam ente spregevole per chi, non avendone
appreso il valo re p er altra v ia, non n e afferri il senso.
Li non possiam o im parare, m a solo riconoscere dogm i e
dottrine. Io non afferm o con prove queste cose, p erch é non
ne ho fatto esperienza e non spero di poterla fare, m a
neanche le rifiuto, sia perché questa teoria ha dei grandi
sostenitori, sia perché da M osè, che fu cosi esperto di tutta
la casa del Signore, si possono accettare facilm ente riv e la
zioni anche p iù grandi. H o pensato perciò di far cosa gradita
agli uom ini del m io tem po rendendo m anifesta q u ella ric
ch ezza di gem m e che, superiore a quante ne portavano
secondo i poeti l ’E rm o e il Pattolo, m i si offre m entre, senza
p en etrare in quegli abissi, costeggiò il lido di questo m are.
M i è piaciuto avventurarm i a spiegare la prim a esp ressio
ne d e ll’opera che in ebraico si legge beresit, nella n o stra
lingua in princiìpio, p er vedere se an c h ’io, usando le regole
degli antichi, p o tessi trarne in luce qualcosa deg n a d ’esser
conosciuta. E al di là della m ia speranza, al di là d ’ogni
convinzione, trovai ciò che né io stesso potevo cred ere
d ’aver trovato, né altri credettero facilm ente: la ragione del
m ondo e di tutte le cose rivelata e spiegata in q u e ll’unica
espressione.
D ico u n a cosa m eravigliosa, inaudita e incredibile. M a,
se starete attenti, la crederete subito e la cosa stessa m ostrerà
che io dico il vero. Q uella espressione in ebraico si scrive
cosi: berescith.
D a questa dunque, se uniam o la terza lettera alla prim a,
viene ab. Se alla prim a raddoppiata si aggiunge la seconda,
si fa bebar. Se le leggiam o tutte, salvo la prim a, si h a resith.
139
Se uniam o la quarta alla prim a e a ll’ultim a, si ha sciabath.
Se poniam o le tre prim e n e ll’ordine in cui stanno, ne viene
bara. Se, lasciata la prim a, poniam o le tre seguenti, ne deriva
rose. Se, tralasciata la prim a e la seconda, poniam o le due
successive, ne viene es. Se, lasciate le tre prim e, uniam o la
qu arta a ll’ultim a, seth. D i nuovo, se uniam o la seconda alla
prim a, si fa rab. Se poniam o dopo la terza la quarta e p o i la
qu in ta ne deriv a hisc. Se uniam o le prim e due alle d u e ultim e
si ha berith. Se uniam o l ’ultim a alla prim a, si ottiene la
lettera dodicesim a e d ultim a che è thob, volgendo il thau in
theth con un procedim ento com unissim o in ebraico.
V ediam o in prim o luogo che significhino queste co se in
latino, poi che cosa rivelino circa i m isteri di tutta la natura
ai non ignari di filosofia. Ab, significa il padre; bebar, nel
figlio e attraverso il figlio (infatti la beth preposta v uol dire
entram be le cose); resith, indica il principio; sciabath, il
riposo e la fine; bara, creò; rose, testa; es, fuoco; seth,
fondam ento; rab, del grande; hisc, d e ll’uom o; berith, con
patto; thob, col bene; e, se ricostruiam o ordinatam ente tutta
la frase, essa si presenterà cosi: «Il padre nel figlio e p e r il
figlio, principio e fine, ossia quiete, creò il capo, il fuoco e
il fondam ento d e ll’uom o grande con patto buono».
D alla risoluzione com posizione della prim a parola risu l
ta tutto questo discorso, e quanto il suo senso sia profondo
e ricco di ogni dottrina non può essere palese a tutti. M a, se
non tutte, alm eno alcune delle cose che ci vengono indicate
d a queste parole son chiare a chiunque: è noto a tutti i
C ristiani cosa significa che il Padre creò nel Figlio e attraver
so il Figlio, e che co sa vuol dire che il Figlio è principio e fine
140
di tutte le cose. Infatti E gli è l ’a e l ’co, com e scrisse
G iovanni, e d a sé si chiam ò Principio, e noi abbiam o
m ostrato che è fine di tutte le cose, perché vengano ricondotte
al p rincipio loro. U n p o ’ più oscuro il resto: che significhino
la testa, il fuoco e il fondam ento d e ll’uom o grande, che sia
quel patto e perché sia detto buono. Infatti non a tutti è
p ossibile ved er subito qui presente ogni legge dei quattro
m ondi trattati, la loro parentela e beatitudine, di cui d isc u
tem m o alla fine.
In prim o luogo dunque bisogna ricordare che il m ondo è
chiam ato da M osè uomo grande. Infatti se l ’uom o è un
piccolo m ondo, necessariam ente il m ondo è un uom o gran
de.
P resa occasione di qui, raffigura m olto opportunam ente
i tre m ondi, intellettuale, celeste e corruttibile, nelle tre p arti
d e ll’uom o, non solo indicando con questa figura che n e l
l ’uom o sono contenuti tutti i m ondi, m a anche spiegando
brevem ente quale parte d e ll’uom o corrisponde a ciascun
m ondo.
C onsideriam o quindi tre parti n e ll’uom o: la più alta è la
testa, poi viene quella che dal collo si allunga fino a ll’om be
lico, la terza d a ll’om belico si stende fino ai piedi. E queste
nella figura d e ll’uom o sono anche distinte e separate con
una certa diversità. M a è m irabile la bellezza e perfezione
co n cui, p er una legge precisissim a, corrispondono alle tre
p arti del m ondo.
Il cervello, fonte del conoscere, sta nella testa. Il cuore,
fonte di vita, di m oto e di calore, sta nel petto. G li organi
141
genitali, principio della riproduzione, stanno n e ll’u ltim a
parte.
D el pari, nel m ondo, la parte più alta, che è il m ondo
angelico o intellettuale, è fonte del conoscere, perché tale
natura è fatta per l ’intendere. L a parte m edia, che è il cielo,
è il p rincipio di vita, di m oto, di calore e in essa dom ina il sole
co m e il cu o re nel petto. Sotto, la luna è, com e tutti sanno, il
prin cip io della generazione e corruzione. V edete con q u an ta
esattezza tutte queste parti del m ondo e d e ll’uom o si co rri
spondano reciprocam ente. M osè indicò la prim a co l suo
nom e, di testa; la seconda chiam ò fuoco, sia perché con
questo nom e da alcuni è indicato il cielo, sia perché in noi
q u esta parte è principio di calore; la terza chiam ò fon d am en
to p erch é su di essa, com e è noto ad ognuno, si fo n d a e si
sostiene tutto il corpo d e ll’uom o. A ggiunse infine che D io le
creò con un patto buono perché fra di esse fu sancito dalla
sapienza div in a un patto di pace e di am icizia fondato sulla
p a ren tela e sul m utuo consenso delle nature. E questo patto
è buono perché si d irige e si orienta verso D io che è lo stesso
bene, in m odo che, com e il m ondo è uno nella totalità delle
sue parti, cosi anche, alla fine, sia uno col suo A utore.
Im itiam o anche noi il santissim o patto del m ondo, si da
essere u n iti tra noi p er reciproco am ore, e dal giungere,
attraverso l ’am ore vero di D io, a unificarci felicem ente in
Lui.
142
Indice
iProemio ......................................................................................... 7
Prima Esposizione
D el M ondo Elementare .................................................. 31
Seconda Esposizione
D el M ondo Celeste ......................................................... 43
Terza Esposizione
D el M ondo Angelico e Invisibile ................................... 59
Quarta Esposizione
D el M ondo Umano cioè della 9datura d ell Uomo ........ 73
Q uinta Esposizione
D i tu tti i M ondi in Ordine di Successiva Partizione ... 85
Sesta Esposizione
S u l Legame dei M ondi fr a loro e con le Cose T utte ......99
S ettim a Esposizione
D ella fe lic ità che è la “Vita Eterna .............................109
143