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RIVISTA DI
DIRITTO PROCESSUALE
TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1, COMMA 1, DCB MILANO - PUB. BIMESTRALE
FONDATA NEL 1924 DA
G. CHIOVENDA, F. CARNELUTTI e P. CALAMANDREI
GIÀ DIRETTA DA
E.T. LIEBMAN, G. TARZIA e E.F. RICCI
DIRETTORI
C. PUNZI e B. CAVALLONE
COMITATO DI DIREZIONE
M. ACONE - G. BONGIORNO
C. CAVALLINI - V. COLESANTI
L.P. COMOGLIO - C. CONSOLO
G. COSTANTINO - C. FERRI
R.E. KOSTORIS - S. LA CHINA
S. MENCHINI - E. MERLIN
G. MONTELEONE - R. ORIANI
G. RUFFINI - A. SALETTI
B. SASSANI - F. TOMMASEO
N. TROCKER - R. VACCARELLA
Gennaio-Febbraio
2019
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RIVISTA DI
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G. CHIOVENDA, F. CARNELUTTI e P. CALAMANDREI
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ARTICOLI
Vittorio Colesanti, Pensieri in libertà (intorno a un giudicato che non doveva esserci) 16
DIBATTITI
Andrea Proto Pisani, Silenzio della dottrina e attenzione dell’avvocatura alle proposte
fiorentine di riforme del processo civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188
Marina Tavassi, Sul sistema del brevetto europeo ad effetti unitari. Un importante
commentario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217
RICORDI
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Opere segnalate: Roberta Aprati (M. Daniele); Valentina Baroncini (G. Battaglia);
Claudio Cecchella (F. Danovi); Marcello Daniele (H. Belluta); Enrico del Prato
(a cura di) (F. Danovi); Sergio La China (B. Cavallone); Aniello Merone (A.
Saletti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 228
SENTENZE
Espropriazione dei beni indivisi, procura ad litem costituita per la costituzione nel
processo esecutivo, estensione del mandato alla fase divisoria del procedimento,
sussistenza: Corte di cassazione, sez. III civ., 20 agosto 2018, n. 20817 . . . . . . 240
Spese giudiziali civili, compensazione delle spese ex art. 92, comma 2º, c.p.c.,
mancata previsione della possibilità di compensazione in presenza di ipotesi
diverse da quelle tipiche ma analogamente caratterizzate da gravità e eccezio-
nalità, illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, comma 1º, 111,
comma 1º, 24, comma 1º, Cost., sussistenza: Corte costituzionale, 19 aprile
2018, n. 77 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257
Spese giudiziali civili, compensazione delle spese ex art. 92, comma 2º, c.p.c.,
mancata previsione della applicabilità della compensazione in favore del lavo-
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PANORAMI
ARTICOLI
(1) Questo scritto è dedicato a Ada Pellegrini Grinover e a José Carlos Barbosa
Moreira.
(2) L’articolo di E. Ricci, La «natura» dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le
Sezioni Unite, è apparso in questa Rivista 2001, 259. Le sentenze della Corte di cassazione
risalgono all’anno 2000, quando, appunto, dapprima Cass. 10 marzo 2000, n. 58, sulla scia
di una pronuncia precedente – Cass. 4 luglio 1981, n. 4360 – dall’affermazione della natura
giurisdizionale dell’arbitrato aveva fatto discendere la conseguenza che la questione della
deferibilità di una controversia ad arbitri, piuttosto che a giudici ordinari o a giudici
amministrativi, configurasse una questione di giurisdizione, con conseguente ammissibilità
del regolamento preventivo di giurisdizione, disciplinato dall’art. 41 c.p.c.; mentre, dopo
pochi mesi, Cass. 3 agosto 2000, n. 527 operò la c.d. «svolta negoziale» sulla natura e sugli
effetti del lodo rituale, svolta dalla quale sono derivate importanti conseguenze applicative
stregua dei singoli ordinamenti positivi e del regime legale che viene of-
ferto o imposto, di volta in volta, all’arbitrato.
E questo atteggiamento del legislatore statale verso l’arbitrato può
essere certo espresso anche con la collocazione delle disposizioni positive
che disciplinano le forme del procedimento arbitrale e gli effetti del lodo.
Mi riferisco all’affermazione con cui si aprono scritti più risalenti, ma
non per questo meno preziosi in subiecta materia, e anche più recenti, di
Salvatore Satta.
Scriveva appunto Satta, nel suo primo commento al codice di proce-
dura civile (5), che «il nuovo codice si chiude con l’arbitrato, con il quale il
vecchio si apriva». E osservava, trent’anni dopo (6), che «lo spostamento
non era un mero fatto topografico. Esso riflette il mutato atteggiamento
spirituale del legislatore di fronte al travagliato istituto, probabilmente da
mettere in relazione alla transitoria obbedienza politica» e «l’essere stato
assunto dal legislatore del 1865 a paradossale prefazione del nuovo codi-
ce» implicava «un omaggio alla volontà dei litiganti», un «nobile e consa-
pevole sacrificio della sovranità», detentrice della giurisdizione, alla libertà.
Satta concludeva, quindi, osservando che il legislatore degli anni ‘40 «non
potendo espungere dalla sua bandiera o dal suo gagliardetto la contraddi-
zione dell’arbitrato … lo ha trasformato in un procedimento speciale e lo
ha relegato in fondo al suo libro».
Satta coglie nel segno quando rileva il mutato atteggiamento politico
del legislatore di fronte all’arbitrato, ma, per approfondire questi aspetti
fondamentali dell’arbitrato e per valutare e definire l’atteggiamento del
legislatore, è indispensabile completare l’indagine con l’analisi del regime
positivo che, di volta in volta, viene offerto del lodo arbitrale, della sua
efficacia, e di come i suoi effetti e – come vedremo – la stessa validità
vengano assoggettati al suo tempestivo deposito, entro un termine peren-
torio, per la c.d. omologazione, presso il giudice dello Stato, secondo la
disciplina contenuta nel titolo VIII (capo IV) del libro quarto del codice di
procedura civile (7).
Per procedere in questa indagine si possono prendere le mosse, per
quanto concerne la situazione legislativa italiana, dal testo della Relazione
(5) V. S. Satta, Guida pratica al nuovo processo civile, Padova 1941, 13.
(6) V. Id., Commentario al codice di procedura civile, Libro Quarto, Parte seconda,
Milano 1971, 162 ss.
(7) Per un quadro generale delle diverse novelle al libro quarto del codice nonché sui
rapporti tra arbitrato e giurisdizione v. in modo esauriente, G. Ruffini, L’arbitrato come
equivalente della giurisdizione statuale: linee evolutive, cit., passim; nonché C. Punzi, Disegno
sistematico dell’arbitrato, 2a ed., Padova 2012, I, 83 ss.
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del Guardasigilli Grandi al Codice di procedura civile del 1940, dove, con
riferimento alla giurisdizione, si legge che «la dottrina del fascismo è
essenzialmente basata sul concetto di sovranità e di autorità dello Stato:
ora l’unità della giurisdizione è l’espressione nel campo processuale, del-
l’unità dello Stato sovrano. Attraverso le applicazioni di esso è la stessa
invisibile autorità dello Stato che si manifesta in forma unitaria e costante,
nelle infinite varietà dei contrasti tra i diritti soggettivi del singolo» (8).
Nel quadro di questa concezione statualgiurisdizionalista non ci si
deve meravigliare che lo stesso Guardasigilli Grandi, nel discorso pronun-
ciato innanzi alle commissioni delle Assemblee legislative, abbia affermato
che l’arbitrato si presentava come uno strumento per la risoluzione delle
controversie «deleterio», in quanto idoneo a «risolversi in una menoma-
zione e in una corrosione» non solo «del prestigio dello Stato», ma di
quella «unità della giurisdizione» che è alla base fondamentale della strut-
tura stessa dello «Stato sovrano» (9) e dunque destinato ad essere bandito
in relazione a talune materie, come quella del lavoro, alla stregua dei divieti
(originariamente) inseriti negli artt. 806 e 808 c.p.c. (10).
Questa concezione statualgiurisdizionalista ha informato, innanzi tut-
to, due precetti di legge, che sono stati abrogati solo mezzo secolo dopo (e
precisamente con la riforma del sistema italiano di diritto internazionale
privato, introdotta con la l. 31 maggio 1995, n. 218).
Si tratta degli artt. 2 e 3 c.p.c. nonché del sistema di delibazione delle
sentenze straniere, già disciplinato negli artt. 796 ss. c.p.c.
Infatti nell’art. 2 c.p.c. si proclamava la inderogabilità convenzionale
della giurisdizione a favore dei giudici stranieri o di arbitri che giudicasse-
ro all’estero e, nel successivo art. 3, si sanciva l’irrilevanza, ai fini della
proposizione del giudizio in Italia, della pendenza della stessa causa in-
nanzi al giudice straniero, posto che la pronuncia di questo giudice non
poteva manifestare i propri effetti in Italia se non a seguito dell’espleta-
mento e della conclusione favorevole del procedimento di delibazione
disciplinato dall’art. 796 e ss. c.p.c. E non si deve trascurare la circostanza
che questa norma sulla delibazione delle sentenze straniere conferiva al
giudice italiano non solo il compito di verificare la sussistenza delle con-
(8) V. Relazione pubblicata in Codice di procedura civile con la Relazione al Re, a cura
di F. Cipriani e G. Impagnatiello, Bari 2007, 9.
(9) Il discorso è riportato nel verbale dell’Assemblea legislativa 18 gennaio 1940, n. 57,
in cui si discusse delle disposizioni in tema di arbitrato.
(10) Sul tema, v. di recente il contributo di V. Bertoldi, L’arbitrato e le controversie di
lavoro, Napoli 2018, 46 ss.
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(11) Sulla disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere prima della riforma
della l. n. 218/1995, v. per tutti M. Cappelletti, Il valore delle sentenze straniere in Italia, in
questa Rivista 1987, 192 ss.; G. Franchi, La sentenza straniera dinanzi al giudice italiano, in
Riv. trim. dir. proc. civ. 1987, 624 ss.
(12) Come è noto, si affermava in giurisprudenza che il lodo arbitrale non depositato
dagli arbitri nei cinque giorni dalla sua pronuncia doveva essere condannato addirittura
all’inesistenza; v. in questo senso Cass. 1˚ dicembre 1979, n. 6277; Cass. 27 novembre 1974,
n. 3881.
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(13) V. F. Cipriani, Le leggi della procedura nei giudizi civili del Regno delle Due Sicilie,
introduzione al Codice per lo Regno delle Due Sicilie, III, in Testi e documenti per la storia del
processo a cura di N. Picardi e A. Giuliani, Milano 2004.
(14) V. F. Menestrina, Il processo civile nello Stato pontificio, in Riv. it. scienze giur.
1907, 147 ss.
(15) A. Calussi, Dalla riforma dei tribunali all’approvazione del regolamento di procedura
civile, ovvero il ritorno alla tradizione processuale leopoldiana nella Toscana del 1814, in
Regolamento di procedura civile per i Tribunale del Granducato di Toscana, in Testi e docu-
menti per la storia del processo, cit., Milano 2004.
(16) Nel codice giudiziario Barbacoviano non solo si ritrova la collocazione dell’arbi-
trato nel capitolo introduttivo del codice, ma viene sancita la regola secondo cui, quando le
parti abbiano preventivamente rinunciato al reclamo avverso il lodo, questo «avrà forza di
cosa transatta e giudicata» senza alcun intervento dei giudici.
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(17) V. supra a proposito della Relazione del Guardasigilli al codice di procedura civile
del 1940.
(18) V. C. Punzi, Dalla crisi del monopolio statale della giurisdizione al superamento
dell’alternativa contrattualità-giurisdizionalità dell’arbitrato, in questa Rivista 2014, 2 ss.
(19) V. L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, 3a ed.,
Milano, s.d., 39.
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(20) Ho già avuto modo di ricordare (v. C. Punzi, Le nuove frontiere dell’arbitrato, in
questa Rivista 2015, 9 ss.) che la Corte costituzionale, a cominciare dagli anni ‘60 del secolo
scorso, è venuta affermando il principio, che ha aperto l’orizzonte verso nuovi traguardi
dell’arbitrato, che, per aversi un «giudice», legittimato a sollevare la questione di costitu-
zionalità, è sufficiente che sussista, «alternativamente», o il requisito «soggettivo» dello
svolgersi del relativo procedimento «alla presenza o sotto la direzione del titolare di un
ufficio giurisdizionale» oppure – ed è questo, come vedremo subito, l’aspetto di grande
novità ed eccezionale importanza, che va sottolineato – anche solo il requisito «oggettivo» e
cioè «l’esercizio di funzione giudicante per l’obiettiva applicazione della legge» da parte di
organi «pur estranei all’organizzazione della giurisdizione ed istituzionalmente adibiti a
compiti di diversa natura, che dello jus dicere siano investiti anche in via eccezionale» e
siano all’uopo «posti in posizione super partes».
Per cogliere l’esatta portata di questa presa di posizione della Corte costituzionale è
sufficiente ricordare alcuni suoi interventi particolarmente significativi, di molto precedenti
Corte Cost. 22 novembre 2001, n. 376 (che ha riguardato gli arbitri).
Un primo intervento della Corte su questo tema si ebbe con la sentenza n. 83 del 2
luglio 1966, a proposito del pretore in funzione di organo dell’esecuzione esattoriale mo-
biliare. Nel riconoscerne la legittimazione a sollevare la questione di legittimità costituzio-
nale, la Consulta affermò che non fosse necessaria la sussistenza di ambedue i requisiti,
«soggettivo» e «oggettivo», consistenti il primo nell’appartenenza del giudice a quo all’or-
ganizzazione giudiziaria e il secondo nella natura «oggettivamente» giurisdizionale dell’atti-
vità rispetto alla quale la questione risulta rilevante (concludendo in quel caso in senso
positivo sulla base del solo elemento soggettivo per l’appartenenza del pretore «anche
quando è investito della funzione di organo preposto all’esecuzione esattoriale mobiliare»
all’autorità giudiziaria ordinaria).
Maggiormente significativa appare, ai fini del presente discorso, Corte cost. 18 novem-
bre 1976, n. 226, a proposito della Sezione di controllo della Corte dei conti. Anche in
quella occasione, la Consulta, risolvendo il problema in senso positivo, ribadı̀ il principio che
non fosse necessario che concorressero entrambi i requisiti, soggettivo e oggettivo, affer-
mando che per aversi giudice a quo è sufficiente che ricorra o il «requisito soggettivo», o
anche il solo «requisito oggettivo» dell’esercizio della «funzione giudicante per l’obiettiva
applicazione della legge», riconoscendo quest’ultimo alla Corte dei Conti nel giudizio di
parificazione, con conseguente legittimazione a sollevare la questione di costituzionalità.
Tra gli altri casi in cui la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimazione a
sollevare, quale «giudice» remittente, questioni di legittimità costituzionale, si possono
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potuto affermare che anche gli arbitri rituali, pur se investiti della loro funzione da un atto di
natura squisitamente privata, quale è il patto compromissorio, possono e debbono sollevare
incidentalmente la questione di costituzionalità delle norme di legge che sono chiamati ad
applicare. Da tale pronuncia ha inizio quel fil rouge (cosı̀ C. Cavallini, Per una visione
internazionale dell’arbitrato interno, cit., § 1) che ha condotto alla successiva presa di
posizione della Consulta (Corte cost. 19 luglio 2013, n. 223) relativa alla parziale illegittimità
dell’art. 819 ter c.p.c., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e
processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 c.p.c., nonché al successivo intervento
legislativo di cui al d.l. n. 132/2014 sul c.d. arbitrato di «prosecuzione».
(21) V. supra, par. 1.
(22) La sentenza della Corte di Appello di Milano è pubblicata in nota alla sentenza
della Corte di Cassazione di Torino in Foro it. 1905, I, 366. Quest’ultima può leggersi anche
in Riv. dir. comm. 1905, II, 45 ss., commentata da P. Bonfante, Dei compromessi e lodi
stabiliti fra industriali come vincolativi dei loro rapporti ma non esecutivi nel senso e nelle
forme dei giudizi.
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(23) Scrive appunto A. Furno, nella Presentazione della ristampa dell’opera prima di S.
Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano 1951, VII che «nel linguaggio allusivo
che si contrappone alla retorica degli statolatri, esaltare l’autonomia privata, il contratto,
equivale ad esaltare la libertà». E aggiunge: «Satta, nel suo primo lavoro scientifico d’impe-
gno, scioglie per la lunghezza di 186 pagine serrate un inno alla libertà: messe una accanto
all’altra, 186 pagine possono formare uno striscione di diversi metri, sul quale sia scritta a
chiare lettere ‘viva la libertà’».
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(24) Ha osservato in proposito C. Cavallini, L’arbitrato rituale, Milano 2009, 2 ss. che
l’essenza dell’arbitrato irrituale ha origine nel tentativo di sottrarre la definizione della lite
non solamente alla giustizia ordinaria ma anche a quella «privata» regolamentata, al fine di
essere ricondotta nell’alveo della negozialità, quale pura espressione del principio di auto-
nomia privata. In quest’ottica la introduzione dell’art. 808 ter c.p.c., in conseguenza del
d.lgs. n. 40/2006, quale disposizione di riferimento per l’arbitrato «non rituale» viene letta
dall’a. come la fine della storica e tradizionale figura dell’arbitrato libero.
(25) Tali vicende sono state da me ripercorse in Disegno sistematico dell’arbitrato, 2a
ed., cit., I, 217 ss.; cfr. anche V. Bertoldi, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbi-
trato interno ed internazionale, 2a ed., diretto da Benedettelli, Consolo, Radicati di Brozolo,
Padova 2017, sub art. 808 ter, 65 ss., per i richiami alle diverse proposte ricostruttive della
dottrina.
(26) Cfr. le mie osservazioni in Disegno sistematico dell’arbitrato2, cit., I, 253 ss. La
impostazione data dall’art. 808 ter c.p.c. all’arbitrato irrituale come strumento processuale è
evidenziata anche da C. Cavallini, L’arbitrato rituale, cit., 4 s. e da V. Bertoldi, L’arbitrato e
le controversie di lavoro, cit., 25 ss., spec. 28 ss.
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CARMINE PUNZI
(28) Sul minore appeal dell’arbitrato irrituale rispetto a quello rituale v. V. Bertoldi, Il
favor per l’arbitrato rituale e l’arbitrato irrituale quale eccezionale deroga all’art. 824 bis c.p.c.,
in Giur. it. 2015, 1468 ss., 1473 ss. Il tema è sviluppato con acutezza di considerazioni da C.
Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, 11a ed., Torino 2017, I, 538 ss.
(29) V. E.F. Ricci, La funzione giudicante degli arbitri e l’efficacia del lodo (un Grand
Arrêt della Corte Costituzionale), in questa Rivista 2002, 367.
(30) M. R. Ferrarese, La Governance tra politica e diritto, Bologna 2010, 142.
(31) N. Picardi, Manuale del processo civile, 2a ed., Milano 2010, 676.
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PENSIERI IN LIBERTÀ
(INTORNO A UN GIUDICATO CHE NON DOVEVA ESSERCI)
SOMMARIO: 1. La saggezza di un detto attribuito a Paul Valery: «Je suis rarement de mon
avis». – 2. Condanna generica divenuta inattaccabile e successiva cassazione senza
rinvio della pronuncia sul quantum perché l’intero pur frazionato processo non poteva
proseguire: che succede? – 3. Il quesito: può sopravvivere l’emanata condanna gene-
rica? – 4. La diversa situazione nell’ipotesi di giudizio ab initio limitato alla condanna
generica. – 5. Situazione apparentemente paradossale in caso di processo unitariamente
promosso: la condanna generica non doveva esserci (perché non poteva svolgersi il suo
procedimento formativo), però c’è: e allora? – 6. Una possibile soluzione: la condanna
generica mantiene la sua efficacia, e ipotizzabili obiezioni. – 7. Breve messa a punto dei
problemi emergenti e un interrogativo inquietante: quel che non doveva esserci ma c’è
può considerarsi espressione dell’ordinamento (o potrebbe mai parlarsi di sentenza
giuridicamente inesistente)? – 8. Può ipotizzarsi una cognizione incidenter tantum della
illegittimità della pronuncia inattaccabile ma che non doveva esserci? – 9. Conclusione
scettica: per attenuare il rischio di dover dire «raramente sono della mia opinione», è
meglio lasciare ad altri la soluzione del problema che non si sa risolvere!
(1) Si badi: sarebbe improprio il discorrere di contrasto tra giudicati, se è vero – come
del resto comunemente si afferma – che una tal figura va ricondotta alle (sole) sentenze di
merito, laddove nel caso la pronuncia di cassazione senza rinvio altro non fa intendere se
non che in appello nessuna decisione di merito poteva essere emessa, per l’improcedibilità
del giudizio che vi avrebbe dato luogo. Non senza aggiungere che comunque, quand’anche
di un vero contrasto potesse parlarsi, a fronte di decisioni della Suprema Corte non sarebbe
percorribile la via «ordinaria» per porvi rimedio, alla luce dei rigorosi limiti posti dall’art.
391 bis c.p.c. alla revocazione.
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(2) Pare inutile star qui a ricordare quanto già oltre mezzo secolo addietro limpida-
mente osservato da G. Conso (vanamente, a mio avviso, contraddetto da enunciazioni
successive), che cioè se un vizio, per grave che sia, risulta aver formato oggetto di conside-
razione dalla legge, con la predisposizione di apposito rimedio, è semplicemente senza senso
fantasticare di inesistenza giuridica. Ma ciò non può ripetersi per quanto qui interessa,
perché nessun rimedio, nemmeno «straordinario», sembra potersi dir previsto a fronte di
una decisione che poi – ma nello stesso giudizio – risulta esser resa in una fase processuale
che non poteva svolgersi. E pare qui superfluo attardarsi a rilevare che, in una vicenda come
quella considerata, e tanto più a fronte di pronunce del Supremo Collegio, non trova spazio
alcuna figura di revocazione. Può aggiungersi: se come esempio di sentenza «giuridicamente
inesistente» si porta l’ipotesi di pronuncia resa da chi non è giudice (o, come altra volta
affermato, ha cessato di esserlo), qualcosa di non poi troppo dissimile qualcuno potrebbe
forse ripetere per la decisione il cui iter formativo non poteva e doveva svolgersi.
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VITTORIO COLESANTI
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(1) Queste pagine sono l’intervento al convegno, «A trent’anni dal convegno palermi-
tano su Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Una riflessione aggiornata in omaggio a
Salvatore Mazzamuto», che si è svolto nell’Università Roma Tre il 17 e il 18 novembre 2017.
Nella introduzione, si è ricordato che nel convegno palermitano il tema assegnato è stato
«Le tecniche di attuazione dei diritti di credito nei processi di espropriazione forzata» (negli
Atti, Napoli 1989, II, p. 791 ss., nonché in Riv. trim. dir. proc. civ. 1988, p. 123 ss.; il testo,
in lingua inglese, è anche in Italian yearbook of Civil Procedure, Milano 1991, p. 491 ss.).
Un secondo contributo al dibattito ha avuto per oggetto «Il pignoramento di crediti nei
confronti delle pubbliche amministrazioni» (negli Atti, cit., II, p. 967 ss.; gli sviluppi della
legislazione indussero ad aggiungere una postilla: «L’unificazione degli strumenti di realiz-
zazione coattiva dei crediti dello stato e degli altri enti pubblici (primi appunti sul d.p.r. 28
gennaio 1988, n. 43), in Riv. trim. dir. proc. civ. 1988, p. 639 s.). Si è rilevato che il tema che
assegnato riguarda i rapporti tra autorità amministrative indipendenti e giurisdizione e che il
filo rosso che collega l’evento palermitano con romano comprende anche i temi assegnati: la
tutela nei confronti delle pubbliche amministrazioni, debitrici e creditrici.
buite alla giurisdizione del giudice speciale. Sono attribuite alla competen-
za esclusiva del Tribunale amministrativo regionale del Lazio e sono rego-
late dal rito abbreviato di cui all’art. 119 c.p.a.
Anche l’attività della AGCM (http://www.agcm.it/) concorre con la
tutela giurisdizionale.
L’attività della AGCM può far sı̀ che la tutela giurisdizionale assuma
un ruolo residuale.
L’art. 33 l. 10 ottobre 1990, n. 287, aveva attribuito alle corti d’appello
la competenza in materia; il testo novellato prevede la competenza del
tribunale presso il quale è istituita la sezione specializzata in materia di
impresa.
I diritti in materia di concorrenza trovano comunque la sede naturale
della loro tutela innanzi agli organi giurisdizionali.
Sennonché il 7˚ considerando del Reg. CE n. 1/2003, definisce il ruolo
della giurisdizione «complementare rispetto a quello delle autorità garanti
della concorrenza degli Stati membri»; l’art. 16, comma 1˚, dello stesso
Regolamento dispone: «Quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano
su accordi, decisioni e pratiche ai sensi dell’articolo 81 (ora 101) o 82 (ora
102) del trattato che sono già oggetto di una decisione della Commissione,
non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione
adottata dalla Commissione. Esse devono inoltre evitare decisioni in con-
trasto con una decisione contemplata dalla Commissione in procedimenti
da essa avviati. A tal fine le giurisdizioni nazionali possono valutare se sia
necessario o meno sospendere i procedimenti da esse avviati».
In questa specifica materia, la questione dei rapporti con la giurisdi-
zione è oggetto di un particolare attenzione: si rinvia a R. Rordorf, Il ruolo
del giudice e quello dell’Autorità nazionale della Concorrenza e del Mercato
nel risarcimento del danno antitrust, in Società 2014, 784; e a M. Negri,
Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, Torino
2012, 272 ss.
L’art. 7 d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, emanato in attuazione della
Direttiva 2014/104/UE e della legge 9 luglio 2015, n. 114, prevede che
la violazione del diritto della concorrenza «constatata» dall’autorità garan-
te della concorrenza nazionale e divenuta definitiva «si ritiene definitiva-
mente accertata», mentre il sindacato giurisdizionale comporta «la verifica
diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende
anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opi-
nabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della deci-
sione medesima», nonché «il nesso di causalità e l’esistenza del danno».
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quest’ultimo è stata proposta, nel corso della XVI Legislatura, con il d.d.l.
n. 3385.
GIORGIO COSTANTINO
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(1) Le idee qui raccolte si rivolgono ad un lettore professionale, che si suppone ben a
conoscenza della letteratura sul tema e consapevole della problematica affrontata, sicché i
richiami di dottrina sono stati ridotti al minimo per non interferire con il passo volutamente
adottato. Le fonti dell’autore sono presentate nei suoi precedenti lavori, in particolare in B.
Sassani, Variations sérieuses sul riesame della motivazione, in Judicium 1/2017, 121 ss., e in
Studi in onore di Nicola Picardi, Pisa 2016, III; Id., Riflessioni sulla motivazione della
sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, in Corr. giur. 6/2013; Id., voce Corte
di cassazione, in Trattato Omnia, Diritto processuale civile, Torino 2019, nonché Id., La
logica del giudice e la sua scomparsa in cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2012, 639 ss.
Alcune citazioni di dottrina sono però sembrate opportune per meglio contestualizzare
singoli passaggi.
(2) Cahier des doléances antico. Nel vigore del c.p.c. del 1865 già si lamentava lo
scivolamento verso una sorta di terzo grado della Corte (che, in mancanza di norma auto-
rizzatrice, al controllo del momento giustificativo provvedeva in via obliqua con l’artificio
del controllo del c.d. «contenuto-forma»): G. Calogero, La logica del giudice e il suo con-
trollo in cassazione, Padova 1934, passim. Polemiche non sopite con il nuovo codice, bensı̀
alimentate dall’introduzione del n. 5 dell’art. 360 e che avevano condotto, a soli otto anni
dalla entrata in vigore del nuovo c.p.c., alla riscrittura del 1950 (V. Andrioli, Ancora sulla
crisi della Cassazione, in questa Rivista 1952, I, 146).
(3) Sulla Corte, considerando i primi dieci mesi di ciascun anno, si sono abbattuti
44.824 nuovi procedimenti nel 2015, 43.896 nel 2016, 47.863 nel 2017.
(4) Nel 1988 la prima presidenza e la procura generale della Corte elaborano una bozza
di disegno di legge volto a dar la vita a provvedimenti urgenti per la riforma del giudizio di
cassazione (c.d. Bozza Brancaccio-Sgroi). Su di essa v. Cons. Sup. Mag., Risoluzione sulla
bozza Brancaccio-Sgroi di provvedimenti urgenti sul giudizio di cassazione, in Foro it. 1990, V,
263 ss.
(5) Cosa che, peraltro, non va certo nel senso di rafforzare la nomofilachia (anzi!).
(6) SS.UU. civ., sentenza 22.11.1994, n. 9869 (Pres. Brancaccio, Est. A. Finocchiaro,
Foro it. 1995, I, 537, con nota di F. Cipriani, La procura su foglio autonomo tra certificazione
e gli spilli del difensore) stabilirono la inammissibilità del ricorso che conteneva la procura
speciale rilasciata al difensore non nel corpo del documento ma in un foglio separato
«spillato» materialmente al documento ricorso. La sentenza (sofisticamente motivata) fu
seguita da un diluvio di declaratorie di inammissibilità, considerata l’ampia diffusione della
prassi all’epoca. La linea della Corte fu stroncata dalla L. n. 141/1997 provocata dalla rivolta
degli avvocati.
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ruolo della funzione nomofilattica (in senso molto generico, a dire il vero)
della Corte (11) e trova il suo punto qualificante nell’introduzione del c.d.
quesito di diritto. Nella prospettiva di tenere a bada l’abuso del ricorso –
cioè la (comprensibile) propensione dell’avvocato italiano a non farsi inti-
midire dalla «fattualità» delle questioni e delle relative censure – la riforma
del 2006 impone al ricorrente, a pena di inammissibilità (art. 366-bis
c.p.c.), di porre alla Corte un preciso quesito di diritto a completamento
del motivo di ricorso. L’adozione della norma è espressamente invocata
dai vertici dalla Cassazione con l’argomento che con essa verrebbe netta-
mente migliorato il dialogo tra ricorrente e giudicante: il quesito dovrebbe
imporre al primo di chiarire la portata «di legittimità» del motivo proposto
enucleandone in termini sintetici ed espliciti l’effettiva questione di diritto
sottesa; dovrebbe, di converso, sgravare la Corte dal compito (improprio e
faticoso) di recuperare, da inestricabili miscugli di fatto e diritto, lo spe-
cifico profilo di legittimità in gioco.
Quel che accade nel triennio successivo è storia. Con un accanimento
di rara capziosità, in un clima di ambiguo formalismo e nella compiaciuta
indifferenza dei vertici, il quesito si trasforma rapidamente in una trappola
per il ricorrente: l’inammissibilità per «uso improprio» del quesito viene
usata in maniera cosı̀ massiccia da fondare il sospetto che la Corte abbia
finalmente reperito il mezzo ideale per deflazionare il contenzioso. La
situazione è tale da far paradossalmente rimpiangere la trovata della pro-
cura spillata: irrazionalità per irrazionalità, almeno lı̀ la fattispecie di inam-
missibilità era chiara, univoca (e quindi prevedibile) mentre nel caso del
quesito è praticamente impossibile rappresentarsi se la sua concreta for-
mulazione rientri o meno nelle capricciose, nebulosissime prescrizioni che
la Corte va dettando negli anni successivi alla riforma del 2006 (12). La
(11) Art. 363 c.p.c.: viene aggiunto un comma che dà alla Corte il potere di accogli-
mento nell’interesse della legge in ipotesi di ricorso dichiarato inammissibile (la possibilità
sarà ampiamente impiegata negli anni successivi); art. 374 c.p.c.: la possibilità della sezione
semplice di distaccarsi dal precedente delle Sezioni Unite viene regolata nel senso della
rimessione obbligatoria della questione alle stesse Sezioni Unite.
(12) L’interpretazione data alla norma sul quesito (art. 366-bis c.p.c.) è l’ingresso
trionfale della inammissibilità «a fattispecie aperta», cioè dell’assoluto arbitrio della Corte
di dichiarare ammissibile o meno il ricorso sulla base di una mera opinione sulla satisfatti-
vità del quesito. Su questo e sugli altri aspetti dell’atteggiamento meramente deflazionistico
della Corte nel tragico periodo di funzionamento del quesito (per es. l’obbligatorietà del
quesito nel regolamento di competenza, il fantasioso «omologo del quesito» da accoppiarsi
al motivo del n. 5 vecchia versione, la declaratoria di inammissibilità del ricorso per insati-
sfattività del quesito seguita da accoglimento nell’interesse della legge, ecc.) v. B. Sassani,
Corte Suprema e quesito di diritto: alla ricerca del senno perduto, in www.judicium.it 2011.
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reazione della classe forense è stavolta corale e (proprio come nel caso
della procura spillata) conduce ad un intervento legislativo (L. n. 69/2009)
che abroga seccamente l’art. 366-bis c.p.c. Il tentativo di razionalizzazione
del sistema è fallito ma ha rafforzato la sfiducia nella Corte inoculata dallo
shock della «procura spillata»: il quesito si rivela la sperimentazione di una
inammissibilità a buon mercato che diverrà di lı̀ in poi la chiave di volta
dell’atteggiamento della Corte. L’illusione di una strada condivisa è defi-
nitivamente perduta: da allora in poi la Corte si muoverà in maniera di
scrivere e dettare a se stessa le proprie regole incurante di ogni voce critica
proveniente dal suo esterno.
Dall’idea che il D.Lgs. n. 40/2006 consacri l’equazione «cassazione =
nomofilachia», la Corte ha ricavato ormai l’auto investitura a comprimere
e ristrutturare gli spazi del giudizio affidatole. Al fallimento del «quesito»
succede cosı̀ l’idea salvifica di un «filtro» all’accesso. Un primo tentativo –
giunto fino alle soglie dell’approvazione parlamentare – di introdurre filtri
forti, cioè sbarramenti idonei a comprimere significativamente l’accesso,
viene sventato in extremis (13). Con l’aggiunta di un-bis all’art. 360 c.p.c.,
nel luglio 2009 vengono infatti introdotte due nuove fattispecie di inam-
missibilità del ricorso con funzione di filtri. Si tratta però di filtri deboli.
Ne è conferma il fatto che non scoraggiano nessuno dei potenziali ricor-
renti che, anzi, crescono di numero negli anni immediatamente successivi.
La L. n. 69/2009 (14) sarà tuttavia l’ultima legge «bilanciata», cioè non un
monologo della Corte bensı̀ il frutto di un ponderato confronto tra gli
interessi che si incrociano e le voci che li rappresentano. Di lı̀ in poi infatti
la Corte prenderà in mano il proprio destino ottenendo dal potere esecu-
tivo e da un distratto Parlamento, per ben due volte, la facoltà di confe-
zionarsi su misura l’abito da indossare.
(15) Il decreto è una dichiarazione di guerra al sistema delle impugnazioni viste ormai
come un lusso che il c.d. «sistema giustizia» non può più permettersi. Emergono mostruo-
sità come l’art. 348-bis, l’impugnazione diretta in cassazione della sentenza il cui appello è
stato dichiarato inammissibile e il freno della c.d. «doppia conforme».
(16) Vedi, per un inserimento della norma nel tema più generale dell’affievolimento
della stessa esigenza di motivazione della sentenza, B. Capponi, L’omesso esame del n. 5)
dell’art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, in www.judicium.it.
(17) Finalmente, sembrano dire le Sezioni Unite, avevamo ragione noi! L’unificazione
della disciplina del ricorso ordinario e del ricorso straordinario operato dall’ultimo comma
dell’art. 360 c.p.c. (aggiunto dal d. lgs. n. 40/2006) oggi si realizza all’inverso perché è il
ricorso ordinario a restringersi alla violazione di legge.
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(18) B. Sassani, Variations sérieuses sul riesame della motivazione, cit., spec. § 4.
(19) Sul nuovo testo del n. 5 v. B. Sassani, op.ult. cit., § 5 s.
(20) V. ancora B. Sassani, op.ult. cit., § 4 s.
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anche il défaut de base légale che altro non è che la dubbia riconducibilità
della conclusione alle sue premesse. Non è altro, cioè, che la deprecata
insufficienza della motivazione: il défaut de base legale «empêche les juges
du fond de faire obstacle au contrôle de Cour de cassation en dissimulant une
illégalité derrière un silence ou une ambiguité» (21).
Stesso a dirsi per la sintesi dell’insieme degli errori di diritto nella
formula unitaria e onnicomprensiva della ZPO tedesca (§ 549) che parla
semplicemente di «violazione del diritto federale». Il § 550 specifica che «la
legge è violata se una norma di diritto non è stata applicata o non è stata
applicata correttamente» ma si ritiene pacificamente che nella Gesetzes-
verletzung rientrino le violazioni delle leggi della logica e, più in generale,
del corretto ragionare (Denkgesetze), delle massime di esperienza (Erfah-
rungssätze), delle valutazioni discrezionali (Ermessen), dei concetti giuridici
indeterminati (unbestimmte Rechtsbegriffe) ferma restando l’esclusione del
diretto accertamento dei fatti riservato al giudice del merito (ma, ovvia-
mente, non le Einschränkungsregeln di tale accertamento).
La dottrina processualistica prevalente ha accolto negativamente la
riscrittura dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (22) ma si è mantenuta in un ambito
di critica controllata che induce molti a sminuire la portata rivoluzionaria
della modifica (23). Autorevolissima dottrina peraltro stima meno rilevante
di quanto sembri a prima vista la modifica (24): essa tende a minimizzarne
la portata sulla base di argomenti che, rifacendosi alla lunga esperienza del
(21) J. Boré, L. Boré, La cassation en matière civile, Paris 2015, 78.06. Esso è cosı̀
indispensabile che se non esistesse, bisognerebbe inventarselo. Se la inventò infatti la Corte
di cassazione delle origini. Per la precisione: Cour de cassation, Chambre civile 26 ottobre
1808. Decidendo di un litigio relativo a diritti feudali, la Corte cassò una sentenza da cui
non risultava con sufficiente chiarezza se gli abitanti del luogo avessero rivestito effettiva-
mente lo stato di vassalli, sicché nell’incertezza del punto di fatto, non si capiva bene se
dovesse essere applicato alla causa l’art. 8 della legge del 28 agosto 1792 (si noterà che, a
voler rispettare le prescrizioni di Cass. S.U. nn. 5083 e 5484/2014 la Cour de cassation in
questo caso non sarebbe potuta intervenire, trattandosi di una semplice insufficienza dalla
motivazione!). Si appropriarono in qualche modo di questo tipo di controllo le Corti di
cassazione italiane pur in difetto di previsioni legislative, nella coscienza che, senza di esso, si
può parlare di applicazione della legge solo in un senso accademico.
(22) Vedine un ampio elenco in B. Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e
sulla sua (in)controllabilità in cassazione, cit. par. 1.
(23) Fa eccezione R. Vaccarella, Corte suprema, precedente e rottamazione dei ricorsi
(Intervento al Convegno «I precedenti», Roma Accademia dei Lincei, 6 luglio 2017), in
Judicium 3/2017.
(24) F.P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano 2017, II, § 41.11. Naturalmente le
ragioni esposte da Luiso non potranno mai cancellarsi perché la cultura storica della Corte
resta materiata di esse malgrado tutte le presenti storture. Sul tema, con riferimento all’am-
bigua esperienza susseguente alla esclusione, da parte delle SS.UU., del n. 5 art. 360 c.p.c.
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quale motivo di ricorso straordinario, v. B. Sassani, Variations sérieuses sul riesame, cit.,
par. 3.
(25) Cioè della stessa Corte fattasi legislatore di se stessa, nell’occasione.
(26) La scure è stata ben affilata e le intenzioni decifrabili non sono certo a favore della
ragionevole riconduzione alla falsa applicazione della mancata o difettosa giustificazione
dell’applicazione della norma al fatto. Che la riscrittura del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sia stata
pensata in chiave seccamente deflazionistica è evidente: per la sua collocazione all’interno di
provvedimenti che manifestano la più palese ostilità verso il tradizionale sistema delle
impugnazioni.
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vuol spesso dire scelta tra le opzioni possibili: senza considerazione del
fatto, come mediato dal giudizio, non è possibile giudicare del rispetto
della legge, e, per conseguenza, non è neppure possibile svolgere una
funzione lato sensu nomofilattica. La collaudata tecnica del controllo indi-
retto della violazione di legge, raffinato strumento delle moderne Corti
Supreme, sembra destinata ad applicazioni sporadiche e capricciose, se
non ad atrofizzarsi.
che ci sono cose che possono comunicarsi solo attraverso i segnali diretti
della presenza fisica. Tanto più che il messaggio prevalso è quello della
opportunità della pronta risposta attraverso il c.d. screening del ricorso,
vale a dire il suo esame veloce propedeutico ad una altrettanto veloce
risposta. La pressione verso questo modello di comportamento ha dilatato
(inevitabilmente) la possibilità dell’esonero dalla risposta sotto pretesto
della improprietà della domanda e l’affievolirsi (inevitabile) dell’obbligo
di diligenza commisurata ad una prestazione dell’altezza del giudicare al
vertice. Questo deriva dall’impulso a motivare «al minimo» che porta
(inevitabilmente) alla ricerca della soluzione più agevole da giustificare a
scapito del rigore logico-giuridico che richiede risorse di tempo, attenzione
ed energia sempre più labili.
La chiusura del cerchio è rappresentata dall’umiliazione del contrad-
dittorio che consegue alla rigida esclusione degli avvocati da quello che
ormai è il procedimento fisiologico della fase decisoria del ricorso. In
precedenza, grazie al progetto di sentenza costituito dalla Relazione alle-
gata all’avviso di camera di consiglio, l’avvocato era da un lato in grado di
focalizzare le sue repliche, dall’altro di chiedere di essere ammesso alla
discussione orale se la riteneva necessaria. Malgrado l’identità di nome, la
nuova camera di consiglio, degradata la vecchia Relazione ad una più o
meno immotivata Proposta (crocetta su prestampato), non dà luogo ad
alcun incontro tra parti e giudice costituendo una semplice decisione in
camera atque in absentia (30). Si obietterà che questo non è vero per la
«camera ordinaria» (quella cioè degli artt. 375 c. 2 e 380-bis c.p.c., non
intesa a pronunciare inammissibilità e manifeste infondatezze/fondatezze)
che dà la possibilità delle parti di replicare per iscritto alle conclusioni
scritte del pubblico ministero. Ma le cose non funzionano meglio all’atto
pratico: le conclusioni del p.m. possono ben mancare (finora sono mancate
nella grande maggioranza dei casi) e il vulnus al contraddittorio è tangibile
nel fatto che il controricorrente (la cui memoria può al massimo parafra-
sare quanto già detto in controricorso) non ha alcuna possibilità di repli-
care alla memoria con cui ricorrente argomenta per la prima volta nei
confronti del suo controricorso. Il controricorrente è, in questo caso,
«parte silenziata» con buona pace del principio di parità delle armi. Giusto
processo à la carte, come si vede, con le beffe delle (ormai molte) ordi-
nanze che chiariscono che l’eliminazione della presenza fisica dell’avvocato
dal giudizio di cassazione non viola l’art. 6 Cedu perché l’oralità è garantita
negli altri gradi del processo. No comment.
(31) L’onere di sommaria esposizione dei fatti di causa, posto quale requisito di forma-
contenuto del ricorso previsto a pena di inammissibilità dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. è
stato elevato a «principio» e riempito dei contenuti più vari quanto alla sua soddisfazione.
Gli equivoci più smaccati prodotti da questo pseudo-principio inducono attualmente molte
decisioni a puntare su un (non meno nebuloso) «principio di specificità».
(32) E che diede luogo – su richiesta della stessa Corte di cassazione – all’inserzione del
n. 6 dell’art. 366 da parte del D.Lgs. n. 40/2006: B. Sassani, Il nuovo giudizio di cassazione,
in questa Rivista 2006, § 8.
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(33) Come la poco comprensibile vicenda della improcedibilità del ricorso in mancanza
di deposito nel termine dell’art. 369 c.p.c. della copia notificata della sentenza impugnata (o
comunque della relazione di notifica) malgrado il suo deposito da parte del controricorrente
o comunque la sua presenza agli atti, soluzione parzialmente corretta da Cass. S.U. 02/05/
2017, n. 10648; ovvero, la quasi surreale vicenda della improcedibilità del ricorso in difetto
di attestazione di conformità della copia analogica della sentenza notificata con modalità
telematiche, stortura giustificata con esigenze di «ordine processuale» e corretta (seppur
timidamente) da Cass. S. U. 24 settembre 2018, n. 22438. Ma la propensione al formalismo
più spinto (ed irrelato rispetto ai problemi effettivi della tutela) mantiene tutta la sua energia
ed i quesiti meno giustificati continuano a fioccare: v. la rimessione alle S.U. da parte della
sez. VI, 09/11/2018, n. 28844.
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indubbio che il riscontro di una violazione dell’art. 112 c.p.c. da parte del
giudice d’appello obbliga questo a decidere nel merito, la questione si
presenta decisamente più delicata in cassazione perché resta da appurare
innanzitutto se al giudice di legittimità sia consentito di pronunciarsi per la
prima volta su questioni mai decise in sede di merito. A favore della
risposta positiva potrebbe non bastare addurre la superfluità di «ulteriori»
accertamenti di fatto perché accertamenti del genere potrebbero non es-
servi mai stati, sicché si può ragionevolmente dubitare che il compito di
giudicare in prima battuta sia stato affidato alla Corte. Potrebbe talora
essere ragionevole che questo accada, ma, dipendendo molto (troppo)
dalle circostanze avveratesi, non se ne può fare una regola. E anche quan-
do sono fuori gioco accertamenti di fatto, il giudizio emanando dalla Corte
di legittimità su questione vergine potrebbe aver natura di libera valuta-
zione del giudice di merito, o comunque esprimere, se non una discrezio-
nalità, una legittima indeterminazione della soluzione trasudante «merito»
e spettante (come tale) al giudice di merito.
Queste perplessità valgono anche (a fortiori) per le questioni ritual-
mente assorbite; e neppure si può escludere che il problema possa talora
porsi anche per la cassazione in accoglimento dell’attuale n. 5 dell’art. 360
c.p.c. (anche essa una omissione di giudizio che richiede un nuovo giudi-
zio). L’incertezza del trattamento delle questioni non decise produce tra-
giche incertezze in capo al ricorrente. Questi sapeva un tempo che, in
ipotesi di cassazione della sentenza, del merito di tali questioni si sarebbe
occupato il giudice del rinvio, e non si curava pertanto di affrontarle prima
di una cassazione della sentenza eventuale ed incerta. Poiché però, com-
plice la disinvolta diffusione della formula «ragionevole durata del proces-
so» impiegata a mo’ di mantra dalla Corte, si assiste sempre più spesso a
decisioni nel merito di questioni mai decise in precedenza, la confezione
del ricorso ne resta problematicamente condizionata. Cassata la sentenza
sul presupposto dell’errore nell’impiego di un certo criterio di computo
del danno piuttosto che di un altro, pronuncerà la Corte la relativa con-
danna o rimetterà al rinvio? Cassata la sentenza sul presupposto dell’errore
nella individuazione del tipo di prescrizione, pronuncerà la Corte anche
sull’eccezione di interruzione dedotta (ed eventualmente anche oggetto di
prova ma) mai decisa in precedenza perché resa irrilevante dalla tipologia
di prescrizione applicata? Qui il fatto è agli atti ma ha la Corte il potere di
«giudicare» in fatto? Il ricorrente può solo consultare la sfera di cristallo.
Ragionevolezza e giustizia vorrebbero che questi problemi fossero
innanzitutto problemi della Corte che, una volta autoinvestitasi del potere
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soddisfatto dalla sezione lavoro della unica Corte italiana. Insomma, i conti
non tornano!
La guerra intrapresa all’accesso in nome delle «altre Corti» mostra di
tralasciare storia, esperienza, contesto. Non ha allora senso esorcizzare
l’eccesso di contenzioso ignorando le esigenze che lo alimentano, immagi-
nando cioè che la soluzione sia l’incremento esponenziale delle inammis-
sibilità o dei rigetti. Il contenzioso infatti non tocca la Corte in maniera
differente da come tocca l’apparato giudiziario nel suo complesso, ed è
arbitraria la pretesa di distinguersi dal resto della macchina come se la
purezza della propria funzione non consentisse di sporcarsi le mani come i
giudici del merito. Il giudizio di cassazione è infatti solo il riflesso in vertice
di un sistema globale di mediocrissima gestione di un contenzioso ingente
ma non per questo ingiustificato. Il ricorso ai Tribunali è in verità alimen-
tato da robuste ragioni economico-sociali, prima tra tutte l’endemica, di-
sinvolta disapplicazione della legge a proprio favore da parte della mag-
gioranza dei consociati. La piazza d’onore spetta alla pubblica ammini-
strazione, quella pubblica amministrazione che detiene la medaglia di
debitore inadempiente par excellence e, conseguentemente, di ospite usua-
le delle aule di giustizia. Seguono poi gli inadempimenti quotidiani dei
privati nei loro rapporti civili e commerciali, l’evasione fiscale e contribu-
tiva (che si specchia nella prepotente insensibilità degli organi e nella
farraginosità delle procedure fiscali), la cronica violazione delle norme
edilizie, delle norme sul lavoro, eccetera. Ancora in maniera massiccia
contribuisce la moltiplicazione di obblighi e adempimenti causata dalla
proliferazione normativa, favorita a sua volta dalla moltiplicazione delle
fonti interne ed esterne con conseguente contenzioso da complicazione
ricognitiva e incertezza applicativa. Esercita infine peso crescente l’aumen-
to ininterrotto dei diritti e corrispondenti tutele in cui si nobilitano inte-
ressi ed esigenze in precedenza non giuridificati o non dotati di sufficiente
protezione.
(34) Salve eccezioni quali la materia del danno, materia in cui la Corte si è distinta nella
volontà di impartire dottrina o addirittura farsi fonte di «metadottrina».
(35) V. in proposito R. Pardolesi, B. Sassani, Motivazione, autorevolezza interpretativa e
«trattato giudiziario», in Foro it. 2016, V, 299 ss.
(36) Sui connessi fenomeni del «precedente occulto», della crescita dell’oscurità perdi-
ta, e della perdita di chiarezza del concetto di principio di diritto R. Pardolesi, B. Sassani, op.
cit., parr. 3 ss.
(37) Gli equivoci del «precedente all’italiana» postulato dalla giurisprudenza di legitti-
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che produce quel tipo e quel numero di atti di citazioni, quel tipo e quel
numero di difese, quel numero e quel tipo di sentenze. Tanto più che alla
base del ricorso alla Suprema sta sempre lo stesso sentimento, cioè il
sentimento dell’ingiustizia, sentimento che non muta per il fatto che se
ne faccia (spesso) interprete l’avvocato poco avvezzo al giudizio di legitti-
mità ovvero (solo talvolta) il suo più raffinato cultore. La differenza sta
solo nei maggiori mezzi professionali con cui quest’ultimo traduce effica-
cemente l’ingiustizia sentita nei motivi dell’art. 360, ma non è plausibile
immaginarsi che chi sperimenta in prima persona il sentimento dell’ingiu-
stizia rinunci a chieder giustizia al giudice che più di tutti in passato ha
meritato fiducia e che dovrebbe continuare a meritarla (a venir frenato,
semmai, è il ricorso dello specialista, molto meno disposto a subire inam-
missibilità e più preoccupato di non mettere il piede in fallo, non certo il
ricorso di chi non ha un nome da difendere).
La riscrittura che la Corte stessa ha fatto del procedimento decisorio
mira a soddisfare l’ideale della Corte di smaltire all’ingrosso la generica
domanda di giustizia che viene dal basso per riservare una trattazione
accurata a quanto meritevole del suo intervento, non ha alcun fondamento
costituzionale o di sistema, alcun fondamento storico, alcun fondamento
razionale. Non normativo perché le funzioni «regolatorie e prospettiche»
attribuite alla Corte dall’art. 65 ord. giud. (e che vanno, più o meno
correttamente, sotto lo sgraziato appellativo di nomofilachia) sono com-
plementari rispetto alla funzione primaria della Corte di garantire il prin-
cipio di legalità reprimendo le violazioni dell’ordinamento e stabilendo
comunque per le parti il «diritto del fatto» (con il solo rispetto del «libero
convincimento» del giudice di merito). Non storico, perché l’idea di Corte
emergente non solo sconfessa la sua caratteristica di originale e positiva
evoluzione del prototipo francese, ma smentisce altresı̀ la lettura (auto-
nomamente assunta e ampliata nel tempo) dell’art. 111 cost. quale baluar-
do dei concreti diritti individuali e non quale astratta garanzia di sistema.
Non razionale, infine, perché non si capisce da dove la Corte – fattasi oggi
sostanzialmente legislatore di sé stessa – tragga il diritto di tirarsi elegan-
temente fuori da un sistema giudicato poco virtuoso, cosı̀ giustificando la
definitiva sfiducia dei consociati. La fiducia nel giudice è, alla fine, la vera
vittima della «fuga dal giudizio», la fuga in cui si risolvono sommarizza-
zione e meccanizzazione della procedura, la fuga verso l’illusione di attin-
gere lo status anomalo di fonte del diritto propria di Corti Supreme cul-
turalmente, socialmente e storicamente lontane dall’esperienza italiana.
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BRUNO SASSANI
(38) Consiglio Nazionale Forense in testa, che sembra ritenersi pago di aver strappato
alla Prima Presidenza della Corte il Protocollo 15 dicembre 2016 che, definito «frutto della
volontà comune di costruire un’interpretazione il più possibile condivisa di alcuni snodi
problematici della riforma del processo civile di cassazione», accetta lo stato di fatto e lascia
le cose come stanno, rimettendo in ultima analisi alla Corte il potere unilaterale di dare il
valore che vuole al Protocollo.
(39) Toni adeguati alla gravità del problema, sono stati usati finora (fatti salvi alcuni
profetici sarcasmi di Edoardo Ricci) nei soli contributi critici di Giovanni Verde e di
Romano Vaccarella. Del primo, a titolo di esempio, si vedano: In difesa dello ius litigatoris
(sulla Cassazione come è e come si vorrebbe che fosse), in questa Rivista 2008, 1 ss. e in Il
difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli 2012, 11 ss.; Mutamento di giurisprudenza e
affidamento incolpevole, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.ju-
dicium.it 2012, par. 9, e in Il difficile rapporto, cit., 93 ss.; Discorrendo con B. Sassani di S.U.
n. 2312/2012, in www.judicium.it 2012. Di Vaccarella, a titolo di esempio, si vedano: Il
processo civile sotto l’incubo della sua ragionevole durata, in Il processo 2018, 19 ss.; Corte
suprema, precedente e rottamazione dei ricorsi, cit.; Introduzione, in F. P. Luiso, R. Vacca-
rella, Le impugnazioni civili, Torino 2013, XIX ss.
Si aggiunga, da ultimo, A. Panzarola, Presente e passato della Cassazione civile ita-liana
fra nomofilachia e giustizia del caso concreto (in Il processo 2018, 79 ss.) che, ripercorsa la
storia della Cassazione cosı̀ conclude: «... seguitiamo a chiamare ‘Cassazione’ una magistra-
tura suprema che esibisce caratteristiche del tutto distinte dal modello che pure continua a darle
nome» (p. 169).
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SOMMARIO: 1. La nomofilachia quale fonte del diritto vivente. – 2. L’iniziativa del Procura-
tore generale e quella officiosa della Cassazione. – 3. Natura e funzione del giudizio. –
4. I caratteri del procedimento come delineati dalla giurisprudenza. – 5. I presupposti
legati alla mancata proposizione del ricorso nei termini di legge, alla sua rinuncia, alla
non ricorribilità e non impugnabilità del provvedimento del giudice del merito. – 6. Il
presupposto dell’esistenza di un provvedimento errato del giudice del merito. – 7.
Considerazioni conclusive.
(5) Al diritto vivente inteso come insieme di principi costanti elaborati dalla giurispru-
denza cui in particolare il ricorrente in cassazione è tenuto a uniformarsi ha fatto di recente
particolare applicazione Cass. 22 febbraio 2016, n. 3376, per la quale «proporre ricorsi per
cassazione dai contenuti cosı̀ distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai
precetti del codice di rito come costantemente e pacificamente interpretati dalle Sezioni
Unite, costituisce di per sé un indice della colpa grave del ricorrente», sanzionabile ai sensi
dell’art. 96, c. 4, c.p.c. Ed è il giudice della nomofilachia che costituisce «il principale
formante del diritto vivente», in questo senso Corte Cost. 11 febbraio 2015, n. 11. La
centralità del diritto vivente è poi rimarcata dalla circostanza che solo in sua assenza il
giudice è tenuto a verificare la possibilità di effettuare una interpretazione costituzionaliz-
zante di una norma di legge prima di sollevare incidente di costituzionalità. Al contrario «in
presenza di una interpretazione del dato normativo consolidatasi … in termini di diritto
vivente, quel giudice ha facoltà di uniformarvisi o meno, restando quindi libero nel secondo
caso, di assumere proprio quel diritto vivente ad oggetto delle proprie censure», cosı̀ Corte
Cost. 11 febbraio 2015, n. 11.
(6) A. Graziosi, Riflessioni in ordine sparso sulla riforma del giudizio in Cassazione, Riv.
trim. dir e proc. civ. 2010, p. 37 e s.
(7) Vanno in proposito ricordate le iniziative degli Osservatori sulla giustizia civile,
organismi questi ultimi che operano sul territorio nazionale con meccanismi di reciproco
coordinamento e i cui lavori si trovano sintetizzati sul già richiamato sito dell’Osservatorio
sulla giustizia civile di Milano, reperibile all’indirizzo http://milanosservatorio.it/. Va poi
menzionata l’iniziativa del Dialogo sulla giustizia civile, frutto della collaborazione tra la
Formazione decentrata della Corte di cassazione e i docenti di diritto processuale civile
dell’Università di Roma 3, su cui cfr. G. Costantino, Note sul ricorso per cassazione nell’in-
teresse della legge, in Riv. dir. proc. 2017, p. 712 s.
(8) L’iniziativa della Procura generale presso la Cassazione, preannunciata da P. Cic-
colo, Dialogo aperto sulla richiesta di enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363
c.p.c. cit., si sostanzia, tra l’altro, nell’organizzazione di incontri di studio, tra cui quello
richiamato in nota 1, tra tutte le corti di appello del Paese, con la finalità di conoscenza e
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implementazione dell’istituto di cui all’art. 363 c.p.c., al fine della raccolta e individuazione
delle questioni meritevoli di attenzione nomofilattica della S.C. Per ulteriore approfondi-
mento delle iniziative della Procura generale e in particolare dei ricorsi presentati nell’inte-
resse della legge cfr. il sito della Procura stessa all’indirizzo, http://www.procuracassazione.
it/procura-generale/it/art363.page.
(9) Si veda da ultimo E. Odorisio, Il principio di diritto nell’interesse della legge, Torino
2018 e l’ampia letteratura anche recente ivi analizzata.
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(10) Cfr. E. Odorisio, Il principio di diritto cit., p. 124 s., testo e note. L’idea portata
avanti dalla Commissione Vaccarella era per altro bivalente, in quanto si pensava che
l’iniziativa della Procura generale dovesse concorrere con un diverso meccanismo, capace
di funzionare a istanza della parte soccombente.
(11) Sulla evoluzione normativa che ha portato la norma dall’iniziale richiesta che la
questione fosse «di interesse generale» a quella che sia «di particolare importanza», cfr. E.
Odorisio, Il principio di diritto cit., p. 131 s.
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(16) La Corte risponde anche all’obiezione di parte della dottrina che, dopo l’entrata in
vigore della norma, aveva rilevato che, trattandosi a volte di provvedimenti di merito
revocabili o modificabili, le parti potrebbero avere un interesse alla partecipazione al pro-
cedimento. Si tratterebbe infatti, pur sempre, secondo la Corte di legittimità, di un interesse
astratto e non attuale, estraneo quindi alla sfera dell’art. 100 c.p.c.
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(17) Si tratta del principio di diritto per cui «Il decreto di idoneità all’adozione inter-
nazionale pronunciato dal Tribunale per i minorenni ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 30
e succ. modif. non può essere emesso sulla base di riferimenti alla etnia dei minori adot-
tandi, né può contenere indicazioni in relazione a tale etnia. Ove tali discriminazioni siano
espresse dalla coppia di richiedenti, esse vanno apprezzate dal giudice del merito nel quadro
della valutazione della idoneità degli stessi all’adozione internazionale».
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(18) La richiesta era che la Corte chiarisse che «A: in assenza del presupposto dell’ur-
genza, la consulenza tecnica preventiva, avente per oggetto diritti disponibili, non può essere
disposta senza l’esplicito consenso dei soggetti nei cui confronti s’intenda avviare il proce-
dimento, qualora il procedimento comporti l’invasione della loro sfera di libertà, patrimo-
niale o personale; B: in assenza del presupposto dell’urgenza, la consulenza tecnica preven-
tiva non invasiva, avente per oggetto diritti disponibili, può essere disposta senza limiti
anche senza l’esplicito consenso dei soggetti nei cui confronti si intenda avviare il procedi-
mento».
(19) La Corte rileva inoltre che nel caso concreto la consulenza era stata richiesta dalla
stessa parte sulla quale doveva essere eseguita, con esclusione quindi della possibilità di
apprezzabili invasioni della sfera personale o patrimoniale della ricorrente.
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(20) Si chiedeva l’emanazione di un principio di diritto che dichiarasse che «il giornale
pubblicato, in via esclusiva o non, con mezzo telematico è funzionalmente assimilabile a
quello in formato cartaceo, e rientra nella nozione di ‘stampa’ di cui alla L. 8 febbraio 1948,
n. 47, art. 1; pertanto, esso non può essere oggetto di provvedimento cautelare inibitorio,
con modalità sostanziali di sequestro, nel caso in cui venga dedotto il contenuto diffamatorio
di notizie ivi pubblicate, in quanto si tratta di prodotto editoriale sottoposto alla normativa
di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l’attività di informazione pro-
fessionale diretta al pubblico, ferma restando la tutela concorrente prevista in tema di
protezione dei dati personali».
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(21) I presupposti stessi erano già ben delineati nella richiesta del Procuratore generale
che si può leggere sul sito della Procura generale presso la Corte di Cassazione richiamato in
nota 8. Il Procuratore richiedente aveva infatti sottolineato con riferimento al caso di specie
che: (i) il ricorso straordinario per cassazione non era proponibile avverso il diniego di
provvedimento d’urgenza richiesto ai sensi dell’art. 700 c.p.c., perché detto provvedimento
difetta di definitività e decisorietà ed è destinato a perdere efficacia a seguito della pronuncia
della sentenza definitiva di merito, sicché non può incidere su situazioni sostanziali con
efficacia di giudicato; (ii) sussisteva un oggettivo interesse all’enunciazione di un principio di
diritto sulla questione e ciò sia in considerazione del contrasto sussistente tra giudici di
merito, sia in relazione alla rilevanza generale della questione per la molteplicità dei casi in
cui viene in rilievo e alla rilevanza sociale del tema; (iii) vi era una diretta relazione con un
caso concreto in cui due giudici avevano deciso in modo difforme la stessa questione.
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principio di diritto di cui all’art. 363 c.p.c. Nel vigore della nuova norma-
tiva la Corte, una volta verificati i presupposti processuali suddetti, può
infatti liberamente decidere se addivenire o meno alla pronuncia di un
principio di diritto nell’interesse della legge (22), guidata da parametri
discrezionali. Ovviamente ciò non significa però arbitrarietà, in quanto si
tratta pur sempre di questioni collegate a una situazione di grave e non
altrimenti eliminabile conflitto tra i giudici, oppure a materie di grande
impatto o rilevanza per le ricadute di ordine sociale o economico alle stesse
connesse (23). La Corte dovrà quindi esercitare la propria funzione di
nomofilachia pura guidata da sapiente discrezionalità, che prescinde anche
dal vincolo del rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pro-
nunciato, potendo quindi spaziare, ove accolga la richiesta, anche oltre i
limiti della domanda formulata dalla Procura generale (24).
Successivamente è ancora di rilievo la pronuncia della Cassazione a
Sezioni Unite 25 gennaio 2017, n. 1946, ove l’enunciazione del principio di
diritto è nuovamente richiesta su questione ritenuta di particolare impor-
tanza in relazione al parto anonimo e alla ricerca delle proprie origini da
parte dell’adottato e quindi su temi relativi a diritti indisponibili. In questo
caso la richiesta di intervento della Procura generale proviene dal Presi-
dente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la
famiglia in relazione a una giurisprudenza di merito contrastante, riguar-
(22) Rileva la Corte che in questo modo le è stato conferito, probabilmente per la prima
volta, un potere pari a quello di cui godono le Corti supreme di altri ordinamenti, benché
informati ad altre tradizioni giuridiche, quello appunto di decidere discrezionalmente circa
l’emanazione del richiesto principio di diritto.
(23) Cosı̀ la motivazione della sentenza in esame ai punti 23-24, per la quale, ulterior-
mente, ciò avviene secondo parametri che sfuggono alle ordinarie regole del sillogismo
giuridico e coinvolgono invece considerazioni sistematiche assai ampie e non predetermi-
nabili.
(24) L’esame della questione porta poi la Corte, dopo ampia disamina in relazione alla
legge sulla stampa, a enunciare il seguente principio di diritto «La tutela costituzionale
assicurata dal terzo comma dell’art. 21 Cost. alla stampa si applica al giornale o al periodico
pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi
tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo e quindi sia
caratterizzato da una testata, diffuso o aggiornato con regolarità, organizzato in una strut-
tura con un direttore responsabile, una redazione ed un editore registrato presso il registro
degli operatori della comunicazione, finalizzata all’attività professionale di informazione
diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di
informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati. Pertanto, nel caso in cui sia
dedotto il contenuto diffamatorio di notizie ivi pubblicate, il giornale pubblicato, in via
esclusiva o meno, con mezzo telematico non può essere oggetto, in tutto o in parte, di
provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che
ne impedisca o limiti la diffusione, ferma restando la tutela eventualmente concorrente
prevista in tema di protezione dei dati personali».
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(25) Disorientamento conseguente alla pronuncia della Consulta 278 del 2013, che ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, c. 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184,
come sostituito dall’art. 177, c. 2, d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, nella parte in cui non
prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riserva-
tezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato al momento
della nascita di non voler essere nominata. Il punto di contrasto era l’esistenza o meno di
una riserva di legge in ordine alle modalità di nuovo interpello della madre.
(26) La Corte d’Appello di Milano aveva aderito infatti all’orientamento che riteneva
necessario attendere un intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio di
interpello della propria madre naturale circa la persistenza della sua volontà di mantenere
l’anonimato, rigettando quindi il reclamo avverso il precedente provvedimento dello stesso
Tribunale.
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la persistenza della volontà della madre di non essere nominata» sia, an-
cora «perché il tema – che investe valori costituzionali di primario rilievo
reciprocamente connessi nei modi di concretizzazione – presenta un’og-
gettiva rilevanza generale, anche per le implicazioni relative al ruolo di
garanzia che la giurisdizione comune è chiamata a svolgere nel dare segui-
to, nella decisione dei casi concreti, alla pronuncia di incostituzionalità, in
difetto dell’intervento di regolamentazione legislativa» (27).
Infine, vale ancora richiamare la pronuncia della Cassazione a Sezioni
Unite 20 settembre 2017, n. 21854, che, su una complessa tematica rela-
tiva alla sospensione dei termini in favore dei soggetti vittime di richieste
di estorsione e di usura, a fronte di due provvedimenti contrastanti ema-
nati dal giudice dell’esecuzione in relazione alle modalità di applicazione
della sospensione con riguardo al processo di esecuzione forzata, ha inve-
stito la Corte di una richiesta di quesito di diritto molto articolata (28).
La sentenza torna sul presupposto che lega la richiesta della Procura
generale alla circostanza che le parti non abbiano proposto ricorso nei
termini di legge o vi abbiano rinunciato, ovvero che il provvedimento
non sia ricorribile per cassazione e non sia altrimenti impugnabile. Ad
(27) Cosı̀ al punto 4 della motivazione in diritto. La Corte, anche sulla base dell’esame
delle disposizioni comunitarie, ha poi concluso la propria analisi enunciando il seguente
principio di diritto: «In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte
costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disci-
plina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio
desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di
interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di
una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal
quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assi-
curare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo re-
stando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale
per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di
svelare la propria identità».
(28) Questo il quesito la cui enunciazione era richiesta dal procuratore generale: 1) «il
provvedimento del Procuratore della Repubblica, emesso ai sensi della L. 23 febbraio 1999,
n. 44, art. 20, comma 7, come modificato dalla L. 27 gennaio 2012, n. 3, art. 2, comma 1,
lett. d), n. 1), con cui si dispone la sospensione dei termini relativi ai processi esecutivi ha
effetto immediato, ha natura non decisoria e si impone, per il suo carattere temporaneo, al
giudice dell’esecuzione in ordine alla correlazione tra l’evento lesivo e la vittima del reato,
alla corrispondenza con la comunicazione del prefetto e alla valutazione di meritevolezza del
beneficio.»; 2) «Il giudice dell’esecuzione può svolgere un controllo ‘ab estrinseco’ circo-
scritto alla sussistenza dei requisiti oggettivi (titolarità del bene oggetto di esecuzione),
temporali (un anno dall’evento lesivo) e di non rinnovabilità del beneficio.»; 3) «Il provve-
dimento, per il suo carattere interinale, non ha efficacia sostanziale sul giudizio civile;
restano fermi gli ordinari strumenti processuali previsti avverso i provvedimenti del giudice
dell’esecuzione».
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(29) Anche questa sentenza, di lettura non facile, si chiude nel merito con enunciazione
del principio di diritto nell’interesse della legge per cui «Il Giudice dell’esecuzione cui sia
stato trasmesso il provvedimento del Pubblico Ministero che, sulla base dell’elenco fornito
dal prefetto, dispone la ‘sospensione dei termini’ di una procedura esecutiva a carico del
soggetto che ha chiesto l’elargizione di cui alla L. n. 44 del 1999, non può sindacare né la
valutazione con cui il Pubblico Ministero ha ritenuto sussistente il presupposto della prov-
videnza sospensiva, né l’idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’e-
largizione richiesta dall’interessato.
Spetta invece al Giudice dell’esecuzione sia il controllo della riconducibilità del prov-
vedimento del Pubblico Ministero alla norma sopra citata, sia l’accertamento che esso
riguarda uno o più processi esecutivi pendenti dinanzi al suo ufficio, sia la verifica che
nel processo esecutivo in corso o da iniziare decorra un termine in ordine al quale il
provvedimento di sospensione possa dispiegare i suoi effetti».
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(30) È vero che la differenza tra i due istituti potrebbe anche indicare una voluta
differenziazione dei loro presupposti, ma non è lineare pensare che il legislatore abbia
voluto legare l’iniziativa della Procura generale alla mancata proposizione del ricorso nei
termini di legge e l’abbia poi esclusa nei casi di inammissibilità per ragioni diverse, capaci di
produrre allo stesso modo l’impossibilità per la Corte di addivenire alla decisione della
causa, con conseguente possibilità di enunciazione del principio di diritto.
(31) In questo senso E. Odorisio, Il principio di diritto cit., p. 251.
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(34) In questo senso A. Briguglio, in Commentario alle riforme del processo civile, a cura
di A. Briguglio e B. Capponi, III, 1, Ricorso per cassazione, Padova 2009, sub art. 363,
p. 115.
(35) Quando una sentenza decida in modo innovativo su questioni già risolte, il giudice
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LAURA SALVANESCHI
Professore ordinario nell’Università di Milano
(1) Il testo riproduce, con gli opportuni approfondimenti, l’omonima relazione tenuta
nell’ambito del convegno, svoltosi il 9 novembre 2018 ed organizzato dai Dipartimenti di
Giurisprudenza, Economia e Management e Ingegneria dell’Informazione dell’Università
degli Studi di Brescia, dal titolo «Le cripto-valute nelle prospettive dell’informatico, dell’eco-
nomista e del giurista».
(2) La ragione di questa preferenza per il Bitcoin rispetto alle altre cripto-valute di-
pende dalla circostanza che è la prima ad essersi imposta alla generale attenzione del
pubblico e degli studiosi. La letteratura giuridica in lingua italiana risulta ormai piuttosto
nutrita; senza alcuna pretesa di completezza, si segnalano: G. Arangüena, Bitcoin: una sfida
per policymakers e regolatori, in Quaderni di Diritto Mercato Tecnologia 2014, I, passim; A.
Lodi, Le criptovalute, in Giust. civ. com. del 9 ottobre 2014, passim; M.L. Perugini, C.
Maioli, Bitcoin: tra moneta virtuale e commodity finanziaria, consultabile al seguente link:
http://ssrn.com/abstract=2526207, del 17 novembre 2014, passim; M. Mancini, Valute vir-
tuali e bitcoin, in Analisi giur. econ. 2015, 117; G. Gasparri, Timidi tentativi giuridici di
messa a fuoco del Bitcoin: miraggio monetario critto anarchico o soluzione tecnologica in cerca
di un problema?, in Dir. inf. 2015, 415; N. Vardi, «Criptovalute» e dintorni: alcune consi-
derazioni sulla natura giuridica dei bitcoin, in Dir. inf. 2015, 444; S. Capaccioli, Criptovalute
e bitcoin: un’analisi giuridica, Milano 2015, passim; M. Amato, L. Fantacci, Per un pugno
di bitcoin: rischi ed opportunità delle monete virtuali, Milano, Egea Editore, 2016, passim; M.
(4) Per questa specifica ipotesi, v. R.M. Morone, op. cit., 4-5.
(5) In giurisprudenza, nel senso dell’impignorabilità del domain name, a tutela dell’af-
fidamento del pubblico sui beni e servizi dell’imprenditore titolare del diritto, cfr. Trib.
Bologna 22 marzo 2000, in Nuova giur. civ. comm. 2002, I, 39, nonché in AIDA 2001, 412,
che ha escluso la pignorabilità del nome di dominio corrispondente alla denominazione
sociale poiché da ciò può derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono
essenziali nell’apprezzamento del pubblico.
Sulla questione in dottrina, cfr., C. Fimiani, Esecuzione forzata sul marchio e sul nome a
dominio, in Riv. esec. forz. 2001, 96; A. Palazzolo, Alcuni spunti in tema di regolamentazione
di nomi a dominio: la pignorabilità, il potere di disposizione del titolare registrante e la
disciplina pubblicistica, in Nuova giur. civ. comm. 2002, 39; C.M. Cascione, I domain names
come oggetto di espropriazione e di garanzia: profili problematici, in Dir. inf. 2008, 25, ad
avviso del quale i domain names devono essere considerati suscettibili di pignoramento.
Seppure non specificamente sotto la prospettiva della pignorabilità del domain name,
sempre sul tema si segnalano: – da un canto, in giurisprudenza, Trib. Bergamo 3 marzo
2003, in Corr. giur. 2004, 786, che ha deciso che il nome a dominio armani.it, registrato a
fini commerciali da un incisore di nome Luca Armani per promuovere i propri prodotti lede
i diritti del notissimo Giorgio Armani, titolare del celeberrimo ed anteriore marchio omo-
nimo; – dall’altro, il commento a questa pronuncia di A. Maietta, Nomi a dominio e
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(8) Da ultimo, v. M. Bove, Commento all’articolo 2910, in Della tutela dei diritti, t. 3, a
cura di G. Bonilini, A. Chizzini, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli,
Torino 2016, 202.
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(9) V. per tutti G. Tarzia, L’oggetto del processo di espropriazione, Milano 1961, passim.
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4. – Alla luce dei rilievi svolti, pare chiaro che nessuna delle tre
discipline dettate per l’espropriazione delle fondamentali categorie giuri-
diche tradizionali di beni si attagli esattamente alle cripto-valute.
Queste sono composte da una complessa stringa alfanumerica regi-
strata sulla blockchain e circolano su una rete peer to peer in cui sono
scambiate dagli utenti attraverso meccanismi crittografici a doppia anno-
tazione delle transazioni con delle c.d. «chiavi digitali» (equivalenti alle
«firme digitali», fondate su degli algoritmi a-simettrici, pubbliche e priva-
te), di modo che ciascuna cripto-moneta contenga l’intera sequenza di
transazioni di cui è stata oggetto (11).
La circolazione delle cripto-valute avviene senza il coinvolgimento né
di un ente di emissione centralizzato, né di stanze di compensazione (12): di
conseguenza, può con certezza escludersi l’applicabilità, anche in via ana-
logica, delle regole in tema sia di espropriazione immobiliare o di beni
tenuti in un pubblico registro, sia di espropriazione presso terzi.
Quanto a quest’ultima basti osservare che la stessa si fonda sull’essen-
ziale presenza di un terzo, debitor debitoris o comunque detentore della
cosa del debitore esecutato, normalmente assente nella circolazione delle
cripto-valute (13).
Con riguardo alle norme in tema di espropriazione immobiliare, si
deve sottolineare che la circolazione delle cripto-valute, pur risultando
da un registro «pubblico» (da intendersi nel senso, non che sia tenuto
da un’autorità pubblica, bensı̀ che sia consultabile da chiunque), non può
essere assimilata in nessun modo a quella che si è ricordato essere stabilita
dagli artt. 555 e ss. c.p.c. Più nello specifico, deve evidenziarsi che, in
difetto di un’autorità centralizzata responsabile della tenuta del registro, il
registro delle transazioni di ciascuna cripto-moneta può essere aggiornato
(10) Sul tema, da ultimo, v. B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, 3a ed.,
Torino 2015, 181.
(11) Cfr. N. Vardi, op. cit., 444, spec. nt. 2; G. Gasparri, op. cit., 428.
(12) Per il medesimo rilievo, cfr. N. Vardi, op. loc. ult. cit.
(13) Come preliminarmente precisato (supra, sub § 1), esula dall’ambito del presente
lavoro l’ipotesi di pignoramento – ovviamente ben possibile e rientrante esattamente nel-
l’ipotesi di cui agli artt. 543 e ss. c.p.c. – di credito che il debitore esecutato vanti nei
confronti di un terzo, avente ad oggetto il trasferimento di cripto-valute.
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soltanto da chi risulti titolare della medesima, attraverso l’uso della propria
doppia chiave crittografica. La Blockchain («catena di blocchi»), che è la
tecnologia alla base delle cripto-valute, infatti, dà vita ad un c.d. shared o
distribuited ledger (cioè «registro diffuso» o «distribuito»).
Sotto questo profilo, il trasferimento delle cripto-valute avviene in
modo che ricorda da vicino quello che ha luogo con il passaggio del
«possesso» delle cose mobili (14).
Come avvertito da attenta dottrina (15), le cripto-valute non possono
considerarsi suscettibili di un vero e proprio possesso di ordine materiale/
fisico, al pari di quello di cui sono capaci le cose mobili. Le cripto-valute,
infatti, sono «movimentate» attraverso un conto personalizzato noto come
«portafoglio elettronico» (c.d. e-wallet), che, a propria volta, è un soft-
ware che richiede di essere salvato ed utilizzato su un terminale informa-
tico (computer o smartphone) (16) ed associato, come anticipato, alle chiavi
digitali a-simettriche.
I portafogli possono essere distinti in on line ed off line, di solito
indicati, rispettivamente, come hot e cold wallet (questi ultimi, ospitati
su hard drive, chiavi USB e altri strumenti di archiviazione informati-
ca) (17). È bene, peraltro, precisare che i file contenuti negli e-wallet sono
semplicemente delle copie delle blockchain e, pertanto, non coincidono
con le cripto-valute. Queste, infatti, come già indicato, esistono nelle regi-
strazioni della rete peer to peer: soltanto attraverso la chiave digitale privata
è possibile accedere alle cripto-valute accreditate sul proprio indirizzo
elettronico e disporne trasferendole ad altri indirizzi (18).
(14) Conferma della correttezza del rilievo compiuto nel testo secondo cui il regime
circolatorio delle cripto-valute è assimilabile a quello delle cose mobili può trarsi dai fami-
gerati casi di «furti» (o, in termini più generali, «sottrazioni») di cripto-valute, anche per
valori assai ingenti, realizzati attraverso l’hackeraggio di siti web o la sottrazione degli stru-
menti di archiviazione informatica (sul tema, v. immediatamente oltre, nonché, infra, nt. 20
e 28): il caso più noto a livello internazionale è senz’altro quello dell’exchange giapponese
MtGox: questi, nato nel 2010, era arrivato a gestire oltre il 70% di tutte le transazioni di
Bitcoin a livello mondiale, finché all’inizio del 2014 ha annunciato che gli erano stati sottratti
850mila Bitcoin (pari ad un controvalore in allora all’incirca di 450 milioni di dollari ame-
ricani) appartenenti a sé ed ai propri clienti: la società ha interrotto le attività e ha chiesto di
accedere a procedure concorsuali sia in Giappone sia negli Stati Uniti. Non manca neppure
un recentissimo precedente italiano di sottrazione di cripto-valute: si fa riferimento al caso
BitGrail, un exchange con sede a Firenze, che nel febbraio 2018, a seguito di un attacco
informatico, si è visto sottrarre circa 17 milioni di Nano (XBR), per un controvalore pari
approssimativamente a 160 milioni di euro.
(15) R. Bocchini, op. cit., 27 e ss.
(16) R. Bocchini, op. loc. ult. cit.
(17) Cfr. M.L. Perugini, C. Maioli, op. cit., 26.
(18) Cfr. A. Lodi, op. cit., 25.
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La proposta qui avanzata, peraltro, pare porsi in linea di continuità con chi ha ritenuto
che le cripto-valute possono qualificarsi vuoi come «documenti informatici» (cosı̀ G. Aran-
güena, op. cit., 31), vuoi come «prodotti finanziari», da intendersi come ogni strumento che
sia idoneo alla raccolta di risparmio, comunque denominato o rappresentato, purché rap-
presentativo di un impiego di capitale (cosı̀ Amato, L. Fantacci, op. cit., 40; M. Passaretta,
op. cit., 477, nonché, in giurisprudenza, Trib. Verona 24 gennaio 2017, in Banca borsa e tit.
cred. 2017, II, 467, che ha deciso che la compravendita di valute virtuali, da qualificarsi alla
stregua degli strumenti finanziari, va considerata operazione ad alto rischio per il risparmia-
tore; ciò obbliga colui il quale ne pubblicizzi la vendita, in proprio o per conto terzi, ad
informare preliminarmente l’utente interessato all’acquisto sui rischi connessi all’investimen-
to).
In senso sostanzialmente conforme, v. altresı̀ C. Camardi, L’eredità digitale. Tra reale e
virtuale, in Dir. inf. 2018, 65, ed in part. 76, secondo cui il carattere spiccatamente patri-
moniale delle cripto-valute impone di riconoscere che le medesime siano sicuramente tra-
smissibili mortis causa ai successori del loro titolare.
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che pare opportuno considerare distintamente (uno nel presente §, gli altri
due nel § successivo).
Strumento di portata generale (applicabile, ex art. 155-sexies disp. att.
c.p.c., anche al di fuori dell’esecuzione forzata) e di cui il creditore può
avvalersi anche in un momento anteriore rispetto all’instaurazione del
processo esecutivo (normalmente dopo la notificazione del precetto e la
scadenza del termine ad adempiere di almeno dieci giorni ex art. 482
c.p.c., ma in caso di «pericolo nel ritardo», con autorizzazione del Presi-
dente del tribunale, anche prima della notificazione del precetto), è quello
disciplinato dall’art. 492-bis c.p.c., rubricato «Ricerca con modalità tele-
matiche dei beni da pignorare».
In forza di questa disposizione, il creditore può far autorizzare l’uffi-
ciale giudiziario ad accedere «nelle banche dati delle pubbliche ammini-
strazioni e, in particolare, nell’anagrafe tributaria, compreso l’archivio dei
rapporti finanziari e in quelle degli enti previdenziali, per l’acquisizione di
tutte le informazioni rilevanti per l’individuazione di cose e crediti da
sottoporre ad esecuzione, comprese quelle relative ai rapporti intrattenuti
dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro o committenti».
Nonostante, come già accennato (supra, sub § 4), tutte le movimenta-
zioni delle cripto-valute non risultino da un registro tenuto da una pub-
blica autorità, la disposizione appena richiamata può potenzialmente esse-
re utile al fine di individuazione delle eventuali cripto-valute presenti nel
patrimonio del debitore, non tanto a ragione della circostanza che l’Agen-
zia delle Entrate, in una risposta (non pubblica (21)) rilasciata ad un inter-
pello ha stabilito che le cripto-valute (assimilate alle valute estere, sulla
base della risoluzione n. 72/E/2016), se detenute al di fuori del circuito
degli intermediari residenti, vanno dichiarate nel quadro RW del modello
Redditi PF 2018, quanto perché qualsiasi movimento finanziario finisce
per essere registrato nell’anagrafe tributaria, sicché, in via indiretta, è
possibile individuare l’eventuale trasferimento di denaro a soggetti che
professionalmente negoziano cripto-valute (22). Vale, ulteriormente, preci-
(21) La risposta dell’Agenzia ricordata nel testo ha ricevuto notevole eco non soltanto
nelle riviste di diritto tributario (cfr. O. Salvini, Rappresentazioni digitali di valore: la dichia-
razione degli investimenti delle attività finanziarie, in Fisco 2018, 14, 1321; M. De Masi, Le
cripto valute entrano nel quadro RW, ivi 2018, 20, 1929; M. Leo, Quale tassazione per
l’economia digitale, ivi 2018, 21, 2007; M. Piazza, M. Laguardia, Quadro RW: Le novità
su «titolari effettivi» e «valute virtuali», ivi 2018, 23, 2207), ma anche nella stampa (cfr., ad
es., F. Cancelliere, A. Tardini, Il Bitcoin finisce nella dichiarazione dei redditi, in Il Sole-24
Ore del 21 aprile 2018).
(22) Vale ricordare che, ai sensi dell’art. 155-bis disp. att. c.p.c., «Per archivio dei
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sare che, sempre al fine di individuare i titolari delle valute virtuali, in forza
delle modifiche apportate dal già ricordato d.lgs. n. 90/2017, i prestatori di
servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (cioè qualsiasi persona fisica o
giuridica che fornisca a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali al-
l’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro
conversione «da» o «in» valute «reali», cioè aventi corso legale) sono
soggetti agli obblighi sia d’iscrizione presso il registro degli agenti in atti-
vità finanziaria e dei mediatori creditizi gestito dall’Organismo di vigilanza
previsto dall’art. 128-undecies t.u.b., sia di adeguata verifica del cliente,
anche in occasione dell’esecuzione di un’operazione occasionale, che com-
porti la trasmissione o comunque movimentazione di mezzi di pagamento
di importo pari o superiore ad euro 15.000 (indipendentemente se si tratti
di un’unica operazione o più tra loro collegate), o che consista in un
trasferimento di fondi superiore a euro 1.000, nonché ogni qualvolta vi
è sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo oppure quando
vi sono dubbi sulla veridicità o sull’adeguatezza dei dati precedentemente
ottenuti ai fini dell’identificazione del cliente (23).
rapporti finanziari di cui all’articolo 492-bis, secondo comma, del codice si intende la
sezione di cui all’articolo 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1973, n. 605», ai sensi del quale «Le banche, la società Poste italiane Spa, gli
intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimento collettivo
del risparmio, le società di gestione del risparmio, nonché ogni altro operatore finanziario,
fatto salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 6 per i soggetti non residenti,
sono tenuti a rilevare e a tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di
ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto o effettui, per conto proprio
ovvero per conto o a nome di terzi, qualsiasi operazione di natura finanziaria ad esclusione
di quelle effettuate tramite bollettino di conto corrente postale per un importo unitario
inferiore a 1.500 euro; l’esistenza dei rapporti e l’esistenza di qualsiasi operazione di cui al
precedente periodo, compiuta al di fuori di un rapporto continuativo, nonché la natura
degli stessi sono comunicate all’anagrafe tributaria, ed archiviate in apposita sezione, con
l’indicazione dei dati anagrafici dei titolari e dei soggetti che intrattengono con gli operatori
finanziari qualsiasi rapporto o effettuano operazioni al di fuori di un rapporto continuativo
per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, compreso il codice fiscale».
(23) Specificamente sul tema, cfr. S. Capaccioli, Riciclaggio, antiriciclaggio e Bitcoin, in
Fisco 2014, f. 46, 4561; E. Ferrari, Bitcoin e cripto valute: la moneta virtuale tra fisco e
antiriciclaggio, ivi 2018, f. 9, 861; E. Mignarri, Imposizione e monitoraggio delle operazioni in
cripto valute: molte le questioni aperte, ivi, f. 39, 3751; M. Rubino De Ritis, op. cit., passim;
G. Laurini, Il notaio e le valute virtuali, in Notariato 2018, 141; C. Licini, Il notaio dell’era
digitale: riflessioni gius-economiche, ivi, 142; M. Miccoli, Bitcoin fra bolla speculativa e
controllo antiriciclaggio, ivi, 151; M. Krogh, Transazioni in valute virtuali e rischi di riciclag-
gio. Il ruolo del notaio, ivi 2018, 155; G. Corasaniti, Il trattamento tributario dei bitcoin tra
obblighi antiriciclaggio e monitoraggio fiscale, in Strumenti finanziari e fiscalità 2018, f. 36,
45.
In termini più ampi, in ordine al regime fiscale delle operazioni aventi ad oggetto
cripto-valute, v. G. Molinaro, Sono tassabili le manifestazioni di capacità economica emergenti
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nelle operazioni relative a Bitcoin?, in Fisco 2014, f. 25, 2447; S. Capaccioli, Criptovalute,
bitcoin e iva, ivi, f. 27. 2671; G. Palumbo, Il trattamento tributario dei Bitcoin, in Dir. e prat.
trib. 2016, 20279; S. Capaccioli, Regime impositivo delle monete virtuali: poche luci e molte
ombre, in Fisco 2016, f. 37, 3538; G. Ferranti, Le presunzioni derivanti dalle indagini
finanziarie e la prova contraria del contribuente, ivi 2018, f. 15, 1407.
(24) Cfr. sul punto R. Bocchini, op. loc. ult. cit.
(25) In questo senso, v. M.L. Perugini, C. Maioli, op. cit., 6, ove è chiarito che «Le parti
vengono identificate tramite l’indirizzo IP, l’etichetta numerica che identifica in maniera
univoca un dispositivo connesso a una rete che usa il protocollo internet, e un nome a loro
scelta che può essere diverso per ogni transazione eseguita; quest’ultima caratteristica in-
troduce la questione dell’anonimia, caratteristica permeante dei bitcoin: è l’utente che,
impostando i parametri dell’indirizzo e variandoli a propria insindacabile valutazione, sce-
glie il grado di riservatezza di cui desidera fruire».
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(26) A margine della disposizione penale ricordata nel testo non si può passare sotto
silenzio il rischio che questa possa essere oggetto di un’applicazione formalistica, secondo
cui nella formula «beni utilmente pignorabili» non sarebbero da ricomprendersi le eventuali
cripto-valute che concorrono a formare il patrimonio del debitore, posto che non sarebbero
certe de iure condito le forme da seguirsi per il loro pignoramento. Le pure indiscutibili
difficoltà esistenti circa le modalità da osservarsi per il pignoramento delle cripto-valute non
precludono – come il presente lavoro cerca di dimostrare – che le medesime rappresentino
dei cespiti economicamente rilevanti e convertibili, anche in via forzata, in denaro avente
corso legale.
(27) Questa specifica previsione sembra la principale ragione per cui la norma – a
quanto consta – non è di comune applicazione, anzi!
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di cui all’art. 517, comma 2˚, c.p.c., secondo cui «In ogni caso l’ufficiale
giudiziario deve preferire il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di
credito e ogni altro bene che appaia di sicura realizzazione».
A prescindere dall’applicazione delle norme richiamate in tema di
«ricerca» dei beni del debitore, deve ritenersi che il creditore può comun-
que essere a conoscenza della presenza nel patrimonio del proprio debi-
tore di cripto-valute vuoi per scienza personale, vuoi per la circostanza che
il debitore, imprenditore commerciale, abbia formulato un’offerta al pub-
blico ex art. 1336 c.c. di impegnarsi ad accettare quale forma di pagamen-
to, cioè in datio in solutum, in luogo del denaro avente corso legale, anche
alcune tipologie di cripto-valute.
(28) Esattamente queste modalità sono state seguite – nel già ricordato (supra, nt. 14 e
20) caso BitGrail – dal Tribunale fiorentino per l’attuazione del sequestro avente ad oggetto
cripto-valute (nella specie 2295.077523 Bitcoin) per un valore pari a circa 13 milioni di euro.
(29) Questa, ai sensi del d.i. 19 gennaio 1999, è l’Organo Centrale del Ministero
dell’Interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi delle telecomunicazioni, che nell’as-
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solvere i propri compiti si avvale delle articolazioni periferiche dei Compartimenti Polizia
Postale e delle Comunicazioni.
(30) Il tratto più specifico dell’esecuzione forzata è rappresentato proprio dall’eventuale
intervento della «forza pubblica», che, al fine di consentire la soddisfazione dei diritti dei
creditori concorrenti, in modo pienamente legittimo, si concretizza in condotte non soltanto
vietate ai consociati, ma anche penalmente sanzionate: il creditore che, per soddisfare il
proprio credito, ponesse in essere la medesima condotta che è doverosamente chiamato a
tenere l’ufficiale giudiziario nel pignoramento mobiliare diretto presso il debitore, infatti,
oltre agli artt. 392 o 393 c.p. «Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle
cose» o «…alle persone», violerebbe i successivi artt. 614, 624, 624-bis e 625, rispettiva-
mente, «Violazione di domicilio», «Furto», «Furto in abitazione e furto con strappo» e
«Rapina». Analogamente, il creditore che autonomamente trasferisse a sé stesso le cripto-
valute dall’e-wallet del proprio debitore, si renderebbe colpevole del delitto di cui all’art.
615-ter, «Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico».
(31) La considerazione compiuta nel testo secondo cui, al fine del perfezionarsi del
pignoramento delle cripto-valute, è (tendenzialmente) indispensabile la collaborazione del
debitore non consente di accedere alla tesi, pure diffusa in dottrina (cfr., ad es., A. Lodi, op.
cit., passim), secondo cui gli obblighi relativi al loro trasferimento siano da qualificarsi come
obbligazioni di facere, anziché di dare: tale opinione, infatti, se astrattamente condivisibile
sul piano del diritto sostanziale, non può essere condivisa nella prospettiva processuale
assunta come punto di partenza del presente lavoro (cfr. supra, sub § 1), in cui le cripto-
valute sono considerate come elementi attivi del patrimonio del debitore da liquidare per la
soddisfazione coattiva dei creditori.
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GIUSEPPE FINOCCHIARO
Professore associato nell’Università di Brescia
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(1) Si tratta, in particolare, del genocidio, dei crimini di guerra, dei crimini contro
l’umanità e del crimine di aggressione.
(2) Sul percorso evolutivo che ha portato dalla creazione dei Tribunali ad hoc per l’ex
Yugoslavia e per il Ruanda all’istituzione della Corte penale internazionale cfr. F. Lattanzi,
E. Sciso (a cura di) Dai tribunali penali internazionali ad hoc a una corte permanente, Napoli
1996.
(3) Si tratta di un trattato multilaterale che è stato adottato il 17 luglio 1998 all’esito
della Conferenza diplomatica tenutasi a Roma (A/CONF.183/9) ed è entrato in vigore il 1˚
luglio 2002 con il deposito del sessantesimo strumento di ratifica presso la Segreteria delle
Nazioni Unite (art. 126 Statuto).
(4) Il Preambolo dello Statuto di Roma, infatti, sottolinea come un’efficace persecu-
zione dei crimini internazionali possa avvenire solo se si interviene sia a livello nazionale sia
sul piano internazionale (Considerando 4, Preambolo Statuto di Roma).
(5) In generale, ex multis, sul tema dei rapporti fra la Corte e il Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite cfr. P. Gargiulo, The Relationship between the ICC and the Security
Council, in F. Lattanzi (a cura di), The international Criminal Court: Comments on the Draf
Statute, Napoli 1998, 95 ss.; V. Berman, The Relationship between the International Crimi-
nal Court and the Security Council, in H. A.M. von Hebel, J. G. Lammers, J. Schukking (a
cura di), Reflections on the International Criminal Court, T.M.C. The Hague 1999, 173 ss.;
L. Yee, The International Criminal Court and the Security Council: Articles 13(b) and 16, in
R. Lee (a cura di), The Making of the Rome Statute. Issues, Negotiations, Results, Amsterdam
1999, 143 ss.; L. Condorelli, S. Villalpando, Referral and Deferral by the SC, in A. Cassese,
P. Gaeta, J.R.W.D. Jones (a cura di), The Rome Statute of the International Criminal Court:
a Commentary, Oxford 2002, 627 ss.; J. Trahan, The Relationship between the International
Criminal Court and the UN Security Council: Parameters and Best Practices, in Criminal Law
Forum 2003, 428 ss.; D.R. Verduzco, The Relationship between the ICC and the United
Nations Security Council, in C. Stahn (a cura di), The Law and Practice of the International
Criminal Court, Oxford 2015, 30 ss.
(6) Il Consiglio di sicurezza è l’organo delle Nazioni Unite che si occupa di mantenere
la pace e la sicurezza internazionale (art. 24 Carta delle Nazioni Unite). Esso è costituito da
quindici membri, di cui cinque permanenti (Stati Uniti, Cina, Federazione Russa, Francia e
Regno Unito) e dieci non permanenti, che sono eletti per un periodo di due anni (art. 23
Carta delle Nazioni Unite).
(7) La sospensione può essere disposta per un periodo di dodici mesi rinnovabili senza
limiti.
(8) Lo Statuto di Roma riconosce al Consiglio di Sicurezza anche il potere di segnalare
al Procuratore della Corte la commissione di crimini sia sul territorio di uno Stato parte sia
all’interno di uno Stato non parte, cosı̀ estendendo la giurisdizione di tale sistema di giustizia
(art. 13.1 lett. b Statuto).
(9) M. Bergsmo, J. Pejić, Article 16. Deferral of investigation or prosecution, in O.
Triffterer (a cura di), Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court,
Baden-Baden 1999, 377.
(10) To put an end to impunity per utilizzare il linguaggio dello Statuto.
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(15) Un indizio di tale potenziale interferenza sembra potersi ricavare dal Preambolo
dello Statuto di Roma, il quale evidenzia che i crimini internazionali costituiscono una
minaccia alla pace, alla sicurezza e al benessere mondiale (Considerando 3).
(16) M. Bergsmo, J. Pejić, op. cit., 375; W. Schabas, An introduction to the International
Criminal Court, 2a ed., Cambridge 2004, 82 ss. Per una ricostruzione del dibattito in sede di
lavori preparatori cfr. Report f the ad hoc Committee on the Establishment of a Permanent
Criminal Court, U.N. Doc. A/50/22 (1995), I, 28 s.; Report of the Preparatory Committee on
the Establishment of an International Criminal Court, U.N. Doc. A/51/22 (1996), I, 33 s.
(17) Cfr., in questo senso, l’art. 23.3 della bozza presentata dalla Commissione del
Diritto internazionale (U.N. Doc. A/49/10 del 1994, p. 45). In questo modo, si sarebbe
configurato un rapporto di subordinazione della Corte rispetto al Consiglio di Sicurezza
simile a quello che si realizza nell’ambito delle Nazioni Unite tra il Consiglio e l’Assemblea
Generale. Quest’ultima non può adottare raccomandazioni con riguardo a materie di com-
petenza del Consiglio, a meno che esso non la autorizzi in tal senso. Cfr. G. della Morte, op.
cit., 38.
(18) M. Bergsmo, J. Pejić, op. cit., 375; L. Condorelli, S. Villalpando, op. cit., 644 s.
(19) Si tratta del c.d. Singapore compromise, poiché la proposta sulla quale si è formato
l’accordo è quella di Singapore. Cfr. G. della Morte, op. ult. cit., 39; A. Ciampi, I rapporti
della Corte con le Nazioni Unite, in G. Lattanzi, V. Monetti (coordinato da), La Corte penale
internazionale, Milano 2006, 149.
(20) G. della Morte, op. cit., 40.
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come il potere di controllo spetti in concreto alla Pre-Trial Chamber, alla Trial Chamber o
all’Appeals Chamber, a seconda della fase in cui intervenga la misura sospensiva; v. anche
A.S. Knotterus, The Security Council and the ICC, in Netherlands International Law review
2014, 200, il quale evidenzia come tale potere di controllo deriverebbe, invece, dal principio
generale di kompetenz-kompetenz, che è stato sviluppato nell’ambito del Tribunale penale
per l’ex Yugoslavia (Appeals Chamber, Prosecutor v. Duško Tadic, Decision on the Defence
Motion for the Interlocutory Appeal on Jurisdiction, 2 ottobre 1995, par. 6, 14-22) e che
consente ad ogni sistema di giustizia internazionale di decidere su ogni questione che
riguarda la propria giurisdizione.
(31) Cfr., ex multis, H.P. Kaul, International Criminal Court (ICC), in Max Planck
Encyclopedia of Public International Law 2010, par. 118, che considera la Corte un organo
esclusivamente giudiziario, a cui non competono valutazioni di tipo politico.
(32) Cfr., anche se con sfumature diverse, C. Stahn, The Ambiguities of Security Council
Resolution 1422 (2002), in EJIL 2003, 102; A.S. Knotterus, op. cit. loc. cit.
(33) Basti pensare al caso di una risoluzione in cui manchi del tutto un’indicazione delle
ragioni che giustificano l’attivazione del meccanismo previsto dall’art. 16 dello Statuto.
(34) E, più in generale, in tutti gli atti che disciplinano il sistema della Corte, comprese
le Regole di procedura e prova, che sono state approvate nel 2002 e disciplinano alcuni
aspetti procedurali e amministrativi non regolati dallo Statuto di Roma.
(35) Cfr. S. Zappalà, op. cit., 67 s.
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5. – Con riguardo agli effetti sul piano della conservazione del mate-
riale probatorio, occorre richiamare l’art. 54.3 lett. f dello Statuto (38), il
quale prevede che il Procuratore possa richiedere o prendere ogni misura
che ritiene necessaria per garantire la conservazione delle prove eventual-
mente raccolte (39). Si allude alla possibilità di adottare quei provvedimenti
che consentano di custodire e preservare l’integrità del materiale proba-
torio (40).
Un simile potere è riconosciuto anche alla Pre-Trial Chamber, cioè
all’organo giurisdizionale che riveste un ruolo di garanzia dei diritti del-
l’indagato e di controllo dell’attività del Procuratore durante la fase delle
indagini (41). Essa, qualora lo ritenga necessario, può adottare d’ufficio
che consente l’acquisizione anticipata delle prove in fase di indagine quando vi sia il rischio
di una loro dispersione. La Pre-Trial Chamber, inoltre, decide sulle cause di improcedibilità
che intervengano durante la fase delle indagini preliminari e della confirmation of charges
hearing (simile alla nostra udienza preliminare), autorizza il Procuratore a svolgere determi-
nate attività investigative all’interno del territorio di uno Stato che non sia in grado (unable)
di cooperare con l’organo d’accusa e di eseguirne le richieste.
(42) A.S. Knotterus, op. cit. loc. ult. cit.
(43) Peraltro, in questa prospettiva, la Rule 138 prevede che il Registry, un organo
assimilabile alla Cancelleria, ma che possiede rilevanti competenze in materia di tutela delle
vittime e dei testimoni, abbia l’obbligo di conservare le prove raccolte durante il dibatti-
mento.
(44) Per un’applicazione delle misure conservative anche in caso di esercizio del potere
sospensivo da parte del Consiglio di Sicurezza cfr. M. Bergsmo, P. Kruger, Duties and
Powers of the Prosecutor, in O. Triffterer (a cura di), Commentary on the Rome Statute of
the International Criminal Court, Baden-Baden 1999, 725; G. Turone, Powers and Duties of
the Prosecutor, in A. Cassese, P. Gaeta, J.R.W.D. Jones (a cura di), The Rome Statute of the
International Criminal Court: a Commentary, cit., 1171.
(45) Secondo questa procedura, che presenta alcune similitudini con il nostro incidente
probatorio, il Procuratore, quando rilevi che durante le indagini sussista il rischio che la
prova non possa essere raccolta in un momento successivo, deve informare la Pre-Trial
Chamber, la quale adotta le misure necessarie per acquisire il materiale probatorio. Si tratta
di un meccanismo che non prevede la partecipazione necessaria della difesa: spetta, infatti,
alla Pre-Trial Chamber, su sollecitazione del Procuratore o, in caso di sua inerzia, d’ufficio,
raccogliere la prova che ritiene essenziale per la difesa. Cfr. J. Wouters, S. Verheven, B.
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Demeyere, The International Criminal Court’s Office of the Prosecutor: Navigating between
Independence and Accountability?, in International Criminal Law Review 2008, 8, 311.
(46) Per certi versi, un tale assetto risulta simile a quello configurato nel nostro codice
di rito dall’art. 71 c.p.p., il quale prevede che, in caso di sospensione del procedimento
dovuta all’accertamento dell’incapacità dell’indagato o dell’imputato, il giudice può provve-
dere, se vi è pericolo nel ritardo, all’acquisizione delle prove in dibattimento o, qualora ci si
trovi in fase di indagini, in sede di incidente probatorio. Anche in questo caso, l’adozione di
provvedimenti urgenti da parte dell’autorità giudiziaria, pur dipendendo dalla diversa cir-
costanza dell’accertata incapacità dell’imputato o dell’indagato, è preordinata ad evitare la
dispersione del materiale probatorio.
(47) In una simile prospettiva, l’art. 18.6 dello Statuto, nel regolare la procedura di
sospensione del procedimento di fronte alla Corte in caso di proposizione da parte di uno
Stato o di un imputato di una questione di procedibilità, dispone che durante la paralisi il
Procuratore possa, in casi eccezionali, rivolgersi alla Pre-Trial Chamber quando ritenga che
sia necessario raccogliere delle prove non rinviabili al dibattimento.
(48) Sia sul fronte del diritto dell’Unione, sia sul versante della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo. Sotto il primo profilo, basti pensare alla normativa sull’ordine europeo
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di indagine penale (cfr., tra gli altri, L. Bachmaier, Transnational Evidence Towards the
Transposition of Directive 2014/41 Regarding the European Investigation Order in Criminal
Matters, in Eucrim 2015, 2, 47 ss.; M. Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove nella
direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, in Dir. pen. cont. - Riv. trim. 2015, 4, 86 ss.;
R.E. Kostoris, Ordine di investigazione europeo e tutela dei diritti fondamentali, in Cass. pen.
2018, 1437 ss.). Sotto il secondo profilo, il principio di proporzionalità viene anche appli-
cato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla giuri-
sprudenza della Corte europea in materia di tutela del diritto al confronto (cfr., ex multis,
Corte eur. 23 aprile 1997, Van Mechelen e altri c. Paesi Bassi, par. 58 ss.; in dottrina v., tra gli
altri, M. Vogliotti, La logica floue della Corte Europea dei diritti dell’uomo tra tutela del
testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle «testimonianze anonime», in Giur.
it. 1998, 851 ss.; L. Bachmaier Winter, Transnational Criminal Proceedings, Witness Evi-
dence and Confrontation: Lessons from the ECtHR’s Case Law, in Utrecht L. Rev. 2013, 9,
143 ss.).
(49) Il triplice test di proporzionalità è stato sviluppato ad opera della giurisprudenza
tedesca. V., per tutti, E.R. Belfiore, Giudice delle leggi e diritto penale, Milano 2005, 280 ss.
(50) Cfr., in questo senso, i memorandum of understanding stipulati dalla Corte con le
Nazioni Unite, i quali individuano una serie di misure volte alla conservazione e la raccolta
del materiale probatorio (Best Practices Manual For United Nations – International Criminal
Court Cooperation, 26 settembre 2016, 11 s.). V. anche I. Caracciolo, Light and Shade of the
Legal Framework on Cooperation between the ICC and Peacekeeping, in I. Caracciolo, U.
Montuoro (a cura di), New models of peacekeeping security and protection of human rights.
The Role of the UN and Regional Organizations, Torino 2018, 159 ss.
(51) Resterebbe escluso dalla possibilità di stipulare simili accordi l’imputato, il quale
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difficilmente potrebbe avviare una procedura di consultazione con le Nazioni Unite con
l’obiettivo di raccogliere prove a discarico.
(52) In particolare, sulla motivazione e sul rispetto dei limiti temporali da parte della
risoluzione.
(53) Nel quadro del diritto europeo, tale tesi è sostenuta da R.E. Kostoris, op. cit., 1448
ss., secondo il quale, nell’ambito della disciplina dell’o.e.i. dovrebbe essere incentivata
l’elaborazione di modelli di bilanciamento «tipizzati». Cfr., sul fronte del diritto Cedu, e
in particolare in rapporto ai concetti di conoscibilità e prevedibilità, Corte eur., Kokkinakis
c. Grecia, 25 maggio 1993.
(54) Cfr., in questa prospettiva, la relazione di apertura dell’anno giudiziario del Pre-
sidente della Corte: S. Fernandez de Gurmendi, Opening remarks at Ceremony for Opening
of Judicial Year 2018, in https://www.icc-cpi.int/itemsDocuments/180118-pres-stat-ojy-
ENG.pdf, 18 gennaio 2018, 1.
(55) Sulla possibilità che la Corte possa operare valutazioni di tipo politico cfr. A.S.
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Weiner, Prudent Politics: The International Criminal Court, International Relations, and
Prosecutorial Independence, in Washington University Global Studies Law Review 2013, 549.
(56) V. però contra M. El Zeidi, The United States Dropped the Atomic Bomb of Article
16 on the ICC Statute: Security Council Power of Deferrals and Resolution 1422, in Vander-
Bilt Journal of Transitional Law 2002, 1514, il quale ritiene che il deferral disposto dal
Consiglio di Sicurezza non sia di per sé sufficiente a giustificare la revoca o la modifica
in senso meno restrittivo della misura limitativa della libertà personale.
(57) Si pensi, a titolo esemplificativo, al divieto di espatrio, di rendere dichiarazioni
pubbliche riguardanti il procedimento o di mettersi in contatto con i testimoni. Sulle
condizioni a cui può essere subordinata la liberazione dell’imputato che si trovi in custodia
cautelare cfr., anche se in rapporto ad un caso che non riguarda specificamente l’esercizio
del potere sospensivo da parte del Consiglio di Sicurezza, Trial Chamber VII, Decision on
Mr Bemba’s Application for Release, ICC-01/05-01/13-2291, 12 giugno 2018, par. 18 ss.
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zioni fra la Corte e le Nazioni Unite (58) previste in via generale dall’art. 3
del Trattato di cooperazione fra tali istituzioni. Questa procedura potreb-
be, infatti, evitare che l’esercizio dei poteri di interferenza da parte del
Consiglio di Sicurezza determini una gestione inefficiente delle risorse
della Corte, scongiurando il rischio di una vanificazione delle attività inve-
stigative e probatorie (59).
Da questo punto di vista, le soluzioni interpretative che si è cercato di
individuare, sia sul versante della conservazione e della raccolta del mate-
riale probatorio sia sul piano dell’esecuzione delle misure cautelari, po-
trebbero risolvere alcune distorsioni, ma, data la delicatezza degli interessi
in gioco e l’assenza di un organo sovraordinato in grado di dirimere i
conflitti, sarebbe necessario che il legislatore provvedesse a regolare in
modo più chiaro l’esercizio del potere sospensivo, le forme di controllo
su tale attività e le conseguenze che essa può avere sui diritti dell’imputato
e, più in generale, sul procedimento penale internazionale.
MASSIMO BOLOGNARI
Titolare di assegno di ricerca nell’Università di Padova
(58) In questo senso, cfr. Statement of the Prosecutor of the International Crimnal Court,
Fatou Bensouda, at first arria-formula meeting on UNSC-ICC relations, in https://www.icc-
cpi.int/Pages/item.aspx?name=180706-otp-statement-arria-formula, 6 luglio 2018, nel quale si
auspica una più stretta cooperazione fra la Procura della Corte e il Consiglio di Sicurezza.
(59) Si tratta attività molto spesso costose in ragione della natura internazionale del
procedimento di fronte alla Corte.
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(1) Cosı̀ W. Bigiavi, Note inutili sul c.d. trasferimento delle azioni civili, in Riv. dir. civ.
1965, I, 130 ss. e spec. 171.
(2) Cfr. W. Bigiavi, op. cit., 172.
(3) Cfr. G. Terranova, La cessione delle azioni nelle procedure concorsuali, in Banca
borsa e tit. cred. 2014, I, 524 ss.
(4) Cfr. B. Inzitari, Brrd, Bail in, risoluzione della banca in dissesto, condivisione delle
perdite, in Contr. impr. 2016, 689 ss., per uno sguardo di insieme ed una prima analisi
complessiva della nuova disciplina.
(5) Trattasi precisamente di: Banca delle Marche S.p.a., Cassa di Risparmio di Ferrara
S.p.a., Banca dell’Etruria e del Lazio S.p.a., Cassa di Risparmio di Chieti.
(6) Nei casi di specie le rilevanti risorse messe a disposizione per il salvataggio dalla
Banca d’Italia tramite il Fondo Nazionale di Risoluzione escludono che si possa parlare di
Bail in in senso stretto, misura entrata in vigore, peraltro, solo dal 1 gennaio 2016 per
espressa previsione della legge di delegazione europea 2014, n. 114/2015, attuativa della
Direttiva BRRD.
(7) La Banca d’Italia è individuata come autorità di risoluzione dall’art. 3, d.lgs. 180/
2015.
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a rischio di dissesto in una o più delle seguenti situazioni: a) risultano irregolarità nell’am-
ministrazione o violazioni di disposizioni legislative, regolamentarie o statutarie che regolano
l’attività della banca di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell’autorizzazione
all’esercizio dell’attività; b) risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da
privare la banca dell’intero patrimonio o di un importo significativo del patrimonio; c) le
sue attività sono inferiori alle passività; d) essa non è in grado di pagare i propri debiti alla
scadenza; e) elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni indicate nelle lettere
a), b), c) e d) si realizzeranno nel prossimo futuro; f) è prevista l’erogazione di un sostegno
finanziario pubblico straordinario a suo favore, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 18».
(11) Le misure adottabili a fronte dell’emersione dello stato di dissesto sono individuate
dall’art. 20 d.lgs. 180/2015, il quale cosı̀ recita: «Quando risultano accertati i presupposti
indicati all’articolo 17, è disposta alternativamente nei confronti di una banca: a) la ridu-
zione o conversione di azioni, di altre partecipazioni e di strumenti di capitale emessi dalla
banca, secondo quanto previsto dal Capo II, quando ciò consente di rimediare allo stato di
dissesto o di rischio di dissesto di cui all’articolo 17, comma 1˚, lettera a); b) la risoluzione
della banca secondo quanto previsto dal Capo III o la liquidazione coatta amministrativa
secondo quanto previsto dall’articolo 80 del Testo Unico Bancario se la misura indicata alla
lettera a) non consente di rimediare allo stato di dissesto o di rischio di dissesto. 2. La
risoluzione è disposta quando la Banca d’Italia ha accertato la sussistenza dell’interesse
pubblico che ricorre quando la risoluzione è necessaria e proporzionata per conseguire
uno o più obiettivi indicati all’articolo 21 e la sottoposizione della banca a liquidazione
coatta amministrativa non consentirebbe di realizzare questi obiettivi nella stessa misura».
(12) Il capitale delle Good Banks è stato integralmente sottoscritto dal Fondo di Riso-
luzione Nazionale, istituito dalla Banca d’Italia con provvedimento reso ai sensi dell’art. 78
del d.lgs. n. 180/2015.
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diverse dagli strumenti di capitale come definiti dall’art. 1, lettera ppp), del
d.lgs. 180/2015 (13);
(v) la costituzione di una società veicolo, ai sensi dell’art. 45 del d.lgs.
180/2015, cui sono state cedute le sofferenze detenute dagli enti-ponte, la
sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa delle Quattro Banche,
la successiva collocazione sul mercato degli Enti Ponte, acquistati tramite
fusione per incorporazione da altri istituti bancari sul finire del 2017 (14).
(13) Art. 1, d.lgs. 180/2015: «ppp) ‘strumenti di capitale’: gli strumenti di capitale
aggiuntivo di classe 1 e gli elementi di classe 2 ai sensi del Regolamento (UE) n. 575/2013
o della direttiva 2006/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e relative disposizioni di
attuazione».
(14) Le Nuove banche Etruria, Chieti e Marche sono state cedute dal Fondo Nazionale
di Risoluzione ad UBI Banca S.p.A., mentre la Nuova banca di Ferrara è stata ceduta a
BPER Banca S.p.A.
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data di efficacia della cessione, sono ceduti, ai sensi ai sensi degli artt. 43 e
47 del d.lgs. 180/2015, all’ente ponte» (15).
La riflessione, in particolare, ha riguardato l’interpretazione della no-
zione di passività in essere alla data di efficacia della cessione prevista dal
legislatore, trattandosi di comprendere se al suo interno rientrino anche le
pretese invocate dagli investitori-attori, sorte con l’azzeramento delle azio-
ni ed obbligazioni e quindi già esistenti al momento della cessione delle
aziende bancarie agli enti-ponte, ovvero se, trattandosi di passività sui
generis, di genesi contenziosa, esse si debbano ritenere escluse dal perime-
tro dell’azienda bancaria ceduta, posto che i provvedimenti richiamati
ricomprendono nella cessione esclusivamente i giudizi attivi e passivi già
in essere e considerando oltretutto che sia l’art. 47, comma 7, del d.lgs.
180/2015, sia l’art. 3 dei provvedimenti di cessione di Banca d’Italia pre-
vedono espressamente che «gli azionisti, i titolari di altre partecipazioni o i
creditori dell’ente sottoposto a risoluzione e gli altri terzi i cui diritti,
attività, o passività non sono oggetto di cessione non possono esercitare
pretese sui diritti, sulle attività o sulle passività oggetto della cessione».
Al riguardo, sono andate delineandosi due contrapposte correnti giu-
risprudenziali.
Un primo orientamento (16) ha affermato la sussistenza della legittima-
zione passiva sostanziale degli enti-ponte, rigettando le eccezioni sollevate
dalle difese delle banche convenute. Tali prese di posizione sono state
argomentate anzitutto partendo dall’assunto per cui il c.d. azzeramento
si riferirebbe ai soli strumenti di capitale ed ai diritti incorporati in essi e
non ad eventuali pretese risarcitorie aventi natura extracontrattuale quali
quelle dedotte dagli attori, enfatizzando anche la lettera dei provvedimenti
di cessione, i quali non annoverano espressamente tra le passività escluse
quelle oggetto dei giudizi de quibus (17). È stato inoltre valorizzato in tale
(15) Il passo è riportato da Trib. Milano, ord. 8 novembre 2017, n. 11173, in Banca
borsa 2018, II, 570 ss., con note adesive di L. Boggio, Bail-in all’italiana: la good bank
risponde dei danni causati agli azionisti «azzerati» e I. Mercati, La responsabilità risarcitoria
dell’ente ponte per le pretese risarcitorie degli azionisti di banche sottoposte a risoluzione.
(16) Cfr. Trib. Milano, cit., Trib. Ferrara, ordd. 28 ottobre 2017 e 31 ottobre 2017,
Trib. Chieti, 10 gennaio 2008, n. 10, Giudice di Pace di Macerata, 14 novembre 2018, n.
831, tutte in www.dirittobancario.it. Nel medesimo senso la decisione dell’Arbitro per le
Controversie Finanziarie 9 gennaio 2018, n. 166, con nota di M. Stella, Le vittime di misse-
ling hanno azione risarcitoria contro gli enti-ponte, cessionari delle aziende delle banche risolte
(prospettate autrici dell’illecito)?, in Corriere. giur. 2018, 3, 357 ss., critica anche rispetto alle
citate pronunce dei tribunali di Milano e Ferrara.
(17) Come anticipato, secondo i provvedimenti di cessione: «Restano escluse dalla
cessione dell’azienda soltanto le passività, diverse dagli strumenti di capitale,come definiti
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dall’art. I. lettera ppp), del d.lgs. 16 novembre 2015 n. 180, in essere alla cessione, non
computabili nei fondi propri, il cui diritto al rimborso e del capitale è contrattualmente
subordinato ai soddisfacimento dei diritti di tutti i creditori non subordinati dell’ente in
risoluzione».
(18) Per un commento cfr. A. Dolmetta – U. Malvagna, «Banche Venete» e problemi
civilistici di lettura costituzionale del decreto legge n. 99/2017, in Riv. dir. banc. 2017, VII,
1 ss.
(19) Cfr. art. 3, comma 1˚, d.l. 99/2017, lett. b) e c).
(20) Cfr. Trib. Bologna, Sez. Impresa, 12 luglio, 2017, in Pluris, Trib. Bologna, Sez.
Impresa, 28 novembre 2017, n. 2653, inedita, Trib. Macerata, 19 febbraio 2018, n. 199,
inedita.
(21) Cfr. S. Bonfatti, La responsabilità degli «enti ponte» (e delle banche incorporanti)
per le pretese risarcitorie nei confronti delle «quattro banche» (vantate dagli azionisti «risolti»
e non solo), in Riv. dir. banc. 2017, XI, 1 ss., R. Lener, op. cit., 287.
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(22) P. Carrière, op. cit., 30, sottolinea in tale prospettiva il rischio di approdare alla
«conseguenza inaccettabile per cui sic et simpliciter, ex artt. 43 del d.lgs. n. 180/2015 e 58
T.U.B. passano con l’azienda in capo al cessionario ‘tutte’ le passività, da intendersi nel
senso di ‘qualsiasi tipo di passività’ e allora anche (addirittura) quelle qualificabili contrad-
dittoriamente […] come solo ‘potenziali’ o ‘eventuali’ o ‘latenti’, e senza quindi che possano
assumere alcuna rilevanza, oltre a quello della ‘rilevazione contabile’, anche gli altri elementi
che possono trarsi dall’art. 2560 c.c.: l’‘anteriorità’ del debito (qui ‘passività’) e financo la sua
‘inerenza’ all’azienda».
(23) Cfr. E. Redenti, Sui trasferimenti delle azioni civili, in Riv. trim. dir. e proc. civ.
1955, 75.
(24) Cfr. W. Bigiavi, op. cit., 170-171.
(25) G. Terranova, op. cit., 528.
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suali, in La riforma della legge fallimentare. Atti del convegno di Palermo del 18-19 giugno
2010, a cura di Fortunato, Giannelli, Guerrera e Perrino, Milano 2011, 301 ss., A. Briguglio
– A. Guerrera, La cessione «autonoma» delle azioni revocatorie: problemi (processuali e
sostanziali) e proposte di soluzione, in Dir. fall. 2008, I, 502 ss.
(30) Cfr. G. Terranova, op. cit., 550.
(31) In questa prospettiva si colloca, ad esempio, la riflessione sulla possibilità o meno
di cedere autonomamente un’ipoteca rispetto al credito che essa garantisce, quesito al quale
Autorevolissima dottrina aveva dato risposta positiva, riconoscendo natura processuale alla
garanzia, cfr. F. Carnelutti, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione, in Studi per
Chiovenda, Padova 1927, 221. La dottrina tradizionale e maggioritaria è peraltro di opinione
opposta, cfr. G. Terranova, op. cit., 536.
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dato che le passività di cui si discute non sono passività qualsiasi ma debiti-
aspettative destinati a cristallizzarsi solo in sede processuale.
Passando, secondo tale criterio, all’esegesi del dettato normativo, il
citato punto 1.1 include nel perimetro dell’azienda bancaria ceduta tanto,
da un lato, «le passività», quanto, dall’altro lato, «i giudizi attivi e passivi»,
purché già «in essere» al momento della cessione.
Le passività di cui si discute paiono costituire un tertium genus rispetto
alle due categorie introdotte dal legislatore, potendosi quindi affiancare
alle passività in genere ed a quelle correlate ai giudizi attivi e passivi già
pendenti, una terza categoria, rappresentata dalle passività di genesi con-
tenziosa, già sorte, con l’evento dannoso, al momento della cessione, ma
ancora potenziali e latenti, oltre che affatto incerte nel loro concreto at-
teggiarsi, specie circa il quantum debeatur, poiché destinate a stabilizzarsi
solo in esito al processo. Lo snodo interpretativo fondamentale, allora,
consiste nel ricondurre tale terza categoria, quanto alle conseguenze ap-
plicative, all’una o all’altra delle due normativamente previste.
Al riguardo, ragionando a contrario dal dettato normativo, pare do-
versi escludere che le passività di genesi contenziosa non ancora manife-
statesi in alcuna forma, nemmeno embrionale, al momento della cessione,
possano essere incluse nel perimetro dell’azienda bancaria ceduta, proprio
in virtù del chiaro dato letterale ora richiamato, secondo il quale i giudizi,
attivi e passivi, non ancora pendenti, sembrano inequivocabilmente esclusi
dal perimetro della cessione agli enti ponte.
Peraltro, l’effetto di assoggettare anche gli enti ponte alle sentenze
pronunciate nell’ambito dei giudizi già pendenti al momento della cessione
(necessariamente instaurati dagli investitori nei confronti delle Vecchie
Banche) sarebbe conseguito in ogni caso dalla applicazione della disciplina
codicistica della successione nel processo, a prescindere dalla qualificazio-
ne della cessione di azienda oggetto di attenzione in termini di successione
universale ovvero di successione a titolo particolare nel giudizio contro-
verso, posto che secondo l’art. 110 c.p.c. il processo è proseguito nei
confronti del successore universale e che secondo l’art. 111 c.p.c. la sen-
tenza pronunciata nei confronti dell’alienante o del successore a titolo
universale, produce sempre i suoi effetti anche nei confronti del successore
a titolo particolare. Si può ritenere, pertanto, che il chiaro riferimento
legislativo ai giudizi pendenti sia stato dettato non tanto dalla voluntas
legis di ribadire l’inclusione, già ovvia, nel perimetro della cessione dei
giudizi già pendenti, bensı̀ proprio dall’obiettivo di escludere in maniera
non equivoca i giudizi non ancora instaurati e, di conseguenza, affermare il
difetto di legittimazione passiva degli enti ponte in relazione alle (possibili)
cause future non intraprese al momento della cessione.
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(32) Come anticipato alla nt. 7, il d. lgs. 180/2015 individua all’art. 3 la Banca d’Italia
quale Autorità di Risoluzione, incaricata tra l’altro ex art. 7 di predisporre con propri
provvedimenti i piani di risoluzione ed attuarli ex artt. 32 ss. L’assetto normativo risulta
quindi dall’integrazione della normativa legislativa di rango primario ex d.lgs. 180/2015 con
i provvedimenti attuativi della Banca d’Italia, alla quale è demandata in definitiva la sele-
zione, in relazione alle fattispecie concrete via via prospettabili, delle misure ritenute mag-
giormente idonee tra quelle previste, una volta per tutte, dalla fonte primaria.
(33) Un ulteriore indice normativo a supporto della tesi è ricavabile dalla disposizione
di cui all’art. 1, comma 96˚, lett. c), l. 56/2014 (c.d. Legge Delrio), la quale nell’ambito del
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D’altro canto, anche sul terreno tipico nel quale si suole parlare di
cessione dell’azione, nei casi di specie, paiono non verificate le condizioni
che, nell’ambito delle procedure concorsuali, consentono di cristallizzare
le azioni e quindi di scinderle dalle pretese sostanziali cui esse sono stru-
mentali e ciò nonostante, peraltro, sia stata generalmente riconosciuta in
dottrina la natura concorsuale della procedura di risoluzione ex d.lgs. 180/
2015 (34).
La cessione delle azioni nell’ambito delle procedure concorsuali, in-
fatti, come ricordato, è riconducibile alla possibilità, tipica di quello spe-
cifico contesto normativo, di cristallizzare l’azione ex ante, ancor prima
della celebrazione del processo, poiché l’accertamento dell’insolvenza con-
sente di desumere l’insufficienza del patrimonio del debitore al soddisfa-
cimento delle pretese creditorie, mentre il controllo giudiziale consente di
stabilizzare l’azione, stimandone con sufficiente approssimazione le proba-
bilità di successo, sul piano dell’an e del quantum debeatur (35). Non per
caso, l’art. 106 l.fall. subordina la cedibilità delle azioni revocatorie al fatto
che i relativi giudizi siano già pendenti (e quindi siano stati autorizzati dal
giudice delegato), mentre l’art. 124, ult. comma, l.fall., coerentemente,
consente espressamente la cessione a terzi delle sole azioni autorizzate
dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del fonda-
mento della pretesa. In altre parole, la cessione delle azioni nell’ambito
delle procedure concorsuali postula la precisa scelta legislativa di voler
«attribuire al contenzioso genericamente inteso il valore di specifico asset
da monetizzare in sede di realizzazione unitaria dell’attivo» (36).
trasferimento delle funzioni non fondamentali dalle Province alle Regioni dispone che
«l’ente che subentra nella funzione succede anche nei rapporti attivi e passivi in corso,
compreso il contenzioso», evidenziando ancora una volta la netta diversità, e quindi la
necessità di non confondere, le due categorie rappresentate dai rapporti attivi e passivi,
da un lato, e dal contenzioso, dall’altro lato, peraltro incluso nel perimetro della cessione nel
caso di specie. Interessante al riguardo, anche la recentissima sent. C. cost. 6 giugno 2018, n.
110, che ha dichiarato la incostituzionalità, per contrasto con l’art. 117, comma 2˚, lett. l),
Cost., dell’art. 10, L.R. Toscana 3 marzo 2015, n. 22, il quale nel solco della Legge Delrio,
attuando il trasferimento dalla provincia alla regione della funzioni non fondamentali in
materia di gestione dei rifiuti e difesa del suolo e del demanio idrico, escludeva dalla
cessione «i procedimenti già avviati al momento del trasferimento delle funzioni». La inco-
stituzionalità della legge regionale, in particolare, è stata argomentata anche in virtù del
richiamato disposto della l. 56/2014, che, come detto, include nella cessione anche il con-
tenzioso, ed evidenziando la non riconducibilità al paradigma di cui all’art. 111 c.p.c. del
meccanismo successorio previsto dalla legge statale.
(34) Cfr. B. Inzitari, op. cit., 14 ss.
(35) Cfr. G. Terranova, op. cit., 547-548.
(36) D. Latella, op. cit., 37.
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MARCO MOROTTI
Avvocato in Milano
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delle idee la novità è stata per me assai meno rilevante di quanto possa
parere. Non tocca a me stabilire quanta parte dell’altrui e quanta del mio
pensiero abbia nutrito l’opera legislativa; solo mi par lecito raccontare che
il mettere a posto i nuovi istituti entro gli schemi del mio sistema scienti-
fico m’è riuscito di una sorprendente facilità». Poi il fondato dubbio: «Può
darsi che sia una impressione fallace»; e ancora tuttavia una piccola pun-
tura: «(…) è mancata la pazienza e l’attenzione in quella delicatissima fase,
che potrebbe chiamarsi la montatura»). La attrazione per il sistema dog-
matico lascia poco fiato alla comprensione del piglio autenticamente rifor-
matore (gli accadde, pochi anni dopo, in un contesto ormai diversissimo,
forse anche perché liberale monarchico, per la stessa Costituzione).
E questo sopravvento per motivi in senso nobile «politici» del fioren-
tino sul veneziano, Alpa lo mostra assai bene, giungendo via via nella
sostanza a confutare anche alcune esagerazioni cui il nostro Tucidide
(Cipriani: quarta C? Ancorché post litteram) era stato sospinto dalle sue
locupletissime e puntigliosissime indagini storico-psicologiche, dando fon-
do ad ogni risultanza disponibile, pubblica o spesso anche fino ad allora
privata.
Addirittura negli scritti più recenti partendo dal rapporto fra Piero
(piacerebbe cosı̀ chiamarlo in eco al suo bel ricordo della Madonna del
parto di Monterchi) e il suo maestro Lessona e il maestro del maestro
Mortara.
Rapporti, ci venne spiegato, turbolenti e rimasti di basilare importanza
anche per la tanto successiva evoluzione legislativa sul tema che ora ci
interessa tornare a sondare, e per la conversione chiovendiana dovuta
per lo Storiografo a ragioni cui l’allora soverchiante processualista Veneto
non sarebbe rimasto estraneo. Storie di oligarchi, per mutuare la sugge-
stione di Canfora cui Cipriani si ebbe dichiaratamente ad abbeverare, con
pari bravura (in particolare la figura di Piero, i cui «dintorni, l’ombra et i
lumi fanno parere che ella venga innanzi»). Ma a noi oggi i retroscena,
neppur so quanto tutti, o solo alcuni, realmente verosimili, interessano
molto meno del dramma nazionale in cui la nuova codificazione si trovò
ad essere concepita e ad entrare in vigore (nella versione originaria per
pochi anni, e ne scrive Vaccarella, nel già citato recente volume Piero
Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940)).
Alcuni degli approdi della monumentale eppure sempre seducente, ed
invero preziosa, opera di scavo di Cipriani, e non solo quelli relativi a
Chiovenda (cui Piero si sarebbe riallineato, quasi, vien suggerito, con
rinascimentale disinvoltura di commenda guerriera) non mi avevano con-
vinto già allora, in alcun modo.
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Nell’impianto del codice, che realizzava un buon mix fra libertà di-
fensiva ed oneri di autoresponsabilità dei difensori fin dalla fase introdut-
tiva del primo grado, vi erano preclusioni graduali ma non rilassate, e
tendenziale divieto dello jus novorum in appello. Soluzioni abbandonate
dalla prima grossa riforma, nel 1950, tutta tesa a ripristinare il relax del
compito difensivo degli avvocati. Scelta che si rivelò gravida di rischi e
venne a sua volta abolita, in sostanza con un ritorno alla impostazione di
origine, dall’altra grossa riforma, quella della l. n. 353/1990 (vera legge
parlamentare fin dall’inizio, non decreto-legge convertito con modifiche,
dotata dunque di un notevole e poi ineguagliato respiro).
Nel 1990 si è altresı̀ data la immediata esecutività a tutte le sentenze di
condanna di primo grado, e non più solo a quelle di appello oppure già
passate in giudicato. Si è poi consentito alla Cassazione non solo di annul-
lare le sentenze di appello (od eccezionalmente di unico grado) viziate in
diritto o carenti nella motivazione di fatto, ma anche di sostituirle con
decisione di merito senza dover disporre un giudizio di rinvio, allorché a
tal fine non occorrano né nuove prove né nuova valutazione di quelle già
raccolte e quindi non si esigano nuovi accertamenti di fatto (art. 384).
Accertamenti cui la Corte di cassazione, come organo della nomofilachia
e giudice di legittimità, non potrebbe accedere senza snaturarsi.
Per converso il controllo in Cassazione sulla motivazione di fatto, e
quindi il motivo del n. 5 dell’art. 360, in origine nel codice era ristretto al
caso di omesso esame o di flagrante contraddizione. Esso venne però tosto
esteso, per le spinte ad ampliare la tutela del c.d. jus litigatoris, già nel
1950 anche ai casi di motivazione insufficiente, e quindi non omessa ma
intrinsecamente carente, consentendo alla Cassazione penetranti forme di
controllo anche a rischio di qualche snaturamento funzionale.
Nel 2012 si è assistito al ritorno all’antico, con la soppressione di tale
potere e del relativo, pur talora prezioso, mezzo di ricorso per motivazione
insufficiente, nell’ambito di una più generale accentuazione del ruolo no-
mofilattico della Corte, presidiato da apposite ed invero articolate proce-
dure di filtro (introdotte, in varie e mutevoli forme, dal 2006 ed ispirate a
diversi modelli stranieri, estesi nel 2012 anche all’appello, non senza una
certa goffaggine, con gli artt. 348 bis e ter).
L’intero processo del lavoro, disciplinato nel libro secondo, con la l. n.
533/1973 è stato ripensato e riscritto, in origine facendo perno sulla figura
monocratica del pretore, con la dovuta specializzazione ed autonomia
strutturale, nonché reintroducendo le preclusioni iniziali in versione forte;
la oralità della udienza di discussione ex art. 420; i poteri di autonomo
impulso istruttorio del giudice ex art. 421; misure anticipatorie di condan-
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impugnazioni ordinarie, cioè alla cosa giudicata c.d. formale di cui all’art.
324 c.p.c.). Soprattutto, nel titolo quarto del libro sesto del c.c. è regolata
in dettaglio, nel quadro della responsabilità patrimoniale, la esecuzione
forzata nelle sue varie tipologie, compresa la nuova figura (peraltro anti-
cipata da Chiovenda) di sentenza costitutiva che tiene luogo del contratto
definitivo per inadempimento non concluso (art. 2932). Il tutto in raccor-
do dunque con il libro terzo del c.p.c. che disciplina minutamente le forme
e i mezzi, nel quale – ma poteva essere più congruo quel luogo del codice
civile – solo nel 2009 è stata introdotta la tecnica compulsiva per tutte le
obbligazioni di fare e non fare infungibili (estesa poi nel 2015 anche agli
obblighi fungibili, e di dare e consegnare, ma non a quelli di pagamento di
somma di denaro, coperti invece dal corrispondente art. 114, co. 4, lett. e)
c.p.a.) della comminatoria giudiziale delle c.d. astreintes, di ascendenza
francese, appena schizzate all’art. 614 bis c.p.c.
Nel libro terzo, che nel 1940 faceva tesoro delle ricerche di Carnelutti
dei due decenni precedenti e si avvaleva della pratica, seppur distaccata,
saggezza del bolognese Redenti e del talento del suo giovane allievo Car-
nacini, l’impianto si rivelò solido e funzionale. Questo spiega perché le
prime maggiori modifiche, compiute solo nel 2009 e poi nel 2015, 2016 e
2017, sono state di taglio tecnico, sovente minutamente tecnicistico.
Le novità sono volte specialmente a trarre profitto dalla esperienza dei
giudici della esecuzione e a potenziare, con maggiore attenzione al mercato
e alle dinamiche degli incagli creditorii, la fruttuosità ed efficienza della
liquidazione dei beni pignorati, a rendere più lineare la eventualità del-
l’intervento di altri creditori concorrenti e a potenziare le esecuzioni per
espropriazione di crediti e di immobili, quelle più rilevanti specie per i
finanziamenti bancari rimasti insoluti. Si cerca anche di assicurare la tra-
sparenza, e cosı̀ la pignorabilità, degli assets dei debitori, seppur senza
cavalcare forme di marcato ausilio penale alla collaborazione e alla disclo-
sure da parte dei debitori stessi.
Viene infine il libro quarto, vera e propria miscellanea di tanti proce-
dimenti speciali, a tratti un poco trascurato e frettolosamente concepito,
procedimenti fra cui spiccano quello ingiunzionale e quello per convalida
di sfratto locatizio, di solito (a parte i procedimenti di c.d. volontaria
giurisdizione) a cognizione più o meno sommaria. Esso più di tutti ha
subito una miriade di micronovelle legislative. Fra esse spicca però, per
importanza sia pratica sia di principio, la redazione, nel 1990, di tredici
articoli (dal 669 bis al 669 quaterdecies) volti a regolare un unico proce-
dimento cautelare uniforme, ispirato all’equo processo e alla massima
valorizzazione del principio del contraddittorio e del doppio grado di
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10. – Abbiamo notato che quasi tutti i codici europei resistono nel
tempo, sı̀ che quello napoleonico del 1806 fu sostituito meno di quaranta
anni fa, seppur con molti interventi, spesso settoriali, talora di ristruttura-
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zione ampia anche se mai completa che raramente tocca a fondo la parte
generale e le fattispecie delle figure ordinanti.
Da noi, per fare alcuni esempi significativi di questo canone di per-
manenza delle articolazioni sistematiche, gli artt. 81 (limiti alla sostituzione
processuale), 100 (interesse ad agire), 102 e 103 (litisconsorzio necessario e
facoltativo), 105, 106 e 107 (tipologie di intervento volontario e di chia-
mate in causa), 108 e 109 (estromissioni di una parte), 110 e 111 (vicende
successorie), 112 (corrispondenza fra chiesto e pronunciato), 115 e 116
(principii probatori) e tanti altri, anche fuori dal libro I, ad es. la descri-
zione della fattispecie giustificativa dei provvedimenti di urgenza nell’art.
700 o quelle dei due sequestri negli artt. 670 e 671, sono (fortunatamente)
rimasti scritti sempre tali e quali dal 1940 ad oggi.
All’opposto gli artt. 183 e 184, sulle modalità di trattazione della causa
orale e scritta, o l’art. 283, sulla sospensione dell’efficacia esecutiva della
sentenza di primo grado, o anche gli artt. 360 e ss. sui presupposti di
ammissibilità del finale ricorso per cassazione, subiscono continue modi-
ficazioni.
Vi è dunque nel codice una sottile linea divisoria fra una parte –
dovuta tuttora alla penna concisa ed elegante dei sopra ricordati giuristi,
talenti ad un tempo pratici e teorici come usavasi allora – salda e coriacea
rispetto ai dibattiti e agli incalzanti e sovente occasionali interventi sulla
crisi della giustizia civile; salda perché non si occupa di procedura formale
ma dei nessi fra diritto sostanziale e accertamento giudiziale, cercando di
conciliare le complessità di entrambi.
Il resto, forse i tre quarti del tessuto codicistico, è procedura tout court
su cui ogni governo quasi ogni anno mette le mani con intarsi, sovente
goffi, e più dannosi che utili, tanto da rendere il nostro codice sempre più
pesante, complicato, difficile da ricordare e da insegnare, talora un vero
puzzle illeggibile, facendo buttare via ogni anno codici e in alcuni casi
commentari prematuramente invecchiati.
Le ragioni di tanto attivismo, dagli esiti malsani, e su cui chiunque nei
ministeri o nelle commissioni parlamentari si sente vocato, sono di solito,
paradossalmente, offerte dalla ricerca di snodi o applicazioni interne ai
procedimenti più adatte a garantire la mitica ragionevole durata (sempre
senza investire sulle strutture umane e logistiche e dunque senza esiti degni
di nota, salvo l’aumento dei transactional costs di incertezze e tempi morti
di acclimatamento ai sempre nuovi marchingegni). L’altra zona del codice,
la area sacra delle strutture di tutela, mette invece soggezione e rimane del
resto estranea alle tentazioni efficientistiche e di continua ri-dislocazione
degli addendi procedimentali.
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scosta dallo spirito e dal gergo dei secoli intermedi, e nella vissuta eppur
relativistica sapientia rerum ed intuitus personarum.
Nel primo convegno, fiorentino, non a caso, dei processualisti italiani
proprio del 1950, con otto stranieri (ci precisa Cipriani), Piero lo poté
presentare come il più avanzato e razionale al mondo, per comune globale
consenso. Non era un vanto avventato, pur se simili gerarchie sono natu-
ralmente non tanto optative quanto inverificabili, in assenza di reali para-
metri stipulativi.
Halevai sheyaamod, si dice in questi casi ... e ovviamente non durò.
Prima entrato in tensione proprio nel fattore umano, del resto incappato
subito nelle traversie delle strane e tante semi-guerre del bellicoso regime,
che ripudiato precipuamente in alcune delle più caratterizzanti norme.
La difesa dottrinale, in cui Piero ebbe alleati Andrioli, Allorio, Micheli
e quasi tutta la dottrina e in sostanza anche il Consiglio nazionale forense
che presiedette (dottrina che vedeva i grandi progressi, e voleva credere
che la liberazione avrebbe scatenato nuove energie positive anche nelle
nostre corporazioni ponendo termine a certi disservizi di epoca bellica), fu
vibrata ma quasi ineffettiva: gli avvocati scopertamente, i magistrati semi-
tacitamente, molti politici ideologicamente (come Cipriani nei suoi Scritti
in onore dei Patres, ricostruisce in ogni piega) segnarono convergenze forti
che sotto la guida poco dialogante soprattutto dell’avvocato-ministro co-
sentino Fausto Gullo – un durissimo comunista olim dell’ala antigramscia-
na di Bordiga, spregiatore di tutti i diritti borghesi e di ogni senso religio-
so, perseguitato dal fascismo e riparato in Russia, assai lontano dalla sou-
plesse e dalla art of distinguishing del predecessore Togliatti, tutto votato ai
contadini del Mezzogiorno (ma a cui nel 1947 furono aperte le pagine
della Processuale) – decretarono, non certo la semplice abrogazione da
molti auspicata, tuttavia certo un discreto letto di Procuste, quasi un auto
da fe’, al disegno nella sostanza razional-liberale del libro II del codice,
spacciandolo per prodotto autoritario e dirigista, antipopolare e libertici-
da, etc.: e cosı̀ di fatto allentandone tutti gli snodi e congegni della tratta-
zione e delle impugnazioni nei rilassatissimi termini che molti fra noi
ricordano e videro inoperosamente all’opera fino al 1995 (non senza qual-
che aspetto positivo, come il potenziamento del famoso sindacato ex n. 5
dello art. 360).
Purtroppo si perse invece la occasione di intervenire a fondo, nel
meno ben costrutto libro IV, sul cautelare e la vecchia e autoritaria disci-
plina del contraddittorio e della durata dei sequestri e sul significato della
tutela monitoria in cui un prodotto non realmente cognitivo, ancorché
decisorio come il decreto ingiuntivo, può agevolmente divenire un grani-
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Sono i valori del Rinascimento della Italia centrale, quelli che opposi in
breve al pur ammirato franco atto di accusa di Cipriani, allorché ebbi il
grande piacere ed onore di essere fra i pochi interlocutori appassionati alle
sue inimitabili ricerche (che in metafora indicarono in Piero una sorta di
Cervino, meno sommo del Bianco e del Rosa, le altre due C, credo in
ordine alfabetico, ma più netto, sfaccettato, men massiccio, eppur pietro-
so, impennato verso il cielo del minaccioso e globale futuro cui neppure i
processualisti possono guardare immaginando stelle fisse).
Riusciremo, noi posteri, noi nutriti di telematica scrittoria e refrattari
alle discussioni guardandosi negli occhi, a farne/vederne un altro di pari
intensità di ispirazione, dopo tanti studi anche nutrientemente comparati-
stici?
CLAUDIO CONSOLO
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(1) Testo della relazione a Siena, in data 5 ottobre 2017, nell’ambito del convegno
organizzato dalla Università di Siena, Biblioteca Archivio Piero Calamandrei, Fondazione
Centro di Iniziativa Giuridica Piero Calamandrei, su «Processo e democrazia. Le lezioni
messicane di Piero Calamandrei».
(2) P. Calamandrei, La Cassazione civile, I e II, Torino 1920.
(3) V., se vuoi, A. Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, Torino 2005;
nonché L’evoluzione storica della Cassazione civile e la genesi dell’art. 65 ord. giud., in
Trattato dei processi civili davanti alla Corte di cassazione, a cura di A. Didone e F. De
Santis, Milano 2018, 61 ss.
(4) P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei procedimenti cautelari,
Padova 1936.
(5) A. Panzarola, R. Giordano, I provvedimenti di urgenza (art. 700 c.p.c.), Bologna
2016.
(6) Le sei conferenze, tenutesi dal 14 al 28 febbraio 1952, sono state raccolte nel
volume, con prefazione dell’autore, Processo e democrazia, Padova 1954, poi in Opere
giuridiche, I, Napoli 1965, a cura e con avvertenza di M. Cappelletti, 618 ss.
(7) E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1958, 1 ss.,
spec. 13.
(8) P. Calamandrei, Uomini e città della Resistenza. Discorsi, scritti ed epigrafi (1955), a
cura e con introduzione di S. Luzzatto, prefazione di C.A. Ciampi, Roma – Bari 2006.
(9) La carrellata di profili umani colpirà in particolare chi coltivi l’idea del ruolo
determinante delle persone in carne ed ossa, con tutto il loro carico di storicità, nel farsi
della esperienza giuridica in consonanza con i bisogni della vita.
(10) Da Guicciardini a Cino da Pistoia (poeta oltre che giurista, come risaputo).
(11) E da una altrettanto profonda e complessiva autoriflessione intellettuale dopo
l’orrore del secondo conflitto mondiale (e, si potrebbe forse aggiungere, all’indomani della
privata agnizione circa il ruolo di comandante partigiano e militante comunista del figlio
Franco).
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(12) «Senza indipendenza non può esservi nel giudice quel senso di responsabilità
morale che è la prima virtù del magistrato».
(13) L’avvocatura è per Calamandrei tribuna di dignità civile e libertà. Il Maestro
fiorentino lo aveva già affermato, proprio a Siena (sede del convegno in suo onore), con
la prolusione – L’avvocatura e la riforma del processo civile – al corso ufficiale di Procedura
civile e ordinamento giudiziario nella Università della città del 16 gennaio 1920. A Siena
Calamandrei arrivò, dopo il concorso del 1919, da professore ordinario. Vi rimase fino al
1924, quando passò alla Università di Firenze.
(14) L’espressione è di S. Satta, Il mistero del processo, in questa Rivista 1949, 273 ss.,
ora in Il mistero del processo, Milano, 11 ss. Si ricollega alla osservazione sattiana (che «il
processo non è altro che giudizio e formazione di giudizio»), «l’esame di coscienza» di F.
Carnelutti, Torniamo al giudizio, in questa Rivista 1949, 165 ss. Sul punto v. N. Picardi,
L’esame di coscienza del vecchio maestro, ivi 1986, 536 ss.
(15) Sono sı̀ sei lezioni, ma il discorso è unitario: ogni lezione riprende la precedente. Vi
sono richiami interni e rinvii esterni (espliciti o meno) alla produzione di quegli anni.
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«personalismo» (16), nel quale domina uno spiccato senso umano del di-
ritto congiunto al rifiuto (o comunque al forte ridimensionamento) del
logicismo, astrattismo e dogmatismo. Ne deriva una prestazione intellet-
tuale risolutamente tesa a segnare lo spazio per un vero e proprio diritto
processuale dell’uomo e per l’uomo (17), col fermo proposito di avvicinarsi
all’ideale della «miglior giustizia attraverso maggior libertà».
(16) Nelle lezioni messicane sono citati tanto la rivista Esprit («una delle voci più alte
dello spirito europeo»), quanto Emmanuel Mounier (deceduto solo due anni prima, nel
1950) e la sua domanda angosciosa sulla giustizia politica.
(17) Si può a giusto titolo parlare di «personalismo processuale». «La persona non è
una cellula» – aveva scritto nel 1947 E. Mounier, Che cos’è il personalismo?, Torino 1975, 14
–, «ma un vertice, da cui partono tutte le vie del mondo» (comprese le vie del processo, ci
assicura Calamandrei).
(18) Più che mai attuali adesso che si vorrebbe fare a meno, nel processo civile, di
regole predeterminate. V. infra, § 9.
(19) G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto (1901), in Saggi di diritto
processuale civile, I, Milano 1993, 353 ss.; S. Satta, Il formalismo nel processo (1958), ora in Il
mistero, cit., 81 ss.
(20) L’opposta veduta sul punto di Chiovenda e Satta (v. nt. prec.) rispecchia il
problema terminologico, a monte, di cosa sia da intendere con quelle parole (formale,
formalistico, ecc.). In assenza di accordo sul punto, la questione diviene oziosa.
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(21) Sin dal primo organico codice di procedura civile della storia, quello di Luigi XIV
del 1667. V. anche nt. 27.
(22) Compreso il vigente codice di procedura civile del 1940.
(23) Sulla penetrazione, a fianco delle regole, anche dei principi nei codici di procedura
civile più recenti v., se vuoi, A. Panzarola, Alla ricerca dei substantialia processus, in questa
Rivista 2015, 1157 ss.
(24) Di «principi di ragione comune» parlava G. Pisanelli nella sua Relazione sul primo
libro del progetto di codice di procedura civile (26 novembre 1863), in Codice di procedura
civile del Regno d’Italia 1865, a cura di A. Giuliani e N. Picardi, Milano 2004, 10.
(25) Cfr. S. Satta, in Il mistero, cit., 30.
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(26) Nel prosieguo della trattazione saranno evidenziati altri aspetti, ad esempio quello
legato alla demistificazione del compito della Cassazione di assicurare la esatta osservanza e
la uniforme interpretazione della legge: v. infra § 7.
(27) Insieme alla Ordonnance criminelle del 1670. V. retro in nt. 21.
(28) Sul fenomeno storico della codificazione del processo continentale vagliato da
Nicola Picardi v., se vuoi, A. Panzarola, Le ricerche sulla giustizia di Nicola Picardi, in
Riv. trim. dir. proc. civ. 2017, 1167 ss., 1184.
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(30) Si può qui immaginare il trapasso da una concezione soltanto formale (c.d. debole)
del contraddittorio ad una concezione sostanziale (c.d. forte) del contraddittorio: v., se vuoi,
anche per riferimenti ulteriori, A. Panzarola, Alla ricerca, cit., 692 e note.
(31) Montesquieu, De l’esprit des lois (1748), trad. it. Lo spirito delle leggi, Torino 1965
(a cura di Cotta), I, 158 (libro VI, cap. II). Nelle lezioni messicane Calamandrei accenna con
disapprovazione alla celebre concezione del filosofo francese del giudice quale «bocca della
legge». Sulla critica del sillogismo giudiziario v. infra § 7.
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sicurezza dei cittadini, spesso si troverà che sono troppo poche: e si vedrà
che le difficoltà, le spese, le lungaggini, i pericoli stessi della giustizia, sono
il prezzo col quale ogni cittadino deve pagare la propria libertà» (32).
Anche Calamandrei insiste sulla «eccessiva complicazione del procedi-
mento», che gli appare peraltro l’inevitabile riflesso della sfiducia (una sfi-
ducia che fatalmente «rallenta e complica il processo») di una parte nei
confronti dell’altra e di entrambe verso il giudice: se tra i soggetti del pro-
cesso non corre (come non corre ora, inutile dirlo) un sentimento di reci-
proca fiducia, non resta che confidare nelle prescrizioni formali (nella loro
«forza frenante», come l’abbiamo definita). Solo esse sono in grado, da un
lato, di arginare «un giudice burbero o insofferente», che – in assenza di
quelle prescrizioni – «profitterebbe» dei suoi poteri «per troncare il dibattito
alla prima udienza e liberarsi cosı̀ dalle fastidiose insistenze dei difensori» e,
dall’altro, di impedire gli stratagemmi e tranelli dei litiganti di mala fede.
Come per Montesquieu il tecnicismo le regole e le forme processuali
sono il «prezzo col quale ogni cittadino deve pagare la propria libertà»,
anche per Calamandrei la «complicazione del procedimento» va elevata a
presupposto indispensabile del medesimo obiettivo. Se ne potrebbe prescin-
dere – lascia intendere il Maestro fiorentino – se cambiasse radicalmente il
rapporto degli avvocati tra loro e in particolare tra essi e i magistrati. È sul
piano del costume giudiziario (33) che Calamandrei vorrebbe volontaristica-
mente intervenire, quantunque poi – anche in questo caso – lo spirito di
concretezza ed il disincantato rispecchiamento della realtà «cosı̀ come è»
(cifre distintive di tutte le lezioni messicane), lo inducano ad un complessivo
scetticismo. Se questi rapporti (34) non migliorano né possono migliorare –
seguendo l’esempio anglosassone, magnificamente tratteggiato con pochi
schizzi –, ad assicurare libertà e pienezza del contraddittorio restano unica-
mente (questo par di cogliere in definitiva dalla lettura delle lezioni messi-
cane) regole e forme, vera e perdurante «forza frenante» di ogni arbitrio.
Allo stato non solo il tecnicismo è inevitabile, ma è il necessario fon-
damento della libertà, come l’avvocato (che di quella tecnica è il mini-
stro) (35). E Calamandrei – mi piace aggiungere – non ha mai smesso di
Alla fine della avvocatura segue la fine della giustizia. Gli esempi della Prussia e della Russia
di Lenin sono illuminanti. Sulla sostituzione (sia pure per poco tempo) degli avvocati con i
«consigli di assistenza» in Prussia, v, in ultimo, C. Grahl, Die Abschaffung der Advokatur
unter Friedrich dem Großen: Prozeßbetrieb und Parteibeistand im preußischen Zivilgericht-
sverfahren bis zum Ende des 18. Jahrhunderts unter besonderer Berücksichtigung der Mate-
rialien zum Corpus Juris Fridericianum von 1781, Göttingen 1994. Per la Russia cfr. V.
Sebestyen, Lenin. La vita e la rivoluzione (2017), Milano 2017, 65 s.
(36) P. Calamandrei, Un caso tipico di malafede processuale (1941), ora in Opere, I, cit.,
477 ss., spec. 479.
(37) Come pure nella Russia comunista.
(38) Cfr. B. Mertens, Rechtsetzung im Nationalsozialismus, Tübingen 2009, 98 ss.
(39) P. Calamandrei, Il nuovo processo civile e la scienza giuridica, in Opere, I, cit., 456
ss., spec. 467 (in rapporto alla Russia comunista). V. anche P. Calamandrei, Fede nel diritto,
a cura di S. Calamandrei, Roma-Bari 2008.
(40) L’espressione è di M. Cappelletti, Presentazione a P. Calamandrei, in Opere giuri-
diche, II, Napoli 1966, XI.
(41) Un discorso che si articola in svariati contributi fra il 1938 e il 1943. Si ricordino,
fra gli altri, lo scritto del 1938 Abolizione del processo civile?, ora in Opere, I, cit., 386 ss.,
quello del 1942 su La certezza del diritto e la responsabilità della dottrina, ivi, 504 ss., l’altro
(citato) del 1941 dal titolo Il nuovo processo civile e la scienza giuridica, ivi, 456 ss.
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(45) Sistema che presuppone il «ripensamento di tutta la materia sotto alcuni principi
sommi»: principi «capaci di abbracciare in una organica unità tutti gli istituti del diritto
positivo e di dare a ciascuno la collocazione meglio rispondente alla sua funzione».
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gono una logica che non aspira a cogliere verità oggettive e precostituite,
ma si accontenta di tendere a verità probabili, oggetto di continua di-
scussione. Non vi è più spazio per costruzioni astratte o assiomi o verità
evidenti e metastoriche, ma c’è invece il franco ricorso ad una «logica del
senso comune» destinata a facilitare l’interpretazione basata sulla ragio-
nevolezza, se non addirittura sul sentimento (46). È un vero e proprio
ripensamento esistenziale, dettato dal fallimento pratico di quel metodo
astratto e dalla presa d’atto che l’avere innalzato «costruzioni monumen-
tali di concetti, maestose come cattedrali gotiche», non ha portato alla
giustizia attraverso la libertà (47).
Gli istituti esaminati nelle lezioni messicane mostrano cosı̀ un carattere
relativo, mutevolezza nel tempo e variazioni nello spazio, che a loro volta
sono il fomite per squarci storici e rapsodiche notazioni di diritto compa-
rato che concorrono a profilare, al posto del tradizionale monismo meto-
dologico, un vivace sincretismo dei metodi. Nello studio dell’attività del
giudice ai profili burocratici (homo burocraticus) sono preferiti le tecniche
di ragionamento e gli strumenti della decisione (decision making) (48). Alla
critica del nostro modello della camera di consiglio si giustappone l’inte-
resse per l’opinione dissenziente e per il sistema (seguito pure in Messico
dove era ospite) della deliberazione pubblica della sentenza e comunque
l’attenzione per la collegialità (49) che si intreccia con il tema della pub-
blicità, vale a dire – scrive Calamandrei facendoci tristemente pensare alla
condizione presente del nostro giudizio di cassazione dopo la legge n. 197
del 2016 – alla «garanzia fondamentale del processo nella fase dell’udien-
za». Non sono comunque questioni – lasciano intendere le lezioni messi-
cane – che si possono affrontare soltanto sul filo della logica. Concorrono
a definirle altri dati, che introducono il rilievo essenziale delle concrete e
specifiche forme di vita che condizionano la struttura del processo con le
regole che ne informano la trama. Che è poi anche un incessante stimolo a
(46) Sul sentimento del giudice nel momento del giudizio v. infra, note 61 e 64.
Calamandrei ha anticipato una tendenza dei nostri tempi, considerato che esiste attualmente
una vasta letteratura sul sentimentalismo giuridico: v., anche per riferimenti, le stimolanti
pagine di L. Corso, I due volti del diritto. Élite e uomo comune nel costituzionalismo
americano, Torino 2016, 176 ss.
(47) Il senso di scontentezza e quasi di angoscia che emerge dalle lezioni è lo stesso che
si coglie nelle considerazioni del 1950 di Processo e giustizia, in Opere, I, cit., 563 ss.
(48) Da qui nasce l’interesse di Calamandrei – testimoniato dalle lezioni messicane –
per gli ordinamenti inglese, statunitense e messicano.
(49) La riflessione sulle due facce (positiva e negativa) della collegialità paiono acutis-
sime: se essa opera come salvaguardia dell’indipendenza di giudizio, può però anche somi-
gliare alla complicità.
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(55) Il contraddittorio garantisce cosı̀ tutti i soggetti del processo perché presuppone il
riconoscimento dell’altro da sé.
(56) Si può cogliere una prefigurazione di quello che oggi denominiamo il contraddit-
torio in senso forte.
(57) La nozione sostanziale di contraddittorio (il contraddittorio in senso forte) possie-
de una funzione compensativa delle ineguaglianze che, per la natura delle cose, esistono fra
le parti, soprattutto fra ricchi e poveri. Si tratta di una preoccupazione presente in varie
parti delle lezioni messicane: fra l’altro Calamandrei allude criticamente alla «non rimediata
sperequazione fra parte ricca e povera» all’interno del processo. Egli sente che, per garantire
reciprocità ed uguaglianza, il processo deve essere fondato su relazioni paritetiche – su
quello che è stato denominato da Giuliani e Picardi l’«ordine isonomico»: v. retro in nt.
29 – e tali sono soltanto quelle relazioni imperniate su di una effettiva parità pratica, che
vuol dire tanto parità tecnica quanto parità economica.
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(61) Calamandrei auspica che vi sia «coincidenza tra l’intuizione che detta e la ragione
che controlla».
(62) Al sentimento del giudice (quell’intuizione e, si direbbe, fantasia che gli rivelano
«la tesi da sostenere», poi suffragata dal discorso razionale della motivazione) corrisponde il
«senso giuridico» dell’avvocato («lenta conquista di decenni di esperienza forense»).
(63) Si pensi allo studio molto noto del venticinquenne Calamandrei del 1914 sulla
Genesi logica della sentenza civile, ora in Opere, I, cit., 11 ss. o all’altro saggio del 1917 sui
Limiti fra giurisdizione e amministrazione nella sentenza civile, ivi, 65 ss. Un’accentuazione
del ruolo dell’elemento volitivo insito nel giudizio si coglie nel contributo del 1924 su La
sentenza soggettivamente complessa, ivi, 106 ss. In argomento v. C. Nitsch, Il giudice e la
legge. Consolidamento e crisi di un paradigma nella cultura giuridica italiana del primo
Novecento, Milano 2012, 32 ss., 75 ss.
(64) «Nessuno dei due» giudici ha errato: «perché, se la legge era identica per entram-
bi, se i fatti erano identici, diverso era il sentimento individuale del giudicante attraverso il
quale quella legge e quei fatti si sono incontrati». Lo stesso episodio è narrato, in termini
non troppo diversi, anche nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, rist. Firenze 1989,
con introduzione di P. Barile, 151 ss. D’altronde anche altri temi trattati nelle lezioni
messicane riaffiorano pure nelle pagine dell’Elogio (dal tema delle relazioni fra giudici e
avvocati a quello del sentimento nelle sentenze, passando per la condanna del segreto della
camera di consiglio e del conformismo giudiziario, ecc.).
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(65) Cardine essenziale del processo nel sistema della legalità, accompagnato dalle
garanzie millenarie o secolari che fanno un processo quel che è e deve essere, in contrap-
posizione al processo politico, nel quale il giudice diventa parte, battendosi per una causa,
ispirandosi al suo «sentimento (o risentimento) di uomo».
(66) V., se vuoi, quanto ai temi di seguito indicati nel testo, A. Panzarola, Il principio
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dispositivo preso sul serio (a proposito di un recente volume), in Giust. civ. 2017, 701 ss. Va
pure menzionato l’insegnamento della Cassazione che (contro la legge, la unanime dottrina e
il buon senso) insiste ad affermare – in svariate ipotesi – l’estensione automatica della
domanda di condanna dell’attore al terzo chiamato dal convenuto (cfr. Le Sezioni Unite,
l’ordine delle questioni di rito e la domanda «automatica», in questa Rivista 2013, 1162 ss.,
1168 s.). Per una lettura in parte diversa (da quella qui proposta) della posizione di Cala-
mandrei circa il dovere di verità v., da ultimo, M. Gradi, L’obbligo di verità delle parti,
Torino 2018, 524 ss., 632.
(67) A. Panzarola, Il principio dispositivo, cit., 718 ss. Il giudicato c.d. implicito pre-
scinde, per definizione, dalla domanda di parte.
(68) A. Panzarola, op. cit., 723 ss. Il tema si riallaccia alle conseguenze pratiche della
distinzione fra domande eterodeterminate e domande autodeterminate (e, prima ancora, alla
pretesa di ricondurre tra queste ultime anche la domanda di nullità del contratto).
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della personalità umana» è garantita dal processo civile perché «la parte
non ha l’obbligo di comparire, non ha obbligo di rispondere all’interro-
gatorio, né di dire la verità; nessun vincolo obbligatorio costringe o limita
la sua volontà». La lezione di Calamandrei ci consegna in particolare l’idea
che la introduzione di un obbligo di dire la verità a carico delle parti si
ripercuoterebbe negativamente sul rispetto della persona che il processo
deve assicurare. Il fatto che non esista e non sia comunque costituzional-
mente giustificato un dovere di verità alla tedesca (un Wahrheitspflicht)
per le parti e – cosa più rilevante ancora – per i loro difensori è da salutare
con favore. Si tratterebbe di un limite (difficile, se non impossibile, da
giustificare) alla loro «libertà». La conclusione riflette un sentire diffuso,
per quanto non universale. Quel dovere non si può imporre ai privati
litiganti, portatori, nel processo, di soli interessi loro personali. Se lo si
introducesse per legge – aveva scritto il Maestro fiorentino in un’altra
occasione – l’edificio del processo di parti a tipo dispositivo crollerebbe.
Una volta ancora l’«essenzialismo» delle lezioni messicane di Calamandrei
ci squaderna sotto gli occhi la autentica posta in gioco, la «protezione della
personalità umana» nel processo civile.
(69) V., se vuoi, A. Panzarola, La Cassazione civile dopo la legge 25 ottobre 2016 n. 197
e i c.d. Protocolli, in Nuove leggi civ. comm. 2017, 269 ss.
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giudizio di cassazione? Come giudicare una riforma che, nella gran parte
delle controversie, costringe la Cassazione a non esibire il suo «volto» ed
esclude gli avvocati dal procedimento che vi si celebra?
Nel giudizio negativo al riguardo pesa senz’altro la circostanza che il
legislatore – eliminando quasi totalmente la pubblica udienza al vertice
della giurisdizione civile – non abbia tenuto conto del fatto (efficacemente
espresso nelle lezioni messicane) che è indispensabile che «le istituzioni
giudiziarie corrispondano all’esigenza di una società di uomini liberi» e
siano perciò aperte al dialogo che può svolgersi solo in una udienza pub-
blica. In caso contrario, con il dialogo è reso impossibile anche il rinsal-
darsi dei rapporti fra giudici e avvocati, con buona pace di tutti i tentativi
che a parole pure si fanno per migliorarli. Dalle pagine delle lezioni mes-
sicane ricaviamo d’altronde l’invito a resistere alla inclinazione diffusa ad
ipostatizzare la funzione nomofilattica assolta dalla Cassazione, nella quale
da più parti si indovina l’unica risposta ai problemi tremendamente seri
che ne rallentano il lavoro. La mentalità soggiacente a questa tendenza ha
preso la perentorietà di una vera e propria ideologia. Tuttavia, proprio
leggendo le lezioni messicane di Calamandrei si rafforza il dubbio che si
esageri in questo modo l’importanza dello ius constitutionis, per innalzarlo
a concetto fondamentale e caricandolo di una pretesa antipluralistica di
esclusività. Tenendo conto delle necessità della vita, occorrerebbe vicever-
sa rinvenire un punto di equilibrio tra ricerca della coerenza dell’ordina-
mento e assicurazione della giustizia nel caso concreto.
Più ampiamente, le riflessioni di Calamandrei illustrate nelle lezioni
messicane consentono di meglio decifrare i fenomeni che recentemente
investono la tutela giurisdizionale civile dei diritti e che mostrano numerosi
elementi di radicale discontinuità rispetto al passato. Intendiamo riferirci,
fra l’altro, all’espansione della jurisdictio; all’approccio utilitaristico (70) e
«quantitativo» alle problematiche processuali (cui si associa la pretesa di
dedurre il giusto dall’utile); alla promozione dei principi (71) a scapito delle
regole processuali; alla delegittimazione della legalità procedurale congiun-
ta all’esortazione alla semplificazione e alla flessibilità dei giudizi, ecc. Un
posto di primo piano va assegnato pure alla inclinazione giurisprudenziale
a moralizzare la trama processuale, con la costruzione della categoria del
c.d. abuso del processo: con l’utilizzo di tale nozione, nelle sue molteplici
(77) Il quale, non senza una vena di rassegnato fatalismo, notava che «veramente
processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno scopo»: S.
Satta, in Il mistero del processo, cit., 24.
(78) D’altra parte, non è sciolta la alternativa fra due nozioni distinte di giustizia, una
«giuridica», l’altra «sostanziale». Giustizia – scrive Calamandrei – «non vuol dire soltanto, in
senso legalitario, applicazione della legge in modo esatto; ma vuol dire instaurazione di leggi
in cui la ripartizione del dolore e della felicità tra gli uomini sia fatta con un certo equilibrio;
di leggi, in cui tutta la ricchezza non sia da una parte e dall’altra parte tutta la miseria». Si
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capisce allora che il Maestro fiorentino, come non ricompone la frattura (discendente dalla
duplice natura del diritto) tra giustizia e legalità (tra sostanza e forma, si direbbe), cosı̀
oscilla tra una visione procedurale della giustizia (che fa perno sulla pluralità delle verità
possibili e sul loro carattere relativo) e una concezione sostanziale di essa (imperniata su di
una verità sostantiva). V. anche infra nt.80.
(79) Calamandrei dissente da Satta, secondo il quale, come evidenziato retro alla nt. 44,
la libertà nel processo finisce per impedire il raggiungimento della giustizia.
(80) L. Buffoni, Processo e pluralismo nell’ordinamento costituzionale italiano: apologia e
limiti dell’universalismo procedurale, Napoli 2012. Sui limiti della «giustizia procedurale» v.
M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma – Bari 2009, 100 ss.
V. anche retro nt.78.
(81) Calamandrei accoglie nelle lezioni messicane la ricostruzione del processo come
procedimento. Al contempo, però, ribadisce i meriti della nozione di rapporto giuridico
processuale (nella elaborazione che ne diede Chiovenda, il Maestro fiorentino scorge la
traduzione nel campo del processo dello stato di diritto, che fa del cittadino un soggetto
autonomo di diritti e doveri, non un suddito). Questa ambivalenza può aiutare a compren-
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dere un problema più generale. Vogliamo osservare, cioè, che i numerosi contributi che
nella seconda metà del XX sec. hanno utilizzato (in vario modo e secondo prospettive non
riducibili ad unità) il paradigma del procedimento per descrivere il processo, ne hanno
fatalmente allentato il legame con i soggetti che vi operano, da colui che ne aziona il
meccanismo al giudice che è obbligato a pronunciare la decisione. Il recupero del diritto
di azione individuale, passando per il diritto alla tutela giuridica (Rechtsschutzanspruch),
mentre asseconda la scelta per la soggettivizzazione della domanda di tutela nella cornice
del rapporto giuridico processuale, può essere la chiave di volta per risolvere problemi tanto
teorici quanto pratici. L’utilizzo della nozione di procedimento nel campo del processo
rischia viceversa di offrire una visuale di tipo sostanzialmente amministrativistico del pro-
cesso.
(82) V. se vuoi, sul punto, A. Panzarola, Presupposti e conseguenze, cit., 64 ss.
(83) Ora in Opere, I, cit., 537 ss., p. 562. Anni prima il Maestro si era esercitato su un
tema affine: Regole cavalleresche e processo, ivi, 226 ss.
(84) R. Bordeaux, Philosophie de la procédure civile, mémoire sur la réformation de la
justice, Évreux 1857, (rist. di Hachette Livre, in collaborazione con la BnF), 15.
(85) Sul quale v. A. Schönke, Zum zehnten Todestag von James Goldschmidt, in Deut-
sche Rechts-Zeitschrift. 5, 1950, 275 ss.; W. Sellert: James Paul Goldschmidt (1874–1940), in
Deutsche Juristen jüdischer Herkunft, a cura di H. Heinrichs e altri, München 1993, 595 ss.
(86) P. Calamandrei, Un maestro di liberalismo processuale, in questa Rivista 1951, 1 ss.
(87) Che della politica – secondo la celebre definizione di Carl von Clausewitz – è una
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ANDREA PANZAROLA
Professore ordinario nell’Università Lum «Jean Monnet»
di Bari (Casamassima)
prosecuzione con altri mezzi. «Der Krieg ist eine bloße Fortsetzung der Politik mit anderen
Mitteln»: Vom Kriege (1832), I, cap. primo, ‘Unterkapitel 24’ (Überschrift).
(88) In Der Prozeß als Rechtslage, Berlin 1925 (rist. Aalen 1986), 292. Sul volume v. P.
Calamandrei, Il processo come situazione giuridica, in questa Rivista 1927, I, 219 ss.
(89) P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., 562.
(90) Calamandrei non cessa di deplorare il «divorzio tra la scienza del processo e gli
scopi pratici della giustizia». Nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, cit., 16, si legge:
«La giustizia c’è, bisogna che ci sia, voglio che ci sia».
(91) V. retro nt.78.
(92) Davvero «primo vero esponente della concezione eminentemente garantistica del
processo»: E.F. Ricci, Calamandrei e la dottrina processualcivilistica del suo tempo, in Aa.Vv.,
Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano 1990, 76
ss., spec. 96.
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DIBATTITI
dal Presidente del locale Consiglio dell’Ordine degli avvocati) nella quale
(se del caso con la integrazione del materiale istruttorio tramite il deposito
i documenti contenenti prove atipiche) in una unica udienza (salvo un
possibile rinvio di soli dieci giorni) il terzo designato, dopo avere effettuato
un ultimo tentativo di conciliazione, emana una decisione allo stato degli
atti, decisione destinata a divenire immutabile se non apposta davanti al
giudice sulla falsariga della opposizione a decreto ingiuntivo entro un
breve termine perentorio.
Nella eventuale fase davanti al giudice, dopo aver distinto la contro-
versia fra semplice e complessa, è soppressa la fase di precisazione delle
conclusioni e la sentenza dovrebbe seguire senza soluzione di continuità
subito dopo la chiusura della istruzione sulla falsariga degli attuali artt. 281
sexies e quinquies».
Sulla falsariga di consolidate esperienze straniere, la proposta propo-
neva altresı̀ di attribuire, nei processi relativi a diritti disponibili, valore di
ammissione legale alla contumacia del convenuto (con conseguente chiu-
sura immediata del processo e con sentenza in calce all’atto introduttivo), e
l’introduzione di un provvedimento sommario volto a contrastare l’abuso
del diritto di difesa da parte del convenuto, il tutto sulla base di prassi
consolidate dei processi civili francesi e inglesi.
SOMMARIO: 1. Il coordinamento dei due giudizi e l’ampia equiparazione del lodo alla sen-
tenza: la scelta della reciproca autonomia e del «parallelismo» dei procedimenti. – 2. La
domanda di accertamento della efficacia/inefficacia della convenzione arbitrale prima
della pendenza dell’arbitrato: pregiudizialità ex art. 295 e efficacia di giudicato, sempre
rilevabile d’ufficio, della sentenza (impugnabile ex art. 42 c.p.c.). – 3. Mancata propo-
sizione dell’eccezione ex art. 817, 2˚ comma, nell’arbitrato e dell’eccezione ex art. 819
ter, 1˚ comma, nel giudizio ordinario: effetti della «decisione» di merito del giudice. –
4. Funzione e limiti dell’inapplicabilità di «regole corrispondenti agli artt. 44, 45, 48, 50
e 295». – 5. La fisiologica soluzione del latente conflitto di giudicati originati dai
procedimenti «paralleli»: il primo giudicato sulla competenza. – 6. La sentenza (o il
lodo) soggetto ad impugnazione non vincola, ex art. 337, 2˚ comma, l’«altro» giudi-
cante: tre casi concreti.
(1) Considerazioni svolte nel corso di un incontro di studio sui rapporti tra giudizio
ordinario ed arbitrato presso la Corte d’Appello di Roma: di qui l’assenza del consueto
corredo di citazioni della copiosa dottrina sul tema.
(2) E quindi come norma alla quale ancorare la dichiarazione di illegittimità costitu-
zionale della mancata previsione della translatio judicii (avente lo stesso ruolo dell’art. 30
legge n. 1034 del 1971 nella sentenza n. 77 del 2007).
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5. – Tirando le somme del discorso che si è fin qui svolto, in ogni caso
di contemporanea pendenza del processo ordinario e del procedimento
arbitrale è prevista una «fisiologica» soluzione per cui la decisione finale è
quella che scaturisce dal procedimento che si è concluso per primo con
una pronuncia definitiva sulla competenza; solo nel caso di mancata pro-
posizione sia della eccezione di compromesso che dell’eccezione di incom-
petenza degli arbitri la prevalenza è attribuita alla mera decisione di merito
del giudice ordinario, se e purché anteriore al formarsi del giudicato sul
lodo.
Si tratta del medesimo criterio, applicato alla questione di competenza,
adottato quanto al merito dall’art 395 n. 5 e dall’art. 829, n. 8, c.p.c.; ed
applicato alla questione di competenza perché la legge – avendo consentito
a ciascuna parte di rivolgersi in qualsiasi momento all’organo ritenuto
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novembre 2012 (in Riv. arb. 2014, 369), preso atto che nel frattempo era
stato emesso il lodo favorevole all’attore e che esso era stato impugnato, ha
ritenuto applicabile, ma in modo assai singolare, l’art. 337, 2˚ comma,
c.p.c., affermando che «il principio delle ‘vie parallele’ trova il suo limite
naturale nella contemporanea esigenza di prevenzione del contrasto di
giudicati (…)» e che «il principio della reciproca indifferenza tra i due
procedimenti è destinato a valere fino a quando in uno dei giudizi non
intervenga una decisione (lodo o sentenza) che come tale è idonea a dare
una composizione provvisoria alle contrapposte posizioni delle parti»;
quindi, rilevato che non erano state prospettate ragioni «in punto di pro-
gnosi sull’esito dell’impugnazione del lodo» e respinta la tesi del conve-
nuto secondo cui la proposizione della domanda al giudice ordinario
equivaleva a rinuncia all’arbitrato, ha dichiarato «la propria incompetenza
essendo la controversia devoluta alla cognizione del collegio arbitrale di
cui allo Statuto». Una decisione, a mio avviso, non poco confusa, perché
mi sembra evidente che l’art. 337 ha la funzione, cui coopera la prognosi
sull’esito dell’impugnazione, di coordinare il contenuto di merito della
seconda decisione alla prima, e tale funzione è incompatibile con il venir
meno della potestas judicandi del secondo organo per ciò solo che una
decisione di merito è, comunque (e, quindi, a prescindere dalla prognosi,
fausta o infausta, dell’esito dell’impugnazione), intervenuta: confusione
che si riflette nella dichiarazione di incompetenza, argomentata con il venir
meno della potestas judicandi per essere intervenuta, con il lodo, una
«composizione provvisoria delle contrapposte posizioni delle parti», ma
disposta per l’esistenza della clausola compromissoria statutaria.
In un caso in cui la parte soccombente in un arbitrato aveva adito il
giudice ordinario sulla base dei medesimi fatti, lı̀ dedotti come inadempi-
mento contrattuale, e stavolta qualificati come fatto illecito, il Tribunale di
Milano, con sentenza 28 settembre 2009 (in Riv. arb. 2012, 321) ha rite-
nuto, con esaustive e limpide argomentazioni, che il diverso titolo giuridi-
co non valesse a rendere «altra» la domanda, ed ha ritenuto conseguente-
mente fondata sia l’eccezione di compromesso sia l’exceptio rei jam judi-
catae: sentenza il cui unico «neo» è, a mio avviso, nel dispositivo nel quale
la dichiarazione d’incompetenza precede quella di questione coperta dal
giudicato, laddove il Tribunale – correttamente adito, a mio avviso, sul
presupposto della «novità» della domanda in quanto extra-contrattuale –
era pienamente legittimato, ed era l’unico legittimato, a rilevare e dichia-
rare che la res era stata già giudicata; mentre non aveva senso dichiarare la
propria incompetenza in base alla convenzione d’arbitrato, perché tale
dichiarazione presupponeva l’assenza del giudicato (e cioè che, anche se
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le parti non si fossero già rivolte agli arbitri, il Tribunale non avrebbe
avuto il potere di decidere nel merito la causa).
Non sembra, infine, da condividere la sentenza 13 gennaio 2016 del
Tribunale di Lucca (in Riv. arb. 2016, 335) che ha accolto la domanda,
proposta dalla parte vittoriosa in arbitrato, di dichiarare il lodo di con-
danna efficace anche nei confronti di un soggetto – quale dominus della
società convenuta in arbitrato – che in quella sede non era stato evocato in
giudizio. Anche a volere, con non lieve fatica, ritenere proponibile una tale
domanda, a me sembra evidente che l’affermata efficacia del lodo nei
confronti di un terzo presuppone l’efficacia nei suoi confronti della con-
venzione d’arbitrato, e pertanto l’incompetenza del giudice ordinario, e
che, per converso, l’inefficacia nei confronti del terzo della convenzione
d’arbitrato implica bensı̀ la competenza del giudice ordinario, ma esclude
in radice che al terzo possa essere estesa l’efficacia del lodo.
ROMANO VACCARELLA
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(1) Si vedano Cass. 26 marzo 2004, n. 6085; Cass. 31 ottobre 2007, n. 22959, in
Fall. 2008, 3, p. 356 s., e p. 785 con nota di Conte, Inammissibilità dell’opposizione tardiva
a decreto ingiuntivo proposta come eccezione in sede di verifica dei crediti; Cass. 13 marzo
2009, n. 6198, in Fall. 2009, 1351, Cass. 23 dicembre 2011, n. 28553, in Fall. 2012, 10,
1253, Cass. 13 febbraio 2012, n. 2032, in Fall. 2012, 657, con osservazioni di Pellegrinelli;
Cass. 11 ottobre 2013, n. 23202, in Fall. 2014, 947, Cass. 27 gennaio 2014, n. 1650, in Giur.
it. 2014, 11, con nota di Conte, Decreto ingiuntivo, provvedimento ex art. 647 c.p.c. e
fallimento dell’intimato; Cass. 31 gennaio 2014 n. 2112, in Dir. fall. 2014, 592 con nota
di Parisi, Brevi note sul rapporto tra decreto ingiuntivo non opposto e fallimento; Cass. 23
luglio 2014, n. 16739; Cass. 29 febbraio 2016, n. 3987, in Fall. 2017, 352, Cass. 26 aprile
2017 n. 10208; Cass. 10 novembre 2017 n. 23775; Cass. 24 ottobre 2017, n. 25191. Per la
giurisprudenza di merito: Trib. Roma 5 dicembre 2000, in Dir. prat. soc. 2001, 14-15, p.
103; App. Roma 8 febbraio 2002, in Gius 2002, p. 1667; Trib. Roma 26 febbraio 2003, in
Dir. fall. 2003, II, 488, con nota di Di Gravio, L’esecutorietà del decreto ingiuntivo per
l’ammissione al passivo nel fallimento; Trib. Sulmona 30 dicembre 2004, in Fall. 2005, p.
468; Trib. Trani 26 gennaio 2007, in Rep. Giur. it. 2007, voce Ingiunzione, n. 55; Trib.
Pescara 17 ottobre 2008, in Fall. 2009, 239; Trib. Bari 5 gennaio 2011; Trib. Treviso, 21
luglio 2011, in www.ilcaso.it; Trib. Bari 5 gennaio 2011, in Rep. Giur. it. 2011, voce
Ingiunzione, n. 107; Trib. Treviso 22 maggio 2013, in Dir. fall. 2014, II, p. 592; Trib.
Cassino 9 agosto 2016, Trib. Rimini 24 febbraio 2018.
Contra, a quanto consta, Trib. Napoli 10 aprile 2009, in www.altalex.com; Trib.
Brindisi 28 giugno 2011, in De Jure; Trib. Busto Arsizio 21 maggio 2012, in www.avvoca-
tibustoarsizio.it; Trib. Lucca 26 maggio 2015, in Giur it. 2015, 2380 con nota di Griffini,
Decreto ingiuntivo non opposto nel termine e fallimento: continua il dibattito. In precedenza,
già App. Cagliari 18 aprile 1961, in Rep. Foro. it. 1961, voce Ingiunzione (Procedimento per),
n. 50, aveva chiarito che «la declaratoria di esecutività non riguarda l’efficacia di ‘cosa
giudicata’ del decreto ingiuntivo, ma piuttosto la sua efficacia di titolo esecutivo».
(2) Stante la finalità molto circoscritta di queste osservazioni, nel testo ci si riferirà
genericamente al passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo al netto, invero, dell’ancora
non del tutto sopito dibattito dottrinale vertente sui limiti del predetto giudicato; basti in
proposito rammentare la celebre espressione coniata da Redenti che, proprio per sottoli-
neare la differenza «quantitativa» tra l’autorità di giudicato di una sentenza e quella di un
decreto ingiuntivo, parlava di «preclusione pro iudicato» (una stimolante riflessione, dai
contorni più generali, sulla possibilità che l’autorità di giudicato possa afferire anche a
provvedimenti resi al di fuori delle forme ordinarie, la si trova in Allorio, Nuove riflessioni
critiche in tema di giurisdizione e giudicato, in Problemi di diritto, Milano 1957, II, p. 57 ss.
116; in giurisprudenza, si veda ad esempio Cass., sez. un., 1˚ marzo 2006, n. 4510, in Giur.
it. 2006, p. 2105, con nota di Maffuccini, Chi notifica non acconsente: ovvero non si forma
giudicato sulla parte di domanda non accolta nel decreto ingiuntivo, secondo cui il giudicato
formatosi su un decreto ingiuntivo coprirebbe solo il dedotto e non anche il deducibile.
(3) Cass. 27 gennaio 2014, n. 1650, cit. e Cass. 31 gennaio 2014, n. 2112, cit. Lo stesso
principio di diritto è stato in seguito ribadito da Cass. 26 aprile 2017 n. 10208, cit., e ad esso
si è conformata la giurisprudenza di merito: v. Trib. Treviso, 17 settembre 2014, in www.il-
fallimentarista.it.
(4) Questo orientamento della giurisprudenza di legittimità (per il quale v. le già citate
Cass. 23 luglio 2014, n. 16739; Cass. 11 ottobre 2013, n. 23202; Cass. 13 gennaio 2012, n.
2032; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28553; Cass. 13 marzo 2009, n. 6198; Cass. 31 ottobre
2007, n. 22959) aveva incontrato il consenso di parte della dottrina: Tedoldi, Sub art. 647, in
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È questo l’argomento usato, negli anni, per sostenere la tesi della non
opponibilità alla massa dei creditori di un decreto ingiuntivo non munito
della dichiarazione di esecutorietà prima della dichiarazione di fallimento:
per detta opponibilità alla massa sarebbe infatti indispensabile il giudicato
sostanziale di cui all’art. 2909 c.c., che consisterebbe nella «possibilità del
decreto non opposto di produrre effetti al di fuori del processo», e quindi
anche nel procedimento d’accertamento del passivo (5).
I giudici di legittimità pertanto, non potendo negare un qualche effet-
to processuale alla consumazione della facoltà di proporre opposizione,
separavano, per il solo provvedimento monitorio, il momento del passag-
gio in giudicato formale da quello del giudicato sostanziale.
Giudicato formale e sostanziale non sono, però, due fenomeni diversi
bensı̀ due aspetti dello stesso istituto (6). Per ogni provvedimento giurisdi-
zionale idoneo al passaggio in giudicato, con l’esclusione delle sentenze di
mero rito, i due momenti coincidono: quando, ai sensi dell’art. 324 c.p.c.,
le sentenze non sono più soggette ai mezzi ordinari di impugnazione,
essendo spirato il relativo termine (giudicato formale), il loro contenuto
di accertamento fa stato tra le parti, gli eredi e gli aventi causa (giudicato
sostanziale).
Benché si trattasse, con ogni evidenza, di un argomento privo di una
adeguata base giuridica, anche a giudizio della stessa giurisprudenza svi-
luppatasi al di fuori dallo specifico ambito fallimentare (7), è solo con le
citate pronunce n. 1650 e n. 1221 del gennaio 2014 che la Corte di
Cassazione chiarisce che «la diversificazione sul piano temporale tra giu-
dicato formale e giudicato sostanziale non può essere accolta», poiché
Comoglio – Consolo – Sassani – Vaccarella (diretto da), Commentario del codice di procedura
civile, Torino 2014, p. 827; Bozza, Lo stato passivo, in Jorio – Sassani (diretto da), Trattato
delle procedure concorsuali, Milano 2014, II, pp. 897-898.
(5) In questo senso Cass. 26 marzo 2004, n. 6085; Cass. 13 marzo 2009, n. 6198 in Fall.
2009, 1351, ed anche Cass. 23 luglio 2014, n. 16739, in Quotidiano giur. 2014, 213, che,
benché successiva alle due citate pronunce «gemelle» del gennaio 2014, ancora separa il
momento del giudicato formale da quello del giudicato sostanziale.
(6) Per tutti, Pugliese, voce Giudicato civile (dir. vig.), in Enc. giur. XVIII, Milano 1969,
p. 802; cui si aggiungano le limpide parole di Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza,
Milano 1935, 45, secondo cui «la cosa giudica formale indica quindi l’immutabilità della
sentenza come atto processuale, la cosa giudicata sostanziale indica questa stessa immuta-
bilità in quanto è riferita al suo contenuto e soprattutto ai suoi effetti»; la giurisprudenza
ribadisce che il giudicato sostanziale altro non è se non «un riflesso» di quello formale: ex
multis Cass. 17 giugno 2003, n. 9685; Cass. 20 aprile 2007, n. 9486; Cass. 20 aprile 2017, n.
9954.
(7) Cass. 3 luglio 1987, n. 5840, in Foro it. 1998, I, c. 1950 ss.; Cass. 2 marzo 1988, n.
2217.
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(8) Su questo specifico aspetto, v. quanto sarà osservato infra, spec. nota 22.
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revocazione nei casi indicati nell’art. 395, nn. 1, 2, 5 e 6»; sono esperibili,
perciò, come emerge chiaramente dal confronto con l’art. 324 c.p.c., i
«mezzi straordinari previsti per l’impugnazione contro i provvedimenti
passati in cosa giudicata, ai quali mezzi si aggiunge, per espressa previsione
dello stesso art. 656, la revocazione per contrasto con precedente giudicato
(art. 395, n. 5) nonché, per l’espressa previsione dell’art. 650 c.p.c., l’op-
posizione tardiva».
Ne consegue «che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichia-
razione di fallimento, di decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. non è
passato in cosa giudicata formale e sostanziale, né può più acquisire tale
valore con un successivo decreto di esecutorietà per mancata opposizione,
poiché, intervenuto il fallimento, ogni credito, secondo quanto prescrive l’art.
52 l. fall., deve essere accertato nel concorso dei creditori, secondo le regole
stabilite dagli artt. 92 ss. l. fall., in sede di accertamento del passivo».
Abbandonata la contrapposizione tra giudicato formale e giudicato
sostanziale, la Suprema Corte è comunque obbligata ad effettuare un
distinguo, questa volta tra giudicato «interno» e «giudicato esterno»: la
mancata opposizione al decreto ingiuntivo nel termine perentorio costitui-
rebbe una mera preclusione alla possibilità di proporla in un momento
successivo (c.d. «giudicato interno» da rilevarsi ex officio nel caso in cui
l’opposizione sia proposta al di fuori del termine di cui all’art. 641 c.p.c.
senza che ricorrano i presupposti dell’opposizione tardiva); il giudicato
esterno, opponibile anche ai terzi (quali sono, ad esempio, i creditori
concorrenti nella verifica dei crediti in ambito fallimentare), si avrebbe
solo con la dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo non oppo-
sto, previo controllo della regolarità della notificazione.
Il nocciolo della posizione della Suprema Corte si individua nella
tutela del contraddittorio: non è possibile che passi in giudicato un prov-
vedimento giurisdizionale se nessuno ha verificato la regolarità della sua
notificazione all’obbligato, mettendolo in condizione di difendersi. Il con-
trollo dell’organo giudiziario ai sensi dell’art. 647 c.p.c. «consiste in una
vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio, che si
pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e
a cui non può surrogarsi, in caso di fallimento, il giudice delegato in sede
di accertamento del passivo».
nuto dopo la notifica del decreto e l’inutile decorso del termine per pro-
porre opposizione ex art. 645 c.p.c., solo se prima della dichiarazione di
fallimento sia stata rilasciata anche la dichiarazione di esecutorietà ex art.
647 c.p.c. (9).
In tali casi, «il decreto ingiuntivo costituisce titolo per l’ammissione del
credito allo stato passivo senza alcuna possibilità di esclusione, non essen-
do consentito al curatore ed al giudice delegato di rimettere in discussione
l’esistenza del credito, atteso che il giudicato sostanziale conseguente alla
mancata opposizione del decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza
del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il
decreto ed il rapporto stesso si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti
impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al
ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione» (10).
Per converso, e in buona sostanza, la posizione del creditore munito di
decreto ingiuntivo non opposto, ma ancora non dichiarato esecutivo ex
art. 647 c.p.c., è equiparata a quella di chi abbia ottenuto il provvedimento
monitorio, ma veda sopraggiungere l’apertura del fallimento del debitore
quando il termine per proporre opposizione non sia ancora spirato, op-
pure nelle more del giudizio (11): anche in questi casi, per consolidata
giurisprudenza, il decreto ingiuntivo, pur non essendo né nullo né annul-
labile (12), non avrà alcun valore nei confronti della massa ed il credito
andrà accertato nell’ambito della procedura concorsuale sulla base della
documentazione depositata dall’istante, al pari di ogni altro credito (13).
(9) Cass. 31 ottobre 2007, n. 22959, cit.; Trib. Milano 11 novembre 2004, in Corr. merito
2005, p. 381. In dottrina Franco, Guida al procedimento di ingiunzione, Milano 2009, 2117;
Concorda con questa soluzione Conte, Decreto ingiuntivo, cit., p. 11, secondo cui nel
procedimento di accertamento del passivo fallimentare non è «sufficiente al creditore, per veder
riconosciuto il proprio credito, allegare il decreto ingiuntivo ed assumere che non sia stato
opposto in termini, essendo necessario che il decreto sia munito del provvedimento di esecu-
torietà apposto dal giudice del procedimento monitorio» e neppure è «sufficiente allegare un
certificato del cancelliere che attesti la mancata opposizione in termini».
(10) Dalla motivazione di Cass. 31 ottobre 2007, n. 22959, cit.
(11) Solo se al momento della dichiarazione di fallimento il giudizio di opposizione si
sia estinto, e sia anche decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso
l’ordinanza di estinzione (in base al coordinato disposto dell’art. 647 c.p.c. e degli artt.
653 e 308 c.p.c.), il decreto ingiuntivo opposto potrà ugualmente essere opponibile al
fallimento (cfr. Cass. 29 febbraio 2016, n. 3987).
(12) Ben potendo mantenere validità nei confronti dell’ingiunto dopo la fine della
procedura concorsuale: cosı̀ Cass. 8 giugno 1988, n. 3885, in Fall. 1988, 978.
(13) Il supremo Collegio, peraltro, si è sempre pronunciato in senso sfavorevole ad un’in-
terpretazione estensiva dell’art. 95, comma 3˚, l. fall., nella formulazione originaria, al decreto
ingiuntivo opposto ma ancora suscettibile di opposizione al momento della dichiarazione di
fallimento del debitore, trattandosi di una norma speciale che già derogava alla regola dell’art.
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52 l. fall.: v. Cass. 27 settembre 1965, n. 2047; Cass., sez. un., 31 luglio 1969, n. 2907, in Giust.
civ. 1969, I, p. 1073; Cass. 28 dicembre 1972, n. 3669, in Dir. fall. 1973, II, p. 344; Cass. 3 aprile
1986, n. 2308; Cass. 21 agosto 1987, n. 6998, in Fall. 1987, 1170; Cass., 8 giugno n. 3885, in
Fall. 1988, 1978 e in Dir. fall. 1989, 110 ss., con nota di Ragusa Maggiore, L’inopponibilità del
decreto ingiuntivo al fallimento non esclude la sua esistenza e la sua validità; Cass. 29 marzo 1988,
n. 1492, ivi, 889. In dottrina, in posizione critica: E. Ricci, Il decreto ingiuntivo di fronte all’art. 95,
3˚ comma della legge fallimentare, in questa Rivista 1963, 114; Andrioli, Accertamento del passivo
fallimentare e processi di cognizione pendenti, in Banca, borsa tit. cred. 1958, I, 71 ss. In tempi più
recenti, si veda Cass. 26 marzo 1996, n. 2689, in Fall. 1996, 10, 976 ss. con nota di Figone,
Decreto ingiuntivo, ipoteca giudiziale ed effetti del fallimento. In dottrina: Tarzia, La sorte del
decreto ingiuntivo opposto (e dell’ipoteca iscritta in forza del decreto) nel successivo fallimento del
debitore, in Fall. 1988, 1124; Lo Cascio, Decreto ingiuntivo opposto ed ipoteca giudiziale nel
fallimento, in Giust. civ. 1995, I, 708; Massaro, Limiti di opponibilità al fallimento del decreto
ingiuntivo definitivo, in Fall. 1993, 1054; Montanari, Opposizione a decreto ingiuntivo e (pretesa)
derogabilità della relativa competenza con la procedura fallimentare, in Giur. it. 1993, I, 1, 687; per
una disamina più ampia e puntuale del giudizio di verifica del passivo fallimentare, v. di recente
De Santis, Giudizio di verifica del passivo e pretese di tutela dichiarativa e costitutiva, in Fallimento
2018, 665.
(14) Cass. 26 marzo 1996, n. 2689, in Fall. 1996, 976, con nota di Figone, Decreto ingiun-
tivo, cit. Cass. 15 dicembre 1994, n. 10260, in Corriere giur. 1995, 305, con nota di Frangini,
Fallimento, giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e iscrizione di ipoteca; Cass. 25 marzo 1995,
n. 3580, in Fall. 1995, 953; Cass. 8 giugno 1988, n. 3885, in Fall. 1988, 978, Cass. 27 settembre
1965, n. 2047, in Dir. fall. 1965, II, 689 ss.; Cass. 10 novembre 1961, n. 2625, in Riv. dir.
proc. 1963, 114 ss., con nota critica di Ricci, Il decreto ingiuntivo di fronte, cit.
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(15) Vi è dunque chi [Conte, Decreto ingiuntivo, provvedimento ex art. 647 c.p.c. e
fallimento dell’intimato, in Giur. it. 2014, 2466 ss.; ma v. già Id., Del procedimento d’in-
giunzione, in Chiarloni (a cura di), Commentario del codice di procedura civile, Bologna 2012,
290 s.; nonché Id., Inammissibilità dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo proposta come
eccezione in sede di verifica dei crediti, in Fall. 2008, 790], in queste ipotesi, ritiene che alla
dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. si debba riconoscere effetto retroattivo, sı̀ che
per l’ammissione al passivo basterebbe averla chiesta prima della dichiarazione di fallimento,
anche se interviene dopo (purché, si presume, prima dell’udienza di verifica dei crediti).
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quando siano decorsi più di sei mesi tra l’iscrizione nei registri immobiliari
e la dichiarazione di fallimento.
Trascorsi sei mesi, quel creditore è un creditore ipotecario anche
nell’ambito del concorso fallimentare, vale a dire un soggetto che potrà
soddisfarsi sul ricavato della vendita dell’immobile ipotecato «con prefe-
renza» rispetto a tutti gli altri creditori, tranne che rispetto a quelli che
devono vedersi rimborsare le c.d. spese di giustizia (artt. 2770 e 2777 c.c.)
o che godono di altro privilegio immobiliare previsto dalla legge (arg. ex
artt. 2808 e 2748, comma 2˚, c.c.).
Ebbene, in queste ipotesi, il creditore che vanta una legittima causa di
prelazione riconosciuta dalla legge può vedere il proprio credito (ingiusta-
mente) retrocesso al chirografo in applicazione dell’orientamento giuri-
sprudenziale espresso, in maniera ad oggi definitiva, dalle pronunce nn.
1650 e 2114 del 2014. Ciò accadrà tutte le volte in cui egli, ottenuto un
decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, e iscritta legittimamente
ipoteca, la vedrà dichiarata inopponibile alla massa, in conseguenza diretta
dell’inopponibilità del titolo, a cagione, appunto, dell’assenza del decreto
di esecutorietà ex art. 647 c.p.c.
Giova ricordare, per sottolineare ancora di più quanto questa situazione
sia foriera di possibili effetti distorsivi, che il creditore che abbia ottenuto un
decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo inaudita altera parte, solita-
mente omette di domandare al giudice un’ulteriore dichiarazione di esecu-
torietà ai sensi dell’art. 647 c.p.c., proprio perché il decreto ingiuntivo è già
esecutivo ex art. 642 c.p.c., con la conseguenza, iniqua e un po’ paradossale,
che in caso di fallimento del debitore egli si troverà privato di una legittima
(e già pienamente acquisita, id est consolidata) causa di prelazione.
Si perviene perciò all’assurda conclusione che proprio nei casi in cui la
disciplina ordinaria riconosce maggiori tutele ad un diritto di credito
(consentendo l’inizio anticipato dell’esecuzione forzata ex art. 642 c.p.c.
e l’iscrizione immediata dell’ipoteca ex art. 655 c.p.c.), in ambito fallimen-
tare quel medesimo credito rischia di subire un trattamento deteriore,
poiché viene irragionevolmente privato della garanzia ipotecaria che il
creditore aveva già legittimamente acquisito.
(16) V. le pronunce citate sopra, alla nota 1. Anche se, va detto, in tutti i provvedimenti editi
richiamati la Corte non ha mai avuto occasione di occuparsi del caso specifico di una ipoteca
consolidata iscritta in forza di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo non opposto.
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ma». Poiché quelli citati dall’art. 656 c.p.c. sono mezzi di impugnazione
c.d. «straordinari», esperibili «anche dopo la preclusione di tutti i mezzi di
impugnazione delle sentenze elencati nell’art. 324 e quindi dopo il passag-
gio di una sentenza in cosa giudicata», allora «non può non riconoscersi
che il decreto d’ingiunzione, scaduto il termine per l’opposizione, accerta
con autorità di cosa giudicata il diritto del ricorrente nei confronti del-
l’intimato».
Anche «la disciplina dell’opposizione al decreto di ingiunzione con-
ferma le conclusioni desumibili dall’art. 656.
L’opposizione può infatti proporsi normalmente entro il termine breve
e perentorio stabilito dall’art. 641 (…); ciò sta sicuramente a significare
che, salvo quanto dispone l’art. 656, l’esistenza del diritto del creditore
non può più contestarsi quando l’opposizione è preclusa» (19).
Secondo una più recente lettura, l’oggetto del procedimento, «anche
nella fase inaudita altera parte» ricomprende «il rapporto giuridico sostan-
ziale intercorrente tra le parti» e pertanto il giudice non deve «limitarsi a
valutare se i presupposti e le condizioni fissati dal legislatore per l’accesso
al procedimento e per la condanna sussistano effettivamente», perché «la
sua pronuncia non ha un contenuto meramente processuale, ma arriva
comunque ad attingere la fattispecie dedotta in giudizio dall’attore», anche
se «la cognizione del rapporto compiuta ai fini della pronuncia dell’ingiun-
zione non genera accertamento se non nel momento in cui l’ingiunto abbia
omesso la propria contestazione», accertamento che «è sospensivamente
condizionato all’evento della mancata opposizione» e ciò anche nelle ipo-
tesi riconducibili alla fattispecie del «procedimento monitorio documen-
tale» (20).
Se questo è l’elementare (e financo ovvio) insegnamento della conso-
lidata dottrina processualcivilistica, secondo cui, in sostanza, la definitività
del decreto ingiuntivo non può che conseguire, ad ogni effetto di legge,
alla mancata proposizione dell’opposizione ex art. 645 c.p.c. (o al suo
rigetto), non pare che gli argomenti utilizzati dal supremo Collegio (v.
sopra n. 2) siano sufficienti ad escluderne la valenza anche in ambito
fallimentare.
(21) Sulle caratteristiche dei procedimenti a cognizione sommaria perché parziale sia
consentito il rinvio, anche per i necessari riferimenti bibliografici, a Graziosi, La cognizione
sommaria del giudice civile nella prospettiva delle garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 2009, 141 ss. Nella giurisprudenza costituzionale, v. Corte Cost., 19 gennaio 1988,
n. 37 in Foro it. 1988, I, 3668, Corte Cost., 15 maggio 2001, n. 134, in Corriere giur. 2001, p.
814, con nota di Consolo, Vaglio alla stregua dell’art. 111 cost. «potenziato» dei non troppo
«equi» art. 649 e 655 c.p.c. ed in genere del procedimento monitorio; nonché Corte Cost., 17
giugno 1996, n. 200, in Corriere giur. 1996, 941.
(22) La presenza di tali due disposizioni ha ovviamente la precipua funzione di supplire
al fatto che nel procedimento monitorio, essendo il decreto d’ingiunzione emesso inaudita
altera parte, non è possibile effettuare un controllo ex ante sulla validità della notifica del
ricorso, come invece avviene nel rito ordinario, laddove il giudice, in caso di mancata
costituzione del convenuto, è tenuto a verificare in limine litis la regolarità della notifica
al fine di poter dichiarare la contumacia del convenuto (art. 291, commi 1˚ e 2˚, c.p.c.).
Stante però la differenza strutturale sussistente tra rito ordinario a cognizione piena, e a
contraddittorio anticipato, e rito monitorio a cognizione sommaria, e a contraddittorio
posticipato (ed eventuale), non è possibile stabilire un parallelo tra il controllo che il giudice
effettua sulla regolarità della notifica ex art. 291 c.p.c. e quello che effettua ex art. 647 c.p.c.,
per desumerne, come fa il supremo Collegio (v. sopra n. 2), che entrambi sono funzionali
alla formazione del giudicato. È ciò, non solo perché la radicale differenza strutturale tra i
due riti impedisce di utilizzare le norme dell’uno per interpretare quelle dell’altro, ma anche
perché, a ben vedere, nemmeno il controllo di regolarità della notifica previsto dall’art. 291
c.p.c. è funzionale alla formazione del giudicato, ed infatti, credo, nessuno dubiterebbe che
la sentenza di primo grado non impugnata passi in giudicato anche se il giudice, in limite
litis, non abbia dichiarato la contumacia del convenuto non costituito (arg. ex art. 161,
comma 1˚. c.p.c.), benché anche lı̀ sia ammessa l’impugnazione tardiva ex art. 327, comma
2˚, c.p.c.
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ANDREA GRAZIOSI
Professore ordinario nell’Università di Ferrara
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A ciò, secondo l’autore, si deve replicare che l’art. 64 (1) EPC non
contiene un riferimento alla legge nazionale applicabile, ma un riferimento
che integra in parte il diritto nazionale mediante il contenuto della dispo-
sizione di diritto internazionale. L’art. 64 (3) EPC non si riferisce al diritto
sostanziale, ma al diritto processuale.
Riassumendo, si può affermare che un brevetto europeo non costituisce
un «pacchetto di diritti di brevetto nazionale», ma rappresenta invece un
brevetto internazionale, creato dal diritto internazionale, che, per discipli-
nare parte dei suoi effetti, si avvale di un riferimento controllato e dinamico
al diritto degli Stati Membri. Questa comprensione degli effetti giuridici di
un brevetto europeo pone le basi per comprendere il diritto armonizzato
che le Corti nazionali devono applicare (Art. 83 (1) e (3) UPCA).
4.– La rassegna introduttiva prosegue con l’analisi dei tre effetti del
Brevetto Unitario. Si dice che un Brevetto Europeo con Effetti Unitari
abbia un carattere unitario, fornisca una protezione uniforme ed abbia
eguale effetto in tutti gli Stati Membri aderenti. Questo può essere definito
«effetto protettivo uniforme».
Protezione uniforme e carattere unitario sono inoltre definiti in modo
tale che il brevetto può essere limitato o revocato solo per tutti gli Stati
Membri partecipanti (Art. 3 (2) cl 2 EPUE Reg.).
Infine, il brevetto può essere trasferito solo per tutti gli Stati Membri
aderenti, mentre può essere concesso in licenza per l’intero territorio degli
Stati Membri aderenti o solo per una parte dello stesso (Art. 3 (2) punti 2
e 3 EPUE Reg.).
Membri partecipanti (Art. 3 (2) sub par. 3 EPUE Reg.), aprendosi la strada
anche alla licenza obbligatoria rilasciata da uno Stato Membro per il proprio
territorio. Revoca, annullamento e limitazione hanno effetto retroattivo fin
dal momento della costituzione dell’effetto unitario (Art. 3 (3) EPUE Reg.).
Va sottolineata ancora un’importante affermazione, contenuta nel capi-
tolo introduttivo: il Tribunale Unificato, cosı̀ come le corti nazionali in luogo
delle quali agisce, deve osservare il diritto dell’Unione europea e il suo
primato (Art. 20 UPCA). Deve procedere al rinvio alla Corte di Giustizia
europea, a fronte di dubbi interpretativi con riferimento alle norme europee,
secondo le previsioni di cui all’art. 267 TFEU (Art. 21 UPCA).
della sua storia possa essere di notevole importanza perché utile a rivelare
gli obiettivi perseguiti dalle singole disposizioni statutarie.
Cosı̀ si segnala come un’importante svolta nello sviluppo del Sistema
sia avvenuta con l’Opinion C-1/09 della Corte di Giustizia. Alla Corte era
stata presentata una richiesta interna (e quindi non pubblicata) dagli Av-
vocati Generali, guidata dall’Avvocato Generale Prof. Kokott. Tale richie-
sta era addivenuta alla conclusione che la bozza dell’accordo sulle Corti
Unitarie non fosse compatibile con il diritto dell’Unione per quattro ra-
gioni (Statement of Position, par. 123): (1) l’obbligo di osservare il diritto
dell’Unione (Art. 14b della versione del 2009) era formulato in modo
troppo ristretto; (2) non prevedeva alcun rimedio giuridico a favore dei
singoli; (3) il regime linguistico davanti alla divisione centrale era troppo
penalizzante per i convenuti che non avessero padronanza delle tre lingue
dell’EPC; (4) era inoltre assente il controllo delle decisioni amministrative
dell’EPO (es. in caso di rigetto di una domanda di brevetto) da parte di
una Corte indipendente mediante la possibilità di adire la Corte di Giu-
stizia.
Nella sua Opinion C-1/09 dell’8 marzo 2011, la Corte di Giustizia non
ha affrontato specificamente nessuna di queste obiezioni, ma ha invece
basato il suo intervento sulla verifica di compatibilità con il diritto dell’U-
nione, con l’argomentazione che la cooperazione tra il Tribunale dei Bre-
vetti e la Corte di Giustizia non fosse della stessa natura di quella tra le
Corti nazionali e la Corte di Giustizia.
Da questo rilievo e dalla positiva osservazione riguardante la Corte di
Giustizia del Benelux (ancorché basata su una struttura differente) era
possibile dedurre che la riserva sul sistema delle Corti Unitarie formulata
dalla Corte di Giustizia era basata sul fatto che il Court Agreement possa
includere anche Stati non appartenente all’Unione europea.
La Corte ha ipotizzato sanzioni in caso di mancato rinvio e di falsa
applicazione del diritto dell’Unione europea (punti 1 e 2 degli Avvocati
Generali) ed ha indicato la possibilità di consentire l’uso di altre lingue
dinanzi alla divisione centrale e alle divisioni locali e regionali. Ha escluso
la possibilità della partecipazione della Unione europea e ha limitato il
gruppo di partecipanti ai paesi membri dell’Unione europea. Ciò è parti-
colarmente spiacevole ove si consideri l’interesse a partecipare della Sviz-
zera (documentato dal suo ruolo guida nel progetto) e il recente problema
della Brexit.
Per l’interpretazione e applicazione del Court Agreement, era quindi
fondamentale l’introduzione dell’obbligo di rinvio alla Corte di Giustizia
per questioni riguardanti il diritto dell’Unione in senso ampio. E’ stato cosı̀
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MARINA TAVASSI
Presidente della Corte di Appello di Milano
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RICORDI
ricordi 225
operatori del processo, avvocati e giudici, presso i quali «il Mandrioli» (giac-
ché anche loro lo chiamano cosı`, ed è un altro suggello di classicità) è ormai
diventato per l’appunto uno standard work della procedura civile.
A questo proposito, e spero che il professor Mandrioli voglia perdonarmi
un paragone poco rispettoso, vorrei ricordare che nel lessico privato del mio
studio professionale, specie durante la permanenza di una giovane collabora-
trice sua allieva, attualmente austero magistrato, si parlava comunemente del
suo Corso come del Manuale delle giovani marmotte, dato che, proprio
come i nipoti di Paperino nel loro mitico libretto, riuscivamo sempre mira-
colosamente a trovarci, magari in due righe o in una nota, la risposta pun-
tuale, equilibrata e convincente a qualsiasi quesito teorico o pratico, anche il
più impervio ed insolito.
Vorrei però dare voce anche a una reminiscenza più seria, anzi toccante.
Ricordo di avere incontrato per la prima volta il professor Mandrioli, circa
trent’anni addietro, ahinoi quanti, in occasione della sua prolusione all’U-
niversità di Genova: nella quale egli volle includere un omaggio a Carlo
Maria De Marinis, il processualista genovese immaturamente scomparso non
molto tempo prima, nell’imminenza di un concorso che lo avrebbe con ogni
probabilità visto tra i vincitori. Ma Crisanto Mandrioli lo fece in termini che
mi sono rimasti da allora impressi nella memoria per la sobrietà, la modestia
e la generosità che in seguito constatai essergli connaturali, e che anche oggi i
precedenti relatori hanno ricordato: cioè semplicemente dicendo che si senti-
va a disagio nel venire ad occupare una cattedra che avrebbe dovuto invece
appartenere, secondo il corso naturale degli eventi, all’amico scomparso.
Qualche parola adesso sui due densi volumi che oggi offriamo al profes-
sor Mandrioli. Essi raccolgono, come si vedrà, soltanto studi processualcivili-
stici, e ciò potrebbe apparire ingiustificatamente limitativo, da un lato per
l’onorato, la cui legittimazione passiva a questo tipo di omaggio, la Festsch-
riftfähigkeit come la chiamava scherzosamente Walter Bigiavi, sarebbe na-
turalmente ben più vasta; dall’altro, per i molti colleghi, studiosi di altre
discipline, che avrebbero ben volentieri partecipato all’impresa.
Vorrei però dire, per giustificare questa scelta restrittiva, innanzitutto che
essa non ha impedito alla raccolta di raggiungere, come si vede, dimensioni
ragguardevoli (oltre 1200 pagine). Il che, se si pensa che i processualcivilisti
italiani sono una specie abbastanza rara, ormai candidata alla protezione del
WWF, attesta implicitamente quanto siano grandi la stima e l’affetto di cui
gode Cristanto Mandrioli. Hanno contribuito infatti tutti o quasi tutti gli
studiosi della materia, e, tra i pochi il cui nome non figura nell’indice, alcuni
sono semplicemente arrivati fuori tempo massimo, e se ne sono poi vivamen-
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ricordi 227
BRUNO CAVALLONE
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RECENSIONI E SEGNALAZIONI
disamina della natura e della funzione di questo istituto, nonché della sua
efficacia, sia sotto il profilo soggettivo, distinguendo tra i beneficiari la
posizione del debitore (the debtor), quella del patrimonio fallimentare
(the property of the estate) e quella del patrimonio personale del debitore
(the property of the debtor), sia sotto il profilo oggettivo, sia infine sotto il
profilo temporale. Conclusa l’analisi dell’istituto, l’a. si dedica all’esame
delle conseguenze della violazione dell’automatic stay.
Nella parte III – titolata Riflessioni comparate sui sistemi di inibitorie
italiano e statunitense. Verifica della possibilità di introdurre nell’ordina-
mento domestico una norma unica e ad applicazione generale sul modello
statunitense – l’a., dopo aver rilevato le differenze tra l’ordinamento ita-
liano e l’ordinamento statunitense, espone un giudizio critico sul nostro
sistema, perché ritenuto immotivatamente frammentario: a parere dell’a. la
disciplina delle inibitorie delle azioni dei creditori è distribuita tra una
pluralità di norme, di contenuto non omogeneo, ciascuna operante nel-
l’ambito di una differente procedura concorsuale, senza che vi sia una
valida ragione a supporto di questa impostazione.
In una prospettiva de jure condendo, pertanto, l’a. ritiene possibile la
soppressione del frammentario sistema italiano, che non sarebbe frutto di
ponderare scelte sistematiche, bensı̀ di situazioni contingenti, e l’adozione
del modello statunitense dell’automatic stay, fondato su un’unica norma a
valenza generalizzata, quella contenuta nella sez. 362 del Bankruptcy Code.
Il lavoro offre certamente al lettore gli strumenti idonei a confrontarsi
con le problematiche sottese ad un istituto che riveste notevole importanza
nell’ambito della disciplina delle situazioni di crisi e di insolvenza (Giu-
seppe Battaglia).
Viene infatti correttamente posto in luce che i diritti fatti valere nei pro-
cessi della famiglia promanano da status e sono sovente anche non piena-
mente disponibili, per la fragilità e vulnerabilità dei soggetti che ne sono
titolari. Ne deriva non soltanto la perdurante attualità di una tutela giuri-
sdizionale differenziata (che sappia rispondere alle esigenze e necessità che
ogni singolo caso presenta), ma anche l’opportunità (e finanche la neces-
sità) che le regole del processo – e addirittura alcuni dei principi formanti,
come il principio della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato – possano essere adattati e derogati in ragione di tale carattere
indisponibile e della maggiore protezione e controllo che l’ordinamento è
chiamato ad accordare.
Il primo capitolo è impostato in chiave (si licet) «soggettiva», essendo
dedicato alla figura dei protagonisti dei processi familiari: giudice, p.m.,
parti e difensori. L’attenzione per il giudice è focalizzata sui problemi
derivanti dalla specializzazione e dal riparto di competenze, mentre in
ordine alle parti si dà risalto anche al ruolo dei figli maggiorenni non
indipendenti economicamente e degli ascendenti. Particolare risalto assu-
me la figura del figlio minore, la cui tutela è stata nel tempo rivalutata
attraverso l’istituto dell’ascolto e le istanze anche in ordine a una sua difesa
personale.
I successivi capitoli affrontano la disamina dei processi sulla crisi fa-
miliare scomponendoli tra tutela anticipatoria (secondo capitolo) e tutela
di merito (terzo capitolo), con l’ulteriore e comune problema della stabilità
dei provvedimenti e della necessità di un controllo adeguato mediante un
sistema di impugnazioni (terzo capitolo). L’attenzione è partitamente de-
dicata ai molteplici riti (ordinari, speciali, camerali) e alla disciplina della
prova.
Il quinto capitolo affronta poi lo spinoso profilo della attuazione delle
tutele, che partendo dalle difficoltà derivanti dalla specialità dei provvedi-
menti e dal non sempre immediato loro inquadramento sistematico ha
condotto negli ultimi anni a valorizzare l’esecuzione anche indiretta attra-
verso le «nuove» misure ex art. 709 ter c.p.c. o ex art. 614 bis c.p.c.
Chiude infine il volume un sesto capitolo dedicato a «la tutela per
accordo», nel quale vengono trattati con approfondita evidenza i modelli
(sempre più numerosi e importanti, anche dal punto di vista sistematico e
della disciplina) concessi alle parti per raggiungere direttamente un nuovo
assetto sulla crisi della famiglia e finanche una modifica dello status «per
accordo» (Filippo Danovi).
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ENRICO DEL PRATO (a cura di), Libro quarto c.p.c.: procedimenti speciali (artt.
737 – 795); Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio;
Copia e collazione di atti pubblici; Procedimenti relativi all’apertura delle
successioni; Scioglimento di comunioni; Processo di liberazione degli im-
mobili dalle ipoteche in Commentario del Codice di Procedura Civile a
cura di Sergio Chiarloni, Zanichelli, Bologna 2017, pp. I-589.
68) dedicate al tema dei diritti umani» e al diritto di famiglia, con parti-
colare attenzione alla poligamia (o poliginia), ammessa in molti ordina-
menti islamici ma in termini più restrittivi di quanto tendiamo a credere, e
al «matrimonio» omosessuale (inconcepibile in quei sistemi prima ancora
che vietato): pagine notevoli sia per la qualità della prosa che per il conte-
nuto vivacemente polemico, nonché – mi permetto di aggiungere – straor-
dinariamente divertenti, quali che possano essere le opinioni dei lettori sui
delicati temi trattati.
Dopo di che, Sergio La China è, anche e prima di tutto, un proces-
sualista emerito (sia nella qualifica che nella sostanza), ed è pertanto na-
turale che questo libro riprenda e rielabori i suoi studi sul processo civile
dell’Arabia Saudita (il volume da lui scritto in collaborazione con il ku-
waitiano Mansour Alotaibi, del 2010, fu da me recensito sulla Rivista
l’anno successivo; e nel 2012 un suo breve divertente saggio dal titolo
Tra i Vangeli e la legge sul processo civile dell’Arabia Saudita fu pubblicato
qui con una mia breve postilla), sulla legge giordana sulle prove civili
(Rivista 2014) e sul Centro per l’Arbitrato Commerciale Internazionale
degli Stati del Golfo Arabico (Rivista 2016).
Sarebbe dunque sostanzialmente superfluo soffermarci ora su questi
capitoli (pp. 123 ss.; pp. 179 ss.; pp. 211 ss.). Ma merita comunque
particolare attenzione, a mio avviso, quanto emerge, non solo qui, ma
da tutto il libro, circa il peculiare «spirito arbitrale» che sembrerebbe
permeare – in termini di antropologia giuridica prima che di diritto posi-
tivo – la materia del contenzioso negli ordinamenti islamici.
Si vedano ad esempio le considerazioni sull’arbitrato come strumento
di risoluzione delle controversie tra il cittadino e la pubblica amministra-
zione (p. 12), dove «la dottrina percepisce non la disuguaglianza del caso
concreto tra chi risulterà avere agito secondo norma e contratto e chi avrà
inadempiuto, ma la disuguaglianza strutturale, sempre pericolosa, fra il
soggetto che ha ed è autorità e chi non lo è, e il prevedere e consentire
ed attendersi dall’arbitro il rebalancing, una scelta di ridistribuzione di pesi
ed oneri magari con un minimo di discrezionalità equitativa, può valere
come un buon rimedio, od anzi prevenzione ad eccessi di potere».
O si veda, con riferimento alla disciplina dell’arbitrato nella legge
tunisina e in quella marocchina (pp. 222 ss.), il rilievo che «appare in esse
una sopravvalutazione del carattere fiduciario e personale del rapporto
instauratosi tra parti ed arbitri», che si riflette tra l’altro nella prescrizione,
comune ai due codici, «della indicazione nominativa degli arbitri, a pena di
nullità (...) quasi (a) lasciare intendere che sol se si sa già prima a chi ci si
affida per fare arbitrare la controversia, tale affidarsi non è un salto nel
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buio»: nel che La China coglie una manifestazione di diffidenza nei con-
fronti dell’istituto, ma forse potrebbe anche ravvisarsi una più o meno
consapevole conservazione delle sue radici arcaiche; ed infatti apprendia-
mo anche che, nel codice kuwaitiano (p. 230), «gli arbitri non possono
essere autorizzati a compromettere e conciliare, o a rendere il lodo come
arbitri conciliatori (‘compromising’, nel testo inglese, ma piuttosto si do-
vrebbe dire ‘pacificatori’ dal testo originale) a meno che non siano stati
indicati nominativamente nell’accordo d’arbitrato; interessante, e psicolo-
gicamente fondato, collegamento tra poteri conciliativi ed equitativi del-
l’arbitrato ed intuitus personae, e vistosa diversità da quanto è disposto dal
nostro codice, ove la attribuzione agli arbitri del potere di decidere come
amichevoli compositori (...) può preesistere alla nomina degli stessi». Ed
ancora coerente con questa prospettiva mi sembra la regola per cui il lodo
arbitrale non è in via di principio impugnabile (p. 232).
Del resto, questa propensione degli ordinamenti islamici, o almeno di
qualcuno di essi, verso l’idea della giustizia come ripristino dell’armonia,
non come distribuzione della ragione e del torto (la stessa idea si ritrovava
in ambito cristiano nel nolite iudicare del Vangelo di Matteo, ma qui è stata
poi abbandonata in favore del modello di adjudication derivato mimetica-
mente dal Giudizio Universale), sembra esprimersi – come rilevavo già
nella mia citata recensione al libro di La China e Alotaibi sul processo
dell’Arabia Saudita – anche negli articoli di quel codice in tema di appello
(pp. 162-163), costruito, attraverso un complicato andirivieni tra giudice di
primo e giudice di secondo grado, non come revisio prioris instantiae, né
come novum iudicium, bensı̀ come metodo per persuadere il primo giudice
di avere sbagliato, e per dare quindi al giudicato definitivo la legittimazio-
ne e il sostegno del convincimento comune di entrambi i giudici. Ma
fermiamoci qui: se proprio Sergio La China ricorda umilmente a se stesso
il detto sutor nec ultra crepidam (p. 6), a maggior ragione deve farlo un
modesto recensore del suo eccellente lavoro (Bruno Cavallone).
GIURISPRUDENZA
Centro Cartotecnica S.r.l. c. Trevi Finance 2 S.p.a., Banca Nazionale del Lavoro S.p.a. e Monte
dei Paschi di Siena S.p.a.
Nel processo di espropriazione dei beni indivisi il giudizio divisorio è ritualmente introdotto
con la pronuncia – se sono presenti tutti gli interessati – o con la notifica – se all’udienza ex
art. 600 c.p.c. non siano presenti tutti gli interessati – dell’ordinanza del giudice dell’esecuzio-
ne che la dispone; di conseguenza, ai fini della valida introduzione del giudizio di divisione
endoesecutiva non è necessaria la separata notifica ed iscrizione a ruolo contenzioso civile di
un distinto atto di citazione (massima non ufficiale).
Poiché il normale epilogo del processo di espropriazione di beni indivisi è il giudizio di divisio-
ne endoesecutiva, la notifica dell’ordinanza che lo dispone o di altro atto ad essa equipollente
è eseguita legittimamente al procuratore di uno dei litisconsorti del giudizio che si sia già costi-
tuito nel processo esecutivo, in quanto il mandato si estende anche alla fase divisoria se non
escluso in modo espresso ed univoco (massima non ufficiale).
(Omissis) – 2. Va premesso che l’andamento del processo esecutivo e della fase di in-
troduzione del giudizio di divisione non è del tutto perspicuo, né in base a quanto risulta
dal ricorso introduttivo, né secondo la sentenza qui gravata, né per quanto si ritrae alla di-
samina degli altri frammentari ed incompleti atti a disposizione di questa Corte: e neppure
potendo trarsi decisivo giovamento dal fascicolo di ufficio della causa di divisione, occor-
rendo piuttosto anche quello del processo esecutivo, di cui però non è sicuramente predica-
bile che possa liberamente ed automaticamente disporre il giudice della prima.
3. In particolare: – l’esecuzione immobiliare intentata presso il Tribunale di Roma con-
traddistinta dal n. 96395 era stata intentata contro A.R.G. e F.R. ad istanza di Capitalia spa
(già Banca di Roma spa): all’ud. 24/05/2006, venduta in sede fallimentare la quota della
metà spettante al secondo in quanto dichiarato fallito, fu disposta l’iscrizione a ruolo entro
il 30/09/2006 di un atto di citazione complessivo da previamente notificare alle controparti
per introdurre validamente la divisione endoesecutiva, con contestuale fissazione dell’u-
dienza del 07/12/2006 sia per il giudizio di divisione sia per la prosecuzione del processo
esecutivo, con onere al creditore di dare avviso al comproprietario (cioè all’odierna ricor-
rente) a comparire a stessa udienza; il creditore procedente notificò all’odierna ricorrente
presso lo studio dell’avvocato di questa, in data 04/09/2006, un atto di citazione ex art.
600 c.p.c.; – all’ud. 07/12/2006 davanti al g.e. comparve pure il procuratore dell’odierna ri-
corrente, il quale chiese rinvio ai sensi dell’art. 180 c.p.c., opponendosi alla divisione, men-
tre quello del creditore depositò la prova della notifica di avviso ex art. 599 c.p.c. (ma non
anche, evidentemente, dell’atto di citazione, senza neppure dedurre di averlo notificato ed
iscritto a ruolo generale contenzioso); sicché il g.e., verosimilmente in assenza di prove di
ottemperanza al primo ordine, lo impartı̀ di nuovo e fissò altro termine (per notifica atto di
citazione a debitore e creditori iscritti) al 15/03/2007 ed altra prima udienza al 19/06/
2007; – il creditore non diede corso alla seconda notifica; – l’ud. 07/12/2006 in sede cogni-
giurisprudenza 241
tiva endoesecutiva, in apparenza assegnata in origine a sezione diversa da quella cui spetta-
vano per tabella i procedimenti esecutivi immobiliari, fu rinviata dapprima al 13/12/2006 e
poi di ufficio al 02/05/2007, senza comunicazione alle parti che vi avrebbero dovuto figura-
re come costituite; – nel giudizio di divisione endoesecutiva cosı̀ seguito, all’esito dell’udien-
za 22/04/2008 fu pronunciata sentenza non definitiva n. 19433/08 (in causa n. 60961/06
r.g.), notificata il 20/02/2009, con dichiarata contumacia della odierna ricorrente.
4. Pertanto, risulta che, dopo una prima ordinanza che disponeva la divisione con in-
dividuazione dell’udienza per la trattazione della relativa causa all’esito della disposta notifi-
ca di atto di citazione e conseguente iscrizione a ruolo contenzioso civile, la causa seguita a
tale notifica ed iscrizione non era stata trattata a quella data, alla quale invece il giudice del-
l’esecuzione, davanti a cui il creditore non aveva fatto presente quelle circostanze ma il pro-
curatore dell’odierna ricorrente era comparso chiedendo di procedersi ai sensi dell’art. 180
c.p.c., aveva ritenuto di reiterare il proprio precedente provvedimento che disponeva notifi-
ca ed iscrizione a ruolo di apposito atto di citazione introduttivo del giudizio di divisione;
ed appare pure che la separata causa di cognizione seguita alla prima iscrizione a ruolo,
non chiamata e rinviata a successiva udienza con provvedimento non comunicato alle altre
parti per non risultarvi costituita proprio l’odierna ricorrente e comproprietaria (per il
50%) del dividendo bene staggito, era poi proseguita senza che vi prendesse parte quest’ul-
tima, fino alla pronuncia di scioglimento della comunione, mentre il creditore non dava
corso alla seconda ordinanza di divisione.
5. Alla disamina dei tre motivi di ricorso va premesso l’inquadramento sistematico del
giudizio di divisione c.d. endoesecutiva, ovvero della divisione disposta nel corso del pro-
cesso di espropriazione di beni indivisi al fine di far cessare lo stato di comunione e poter
poi disporre in sede esecutiva della sola quota – in natura o in denaro – attribuita al debito-
re, condividente forzoso; ricordando che questa Corte ha già avuto modo di puntualizzare
(Cass. 18/04/2012, n. 6072, cui si riferiscono i successivi paragrafi fino al n. 10) che un tale
giudizio di cognizione è divenuto ormai lo sviluppo normale di ogni procedura espropriati-
va avente ad oggetto una mera quota: in tal senso deponendo – relegate ad un ruolo di as-
soluta eccezione le diverse soluzioni, oltretutto al ricorrere di specifiche e positivamente ac-
certate situazioni di fatto – il nuovo testo del capoverso dell’art. 600 c.p.c., sostituito dal
d.l. 14 marzo 2005, n. 35, art. 23, lett. e), convertito, con modificazioni, in I. 14 maggio
2005, n. 80.
6. Anzi, il suo collegamento funzionale con il processo esecutivo, già indiscusso in pre-
cedenza, è sottolineato oggi dalla previsione del novellato art. 181 disp. att. c.p.c., in base
alla quale – in forza del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, art. 23-ter, lett. f), convertito, con modi-
ficazioni, in I. 14 maggio 2005, n. 80 – tale giudizio di divisione, pur restando indiscutibil-
mente un ordinario giudizio di cognizione, si svolge dinanzi al medesimo giudice dell’esecu-
zione – in funzione, ovviamente, di giudice istruttore civile – della procedura esecutiva con-
testualmente sospesa in attesa della liquidazione della quota del debitore esecutato: con la
configurazione di un’ipotesi di competenza funzionale e, pertanto, da qualificarsi non dero-
gabile.
7. E proprio per questo può riconoscersi che la riforma non ha inciso sulla struttura e
sulla funzione del giudizio in questione, del quale ha in sostanza meglio precisato alcuni
aspetti formali e procedimentali: come già prima della riforma del 2006, invero, la finalità
di una divisione endoesecutiva è, con tutta evidenza, quella di consentire di procedere ese-
cutivamente su di un bene in proprietà esclusiva, sia esso identificato ancora in natura ov-
vero ormai liquidato e cioè trasformato nel suo equivalente in denaro; e tanto, nel primo
caso, per la conclamata migliore appetibilità sul mercato di un bene in proprietà esclusiva
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rispetto ad una semplice quota, l’acquisto della quale obbligherebbe l’eventuale acquirente
ad una contitolarità di diritti, coi rischi e le complicazioni da questa derivanti e l’onere (o il
rischio) di un successivo giudizio di scioglimento della medesima; e, nel secondo, per la in-
tuitivamente maggiore utilità della prosecuzione del processo esecutivo su beni fungibili
per definizione, quali appunto il denaro.(Omissis).
9. Viene riconosciuta a questi fini un’eccezionale legittimazione al creditore proceden-
te – o, vi è da ritenere, quanto meno all’interventore munito di titolo esecutivo – a provoca-
re lo scioglimento della comunione: non rilevando qui ulteriormente approfondire se egli
agisca utendo iuribus debitoris o iure proprio. (Omissis).
10. In conclusione, da un lato il giudizio di divisione in esame costituisce una parentesi
di cognizione – vale a dire un procedimento incidentale consistente in un vero e proprio
giudizio di cognizione – nell’ambito del procedimento esecutivo, in quanto tale restando
autonomo, perché soggettivamente ed oggettivamente distinto da questo, tanto da non po-
terne essere considerato né una continuazione, né una fase (per tutte: Cass. 10/05/1982, n.
2889; Cass. 08/01/1968, n. 44; Cass. 12/10/1961, n. 2096; ai fini dell’individuazione dei ri-
medi esperibili avverso i singoli atti di quello: Cass. 24/11/2011, n. 4499; Cass. sez. un. 29/
07/2013, n. 18185; Cass. ord. 29/12/2016, n. 27346); dall’altro lato, permane una correla-
zione funzionale del giudizio di divisione endoesecutiva al processo esecutivo, uno dei cui
effetti è stato riconosciuto, ad esempio, il mantenimento, in capo al creditore esecutante,
della sua legittimazione ad agire in divisione fintantoché in capo a lui permanga la qualità
di creditore.
11. Sulla premessa di una tale ricostruzione occorre ora individuare le forme di intro-
duzione del giudizio stesso, sul punto essendosi formate divergenti opinioni in dottrina e
differenti prassi interpretative ed applicative dei giudici del merito: ed a tal fine è prelimi-
nare la considerazione che, se il pignoramento di quota indivisa contiene già in sé ed in nu-
ce l’eventualità dello sviluppo normale consistente nella causa di cognizione in cui la divi-
sione endoesecutiva si risolve, tuttavia quest’ultima in tanto è ritualmente intentata in quan-
to un atto che possa darvi validamente corso sia, altrettanto ritualmente, formato e portato
a conoscenza di tutti coloro che avrebbero diritto a prendervi parte.
12. Al riguardo, la disciplina positiva è dettata dall’art. 181 disp. att. c.p.c., come mo-
dificato dall’art. 2, comma 3-ter, lett. f), del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. dal-
la l. 14 maggio 2005, n. 80, applicabile ai giudizi di divisione endoesecutiva a far tempo dal
1˚ marzo 2006 (ai sensi del comma 3-sexies del detto d.l., come modificato dal comma 1
dell’art. 39-quater del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, conv. con modif. dalla l. 23 febbraio
2006, n. 51); disposizione a mente della quale: «il giudice dell’esecuzione, quando dispone
che si proceda a divisione del bene indiviso, provvede all’istruzione della causa a norma de-
gli articoli 175 e seguenti del codice, se gli interessati sono tutti presenti»; tuttavia ed inve-
ce, «se gli interessati non sono tutti presenti, il giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza di
cui all’articolo 600, secondo comma, del codice, fissa l’udienza davanti a sé per la compari-
zione delle parti, concedendo termine alla parte più diligente fino a sessanta giorni prima
per l’integrazione del contraddittorio mediante la notifica dell’ordinanza».
13. Ora, nonostante l’adozione di una successiva e distinta notifica di un atto di cita-
zione, in regola con le prescrizioni dell’art. 163 c.p.c. e munito dei requisiti formali miranti
a garantire le esigenze di pubblicità con la trascrizione (prima fra tutti la compiuta descri-
zione del bene pignorato), sia effettivamente più in linea con l’esigenza di un’ordinata tutela
del contraddittorio, il tenore testuale della norma, evidentemente ispirato a quella deforma-
lizzazione generalizzata e progressiva che costituisce la ratio delle riforme del processo ese-
cutivo succedutesi fin dal 2006, non consenta di suffragare un tale approdo ermeneutico.
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giurisprudenza 243
14. In altri termini, il tenore letterale della disposizione non può lasciare dubbi sulla
necessaria tendenziale sufficienza dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione ai fini della vali-
da celebrazione del giudizio di cognizione in cui la divisione endoesecutiva si sostanzia: ba-
sti pensare, tra l’altro, al fatto che, nei confronti degli interessati non comparsi, il contrad-
dittorio è tecnicamente qualificato da «integrare», con il che si dà per scontato che, nei
confronti dei presenti, quello si è già instaurato appunto con la pronuncia di quel provvedi-
mento; e tale conclusione può essere solo armonizzata – ma non in loro nome stravolta o
superata – coi principi generali in tema di non ufficiosità della domanda e di instaurazione
del contraddittorio nel giudizio civile, a garanzia dei diritti dei peculiari litisconsorti neces-
sari di un tale giudizio: infatti, a questi deve intendersi riferita la norma quando impone il
coinvolgimento di tutti gli interessati.
15. Devono invero essere ritualmente coinvolti, al fine del corretto avvio del giudizio
di cognizione in cui si risolve anche la divisione endoesecutiva, non solo tutti i contitolari
di diritti reali sul bene la cui quota è stata pignorata, compreso quindi il debitore esecutato,
ma pure i creditori del processo esecutivo – procedente ed eventuali intervenuti – intentato
contro quest’ultimo, nonché i creditori iscritti (non solo quali titolari di diritti di garanzia
contro il debitore, ma, per l’effetto purgativo che discenderebbe dalla vendita in sede divi-
sionale, anche quelli titolari di garanzia contro i comproprietari o contitolari) e coloro che
hanno acquistato diritti sull’immobile in virtù di atti soggetti a trascrizione e trascritti prima
della trascrizione dell’atto di divisione o della trascrizione della domanda di divisione giudi-
ziale (secondo quanto recita il terzo comma dell’art. 1113 c.c.).
16. Ancora una volta la qualificazione del giudizio divisionale endoesecutivo quale epi-
logo o esito normale della procedura di espropriazione di beni indivisi consente di rico-
struire l’introduzione di quel giudizio come una fattispecie a formazione progressiva, che si
compie o conclude appunto con l’ultimo degli atti su cui si articola.
17. Non possono infatti, di per sé isolatamente e ciascuno considerato, essere suffi-
cienti: – né l’atto di pignoramento, il quale può ben costituire – integrato com’è stato poi
dall’istanza di vendita, indispensabile presupposto processuale per la rituale prosecuzione
di ogni processo esecutivo ed idoneo impulso per il suo sviluppo normale in relazione alla
disciplina sua propria dipendente dal suo oggetto (la quota indivisa), costituito appunto
(salva l’eccezionale ricorrenza di ipotesi alternative, da verificare come deviazione dalla nor-
ma) dal giudizio divisionale – l’atto di parte contenente l’impulso o la domanda a tal fine,
per il caso (con una sorta di funzionalizzazione implicita o comunque ope legis) in cui lo
sviluppo del processo esecutivo renda inevitabile il normale epilogo della divisione; – né il
semplice avviso ai creditori iscritti od ai comproprietari (che la giurisprudenza di questa
Corte continua a ritenere non indispensabili ai fini della valida prosecuzione del processo,
salva la responsabilità verso i primi – tra molte, Cass. 27/08/2014, n. 18336 – e la non op-
ponibilità ai secondi – fin dalla pure remota Cass.17/06/1985, n. 3648 – dell’esito del pro-
cesso esecutivo), che si risolvono soltanto appunto in una comunicazione di pendenza, in
un caso per sollecitare la valutazione se esercitare alcune facoltà e nell’altro per ammonire a
non esercitarne altre, ove se ne volessero conseguire effetti opponibili; – né ancora l’ordi-
nanza del giudice, che si limita – con funzione lato sensu dichiarativa – a dare atto della
non ricorrenza delle eccezioni a tale esito disegnato come normale, disponendo per la con-
creta sua celebrazione con la fissazione della relativa udienza.
18. Indubbiamente, però, è con l’ordinanza del giudice dell’esecuzione, pronunciata
all’udienza per la comparizione delle parti e di tutti gli interessati, che questa fattispecie si
completa; ed è l’ordinanza che dispone il giudizio divisionale davanti allo stesso giudice, sia
pure nelle diverse vesti di giudice della cognizione, tanto da essere quella stessa – e null’al-
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tro, stando alla lettera della disposizione codicistica – a dover essere notificata agli interes-
sati non presenti all’udienza pure fissata per la loro audizione.
19. La conseguenza è che l’ordinanza del giudice deve contenere necessariamente tutti
gli elementi – se del caso anche solo integrativi rispetto al pignoramento, il quale ben po-
trebbe esservi richiamato per relationem, ovvero con riepilogo dei dati contenuti in quello
ed in eventuali altri atti del processo – indispensabili per l’introduzione della domanda giu-
diziale, tra cui quelli identificativi dell’oggetto e cioè del bene o dei beni immobili da divi-
dere, completi dei dati indispensabili per la trascrizione dell’ordinanza stessa.
20. L’ordinanza che dispone la divisione, solo pronunciata (all’udienza di comparizio-
ne in sede esecutiva o all’esito dell’eventuale riserva a quella assunta, allora da comunicarsi
alle parti costituite) o anche notificata (ai non presenti), individua poi necessariamente l’u-
dienza di prima comparizione, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., del giudizio ordinario di cogni-
zione in cui la divisione si risolve, con contestuale sospensione del processo esecutivo e fis-
sazione del termine a comparire in sessanta giorni, secondo quanto previsto dalla norma
speciale (in evidente prevalenza su quella generale di cui all’art. 163-bis c.p.c.).
21. Una tale udienza di prima comparizione è tenuta poi dal medesimo giudice dell’e-
secuzione, ma nella veste di giudice istruttore civile; e con riguardo ad essa vanno per legge
– cioè, anche in difetto di specifiche previsioni o contenuti degli atti adottati o notificati –
calcolati i termini a ritroso per tutte le parti per proporre domande riconvenzionali od
espletare le attività difensive riservate a quelle tra loro che sono diverse dall’attore in senso
tecnico, quest’ultimo da identificarsi ovviamente nel creditore pignorante della quota indi-
visa.
22. Ancora, sarà a tale prima udienza che il giudice – già dell’esecuzione, ma ormai
nella funzione di giudice istruttore civile – verificherà anche di ufficio la completezza degli
elementi indispensabili per la rituale instaurazione del contraddittorio, tra cui, se del caso,
quelli previsti dall’art. 164 c.p.c. a pena di nullità dell’atto introduttivo di lite, quest’ultimo
inteso come la descritta fattispecie a formazione progressiva, ovvero la combinazione degli
atti – di parte e del giudice stesso – con cui si è instaurato il giudizio di cognizione divisio-
nale. 23. Non deve essere di ostacolo l’adempimento, meramente amministrativo (Cass. 30/
05/2014, n. 12266, oppure Cass. 23/03/1995, n. 3383; inidoneo ad incidere sulla pendenza
della lite, già ex se sussistente: Cass. 09/04/1952, n. 975; e perfino quando previsto espres-
samente dalla norma, come nel caso dell’art. 618 c.p.c.: Cass. 31/08/2015, n. 17306; Cass.
ord. 09/03/2017, n. 6056), dell’iscrizione a ruolo: a tanto dovendo comunque provvedere
la parte più diligente in tempo utile per la celebrazione della prima udienza, se del caso in
base anche alla sola ordinanza e pure se questa non lo stabilisca specificamente, ma senza
che un’eventuale omissione possa condizionare, tanto meno in punto di mero rito, l’avvio
del giudizio di cognizione e salva – beninteso – ogni attività ufficiosa di recupero di quanto
dovuto, anche a titolo di contributo unificato, nei confronti degli obbligati inadempienti.
(Omissis).
26. Ma una tale ricostruzione esclude pure il fondamento di un provvedimento del
giudice dell’esecuzione che oneri la parte più diligente della separata notifica ed iscrizione a
ruolo di un atto di citazione distinto: adempimento sovrabbondante rispetto alla lettera del-
la legge, se non inutilmente ridondante in un aggravamento secco – ma senza base normati-
va evidente – della posizione processuale degli effettivi interessati al giudizio divisionale (e
cioè, assai verosimilmente, dei creditori o almeno del procedente).
27. Al tempo stesso, se tale soluzione non è sorretta da valida base legale, ove in con-
creto adottata e non opposta (ma, in tal caso, pur sempre con la prospettazione di una con-
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giurisprudenza 245
creta violazione del diritto di difesa), essa vincola coloro cui è destinata e non può che esse-
re rispettata.
28. Solo, l’imposizione di una forma maggiore, quale la notifica dell’atto di citazione,
rispetto a quella più agile consentita dalla legge vitiatur sed non vitiat, cioè non rende affat-
to invalida l’instaurazione del giudizio, poiché non se ne possono far discendere decadenze
o conseguenze negative peculiari e proprie del sistema prescelto, che non si sarebbero veri-
ficate ove la forma adottata fosse stata quella invece ritenuta sufficiente e legittima (della
mera notifica, se del caso con integrazione, dell’ordinanza del g.e. che dispone la divisione).
29. Pertanto, il provvedimento del g.e. che quella separata notifica di distinto atto di
citazione disponga, benché privo di base normativa, non è di per sé solo o in linea di prin-
cipio idoneo a ledere il diritto di difesa di alcuno e, se non opposto in quanto tale da chi
dimostri di avere interesse a dolersene, andrà rispettato, alla stregua di qualsiasi provvedi-
mento giurisdizionale non ritualmente impugnato.
30. Del resto, sia pure ai fini della verifica dell’utile revocabilità dell’ordinanza che di-
spone la divisione, questa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass. 15/05/2014, n.
10653) che quella deve ritenersi avere avuto esecuzione quando sia stata notificata anche
solo ad uno dei contraddittori necessari che non fosse stato presente all’udienza fissata
ex art. 600 c.p.c. (in conformità a quanto prescritto dall’art. 181 disp. att. c.p.c.), ovvero
nei casi in cui alla prima udienza di comparizione gli interessati si siano costituiti con com-
parsa formulando le proprie domande ed eccezioni: tali due momenti dovendo qualificarsi
come irreversibile instaurazione di una valida azione di cognizione tra i soggetti cosı̀ coin-
volti, della quale il giudice dell’esecuzione non potrebbe allora più disporre.
31. Nel tirare le fila di questa ricostruzione sistematica, possono enunciarsi i seguenti
principi di diritto: «la divisione endoesecutiva, in quanto esito normale del processo di
espropriazione di beni indivisi, è ritualmente introdotta con la pronuncia – se sono presenti
tutti gli interessati – o con la notifica – in caso non siano presenti tutti gli interessati all’u-
dienza di cui all’art. 600 c.p.c. – dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione che la dispone,
siccome elemento conclusivo della fattispecie a formazione progressiva in cui quell’introdu-
zione si risolve; di conseguenza, ai fini della valida introduzione del giudizio di divisione en-
doesecutiva non è necessaria la separata notifica ed iscrizione a ruolo contenzioso civile di
un distinto atto di citazione; e tuttavia l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che, cionono-
stante, oneri una parte della previa notifica ed iscrizione a ruolo di separato atto di citazio-
ne, se non opposta con la dimostrazione di una conseguente lesione del proprio diritto di
difesa, non determina nullità e ad essa va prestata ottemperanza, sebbene non possano di-
scendere conseguenze di definizione in rito deteriori per la parte onerata rispetto a quelle
derivanti dall’inosservanza delle minori forme sufficienti».
32. La funzionalizzazione intrinseca del giudizio di divisione al processo esecutivo
comporta poi una costante interazione tra l’uno e l’altro, nonostante la persistente tenden-
ziale autonomia e morfologica irriducibile differenza strutturale di un giudizio di cognizio-
ne rispetto ad un processo esecutivo: e tanto non solo (come nel caso deciso dalla richiama-
ta Cass. 6072/12) quanto a legittimazione od interesse ad agire quanto meno in capo al cre-
ditore procedente (o, viene qui da precisare, ad altro munito di titolo esecutivo e quindi ti-
tolare del potere di dare impulso al processo esecutivo), ma anche ad utile riferibilità delle
attività processuali svolte nel secondo – dalle parti o nei confronti delle parti del processo
esecutivo – anche al primo, ogniqualvolta le peculiarità del processo di espropriazione di
beni indivisi implichino come immanenti gli sviluppi anche cognitivi cui quelle attività pos-
sono essere effettivamente rivolte o da cui debbono ritenersi presupposte.
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(1) Cass., ord. 17 ottobre 2018, n. 26049, configura il progetto esecuzioni come
«metodologia organizzativa adottata dalla Terza Sezione».
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giurisprudenza 247
(2) Su cui sia consentito il rinvio al nostro Giudizio di scioglimento delle comunioni ed
esecuzione forzata, in questa Rivista 2018, 413 ss., ed ivi richiami di dottrina sul punto.
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zio divisorio, questione la cui rilevanza era stata da noi segnalata a più
riprese (3).
Invero con la l. n. 80/2005, attraverso cui, intervenendo sull’art. 181,
1˚ e 2˚ comma, disp. att. c.p.c., si è demandata al giudice dell’esecuzione la
competenza per il giudizio di divisione incidentale e si è disposto che se
tutti gli interessati non sono presenti all’udienza di cui all’art. 600 c.p.c. il
giudice, con l’ordinanza con cui dispone la divisione, fissa l’udienza di-
nanzi a sé per la comparizione delle parti e concede un termine «per
l’integrazione del contraddittorio mediante la notifica dell’ordinanza», i
giudici di merito si erano diversamente orientati sull’avvio di detto giudi-
zio. In particolare constavano due principali ed opposti orientamenti: un
primo orientamento, esaltando la modifica del 2˚ comma dell’art. 181 disp.
att. c.p.c., riteneva che l’introduzione di esso avvenisse con la notifica
dell’ordinanza che lo disponeva (4); un secondo orientamento, invece, si
rifaceva alla previgente formulazione normativa per sollecitarne l’introdu-
zione nelle forme ordinarie, ossia con la notificazione della citazione ai
litisconsorti necessari (5). Su un piano intermedio si poneva l’orientamento
che, per consentire l’instaurazione del contraddittorio, imponeva l’integra-
zione dell’ordinanza con un atto di parte (6).
La dottrina prevalente approvando la ratio acceleratoria della novel-
la (7) ravvisava nell’ordinanza che dispone la divisione l’atto introduttivo di
essa (8). Tale orientamento però era stato criticato dall’opinione che, in
ragione del principio della domanda e della tassatività delle trascrizioni,
rintracciava la domanda di divisione nell’atto di pignoramento della quota,
atto da trascrivere nei confronti dei contitolari pur senza vincolo d’indi-
sponibilità sulle loro quote (9). Altra dottrina, poi, muovendo dalla consi-
giurisprudenza 249
(10) Cosı̀, A.M. Soldi, Manuale dell’espropriazione forzata, Vicenza 2016, 1529.
(11) R. Lombardi, Profili problematici, cit., 71 ss., L’espropriazione di beni indivisi, cit.,
330 ss., e da ultimo ribadita in Giudizio di scioglimento delle comunioni, cit., 413.
(12) Cfr. E. Grasso, L’espropriazione della quota, Milano 1957, 303; S. La China,
L’attuazione dell’art. 2825 c.c. nel processo di espropriazione forzata, in Riv. trim. dir. proc.
civ.1965, 1579, nota 19; v. anche A. Cardino, Comunione di beni, cit. 330.
(13) Tra le altre, v. Cass.18 aprile 2012, n. 6072.
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giurisprudenza 251
(15) Cfr. E. Bruschetta, La riforma del processo civile, Milano 2005, 196. .
(16) Cfr. C. Miele, A. Roda, R. Fontana, La prassi delle vendite immobiliari nel Tribu-
nale di Monza, in Riv. esec. forzata 2001, 512.
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giurisprudenza 253
liquidazione della quota indivisa. È dal tipo di bene del debitore, recte la
quota ideale su un bene, e dalla prospettiva di consentire al creditore di
fruire pienamente della garanzia di cui all’art. 2740 c.c., che discende
l’opzione della divisione. Il giudizio di cui all’art. 784 ss. c.p.c. è strumento
per scindere la comunione e rendere ciascun comproprietario proprietario
esclusivo di una parte del patrimonio comune corrispondente alla propria
quota, parte su cui si riversano le ragioni creditorie.
Si tratta del medesimo legame tra processo esecutivo e giudizio di
divisione che si riscontrava anche quando l’art. 181, comma 2˚, disp. att.
c.p.c. prevedeva l’introduzione del giudizio di divisione mediante atto di
citazione. Va allora evidenziato che l’attribuzione della competenza per il
giudizio di divisione incidentale al giudice dell’esecuzione non è stata
dettata specificamente dalla strumentalità di esso rispetto all’espropriazio-
ne forzata, strumentalità evidente anche al legislatore del ‘42, bensı̀ dal-
l’affidamento delle funzioni di giudice dell’esecuzione al solo tribunale
(art. 484, comma 2˚, c.p.c.) (21), dalla generale coincidenza tra la compe-
tenza territoriale del giudice dell’esecuzione e quella del tribunale per il
giudizio di divisione, dal riscontro che di frequente il bene da dividere non
è comodamente divisibile onde è da procedere alla sua vendita (22). È
invece da notare che anche nella pronuncia in esame la Corte esalta l’au-
tonomia strutturale, soggettiva e oggettiva, del giudizio di divisione endoe-
secutivo rispetto all’espropriazione forzata; dato questo che ben accentua
allorché segnala la mancata recezione del fascicolo esecutivo nell’ambito
del giudizio divisorio.
(23) Cosı̀ E. D’Alessandro, L’oggetto del giudizio di cognizione. Tra crisi delle categorie
del diritto civile ed evoluzioni del diritto processuale, Torino 2016, 1 ss.
(24) S. Satta, voce Domanda giudiziale (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XIII, Milano
1964, 822.
(25) Ossia in una richiesta di cui avrà conoscenza il solo comproprietario esecutato e
non anche tutti i litisconsorti necessari del giudizio divisorio (art. 784 c.p.c.).
(26) È evidente che nella costruzione della Corte se all’udienza di comparizione di cui
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dall’art. 181, comma 2˚, disp. att. c.p.c., l’introduzione del giudizio divi-
sorio con citazione.
La Corte inoltre avrebbe dovuto spiegare il rapporto tra tale istanza –
id est la fattispecie a formazione progressiva – e l’eventuale citazione che
pur consente al giudice dell’esecuzione di imporre alle parti. Ad ogni
modo la Suprema Corte non si avvede che l’«articolata» conclusione cui
perviene è destinata inesorabilmente a portare con sé una serie di ulteriori
problemi di ordine processuale: dall’individuazione del momento della
litispendenza del giudizio divisorio (dall’emissione dell’ordinanza o dalla
sua notifica?), e tanto in relazione all’evenienza in cui s’instauri un giudizio
divisorio autonomo (27) ma anche per intendere su quale processo ricade
un’eventuale estinzione, all’individuazione del destinatario della notifica
dell’ordinanza in mancanza di un procuratore costituito in sede esecutiva,
e quindi al se detta notifica vada effettuata alle parti non comparse all’u-
dienza o alle parti non costituite nel processo esecutivo, al contenuto
dell’ordinanza in rapporto all’atto di pignoramento, a problematiche di
più ampio respiro quale quella della prospettiva che la domanda di richie-
sta di tutela giurisdizionale esecutiva contenga anche quella di tutela giu-
risdizionale cognitiva, al rapporto tra «forma sufficiente» e «forma mag-
giore» tra atti provenienti da soggetti diversi (ordinanza atto del giudice,
citazione atto della parte).
all’art. 600 c.p.c. risulta praticabile la separazione della quota in natura o la vendita della
quota indivisa la (parte di) domanda di divisione è destinata a dissolversi.
(27) Invero il profilo andrebbe analizzato anche in considerazione della valenza del-
l’avviso di cui all’art. 599 c.p.c.
(28) Del resto anche la sentenza in commento osserva che “l’adozione di una di una
successiva e distinta notifica di un atto di citazione” è “effettivamente” più in linea con
l’esigenza della tutela del contraddittorio.
(29) R. Lombardi, L’espropriazione di beni indivisi, cit., 330. Invero si è formulata una
bozza di novella dell’art. 181 disp. att. nei seguenti termini: “Art. 181. Disposizioni sulla
divisione. Il giudice dell’esecuzione, quando dispone che si proceda a divisione del bene
indiviso, stabilisce un termine perentorio per l’introduzione del giudizio mediante citazione
a comparire davanti a sé ad udienza fissa, osservati i termini di cui all’art. 163 bis del
codice”.
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del processo civile (30), sembrano privilegiare lo strumento del ricorso, sı̀
che l’atto di citazione, espressione più lampante di un passato ormai al
crepuscolo, sarebbe da relegare «in soffitta». Tuttavia, in una prospettiva
più ampia, un sistema processuale che eleva a garanzia costituzionale la
terzietà e l’imparzialità del giudice, sublima le sue opzioni attraverso la
«metodica» dell’atto di citazione: lo «strumento» naturalmente rivolto alla
controparte opportunamente lascia il giudice, ancorché limitatamente al-
l’iniziale passaggio processuale, dietro «le quinte», cosı̀ da esaltarne l’indi-
pendenza (31).
RITA LOMBARDI
Ricercatore nell’Università di Napoli Federico II
(30) Si legge sul Quotidiano telematico del Ministero della Giustizia, del 26 novembre
2018, di una riforma del processo civile che prevede l’eliminazione dell’atto di citazione.
(31) Ovviamente la “metodica” alternativa del ricorso e la logica sottesa del diretto ed
immediato “appello” all’autorità giudiziaria, devono conservarsi. Tuttavia altri sono gli
ambiti in cui il diversificato “strumento” del ricorso ha da esplicarsi: l’ambito della cosid-
detta “tutela differenziata”, a motivo dell’eguaglianza sostanziale consacrata al 2˚ comma
dell’art. 3 Cost.; l’ambito della tutela cautelare e di cognizione endoesecutiva, a motivo della
efficienza cui deve improntarsi l’intervento del giudice; l’ambito della tutela di “legittimità”,
innanzi alla Suprema Corte, a motivo dei suoi risvolti pubblicistici e officiosi. È in questi
spazi che l’immediata e diretta sollecitazione dell’autorità giudiziaria si legittima (v. anche S.
Sorace, voce Litispendenza (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano 1974, 856 ss.).
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Il disposto di cui al novellato art. 92, comma 2˚, c.p.c. contrasta con i principi di ragionevolez-
za ed eguaglianza ex art. 3, comma 1˚, Cost. nella parte in cui esclude dal novero delle fatti-
specie di compensazione delle spese di lite in caso di soccombenza totale le ipotesi di sopravve-
nienze relative a questioni dirimenti e a questioni di assoluta incertezza che presentino la stes-
sa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla norma, le
quali hanno quindi carattere paradigmatico e svolgono una mera funzione parametrica ed
esplicativa, nonché con il principio del giusto processo ex art. 111, comma 1˚, Cost. e col di-
ritto alla tutela giurisdizionale ex art. 24, comma 1˚, Cost. in quanto la prospettiva della con-
danna in expensis in qualsiasi situazione del tutto imprevista e imprevedibile può costituire
per la parte che agisce o resiste in giudizio una remora ingiustificata a far valere i propri diritti
(massima non ufficiale).
È infondata la questione di legittimità costituzionale che miri ad innestare nel novellato art.
92, comma 2˚, c.p.c., quale deroga alla regola victus victori, in aggiunta alle ipotesi nominati-
vamente previste nella disposizione stessa – come integrate dalla dichiarazione di illegittimità
costituzionale di cui sopra –, un’ulteriore deroga per le controversie di lavoro in ragione della
loro natura e a favore del solo lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di la-
voro (massima non ufficiale).
Cosı̀ ha disposto, da ultimo, l’art. 13, comma 1˚, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, con-
vertito, con modificazioni, nella l. 10 novembre 2014, n. 162 (norma che, per espressa pre-
visione dell’art. 13, comma 2˚, d.l. citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere
dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, av-
venuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in
legge del d.l. 12 settembre 2014, n. 132: «Nonostante le modifiche restrittive introdotte ne-
gli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discre-
zionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto
che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte
che risulti aver avuto ragione».
Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposi-
zione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipote-
si tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come
correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti.
15.– Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragio-
nevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stes-
sa ratio giustificativa.
La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è
connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferi-
mento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta – che concerne prevalentemente
la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurispru-
denza di merito – non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi
confrontare con un nuovo principio di diritto, sı̀ che, nei casi di non prevedibile overruling,
l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’o-
rientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, preci-
sate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11
luglio 2011, n. 15144).
Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente,
avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali
ragioni» – sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa
che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle par-
ti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto muta-
mento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più
evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, so-
prattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Cor-
te, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una corte europea; o
una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravve-
nienze. Le quali tutte, ove concernenti una «questione dirimente» al fine della decisione
della controversia, sono connotate da pari «gravità» ed «eccezionalità», ma non sono iscri-
vibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse al-
la prudente valutazione del giudice della controversia.
Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’as-
soluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di og-
gettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile
ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, pa-
rimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni». (Omissis).
Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglian-
za (art. 3, comma 1˚, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nomina-
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giurisprudenza 259
te, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le
analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incer-
tezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espres-
samente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in
violazione del canone del giusto processo (art. 111, comma 1˚, Cost.) e del diritto alla tutela
giurisdizionale (art. 24, comma 1˚, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamen-
to delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista e imprevedibile per la
parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i
propri diritti.
(Omissis). – 17. L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in
riferimento agli artt. 3, comma 1˚, 24, comma 1˚, e 111, comma 1˚, Cost. – indicati da en-
trambe le ordinanze di rimessione – comporta l’assorbimento della questione in riferimento
agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reg-
gio Emilia (artt. 25, comma 1˚; 102 e 104 Cost.; nonché, per il tramite dell’art. 117, comma
1˚, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché tutti orientati ad ottenere la me-
desima dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavo-
ratore come parte «debole» del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e
distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegitti-
mità costituzionale della disposizione censurata.
Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza
del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondot-
ta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che
tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di la-
voro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore
che agisce nei confronti del datore di lavoro.
La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui al-
l’art. 3, comma 2˚, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente – un trattamento
differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più «debole», costretto
ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92, comma 2˚, c.p.c. avrebbe in concreto
l’effetto opposto.
Sarebbero altresı̀ violati, per il tramite dell’art. 117, comma 1˚, Cost., anche gli artt. 14
CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla ricchez-
za» o su «ogni altra condizione» (art. 14 CEDU) o sul «patrimonio» (art. 21 CDFUE).
18.– La questione non è fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale pre-
visto dal secondo comma dell’art. 111 Cost. secondo cui «[o]gni processo si svolge (…) tra
le parti, in condizioni di parità». Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concre-
to, venga a trovarsi la parte «debole» – ossia quella per la quale possa essere maggiormente
gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle
spese processuali, sı̀ da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio – trova
un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «apposi-
ti istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti (…) i mezzi per agire e difendersi davanti
ad ogni giurisdizione».
Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la di-
sposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto contro-
verso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio
processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in
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tutto o in parte, le spese di lite – le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegitti-
mità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di
«gravi e eccezionali ragioni» – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive
e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la
parte «debole» del rapporto controverso. (Omissis).
Quindi da una parte la condizione soggettiva di «lavoratore» non ha mai comportato
alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza tota-
le nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle contro-
versie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano
prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve
concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto
esonero.
La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente «non abbiente», e quin-
di «debole», risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale,
oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost.,
che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o
dell’assistito.
Invece la qualità di «lavoratore» della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente
ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola,
ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine eco-
nomico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, comma 2˚, Cost.) – per derogare al gene-
rale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese proces-
suali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimento
all’art. 92, comma 2˚, c.p.c. nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nel-
l’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiara-
zione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – se-
gnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora
promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che so-
no nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), co-
stituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una
situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle
«gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione delle spese di
lite.
19.– Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revo-
cata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discri-
minatori basati sul censo.
La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini so-
stanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del
datore di lavoro, sia parte «debole» del rapporto controverso, giustifica norme di favore su
un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che que-
st’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzio-
nale del secondo comma dell’art. 92 c.p.c. con l’innesto della clausola generale delle «gravi
ed eccezionali ragioni». Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute negli artt.
10 e 11 l. 11 agosto 1973, n. 533 (peraltro successivamente abrogati); ad esse può aggiun-
gersi anche l’art. 13, comma 3˚, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», il quale
prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le contro-
versie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego. (Omissis).
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giurisprudenza 261
(4) Invero, delle due l’una: o i contratti collettivi ritenuti dal giudice applicabili in
alternativa a quelli invocati dal ricorrente erano già stati ritenuti applicabili alla fattispecie de
qua da altra (sufficientemente consolidata) giurisprudenza – come sembra prospettare il
remittente –, e allora saremmo dinanzi a un caso di «mutamento della giurisprudenza»; o
la questione dell’individuazione dei contratti collettivi applicabili è del tutto nuova, e allora
saremmo dinanzi a un caso di «assoluta novità».
(5) Trib. Torino 30 gennaio 2016, n. 132, cit., par. 53.
(6) Ibid.
(7) Id., par. 37.
(8) Ibid.
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giurisprudenza 263
(18) Ibid.
(19) Ibid.
(20) Ibid.
(21) Ibid.
(22) In senso conforme a quanto ritenuto dalla Corte e da uno dei due remittenti (Trib.
Reggio Emilia 28 febbraio 2017, n. 86, cit.) sia consentito rinviare a R. Di Grazia, La
compensazione delle spese giudiziali dopo la l. 10 novembre 2014, n. 162, in questa Rivista
2015, 1529 ss., spec. 1532 ss.; v., poi, A. Tedoldi (Processo civile di cognizione: le novità del
d.l. giustizia civile, in www.quotidianogiuridico.it), per il quale «l’art. 92, comma 2˚, c.p.c.,
nel testo novellato (...), soffre d(el) difetto (…) d’esser troppo e inutilmente draconiano nel
dettare una tassativa trilogia di fattispecie di compensazione delle spese del processo, senza
lasciar margini ad una discrezionalità giudiziale in materia di spese che è giusto sorvegliare
ma sarebbe iniquo cancellare del tutto» (corsivo aggiunto); contra F. Santangeli (in Aa. Vv.,
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giurisprudenza 265
La nuova riforma del processo civile, a cura di F. Santangeli, Roma 2015, sub art. 13, 144),
per il quale invece «neanche qui ci si trova di fronte ad una tipizzazione o elencazione di
fattispecie dai contorni precisamente definiti», e Trib. Torino (sez. lav., 13 febbraio 2017, n.
2259), secondo cui occorre dare una lettura elastica e/o comunque costituzionalmente
orientata della disposizione in commento.
(23) Secondo quanto affermato, «seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a
costituire, la ratio decidendi della pronuncia di inammissibilità» [Corte cost. 19 aprile
2018, n. 77 (interamente consultabile in www.cortecostituzionale.it), par. 7], da Corte cost.
21 dicembre 2004, n. 395 (in www.cortecostituzionale.it) in analoga vicenda.
(24) Condivisibilmente, infatti, la Consulta ritiene che la qualificazione sia «imprecisa»
(Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77, cit., par. 8.), in quanto la sentenza che decide tutto il
merito della causa ha da qualificarsi come definitiva ex art. 279 c.p.c.
(25) Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77, cit., par. 10.
(26) Id., par. 11.
(27) Id., par. 13.
(28) Id., par. 14.
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giurisprudenza 267
(39) Art. 15, comma 2˚, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come modificato dall’art. 9,
comma 1˚, lett. f), num. 2), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156.
(40) Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77, cit., par. 16.
(41) Ibid.
(42) R. Di Grazia, op. cit., 1533 ss.
(43) V. supra, nota 31.
(44) Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77, cit., par. 16.
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ROSARIO DI GRAZIA
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È inammissibile il regolamento di competenza d’ufficio nel caso in cui il secondo giudice, adi-
to a seguito della riassunzione, neghi di essere competente per materia e ritenga che la compe-
tenza sia regolata soltanto per valore, giacché in tale ipotesi, non essendovi alcun giudice com-
petente per materia, l’eventuale decisione di accoglimento del regolamento da parte della
S.C., ex art. 49, 2˚ comma, c.p.c. produrrebbe nella sostanza il medesimo effetto di un regola-
mento di competenza d’ufficio «ratione valoris» non consentito dall’ordinamento (massima
non ufficiale).
(Omissis). – 2.1. Osserva la Corte che gli argomenti tradizionalmente portati a soste-
gno dell’orientamento maggioritario non sono esenti da aporie e criticità.
In primo luogo, non sembra dirimente a tal fine l’art. 44 c.p.c., nella parte in cui sanci-
sce che l’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice che l’ha pronunciata, se non è
impugnata con istanza di regolamento, rende incontestabile l’incompetenza dichiarata e la
competenza del giudice in essa indicato se la causa è riassunta nei termini di cui all’art. 50,
salvo che si tratti di incompetenza per materia o di incompetenza per territorio nei casi pre-
visti nell’art. 28: la clausola di riserva riferita, sic et simpliciter, all’incompetenza per materia
o a quella territoriale inderogabile restituisce il problema insoluto e negli stessi termini.
Si deve, poi, notare che l’affermazione secondo cui il giudice ad quem non può chiede-
re di «spartire la competenza in base al valore, perché con la riassunzione della causa da-
vanti al giudice dichiarato competente ogni questione sulla competenza per valore è oramai
preclusa» (cosı̀ Cass. n. 19792/08, cit.), sembra soffrire di un errore di prospettiva, potendo
– in realtà – ribaltarsi nel suo esatto contrario.
Infatti, non è il giudice ad quem a rilevare implicitamente, elevando ex art. 45 cit., un
conflitto negativo per insussistenza della propria asserita competenza per materia o territo-
rio inderogabile, (anche) la propria incompetenza per valore con rilievo ormai precluso per
decorso dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.: è invece il giudice a quo ad aver ritenuto sus-
sistente la propria competenza per valore (essendosi spogliato della causa solo ratione mate-
riae) oppure a non aver rilevato una propria incompetenza ratione valoris (perché non esa-
minata o comunque assorbita da quella per materia) e, per ciò solo, ad aver reso incontesta-
bile sotto tale profilo la propria competenza.
Pertanto, il giudice ad quem, elevando conflitto, non fa altro che limitarsi a negare la
propria competenza per materia, senza nulla rilevare – neppure per implicito – circa la
competenza per valore una volta esclusa quella per materia erroneamente attribuitagli dal
primo giudice.
Ove la competenza per materia del secondo giudice venisse effettivamente esclusa al-
l’esito della decisione sul regolamento di competenza d’ufficio, resterebbe incontestabile la
competenza ratione valoris del giudice a quo.
In altre parole, se innanzi al primo giudice non si è posta (in via di eccezione di parte
o di rilievo d’ufficio) questione alcuna di incompetenza per valore, ogni discorso a riguardo
è ormai precluso già presso il primo giudice.
Né – d’altronde – il secondo giudice potrebbe elevare conflitto negativo ratione valo-
ris (l’art. 45 c.p.c., come si è detto, non lo consente).
E allora il secondo giudice, con il sollevare conflitto, si limita a segnalare l’inesistenza
della competenza per materia (o territoriale inderogabile) attribuitagli dal primo giudice e,
se davvero tale attribuzione è erronea, il ritorno della causa al primo giudice deriverebbe
non già da un implicito rilievo di incompetenza per valore ad opera del secondo giudice,
ma dalla mera constatazione che, venuto meno il criterio per materia come attributivo della
competenza al secondo giudice, nulla impedirebbe al primo giudice di conoscere della con-
troversia inizialmente incardinata davanti a lui, atteso che proprio innanzi a lui la compe-
tenza ratione valoris si è ormai radicata, non essendosi mai posta la relativa questione (or-
mai processualmente preclusa).
E sarebbe incoerente sostenere che la preclusione dell’eccezione o del rilievo officioso
dell’incompetenza per valore opera solo nei confronti del secondo giudice (innanzi al quale
la relativa questione non si è posta e neppure poteva porsi) e non anche nei confronti del
primo (presso il quale la questione poteva porsi, ma non è stata posta tempestivamente, op-
pure, se posta, è stata disattesa).
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giurisprudenza 271
Viene meno, quindi, una ragione fondante dell’orientamento maggioritario di cui s’è
detto.
Si deve, quindi, condividere quanto si legge nell’ordinanza interlocutoria e cioè che co-
stituisce un’aporia affermare che se il giudice di pace nega di essere competente ratione ma-
teriae ciò significa che sta spogliandosi della competenza solo sotto tale profilo, mentre se
la medesima asserzione la fa il tribunale ciò vuol dire che sta declinando la propria compe-
tenza (anche) ratione valoris.
E, ancora, appare singolare l’effetto che si realizza seguendo l’argomento cardine del-
l’orientamento maggioritario: la competenza per valore espressamente riconosciuta o alme-
no non negata dal primo giudice si trasformerebbe nel suo esatto contrario, ossia in una so-
stanziale attribuzione della medesima competenza ratione valoris al secondo giudice, in for-
za d’una preclusione maturata non già innanzi a costui, ma innanzi al giudice a quo.
E se l’effetto della preclusione è quello di rendere incontestabile la competenza per un
titolo diverso da quello in ordine al quale vi sia stata pronuncia declinatoria, non si com-
prende come la mera translatio iudicii conseguente a tale statuizione possa produrre l’effet-
to addirittura opposto, cioè rendere incontestabile con riferimento al giudice ad quem quel-
la competenza per titolo diverso da quello oggetto di declinatoria che, invece, era ormai ra-
dicata innanzi al giudice a quo (nel senso che questi non avrebbe mai potuto, in caso di ac-
coglimento dell’altrui regolamento d’ufficio e di conseguente ritorno della controversia in-
nanzi a lui, recuperare spazi di rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza sotto diversi profili).
In breve, una stessa preclusione cambierebbe effetto con la translatio iudicii: non radi-
cherebbe più la competenza presso il giudice a quo dove la preclusione medesima era ma-
turata (una volta smentita, se del caso, la sua pronuncia declinatoria in sede di decisione
del regolamento di competenza d’ufficio), ma presso il giudice ad quem (prevenendo la de-
cisione stessa del regolamento in quanto ritenuto inammissibile).
Ma è una conclusione – questa – giuridicamente illogica e, pertanto, non predicabile.
Fra le ulteriori criticità degli argomenti portati a sostegno dell’orientamento prevalente
ve ne sono anche due di tipo letterale.
In primo luogo, l’art. 45 c.p.c., si limita a stabilire che il regolamento può essere ri-
chiesto quando il giudice ad quem «ritiene di essere a sua volta incompetente» e non già
che il regolamento possa essere chiesto solo se il giudice adito per secondo «ritiene di esse-
re a sua volta incompetente previa individuazione di un diverso criterio di competenza per
materia del primo o d’un terzo giudice».
D’altronde, come evidenziato dalla citata ordinanza interlocutoria, la competenza per
materia e quella per valore non sono tra loro in rapporto di specialità. La prima attiene alla
«qualità», l’altra alla «quantità» della domanda. Pertanto, quando la sezione specializzata
agraria nega (come nel caso di specie) che la controversia rientri tra quelle ad essa devolute
dalla legge, non sta affatto affermando che la competenza a decidere la lite vada attribuita
«per valore»: si limita, puramente e semplicemente, ad affermare che la qualità della con-
troversia e, quindi, la competenza per materia non sono quelle ritenute dal primo giudice.
In secondo luogo, non v’è alcuna ragione letterale per cui la questione di competenza
per materia debba ridursi alla mera individuazione di quale sia il giudice provvistone nel
presupposto che, comunque, la controversia sia sicuramente assoggettata ad un criterio di
riparto di competenza ratione materiae.
E, infatti, è indubbio che tale questione di competenza si pone tanto nel caso in cui si
discuta di quale giudice ne sia provvisto quanto nell’evenienza in cui si discuta se sia confi-
gurabile un’ipotesi di competenza per materia e, se sı̀, a chi debba essere attribuita.
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giurisprudenza 273
guente inammissibilità del regolamento stesso quante volte sia proposto ratione materiae (o
per territorio inderogabile) nelle controversie che non siano effettivamente regolate da un
criterio di competenza per materia o territoriale inderogabile.
2.2. In breve, come sopra anticipato, emergono svariate aporie e criticità negli argo-
menti tradizionalmente portati a sostegno dell’orientamento maggioritario.
Tuttavia, esso merita di essere mantenuto sia pure in base ad una diversa motivazione,
che privilegi una lettura minimalista dell’art. 45 c.p.c., inteso come norma che si preoccupa
non già di garantire, attraverso lo strumento del conflitto di competenza, l’esatto rispetto –
sempre e comunque – delle regole che presiedono al riparto della competenza medesima,
bensı̀ come norma che si limita a garantire il rispetto del minimo irrinunciabile di quelle re-
gole concernenti la «qualità» della domanda, accettando anche (in nome della ragionevole
durata del processo) che una data controversia possa eventualmente essere decisa da un
giudice normalmente preposto a conoscerne altre di differente valore.
E, infatti, l’art. 45 cit. non consente il conflitto di competenza ove si controverta della
competenza ratione valoris o territoriale derogabile: si tratta d’una non casuale scelta nor-
mativa che spiega quale sia la basilare preoccupazione del legislatore.
È pur vero che l’argomento per cui, nelle ipotesi non coperte dall’art. 45 cit. come so-
pra interpretato, l’ordinamento lascerebbe le parti interessate libere di reagire in via di re-
golamento di competenza ad istanza di parte, potrebbe risultare indebolito dall’art. 46
c.p.c. (che nei giudizi innanzi al giudice di pace non consente l’applicazione degli artt. 42 e
43 stesso codice).
E indebolito ancor più oggi, essendo stato da tempo unificato nel tribunale (a seguito
del d.lgs. n. 51 del 1998) il giudice (togato) di primo grado.
Nondimeno la perplessità può agevolmente superarsi considerandosi il corollario della
su esposta lettura minimalista del cit. art. 45: se lo scopo della norma è soltanto quello di
evitare che un giudice conosca d’una controversia di cui la legge percepisce una qualità tale
da meritare di essere riservata esclusivamente ad altro giudice, ogni qual volta – invece –
non via sia spazio alcuno per un riparto di competenza per materia o per territorio indero-
gabile è evidente che la competenza non possa che determinarsi ratione valoris.
Quindi, una volta che questa S.C. considerasse ammissibile e fondata l’istanza di rego-
lamento promossa dal giudice ad quem (che neghi che la competenza a conoscere della con-
troversia rientri in una qualsivoglia ipotesi di riparto per materia), ex art. 49 c.p.c., comma
2˚, alla fine non potrebbe che individuare per valore (e non alla luce di diverso criterio) il
giudice competente per il prosieguo di causa.
Ma in sostanza l’esito conclusivo sarebbe, appunto, lo stesso che si sarebbe verificato
se il legislatore avesse esteso la possibilità di elevare conflitto anche ratione valoris (il che,
invece, l’art. 45 cit. pacificamente non consente).
Sarebbe un modo surrettizio per recuperare la praticabilità di un tipo di conflitto che
l’art. 45 cit. espressamente nega.
È opportuno evidenziare che ciò non vuol dire che cosı̀ facendo il giudice ad quem in
sostanza rilevi d’ufficio un’incompetenza per valore il cui rilievo è ormai precluso essendo
trascorsa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. (in realtà egli si limita a negare la fondatezza del-
la declinatoria di competenza emessa dal giudice, come esattamente obiettato dall’ordinan-
za interlocutoria), ma soltanto che l’effetto sarebbe, sostanzialmente, lo stesso d’un regola-
mento di competenza d’ufficio ratione valoris, che invece l’ordinamento non accorda per
esplicita e legittima (in quanto tale non sindacabile innanzi alla Corte cost.) scelta di merito
legislativo.
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3.1. In conclusione, sia pure con motivazione corretta nei sensi di cui al paragrafo che
precede, l’orientamento maggioritario di questa Corte va mantenuto, con conseguente
inammissibilità del regolamento d’ufficio de quo perché la controversia in oggetto non rien-
tra nella competenza per materia di alcun giudice, ma è ripartita soltanto ratione valoris.
(Omissis).
(1) Si segnala che la sentenza è pubblicata anche in Giur it. 2018, 1897, con nota di L.
Moretti, Sul regolamento di competenza d’ufficio.
(2) L’opinione era già consolidata. Cfr. V. Andrioli, Commento all’art. 45 c.p.c., in
Commentario al codice di procedura civile, vol. I, Napoli 1957 165 ss., spec. a 166; A.
Massari, voce Regolamento di competenza, in Noviss. Dig. it., vol. XV, Torino 1968, 294
ss., spec. a 312; Id., Del regolamento di giurisdizione e di competenza, Commento all’art. 45
c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, Torino 1973, 528
ss., spec. a 530. Nello stesso senso, e per una compiuta analisi esegetica del regolamento di
competenza d’ufficio, cfr. R. Annecchino, Note sul regolamento di competenza d’ufficio, in
Dir. e giur. 1990, 601 ss.; G. Bongiorno, Il regolamento di competenza, Milano 1970, 118 ss.;
da ultimo, cfr. R. Frasca, Il regolamento di competenza, Torino 2012, 243 ss. Si veda anche
G. Arieta, La sentenza sulla competenza, Padova 1990, 42, spec. nota 64, che sottolinea che
la limitazione dei poteri di accertamento del giudice adito in riassunzione per cui quest’ul-
timo è tenuto a verificare esclusivamente la competenza per materia e territorio inderogabile
«prescinde dalle ragioni che hanno condotto il primo giudice a pronunciare la declinatoria,
che possono anche essere fondate su criteri diversi dalla materia e dal territorio inderoga-
bile», ritenendo di approvare l’orientamento giurisprudenziale ivi richiamato per cui il
regolamento di competenza d’ufficio sarebbe esperibile quando il giudice a quo si sia
dichiarato incompetente per valore e il giudice ad quem si ritenga incompetente per materia
e che «esclude l’operatività dell’art. 45 allorché il primo giudice abbia declinato la propria
competenza per materia, mentre il giudice della riassunzione faccia questione di applicazio-
ne dei criteri di valore». Nello stesso senso, già S. Satta, Commentario al codice di procedura
civile, vol. I, Milano 1966, 190 ss., ivi 191, afferma «non occorre cioè che il primo giudice
abbia dichiarato la propria incompetenza per materia, etc.; basta che il secondo giudice
ravvisi una siffatta incompetenza, anche se il primo o le parti hanno ritenuto trattarsi di
competenza per territorio o per valore. Ciò è stato negato dalla Cass. 1.8.58, n. 2840 (cfr.
anche Cass. 6.10.58 n. 3123), ma la decisione appare ispirata a una troppo letterale inter-
pretazione della legge, e va sicuramente contro il suo spirito e lo scopo generale dell’istituto
del regolamento».
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(3) Cass., 7 giugno 2017, n. 14252, in Foro it. Rep. 2017, voce Competenza civile, n. 21,
testo integrale dell’ordinanza reperibile su www.neldiritto.it.
(4) Cass., 15 giugno 2016, n. 12354, in banca dati www.leggiditalia.it.
(5) Per completezza si segnalano qui le pronunce richiamate dalla sentenza in com-
mento il riferimento alle quali è stato tuttavia omesso dalle parti di provvedimento qui
pubblicate: Cass., 4 ottobre 1996, n. 728, in Lav. nella giur. 1996, 347; Cass., 17 luglio
2008, n. 19792, in Foro it. Rep. 2008, voce Competenza civile n. 88.; Cass., 19 gennaio 2015,
n. 278, in Foro it. Rep. 2015, voce Competenza civile, n. 127; Cass., 22 luglio 2016, n. 15138,
in Foro it. Rep. 2016, voce Competenza civile, n. 108. Viene richiamata, anche se il tema in
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esame non è l’oggetto centrale della pronuncia, Cass., sez. un., 19 ottobre 2011, n. 21582 in
questa Rivista 2012, 1389, con nota di M. Zulberti, Sulla nozione di «cause relative a beni
mobili» come oggetto della competenza del giudice di pace.
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giurisprudenza 277
(6) Cfr. sul punto, R. Frasca, op. cit., 259 che aggiunge che, ammettendo che il rilievo
espresso del giudice della propria incompetenza per valore costituisca anche il rilievo im-
plicito della propria incompetenza per materia, si dovrebbe, allora, «riservare identico
trattamento» anche all’eccezione di parte avente lo stesso contenuto; con la conseguenza
che «in un’eccezione di incompetenza per valore ritualmente formulata dal convenuto
dovrebbe intravedersi anche la proposizione implicita di un’eccezione di incompetenza
per materia», il che sarebbe una negazione del significato dell’attività di rilevazione «intesa
come attività di individuazione delle conseguenze giuridiche del fatto». In generale, per una
critica complessiva della motivazione sottostante l’orientamento in esame, cfr. Id., op. cit.,
268 ss.
(7) Il concetto di ragionevole durata del processo ha assunto particolare rilievo nel
nostro ordinamento con la modificazione dell’art. 111 Cost., operata dalla legge cost. 23
novembre 1999, n. 2. Con tale legge sono stati aggiunti i primi sei commi dell’art. 111 Cost.
e la ragionevole durata del processo è oggi menzionata nel comma 2˚ che recita: «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice
terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Per i commenti all’indomani
della modifica normativa, cfr., inter alia, A. Didone, Appunti sulla ragionevole durata del
processo civile, in Giur. it. 2004, 871 ss. e G. Olivieri, La «ragionevole durata» del processo di
cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2 comma, Cost), in Foro it. 2000, V, 251 ss.
(8) Cfr. G. Nappi, Commento agli artt. 44 s., in G. Nappi, Commentario al codice di
procedura civile, vol. I, Disposizioni generali, Milano 1941, 321 ss. secondo cui «per inten-
dere esattamente la norma dell’art. 45 occorre esaminare l’efficacia della sentenza che
pronunzia sulla competenza. L’Art. 44 ne è dunque il precedente logico. Esso si riallaccia
ed è parte integrante della disposizione dell’art. 42, in quale a sua volta per i termini di
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decorrenza si riferisce all’art. 47». Nello stesso senso, A Massari, voce Regolamento di
competenza, cit., spec. a 309.
(9) L. 26 novembre 1990, n. 353. La disposizione è stata modificata, in seguito, anche
dalla l. 18 giugno 2009, n. 69. Sul regime dell’incompetenza prima della riforma del 1990,
cfr. per tutti G. Franchi, Difetto di giurisdizione, incompetenza, litispendenza, Commento
all’art. 38 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, Torino
1973, 379 ss.
(10) R, Oriani, Il nuovo testo dell’art. 38 c.p.c. (art. 4 l. n. 353/90), in Foro it. 1991, V,
334 ss., spec. a 336. Il progetto Liebman, consultabile in Proposte per una riforma del
processo civile di cognizione, in questa Rivista 1977, 452 ss., nel prevedere una proposta
di riforma del libro secondo del codice, ispirata al rito del lavoro, chiarisce nella Relazione,
ivi, 460 che, quanto al libro primo del codice, «profondamente modificata dovrebbe essere
soltanto la disciplina della competenza (...). Tutti i giudici sono considerati oggi eguali ed
egualmente degni e non si giustificano più quelle interminabili dispute per sapere se una
causa debba essere decisa da un giudice piuttosto che da un altro, che sono motivo di
frequente prolungamento delle liti». Per una descrizione dell’orientamento, cfr. M. Acone e
L. Iannicelli, Commento all’art. 45, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di
L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella, vol. I, Torino 2012, 695 ss., spec. a
697 e richiami ivi svolti. Qui basti segnalare che l’argomento traeva le proprie origini nel
fatto che il sistema della competenza di cui al riformato art. 38 c.p.c. fosse stato delineato a
modello della disciplina dell’incompetenza prevista per il processo del lavoro.
(11) R. Oriani, op. cit., spec. 337 che, riprende le parole di R. Annecchino, Note sul
regolamento di competenza d’ufficio, in Dir. e giur. 1990, 601 ss., spec. a 625.
(12) A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1996, 304, afferma che
«sussistono probabilmente le condizioni per sostenere che, a seguito del nuovo testo dell’art.
38, si determina l’abrogazione per incompatibilità dell’art. 45». Contra cfr. B. Capponi,
Giudice e Parti, in R. Vaccarella, B. Capponi, C. Cecchella, Il processo civile dopo le riforme,
Torino 1992, 3 ss., spec. a 35 s.
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giurisprudenza 279
cui le parti soffrono in tali evenienze». Sulla ratio di deroga al principio Kompetenz-Kompe-
tenz della previsione per cui al giudice, adito in riassunzione, che si ritenga incompetente per
valore non è consentita la proposizione del regolamento di competenza d’ufficio cfr. R.
Annecchino, op. cit., 606.
(15) C. Glendi, L’influenza delle recenti modifiche al codice di procedura civile sulla
disciplina del processo tributario (anche in vista di una sua progettata riforma), in questa
Rivista 1992, 135 ss., spec. a 154, muovendo dalla constatazione di fatto della mancata
modifica della disciplina del regolamento di competenza d’ufficio, afferma che a discapito
dell’unificazione del regime dell’incompetenza di cui all’art. 38 c.p.c., «in effetti l’incompe-
tenza per valore viene ad operare diversamente da quella per materia o territorio indero-
gabile, alla stregue degli artt. 44 e 45» che delineano un sistema per cui è «definitivamente
incontestabile» l’incompetenza per valore in caso di riassunzione davanti al giudice ad quem.
(16) Da ultimo il tema è stato affrontato da Cass., S.U., 16 febbraio 2017, n. 4090, in
questa Rivista 2017, con nota di M.F. Ghirga, Frazionamento di crediti, rapporti di durata e
interesse ad agire, 1306 ss., in Lav. nella Giur. 2017, 466 ss., con nota di G. Guarnieri, La
coscienza di Zeno e un (presunto) caso di frazionamento del credito; in Corr. giur. 2017, 975
ss., con nota di C. Asprella, Il frazionamento dei diritti connessi nei rapporti di durata e nel
processo esecutivo; in Giur. it. 2017, 1089 ss., con nota di M. Barafani, I fondamenti con-
cettuali del dibattito sul frazionamento giudiziale del credito. In generale, sul frazionamento
del credito e l’abuso dell’azione giudiziale, cfr. M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela
richiesta, Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano 2004, spec. a 181 ss.
(17) Cfr. Cass. 19 luglio 2017, n. 17860, in Foro it. Rep. 2017, voce Competenza civile n.
41 per cui «ai fini della determinazione della competenza per valore in ordine alla domanda
relativa a somma di danaro, vanno sommati al capitale, ex art. 10, comma 2˚, c.p.c., gli
interessi di mora già maturati ‘ante litem’ ed autonomamente richiesti, ma non quelli mo-
ratori scaduti che non formino oggetto di apposita istanza, né quelli genericamente ri-
chiesti».
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giurisprudenza 281
(18) Il concetto della ragionevole durata del processo è molto utilizzato dalla giurispru-
denza. Per una compiuta analisi, cfr. M. Bove, Il principio della ragionevole durata del
processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli 2010.
(19) Un rilievo in parte analogo è stato svolto, con riferimento al concetto di «inter-
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(1) Questa rubrica tiene conto delle Gazzette Ufficiali pubblicate nel periodo indicato,
salve deroghe eccezionali.
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lena, L’istituzione del tribunale delle imprese, in Giusto processo civ. 2012,
339. Del contrasto presente nella giurisprudenza di legittimità su tale
questione, ancora non risolto, si era già dato conto nell’Osservatorio di
questa Rivista 2013, 1612, § 2, a cura di M. Gradi.
panorami 287
rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle se-
zioni unite, ai fini della composizione di un contrasto sulle modalità di
formulazione dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla banca allorché il
correntista domandi la restituzione di somme indebitamente versate (per
nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatoci-
stici), ed in particolare se l’eccezione di prescrizione, per essere validamen-
te proposta, debba contenere anche l’allegazione delle singole rimesse
aventi natura solutoria operate nel corso del rapporto. Su tale questione
si rinvengono due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo orientamento, l’eccezione di prescrizione genericamen-
te formulata dalla banca con riferimento a tutte le rimesse affluite sul
conto, senza indicazione di quelle aventi natura solutoria, sarebbe inam-
missibile (cfr. Cass., sez. I, ord. 24 maggio 2018, n. 12977, Pres. Cristiano,
Rel. Iofrida; Cass., sez. VI, ord. 7 settembre 2017, n. 20933, Pres. Do-
gliotti, Rel. Cristiano). Per un secondo orientamento, invece, non compe-
terebbe alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse
solutorie cui è applicabile la prescrizione; una volta che la parte convenuta
abbia formulato la propria eccezione di prescrizione, competerebbe al
giudice verificare quali rimesse, per essere ripristinatorie, o attuate su di
un conto in attivo, siano irrilevanti ai fini della prescrizione, non potendosi
considerare come pagamenti (in tal senso v., ex multis, Cass. 22 febbraio
2018, n. 4372, Pres, Scaldaferri, Rel. Falabella; Cass., sez. III, 29 luglio
2016, n. 15790, Pres. Chiarini, Rel. Barreca, segnalata con riferimento ad
un diverso principio di diritto nell’Osservatorio di questa Rivista 2017,
884, § 12, a cura di V. Giugliano).
panorami 289
le più recenti, Cass., sez. lav., 18 dicembre 2017, n. 30328, Pres. Macioce,
Rel. Blasutto, in Foro it. Rep. 2017, voce Prova civile in genere, n. 34;
Cass., sez. V, ord. 24 maggio 2017, n. 13034, Pres. Piccininni, Rel. Virgi-
lio, ibid., voce Tributi in genere, n. 1398; Cass., sez. lav., 29 febbraio 2016,
n. 3980, Pres. Nobile, Rel. Boghetich, ivi Rep. 2016, voce Prova civile in
genere, n. 25). Un secondo orientamento ritiene invece che la sentenza di
patteggiamento non inverta l’onere della prova, ma costituisca un semplice
elemento di convincimento liberamente apprezzabile dal giudice, e dun-
que in sostanza un mero indizio (in tal senso v. Cass., sez. II, 6 dicembre
2011, n. 26250, Pres. Oddo, Rel. Piccialli, ivi 2011, voce Giudizio (rap-
porto), n. 17; Cass., sez. III, 11 maggio 2007, n. 10847, Pres. Fiduccia, Rel.
Finocchiaro, ivi 2007, voce cit., n. 23). In seno a tale orientamento, poi, si
rinvengono decisioni che, pur qualificando la sentenza di patteggiamento
come mero indizio, lo ritengono cosı̀ rilevante da giungere ad affermare
che il giudice non può disattenderlo senza motivare (cosı̀ Cass., sez. VI,
ord. 6 dicembre 2011, n. 26263, Pres. Preden, Rel. Amendola, ivi 2011,
voce Giudizio (rapporto), n. 16; Cass., sez. lav., 19 novembre 2007, n.
2390, Pres. Paolini, Rel. Merone). Un terzo orientamento, sulla base del-
l’interpretazione letterale degli artt. 444 e 445 c.p.p., nega che la sentenza
penale di patteggiamento possa costituire un’ammissione di responsabilità,
e nega che possa avere qualsiasi efficacia vincolante o probatoria nel
processo civile (cfr. Cass., sez. I, 22 novembre 2017, n. 27835, Pres.
Dogliotti, Rel. Genovese, ivi 2017, voce Giudizio (rapporto), n. 20; Cass.,
sez. III, ord. 12 aprile 2011, n. 8421, Pres. Finocchiaro, Rel. Segreto, ivi
2011, voce cit., n. 15). Cass. 20170/18, pur dando conto del contrasto
suddetto, non rimette la questione all’esame delle sezioni unite, ma aderi-
sce all’orientamento intermedio, considerando la pronuncia di patteggia-
mento rilevante come mero indizio.
Sempre in tema di prove si segnala Cass., sez. III, 28 settembre 2018,
n. 23455, Pres. Vivaldi, Rel. Di Florio, dalla quale sono ricavabili i seguenti
principı̂ di diritto: a) la perentorietà del termine entro il quale, a norma
dell’art. 169, 2˚ comma, c.p.c., deve avvenire il deposito del fascicolo di
parte ritirato all’atto della rimessione della causa al collegio, va riferita solo
alla fase decisoria di primo grado e non può in alcun modo operare una
volta che il procedimento trasmigri in appello, stante il riferimento dell’art.
345 c.p.c. alle sole prove ‘nuove’ e, quindi, ai documenti che si pretenda di
introdurre per la prima volta nel secondo grado; b) nel caso in cui, nel
giudizio d’appello, la parte, dopo essersi costituita, ritiri il fascicolo di
parte ed ometta di depositarlo nuovamente dopo la precisazione delle
conclusioni, incorre in una mera irregolarità che il giudice di merito può
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5. – Cass., sez. III, ord. 12 aprile 2018, n. 9059, Pres. Travaglino, Rel.
Pellecchia, in Foro it. 2018, I, 3227, con nota di G. Fabbrizzi, Decadenza
dalla prova testimoniale, tra rinvii d’udienza e ragionevole durata del pro-
cesso, afferma il principio secondo cui, nei giudizi instaurati prima dell’en-
trata in vigore della l. 18 giugno 2009 n. 69, che ha novellato l’art. 104
disp. att. c.p.c., la decadenza dalla prova, in caso di omessa intimazione ai
testimoni senza giusto motivo per l’udienza nella quale deve procedersi
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panorami 291
panorami 293
Civile, diretto da C. Consolo, Milano 2018, Tomo I, 1861, cui si rinvia per
ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza, anche discordanti. In
senso contrario, invece, Cass., sez. VI, ord. 26 ottobre 2018, n. 27190,
Pres. Amendola, Rel. Scrima, ha affermato il principio secondo cui è nulla
la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini ex art. 190
c.p.c., risultando per ciò solo impedito ai difensori l’esercizio, nella sua
completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la
sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva
alla parte. Nello stesso senso cfr., ad. es., Cass., sez. III, 20 marzo 2017, n.
7067, Pres. Spirito, Rel. Graziosi; Cass., sez. III, 2 dicembre 2016, n.
24636, Pres. e Rel. Vivaldi, nell’Osservatorio di questa Rivista 2017, 880,
§ 7, a cura di V. Giugliano, nonché in Foro it. 2017, I, 592, con nota di
richiami.
Si registra pertanto un persistente contrasto nella giurisprudenza di
legittimità, che occorrerebbe comporre tramite rimessione della questione
alle sezioni unite.
panorami 295
11. – Si segnala Cass., sez. VI, ord. 16 ottobre 2018, n. 25198, Pres.
Amendola, Rel. Olivieri, la quale ha rimesso al Primo Presidente ai fini
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panorami 297
ord. 27 febbraio 2018, n. 4526, Pres. Frasca, Rel. Dell’Utri; Cass., sez. VI,
ord. 18 luglio 2013, n. 17608, Pres. Finocchiaro, Rel. Vivaldi, ivi 2014,
voce Giudizio (rapporto), n. 20; Cass., ord. 26 gennaio 2009, n. 1862, Pres.
Vittoria, Rel. Frasca, in Foro it. 2010, I, 770, con nota di richiami). La
Corte, nell’ordinanza in rassegna, non ritiene appagante tale soluzione in
quanto sacrificherebbe l’interesse dell’imputato ad avvalersi della opponi-
bilità dell’eventuale giudicato penale di assoluzione in nome del principio
della separazione del giudizio penale da quello civile e della esigenza di
vedere trattate unitariamente le responsabilità dei coobbligati evocati in
giudizio dal danneggiato, in litisconsorzio facoltativo originario. Il Collegio
rimettente propenderebbe pertanto per la soluzione secondo cui, nell’ipo-
tesi in cui la pluralità di parti nel giudizio civile sia facoltativa, si faccia
luogo alla sospensione della causa nei confronti del solo danneggiante
imputato e si proceda alla separazione delle altre cause, mentre laddove
si tratti di litisconsorzio necessario (come nei giudizi r.c.a.) e quindi la
separazione delle cause non sia possibile, dovrebbe pervenirsi – ove si
intenda salvaguardare la possibilità dell’imputato di opporre il giudicato
penale di assoluzione – alla soluzione di sospendere il giudizio civile, tanto
più considerando che è la legge in tale caso a configurare la unicità ed
inscindibilità del rapporto giuridico plurisoggettivo e ad imporre che gli
effetti della sentenza possano prodursi soltanto se emessa simultaneamente
contro più soggetti predeterminati.
panorami 299
13. – Cass., sez. III, 11 ottobre 2018, n. 25170, Pres. De Stefano, Rel.
Tatangelo, ha affermato il principio secondo cui la fase sommaria delle
opposizioni esecutive, da tenersi innanzi al giudice dell’esecuzione prima
dell’eventuale instaurazione del giudizio di merito innanzi al giudice della
cognizione, è assolutamente necessaria e non facoltativa. La sentenza ha un
particolare valore nomofilattico, riconosciutole dalla successiva Cass., sez.
III, ord. 12 novembre 2018, n. 28848, Pres. Amendola, Rel. Tatangelo, «in
quanto emessa nell’ambito del c.d. progetto esecuzioni della terza sezione
civile». La Corte spiega che lo svolgimento della preliminare fase somma-
ria del giudizio di opposizione davanti al giudice dell’esecuzione, espres-
samente prevista dall’attuale formulazione degli artt. 615, 2˚ comma, 617,
2˚ comma, 618, nonché dell’art. 619 c.p.c., non può essere ritenuta mera-
mente facoltativa in quanto è previsto dalla legge in funzione di una
pluralità di esigenze, non riconducibili al solo interesse della parte oppo-
nente ma anche (e soprattutto) volte ad assicurare finalità di carattere
pubblicistico (la S.C. fa riferimento a scopi deflattivi, ad esigenze di eco-
nomia processuale, all’opportunità di tentare di evitare il giudizio a cogni-
zione piena ed alla necessità di assicurare coordinazione con il processo
esecutivo). Sulla natura bifasica delle opposizioni esecutive si veda Cass.,
sez. III, 31 gennaio 2017, n. 2353, Pres. Barreca, Rel. De Renzis, in Foro it.
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Rep. 2017, voce Esecuzione in genere, n. 76, la quale però non si è pro-
nunciata espressamente sulla necessarietà dello svolgimento della prima
fase a cognizione sommaria innanzi al giudice dell’esecuzione; Cass., sez.
III, 7 maggio 2015, n. 9246, Pres. Salmè, Rel. Barreca, ivi 2015, voce cit.,
n. 116; Cass., sez. III, 20 aprile 2015, n. 7997, Pres. Salmè, Rel. Barreca,
ivi 2015, voce cit., n. 117. Le opposizioni esecutive successive all’inizio
dell’esecuzione devono quindi essere introdotte con ricorso, che deve
essere rivolto al giudice dell’esecuzione e depositato direttamente nel fa-
scicolo dell’esecuzione nei termini previsti dal codice a pena di decadenza.
Una deviazione da tale modello procedimentale, afferma la S.C., non può
che determinare una nullità dell’atto per mancanza di idoneità dello stesso
a raggiungere il suo scopo. Tale nullità, però, può essere sanata, ai sensi
dell’art. 156, 3˚ comma, c.p.c., là dove il predetto atto abbia raggiunto il
suo scopo, cioè là dove sia stato comunque tempestivamente trasmesso al
giudice dell’esecuzione ed acquisito agli atti del fascicolo del processo
esecutivo, su iniziativa dell’ufficio o su richiesta della stessa parte oppo-
nente, di modo che venga assicurato l’immediato svolgimento della fase
preliminare sommaria dell’opposizione davanti al giudice dell’esecuzione
(sulla possibilità di sanatoria si veda già Cass., sez. III, 17 dicembre 1996,
n. 11251, Pres. Giuliano, Rel. Di Nanni, ivi 1996, voce cit., n. 30). Ciò
però deve avvenire tempestivamente, ossia nei termini previsti per la pro-
posizione dell’opposizione, altrimenti questa non potrà ritenersi tempesti-
va (se non previa eventuale rimessione in termini della stessa parte oppo-
nente, che dimostri la non imputabilità dell’errore che ha determinato il
ritardo). In tema si veda L. De Propris, in Commentario al Codice di
Procedura Civile, diretto da C. Consolo, Milano 2018, Tomo III, 1426,
cui si rinvia per l’illustrazione delle diverse posizioni espresse in dottrina.
Si segnala poi Cass., sez. VI, ord., 22 ottobre 2018, n. 26551, Pres. e
Rel. Frasca, che ha affermato il principio secondo cui il disposto dell’art.
186 bis disp. att. c.p.c. è finalizzato ad escludere unicamente la coinciden-
za fra i magistrati persone fisiche che devono trattare le due fasi (sommaria
e ordinaria) del procedimento di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617
c.p.c., e non implica quindi che il magistrato persona fisica cui sia deman-
data la trattazione della fase di merito dell’opposizione suddetta non possa
coincidere con quello designato quale giudice dell’esecuzione ai sensi del-
l’art. 484 c.p.c. Tale soluzione sembra in contrasto con l’interpretazione
dell’art. 186 bis, disp. att. c.p.c., offerta dalla dottrina (per riferimenti si
rinvia a M. Pilloni, in Commentario al Codice di Procedura Civile, diretto
da C. Consolo, Milano 2018, Tomo IV, 1777 ss.), secondo cui la disposi-
zione creerebbe una forma di incompatibilità tra giudice dell’esecuzione e
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panorami 301
14. – Nel caso di specie deciso da Cass., sez. II, 4 ottobre 2018, n.
24239, Pres. Oricchio, Rel. Sabato, l’attore agiva in giudizio per ottenere
l’accertamento del fatto che le opere realizzate dal convenuto in esecuzio-
ne spontanea di una precedente sentenza definitiva che gli ordinava di
regolarizzare delle luci non conformi, fossero state eseguite in modo dif-
forme rispetto a quanto stabilito nella sentenza e nella C.T.U. resa nel-
l’ambito della causa. L’attore chiedeva pertanto la condanna del convenu-
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panorami 303
17. – Cass., sez. II, ord. 26 settembre 2018, n. 22994, Pres. Matera,
Rel. Criscuolo, ha affermato due interessanti principı̂ in tema di arbitrato
libero: a) la proroga del termine fissato per la pronuncia del lodo può
essere concordata sia dai difensori muniti di procura speciale, comprensiva
della facoltà di transigere e dei più ampi poteri, che necessariamente
includono anche la possibilità di concedere un termine per l’emissione
del lodo, sia dai difensori privi di procura speciale, purché le parti non
abbiano negato il proprio consenso alla proroga medesima, e l’accertamen-
to dell’intervenuto accordo, risolvendosi nella ricostruzione della volontà
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panorami 305
civ. 2004, I, 2557); inoltre, la Corte afferma che la possibilità per gli arbitri
di fissare termini perentori, nell’arbitrato irrituale, deve necessariamente
essere prevista dalla convenzione di arbitrato o da un atto scritto separato
o dal regolamento processuale predisposto, altrimenti gli arbitri non hanno
tale potere (in senso conforme, Cass., sez. I, 3 maggio 2004, n. 8320, in
Foro it. Rep. 2004, voce Arbitrato, n. 198).
18. – Cass., sez. VI, ord. 9 novembre 2018, n. 28844, Pres. Frasca, Rel.
Scoditti, pone all’attenzione delle sez. un. tre questioni, tutte riguardanti,
sotto il profilo della procedibilità, il deposito in Cassazione di atti estratti o
confezionati in formato digitale o notificati telematicamente. Nel caso di
specie il relatore ha ravvisato un’ipotesi di improcedibilità del ricorso
dovuta al fatto che nel fascicolo fosse presente soltanto la copia della
sentenza in formato analogico, notificata in via telematica senza attestazio-
ne di conformità, mentre non era presente la copia autentica della senten-
za. Il Collegio rileva che Cass., sez. un., 24 settembre 2018, n. 22438, Pres.
Mammone, Rel. Vincenti, nell’Osservatorio di questa Rivista 2018, § 9, a
cura di L. Costantino, cui si rinvia per ulteriori riferimenti, ha enunciato il
principio di diritto secondo cui «il deposito in cancelleria, nel termine di
venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassa-
zione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo p.e.c., senza
attestazione di conformità del difensore, o con attestazione priva di sotto-
scrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ove il controricor-
rente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso
ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della
copia informale all’originale notificatogli». Il Collegio rimettente dubita
che tale principio possa applicarsi anche al caso di specie, in cui era la
sentenza impugnata a non essere stata depositata in copia autentica. La
S.C. afferma infatti che «la condizione di procedibilità rappresentata dal
deposito di copia autentica della sentenza non inerisce all’accertamento di
un fatto processuale [a differenza di quanto sarebbe per la notifica del
ricorso]. La sentenza non è un fatto del processo per cui si procede, e che
deve essere accertato, ma è l’oggetto del ricorso per cassazione e del quale
la legge, proprio per la sua natura di oggetto dell’impugnazione, impone la
presenza nel processo nella forma di un documento la cui funzione docu-
mentale deve essere realizzata in termini di certezza giuridica».
Con il palesato fine di evitare il manifestarsi di incertezze applicative,
poi, il Collegio ha inteso sollecitare le sez. un. anche in ordine alla que-
stione «se il deposito in cancelleria nel termine di venti giorni dall’ultima
notificazione del ricorso di copia analogica della relazione di notifica tele-
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N. TROCKER - R. VACCARELLA
Gennaio-Febbraio
2019
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PANTONE WARM RED C - NERO 25/03/19 09:12