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(Ebook - ITA - SAGG - Filosofia) Bobbio, Norberto - Benedetto Croce e Il Liberalismo
(Ebook - ITA - SAGG - Filosofia) Bobbio, Norberto - Benedetto Croce e Il Liberalismo
LIBERALISMO *
Il suo primo maestro in politica era stato Carlo Marx, e per quanto
l'infervoramento per i problemi del marxismo fu, com'egli stesso
ebbe a confessare, più teoretico che politico, è certo che il primo
contatto col marxismo rappresentò l'inizio del suo interessamento
alla politica dopo i primi anni di studi eruditi, e che l'interesse che
finì per essere prevalentemente teoretico per il marxismo non fu
senza lasciar profonda traccia nei suoi orientamenti politici. Resta
come documento fondamentale il passo della prefazione alla III
edizione dei saggi marxistici scritta durante la guerra (1917), e che
per quanto notissima siamo costretti a riportare anche noi per intero:
"La qual cosa [che la teoria della lotta di classe non sia da
considerarsi più valida] non deve impedire di ammirare pur sempre
il vecchio pensatore rivoluzionario (per molti rispetti assai più
moderno del Mazzini, che gli si suole presso di noi contrapporre): il
socialista, che intese come anche ciò che si chiama rivoluzione, per
diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia,
armandosi di forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica),
e non già confidare nei sermoni moralistici e nelle ideologie e ciarle
illuministiche. E, oltre l'ammirazione, gli serberemo, - noi che allora
eravamo giovani, noi da lui ammaestrati, - altresì la nostra
gratitudine per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche
seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata che mentiva le
sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia della Dea
Umanità" •2•.
Il secondo autore era stato Giorgio Sorel: "Vedi - scriveva ad un
amico - io mi sono un tempo appassionato del socialismo alla Marx
e poi del socialismo sindacalista alla Sorel: ho sperato dall'uno e
dall'altro una rigenerazione della presente vita sociale" •3•. Sui
rapporti ch'egli ebbe col Sorel siamo ben informati attraverso le
lettere pubblicate sulla "Critica" dal 1927 al 1930, e sulle ragioni
della sua simpatia intellettuale per il teorico della violenza ci dà una
notizia precisa la lunga recensione, che è insieme un giudizio
complessivo sull'opera soreliana e un incisivo ritratto di quello
straordinario personaggio, pubblicata nella "Critica" del 1907, ove il
Sorel appare come odiatore dei moralisti, dei giacobini, dei retori,
affermatore "di una morale austera, seria, spoglia di enfasi e di
chiacchiere, di una morale combattente, atta a serbare vive le forze
che muovono la storia e le impediscono di stagnare e corrompersi"
•4•. Quando, qualche anno più tardi, Croce decretò in una finta
intervista sulla "Voce" che il socialismo, anche nella sua ultima
incarnazione sindacalistica era morto •5•, non fu certo, come volle
far credere in un tentativo di postuma riabilitazione dopo tanti anni
•6•, per aver abbracciato la fede liberale.
Che ci volesse una nuova fede dopo che la fiammata socialistica era
spenta egli ben sapeva e predicava, ma questa nuova fede,
nonostante quel che ne disse rievocando dopo molti anni quella
profezia, non aveva niente a che vedere con la dottrina liberale. In un
articolo del 1911, intitolato per l'appunto Fede e programma, che
può sembrare l'integrazione positiva della critica contenuta nella
profezia, deplorava l'atomismo sociale (proprio ciò di cui un liberale
avrebbe dovuto rallegrarsi), la decadenza del sentimento dell'unità
sociale e della disciplina nazionale, poiché gli individui " non si
sentono più legati a un gran tutto, parte di un gran tutto, sottomessi a
questo, cooperanti in esso, attingenti il loro valore dal lavoro che
compiono nel tutto", e proclamava la necessità di una nuova tede da
fondarsi tra l'altro sulla convinzione " che l'individuo gestisce
un'eredità ricevuta dal passato e da tramandare accresciuta
all'avvenire, che l'uomo è niente in quanto astratta individualità, ed è
tutto in quanto concorda col tutto". Né ci sarebbe stato rinnovamento
sino a che famiglia, patria, umanità non riprendessero il loro senso
schietto e non riscaldassero i cuori " come li hanno sempre riscaldati
da quando la storia è storia" •7•. Era l'ideale politico, come ognun
vede, del perfetto uomo d'ordine, per il quale lo stato, questo ente
ideale, sempre benefico perché per essenza interprete dei bisogni e
degli interessi collettivi, ha sempre ragione, e gli individui che
cercano di perseguire i loro interessi come meglio possono dando
talora qualche cruccio ai governanti, hanno sempre torto. Quanto di
più illiberale, insomma, si potesse immaginare. Il socialismo,
dunque, per Croce era morto, ma non era ancora nato il liberalismo.
Ciò che era nato era una specie di socialismo patriottico che era
lontano dal liberalismo quanto il socialismo della prima maniera.
Alla fine del 1914, all'inizio di quella guerra in cui egli avrebbe
esaltato la teoria germanica dello stato - potenza, scriveva che gli si
era accesa la speranza " di un movimento proletario inquadrato e
risolto nella tradizione storica, di un socialismo di stato e nazione " e
pensava che ciò non avrebbero fatto i demagoghi di Francia,
Inghilterra ed Italia, ma "forse la Germania, dandone l'esempio e il
modello agli altri popoli" •8•. Passando dal socialismo marxistico a
quello della cattedra, ciò che saltava a piè pari era proprio la
tradizione del pensiero liberale.
Nel luglio dello stesso anno, come presidente del comitato elettorale
del "Fascio dell'ordine", che raccoglieva liberali moderati e cattolici
contro il "Blocco" dei partiti del progresso, da lui sdegnosamente
apostrofato col Sorel come "una raccolta di appetiti democratici
inghirlandata di frasi banali", aveva preso parte alla campagna per le
elezioni amministrative di Napoli, e dopo che il Blocco ebbe vinto
scrisse che "il popolino" napoletano non era cambiato in nulla dal
tempo dei Borboni perché, partito Franceschiello, si era formato altri
idoli nei demagoghi della sinistra •9•. Durante gli anni della guerra
esibì un terzo autore, più dei due precedenti consono ai suoi ideali di
conservatore, il Treitschke, la cui opera principale fece pubblicare al
Laterza nel 1918 raccomandandone la lettura e lo studio "tanta
sapienza vi è raccolta ed esposta in forma semplice e sostanziosa"
•10•, e già sin dall'inizio della guerra lo difendeva, come storico e
come teorico della politica, contro gli attacchi e gli insulti degli
scrittori democratici •11•, e da lui soprattutto traeva argomento per
rafforzare il concetto dello stato - potenza, che non era un segreto di
fabbrica per la prosperità della Germania, ma " è un universale
principio direttivo, utile del pari a tutti gli stati, e che a tutti gli stati
consiglia la 'potenza' e non 1' 'impotenza'; il tendere tutte le proprie
forze per costringere gli altri alla stessa energia di vita in vantaggio
dell'umanità, che solo col lavoro e con gli sforzi si salva dalla morte
e dalla putredine" •12•. Questi tre autori gli offrono continuamente
occasione di risalire a colui che possiamo ben dire il suo quarto
autore, ma che avremmo dovuto per l'importanza storica nominare
per il primo, Niccolò Machiavelli, al quale ripetutamente attribuì il
merito di aver scoperto 1'atttonomia della politica, e di appartenere
per ciò stesso alla storia del pensiero a maggior diritto che tanti
frigidi filosofi scolastici, e di cui si era occupato in una nota, che già
conteneva il succo della sua interpretazione, in uno dei suoi giovanili
saggi marxistici •13•, e che non cessò in seguito di citare ogni
qualvolta gli accadeva di scagliare fulmini contro i pacifisti, i
moralisti, gli idealisti da strapazzo che avrebbero preteso fossero gli
stati governati coi paternostri.
Sorprende infatti che a questa teoria egli sia passato accanto quasi
senza accorgersene. Tra gli scrittori politici, di cui esamina
brevemente la dottrina negli Elementi di politica, ve n'è uno solo che
appartenga alla tradizione del pensiero liberale (il che dimostra che
anche dopo l'interessamento per la teoria del liberalismo non provò
alcuna curiosità di risalire alle fonti): Benjamin Constant •19•. Ora il
Constant, il protestante e inglesizzante Constant, proprio nello scritto
che il Croce aveva sott'occhio (La libertà degli antichi comparata a
quella dei moderni) esprime una delle più chiare formulazioni,
rimasta anche in seguito esemplare, della dottrina del liberalismo
classico intesa come dottrina dei limiti del potere dello stato come
affermazione della "libertà dallo stato" in contrapposto alla teoria
antica (o a quella che il Constant reputa tale) della libertà nello
stato". Questo modo di vedere la libertà dei moderni era l'effetto
della dottrina giusnaturalistica di origine calvinistica che aveva
contrapposto la sfera privata del cittadino alla sfera pubblica, il
forum inteynum al forum externum, in una parola l'individuo allo
stato. Il Constant, facesse o non facesse appello immediatamente ai
giusnaturalisti e alla tradizione calvinistica, si presentava come
l'erede e il continuatore di quella tradizione. Croce additava nel
Constant colui che avrebbe avviata la soluzione del problema
moderno della libertà, ma invece di soffermarsi su ciò che
costituisce l'elemento fondamentale di quello scritto, ne sottolinea un
aspetto secondario consistente nell'avere il Constant inteso la libertà
moderna non come edonistica ma come etica, nell'averla intesa come
lui, Croce, l'avrebbe intesa, lasciandosi sfuggire che quella libertà
etica di cui parlava il Constant era in quel discorso, in quel contesto,
il fondamento stesso della teoria giusnaturalistica dello stato per la
quale il valore etico dell'individuo oltrepassa i fini utilitari dello
stato e perciò stesso gli pone limiti invalicabili, che insomma libertà
etica e teoria dei limiti del potere si implicavano. Croce invece s li
disgiungeva, e mentre metteva in evidenza il concetto etico di
libertà, si sbarazzava con un gesto di fastidio, o peggio d'impazienza,
della teoria dei limiti del potere, come di teoria giuridica, empirica,
non speculativa. quando, commentando la dottrina dello Jellinek,
asseriva che la filosofia " non sa né dell'individuo di fronte allo
stato, né dello stato di fronte all'individuo, dell'uno cioè fuori
dell'altro e trattati come due entità quando sono invece i due termini
di una relazione, definibili l'uno per l'altro" •20•. In realtà, dietro
quell'indifferenza per una teoria empirica, non speculativa, si celava
un modo diverso di concepire l'individuo e lo stato : si celava una
concezione non personalistica dell'individuo (l'individuo come
particella dello Spirito universale) e una concezione universalistica
dello stato (lo stato come totalità di cui l'individuo empirico è parte).
Ma entrambe le concezioni erano il normale fondamento di una
concezione politica che certamente il Constant avrebbe considerato
come " libertà degli antichi n e a cui si sarebbe meglio adattata la
formula di " liberti nello stato" •21•, che, foggiata in periodo di
restaurazione romantica dalle teorie organiche, e come tale estranea
e contraria alla tradizione del pensiero liberale, è servita di poi
egregiamente ai vari dittatori per giustificare ogni colpo di mano
sulla libertà, e s'intende sulla libertà empirica e non su quella
speculativa.
18. Rispetto alle origini del liberalismo Croce distinse il calvinismo di cui
riconobbe il contributo positivo, dal giusnaturalismo che restrinse con
una interpretazione storica discutibile alle teorie egualitarie del secolo
XVIII. Si veda Etica e politica. II ediz. 1945 p.299. E per il contributo
dato dal calvinismo al liberalismo Vite di avventure di fede e di passione,
1936, p. 211.
20. Op. cif., p. 299. Così pure nella Storco d'Europa del sec. XIX. a
proposito del Constant condannava l'errore di astrattezza "che si rinnova
sempre che si cerca di definire l'idea della libertà per mezzo di distinzioni
giuridiche" (p. 13).
27. E' una tesi costante dei libri storiografici scritti durante la resistenza
contro il fascismo. E già nel saggio Contrasti d'ideali parla dell'unità della
Germania che si era fatta r prescindendo dalle forze e dall'educazione
liberale" (Etica e politica, p. 314).
36. In Etica e politica si dice, invece, che la libertà "è la vita che vuole
espandersi e godere di sé, la vita in tutte le sue forme e sentita da
ciascuno a modo proprio, in quella infinita varietà, in quella individualità
di tendenze e di opere onde s'intesse l'unità dell'universo"; e si spiega
che così intesa la libertà non è nient'altro che la gioia del fare (p. 222).
39. Per una critica in questa direzione al concetto di storia come storia
della libertà, vedi A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di B.
Croce, pp. 795 e segg.
I1 che è tanto conforme al concetto del Croce che egli fu costretto a
riconoscere che anche i momenti di oppressione appartengono bene
o male alla storia del promovimento della libertà, e vi appartengono
per due ragioni: primo, perché i dittatori non possono fare a meno, se
pur nolenti, di compiere opere di libertà; secondo, perché non vi è
ferocia di oppressione che possa eliminare gli oppositori i quali,
benché nascosti o taciti, mitigano la durezza del presente e pongono
germi per l'avvenire •40•. "Senza dubbio, nella storia si vedono
altresì regimi teocratici e regimi autoritari, regimi di violenza e
reazioni e controriforme e dittature e tirannie; ma quel che solo e
sempre risorge e si svolge e cresce è la libertà, la quale, ora in quelle
varie forme si foggia i suoi mezzi,. ora le piega a suoi strumenti, ora
delle apparenti sue sconfitte si vale a stimolo della sua stessa vita"
•41•. Ciò significa che alla storia della libertà sono necessari anche i
regimi di non libertà, o in altre parole che questi regimi, non liberali
dal punto di vista del loro ordinamento sono liberali per i fini che
raggiungono, ovvero, pur essendo non liberali nel senso
illuministico della libertà come non impedimento, sono liberali nel
senso romantico di libertà come creatività. La filosofia, commenta
Croce, vede "un Napoleone, distruttore anch'esso di una libertà tale
solo d'apparenza e di nome alla quale egli tolse apparenza e nome,
agguagliatore di popoli sotto il' suo dominio, lasciar dopo di sé
questi stessi popoli avidi di libertà e resi più esperti di quel che
veramente fosse ed alacri a impiantarne, come poco dopo fecero, in
tutta Europa, gli istituti" •42•. Ciò vede la filosofia, ma la filosofia,
appunto, romantica della libertà; ma ciò che vede la filosofia, una
certa filosofia, non è detto che sia visto allo stesso modo da una certa
teoria politica, per esempio dalla teoria dello stato liberale.
Continuando l'esempio del Croce, Napoleone appartiene alla storia
della libertà. Ma appartiene anche a quella degli stati liberali ? Altro
é dunque giustificare Napoleone sub specie di storia universale, altro
elaborare una teoria del liberalismo che possa essere opposta ai
regimi autoritari, tra i quali, appunto, vi è anche quello di
Napoleone.
Per un'altra ragione ancora dalla filosofia della libertà alla teoria del
liberalismo non c'è passaggio: "poiché la libertà spiegò Croce - è
l'essenza dell'uomo, e l'uomo la possiede nella sua qualità stessa di
uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l'espressione
che bisogni all'uomo 'dare la libertà', che è ciò che non gli si può
dare perché già l'ha in sè. Tanto poco gli si può dare che non si può
neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto
bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno .certi moti di
azione; costringere, a non pronunziare certe verità e a recitare certe
menzogne, ma non togliere all'umanità la libertà, cioè il tessuto della
sua vita, che, anzi, com'è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di
distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano" •43•.
Se la libertà non s'intende come qualcosa che caratterizza un certo
modo di concepire i rapporti sociali nello stato, ed ha le sue
istituzioni convalidate dall'esperienza storica, ma la si - concepisce
senz'altro come l'essenza. dell'uomo, che l'uomo porta con sé
ovunque vada e in qualsiasi condizione si trovi, non è difficile poi
trarre la conseguenza che l'uomo è sempre .libero poiché l'essenza è
per definizione indistruttibile. Ma appunto egli è sempre libero nel
senso della storia come storia della libertà, per quanto possa non
esserlo, anzi possa essere in catene; nel senso della teoria liberale.
47. Questa definizione della moralità come "elevamento della vita" che
coincide col "dispiegamento della libertà" si ritrova in uno degli ultimi
scritti Intorno alla categoria della vitalità, in Indagini su Hegel e altri
schiarimenti filosofici, 1952, p. 134
NORBERTO BOBBIO