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BENEDETTO CROCE E IL

LIBERALISMO *

1. Ai fini del chiarimento del dibattito politico in Italia in questi anni


ritengo sia importante sapere se ed entro quali limiti il pensiero di
Croce possa dirsi liberale. Si assiste, da un lato, alla pretesa dei
seguaci di stretta osservanza di elevare Croce a filosofo del
liberalismo, a farne il pensatore che per primo abbia elaborato una
completa filosofia del liberalismo. D'altra parte gli avversari,
soprattutto i marxisti, mostrano la tendenza a buttare via insieme con
la filosofia di Croce, considerata come conservatrice, reazionaria, se
non addirittura filo - fascista, anche il liberalismo •1•. Entrambe
queste posizioni, pur essendo antitetiche rispetto ai risultati, partono
dalla stessa premessa: che Filosofia di Croce filosofia del
liberalismo siano una cosa sola, che Croce sia stato il migliore, se
non l'unico, interprete, autorizzato dalla provvidenza storica, a
formulare una teoria del liberalismo? E' una premessa che a me pare
fondata principalmente sulla scarsa conoscenza della storia del
liberalismo, di cui è stato in gran parte responsabile in Italia lo stesso
idealismo, e su di una scarsa esperienza di politica liberale, onde
finiscono per trar vantaggio gli avversari dello stato liberale e può
derivare soltanto un aumento di confusione delle lingue, già così
frequente nei dibattici politici.

Dico subito che nonostante i dubbi che ritengo di dover sollevare


sulla teoria del liberalismo di Benedetto Croce, non ho affatto
l'intenzione di sminuire la funzione liberale che il pensiero e la
personalità del Croce ebbero negli anni del predominio fascista. C'è
qualcuno che per odio al liberalismo o per odio a Croce vorrebbe
disconoscere i meriti e il valore pratico della posizione antifascista
dell'autore della Storia d'Europa. Chiunque abbia partecipato alle
ansie e alle speranze di quegli anni, parlo s'intende di intellettuali,
non può dimenticare che la strada maestra per convertire
all'antifascismo gli incerti era di far leggere e discutere i libri di
Croce, che la maggior parte dei giovani intellettuali arrivarono
all'antifascismo attraverso Croce, e coloro che già vi erano arrivati o
vi erano sempre stati, traevano conforto dal sapere che Croce, il
rappresentante più alto e più illustre della cultura italiana, non si era
piegato alla dittatura. Ogni critica all'atteggiamento di Croce durante
il fascismo è astiosa e malevola polemica. Come tale non merita
discussione. Ciò che a me preme discutere è se oggi, negli anni della
ricostruzione di uno stato liberale e democratico in Italia, la teoria
politica elaborata da Croce negli anni in cui combatté il fascismo in
nome dell'ideale morale della libertà, ci sia di giovamento, e qual
frutto crediamo di poterne trarre per orientare il nostro pensiero sui
problemi del presente. Ciò che viene in questione nelle pagine
seguenti non è la personalità morale di Croce, ma unicamente la sua
dottrina politica in funzione dello sviluppo della vita democratica in
Italia.
* Questo articolo è la seconda parte di un saggio che apparirà completo
in un volume di prossima pubblicazione presso l'editore Einaudi.

1. Ancor recentemente tra ammiratori e avversari di Croce si è acceso un


dibattito a proposito della recensione di Salvemini al libro del Mautino su
"Il Ponte", maggio 1954, pp. 810-812; vedi le reazioni di Vinciguerra
sulla stessa rivista, luglio - agosto 195, pp. 1251-1253; e la risposta di
Salvemini La politica di B. Croce, ibidem, novembre 1954, pp. 1728-1744.

2. Risaliamo per tiri momento all'affermazione, ripetutamente fatta


dal Croce nei momenti più drammatici della vita italiana in cui non
era più possibile tenersi in disparte e ciascuno era costretto a
scegliere il proprio posto, che egli fosse un liberale per
temperamento e per sentimento. Sapeva benissimo il Croce, facendo
questa affermazione, che nessuno avrebbe potuto riconoscere in lui
un liberale per dottrina. In realtà, la formazione culturale del Croce
era avvenuta interamente al di fuori della tradizione del pensiero
liberale. E' un fatto piuttosto sconcertante, e come tale merita
qualche commento, che colui che sarebbe. diventato un coraggioso
paladino di libertà e secondo alcuni un insuperato teorico del
liberalismo, non abbia mai dimostrato nel periodo della sua
formazione interesse per la storia del liberalismo, anzi abbia
mostrato forte attrazione per gli scrittori estranei a quella storia o
addirittura illiberali.

Il suo primo maestro in politica era stato Carlo Marx, e per quanto
l'infervoramento per i problemi del marxismo fu, com'egli stesso
ebbe a confessare, più teoretico che politico, è certo che il primo
contatto col marxismo rappresentò l'inizio del suo interessamento
alla politica dopo i primi anni di studi eruditi, e che l'interesse che
finì per essere prevalentemente teoretico per il marxismo non fu
senza lasciar profonda traccia nei suoi orientamenti politici. Resta
come documento fondamentale il passo della prefazione alla III
edizione dei saggi marxistici scritta durante la guerra (1917), e che
per quanto notissima siamo costretti a riportare anche noi per intero:
"La qual cosa [che la teoria della lotta di classe non sia da
considerarsi più valida] non deve impedire di ammirare pur sempre
il vecchio pensatore rivoluzionario (per molti rispetti assai più
moderno del Mazzini, che gli si suole presso di noi contrapporre): il
socialista, che intese come anche ciò che si chiama rivoluzione, per
diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia,
armandosi di forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica),
e non già confidare nei sermoni moralistici e nelle ideologie e ciarle
illuministiche. E, oltre l'ammirazione, gli serberemo, - noi che allora
eravamo giovani, noi da lui ammaestrati, - altresì la nostra
gratitudine per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche
seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata che mentiva le
sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia della Dea
Umanità" •2•.
Il secondo autore era stato Giorgio Sorel: "Vedi - scriveva ad un
amico - io mi sono un tempo appassionato del socialismo alla Marx
e poi del socialismo sindacalista alla Sorel: ho sperato dall'uno e
dall'altro una rigenerazione della presente vita sociale" •3•. Sui
rapporti ch'egli ebbe col Sorel siamo ben informati attraverso le
lettere pubblicate sulla "Critica" dal 1927 al 1930, e sulle ragioni
della sua simpatia intellettuale per il teorico della violenza ci dà una
notizia precisa la lunga recensione, che è insieme un giudizio
complessivo sull'opera soreliana e un incisivo ritratto di quello
straordinario personaggio, pubblicata nella "Critica" del 1907, ove il
Sorel appare come odiatore dei moralisti, dei giacobini, dei retori,
affermatore "di una morale austera, seria, spoglia di enfasi e di
chiacchiere, di una morale combattente, atta a serbare vive le forze
che muovono la storia e le impediscono di stagnare e corrompersi"
•4•. Quando, qualche anno più tardi, Croce decretò in una finta
intervista sulla "Voce" che il socialismo, anche nella sua ultima
incarnazione sindacalistica era morto •5•, non fu certo, come volle
far credere in un tentativo di postuma riabilitazione dopo tanti anni
•6•, per aver abbracciato la fede liberale.

2. Materialismo storico ed economia marxistica, IV ediz, 1927, pp. XII-


XIV.

3. Cultura tedesca e politica italiana (1914), in Pagine sulla guerra, II


ediz. l928, p. 22.

4. Conversazioni critiche, IV ediz. 1950, I, p. 309.

5. La morte del socialismo (1911), in Cultura e vita morale, II ediz. 1926,


pp. 150-159. Per la polemica che questo articolo suscitò vedi la risposta
di Croce in Pagine sparse, Napoli, Ricciardi, 1943, I, pp. 299-301.

6. Colpi che falliscono il segno (1947), in Due anni di vita politica


italiana, Ilari, Laterza, 1948, pp. 142-145, dove ribadendo con
ostinazione i concetti dell'infausto articolo del 1911 aggiunse anche che
quella nuova fede a cui aveva accennato in fin d'articolo senza dichiarai
lo era la fede nella via della libertà.

Che ci volesse una nuova fede dopo che la fiammata socialistica era
spenta egli ben sapeva e predicava, ma questa nuova fede,
nonostante quel che ne disse rievocando dopo molti anni quella
profezia, non aveva niente a che vedere con la dottrina liberale. In un
articolo del 1911, intitolato per l'appunto Fede e programma, che
può sembrare l'integrazione positiva della critica contenuta nella
profezia, deplorava l'atomismo sociale (proprio ciò di cui un liberale
avrebbe dovuto rallegrarsi), la decadenza del sentimento dell'unità
sociale e della disciplina nazionale, poiché gli individui " non si
sentono più legati a un gran tutto, parte di un gran tutto, sottomessi a
questo, cooperanti in esso, attingenti il loro valore dal lavoro che
compiono nel tutto", e proclamava la necessità di una nuova tede da
fondarsi tra l'altro sulla convinzione " che l'individuo gestisce
un'eredità ricevuta dal passato e da tramandare accresciuta
all'avvenire, che l'uomo è niente in quanto astratta individualità, ed è
tutto in quanto concorda col tutto". Né ci sarebbe stato rinnovamento
sino a che famiglia, patria, umanità non riprendessero il loro senso
schietto e non riscaldassero i cuori " come li hanno sempre riscaldati
da quando la storia è storia" •7•. Era l'ideale politico, come ognun
vede, del perfetto uomo d'ordine, per il quale lo stato, questo ente
ideale, sempre benefico perché per essenza interprete dei bisogni e
degli interessi collettivi, ha sempre ragione, e gli individui che
cercano di perseguire i loro interessi come meglio possono dando
talora qualche cruccio ai governanti, hanno sempre torto. Quanto di
più illiberale, insomma, si potesse immaginare. Il socialismo,
dunque, per Croce era morto, ma non era ancora nato il liberalismo.
Ciò che era nato era una specie di socialismo patriottico che era
lontano dal liberalismo quanto il socialismo della prima maniera.
Alla fine del 1914, all'inizio di quella guerra in cui egli avrebbe
esaltato la teoria germanica dello stato - potenza, scriveva che gli si
era accesa la speranza " di un movimento proletario inquadrato e
risolto nella tradizione storica, di un socialismo di stato e nazione " e
pensava che ciò non avrebbero fatto i demagoghi di Francia,
Inghilterra ed Italia, ma "forse la Germania, dandone l'esempio e il
modello agli altri popoli" •8•. Passando dal socialismo marxistico a
quello della cattedra, ciò che saltava a piè pari era proprio la
tradizione del pensiero liberale.

Nel luglio dello stesso anno, come presidente del comitato elettorale
del "Fascio dell'ordine", che raccoglieva liberali moderati e cattolici
contro il "Blocco" dei partiti del progresso, da lui sdegnosamente
apostrofato col Sorel come "una raccolta di appetiti democratici
inghirlandata di frasi banali", aveva preso parte alla campagna per le
elezioni amministrative di Napoli, e dopo che il Blocco ebbe vinto
scrisse che "il popolino" napoletano non era cambiato in nulla dal
tempo dei Borboni perché, partito Franceschiello, si era formato altri
idoli nei demagoghi della sinistra •9•. Durante gli anni della guerra
esibì un terzo autore, più dei due precedenti consono ai suoi ideali di
conservatore, il Treitschke, la cui opera principale fece pubblicare al
Laterza nel 1918 raccomandandone la lettura e lo studio "tanta
sapienza vi è raccolta ed esposta in forma semplice e sostanziosa"
•10•, e già sin dall'inizio della guerra lo difendeva, come storico e
come teorico della politica, contro gli attacchi e gli insulti degli
scrittori democratici •11•, e da lui soprattutto traeva argomento per
rafforzare il concetto dello stato - potenza, che non era un segreto di
fabbrica per la prosperità della Germania, ma " è un universale
principio direttivo, utile del pari a tutti gli stati, e che a tutti gli stati
consiglia la 'potenza' e non 1' 'impotenza'; il tendere tutte le proprie
forze per costringere gli altri alla stessa energia di vita in vantaggio
dell'umanità, che solo col lavoro e con gli sforzi si salva dalla morte
e dalla putredine" •12•. Questi tre autori gli offrono continuamente
occasione di risalire a colui che possiamo ben dire il suo quarto
autore, ma che avremmo dovuto per l'importanza storica nominare
per il primo, Niccolò Machiavelli, al quale ripetutamente attribuì il
merito di aver scoperto 1'atttonomia della politica, e di appartenere
per ciò stesso alla storia del pensiero a maggior diritto che tanti
frigidi filosofi scolastici, e di cui si era occupato in una nota, che già
conteneva il succo della sua interpretazione, in uno dei suoi giovanili
saggi marxistici •13•, e che non cessò in seguito di citare ogni
qualvolta gli accadeva di scagliare fulmini contro i pacifisti, i
moralisti, gli idealisti da strapazzo che avrebbero preteso fossero gli
stati governati coi paternostri.

7. Cultura e vita morale, pp. 163 e 166.

8. Cultura tedesca e politica italiana, p. 22.

9. Vedi i lochi documenti di questa campagna elettorale in Pagine sparse,


I. pp. 408-411.

10. Pagine .sulla guerra, p. 235.

11. Pagine .sulla guerra, p. 79 e segg.

12. Pagine sulla. guerra. p. 84.

13. Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in


Materialismo storico ed economia marxistica, pp. 105-107. -
Sull'argomento vedi il saggio di G. Sasso. Benedetto Croce interprete del
Machiavelli in "Letterature moderne", numero speciale dedicato a B.
Croce, Milano. 1953, pp. 305-322.

3. Non solo gli autori di politica che il Croce prediligeva erano


estranei, o addirittura ostili, alla tradizione liberale, ma egli avversa,
con passione costante e veemente, per tutta la vita e talora derise
quel moto di pensiero da cui la teoria dello stato liberale era sorta, e
al quale era storicamente connessa : il giusnaturalismo, che egli
accomunò nell'avversione all'illuminismo, tutto in blocco concepito
e condannato come espressione della mentalità settecentesca
contrapposta alla più matura mentalità storica ottocentesca, come
razionalismo astratto contrapposto a razionalismo concreto. Di
questa guerra aperta contro la teoria dei diritti naturali basteranno,
per mostrarne il perseverante accanimento, tra le tante che si
potrebbero andar spigolando in tutte le opere, due dichiarazioni tra le
quali intercorre uno spazio di tempo di ben sessantadue anni. La
prima, notissima, si trova nei Pensieri dell'arte, che recano la data
del 1885 (il Croce non era ancora ventenne), ove si parla dei "diritti
innati" come di "spiritosa invenzione dei filosofi del secolo scorso"
•14•; la seconda si legge nella lettera inviata nel 1947 al Comitato
promotore di una raccolta di saggi sui diritti umani, a cura
dell'Unesco: "Le dichiarazioni di diritti... si fondano tutte su una
teoria che la critica venuta da più parti e riuscita vittoriosa, ha
abbandonato: la teoria del diritto naturale, che ebbe i suoi motivi
contingenti nei secoli dal XVI al XVIII, ma che filosoficamente e
storicamente è affatto insostenibile" •15•.

Al giusnaturalismo - illuminismo Croce attribuiva due grosse


responsabilità : una più strettamente teoretica, di aver dato alimento
alle dottrine dell'ottimo stato dei falsi idealisti i quali misconoscendo
la realtà dello stato che è forza gli contrapponevano le alcinesche
seduzioni dell'umanitarismo, del pacifismo, dell'universale
abbracciamento dei popoli, e in definitiva una concezione fiacca
della vita che è lotta perpetua; una più strettamente politica, di aver
offerto il fondamento filosofico all'idea egualitaria secondo cui tutti
gli uomini essendo uguali per natura debbono essere uguali in
diritto, e la varietà degli ingegni e dei caratteri e delle forze, donde
nasce il movimento storico, viene misconosciuta in un mortifero
livellamento. Croce accentuò, a seconda delle occasioni, or 1'una or
l'altra accusa, ma furono generalmente congiunte, e sono, nei
contesti in cui vengono espresse, mal separabili. Del resto derivano
entrambe dallo stesso errore filosofico che egli considerava ii vizio
di tutto il movimento illuministico : l'astrattismo. Astrattismo nel
giudizio storico, nel primo caso; astrattismo nel giudizio politico, nel
secondo. Se vogliamo dar loro un nome facilmente riconoscibile
nella terminologia crociana, il primo coincideva con la mentalità
massonica, il secondo con la mentalità democratica.

La polemica antigiusnaturalistica, in particolare contro la mentalità


massonica e contro la mentalità democratica, ebbe il suo momento
culminante durante la prima guerra mondiale, ma ricorre anche
prima e dopo e costituisce un motivo ricorrente nella storiografia
crociana. Contro la prima aveva già espresso tutto il proprio pensiero
nel 1910 tacciandola di astrattismo e di semplicismo, di cultura u
ottima per commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari,
avvocati, mediconzoli" (ahimè, come costoro dovevano dimostrarsi
dieci anni dopo molto migliori discepoli della teoria per spiriti forti
che il Croce andava predicando!) •16•. Contro la seconda, non
tralasciò di mostrare la sua ostilità ogni qualvolta si trovò di fronte
ad una sua incarnazione storica, fossero il giacobinismo della
Rivoluzione francese, il mazzinianesimo del Risorgimento, il
socialismo degli anni dopo l'unità; e a questo proposito Gramsci
riteneva che la storiografia crociana dovesse essere considerata come
una rinascita della storiografia della Restaurazione •17•.

14. Pagine sparse, I, p. 475

15. Dei diritti dell'uomo, Milano. Edizioni di Comunità. 1959, p. 233.

16. La mentalità massonica, in Cultura e vita morale, pp. 143-150.


Analoghe accuse in La storicità e la perpetuità della ideologia massonica
(1918), in Pagine sulla guerra pp. 255-263.
17. A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di R. Croce. Torino,
Einaudi, 1948, soprattutto p. 184 e segg.

4. Proprio in questa condanna senza appello del giusnaturalismo e


del democratismo comincerei ad indicare una delle principali ragioni
dell'insufficienza del liberalismo crociano e della sua connessa
sterilità negli anni della ricostruzione. Con questa condanna infatti il
Croce si metteva nell'impossibilità di cogliere dite concetti che pur
non potevano non confluire in una compiuta idea dello stato liberale,
e che gli avrebbero offerto, se accolti, argomenti validissimi
nell'opposizione, che egli pur si sforzò di condurre non solo
politicamente, ma anche teoricamente, alla concezione autoritaria
dello stato. Anzitutto non vide, o soltanto intravide, che il
giusnaturalismo aveva posto le fondamenta non soltanto della
concezione democratica dello stato, ma anche di quella liberale; in
secondo luogo non diede mai segno di essersi reso conto che
l'egualitarismo era un aspetto soltanto, e forse non il più importante,
della concezione democratica dello stato. Cerchiamo di esaminare
separatamente i due punti : la teoria dello stato liberale in
opposizione allo stato assoluto nasce ad un tempo con la teoria dei
limiti del potere dello stato. Nello stato assoluto il potere originario è
considerato al disopra di ogni limitazione giuridica. Nello stato
liberale il potere sovrano è esercitato da una pluralità di organi che
agiscono nei limiti delle leggi. Quando i giuristi nel secolo XIX ne
elaboreranno la teoria formuleranno il concetto di stato di diritto. Ma
già, sin dal secolo XVI con le prime teorie politiche calvinistiche
•18•, e più ancora nel secolo XVII in Inghilterra sino alla
sistemazione del Locke, il giusnaturalismo offre il principale
sostegno alla concezione dei limiti del potere statale : il quale è
considerato come limitato perché al disopra della legge positiva è
posta la legge naturale da cui derivano agli individui diritti originari,
precedenti alla instaurazione della società civile, che la società civile
una volta costituita non può in alcun modo violare, ma deve
garantire a costo di dissolversi e di aprire la strada all'affermazione
del diritto di resistenza, che è esso stesso un diritto naturale. Questa
idea dello stato limitato dai diritti naturali, di uno stato la cui
funzione non è di creare un ordinamento giuridico nuovo, ma di
rendere possibile, attraverso l'esercizio del potere coattivo,
l'adempimento delle leggi naturali, trapassa dall'esperienza politica
inglese e dalla teoria di Locke nelle dichiarazioni dei diritti che
accompagnano prima negli stati americani, poi in Francia, e infine
via via fino ai giorni nostri in quasi tutte le costituzioni del mondo
civile, la formazione dello stato moderno. Si può oggi contestare
legittimamente, ed è stata più volte contestata, la validità della teoria
del diritto naturale a far da sostegno alla teoria e alla pratica dello
stato liberale. Quel che non si può respingere è il nesso storico tra
giusnaturalismo e liberalismo, e la constatazione che la teoria dei
diritti naturali, comunque oggi la si voglia giudicare in sede
filosofica, è stata la principale ispiratrice di quella particolare tecnica
della organizzazione statale che è la tecnica dei limiti giuridici del
potere, fondata principalmente sulla garanzia dei diritti individuali
da parte degli organi del pubblico potere e sul controllo del pubblico
potere da parte dei cittadini e nella quale consiste la caratteristica,
principale dello stato liberale. La ideologia da cui una certa tecnica
ha tratto il proprio sostegno è caduta; ma la tecnica è rimasta. Quali
altri sostegni ideologici abbia trovato e se ne abbia trovati, non è
cosa che qui ci preoccupa. Quel che conta è che sinora nessun
ordinamento che voglia mettere in atto un potere non dispotico, ha
potuto di questa tecnica fare a meno. Ora il Croce, non avendo dato
alcuna importanza al nesso fra giusnaturalismo e liberalismo, e del
resto avverso com'era al primo dei due indirizzi non era nelle
migliori condizioni per avvedersene, finì per gettare via insieme col
giusnaturalismo anche la teoria dei limiti del potere dello stato, cioè
quella teoria che differenzia ancor oggi una dottrina liberale da
un'altra che liberale non è.

Sorprende infatti che a questa teoria egli sia passato accanto quasi
senza accorgersene. Tra gli scrittori politici, di cui esamina
brevemente la dottrina negli Elementi di politica, ve n'è uno solo che
appartenga alla tradizione del pensiero liberale (il che dimostra che
anche dopo l'interessamento per la teoria del liberalismo non provò
alcuna curiosità di risalire alle fonti): Benjamin Constant •19•. Ora il
Constant, il protestante e inglesizzante Constant, proprio nello scritto
che il Croce aveva sott'occhio (La libertà degli antichi comparata a
quella dei moderni) esprime una delle più chiare formulazioni,
rimasta anche in seguito esemplare, della dottrina del liberalismo
classico intesa come dottrina dei limiti del potere dello stato come
affermazione della "libertà dallo stato" in contrapposto alla teoria
antica (o a quella che il Constant reputa tale) della libertà nello
stato". Questo modo di vedere la libertà dei moderni era l'effetto
della dottrina giusnaturalistica di origine calvinistica che aveva
contrapposto la sfera privata del cittadino alla sfera pubblica, il
forum inteynum al forum externum, in una parola l'individuo allo
stato. Il Constant, facesse o non facesse appello immediatamente ai
giusnaturalisti e alla tradizione calvinistica, si presentava come
l'erede e il continuatore di quella tradizione. Croce additava nel
Constant colui che avrebbe avviata la soluzione del problema
moderno della libertà, ma invece di soffermarsi su ciò che
costituisce l'elemento fondamentale di quello scritto, ne sottolinea un
aspetto secondario consistente nell'avere il Constant inteso la libertà
moderna non come edonistica ma come etica, nell'averla intesa come
lui, Croce, l'avrebbe intesa, lasciandosi sfuggire che quella libertà
etica di cui parlava il Constant era in quel discorso, in quel contesto,
il fondamento stesso della teoria giusnaturalistica dello stato per la
quale il valore etico dell'individuo oltrepassa i fini utilitari dello
stato e perciò stesso gli pone limiti invalicabili, che insomma libertà
etica e teoria dei limiti del potere si implicavano. Croce invece s li
disgiungeva, e mentre metteva in evidenza il concetto etico di
libertà, si sbarazzava con un gesto di fastidio, o peggio d'impazienza,
della teoria dei limiti del potere, come di teoria giuridica, empirica,
non speculativa. quando, commentando la dottrina dello Jellinek,
asseriva che la filosofia " non sa né dell'individuo di fronte allo
stato, né dello stato di fronte all'individuo, dell'uno cioè fuori
dell'altro e trattati come due entità quando sono invece i due termini
di una relazione, definibili l'uno per l'altro" •20•. In realtà, dietro
quell'indifferenza per una teoria empirica, non speculativa, si celava
un modo diverso di concepire l'individuo e lo stato : si celava una
concezione non personalistica dell'individuo (l'individuo come
particella dello Spirito universale) e una concezione universalistica
dello stato (lo stato come totalità di cui l'individuo empirico è parte).
Ma entrambe le concezioni erano il normale fondamento di una
concezione politica che certamente il Constant avrebbe considerato
come " libertà degli antichi n e a cui si sarebbe meglio adattata la
formula di " liberti nello stato" •21•, che, foggiata in periodo di
restaurazione romantica dalle teorie organiche, e come tale estranea
e contraria alla tradizione del pensiero liberale, è servita di poi
egregiamente ai vari dittatori per giustificare ogni colpo di mano
sulla libertà, e s'intende sulla libertà empirica e non su quella
speculativa.

18. Rispetto alle origini del liberalismo Croce distinse il calvinismo di cui
riconobbe il contributo positivo, dal giusnaturalismo che restrinse con
una interpretazione storica discutibile alle teorie egualitarie del secolo
XVIII. Si veda Etica e politica. II ediz. 1945 p.299. E per il contributo
dato dal calvinismo al liberalismo Vite di avventure di fede e di passione,
1936, p. 211.

19. Constant e Jellinek, in Etica e Politica, pp. 294-302.

20. Op. cif., p. 299. Così pure nella Storco d'Europa del sec. XIX. a
proposito del Constant condannava l'errore di astrattezza "che si rinnova
sempre che si cerca di definire l'idea della libertà per mezzo di distinzioni
giuridiche" (p. 13).

21. Si veda ad esempio questo passo: "L'amore allo stato è


collaborazione con lo stato, è inserire nello stato e versare nella vita
politica il meglio di noi stessi...; e questa partecipazione è quel che, con
altra parola, si chiama la libertà. La quale non è dunque l'opposizione allo
stato, l'offesa alla sua maestà, ma è la vita medesima dello stato... Né è
concepibile libertà nello stato che non sia libertà politica o, come si è
detto, collaborazione alla sua vita" (Vecchie e nuove questioni intorno
all'idea dello stato, in Orientamenti. Milano, Gilardi e Noto. 1934, pp. 15
16).

5. Ogni qualvolta il Croce combatté la teoria e gli ideali democratici


mostrò di non vedere nella democrazia altro che il trionfo del
meccanico, meramente quantitativo, materialistico, principio
dell'egualitarismo. Per lui democrazia significava il dogma
dell'astratta eguaglianza di tutti gli uomini, vecchio e anacronistico
dogma settecentesco, superato dalla concezione storicistica che nella
fase più matura del suo pensiero identificava senz'altro con la
concezione liberale della vita. Ciò facendo elevava a concetto della
democrazia un uso non dico arbitrario ma certamente unilaterale di
quell'abusatissimo termine. Nell'uso corrente e tecnico del termine,
"democrazia" indica, non solo il regime egualitario, ma anche lo
stato a sovranità popolare in contrapposto a quello a sovranità
principesca, lo stato fondato sul consenso in contrapposto allo stato
fondato sulla forza. Nel primo senso gli si contrappone di solito lo
stato aristocratico o di privilegio, nel secondo quello autocratico o
dispotico. In questo secondo senso " democrazia " non sta più ad
indicare un certo ideale, ma piuttosto una certa tecnica
dell'organizzazione statale, alla cui elaborazione, non meno che alla
formulazione di quell'astratto ideale, diede impulso il
giusnaturalismo attraverso la dottrina dell'origine contrattualistica
dello stato. Nell'opera di chiarimento di termini disputatissimi come
"liberalismo" e "democrazia", l'uno troppo ambiguo e l'altro troppo
vago, può costituire, a mio avviso, un primo passo il rilevare che
entrambi i termini vengono adoperati sia per indicare una certa
tecnica dell'organizzazione statale, sia un certo ideale politico. Per "
liberalismo " s'intende non solo, come già si è visto, lo stato fondato
sulla tecnica dei limiti del potere statale, ma anche lo stato che ha
per ideale il massimo sviluppo dell'individuo come centro autonomo
di creazione di valori. Per "democrazia" s'intende non solo lo stato
che ha per ideale l'uguaglianza, politica, sociale, economica, ecc.,
ma anche lo stato fondato sulla tecnica del consenso. Nel
contrapporre liberalismo a democrazia Croce, invece, non tenne in
nessun conto il significato tecnico di questi termini, ma li prese
entrambi come significanti ideali, addirittura concezioni filosofiche
opposte. E siccome la contrapposizione com'egli la vide non poteva
esser più netta - si trattava nientemeno che dell'antitesi di
illuminismo e storicismo - non si pose nella miglior condizione di
vedere che liberalismo e democrazia, anziché essere movimenti
antitetici, erano stati spesso considerati, dal punto di vista delle
rispettive tecniche, come integrantisi si da dar origine alla
concezione liberale - democratica dello stato, oggi dominante in tutti
i paesi di tradizione liberale, e commise l'errore storico, più volte
ripetuto e che ebbe sulle nuove generazioni di discepoli un effetto
disorientante, di considerare l'ideale liberale come più maturo
rispetto a quello democratico, e comunque cronologicamente
posteriore (l'uno del secolo XVIII, l'altro del secolo XIX), mentre,
prescindendo da ogni giudizio di valore su quale dei due ideali sia il
migliore, è pura questione di fatto che, considerati questi termini nel
loro legittimo uso tecnico, l'organizzazione dello stato democratico
(fondato appunto sul consenso) rappresenta una conquista successiva
attraverso il graduale allargamento del suffragio, rispetto allo stato
liberale fondato sulla garanzia dei diritti di libertà.

Come gli era accaduto d'imbattersi in un genuino scrittore liberale, il


Constant, se accorgersi che in lui vi era non già e non soltanto una
professione di fede negli ideali di libertà ma una teoria
dell'organizzazione statale contenente il nocciolo dello stato che si
chiamò allora e si chiama tuttora liberale, così s'incontrò col più
grande teorico moderno della democrazia trascurando ciò che aveva
reso celebre quella dottrina, vale a dire il tentativo più audace e più
conseguente sino allora compiuto di spiegare e giustificare
l'organizzazione statale fondandola sul massimo consenso dei
cittadini. Le poche pagine ch'egli dedicò al Rousseau negli Elementi
di politica, oltre ad essere un pretesto per ribattere i soliti torti del
giusnaturalismo, contengono una rapida presentazione dell'autore del
Contratto sociale come di uno spirito matematizzante, incapace di
comprendere la storia e la realtà, tutto assorto in una costruzione
astratta che se fornì armi e bandiere agli innovatori, il pensiero più
maturo non può considerare se non come fantasticheria e vacuità
•22•. Ancora una volta Croce mirava diritto agli ideali e non si curava
dei problemi di struttura. Ala in tal modo la sua semisecolare
diatriba contro la democrazia e i democratici non solo rischiava di
essere iniqua, ma si ritorceva alla fine contro lui stesso, contro il suo
fiero atteggiamento di uomo di cultura che difende la libertà dalle
spire dell'autoritarismo. E infatti come si poteva difendere la libertà
osteggiando un grande movimento politico che era caratterizzato
storicamente in primo luogo dall'aver propugnato il principio della
sovranità popolare, cioè della sovranità che si esprime attraverso la
partecipazione attiva di un sempre maggior numero di cittadini al
governo della cosa pubblica? Ma la tecnica del consenso, messa in
atto dagli stati democratici, non era stata escogitata in funzione di
quella maggiore autonomia dell'individuo che era il fine precipuo
dello stato liberale? In questo senso di "democrazia", liberalismo e
democrazia non erano solidali? Era mai . possibile immaginare uno
stato liberale che non fosse anche, se non nel senso ideale; per lo
meno in senso strutturale, democratico? E allora come poteva il
Croce rifiutare la democrazia ed accettare il liberalismo proprio nel
momento in cui l'apparire dello stato totalitario che era antiliberale
(cioè oppressivo delle libertà) e antidemocratico (cioè gerarchico) li
mostrava strettamente legati ? Lo poteva fare solo a patto di
predisporre il bersaglio sulla propria linea di tiro, accogliendo cioè la
democrazia per l'ideale che essa rappresentava non. per le soluzioni
giuridiche che aveva avanzato, e di separare la contemplazione degli
ideali che sola gli pareva degna del filosofo dalla ricerca dei mezzi
occorrenti per realizzarli, che abbassava a preoccupazione
quotidiana da politici empirici. Invero, quando negli Elementi di
politica trattò la questione del rapporto tra forza e consenso,
mantenendosi nell'atmosfera rarefatta della disputa speculativa, né
dandosi la minima pena di vedere quali problemi di organizzazione
del potere sovrano ci fossero dietro i miti dello stato - forza e dello
stato - consenso, se ne venne fuori con la facile argomentazione
dialettica che, usata larghissimamente dai nostri padri spirituali è
stata sommamente diseducativa e ha fatto credere a generazioni
intere di giovani pigri di avere uno specifico che li rendesse padroni
del sapere e invece era un potente sonnifero che li fece cadere in
letargo, secondo la quale a forza e consenso sono in politica termini
correlativi, e dov'è l'uno non può mai mancare l'altro ", ragion per
cui, u non c'è formazione politica che si sottragga a questa vicenda :
nel più liberale degli stati come nella più oppressiva delle tirannidi il
consenso c'è sempre, e sempre è forzato, condizionato e mutevole"
•23•.Il che era un modo, come ognun vede, non già di risolvere il
problema, ma di scavalcarlo.

22. Etica e politica, pp. 256-260.

23. Etica e politica, p. 221.

6. Quello stesso fervore che Croce esplicò nel contrastare il passo al


giusnaturalismo, che pur aveva ispirato il liberalismo, impiegò
nell'esaltare il romanticismo (se pur il romanticismo filosofico e non
quello morale) •24•, che non aveva generato se non teorie politiche
illiberali. Che il secolo XIX abbia rappresentato un grande
movimento di progresso nello sviluppo delle istituzioni liberali è
fuori discussione : quel che rende perplessi è che Croce
dimenticando la cautela che egli aveva sempre raccomandato di non
trarre troppo affrettate. conseguenze pratiche da concetti filosofici,
mise al principio di quel moto il romanticismo speculativo che
avrebbe posto " le premesse teoretiche del liberalismo" •25• e
contrappose al binomio giusnaturalismo - democratismo, di cui
abbiamo visto la fragilità, l'altro binomio romanticismo - liberalismo
che ci pare non meno carico di fraintendimenti o per lo meno di
forzature, dal momento che non ci si può trattenere dal constatare
che i due maggiori rappresentanti del romanticismo filosofico, Begel
e Comte, ci lasciarono come loro testamento politico due libri, i
Lineamenti di filosofia del diritto del 1821 e il Système de politique
positive degli anni 1851-54, che non si potrebbero immaginare più
antitetici allo spirito del liberalismo e più estranei alla tradizione del
pensiero liberale, anche a non voler aggiungere la più ovvia
constatazione che nell'età del romanticismo presero forza gli ideali
politici del nazionalismo e del socialismo che confluirono talora
nella corrente liberale ma più spesso la osteggiarono o la
ostacolarono (come lo stesso Croce più volte avverti).

Lasciamo al De Ruggiero, il quale pur scrisse un'opera importante


sul liberalismo e che in altri tempi ci è stata cara, la responsabilità di
aver affermato che "il liberalismo tedesco offre, contro le apparenze,
un, particolare interesse storico; non soltanto per la grande
elevatezza storica delle sue espressioni dottrinali, ma anche per la
singolarità del suo sviluppo" •26• (e ciò in un libro in cui i due
personaggi più importanti di cui si parla nel capitolo dedicato al
liberalismo tedesco sono Hegel e Treitschke !), e ancora di aver
posto al centro della sua storia dell'idea liberale il pensiero di Hegel
- colui che avrebbe avuto il grande merito di aver tratto
dall'identificazione kantiana della libertà con lo spirito l'idea di uno
sviluppo organico della libertà come sintesi tra l'astratto
razionalismo dei rivoluzionari e l'astratto storicismo dei reazionari,
come compendio e anticipazione del moderno costituzionalismo
tedesco; Croce, più avveduto e più equilibrato, non si lasciò
fuorviare dalla sua ammirazione per Hegel sino a farne il filosofo
per eccellenza del liberalismo, anzi, come abbiamo visto, non si
stanca di criticarne la concezione dell'eticità dello stato, e se ammirò
la tradizione politica tedesca per la elaborazione del concetto di stato
- forza, non l'ammirò altrettanto per il contributo dato all'idea e alla
pratica liberale •27•. Però a questo punto è legittimo porsi la
domanda: quali sono gli scrittori romantici che avrebbero' dato
nuovo vigore alla teoria del liberalismo? Certamente Croce non
nascose la sua ammirazione per gli scrittori reazionari della
Restaurazione che "sono da leggere per il forte sentimento che li
anima dello stato come autorità e consenso insieme, e come
istituzione che trascende il libito degli astratti individui; oltre che pel
loro antiegalitarismo e pel loro antigiacobinismo" •28•. Ma da essi
avrebbe dovuto attingere il nuovo secolo nuovi lumi per
l'avanzamento della libertà ? In un breve elenco di scrittori da lui
reputati liberali ricorda Constant, Royer Collard, Tocqueville,
Macaulay •29•; ma come possono essere paragonati, al fine di una
fondazione teorica del liberalismo, proprio ciò che il Croce vanta
come effetto benefico del rinnovamento filosofico prodotto dal
romanticismo, con i Locke del secolo XVII o con i Montesquieu e i
Kant del secolo XVIII? Che cosa c'è nei Constant e nei Tocqueville,
per ricordare i maggiori, che già, non vi fosse nel costituzionalismo
di Locke, nel garantismo di Montesquieu, nel liberalismo giuridico
di Kant?

24. Vedi la distinzione in Storia d'Europa, p. 48 e segg.

25. Storia d'Europa, p. 50.

26. G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Bari, Laterza, II


ediz., 1941, p. 223.

27. E' una tesi costante dei libri storiografici scritti durante la resistenza
contro il fascismo. E già nel saggio Contrasti d'ideali parla dell'unità della
Germania che si era fatta r prescindendo dalle forze e dall'educazione
liberale" (Etica e politica, p. 314).

28. Etica e politica, p. 267.

29. Conversazioni critiche, II ediz., 1951, IV, p. 320.

In Inghilterra, nella prima metà dell'800, la teoria del liberalismo si


era sviluppata oltre la critica del giusnaturalismo fatta dal Bentham ;
anzi, aveva trovato un fondamento più consono alla tradizione
empiristica inglese e non più soggetto alle critiche a cui ovunque la
teoria dei diritti naturali era stata sottoposta, nell'utilitarismo di
Stuart Mill. Ma del Mill il Croce, se ammira la sincera fede liberale,
peraltro "meschinamente e bassamente - ragionata mercé dei
concetti di benessere e di felicità e di prudenza", respinge
aspramente "i poveri e fallaci teorizzamenti" •30•. Del resto non
sembra che egli avesse dedicato molta attenzione alla storia del
pensiero politico inglese. È sorprendente il fatto che nella breve
storia della filosofia della politica, che segue alla Politica "in nuce"
non sia stato considerato neppure uno scrittore inglese, e sì che da
Hobbes a Locke, da Hume a Bentham, non mancava certo il
materiale di studio e di riflessione. Più volte ritornò sull'idea che
l'Inghilterra aveva molto insegnato nei concetti liberali durante i
secoli XVII e XVIII ma poi molto appreso dai popoli del continente
nel secolo XIX •31•. E solo negli scritti più tardi si può osservare
qualche più frequente riferimento alle benemerenze dell'Inghilterra
nella filosofia politica, ma sempre con la riserva che il liberalismo,,
sorto in Inghilterra, si era sviluppato altrove e comunque in
Inghilterra aveva trovato pratica, applicazione ma non una
sufficiente applicazione dottrinale •32•. Ancora una volta il Croce
andava cercando non le istituzioni dello stato liberale, sulle quali
avevano raccolto considerazioni utili per i posteri gli scrittori inglesi,
ma il concetto filosofico della libertà, per il quale occorreva, a detta
sua, che il pensiero umano fosse giunto ad una concezione di
assoluto immanentismo o ad uno spiritualismo assoluto che fosse
insieme storicismo assoluto, e non trovandone traccia nel pensiero
inglese,, lamentava che " il figlio primogenito del liberalismo",
rimasto per due secoli invischiato nell'empirismo sensistico e
utilitario, con annesso agnosticismo e ` possibilismo religioso, cc
fosse stato a lungo tempo il meno adatto a dimostrare
filosoficamente il suo proprio ideale e il suo proprio fine" •33•. Ciò
che non aveva trovato nella patria dei Miltou e dei Mill, Croce e
purtroppo con lui in coro gli idealisti italiani; credettero di aver
trovato nella patria dei Fichte e dei Bismarck; e tutti quanti andarono
dai maestri dei dittatori a imparare la lezione della libertà.

Anche su Croce e in genere, se pur più gravemente sugli idealisti


italiani, che si consideravano e vantavano eredi della tradizione
hegeliana napoletana, pesarono due pregiudizi filosofici che
risalivano ad Hegél : ché 1'empirismo inglese non fosse degno di
essere assegnato alla storia del pensiero filosofico, e che il popolo
tedesco avesse fatto teoreticamente, cioè mediante la filosofia
idealistica, la rivoluzione che gli altri popoli, segnatamente l'inglese
e il francese avevano fatto praticamente. Il primo pregiudizio li
esonerava dall'indagare i rapporti tra la mentalità trionfante in
Inghilterra che era la mentalità empiristica e il successo della politica
liberale inglese, e per usare la loro stessa terminologia, tra la teoria e
la prassi; il secondo faceva mettere loro il cuore in pace di fronte a
tanto divario tra il corso della storia inglese e francese e quello della
storia italiana e tedesca, perché la provvidenza aveva voluto per i
suoi imperscrutabili disegni che agli Inglesi e ai Francesi fosse
assegnato il compito di realizzare la libertà, ai Tedeschi, e chissà
anche agli Italiani, di comprenderne l'essenza; a quelli di viverla
senza saper che cosa fosse e a noi di farne la filosofia in istato di
perpetuo servaggio.
30. Principio ideale, teoria: a proposito della teoria filosofica della libertà,
in Il carattere della filosofia moderna, 1941, pp. 114-115.

31. Storia d'Europa, pp. 17-18.

32. Libertà e giustizia (1943), in Discorsi di varia filosofia, I, p. 269;


Ancora sulla teoria della libertà (1943), in Per la nuova vita d'Italia,
Napoli, Ricciardi. 1944, p. 100; Liberalismo e cattolicesimo (1945), in
Pensiero politico e politica attuale, Bari, Laterza, 1946, p. 69 ; Per il
congresso internazionale del partito liberale in Oxford (1947), ibidem, p.
109.

33. Principio, ideale, teoria, p. 114.

7. Quali erano dunque i concetti che il Croce derivava dalla filosofia


romantica per la elaborazione della sua filosofia della libertà? Come
si è visto, egli rimetteva in onore, se pur diversamente
interpretandola, l'espressione, che fu già di Hegel e ripetuta e
divulgata, come lo stesso Croce osserva, dal Cousin, dal Michelet e
da altri scrittori francesi (fra cui il Quinet), della storia ,come storia
della libertà, con ciò intendendo che la libertà in quanto forza
creatrice della storia è di questa il vero e proprio soggetto. "Invero,
tutto ciò che l'uomo fa è fatto liberamente, siano azioni o istituzioni
politiche o concezioni religiose o teorie scientifiche o creazioni della
poesia o dell'arte o invenzioni tecniche P modi di accrescimento
della ricchezza e della potenza" •34•.

Qual giovamento si possa trarre da tal concetto per una migliore


comprensione del liberalismo, o quale incremento esso potesse dare
alla teoria dello stato - libertà, non è facile intendere. Già é difficile
capire in qual senso Croce usasse il termine " libertà n ed è da
dubitare che lo usasse sempre nel medesimo senso. Nell'espressione
" storia come storia della libertà n, sembra che stia ad indicare
l'essenza stessa dello Spirito, cioè la forza creatrice, o creatività,
dello Spirito •35• in contrapposto ad atteggiamenti come ripetizione,
imitazione, manipolazione artificiosa e simili •36•. E il vecchio
concetto teologico di libertà come attributo divino. Onde
l'espressione "storia come storia della libertà" significa che la storia
è il prodotto dell'attività creatrice dello Spirito o dello Spirito in
quanto per essenza è attività creatrice. È noto, invece, che nel
linguaggio della dottrina liberale "libertà" indica "assenza di vincoli
o di impedimenti". In questa accezione non ha senso parlare di
libertà senza che si risponda alla domanda: "da che cosa?"; senza
cioè che si indichi da quale impedimento essa è libertà •37•. Ma è
proprio questa accezione che vien respinta dichiaratamente da Croce
là dove descrive la vocazione liberale dell'età della Restaurazione:
"Era, dunque, affatto ovvio che alla domanda quale fosse l'ideale
delle nuove generazioni si rispondesse con quella parola 'libertà'
senz'altra determinazione, perché ogni aggiunta ne avrebbe,
offuscato il concetto; e torto avevano i frigidi e i superficiali che di
ciò si meravigliavano o ne facevano oggetto di scherno, e, tacciando
di vuoto formalismo quel concetto, interrogavano .ironici o
sarcastici: 'Che è mai la libertà? la libertà da chi e da che cosa? la
libertà di fare che cosa?'"" •38•. Eppure, proprio in seguito
all'eliminazione. di successivi impedimenti si passò dalla stato
assoluto allo stato liberale, e solo in base alla presenza di certi non
impedimenti e non di, certi altri si. giudica oggi della maggiore o
minore liberalità di un ordinamento giuridico. Dal concetto teologico
di libertà come essenza dello Spirito universale, al concetto
empirico, utile in politica, di ,libertà come non impedimento, non c'è
passaggio: dal primo non si trae alcun lume per comprendere il
secondo. La teoria della libertà dello Spirito è tanto estranea alla
teoria del liberalismo, quanto la teoria del liberalismo alla teoria
della libertà dello Spirito. Si può benissimo immaginare una teoria
spiritualistica in metafisica e illiberale in politica, così come una
teoria politicamente liberale innestata sopra una filosofia
naturalistica. E a dir vero gli esempi storici incoraggiano questa
immaginazione. E non c'è passaggio, soprattutto perché, se il
soggetto della storia è lo Spirito (e non l'individuo singolo, di cui si
preoccupa il liberale) e questo Spirito è per essenza creatore e quindi
libero, non si può escludere che esso per realizzare se stessa si debba
poter servire tanto dei regimi liberali quanto di quelli non liberali e
quindi l'esistenza di regimi illiberali è perfettamente compatibile con
la libertà della storia: tanto compatibile che essi sono esistiti ed
esistono, e se ciò nonostante la storia è storia della libertà, vuol dire
che la libertà si attua anche per opera loro, e che atti di despoti e di
oppressori appartengono alla storia della libertà allo stesso diritto
degli atti degli uomini di governo liberali •39•.

34. Principio, ideale, teoria, p. 109.

35. L'equivalenza dei due termini "creatività" e "libertà" nel seguente


contesto: "Al liberalismo come al comunismo il liberalismo dice:
accetterò o respingerò le vostre singole e particolari proposte secondo
che esse, nelle condizioni date di tempo e di luogo, promuovano o
deprimano l'umana creatività, la libertà" (Pagine sparse, III, p. 31).

36. In Etica e politica si dice, invece, che la libertà "è la vita che vuole
espandersi e godere di sé, la vita in tutte le sue forme e sentita da
ciascuno a modo proprio, in quella infinita varietà, in quella individualità
di tendenze e di opere onde s'intesse l'unità dell'universo"; e si spiega
che così intesa la libertà non è nient'altro che la gioia del fare (p. 222).

37. Per considerazioni terminologiche sulla parola libertà e sulla


distinzione di vari tipi di liberalismo si veda M. CRANSTON, Freedom, A
New Analysis, Longmans, 1953.

38. Storia d'Europa, p. 18.

39. Per una critica in questa direzione al concetto di storia come storia
della libertà, vedi A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di B.
Croce, pp. 795 e segg.
I1 che è tanto conforme al concetto del Croce che egli fu costretto a
riconoscere che anche i momenti di oppressione appartengono bene
o male alla storia del promovimento della libertà, e vi appartengono
per due ragioni: primo, perché i dittatori non possono fare a meno, se
pur nolenti, di compiere opere di libertà; secondo, perché non vi è
ferocia di oppressione che possa eliminare gli oppositori i quali,
benché nascosti o taciti, mitigano la durezza del presente e pongono
germi per l'avvenire •40•. "Senza dubbio, nella storia si vedono
altresì regimi teocratici e regimi autoritari, regimi di violenza e
reazioni e controriforme e dittature e tirannie; ma quel che solo e
sempre risorge e si svolge e cresce è la libertà, la quale, ora in quelle
varie forme si foggia i suoi mezzi,. ora le piega a suoi strumenti, ora
delle apparenti sue sconfitte si vale a stimolo della sua stessa vita"
•41•. Ciò significa che alla storia della libertà sono necessari anche i
regimi di non libertà, o in altre parole che questi regimi, non liberali
dal punto di vista del loro ordinamento sono liberali per i fini che
raggiungono, ovvero, pur essendo non liberali nel senso
illuministico della libertà come non impedimento, sono liberali nel
senso romantico di libertà come creatività. La filosofia, commenta
Croce, vede "un Napoleone, distruttore anch'esso di una libertà tale
solo d'apparenza e di nome alla quale egli tolse apparenza e nome,
agguagliatore di popoli sotto il' suo dominio, lasciar dopo di sé
questi stessi popoli avidi di libertà e resi più esperti di quel che
veramente fosse ed alacri a impiantarne, come poco dopo fecero, in
tutta Europa, gli istituti" •42•. Ciò vede la filosofia, ma la filosofia,
appunto, romantica della libertà; ma ciò che vede la filosofia, una
certa filosofia, non è detto che sia visto allo stesso modo da una certa
teoria politica, per esempio dalla teoria dello stato liberale.
Continuando l'esempio del Croce, Napoleone appartiene alla storia
della libertà. Ma appartiene anche a quella degli stati liberali ? Altro
é dunque giustificare Napoleone sub specie di storia universale, altro
elaborare una teoria del liberalismo che possa essere opposta ai
regimi autoritari, tra i quali, appunto, vi è anche quello di
Napoleone.

Per un'altra ragione ancora dalla filosofia della libertà alla teoria del
liberalismo non c'è passaggio: "poiché la libertà spiegò Croce - è
l'essenza dell'uomo, e l'uomo la possiede nella sua qualità stessa di
uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l'espressione
che bisogni all'uomo 'dare la libertà', che è ciò che non gli si può
dare perché già l'ha in sè. Tanto poco gli si può dare che non si può
neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto
bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno .certi moti di
azione; costringere, a non pronunziare certe verità e a recitare certe
menzogne, ma non togliere all'umanità la libertà, cioè il tessuto della
sua vita, che, anzi, com'è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di
distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano" •43•.
Se la libertà non s'intende come qualcosa che caratterizza un certo
modo di concepire i rapporti sociali nello stato, ed ha le sue
istituzioni convalidate dall'esperienza storica, ma la si - concepisce
senz'altro come l'essenza. dell'uomo, che l'uomo porta con sé
ovunque vada e in qualsiasi condizione si trovi, non è difficile poi
trarre la conseguenza che l'uomo è sempre .libero poiché l'essenza è
per definizione indistruttibile. Ma appunto egli è sempre libero nel
senso della storia come storia della libertà, per quanto possa non
esserlo, anzi possa essere in catene; nel senso della teoria liberale.

40. Principio, ideale, teoria, p. 110.

41. Antistoricismo, in Ultimi Saggi, II ediz., 7948, n. 255. Si veda quel


che potremmo chiamare l'inno alla libertà della Storia come pensiero e
come azione, Bari, Laterza, 1938, pp. 47-50.

42. La storia come pensiero e come azione, pp. 48-49

43. Libertà e giustizia. p. 262.

8. Dalla .filosofia romantica Croce non trasse solo il concetto della


storia come storia della libertà, ma anche quell'altro, che doveva via
via prevalere e far più commossa la stia voce ed alto il suo
messaggio negli anni di oppressione, della libertà come ideale
morale. Proprio nella Storia d'Europa, come si è visto, considerava
l'ideale morale della libertà come "complemento pratico" della
concezione della storia come storia della libertà •44•. Da questa
considerazione della libertà come ideale morale, attraverso le pagine
della Storia come pensiero e come azione, in cui definiva l'attività
morale come quella che "garantisce la libertà" •45• passava nel
saggio del '39 a identificare senz'altro l'azione promovitrice di libertà
con l'azione morale, l'ideale pratico della libertà con l'ideale morale
•46•, e insomma il principio del liberalismo col principio stesso
morale "la cui formula più adeguata è quella della sempre maggiore
elevazione della vita, e pertanto della libertà senza cui non è
concepibile né elevazione né attività" •47•. Quale fosse il riflesso di
questa identificazione sul problema dei rapporti fra politica e morale,
non vorrei qui indicare perché, come ho già detto, il problema è di
tale importanza e complessità (uno dei problemi dominanti nel
pensiero crociano) che meriterebbe uno studio a parte. Ancora una
volta m'importa di capire il nesso, se nesso c'è, tra la libertà intesa
come ideale morale e la teoria del liberalismo. Fu, infatti, soprattutto
a proposito di .questa identificazione che il Croce disse con la
maggior chiarezza, e ripeté non più soltanto come filosofo ma come
politico, in molteplici occasioni negli anni della ricostruzione, che
solo se della libertà si faceva il riflesso della coscienza etica essa non
avrebbe mai potuto essere compromessa con le istituzioni storiche
che, appunto perché storiche, sono transeunti, mentre la libertà come
ideale morale ha per sé l'eterno. La libertà al singolare, spiegò nella
Storia d'Europa, non si adegua mai e non si esaurisce in questa o
quella delle sue particolarizzazioni, negl'istituti che ha creato; "e
perciò non solo .... non si può definirla per mezzo dei suoi istituti,
ossia giuridicamente, ma non bisogna porre un legame di necessità
concettuale tra essa e questi, che, essendo fatti storici, le si legano e
se ne slegano per necessità storica" •48•. Di fronte alla qual
separazione tra ideale della libertà e tecnica della sua attuazione
politica c'è da osservare che, se questi istituti avevano foggiato un
certo tipo di stato che si era venuto caratterizzando come stato
liberale in contrapposto ad altri stati che per essere caratterizzati da
altri istituti erano detti totalitari, il distacco tra la libertà come ideale
e la realizzazione dello stato liberale diventava ormai incolmabile. E
diventava incolmabile proprio perché la teoria del liberalismo, pur
partendo dal presupposto della libertà come ideale, era la teoria di
quelle istituzioni e non di altre, e la storia del liberalismo era la
storia dei vari tentativi, ora riusciti ora falliti ma non mai
abbandonati dall'inizio dell'età moderna in poi, di creare, rinnovare,
correggere certi istituti, tanto che la eliminazione e la cattiva
applicazione di quegli istituti avevano dato luogo a stati che liberali
non erano più e contro i quali il Croce stesso in nome dell'ideale
morale aveva resistito. E questi istituti, pur diversi e diversamente
foggiati a seconda dei tempi e dei luoghi, e certamente in quanto
prodotti storici non mai perfetti e definitivi, avevano in comune il
carattere di perseguire il medesimo scopo, che non abbiamo nessuna
difficoltà a chiamare l'ideale pratico della libertà, con mezzi simili e
convergenti, ora arginando l'invadenza dei pubblici poteri nella
attività individuale, ora consolidando e assicurando più larga o più
stretta che fosse a seconda dei bisogni, ma nomai abolendo, la
cosiddetta sfera di liceità dell'individuo nei confronti dello stato,
sempre distinguendo ciò che nell'uomo è partecipabile allo stato da
ciò che non è partecipabile, insomma salvaguardando l'individuo
dalla totale riduzione a membro della collettività, dalla riduzione di
tutta la sua attività ad attività pubblica o politica, in cui consiste
appunto la natura degli stati totalitari.

Contro questo distacco dell'ideale morale dalle sue realizzazioni


storiche sono pur sempre valide le obiezioni che mossero ai. Croce
da un lato 1'Einaudi, che confessò lo "stringimento di cuore" nel
vedere cori qual disdegno il Croce parlasse dei mezzi, mentre' per lui
il perseguimento del fine non poteva essere dissociato dalla ricerca
dei mezzi idonei •49•; e qui a conforto della tesi dell'Einaudi si
potrebbe aggiungere che la teoria del liberalismo è proprio la teoria
di quei mezzi, e, vietata la discussione sui, mezzi, si parla di
liberalismo a sproposito; dall'altro il Calogero affermante che se il
liberalismo consisteva nel perseguire l'ideale morale senz'altri
aggettivi, tutti erano o avrebbero voluto dirsi liberali salvo poi a
ritrovare le differenze nell'analisi o nella volontà di quei particolari
istituti che sono i diversi mezzi da ciascuno propugnati per lo scopo
comune •50•, e salvo anche qui ad aggiungere che ciò che permette di
distinguere in una situazione storica determinata chi è liberale da chi
non è tale, è proprio la considerazione dei mezzi che propugna, e
non l'identico fine di cui tutti sono egualmente fervidi assertori.
Della nozione di liberalismo o di stato liberale ci serviamo e per
questo importa chiarirne il concetto per due diversi scopi o per
distinguere in sede storiografica uno stato liberale da uno autoritario,
o per proporre questo tipo di stato, in sede politica, come modello
d'azione. Né all'uno né all'altro impiego giova 1'identificazione della
libertà con l'ideale morale e il conseguente distacco dell'ideale dalle
istituzioni in cui si realizza.

44. Storia d'Europa, p. 16.

45. Storia come pensiero e come azione, p. 44.

46. Principio, ideale, teoria, p. 117.

47. Questa definizione della moralità come "elevamento della vita" che
coincide col "dispiegamento della libertà" si ritrova in uno degli ultimi
scritti Intorno alla categoria della vitalità, in Indagini su Hegel e altri
schiarimenti filosofici, 1952, p. 134

48. Storia d'Europa, p. 18.

49. L. EINAUDI, Il Buongoverno, p. 254 e segg.

50. G. CALOGERO, Difesa del liberalsocialismo, Roma, Atlantica, 1945,


soprattutto p. 32 e segg.

Non al primo scopo, perché anzi la presenza operante o l'assenza


della libertà come ideale viene provata (e altra via non c'è di
provarla) dall'esistenza o meno e dal maggior o minor
funzionamento di quelle istituzioni, quali la garanzia dei diritti di
libertà, la rappresentatività di alcuni organi fondamentali dello stato,
la divisione degli organi e delle funzioni, la legalizzazione
dell'opposizione politica, il rispetto delle minoranze e via dicendo.
Che se poi si volesse dire che l'ideale morale, in quanto proprio di
ogni uomo, come non può scomparire e sempre rinasce, così non è
mai venuto menò e in ogni epoca ha avuto i suoi confessori e i suoi
martiri, si dovrebbe rispondere a maggior ragione che il liberalismo
non essendo di tutte le epoche e di tutti i paesi non può coincidere
con quell'ideale, ma è un particolare modo della sua attuazione,
caratterizzata dal fatto che quello stesso ideale risplende di una luce
forse più blanda ma più diffusa, non è generoso dono di pochi, ma
costume di molti, e tanto più quindi non si può prescindere per
definirne il concetto dalle istituzioni che lo attuano. Né questa
identificazione del liberalismo coll'ideale morale ci viene in aiuto
per raggiungere il secondo scopo, perché per instaurare e mantenere
uno stato liberale bisogna che l'ideale si attui in solidi istituti, e io
devo sapere anzitutto quali istituti voglio conservare e quali
respingere, e la lotta politica è lotta, in nome sl di ideali o di
ideologie, ma anche pro o contro questa o quella istituzione.

Accadde perciò che quando venne il momento della ricostruzione


del nuovo stato liberale dopo il tempo dell'opposizione allo stato
autoritario, la filosofia della libertà tacque, e se parlò fu per porsi,
incontaminata e incorrompibile, al di sopra dei partiti che tutti
riconosceva e consacrava. Ma quali insegnamenti avrebbe potuto
impartire? Lo stato liberale era un complesso, a lungo provato e
riprovato, strumento di organizzazione sociale, un meccanismo
delicato e soggetto a continui perfezionamenti, del cui congegno
bisognava impadronirsi per metterlo in moto. Che cosa sapeva di
lutto questo la filosofia della libertà che è tutt'uno con l'elevamento
della vita in ogni tempo e in ogni luogo qualunque sia la strada
percorsa per conseguirlo? Tanto alto era stato il magistero crociano
negli anni della resistenza, tanto contrastato fu nel periodo del
rinnovamento, in cui quegli stessi giovani che avevano combattuto
nei più diversi partiti in nome dell'ideale morale della libertà, si
trovarono impreparati di fronte agli enormi compiti tecnici che
l'organizzazione di uno stato democratico richiedeva. Croce fu il
mentore dell'opposizione; non poteva essere il saggio consigliere
della ricostruzione. Più che un teorico del liberalismo fu l'ispiratore
della resistenza all'oppressione né poteva essere teorico di un
problema di cui in fondo non si era mai, teoricamente, troppo
interessato durante tutta la sua vita chi studioso, e quando si era
imbattuto in quel problema spintovi dalle circostanze aveva fatto
ispirazione non dagli empiristi o utilitaristi inglesi, né dai
giusnaturalisti o illuministi, né dai giuristi né dagli economisti, da
coloro che avevano elaborato una teoria in continuo progresso dello
stato liberale, ma proprio da quegli scrittori romantici che avrebbero
contribuito con l'esaltazione della Libertà a oscurare o per lo meno a
porgere pretesto, e argomenti all'oscuramento degli ideali liberali.
Egli predicò con nobilissimi accenti (la cui eco ancor ci risuona nella
mente e di cui gli siamo grati) la religione della libertà. La predicò
più che non l'abbia allora e dopo teorizzata. E appunto perché di
religione si trattava parlò da sacerdote più che da filosofo, e a
rileggere ora quelle pagine si è riscaldati dal calor dell'oratoria più di
quel che si sia afferrati dal rigor dei concetti. Ma quando la
religione; come accade di tutte le religioni, dovette essere
istituzionalizzata, cioè quando la religione della libertà dovette
trasformarsi in stato liberale, quelle pagine e tante altre che scrisse
poi restarono mute e sono ora quasi dimenticate.

9. Chi volesse oggi capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo


a scuola da Croce. Gli consiglierei piuttosto di leggere i vecchi
monarcomachi e Locke e Montesquieu e. Kant, il Federalist e
Constant e Stuart Mill. In Italia più Cattaneo che non gli hegeliani
napoletani, compreso. Silvio Spaventa, e gli metterei in mano più il
Buongoverno di Einaudi che non la Storia come pensiero e come
azione (che pur fu il libro certamente più importante dei movimenti
di opposizione). Oppure, sl, gli direi di andare a scuola da Croce, ma
non dal Croce filosofo della politica, ma da quel Croce che non si
stancò mai dall'insegnare che il filosofo puro c un perdigiorno e che
la filosofia non nascente dal gusto e dallo studio dei problemi
concreti è vaniloquio se non addirittura sproloquio. In fondo, se oggi
ci mostriamo un po' insofferenti dei teorizzamenti crociani sulla
libertà, è perché abbiamo troppo bene imparato la lezione crociana
che i teorizzamenti non scaturiti da amore per l'oggetto e da ricerca
adeguata sono costruzioni di carta. Croce non ebbe per l'attività
politica né amore né profonda inclinazione, come più volte dichiarò,
né ci è sembrato che fosse gran conoscitore di cose politiche, e se
lesse scrittori di politica passò da Machiavelli e dai teorici della
ragion di stato che accentuando il momento politico lo indussero a
risolvere la politica nella forza, agli scrittori dei periodo della
Restaurazione che accentuando il momento morale lo indussero a
risolvere la morale nella libertà, saltando i due secoli rispettivamente
dell'illuminismo inglese e francese lungo i quali si formò la teoria
dello stato liberale moderno, che è quello stato che mette la forza a
servizio della libertà e si definisce kantianamente come la
coesistenza, garantita coattivamente, delle libertà esterne. Si
comportò nel dominio della filosofia politica. un po' come non
ammise mai che ci si comportasse nel dominio della poesia, come
colui che, assorto in cose troppo grandi disdegna le piccole e quelle
cose grandi, poi, e sublimi, ci si accorge che non sono utili agli altri
e il filosofo viene guardato con sospetto e deriso.

Dall'alto della filosofica sfera Croce tanto legò la concezione liberale


alla filosofia da farne una manifestazione di una determinata
filosofia, della filosofia immanentistica moderna in contrapposto alla
trascendentistica medioevale, e poi più particolarmente dello
storicismo in contrapposto all'illuminismo. Chi abbia appreso la sua
lezione metodologica di partir dai problemi concreti, E abbia cercato
di applicarla allo studio del liberalismo, è ora stretto dal dubbio che
davvero giovi alla comprensione del liberalismo quel connubio.
Osserva che lo spirito liberale nacque da concezioni religiose e
teologiche come quelle del calvinistrio e sinora nessuno ha trovato
miglior argomento contro lo strapotere dello stato che il valore
assoluto della persona. E osserva altresì che concezioni
immanentistiche, di storicismo assoluto, come il materialismo
storico, hanno favorito e continuano oggi a sostenere la pratica di
regimi non liberali. Più che una contrapposizione di concezioni
filosofiche totali, quella di liberalismo e autoritarismo gli si è venuta
chiarendo come una contrapposizione di mentalità o di atteggiamenti
spirituali, l'uno empirico di chi procede a gradi, esaminando una
questione per volta e non accetta altro criterio di verità che la
verifica sperimentale, l'altro speculativo di chi crede di essere in
possesso, lui solo, della verità una volta per tutte ed è disposto con
ogni mezzo ad imporla. E di qua si è fatta la convinzione che a
formar la mente a un modo liberale di vedere, di giudicare e di agire,
gioverà leggere gli scrittori inglesi più che i tedeschi, gli illuministi
più che i romantici. E anche il problema, o l'enigma, del liberalismo
che avrebbe avuto una patria pratica, e una patria teorica, non è più
un problema né tanto meno un enigma quando egli osservi che esso
primamente si è sviluppato e ancor oggi fiorisce dove più forte è
stata la tradizione empiristica, mentre nelle patrie che hanno nutrito i
geni speculativi ha avuto di solito vita grama e di breve durata.

Il Croce ha staccato il liberalismo come valore assoluto dalle


istituzioni empiriche, mettendo l'accento sul fine e non sui mezzi.
Nel momento in cui il valore era oscurato o tradito, questo suo
appello alla dignità del fine fu suscitatore di energie. morali come
allora si richiedeva. Oggi che sul primato di quel fine nessuno
discute o osa discutere; anche coloro che forse lo rinnegherebbero se
disponessero, di mezzi per attuarlo, conviene mettere l'accento sui
mezzi. E infatti, se il valore della libertà è rispettato e anche i suoi
antichi e nuovi avversari chinano la fronte al suo cospetto, il metodo
liberale, come cosa di minor momento che si nutre di minuta empiria
e non di grosse speculazioni, rischia continuamente di esser messo
da parte b momentaneamente sospeso e riservato a tempi migliori.
Oggi la coscienza liberale non può prescindere dalla sorveglianza sui
mezzi che lungo la faticosa creazione dello stato moderno sono stati
foggiati e messi alla prova. E chi a questa coscienza si ispira. deve
sforzarsi di persuadere i troppo impazienti o i troppo rassegnati che
il tener fermi i mezzi non è meno importante dei tener fermo il
fine, ,e che là dove i mezzi sono negletti anche il fine vien meno, e
ad incitare coloro che si preoccupano delle sorti della democrazia in
Italia a non indugiare troppo a lungo sulla concezione speculativa
della libertà, che è costretta a considerare momenti di libertà anche i
dispotismi, ma a perseverare nella indagine e nella pratica dei
problemi concreti di una libera convivenza, dalle quali soltanto è
lecito sperare che il dispotismo di ieri non generi per contraccolpo il
dispotismo di domani.

NORBERTO BOBBIO

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