Sei sulla pagina 1di 18

BENEDETTO CROCE

GLI ANNI DEL FASCISMO

«Don Benedetto vien dalla Campania», scriveva ormai molti anni or sono
il giovane enfant terrible Umberto Eco in quella sua Storia della filosofia in versi
che divenne la mitica icona dissacrante degli studenti universitari di materie
umanistiche fra anni Cinquanta e anni Sessanta. E si poteva anche ammettere,
all’epoca, che fosse stato «dolorosamente etico» l’assassinio di Giovanni Gentile,
ma non si ammetteva a cuor leggero che si potesse scherzare su quel monumento
umano ch’era il filosofo di Pescasseroli, il fondatore della «religione della libertà»,
colui che aveva assolto una volta per tutte il Risorgimento e l’Italietta dal sospetto
di essersi covati in seno la serpe della dittatura affermando al contrario che il
fascismo era per il nostro paese quello che «la calata degli Hyksos» era stata per
l’antico Egitto, l’inaspettata e immeritata invasione di un corpo estraneo.
Erano in tanti, allora, a rimpiangere che Croce se ne fosse andato ottanta-
seienne, nel 1952, senza riuscir a ottenere quella carica di presidente della Re-
pubblica che molti auspicavano per lui, anche se mai egli aveva rinunziato alla
sua ferma fede monarchica. Ma sul suo duro e intransigente antifascismo quasi
nessuno osava eccepire. Salvo magari qualche comunista che non gli sapeva per-
donare quell’epiteto di “bolscevismo rosso” ch’egli aveva rivolto al comunismo,
affratellandolo così al fascismo definito come “bolscevismo nero”. Oggi, in tempi
di rinnovata polemica avviata dal “Manifesto di Sant’Anna di Stazzema”, questa
equipollenza di fascismo e di comunismo piacerà molto a certuni e spiacerà molto
a cert’altri: e sarà così sempre, finché non s’imparerà a considerare il pur contrad-
dittorio fenomeno totalitario come l’esito obbligato, fra secondo e terzo decennio
del secolo scorso, di quel liberismo che aveva fallito sul piano della soluzione del
problema della società di massa per quanto fosse uscito vincitore dal banco di
prova della Prima guerra mondiale ma vinto al tavolo della pace di Versailles.
Eppure qualche amarezza il Croce, Presidente del Partito liberale, l’aveva pur
avuta, in quei per lui “difficili anni” fra ‘43 e ‘48 ai quali Eugenio di Rienzo ha
dedicato nel 2019, Benedetto Croce. Gli anni dello scontento. 1943-1948 (Rubbet-
tino Editore), recensendo il quale molti si erano tuttavia chiesti come mai il suo
806 Interpretazioni e rassegne

autore avesse potuto non sentire il bisogno di chiarire il suo assunto affrontando il
quarto di secolo precedente, senza il quale quel periodo “dello scontento” sarebbe
rimasto non del tutto compreso ed esposto.
E difatti, puntuale, Eugenio di Rienzo ha raccolto la sfida che peraltro egli
aveva già lanciato forse fin dal principio a sé stesso prima che altri glielo chiedesse.
Ecco la risposta: nel saggio, Benedetto Croce Gli anni del fascismo (Rubbettino
Editore, 2021), dove si illustra come il filosofo ebbe modo di meditare a lungo
– come ebbe a scrivere egli stesso nel 1950 – sull’abbaglio che lo aveva condotto
a considerare il fascismo «a dire il vero, poco accortamente, un episodio del do-
poguerra», mentr’esso al contrario aveva gettato nella società italiana radici che
gli avevano permesso di dominare nel generale consenso almeno finché, dopo
l’abbraccio mortale con la Germania di Hitler e l’entrata in guerra, la popolarità
del Duce non aveva cominciato a sfaldarsi fino a precipitare nella finale tragedia.
Un Croce quindi, che sulle prime aveva confidato che il fascismo finisse con
lo sfociare nel grande fiume del liberalismo conservatore erede di Silvio Spaventa
ch’egli non meno del suo fratello-coltello Giovanni Gentile auspicava e che aveva
polemizzato con questo con Giustino Fortunato, anche se forse non aveva davvero
meritato addirittura l’epiteto di «fascista senza la camicia nera» che Gentile gli
aveva scagliato contro nel 1925, al tempo dei due contrapposti «manifesti degli
intellettuali».
Non fu quindi certo facile la vita di Croce e della sua rivista, «La Critica», sot-
to il regime. Pure qualche incertezza, qualche ambiguità, qualche accomodamento
certo vi furono, come al tempo della guerra d’Etiopia e delle sanzioni. Antifascista
certo, controllato dall’OVRA i cui ospiti e lui stesso erano pedinati dalla polizia,
ma pur ben accetto negli ambienti di corte, non antipatico – tutt’altro – alla
destra conservatrice e filomonarchica del PNF (ch’era potente), padre-padrone
delle umane lettere ben più di quel Gentile che rimaneva peraltro tanto al di
sopra di lui sul piano della critica tanto letteraria quanto filosofica. Un “esule in
patria”, forse, ma comodamente assiso in Senato e oggetto pertanto degli strali
degli altri, gli esuli per davvero, che peraltro a loro volta spettacolo edificante
sempre non dettero. Per questo nel successivo lustro “dello scontento”, il ’43-’48,
avrebbe dovuto affrontare l’ostilità sia dei vetero-antifascisti che gli rimproveravano
ambiguità e cedimenti, sia degli ex-fascisti neo antifascisti ch’erano suoi inveterati
avversari. A rendere più articolato e complesso il quadro giova forse ricorrere alla
distinzione tra “fascisti” e “fascistizzati” nel periodo successivo al 1924, sulla quale
ha insistito Giuseppe Parlato nel suo importante studio sulla “sinistra” fascista.
E forse furono proprio le “fronde” fasciste le più decise e accanite nemiche del
senatore: a partire dal «fascista nazional-bolscevico» Delio Cantimori.
Un libro denso, complesso, alieno da schematismi manichei: che tuttavia
Interpretazioni e rassegne 807

rende onore al Croce nobilmente e apertamente schierato senza riserve contro


la virata razzista e antisemita del fascismo. Lui, laicista e che pur rimproverando
agli ebrei l’“ostinato” rifiuto di assimilarsi rispetto al cristianesimo laicizzato e
ateizzante dell’establishment borghese, scriveva che avrebbe disonorato il suo stes-
so cognome se non si fosse schierato con i perseguitati. E a lui bisogna, infine,
concedere – come Di Rienzo sottolinea con forza – di essere stato, durante il
Ventennio, l’unica voce libera di esprimersi che ammaestrò i tanti liberali dell’a-
nimo e non solo della tessera che nel dopoguerra formarono i nuovi quadri
politici e intellettuali non solo nel Partito liberale e nello schieramento laico ma
anche tra i cattolici, i socialisti e perfino, in qualche non raro caso, tra gli stessi
alunni di Togliatti.

Franco Cardini
Istituto Italiano di Scienze Umane -Firenze

* * *
Nel 1946, nel clima politicamente infuocato, determinato dalle elezioni po-
litiche e dal referendum istituzionale, Gaetano Salvemini pubblicava un articolo
molto critico dedicato alla biografia di Benedetto Croce durante il ventennio
nero. In quello scritto, comunque, Salvemini non dimenticava di ricordare le
benemerenze del filosofo nella lotta alla dittatura, sostenendo che:

Gl’italiani non dovrebbero mai dimenticare la gratitudine che debbono


a Croce per la sua resistenza al fascismo dal 1925 al 1943. Ogni altra voce
in Italia era soffocata nelle carceri, sequestrata a domicilio coatto, costretta
a stare in esilio. Lo stesso suo silenzio era una protesta. Resistenza e silenzio
venivano dalla stratosfera, senza dubbio. Ma il loro effetto era potente. Molti
giovani furono confortati dal suo insegnamento e dal suo esempio a credere
nella libertà, per quanto ognuno intendesse la libertà a modo proprio e a volte
in forme che Croce non approvava. Ma quel che importava era che quella
libertà non era il fascismo. Quel che importava era che Mussolini trovasse il
maggior numero possibile di resistenze invincibili, anche se passive. Molte di
quelle resistenze furono dovute all’insegnamento e all’esempio di Croce. Que-
sto merito gli spetta, e nessuno dovrebbe dimenticarlo neanche oggi quando
è necessario dissentire da lui.

Ciò detto, Salvemini sosteneva, però, che l’antifascismo di Croce era stato,
in fondo, un antifascismo imbelle e puramente teorico, proprio di «un conserva-
tore che aveva affiancato il fascismo e che, con ritardo, era diventato antifascista,
limitandosi a negare il regime dittatoriale, senza prepararne la caduta e rinviando
808 Interpretazioni e rassegne

all’avvenire ogni discussione su questo problema». E Salvemini avrebbe insistito


su questo giudizio in una posteriore lettera indirizzata a Mario Vinciguerra dove
aggiungeva che «il no di Croce al fascismo rimase, sempre, un no quietista e
non diventò mai un no attivista di chi rischia il pane, la libertà e magari la vita,
perché non si può cancellare la differenza tra Budda che si guarda l’ombelico e
Cristo che muore sulla Croce».
A contestare questo ingeneroso giudizio interviene ora Eugenio Di Rienzo,
nel suo recente volume Benedetto Croce. Gli anni del fascismo, per affermare che
fortunatamente esistono “prove materiali” tali da non far dubitare sul vigore e
l’estensione della resistenza opposta da Croce al regime che non si limitò a una
semplice, inoffensiva fronda che piacque, a parere dei suoi detrattori, a un esiguo
gruppo di estimatori, tutti reclutati, tra l’oziosa, imbelle, «panciafichista», bor-
ghesia meridionale, aliena da ogni azzardo e cultrice del mugugno senza rischi.
Secondo i rapporti, inviati dall’OVRA a Palazzo Venezia, scrive Di Rienzo,
Croce costituiva, già alla fine del 1934, il centro di una filiera nazionale e trans-
nazionale di oppositori ai regimi totalitari italiano e tedesco. Filiera che univa le
“vecchie glorie” della classe politica prefascista rimasta in Italia (Marcello Soleri,
Ivanoe Bonomi, Vittorio Emanuele Orlando) o espatriata, ad alcuni attivissimi
esponenti di spicco del movimento liberale, come Umberto Zanotti Bianco e An-
ton Dante Coda, a Casati e ad altri membri del Senato (Lugi Einaudi, Francesco
Ruffini, Alberto Bergamini, Pietro Tomasi Della Torretta, Stefano Jacini) (1), che
anche dopo il 1929 non fu mai integralmente fascistizzato. Filiera che, poi, si
allargava dalla vecchia guarda antifascista (Salvatorelli), alle giovani leve dell’op-
posizione al regime d’impronta “gobettiana” (Carlo e Nello Rosselli, Norberto
Bobbio, Franco Venturi, Arnaldo Momigliano, Leone Ginzburg), poi confluite
nel movimento «Giustizia e Libertà», che erano state sedotte dal fiero discorso
del filosofo, pronunciato al Senato, il 24 maggio 1929, contro l’approvazione dei
Patti siglati, l’11 febbraio di quell’anno, nel Palazzo di San Giovanni in Laterano
Filiera, inoltre, che si sviluppava fino a includere persino uomini, in qualche
modo legati al Partito Comunista d’Italia, come Ferdinando Amendola, cugino
di Giorgio (rifugiatosi in Francia nell’ottobre 1937), e che si sarebbe estesa al
circolo frondista, comprensivo di notabili liberali ostili al regime e di esponenti
dei vari parti antifascisti, compresi socialisti e comunisti, che si era formato
sotto l’egida di Maria Josè di Savoia, alla quale Croce confidò, il 30 dicembre
1931, di credere che «lo spirito di libertà non era spento in Italia ma che esso
covava sotto le ceneri e che sarebbe divampato se il Re avesse fatto qualche

(1) Su Jacini e Croce, si veda F. Mazzei, Cattolicesimo liberale e “religione della libertà”. Stefano
Jacini di fronte a Benedetto Croce, Roma, Studium, 2015.
Interpretazioni e rassegne 809

gesto risoluto». A quel primo incontro clandestino, avvenuto nel Museo degli
scavi di Pompei, seguì un affettuoso contatto epistolare con la figlia di Alberto
I del Belgio, e, infine, il 28 marzo 1943, in un convegno romano, il filosofo
raccomandò alla consorte dell’erede al trono, di fare il possibile perché Vitto-
rio Emanuele III si decidesse a riprendere la pienezza delle sue prerogative per
abbattere la dittatura, rompere il patto d’armi con la Germania, in modo da
salvare l’Italia e la dinastia.
Il composito intreccio delle forze di opposizione, di cui il filosofo costituiva
il vero e proprio asse portante, comprendeva, infine, anche grandi intellettuali
europei, Karl Vossler, Thomas Mann (a cui Croce dedicò la Storia d’Europa nel
secolo decimonono), per sottolineare l’analoga reazione di due uomini di non
comune statura intellettuale, quasi contemporanei, i quali, dopo aver condiviso
prima della Grande Guerra i valori di una cultura conservatrice a sfondo auto-
ritario, erano stati costretti dalle circostanze a rifare i conti con il loro passato, e
quindi a riesaminarlo con un distacco critico, che comportava, al tempo stesso,
una revisione del proprio pensiero politico e del significato storico dell’epoca in
cui tale pensiero si era formato. Quello tra Croce, Vossler e Mann fu un legame
forte, cementato da stima intellettuale, da lunga consuetudine e in qualche caso
anche da un pur pudico affetto, che si estendeva anche a Leo Spitzer, Albert Ein-
stein, al diplomatico e pubblicista croato Bogdan Radica e a molti altri chierici,
tutti egualmente oppugnatori dell’ondata totalitaria che si era estesa nel Vecchio
continente.
E sull’esistenza di questo folto e composito raggruppamenti, Di Rienzo ci
fornisce preziosi documenti inediti e, in particolare, una lunga relazione dell’O-
VRA sull’attività antifascista di Benedetto Croce, sugli antifascisti frequentatori
della sua casa (Adolfo Omodeo Roberto Bracco, Gino Doria, Anton Dante Coda,
Alfredo Parente), sui rapporti del filosofo con Leone Ginzburg, Ada Gobetti e
con altri che, come Barbara Allason, «le recenti inchieste del marzo 1934 hanno
dimostrato dediti all’attività criminosa contro il regime nel così detto complotto
di Torino», e sulla relazione intrattenuta dal direttore de «La Critica» con un
gruppo di scrittori antifascisti, Salvatorelli, Cajumi, Colorni, Tagliacozzo, Fran-
co Lombardi, e naturalmente con la nipote dello stesso Croce, legata da intima
amicizia con Ginzburg.
Il rapporto, inoltre, segnalava anche che, in occasione dei suoi viaggi all’estero,
Croce aveva avuto occasione di tenere contati con tutti gli elementi del fuoriu-
scitismo, «Nitti, Claudio Treves, Filippo Turati Rosselli, Salvemini e compagnia»
e si concludeva evidenziando che il fatto «che molti degli arrestati di “Giustizia
e Libertà”, nel marzo 1934, (Ernesto Rossi, Riccardo Bauer) erano intimi del
filosofo e che i rapporti politici, da lui intrattenuti con Ginzburg e Nello Rosselli,
810 Interpretazioni e rassegne

danno la sensazione che il Croce sia più che a parte dell’opera sovversiva che - con
centro Carlo Rosselli a Parigi - si è svolta in Italia».
A ben vedere, conclude Di Rienzo, meglio di Salvemini, aveva compreso le
qualità del Croce oppositore, Piero Gobetti che nel 1925 aveva scritto:

Croce in politica ha voluto essere piuttosto lo studioso onesto, che il finto


statista, non potendosi improvvisare a cinquant’anni la maschera del questurino
o le basse arti dell’intrigo. Se poi si vuol trovargli ad ogni modo un partito,
mentre la sua filosofia servì a uomini di tutti i partiti, bisogna constatare che le
sue simpatie dovevano andare ad un conservatorismo onesto, moderatamente
liberale, capace di salvare le forme e la pace, cara ad ogni uomo laborioso. Per
questo conservatorismo illuminato, Croce fu contro la reazione all’aprirsi del
Novecento, fu contro la guerra nel 1915, perché la guerra dissipa i risparmi
e il lavoro accumulato in economia come in cultura, e si è schierato oggi,
apertamente, contro le insidie del nazionalfascismo.

Elisa D’Annibale
Università degli Studi di Roma – La Sapienza

* * *
Sui liberali italiani nel passaggio attraverso il fascismo e nella fase fondativa
della Repubblica esiste ormai un buon numero di studi e diverse sono state nel
tempo le considerazioni sulle ragioni della svalorizzazione, in sede storiografica,
che ha interessato la famiglia politica che pure era erede diretta dei “padri fonda-
tori” dell’Italia unita. Fra queste ragioni, non si può fare a meno di considerare il
fatto che i liberali italiani siano stati percepiti non solo come i portatori di una
politica fallimentare e inadeguata ai tempi, di cui era stata prova il crollo del
sistema seguito alla Grande Guerra, ma anche come coloro che, almeno sino al
discorso del 3 gennaio del 1925, avevano fiancheggiato Mussolini nella sua sca-
lata al potere. Rientra nell’ambito di questo complesso tema il recente volume di
Eugenio Di Rienzo, dal titolo Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino Editore),
uno studio in cui sono ben evidenziate le tappe del periodo forse politicamente
più travagliato dell’esistenza del più grande intellettuale italiano del Novecento.
La prima forte indicazione che emerge dal volume è quella relativa all’im-
portanza del Croce “politico”, una dimensione per anni passata in secondo piano
rispetto agli studi sul Croce filosofo, storico o letterato, se si fa eccezione per il
ponderoso saggio, in due tomi, di Raffaele Colapietra del 1969-1970, oggettiva-
mente ormai datato e animato da una preconcetta tendenza anti-crociana. Credia-
mo perciò di dover dare ragione a chi già qualche anno fa sosteneva che il ruolo
Interpretazioni e rassegne 811

politico di Croce sia stato negli anni sottovalutato, malgrado i suoi quarantatré
anni di presenza in Senato, gli incarichi ministeriali in periodi particolarmente
difficili della vita nazionale e la carica presidenziale assunta nel Pli, anche questa
accettata, in un periodo turbolento, e “onorata” in modo tutt’altro che passivo.
È stato scritto inoltre che questa sottovalutazione può essere stata indotta dallo
stesso understatement di Croce, essendosi professato in molte occasioni come un
«semplice uomo di pensiero».
In uno scritto del 1944 pubblicato sul «Risorgimento Liberale» di Pannunzio
dal titolo La superiorità ai partiti, che suonava come un vero invito all’impegno
politico nell’ora in cui era necessario il massimo sforzo comune per risollevare le
sorti dell’Italia, Croce giudicava, invece, come un sofisma - se pure, come ogni
sofisma, basato su «una indubitabile verità» - l’affermazione che «scienza, storia,
filosofia e poesia sono superiori alle contingenze della vita pratica, e anzi nascono
per un atto di liberazione da quelle contingenze». Era piuttosto vero il contrario,
infatti. E cioè che «il filosofo, lo scienziato, lo storico, il poeta è sempre un uomo
che vive il mondo che lo circonda», essendo pura illusione, coltivata soprattutto
da «certe teste deboli romantiche», continuava Croce, pensare che un intellettuale
debba «sottrarsi ai doveri che gli spettano come uomo, non curarsi della propria
famiglia, non curarsi della patria e chiudersi in una torre d’avorio». A proposito
di sé stesso, Croce sottolineava però il suo essere stato per gran parte della vita
soprattutto un “fuori partito” e di avere represso per molto tempo «ogni velleità
di intervento nella politica», per la quale gli pareva «di non esser fatto», per non
essere specificamente preparato a entrare nella trincea della politique politicienne,
proprio per la natura dei suoi interessi intellettuali. In quello stesso scritto, Croce
datava alla fine del 1924 il suo “calarsi” a pieno nell’agone politico, attraverso
l’iscrizione al Pli, spintovi dal fatto che «il contrasto col fascismo pervenne a un
punto nel quale non c’era più da nutrire illusioni».
Anche Di Rienzo nel suo saggio opta per una revisione dell’immagine di
Croce giudicato come un inerme teorico e lo raffigura anzi come un politico
realista, mosso piuttosto dalla convinzione della «durezza della politica», contrario
agli astratti filosofismi settecenteschi ai quali opponeva un «concreto e vigoroso
liberalismo nutrito dell’amara esperienza dello storicismo». Sarebbe questa la
chiave per spiegare la buona disposizione di Croce nei confronti del primo fa-
scismo, consapevole, come d’altronde larga parte del popolo italiano, che fosse
la giusta soluzione per un Paese sull’orlo della tempesta perfetta di un collasso,
economico, sociale e istituzionale.
Di grande interesse sono dunque le pagine dedicate da Di Rienzo al sostanzia-
le «equivoco» che indusse Croce e i liberali a vedere, sbagliando ogni calcolo, nel
capo del fascismo l’uomo che, dopo aver sconfitto la minaccia della rivoluzione
812 Interpretazioni e rassegne

bolscevica, si sarebbe ritirato nell’ombra, alla stregua di una fuggevole comparsa


della scena politica nazionale o al più di un «nuovo Cincinnato» (il paragone fu
avanzato da un altro liberale, Gaetano Mosca), pago di aver ripristinato «il nor-
male funzionamento del sistema rappresentativo così come era accaduto a Roma
nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta, per la salvezza della
patria, si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura provvisoria».
Questa disposizione nella fase della scalata al potere di Mussolini fu infatti
anche di altri intellettuali, vicini all’ideologia liberale, se si pensa ad economisti
come Maffeo Pantaleoni, Einaudi, Umberto Ricci, Alberto De Stefani, che fu
ministro delle Finanze di Mussolini nel 1922 e che puntò ad una liberalizzazione
dell’economia italiana che suscitò i favori di Luigi Einaudi. Quell’Einaudi che
avrebbe visto nel fascismo il potente maglio capace di abbattere il conglobato
improduttivo degli antichi e dei novissimi interessi costituiti, non senza rispar-
miare parole di lode rivolte ai «giovani ardenti che chiamarono gli italiani alla
riscossa contro il bolscevismo», i quali avevano riportato la vittoria nella contesa
ingaggiatasi «tra lo spirito di libertà e lo spirito di sopraffazione». Certo, non
mancarono, sin dagli esordi dell’avventura mussoliniana, anche in area liberale,
le voci discordanti e premonitrici dell’avvento della dittatura - nel saggio, Croce.
Gli anni del fascismo, si ricordano quelle di Giustino Fortunato, Giuseppe Anto-
nio Borgese, Guido Dorso, Luigi Albertini, Ugo Zanotti Bianco e di altri happy
few - ma l’autore restituisce bene quella che in casa liberale era una convinzione
largamente condivisa.
Abbiamo possibilità di riscontrare quanto sostiene Di Rienzo, grazie ad un
breve e dimenticato opuscolo pubblicato da Quintino Piras, il primo Segretario
generale del Pli, poco prima che tutte le voci di dissenso fossero spente. A pro-
posito del programma varato nel 1922 al primo Congresso di Bologna del Pli,
in cui al primo punto vi era la «restaurazione in Italia dell’autorità dello stato»,
Piras si esprimeva in questi termini: «Perché negarlo? Eravamo forse più fascisti
dei pochi fascisti di allora – se per fascismo si intendeva l’unione degli animi
che volevano forte e rispettata nel mondo una Italia i cui figli fossero fratelli e
non nemici, un’Italia in cui il tranquillo lavoro fosse la fonte di ogni benessere
economico e sociale».
Questo dunque il clima che spinse Croce a dare fiducia a Mussolini, nella
convinzione che quando il liberalismo degenera può essere benefico un periodo
di sospensione delle libertà a patto che si restauri «un più severo e consapevole
regime liberale», anche se questa affermazione, bisogna ammetterlo, è qualcosa di
diverso da una piena conversione al fascismo che mai avvenne nel filosofo. D’al-
tronde, la necessità di protezione dello Stato liberale era un problema non nuovo,
avvertito almeno dalla crisi della Destra storica in poi e che si era riproposto in
Interpretazioni e rassegne 813

termini molto aggravati all’indomani della Grande Guerra. Nel delineare questa
dinamica, il volume Di Rienzo si segnala anche per la capacità di ricostruzione
degli opposti sentieri del liberalismo italiano (da Salvatorelli a Gobetti) avversi a
settori cioè che confluirono convintamente nel fascismo, giustificandone l’esistenza
come esito inevitabile del regime liberale. Molto puntuale in questo senso è la
riproposizione della presa di distanze da Croce da parte di Gentile, quando questi
ne metteva in evidenza l’impegno politico e la proposta di un nuovo liberalismo
da lui giudicato “democratico”.
L’atteggiamento “benevolo” verso il regime che perdura anche nell’estate della
“crisi Matteotti”, ha termine solo nel 1925, quando inizia un’altra storia, quella
di Croce “oppositore”, per dirla con Gobetti, che diventò, scrive Di Rienzo, «il
polo più forte e più autorevole, se non addirittura il solo, di tutto l’antifascismo
italiano non emigrato». Ciò avvenne con La Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del
1928, e con la partecipazione al VII Congresso Internazionale di Filosofia di
Oxford nel 1930, in cui per la prima volta Croce avanzò il tema della “religione
della libertà” e del senso storico come sintesi di civiltà e cultura. E questa parabola
proseguì con la Storia d’Europa del secolo XIX (1932) e la Storia come pensiero e come
azione (1938), opere sulle quali si formò tutta una generazione politica, non solo
liberale, che segnano un percorso di sfida aperta e senza concessioni al fascismo.
Il lavoro di Di Rienzo ha però come obiettivo dichiarato sin dalle prime
pagine quello di andare oltre non solo all’immagine dell’intellettuale désengagé,
come dicevamo sopra, ma anche a quella di un Croce «liberale da sempre, forse
addirittura liberal», la cui figura invece, come nel caso di tutte le grandi persona-
lità intellettuali, necessita di una analisi che attraversa le luci e le ombre del loro
pensiero. È vero infatti che dal fascismo Croce ne uscì come il capo indiscusso
del liberalismo italiano, ma pur sempre, nella versione di Di Rienzo, lo fu come
il portatore di un liberalismo conservatore, con qualche punta di autoritarismo,
in cui era presente comunque anche la necessità di un pur moderato disegno
riformistico.
Croce, infatti, sostiene Di Rienzo, cessato il suo giovanile innamoramento
per il socialismo e per Marx critico degli ideali giusnaturalistici e profeta della
violenza levatrice della storia, venuta meno l’infatuazione per il pensiero anti-
sistema di Georges Sorel e per quello dei teorici tedeschi dello «Stato potenza»,
come Heinrich Treitschke, per il quale l’intima essenza dell’organizzazione politica
era, appunto, «la forza, la forza e ancora la forza», che lasciarono in lui tracce più
durature, fu sempre un uomo d’ordine. Un grande borghese, insomma, con un
alto e orgoglioso senso dello Stato, della sua autorità e della sua missione costrut-
tiva ma anche repressiva, in continuità con l’eredità ideologica trasmessagli da
Silvio Spaventa. E, per meglio, dire, Croce rappresentò l’esponente idealtipico di
814 Interpretazioni e rassegne

un «liberalismo di frontiera», come quello italiano, scrive ancora Di Rienzo, che,


fin dal 1861, dovette usare, per difendersi dalla duplice minaccia dei «rossi» e dei
«neri» (per citare Guido de Ruggiero), mezzi eccezionali e straordinari andando
persino al di là dei limiti posti dallo Statuto.
Croce fu, insomma, un liberale che aveva appreso (e qui senza facili for-
zature di Di Rienzo evoca, sommessamente, la necessità di un parallelo con la
coeva meditazione di Carl Schmitt), la lezione della «triste scienza» dell’Adelchi di
Manzoni secondo la quale «se una feroce forza il mondo possiede e loco a gentile
opera non è, non resta che far torto o patirlo». Era quello, conclude Di Rienzo,
un insegnamento che per il direttore de «La Critica» non derivava dalle pagine di
Locke, nelle quali, pure, tale concetto è ben presente, ma da quelle di Machiavelli,
Cuoco, Vico, dalle quali emergeva, in una prospettiva quasi agostiniana, l’amaro
convincimento che, proprio per garantire le libertà del «vivere civile», le ragioni
della politica dovevano cedere il passo, beninteso solo nel caso d’eccezione, e
sempre per un tempo breve e definito, alla politica della forza e del conflitto.

Gerardo Nicolosi
Università degli Studi di Siena

* * *

Molto si insiste ancora sulla validità della definizione del fascismo come breve
e transeunte «parentesi» della vita politica italiana, priva di ogni nesso di conti-
nuità con la storia dell’Italia liberale, formulata a più riprese da Benedetto Croce
dopo il 25 luglio 1943. Senza considerare che la formula, adottata dal filosofo,
«falsissima in sede storiografica» avrebbe detto Eugenio Garin, andava intesa alla
stregua di uno slogan strumentale (un vero e proprio «uso politico della storia»),
adatto al tempo e all’ora, ma proprio per questo incapace di fornire un contributo
alla definizione storiografica del fascismo come evento storico.
L’assimilazione del fascismo all’«invasione degli Hyksos con la sola felice
differenza che la barbarie di questi durò in Egitto oltre duecento anni, e la goffa
truculenza fascista si è esaurita in poco più di un ventennio», si scontrava, infatti,
con la cruda evidenza, dolorosamente constatata da Croce per diretta, sofferta
esperienza, che quel regime fu immediatamente accolto da un consenso vasto,
duraturo e pressoché incontrastato a cui solo il netto profilarsi della catastrofe
militare pose fine nella seconda metà del 1942.
Il travaso di consensi dal sistema parlamentare statutario a un governo d’e-
mergenza, che fin dai suoi primi passi aveva mostrato i suoi lineamenti violenti,
oppressivi, autoritari se non immediatamente dittatoriali, fu soprattutto forte da
Interpretazioni e rassegne 815

parte degli intellettuali liberali e dei loro gruppi politici di riferimento, stremati
dalle fiacchezze e dai compromessi del sistema giolittiano e dalla deriva politica e
sociale del primo dopoguerra che il governo Nitti aveva dimostrato di non sapere
arginare. Anche, Croce, se non fu davvero «uno schietto fascista senza camicia
nera», come gli rinfacciò Giovani Gentile, pure rimase vittima di quell’illusione,
fino al gennaio 1925, pagando nel giudizio dei contemporanei e poi degli analisti
del passato un alto prezzo per quel fallo.
A tale riguardo basti ricordare la severa sentenza di Giuseppe Antonio Bor-
gese, un intellettuale che fin dall’inizio dell’avventura fascista rimase fermo nei
suoi convincimenti liberali, senza prestare ascolto agli iniziali messaggi rassicuranti
dell’uomo di Predappio, il quale nel suo Goliath, the March of Fascism, pubblicato,
a New York, nel 1937, pur accordando al filosofo napoletano delle attenuanti,
pur riconoscendogli qualche merito antifascista, giudicava «logica l’adesione di
Gentile al fascismo e teoricamente contraddittoria l’avversione di Croce». E questo
perché «se il sistema intellettuale del neo-idealismo, con la sua identificazione del
reale con l’ideale, non portava teoricamente a nessuna obiezione fondamentale
alla realtà del fascismo, Gentile, come filosofo, fu davvero più coerente di Croce
e la sua accettazione del fascismo, dialetticamente, hegelianamente, non fa una
grinza». Giudizio che può sembrare sommamente ingiusto e ispirato ad estrema
malevolenza e frutto di pregresse rivalità letterarie personali (che certo, tra i due,
non mancarono), ma che, invece, era per molti versi fondato e sensato e che
Borgese esplicitava in un altro passo del suo volume.
Nell’elegante mondo intellettuale, che coincise con gli anni di formazione
di Croce, era regola irridere la democrazia, il liberalismo snervato e troppo
tollerante, il socialismo riformista, mansueto, sentimentale, accomodante e
rinunciatario, che era da molti considerato un sottoprodotto della peggiore
democrazia borghese. Croce stesso che, per molti aspetti, era superiore a tutti
gli altri, aveva rinunciato al socialismo della sua giovinezza, dandosi a qualcosa
di molto simile al torysmo politico ed economico, o a un ferrigno liberalismo
socialmente conservatore, cosa comprensibile in lui, proprietario di terre e
nipote di Silvio Spaventa.
Nella Filosofia della pratica, pubblicata nel 1909, egli sostenne la teoria
machiavellica del potere e dello Stato e inserì anche una apologia teorica della
Santa Inquisizione - che era veramente santa, come lui, non cattolico, sosteneva
- considerandola un uso inevitabile e filosoficamente legittimo della violenza
nella politica. Circa nella stessa epoca, Croce pubblico una traduzione italiana
delle Riflessioni sulla violenza di Sorel, accompagnandola da una prefazione
molto lusinghiera e cercando di diffonderla con tutti i mezzi pubblicitari a
sua disposizione, proprio perché in quell’opera l’autore privava il socialismo di
quel poco di sentimento umanitario, ereditato dalla philosophie settecentesca,
816 Interpretazioni e rassegne

trasformandolo in un sogno di sovvertimento universale che egli chiamò solle-


vamento religioso o rinnovamento, sindacalismo o mito creativo dello sciopero
generale. A Croce non poteva non piacere molto Sorel, infatti, per il valore
morale che egli vedeva nell’opposizione radicale di quest’ultimo all’ottimismo,
al pacifismo, alla morale umanitaria e a tutto gli altri ideali da pochi soldi della
“mentalità del diciottesimo secolo”, che Croce odiò sempre e non smise mai
di odiare di tutto il suo cuore.
Mussolini, ancora attaccato all’idea che nel socialismo rivoluzionario
avrebbe trovato la via del successo, tardò a seguire i dettami pratici più o
meno indirettamente impliciti in quelle tendenze nerastre. Ma, infine, lo fece
e non v’è dubbio che prese, tanto da Pareto e Sorel, tanto da D’Annunzio
e Nietzsche, quanto da Croce, gli argomenti di cui aveva bisogno sia per la
sua lotta contro il debole socialismo e il liberalismo contaminato dai dogmi
enfatici dell’Illuminismo sia per alimentare il suo odio contro i compromessi,
la mentalità massonica, i semiborghesi della politica socialista e i borghesi di
quella giolittiana. Poi Mussolini dimenticò Croce o finse di dimenticarlo: cosa
che non ci sorprende perché egli era capace di ricordare o di voler ricordare
solo ciò che si adattava ai bisogni immediati della politica politicante.

Il nuovo libro di Eugenio Di Rienzo, Benedetto Croce. Gli anni del fascismo,
che fa seguito ad un suo precedente saggio consacrato al difficile arco temporale
1943-1948 vissuto dal direttore de «La Critica», è dedicato proprio al confronto
pratico-politico e teorico di Benedetto Croce con il Ventennio nero e costituisce
una seconda tappa di avvicinamento alla composizione di una biografia integrale
del filosofo. In questa nuova prova, Di Rienzo non fa tabula rasa del giudizio
di Borgese su Croce (da lui debitamente citato) e di altre valutazioni ancora più
sferzanti ma si sforza, con successo, di guardare più in là, e cioè a Croce nel
fascismo dopo la fine della sua fascinazione per il fascismo.
Di fondamentale importanza, infatti, fu, secondo Di Rienzo, l’esperienza
del fascismo per l’itinerario intellettuale del filosofo. Soltanto in seguito al suo
passaggio da convinto simpatizzante del movimento mussoliniano (considerato
l’unico ingrato rimedio allo stato di anarchia permanente che soffocava il nostro
Paese) a inflessibile oppositore del regime, la sua riflessione politica, che aveva a
lungo oscillato tra la lezione di Marx, una tiepida e fuggevole simpatia per l’i-
deologia socialista, il pensiero anti-sistema di Georges Sorel, il legato dei teorici
tedeschi dello «Stato potenza» ebbe, soprattutto nel decennio 1928-1938, la sua
svolta decisiva. Dopo il ritorno, successivo al 1919, alla piena accettazione della
versione autoritaria del liberalismo ottocentesco mutuata dall’eredità della Destra
storica, quel pensiero, infatti, iniziò a chiarirsi, a far data dalla metà degli anni
Venti, nei suoi tratti distintivi per dare luogo a un «nuovo liberalismo».
Interpretazioni e rassegne 817

Sarebbe stato quello un liberalismo diverso da quello del «mondo di ieri», per
dirla con Stefan Zweig, ma proprio per questo in grado di fronteggiare la sfida dei
totalitarismi del Novecento (quello fascista e quello comunista), apparentemente
inconciliabili nelle loro premesse ideologiche ma egualmente avversi al vivere
civile delle società occidentali, alle loro istituzioni politiche e alla loro tavola di
valori morali. Molto prima della comparsa del volume di François Furet, Le passé
d’une illusion, edito nel 1995, Croce, infatti, aveva compreso perfettamente che
se tutti i liberali, tutti i democratici e molti conservatori, durante la dittatura
del fascio littorio e della svastica, furono antifascisti, non tutti gli antifascisti, in
quello stessa congiuntura storica, furono liberali o democratici.
Il lavoro di Di Rienzo che nell’analizzare uno dei momenti più tormentati e
complessi della vita di Croce, alla ricerca di una difficile sintesi tra il suo pensiero
e la sua azione, ha valorizzato, come si accennava, anche le prese di posizione dei
suoi critici, dai più severi (Borgese, lo si è visto, Giorgio Levi Della Vida, Gaetano
Salvemini, Guido de Ruggiero, Guido Calogero, Norberto Bobbio) ai più dia-
loganti (Luigi Salvatorelli, Gobetti, Corrado Barbagallo, Carlo Antoni, Eugenio
Garin), potrà forse non piacere a chi preferisce eternare l’immagine stereotipata
di un intellettuale, liberale da sempre o forse addirittura liberal, demiurgo di un
sistema filosofico dove tout se tient. Di Rienzo pensa, infatti, che l’itinerario in-
tellettuale di una grande intellettuale deve essere analizzato nelle sue luci e nelle
sue ombre, nei momenti alti e in quelli della caduta, arrivando a storicizzare
anche i progressi del suo pensiero e mettendo in evidenza le inevitabili fratture
che le congiunture esterne arrecarono alla sua compattezza e alla continuità della
sua elaborazione.
Di questo naturalmente Di Rienzo è ben consapevole, senza però temere
le critiche che verranno, forte proprio dell’affermazione di Croce quando so-
steneva che «la teoria dialettica o liberale della storia non deve porre a misura
della storia un ideale trascendente ma la storia stessa» realisticamente e persino
impietosamente investigata. L’autore di Benedetto Croce. Gli anni del fascismo
riporta doverosamente all’attenzione della riflessione storiografica, senza lacune e
senza censure, il periodo forse più discusso e più discutibile ma anche più intenso
dell’intera biografia politica dell’ospite di Palazzo Filomarino. L’esperienza epocale
del fascismo, infatti, spinse Croce, tra 1930 e 1938, (la fase peraltro creatrice
delle sue opere più significative), a mettere in moto un progressivo e profondo
ripensamento delle proprie convinzioni storiche e filosofiche, iniziato già dopo
il 1925, la cui articolazione, guardando proprio al rapporto dialettico fra teoria e
prassi, fra l’uomo di pensiero e l’uomo di azione (anche sul piano politico), non
può essere colta senza un’analisi spregiudicata e di ampio respiro.
818 Interpretazioni e rassegne

Del resto, come intellettuale e come promotore di cultura - ruoli dai quali,
nonostante tutte le difficoltà, non avrebbe mai abdicato nel corso del Ventennio,
tanto da divenire il capofila dell’opposizione interna alla dittatura - il filosofo si
trovò a misurare in prima persona, nello spazio marginale consentito dal regime
ad una libera azione politica e civile, il significato tutt’altro che astratto di una
sua lucida formulazione teoretica, espressa nel 1938: «Veramente complicato e
delicato è il processo dialettico onde il pensiero storico nasce da un travaglio di
passione pratica, lo trascende liberandosene nel puro giudizio del vero, e, mercé
di questo giudizio, quella passione converte in risolutezza di azione».

Marcello Rinaldi
Università degli Studi di Roma – La Sapienza

* * *

«Ho trovato Croce piuttosto abbacchiato di spirito e mi ha fatto male…


Capisco che i tempi sono avvilenti, quasi senza speranza di vederli mutati, per noi
di un’età avanzata! Ma quel quasi lascia uno spiraglio di luce – un alito di fede
che non bisogna soffocare – perché lo spiraglio diventi breccia – l’alito, bufera
che tutto travolga e distrugga».
Così Arturo Toscanini, in una lettera del 10 aprile 1937 all’amata Ada Mai-
nardi, ricorda un incontro con Benedetto Croce in casa del conte Alessandro
Casati. All’epoca in cui scriveva Toscanini, il filosofo napoletano era già da lun-
go tempo considerato come l’oppositore più prestigioso del fascismo sul piano
etico-ideologico e politico. Nel periodo fra il 1932 e il 1938, in particolare,
Croce, dopo una riflessione lunga e non indolore, era giunto alla conclusione
che le teorie dello «Stato Potenza», partorite dalla cultura tedesca, e la ripresa
ipernazionalistica della dottrina hegeliana dello Stato etico avevano giocato una
grande parte nell’invelenire i conflitti dei popoli, contribuendo alla distruzione
e allo sconvolgimento della civiltà mondiale.
Già nel 1925, tuttavia, all’interno della nota Libertà e dovere, il filosofo aveva
delineato in maniera decisa il passaggio verso una concezione piena e compiuta
della libertà, concepita quale principio generale ed eterno della vita morale e civile,
che poteva riformularsi in termini di concrete proposte istituzionali, economiche,
sociali, politiche, in cui liberalismo e democrazia dovevano avvicinarsi, almeno
temporaneamente, pur senza confondersi, giungendo perfino ad allearsi contro il
comune nemico rappresentato dalla dittatura per tutelare la loro sopravvivenza.
La nota Libertà e dovere anticipò il contributo del 1927, La concezione liberale
come concezione della vita, i cui temi sarebbero giunti a compimento tre anni più
Interpretazioni e rassegne 819

tardi, nella relazione Antistoricismo, presentata al settimo Congresso Internazionale


di Filosofia di Oxford il 3 settembre 1930. L’intervento suscitò una profonda im-
pressione in Thomas Mann, nei punti in cui Croce avanzava, per la prima volta,
il tema della «religione della libertà» e del «senso storico come civiltà e cultura»
quali unici antidoti « al culto della forza per la forza».
La compiuta maturazione del liberalismo crociano arrivava, quindi, al ter-
mine di un lungo percorso il cui svolgimento è stato magistralmente ricostruito
da Eugenio Di Rienzo, docente di Storia moderna presso la Sapienza di Roma,
nella monografia Benedetto Croce. Gli anni del fascismo.
Nella nota del 1927, rileva Di Rienzo, Croce iniziò a far poggiare il suo
liberalismo su basi più solide. Qui veniva ridotta indirettamente, ma non ve-
latamente, all’assurdo la vulgata della «rivoluzione fascista»: non di rivoluzione
infatti si trattava, ma solo di un «mero, transitorio moto di reazione». Risultava
pertanto irrealistica la pretesa dei sostenitori del fascismo di assicurare al nuovo
regime una durata non momentanea che fosse in grado di garantirgli una rinascita
successiva a una possibile caduta. Dopo la presa di potere di Mussolini, sosteneva
il filosofo, il «declinare del sole del liberalismo» non aveva segnato il suo defi-
nitivo inabissarsi al disotto dell’orizzonte della storia ma solo una temporanea
eclissi, con la quale quel movimento aveva pagato doverosamente il prezzo dei
suoi «sbagli», tali da diventare «crimini» (per citare, invertendone il senso un ben
nota frase di Talleyrand), «dei suoi traviamenti ideali, delle sue troppe e troppo
gravi fiacchezze morali e politiche».
Croce, dunque, era perfettamente consapevole delle debolezze e degli er-
rori di valutazione che avevano condotto lo Stato liberale, nato con l’Unità, a
infrangersi contro la dura realtà della dittatura. Illusoria, infatti, si era rivelata la
pretesa della classe dirigente prefascista di sfruttare il movimento mussoliniano
come «un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime libe-
rale, nel quadro di uno Stato più forte», per usare le parole che lo stesso Croce
aveva adoperato in occasione di un’intervista da lui concessa il 10 luglio 1924 al
«Giornale d’Italia». In tale circostanza il filosofo aveva esposto le ragioni che lo
avevano indotto a votare la fiducia al governo Mussolini il precedente 24 giugno:
rovesciare l’esecutivo vigente, a suo dire, avrebbe significato avallare una scelta
dannosa e incomprensibile, anche se, negli ultimi mesi, il gabinetto mussoliniano
aveva errato gravemente perché, invece di accontentarsi di ridare vigore allo Stato
liberale, pareva essere stato colto dall’ambizione di fondare un «nuovo tipo di
Stato» e di inaugurare «una nuova epoca storica».
La scelta di Croce fu aspramente rimproverata da una parte non piccola degli
oppositori del regime. Di Rienzo ricorda, in particolare, il tempestoso colloquio
avvenuto il giorno prima del voto di fiducia fra il grande intellettuale napoletano
820 Interpretazioni e rassegne

e il celebre orientalista Giorgio Levi Della Vida. Questi aveva affrontato Croce
a muso duro, inaugurando argomenti polemici destinati, dopo il luglio 1943,
a essere ripetuti innumerevoli volte, scrive Di Rienzo, «con l’andamento di un
monotono mantra»:

La realtà è diversa. La realtà è che voi, Croce, e con voi tanti altri, avete
plaudito entusiasticamente al fascismo, passando sopra alle sue infrazioni della
moralità e della legalità con uno “storicismo” un po’ sbrigativo, perché avete
veduto in esso la salvezza dal paventato trionfo del comunismo, perché esso
difendeva, nella carenza dello Stato, del quale invocavate l’intervento, gli in-
teressi dei “benpensanti”, vale a dire dei benestanti. Che ve ne rendiate conto
o no, col vostro voto di fiducia voi fate gettito dell’ultima carta che potrebbe
giocarsi dagli organi costituzionali dello Stato, voi perdete l’ultima occasione
di restaurare, non a parole, ma nei fatti, la giustizia e la libertà delle quali il
fascismo ha fatto scempio e delle quali continuerà a far scempio in avvenire,
grazie a una vostra complicità della quale sarà difficile che, domani, la storia
vi assolva.

Ma la decisione di concedere quel voto di fiducia, afferma Di Rienzo, non


fu da parte di Croce un errore frutto d’ingenuità, d’imperizia o, peggio ancora,
di egoistico calcolo di grande latifondista meridionale: essa scaturì, invece, da un
sofferto e lacerante travaglio interiore, che alla fine rese quell’atto politicamente
inevitabile. Lo apprendiamo proprio dai Taccuini del filosofo. Qui, alla data del
26 giugno, Croce chiarisce le ragioni del suo sostegno al gabinetto in carica, che
si accompagnò comunque al rifiuto di subentrare a Gentile come ministro della
Pubblica Istruzione, contrariamente al desiderio dello stesso Mussolini: «Abbiamo
dato il voto di fiducia al governo; ahi! con quanta lotta interiore mia e della più
parte dei votanti. Ma gli stessi oppositori, nelle loro critiche, avevano deprecato,
ora, una crisi».
Doveroso appare, a Di Rienzo, mettere in risalto l’intima coerenza dell’azione
politica di Croce prima, durante e dopo il Ventennio, e soprattutto l’incontesta-
bile onestà intellettuale del filosofo, che lo indusse a riconoscere, al termine della
seconda Guerra mondiale, quelle che erano le sue effettive, e non immaginarie,
responsabilità nell’affermazione della dittatura. Di più: egli volle che i suoi in-
terventi di sostegno a Mussolini fossero riprodotti integralmente nella raccolta
dei suoi scritti.
Le pagine di Benedetto Croce. Gli anni del fascismo ci restituiscono, dunque, la
figura di un intellettuale e politico ligio a una bene intesa strategia conservatrice:
persuaso della necessità di associare in un circolo virtuoso, anche in virtù di un
forte controllo sociale a tratti non esente da qualche punta di autentico autori-
Interpretazioni e rassegne 821

tarismo, il mantenimento dello status quo a un ponderato e graduale disegno


riformista, «idoneo ad assicurare al nostro Paese, attraversato da tante debolezze
strutturali, una crescita economica e civile senza scosse e senza traumi».

Lorenzo Terzi
Archivio Nazionale di Stato di Napoli

Croce initially supported Mussolini’s Fascist government that took power in 1922.
He later explained that he had hoped that the support for Mussolini in parliament
would weaken the more fanatical Fascists who, he believed, were responsible for Mat-
teotti’s murder, and absorb the Fascist movement into the liberal system. Croce later
described Fascism as «malattia morale» (literally “moral illness”). However, turning
Gobetti’s interpretation - the Fascism as “autobiography of the Nation” - Croce claimed
that the Fascism had been a parenthesis on Italy’s history, likening the “coup d’état” of
28 October 1922 to the invasion of the Hyksos (the barbarian rulers of Egypt in the
years 1650-1550 before Christ). In fact, the Mussolini rise to power was the liberal
elite’s response to the forces that animated the revolutionary pressure of 1919-1920.

KEYWORDS
Political biography of Benedetto Croce 1922-1945
Italian liberal Conservativism
Rise of Fascism as Liberal elite’s response to the social-political disorder and violence of
«two-year red period» (1919-1920) and to menace of Italian Bolshevik Revolution
Copyright of Nuova Rivista Storica is the property of Societa Editrice Dante Alighieri s.r.l.
and its content may not be copied or emailed to multiple sites or posted to a listserv without
the copyright holder's express written permission. However, users may print, download, or
email articles for individual use.

Potrebbero piacerti anche