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IL PASSO DELLA CLASSE E LE TRE FASI CHE PERMETTONO L’INTEGRAZIONE

La dimensione sociale odierna ci porta a proiettarci sempre in avanti; sin da piccoli ci viene
inculcato di raggiungere degli obiettivi, e una volta raggiunti di pensare già a quelli successivi,
instillando continuamente ansie da prestazione e preoccupazioni per i fallimenti. Usciti dalla scuola
dell’obbligo questi “disvalori” istillati non fanno altro che aumentare in modo esponenziale, per poi
raggiungere il culmine nel mondo lavorativo. Il confronto non avviene soltanto dal punto di vista
lavorativo ma anche dal punto di vista sociale. Esiste un continuo paragone con l’altro, un bisogno
di essere “al pari” dell’altro se non superiore. Tutto inizia nella scuola primaria, quando cominciano
ad evidenziarsi le differenze tra i bambini più veloci nell’apprendimento e i bambini che invece
hanno più difficoltà di concentrazione o di riuscita nei compiti assegnati. Comincia allora la lunga
trafila dei controlli che talvolta non approdano a nulla, mentre altre volte portano al riconoscimento
dei bisogni educativi speciali, dei disturbi dell’apprendimento, o di vere e proprie disabilità. Intanto
il divario continua ad allargarsi perché, anche se ormai siamo abituati ad avere diversi studenti con
queste certificazioni, un allievo dislessico/disgrafico/iperattivo/autistico o con altri tipi di disabilità
è visto dagli altri studenti come una persona con un apprendimento diverso e che non fa altro che
rallentare il normale svolgersi delle lezioni. Sono proprio gli studenti più bravi a sentire il disagio
del rallentamento; è come se soffermarsi più del dovuto su un determinato concetto oppure ritornare
su una precedente UDA fosse una sconfitta o un buon motivo per annoiarsi e distrarsi durante le
lezioni. Nel frattempo gli insegnanti di sostegno cercano di aggrapparsi alla programmazione della
classe provando a far quadrare almeno una parte della programmazione individuale per obiettivi
minimi. Si prova ad inserire attività comuni, si cerca di trovare un nesso tra argomenti e
competenze; mentre si spende una notevole quantità di tempo nella programmazione reciproca
intanto la valanga continua ad ingrossarsi ed i ragazzi con bisogni differenti si integrano sempre
meno. Da anni si cercano strategie per risolvere questo gap, ma è inutile chiudere gli occhi. Il
problema è reale, e anni di dibattiti sulla didattica inclusiva non lo hanno risolto. Perché? Una delle
motivazioni sta proprio alla base di tutte queste denominazioni continue. Modificare un nome
(inabile, disabile, diversamente abile, bes, dsa) o anche solo assegnarlo è già un’etichetta che porta
gli studenti in questione ad essere “dis-persone”. Durante le presentazioni del quadro generale delle
classi nei consigli di classe ci si chiede ormai: “Ci sono b.e.s.? E d.s.a? Patologie gravi?”
Bisognerebbe parlare di ogni singolo studente e delle difficoltà che incontra nel suo percorso
togliendo qualunque etichetta e senza generalizzazioni di sorta. Se cominciassimo a vedere la
persona in quanto tale probabilmente non ci sarebbero allievi speciali o diversi, né allievi affetti
dall’unico problema di portarsi dietro come uno strascico una nomenclatura sin dalla scuola
primaria. In alcuni casi è necessario il supporto di un docente di sostegno che coadiuvi il lavoro
dello studente in classe, ma tale insegnante non dovrebbe essere assegnato allo studente, bensì
all’intera classe. Molte volte si vede il docente di compresenza che si occupa di far scrivere i
compiti allo studente con disturbi della concentrazione, quando invece per quello basterebbe anche
il semplice docente curricolare. Tutto si focalizza sul fare in modo che il discente in questione stia
al passo con la classe e non rimanga indietro. Ma qual è il passo della classe? Non può essere
definito da una semplice programmazione di UDA basata sulle direttive ministeriali. Non può
essere nemmeno quello che ci suggeriscono i libri di testo che oramai contengono anche i percorsi
impacchettati per la didattica inclusiva. Ogni persona è diversa dall’altra, ogni contesto è diverso
dall’altro. Trarre spunto da percorsi suggeriti può essere un vantaggio, così come l’arricchimento
personale del docente e l’aggiornamento. In questo senso l’e-learning ci viene in aiuto, portando il
docente a potersi confrontare con realtà simili o viceversa del tutto differenti. Il passo della classe è
quello in cui il respiro di ogni singolo studente si focalizza su quello dell’altro; è ancora quello in
cui tutti questi respiri riescono ad incastrarsi e a formare un’unica grande forza. Non significa
apprezzarsi ed amarsi tutti allo stesso modo, ma capire che anche nelle differenze di carattere e di
abilità ognuno è indispensabile per la riuscita dell’altro; se qualcuno rimane indietro o perde una
battaglia, è tutta la classe ad uscirne sconfitta. Ci sono classi in cui alcuni studenti si conoscono tra
loro solo alla fine del percorso o forse nemmeno si conosceranno mai davvero. Dobbiamo dire che
questo succede anche a causa del sovraffollamento che ormai contraddistingue la scuola italiana;
tuttavia le classi numerose non sono l’unica motivazione. Anziché dare direttive sulla didattica
inclusiva bisognerebbe proibire tassativamente la disposizione a schiera, togliere le lavagne e
ricominciare a mettersi vicini, a cerchio, guardandosi negli occhi. E’ da lì che comincia tutto, dal
contatto. Tante, troppe volte c’è la paura del contatto fisico con i compagni. Già durante la scuola
primaria comincia il senso del fastidio: il banco di proprietà con dei confini da rispettare, il non
voler prestare i propri oggetti, il disagio se un compagno ci sta vicino gomito a gomito. La prima
fase comporta proprio l’eliminazione delle barriere e la riconquista degli sguardi dei compagni.
Nelle classi della scuola secondaria non è facile all’inizio scardinare le vecchie abitudini, anche
perché se apparentemente ci si cela dietro le buone maniere e la tolleranza, nel profondo permane il
senso del fastidio. Se il lavoro viene fatto sin dalla scuola primaria invece ci sono meno
sovrastrutture negli studenti, ed un approccio sensoriale e senza barriere sarà più semplice. Come
seconda fase (non necessariamente seguente alla prima ma anche contemporanea) bisognerebbe
esortare gli studenti a conoscersi al di fuori delle mura scolastiche, favorendo il dialogo tra due
studenti per volta (assegnando ad esempio ricerche che richiedano il lavoro in coppia o
semplicemente chiedendo agli studenti di stare a contatto al di fuori degli orari scolastici per attività
che possono esulare da quelle strettamente didattiche). Gli incontri in gruppo di numero variabile
specialmente in un primo momento devono essere gestite all’interno delle mura scolastiche (ad
esempio attraverso il circle-time) alla presenza di un mediatore o un facilitatore, altrimenti si corre
il rischio di subire l’influenza di discenti prevaricatori. Il docente stesso può assurgere al ruolo di
mediatore in questo caso. Una volta allacciati i contatti e creato un rapporto tra “persone” si può
passare al contatto tra “studenti” e allo step successivo. La terza fase prevede un approccio
rivoluzionario: adattare il passo della classe al più debole. Si parte da ciò che tutti gli allievi
possono “saper fare” e si lavora sul consolidamento di tale competenza. Saranno gli studenti più
bravi a doversi adattare. Naturalmente il compito del docente è far sì che gli studenti più
avvantaggiati non fossilizzino e cristallizzino il loro bisogno di sapere. Pertanto sarà sua cura
assegnare a tali studenti dei compiti speciali: coordinamento, tutoraggio, approfondimento e ricerca.
Anche l’assegnazione di tali mansioni non è compito facile per il docente, il quale dovrà valutare
attentamente a chi assegnare il ruolo di leadership, a chi il ruolo del sostegno o
dell’approfondimento, sviluppando così un sistema di empowerment peer education. Le strategie
previste per questo tipo di approccio prevedono naturalmente una didattica laboratoriale o
comunque una lezione non formale. Il docente non dev’essere solo colui che trasferisce
un’informazione, ma anche colui che si pone come modello di esperienza. Raccontare aneddoti,
creare legami con il passato risulta fondamentale. Spesso gli allievi con delle difficoltà acquisiscono
in maniera indiretta proprio con l’associazione di immagini, di storie. L’affabulazione come
strategia di apprendimento, tanto usata ai tempi degli antichi Greci e poi caduta nel dimenticatoio
dovrebbe tornare nella formazione dei docenti. E’ importante ai fini dell’apprendimento il profondo
legame emotivo che si viene a creare con il docente e con i compagni. Anche le valutazioni non
andrebbero uniformate a degli standard, ma al minimo e al massimo che ogni singolo studente può
dare. Ciò però presupporrebbe una grande capacità del docente il quale deve essere in grado di
comprendere sin dove si possono spingere le abilità di ogni studente. Questo capovolgimento fa sì
che non si parli più didattica inclusiva. Il termine è già sbagliato di per sé perché implica il concetto
che bisogna includere un elemento di un sottoinsieme in un insieme più grande. Non c’è nulla da
includere. I ragazzi sono persone prima di tutto e poi diventano studenti. Perché bisognerebbe
includere una persona in un insieme di persone? Una persona fa già parte del suo insieme, e l’unico
motivo per cui si parla di didattica inclusiva è perché si è passato troppo tempo a classificare i
disagi degli studenti piuttosto che provare un approccio totalmente diverso. Anche parlare di
integrazione in tal senso risulta sbagliato. Se andiamo ad analizzare oggi più che mai esistono mille
sfaccettature nei contesti sociali. Società multietniche, con tanti spaccati economici e sociali,
famiglie allargate o con un solo genitore. A differenza degli anni ’60 in cui lo standard era più o
meno identico tra gli studenti di uno stesso istituto, oggi ogni discente ha alle spalle una situazione
familiare, socio-economica, culturale e affettiva completamente diversa rispetto al compagno di
banco. Dunque perché parlare ancora di integrazione quando ognuno dovrebbe integrarsi con
l’altro? La conoscenza sta alla base di tutto. Il conoscere l’altro, nel senso più profondo, porta alla
diminuzione del divario e all’abbattimento delle barriere.

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