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Liturgia ed evangelizzazione

Boselli Goffredo, monaco di Bose

Riflettere sul tema liturgia ed evangelizzazione non significa mettere


in rapporto due termini cercando dei punti in comune. Significa invece
affermare che la liturgia è una realtà evangelizzante in sé stessa e da sé
stessa. La liturgia è infatti il modo con il quale nella Chiesa si diventa
cristiani e si resta cristiani. Il cristiano è l’opera della liturgia; essa lo forgia,
lo forma, lo mantiene cristiano custodendolo. L’accedere alla liturgia per
una vita intera è infatti ciò che tiene in vita il nostro “essere cristiano”,
personale come comunitario. Noi entriamo nella liturgia ma in realtà è lei
che entra in noi, scende nelle fibre del nostro essere credente, plasma il
nostro “uomo interiore” (Ef 3,16). Senza liturgia, cioè senza il nutrimento
solido della parola di Dio e il pane sostanziale dell’eucaristia, senza l’azione
della Spirito, la consolazione del perdono e l’olio della fraternità il cristiano
deperisce, degenera, muore.
Lo scopo dell’evangelizzazione è che un uomo, una donna creda
“che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e
che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4); questo è il
kérigma che Paolo chiama “il Vangelo che vi ho annunciato” (1Cor 15,1). E
la prima credente in questo Vangelo è la Chiesa, la comunità dei credenti, la
quale per evangelizzare l’umanità deve essere essa stessa evangelizzata. La
Chiesa, infatti, non può essere soggetto di evangelizzazione se non è sempre

1
al contempo lei oggetto di evangelizzazione. Noi cristiani non possiamo
avere la pretesa di evangelizzare il mondo se non abbiamo l’umiltà di
lasciarci incessantemente evangelizzare dal Signore. E la liturgia è il luogo
primo ed essenziale nel quale siamo da lui evangelizzati. “Nella liturgia,
infatti – come insegna il Concilio – Dio parla al suo popolo e Cristo
annuncia ancora il suo Vangelo”1.
In questo mio intervento cercherò di mostrare non solo come da
sempre la liturgia evangelizza i credenti, ma anche come la liturgia è
chiamata a evangelizzare i credenti di oggi con le loro caratteristiche. Quella
che viviamo non è semplicemente un’epoca di cambiamento ma un vero e
proprio cambiamento epocale dal punto di vista antropologico, culturale e
sociale. Questo segna profondamente anche il modo nel quale noi credenti
viviamo la fede e ciò non può non incidere anche sulle nostre liturgie e sulla
pastorale sacramentale della Chiesa. Da più parti l’aggettivo “nuova”
anteposto a “evangelizzazione” solleva molti dubbi e perplessità, perché il
Vangelo è sempre lo stesso, è “il Vangelo eterno” (Ap 14,6). Ciò che allora
cambia non è il Vangelo ma è il nostro modo di comprenderlo, secondo la
bella espressione di papa Giovanni: “Non è il Vangelo che cambia: siamo
noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Al tempo stesso, ciò che si
trasforma in continuazione, come abbiamo osservato, è l’uomo, e la liturgia
deve necessariamente conoscere e prendere in conto l’uomo concreto al
quale si indirizza, perché come disse il cardinale Giovanni Battista Montini
in un intervento al Concilio, “liturgia semper pro hominibus… non
homines pro liturgia” 2, la liturgia è per gli uomini non gli uomini per la
liturgia. È dunque questa la prospettiva di fondo nella quale ci muoveremo:
la liturgia realtà evangelizzante per l’uomo d’oggi.

1
Sacrosanctum concilium, 33.
2 “Liturgia semper pro hominibus est instituta, non homines pro liturgia», Acta
Synodalia, I/1, 315.

2
La liturgia di Emmaus

Per riflettere sul rapporto tra liturgia ed evangelizzazione ho scelto


come paradigma il racconto dei discepoli di Emmaus. Ho scelto la liturgia di
Emmaus. Emmaus, infatti, è liturgia fatta Vangelo, cioè è l’esperienza
liturgica della comunità apostolica che è diventata narrazione evangelica.
Come ogni testo del Nuovo Testamento, Emmaus è un testo dove la
Chiesa si racconta e quindi al tempo stesso si espone e si giudica, dove la
Chiesa dice ciò che è e si misura su ciò che dovrebbe essere. Nessun esegeta
dubita ormai che questo episodio sia impastato dall’esperienza che i primi
cristiani facevano in quelle forme embrionali di liturgia che tuttavia già
racchiudevano l’essenziale del culto cristiano: la lettura delle Scritture alla
luce della morte di Cristo e la frazione del pane, cioè l’eucaristia. Al
contempo, in questa pagina di Luca la Chiesa si è data da sé stessa la norma
della sua pratica, così che potrà sempre tornare a Emmaus come al canone
della sua liturgia e lì valutarla. È quello che cercheremo di fare anche noi,
torneremo a Emmaus come alla fonte della nostra liturgia nella
consapevolezza che ciò che il Signore ha compiuto a Emmaus è ciò che
ancora oggi egli compie nelle nostre liturgie.
Nell’episodio dei discepoli di Emmaus la prima generazione di
cristiani ha raccontato il cammino che ha compiuto per giungere alla fede
pasquale. Emmaus mostra come si diventa cristiani e come si rimane
cristiani. Per questo Emmaus è, in modo del tutto indisgiungibile, un
microcosmo della fede cristiana e un microcosmo dell’autenticamente
umano. È microcosmo della fede perché gli elementi essenziali vi sono
contenuti: la venuta del Risorto sempre da riconoscere, l’intelligenza delle
Scritture, lo scandalo della croce, l’eucaristia, l’annuncio “il Signore è
risorto”, la comunione nella Chiesa. Ma Emmaus è anche un microcosmo
dell’autenticamente umano, perché è un’affascinante esperienza umana, un
vero e proprio itinerario di maturazione umana. Vi troviamo la ricerca di
senso, il cammino, il dialogo, la sofferenza e la morte, lo scendere della sera
con le sue tenebre e paure, l’ospitalità, la condivisione del pane, l’apertura

3
degli occhi che è riconoscimento, comprensione di senso, ritorno alla
relazione abbandonata. Emmaus è dunque al tempo stesso microcosmo
dell’essenza del cristianesimo e dell’autenticamente umano, è cammino di
fede ed è cammino di umanizzazione come lo è la liturgia. Una liturgia
autentica è in grado di far compiere al credente un cammino di crescita
umana e cristiana insieme.
Il nostro intento non di fare un commento esaustivo e tanto meno
una lectio di questa pagina del Vangelo, ci limiteremo invece a cogliere come
da questo racconto emerga il modo in cui nella liturgia Gesù Cristo
continua ad annunciare il Vangelo ai suoi discepoli, alla sua Chiesa.
Articolerò il mio intervento in quattro punti: 1) il cammino, 2) la
presenza, 3) la parola, 4) il gesto.

Il cammino

Della prima parte del racconto vorrei mettere in luce due soli
elementi. Il primo elemento da cogliere è che l’episodio di Emmaus si
svolge per intero lungo la strada che va da Gerusalemme a Emmaus, ed è
esattamente un’andata e un ritorno. In particolare, dall’inizio del racconto
alla sosta per la cena, tutto avviene in movimento. Si inizia dicendo che
“due di loro erano in cammino” e “mentre conversavano e discutevano
insieme Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”. Il movimento
compiuto da Gesù è quello di avvicinarsi a due suoi discepoli che stanno
camminando, per mettersi al loro passo e aver parte ai loro discorsi. Quasi a
voler sottolineare il nesso tra parlare e camminare Gesù domanda ai
discepoli: “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi camminando
(peripatoùntes)?”. Domandando di cosa parlano in realtà Gesù fa dichiarare ai
due la ragione del loro cammino.
La fede pasquale nasce in cammino perché essa è un cammino. Il
cristianesimo stesso negli Atti degli Apostoli è più volte chiamato “Via
(ódos)” (At 9,2), mentre per Pietro la condizione dei cristiani è di essere

4
“stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11) cioè gente che cammina. La liturgia di
Emmaus è in cammino a dire che la liturgia cristiana è in itinere. Non
dobbiamo dimenticare che uno dei nomi più antichi del radunarsi dei
cristiani per la liturgia, come si trova attestato in Tertulliano, è esattamente il
verbo latino procedere (avanzare), da cui proviene il nome processio dato
all’assemblea liturgica3, un nome che con tutta probabilità è la traduzione
latina di sýnodos, fare strada insieme.
Pensare l’assemblea liturgica come sinodo, un fare strada insieme,
corrisponde all’immagine neotestamentaria di Chiesa come popolo in
cammino. È questa consapevolezza che ha anche configurato lo spazio
liturgico cristiano, che nella sua forma più tipica dispone l’assemblea dei
fedeli orientata verso l’altare e l’abside, dunque rivolta al Signore veniente.
L’uso recente di porre l’altare al centro con l’assemblea radunata attorno fa
torto allo specifico dello spazio liturgico cristiano, perché descrive un
cerchio e di fatto chiude la Chiesa su stessa. Al contrario, il Signore sta
sempre davanti alla sua Chiesa, la precede, chiamandola a camminare dietro
a lui e, al contempo, ad andare incontro a lui.
La liturgia di Emmaus avviene in cammino non solo perché si
diventa cristiani attraverso un itinerario ma anche perché il credere è un
camminare, anzi la fede è il suo cammino, secondo la bella espressione di
Paolo “noi camminiamo nella fede” (2Cor 5,7). Per questo, uno dei primi
compiti della liturgia è quello di mantenere in movimento la fede, di far
vivere la fede come dinamica e crescita perché la liturgia cristiana non è il
culto di una religione materna e dunque avvolgente, protettiva e rassicurante
ma, al contrario, come vedremo più avanti, ha al suo cuore la parola di Dio
Padre che risuona, giudica e chiede la conversione. Ritengo che una delle
tentazioni che spesso oggi attraversa il nostro modo di celebrare sia quella
di apprestare una liturgia che mira soprattutto alla dimensione affettiva delle
persone, tutto sembra orientato all’emotività al fine di suscitare l’emozione,
la suggestione. Così al centro viene posto il sentire della persona, ciò che

3
Attestato in un’antica traduzione latina del canone 17 del concilio di Laodicea (430)
per rendere il sostantivo sýnaxis , MANSI 2, 586 e 568.

5
prova e non invece l’appello a uscire da sé per ascoltare la parola di Dio, in
un cammino di conversione e di comunione con il Signore e con i fratelli e
le sorelle nella fede.
La liturgia cristiana deve muovere e in certi casi perfino scuotere la
fede di chi vi partecipa. Questo significa che non raggiungono una piena
qualità cristiana quelle liturgie nelle quali ci si accontenta di acquietare le
coscienze, liturgie predisposte per essere una riserva di buoni sentimenti e
sani valori. A volte finanche liturgie messe prontamente a disposizione
come serbatoio di identità culturali e di tradizioni, o ancora come meri riti di
una religione civile attraverso i quali confermare lo status quo, legittimare
moralmente scelte politiche e perfino suffragare vittime di guerre chiamate
missioni umanitarie. Ricordiamolo, il cristianesimo sarà sempre una
controcultura di cui la liturgia deve essere il segno più immediatamente
eloquente agli occhi del mondo.
Comprendere la liturgia come una realtà in itinere di una fede in
cammino significa, nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale
nel quale viviamo, comprendere che le nostre liturgie e più in generale le
celebrazioni dei sacramenti, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di
vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come un
tempo, la somma di certezze incrollabili ma è l’espressione di un desiderio
di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa
aggrapparsi a una speranza. Oggi la fede è infatti perlopiù esperimentata
come l’apertura a una speranza, così che lo sperare di credere è già un
credere alla maniera nascente. La liturgia è realtà evangelizzante quando è in
grado di interpretare la situazione di quelle persone che credono solo
perché sperano di credere. La liturgia è realtà evangelizzante quando è
capace di raggiungere il credente nella sua fatica di camminare nella fede.
Occorre infatti essere consapevoli che, il più delle volte, la presenza
all’eucaristia domenicale rappresenta quel sottile filo che tiene il credente e
la comunità cristiana ancora uniti e comunicanti. Per questo, oggi è
necessaria una liturgia che non si limiti a celebrare verità e proclamare
certezze ma sappia anche prendere in contro chi vive l’inquietudine del

6
credere fino a conoscere anche il dubbio e l’oscurità. Una liturgia che va
loro incontro fino a portare la fatica di chi fatica a credere.
Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite
del superficiale, eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre
e a ogni costo far festa. Domandiamoci: siamo altrettanto capaci di offrire ai
credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di
dare ragioni per sperare a cuori stanchi e affaticati. Lo sappiamo, la fatica a
credere ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che
caratterizza l’uomo occidentale contemporaneo e questo non può non
segnare anche la fede del credente contemporaneo. Spesso mi domando se
le nostre liturgie non suppongano come destinatari unicamente uomini e
donne dalla fede salda, per le quali tutto è evidente, certo, definito. Oggi la
liturgia deve saper essere realtà evangelizzante per una generazione di
credenti con poca capacità di fede, che non è l’apistía (mancanza di fede) e
neppure la oligopistía (la poca fede) ma la asthéneia tes písteos, la debolezza nella
fede (cf. Rm 4,19; 14,1). Solo una liturgia che sa accogliere la fragilità della
fede sarà una liturgia evangelizzante perché saprà, come Gesù ascoltare, e
interpretare l’appello che il padre del ragazzo epilettico gli rivolse: “Credo;
aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24).

La presenza

Il secondo elemento che mi preme sottolineare nella prima parte del


racconto è la dove viene detto che “Gesù in persona si avvicinò e
camminava con loro”. Michel de Certeau nel suo prezioso commento a
Emmaus così lo interpreta:

“È sempre lui che viene a noi. Dio si fa nostro prossimo. A queste pecore senza
pastore, a questi malati senza medico, a questi uomini spogliati delle loro speranze
ma ancora abitati dal suo ricordo e che lo cercano anche là dove sanno bene di
non trovarlo; proprio in questo povero tesoro dei sogni perduti, Gesù si avvicina.
Essi lo rimpiangono ed egli è là che cammina con loro. “Lui” e “loro”: Luca
inquadra la sua frase in queste due parole che riassumono la storia, ogni storia. Lui

7
con noi”4.

Come in quella di Emmaus anche in ogni liturgia cristiana il Signore


si fa vicino e presente, e la Chiesa è chiamata a riconoscere il mistero della
sua presenza personale. Certo, l’assemblea liturgica è una convocazione, un
venire del popolo alla presenza del Signore, ma è sempre al tempo stesso un
venire, un farsi prossimo del Risorto alla sua comunità. Nei racconti delle
manifestazione del Risorto, in Luca come in Giovanni, si dice: “Venne
Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»” (Gv 20,19; cf. Lc 24,36).
Per questo, la prima parola che il presbitero rivolge ai fedeli è “Il Signore sia
con voi” che si può tradurre come un’affermazione “il Signore è con voi”,
come ha fatto il messale portoghese che ha colto il senso biblico di questa
espressione traducendo “O Senhor esteja convosco!” e l’assemblea risponde
“Ele está no meio de nós” (Egli è in mezzo a noi). Riconoscere la presenza
del Signore è dunque il primo atto di fede che l’assemblea compie.
Nella liturgia il Signore evangelizza la sua comunità attraverso il
mistero della sua presenza personale a dire che il Vangelo lo si annuncia
solo da persona a persona. La relazione che si stabilisce tra Cristo e la
Chiesa nella liturgia è infatti personale, dal momento che nella preghiera
liturgica un “noi” si rivolge a un “tu”: “Tu solo il Santo, tu solo il Signore
Gesù Cristo” confessiamo nel Gloria; “Annunciamo la tua morte, Signore”
cantiamo nell’anamnesi, ma soprattutto al termine del Vangelo acclamiamo
“Lode a te, o Cristo!”, riconoscendo che è lui che parla quando nella Chiesa
si leggono le Scritture5.
Alla scuola della liturgia la Chiesa impara che evangelizzare è
anzitutto creare una relazione personale. Presenza, sia chiaro, non come
categoria militante, ma come un farsi prossimo all’altro che è già annuncio
del Vangelo anche senza parole. A Emmaus il Risorto si fa prossimo prima
di farsi parola, fa strada insieme ai due discepoli prima di farsi riconoscere
da loro. A noi tutti è ben nota la raccomandazione che Francesco di Assisi

4
M. de Certeau, I pellegrini di Emmaus, Cittadella editrice, Assisi 2009, p.11.
5“[Cristo] è presente nella sua parola, dal momento che è lui che parla quando nella
Chiesa si legge la sacra Scrittura”, Sacrosanctum concilium 7.

8
faceva ai suoi frati: “Predicate il Vangelo e se necessario usate anche le
parole”. Questa forma di evangelizzazione la visse fino alla morte anche
Charles de Foucauld nel Sahara algerino, con la sola presenza in mezzo ai
Berberi credenti dell’Islam.
Come ai discepoli di Emmaus così a noi nella liturgia il Risorto fa
anzitutto dono della sua presenza per insegnare alla Chiesa che
l’evangelizzazione prima di essere parola è farsi prossimo, è presenza
accanto. Non possiamo certo negare che spesso le nostre liturgie sono a
immagine del modello di evangelizzazione che la Chiesa propone: la Chiesa
celebra come evangelizza ed evangelizza come celebra. Forse questa è una
delle cause che può spiegare il verbalismo che caratterizza le nostre liturgie.
Il noto verso di Girolamo “sermo silens et silentium loquens”6, parola silenziosa e
silenzio eloquente, sarebbe un buon programma di ars celebrandi.

La parola

Accediamo ora alla parte più estesa e a ben guardare nodale del
racconto di Emmaus, la parte della parola, dell’ascolto reciproco tra Gesù e
i discepoli. A ben guardare, la pagina di Emmaus è in prevalenza una
discussione, uno scambio di vedute e di interpretazione di fatti. Il testo
annota da subito una certa abbondanza di parola quando da prima
sottolinea che i due “conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto”.
All’inizio del racconto vi è dunque un’enfasi posta sulla parola, e Luca fa
proprio della parola tra i due discepoli il luogo da dove Gesù proviene:
“Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e
camminava con loro”. Il Risorto sorge dalla conversazione stessa, ed è già
questa una forma di risurrezione. Non per nulla il lavoro di Gesù, a ben
guardare, sarà un lavoro di parola, più esattamente del dare la parola alle
Scritture.

6
Girolamo, Lettera 24 a Marcella.

9
Vi è un primo tempo della parola ed è quello dello scambio. Gesù
stesso ne da inizio, come al suo solito, ponendo delle domande. Non si
impone, li osserva, li ascolta, entra nella loro condizione come il Figlio di
Dio è entrato nel mondo e come il Vangelo ancora oggi entra nella storia di
ciascuno. Sì, Gesù prima di parlare ascolta, fino ad acconsentire di essere
preso per uno che non sa: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai
ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Si lascia prendere per estraneo ai
fatti lui che ne è stato il protagonista. È una forma di kénosi del sapere pur di
guadagnare qualcuno che a volte anche il nostro stile ecclesiale dovrebbe
conoscere. Sembra di sentire Paolo quando scrive: “Mi sono fatto debole
per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per
salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). Solo chi consapevole che il suo
sapere non è assoluto è disposto al dialogo, allo scambio che è sempre una
dinamica di dare e ricevere. Il Cristo di Emmaus sembra dirci che
evangelizzare è anche saper suscitare domande e non solo dare risposte.
Evangelizzare è cercare e perfino mendicare il dialogo, così caro a Paolo VI,
in un rapporto di reciprocità. La Chiesa, certo, ha da dare all’umanità una
parola di vita e di salvezza ma anche l’umanità laica e non credente ha da
insegnare alla Chiesa dei valori umanissimi.
Allora la liturgia e in modo del tutto particolare la nostra pastorale
sacramentale sarà una realtà che evangelizza quando saprà suscitare la
domanda di fede e non solo rispondere alla domanda di sacramenti. La
nostra pastorale sacramentale è annuncio del Vangelo quando non si
accontenta di soddisfare i bisogni religiosi, diversamente avremo fatto delle
parrocchie dei sacramentifici, erogatrici di servizi religiosi che offrono, al
pari di altri produttori, dei beni di consumo. Ma la liturgia cristiana non è un
mero appagamento dei bisogni religiosi primari dell’uomo, non si
accontenta di dare una forma cristiana all’innato sentimento religioso. A
immagine del Vangelo, la liturgia cristiana porta dalla condizione di homo
naturaliter religiosus a quella di homo christianus, portandolo a compimento
mediante la grazia di Dio “fino all’uomo adulto (teléion), fino a raggiungere la
misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13). La liturgia evangelizza quando è

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capace di quell’attenzione che il Risorto ha avuto nei confronti dei discepoli
di Emmaus e che Michel de Certeau così considera: “La sua attenzione li
crea e li rispetta: essa li genera alla «loro» esistenza, a questa via che viene a
lui e che è un dialogo con lui”7. Mi domando se i credenti di oggi alle nostre
liturgie non chiedano una maggiore capacità di ascolto, di attenzione a loro,
di cura e una minore quantità di parole, magisteri, ammonimenti e perfino
avvisi.
Da Gesù interrogati i due discepoli raccontano per ordine “ciò che
riguarda Gesù il Nazareno”, raccontano i fatti avvenuti, in modo obiettivo
“valido per tutti, per chi credeva e per chi non credeva, per Pilato, per Caifa,
per Erode, per Cleopa e per l’altro compagno pellegrino. Per tutti questa è
la storia vera, oggettiva. Anche per noi”8. Terminato il racconto i due
discepoli hanno da prima l’umiltà di lasciarsi rimproverare e giudicare da
Gesù – “stolti e lenti di cuore a credere” – e poi lo ascoltano, diremmo si
lasciano evangelizzare. In questo modo i due discepoli si decentrano da loro
stessi e dalla loro visione dei fatti per porre al centro il forestiero e la sua
interpretazione. Ma anche Gesù si decentra per porre al centro le Scritture,
“e cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture
ciò che si riferiva a lui”. Alla loro conversazione su “tutto quello che era
accaduto” Gesù mette di fronte “tutti i profeti … tutte le Scritture”.
Questo è ciò che avviene in ogni liturgia della parola: la Chiesa
riunita in assemblea, per lasciarsi evangelizzare dal Signore si decentra per
ascoltare le Scritture. All’interno dell’assemblea liturgica ciascun credente,
ponendosi in ascolto della Parola, si decentra da sé, dalla sua interpretazione
degli eventi, dalla sua visione della storia, dal suo giudizio sugli altri e pone
non la sua ma un’altra parola al centro, la parola di Dio. Questo è il
principio dell’evangelizzazione: la Chiesa che pone al centro la parola di Dio
contenuta nelle Scritture e vi si sottomette.
Nella liturgia la Chiesa si lascia evangelizzare, perché
sottomettendosi al Vangelo lascia che la parola di Verità la giudichi e la

7
I pellegrini di Emmaus, p. 12.
8
E. Balducci, Il Vangelo della pace, Borla, Roma 1986, p. 147

11
critichi così come i discepoli di Emmaus hanno accettato la critica del
forestiero alla loro interpretazione senza fede dei fatti. Se lo vogliamo
vedere, l’eucaristia, mai celebrata senza ascolto del Vangelo, è il vero e più
efficace principio di critica che la Chiesa ha di sé stressa al suo interno,
esattamente al cuore della sua realtà più santa, l’eucaristia. “La critica della
Chiesa dall’interno è Gesù stesso – ha scritto Jürgen Moltmann -. Egli è la
critica della sua non verità, poiché è l’origine della sua verità. Il confronto
critico della Chiesa con la società attuale ha la sua importanza, ma è ancora
ben misera cosa rispetto al confronto critico della Chiesa con l’uomo di
Nazaret, a cui essa si richiama”9. Sì, questa è la liturgia come realtà
evangelizzazione della Chiesa, là dove il Vangelo è proclamato è critica della
non verità della Chiesa, perché è l’origine della sua verità.
“Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare
nella sua gloria?”; il Risorto rimanda i discepoli non a una generica memoria
del loro maestro ma a “queste sofferenze” e al loro significato. Commenta
Agostino:

“Cominciò a spiegar loro le Scritture in modo che imparassero a riconoscere


Cristo proprio dal punto dove si erano allontanati da Cristo. Avevano perso la
speranza in Cristo perché lo avevano visto morto. Egli al contrario spiega loro le
Scritture argomentando in modo che si persuadessero che, se non fosse morto,
non sarebbe potuto essere Cristo”

Le sofferenze del Messia, la croce e anche la risurrezione non sono


“predette” dalle Scritture ma sono “conforme” alle Scritture, secondo le
Scritture. Ecco il cuore della liturgia di Emmaus offrire un senso a ciò che
umanamente non ha senso. Le Scritture generano senso perché il Risorto le
apre; il testo di Luca infatti non dice “mentre ci spiegava le Scritture”, bensì
“mentre ci apriva le Scritture”. Emmaus è tutto un aprirsi: si aprono le
Scritture, si aprono gli occhi, si apre il pane, si aprono le menti.

9
W. Kasper – J. Moltmann, Gesù sì Chiesa no?, Queriniana, Brescia 1974, p. 52.

12
La liturgia è realtà evangelizzante perché è quello spazio nel quale
continuamente siamo costituiti e ricostituiti credenti. Impariamo a
conoscere Cristo nella parole di Cristo, dall’ascolto delle sante Scritture.

Il gesto

Ed eccoci giunti al gesto, alla frazione del pane. Giunti vicini al


villaggio, Gesù finge di voler proseguire, ma i discepoli insistono “Resta con
noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. “Resta con noi,
perché si fa sera …”, la parola che trasforma lo straniero in ospite. Come ha
scritto il mio priore Enzo Bianchi con una punta di ironia: “I due discepoli,
nel tempo passato insieme con Gesù almeno una cosa l’avevano imparata:
l’ospitalità, la carità, e chiedono a Gesù di fermarsi da loro, di essere loro
ospite”10. Gesù entra e, come gli hanno chiesto, resta con loro e ben tre
volte in due versetti si sottolinea la compagnia di Gesù, quasi a dire che
quello stare di Gesù con i due discepoli è particolarmente intenso, carico di
significati: “Rimani con noi …. Entrò per rimanere con loro … Quando fu
a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede
loro. Ed ecco si aprirono i loro occhi e lo riconobbero” (Lc 24,30-31). Lo
spezzare il pane è quel gesto che parla solo a coloro che hanno il cuore che
già arde per l’ascolto delle Scritture spiegate da Cristo. Ed ecco, l’invitato è
lui che presiede la tavola, spezza il pane e lo dona. L’ospite è lui che accoglie
gli ospiti a dire che l’ospitalità è riuscita quando chi invita e accoglie è a sua
volta accolto da colui che ospita.
Ma sostiamo unicamente sul gesto della frazione del pane e vorrei
soffermarmi su una particolarità della cena di Emmaus che dice tutta
l’eloquenza del gesto di Cristo. Sono riportati con esattezza le quattro azioni
eucaristiche – prendere, benedire, spezzare e dare – quelle compiute da
Gesù nell’ultima cena, ma a Emmaus il Risorto non pronuncia nessuna

10E. Bianchi, Emmaus. Parola e eucaristia, (Meditazioni 8), Qiqajon, Magnano 1986, p.
20.

13
parola “dell’istituzione” e i due discepoli racconteranno loro stessi agli
Undici “come fu riconosciuto da loro nello spezzare il pane” (Lc 24,35). È
stato sufficiente il gesto dello spezzare il pane senza alcuna parola ma di una
eloquenza capace di aprire gli occhi e far riconoscere. Mi sia permesso
osservare: la silenziosa frazione del pane a Emmaus potrebbe anch’essa
essere la migliore risposta a quel verbalismo, già detto, di cui soffrono oggi
le nostre liturgie, dove parole, introduzioni e spiegazioni si susseguono in
un vortice logocentrico. Spesso le tante parole tolgono al gesto liturgico la
sua eloquenza, gli rubano l’anima. Dobbiamo ammettere che anche nella
liturgia si è perduto il senso del silenzio e con il poeta René Char (1907-
1988) riconoscere che “non si osa più dare agli occhi qualcosa senza dire
alla bocca di nominarlo”11.
L’evangelista Luca attesta che alla luce della risurrezione la Chiesa ha
riconosciuto che la frazione del pane era un gesto gravido di senso e per
questo fonte di fede pasquale. I due discepoli non confesseranno agli Undici
di avere visto il Signore spezzare il pane ma di aver riconosciuto il Signore
nello spezzare il pane (cf. Lc 24,35), “cognoverunt in fractione panis”
traduce Girolamo. I due non hanno visto il Signore ma lo hanno
riconosciuto. Il verbo greco impiegato da Luca non è infatti blépo “vedere”
ma epiginosko, il verbo della conoscenza. L’epignosis è la conoscenza piena e
profonda, la sovraconoscenza. In un suo Inno Efrem il Siro: “Quando gli
occhi dei discepoli erano ancora chiusi, il pane [spezzato] fu la chiave con la
quale si aprirono”12. Per Efrem, la fractio panis del Risorto è la chiave da lui
consegnataci per accedere al suo mistero. Ogni autentico gesto liturgico è
infatti una chiave per accedere al mistero, perché nella liturgia il mistero non
lo si vede ma lo si riconosce. “Allora si aprirono gli occhi e lo riconobbero”;
Nell’ultima cena Cristo ha preso nelle sue mani il pane, lo ha spezzato e in
esso ha riconosciuto il suo mistero, da quella sera il gesto di spezzare il pane

11 R. Char, Fogli d'Ipnos. 1943-1944, traduzione di V. Sereni, Einaudi, Torino, 1968, p.


98.
12 Efrem il Siro, Inni sul Paradiso 15 4, Éphrem de Nisibe, Hymnes sur le paradis, (Sources

Chrétiennes 137), traduction du syriaque par R. Lavenant, introduction et notes par F.


Graffin, Cerf, Paris 1968, p. 188.

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fa riconoscere il mistero del Signore vivente. Ecco la liturgia che evangelizza
con un gesto.

Evangelizzati per evangelizzare

I due discepoli ritornano a Gerusalemme dove trovano riuniti gli


“Undici e gli altri che erano con loro” i quali e si annunciano a vicenda
“davvero il Signore è risorto”; i pellegrini di Emmaus “ricevano dalla
Chiesa ciò che essi le portano ... il loro incontro è garantito dalla Chiesa:
non è un’illusione; non è un delirio questa volta”13. Nella comunione di fede
c’è un confermarsi a vicenda nella fede: questa è la Chiesa! Ecco, la liturgia
di Emmaus, come ogni liturgia della Chiesa, evangelizza il credente facendo
di lui un evangelizzatore. L’essere evangelizzato e il divenire evangelizzatore
non sono due momenti successivi ma simultanei, tanto meno sono due atti
giustapposti ma coincidenti. Paolo, l’apostolo evangelizzato, che si definisce
“messo a parte per il Vangelo di Dio” (Rm 1,1) – Girolamo traduce
“segregatus in evangelium Dei”14 – è colui che afferma “evangelizzare … è una
necessità che mi si impone: guai a me se non evangelizzo” (1Cor 9,16). Chi
vive la liturgia come incontro con il Signore vivente sa per esperienza che è
la liturgia stessa che fa gli sentire, nelle sue fibre di credente, che
testimoniare il Vangelo non è una possibilità ma una necessità che gli si
impone per il fatto stesso di aver posto fede nel Vangelo e creduto a Cristo
risorto.

13
M. de Certeau, I pellegrini Emmaus, p. 20.
14“ Je suis Paul, esclave de Christe Jésus, convoqué, envoyé, isolé pour être le
messager de l’Annonce de Dieu”, così traduce La Nouvelle Bible di Bayard.

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