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LA CURA DELLA MALATTIA MENTALE NELLA PROVINCIA DI MODENA FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
NELLA PROVINCIA DI MODENA
FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
a cura di Andrea Giuntini
POVERE MENTI
Pubblicazione realizzata da:
Provincia di Modena
AREA FORMAZIONE, ISTRUZIONE, LAVORO, POLITICHE SOCIALI E ASSOCIAZIONISMO
Stampa:
Tipografia TEM Modena
Finito di stampare:
Aprile 2009
In copertina: illustrazione tratta da una riproduzione di “Alberi nel giardino dell’ospedale di Saint-Paul” di Vincent Van Gogh da pitturare.com
POVERE MENTI.
LA CURA DELLA MALATTIA MENTALE
NELLA PROVINCIA DI MODENA
FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
a cura di
Andrea Giuntini
INDICE
Maurizio Guaitoli,
Prefazione .......................................................................................................................................................................... Pag. 9
Andrea Giuntini,
Introduzione.................................................................................................................................................................... Pag. 11
Andrea Scartabellati,
Pagine dimenticate.
Le culture psichiatriche in Italia tra fine ‘800 e primi decenni del ‘900 ............ Pag. 15
Massimo Tornabene,
Psichiatria e manicomi tra Fascismo e guerra ............................................................................. Pag. 41
Massimo Moraglio,
Prigionieri di un’utopia.
Il manicomio dalle speranze terapeutiche alla routine segregante ........................... Pag. 55
Francesca Vannozzi,
Verso la fine di un percorso:
il progressivo perdersi di ruolo del manicomio ............................................................................ Pag. 77
Il caso di Modena
Paola Romagnoli,
Gli atti dell’assistenza psichiatrica della Provincia di Modena:
tipologie documentarie e loro organizzazione.............................................................................. Pag. 87
Donatella Lippi,
Lo stabilimento per alienati del Ducato di Modena nella testimonianza
di Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans (1840) ............................................................. Pag. 97
Andrea Giuntini,
L’assistenza ai malati di mente nella Provincia di Modena
dalla legge del 1865 alla seconda guerra mondiale .................................................................. Pag. 107
Simone Fari,
Tra rinnovamento sociale ed efficienza economica.
La gestione dell’assistenza psichiatrica nella Provincia di Modena
dal dopoguerra alla legge 180............................................................................................................................... Pag. 143
Mauro Bertani,
Ipotesi su un manicomio.
Il San Lazzaro di Reggio Emilia tra ‘800 e ‘900 ........................................................................ Pag. 213
Francesco Paolella,
I modenesi ricoverati nell’Istituto psichiatrico San Lazzaro.
Appunti per una ricerca...................................................................................................................................... Pag. 255
PREFAZIONE
Fra le molte svolte legislative, che hanno inciso profondamente sulla vita
del nostro paese nel secondo dopoguerra, merita sicuramente un posto di
riguardo la legge emanata dal Parlamento nel 1978 e che va impropriamente
sotto il nome di “legge Basaglia”. In seguito a quel provvedimento i manico-
mi italiani aprirono le proprie porte, prospettando ai malati una vita nuova
nella società e segnando la fine di un’epoca di segregazione secolare. Da
quel momento l’assistenza agli individui affetti da patologie psichiatriche ha
segnato una trasformazione di 180 gradi, favorendo un indubbio migliora-
mento delle condizioni di vita dei malati. La legge fa da spartiacque fra due
modi di intendere ed affrontare l’assistenza ai malati di mente e costituisce
un’evidente grande conquista di civiltà.
In occasione del trentennale del provvedimento ispirato dal pensiero e
dall’opera di Franco Basaglia e della sua scuola, l’Amministrazione Provin-
ciale di Modena ha concepito e sostenuto una ricerca sulla storia di questo
particolare ambito in un arco cronologico racchiuso fra le due leggi princi-
pali del settore, quella emanata nel 1865, che assegnava alle Province l’ob-
bligo economico del mantenimento “dei mentecatti poveri della provincia”
e quella del 1978. Al di là degli intenti celebrativi, si è voluto ricostruire le
vicende di questo mondo di sofferenza, del tutto persuasi che Modena e la
sua provincia abbiano giocato storicamente un ruolo di primo piano nella
questione da molti punti di vista. La vicinanza ad uno dei principali istituti
manicomiali italiani ed europei, il San Lazzaro di Reggio, oltre che a condi-
zionare le scelte in merito alla cura dei malati, ha contribuito alla crescita di
una serie di conoscenze e di sensibilità particolarmente sviluppate. In virtù
anche dei rapporti con l’ospedale reggiano, Modena poi, si è sempre distin-
ta in ambito universitario per lo stato avanzato del suo sistema di insegna-
mento della psichiatria e per la diffusione di questa cultura già a partire
dagli anni ’70 dell’800. Infine l’Amministrazione Provinciale, soprattutto nel
9
Maurizio Guaitoli
10
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
11
Andrea Giuntini
2
Hanno costituito un’ottima base di partenza per queste considerazioni le non più giovani,
ma ancora del tutto valide, osservazioni di A. Gibelli, Emarginati e classi lavoratrici: le ragioni di
un nodo storiografico, in Le istituzioni segregate nell’Italia liberale, numero monografico della rivista
“Movimento operaio e socialista”, 1980, 4, pp. 361-367.
3
Sulla questione delle cartelle cliniche come fonte per la storia della psichiatria, si rimanda
a Le carte della follia, a cura di D. di Diodoro, G. Ferrari e F. Giacanelli, Bologna, Quaderni del
Centro di studi G.F. Minguzzi, 1990; a Manicomio, società e politica. Storia, memoria e cultura della
devianza mentale dal Piemonte all’Italia, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2005; ed a M. Tornabene,
La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves, Araba Fenice, 2007,
pp. 19-26.
12
MALATTIA MENTALE, PSICHIATRIA
E MANICOMI IN ITALIA:
PAGINE DIMENTICATE.
LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA
TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900
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Andrea Scartabellati
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Andrea Scartabellati
lo stesso Leonardo Bianchi, tra 1916 e ‘17, tornava sui banchi del governo
come ministro senza portafoglio incaricato dell’organizzazione sanitaria.
Non di meno, il volto pubblico e scientifico della scienza delle alienazioni
mentali era mutato rispetto al recente passato, avendo ciclicamente prestato
il fianco a propositi di aggiornamento e revisione più o meno radicali, secon-
do traiettorie spesso maldestre e quasi sempre incerte. Traiettorie sulle quali
incombeva ancora, non solo come un fantasma, Cesare Lombroso con il suo
opus magnum.
In sintesi, sul piano scientifico, dal 1910 l’ossificato antropo-somatismo
psichiatrico tendeva a dinamizzarsi, rilanciando, in forme più articolate, i
contributi dell’evoluzionismo haeckeliano. Questo, con l’implicita soprava-
lutazione dell’elemento materialistico insito, avrebbe caratterizzato a lun-
go la medicina italiana, fino alle propaggini del costituzionalismo pendia-
no riattato al sapere psichiatrico da Francesco Del Greco, giocando inoltre
un ruolo non accessorio – seppur poco esaminato dagli storici – nel pro-
blematico incontro della psichiatria con le metodologie della psicoanalisi.
Analogamente, anche la discussa interpretazione haeckeliana delle opere di
Lamarck (1744-1829), Darwin (1809-1882) e Spencer (1820-1903), quali sta-
di progressivi di una sistematica costruzione teoretica priva di sfumature,
passava in dote all’alienismo, ed in specie alla sua variante militare. Di Her-
bert Spencer, in particolare, si recepirono sia la preferenza accordata ad una
lettura del divenire sociale intrisa di incorreggibile pessimismo, sia quelle
specifiche opzioni terminologiche pre-darwiniane derivate dalla meccanica
equiparazione stabilita a priori tra vita degli organismi fisici ed evoluzione
dei costrutti sociali.
Meno convinte e compatte, al contrario, furono le posizioni espresse dagli
alienisti italiani verso l’opera darwiniana, accolta con ambiguo consenso. Se,
infatti, di Darwin conquistò la congerie di immagini e metafore naturalisti-
che – che ritroviamo, per esempio, nelle pagine dello psichiatra militare Pla-
cido Consiglio (1877-1959)24 - l’idea cardine di un graduale perfezionamento
degli organismi viventi secondo dispositivi selettivi in ultima analisi casuali,
sollevava imbarazzo. Il credito riscosso presso la comunità scientifica dal
mai discusso organicismo e, soprattutto, dalla dottrina delle eredità pato-
logiche concepita nelle forme pre-mendelliane di Bénédict Augustin Morel
(1809-1873), col suo carico di tacito finalismo, rappresentarono un elemento
battaglie culturali nelle scienze umane durante il primo conflitto mondiale, in “Medicina e Storia”, 14,
2008, pp. 65-94.
24
Vedi gli Studii di psichiatria militare pubblicati a puntate nella gloriosa “Rivista Sperimentale
di Freniatria” da Placido Consiglio tra 1912 (vol. XXXVIII) e 1916 (vol. XLI).
20
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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900
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Si leggano di G. Funaioli: Contributo all’osservazione dei caratteri antropo.psicologici dei militari
delinquenti, con speciale riguardo al delinquente occasionale, Roma, E. Voghera, 1912; I criminaloidi
nell’esercito, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1915; Contributo clinico alla Neuropsichiatria ed alla
Criminologia di guerra, in “Quaderni di Medicina Legale”, 1917-18.
37
P. Consiglio, Cesare Lombroso e la medicina militare, in “Rivista d’Italia”, luglio 1911, pp. 51-82.
38
F. Saporito, Su l’opera di Cesare Lombroso, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1913, p. 11.
39
Rimando, chi volesse approfondire i temi di seguito brevemente trattati, al mio saggio, Cul-
ture psichiatriche e cultura nazionale. Per una storia sociale (1909-1929), nella rivista telematica “Fre-
nis Zero. Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività”, 5, .III, gennaio 2006 – http://
web.tiscali.it/freniszero/scartabellati.htm.
23
Andrea Scartabellati
40
S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, Firenze, Giunti, 1992, p. 182.
41
Vedi M. Calderoni, I postulati della scienza positiva e il diritto penale, Firenze, G. Ramella, 1901.
42
Questa la terminologia gemelliana tratta da Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una
dottrina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1911, p. 150.
43
E. Troilo, Il darwinismo sociale, la sociologia di Comte e di Spencer e la guerra, in “Rivista Italiana
di Sociologia”, 1917, pp. 430-453.
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51
P. Guarnieri, Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli, Milano, Fran-
co Angeli, 1986, p. 118.
52
E. M. [Enrico Morselli], recensione a F. De Sarlo, Psicologia e Filosofia, in “Quaderni di Psichia-
tria”, VII, 1920, p. 276: «Quale ragione può dare una Psicologia teleologica, metafisica, al proble-
ma della pazzia, che mostra in modo inconfutabile la “unità psico-fisica” di spirito + cervello?
Si ha un bel dire che i medici alienisti materializzano lo spirito; ma finché non sarà chiarito il
come avvenga che uno “spirito” si perverte o impazzisce ogni qual volta c’è un dissesto anche
minimo del suo organo, sarà vano parlarci di una “Esperienza” o di un “Io individualizzato”,
in cui si pretende per contro di spiritualizzare la materia. E la bella opera del De Sarlo sta là
proprio a provare che il porsi in bilico fra il positivismo e l’idealismo può parere un modo felice
di sfuggire al dilemma, ma non contenta nessuno».
53
A. Vedrani, Cesare Lombroso, in “La Voce”, I, 52, 1909, pp. 221-222.
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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900
58
A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1911, p. 9.
59
Vale la pena di rammentare cosa Prezzolini e Papini, citati non a sproposito da Gemelli (Ce-
sare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, p. 21), scrivevano nel 1906: «Questi signori ce-
lebri si chiamano per esempio Lombroso, Mantegazza, Sergi, Morselli, Loria, Mosso, Ferri. Oc-
cupano delle cattedre nelle grandi Università, dirigono delle riviste, fanno anche delle lezioni.
Vale a dire che non si distinguono troppo da altri professori universitari che fanno precisamente
le stesse cose. Ma se ne distinguono per questo: che i loro oracoli e i loro discorsi non vengono
letti e ascoltati soltanto da quel pubblico molto ristretto, per quanto poco scelto, composto di
scienziati amici, di assistenti ambiziosi e di relatori di accademie, ma son letti ed ascoltati da un
pubblico molto più largo, dove entrano le signore, i dilettanti, i maestri elementari, i così detti
uomini colti e perfino i giornalisti».
60
In evidente continuità, la critica gemelliana si forma riprendendo e rilanciando, con nuovo
vigore, i temi tradizionali della polemica antipositivista ed antievoluzionista degli ambienti
scientifici cattolici; cfr. A.R. Leone, La Chiesa, i cattolici e le scienze dell’uomo, in L’antropologia
italiana. Un secolo di storia, Roma-Bari, Laterza, 1985, in particolare le pp. 63-65.
61
A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1911, p. 144.
29
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62
Ivi, p. 76.
63
Letture ideologiche di un’opera ideologizzata come Il nostro soldato. Saggi di psicologia mili-
tare (Treves, Milano 1917), hanno certamente nuociuto alla reale comprensione della sostanza
scientifica dell’opera, la quale, se contestualizzata nella letteratura dell’epoca e nelle condizioni
sociali del momento, e se comparata con la riflessione medica internazionale, emerge sicura-
mente come una delle voci più originali della psicologia italiana.
64
Si legga il notevole intervento di A. Gemelli, Psicologia e psichiatria e i loro rapporti, in “Rivista
Sperimentale di Freniatria”, XLV, 1921, pp. 251-314.
65
N. R. D’Alfonso, La psicologia speculativa e l’unità delle razze, in “Rivista d’Italia”, giugno 1911, p. 941.
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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900
Della trama critica a lui ostile, intrecciata dal drappello di studiosi allievi
di Tanzi e Lugaro, ebbe sentore un settuagenario e reattivo Cesare Lombro-
so, tutt’altro che a margine della comunità psichiatrica e muto sulle vie nuo-
ve battute dalla scienza che ne aveva tenuto a battesimo l’impresa professio-
nale ed il disegno culturale. Giudice severo del Trattato delle malattie mentali,
«seducente trattato coi suoi paradossi ed epigrammi; più ricco di spirito che
di verità»71, un polemico Lombroso coglieva l’occasione dell’uscita del volu-
me di Ernesto Lugaro72 per chiarire nuovamente le posizioni sue e della sua
scuola, similmente a ciò che – a proposito del positivismo antropologico –
avevano fatto Enrico Morselli, solo un anno prima, in un volume collettaneo
dato alle stampe in onore del poligrafo veneto73 e Filippo Saporito, nel 1913,
il quale denunciò come «quel solenne messaggio della scienza e dell’espe-
rienza che vive nell’antico motto Natura non facit saltus ha condannato la
concezione lombrosiana ad assistere agli assalti della critica non sul terreno
di quel che essa valga nella sua interezza, bensì sul terreno ambiguo degli
adattamenti artificiosi, dei connubi ibridi, delle transazioni degradanti»74.
Dall’alto dei suoi titoli accademici: ordinario di psichiatria dal 1896 e di
antropologia criminale dal 190575, Lombroso giudicava errate, scorrette ed
insostenibili al vaglio dello sperimentalismo medico le critiche della scuo-
la fiorentina. Come ogni positivista alle prime armi sapeva – ironizzava
Lombroso - «quando si vuol abbattere una teoria, si adoperano fatti», non
presunzioni76. Il fondatore dell’antropologia criminale individuava nell’esa-
gerata accentuazione del dato anatomico il punto debole metodologico che
impediva, con pregiudizio, al cenacolo vicino a Tanzi e Lugaro, di cogliere le
linee d’insieme dell’universo-follia. Un universo costellato di pazzi, anomali
e criminali bisognosi, di manicomi e milieu familiari e ambientali dove la
71
«In quest’altro libro del Lugaro i paradossi e le bizzarrie del Tanzi trovano una rinsaldatu-
ra»; a differenza della conclusioni della scuola lombrosiana, fondata «coll’esame metodico ed
attento di centinaia e centinaia di individui», quelle del Lugaro erano «asserzioni messe giù (…)
su due piedi» (C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, in “Archi-
vio di Antropologia Criminale”, XXIX, 1908, p. 165).
72
I problemi odierni della psichiatria, Palermo, Sandron, 1907,
73
E. Morselli, Cesare Lombroso e l’antropologia generale, in L’opera di Cesare Lombroso, Torino,
Bocca, 1906.
74
F. Saporito, Su l’opera di Cesare Lombroso a proposito di una recente critica, Roma, Tipografia
delle Mantellate, 1913, p. 6.
75
Cattedra istituita ad hoc per Lombroso dal ministro Leonardo Bianchi.
76
C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, in “Archivio di Antro-
pologia Criminale”, XXIX, 1908, p. 164.
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Andrea Scartabellati
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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900
pagine della “Rivista di Patologia Mentale e Nervosa”79, altro non sarà che il
corrotto bagliore residuale della genuina vocazione socio-politica della scien-
za alienistica piegata alle esigenze delle élites guerrafondaie. Abbandonata la
sentita partecipazione per le sorti delle masse italiane depauperate da na-
zionalizzare dopo la svolta epocale del 1860-61, ora l’intellettualità psichia-
trica si lasciava conquistare all’eccesso dall’efferato interventismo montato
ad arte, non da ultimo, anche da quelle inquietudini vociane spalleggianti la
demistificazione del positivismo e del lombrosianesimo.
La strada tracciata dai tardi critici lombrosiani si chiariva, quindi, nella
scelta di un ripiegamento pubblico strategico, ancora in grado, però, di la-
sciar negoziare, alle presenti e future generazioni psichiatriche, abdicazioni
e contropartite. Il venir meno della volontà egemonica culturale positivista
se, da un lato, sbiadiva l’immagine dell’alienista quale demiurgo sociale,
dall’altro, precisando meglio l’oggetto ed i luoghi del suo agire – l’accade-
mia per i principi della disciplina; i manicomi per il proletariato psichiatri-
co - garantiva una minor esposizione sul banco degli imputati nel processo
intentato al positivismo dalla nuova cultura dominante. Quale contropartita,
la ritirata negoziata otteneva di consolidare, proprio rinunciando alle aspira-
zioni ottocentesche, quelle posizioni di potere reale conquistate grazie anche
all’apporto insostituibile del biasimato Cesare Lombroso.
Nell’Italia emersa vittoriosa dalla guerra, la pretesa modernità psichiatri-
ca non si presentava allora come negazione del lombrosianesimo e del posi-
tivismo materialista laicista80. Nessun padre intellettuale fu, freudianamen-
te, ucciso; nessun ceppo generazionale fu infranto; nessuna scienza normale
fu rivoluzionariamente abbattuta. La psichiatria scelse di auto-esiliarsi in
un’isola, se non felice, comunque appagante ed inaccessibile ai non addetti
ai lavori. Mentre la modernità della disciplina, sulle fondamenta organici-
stiche81 e nel quadro di un solidismo comune alle differenti correnti analiti-
79
La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità in “Rivista di Patologia Nervosa e Mentale”,
XXI, 1916, pp. 241-617; La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità, in “Rivista di Patologia
Nervosa e Mentale”, XXII, 1917, pp. 65-302; inoltre, sempre di Lugaro: Pazzia d’imperatore o
aberrazione nazionale?, in “Rivista di Patologia Nervosa e Mentale”, XX, 1915, pp. 385-414.
80
Cfr. la recensione positiva del manuale di E. Tanzi e E. Lugaro, Trattato delle malattie mentali,
in “Quaderni di Psichiatria”, III, 1916, pp. 59-60, di Enrico Morselli, non certo – anzi! – un av-
versario del Lombroso. Recensione positiva ripetuta successivamente nei “Quaderni di Psichia-
tria”, X, 1923, pp. 211-212.
81
F. Saba Sardi, Nascita della follia, Milano, Mondadori, 1975, p. 114: «Costante è cioè il tentativo
di ancorare in qualche modo le manifestazioni psichiche a un substrato organico, e di conse-
guenza la follia a realtà fisiologiche (…) Lo psichiatra non può che ragionare in questi termini
– ovvero cessa di considerarsi e di essere psichiatra».
35
Andrea Scartabellati
che nei termini di «una rappresentazione visibile delle cause della malattia
mentale»82, si esplicò combinando la rinuncia a fare di una filosofia naturale
del genere umano il totem onnicomprensivo per l’interpretazione delle ma-
nifestazioni patologiche, con il disinteresse per le più ampie problematiche
popolari, riscoperte con reale empatia solo alla fine degli anni ’60 del XX
secolo.
Un profilo sociale indistinto ma, in contro altare, un’erudizione neuro-
psichiatrica in maggior misura vasta, informata dei contributi scientifici in-
ternazionali, meno credulona nel vagliare le rilevazioni statistico-numeriche
o nel prendere atto delle stigmate fisiche: ciò era quanto restava della cri-
tica di Tanzi e Lugaro. D’altro canto, il tono inflessibilmente organicistico
del Trattato delle malattie mentali83 non poteva essere recepito dalla comunità
scientifica come una discriminante antilombrosiana, poiché diversa, tra gli
uni e gli altri, era solo l’aspettativa riposta in un tale orientamento onni-
regolatore nello svolgersi del processo diagnostico. Né l’obiezione di Lugaro
secondo cui «l’opera di Lombroso fu bensì uno stimolo fecondo a ricerche
e discussioni, ma non segnò (...) un vero progresso in confronto alle vedute
del Morel»84; né il programma di Tanzi di respingere «i dettami rumorosi
ed inconcludenti d’una pretesa antropologia della degenerazione» da sosti-
tuire con il ripescaggio della «teoria originaria del Morel, che nacque dalla
patologia»85, echeggiavano innovativi alle orecchie degli psichiatri italiani.
Che Ernst Haeckel si fosse trasformato nella caricatura farsesca di Charles
Darwin86; che risultasse indilazionabile depurare e circoscrivere il concetto
di degenerazione, «a meno di ritenere che tutti i pazzi siano degenerati, ipo-
tesi non dimostrata, inutile e perciò inopportuna»87; che bisognasse negare
l’identificazione di epilessia e deficienza del senso morale; che fosse intrinse-
co all’agire psichiatrico la sottovalutazione dei dati psichici, stimati accessori
rispetto ai sostrati organici; che si potesse leggere nell’ascesa dell’endocrino-
82
S. De Sanctis, voce Psichiatria in “Enciclopedia Italiana”, Roma, Istituto Poligrafico dello Sta-
to, 1949, p. 447.
83
S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, Firenze, Giunti, 1992, p. 74.
84
E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità in “Rivista di Patologia Nervosa e
Mentale”, XXI, 1916, p. 491.
85
E. Tanzi-E. Lugaro, Trattato delle Malattie Mentali, Milano, Società Editrice Libraria, 1923, I, p.
XIII. La citazione è tratta dalla Prefazione alla seconda edizione.
86
E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità, in “Rivista di Patologia Nervosa e
Mentale”, XXII, 1917, p. 288.
87
E. Tanzi-E. Lugaro, Trattato delle Malattie Mentali, Milano, Società Editrice Libraria, 1923, II,
p. 155.
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98
G. Corberi, Ancora su l’esame della personalità del delinquente, in “Criminalia”, III, 1939; pubbli-
cato come estratto da Bocca, Milano 1939. La citazione è tratta da p. 4.
99
E. Morselli, Ultime produzioni della psichiatria tedesca, in “Quaderni di Psichiatria”, VI, 1919, p.
271.
100
L. B., recensione a C. Lombroso, L’Uomo alienato, in “Rivista di Psicologia”, X, 1914, p. 471.
101
B. Cassinelli, Storia della pazzia, Milano, Corbaccio, 1936, p. 447.
102
L. Lattes, Ritorno a Lombroso, in “Minerva Medicolegale”, LXXVI, 1956, p. 7.
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Andrea Scartabellati
103
F. Del Greco, La sintesi clinica di E. Kraepelin dal punto di vista della Storia della Medicina, in
“Rivista Sperimentale di Freniatria”, XXXV, 1909, pp. 284-86.
104
Alcuni suggerimenti di lettura per l’approfondimento dei temi: Augusto Tamburini. In me-
moriam, Roma, Tipografia dell’Unione Editrice, 1920; L’antropologia italiana. Un secolo di storia,
Roma-Bari, Laterza, 1985; V.P. Babini, La storia della psichiatria italiana del Novecento, i primi
vent’anni, in “Psicoterapia e Scienze Umane”, 40, 2006; E. Balduzzi, Le terapie da shock, Milano,
Feltrinelli, 1962; V. Bongiorno, Il dedalo della mente. Augusto Tamburini, tra neurofisiologia e psichia-
tria, Roma, Edizioni Kappa, 2002; M. Calloni, Donne italiane in esilio nella Confederazione Elvetica
tra Ottocento e Novecento, in http://www.dialogare.ch/Dialo_Newsletter/13donne_esilio.pdf;
R. Canosa, Storia del manicomio dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979; G. Cosmacini, Gemelli.
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Lombroso e la fotografia, Milano, Bruno Mondadori, 2005.
40
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA
41
Massimo Tornabene
ispirò, in particolare, a quanto realizzato negli Stati Uniti (a partire dal 1909)
dal Comitato americano per l’igiene mentale107 e che ottenne pieno ricono-
scimento internazionale con il I° Congresso per l’Igiene mentale tenutosi a
Washington nel 1930, ed a cui presero parte rappresentanti di 50 nazioni108.
42
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA
La Grande guerra, infatti, costituì per gli alienisti uno spartiacque epoca-
le: «la violenza e la durata del conflitto rappresentarono un inedito terreno
di prova per la psichiatria, obbligata a confrontarsi con una enorme massa di
malati mentali provenienti delle trincee del fronte, massa che rappresentava,
in termini di diagnosi e possibili terapie, un inedito assoluto»111. Basti pensa-
re che secondo le stime ufficiali il servizio neuropsichiatrico accolse almeno
quaranta mila soldati, vittime di stress, shock da esplosioni, ma soprattutto
colpevoli di volersi sottrarre al conflitto – progettato e realizzato dai sani e
che per questi «incarna valori, razionalità, tecnologia» – andando «incontro
ad una impresa disperata, uscire dalla ragione, cadere in abitudini bestiali
e infantili, regredire»112. Fu così che per sconfiggere la iattura della «dege-
nerazione», gli psichiatri della Lega promossero l’istituzione di dispensari
d’igiene mentale, strutture ambulatoriali ad accesso libero che una volta av-
viate avrebbero dimostrato l’inutilità, nella loro forma attuale, degli istituti
asilari, incapaci (a loro giudizio) di curare il malato mentale in quanto tale,
ma solo quando si manifesta in termini di pericolosità e scandalo. Il primo
ambulatorio sorse a Milano nel 1924. I dispensari permisero agli psichiatri
(o almeno alle loro intenzioni) di «entrare nel corpo sociale, scandagliarlo e
trarne elementi per selezionare, isolare e curare i soggetti portatori di malat-
tie mentali». Un’azione che si inserì, secondo le analisi di Massimo Moraglio,
in un disegno dalle ambizioni ancora più alte: «la vera attività preventiva
andava svolta altrove: negli ambulatori pediatrici, nell’esercito, nelle scuo-
le, nei servizi medico-scolastici. Lo psichiatra, insomma, come selezionatore
dell’umanità, fin dal momento in cui si trovava inserito in strutture sociali
quali, appunto, esercito e scuola»113. Precursore di questa stagione si rivelò
Leonardo Bianchi, già relatore della legge del 1904, nei numerosi interventi
espressi (tra la fine e l’inizio degli anni venti) sia in Senato che alla Com-
missione nazionale per il dopoguerra. Considerazioni alla cui base fu posto
il progressivo aumento del numero dei folli internati negli istituti italiani.
Anch’egli sostenne la necessità di affiancare al manicomio una vasta rete di
prevenzione finalizzata a «ritardare la degenerazione della razza», ovvero
ad interventi diretti contro quelle «malattie sociali» (alcolismo, sifilide, ma-
laria, tubercolosi) «ritenute all’origine della “fiacchezza psicosomatica degli
111
M. Moraglio, Dentro e fuori il manicomio. Note sull’assistenza psichiatrica nell’Italia tra le due
guerre, in “Contemporanea”, 2006, 1, p. 19.
112
A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino,
Bollati Boringhieri, 1991, p. 134
113
M. Moraglio, Dentro e fuori il manicomio. Note sull’assistenza psichiatrica nell’Italia tra le due
guerre, in “Contemporanea”, 2006, 1, p. 27.
43
Massimo Tornabene
114
F. Cassata, Il lavoro degli “inutili”: Fascismo ed igiene mentale, in Manicomio, Società e Politica, a
cura di F. Cassata e M. Moraglio, Pisa, Bfs, Pisa, 2005, p. 25.
115
Ibidem.
116
Ivi, p. 34.
117
Cfr. M. Tregenda, Purificare e distruggere. Le prime camere a gas naziste e lo sterminio dei disabili,
Verona, Ombre corte, 2006.
44
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118
U. Sperapani, La sterilizzazione eugenica, in “Difesa sociale”, vol. XV, 1936, pp. 15-22.
119
Cfr. F. Cassata, «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino,
Einaudi, 2008.
120
E. Padovani, Relazione morale e finanziaria sull’attività della Società Italiana di Psichiatria nel
sessennio 1941–1946, in “Rivista sperimentale di Freniatria”, 1948, pp. 269-281.
121
Tra gli altri si segnala M. Koblinssky, Razza e Cervello, in “Quaderni di psichiatria”, Genova,
vol. VIII, nn. 1-2, 1921, pp. 1-7, in cui si illustrano e si sostengono gli studi atti a dimostrare «che
nelle razze psichicamente inferiori il peso del cervello è, in media, minore di quello del cervello
appartenente alla razza più civilizzata».
122
S. Brambilla, Contributo allo studio delle manifestazioni psicopatologiche delle popolazioni dell’Im-
pero, in “Rivista di patologia nervosa e mentale”, Firenze, LIII, 1939, pp. 187-206.
45
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123
N. Gasparini, Le varianti psichiche razziali (studio di psicologia razziale sul tipo italico-ariano-
mediterraneo), in “Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e psicoterapia”, Milano, 1939,
pp. 446-471.
124
M. Canella, Psicologia differenziale delle razze umane, in “Rivista di psicologia normale e pato-
logica”, Bologna, 1940, pp. 175-255.
125
G. Sogliani, L’assistenza psichiatrica in Europa e la legge italiana sugli alienati, in “Rassegna di
studi psichiatrici”, Siena, vol. XXXI, p. 525, 1942.
126
M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves
(Cn), Araba Fenice Edizioni, 2007, pp. 35ss.
46
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vita quotidiana degli internati, la psichiatria d’epoca fascista, alla fine degli
anni Trenta, raggiunse con Ugo Cerletti il suo maggior successo a livello
mondiale. Il direttore della clinica dell’Università di Roma, con l’invenzione,
nel 1938, della terapia elettroconvulsivante consentì di ottenere il riconosci-
mento scientifico tanto atteso127. L’elettroshock incontrò infatti una diffusione
immediata e straordinaria, oltre che nei manicomi italiani, fuori dai confini
nazionali128. Ma si trattò anche di una terapia che di fronte alle nuove esi-
genze cliniche provocate dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale
(traumi e shock), svelò da subito – con il suo uso indiscriminato – il proprio
potenziale intimidatorio, in primis verso quei soldati sospettati di essere dei
simulatori.
47
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49
Massimo Tornabene
conigi a causa di gravi stati depressivi140; mentre i traumi e gli stress di guer-
ra, accompagnati all’orrore di azioni compiute all’insegna della distruzione
assoluta segnarono la follia di numerosi soldati ora anche alle prese con una
paura da cui difficilmente riuscirono a sottrarsi141. Non mancarono, poi, epi-
sodi di vera e propria persecuzione: come quello che il 26 maggio del 1940
vide il trasferimento nell’ospedale psichiatrico tedesco di Zwiefalten degli
infermi di origine tedesca del manicomio di Pergine Valsugana, in provincia
di Trento, per poi venire soppressi all’interno del programma messo a punto
dal regime nazista per l’eliminazione degli individui affetti da menomazio-
ni fisiche e psichiche142; episodi a cui se ne contrapposero altri, invece, di
grande generosità, specie verso gli ebrei a rischio di deportazione: tra i più
significativi, anche per la vicinanza geografica, si veda il caso degli israeliti
ospitati sotto mentite spoglie da Carlo Angela nella clinica da lui diretta a
San Maurizio Canavese, in provincia di Torino143. Lo sbandamento seguito
all’armistizio (che in molti soldati accentuò il timore, la paura di essere cattu-
rati dagli invasori nazisti)144 e lo scontro che si aprì fra antifascisti e repubbli-
chini segnarono anch’essi le anamnesi cliniche di numerosi internati145. Allo
stesso tempo la guerra fornì ad alcuni psichiatri l’occasione per sperimentare
le potenzialità delle terapie da shock di nuova generazione. In particolare
sui soldati che, colpevoli di volersi sottrarre ad un infausto destino, si tra-
sformarono, loro malgrado, in strumenti per la scienza. Prima di giungere
in manicomio i militari che manifestavano disturbi mentali venivano infat-
ti curati nei reparti ospedalieri prossimi ai luoghi di combattimento: una
prassi già sperimentata durante la Grande guerra e finalizzata a sgomberare
«dalla loro mente l’idea o la speranza di un provvedimento di favore»146. Il
140
M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves,
Araba Fenice, 2007, pp. 105ss.
141
P. Fussel, Tempo di guerra, Milano, Mondadori, 1991, p. 350; e P. Sorcinelli, La follia della guer-
ra. Storie dal manicomio negli anni quaranta, Milano, Franco Angeli, 1992.
142
Cfr. H. Hinterhuber, Uccisi e dimenticati: crimini nazisti contro malati psichici e disabili del Nordti-
rolo e dell’Alto Adige, Trento, Museo storico in Trento, 2003.
143
R. Segre, Venti mesi, Palermo, Sellerio, 2002.
M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves,
144
50
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52
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53
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civili e dei militari traumatizzati dal conflitto, in cui medici, pazienti e personale infermieristico
erano soliti riunirsi con i ricoverati per affrontare insieme, in un clima informale, sia questioni di
ordine clinico che organizzative-gestionali. Successivamente l’équipe operante in questa struttura
clonò lo stesso tipo di trattamento presso il Southern Hospital di Darford, nel Kent, una istituzio-
ne destinata ai prigionieri di guerra affetti da nevrosi da combattimento. I risultati furono sor-
prendenti e il suo principale animatore, lo psichiatra scozzese Maxwell Jones insieme altri come
Thomas Main (fondatore della Second Northfield Experiment) riuscirono ad ottenere importanti
sovvenzioni governative. Anche se in alcune di queste cliniche non mancò l’utilizzo dell’elettro-
shock o della narcosi da barbiturici, quello della comunità terapeutica si presentò, a detta dei suoi
promotori, come «un ambiente terapeutico con una organizzazione spontanea ed emotivamente
strutturata (anziché stabilita dal personale medico) in cui erano coinvolti sia il personale che i
pazienti» (T.F. Main, The Ailment, in “Medical Psychology”, 1957 30; e E. Shorter, Storia della psi-
chiatria. Dall’ospedale psichiatrico al Prozac, Milano, Masson, 2000, p. 229).
54
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PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA.
IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE
ALLA ROUTINE SEGREGANTE
159
E. Tanzi, Trattato delle malattie mentali, Milano, Società editrice libraria, 1905, p. 723.
55
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La nascita
56
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160
L. Roscioni, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, Milano, Bruno Mon-
dadori, 2003, pp. 120 e ss.
161
F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e
Novecento, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einau-
di, 1984, p. 1070.
57
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60
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cuno dei nostri manicomî e nei Ricoveri per alienati cronici chi li difenda
o, quel che è peggio, a quando a quando li impieghi». Ovviamente tutti i
delegati presenti al congresso si dichiararono d’accordo nell’appoggiare le
proposte «abolizioniste» avanzate, premurandosi di notare che nei reparti di
loro competenza la segregazione e l’immobilizzazione non si praticava «se
non assai di rado […] e solo in casi di imperioso bisogno». Nonostante le spe-
ranze di Belmondo non era dunque ancora giunto il momento «anche per gli
alienisti italiani di trovarsi unanimi nel proclamare tramontato per sempre il
regno della camicia di forza, superflui le fasce, le ghette e i polsini».
Anche la cura extra-ospedaliera appariva tanto invocata e dibattuta,
quanto sfumata nei suoi contorni reali. La Rivista sperimentale di freniatria,
edita dai medici del manicomio di Reggio Emilia, discusse a lungo del tema
nel primo decennio del Novecento. Se a Lucca l’affido etero-famigliare ave-
va «dato modo […] di curare con ottimo successo malati acuti delle più sva-
riate forme psicopatiche», la selezione dei malati da usare in questo caso
doveva essere drasticamente limitata a quelli «cronici, lucidi, ordinati, tran-
quilli, innocui»167, fino a chiedersi quanti malati potessero poi essere davvero
beneficiari dell’affido. Per Giulio Cesare Ferrari vi era da intendersi, tra gli
altri, anche i «vantaggi economici della assistenza famigliare»168, salvo poi
lamentarsi che i contadini della provincia emiliana a cui voleva affidarli non
vi vedevano che «un affare», nonché circondando la scelta dei malati da così
tanti limiti da rendere l’intera proposta poco realistica. La linea di fondo
della psichiatria italiana era insomma una limitazione praticamente onni-
comprensiva dei malati beneficiari e, dall’altra, un sostanziale disprezzo per
le classi popolari e l’abitante delle campagne, «sempre sospettoso» e «poco
mobile di intelligenza».
La colonizzazione finiva così con l’essere una specie di mito favoleggiato,
di facile applicazione all’estero, ma irraggiungibile nell’arretrata Italia. Un
obbiettivo però talmente desiderato che la tanto deprecata legge sui mani-
comi del 1904, quella famigerata che proponeva il manicomio innanzitutto
come «custodia» e solo in seconda battuta come «cura», proprio nel sua arti-
colo di apertura prevedesse due paragrafi espressamente dedicati all’affido
extra-ospedaliero169. Era stato nel 1904 che il parlamento italiano, dopo quasi
167
Le citazioni sono tratte da Verbale della sesta seduta del congresso della società freniatrica italiana,
20 ottobre 1904, in “Rivista sperimentale di freniatria”, 1904, alle pagine 256, 291, 296 e 297.
168
G.C. Ferrari, Come si può impiantare ed organizzare in Italia una colonia familiare per alienati,
“Rivista sperimentale di freniatria”, 1904, p. 324.
169
Cfr. la legge n. 36 del 14 febbraio 1904, articolo 1, paragrafi 2 e 3: «Può essere consentita
dal tribunale, sulla richiesta del Procuratore del Re, la cura in una casa privata, e in tal caso la
61
Massimo Moraglio
persona che le riceve e il medico che le cura assumono gli obblighi imposti dal regolamento. Il
direttore di un manicomio può, sotto la sua responsabilità, autorizzare la cura di un alienato in
una casa privata, ma deve darne immediatamente notizia al Procuratore del Re e all’autorità di
pubblica sicurezza».
170
Legge n. 36 del 14 febbraio 1904, articolo 1, paragrafo 1.
62
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
63
Massimo Moraglio
173
Per dare un ordine di comparazione della carenza di personale medico (e forse anche della
assenza di terapie), si consideri che a metà degli anni Sessanta i manicomi, con 34 milioni di
giornate di degenza nel 1965, potevano contare, per l’appunto, solo su mille medici, mentre
negli ospedali pubblici generali a fronte di 80 milioni di giornate di degenza vi erano 26.000
medici e 41.000 infermieri. Per i dati statistici cfr. Annuario Statistico Istat, varie annate.
174
Una denuncia degli interessi in Q. Bigiarelli, A chi fa comodo l’attuale ospedale psichiatrico?, in
“Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc. 1, vol. 50, 1972.
64
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
comio era usato un po’ da tutti e, un po’ da tutti, socialmente accettato, come
«smaltitoio», ben lontano dal mandato ufficiale. Usato, al limite, persino dai
pazienti, come risulta lampante nel caso dello «smemorato di Collegno», al
secolo Mario Bruneri (poi dichiaratosi come professor Giulio Canella) che,
dopo un furto, per evitare la prigione si finge folle175. Ma esistono anche casi
meno noti, come quello investigato, tra gli altri, da Massimo Tornabene, di
un vagabondo-giostraio-fachiro del cuneese, che alla fine degli anni Trenta è
pronto a farsi internare ai primi freddi di ottobre ed estremamente abile nel
farsi dimettere in primavera176.
Servono nuovi e accurati studi sulle cartelle cliniche dei manicomi ita-
liani, leggendo tra le righe delle diagnosi mediche, per comprendere chi fu-
rono i degenti dei manicomi, ma si può comunque supporre che i maggiori
«fornitori» del manicomio fossero orfanotrofi affollati, forze dell’ordine alle
prese con ubriachi recidivi, famiglie povere con anziani affetti da demenza
senile e via dicendo. Parlare di terapia con simili degenti era impossibile, per
la semplice ragione che non erano malati mentali.
Con costoro, secondo le riviste mediche, l’unica azione curativa possibile
era da compiersi nella fase acuta della malattia mentale. E sul quel versante il
bagaglio medico appariva debole. Fa una certa impressione leggere nel testo
di Tamburini, Ferrari e Antonini del 1918 l’accorata risolutezza con cui veniva
descritta come «efficace mezzo di cura» la «clinoterapia». Che, sia detto subi-
to, la clinoterapia non è altro che la «cura del letto», favorevole - si scriveva
con entusiasmo - al paziente perché «il soggiorno a letto permette di ottenere
il riposo completo del cervello, perché con la porzione orizzontale è facilitata
l’irrorazione del sangue al cervello, col rilassamento completo di tutti i mu-
scoli». Del resto la clinoterapia, «nome felicemente scelto», esercitava anche
una funzione di controllo della disciplina in manicomio, con una «benefica
influenza […] sopra ciascun paziente». Ancora meglio, «più che tutto dà al
malato nuovo ammesso la consapevolezza di avere bisogno e possibilità di un
trattamento curativo»177. L’apparato terapeutico del 1918 si limitava insomma
al riposo, ancora ai bagni caldi o freddi a seconda dei casi e alla famigerata
ergoterapia, cioè il lavoro forzato dei degenti. Ma il lavoro, soprattutto quello
agricolo, ricordavano Luigi Baroncini, Gustavo Modena e Giuseppe Corberi
175
Cfr. il lavoro di L. Roscioni, Lo smemorato di Collegno. Storia italiana di un’identità contesa, To-
rino, Einaudi, 2007.
176
Cfr. M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Bo-
ves, Araba Fenice, 2007.
177
A. Tamburini, G.C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni,
Torino, Utet, 1918, p. 543.
65
Massimo Moraglio
al congresso della società freniatrica del 1930, poteva essere un buon modo
per tenere occupati i degenti cronici, ritenuti inguaribili, ma non assumeva il
valore di ergoterapia178. Né più tenero sarebbe stato nel 1966 Mario Gozzano,
presidente Sip, che dichiarava senza mezzi termini come «a quei tempi [inizio
secolo] di terapie per i malati psichici non ne esistevano»179.
Insomma le terapie erano davvero un po’ poco e un po’ troppo vaghe
nei loro contorni per una scienza medica come pretendeva essere la psichia-
tria. Né le cose sarebbero andate meglio con l’avvio delle terapie da shock,
se persino un loro entusiasta sostenitore come Francesco Bonfiglio, collega
e sodale di Cerletti, si premurava di riportare nel «giusto» alveo la prete-
sa azione terapeutica, segnalando come ci fossero «ancora delle deprecabili
esagerazioni e non sempre utili generalizzazioni nell’uso di tali terapie»180.
Il tramonto del manicomio negli anni Settanta portava alla ribalta una sto-
ricizzazione delle terapie e lucida rivisitazione. È il caso di Sergio Mellina,
che derubricava senza appello l’elettroshock a «canto del cigno degli anni rug-
genti delle cosiddette terapie da shock, che ebbero inizio nel 1917 allorché
Wagner-Jauregg propose la sua malarioterapia». Era quello, continuava lo
psichiatra, «un contesto storico che guardava con diffidenza alla psicologia
dell’inconscio e che ancora ignorava i fasti della psicofarmacologia [mentre]
il terapeutico psichiatrico, ad onor del vero in fase di lallazione, cercava una
clamorosa apertura biologica». Insomma, «le trionfalistiche metodiche in-
terventiste dell’epoca, tra l’altro, parvero tanto più giustificate quanto più
permettevano alla psichiatria di allontanarsi dall’ipostatizzazione della no-
sografia kraepeliniana, notoriamente impotente sul piano terapeutico»181.
178
L. Baroncini, G. Modena, G. Corberi, Problemi nuovi dell’assistenza psichiatrica con particolare
riguardo all’Igiene mentale, in Atti del XIX Congresso Società Freniatrica Italiana, “Rivista sperimen-
tale di freniatria”, 1930, pp. 921 e ss.
179
Discorso di Mario Gozzano al XIX Congresso Sip, 1966, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc.
I-II, 1968, p. 40.
180
F. Bonfiglio, Problemi ed orientamenti odierni per la difesa sociale contro le malattie mentali, in “Il
lavoro neuropsichiatrico”, fasc. II, 1947, p. 200.
181
S. Mellina, Relazione L’elettroschock: limiti, tematiche, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc. 1,
vol. 50, 1972, p. 189 (il primo corsivo è nel testo, il secondo è aggiunto).
66
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
182
A. Tamburini, G.C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni,
Torino, Utet, 1918, p. 691, corsivi nell’originale.
67
Massimo Moraglio
183
Sul tema della degenerazione e dei suoi rapporti con il composito mondo eugenetico italia-
no cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni
Trenta, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004 e F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia,
Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
184
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Tren-
ta, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004, p. 23.
185
Una sintesi delle proposte di Bianchi in A proposito della riforma della legge sui Manicomi e sugli
alienati, in «Rivista sperimentale di freniatria», 1922.
68
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
69
Massimo Moraglio
ventesimo congresso della Sip del 1933, si dichiarava che il medico alienista,
non più confinato, come un tempo, fra le mura dell’ospedale psichiatrico
in uno «splendido isolamento», può oggi aspirare a più larghi compiti di
neuropsichiatria sociale ed affrontare con maggiore possibilità di successo i
complessi problemi della cura, dell’assistenza, della profilassi e dell’igiene
mentale. La vera opera «del dispensario dovrebbe essenzialmente dirigersi
alla ricerca dei soggetti in pericolo di ammalare per tentare con tutti i mezzi
di salvarli», a partire ovviamente dai parenti dei ricoverati in manicomio,
che per affinità familiari avrebbero potuto essere portatori a-sintomatici, ma
eugeneticamente contagiosi, della malattia mentale188. Destinazione finale di
simili soggetti sarebbero stati «reparti annessi a ospedali o a luoghi di assi-
stenza, decentrati nella provincia per la cura di malattie a breve decorso e
per lo smistamento degli infermi a più lungo decorso». In realtà, secondo la
relazione, l’azione di profilassi svolta nei dispensari, pur mostrando tutta la
sua utilità, non era che uno dei tasselli di un più ampio mosaico. L’attività
preventiva andava svolta altrove: negli ambulatori pediatrici, nell’esercito,
nelle scuole, nei servizi medico-scolastici. Lo psichiatra, insomma, come se-
lezionatore dell’umanità, fin dal momento in cui l’individuo si trovava inse-
rito in strutture sociali quali, appunto, esercito e scuola.
L’avvicinarsi dei venti di guerra e il radicalizzarsi del dibattito razziale
in Italia avevano esacerbato la questione, fino al punto di vedere il nome di
Arturo Donaggio, presidente della Società italiana di psichiatria, quale firma-
tario del «Manifesto della razza» pubblicato nel 1938. Non era solo un’ade-
sione formale, perché il carattere assunto da consistenti parti del mondo psi-
chiatrico veniva confermato dalle iniziative della Lega per l’igiene mentale:
a fine anni Trenta, richiamando l’esempio tedesco, si tornava a proporre la
creazione di un «Centro italiano di genetica psichiatrica» che avrebbe dovuto
attivare la schedatura di massa dei malati di mente. Si trattava di un progetto
che presupponeva e propugnava un determinismo ereditario della malattia
mentale, una degenerazione da controllare e su cui intervenire. Una posizio-
ne esplicitamente contigua alle teorizzazioni naziste, anzi troppo vicina ad
esse, al punto che la Lega vi dovette rinunciare per la ferma opposizione del
ministero degli Interni che vedeva una simile, costosa, iniziativa contrappo-
sta al carattere «spirituale» della stirpe fatto proprio dal Fascismo italiano189.
188
B. Manzoni, Le nuove realizzazioni dell’assistenza ospitaliera psichiatrica all’estero, in Atti del XX
congresso della Società Italia di Psichiatria, Roma 1-4 ottobre 1933, in «Rivista sperimentale di frenia-
tria», 1934, pp. 993, 932 e 933.
189
Per il dibattito sul Centro italiano di genetica psichiatrica cfr. il verbale del consiglio diretti-
vo della Lega, «Atti della Lega italiana di igiene e profilassi mentale», 1940, pp. 117 e ss. Sulla
70
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
questione dell’eugenetica in Italia cfr. i già citati lavori di Mantovani e Cassata, e di quest’ulti-
mo anche La Difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi,
2008.
190
F. Bonfiglio, Problemi ed orientamenti odierni per la difesa sociale contro le malattie mentali, in “Il
lavoro neuropsichiatrico”, fasc. 2, 1947.
71
Massimo Moraglio
che cioè esso sia liberato totalmente da tutta l’attuale opprimente bardatura
burocratica, giudiziaria e poliziesca, che è di così grave danno materiale e
morale per i nostri ricoverati, e che, a dispetto di qualsiasi nostra eufemistica
denominazione e nonostante tutti i nostri sforzi per migliore la nostra orga-
nizzazione terapeutico-assistenziale, continua a conferirgli la triste fama di
luogo di custodia e reclusione che agli occhi dei profani lo fa apparire più
affine ad un carcere che ad un ospedale»191.
È in queste poche parole, e in tutte le sue contraddizioni, che si può ri-
assumere la linea di condotta del debole e impotente riformismo della Sip.
Impotente anche perché simili progetti di modifica si scontrarono con la
straordinaria forza e potenza dell’apparato manicomiale, fatto di formida-
bili interessi e poteri, di migliaia di dipendenti arroccati nella difesa del loro
status (infermieri, medici, impiegati), di riviste scientifiche, di associazioni,
di baronie, di camarille sindacali e clientele elettorali. Un apparato solido
anche e soprattutto perché basato su di una formidabile accettazione sociale
del manicomio come luogo di separazione dei devianti dalla società e che,
dall’accettazione sociale del manicomio, trovava linfa e ulteriore forze.
Le proposte di riforma furono comunque oggetto di una convinta appro-
vazione al congresso della Sip del 1946 (con Ugo Cerletti presidente dell’as-
sociazione) e a quello del 1948; poi di una commissione di studio della Sip
stessa, per approdare in un progetto di legge del gruppo parlamentare de-
mocristiano presentato dall’onorevole (e medico) Mario Ceravolo nel 1952. E
poi ancora convegni, come quello di Milano del 1955 e quello di Vicenza del
1957, dove tra l’altro si riproponeva, nel quadro delle riforme, anche un ca-
sellario psichiatrico nazionale, parallelo a quello penale e civile, dai contenu-
ti genealogici, non così diversi da quelli proposti nel 1942192. Unico elemento
di novità era dato dalla costituzione nel 1958 del ministero della Sanità e
dalla creazione di un ufficio specificatamente dedicato ai «servizi d’igiene
mentale», rappresentando il primo e unico pendant ufficiale alla esistenza di
dispensari, centri e ambulatori psichiatrici.
Il quadro normativo ufficiale restava ben fermo e, al di là della ripetuta
ed esibita necessità di una nuova legge, i difensori della situazione esistente
non mancavano. Lo denunciava Mario Gozzano, nuovo presidente Sip, in-
caricato a metà degli anni Sessanta dal ministro della sanità Mariotti di pre-
siedere una commissione di studio per la riforma della legge. A fronte delle
191
Ivi, pp. 208, 210 e 215 con corsivi nell’originale.
192
Elementi della discussione e delle varie iniziative in M. Marletta e M. Leoni, Assistenza psi-
chiatrica e organi della sanità pubblica, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc. III, 1959.
72
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
193
Discorso di Mario Gozzano al XXIX Congresso Sip, 1966, in “Il lavoro neuropsichiatrico”,
fasc. I-II, 1968, p. 41.
194
Cfr. S. Luzzi, Salute e sanità nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2004, p. 229.
73
Massimo Moraglio
Sip trovarono nel congresso associativo del 1968 la messa in scena della in-
sanabile contraddizione di una scienza medica che tentava ancora una volta
di riformare il proprio irriformabile statuto scientifico. Il «tumultuoso Con-
gresso nazionale del 1968, ove esplose la contestazione»195, che vide la prote-
sta studentesca e un tesissimo intervento di Franco Basaglia come oratore, fu
il precipitato di due secoli di aporie mediche e sociali, con la deflagrazione
delle contraddizioni, anche umane, di una intera classe medica. Nel bailamme
degli interventi al quel consesso si può ricordare quello di Giovanni Battista
Belloni, già mentore di Basaglia a Padova, il quale assumeva che «contestare
è parola di moda», per poi denunciare lo scandalo del manicomio e di come
«di questo scandalo siamo certamente corresponsabili per la nostra troppo
docile adattabilità o peggio per incuria. Basta pensare che è un’infima mi-
noranza quella degli ospedali psichiatrici nei quali, anche dopo la scoperta
dei farmaci psicolettici, si attua integralmente [...] il no restraint assoluto che
Conolly applicava nel 1849»196. Donati andava oltre l’assunzione delle re-
sponsabilità e dichiarava apertis verbis la vacuità del progetto psichiatrico,
affermando che «da circa 200 anni stiamo dicendo le stesse cose. In 200 anni
abbiamo acquisito soltanto una tonalità più angosciata; la consapevolez-
za del nostro problema nei confronti dell’assistenza psichiatrica l’abbiamo
avvertito solo in posizione narcisistica»197. Failla indicava una impossibile
via di salvezza per la psichiatria tradizionale, instaurando la logica degli
opposti estremismi: «agli apostoli della contestazione globale [...] diciamo
innanzitutto che tante delle cose che essi pensano e dicono le abbiamo dette
e pensate anche noi, ma che [...] cerchiamo di compiere la nostra opera di
rinnovamento non al di fuori ma all’interno del sistema […] Ai conservatori
di formule che riflettono un feudalesimo istituzionale rivelatore deleterio
nelle premesse e anacronistico nella realtà effettuale delle cose, consigliamo
di accettare un programma di riforma realistico [...] e che non sono più i
tempi in cui si poteva andare avanti con il criterio del “Gattopardo”». Nel
disperato tentativo di conservare il timone del cambiamento, paventava, in-
telligentemente, come la resistenza della lobby manicomiale potesse trasci-
nare l’intera psichiatria verso il baratro del «radicalismo»: «E consigliamo
di recepirle nostre proposte per una nuova organizzazione [dell’assistenza
195
http://www.psichiatria.it/.
196
Relazione di G.B. Belloni al XXX congresso Sip, 1968, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, vol. I,
1969, pp. 103 e 107.
197
Intervento di A. Donati al XXX congresso Sip, 1968, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, vol. I, 1969,
p. 205.
74
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE
psichiatrica] prima che sia troppo tardi, prima che prendano il sopravvento
coloro che [...] si battono per “risposte ed azioni politiche” di un tipo e di una
scelta ideologica ben precisa»198.
Sfuggiva alla comprensione di Failla come i saperi medici e psichiatrici
non fossero mai stati riducibili a una pura e semplice adesione alle logiche
del potere e che, proprio in quella fase, si aprirono a comportamenti più com-
plessi, gravidi di contraddizioni. Il primo dei quali fu la messa in discussione
di quegli stessi assunti scientifici e politici di cui gli operatori medici avreb-
bero dovuto essere i più convinti propugnatori. L’azione – esplosiva, quan-
do si manifestò – di approccio critico al proprio sapere trascinò il manicomio
nel vortice del lungo «autunno caldo» italiano. Le vicende che portarono
alla chiusura dei manicomi si innervavano non tanto in un nuova istituzione
curativa (magari «moderna» e «tollerante» come le comunità terapeutiche)
quanto piuttosto in nuovi progetti culturali, nella messa in crisi dei tradi-
zionali paradigmi scientifici, di svuotamento di senso per autorità e saperi
fino ad allora concepiti come articoli di fede. Ci fu, cioè, un atteggiamen-
to anti-istituzionale ed eversivo da parte di quegli stessi scienziati e tecnici
che sarebbero dovuti essere i massimi esponenti dell’establishment. Inoltre,
non troppo paradossalmente, proprio l’insipida attività medica manicomia-
le, persa traccia delle utopie ottocentesche, avrebbe fatto trovare moltissimi
psichiatri dapprima vicini alle posizioni più radicali e, poi, decisamente a
favore della legge 180, proprio perché apriva le porte del manicomio anche
per loro, consentendo l’agognato passaggio agli ospedali generali.
Come lucidamente De Peri annotava oltre venti anni fa negli Annali della
Storia d’Italia Einaudi, la psichiatria nella lettura basagliana era luogo popo-
lato da uomini «pietrificati» dai meccanismi del potere. Per Basaglia que-
sto dato non era soltanto il segno del clamoroso fallimento di un progetto
umanitario e scientifico. La scoperta di una istituzione storicamente segnata
dalla dimensione sociale del proprio specifico intervento doveva portarlo ad
una lettura del manicomio come espressione politica del controllo sociale in
una fase di sviluppo economico paleo-capitalistica. Coerentemente a questa
visione del problema, il comportamento degli psichiatri non gli appariva
soltanto rinunciatario e pessimista, quanto subalterno ad una precisa stra-
tegia politica. Insomma, «chiudendo il ciclo delle grandi utopie sociali ot-
tocentesche, Basaglia si propose infatti di superare le contraddizioni intrin-
sicamente presenti nel riformismo psichiatrico, centrando la propria analisi
198
Relazione di E. Failla al XXX congresso Sip, 1968, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, vol. I, 1969,
pp. 156-157.
75
Massimo Moraglio
199
F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e
Novecento, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einau-
di, 1984, pp. 1134-1136.
76
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO
manicomi, in “Rassegna di Studi Psichiatrici”, vol. XXIX, 1940, pp. 508 e ss.
77
Francesca Vannozzi
202
F. Vannozzi, La psichiatria senese del XX secolo: la separazione tra direzione manicomiale e docenza
universitaria, in San Niccolò di Siena. Storia di un villaggio manicomiale, a cura di F. Vannozzi, Mi-
lano, Mazzotta, 2007, pp. 145-154.
203
S. Colucci, Il San Niccolò di Siena da monastero francescano a villaggio manicomiale: storia, archi-
tettura e decorazione (1810-1950), in San Niccolò di Siena. Storia di un villaggio manicomiale, a cura di
F. Vannozzi, Milano, Mazzotta, 2007, p. 92
78
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO
79
Francesca Vannozzi
80
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO
81
Francesca Vannozzi
82
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO
to, ad esempio, era strenuo sostenitore della necessaria separazione tra in-
segnamento clinico delle malattie nervose e mentali da quello della neuro-
patologia, disciplina che andava ampliandosi notevolmente anche grazie ai
rapporti sempre più stretti con la radiologia, l’endocrinologia, la neurochi-
rurgia e tutte quelle metodiche di indagine che si stavano delineando, come
l’elettroencefalografia.
A metà del secolo, nonostante continuasse quindi il dibattito delle com-
petenze della clinica universitaria e del manicomio nei confronti non tanto
della cura quanto della didattica psichiatrica, si stipularono accordi e con-
venzioni tra i due enti perché l’insegnamento universitario venisse messo in
condizioni da parte dell’ospedale psichiatrico di essere ben effettuato, con
la cessione di quest’ultimo di locali, aule, assistenti, “alienati e alienate dal
formare materia di studio”209.
Con il progredire dell’impegno nella ricerca da parte della clinica, il ma-
nicomio andava comunque perdendo quel ruolo centrale nell’assistenza psi-
chiatrica, connotandosi sempre più come luogo per i soli “mentali cronici”,
il tutto con l’avvicinarsi del periodo del cosiddetto movimento “antiautori-
tario” diretto da Franco Basaglia e della corrente di psichiatria democratica
che condannerà la condizione di emarginazione sociale vissuta nel manico-
mio: i tempi erano maturi per la promulgazione della legge 180 del 1978, con
le sue dirompenti novità nelle pratiche della salute mentale.
209
Annuario universitario a.a. 1936-37, Siena, San Bernardino, 1937, pp. 79-84.
83
IL CASO DI MODENA
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA
210
Il presente lavoro è stato redatto con il contributo di ricerca e analisi di Renata Disarò, Ales-
sia Francesconi e Chiara Pulini della Cooperativa C.S.R. di Modena, nell’ambito del progetto
di riordino e inventariazione del complesso documentario relativo all’assistenza psichiatrica
conservato nell’Archivio della Provincia di Modena. Il progetto, realizzato con il finanziamento
della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena (Progetto ArchiviaMo) e la collaborazione della
Soprintendenza Beni archivistici per l’Emilia Romagna, dell’Istituto regionale per i Beni cultu-
rali e del Centro di documentazione provinciale, prevede una ricognizione complessiva dei vari
nuclei documentari individuati e la loro inventariazione sulla base delle norme internazionali
di descrizione archivistica ISAD (G) attraverso l’utilizzo del software X-DAMS. Tra i risultati
attesi, oltre alla puntuale descrizione dei fascicoli contenenti il carteggio generale dell’assisten-
za psichiatrica, l’individuazione dei vincoli sottesi alle aggregazioni archivistiche rintracciate,
al fine di cogliere gli elementi costitutivi intrinseci all’intero complesso documentario, anche
attraverso la ricostruzione delle pratiche quotidiane della gestione amministrativa.
211
Il complesso documentario denominato Atti relativi all’assistenza psichiatrica (1350 unità ca.),
costituito da buste e registri prodotti dal 1866 al 1986, è stato oggetto di un primo riordino sul
finire degli anni Ottanta del Novecento, in occasione del riordinamento generale delle serie e
dei nuclei documentari dell’Ente (cfr. Guida dell’Archivio, a cura di C. Ghelfi, Modena, 1994, in
particolare alle pp. 33 e 68-69).
212
Nonostante alcune lacune, dal 1881 al 1884 e dal 1887 al 1900, l’insieme documentario co-
pre complessivamente l’arco cronologico che va dal 1866 al 1986. Si segnalano documenti più
antichi, quali certificazioni allegate ad istanze, e atti in copia conforme, come nel caso della
convenzione del 1858, stipulata tra il manicomio di San Lazzaro di Reggio Emilia e la Congre-
gazione di carità di Modena, finalizzata al “mantenimento di pazzi”(APMO, Carteggio di ammi-
nistrazione generale, 1866, cl. 6.5.1, Fascicolo generale). Per quanto riguarda l’estremo più recente,
il 1986, va segnalato che, nonostante quanto sancito dalla legge 13 maggio 1978, n. 180, (detta
legge Basaglia), che prevedeva il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative con-
cernenti l’assistenza psichiatrica in condizioni di degenza ospedaliera, il nucleo documentario
ha continuato ad essere implementato anche negli anni successivi attraverso la produzione di
un carteggio finalizzato al completamento del passaggio delle funzioni.
87
Paola Romagnoli
strativa del 1865 che, tra le varie funzioni in elenco, attribuiva alle Province
l’onere di provvedere al mantenimento degli alienati poveri213.
L’obbligo consisteva nel garantire a tutti gli ammalati di mente presenti
sul territorio di competenza, anche qualora provenienti da altre province,
il ricovero presso strutture di degenza proprie o presso istituti pubblici e
privati, con i quali venivano stipulate apposite convenzioni. Per i ricoveri
urgenti di propri cittadini in strutture esterne al territorio di competenza, le
province erano poi tenute al rimborso delle spese anticipate dall’ente com-
petente non solo per il ricovero, ma anche per il trasferimento presso altre
strutture o, in caso di guarigione, presso la famiglia di origine.
Da un punto di vista archivistico, l’insieme documentario derivato
dall’espletamento di questa attività è il risultato dell’aggregazione di serie e
nuclei diversi che, seppur complessivamente generati all’interno della prin-
cipale serie archivistica dell’ente, il Carteggio di Amministrazione generale214,
sono stati per lungo tempo conservati come serie separate, confluendo solo
in tempi recenti in un unico complesso, a seguito della riorganizzazione
dell’intero fondo archivistico della Provincia sul finire degli anni Ottanta del
secolo scorso.
La voce di classificazione generale, che lega in forma unitaria questi do-
cumenti, fu individuata sin dall’inizio all’interno del titolo VI del titolario in
uso, Beneficenza pubblica215 e, più precisamente, nella rubrica 6.5, identificata
prima con Mentecatti poi, dal 1923, con Dementi e dal 1966 con Minorati psi-
chici216. Nell’arco dell’intero periodo documentato, dal 1866 al 1986, mentre
213
Legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865, n. 2248, art. 172: “Spetta al Consi-
glio provinciale, in conformità delle leggi e dei provvedimenti, provvedere colle sue delibera-
zioni […] al mantenimento dei mentecatti poveri della Provincia”.
214
Il Carteggio di amministrazione generale, da ora Carteggio, costituisce la serie archivistica prin-
cipale dell’ente e raccoglie i documenti prodotti e ricevuti dalla Provincia nell’espletamento
delle proprie funzioni. La serie, che data a partire dal 1866, preceduta dagli Atti della Deputazione
provinciale (1860-1965), organizzati in ordine di numero di protocollo, è ordinata sulla base di
titoli e rubriche di classificazione che si ispirano al “Prospetto delle materie e denominazioni
principali per la classificazione delle carte in uso degli Archivi delle Prefetture dipartimentali”
di epoca napoleonica.
215
Dal 1880, con un anticipo per gli anni che vanno dal 1875 al 1877, il titolo viene modificato in
Beneficenza e dal 1966 in Assistenza.
216
Come ultimo grado divisionale furono introdotte le classifiche 6.5.1 e 6.5.2. La classificazione
6.5.1 fu utilizzata senza soluzione di continuità fino al 1986. La classificazione 6.5.2 si riscontra
tra il 1878 e il 1880 e, in modo sistematico dal 1938, quando verrà destinata esclusivamente alla
gestione degli atti relativi all’assistenza degli Encefalitici, competenza acquisita dalle Province
nel 1936 (cfr. Regio decreto legge 29 ottobre 1936, n. 2043, Disposizioni per l’assistenza e la cura
degli affetti da forme di parchinsonismo encefalitico), in merito al sussidio di assistenza da prestare
nel periodo acuto della malattia e della successiva convalescenza. Dal 1966 la classifica 6.5.2
88
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA
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Paola Romagnoli
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GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA
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92
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA
fini della creazione di una rete di servizio di igiene e profilassi mentale. I dispensari, istituiti su
deliberazione del Consiglio provinciale, furono concepiti con compiti di diagnostica neuropsi-
chiatrica precoce, assistenza tempestiva conseguente alla diagnosi, vigilanza ed assistenza dei
dimessi dagli ospedali psichiatrici, propaganda a scopo umano e sociale dell’azione preventiva
e profilattica.
225
Per il periodo esaminato, oltre ai registri dei verbali di Giunta e Consiglio, sono agevolmente
consultabili fino al 1966 gli Atti a stampa del Consiglio provinciale, corredati da indici finali e relazioni
di bilancio, e, dopo il 1966, le scansioni digitali degli atti deliberativi, dotate a loro volta di indici.
226
Rintracciata in completo disordine sul finire degli anni Ottanta del Novecento, questa serie
documentaria è stata poi successivamente riordinata (cfr. Guida, p. 68) nel rispetto dell’organiz-
zazione originaria dei fascicoli, in parte in sequenza numerica progressiva (1979-1981), bb. 76,
in parte in ordine alfabetico (1946-1981), bb. 914. A tutt’oggi non sono stati rintracciati repertori
finalizzati al reperimento dei fascicoli, archiviati con riferimento all’anno di chiusura del fasci-
colo, così come non sono ancora evidenti le modalità di numerazione delle pratiche.
93
Paola Romagnoli
94
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA
dementi e una serie di 10 rubriche o registri, uno per ciascuna delle diverse
categorie di assistiti: dementi militari, dementi condannati, dementi a con-
tributo, dementi a carico di altre province o altri enti, dementi paganti in
proprio, dementi ricoverati a Reggio Emilia, dementi ricoverati in manico-
mi o cliniche di altre province, dementi tranquilli ricoverati in ogni istitu-
to, ricoverati in case di cura private, dementi sussidiati. L’obiettivo diventa
quello della riorganizzazione del servizio e, al suo interno, la revisione delle
scritture in essere e della loro tenuta230; una questione aperta quindi, su cui
si sta indirizzando la ricerca, per ricostruire nel contempo le modalità della
gestione dei fascicoli dei sussidiati: dalla loro formazione (apertura, gestione
in corrente, selezione e archiviazione a fini conservativi)231 agli strumenti del
loro reperimento, sia in fase corrente sia in fase di deposito, per autodocu-
mentazione del servizio.
In conclusione, allo stato attuale delle ricerche, questo complesso docu-
mentale, fonte imprescindibile per lo studio del disagio mentale nel mode-
nese tra l’Unità d’Italia e la fine degli anni Settanta del Novecento, occasione
di approfondimento sulle politiche di intervento specificamente adottate
dall’Ente, sulla rete delle relazioni che si vennero a creare sul territorio tra
enti locali e strutture sanitarie e sull’evoluzione del dibattito locale in ma-
teria, rappresenta un’opportunità per indagare tra l’altro sulle modalità or-
ganizzative e gestionali di un “sistema archivistico” complesso e articolato,
riflesso di una delle più antiche funzioni attribuite alla Provincia che, nel
caso specifico, seppe sperimentare modalità di intervento nuove in anticipo
sull’evoluzione della norma232.
230
Per quanto concerne i registri rinvenuti si segnalano: cinque registri della fine degli anni Ses-
santa dell’Ottocento, con trascrizioni di dati anteriori e la serie dei registri annuali di contabilità
delle spese sostenute per i ricoveri dei sussidiati presso istituti diversi, dalla fine dell’Ottocento
agli anni Trenta del Novecento, che, dopo alcune interruzioni, continua come serie dei registri
di Ragioneria. Contabilità sussidi, dal 1946 al 1981.
231
Di particolare interesse in questo contesto alcuni “segnalatori” rintracciati all’interno della
serie del Carteggio, realizzati su carta intestata dell’Archivio generale, come promemoria di in-
terventi di selezione – esempio: “Dementi. Fascicoli personali. Movimento: sono stati scartati
quelli dei morti e usciti” – per i quali si tratta di verificare se la selezione fosse finalizzata a
deposito o scarto.
232
Tra le fonti utili a ricostruire le fasi del dibattito locale e gli indirizzi politici adottati dall’am-
ministrazione modenese che portarono alla definizione dei piani psichiatrici comprensoriali, si
segnalano, oltre ai verbali delle deliberazioni consiliari (v. nota n. 16), alcuni contributi editoria-
li, risultati di indagini e atti di seminari, disponibili presso la Biblioteca dell’ente.
95
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA
Introduzione
233
M. Dall’Acqua-M. Miglioli, I viaggi d’istruzione medica nel processo di formazione della psichiatria
italiana, “Sanità, scienza e storia”, 2, 1984, pp. 173-197.
234
Si veda J. Frank, Sui viaggi d’istruzione medica, Giornale delle Scienze Mediche, V, 1839, pp. 385-
405 e R. Sava, Sui pregi e doveri del medico, Milano, Martinelli, 1845.
235
M. Cagossi, Nascita dell’istituzionalismo secondo i resoconti di viaggio nell’Ottocento, in Passioni
della mente e della storia, a cura di F.M. Ferro, Milano, Franco Angeli, 1980.
236
P.L. Cabras, E. Campanini, D. Lippi, I Viaggi Medici nel XVIII e nel XIX Secolo, Atti del XXXIX
Congresso Nazionale SISM, Firenze, 12-14 Giugno 1998, in “Giornale di Medicina Militare”, 149,
fasc. 5-6, 1999, pp. 439-440.
237
Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772-1840).
97
Donatella Lippi
98
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA
Il testo
99
Donatella Lippi
1° Materiale
100
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA
101
Donatella Lippi
102
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA
103
Donatella Lippi
3° Statistica
248
Si tratta di Giovanni Stefano Bonacossa (1804–1878): fin dal 1828 si dedicò allo studio e alla
cura degli alienati mentali, frequentando il manicomio di Torino prima come medico aggiunto,
poi come ordinario e infine come primario. Dottore collegiato per le malattie mentali, fu profes-
sore di Clinica delle Malattie Mentali dal 1851.
249
Da questa osservazione, si deduce che Desmaisons utilizza anche la seconda versione del
Voyage en Italie di Valentin, edita nel 1826 (L. Valentin, Voyage médical en Italie, fait en 1820, Nan-
cy, 1822, II ed., Paris 1826).
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LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA
Conclusioni
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L’ASSISTENZA AI MALATI DI MENTE NELLA PROVINCIA DI MODENA
I matti, o presunti tali, ci sono sempre stati nella storia dell’umanità. Per
secoli la malattia mentale è rimasta confinata in famiglia, l’istituzione che
si faceva carico di quel tipo di malattia. La svolta la fornì l’apparizione dei
primi manicomi, che cominciarono a raccogliere ogni sorta di spostato. Ov-
viamente l’accesso era facilitato laddove la distanza non era eccessiva e la
capienza sufficiente. Poi naturalmente c’era la questione economica a condi-
zionare l’ospitalità: buona parte di quanti necessitavano delle cure dei ma-
nicomi erano “povere menti”, intelligenze affette da disturbi e tasche vuote
costituivano una combinazione oltremodo sfortunata. Ci voleva qualcuno
che si facesse carico del mantenimento di questi disgraziati.
A Modena, come dappertutto, il problema esisteva e imponeva una so-
luzione. Nel locale ospedale, il vecchio Sant’Agostino250, eretto ai bordi del
centro storico della città, intorno alla metà del XIX secolo, quando grosso
modo questa storia prende avvio, malati di mente venivano ospitati secondo
un’abitudine che vigeva quasi dappertutto, cioè mischiati agli altri pazienti
con una scarsa attenzione alla distinzione delle malattie. Considerevolmente
allargatosi intorno alla fine del ‘700, l’ospedale era gestito dalla Congrega-
zione di carità. Vi trovavano asilo tutti quelli definiti genericamente demen-
ti, separati con difficoltà, per motivi di spazio godendo l’ospedale di una
capienza di 250-300 letti, da malati di tutt’altro genere.
Ma gran parte dei dementi venivano istradati verso il San Lazzaro di
Reggio Emilia, un’istituzione che traeva la sua origine da un ricovero di leb-
250
Sulla storia del più antico ospedale modenese, cfr. A. Giuntini-G. Muzzioli, E venne il Grande
Spedale. Il sistema ospedaliero modenese dalle origini settecentesche ad oggi, Modena, Servizio sanitario
regionale Emilia Romagna, 2005. Notizie concernenti l’assistenza ai malati di mente in epoca mo-
derna sono in P. Di Pietro, L’ospedale di Modena, Modena, Editrice Bassi e nipoti, 1965, pp. 93-94.
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Andrea Giuntini
brosi ed invalidi istituito dal Comune nel 1754 e destinato tre anni dopo
esclusivamente ai malati di mente. Un anno dopo la nascita del manicomio,
l’amministrazione dell’ospedale modenese aveva deliberato di costruire
un Ospizio de’ pazzi o Fabbrica per li pazzarelli, edificio a due piani dotato di
piccole stanze e inteso come passaggio intermedio per i malati in attesa di
trasferimento al San Lazzaro. Con l’ospedale reggiano venne stipulata una
convenzione nel 1757 per il ricovero dei pazienti modenesi a spese dell’am-
ministrazione ospedaliera della capitale ducale e della Congregazione di
Carità della città. Il San Lazzaro prevedeva una sistemazione distinta in tre
classi su base censuaria; i più poveri venivano impiegati nella colonia agrico-
la e nelle officine annesse all’istituto. Fin da questi anni si cominciò a consi-
derare il San Lazzaro la destinazione privilegiata per i matti modenesi; anzi
di più, nel senso che veniva ritenuto quasi un manicomio modenese, per la
prossimità e la familiarità percepite. Andava in questa direzione anche la
decisione presa dalla Congregazione di carità di Modena di finanziare la re-
alizzazione di ben 22 camere presso il manicomio reggiano, riservandole ai
propri malati251. A conferma di un simile sentimento comune e di un legame
sempre più forte, nel 1821 il duca Francesco IV dichiarava che il San Lazzaro
andava considerato “Stabilimento generale delle case de’ pazzi” per lo stato
intero e non solo di Reggio Emilia, sancendo quello che nell’immaginario
collettivo locale già trovava una forma compiuta. I flussi nei primi decenni
dell’800 furono intensi e la consuetudine si fondò definitivamente, permet-
tendo ai modenesi di pretendere condizioni economiche di ammissione più
favorevoli. Chi finiva al San Lazzaro probabilmente godeva di condizioni
migliori di quanti viceversa restavano al Sant’Agostino, se diamo credito
ad una descrizione dei locali adibiti all’accoglienza dei dementi risalente al
1803: “Nell’ospedale di Modena sonovi per i pazzi due piccoli malsani locali,
uno a settentrione e l’altro a ponente, i camerini dei quali sono separati da
tante robuste rastrelliere a guisa di capponaie. Tali locali, ben lungi dal costi-
tuire un luogo di cura, riescono invece un luogo di pena, peggiore assai di un
ergastolo, dove i ricoverati divengono in breve scorbutici e muoiono” 252.
Alla vigilia dell’Unificazione, nel 1858, veniva firmata una nuova conven-
zione con la Congregazione di carità modenese, che garantiva agli abitanti
di Modena e del