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POVERE MENTI

LA CURA DELLA MALATTIA MENTALE

LA CURA DELLA MALATTIA MENTALE NELLA PROVINCIA DI MODENA FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
NELLA PROVINCIA DI MODENA
FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
a cura di Andrea Giuntini

POVERE MENTI
Pubblicazione realizzata da:
Provincia di Modena
AREA FORMAZIONE, ISTRUZIONE, LAVORO, POLITICHE SOCIALI E ASSOCIAZIONISMO

ASSESSORATO ALLA SANITÀ, POLITICHE SOCIALI E DELLE FAMIGLIE,


ASSOCIAZIONISMO E VOLONTARIATO

Stampa:
Tipografia TEM Modena

Finito di stampare:
Aprile 2009

In copertina: illustrazione tratta da una riproduzione di “Alberi nel giardino dell’ospedale di Saint-Paul” di Vincent Van Gogh da pitturare.com
POVERE MENTI.
LA CURA DELLA MALATTIA MENTALE
NELLA PROVINCIA DI MODENA
FRA OTTOCENTO E NOVECENTO

a cura di
Andrea Giuntini
INDICE

Maurizio Guaitoli,
Prefazione .......................................................................................................................................................................... Pag. 9

Andrea Giuntini,
Introduzione.................................................................................................................................................................... Pag. 11

Malattia mentale, psichiatria e manicomi in Italia:


una prospettiva storica

Andrea Scartabellati,
Pagine dimenticate.
Le culture psichiatriche in Italia tra fine ‘800 e primi decenni del ‘900 ............ Pag. 15

Massimo Tornabene,
Psichiatria e manicomi tra Fascismo e guerra ............................................................................. Pag. 41

Massimo Moraglio,
Prigionieri di un’utopia.
Il manicomio dalle speranze terapeutiche alla routine segregante ........................... Pag. 55

Francesca Vannozzi,
Verso la fine di un percorso:
il progressivo perdersi di ruolo del manicomio ............................................................................ Pag. 77

Il caso di Modena

Paola Romagnoli,
Gli atti dell’assistenza psichiatrica della Provincia di Modena:
tipologie documentarie e loro organizzazione.............................................................................. Pag. 87
Donatella Lippi,
Lo stabilimento per alienati del Ducato di Modena nella testimonianza
di Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans (1840) ............................................................. Pag. 97

Andrea Giuntini,
L’assistenza ai malati di mente nella Provincia di Modena
dalla legge del 1865 alla seconda guerra mondiale .................................................................. Pag. 107

Simone Fari,
Tra rinnovamento sociale ed efficienza economica.
La gestione dell’assistenza psichiatrica nella Provincia di Modena
dal dopoguerra alla legge 180............................................................................................................................... Pag. 143

Mauro Bertani,
Ipotesi su un manicomio.
Il San Lazzaro di Reggio Emilia tra ‘800 e ‘900 ........................................................................ Pag. 213

Francesco Paolella,
I modenesi ricoverati nell’Istituto psichiatrico San Lazzaro.
Appunti per una ricerca...................................................................................................................................... Pag. 255

Gabriella Boilini-Giorgio Gosetti,


I modenesi nell’Ospedale Ricovero di San Giovanni in Persiceto dal 1895.
Esodo e controesodo ................................................................................................................................................. Pag. 277

Indice dei nomi di persona ................................................................................................................................ Pag. 293


PREFAZIONE

Maurizio Guaitoli, Assessore alla Sanità, Politiche Sociali e delle Famiglie,


Associazionismo e Volontariato della Provincia di Modena

PREFAZIONE

Fra le molte svolte legislative, che hanno inciso profondamente sulla vita
del nostro paese nel secondo dopoguerra, merita sicuramente un posto di
riguardo la legge emanata dal Parlamento nel 1978 e che va impropriamente
sotto il nome di “legge Basaglia”. In seguito a quel provvedimento i manico-
mi italiani aprirono le proprie porte, prospettando ai malati una vita nuova
nella società e segnando la fine di un’epoca di segregazione secolare. Da
quel momento l’assistenza agli individui affetti da patologie psichiatriche ha
segnato una trasformazione di 180 gradi, favorendo un indubbio migliora-
mento delle condizioni di vita dei malati. La legge fa da spartiacque fra due
modi di intendere ed affrontare l’assistenza ai malati di mente e costituisce
un’evidente grande conquista di civiltà.
In occasione del trentennale del provvedimento ispirato dal pensiero e
dall’opera di Franco Basaglia e della sua scuola, l’Amministrazione Provin-
ciale di Modena ha concepito e sostenuto una ricerca sulla storia di questo
particolare ambito in un arco cronologico racchiuso fra le due leggi princi-
pali del settore, quella emanata nel 1865, che assegnava alle Province l’ob-
bligo economico del mantenimento “dei mentecatti poveri della provincia”
e quella del 1978. Al di là degli intenti celebrativi, si è voluto ricostruire le
vicende di questo mondo di sofferenza, del tutto persuasi che Modena e la
sua provincia abbiano giocato storicamente un ruolo di primo piano nella
questione da molti punti di vista. La vicinanza ad uno dei principali istituti
manicomiali italiani ed europei, il San Lazzaro di Reggio, oltre che a condi-
zionare le scelte in merito alla cura dei malati, ha contribuito alla crescita di
una serie di conoscenze e di sensibilità particolarmente sviluppate. In virtù
anche dei rapporti con l’ospedale reggiano, Modena poi, si è sempre distin-
ta in ambito universitario per lo stato avanzato del suo sistema di insegna-
mento della psichiatria e per la diffusione di questa cultura già a partire
dagli anni ’70 dell’800. Infine l’Amministrazione Provinciale, soprattutto nel

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Maurizio Guaitoli

secondo dopoguerra, ha saputo sperimentare nuove politiche assistenziali


che hanno anticipato l’evoluzione delle normative nazionali, passando dalla
pura assistenza economica iniziale, alla progettazione e sperimentazione di
strutture e servizi distribuiti sul territorio, volti alla prevenzione, alla assi-
stenza ed al reinserimento sociale dei malati psichiatrici.
Affermare dunque che Modena ha funzionato da laboratorio di speri-
mentazione di pratiche organizzative e scientifiche innovative, sembra, alla
luce dei risultati offerti dalla ricerca, del tutto legittimo.
Questo volume, per l’elaborazione del quale abbiamo chiamato a raccolta
buona parte dei migliori specialisti attivi in Italia in tale filone di studi stori-
ci, rappresenta il primo concreto risultato di un progetto organico di ricerca
lanciato dall’amministrazione provinciale, cui seguirà la sistemazione archi-
vistica, presso l’Archivio della Provincia di Modena, di un interessantissimo
fondo documentario, denominato Atti relativi all’assistenza psichiatrica, che
presto verrà messo a disposizione degli studiosi, implementando ulterior-
mente gli studi di questo tipo. Povere menti costituisce un’acquisizione di
grande importanza nel panorama storiografico nazionale e al tempo stesso
risponde ad un’esigenza sentita su scala locale di recuperare una memoria
profondamente radicata e che ancora oggi rappresenta la guida per il nostro
operare in campo sociale. I principi, la cultura e la politica assistenziale nel
contesto psichiatrico di oggi sono il risultato di un’eredità storica preziosa,
che l’amministrazione provinciale modenese, continuando a lavorare nel
solco tracciato un secolo e mezzo fa, non intende disperdere.

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INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

La storiografia concernente le tematiche legate alla storia della psichiatria,


dei manicomi e dell’assistenza ai malati di mente – i protagonisti di questo li-
bro che nello svolgimento del volume verranno chiamati in modi diversi, ma
con un rimando univoco - si è notevolmente arricchita nel corso degli ultimi
anni. Riflessioni complessive sviluppatesi lungo diversi filoni interpretativi
e percorsi di ricerca incentrati su singole realtà ospedaliere hanno contribui-
to, in pari misura, ad esplorare questo settore di indagine1.
Il presente volume ha la pretesa – mantenendo la necessaria umiltà - di
restituire la ricchezza dello scavo di ricerca effettuato e dei numerosi ap-
profondimenti metodologici portati avanti, all’interno di un contesto, quello
modenese, che rappresenta in effetti un angolo di visuale, se non addirittura
per certi versi e da un certo momento in poi, un vero e proprio laboratorio
per la cura della malattia mentale. Due piani, dunque, che si è tentato, auspi-
cabilmente con successo, di far intersecare, per andare oltre la mera storia lo-
cale e proiettare viceversa la vicenda modenese in una prospettiva che deve
essere, almeno secondo l’opinione di chi ha raccolto i saggi, assai più ampia
di quella provinciale. Al tempo stesso l’esperienza modenese – del tutto ano-
mala in quanto priva di un manicomio proprio, ma con la presenza vicina di
un istituto rilevante da ogni punto di vista come è stato storicamente il San
Lazzaro di Reggio Emilia - si pone su una frontiera di originalità, sulla quale
i saggi della seconda parte del volume hanno cercato di gettare piena luce.
Appare visibile, in particolare negli anni che vanno dal secondo dopoguerra
all’emanazione della legge del 1978, più volte evocata nel testo con intenti
scevri da qualunque appesantimento ideologico, l’intreccio profondo fra il
filo degli eventi e dei processi, che attengono alla dimensione modenese, e
quello di alcune delle più significative istanze di modernizzazione relative
a quegli anni.
Una ricostruzione corale, come quella preferita anche per la parte dedi-
cata alla provincia modenese, si presta a far emergere le tante tematiche, che
1
Un’utile lettura è risultato il saggio di Ferruccio Giacanelli (Psichiatria e storiografia, in “Psico-
terapia e scienze umane”, 1986, 3, pp. 80-93), uno dei maestri riconosciuti di questo campo di
studi, che disegna un quadro storiografico, di cui detta le coordinate.

11
Andrea Giuntini

la questione dell’assistenza ai malati di mente incrocia: da quelle strettamen-


te sanitarie, a quelle attinenti al profilo istituzionale ed amministrativo fino
all’ottica di analisi pienamente aziendale resa necessaria dalla dimensione
posseduta dalla questione dell’assistenza ai malati di mente a livello pro-
vinciale. Denunciamo con sincerità l’ambizione di avere adottato una lettura
a tutto tondo, senza trascurare o sottovalutare nessuna delle piste di ricer-
ca percorribili. Risulta doveroso anche un telegrafico accenno esplicativo al
titolo, modulato su un doppio registro: povere quelle menti per la dram-
maticità della loro condizione umana e al tempo stesso per essere frutto di
complicati rapporti, che trovano nell’elemento della subalternità sociale il
motivo dominante del destino del loro disturbo psichico2.
In conclusione occorre fare un breve riferimento alle fonti. Sull’imposta-
zione complessiva del lavoro evidentemente ha influito la tipologia delle
fonti documentarie utilizzate, delle quali si è scelto di dare pienamente conto
con il saggio della responsabile del patrimonio storico documentario della
Provincia di Modena, custode di un’enorme quantità di cartelle cliniche in
via di sistemazione archivistica, fonte di rilevanza straordinaria che induce
a pensare ad un’ulteriore puntata per il futuro della ricerca in ambito mo-
denese3.
Andrea Giuntini

2
Hanno costituito un’ottima base di partenza per queste considerazioni le non più giovani,
ma ancora del tutto valide, osservazioni di A. Gibelli, Emarginati e classi lavoratrici: le ragioni di
un nodo storiografico, in Le istituzioni segregate nell’Italia liberale, numero monografico della rivista
“Movimento operaio e socialista”, 1980, 4, pp. 361-367.
3
Sulla questione delle cartelle cliniche come fonte per la storia della psichiatria, si rimanda
a Le carte della follia, a cura di D. di Diodoro, G. Ferrari e F. Giacanelli, Bologna, Quaderni del
Centro di studi G.F. Minguzzi, 1990; a Manicomio, società e politica. Storia, memoria e cultura della
devianza mentale dal Piemonte all’Italia, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2005; ed a M. Tornabene,
La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves, Araba Fenice, 2007,
pp. 19-26.

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MALATTIA MENTALE, PSICHIATRIA
E MANICOMI IN ITALIA:

UNA PROSPETTIVA STORICA


PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

Andrea Scartabellati, Università di Venezia

PAGINE DIMENTICATE.
LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA
TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

All’inizio del ‘900, «quella che un professore di Tubinga ha chiamato la so-


rella idiota delle altre discipline mediche: la psichiatria»4, viveva un momento
d’incertezza. Mentre la spinta propulsiva della generazione psichiatrica suc-
ceduta ai padri fondatori Andrea Verga (1811-1895), Biagio Miraglia (1814-
1885), Serafino Biffi (1822-1899) e Carlo Livi (1823-1878), era in via d’esauri-
mento, sommovimenti intestini investivano alcuni nodi paradigmatici della
disciplina arricchendone le armi scientifiche e mutandone l’abito pubblico.
Erano, in realtà, movimenti ampi, ma epidermici, incapaci d’intaccare
il nucleo duro ancora saldamente ancorato alla combinazione di somato-
organicismo di matrice tedesca e lombrosianesimo. Soprattutto, si trattava
di innovazioni che, come troppi storici tendono a rimuovere, poco o nulla
influivano sulla prassi manicomiale, allora il terreno di caccia par excellence
dello psichiatra italiano.
I mondi di carta degli alienisti, se mostravano una maggiore articolazione
concettuale ed una diversificazione interna più complessa, poco potevano
per superare il nichilismo terapeutico imprigionante la scienza delle malat-
tie mentali. In un’età che non conosceva ancora l’utilizzo degli psicofarma-
ci, o le terapie da shock (coma insulinico, malariaterapia), le cure restavano
vincolate all’ergoterapia, ad elettrostimolazioni scarsamente efficaci, a ba-
gni prolungati per mezzo di docce con ugelli orizzontali e verticali, oppure
ad interventi di persuasione morale variamente combinati con interoclismi,
purghe a base di olio di ricino ed iniezioni di scopolamina e morfina5. Non
di meno, a fronte di tali debolezze terapeutiche, alcune importanti novità
4
A. Vedrani, Cesare Lombroso, in “La Voce”, II, 2, 1909, p. 231.
5
A. Scartabellati, Destini della follia in guerra. Cremona: il catalogo – raccapricciante – è questo, in
Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande guerra, a cura
di A. Scartabellati, Torino, Marco Valerio, 2008, pp. 195-196.

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Andrea Scartabellati

si registravano nell’inventario dell’internazionalmente periferico arcipelago


psichiatrico nazionale.
Innanzi tutto, di craniologia e craniometria non si discettava più. Un’in-
dagine come quella del direttore del manicomio cremonese Giuseppe Ama-
dei (1854-1919), la quale, unendo sintesi scientifica e patriottismo, esaminava
con positivistica passione le anomalie dei crani dei soldati caduti sul campo
a Solferino nel 18596, rappresentava nel 1912 più l’ultimo sussulto di una
tradizione culturale al tramonto che non l’effettiva presentazione di un tema
attuale per il sapere psichiatrico.
Allo stesso modo, anche l’utopia del numero, quella smisurata fiducia nelle
cifre e nel rilevamento quantitativo-statistico di riflettere, come uno specchio
interiore, l’immagine del mondo degenerato, segnava il passo, trascinando
con sé una precisa modalità di praticare l’antropologia. Modalità che se an-
dava solo lentamente perdendo di valore agli occhi della medicina italiana,
non di meno si presentava al giudizio degli esperti più attenti sprovvista di
quel valore di chiave esplicativa dei fenomeni patologici cucitagli addosso,
con una certa approssimazione, dalla scuola lombrosiana.
Infine, il processo di autonomizzazione della neurologia dalla psichiatria,
iniziato nei primi anni del secolo con la costituzione della Società Italiana di
Neurologia, procedeva spedito, venendo ulteriormente sollecitato sia dagli
studi d’avanguardia di Leonardo Bianchi (1848-1927) e Giuseppe Mingazzi-
ni (1859-1929), sia dalle esperienze patologiche e terapeutiche maturate du-
rante la Grande guerra7.
Tutto considerato, questi movimenti di rinnovamento, erano gli esiti di
un atteggiamento maggiormente critico verso la batteria concettuale positi-
vista trasmesso alla scienza dal dibattito filosofico. Le correnti più moderne
ed agguerrite della filosofia nazionale, a cominciare dai suoi esponenti di
punta – Croce (1866-1952) o Gentile (1875-1944)8 – spingevano affinché la
cultura italiana si lasciasse definitivamente alle spalle la stagione positivista.
Stagione alla quale, al contrario, restavano assimilabili scientificamente, non
meno che emotivamente, i comportamenti, le motivazioni e le valutazioni
degli psichiatri.
Orfani di una bussola che fornisse loro almeno le coordinate perimetrali
6
G. Amadei, Il Gabinetto delle anomalie dell’Ossario di Solferino. Catalogo, Padova, Tipografia
Ernesto Pizzati, 1912.
7
G. Boschi, Un ospedale speciale per malati nervosi. L’Ospedale Militare Neurologico Villa del Semi-
nario presso Ferrara, Ferrara, Premiata Tipografia Ferrariola, 1918, pp. 5-6.
8
Vedi G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, II, I positivisti, Firenze, Sansoni,
1957 [1921], pp. 154-169, 315-342 e 375-408.

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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

del mondo dell’anormalità e della degenerazione, gli psichiatri ritrovavano


nel positivismo calunniato da neoidealisti e nazionalisti quello che nemme-
no l’avanzato pragmatismo di Giovanni Vailati (1863-1909) – in parte fecon-
do nell’influenzare il lavoro di Giulio Cesare Ferrari – poteva promettere
loro. Quelle linee d’insieme della problematica-follia, quel significato sociale
di pazzi, manicomi e contesto socio-economico-culturale entro cui si colloca-
vano ed interagivano, rivendicato da Lombroso a merito della propria cor-
rente ed imputato a demerito del minimalismo metodologico dalle «vedute
microcliniche» della novella neuropsichiatria9. Linee d’insieme, ancora, non
rimaste un’inerte aspirazione intellettuale, favorendo un costante riformi-
smo sbocciato, in età giolittiana, nella «soppressione coraggiosa di ben 24
stabilimenti [carcerari] fra i più disadatti dal punto di vista igienico e socia-
le», nella sistemazione scientifica dei manicomi criminali, nella razionaliz-
zazione dell’universo manicomiale, nella creazione di sanatori specifici per
cronici e tubercolotici, nello sviluppo di case di lavoro e di colonie agricole
e, da ultimo, nella maggior libertà d’azione riconosciuta al medico nelle que-
stioni disciplinari ed igieniche10.
D’altro canto, oltre le ricadute pratiche, che la summa positivista man-
tenesse elementi di fascinazione e di orientamento per i medici non era un
fatto squisitamente italiano. La sua vitalità sarà riconosciuta ancora nel 1919,
dopo le tremende realtà della psichiatria di guerra, da Carl Gustav Jung
(1875-1961), perentorio nel confutare il presunto automatismo tra supera-
mento in campo filosofico del positivismo e sua messa in mora nell’ambito
medico11.
Sussistendo spesso integrandosi, in forme ibride, con le tesi delle correnti
psichiatriche più aperte alle novità, la sopravvivenza del positivismo dove-
va, tuttavia, fare i conti con una serie di nuove realtà, tra le quali la nascita di
una psicologia sperimentale non più ancella della sorella maggiore psichia-
tria, era forse tra le più rilevanti. Quando, dopo anni di incerto e pionieristi-
co incedere, anche la psicologia italiana, euritmicamente alla neurologia, si
metterà in cammino perseguendo una propria indipendenza di contenuti,
metodi e politiche accademiche, apparirà anche ai più ostinati ottimisti che
gli orizzonti di gloria vaticinati alla scienza delle alienazioni mentali dai suoi
9
C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, in “Archivio di Antro-
pologia Criminale”, XXIX, 1908, pp. 163-165; la citazione si trova a pag. 164.
10
F. Saporito, Su l’opera di Cesare Lombroso a proposito di una recente critica, Roma, Tipografia
delle Mantellate, 1913, p. 9.
11
C.G. Jung, Psicogenesi della malattia mentale (1919), in La malattia mentale, Roma, Editori Riuni-
ti, 1971, pp. 199-200.

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Andrea Scartabellati

più noti sacerdoti erano stati sostanzialmente disattesi. Perdurò la volontà


medica, rivendicata da Lombroso fin dalla prolusione torinese del 1887, di
spogliare lo psichiatra di «ogni tendenza aprioristica, corazzandosi coll’ana-
tomia, colla patologia, colla fine istologia dei centri nervosi» e col riscontro
obiettivo del fatto anomalo12; finirono tra i ferri vecchi delle speranze delu-
se, invece, la convinzione morselliana dell’imminente trionfo delle Scienze
sui nemici oscurantisti (1881)13 ed il convincimento di Augusto Tamburini
(1848-1919) circa la facoltà della psichiatria di svelare «molti avvenimenti
dapprima inesplicabili nel dominio della storia»14. La morte di Cesare Lom-
broso, nell’ottobre del 1909, aggiunse un’ulteriore voce a perdere nel bilan-
cio della psichiatria positivista.
Apriamo una parentesi: come è noto, le affinità elettive tra psichiatria
e corpus teorico del grande alienista e criminologo sono state motivo di di-
battito storiografico, mentre la tangenzialità dell’itinerario lombrosiano al
cospetto degli sviluppi psichiatrici è stata oggetto di fondate osservazioni.
Eppure, pochi dubbi rimangono sul fatto che la caratura scientifica dell’in-
vestigazione lombrosiana, internazionalmente ammessa15, abbia agito, para-
dossalmente ben oltre la morte del suo promotore, almeno con una duplice
funzione per l’utile psichiatrico nazionale. Sia da nume tutelare di una di-
sciplina giovane, guardata con sospetto – ampiamente ricambiato16 - dalla
cultura filosofica; sia da frangiflutti rispetto alle ondate polemiche che ori-
ginavano dal neoidealismo e dalla scuola medica cattolica antimaterialista e
antideterminista di Agostino Gemelli17.
12
C. Lombroso, Le nuove conquiste della psichiatria, Torino, Dumolard, 1887, p. 7 e p. 24.
13
Rimando agli interventi di Morselli per la presentazione della Rivista di filosofia scientifica, da
lui fondata e diretta a partire dal 1881.
14
A. Tamburini, L’indirizzo e le finalità dell’odierna psichiatria, in “Rivista d’Italia”, 1906, p. 777.
15
Riguardo alla fama internazionale di Lombroso, se ne ha una indiretta, ma puntuale descri-
zione nel bel volumetto di P. Mazzarello, Il genio e l’alienista. La strana visita di Lombroso a Tolstoj,
Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 37-38 e pp. 44-47. Le accoglienze riservate a Lombroso di
passaggio per Budapest e Smolensk, e poi a Mosca, dimostrano come sia insostenibile la tesi
secondo la quale la fortuna del criminologo veneto rappresenti un’invenzione postuma ed inte-
ressata di amici ed allievi.
16
La stessa scelta del nome Società Italiana di Freniatria, preferito a psichiatria, sottolineando
la radice phrên = complesso delle forze dinamiche dell’organismo da contrapporre a psiche =
anima, si doveva al desiderio di ancorare la disciplina alla medicina, sottraendola all’interesse
degli psicologi, cioè, per l’epoca, i filosofi (G. Zanchin, G. Salomone, R. Arnone, Cenni storici, in
http://www.neuro.it//storia.php).
17
Fin troppo celebre, ma perfetto condensato dei peccati che si ascrivevano a Lombroso e alla
sua scuola atea, il volume di A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina,
Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1911.

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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

Morto Lombroso la nave psichiatrica si vedeva costretta a prendere il lar-


go, in un’età di certezze rimesse in discussione, priva di uno dei suoi più affi-
dabili timonieri. Da strumento di interpretazione della storia dietro la grande
storia, come auspicava Augusto Tamburini, la psichiatria ripiegava nelle più
modeste vesti di una officina intellettuale18 incerta sul lavoro da intraprendere,
seppur conscia del committente cui doveva garantire la propria impresa.
Oltre il perimetro psichiatrico, la crisi del modello medico-biologico
positivista assurgeva a tema corrente dell’agenda culturale italiana. Per la
psichiatria ciò equivaleva concretamente a fare i conti - al cospetto di un si-
stema manicomiale prossimo all’implosione – con una serie di cronici deficit.
In primo luogo, con l’incapacità dell’alienismo di marca lombrosiana di po-
stulare un senso concreto dell’essere e dell’agire umano che non si rovescias-
se, assurdamente, in posizioni di radicale fenomenismo19. In secondo luogo,
con la bancarotta della pretesa psichiatrica di presentarsi quale scienza ar-
mata di ipotesi sperimentali chiare e conchiuse20, abili nell’investigare, dal
vitro morfo-antropologico, il significato sociale dell’esistenza degli individui
impazziti, degeneri, anomali o criminali. Infine, la psichiatria era chiamata
a confrontarsi con la diminuita visibilità e rispettabilità accreditata presso
l’opinione pubblica. Due decenni di promesse non mantenute avevano cor-
roso la fiducia verso le soluzioni psichiatriche: l’appiattirsi mesto nella trin-
cea del riduzionismo organicistico e fisiologico21 - tipico della novella neu-
ropsichiatria – era il riflesso condizionato in ambito scientifico della ritirata
pubblica che rendeva anacronistico, oltre che improbabile nei tempi nuovi,
l’engagement dello psichiatra e neurologo Leonardo Bianchi, asceso nel 1905
alla poltrona di Ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo del
giolittiano Alessandro Fortis22.
Di lì a pochi anni, certo, la Grande guerra, con la sua mobilitazione di
massa, soprattutto dopo lo spartiacque di Caporetto, avrebbe occasionato
l’opportunità di una reiterata quasi esaltante cavalcata della psichiatria alla
testa delle scienze nazionali contro i barbari germanici23. E non casualmente,
18
G. Portigliotti, Il Maestro. La vita, le opere [Enrico Morselli], in “Quaderni di Psichiatria”, XVI,
1929, p. 14.
19
E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 9.
20
G. Parlato, Polemiche lombrosiane di ieri e di oggi, in “Note e Riviste di Psichiatria”, LVIII,
luglio-dicembre 1965, pp. 827-828.
21
C. Pogliano, La Grande guerra e l’orologio della psiche, in “Belfagor”, 4, 1986, p. 395.
22
F. Baldi, Leonardo Bianchi, in “Quaderni di Psichiatria”, X, 1923, pp. 219-224.
23
A. Scartabellati, “Il dovere dei medici italiani nell’ora presente”. Biopolitica, seduzione bellica e

19
Andrea Scartabellati

lo stesso Leonardo Bianchi, tra 1916 e ‘17, tornava sui banchi del governo
come ministro senza portafoglio incaricato dell’organizzazione sanitaria.
Non di meno, il volto pubblico e scientifico della scienza delle alienazioni
mentali era mutato rispetto al recente passato, avendo ciclicamente prestato
il fianco a propositi di aggiornamento e revisione più o meno radicali, secon-
do traiettorie spesso maldestre e quasi sempre incerte. Traiettorie sulle quali
incombeva ancora, non solo come un fantasma, Cesare Lombroso con il suo
opus magnum.
In sintesi, sul piano scientifico, dal 1910 l’ossificato antropo-somatismo
psichiatrico tendeva a dinamizzarsi, rilanciando, in forme più articolate, i
contributi dell’evoluzionismo haeckeliano. Questo, con l’implicita soprava-
lutazione dell’elemento materialistico insito, avrebbe caratterizzato a lun-
go la medicina italiana, fino alle propaggini del costituzionalismo pendia-
no riattato al sapere psichiatrico da Francesco Del Greco, giocando inoltre
un ruolo non accessorio – seppur poco esaminato dagli storici – nel pro-
blematico incontro della psichiatria con le metodologie della psicoanalisi.
Analogamente, anche la discussa interpretazione haeckeliana delle opere di
Lamarck (1744-1829), Darwin (1809-1882) e Spencer (1820-1903), quali sta-
di progressivi di una sistematica costruzione teoretica priva di sfumature,
passava in dote all’alienismo, ed in specie alla sua variante militare. Di Her-
bert Spencer, in particolare, si recepirono sia la preferenza accordata ad una
lettura del divenire sociale intrisa di incorreggibile pessimismo, sia quelle
specifiche opzioni terminologiche pre-darwiniane derivate dalla meccanica
equiparazione stabilita a priori tra vita degli organismi fisici ed evoluzione
dei costrutti sociali.
Meno convinte e compatte, al contrario, furono le posizioni espresse dagli
alienisti italiani verso l’opera darwiniana, accolta con ambiguo consenso. Se,
infatti, di Darwin conquistò la congerie di immagini e metafore naturalisti-
che – che ritroviamo, per esempio, nelle pagine dello psichiatra militare Pla-
cido Consiglio (1877-1959)24 - l’idea cardine di un graduale perfezionamento
degli organismi viventi secondo dispositivi selettivi in ultima analisi casuali,
sollevava imbarazzo. Il credito riscosso presso la comunità scientifica dal
mai discusso organicismo e, soprattutto, dalla dottrina delle eredità pato-
logiche concepita nelle forme pre-mendelliane di Bénédict Augustin Morel
(1809-1873), col suo carico di tacito finalismo, rappresentarono un elemento
battaglie culturali nelle scienze umane durante il primo conflitto mondiale, in “Medicina e Storia”, 14,
2008, pp. 65-94.
24
Vedi gli Studii di psichiatria militare pubblicati a puntate nella gloriosa “Rivista Sperimentale
di Freniatria” da Placido Consiglio tra 1912 (vol. XXXVIII) e 1916 (vol. XLI).

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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

di contraddizione invincibile per la recezione alienistica delle teorizzazioni


darwiniane. Lo stesso artificio discorsivo della lotta per l’esistenza fu fatto
proprio dagli psichiatri previa sua re-inscrizione nei tradizionali parame-
tri lombrosiani (di tono lamarckiano) dell’atavismo e della simbiosi, entrambi
connessi alla presunta attitudine biopsichica degli individui verso le sfide
della vita e di una civiltà concepita come accumulazione successiva e uniline-
are di stadi progressivamente complessi e differenziati.
Le novità, dunque, avevano un sapore antico? Il filo rosso del rinnovato
atteggiamento degli psichiatri, infatti, se rilanciava la centralità dell’aspetto
organicistico, ed era disposto a far proprio la critica a singoli aspetti del lom-
brosismo, pervicacemente non accettava di metterne in mora la weltanschau-
ung naturalistica soggiacente. Come ebbe a ricordare Enrico Morselli (1852-
1929), con Tamburini l’esponente più in vista della generazione scientifica
a cui appartenne Lombroso, per quanto turbata dalle critiche e vittima di
un’impotenza terapeutica imbarazzante, la psichiatria non era intenzionata
né a rigettare il nucleo duro positivista, né a subire passivamente mortifica-
zioni esagerate dell’opera e dell’intellettuale-simbolo di cui si sentiva figlia
legittima.
Morselli ammetteva che la renaissance del positivismo psichiatrico doves-
se aver di mira, con i facili entusiasmi dei dilettanti dell’antropologia alla
Max Nordau25, le sovra-determinazioni interpretative alla Enrico Ferri (1856-
1929) dei giuristi-criminologi. D’altro canto, nuove vie alla scienza – suggeri-
va parafrasando il Lombroso della prolusione del 1887 – potevano esser trac-
ciate solo consolidando il cordone ombelicale che alimentava la psichiatria
dalla nutrice medicina, e procedendo alla riscoperta letterale dei sacri testi
del maestro riletti alla luce della casistica patologica individuale26.
Posizioni tutt’altro che isolate o minoritarie quelle di Morselli. Filippo
Saporito (1870-1955) direttore del manicomio di Aversa e futuro consulente
perito nel caso-Gramsci, considerava il lombrosismo vittima della «piovra
del dilettantismo» e degli «orecchianti»27, mentre tra il 1915 e 1916 un acceso
fuoco di sbarramento dei più noti scienziati italiani: Giuseppe Sergi (1841-
1936), Giuseppe Antonini (1864-1938), Sante De Sanctis (1862-1935) e Cesare
Agostini (1864-1942), rintuzzava le deduzioni che, a seguito dell’inchiesta
The English Convict (1913) di C.B. Goring (1870-1919) svolta nelle carceri bri-
25
E. Morselli, Le condizioni presenti delle dottrine lombrosiane, in “La Scuola Positiva”, XXIV,
1914, pp. 309 e ss.
26
E. Morselli, L’Eugenica e le previsioni sulla eredità neuro-psicopatica, in “Quaderni di Psichia-
tria”, II, 1915, pp. 323-324.
27
F. Saporito, Su l’opera di Cesare Lombroso, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1913, p. 8.

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Andrea Scartabellati

tanniche, ne leggevano estensivamente la rilevanza in ambito nostrano nella


liquidazione delle tesi del Lombroso e della sua scuola28.
Il filo-lombrosismo della psichiatria civile, se possibile, poi, risultava an-
cora più convinto nell’opera dell’alienismo militare29, la cui breve parabola
proprio in quegli anni (1910) era all’esordio con l’organizzazione di apposite
sale psichiatriche presso gli ospedali della Marina per merito del colonnello
Cognetti30. Tutt’altro che avvertita sui rapporti tra guerra e patologie menta-
li – un ritornello abusato della storiografia31 – ma fin troppo occupata dallo
spinoso tema della simulazione32, la psichiatria con le stellette si presentò al
mondo psichiatrico al XIV congresso della Società Italiana di Freniatria (Pe-
rugia, 1911)33. Prima di allora, naturalmente, non erano mancati studi o os-
servazioni34; ma è significativo che fu solo in concomitanza con l’aggressione
italiana alla Libia che psichiatria e psicologia militare riscossero il manifesto
interesse delle classi dirigenti, incrementando le investigazioni e fornendo
contributi empirici non disprezzabili come l’Inchiesta psicologica sui reduci del-
la Libia del tenente colonnello del 77° Fanteria Onorato Mangiarotti35.
Comun denominatore della produzione alienistica militare fu l’adesione
pubblicamente rivendicata al positivismo antropologico di matrice lombro-
siana. Fino ai primi anni ’20, quando l’interesse per la materia cominciò a
scemare, tutte le indagini di un Gaetano Funaioli – pioniere della disciplina
28
E. Morselli, Ancora del Lombrosismo di fronte alla Scienza Antropologica, in “Quaderni di Psi-
chiatria”, III, 1916, pp. 56-58.
29
Postilla di Red., in “La Scuola Positiva”, XXI, 1911, p. 14.
30
G. Funaioli, Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito, in “Rivista Sperimenta-
le di Freniatria”, XXXVII, 1911, pp. 337-338.
31
Sconsolato Gaetano Boschi, La Neuropsichiatria e la guerra, Ferrara, Stabilimento Tipografico
Ferrarese, 1916, dopo aver ambiziosamente affermato: «la entità della traumatologia psichica
della guerra moderna è nota a tutti» (p. 6), era costretto a constatare come «nei programmi dei
Corsi accelerati per i laureandi della Facoltà di Medicina e Chirurgia, aventi di mira la prepa-
razione dei medici militari, il Ministero della P.I., sentito il Consiglio Superiore, stabiliva una
limitazione della Clinica delle malattie mentali pari a quella della Clinica ostetrica e della clinica
pediatrica» (p. 7)!
32
Il discorso simulazione orienterà gli sforzi dei medici dell’Esercito (con Luigi Roncoroni) fin
dagli esordi; vedi: A. Tamburini, G.C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e
nelle varie nazioni, Torino, Utet, 1918, p. 666.
33
A. Tamburini, Intervento durante il XIV Congresso della Società Italiana di Freniatria, in “Rivista
Sperimentale di Freniatria”, XXXVIII, 1912, p. 259.
34
Per esempio i lavori del capitano dell’85° Reggimento Fanteria Nicola Maria Campolieti, Prin-
cipi di psicologia militare desunti dalla guerra Anglo-Boera, in “Rivista Militare Italiana”, XLIX, 1904,
pp. 272-290 e La Psicologia Militare applicata alla educazione del militare, Firenze, G. Ramella, 1908.
35
In “Rivista Militare Italiana”, LIX, 1914, pp. 338-49.

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- si strutturarono all’interno di una tale intelaiatura esplicativa36. E lo stesso


dicasi per le indagini del già nominato Placido Consiglio, alienista dell’ospe-
dale militare di Roma e futuro generale della Sanità, la cui considerazione
di Lombroso lo spinse ad eleggerlo – integrando il credo haeckeliano - ad
epigonale rappresentante dell’atmosfera scientifica che aveva regalato al
mondo pensatori del calibro di Auguste Comte, Karl Marx, Charles Darwin
e Herbert Spencer37.
L’ispirazione lombrosiano-positivista della maggioranza degli psichiatri
civili e militari, consolidata più che messa in ombra dal clima di esacerba-
to nazionalismo degli anni ’10 e ‘20 – notava Filippo Saporito come la po-
sizione antilombrosiana «si macchia di quell’antiitalianismo degli italiani,
contro cui il grande maestro lanciò i suoi moniti, negli ultimi anni del suo
glorioso apostolato»38-, ed il generale analfabetismo psicoanalitico, solo in
parte scalfito dall’attività di Roberto Assagioli (1888-1974), Edoardo Weis
(1889-1948) e Marco Levi Bianchini (1875-1961), non per questo concorsero
a dare della scienza delle alienazioni mentali un encefalogramma piatto. Se
coriacei pregiudizi culturali e politici ottocenteschi sopravvissero nel nuovo
secolo, continuando ad infondere di sé la prassi manicomiale, e se il natu-
ralismo lombrosiano restava un arnese del bagaglio teorico alienistico, non
mancarono voci minoritarie, ma ingegnose tese, in un gioco di detto e non
detto, di equilibrismi dialettici e di riserve terminologiche, a farsi portavoce
di proposte miranti a correggere o confutare taluni degli artefatti psichiatrici
positivisti resi dalle acquisizioni scientifiche registrate in campo internazio-
nale usurati o del tutto obsoleti.
Di alcune di queste voci, vòlte soprattutto a rettificare l’importanza as-
segnata ai dati morfologici come forze-pilota dei destini individuali, e la
cui fortuna fu in genere ristretta – con l’esclusione del caso appartato dello
psichiatra/sacerdote Agostino Gemelli, e della scuola fiorentina di Tanzi e
Lugaro – è possibile redigere un sommario riepilogo39.

36
Si leggano di G. Funaioli: Contributo all’osservazione dei caratteri antropo.psicologici dei militari
delinquenti, con speciale riguardo al delinquente occasionale, Roma, E. Voghera, 1912; I criminaloidi
nell’esercito, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1915; Contributo clinico alla Neuropsichiatria ed alla
Criminologia di guerra, in “Quaderni di Medicina Legale”, 1917-18.
37
P. Consiglio, Cesare Lombroso e la medicina militare, in “Rivista d’Italia”, luglio 1911, pp. 51-82.
38
F. Saporito, Su l’opera di Cesare Lombroso, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1913, p. 11.
39
Rimando, chi volesse approfondire i temi di seguito brevemente trattati, al mio saggio, Cul-
ture psichiatriche e cultura nazionale. Per una storia sociale (1909-1929), nella rivista telematica “Fre-
nis Zero. Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività”, 5, .III, gennaio 2006 – http://
web.tiscali.it/freniszero/scartabellati.htm.

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Andrea Scartabellati

Ambizioso quanto velleitario si dimostrò il tentativo di Giulio Cesare Fer-


rari (1867-1932), psichiatra e psicologo emiliano, di acquisire alla psichiatria
alcune delle posizioni del pragmatismo di stampo jamesiano, in particolare
la sua maggiore capacità di identificazione con l’altro, il paziente. Premesso
che, con l’inizio del secolo, l’interesse di Ferrari volse progressivamente dal
campo psichiatrico a quello psicologico - quasi che un’identificazione con
l’altro, qualora questo fosse il folle ricoverato, cessava alla soglia dei portoni
manicomiali - la sua proposta dimostrò il proprio carattere velleitario poiché,
trasbordata al campo delle alienazioni mentali, la concezione del pragmati-
smo perse molto dell’onere problematico originario mostrato in sede filoso-
fica, per vestire i panni di un semplice utilitarismo funzionale. Accordare
valore alle applicazioni scientifiche sulla scorta di un giudizio di maggiore
o minore convenienza sociale non era piattaforma teorica sufficiente per so-
stenere un duraturo tentativo di revisione delle dottrine lombrosiane, delle
quali, anzi, Giulio Cesare Ferrari poteva considerarsi nel primo decennio del
‘900 un sostenitore40.
Verso un’altra direzione di ricerca mossero, al contrario, i suggerimenti
teorici (ignorati) di Erminio Troilo, Giuseppe Tarozzi (1866-1958) – scolaro
di Ardigò e curatore delle pagine di filosofia nella ferrariana “Rivista di Psi-
cologia” – e Mario Calderoni (1879-1914)41 – collaboratore dell’“Archivio di
Psichiatria, Antropologia criminale e Scienze Penali” fondato da Lombroso.
Ricusando i superficiali quanto distruttivi distinguo della critica neoide-
alista, i tre s’impegnarono nel rinnovare il positivismo – spina dorsale della
psichiatria - con il battere vie nuove che prevedevano: l’abbandono dell’in-
terpretazione meccanica e rigidamente predeterminata dell’evoluzione na-
turale; il riconoscimento dell’impossibilità del descrittivismo positivista di
trarre da rapporti di concomitanza rapporti di esplicita causalità42; la critica
dell’induttivismo artefatto di criminologi e psichiatri; per ultimo, la messa
in mora della meditazione spenceriana, la cui componente metafisico-evolu-
zionista - denunciava Erminio Troilo – era la diretta responsabile delle scia-
gurate dilatazioni concettuali rimproverate al lombrosismo43.
Per quanto non pregiudizialmente sfavorevoli all’intellettualità psichia-

40
S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, Firenze, Giunti, 1992, p. 182.
41
Vedi M. Calderoni, I postulati della scienza positiva e il diritto penale, Firenze, G. Ramella, 1901.
42
Questa la terminologia gemelliana tratta da Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una
dottrina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1911, p. 150.
43
E. Troilo, Il darwinismo sociale, la sociologia di Comte e di Spencer e la guerra, in “Rivista Italiana
di Sociologia”, 1917, pp. 430-453.

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trica, le proposizioni del positivismo critico fallirono il bersaglio, suscitando


l’interesse dei medici solo quando - come nel caso di Giuseppe Tarozzi -
rimbeccavano con aggressività le pesanti ironie neoidealiste tacciate d’esser
misere44. Altrettanto infecondi risultarono due ulteriori tentativi di revisione
delle dottrine psichiatriche avanzati rispettivamente dalla figlia di Lombro-
so, Gina, nel 1916, e dallo psichiatra e psicologo direttore del manicomio
dell’Aquila Francesco Del Greco tra 1922 e 1923.
Con un saggio pubblicato in piena guerra mondiale, la dottoressa Gina
Lombroso Ferrero cercò di tamponare le lacune rimproverate al pensiero
psichiatrico positivista, rifondando le classificazioni patologiche alla luce
del dualismo bergsoniano dell’intelligenza e dell’istinto. Facendo propria
l’opinione del filosofo francese circa l’irriducibilità delle due componenti,
in quanto espressioni di impulsi e funzioni autonome, prive di nessi causali,
Gina Lombroso suggeriva di distinguere le malattie mentali in tre macro-
gruppi a prescindere dalla presenza manifesta di tare fisiche:
- le malattie dell’istinto, come l’isteria, la genialità, la pazzia morale e la de-
linquenza congenita, includenti quelle differenziate forme di alienazioni
dove l’abilità di risolvere i problemi della vita pratica era nulla pur al
cospetto di una capacità individuale integra di concepire, astrarre e ra-
gionare;
- le malattie dell’intelligenza, come il mattoidismo, la paranoia, l’ipocondria
e la monomania rudimentale, le quali, al contrario del gruppo preceden-
te, giustapponevano capacità di ideazione improduttive a facoltà di coor-
dinamento dei mezzi in vista di fini nella vita minuta integre;
- infine, le malattie miste, quali la mania, la demenza e l’idiozia, patologie
in grado di rivelare la duplice incapacità dell’individuo sia di connettere
e ragionare in termini astratti, sia di dirigere e orientare se stesso nella
vita di tutti i giorni45.
Immodesta nel suo desiderio di ricomporre i quadri nosografici quando,
nel panorama psichiatrico italiano, suscitava qualche dubbio anche la più
fondata «orgia descrittiva» di Emile Kraepelin (1855-1929)46, la proposta di
Gina Lombroso fu accolta dal silenzio e dal disinteresse del misogino mondo
44
G. Tarozzi, Roberto Ardigò, in “Rivista di Psicologia”, XVI, 1920, pp. 355-357.
45
G. Lombroso Ferrero, Il dualismo bergsoniano dell’intelligenza e dell’istinto applicato ai criminali,
ai pazzi e ad una nuova classificazione delle malattie mentali, in “Archivio di Antropologia Crimina-
le”, XXXVII, 1916, pp. 1-11.
46
L’espressione «orgia descrittiva» fa parte delle contumelie lanciate da Lugaro contro la psi-
chiatria tedesca in piena guerra mondiale: E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attua-
lità, in “Rivista di Patologia Nervosa e Mentale”, XXI, 1916, p. 617.

25
Andrea Scartabellati

scientifico, pronto a fare a meno di Bergson e del suo dualismo dell’intelligen-


za e dell’istinto come aveva fatto a meno dei consigli del positivismo critico.
Opposte, invece, e per taluni versi feconde a lungo termine, le reazioni
provocate dalla pubblicazione tra 1922 e 1923 dei saggi di Francesco Del
Greco Una idea direttiva nei recenti studii medico-psicologici e L’idea di “costitu-
zione” nella Psichiatria clinica. In sintesi, il medico dell’asilo aquilano si faceva
interprete della volontà di una riforma del pensiero psichiatrico sulla scorta
degli inviti morselliani (e prima lombrosiani) ad una più stretta fratellanza
della medicina delle alienazioni mentali con la medicina generale, e con il
suo volto d’avanguardia e patriottico: quello del costituzionalismo e dell’en-
docrinologia47.
Le proposte di Del Greco miravano a correggere le forzature positiviste
integrando la diagnostica e la nosografia classica con i contributi della scuola
costituzionalista di Achille De Giovanni (1838-1916), Giacinto Viola (1870-
1943) e Nicola Pende (1880-1970). La psichiatria, si rammaricava Del Greco,
aveva dimenticato come «fra la malattia, e le condizioni etiologiche e pato-
genetiche, generatrici di essa, vi è di mezzo l’individuo». Un individuo soffe-
rente da recuperare, in sede clinica, attraverso la lente delle tipologie umane
e la valorizzazione del concetto di individualità così come definito da Pende
nello sforzo di pervenire ad una sintesi organica del «composto umano».
L’onesto eclettismo auspicato da Del Greco non cadde in un vuoto d’inte-
resse48. La maggioranza della corporazione psichiatrica, negli anni a venire,
più o meno tacitamente lo farà proprio. Nel clima di conformismo nazionali-
sta di un Paese sopravvissuto alla mortale sfida bellica, ma turbato, per dirla
con Morselli, «dall’arruffo indescrivibile in ogni cosa pubblica e privata» del
dopoguerra49, la proposta di Del Greco otteneva sia di assopire il disorienta-
mento psichiatrico rimandando la messa in mora spregiudicata dell’opera
del patriota risorgimentale Lombroso, sia di radicare il futuro della disciplina
in un rinnovato humus medico-teorico orgogliosamente italiano grazie al pri-
mato di De Giovanni, Viola e Pende – quest’ultimo, scienziato «più lombro-
siano dello stesso Lombroso», secondo l’icastico giudizio di Leone Lattes50.
Perimetrali al campo positivista erano anche le proposte di Luigi Baronci-
47
F. Del Greco, Una idea direttiva nei recenti studii medico-psicologici, in “Il Manicomio”, XXXV,
1922, pp. 117-126 e L’idea di “costituzione” nella Psichiatria clinica, in “Quaderni di Psichiatria”, X,
1923, pp. 201-205.
48
Vedi B. Cassinelli, Storia della pazzia, Milano, Corbaccio, 1936, pp. 445-446.
49
E. Morselli, Ultime produzioni della psichiatria tedesca, in “Quaderni di Psichiatria”, VI, 1919,
pp. 270-275.
50
L. Lattes, Ritorno a Lombroso, in “Minerva Medicolegale”, LXXVI, 1956, p. 6.

26
PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

ni, assistente di Giulio Cesare Ferrari nel manicomio di Imola51, e Francesco


De Sarlo (1864-1937), filosofo e psicologo allievo di Franz Brentano a Firenze.
Studiosi nutriti di quella cultura che intendevano riformare, affinché pro-
sperasse, videro le proprie indicazioni per un antropologismo meno mecca-
nicistico semplicemente ignorati, il Baroncini, oppure fatti segno di pesanti
censure, il De Sarlo, al quale Enrico Morselli imputò di aver semplicemente
invertito le tesi del contendere: aver sostituito alla materializzazione dello
spirito rinfacciata ai positivisti, una spiritualizzazione della materia in forme
così ardite da risultare indigeribili alla maggioranza dei medici52.
Non dal campo positivista in senso stretto vennero i polemisti che, senza
ambiguità di sorta, si fecero carico di demistificare l’opera-totem di Lombro-
so ed il suo ruolo nella storia delle scienze nazionali. Tra i primi a levarsi
senza timidezze, fu Alberto Vedrani (1872-1963). Psichiatra ed intellettuale
vicino al movimento culturale fiorentino de “La Voce”, utilizzò la tribuna
non disinteressatamente offertagli da Giuseppe Prezzolini per affermare:
«l’opera di Lombroso come clinico psichiatra è misera e non esce dalla grigia
mediocrità comune della psichiatria italiana. La quale (non ostante la pre-
senza di alcuni uomini d’intelligenza elevata che per altro dispersero la loro
attività in altri campi sì da riuscire, più che psichiatri, neurologi o anatomici
o filosofi senza psichiatria) non ha di suo e di originale che poco o nulla di
buono»53.
Il giudizio tranchant di Vedrani non era un singulto polemico fine a se
stesso. Fin dai primi anni del ‘900, infatti, Vedrani, con Ugo Cerletti (1872-
1963), Gustavo Modena, ed il già citato Marco Levi Bianchini, era parte di
una corrente psichiatrica che, facendo tesoro dell’esperienza scientifica del
premio Nobel Camillo Golgi (1843-1926), auspicava la sostituzione del do-
minante somatismo à la Lombroso con la clinica kraepeliniana e la ricerca
istopatologia.

51
P. Guarnieri, Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli, Milano, Fran-
co Angeli, 1986, p. 118.
52
E. M. [Enrico Morselli], recensione a F. De Sarlo, Psicologia e Filosofia, in “Quaderni di Psichia-
tria”, VII, 1920, p. 276: «Quale ragione può dare una Psicologia teleologica, metafisica, al proble-
ma della pazzia, che mostra in modo inconfutabile la “unità psico-fisica” di spirito + cervello?
Si ha un bel dire che i medici alienisti materializzano lo spirito; ma finché non sarà chiarito il
come avvenga che uno “spirito” si perverte o impazzisce ogni qual volta c’è un dissesto anche
minimo del suo organo, sarà vano parlarci di una “Esperienza” o di un “Io individualizzato”,
in cui si pretende per contro di spiritualizzare la materia. E la bella opera del De Sarlo sta là
proprio a provare che il porsi in bilico fra il positivismo e l’idealismo può parere un modo felice
di sfuggire al dilemma, ma non contenta nessuno».
53
A. Vedrani, Cesare Lombroso, in “La Voce”, I, 52, 1909, pp. 221-222.

27
Andrea Scartabellati

Eppure, anche questo tipo di percorso, avanzato per rinnovare il sapere


alienistico, era solo parzialmente nuovo. Il nome e l’opera di Emile Kraepe-
lin erano tutt’altro che sconosciuti (e discussi) nei gabinetti medici italiani54,
mentre la chiave di lettura istopatologica – lungi dall’essere il passepartout
delle impasse positiviste - non per molti psichiatri poteva essere la soluzione.
Tra questi ultimi, sicuramente per Enrico Morselli, che se nel 1922 interve-
niva con sarcasmo dalle pagine dei “Quaderni di Psichiatria” discettando
«ancora delle delusioni dell’istologia nervosa»55, ben tre anni prima aveva
invitato i medici a volgersi verso l’indirizzo psicopatologico sul modello
tedesco, glossando: «Coi dati psicopatologici e biochimici si fa oggi il con-
trappeso a quell’eccessivo indirizzo organicistico, quasi meccanicistico, cui
ci aveva tratti colle sue illusioni l’Istologia»56.
A ben guardare, irrituale non era la soluzione avanzata dalla nuova cor-
rente neuropsichiatrica, le cui presunte novità scientifiche si limitavano a
ben poco e a nulla di dirompente. Era, invece, la veemenza e l’aggressività
verbale espressa da alcuni nella denigrazione lombrosiana a sorprendere.
Aggressività strumentalmente colta – e, indirettamente, fatta propria - dal
maggior critico del positivismo lombrosiano e artefice di una demolizione
con carattere di sistema dell’opera del criminologo veneto: padre Agostino
Gemelli (1878-1959), feroce inquisitore delle certezze bio-antropologiche di
una corporazione psichiatrica in maggioranza materialista ed atea. Gemelli
coglieva la palla al balzo offertagli dalla virulenta critica del Vedrani – richia-
mata letteralmente - per procedere alla stroncatura inequivocabile dell’edifi-
cio lombrosiano. Nel contesto della più ampia battaglia educativa cattolica,
muoveva da una rinnovata esegesi della storia culturale italiana57 stilando,
sul modello del Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores di Pio IX,
un elenco dei maggiori errori del positivismo, impersonificato dalle tesi e
dalla prassi sperimentale lombrosiana. Nello specifico, rifiutate con radica-
lità erano le posizioni del monismo materialista haeckeliano e gli assunti di
54
Nel saggio di G. Vidoni, Sull’assistenza degli alienati in Italia fuori dei Manicomi, in “Quaderni
di Psichiatria”, I, 1914, p. 415, l’opera dello psichiatra tedesco era addirittura esaltata e addi-
tata a modello imperituro, mentre quattro anni prima la metodologia kraepeliniana era stata
oggetto dell’accurato intervento di G. Corberi, L’esperimento psicologico in psichiatria secondo E.
Kraepelin, in “Note e Riviste di Psichiatria”, XLI, 1910.
55
E. Morselli, Ancora delle delusioni dell’istologia nervosa, in “Quaderni di Psichiatria”, IX, 1922,
pp. 51-55.
56
E. Morselli, Ultime produzioni della psichiatria tedesca, in “Quaderni di Psichiatria”, VI, 1919, p.
274.
57
Vedi il saggio di A. Gemelli, I rapporti di scienza e filosofia nella storia del pensiero italiano, in
L’Italia e la scienza, a cura di G. Bargagli Petrucci, Firenze, Le Monnier, 1932, pp. 384 e ss.

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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

un determinismo bio-antropologico avvertito, dal sacerdote-scienziato, qua-


li posizioni sovvertitrici dell’ordine naturale (e sociale) instaurato da Dio58.
Sopravvalutando la popolarità del positivismo presso l’intellettualità
d’inizio secolo59 e sottostimando la vocazione elitaria del moribondo sociali-
smo riformista – interfaccia politica del movimento positivista -, in Gemelli
la lotta scientifica si colorava esplicitamente di enfasi ideologica, precorren-
do i tempi della piena partecipazione cattolica alla vita politica nazionale.
In questo senso, l’antilombrosismo gemelliano impegnava lo scontro lungo
una duplice direttrice. Nell’ambito del sapere settoriale, avvalorando l’in-
sostenibilità dell’analogia supposta dai criminologi tra degenerazione fisica
ed imbastardimento morale, e confutando la negazione positivista del libero
arbitrio. In un’ottica più comprensiva, impegnando battaglia per il rinnova-
mento culturale italiano tout court, ritagliando un copione da protagonista
alla cultura scientifica cattolica, di cui Gemelli si percepiva – a ragion veduta
– punta di lancia.
Affondando il coltello critico negli anelli deboli del sistema haeckeliano
storicamente introiettato dalla psichiatria, per proprietà associativa, Gemelli
aveva gioco facile nell’elencare le irrisolte contraddizioni del tableau lombro-
siano, percepito scopertamente come epitome delle ricerche sperimentali di
almeno due generazioni di scienziati60. Giudicandola una pura fantasticheria,
Gemelli smontava la celebre equivalenza che, lungo un ipotetico continuum
biologico-comportamentale, connetteva «i caratteri speciali degli uomini di
genio alienati con quelli dei geni non alienati e dei pazzi criminali»61; come

58
A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1911, p. 9.
59
Vale la pena di rammentare cosa Prezzolini e Papini, citati non a sproposito da Gemelli (Ce-
sare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, p. 21), scrivevano nel 1906: «Questi signori ce-
lebri si chiamano per esempio Lombroso, Mantegazza, Sergi, Morselli, Loria, Mosso, Ferri. Oc-
cupano delle cattedre nelle grandi Università, dirigono delle riviste, fanno anche delle lezioni.
Vale a dire che non si distinguono troppo da altri professori universitari che fanno precisamente
le stesse cose. Ma se ne distinguono per questo: che i loro oracoli e i loro discorsi non vengono
letti e ascoltati soltanto da quel pubblico molto ristretto, per quanto poco scelto, composto di
scienziati amici, di assistenti ambiziosi e di relatori di accademie, ma son letti ed ascoltati da un
pubblico molto più largo, dove entrano le signore, i dilettanti, i maestri elementari, i così detti
uomini colti e perfino i giornalisti».
60
In evidente continuità, la critica gemelliana si forma riprendendo e rilanciando, con nuovo
vigore, i temi tradizionali della polemica antipositivista ed antievoluzionista degli ambienti
scientifici cattolici; cfr. A.R. Leone, La Chiesa, i cattolici e le scienze dell’uomo, in L’antropologia
italiana. Un secolo di storia, Roma-Bari, Laterza, 1985, in particolare le pp. 63-65.
61
A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1911, p. 144.

29
Andrea Scartabellati

pure un’invenzione sprovvista di legittimità scientifica riteneva la scoperta


positivista del tipo criminale. Discorrendo della trasmissione ereditaria delle
degenerazioni - tema caro agli psichiatri, rilanciato negli artefatti della pre-
disposizione originaria o acquisita dalla diagnostica bellica - Gemelli am-
moniva a non dimenticare come non se ne possedessero conferme obiettive,
mentre, all’opposto, la comunità scientifica non ricusava che «la degenera-
zione ha certamente un’importanza molto minore, per esempio, dei fattori
sociali, etici e degli elementi psichici individuali» nella gestazione dei distur-
bi patologici62.
Censore e scienziato non banale – e le sue indagini psicologiche in tempo
di guerra lo avrebbero provato63 - Gemelli interrogandosi sulle ragioni della
fortuna di una teoria, quella della degenerazione, vitale ben oltre la morte
dei suoi maggiori propugnatori Morel e Lombroso, era condotto a formulare
una giustificazione lucida e abile nel non estromettere dalla razionalità del
testo scientifico il contesto sociale. Così per il fraticello di Rezzato la vitalità
della dottrina delle degenerazioni, espressione peculiare di una mentalità e
non solo discorso scientifico, originava dal nesso bidirezionale presuntivo
stabilito tra l’episodio pato-criminologico individuale ed i timori e le paure
classiste, più o meno inconsce, delle élites di fine secolo.
L’appassionata critica del futuro fondatore dell’Università Cattolica di
Milano, volta a denaturalizzare l’uomo e a riformare la psichiatria subordi-
nandone teoria e prassi agli sviluppi della coeva psicologia sperimentale64
– soluzione di non comune intuito, idonea ad invertire relazioni di subordi-
nazione analitica storicamente sedimentatesi - non restò senza seguaci. Già
nel 1911, anno della terza ristampa del gemelliano Cesare Lombroso. I funerali
di un uomo e di una dottrina, la prestigiosa “Rivista d’Italia”, auspice la penna
di D’Alfonso, scagliava un frontale attacco alle teorie lombrosiane, definite
mostruose, con il susseguente tassativo invito agli scienziati – in linea con i
propositi di Gemelli - a considerare «la preminenza qualitativa delle attività
psichiche sulle forme quantitative cerebrali»65.

62
Ivi, p. 76.
63
Letture ideologiche di un’opera ideologizzata come Il nostro soldato. Saggi di psicologia mili-
tare (Treves, Milano 1917), hanno certamente nuociuto alla reale comprensione della sostanza
scientifica dell’opera, la quale, se contestualizzata nella letteratura dell’epoca e nelle condizioni
sociali del momento, e se comparata con la riflessione medica internazionale, emerge sicura-
mente come una delle voci più originali della psicologia italiana.
64
Si legga il notevole intervento di A. Gemelli, Psicologia e psichiatria e i loro rapporti, in “Rivista
Sperimentale di Freniatria”, XLV, 1921, pp. 251-314.
65
N. R. D’Alfonso, La psicologia speculativa e l’unità delle razze, in “Rivista d’Italia”, giugno 1911, p. 941.

30
PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

Con una combinazione tutt’altro che estemporanea, per quanto anomala,


le disapprovazioni dei gabinetti scientifici cattolici ed il biasimo neoidealista,
propenso a squalificare le elaborazioni della scienza al campo degli pseudo-
concetti, individuavano un punto di convergenza nella determinazione ad
azzerare la presa pubblica dell’intellighenzia positivista, invalidando il ruolo
di operatori culturali di psichiatri, antropologi e criminologi. Non per que-
sto, però, nonostante la puntualità, l’ampiezza e la violenza degli addebiti, il
fortino positivista vedeva il proprio ripiegamento in atto trasformarsi in una
rotta per ordine sparso. A fronte dell’instancabile condotta degli ambienti
anti-positivisti, tenaci nel denunciare come puro sofisma il concetto della
derivazione del pensiero dalla materia66, e nel depennare fra i refusi della
scienza l’evoluzionismo materialista67, si ergeva baluardo l’attività quotidia-
na di studiosi del calibro di Giuseppe Sergi ed Enrico Morselli, il cui presti-
gio, accumulato con anni di pubblicazioni, e la cui statura di maître à penser,
pur messi in ombra presso l’opinione pubblica, restavano sostanzialmente
intatti presso l’intellettualità scientifica.
Non è pedanteria, poi, rievocare un’altra delle spie che scoperchiano le
profonde radici affondate dal positivismo ottocentesco nella cultura italia-
na ancora nei primi decenni del ‘900. Antonio Gramsci, incarcerato a Turi,
riflettendo sulla novità rappresentata dalle dottrine psicoanalitiche, rimpro-
verava Sigmund Freud, letteralmente al pari del Lombroso, di aver eretto
una filosofia universale del genere umano sulla base di alcuni criteri empi-
rici d’osservazione68. Al di là del giudizio gramsciano, era significativo che
un intellettuale della sua levatura, saltando a piè pari i detriti lasciati da anni
di calunnie neoidealiste, ricorresse all’esperienza lombrosiana, e alla diffusa
conoscenza, che se ne aveva tra le masse acculturate, per inquadrare, spie-
gare e spiegarsi il fenomeno relativamente nuovo della psicoanalisi. Come
testimoniano le parole del pensatore comunista seppur indirettamente o con
un paragone a perdere, risultava arduo trattare di scienze del comportamen-
to in Italia senza fare i conti con lo spessore polisemico e l’influenza a raggie-
ra del costrutto lombrosiano.
Rispetto all’iconoclastica critica del Vedrani, e alla rigorosa polemica ge-
melliana – energica, ma confinata agli ambienti scientifici cattolici - l’insidia
apparentemente maggiore per le dottrine lombrosiane nella loro declinazio-
ne psichiatrica provenne, col nuovo secolo, da un gruppo interno per forma-
66
N. Checchia, Senso e psiche, in “Rivista d’Italia”, novembre 1914, p. 639.
67
F. Vairo, La morale dell’energia e la guerra, in “Rivista Militare Italiana”, LVI, 1911, p. 1425.
68
Antonio Gramsci. Vita attraverso le lettere, a cura di G. Fiori, Torino, Einaudi, 1994, p. 264.

31
Andrea Scartabellati

zione, professionalità e codice linguistico, alla corporazione alienistica. Con


meno chiasso, ma con maggior probabilità di lasciare il segno, furono signi-
ficativamente quei medici prevalentemente attivi nel campo dell’accultura-
zione e delle cliniche universitarie – funzionanti come reparti d’osservazione
- che non nella concreta gestione a tempo pieno dell’universo manicomiale, a
mettere in discussione le ipotesi eziologiche del Lombroso e della sua scuola.
Già scoperti ispiratori delle posizioni polemiche di Vedrani, guidavano il
gruppo Eugenio Tanzi (1856-1934) - irredentista triestino con studi univer-
sitari a Padova e Graz, costretto ad emigrare per motivi politici - ed Ernesto
Lugaro (1870-1940), coautori del più volte ristampato Trattato delle malattie
mentali69, vero portolano per le giovani generazioni psichiatriche novecente-
sche affacciatesi alla professione.
L’ennesima controversia antilombrosiana, pur non negandosi esplicite
valenze negative, stigmatizzando le fuorvianti induzioni positiviste frutto
di un antropologismo morfologico semplicistico e alla lunga insostenibile,
si snodava fondamentalmente tutta all’interno delle tradizionali coordinate
teoriche organicistiche della scienza neuropsichiatrica, al limite rese più at-
traenti da una sottile verniciatura di psicopatologismo. Coordinate teoriche
le quali, va appuntato, non avevano riconosciuto nel Lombroso e nei suoi
adepti né dei critici accaniti, né degli affossatori.
Non una critica demolitrice, insomma; la scuola fiorentina raccolta attor-
no ai nomi di Tanzi e Lugaro esprimeva il bisogno urgente di aggiornare i
paradigmi psichiatrici, correggendo gli eccessi positivisti nel campo della
diagnostica e della nosografia pura, e circoscrivendo ai minimi termini la
pretesa vocazione sociologistica dell’alienismo d’antan. Bisogno, fatta salva
l’urgenza, che non comportava, se non come conseguenza riflessa, la cas-
sazione della presenza lombrosiano-positivista nel complesso della cultura
psichiatrica. Sarebbe sufficiente suddividere per materie l’opus lugariano –
tra i più sistematici prodotti dalla scuola fiorentina – con le sue pagine di
anatomia e patologia normale, morfologia della cellula nervosa, autorigene-
razione delle fibre nervose, teoria del neurone, morfogenesi, fisiologia, ana-
tomia patologica, istopatologia e neuropatologia70, per toccare con mano il
proposito del gruppo di rinnovare la cultura psichiatrica dosando maggior-
mente l’elemento neurologico e mettendo a margine quanto di più usurato
permaneva nell’approccio positivista.
69
Prima edizione, a cura del solo Tanzi per i tipi della Società Editrice Libraria, Milano 1905;
seconda edizione Milano 1914; terza edizione Milano 1923.
70
Cfr. il necrologio di Ernesto Lugaro a firma di F. Visintini apparso nel “Giornale della R.
Accademia di Medicina di Torino”, XVII, 1940, pp. 19-33.

32
PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

Della trama critica a lui ostile, intrecciata dal drappello di studiosi allievi
di Tanzi e Lugaro, ebbe sentore un settuagenario e reattivo Cesare Lombro-
so, tutt’altro che a margine della comunità psichiatrica e muto sulle vie nuo-
ve battute dalla scienza che ne aveva tenuto a battesimo l’impresa professio-
nale ed il disegno culturale. Giudice severo del Trattato delle malattie mentali,
«seducente trattato coi suoi paradossi ed epigrammi; più ricco di spirito che
di verità»71, un polemico Lombroso coglieva l’occasione dell’uscita del volu-
me di Ernesto Lugaro72 per chiarire nuovamente le posizioni sue e della sua
scuola, similmente a ciò che – a proposito del positivismo antropologico –
avevano fatto Enrico Morselli, solo un anno prima, in un volume collettaneo
dato alle stampe in onore del poligrafo veneto73 e Filippo Saporito, nel 1913,
il quale denunciò come «quel solenne messaggio della scienza e dell’espe-
rienza che vive nell’antico motto Natura non facit saltus ha condannato la
concezione lombrosiana ad assistere agli assalti della critica non sul terreno
di quel che essa valga nella sua interezza, bensì sul terreno ambiguo degli
adattamenti artificiosi, dei connubi ibridi, delle transazioni degradanti»74.
Dall’alto dei suoi titoli accademici: ordinario di psichiatria dal 1896 e di
antropologia criminale dal 190575, Lombroso giudicava errate, scorrette ed
insostenibili al vaglio dello sperimentalismo medico le critiche della scuo-
la fiorentina. Come ogni positivista alle prime armi sapeva – ironizzava
Lombroso - «quando si vuol abbattere una teoria, si adoperano fatti», non
presunzioni76. Il fondatore dell’antropologia criminale individuava nell’esa-
gerata accentuazione del dato anatomico il punto debole metodologico che
impediva, con pregiudizio, al cenacolo vicino a Tanzi e Lugaro, di cogliere le
linee d’insieme dell’universo-follia. Un universo costellato di pazzi, anomali
e criminali bisognosi, di manicomi e milieu familiari e ambientali dove la

71
«In quest’altro libro del Lugaro i paradossi e le bizzarrie del Tanzi trovano una rinsaldatu-
ra»; a differenza della conclusioni della scuola lombrosiana, fondata «coll’esame metodico ed
attento di centinaia e centinaia di individui», quelle del Lugaro erano «asserzioni messe giù (…)
su due piedi» (C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, in “Archi-
vio di Antropologia Criminale”, XXIX, 1908, p. 165).
72
I problemi odierni della psichiatria, Palermo, Sandron, 1907,
73
E. Morselli, Cesare Lombroso e l’antropologia generale, in L’opera di Cesare Lombroso, Torino,
Bocca, 1906.
74
F. Saporito, Su l’opera di Cesare Lombroso a proposito di una recente critica, Roma, Tipografia
delle Mantellate, 1913, p. 6.
75
Cattedra istituita ad hoc per Lombroso dal ministro Leonardo Bianchi.
76
C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, in “Archivio di Antro-
pologia Criminale”, XXIX, 1908, p. 164.

33
Andrea Scartabellati

malattia si generava e si auto-alimentava. Soprattutto, un cosmo così frasta-


gliato umanamente e patologicamente da risultare sfuocato se osservato col
cannocchiale del placido mondo delle cattedre e delle aule universitarie.
Limitare la polemica ai soli costrutti clinico-teorici, privandola di una
riflessione sul pendant operativo che, implicitamente, richiedeva il lavoro
quotidiano dello psichiatra, significava accettare per Lombroso sia un impo-
verimento della professionalità medica, sia la sua abdicazione da quelle re-
sponsabilità patriottiche di medicina pubblica – riepilogate simbolicamente
nella figura e nell’opera di Agostino Bertani (1812-1866) - percepite dal posi-
tivismo postrisorgimentale come parte integrante della propria identità. Per
altro, rinunciare alla vocazione sociologica della scienza equivaleva altresì
ad estremizzare la visione – attinente pure ai lombrosiani – del manicomio
come luogo di scarico dell’umanità malata, irrecuperabile e, perciò, inutile.
Rilevando il tratto unitario associante teoria, sperimentazione sociale e pras-
si asilare, la contro-critica lombrosiana coglieva, oltre i tecnicismi della neu-
rologia e delle meccaniche cerebrali, il cuore del contenzioso identitario alla
base del disaccordo tra la vecchia generazione e le nuove leve psichiatriche.
A differenza delle prime, per non finire fuori dalla storia le seconde doveva-
no fare i conti con un duplice tramonto. Col crepuscolo del nazionalismo di
stampo mazziniano, sommerso dal nazionalismo aggressivo dell’età impe-
rialista e la parallela mutazione del fascinoso popolo poeta alla Herder nelle
folle dangereuses di Le Bon; e, nel campo specialistico, con il fallimento delle
ottimistiche vaticinazioni positiviste relative al ruolo della scienza quale ge-
rente dell’ordinato vivere civile della nazione rinata col Risorgimento77.
In soldoni, il nuovo atteggiamento psichiatrico che, per mezzo della mag-
gior erudizione tecnica declinava lo sguardo dai mali sociali – suscitando la
meraviglia di Lombroso - dava mostra di inseguire, ai confini del minima-
lismo, un diverso ruolo dello psichiatra quale esponente dell’intellighenzia
nazionale. Invano gli storici cercherebbero tra i fautori di un contegno psi-
chiatrico meno esposto le meditazioni onnicomprensive di un Tamburini, di
Morselli o di un Silvio Venturi, oratore principe della X assise della Società
Italiana di Freniatria di Napoli (1899) con la relazione Come la psichiatria deb-
ba elevarsi allo studio dell’individuo e delle sue attività nei rapporti colla società ed
indicarne i vari corollari nei riguardi individuali e sociali78. Lo stesso grossolano
e propagandistico j’accuse antitedesco lanciato da Lugaro nel 1916-17 dalle
77
S. Manente-A. Scartabellati, Ipotesi e tracce per una biografia di gruppo tra scienza e identità della
politica, in “Teorie e Modelli”, 2005, 2, 85.
78
“Rivista Sperimentale di Freniatria”, XXVII, 1901, pp. 315-322. Per un profilo biografico di Ven-
turi, vedi S. Tonnini, Silvio Venturi, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, XXVII, 1901, pp. I-VIII.

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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

pagine della “Rivista di Patologia Mentale e Nervosa”79, altro non sarà che il
corrotto bagliore residuale della genuina vocazione socio-politica della scien-
za alienistica piegata alle esigenze delle élites guerrafondaie. Abbandonata la
sentita partecipazione per le sorti delle masse italiane depauperate da na-
zionalizzare dopo la svolta epocale del 1860-61, ora l’intellettualità psichia-
trica si lasciava conquistare all’eccesso dall’efferato interventismo montato
ad arte, non da ultimo, anche da quelle inquietudini vociane spalleggianti la
demistificazione del positivismo e del lombrosianesimo.
La strada tracciata dai tardi critici lombrosiani si chiariva, quindi, nella
scelta di un ripiegamento pubblico strategico, ancora in grado, però, di la-
sciar negoziare, alle presenti e future generazioni psichiatriche, abdicazioni
e contropartite. Il venir meno della volontà egemonica culturale positivista
se, da un lato, sbiadiva l’immagine dell’alienista quale demiurgo sociale,
dall’altro, precisando meglio l’oggetto ed i luoghi del suo agire – l’accade-
mia per i principi della disciplina; i manicomi per il proletariato psichiatri-
co - garantiva una minor esposizione sul banco degli imputati nel processo
intentato al positivismo dalla nuova cultura dominante. Quale contropartita,
la ritirata negoziata otteneva di consolidare, proprio rinunciando alle aspira-
zioni ottocentesche, quelle posizioni di potere reale conquistate grazie anche
all’apporto insostituibile del biasimato Cesare Lombroso.
Nell’Italia emersa vittoriosa dalla guerra, la pretesa modernità psichiatri-
ca non si presentava allora come negazione del lombrosianesimo e del posi-
tivismo materialista laicista80. Nessun padre intellettuale fu, freudianamen-
te, ucciso; nessun ceppo generazionale fu infranto; nessuna scienza normale
fu rivoluzionariamente abbattuta. La psichiatria scelse di auto-esiliarsi in
un’isola, se non felice, comunque appagante ed inaccessibile ai non addetti
ai lavori. Mentre la modernità della disciplina, sulle fondamenta organici-
stiche81 e nel quadro di un solidismo comune alle differenti correnti analiti-

79
La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità in “Rivista di Patologia Nervosa e Mentale”,
XXI, 1916, pp. 241-617; La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità, in “Rivista di Patologia
Nervosa e Mentale”, XXII, 1917, pp. 65-302; inoltre, sempre di Lugaro: Pazzia d’imperatore o
aberrazione nazionale?, in “Rivista di Patologia Nervosa e Mentale”, XX, 1915, pp. 385-414.
80
Cfr. la recensione positiva del manuale di E. Tanzi e E. Lugaro, Trattato delle malattie mentali,
in “Quaderni di Psichiatria”, III, 1916, pp. 59-60, di Enrico Morselli, non certo – anzi! – un av-
versario del Lombroso. Recensione positiva ripetuta successivamente nei “Quaderni di Psichia-
tria”, X, 1923, pp. 211-212.
81
F. Saba Sardi, Nascita della follia, Milano, Mondadori, 1975, p. 114: «Costante è cioè il tentativo
di ancorare in qualche modo le manifestazioni psichiche a un substrato organico, e di conse-
guenza la follia a realtà fisiologiche (…) Lo psichiatra non può che ragionare in questi termini
– ovvero cessa di considerarsi e di essere psichiatra».

35
Andrea Scartabellati

che nei termini di «una rappresentazione visibile delle cause della malattia
mentale»82, si esplicò combinando la rinuncia a fare di una filosofia naturale
del genere umano il totem onnicomprensivo per l’interpretazione delle ma-
nifestazioni patologiche, con il disinteresse per le più ampie problematiche
popolari, riscoperte con reale empatia solo alla fine degli anni ’60 del XX
secolo.
Un profilo sociale indistinto ma, in contro altare, un’erudizione neuro-
psichiatrica in maggior misura vasta, informata dei contributi scientifici in-
ternazionali, meno credulona nel vagliare le rilevazioni statistico-numeriche
o nel prendere atto delle stigmate fisiche: ciò era quanto restava della cri-
tica di Tanzi e Lugaro. D’altro canto, il tono inflessibilmente organicistico
del Trattato delle malattie mentali83 non poteva essere recepito dalla comunità
scientifica come una discriminante antilombrosiana, poiché diversa, tra gli
uni e gli altri, era solo l’aspettativa riposta in un tale orientamento onni-
regolatore nello svolgersi del processo diagnostico. Né l’obiezione di Lugaro
secondo cui «l’opera di Lombroso fu bensì uno stimolo fecondo a ricerche
e discussioni, ma non segnò (...) un vero progresso in confronto alle vedute
del Morel»84; né il programma di Tanzi di respingere «i dettami rumorosi
ed inconcludenti d’una pretesa antropologia della degenerazione» da sosti-
tuire con il ripescaggio della «teoria originaria del Morel, che nacque dalla
patologia»85, echeggiavano innovativi alle orecchie degli psichiatri italiani.
Che Ernst Haeckel si fosse trasformato nella caricatura farsesca di Charles
Darwin86; che risultasse indilazionabile depurare e circoscrivere il concetto
di degenerazione, «a meno di ritenere che tutti i pazzi siano degenerati, ipo-
tesi non dimostrata, inutile e perciò inopportuna»87; che bisognasse negare
l’identificazione di epilessia e deficienza del senso morale; che fosse intrinse-
co all’agire psichiatrico la sottovalutazione dei dati psichici, stimati accessori
rispetto ai sostrati organici; che si potesse leggere nell’ascesa dell’endocrino-
82
S. De Sanctis, voce Psichiatria in “Enciclopedia Italiana”, Roma, Istituto Poligrafico dello Sta-
to, 1949, p. 447.
83
S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, Firenze, Giunti, 1992, p. 74.
84
E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità in “Rivista di Patologia Nervosa e
Mentale”, XXI, 1916, p. 491.
85
E. Tanzi-E. Lugaro, Trattato delle Malattie Mentali, Milano, Società Editrice Libraria, 1923, I, p.
XIII. La citazione è tratta dalla Prefazione alla seconda edizione.
86
E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità, in “Rivista di Patologia Nervosa e
Mentale”, XXII, 1917, p. 288.
87
E. Tanzi-E. Lugaro, Trattato delle Malattie Mentali, Milano, Società Editrice Libraria, 1923, II,
p. 155.

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PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

logia una nuova fonte d’ispirazione per la psichiatria e la sua caratterizza-


zione medico-clinica; che, complessivamente, si volesse intendere la discipli-
na come «sentinella avanzata della biologia nel campo della speculazione»88,
non erano prese di principio tali da delegittimare l’eredità positivistica. Per
esempio, patrimonio comune della cultura psichiatrica restava la concezio-
ne del determinismo secondo la locuzione lombrosiana di processo a «due
facce che si integrano a vicenda: il fattore interno è il più potente ed effica-
ce, ma anche il fattore esterno ha la sua parte, e non piccola, e non diffici-
le a scoprire»89. Quando, alla fine degli anni ’10, gli stessi Tanzi e Lugaro
inviteranno i medici della penisola a rifondare la psichiatria rileggendo le
leggi sulla degenerazione del Morel al lume delle patologie individuali, si
vedranno i capiscuola del gruppo fiorentino ricopiare quasi alla lettera la
via d’uscita al disorientamento alienistico indicata, negli stessi anni, da un
positivista immarcescibile come Enrico Morselli, probabilmente, anzi, più
dei primi due, conscio della necessità di arricchire lo scrigno psichiatrico con
gli apporti della psicopatologia e della psicoanalisi90.
Sul piano teorico, le certezze del determinismo biologico si riqualifica-
rono in un meno pretenzioso eclettismo mirante ad integrare, in forme non
sempre coerenti, il predominante elemento somatico con il recessivo elemen-
to psichico91. La meccanica concezione naturalistica dell’uomo e delle sue
condizioni morbose, circoscrivibili e indagabili negli spazi neutri delle cor-
sie manicomiali, non sarebbe venuta meno. Per questa via, considerò Bruno
Cassinelli, «la psichiatria italiana torna alla purezza dell’osservazione clini-
ca, tradizione italianissima - da Chiarugi a Verga, da Morselli a De Sanctis
- per confermare che la pazzia è un’affezione dei centri corticali e delle loro
connessioni cerebrali, che trasforma e altera la personalità, cioè l’individua-
lità pensante, senziente ed operante»92. Nella prassi asilare, come esemplifi-
cano le migliaia di cartelle cliniche conservate, le diagnosi continuarono ad
essere l’effetto cumulativo dei risultati di spurie indagini antropometriche,
88
Ivi, I, p. VIII. La citazione è tratta dalla Prefazione alla prima edizione.
89
E. Morselli, Cesare Lombroso e l’antropologia generale, in L’opera di Cesare Lombroso, Torino,
Bocca, 1906, p. 25.
90
E. Morselli La psicanalisi. Studi e appunti critici, Torino, Bocca, 1926.
91
E. Morselli, Di due recenti trattati tedeschi di psichiatria, in “Quaderni di Psichiatria”, VII, 1920, p.
122.
92
B. Cassinelli, Storia della pazzia, Milano, Corbaccio, 1936, p. 447. Sulla controversa figura di
Cassinelli, accusato di delazione ripetuta a favore del regime fascista, vedi M. Franzinelli, I
tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Borin-
ghieri, 1999, pp. 455-456.

37
Andrea Scartabellati

morfologiche, organicistiche, psicologiche e funzionali93, mentre l’azione te-


rapeutica rimase sostanzialmente incapace di raggiungere pratiche di sanità
efficaci. Le limitate novità introdotte sperimentalmente con i primi anni ‘20
si circoscrissero a rare e qualificate realtà istituzionali. Saldo si mantenne
il sospetto medico verso i sistemi dell’open door e del no restraint. Valuta-
zioni critiche del modello asilare e fervore di proposte innovative, pur non
mancando – si vedano le iniziative parallele alla fondazione del movimento
per l’igiene mentale94 - non approdarono oltre i mondi di carta delle riviste
specializzate, fallendo l’implementazione di riforme strutturali. Volto e so-
stanza della psichiatria asilare primo novecentesca mutarono impercettibil-
mente. Il perimetro manicomiale, fallimentare e rovinoso, rimase lo sbocco
abituale dei giovani laureati al debutto nella galassia alienistica; positivismo
neoidealismo o scienza cattolica, oppure Lombroso o non Lombroso, il ma-
nicomio non venne meno alla sua funzione di «spazio chiuso senza orizzon-
te, separato dal mondo, squallido, spoglio, soffocante, abitato da individui
stravolti ed esagitati»95. Le predizioni relative al totale sganciamento della
psichiatria dalla tutela del lombrosismo, del materialismo monista haecke-
liano e della dottrina delle degenerazioni, rimasero tali. Finanche le «prov-
videnziali esagerazioni» lombrosiane, come annotava vivendo quegli anni il
Cassinelli nella sua informata Storia della pazzia del 193696, si palesavano agli
occhi dei commentatori come errori necessari, abbagli salutari per la crescita
stessa della disciplina. Eppure, sarebbe fuorviante restringere la presenza di
Lombroso nella scienza post-bellica alla sola criminologia - come fa Leone
Lattes (1887-1954)97 - o nelle vesti esclusive dell’utile idiota. La psichiatria,
del suo enciclopedico magistero, tratteneva ben altro in dote degli abbagli
o dei malintesi. Come riassunse uno psichiatra tra i più attenti alle novità
internazionali, pioniere dell’igiene mentale e tra i massimi esponenti della
93
F. Giacchi, recensione a G. Funaioli, I criminaloidi nell’esercito, in “Rivista Sperimentale di
Freniatria”, XLII, 1918, p. 554.
94
Mi limito a segnalare i testi di Giuseppe Corberi: Sul Dispensario psichiatrico di Milano e sulla
Profilassi Mentale, in “L’Igiene Mentale”, VII, 1, 1929; (con G. Modena e L. Baroncini): Problemi
nuovi dell’assistenza psichiatrica con particolare riguardo all’igiene mentale, in “Rivista Sperimentale
di Freniatria”, LIV, 1930, pp. 921-923; L’importanza dell’assistenza etero famigliare, in “Journal Bel-
ge de Neurologie et de Psychiatrie”, 7, Juillet 1935.
95
F. Poli, Alcune esempi di rappresentazione del folle nell’iconografia artistica italiana dalla seconda
metà dell’Ottocento ad oggi, in Follia psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e
classi sociali nell’Italia moderna e contemporanea, a cura di A. De Bernardi, Milano, Franco Angeli,
1982, pp. 430-431.
96
B. Cassinelli, Storia della pazzia, Milano, Corbaccio, 1936, p. 436.
97
L. Lattes, Ritorno a Lombroso, in “Minerva Medicolegale”, LXXVI, 1956.

38
PAGINE DIMENTICATE. LE CULTURE PSICHIATRICHE IN ITALIA TRA FINE ‘800 E PRIMI DECENNI DEL ‘900

psicotecnica, Giuseppe Corberi (1881-1951), «in Italia ferve la discussione


fra i rappresentanti della scuola antropologica e l’indirizzo più strettamen-
te psicologico, fra Benigno Di Tullio ed Agostino Gemelli, ma nessuno può
dimenticare che dobbiamo a Cesare Lombroso l’impostazione e lo sviluppo
delle ricerche sull’individuo che delinque, e, al di sopra di ogni dibattito,
dobbiamo rendere omaggio alla sua opera»98.
Concludendo: quando Enrico Morselli, nel 1919, commentando le più
avanzate produzioni della scienza tedesca, scrisse che i concetti lombrosiani
rappresentavano «la spina dorsale della Psichiatria»99, non si limitò al clas-
sico e stantio rituale dell’omaggio dovuto ai vecchi luminari. Riassunse, in-
vece, il sentire di un cenacolo scientifico pubblicamente incorporeo forse,
ma per il quale il metodo scientifico-naturalistico e le definizioni positivi-
ste-lombrosiane di uomo come «un tutto organico, le cui diverse parti sono
indissolubilmente legate»100, e di malattia mentale quale «deviazione dell’at-
tività evolutiva psichica dal tipo normale medio»101, non erano un bricolage
intellettuale, serbando contenuti di assoluta attualità operativa e scientifica.
Tra le macerie e le mancate promesse del progetto lombrosiano di una sintesi
scientifica fondata sull’esame obiettivo integrale antropologico e sociologico
del folle/reo102, favorita dall’incontro della psichiatria con altrettante disci-

98
G. Corberi, Ancora su l’esame della personalità del delinquente, in “Criminalia”, III, 1939; pubbli-
cato come estratto da Bocca, Milano 1939. La citazione è tratta da p. 4.
99
E. Morselli, Ultime produzioni della psichiatria tedesca, in “Quaderni di Psichiatria”, VI, 1919, p.
271.
100
L. B., recensione a C. Lombroso, L’Uomo alienato, in “Rivista di Psicologia”, X, 1914, p. 471.
101
B. Cassinelli, Storia della pazzia, Milano, Corbaccio, 1936, p. 447.
102
L. Lattes, Ritorno a Lombroso, in “Minerva Medicolegale”, LXXVI, 1956, p. 7.

39
Andrea Scartabellati

pline ausiliarie103, non tutto, insomma, era destinato ad essere rigettato104.

103
F. Del Greco, La sintesi clinica di E. Kraepelin dal punto di vista della Storia della Medicina, in
“Rivista Sperimentale di Freniatria”, XXXV, 1909, pp. 284-86.
104
Alcuni suggerimenti di lettura per l’approfondimento dei temi: Augusto Tamburini. In me-
moriam, Roma, Tipografia dell’Unione Editrice, 1920; L’antropologia italiana. Un secolo di storia,
Roma-Bari, Laterza, 1985; V.P. Babini, La storia della psichiatria italiana del Novecento, i primi
vent’anni, in “Psicoterapia e Scienze Umane”, 40, 2006; E. Balduzzi, Le terapie da shock, Milano,
Feltrinelli, 1962; V. Bongiorno, Il dedalo della mente. Augusto Tamburini, tra neurofisiologia e psichia-
tria, Roma, Edizioni Kappa, 2002; M. Calloni, Donne italiane in esilio nella Confederazione Elvetica
tra Ottocento e Novecento, in http://www.dialogare.ch/Dialo_Newsletter/13donne_esilio.pdf;
R. Canosa, Storia del manicomio dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979; G. Cosmacini, Gemelli.
Il Machiavelli di Dio, Milano, Rizzoli, 1985; Leonardo Bianchi. Un sannita dimenticato, a cura di G.
De Lucia, Benevento, Messaggio d’Oggi, 1974; I mondi di carta di Giovanni Vailati, a cura di M. De
Zan, Milano, Franco Angeli, 2000; Alle origini dell’antropologia italiana. Giustiniano Nicolucci e il
suo tempo, a cura di F. Fedele e A. Baldi, Napoli, Guida, 1988; M. Franzinelli, Padre Gemelli per la
guerra, Ragusa, La Fiaccola, 1986; F. Giacanelli-G. Campoli, La costituzione positivista della psichia-
tria italiana, in “Psicoterapia e Scienze Umane”, 3, 1973; F. Giacanelli, Il medico, l’alienista, in C.
Lombroso, Delitto, genio, follia. Scritti scelti, a cura di F. Giacanelli, L. Mangoni e D. Frigessi, To-
rino, Bollati Boringhieri, 1995; V. Labita, Un libro-simbolo: “Il nostro Soldato” di padre Agostino Ge-
melli, in “Rivista di Storia Contemporanea”, 3, 1986, pp. 405-406; S. Maffeo, Una “Voce” cent’anni
fa, in “Storia in Network”, 146, Dicembre 2008, http://www.storiain.net/artic/artic4.asp; R.
Maiocchi, La scienza italiana ed il razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999; F. Mondella,
Biologia e filosofia, in Storia del pensiero filosofico e scientifico, a cura di L. Geymonat, VI, Milano,
Garzanti, 1970-72; Giulio Cesare Ferrari nella storia della psicologia italiana, a cura di G. Mucciarelli,
Bologna, Pitagora, 1984; Giuseppe Sergi nella storia della psicologia e della antropologia in Italia, a
cura di G. Mucciarelli, Bologna, Pitagora, 1987; F.P. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana
tra Fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, Ombre Corte, 2008; C. Pogliano, L’utopia igienista,
in Storia d’Italia. Malattia e medicina, Annali, 7, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einaudi, 1984; M.
Quarchioni, Il Manicomio di Teramo e Marco Levi Bianchini, in “Abruzzo Contemporaneo”, I, giu-
gno 1991; A. Scartabellati, Intellettuali nel conflitto. Alienisti e patologie attraverso la Grande guerra
(1909-1921), Bagnaria Arsa (UD), Edizioni Goliardiche, 2003; A. Scartabellati, L’umanità inutile.
La questione follia in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento e il caso del Manicomio provinciale di
Cremona, Milano, Franco Angeli, 2001; La follia della guerra. Storia dal manicomio degli anni ’40, a
cura di P. Sorcinelli, Milano, Franco Angeli, 1992; F. Stock, Kraepelin e i kraepeliniani in Italia, in
Passioni della mente e della storia. Protagonisti, teorie e vicende della psichiatria italiana tra ‘800 e ‘900,
Milano, Vita e Pensiero, 1989; E.S. Valenstein, Cure disperate. Illusioni e abusi nel trattamento delle
malattie mentali, Firenze, Giunti, 1993; R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’an-
tropologia criminale, Milano, Franco Angeli, 1985; R. Villa, Un album riservato, in Locus Solus, 2,
Lombroso e la fotografia, Milano, Bruno Mondadori, 2005.

40
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

Massimo Tornabene, Università di Milano

PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

Se il Novecento continua ad essere il grande misconosciuto della storia


italiana della psichiatria, il ventennio fascista e la successiva guerra ne rap-
presentano certamente una delle pagine meno indagate. Eppure l’intricata
matassa di questioni – scientifiche, politiche, legislative – che contraddistin-
guono l’assistenza psichiatrica del ventennio vedono al centro temi – come il
razzismo, l’eugenetica ma anche la progettazione di un moderno sistema di
cura delle malattie mentali – che meriterebbero di essere approfonditi nella
loro specificità.
Attraversata la buriana della Prima Guerra mondiale, il Fascismo si ado-
però, in primis, per costruire quella rete nazionale di manicomi che, all’in-
domani del riordino delle province del 1927, avrebbe dovuto portare ogni
circoscrizione a prendersi cura dei propri malati mentali: specie in alcune
province meridionali (come quelle siciliane), dell’Italia centrale (Rieti) ed an-
che settentrionale (in particolare la Lombardia con Varese, Lodi e Castiglio-
ne delle Stiviere e il Piemonte con Grugliasco). Due, dal canto loro, furono
invece le vie attraverso le quali gli psichiatri tentarono, adeguandosi più o
meno plasticamente alle parole d’ordine del regime, di ottenere l’obiettivo di
una riforma legislativa che permettesse loro di intervenire nei gangli più vivi
della società (a partire dalle scuole e l’esercito): la prima fu quella dello studio
statistico della diffusione delle malattie mentali, sino ad allora assai carente,
che portò nel 1926, alla costituzione del Centro statistico per le malattie men-
tali105, guidato da Gustavo Modena (direttore del manicomio di Ancona) e
sostenuto dalla Direzione generale di Sanità e dall’Istituto centrale di statisti-
ca presieduto da Corrado Gini106; la seconda fu quella dell’avvio di una cam-
pagna per la «profilassi mentale della stirpe italica» che mettendo al centro
del proprio disegno i dispensari ambulatoriali ad accesso libero e gratuito si
105
G. Modena, Informazioni sull’ufficio di statistica delle malattie mentali, in “Rivista sperimentale
di Freniatria”, Reggio Emilia, 1926, volume unico, p. 637.
106
F. Cassata, Il Fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Roma, Carocci, 2006.

41
Massimo Tornabene

ispirò, in particolare, a quanto realizzato negli Stati Uniti (a partire dal 1909)
dal Comitato americano per l’igiene mentale107 e che ottenne pieno ricono-
scimento internazionale con il I° Congresso per l’Igiene mentale tenutosi a
Washington nel 1930, ed a cui presero parte rappresentanti di 50 nazioni108.

Profilassi mentale, eugenetica, razzismo

In Italia la Lega d’igiene e profilassi mentale, fondata a Bologna nel 1924


su iniziativa del milanese Eugenio Medea e la Società freniatrica italiana
(che dal 1932 divenne la Società italiana di psichiatria) furono le principali
protagoniste di questa campagna, attraverso la promozione di convegni, la
pubblicazione di articoli sulle principali riviste scientifiche e la presentazio-
ne, attraverso il Sindacato Nazionale Medico Fascista di proprie proposte di
riforma109. Il dibattito, in particolare, venne stimolato dagli psichiatri della
Lega. Gli effetti nefasti prodotti nella società dalla Prima guerra mondiale
con la sua massa di malati mentali provenienti dal fronte furono indubbia-
mente il punto di partenza delle loro proposte. Effetti che posero gli psi-
chiatri in prima fila nell’elaborazione dell’incubo della «degenerazione della
stirpe italica».
«I superstiti di questo immenso conflitto – scrisse lo psichiatra Ferdinan-
do Cazzamalli – traumatizzati psichici in gran parte, o neuro-psicastenici,
isteroepilettici, epilettici, ed epilettoidi, costituiscono e costituiranno in Eu-
ropa la contemporanea massa procreatrice. Quella selezione naturale, che
avveniva da parte delle giovani donne con scarto dei neuropsicopatici, non
sarà possibile né probabile a guerra finita, quando la percentuale dei due
sessi si sarà sempre più distanziata per la deficienza dei maschi. Le donne
di questa epoca fortunosa fatalmente dovranno adattarsi al matrimonio con
quella residua gioventù maschile tarata […] la prole derivante si può indurre
che sarà scarsa, a mortalità elevata, certamente neurotica, o almeno predi-
sposta gravemente a disordini psichici»110.
107
Come il coinvolgimento di enti pubblici e privati per la creazione di dispensari, apertura
negli ospedali psichiatrici di reparti ospedalieri aperti, avvio di scuole per le assistenti psichia-
triche, interventi diretti degli psichiatri nelle scuole, possibilità di attuare visite specialistiche
domiciliari.
108
G. Muggia, Origine, sviluppo e contenuto dell’igiene mentale, in “Difesa sociale”, Roma, 10, 1934,
pp. 262-266.
C. Ferrio, Riunione della commissione dei medici alienisti per la riforma della legge sui manicomi, in
109

“Note e riviste di psichiatria”, Pesaro, 1, gennaio 1934, pp. 13-17.


110
F. Cazzamalli, Guerra e degenerazione etnica, in “Quaderni di psichiatria”, Genova, 1916, p. 13.

42
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

La Grande guerra, infatti, costituì per gli alienisti uno spartiacque epoca-
le: «la violenza e la durata del conflitto rappresentarono un inedito terreno
di prova per la psichiatria, obbligata a confrontarsi con una enorme massa di
malati mentali provenienti delle trincee del fronte, massa che rappresentava,
in termini di diagnosi e possibili terapie, un inedito assoluto»111. Basti pensa-
re che secondo le stime ufficiali il servizio neuropsichiatrico accolse almeno
quaranta mila soldati, vittime di stress, shock da esplosioni, ma soprattutto
colpevoli di volersi sottrarre al conflitto – progettato e realizzato dai sani e
che per questi «incarna valori, razionalità, tecnologia» – andando «incontro
ad una impresa disperata, uscire dalla ragione, cadere in abitudini bestiali
e infantili, regredire»112. Fu così che per sconfiggere la iattura della «dege-
nerazione», gli psichiatri della Lega promossero l’istituzione di dispensari
d’igiene mentale, strutture ambulatoriali ad accesso libero che una volta av-
viate avrebbero dimostrato l’inutilità, nella loro forma attuale, degli istituti
asilari, incapaci (a loro giudizio) di curare il malato mentale in quanto tale,
ma solo quando si manifesta in termini di pericolosità e scandalo. Il primo
ambulatorio sorse a Milano nel 1924. I dispensari permisero agli psichiatri
(o almeno alle loro intenzioni) di «entrare nel corpo sociale, scandagliarlo e
trarne elementi per selezionare, isolare e curare i soggetti portatori di malat-
tie mentali». Un’azione che si inserì, secondo le analisi di Massimo Moraglio,
in un disegno dalle ambizioni ancora più alte: «la vera attività preventiva
andava svolta altrove: negli ambulatori pediatrici, nell’esercito, nelle scuo-
le, nei servizi medico-scolastici. Lo psichiatra, insomma, come selezionatore
dell’umanità, fin dal momento in cui si trovava inserito in strutture sociali
quali, appunto, esercito e scuola»113. Precursore di questa stagione si rivelò
Leonardo Bianchi, già relatore della legge del 1904, nei numerosi interventi
espressi (tra la fine e l’inizio degli anni venti) sia in Senato che alla Com-
missione nazionale per il dopoguerra. Considerazioni alla cui base fu posto
il progressivo aumento del numero dei folli internati negli istituti italiani.
Anch’egli sostenne la necessità di affiancare al manicomio una vasta rete di
prevenzione finalizzata a «ritardare la degenerazione della razza», ovvero
ad interventi diretti contro quelle «malattie sociali» (alcolismo, sifilide, ma-
laria, tubercolosi) «ritenute all’origine della “fiacchezza psicosomatica degli
111
M. Moraglio, Dentro e fuori il manicomio. Note sull’assistenza psichiatrica nell’Italia tra le due
guerre, in “Contemporanea”, 2006, 1, p. 19.
112
A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino,
Bollati Boringhieri, 1991, p. 134
113
M. Moraglio, Dentro e fuori il manicomio. Note sull’assistenza psichiatrica nell’Italia tra le due
guerre, in “Contemporanea”, 2006, 1, p. 27.

43
Massimo Tornabene

uomini e della prole” o che colgano precocemente i sintomi della malattia


mentale laddove essa ha modo per la prima volta di manifestarsi pubblica-
mente, ovvero nella scuola»114. Una prevenzione, diremmo oggi, di stampo
autoritario e condizionata dalle priorità (nazionaliste) dell’epoca, visto che
accanto ai dispensari psichiatrici e alle scuole differenziali, il terzo rimedio
suggerito da Bianchi fu l’eugenetica, vista come strumento di riscatto e di
potenziamento della nazione stessa: «È bene sapere – sostenne lo psichiatra
campano – che per ogni ricoverato nel manicomio non esistono meno di 50
e forse 100 deboli avviati alla degenerazione; sappiamo che molti di questi
provengono da matrimoni tra imbecilli, criminali, epilettici, alcolisti cronici,
e altre varietà di degenerati»115. Altra figura centrale del dibattito eugenetico
fu quella di Sante De Sanctis. Esponente illustre ed attivo della Lega nonché
suo presidente, pioniere della psicologia sperimentale italiana e teorico della
selezione scolastica, De Sanctis a partire dal 1926 fu a capo della Federazio-
ne romana dell’Opera nazionale maternità e infanzia. Nelle sue riflessioni
risultò centrale il problema della selezione (attraverso un suo metodo psico-
logico) tra i recuperi (i minorenni differenziati e i deficienti lievi) e i rifiuti (i
deficienti gravi), questione che venne recepita dalla stessa Omni. «Riforma
del manicomio, dispensari psichiatrici, “classi differenziali” [furono] – come
ha osservato Francesco Cassata – tre aspetti di un unico progetto eugenetico,
il cui obiettivo ultimo consiste nel raggiungimento del massimo livello di
razionalizzazione economica delle risorse biologiche della nazione»116. Gli
psichiatri italiani, va ricordato, allo stesso tempo si distanziarono dalle cam-
pagne di sterilizzazione messe in atto dall’eugenetica nazista e che il Fasci-
smo decise di non seguire. Il regime hitleriano, infatti, si caratterizzò per la
predisposizione di una soluzione radicale quanto definitiva del problema
della «degenerazione della razza» e dei malati di mente: già dall’estate del
1933, nello stesso giorno in cui la Nsdap venne dichiarata l’unico partito
legale, il governo nazista approvò la legge sulla sterilizzazione dei disabili e
degli infermi, anticamera del progetto di eutanasia che tra il 1939 e il 1941 ne
portò alla morte decine di migliaia117. Una scelta che aprì tra gli psichiatri ita-
liani un aspro e intenso dibattito: le loro opinioni si divisero tra la condanna

114
F. Cassata, Il lavoro degli “inutili”: Fascismo ed igiene mentale, in Manicomio, Società e Politica, a
cura di F. Cassata e M. Moraglio, Pisa, Bfs, Pisa, 2005, p. 25.
115
Ibidem.
116
Ivi, p. 34.
117
Cfr. M. Tregenda, Purificare e distruggere. Le prime camere a gas naziste e lo sterminio dei disabili,
Verona, Ombre corte, 2006.

44
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

dell’eugenetica negativa (quella tedesca, appunto) e l’approfondimento de-


gli studi genetici attraverso il monitoraggio statistico-genealogico dei malati
di mente; dibattito che esplicitò le affinità (e le divergenze) tra la psichiatria
fascista e quella nazista e che, come accennavamo in precedenza, merita di
esser analizzato anche alla luce di quanto attuato in campo eugenetico sia
negli Stati Uniti che in altri paesi Europei (come la Svizzera, la Danimarca,
la Norvegia) e su temi, in particolare, come quello della sterilizzazione dei
malati mentali118.
Accanto all’eugenetica altro tema di incontro tra il regime e la psichiatria
fu quello del possibile contributo che quest’ultima avrebbe potuto dare alla
questione della razza. Il rapporto tra psichiatria e razzismo, infatti, non può
essere ridotto alla sola adesione di Arturo Donaggio, presidente della Socie-
tà italiana di psichiatria e allo stesso tempo figura di massimo rilievo tra gli
alienisti italiani, al Manifesto degli scienziati razzisti del 1938, il documento che
pose le premesse scientifiche dei provvedimenti di discriminazione razzia-
le119. Non appare un caso, infatti, se all’indomani della Liberazione (prece-
duta nel 1942 dalla prematura scomparsa dello stesso Donaggio), la Società
italiana di psichiatria non ebbe la forza di disconoscere quell’adesione, li-
mitandosi ad una corporativa censura delle «note odiose ragioni razziali»
solo in relazione all’allontanamento, all’indomani delle leggi antiebraiche, di
Gustavo Modena dalla vice presidenza della Società120. La ricerca scientifica
degli psichiatri finalizzata a sostenere le ragioni di un razzismo a base bio-
logica aveva alla propria base una tradizione precedente allo stesso avvento
del Fascismo121 e successivamente non mancarono, all’indomani della costi-
tuzione dell’Impero studi finalizzati, ad esempio, a dimostrare l’inferiorità
psichica della popolazione eritrea122. Razzismo che non mancò di interessare
attivamente anche l’allora nascente psicologia, come dimostrano importanti

118
U. Sperapani, La sterilizzazione eugenica, in “Difesa sociale”, vol. XV, 1936, pp. 15-22.
119
Cfr. F. Cassata, «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino,
Einaudi, 2008.
120
E. Padovani, Relazione morale e finanziaria sull’attività della Società Italiana di Psichiatria nel
sessennio 1941–1946, in “Rivista sperimentale di Freniatria”, 1948, pp. 269-281.
121
Tra gli altri si segnala M. Koblinssky, Razza e Cervello, in “Quaderni di psichiatria”, Genova,
vol. VIII, nn. 1-2, 1921, pp. 1-7, in cui si illustrano e si sostengono gli studi atti a dimostrare «che
nelle razze psichicamente inferiori il peso del cervello è, in media, minore di quello del cervello
appartenente alla razza più civilizzata».
122
S. Brambilla, Contributo allo studio delle manifestazioni psicopatologiche delle popolazioni dell’Im-
pero, in “Rivista di patologia nervosa e mentale”, Firenze, LIII, 1939, pp. 187-206.

45
Massimo Tornabene

saggi apparsi sull’”Archivio” diretto da Agostino Gemelli123 e sulla rivista


della Società italiana di psicologia124.
Un dibattito inteso che non portò comunque ad alcuna revisione legisla-
tiva, nonostante il regime fascista si fosse impegnato attraverso l’istituzione
di apposite Commissioni di riforma presso la Direzione generale della sanità
pubblica: l’ultima venne nominata nel 1939, ma già nella precedente, avviata
nel 1925 e sciolta nel 1934 le divergenze tra gli psichiatri ed il governo non
derivarono, a quanto pare, dalla richiesta di libere ammissioni negli ospedali
o dell’istituzione degli ambulatori di profilassi mentale ma dal timore, che
questa scelta potesse provocare «ulteriori aggravi ai bilanci delle ammini-
strazioni provinciali dalle quali dipendono la maggior parte dei nostri Ospe-
dali psichiatrici»125. Durante il Fascismo l’unica misura legislativa assunta in
campo psichiatrico fu quella diretta alla criminalizzazione dei folli: il nuovo
Codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1931, portò, infatti, anche
all’iscrizione dei ricoveri al Casellario giudiziario; un provvedimento figlio
della logica autoritaria del regime mussoliniano che ponendo la supremazia
dello Stato al di sopra della nazione e quindi la sua difesa da ogni potenziale
nemico, considerò, tra questi, anche i matti. A condizionare le politiche del
regime, molto probabilmente, fu l’aumento, esponenziale, dei ricoverati: dal
1926 al 1942 (come attesta l’Istituto di statistica delle malattie mentali) gli in-
ternati sul territorio nazionale passarono da 1,5 a 2,12 ogni mille abitanti, con
un incremento record in numeri assoluti di oltre il 30%: da 60 a 96 mila. Dati
che nella loro crudezza autorizzano a ipotizzare, anche per il ventennio, una
nuova ondata di quel grande internamento, di cui gli storici hanno parlato
a proposito della fine dell’Ottocento. Una ondata che per le sue dimensioni
trova una risposta, almeno parziale, nelle conseguenze provocate dalla crisi
del 1929 e che verrebbe confermata anche dalle recenti analisi sulle cartelle
cliniche degli internati126; confermando con i numeri, anche per il manicomio
novecentesco, la sua funzione di «contenitore» della povertà. Nel frattempo
in altri luoghi psichiatrici, intrisi di una scienza «positiva», ma distanti dalla

123
N. Gasparini, Le varianti psichiche razziali (studio di psicologia razziale sul tipo italico-ariano-
mediterraneo), in “Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e psicoterapia”, Milano, 1939,
pp. 446-471.
124
M. Canella, Psicologia differenziale delle razze umane, in “Rivista di psicologia normale e pato-
logica”, Bologna, 1940, pp. 175-255.
125
G. Sogliani, L’assistenza psichiatrica in Europa e la legge italiana sugli alienati, in “Rassegna di
studi psichiatrici”, Siena, vol. XXXI, p. 525, 1942.
126
M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves
(Cn), Araba Fenice Edizioni, 2007, pp. 35ss.

46
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

vita quotidiana degli internati, la psichiatria d’epoca fascista, alla fine degli
anni Trenta, raggiunse con Ugo Cerletti il suo maggior successo a livello
mondiale. Il direttore della clinica dell’Università di Roma, con l’invenzione,
nel 1938, della terapia elettroconvulsivante consentì di ottenere il riconosci-
mento scientifico tanto atteso127. L’elettroshock incontrò infatti una diffusione
immediata e straordinaria, oltre che nei manicomi italiani, fuori dai confini
nazionali128. Ma si trattò anche di una terapia che di fronte alle nuove esi-
genze cliniche provocate dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale
(traumi e shock), svelò da subito – con il suo uso indiscriminato – il proprio
potenziale intimidatorio, in primis verso quei soldati sospettati di essere dei
simulatori.

Le vittime: civili e soldati

Lo stacco tra la realtà e la propaganda del sistema psichiatrico fascista


può essere evidenziato attraverso lo scarto presente negli scritti degli alieni-
sti redatti nel ventennio e da quelli dell’immediato dopoguerra. Durante il
regime la storiografia psichiatrica si adoperò, intensamente, per italianizare
la disciplina: i saggi pubblicati sulle riviste scientifiche edite dai principali
manicomi, diressero lo sguardo soprattutto sul proprio passato, al fine di
rivendicare le radici italiche della psichiatria moderna. Il pensiero e l’opera
dei padri fondatori – a partire dal fiorentino Vincienzo Chiarugi, da contrap-
porre all’indiscusso liberatore dei folli, il francese Philippe Pinel129 – divenne
così l’unico oggetto di storia possibile. D’altronde non potevano esserlo le
malattie mentali – ridotte a patologie organiche del cervello, prive di una
dimensione sociale e individuale – né tantomeno i malati130. Scritti a cui se
ne affiancarono altri impegnati – come quelli per il secondo centenario del
manicomio di Torino – ad esaltare le «emerite opere assistenziali» realizzate
dal regime e dalla monarchia131. Ma come avvenne in altri ambiti, si trattò di
una propaganda tesa a costruire un consenso (biunivoco) che, alla prova dei
fatti, non resse il confronto-scontro con la realtà dell’evento bellico.
127
Cfr. R. Passione, Il romanzo dell’elettroshock, Reggio Emilia, Aliberti, 2007.
128
E. Shorter, Storia della psichiatria. Dall’ospedale psichiatrico al Prozac, Milano, Masson, 2000, pp.
212ss.
129
Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1963.
130
Cfr. P. Guarnieri, La storia della psichiatria, un secolo di studi in Italia, Firenze, Leo S. Olschki
Editore, 1991.
131
Il Regio manicomio di Torino nel suo secondo centenario. 1728-1928, Torino, Rattero, 1928.

47
Massimo Tornabene

Da un punto di vista scientifico gli psichiatri non mancarono di approfon-


dire temi che, anche sulla scorta dell’esperienza maturata durante la prima
guerra mondiale, avrebbero potuto fornire diretto sostegno all’esercito in
vista dell’imminente confronto bellico. Particolare attenzione, infatti, venne
data alla profilassi mentale dei soldati, con interventi che avrebbero dovuto
ridurre al minimo il numero dei soggetti psichicamente instabili all’interno
dell’esercito, indirizzare ogni singolo soldato alla mansione più adeguata
al proprio profilo mentale, individuare anche per gli «elementi più tarati
intellettivamente e moralmente» quelle attività utili «non solo allo scopo
bellico ma anche logistico e di comune provvidenza di vita quotidiana»132.
Pure la psicologia non mancò, dal canto suo, di dare il proprio contributo,
con studi rivolti alla selezione ed all’istruzione del soldato133 ed all’analisi
delle varianti psichiche razziali, ad esempio, per la valutazione del militare
da assegnare a corpi, come l’aeronautica, particolarmente selettivi134. In pre-
visione della guerra assai scarsa, invece, fu l’attenzione rivolta ai ricoverati
nei manicomi visto che il tema della sistemazione dei malati di mente in
caso di sfollamento vide Michele Sciuti, direttore dell’Ospedale psichiatri-
co di Napoli sostenere nel 1940 (!) che tale problema «può essere risolto
quando alla buona volontà e capacità dei responsabili, si unisca una prepa-
razione e predisposizione preventiva, ed a tempo opportuno, e quando vi sia
un solo ufficio responsabile per tutta l’Italia che abbia preventiva e chiara
conoscenza nonché comprensione del problema, di tutti i mezzi disponibili
per risolverlo»135.
Non stupisce, quindi, se all’indomani della seconda guerra mondiale –
che per i manicomi fu causa di gravi danni materiali136 e di pesanti diffi-
132
G. Felsani, La profilassi mentale nell’esercito, in “Atti della Lega di Igiene e Profilassi Mentale”,
Firenze, 1939, p. 17
133
F. Banissoni, Le applicazioni della psicologia alla selezione e all’istruzione del soldato nei principali
paesi, in “Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e psicoterapia”, Bologna, 1939.
134
N. Gasparini, Le varianti psichiche razziali (studio di psicologia razziale sul tipo italico-ariano-
mediterraneo), in “Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e psicoterapia”, Milano, 1939,
pp. 446-471.
135
M. Sciuti, Il problema del trasferimento degli ammalati di mente in caso di necessità di sgombero di
alcuni ospedali psichiatrici, in “L’Ospedale psichiatrico”, Napoli, VIII, 1940, p. 172.
136
«Si rileva che 34 istituti uscirono indenni o quasi dalle offese aeree; 30 subirono danni più
o meno gravi; 18 furono più duramente colpiti, e alcuni assai gravemente, come Agrigento,
Arezzo, Napoli, Padova, Reggio Emilia, Vicenza, Aversa, Brescia, Colorno, Grugliasco, Imola
Lolli, Messina, Trapani, risultandone impossibile o difficilissimo il funzionamento. […] O per
l’’una o per l’altra evenienza [incursioni aeree o coinvolgimento nel fronte di guerra] numerose
vittime caddero tra il personale e gli ammalati. […] Complessivamente sono più di 300 le vitti-
me falciate dalla guerra tra il personale e i degenti degli ospedali» (G. Padovani-L. Bonfiglioli,

48
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

coltà organizzative – quegli stessi psichiatri, non poterono che denunciare


l’imprevidenza con cui le istituzioni nazionali e locali (non) affrontarono,
preventivamente, il problema degli approvvigionamenti (alimentari e ma-
teriali) destinati ai ricoverati: sconsideratezza che tra le altre cose provocò
«per le sole sofferenze di guerra, e specialmente per la fame», un aumento
esponenziale, pari al doppio o al triplo, a seconda degli istituti, del loro tasso
di mortalità137.
Delle tante distruzioni e sofferenze e perdite umane e patrimoniali subite
dagli istituti di assistenza psichiatrica in Italia vediamo una sola concausa
specifica: l’imprevidenza, il disinteresse e talvolta persino lo scarso senso
di responsabilità delle autorità competenti, fossero esse governative, pro-
vinciali o locali. […] Molte sofferenze e molti danni avrebbero potuto essere
evitati, se nei pressi degli ospedali non vi fossero stati tanti obiettivi militari,
se si fossero tempestivamente raccolte adeguate scorte di viveri, di vestiario,
di medicinali, se si fossero convenientemente predisposti i trasferimenti dai
luoghi più minacciati. […] Se non è possibile, e la storia lo insegna, evitare
le guerre, è però possibile limitarne il flagello: ma occorre a tale scopo avere
una chiara visione dei singoli problemi ed attuare per tempo i provvedimen-
ti più utili per risolverli. Il che, in Italia, non è avvenuto138.
Guerra che, allo stesso tempo, scosse profondamente anche la stabilità
emotiva di molte delle sue vittime139 e che segnò, con la sua forza dirom-
pente e totale, i percorsi che condussero una parte di questi manicomio. La
follia di molti civili internati nel quinquennio bellico (si tenga presente che
l’andamento dei ricoveri rimase stabile sino al 1942 e nel 1943 tornò ai li-
velli del 1937) venne condizionata, ad esempio, dall’angoscia e dal terrore
dei bombardamenti alleati e dagli eccidi compiuti dai nazisti: si vedano, in
proposito, i numerosi civili che all’indomani dell’eccidio di Boves – la prima
strage nazista compiuta in Italia – vennero internati nel manicomio di Rac-

Le vicende storiche e statistiche dell’assistenza psichiatrica in Italia durante la 2° guerra mondiale, in


“Rivista Sperimentale di Freniatria”, Reggio Emilia, unico, 1948, p. 382).
137
«La mortalità, pertanto, tolte poche eccezioni nell’Italia del nord, è raddoppiata e triplicata
ed oltre, a misura che si scende nell’Italia centro-meridionale, che più di altre regioni ha sofferto
per la grave crisi alimentare del 1943-44; nel complesso nazionale appare duplicata, passando
dal 5.88% prebellico al 10.72% bellico» (Ivi, pp. 391–393; e A. Pirella, Psichiatria europea, “euta-
nasia”, sterminio, in Psichiatria e nazismo, a cura di B. Norcio e L. Torresini, Pistoia, Centro di
Documentazione di Pistoia, 1994).
138
Ivi, pp. 395-396.
139
Cfr. N. Revelli, La guerra dei poveri, Torino, Einaudi, 1962.

49
Massimo Tornabene

conigi a causa di gravi stati depressivi140; mentre i traumi e gli stress di guer-
ra, accompagnati all’orrore di azioni compiute all’insegna della distruzione
assoluta segnarono la follia di numerosi soldati ora anche alle prese con una
paura da cui difficilmente riuscirono a sottrarsi141. Non mancarono, poi, epi-
sodi di vera e propria persecuzione: come quello che il 26 maggio del 1940
vide il trasferimento nell’ospedale psichiatrico tedesco di Zwiefalten degli
infermi di origine tedesca del manicomio di Pergine Valsugana, in provincia
di Trento, per poi venire soppressi all’interno del programma messo a punto
dal regime nazista per l’eliminazione degli individui affetti da menomazio-
ni fisiche e psichiche142; episodi a cui se ne contrapposero altri, invece, di
grande generosità, specie verso gli ebrei a rischio di deportazione: tra i più
significativi, anche per la vicinanza geografica, si veda il caso degli israeliti
ospitati sotto mentite spoglie da Carlo Angela nella clinica da lui diretta a
San Maurizio Canavese, in provincia di Torino143. Lo sbandamento seguito
all’armistizio (che in molti soldati accentuò il timore, la paura di essere cattu-
rati dagli invasori nazisti)144 e lo scontro che si aprì fra antifascisti e repubbli-
chini segnarono anch’essi le anamnesi cliniche di numerosi internati145. Allo
stesso tempo la guerra fornì ad alcuni psichiatri l’occasione per sperimentare
le potenzialità delle terapie da shock di nuova generazione. In particolare
sui soldati che, colpevoli di volersi sottrarre ad un infausto destino, si tra-
sformarono, loro malgrado, in strumenti per la scienza. Prima di giungere
in manicomio i militari che manifestavano disturbi mentali venivano infat-
ti curati nei reparti ospedalieri prossimi ai luoghi di combattimento: una
prassi già sperimentata durante la Grande guerra e finalizzata a sgomberare
«dalla loro mente l’idea o la speranza di un provvedimento di favore»146. Il

140
M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves,
Araba Fenice, 2007, pp. 105ss.
141
P. Fussel, Tempo di guerra, Milano, Mondadori, 1991, p. 350; e P. Sorcinelli, La follia della guer-
ra. Storie dal manicomio negli anni quaranta, Milano, Franco Angeli, 1992.
142
Cfr. H. Hinterhuber, Uccisi e dimenticati: crimini nazisti contro malati psichici e disabili del Nordti-
rolo e dell’Alto Adige, Trento, Museo storico in Trento, 2003.
143
R. Segre, Venti mesi, Palermo, Sellerio, 2002.
M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Boves,
144

Araba Fenice, 2007, pp. 105ss.


145
Cfr. Ernesto Galli Della Loggia. Una guerra «femminile»? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e
dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di
A. Bravo, Roma-Bari, Laterza, 1991; e P. Sorcinelli, La follia della guerra. Storie dal manicomio negli
anni quaranta, Milano, Franco Angeli, 1992.
146
P. Consiglio, Le anomalie del carattere nei militari in guerra, in “Rivista Sperimentale di Frenia-

50
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

sospetto che si potesse trattare di simulatori e non di traumatizzati assillò


costantemente molti alienisti. I quali, in alcuni casi, «al terrore della guerra,
da cui il soldato è riuscito a sottrarsi», contrapposero il terrore di pratiche
destinate a «farlo desistere dai suoi propositi»147. L’elettroshock inventato da
Ugo Cerletti diventò così la terapia usata per scovare le epilessie sospette
ovvero la patologia, a detta di molti alienisti, prescelta dai simulatori. Il suo
uso intimidatorio, al fine di fornire un utile contributo alla diagnostica nel
campo della “Medicina Legale Militare”, venne espressamente giustificato:
«Nel campo della simulazione il metodo delle prove convulsivanti [ha]
offerto notevoli servigi. In molti casi in cui si erano verificate crisi accessuali
viste solo dagli infermieri, ma non potute controllare dal medico, perché il
simulatore sa scegliere il momento più opportuno, per cui non sarebbe stato
possibile azzardare la diagnosi precisa di simulazione, ma da l’altra parte
anche il giudizio di idoneità avrebbe potuto lasciare qualche dubbio, questo
sistema delle prove ci ha permesso di formulare una diagnosi di certezza,
perché dava modo al medico di assistere al finto accesso e molto spesso l’in-
dividuo vedendo sbarrata la strada ai suoi progetti di finzione da prove cru-
ciali, finiva per confessare di non essere e di non essere mai stato epilettico,
come aveva tentato di far credere»148.
La tensione a scovare i simulatori non fu comunque univoca, visto che
direttori di altri manicomi sostennero, nello stesso periodo, che «non vi
sono ragioni per ritenere che questi soggetti siano dei tipici simulatori per il
semplice fatto che le loro reazioni morbose si manifestarono in un ambiente
sempre facile al sospetto della “simulazione”, o perché si ammalarono per il
probabile desiderio di liberarsi della vita militare. È noto infatti con quanta
facilità tanti poveri diavoli di soldati, magari anche deboli di mente, sbalzati
lontani dalle loro famiglie, diventano svogliati e depressi […] sono presi per
simulatori e trattati di conseguenza»149. Di certo, anche alla luce delle consi-
derazioni espresse da Giorgio Padovani, già capitano medico nell’Ospedale
Militare di Torino, nelle sue Esperienze e considerazioni neuropsichiatriche di
guerra e di prigionia, a fallire fu in primis lo stesso sistema di selezione dei sol-

tria”, Reggio Emilia, 1916-1917, p. 148.


147
A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino,
Bollati Boringhieri, 1991, p. 156.
148
G. Borgarello-G. Donegani, L’accertamento diagnostico dell’epilessia nella Medicina Legale Milita-
re, in “Schizofrenie”, Racconigi, 1945-1946, p. 127.
149
D. De Caro, Ricerche cliniche e statistiche circa l’influenza delle condizioni belliche sullo sviluppo ed
i caratteri delle psicosi nella popolazione civile, in “Il Lavoro Neuropsichiatrico”, Roma, vol. II anno
I fascicolo I luglio 1947, pp. 26-27.

51
Massimo Tornabene

dati nonché l’organizzazione stessa del servizio neuropsichiatrico di prima


linea150.
Resta indubbio, allo stesso tempo, che i soldati e i civili traumatizzati e in-
ternati durante la seconda guerra mondiale rappresentarono – nuovamente
– una novità assoluta anche per gli stessi psichiatri, che si trovarono di fronte
ad un’umanità devastata da una tragedia di dimensioni impreviste.
«Le condizioni prodotte dal recente conflitto nella popolazione civile –
scrisse lo psichiatra Diego De Caro – offrono allo studio dei disturbi mentali
in tempo di guerra elementi del tutto nuovi; e la diretta partecipazione di
soggetti - vecchi, bambini, donne, invalidi - che di solito erano risparmiati
dal contatto con il nemico, potrebbe mettere in evidenza caratteri che invece
restano oscuri quando si esaminano soldati delle zone di combattimento.
Mi pare quindi che lo studio di una vasta popolazione, che ha subito tutte le
conseguenze della guerra moderna, eseguito osservando il movimento di un
Ospedale Psichiatrico attraverso un congruo numero di anni, possa essere
utile per la conoscenza degli effetti delle condizioni belliche sulle malattie
mentali, e possa offrire agli psichiatri, sulla scorta delle osservazioni, che le
calamità umane dolorosamente non mancano di rinnovare, la possibilità di
rivedere, aggiornare ed eventualmente modificare le idee che si hanno in
questo settore della Psichiatria»151.
Nel dopoguerra gli alienisti italiani tornarono sin da subito a confrontarsi
sulla necessità di riformare la legge del 1904. I termini delle loro proposte
non mutarono: libero accesso agli ospedali psichiatrici, abolizione del con-
cetto di pericolosità, riforma delle commissioni di vigilanza e dei concorsi
per la nomina dei direttori, rafforzamento dei poteri del direttore, creazione
di dispensari neuropsichiatrici, scomparsa dei manicomi privati152. Anche
la posizione sugli effetti nefasti provocati dalla guerra sulla psiche della po-
polazione civile e militare non mutò rispetto alla tradizione già consolida-
tasi all’indomani della prima guerra mondiale: il conflitto, fu la posizione
ufficiale espressa da Francesco Bonfiglio in occasione del XXIII° congresso
della Società italiana di psichiatria, pur nelle sue devastazioni, non aveva
visto la comparsa di nuove «patologie di guerra» e tutti i disturbi riscontrati
all’indomani erano comunque da ricondurre a fattori costituzionali; mentre
voci come quella di Ottorino Balduzzi, psichiatra genovese, che rammentò
150
G. Padovani, Esperienze e considerazioni neuropsichiatriche di guerra e di prigionia, in “Rassegna
di studi psichiatrici”, Siena, 1948, pp. 168-201.
151
Ibidem.
152
L. Mattioli, Per una riforma della Legge sui Manicomi e sugli Alienati, in “Rivista sperimentale di
freniatria”, Reggio Emilia, 1947, pp. 56-67.

52
PSICHIATRIA E MANICOMI TRA FASCISMO E GUERRA

in quella stessa occasione di aver riscontrato «nel campo di concentramento


di Mathausen [...] l’insorgenza di sindromi paranoidi complete in individui
che apparentemente non presentavano alcuna predisposizione che potesse
far pensare alla possibilità di giungere ad atteggiamenti di questo genere»
rimasero del tutto isolate153.
Nel frattempo vecchi temi, anche se sotto nuove spoglie, riapparvero sul-
la pubblicistica manicomiale: come ad esempio la critica all’assenza, nell’or-
dinamento italiano, di un’apposita legge che istituisse la visita prematrimo-
niale obbligatoria finalizzata all’individuazione di eventuali disturbi men-
tali154. Nel frattempo nuove pratiche, introdotte dal sistema repubblicano e
democratico, come il diritto-dovere al voto anche per i malati di mente non
interdetti, destarono, forti perplessità in alcuni psichiatri155; mentre rispetto
ai problemi sociali ora presenti nel paese vi furono riviste che non esitarono
ad ospitare interventi, in cui il problema dell’infanzia «corrotta e criminale»
del dopoguerra venne fatta risalire alla presenza, tra le truppe alleate che
liberarono l’Italia, degli «uomini di colore, la cui infantile mentalità creò un
più facile unisono con i bambini, spesso più astuti, più intelligenti di loro.
Per costoro il furto, il contrabbando era un ordinario tenore di vita ed i fan-
ciulli sentirono la suggestione dei loro delitti, e le donne, specie le giovinette,
non seppero resistere e vinsero la istintiva repulsione dei popoli bianchi, il
che creò una prostituzione ed una criminalità anche più preoccupanti»156.
Tutto questo mentre in Francia ed in Inghilterra gli eventi bellici portaro-
no, invece, a sperimentare modelli di intervento che nei decenni successivi
si imposero come i più innovativi nella gestione dei manicomi: come la «psi-
coterapia istituzionale»157 e la «comunità terapeutica»158. Modelli che si con-
153
F. Bonfiglio, Problemi ed orientamenti odierni per la difesa sociale contro le malattie mentali, in
Atti del XXIII congresso della Società italiana di psichiatria, in “Rivista sperimentale di freniatria”,
Reggio Emilia, 1948, pp. 258-268.
154
L. Ruiu, I problemi dell’eugenetica in rapporto alle malattie mentali, in “Note e riviste di Psichia-
tria”, Pesaro, aprile-giugno 1952, pp. 335-339.
155
E. Camponovo-G. Borgarello, I malati di mente nell’esercizio del voto elettorale, in “Schizofre-
nie”, Racconigi, 1949, pp. 145-155.
156
E. Altavilla, Infanzia corrotta e criminale nel dopoguerra (aspetto sociologico-giuridico), in “L’Ospe-
dale Psichiatrico”, Napoli, pp. 133-148.
157
Attraverso la promozione di attività socioterapeutiche finalizzate a responsabilizzare la col-
lettività nei confronti della malattia mentale e alla rottura del rapporto duale medico-paziente
come condizione di un approccio terapeutico, esperienza che inizialmente avvenne in Francia
nelle cliniche di Saint-Alban e di Fleury-les-Aubrais.
158
Dal 1941, in un sobborgo della zona nord di Londra, il Ministero della Sanità realizzò il Mill
Hill Emergency Hospital, un centro psichiatrico con cento posti letto, destinato al trattamento dei

53
Massimo Tornabene

trapposero frontalmente al «paradigma asilare» vigente in Italia e con cui, di


fronte ad uno scenario istituzionale rimasto ancora immobile al 1904, solo a
partire dagli anni sessanta, iniziò a confrontarsi una frangia minoritaria di
psichiatri italiani.

civili e dei militari traumatizzati dal conflitto, in cui medici, pazienti e personale infermieristico
erano soliti riunirsi con i ricoverati per affrontare insieme, in un clima informale, sia questioni di
ordine clinico che organizzative-gestionali. Successivamente l’équipe operante in questa struttura
clonò lo stesso tipo di trattamento presso il Southern Hospital di Darford, nel Kent, una istituzio-
ne destinata ai prigionieri di guerra affetti da nevrosi da combattimento. I risultati furono sor-
prendenti e il suo principale animatore, lo psichiatra scozzese Maxwell Jones insieme altri come
Thomas Main (fondatore della Second Northfield Experiment) riuscirono ad ottenere importanti
sovvenzioni governative. Anche se in alcune di queste cliniche non mancò l’utilizzo dell’elettro-
shock o della narcosi da barbiturici, quello della comunità terapeutica si presentò, a detta dei suoi
promotori, come «un ambiente terapeutico con una organizzazione spontanea ed emotivamente
strutturata (anziché stabilita dal personale medico) in cui erano coinvolti sia il personale che i
pazienti» (T.F. Main, The Ailment, in “Medical Psychology”, 1957 30; e E. Shorter, Storia della psi-
chiatria. Dall’ospedale psichiatrico al Prozac, Milano, Masson, 2000, p. 229).

54
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

Massimo Moraglio, Università di Torino

PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA.
IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE
ALLA ROUTINE SEGREGANTE

«Il manicomio, benché [...] istituzione nuova e inspirata a un certo pro-


gresso, non [ha] funzioni superiori a quelle d’un grandioso smaltitoio. La
società vi abbandonava senza rancore, ma anche senza amarezza e senza
speranze, tutti quei disgraziati che con le loro stranezze compromettevano
la quiete pubblica»159.
Con queste poche e dense parole, scritte nel lontano 1905, Eugenio Tanzi,
uno dei più affermati psichiatri dell’epoca, denunciava il fallimento del ma-
nicomio. La sua era una dichiarazione circostanziata - essendo stato Tanzi
direttore del manicomio di Firenze - e senza appello. Il manicomio, secondo
Tanzi, non svolgeva affatto una funzione terapeutica («non ha funzioni su-
periori a quelle d’un grandioso smaltitoio»), benché fosse nata da nobili e
condivisibili propositi («istituzione nuova e inspirata a un certo progresso»).
Tanzi però diceva anche qualcosa di più, esprimeva un disagio comune alla
classe psichiatrica, che cioè il manicomio fosse un ricettacolo di devianti, in
cui i malati mentali erano una parte, non certo l’insieme. Insomma i manico-
mi italiani (così come quelli europei) di cento anni fa erano una istituzione
funzionale alla esclusione sociale di «tutti quei disgraziati che con le loro
stranezze compromettevano la quiete pubblica», ma non aveva altre funzio-
ni, tanto meno mediche.
È anche per questo che, più di altre istituzioni totali, il manicomio sfugge
a facili definizioni. Il manicomio è stato un luogo di segregazione della de-
vianza, ma per lungo tempo ha preteso di essere un ospedale per la terapia
della malattia mentale; a cavallo tra cura e controllo sociale, la stessa defi-
nizione istituzionale dei suoi ospiti è stata ambigua: erano di fatto sindaci e
pubblica sicurezza a selezionare i degenti, con la sanzione, eccezionalmente

159
E. Tanzi, Trattato delle malattie mentali, Milano, Società editrice libraria, 1905, p. 723.

55
Massimo Moraglio

negata, della magistratura, e con la segnalazione del ricovero sul casellario


penale. Essendo però considerato un ospedale, sia pure con ricoveri coatti e
libertà individuale annullata, l’organizzazione asilare era in mano ai medici.
Insomma il manicomio conteneva ed esprimeva in sé le contraddizioni
di una certa idea di anormalità, di devianza, di malattia mentale, rifletten-
do, in senso lato, modelli sociali e comportamenti delle istituzioni. Queste
contraddizioni vogliono essere l’oggetto del presente saggio usando, come
strumento di indagine, gli scritti, spesso ripetitivi, talvolta stereotipati, dei
più attenti e più radicali critici del manicomio, cioè gli psichiatri.

La nascita

Se ci affidiamo alla interpretazione classica della storia del manicomio,


fino al Settecento i folli non avevano status né strutture specifiche loro desti-
nate e men che meno la rudimentale medicina del tempo si occupava di loro.
La storiografia, anche italiana, ha però negli ultimi anni accentuato il suo
interesse per l’assistenza psichiatrica in epoca moderna e una questione che
era data per felicemente risolta, invece si rivela improvvisamente tutta da
studiare. Per restare al caso italiano, seguendo il lavoro di Lisa Roscioni sui
manicomi dal Cinquecento al Settecento, occorre retrodatare di alcuni secoli
la fondazione delle strutture esplicitamente per folli. Ma non si tratta solo
di questioni cronologiche: la presenza di simili strutture in epoca moderna
nasconde ben altro, la consapevolezza cioè di una dimensione univoca della
follia all’interno della più ampia categoria della devianza e della malattia.
Uno spazio in cui la medicina era, con andamento altalenante, sempre più
presente e in cui la «cura» del folle si trasformava da una anodina custodia
(a sfondo religioso e spirituale) a un azione terapeutica. Separare i folli dai
malati e dai devianti non era insomma un’operazione compiuta tra Sette e
Ottocento (ma vedremo come in realtà la distinzione ancora nel Novecento
fosse tutt’altro che compiuta), proprio perché i contorni di una simile diffe-
renziazione sono presenti, non solo in Italia, a partire dal XVI secolo. Emer-
gono poi, in pieno Ancien Regime, aspetti di sconcertante modernità, come
la breve durata media dei ricoveri, con costanti pratiche di ammissioni e
dimissioni, rilasci e rientri. L’asilo dell’epoca era caratterizzato dunque dalla
presenza di un apparato medico, con le caratteristiche proprie del periodo,
e dall’ambigua confusione di ruoli tra terapia e reclusione. Ma, allo stesso
modo del manicomio novecentesco, dentro gli antichi ospedali si giocava
una partita più ampia, fatta di relazioni sociali, di uso della struttura da par-

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PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

te delle famiglie, di mediazioni e scambi, di conflitti tra poteri statali, religio-


si, medici. E non mancavano «carriere di internamento» dove il folle passava
dagli ospedali generici a quelli per pazzi, dalle mani dell’inquisizione a quel-
le dei cerusici che lavoravano nei «pazzerelli»; salvo poi uscirne «guarito» e
magari collezionare successive recidive160.
Si trattava in fondo di dinamiche, mutatis mutandis, simili a quelle di epo-
ca contemporanea, che obbligano a vedere con occhi diversi i discorsi classici
sulla rifondazione assistenziale di fine Settecento: esiste veramente una sorta
di anno zero della psichiatria? È veramente Pinel che istituisce la pratica
manicomiale? Possiamo parlare di un improvviso «Big bang» dell’assistenza
psichiatrica che trova nella Nascita della clinica di Foucault la sua migliore
descrizione? Senza essere iconoclasti, gli argomenti per incrinare il Grande
racconto manicomiale non mancano di certo.
Proprio la figura di Pinel (o se si vuole restare in Italia quella di Chiarugi)
rappresenta al meglio una certa idea progressista e modernizzante dello psi-
chiatra. Pinel è il capostipite dello psichiatra filantropo che a fine Settecento,
nella Parigi rivoluzionaria, umanizzava il manicomio, abolendo le catene e
trasformandolo da immondo luogo di detenzione a vero centro terapeutico.
L’isolamento, realizzato per contenere il folle, da necessità di difesa socia-
le veniva intesa sempre più coerentemente come strumento terapeutico: il
manicomio diveniva il contenitore idoneo, l’unico possibile, per tale azione.
Pinel dunque ereditava, senza metterla in discussione, la reclusione dei folli,
ma attribuiva al manicomio una capacità curativa che «doveva assumere
come cardine metodologico l’isolamento del malato dal resto della società e
la separazione dei malati in “specie” distinte»161.
Se quindi, da un lato, la nascita di questo nuovo paradigma psichiatrico
significava la liberazione dalla catene dei malati (ma vedremo che essi tor-
narono assai presto legati ai ceppi, se mai li lasciarono) e il miglioramento
della qualità delle condizioni di vita ospedaliere, dall’altro manteneva però
la forma segregativa e asilare, assecondando l’idea propria della medicina
nel suo complesso che l’ospedale, da luogo di morte e disperazione, divenis-
se luogo di guarigione.

160
L. Roscioni, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, Milano, Bruno Mon-
dadori, 2003, pp. 120 e ss.
161
F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e
Novecento, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einau-
di, 1984, p. 1070.

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Massimo Moraglio

Debolezze e forze del manicomio

Dunque il manicomio (di Pinel) veniva rappresentato come luogo che


abbandonava l’impostazione casermesca della segregazione, per assumere
finalmente, secondo i dettami dei più moderni ritrovati, una valenza medica.
Questa descrizione, spesso banalizzata, diventava un leitmotiv della storia
della psichiatria e della auto-rappresentazione medica del manicomio, pron-
ta per essere ribadita e aggiornata nel corso del tempo. Questa ripetizione
- costante e continua - attraversò indenne le varie fasi della psichiatria ita-
liana, dalle «cure morali», di pineliana memoria, all’organicismo ottocente-
sco, dalla psichiatria razzizante dell’epoca fascista al cauto (e fallimentare)
riformismo della Società italiana di Psichiatria (Sip) negli anni Cinquanta
e sessanta del Novecento. Permaneva cioè nella cultura psichiatrica l’idea
che il manicomio potesse essere trasformato, portandovi quegli elementi di
umanità e di scienza tali da trasformarlo in un spazio vivo e terapeutico,
lasciando al passato, buio e oscurantista, ancora velato di superstizioni e luo-
ghi comuni anti-scientifici, l’asilo-carcere.
Un simile attaccamento del mondo medico al manicomio come luogo
per eccellenza dell’operare psichiatrico, anche a costo di restare imprigio-
nati nella propria costruzione, va inquadrato in uno spettro più ampio, di
cui almeno tre elementi vanno rintracciati. Innanzitutto, se l’odierno senso
comune ci induce a considerare il manicomio come luogo repressivo e co-
attivo, esso nasceva come spazio «liberatore» e progressista per eccellenza.
La psichiatria si voleva fare portatrice di una concezione rigorosa e neutra
della malattia, in cui il folle, come persona malata, «doveva sostituire le rap-
presentazioni non scientifiche e modificare i rapporti della società con i folli,
sconfiggendo il timore, nato dall’ignoranza e dalla superstizione, che ancora
li circondava»162. Per raggiungere tale obbiettivo si rendeva necessario uno
spazio ad hoc, il manicomio come luogo di cura per eccellenza, dove il fol-
le, sottratto alla barbarie della detenzione in carceri o alle violente e feroci
derisioni pubbliche, oppure ancora alla invisibilità pubblica, magari con la
reclusione in casa, avrebbe trovato non solo pace, ma, filantropicamente e
paternalisticamente, il buon medico capace di curarlo.
Va anche aggiunto, come secondo punto, che la costruzione del mani-
comio come luogo centrale della terapia rientrava, nel contesto Otto e No-
vecentesco, in un più ampio processo di medicalizzazione della malattia.
L’ospedale, in questo processo, era il nascente polo di azione e di potere
162
F. Minuz, Gli psichiatri italiani e l’immagine della loro scienza (1860-1875), in Tra sapere e potere.
La psichiatria italiana nella seconda metà dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 56.

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PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

medico, specializzando sempre di più le sue funzioni e consentendo, dopo


i primi più incerti esordi, successi via via maggiori. In questo nuovo para-
digma, «la preoccupazione umanitaria di porre fine alle tragiche condizioni
dei ricoverati, che doveva affermar[si] in quegli anni, si sarebbe saldata ad
un progetto di riforma dell’ospedale fondato su una nuova concezione della
sua funzione istituzionale. Lo spazio ospedaliero diveniva per antonomasia
il luogo della “curabilità” della malattia»163.
Ma vi è altro: la psichiatria, a differenza di altre branche della medicina,
soffriva di una marcata debolezza epistemologica e terapeutica, verrebbe da
parlare di un vero e proprio complesso di inferiorità rispetto altre aree medi-
che. Il manicomio, inteso come luogo specializzato per la terapia, cioè detto
diversamente, come ospedale, veniva così a costituire un punto di riferimen-
to, di rappresentazione e di auto-rappresentazione per il mondo psichiatri-
co, altrimenti vulnerabile e debole. Al punto che - come segnalava Augusto
Tamburini nel 1902 ai suoi colleghi - gli psichiatri, tutti presi nel fare del
manicomio un monumento, «si [erano] un po’ dimenticat[i] quella parte che
è così essenziale per lo scopo finale di tutti i nostri studi, la cura, cioè, e l’as-
sistenza degli alienati»164.

Il manicomio, le alternative, la legge

Che il manicomio avesse fallito i suoi obbiettivi, come Tamburini e Tanzi


denunciavano alla fine della Belle Epoque, se ne era accorto a metà Ottocento
lo psichiatra tedesco Wilhelm Griesinger, l’ideatore della moderna nosogra-
fia psichiatrica. Griesinger, per usare le parole di De Peri, «aveva desunto la
convinzione che il trattamento dei malati, come tutta quanta la psichiatria,
rischiavano di irretirsi in una farraginosa costruzione istituzionalizzante,
priva di alcun valore terapeutico e di credibilità scientifica». Nel tentativo
di perfezionare lo strumento del ricovero ospedaliero, lo psichiatra tedesco
affermava che la malattia mentale doveva ricevere la massima attenzione
medica nella sua fase acuta e che, come conseguenza, «la maggior parte dei
malati di mente avevano bisogno soltanto di un trattamento e di un ricovero
temporaneo»165.
163
F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e
Novecento, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einau-
di, 1984, p. 1063.
164
A. Tamburini, L’inchiesta sui manicomî della provincia di Venezia e la legge sui manicomî, in “Ri-
vista sperimentale di freniatria”, 1902, pp. 723 e ss.
165
F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e

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Massimo Moraglio

In una parola, la proposta del medico tedesco - ripresa con ampiezza e


insistenza nelle riviste italiane tra fine Ottocento e inizio Novecento - deli-
neava una riforma radicale del manicomio come sino ad allora conosciuto,
per quanto mantenesse, naturalmente, il ruolo fondante e determinante del
medico nell’assistenza psichiatrica. Griesinger non era il solo psichiatra ot-
tocentesco a pensare al manicomio come carrozzone inutile, privo di ogni
senso medico e ormai mero contenitore di corpi. L’inglese John Conolly ave-
va proposto una struttura ospedaliera basata sulle regole del no restraint166
e, poco dopo, la funzione terapeutica del contatto diretto con la natura e
del lavoro svolto nella campagna era stata avanzata dallo scozzese Buck-
nill. Quest’ultimo teorizzò l’abbandono del manicomio tradizionale a favo-
re dell’affidamento famigliare e di «colonie agricole» costituite non più di
imponenti fabbricati, ma di piccole casette, secondo una tipologia detta «a
villaggio» o «a cottages» oppure, ancora, «alla scozzese». La tecnica manico-
miale di Conolly escludeva ogni mezzo coercitivo violento e insisteva sul
trattamento “morale”, pur senza escludere a priori l’isolamento dei malati
e la recinzione dei manicomi. Il sistema cosiddetto open door si fondava sul
concetto di fare del manicomio un luogo di cura nel quale i malati (salvo
casi eccezionali, i cui limiti non vennero peraltro mai espressamente definiti)
si recassero spontaneamente e nel quale, come in un ospedale qualsiasi, vi
fosse libertà di uscire.
Lo sviluppo di così tante proposte alternative alla segregazione non può
che aiutarci a comprendere quale fossero le quotidiane pratiche nei manico-
mi ottocenteschi e novecenteschi, dove legava e si rinchiudeva, a dispetto di
Pinel (che a sua volta non aveva ecceduto nella libertà concessa ai ricoverati).
Nonostante i tanti articoli sull’affido omo- ed etero-famigliare o sui mani-
comi open door e no restraint, la realtà manicomiale italiana era ben altra. Lo
segnalava anche lo psichiatra Ernesto Belmondo al congresso del 1904 della
Società freniatrica italiana (poi, dal 1931, Società italiana di psichiatria): per
Belmondo ogni qual volta i medici si pronunciavano a favore dell’«abolizio-
nismo» di ogni contenzione in manicomio, si premuravano anche di circon-
dare tale opinione già di per sé «timidamente espressa, con tante eccezioni,
da lasciare il campo in pratica a tutte le interpretazioni che il lettore voglia
trarne a seconda delle proprie tendenze». Il che significava né più né meno
che le pratiche di contenzione «(è doloroso il dirlo) trovano ancora in qual-
Novecento, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einau-
di, 1984, pp. 1102-1105.
166
Cfr. J. Conolly, Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, Torino, Einaudi, 1976
(edizione originale 1856).

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PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

cuno dei nostri manicomî e nei Ricoveri per alienati cronici chi li difenda
o, quel che è peggio, a quando a quando li impieghi». Ovviamente tutti i
delegati presenti al congresso si dichiararono d’accordo nell’appoggiare le
proposte «abolizioniste» avanzate, premurandosi di notare che nei reparti di
loro competenza la segregazione e l’immobilizzazione non si praticava «se
non assai di rado […] e solo in casi di imperioso bisogno». Nonostante le spe-
ranze di Belmondo non era dunque ancora giunto il momento «anche per gli
alienisti italiani di trovarsi unanimi nel proclamare tramontato per sempre il
regno della camicia di forza, superflui le fasce, le ghette e i polsini».
Anche la cura extra-ospedaliera appariva tanto invocata e dibattuta,
quanto sfumata nei suoi contorni reali. La Rivista sperimentale di freniatria,
edita dai medici del manicomio di Reggio Emilia, discusse a lungo del tema
nel primo decennio del Novecento. Se a Lucca l’affido etero-famigliare ave-
va «dato modo […] di curare con ottimo successo malati acuti delle più sva-
riate forme psicopatiche», la selezione dei malati da usare in questo caso
doveva essere drasticamente limitata a quelli «cronici, lucidi, ordinati, tran-
quilli, innocui»167, fino a chiedersi quanti malati potessero poi essere davvero
beneficiari dell’affido. Per Giulio Cesare Ferrari vi era da intendersi, tra gli
altri, anche i «vantaggi economici della assistenza famigliare»168, salvo poi
lamentarsi che i contadini della provincia emiliana a cui voleva affidarli non
vi vedevano che «un affare», nonché circondando la scelta dei malati da così
tanti limiti da rendere l’intera proposta poco realistica. La linea di fondo
della psichiatria italiana era insomma una limitazione praticamente onni-
comprensiva dei malati beneficiari e, dall’altra, un sostanziale disprezzo per
le classi popolari e l’abitante delle campagne, «sempre sospettoso» e «poco
mobile di intelligenza».
La colonizzazione finiva così con l’essere una specie di mito favoleggiato,
di facile applicazione all’estero, ma irraggiungibile nell’arretrata Italia. Un
obbiettivo però talmente desiderato che la tanto deprecata legge sui mani-
comi del 1904, quella famigerata che proponeva il manicomio innanzitutto
come «custodia» e solo in seconda battuta come «cura», proprio nel sua arti-
colo di apertura prevedesse due paragrafi espressamente dedicati all’affido
extra-ospedaliero169. Era stato nel 1904 che il parlamento italiano, dopo quasi
167
Le citazioni sono tratte da Verbale della sesta seduta del congresso della società freniatrica italiana,
20 ottobre 1904, in “Rivista sperimentale di freniatria”, 1904, alle pagine 256, 291, 296 e 297.
168
G.C. Ferrari, Come si può impiantare ed organizzare in Italia una colonia familiare per alienati,
“Rivista sperimentale di freniatria”, 1904, p. 324.
169
Cfr. la legge n. 36 del 14 febbraio 1904, articolo 1, paragrafi 2 e 3: «Può essere consentita
dal tribunale, sulla richiesta del Procuratore del Re, la cura in una casa privata, e in tal caso la

61
Massimo Moraglio

50 anni di rinvii, finalmente approvava una legge organica sui manicomi.


La nuova normativa prevedeva, al primo articolo, che dovevano «essere
custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da
alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per gli altri o riescano
di pubblico scandalo e non possano essere convenientemente custodite e cu-
rate fuorché nei manicomi»170. La legge conferiva alla psichiatria il controllo
gestionale del manicomio, ma non dimenticava certo i desiderata delle ammi-
nistrazioni provinciali, limitando il ricovero ai casi ben specifici di disturbo
sociale, quelli, come detto, «pericolosi per sé o per gli altri». Ciò che fino ad
allora si era evitato, almeno nella teoria, che cioè il manicomio divenisse
contenitore dei soli poveri e dei soli pericolosi, veniva nei fatti sancito per
legge e in questo modo la psichiatria diveniva poco più che un’ancella della
polizia, accettando in manicomio i soli casi «pericolosi».
Come era possibile che proprio psichiatri del peso e del potere di Au-
gusto Tamburini, Leonardo Bianchi e Giulio Cesare Ferrari si acconciassero
ad una così stretta connessione tra l’ospedalizzazione della malattia e la sua
segregazione a scopo di sicurezza sociale?
Nel 1904 la Società freniatrica vedeva la legge un buon compromesso.
In parte perché la legge rinviava la pratica attuazione a un regolamento, in
cui si sperava di modificarne molti assunti. In parte perché la legge dava
finalmente un quadro chiaro sui poteri dei medici e del direttore di manico-
mio, in un momento in cui la psichiatria, dopo lo scandalo del manicomio di
Venezia scoppiato nel 1902, si trovava sotto scacco. Infine perché, anche se
la legge parlava solo di alienati pericolosi per sé e per gli altri, non di meno
Leonardo Bianchi - nella sua multipla veste di direttore di manicomio, depu-
tato al parlamento e relatore delle legge - mostrava un certo ottimismo. Una
volta «eliminato dalle credenze popolari - scriveva Bianchi - il pregiudizio
del mal governo che dei ricoverati si faccia nel manicomio, sarebbe interesse
di famiglie e di medici inviare al manicomio i malati che presentino leggieri
disordini mentali», anche se non previsti dalla legge con obbligo di ricove-
ro, «come s’inviano infermi, per forme anche leggiere di malattia infettiva,
in un ospedale comune». Il manicomio, proseguiva Bianchi, «deve servire
[solamente] al ricovero al ricovero di malati profondamente turbati nella co-
scienza, e, in conseguenza della malattia mentale, pericolosi a sé stessi e ad

persona che le riceve e il medico che le cura assumono gli obblighi imposti dal regolamento. Il
direttore di un manicomio può, sotto la sua responsabilità, autorizzare la cura di un alienato in
una casa privata, ma deve darne immediatamente notizia al Procuratore del Re e all’autorità di
pubblica sicurezza».
170
Legge n. 36 del 14 febbraio 1904, articolo 1, paragrafo 1.

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PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

altri […]; laddove d’altro canto la tendenza della psichiatria moderna è di


restituirlo a piccoli ambienti sociali ed al lavoro il maggior numero di quelli
che, pur non essendo completamente sani di mente, non richiedano la custo-
dia e la cura del manicomio»171.
Dunque, la legge in fin dei conti non faceva altro che far proprie le in-
terpretazioni dominanti della scienza psichiatrica: se l’affido omo - ed etero
- famigliare erano da preferire, se il manicomio non era luogo di terapia,
perché rinchiudere i malati nell’asilo, se poi per guarirli si sarebbe dovuti di-
metterli e inviarli altrove? Non era forse meglio limitare il ricovero coattivo
ai soli casi «pericolosi»?
Al di là delle interpretazioni date, la legge manicomiale del 1904 nei fatti
chiuse una stagione per la psichiatria italiana. Dopo i decenni eroici della
costituzione della disciplina su basi «scientifiche», la fondazione di riviste, la
costruzione di una rete manicomiale, la stessa formazione di una società fre-
niatrica nazionale nel 1873, la legge del 1904 rappresentava il canto del cigno
per la psichiatria tradizionale e, nei fatti, la crisi della stessa società freniatri-
ca. Ottenuta la legge, l’associazione si trovava improvvisamente tra le braccia
il tanto desiderato avallo legislativo e la sanzione parlamentare del ruolo ma-
nicomiale e medico. Ma, come contraccolpo, essa era anche, repentinamente,
priva di un nuovo e onnicomprensivo scopo, proprio mentre il manicomio,
come ricordava Tanzi, era sempre pur sempre un inutile «smaltitoio».

Il manicomio, inutile e affollato

Il continuo incremento di ospiti fu la tendenza di fondo dei manicomi


italiani, da metà Ottocento alla fine degli anni Sessanta del Novecento. I dati
statistici, sia pure non sempre affidabili172, mostrano un incremento costante
e continuo di ricoverati nei manicomi pubblici italiani, il cui numero passava
dai 12.913 del 1875 (0,46 degenti ogni 1.000 abitanti) ai quasi 40.000 del 1905
(1,16) fino alla punta massima del 1941, quando venne raggiunta la cifra di
quasi 96.500 (2,12). Nel secondo dopoguerra - dopo le alte mortalità dei de-
Relazione parlamentare dell’onorevole Leonardo Bianchi alla legge sugli alienati, in «Rivista speri-
171

mentale di freniatria», 1904, pp. 224 e 225.


172
Sui dati statistici relativi ai ricoverati nei manicomi italiani cfr. A. Tamburini, G.C. Ferrari, G.
Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e varie nazioni, Torino, Utet, 1918 pp. 206 e ss., ma so-
prattutto G. Modena, Le malattie mentali in Italia. Relazione statistico-sanitaria sugli alienati presenti
nei luoghi di cura al 1° gennaio 1926 con un riassunto sulle condizioni dell’assistenza e sull’ordinamento
degli ospedali psichiatrici in Italia, Roma, Tipografia operaia romana, 1928, volume che riporta
criticamente i risultati dei censimenti precedenti al 1926. Cfr. anche, ovviamente, la serie degli
Annuario Statistico Istat, varie annate.

63
Massimo Moraglio

genti durante il conflitto - il numero delle presenze si mantenne stabile, con


un nuovo picco nel 1965 con 91.684 presenti a fine anno, ma con un numero
di 170.715 degenti transitati nel corso dell’anno solare, in deciso incremento
rispetto al periodo interbellico. A governare una simile massa di persone vi
erano circa mille psichiatri, e ben 21.000 infermieri, nonché 8.000 tra tecnici
e inservienti173.
A chi faceva comodo un ospedale psichiatrico affollato? Negli anni Settan-
ta nel Novecento, tirando le somme della storia del manicomio, si diceva che
faceva comodo alle amministrazioni provinciali, come fabbriche di clientele e
di favori elettorali; ai medici, che vi passano mezz’ora al giorno per poi asse-
condare la clientela privata; alle suore, che dirigevano nei fatti il manicomio;
agli infermieri, con turni massacranti e con un lavoro pesante e sgradevole,
ma anche sovente con una seconda occupazione fuori delle mura; alla polizia,
che vi scaricava i devianti; ai famigliari del malato, che risolvevano alla belle
meglio un gravoso problema174. Pare così di avere un’altra ragione di critica
della narrazione tradizionale dei luoghi di biopotere, perché è ben vero che
prigioni, ospedali e riformatori in epoca moderna perfezionarono sempre di
più la loro azione, i loro gestori istituzionali e i loro scopi, selezionando in
forma sempre più formale e definita procedure e utenti. Ma è anche vero che
il manicomio per tutto l’Ottocento e il Novecento fu poco più che un conteni-
tore indifferenziato di residui sociali, passato, sembra di capire, indenne dalla
specializzazione dei suoi ospiti, a differenza di altre istituzioni totali.
Va da sé che una simile struttura avesse acquisito sempre segni di gigan-
tismo ed elefantiasi. Questo abnorme sviluppo non era certo indice di un
successo terapeutico. L’incremento dei ricoveri poteva dimostrare la capa-
cità di toccare, da parte degli psichiatri, sacche di disagio, di devianza e, in
ultimo, anche di malattia mentale prima in ombra o gelosamente custodite
dalle famiglie. Né vanno sottovalutati gli effetti delle trasformazioni sociali
ed economiche che mettevano in crisi comportamenti tradizionali, ponendo
sotto pressione la compagine sociale. Che cioè, detto altrimenti, lo sviluppo
industriale del paese, la sottoccupazione agricola, l’emigrazione mettessero
a nudo follie prima celate, o che ne provocassero di nuove. Dunque il mani-

173
Per dare un ordine di comparazione della carenza di personale medico (e forse anche della
assenza di terapie), si consideri che a metà degli anni Sessanta i manicomi, con 34 milioni di
giornate di degenza nel 1965, potevano contare, per l’appunto, solo su mille medici, mentre
negli ospedali pubblici generali a fronte di 80 milioni di giornate di degenza vi erano 26.000
medici e 41.000 infermieri. Per i dati statistici cfr. Annuario Statistico Istat, varie annate.
174
Una denuncia degli interessi in Q. Bigiarelli, A chi fa comodo l’attuale ospedale psichiatrico?, in
“Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc. 1, vol. 50, 1972.

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comio era usato un po’ da tutti e, un po’ da tutti, socialmente accettato, come
«smaltitoio», ben lontano dal mandato ufficiale. Usato, al limite, persino dai
pazienti, come risulta lampante nel caso dello «smemorato di Collegno», al
secolo Mario Bruneri (poi dichiaratosi come professor Giulio Canella) che,
dopo un furto, per evitare la prigione si finge folle175. Ma esistono anche casi
meno noti, come quello investigato, tra gli altri, da Massimo Tornabene, di
un vagabondo-giostraio-fachiro del cuneese, che alla fine degli anni Trenta è
pronto a farsi internare ai primi freddi di ottobre ed estremamente abile nel
farsi dimettere in primavera176.
Servono nuovi e accurati studi sulle cartelle cliniche dei manicomi ita-
liani, leggendo tra le righe delle diagnosi mediche, per comprendere chi fu-
rono i degenti dei manicomi, ma si può comunque supporre che i maggiori
«fornitori» del manicomio fossero orfanotrofi affollati, forze dell’ordine alle
prese con ubriachi recidivi, famiglie povere con anziani affetti da demenza
senile e via dicendo. Parlare di terapia con simili degenti era impossibile, per
la semplice ragione che non erano malati mentali.
Con costoro, secondo le riviste mediche, l’unica azione curativa possibile
era da compiersi nella fase acuta della malattia mentale. E sul quel versante il
bagaglio medico appariva debole. Fa una certa impressione leggere nel testo
di Tamburini, Ferrari e Antonini del 1918 l’accorata risolutezza con cui veniva
descritta come «efficace mezzo di cura» la «clinoterapia». Che, sia detto subi-
to, la clinoterapia non è altro che la «cura del letto», favorevole - si scriveva
con entusiasmo - al paziente perché «il soggiorno a letto permette di ottenere
il riposo completo del cervello, perché con la porzione orizzontale è facilitata
l’irrorazione del sangue al cervello, col rilassamento completo di tutti i mu-
scoli». Del resto la clinoterapia, «nome felicemente scelto», esercitava anche
una funzione di controllo della disciplina in manicomio, con una «benefica
influenza […] sopra ciascun paziente». Ancora meglio, «più che tutto dà al
malato nuovo ammesso la consapevolezza di avere bisogno e possibilità di un
trattamento curativo»177. L’apparato terapeutico del 1918 si limitava insomma
al riposo, ancora ai bagni caldi o freddi a seconda dei casi e alla famigerata
ergoterapia, cioè il lavoro forzato dei degenti. Ma il lavoro, soprattutto quello
agricolo, ricordavano Luigi Baroncini, Gustavo Modena e Giuseppe Corberi
175
Cfr. il lavoro di L. Roscioni, Lo smemorato di Collegno. Storia italiana di un’identità contesa, To-
rino, Einaudi, 2007.
176
Cfr. M. Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra Fascismo e Liberazione, Bo-
ves, Araba Fenice, 2007.
177
A. Tamburini, G.C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni,
Torino, Utet, 1918, p. 543.

65
Massimo Moraglio

al congresso della società freniatrica del 1930, poteva essere un buon modo
per tenere occupati i degenti cronici, ritenuti inguaribili, ma non assumeva il
valore di ergoterapia178. Né più tenero sarebbe stato nel 1966 Mario Gozzano,
presidente Sip, che dichiarava senza mezzi termini come «a quei tempi [inizio
secolo] di terapie per i malati psichici non ne esistevano»179.
Insomma le terapie erano davvero un po’ poco e un po’ troppo vaghe
nei loro contorni per una scienza medica come pretendeva essere la psichia-
tria. Né le cose sarebbero andate meglio con l’avvio delle terapie da shock,
se persino un loro entusiasta sostenitore come Francesco Bonfiglio, collega
e sodale di Cerletti, si premurava di riportare nel «giusto» alveo la prete-
sa azione terapeutica, segnalando come ci fossero «ancora delle deprecabili
esagerazioni e non sempre utili generalizzazioni nell’uso di tali terapie»180.
Il tramonto del manicomio negli anni Settanta portava alla ribalta una sto-
ricizzazione delle terapie e lucida rivisitazione. È il caso di Sergio Mellina,
che derubricava senza appello l’elettroshock a «canto del cigno degli anni rug-
genti delle cosiddette terapie da shock, che ebbero inizio nel 1917 allorché
Wagner-Jauregg propose la sua malarioterapia». Era quello, continuava lo
psichiatra, «un contesto storico che guardava con diffidenza alla psicologia
dell’inconscio e che ancora ignorava i fasti della psicofarmacologia [mentre]
il terapeutico psichiatrico, ad onor del vero in fase di lallazione, cercava una
clamorosa apertura biologica». Insomma, «le trionfalistiche metodiche in-
terventiste dell’epoca, tra l’altro, parvero tanto più giustificate quanto più
permettevano alla psichiatria di allontanarsi dall’ipostatizzazione della no-
sografia kraepeliniana, notoriamente impotente sul piano terapeutico»181.

Alla ricerca di nuovi luoghi di azione

Il fallimento, nei fatti, del modello manicomiale - che vedeva le riviste


mediche e i massimi esponenti della psichiatria denunciare per tutto il No-
vecento la sua inutilità e la necessità di strumenti terapeutici alternativi - va

178
L. Baroncini, G. Modena, G. Corberi, Problemi nuovi dell’assistenza psichiatrica con particolare
riguardo all’Igiene mentale, in Atti del XIX Congresso Società Freniatrica Italiana, “Rivista sperimen-
tale di freniatria”, 1930, pp. 921 e ss.
179
Discorso di Mario Gozzano al XIX Congresso Sip, 1966, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc.
I-II, 1968, p. 40.
180
F. Bonfiglio, Problemi ed orientamenti odierni per la difesa sociale contro le malattie mentali, in “Il
lavoro neuropsichiatrico”, fasc. II, 1947, p. 200.
181
S. Mellina, Relazione L’elettroschock: limiti, tematiche, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc. 1,
vol. 50, 1972, p. 189 (il primo corsivo è nel testo, il secondo è aggiunto).

66
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

presa in considerazione come uno dei problemi storiografici ancora aperti.


Qui possiamo limitarci ad alcune suggestioni, prima tra tutte la «schizofre-
nia» delle culture psichiatriche. Da una parte i grandi nomi della psichiatria,
avveduti, attenti alle novità, ben presto direttori non più di manicomio, ma
delle cliniche universitarie, cautamente riformisti nelle loro proposte prati-
che, tutte interne alla psichiatria tradizionale. Dall’altra parte la pratica vera
e quotidiana dell’ospedale psichiatrico, lontana dall’università, tagliata fuo-
ri dalla neurologia, sempre più priva di un reale dibattito epistemologico:
dopo la legge del 1904 si ebbe un sempre più basso riconoscimento scientifi-
co ed economico del lavoro dentro la struttura asilare, le cui occupazioni si
riducevano a necessario impiego (e ripiego) per i medici che non potevano
ambire alle lunghe e accidentate carriere cliniche (come sperimenterà sulla
sua pelle Franco Basaglia nel 1961) o allo studio privato.
La psichiatria italiana, essa stessa separata dalla neurologia in prodigioso
sviluppo, fino alla Grande guerra ribadì le parole d’ordine di fine Ottocento.
Se ne faceva lucido assertore ancora una volta Tamburini che nel 1918, pro-
prio al limitare di una nuova epoca, ribadiva la solita, logora e ormai inat-
tuabile proposta, che cioè il manicomio cedesse il passo a nuove pratiche,
«moderne» e lontane dalle radici settecentesche.
Lo stesso nome, alquanto odioso e pregiudicato, di Manicomio deve es-
sere abbandonato e sostituito da quello di Ospedale psichiatrico o, meglio, di
Casa di cura, o di Colonia di salute; e abbandonati i grandi manicomî-città,
debbono essere surrogati da limitati Istituti urbani di osservazione e di cura
e da ampie Colonie campestri di lavoro agricolo e industriale. E deve essere
dato, per evitare la piaga cronica dell’affollamento, il più ampio sviluppo
all’Assistenza familiare, perché i malati, non reggimentati in un regime deper-
sonificante e quasi carcerario, ma in mezzo ai conforti della propria o altrui
famiglia, possano più facilmente ricostruire la propria personalità e possano
anche prendere parte alla vita sociale182.
Tamburini, uno dei maggiori – se non il maggiore – fra gli psichiatri ita-
liani, esponeva con disarmante lucidità ed esattezza la realtà reclusiva del
manicomio, esprimendo al contempo un’imbarazzata riluttanza sulla vali-
dità dei metodi terapeutici in uso nelle strutture asilari. La vergogna per la
drammatica situazione dei pazienti con la loro reclusione «reggimentata in
un regime depersonificante e quasi carcerario» faceva emergere la contrad-
dizione insita nella reclusione terapeutica da cui, secondo lo psichiatra, si

182
A. Tamburini, G.C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni,
Torino, Utet, 1918, p. 691, corsivi nell’originale.

67
Massimo Moraglio

doveva uscire attraverso un perfezionamento dello stesso strumento «mani-


comio», con il suo passaggio da carcere a ospedale, l’abbandono delle pra-
tiche violente, l’umanizzazione della terapia. Cioè la stessa posizione che,
mutatis mutandis, esprimeva Pinel un secolo prima e che verrà assunta dagli
psichiatri riformisti cinquant’anni dopo.
La posizione di Tamburini era, oltre che velleitaria, fuori tempo massi-
mo. Anche in campo psichiatrico la Grande guerra costituì infatti uno spar-
tiacque epocale e pose gli psichiatri – insieme ai ginecologi – in prima fila
nell’elaborazione dell’incubo di una «degenerazione» della stirpe183.
Imbaldanzita dalle scoperte della microbiologia e dagli esaltanti succes-
si dell’igiene pubblica e della prevenzione, arriva per la prima volta nella
storia a concepire il grandioso processo della completa eradicazione della
malattia dal tessuto sociale e che, perciò, è indotta a superare la prospettiva
spesso mortificante e fallimentare del trattamento del singolo paziente per
allargare la propria missione all’intera collettività e alla sua rigenerazione
biologico-razziale184.
La psichiatria, perennemente alla ricerca di uno status scientifico, più
di altre branche della medicina, soffriva di una pratica terapeutica troppo
spesso «mortificante e fallimentare». Con la profilassi si apriva un nuovo
campo di azione: di fronte all’evidente difficoltà di efficaci azioni di cura, il
manicomio andava in secondo piano, mentre i settori più innovativi della
psichiatria non solo italiana intesero l’azione di assistenza psichiatrica come
prevenzione e igiene mentale. Se ne faceva interprete tra gli altri proprio Le-
onardo Bianchi, che manifestava un vero e proprio ribaltamento di approc-
cio al problema. Se nel 1904 la cura e la guarigione erano per lui l’obiettivo
principe di ogni azione psichiatrica, nel primo dopoguerra la tutela sociale
- e ben presto della «stirpe» - assumevano a compiti prioritari della psichia-
tria185. Dopo la Grande guerra, un po’ tutti gli psichiatri italiani lamentavano
come il manicomio fosse ridotto a contenitore dei soli malati che procuras-
sero un «disturbo all’ordine pubblico», escludendo dalla ospedalizzazione
tutti quei soggetti pure ritenuti bisognosi di cure ma non pericolosi. Detto

183
Sul tema della degenerazione e dei suoi rapporti con il composito mondo eugenetico italia-
no cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni
Trenta, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004 e F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia,
Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
184
C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Tren-
ta, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004, p. 23.
185
Una sintesi delle proposte di Bianchi in A proposito della riforma della legge sui Manicomi e sugli
alienati, in «Rivista sperimentale di freniatria», 1922.

68
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

altrimenti, era fallito il tentativo di trasformare il pachidermico e lento ma-


nicomio in un agile e immediato strumento di intervento: l’ordinamento del
1904 mostrava i suoi veri contorni, lasciando la psichiatria manicomiale a
compiti di ordine pubblico. Nel manicomio si stipavano infatti pazienti che
nulla avevano a condividere con il «malato di mente», cioè, come scriveva
Bianchi, «gli idioti, gli imbecilli, gli epilettici, i paralitici innocui e gli altri
consimili infermi [alcolizzati e cronici anziani che] non dovrebbero trovare
posto nell’ospedale psichiatrico»186.
Occorreva pertanto rivedere la legge sui manicomi del 1904, non solo
per far tornare il manicomio e la psichiatria manicomiale al suo mandato
originario, ma sopratutto per «frenare l’impressionante aumento della follia
e conseguentemente della degenerazione della razza». Usando ormai ter-
mini eugenetici, la vecchia legge «coi criteri restrittivi ed esclusivamente di
pubblica sicurezza che la informano nei riguardi dell’ammissione [...] contri-
buisce indubbiamente all’incremento della follia, poiché fa sì che un numero
non indifferente di epilettici, di nevrastenici, di imbelli ecc. rimane libero
di inquinare il consorzio civile, favorendo la riproduzione di nuovi esseri
fortemente tarati e predisposti alla follia». Era necessaria una riforma che
prendesse «di mira il malato di mente anche come tale e non soltanto in
vista della sua pericolosità e scandalosità come si fa ora»187. Incrementare i
ricoveri dunque, perché il danno per la collettività non andava misurato nei
soli termini di disturbo sociale, ma anche dal punto di vista – eugenetico per
l’appunto – di contaminazione della stirpe.
Erano le basi per una nuova proposta assistenziale, in cui il manicomio ve-
niva saltato a piè pari, abbandonato a se stesso come ricovero di devianti, e in
cui il dispensario psichiatrico assumeva una centralità inedita. Tramite il dispen-
sario si poteva concretamente evitare lo stigma del manicomio, operando con
più facilità e maggior ramificazione nel corpo vivo della società. Era pertanto
con intenti profilattici e di tutela sociale, vagamente temperati da quelli tera-
peutici, cioè per dirla in altri termini, come forma di biopotere, che nasceva
l’idea dispensariale in Italia, effetto e causa del tentativo della psichiatria di
ricostruire su nuove basi il proprio fondamento epistemologico e medico.
Questa insistenza sul ruolo del dispensario, con accesso libero, volon-
tario e con caratteristiche extraospedaliere, si contrapponeva frontalmente
all’idea asilare, ricostruendo la figura ideale dello psichiatra. Dalla platea del
186
Il Parlamento e le Provincie, in «Rivista delle Provincie. Bollettino dell’Unione della Provincie
d’Italia», 1932, 6-7, p. 278.
187
A proposito della riforma della legge sui Manicomi e sugli alienati, in «Rivista sperimentale di
freniatria», 1922, p. 222.

69
Massimo Moraglio

ventesimo congresso della Sip del 1933, si dichiarava che il medico alienista,
non più confinato, come un tempo, fra le mura dell’ospedale psichiatrico
in uno «splendido isolamento», può oggi aspirare a più larghi compiti di
neuropsichiatria sociale ed affrontare con maggiore possibilità di successo i
complessi problemi della cura, dell’assistenza, della profilassi e dell’igiene
mentale. La vera opera «del dispensario dovrebbe essenzialmente dirigersi
alla ricerca dei soggetti in pericolo di ammalare per tentare con tutti i mezzi
di salvarli», a partire ovviamente dai parenti dei ricoverati in manicomio,
che per affinità familiari avrebbero potuto essere portatori a-sintomatici, ma
eugeneticamente contagiosi, della malattia mentale188. Destinazione finale di
simili soggetti sarebbero stati «reparti annessi a ospedali o a luoghi di assi-
stenza, decentrati nella provincia per la cura di malattie a breve decorso e
per lo smistamento degli infermi a più lungo decorso». In realtà, secondo la
relazione, l’azione di profilassi svolta nei dispensari, pur mostrando tutta la
sua utilità, non era che uno dei tasselli di un più ampio mosaico. L’attività
preventiva andava svolta altrove: negli ambulatori pediatrici, nell’esercito,
nelle scuole, nei servizi medico-scolastici. Lo psichiatra, insomma, come se-
lezionatore dell’umanità, fin dal momento in cui l’individuo si trovava inse-
rito in strutture sociali quali, appunto, esercito e scuola.
L’avvicinarsi dei venti di guerra e il radicalizzarsi del dibattito razziale
in Italia avevano esacerbato la questione, fino al punto di vedere il nome di
Arturo Donaggio, presidente della Società italiana di psichiatria, quale firma-
tario del «Manifesto della razza» pubblicato nel 1938. Non era solo un’ade-
sione formale, perché il carattere assunto da consistenti parti del mondo psi-
chiatrico veniva confermato dalle iniziative della Lega per l’igiene mentale:
a fine anni Trenta, richiamando l’esempio tedesco, si tornava a proporre la
creazione di un «Centro italiano di genetica psichiatrica» che avrebbe dovuto
attivare la schedatura di massa dei malati di mente. Si trattava di un progetto
che presupponeva e propugnava un determinismo ereditario della malattia
mentale, una degenerazione da controllare e su cui intervenire. Una posizio-
ne esplicitamente contigua alle teorizzazioni naziste, anzi troppo vicina ad
esse, al punto che la Lega vi dovette rinunciare per la ferma opposizione del
ministero degli Interni che vedeva una simile, costosa, iniziativa contrappo-
sta al carattere «spirituale» della stirpe fatto proprio dal Fascismo italiano189.
188
B. Manzoni, Le nuove realizzazioni dell’assistenza ospitaliera psichiatrica all’estero, in Atti del XX
congresso della Società Italia di Psichiatria, Roma 1-4 ottobre 1933, in «Rivista sperimentale di frenia-
tria», 1934, pp. 993, 932 e 933.
189
Per il dibattito sul Centro italiano di genetica psichiatrica cfr. il verbale del consiglio diretti-
vo della Lega, «Atti della Lega italiana di igiene e profilassi mentale», 1940, pp. 117 e ss. Sulla

70
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

Prigionieri del manicomio: gli psichiatri come apprendisti stregoni?

Finita la seconda guerra mondiale, la psichiatria italiana rinunciò alle pa-


role d’ordine più razziste e più radicalmente eugenetiche, ricalibrando la
sua azione in un contesto «democratico», dimenticando facilmente e rapida-
mente le proprie compromettenti posizioni d’epoca fascista. Depurato del-
la terminologia più radicale, rimaneva comunque il proposito di un deciso
controllo sociale, vestito ora pietisticamente della sofferenza del malato, ma
non di meno capace di collocare l’azione della psichiatria in un contesto ben
definito. Succedeva così che Francesco Bonfiglio, nel corso del congresso Sip
del 1946, non si peritasse di fare un discorso sull’assistenza psichiatrica inti-
tolandolo Problemi ed orientamenti odierni per la difesa sociale contro le malattie
mentali190. Bonfiglio non mancava di precisare il carattere progressista della
sua proposta, finalizzata ad avvicinare l’assistenza psichiatrica ai più mo-
derni ritrovati medici, ribadendo le linee di fondo della nosografia alla Grie-
singer, la necessità dei dispensari e, ovviamente, l’inutilità del manicomio.
Che cosa si voleva modificare nel secondo dopoguerra della legge ma-
nicomiale? In fin dei conti i difetti della normativa erano quelli di sempre,
cioè, ricordava Bonfiglio, esigere «che il malato sia bollato indelebilmente
del marchio disonorante delle pericolosità e del pubblico scandalo». In più
conferendo «al manicomio un prevalente obbiettivo di pubblica sicurezza,
tiene da esso lontani buon numero di malati». La riforma, in procinto di
essere approvata nel 1940, ma poi sfumata, andava dunque compiuta nel
nuovo ambiente della Ricostruzione post bellica e gli psichiatri ora volevano
«una legge che non sia come la vecchia, una semplice “legge sui manicomi
e sugli alienati”, ma che sia invece – per l’appunto - una legge per la difesa
sociale contro le malattie mentali». Come raggiungere questi scopi? «Promuo-
vere da un canto l’istituzione di un bene organizzato “servizio psichiatri-
co extra-ospedaliero sociale”; far sì - dall’altro - che l’ospedale psichiatrico
non sia soltanto di nome ma diventi anche di fatto un ospedale come tutti gli
altri capace di assolvere in pieno la sua funzione terapeutica». La riforma
del manicomio si riallacciava alle ipotesi di inizio Novecento, già espresse a
suo tempo da Tamburini, Belmondo, Ferrari: «Noi dobbiamo fare in modo
che l’ospedale psichiatrico diventi non in parte ma tutto quanto “aperto”, e

questione dell’eugenetica in Italia cfr. i già citati lavori di Mantovani e Cassata, e di quest’ulti-
mo anche La Difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi,
2008.
190
F. Bonfiglio, Problemi ed orientamenti odierni per la difesa sociale contro le malattie mentali, in “Il
lavoro neuropsichiatrico”, fasc. 2, 1947.

71
Massimo Moraglio

che cioè esso sia liberato totalmente da tutta l’attuale opprimente bardatura
burocratica, giudiziaria e poliziesca, che è di così grave danno materiale e
morale per i nostri ricoverati, e che, a dispetto di qualsiasi nostra eufemistica
denominazione e nonostante tutti i nostri sforzi per migliore la nostra orga-
nizzazione terapeutico-assistenziale, continua a conferirgli la triste fama di
luogo di custodia e reclusione che agli occhi dei profani lo fa apparire più
affine ad un carcere che ad un ospedale»191.
È in queste poche parole, e in tutte le sue contraddizioni, che si può ri-
assumere la linea di condotta del debole e impotente riformismo della Sip.
Impotente anche perché simili progetti di modifica si scontrarono con la
straordinaria forza e potenza dell’apparato manicomiale, fatto di formida-
bili interessi e poteri, di migliaia di dipendenti arroccati nella difesa del loro
status (infermieri, medici, impiegati), di riviste scientifiche, di associazioni,
di baronie, di camarille sindacali e clientele elettorali. Un apparato solido
anche e soprattutto perché basato su di una formidabile accettazione sociale
del manicomio come luogo di separazione dei devianti dalla società e che,
dall’accettazione sociale del manicomio, trovava linfa e ulteriore forze.
Le proposte di riforma furono comunque oggetto di una convinta appro-
vazione al congresso della Sip del 1946 (con Ugo Cerletti presidente dell’as-
sociazione) e a quello del 1948; poi di una commissione di studio della Sip
stessa, per approdare in un progetto di legge del gruppo parlamentare de-
mocristiano presentato dall’onorevole (e medico) Mario Ceravolo nel 1952. E
poi ancora convegni, come quello di Milano del 1955 e quello di Vicenza del
1957, dove tra l’altro si riproponeva, nel quadro delle riforme, anche un ca-
sellario psichiatrico nazionale, parallelo a quello penale e civile, dai contenu-
ti genealogici, non così diversi da quelli proposti nel 1942192. Unico elemento
di novità era dato dalla costituzione nel 1958 del ministero della Sanità e
dalla creazione di un ufficio specificatamente dedicato ai «servizi d’igiene
mentale», rappresentando il primo e unico pendant ufficiale alla esistenza di
dispensari, centri e ambulatori psichiatrici.
Il quadro normativo ufficiale restava ben fermo e, al di là della ripetuta
ed esibita necessità di una nuova legge, i difensori della situazione esistente
non mancavano. Lo denunciava Mario Gozzano, nuovo presidente Sip, in-
caricato a metà degli anni Sessanta dal ministro della sanità Mariotti di pre-
siedere una commissione di studio per la riforma della legge. A fronte delle

191
Ivi, pp. 208, 210 e 215 con corsivi nell’originale.
192
Elementi della discussione e delle varie iniziative in M. Marletta e M. Leoni, Assistenza psi-
chiatrica e organi della sanità pubblica, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, fasc. III, 1959.

72
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

timide proposte di modifica della vecchia normativa giolittiana, non man-


cavano feroci critiche di parte del mondo psichiatrico e giuridico italiano,
pronto a definire anche le più modeste innovazioni come un peggioramento,
puntualizzando che i «tempi non erano maturi»193.

Il fallimento delle riforme e il crollo del paradigma

Le proposte di riforma, avanzate con convinzione dopo il 1965 dal mini-


stro socialista della sanità Luigi Mariotti, si concretizzarono in un progetto
di legge in cui l’assistenza psichiatrica rimaneva branca distinta dell’attivi-
tà ospedaliera, ponendo in prospettiva le basi per un passaggio verso al-
tre forme di assistenza. La proposta, non certo radicale, venne affossata e
dell’originario progetto venne approvata qualche anno dopo solo una legge
stralcio, la 431 del 18 marzo 1968. Con essa venivano inseriti alcuni elementi
d’innovazione, anche per la loro assoluta indifendibilità politica e medica,
come l’eliminazione dell’iscrizione al casellario giudiziario, oltre che l’at-
tivazione del ricovero volontario. Un simile modesto risultato, nonostante
una montante attenzione pubblica nella seconda metà dagli anni Sessanta
- dal libro bianco sugli ospedali italiani fino ai servizi televisivi di inchiesta e
denuncia di Sergio Zavoli - esprimevano l’assenza di ogni principio di realtà
delle lobby legate all’apparato psichiatrico manicomiale194.
L’arrivo degli psicofarmaci, le esperienze a metà anni Sessanta di supera-
mento del manicomio di Gorizia, Arezzo, Perugia, l’attenzione sempre più
marcata dell’opinione pubblica e, infine, la tragicità delle condizioni di vita
nei manicomi, si legarono alla stagione del ’68, radicalizzando le richieste
e mettendo a nudo, sia pure talvolta con approcci unilaterali, l’insipienza
dell’utopia manicomiale. Anche in questi frangenti, la posizione di fondo
della psichiatria italiana rimaneva quella di sempre, divisa tra clinica e ma-
nicomio, due facce della stessa medaglia, restando sottointesi a entrambi i
gruppi un’idea nosografica e medica del tutto simile. Da un lato una struttu-
ra asilare, grande e potente, restia ad ogni modifica dello status quo e capace
di una efficace azione di pressione politica; dall’altra le posizioni riformiste
della dirigenza della Sip, sempre più lontana dal manicomio, i cui progetti
di innovazione venivano puntualmente battuti.
La tenace resistenza della lobby manicomiale e i limiti del riformismo

193
Discorso di Mario Gozzano al XXIX Congresso Sip, 1966, in “Il lavoro neuropsichiatrico”,
fasc. I-II, 1968, p. 41.
194
Cfr. S. Luzzi, Salute e sanità nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2004, p. 229.

73
Massimo Moraglio

Sip trovarono nel congresso associativo del 1968 la messa in scena della in-
sanabile contraddizione di una scienza medica che tentava ancora una volta
di riformare il proprio irriformabile statuto scientifico. Il «tumultuoso Con-
gresso nazionale del 1968, ove esplose la contestazione»195, che vide la prote-
sta studentesca e un tesissimo intervento di Franco Basaglia come oratore, fu
il precipitato di due secoli di aporie mediche e sociali, con la deflagrazione
delle contraddizioni, anche umane, di una intera classe medica. Nel bailamme
degli interventi al quel consesso si può ricordare quello di Giovanni Battista
Belloni, già mentore di Basaglia a Padova, il quale assumeva che «contestare
è parola di moda», per poi denunciare lo scandalo del manicomio e di come
«di questo scandalo siamo certamente corresponsabili per la nostra troppo
docile adattabilità o peggio per incuria. Basta pensare che è un’infima mi-
noranza quella degli ospedali psichiatrici nei quali, anche dopo la scoperta
dei farmaci psicolettici, si attua integralmente [...] il no restraint assoluto che
Conolly applicava nel 1849»196. Donati andava oltre l’assunzione delle re-
sponsabilità e dichiarava apertis verbis la vacuità del progetto psichiatrico,
affermando che «da circa 200 anni stiamo dicendo le stesse cose. In 200 anni
abbiamo acquisito soltanto una tonalità più angosciata; la consapevolez-
za del nostro problema nei confronti dell’assistenza psichiatrica l’abbiamo
avvertito solo in posizione narcisistica»197. Failla indicava una impossibile
via di salvezza per la psichiatria tradizionale, instaurando la logica degli
opposti estremismi: «agli apostoli della contestazione globale [...] diciamo
innanzitutto che tante delle cose che essi pensano e dicono le abbiamo dette
e pensate anche noi, ma che [...] cerchiamo di compiere la nostra opera di
rinnovamento non al di fuori ma all’interno del sistema […] Ai conservatori
di formule che riflettono un feudalesimo istituzionale rivelatore deleterio
nelle premesse e anacronistico nella realtà effettuale delle cose, consigliamo
di accettare un programma di riforma realistico [...] e che non sono più i
tempi in cui si poteva andare avanti con il criterio del “Gattopardo”». Nel
disperato tentativo di conservare il timone del cambiamento, paventava, in-
telligentemente, come la resistenza della lobby manicomiale potesse trasci-
nare l’intera psichiatria verso il baratro del «radicalismo»: «E consigliamo
di recepirle nostre proposte per una nuova organizzazione [dell’assistenza

195
http://www.psichiatria.it/.
196
Relazione di G.B. Belloni al XXX congresso Sip, 1968, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, vol. I,
1969, pp. 103 e 107.
197
Intervento di A. Donati al XXX congresso Sip, 1968, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, vol. I, 1969,
p. 205.

74
PRIGIONIERI DI UN’UTOPIA. IL MANICOMIO DALLE SPERANZE TERAPEUTICHE ALLA ROUTINE SEGREGANTE

psichiatrica] prima che sia troppo tardi, prima che prendano il sopravvento
coloro che [...] si battono per “risposte ed azioni politiche” di un tipo e di una
scelta ideologica ben precisa»198.
Sfuggiva alla comprensione di Failla come i saperi medici e psichiatrici
non fossero mai stati riducibili a una pura e semplice adesione alle logiche
del potere e che, proprio in quella fase, si aprirono a comportamenti più com-
plessi, gravidi di contraddizioni. Il primo dei quali fu la messa in discussione
di quegli stessi assunti scientifici e politici di cui gli operatori medici avreb-
bero dovuto essere i più convinti propugnatori. L’azione – esplosiva, quan-
do si manifestò – di approccio critico al proprio sapere trascinò il manicomio
nel vortice del lungo «autunno caldo» italiano. Le vicende che portarono
alla chiusura dei manicomi si innervavano non tanto in un nuova istituzione
curativa (magari «moderna» e «tollerante» come le comunità terapeutiche)
quanto piuttosto in nuovi progetti culturali, nella messa in crisi dei tradi-
zionali paradigmi scientifici, di svuotamento di senso per autorità e saperi
fino ad allora concepiti come articoli di fede. Ci fu, cioè, un atteggiamen-
to anti-istituzionale ed eversivo da parte di quegli stessi scienziati e tecnici
che sarebbero dovuti essere i massimi esponenti dell’establishment. Inoltre,
non troppo paradossalmente, proprio l’insipida attività medica manicomia-
le, persa traccia delle utopie ottocentesche, avrebbe fatto trovare moltissimi
psichiatri dapprima vicini alle posizioni più radicali e, poi, decisamente a
favore della legge 180, proprio perché apriva le porte del manicomio anche
per loro, consentendo l’agognato passaggio agli ospedali generali.
Come lucidamente De Peri annotava oltre venti anni fa negli Annali della
Storia d’Italia Einaudi, la psichiatria nella lettura basagliana era luogo popo-
lato da uomini «pietrificati» dai meccanismi del potere. Per Basaglia que-
sto dato non era soltanto il segno del clamoroso fallimento di un progetto
umanitario e scientifico. La scoperta di una istituzione storicamente segnata
dalla dimensione sociale del proprio specifico intervento doveva portarlo ad
una lettura del manicomio come espressione politica del controllo sociale in
una fase di sviluppo economico paleo-capitalistica. Coerentemente a questa
visione del problema, il comportamento degli psichiatri non gli appariva
soltanto rinunciatario e pessimista, quanto subalterno ad una precisa stra-
tegia politica. Insomma, «chiudendo il ciclo delle grandi utopie sociali ot-
tocentesche, Basaglia si propose infatti di superare le contraddizioni intrin-
sicamente presenti nel riformismo psichiatrico, centrando la propria analisi

198
Relazione di E. Failla al XXX congresso Sip, 1968, in “Il lavoro neuropsichiatrico”, vol. I, 1969,
pp. 156-157.

75
Massimo Moraglio

sulla frattura tra sapere scientifico e realtà della istituzione manicomiale».


Ecco allora che il nucleo vero della proposta di Basaglia «diventava quindi
non tanto definire nuovi progetti di riforma quanto giungere alla definitiva
chiusura di un’epoca nella quale il pensiero psichiatrico aveva alimentato
un’utopia sociale e scientifica per abbandonarla poi al suo naufragio»199.

199
F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e
Novecento, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einau-
di, 1984, pp. 1134-1136.

76
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO

Francesca Vannozzi, Università di Siena

VERSO LA FINE DI UN PERCORSO:


IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO

Il superamento degli ospedali psichiatrici in Italia, sancito con la Legge


180 nota come legge Basaglia, ma realizzatosi con la definitiva loro chiusura
a seguito di un penoso iter di circa venti anni dalla sua promulgazione200,
in realtà era stato previsto e agognato già nella prima metà del Novecento,
come ben testimonia la stampa di settore, a favore della nascente “fase ospe-
daliera dell’assistenza psichiatrica”201.
Con l’affermarsi di una “medicina mentale”, fondata su una attività dia-
gnostica, clinica e terapeutica, la cura del paziente psichiatrico andò progres-
sivamente orientandosi su un doppio binario: la cronicità restava confinata
tra le mura del manicomio, mentre il fatto acuto era demandato alla clinica
psichiatrica universitaria in sede ospedaliera. La conseguenza di una riparti-
zione di compiti portò inevitabilmente ad una nuova configurazione sia del-
la funzione della struttura “ospitante” il malato di mente sia, di conseguen-
za, del ruolo professionale richiesto ai rispettivi operatori. Tali mutamenti
vanno letti ovviamente anche in parallelo all’evoluzione delle conoscenze
psichiatriche e ai progressi nella terapia, che subì alla metà del Novecento
un radicale stravolgimento per la messa a punto e produzione di una nuova
sostanza psicotropa e suoi derivati, la clorpromazina, capace di calmare il
“dolore malinconico”, i deliri, l’aggressività, l’ansia.
Quella che si delineò come una vera e propria specialità medica, ossia
la psichiatria clinica, basò la propria modernità nel superamento della mera
custodia e cura generica del paziente, funzioni demandate invece alla psi-
chiatria asilare alla quale rimase quindi la sola assistenza al paziente cronico.
Si andava così a compiersi il passaggio dalla originaria fase “manicomiale”
200
La data della chiusura ufficiale, ad esempio, del San Niccolò di Siena è quella del 30 settem-
bre 1999, ultimo tra i manicomi toscani.
A.M. Fiamberti, I progressi della clinica e della terapia psichiatrica di fronte alla vecchia legge dei
201

manicomi, in “Rassegna di Studi Psichiatrici”, vol. XXIX, 1940, pp. 508 e ss.

77
Francesca Vannozzi

a quella nuova “ospedaliera”, per cui il malato destinato al ricovero in ospe-


dale era il solo acuto, bisognoso di essere rapidamente inquadrato dal punto
di vista diagnostico e quindi terapeutico. Conseguente, il delinearsi di una fi-
gura di medico del manicomio dedito solo a cure di mantenimento e conten-
zione e di quella del moderno psichiatra, attento ai nuovi presidi terapeutici
e rivolto anche alla prevenzione e all’indagine clinica ossia alla ricerca202.
Per lungo tempo, la medicina mentale in Italia fu comunque in gran parte
affidata agli ospedali psichiatrici, specie a quelli che avendo a disposizione
per lo studio materiale clinico ed anatomico, nonché mezzi finanziari utili
anche per l’acquisto di moderna tecnologia di indagine, consentivano alla
ricerca di progredire tra le mura manicomiali, nelle sue corsie, laboratori,
stanze anatomiche.
Al riguardo, il San Niccolò di Siena, nel suo ampio spazio manicomiale,
aveva approntato una serie di strutture deputate proprio alla ricerca e alla
didattica psichiatrica. Ben inserite nell’articolazione del villaggio “dissemi-
nato”, il manicomio senese aveva adibito alcuni locali a stanze anatomiche
appositamente allestite per la dissezione, come già aveva previsto a metà
Ottocento il direttore Livi. Presso il reparto Palmerini, fu così costruito nel
1885, su progetto dell’architetto Azzurri, un piccolo edificio adibito a gabi-
netto anatomico, poi trasferito nell’ex convento dei Servi ed infine costruito
ex novo nel podere Ognissanti, sempre di proprietà del San Niccolò203.
La connotazione “scientifica” del manicomio era ben evidente anche nel-
la volontà dell’amministrazione di dotare gli edifici della più moderna stru-
mentazione. La farmacia, ad esempio, che nella sua collocazione del 1886,
non più interna all’edificio centrale, ma locata in un piccolo immobile di
nuova costruzione posto presso l’ingresso principale del manicomio, venne
concepita anche come laboratorio, attrezzato nel retrobottega con le necessa-
rie apparecchiature di analisi. Ma all’importante connotazione di luogo di ri-
cerca, va aggiunto per il manicomio di fine Ottocento anche il ruolo didattico
rivolto ai futuri medici psichiatri. Spazi disponibili per le lezioni universita-
rie, presenza come si è visto per Siena di un gabinetto anatomico, laboratori,
ma soprattutto l’alto numero dei ricoverati e quindi della casistica di pato-
logie psichiatriche, faceva del manicomio la “palestra” formativa ideale per

202
F. Vannozzi, La psichiatria senese del XX secolo: la separazione tra direzione manicomiale e docenza
universitaria, in San Niccolò di Siena. Storia di un villaggio manicomiale, a cura di F. Vannozzi, Mi-
lano, Mazzotta, 2007, pp. 145-154.
203
S. Colucci, Il San Niccolò di Siena da monastero francescano a villaggio manicomiale: storia, archi-
tettura e decorazione (1810-1950), in San Niccolò di Siena. Storia di un villaggio manicomiale, a cura di
F. Vannozzi, Milano, Mazzotta, 2007, p. 92

78
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO

la formazione e l’insegnamento della psichiatria. Le cliniche psichiatriche


universitarie del resto, di norma neurologiche, erano limitate a pochi posti
letto e ciò non consentiva un valido campionario né per una attività didattica
né tanto meno per un accettabile programma di ricerca scientifica. Era infatti
un momento di grande difficoltà per ogni ateneo italiano che, in precarie
condizioni finanziarie, combatteva essenzialmente per evitare la propria
soppressione. L’ospedale psichiatrico non mancava dunque di rivendicare
con forza il proprio insostituibile ruolo nell’insegnamento universitario del-
la psichiatria, obbligato così a rimanere in ambito manicomiale. Non a caso,
le lezioni erano tenute dallo stesso personale medico del manicomio, con il
suo direttore nella veste di docente incaricato dell’insegnamento universita-
rio della psichiatria.
Anche l’uso ricorrente da metà del Novecento del termine “ospedale” al
posto di “manicomio”, dimostra come si volesse evidenziare per la struttura
sanitaria un nuovo carattere di ente non solo di ricovero, ma di cura, assi-
stenza e ricerca. Non a caso, tra gli orientamenti dell’igiene mentale, emerge-
va sempre più l’importanza del servizio dispensariale e profilattico psichia-
trico, nella certezza che un precoce esame diagnostico e la conseguente cura
appropriata fossero i requisiti essenziali per il buon recupero del paziente. È
così che al manicomio fu aggregato il dispensario neuro–psichiatrico o am-
bulatorio psichiatrico, così come avvenuto per la lotta contro la tubercolosi.
Tali nuovi orientamenti rendevano sempre più urgente la riforma dell’or-
mai vetusta legge n. 36 del 1904, per sostituire al carattere contenitivo del
manicomio, quello assistenziale e sanitario, proprio di qualunque ospedale.
Le stesse annuali statistiche di ammissioni e dimissioni, presenti nelle riviste
manicomiali, ben testimoniano la volontà di affermare le natura scientifica,
e quindi moderna, dell’ente. Gli psichiatri sostenevano l’urgenza del cosid-
detto “reparto aperto”, libero da condizionamenti giudiziari e concepito per
una precoce ospedalizzazione e una agile dimissione richiesta dallo stesso
paziente o su parere del direttore del manicomio. La “pericolosità” del ma-
lato di mente veniva sostituita dal concetto di necessità e quindi diritto alla
cura per un suo possibile recupero, da intendersi in un lasso di tempo molto
più breve rispetto al passato.
Una delle novità della psichiatria dell’epoca è dunque quella del concetto
di “ospedalizzazione precoce”, utile ad impostare un pronto intervento tera-
peutico, contro il rischio della cronicizzazione della malattia e di un suo ir-
rimediabile peggioramento. Tale impostazione faceva emergere con sempre
più forza il valore del reparto psichiatrico, inquadrabile anche al di fuori del
manicomio, che così si avviava a divenire luogo riservato agli psichici anzia-

79
Francesca Vannozzi

ni e a tutti quei soggetti con deficit o patologie difficilmente inquadrabili in


ambito ospedaliero e assistenziale, come per i sordomuti.
Il mutamento in atto puntava anche alla valorizzazione del ruolo del me-
dico in quanto specialista nei confronti della malattia di mente: sempre meno
importanza al verdetto dell’autorità giudiziaria a favore di quello unico ed
insindacabile del direttore, che oltre alla cura, era in grado di impostare an-
che una profilassi mentale204. Il tutto è però da considerare nel limite ancora
presente di una corretta diagnosi, in un caos nosografico per la incompleta
conoscenza scientifica specie di alcune patologie, prima fra tutte la demenza
precoce o schizofrenia. E l’insufficienza diagnostica, e quindi difficoltà di
una diagnosi differenziale, portavano alla mancanza dell’appropriata cura e
al permanere delle ben note, tristi terapie, quali l’elettroshock, la malariotera-
pia, il ricorrere al coma con insulina o con cardiazolo.
Pur ancora mantenendosi nella prima metà del Novecento l’importanza
del ruolo didattico dell’ospedale psichiatrico, vera e propria “palestra” per i
giovani medici che intendevano dedicarsi alla cura della mente, è proprio in
questo periodo che è dal “dentro” del manicomio che iniziò il suo declino,
con l’affermarsi della clinica psichiatrica universitaria. Nell’ateneo senese,
la prima decade dell’insegnamento universitario della psichiatria è segnato
dall’attività didattica di Funaioli, direttore del manicomio San Niccolò e dei
suoi discepoli. E fu proprio Funaioli che sostenne l’istituzione, indipendente
dal manicomio, dell’universitario “Istituto delle malattie mentali e nervose”,
a seguito del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore (R.D. 9 ago-
sto 1910 n. 808) che nel 1910 portò la neo Clinica delle malattie nervose e
mentali a far parte dei 20 insegnamenti fondanti la Facoltà di Medicina e
Chirurgia205. Fu questa una precisa scelta di politica universitaria che inten-
deva dare rilevanza proprio alla clinica e, di conseguenza, al lungo percorso
verso il superamento del manicomio o, meglio, verso lo svuotamento di un
suo ruolo centrale nella ricerca e didattica. Ciononostante, i docenti della
disciplina universitaria continuarono per anni ad essere gli stessi direttori e
assistenti dell’ospedale psichiatrico.
A Siena, dopo Funaioli, Soprintendente del San Niccolò e docente univer-
sitario dell’insegnamento della Clinica di malattie nervose e mentali, conti-
nuò con questo doppio incarico, Onofrio Fragnito trasferitosi da Sassari nel
1912, il quale impartiva le proprie lezioni presso il manicomio e che istituì
204
G. Sogliani, L’assistenza psichiatrica in Europa e la legge italiana, in “Rassegna di studi psichia-
trici”, vol. XXXI, 1942, pp. 523-537.
205
Regolamento della Facoltà di Medicina e Chirurgia, R.D. 9 agosto 1920 n. 808, Modena, Società
tipografica modenese, Modena 1910, pp. 6 ss.

80
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO

anche corsi liberi di semeiotica delle malattie mentali e di psicologia forense,


pur già esistendo una Clinica psichiatrica e neurologica presso l’Ospedale
Santa Maria della Scala. Il “braccio di ferro” tra manicomio e clinica ospeda-
liera sulle competenze didattiche della materia psichiatrica era fortemente
sostenuto specie in quelle città dove non vi era un ateneo e dove quindi si
intendeva mantenere una supremazia della struttura manicomiale su quel-
la della clinica. L’antagonismo tra medici manicomiali e clinici divenne nel
tempo molto forte e insanabile e non mancava occasione nella quale tale
contrasto non emergesse, come a Genova al Congresso della Società Frenia-
trica Italiana del 1904 e poi a Napoli dove nel 1908 fu organizzato il primo
Congresso della neo Società Italiana di Neurologia.
Certamente la bassa casistica di cui disponevano gli universitari fu uno
dei motivi per cui la loro iniziale attività di ricerca non poteva che fondarsi
sulla neuropatologia e non sulla nosografia che rimaneva di prevalente in-
teresse dei “manicomiali”. Ma l’evoluzione della psichiatria non poteva che
influenzare nel tempo gli stessi medici dei manicomi, che gradatamente ten-
tarono di diminuire il proprio ruolo di amministratori a favore di una attivi-
tà più prettamente clinica. In ambito senese, ciò avvenne definitivamente nel
1912: mentre il direttore Funaioli teneva per incarico l’insegnamento univer-
sitario della psichiatria, il suo successore Fragnito lasciò la direzione del San
Niccolò per poter ricoprire la docenza206. Fragnito si configura quindi come
primo clinico della psichiatria senese, che comunque rimase ancora in ambito
manicomiale grazie alla concessione alla Clinica di alcuni locali nell’edificio
centrale del San Niccolò, dove fu allestito un laboratorio e un’aula didattica
per le lezioni, tenute di norma su un caso clinico di particolare interesse. Ma
ben presto il docente abbandonò l’ambiente psichiatrico a favore di una sede
universitaria presso l’ospedale cittadino Santa Maria della Scala: è l’inizio
dell’attività della Clinica neuropatologica. Il San Niccolò rimase comunque
disponibile per le ricerche sperimentali ed istopatologiche del docente e dei
suoi assistenti207.
La netta ripartizione di ruolo tra manicomio e clinica psichiatrica, già
ben si evince dalle modalità di direzione del D’Ormea che, assunto nel 1909
206
F. Vannozzi, La psichiatria senese del XX secolo: la separazione tra direzione manicomiale e docenza
universitaria, in San Niccolò di Siena. Storia di un villaggio manicomiale, a cura di F. Vannozzi, Mi-
lano, Mazzotta, 2007, p. 148.
207
Di Fragnito va infatti ricordato l’impegno nella ricerca testimoniato dalle sue pubblicazioni
incentrate sulle tecniche di assistenza e cura degli alienati, sulle molte perizie medico-legali
eseguite, sull’individuazione delle cause e sulla profilassi della pazzia (paralisi pseudo-bulbare,
tumori del lobo frontale con sindrome cerebellare, atassia frontale, contratture periferiche ed
encefalite letargica).

81
Francesca Vannozzi

l’incarico di direttore, volle subito distinguersi per porre il San Niccolò


“all’avanguardia della restaurazione dell’assistenza psichiatrica in Italia”208,
privilegiando l’aspetto manageriale del suo operato che si protrasse per ven-
ticinque anni. Suo obiettivo prioritario fu quello di migliorare le condizioni
dei degenti del manicomio senese, grazie ad opere di trasformazione degli
impianti e servizi esistenti, specie quelli igienici e che portarono il San Nicco-
lò sostanzialmente all’attuale configurazione di villaggio manicomiale. Del
resto, tali scelte di politica amministrativa e direzione medica derivavano
anche dalla presenza entro il manicomio di pazienti affetti da patologie del
tutto estranee alla malattia mentale, come per la frequente destinazione, sep-
pur temporanea, di alcuni immobili a padiglioni d’isolamento per malattie
infettive, come per epidemie di tifo e per la tubercolosi. Questo il motivo per
cui il direttore D’Ormea si dimostrava più preoccupato di configurare il San
Niccolò quale “istituto scientifico” che ospedale psichiatrico, con sufficiente
personale medico e infermieristico. La maggior innovazione nel suo perio-
do di direzione fu quella di approntare un Consultorio di Igiene Mentale,
affidato ad alienisti volontari, inteso quale dispensario profilattico di imme-
diato soccorso pre e post-manicomiale, al quale si accedeva senza restrittive
norme di ammissione, ma solo con il riconoscimento dell’urgenza.
La separazione che andò delineandosi nella prima metà del Novecento
tra direttori dei manicomi e docenti universitari, con la scissione tra ospe-
dale psichiatrico e clinica, portò quindi per un primo periodo alla coesisten-
za da una parte del manicomio, con molti malati e molto personale medico
ed infermieristico e, dall’altra, della clinica con pochi spazi, pochi malati e
in genere con patologie neurologiche e scarsi fondi. La psichiatria era sta-
ta dunque portata ad un bivio: da una parte la psichiatria all’interno del
manicomio; dall’altra la neuropsichiatria nella clinica universitaria ospitata
nell’ospedale, ma carente di materiale clinico. Ma la suddetta separazione
divenne nel tempo una vera e propria esigenza, soprattutto perché al diret-
tore del manicomio, in genere struttura di grandi dimensioni, si richiedeva
un impegno gestionale e manageriale difficilmente conciliabile con quello
didattico. Tale realtà fu anche avvertita dal legislatore che al riguardo sancì
nel 1923 la legge che decretava l’incompatibilità della cattedra universitaria
con la direzione di altri istituti. Ciò non sanò però il problema della qualità
dell’insegnamento e della definitiva sostituzione del manicomio quale “pa-
lestra” didattica. A ciò si aggiunse l’incertezza di competenze disciplinari
che investivano anche la neuropatologia. Lo stesso direttore senese Fragni-
208
M. Bracci, In ricordo d’Antonio D’Ormea, in “Rassegna di Studi Psichiatrici”, vol. XLIII, 1954,
pp. III-IV.

82
VERSO LA FINE DI UN PERCORSO: IL PROGRESSIVO PERDERSI DI RUOLO DEL MANICOMIO

to, ad esempio, era strenuo sostenitore della necessaria separazione tra in-
segnamento clinico delle malattie nervose e mentali da quello della neuro-
patologia, disciplina che andava ampliandosi notevolmente anche grazie ai
rapporti sempre più stretti con la radiologia, l’endocrinologia, la neurochi-
rurgia e tutte quelle metodiche di indagine che si stavano delineando, come
l’elettroencefalografia.
A metà del secolo, nonostante continuasse quindi il dibattito delle com-
petenze della clinica universitaria e del manicomio nei confronti non tanto
della cura quanto della didattica psichiatrica, si stipularono accordi e con-
venzioni tra i due enti perché l’insegnamento universitario venisse messo in
condizioni da parte dell’ospedale psichiatrico di essere ben effettuato, con
la cessione di quest’ultimo di locali, aule, assistenti, “alienati e alienate dal
formare materia di studio”209.
Con il progredire dell’impegno nella ricerca da parte della clinica, il ma-
nicomio andava comunque perdendo quel ruolo centrale nell’assistenza psi-
chiatrica, connotandosi sempre più come luogo per i soli “mentali cronici”,
il tutto con l’avvicinarsi del periodo del cosiddetto movimento “antiautori-
tario” diretto da Franco Basaglia e della corrente di psichiatria democratica
che condannerà la condizione di emarginazione sociale vissuta nel manico-
mio: i tempi erano maturi per la promulgazione della legge 180 del 1978, con
le sue dirompenti novità nelle pratiche della salute mentale.

209
Annuario universitario a.a. 1936-37, Siena, San Bernardino, 1937, pp. 79-84.

83
IL CASO DI MODENA
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA

Paola Romagnoli, Archivio della Provincia di Modena 210

GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA


DELLA PROVINCIA DI MODENA:
TIPOLOGIE DOCUMENTARIE E LORO ORGANIZZAZIONE

Il complesso documentario noto come Atti relativi all’assistenza psichiatrica


della Provincia di Modena211 testimonia, dal 1866212, l’attività espletata dall’en-
te, in ottemperanza a quanto prescritto dalla legge di unificazione ammini-

210
Il presente lavoro è stato redatto con il contributo di ricerca e analisi di Renata Disarò, Ales-
sia Francesconi e Chiara Pulini della Cooperativa C.S.R. di Modena, nell’ambito del progetto
di riordino e inventariazione del complesso documentario relativo all’assistenza psichiatrica
conservato nell’Archivio della Provincia di Modena. Il progetto, realizzato con il finanziamento
della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena (Progetto ArchiviaMo) e la collaborazione della
Soprintendenza Beni archivistici per l’Emilia Romagna, dell’Istituto regionale per i Beni cultu-
rali e del Centro di documentazione provinciale, prevede una ricognizione complessiva dei vari
nuclei documentari individuati e la loro inventariazione sulla base delle norme internazionali
di descrizione archivistica ISAD (G) attraverso l’utilizzo del software X-DAMS. Tra i risultati
attesi, oltre alla puntuale descrizione dei fascicoli contenenti il carteggio generale dell’assisten-
za psichiatrica, l’individuazione dei vincoli sottesi alle aggregazioni archivistiche rintracciate,
al fine di cogliere gli elementi costitutivi intrinseci all’intero complesso documentario, anche
attraverso la ricostruzione delle pratiche quotidiane della gestione amministrativa.
211
Il complesso documentario denominato Atti relativi all’assistenza psichiatrica (1350 unità ca.),
costituito da buste e registri prodotti dal 1866 al 1986, è stato oggetto di un primo riordino sul
finire degli anni Ottanta del Novecento, in occasione del riordinamento generale delle serie e
dei nuclei documentari dell’Ente (cfr. Guida dell’Archivio, a cura di C. Ghelfi, Modena, 1994, in
particolare alle pp. 33 e 68-69).
212
Nonostante alcune lacune, dal 1881 al 1884 e dal 1887 al 1900, l’insieme documentario co-
pre complessivamente l’arco cronologico che va dal 1866 al 1986. Si segnalano documenti più
antichi, quali certificazioni allegate ad istanze, e atti in copia conforme, come nel caso della
convenzione del 1858, stipulata tra il manicomio di San Lazzaro di Reggio Emilia e la Congre-
gazione di carità di Modena, finalizzata al “mantenimento di pazzi”(APMO, Carteggio di ammi-
nistrazione generale, 1866, cl. 6.5.1, Fascicolo generale). Per quanto riguarda l’estremo più recente,
il 1986, va segnalato che, nonostante quanto sancito dalla legge 13 maggio 1978, n. 180, (detta
legge Basaglia), che prevedeva il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative con-
cernenti l’assistenza psichiatrica in condizioni di degenza ospedaliera, il nucleo documentario
ha continuato ad essere implementato anche negli anni successivi attraverso la produzione di
un carteggio finalizzato al completamento del passaggio delle funzioni.

87
Paola Romagnoli

strativa del 1865 che, tra le varie funzioni in elenco, attribuiva alle Province
l’onere di provvedere al mantenimento degli alienati poveri213.
L’obbligo consisteva nel garantire a tutti gli ammalati di mente presenti
sul territorio di competenza, anche qualora provenienti da altre province,
il ricovero presso strutture di degenza proprie o presso istituti pubblici e
privati, con i quali venivano stipulate apposite convenzioni. Per i ricoveri
urgenti di propri cittadini in strutture esterne al territorio di competenza, le
province erano poi tenute al rimborso delle spese anticipate dall’ente com-
petente non solo per il ricovero, ma anche per il trasferimento presso altre
strutture o, in caso di guarigione, presso la famiglia di origine.
Da un punto di vista archivistico, l’insieme documentario derivato
dall’espletamento di questa attività è il risultato dell’aggregazione di serie e
nuclei diversi che, seppur complessivamente generati all’interno della prin-
cipale serie archivistica dell’ente, il Carteggio di Amministrazione generale214,
sono stati per lungo tempo conservati come serie separate, confluendo solo
in tempi recenti in un unico complesso, a seguito della riorganizzazione
dell’intero fondo archivistico della Provincia sul finire degli anni Ottanta del
secolo scorso.
La voce di classificazione generale, che lega in forma unitaria questi do-
cumenti, fu individuata sin dall’inizio all’interno del titolo VI del titolario in
uso, Beneficenza pubblica215 e, più precisamente, nella rubrica 6.5, identificata
prima con Mentecatti poi, dal 1923, con Dementi e dal 1966 con Minorati psi-
chici216. Nell’arco dell’intero periodo documentato, dal 1866 al 1986, mentre
213
Legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865, n. 2248, art. 172: “Spetta al Consi-
glio provinciale, in conformità delle leggi e dei provvedimenti, provvedere colle sue delibera-
zioni […] al mantenimento dei mentecatti poveri della Provincia”.
214
Il Carteggio di amministrazione generale, da ora Carteggio, costituisce la serie archivistica prin-
cipale dell’ente e raccoglie i documenti prodotti e ricevuti dalla Provincia nell’espletamento
delle proprie funzioni. La serie, che data a partire dal 1866, preceduta dagli Atti della Deputazione
provinciale (1860-1965), organizzati in ordine di numero di protocollo, è ordinata sulla base di
titoli e rubriche di classificazione che si ispirano al “Prospetto delle materie e denominazioni
principali per la classificazione delle carte in uso degli Archivi delle Prefetture dipartimentali”
di epoca napoleonica.
215
Dal 1880, con un anticipo per gli anni che vanno dal 1875 al 1877, il titolo viene modificato in
Beneficenza e dal 1966 in Assistenza.
216
Come ultimo grado divisionale furono introdotte le classifiche 6.5.1 e 6.5.2. La classificazione
6.5.1 fu utilizzata senza soluzione di continuità fino al 1986. La classificazione 6.5.2 si riscontra
tra il 1878 e il 1880 e, in modo sistematico dal 1938, quando verrà destinata esclusivamente alla
gestione degli atti relativi all’assistenza degli Encefalitici, competenza acquisita dalle Province
nel 1936 (cfr. Regio decreto legge 29 ottobre 1936, n. 2043, Disposizioni per l’assistenza e la cura
degli affetti da forme di parchinsonismo encefalitico), in merito al sussidio di assistenza da prestare
nel periodo acuto della malattia e della successiva convalescenza. Dal 1966 la classifica 6.5.2

88
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA

le norme217 andavano precisando e modificando competenze e attribuzioni,


gli atti così classificati all’interno del Carteggio di Amministrazione generale
furono archiviati prevedendo un fascicolo generale, destinato a contenere le
decisioni ed il carteggio annuale e, a seguire, la serie dei fascicoli personali
intestati ai singoli assistiti, prevalentemente ordinati in sequenza alfabetica.
Nel dopoguerra le carte classificate nella rubrica 6.5 - atti generali e fasci-
coli personali - furono fisicamente scorporate dalla serie unitaria del Carteg-
gio, per finire archiviate come serie a parte fino al 1969 e successivamente,
con un secondo nucleo che va dal 1970 al 1984, come aggregato di nuclei
documentari archiviati separatamente218.
Al di là delle ragioni che determinarono questo scorporo, probabilmente
esigenze amministrative legate alla riorganizzazione del servizio219, i fascico-
li formati all’interno della classifica 6.5, costituenti di fatto serie a parte, man-
tennero al loro interno la precedente organizzazione, prevedendo, sempre
in successione annuale, la sequenza unitaria di fascicolo generale e fascicoli
personali intestati ai singoli sussidiati.
Particolarmente ricchi di documentazione, i fascicoli generali annuali –
oltre un centinaio, dal 1866 al 1978 – si presentano organizzati in sub fasci-
fu destinata alla raccolta degli atti relativi ai Dispensari di igiene e profilassi mentale. Nello stesso
anno vennero introdotti ulteriori gradi divisionali, dal 6.5.3 al 6.5.12, utilizzati per la classifica-
zione del carteggio relativo ai ricoveri di pazienti presso istituti diversi (6.5.4 Istituti ospedalieri
neuropsichiatrici di Reggio Emilia; 6.5.5 Istituti ospedalieri Clinica neurologica di Modena;
6.5.6 Ospedali riuniti San Giovanni in Persiceto; 6.5.7 Istituto Charitas di Modena; 6.5.8 Villa
Giardini di Casinalbo; 6.5.9 Convitto differenziale “E.Gerosa” di Modena; 6.5.10 Convitto diffe-
renziale Vita Serena di Modena; 6.5.11 Scuola convitto De Sanctis Reggio Emilia).
217
Cfr. legge 14 febbraio 1904, n. 36, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati, con le principali
disposizioni in materia e, a seguire, il regolamento attuativo, ovvero il regio decreto 16 agosto
1909, .n. 615, Regolamento per l’esecuzione della legge 14 febbraio 1904, n. 36. Seguono il decreto leg-
ge 21 giugno 1917, n. 1157, relativo ai dementi militari, la legge comunale e provinciale 3 marzo
1934, n. 383 e, successivamente, la legge 180 del 1978, nota come “Legge Basaglia”
218
Allo stato attuale delle ricerche, gli atti del dopoguerra sono il risultato dell’aggregazione
di più nuclei documentari: 1) nucleo degli atti protocollati e classificati nella rubrica 6.5 del
titolario dell’Ente, (1946-1969), bb.740, archiviati come serie a parte, separata dal Carteggio di
amministrazione generale, comprendente fascicoli generali e fascicoli personali; 2) nucleo dei fa-
scicoli personali degli assistiti, (1969-1981), bb. 174, ordinati in sequenza alfabetica; 3) nucleo dei
fascicoli personali degli assistiti, (1979-1981), bb. 76, in ordine numerico; 4) nucleo di pratiche
in evidenza comprendente deliberazioni, (1974-1978), bb. 5, carteggio relativo alla nascita dei
dispensari di igiene mentale (1952-1966), bb. 6. Ulteriori fascicoli in materia di assistenza psi-
chiatrica si rintracciano in forma discontinua all’interno della Serie di settore. Sanità (1975-1985),
costituita da oltre 200 buste di affari diversi prodotti dagli uffici del Settore Sanità e ivi con-
servate fino al 1986. La ricerca in corso consentirà una completa ricognizione di questi nuclei,
proponendo non solo una puntuale descrizione inventariale (consistenza, estremi cronologici,
contenuto), ma anche una revisione dell’impianto complessivo a fini di riordino.
219
Si veda in APMO, Carteggio, 1952, classifica 6.5.1, Fascicolo generale, Relazione [1952], p.107 e ss.

89
Paola Romagnoli

coli e inserti corrispondenti a singole pratiche e procedimenti su cui l’Ente


operava.
A differenza di altre province, che sin dall’inizio poterono contare su
strutture manicomiali già presenti sul loro territorio, preesistenti cioè all’at-
tivazione della funzione assistenziale a carico provinciale, la Provincia di
Modena fu costretta a servirsi di istituti diversi, primo tra tutti l’Istituto psi-
chiatrico di San Lazzaro di Reggio Emilia, accollandosi significativi costi di
assistenza e di trasferimento che costituiscono l’oggetto ricorrente della do-
cumentazione conservata.
Oltre alle circolari esplicative e alle comunicazioni tra gli enti coinvolti,
i fascicoli si riempiono ben presto di atti deliberativi aventi come oggetto il
rimborso delle dozzene di mantenimento a carico della Provincia e di atti che
documentano, in copia e in originale, gli accordi e le convenzioni alla base
dell’azione assistenziale, come il “Rogito Marmiroli”, del 1858, relativo “al
mantenimento dei mentecatti di Modena e delle quattro ville suburbane”,
stipulato tra il Manicomio di Reggio Emilia e la Congregazione dei luoghi
pii di Modena, la “Convenzione per mantenimento di pazzi tra le Opere pie
di Modena e lo Stabilimento di S. Lazzaro” del 1866 e la “Convenzione tra
gli Istituti ospedalieri di Modena e la Clinica neurologica per i ricoveri in
osservazione”, del 1888.
Particolarmente numerosi gli elenchi dei ricoverati presso strutture ope-
ranti nelle province limitrofe, le richieste di dati inoltrate ai comuni, i pro-
spetti statistici riassuntivi delle informazioni raccolte e le comunicazioni
funzionali al controllo dello stato dell’attività annotate, sul piano contabile,
in schede trimestrali e conti consuntivi.
La preoccupazione per il progressivo incremento delle spese giustifica
non solo l’improvviso comparire di un carteggio che documenta il conten-
zioso aperto con l’Istituto psichiatrico di San Lazzaro di Reggio Emilia, circa
l’interpretazione dell’entità delle rette pattuite, ma anche la formazione di
incarti relativi ad iniziative di costruzione di istituti di competenza locale,
come il progetto per un manicomio provinciale, che nel 1912 fa sperare in
un investimento finalizzato al contenimento della voce di bilancio destinata
all’assistenza psichiatrica, che stava assumendo proporzioni non previste.
Numerosi inoltre i documenti che testimoniano lo sforzo per interpretare
la norma, al fine di circoscrivere ulteriormente la tipologia degli assistiti. Se
la competenza pare scontata nei confronti “delle persone affette per qua-
lunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé e agli
altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere con-

90
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA

venientemente custodite e curate fuori dai manicomi”220, estendendo poi la


definizione a quanti vengono qualificati come pazzi pericolosi, cretini, idioti
ma anche epilettici, pellagrosi e alcolizzati, ben diversa è la valutazione per i
cosiddetti pazzi innocui, o dementi tranquilli, per i quali si avvicendano pro-
nunciamenti diversi supportati, soprattutto negli anni Trenta del Novecen-
to, da raccolte di dati e accertamenti che mettono in comunicazione a fini
ispettivi l’Amministrazione provinciale, gli organi prefettizi, i comuni e gli
istituti ospedalieri221.
Un capitolo a parte è costituito dalla documentazione prodotta ai fini
dell’assistenza psichiatrica ai minori che, nonostante le prescrizioni del re-
golamento del 1934222, relativo alle competenze dell’Opera Nazionale Mater-
nità e Infanzia, attesta una continuità di intervento da parte della Provincia
che culminerà nel dopoguerra con la nascita del Centro medico-pedagogico
in collaborazione con l’Università, il Provveditorato agli studi e il Comune
di Modena.
Sempre all’interno dei fascicoli generali si ritrovano inoltre atti di parti-
colare interesse, quali relazioni, regolamenti e disposizioni assunte da altre
amministrazioni e, ancora, atti di convegni, relazioni e opuscoli a carattere
scientifico, a testimonianza del livello di scambio esistente in ambito nazio-
nale sulle politiche adottate.
Forse per la rilevanza degli argomenti trattati, una parte della documen-
tazione classificata all’interno della categoria Mentecatti/Dementi (classifica
6.5.1 del Carteggio di Amministrazione generale) è rimasta esclusa dall’archi-
viazione della serie di origine, finendo per configurarsi come serie di “pra-
tiche in evidenza”, costituite da fascicoli e inserti monotematici, dedicati a
220
Legge 14 febbraio 1904 n. 36, art. 1
221
Il tema era stato affrontato anche precedentemente (cfr. gli atti conservati nel fascicolo gene-
rale del 1867), quando le circolari emesse dall’Ufficio provinciale intervennero per circoscrivere
e contenere i costi derivanti dall’esercizio dell’attività prevista dalla norma di recente emana-
zione. La circolare n. 15 del 14 dicembre richiamava l’attenzione sui rischi di abuso che potreb-
bero insorgere nell’individuazione dei pazienti da ricoverare nel frenocomio di San Lazzaro
di Reggio Emilia: “Cotali abusi si riferiscono a quegli individui i quali, anziché trovarsi in uno
stato di vera pazzia furiosa e quindi di danno a sé stessi o agli altri, o di pubblico scandalo, non
sono colti invece da semplice mentecattagine, o ebetismo o imbecillità e perciò da considerarsi
piuttosto come cronici incurabili in guisa da poter continuare a vivere nelle loro famiglie, o
quanto meno nei ricoveri e negli ospedali ordinari”. Dello stesso tono la circolare n. 16 del 31
dicembre, nella quale l’Amministrazione sottolineava che, nell’attribuire l’onere del manteni-
mento, la norma omette il pronunciamento in materia di spese per il “trasferimento” degli
ammalati nelle strutture di ricovero, da considerare, stando alla circolare, a carico dei comuni
di residenza.
222
Regolamento 24 dicembre 1934 n. 2316, artt. 4 e 13, con i quali si prevede a carico dell’ONMI
“la protezione di minorenni fisicamente e psichicamente anormali fino all’età di 18 anni”.

91
Paola Romagnoli

pratiche di lunga durata o di particolare rilevanza amministrativa.


Scorrendo gli oggetti trascritti sui dorsi delle buste, si ripercorrono infatti
le questioni cruciali che caratterizzarono nello specifico la storia dell’attività
intrapresa da questa Provincia nell’ambito dell’assistenza psichiatrica. Tra
gli inserti più corposi si segnalano i seguenti titoli: Corrispondenza generale
(1894-1922), con una raccolta di carte dedicate alla Revisione servizio mania-
ci; Problema maniacale (1906-1921), con allegato il Progetto di costruzione di un
manicomio a Saliceta San Giuliano (1919) e gli atti del Consiglio provinciale di
Mantova, che nella sessione straordinaria del 23 novembre 1912 si convocava
per istituire un manicomio provinciale; Deficienti ricoverati nell’Istituto di Ber-
talìa (1907-1917), con documenti relativi alla prevista chiusura dell’Istituto
medico-pedagogico bolognese e alla destinazione dei ragazzi ivi ricoverati
con il sussidio della Provincia di Modena; Dementi. Clinica psichiatrica (1911-
1917), dedicato alla “costruzione di un edificio ad uso clinica psichiatrica, da
eseguirsi nella località denominata Prati Leoni […] a ponente della città di
Modena, fuori porta San Francesco”. Seguono alcune buste dedicate alla rac-
colta di atti e convenzioni stipulate con istituti psichiatrici: Minorati psichici.
Istituti ospedalieri di Modena. Convenzione con la Clinica neurologica per ricoveri
in osservazione (1888-1949); Dementi. Manicomio di San Lazzaro. Convenzione
relativa al mantenimento dei mentecatti (1907-1927); Istituti ospedalieri neuropsi-
chiatrici di Reggio Emilia. Aumento delle rette. Convenzione, mantenimento e am-
missione. Circoscrizione di Modena e quattro ville (1937-1945).
La serie comprende inoltre alcune buste dedicate ai “dementi militari”, la
cui assistenza, regolamentata dal decreto legge 21 giugno 1917, n. 1157, de-
terminò un significativo carteggio raccolto sotto il titolo di Minorati psichici ex
militari. Contabilità e corrispondenza (1917-1947) e la produzione di numerosi
fascicoli personali, con atti dagli anni Venti agli anni Cinquanta del Novecen-
to, finalizzati all’inoltro delle richieste di rimborso delle spese anticipate dalla
Provincia per l’assistenza prestata a degenti riconosciuti a carico dello Stato223.
Tra le pratiche “in evidenza” si ritrova inoltre un piccolo nucleo docu-
mentario denominato Dispensari di igiene mentale (1952-1966), in cui si con-
centrano i carteggi prodotti negli anni Cinquanta per la costruzione di strut-
ture e servizi di assistenza psichiatrica a Carpi, Finale Emilia, Montefiorino.
Mirandola, Pavullo, Modena e successivamente Sassuolo e Vignola224. Oltre
223
Cfr. Decreto luogotenenziale 21 giugno 1917, n. 1157, che stabilisce che alle amministrazioni
provinciali spetta il rimborso da parte dello Stato delle spese relative al ricovero nei manicomi
dei militari riformati per infermità mentale, provocata da cause di servizio dipendenti dalla
guerra, anche per il periodo anteriore alla legge
224
Insieme ai consultori, i dispensari furono istituiti come forma di presidio del territorio ai

92
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA

ad atti tecnici ed amministrativi, le buste contengono carteggi diversi qua-


li, ad esempio, gli atti della Commissione provinciale incaricata nel 1957 di
provvedere alla scelta degli artisti destinati all’esecuzione di opere di abbel-
limento delle strutture in corso di realizzazione.
La serie si completa con buste specificamente dedicate alla raccolta di
copie di deliberazioni che, seppur con lacune, rimediabili tramite la consul-
tazione dei registri degli atti originali, coprono l’intero arco temporale, in cui
la Provincia assolse alle proprie funzioni, passando dalla pura assistenzialità
iniziale alla progettazione e sperimentazione di strutture volte alla preven-
zione e al reinserimento sociale degli assistiti225.
Come accennato, i fascicoli generali classificati all’interno della catego-
ria 6.5 del Carteggio di amministrazione generale sono accompagnati, anno per
anno, dalla serie alfabetica dei fascicoli personali intestati al singolo assistito
e archiviati in base all’anno di chiusura della pratica226. Questi fascicoli, aper-
ti ai fini dell’erogazione del sussidio, contengono con sistematicità certificati
anagrafici, certificati medici, attestazioni di povertà, stati di famiglia e comu-
nicazioni intercorse tra la Provincia di Modena e i Comuni, gli enti sanitari
e le altre amministrazioni provinciali coinvolte nella gestione del ricovero
dei singoli assistiti. Particolarmente numerosi i dati raccolti per ciascun rico-
verato: dati personali (cognome e nome dell’”infermo”, paternità, età, stato
civile, residenza, professione, guadagno annuo, iscrizione nell’elenco dei po-
veri, eventuali dati patrimoniali e economici) e dati sanitari (luogo e tempi di
ricovero, diagnosi, condizione sanitaria).
Difficile, allo stato attuale delle ricerche, aggiungere informazioni sulla
fisionomia del complesso documentario esaminato, a partire dalla ricostru-
zione della struttura operativa preposta alla produzione e all’organizzazio-
ne delle carte.

fini della creazione di una rete di servizio di igiene e profilassi mentale. I dispensari, istituiti su
deliberazione del Consiglio provinciale, furono concepiti con compiti di diagnostica neuropsi-
chiatrica precoce, assistenza tempestiva conseguente alla diagnosi, vigilanza ed assistenza dei
dimessi dagli ospedali psichiatrici, propaganda a scopo umano e sociale dell’azione preventiva
e profilattica.
225
Per il periodo esaminato, oltre ai registri dei verbali di Giunta e Consiglio, sono agevolmente
consultabili fino al 1966 gli Atti a stampa del Consiglio provinciale, corredati da indici finali e relazioni
di bilancio, e, dopo il 1966, le scansioni digitali degli atti deliberativi, dotate a loro volta di indici.
226
Rintracciata in completo disordine sul finire degli anni Ottanta del Novecento, questa serie
documentaria è stata poi successivamente riordinata (cfr. Guida, p. 68) nel rispetto dell’organiz-
zazione originaria dei fascicoli, in parte in sequenza numerica progressiva (1979-1981), bb. 76,
in parte in ordine alfabetico (1946-1981), bb. 914. A tutt’oggi non sono stati rintracciati repertori
finalizzati al reperimento dei fascicoli, archiviati con riferimento all’anno di chiusura del fasci-
colo, così come non sono ancora evidenti le modalità di numerazione delle pratiche.

93
Paola Romagnoli

L’inadeguatezza della struttura operativa viene denunciata in una rela-


zione del 1952227, in cui si dichiara che l’ordinamento interno, rimasto “quel-
lo che era tanto tempo fa”, è dotato di un organico limitato ad un funzionario
ed una stenografa, cui compete la totalità dei compiti: l’istruttoria delle posi-
zioni personali degli assistiti, lo studio e l’elaborazione di proposte in merito
alla legislazione in materia, la gestione del contenzioso e dei rapporti con
enti, ospedali e istituti, il rapporto con il pubblico, l’attività di controllo ed
ispezione, l’attività statistica, la gestione della corrispondenza, dei verbali ol-
treché la tenuta degli indici, dei registri e delle rubriche. A questi si aggiunge
l’onerosa attività di verifica dei dati riportati sui documenti richiesti - stato
di famiglia, informazioni economiche, certificati dell’Esattoria e dell’Ufficio
delle Imposte228 e, in aggiunta, per ogni ammalato, la cartella clinica e la co-
pia della relazione medica di ammissione, da richiedere alle strutture sanita-
rie - per valutare l’effettiva competenza dell’Ente ai fini dell’erogazione del
sussidio e stabilire, di fronte alle eventuali responsabilità di terzi, l’esonero
della Provincia dall’impegno.
Di particolare interesse il paragrafo dedicato all’arredamento dell’ufficio,
che potrebbe far luce sulle ragioni dell’avvenuto scorporo dalla serie degli
atti della categoria 6.5, archiviati dal 1946 separatamente dal Carteggio di am-
ministrazione generale, e sull’esistenza di repertori utilizzati per il recupero
dei fascicoli: “per una razionale sistemazione degli atti relativi ai dementi,
che devono essere tenuti dall’Ufficio, è già stato provveduto con l’ordinazio-
ne dei mobili necessari in corso di costruzione. Si era pensato in un primo
tempo di acquistare dei classificatori per detto scopo, ma si è abbandonata
l’idea, perché si è ritenuto più comodo il sistema, almeno per il momento,
delle cassette da sistemare negli armadi”229. Nelle righe successive si fa rife-
rimento alla necessità “di costituzione di uno schedario e della istituzione
di registri”, in aggiunta allo schedario in uso presso l’Ufficio di Ragioneria,
giudicato funzionale alla contabilità, ma insufficiente alle funzioni ammini-
strative attribuite all’ufficio. In particolare si prevedono un Indice generale
227
APMO, Carteggio, 1952, classifica 6.5.1, Fascicolo generale, Relazione [1952], pp. 107 e ss..
228
Come riportato sulla modulistica rintracciata all’interno dei fascicoli personali, il certificato
dell’agente delle Imposte Dirette avrebbe consentito gli accertamenti in merito a “se e per quali
somme il maniaco ed i suoi parenti ed affini […] sono iscritti sui ruoli dei contribuenti per red-
diti mobiliari e immobiliari”, mentre il certificato dell’Esattore avrebbe consentito di verificare
“se l’infermo, i parenti e gli affini suoi sono gravati di tasse, di quale specie e di quale misura”.
229
Cit., p. 108. L’affermazione giustificherebbe il fatto che per gli atti archiviati a partire dal
dopoguerra non si ritrovino più, come negli anni precedenti, dei semplici fascicoli sfusi, ma
una raccolta di fascicoli raccolti in cassette di legno, specificamente predisposte e, soprattutto,
archiviate in forma separata dal resto del Carteggio.

94
GLI ATTI DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA DELLA PROVINCIA DI MODENA

dementi e una serie di 10 rubriche o registri, uno per ciascuna delle diverse
categorie di assistiti: dementi militari, dementi condannati, dementi a con-
tributo, dementi a carico di altre province o altri enti, dementi paganti in
proprio, dementi ricoverati a Reggio Emilia, dementi ricoverati in manico-
mi o cliniche di altre province, dementi tranquilli ricoverati in ogni istitu-
to, ricoverati in case di cura private, dementi sussidiati. L’obiettivo diventa
quello della riorganizzazione del servizio e, al suo interno, la revisione delle
scritture in essere e della loro tenuta230; una questione aperta quindi, su cui
si sta indirizzando la ricerca, per ricostruire nel contempo le modalità della
gestione dei fascicoli dei sussidiati: dalla loro formazione (apertura, gestione
in corrente, selezione e archiviazione a fini conservativi)231 agli strumenti del
loro reperimento, sia in fase corrente sia in fase di deposito, per autodocu-
mentazione del servizio.
In conclusione, allo stato attuale delle ricerche, questo complesso docu-
mentale, fonte imprescindibile per lo studio del disagio mentale nel mode-
nese tra l’Unità d’Italia e la fine degli anni Settanta del Novecento, occasione
di approfondimento sulle politiche di intervento specificamente adottate
dall’Ente, sulla rete delle relazioni che si vennero a creare sul territorio tra
enti locali e strutture sanitarie e sull’evoluzione del dibattito locale in ma-
teria, rappresenta un’opportunità per indagare tra l’altro sulle modalità or-
ganizzative e gestionali di un “sistema archivistico” complesso e articolato,
riflesso di una delle più antiche funzioni attribuite alla Provincia che, nel
caso specifico, seppe sperimentare modalità di intervento nuove in anticipo
sull’evoluzione della norma232.

230
Per quanto concerne i registri rinvenuti si segnalano: cinque registri della fine degli anni Ses-
santa dell’Ottocento, con trascrizioni di dati anteriori e la serie dei registri annuali di contabilità
delle spese sostenute per i ricoveri dei sussidiati presso istituti diversi, dalla fine dell’Ottocento
agli anni Trenta del Novecento, che, dopo alcune interruzioni, continua come serie dei registri
di Ragioneria. Contabilità sussidi, dal 1946 al 1981.
231
Di particolare interesse in questo contesto alcuni “segnalatori” rintracciati all’interno della
serie del Carteggio, realizzati su carta intestata dell’Archivio generale, come promemoria di in-
terventi di selezione – esempio: “Dementi. Fascicoli personali. Movimento: sono stati scartati
quelli dei morti e usciti” – per i quali si tratta di verificare se la selezione fosse finalizzata a
deposito o scarto.
232
Tra le fonti utili a ricostruire le fasi del dibattito locale e gli indirizzi politici adottati dall’am-
ministrazione modenese che portarono alla definizione dei piani psichiatrici comprensoriali, si
segnalano, oltre ai verbali delle deliberazioni consiliari (v. nota n. 16), alcuni contributi editoria-
li, risultati di indagini e atti di seminari, disponibili presso la Biblioteca dell’ente.

95
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA

Donatella Lippi, Università di Firenze

LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO


DI MODENA NELLA TESTIMONIANZA DI JOSEPH
GUILLAUME DESMAISONS DUPALLANS (1840)

Introduzione

Nel 1840, l’alienista Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans (1813-


1900) intraprendeva un viaggio in Italia, secondo una prassi molto diffusa a
partire dal XVIII secolo: la relazione odeporica, infatti, si diffonde in modo
particolare nel Settecento europeo e, proprio alla fine di questo secolo, si
opera una distinzione fra le relazioni di viaggio a carattere enciclopedico e
le relazioni scientifiche con uno scopo ben determinato ed un carattere più
esclusivo233. Nell’Ottocento, il Voyage médical acquista una diffusione sor-
prendente e sono numerose le relazioni di viaggio che hanno come filo con-
duttore la visita agli istituti per gli alienati234, nel momento in cui l’istituzione
manicomiale si stava affermando come risposta al problema della follia235.
In questo ambito va collocata l’opera del Dupallans236. Nato a Bordeaux il
13 febbraio 1813, dopo aver interrotto gli studi a carattere artistico, si era de-
dicato alla Medicina, addottorandosi a Parigi nel 1838 e diventando allievo
del celebre Esquirol237. L’iniziativa di questo suo viaggio e della indagine sui
manicomi italiani, sembra doversi collegare con la realizzazione, avvenuta

233
M. Dall’Acqua-M. Miglioli, I viaggi d’istruzione medica nel processo di formazione della psichiatria
italiana, “Sanità, scienza e storia”, 2, 1984, pp. 173-197.
234
Si veda J. Frank, Sui viaggi d’istruzione medica, Giornale delle Scienze Mediche, V, 1839, pp. 385-
405 e R. Sava, Sui pregi e doveri del medico, Milano, Martinelli, 1845.
235
M. Cagossi, Nascita dell’istituzionalismo secondo i resoconti di viaggio nell’Ottocento, in Passioni
della mente e della storia, a cura di F.M. Ferro, Milano, Franco Angeli, 1980.
236
P.L. Cabras, E. Campanini, D. Lippi, I Viaggi Medici nel XVIII e nel XIX Secolo, Atti del XXXIX
Congresso Nazionale SISM, Firenze, 12-14 Giugno 1998, in “Giornale di Medicina Militare”, 149,
fasc. 5-6, 1999, pp. 439-440.
237
Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772-1840).

97
Donatella Lippi

subito dopo il suo ritorno in Francia, di un manicomio privato e di lusso a


Castel d’Andorte, nei pressi di Bordeaux, che resse per 50 anni. Della sua
personalità scientifica si hanno poche notizie: pubblicò nel 1859 l’opera Des
asiles d’aliénés en Espagne238 e nel 1864 fu presidente della Société de Médecine
et de Chirurgie di Bordeaux. Scrisse altri brevi interventi scientifici, conti-
nuando a viaggiare, soprattutto in Italia. Frutto del viaggio compiuto nel
1840, il manoscritto Du Service Administratif et Médical des Asiles d’Aliénés de
L’Italie en 1840, fu consegnato dall’autore agli organizzatori del “Congres-
so dei Medici di Tutte le Nazioni”, che si tenne in Firenze nel 1869.
Il documento venne accolto freddamente e non fu pubblicato negli atti:
la presidenza del Congresso, infatti, decise di non pubblicarlo, adducendo
come motivazione ufficiale i cambiamenti nel frattempo intervenuti nella
organizzazione sanitaria italiana, che rendevano il materiale raccolto dal
Dupallans superato, ma, in realtà e con ogni probabilità, la mancata pub-
blicazione del manoscritto fu motivata dallo spirito fortemente critico con
cui Dupallans guardava alle istituzioni visitate, di cui fornisce, spesso, un
quadro molto negativo.
Lungo la penisola, Dupallans attraversa i vari Stati e le diverse regioni
(non visita solo la Sardegna), fermandosi presso i vari istituti manicomia-
li; le annotazioni di viaggio sono organizzate con metodo e con rigore. I
vari capitoli riguardanti i singoli ospedali sono suddivisi in sottocapitoli
riguardanti “Materiale “, Amministrazione”, “Servizio medico” e “Stati-
stica”. Nel primo sottocapitolo viene descritto tutto ciò che lo stabilimento
offre per la cura dei pazienti, l’organizzazione degli spazi, la qualità degli
arredi, i mezzi terapeutici a disposizione, compresa l’ergoterapia, i metodi
di contenzione, l’alimentazione e l’abbigliamento. In “Amministrazione” e
“Servizio medico” si analizzano le disposizioni che regolano la vita delle
singole istituzioni e si forniscono notizie, quasi sempre dirette, sui medici.
Dupallans incontra personalmente molti di loro e non risparmia giudizi
molto severi.
Molto verosimilmente, proprio per questo suo atteggiamento, del ma-
noscritto, rimasto inedito, si persero le tracce e venne alla luce nella biblio-
teca dell’ormai dismesso Ospedale Psichiatrico di San Salvi, in Firenze, in
anni recenti239. Il manoscritto, in buon stato di conservazione, consta di
269 pagine e propone una attenta disamina della situazione manicomiale
238
J.G. Desmaisons Dupallans, Des Asiles d’aliénés en Espagne, recherches historiques et médicale,
Paris, 1859.
239
P.L. Cabras, S. Chiti, D. Lippi, Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans, La Francia alla ricerca del
modello e l’Italia dei manicomi nel 1840, Firenze, Firenze University Press, 2006.

98
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA

dell’Italia preunitaria. Il testo, oltre al resoconto delle realtà osservate nei


vari stabilimenti italiani, offre quadri statistici, riferimenti bibliografici e
riflessioni sui criteri nosografici dei diversi istituti.

Il testo

Ducato di Modena240. Lo stabilimento per alienati del ducato di Mode-


na è fra quelli che hanno più attirato l’attenzione pubblica. Tutti gli scrit-
241

tori che si sono occupati della situazione di questi stabilimenti in Italia ne


hanno fatto un brillante elogio. Un amministratore francese, Cerfbeer, ha
scritto così nel suo rapporto ufficiale: «Questa casa è certamente una delle
più belle e delle meglio tenute che esistono in Italia, e forse in Europa» (A.E.
Cerfbeer, Rapport à M. Le Ministre de l’Intérieur sur différents hôpitaux, hospices,
établissements de sociétés de bienfaisance de l’Italie, Paris, MDCCCXL).
Se mi sono dimostrato severo nel giudicare alcune di queste istituzioni,
in confronto alle lodi che senza restrizione sono state loro accordate, non
mi è permesso di passare sotto silenzio le imperfezioni che ho riscontrato in
questo stabilimento, peraltro assai raccomandabile.
Si comprenderà che lo stabilimento fondato nel 1820, epoca nella quale
l’Italia mancava di case per alienati appartenenti alle classi ricche, posto al
centro di un paese che tutti gli stranieri attraversavano, non poteva mancare
di diventare celebre anche se era carente sotto molti aspetti per essere per-
fetto. Questa è pressappoco la sua storia. L’iscrizione seguente, che si legge
su uno dei muri di cinta, consacra il nome e le benemerenze del principe
caritatevole che ha fatto restaurare l’antico lebbrosario di Reggio242 .
D.N. Franciscus III prins felix
aedes dementiae sanandae apertas an: MXXXVI
quas aetas superior augustas squalentesque reliquerat
area lascata operibus a solo ampliates
Legibus ad exemptum dictes
manificentia sua constituendas curavit
È nel 1820 che si cominciano ad attuare queste utili riforme. Lo stabili-
240
Il testo che segue è tratto integralmente dal volume citato, alle pagine 82-90.
241
Per quanto riguarda il Ducato di Modena, Desmaisons si sofferma esclusivamente sull’ospe-
dale di San Lazzaro a Reggio Emilia. Informazioni precise e dettagliate su tale istituto sono
riportate nel volume: Il cerchio del contagio. Il S. Lazzaro tra lebbra, povertà e follia, 1178-1980. Cata-
logo della Mostra Storiografica della Psichiatria, Padiglione Lombroso, Reggio Emilia 11-30 aprile 1980,
Reggio Emilia, Istituti Ospedalieri Neuropsichiatrici San Lazzaro a Reggio Emilia, 1980.
242
Francesco III d’Este (1698-1780).

99
Donatella Lippi

mento, finalmente liberato dalla presenza dei malati comuni, fu riservato


agli alienati. Non pare, a prima vista, aver preso il posto di un vecchio e mi-
sero ospizio per incurabili ma, così come ha mantenuto il proprio nome ini-
ziale di S. Lazzaro, mi sembra conservi ancora le tracce della sua origine.

1° Materiale

La collocazione dello stabilimento per alienati di S .Lazzaro ha l’inconve-


niente al quale ho appena fatto allusione. E’ situato troppo vicino alla strada
di comunicazione frequentatissima, che da Reggio conduce a Modena e dal-
la quale non lo separa nemmeno un fossato. Chiunque si trova a passare di
lì, viaggiatore o viandante, può spingere le persiane del piano terra e guar-
dare all’interno della casa. Al fine di ovviare a tale inconveniente ed evitare
eventuali disordini, l’Amministrazione e i servizi generali sono stati dislo-
cati nell’avancorpo dell’edificio, esteso non meno di 60 passi considerando
anche la cappella la cui entrata principale si apre sulla strada.
Gli scrittori che hanno redatto dei resoconti sulla situazione di S. Lazzaro
hanno trascurato di mettere in evidenza ciò che vi è di sfavorevole nella sua
posizione, ben impressionati, senza dubbio, dall’aspetto delle campagne che
circondano lo stabilimento e la cui coltivazione è perfetta. I terreni apparten-
gono a S. Lazzaro e si possono facilmente far coltivare dagli alienati.
Situato ad un terzo di lega da Reggio, la casa degli alienati si trova, sotto
questo aspetto, in una condizione favorevole.
Si sono utilizzate vecchie costruzioni che sono state in parte riparate. Si
scorge nei lavori un progetto, il cui tracciato si intravede nello stabilimento.
Questa saggia misura condurrà, al termine dei medesimi, a quella simmetria
generale che mancava all’origine.
Le ricostruzioni, iniziate nel 1821, non erano ancora terminate all’epoca
della mia visita nel 1840. Si stava costruendo, a quel tempo, un’ala separata
per i convalescenti e si pensava di edificarne un’altra per gli epilettici.
Da ciò si evince quanto, ancora nel 1840, il S. Lazzaro fosse incompleto.
Le disposizione generali sono soddisfacenti. La separazione fra i due ses-
si è sufficiente. Gli uomini occupano i fabbricati di destra verso Modena, le
donne sono alloggiate nei fabbricati sul lato opposto.
Gli alienati tranquilli sono separati dagli agitati che sono tenuti lontani,
il più possibile, dal corpo principale dello stabilimento che fiancheggia la
strada. Ciascun reparto gode di un portico. A causa della mancanza di
spazio c’è soltanto un bagno. Tutti gli indigenti uomini e donne devono
consumare i pasti nello stesso refettorio, secondo il turno stabilito per i due

100
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA

sessi. La mancanza di spazi sufficienti per la popolazione dello stabilimento


si scorge in molte sue parti e con inconvenienti di ogni genere. In questa
casa, dove il trattamento morale occupa il primo posto, si è ritenuto utile
destinare una sala agli spettacoli; qui gli alienati hanno già recitato qualche
volta e, a quanto si dice, con successo. Ebbene, questa stessa sala separata
dalla cappella solo da una cancellata serve alle alienate per assistere ai servi-
zi religiosi. Soltanto agli uomini è consentito l’ingresso nella cappella. Qua-
le effetto, domando, produrrà su un’anima debole nei confronti della fede,
questo doppio uso, sacro e profano, dell’ambiente? Una mente che comincia
appena a riprendersi dal suo turbamento potrà trarre dei benefici dalla pre-
ghiera nello stesso luogo, dove, qualche giorno o qualche ora prima, si era
abbandonata ad emozioni così differenti? So bene ciò che si potrebbe rispon-
dere a questa osservazione: essa vuole combattere quella tendenza troppo
diffusa ad imitare quegli ospedali dove tutto è sacrificato all’apparenza. Lo
stabilimento di S. Lazzaro non ha bisogno di ricorrere a simili mezzi: deve
rifiutare ogni sistema preso da altri e tornare a quel tenore di vita semplice e
calmo che gli è proprio. Lo stesso motivo mi indurrebbe a vietare le sciabole
di legno e gli oggetti innocui destinati a far esercitare i malati all’usanza mi-
litare e messi in opera dietro consiglio di un medico berlinese. Ritengo che
rastrelli o altri arnesi da lavoro possano rimpiazzare, con vantaggio, queste
armi inoffensive ma quanto meno fuori luogo.
I fabbricati di S. Lazzaro sono costituiti da un unico piano oltre al pia-
no terra. Sono circondati da una distesa di terreni piuttosto vasta. Essi si
dividono in dormitori per i malati con 3, 4, 10 o 12 letti al massimo. Vi è un
certo numero di camere ad un letto. Tutti questi ambienti si aprono su di
un corridoio da un solo lato e ricevono luce dal cortile. I corridoi sono lumi-
nosi, areati e di una pulizia degna di nota. I letti sono di legno e ben curati.
La manutenzione della casa è eccellente. L’acqua, che abbonda, è condotta
nelle diverse parti dello stabilimento grazie a tubature disposte con perizia.
L’abbigliamento dei malati è semplice e decoroso. Non si usa l’uniforme,
il medico ha scelto a tal proposito di non adottare alcuna regola, poiché ne
deriverebbero più inconvenienti che risultati utili.
Le sale comuni e di lavoro sono, nella maggior parte dei casi, poco
spaziose.
Prima di terminare l’esame degli aspetti materiali, voglio ricordare che le
mie critiche si riferiscono, soprattutto, ai dettagli.
Bisogna sperare che, una volta terminate le costruzioni di S. Lazzaro, esse
saranno veramente degne di quegli elogi che, vi dirò, mi sono sembrati, per
ora, un po’ esagerati.

101
Donatella Lippi

2° Amministrazione. Servizio Materiale

Una commissione amministrativa sorveglia la parte economica di questo


stabilimento che è diretto da un medico.
Le entrate consistono in una rendita, proveniente dai fondi destinati allo
stesso dal sovrano, e dalle pensioni pagate dai malati, fissate a 1 e 25 e 1 e
75 al giorno per gli alienati degli Stati di Modena; i comuni di appartenenza
degli indigenti sono obbligati a mantenerli.
I forestieri pagano 2 e 25. Anche ammettendo che non si sia mai oltrepassata
la cifra fissata dal regolamento, è facile rendersi conto che questi ultimi hanno
contribuito in maniera notevole alla prosperità dello stabilimento. In nessuna
casa la presenza di forestieri è così considerevole, neppure oggi giorno.
È stata inoltre accordata dalla cassa ducale una somma annuale di 10.000,
sino al completamento dell’edificio.
La direzione dello stabilimento di S. Lazzaro è stata affidata, dalla sua
origine, al dottor Galloni243 al quale la generosità del sovrano ha reso pos-
sibile lo specializzarsi negli studi. Il dottor Galloni244, inviato dapprima nei
diversi stabilimenti per alienati d’Italia e ad Aversa, si recò poi in Inghilterra
ed in Francia. Dotato di spirito vivace e penetrante, come la maggior parte
dei suoi compatrioti, il medico di Reggio si dedicò dopo il ritorno in patria
ad aiutare con l’esperienza acquisita l’architetto245 incaricato della nuova co-
struzione sforzandosi di organizzare il regime ed il trattamento degli aliena-
ti di S. Lazzaro secondo i principi e le lezioni di Esquirol. Fu, senza dubbio,
uno dei primi che portò le idee della nuova scuola in Italia, dove nulla era
stato fatto per sviluppare i germi lasciati da Chiarugi246. Sono trascorsi più di
243
Antonio Galloni fu nominato direttore del San Lazzaro nel 1821 e rimase in carica sino al
1855, anno della sua morte. Già nel 1820 Galloni venne inviato dal Duca di Modena Francesco
IV, ad Aversa, per specializzarsi e tale viaggio influenzò moltissimo Galloni che, una volta al
San Lazzaro, si fece interprete di un trattamento morale all’insegna di una rigida disciplina.
Nella concezione di Galloni, tutto poteva servire al processo di cura. Partendo da questo prin-
cipio, applicò trattamenti e metodi umanitari, introducendo l’ergoterapia ed il divertimento
come possibilità di recupero del malato. In tale ottica, nel 1830, condusse in carrozza a teatro
32 ammalati ad ascoltare il “Barbiere di Siviglia” (Il cerchio del contagio. Il S. Lazzaro tra lebbra,
povertà e follia, 1178-1980. Catalogo della Mostra Storiografica della Psichiatria, Padiglione Lombroso,
Reggio Emilia 11-30 aprile 1980, Reggio Emilia, Istituti Ospedalieri Neuropsichiatrici San Lazzaro
a Reggio Emilia, 1980).
244
Antonio Galloni fu direttore del San Lazzaro dal 1821 al 1855.
245
L’incarico venne affidato alla fine del 1820 all’architetto Giovanni Paglia. Due anni dopo
venne ampliato dall’architetto Domenico Marchelli.
246
Vincenzio Chiarugi (1757-1820) fu il fondatore dell’Ospedale di Bonifazio, a Firenze. Desmai-
sons si riferisce al metodo “umanitario” introdotto da Chiarugi nel trattamento degli alienati.

102
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA

venti anni da quando ha introdotto le riforme che hanno impressionato tutti


coloro che visitano, da allora, gli stabilimenti di beneficenza in Italia.
Ancora oggi, le persone che hanno l’onore di avvicinare questo saggio
medico possono apprezzare le brillanti qualità del suo spirito che egli cerca,
invano, di nascondere sotto le apparenze della semplice modestia.
Affascinato dai colloqui avuti con lui, un amministratore francese (Cer-
fbeer) così si esprime nel rapporto inviato al ministro dell’Interno: «Vostra
Eccellenza mi permetterà di manifestare in questa sede l’augurio di vedere
l’amministrazione francese incaricare un medico, preparato a tale compito,
affinché osservi nell’ospizio di Reggio, con l’approvazione del dottor Gallo-
ni, il sistema che egli vi applica da ormai vent’anni con successo. Approfit-
terà del soggiorno: 1° per studiare le cause della Pellagra, sempre che sia
possibile giungere ad indicarle, 2° per far conoscere quelle del suo propa-
garsi nelle contrade meridionali d’Italia».
Chiamato a compiere questa missione, mi sia permesso a mia volta di
esprimere con franchezza la mia opinione. Dirò, innanzitutto, che l’ammi-
nistrazione francese, qualora avesse bisogno di conoscere i principi che gui-
dano il medico di Reggio, ne troverà l’applicazione quotidiana negli stabili-
menti che essa dirige con tanta superiorità. Ma, in Italia, com’è dimostrato
in questo rapporto, esiste oggi più di un medico versato nei vari metodi di
trattamento e nella loro benefica applicazione. Ciò che un tempo poteva es-
sere considerato un fatto eccezionale oggi non lo è più.
Quanto allo studio della Pellagra247 che, in effetti, richiama l’attenzione
degli studiosi, senza trascurare di conoscere le osservazioni personali del
dottor Galloni, il medico desideroso di approfondire una questione così inte-
ressante dovrà indirizzarsi agli uomini posti nella situazione più favorevole
per lo studio di questa malattia. I loro nomi, resi illustri dalle ricerche che
hanno pubblicato, sono presenti nelle librerie di tutti quei medici che hanno
dedicato qualche istante a questo studio.
Il dottor Galloni, occorre dirlo, non ha pubblicato nulla. Tutto ciò che si
conosce sui risultati ottenuti nello stabilimento che dirige si limita a descri-
zioni fatte da alcuni viaggiatori, per lo più ignoranti in questa branca del-
la scienza. I frammenti di conversazioni sono troppo vaghi ed insufficienti
perché si possa trarne qualcosa di veramente utile. L’assenza di ogni sua
pubblicazione deve essere considerata non soltanto come un fatto che arreca
danno alla fama personale del medico di Reggio, ma anche come causa di
247
J.G. Desmaisons Dupallans, Lettres sur la pellagre dans le sud-ovest de la France, à M. le Dr.
Veot… en résponse à une demande de reinsegnement du gouvernement italien, Bordeaux, Imp. De G.
Gounouilhou, 1879.

103
Donatella Lippi

discredito al servizio che egli è incaricato di dirigere.


Uno dei medici più apprezzati per i suoi lavori e per il suo carattere, il
dottor Bonacossa248 di Torino, si era recato allo stabilimento di S. Lazzaro,
dopo aver atteso per cinque ore consecutive il permesso di visitarlo, non
ritenne di mostrarsi troppo severo nel dichiarare che un’assenza così prolun-
gata del medico direttore era contraria alla buona tenuta di uno stabilimento
di questo genere. Qui il medico direttore non ha l’obbligo di residenza e
quando i suoi impegni lo chiamano a Reggio, non è sostituito da un collega,
come avviene in tutti gli stabilimenti ben diretti. Se capitasse un incidente
non c’è nessuno che possa portare soccorso ai malati. L’assenza di un medico
assistente mi ha veramente colpito!
L’amministrazione ha lasciato al medico direttore tutta l’autorità che può
desiderare; devo riconoscere, dopo tutte le osservazioni fatte, che il dottor
Galloni l’ha usata nei confronti dei subordinati e delle persone addette ai
servizi per stabilire una disciplina e un ordine degni di lode.

3° Statistica

Il dottor L. Valentin (op. cit.)249 ha contato, il 26 giugno 1824, nello stabi-


limento di S. Lazzaro, 52 alienati. Il Signor Cerfbeer (op. cit.) ha censito, nel
1839, 180 alienati di cui 26 stranieri. Secondo le informazioni ricevute a voce,
dal medico direttore,

100 alienati (uomini)


90 alienati (donne)
Totale 190 alienati

Di questo numero, 150 appartenevano al ducato di Modena, gli altri 40


erano di provenienza straniera. Queste sono le sole informazioni che sono
riuscito a procurarmi, poiché i registri non vengono mostrati agli estranei.
Viste le cifre fornite: 100, 90, 150, si può arguire che esse siano approssi-
mative.

248
Si tratta di Giovanni Stefano Bonacossa (1804–1878): fin dal 1828 si dedicò allo studio e alla
cura degli alienati mentali, frequentando il manicomio di Torino prima come medico aggiunto,
poi come ordinario e infine come primario. Dottore collegiato per le malattie mentali, fu profes-
sore di Clinica delle Malattie Mentali dal 1851.
249
Da questa osservazione, si deduce che Desmaisons utilizza anche la seconda versione del
Voyage en Italie di Valentin, edita nel 1826 (L. Valentin, Voyage médical en Italie, fait en 1820, Nan-
cy, 1822, II ed., Paris 1826).

104
LO STABILIMENTO PER ALIENATI DEL DUCATO DI MODENA

È strano: lo stabilimento che gode il maggior credito nell’opinione pub-


blica è proprio quello che ha fornito minor materiale alla scienza.
La popolazione degli Stati d’Este ammontava nel 1836 a 474.524 anime e
il numero degli alienati assistiti era di circa 150. Si ottiene la proporzione di
un alienato su 3163 abitanti.

Conclusioni

La testimonianza di Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans offre uno


spaccato puntuale dell’organizzazione dell’istituto principale del Ducato di
Modena nel 1840: non sfugge la vena polemica e l’atteggiamento fortemente
critico, esteso dall’autore a numerosi istituti della penisola, che furono la
causa più probabile dell’oblio, in cui il manoscritto venne a cadere.

105
L’ASSISTENZA AI MALATI DI MENTE NELLA PROVINCIA DI MODENA

Andrea Giuntini, Università di Modena e Reggio Emilia

L’ASSISTENZA AI MALATI DI MENTE


NELLA PROVINCIA DI MODENA DALLA LEGGE DEL 1865
ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

I malati di mente a Modena nella prima metà dell’Ottocento

I matti, o presunti tali, ci sono sempre stati nella storia dell’umanità. Per
secoli la malattia mentale è rimasta confinata in famiglia, l’istituzione che
si faceva carico di quel tipo di malattia. La svolta la fornì l’apparizione dei
primi manicomi, che cominciarono a raccogliere ogni sorta di spostato. Ov-
viamente l’accesso era facilitato laddove la distanza non era eccessiva e la
capienza sufficiente. Poi naturalmente c’era la questione economica a condi-
zionare l’ospitalità: buona parte di quanti necessitavano delle cure dei ma-
nicomi erano “povere menti”, intelligenze affette da disturbi e tasche vuote
costituivano una combinazione oltremodo sfortunata. Ci voleva qualcuno
che si facesse carico del mantenimento di questi disgraziati.
A Modena, come dappertutto, il problema esisteva e imponeva una so-
luzione. Nel locale ospedale, il vecchio Sant’Agostino250, eretto ai bordi del
centro storico della città, intorno alla metà del XIX secolo, quando grosso
modo questa storia prende avvio, malati di mente venivano ospitati secondo
un’abitudine che vigeva quasi dappertutto, cioè mischiati agli altri pazienti
con una scarsa attenzione alla distinzione delle malattie. Considerevolmente
allargatosi intorno alla fine del ‘700, l’ospedale era gestito dalla Congrega-
zione di carità. Vi trovavano asilo tutti quelli definiti genericamente demen-
ti, separati con difficoltà, per motivi di spazio godendo l’ospedale di una
capienza di 250-300 letti, da malati di tutt’altro genere.
Ma gran parte dei dementi venivano istradati verso il San Lazzaro di
Reggio Emilia, un’istituzione che traeva la sua origine da un ricovero di leb-
250
Sulla storia del più antico ospedale modenese, cfr. A. Giuntini-G. Muzzioli, E venne il Grande
Spedale. Il sistema ospedaliero modenese dalle origini settecentesche ad oggi, Modena, Servizio sanitario
regionale Emilia Romagna, 2005. Notizie concernenti l’assistenza ai malati di mente in epoca mo-
derna sono in P. Di Pietro, L’ospedale di Modena, Modena, Editrice Bassi e nipoti, 1965, pp. 93-94.

107
Andrea Giuntini

brosi ed invalidi istituito dal Comune nel 1754 e destinato tre anni dopo
esclusivamente ai malati di mente. Un anno dopo la nascita del manicomio,
l’amministrazione dell’ospedale modenese aveva deliberato di costruire
un Ospizio de’ pazzi o Fabbrica per li pazzarelli, edificio a due piani dotato di
piccole stanze e inteso come passaggio intermedio per i malati in attesa di
trasferimento al San Lazzaro. Con l’ospedale reggiano venne stipulata una
convenzione nel 1757 per il ricovero dei pazienti modenesi a spese dell’am-
ministrazione ospedaliera della capitale ducale e della Congregazione di
Carità della città. Il San Lazzaro prevedeva una sistemazione distinta in tre
classi su base censuaria; i più poveri venivano impiegati nella colonia agrico-
la e nelle officine annesse all’istituto. Fin da questi anni si cominciò a consi-
derare il San Lazzaro la destinazione privilegiata per i matti modenesi; anzi
di più, nel senso che veniva ritenuto quasi un manicomio modenese, per la
prossimità e la familiarità percepite. Andava in questa direzione anche la
decisione presa dalla Congregazione di carità di Modena di finanziare la re-
alizzazione di ben 22 camere presso il manicomio reggiano, riservandole ai
propri malati251. A conferma di un simile sentimento comune e di un legame
sempre più forte, nel 1821 il duca Francesco IV dichiarava che il San Lazzaro
andava considerato “Stabilimento generale delle case de’ pazzi” per lo stato
intero e non solo di Reggio Emilia, sancendo quello che nell’immaginario
collettivo locale già trovava una forma compiuta. I flussi nei primi decenni
dell’800 furono intensi e la consuetudine si fondò definitivamente, permet-
tendo ai modenesi di pretendere condizioni economiche di ammissione più
favorevoli. Chi finiva al San Lazzaro probabilmente godeva di condizioni
migliori di quanti viceversa restavano al Sant’Agostino, se diamo credito
ad una descrizione dei locali adibiti all’accoglienza dei dementi risalente al
1803: “Nell’ospedale di Modena sonovi per i pazzi due piccoli malsani locali,
uno a settentrione e l’altro a ponente, i camerini dei quali sono separati da
tante robuste rastrelliere a guisa di capponaie. Tali locali, ben lungi dal costi-
tuire un luogo di cura, riescono invece un luogo di pena, peggiore assai di un
ergastolo, dove i ricoverati divengono in breve scorbutici e muoiono” 252.
Alla vigilia dell’Unificazione, nel 1858, veniva firmata una nuova conven-
zione con la Congregazione di carità modenese, che garantiva agli abitanti
di Modena e del