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VOLUME 1 I classici • Ludovico Ariosto

L’Umanesimo e il Rinascimento Caffè letterario 2.0

CAFFÈ LETTERARIO 2.0

CAFFÈ LETTERARIO 2.0


LUDOVICO ARIOSTO La letteratura e noi

TEMA TRACCIA
Nell’Orlando furioso Ariosto adotta l’ironia per osservare la realtà: la derisione diviene per lui
un modo per giudicare comportamenti e attitudini che gli sembrano vani, non conformi alla
virtù e incapaci di portare felicità.
Comici di ogni genere frequentano diverse trasmissioni televisive e le pagine dei quotidiani
ospitano rubriche fisse di satira… Qual è il ruolo di comicità e satira oggi? Perché esercitano
un’attrazione così forte sul grande pubblico? Si tratta solo di desiderio di evasione o c’è
dell’altro?

TESTI
1. IL COMICO SECONDO HENRI-LOUIS BERGSON
• Il riso ha una funzione sociale

2. LA CONDANNA DEL RISO, SIMBOLO DI CORRUZIONE


• Umberto Eco, Il nome della rosa

3. IL DIRITTO DI SATIRA
• Il diritto di satira è garantito dalla Costituzione
• Dario Fo: la satira risponde al potere con uno sghignazzo

4. MAURICE SINÉ: «IL RUOLO DELLA SATIRA? ESSERE ICONOCLASTA»


• Il disegnatore francese spiega il significato e il ruolo della satira nella società

5. LA SATIRA IN RETE
• Il blog satirico che preoccupa Hugo Chàvez

FILM
5. SCHEDA FILM
• Il grande dittatore di Charlie Chaplin
• Paolo Boschi: un classico della satira antimilitarista

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G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta
Letteratura.it
Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori - Tutti i diritti riservati © Pearson Italia S.p.A.
VOLUME 1 I classici • Ludovico Ariosto
L’Umanesimo e il Rinascimento Caffè letterario 2.0

TESTI

1. IL COMICO SECONDO HENRI-LOUIS BERGSON


Il riso ha una funzione sociale

Le riflessioni di Bergson sulla natura della comicità e del comico sono racchiuse in un breve libro,
intitolato Il riso (1900), destinato a un successo travolgente: ebbe infatti più di sessanta edizioni in
poco più di quarant’anni, grazie anche alla leggerezza dello stile che rende tanto più piacevolmente
leggibile un’opera peraltro assai più impegnativa e ricca di quanto non sembri. Quest’opera si situa
in una fase importante dell’evoluzione del pensiero bergsoniano: si colloca infatti negli anni in cui
da interessi prevalentemente psicologico-filosofici Bergson muove verso una filosofia della vita
orientata metafisicamente. Il saggio sul riso accomuna dunque [...] queste due tendenze della
speculazione di Bergson e rappresenta quindi una possibile introduzione al suo pensiero.
Nelle pagine di questo suo libro, Bergson muove innanzitutto da una constatazione di natura
generale: se il riso è un gesto che appartiene a pieno titolo al comportamento umano, allora deve
essere lecito domandarsi qual è il fine che lo anima. Ora, per comprendere il fine cui mira un
comportamento si deve in primo luogo far luce sulle occasioni in cui accade. E per Bergson vi sono
almeno tre punti che debbono essere a questo proposito sottolineati:
«Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano». Questa affermazione
può lasciarci di primo acchito perplessi: si può ridere infatti anche di un cappello o di un burattino
di legno. E tuttavia, se non ci si ferma a questa constatazione in sé ovvia, si deve riconoscere che in
questi casi il rimando a ciò che è umano gioca un ruolo prevalente e comunque ineliminabile: di un
cappello ridiamo perché vi vediamo espresso un qualche capriccio estetico dell’uomo, così come
nella marionetta l’immaginazione scorge i gesti impacciati di un uomo sgraziato. Alla massima
antica secondo la quale l’uomo è l’animale che ride si deve affiancarne dunque una moderna:
l’uomo è un animale che fa ridere.
Il riso scaturisce solo di fronte a ciò che appartiene direttamente o indirettamente all’ambito
propriamente umano; perché possa tuttavia scaturire è necessario che chi ride non si lasci
coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte. Per ridere di una piccola disgrazia altrui
dobbiamo far tacere per un attimo la pietà e la simpatia, e porci come semplici spettatori o – per
esprimerci come Bergson – come intelligenze pure: «il comico esige dunque, per produrre tutto il
suo effetto, qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore».
Il riso – abbiamo osservato – chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che ci lega a
colui di cui ridiamo. E tuttavia tutti sappiamo che il riso è un’esperienza corale: ridiamo meglio
quando siamo insieme ad altri, ed il riso è spesso il cemento che tiene unito un gruppo di persone.
«Il riso, – commenta Bergson – [...] cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di
complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano».
Non è difficile scorgere la nota che accomuna queste tre osservazioni generali: il riso sembra essere
strettamente connesso con la vita sociale dell’uomo, con il suo essere un animale sociale. Possiamo
allora – seguendo Bergson – far convergere i tre punti su cui abbiamo dianzi richiamato l’attenzione
in un’unica tesi, che getta appunto la sua luce sul quando del riso: «il “comico” nasce quando
uomini riuniti in un gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro
sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza». E se le cose stanno così, se il riso come
comportamento umano sorge nella vita associata, allora si può supporre che esso risponda a
determinate esigenze della vita sociale.
http://www.filosofico.net
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2. LA CONDANNA DEL RISO, SIMBOLO DI CORRUZIONE


Umberto Eco, Il nome della rosa

«Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. È il sollazzo per il contadino, la
licenza per l’avvinazzato, anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del
carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da
altre ambizioni... Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la
plebe [...] Ma qui, qui...» ora Jorge batteva il dito sul tavolo, vicino al libro [il secondo libro della
Poetica del filosofo greco Aristotele, dedicato alla commedia] che Guglielmo teneva davanti, «qui
si ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte, gli si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa
oggetto di filosofia, e perfida teologia [...]. Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché
nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro
potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli
gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo
libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il
capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso
del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre. Che il riso sia proprio dell’uomo è
segno del nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte come la tua
trarrebbero l’estremo sillogismo, per cui il riso è il fine dell’uomo! Il riso distoglie, per alcuni
istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è il timor
di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero
un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per
annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire: ma poi, cessata la
sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da
questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso
l’affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più
provvido, e affettuoso dei doni divini? [...]. Disse un filosofo greco (che il tuo Aristotele qui cita,
complice e immonda auctoritas) che si deve smantellare la serietà degli avversari con il riso, e il
riso avversare con la serietà. La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il diletto
della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e umiliata, e intimorita con la severità. E la
plebe non ha armi per affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà dei
pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle seduzioni del ventre, delle pudenda, del
cibo, dei suoi sordidi desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi
parlando da filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, se alla retorica della
convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione, se alla topica della paziente e salvifica
costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica dell’impaziente decostruzione e
dello stravolgimento di tutte le immagini più sante e venerabili – oh quel giorno anche tu e tutta la
tua sapienza, Gugliemo, ne sareste travolti!» [...]
«Ma se un giorno – e non più come eccezione plebea, ma come ascesi del dotto, consegnata alla
testimonianza indistruttibile della scrittura – si facesse accettabile, e apparisse nobile, e liberale, e
non più meccanica, l’arte dell’irrisione, se un giorno qualcuno potesse dire (ed essere ascoltato): io
rido dell’Incarnazione... Allora non avremmo armi per arrestare quella bestemmia, perché essa
chiamerebbe a raccolta le forze oscure della materia corporale, quelle che si affermano nel peto e
nel rutto, e il rutto e il peto si arrogherebbero il diritto che è solo dello spirito, di spirare dove
vuole!»
Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980.
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3. IL DIRITTO DI SATIRA
Il diritto di satira è garantito dalla Costituzione

Saldamente ancorata a una tradizione millenaria, la satira costituisce la più graffiante delle
manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo, ironia, trasgressione, dissacrazione e paradosso, verte
preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come bersaglio privilegiato i potenti di turno. Anzi,
più in alto si colloca il destinatario del messaggio satirico, maggiore è l’interesse manifestato dal
pubblico. Quella politica, infatti, è di gran lunga il tipo di satira che raccoglie maggiore interesse e
consenso presso ogni collettività.
Essendo una forma d’arte, il diritto di satira trova riconoscimento nell’articolo 33 della
Costituzione, che sancisce la libertà dell’arte. Ma è una forma d’arte particolare. Il contenuto tipico
del messaggio satirico è lo sbeffeggiamento del suo destinatario, che viene collocato in una
dimensione spesso grottesca. La satira mette alla berlina il personaggio al di sopra di tutti,
l’intoccabile per definizione. Esalta i difetti dell’uomo pubblico ponendolo sullo stesso piano
dell’uomo medio. Da questo punto di vista, la satira è un formidabile veicolo di democrazia, perché
diventa applicazione del principio di uguaglianza. Non a caso è tollerata persino nei sistemi
autoritari, fortemente motivati a mostrare il volto “umano” del regime.

www.difesadellinformazione.com

Dario Fo: la satira risponde al potere con uno sghignazzo

La satira è «un atto di rifiuto e come tale non può che essere acceso». La satira è «una
controaggressione che risponde allo smacco del potere con uno sghignazzo che non può essere
elegante». La satira è «nata per mettere il re in mutande». Per questo «il linguaggio della satira non
può che essere virulento, sfacciato, insultante». Sono parole di Dario Fo, indiscusso re della satira,
estrapolate da un’intervista resa a “Micromega” […].
Il pensiero di Dario Fo è volutamente rivolto alla satira politica, quel genere di satira che si
sostanzia in un attacco al potere. L’autore satirico reagisce dal basso ad un discutibile uso del potere
imposto dall’alto. E lo fa con uno «sghignazzo».
Lo sghignazzo cui allude Dario Fo è l’elemento che distingue la satira dalla critica, e che meglio
rappresenta la diversità del linguaggio attraverso cui essa si manifesta. La critica è valutazione
negativa ma lucida, che implica l’analisi di un fatto o di un comportamento. E il suo linguaggio può
essere duro nella misura in cui sia utile a far meglio comprendere al pubblico quella valutazione. La
satira invece deride, sbeffeggia, colloca il personaggio pubblico in una dimensione grottesca. La
satira non vuole valutare, ma mettere «il re in mutande», come dice Dario Fo. Per questo necessita
di un linguaggio che «non può essere elegante».
Il pensiero di Dario Fo trova conforto in una giurisprudenza trentennale, che individua l’unico
parametro di valutazione della legittimità della satira nel “nesso di coerenza causale” tra qualità
della dimensione pubblica del personaggio preso di mira e contenuto del messaggio satirico.
Bisogna cioè guardare a cosa dice l’autore satirico e confrontarlo con la rappresentazione del
personaggio nella società.
Si consideri la qualità della dimensione pubblica come un enorme contenitore di vetro nel quale
confluiscono tutte le informazioni che il personaggio, volente o nolente, si vede attribuire dai media

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nel corso della sua vita pubblica: fattezze fisiche, tic, idee, modo di esprimersi, guai giudiziari,
gaffe, pettegolezzi ecc. Ogni informazione costituisce un frammento, che inserito in quel
contenitore contribuisce a caratterizzare la sua dimensione pubblica. L’autore satirico prende uno o
più di questi frammenti, li cesella, li orna e li ripropone al pubblico. Un’attività “artigianale” che va
ricondotta all’articolo 33 della Costituzione, che sancisce senza limitazione alcuna il principio della
libertà dell’arte («L’arte e la scienza sono libere»). I frammenti così riproposti danno luogo ad un
messaggio satirico che sarà sempre in coerenza causale con la qualità della dimensione pubblica del
personaggio cui quei frammenti appartengono.
In presenza del nesso di coerenza causale, non può avere alcun senso valutare la legittimità della
satira secondo i parametri della verità e della continenza formale, elementi che al contrario si
esigono nella cronaca e nella critica. La satira non soddisfa esigenze informative, né si propone di
analizzare o valutare un comportamento. La satira, come dice Dario Fo, è uno «sghignazzo» cui il
concetto di “nesso di coerenza causale” attribuisce quel senso, quel significato che permettono
all’autore satirico di creare con il pubblico un “circuito d’intesa”, usando un’espressione cara alla
stessa giurisprudenza. E ritenere una satira “volgare” prescindendo dalla valutazione dell’esistenza
di quel nesso significherebbe limitare la libertà dell’arte garantita dall’articolo 33 della
Costituzione. Sarebbe come sostenere che un dipinto è tecnicamente osceno, quindi illecito, a causa
dell’eccessivo uso del colore rosso da parte del pittore. L’unico limite che incontra l’autore satirico
è il non poter “lavorare” un frammento non presente in quel contenitore, ossia da lui appositamente
creato.

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4. MAURICE SINÉ: «IL RUOLO DELLA SATIRA? ESSERE ICONOCLASTA»


Il disegnatore francese spiega il significato e il ruolo della satira nella società

Maurice Sinet, in arte Siné, è un disegnatore e un caricaturista francese. Nato nel 1928, è passato
agli onori della cronaca dopo la pubblicazione, su “Charlie Hebdo”, settimanale satirico francese, di
una vignetta su Jean Sarkozy, figlio dell’ex presidente francese, giocando su una sua supposta
conversione all’ebraismo. Le critiche di antisemitismo suscitate dalla sua cronaca gli sono costate il
licenziamento da parte di Philippe Val, direttore della pubblicazione. Il 10 settembre 2007 ha
lanciato, insieme alla moglie, “Siné Hebdo”, facendo della sua casa nella periferia parigina una
redazione. Gli abbiamo rivolto tre domande.

Cosa vuol dire fare satira?


«Ah, è una domanda difficile. Significa rimbalzare sui tabù, su quello che è sacro, sulle statue…
significa essere iconoclasta».

Ci sono limiti alla libertà d’espressione nel suo Paese?


«Certo, ce ne sono in tutti i Paesi. E le leggi si rinforzano di giorno in giorno. Ma come francese
non mi posso lamentare, in Paesi come Cina o Usa è peggio. E sicuramente in Italia. E comunque in
America ci si può sempre appellare al Primo emendamento».

Qual è il suo ruolo? Si sente un militante o un artista?

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«Un militante. Anche se non sempre è un ruolo troppo efficace. Si tratta di ossigenare il dibattito,
stimolare le persone al dibattito e scuoterle… dire “sono con voi”. Ma ultimamente è piuttosto
come accarezzare la schiena di un gatto o di un cane».

www.cafebabel.it

5. LA SATIRA IN RETE
Il blog satirico che preoccupa Hugo Chàvez
Il presidente venezuelano teme i social network e il sito di tre giovani che sfidano il regime a
colpi di satira e ironia
di Francesco Tortora

MILANO – In un Paese dominato dalla censura e dal pensiero unico, emerge come una voce libera
e ironica. “El Chigüire Bipolar” (“Il capibara bipolare”) è il blog ideato da Oswaldo Graziani,
Alvaro Mora e Juan Andrès Ravell, tre giovani venezuelani che quotidianamente prendono in giro il
leader Hugo Chàvez e gli altri capi di stato sudamericani. Grazie a un saggio uso dei più moderni
social network, i tre blogger hanno rapidamente conquistato gli utenti della rete e, ad appena due
anni dalla sua nascita, “El Chigüire Bipolar” ha un numero di lettori maggiore dei principali
quotidiani locali.
IL SUCCESSO DELL’IRONIA – L’incredibile successo è dovuto principalmente al tono buffo e
tagliente che caratterizza la maggior parte dei post e degli articoli presenti sul blog, molto diverso
dallo stile dimesso e ossequioso osservato dagli organi d’informazione venezuelani. Sembra che la
repentina fortuna del blog abbia cominciato a preoccupare il regime di Chàvez. Dopo aver ordinato
la chiusura di Rctv, canale televisivo critico nei confronti della politica del presidente e aver
revocato le licenze a 34 stazioni radiofoniche «dissidenti», il leader venezuelano sta pensando di
mettere un bavaglio anche alla rete. La settimana scorsa in un’intervista ha sottolineato la necessità
di «controllare» internet e ha consigliato ai suoi concittadini di non usare i social network.
CHÀVEZ E GLI ALTRI – Chàvez è il leader più colpito dalla satira di “El Chigüire Bipolar”. Sul
blog è spesso raffigurato come un capo buffo e comico e i suoi discorsi e le sue prese di posizione
sono accompagnate da musiche beffarde e sarcastiche. Il blog, inoltre, è ricco di video satirici e di
divertenti fotomontaggi che hanno come principale protagonista proprio il leader venezuelano.
Tuttavia “El Chigüire Bipolar” fa satira a 360 gradi e non risparmia nemmeno gli oppositori di
Chàvez. Recentemente sono stati presi di mira gli studenti che protestavano contro il leader
latinoamericano. Più che interessati alla protesta – ha rivelato il blog – molti giovani erano attratti
dalla birra e dalle spiagge venezuelane. Altre vittime della tagliente ironia dei blogger sono gli
estroversi leader latinoamericani. Nei video e nelle immagini taroccate compaiono il presidente
brasiliano Lula, rappresentato come un bon vivant che fuma continuamente e sembra strizzare
l’occhio al potere statunitense, l’argentina Kirchner, raffigurata quasi sempre in bikini e come una
bomba sexy che seduce gli altri presidenti latini e infine il leader iraniano Ahmadinejad,
immortalato in più di una foto mano nella mano con Chàvez. Il blog ha ottenuto il più grande
successo di utenti lo scorso febbraio dopo la pubblicazione del primo episodio de L’isla
Presidencial (“L’isola dei presidenti”). Si tratta di un filmato satirico ispirato alla serie televisiva
Lost che è stato visto da quasi mezzo milione di utenti. I protagonisti del video animato sono i
leader latinoamericani che naufragano su un’isola deserta e qui sono costretti a sopravvivere e
naturalmente a litigare.
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SATIRA E RESISTENZA – Secondo Juan Andrés Ravell è facile comprende il grande successo del
blog e dei video satirici: «Nella maggior parte dei Paesi latinoamericani non esiste la satira politica»
dichiara il ventottenne al quotidiano argentino in lingua inglese “Buenos Aires Herald”. «È naturale
che i cittadini sudamericani siano colpiti dal nostro lavoro». Il collega trentenne Oswaldo Graziani
aggiunge: «Nel nostro continente abbiamo presidenti davvero pittoreschi che quotidianamente ci
offrono materiale sul quale lavorare. Cristina, Evo e Chàvez... sono perfetti per la commedia». La tv
di stato ha più volte criticato «le libertà» che “El Chigüire Bipolar” si concede. Durante la
trasmissione televisiva La Hojilla, il conduttore Mario Silva ha definito i fondatori del blog
«tossicodipendenti che infangano il nome di Chàvez». Più i lettori aumentano, più crescono le
minacce e le ingiurie. Tuttavia ciò non sembra preoccupare i tre giovani blogger. Al “New York
Times” Oswaldo Graziani ha ripetuto di non temere la censura: «È difficile per chiunque
combattere contro la supremazia dell’umorismo» ha dichiarato fiducioso il giovane blogger.

www.corriere.it/esteri

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FILM

6. SCHEDA FILM
IL GRANDE DITTATORE DI CHARLIE CHAPLIN

Titolo originale: The Great Dictator


Luogo e anno di produzione: USA 1940
Regia: Charlie Chaplin

Interpreti principali:
Charlie Chaplin: Barbiere ebreo/Adenoid Hynkel
Paulette Goddard: Hannah
Jack Oakie: Bonito Napoloni

Paolo Boschi: un classico della satira antimilitarista


Protagonista del classico chapliniano, il primo film in cui il geniale regista americano, già autore di
capolavori del muto come La febbre dell’oro e Tempi moderni, decise di avvalersi del sonoro, è un
piccolo barbiere ebreo reduce dal primo conflitto mondiale, colpito da amnesia in seguito ad un
incidente e ricoverato in un ospedale psichiatrico: uscito anni dopo, lo smemorato protagonista (che
crede siano passate solo poche settimane dal suo ricovero) trova la sua nazione, la Tomania, sotto il
regime di Adenoid Hynkel, un cattivissimo dittatore che ha promulgato severe leggi razziali contro
gli ebrei ed è fortemente intenzionato a dichiarare guerra al mondo intero. Fuggito da un campo di
concentramento grazie alla sua straordinaria somiglianza con il grande dittatore, il barbiere riuscirà
a sostituirsi a quest’ultimo e pronunciare, invece dell’atteso discorso per l’invasione dell’Ostria, un
sentito appello alla pace nel mondo ed una difesa appassionata dei valori della libertà e della
democrazia.
Sia il barbiere che il dittatore, cesellato sulla figura di Adolf Hitler, costituiscono le due facce
opposte dell’onnipresente medaglia di Charlot. Da un inizio con il dialogo ridotto al minimo, si
giunge fino all’apoteosi finale della parola, con una lunga perorazione-fiume imbevuta di sincera
retorica che cala il sipario sull’idea di guerra totale in modo, purtroppo, poco realistico. Molte le
sequenze divenute celebri: la performance di rasatura col sottofondo della Danza ungherese n. 5 di
Brahms, l’esilarante comizio iniziale di Hynkel, il dittatore in delirio d’onnipotenza che gioca col
mappamondo, l’esilarante incontro tra Hynkel e Napoloni, dittatore di Battalia, efficace caricatura
di Benito Mussolini. [...] Come spesso è successo ai capolavori nella storia degli Oscar, Il grande
dittatore ricevette quattro nominations senza vincere nessuna statuetta, ma Chaplin fu compensato
dal grande successo di pubblico riscosso dal suo film. Una farsesca denuncia della barbarie
nazifascista che diverte e mette i brividi allo stesso tempo, innescando sani germi di riflessione anti-
bellica: un classico di satira politica ancora oggi straordinariamente attuale.

www.scanner.it

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