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LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO


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PREMESSA

- luogo precipuo della celebrazione del mistero cristiano è la liturgia.

- vediamo quale lingua parla la liturgia. Se, infatti, non ci si sintonizza e non si capisce che lingua si
parla, è ben difficile che ci si intenda. Si rimane su piani distinti e quello che si vuole comunicare
resta molto parziale, incompleto.

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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1) facciamo un’annotazione che tocca il cuore di tutte le nostre future riflessioni: la liturgia è
relativa all’azione, non al concetto; al verbo, non al sostantivo, al corpo non alla mente, all’aspetto
dinamico dei suoi elementi e non a quello statico.

- Una visione statica, mentale, concettuale, ha approcciato la liturgia come qualcosa di ripetitivo,
di immobile, di definito, letto soprattutto attraverso la mentalità giuridica delle distinzioni tra
essenziale/accessorio, principale/secondario, valido/invalido, lecito/illecito, materia/forma, ex
opere operato/ex opere operantis.
Per cui: posto il minimo sufficiente si aveva la produzione di un sacramento con tutti i suoi effetti;
e viceversa, tolto o modificato quel minimo il sacramento non veniva confezionato.

- Non basta l'osservanza normativa per la verità del celebrare. Essa da un lato è un punto di
partenza da non eludere sbrigativamente, (come spesso si fa) e dall'altro da 'completare', da
portare a compimento, tale che vi sia culto 'in spirito e verità'.

- La celebrazione è composta da moltissimi elementi che non possono essere ridotti o ricondotti
unicamente all'interpretazione giuridica, a rischio di un forte depauperamento dell'azione
liturgica.

- Non si tratta di una 'esclusione’ del dato giuridico o 'ribellione’ al dato giuridico. Tutt’altro! Si
tratta invece di portare a compimento la lettera che per se stessa è morta e non può dare la vita.

- Si capisce che la domanda del ‘si può?’, ‘non si può?’ è sì legittima, ma non è essenziale alla
completezza della liturgia (è solo uno dei tanti aspetti e, spesso, neppure il più importante).

2) il fare nella/della liturgia non è, poi, la semplice esecuzione del ‘programma rituale’ già
predeterminato (il programma rituale risponde alla domanda ‘che cosa si deve fare?)
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- Il fare nella/della liturgia necessita di un ‘fare con arte’, cioè è l’esecuzione del ‘programma del
rituale’ (il programma del rituale risponde alla domanda ‘perché si deve fare quel qualcosa?, qual
è il senso di un certo e determinato agire?)

- Il ‘programma del rituale’ è qualcosa in più rispetto al ‘programma rituale’; è la radice profonda,
il senso del ‘programma rituale’. Perché la liturgia non sia semplice esecuzione rubricistica (seppur
esatta) non basta l’esecuzione corretta del ‘programma rituale’ (di ciò che è stabilito si faccia), ma
è essenziale che si comprenda e si attivi il ‘programma del rituale’, cioè si comprenda il perché è
chiesto di agire o di non agire in un certo modo.

3) una possibile definizione di liturgia: il Mistero, celebrato nell’azione, per la vita.

- Spesso si riduce la liturgia al solo momento dell’esecuzione di un rito! Questo è errato.

- La liturgia riguarda il mistero, riguarda l’azione (la celebrazione - celeber actio), riguarda la vita.
Questi tre elementi come in un insieme!! Il momento centrale è la ‘celeber actio’, in essa si
incontrano il mistero discendente e la vita che ne deriva.

- Si capisce subito quanto il sapere di liturgia, dev’essere un sapere interdisciplinare:

s. scrittura – dogmatica – ecclesiologia –


cristologia – pneumatologia – escatologia –
MISTERO
teologia fondamentale – mariologia –
antropologia teologica – trinitaria - …

liturgia - sacramentaria – simbolica – linguistica


– diritto liturgico – architettura –
CELEBER ACTIO fenomenologia esperienza religiosa –
ermeneutica linguistica – estetica – arte
(celebrazione) floreale – musica – teologia anno liturgico –
eucologia – liturgia e antropologia – libri
liturgici - …

morale – etica – psicologia – sociologia –


catechetica – diritto – teologia pastorale –
VITA
teologia vita cristiana – teologia spirituale –
filosofia – storia religioni - …

- La liturgia è realtà e concetto molto più esteso del semplice approccio cerimoniale, letto con il
criterio prevalente del facoltativo / obbligatorio. La liturgia è più del rubricale (ben oltre il puro
necessario pastorale, ben oltre il funzionale, ben oltre lo spirituale individuale, …).

- La liturgia è insieme scienza e arte.


Cioè: va imparata con un sapere scientifico (scienza); e va imparata con un sapere partecipativo
(per diventare un’opera d’arte).
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4) il modo basilare / fondamentale per leggere la liturgia in modo corretto è di interpretarla come
una lingua (linguaggio).

- La liturgia si comporta, né più né meno, come una lingua. Ha un suo vocabolario, una sua
grammatica, una sua sintassi.

. il vocabolario: i vocaboli, cioè gli elementi, i mattoni che servono per costruire una lingua
. la grammatica: le regole da usare per incastrare tra loro i vari elementi, i vocaboli
. la sintassi: l’ordine nell’uso degli elementi (una volta che essi sono stati regolati)

- Per la liturgia, questo significa:

. vocabolario: avere degli elementi (e non altri e non tutti!) che sono propri del suo
mondo.

. grammatica: usarli in modo appropriato: secondo delle regole e canoni precisi


(come nella grammatica della lingua italiana ‘io’ e ‘mio’ non sono la stessa cosa, pur avendo un
riferimento stretto al ‘soggetto’; così nella liturgia non posso far uso un elemento al posto di
un altro anche se simile)

. sintassi: unirli insieme in una dinamica che abbia senso


(sintassi: si tratta del criterio, della logica da seguire per incastrare fra di loro i vari vocaboli
allo scopo di formare una frase in modo che questa abbia una struttura di senso; es: soggetto,
verbo, predicato).

5) la liturgia è azione agìta in spazi e tempi, in modi e con oggetti che ne mettono in evidenza
la sostanziale natura simbolico-rituale.

- Il linguaggio parlato dalla liturgica è di natura simbolico-rituale, e ciò comporta la messa in


gioco di codici e di registri del tutto particolari che non sono quelli consueti dell’esperienza
umana, ma quelli propri dell’esperienza religiosa.
L’esperienza religiosa è tale da non poter essere descritta e codificabile come una qualsiasi
altra esperienza ed esige l’intervento di linguaggi e contesti di azione del tutto particolare.

6) ciò che fa ancora molto difetto nell’attuale realizzazione delle nostre liturgie è il mancato o
ridotto uso del corpo.

- Il corpo è il luogo inaggirabile e necessario di relazione con Dio e con il prossimo. Il corpo è il
punto espressivo dell’incontro dell’azione di Dio verso l’uomo e dell’agire dell’uomo verso
Dio.

- Nella liturgia il corpo è la forma / modo con cui entriamo in essa. Ciò significa, in sostanza,
che o entriamo nella liturgia anche col corpo, oppure vi rimaniamo irrimediabilmente fuori (la
liturgia è nell’ordine dell’azione [urghìa] e non nell’ordine del discorso / concetto [loghìa].)

- la liturgia ha bisogno di essere assunta dai corpi oltre che dalle menti. Nelle nostre liturgie,
purtroppo, l’uso del corpo è abbastanza rarefatto e stilizzato. E viene rarefatto e stilizzato ciò
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che dal corpo deve essere percepito e partecipato [es. uso dell’acqua battesimale senza
bagnarsi o dell’incenso senza profumare!]

- si celebra con il ‘corpo vissuto’; con la totalità del proprio essere e del proprio agire situato
nel tempo e nello spazio.

7) il fattore estetico della liturgia. Le cose liturgiche e le azioni liturgiche devono essere
percepite sensibilmente e non solo intellettualmente.
(C’è un falso concetto di simbolo che tende a far diventare simbolo tutto ciò che può venire
sintetizzato, abbreviato, accorciato, spiritualizzato, spiegato …)

- il rito è depositario di una forza simbolica che viene puntualmente persa nel momento in cui
l’azione non è sufficientemente percepita sensibilmente. [si pensi per esempio alla mancata o
ridotta comunicazione dovuta all’uso improprio o difettoso degli impianti di amplificazione]

8) un dato di fatto: il rapporto tra spiritualità e liturgia, tra interiorità ed esteriorità, tra
spirito e corpo è vissuto in modo conflittuale.

- vi è oggi un’incapacità di fondo da parte del credente di dare forma ed espressione alla
propria fede (è un dato di fatto! qualcosa di più grande di noi!). Tale incapacità nella liturgia è
sentita come un disagio: i riti sono percepiti solo come dovuti (obbligatori) ed, eventualmente,
solo come utili in rapporto a un fine da raggiungere (si pensi alla messa a cui si partecipa per
ottenere un favore da Dio o una grazia).

9) per questo che è fondamentale porsi una domanda (tripla) da non eludere:

Che cosa si celebra? Perché si celebra? Come si celebra?

- si tratta di domande radicali. Si intende, infatti, di liturgia solo colui che sempre e da capo si
interroga a proposito dei riti; meglio: di Colui verso il quale i riti hanno il compito di rivolgere
l’animo dell’uomo.

- ci fermiamo soprattutto sul perché e sul come si celebra. Il che cosa si celebra, cioè il Mistero
di Cristo, è sviluppato sotto altri punti di vista dalle varie discipline del corso di formazione.
(Diciamo, tuttavia, che nella liturgia non si celebrano mai le ricorrenze o gli accadimenti che
riteniamo importanti, le persone, o altro; bensì solo e sempre il Mistero di Cristo che traspare
da / in tali eventi. Anche nelle feste dei santi noi non celebriamo mai il santo stesso, bensì il
Mistero di Cristo che in un esso si è realizzato).

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PERCHÈ SI CELEBRA
- Perché è necessario per noi che la nostra fede sia vissuta e sperimentata nella liturgia?
Perché è necessaria la celebrazione del mistero di Cristo?
(la risposta è articolata:)

- In concreto noi:
. compiamo un'azione rituale
. che utilizza un certo tipo di linguaggio (simbolico)
. che vuole renderci partecipi di un'esperienza particolare di fede (: esperienza
religiosa)

1) L'ESPERIENZA RELIGIOSA

- La nostra esistenza ha elementi di ambivalenza. Si riscontrano due poli: la determinazione e


l'indeterminazione, passato e futuro; possesso e desiderio; certezza e dubbio; …

- In una medesima esperienza, normalmente, i due poli non sono mai dati
contemporaneamente. Nella realtà, l'esperienza vede normalmente realizzarsi / emergere
uno solo dei due poli.

- Mentre, nell'esperienza religiosa si dà la compresenza di due poli:


vi è una certa esperienza concreta che si fa (immanenza – umano)
che rimanda a qualcos'altro (trascendenza – divino)
[in ogni celebrazione deve essere percepito che vi è una parte
concreta/reale (umana – immanente) che rimanda a qualcos'altro
(divino – trascendente)]

- Nell'esperienza religiosa l'umano e il divino si danno insieme. Quando il divino irrompe


nell'umano, si ha la creazione dell'esperienza religiosa, vale a dire, l'unione di ciò che
normalmente non potrebbe stare insieme.

- Tale incontro / unione tra Dio e l'uomo, tra immanenza e trascendenza, non diventa fusione
dei due aspetti.

- I due poli rimangono quello che sono e non vengono fusi a creare una terza realtà: c'è
l'insolita co-presenza di cose che si oppongono radicalmente.

- Anche nell'esperienza cristiana il trascendente irrompe nell'esperienza reale => l'azione


della trascendenza non può essere decisa o voluta dall'uomo. È sovrana in sé, va al di là della
volontà, dell'intelligenza, e della ragione umane (vedi episodio di Mosè e del roveto ardente).

- La trascendenza divina, quando si manifesta, ricorre a linguaggi e azioni peculiari e non è


descrivibile come qualsiasi altra esperienza.
[si è sempre preceduti/chiamati => consapevolezza previa alla
celebrazione. Consapevolezza remota, ma anche prossima.
Non la si può dare per scontata. Non si può frettolosamente
derogare a questo aspetto.
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(silenzio previo; monizioni adatte. Cioè: gli elementi


introduttivi sono importanti!)]

- Non tutti i tipi di linguaggio che l'uomo utilizza sono adatti all'esperienza religiosa che adotta
questa dinamica bi-polare. Per questo l'esperienza religiosa utilizza il linguaggio simbolico
che è l'unico in sintonia con la dinamica bi-polare.

- Come il sacro non può darsi che nel simbolo e nel rito, così la fede cristiana non può darsi
senza la celebrazione liturgica. La chiesa celebra perché crede, ma anche crede perché celebra.

2) IL LINGUAGGIO SIMBOLICO

- Normalmente l'uomo utilizza il linguaggio per 'esprimere' e per ‘dare’ significato alle proprie
esperienze.

- Livelli diversi di linguaggio, infatti, aprono a livelli diversi di realtà e di comprensione,


dicono e significano cose diverse.

- Uno dei linguaggi che l'uomo conosce è quello simbolico.


(durante la celebrazione, che è momento di esperienza religiosa, momento di dinamica bi-
polare, il linguaggio simbolico è il linguaggio che permette di esprimere il significato di tale
esperienza religiosa e di darle significato)
[una cosa a cui non si può derogare facilmente: che ci sia spazio
e tempo per realizzare la dinamica bi-polare, segnica e simbolica.
La fretta non permette la realizzazione dei simboli]

- Quando parliamo di linguaggio simbolico, parliamo di un linguaggio che ha come struttura


base, come DNA, come denominatore comune, come dato imprescindibile, il segno.

- Infatti, il segno si compone di due parti:

. una esterna / sensibile / percepibile / materiale: il significante


. una concettuale / mentale: il significato

=> il segno è l'insieme di queste due parti (non come erroneamente spesso si fa, considerando
segno solo il significante)

- Il segno, poi, (significante + significato) rimanda ad un referente, ‘fa riferimento’ a


qualcos'altro. Il segno ha un suo punto di riferimento dal quale prende senso.

[es: cartello stradale significante: una certa forma e colore concreti


significato: fare una certa azione
referente: volontà del legislatore (il riferimento è…)

sorriso in volto significante: sorriso fisico attraverso le fattezze facciali


significato: la persona è contenta / felice
referente: la gioia (il riferimento è…)]
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- Nel segno vi è 1 significante e 1 significato; per cui, perché un segno comunichi qualcosa è
necessario che gli interlocutori condividano la relazione che c'è tra significato e significante. E
ciò è garantito e supportato dal cosiddetto ‘codice’, che è la struttura comune che deve essere
posseduta dagli interlocutori che utilizzano il segno (nel caso del segnale stradale, il codice
comune è il ‘Codice Stradale’).

- Ma vi può essere 1 significante e 2 (o più) significati; cioè due tipi di significato attribuiti allo
stesso significante.
Come possono allora intendersi gli interlocutori davanti a quel determinato simbolo che
utilizzano? Quando vi sono, con un solo significante, due o più significati, qual è da intendere
come appropriato? Qual è il referente esatto? Come è possibile che mittente e destinatario
siano in sintonia così da poter cogliere la relazione che vi è tra significante e significati?

- : Se nel segno bastava un codice comune tra mittente e destinatario, nel simbolo questo non
basta. Vi deve essere un'intesa che va oltre il codice; è necessaria un’intesa ‘previa’: il mittente
deve essere in rapporto di intesa 'prima' del messaggio da comunicare e 'oltre' il codice di
interpretazione.

. Nel segno, il significato viene da ciò che è espresso/detto. Nel simbolo, il senso viene prima di
ciò che è espresso/detto

- L'aspetto più importante è in ciò che viene 'prima' della parola, in ciò che rimane nel silenzio.
Il senso simbolico è legato all'intesa silenziosa tra chi parla e chi ascolta.

- È per questo che il simbolo non lo si può mai fissare in una struttura, ma presuppone un
contesto vivo in cui gli interlocutori (parlante e ascoltante) garantiscano quell'intesa da cui
emerge il simbolo.
[questa è una frontiera nuova di cui bisogna avere il coraggio di
appropriarsi; anche poco per volta. Nell'ambito liturgico è errato
continuare a fissare i significati dei vari segni liturgici quasi
che essi significhino quanto si riesce a dire e a scrivere, e
basta. La significazione è qualcosa di dinamico, di vivo, di
vissuto; richiede, per la sua verità, di essere vita vissuta.]

- Il linguaggio simbolico, poi, presuppone sempre un contesto di scambio, quindi una pluralità
di persone
=> il simbolo è qualcosa di intersoggettivo: importante è la relazione con l'altro: è necessaria
la presenza di qualcosa che sia ‘altro’ da me.
[intersoggettività del linguaggio: importante la gestione del
rapporto/relazione con l'altro. Anche questo è un ambito di
educazione personale e comunitaria]

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Ci chiediamo allora:

- In quale contesto si può mettere in contatto effettivo un significante con un significato?


In quale contesto avviene un effettivo collegamento tra il significante e il significato?

- In quale contesto si realizza la 'relazione' tra il detto e il non detto, tra l'espresso e il non
espresso, tra il quotidiano e il trascendente?

- : il contesto in cui si può realizzare la bi-polarità del segno / simbolo è quello della
celebrazione.
Infatti, essa utilizza al suo interno, come suo linguaggio peculiare, quello simbolico.
Essa raccoglie le varie azioni con cui si realizzano i segni e i simboli in quello che chiamiamo
RITO / AZIONE RITUALE.

3) L'AZIONE RITUALE

- Azione rituale: azione che esce dalle consuetudini della vita ordinaria (dove non c'è bi-
polarità) => azione che inserisce l'uomo in un comportamento diverso / altro.

- L'azione rituale rispetta la bi-polarità dell'esperienza religiosa: mette in co-presenza il


divino e l’umano; il tempo (passato, presente e futuro); lo spazio (il qui e l’oltre)

- L'azione rituale è, normalmente, un susseguirsi di azioni, comportamenti, gesti e simboli; si


presenta, normalmente, come un processo: un processo rituale.

- In tale processo si susseguono tre parti:


. fase di separazione dei partecipanti al rito dalla vita normale di prima
. fase liminale in cui i separati compiono certe azioni
. fase di riaggregazione in cui i separati si reinseriscono nella vita ordinaria

- L'azione rituale che noi conosciamo è la celebrazione: l'atto di rivolgersi all'evento storico-
salvifico attraverso un modo rituale di gestire quell’evento.

- => Nel momento in cui l'esperienza religiosa intende darsi, essa abbisogna di un linguaggio
simbolico che trova nel processo rituale chiamato celebrazione il suo ambiente proprio.

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- Vediamo ora alcune caratteristiche di questa azione rituale:


. dimensione interpersonale
. dimensione spaziale
. dimensione temporale

Vale a dire che il rito implica una inter-relazione, uno spazio e un tempo per poter essere
agito.
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a) Dimensione interpersonale

- Questa dimensione, propria dell'azione rituale, dice che in essa sono accentuati l'esteriorità e
la corporeità, piuttosto che l'intimità (intimismo).

- L'azione rituale richiede la spiritualità delle 'azioni compiute col corpo e con gli altri' (=> non
più solo il pensiero e l'interiorità). Non esiste il rito ‘da soli’.
Il rito diventa il luogo dell'interazione dei corpi.

- Le persone che si riuniscono in un contesto rituale compiono azioni senza alcun ‘prodotto’,
azioni che non producono nulla di ciò che in altri contesti viene ritenuto utile. Da questo punto
di vista, il rito non serve (si pensi al pranzare insieme per la semplice gioia di stare insieme, di
ritrovarsi, di condividere una gioia, un ricordo, una ricorrenza… nulla di utile! Ma solo di
gratuito, di festoso!...; si potrebbe dire: a cosa serve un tale pranzare insieme, a che pro, per
quale utilità?: direttamente, proprio a niente, ma serve moltissimo tener in piedi questo modo
di fare gratuito!!)

- Questa in-utilità del rito è proprio ciò che lo rende prezioso. Il lavoro in cui si è impegnati
quotidianamente si fonda su un progetto produttivo e utilitaristico. Nel rito non vi sono
prodotti, non vi sono utili.

- L’inutilità del rito è, in un certo senso, simile all’inutilità dell’uomo. Il rito, come l’uomo, non
vale perché serve a qualcosa; esso vale semplicemente perché è, perché esiste.

- Per questo motivo, ciò che interessa incontrare nel rito è l’altro – l’Altro. Io sto di fronte agli
altri – all’Altro. E questo atteggiamento del corpo che si traduce in modalità diverse,
(compiere un gesto, camminare insieme, porgere un oggetto, dialogare, scambiarsi la pace…),
ha il suo senso più profondo non in questo o quel significato specifico, ma nel fatto stesso si
essere azione che dice il mio stare di fronte agli altri.

- Il linguaggio dei gesti, così importante per la simbologia rituale, non è un sostituto goffo della
parola, ma una parola più originaria del suono, una parola che dice nel silenzio perché non ha
lo scopo di produrre informazioni. Il senso verso cui si muove il gesto è quello di un
riconoscimento reciproco, di una comunione.
[questo è un altro recupero da effettuare: quello di una sana
relazione interpersonale tra i partecipanti; per cui va
presupposta e costruita:
. una conoscenza reciproca dei partecipanti al rito (fedeli tra
loro e fedeli con i ministri)
. gestualità, movimenti, spazi celebrativi: va costruita una
ritmica di alternanza (in questo è importante il canto visto che i
momenti di movimento per l'assemblea sono ridotti. E vanno
promossi adeguatamente ed educati bene i movimenti già
previsti)Ritmi di canto e di gestualità, e spazi (topografici) che
permettano la reciprocità tra i fedeli
. incontro pre e post celebrativo: accoglienza e congedo]

- Il gesto rituale mi rivela che lo 'stare di fronte' è, fondamentalmente, uno 'stare con' chi è di
fronte. L’altro conta non per quello che fa o produce, ma per quello che è… nella fede.
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b) Dimensione spaziale

- Il contesto rituale implica sempre un limite spaziale.

- La vita quotidiana è, normalmente, il luogo, lo spazio dell'utile e del produttivo. Il rito esce da
questa forza gravitazionale dell’utile e del produttivo per giungere al luogo dell’inutile e
dell’improduttivo: al luogo del gratuito. I riti sono 'riti di passaggio' anche perché devono
compiere questo passo.

- Se il mondo dell’utilità ha un luogo, vi sono anche luoghi alternativi per il gratuito, dove lo
stare insieme non è motivato dal guadagno ma dal 'consumo'. Un dono è qualcosa che è stato
prodotto per essere consumato.

- Lo spazio del rito, come quello del dono, è uno 'spazio di consumo' non di produzione.

- Il luogo tipico del rito che chiamiamo ‘tempio’ è uno spazio consumato dall’occhio che ne
contempla le forme, dall’orecchio che ne percepisce la risonanza o dai passi che ne misurano
la profondità e l’orientamento. E, se non è il tempio, è il modo di disporsi dell’assemblea
celebrante a modellare lo spazio consumato; un disporsi che non è condizionato dalla
necessità di conseguire un risultato 'oggettivo’, ma dalla consapevolezza di vivere un
momento di libertà.
[per tanta parte della spiritualità, il rito, ancor oggi, vuol
dire prima di tutto produrre qualcosa. Educare all'arte della
gratuità non è semplice, fondamentalmente perché si è abituati a
vedere in quest'ottica il rapporto con Dio]

- L’atto del consumare è un atto di libertà e un’esperienza di felicità. Se l’uomo perdesse la


capacità di produrre diventerebbe povero, ma se perdesse la capacità di consumare
diventerebbe infelice.

- Potremmo dire che la ritualità è soprattutto quest'atto di libertà di consumare.


[le 'cose' liturgiche vanno consumate. Il minimalismo nell'uso e
nel consumo non è un criterio liturgico]

(Tutt’altra cosa dal consumare, però, è il consumismo in cui avviene la degenerazione del
dono in costrizione del dono. ‘Devo’ regalare o ‘devo’ farmi dei regali. Il consumo rituale,
invece, libero dalla costrizione, dischiude gli spazi della libertà)

c) Dimensione temporale

- Il contesto rituale implica anche un suo tempo.

- Il tempo dell’uomo è spesso il ‘quotidiano’, ossia il tempo dell’ ‘impegno’, il tempo del
‘mercante’. La ferialità del tempo, però, prima o poi si interrompe; il ‘negotium’, prima o poi,
perde l’elemento negativo e diventa ‘otium’.

- Ed ecco il giorno di festa che è fondamentalmente ciò che non è o non può essere il giorno
feriale. La festa è la trasgressione della feria, e, più precisamente, è il piacere di trasgredire la
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realtà a cui siamo inesorabilmente chiamati tutti i giorni: nei giorni feriali si lavora perché si
‘deve’ lavorare; nel giorno festivo si fa festa perché ‘piace’ far festa.

- Il rito è fondamentalmente il tempo della festa, dove il piacere del cambiamento viene
declinato come celebrazione della differenza e della trascendenza.

- Se si vuole accedere a questa trascendenza con una celebrazione che ha dimenticato il


piacere festivo, allora il rito diventa noioso e insopportabile.

- La trascendenza divina e il tempo della sua celebrazione non sono un impegno etico: quella
trascendenza e quel tempo sono 'altro' da tutto ciò che appartiene all’ordine dell’impegno in
cui realizziamo un determinato progetto morale.

- Su questo punto si gioca l’ambiguità del rito, che può venire inteso come cerimonia o come
celebrazione. Quando un rito ci appare noioso, pesante, probabilmente ci troviamo di fronte a
una cerimonia, in cui si ripete l’identico, dove so già tutto e mi appresto a ridire quello che so
già. La celebrazione, invece, ripete la differenza, come movimento del soggetto verso la
sorpresa.
Non so ancora tutto; non saprò mai tutto.

- Un rito noioso che parla di un Dio identico a ciò che di lui abbiamo già imparato ci rende
cerimoniosi verso le nostre proiezioni religiose. Qui, Dio è identico al nostro rappresentarcelo
prima di averlo incontrato. Contro questo Dio identico alle nostre proiezioni, il rito festivo ci
dona il tempo in cui celebrare Colui che sconvolge le nostre proiezioni e previsioni.
[al lavoro si può obbligare, a far festa no!!
Per cui, se c'è qualcosa da educare nel profondo in noi e negli
altri, è il 'senso della festa', la capacità di gioire, di
'passare' dal feriale al festivo.
Una semplice messa in opera di elementi decorativo-festivi non
crea, non genera di per sé la festa.
.Una prima cosa nella festa è il sorriso
.Una seconda cosa è il prendersi tempo
.Una terza è la luminosità dei luoghi (aspetto della luce/colore)
e la luminosità e la trasparenza dei cuori
.Una quarta cosa è la differenza: ci si deve sufficientemente
accorgere, ci deve essere differenza percepibile e sostanziale tra
quotidiano e festivo
.Una quinta cosa: il piacere di agire e nell'agire cose belle,
nell'agire le belle cose]

- Il rito, dunque, svolge un ruolo strategico, grazie alle sue caratteristiche che lo distinguono
sia dal giorno feriale sia dalla cerimonia. In esso si opera una specie di capovolgimento: nel
contesto rituale la vita quotidiana si interrompe.

Avviene una sospensione del tempo reale per riscoprire il 'tempo del piacere'. Un piacere
molto forte immette in un presente senza tempo e ci lascia senza parole. Il tempo del rito e
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della festa appartiene all’ordine del piacere; esso, infatti, abbandona il tempo reale
(quotidiano) e, soprattutto, ci fa fare silenzio per poterci parlare di una realtà che non
sappiamo esprimere.

Il rito è una parentesi nell'ordine della necessità.

4) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE:
LA LITURGIA CRISTIANA COME INCONTRO E COME PARTECIPAZIONE

- All'interno della celebrazione i significanti (segni – simboli) e l'azione simbolica (azione


rituale) mantengono vivi rispettivamente il linguaggio dell'incontro e quello della
partecipazione.

a) Incontro

- Attraverso il pensiero si 'conosce' e attraverso la vita si 'incontra'. Conoscenza e incontro


sono due tematiche fondamentali della fede e del linguaggio di fede, che non possono essere
separate. Una serve all'altra.

- Quando Dio si manifesta non c'è subito conoscenza, ma incontro ('venite e vedete'). Il
Mistero di Dio è sotto forma di manifestazione, piuttosto che di comprensione e conoscenza.

- Nel modo comune di pensare, la conoscenza precede la comprensione: io posso


comprendere solo ciò che conosco.

- Nel contesto religioso si ha un mutamento: è comunicato ciò che non si comprende (il
Mistero si comunica integralmente al fedele, ma non è conoscibile integralmente dal fedele).

- Pertanto, nell'ordine della fede, l'incontro avviene anche senza piena conoscenza.
Ciò che è basilare è l'incontro!

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- L'incontro, nella liturgia, lo realizziamo attraverso il significante simbolico.


Il simbolo è capace di veicolare molteplici significati, secondo diversi livelli di profondità.
Il pregio del simbolo è di non esaurire il significante.

- Perché un linguaggio simbolico comunichi dei significati è necessario che sia preservata la
fisicità del significante. Se attraverso il concetto si tentasse di superare la fisicità il simbolo si
cederebbe al pensiero piuttosto che all'incontro.
[si assiste spesso al tentativo, più o meno riuscito, di
concettualizzare i gesti/segni/simboli e di ridurre al minimo
(forse al di sotto dell'indispensabile), di stilizzare
eccessivamente la fisicità degli elementi liturgici]

- Quando parliamo di linguaggio simbolico parliamo anche del tempo, che, come tale, esige i
due aspetti del divenire e della stabilità:
. divenire: successione di passato / presente / futuro
. stabilità: qualcosa che rimane se stessa al di là del trascorrere del tempo

- Aspetti questi che sono presenti nel simbolo:


. il significante è caratterizzato da stabilità / staticità (il significante è sempre identico
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. il significato è caratterizzato dal dinamicità / divenire (il significato del simbolo è


molteplice e può cambiare)
[il prurito per la ricerca di segni/simboli nuovi (soprattutto
durante il momento dell’offertorio della messa) per dire cose
nuove e diverse ha messo in evidenza non la loro significanza, ma,
spesso, la loro insignificanza. Ciò è legato anche all'instabilità
dei loro significanti e significati; instabili perché soggetti a
umori, mode e improvvisazioni]

- Il referente primario dei simboli liturgici è la S. Scrittura

- Nella liturgia la Bibbia non è utilizzata solo concettualmente (es: come esegesi), ma
soprattutto simbolicamente, cioè come significante, come incontro, come lode piuttosto che
come catechesi.

- Nella liturgia la Scrittura diventa fisicità: si fanno azioni di dizione, di proclamazione; si


agiscono azioni concrete con il ‘Libro delle Scritture’. Nella liturgia essa è ‘testo’, inchiostro su
carta, libro da vedere e leggere/proclamare.

- La Parola, al di là dei contenuti che di volta in volta può comunicare, viene sempre
ritualizzata: viene sempre mantenuta e ripresa. Per cui, nella liturgia, è la Scrittura che è sacra,
non il concetto biblico o l'esegesi!! La Scrittura è prima di tutto corpo, piuttosto che sistema di
pensiero!

- Per la liturgia, la S. Scrittura è anzitutto un gesto: dare/ricevere; proclamare/ascoltare;


vedere/ascoltare; procedere/stare.

- È nel significante stesso della Scrittura che Dio ci viene incontro e noi lo incontriamo. Il fatto
che la liturgia operi simbolicamente sulla Scrittura, fa si che essa sia mantenuta a livello di
significante primario.

b) Partecipazione

- La liturgia non è soltanto incontro, ma anche 'partecipazione' a tale incontro.

- L'incontro, che è il modo originario della fede, necessita della partecipazione che è la
permanenza nell'incontro. La fede in Dio si fonda sull'incontro e sulla partecipazione; e la
liturgia mantiene queste due dinamiche ricorrendo ai linguaggi simbolici e rituali.

- Per comprendere il significato della partecipazione bisogna considerare il fenomeno del


teatro.

- In esso si distingue il: palcoscenico e la platea

spazio dell'attore spazio dello spettatore

- In questa distinzione (palcoscenico – platea) è fondamentale il criterio della


‘rappresentazione’, secondo cui il punto di vista della scena è esterno alla scena stessa: l'attore
è in funzione dello spettatore. L’attore fa la rappresentazione di qualcosa.
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- => vi è una supremazia della conoscenza sull'azione: è lo spettatore che decide del valore
della scena!

- É per questo che, ultimamente, nel teatro la scena tende ad invadere gli spazi dello
spettatore (e nello spettacolo le scene sono sempre più ‘impressive’, avvolgenti, coinvolgenti)
allo scopo di rendere l’azione più forte della conoscenza e non dover dipendere dalla
valutazione dello spettatore.
É il tentativo di superare la rappresentazione, a favore del criterio della 'partecipazione':
attori e spettatori sono all’unisono coinvolti all'unica scena teatrale.

- Tutto questo non è indifferente per la relazione tra azione e percezione, tra azione e
conoscenza.

- Nella rappresentazione, lo spettatore è fuori dalla scena. Nel caso della partecipazione,
invece, lo spettatore si trova all'interno della scena. E un teatro senza spettatori è
propriamente un rito!!

- Il rito immette nell'esperienza, non è semplicemente uno sguardo esterno: il rito non viene
compiuto da alcuni per altri, ma da tutti per tutti!!
Impegna ogni partecipante ad interagire con gli altri secondo regole dalle quali nessuno è
escluso.

- nel rito, grazie alla partecipazione, è insita un'efficacia, vale a dire, una certa trasformazione
che subisce chi vi partecipa.

- il rito non 'rappresenta' il sacro, ma abilita chi vi partecipa a 'fare esperienza' del sacro.

=> l'azione rituale non è rappresentazione della fede, ma, in quanto partecipazione al Mistero
(all'evento sacro) fonte della fede.
[questo tema della rappresentazione e della partecipazione non è
ancora risolto. Per molti motivi.
. per la struttura delle aule liturgiche che accentuano la
separazione e quindi 'l'osservazione' dei più, piuttosto che la
loro partecipazione;
. per la facilità da parte dei fedeli di esserci nel rito trovando
tutto pronto, senza doversi coinvolgere, senza dover ‘partecipare’
usufruendo, tuttavia, del senso di garanzia che il rito offre;
. per una mal interpretata/vissuta regia presidenziale o
ministeriale dove non c'è assolutamente regia o dove si cade nel
generare il 'personaggio';
Qui l'indagine diventa audace e vasta. È facile banalizzare
facendo le analisi ed è difficile essere seri nel fare le sintesi
opportune]

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