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Frantz Fanon

Un corpo che interpella, o la cura della Storia.


di Roberto Beneduce

Curare l’uomo, il suo immaginario ferito, curare la Storia. Così


si potrebbe riassumere l’intero progetto di Fanon. Da Peau noire,
masques blancs a Les damnés de la terre, il suo pensiero scruta i nodi
dell’alienazione e i modi per uscire dal labirinto del dominio, dall’in-
ferno di ogni forma di dominio. Lo sforzo profuso nel decolonizzare i
saperi del tempo (la psichiatria, in primo luogo, ma anche la sociolo-
gia, la psicanalisi, l’antropologia, la filosofia), il suo impegno di mili-
tante e rivoluzionario, quello di teorico della nazione postcoloniale o
di critico della négritude, non saranno mai disgiunti da quel progetto
propriamente clinico che si concreta, in particolare, nel periodo tra-
scorso all’ospedale di Blida-Joinville come medico psichiatra e poi a
Tunisi, quando è costretto a lasciare l’Algeria, ma che attraversa tutti
i suoi lavori come una tessitura sottile e coerente1.
La descrizione del “duplice narcisismo” che caratterizza tanto i
Neri quanto i Bianchi nelle Antille, l’analisi delle “due metafisiche”
che sostengono la loro reciproca alienazione, della sofferenza degli
immigrati in Francia o dei disturbi mentali provocati nella popola-
zione algerina dalla repressione, si articola così, naturalmente, con
l’analisi del momento politico, del razzismo o delle trasformazioni
culturali delle società colonizzate. Questo progetto Fanon lo espli-
cita già nelle prime pagine di Peau noire, masques blancs, quando
afferma “Non aspiriamo a nulla di meno che a liberare l’uomo di
colore da se stesso [...]. L’analisi che intraprendiamo è psicologica

1 Queste note prendono in esame soprattutto il primo dei lavori di Frantz Fanon, Peau
noire, masques blancs, del 1952 (trad. it. Pelle nera, maschere bianche, Marco Tro-
pea, Milano 1996). La formula “cura della Storia” rinvia a Bhabha, che la utilizza in
riferimento al romanzo di Toni Morrison, Beloved: “È impossibile non vedervi la cura
della Storia, una comunità che viene riscattata nominandola” (Homi Bhabha, I luoghi
dela cultura, Meltemi, Roma 2001, p. 33).
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[...]. Quest’opera è uno studio clinico”2, e il suo ultimo libro, Les


damnés de la terre, pubblicato pochi giorni prima della sua morte,
si conclude, non a caso, con un capitolo sui disturbi mentali insorti
durante la guerra coloniale in Algeria, un capitolo decisivo che ha
stranamente incontrato scarsa attenzione, dove, rivolgendosi al let-
tore alla sua maniera, scrive: “Si troveranno forse inopportuni e stra-
namente fuori posto in un simile libro questi appunti di psichiatria.
Non ci possiamo assolutamente far nulla”3. E infatti Fanon non può
farci nulla se, in un libro che esplora il significato e le forme della
violenza nella lotta anticoloniale, i rischi di regressione verso una
cultura “pietrificata”4, “mineralizzata” e mortificata dalle strutture
coloniali, o le contraddizioni delle borghesie nazionali che ripetono
stili e modi di pensiero analoghi a quelli dei coloni, deve ritornare a
parlare dell’alienazione, della sofferenza psichica fra coloro che so-
no stati torturati, dell’enigma della cura quando a invocarla sono gli
stessi torturatori.
Nel rivolgersi all’individuo che soffre Fanon non distoglie mai
lo sguardo dalla società, dalla sua violenza. La sofferenza soggettiva
non può essere spiegata in termini biologici, né solo ontogenetici,
come aveva suggerito la psicanalisi: rinvia sempre a una sociogenesi,
ed esige una “sociodiagnosi”5. Ma la società alla quale guarda Fanon,
che si tratti di quella algerina o di quella antillana, è sempre una
società colta nel suo dinamismo incessante, nel gioco di forze che
vi determinano ineguaglianze, lacerazioni, soprusi, e che agisce nel
profondo, intervenendo nella percezione di sé, o nella formazione di
esperienze come quelle dello schema corporeo. L’habitus dell’uomo
di colore, del colonizzato, è così ricondotto interamente alla Storia,
l’uso dello spazio o il movimento degli arti a “schemi storico-raz-
ziali” (le pagine sulla questione del velo nella donna algerina o sul
nuovo modo di utilizzare la radio e la lingua francese da parte della

2 F.Fanon, Peau noire, masques blancs, pp. 64-67. Quando non altrimenti specificato, la
traduzione è mia e le citazioni sono tratte da Frantz Fanon, Œuvres, La Découverte,
Paris 2011, che comprende tutti e quattro i suoi libri: Peau noire, masques blancs, L’an
V de la révolution algérienne, Les damnés de la terre, Pour la révolution africaine (di
volta in volta indicati con un’abbreviazione: PNMB, AVR, DT, e, rispettivamente,
PRA).
3 DT, p. 625.
4 Douglas Ficek, Reflection on Fanon and Petrification, in Nigel Gibson (a cura di),
Living Fanon. Global Perspectives, Palgrave Macmillan, New Yoirk 2011, pp. 75-84.
5 PNMB, p. 66; questa formula è estremamente suggestiva ed anticipa sia il concetto di
“sociosomatica” proposto da Henry Collomb sia quello di “reticolo sociosomatico”,
suggerito da Arthur Kleinman.
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popolazione colonizzata, ne L’an V de la révolution algèrienne, sono


a questo riguardo pagine di una modernità straordinaria e suonano
a tratti come un’analisi propriamente prossemica nel contesto co-
loniale). Per questo la cura dell’alienazione è, in Fanon, cura della
Storia, cura del tempo (i colonizzati, che ne sono stati espropriati,
hanno conosciuto la fine del tempo, scrive Gibson6): una cura avente
a tratti toni messianici, sebbene sempre Fanon si mostra consapevole
delle ambiguità, delle involuzioni e delle ipocrisie che connotano i
cambiamenti e le rivoluzioni7.
Se mi sembra importante sottolineare che la posizione di medico
e psichiatra non è mai separata da quella del teorico o del rivoluzio-
nario, è perché ritengo che sia proprio in questo nesso la natura di
quella peculiare sensibilità che Fanon rivela nell’analisi dei conflitti
psichici della colonia, nella capacità di cogliere le infinite sfumature
di quelle inquietudini della parola e dei corpi che altri autori ave-
vano lasciato sullo sfondo o trattato marginalmente. Non è per un
caso che i richiami al corpo e l’uso costante di lessemi tratti dal voca-
bolario biologico, anatomico, chirurgico percorrano insistentemente
come bisturi le sue pagine, sostenendo una seconda caratteristica del
suo stile.
La scrittura di Fanon è animata, infatti, da un’ininterrotta ten-
sione, come se solo questa potesse finalmente dar voce alla dan-
nazione di chi è umiliato, di chi è stato respinto fuori dalla Storia,
e insieme annunciare il rumore sordo della rivolta per uscire da
“un’atmosfera irrespirabile”. I suoi testi sono a questo riguardo un
vero corpo a corpo con la parola8, una “poetica del mutamento cultu-
rale radicale”9, una scrittura incarnata che sembra prefigurare forme
espressive contemporanee. Corpo e parola, in Fanon, stanno l’uno
nell’altra, come annuncia la conclusione di Peau noire, masques
blancs: “La mia ultima preghiera: O mio corpo, fa di me sempre
un uomo che interroghi!”. Un corpo, il suo, che pensa, che inter-

6 Nigel Gibson Living Fanon?, in Id. (a cura di), Living Fanon. Global Perspectives,
Palgrave Macmillan, New York 2011, pp. 1-10.
7 Alice Cherki, Frantz Fanon. Portrait, Seuil, Paris 2000.
8 Rinvio, per quanto riguarda questo aspetto, a Roberto Beneduce, La tormenta onirica.
Frantz Fanon e le radici di un’etnopsichiatria critica, in Frantz Fanon, Decolonizzare
la mente. Scritti sulla psichiatria coloniale, ombre corte, Verona 2011, pp. 7-70; H.
Bhabha, I luoghi della cultura, cit.; Nigel Gibson, Fanon. The Postcolonial Imagina-
tion, Polity Press, New York, 2003; Lewis R. Gordon, Denean Sharpley-Whiting e
Reneé T. White (a cura di), Fanon: A Critical Reader, Blackwell, Oxford 1996.
9 Robert J.C. Young, Poetica del mutamento culturale radicale, in Frantz Fanon, Scritti
politici. L’anno V della rivoluzione algerina, DeriveApprodi, Roma 2007, pp. 7-15.
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pella. Un corpo memore delle umiliazioni subite, attento e consa-


pevole (mindful body), si direbbe oggi accogliendo il suggerimento
di Scheper-Hughes e Lock10. Il corpo si muta così nel legno vivo
dove cercare i nodi dell’assoggettamento, districare i rami torti dal
desiderio e dall’ambivalenza, liberare la linfa gonfiata dalle corde
della repressione:

È dominato, ma non addomesticato. È inferiorizzato, ma non è convinto


della sua inferiorità. Attende pazientemente che il colono riduca la sua
vigilanza per saltargli addosso. Nei suoi muscoli il colonizzato è sempre
in attesa. Non si può dire che egli sia inquieto, che sia terrorizzato. Di
fatto è sempre pronto ad abbandonare il suo posto di preda per prende-
re quello di cacciatore11.

Vi sono in queste poche righe almeno tre grandi linee che merita-
no di essere messe in rilievo. La prima: Fanon costruisce un’accurata
semiologia sociale e politica del mondo coloniale, e solo all’interno
di questo mondo indecifrabile, arbitrario e seducente, attraversato
da segni ambigui e minacciosi ad uno stesso tempo, possono essere
compresi i comportamenti dei colonizzati al cospetto delle istituzio-
ni, della medicina o della scuola dei Bianchi. È un’epoca di con-
fusione, per riprendere la formula utilizzata da Peel in riferimento
alle trasformazioni prodotte dall’evangelizzazione in Nigeria12. Oc-
corre allora una semiologia all’altezza di questa perversione dei segni
e della parola per comprendere l’esperienza di disorientamento e le
strategie di fuga che vi assicurano, sebbene ad un costo elevato, la
sopravvivenza. La seconda: lo stato d’incertezza, di allarme quoti-
diano, alimenta una presunzione di colpa nel colonizzato. Ciò che
emerge in questo passaggio è quasi un ritratto kafkiano del sistema
di potere coloniale, dove il colonizzato è sospinto verso una condi-
zione di colpa che, come per K., è una maledizione, una dannazione
più che una condizione giuridica. La terza: il dominio, le umiliazioni,
non nono state sufficienti a piegare, ad addomesticare il colonizzato:
la loro “pigrizia” ne è la prova. Accrescono semplicemente la tensio-
ne dei loro corpi, che solo attendono il momento per raddrizzarsi,
preparandosi alla metamorfosi che li muterà da preda in cacciatori.

10 Nancy Sheper-Hughes Nancy, Lock Margaret, The Mindful Body: A Prolegomenon


to Future Work in Medical Anthropology, in “Medical Anthropology”, 1, 1, 1987, pp.
6-41.
11 DT, p. 464
12 John D.Y. Peel, Religious Encounter and the Making of the Yoruba, Indiana Univer-
sity Press, Bloomington-Indianapolis 2003.
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Vi è qui un’intuizione feconda: quell’idea di “armi dei deboli”, di


resistenza passiva erroneamente interpretata dal colonizzatore come
pigrizia, di “arte della resistenza” che troverà negli anni successivi
un’attenzione crescente fra antropologi e storici. E vi è, esplicito,
l’invito a riconoscere che nel duello fra il Bianco e il Nero, la Civil-
tà e il Mondo Primitivo, il Reale e l’Irrazionale, il secondo termine
di queste coppie gioca sino in fondo il ruolo che gli viene imposto,
finendo col catturare l’Altro nelle maglie del suo stesso discorso: “Il
Bianco non ha mai compreso questa sostituzione magica. Il Bianco
vuole il mondo solo per lui. Si scopre il padrone predestinato di que-
sto mondo. Lo sottomette [...]. Ma esistono valori che si adattano
solo al mio gusto. Da mago rubo al Bianco ‘un certo mondo’, un
mondo che lui aveva smarrito. Quel giorno il Bianco dovette sentire
come un contraccolpo che non riuscì ad identificare”13. In poche
righe, il commento non privo di ironia dei valori esaltati dai poeti
della négritude diventa una pista preziosa per comprendere all’in-
terno di un rapporto dialettico lo sviluppo barocco e il significato
politico di un mondo magico, oscuro, segreto, invisibile, notturno e
tanto più misterioso quanto più il mondo bianco si voleva razionale,
luminoso, diurno14.

1. Il tempo dell’eccezione

Fanon avverte con intensità particolare la questione del tempo,


e quest’ultimo diventa a più riprese il demiurgo invisibile della Sto-
ria. Lo evoca a più riprese, ripetendo due volte, all’inizio e alla fine
di Peau noire, masques blancs, quasi la stessa frase (“L’architettura
del presente lavoro si situa nella temporalità. Ogni problema umano
chiede di essere considerato a partire dal tempo”15; “Il problema qui
considerato si situa nella temporalità”16). E ancora, nella discussione
di uno dei casi riportati nel capitolo su guerra coloniale e distur-
bi mentali, quando ribadisce – di fronte al permanere dei sintomi
in un militante del Fln, responsabile del macabro omicidio di una

13 PNMB, p. 167.
14 Per alcuni di questi aspetti rinvio a Roberto Beneduce, Corpi e saperi indocili. Guari-
gione, potere e stregoneria in Camerun, Bollati Boringhieri, Torino 2010 e e ad Achille
Mbembe, Domaines de la nuit et autorité onirique dans les maquis du Sud Cameroun
(1955-1958), in “The Journal of African History”, 32, 1, 1991, pp. 89-121..
15 PNMB, p. 67.
16 Ivi, p. 247.
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donna francese la cui immagine lo assedia da allora ogni notte alla


stregua di un fantasma – che “Per quanto poco scientifico ciò possa
sembrare [...] solo il tempo potrà apportare qualche miglioramento
nella personalità dislocata di quest’uomo”17. L’umiltà di Fanon è qui
infinita: “Poco scientifico”, ammette, e tuttavia la sua conclusione
non è per questo meno vera, meno reale! Quello che egli intende
comprendere e curare è il dolore, l’incertezza psichica, il futuro
“ipotecato” di queste donne e di questi uomini, tutto quanto cioè il
discorso levigato delle scienze sembra spesso incapace di nominare,
di riconoscere
Nel procedere quasi a scatti nei suoi argomenti, tracciati spes-
so come efficacissimi schizzi, sembra a tratti incombere quel tempo
dell’eccezione che per gli oppressi è regola, e la necessità di concepire
una Storia (una scrittura della Storia) che – come auspicava Benja-
min – corrisponda a questo principio. Ma è possibile riconoscere an-
che la presenza di un altro tema benjaminiano, quanto meno un’ana-
loga sensibilità: ossia una concezione dell’esperienza, del passato,
non nei termini di “come realmente è stato” ma di come esso irrom-
pe nella coscienza del soggetto storico nel momento del pericolo. Se
Fanon invita a resistere alla seduzione di un “passato mistico”, all’in-
canto della “Torre essenzializzata del passato”18, Benjamin avrebbe
fatto di questa idea l’antidoto contro le litanie dello storicismo.
Per Fanon liberarsi dalle seduzioni della tradizione, di una cultu-
ra mummificata che – in quanto tale – non poteva risolvere i proble-
mi del presente, era urgente quanto la lotta contro il potere coloniale
perché le cose, il cui ordine era stato sconvolto, tornassero ad occu-
pare il loro posto. Sarebbe stato solo attraverso la lotta che un nuovo
significato, un nuovo uso della cultura, della tradizione, avrebbero
potuto essere realizzati19.
Questa era la strada maestra per uscire dal labirinto della colonia,
ma anche dalle secche della postcolonia, della quale egli intravede
già, con capacità visionaria, le ombre e le cicatrici (il permanere del
razzismo20, lo spirito di rapina delle borghesie nazionali e delle élite
politiche africane, o le conseguenze psichiche di lunga durata della

17 DT, p. 636.
18 Ivi, pp. 68 e 24.
19 PRA, pp. 722-726.
20 “Una decina d’anni fa, mi sono stupito nel constatare che i nordafricani detestano gli
uomini di colore” (PNMB, p. 144), ma qualche riga dopo non manca di storicizzare
il costituirsi dei rapporti razziali all’interno di una dinamica particolare, quella colo-
niale, e di una gerarchizzazione funzionale a quest’ultima.
FRANTZ FANON 37

violenza). In poche pagine Fanon traccia, con dettaglio antropolo-


gico e psicologico, quello che è il dinamismo della cultura e il suo
misurarsi con gli eventi storici, o il significato difensivo che essa può
assumere nelle forme della ritradizionalizzazione (quale si osserva
spesso oggi fra gli immigrati). Non risparmia attributi per definire
come la colonizzazione (e l’antropologia coloniale) abbiano trasfor-
mato la cultura dei colonizzati rendendola “incapsulata”, “vegeta-
tiva”, “spastica e rigida”. Il suo sguardo coglie con molto anticipo
quelle trasformazioni che sarebbero state osservate più recentemente
da altri studiosi, come Ashis Nandy: che, della cultura indiana, scrive
che riemerse come “alterata” dalla colonizzazione britannica. Fanon
ci offre di questo labirinto innumerevoli situazioni da analizzare, in-
terrogare, ripercorrere: veri e propri quadri teorici in cui psichico e
politico s’intrecciano saldamente.

2. Un corpo che interpella

Il corpo, dunque: quello del nero nelle Antille, del colonizzato in


Algeria, dell’immigrato in Francia, che nella loro carne “scavano per
trovare un senso”21, e insieme lo sguardo che su quel corpo rivolge
il Bianco (“lo sguardo bianco”, scrive Fanon22), il colono, il medico.
Uno sguardo che ha il potere di annientare, di uccidere, come quello
della Medusa23. Questa la scena di un lavoro di dissezione a tratti do-
loroso, soprattutto quando anticipa la possibile violenza a venire24, e
tale anche perché il corpo di cui parla, che sente tremare di rabbia,
soffrire nell’impotenza, esplodere nella rivolta, è il suo stesso: quello
che a Lione, studente di medicina, i suoi colleghi fanno sobbalza-
re chiamandolo “Blanchette”25, quello che, nelle strade di Parigi, si
scopre assediato dalla propria nerezza, al punto da denunciare, con

21 Ivi, p. 65.
22 Ivi, p. 154.
23 D. Ficek, Reflection on Fanon and Petrification, cit., p. 78.
24 E ciò non diversamente da du Bois quando, riferendosi ai popoli colonizzati, scrive:
“Queste nazioni e queste razze [...] sopporteranno questo trattamento solo fino a
quando saranno obbligate a farlo, non un minuto di più, poi cominceranno a combat-
tere, e la Guerra della linea del colore è destinata a superare, per selvaggia inumanità,
tutte le guerre a cui il mondo ha assistito fino a oggi” (Edward B.W. Du Bois, Sulla
linea del colore, a cura di Sandro Mezzadra, il Mulino, Bologna 2010, p. 245, corsivo
mio).
25 Joby Fanon, Frantz Fanon. De la Martinique à l’Algérie et à l’Afrique, L’Harmattan,
Paris 2004, p. 8.
38 FANON POSTCOLONIALE

anticipazione profetica, il tema dello sbiancamento. Il suo corpo, og-


gettivato, schernito, temuto gli si rovescia addosso, interpella la sua
coscienza e la fa dolorare:

Rivolgevo su di me uno sguardo oggettivo, scoprivo la mia nerezza, i


miei caratteri etnici – e mi sfondavano i timpani l’antropofagia, il ritardo
mentale, il feticismo, le tare razziali, i negrieri, e soprattutto, soprattutto:
“Y a bon banania”26. Quel giorno, disorientato, incapace di stare fuori
con l’altro, il Bianco, che senza pietà m’imprigionava, mi allontanai dal
mio essere, assai lontano, costituendomi come oggetto. Che cos’era per
me questo se non un essere spellato, strappato, un’emorragia che coagu-
lava del sangue nero su tutto il mio corpo?27

Ciò rinvia a un altro tema: con il “Negro comincia il ciclo del bio-
logico”, un ciclo di fobie e di controfobie. Ma è ora possibile ricono-
scere che questo corpo è un corpo politico: la sua biologia, le sue con-
trazioni, sono innervate di storia, di contrasti, di misconoscimenti.
Il discorso sul corpo non è, in Fanon, metafora, più di quanto
non lo sia l’uso che egli fa della psicanalisi28, e rivela per intero l’in-
fluenza di Merleau-Ponty29. È un corpo che nei suoi fremiti, nei suoi
odori, nel suo essere “generatore di fobie”, non vuole però essere
dimenticato o sciolto nel flusso del discorso. Non tollera di essere
testualizzato: un tratto, questo, che qualsivoglia lettura postcoloniale
o poststrutturalista di Fanon non può trascurare. Ha tuttavia ragione
Gordon30 nel ricordare che la sua è una riflessione autobiografica
e al tempo stesso non lo è: Fanon si rifiuta di pensare a un’essenza
nera, a un’esperienza universale dei neri. Nel capitolo Le nègre et

26 Bon banania era la marca di una farina a base di banana e cacao, “Y a bon” è una
formula patois, utilizzata nell’Africa francofona, come equivalente di “c’est bon”.
27 PNMB, pp. 154-155; non è possibile qui esplorare in dettaglio la nozione althus-
seriana di “interpellazione”, ripresa da Judith Butler in La vita psichica del potere,
Meltemi, Roma 2005, in termini quanto mai preziosi per queste riflessioni, soprat-
tutto là dove l’autrice rinvia a Dolar e alla sua nozione di una “materia prima [...]
radicalmente immateriale”, decisiva nella costituzione del Soggetto. Importante qui è
anche la nozione di “specchio acustico” evocata dall’autrice in riferimento al concetto
lacaniano di stadio dello specchio, e feconda soprattutto quando si pensi alla frase
evocata da Fanon nella famosa scena di aperura del capitolo sull’esperienza vissuta
del negro in Pnmb (“Tiens, un nègre!”). Cfr. su questo tema anche A. Cherki, Fanon.
Portrait, cit., pp. 304-305.
28 PNMB, p. 65.
29 Jean Khalfa, Fanon, corps perdu, in “Les temps modernes”, 635-636, 2005-2006, pp.
96-117
30 Lewis R. Gordon, Requiem for a Life Well Lived: In Memory of Fanon, in N. Gibson
(a cura di), Living Fanon. Global Perspectives, cit.
FRANTZ FANON 39

la psychopathologie31 egli denuncia, ad esempio, non solo i pregiu-


dizi razziali ma anche la pretesa di ricondurre a un profilo unico la
condizione nera, e a questo riguardo cita la critica che d’Arbousier
rivolge a Sartre e a quelle prospettive che mettono “sullo stesso pia-
no Antillani, abitanti della Guyana, Senegalesi e Malgasci”, creando
“una fastidiosa confusione”.
La sua stessa esperienza gli ha d’altronde insegnato la decisiva
importanza del contesto, della situazione, e la differenza fra l’es-
sere nero nella Martinica e l’esserlo in Francia. Là egli si viveva,
“sul piano dell’immaginario”, come un Bianco, qui si scopre sotto
ogni aspetto Nero: quando nelle Antille guarda un documentario
sull’Africa, sui boscimani o sugli zulu, il Nero può ridere, ma quan-
do guarda lo stesso documentario in Francia, egli “è letteralmente
pietrificato”32. Ed ancora è il corpo, quello di una mulatta che de-
scrive il proprio amore per un bianco (e la bianchezza), quello di
un nero umiliato dal rifiuto di una mulatta, ad essere al centro delle
sue velenose critiche dei romanzi di Capécia e, rispettivamente, di
Renan33.
Non diversamente da quanto aveva fatto Du Bois quando aveva
scritto sulla propria personale esperienza di “essere un problema”34,
il corpo rimane qui a marcare una soglia, una differenza che non
può essere ignorata: come quello dell’Arabo, del Cinese, dell’Ebreo,
il corpo del Nero è sorgente di diffidenza, di riflessi irrazionali, di
sospetti, che tutta una letteratura medica, psichiatrica, antropolo-
gica non aveva mancato di nutrire con le sue osservazioni, le sue
ricerche, i suoi test. È di questo sapere che Fanon intraprende la ra-
dicale dissoluzione, è in quegli scritti (la scuola psichiatrica di Porot,
le teorie sull’inferiorità dei neri o sulla “criminalità dell’arabo”, le
tesi di Carothers) che egli scava la sua archeologia sovversiva. Così,
quando ricorda l’eroismo della resistenza vietnamita, egli ironizza

31 PNMB, p. 202.
32 Ivi, p. 188.
33 Christiane P. Makward, Mayotte Capécia ou l’aliénation selon Fanon, Karthala, Paris
1999, ricorda la “trappola” in cui Fanon, e tutti coloro che hanno scritto sino al 1999
su Mayotte Capécia, sarebbero caduti, ignorando che quest’ultimo non era che lo
pseudonimo di Lucette Céranus Combette, e che l’autentico autore del libro Je suis
martiniquaise sarebbe invece l’editore e amante di Lucette Combette, soprattutto
per quanto concerne la prima parte (quella relativa all’infanzia della protagonista).
Makward va però oltre, giungendo a fare di Capécia un’eroina femminista. Cfr. su
questo tema anche Simona Taliani, Per una psicanalisi a venire. Politiche di liberazione
nei luoghi della cura, in “aut aut”, 354, 2012, pp. 46-66.
34 E.B.W. Du Bois, Sulla linea del colore, cit., pp. 105-106.
40 FANON POSTCOLONIALE

sulla “pretesa attitudine asiatica di fronte alla morte” sostenuta da


alcuni “filosofi di basso rango”35.
Questi atteggiamenti sono circoscritti all’epoca coloniale, al pas-
sato? Siamo di fronte alle impronte già prosciugate di un ordine raz-
ziale da tempo estinto nella società contemporanea? I fatti di cui
siamo testimoni, oggi, dolorosi quanto frequenti, dicono il contrario:
nonostante siano trascorsi oltre cinquant’anni, e sebbene il contesto
politico e culturale sia radicalmente mutato da allora, le analisi di Fa-
non, le sue intuizioni, non cessano di interpellare il nostro presente,
i suoi irrisolti conflitti, forzandoci a osservare il continuum coloniale
e razziale in quella che si conviene definire postcolonia. Marriott ha
recentemente formulato questo problema in termini inequivocabili:
Questo non è, d’altronde, solo un caso di spostamento del desiderio o di
persecuzione sociale. Una sedia lasciata libera accanto a me, su un treno
affollato, mi ricorda in modo tagliente non solo le paure e le ansie raz-
ziali dei bianchi relativamente al contagio somatico, ma anche come la
mia vita sia stata plasmata dalla paura introiettata e ansiogena di essere
attaccato da un’intrusione fobica”36.

Le considerazioni di Marriott non sono lontane da quelle di Fa-


non: è l’autore stesso a sottolinearlo quando riprende il passaggio
prima riportato. La paura di essere attaccato, questo stato di ansia
cronica, è la condizione psichica di cui parlava anche Fanon: ed è
dall’analisi di quest’ansia che egli prendeva spunto per sottrarre
l’esperienza della paura, dell’incertezza, della colpa ad una presunta
dimensione ontologica, propria nel Nero, a un dato inerente al suo
schema corporeo.
L’analisi che Fanon promuove non può evitare di essere dolorosa.
Egli ne è consapevole quando riprende i romanzi di scrittori antillani
o africani nei quali la bianchezza è, per i protagonisti, tormento, illu-
sione, speranza di riconoscimento, alienazione o morte. Non meno
tagliente è la riflessione quando indaga i nuclei inconsci del razzismo
prendendo in prestito la psicanalisi (non aveva Freud interpretato
l’antisemitismo come l’espressione di un’angoscia di castrazione?),
almeno fin dove gli sembra possibile. Il corpo del nero, scrive Fa-
non, genera una “fobia del contatto”, le cui origini egli riconduce ai
fantasmi sessuali: “La negrofoba non è in realtà che una potenziale
35 PNMB, p. 248.
36 David Marriott, Haunted Life: Visual Culture and Black Modernity, Rutgers University
Press, New Brunswick, 2007. Ringrazio Stefania Pandolfo per avermi fatto conoscere
i lavori di Marriott.
FRANTZ FANON 41

partner sessuale, così come il negrofobo è qualcuno che ha rimosso


la propria omosessualità”37.
Almeno fin dove è possibile, ho detto. Perché quello che l’esi-
stenzialismo, la psicanalisi o la fenomenologia avevano sostenuto
sino ad allora sulla costruzione dell’immagine corporea, la percezio-
ne dell’altro o la psicopatologia, si rivelano allo sguardo Fanon, nel
pieno della tormenta dell’epoca coloniale, come discorsi amputati38:
essi non sono stati in grado di catturare la cifra profonda dell’espe-
rienza vissuta del nero. Quell’essere per l’altro di cui parla Hegel
esiste indubbiamente, riconosce Fanon, ma “Ogni ontologia è resa
irrealizzabile in una società colonizzata e civilizzata”39. Persino Sar-
tre non ha saputo fare di meglio: la sua fenomenologia, impeccabile
nel descrivere la condizione dell’ebreo, “ha dimenticato che il negro
soffre nel suo corpo diversamente da come soffre il Bianco” (il corsivo
è mio), e l’applicazione dei suoi studi “a una coscienza negra si rive-
la falsa”40. All’opposto, solo una fenomenologia culturale e politica,
solo un’analisi esistenziale disposta ad interrogare la questione raz-
ziale, i rapporti di forza e di potere che orientano l’essere nel mondo,
potranno illuminare efficacemente un’esperienza vissuta nel caos dei
segni e del desiderio.

3. Decolonizzare la psicanalisi

Il discorso di Fanon si dispiega in questi passaggi come in un


disegno geometrico. L’obiettivo è la decolonizzazione sistematica
e la demistificazione del sapere (di un sapere affetto da un grave
colonialismo epistemologico). Si tratta di una decolonizzazione e di
una demistificazione compiute anche quando, in qualche passaggio,
frettolose41, e tali perché Fanon enumera ad uno ad uno omissioni,
silenzi, malintesi, complicità: come nel caso del “preteso complesso
di dipendenza del colonizzato” descritto da Mannoni.

37 PNMB, p. 190.
38 Ivi, p. 65.
39 Ivi, p. 153.
40 Ivi, p. 175; talvolta Fanon usa la minuscola, talvolta la maiuscola per termini come
“Negro” (come in questo caso) o “Nero”, “Bianco” o simili: ho rispettato nelle citazi-
oni la forma originale.
41 Scrive Gordon che Les damnés de la terre rivela un carattere propriamente prom-
eteico se si considera chefu scritto in sole dieci settimane da un uomo che lottava
contro la morte e aveva un limitatissimo accesso alle biblioteche; L.R. Gordon, D.
Sharpley-Whiting e R. T. White (a cura di), Fanon: A Critical Reader, cit., p. 23.
42 FANON POSTCOLONIALE

La psicanalisi si rivelava in questo caso anch’essa cieca, o sorda,


al cospetto della violenza coloniale. Le interpretazioni dei sogni di
alcuni malgasci, proposte da Mannoni42 in Psychologie de la coloni-
sation nascevano, ancora una volta dall’espulsione della Storia e del
Reale a vantaggio di uno psichismo universale, disincarnato e desto-
ricizzato. I sogni carichi d’angoscia, a differenza di quanto sostenuto
da Mannoni, non parlavano di fantasmi sessuali, e non proiettavano
per un puro caso sulla figura del senegalese il terrore della violenza
o dello stupro. I tirailleurs senegalesi, utilizzati dai francesi nella re-
pressione della rivolta del 1947, erano stati, infatti, responsabili di
massacri e violenze, ma tutto questo Mannoni sembrava averlo di-
menticato. Fanon glielo ricorda, e nello stesso tempo traccia il limite
oltre il quale la psicanalisi sembra perdere la sua forza: “Sappiamo
d’altronde che uno dei torturatori dell’ufficio di polizia di Tanana-
rive era un senegalese. Sapendo tutto questo, sapendo ciò che può
essere per un Malgascio l’archetipo senegalese, le scoperte di Freud
non ci sono di alcuna utilità”43.
Passo dopo passo, egli può così rovesciare il principio stesso su
cui si fonda la scienza occidentale, scardinando il tempio sul quale
essa aveva fondato la sua superiorità: il Metodo, l’Oggettività. Con-
tro una “verità bianca”, di fronte alla “tormenta onirica” di quelle
menti e di quei corpi, egli sentiva il bisogno di adottare una ben di-
versa strategia, a lui chiara sin dai tempi di Peau noire, masques blan-
cs: “Sarebbe bene far precedere un’opera di psicologia da un punto
di vista metodologico. Non rispetteremo la regola. Lasciamo pure
il metodo ai botanici e ai matematici”44. Allo stesso modo si ribella
contro un’oggettività che, nelle colonie, si rivolge sempre contro il
colonizzato, un’oggettività che Fanon sentiva “opprimente”45.
Nell’analisi che egli compie della costruzione del Sé, sviluppa
una sofisticata analisi delle linee di sviluppo psichico del bambino
nero in un paese colonizzato, ciò che gli permette di comprendere
la nevrosi, il sintomo in una società razziale, dentro una geografia
scandita da confini, da muri, da sguardi. Scrutare la costituzione del

42 Octave Mannoni, Le racisme revisité. Madagascar 1947, Denoël, Paris 1984 (è questo
il titolo con il quale Psychologie de la colonisation sarà nuovamente pubblicato trenta-
quatro anni dopo).
43 PNMB, p. 145; Cfr. anche Maurice Bloch, La psychanalyse au secours du colonialisme.
A propos d’un ouvrage d’Octave Mannoni, in “Terrain”, 28, 1997, pp. 103-118 e Ro-
berto Beneduce, La potenza del falso. Mimesi e alienazione in Frantz Fanon, in “aut
aut”, 354, 2012 , pp. 5-45.
44 PNMB, p. 67.
45 Ivi, p. 153.
FRANTZ FANON 43

Soggetto Nero nelle Antille significa analizzare un dramma sociale


che si consuma ogni giorno nel reale e nell’immaginario: nelle Antille
il nero si vive, come si è già detto, come un Bianco. Studiando la Sto-
ria sui manuali scolastici francesi, leggendo i fumetti o la letteratura
scritti per bambini francesi, egli s’identifica con il protagonista bian-
co: “Il piccolo negro si fa esploratore, avventuriero, civilizzatore,
missionario ‘che rischia di essere mangiato da negri cattivi’ altrettan-
to facilmente di quanto possa accadere al piccolo Bianco”46. Ma non
appena si reca in Europa scopre la realtà della propria condizione, e
con immenso dolore “percepisce l’irrealtà di molti dei propositi che
aveva fatto propri [...], al primo sguardo bianco sente il peso della
propria melanina”.
Quel corpo, nutrito sino a quel momento da una “verità tutta
bianca”, percepisce ora un altro mondo, un altro corpo. Il dramma
razziale, osserva però Fanon, si sviluppa in modo esplicito, “all’aper-
to”, perché il Nero “non ha il tempo di renderlo inconscio”47 (corsi-
vo mio). Il peso della propria melanina, avvertito di colpo, sta a ricor-
dare con violenza una realtà stranamente ignorata dagli psicanalisti:
“Né Freud, né Adler, né tanto meno il cosmico Jung, hanno pensato
ai Neri”48.
C’è un passaggio prezioso sul quale trattenersi, là dove Fanon
ci offre già con estrema chiarezza la sua idea di cultura. Quando
afferma “ogni nevrosi, ogni comportamento anormale, ogni eretismo
affettivo in un Antillano è la risultante di una situazione culturale”49,
egli rinvia ancora una volta i conflitti psichici a un preciso contesto,
uno spazio sociale invaso da immagini razziste, da rappresentazioni
introiettate giorno dopo giorno attraverso la radio o il cinema, i libri
o i fumetti, rappresentazioni che penetrano un individuo e la sua
visione del mondo. Ora, però, questa “visione del mondo è bianca”.
Egli usa l’espressione “situazione culturale”, e non quella di “cul-
tura”, perché intende mettere in rilievo il magma di forze, di con-
trasti, di dinamismi che la nozione di cultura ha spesso finito col
dimenticare e che solo negli ultimi anni un’antropologia matura ha
ripreso criticamente (penso in particolare a Jean e John Comaroff,
e a Stuart Hall). Si tratta di una locuzione che sembra per altro pa-
rafrasare quella di “situazione coloniale”, proposta da Mannoni e
accolta con interesse dallo stesso Fanon, così come da Balandier, per
46 Ivi, pp. 182-183.
47 Ivi, p. 186.
48 Ivi, p. 187.
49 Ibidem.
44 FANON POSTCOLONIALE

aver essa indicato in modo originale come non si potesse dire alcun-
ché di fondato, sul contesto coloniale, senza considerare entrambi i
poli della relazione (i coloni da un lato, i colonizzati dall’altro). Ciò
che Fanon invita a riconoscere è dunque, nelle Antille, l’esistenza di
una “situazione culturale” che informa la costruzione del sé e dello
“schema corporeo”, la visione del mondo e i legami familiari, i desi-
deri individuali, ma che rimane in tutto riconducibile ad una precisa
storicità50. Fanon non è qui molto lontano dal Foucault interessato
a comprendere le forme storiche della soggettività51. È dentro que-
sto orizzonte che egli misura i limiti della psicanalisi quando ricorda
come, del trauma freudiano, il nero ha una ben diversa esperienza
(“nei pasi colonizzati, ogni giorno si gioca un dramma”52) o interroga
la nozione di famiglia nelle Antille e la rarità dei conflitti edipici53,
criticando Lacan, al quale pure riconosce di aver offerto un contri-
buto più decisivo dell’interpretazione marxista per la comprensione
della condizione coloniale54. Del resto Lacan aveva ammesso, nel ri-
flettere sull’analisi di alcuni pazienti africani, che il loro inconscio
non era quello costituito sui loro ricordi infantili: la loro infanzia
era vissuta all’interno delle categorie della famiglia francese, era in-
somma “l’inconscio che si era venduto loro insieme alle leggi della
colonizzazione”55.

4. L’attualità di Fanon, o l’eredità di una parola incarnata

Se si ammette che Fanon è dentro il suo tempo, attento ai conflitti


e alle tormente della sua epoca, impegnato a curare menti e corpi fe-
riti dalla violenza e dalla tortura, a interrogare comunità umiliate dal-
la barbarie dell’umanesimo europeo, dall’ipocrisia dei suoi discorsi,
diventa impossibile attribuire alla sua opera un’etichetta che la ren-
da attuale facendolo approdare all’una o all’altra delle sponde del

50 Ivi, p. 194.
51 Fanon riprenderà questo tema riferendosi esplicitamente alla “situazione coloniale”
quando ricondurrà a quest’ultima la violenza o la “criminalità” dell’Algerino o quan-
do parlerà delle conseguenze e delle tecniche della tortura.
52 PNMB, pp. 181-182.
53 Le critiche di Deleuze e Guattari alla psicanalisi rinviano direttamente a Fanon: “Il
padre, la madre e l’io sono alle prese e in presa diretta con gli elementi della situazi-
one storica e politica” (Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e
schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 108).
54 H.Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 52.
55 Lacan, citato in A. Cherki, Frantz Fanon, cit., p. 38
FRANTZ FANON 45

dibattito contemporaneo. Le letture che definiscono oggi il suo un


pensiero “post-coloniale”, “post-strutturalista”, “anti-culturalista”,
“decostruzionista”, sebbene abbiano tutte buoni motivi per adottare
questa o quella etichetta, dimenticano che Fanon è tutte queste cose
insieme, e molto altro ancora. Fanon è, innanzitutto, ancorato al suo
tempo, come ricordano Alice Cherki56, Achille Mbembe57 o Nigel
Gibson58: contestualizzare il significato del suo pensiero è necessario
per evitare interpretazioni frettolose, ma soprattutto per riconoscere
tutto lo spessore e la forza dei suoi argomenti, uno spessore inesau-
ribile. Arruolarlo alle nostre battaglie accademiche, rubricarlo sotto
l’una o l’altra di queste etichette, rischia di essere, oltre che opinabile
sotto il profilo storico, scorretto nei confronti di un pensiero recalci-
trante ad ogni classificazione, ad ogni affiliazione, e che non ha mai
smesso di sovvertire l’ordine del discorso.
Un altro aspetto che vorrei evocare concerne invece la coeren-
za del disegno teorico complessivo di Fanon, per confutare quanti
hanno voluto invece evidenziarne manchevolezze o limiti (la ridu-
zione dei colonizzati ad un blocco omogeneo, privo di differenze, o
addirittura astorico; la loro rappresentazione come soggetti passivi;
l’incapacità di immaginare in modo adeguato la postcolonia, il suo
desiderio). Già per ciò che concerne la négritude, ed in particolare la
condizione del nero, Fanon enuncia infatti in modo inequivoco, nel
primo dei suoi libri, i profili contraddittori, le differenze, l’irriduci-
bile eterogeneità della condizione nera. E quando riprende Césaire,
Senghor, Sartre, ne torce come un panno sino all’ultima goccia i con-
tenuti, mostrando ciò che resta della loro sublime retorica59.
Alla maniera di Foucault, ma con la durezza che gli imponeva
un’epoca di scontri e di violenze nella quale era direttamente coin-
volto, Fanon può criticare il pensiero e i limiti della négritude, ai cui
padri pure riconosce il merito straordinario di una poetica indocile
alla quale spesso s’ispira, quando non riprende per intero, nel mezzo
di una riflessione tutta politica. Allo stesso modo Fanon dirige i suoi
strali contro una sociologia statica, descrittiva, sebbene rigorosa come
quella di un Bourdieu, che si limitava però ancora a ricalcare, in So-
ciologie de l’Algérie, apparso nel 1958, le categorie etniche coloniali e
i puri cristalli dello strutturalismo60. E, nello spirito di quella che può

56 Ibidem.
57 Achille Mbembe, Préface, in F. Fanon, Œuvres, cit., pp. 9-21.
58 N. Gibson, Living Fanon, cit.
59 PNMB, pp. 161-165.
60 R. J.C. Young, Poetica del mutamento culturale radicale, cit.
46 FANON POSTCOLONIALE

essere definita un’archeologia sovversiva dei saperi, dopo aver dissol-


to ad uno ad uno i modelli e le interpretazioni della psicologia e della
psichiatria coloniali, da Porot a Mannoni a Carothers, prende ora di
mira i limiti dell’antropologia o della fenomenologia.
Se la nozione di “situazione coloniale” ha avuto il merito di aver
stabilito il principio di un’analisi che non può procedere efficace-
mente se non attraverso la congiunta osservazione dei due poli della
relazione, Fanon ve ben oltre mostrando che nella situazione colo-
niale non è possibile ricorrere ad alcun punto di vista oggettivo, ad
alcuna separazione fra ciò che è vero e ciò che è falso, perché questi
termini ormai non si danno che in forma perversa, e la loro relazione
non si può cogliere che in forma incerta, opaca. Nascono da que-
sto principio le sue pagine memorabili sulla politica e la produzione
della verità nelle scienze coloniali. Riconosco qui una prossimità in-
trigante con la definizione di “immaginario” offerta da Deleuze, a
condizione di ricordare ancora una volta che l’indiscernibilità fra re-
ale e irreale non è in Fanon un dato ontologico ma un prodotto della
storia, di una storia di violenza, di inganni e di morte. D’altronde
Bergson è in Deleuze, come lo era stato in Fanon, un autore familia-
re, e quello che afferma Deleuze ben si adatta al mondo coloniale, in
particolare quando definisce il falso come “la potenza che rende il
vero indecidibile”61, ciò che le pagine di Fanon sulle politiche della
verità nel regime coloniale dicono superbamente.
Questo radicale ancoraggio alla sua epoca, di cui coglie per inte-
ro fratture e contraddizioni, questo legame alle vicende e alle lotte
che ne scandiscono il ritmo, ci ricordano quanto Fanon sia contem-
poraneo, nel senso che Agamben attribuisce a questo termine62. E
l’epoca in cui vive Fanon, nell’Algeria coloniale, è un’epoca buia (il
termine “notte” è un altro dei tropi del testo fanoniano), scandita
da atrocità e ipocrisie, è “un’atmosfera da fine del mondo”. Tuttavia
è del contemporaneo non solo la capacità di tenere fisso lo sguar-
do sulle tenebre del suo tempo, ma anche quella di pensare i modi
per uscirne, fossero pure modi utopici, così come di prefigurarne le
contraddizioni future. Questo fa di Fanon un contemporaneo ma
anche una voce delle contraddizioni a venire perché, nell’ascolto del
dolore e del dubbio dei dannati, egli dà corpo all’intreccio invisibile
fra storia e Storia: ed è ciò a rendere il suo pensiero uno strumento
prezioso per cogliere le violenze e le lacerazioni della postcolonia,

61 Gilles Deleuze, Pourparlers 1972-1990, Minuit, Paris 2003, p. 93.


62 Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 23.
FRANTZ FANON 47

così come le irrisolte divisioni del soggetto postcoloniale la cui icona


per eccellenza è oggi quella dell’immigrato. Ed è straordinario, lo
ripeto, come il Fanon poeta, il Fanon rivoluzionario, il Fanon so-
ciologo o politico della nazione non smetta mai di introdurre qui e
là gemme di riflessione propriamente clinica: il suo essere medico e
psichiatra lo rende possibile, senza sforzo alcuno, dal momento che
egli non dimentica mai la sofferenza, i corpi morsi dalla fame e resi
lividi dal freddo di cui scriveva Mohammed Dib63, l’incendio che la
loro follia annuncia, né ignora le confuse esperienze di fronte alle
opere della “civilizzazione”: gli ospedali, le medicine, le scuole. Per-
ché la colonia è questo: una singolare e atroce esperienza della mo-
dernità, nutrita dallo spettro della tortura, dalla seduzione dell’auto-
nomia individuale, o all’opposto dalla paternalistica curiosità verso
una “cultura” e una “tradizione” sottratte al divenire, all’azione dei
loro protagonisti.
Fanon si chiede che cosa ne sarà di questo carico di violenza,
quale segno lascerà nelle generazioni future64. Nell’introduzione a
L’an V de la révolution algérienne, nel 1959, guarda al crescere del-
la violenza fra i membri del Fln, agli atti fratricidi che vanno mol-
tiplicandosi nei confronti dei collaborazionisti e di gruppi come
il Mouvement National Algérien65. Egli – pur distinguendo questa
violenza da quella dei coloni – ne prende distanza (“Non per que-
sto legittimiamo le reazioni istintive dei nostri compatrioti. Le com-
prendiamo, non potendo né scusarle, né respingerle”). Per Fanon la
violenza non è una finalità ma un “tempo necessario” (Cherki), che
rende ancora più evidente l’ipocrisia delle critiche rivolte in Fran-
cia a questa violenza, mai abbastanza però a quella dei torturatori o
a quella dei campi profughi dove a migliaia gli algerini soffrono in
condizioni disumane
Ma in che senso la sua scrittura sovverte l’ordine del discorso?
Fanon coagula nei suoi scritti temi e materiali diversi creando una
fusione unica di registri, articolando generi diversi con l’obiettivo
consapevole di decostruire, passo dopo passo, luoghi comuni, teo-
rie, pregiudizi, inganni, illusioni. La sua è una decostruzione, certo,
ma nel suo gesto si leva qualcosa di più della parola del filosofo:

63 Mohammed Dib, La casa grande. Algeria (1952), Feltrinelli, Milano 2004; Id., L’incen-
dio. Algeria (1954), Feltrinelli, Milano 2004.
64 Alice Cherki, Préface à l’édition de 2002, in F. Fanon, Œuvres, cit., pp. 421-430.
65 AVRA, pp. 261-262. Cfr. inoltre Beläid Abane, Frantz Fanon and Abane Ramdane.
Brief Encounter in the Algerian Revolution, in N. Gibson (a cura di), Living Fanon,
cit., pp. 27-44.
48 FANON POSTCOLONIALE

avvertiamo, in ogni pagina, tutto il peso di una parola incarnata. Il


discorso di Fanon è, di fatto, una vera e propria macchina da guerra,
che anticipa molti dei discorsi che diventeranno poi ricorrenti nella
letteratura postcoloniale.
La maniera con la quale egli mette in primo piano il corpo, il suo
corpo, per cogliere contraddizioni e ambivalenze, pensare il domi-
nio e la logica dell’assoggettamento, rimane uno dei contributi più
fecondi e originali di questa vita brevissima e densa, consumata dalla
lettura spasmodica, dalla lotta anticoloniale, dal progetto ostinato di
restituire il tempo a chi ne era stato espropriato, dal sogno di curare
la Storia. E questo, tutto questo, nella consapevolezza di una pros-
simità con la morte che le ferite in guerra prima, gli attentati poi, la
malattia infine, sembravano ricordargli con ostinazione.
La decostruzione del sapere coloniale e delle sue categorie asfit-
tiche o ubriache di oggettività, la riflessione sul soggetto postcolo-
niale, trovano oggi nei suoi scritti una miriade di sentieri che solo
aspettano di essere percorsi, e dal suo modo unico di interrogare la
vita psichica della Storia traggono l’impulso necessario per animare il
proprio movimento.

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