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Capitolo 2

XXX

“[…] mi portai lontano dalla mia stessa presenza, molto lontano, costituendomi come oggetto. Che
cos’era per me se non uno scollamento, una lacerazione, un’emorragia che coagulava sangue nero
su tutto il mio corpo?”1

Nell’ intricato scenario di colonizzazione si genera un’“atmosfera irrespirabile che avvelenerà per
oltre un secolo le menti e i corpi […] trasformando le loro soggettività e ipotecando il loro
avvenire” (Beneduce, 2022: 28). Fanon esprime l’urgenza di porre attenzione allo “studio
dell’uomo nei confronti di queste condizioni” (Fanon, 2015: 88): riteniamo sia di fondamentale
importanza analizzare come la colonia abbia influito nella costruzione identitaria dei colonizzati,
non solo per cogliere le trasformazioni agite e vissute, ma anche per meglio comprendere le posture
odierne assunte dai soggetti post-coloniali.

Cosa ne è, quindi, di quelle collettività oppresse, di quegli uomini e quelle donne governati e
disciplinati da un potere egemonico? Che forma prende nella costruzione identitaria
l’interiorizzazione di quell’oppressione?

Nella colonia, come riportato da vari autori (primo tra tutti Fanon) il colonizzato è agito dal
colonizzatore, materialmente e spiritualmente; quest’ultimo è, agli occhi del colonizzato,
profondamente estraneo.

Essere agiti da significa qui essere sottoposti all’influenza, al controllo e al dominio del
colonizzatore, il quale ri-definisce la realtà e le condizioni di vita nella colonia, producendo un
rapporto di potere asimmetrico. Quest’alterità colonizzatrice permea l’esistenza del colonizzato,
modellando il mondo che abita non solo attraverso l’occupazione territoriale, ma penetrando il
tessuto stesso della sua identità, inculcandovi altre categorie, altri valori, altre norme.

Ricorriamo alle parole di Ernesto de Martino, il quale efficacemente nomina quest’esperienza


appena descritta e che, sebbene fatto in riferimento ad un altro contesto, riteniamo siano qui
perfettamente calzanti:

1
Fanon Frantz, “Pelle nera, maschere bianche”, ETS edizioni, Pisa, 2015, p.112.
L'essere-agito-da e la radicale estraneità [...] di ciò da cui si è agiti costituiscono i due momenti
fondamentali del vissuto di alienazione.2

Così come ci viene spiegata nei termini demartiniani, l’alienazione diventa la principale lente
attraverso cui esplorare il tessuto stesso della colonizzazione, analizzando il modo in cui l’identità
dei soggetti colonizzati viene plasmata e distorta. Ma non solo: il fenomeno dell’alienazione emerge
come un filo conduttore, un'esperienza condivisa da coloro che subiscono le conseguenze
dell’oppressione coloniale, arrivando fino ad oggi.

Fanon, voce imponente e intramontabile, scuotendoci profondamente, ci offre una potente


rappresentazione del vissuto di alienazione del soggetto colonizzato Nero.3

L'alienazione nel contesto coloniale e post-coloniale, secondo Fanon, si manifesta nella


frammentazione del Sé e nella correlata crisi identitaria, ed è un fenomeno generalizzato tra gli
individui colonizzati.
Nell’Introduzione a Pelle nera, maschere bianche l’autore dichiara:

Vedremo […] che l’alienazione del Nero non è una questione individuale. Accanto alla filogenesi e
all’ontogenesi, c’è la sociogenesi. […] diciamo che si tratta di una sociodiagnosi.4

Nell’opera Fanon indaga e denuncia aspramente il processo di razzializzazione interiorizzata che ha


luogo nella colonia, ovvero quel meccanismo di interiorizzazione dei valori e delle norme (razziali)
del colonizzatore da parte del colonizzato.

L'interiorizzazione dei valori razziali del colonizzatore crea una dissonanza cognitiva, una sorta di
auto-allontanamento all'interno del colonizzato, poiché si confronta con identità culturali, razziali e
sociali conflittuali. Questo conflitto interno si traduce in un senso di estraneità dal proprio sé,
portando a una sofferenza psicologica e a un pervasivo sentimento di inadeguatezza.

Infatti, il Nero colonizzato, sin da giovanissimo, è esposto a questo fenomeno: Fanon fa l’esempio
della letteratura per ragazzi, diffusa nelle colonie ed ex-colonie, in cui viene rappresentato l’eroe
Bianco e l’antagonista - o il servo- Nero, puntualmente rappresentato come inferiore -
cognitivamente e socialmente-; i giovani sono portati a identificarsi con l’eroe, creando così un
primo processo di auto-allontanamento.
Questo discorso non è poi così lontano da quello di William du Bois, con la sua “doppia coscienza”,
come ricorda Beneduce:

2
De Martino Ernesto, “La fine del mondo, contributo all’analisi delle apocalissi culturali” (1977), a cura di Giordana
Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino, 2019, p. 185.
3
Il termine Nero, nel lessico fanoniano, indica il soggetto diverso dal Bianco.
4
Fanon Frantz, “Pelle nera, maschere bianche”, ETS edizioni, Pisa, 2015, p.128.
[la] doppia coscienza, il doppio Sé, gli scopi divergenti fra i quali ogni scelta si trasforma per un
Nero in un’esperienza lacerante, e persino la “seconda vista” di cui secondo du Bois sono dotati i
Neri in America, costituiscono l’immagine esemplare di una scissione del Sé razzializzato.5

O ancora, questo processo di assimilazione che genera frattura viene riportata anche da Sharham
Khosravi quando, nella sua etnografia sui confini, racconta l’esperienza dei migranti irregolarizzati,
soggetti su cui la colonia continua ad avere implicazioni:

Il migrante “illegale”, soggetto a uno sguardo e a un trattamento che lo spogliano della sua
umanità, interiorizza il giudizio esterno, finendo per interpretare la mancanza di documenti come
una tara o un’inadeguatezza personale.6

Facendo un passo indietro, ci sembra opportuno esplorare quello che potrebbe essere interpretato
uno dei primi passi mossi dal colonizzatore nel tentativo di dominare, o disciplinare in senso
foucaultiano, i corpi dei colonizzati.

Beneduce, in Corpi e saperi indocili, ricorrendo a Foucault, esplora come il corpo disciplinato viva
una dissociazione del potere. Il potere viene frammentato all’interno del soggetto dominato: se la
disciplina potenzia la forza di quel corpo, affinché sia più produttivo e prestante possibile, al tempo
stessa genera una frammentazione legata al fatto che non è più al servizio di chi la possiede, ma di
chi la domina:

[l]a disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste
stesse forze (in termini di obbedienza). In breve: dissocia il potere del corpo; ne fa, da una parte,
un’attitudine, una capacità, […] e dall’altra inverte l’energia, la potenza che potrebbe risultarne e
ne fa un rapporto di stretta soggezione.7

Tale dissociazione del potere del corpo coincide con l’essere materialmente agito dall’Altro; Altro,
d’altronde, drammaticamente estraneo: la disciplina dei corpi nella colonia è il primo passo verso la
produzione dell’alienazione nel senso demartiniano.

Introduciamo ora una nozione appartenente al lessico foucaultiano, qui utile per poter esplicitare e
sottolineare la forte connessione esistente tra l’agire del potere coloniale e il vissuto di alienazione
finora descritto.
Michel Foucault introduce la nozione di soggettivazione nei suoi studi sulla relazione tra potere e

5
Beneduce Roberto, “Frantz Fanon: curare la storia, disalienare il futuro”, Rivista della Società di antropologia medica,
n. 54, Dicembre 2022, p. 37.
6
Khosravi Sharham, “Io sono confine”, Elèuthera, Milano, 2019, p. 122-23.
7
Beneduce Roberto, “Corpi e saperi indocili, stregoneria e potere in Camerun”, Bollati Boringhieri editori, Torino,
2010, p. 106.
identità individuale. Con questo termine l’autore indica il processo attraverso il quale gli individui
assorbono e fanno propri valori e norme socio-culturali nella costruzione della propria identità. Per
Foucault, il potere non agisce solamente attraverso coercizione e repressione, ma anche attraverso
meccanismi disciplinari e normalizzanti che operano a livello istituzionale e strutturale. Questi
fenomeni modellano le identità individuali, senza che le persone ne siano necessariamente
consapevoli.

Per rafforzare la pertinenza nell’usare questa nozione ai fini di sottolineare il ruolo che gioca il
potere nella genesi dell’alienazione, interpretiamo la razzializzazione interiorizzata denunciata da
Fanon come una forma di soggettivazione.

Istituendo questo ponte semantico tra razzializzazione interiorizzata e soggettivazione, ci si riferisce


all’interiorizzazione, nei soggetti colonizzati e successivamente soggetti post-coloniali, della
costruzione sociale delle gerarchie razziali. Questo processo, influenzando la costruzione
identitaria, genera una percezione di sé frammentata. La razzializzazione, come parte integrante di
questo processo di disciplina, diventa strumento attraverso cui il potere coloniale continua a
persistere dopo la fine dell’occupazione.

L'effetto ancora oggi esistente di questa razzializzazione interiorizzata è l'alienazione diffusa nei
soggetti post-coloniali. Essa si manifesta concretamente nelle dissonanze identitarie e nel costante
senso di estraneità che permea la vita di coloro che oggi subiscono la violenza post-coloniale.
Quest’alienazione rimane centrale nella comprensione delle lacerazioni che spesso vengono
volutamente trasfigurate da chi detiene il potere.

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