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Egemonia transnazionale e capitalismo contemporaneo: una nota critica all’approccio

neogramsciano di Robert W. Cox

di Giuseppe Montalbano

In questo contributo mi propongo di evidenziare i limiti del concetto di egemonia transnazionale


introdotto da Robert W. Cox come chiave di una Critical Theory della politica internazionale. La
crescente letteratura neogramsciana nelle relazioni internazionali testimonia la ricchezza e
potenzialità di un approccio alternativo al mainstream neorealista e istituzionalista che dalla
rielaborazione del metodo e delle categorie gramsciane trae il suo carattere distintivo, ma allo stesso
tempo le criticità interne legate alle modalità di un tale riadattamento. Una rigorosa e coerente
definizione dell’apparato concettuale neomarxista è premessa necessaria per l’ulteriore sviluppo di
una teoria del sistema capitalistico contemporaneo in grado di promuovere un coerente programma
di ricerche empiriche. La categoria neogramsciana di egemonia risulta ancora compromessa da una
carente definizione teorica e da un corrispondente uso ambiguo, tali da minarne alla base ogni utilità
a livello analitico.
Mi soffermerò in particolare su due nodi ancora da sciogliere nella definizione coxiana delle
categorie gramsciane1, adottata e ripresa dai principali studiosi riconducibili alla Critical Theory: 1)
la concettualizzazione dello Stato e del sistema internazionale attraverso la nozione di blocco
storico, quale premessa necessaria per 2) una distinzione dei diversi sensi da attribuire alla categoria
di egemonia nella sua trasposizione al livello dei rapporti transnazionali. Prendendo le mosse da una
rilettura dei testi di Gramsci cercherò di mostrare quale concetto di egemonia possa essere più
adeguato e utile per un’analisi del sistema capitalistico mondiale.

Il blocco storico si presenta come primo concetto chiave nel definire la connessione strutturale tra
modo di produzione del capitale, l’antagonismo delle classi sociali e il ruolo dell’apparato statale.
L’approccio neogramsciano individua innanzitutto il carattere determinante e autonomo di attori e
forze operanti a un livello transnazionale quale base degli interessi e dei rapporti di forza
interstatali2. Secondo questa prospettiva il potere causale, e quindi esplicativo primario nell’analisi
dell’ordine mondiale, va rintracciato nei processi e nelle modalità di espansione del capitale a
livello internazionale attraverso l’azione di gruppi economici in grado di assumere una funzione
direttiva nell’evoluzione del sistema interstatale, in un processo continuamente conflittuale con le

1
Per un quadro delle principali critiche all’opera coxiana cfr. M. G. Schechter, Critiques of Coxian Theory:
Background to a Conversation, in R. W. Cox, M. G. Schechter, The Political Economy of a Plural World, Routledge,
London-New York 2002, pp. 1-25; A. Leysens, The Critical Theory of Robert W. Cox:Fugitive or Guru?, Palgrave
MacMillan, Hampshire-New York 2008, cap. 3; A. Budd, Robert Cox and Neo-Gramscian International Relations
Theory: A Critical Appraisal, Routledge, London-New York 2013, parte II.
2
H. Overbeek, Transnational Historical Materialism: Theories of Transnational Class Formation and World Order, in
P. Ronen (a cura di), Global Political Economy: Contemporary Theories, Routledge, London-New York 2000, pp. 168-
183, pp. 168-169.
1
classi subalterne e antagonistiche. Gli Stati e il sistema interstatale restano agenti privilegiati, ma in
quanto punti nodali di un sistema di accumulazione internazionale i cui sviluppi e contraddizioni
devono essere analizzati, in primo luogo, dal punto di vista della socializzazione transnazionale dei
gruppi sociali dominanti e subordinati (nel senso della marxiana sussunzione progressiva degli
attori sociali come funzioni del capitale in generale). Il concetto di blocco storico racchiude per i
neogramsciani-coxiani tale modello relazionale di Stato e dell’ordine internazionale come sistema
dei rapporti di forza tra classi antagonistiche.
Negli scritti di Cox, però, questa espressione oscilla fra due sensi differenti. Nel primo caso, il
blocco storico designerebbe la realizzazione a livello sociale di un’unità egemonica da parte di una
classe, nel senso “etico-politico” che ritroviamo nelle Noterelle sul Machiavelli. Nel secondo,
invece, esso descriverebbe in generale una qualsiasi configurazione di rapporti di forza tra gruppi
sociali in un dato momento storico e in uno specifico contesto nazionale. Entrambi i significati
possono individuarsi nei Quaderni3, corrispondenti allo sviluppo della riflessione di Gramsci
sull’analisi marxiana in rapporto alla storiografia crociana e al delinearsi della problematica
dell’egemonia4.
Nel saggio coxiano del 1983 l'idea di historical bloc si riferiva esplicitamente all'orientamento
unitario di interessi di un insieme di gruppi sociali differenziati sotto l'egemonia esercitata da una
classe dominante5. Secondo questa definizione il blocco storico può identificarsi come prodotto di
un potere egemonico che realizza una sfera comune di intenti e aspettative tra le maggiori forze
sociali, tali da garantire la riproduzione di un dominio che gli attori riconoscano tendenzialmente
come legittimo. In questo caso condizione del blocco storico è la realizzazione di un’egemonia
sociale e politica, quindi l'affermazione al governo dello Stato della classe che a livello sociale è
riuscita a costituire una coalizione maggioritaria di interessi. È questa l’accezione più specifica che
Gramsci assegna all’idea di blocco storico nei Quaderni6. In Production, Power and World Order7,
opera cardine di Cox, tale nozione appare al contrario slegata dal presupposto dell'egemonia in

3
In questo si saggio si fa riferimento all’edizione del 2007: Gramsci A., Quaderni del carcere, edizione critica
dell’Istituto Gramsci, a cura di Gerratana V., Einaudi, Torino 2007.
4
Inizialmente l’idea di blocco storico in Gramsci non appare legata a quella di egemonia e intesa come unità delle forze
materiali e delle ideologie (cfr. Q7, §21, p. 869), in riferimento alle affermazioni di Marx sulla «forza materiale delle
credenze popolari» (Q10, §13, pp. 1237-38; ivi, §40, p. 1300), dove l’idea di blocco storico come unità dell’analisi
storica comprendente la connessione tra «contenuto economico sociale e forza etico-politica», contrapposta alla storia
etico-politica del Croce. Nello stesso Quaderno 10, però, Gramsci lega il concetto di blocco storico e di egemonia come
consenso (ivi, Sommario, p. 1211; §12, p. 1235). Così anche nel significato assunto nel Quaderno 13 (Q13, §23, p.
1612): «Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta la spinta economica dalle pastoie
della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un
nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico economico-politico…».
5
«An historic bloc cannot exist without a hegemonic social class»: (R. W. Cox, Gramsci, Hegemony and International
Relations: An Essay in Method, in «Millennium», XII, 1983, pp. 162-175, ristampato in S. Gill (a cura di), Gramsci,
Historical Materialism and International Relations, Cambridge University Press, Cambridge 1993, pp. 49-66, p. 56. Ma
anche qui non manca una certa ambiguità: poche righe prima, infatti, Cox aveva parlato di un blocco storico dominante
o emergente, lasciando intendere nel secondo caso la possibilità di un blocco non ancora egemone.
6
«...[s]e il rapporto tra intellettuali e popolazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una
adesione organica... solo allora... avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e
dirigenti, cioè si realizza la vita d'insieme che sola è la forza sociale, si crea il 'blocco storico'», (Q11, §67, pp. 1505-6).
Bisogna tenere a mente che il Gramsci di Cox e dei primi neogramsciani è stato quello delle pagine selezionate dai
Quaderni tradotte in: Antonio Gramsci,. Selections from the Prison Notebooks of Antonio Gramsci, a cura di Q. Hoare,
G. Nowell Smith, Lawrence and Wishart, London 1971. Una lacuna che l’edizione integrale in inglese dell’opera
gramsciana ad opera di Joseph A. Buttigieg ha progressivamente colmato.
7
R. W. Cox, Production, Power and World Order: Social Forces in the Making of History, Columbia University Press,
New York 1987.
2
senso stretto per designare più genericamente la struttura dei rapporti sociali entro cui inquadrare un
momento storico: «the limits or parameters of state purposes, and the modus operandi of state
action»8. Lo Stato cui ci si riferisce non si identifica evidentemente con la realizzazione
dell’egemonia: qui, infatti, per Cox ogni forma di Stato si definisce in base a un blocco storico di
riferimento9. L’avvento del fascismo viene così descritto come trasformazione di un blocco storico
in uno stato non egemonico10. Ma in diverse occasioni tale concetto viene nuovamente accostato
all’affermazione di un ordine egemonico, ad esempio quando viene definito l’ideal-tipo dello Stato
liberale: «The ideal type may serve as an approximation for the project of an emerging historic bloc
or as a shorthand for the hegemonic ideology of an established historic bloc»11.

La confusione coxiana tra la definizione di blocco storico come egemonia e come descrizione dei
rapporti di forza in uno Stato si riflette in alcuni dei neogramsciano-coxiani di maggiore spicco12,
minando così la sua coerenza e utilità come categoria analitica. Considerata nel suo significato più
originale individuabile nei Quaderni, essa corrisponde a una determinazione precisa dell’egemonia,
come concetto in grado di legare il processo di produzione e accumulazione capitalistico, la
costituzione di una classe dominante e la fissazione relativa dei rapporti di forza sottesi al
funzionamento dello Stato.

II

Tale ambiguità si riflette nella definizione coxiana di world hegemony come espansione di un
blocco storico nazionale, costituitosi in base all’egemonia di una classe dominante, nella direzione
del sistema economico mondiale e delle relazioni tra Stati13. In Cox, come nei neogramsciani che a
lui si sono rifatti, l’egemonia transnazionale oscilla tra due significati non del tutto sovrapponibili:
da una parte come leadership di un blocco governativo-economico nella governance economica
internazionale; dall’altra, come direzione “morale e intellettuale” che ponga come base del suo
potere il consenso attraverso precisi dispositivi di legittimazione e di mediazione con gli Stati alleati
e i gruppi sociali subordinati. Questo secondo significato è implicito nella definizione
dell’egemonia globale come diffusione dell’egemonia interna a uno Stato leader nella competizione
capitalistica, essendo stata concettualizzata quest’ultima – per quanto ambiguamente ‒ come blocco
storico unitario retto da un relativo ordine consensuale tra classi antagonistiche14. Lungi dall’essere

8
“…i limiti o parametri degli obiettivi di uno stato e il modus operandi dell’azione statale” (trad. mia), ivi, p. 105.
9
Ivi, p. 163, p. 173, p. 400.
10
Ivi, , p. 195.
11
“L’ideal-tipo può servire da approssimazione per il progetto di un blocco storico emergente o come una sintesi
dell’ideologia egemonica di un blocco storico affermatosi” (trad. mia), ivi, p. 129.
12
Cfr. S. Gill, Power and Resistence in the New World Order, Palgrave MacMillan, Hampshire and New York 2008, p.
34, pp. 60-61; ma la confusione è più chiara in Morton, che da una parte afferma che “l’esistenza stessa dell’egemonia è
quindi necessaria per la nascita di un blocco storico” (trad. mia), per poi precisare che “questo però non implica che vi
sia una corrispondenza immediata fra egemonia e blocco storico, come si potrebbe presumere” (trad. mia): A. Morton,
Unravelling Gramsci: Hegemony and Passive Revolution in the Global Political Economy, Pluto Press, London 2007,
p. 97 (ma anche p. 78 e pp. 121-122), senza illustrare però in che caso si avrebbe un’egemonia senza blocco storico.
13
Cfr. Cox, Gramsci, Hegemony and International relations cit., p. 61; Id., Production, Power and World Order cit.,
pp. 149-150; Morton, Unravelling Gramsci cit., pp. 101-102; Gill, Power and Resistence cit., pp. 92-93.
14
Cox, Gramsci, Hegemony and International Relations cit., pp. 56-57.
3
facce di una stessa medaglia, i due sensi impliciti nella categoria di egemonia mondiale sono
piuttosto il risultato di una giustapposizione tra a) un superamento in chiave neomarxista del
modello neorealista della hegemonic stability, attraverso una riformulazione che vede come soggetti
non più gli Stati come attori unitari, ma i blocchi governativo-economici che ne determinano gli
interessi anche oltre i rispettivi confini giuridico-territoriali, e come oggetto il sistema di
accumulazione del capitale; b) una trasposizione del significato “etico-politico” di egemonia dei
Quaderni al sistema di norme delle istituzioni internazionali15. Già in Gramsci l’idea di egemonia è
tutt’altro che univoca, spaziando dal suo senso più originale di dominio fondato sul consenso delle
classi alleate e potenzialmente antagonistiche, a quello più tradizionalmente legato alla supremazia
di forze, in particolare rispetto all’ambito dei rapporti tra Stati16. In Production, Power and World
Order tale ambiguità emerge chiaramente: l’aspetto consensuale dell’egemonia britannica nei
confronti delle classi potenzialmente antagonistiche, ad esempio, viene descritto solo nella sua
dimensione interna, come alleanza della borghesia con l’aristocrazia al governo, ma non a livello
transnazionale, come invece viene descritto più nello specifico nel caso della Pax Americana17.
Anche negli studi successivi Cox postula implicitamente ciò che invece andava dimostrato come
ipotesi teorica, cioè che una leadership mondiale unitaria del sistema di accumulazione capitalistico
richieda la costituzione di un’egemonia come ordine consensuale transnazionale18. Un requisito che
si traduce nella riduzione dell’ordine creatosi dopo la crisi degli anni Settanta al dominio diretto e
fragile di un disciplinary neoliberalism, caratterizzato come una ‘rivoluzione passiva’ opposta alla
coxiana egemonia19. Ma fino a che punto è possibile ed utile identificare la leadership mondiale con
l’egemonia, e – specularmente – il dominio “non-consensuale” con la rivoluzione passiva? Tale
rigida distinzione rischia di esemplificare indebitamente il neoliberismo come epoca del dominio
diretto e la leadership statunitense del dopoguerra come epoca del consenso, ignorando così gli
elementi intrinsecamente coercitivi e consensuali presenti nei due modelli di ordine mondiale. In
che misura, infatti, l’egemonia definita da Cox si approssima a quella del gramsciano principe
nuovo, differenziandosi così radicalmente dall’idea di rivoluzione passiva? Per rispondere bisogna
porsi una questione preliminare che, sebbene implicita negli stessi Quaderni, risulta centrale per la
comprensione dei diversi usi della nozione di egemonia: la differenza con cui essa si configura a
seconda che il soggetto di riferimento sia la classe capitalistica o quella subalterna.

15
R. W. Cox, The crisis of world order and the problem of International organization in the 1980s, in «International
Journal», XXXV, 1980, 2, pp. 370-395, p. 377; Id., Social Forces, States and World Orders. Beyond International
Relations Theory, in «Millennium», X, 1981, 2, pp. 126-155, ristampato in R. O. Keohane (a cura di), Neorealism and
Its Critics, Columbia University Press, New York 1986, pp. 204-254, pp. 230-232.
16
Già nel Quaderno 13 Gramsci affianca all’idea di egemonia come unità organica etico-politica quella tradizionale di
dominio, proprio in rifermento all’ordine internazionale (Q13, §2, pp. 1562-63).
17
Cox, Production, Power and World Order cit., pp. 143-147. Tali osservazioni devono prescindere, per ragioni di
spazio, da una valutazione dell’attendibilità della ricostruzione storico-sociologica di Cox e degli altri autori presi
esame.
18
R. W. Cox, Global Perestrojka, in «Socialist Register», XXVIII, 1992, pp. 26-43, p. 37; Cox, Schechter, The
Political Economy cit., p. 72; R. W. Cox, Beyod Empire and Terror. Critical Reflections on the Political Economy of
world order, in «New Political Economy», IX, 2004, 3, pp. 307-323, pp. 311-312. Se da un lato Cox ‒ in Production,
Power and World Order ‒ illustra le egemonie inglese e americana in «analyitical propositions» ricavate dall’analisi
storica al termine di ogni capitolo, di fatto la world hegemony viene presentata come categoria generale di analisi per le
diverse strutture dell’ordine mondiale.
19
Gill S., Gramsci and Global Politics, in Id. (a cura di), Gramsci, Historical Materialism and International Relations
cit., pp. 8-13; Id., Power and Resistence cit., pp. 137-142. Lo stesso Gill descrive ambiguamente tale disciplinary
neoliberalism come un vero e proprio «progetto egemonico» unitario delle élites economico-finanziare nel quadro di
frammentazione strutturale delle classi lavoratrici, riferendosi a una hegemony of disciplinary neoliberalism quale
espressione di un «blocco storico transnazionale» non-egemonico, cfr. Id., Gramsci and Global Politics cit., p. 10.
4
L’ipotesi qui sostenuta è che per circoscrivere l’utilità del concetto di egemonia e la sua
traducibilità sul piano transnazionale sia necessario individuarne nei Quaderni il suo significato
teorico generale20. Tale definizione può trovarsi nell’egemonia come momento politico della
costituzione soggettiva di classe come illustrato nelle Noterelle sul Machiavelli21. Dal lato delle
classi capitalistiche il momento egemonico si realizza quando il gruppo dominante accede alla
funzione di rappresentanza del capitale in generale e quindi allo Stato. Il controllo dei mezzi di
produzione conferisce alla classe economica dominante una forza attrattiva immediata per i gruppi
specializzati che formano l’apparato di governo, quali la classe politica e i quadri amministrativi,
composti non solo da elementi provenienti dalla classe dominante, ma ‒ ed è questa la peculiarità
del momento egemonico -‒ anche dalla cooptazione di élites delle classi antagonistiche. Tali classi
specializzate svolgono una funzione di mediazione degli interessi sociali prevalenti che le classi
economiche in se stesse non possono svolgere. Così il gruppo più avanzato delle classi
capitalistiche assume una funzione direttiva attraverso il governo dello Stato in quanto agente
regolatore del sistema economico interno ed esterno.
Nella riflessione gramsciana tale processo non sembra potersi identificare del tutto con la conquista
dell’egemonia per le classi subalterne. Mentre per la classe capitalistica l’ascesa all’egemonia è resa
possibile innanzitutto dalla posizione dominante nel processo di produzione e riproduzione del
capitale, determinando così strutturalmente la capacità di integrazione e cooptazione delle classi
affini e potenzialmente antagonistiche, per le classi subordinate il momento egemonico “etico-
politico”, diretto alla costruzione di un’identità autonoma rispetto ai gruppi dominanti, è condizione
della stessa possibilità di diventare classe dirigente dello Stato22. Qui risiede la maggiore differenza
nel momento egemonico tra le classi capitalistiche e quelle subalterne, come fase di costituzione
politica di una classe che acceda alla dimensione dello Stato.
Si intende da questo punto di vista, secondo la nostra ipotesi, la differenza essenziale tra i due sensi
principali di egemonia impiegati da Gramsci, nel loro riferimento alle classi capitalistiche e a quelle
subalterne. Da qui si possono provare a dedurre le diverse condizioni che diano vita a un’egemonia.
Il problema egemonico come costituzione di un’unità etico-politica si può porre per le classi
capitalistiche sia nel momento dell’ascesa al potere contro l’ordine precedente (alleanza con le
classi popolari), sia una volta al potere, solo in una situazione di squilibrio di forze a livello
strutturale, tale per cui le classi antagonistiche abbiano acquisito una forza destabilizzante per il
sistema, in grado di minacciarlo. Ma in questo caso il concetto di egemonia può essere ricondotto
più precisamente a quello di rivoluzione passiva, come Gramsci stesso fa più volte nell’analizzare la
forma specifica di dominio della borghesia nel XIX secolo, arrivando fino al fascismo e
all’americanismo23. Potremmo quindi formulare una proposizione specifica proprio a partire dagli

20
Cfr. A. Pizzorno, Sul metodo di Gramsci: dalla storiografia alla scienza politica, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e
la cultura contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967,
Editori Riuniti, Roma 1970, v. 2, pp. 109-126; L. Gallino, Gramsci e le scienze sociali, in Rossi (a cura di), Gramsci e
la cultura contemporanea cit., pp. 81-108.
21
Q13, §17, pp. 1583-85.
22
Q25, §5, pp. 2287-89.
23
La “rivoluzione passiva” nei Quaderni si presenta, secondo la nostra ipotesi, come la forma specifica di “egemonia
borghese”: «Non sarebbe il fascismo precisamente la forma di ‘rivoluzione passiva’ propria del secolo XIX come il
liberalismo lo è stato del secolo XIX? [...] la rivoluzione passiva si verificherebbe nel fatto di trasformare la struttura
economica ‘riformisticamente’[…] Questa concezione potrebbe essere avvicinata a quella che in politica si può
chiamare ‘guerra di posizione’ in opposizione alla guerra di movimento. Con il ciclo storico precedente la Rivoluzione
francese sarebbe stata ‘guerra di movimento’ e l’epoca liberale del secolo XIX una lunga guerra di posizione» (ivi, pp.
5
scritti gramsciani: la rivoluzione passiva è la modalità di esercizio dell’egemonia tipica delle classi
capitalistiche.
Per le classi subalterne, al contrario, il problema egemonico come effettiva integrazione e direzione
“intellettuale e morale” delle classi alleate è inseparabile dalla strategia per la conquista del potere
in una situazione in cui non sia possibile il rovesciamento violento dello Stato. Proprio in questo
senso per Gramsci il progetto egemonico delle classi subalterne coincide con la guerra di posizione
contrapposta alla guerra di movimento. Ma anche una volta al potere, la classe rivoluzionaria non
potrebbe fare a meno dell’egemonia, proprio per la necessità di mantenere il consenso non solo
delle élites, ma anche delle ampie forze sociali da cui dipende la transizione dal modo di
accumulazione capitalistico alla società comunista.
Se quindi per le classi capitalistiche il problema egemonico si pone solo in situazioni storiche
specifiche (come l’ascesa al potere della borghesia) e nella forma di una rivoluzione passiva che
non mira a una reale integrazione degli interessi classi subalterne ‒ di per sé impossibile nella logica
del capitalismo ‒, mentre l’esercizio della leadership di classe è assicurato dal potere strutturale
della classe capitalistica, al contrario per le classi subalterne la costruzione di un’egemonia etico-
politica si profila come una necessaria opzione strategica a fronte di condizioni strutturali che
tendono a disarticolarne la capacità di azione collettiva.
Da queste premesse è possibile individuare più precisamente le diverse condizioni e modalità della
socializzazione delle classi capitalistiche e subalterne a livello transnazionale, quale primo aspetto
di una concettualizzazione della world hegemony. Trasponendo analogicamente il modello generale
di egemonia che abbiamo tracciato, possiamo rielaborare le principali ipotesi formulate da Cox.

1) Il blocco governativo-economico che abbia trasformato uno Stato in agente primario


dell’accumulazione del capitale a livello internazionale esercita una capacità di attrazione
strutturale per le altre élites capitalistiche, determinando il sistema delle interdipendenze e
della competizione economica tra gli Stati. Si può parlare in questo caso di “progetto
egemonico” nel momento in cui il blocco governativo-economico dello Stato dominante nel
sistema internazionale imponga di fatto il modo di accumulazione a esso più funzionale
come modello in grado di garantire il più ampio profitto e potere per le élites dominanti
negli Stati alleati e/o subordinati. È quindi un modo di accumulazione, espresso in un blocco
di potere alla guida di uno Stato leader, a diventare egemonico per tutte le classi politiche ed
economiche il cui potere e prestigio dipendono dal capitale. Al contrario, la socializzazione
delle classi subalterne a livello transnazionale può aver luogo solo sul livello politico di un
progetto egemonico tale da superare le tendenze alla frammentazione, isolamento e
deprivazione cui esse sono soggette nella logica del capitalismo24.
2) Un’egemonia transnazionale delle classi dominanti assume la natura di consenso rivolta alle
classi potenzialmente antagonistiche solo nel caso in cui la forza acquisita da tali classi sia
tale da indurre le classi dominanti alla loro integrazione attraverso il compromesso. Ma
questo è di fatto possibile nel caso in cui la minaccia di tali gruppi abbia già acquisito
appunto una dimensione transnazionale, in base al presupposto di un unitario progetto

1088-89). Come “rivoluzione passiva” si può intendere per Gramsci l’introduzione di elementi di pianificazione
economica tali da ridurre e neutralizzare il potenziale agonistico delle classi subalterne (ivi, pp. 1226-1229). Proprio in
questo senso l’americanismo viene interpretato come rivoluzione passiva, come ipotizzato nel programma di lavoro del
Quaderno 22 (ivi, p. 2140).
24
Ivi, pp. 2287-89.
6
egemonico contro le classi capitalistiche. Un progetto egemonico di integrazione delle classi
antagonistiche da parte del capitale implica quindi la costituzione di una contro-egemonia
transnazionale delle classi subalterne.
3) Un simile progetto egemonico “consensuale” da parte del capitale avrebbe in ogni caso le
caratteristiche di una rivoluzione passiva nei confronti delle classi antagonistiche,
esercitandosi sul piano della cooptazione delle élites di queste ultime, funzionale al
progressivo svuotamento della loro forza politica e sociale. Al contrario la costruzione di
un’ideologia egemonica unitaria sarebbe per le classi subalterne il presupposto di ogni loro
organizzazione autonoma a livello transnazionale. Fine dell’egemonia capitalistica verso le
classi antagonistiche sarebbe quindi la progressiva soppressione della necessità stessa di
un’egemonia ‘consensuale’ per esercitare il dominio su di esse. Al contrario fine
dell’egemonia per le classi subalterne sarebbe la massimizzazione dell’egemonia stessa a
tutti i gruppi sociali potenzialmente antagonistici agli interessi del capitale.

Da queste ipotesi possiamo derivare una serie di osservazioni su alcuni punti fermi dell’approccio
coxiano, rilevandone le criticità e le possibili riformulazioni per l’ulteriore sviluppo di una teoria
neogramsciana della politica internazionale.

- L’internazionalizzazione dello Stato. Se per Cox essa è un carattere specifico della fase del
capitalismo che si è aperta dopo la fine del fordismo e del keynesismo, tale processo può
essere più adeguatamente inteso come caratteristica dello Stato in quanto agente regolatore
nel sistema di interdipendenze intrinseco al capitalismo. La questione cruciale non è tanto il
passaggio formale dalla dimensione nazionale a quella transnazionale, quanto il
cambiamento della scala territoriale e dell’intensità di tale socializzazione: quindi dipendente
dal livello di interdipendenze sviluppatosi tra gli agenti economici su scala globale in una
determinata fase dell’espansione capitalistica.
- Egemonia “etico-politica” internazionale. Su un piano internazionale e transnazionale
questo significato forte di egemonia non sembra avere senso come requisito determinante per
la classe capitalista e per la leadership di una superpotenza. Il problema del consenso e delle
mediazioni con le classi subalterne dei Paesi alleati o subordinati si può porre solo in caso di
un potere da parte di questi ultimi tale da minare il processo di accumulazione del capitale:
ma anche in questo caso l’egemonia pare potersi accostare alla gramsciana rivoluzione
passiva. In base alle osservazioni già fatte e ricavate dai Quaderni, la rivoluzione passiva si
presenta come carattere specifico in cui si realizza l’egemonia borghese, anche all’interno
dello Stato egemone nel sistema internazionale25.
- Pax Americana. Da questo punto di vista anche il momento storico che da Cox e dai
neogramsciani è stato interpretato come modello di egemonia a livello internazionale è
inquadrabile come la forma più sviluppata di rivoluzione passiva esercitata su tutte le classi
ed élites dirigenti dei Paesi alleati. Ma essa, lungi dal poter costituire un modello di

25
Questa lettura si discosta dall’interpretazione della passive revolution in Cox, Gramsci, Hegemony and International
Relations cit., pp. 54-55, pp. 63-64, e nei neogramsciani che più si sono soffermati su tale categoria, in primo luogo
Morton, Unravelling Gramsci cit., pp. 150-153. Lo stretto nesso tra egemonia della classe capitalista e rivoluzione
passiva, qui sostenuto, rende ancora “attualizzabile” quest’ultima categoria gramsciana, diversamente dalla tesi
avanzata da A. Callinicos, The Limits of Passive Revolution, «Capital and Class», XXXIV, 2010, 3, pp. 491-507.
7
riferimento per la comparazione storica, come implicitamente ha fatto Cox, rappresenta
piuttosto un unicum, determinato da un momento storico ben preciso nella storia dello
sviluppo capitalistico, quale l’ascesa dal comunismo a livello globale e la Guerra Fredda con
l’URSS.
- Egemonia transnazionale come “diffusione” dell’egemonia interna. La condizione posta da
Cox nella sua principale proposizione sull’egemonia internazionale, cioè il fatto che essa
venga stabilita da una super-potenza in cui si sia consolidata un’egemonia interna della classe
capitalistica26, è stata costruita proprio a partire dalla lettura dell’embedded liberalism del
dopoguerra. Solo in quel caso si è avuta un’egemonia interna propagata a livello
internazionale attraverso l’ideologia della società consumistica (funzionale allo stesso tempo
alla legittimazione del dominio americano e alla valorizzazione del capitale), un forte
apparato militare e un sistema di istituzioni finalizzato a dare legittimità “universale” alla
potenza leader. Ma in questo modo il criterio di egemonia appare come una generalizzazione
dell’interpretazione di un momento storico definito e non di un’analisi comparativa più
ampia: un’operazione la cui validità epistemologica risulta dubbia e problematica. Tale
modello interpretativo non può, quindi, assurgere in alcun modo a proposizione teorica,
facendo dell’egemonia interna il requisito di un ordine egemonico globale, inteso come
leadership nel sistema internazionale di accumulazione del capitale.

III

Il concetto di egemonia transnazionale nell’attuale sistema neo-liberale potrebbe, quindi, rivelarsi


più adeguato e teoricamente produttivo nell’analisi dei progetti egemonici delle élites delle
maggiori potenze economiche entro la leadership di una frazione di capitale precisa, in grado di
attrarre le classi politiche e i quadri amministrativi delle maggiori potenze economiche27. In questo
caso l’egemonia di una frazione di capitale sulle altre corrisponderebbe a un’espansione del capitale
finanziario/industriale in un sistema di rapporti di forza a livello internazionale per cui il problema
di un consenso paragonabile a quello dell’embedded liberalism non avrebbe ragione d’essere. Il
progressivo esaurimento della leadership statunitense e il rafforzamento di nuove potenze
economiche a livello mondiale, implicherebbe in questo caso la ridefinizione del problema della
direzione del processo di accumulazione a livello internazionale, con un maggiore protagonismo
“politico” delle élites economiche tale da compensare la debolezza o assenza di una nazione leader
a livello globale28. Il progetto di un’egemonia transnazionale nel capitalismo neoliberale potrebbe
quindi legarsi alla costituzione di strutture di socializzazione delle classi capitalistiche che
acquisiscano un ruolo sostitutivo rispetto al ruolo finora giocato dallo Stato-egemone. Legare l’idea
di un “progetto egemonico” alla funzione direttiva di un blocco politico-economico potrebbe quindi

26
Cox, Production, Power and World Order cit., pp. 149-150, p. 266.
27
Van der Pijl K., Transnational Classes and International Relations, Routledge, London-New York 1998, pp. 49-63.
28
Cfr. Van Apeldoorn B., Transnational Capitalism and the Struggle over European Integration, Routledge, London
2002, passim.
8
rendere tale concetto gramsciano più adeguato e teoricamente produttivo nel quadro di un sistema
mondiale multi-polare. Un progetto, è bene precisarlo, che non implica una realizzazione compiuta
dell’egemonia a livello transnazionale, ma che indica un processo di graduale (e non lineare)
socializzazione di classe oltre i confini nazionali entro lo sviluppo dei circuiti internazionali del
capitale produttivo e finanziario.
Una simile idea di egemonia potrebbe, inoltre, rivelarsi utile per concettualizzare le condizioni e la
possibilità dell’azione collettiva delle classi subalterne a un livello transnazionale. La sussunzione
capillare della riproduzione sociale sotto il capitale pone la questione della costituzione politica
delle classi subalterne come processo di soggettivazione dei molteplici e frammentati interessi
corporativi delle diverse forme di lavoro materiale e immateriale. Il processo di disarticolazione e
frammentazione del lavoro rende attuale la questione dell’individuazione di un progetto egemonico
in grado di unire i diversificati gruppi subalterni e che da un contesto nazionale possa assumere una
portata transnazionale29. Ancora una volta le categorie gramsciane possono offrire, a chi sappia
servirsene criticamente, un formidabile strumento teorico per l’azione di cambiamento e riscatto
delle nuove “classi subalterne”.

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