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FISIOPATOLOGIA E

METODOLOGIA
CHIRURGICA

Professore: P. Ricci

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Il chirurgo è quello che si occupa della patologia chirurgica, non solo dell’aspetto nettamente
manuale, ma è colui che decide se è il caso di operare oppure di non operare (facendo qualcosa di
minimo). Il buon chirurgo sa fermarsi altrimenti diventa solo un esercizio che non dà nessun
vantaggio anzi, può dare solo uno svantaggio al paziente. L’obiettivo non è fare il bellissimo
intervento, ma ottenere il risultato migliore per il paziente.

Il chirurgo quindi è quella figura professionale di medico che non si limita a fare l’intervento, ma si
occupa della patologia chirurgica, scegliendo la strategia migliore della patologia chirurgica, per il
miglior risultato del paziente. Non c’è in medicina, tranne rarissime eccezioni (come l’ecografia, la
percussione, la palpazione, farmaci come gli ormoni tiroidei, ecc.), nessuna manovra strumentale o
farmacologica che abbia solo ed esclusivamente effetti benefici. In medicina e in chirurgia c’è il
concetto della relatività, non esiste l’assoluto in medicina: tutto è sempre relativo.

L’intervento chirurgico per il successo, cioè ottenere il risultato sul paziente, si basa per metà
dall’atto chirurgico e metà dalla preparazione pre-intervento e dal trattamento post-intervento.
Ciò si basa su un principio fondamentale della vita: l’equilibrio idro-elettrolitico.

EQUILIBRIO IDRO-ELETTROLITICO
Il corpo umano è formato dal 60% di acqua e il turnover giornaliero di acqua è elevatissimo. Se
questo turnover non viene compensato, il soggetto muore in pochissimo tempo. Un soggetto
ideale di 60 Kg avrà 36 Kg d’acqua, cioè il 60%. Ogni giorno ognuno di noi scambia in termini
quantitativi (acqua) e in termini qualitativi (elettroliti). Pensando al quantitativo, solo all’acqua, si
perde tanto quanto si prende in maniera esogena dall’esterno per restare in equilibrio (2,5-3 litri).
Se non avviene il compenso, la fine del paziente è molto veloce. La perdita giornaliera dei liquidi in
un paziente fisiologico è data da:

 Le urine: in un giorno ci sono 1440 minuti (24 x 60) e quindi 1 ml al minuto di urine cioè
1500 ml di urine (1,5l);
 La respirazione: perspiratio insensibilis, vapore acqueo eliminato con il respiro (600 ml)
dipendente dalla temperatura corporea;
 Sudorazione e feci.

Il un paziente chirurgico può avere dei drenaggi, il sondino naso-gastrico, perdite o ad esempio,
situazioni come l’occlusione intestinale, che sequestra un certo numero di liquidi. Queste sono
tutte cause nelle quali il soggetto può rischiare di morire ancora prima dell’aspetto qualitativo
dell’energia, cioè dei prodotti e dello squilibrio idro-elettrolitico (Na+, K+, Ca+2, Cl-, ecc.). Il soggetto
può morire per disidratazione, poiché può perdere molti liquidi ogni giorno anche per sudorazione
(se ad esempio si trova sotto il sole, perde tanto per sudorazione). Se l’intervento riesce, ma il
paziente non viene seguito bene in reparto, cioè non viene riequilibrato, l’ottimo lavoro in sala
operatoria viene in toto o in parte danneggiato dalla scorretta gestione dl post-operatorio. Come si
effettua il bilancio idro-elettrolitico? Il paziente bisogna tenerlo in equilibrio idro-elettrolitico:

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bisogna dargli tanti liquidi quanto ne perde. Per sapere quanto perde cosa si fa? Si fa il bilancio
giornaliero cioè, si conta su un foglio (si segnano) dalle 7:00 di mattina alle 7:00 del giorno dopo,
nell’arco di 24 ore, tutto ciò che esce e tutto ciò che entra nell’organismo (con una colonna delle
entrate e una delle uscite). Delle uscite fanno parte le urine, la perspiratio insensibilis a seconda
della temperatura corporea, la sudorazione, le feci, se ha il sondino naso-gastrico, il vomito, ecc. si
segna tutto; Si segna tutto anche nella colonna delle entrate (tutto ciò che si dà al paziente) come
acqua, liquidi, farmaci (soluzioni fisiologiche) per OS (somministrazione orale), col sondino, oppure
per via parenterale. L’equilibrio si raggiunge con le entrate che devono essere pari alle uscite. Le
soluzioni fisiologiche possono essere elettrolitiche, bilanciate, glucosate al 5-10 %, aminoacidi,
lipidi, ecc. Si ha la possibilità di dare oltre all’acqua con vari elettroliti anche lipidi, aminoacidi e
glucidi. Come si fa a vedere se un paziente ha perso molti elettroliti? Si effettua un prelievo
ematico che ci indica gli elettroliti presenti nel sangue. Tenere sotto controllo l’equilibrio idro-
elettrolitico del paziente è fondamentale per la sua vita prima o dopo l’intervento. Il riequilibrio
deve essere effettuato sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo in maniera equa (tante
entrate tante uscite).

Ad esempio: se il soggetto ha un’emorragia, perde dei liquidi che vanno messi in bilancio, e
bisogna reintegrarlo con liquidi e sostanze che ha perso;

Se il soggetto ha un’ascite, un accumulo di liquido nella cavità peritoneale, un liquido ricco di


proteine, si effettua una paracentesi e perde 8l di liquido ascitico, lo si deve reintegrare con
qualcosa di simile (ad esempio albumina al 25%);

Un soggetto in ipopotassemia (o ipokalemia) lo si deve reintegrare col potassio (la carenza di


potassio può condurre a gravi problemi cardiaci e alla morte). Nei reparti di terapia intensiva o di
chirurgia, il bilancio viene effettuato a volte ogni 6 ore con correzioni in base alla idratazione del
paziente.

Un segno caratteristico di disidratazione è a livello della lingua (secchezza delle fauci) o a livello
cutaneo (secchezza della cute).

Se un soggetto di 80 anni in equilibrio idro-elettrolitico riceve dall’esterno entrate di liquidi ed


acqua, si può avere un sovraccarico a livello sistemico, a livello cardiaco, si può provocare edema
polmonare, edema sistemico.

Se un soggetto giovane fa un incidente e viene lesa un’arteria, va incontro ad un’emorragia;


ammettiamo che si perdono 750 ml di sangue o 1l di sangue cioè il 20% del sangue in circolo
nell’organismo: è giusto fare una trasfusione? No perché l’individuo giovane è in grado di avere dei
meccanismi fisiologici di ricostituzione del sangue, attraverso l’attività eritropoietina ed inoltre
bisogna evitare gli effetti collaterali che una trasfusione può portare. Agli adulti non dovrebbe mai
essere praticata la monotrasfusione, una sola unità, poiché una singola unità non è in grado di
apportare di per sé effetti apprezzabili, aumentando solo gli effetti collaterali della pratica
trasfusionale. Gli effetti collaterali immediati sono legati all’incompatibilità e al rischio d’infezioni.

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LESIONI CUTANEE
La cute è una struttura, un’interfaccia con l’ambiente esterno e rappresenta una barriera che
difende l’organismo da agenti chimici, fisici, infezioni, traumi meccanici e dai batteri. La cute serve
per evitare l’eccessiva perdita di liquidi ed è il motivo di morte per i soggetti ustionati. La cute è il
principale sistema di termoregolazione del corpo e di regolazione idrica dell’organismo umano; la
cute è anche la sede delle lesioni dell’organismo, ma anche la prima che viene incisa col bisturi dal
chirurgo. La cute è distribuita in maniera non equa nelle parti del corpo umano: è più sottile sul
dorso delle mani, sulle dita, a livello palpebrale; è più spessa nel palmo della mano, nella pianta
dei piedi. Ci sono anche gli annessi cutanei: peli, unghie, ghiandole sebacee e sudoripare,
mammelle. Per quanto riguarda la cute, le lesioni sono di due tipi:

1) Lesioni aperte: quando c’è una ferita.


2) Lesioni non aperte: sono dei traumi contusivi, sono lesioni chiuse senza una ferita.

La ferita è una soluzione recente di continuità della cute ed eventualmente delle strutture
sottostanti. Le ferite possono essere in rapporto al grado di profondità:

 Superficiali: se interessano la cute e il sottocute;


 Profonde: se interessano i piani sottostanti;
 Penetranti: se interessano le cavità.

Le differenze tra le lesioni a livello cutaneo (esterne) con quelle a livello della mucosa (interne)
sono:

LESIONI DELLA CUTE LESIONI DELLA MUCOSA


Arrossamento della cute: ERITEMA (va e viene) Arrossamento della mucosa: IPEREMIA
(cambiamento di colore)
Ferita superficiale della cute: ESCORIAZIONE Ferita superficiale: EROSIONE (non lascia segni)
(guarisce e non dà cicatrici o problemi, non
lasciano segni perché sono superficiali)
Ferita profonda: ULCERA (lascia il segno con la Ferita più profonda: ULCERAZIONE (segno della
cicatrice per il resto della vita) cicatrice)

Le ferite chirurgiche sono volute(intenzionali),sterili e regolari, mentre le ferite accidentali


(lacerocontuse) sono dovute ad eventi non voluti,infette e irregolari.
Qual è la differente azione sulla cute e non solo sulla cute tra un agente chimico e un agente
fisico? La differenza sta nella durata di contatto con la cute: l’agente chimico ha una durata di
contatto maggiore rispetto a quello fisico. Nel corpo umano se per qualche motivo meccanico o
patologico c’è una zona in cui il materiale ristagna,la flora batterica residente,che in condizioni
normali non farebbe nessun danno,crea una reazione infiammatoria,infettiva con formazione
d’infiltrati,di pus,di gangrena,ecc.

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L’aspetto delle ferite può essere:

 Contusivo: il trauma produce un danno sottostante senza lesione della cute (ecchimosi ed
ematomi);
 Escoriativo: perdita superficiale e limitata dell’epidermide;
 Lacero o lacero-contuse: ferite senza bordi regolari e/o per strappamento della cute.
 Da taglio: quando è determinata da oggetto tagliente;
 Da punta: quando è determinata da oggetto appuntito.

La ferita non viene guarita dai punti di sutura:questi rappresentano un aiuto al processo di
guarigione,nel velocizzare il tempo di cicatrizzazione. L’avvicinamento dei lembi è solo un mezzo
per aiutare il normale processo di cicatrizzazione e di guarigione; se il processo di cicatrizzazione
non c’è, non ci può essere guarigione anche con presenza di punti di sutura.
Una ferita chirurgica in linea di massima guarisce per prima intenzione poiché si ha l’applicazione
dei punti ed è sterile; Nella guarigione di prima intenzione non vi è diastasi dei margini e la
guarigione avviene senza complicanze infettive. Possono tuttavia verificarsi delle complicanze
post-operatorie che possono essere minori,come l’infezione della ferita che prolunga il tempo di
guarigione, e complicanze maggiori,come (nelle ferite profonde) la peritonite e la sepsi che
possono mettere a repentaglio la vita del paziente. Nella guarigione per seconda intenzione vi è
diastasi dei margini e ci può essere o meno infezione della ferita.

EMORRAGIA
L’emorragia è una manifestazione che può riguardare situazioni differenti così come l’occlusione
intestinale è un quadro,ma non una malattia, un quadro che si manifesta come conseguenza
d’urgenza di più patologie. Anche l’ittero è un quadro che dipende da una serie di patologie
(calcolosi, tumori compressivi, tumori della testa del pancreas, pancreatite acuta necrotico-
emorragica, ecc.). Quindi l’emorragia, l’ittero e l’occlusione sono manifestazioni di una o più
patologie. Per emorragia si intende una perdita di sangue con fuoriuscita dai vasi sanguigni.
Quando si parla di emorragia ci si riferisce alla perdita dei globuli rossi e quindi di emoglobina e
della sua funzione nel trasporto di ossigeno ai tessuti. Le conseguenze sono l’ipoperfusione
tissutale per la diminuzione del trasporto d’ossigeno ai tessuti e l’ipovolemia. L’emorragia può
essere:

 Emorragia esterna dovuta a ferite che di solito per cause traumatiche interessano la cute e
il sottocute e con interruzione di un vaso sanguigno;
 Emorragia interna-esterna in cui la rottura del vaso avviene a livello della tonaca mucosa
di organi cavi,come ad esempio le emorragie dell’apparato digerente(il sangue fuoriesce
dalla bocca o dall’ano);
 Emorragia interna-interna in cui la rottura del vaso avviene in una cavità che non sia un
viscere come ad esempio le emorragie della cavità peritoneale (emoperitoneo) o del
torace (emotorace).

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La pressione arteriosa è di 120/80 mmHg e si misura con lo sfigmomanometro oppure con un ago
direttamente in arteria con un trasduttore e che evidenzia la pressione in quella istante (reparti di
rianimazione). Con l’ago in arteria si può avere una misurazione della pressione continua nel
paziente.

La pressione venosa è minore rispetto all’arteriosa ed è talmente bassa che è difficile misurarla e
va da 0 a 3 mmHg; Allora si usano i cmH2O: la proporzione tra l’acqua e il mercurio è di 1:13 , cioè
l’acqua è 13 volte più leggera del mercurio. La pressione venosa oscilla tra 0-5 cmH2O.

La pressione venosa centrale (PVC) si misura con il catetere di Swan-Ganz, noto anche come
catetere arterioso polmonare, è un sistema di monitoraggio invasivo utilizzato in anestesia e
soprattutto in terapia intensiva. Il catetere viene inserito in una vena centrale (es. giugulare
interna) e fatto avanzare dall'atrio destro al ventricolo destro e in seguito, dopo insufflazione di
un palloncino, fatto proseguire fino all'incuneamento in arteria polmonare. Viene utilizzato per
monitorare in continuo la pressione venosa centrale. Quando un paziente ha un’infusione venosa
il liquido nella colonna scende fino a livello statico dell’atrio destro, fino a livello della pressione
venosa del paziente: la pressione della colonna d’acqua eguaglia la pressione venosa (5 cmH 2O
significa 50 mmH2O che in mmHg fanno 3-3,5). Il differenziale è proprio quello che serve per la
circolazione del sangue: se non ci fosse una pressione così elevata fra l’entrate e l’uscite, non ci
sarebbe una buona perfusione. Infatti quando il paziente è ipoteso o in shock con pressione
massima a 70 o 80, la perfusione dei tessuti è ridotta. Per una buona perfusione ci deve essere
una pressione arteriosa di 120/80 mmHg e una pressione venosa di 5 cmH 2O. La pressione
venosa è un ottimo indicatore di sovraccarico o di ridotta presenza d’acqua ed elettroliti
nell’organismo.

Ci sono 3 tipi di eventi che inducono emorragia:

1) Cause traumatiche (ferite interessanti vasi sanguigni)


2) Malattie emorragiche (da difetto vascolare,piastrinico o dei fattori della coagulazione)
3) Da mancata emostasi per o dopo un intervento chirurgico

L’emorragia è presente in eventi traumatici (urti, ferite da accoltellamento, ferite da arma da


fuoco,ecc.), ulcere, varici esofagee, polipi o tumori a livello del colon, lo stesso a livello dello
stomaco, a livello peritoneale (aneurisma dissecante dell’aorta,rottura di milza,ecc.), interventi
operatori (sull’apparato digerente recinsione e anastomosi con complicanze di deiscenza ed
emorragia che può essere dentro il lume o fuori dal lume). Se l’emorragia è dentro il lume si avrà
ematemesi e melena, se è fuori dal lume e quindi nel peritoneo si avrà emoperitoneo.

A parità di calibro e di sangue quindi attraverso il vaso, è più preoccupante il sanguinamento


arterioso di quello venoso poiché, si perde quantità maggiore di sangue proporzionale alla portata
del vaso (pressione per diametro del vaso, molto maggiore nell’arteria rispetto ala vena). In caso

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di emorragie di vasi arteriosi è necessario comprimere con una certa pressione per favorire
l’emostasi, comprimere a monte del vaso danneggiato. Se c’è emorragia venosa si comprime con
minore pressione per favorire l’emostasi e basta sollevare l’arto leso per favorire l’emostasi.

Nel periodo che va dalla lesione del vaso all’emostasi,il soggetto ha perso una certa quantità di
sangue che può essere una perdita:

LIEVE Con perdite inferiori al 15-20% della massa circolante complessiva (circa 750 ml in un
soggetto medio):per questi volumi di perdite ematiche non si procede ad emotrasfusioni
MEDIA Con perdite comprese tra il 15-25% della massa complessiva di sangue
circolante:richiedono emotrasfusioni
GRAVE Oltre il 25% della massa circolante (1250ml in un soggetto normale): richiedono una
immediata trasfusione e comunque un intenso monitoraggio delle condizioni generali
del paziente
Per le emorragie lievi e quelle medie non si effettua subito una emotrasfusione, si cerca di evitare
poiché il rischio di compatibilità è elevato,così come il rischio infettivo. Per le emorragie gravi si
procede subito con emotrasfusioni.

Il trattamento delle emorragie si basa su:

1) L’emostasi della ferita o della lesione;


2) L’incannulamento di un vaso venoso;
3) Valutazione della pressione arteriosa;
4) Posizionamento di un catetere vescicale.

In media un individuo ha 5l di sangue in circolo: è chiaro che un individuo che pesa poco,basso,
gracile,avrà una quantità inferiore alla norma, mentre un individuo che pesa molto,è molto alto,
avrà una quantità di sangue superiore alla norma. Le perdite di sangue sono espresse in
percentuali, perché se un bambino di 3 anni perde mezzo litro di sangue,non è lo stesso mezzo
litro di un adulto.

Per evidenziare una perdita di sangue bisogna tenere d’occhio i seguenti parametri
dell’emocromo:

I. Conta degli eritrociti


II. Ematocrito
III. Quantità di emoglobina

Se un individuo perde 1l di sangue e immediatamente si effettua un prelievo i valori non saranno


cambiati perché si perde tutto nello stesso tempo e nello stesso istante si perdono tanti globuli
rossi,tante piastrine,tanti globuli bianchi per cui si hanno quantitativamente delle riduzioni ma i
valori in rapporto sono normali. Il soggetto quando ha un’emorragia esterna, interna-esterna,
interna-interna, succede che in quel momento l’organismo mette in funzione una serie di risposte

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che servono per mantenere la sopravvivenza di fronte a questo evento. Ci sono dei meccanismi di
compenso ed alcuni sono immediati per salvaguardare l’organismo e riguardano il cervello,il
cuore e i polmoni. C’è immediatamente un calo della pressione e il cervello lo avverte subito e
tutto l’organismo determina una situazione d’emergenza: in primis gli impulsi adrenergici
inducono vasocostrizione e riduzione quindi del letto vascolare,poi anche la mobilizzazione dei
liquidi dagli spazi extra e intracellulari con il blocco della diuresi (oliguria) attraverso l’aumentato
riassorbimento dell’acqua a livello tubulare. Si avrà perciò un’urina più concentrata. Bisogna
introdurre in questi casi un catetere in vescica,togliere l’urina precedente e vedere quanto urina
perché se riprende ad urinare vuol dire che lo stiamo compensando bene; Se la pressione è
bassa,il rene non filtra più quindi cerca di trattenere. La milza viene spremuta per dare 250 ml di
sangue all’organismo. Questi descritti sono i meccanismi immediati. Poi ci sono i meccanismi a
breve e a lungo termine: ricostruzione dei globuli rossi (attività eritropoietica).

Se c’è un sanguinamento il soggetto ha un pallore,si sente debole, sviene poiché la pressione cala
ed in questo caso si mette il paziente in posizione Trendelenburg (posizione clinostatica con
gambe in alto rispetto al capo). Se il soggetto ha un ipotensione o uno shock ipovolemico bisogna
per prima cosa bloccare l’emorragia e poi reintegrare l’organismo con qualsiasi tipo di liquido se ci
si trova in strada, se si sta in pronto soccorso si dà il plasma expander (EMAGEL), un prodotto
sintetico, sterile, anallergico, privo di problemi di compatibilità, in attesa di decidere il passo
successivo. Un altro farmaco di uso comune in caso di emorragie è l’idrocortisone(FLEBOCORTID,
SOLUCORTID), ma ha degli effetti negativi come l’immunosoppressione, aumenta l’acidità
gastrica,è un iperglicemizzante, dà problemi di edemi. Quando si richiede una sacca di trasfusione
si richiede di solito di globuli rossi concentrati.

La richiesta di sangue per emotrasfusione può essere:

 Programmata: si sa che domani si ha un intervento potenzialmente rischioso di emorragia


e si programma la presenza in sala operatoria di due sacche di sangue compatibili con il
sangue del paziente.
 Urgente: può essere effettuata nel giro di un paio d’ore, in cui si effettuano le prove
crociate per la compatibilità del sangue e nel frattempo il paziente è trattato con emagel;
questa non è una situazione di elevata urgenza e il paziente è parzialmente compensato.
 Urgentissima: non si riesce a compensare il paziente, si ha un eccessiva emorragia, si sta
per perdere il paziente quindi è necessario avere una sacca di sangue senza prove crociate
entro pochi minuti.

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Dunque la scelta tra urgente ed urgentissima dipende dalla:

o Quantità di sangue perso (dalla gravità dell’emorragia);


o Dalla velocità con cui viene perso (più è lenta e più l’organismo attiva i meccanismi di
compenso);
o Dal fatto che siamo riusciti a bloccare o meno l’emorragia;
o Dal fatto che il paziente sia o meno in grado di compensare autonomamente il calo della
volemia.

Le emorragie a livello addominale(apparato digerente) si suddividono in due compartimenti:


quelle al di sopra e al di sotto dell’angolo del Treitz (tra duodeno e digiuno) dove finisce la parte
retro peritoneale ed inizia quella mobile. Il sanguinamento se è al di sopra dell’angolo del Treitz
(esofago,stomaco,duodeno I,II,III porzione) si definisce come emorragia alta; Al di sotto si
definisce emorragia bassa. Un’emorragia bassa comporta perdita a livello anale, di sangue
digerito,sangue nero (nero carbone), però liquido e malodorante: questo fenomeno si chiama
melena. Se il sangue per un’alterazione della peristalsi,sangue non digerito viene vomitato,
emesso dalla bocca,questo fenomeno si chiama ematemesi. Se il sangue esce dalla bocca e
proviene dall’apparato respiratorio si avrà l’emottisi (sangue dalla bocca) o l’emoftoe (sangue
rosso chiaro, schiumoso e frammisto a muco). Il sangue proveniente dalle vie urinarie si chiama
ematuria. Il sangue rosso vivo dall’ano prende il nome di proctorragia o rettorragia o se viene più
dall’alto enterorragia.

Se un individuo riceve una coltellata(fatto traumatico) o dopo un intervento chirurgico e si lesiona


in addome un vaso, il sangue non va a finire dentro un viscere ma va a finire dentro il peritoneo
provocando un emoperitoneo. Se il sanguinamento è a livello del torace si chiamerà emotorace.
Se la perdita di sangue è a livello della via biliare e la bile esce sotto forma di melena, se è poco
sarà un sanguinamento acuto e lo si vede con la ricerca del sangue occulto nelle feci, e il
sanguinamento della via biliare si chiama emobilìa.

Ad esempio se c’è un sanguinamento a livello gastrico,quindi con un ulcera gastrica,ci aspetteremo


sicuramente melena ed una possibile ematemesi. Ci sarà un’ipotensione che può culminare allo
shock se non si interviene, presenta pallore, sudore freddo, tachicardia con polso debole,
tachipnea (la tachicardia e la tachipnea sono risposte di compenso da parte dell’organismo). Per
vedere se scambia poco ossigeno si effettua l’EMOGAS,e se i valori risultano alterati si attacca il
respiratore per l’ossigeno-terapia. Se il soggetto continuerà ad non urinare significa che è ancora
ipovolemico,ancora non è compensato. Se la diuresi è minima cioè oliguria, le urina saranno
iperconcentrate. Se il soggetto ha perso sangue da una emorragia gastrica da ulcera,oltre a tutto
ciò, si mette subito un sondino naso-gastrico per svuotare la cavità gastrica con funzione quindi di
drenaggio, e se il sangue ha già preso in parte la via del piloro si deve effettuare un clistere. Con il
lavaggio attraverso acqua e malox e l’aspirazione, si rimuove tutto il contenuto nello stomaco e si
ha una funzione di spia o di monitoraggio (non arriva altro materiale se no significa che sta ancora
perdendo sangue). Inoltre lo stomaco,in condizioni normali è una cavità virtuale e se si aspira si

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avvicinano le pareti e migliora la qualità dell’emostasi. Il paziente appena possibile, riequilibrato,
con tutto il sondino mandarlo in gastroscopia; se non si riesce a riequilibrarlo vuol dire che
continua a perdere sangue e si prova a continuare una terapia conservativa ed emotrasfusioni per
arrestare l’emorragia. Se il paziente dal sondino o dal drenaggio perde più di 100-150 ml all’ora
(quantità possibile di trasfusione), non si può riequilibrare con il trattamento medico perché perde
di più rispetto a quello che si trasfonde e allora si manda in sala operatoria o in endoscopia per un
trattamento chirurgico.

L’EMOGAS ci dà alcuni valori come il pH (valore normale 7,34), la pO 2, la pCO2, l’HCO3, Na+,K+. In
caso di emorragia ci potrebbe essere un’acidosi respiratoria con pH diminuito, la pCO 2 aumentata
e la pO2 diminuita, gli ioni bicarbonato HCO3 aumentati per il compenso da parte renale. Il
paziente va in acidosi perché il rene riduce la diuresi nel tentativo di compensare. Somministriamo
bicarbonato via endovena e la quantità è espressa in mEq ed la quantità giusta da somministrare si
basa sul valore del “base excess”,ridotto nell’acidosi,aumentato nell’alcalosi; Il valore del base
excess moltiplicato per 1/3 del peso corporeo ci dà la quantità giusta di mEq di ioni bicarbonato da
somministrare. Di solito si inizia a dare la metà del valore ottenuto di mEq di bicarbonato poiché
l’organismo ha già iniziato ad attivare i meccanismi di compenso; se poi non è sufficiente si
somministra l’altra metà. Non va fatta la somministrazione totale perché se no si può
sovraccaricare l’organismo.

Pericoloso è il caso di emoperitoneo, quando l’emorragia è nascosta, e le possibili cause possono


essere: traumi (lesioni dei viscerali e lesioni vascolari), spontanei (rottura di aneurisma dell’aorta,
rottura di un epatoma o angioma epatico, rottura di milza,pancreatite emorragica), ostetrico-
ginecologiche (rottura del corpo luteo e rottura di gravidanza extrauterina). Nella rottura di milza
o di fegato, è di frequente riscontro una sintomatologia dolorosa nell’ipocondrio corrispondente,
con diverse possibili irradiazioni addominali; in caso di rottura di milza è frequente l’irradiazione
del dolore alla spalla sinistra per irritazione del nervo frenico (segno di Kehr). In caso di lesione
splenica può comparire una leucocitosi, in contrasto con una marcata diminuzione di globuli rossi,
dovuta alla liberazione massiva di globuli bianchi da parte della milza. Se si ha il dubbio che il
paziente abbia un emoperitoneo,per averne la certezza si effettua un’ecografia ed il sangue si
raccoglie nella parte bassa del peritoneo cioè, lo sfondato del Douglas (cavo retto-vescicale
nell’uomo e cavo retto-uterino nella donna), nello scavo pelvico.

Il rischio prodotto da un’emorragia varia da paziente a paziente: un conto è un paziente


fisiologicamente normale con una riduzione dell’emoglobina da 16 a 12 g/dl, un conto è un
paziente cirrotico che con un emorragia può arrivare a valori di emoglobina da 16 g/dl a 5-6 g/dl;
Come pure un conto è un emorragia con perdita di 500 ml di un adulto e un conto di un neonato o
all’anziano cardiopatico di 80 anni: l’individuo giovane o adulto compensa meglio ed in minor
tempo.

Soggetti con problemi emorroidali o problemi di mestruazioni possono arrivare da 14 g/dl a 7 g/dl
di emoglobina: in questo caso non c’è bisogno di trasfusione poiché è un adattamento lento
dell’organismo, è una perdita, e il soggetto deve fare trattamento terapeutico con ferro e acido

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folico per ricostituire l’emoglobina. Questa non è un’emorragia acuta,ma un’anemizzazione
cronica,lenta.

In soggetti cirrotici o con deficit della coagulazione e coagulopatie si dà anche il plasma, cioè si
danno i fattori della coagulazione; Quanti tipi di plasma abbiamo?

 Il plasma fresco è ricco di fattori della coagulazione;


 Il plasma congelato è povero dei fattori della coagulazione.

Il plasma congelato può essere utile in un paziente cirrotico ma, che non ha avuto sanguinamento
o emorragia, ma ha avuto ascite, poiché in questo caso daremo proteine sieriche, come
l’albumina. Il plasma fresco lo si dà tutte le volte che si hanno deficit di fattori della coagulazione,
in tutti i casi in cui si hanno problemi di coagulazione.

In caso di emorragia il rischio è legato allo shock ipovolemico; In un soggetto anziano lo shock
ipovolemico può diventare shock cardiogeno? Certo poiché il cuore invece di pompare di più
comincia a cedere, grazie al danneggiamento dello shock ipovolemico e grazie all’ipossia a livello
tissutale, andando a danneggiare in primis il cuore provocando danno ischemico. Ci accorgiamo
della difficoltà di pompare da parte del cuore oltre che dall’ECG, dalla pressione venosa periferica
e centrale. Se non sale la pressione arteriosa e non sale quella venosa vuol dire che abbiamo
compensato molto poco; se invece, non sale la pressione arteriosa ma sale la pressione venosa,
significa che il cuore no ce la fa a pompare: l’aumento della pressione venosa centrale significa che
o si è caricato troppo di liquidi l’organismo,oppure che la quantità di liquidi è giusta ma il cuore ha
ceduto.

CATETERISMI A LIVELLO GIUGULARE

Il catetere venoso centrale (CVC) si introduce a livello della giugulare o della succlavia e lo si
posizione a livello dell’atrio destro dove c’è la maggiore diluizione venosa. Per verificare il
posizionamento corretto si effettua un controllo radiografico.

Il catetere di Svan Diers con tutti i trasduttori per il monitoraggio.

Il catetere angiografico per la TIPS (shunt porto-sistemico intraepatico trans giugulare).

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CLASSIFICAZIONE DEGLI INTERVENTI
Gli interventi possono essere in:

o Elezione, quando l’intervento è programmato;


o Urgenza, un intervento che va effettuato immediatamente;

Gli organi possono essere organi cavi (visceri), con una sierosa sterile e una mucosa contaminata e
poi abbiamo gli organi solidi.

Da un punto di vista delle infezioni è possibile classificare gli interventi in:

 Puliti, ovvero tutti gli interventi che non comportano apertura di organi cavi (visceri) degli
apparati gastrointestinale, respiratorio, genito-urinario oppure che riguardano campi dove
non è presente alcun focolaio d’infiammazione. Degli interventi puliti fanno parte:gli
interventi vascolari, la mastectomia, la tiroidectomia, l’ernioplastica, lo shunt porto-cavale
o spleno-renale. In teoria non dovrebbe essere effettuata una profilassi antibiotica.
 Potenzialmente contaminati quando comportano l’apertura di organi cavi ma, eseguiti con
tecnica perfetta ed in assenza di processi infiammatori. Ne fanno parte la colecistectomia,
la gastrectomia, la resezione del colon e la nefrectomia. Contatto potenziale della mucosa
di un organo; Ad esempio colecistectomia con il moncone mucoso del dotto cistico che
potenzialmente può essere contaminato e di conseguenza contaminare. Questo tipo di
intervento prevede solo l’antibiotico profilassi.
 Contaminati quando sono stati eseguiti o in condizioni di infiammazione in atto o in
maniera non perfetta. Pertanto ne fanno parte la colecistectomia eseguita per una
colecistite oppure, quando una resezione gastrica o colica ha comportato, a causa di una
manovra non perfetto, una disseminazione in addome del contenuto del viscere anche se
solo in maniera parziale. Questo tipo di intervento prevede l’antibiotico profilassi e
l’antibiotico terapia.
 Sporchi sono quegli interventi eseguiti quando già al momento dell’inizio dell’intervento
esistono perforazioni, tra il viscere e la cavità che li contiene, che abbiano già determinato
uno stato di sepsi anche localizzata con presenza di materiale purulento. Esempi di questo
tipo di intervento sono quelli che vengono eseguiti per perforazioni gastriche,duodenali o
coliche, ulcera perforata, fistola, diverticolo del colon, ferita da taglio o ferita da arma da
fuoco. Il paziente è già contaminato prima che deve affrontare l’intervento.

In chirurgia abbiamo due tipi di complicanze (classificazione pratica):

1) Complicanze minori: infezioni della ferita cutanea, della parte esterna della ferita, una
ferita sottocutanea non va ad intaccare il peritoneo, e non mette a repentaglio la vita del
paziente. In questi casi o si lascia fare alla natura, nonostante i punti, la ferita si gonfia,

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traslucida e il pus cerca di esteriorizzarsi ma ci mette più tempo, o si fa saltare uno o più
punti per drenare all’esterno il pus. Il paziente certo, non morirà, ma il decorso di
guarigione sarà più lungo, ma la curiamo o non la curiamo, guarisce comunque. Una volta
aperto, se troviamo una ferita cutanea infetta e facciamo uscire il materiale purulento,
drenandolo (drenaggio per capillarità), o si lascia aperta, medicarla e farla guarire.

2) Complicanze maggiori: se si apre un’anastomosi a livello addominale e filtra materiale in


peritoneo, ciò non è normale e accade che avviene un quadro di peritonite, e dalla
peritonite si passa allo shock settico, che se non trattato porta alla morte del paziente. Se
non si interviene subito il paziente rischia di morire e prima si interviene e prima si ha
possibilità di successo. Una complicanza di tipo maggiore, già se trattata a volte si rischia la
vita del paziente, se non trattata, si rischia di sicuro. Ovviamente nel quadro di uno shock
settico lo si può evidenziare clinicamente e/o strumentalmente:

 Febbre
 Dolore
 Ipotensione
 Occlusione
 Rx diretta addome in ortostasi (livelli idroaerei e se c’è perforazione la falce d’aria)
 Emocromo (con emorragia si ha anemia, se c’è infezione leucocitosi)
 Sondino naso-gastrico se necessario
 Se c’è perforazione l’endoscopia non è indicata

Il quadro di peritonite pura è diversa dalla peritonite post-operatoria: un addome operato, subito
dopo comunque forma aderenze, quindi la reazione peritoneale può non essere così diffusa come
un addome libero ,vergine , ma può essere saccata in rapporto alla zona dove inizia e dove se si
riesce a confinare, e la sintomatologia può essere varia proprio perché non è generale. Un addome
operato può essere in qualche maniera in parte bloccato.

Nel caso in cui c’è una perdita dell’anastomosi cosa si fa? Andare ad operare in una zona infetta è
una cosa che NON si fa mai. Anche su una ferita, se è infetta non si mettono mai. Il problema è che
non si può chiudere; Se è una deiscenza totale, il paziente deve essere riaperto, ma non per rifare
l’anastomosi, ma per chiudere i monconi temporaneamente in attesa, dopo un certo periodo di
poterlo rioperare. Se il buco è piccolo (deiscenza o fistola piccola, parziale), premesso che si fa la
terapia antibiotica perché c’è un quadro di sepsi locale e generale, soprattutto se abbiamo
ritardato la diagnosi, la terapia è data dal riposo alimentare e quindi dobbiamo dargli un supporto
esterno la nutrizione parenterale totale, e guarisce per seconda intenzione dal riposo alimentare e
l’alimentazione parenterale. La valutazione clinica è sovrana rispetto agli esami. Se si ha un quadro
di apparente benessere ma esami sballati si deve credere alla valutazione clinica. Gli esami vanno
interpretati, bisogna valutare il trend, non il singolo valore.

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OCCLUSIONE INTESTINALE
L’occlusione intestinale o ileo è un impedimento patologico (quadro patologico) alla progressione
aborale del contenuto intestinale per ostruzione del lume, patologia della parete o estrinseca
(occlusione meccanica) o per danno funzionale con paralisi della muscolatura intestinale (ileo
adinamico o paralitico).

La differenza tra uno stitico ed un occluso sta nel fatto che lo stitico è una condizione
parafisiologica in cui si ha l’alvo chiuso, ma si ha comunque un riassorbimento e c’è peristalsi,
mentre l’occluso è una condizione patologica in cui si ha occlusione, è chiuso l’alvo, sia da
problema meccanico sia da danno funzionale, ma c’è un problema nel riassorbimento (c’è un
blocco del riassorbimento dei liquidi), c’è un blocco della peristalsi. Il problema dell’occluso è
proprio il mancato riassorbimento di liquidi,che vengono prodotti dall’organismo e sequestrati e
per questo il soggetto sarà disidratato con una condizione di addome acuto, pieno di liquidi, gas e
materiale dell’apparato digerente, riversato nelle anse intestinali (non come l’ascite nel
peritoneo). Negli occlusi la secrezione intestinale continua ad essere prodotta e accumulata senza
un riassorbimento, per cui tali secrezioni si accumulano a monte e possono essere presenti nello
stomaco. In tal caso con il sondino naso-gastrico si può osservare materiale fecaloide e addirittura
si può avere un vomito fecaloide. Il vomito fecaloide può essere riscontrato in due casi: occlusione
intestinale e fistola gastro-colica. Nel caso dell’occlusione intestinale, il vomito fecaloide è dovuto
al fatto che il paziente è occluso da tempo, non è stato diagnosticato in maniera celere lo stato di
occlusione, e c’è continua produzione senza assorbimento. Nel caso della fistola si ha vomito
fecaloide quando c’è una complicanza di un carcinoma gastrico o di una ulcerazione al livello
dell’anastomosi gastro-enterica (GEA). Quindi nell’occlusione si ha uno squilibrio idro-elettrolitico.

L’occlusione intestinale è più comune a molte patologie e la si può dividere in due tipi:

o Occlusione di tipo meccanico dovuta o ad ostruzione all’interno del lume stesso (occlusione
intraluminale), ovvero essere legata ad una patologia della parete intestinale (occlusione
intramurale), oppure ancora a patologia estrinseca che comprime un intestino di per sé
normale (occlusione extraintestinale). L’occlusione meccanica può essere sia completa che
parziale: in quest’ultimo caso il decorso clinico sarà caratterizzato da episodi subacuti o
ricorrenti (subocclusione intestinale).
o Occlusione di tipo funzionale (ileo paralitico) dovuta ad arresto funzionale e ciò avviene
quando una paralisi della muscolatura intestinale rende inefficace l’attività propulsiva.

Il trattamento al paziente con occlusione intestinale è dato dall’introduzione del sondino naso-
gastrico per evitare l’ab ingestis e per drenare fuori i liquidi accumulati, reidratare il paziente,
risolvere il problema dell’occlusione.

Un primo gruppo di cause di occlusione intestinale sono cause meccaniche e rappresentano l’80%
dei casi e sono tangibili documentabili:

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1. Aderenze post-operatorie(occlusioni ileali)
2. Neoplasie (occlusioni colon sx)
3. Ernie (inguinale)
4. Volvolo e diverticolite (II e III causa di occlusione colica)

Un altro gruppo di cause sono quelle paralitiche, non dipendono da stimoli meccanici, ma da
stimoli biochimici, un’irritazione biochimica che avviene perché c’è qualcosa di alterato a livello
peritoneale e si ha ostruzione del lume:

1. Materiale ingerito
2. Corpi estranei
3. Invaginazione
4. Ileo biliare

Tutte le volte che c’è un quadro di infiammazione localizzata peritoneale ma,che poi diventa
generalizzata, per reazione c’è un blocco della peristalsi con occlusione. Un grosso trauma a livello
addominale (stress da trauma ma senza lesioni), porta al peritoneo a reagire in senso occlusivo
transitorio (dura poco).

Un’altra causa che dà un blocco della peristalsi è l’incisione addominale; tutte le volte che si
effettua un intervento addominale (intervento demolitivo o semplicemente un intervento
esplorativo, laparotomia esplorativa), per incisione del peritoneo, si provoca occlusione intestinale
e può durare da poche ore a 2-3 giorni. Anche il caso di emoperitoneo post-gravidanza
extrauterina dà un problema di occlusione da ileo paralitico.

Le cause meccaniche, biochimiche e da stress addominale ce le ritroviamo in urgenza, mentre le


cause di incisione addominale sono post-operatorie, ce le aspettiamo, e il paziente torna in
reparto col sondino naso-gastrico e viene tolto solo quando riprende l’attività peristaltica.

Quando si ha un’ostruzione (causa meccanica),quello che è a valle è normale,mentre quello che è


a monte è una porzione distesa (distensione delle anse), perché si accumulano feci liquide e gas
(miscuglio di gas e liquidi). Un’ansa distesa rispetto ad un’ansa normale avrà una parete più sottile,
più tesa, sotto pressione e non funzionante e ciò rispecchia la Legge di Laplace: la tensione a cui è
sottoposta la parete di una struttura cava è proporzionale al suo diametro. Quindi più un
segmento intestinale è dilatato più avete tensione parietale e dunque maggior rischio di rottura.

Quando l’occlusione è di tipo paralitico la situazione è differente: non c’è un reale punto di blocco
al di sopra e al di sotto, c’è una distensione uniforme, un blocco uniforme, è un quadro reattivo,
biochimico.

Sintomatologia di un quadro occlusivo

Il paziente si presenta con dolore addominale, addome globoso (acuto), disidratato (lingua e
mucose orofaringee secche, cute anelastica), pressione alterata, concentrazione della parte

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corpuscolare ematica per diminuzione della parte liquida e quindi aumento dell’ematocrito, urine
ridotte ed iperconcentrate (valore di creatinina alterata),nausea ( la nausea è prodromica),vomito,
chiusura dell’alvo a feci e gas.

Soprattutto se è un fatto meccanico, se c’è un ostacolo, un corpo estraneo ce sia un tumore, che
sia una massa, un’ernia, un ileo biliare (raro), l’intestino reagisce inducendo forti movimenti di
peristalsi cercando di spingere la massa e si avranno dolori crampiformi o coliche (dolore che va e
viene, aumenta e diminuisce).

Se invece, è di tipo reattivo, non c’è sempre il classico dolore crampiforme, la sintomatologia
cambia aspetto (dolore appendicolare con infiammazione che si distende) ma, il risultato finale è
che si ha una distensione, mancato riassorbimento ed accumulo di gas e liquidi che ristagnano e
forma e si formano i batteri. I gas sono prodotti o dall’alimentazione o mentre si mangia o si parla
si introducono gas all’interno (aerofagia).

Da un punto di vista strumentale, quello che ci consente di evidenziare un quadro di occlusione


intestinale è l’Rx diretta addome in ortostatismo. Si effettua in ortostatismo perché l’accumulo di
liquidi e di gas è diverso; si evidenzieranno livelli idroaerei nelle varie anse, punti di separazione tra
liquido e gas (il punto di riferimento è sempre il livello gravitazionale). Il liquido sarà sempre più
vicino al terreno mentre il gas sarà in alto. Se il paziente è in coma e non può essere messo in
ortostasi,allora si posiziona lo strumento in maniera laterale.

L’Rx diretta addome ci può dire due cose:

A. Presenza di livelli idroaerei e quindi quadro di occlusione


B. Falce d’aria sottodiaframmatica ci indica un quadro di perforazione

L’Rx ci evidenzia questi due quadri ma in maniera generale, non ci dice dove sono di preciso.

Ci può essere un occlusione senza perforazione ma, al contrario, non esiste una perforazione senza
occlusione.

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Se ad esempio si ha un tumore del colon retto o del sigma (uno dei più diffusi ma non uno dei più
aggressivi), si ha una divisione cellulare progressiva, una crescita in maniera esponenziale e per
essere evidente all’ecografia o alla radiografia deve avere almeno 0,5 cm e ci impiega 3-4 anni.
Non solo aumenta il numero di cellule ma aumenta anche il volume delle cellule tumorali che
aumenta ancor di più in maniera esponenziale poiché è una grandezza al cubo!!! Un nodulo di 2
cm è un nodulo potenzialmente 8 volte più pericoloso di uno di 1 cm poiché il volume è 8 volte
maggiore. Per diventare 0,5 cm ci impiega 4 anni ma per diventare di 1-2 cm ci impiega poi 2-3
mesi. Un tumore ci impiega 4-5 anni per crescere e quindi si ha il tempo per studiarlo e poi
all’improvviso va in occlusione: l’evento occlusivo è la complicanza acuta di un fatto cronico. Il
primo obiettivo di un medico con un paziente con un tumore e con un quadro di occlusione
intestinale, è quello di risolvere il quadro dell’ occlusione.

OCCLUSIONE INTESTINALE DA ERNIA INGUINALE INTASATA

Un’ansa ileale che è andata a finire in un sacco (canale inguinale) e si è bloccata, e le feci entrano
ma non riescono più ad uscire. Si apre chirurgicamente il canale inguinale e si sbriglia l’ansa
intestinale e senza aprire il peritoneo, si richiude; In questo modo si risolve l’occlusione e si risolve
la causa (intervento pulito).

TUMORE CON UNA MASSA CRESCIUTA DA 4-5 ANNI CON OCCLUSIONE

Se si vuole risolvere il problema dell’occlusione e della causa bisogna detendere l’intestino,


facendo una colostomia, un’apertura prima del blocco occlusivo cioè a monte del blocco, lasciando
il tumore in situ. In questo caso si risolve il quadro occlusivo ma il tumore ancora non è risolto.
Portare un paziente di 80 anni in urgenza significa dargli un rischio operatorio, un rischio molto
maggiore. Quindi la cosa più semplice è risolvere il problema ultimo, cioè l’occlusione, attraverso
la colostomia. La colostomia è un by-pass, una via alternativa per eliminare le feci. Si tiene il
paziente 15-20 giorni per riequilibrarlo e poi lo si prepara, ove è possibile, per togliergli la massa
tumorale.

QUADRO OCCLUSIVO SECONDARIO AD UNA PERITONITE

Se ad esempio si ha una peritonite legata ad un’appendicite acuta, e si effettua l’asportazione


dell’appendice (appendicectomia), si risolve il quadro infiammatorio e il quadro occlusivo.

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PRINCIPI DI SEMEIOTICA CHIRURGICA
Quando parliamo di semeiotica a livello chirurgico non ci discostiamo molto da quella medica,
infatti ci sono delle cose in comune. Si parla dei segni e dei sintomi, alcuni in contrapposizione con
il campo della clinica; Fatto importante nei giorni d’oggi è sicuramente l’uso diagnostico
strumentale. Da una parte abbiamo la semeiotica clinica, quella basata sui segni sui sintomi,
dall’altra abbiamo le tecniche di tipo strumentale, che tra l’altro si evolvono col tempo. Bisogna
visitare il paziente: è fondamentale la visita del paziente, è fondamentale la semeiotica classica.
Se c’è il dubbio di una proctorragia, che in genere avviene all’atto della defecazione, la forma più
semplice per andare a vedere se c’è, è l’esplorazione digito-rettale: questo è un modo per fare
diagnosi. La diagnosi strumentale è una conferma della semeiotica clinica classica. Gli esami più
immediati sono gli esami del sangue, gli esami di laboratorio; il primo esame strumentale che ha
cambiato la storia della medicina è la radiologia (raggi X), l’ecografia (basata sugli ultrasuoni prima
in modo bidimensionale oggi in maniera tridimensionale), l’endoscopia (principio ottico, prima con
le lenti rigidi, dopo con le fibre, con strumenti non più rigidi,ma flessibili e poi la videoendoscopia).
L’endoscopia differisce dalla laparoscopia perché la prima sfrutta una via naturale d’entrata( orifizi
naturali), la laparoscopia invece sfrutta una via non naturale(accesso che ci dobbiamo creare,
accesso chirurgico) con strumenti rigidi. La radiologia tradizionale si è evoluta in radiologia diretta,
cioè radiologia senza mezzo di contrasto, e la radiologia non diretta ma con mezzo di contrasto per
visualizzare le cavità degli organi cavi (per vedere l’esofago, lo stomaco, bisogna dare un mezzo di
contrasto per via orale). Poi si è passati ad altre forme di radiologia, il cui mezzo di contrasto
invece di introdurlo per OS, lo si introduce per altre vie ottenendo l’angiografia tradizionale, ma
non solo, se vogliamo vedere la colecisti, il mezzo di contrasto deve andare nella colecisti e quindi
il mezzo di contrasto deve essere assorbito al secreto a livello della via biliare ottenendo una
colangiografia o una colecistografia. Se dobbiamo visualizzare gli ureteri, il mezzo di contrasto
deve andare a finire nell’apparato urinario. Scansioni in sezione del corpo umano hanno permesso
di arrivare alla TAC, tomografia assiale computerizzata e sulla base del principio di ricostruzione
delle immagini (metodica per imagining) però non basata sui raggi X ma su un altro principio fisico,
si ha la risonanza magnetica nucleare (RMN), in cui le immagini sono quasi le stesse, ma si vanno a
visualizzare le sorgenti di emissione di tipo magnetico. Se si va a studiare la concentrazione di uno
ione marcato con isotopi radioattivi, si usa la scintigrafia, emissioni di tipo nucleare. La stessa
ecografia nella sua forma tradizionale ora è modificata dalla tecnica digitale che isola i vasi da
tutto quello che non c’entra niente. Nessuno di questi strumenti ha il 100 % di sensibilità o di
specificità: perciò siamo costretti a fare sia un esame che un altro, per confermare i dubbi e per
valutare i vari esami. Ad esempio la sola immagine endoscopica perché permette di vedere un
tumore piccolo dello stomaco, del colon, ma non sempre dà tutte le informazioni poiché
l’endoscopia permette di vedere solo quello che c’è dentro il lume del viscere considerato. Se un
tumore cresce anche nella terza dimensione, non basta l’endoscopia, ma si ha bisogno di qualche
altra indagine per vedere lì. Ogni metodica ha dei vantaggi ma ha dei limiti, quindi bisogna

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integrare per fare buona diagnosi, le capacità di una tecnica con quelle dell’altra per avere un
quadro completo della situazione.

TUMORI DELLA MAMMELLA


La mammella è una ghiandola, uno degli annessi cutanei a livello del torace.

Le principali patologie della mammella sono:

 Neoformazioni ( carcinoma della mammella )


 Fibroadenomi ( lesioni benigne che vanno solo monitorate )

La presenza di un nodulo può essere avvertita tramite l’autopalpazione. La palpazione offre le


seguenti informazioni:

1. Dimensioni del nodulo


2. Se il nodulo è singolo o ci sono più noduli
3. Presenza di fissità del nodulo rispetto ai piani superficiali (cute) o profondi (fascia
muscolare)
4. Regolarità della superficie

Una delle caratteristiche del nodulo è in funzione della dimensione e della storia naturale della
malattia: un nodulo più grande è più datato, più vecchio. Un nodulo più piccolo dà meno
probabilità di diffusione della malattia. Fondamentale in questi casi risulta la palpazione dei
linfonodi ascellari. La palpazione può dare un’idea, ma poi per la certezza si passa agli esami

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strumentali. La diagnosi strumentale per il tumore della mammella non si basa sui prelievi ematici
anche perché non danno informazioni in questo caso.

La diagnosi strumentale si basa su:

1. L’ecografia che ci permette di valutare la dimensione, la densità (ipodenso, normodenso,


iperdenso), la presenza di capsula(se è capsulato è ben separato dal resto e quindi potrebbe
non essere maligno). La presenza della capsula indica che il tumore ha dei margini, dei
bordi regolari e non di tipo dendritico e ramificato.
2. Guida citologica su ago aspirato.
3. Mammografia (esame radiologico diretto). Nel sospetto clinico di papilloma intraduttale
viene eseguita la duttografia o galattografia iniettando mezzo di contrasto nel dotto
galattoforo in causa ed effettuando nel contempo un radiogramma mirato per visualizzare
l’eventuale difetto di riempimento.
4. Termografia, ma non si usa più

Un esame da solo può non essere sufficiente per fare diagnosi, ma integrando 2-3 esami possiamo
avere un’alta probabilità di certezza diagnostica. Questo perché ad un certo punto bisogna
decidere: se è un nodulo benigno si può decidere di sorvegliarlo e tenerlo sotto controllo, se è un
nodulo maligno bisogna intervenire chirurgicamente.

La classificazione dei tumori legati al nodulo si basa sul TNM:

 T: dimensioni del nodulo


o T1: dimensioni inferiori o uguali a2 cm
o T2: dimensioni comprese tra i 2 e i 5 cm
o T3: dimensioni oltre i 5 cm
o T4: nodulo di qualunque dimensioni che abbia infiltrato la cute o la fascia (se si ha
infiltrazione della cute si ha retrazione cutanea, ovvero pelle a buccia d’arancia)
o Tis: nodulo in situ (a livello sub-microscopico)

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 N: presenza di linfonodi a livello ascellare
o N0: non apprezzabili
o N1A: ingrossati ma soffici (infiammatori)
o N1B: ingrossati e duri (sospetta neoplasia)
o N2: noduli multipli fusi in un pacchetto duro
o NX: dato non conosciuto
 M: presenza di metastasi
o M0: metastasi assenti
o M1: metastasi presenti
o MX: dato non conosciuto

Quando si ha a che fare con un tumore maligno bisogna tenere conto della situazione complessiva
della malattia e del soggetto che ha la malattia. Valutare la malattia non significa andare a
considerare il nodulo per il semplice motivo che il tumore maligno si distingue da quello
corrispondente benigno per una caratteristica molto semplice, cioè la possibilità che si diffonda
localmente o a distanza. Quindi non si considera il solo nodulo ma anche la possibilità del
N(presenza di linfonodi) e del M(presenza di metastasi). Il tumore si può diffondere attraverso la
via linfatica o la via ematica: se va per via linfatica il filtro è rappresentato dai linfonodi,
soprattutto a livello ascellare (come il fegato è il filtro del sistema portale, il fegato rappresenta il
linfonodo della via portale),oppure l’altra via è quella ematica e se la cellula prende la via ematica
può andare a distanza.

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Le sedi elettive della metastatizzazione del tumore mammario per via ematica sono il fegato, i
polmoni e le ossa corte (cranio, vertebre, sterno, coste,il bacino, ecc.).

Se si sospettano metastasi al fegato l’esame strumentale utile per valutarlo è l’ecografia epatica, la
TAC e la RMN (risonanza magnetica). Mentre per la TAC l’incidenza dell’operatore rispetto alla
macchina è minimo, l’esame è aparecchio-dipendente, l’ecografia è molto legata all’operatore, è
opertore-dipendente. C’è solo un elemento a discapito dell’ecografia: l’aria e quindi negli organi
cavi, nei visceri l’aria contrasta l’immagine ecografico, è una barriera agli ultrasuoni ecografici(le
ossa sono ecoriflettenti quanto l’aria). Nel fegato si trovano fondamentalmente due tipi di tumori
maligni: nel 75% dei casi i noduli sono secondari quindi sono metastasi secondarie, nel 25% sono
tumori primitivi epatocarcinoma(HCC), colangiocarcinoma. In entrambi i casi non si va a fare la
biopsia ecoguidata per due motivi: uno perché grazie all’ecografia si può fare tranquillamente
diagnosi di epatocarcinoma, e due perché con l’aspirazione tramite un ago delle cellule si è visto
che nel portarle fuori, potevano essere disseminate e potevano diffondere.

Se si sospettano metastasi a livello polmonare si effettua non una radiografia standard, e questo
perché visualizza solo noduli di certe dimensioni, ma si effettua una broncoscopia(se il tumore va a
livello del lume della trachea o dei bronchi),oppure se il tumore è a livello del parenchima, si
effettua la TAC o la risonanza magnetica del polmone RMN senza mezzo di contrasto e poi con
mezzo di contrasto.

Se si sospettano metastasi a livello osseo si effettua una scintigrafia ossea con isotopi di tipo
radioattivo per valutare l’interessamento osseo.

Sulla base della stadiazione tumorale (classificazione) si stabilisce il tipo di trattamento (chirurgico
e medico) e ciò che condiziona maggiormente il tipo di trattamento chirurgico è il T, cioè le
dimensioni del nodulo, in base alle quali decidiamo se se effettuare una quadrantectomia o una
mastectomia totale. Qualunque intervento di chirurgia oncologica prevede l’asportazione ampia
del pezzo e la linfoadenectomia. Quando si porta via un pezzo operatorio, qualunque pezzo
operatorio, quando si porta via un’entità, si porta via una parte, legando o chiudendo i vasi
corrispondenti (arterie e vene). Non si può lasciare un organo se non si lascia il suo vaso
corrispondente perché altrimenti quella parte non vascolarizzata andrebbe in necrosi. Si devono
considerare i vasi sia per il tessuto sia per i linfatici. Si ha il T clinico, il T ecografico, mammografico,
il T chirurgico, ma il T definitivo ce lo dà l’anatomopatologo col pezzo operatorio.

La mammella si può dividere in 4 quadranti: supero-interno, supero-esterno, infero-interno,


infero-esterno e la quadrantectomia è l’asportazione di uno di questi quadranti. La
quadrantectomia è obbligatoriamente associata per linee guida internazionali a linfoadenectomia
qualunque sia il quadrante (maggior parte dei casi è il quadrante supero-esterno), e nel decorso
post-operatorio è obbligatorio fare la radioterapia per completare con una sterilizzazione
oncologica l’intervento per rispettare tutti i principi della radicalità.

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 T1: quadrantectomia (si è visto che con i tumori in T 1 non si osservano mai multifocalità e
quindi si può avere la certezza che non siano presenti cellule neoplastiche negli altri
quadranti), linfoadenectomia ascellare (va fatta a prescindere dal quadrante interessato),
radioterapia post-chirurgica.
 T>1: si utilizza una terapia neoadiuvante; se si ha il downstaging a T 1 si effettua una
quadrantectomia, altrimenti si effettua una mastectomia radicale, più chemioterapia e
radioterapia.

La mastectomia radicale secondo Halsted prevede l’asportazione della ghiandola mammaria, la


cute che la riveste, il grasso, i linfonodi, i muscoli grande e piccolo pettorale e le relative fasce
muscolari. Si avranno due cicatrici: una per la quadrantectomia, una per la linfoadenectomia.

Con vari interventi hanno visto che ad esempio, il concetto di multifocalità, cioè la presenza del
tumore in aree diverse da quelle dal quadrante del nodulo principale, era costante quando il
nodulo superava i 2 cm, mentre era assente quando il nodulo era inferiore ai 2 cm. Allora hanno
pensato con un nodulo grande se c’è multifocalità costante, è ovvio che bisogna asportare tutta la
mammella se no c’è recidività; se invece non c’è multifocalità, nei casi in cui il tumore è piccolo,
possiamo fare la quadrantectomia (dando un danno limitato) con linfoadenectomia e radioterapia,
dando lo stesso risultato in termini di radicalità senza essere così demolitivi (atteggiamento
conservativo). Questo atteggiamento conservativo non inficiava i risultati a distanza. Alla fine i
risultati di sopravvivenza e di recidiva a 5 anni erano uguali. Quindi la stadiazione non è una cosa
fine a se stessa, è sì un fatto che serve per la prognosi o serve per stabilire se associare
radioterapia o chemioterapia, ma in questo caso specifico, serve per stabilire la strategia
terapeutica chirurgica di un caso o dell’altro. La differenza da un punto di vista estetico e
psicologico è diverso.

La mastectomia modificata secondo Patey prevede l’asportazione del tutto tranne del grande
pettorale, il piccolo pettorale è sacrificato perché più a contatto con i linfonodi; in tal modo si
lascia un piano migliore per il posizionamento di un’eventuale protesi.

La radicalità è quella intenzione del chirurgo di trattare la malattia una volta per sempre (si è fatto
di tutto per portare via tutto quello che c’è facendo un intervento radicalico, ma purtroppo è
scappata una cellula e dopo un po’ si ha la recidiva). La radicalità non è un obiettivo,
un’aspirazione, non è una certezza, la palliazione invece si, perché se si trova un nodulo però il
paziente è anziano e non è in grado di sopportare un intervento di chirurgia generale e si fa una
scissione locale portandogli via solo il tumore o forse manco tutto il tumore, questo è chiaramente
un intervento palliativo (permettendo una qualità di vita migliore per quello che gli rimane).

Alcune volte si giunge in sala operatoria senza una certezza diagnostica. Non siamo cioè sicuri della
malignità del nodulo (se il nodulo è benigno si enuclea e si richiude lasciando una semplice
cicatrice). La paziente si addormenta, si effettua un taglio sul nodulo e si fa una enucleo resezione.
Si asporta il nodulo con un po’ di tessuto mammario intorno e lo si invia all’anatomopatologo e

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quindi si effettua un esame istologico estemporaneo. Se questi ci restituisce la diagnosi di nodulo
benigno, si richiude; se invece ci dà una risposta di carcinoma si procede con mastectomia o
quadrantectomia, a seconda delle dimensioni del nodulo neoplastico.

È una chirurgia quella della mammella che si fa in elezione, cioè programmata, è una chirurgia
tranquilla con mortalità molto bassa rispetto ad altri tumori.

NEOPLASIA DELLA TIROIDE


La tiroide è una ghiandola che si trova a livello del collo, davanti alla trachea, composta da due lobi
uniti da un istmo. La sua funzione è quella di produrre ormoni tiroidei (T 3 e T4), regolati da sistemi
di feedback tramite il TRSH e il TSH a livello rispettivamente dell’ipotalamo e dell’ipofisi. Inoltre le
cellule C parafollicolari della tiroide producono calcitonina. È una ghiandola piccola sottocutanea
che può essere studiata con una sonda ecografica: frequenze maggiori si utilizzano per studiare
organi in superficie o intraoperatoria, quando si è a contatto con l’organo. Al suo interno può
insorgere un nodulo che può essere maligno o benigno. Molte volte non si riesce a stabilire se il
nodulo è maligno o benigno. Tuttavia, mentre per la mammella abbiamo la possibilità di un esame
istologico estemporaneo al momento dell’intervento, ciò non avviene per la tiroide tranne che in
centri altamente specializzati. Per la mammella si arriva in sala operatoria con una certezza di
diagnosi preoperatoria, per tumori maligni. Per la tiroide non sempre si arriva così; in quei pochi
casi nella mammella in cui si arriva all’intervento con la assoluta certezza che sia un tumore
maligno non si può asportare così, ma si effettua l’estemporanea, cioè si apre si escissa localmente
a fresco e con 2-3 sezioni l’anatomopatologo dice se è maligno o benigno. Questo per la tiroide
non è possibile tranne in alcuni centri: non è possibile per un motivo semplice, se si arriva con un
dubbio non è possibile fare una estemporanea (solo in alcuni centri) e allora se si ha la certezza
che il tumore è maligno, si procede nella maniera radicale assoluta. Nel caso dei tumori tiroidei,
rispetto a quelli mammari, le forme benigne, forme ben differenziate, sono molto simili alla
corrispondente forma maligna. I carcinomi della tiroide si possono dividere in: papillifero,
follicolare, midollare e anaplastico e poi ci sono forme rare come l’angiosarcoma primitivo e il
linfoma primitivo. La meta statizzazione è a livello cutaneo (melanoma), a livello renale,polmonare
e della mammella.

Cosa succede alla tiroide quando compare un nodulo neoplastico, un nodulo tumorale.

La diagnosi strumentale si basa su:

 Palpazione: paziente seduto con la testa estesa e l’operatore dietro il paziente; si può
avvertire la presenza di un nodulo sottocutaneo.
 Ecografia: si valutano la posizione, le dimensioni, la mobilità rispetto alla deglutizione, la
presenza della capsula,la consistenza e la densità(se è cistico o solido), presenza di liquido
se è una cisti. Fa anche da guida nella citologia su ago aspirato. Se si tratta di un nodulo

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cistico ripieno di liquido, con l’ago aspirato ne provochiamo lo svuotamento.
Successivamente si riforma. Perciò si deve asportare la cisti con tutta la parete, altrimenti si
riformerà. Se è un nodulo solido si prendono le cellule che saranno venute via con
l’aspirazione dentro il lume dell’ago.
 Scintigrafia con Iodio131 o trizio: questi isotopi radioattivi saranno captati a livello del
parenchima della tiroide oppure in metastasi date da carcinomi della toroide; La tiroide
normale capta lo iodio radioattivo e poi si passa sulla gamma camera ed esce un disegno
più o meno normale. Il tessuto tumorale benigno o maligno che sia, si distingue dal tessuto
normale in senso ipo o ipercaptante. I noduli, rispetto al parenchima circostante, possono
apparire ipo o ipercaptanti. Un nodulo ipercaptante (tranne quelli associati ad alterazioni di
secrezione tiroidea) è nella stragrande maggioranza dei casi, un nodulo benigno (un nodulo
caldo è maligno solo nell’1 per mille). I noduli ipocaptanti o noduli freddi, sono nella
maggior parte dei casi benigni ma in una percentuale(nel 7 %) possono essere maligni. La
scintigrafia dà un’altra caratteristica quindi: ci dice se un nodulo è ipercaptante od
ipocaptante.

Un nodulo caldo va asportato quando:

 Ha un trend di aumento di volume


 Dà problemi di compressione sulla trachea,sulle corde vocali (disfonia) e sulla carotide
 Per problemi di natura estetica (75% dei soggetti interessati da noduli tiroidei sono di sesso
femminile)

Un nodulo freddo va sempre asportato. Sia se il nodulo è caldo, sia se il nodulo è freddo sono nel
95% dei casi sono eutiroidei ma è bene effettuare un ago aspirato e un esame citologico.

Gli esami emocromocitometrici non sono alterati poiché il 95% dei casi è eutiroideo, quindi non
sono attendibili: il dosaggio di FT3, FT4, TSH è normale. La citologia è fondamentale.

Quando si fa una citologia il risultato potrà essere:

o Positivo per tumore maligno


o Negativo per malignità
o Sospetto : non si sa se è maligno o benigno
o Nid: materiale insufficiente per fare diagnosi

Se il tumore è maligno bisogna effettuare una tiroidectomia totale e la linfoadenectomia giugulare


(linfonodi laterocervicali) a livello del margine anteriore dello sternocleidomastoideo e poi, sotto
consiglio dell’oncologo, se necessario, fare terapie adiuvanti (chemioterapia o radioterapia). Se
non si è sicuri, la certezza si ha 20 giorni dopo, quando l’anatomopatologo ha analizzato il pezzo
asportato, in quel caso si fa la emitiroidectomia. Se il nodulo è a destra si toglie il lobo destro più
l’istmo, lasciando il lobo controlaterale. Se il nodulo è benigno, l’intervento finisce lì ma, dal
momento dell’intervento si inizia comunque una terapia sostitutiva cioè, diamo una parte di

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ormoni tiroidei, che non vengono più prodotti da quella metà che abbiamo asportato
chirurgicamente, anche se la parte lasciata sarebbe in grado di compensare. Il farmaco in
questione è uno dei pochissimi casi in cui l’aspetto farmacologico è assolutamente neutro e si dà
la terapia farmacologica sostitutiva, per evitare l’affaticamento del lobo lasciato ed evitare
l’ipertrofia lobare ed iperplasia compensatoria della tiroide.

La tiroidectomia totale non si effettua nei casi in cui si ha un nodulo solo a livello di un lobo perché
ci sono dei rischi:

 Ledere le paratiroidi,che sono microscopiche, può provocare un deficit di PTH e quindi


alterare il metabolismo del calcio (ipoparatiroidismo postoperatorio);
 Ledere il nervo laringeo inferiore o ricorrente provocando la comparsa di voce bitonale;
 Emorragia postoperatoria (precoce, ritardate e tardive).

Il 90% dei casi il tumore della tiroide è un tumore benigno; il 10% dei tumori della tiroide sono
tumori maligni. L’intervento di tiroidectomia si effettua mediante un’incisione, un taglio
trasversale alla base del collo, dove possibile, in una delle pieghe naturali del collo (taglio di
Cocker). Degli ormoni tiroidei ne possiamo fare anche a meno poiché li compensiamo facilmente in
maniera farmacologica, ma se noi distruggiamo in maniera chirurgica le paratiroidi, in modo da
non riuscire a staccarle dalla tiroide, diamo un danno molto maggiore al paziente. Questo perché
la regolazione della calcitonina e del paratormone sono molto più rischiose e più complete che
non quella tiroidea. Questo è il motivo per cui, dove è possibile, si effettua l’emitiroidectomia.

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SISTEMI DI DRENAGGIO
Tutte le volte che andiamo a mettere le mani su una cavità,specie se questa cavità è ampia, come
ad esempio la zona della mammella, dopo intervento demolitivo della mammella, si crea una
cavità. Tutte le volte che si opera, anche se stiamo attenti, un minimo di secrezione c’è sempre:
secrezione che può essere sierosa, ematica, siero-ematica all’inizio e poi man mano quella ematica
si spera che si fermi, diventa sierosa, ma sempre secrezione c’è. Se c’è una secrezione in una
cavità, questo non è normale e se c’è e ristagna, questa secrezione si può super infettare e
provocare dei processi infiammatori (a livello peritoneale, a livello della mammella,ecc.) e questa
situazione deve essere svuotata, drenata. Anche quando abbiamo delle situazioni patologiche di
infezione (ad esempio un ascesso, come l’ascesso gluteo durante un’iniezione intramuscolare in
cui,bucando si portano dentro batteri presenti sulla superficie e si forma una raccolta,del pus), se
la raccolta di pus è in quantità minima, è possibile che i normali sistemi di drenaggio linfatico è
sufficiente a raccogliere tutto il materiale, aiutato da terapia antibiotica e antiinfiammatoria. Tutte
le volte che ci sono delle raccolte all’interno del corpo umano, ci sono dei margini di tolleranza in
cui agiscono i sistemi di pulizia, e delle volte in cui, la massa con ematoma non viene riassorbita o
non fa in tempo a riassorbirla. Se ristagna si infetta e si deve agire e se non si fa nulla, comunque
l’organismo trova la strada per arrivare verso la superficie, erode i tessuti superficiali, mandando
in tensione la parete, finché non si apre. Questo in maniera naturale, se vogliamo accelerare il
processo, bisogna incidere, aprire togliere tutto quello che c’è e chiudere. Ma in realtà togliendo
tutta la parte macroscopica non abbiamo tolto tutto il processo infettivo nei tessuti adiacenti e
chiudere è la cosa più sbagliata che si può fare. D’altra parte se si tiene aperto si infetta , allora
bisogna fare in maniera tale da mettere un sistema che comunichi con l’esterno in maniera
unidirezionale e quindi funzioni da sistema di drenaggio. La guarigione così andrà avanti, il
materiale necrotico verrà drenato e il processo di guarigione avviene da dentro, da sotto, e poi
mano mano, mettendo degli antibiotici locali e disinfettando la ferita, richiuderà lentamente ed il
processo di guarigione avverrà dall’interno verso l’esterno. Una cicatrice del genere guarirà per
seconda intenzione: una cicatrice non lineare, non sottile, allungata a losanga. Se una stessa ferita
chirurgica si infetta, da qualche punto o in parte o completamente, dovremmo far saltare i punti,
drenare e far guarire; Magari dei 10 cm, 5cm rimarranno suturati, ed altri 5cm al centro o
all’estremità, dovremmo aprirli per poter ripulire e drenare. Se c’è un processo infiammatorio
purulento, è inutile pensare di farlo guarire chiudendo, ma bisogna aprire, far drenare e se non ce
la facciamo con qualcosa di normale, dobbiamo mettere dentro la cavità un sistema che continua
a far uscire da dentro il materiale infiammatorio: questo sistema si chiama drenaggio.

I drenaggi sono formati da tubi, di materiale plastico, sterile, con una estremità che va dentro con
un buco, ed uno che va all’estremità esterna. I drenaggi non vanno mai messi in mezzo alle ferite,
ma sempre a parte.

Il sistema di drenaggio a caduta si utilizza normalmente nella cavità addominale, una cavità
chiusa, perché la cavità addominale è una cavità,che stando sotto il diaframma, è compresa tra i

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muscoli addominali e per questo motivo è una cavità a pressione positiva. Quindi se c’è qualcosa
dentro, con gli atti della respirazione, contrazione dei muscoli, ecc., avrà la spinta spontanea farà
uscire fuori perché la cavità addominale avrà una pressione superiore rispetto alla pressione
atmosferica e quindi sarà letteralmente spremuto fuori il liquido. La caduta avviene perché c’è una
differenza pressoria. I sistemi di drenaggio a livello addominale hanno un diametro di 1 cm circa e
si raccordano all’esterno con delle buste, oppure i sistemi di raccolta delle urine. Il foley, il
catetere vescicale è un esempio di pressione positiva, di drenaggio a caduta. Il sondino naso-
gastrico, introdotto nel naso e va a livello dello stomaco, è un drenaggio a caduta.

Se si va ad operare sulla tiroide o sulla mammella o a livello del sottocute, nella cavità creata, una
cavità chiusa, con la rimozione dei linfatici, quel liquido siero-ematico si deve far uscire: si usano
sistemi di drenaggi ma la differenza è lo spazio e per far uscire il liquido e sono tubi molto sottili
con un continuo sistema di aspirazione. Il sistema di drenaggio è un sistema di aspirazione , dei
sistemi con dei soffietti o dei sistemi a vuoto, che creano una debole ma costante aspirazione, per
cui il liquido che si forma viene debolmente aspirato. Questo sistema drenerà man mano che il
materiale si forma.

Se mettiamo un sistema nella cavità ascessuale, una cavità aperta, questo sistema è un sistema
per capillarità, contrariamente alle leggi fisica della gravità, per la legge della capillarità, il liquido
va verso fuori. È un sistema protetto da agenti atmosferici e batteri attraverso garzine e materiale
sterile, che permette un drenaggio interno-esterno e che porta via in maniera continua materiale
necrotico e porta via molti giorni, perché il processo di guarigione porta via del tempo.

Normalmente una ferita chirurgica con i punti di ravvicinamento ci mette 7-8 giorni senza
problemi di tensione o di infezione. Vale per la cute ma vale anche per le anastomosi dei visceri
interni. Nel corpo umano qualunque zona che non sia in comunicazione con una cosa o che si
forma, che sia esclusa dal circolo, il materiale tende a ristagnare, il sangue si infetta e si crea il
processo infiammatorio, purulento, e non può scomparire,ma bisogna drenarlo.

Nella cavità pleurica c’è una pressione negativa e quindi il drenaggio che dobbiamo introdurre
nello spazio intercostale è un drenaggio duro (perché se no a livello delle coste collassa) ed è un
sistema di drenaggio toracico a caduta, un sistema unidirezionale che sfrutta a parte l’espansione
dei polmoni, per cui la pressione aumenta ed il liquido esce; Però se poi c’è la fase di espirazione i
polmoni collasserebbero, allora ci serve un sistema sia a caduta, ma con un sistema di valvola di
ritorno. Mentre il drenaggio normale cade nella busta morbida, il drenaggio toracico ha un tubo
lungo che va a finire in un boccione rigido che a sua volta va a finire in una colonnina d’acqua e il
liquido che scende va a finire nella colonna d’acqua e il liquido cade lungo le pareti e andando a
finire nella colonna d’acqua, che continua ad aumentare di livello, impedisce che il liquido viene
riaspirato ed in maniera molto semplice impedisce un sistema di valvola di ritorno. Per cambiare
un drenaggio toracico bisogna mettere un clump fermi, robusti, per chiudere, perché lì non deve
passare niente.

L’NPT (nutrizione parenterale totale) è la sostituzione totale per via enterale o parenterale (per via
venosa) degli elementi costitutivi della nutrizione umana(zuccheri, proteine,grassi). Una soluzione

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che volumetricamente ha le caratteristiche di una sacca giornaliera di circa 3 litri, e
qualitativamente c’è una giusta proporzione degli elementi tanto da garantire la sopravvivenza. Se
c’è un’alta osmolarità bisogna entrare dalla giugulare o dalla succlavia ed andare quindi per via
centrale per andare in atrio destro, perché una vena periferica andrebbe in sclerosi. Per essere
sicuri di essere entrati in atrio destro si effettua un Rx del torace.

IPERTENSIONE PORTALE
L’ipertensione portale è un aumento della pressione a livello del sistema portale al di sopra dei
valori normali 5-10 cmH2O. E’ un quadro trasversale, dato dalla conseguenza di più patologie. La
peculiarità del fegato è la presenza di un sistema portale,formato dalla vena mesenterica
superiore che confluisce insieme alla vena splenica per dare la vena porta, di cui fa parte
indirettamente la vena mesenterica inferiore che confluisce nella vena splenica prima che essa si
unisca con la porta. Il sangue che passa dalla vena mesenterica superiore ed inferiore non torna
subito nella vena cava, ma deve avere un gradiente pressorio per passare attraverso il filtro
rappresentato dal fegato. Infatti il sangue che giunge all’intestino non ha solo il ruolo di trasporto
di ossigeno, ma anche di prelievo delle sostanze nutritive,che vengono assorbite e che devono
essere trasportate al fegato e non lasciate in circolo liberamente. La vena mesenterica superiore
ed inferiore e la vena lienale costituiscono il tronco portale che trasporta il sangue refluo
dall’intestino nel fegato dove viene filtrato. Successivamente questo confluisce nelle vene
sovraepatiche e poi nella vena cava.

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Il fegato è diviso in lobo sinistro e lobo destro e c’è una differenza: se consideriamo come divisorio
il legamento falciforme, si ha un fegato sinistro e un fegato destro.

Il fegato è costituito da 8 segmenti indipendenti dal punto di vista funzionale, ciascuno dei quali
presenta un dotto portale, un’arteria epatica ed una propria via biliare.

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Quello sinistro è costituito dai segmenti II e III (I segmento è posteriore e corrisponde al lobo
caudato o lobo di Spigelio), mentre quello destro è formato dai segmenti IV, V, VI, VII e VIII. Se
invece consideriamo una divisione funzionale determinata dall’ilo epatico, notiamo che il IV
segmento non sta più a destra , ma a sinistra. Abbiamo quindi il lobo sinistro costituito di segmenti
II, III, IV (a destra dell’ilo epatico) ed il lobo destro costituito dai segmenti V, VI, VII, VIII.

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Ciò che fa la differenza è sostanzialmente il IV segmento posizionato in modo diverso a seconda se
si considera la suddivisione anatomica e quella funzionale. L’unità elementare e funzionale del
fegato è il segmento. Quando si asporta chirurgicamente un segmento si asporta il dotto biliare,il
ramo portale e il ramo arterioso epatico (triade portale).

La funzione del fegato è data da:

 Produzione della bile;


 Capacità di depurazione (valutabile attraverso la bilirubinemia totale);
 Capacità di sintesi (valutabile col tempo di protrombina PT, e l’albumina).

Il sangue portale è un sangue venoso, povero d’ossigeno ma ricco di nutrienti e sostanze azotate,
estratte nel cibo dall’intestino. La parte che contiene le sostanze azotate arriva dalla mesenterica
superiore, perché il sangue che viene dalla splenica o dal colon sinistro, fondamentalmente
riassorbe acqua, è sempre sangue venoso ma non ricco di nutrienti. Il sangue dell’intestino è
quello del versante della vena mesenterica superiore. Il tutto viene convogliato nel fegato,
struttura spugnosa che trattiene le sostanze che servono e immette il sangue nella vena cava e di
la al cuore attraverso le vene sovra epatiche (tre vene di cui la media e la sinistra confluiscono in
unica branca). Ovviamente c’è un grado di pressione: la pressione sarà più alta a livello portale
(5-10 cmH2O) di poco rispetto a livello cavale (0,5-1 cmH2O).

Sistema arterioso Intestino Sistema portale Sistema cavale

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Il fegato è caratterizzato da una doppia circolazione data da 1/3 dalla arteria epatica e 2/3 dalla
vena porta; L’arteria epatica nasce dal tripode celiaco 80% dei casi, mentre nel 20% dalla
mesenterica superiore e trasporta sangue ossigenato, la vena porta trasporta sangue deossigenato
ma ricco di nutrienti assorbiti a livello intestinale. Il sangue portale nutre fondamentalmente gli
epatociti, mentre il sangue arterioso nutre la struttura trasecolare e quindi i dotti biliari, che sono
in supporto dell’attività epatica. In condizioni normali la vena porta ha una pressione di 5-10
cmH2O e per quanto piccola, è sufficiente a far superare l’ostacolo del fegato. Si possono tuttavia
verificare dei quadri patologici per i quali le resistenze preepatiche, intraepatiche e postepatiche,
aumentano e creano una stasi. A monte si crea dunque un’ipertensione portale, con valori
superiori a 10 cmH2O, in genere dai 15-17 cmH2O.

Dal punto di vista di semeiotica strumentale per visualizzare il sistema portale si effettua
un’ecografia addominale portale (vena porta dilatata, normalmente la vena porta ha un diametro
di 1 cm). Con l’eco-color doppler, metodica associata all’ecografia, con colori (rosso e blu sinonimo
di flusso arterioso e venoso), ci permette di vedere la dimensione del flusso e la sua portata, la
velocità. In condizioni normali c’è un flusso regolare e costante. Con un eco-color doppler si può
osservare il flusso e la direzione del sistema portale, che in condizioni normali è epatopeto, è
verso il fegato. Con la gastroscopia in maniera indiretta poiché si possono andare ad osservare le
varici esofagee, caratteristica dell’ipertensione portale.

Quando si instaura una condizione di ipertensione portale, questa nasce per 3 tipi di cause:

1. Una prima causa di ipertensione portale (90%) è la cirrosi (virale, alcolica,ecc.), un quadro
intraepatico, in cui il fegato perde la sua struttura parenchimatosa a bassa resistenza, ci
sono meno epatociti e più tessuto connettivo e strutture fibrose, il fegato diventa più duro il
parenchima e meno spugnoso, e quindi il sangue incontra una resistenza maggiore. Il
sangue trova un ostacolo al suo flusso, per cui a monte si crea un’ipertensione portale: in
queste condizioni il sangue tende a trombizzare creando degli ostacoli.
2. L’altro 9% delle cause di ipertensione portale è rappresentato dalla trombosi della vena
porta, un quadro preepatico.
3. L’ultimo 1% dei casi è rappresentato dalla trombosi delle sovraepatiche, la sindrome di
Budd Chiari.

In queste condizioni di ostacolo al flusso portale si aprono delle vie alternative, dei bay-pass, e si
possono creare degli shunt naturali, non chirurgici: lo shunt porto-cavale.

Tra le principali anastomosi che in condizioni patologiche possono aumentare ci sono:

 Anastomosi radicolari (collegano la radice della porta ai tronchi afferenti della vena cava):

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o Anastomosi tra le branche della vena coronarica stomatica, vene del fondo gastrico
(afferenti del sistema portale), con le vene esofagee inferiori e con le vene freniche
(affluenti dell’azygos-vena cava inferiore);
o Anastomosi tra le branche delle vene emorroidali superiori (afferenti del sistema
portale tramite la mesenterica inferiore) con le vene emorroidali inferiori (afferenti
alla cava inferiore tramite l’ipogastrica);
o Sistema del Retzius, vene lombari, renali, sacrali (affluenti della vena cava inferiore)
con le radici dei vasi mesenterici, pancreatici e lineali (affluenti della porta).
 Anastomosi tronculari (collegano il tronco portale al sistema cavale):
o Canale di Aranzio, normalmente obliterato, che può direttamente far comunicare la
porta con la cava;
o Sistema delle vene ombelicali: tra il ramo sinistro della vena porta(ilo epatico) e le
vene della parete addominale (rami epigastrici, mammari esterni ed interni: caput
medusae).

Quest’ultima anastomosi induce il rischio di emorroidi.

Il bay-pass dato dalle vene esofagee, invece di andare dalla splenica verso il fegato va all’inverso,
dalla milza si va verso l’esofago, dall’esofago verso l’azygos e dall’azygos arriva alla cava superiore.
Questo rappresenta il quadro di varici esofagee, che possono rompersi e sanguinare, dando
ematemesi e melena. Se il sangue portale non passa più attraverso il fegato accade che: arrivano
al cervello delle sostanze azotate (encefalopatia porto-sistemica), perdita parziale della
funzionalità epatica. Il problema fondamentale sono proprio le varici esofagee (microscopici vasi) e
i loro sanguinamenti. A questo punto diventa un quadro chirurgico, perché fino ad ora poteva
rimanere nel campo medico. La diagnosi di varici esofagee si può osservare con la gastroscopia.

Quindi si va incontro ad una dilatazione del diametro della vena porta, vista con l’ecografia, la TAC
o la RMN, e funzionalmente con l’eco-color doppler si vede se c’è un flusso irregolare, con
situazioni a volte invertite.

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VARICI ESOFAGEE - SANGUINAMENTO

IPERTENSIONE PORTALE

EPATOPATIA CRONICA - TROMBOSI PORTALE

Per ognuno di questi passi si può effettuare qualcosa di terapeutico. I pazienti con ipertensione
portale sono dei soggetti cronici, con una patologia cronica, e ancora prima di avere un quadro di
ipertensione portale, hanno avuto un’epatopatia acuta e poi cronica con un quadro di infezione (di
tipo virale). Le infezioni virali HCV e HBV sono differenti: HBV si fa il vaccino e quindi non dovrebbe
mai comportare problemi, l’HCV è diverso perché non si ha un vaccino e i farmaci come
l’interferone,le immunoglobuline, ecc., hanno effetto molto scarsi al contrario dell’HBV.
L’infezione virale acuta può dare un quadro di ittero medico, può distruggere gli epatociti con
aumento delle transaminasi (indice di morte degli epatociti) e danno cellulare; c’è una fase di
recupero e di cronicizzazione e le transaminasi tendono a tornare nella norma. Quando
l’epatopatia dalla fase acuta passa alla fase cronica, il soggetto comincia ad avere dei problemi seri
con segni e sintomi piuttosto evidenti: cute olivastra, rovinata, odore sgradevole, ascite se è
scompensato, masse muscolari ridotte, aspetto del biafra (addome grosso e muscoli e gambe
ridotto al minimo), splenomegalia, riduzione dei globuli rossi con emoglobina molto bassa,
problemi di coagulazione, ridotta PT.

L’ascite è uno dei segni di ipertensione portale e si tratta di un versamento di liquido libero
all’interno del peritoneo, che si forma per due motivi:

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1. L’aumento della pressione idrostatica nel circolo portale tende a far filtrare i liquidi
all’esterno;
2. La riduzione della pressione oncotica del sangue a causa della ridotta produzione di
albumina: si ha un minor richiamo di liquidi;

L’ascite dà dei problemi: compressione dei visceri addominali ed in particolare dello stomaco, per
cui il paziente non riesce ad alimentarsi, e difficoltà respiratoria sia per l’impedimento alla discesa
del diaframma sia per ridotta espandibilità dell’addome. Una complicanza può essere il passaggio
del liquido ascitico nello spazio pleurico: ascite pleurica.

Il quadro dell’ascite si tratta con i diuretici e da un punto di vista di semeiotica clinica si avluta
attraverso:

 Ispezione
 Palpazione: manovra del ballottamento (ricerca del fiotto addominale)
 Percussione: suono ottuso
 Ecografia

È importante valutare se si tratta di un’ascite responsiva alla terapia dei diuretici (ci cono asciti che
non rispondono alla terapia) e quindi valutare, se dopo lo svuotamento, nonostante la terapia
diuretica, l’ascite si riforma o meno. Il trattamento dell’ascite non è basato solo sulla paracentesi o
sulla terapia medica, ma anche sul compenso dei liquidi e dell’albumina persa. Intanto si infonde
emagel, poi se i dati di laboratorio indicano una carenza di albumina allora si infonde albumina al
25%.

Il fegato che è il principale motore della biochimica umana inizia a perdere colpi e se perde colpi il
fegato, inizia a perdere colpi tutto l’organismo. I valori che andiamo a vedere sono albumina, PT,
che risultano essere ridotti e bilirubina aumentata. Il fegato, che normalmente è una bella massa,
morbida, soffice che si trova nell’ipocondrio destro, man mano che c’è la distruzione degli
epatociti, che vengono sostituiti da tessuto fibroso, diventa più piccolo, si riduce e diventa tutto
bozze, più duro e con aspetto micro e macronodulare. Il soggetto comincia a presentare ascite e
quindi se non è corretta da una dieta iposodica con ritenzione idrica, la situazione aumenta ancora
di più. Potremmo avere quadri con epatopatia cronica compensata e quadri di epatopatia cronica
scompensata.

C’è una classificazione del grado di compromissione del soggetto dal punto di vista della sua
funzione epatica, la classificazione di Child-Pugh. Questa classificazione tiene conto di due

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variabili di tipo parametrico: l’encefalopatia e l’ascite non sono intesi come una scala di valori
precisi (valutazione soggettiva), mentre l’albumina, la PT (il tempo di formazione del coagulo di
fibrina quando al plasma vengono aggiunti tromboplastina e calcio) e la bilirubina si possono
misurare. Albumina e PT sono indici della funzionalità epatica, cioè della capacità di sintesi, la
bilirubina è indice della capacità di filtrazione.

CLASSIFICAZIONE DI CHILD-PUGH
PUNTI 1 2 3
Encefalopatia NO LIEVE GRAVE
Ascite NO LIEVE
Bilirubina (mg/dl) <2 2-3 >3 Child-Pugh A B C
Albumina (g/dl) >3,5 2,8-3,5 <2,8
PT <1,7 1,7-2,3 >2,3 Totale 5-6 7-9 >10

Ogni parametro ha 3 punti: il punteggio minimo è 5, il massimo è 15.

Il grado di encefalopatia si valuta a livello clinico, considerando se il paziente è sempre lucido, lo è


solo a volte o non lo è mai.

Un altro tipo di classificazione a punteggio è la MELD (model for end stage liver desease), che si
basa su un punteggio riguardante la bilirubina, il PT e la creatinina.

Paziente con Child-Pugh A è ancora compensato, con cirrosi ma entro i valori accettabili. Pazienti
che vanno in scompenso (Child-Pugh C) hanno due destini: la morte o il trapianto. Sono soggetti
compromessi dal punto di vista generale e in più si sviluppano circoli collaterali: una in particolare
è molto pericolosa, il circolo delle varici esofagee. Una volta che si sono dilatate, per la legge di
Laplace, non solo si vedono e sporgono nel lume con parete liscia, sottile e traslucida, ma sono
delle vene sotto tensione, in ipertensione portale, che possono sanguinare. Le vene esofagee
stanno in un posto molto difficile clinicamente, a livello dell’esofago soprattutto a livello
terminale, perché nascono dalle gastriche brevi e si dilatano da sotto verso sopra. Le vene
esofagee si aprono perché i vasi brevi dello stomaco sono in collegamento con la vena splenica,
che è in connessione con il sistema portale(normalmente il sangue ha un andamento epatopeto,
cioè verso il fegato, mentre in caso di ostacolo intraepatico, assume un andamento epatofugo). I
vasi brevi dello stomaco sono connessi alle vene esofagee che perciò si dilatano. La loro presenza
nel tratto terminale può indurre un’insufficienza del sistema sfinteriale, provocando il reflusso
gastro-esofageo. Perciò si possono verificare delle erosioni con sanguinamento anche importante
(melena costante, ematemesi accessoria). Quando si hanno questi eventi emorragici si ha anemia,
ipotensione, fino allo shock (tachicardia, tachipnea, sudorazione fredda, ecc.). la prima cosa che si
deve fare è valutare tutti i parametri, prendere un accesso venoso, mettere in bilancio il paziente,
e cominciare a infonderlo. Ovviamente, se la PO2 e la pressione calano notevolmente si fa una
trasfusione d’urgenza. Se il paziente non ha emorragia si introduce il sondino naso-gastrico per
ripulire, aspirare e monitorare per 24/48 h. Se invce si ha emorragia,si introduce al paziente un
sondino particolare, la sonda di Sengstaken Blakemore, che ci permette di aspirare ma sprattutto

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di tamponare l’emorragia. La sonda è formata da due palloncini, uno inferiore rotondo ed uno
tubolare appena sopra. Quello rotondo serve per ancorare il sondino al cardias (nell’ernia iatale
non è possibile mettere la sonda perché viene a mancare il sistema d’aggancio), mentre quello
tubolare serve per esercitare un effetto tamponante.

Quindi una volta ancorata la sonda al cardias inferiormente e al naso superiormente, si gonfia il
palloncino tubolare; A volte il solo palloncino gastrico esercita un effetto emostatico perché
esercita pressione sulle origini dei vasi esofagei. Con questa sonda si risolve solo l’ultima tappa
dell’ipertensione portale, cioè il sanguinamento delle vene esofagee. Si tratta perciò del primo
livello dell’interazione della patologia. Una volta ottenuta l’emostasi, si porta il paziente in

endoscopia (non effettuabile durante il sanguinamento). L’endoscopista sgonfia la sonda e la ritira


e poi introduce il gastroscopio con il quale osserva le varici, sulle quali è visibile il coagulo.

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La classificazione delle varici esofagee tiene conto dei seguenti parametri:

 Dimensioni (F):
o F1 se occupa fino ad 1/3 del diametro dell’esofago;
o F2 se occupa da 1/3 fino a 2/3 del diametro;
o F3 se occupa da 2/3 a 3/3 del diametro dell’esofago;
 Sede (L):
o Li se nel terzo inferiore dell’esofago;
o Lm se nel terzo medio dell’esofago;
o Ls se nel terzo superiore;
 Spessore della mucosa in base al colore:
o Se la mucosa è sottile sono blu perché traspare il sangue venoso;
o Se la mucosa è spessa le varici sono di colore bianco;
 CRS (cherry red spots o macchie rosso ciliegia):
o Ectasie venose di circa 2 mm di diametro;
 RMW (red wale markings o macchie rosse livido):
o Strie rosse longitudinali
 HCS (hematocystis spots o macchie cistiche ematiche):
o Dilatazioni cistiche di colore rosso vivo del diametro superiore a 4 mm.

Quindi sull’insieme di questi parametri si basa la classificazione giapponese delle varici esofagee
con un punteggio da 1 a 6. Quelle con punteggio 6 hanno una percentuale di rischio emorragico
vicino al 100%.

La terapia delle varici esofagee si basa sulla scleroterapia, iniettando in vena o nel tessuto
perivenoso, una soluzione sclerosante,che in teoria potrebbe essere anche una soluzione di
glucosio al 50%. Nella realtà si utilizza principalmente il polidocanolo, sostanza irritante che deriva
da un anestetico. Queste sostanze danno un’azione irritante e sclerosante e provocano la sclerosi
della vena. Questa non solo non perde più sangue, ma diventa una sorta di cordoncino fibroso e si
ritrae.

Altra terapia che può fare l’endoscopista è la legatura elastica delle varici, che ne provoca la
necrosi e la caduta entro 7 giorni: alla base si forma coagulo e cicatrizzazione. A questo punto
abbiamo risolto anche il problema delle varici ma l’ipertensione portale non è ancora stata risolta,
anzi è possibile un peggioramento perché abbiamo chiuso uno shunt, una via. Quindi sicuramente
il sangue troverà un’altra via o riaprirà quella che abbiamo chiuso. È perciò necessario intervenire
subito per risolvere l’ipertensione portale.

Per risolvere il quadro dell’ipertensione portale bisogna creare una nuova via, un nuovo shunt o
by-pass porto-sistemico creato dall’uomo e non più naturale. Prima, l’unica maniera di creare uno
shunt porto-sistemico era esclusivamente il trattamento di tipo chirurgico. Si apriva l’addome,
laparotomia, e si creava un by-pass tra il distretto portale e il distretto sistemico e ci sono almeno

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15 tipi di interventi, ma solo due sono i principali. Oggi si è inserita una figura professionale,
creando una nuova metodica, non più prettamente chirurgica.

La pressione a livello portale si potrebbe misurare attraverso un catetere, in maniera radioguidata


con dei raggi e iniettando un mezzo di contrasto e collegato all’esterno con un manometro,
introdotto a livello della giugulare o della succlavia, poi nella cava fino ad arrivare alle vene
sovraepatiche, ma a livello della sovraepatica non è la stessa cosa, perché è la via di fuga del
sangue, ma si è visto che, a catetere bloccato, cioè spingendo il catetere, comprimendolo contro il
parenchima epatico, nella realtà con una piccola correzione matematica, la pressione misurata a
livello della sovra epatica corrisponde a quella portale. Questa è la misurazione della pressione
portale. Con un catetere particolare, col filo di Saldingher sfondando la sovraepatica si arriva nel
parenchima epatico, nei sinusoidi epatici, a livello di un ramo portale, si fa uno shunt porto-
sistemico intraepatico, senza aprire l’addome. Tutto questo attraverso un filo guida creando una
fistola, uno shunt tra la vena sovraepatica (il sistema cavale) e un ramo portale. Se si fa una
comunicazione con un ramo della sovraepatica, si dilata e si riveste con un materiale metallico con
una protesi che mantiene il vaso aperto: questa è la TIPS (shunt porto-sistemico intraepatico
transgiugulare). Questa metodica è una manovra gestita dai radiologi interventisti. È chiaramente
preferibile questa procedura,tutte le volte che è possibile farla, invece dell’intervento chirurgico.
Gli svantaggi di questa metodica sono che questi pazienti, dopo che hanno avuto una protesi
vascolare, dovranno sempre fare degli anticoagulanti (cumadin) o antiaggreganti. La TIPS può
avere una funzione definitiva o di trattamento “bridge”, a ponte in vista di un trapianto di fegato.
Dal punto di vista chirurgico è possibile fare degli shunt porto-sistemici: il fine è quello di creare
una nuova via ed il vantaggio è quello di eliminare l’ipertensione con il ritorno ad una pressione
normale. Il problema di queste metodiche è di tipo emodinamico: risolviamo il quadro
dell’ipertensione, ma proprio perché creiamo una nuova via, un nuovo shunt, accentuiamo di più il
quadro dell’encefalopatia e dell’ipofunzione epatica; ancora meno sangue per fonderà il fegato
che avrà un ipofunzione e accentuazione dell’encefalopatie poiché più sostanze azotate
arriveranno al cervello senza essere filtrate, ma sarà vivo il paziente! Otteniamo un vantaggio a
scapito di altre caratteristiche. Questo vale per la TIPS ma anche per gli interventi di shunt
chirurgici.

Dal punto di vista chirurgico bisogna effettuare un’anastomosi porta-cava cioè, si prende la porta,
si taglia e la si gira direttamente sulla cava: l’anastomosi porto-cava termino-laterale. In questo
caso è terminale sulla porta e laterale per la cava. In questo caso, tutto il flusso portale convoglia
nella cava bay-passando il fegato, che può andare in atrofia. Se invece la vena porta rimane integra
e la si taglia solo lateralmente e si unisce alla cava, si ha un’anastomosi porto-cava latero-laterale.
In questo tipo di anastomosi il sangue convoglia in parte al fegato e in parte alla cava,
distribuendosi in ambedue i letti vascolari, in modo parziale. I fluidi andranno prevalentemente
dove il diametro è maggiore o dove la resistenza è minore (vena porta), cioè dove il flusso è

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agevolato: si effettua un’anastomosi calibrata con un sistema valvolare, un diametro preciso.
Questo è uno shunt parziale non selettivo.

Un’altra soluzione è quella di effettuare un’anastomosi tra la vena lienale (splenica), nel punto di
confluenza con la mesenterica inferiore, e la vena renale di sinistra, facendo un’anastomosi
spleno-renale termino-laterale o intervento secondo Warren. La vena lienale è corta e
difficilmente mobilizzabile e non arriva alla cava, ma arriva alla renale di sinistra: il risultato è
sempre uno shunt porto-sistemico che dà la risoluzione dell’ipertensione portale e riducendo la
quantità di sostanze azotate che si riversano nel circolo sistemico. In tal modo si riduce il grado di
encefalopatia attraverso uno shunt parziale, ma selettivo chiamato intervento di Warren. In
queste anastomosi passa sangue venoso a bassa pressione.

In questo modo si risolve il problema dell’ipertensione portale.

Altra alternativa che si faceva prima per risolvere l’ipertensione portale, a metà tra l’endoscopia e
la chirurgia, era quello di andare a sezionare l’esofago con le vene annesse (poi l’esofago viene
ricostruito): questo è un intervento di transezione devascolarizzazione esofagea che mira solo ad
eliminare il quadro delle varici, senza risolvere il problema delle varici esofagee.

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Tutti i pazienti con ipertensione portale sono legati ad un processo cronico che è la cirrosi. Oltre
alla possibile fase di tipo intraepatico, che però rappresenta la stragrande maggioranza (90%), c’è
un altro 10% che non è intraepatico e non è causato dalla cirrosi o da virus, ma è qualcosa di
diverso e non di cronico e sono di solito incidenti di tipo vascolare, patologie vascolari. La
patologia vascolare sulle vene è la trombosi che può essere o pre-epatica o post-epatica. Si ha un
problema di ipertensione e in questo caso c’è un ostacolo a livello pre-epatico e si possono
formare degli shunt e la differenza è che in questo caso non abbiamo una patologia cronica, ma un
fatto acuto, recente e questo rappresenta il 9% dei casi. Il caso più raro è dato dalla sindrome da
iperafflusso.

L’altro caso è dato dalla trombosi delle vene sovraepatiche, al sangue che esce dal fegato, una
sindrome piuttosto rara legata a problemi di tipo vascolare, la sindrome di Budd-Chiari. La
sindrome di Budd Chiari è un quadro acuto non cronico come la cirrosi e si verifica nelle donne
molto giovani, in genere quando c’è un’alterazione ormonale di tipo endogeno o esogeno, oppure
all’uso di contraccettivi, e è dovuta ad un’ostruzione trombotica di una vena sovra epatica, in
genere la destra, ma può essere contemporaneamente presente in tutte e tre le sovraepatiche. Si
verifica improvvisamente e il soggetto inizia subito ad avere problemi di scompenso epatico, con
ascite, aumento della bilirubina(soprattutto di tipo indiretta) e ittero medico,aumento delle
transaminasi (necrosi acuta degli epatociti), riduzione dell’albumina e allungamento del tempo di
protrombina (PT), possibile CID (coagulazione intravascolare disseminata), scende la pressione e si
può arrivare allo shock. Si può arrivare rapidamente al coma epatico e ciò avviene perché on c’è il
tempo per l’apertura di circoli collaterali, cosa che avviene invece in caso di cirrosi. In questi casi, il
paziente si mette in terapia eparinica perché dobbiamo risolvere il problema in primis della
trombosi e bisogna mettere il paziente in bilancio ed infondergli lasix per drenare i liquidi fuori
dovuti all’ascite. Successivamente si effettua un intervento che consiste nel posizionare uno stent
per via trans-giugulare (TIPS), per dilatare la zona interessata dal trombo e permettere il deflusso
del sangue. Il trattamento definitivo, se il fegato non è recuperabile, è il trapianto con una lista di
attesa breve (priorità rispetto ai quadri cronici di cirrosi).

Se nel 90% dei casi l’ipertensione portale è dovuta alla cirrosi, l’evento risolutivo è rappresentato
dal trapianto perché si sostituisce l’organo malato che ha dato dei problemi. Il vantaggio del
trapianto è che risolve la catena dall’inizio. Gli svantaggi sono che è una tecnica pericolosa (10% di
mortalità), è una tecnice che quando tutto va bene, per tutta la vita comporterà l’assunzione di
farmaci immunosoppressivi. Il riggetto del trapianto ormai è l’ultimo dei problemi con i farmaci
attuali come la ciclosporina,il tacrolimus, però l’immunosoppressione a vita, comporta rischi per il
soggetto (infezioni e tumori). Esso però non si effettua in tutti i casi perché esiste un certo rischio
intreoperatorio, postoperatorio e anche legato alla terapia. Vanno incontro a trapianto solo i
cirrotici scompensati secondo la classificazione di Child Pugh. Esistono dei soggetti che riescono
con la terapia e un regime dietetico adeguato, a vivere con la cirrosi per tutto il resto della loro
vita. In questi casi non si fa il trapianto. Se invece questa situazione inizia a degenerare in maniera
veloce in modo da prevedere che il paziente ha un rischio del 100% di mortalità entro 2 anni, è
necessario ricorrere al trapianto, nonostante tutti i rischi legati ad esso.

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ITTERO
Il fegato produce la bile, liquido giallo-verdastro, un po’ denso, filante e dagli 8 segmenti si arriva
alla confluenza per formare il dotto epatico di destra e il dotto epatico di sinistra e insieme alla
biforcazione formano il dotto epatico comune. Il dotto epatico comune,dopo la confluenza del
cistico, forma il coledoco. Il dotto cistico collega la via biliare principale con la colecisti. La colecisti
è una sacca che ha la funzione di concentrare, elaborandola e mettendola in circolo attraverso lo
sfintere di Oddi e la papilla di Vater (papilla major), nella seconda porzione duodenale nei 12 cm di
percorso verso il duodeno,con un diametro di 3 mm. Nel duodeno arriva sia la bile direttamente
dal fegato, sia la bile concentrata dalla cistifellea. L’asportazione della colecisti non dà problemi
gravi, tranne all’inizio , problemi di dispepsia (rallentamento della digestione) ma, che tende a
normalizzarsi. I dotti biliari sono più grossi vicino alla confluenza, più sono periferici e più sono
sottili. Se pur essendo prodotta regolarmente, in questi 12 cm c’è una qualunque causa di ostacolo
fisico, meccanico, al deflusso della bile, si crea una situazione di occlusione della via biliare. Si
ostacola il passaggio della bile verso il duodeno: ittero ostruttivo.

Rami intraepatici

Dotto epatico
comune

Dotto cistico
Coledoco

Coledoco terminale
Colecisti
Dotto di Wirsung

Papilla di Vater

L’ittero è un quadro patologico che riconosce più cause scatenanti, il cui risultato finale è una
colorazione giallastra della cute, delle mucose e delle sclere a causa della concentrazione della
bilirubina nei tessuti. Nel sub-ittero, che è la fase iniziale, si ha la sola colorazione delle sclere.
Nell’ittero franco la colorazione è estesa a tutto il corpo. Esistono due tipi di itteri:

 L’ittero medico che comprende tutte le cause di ittero esclusa quella ostruttiva ed il danno
è dovuto ad un difetto nel funzionamento del fegato (cause virali, farmacologiche,ecc.);
 L’ittero chirurgico (ostruttivo) è dato da un’ostruzione delle vie biliari, che impedisce alla
bile (1l al giorno) si giungere nell’intestino. Le principali cause di ittero ostruttivo sono:
calcoli, cancro del coledoco (tumore alla papilla di Vater), tumore della testa del pancreas,

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stenosi infiammatoria del coledoco, infezioni della via biliare ed altre cause compressive.
Tutte queste cause tendono a comprimere meccanicamente e fisicamente la via biliare.

Il valore normale, fisiologico della bilirubina totale è di 1,1-1,2 mg/100 ml di sangue; quando
questo valore aumenta sino a 2,5 mg/100 ml si ha la condizione di sub-ittero. Nell’ittero il valore
supera i 3mg/100 ml. Dal punto di vista clinico valutiamo l’ittero in base a:

 Colorazione giallastra della cute;


 Intenso prurito con escoriazioni da grattamento (dovuta in gran parte agli acidi biliari
accumulati a livello della cute);
 Feci acoliche o ipocoliche (biancastre);
 Urine ipercromiche (la bile viene riassorbita in circolo ed il pigmento viene escreto a livello
renale);
 Bilirubina totale (diretta+indiretta) aumentata. Nell’ittero ostruttivo aumenta la bilirubina
diretta. Nell’ittero medico aumenta la bilirubina indiretta;
 Indici di colestasi: fosfatasi alcalina e γGT;
 Indici di necrosi epatica: aumento delle transaminasi se c’è un ristagno da giorni nella via
biliare che determina danni sul fegato.

Nell’ittero ostruttivo non abbiamo in genere aumenti di transaminasi, se non in stadio avanzato
per il danno da colestasi. Classicamente un ittero di tipo ostruttivo è legato al fatto non che il
fegato ha un danno a livello intraepatico o che non produce la bile, ma la bile viene prodotta
regolarmente e non riesce ad arrivare all’intestino poiché trova un ostacolo (calcoli,tumore,massa)
che impedisce il totale e completo passaggio della bile. Il fegato nell’ittero ostruttivo non è
danneggiato. Non arrivando nel duodeno se l’ittero è ostruttivo, la bile non colorerà le feci, che
risulteranno essere acoliche i ipocoliche, mentre le urine saranno ipercromiche, poiché la bile
andrà tutto nell’emuntorio renale. Nell’ittero ostruttivo, normalmente quella che aumenta è la
bilirubina diretta, quella coniugata. Mentre un ittero di tipo medico sarà prevalentemente un
aumento di bilirubina indiretta.

La bile contiene acqua, Sali biliari, fosfatidilcolina (lecitina), colesterolo, bilirubina (quasi
esclusivamente coniugata), proteine, elettroliti e serve per emulsionare i grassi. La fine di questi
sali biliari è quella di essere recuperati nella parte terminale dell’ileo e vanno nel sangue della
mesenterica superiore e nella porta e tornano al fegato per poi essere rimessi in circolo.
L’accumulo di bilirubina in maniera anomala determina danni a carico degli organi: c’è sofferenza
epatica (insufficienza epatica) a causa della stasi. Si possono avere problemi di insufficienza renale
ed il danno si ripercuote a livello vascolare e cardiaco, ed il tutto può portare il paziente a morte
(alterazioni neurologiche).

Una delle cause più frequenti di ittero ostruttivo è il calcolo delle vie biliari; questi calcoli si
formano a livello della colecisti che è un organo cavo all’interno del quale avviene la
concentrazione della bile. Se si ha un’eccessiva concentrazione si formano i calcoli di colesterina. Si

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possono formare calcoli singoli, piccoli o grandi, o calcoli multipli. I calcoli possono essere molto
grandi e formare una massa solida e addirittura riempire l’intera colecisti (litiasi della colecisti). I
calcoli della colecisti possono rimanere clinicamente silenti finché non invadono le vie biliari. Si ha
dunque l’evidenza clinica rappresentata dalla colica biliare, dovuta alla contrazione dolorosa della
muscolatura del dotto cistico che ha l’obiettivo di spingere il calcolo della colecisti verso la via
biliare principale. Il dolore è acuto e crampi forme con andamento sinusoidale e risponde bene agli
antispastici.

Il destino del calcolo può essere doppio:

1. Non riesce a confluire nelle vie biliari e permane nella colecisti (non si ha ittero);
2. Il calcolo passa e può ostruire le vie biliari a qualsiasi livello o fermarsi nel punto più stretto
che è la papilla di Vater. A questo livello c’è l’unione della via biliare e della via pancreatica
(dotto di Wirsung). Per questo motivo se si verifica ostruzione a questo livello si ha anche un
blocco della via pancreatica (eventuale pancreatite).

La sintomatologia del calcolo biliare dipende dal livello a cui si ferma il calcolo.

Per quanto riguardano gli esami strumentali sono utili:

 L’ecografia epatica: referto di cono d’ombra a livello della colecisti quando ci sono dei
calcoli che ostacolano il passaggio degli ultrasuoni; se i calcoli passano nella via biliare è
difficile vederli tramite ecografia. Con l’ecografia si valutano le dimensioni del fegato, i vasi,
il parenchima, ma normalmente non si vedono i dotti epatici. Essi diventano ben visibili
quando sono dilatati a causa di ittero ostruttivo. Non posso capire la causa, ma si sa in che
luogo è presente la causa ostruttiva perché le vie si mostrano dilatate solo a monte del
punto in cui è presente l’ostruzione;
 TAC, con o senza mezzo di contrasto;
 RMN addominale, oppure elaborazione elettronica della via biliare principale (colangio
RMN con mezzo di contrasto).

Non è possibile effettuare una radiografia con mezzo di contrasto perché nei soggetti itterici il
fegato non riesce a concentrare il liquido di contrasto che va a finire nelle urine (urografia). Quindi
si fa:

 ERCP (colangio-pancreatografia retrograda endoscopica): gastroscopia con visione


laterale, si incanula la papilla di Vater con un cateterino, tramite il quale si inietta il mezzo
di contrasto e contemporaneamente si fa la radiografia. Un inconveniente potrebbe essere
l’iniezione del mezzo di contrasto nel dotto pancreatico. Si possono avere quadri di
risentimento del pancreas per cui si monitorizzano gli enzimi pancreatici (amilasi e lipasi).
L’ERCP è una manovra di base diagnostica, serve per fare diagnosi; nella realtà

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l’endoscopista con questo strumento riesce a fare molto di più, non fa solo diagnosi, ma
riesce a fare anche terapia.
 Altra via di accesso alla via biliare principale è la PTC (colangiografia percutanea trans
epatica) per via percutanea ecoguidata che si fa in anestesia locale, su un campo sterile,
usando l’ago di Chiba (35-40 cm) tramite il quale si ha accesso alla via biliare. Per essere
sicuri di essere entrati nella via biliare aspiriamo ed esce bile; se siamo entrati
erroneamente nel parenchima epatico non esce nulla, se invece siamo entrati in un vaso,
viene del sangue. Una volta sicuri di essere all’interno della via biliare principale, iniettiamo
il mezzo di contrasto e successivamente passiamo alla parte radiologica con la quale
possiamo fare diagnosi. Finita la parte diagnostica anche in questo caso, possiamo passare
alla parte chirurgica. Dentro l’ago c’è lo spazio per fare passare un filo guida (filo di
Saldingher) che spingiamo nella via biliare, poi ritiriamo l’ago e sul filo guida inseriamo una
serie di cateterini per dilatare progressivamente il tramite che abbiamo utilizzato. Una
volta allargato l’accesso percutaneo di circa 5 mm, si può mettere un cateterino la cui
punta una volta giunta nella via biliare si arrotola e ciò evita che il catetere si sfili. Si fissa il
catetere alla cute con un punto e otteniamo un drenaggio biliare all’esterno. Quindi
abbiamo il risultato di riduzione del quadro itterico. Permangono però le conseguenze
della mancanza di bile nell’intestino (feci ipocoliche). La quantità di bile che viene drenata
và segnata nel foglio del bilancio idro-elettrolitico. Si tratta infatti di una perdita organica
sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo: questa perdita va ricompensata. Altra
possibilità è il posizionamento delle protesi per via percutanea che allarga il lume
temporaneamente e la bile ricomincia a defluire per la via normale, è la soluzione migliore
perché recuperiamo la bile. Questo è un intervento non radicale e il vantaggio rispetto al
drenaggio biliare esterno è che non si perde la bile dall’organismo.

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Quando si forma il calcolo a livello della colecisti si avrà un quadro di calcolosi della colecisti (non
un quadro di ittero) perché vengono prodotti e rimangono nella colecisti dando solo delle coliche
oppure a volte sono del tutto asintomatici. Se i calcoli sono più piccoli e il paziente è soggetto a
coliche, spinte, il calcolo può passare nel cistico e nella via biliare principale. Se arriva nella via
biliare principale e si va a bloccare a livello della pars comune, poco prima dello sfintere di Oddi,
blocca la via. Allora l’ittero ostruttivo da calcolosi, non più della colecisti, ma della via biliare (nato
nella colecisti e migrato nella via biliare dando ostacolo o ad un punto qualsiasi della via biliare
oppure nella parte più stretta). L’endoscopista tramite l’ERCP incanula la papilla, per iniettare il
mezzo di contrasto o per aspirare la bile (si infila nel gastroscopio e lo si fa uscire dal naso), dopo
aver superato l’ostacolo. Se l’ostacolo è rappresentato dal calcolo, l’endoscopista può prendere il
calcolo e lo può tirare però c’è lo sfintere di Oddi. Allora la prima cosa che deve fare l’endoscopista
è quella di fare la sfinterotomia dello sfintere di Oddi attraverso un filo d’acciaio collegato ad un
bisturi che coagula e taglia. I rischi di questa manovra sono l’emorragia (emobilia si manifesta con
melena) e la perforazione iatrogena del duodeno (si fa una diretta dell’addome per vedere se c’è
falce diaframmatica). Una cosa che si verifica quasi sempre, quando si mette il mezzo di contrasto
una parte va nel Wirsung e una parte nel coledoco, può insorgere un insulto pancreatico 8si
richiedono amilasi e lipasi). Una volta aperta la via, in caso di calcolosi si introduce uno strumento
con dei fili metallici che agganciano il calcolo attraverso il cestello di Dormia o dei cateteri a
palloncino e lo porta giù nel duodeno dove viene abbandonato e verrà eliminato con le feci. Se il
calcolo è molto grande è possibile utilizzare un litotritore per frammentarlo. Se è un tumore delle
vie biliari (colangiocarcinoma) o della testa del pancreas e le condizioni del paziente sono critiche
per cui non può essere operato, e mette la protesi come quella per via percutanea, oppure mette
il sondino naso-biliare. Questo sondino funge da drenaggio nel caso in cui la mucosa si edemizzi
per evitare l’ostruzione del lume ed evitare inoltre il reflusso enterico nella via biliare dal duodeno
al fegato, contaminando la via biliare (colangite ascendente). La colangite presenta dal punto di
vista clinico la triade di Charcot: dolore biliare, ittero di lieve o media entità e febbre con brivido.
Mettendo uno stent è possibile distendere la via biliare ed in questo modo si risolve l’ittero e si
può riequilibrare il paziente per poi poterlo operare. Esistono due tipi di protesi: una di plastica
con durata limitata (viene utilizzata in situazioni provvisorie) e una a maglie di titanio (di maggiore
durata). Queste protesi, specie quelle in plastica che hanno un lume più piccolo, possono dare
problemi di condensazione della bile. È perciò necessario mantenere il paziente ben idratato e
magari utilizzare farmaci che fluidificano la bile come l’acido ursodesossicolico e
chenodesossicolico.

Quindi con l’ERCP o con la via percutanea ecoguidata è possibile non solo fare diagnosi ma ci
permette di introdurre uno stent protesico o un drenaggio che elimina la condizione dell’ittero.

L’ittero è l’ultimo effetto e la causa principale potrebbe essere un tumore a livello della parte
terminale del coledoco e l’ittero è la prima causa da risolvere; si riequilibra il paziente e poi lo si
opera: si risolve prima l’ittero e poi il tumore.

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Possiamo avere altri tipi di stenosi; Un’infiltrazione, una compressione o un tumore della testa del
pancreas possono provocare ittero. Possiamo avere anche un tumore delle vie biliari che origina
dalle cellule dell’epitelio della via biliare si chiama colangiocarcinoma (nasce dai colangiociti). Il
colangiocarcinoma a livello della biforcazione tra dotto epatico e dotto cistico si chiama
colagiocarcinoma di Klastkin. Il colangiocarcinoma lo troviamo extraepatico (la maggior parte dei
casi),ma anche intraepatico. Quindi sono due tumori principali primitivi l’epatocarcinoma e il
colangiocarcinoma.

Le cause intraepatiche di ittero sono:

o Tumori primitivi del fegato (epatocarcinomi e colangiocarcinomi)


o Tumori secondari (metastasi)
o Tumori della testa del pancreas (visibile con una eco endografia)
o Masse parassitarie (cisti da echinococco)
o Cirrosi

Sono rari i tumori della papilla di Vater, ma possiamo avere una situazione cicatriziale stenosante
della papilla di Vater ed essere causa di ittero ostruttivo. Anche compressioni senza infiltrazioni
possono dare ittero ostruttivo. Il tumore al fegato o la stessa cisti se è periferico rispetto alla via
biliare, non la comprimerà e quindi non provocherà ittero. Il problema non è il tumore o la massa
non tumorale (ascesso, cisti da echinococco), ma è la zona che va ad occupare che comprime e
può infiltrare che ovviamente è evidente solo se i rami sono più grossi (vicino all’ilo). Per dare
ittero, queste masse devono comprimere i grossi dotti o le biforcazioni, non i piccoli dotti. Quindi
devono avere una posizione prossima all’ilo.

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CALCOLOSI DELLA COLECISTI
Le patologie a carico della colecisti sono: i tumori e i calcoli della colecisti. La colelitiasi è data dalla
formazione dei calcoli, dati dalla concentrazione della bile e da densa e filante inizia a diventare
sabbiosa e se questo processo si accentua per problemi di disidratazione o di precipitazione di sali,
questa massa si aggrega intorno ad un piccolo nucleo, che poi cresce e si formano i calcoli, quasi
sempre di colesterina. In molti casi possono essere asintomatici, in altri possono indurre dei dolori,
delle coliche. Il dolore colico in genere è quel dolore che noi avvertiamo quando un calcolo prova a
passare a migrare dalla colecisti (attraverso la peristalsi) verso il cistico; Se è piccolo può incunearsi
nel dotto, se invece è grande non passa attraverso il cistico.

La colelitiasi provoca dolore crampiforme, un dolore colico che dura finché c’è il tentativo della
muscolatura che tenta di rimuovere l’ostacolo, spingendolo. I dolori sono irradiati in punti diversi
rispetto al punto d’origine ma, è chiaro che alla pressione il dolore del punto colecistico (manovra
di Murphy) sarà accentuato se il dolore nasce lì (ipocondrio destro).

Non si effettua una semplice colecistotomia per asportare il calcolo perché si è visto che lasciando
la colecisti il calcolo si riforma. L’indicazione principale è l’intervento di colecistectomia, quando il
paziente ha già avuto una colica biliare ed il calcolo non è passato. In questo caso c’è il rischio di

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avere un’altra colica e che il calcolo scenda nelle vie biliari. La colecisti si può asportare per via
laparotomia (taglio mediano e taglio sottocostale) o laparoscopica (sempre se è possibile e se non
ci sono aderenze precedenti). Nella laparotomia il taglio mediano, quello fatto sulla linea Alba
incide una zona di fascia di connettivo ma non muscolare, ovvero la fascia aponeurotica dei
muscoli retti, mentre il taglio sottocostale incide tre fasce muscolari. Una cosa è andare a suturare
la fascia muscolare e un’altra cosa è andare a suturare la fascia fibrosa. Il vantaggio della
laparoscopia è nella ripresa del paziente, il decorso post-operatorio è migliore. È anche vero che
con il taglio sottocostale si arriva subito alla colecisti mentre, con il taglio mediano abbiamo
bisogno dei divaricatori. Prima di asportare la colecisti bisogna isolare il dotto cistico e i vasi
(l’arteria e la vena cistica), quest’ultimo per evitare un emoperitoneo. È estremamente necessario
fare attenzione nel legare il dotto cistico per evitare di legare il coledoco o la via biliare principale.
In questo caso possiamo provocare un ittero iatrogeno e dobbiamo poi riaprire e tagliare anche a
valle della legatura,dato che ormai il resto della via biliare è sclerotico.

Però, se per caso, uno o più calcoli, anche durante l’intervento, vanno a finire nella via biliare
principale si ha calcolosi della colecisti e litiasi dentro la via biliare. Quindi non si può fare solo la
colecistectomia, ma bisogna togliere i calcoli se no danno il quadro dell’ittero o sub-ittero. Il cistico
si lega né tropo vicino alla via biliare, perché se no poi la retrazione cicatriziale farebbe angolare
molto la via biliare, né troppo lontano se no si formerebbe un tappo e potrebbe ristagnare
materiale ed esserci un pool di sacco (sindrome dal pool di sacco). C’è un problema di linee di
tensione superficiali: il dotto cistico con la sua parete muscolare impedisce la chiusura della ferita.
Il coledoco invece tagliato sul bordo (taglio laterale),attraverso una coledocotomia, permette
comunque un riavvicinamento della struttura ed una facile guarigione. Per cui non si utilizzerà mai
il dotto cistico. Se abbiamo operato in laparotomia, abbiamo tolto la colecisti e ci siamo accorti,
palpando o facendo una colangiografia intraoperatoria con mezzo di contrasto, che c’è un calcolo,
dobbiamo portarlo via. Se siamo in open, cioè in laparotomia si ha una possibilità in più; se siamo
in laparoscopia questa possibilità non ce l’abbiamo.

Se siamo in laparotomia si fa una coledocotomia (più o meno ampia) e dopo con delle pinze o dei
cateterini (tipo il foley), il Fogarty, che si mettono sgonfi verso la papilla e poi li gonfiamo e li
sgonfiamo per far uscire i calcoli dalla coledocotomia, cosa non possibile attraverso il dotto cistico.
Poi, una volta pulita tutta la via biliare, bisognerebbe chiudere la coledocotomia attraverso una
coledoco raffia. Prima di chiudere il paziente dobbiamo chiudere la via biliare ma, succede che se
si va dentro con le pinze, si tolgono i calcoli ma si lascia l’edema e se si chiude il paziente, dopo 2
giorni, avrà un ittero maggiore rispetto a quello iniziale. Allora, prima di chiudere il paziente,
bisogna introdurre un tutore, il tubo a T di Kehr, che mantiene le pareti aperte anche se c’è
l’edema.

Il tubo a T di Kehr è un altro tipo di drenaggio delle vie biliari (3-5 mm di diametro),introdotto per
via chirurgica, laparotomia, diverso dal sondino naso-biliare che abbiamo descritto nell’ERCP e che
viene introdotto per via endoscopic;, Il tubo a T di Kehr ha due branche, di cui una va verso il
coledoco e l’altra verso il dotto epatico. Viene introdotto facendo una scissione del coledoco,
coledocotomia e viene utilizzato in seguito ad un intervento di colecistectomia per via

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laparotomia, quando ci si rende conto che, durante le manovre dell’intervento, uno o più calcoli
sono passati nelle vie biliari, oppure per problemi appunto di edema (con questo tubo se la via
biliare è libera, la bile arriva nel duodeno, se è occlusa, la bile viene drenata dal tubo).
Posizionando il tubo a T di Kehr, la bile passa regolarmente e se non dovesse passare per problemi
di mucosa edematosa, può uscire tranquillamente tramite la via d’uscita del tubo. Questo esce
fuori dalla cute. Nel frattempo, dato che la bile ha la possibilità di giungere nell’intestino, l’ittero si
riduce e scende la bilirubina. Bisogna considerare che la colorazione scende più lentamente dei
valori di laboratorio, per cui un paziente può rimanere itterico per un periodo di tempo più lungo
anche se i suoi valori di bilirubina sono scesi molto rapidamente. Quando ci si rende conto che il
tubo di Kehr non serve più non si po’ rimuovere ma, si taglia, si chiude e si sigilla l’area con una
pellicola trasparente. Dopo due mesi è possibile rimuovere il tubo. Il motivo per cui il tubo non
viene rimosso subito sta nel fatto che la coledocotomia, nonostante abbia una tendenza a
chiudersi spontaneamente, rimane aperta per un certo periodo e darà problemi di fistole biliari e
di bileperitoneo. Si rimuove dopo due mesi perché nel frattempo intorno al tramite che va dalla
cute alle vie biliari si sono formate delle aderenze che creano una sorta di impacchettamento
connettivale. Per questo motivo, anche se la bile si riversa all’esterno, non si avrà spandimento nel
peritoneo, ma solo in questo nuovo compartimento.

NOTA: il tubo a T di Kehr viene utilizzato anche nelle colangiografie con iniezione del mezzo di
contrasto trans-Kehr. La colangiografia in genere si fa immediatamente prima di rimuovere il tubo
per vedere se la via biliare si è liberata.

Se il paziente viene operato in via laparoscopica, l’alternativa per togliere il calcolo è la manovra
endoscopica con l’ERCP, ed a volte si fa contestualmente, insieme (laparoscopia ed ERCP). Però
anche qui, dopo queste manovre, comunque si forma edema e quindi il paziente il giorno dopo
l’intervento presenta una bilirubina ancora più elevata con una condizione di ittero peggiorata.
Allora l’endoscopista inserisce un tubicino lungo 4-5 m, che esce dalla bocca attraverso il sondino
naso-gastrico, ed è un sondino naso-biliare con dimensioni di 1,5 mm. Prima di rimuovere il
sondino è possibile fare una colangiografia con mezzo di contrasto iniettato proprio attraverso il
sondino naso-biliare. In linea di massima, tranne che non ci siano altre motivazioni (cioè quando il
paziente è talmente itterico che non può essere operato e quindi interviene prima l’endoscopista
e poi il chirurgo),interviene prima il chirurgo e poi l’endoscopista perché durante l’intervento,
seppur una situazione limitata, può avvenire la migrazione del calcolo e quindi poi rifare una
successiva ERCP.

Se il calcolo si impegna nel cistico, però siccome è un po’ grosso, non arriva alla via biliare
principale; dal punto di vista clinico non dà ittero, però non riesce a tornare indietro né va avanti e
blocca il cistico (ostruzione del cistico). In questo casi si parla di colecisti esclusa, in isolamento. Si
verifica infiammazione (colecistite acuta) per ristagno batterico e si infiamma prima la mucosa e
poi, se il processo continua, si infiamma la sierosa e la colecisti inizia a richiamare liquidi e si
distende (idrope colecistica). Se invece c’è anche raccolta di sabbia biliare, batteri e pus, si ha un
empiema della colecisti. In questo caso vi è la possibilità della necrosi e quindi della perforazione
della parete, per questo, in caso di colecistite, va fatta la colecistectomia. Se c’è un calcolo a livello

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del fondo della colecisti,fondo che poggia sul colon, e l’infiammazione passa alla sierosa e crea
un’aderenza, il calcolo poggiando può dare una lesione da decubito; in questo caso potrebbe
passare il calcolo nel colon e non avviene nulla perché viene espulso con le feci. Se invece, passa in
un’ansa digiunale, avviene infiammazione, aderenza, penetrazione, passa il calcolo e si ferma nella
valvola ileo-cecale a questo punto c’è un occlusione, molto rara, che si chiama ileo-biliare, cioè
ileo paralitico da calcolo biliare.

Per quanto riguarda il tumore della colecisti, il colangiocarcinoma, se è situato sulla parete libera
della cistifellea, al limite può arrivare sulla sierosa ed è possibile vederlo però, se il tumore si trova
sulla parete posteriore a contatto col fegato ed è difficile vederlo, la certezza con la diagnosi
strumentale non si avrà mai, ma la certezza di questo tipo di tumore la sia ha solo con un saonda
ecografica intraoperatoria, ma per fare ciò bisogna aver rimosso i calcoli.

La colecistectomia, in condizioni normali, è un intervento potenzialmente contaminato. Quindi


prevede nel pre-operatorio un antibiotico profilassi.

EPATOCARCINOMA (HCC)
L’epatocarcinoma è un tumore primitivo a partenza dagli epatociti. L’epatocarcinoma e il
colangiocarcinoma sono i tumori primitivi del fegato e rappresentano il 25% dei tumori maligni
epatici; Il restante 75% è rappresentato dalle metastasi. La caratteristica degli epatocarcinoma è
quella di essere legato in genere ad un’altra situazione patologica, una malattia cronica
determinata da insulto e trasformazione di origine virale, che è la cirrosi di tipo virale (stragrande
maggioranza dei casi di cirrosi). Nel 95% dei casi gli epatocarcinomi insorgono nei soggetti cirrotici
(soprattutto nei paesi occidentali), specie con cirrosi virale (HBV e soprattutto HCV). In queste
condizioni, l’infezione virale determina oltre al sovvertimento dell’architettura del fegato anche
l’evoluzione neoplastica. Come tutti i processi infiammatori, anche nella cirrosi l’aumento delle
mitosi può portare ad un aumentato rischio di evoluzione neoplastica che si aggiunge all’insulto
virale. Quindi un nodulo rigenerativo può evolvere in un nodulo maligno.

CIRROSI CIRROSI
EPATITE CRONICA EPATOCARCINOMA
COMPENSATA SCOMPENSATA

Siccome l’insulto è generale può anche non essere un solo nodulo, ma di più e l’aspetto della
carcinogenesi è in funzione della trasformazione di epatite cronica cirrotica, quindi è un evoluzione
di un insulto del gene dell’RNA del virus C o del DNA del virus B.

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Gli indici di funzionalità epatica evidenziano una riduzione dell’albumina, un aumento delle γGT,
una diminuzione della protrombina perché diminuisce la funzionalità epatica. Un tumore, rispetto
al tessuto normale da cui trae origine, ha una caratteristica, che non è solo quella del fatto che
perde il controllo nella crescita, ma induce una neoangiogenesi, una rete vascolare e tutto questo
per svilupparsi. Nel caso del flusso epatico, in condizioni normali, un buon 2/3 del flusso è dato
dalla porta (vena porta) e 1/3 è dato dal flusso arterioso (arteria epatica); Quando si ha un aspetto
tumorale, si riduce il flusso portale e aumenta il flusso arterioso, si rovesciano le proporzioni.
L’arteria epatica dall’80% dei casi nasce dal tripode celiaco e nel 20% dei casi dalla mesenterica
superiore ma, in entrambi i casi, in un quadro tumorale, si dilata per portare più sangue. Oltre al
TNM la classificazione del tumore epatico si è evoluta in vari tipi di classificazioni: Okuda, Clip, Blcl,
Kevret, Cupi.

L’epatocarcinoma dal punto di vista della sintomatologia è scarsa, dal punto di vista degli esami di
laboratorio sono scarsi e confondenti perché sono alla base anche della cirrosi; Quindi
fondamentalmente, la diagnosi di epatocarcinoma è “accidentale” oppure il cirrotico che va a fare
dei controlli e si trova un nodulo, che già all’ecografia risulta come un epatocarcinoma e non come
una metastasi. Basta l’ecografia da sola a diagnosticare un epatocarcinoma (la biopsia del fegato
non si fa per problemi di disseminazione cellulare). Un esame utile a confermare l’ecografia è la
TAC o la RMN, meno dipendente dall’operatore, che riconferma la diagnosi. La scintigrafia epatica
è una metodica che non dà molte informazioni in più rispetto all’ecografia. Un altro esame che
permette di dare ulteriori informazioni sul nodulo epatico è la radiografia con mezzo di contrasto
(arteriografia selettiva) introdotto selettivamente (angiografia arteriosa) nell’arteria epatica,
attraverso un cateterismo arterioso dall’arteria femorale, risalire attraverso l’iliaca, risalendo verso
l’aorta, va verso la mesenterica superiore (20% dei casi) o il tripode celiaco (80% dei casi) e da qui
all’arteria epatica inietta il mezzo di contrasto. L’arteriografia è molto più invasiva rispetto ad
un’ecografia, una TAC o una RMN, la si fa se c’è un motivo.

L’arteriografia può permettere un altro risultato che riguarda l’aspetto terapeutico: il


chemioterapico lo si va a introdurre proprio in quella arteria (circolazione arteriosa terminale del
fegato, invece quella del colon è data da anastomosi, arcata del Riolano) proprio perché è
terminale e si concentra lì, in quella zona. Quindi si fa una chemioterapia selettiva attraverso il
catetere del radiologo con il quale abbiamo trovato il punto per la diagnosi (addirittura proprio a
livello del segmento coinvolto, quindi una terapia superselettiva). il tumore per crescere
velocemente ha bisogno di molto ossigeno indipendentemente dall’insulto del chemioterapico, ha
un insulto dalla sola ipossia e quindi si fa una terapia di embolizzazione (la chemioembolizzazione
selettiva di quella parte, TACE). La chemioembolizzazione si utilizza anche in quei casi in cui c’è
sanguinamento a livello del digiuno o del tenue; Si inietta il mezzo di contrasto nell’arteria
mesenterica superiore, poi nelle varie diramazioni, sino a che non si raggiunge la sede
dell’emorragia, che ovviamente è il punto in cui il mezzo di contrasto entra nel lume intestinale.
Successivamente è possibile iniettare la resina, chiudere il vaso e risolvere l’emorragia.

Quando si ha la diagnosi di epatocarcinoma, dobbiamo decidere cosa fare: non dimentichiamoci


che il più delle volte l’epatocarcinoma è accompagnato dalla cirrosi. Sono soggetti che hanno

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problemi di compromissione epatica e funzionale. In più, quella che è la tecnica tradizionale
chirurgica, il 5% dei casi, nel caso del cirrotico ha dei problemi in quanto, dopo la resezione
parziale del fegato malato, la parte sana ridiventerebbe cirrotica. Quindi l’intervento di resezione
epatica sta perdendo sempre più piede e a ciò sono possibili due alternative:

 Aggredire il nodulo in maniera selettiva con tecniche non chirurgiche;


 Trapianto di fegato, solo in casi selezionati.

Le tecniche di controllo (riuscire a tenerlo buono il nodulo) ovvero le metodiche palliative e le


metodiche radicali sono molteplici. Se la diagnosi di base viene fatta con l’ecografia, l’ecografista
che non si limita a fare solo diagnosi ma, può fare anche qualcosa di terapeutico, e se il concetto è
quello di non togliere più di tanto del nodulo per evitare la successiva rigenerazione,
automaticamente il controllo del nodulo va per quella che può essere la distruzione locale senza
toccare nient’altro, cercando di andare a distruggere il nodulo e solo il nodulo all’interno del
fegato, quando è possibile.

Quali mezzi abbiamo per distruggere il nodulo senza aprire il paziente con l’aiuto dell’ecografia:

 Iniezione percutanea di etanolo al 95% (PEI) direttamente nella lesione nodulare, in


anestesia locale e si fa per via ecoguidata e si distrugge il calcolo attraverso una terapia
chimica. I limiti di questa metodica sono limitati e sono legati alle dimensioni del nodulo:
dal momento che i noduli crescono nelle tre dimensioni dello spazio, all’aumentare delle
loro dimensioni, la quantità di alcool necessaria cresce in maniera esponenziale. Dunque
questo trattamento va utilizzato solo per i noduli di piccole dimensioni: con un nodulo di 1
cm di diametro si va al centro con l’ago e si inietta etanolo; con un nodulo di 3 cm di
diametro dobbiamo iniettare in 3 o più punti. È chiaro che un nodulo di 1 cm di diametro
avrà un volume di 1 cm3, mentre un nodulo di 3 cm di diametro avrà 27 cm 3 di volume. La
difficoltà dell’alcolizzazione percutanea cresce in funzione del diametro in maniera
esponenziale.
 Termoablazione a radiofrequenza (TARF) un’altra via, sempre per via ecoguidata e sempre
per via percutanea, andando a distruggere il nodulo non per via chimica ma per via fisica.
Attraverso il calore ad alta temperatura è possibile condurlo attraverso l’ago, che si riscalda
solo in quella parte a livello del nodulo. Si fa sotto anestesia locale ed il paziente viene
sedato. L’ago è tarato in genere per una superficie radiante, quindi nelle tre dimensioni, di
3 cm e quindi viene fuori un’azione distruttiva mediata dal calore che fa scoppiare il
nodulo. L’ago si riscalda attraverso un filo collegato ad una centralina che sviluppa calore
con un sistema simile al telefonino poggiato all’orecchio, per effetto Joule e la
radiofrequenza sviluppa calore.

Sono metodiche di controllo che hanno dei limiti: in primis il calcolo deve essere localizzato e poi la
difficoltà della loro gestione quando il nodulo si trova molto vicino ai vasi, in particolare, la vena
porta o la vena cava, per il rischio di danneggiarli e provocare un’emorragia. Quando sono presenti
più noduli, raccolti tutti in un settore del fegato, segmento epatico, è difficile utilizzare le due
tecniche; Allora si passa alla chemioembolizzazione selettiva.

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Le metodiche alternative di demolizione radicale sono date dalla chirurgia esclusivamente quando
il nodulo epatico è di un soggetto non cirrotico e quando le metodiche di controllo (TACE, TARF,
PEI) non possono essere effettuate perché sono troppo essere vicini ad un vaso grosso. La
chirurgia elettiva dei noduli di epatocarcinoma, a patto che rientrino in una particolare
stadiazione, è una sola cioè il trapianto di fegato perché si sostituisce tutto il fegato con il nodulo,
dando un fegato nuovo.

Attualmente i criteri utilizzati sono quelli di Milano (di Mazzaferro), a livello mondiale e dicono che
un paziente è trapiantabile, posto che non abbia alcuna controindicazione e che abbia un’età
inferiore ai 65 anni, quando:

1. I noduli non devono essere più di 3;


2. Se c’è un nodulo singolo non deve essere più grande di 5 cm di diametro;
3. Se sono più di uno, il nodulo più grande non deve sperare i 3 cm di diametro.

Ciò assicura che la massa complessiva neoplastica non sia superiore ad un certo valore, al di sotto
del quale siamo ancora in uno stadio non avanzato della neoplasia. Questo per un fatto proprio
biologico: se effettuiamo un trapianto di fegato in un paziente che non rispecchia tali criteri,
abbiamo un rischio di recidiva altissimo e diamo la paziente un’aspettativa di vita peggiore di
quella che avrebbe avuto se non fossimo intervenuti col trapianto. Questo perché dopo il
trapianto facciamo l’immunosoppressione e favoriamo le recidive. I criteri sono stati formulati in
base agli out con dei trapianti effettuati in passato.

Chirurgia resettiva

Quando effettuiamo un intervento resettivo, teniamo conto degli 8 segmenti di cui è costituito il
fegato. I segmenti vengono resecati in base alla posizione dei noduli. Ad esempio, se abbiamo un
nodulo nel II segmento, faremo una segmentectomia del II segmento. Se abbiamo un nodulo a
cavallo tra il II ed il III segmento faremo un’epatectomia sinistra. Se il nodulo è tra il V e il VI
faremo una epatectomia destra: l’epatectomia destra può essere estesa anche al IV segmento,
lasciando dolo II e III segmento e lobo caudato. La quantità minima di fegato che può essere
lasciata al paziente è 1/6 o 1/7 (almeno un paio di segmenti). Ovviamente il fegato che viene
lasciato deve essere sano, perché se fosse cirrotico avremo la rigenerazione di un fegato
completamente cirrotico.

Se asportiamo via il V,VI,VII,VIII segmento, che normalmente sono irrorati dalla sovra epatica di
sinistra, quando ricrescono, non saranno più irrorati dallo stesso vaso, ma da vasi provenienti dai
segmenti che rimangono, il cui flusso sanguigno subirà un aumento compensatorio.

Se abbiamo un epatocarcinoma o un colangiocarcinoma vicini all’ilo, asportando il tessuto sano


intorno, inevitabilmente asporteremo la confluenza dei dotti epatici. A questo punto li avviciniamo
e li uniamo e poi, creiamo un ostio comune attraverso una doppia anastomosi con ansa digiunale
alla Roux.

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Ci possono essere alcune varianti incui il tumore divide tra loro i vari segmenti e in cui realizziamo
varie anastomosi dell’ansa con le porzioni periferiche del fegato, in modo tale da realizzare una
confluenza dei diversi rami dei dotti epatici.

Chirurgia dei traumi epatici

Poniamo il caso di un trauma epatico in cui la capsula di Glisson non si rompe, ma si ha una lesione
del parenchima. Si ha quindi una rottura dei vasi e si verifica un ematoma intraepatico. La capsula
sarà molto tesa (provocherà dolore), e si avrà la compressione del parenchima. Si può avere
ipotensione e shock.

 Se non si verifica la rottura della capsula e quindi non si verifica emoperitoneo, non
interveniamo poiché prima o poi l’emorragia si blocca grazie all’emostasi. Il paziente va
messo a riposo e controllato ecograficamente. Si compensa solo se c’è ipovolemia. Si
aspetta che l’ematoma si organizzi e il vaso si trombizzi. Successivamente inizia il processo
di riparazione e l’ematoma viene riassorbito lentamente e contemporaneamente il
parenchima cresce.
 Se invece si rompe la capsula, si verifica emoperitoneo ed è necessario portare il paziente
immediatamente in sala operatoria. Se si ha sanguinamento eccessivo si fa un packing con
garze di collagene, tentando di interrompere l’emorragia con la compressione e
successivamente resecare la parte interessata dalla lesione, per evitare una ricomparsa
dell’emorragia.
 Se invece il danno interessa tutto il fegato il problema è molto più complesso. Si può fare
un’esclusione vascolare del fegato e si effettua un’epatectomia. Un soggetto in queste
condizioni può sopravvivere per 24-36 h. il paziente viene quindi messo on codice 0 per il
trapianto di fegato.

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Cirrotico stadio
terminale – Child
EPATOCARCINOMA (HCC) Pugh C - > 60 anni

Nodulo singolo < 5cm Nodulo singolo > 5cm ≤ 3noduli ≤ 3 cm > 3 noduli > 3 cm Invasione vascolare

Cirrotico Child Cirrotico


Non cirrotico Cirrotico Non cirrotico Cirrotico Pugh A-B
Non cirrotico
Non cirrotico

Resezione

Resezione PEI /TARF /


TACE Nuove terapie
TACE
Trapianto di
fegato Child Pugh A-B

Trattamenti sintomatici
Terapia sequenziale Non cirrotico

Ipertensione PEI / TARF / TACE Cirrotico


Ipertensione portale
portale Trapianto di fegato
No malattie Child Pugh A-B
Child Pug A associate PEI / TARF / TACE
Malattie associate
Child Pugh A-C Child Pugh A-C

< 60 anni

No malattie Child Pugh A-B


associate
Resezione Trapianto di fegato PEI / TARF / TACE Malattie
< 60 anni associate

Trapianto di fegato PEI / TARF / TACE

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PATOLOGIA ESOFAGEA
L’esofago è un organo cavo, una cavità virtuale dell’apparato digerente che parte a livello della
giunzione faringo-esofagea ed arriva, superato il diaframma, alla giunzione esofago-cardiale. È una
cavità virtuale che diventa reale quando c’è il passaggio di cibo, acqua e sostanze e di uno
strumento.

Si trova principalmente nel torace, in quella zona che si chiama mediastino. I rapporti dell’esofago
sono: la trachea, l’arco aortico e quelle strutture con le quali può anche condividere le patologie
(ad esempio un tumore vicino all’arco aortico e alla trachea può infiltrare questi ultimi due organi).
L’esofago, lungo circa 25 cm, può essere diviso in tre settori (superiore, medio e inferiore) e in
ognuna di queste possiamo trovare un certo tipo di patologie. L’esofago passa in addome ed è
collegato allo stomaco ed in questo passaggio c’è una struttura specializzata,che anatomicamente
definiamo cardias ma, nella realtà la struttura funzionale vera e propria della valvola, non è data
proprio e solo dal cardias, ma da un insieme di strutture tra cui i pilastri diaframmatici, i legamenti
che uniscono una struttura all’altra ed il tutto crea una situazione di uno sfintere definito, sfintere
esofageo inferiore. Non solo ci sono queste strutture anatomiche ma c’è anche la pressione
addominale (pressione positiva) e toracica (pressione negativa) che contribuiscono a questa
situazione. Dal punto di vista funzionale, l’esofago ha la funzione di trasporto del cibo dalla zona
della bocca, attraverso lo sfintere esofageo superiore, per farlo arrivare nello stomaco. È una

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funzione di conduzione del bolo alimentare. Quindi la funzione primaria dell’esofago è quella della
peristalsi. Lo sfintere esofageo inferiore (LES) è formato da:

 L’angolo di His formato tra l’incrocio della grande curvatura dello stomaco e l’esofago;
 Diaframma che si accravatta intorno allo stomaco (fionda muscolare di Barret);
 Legamenti gastro-diaframmatici e pilastri diaframmatici.

La funzione reale dell’esofago è data da un’attività peristaltica ordinata, che parte a livello
dell’esofago cervicale fino al terzo inferiore dell’esofago (onda cranio-caudale od onda peristaltica
primaria). Questa è la stessa onda che fa rilasciare il cardias che si muove solo in base ad uno
stimolo, rappresentato appunto da un’onda peristaltica primaria. Se abbiamo delle onde
peristaltiche disordinate o un’altra situazione in cui la motilità non è quella normale, non solo il
cibo non viene condotto regolarmente ma, non si apre la seconda porta che consente il passaggio
del cibo in modo ordinato dall’esofago allo stomaco. Lo sfintere esofageo inferiore ha la funzione
di impedire il reflusso gastro-esofageo, perché il succo gastrico, acido, non è tollerato dalla
mucosa esofagea. Infatti a livelo dell’esofago l’epitelio è pavimentoso pluristratificato non
cornificato, mentre l’epitelio gastrico è formato da cellule mucinose che producono il succo

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gastrico e sostanze in grado di far resistere la parete gastrica all’azione acida. Per questo motivo la
mucosa gastrica ha un turnover di mitosi molto maggiore rispetto all’esofago, poiché avendo una
sollecitazione continua di distruzione dal succo gastrico che lei stessa produce, per difendersi,
deve avere un turnover aumentato di mitosi. Questo è uno dei fattori fisiologici ma anche
difensivi. L’altro meccanismo di difesa al reflusso gastrico da parte dell’esofago è la peristalsi
energica, il che significa che quando abbiamo reflusso si ha maggiore peristalsi anche attraverso
farmaci pro-cinetici (plasil e derivati).

In chirurgia esistono fondamentalmente due tipi di patologie:

 Organiche, tangibili e individuabili mediante le tecniche diagnostiche(tumori,varici


esofagee, ecc.);
 Funzionali, come difetti del movimento, non documentabili mediante le tecniche
diagnostiche(reflusso gastro-esofageo, ernia iatale,, diverticoli esofagei, acalasia esofagea.)

REFLUSSO GASTRO-ESOFAGEO
Il reflusso gastro-esofageo è legato alla funzionalità dello stomaco di secernere un succo gastrico
particolarmente acido che ha la funzione in qualche maniera di cominciare a digerire il bolo
alimentare; Bolo alimentare che finché arriva nello stomaco è ancora come lo si tritura sotto i
denti.

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C’è una differenza tra rigurgito e vomito:

o Il rigurgito non è solo un fatto semantico (lo si sente per la prima volta nei neonati) ed è
l’emissione dalla bocca di materiale non digerito, che non è mai arrivato nello stomaco;
o Il vomito è l’emissione dalla bocca di materiale proveniente dalla cavità gastrica, con tutto
quello che ne consegue (vomito alimentare, vomito biliare, vomito del succo gastrico, ecc.)

Il vomito biliare può essere dovuto a:

 Gastrite alcalina;
 Caso raro di occlusione intestinale dovuto allo schiacciamento del duodeno da parte dei
vasi mesenterici e dell’aorta sul duodeno, con stasi e vomito biliare;
 Sindrome dell’ansa afferente in caso di complicanza della Billroth II, con un’ansa angolata o
troppo lunga, che induce stasi di materiale biliare;
 Atresia del tenue.

La tenuta dello sfintere esofageo inferiore può essere determinata oltre cha dai farmaci antispatici
anche da stimoli di tipo alimentare: ci sono alimenti che agiscono in sinergia nell’aumentare la
secrezione gastrica e ce ne sono altri che ne determinano una riduzione. L’esofagite da reflusso
per una ipotensione del LES è uno di quei casi particolari in cui si va a fare una correzione ma
bisogna subito considerarne un’altra. Ci sono delle situazioni di tipo sistemico, la sclerodermia che
interessano non solo l’esofago, ma riguarda tutto il connettivo. Fattori di rischio possono essere
l’obesità, il fumo di sigaretta, abitudini di vita (cinture troppo strette), alimenti, farmaci
(dopamina, diazepamine, calcioantagonista,ecc.).

Si ha reflusso gastro-esofageo quando si ha un aumento della secrezione gastrica e una riduzione


del tono del LES. La sintomatologia è data da:

 Pirosi, classica sensazione di dolore sotto forma di bruciore;


 Rigurgito;
 Disfagia, alterazione della normale funzione dell’esofago;
 Dolore toracico similanginoso, (angina esofagea), e bisogna effettuare una diagnosi
differenziale: elettrocardiogramma (ECG) nell’uno e pHmetria nell’altro;
 Eruttazioni;
 Odinofagia (deglutizione dolorosa) in casi di esofagiti gravi;
 Scialorrea (produzione abbondante di saliva);
 Emorragia;
 Polmoniti ab-ingestis.

Il dolore da reflusso gastro-esofageo dà col tempo danni sulla mucosa con un iniziale iperemia, poi
un danno successivo superficiale, escoriativo per la pelle ed erosivo per la mucosa, fino ad arrivare
a lesioni più profonde, diventando un processo ulcerativo. Il sintomo può essere molto accentuato
e può essere asimmetrico, svincolato dalla situazione oggettiva, cioè quella del segno clinico
strumentale.

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Dal punto di vista strumentale si può effettuare:

 Un esofagogastroduodenoscopia (principio ottico) e quello che si vede è la mucosa e alla


fine dei 22-25 cm un buchetto (sfintere esofageo inferiore) se sta sempre chiuso, se sta
sempre aperto o se si apre e si chiude in maniera più o meno regolare. Qui c’è il cambio
della colorazione della mucosa, tra l’epitelio dell’esofago e quello gastrico a livello della
linea Z. In genere la linea Z corrisponde al cardias. Si può vedere se la mucosa esofagea si
distende regolarmente, se c’è un minimo di peristalsi, e se la mucosa è normale. Il reflusso
gastrico può fare danni a livello cardiale, nel terzo inferiore dell’esofago e si possono
vedere se ci sono delle erosioni e/o delle ulcerazioni e se c’è iperemia. Ci può essere caso
di sanguinamento anche in caso di iperemia (sanguinamento a nappo), sanguina tutta la
mucosa e non il punto preciso della rottura di un vaso.
 Se si trova il cardias beante può essere un fatto patologico o può essere
anche un fatto legato all’esame strumentale ed in questo caso sarebbe un
falso positivo.
 Se si trova chiuso è un fatto patologico.

 La pHmetria ci permette di visualizzare l’acidità dell’ambiente; Normalmente l’ambiente


dell’esofago è neutro. Si effettua attraverso un sondino che rileva il pH ,tarato
adeguatamente, collegato ad un trasduttore che dà il valore. Questo apparecchio permette
di misurare il pH nelle 24 h ed i fattori che influiscono sono: alimentazione (inizio e fine
pranzo), viene rilevato il dolore, la postura (forza di gravità), in posizione orizzontale o
verticale;

 Se il problema del rilasciamento del cardias è dato da un’onda peristaltica primaria, allora
si possono misurare le onde peristaltiche con il manometro attraverso la manometria. Con
lo stesso sondino della pHmetria (si mettono 3 rivelatori superiore, medio ed inferiore) si
misurano le onde peristaltiche. La pressione a livello del cardias sarà molto più alta; Le
pressioni vanno a verificare la peristalsi dell’esofago. È una diagnostica quantitativa e
qualitativa;

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 Studio scintigrafico: fa parte ormai della storia poiché attualmente non si fa più;
 Rx con mezzo di contrasto (solfato di bario) in caso di tumore esofageo;
 TAC

Terapia

Per quanto riguarda la terapia del reflusso gastro-esofageo si utilizzano gli inibitori della pompa
protonica (omeprazolo e derivati) che funzionano anche sul dolore e, in alternativa agli altri
antisecretivi di base che sono gli anti-H2(antagonisti dell’istamina per i recettori H 2) e gli
antisecretivi. In aggiunta agli antisecretivi o per il mantenimento perché non possiamo più
continuare con gli antisecretivi per controllare il reflusso e/o il dolore, ci sono farmaci che
inducono una barriera protettiva della mucosa, ovvero farmaci protettivi della mucosa (il
sucralfato, l’acidoalginico) sostanze che creano una pellicola di muco protettivo e poi ci sono i
farmaci tamponatori della secrezione gastrica, gli antiacidi (bicarbonato). Lo stesso malox è un
antiacido ed un protettivo della mucosa gastrica. Se noi miglioriamo la clearance esofagea, cioè
miglioriamo lo svuotamento, diamo lo stimolo all’esofago di svuotarsi con più energia e più
frequentemente, riduciamo la permanenza del succo gastrico in esofago. Tutti i farmaci procinetici
(plasil, levopraid, peridon e motilium) hanno tutti quest’azione ed hanno una funzione antiemetici.
Se normalmente per l’ulcera gastrica o duodenale bastano 2 mesi di trattamento a dsaggio
normale, per l’esofagite servono dosaggi doppi o tripli.

L’erosione guarisce e non lascia segni mentre, l’ulcera lascia un segno cicatriziale. Se queste
situazioni di insulto del reflusso gastro-esofageo alla fine producono danno di tipo organico, oltre
che funzionale e sintomatologico, cioè oltre al problema del reflusso, oltre al dolore, alla fine
residuano delle situazioni di danno permanente, sono legate fondamentalmente agli esiti
cicatriziali. L’ulcera è una lesione di tipo crateri forme, rotondeggiante, con perdita di sostanze e

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quando si chiude si ha la cicatrice ed in genere quel tratto si restringe (cicatrice ritraente). Si può
avere un restringimento dell’esofago non di tipo umorale ma di tipo cicatriziale, quindi la stenosi o
la sub-stenosi del restringimento è data dalla retrazione cicatriziale. A livello esofageo comporta
un restringimento del lume e quindi disfagia e un passaggio difficoltoso nel lume. La mucosa a
lungo andare reagisce con una metaplasia ovvero nei fenomeni erosivi sul versante esofageo
possono rimanere delle isole di mucosa gastrica durante il rimodellamento. Avviene il
cambiamento di colore della mucosa e si effettua una biopsia tramite esofagoscopia. Il
cambiamento di colore della mucosa può indurre l’esofago di Barret, situazione che si verifica e
bisogna monitorare la situazione perché potrebbe essere un quadro di precancerosi. Se c’è un
continuo reflusso, ed il reflusso risente della postura in posizione orizzontale (quando si dorme), se
ne risente quando si sta stesi. Finché la situazione è in questi termini ci troviamo di fronte ad un
processo di natura funzionale.

ERNIA IATALE
L’ernia iatale da scivolamento è una situazione in cui abbiamo un quadro di reflusso solo che in
questo caso non è un danno esclusivamente funzionale, perché si ha un’alterazione di tipo
organico. E allora se di base il cardias funziona male e sta posizionato a livello del passaggio della
cravatta diaframmatica (passaggio dell’esofago in diaframma), nell’ernia iatale il cardias sta
almeno 3-4 cm più in alto del normale (scivolamento a livello dello iatus diaframmatico), per cui si
è dislocato, l’esofago si è ritirato, è scivolato verso l’alto. L’ernia è la protusione, il dislocamento di
un organo dalla sua sede originaria verso un’altra cavità. Da una parte i legamenti e i pilastri
diaframmatici sono al posto loro, ma il cardias è scivolato verso l’alto.

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Quindi abbiamo la situazione di una doppia camera ed anche dal punto di vista pressorio
(manometria) avremo pressione toracica, aumento della pressione per via del cardias, di nuovo
diminuzione nel torace, di nuovo aumento e poi diminuzione nella cavità addominale. Abbiamo
scivolamento anche di una parte del fondo dello stomaco, che va in torace ( e qui la parte del
succo gastrico nella zona del fondo, della bolla gastrica, non funziona bene). Il cardias, dissociato
dagli altri elementi dello stomaco, tirato verso l’alto, funziona in malo modo. Quindi qui non c’è
solo un danno funzionale, ma un’alterazione organica. Questo è uno dei pochi casi in cui l’Rx con
mezzo di contrasto dell’esofago ci serve perché è quello che, vedendo tutta la gabbia toracica, ci
permette di vedere esattamente la posizione del fondo rispetto proprio alla gabbia toracica.

Le situazioni che determinano un’ernia iatale da scivolamento sono problemi di allentamento


costituzionale, ma problemi soprattutto problemi legati all’aumento della pressione addominale,
l’obesità, la gravidanza, abitudini di tipo lavorativo che portano ad una costante tensione dei
muscoli retti addominali che aumentano la pressione addominale. Uno dei sintomi caratteristici
nelle ernie iatali è il reflusso emesso dalla bocca durante il sonno: “ il segno del cuscino bagnato
roseo”, rigurgito acido sierosanguinolento.

Per quanto riguarda l’ernia iatale finché si tratta con la terapia medica (inibitori di pompa e anti-H2
per ridurre l’acidità), non si fa nulla dal punto di vista chirurgico. Quando però la terapia medica
fallisce e non riusciamo a controllarla semplicemente con la terapia medica, bisogna passare
all’atto chirurgico. Vale sia per l’ernia iatale da scivolamento che per l’esofagite da reflusso; Non
c’è nessun sistema meccanico che lo posizioni li e funzioni da valvola anti-reflusso. Quando
dobbiamo fare un intervento per una plastica antireflusso in maniera laparotomia o
laparoscopica: si prende la parte più larga dello stomaco e la si avvolge alla parte inferiore
dell’esofago, facendo la fundoplicatio secondo Niessel.

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Questa procedura si propone di creare attorno alla porzione di esofago addominale, mobilizzata
per tutta la sua circonferenza, un avvolgimento con il fondo gastrico. La mobilizzazione del fondo
comporta la sezione dei vasi gastrici brevi superiori e la lisi delle aderenze tra la faccia posteriore
della porzione superiore dello stomaco ed il pancreas. La ricostruzione dell’angolo cardiale,
facoltativa, è eseguita con l’apposizione di punti staccati con filo non assorbibile. La sutura
sieromuscolare della fundoplicatio deve ancorarsi sulla parete esofagea anteriore e, nella parte più
alta, al margine anteriore dello iato diaframmatico. Questo evita che si verifichi uno scivolamento
transiatale del nuovo meccanismo valvolare. Nei pazienti in cui oltre alla ridotta pressione del LES
sia presente un difetto dell’onda peristaltica del terzo inferiore esofageo (ipotonia), si preferisce
eseguire una fundoplicazio posteriore a 270° secondo Toupet. Questa tecnica ridurrebbe la
possibile disfagia postoperatoria creata dalla plastica completa sec. Nissen. Una possibile
complicanza della fundoplicatio secondo Nissen,non correttamente eseguita, è la comparsa di una
super-competenza del meccanismo valvolare e conseguente impossibilità alla eruttazione. Con
una appropriata esecuzione dell’intervento la disfagia si riscontra raramente ed è generalmente
transitoria. È un intervento pulito. Con la manometria intraoperatoria è possibile sapere se si è
stretto a sufficienza oppure se si è stretto troppo poco lo stomaco all’esofago.
Questa è la terapia chirurgica che si utilizza in quei pochi soggetti in cui la terapia medica fallisce.

ACALASIA ESOFAGEA
Per una beanza o per un’alterazione anatomica, abbiamo un’ipofunzione dell’esofago e quindi
abbiamo il reflusso. L’acalasia esofagea è una situazione per alcuni aspetti opposta: discinesia

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sfinterica che impedisce il rilasciamento del cardias. Il motivo è perché il cardias non si apre
quando dovrebbe e si può avere il rigurgito perché il cibo non riesce a passare come dovrebbe. Il
cardias si apre perché riceve un impulso: in questo caso si ha la mancanza dell’impulso, cioè della
peristalsi primaria. Quindi il cardias di per sé è normale ma non ha l’impulso peristaltico. Viene a
mancare la peristalsi primaria perché viene distrutto un sistema che è il plesso nervoso di
Auerbach (per problemi virali, infiammatori, ecc.). Questo non permette la generazione di un’onda
peristaltica primaria e l’esofago avrà onde peristaltiche disordinate ed il problema principale sarà
che non si apre più il cardias.

Se manca la funzione peristaltica ed il tutto avviene per via della gravità, accade che non si ha più
quella zona di alta pressione semplicemente perché arriva l’impulso, ma rimane la possibilità di
riaprirsi solo esclusivamente per via passiva, ovvero accumulo di cibo che esercita una pressione.
Nell’esofago ci sarà sempre qualcosa e questo non è normale perché provoca una sintomatologia:

 Rigurgito
 Disfagia
 Ristagno del cibo nell’esofago
 Eventualmente pirosi retro-sternale

La preparazione del paziente per una esofagogastroduodenoscopia è il digiuno per 12 ore. In


condizioni normali l’endoscopista trova le cavità libere (esofago,stomaco e duodeno). In un
soggetto acalasico, l’endoscopista vede del cibo,del materiale a livello esofageo.

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Se il materiale ristagna, lì dove ristagna c’è infiammazione (iperemia), col tempo si ha dilatazione,
ovvero megaesofago associato ad escoriazioni e ulcerazioni.

Dal punto di vista strumentale l’acalasia si può vedere:

 con un endoscopia
 Rx con mezzo di contrasto (solfato baritato).
 La pHmetria in questo caso non serve perché non si ha un problema di reflusso, ma un
problema opposto, mentre la manometria serve perché ci permette di osservare,
associato ad un ipertonismo cardiale, onde spike disordinate (non in modo cranio-
caudale).

Terapia

Endoscopicamente l’unica manovra che si può effettuare, è quella di provare a fare una
dilatazione, infilando sotto guida endoscopica un palloncino sgonfio, dopodiché lo si tiene dilatato
per 15-20 minuti e, in tal modo si determina una lussazione meccanica, una dilatazione
pneumatica, idropneumatica. Il palloncino viene dilatato a cavallo del cardias. Questo trattamento
è temporaneo che non riporterà ad avere le onde peristaltiche, ma dopo tornerà ad essere
ipertono come prima.

L’acalasia è un problema di tipo funzionale, ma alla base c’è un problema di tipo organico (una
malattia di tipo organico).

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Quando il paziente non si controlla con la terapia
medica o con l’ipertonia cardiale meccanica, bisogna
fare qualcosa di chirurgico. Questa metodica si può
fare per via laparotomia o laparoscopica ed è un
intervento pulito che comporta una tomia. Questo
taglio, delle 3 principali tonache dell’esofago (mucosa
e sottomucosa, muscolare e avventizia), interessa
dall’esterno verso l’interno, solo le due tonache,
senza arrivare alla mucosa. Si fa su regolazione della
sonda manometrica, un’incisione longitudinale sullo
sfintere cardiale, in modo tale da avere una
dilatazione cardiale: questo intervento si chiama
intervento di miotomia extramucosa secondo Heller.
Si incide lo sfintere in modo parziale su guida
manometrica proprio per non incidere troppo poco
od eccessivamente, in modo tale da ridurre
l’ipertono.

TUMORI DELL’ESOFAGO
Il tumore dell’esofago nasce dalla mucosa e può crescere in senso macroscopico :

 In senso vegetante, partendo dalla mucosa ed espandendosi come un polipo verso il lume
e la sua massa tende a crescere verso il lume;
 In profondità nella parete assumendo un aspetto ad ulcera e non tende ad occupare molto
il lume, anche se sarà stenosante, ma non in maniera totale;
 A manicotto all’interno della parete, abbracciando l’intera circonferenza;

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Quello vegetante darà più facilmente ostruzione, come quello a manicotto. Quello vegetante
rispetto a quello a manicotto tenderà a dare un sanguinamento superficiale più facilmente perché
il suo peduncolo è più stretto e la superficie è più lontana dalla base e quindi avrà una possibilità
di sanguinare maggiore. Quello ulcerato tenterà a crescere verso la parete, andando verso la
sottomucosa e avrà delle complicazioni in più rispetto al vegetante e quello a manicotto, che
sono i sanguinamenti (erosione dei vasi), mentre avrà una stenosi minore rispetto agli altri due
tipi. Quindi, a seconda di dove abbiamo il tumore (superiore, medio e inferiore) e a seconda del
tipo macroscopico, la sintomatologia e i segni cambiano.

Ci sono dei rapporti di incidenza ad alcuni fattori di rischio:

 Alcolismo e fumo di sigaretta


 Consumo frequente di cibi e bevande calde
 Diete povere di vitamina A,C,E
 Dieta ricca di cereali

C’è una distribuzione per probabilità: il tumore è più frequente nell’esofago medio (52%),
nell’esofago inferiore (33%) e nell’esofago superiore (15%).

La sintomatologia di questi soggetti sarà:

 Disfagia
 Rigurgito
 Dolore
 Calo ponderale
 Pirosi

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 Disfonia
 Sintomi respiratori (tosse, dispnea, broncopolmoniti)
 Ematemesi e melena
 Mediastinite e peritonite (in caso di perforazione)
 Sepsi

Per quanto riguarda la semeiotica strumentale:

 L’endoscopia anche se non ci permette di vedere quanto nella parete ha preso il tumore
oppure se c’è un tumore stenosante, esso non ci permette di passare con lo strumento; La
stenosi è maggiore del diametro dello strumento;
 Radiografia del torace con mezzo di contrasto quando con l’endoscopio non si riesce a
passare;
 TAC e RMN

Non bisogna, in caso di tumore, limitarci alla massa pura e semplice, ma dobbiamo fare la
cosiddetta valutazione dei sintomi, dei segni e la valutazione strumentale, non solo sul tumore ma
sul soggetto nella sua complessità (tumore e le sue manifestazioni cliniche). Quindi bisogna fare il
TNM, cioè la stadiazione del tumore. Per la stadiazione dei tumori abbiamo bisogno della TAC o
della RMN oppure associando l’ecografia allo strumento endoscopico (ecoendo). Un’ecografia di
tipo endocavitaria, mentre l’ecografia normale è quella settoriale (una specie di angolo si vede),
permette di vedere la forma al centro e tutta l’immagine intorno e permette di vedere non solo la
struttura dell’esofago ma anche gli organi vicini: linfonodi mediastinici, trachea, i bronchi. Il limite
di questa metodica è che se abbiamo un tumore stenosante non si riesce a passare.

Terapia

Si opera quando il soggetto e la sua malattia sono compatibili con un intervento chirurgico oppure
quando l’intervento dà più benefici che rischi. Se i rischi risultano essere maggiori dei benefici
allora si trovano delle tecniche alternative. Se il soggetto è relativamente giovane, relativamente
in buone condizioni, il tumore non ha metastatizzato o per lo meno è anche metastatizzato ma lo
possiamo controllare in qualche maniera (chemio, radioterapia o chirurgia), allora è un soggetto
che si può operare chirurgicamente. Ma se il povero soggetto è un soggetto anziano, sta male
perché il tumore lo ha eroso ed è un soggetto che comunque è destinato a morire e se lo si opera
ci sono dei rischi, l’atteggiamento medico più corretto è fare un intervento palliativo. L’intervento
palliativo è inserire uno stent, risolvendo il problema dell’alimentazione, ma non del tumore. Lo
stent si posiziona in maniera endoscopica in modo ambulatoriale, con minori rischi del post
intervento.

Quando si parla di interventi dell’apparato digerente, si parla di interventi demolitivi ed interventi


ricostruttivi. Se l’intervento è radicale, essendo l’esofago lungo in tutto intorno ai 22 cm, e facendo
anche la linfoadenectomia e dobbiamo tenerci ben distanti dal margine del tumore, innanzitutto
verrà effettuata un’esofagectomia. Se il tumore è centrale, come nella maggior parte dei casi, o se

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è alto, si fa un’esofagectomia totale o sub-totale (lasciando un monconcino cervicale). L’unica
eccezione è quando si ha un tumore molto basso, vicino al cardias, e si può fare un’esofagectomia
bassa (o parziale) con resezione gastrica alta.

L’esofagectomia totale viene fatta per via toracica (via toracotomia) e allora esiste un sistema di
ricostruzione: qualcosa di endogeno da mettere al posto dell’esofago. Lo stomaco così come sta,
non possiamo tirarcelo tutto in torace, a causa dell’irrorazione; Gli organi addominali si dividono in
organi ancorati e fissi ed organi mobili e liberi perché non solo non sono legati ma hanno anche
dei vasi lunghi. Se i vasi sono corti o cortissimi e addirittura l’organo è fissato, non si può muovere
l’organo. Lo stomaco è parzialmente mobile, il duodeno è fisso, come il pancreas, è un organo
retroperitoneale e quindi non si muove. L’intestino comincia a muoversi dall’ansa del Treitz. La
parte mobile quindi il digiuno e l’ileo; Poi si arriva all’ultima ansa ileale finendo nel cieco e quindi
nel colon. Il colon destro (retroperitoneale) è fisso, il colon trasverso è abbastanza mobile
(mesocolon), il colon sinistro è fisso (retroperitoneale), il sigma è parzialmente mobile. Le parti
mobili sono il colon trasverso, il digiuno e l’ileo: sono mobili ma possiamo portare o il trasverso
con il suo peduncolo vascolare, o un’ansa del digiuno. In teoria l’esofago come dimensioni sarebbe
più vicino al digiuno, mentre il colon è molto più grosso. Però paradossalmente si utilizza il colon
trasverso per un motivo molto semplice: i vasi del colon arrivano perché sono lunghi, quelli
dell’ileo e del digiuno non arrivano. L’impianto delle arterie mesenteriche è in ballo rispetto alla
colica media che nasce dalla mesenterica superiore, e quindi arriva in torace. La colica media della
mesenterica superiore, si anastomizza con la colica di sinistra della mesenterica inferiore,
formando l’arcata del Riolano.

Si reseca per via addominale il colon trasverso, facendo poi l’anastomosi colon-colica (anastomosi
termino-terminale),avvicinando la flessura colica di sinistra e la flessura colica di destra e poi il
trasverso si posiziona in torace tra il moncone esofageo e lo stomaco. Quindi si fanno due
anastomosi: esofago-colica (anastomosi termino-terminale) e la colon-gastrica(termino-laterale). Il
vaso che vascolarizza il colon è sempre la colica media. L’esofagectomia fatta per via toracotomica,
anastomosi alta esofago-colon per via cervicale alta. Ci sono tre accessi: toracico, addominale e
cervicale. Da ognuno di essi, alla fine dell’intervento chirurgico, uscirà un drenaggio, almeno uno
per ogni accesso. In questi casi i drenaggi hanno la funzione non solo di drenare il materiale siero-

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ematico che residua, ma anche quello, soprattutto il drenaggio posizionato nelle vicinanze
dell’anastomosi, viene posizionato lì per controllare la tenuta dell’anastomosi. Il punto debole di
un intervento del genere non solo è la parte demolitiva (un po’ di sanguinamento c’è sempre), ma
l’anastomosi è il punto debole della tenuta.

L’altra possibilità è di prendere lo stomaco, lasciando quindi la sua vascolarizzazione, prendere la


parte di sinistra perché lo stomaco è ampio, e se lo tagliamo a metà, facendo la tubulizzazione,
rigirando la porzione dello stomaco e la si porta a livello esofageo. Si fa la tubulizzazione gastrica
in cui si utilizza la parte della grande curvatura, la parte sinistra e ci sarà uno stomaco ridotto oltre
la metà e, la parte di sinistra angolata e riportata in esofago, attraverso un’anastomosi esofago-
gastrica.

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COMPLICANZE DELLE ANASTOMOSI
L’anastomosi non è altro che un unione che facciamo di due segmenti, per i quali ci aspettiamo la
completa guarigione, attraverso una sutura meccanica o a mano ma deve essere una tenuta
perfetta, totale. Se per caso l’anastomosi non dovesse tenere, e dovesse avere qualche
complicanza, queste sono di due tipi:

1) Una è quella di avere un’emorragia, perché non abbiamo legato bene i vasi, e questa
emorragia può avvenire al di fuori del lume o all’interno del lume; Se avviene al di fuori del
lume possiamo avere un emoperitoneo, mentre se avviene dentro il lume avremo una
emorragia interna digestiva, che verrà fuori o sottoforma di melena o sottoforma di
ematemesi.
2) L’altra complicanza è che l’anastomosi non tiene bene (deiscenza dell’anastomosi) in tutto
o in parte, determinando la possibilità di secrezione di aria, di liquidi o di altro al di fuori del
lume, e si crea un processo infiammatorio anche grave;
3) Se cede l’anastomosi, ma non è un difetto di tecnica legato all’operatore, la possibile causa
è data dalle condizioni dei tessuti (paziente ad esempio neoplastico ha il calo ponderale,
minore capacità del soggetto di essere nutrito, indice di malnutrizione). Se il paziente è
malnutrito avrà degli indici alterati, soprattutto le proteine che se sono basse, vengono poi
sottratte alle fasce muscolari. Siccome tanto nelle pareti quanto nelle anastomosi,ciò che
tiene bene nelle pareti non è la sierosa o la mucosa, ma è proprio la fascia muscolare. Ma
se i tessuti sono flaccidi è chiaro che arriverà malnutrito ed il rischio operatorio è maggiore
rispetto ad un soggetto normonutrito. Quindi l’altro tipo di valutazione nel pre-intervento
per non avere rischi nel post-operatorio è l’alimentazione.

L’esito della complicanza è in funzione del fatto se noi riusciamo ad accorgerci subito, perché se
riusciamo ad intervenire subito, limitiamo i danni della complicanza.

PATOLOGIA GASTRICA
Lo stomaco è un organo intraperitoneale dell’apparato digerente, a forma di un fagiolo, a livello
addominale, che ha una faccia anteriore ed una posteriore; è suddiviso in tre parti: il fondo (bolla
gastrica), la parte centrale del corpo, e poi l’antro. Presenta due curvature: la piccola
curvatura(parete laterale destra) e la grande curvatura(parete laterale sinistra) ed ha una
convessità a sinistra; è in collegamento nella parte superiore con l’esofago e nella parte inferiore
col duodeno, primo tratto dell’intestino tenue. Il fondo con l’esofago forma una specie di
angolatura che si chiama angolo di Hiss.

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Il cardias è la valvola superiore che serve per impedire il reflusso gastro-esofageo, mentre il piloro
è la valvola inferiore dello stomaco che serve per impedire il reflusso duodeno-gastrico. Lo
stomaco davanti ha rapporto con la parete addominale, sulla destra a livello della piccola
curvatura è in parte coperto dal fegato, e la colecisti. Posteriormente allo stomaco c’è il pancreas,
e sulla grande curvatura ha rapporti a livello del fondo col diaframma, sul lato sinistro con la milza,
e nella parte inferiore il colon.

Le funzioni dello stomaco sono quelle di digerire le sostanze, producendo 2 l di succo gastrico. Ha
la funzione di serbatoio momentaneo (ecco perché è piuttosto ampio) e quello di impastatrice e
quindi mette insieme il bolo alimentare e il succo gastrico. Dopodiché va verso il duodeno in
condizioni normali, mentre va verso l’esofago se c’è qualche problema, provocando vomito.

ULCERE
L’ulcera è l’evoluzione di un processo infiammatorio, arrivato al suo stadio finale. È una lesione di
tipo crateriforme, con perdita di sostanza, che parte dalla mucosa per andare negli strati
sottostanti (sottomucosa e muscolare), di forma rotondeggiante, con dei bordi più rilevati e il
fondo eroso. L’infiammazione passa all’erosione ed invece di guarire va a finire all’ulcerazione.

L’ulcera gastrica e l’ulcera duodenale o bulbare insieme creano l’ulcera peptica. Le ulcere bulbari
rappresentano il 90% di tutte le ulcere. Le cause che determinano un ulcera sono legate
all’aumento dei fattori che ledono la mucosa, o c’è diminuzione dei fattori che proteggono la
mucosa, oppure possono essere presenti tutte e due. Fondamentalmente l’ulcera avviene quando
c’è uno sbilanciamento dei fattori aggressivi e dei fattori protettivi. I fattori aggressivi sono quelli
che determinano un’ipersecrezione gastrica, mentre quelli protettivi sono quelli che inducono la

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formazione di uno strato di muco, o la capacità di rinnovare le cellule perenni o attaccate e
distrutte dal proprio stesso acido,ecc.

Gli elementi che determinano un’ipersecrezione gastrica possono essere:

 Alimenti (caffeina, teina,alcool, fumo, farmaci iperstimolanti)


 Stimoli farmacologici (cortisonici e i FANS)
 Situazioni particolari: stress del paziente legata alla situazione clinica (non solo dal punto di
vista psichico, ma anche dal punto di vista del dolore) e stress in sala operatoria

I fattori difensivi naturali sono:

 Il mangiare è un’azione attiva difensiva


 Il biofilm mucoso protettivo è un’azione passiva

I pazienti ospedalizzati con questo tipo di problema che fanno antisecretivi (anti-H2), inibitori della
pompa protonica, sono più a rischio e in più c’è lo stress intraoperatorio (fattori psico-sociali di
stress).

Se i fattori aggressivi superano quelli protettivi, si arriva alla lesione. Quest’ultima bisogna
identificarla sia dal punto di vista farmacologico sia da un punto di vista strumentale.

Gli aspetti sintomatologici sono:

 Dolore: è un dolore addominale che si irradia e a volte è molto vago (non tanto per l’ulcera
duodenale, ma per l’ulcera gastrica)
 Dispepsia perché si ha difficoltà nel processo deglutivo
 Dolore sotto forma di pirosi

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 Dolore alternato ad una specie di risucchio, di acidità come se ci fosse una specie di pompa
aspirante che ti tira dentro

Questi aspetti sono in comune sia all’ulcera gastrica che a quella duodenale ma ci sono delle
differenze. L’ulcera gastrica si differenzia da quella duodenale perché la sintomatologia che
abbiamo descritto è prevalentemente presente quando uno mangia e non quando sta a digiuno.
Quindi il soggetto, quando prima non c’era possibilità diagnostica né terapeutica, aveva
sintomatologia per un bel po’ di tempo ed il paziente, pur di non avere dolore, tendeva a non
mangiare, poiché notava che tutte le volte che mangiava, aveva dolore. Al contrario dell’ulcera
duodenale, il paziente notava che il dolore aumentava quando era a digiuno, per cui tendeva a
mangiare e mangiando, tamponava. Il primo paziente rischiava di essere denutrito, mentre il
secondo paziente ipernutrito. Prima la diagnosi (prima dell’endoscopia) si faceva con una
gastrografia con mezzo di contrasto.

Gli esami strumentali sono:

 Gastroscopia
 Prelievo di mucosa antrale per la ricerca dell’Helicobacter Pylori

Di base si effettua il test all’ureasi od anche il test del respiro perché il gold standard (prelievo
bioptico mandato all’anatomopatologo) è diverso dal prelievo ambulatoriale della mucosa nella
boccetta col test all’ureasi per motivi di costi e di tempi. Si va a ricercare l’Helicobacter Pylori
perché aumenta il rischio di recidiva dell’ulcera o della riacutizzazione dell’ulcera. La funzione
dell’Helicobacter è un fattore di mantenimento dell’ulcera: la recidiva. Non può essere un fattore
scatenante perché il 50% o più della popolazione ha l’Helicobacter Pylori e quindi avrebbe l’ulcera.
Nella pratica clinica bisogna scegliere che farmaco utilizzare: nella pratica antibiotica in un
infezione batterica. Si fa un tampone lo si manda all’esame colturale e si richiede anche
l’antibiogramma. Non sempre quella che è la risposta in vitro sia uguale a quella dell’organismo.
L’antibiogramma è una pratica clinica corretta che va fatta tutte le volte che abbiamo a che fare
con un campione di materiale infetto.

Terapia

Le ulcere sono presenti nei cambi di stagione (periodo settembre-ottobre e marzo-aprile). La


terapia medica di base è data da antisecretivi e anti-H2 (omeprazolo e derivati) per 8 settimane, e
l’ulcera nel 99% dei casi guarisce con la sola terapia antisecretiva. Nel momento in cui guarisce si
ha la cicatrice, a volte ritraente e a volte no, ed è soggetto a recidiva, diventando poi un fatto
cronico a causa dell’Helicobacter Pylori. Ecco che si associa alla terapia antisecretiva, la terapia
antibiotica, tentando di radicare il problema. Si effettua la terapia antibiotica di moxicillina
(velamox e zimox) per preservare il paziente da una recidiva ulcerosa.

Quando non c’era l’endoscopia e non c’erano tutti questi farmaci , i chirurghi curavano le ulcere
attraverso un by-pass per eliminare l’eccesso di succo gastrico, una nuova via per svuotare lo
stomaco più velocemente del solito. Proposero la GEA (gastro-entero anastomosi), un by-pass,
una nuova via di svuotamento e si faceva questa anastomosi a livello della grande curvatura con il

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digiuno. È un tipo di tecnica che si fa sul digiuno a livello dell’ansa del Treitz, e a 40 cm da esso, si
prende il digiuno e si fa l’anastomosi gastro-digiunale latero-laterale. Questa è una via in più per lo
svuotamento dello stomaco. Si poteva avere un’ulcera sull’anastomosi come complicanza.

La patologia dell’ulcera se la si cura con la terapia medica, perché si preferisce effettuare una
terapia chirurgica? Perché nonostante tutto può accadere una perforazione.

Se si ha una perforazione della parete anteriore dello stomaco, gas, liquidi e sostanze vanno a
finire nel peritoneo e si raccoglie nella parte più declive. Se si ha perforazione della parete
posteriore vanno a finire in peritoneo ma può attaccare il pancreas e perforarlo. Se c’è un
interessamento del pancreas gli enzimi alterati saranno amilasi e lipasi. Si a un quadro peritonitico,
in uno evidente e nell’altro è saccato, ed il paziente ha un dolore addominale, l’addome acuto. Si
ha una reazione peritoneale violenta per cui si deve ospedalizzare ed essere trattata
immediatamente.

Le complicanze di un’ulcera gastrica o duodenale sono:

 Perforazione
 Emorragia
 Stenosi soprattutto per le ulcere bulbari rispetto a quelle gastriche

In caso di perforazione, di un’ulcera perforante, si cerca di essere conservativi dal punto di vista
chirurgico e si effettua una toilette intestinale e si fa una escissione a losanga seguendo le linee di
tensione, linee di clivaggio e sullo stomaco le linee di tensione sulla parete muscolare. Dopodiché
bisogna fare la chiusura, la raffia, escissione dell’ulcera e gastroraffia. Qualche volte in cui la

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perforazione è molto ampia, allora piuttosto che dare una lesione molto retraente, una cicatrice
retraente della porzione antrale, allora tanto vale fare una resezione limitata della regione antrale,
facendo qualcosa di meno rispetto alla gastrectomia sub-totale e una ricostruzione mediante
anastomosi su ansa ad omega o ad Y.

 Stesso caso se ci troviamo davanti ad un’ulcera sanguinante, emorragia, e allora si fa


l’intervento chirurgico, togliendo il pezzo malato dell’ulcera e il vaso sanguinante
corrispondente, ed anche qui escissione e gastroraffia.

 Dal punto di vista delle incidenze per fortuna, queste complicanze dopo ulcera, sono
piuttosto limitate. La sopravvivenza non è un numero fisso, ma una percentuale in funzione
del tempo.

Una situazione di stenosi dopo ulcerazione e cicatrizzazione della parete si può avere a livello del
piloro, nella regione antrale in sede pre-pilorica. Se lo stomaco non si svuota come normalmente
succede, e il cibo non riesce a passare nell’orifizio pilorico, i sintomi saranno nausea e vomito. La
stenosi cicatriziale attraverso l’aspetto chirurgico si può effettuare una gastro-entero anastomosi,
ma si ha un metodo conservativo per provare a risolvere il problema senza l’intervento chirurgico:
la tecnica endoscopica è data da una dilatazione di tipo pneumatico. Una possibilità di tipo
chirurgico è la piloroplastica secondo Heineke-Mikulicz (incidiamo e rimodelliamo) ancora prima
di arrivare alla gastro-entero anastomosi.

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L’ulcera gastrica è più grande di solito ed è più pericolosa sia per il sanguinamento, sia perché
fondamentalmente non è solo una lesione che in teoria potrebbe trasformarsi in tumore, ma è
una lesione che potrebbe essere già un tumore. Il problema non è solo quello dell’ulcera che si
trasforma a lungo andare in ulcera, ma è quello di un tumore che sembra un ulcera. L’endoscopia
ad occhio ci permette di dare bene diagnosi, ma alcuna volte ci dà dei sospetti quando c’è un
tumore simil-ulcera o tumore ulcerato. La prima cosa da fare è la biopsia però c’è un limite: con
l’endoscopia si va in periferia dell’ulcera (mai dentro l’ulcera), però se si va all’esterno non ci dice
nessuno che si prende tessuto sano mentre la lesione è maligna. Allora si effettua l’ecoendo e in
alternativa l’altra tecnica per vedere ciò che accade dentro la parete è la TAC e la RMN. La TAC ci
può confermare la diagnosi e se c’è ispessimento della parete dello stomaco, linfonodi regionali
aumentati di volume (TNM), con certezza di una lesione tumorale.

 I bordi di una lesione ulcerosa sono semplicemente edematosi


 I bordi di un ulcera tumorale sono duri e rilevati per la vegetazione

Sono molto rare le situazioni cancerose di ulcera duodenale.

CARCINOMA GASTRICO
Il carcinoma gastrico, soprattutto nel mondo occidentale, è un patologia piuttosto frequente tra
quelle tumorali. Ha un’aggressività e una mortalità maggiore o simile a quella del polmone.
Generalmente si parla di risultati a 5 anni per fare confronti tra i vari tumori , in termini di
sopravvivenza e libertà da recidiva neoplastica.

C’è una lesione che si sviluppa dalle cellule dell’epitelio gastrico.

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C’è una classificazione fisica dei tumori dello stomaco (l’aspetto macroscopico). Un tumore prima
lo si identifica, più piccolo lo troviamo e migliori saranno le possibilità di risultati. Dal punto di vista
di semeiotica clinica possiamo avere dei sintomi che ci aiutano a scoprire un tumore gastrico?
Molto pochi: è evidente che un tumore, soprattutto nella fase iniziale , difficilmente ci dà sintomi e
segni tali da poter essere rilevati. Quindi la semeiotica clinica non ci aiuta a capire se c’è un
tumore. Gli esami di laboratorio ci potranno dare delle informazioni: ci sarà un sanguinamento a
nappo di entità modesta ma progressiva e ci sarà un’anemia. Nelle feci si può trovare il sangue
occulto nelle feci (SOF) se c’è un fatto di sanguinamento lento, progressivo. Un tumore darà un
altro segno, il calo ponderale. I markers non sono specifici proprio per lo stomaco: CA125 ed il
CA19-9, mentre il CEA è più specifica per il colon e l’α-fetoproteina per il fegato. Il tumore dello
stomaco, come quello dell’esofago, si divide in: ulcerante, a manicotto e quella vegetante.

L’early gastric cancer (tumore gastrico diagnosticato in fase precoce) quando è ancora limitato
alla mucosa o alla sottomucosa, in uno stadio iniziale e meno possibilità di diffondersi per via
ematica e linfatica. Nella stragrande maggioranza dei casi si ha un advanced gastric cancer
(tumore avanzato).

Gli esami strumentali per il cancro dello stomaco sono:

 L’endoscopia
 Rx solo se il paziente si rifiuta all’endoscopia

La sede del tumore dello stomaco può condizionare la sintomatologia e la terapia. La diffusione
per via loco regionale del tumore (lo stomaco ha circa 16 stazioni linfonodali) e la sede del tumore
è in relazione alle lesioni interessate. Una lesione iuxtacardiale o del fondo, le stazioni interessate
saranno quelle cardiali o della piccola o grande curvatura.

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Le complicanze che si possono avere da un tumore dello stomaco:

 L’emorragia a nappo
 Anemia lenta ma progressiva
 Rottura improvvisa di un vaso per erosione non dell’ulcera ma del tessuto tumorale con
sanguinamento improvviso e massivo (a volte il primo e unico segno del tumore)
 Perforazione (in caso di tumore ulcerante)
 Un tumore che si trova a livello della grande curvatura, nella zona di corpo e antro (dove
abbiamo piazzato la gastro-entero anastomosi) va ad infiltrare il colon ed il tumore passa
dallo stomaco al colon che con la biopsia attraverso endoscopia si può vedere. Può
accadere che il tumore infiltra, ingloba e quindi fonde e magari c’è al centro un po’ di
necrosi, e si crea o per via infiammatoria o per via neoplastica, una fistola, un tramite colo-
gastrica o gastro-colica. Per cui ci ritroveremo feci nello stomaco e succo gastrico nel colon.

Terapia chirurgica

La terapia chirurgica dell’apparato digerente prevede una demolizione e una ricostruzione.

Quando abbiamo a che fare con un tumore dello stomaco, fondamentalmente abbiamo a che fare
con due tipologie di interventi:

1. L’asportazione totale dello stomaco (gastrectomia totale)


2. L’asportazione sub-totale dello stomaco (gastrectomia sub-totale)

La gastrectomia totale si effettua asportando dalla parte terminale dell’esofago (dalla regione
cardiale) fino comunque alla zona immediatamente post-pilorica. Quindi il taglio prossimale va
nella regione esofagea precardiale, e il taglio distale va in regione bulbare post-pilorica. Questa è
l’asportazione totale dello stomaco con linfoadenectomia rapportata alla stadiazione della
stazione linfonodale. È un intervento chirurgico esclusivamente di tipo addominale. Dopodiché ci
rimane prossimalmente l’esofageo tolto l’ultimo cm terminale, e distalmente ci rimane il duodeno
tranne il cm di bulbo tagliato. Il duodeno va sempre e solamente affondato, nel senso che la
“C”duodenale viene affondata e si mettono i punti ,facendo una borsa di tabacco, si chiude e si
affonda: la mucosa non si vede, è stata rigirata dentro. Quella che era la mucosa viene rigirata
dentro e si affonda il moncone duodenale. Lo si chiude perché in linea di massima il duodeno non
è mobile (affondamento del moncone duodenale). Dal punto di vista strumentale e diagnostico ci
darà dei problemi nel caso di una ERCP perché non c’è più l’entrata nella “C” duodenale, a livello
della papilla di Vater. Se il moncone duodenale viene affondato, in alto ci rimane il moncone
terminale dell’esofago.

La gastrectomia sub-totale si effettua andando a tagliare al di sotto, a livello del fondo gastrico
(tutto il fondo e se possibile una parte del corpo).

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La scelta di un tipo di intervento o dell’altro è legata alla posizione e alla grandezza del tumore e
quindi sulla stadiazione del tumore . Questo perché uno dei principi di chirurgia oncologica è
quella di eseguire una resezione avendo un margine macroscopico piuttosto ampio dal margine
macroscopico del tumore (almeno 5 cm). È chiaro che se un tumore basso, verso l’antro verso la
grande curvatura si può risparmiare il moncone gastrico, ma se il tumore si trova sulla piccola
curvatura ci limita proprio perché c’è poco spazio di manovra. Da un punto di vista fisiologico post-
chirurgico la situazione funzionale sarà maggiore in quella sub-totale che in quella totale, in teoria
e lo è anche nella realtà, però non come uno immaginerebbe. Nella realtà la cosa più semplice
nella gastrectomia sub-totale è che non si va a lavorare in quello spazio angusto dello iatus
diaframmatico, ma avendo a disposizione il moncone gastrico, quei 4-5 cm ci permettono di
lavorare molto meglio. Infatti un’anastomosi gastro-digiunale è più facile dell’anastomosi esofago-
digiunale. Quando è possibile quindi si effettua una ricostruzione dopo aver salvato il moncone
gastrico.

La fase ricostruttiva della continuità fisica e fisiologica dell’apparato intestinale è data da due
principali tecniche ricostruttive:

1) Tipologia classica Billroth II (la prima Billroth I era risultata fallimentare con gastro-
duodenostomia). Questa tipologia è chiamata anche ricostruzione su ansa ad omega e
rappresenta la ricostruzione su moncone gastrico, dopo gastrectomia sub-totale. Consiste
nel prendere il duodeno, solita ansa del Treitz, ci si sposta per 40 cm e si prende quel pezzo
di ansa e, senza tagliare nulla, lo si avvicina al moncone gastrico, facendo un omega, lo si
pone sul lato del digiuno e sulla parte terminale dello stomaco, facendo un’anastomosi
termino-laterale gastro-digiunale. L’ansa efferente porterà i succhi pancreatici e bile
perché viene dal duodeno, mentre l’ansa afferente porterà succo gastrico e cibo. C’è un
passaggio anomalo del succo pancreatico e della bile nella rima anastomotica della mucosa
gastrica. Poiché c’erano insulti e danni, allora si è pensato ad un rimedio, la variante di
Braun con un’altra piccola anastomosi, la digiuno-digiunale latero-laterale (od entero-
entero anastomosi al piede, alla base dell’omega),oltre alla gastro-digiunale termino-
laterale. Quindi nella Billroth II classica abbiamo una anastomosi mentre, nella variante di
Braun abbiamo due anastomosi. In questo caso l’esame endoscopico si chiamerà esofago-
gastro-digiunoscopia (se è presente lo stomaco), mentre esofago-digiunoscopia (se lo
stomaco è stato asportato).
2) Tipologia di ricostruzione con anastomosi gastro-digiunale su ansa Y defunzionalizzata
alla Roux: l’evoluzione di Roux è stata quella di prendere l’ansa a 40 cm dal Treitz, mettere
due pinze, e tagliarla in mezzo; Si avrà un moncone dell’ansa afferente (che porta bile e
succo pancreatico), l’altra ansa efferente la si prende, si taglia, si stacca e la si anastomizza
in maniera latero-laterale con lo stomaco e non termino-terminale perché ridurrebbe il
lume. Da una parte avrò la prima ansa che porta il succo pancreatico e la bile, e l’altra
defunzionalizzata, collegata allo stomaco che porterà il materiale alimentare. Però ci sono
due settori separati e bisogna fare un’anastomosi gastro-digiunale (termino-laterale) e la

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digiuno-digiunale (latero-laterale, se viene affondato il moncone oppure si fa la termino-
laterale).

Nella tipologia di Billroth II ad ansa ad omega non si hanno anse tagliate né defunzionalizzate;
Nella tipologia alla Roux ad ansa ad Y, l’ansa che sta sotto viene defunzionalizzata dal passaggio
della bile e del succo pancreatico. L’ansa secondo Roux prende sempre più piede per la facilità di
anastomosi con le suturatrici meccaniche. Dal punto di vista della semeiotica strumentale post-
chirurgica, nell’ansa alla Roux, entrando con il gastroscopio si vede l’esofago, il moncone gastrico e
una sola ansa digiunale montata il più delle volte in modo termino-laterale. Se invece, con il
gastroscopio si entra in un paziente che ha avuto la tipologia di Billroth II, si vede l’esofago, il
moncone gastrico, però si hanno due orifizi, una dell’ansa afferente e l’altra dell’ansa efferente.

Le stesse metodologie applicate ad una gastrectomia totale comporteranno, sia ad ansa ad omega
che ad ansa ad Y, l’assenza del monconcino gastrico ma, il resto della ricostruzione sarà uguale.
La ricostruzione ad omega sull’esofago non si chiama Billroth II ma si chiama di Braun.

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I trattamenti palliativi, come per l’esofago, del tumore dello stomaco non è detto che sia possibile
o vantaggioso fare un trattamento chirurgico tradizionale e quindi si fa: interventi non chirurgici o
trattamenti chirurgici.

Se il tumore è dell’antro e non abbiamo a disposizione nessun altro se non un chirurgo che faccia
qualcosa di palliativo, a questo paziente in maniera palliativa si farà l’anastomosi gastro-enterica
(GEA), si fa un’anastomosi senza togliere niente, avendo un by-pass che permette di svuotare lo
stomaco lasciando il tumore in sede. Naturalmente se il tumore è a livello antrale, l’anastomosi
verrà fatta lontana dal tumore, lontana dall’antro,a monte del tumore.

Quando è possibile scegliere tra una tecnica conservativa ed una meno conservativa che è quella
chirugica (GEA), un sistema ancora meno invasivo sono le procedure endoscopiche, cercando di
distruggere il tumore in maniera palliativo:

 Ricanalizzazione con raggio Nd-YAG laser;


 Iniettando soluzioni citotossiche;
 Bruciando con l’elettrobisturi;
 Stent non di tipo classico che sposta il tumore.

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PATOLOGIA COLORETTALE
Il colon è la porzione di intestino che segue all’intestino tenue (duodeno-digiuno ed ileo) ed è
formato da: cieco, colon destro o ascendente, flessura colica destra o flessura epatica, colon
trasverso, colon sinistro o discendente, flessura colica sinistra o splenica, sigma e retto. Il colon
rispetto a tutto l’intestino è la parte finale dell’intestino, che inizia dalla valvola ileo-cecale, lì dove
finisce l’ileo e termina all’esterno attraverso il retto, il canale anale e l’ano. Dal punto di vista
fisiologico il colon serve per il riassorbimento di acqua e di rendere più solido il materiale, di
rendere le feci da liquide, prima semi-liquide e poi compatte. La vascolarizzazione del colon, dalla
valvola ileo-cecale all’ano, è data fondamentalmente dalle due arterie mesenteriche (superiore ed
inferiore). Il tipo di vascolarizzazione del colon, al contrario del fegato che è terminale ed è
esclusivo, è di tipo anastomotico, ci sono delle arcate che si anastomizzano. Ciò significa che se
uno di questi rami si occlude, c’è l’azione vicariante dell’altro ramo, e ciò è importante dal punto
di vista chirurgico perché i tagli e le resezioni sono guidate proprio dal disegno vascolare. In genere
la sezione viene fatta in linea di massima, al centro dell’arcata. Con la vascolarizzazione prediligi
quello che si deve lasciare perché è necessario che se si lascia un pezzo debba essere ben
vascolarizzato. Qualunque organo lasciato deve essere vascolarizzato e deve essere attivo dal
punto di vista biologico e fisiologico, dell’attività funzionale. Se si lascia un organo senza
vascolarizzazione, presto quest’ultimo va in necrosi. Ci sono molti settori, ma gli interventi resettivi
sono inferiori rispetto al numero dei settori.

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La patologie del colon sono legate a: diverticoli, malattie infiammatorie croniche, polipi, poliposi
familiare, carcinoma del colon.

DIVERTICOLI
I diverticoli sono delle lesioni sacciformi provocati da aderenze o da problemi pressori,che hanno
la caratteristica di avere una sacca ed una zona più piccola che è il colletto. È una specie di
erniazione della mucosa nella parete muscolare, quindi la mucosa si sposta e va verso la parete
muscolare. La sacca diverticolare rispetto a quella del colon è più debole perché manca la
sottomucosa, la muscolare e la sierosa.

Il diverticolo è più debole perché è composto tra l’altro dai due strati meno robusti e manca la
parete muscolare e significa che se si verifica un processo infiammatorio avrà una valenza
differente. I diverticoli possono essere presenti su tutto il colon, ma sono più frequenti nel sigma e
nel discendente. I diverticoli possono essere:

 Singoli
 Multipli

Il diverticolo non è proprio un processo patologico, può essere asintomatico, ma è una


deformazione del lume che si può verificare con notevole frequenza. Il diverticolo da solo non dà
problemi ma dà problemi quando: può essere unico ma può dare problemi di ristagno di feci
all’interno e provocare problemi infiammatori. In condizioni normali si riempie il diverticolo e si
svuota ma si può tappare perché il colletto è più stretto del fondo quindi se c’è un tappo di feci,
più solido perché più vicini al retto, se entra dentro il diverticolo può rimanere bloccato e tappa il
colletto. In questo caso non c’è ricambio, c’è ristagno e c’è infiammazione dalla semplice iperemia,
all’edemizzazione e all’erosione e alla perforazione. Se immaginiamo che ce ne sono più di uno e
stanno soprattutto al sigma, che forma delle angolazioni (doppia curva), e questi diverticoli

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deformano la parete complessiva con una difficoltà di passaggio (stenosi o sub-stenosi), quindi da
un punto di vista sintomatologico si avrà:

 Dolori (crampi) da infiammazione e torsione del sigma


 Distensione addominale (addome acuto)
 Alterazione dell’alvo (feci un po’ liquide, un po’ solide)
 Melena (rara nel caso di diverticoli a livello del cieco e/o del colon destro) ed enterorragia
o proctorragia (più frequente, con diverticoli a livello del sigma e/o colon sinistro)

La presenza di diverticoli multipli si definisce diverticolosi. L’infiammazione di un singolo


diverticolo o di più diverticoli si definisce diverticolite. Il singolo diverticolo infiammato in genere
non dà un quadro clinico grave. Basta un singolo diverticolo per avere il quadro di perforazione,
ma dal punto di vista probabilistico, la diverticolite è data da più diverticoli.

Per quanto riguarda la semeiotica strumentale del diverticolo sono:

 Endscopia (colonscopia): permette di vedere tutto il colon anche se il grosso delle


patologie sta nella parte più bassa; a volte è richiesta la sola retto-sigmoidoscopia. Da un
punto di vista tecnico ci si limita alla preparazione. Per la colonscopia è necessario pulire il
viscere (stessa cosa per il clisma opaco) attraverso, se solo l’ultima parte per la retto-
sigmoidoscopia, gli ultimi 30 cm, un paio di clisteri (250 ml), se invece bisogna vedere tutto
il colon allora si fa attraverso il wash-out, 4 litri con soluzioni varie da bere. Rispetto al
clisma opaco permette di fare una biopsia.
 Rx clisma opaco mediante insufflazione di mezzo di contrasto (solfato di bario) attraverso
un clistere, attraverso il retto.
 Clisma opaco a doppio contrasto: si mette il mezzo di contrasto e si vede in maniera
confusa e dopo si insuffla aria e si toglie il mezzo di contrasto che rimane attaccato alla
parete.

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Quindi le complicanze di una diverticolite sono:

 Infiammazione ed edemizzazione
 Iperemia ed erosione
 Perforazione

In alcuni soggetti possono avere diverticolosi del colon, ernia gastrica iatale e calcolosi della
colecisti: questa associazione è stata descritta come sindrome di Saint.

Terapia

La terapia medica conservativa inizialmente è sicuramente un antibioticoterapia con antispastico


se c’è dolore. Se passa e si riduce l’infiammazione e l’edema, ed il lume si riapre, si risolve il
problema. Se il quadro non si risolve allora si passa alla terapia chirurgica. Si apre, si reseca e si
effettua un’anastomosi.

MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE


Le malattie infiammatorie croniche a livello del colon sono di due tipi:

 Il morbo di Crohn
 La rettocolite ulcerosa

Hanno delle caratteristiche simili mentre altre che le differenziano.

Sono entrambe malattie infiammatorie croniche, ma possono a lungo andare possono trasformarsi
in stato di cancerosi. La rettocolite ulcerosa è esclusiva del colon, è solo del colon, mentre il morbo
di Crohn no, perché è possibile trovarlo in tutto l’apparato digerente. Quando fu scoperto il morbo
di Crohn, risultava intaccare la porzione dell’ileo terminale, tanto che risulta definito anche come
ileite terminale. Negli ultimi tempi è stato visto più frequentemente a livello del colon. Hanno tutte
e due la caratteristica di avere una eziologia per la gran parte sconosciuta e c’è di base un
fenomeno che si automantiene per un processo auto aggressivo cioè autoimmunitario. Però non si
sa che cosa lo scatena.

La rettocolite ulcerosa ha un andamento differente, pur essendo cronica, ha un andamento


ascendente: inizia a colpire il retto e poi man mano risale verso il cieco. Il morbo di Crohn si
diffonde in maniera discendente. La malattia della rettocolite ulcerosa è limitata alla mucosa e la
sottomucosa, mentre il morbo di Crohn interessa il colon su tutto lo spessore della parete. Al solo
esame endoscopico queste due patologie sono molto simili ed è difficile distingue l’una dall’altra;
Quindi si fa una biopsia per individuare il T definitivo dall’anatomo patologo. Manifestazione di
tipo erosivo, infiammatorio e di tipo poliposo della mucosa.

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La sintomatologia di questi quadri patologici comprende:

 Proctorragia od enterorragia (sanguinamento rosso vivo): la differenza con le emorroidi è


che si possono avere anche indipendentemente dal passaggio delle feci
 Mucorrea (specie nel morbo di Crohn)
 Dolore
 Diarrea per alterazione della mucosa

Come complicanze del morbo di Crohn abbiamo:

 Perforazione della mucosa e peritonite (addome acuto + occlusione)


 Fistole ed ascessi

Gli esami strumentali sono:

 Endoscopia con biopsia


 TAC e RMN

Terapia

La terapia di base dei soggetti con rettocolite ulcerosa e morbo di Crohn è : antiinfiammatori e
cortisonici (con funzione immunosoppressiva). Ma non si possono fare a lungo, allora si fa un’altra
terapia, un antiinfiammatorio specifico pentasa (derivato dell’aspirina) o mesalazine. Quale via di
somministrazione si utilizza? Per OS si distribuisce al corpo umano in maniera generale, sistemica,
mentre per via anale ha un’azione locale. La via di somministrazione locale per via anale si utilizza
per la rettocolite perché la localizzazione è prevalentemente bassa. Le alternative alle supposte si
possono avere dei clisteri o con le schiume.

Se i pazienti non rispondono alla terapia farmacologica, prima di arrivare all’azione chirurgica, c’è
un ultimo passaggio farmacologico: l’evoluzione del cortisonico è data dagli immunosoppressori
come la ciclosporina, l’FK 506, il tacrolimus.

Se la terapia farmacologica non risponde, allora si passa all’intervento chirurgico: paradossalmente


è una terapia chirurgica demolitiva perché, essendo tutto il colon interessato, anche se
endoscopicamente c’è una parte apparentemente indenne, se si lascia quella parte e la si
anastomizza, c’è la possibilità della recidiva e della deiscenza. Spesso, al momento dell’intervento
d’urgenza, il paziente si trova in grave condizioni (emorragia, perforazione, occlusione, ascessi,
fistole, ecc.) e non si può subito procedere ad un intervento radicale demolitore, allora si esegue
una colostomia a monte del tratto occluso. Quando le condizioni del paziente saranno migliorate,
allora si procederà alla colectomia totale.

POLIPI
I polipi intestinali sono tumori epiteliali benigni, originati dalla mucosa, con aspetto macroscopico
di un tumore: polipo peduncolato o polipo sessile. Da un punto di vista istologico queste due

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tipologie coincidono con adenoma tubolare per quanto riguarda i polipi peduncolati, e il tumore
villoso (localizzati specie nel retto) per i polipi sessili. Ci sono però anche i casi intermedi.

Sono dei polipi in cui la testa (il fondo) è molto più ampia del colletto: possono essere molto
piccoli, anche di 1 mm, e questi vanno a finire direttamente nella morsa della pinsa bioptica; la
biopsia non serve perché un polipo di 1-2 mm non può essere una preoccupazione. Quando
abbiamo polipi più grandi, polipi peduncolati, li scopriamo attraverso l’endoscopia; L’alternativa
all’endoscopia se si trovano impiantati entro gli ultimi 10 cm del canale anale attraverso
l’esplorazione digito-rettale. L’altra possibilità diagnostica è l’esame radiologico con mezzo di
contrasto. Anche se attraverso l’endoscopia è possibile visualizzarlo, esaminarlo da un punto di
vista visivo, e la possibilità di portarlo via.

Lo stesso polipo o la stessa lesione se si trova a livello del canale anale è molto doloroso perché al
di sotto della linea dentata c’è una zona ipersensibile. Al di sopra della linea dentata c’è la zona di
assenza di sensibilità. L’endoscopia dal punto di vista terapeutico ci permette di bruciare i polipi,
attraverso una diatermocoagulazione o ablazione del polipo e lo si può fare quando i polipi sono
molto piccoli, siamo sicuri che siano benigni. Se il polipo è più grande con una testa di 2-3 cm, non

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si può bruciare allora l’alternativa è mettere una specie di cappio d’acciaio nel tubo endoscopico,
che stringe e taglia solo dopo che contemporaneamente si coagula, in modo progressivo, dalla
periferia del peduncolo fino al centro, finché il polipo si stacca, lo si prende lo si aspira e lo si toglie
per la biopsia, per l’esame istologico.

Dopo il trattamento endoscopico potrebbero nascere dei problemi quando c’è sanguinamento
oppure quando c’è la resezione vicino la base del polipo, provocando una cicatrice retraente
oppure si potrebbe avere una perforazione iatrogena endoscopica. Si potrebbe avere un’intensa
proctorragia con sanguinamento acuto. I problemi possono iniziare quando il polipo invece di
essere peduncolato, ha un larga base d’impianto, ovvero i polipi sessili. Con l’ansa diatermica per i
polipi sessili, la base non si riesce a portarla via, allora ci sono due opzioni: endoscopicamente si
riesce a fare una mucosectomia, staccando il tratto di mucosa con il polipo sessile con carattere
villoso, oppure l’alternativa è l’intervento chirurgico con la resezione del pezzo, per un tumore
benigno senza problemi di margini e di bordi. Si reseca e si effettua l’anastomosi.

Polipi peduncolati (adenomi tubolari): trattamento endoscopico diagnostico e terapeutico.

Polipi sessili (tipo villoso): mucosectomia endoscopica o intervento chirurgico laparotomico.

La maggior parte dei polipi sono dei polipi benigni e sono per lo più di tipo tubulare, peduncolato.

POLIPOSI FAMILIARE
La poliposi familiare è una patologia in cui tutta la superficie è sostituita da polipi, situazione di
poliposi del colon su base genetica; C’è la totale sostituzione della mucosa del colon con dei polipi.
Appena identificato uno di una famiglia, altri ce l’hanno o l’avranno perché è una patologia
dominante. Il primo individuo della famiglia che scopre la patologia ha una prognosi peggiore
perché ci si accorge quando ormai c’è il tumore. L’indagine strumentale si fa con l’endoscopia.
Quindi si ha la diagnosi di tumori sincroni sviluppati da polipi. In questi casi si effettua una
colectomia totale (come nel morbo di Crohn e nella rettocolite ulcerosa). Questa patologia va
incontro alla colectomia totale o sub-totale, in caso si lascia solo il monconcino anale e si possono
fare due interventi di ricostruzione:

 Facendo una ileostomia, chiudendo il monconcino rettale;


 Facendo l’anastomosi ileo-rettale oppure l’ileo-anale(anastomosi all’esterno,sul contorno
dell’ano);

In un caso avrà ancora lo sfintere anale e rimane integro funzionante ma il paziente avrà bisogno
di evacuare in maniera continua (ogni 2 ore ad evacuare), nell’altro ci sarà invece una stomia con
una raccolta all’esterno di materiale enterico . Oppure si fa sì l’anastomosi ileo-anale ma si cerca di
ricreare quella che è la funzione continuativa, ancora prima di riassorbimento dell’ampolla rettale;
il problema è che l’ileo è sottilissimo ma se la si piega e la si anastomizza, si realizza una riserva
ileale a due o tre con funzione di contenimento e con capacità di adattamento della mucosa.

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CARCINOMA COLORETTALE
Il carcinoma del colon è molto frequente nell’ultima porzione: sigma e retto.

La maggiore incidenza dei tumori colorettali è nella quinta e nella sesta decade. Il tipo di tumore
può essere: vegetante, stenosante(a manicotto) ed ulcerante. Oltre al TNM, un’altra classificazione
dei carcinomi del colon è quella di Clarke.

I tumori del colon possono essere:

 Ereditari, in genere il primo soggetto della famiglia sviluppa il tumore prima dei 40-45 anni
 Non ereditari

La sintomatologia è data da:

 Proctorragia, in comune con emorroidi e ragadi, ed è necessaria un’esplorazione digito-


rettale e una rettoscopia
 Tenesmo rettale (sensazione di tensione anche dopo evacuazione) se c’è un tumore a
livello del retto, a livello basso
 Calo ponderale
 Alterazione dell’alvo
 Dolore

La semeiotica strumentale prevede:

 Endoscopia
 Ecoendoscopia
 TAC e RMN
 Rx clisma opaco

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Il retto ha una conformazione ad ampolla, quindi più ampia rispetto ai tratti precedenti, per
determinare la solidificazione terminale e il compattamento delle feci. L’espulsione delle feci è
data dalla spinta peristaltica e dall’apertura del canale anale. Quando ciò è alterato dalla presenza
di un tumore, di una massa che restringe il lume, anche l’aspetto evacuativo e della forma delle
feci può cambiare. La forma del tumore può influenzare la sintomatologia. Si può verificare
l’occlusione intestinale quando c’è l’occupazione del lume da parte del tumore e dell’edema che si
associa al tumore, con impossibilità di evacuare, un’occlusione di tipo meccanico. All’esplorazione
digito-rettale, il tumore è duro, il polipo no.

In cosa cambia la semeiotica clinica e strumentale di un polipo che va a finire all’intervento


chirurgico e di un soggetto con carcinoma che va all’intervento chirurgico?

Nel polipo non si va a fare lo screening, non si vedono se ci sono metastasi, mentre per il
carcinoma si segue il TNM, si fa lo screening, ecografia epatica, e andare a cercare le varie
localizzazioni ,e lo si fa in maniera obbligatoria, mentre per il polipo non è obbligatorio. Il polipo
non degenera e non recidiva mentre il tumore maligno sì: margini estesi perché se no ci può
essere una recidiva locale, linfoadenectomia perché se no ci può essere la diffusione loco
regionale, e attenzione studio sugli organi bersaglio per la presenza delle metastasi. Tutto ciò per il
polipo, tumore benigno, non si pone.

Terapia

Se il tumore è a livello del cieco, oppure a livello medio del colon ascendente, o vicino alla flessura
colica destra, l’intervento che si fa è l’emicolectomia destra e porta via tutto il blocco per i principi
generali di chirurgia (margini del tumore, distribuzione delle arcate delle arterie), portando via
tutta quella parte che va dall’ultima ansa ileale, cieco, appendice, colon ascendente, flessura di
destra, fino ad un tratto di trasverso prossimale. Bisogna stare attenti perché il colon ascendente
non ha il “meso” come il trasverso e quindi lo bisogna scollare e stare attenti perché dietro c’è il
rene e l’uretere. Prossimalmente ci sarà il moncone ileale (tutto ciò che rimane dell’ileo) e
distalmente il moncone del colon trasverso quasi tutto il colon trasverso). Per quanto riguarda la
vascolarizzazione si va a legare l’ileo-colica e la colica di destra risparmiando la colica media,
risparmiando il ramo di sinistra della colica media. Le possibilità di ricostruzione saranno:
l’anastomosi ileo-trasverso termino-laterale affondando il moncone del trasverso, oppure si
chiudono i due monconi e si fa l’anastomosi ileo-trasverso latero-laterale. Un esame endoscopico
ad un soggetto del genere ci permette di vedere il retto, il sigma, il colon discendente, la flessura
colica splenica, il trasverso (struttura delle tenie triangolari), e poi l’ileo con l’anastomosi.

Se invece il tumore è a livello del trasverso, che al contrario del colon di sinistra e di destra, è
mobile, ha un foglietto meso lungo e mobile. Allora l’intervento in questo caso si chiama resezione
del colon trasverso e comporta di portare via tutto il territorio irrorato da un’arteria, la colica
media. dobbiamo essere demolitivi perché se lasciamo un pezzo di trasverso, dopo aver rimosso

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tutta l’arteria, andrà in necrosi per mancata vascolarizzazione. Prossimalmente rimane la flessura
epatica e distalmente rimane la flessura splenica e per riavvicinarli si scolla uno dei due monconi o
tutti e due (rischio di lesionare gli ureteri), si avvicinano, facendo un’anastomosi colo-colica.

Se invece il tumore è a livello del discendente l’intervento si chiamerà emicolectomia sinistra: si


porta via la parte distale del trasverso, tutto il discendente e si arriva al sigma. Quindi tutto il
territorio è irrorato all’arteria mesenterica inferiore attraverso la colica di sinistra. A livello del
sigma ci sono tre arterie, che nascono dalla mesenterica inferiore ma che sono le tre sigmoidee
che nascono da un tronco comune. Così ci rimane prossimalmente il trasverso distale e
distalmente il sigma e si fa un’anastomosi trasverso-sigmoidea o colo-sigmoideo termino-terminale
o latero-terminale. Questa è l’emicolectomia classica.

Se c’è un tumore a livello del sigma (il sigma ha una sua autonomia perché ha delle arterie proprie
autonome, I, II, III sigmoidea), si può portare via il sigma, resezione del sigma, senza inficiare la
validità del discendente, portando via la I,II,III sigmoidea rispettando la colica di sinistra. Si portano
via i vasi perché lungo i vasi ci sono i linfonodi. Se si fa però l’emicolectomia sinistra classica o la
resezione del sigma, sì vado a fare in un caso la linfoadenectomia dell’arteria colica di sinistra o nel
caso del sigma, la linfoadenctomia della I,II,III sigmoidea. Però siccome tutte nascono dal tronco
comune della mesenterica inferiore, comunque in entrambi i casi rimarranno i linfonodi del tronco
comune all’origine della mesenterica inferiore. Allora l’estensione della radicalità oncologica
portando via tutti i linfonodi della mesenterica inferiore, comporta nel caso di tumore del sigma o
tumore del discendente, si farà una resezione dal colon trasverso distale fino al retto.

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CHIRURGIA DEL RETTO
Il retto lo consideriamo indipendente per la sua vascolarizzazione. Se consideriamo i vari distretti,
per quanto riguarda la vascolarizzazione di tutto il colon a parte il retto, il sangue andrà nel
sistema portale con eventuale metastasi a livello del fegato; Se consideriamo invece la parte bassa
del retto, il sangue va nel sistema cavale ed un eventuale metastasi si potrà avere a livello
polmonare. Il retto confina con l’ano, infatti già all’esplorazione digito-rettale si sente un cercine e
dopodiché è vuoto. All’endoscopia si vede la linea dentata che segna il passaggio dall’ano al retto.
Un’altra caratteristica del retto sulla chirurgica oncologica è che ci dobbiamo mantenere ad una
certa distanza, e qui ci sono dei problemi perché il retto comunica con l’esterno con lo sfintere
anale. In senso latero-laterale è situato nello scavo pelvico. Se il tumore è nel retto alto, si
resecherà un po’ di sigma, senza nessun problema; se il tumore è molto basso, allora ci sono dei
problemi grossi perché bisogna fare un intervento radicale totale del retto.

Ci sono due tipologie di intervento per il tumore colorettale:

1. RAR (resezione anteriore del retto) in caso di tumore alto del retto e il paziente andrà di
corpo regolarmente ed avrà solo una cicatrice. Questo è un intervento radicale ma
conservativo dello sfintere.
2. Amputazione del retto per via addomino-perineale secondo Miles (retto, canale anale,
sfintere): in questo caso non ci sarà più l’ano e l’infossamento tra i due glutei ma ci sarà
solo una cicatrice di una zona chiusa. Il paziente per sempre andrà di corpo attraverso una

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sigmoidostomia o colostomia con relativa busta di raccolta. Questo è un intervento
radicale ma demolitivo dello sfintere.

Le Miles si sono ridotte sempre più proprio perché si fa diagnosi precoce e se è sufficientemente
lontano dal margine si può resecare, riuscendo a non intervenire demolitivamente sullo sfintere
anale.

La suturatrice meccanica è uno strumento molto utile per la chirurgia ma necessita di una via
d’ingresso, rappresentata dal retto. Dopo aver resecato il retto, per entrare con la suturatrice
meccanica, dobbiamo entrare dall’ano, e il paziente in sala operatoria è messo in posizione
ginecologica. Per poter fare l’intervento il chirurgo deve fare una laparotomia, incisione
addominale di tipo mediano (sulla linea alba o bianca), bassa ombelico-pubica. Il paziente avrà una
cicatrice addominale bassa, uno o due drenaggi che vengono fuori mai dalla cicatrici ma da altri
accessi.

In genere il chirurgo posiziona questi drenaggi o nel punto più declive, dove si raccoglie il
materiale, nella zona dello scavo pelvico, e un altro nella zona dove abbiamo fatto l’intervento, la
zona che va monitorata ed in questo caso l’anastomosi. Se c’è una filtrazione, un buco, una
lesione, ci servirà per monitorizzare eventuali incidenti, complicanze dell’anastomosi (emorragia e
deiscenza). Il drenaggio si toglie quando si vede una riduzione progressiva della secrezione che
esce dallo stesso, quando si è sicuri che le secrezioni si siano fermate. Il problema che può causare
un drenaggio sono infezioni di tipo ascendente, soprattutto se la busta di raccolta viene lasciata a
terra invece di essere appesa. L’altra funzione del drenaggio è quella di monitorare l’anastomosi.
Se il primo si toglie quando il materiale è ridotto quasi a zero, il secondo drenaggio si toglie
quando il paziente va di corpo e canalizzandosi,non c’è reazione peritoneale e non c’è infiltrazione.
I drenaggi appena terminano la loro funzione bisogna rimuoverli per normalizzare l’attività
fisiologica e la vita del paziente.

Se il primo o il secondo giorno si vede uscire del liquido abbondante piuttosto colorato (rosso), se
si deve giudicare per vedere se è sangue vecchio o se c’è un’arteriola che perde, è molto difficile,
allora si effettua un emocromo sul liquido del drenaggio da lì si vede se è sangue.

Le cicatrici sono quelle mediane ma, in un caso l’intervento non riguarderà solo l’incisione
addominale ma sarà l’amputazione del retto per via addominale secondo Miles, in cui si avrà una
cicatrice perineale con due drenaggi annessi.

Il soggetto che ha avuto una RAR avrà una cicatrice mediana bassa ed i due drenaggi, mentre il
soggetto che ha avuto la Miles oltre alla cicatrice mediana e ai drenaggi, avrà anche da sotto, dalla
regione perianale, una cicatrice con due drenaggi annessi, e non avrà più l’ano. In più presenterà a
sinistra (tratto prossimale ultimo, il sigma), avrà una stomia sul sigma o sul colon discendente con
una sacca di raccolta annessa.

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COLOSTOMIA
I CASO: quando abbiamo un paziente con un tumore occludente, caso d’urgenza, paziente
anziano, allora in 20 minuti si farà una colostomia per farlo vivere meglio senza aver asportato il
tumore; si effettua una colostomia a canna di fucile con tumore e l’altro tratto del colon in sede
(colostomia di by-pass, decompressiva).

II CASO: situazione d’urgenza anche qui mancata preparazione (rischi sulla tenuta dell’anastomosi)
ma il chirurgo ha un po’ più di tempo, soprattutto se il paziente è giovane e non ha una patologia
diffusa, si può fare un intervento demolitivo. Il problema però è che il paziente, se non è stato
preparato bene, ed il soggetto ha dei tessuti scadenti per il calo ponderale, dopo aver tolto il
pezzo, dovrebbe fare l’anastomosi, ma se la fa potrebbe non tenere e se non tiene c’è la
deiscenza, ci potrebbe essere la peritonite e uno shock settico. Oppure ci potrebbero essere dei
problemi tecnici o di tipo biologico. Il chirurgo porta via il pezzo però nella realtà non fa
l’anastomosi e allora rimangono i due monconi (asportando ad esempio il sigma): colon
discendente (moncone prossimale) e retto (moncone distale). Con quello prossimale si fa una
colostomia, mentre il moncone distale lo si affonda in attesa di una ricostruzione. Il paziente avrà
una colostomia terminale e da un’altra parte avrà un moncone rettale o retto-sigmoideo chiuso, a
fondo cieco. Questa è la cosiddetta variante di Hartmann. Prima dell’intervento di ricostruzione si
fa l’endoscopia per fare la toilette intestinale: l’unica attenzione è che c’è un fondo cieco. Qui ci
troviamo di fornte a d un intervento di ricostruzione vero, l’anastomosi viene fatta in quel
momento. La ricostruzione dopo Hartmann viene fata dopo almeno 2 mesi.

III CASO: Portato via il pezzo si fa l’anastomosi, ma non fidandosi troppo, pur avendo fatto
l’anastomosi, a monte si fa comunque una colostomia a doppia canna laterale di protezione con
funzione non detentiva ma protettiva, per evitare che l’anastomosi in tutto il periodo della
guarigione sia libera dalle feci. La colostomia si chiude quando l’anastomosi è sicuro che sia guarita
bene (2-3 mesi) e in tutto il periodo il paziente avrà l’ano ma andrà di corpo esclusivamente dalla
stomia temporanea. La stomia con doppio orifizio servirà uno prossimalmente per il tratto
afferente, verso la flessura splenica e il colon discendente e l’altro sarà quello che andrà verso la

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porzione terminale efferente che va verso il tumore. Questa è detta stomia a canna di fucile.
L’intervento consiste nell’incisione, si toglie il tratto del discendente-sigma, si richiude la cute, lo si
ancora e solo dopo la si apre la stomia a letto del paziente e si può aprire a letto del paziente per
non contaminare. In questo caso non si toglie il tumore ma si fa una colostomia laterale a canna di
fucile.

IV CASO: paziente operabile, preparazione ottima, nessun problema chirurgico e nello stesso
intervento si toglie il pezzo e si fa l’anastomosi: resezione anteriore del retto (RAR).

La colostomia può essere terminale e laterale, con un solo orifizio o con due, temporanea o
definitiva, può avere una funzione di by-pass in caso di occlusione, oppure può avere una funzione
di protezione per evitare il transito delle feci.

Una derivazione che sia sull’ileo si chiamerà ileostomia (stavolta a destra) quando avremo una
occlusione alta (massa a livello della valvola ileo-cecale). La differenza con una colostomia qual è?
Dal punto di vista ispettivo l’ileostomia sarà più piccola e si riconosce il materiale che viene fuori è
del materiale liquido enterico, mentre dalla colostomia verrà fuori del materiale più consistente,
più formato del materiale fecale; Inoltre il materiale enterico sulla cute provoca irritazione e
bruciore proprio perché la cute non regge l’impatto del contenuto eterico ed il materiale enterico
è molto più abbondante. Proprio perché è irritante la cute sarà protetta da pomate o da plastiche
di protezione per il contatto con il materiale enterico.

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PATOLOGIA PERIANALE: EMORROIDI E RAGADI
Le emorroidi e le ragadi sono due patologie frequenti, benigne che danno dei disagi notevoli.
Soprattutto le emorroidi sono frequenti anche in giovane età.

Un’associazione di idee ci fa pensare subito che le emorroidi essendo dilatazioni venose, si


possono associare ad un altro quadro patologico, le varici esofagee. Le varici esofagee sono tre
colonne disposte a 120° ed anche le emorroidi sono delle venuzze che, in condizioni normali non si
vedono, mentre in altre situazioni si dilatano. Il collegamento con l’ipertensione portale è
unidirezionale: se ci sono le varici esofagee sicuramente ci sarà ipertensione portale, mentre se ci
sono le emorroidi non è assolutamente detto che ci sia ipertensione portale. Se c’è ipertensione
portale ci possono essere emorroidi ma non è detto. Le emorroidi sono date da una diatesi di tipo
congenito ed in parte ereditario, ma legate piuttosto ad abitudini igienico-alimentari. Finché le
dilatazioni sono interne, vengono definite come emorroidi di I grado. La zona d’impianto delle
emorroidi è appena al di sopra dell’ano, quindi a cavallo della linea dentata. Quando sono piccole
sono ancora interne, ma quando diventano più grandi iniziano a sporgere, quando c’è aumento di
pressione a livello del’ampolla rettale, ovvero quando spingiamo per far passare le feci. Quindi le
emorroidi che vengono fuori in quel momento e appena finito lo sforzo rientrano sono un po’ più
grandi e queste sono di II grado. Poi ci sono quelle che all’atto del ponzamento vengono fuori ma
non hanno più l’elasticità di rientrare, ma con una manovra digito-rettale rientrano e sono quelle
di III grado. Infine ci sono le emorroidi di IV grado che sono ormai collassate ma non si riesce a
rimetterle dentro.

La sintomatologia è legata a:

 Proctorragia (sanguinamento)
 Dolore soprattutto quando si infiammano le emorroidi oppure quando si trombizza

Dal punto di vista di semeiotica bisogna effettuare l’esplorazione digito-rettale ma di regola:

 La prima volta che un paziente ha proctorragia, oltre alla visita, oltre all’esplorazione, è
consigliato procedere con qualcosa che confermi la diagnosi di emorroidi e che escluda
altre patologie che diano lo stesso segno ed è dato dalla rettosigmoidoscopia o colonscopia
 Se arriva al pronto soccorso un soggetto con emorroidi trombizzate a parte gli antidolorifici
che fanno pochissimo effetto e le terapie locali (pomate, emollienti e anestetiche) ed a
volte bisogna arrivare ad incidere, liberare il coagulo e mettere un punto di sutura

Terapia

Ci sono le emorroidi complicate e quelle non complicate: di base si utilizzano pomate emollienti e
anestetiche ma, fondamentalmente finisce là. Importante sono le norme dietetiche. Cosa può
scatenare l’ingrandimento delle emorroidi e/o una sua complicanza? Tutte le sostanze irritanti e
contenute negli alimenti e presi per OS danno sicuramente irritazione, ma c’è anche un fatto
meccanico di passaggio di feci più o meno consistenti. Quando si complicano le emorroidi per
cause di anemizzazione o cause tali da non far rispondere più alla terapia medica, è chiaro che si fa

100
qualcosa di diverso, intervenendo chirurgicamente. Se vogliamo asportare le emorroidi come si fa?
Non si può fare la legatura come nel trattamento dei polipi perché le emorroidi non sono
peduncolate. Se sono dei vasi dilatati si chiude a valle e a monte della dilatazione, si asporta il
pezzo emorroidario (emorroidectomia) e si lascia guarire per seconda intenzione la mucosa. E
ripetere l’intervento per tre volte perché sono tre colonne. Non si ricuciono i lembi perché si
rischia di produrre una stenosi cicatriziale. All’inizio per evitare infezioni della ferita chirurgica a
livello mucosale, si inventarono il tappo (fatto di garze) con occlusione fino a quando all’ottavo
giorno lo toglievano, ma era una cosa dolorosissima. Per ragioni ancora oggi inspiegabili, nella
regione anale la contaminazione della ferita con le feci non provoca infezioni anche se la ferita è
aperta. Nel post-operatorio si somministrano antiinfiammatori e antidolorifici e lassativi e si
induce il paziente ad evacuare normalmente. Quindi si effettua la legatura chirurgica.

Il varicocele è quasi la stessa cosa perché il principio è uguale.

Le tecniche alternative con la scleroterapia, la crioterapia (con azoto liquido), o con il calore non
hanno dato degli ottimi risultati dal punto di vista dei danni collaterali.

L’ultima evoluzione è data dalla suturatrice meccanica, perché questo strumento unisce due
segmenti intestinali: si accravattano i due lembi si restringono, c’è una lama centrale che taglia e
quella periferica che cuce. Ma se si adatta la testina a cavallo dell’ano accade che cadono dentro le
emorroidi prolassate (sistema taglia e cuci). Bisogna stare al di sopra della linea dentata per la
sensibilità della zona. In ogni caso l’asportazione dei gravoccioli emorroidali si chiama
emorroidectomia, quindi asportazione chirurgica delle emorroidi per via tradizionali o attraverso la
suturatrice meccanica.

L’altra patologia semplice ma fastidiosa sul contorno del canale anale, è un’ulcera chiamata
ragade. Osservato il paziente in posizione ginecologica, la ragade è quasi sempre in posizione ore
6, a livello della commissura posteriore. Questa ragade più che vederla la si sente attraverso
l’ispezione digito-rettale, indicando il paziente a ponzare, a spingere. Si ha la sensazione di cercine
intorno al dito ed la sensazione di una scalanatura e di ruvidità. Il paziente avverte in condizioni
normali un po’ di fastidio. La sintomatologia per la quale il paziente arriva dal medico è dato dal
sanguinamento (proctorragia) e il dolore durante l’evacuazione (come le emorroidi trombizzate).
Quando le feci sono dure invece di guarire la ferita si riapre e si perpetua questa situazione. La
terapia medica è data dalle stesse terapie per le emorroidi. Se guarisce con questi presidi non c’è
nessun problema. Indipendentemente da quello che ha determinato la lesione, quest’ultima si
mantiene da uno stato di tensione e di ipertono sfinteriale che mantiene la patologia. L’unica
possibilità è quella di fare una sfinterotomia parziale (sfinterotomia come nell’acalasia). La
muscolatura dello sfintere anale è data da due tipi: uno esterno ed uno interno. In posizione
ginecologica livello delle ore 2 si mette il divaricatore di Parks , e si fa una piccola incisione stando
attenti a non incidere tutto lo sfintere, ma solo la parte interna dello sfintere. Bisogna stare attenti
non incidere lo sfintere esterno se no si provocheranno problemi di incontinenza.

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ERNIE E LAPAROCELI
L’ernia è una tumefazione determinata dalla fuoriuscita di un viscere dalla sua cavità ad un’altra,
uno spazio che non è il suo. Se un organo che normalmente si trova nella cavità addominale e
trova lo spazio per andare in una posizione nuova, questa protusione, questa occupazione si
chiama ernia. L’ernia inguinale è la protusione di un organo attraverso il canale inguinale ed è un
qualcosa che comincia a sporgere dalla parete,che si vede come una tumefazione e che tende ad
andare verso il canale inguinale per andare verso lo scroto. Dal canale inguinale infatti si definisce
alla fine ernia inguino-scrotale se cresce ancora. Di ernie ce ne sono tantissime e la classificazione
è: congenite (che ce le hai dalla nascita) ed acquisite (che si sono sviluppate dopo).

Ci sono delle cause predisponenti: malformazioni congenite, gravidanza, calo ponderale, fattori
ereditari di debolezza della parete, BPCO, stipsi cronica, ascite. E ci sono cause determinanti: sforzi
e traumi.

L’organo fuoriesce dalla cavità perché può esserci una debolezza della parete e si allarga la cavità,
oppure perché c’è un aumento delle spinte (ernia iatale, esofagite da reflusso, ecc.). I soggetti
stitici sono più portati ad avere un’ernia. L’ernia più frequenti, soprattutto nei maschi, è l’ernia
inguinale, mentre l’ernia più frequente nel sesso femminile è l’ernia crurale. Nel caso pediatrico
l’ernia ombelicale è quella più frequente. Il tenue , le anse intestinali, potrebbe andare a livello del
canale inguinale proprio perché è mobile. Nel canale inguinale, che segue il funicolo spermatico,
che scende ulteriormente e va verso lo scroto, quel canale viene impegnato dal sigma (se è molto
mobile) e dalla vescica. Nella maggior parte delle volte nell’ernia si trovano le anse intestinali.
Nella posizione eretta le anse, per la gravità, tendono a scendere e se si effettua la manovra di
riduzione delicata (perché lì è stretto e non si può spremere molto), mettendo in posizione supina
il paziente.

L’ernia può essere operata in elezione se comunque non è un quadro urgente senza complicazioni
e se è piccola. Non tutte le ernie si riducono: si possono formare aderenze peritoneali. Le
complicanze dell’ernia potrebbero essere quelle di danno necrotico delle anse intestinali ed
eventuale perforazione con eventuale occlusione. Ciò perché a monte c’è una strozzatura,
un’ernia si angola, e a volte un volvolo, che chiude i vasi sanguigni, creando un problema di
ossigenazione, con sofferenza all’inizio(specie di una vena con pressione inferiore rispetto
all’arteria), sofferenza emorragica, segue una necrosi ed eventuale perforazione.

Se l’ernia non è complicata, il soggetto si alimenta regolarmente; se però l’ansa si invagina, si


intasa, ha una torsione oppure c’è una sofferenza del peduncolo, allora c’è occlusione di tipo
meccanico e ci saranno livelli idroaerei nell’Rx addome in ortostasi, a monte del colon. Si vedranno
i livelli idroaerei per tutte le anse a monte dell’ernia. Questo cambia nel trattamento che nel primo
casi si fa in elezione, se invece è in occlusione, dobbiamo agire d’urgenza. Per una qualunque ernia
inguinale non esiste terapia medica, ma solo chirurgica.

L’unica risoluzione è l’intervento chirurgico data dalla plastica con rete metallica di polipropilene,
senza rete o di Bassini, determinando una reazione fibrosa che rende la cicatrice più resistente. Si

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isola il sacco erniatico, non aprendolo, non si apre l’ansa, non si apre il peritoneo, se l’ernia è
piccola, la si prende e la si rimette dentro, isolando il funicolo spermatico, ricostruendo i piani per
chiudere l’orifizio del canale inguinale. Con la tecnica di Bassini si fa attraverso i fasci muscolari
propri. Un’ansa può essere sofferente in modo reversibile o in modo irreversibile: in caso è
reversibile si rimette l’ansa al proprio posto con rianimazione dell’ansa sofferente, se invece è
irreversibile e necrotica, si sbriglia, si effettua una resezione dell’ansa e un’anastomosi.

Il laparocele è un’ernia che si forma su una cicatrice chirurgica. In questi casi è necessario riaprire
e riportare il tessuto erniato all’interno. All’interno del laparocele vi possono essere delle
aderenze, per cui è necessario fare una viscerolisi (eliminare le aderenze). Se necessario bisogna
ricostruire la parete muscolare eventualmente retratta. Si può posizionare una protesi a rete. A
volte succede che per motivi vari si metto mali i punti a livello dello spessore della parete, oppure
quando i muscoli sono troppo deboli, oppure nel post-operatorio ci sono stati degli sforzi, oppure
c’è un infezione del piano cutaneo e muscolare ed ha fatto decubitare i punti di sutura con
cessione della parete muscolare: cede in là del tempo la parte più robusta, cede la fascia
muscolare. Rimangono integre il peritoneo e la cute e se consideriamo la ferita mediana vediamo
che i muscoli retti si allargano e rimane solo la parete fatta molto sottile dal peritoneo e dalla cute.
Il laparocele ha una bella parete piena ma se c’è un foro, un’apertura della fascia muscolare dove
si può infilare l’ansa del tenue, del digiuno e il mesocolon trasverso.

103
TUMORI DEL PANCREAS
Il pancreas è un organo addominale, che si trova in una posizione strategica, è un organo retro
peritoneale, non è mobile, è fisso, e la sua testa incuneata in quella sorta di “C” virtuale
duodenale. Il pancreas contrae rapporti ben precisi con la seconda porzione duodenale, la
porzione discendente, dove c’è la papilla di Vater in cui sboccano due sfinteri: uno è lo sfintere di
Oddi per il coledoco (dotto biliare) e l’altro è per il dotto pancreatico principale o di Wirsung. In
realtà c’è anche un altro dotto secondario pancreatico, dotto del Santorini, che va a finire nella
papilla minor. I tumori della testa sono i più pericolosi poiché si trova nello snodo strategico a
contatto con vari organi e tessuti.

Quando una qualunque patologia(tumorale), ma in primis quella del pancreas si sviluppa, per i
soliti motivi di vicinanza, un qualunque tumore coinvolge la regione adiacente. Per un criterio di
radicalità oncologica bisogna allontanare il margine di resezione dal tumore di almeno 5 cm o al
limite di 2 cm, essendo una regione piccolissima. Qualunque tumore che nasce in questa regione
(pancreas, duodeno, da una lesione dei colangiociti, ecc.), crea dei problemi enormi poiché il
pancreas è in rapporto non solo con vari organi ma anche con strutture vascolari: l’aorta, la vena
cava in cui va a finire l’asse portale (vena mesenterica superiore e splenica), che si incrociano a
livello del pancreas. L’asse mesenterico si trova nella zona che idealmente separa la testa dal
corpo del pancreas; quindi una lesione che nasce lì, in qualche modo può riguardare tutto quel
tessuto e comporta una resezione demolitiva massiva: la duodenocefalopancreasectomia o
duodenopancreasectomia cefalica, un intervento piuttosto demolitivo che interessa tutta una
serie di strutture. Dal punto di vista fisiologico il pancreas svolge due funzioni: quella endocrina
con gli isolotti di Langerhans (cellule α, β, δ), con la produzione di insulina, glucagone e
somatostatina, e quella esocrina con la produzione del succo pancreatico. Nella pancreasectomia
totale oppure nella pancreatite necrotica emorragica (autodistruzione del pancreas), il paziente si
ritrova senza pancreas e ci si deve preoccupare più della perdita della funzionalità endocrina che di

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quella esocrina (sostituita con apporto medico senza effetti collaterali). I problemi determinati
dalla carenza della funzione endocrina è il diabete e si somministra l’insulina in maniera
sottocutanea. Le complicanze del diabete sono molteplici,tra cui l’insufficienza renale: ecco il
motivo per cui quando si effettua un trapianto di pancreas si effettua anche il trapianto renale. Il
70% dei tumori del pancreas si trova a livello della testa (il grosso della massa del pancreas è lì, a
livello della testa). Oltre al suo punto strategico, a livello della testa del pancreas ci passa, la parte
terminale della via biliare principale (coledoco), che va a finire insieme al Wirsung a livello della
pars comune. Se ad esempio si ha una calcolosi del coledoco, che va ad ostruire la parte comune e
quindi a livello del dotto biliare e dà come segno l’ittero, ma ostruisce anche il Wirsung (poiché
ostruisce la parte comune) e dare problemi di pancreatite.

Quando si fa la RCP o ERCP (colangiopancreatografia retrograda transendoscopica) e si introduce il


cateterino per introdurre il mezzo di contrasto, esso va nella via biliare principale ma anche nel
Wirsung e se il mezzo di contrasto va nel pancreas, c’è sempre un minimo di irritazione nel
pancreas. Il più delle volte il tumore del pancreas è silente, asintomatico,fino a quando va a
comprimere vari settori: sintomi e segni in questa patologia sono scarsissimi. Questo dà un segno
finché il tumore non interessa la via biliare e quindi ha già una certa grandezza. Quindi ciò significa
che quando si ha un primo sintomo di compressione o infiltrazione della via biliare, il tumore è già
in uno stadio avanzato. Scoprire di avere un tumore significa avere un segno precoce dal punto di
vista sintomatologico. Una massa del pancreas con l’ecografia normale la si vede? No perché per
altro bisogna aver tolto altri organi che si trovano in sovrapposizione come lo stomaco che

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contiene aria e quindi è una barriera difficile per il passaggio degli ultrasuoni ecografici, e quindi
non serve; La radiografia diretta addome non serve a nulla in questo caso. Allora bisogna avere
altre metodiche, quelle profonde per immagini come la Tac, la Risonanza magnetica. Un’altra
metodica che si può utilizzare, ma non per tutto il pancreas, ed è un’ottima tecnica, la migliore di
tutte, però è limitata per un fatto fisico solo alla testa del pancreas, è l’ecoendoscopia in cui si
vede l’impronta della testa del pancreas a livello duodenale. L’ecoendoscopia ha dei vantaggi in
questo caso: evidenzia lesioni piccole che la Tac e la Risonanza magnetica non evidenziano.

Per tutta la patologia sovramesocolica si effettua un taglio bisottocostale o sottocostale di tipo


Chevron , rispetto al mediano. Da un punto di vista fisiologico l’unico inconveniente è che il taglio
mediano non ti va ad interrompere le linee muscolari, passa in mezzo, invece il taglio sottocostale
incide i muscoli, tutti incrociati l’uno con l’altro. Oggettivamente sono più i vantaggi del taglio
bisottocostale per quanto riguarda la visione del campo operatorio, rispetto al taglio mediano.

Un’altra struttura che passa in quel punto strategico a livello della “C” duodenale e a livello della
testa del pancreas, è l’asse mesenterico. Un tumore in quella zona può comprimere e infiltrare la
vena mesenterica e in alcuni casi portare a trombosi venosa. Dal punto di vista strumentale,
l’ecografia addominale mostra solo una dilatazione delle vie biliari a monte dell’ostruzione ma il
pancreas non è visibile a causa dell’interposizione dello stomaco e l’aria contenuta al suo interno è
resistente. Si può effettuare un ecocolordoppler, o un’arteriografia(fase precoce per l’arteria,fase
tardiva per la vena), esame un po’ invasivo,o l’angiotac. Inoltre si può effettuare una laparotomia
espolorativa o una laparoscopia, che ci permette di vedere eventuali presenze di noduli tumorali
diffusi nella cavità peritoneale (carcinosi peritoneale), lesioni metastatiche che indicano un
avanzato stadio della patologia neoplastica; Questi sono anche responsabili della formazione di
aderenze che provocano una sintomatologia simile a quella occlusiva dipendente da aderenze
post-operatorie. Esistono interventi di peritonectomia parietale, ma si fa in pochissimi centri e si
tratta di un intervento piuttosto demolitivo. L’infiltrazione della vena mesenterica con le cellule
neoplastiche che arrivano nel lume del vaso, potranno avere più facilità a dare metastasi perché le
cellule tumorali, a differenza delle cellule normali, hanno un minore potere adesivo. Un T4 a
questo livello si consiglia di non operarlo, poiché l’atto chirurgico non cambierebbe la storia
naturale della malattia, anzi, magari la peggiora, poiché il paziente potrebbe non reggere
l’intervento e morire per l’intervento o per una delle sue complicanze. In pratica non diamo né una
qualità di vita migliore perché magari non si riprenderà mai, o addirittura possiamo dargli una
quantità di vita minore se agiamo in maniera demolitiva anziché conservativa. Per l’alto rischio
operatorio e per l’elevata aggressività di questo tipo di neoplasia, si preferisce non intervenire
chirurgicamente. C’è un elevata mortalità per i tumori del pancreas: in media si arriva a 2 anni; a 5
anni non ci arriva quasi nessuno, poiché a parità di stadi azione, uno stadio 1 di tumore del
pancreas è assolutamente più aggressivo rispetto allo stadio 1 del tumore del colon. Un altro
fattore che influisce sulla prognosi dei tumori e alla tipologia istologica è la differenziazione del
tumore. Può essere differenziato, mediamente differenziato,scarsamente differenziato e dei tre, a
parità di T, tipo istologico, quello più pericoloso per il paziente è quello più indifferenziato ( quello
meno differenziato). Più è indifferenziato e più è maligno (aggressivo). Quindi la grandezza, la
diffusione, il T, la stadi azione, il differenziamento ma c’è anche la tipologia della differenziazione

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di quel singolo tumore; Nel caso del tumore pancreatico, tutti questi fattori vanno verso il lato
negativo. Il tumore pancreatico è un tumore estremamente aggressivo, e in più si scopre tardi.
Questo vuol dire che purtroppo, avendo queste caratteristiche è uno di quei tumori che non
sempre è opportuno operare.

Se ad esempio per il tumore della testa del pancreas, di cui uno dei segni fondamentali è l’ittero,
significa che in quella parte il tumore ha compresso o infiltrato la via biliare. Se lo possiamo
operare portiamo via in blocco tutto quanto, se non possiamo operarlo e dobbiamo risolvere il
segno dell’ittero, possiamo introdurre uno stent a livello della via biliare per via endoscopica dopo
RCP; l’altra alternativa è per via transcutanea eco guidata. Più la neoplasia è del settore basso e
più è facile arrivarci per via endoscopica, più è alta e più è facile per via percutanea.

In caso di tumore al pancreas si potrebbe avere un dolore tipo pancreatite, un dolore a barra, a
fascia ma è molto labile. La stessa mobilizzazione enzimatica (lipasi, peptidasi, amilasi), nel tumore
pancreatico,tranne che non ci sia una stasi, sono poco rappresentati. Quindi la diagnosi, per il
tumore del pancreas, è più strumentale rispetto a quella clinica, poiché nella fase iniziale non dà
segni clinici. Solo il 20 % o meno può beneficiare di interventi chirurgici, e ciò è drammatico perché
è una percentuale bassa rispetto ad altri tumori.

ASPETTO CHIRURGICO

Quando si arriva alla chirurgia i problemi non sono pochi ,poiché qualunque neoplasia che si trova
in quella piccola zona intorno alla papilla di Vater, si deve andare a resecare una zona in blocco
piuttosto ampia.

La duodenocefalopancreasectomia classica, secondo Whipple, comprende un’ampia resezione


della testa del pancreas in corrispondenza dell’asse mesenterico, l’asportazione del duodeno, e
connesso prossimalmente all’antro pilorico (portando via gran parte dell’antro pilorico), e dalla
parte distale a livello dell’angolo del Treitz, quindi lasciando il digiuno. Peraltro quando si porta via
la via biliare (incapsulata) e infiltrata, in genere per problemi tecnici si porta via fino al dotto
epatico comune e quindi si asporta il coledoco e anche la colecisti col dotto cistico.

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Quindi in blocco si asportano: l’antro gastrico (una buona parte), il piloro, tutta la “C” duodenale,
l’angolo del Treitz, la testa del pancreas (con la parte relativa del Wirsung), il coledoco terminale,
la cistifellea col dotto cistico. Del paziente operato rimane: il moncone gastrico (fondo, corpo e
una parte dell’antro), il corpo e la coda del pancreas resecati a livello dell’asse mesenterico, la via
biliare principale a livello del dotto epatico, il moncone digiunale (il digiuno). Queste porzioni
devono essere anastomizzate:

o Anastomosi gastro-digiunale termino-laterale, su ansa ad Y;


o Anastomosi epatico-digiunale termino-laterale;
o Anastomosi pancreatico-digiunale termino-laterale.

La cosa più semplice sarebbe quella di prendere il digiuno ed iniziare dall’anastomosi gastro-
digiunale, poi epatico-digiunale, e la pancreatico-digiunale. Le prime tecniche non prevedevano né
un’ansa ad Y, né un’ansa ad ω, ma un’ansa unica; Nella realtà però si vide che mischiare il
contenuto gastrico nell’ansa digiunale senza valvole e poi quella biliare e quella pancreatica,
portava una serie di problemi. Allora si è deciso di separare i settori almeno su due: facendo
un’ansa ad Y (due anse digiunali piegate ad Y di circa 40 cm) e quindi defunzionalizzando una
parte, si fa un’ansa cieca, un’anastomosi o due, e la restante anastomosi sull’altra.

In totale si effettuano 4 anastomosi: le tre viste in precedenza più una entero-enterale oppure
digiuno-digiunale.

Una variante del Whipple è la variabile di traverso che consiste nel non asportare l’antro gastrico e
pilorico e di anastomizzare il digiuno con il bulbo duodenale (la prima parte del duodeno).

Si può effettuare l’anastomosi gastrica e quella epatica su un’ansa digiunale e poi quella
pancreatica sull’ansa digiunale defunzionalizzata; nell’anastomosi pancreatico-digiunale ci sono
dei problemi:la difficoltà di tipo tecnico è legata al fatto che il materiale del pancreas è soffice e si

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ha difficoltà a mettere i punti di sutura (la parte che regge di più è il dotto di Wirsung) e poi di tipo
biochimico perché gli enzimi che sono litici per gli stessi tessuti pancreatici danno dei problemi
nelle anastomosi. L’anastomosi pancreatico-digiunale è un’anastomosi che può non durare e
rompersi e causare problemi post-operatori. Nel corso dell’intervento si poteva avere deiscenza
dell’anastomosi, perdita del succo pancreatico nel peritoneo con conseguente peritonite di tipo
reattivo, di tipo biochimico. Una complicanza chirurgica infatti di questo tipo di intervento è la
perforazione del peritoneo, con confluenza di tutto il materiale necrotico-emorragico nella cavità
peritoneale. In questo caso la prima cosa che bisogna fare è aprire l’addome, fare l’emostasi,
ripulire e si lasciano 4 drenaggi nella loggia retro-pancreatica, per drenare il materiale necrotico-
infiammatorio. Uno dei 4 drenaggi deve essere in entrata e attraverso di quest’ultimo si può
iniettare una soluzione fisiologica che entra, lava e porta via il materiale necrotico. Si può anche
procedere lasciando perdere l’anastomosi pancreatico-digiunale, chiudendo il dotto di Wirsung e
iniettando una sostanza,il neoprene, che faceva una specie di cemento, occludendo il lume e
portando in atrofia la parte esocrina e salvaguardando la parte endocrina. Il solo legame del dotto
di Wirsung, a differenza del neoprene, poteva col tempo portare a cisti o pseudo cisti
pancreatiche. In questo modo si evitano tutti i problemi legati all’anastomosi pancreatico-
digiunale. Un’opportunità è quella di creare una sorta di sistema telescopico intorno
all’anastomosi tra il dotto di Wirsung e l’ansa digiunale, con una coroncina di punti, che ingloba la
capsula pancreatica con la sierosa del duodeno.

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La pancreatite è un’infiammazione, un’irritazione del pancreas che si divide in varie forme: dalla
pancreatite per irritazione dell’RCP, alla pancreatite necrotico emorragica,forma più grave ed
acuta, in cui il pancreas si autodistrugge e si ha un’emorragia massiva con emoperitoneo con
colate di residuo mucinoso, di cera pancreatica. I sintomi sono dolori addominali a barra con
irradiazione a livello posteriore. Dal punto di vista della semeiotica di laboratorio si vanno a vedere
le amilasi e le lipasi e si avrà lipasemia e amilasemia e si può avere amilasuria. L’amilasuria viene
effettuata non sull’urina immediata, ma dopo aver raccolto le urine nelle 24 h e ciò cambia (si fa la
media dell’amilasuria nelle 24 h), perché se si ha l’episodio pancreatico e dura poco, non si fa in
tempo a monitorarlo al momento del prelievo.

PERITONITE
Il peritoneo è una membrana fibrosi erosa a livello della cavità addominale in modo da tenerli uniti
in situ, dato che nella cavità addominale non abbiamo una struttura ossea, come ad esempio nel
torace la gabbia toracica che tiene gli organi in situ.

Quando si ha un’infiammazione del peritoneo, della sierosa peritoneale, allora si ha la peritonite.


Le peritoniti si possono suddividere secondo l’eziopatogenesi, secondo l’estensione e secondo
l’evoluzione clinica.

Secondo l’eziopatogenesi possiamo avere:

o Peritonite primitiva (molto rara) che si verifica specie nei pazienti immunocompromessi, in
pazienti in età pediatrica, in pazienti affetti da cirrosi, insufficienza renale, lupus
eritematoso sistemico.
o Peritonite secondaria è la più frequente e può essere dovuta ad una serie di cause come la
flogosi e la perforazione del viscere addominale(cause più frequenti di peritonite, come
l’appendicite, la diverticolite, colecistite acuta, ulcera peptica, morbo di Crohn, ernia
strozzata, infarto mesenterico, neoplasie del colon, occlusione intestinale, colite
ischemica), da trauma(traumi penetranti dell’addome possono determinare peritonite per
contaminazione dall’esterno del peritoneo e/o per rottura di visceri addominali; anche i
traumi chiusi possono essere causa di peritonite da rottura di visceri),
dall’emoperitoneo(L’emoperitoneo,la cui eziologia può essere assai diversa (per es.: rottura
di gravidanza extrauterina o di cisti ovarica; rottura traumatica di milza, di fegato o dei
mesenteri; rottura di aneurisma aortico), provoca un’infiammazione peritoneale di tipo
chimico), da manovre invasive (iatrogena) essenzialmente caratterizzate da complicanze
performative a carico dei visceri addominali in corso come esami endoscopici
(gastroduodenoscopia, ERCP, colonscopia, rettoscopia, laparoscopia), esami ago bioptici
addominali, manovre radiologiche invasive(drenaggio percutaneo eco guidato delle vie
biliari o di raccolte ascessuali, cateterismi arteriosi),radiografie con mezzo di contrasto
baritato, irrigazione di stomie, post-operatoria (infezione,deiscenza anastomosi o sutura
intestinale), da focolaio settico distante per via linfoematica( come la polmonite o la TBC).
o Peritonite settica caratterizzata da infezione locale o generalizzata del cavo addominale
causata da microrganismi come virus o batteri.

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o Peritonite chimica è data dal contatto del peritoneo con secrezioni del tubo digerente o
sangue, cioè materiale che non dovrebbe essere lì (emoperitoneo, coleperitoneo).

Secondo l’estensione della flogosi peritoneale, possiamo avere:

o Peritonite diffusa ,generalizzata, con interessamento flogistico di gran parte del peritoneo.
L’estensione generalizzata della peritonite è la conseguenza o di una contaminazione
massiva (per es.: lacerazione traumatica del colon),oppure può derivare da un deficit dei
meccanismi di difesa peritoneali, che non riescono a circoscrivere un processo
infiammatorio o settico addominale (per es.: perforazione di diverticolo del colon in
paziente immunodepresso).
o Peritonite localizzata ,circoscritta, o saccata, è caratterizzata dal processo flogistico che
viene arginato dai meccanismi di difesa locali. Si manifesta nei processi flogistici o settici
acuti di visceri addominali che, pur evolvendo verso la perforazione (per es.: diverticolite o
appendicite), sono caratterizzati da una efficace reazione del peritoneo contiguo e dei
meccanismi di difesa locali, che circoscrivono l’infezione.

Secondo l’evoluzione clinica, possiamo avere:

o La peritonite acuta caratterizzata da manifestazioni cliniche che si presentano


immediatamente, o poche ore dopo l’evento causale. Il decorso clinico delle peritoniti
acute dura solitamente pochi giorni. Infatti, le importanti manifestazioni cliniche inducono
il medico a prendere rapidamente provvedimenti terapeutici che, se adeguati, risultano
spesso curativi; oppure l’evoluzione può essere talmente acuta (soprattutto nei pazienti
debilitati e immunodepressi) da condurre rapidissimamente a morte, solitamente per il
sopravvenire di shock settico/ipovolemico. Alcune peritoniti acute non trattate
tempestivamente possono evolvere verso la formazione di ascessi addominali. Talora, pur
avendo effettuato un trattamento adeguato del focolaio settico primitivo e del cavo
peritoneale, si assiste al perdurare della sintomatologia dello stato settico e alla comparsa
di insufficienze multiple d’organo; questa condizione di progressivo decadimento della
funzionalità dei principali organi ed apparati ha spesso evoluzione letale, solitamente nel
volgere di 2-3 settimane.
o Peritonite cronica, rara, rappresentata dalla forma tubercolare o da peritoniti settiche
diffuse cronicizzate che determinano la formazione di molteplici micro focolai ascessuali
con lenta tendenza alla risoluzione spontanea. Anche le peritoniti da pancreatite necrotico-
emorragica hanno tendenza talora all’evoluzione cronica, per settimane o mesi.

Dal punto di vista diagnostico innanzitutto si effettua un prelievo di sangue per vedere
l’emocromo ma comunque è un tipo di indagine aspecifico (una leucocitosi ci dice che c’è
un’infiammazione in atto ma non ci dice dove, il punto di flogosi). L’ecografia è un esame specifico
che ci permette di vedere accumulo di liquido a livello dei recessi peritoneali (sfondato del
Douglas). L’Rx ci può dire se c’è perforazione attraverso la falce d’aria sottodiaframmatica, o se c’è
occlusione attraverso livelli idroaerei. Un altro esame può essere il clisma opaco. Se si ha

111
perforazione in genere non si va a fare né la colonscopia né il clisma opaco ma l’ecografia; se si
esclude la perforazione allora si possono fare tali esami.

Per quanto riguarda i segni e i sintomi di un paziente con peritonite si ha innanzitutto il tipico
quadro di addome acuto, dolore addominale, disidratazione, ipovolemia, febbre, nausea, vomito,
ipotensione, tachicardia, tachipnea e ipomobilità dell’intestino (occlusione intestinale transitoria).
Dal punto di vista clinico si può effettuare la palpazione a livello addominale (segno di Blumberg),
l’esplorazione digito-rettale per vedere se c’è versamento nello sfondato del Douglas a livello
dell’ampolla rettale, l’auscultazione con il fonendoscopio ci permette di vedere se c’è attività
peristaltica o meno.
Sono da evitare l’uso di antinfiammatori perché possono mascherare il quadro infiammatorio per
cui non possiamo vedere dove c’è l’infiammazione.

Principi di terapia
La terapia delle peritoniti è di regola chirurgica; a questa si associano la terapia medica antibiotica
ed il riequilibrio metabolico. Nei casi più gravi possono essere necessarie la terapia intensiva e la
rianimazione. La terapia chirurgica deve essere effettuata con urgenza, non appena completato
l’iter diagnostico minimo indispensabile per arrivare alla diagnosi di peritonite in atto, e dopo aver
eseguito la preparazione preoperatoria(consistente nel riequilibrio metabolico, nella
somministrazione di antibiotici). Si devono correggere le alterazioni elettrolitiche e dell’equilibrio
acido-base, e un’eventuale anemizzazione grave,mediante infusione preoperatoria di soluzioni
elettrolitiche idonee e di sangue. È sempre opportuno posizionare un catetere vescicale per il
monitoraggio della diuresi oraria e, nei casi più gravi, si introduce un catetere venoso centrale, per
l’infusione di liquidi e per il monitoraggio della PVC.

Terapia chirurgica
I principi fondamentali della terapia chirurgica delle peritoniti comprendono:la rimozione del
focolaio d’infezione, la toilette peritoneale, il drenaggio del peritoneo e il trattamento della parete
addominale. La rimozione del versamento peritoneale ha le seguenti finalità:
 riduzione significativa della contaminazione e della carica batterica, così da consentire ai
meccanismi di difesa locali, immunitari e di fagocitosi, di poter agire efficacemente;
 asportazione dei coaguli e del materiale fibrinoso per diminuire il rischio di formazione di
aderenze viscerali e di ascessi.

Le complicanze precoci si ricordano: l’evoluzione fulminante, con shock settico letale nel volgere
di poche ore; la comparsa di insufficienze multiple d’organo, dopo alcuni giorni dall’inizio; lo
shock ipovolemico.
Le complicanze tardive si ricordano: gli ascessi addominali; le fistole; le deiscenze
anastomotiche;l’occlusione intestinale da aderenze viscerali; la sterilità nella donna, derivante da
occlusione tubarica.

APPENDICITE ACUTA
L’appendicite è l’infiammazione dell’appendice vermiforme del cieco, che è ricoperta dal
peritoneo attraverso il mesoappendice, situata nella fossa iliaca destra, sulla parete antero-
inferiore del cieco ma, può presentare della variazioni di sede e direzione. Infatti possiamo avere
un’appendice ascendente (retro cecale, prececale, sottoepatica), un’appendice discendente o

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pelvica (sub ileale e laterocecale). L’appendice è un’estroflessione a livello del cieco, data dalla
giunzione delle tre tenie del colon, con origine linfatica. L’appendice è un organello che ha un lume
centrale che comunica con il cieco e quando qualcosa va ad chiudere quel lume, quella parte si
infiamma. Il processo infiammatorio parte dall’interno ma può andare all’esterno e interessare il
peritoneo, andando a provocare un’infiammazione prima localizzata del peritoneo e poi, se va
avanti, un’infiammazione diffusa. I sintomi possono essere dolore a livello della fossa iliaca destra
diagnosticato attraverso la sollecitazione del punto di Mc Burney con dolore al rimbalzo, dolore
che viene esacerbato dalla veloce e istantanea variazione alla pressione, nausea,vomito, perdita
dell’appetito, febbre. Il dolore appendicolare può essere risvegliato e rivelato con due manovre
fondamentali:

o Il segno di Blumberg: si provoca dolore con la decompressione della fossa iliaca destra ed
anche della sinistra, cioè comprimendo lentamente la parete addominale e poi
allontanando d’un colpo la mano;
o Il segno di Rovsing: lenta compressione della parete addominale sinistra, risalendo poi
lungo il colon discendente, flessura colica sinistra (flessura lineale), colon trasverso. Si
risveglia dolore dovuto all’aria che con tale manovra va a distendere il cieco e a
comprimere l’appendice.

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L’individuo può presentare a sinistra l’appendice nel caso del situs viscerum inversus (rotazione
degli organi); L’esplorazione rettale e quella vaginale provocano dolore in corrispondenza del cavo
di Douglas nella donna, del cavo retto-vescicale nel maschio, se è presente una raccolta ascessuale
o un’appendicite acuta a sede endopelvica: segno di Rotter.

L’appendicite acuta è un’infiammazione che colpisce di solito i soggetti giovani e responsabile è la


flora batterica intestinale del colon che diventa virulenta per i fattori locali (occlusione del lume
appendicolare ad opera di concrezioni fecali, i coproliti,di corpi estranei come i noccioli di frutta,e
di parassiti, occlusione per iperplasia linfatica,il ristagno del materiale fecale,le malattie infettive
acute come l’influenza, le tonsilliti le enteriti) e generali. Le forme acute possono progredire verso
gravi complicazioni:

1) La necrosi con perforazione;


2) L’ascesso appendicolare;
3) L’appendicite con peritonite circoscritta o diffusa;
4) Formazione di fistole.

L’appendicite cronica è data da attacchi acuti attenuati che si risolvono spontaneamente o con gli
antibiotici, ma spesso incompletamente e che recidivano di tanto in tanto (appendicite
recidivante) pur essendoci intervalli di pieno benessere. Localmente si formano aderenze che
coprono o fissano l’appendice agli organi vicini, determinando angolazioni con stenosi del suo
lume e ristagno fecale.

La terapia è basata sul riequilibrio idro-elettrolitico attraverso un accesso venoso e il sondino naso-
gastrico, è terapia antibiotica. Da un punto di vista di laboratorio si effettua un esame
emocromocitometrico con leucocitosi(neutrofilia). Da un punto di vista strumentale si effettuano:

 Rx diretta addome in ortostasi;


 Ecografia dell’addome;
 Clisma opaco.

La terapia chirurgica è utilizzata l’appendicectomia, ovvero la resezione dell’appendice


vermiforme. I quadri clinici particolare prevedono:

Appendicite nel bambino: la relativa infrequenza dell’appendicite acuta nel neonato è imputabile
alla larga base d’impianto ed alla scarsità di tessuto linfatico, che rendono improbabile l’ostruzione
del lume appendicolare. Nel bambino la sintomatologia è di solito scarsa con la quasi costante
presenza di alvo diarroico. La diagnosi differenziale di maggior importanza è quella con le
patologie di pertinenza internistica: il dolore addominale pseudoappendicolare può costituire
l’esordio di una malattia esantematica o di un’epatite virale, può associarsi ad una
broncopolmonite basale, ad una infezione urinaria, ad una sindrome meningea, può essere infine
l’espressione di una linfadenite mesenterica. L’uso di antibiotici ad ampio spettro d’azione, il
riposo e l’applicazione di ghiaccio sull’addome possono portare alla regressione della
sintomatologia, attenuando la flogosi, non sono però in grado di prevenire la formazione dei danni
ischemici alla parete del viscere, se esiste già un danno vascolare. Si assiste così ad un intervallo di

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remissione seguito dalla comparsa improvvisa di un quadro di peritonite acuta diffusa, solitamente
gravato da una prognosi severa.
Appendicite nell’anziano: è di sempre più frequente riscontro, soprattutto per l’aumento della
vita media, ed ha un decorso più grave, comportando una mortalità 10 volte superiore a quella
dell’età adulta. A questo dato contribuiscono diversi fattori: il ritardo diagnostico, più frequente
nel caso dell’anziano perché il quadro clinico è spesso sfumato e subdolo, ma anche un quadro
anatomo-patologico realmente più grave, per le ridotte difese locali (atrofia del tessuto linfatico
appendicolare) e per la compromissione vascolare (processi arteriosclerotici). Al momento
dell’intervento chirurgico il riscontro di una perforazione appendicolare è nettamente meno
frequente nell’adulto che nell’anziano.
Appendicite nella donna gravida: la particolarità di questo quadro è dovuta alla variazione della
posizione del cieco, per il progressivo aumento volumetrico dell’utero. Nei primi 2 mesi il quadro
clinico è quello classico, ma in seguito il colon destro si sposa verso l’alto e già al V mese il cieco si
trova sulla linea dell’ombelico, nell’ultimo trimestre la localizzazione della base dell’appendice è in
sede iuxtarenale. La diagnosi deve essere tempestiva e precoce perché la perforazione di
un’appendice in aperta cavità addominale, al di fuori della fossa iliaca, comporta nella quasi
totalità dei casi una peritonite diffusa. L’utero gravido impedisce inoltre un’agevole migrazione
omentale e le reazioni di difesa risultano compromesse per il tasso ematico di steroidi, più elevato
durante la gestazione. La difficoltà diagnostica è dovuta alla presenza della leucocitosi fisiologica
della gravidanza ed alla necessità di differenziare l’appendicite anche dalle possibili patologie
intrauterine. La peritonite aggrava pesantemente il tasso di mortalità del feto e della madre.
Appendicite nel paziente affetto da morbo di Crohn: ad un quadro altamente suggestivo per
l’infiammazione appendicolare di solito corrisponde l’ileite dell’ultima ansa, con il riscontro
intraoperatorio di un’appendice indenne e di un tratto di tenue edematoso e congesto, associato
alla linfadenopatia reattiva del mesentere.
Appendicite e cancro: l’appendicite acuta può svelare la presenza di una neoplasia.
Appendicite nel paziente immunodepresso: è sempre più frequente il riscontro, nella pratica
clinica, di pazienti con un deficit della funzione immunitaria (trattamento chemioterapico per
neoplasia maligna o trapianto d’organo, patologia ematologica, infezione da virus HIV). In
presenza di dolore addominale in questo tipo di paziente, si pone la necessità di escludere anche
alcune rare patologie, di comune riscontro quando la sorveglianza immunologica è deficitaria: la
pancreatite da virus (Citomegalovirus) o da farmacotossicità, la colecistite alitiasica (infezione da
Campylobacter, da virus o su base ischemica), neoplasie maligne (linfomi, sarcomi), enterocolite
neutropenica, infezioni addominali da germi opportunisti (Cryptosporidiosi nel paziente con AIDS).

Il DIVERTICOLO DI MECKEL è la più comune anomalia congenita del tratto gastro intestinale,
situato sul bordo antimesenterico dell’ileo, ad una distanza variabile dalla valvola ileo-cecale. È
formato da tutte e tre le tonache intestinali: internamente in poco meno della metà dei casi è
rivestito da mucosa di tipo gastrico, talvolta è possibile trovare anche tessuto pancreatico. L’apice
è per lo più libero, in qualche caso rimane connesso all’ombelico, più raramente è aderente ad
altre strutture.
Nel 90% dei casi è asintomatico ed è reperto occasionale in corso di laparotomia; nei rimanenti
casi si manifesta per lo più con i sintomi dell’emorragia, della flogosi o, più raramente,
dell’occlusione intestinale. Il dM è la più comune causa di rettorragia nel bambino al di sotto dei 5
anni; questa trae origine da un’ulcerazione peptica dell’ileo adiacente alla mucosa gastrica
eterotopica del diverticolo. L’esordio è improvviso, non accompagnato da dolore, il sangue emesso
è di solito dapprima scuro ed in seguito rosso vivo. L’emorragia è cospicua (perdite ematiche
intestinali di modesta entità difficilmente sono da imputarsi ad un dM) e può essere tale da

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richiedere trasfusione; talora è preceduta da dolori addominali modesti per lo più periombelicali.
Di solito l’emorragia cessa spontaneamente per ripresentarsi dopo un certo tempo. La diverticolite
e/o la perforazione simulano l’appendicite acuta; inizialmente il dolore è, come in questa,
periombelicale ma in seguito si localizza là dove si trova il diverticolo. La diagnosi è difficile: la
ricerca del dM è d’obbligo in tutti i casi di addome acuto in cui alla laparotomia l’appendice risulti
indenne. L’occlusione intestinale è di solito la conseguenza della invaginazione del diverticolo
nell’intestino (il diverticolo provoca a sua volta invaginazione dell’ileo) o di volvolo di un’ansa
intestinale attorno al diverticolo quando il suo apice è fissato all’ombelico o ad altra struttura. La
diagnosi differenziale preoperatoria con altre forme di occlusione intestinale è praticamente
impossibile. La radiografia del digerente con mezzo di contrasto raramente riesce a mettere in
evidenza il diverticolo. Nei casi in cui questo è rivestito da mucosa gastrica è possibile rivelarne la
presenza mediante scintigrafia; va tuttavia tenuto presente che in ¼ circa dei casi la scintigrafia è
falsamente negativa, e quindi in presenza di grave sanguinamento gastro-intestinale è comunque
indicata l’esplorazione chirurgica diagnostica, eseguita eventualmente per via laparoscopica.
Consiste nell’asportazione del diverticolo seguita dalla sutura trasversale dell’intestino: nei casi
complicati (ulcera, perforazione eccetera) è bene invece ricorrere alla resezione intestinale.
L’asportazione è consigliabile anche quando il diverticolo, scoperto casualmente in corso di
laparotomia, risulta indenne.

INFARTO INTESTINALE
L’infarto intestinale è la necrosi di un tratto dell’intestino provocato da un disturbo vasomotorio o
dall’occlusione della circolazione arterovenosa mesenterica (in particolar modo del tenue).
L’arteria mesenterica superiore, che nasce dall’aorta, 2 cm al di sotto del tripode celiaco, e con
uno sbalzo di pochi mm rispetto alle renali, va ad irrorare il digiuno dall’angolo del Treitz fino al
colon trasverso (arcata del Riolano) che arriva alla flessura colica di sinistra. I primi rami che
escono paradossalmente sono quelli del colon (ileo-colica, la colica destra e la colica media)e poi
quelli del digiuno. Quindi se c’è un’ostruzione alta allora prende tutto l’intestino ma, se c’è
un’ostruzione bassa non prende il colon, ma solo il digiuno, interessa il tenue.

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Tutta la massa dell’intestino tenue si trova nella porzione sottomesocolica perché nella porzione
sopramesocolica si trova il pancreas, lo stomaco, la milza, il fegato. Quindi se c’è un infarto
emorragico o ischemico sono interessate l’arteria o la vena mesenterica. Se l’endoscopia ci
permette di vedere dall’esofago sino a tutto il duodeno (fino all’ansa del Treitz) e dal basso, dal
retto fino al cieco, alla valvola ileo-cecale, attraverso l’endoscopia non si può vedere tutto il
digiuno e la parte dell’ileo. Ma se c’è un sanguinamento a livello del digiuno (sicuramente avremo
una melena), ma con quale esame andiamo a capire se c’è sanguinamento? Attraverso
un’arteriografia selettiva, con un cateterino che entra nella femorale e dalla femorale alla
msesenterica e poi da lì iniettando il mezzo di contrasto, si può osservare dove c’è il
sanguinamento perché il mezzo di contrasto dall’arteria va a finire nell’intestino e lì c’è la lesione.
L’arteriografia selettiva serve per vedere quella parte cieca dell’intestino all’esame endoscopico.
Dal punto di vista terapeutico, se non lo si vuole portare in sala operatoria, il radiologo
interventista può, sempre attraverso la femorale, andare nella mesenterica e può provocare un
embolizzazione. Il radiologo in questo caso fa sia la diagnosi che la terapia.

CHIRURGIA GERIATRICA
Non tutte le patologie chirurgiche si operano: si operano fondamentalmente quelle in cui la
patologia è in uno stadio operabile ed il soggetto che è il portatore della patologia è nelle
condizioni di essere operato; altrimenti si scelgono situazioni temporanee in attesa di riequilibrare
il paziente o si sceglie diversamente. Uno dei criteri per scegliere se operare o meno è legata
all’età del paziente ; l’età non può non avere una funzione per l’intervento: un soggetto anziano ha

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una serie di rischi maggiori rispetto ad un soggetto giovane. Come nelle emorragie: una cosa è che
perde un soggetto anziano un litro di sangue, e una cosa è che lo perde un soggetto giovane un
litro di sangue. I soggetti anziano hanno tutta una serie di rischi chirurgici legati
all’invecchiamento.

TRAPIANTI D’ORGANO
Il trapianto o sostituzione di organi o tessuti malati con organi o tessuti sani, prelevati da soggetti
appartenenti alla stessa specie (allotrapianti) o a specie differenti (xenotrapianti), è a volte l’unica
possibilità di prolungare la vita o ridare la salute. Le due tipologie fondamentali dei trapianti
d’organo sono:

o Salvavita, quando non c’è alternativa, cioè quando l’alternativa è la morte perché non c’è
nessun presidio. Fanno parte: cuore, polmoni e fegato.
o Non salvavita quando c’è un’alternativa; ne fanno parte il rene, il pancreas, l’intestino.

Inoltre i trapianti possono essere:

o Ortotopici (cuore,polmoni,fegato e intestino)


o Eterotopici (rene e pancreas)

La caratteristica di un trapianto rispetto ad un intervento normale è che ci vuole l’organo, un


qualcosa che non si compra e viene dato su una serie regolare di donazioni e viene donato
secondo dei criteri precisi. Il donatore è un soggetto che solo apparentemente è vivo, è morto
cerebralmente. I soggetti in morte cerebrale sono soggetti a tutti gli effetti morti, che vengono
mantenuti in vita artificialmente e gli viene prolungata la vita solo per consentire lo studio ai fini
della donazione. Ma se la donazione non c’è perché non c’è il consenso o perché non sono pronti,
vengono lasciate le cose così e il paziente viene lasciato in morte cerebrale. La morte cerebrale
viene valutata attraverso un elettroencefalogramma fatto in modo sicuro: la morte cerebrale è
irreversibile. L’accertamento della morte cerebrale è un qualcosa di sicuro, di certo. I soggetti
donatori sono tutti soggetti che si trovano in rianimazione, sono morti da un punto di vista
cerebrale in cui uno o più organi sono pronti per essere presi e trapiantati. Tutto il tempo che va
dal tempo di blocco della perfusione fino al tempo che viene riperfuso dentro al corpo del
ricevente, questo è il tempo di ischemia e c’è una chiara differenza tra organo ed organo.

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Questo è il motivo per cui in una donazione multiorgano esiste una sequenza precisa di prelievo
d’organo per cui ci sarà:

1. Il cuore;
2. I polmoni;
3. Il pancreas;
4. l’intestino;
5. Il fegato;
6. Il rene.

Ogni organo ha un tempo di ischemia differente l’uno dall’altro ed è proprio questo che influenza
il prelievo d’organo.

Se il trapianto è ortotopico bisogna prima fare una rimozione dell’organo: se si effettua un


trapianto di fegato si fa un epatectomia,così come il cuore; Ma se si effettua un trapianto di rene
non si fa la nefrectomia, si lascia lì e si aggiunge in altra sede il nuovo organo (lo stesso per il
pancreas). Il paziente trapiantato deve essere assistito in terapia intensiva (paziente intubato e
viene assistito col ventilatore meccanico) con un bilancio non ogni 24 ore ma ogni 6 ore, un
bilancio stretto in cui va tutto messo sotto pompa, sistemi elettronici d’infusione regolati. Poi il
paziente va messo in terapia sub-intensiva (si estuba), e respira da solo e viene seguito da subito
con terapia immunosoppressiva iniziata subito dopo il trapianto, due volte al giorno. Il rigetto del
trapianto di fegato è molto secondario rispetto ad altri organi; molto più difficile da gestire è il
trapianto di rene tanto è vero che mentre nel cross match donatore-ricevente per il fegato
bastano due cose fondamentali (stesso gruppo sanguigno, omogruppo, e che sia di dimensioni
uguali) mentre, per il rene non è un problema di grandezza e non basta il gruppo sanguigno ma, ci
sono vari criteri di corrispondenza e nonostante questo, il rischio di rigetto è ampio. Le dosi di
immunosoppressione del trapianto di rene sono molto più maggiori rispetto al trapianto di fegato.
Nel tempo, il rischio dell’attività immunosoppressiva è legata all’insorgenza di tumori, per la
maggior parte linfomi, e le infezioni.

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