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Andrea Mantegna nacque a Isola di Carturo verso la fine del 1430, inizi del 1431.

Verso i 10 anni si trasferisce a Padova


dove entra nella bottega di Francesco Squarcione. In questa città, a quel tempo, operavano artisti come Paolo Uccello,
Filippo Lippi e Donatello quindi un panorama culturale ricco e stimolante per un giovane artista come Mantegna.
Nel 1448 viene chiamato a far parte della squadra di artisti che decoravano la cappella Ovetari della chiesa degli Eremitani
a Padova dove dipinse: Storie di San Giacomo e San Cristoforo. Di questo ciclo di affreschi oggi ci restano solo le figure
di Apostoli, L'assunta dell'abside e le due storie del Martirio di San Cristoforo e il Trasporto del corpo del Santo che furono
trasferite altrove a causa del loro cattivo stato di conservazione, gli altri affreschi rimasti in loco sono andati perduti
durante l'ultima guerra mondiale. Comunque in queste opere è possibile osservare il carattere dell'opera di Mantegna il
quale utilizza un disegno incisivo dando alle forme un profilo angoloso che si staglia nettamente sul fondo, la prospettiva
viene usata per dare monumentalità alle scene e ai personaggi che le animano. Nel Martirio di San Cristoforo e
nel Trasporto del corpo del Santo possiamo notare una minor durezza e una minor asprezza dei colori, questo perché
intanto il pittore era venuto in contatto con le opere di Gentile e Giovanni Bellini caratterizzate da minore durezza rispetto
alle sue; esemplare in questo senso è L'orazione nell'orto della National Gallery di Londra.
Di poco posteriore è il Polittico di San Luca alla pinacoteca di Brera e la Sant'Eufemia della galleria di Capodimonte a
Napoli. Nel 1457 riceve la commissione per il Polittico di San Zeno per la chiesa del santo a Verona che è uno dei suoi
massimi capolavori. La scena principale, rappresentante la sacra conversazione, è rappresentata all'interno di un
quadriportico classico; mentre nella predella sono dipinte Scene della Passione oggi conservate al Louvre e al museo di
Tours, tra le quali la Crocifissione.
Nel 1460 fu invitato da Ludovico Gonzaga a Mantova dove diventerà artista di corte. Qui si dedica alla decorazione
della Camera degli sposi nel palazzo ducale, per la quale idea una serie di grandi scene con punto di vista unico
coincidente con il centro della stanza e una fonte di luce che corrisponde a quella reale. In alcune scene fa una
ricostruzione precisa dei personaggi e dell'ambiente che si trovava alla corte dei Gonzaga, come l'Incontro di Ludovico
Gonzaga con il figlio Francesco appena eletto cardinale e la Corte dei Gonzaga. Nella volta dipinge il famoso oculo circolare
aperto verso uno splendido cielo dipinto, e dal quale si affacciano figure e animali. Gli affreschi per la camera degli sposi
vengono terminati probabilmente nel 1474. Dipinge in questo periodo anche una serie di ritratti dei personaggi di corte e
affresca una cappella del castello di San Giorgio oggi il tutto però è andato perduto.
Dipinge inoltre una serie di piccole tavole che in origine dovevano essere collegate tra loro, ma che oggi si trovano
smembrate in vari musei, tra le quali La morte della Vergine oggi al museo del Prado di Madrid e il cosiddetto Trittico degli
Uffizi di cui fa parte l'Adorazione dei Magi.
Sempre a questo periodo appartengono il Cristo morto di Brera famoso per lo scorcio piuttosto ardito e il San
Sebastiano del Museo del Louvre.
Nel 1485 inizia una serie di grandi tele dipinte a tempera con il Trionfo di Cesare che però interrompe per un viaggio a
Roma dove per Innocenzo VIII dipinge una cappella dei palazzi Vaticani poi andata distrutta nel 1780. Alla fine del
Quattrocento Mantegna è a Mantova dove dipinge la Madonna della vittoria commissionatagli da Francesco Gonzaga per
celebrare la vittoria ottenuta nella battaglia di Fornovo del 1495, nel 1497 dipinge per la chiesa di Santa Maria in Organo a
Verona la Madonna di Trivulzio.
Dipinge poi per lo studiolo di Isabella d'Este due tele a carattere mitologico: il Parnaso e Minerva che caccia i vizi, una
terza tela rappresentante la Favola del dio Como rimase incompiuta a causa della morte dell'artista che avvenne il 13
settembre del 1506.

STILE: Il percorso espressivo di Mantegna è fondato su una sintesi tra l'osservazione del dato naturale e il recupero delle
delle radici storiche della classicità. Così il suo stile pittorico comprende una curatissima definizione del dettaglio, di gusto
ancora tardogotico, ma anche una nuova, razionale presa sulla realtà tutta rinascimentale.
Le incredibili vedute prospettiche realizzate da Andrea, in cui alla visibilità totale dello spazio si affianca la visione analitica
dei particolari, impressionarono gli uomini del suo tempo e fanno di lui uno dei primi creatori del "trompe-l'oeil".
Se la capacità di osservazione del vero deriva da un'innata sensibilità e da un grande esercizio di fronte al dato naturale,
l'erudita conoscenza archeologicache Mantegna "sfoggia" fin dagli affreschi della Cappella Ovetari si deve soprattutto al
suo apprendistato a Padova, presso Francesco Squarcione. Le ricostruzioni di monumenti antichi delle sue spettacolari
vedute e i numerosi "pezzi" come statue, rilievi, frammenti di opere dell'antichità, rivelano una raffinata cultura che fu
molto apprezzata ai suoi tempi.

Soprattutto nel periodo giovanile una linea sottile e descrittiva venne associata a colori squillanti e ad una particolare
lucentezza delle forme. Mantegna dipinse le superfici di tutte le cose e persino dei personaggi rappresentati con luci molto
nitide e riflessi metallici per trasmettere una sensazione di compattezza e durezza che porta ad associare visivamente
anche i corpi delle figure ai marmi delle architetture e degli elementi scultorei, come se appartenessero tutti alla stessa
materia. Un esempio tra i più noti è la Pala di san Zeno a Verona, dove tutto sembra avere una compattezza e solidità
straordinaria. Ma Mantegna seppe introdurre nelle sue opere anche una particolare atmosfera, come se lo spazio non
fosse vuoto ma riempito da una sostanza impalpabile e gassosa. Attraverso quella luce calda, dorata e soffusa che invade i
suoi ambienti evitando stacchi troppo netti e ombre troppo scure, suggerisce un senso di presenza e di umanità così vera,
che quasi convince che questi suoi eroici e solenni personaggi, nella loro statuaria e granitica eleganza, possano anche
respirare.
I suoi studi sulla luce, alla ricerca di atmosfere un po' sospese e di un naturalismo rivelatore di umanità, verranno
sviluppati nel corso della sua carriera e culmineranno nelle opere della maturità. Su queste ricerche ha influito
notevolmente anche l'insegnamento di Antonello da Messina, come si può notare nella Madonna dell'Accademia Carrara
di Bergamo, nella Madonna della Vittoria del Louvre e nella Madonna Trivulzio.

La Camera degli Sposi, chiamata nelle cronache antiche Camera picta ("camera dipinta"), è una stanza collocata
nel torrione nord-est del Castello di San Giorgio di Mantova. È celebre per il ciclo di affreschi che ricopre le sue pareti,
capolavoro di Andrea Mantegna, realizzato tra il 1465 e il 1474. Mantegna studiò una decorazione ad affresco che
investisse tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici dell'ambiente, ma al tempo stesso
sfondando illusionisticamente le pareti con la pittura, come se lo spazio fosse dilatato ben oltre i limiti fisici della stanza. Il
tema generale è una celebrazione politico-dinastica dell'intera famiglia di Ludovico Gonzaga, con l'occasione dell'elezione
a cardinale di Francesco Gonzaga.

La decorazione della stanza venne commissionata da Ludovico III Gonzaga a Mantegna, pittore di corte dal 1460. La sala
aveva originariamente una duplice funzione: quella di sala delle udienze (dove il marchese trattava affari pubblici) e quella
di camera da letto di rappresentanza, dove Ludovico si riuniva coi familiari.

L'occasione della commissione è tutt'altro che chiarita dagli studiosi, registrando varie discordanze. L'interpretazione
tradizionale lega gli affreschi all'elezione al soglio cardinalizio del figlio del marchese Ludovico, Francesco Gonzaga,
avvenuta il 1º gennaio 1462: la scena della Corte rappresenterebbe quindi il marchese che ne riceve la notizia e quella
dell'Incontro mostrerebbe padre e figlio che si trovano nel felice evento. La figura matura e corpulenta di Francesco
tuttavia non è coerente con la sua età nel 1461, di circa 17 anni, testimoniata invece da un suo
presunto ritratto conservato oggi a Napoli. Si è pensato quindi che gli affreschi celebrino la venuta di Sua Eminenza
a Mantova nell'agosto 1472, quando si apprestò a ricevere il titolo di abate commendatario di Sant'Andrea.

La sequenza cronologica delle pitture è stata chiarita dal restauro del 1984-1987: il pittore iniziò dalla volta con limitate
campiture a secco, che riguardano soprattutto parti dell'"oculo" e della ghirlanda che lo circonda; si passò poi alla parete
della Corte, dove venne usata una misteriosa tempera grassa, stesa a secco procedendo per "pontate"; seguirono le pareti
est e sud, coperte dai tendaggi dipinti, dove venne usata la tecnica tradizionale dell'affresco; infine fu dipinta la parete
ovest dell'Incontro, pure trattata ad affresco e condotta a "giornate" molto piccole, che testimoniano una lentezza
operativa che confermerebbe la durata quasi decennale dell'impresa, indipendentemente da altri compiti che il maestro
dovette assolvere.

Nella stanza pressoché cubica (8,05 m circa di lato, con due finestre, due porte e un camino), Mantegna studiò una
decorazione che investiva tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici dell'ambiente, ma al
tempo stesso sfondando illusionisticamente le pareti con la pittura, come se ci si trovasse al centro di un loggiato o di un
padiglione aperto verso l'esterno.[12]

Motivo di raccordo tra le scene sulle pareti è il finto zoccolo marmoreo che gira tutt'intorno nella fascia inferiore, sul quale
poggiano i pilastri che suddividono le scene in tre aperture. La volta è affrescata suggerendo una forma sferoidale e
presenta centralmente un oculo, da cui si sporgono personaggi e animali stagliati sul cielo azzurro. Attorno all'oculo alcuni
costoloni dipinti dividono lo spazio in losanghe e pennacchi. I costoloni vanno a terminare in finti capitelli, a loro volta
poggianti sui reali peducci delle volte, gli unici elementi a rilievo di tutta la decorazione, assieme alle cornici delle porte e
al camino. Ciascun peduccio (esclusi solo quelli in angolo) appoggia in corrispondenza di uno dei pilastri dipinti.

Il registro superiore delle pareti è occupato da dodici lunette, decorate da festoni e imprese dei Gonzaga. Alla base delle
lunette, tra peduccio e peduccio, corrono figuratamente le aste che fanno da cursore ai tendaggi, che sono raffigurati
come scostati per permettere la visione delle scene principali. Questi drappi, che realmente coprivano i muri delle stanze
del castello,[13] simulano il broccato o il cuoio impresso a oro e foderato d'azzurro, e sono abbassati sulle pareti sud ed est,
mentre sono aperti sulla parete nord (la Corte) e ovest (l'Incontro).

Il tema generale è la celebrazione politico-dinastico dell'intera famiglia Gonzaga, anche se decenni di studi non sono
riusciti a chiarire univocamente un'interpretazione accettata da tutti gli studiosi. Probabilmente l'ideazione del complesso
programma iconografico richiese varie consulenze, tra cui sicuramente quella del marchese stesso. Numerosissimi sono
i ritratti, estremamente curati nella fisionomia e, talvolta, nella psicologia. Sebbene un'identificazione certa di ognuno di
essi sia impossibile a causa della mancanza di testimonianze, taluni sono tra le opere più intense di Mantegna in questo
genere.

La volta è composta da un soffitto ribassato, che è illusionisticamente diviso in vele e pennacchi dipinti. Alcuni finti
costoloni dividono lo spazio in figure regolari, con sfondo dorato e pitture a monocromo che simulano sculture e clipei in
stucco. L'abile articolarsi degli elementi architettonici dipinti simulano una volta profonda, quasi sferica, che in realtà è una
leggera curva di tipo "unghiato".

Al centro si trova il famoso oculo, il brano più stupefacente dell'intero ciclo, dove sono portati alle estreme conseguenze
gli esperimenti illusionistici della Cappella Ovetari di Padova. Si tratta di un tondo aperto illusionisticamente verso il cielo,
che doveva ricordare il celebre oculo del Pantheon, il monumento antico per eccellenza celebrato dagli umanisti.
Nell'oculo, scorciati secondo la prospettiva da "sott'in su", si vede una balaustra dalla quale si sporgono una dama di corte,
accompagnata dalla serva di colore, un gruppo di domestiche, una dozzina di putti, un pavone (riferimento agli animali
esotici presenti a corte, piuttosto che simbolo cristologico) e un vaso, sullo sfondo di un cielo azzurro. Per rafforzare
l'impressione dell'oculo aperto, Mantegna dipinse alcuni putti pericolosamente in bilico aggrappati al lato interno della
cornice, con vertiginosi scorci dei corpicini paffuti. La varietà delle pose è estremamente ricca, improntata ad una totale
libertà di movimento dei corpi nello spazio: alcuni putti arrivano a infilare il capo negli anelli della balaustra, oppure sono
visibili solo da una manina che spunta.

Se non è chiara l'eventuale identificazione delle fanciulle con personaggi reali gravitanti attorno alla corte gonzaghesca (un
volto muliebre è acconciato come la marchesa Barbara), esse sono colte in atteggiamenti diversi (una addirittura ha in
mano un pettine) e le loro espressioni giocose sembrano suggerire la preparazione di uno scherzo, un episodio tratto dalla
quotidianità nel solco della lezione di Donatello. Il pesante vaso di agrumi è infatti appoggiato a un bastone e le ragazze
attorno, con volti sorridenti e complici, sembrano in procinto di farlo cadere nella stanza.

Nella nuvola vicino al vaso si trova nascosto un profilo umano, probabile autoritratto dell'artista abilmente mascherato.

L'oculo è racchiuso da una ghirlanda circolare, a sua volta racchiusa in un quadrato di finti costoloni, che sono dipinti con
un motivo intrecciato che ricorda le palmette dei bassorilievi all'antica. Nei punti di incontro tra si trovano medaglioni
dorati. Attorno al quadrato sono disposte otto losanghe con sfondo dorato, ciascuna contenente una ghirlanda circolare
che racchiude un ritratto di uno dei primi otto imperatori romani, dipinto a grisaglia, sorretto da un putto e circondato da
nastri svolazzanti. Tale rappresentazione suggella la concezione fortemente antiquaria dell'intero ambiente. I cesari sono
ritratti in senso antiorario con il nome entro il medaglione (dove conservato) e le loro pose sono variate per evitare uno
schematismo.

Parete della Corte

La scena della corte ha un'impaginazione particolarmente originale, per adattarsi alla forma della stanza. La presenza del
camino infatti, che invade a metà la parte inferiore destinata agli affreschi narrativi, rendeva molto difficile ambientare la
scena senza interruzioni, ma Mantegna risolse il problema usando l'espediente di collocare la scena su una piattaforma
rialzata a cui si accede da alcuni gradini che scendono nel lato destro. Da questa piattaforma, il cui pavimento coincide con
il ripiano sopra il camino, pendono preziosi tappeti che arricchiscono la sontuosità della scena.

Il primo settore è occupato da una finestra che dà sul Mincio: qui Mantegna si limitò a disegnare una tenda chiusa. Nel
secondo la tenda è dischiusa e mostra la corte dei Gonzaga riunita, sullo sfondo di un'alta transenna decorata da
medaglioni marmorei, oltre la quale un alberello sfonda nella lunetta. Il terzo settore ha la tenda chiusa, ma una serie di
personaggi vi passa davanti, camminando anche davanti al pilastro, secondo un espediente che confonde il confine tra
mondo reale e mondo dipinto, usato già da Donatello.

I personaggi

Il settore centrale mostra il marchese Ludovico Gonzaga seduto su un trono a sinistra in veste "de nocte", in risalto
particolare grazie alla posizione leggermente defilata. Egli è ritratto mentre tiene in mano una lettera e parla con un
servitore dal naso adunco, probabilmente il suo segretario Marsilio Andreasi o Raimondo Lupi di Soragna[16][17]; oppure
potrebbe trattarsi del fratello del marchese, Alessandro[18][19]. La posa del marchese è l'unica che rompe la staticità del
gruppo, attirando inevitabilmente l'attenzione dello spettatore. Sotto il trono sta accucciato il cane preferito del marchese,
Rubino, simbolo di fedeltà. Dietro di lui sta poi in piedi il terzogenito Gianfrancesco, che tiene le mani sulle spalle di un
bambino, forse il protonotario Ludovichino. L'uomo col cappello nero è Vittorino da Feltre, precettore del marchese e dei
suoi figli. Al centro troneggia seduta la moglie del marchese, Barbara di Brandeburgo, in posizione quasi frontale e con
un'espressione di dignitosa sottomissione, con una bambina alle ginocchia che sembra porgerle una mela in un gesto di
fanciullesca ingenuità, forse l'ultimogenita Paola. Dietro la madre sta in piedi Rodolfo, affiancato a destra da una donna,
forse Barbarina Gonzaga. Gli altri personaggi sono incerti. Il primo profilo in secondo piano da sinistra è stato interpretato
come un possibile ritratto di Leon Battista Alberti, mentre la donna dietro Barbarina è forse una nutrice di casa Gonzaga o,
come sostengono alcuni studiosi, Paola Malatesta, madre di Ludovico III, in abito monastico; in basso sta la famosa nana di
corte Lucia affetta da neurofibromatosi, che guarda direttamente lo spettatore; in piedi parzialmente coperto dal pilastro
sta un famiglio (cortigiano).

Il settore successivo mostra sette cortigiani che si avvicinano alla famiglia marchionale, in parte sulla piattaforma, in parte
salendo le scale attraverso un'anticamera. Gli ultimi "entrano" nella scena discostando la tenda, dietro la quale si
intravede un cortile assolato con muratori all'opera.[12]

Nello sguancio della finestra si trova un finto paramento marmoreo, solcato da venature tra le quali è celata la data 16
giugno 1465, dipinta come un finto graffito e di solito interpretata come data di inizio dei lavori.

La parete ovest, detta "dell'Incontro", è analogamente divisa in tre settori. In quello di destra avviene l'"incontro" vero e
proprio, in quello centrale alcuni putti reggono una targa dedicatoria e in quello di sinistra sfila la corte del marchese, che
prosegue con due personaggi anche nel settore centrale: questi ultimi sono rappresentati nell'angusto spazio tra il pilastro
e la reale mensola dell'architrave della porta, dimostrando la difficile compenetrazione attuata efficacemente tra mondo
reale e mondo dipinto. Nel pilastro tra l'incontro e i putti si trova nascosto tra le grisaille un autoritratto di Mantegna
come mascherone.[2]

I personaggi

Nell'Incontro sono rappresentati il marchese Ludovico, stavolta in vesti ufficiali, affiancato forse da Ugolotto Gonzaga,
figlio del fratello defunto Carlo. Gli è di fronte il figlio Francesco cardinale. Sotto di loro stanno i figli di Federico I
Gonzaga, Francesco e Sigismondo, mentre il padre si trova all'estrema destra: le pieghe generose del suo abito sono uno
stratagemma per nascondere la cifosi. Federico è a colloquio con due personaggi, uno di fronte e l'altro in secondo piano,
indicati da alcuni come Cristiano I di Danimarca (di fronte; cognato di Ludovico II, poiché marito di Dorotea di
Brandeburgo, sorella di Barbara) e Federico III d'Asburgo, figure che ben rappresentano il vanto della famiglia per la
parentela regale. Il ragazzo al centro infine è l'ultimo figlio maschio del marchese, il protonotario Ludovico, che tiene per
mano il fratello cardinale e il nipote, futuro cardinale, rappresentando il ramo della famiglia destinato
al cursus ecclesiastico. La scena ha una certa fissità, determinata dalla staticità dei personaggi ritratti di profilo o di tre
quarti per enfatizzare l'importanza del momento.

Sullo sfondo è rappresentata una veduta ideale di Roma, in cui si riconoscono il Colosseo, Castel Sant'Angelo, la piramide
di Cestio, il teatro di Marcello, il ponte Nomentano, le Mura aureliane, ecc. Mantegna inventò anche alcuni monumenti di
sana pianta, come una statua colossale di Ercole, in un capriccio architettonico che non ha niente di filologico, derivato
probabilmente da un'elaborazione fantastica basata su modelli a stampa. La scelta della città eterna era simbolica:
rimarcava il forte legame tra la dinastia e Roma, avvalorato dalla nomina cardinalizia, e poteva anche essere una citazione
beneaugurante per il cardinale quale possibile futuro papa.[2] A destra si trova anche una grotta dove alcuni cavatori sono
al lavoro nello scolpire blocchi e colonne.

La parte centrale è occupata dai putti che reggono la targa dedicatoria. Oltre alla firma "pubblica" dell'artista, che si
dichiara "padovano", vi si legge la data 1474, generalmente indicata come quella della fine dei lavori, e parole di
adulazione verso Ludovico Gonzaga ("illustrissimo... principe ottimo e di fede ineguagliata") e a sua moglie Barbara
("incomparabile gloria delle donne").

Le pareti sud ed est sono coperte da tendaggi, oltre i quali spuntano le lunette. In quella sud si aprono una porta e un
armadio a muro. Sopra l'architrave della porta è dipinto un grande stemma gonzaga, piuttosto malridotto, e le lunette
sono quasi illeggibili. Quella est è meglio conservata e presenta tre belle lunette con festoni e imprese araldiche.

San Sebastiano è un dipinto, tempera su tela (257x142 cm), di Andrea Mantegna, databile al 1481 circa e conservata
nel Museo del Louvre a Parigi.

Il dipinto raffigura il santo seminudo trafitto dalle frecce del martirio e legato alla colonna di un'imponente costruzione
architettonica all'antica, ormai diroccata e in rovina. Ai suoi piedi ci sono vari frammenti classici, tra cui il piede d'una
statua: Mantegna era infatti appassionato di reperti antichi, che collezionava e inseriva spesso nelle sue opere. In primo
piano, nell'angolo in basso a destra, si notano i due giustizieri, l'arciere e un compagno, che sono raffigurati con
quell'insistenza chiaroscurale sui solchi del viso tipica delle opere di Mantegna più espressive. Alcuni dettagli grotteschi o
iperrealistici (come l'espressione truce dell'arciere o la finezza con cui sono disegnati uno per uno i peli della sua barba)
rimandano ad opere fiamminghe, e in particolare alla lezione di Rogier van der Weyden che Mantegna ebbe modo di
assimilare in gioventù.

Il santo, come consueto nelle rappresentazioni dalla seconda metà del Quattrocento in poi, diede l'opportunità al pittore
di eseguire una virtuosa rappresentazione anatomica del nudo maschile, con il torace trattato con una particolare
morbidezza di toni, su cui spicca per contrasto la durezza quasi marmorea del panneggio del perizoma. Le frecce, a
differenza della tavola viennese, entrano ed escono da corpo martirizzato, scorrendo talvolta sottopelle, per aumentare il
senso tragico di dolore del martirio, che Sebastiano sembra tra l'altro sopportare con pietosa rassegnazione grazie alla
fede religiosa, come suggerisce il suo viso rivolto al cielo. Da notare alcuni virtuosismi, come l'effetto delle corde che
stringono le carni con grande realismo, come sul braccio destro.

Lo sfondo è occupato da un lontano paesaggio montuoso, con un capriccio di architetture, antiche e moderne, che, in
ossequio alla forma della tela, si svolge in maniera più che altro verticale, sullo sfondo di un cielo sereno attraversato da
gonfie nuvole. Il monte è dominato in alto da un castello, appoggiato su uno sperone roccioso, sotto il quale sta
un'altra rocca. Più in basso si trova la città (visibile anche a sinistra), sotto la quale spicca una piazza lastricata circondata
da monumenti romani in rovina: una porta-arco di trionfo con alto attico (le mura superiori richiamano le aggiunte
tipicamente medievali come nell'arco di Augusto di Rimini) e una sorta di tempio con mozziconi di colonna e una
parapetto scolpito a bassorilievi, che si erge sopra un porticato in grossi blocchi di pietra. Non si tratta più delle
ricostruzioni in stile che avevano caratterizzato le opere giovanili come la Cappella Ovetari, ma di un'interpretazione più
inquieta, con le rovine che simboleggiano la caducità del mondo antico.

Il rapporto tra Antonello da Messina e Andrea Mantegna

Nella versione di Mantegna, l'immagine di San Sebastiano è più drammatica: il volto è contratto in una smorfia di dolore, e
il corpo è percorso da una tensione assente dal dipinto di Antonello. La differenza più radicale sta però nelle scelte formali
dei due artisti: mentre Antonello ammorbidisce la plasticità della figura attraverso il lento digradare della luce sulle
membra levigate, Mantegna si affida a un segno duro, secco, spigoloso, che delinea attraverso contorni netti e precisi ogni
particolare: dalle rughe che segnano il volto del santo ai rilievi delle ossa e dei muscoli, alle pieghe contorte del panneggio
che ne cinge i fianchi. Persino le nuvole, nitidamente delineate sull'azzurro cupo del cielo attraverso un disegno tagliente e
minuzioso, sembrano avere la consistenza dei corpi solidi, dalla superficie tormentata.

Il carattere dell'opera

Il carattere energico e monumentale del quadro è sottolineato dagli elementi architettonici, dipinti con la stessa accanita
precisione dedicata alla figura. Il santo è legato a una colonna romana, sormontata da un capitello riccamente lavorato,
dalla quale si diparte un arco spezzato; ai suoi piedi sono sparsi altri resti dell'edificio antico e i frammenti di una scultura;
tra le rovine crescono l'edera e il fico selvatico, che proseguono l'opera distruttrice del tempo. Attraverso questa
ricostruzione architettonica accuratissima e vigorosa, Mantegna evoca la classicità vagheggiata dal circolo umanistico della
corte di Mantova, presso la quale lavorava come artista di corte: un mondo remoto, dei cui grandiosi monumenti
restavano solo ruderi e frammenti, ma il cui spirito riprendeva vita nella rappresentazione degli artisti e dei letterati. Più
che a un martire cristiano, il suo San Sebastiano, pietroso e tornito come la colonna alla quale è legato, fa pensare a un
eroe classico redivivo.

Il Cristo morto è uno dei più celebri dipinti di Andrea Mantegna, tempera su tela (68x81 cm), databile con incertezza tra
il 1475-1478circa e conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano. L'opera è celeberrima per il vertiginoso scorcio
prospettico della figura del Cristo disteso, che ha la particolarità di "seguire" lo spettatore che ne fissi i piedi scorrendo
davanti al quadro stesso. Considerata uno dei vertici della produzione di Mantegna, l'opera ha una forza espressiva e al
tempo stesso una compostezza severa che ne fanno uno dei simboli più noti del Rinascimento italiano.

Un "Cristo in scurto" ("scorcio"), destinato forse alla devozione privata dell'artista, è citato tra le opere rimaste nella
bottega di Mantegna dopo la sua morte nel 1506[4]. Poco dopo il dipinto veniva acquistato dal cardinale Sigismondo
Gonzaga, nel 1507. Nel 1531 sarebbe stato destinato a decorare il camerino di Margherita Paleologa, futura sposa
di Federico II Gonzaga.

L'iconografia di riferimento per l'opera è quella del compianto sul Cristo morto, che prevedeva la presenza dei "dolenti"
riuniti attorno al corpo che veniva preparato per la sepoltura. Cristo è infatti sdraiato sulla pietra dell'unzione, semicoperta
dal sudario, e la presenza del vasetto degli unguenti in alto a destra dimostra che è già stato cosparso di profumi. La forte
valenza sperimentale dell'opera è confermata sia dall'uso della tela come supporto, ancora raro per l'epoca, che dall'uso
potente e invasivo dello scorcio prospettico, accompagnato a una sorprendente concentrazione di mezzi espressivi.
Mantegna strutturò la composizione per produrre un inedito impatto emotivo, con i piedi di Cristo proiettati verso lo
spettatore e la fuga di linee convergenti che trascina l'occhio di chi guarda al centro del dramma. Tuttavia in questo
dipinto l'artista non segue alla perfezione le regole della prospettiva: infatti i piedi sarebbero apparsi in primo piano
rispetto al resto del corpo dando un'immagine "grottesca", quindi vengono rappresentati più piccoli del normale così come
le gambe che appaiono più corte. Le braccia invece sembrano eccessivamente lunghe e il costato molto largo rispetto al
resto della figura.

A sinistra, compresse in un angolo, si trovano tre figure dolenti: la Vergine Maria che si asciuga le lacrime con un
fazzoletto, san Giovanni che piange e tiene le mani unite e, in ombra sullo sfondo, la figura di una donna che si dispera, in
tutta probabilità Maria Maddalena. Pochi accenni rivelano l'ambiente in cui si svolge la scena: a destra si vede un tratto di
pavimento e un'apertura che introduce in una stanza buia].

Il forte contrasto di luce, proveniente da destra, e ombra origina un profondo senso di pathos. Ogni dettaglio è amplificato
dal tratto incisivo delle linee, costringendo lo sguardo a soffermarsi sui particolari più raccapriccianti, come le membra
irrigidite dal rigor mortis e le ferite ostentatamente presentate in primo piano, come consueto nella tradizione ]. I fori nelle
mani e nei piedi, così come i volti delle altre figure, solcati dal dolore, sono dipinti senza nessuna concessione di idealismo
o retorica.

Il drappo che copre parzialmente il corpo crea un panneggio bagnato molto rigido sul corpo del Cristo, tanto da metterne
in risalto le forme; questo modo di "scolpire" con la pittura è un'abilità che Andrea Mantegna dimostra di possedere anche
in altre opere, come il Cristo in pietà. Un particolare che sorprende è la scelta di porre i genitali del Cristo al centro del
quadro, scelta che è aperta ad una moltitudine di interpretazioni.

Secondo altri studiosi il ritratto con la prospettiva "di scorcio", che suscita la sensazione del collo e della testa staccati dal
resto del corpo, simboleggerebbe la cristologia diofisista delle due nature, l'umana e la divina, compresenti in Gesù Cristo,
e di conseguenza il valore redentivo che la fede cristiana attribuisce al Sabato Santo, al Santo Sepolcro e alle Quarantore:
nell'arco di questo periodo temporale, il Nazareno sarebbe contemporaneamente morto come uomo e vivo in quanto Dio.

La grandiosità dell’opera è che il punto di vista della scena rende tutto realistico e veritiero: lo scorcio della visione rende
le figure e i volumi molto particolari ed intesi: la testa e il torace ad esempio risultano essere troppo grandi rispetto alle
gambe e non seguono quindi una costruzione prospettica tuttavia attraverso Mantegna ha realizzato l’espressione e la
mimica facciale che rende grandiosa e unica l’opera.

Andrea Mantegna realizza, rispetto alla tradizione, due innovazioni: la prima è la pittura su tela, ancora poco usata
all’epoca, e la seconda, impressionante, è lo scorcio prospettico: i piedi di Gesù, rigidi per la morte, sono infatti
proiettati verso chi guarda, creando un forte impatto emotivo, mentre le linee di fuga prospettiche costringono
l’occhio ad andare verso il centro del quadro, generando l’impressione che il corpo si sposti insieme allo
spettatore. Nessuno aveva mai sperimentato prima un tale utilizzo della prospettiva, che Mantegna aveva già avuto
modo di utilizzare per decorare la Camera degli sposi; tuttavia esso è volutamente imperfetto. Se si fossero applicate
rigorosamente le leggi della prospettiva, infatti, i piedi di Cristo sarebbero dovuti essere di dimensioni maggiori, ma
ciò avrebbe creato un effetto che al pittore dev’essere sembrato “grottesco”, così come per le gambe, che appaiono
tozze e schiacciate. Il torace, invece, appare particolarmente ampio e le braccia eccessivamente lunghe, mentre la
testa è più grande che se fosse stata utilizzata una prospettiva “perfetta”. Le ferite dei chiodi su mani e piedi e della
lancia sul costato sono ben evidenti, realisticamente presentati come squarci sia nella pelle che nella carne
sottostante. Un dettaglio interessante è che il pittore ha scelto di presentare i genitali di Cristo proprio al centro del
quadro, il che lascia aperte diverse interpretazioni. La testa e il collo, lievemente in penombra, appaiono staccati dal
corpo: c’è chi ha ipotizzato che volesse essere una rappresentazione del diofisismo di Cristo, vale a dire la duplice
natura (umana e divina) di Gesù. La formazione classica e umanistica di Mantegna è evidente nell’atteggiamento
composto della figura, dipinta con la composta gravità degli eroi greci e latini e ben lontana dalla sensibilità dei
dipinti posteriori sullo stesso soggetto.

Impressionante è anche l’utilizzo che fa il pittore della luce, poiché, provenendo da destra, essa crea un forte
contrasto tra le parti illuminate e le parti in ombra, evidenziando la muscolatura di Cristo e le sue
ferite e consentendo allo spettatore di scorgere le tre figure piangenti.

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