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Pietro Perconti - Filosofia della mente

I. Il problema mente-corpo 2
1. Dualismo 2
Lo scandalo 2
Le soluzioni 2
La sopravvivenza del dualismo 3
2. Identità 3
3. Come stanno le cose e come sembrano 4

II. La psicologia computazionale 5


1. Rappresentazioni mentali 5
2. Efficacia causale 5
3. Intenzionalità 6

III. La grammatica dell’attribuzione mentale 8


1. Essenzialismo psicologico 8
2. Dualismo attributivo 9
3. Grilletti mentali 10

IV. La scienza cognitiva 12


1. Come funziona 12
2. Due sistemi, quasi due menti 15
3. La frugalità cognitiva e il senso comune 19

V. Chi sono io 21
1. Avere o essere una mente 21
2. Qualcosa di superfluo 24
3. Varietà di coscienza 27

VI. Le altre menti 30


1. La cognizione sociale 30
2. Equilibrio tra antipatia e simpatia 32
3. Gli altri animali 35

VII. La scienza della mente altrove 38


1. Ergonomia della comunicazione 38
2. Una teoria cognitiva del traffico 40
3. La scienza della magia 41

I. Il problema mente-corpo
1. Dualismo
La filosofia della mente fa più parte della nota scienza cognitiva piuttosto che al panorama filosofico
tradizionale. Questa disciplina è nata per rispondere alla domanda “Che relazione c’è tra la mente, che si
presume immateriale, e il corpo, che invece appartiene al mondo materiale?”; questa domanda è conosciuta
anche come mind-body problem.
Nonostante questa domanda è stata discussa dall’alba dei tempi, la base moderna sulla discussione è
"Meditazioni metafisiche”, opera pubblicata da Descartes nel 1641. La mente e il corpo sono caratterizzati
da attributi indipendenti: quello della mente è il pensiero, mentre nel caso del corpo è l’estensione. Il mondo
è composto da due sostanze:

- Res extensa → Regolata dalle leggi naturali che governano i corpi

- Res cogitans → Soggetta alle regole logiche del pensiero

Negli uomini queste due sostanze coesistono.

Lo scandalo
Fino a che il comportamento delle sostanze estese sarà interamente determinato dalle regole del suo regno - e
analogamente alla sostanza della mente - nulla di strano accade, ma il problema emerge nell’uomo quando le
sostanze estese sono regolate dalle regole cognitive.

Ancora oggi non riusciamo a spiegarci questa cosa, infatti, la scienza ha trovato come spiegazione dei nostri
comportamenti alcune cause fisiche (es. attivazione di un nervo). Ovviamente ciò non va a genio alla scienza
poiché il mondo fisico dovrebbe essere un cerchio chiuso; questa falla crea un senso di disagio scientifico.

Le soluzioni
Il problema mente-corpo nasce dall’attrito tra la scienza moderna e il senso comune: la prima considera la
chiusura causale del mondo fisico come qualcosa di non negoziabile, mentre la seconda trova spontaneo
interpretare il comportamento umano come determinato da cause immateriali.

Di fronte a questa questione, sono state proposti due gruppi di due soluzioni:

- Mente e corpo sono due entità distinte e il comportamento è frutto della loro interazione.

- Nell’universo esistono solo corpi e la mente è una porzione specifica di corpo.

Il vantaggio del dualismo è la compatibilità con il senso comune, mentre lo svantaggio è l’incompatibilità
con la comunità scientifica; nelle seconde soluzioni, vantaggi e svantaggi sono invertiti.

Esiste anche un terzo gruppo di soluzioni che consistono del monismo della mente (o immaterialismo),
ovvero che all’universo esistono solo menti; è un idealismo molto radicale e riconosciamo l’origine in
George Berkeley; tuttavia, oggigiorno non si trovano più sostenitori.
La sopravvivenza del dualismo
Il dualismo è sopravvissuto in tre forme diverse:

- Le elaborazioni cognitive astratte hanno un ruolo autonomo; tipico della psicologia computazionale

- Non è il mondo a essere dualista, ma piuttosto la mente

- Gli esseri umani sono creature spirituali la cui mente non è soggetta alle leggi della natura

John Eccles, neurofisiologo premio Nobel, è il principale sostenitore dell’ultima forma, il dualismo
interazionista; è noto per aver coltivato il lato filosofico della ricerca neuroscientifica grazie alla
collaborazione con Karl Popper.
2. Identità
Secondo i teorici dell’identità, non c’è alcuna relazione tra la mente e il corpo: gli individui sono organismi
naturali con un comportamento manifesto e la “mente” è questa manifestazione fisica.

Verso la metà del Novecento, il comportamentismo sembrava il modo più elegante per affrontare il
dualismo - la mente non esiste, esiste solo il comportamento - ma in realtà discutere sull’esistenza delle
mente è già un volerla definire. Grazie all’avvento della chimica e della biologia si è permesso di rifiutare
l’idea che il nostro comportamento fosse governato da uno “spirito vitale”, ma nessuno ha mai confutato il
significato odierno di mente.

Siccome noi pensiamo che il comportamento umano sia sempre motivato, siamo spinti a pensare che dietro
di essi si celi qualcosa che conferisce loro senso. Nell’ottica comportamentista, se si spiegassero i
comportamenti senza un vocabolario mentalistico, le spiegazioni sarebbero molto semplici e soprattutto
compatibili con le osservazioni delle scienze naturali.

Ad esempio, se spiegassimo i comportamenti come non mossi da ideologia, ma piuttosto dal registro delle
esperienze positive e negative, ecco che la spiegazione ricadrebbe nel campo della biochimica.

I paladini del comportamentismo sono Skinner e Pavlov, ma il padre della filosofia comportamentista è
Gilbert Ryle, forte sostenitore dell’assenza di entità nascoste.

3. Come stanno le cose e come sembrano


Le teorie dualiste e moniste sono le due tendenze teoriche principali, ma si trattano comunque di
semplificazioni grossolane: le prime cercano di comprendere come un corpo in carne ed ossa risponda a
sollecitazioni mentale, mentre le seconde cercano di capire perché noi etichettiamo come “intelligenti” i
nostri comportamenti.

La prima teoria si concentra su questioni metafisiche e come la scienza della mente possa essere compatibile
con le altre scienze sperimentali, uniche detentrici dell’ontologia corretta. Questa corrente sottolinea come la
psicologia computazionale avrebbe potuto risolvere il problema mente-corpo, ma successivamente si è capito
che “l’intelligenza” sta nell’organizzazione e nella struttura del cervello. E‘ chiaro che le strutture siano
elementi astratte, ma è proprio questa la base della psicologia computazionale.

La seconda prospettiva invece tralascia la questione dell’intelligenza e si concentra su come noi abbiamo un
vocabolario psicologico con cui tendiamo a considerare intelligente un comportamento o un evento. Questa
teoria non è metafisica, ma piuttosto interpretazionista e cerca di spiegare la realtà così come appare.

II. La psicologia computazionale


1. Rappresentazioni mentali
Le rappresentazioni mentali sono le componenti di base della scienza cognitiva. Quando noi usiamo la parola
“pensare”, noi alludiamo all’attività di manipolazione delle rappresentazioni mentali.

Le rappresentazioni mentali sono oggetti astratti (es. il numero “2”, programmi PC). Nella realtà esistono
coppie di cose e programmi per la scrittura, tuttavia, nonostante producano modificazioni fisiche, sono delle
semplici regole astratte che governano la capacità di contare e di permettere all’hardware di elaborare dei
testi.
Le rappresentazioni sono regole che mettono in relazione due domini, ma esse differiscono dai concetti:
mentre i secondi sono oggettivi, i primi subiscono la variabilità soggettiva delle rappresentazioni
psicologiche.

La psicologia computazionale è stata fondata da matematici quali Alonzo Church, Alan Turing, Kurt Godel e
John Von Neumann; questa base matematica ha consentito alla scienza cognitiva di sviluppare una teoria
dell’architettura mentale che ambisse allo stesso rigore delle scienze esatte.

Le rappresentazioni mentali non si trovano nella testa delle persone e degli animali, ma nella scienza della
mente. Sono oggetti astratti come le figure geometriche: non hanno un riscontro sul mondo fisico, ma sono la
base delle misure degli oggetti concreti.

2. Efficacia causale
Se le rappresentazioni sono entità astratte prive di connotazioni spazio-temporali, come può aver
concretamente luogo una catena causale di tipo fisico? Secondo Steven Pinker, le entità mentali sono
“informazioni incarnate come configurazioni di simboli”.

I simboli sono gli stati fisici di piccole parti della materia che simboleggiano cose esistenti del mondo e
attivano i nostri organi di senso. Nel mondo fisico, una rappresentazione mentale corrisponde a un certo
simbolo: esso (es. simbolo dell’uomo nei bagni) rappresenta la relazione astratta che lega il dominio dei
comportamenti (es. uso dei bagni pubblici) con quello degli input ambientali (es. stimolo di andare in bagno).

Le monete sono un ottimo esempio di simboli: all’inizio, il loro valore era uguale al peso in oro, mentre oggi
ogni moneta ha un valore nominale definito da convenzioni sociali. Allo stesso tempo, le monete sono
pezzetti di materia e questo diventa rilevante quando usiamo i distributori automatici.

L’organizzazione funzionale di monete, distributori, [...] è molto intelligente, ma i componenti di per sé si


rilevano un po’ stupidi. Questo però ci porta a pensare che questi possano avere un comportamento
“intelligente”; tuttavia, il funzionamento è simile a quello delle interazioni umane: si fa qualcosa per
manifestare un desiderio e ne risulta una reazione.

Secondo lo scienziato cognitivo Gualtiero Piccinini, il nostro cervello è il sostrato su cui avvengono le
computazioni che costituiscono il fenomeno della conoscenza umana; in questo caso si parla di neuro-
computazioni

Nella scienza cognitiva si è insistito a lungo sulla metafora del calcolatore poiché suggerisce il cervello
come hardware, mentre la mente e le connessioni sinaptiche sono il software. La mente è l’insieme delle
funzioni del cervello; quest’ottica viene chiamata Funzionalismo e risolve il problema mente-corpo
facendo leva sull’elaborazione delle informazioni.

Secondo la tesi della realizzabilità multipla, una volta scoperti i principi di funzionamento, saremo in grado
di riconoscerli - e anche riprodurli - sia nella materia organica sia nei dispositivi artificiali.

3. Intenzionalità
L’intenzione è una nozione riguardante agenti razionali che allude alla determinazione della volontà e
all’inclinazione a compiere un’azione volta ad uno scopo. L'intenzionalità invece è una caratteristica
distintiva degli stati mentali che ha a che fare con il riferimento.

Le intenzioni hanno il potere di influenzare il significato che attribuiamo ai comportamenti (es. incidentale o
doloso) ed è per questo che sono rilevanti nell’ambito morale. Se un individuo ha la capacità di intendere,
ma in una particolare circostanza non ha inteso compiere un determinato comportamento, allora la sua
responsabilità sarà limitata.

Gli elementi cardini dell’intenzionalità sono le credenze e i desideri. A differenza degli stati fisici, che
possono vertere soltanto su altri stati fisici, quelli intenzionali hanno la capacità di riferirsi anche a oggetti
“inesistenti” (es. una freccia deve essere scagliata verso un obiettivo, ma un pensiero può essere rivolto
anche a Babbo Natale).

La realtà del pensiero non è soggetta alle leggi della fisica, ma è vincolata alla coerenza logica del nostro
discorso. Ad esempio, Babbo Natale è presentato come un anziano gentile che porta doni, perciò non sarebbe
coerente se qualcuno lo rappresentasse come una ragazzina dispettosa che va in giro in monopattino.

L’intenzionalità, siccome è la caratteristica tipica degli stati mentali, potrebbe essere il criterio per cui noi
definiamo gli agenti dotati di mente piuttosto a quelli anencefalici, ma purtroppo questa ipotesi porta con sé
diverse criticità:

- Non tutti gli stati mentali sono intenzionali

- Non abbiamo un criterio sufficientemente logico e linguistico che possa definire uno stato
intenzionale da uno stato mentale

Tutti gli stati intenzionali hanno contenuto, ma non tutti gli stati mentali sono intenzionali. Mentre l’essere
contenti (di qualcosa) o l’essere preoccupati (di qualcosa) sono stati mentali intenzionali, l’ansia è uno stato
mentale non intenzionale.

Per provare a dare la difficile definizione di “intenzionalità”, è necessario usare gli strumenti della logica e
della filosofia del linguaggio: nella pratica linguistica, gli stati intenzionali hanno la forma logica degli
atteggiamenti proposizionali

X (agente) verbo (crede, desidere, spera) che p (proposizione)

ES: “Maria crede che Parigi sia la capitale della Francia”. Questo enunciato esprime un certo
atteggiamento che l’agente ha nei confronti di una data proposizione (“Parigi è la capitale della
Francia) che, a sua volta. è il contenuto intenzionale di quella proposizione

Ogni stato intenzionale può essere diverso per tipo di atteggiamento (es. desidero piuttosto che spero in una
giornata di sole) e contenuto intenzionale (es. desidero una giornata di sole, piuttosto che un barattolo di
nutella).

Gli enunciati intenzionali violano due importanti leggi logiche:

- Generalizzazione esistenziale → Gli enunciati che contengono espressioni denotative (es. nomi
propri, nomi comuni) si riferiscono a qualcosa di esistente (es. “Le lampade fanno luce” posso
inferire che “Esistono cose come le lampade”).

- Legge di sostitutività (o Legge di Leibniz) → Se due espressioni linguistiche hanno lo stesso


riferimento, allora ciò che abbiamo detto sarà ugualmente vero (o falso) anche per la seconda
espressione

Queste due leggi logiche valgono soltanto nei contesti estensionali (mondo);

se si usano verbi epistemici (es. credere, sperare e desiderare), allora ci troviamo in contesti intensionali e
questo leggi perdono la loro funzionalità.
E‘ quindi impossibile individuare i contesti intenzionali basandosi sul comportamento linguistico di certe
espressioni. L’ambito mentale non è soggetto alle stesse regole logiche del mondo “estensionale”, perciò,
potremmo pensare che lì dove falliscono le leggi logiche, potrebbe essere l’inizio dell’ambito mentale.

L’intenzionalità è una caratteristica centrale della mente, ma non è coestensiva né con il campo mentale né
con il campo della coscienza.Come possiamo avere stati intenzionali impliciti e inconsci, possiamo anche
avere stati non intenzionali espliciti e consci (es. ansia).

III. La grammatica dell’attribuzione mentale


1. Essenzialismo psicologico
Quando Descartes formulò la teoria per cui gli esseri umani sono composti da un corpo sensibile e di
un’anima immateriale, riteneva che la caratteristica distintiva della materia fosse la sua estensione, mentre
quella dell’anima era la capacità di pensare.

Oggi però i fisici hanno scardinato l’estensione come caratteristica distintiva della materia poiché si è
osservato che gli oggetti quotidiani sono perlopiù composti da “vuoto” (vedi spazio tra atomi). Allo stesso
tempo, gli scienziati cognitivi hanno rivalutato il termine pensiero: ai tempi di Descartes corrispondeva a
“coscienza”, “linguaggio e “mente”, mentre oggi si riferisce al funzionamento di un sistema cognitivo
concreto; per capire meglio, il pensiero è paragonabile “all’evoluzione” del termine “vita”: prima si pensava
che la vita fosse un élan vital, mentre oggi è l’insieme di processi fisici e chimici di un organismo.

Se la psicologia computazionale (il pensiero è una serie di computazioni cerebrali e eventi biochimici)
funziona davvero, allora il dualismo cartesiano è sempre sbagliato.
Tuttavia, potrebbe esserci ancora un dualismo che può essere condiviso sia dalla scienza che dal senso
comune: il dualismo attributivo. Il dualismo attributivo è un'attitudine umana generale, nota come
essenzialismo psicologico che prende forma nella psicologia del senso comune.

Essere essenzialisti significa che dietro i fenomeni osservabili ci siano delle essenze naturali (es. quando
parlo di gatti, io mi riferisco alla sua essenza, ovvero l’insieme di caratteristiche ineludibili che un gatto deve
avere; questo potrebbe essere il DNA o un dono divino). La soddisfazione di queste caratteristiche ineludibili
è indipendente dalle classificazioni culturali: un gatto è sempre un gatto anche se erroneamente lo
riconosciamo come puma.

L’essenzialismo è una tendenza teorica influente nella storia della scienza, soprattutto in quella ingenua (vedi
psicologia ingenua).

2. Dualismo attributivo
Il dualismo attributivo è una inclinazione nella nostra complessione biologica e psicologica a considerare le
persone come governate da forze non osservabili; i nostri corpi sono animati dalle menti.

Il dualismo attributivo è ontologicamente neutro, ovvero è disinteressato al problema dell’ontologia verso


cui dobbiamo essere impegnati, se adottiamo il vocabolario mentalistico. Il suo impegno riguarda l’efficacia
tra le cose fisiche e le menti immateriali per gli scopi del coordinamento delle condotte degli individui e la
loro previsione tramite il vocabolario intenzionale.

Mentre nelle teorie scientifiche l’introduzione di un nuovo costrutto teorico (es. particelle subatomiche) e il
conseguente impegno ontologico dipendono dall’equilibrio tra una certa stipulazione sociale e l’attrito
offerto dalle procedure sperimentabili, nel dualismo attributivo si tratta di un'inclinazione biologica; non è
una questione di come va la dinamica del mutamento culturale, ma di come siamo fatti.
[Scoprire che la realtà non è come ci sembra può destabilizzarci, ma scoprire qualcosa che spieghi meglio il
nostro funzionamento ci aiuta nella realtà quotidiana]

Il dualismo attributivo “subisce” il fenomeno della selezione naturale, infatti, se tutt’oggi siamo regolati da
questo dualismo, è perché, in qualche modo, questo ci è tornato utile. Se in un futuro l'attribuzione
psicologica non sarà un vantaggio, allora l’evoluzione ci porterà ad abbandonarlo.

Il dualismo attributivo è ispirato all’atteggiamento intenzionale di Dennett: per capire come funzionano gli
stati intenzionali, dobbiamo capire non tanto le entità, ma piuttosto ai modi in cui interpretiamo e attribuiamo
loro gli stati intenzionali. In generale noi prevediamo il comportamento seguendo tre atteggiamenti:

- Atteggiamento fisico → Lo impieghiamo quando conosciamo a sufficienza le leggi fisiche (es.


lasciar cadere una mela).

- Atteggiamento progettuale → Quando non conosciamo le leggi della fisica e siamo di fronte ad un
artefatto, leggiamo il suo progetto, una sorta di manuale delle istruzioni. Non importa sapere come
funziona, ma basta sapere che di fronte a certe sollecitazioni, esso si attiva

- Atteggiamento intenzionale → Quando noi vogliamo prevedere il comportamento di una entità


usando il vocabolario mentalistico, dobbiamo considerare l’entità come un agente razionale e di
conseguenza gli attribuiamo degli stati intenzionali

Il dualismo attributivo è ispirato all’idea che per prevedere il comportamento delle persone, noi consideriamo
gli altri come il risultato di un agente razionale guidato da credenze e desideri. Il dualismo attributivo
sembra la conseguenza naturale della tesi di Dennett, tuttavia esso si affida alla conoscenza di senso comune
una legittimità epistemica probabilmente eccessiva.

Se si interpretasse il dualismo attributivo come un processo sociale (noi siamo socialmente inclini a
prevedere il comportamento altrui), probabilmente il dualismo attributivo perderebbe importanza, tuttavia la
letteratura empirica corrobora l’idea che esso sia una inclinazione naturale e ciò gli conferisce validità.

Questa inclinazione naturale precede qualsiasi categorizzazione culturale, tuttavia è possibile usare la cultura
contro la natura (vedi deumanizzazione; si forza a non considerare persone ciò che il nostro cervello ci
suggerisce essere tali).

Le inclinazioni naturali però non sono mai responsabili dei nostri giudizi e comportamenti; infatti, noi
possiamo essere empatici solo se vediamo che c’è un guadagno in esso. Possiamo quindi intuire come la
sfera naturale sia naturale, tuttavia la componente culturale ha comunque una certa influenza.

3. Grilletti mentali
I movimenti riflessi (es. riflesso patellare) mostrano come non tutti i nostri movimenti siano deliberati
consapevolmente. Il nostro corpo è disseminato da grilletti fisici, ovvero meccanismi automatici di
stimolazione che attivano sequenze motorie stereotipate. Queste sequenze sono abitudini motorie, ovvero
azioni che svolgiamo come routine, ma che prima erano deliberative (es. andare in bici)

La scienza della mente ha dimostrato anche l’esistenza di grilletti mentali, ovvero meccanismi naturali
innescati automaticamente da stimoli ambientali che producono una interpretazione mentale per
comprendere il comportamento. Tra i grilletti mentali più ricorrente ricordiamo:

- Classificazione dei viventi a seconda del tipo di movimento che eseguono

- Riconoscere in certe configurazioni percettive delle facce


- Capacità di condividere l’attenzione con qualcuno

Gli indizi ambientali sono costituiti dalla possibilità di un contatto oculare e da un genere di movimento
che veicola le informazioni.

Il movimento è dotato di caratteristiche cinematiche specifiche a cui il cervello umano è talmente sensibile
da poter inferire anche dei tratti secondari dell’entità (es. età, genere, umore, …) Questa sembra essere una
capacità innata.

I grilletti mentali sono quindi capacità innate, culturalmente indipendenti, inconsapevoli, automatiche e
selettivamente sensibili a certi stimoli percettivi.

Il grilletto mentale per noi più importante è il riconoscimento dei volti poiché in essi sono contenute
numerose informazioni intenzionali ed emozionali utili al comportamento sociale - in particolare
all’interpretazione dei pensieri e delle emozioni altrui.

Per capire quanto sia importante per noi questa capacità, è bene ricordare la nostra illusione di vedere volti
nelle nuvole o nella fitta boscaglia: dal punto di vista evolutivo, è preferibile sovrastimare tale presenza
nell’ambiente, piuttosto che rischiare di non vedere quello giusto quando serve (nei limiti del rischio
patologico).

Il riconoscimento dei volti avviene in due fasi;

- Il cervello riconosce in una certa configurazione percettiva una faccia. In questa fase sono attivati il
giro occipitale inferiore e il giro fusiforme laterale

- Il cervello associa a quella configurazione percettiva un volto, ovvero un arricchimento di significati


personali ed esperienziali. In questa fase sono attivate l’insula e l’amigdala

Il legame tra i volti e le storie, testimoniato dalle neuroscienze cognitive, era stato sottolineato già da
Wittgenstein, ovviamente in uno stile diverso.

Seguire lo sguardo degli altri e condividere l’attenzione con qualcuno sono capacità contrassegnate dalla
precocità, dalla selettività degli stimoli ambientali e dalla presenza di aree cerebrali dedicate.

L’attenzione condivisa è essenziale per lo sviluppo del linguaggio infantile e di conseguenza alla futura vita
sociale.

Paul Bloom ne “Il bambino di Cartesio” sottolinea come i bambini siano dualisti sin dalla nascita: il
ragionamento teleologico (tutto è volto verso un fine) la nozione di causalità e la capacità di attribuire stati
mentali prendono precocemente forma nel cervello infantile.

Tale inclinazione naturale precede qualsiasi successiva categorizzazione culturale, nonostante quest’ultima
possa anche contravvenire la prima

ES: nella deumanizzazione, si usa la cultura contro la natura, forzandosi a non considerare persone ciò che il
nostro cervello ci suggerisce essere tali.
Le inclinazioni naturali non sono mai responsabili dei nostri giudizi e dei comportamenti che adottiamo. Se
vogliamo essere empatici e compassionevoli, dobbiamo esserlo perché ci va o perché ne vale la pena, non
perché ci sono certe aree cerebrali che sono responsabili di quei sentimenti

IV. La scienza cognitiva


1. Come funziona
Le basi della scienza della mente sono date dalla psicologia sperimentale e dalla teoria computazionale.

La psicologia prima dell'avvento della scienza cognitiva era perlopiù di impronta comportamentista e le
sue scoperte sono state una base della nuova scienza della mente, ma anche un pesante ostacolo a causa del
suo palese ostracismo verso l'idea stessa di “mente" concepita come una oscura scatola nera frapposta tra
l’osservabilità degli input ambientali e le risposte comportamentali misurabili.

La nascita della nuova scienza della mente viene fatta coincidere con la recensione critica di Noam
Chomsky nel 1959 del libro “Verbal Behavior” di B.F. Skinner.

La teoria della computazione aveva fornito la base per una soluzione al problema filosofico della relazione
tra la mente il corpo e contemporaneamente una teoria matematica di come tutto questo possa accadere.

Due sono i modi per affrontare il funzionamento della mente:

- “Smontare” la scatola della mente e capirne l’architettura computazionale


- Comprendere la grammatica a considerare “mentali” certi fenomeni del mondo

Alan Turing, uno degli studiosi la cui visione ha condizionato la forma odierna alla scienza della mente, era
interessato sia alla comprensione di come stanno le cose sia alla grammatica dell'attribuzione psicologica.

- Comprensione del funzionamento → Ha contribuito grazie alla sua celebre macchina in grado di
calcolare qualsiasi cosa si possa calcolare; è un meccanismo con capacità cognitive grazie
all’implementazione di regole matematiche

- Attribuzione psicologica → Se ammettiamo la possibilità che i pensieri possono provenire anche da


dispositivi artificiali, allora la macchina di Turing è dotata di pensieri e sentimenti.

John Searle dubita su questa ipotesi poiché, a detta sua, i nostri stati mentali hanno una
intenzionalità intrinseca che le macchine non possiedono e che di conseguenza non gli permettono
di capire il significato delle cose intelligenti.

Per smascherare il pregiudizio sul pensiero proveniente da una base artificiale, Turing elabora il
gioco dell’imitazione:

“Saresti in grado di distinguere un uomo da una donna senza poter contare su alcun aiuto
di tipo fisico (osservazione del corpo, del comportamento e del timbro della voce), ma
soltanto su un terminale di videoscrittura? Riusciremmo a capire se la macchina ci sta
ingannando?”

Secondo Turing, se un individuo dubita dell’affidabilità della macchina, starebbe


involontariamente attribuendo pensieri tipici dell’umano e di conseguenza il pregiudizio
verrebbe smascherato
La SCC ha avuto una impronta fortemente computazionale e artificialista, infatti, il lavoro era
prevalentemente orientato all'elaborazione di modelli computazionali in grado di riprodurre l'architettura
cognitiva necessaria all'esecuzione di un certo compito cognitivo.

Si sbaglierebbe a presumere che la SCC fosse disinteressata dalla modellazione realistica delle funzioni
cerebrali e questo è dimostrato dal neuroscienziato David Marr che coniugava le sue competenze in
psicologia e in informatica: il risultato è una teoria della visione concepita in termini di elaborazione delle
informazioni.

Il problema principale è di rendere conto di come si passa da informazioni a due dimensioni, come quelle
elaborate sulla retina, all'esperienza di una visione a tre dimensioni. La risposta di Marr è che c'è una
elaborazione intermedia a due dimensioni e mezzo in cui alle informazioni bidimensionali si aggiungono
le informazioni relative alla tessitura delle superfici 1.

Nonostante Jerome Gibson contestasse la scarsa ecologia di questo modello di visione 2, i modelli teorici
sviluppati da Marr riguardo la visione, il cervelletto e l'ippocampo rappresentano una base significativa per i
successivi avanzamenti della scienza neurocomputazionale.

A differenza dei calcolatori il cui calcolo è seriale - un'operazione alla volta - quello del cervello umano è
parallelo - numerose elaborazioni allo stesso tempo. Questo è reso possibile dalla particolare fisiologia dei
neuroni e delle sinapsi.

La “infinita” capacità combinatoria delle sinapsi è ulteriormente resa complessa dalla natura inibitoria o
eccitatoria di ciascuna connessione sinaptica; tuttavia, essa può assumere qualsiasi misura intermedia.

Questo significherebbe che il calcolo cerebrale non è soltanto parallelo ma anche continuo: mentre il
calcolatore usa sequenze di 0 e 1, il cervello compie computazioni con ogni misura intermedia tra 0 e 1.

La ridondanza è un principio di base della fisiologia animale e come abbiamo due polmoni e due reni, il
cervello rappresenta più volte e in diversi modi la stessa caratteristica; questo rende il cervello resiliente al
decadimento cellulare, all'invecchiamento e alla competizione computazionale nei tessuti cerebrali.

La ridondanza è anche un importante principio del funzionamento del linguaggio; infatti, una particolare
caratteristica può essere rappresentata linguisticamente più volte nella stessa parola o nella stessa frase;
disseminare le frasi con la stessa informazione accresce la possibilità di mutua comprensione.

“Quella ragazza è andata via presto”, la marca del femminile è rappresentata sia nel dimostrativo
iniziale sia nel suffisso della parola “ragazza” sia nel suffisso di “andata”
2. Due sistemi, quasi due menti
Nella cultura occidentale la prospettiva predominante su cosa sia la conoscenza considera quest'ultima come
un insieme ordinato di giudizi, ossia di proposizioni in cui si attribuisce un certo predicato a un soggetto.
Nella loro forma prototipica i giudizi sono proposizioni particolari (“Davide è ottuso”) o universali
(“L’acqua bolle a cento gradi”) che attribuiscono una certa proprietà a qualcosa o a qualcuno.

Se diverse proposizioni formano un insieme ordinato e coerente su una certa materia allora abbiamo un
corpo di conoscenza relativa a quell’argomento.

1 La tessitura è rappresentata sfruttando la visione binoculare, ossia che le


informazioni visive provengono da due fonti distinte
2 “Vedere” non è soltanto l’elaborazione di informazioni visive da parte di un sistema cognitivo statico posto di fronte a
una scena percettiva, ma è una funzione al servizio dell’azione
ES: L’etologia animale è la conoscenza sul comportamento animale proprio perché è costituita da
un insieme coerente di giudizi universali come “I pavoni mostrano il loro ventaglio alle femmine per
corteggiarle”

Grazie alla loro struttura predicativa, i giudizi sono suscettibili di essere veri o falsi, a seconda se la
predicazione corrisponda a come stanno le cose nel mondo. In questo caso, si tratterebbe di una conoscenza
esplicita, ovvero la stessa conoscenza che potrebbe essere espressa da un enunciato se soltanto tale
trasformazione fosse elicitata dalle circostanze.

“Qualcuno ha conoscenza esplicita di qualcosa se ne possiamo evincere da lui una formulazione


con l’ausilio di domande e sollecitazioni opportune, dove l’entità della sollecitazione è lasciata nel
vago" Michael Dummett

Non è solo il riferimento alla esplicitezza a caratterizzare tale modello della conoscenza, ma anche la
nozione di verità linguistica: sapere se una certa proposizione è vera o falsa (es. sapere se è vero che
Ankara è la capitale della Turchia).

L’appello alla nozione di “verità” ha conseguenze su ciò che si intende per “conoscenza”: la trasformazione
linguistica della conoscenza risponde all’esigenza di stabilire una connessione affidabile tra la conoscenza
e la realtà.

In questa prospettiva hanno giocato un ruolo significativo pensatori come Aristotele - si può avere scienza
soltanto degli universali e solo per applicazione dei particolari - e Kant - la conoscenza sarebbe sostituita
essenzialmente da giudizi universali a priori. Nella tradizione della filosofia analitica è comune ritenere che
avere una conoscenza vuol dire avere una credenza vera e giustificata.

Affinché quest’ultima idea si realizzi, sono necessarie tre condizioni. Un certo individuo sa che P (dove P è
una qualsiasi proposizione) se e solo se:

1. Quella proposizione vera


2. Egli crede che sia vera
3. Tale credenza è anche giustificata.

Una visione alternativa sul ruolo della nozione di verità nella formazione della conoscenza proviene dal
pragmatismo filosofico. Tale prospettiva è basata sull'idea che "credere" e "conoscere" non siano
disposizioni psicologiche così lontane.

Secondo Richard Rorty, non è tanto questione di quanto sia salda la loro presa sul mondo ma di quanto
siamo disposti a scommettere sul loro contenuto. Quando diciamo che qualcosa è vero, vuol dire che:

- Siamo pronti a scommettere qualcosa su quello che diciamo


- Siamo pronti a chiamare in causa altre proposizioni o istanze del mondo a sostegno di quanto
stiamo affermando
- Siamo disponibili a far seguire alle parole anche delle azioni

Se diciamo che abbiamo delle credenze vere vuol dire che siamo inclini a pensare che esse reggeranno alle
contestazioni altrui.

Se la visione più comune sulla conoscenza enfatizza la conoscenza esplicita, quella alternativa fa leva sulla
conoscenza implicita, ossia quel genere di conoscenza che non è disponibile a essere catturata da una
affermazione.

“We can know more than we can tell”, Michael Polanyi


Mentre la conoscenza esplicita può essere espressa linguisticamente, la conoscenza tacita non può essere resa
linguisticamente senza un residuo dimostrativo, ossia un riferimento al mondo che si ottiene tramite un
gesto di indicazione o un'azione analoga.

Secondo questa prospettiva, la conoscenza sarebbe qualcosa di non concettuale, di non proposizionale e
procedurale. L'idea è che i giudizi, sia quelli universali sia quelli particolari, siano soltanto uno dei modi in
cui normalmente guadagniamo conoscenza, la manipoliamo e la condividiamo con gli altri. I giudizi sono
basati su concetti, ma è dubbio che tutta la conoscenza sia solo di natura concettuale e non anche di natura
implicita, non concettuale.

L'idea che la conoscenza proceda in modo duale è stata ampiamente investigata dalle teorie duali
dell'elaborazione degli stimoli, di teoria dei due sistemi mentali o addirittura di teoria delle due menti.

Secondo Jonathan Evans, la base è sempre l'idea che vi siano due tipi di pensiero: uno veloce intuitivo e
l'altro lento e deliberativo; le teorie dell'elaborazione duale sono state avanzate nel campo della psicologia
cognitiva a proposito dei processi cognitivi complessi, come ragionamento, giudizio o presa di decisione.

In queste teorie c'è un rischio legato alla tendenza ad associare troppe caratteristiche ai due sistemi finendo
per disegnare più due stili di pensiero che due sistemi mentali veri e propri o addirittura due menti dentro
lo stesso cervello.

Spinti da queste preoccupazioni Evans e Keith Stanovich hanno proposto di limitare a due soltanto le
caratteristiche distintive dei processi intuitivi e di quelli riflessivi:

- I primi non richiedono l'intervento della memoria di lavoro e sono autonomi


- I secondi richiedono la memoria di lavoro e producono duplicati interni delle cose

I due tipi di processi mentali hanno dei correlati tipici che possono anche non essere presenti in ogni caso:

- I processi autonomi sono veloci, paralleli, contestuali, …


- I processi riflessivi sono lenti, seriali, astratti

Il filosofo Gareth Evans ha fornito la caratterizzazione più convincente nell'ambito della filosofia analitica
riguardo la distinzione tra conoscenza concettuale e non concettuale. Nelle sue considerazioni si basava
sul lavoro di Peter Strawson e Keith Donnellan, i quali avevano notato che nella pratica linguistica il
riferimento dimostrativo non passa attraverso il soddisfacimento di alcuna proprietà istanziate nell'oggetto
a cui ci si sta riferendo.

Quando usiamo parole come "questo" e "quello" il riferimento può avere successo indipendentemente dal
fatto che si conoscano le proprietà che quel tale individuo istanzia; il riferimento, infatti, viene fissato in un
modo non concettuale per attirare l’attenzione sulla scena percettiva

Generalmente il funzionamento dei dimostrativi "percettivi" 3 fa leva su un "atto dimostrativo ", ad esempio
l'indicare con il dito che accompagna una frase che contiene le parole questo o quello.

Ogni lingua conosciuta ha un sistema dimostrativo con almeno due termini contrapposti per indicare
qualcosa che è vicino o lontano; con questi due termini si intende qualcosa che si trova all'interno dello
spazio raggiungibile con le mani o qualcosa che sfugge al raggio di azione delle braccia. Una volta modellato
lo spazio percettivo sulle possibilità motorie del corpo, lo schema può alludere a una galassia lontana o
vicina.

3 Ad esempio, “Quello lì, se non sta attento, cade” oppure “Tutto questo lo trovo convincente”
È interessante notare come la grammatica della lingua riflette il funzionamento del processo cognitivo
dell'attenzione condivisa; quest’ultima è necessaria per comprendere il significato del gesto di indicazione,
nonostante le performance più significative si limitano all'uso richiestivo del gesto.

La sfera cognitiva disegnata dal gesto di indicazione soltanto una porzione della ben più vasta area della
conoscenza non concettuale, tuttavia presenta la sua dinamica più tipica con uno stile cognitivo fatto di
appropriatezza motoria, un pesante ricorso a meccanismi empatici di tipo percettivo e a conoscenze implicite
precedenti.

Secondo Gilbert Ryle, esistono quindi due tipi di conoscenza:

- Conoscenza dichiarativa → Sapere che è una certa cosa è così (es. il Gran Sasso è in Abruzzo);
questa conoscenza è controllata dalla nozione di verità

- Conoscenza pratica o procedurale → Sapere come fare una certa cosa (es. saper nuotare); questa
conoscenza è controllata dalla nozione di efficacia

C’è controversia se la conoscenza procedurale sia riducibile a quella dichiarativa, ma il punto è che la
“traduzione dichiarativa” di una competenza procedurale contiene sempre un riferimento dimostrativo.

Mentre per gli studiosi conoscenza esplicita e implicita sono materia di divisione, per il cervello sono due
strategie da usare opportunamente: se un compito può essere svolto in modo automatico e veloce, allora non
occorrerà il ricorso al sistema lento e riflessivo.

Nella maggior parte dei casi, le conoscenze dichiarative e quelle procedurali sono mobilitate congiuntamente
nella conoscenza di qualcosa.

3. La frugalità cognitiva e il senso comune


La mente umana ha due stili distinti di elaborazione delle informazioni:

- Ogni volta che può, la mente rende frugali i suoi calcoli basandosi su informazioni di tipo
implicito; grazie a questa dinamica ci affidiamo a schemi motori abituali e a una classificazione
degli oggetti sociali e naturali piuttosto approssimativa, ma efficace.

- In tutte le altre circostanze, occorre pagare il costo della coscienza, della riflessione e del
ragionamento. Entra in gioco il linguaggio con le sue regole il sistema concettuale con la lingua
include in sé; tutto diventa più lento, ma anche più flessibile e a grana più fine

La principale strategia che la mente usa per essere frugale consiste nell'affidarsi al senso comune; Perconti,
nella Prova del budino, distingue livelli di senso comune:

- Profondo → Il livello profondo ha le caratteristiche della conoscenza implicita ed è refrattario ai


cambiamenti delle conoscenze scientifiche (es. se guardo fuori dalla finestra, il paesaggio non sarà
sottosopra)

Per il ruolo che la conoscenza ordinaria svolge nel preservarci attraverso l’esperienza mutevole è
vitale che essa si mantenga in equilibrio con i cambiamenti ambientali

- Superficiale → Il livello superficiale ha le caratteristiche della conoscenza esplicita ed è


emendabile sia dal mutamento sociale che dal cambiamento scientifico.

Se gli scienziati raggiungono un accordo su un argomento che contrasta la visione del senso comune,
la visione scientifica finirà per influenzare quella ordinaria
Dal punto di vista computazionale l'elaborazione della conoscenza implicita è un problema molto difficile:
per poter funzionare i processi cognitivi hanno bisogno di una lunghissima serie di conoscenze precedenti
che sono difficili, se non impossibili da esplicitare. John Searle ha chiamato “sfondo” questo genere di
conoscenza.

Il funzionamento di questo tipo di conoscenze è schematico-immaginativo nonché basato sull’esperienza


corporea. Il formato rappresentazionale prevalente del livello profondo sembra senso-motorio e il suo stile
cognitivo tipico è quello non concettuale.

McCarthy espone il problema della trattabilità computazionale: un compito è intrattabile dal punto di
vista computazionale se esso richiede delle risorse in termini di tempo e di spazio di memoria che crescono
in modo esponenziale rispetto alla lunghezza dell'input che si deve elaborare.

Fodor aveva fornito alla SCC la base teorica per disporre di medium computazionale di tipo proposizionale
su cui compiere le elaborazioni richieste dal modello. Con tali preoccupazioni in mente, Iris van Rooij ha
formulato la tesi della "Cognizione trattabile": essa tiene conto che le capacità cognitive umane sono
vincolate dalle limitate risorse computazionali del cervello umano.

Secondo tale prospettiva, l'insieme delle funzioni che descrivono le capacità cognitive umane effettive sono
concepite come un sottoinsieme di tutte le funzioni che descrivono le capacità cognitive possibili. Le
capacità cognitive possibili sono a loro volta un sottoinsieme delle funzioni che descrivono le funzioni che
sono trattabili.

ES: Immaginando un fox terrier, noi possiamo pensare che esso sia un cante, tuttavia si può
chiedere se la conoscenza che questa razza di cane è stata selezionata per la caccia alla volpe sia
un requisito necessario per pensare davvero a un fox terrier

Quanti sono i tratti semantici che sono inclusi nel contenuto di un certo concetto? Abbandonato il modello
classico che supponeva che la competenza concettuale dipendesse da un insieme di tratti necessari e
sufficienti alla specificazione intenzionale, sono state proposte alternative basate sull’idea che la competenza
concettuale sia basata su effetti prototipici e su rappresentazioni di spazi logici.

In prima battuta siamo spinti a immaginare che debba trattarsi di un una specificazione completa, infatti, se
la specificazione del contenuto è vaga, non è chiaro su cosa dovrebbe vertere esattamente l’elaborazione
delle informazioni.

Nonostante una specificazione completa appare irrealistica, negli scambi comunicativi ordinari la mutua
comprensione è garantita dal fatto che molte informazioni sono condivise in modo implicito dagli
interlocutori.

Di fronte all’idea di un contenuto intenzionale incompleto, i puristi della psicologia computazionale sono
inclini a chiedersi “Come si fa un calcolo sulla base di una rappresentazione vaga?” La risposta è che il
calcolo è trattabile perché la computazione cerebrale è frugale e questo è possibile grazie alle numerose
informazioni che vengono prese per buone dal cervello.

I circuiti neuronali coinvolti nell'elaborazione della conoscenza implicita includono i gangli della base e il
cervelletto, aree responsabili di numerosi processi relativi al controllo motorio incluso quello
dell'articolazione fonatoria.

Come il sistema senso-motorio codifica contemporaneamente una sequenza di movimento e il suo scopo
motorio, allo stesso modo l’elaborazione articolatoria vengono codificate anche informazioni sintattiche e
relative alla modulazione prosodica del parlato
“Lo stesso meccanismo neurochimico che è responsabile della trasformazione di un movimento
appreso in automatico è anche responsabile della trasformazione del ragionamento in una abitudine
del pensiero”, Masao Ito

Il cervello è uno straordinario dispositivo computazionale il cui stile computazionale è più frugale possibile
rendendo implicita quanta più conoscenza possibile. Per queste ragioni, la trattabilità è una preoccupazione
sia computazionale sia biologica; se si volesse assumere una direzione più naturalistica, si potrebbe parlare di
embodiment.

V. Chi sono io
1. Avere o essere una mente
Si può avere una mente oppure essere una mente? Le macchine che distribuiscono bibite hanno una certa
intelligenza, e quindi una mente, ma non mettono alcun senso di partecipazione consapevole in quello che
fanno; se fossero consapevoli di quello che stanno facendo, probabilmente si annoierebbero.

Essere una mente non implica solo la capacità di svolgere certe funzioni cognitive (come l’attenzione, la
visione, il linguaggio), infatti essere una mente significa essere una persona con una particolare
configurazione di funzioni cognitive che divengono la caratteristica essenziale della loro natura.

Nella differenza tra avere una mente ed esserlo gioca un ruolo cruciale la coscienza: secondo la tesi della
coestensione di mente e coscienza di Descartes, le creature che sono delle menti sono anche delle persone
perché sono consapevoli di cosa succede loro

Oltre ad una tesi di identità tra mente e coscienza, Descartes delinea anche una netta distinzione tra ideazione
e azione. Anche Locke sosteneva l’identità tra mente e coscienza, infatti faceva dipendere da questa tesi
anche ciò che pensava dell’identità personale: coscienza, pensiero e continuità dell’esperienza attraverso la
memoria.

“Poiché la consapevolezza sempre accompagna il pensiero, è ciò che permette di distinguere se


stesso da tutte le altre cose pensanti, in ciò consiste l'identità personale: ossia nel fatto che un
essere razionale sia sempre il medesimo; questa consapeolezza può esser eportata al passato, a
qualunque passata azione o pensiero, fin là giunge l'identità di quella persona”

Anche il senso comune esprime la stessa intuizione circa la coestensione tra le mente e la coscienza: se si
chiedesse a un nostro qualsiasi interlocutore con quale facoltà cognitiva preferirebbe rimanere, la risposta più
probabile sarebbe la coscienza; con tutte le altre funzioni c'è il dubbio che non sarei più io a possederle.

Tutti sanno che quando ci si addormenta o si sviene, si perde coscienza; lo stato di coscienza può essere
anche alterato da sostanze psicoattive, ma questo non significa che verrà completamente perso, anzi,
sappiamo che si recupererà spontaneamente.

Con la morte invece, la coscienza viene persa irrimediabilmente ed è per questo che la morte spaventa così
tanto; allo stesso modo, la promessa di recuperare la propria consapeolezza dopo la morte è ciò che rende
consolante la prospettiva di molte religioni.

La scienza della mente, tuttavia, ha mostrato che mente e coscienza non sono due facce della stessa
medaglia. Questo pensiero inizia a farsi strada con il concetto di “inconscio”. Esistono due tipi di inconscio:

- Inconscio freudiano/psicodinamico → Dotato di una struttura interna, è caratterizzato da pulsioni


di base (ES, Super-io, Io) che si scontrano con la struttura sociale influenzando il nostro
comportamento in modo impermeabile alla vita cosciente. Certi aspetti dell’esperienza consapevole
possono venire "rimossi" perché troppo difficile da integrare con altri aspetti della vita mentale, e
cacciati nell’inconscio

- Inconscio cognitivo → Per comprenderlo è importante far leva sulla distinzione tra processi mentali
personali e sub-personali.

- Processi personali → Sono quei processi ascrivibili alle persone e caratterizzati dalla
consapevolezza (es. credere, temere, desiderare)

ES: Elena desidera afferrare un bicchiere

- Processi sub-personali → Si trattano di calcoli complessi che avvengono sotto la soglia


della personalità

ES: Per prendere il bicchiere il movimento della mano di Elena dovrà seguire uno schema
cinematico specifico

Un altro esempio di facoltà in cui sono protagonisti entrambi i processi è la vista, in particolare la
percezione dei volti: il primo livello di elaborazione delle informazioni percettive avviene a livello
subpersonale ed è soltanto quanto intervengono le aree corticali responsabili della modulazione
emotiva che il processo di riconoscimento di un volto finisce per riguardarci a livello personale

I processi cognitivi inconsci, nel senso cognitivo del termine, costituiscono la maggior parte dell’attività
cerebrale (es. esecuzione di movimenti complessi, ragionamento, visione o capacità di parlare) poiché essere
consapevoli dei processi subpersonali sarebbe paralizzante.

ES: Quando si impara a guidare, all’inizio si presta attenzione alla sequenza di movimenti
necessaria, soltanto quando questa sequenza diventa una routine che diventiamo efficienti alla
guida

Normalmente siamo coscienti soltanto del risultato dell’intero processo, dei suoi scopi o della loro
pianificazione poiché il fabbisogno di glucosio e ossigeno per il funzionamento del SNC è elevato.

Per capire quanta energia aggiuntiva è necessaria rispetto a quella basale per essere coscienti, bisogna prima
risolvere la ricerca dei correlati neuronali della coscienza. Grazie alle tecniche di neuroimaging, si è
permesso di comprendere la localizzazione delle varie funzioni cerebrale, fatta eccezione per la coscienza
per cui il cervello è coinvolto ampiamente, ma non in modo selettivo, nell’emergere della consapevolezza.
Inoltre, ciò che chiamiamo “coscienza” è, in effetti, una collezione di diverse funzioni cognitive, tutte
variamente localizzate.

Per il cervello, il tempo è una risorsa altrettanto preziosa dell’energia, tuttavia, nonostante i tempi di
funzionamenti cerebrale oscillino tra i 20-40 millesimi di secondo, l’emergenza della coscienza avviene tra i
350 millisecondi e il secondo e mezzo; questo lasso di tempo è chiamato ritardo di Libet.

Tutta questa storia sperimentale è stata uno scandalo all’interno del dibattito filosofico sul libero arbitrio;
nella storia dei secoli si è sempre coltivato il dubbio che la libertà sia, nient’altro che una illusione.

La minaccia tradizionale alla libertà era un Dio onnisciente e onnipotente: ma allora se Dio sa già che
sceglierò liberamente di alzare un braccio, non sarò forse, più che padrone della mia vita, un personaggio di
una rappresentazione teatrale il cui copione è già stato scritto?

Nella modernità il ruolo di dio come minaccia per la libertà umana è stato assunto dalla Natura: l’immagine
prevalente della natura, all’interno della scienza sperimentale, è decisamente deterministica.
ES: I corpi non possono che cadere secondo le leggi della gravità e tenendo conto dell’attrito.

La meccanica quantistica ha messo in discussione questo punto di vista, in particolare il principio di


indeterminazione di Heisenberg:

“Nella formulazione della legge di causalità: ‘Se conosciamo il presente, possiamo calcolare il
futuro’ è falsa non la conclusione, ma la premessa, Noi non possiamo conoscere il presente in ogni
elemento determinante”

Il fatto più significativo non è tanto la disputa metafisica sul determinismo, quanto il dubbio che essa c'entra
davvero il punto della questione della libertà.

La libertà è qualcosa che avvertiamo interiormente, in modo introspettivo, ma anche una nozione sociale:
essa ha la possibilità di fornire delle giustificazioni, di spiegare la propria scelta e di presentarla come
determinata in modo autonomo.

Nel quadro di riferimento di un soggetto ideale razionale, che prima di assumere una decisione abbia
considerato ogni elemento pertinente e prodotto una gerarchia completa delle proprie preferenze, sembra
ugualmente inadeguato parlare di “libertà” dato che la scelta sembra dover dipendere da tutte le condizioni
sopracitate.

La libertà è una nozione sociale che usiamo per i casi in cui disponiamo di elementi per assume una certa
decisione, ma si richiede ancora qualcosa di ulteriore oltre quegli elementi di giudizio

2. Qualcosa di superfluo
La coscienza sembra un lusso: la maggior parte dei compiti in cui siamo intenti sembra non richiederla, e in
molti casi essi vengono meglio eseguiti senza consapevolezza. Inoltre, essere consapevoli è
significativamente costoso in termini di tempo ed energia.

La maggior parte degli animali fa a meno della coscienza senza perdere affatto in adeguatezza ambientale. In
natura, i lussi non sono concessi: le strutture fisiologiche vengono selezionate secondo il vantaggio che esse
portano in termini di adattamento. Tuttavia esistono delle strutture morfologiche e dei comportamenti che
potremmo definire come lussuosi, e che svolgono un ruolo importante nella selezione sessuale (es. seleziona
naturale).

Secondo Geoffrey Miller, nella specie umana, i caratteri sessuali secondari, ovvero i comportamenti e
strutture nella psicologia evoluzionistica, siano interamente di tipo mentale. Potremmo pensare che quindi il
menale sia un carattere secondario a servizio della selezione naturale

Anche la coscienza potrebbe essere una caratteristica sessuale secondaria selezionata per renderci più
efficienti nella competizione per la riproduzione. La coscienza ha quindi anche una funzione difensiva: è lo
spazio logico in cui il linguaggio verbale forma un racconto in cui le nostre azioni sono giustificate e
orientate verso certi scopi.

Tale funzione si vede quando forniamo giustificazioni ex post per le scelte che compiamo. In “Telling more
than we can know”, gli psicologi Nisbett e Wilson dimostrano la confabulazione, ovvero darci un tono
anche di fronte a noi stessi, attraverso una scena sperimentale:

In un centro commerciale, veniva chiesto alle persone di scegliere quali fossero i collant di migliore
qualità tra una serie di quattro. Nonostante i collant fossero tutti uguali, i partecipanti fornivano
giustificazione posticce sul colore, il tessuto e la qualità
[In questo esperimento ha influenza la lateralizzazione degli emisferi: i destrimani hanno preferenza
verso destra e viceversa per i mancini]

Esperimenti di questo tipo dimostrano due cose:

- Tendiamo a fornire giustificazioni ex post e posticce per scelte che assumiamo fuori dalla nostra
deliberazione cosciente

- Le motivazioni vere delle nostre scelte non risiedono nelle giustificazioni

Sono stati anche analizzati anche i casi patologici della visione cieca, della prosopagnosia e del neglect per
avere un quadro più chiaro

Halligan e Marshall mostravano a pazienti affetti da neglect due disegni che raffiguravano la stessa
casa; in un disegno una parte della casa era in fiamme. Nonostante i pazienti affermassero che le due
case erano uguali, avevano una preferenza statisticamente significativa di scelta verso la casa non in
fiamme.

Il cervello ha elaborato l’informazione senza comunicarla; non si tratta di una vera e propria
confabulazione, ma una prova che l’elaborazione inconsapevole delle informazioni può influenzare
una scelta che crediamo sia stata consapevole e deliberata

Per studiare il comportamento efficace, ma privo di consapevolezza, i filosofi della mente hanno inventato
una varietà di zombies: totalmente identici ad altre persone sia nell’aspetto che nel comportamento
manifesto, ma privi di coscienza.

Immaginare qualcuno che sia privo di coscienza, ma che si adatta alle circostanze e si comporti in modo
indistinguibile a quelli che invece possiedono coscienza, equivale a dire che la coscienza è inutile.

La fantasia degli zombies filosofici è afflitta da una petitio principii4 in quanto assume già nelle premesse ciò
che si vorrebbe dimostrare, ossia che la coscienza è inutile, dato che è incluso nello stesso contenuto
immaginativo che essa non svolga alcuna funzione apprezzabile (fatta eccezione per i casi di autoinganno,
confabulazione e patologie). Di norma è grazie al fatto che siamo consapevoli della scena percettiva che
pianifichiamo, ricordiamo, …

Gli esperimenti mentali sono una risorsa importante anche per la scienza sperimentale. Tra i più celebri
ricordiamo

- Einstein per illustrare la teoria della relatività


- Galileo per escludere l’attrito dal moto su un piano inclinato

Anche i filosofi hanno affidato molta parte del loro discorso all’immaginazione; essa è necessaria per fornire
schemi di conoscenza, ipotizzare schemi possibili, formulare previsioni

- Leibniz e il mulino per dimostrare il meccanicismo


- Putnam e i super-spartani contro il comportamentismo
- I paradossi di Zenone
- Ned block e i qualia invertiti per la non riducibilità degli stati mentali a stati funzionali
- Chalmers e gli zombies privi di coscienza
- Jackson e la scienziata Mary
- Nagel e gli uomini con la mente da pipistrello

4 Ragionamento fallace nel quale la proposizione che deve essere provata è supposta implicitamente o esplicitamente
nelle premesse
I filosofi della mente ricorrono agli esperimenti mentali come una forma di neuropsicologia estrema e
immaginativa. La neuropsicologia si basa sull'osservazione di cosa succede in seguito a una lesione cerebrale
nel tentativo di comprendere come una singola funzione interagisce con le altre,

3. Varietà di coscienza
La dicotomia tra coscienza e inconscio è una delle distinzioni su cui si basa il modello duale della mente:
siccome essere consapevoli è estremamente costoso, processi automatici contribuiscono alla frugalità.

Considerare la “coscienza” come una caratteristica univoca o un marchio da applicare ai fenomeni mentali è
qualcosa di troppo grossolano. Il termine “coscienza” allude a una rosa di fenomeni psichici (es. attenzione,
vigilanza e introspezione), ogni atto percettivo dotato di partecipazione personale, il ragionamento e la
pratica linguistica.

La migliore disciplina terminologica utile per salvare l’uso della coscienza in un contesto scientifico è quella
che fa leva sulla distinzione tra coscienza concettuale e coscienza non concettuale:

- Coscienza concettuale → Richiede riflessione, più tempo e il ricorso al linguaggio verbale.

- Coscienza non concettuale → Ricorre a sistemi di elaborazione veloci e computazionalmente


frugali. Il modo più comune per arrivare

Il modo più comune di sperimentare la coscienza non concettuale consiste nel riconoscere il proprio corpo
(es. specchio, foto, ombra, voce, odore …). Queste forme di riconoscimento corporee non richiedono alcun
concetto di noi stessi e a un livello ancora più semplice, non è neppur necessario il rilevamento di quelle
configurazioni percettive per elicitare la sensazione di consapevolezza

Alcuni animali - tra cui scimpanzé, delfini ed elefanti - hanno mostrato la capacità di riconoscere la
propria immagine riflessa in uno specchio, mentre altre numerose specie - tra cui cani e gatti - di
fronte allo specchio si comportano come se vedessero un loro simile.

Spesso la consapevolezza della propria immagine conduce a un secondo stadio del fenomeno:

- In un primo momento la visione di qualcuno allo specchio sollecita il coordinamento visuo-motorio


- Successivamente diventiamo consapevoli di stare guardando una nostra immagine
- Facciamo inferenze riguardo il nostro aspetto

L’elaborazione di questi tre flussi di informazioni è selettiva, contemporanea e costituisce un’unica


esperienza. La consapevolezza di noi stessi non si esaurisce dalla capacità di riconoscere il proprio corpo, ma
è costituita dall’articolazione linguistica e concettuale; il flusso di coscienza (James Joyce) è il modo in cui
ciascuno di noi fa esperienza di questo lato della coscienza

Tutto ciò è costantemente modulato e condizionato dalle emozioni che sono inoltre il “grilletto” che consente
alla coscienza concettuale di distendersi nel tempo.

La lingua è il vincolo principale per l’esercizio della coscienza concettuale. Il flusso di coscienza è
guidato dalla logica delle parole e dei concetti ed evidenzia il fatto che essere consapevoli è una capacità
strutturata.

Per il funzionamento del lato concettuale della coscienza e dell’autocoscienza è fondamentale accedere ai
propri contenuti mentali e isolarne il lato semantico da quello emotivo.

Il filosofo statunitense Ned Block distingue due componenti della coscienza:


- Coscienza di accesso (o psicologica) → Uno stato percettivo è consapevole se il suo contenuto è
elaborato da una certa funzione cognitiva, a cui essa può accedere per controllare il comportamento e
il ragionamento.

Uno stato mentale è consapevole se il suo contenuto è accessibile e disponibile per quelle
elaborazioni e la pianificazione del comportamento; la coscienza non è altro che un pezzo del
“marchingegno” della mente

- Coscienza fenomenica → Essere consapevoli non è solo un modo per far funzionare la mente, ma
anche il modo in cui facciamo esperienza

Questo punto è stato illustrato da Nagel nell’articolo Cosa si prova ad essere un pipistrello.
Sarebbe simile a orientarsi nel buio usando dei suoni invece che la luce? Ci si sentirebbe
rilassati a stare a testa in giù?
Per quanto possiamo fantasticare, quello che Nagel afferma è noi non stiamo immaginando
cosa un pipistrello prova a essere se stesso, ma piuttosto simuliamo come noi proveremo a
essere un pipistrello

L’esperienza consapevole è un aspetto ineludibile della coscienza e perciò la prospettiva in prima


e in terza persona sembrano in un contrasto insanabile.

Commentando sul lavoro di Nagel, Dennett invita a estendere questo tipo di immaginazione anche a
cose che non dovrebbe provocare esperienze soggettive (es. lattine di birra). Questo porta ad una
difficoltà nel discriminare quali animali possono, o meno, provare esperienza.

Dopo la nascita della psicologia sperimentale e l’avvento del comportamentismo, sul tema della coscienza è
caduta una interdizione: non era possibile studiare qualcosa concepito come irrimediabilmente soggettivo.

Per la SCC (seconda metà del Novecento) fatta di algoritmi di problem solving, la coscienza era un
fenomeno troppo difficile da comprendere. Soltanto quando, negli anni ‘90, il ruolo di disciplina leader nel
campo della scienza della mente è stato assunto dalle neuroscienze le cose sono cambiate.

La possibilità di osservare, grazie alle tecniche di visualizzazione cerebrale, il malfunzionamento, in genere a


causa di un danno cerebrale, di un aspetto specifico della coscienza, ha consentito di localizzare molte
funzioni cognitive conscie e di fare supposizioni sull’architettura funzionale.

In gran parte si è trattato della coscienza d’accesso, ma recentemente ci si è soffermati sul lato fenomenico
della coscienza; un esempio sono le ricerche relative alla sensazione di appartenenza corporea.

Ciascuno sa per certo che una mano è la propria e che il corpo di cui sta facendo esperienza gli appartiene.
Ma come?

Il senso di appartenenza corporea può essere:

- Conscio → Costituito dall’immagine corporea per cui è possibile l'autoriconoscimento

- Inconscio → Costituito dallo schema corporeo, ovvero l’immagine del corpo e delle sue parti in
relazione alla loro funzione.

La sensazione di appartenenza al proprio corpo ha, a sua volta, due fonti, entrambe non concettuali:

- Rappresentazione multimodale volta al controllo motorio → Produce una disponibilità corporea


immediata, ossia non mediata dal soddisfacimento di alcuna proprietà concettuale
Sentiamo che una mano è la nostra e ne siamo intuitivamente certi, perché è quella mano che
fa parte del corredo delle mie possibilità motorie, ossia di quelle cose che posso
concretamente farci

- Senso di agentività (agency) → Comporta avere la disponibilità di un corpo in movimento e a volte


può anche superare la rappresentazione corporea come è stato dimostrato nell’illusione della mano
di gomma attiva: se si mostra a soggetti sperimentali la propria mano proiettata sopra quella reale
tramite un ologramma e si chiede loro di flettere un dito, capita spesso che le persone scambiano il
dito proiettato per il proprio; qui il senso di agency ha la meglio sulla rappresentazione corporea

Riassumendo, un ragionamento sulla coscienza è così articolato:

- Coscienza non concettuale = Autoriconoscimento

- Autoriconoscimento psicologico
- Autoriconoscimento fenomenico

- Coscienza concettuale = Ragionamento riflessivo

- Autocoscienza psicologica
- Autocoscienza fenomenica

VI. Le altre menti


1. La cognizione sociale
Siamo abituati a considerare le altre persone come agenti razionali, ovvero individui che agiscono sulla base
di emozioni e ragioni. Considerando gli altri in questo modo, li trattiamo come se fossero come noi.

Quali giustificazioni abbiamo per credere ci? E se gli altri, invece che essere delle menti, fossero degli
zombies? Dopo tutto, ci sono parecchie situazioni in cui ci troviamo a sovrastimare o a confondere del tutto
le capacità mentali riflesse nelle cose. È la nostra particolare abilità e sensibilità a riconoscere nelle facce
delle determinate emozioni e intenzioni a condurci in errore (vedi automobili con “musi” espressivi).

La teoria dei grilletti mentali non vale come giustificazione della fiducia che abbiamo verso le altre menti.
Una giustificazione, infatti, riguarda un atteggiamento che si sarebbe potuto anche non tenere.

Una risposta migliore sarebbe “Sono fatto così” poiché sotto intenderebbe l’idea che veniamo al mondo
sensibili a una serie di configurazioni percettive che ci dispongono a considerare certi sistemi che
incontriamo nell'ambiente come agenti razionali simili a noi

La filosofia della mente proviene dalle scienze sociali e il modello prevalente è stato il modello standard
delle scienze sociali: secondo questa prospettiva fortemente “culturalista”, gli umani si presentano come
tabulae rasae, privi di qualsiasi condizionamento biologico e naturale, e pronti a essere plasmati dai
condizionamenti della cultura e della società in cui si vive.

I filosofi americani R.Mallon e S. Stich preferiscono parlare di “costruzionismo sociale”, espressione con cui
ci si riferisce al comportamentismo e al costruttivismo . Le esperienze familiari, le influenze sociali e
culturali edificano nel corso del tempo l’intera impalcatura mentale. Il processo conoscitivo sarebbe invasivo
e unidirezionale, ovvero che procede sempre dall’esterno all’interno

Secondo questa prospettiva le menti umane sarebbero concepite come prive di determinazioni iniziali -
garantendo loro flessibilità e capacità adattiva - e di vincoli genetici o biologiche. Ognuno di noi sarebbe il
prodotto di una serie di processi storici e culturali.
Dagli anni ‘80, il modello standard delle scienze sociali è andato in crisi, inciampando sulle scoperte
empiriche della psicologia dello sviluppo portate avanti dall’innatismo di Noam Chomsky e dalla tesi
dell’universalismo dei tratti cognitivi. Questo dimostra che quello che i bambini mostrano di saper fare nei
primi anni di vita non è frutto dell'educazione.

Questo genere di predisposizioni naturali valgono come vincoli per la socialità umana. Noi umani viviamo
all’interno di complesse relazioni intersoggettive che sono essenziali per il corteggiamento, la riproduzione,
la cura dei bambini e le strategie per procurarsi le risorse.

SI tratta di pratiche sociali largamente pervasive nelle culture umane che provano una linea di continuità tra
le nostre disposizioni di animali sociali e la forma presa dal processo di civilizzazione umana.

L’acquisizione principale per le scienze sociali che deriva dalla scienza della mente, è l’idea che la
cognizione sociale stia alla base della socialità umana. La tesi è che la socialità umana dipende dalla
conoscenza per la semplice ragione che la cognizione sociale interviene prima degli altri elementi che la
influenzano

ES: Numero di Dunbar → Secondo l’antropologo Robin Dunbar le persone possono intrattenere
relazioni stabili fino con un massimo di 150 persone; oltre questo limite, le strategie di allocazione
diventano inefficaci e non si è più capaci di riconoscere i segnali visivi identificativi degli altri
individui

Il “numero di Dunbar” è un tipo di vincolo biologico sulla forma della socialità umana

L’ipotesi del cervello sociale, ossia che il cervello umano si sia sviluppato essenzialmente per gli scopi della
particolare socialità che la nostra specie andava realizzando, intende fornire una risposta alla questione della
straordinaria dimensione del cervello umano.

Dunbar ha dimostrato, grazie alle tecniche di neuroimaging, che i compiti coinvolti nella cognizione sociali
siano cognitivamente molto gravosi; infatti, occorre più tempo e viene coinvolta una rete neuronali molto più
estesa di quella basale

I grandi cervelli umani dipendono dai gravosi bisogni computazionali che sono richiesti dall'elaborazione
della loro complessa vita sociale. Non si tratta solamente di tenere conto delle gerarchie e svolgere dei
compiti in modo coordinato, ma di modulare il comportamento individuale, tenendo conto degli interessi e
delle emozioni altrui.

L’ipotesi del cervello sociale fa riferimento a particolari pressioni selettive che i nostri predecessori hanno
dovuto affrontare per cavarsela nell’ambiente sociale. Serviva una “intelligenza machiavellica” in grado di
elaborare strategie competitive tenendo conto delle prospettive altrui e preparandosi anche all’inganno

2. Equilibrio tra antipatia e simpatia


Nella storia del pensiero filosofico, ci si è sempre interrogati sulla natura delle disposizioni umane verso gli
altri ponendosi la più banale delle domande: siamo naturalmente buoni o cattivi?

Nell’età moderna, gli “ottimisti” (es. come Jean-Jacques Rousseau) credevano che nel loro stato di natura,
gli esseri umani siano pacifici e collaborativi e che soltanto successivamente all’ingresso nella società civile
si corrompano e coltivino sentimenti negativi (mito del buon selvaggio).

Diversamente, i “pessimisti” (es. Thomas Hobbes) ritenevano che nello stato di natura, gli esseri umani sono
inclini alla sopraffazione per soddisfare i loro bisogni e procurarsi le risorse (homo homini lupus): questo
genera una condizione di estrema insicurezza, dalla quale si può uscire solamente conferendo interamente
allo Stato o (Il Leviatano) la possibilità esclusiva di usare la forza.

Rispetto alle riflessioni classiche sulla bontà umana innata, quelle più recenti sono caratterizzate dal supporto
di prove empiriche: la scienza cognitiva ha mostrato negli ultimi decenni che il cervello umano contiene sia
meccanismi prosociali sia meccanismi dedicati all’aggressività e all’esclusione sociale.

ES: I neuroni specchio sono il meccanismo cerebrale d’eccellenza rivolto all’empatia: scoperti
negli anni ‘90 da un gruppo di ricercatori italiani (Rizzolati e Gallese), i neuroni specchio si
attivano quando eseguiamo un'azione in proprio sia quando la osserviamo eseguita da qualcun
altro; sarebbero quindi la base cerebrale per la comprensione empatica e la comprensione delle
azioni che osserviamo attraverso una simulazione interna in prima persona.
Dunque, è l’empatia motoria la base della comprensione del significato delle azioni.

La vecchia distinzione filosofica tra “ideazione” e “azione” viene messa radicalmente in discussione.
Tradizionalmente si credeva che la sensazione intuitiva permettesse la pianificazione di un’azione e
successivamente si davano comandi al corpo per eseguire quell’azione, ma questo non significa che
l’esecuzione sia sempre implicita all’ideazione.

La pianificazione può essere elaborata anche in una modalità offline, come quando un’azione immaginata
non venga poi concretamente eseguita.

Come hanno mostrato gli psicologi Anna Borghi e Ferdinand Binkofski, non solo la comprensione dei
concetti e delle parole concrete, ma anche dei loro corrispettivi astratti, è fondata sulla percezione e l’azione.

“Questo significa che non soltanto parole concrete come “palla”, ma anche parole come “verità”
riattivano nel cervello delle reti di tipo senso-motorio”

Il fenomeno della comprensione viene quindi raffigurato come una sorta di rappresentazione interna di tipo
schematico-immaginativo, fatta di schemi di movimento in vista del raggiungimento di uno scopo.

In questa tesi si nota la divaricazione tra scienza cognitiva di prima generazione e quella derivata dalla
svolta dell’embodiment: se anche la comprensione delle parole e dei concetti astratti risulta mediata dalla
simulazione motoria, è l’elaborazione del significato in generale che appare come modellata sull’esperienza
corporea.

Le rappresentazioni amodali, ossia quelle che non sarebbero caratterizzata da alcun formato di tipo
percettivo e che erano tanto care alla SCC, non esisterebbero per nulla. Ogni rappresentazione mentale
sarebbe dotata di un formato percettivo e motorio.

La mente è il modo principale in cui gli organismi partecipano al mondo e il cervello umano, così costo in
termini evolutivi, non può essere stato selezionato come un dispositivo di tipo contemplativo (es. apprezzare
e discutere la bellezza). E‘ più probabile che queste ultime siano abilità che ci sono sviluppate parassitando
capacità selezionate per scopi più immediati e urgenti, come la riproduzione e la ricerca delle risorse.

Il sistema specchio non è un meccanismo mentale unicamente umano dedicato alla comprensione empatica;
questa classe di neuroni è stata dapprima scoperta nel cervello dei macachi.

Gli ultimi decenni di ricerche empiriche sul comportamento gli scimpanzé, dei gorilla e degli altri primati,
hanno dimostrato la straordinaria articolazione dei loro rapporti “morali” e “politici”.

Secondo il primatologo olandese Franz de Waal, la moralità non va intesa come una prerogativa
unicamente umana: gli scimpanzé, per esempio, sono soliti consolare i propri simili abbracciandoli e
baciandoli. E‘ necessaria una qualche forma di empatia come condizione per il manifestarsi di un
comportamento ispirato alla compassione. L’empatia è uno dei pilastri della moralità.

L’altro, secondo F. De Waal, è il sentimento di equità e reciprocità.

Una sperimentatrice offre a una scimmia un pezzo di cetriolo in cambio di un sassolino e la scimmia
lo trova vantaggioso. In seguito offre alla seconda scimmia dell’uva con lo stesso sistema dello
scambio.
Appena la prima scimmia nota il diverso trattamento riservato alla seconda, inizia a ribellarsi e a
dimostrare così il senso dell’ingiustizia nei primati

Anche la fiducia nella reciprocità, che è una estensione del senso di giustizia, ha un corrispettivo nel
comportamento sociale degli scimpanzé.

Gioco della fiducia: Si può ricevere una piccola ricompensa ed essere sicuri di tenerla tutta per sé
oppure farne avere una molto più consistente a un secondo individuo, sperando che gliene renda
una parte considerando che altrimenti non avrebbero ricevuto nulla.

Gli scimpanzé sono soliti entrare in una relazione intersoggettiva con una alta propensione alla fiducia e la
modulano a seconda del comportamento del partner

Accanto ai meccanismi dedicati all’empatia, nel cervello ci sono anche quelli dedicati alla antipatia,
all’esclusione e all’aggressività. I sentimenti prosociali sono sensibili all’appartenenza al proprio gruppo e
dunque la compassione è più una faccenda interna al gruppo più che un sentimento universale.

All’interno del proprio gruppo valgono lealtà e sostegno reciproco, ma con quelli dell’altro gruppo questi
sentimenti passano in secondo piano. Inoltre molte prove sperimentali, fornite da Hirschfeld, mostrano nei
bambini una tendenza innata al razzismo: sono in grado di riconoscere precocemente le persone
appartenenti a razze diverse e manifestano una spiccata preferenza per i volti della propria razza; già dai 3
anni compaiono atteggiamenti di discriminazione verso le minoranze.

Dal punto di vista evoluzionistico gli esseri umani non sono predisposti alla pace, alla guerra, alla
compassione o alla discriminazione: sono valori maturi, interamente legati alla crescita culturale. Essi
trovano una base in molti atteggiamenti che sono naturali negli esseri umani, ma tali inclinazioni naturali non
sono sufficienti ad alimentare da sole le dinamiche.

Sia i meccanismi per l’empatia, sia quelli per l’antipatia rispondono a un’esigenza che è eticamente neutra,
ossia il bisogno di economicità cognitiva. Affidare la comprensione di un certo movimento che vediamo
eseguito da qualcun altro a una sistema veloce è automatico, come quello dei neuroni specchio, rappresenta
un indubbio vantaggio per la frugalità dell’elaborazione.

Analogamente, benché politicamente scorretto, il razzismo spontaneo nei bambini risponde a un'esigenza di
semplificazione dei rapporti sociali, per tracciare velocemente una linea tra quelli che stanno nel proprio
gruppo e chi ne rimane fuori.

3. Gli altri animali


Nel paragrafo precedente abbiamo visto come F. De Waal ritenga che la moralità sia una nozione da trattare
in una prospettiva evoluzionistica e come i suoi elementi essenziali siano tracciabili anche nel
comportamento degli altri primati.

Questa affermazione, però è difficile da accettare per la comunità dei filosofi per due fattori:
- I filosofi usano termini come “morale”, "giustizia" e “compassione” in modo diverso dal
linguaggio comune

ES: Se si ritiene che le virtù abbiano a che fare con le abitudini, ossia con l’introiettamento
(=accogliere in sé) consapevole di un comportamento buono, allora si farà fatica a
immaginare come questo avvenga nei bonobo

ES: Se si ritiene che il linguaggio verbale svolga un ruolo decisivo nel concepire qualcosa
come “virtuoso”, “buono” o “appropriato”, si fa fatica a concepire come le risorse
espressive dei primati possano servire allo scopo.

L’articolazione del mondo concettuale dei bonobo sarà inevitabilmente molto diversa dalla nostra.
Si tratta di capire quali idee siamo disposti ad associare a nozioni come quella di “morale”, quando
ci riferiamo agli esseri umani e agli altri animali.

- Dal momento che il vocabolario morale dei filosofi include le aspettative prima menzionate, allora il
risultato spontaneo è quello di nutrire una certa diffidenza verso le capacità cognitive ed etiche
degli animali.

A lungo tra i filosofi affermare che una certa caratteristica era “unicamente umana” non comportava
il confronto con le altre specie animali, ma equivaleva a dire che si tratta di una caratteristica
essenziale.

Dal punto di vista della biologia evoluzionista, un tratto è tipicamente umano se è specie-specifico,
ossia tipico di quella specie.

ES: la morfologia delle corde vocali limita il genere di articolazioni fonatorie che possiamo
produrre

Queste considerazioni ipotizzano che le capacità cognitive umane siano dipendenti dalle strutture
morfologiche del corpo dell’organismo e ne radicano il funzionamento.

Nella maggior parte dei casi, gli altri animali sono sempre stati considerati come essenzialmente diversi da
noi. Descartes, per esempio, li considerava semplicemente come fasci di riflessi condizionati, ossia
macchine che reagiscono, senza alcuna partecipazione personale, in un determinato modo di fronte a certi
stimoli.

Questa idea è definitivamente crollata con le scoperte compiute nel Novecento riguardo al comportamento
degli animali, la loro fisiologia e le loro capacità cognitive. Gli esseri umani sono dotati di ragione e di
linguaggio (logos), diceva la tradizione aristotelica; non quindi come si procrea la prole, di saper volare, ma
a fare la differenza è una capacità cognitiva.

Il senso comune, che aveva assimilato la tradizione cartesiana, si è trovato spiazzato dalle evidenze di altri
animali decisamente “troppo” simili a noi. L’evidenza dei fenomeni mentali analoghi ai nostri nelle altre
specie animali muove innanzitutto dalle scoperte relative ai linguaggi animali:

- Il volteggiare confuso delle api è un sofisticato sistema di segnali in grado di guidare i conspecifici a
rintracciare il cibo in luoghi lontani.
- Le balene sono capaci di comunicare emettendo dei segnali a bassissima frequenza
- Le formiche usano la chimica come base per la loro comunicazione

Si è dovuta abbandonare l’idea che i linguaggi animali fossero soltanto “voci dal sen fuggite”. Negli esseri
umani, le urla di dolore o i rossori di vergogna non hanno alcuna funzione comunicativa, svolgono
semplicemente una funzione espressiva.
Se il linguaggio è una finestra sulla mente, allora dovremmo riconoscere che nel caso degli altri animali si è
spalancato un portone, tuttavia di che tipo di mente stiamo parlando?

Gli animali comunicano tra di loro, ma anche con individui di altre specie (comunicazione interspecifica:
ingannare i predatori). Oltre che della presenza altrui, gli scimpanzé sono in grado di tenere conto anche del
loro punto di vista.

Il perspective taking5 è articolato su due livelli

1. Un individuo comprende che il contenuto che sta vedendo può differire dal contenuto che un altro
individuo vede (è ciò che vediamo a essere diverso)

2. Un individuo comprende che ciò che sta guardando può essere visto da un secondo individuo da una
prospettiva differente (è come lo vediamo a differire)

Nei bambini la comprensione che gli altri possono vedere le cose in un modo diverso generalmente è
pienamente sviluppata intorno ai 36 mesi (test della falsa di credenza di Sally e Anne); gli scimpanzé hanno
buone performance nel primo livello, ma nulle nel secondo.

È importante conoscere il modo in cui il fenomeno del mentale segue strade diverse nel regno animale. Si
scopre che ogni specie animale è dotata di una qualche forma di mente che è più adatta all’ambiente
circostante e ciò ha avuto conseguenze importanti per quanto riguarda i diritti degli animali.

VII. La scienza della mente altrove


1. Ergonomia della comunicazione
La filosofia della mente è una “filosofia seconda”6, come lo sono la filosofia del linguaggio o del diritto.
Oltre a ciò, oggi essa è anche parte di una scienza della natura largamente sperimentale, come la scienza
cognitiva.

La filosofia della mente è una disciplina particolarmente orientata verso l’applicazione; Perconti analizza i
principali tre ambiti:

- Legame tra la comunicazione pubblica e l’ergonomia nel design


- La regolazione del traffico automobilistico nelle città
- I prodigi compiuti dagli illusionisti (scienza della magia)

Nel 1929 il designer e illustratore francese Jacques Carelman pubblica “Oggetti introvabili e tuttavia
indispensabili": una serie di illustrazioni di oggetti inesistenti e in gran parte impossibili, che violano la
funzione per cui sono stati concepiti o che si contraddicono nel loro possibile uso; il tratto delle illustrazioni
presenti nel libro è dadaista e il gusto per la sorpresa e lo sberleffo è quello più caratteristico dell’opera

ES: La sedia per danzatrice di can can, il pettine per signori calvi, il polimartello e la caffettiera per
masochisti

Nei decenni successivi, in Giappone, so è sviluppata una strana arte, nota come Chindogu, ossia l’abilità di
inventare oggetti in grado di risolvere effettivamente un problema particolare (es. trespolo per tenersi in piedi
riposando in metropolitana). Tuttavia la caratteristica di questa arte è che il rimedio è sempre peggiore del

5 Capacità di assumere una certa prospettiva percettiva


6 Disciplina filosofica che trova in un fenomeno concreto, che può essere sia una pratica sociale sia un fenomeno
naturale, un campo di attrito per misurare la validità di una data argomentazione.
male per questioni di ergonomia (es. il trespolo funziona, ma il suo design bizzarro portava sempre ad
assopirsi).

L’ergonomia nasce ai tempi della seconda guerra mondiale ed era inizialmente volta a migliorare le
condizioni di utilizzo degli equipaggiamenti militari. Oggi è diventata una preoccupazione costante nella
progettazione, nonché una qualità degli oggetti.

L’ergonomia può essere considerata come una modalità di affrontare i problemi di efficacia che fa
attenzione alle condizioni dell’interazione tra una persona e il suo artefatto; è proprio questa interazione che
la progettazione incontra la scienza della mente.

Si scopre infatti che tra le condizioni che regolano l’interazione tra gli esseri umani e gli strumenti con cui
interagiscono, oltre a quelle fisiche, giocano un ruolo significativo anche quelle psicologiche per due motivi:

- I vincoli dell’interazione umana dipendono anche dalle disposizioni psicologiche del soggetto
- Per noi umani, gli oggetti, inclusi gli artefatti, possiedono una mente

Nasce così il bisogno di un ergonomia cognitiva accanto a quella classica (o fisica): mentre l’ergonomia
classica si occupa di adattare gli oggetti al modo in cui è fatto il corpo umano, quella cognitiva si occupa
degli aspetti psicologici dell’interazione con gli artefatti (es. programmi per computer intuitivi da usare).

Gli artefatti sono strumenti, ossia dispositivi utili al raggiungimento di un certo scopo, ma alcuni lo sono in
un modo assimilabile alle protesi, ossia estensioni di chi li usa. Certi artefatti fisici (es. protesi per le persone
amputate) o certi artefatti cognitivi (es. telefonini) sono “sentiti” come parti di noi, estensioni delle nostre
capacità fisiche e psicologiche.

In generale, il progetto di un artefatto presuppone sempre certi parametri fisici e psicologici dell’utente: a
volte la scelta è consapevole, altre volte è sottintesa nel design

Donald Norman è noto nel mondo per aver insistito che gli oggetti quotidiani hanno una loro psicologia e
per aver divulgato i principi dell’ergonomia cognitiva: se gli oggetti di ogni giorno hanno una loro
psicologia, allora essi esprimono delle emozioni.

Il caso migliore è quello dei volti che siamo inclini a rintracciare negli artefatti più comuni, come le
automobili. Un buon progettista, a seconda se vuole suscitare simpatia o aggressività, conferirà certe
caratteristiche all’oggetto.

Lo psicologo statunitense James Jerome Gibson è il primo ad introdurre la nozione di


disponibilità/affordances, ossia:

“Le relazioni enattive che ci sono tra il mondo e un certo attore. Sono parte della natura: non
devono essere visibili, conosciute o desiderabili. Sospetto che nessuno di noi conosce tutte le
affordances contenute negli oggetti di tutti i giorni”

Secondo Gibson, la percezione visiva non consiste nell’elaborazione di informazioni, ma piuttosto, siccome
abbiamo una presa diretta sul mondo, rileviamo immediatamente le informazioni ottiche, che a loro volta
sono già pronte nell'ambiente e disponibili per i nostri movimenti.

Gli oggetti suggeriscono il loro uso (es. una mela è da afferrare). Ciò che per gli esseri umani è un invito di
un certo tipo, per un castoro potrebbe significare qualcos’altro o addirittura niente; gli inviti degli oggetti
sono proprietà specie-specifiche.

Gli inviti che sono presenti negli oggetti naturali sono cose che possiamo soltanto apprezzare, mentre le
disponibilità artificiali possono essere strumenti nelle mani del bravo progettista di artefatti. Quando, in
futuro, conosceremo meglio il catalogo degli inviti percettivi e del loro valore progettuale, potremmo
comporre una retorica dell’ergonomia cognitiva degli artefatti comunicativi.
Potremo, cioè, tenere conto con una consapevolezza analoga quella che abbiamo per la persuasione
linguistica anche della grammatica della persuasione degli oggetti

2. Una teoria cognitiva del traffico


Regolare il traffico nelle aree urbane è un autentico rompicapo per i responsabili delle politiche pubbliche e
addirittura anche gli psicologi si sono mostrati interessati a fornire il loro contributo di comprensione al
fenomeno.

Ci sono numerosi studi che mirano a misurare lo sforzo attentivo che è richiesto nelle varie circostanze,
oppure a migliorare le condizioni ergonomiche alla guida, o ancora a comprendere in quali circostanze
emotive è più probabile che si verifichi un incidente

Se si prova a disegnare una mappa dell'attivazione cerebrale durante l’esperienza della guida, si nota che vi è
un coinvolgimento molto esteso del cervello, ma non abbastanza selettivo da poter parlare di un circuito
cerebrale dedicato alla guida.

Durante la guida, interpretare le intenzioni altrui è il compito di mentalizzazione più frequente: la


mentalizzazione è un processo mentale costoso che coinvolge direttamente vaste aree cerebrali, caratterizzate
dalla pianificazione riflessiva e dall’emotività.

Si è scoperta però qualche evidenza che ci sia una certa correlazione tra l’attivazione di determinata aree
cerebrali e determinati comportamenti nel traffico.

ES: Le persone che hanno uno stile di guida pericoloso e che in passato hanno causato più incidenti
sono caratterizzate da minore attivazione delle aree cerebrali associate all’empatia.

Complessivamente, nel traffico ci sono compiti a bassa ed alta mentalizzazione: per lo svolgimento dei primi
è sufficiente un modesto ricorso all’interpretazione delle intenzioni altrui (coordinamento motorio e visivo -
processi mentali attributivi non concettuali); nel caso dei secondi invece entrano in gioco anche gli aspetti
concettuali e consapevol dell’interpretazione del comportamento.

Quindi:

- Compiti a bassa mentalizzazione → Sistema mentale automatico e non riflessivo


- Compiti al alta mentalizzazione → Sistema mentale consapevole e riflessivo

Una regolazione del traffico che sia caratterizzata da un basso livello di mentalizzazione sarebbe vantaggiosa
soprattutto perché essa è frugale dal punto di vista cognitivo, e questo aumenta le condizioni di sicurezza
nella guida. Il principale svantaggio è la sua rigidità.

ES: Uso dei semafori → Anche se l’incrocio è sgombro, l’individuo rispetta le regole per diminuire
il livello di ansia sociale, nonostante la violazione della norma potrebbe essere localmente più
efficace

Rendere standard i comportamenti sociali è estremamente vantaggioso nei comportamenti collettivi su larga
scala. In generale, è tutta questione di trovare un giusto equilibrio tra i vantaggi della bassa mentalizzazione e
la flessibilità del traffico ad alta mentalizzazione.
3. La scienza della magia
Steven Pinker, oltre ad essere uno degli scienziati più influenti al mondo, ha una straordinaria capacità di
infondere fiducia nelle possibilità della nuova scienza della mente. Secondo Pinker siamo autorizzati dai
risultati scientifici ad essere così ottimisti.

La mente è un organo computazionale fatto di sistemi specializzati per modalità percettiva e per compito da
risolvere. La sua “Nuova Sintesi”, ossia la fusione tra la psicologia computazionale e quella evoluzionistica,
sarebbe in grado di spiegare ogni aspetto della vita mentale e delle relazioni sociali che sono mediate dal
vocabolario intenzionale.

Jerry Fodor muove diversi dubbi:

- Non è sufficiente considerare i processi di pensiero soltanto come computazioni classiche. I


processi cognitivi non sono computazioni nel senso classico dell'espressione e l’architettura
cognitiva non è modulare.
Le norme sono fortemente dipendenti dal contesto

- Le singole architetture cognitive che governano le varie funzioni mentali non sono un
adattamento evolutivo, ma dipendono da una radicale riorganizzazione cognitiva

Nonostante ciò. Pinker rappresenta in modo esemplare la pervasività culturale delle spiegazioni che sono
ispirate a uno stile cognitivista; questo è l’effetto del ruolo egemone della scienza della mente nel panorama
culturale contemporaneo.

La produttività delle ricerche nel campo del fenomeno mentale e ha incoraggiato i più svariati tentativi di
applicazione della scienza della mente, tra cui la magia: il fatto è che gli illusionisti sono dei profondi
conoscitori e abili manipolatori delle funzioni cognitive altrui, soprattutto l’attenzione.

Il fenomeno della magia è molto più vasto dell’illusionismo: si può addirittura rinvenire un “pensiero
magico” caratterizzato da un forte essenzialismo e dalla credenza nella forza causale che certe “energie
immateriali” avrebbero nel mondo fisico.

L’illusionismo ha il pregio di essere un fenomeno molto più delimitato e disponibile per un tentativo di
spiegazione rigorosa. C’è una circostanza nel tentativo cognitivista di elaborare una sorta di scienza della
magia che è utile menzionare: lo scandalo costituito dalla relazione causale tra una sostanza
immateriale, come la mente, e una materiale, come il corpo, in assenza di una scienza della mente in grado
di spiegare la ’magia’ della causazione mentale

La magia però è stata svelata e adesso non dobbiamo più essere scandalizzati dal fatto che un’azione umana
abbia una causa di tipo mentale. All’inizio la magia era un esito possibile per la nostra incapacità di spiegare
il mentale, ma alla fine è diventato un promettente oggetto di indagine

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