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Dennett - La mente e le menti

1. Quali tipi di mente esistono? 2


Conoscere la propria mente 2
Noi esseri-dotati-di-mente 2
Parole e menti 3
Il problema delle menti che non comunicano 3

2. Intenzionalità: L’approccio dei sistemi intenzionali 5


Un facile esordio: la nascita della capacità di agire 5
Adottare l’atteggiamento intenzionale 6
L’ingannevole obiettivo della precisione proposizionale 9
Intenzionalità originale e derivata 10

3. Il corpo e le sue menti 12


Dalla sensibilità al sentire? 12
Mezzi e messaggi 13

4. L’intenzionalità messa a fuoco 16


La Torre della generazione e della verifica 16
La ricerca del sentire 19
Dalla fototassi alla metafisica 21

5. La creazione del pensiero 26


Psicologi naturali e incapaci di pensiero 26
Costruire cose con cui pensare 30
Parlare a noi stessi 33

6. La nostra mente e le altre menti 34


La nostra coscienza, le loro menti 34
Dolore e sofferenza: ciò che conta davvero 36

1. Quali tipi di mente esistono?


Conoscere la propria mente
Definire la mente non è un compito semplice in quanto essa può assumere diverse ipotesi:

- Tutti gli esseri viventi hanno una mente;


- Solo gli umani hanno la mente
- Gli unici ad avere una mente siamo solo noi stessi (solipsismo).

L’uomo non sa quali menti esistono (domanda ontologica) e nemmeno sa come potremmo scoprirlo
(domanda epistemologica). Queste due domande vanno risposte contemporaneamente.
Ognuno di noi sa di avere un cervello e una mente, ma sappiamo dell’esistenza del primo per sentito dire (è
improbabile che qualcuno abbia mai visto il proprio cervello), mentre l’esistenza della mente è
inconfutabile poiché soltanto riflettere sulla sua esistenza pone come condizione che essa esista.

Noi esseri-dotati-di-mente
L’uomo per riflettere sulla propria mente ipotizza che anche le altre persone abbiano una mente simile alla
sua e questa è un'ulteriore prova a sfavore del solipsismo.

Affermando che anche le altre persone hanno una mente, tutte le nostre azioni sono su un piano morale
poiché ci importa di quello che facciamo. Avere una mente significa quindi avere a cuore qualcosa e
sarebbe quindi impensabile dire che i fiori hanno una mente. Riconoscere gli esseri dotati di mente ci
permette di capire i loro interessi e quindi essere più cauti nei comportamenti da un punto di vista etico.

Attribuire la mente ad oggetti che ne sono privi, non è un grosso problema; ignorare un essere che invece
ne è provvisto rappresenta un terribile peccato. Trascurare la sua esperienza e i suoi sentimenti potrebbe
suscitare in noi la paura che questo possa accadere anche a noi.

ES: Dibattito sull’aborto → Se il feto di 10 settimane avesse una mente e noi decidiamo di abortire,
staremo trascurando i suoi interessi? Se invece si pensa che il feto non abbia una mente, allora
abortiremmo tranquillamente; se però successivamente scopriamo che questi aveva una mente, ecco
che ci sentiremmo in colpa.

Il senso comune tende ad essere generoso nell’assegnare il possesso di mente - giusto per essere tranquilli -
ma l’atteggiamento scientifico invece pretende una dimostrazione.

Parole e menti
L’uomo non mette in dubbio che le altre persone non abbiano una mente poiché senza di essa non
riusciremmo a comprenderci; l’uso dei pronomi (es. tu) non avrebbe senso se fossimo anencefalici poiché
non sapremmo a chi ci stiamo riferendo. Se così non fosse, il dubbio che l’uomo può avere sulla mente degli
altri avrebbe comunque una vita breve poiché attraverso un dialogo tra simili, le parole si mostreranno
illuminatori di fronte al buio che ci colpiva.

Grazie al linguaggio, gli uomini condividono una realtà soggettiva che è molto simile ed è per questo che ci
viene ostico interpretare la realtà di un neonato o di un sordomuto poiché entrambi non possiedono
linguaggio.

Sempre tramite la conversazione, gli umani possono conoscere le differenze tra le esperienze di una
prostituta e un pilota, ma uno gnu non potrà mai sapere cosa prova un altro suo simile, nonostante comunque
condividano le stesse esperienze. Eppure, gli gnu vivono in modo sintonizzato per cui è normale pensare che
ci sia qualcosa che permetta loro di “conversare”; questa prospettiva è discussa in quanto ci sono studiosi che
parlano di mente, mentre altri parlano di istinto.

Sin dall’alba dei tempi, sappiamo che l’uomo ha paure, desideri e comportamenti simili, ma la stessa cosa
non possiamo dirla degli animali e questo è dovuto al fatto che l’uomo ha parlato e discusso su queste sue
peculiarità da millenni. Noi possiamo supporre paure e desideri di esseri di altre specie, ma finché non
conversiamo con loro non avremo mai una prova scientifica.
Il problema delle menti che non comunicano
La parola non è però una condizione necessaria per possedere una mente in quanto anche le persone più
taciturne hanno una mente, nonostante non brillino per l’uso di parole. Si eleva quindi un quesito: cosa
accadrebbe se esistesse un essere dotato di mente, ma che non possieda un linguaggio?

Le menti di un neonato o di un sordomuto, nonostante noi le ipotizziamo con delle differenze, sono
comunque delle menti; perciò, è possibile affermare che il criterio del linguaggio è un limite alla nostra
conoscenza e non delle nostre menti. Questo espone la possibilità dell’esistenza di menti i cui contenuti
siano inaccessibili.

La risposta tradizionale sarebbe quella di accettare questa possibilità e assumere un briciolo di umiltà
culturale nell’ammettere che non possiamo confondere le questioni ontologiche 1 a quelle epistemologiche2 .

Noi spesso però compiamo azioni in modo inconscio: se mentre dormiamo, il nostro braccio sta esercitando
troppa pressione sulla spalla, noi assumiamo una posizione più comoda senza svegliarci. Sviscerando questo
paragone, è possibile che esistano esseri privi di linguaggio e di mente, ma che compiono ogni cosa
automaticamente.

Possiamo dire quindi che sono due gli ordini di cose ipoteticamente inconoscibili:

- Ciò che accade in chi è dotato di mente, ma non può esprimersi

- Ciò che ci permette di distinguere chi ha una mente e chi no

La differenza tra menti non è un mistero insormontabile, ma suscita più problemi la differenza tra avere e
non avere una mente, una differenza del tipo tutto-o-nulla. L’idea che un fatto moralmente importante sia
sistematicamente inconoscibile è semplicemente intollerabile.

Scoprire successivamente che un essere che reputiamo privo di mente, in realtà la possiede, scatenerebbe in
noi un profondo senso di colpa poiché fino a quel momento avremmo tratto vantaggio nei suoi confronti.

In una forma primitiva, noi possiamo dire chi ha e chi non ha una mente, ma non possiamo in alcun
modo dimostrare la nostra ipotesi. Una possibile prospettiva potrebbe essere che il valore aggiunto del
linguaggio potrebbe essere il criterio di distinzione tra due tipi di menti.

Forse in un futuro, distingueremo classi di pseudomenti, protomenti, semimenti o emi-semi-demi-menti da


quella che chiameremo l’autentica mente.

2. Intenzionalità: L’approccio dei sistemi intenzionali


Un facile esordio: la nascita della capacità di agire
Nonostante DNA e RNA siano ciò che ci crea in origine, e quindi precursori della nostra mente, non
possiamo dire che a loro volta loro possiedono una mente. Sia noi che loro agiamo, ma l’unica differenza
è che solo noi sappiamo cosa stiamo facendo; si dice quindi che noi compiamo azioni intenzionali, dopo che

1 I problemi riguardanti ciò che esiste


2 Relative al nostro modo di conoscere le cose
abbiamo valutato i pro e i contro. Ci appare quindi strano come queste molecole sopracitate creino cose
sorprendenti, senza avere delle direttive (quasi-azioni).

ES. fago a RNA, un virus replicante

Prima di tutto, il virus ha bisogno di un materiale nel quale racchiudere e proteggere il proprio
genoma; successivamente necessita di un sistema per introdurlo nella cellula ospite ed infine deve
disporre di un meccanismo di replicazione specifica del suo genoma in presenza di un eccesso di
RNA dell’ospite. Tutto questo rappresenta un programma automatico e sistematico, eppure siamo
tutti concordi sul fatto che i virus non abbiano una mente.

Tutti gli esseri viventi comparsi su questo pianeta (es. animali, piante, batteri, …) si trovano su un unico
albero genealogico; i capostipiti di questo albero sono stati delle macromolecole unicellulari che, tramite la
replicazione e la mutazione (o evoluzione), si sono trasformati nell’enorme diversità di specie di viventi.
Dennett afferma quindi che noi discendiamo da robot macromolecolari.

Le cellule che ci compongono non sono differenti dai virus poiché entrambi sono privi di mente. Possiamo
quindi dire che un insieme di queste molecole insulse possano “creare” una persona, reale, dotata di
coscienza e con un’autentica mente? Basandosi sulle nostre esperienze personali, ognuno di noi è fatto di
“robot” ed esibiamo un’autentica coscienza; quindi, si potrebbe concludere in modo affermativo.

I nostri antenati macromolecolari erano innegabilmente passivi e agivano senza intenzione, ma prima di
ottenere una mente, dovettero prima prendere un corpo (procarioti, eucarioti, pesci, …) Queste macchine
fatte di macchine erano comunque prive di mente, ma potevano ricavare energia e materia dall’ambiente a
seconda delle proprie necessità; tutto questo non era coordinato da un ambiente, ma secondo Aristotele, il
“direttore” era l’anima nutritiva, una forma - non sostanza - regolata dal principio di organizzazione

Tutte le creature viventi possiedono queste organizzazioni auto-regolatrici e auto-protettive progettate grazie
alla selezione naturale (es. sistema metabolico, sistema immunitario, …). In antichità, le informazioni dei
corpi dei viventi erano veicolate attraverso i fluidi corporei (vedi piante), ma grazie all’evoluzione, ecco che
si sono sviluppati i primi sistemi nervosi, “servizi postali” molto più efficienti nella trasmissione di esse.

Il Sistema Nervoso Autonomo non è una mente, ma un sistema di controllo che conserva l'integrità
fondamentale del sistema vivente paragonabile all’anima nutritiva di una pianta. Nonostante ciò, più
confrontiamo le differenze tra la nostra mente e le anime nutritive, vediamo come esse siano molto più simili
di quanto si pensa: gli interruttori ON e OFF delle anime nutritive sono dei rudimentali organi di senso che
producono azioni intenzionali. Intenzionali in che senso? Queste azioni sono effetti prodotti da sistemi
orientati a un fine e modulati dall’informazione.

Le cellule che compongono le “anime nutritive” sembrano dei gruppi di cellule che perseguono
razionalmente e ossessivamente i propri obiettivi; questi agenti possono avere le dimensioni di molecole, ma
anche di “oggetti” naturali (es. animali) o artifici umani (es. termosifone).

Secondo Dennett, queste entità sono sistemi intenzionali e la loro prospettiva di agenti (più o meno visibile)
viene detta atteggiamento intenzionale.

Adottare l’atteggiamento intenzionale


L’atteggiamento intenzionale è la strategia per interpretare il comportamento di un’entità trattandola come se
fosse un agente razionale che oriente la propria “scelta d’azione” in considerazione delle proprie
“credenze” e “desideri”. L’atteggiamento intenzionale è la chiave per svelare tutti i tipi di menti.
L’atteggiamento intenzionale può essere meglio compreso se confrontati con i seguenti due atteggiamenti di
previsione:

- Atteggiamento fisico → La previsione avviene grazie all’impiego delle nostre conoscenze fisiche

Es. se lascio andare la mia mano, un sasso che impugnavo cadrà.

Il sasso non ha credenze o desideri, ma piuttosto ha una massa. Ogni oggetto fisico, naturale o
artificiale, è spiegabile e prevedibile grazie alle leggi della fisica.

- Atteggiamento di progetto → La previsione in questo caso avviene per assunzione:

Es. Se mi regalano una sveglia, io generalmente so come funziona, anche se ha un layout di


pulsanti diverso o se ha un suono diverso. Seguo appunto un progetto di “sveglia”.

Questa previsione è più rischiosa perché devo assumere che l’oggetto funzioni secondo il mio
progetto e che soprattutto non si guasti mai. Nonostante questa predizione nasconda un minimo di
imprevedibilità è comunque una scorciatoia veloce e a basso costo

Es. so usare un ascensore anche se non sono mai entrato in uno specifico ascensore

L’atteggiamento intenzionale è molto più veloce e rischioso:

Es. Continuando l’esempio della sveglia, io posso dire che la sveglia, grazie a dei miei ordini
precedenti, sarà “motivata” a suonare quando lei percepirà che io sarò riposato.

L’atteggiamento intenzionale però va usato per prevedere un oggetto più complesso:

Es. Computer giocatore di scacchi → Per quanto ogni computer sarà diverso, esso giocherà a
scacchi seguendo in linea di massima lo stile di gioco di altri computer poiché tutti sono istruiti alle
regole e soprattutto a vincere.

Solitamente il computer può scegliere tra decine di strategie, ma se è costretto dalle dinamiche ad
usare una sola strategia, noi siamo certi di poterlo prevedere; avendo buone ragioni a compiere
quella mossa, il computer può essere reputato un agente razionali, alla pari di un giocatore in carne
ed ossa.

L’atteggiamento intenzionale funziona indipendentemente dal fatto che gli attributi siano autentici o naturali
o “veramente compresi” dall’agente. La macromolecola vuole davvero autoreplicarsi? L'atteggiamento
intenzionale semplicemente spiega cosa sta accadendo.

Ogni agente intenzionale cerca il proprio bene ed evita il proprio male, ma dicendo questo viene da pensare
che servano degli organi di senso per percepire ciò: stiamo parlando di funzioni. Quando decidiamo di
interpretare un’entità assumendo l’atteggiamento intenzionale, è come se ci chiedessimo “cosa farei io in
quella situazione?”.

Sembra quindi che questa applicazione sia impropria nei confronti di oggetti senza mente poiché noi siamo
creature dotate di mente. Quando nel passato i nostri antenati si sono posti domande sulla mente e le altre
entità, essi hanno provato rispondere tramite l’animismo, idea per cui ogni entità possiede un’anima.
Soltanto recentemente, l’uomo ha deciso di gradualmente abbandonare l’atteggiamento intenzionale nei
confronti della natura inanimata riservandosi solamente a oggetti simili a noi (es. animali).

I sistemi intenzionali sono tutte quelle entità il cui comportamento è prevedibile/spiegabile assumendo un
atteggiamento intenzionale. Siccome ogni entità è considerata come un agente, dobbiamo supporre che
quindi sia dotato di intelligenza perché se così non fosse, compirebbe qualsiasi azione stupida.
In filosofia, l’intenzionalità è un termine di riferimento e non, come il senso comune erroneamente ci fa
credere, un termine per spiegare la consapevolezza di un atto. Una cosa esibisce intenzionalità quando è
capace di riferirsi alla rappresentazione di qualcos’altro; la chiave e una serratura sono la forma più
elementare di intenzionalità, ma possiamo azzardare a dire che anche la manopola del termostato è
intenzionale poiché si riferisce alla temperatura ideale.

Il significato di questo termine risale ai filosofi medievali che osservarono la somiglianza fra tali fenomeni e
l’atto di prendere la mira e di lanciare una freccia verso qualcosa (intendere arcum in).

Gli stati emozionali, percettivi e di memoria sono fenomeni intenzionali da un punto di vista filosofico,
ma non lo sono secondi il senso comune.

Es. L’atto di vedere un cavallo non è intenzionale, ma è intenzionale invece riconoscere che
quell’oggetto è un cavallo.

L’oggetto del pensiero, reale o no, si chiama oggetto intenzionale.

Saper intendere correttamente è fondamentale: un errore nel distinguere un cibo buono da un cibo ammuffito
potrebbe causare non pochi problemi; non c’è intendere senza la possibilità di fraintendere. Prima di poter
attribuire una qualunque intenzionalità ad un oggetto (es. uomo, rana, …), è mandatorio circoscrivere i suoi
stati e i suoi atti.

Un’altra fonte di confusione teorica è stato il termine intensionalità: la capacità del linguaggio di compiere
discriminazioni indefinitamente precise.

Secondo la logica, le parole o i simboli di un linguaggio possono essere suddivisi in logici o funzionali e in
termini o predicati. Ogni termine e predicato è dotato di estensione - l’insieme di oggetti a cui si riferisce -
e intensione - il modo particolare nel quale questo insieme di oggetti viene individuato/determinato.

ES. “Il padre di Chelsea Clinton” e “Il presidente degli Stati Uniti nel 1997” indicano entrambi a
Bill Clinton; hanno quindi stessa estensione, ma una diversa intensione.

In logica si può quindi ignorare l’intensione e focalizzarci sull’estensione, dopotutto l’acqua, se chiamata
anche H20, è pur sempre acqua.

La libertà di poter esprimere uno stesso oggetto in modi diversi può essere utile nelle scienze come la
matematica: 42 è un numero più “scomodo” rispetto a 16. Questa libertà di sostituzione nei contesti
linguistici è definita come trasparenza referenziale.

L’ingannevole obiettivo della precisione proposizionale


Per prevedere l’azione di un sistema intenzionale è necessario sapere a che cosa si riferiscono le credenze e i
desideri dell’agente; inoltre è necessario sapere approssimativamente in che modo quelle credenze e quei
desideri si riferiscono ai loro oggetti.

Es. I cani pensano? Per rispondere a questa domanda, l’uomo medio applica un atteggiamento
intenzionale verso l’oggetto “cane” e prova ad individuare cosa il cane potrebbe riferirsi nella
realtà che lo circonda.

L’atteggiamento intenzionale però applica le nostre modalità di conoscenza di umani per carpire invece la
conoscenza di un cane. Di fronte a questo problema si possono prospettare due possibili soluzioni:

- I cani non pensano


- I loro pensieri sono sistematicamente inesprimibili.
Il nostro atteggiamento intenzionale è altamente complesso e organizzato per cui, di fronte a sistemi più
semplici, corriamo il rischio di introdurre troppi elementi propri della nostra organizzazione di mente.

La forma fondamentale di attribuzione di stati mentali a stati intenzionali è quella degli atteggiamenti
proposizionali: X crede che P, Y desidera che Q, Z si chiede se R. Gli atteggiamenti proposizionali sono
formati da tre particelle:

- Sistema intenzionale (X, Y, Z)


- Attribuzione di uno un atteggiamento (credenza, desiderio, curiosità, …)
- Termine, per contenuto o significato, particolare di quell’atteggiamento (P, Q, R)

Quando si attribuiscono proposizioni autentiche, esse sono frasi. Le proposizioni, allora, sono le entità
teoriche con le quali identifichiamo, o misuriamo, le credenze. In filosofia, le proposizioni sono i significati
astratti condivisi da tutte le frasi che significano la stessa cosa (es. La neve è bianca, the snow is white, La
neige est blanche).

Le proposizioni dovrebbero essere concordi in termini di modi di dire o di cose dette? Quando noi ci
esprimiamo (e quindi utilizziamo un linguaggio), compiamo numerose distinzioni senza volerlo; proprio per
questo è importante sapere approssimativamente il contenuto di ogni proposizione.

Churchland ha provato a dimostrare questo tramite i numeri:

Es. Dire “X pesa 144 grammi” è la stessa cosa di dire “X pesa 72x2 grammi”.

Le espressioni però non sono così facilmente trasformabili e Dennett le paragona alle valute:

Es. “Questa capra costa 50 dollari” è una frase intenzionale per gli americani, ma non è così per
noi europei che utilizziamo l’euro, o per i russi che usano i rubli. Inoltre, si potrebbe anche riflettere
se il valore odierno di questa capra è più alto o più basso rispetto al periodo dell’antica Grecia o al
Medioevo

La conclusione di Churchland è quella che, se noi non abbiamo un sistema di misura economica esterno,
fisso e neutrale, non possediamo nemmeno un sistema linguistico esterno, fisso e neutrale. Un sistema
universale però non è necessario per una teoria economica o per un sistema intenzionale poiché entrambe
non sono minacciate da queste ineliminabili imprecisioni nella misura.

Intenzionalità originale e derivata


Secondo John Searle (1980), l’intenzionalità può essere di due tipi:

- Intenzionalità intrinseca (originale) → Qualità per cui i nostri pensieri, le nostre credenze e i nostri
desideri sono riferiti riferiti al loro oggetto (es. le parole)

- Intenzionalità derivata → Qualità per cui l'intenzionalità derivata dalle nostre rappresentazioni
mentali è parassita all'interno dell’intenzionalità originale

Es. Se mi chiedono di immaginare e disegnare un paesaggio parigino, la mia


immaginazione si riferisce all’immaginario che ho di Parigi, mentre il mio disegno, per
rappresentare Parigi, dovrà prima essere riferito alla mia immaginazione di Parigi.
L’intenzionalità derivata dipende, oltre che dalla nostra soggettività, anche dalle intenzioni collettive della
comunità di riferimento. Le rappresentazioni esterne traggono il loro significato - intensionale ed
estensionale - dagli stati mentali interni delle persone che le usano.

Questo è particolarmente evidente nelle frasi ambigue e il filosofo W.V.O Quine ha proposto un esempio
calzante:

“Our mother bore us” (le nostre madri ci annoiano/le nostre madri ci misero al mondo).

I segni grafici non hanno nessuna intenzionalità intrinseca per cui è difficile comprendere il significato di
questa frase. Il significato di essi dipende dal ruolo che hanno in un sistema di rappresentazione legato alla
mente di chi se ne serve.

Ma cosa dota le menti di intenzionalità? Una risposta comune è che questi stati mentali e questi atti hanno
significato perché sono composti in una sorta di linguaggio - il linguaggio del pensiero. Questa però non è
una spiegazione, ma piuttosto un rimando della soluzione.

Anche ammettendo l’esistenza del linguaggio del pensiero, come facciamo a conoscere il significato delle
frasi che formuliamo con esso? Una possibile risposta potrebbe provenire dalla teoria delle idee-come-
immagini: i nostri pensieri sono immagini che si riferiscono a ciò che si riferiscono poiché somigliano al
proprio oggetto. Sfortunatamente emerge quindi un nuovo quesito: come si fa a sapere a che cosa somiglia
un oggetto?

Siccome questo percorso conduce ad un circolo vizioso, la soluzione alla nostra intenzionalità è semplice e
diretta: le nostre immagini mentali sono artefatti creati dal nostro cervello; possiamo quindi dire che le
immagini mentali sono paragonabili ad uno schizzo su carta.

Ma allora come è arrivato il nostro cervello ad avere un'organizzazione così sorprendente? Il cervello è un
artefatto e le intenzionalità a cui si riferisce sono state “assegnate” dalla selezione naturale; secondo
Dennett, siamo arrivati ad avere un pensiero così complesso unicamente grazie alla selezione naturale.

Es. “Se incontriamo un robot a fare la spesa, probabilmente la sua lista della spesa sarà composta
da simboli come i seguenti: MILK@.5xGAL if P<2xQT/P else 2xMILK@QT. Per noi questo
linguaggio è senza senso, ma chiedendo spiegazioni al robot, esso ci risponderà che lui compra il
latte solo se il prezzo di mezzo gallone è inferiore al doppio di quello di un quarto.
In questo caso, l’intenzionalità derivata di questi due artefatti - il robot e la lista della spesa -è
merito del lavoro di alcuni esperti programmatori. Se il robot potesse scegliere in modo autonomo
quando comprare il latte avendo comunque un pensiero regolato dal linguaggio informatico, quanto
sarebbe lavoro del robot e quanto quello degli informatici? Maggiore è la valutazione del robot e
maggiore è la pretesa di essere “autore” dei propri significati.”

L’esempio del robot dimostra come un’intenzionalità derivata possa scaturire da una seconda intenzionalità
derivata, ma allo stesso tempo dimostra l’illusione di una intenzionalità intrinseca. L’intenzionalità che ci
consente di parlare e scrivere è innegabilmente un prodotto recente del processo evolutivo caratterizzato dal
tipo di intenzionalità più primitivo, la psedointenzionalità (Searle).

Noi discendiamo da robot e siamo fatti di robot; l'intenzionalità di cui godiamo deriva da quella più
elementare di questi sistemi intenzionali primitivi
3. Il corpo e le sue menti
Dalla sensibilità al sentire?
In forma essenziale, la selezione naturale ha costruito la mente come un sistema capace di anticipazione
che utilizza gli indizi del presente e le informazioni del passato per trasformarli in anticipazione del futuro.
Per motivi di economia energetica, la nostra mente non sa lo scibile umano, bensì solo le informazioni
essenziali.

Questo sistema economico può non essere il più efficiente, infatti, la selezione naturale ha preferito lasciare
del “materiale extra”: durante l’evoluzione, la nostra mente è cambiata, ma i “codici” che facevano
funzionare la mente non sono stati cancellati bensì “disabilitati” in quanto il loro contenuto potrebbe
tornare di nuovo utile se venissero fatte alcune modifiche.

In passato, le macromolecole non avevano bisogno di sapere invece oggi l’uomo vede i modelli e li descrive
grazie all’atteggiamento intenzionale. Il processo evolutivo ha portato a questo dopo migliaia di generazioni,
ma questo lungo tempo nasconde un meccanismo geniale.

La mente umana lavora ad un certo ritmo di velocità e noi attribuiamo una mente agli oggetti che si
muovono alla giusta velocità. Potrebbero esistere menti la cui attività si svolge a velocità diverse? Se degli
alieni visitassero la Terra e avessero i nostri stessi pensieri, ma ad una velocità molto più alta della nostra,
noi appariamo stupidi. La stessa cosa potremmo già farla noi verso gli oggetti che ci circondano (es. piante),
Il pregiudizio per cui la nostra mente si muove ad una velocità superiore rispetto alla media si chiama
sciovinismo temporale.

Pensare che la velocità di una mente sia la base necessaria per essere definita tale è poco attraente, ma
possiamo apprezzare il concetto di velocità relativa: percezione, decisione e azione, tutte abbastanza veloci -
rispetto all’ambiente - per servire agli scopi di una mente. Le proiezioni sul futuro sarebbero inutili se
arrivassero troppo tardi ed è per questo che la selezione naturale favorisce gli organismi svelti.

Le menti devono avere una velocità minima di funzionamento e per riuscire a compiere queste operazioni di
trasmissione assume importanza il materiale di cui è fatta una mente.

Il potere predittivo ed esplicativo dell'atteggiamento intenzionale è dato dalla sensibilità alle condizioni
mutevoli e dalla risposta razionale ai cambiamenti. La sensibilità è data grazie alla capacità di sentire,
ovvero il grado più basso della coscienza.

Es. Le pellicole possono avere diversi gradi di sensibilità alla luce, ma non possono sentire la luce;
la sensibilità non è indice di coscienza.

E‘ proprio l’abilità del sentire a differenziare noi esseri senzienti dalle macromolecole sensibili e una
possibile risposta potrebbe essere nei mezzi nei quali l’informazione viaggia e viene trasformata.

Mezzi e messaggi
Le piante non possiedono cervello, perciò, hanno sviluppato dei sistemi di autoregolazione e controllo che
tengono conto delle variabili fondamentali e reagiscono di conseguenza. Le strategie delle piante, in cui tutto
è rudimentalmente coordinato, avviene per diffusione dei fluidi all’interno del loro corpo.

Gli animali sono dotati di sistemi omeostatici in cui le molecole sono agenti operativi e hanno il compito di
"fare direttamente” qualcosa per l’organismo (es. distruggere tossine), oppure sono messaggeri e hanno il
compito di mettere in comunicazione molecole più grandi. A volte l’agente più grande è l’organismo:
Es. Quando la ghiandola pineale rileva una diminuzione della luce diurna, l’organismo si prepara
al letargo.

L’attività di questi sistemi ormonali lavora indipendentemente alla facoltà di sentire e infatti sono attivi
anche negli animali addormentati.

Fortunatamente, negli animali, questo sistema biochimico è stato integrato da un sistema molto più veloce: il
sistema nervoso autonomo; esso opera non più grazie a informazioni biochimiche, ma per mezzo di impulsi
di attività elettrica lungo fibre nervose.

Negli esseri umani, il SN è assai più complicato ed è per questo che molte teorie moderne della mente hanno
degli assunti fondamentali, come ad esempio:

- Funzionalismo → Ciò che fa di qualcosa una mente (es. paura), non è tanto ciò di cui essa è fatta,
ma ciò che essa può fare

Es. Un cuore deve pompare il sangue in tutto il corpo, ma se quello di un uomo non
funziona, è possibile sostituirlo con un cuore artificiale poiché entrambi hanno la stessa
funzione.

Perché non è possibile realizzare menti artificiali con qualunque materiale, proprio come si fa con i
cuori artificiali? La funzione delle menti è di elaborare informazioni, ma il funzionalismo
semplifica troppo la struttura della mente - i computer infatti non sono mente.

E‘ allettante pensare che il SN sia una rete informativa collegata a livello di punti specifici: nodi di
trasduzione (input; es. coni e i bastoncelli) e nodi effettori (output; es. cellula gangliare). I trasduttori sono
congegni che prelevano informazioni da un mezzo e lo traducono in un altro mezzo, mentre gli effettori
sono congegni indotti a far accadere qualcosa in un altro mezzo (es. flettere un braccio).

Sarebbe anche bello poter isolare un SN dagli eventi “esterni”, in modo che tutte le interazioni importanti
avvenissero al livello di trasduttori ed effettori, ma purtroppo questa idea teoria genera una tale confusione
che può essere chiamata il Mito della doppia trasduzione: il sistema nervoso trasduce la luce, il suono, (...)
in stimoli neurali, ma successivamente, in qualche particolare posizione a livello centrale, questi stimoli
devono essere ulteriormente trasdotti in un qualche altro mezzo: il mezzo proprio della coscienza.

Se il SN periferico è mera sensibilità, deve esserci un sito centrale nel quale è stato creato il sentire: un
globo oculare isolato da un cervello, non può vedere poiché non ha esperienze visive coscienti; diventa
quindi necessario l’aggiunta di un misterioso fattore X alla mera sensibilità per produrre la facoltà del
sentire.

Siamo inclini a pensare che gli impulsi nervosi non possano essere l’essenza della coscienza e che quindi
devono essere tradotti in qualcos’altro:

“Il sistema nervoso sarebbe una nave senza timoniere ed è quindi necessario un Capitano che
riceva tutte le informazioni e le comprenda in modo da “governare la nave”.

Pensare che la rete del SN sia la sede della coscienza, per quanto inizialmente irragionevole, può essere
un’affermazione che apre alle speranze materialiste

“Il mio corpo ha una mente sua”, Damasio.

Nel SN, l’informazione viene trasferita per mezzo di impulsi elettrochimici che viaggiano lungo diramazioni
dei neuroni (dendriti/assoni) e attraversano sinapsi. La presenza di neurotrasmettitori e soprattutto di
neuromodulatori farebbe pensare che in ogni nodo del SN ci dovrebbero essere dei trasduttori che
aggiungano informazioni a quelle già trasportate dagli impulsi e che di conseguenze ci siano effettori che
continuano a secernere neuromodulatori e neurotrasmettitori, ma se così fosse, l’uomo sarebbe un organismo
estremamente confusionario.

I mezzi devono essere costruiti con determinati materiali, poiché le alternative possono non funzionare

Es. la rodopsina è la sostanza fotosensibile negli occhi dei viventi, ma se volessimo costruire un
occhio artificiale con un’altra sostanza, non sarebbe detto che essa porterà alla vista

Ogni sistema di elaborazione è limitato dalla natura chimica dei suoi trasduttori ed effettori, ma tutto ciò che
ci sta in mezzo è totalmente realizzabile se viene rispettata la neutralità del mezzo

Es. se un nervo ottico fosse danneggiato e disponessimo di un possibile sostituto, il paziente tornerà
a vedere poiché non sostituiremo né l’occhio né l’area occipitale.

Una mente è fatta di noradrenalina, dopamina, glutammato, (...) e perciò una mente che non può essere
costruita usando chips di silicio, vetro, … Questo avvale la teoria del funzionalismo “non importa com’è
fatto X”, ma dobbiamo abbandonare l’interno funzionalismo? No perché noi non siamo il nostro corpo,
bensì siamo proprietari di esso. In una donazione di cuore vorremmo essere il ricevente, mentre se si
potesse donare un cervello preferiremmo essere il donatore poiché noi andiamo CON il nostro
cervello.

Andando contro il dualismo cartesiano, la nostra mente non è il capo del nostro corpo; se riuscissimo a
vedere il cervello come un organo qualunque non l’usurpatore al comando, allora riusciremo a scoprire tutta
la sua funzionalità.

Es. Quando Dennett era studente ad Oxford era il corpo docenti a “governare” sugli economi,
burocrati, vicerettore; oggi invece i docenti sono assunti come impiegati dell'amministrazione,
anche se detengono comunque un potere di ribellione. Questa potrebbe essere la metafora che
spiegherebbe l’inversione di rotta sul cervello come capo e sul potere sovversivo del corpo nei suoi
confronti.

Sarebbe più difficile pensare alla mente in termini funzionali se smettessimo di identificarla con il cervello,
ma piuttosto di individuarla come diffusa in tutto il nostro corpo. L’evoluzione immagazzina informazioni in
ogni parte di ogni organismo

Es. la pelle di un camaleonte contiene le informazioni riguardanti l’ambiente in cui si trova

L’unione tra corpo e anima rappresenta l’armonia, tuttavia ci è più allettante individuare la mente nel
cervello poiché al punto potremmo giustificare le nostre preferenze e le nostre decisioni. L’immagine che
rappresenta meglio questa è la concezione cartesiana di un Sé burattinaio che cerca di controllare un
corpo-burattinaio indisciplinato

Es. il nostro corpo potrebbe tradirci nel momento in cui vorremmo mantenere un segreto se ci
facesse arrossire

Ma allora perché, se il nostro corpo aveva già una mente sua, ne ha acquisito un’altra? Perché la “mente del
corpo” è lenta e grezza3, invece la mente come noi la intendiamo è molto veloce e lungimirante.

3 Vedi sistema biochimico animale


4. L’intenzionalità messa a fuoco
La Torre della generazione e della verifica
Quelli che all’inizio erano sistemi di monitoraggio dell’ambiente interno e dell’interfaccia con l’ambiente
esterno, si evolsero in sistemi capaci di discriminare prossimalmente e distalmente.

Es. La vista, l’udito e l’olfatto sono esempi di percezione di un'informazione la cui fonte può anche
essere distante.

Come ebbe luogo questa transizione da una intenzionalità interna a una intenzionalità dapprima prossimale e
poi distale? Secondo lo psicologo George Miller, gli animali sono informivori: oltre a nutrirsi secondo le
rispettive diete - erbivori, carnivori o onnivori - tutti gli animali condividono una fame epistemica; senza di
essa non c’è percezione e ricezione. Tutti gli agenti ricettivi che ci permettono di interfacciarsi con
l’ambiente sono il risultato della selezione naturale in quanto selezione dei fenotipi favoriti.

Dennett spiega la possibilità del progetto di cervelli con la metafora della Torre di generazione e della
verifica: a mano a mano che la torre costruisce nuovi piani, gli organismi a quei livelli escogitano piani per
essere sempre più efficienti; ogni livello costruito non è una fase di transizione, ma bensì un progresso
cognitivo. Soltanto capendo i punti focali di ogni livello si potevano descrivere come più logici i livelli
inferiori

Al primo piano della torre ci sono le creature darwiniane: organismi creati da processi arbitrari - sempre
grazie alla selezione naturale - che venivano testati sul campo e di cui solo i progetti migliori sopravvissero.
Successivamente questo processo diede luce agli animali e alle piante, ma fra queste creazioni, alcuni dei
loro progetti erano dotati della proprietà della plasticità fenotipica: gli organismi non erano creati dalla
nascita, ma erano corretti da eventi occorsi durante la verifica sul campo.

[La creatura darwiniana ha diversi fenotipi e selezionano il fenotipo favorito, moltiplica il


genotipo favorito]

Questi individui affrontano l’ambiente generando una molteplicità di azioni e verificandole poi
singolarmente fino a trovare le Mosse Intelligenti - le azioni migliori disponibili.

Il buon esito è definito da rinforzi positivi o negativi provenienti dall’ambiente. Queste vengono chiamate
creature skinneriane, poiché, secondo B.F. Skinner, il condizionamento operante è la naturale estensione
della selezione naturale darwiniana: dove finisce il comportamento innato, inizia il condizionamento
operante.

[La creatura skinneriana cerca le risposte alla cieca finché una di esse non viene selezionata per
“rinforzo”. All’incontro successivo, la creatura sceglie subito la risposta favorita dal rinforzo]

La rivoluzione cognitiva degli anni Settanta, scalza il Behaviorismo per favorire il Connessionismo: le
semplici rete neurali con cui nasciamo funzionano con un cablaggio più o meno casuale, ma si perfezionano
a seconda delle esperienze che incontriamo quotidianamente. Il filosofo associazionista David Hume (XIX
secolo) anticipa tutto ciò cercando di dimostrare come le parti della mente si auto-organizzano senza un
centro organizzatore onnisciente.

Il lavoro di Hume sarà la base per i condizionamenti teorizzati da Pavlov, Thorndike e Skinner, ma in
particolare di Donald Hebb: nel 1949, Hebb propone le regole di apprendimento hebbiane - meccanismi
che condizionano e modificano le connessioni tra cellule nervose - che diventeranno poi la base del
Connessionismo
Associazionismo, Behaviorismo e Connessionismo ripercorrono l'evoluzione dei modelli di apprendimento
semplice che si possono accomunare nell’apprendimento ABC. La maggior parte degli animali è capace di
questo apprendimento: sono in grado di modificare in direzioni appropriate il loro comportamento in seguito
ad un lungo, costante processo di formazione da parte dell’ambiente.

Le reti ABC sono meravigliose per spiegare le funzioni di importanza vitale (es. controllo dinamico della
locomozione): la natura ci dà una solida base da cui partire, ma la cultura si fonde ad essa senza
giunture evidenti. Tuttavia, esistono comportamenti che si apprendono “in un colpo solo” e che sono quindi
inspiegabili dall’apprendimento ABC.

Il terzo livello della torre è occupato dalle creature popperiane, creature dotate di preselezione che possono
scartare comportamenti possibili, ma potenzialmente letali, prima ancora che possono essere stati messi in
atto. Le creature skinneriane sopravvivono perché le loro prime mosse sono state fortunate, mentre le
creature popperiane non si affidano a mosse casuali, ma ad azioni migliori (questo grazie alla fortuna di
essere nate intelligenti).

Affinché la preselezione avvenga, viene ipotizzata l’esistenza di un filtro per cui l’ambiente interno possa
permettere dei tentativi di azione in sicurezza che normalmente si svolgerebbe nel mondo reale; questo filtro
deve contenere moltissime informazioni sull’ambiente esterno.

Attenzione, questo ambiente interno non è una replica perfetta del mondo esterno (es. simulatori di
volo per apprendisti piloti) poiché sarebbe energeticamente dispendioso, ma uno spazio di
”sperimentazione”.

Uno dei modi per cui le creature popperiane effettuano un’utile filtrazione è quella di “sfidare” la saggezza
antiquata del corpo: se il corpo manifesta nausea, tremori, vertigini, allora la mia azione non sarà una bella
idea. Questa informazione di “ribellione corporale” può essere acquisita geneticamente oppure grazie alle
esperienze personali

Es. Un bambino che inizia a gattonare, non passerà su una lastra di vetro perché percepisce un
precipizio [informazione genetica]

Es. Un ratto che mangia un cibo che lo fa vomitare, saprà di non doverlo più mangiare
[informazione esperienziale]

Negli anni Trenta, i behavioristi dimostrarono che gli animali dei loro esperimenti erano capaci di un
“apprendimento latente” sul mondo;

Es. se dei topi fossero stati messi in un labirinto, col tempo avrebbero imparato a trovare l’uscita e
se successivamente veniva inserito del cibo, i topi istruiti erano molto più agili dei topi non-istruiti.

I behavioristi spiegavano questa voglia di esplorare con il termine “impulso di curiosità”, anche sì detto fame
epistemica.

La differenza tra l’uomo e tutte le altre specie non è di essere una creatura popperiana - in quanto gli
“animali popperiani” preselezionano tramite la percezione - e perciò l’unicità che ci caratterizza dai viventi è
da ricercare in altro.

La ricerca del sentire


Le nostre reazioni istintive di fronte alla realtà possono ingannarci e farci pensare che esse siano
profondamente ragionate, ma in realtà non è così (vedi bambino sul precipizio). La raffinatezza di questi
sistemi istintuali ci ingannano a definire come essere senzienti anche entità che in realtà non possiedono il
sentire.

Se non possiamo quindi basarci sul comportamento osservabile, allora dobbiamo ricercare nella fisiologia le
caratteristiche degli esseri senzienti.

Es. Il dolore

Nel 1986, il governo britannico inserisce la piovra negli animali non operabili senza anestesia
poiché dopo diverse ricerche si è osservato che il comportamento dei cefalopodi (piovre, calamari,
seppie, …) è straordinariamente intelligente - e quindi probabilmente senziente - infatti sembra che
essi possano provare dolore.

Non si può dire la stessa cosa per le scimmie rhesus: esse sono fisiologicamente e
comportamentalmente molto simili a noi esseri umani, ma il primatologo Hauser ha osservato che
nella stagione degli accoppiamenti, i maschi che combattono per la riproduzione possono arrivare a
strappare i testicoli ai propri simili per vincere una femmina. Essendo così simili agli umani,
avrebbero dovuto lamentare dolori lancinanti, ma quello che in realtà succede è che la scimmia
ferita si lecca le ferite e non patisce nessuna sofferenza

L’esempio delle piovre e delle scimmie mostra come i dati fisiologici e comportamentali non possono
essere giustificazioni all’essere senzienti ed è quindi necessario un ulteriore riflessione.

Le funzioni chiavi del dolore sono:

- Rinforzo negativo → Il dolore può essere considerata una “punizione” ovvero un rinforzo che
diminuisce la probabilità che una prestazione sia ripetuta. Il condizionamento skinneriano però non è
una possibile spiegazione per gli esseri senzienti

- Interrompe gli schemi di attività fisica che potrebbero esacerbare un danno → Quando un
animale ha un arto ferito, il dolore gli impedisce di usarlo fino a che non è guarito; questo però è
causato da un circuito di sostanze neurochimiche che interagiscono con il sistema nervoso.
Le sostanze chimiche però non sono la vera causa del dolore poiché loro sono chiavi che devono
inserirsi nelle rispettive serrature

Se il circuito di interazione si interrompe, non c’è nessun motivo per supporre che il dolore persista. Quanto
può essere rudimentale un sistema del dolore, rimanendo valido per sentire?

Es. Rospo con una zampa rotta

Per il rospo, la zampa rotta rappresenta un impedimento alla normale conduzione della propria vita
e allo stesso tempo è uno stato con un grande potenziale di rinforzo negativo. Questo circuito di
interazione attenua l’inclinazione del rospo a saltare - anche se salterà in condizioni emergenziali -
ed è interessante considerare tutto ciò come equivalente al dolore.

Se attribuiamo un soliloquio al rospo, potremmo pensare che egli tema una condizione di
emergenza, maledice la propria vulnerabilità, desidera del sollievo, … Tutte queste sono
supposizioni, ma se avessimo più informazioni sui rospi, potremmo convincerci che il loro SN sia
stato progettato in modo da non sperimentare nessuna delle costose riflessioni sopracitate
Il fine di tutto questo domande è di trovare quel famoso ingrediente X che fa la differenza nella distinzione
tra mera sensibilità e vero sentire. Le creature senzienti che noi conosciamo mancano chiaramente
mancano di alcuni degli aspetti più specificatamente umani della nostra esperienza del sentire; quindi, li
eliminiamo in quanto non essenziali.

Quando noi riflettiamo sul dolore degli animali, noi stiamo immaginando questi aspetti antropomorfici
applicati agli animali, ma capiamo subito che questi sono aspetti non essenziali per il semplice fenomeno del
sentire.

In tutta questa riflessione, noi stiamo trascurando un importante eventualità: non esiste l’ingrediente X. Il
“sentire” potrebbe presentarsi in ogni grado o intensità inimmaginabile, dal livello “robotico” al livello
“umano”, ma in ogni caso, la nostra necessità di definire un confine in questo complesso continuum di casi
potrebbe essere moralmente poco allettante oltre che estremamente improbabile.

Su quale versante del confine si trova il rospo dell’esempio precedente? Se il rospo avesse anche un minimo
di autentico sentire - ad esempio prova dolore - allora avrebbe diritto a uno speciale trattamento riservato agli
esseri senzienti; se invece ne fosse sprovvisto, lo status del rospo cadrebbe nello status di “automa” e
potremmo così interagire con esso senza alcuno scrupolo morale.

Sembra che quindi la nostra riflessione sia di fronte ad un vicolo cieco.

Dalla fototassi alla metafisica


Fra i discendenti delle creature popperiane ci sono le creature gregoriane: entità i cui ambienti interni
ricavano informazioni dalle porzioni dell’ambiente esterno. Lo psicologo britannico Richard Gregory è colui
che ha avuto maggior peso nel teorizzare il ruolo dell’informazione (o Intelligenza Potenziale) e nella
creazione di Mosse Intelligenti (o Intelligenza Cinetica)

ES. Un paio di forbici

Le forbici sono un artefatto che rappresenta non solo un risultato dell’intelligenza, ma anche un
dispensatore di intelligenza: dando un paio di forbici a qualcuno, aumenta la possibilità di
compiere Mosse Intelligenti.

L’uso degli strumenti ha sempre accompagnato un fondamentale aumento dell’intelligenza: il


riconoscimento, la conservazione e la produzione di uno strumento richiedono intelligenza, ma lo strumento
è anche in grado di conferire intelligenza a chi lo possiede

Es. Alcune culture di scimmie infilano dei bastoncini di legno dei termitai e tirandoli fuori, si cibano
delle termiti ad esso attaccate

Secondo Gregory, fra gli strumenti più importanti ci sono gli strumenti della mente: le parole. Le parole e gli
altri strumenti della mente conferiscono a una creatura gregoriana un ambiente interno che le permette di
costruire generatori e verificatori di mosse sempre più sofisticate

Le creature popperiane reagiscono in modo adattivo a informazioni, quantitativamente e qualitativamente,


superiori rispetto a quelle skinneriane, mentre le gregoriane hanno un livello di agilità mentale molto più
umano in quanto sfruttano l’esperienza altrui e la saggezza insita agli strumenti mentali per riflettere alle
migliori successive mosse.

Uno dei meccanismi più semplici e diffusi volti al miglioramento della vita è la fototassi, ovvero la capacità
di distinguere la luce dal buio e di dirigersi verso di essa. Il modello di fototassi più semplice è quello del
veicolo presentato da Valentino Braitenberg: esso è dotato di due trasduttori di energia luminosa i cui
segnali vengono inviati tramite decussazione a due effettori.

La macchina non capisce perché funziona, eppure il riconoscimento della luce è quasi indipendente dal
sistema che genera la luce (sarebbe un problema se il mondo avesse due soli poiché non permetterebbe una
generalizzazione ecologica).

L’uomo ha una tassi verso un oggetto più importante: la Madre. La tassia verso la Madre non avviene
tramite segnali luminosi - sarebbe impossibile orientarsi in presenza di altre Madri - ma bensì si affida ad
uno stimolo odoroso unico, molto più energicamente efficiente.

Gli odori non servono solo a riconoscere la Madre, ma anche nell’attrazione del partner o nell’inibire
l’attività o la maturazione sessuale; le vie olfattive raggiungono le parti antiche del cervello senza passare dal
talamo e quindi senza l’intervento di molti intermediari

ES. EPIRB (Emergency Position Indicating Radio Beacon)

Il principio progettuale dell’odore materno potrebbe essere paragonabile alle EPIRB:


radiotrasmittenti autonome che, una volta accese, ripetono all’infinito un particolare segnale a una
particolare frequenza. Questo strumento è utile nel salvataggio di navi in pericolo in mezzo al mare

Negli animali, la tassia verso la Madre non avviene solo tramite odore, ma grazie ai lavori sull’imprinting
dell’etologo Lorenz, si è scoperto che gli animali si affidano anche a segnali visivi e uditivi.

Es. Se i pulcini neonati non ottengono uno stimolo corretto dalla Madre, si fisseranno sul primo
grosso oggetto in movimento.

Le trasmittenti (e i loro sensori per la ricezione) sono buone soluzioni progettuali ogni volta che un agente
vuole mantenersi in contatto con una particolare entità; nel mantenere il contatto sono inclusi il
rintracciamento, il riconoscimento e la reidentificazione.

Alcuni dei rischi legati alla localizzazione sono:

- Può essere usata sia dagli amici che dai nemici


- La portata dei segnali trasmessi non è facilmente controllata dall’emittente
- Facile inganno → L’inseguimento cooperativo - nel quale il bersaglio (es. anatra) emette un
segnale semplificando il compito dell’inseguitore (es. pulcino) - è una tappa che porta
all’inseguimento competitivo, nel quale il bersaglio, oltre ad emettere il segnale, si nasconde
attivamente e si rende irrintracciabile.

Affinché tutti gli agenti in preda alla fame epistemica si sazino e si organizzino, è necessario del tempo: la
capacità di mantenere concentrato il flusso di informazioni relativa a un oggetto particolare è un prerequisito
per sviluppare una descrizione utile all’identificazione dell’oggetto

Es. prima che avvenga il riconoscimento, il volto di una persona deve rimanere per un minimo di
tempo all’interno della nostra fovea

Cosa succede quando l’inseguitore perde il segnale dell’inseguito? Si affida a molteplici sistemi
indipendenti - ciascuno dei quali soggetto a errore e i cui ambiti di competenza sono sovrapposti - che
tentano di ripristinare il collegamento.
Questi molteplici sistemi possono essere collegati in diverso modo: tramite una porta AND (es. chiavi per
lanciare un missile) oppure una porta OR (es. aeroplani a due motori: se funzionano entrambi i motori è
meglio, ma in situazioni di emergenza ne basta uno); a queste si possono aggiungere le porte, IF, NOT, …
Tutto ciò che collega due sistemi tramite porte AND e OR sono chiamati funzioni booleane. E‘ possibile
anche combinare due sistemi con funzioni non booleane: non si assegna più un voto unico, ma si fa
affidamento a collegamenti indipendenti e variabili (es. veicolo di Braitenberg: la “decisione” di girare
scaturisce dalla forza relativa dei contribuiti dei due sistemi trasduttore-motore)

Dopo una attenta riflessione, si potrebbe affermare che i comportamenti animali sono per un certo verso
organizzati tramite funzioni booleane:

ES. Se un granchio vuole costruire un nido di ciottoli sul fondo dell’oceano, deve prima possedere
un congegno per scovare i ciottoli e un sistema per ritrovare la strada per il nido in modo da poter
porre i ciottoli. Questo sistema non deve essere infallibile: difficilmente verranno eretti dei falsi nidi
che lo possano confondere e, se anche l’identificazione del nido non andasse in porto, il granchio
non riconoscerebbe di aver fatto un errore.

Se il granchio avesse un sistema di riserva per l’identificazione del nido, il riconoscimento del falso
nido lo metterebbe in uno stato confusionale, ma contemporaneamente gli altri due sistemi lo
spingeranno a continuare a costruire.

In organismo come noi, dotati di avanzati sistemi di automonitoraggio e in grado di mediare i conflitti, la
natura dell’errore compiuto è fin troppo chiara:

Es. Le persone con lesioni al cervello possono manifestare un disturbo chiamato illusione di
Capgras che consiste nella convinzione da parte del paziente, che una persona da lui amata sia
stata sostituita da un impostore con lo stesso aspetto.

Dennett sottolinea come i filosofi hanno sempre sorvolato su questo disturbo, ma secondo lui è necessario
analizzare la sicurezza delle affermazioni dei pazienti nel dire “questo non è mio marito”.

Il neuropsicologo Andrew Young (1994) ha contrapposto l’illusione di Capgras con la prosopagnosia, un


disturbo che impedisce il riconoscimento dei volti. Nonostante questa enorme difficoltà, Young ha osservato
che nei pazienti prosopagnosici, alla vista di un volto familiare, vi è un aumento della reazione galvanica
cutanea (misura della conduttanza della cute) e questo potrebbero far ipotizzare che ci siano due (o più)
sistemi in grado di identificare un volto: quando quello visivo smette di funzionare, il secondo sistema, più
nascosto e inosservato, continua a funzionare.

Supponendo la situazione inversa - ovvero che il sistema di riconoscimento visivo è funzionante, ma non è
così per quello nascosto - la persona proverebbe comunque una sottile mancanza di riconoscimento e quindi
giudicherebbe il povero familiare come un impostore.

Potrebbero esistere dei casi intermedi tra gli estremi del granchio inconsapevole e del paziente ingannato
dall’illusione di Capgras?

Es. Argo, il cane di Ulisse, riconoscerà il suo padrone anche dopo la mancanza di 20 anni. Proprio
come esistono ragioni per il granchio di ricordare l’identità del suo nido, anche il cane ha le sue
ragioni per identificare il suo padrone in mezzo a molti altri oggetti importanti nel mondo.

Quanto più pressanti sono le ragioni per reidentificare gli oggetti, tanto più remunerativo sarà il
riuscire a non compiere errori. I cani vivono in un ambiente comportamentale più ricco e complesso
rispetto a quello dei granchi, per cui è più vantaggiose respingere gli indizi fuorvianti.
Se il cane sbagliasse a riconoscere il padrone, noi penseremmo che l’errore di identificazione sia
caratterizzato da uno scambio di identità; questo senza tuttavia concludere che l’animale sia in grado di
pensare la proposizione in base alla cui credenza esso pare comportarsi

Es. Se Ulisse è ubriaco un giorno sì e l’altro no, il cane deve avere un principio di riconoscimento.
Forse Argo riconosce Ulisse in quanto insieme di odori, suoni e visioni, ma allo stesso tempo lui sa
che Ulisse può essere ubriaco o meno.

Dalla prospettiva di esseri umani, noi ci rendiamo conto del successo di Argo perché il suo comportamento
si avvicina a quello umano, ovvero che sa chiaramente riconoscere gli individui. Quando noi interpretiamo il
suo comportamento attraverso un atteggiamento intenzionale, attribuiamo delle credenze caratteristiche ad
Ulisse, ma questo non spiega il sistema di riconoscimento del cane poiché ci sono degli schemi concettuali
inesprimibili attraverso il linguaggio umano.

Inoltre, la capacità degli animali di generalizzare le loro esperienze particolari è molto limitata:

Es. I delfini sono animali reputati molto intelligenti, ma quando vengono catturati da una rete, non
saltano via da essa nonostante siano abituati a saltare anche fuori dall’acqua.

Noi esseri umani, grazie alla capacità di riflettere, possiamo discriminare casi al di là della comprensione di
altri esseri.

Tom ha ormai da anni una moneta portafortuna (Amy) che porta sempre con sé. Un giorno, mentre
è a New York, decide di lanciarla in una fontana, ma subito dopo, colto dal senso di colpa, decide di
volerla recuperare.

Amy è indistinguibile dalle altre monete, ma riflettendo, Tom sa che una delle seguenti affermazioni
è vera:

- La moneta che ho in mano è Amy


- La moneta che ho in mano non è Amy

Nessun essere vivente potrà sapere quale è vera, ma intanto la capacità di inquadrare e verificare
l’ipotesi sull’identità è assolutamente unica all’essere umano. Le abitudini e i progetti di molte
creature comportano che esse debbano mantenersi in contatto e sappiano re-identificare gli
individui (es. madre), ma non abbiamo la prova che gli animali comprendano ciò mentre lo stanno
facendo.

L’uomo riesce in tutto ciò perché è una creatura gregoriana dotata di uno speciale artificio mentale, il
linguaggio. Possedere un linguaggio inoltre richiede la capacità di ricavare questo strumento mentale
dall’ambiente circostante.

5. La creazione del pensiero


Psicologi naturali e incapaci di pensiero
Molti animali si nascondono, cacciano e si riuniscono in gruppi, ma senza saperlo di farlo. Il loro SN
coordina tutti questi atti, ma non è appesantito da un pensiero. Possono quindi esistere comportamenti
intelligenti necessariamente coordinati dal pensiero? La risposta risiede nell’impiego dell’atteggiamento
intenzionale verso se stessi e gli altri.

Quali animali sono incapaci di prendere in considerazione l’ipotesi di una mente altrui (come fanno i
behavioristi)? Quali invece sono spinti a un livello superiore? E‘ paradossale che un agente non pensante si
interessi alla scoperta e alla manipolazione dei pensieri altrui; qui ci troviamo di fronte a un livello di
sofisticazione che impone l’evoluzione del pensiero.

Molti teorici hanno ipotizzato che l’evoluzione di una intelligenza superiore possa essere spiegata con la
metafora della corsa agli armamenti: Humphrey, nel autorevole articolo “Nature’s Psychologists" (1978),
sosteneva che l’autocoscienza fu uno stratagemma per sviluppare e verificare l’ipotesi su ciò che passava
nella mente altrui. Questo accade perché quando si assume l’atteggiamento intenzionale verso gli altri, si
capisce che si può assumere anche verso sé stessi.

Nel libro “Conditions of Personhood”, scritto dallo stesso Dennett, l’autore sostiene che una tappa
importante per diventare una persona è il passaggio da un sistema intenzionale di primo ordine a un
sistema intenzionale di secondo ordine.
Un sistema intenzionale di primo ordine ha credenze e desideri su molte cose, ma non riguardo a credenze e
desideri; un sistema di secondo ordine invece può avere credenze e desideri su credenze e desideri propri e
altrui. Un sistema intenzionale di terzo ordine potrebbe essere “io voglio che tu creda che esso vuole
qualcosa”; come si può intuire, maggiore è l’ordine e maggiore è la complessità del pensiero.

Gli ordini superiori dipendono esclusivamente da quanto un agente riesce a tenere a mente nello stesso
tempo, ma se l’intenzionalità di ordine superiore è un progresso importante nei diversi tipi di mente,
altrettanto è la distinzione tra intelligenza capace e incapace di pensiero.

Alcuni degli esempi più studiati dell’apparente intenzionalità di ordine superiore nelle creature umane
sembrano ricadere nella categoria della destrezza automatica.

Es. Consideriamo l”esibizione di distrazione”: gli uccelli che nidificano al suolo usano come forma
di protezione della prole la finzione, ovvero fingono di allontanarsi dal nido con un ala rotta in modo
da distrarre il predatore dalle uova e apparire un facile boccone; l’uccello continua ad allontanarsi
fino a che il predatore è sufficientemente lontano

Immaginando il soliloquio dell’uccello: “Io sono un uccello che nidifica al suolo e non posso proteggere i
miei pulcini una volta che il predatore li scopre. Io mi aspetto che il predatore si avvicinerà e una cosa che lo
distrarrebbe sarebbe il desiderio di mangiarmi, ma solo se pensasse che esista la possibilità di catturarmi. Se
io dimostrassi che non posso volare, instillerei in lui questa credenza”.

Non è credibile che un uccellino possa avere un soliloquio così complesso; eppure, questo è il “copione”
del suo comportamento, a prescindere che lui sia o non ne sia consapevole.

L’etologa Ristau ha dimostrato che in una specie di piviere, gli individui calibrano le proprie esibizioni di
distrazione a seconda della perdita o meno dell’interesse del predatore. Inoltre, questo piviere discrimina gli
intrusi a seconda della forma e della dimensione: sapendo che le mucche non si cibano di uccelli, non
cercheranno di allontanarle facendo da essa, ma piuttosto strideranno le beccheranno.

In natura esistono altri esempi di questo tipo e si possono vedere nelle lepri:

Es. Quando non possono nascondersi o fuggire da una volpe, le lepri si alzano su due zampe e le
fissano in modo da intimarle di lasciarle stare poiché “la hanno già vista e che non la coglierebbe
di sprovvista”. Spesso, la volpe abbandona.

Humphrey considera queste creature degli psicologi naturali, tuttavia esse sono incapaci di pensiero e non
hanno un modello interiore con cui interagire per anticipare o orientare il comportamento altrui e proprio.
Queste creature hanno un cospicuo repertorio di comportamenti alternativi, ben collegato ad un altrettanto
cospicuo repertorio di stimoli percettivi; questo è tutto ciò che gli basta.

Questo repertorio di coppie percettivo-comportamentale equivale a una congiunzione “se-allora”:

(Se vedi x, fai A) e (se vedi y, fai B), e (se vedi z, fai C), …

Sarebbe economicamente più vantaggioso organizzare questi repertori seguendo il principio della
generalizzazione esplicita: quando si presentano nuovi casi, io scompongo e ricostruisco i repertori a
seconda della situazione (vedi pag 141).

E‘ davvero economicamente vantaggiosa questa soluzione? E‘ possibile che un’altra pressione selettiva
abbia portato ad una nuova capacità di riorganizzazione delle strutture di controllo? Secondo l'etologo
McFarland e Talleyrand, la comunicazione (e quindi il linguaggio) potrebbe essere il passo verso la verità.

La comunicazione dà opportunità di bluffare sulle proprie future azioni (“l’onestà non è la politica migliore
poiché darebbe vantaggio ai competitori) ed è proprio l’imperscrutabilità del proprio sistema di controllo
ad assumere importanza centrale nella sopravvivenza. L’imprevedibilità è un buon elemento di protezione da
usare saggiamente. Chi sa dosare bene la propria comunicazione, ha un vantaggio ulteriore: dire mezze verità
e mezze bugie, rende ulteriormente imprevedibili.

Lo sviluppo della comunicazione è più chiaramente visibile nelle interazioni fra membri della stessa specie
poiché la collaborazione non è la nostra vera natura, bensì la competizione. Ancor più evidente è la
comunicazione autoprotettiva: l’agente deve controllare la comunicazione esplicita di un proprio
comportamento (es. sto cercando di catturare un pesce) e se questo mi rende prevedibile, allora mi sto
mettendo in una posizione di svantaggio.

Le esigenze della comunicazione costringono l’agente a utilizzare le categorie, ma queste possono spesso
creare delle distorsioni. Secondo McFarland, l’agente risolve questo problema attraverso la confabulazione
approssimante: l’agente deve etichettare le proprie tendenze come se fossero governate da obiettivi espliciti
- progetto d’azione - invece che da tendenze d’azione emergenti dall’interazione dei vari candidati. Soltanto
quando queste rappresentazioni di intenzioni (intenzioni nel senso quotidiano del termine) inizieranno a
funzionare in questo modo indiretto, allora l’agente capirà che è mosso da intenzioni precedentemente
formulate.

Tuttavia, molti ambienti sono ostili al mantenimento dei segreti e se un agente non è sufficientemente abile
nel mantenere un segreto, allora la sua comunicazione sarà misera (es. in un territorio aperto, difficilmente
potrò occultarmi, devo quindi escogitare qualcosa)

“Bill vuole considerare un segreto, X, nascondendolo a Jim”. Affinché ciò accada, devono essere
rispettare le seguenti condizioni:

- Bill sa (crede) che X


- Bil crede che Jim non creda che X
- BIll non vuole che Jim arrivi a credere che X
- Bill crede di poter fare in modo che Jim non arrivi a credere che X

E‘ proprio quest’ultima condizione a rendere difficoltoso il mantenimento di un segreto in ambienti


“ostili” a questa pratica
Tutto questo per dire che il pensiero è potuto emergere solo dopo la comparsa della parola che a sua
volta è comparsa dopo la capacità di mantenere un segreto.

Intanto che gli psicologi naturali non hanno l’opportunità di comunicare reciprocamente riguardo
all’attribuzione di intenzionalità a sé stessi o ad altri, allora non esiste nessuna pressione selettiva che porti
ad abbandonare il principio della “necessità di sapere” a favore del principio del “commando”.
Quest’ultimo sottolinea come sia necessario fornire tutte le informazioni possibili sul progetto totale ad un
“commando” affinché esso possa improvvisare di fronte a qualsiasi ostacolo.

Negli animali, le basi razionali che spiegano la loro rudimentale intenzionalità di ordine superiore sono
localizzate nei loro SN, mentre noi ora stiamo cercando le basi razionali rappresentate in quei SN.
L’apprendimento ABC dà ottime opportunità di discriminazione e di estrazione di modelli celati in grandi
insieme di dati; tuttavia, esso è difficilmente adattabile in quanto ha bisogno di addestramento.

Secondo Clark e Karmiloff-Smith, un cervello organizzato dall’apprendimento ABC esclude la possibilità di


operare sulle nostre conoscenze: “le conoscenze sono nel sistema, ma non sono per il sistema”. Per far sì che
ciò avvenga, è necessaria l’istituzione di simboli.

I simboli sono mobili: possono essere manipolati, possono unirsi per formare schemi più grandi, … Noi
esseri umani siamo capaci di un apprendimento veloce e intuitivo poiché siamo capaci di contemplare questi
simboli

Es. Gli animali di laboratorio si adattano ad un nuovo ambiente dopo centinaia di ore di
addestramento; invece, a noi umano bastano pochi minuti di pratica e informazioni

Il mistero del nostro apprendimento è il fattore che ci ha permesso di evolvere dall’apprendimento ABC:
un'ipotesi di risposta potrebbe essere quella della regola della costruzione degli artefatti, ovvero “per
capirlo, devi farlo da te”. Affinché una base razionale diventi propria dell’agente, questi deve “fare”
qualcosa con essa: manipolazioni, progetti, correzioni, revisioni, ….

Costruire cose con cui pensare


L’ambiente circostante è fonte infinita di informazioni per l’agente, perciò, deve gestire attentamente il
proprio tempo in modo da essere il più efficiente possibile. Le creature gregoriane sono più efficienti grazie
alle varie identità frutto di progetto e non a caso, secondo Dennett, l’uomo è l’entità più intelligente perché
riesce a scaricare nell’ambiente la maggior parte dei suoi compiti cognitivi - estendendo la mente - in
artefici che memorizzano, elaborano e potenziano i nostri processi di pensiero.

Un agente affronta l’ambiente con il repertorio di abilità (percettive e comportamentali) che ha a


disposizione; se queste non fossero sufficienti, allora dovrebbe semplificare l’ambiente o sviluppare nuove
capacità.

Es. la maggior parte degli animali, per orientarsi, lascia come punti di riferimento tracce di urina;
questo serve anche per delimitare i confini, utile per l’animale stesso, ma anche per gli altri

ES. Se volessi cercare le chiavi di casa nascoste in migliaia di scatole di scarpe, quello che voglio
evitare è di cercare più volte nella stessa scatola per cui o contrassegno le scatole già visto e mi
impongo come regola di non aprire le scatole con il contrassegno oppure creo due pile di scatole a
seconda se ho, o meno, cercato in esse.
Questo è un esempio di semplificazione di un compito di memorizzazione e di percezione pressoché
impossibile. Il contrassegno deve essere unico e facilmente memorizzabile così da non cadere
nell’errore di non vederlo oppure di avere il dubbio se quel contrassegno è il mio. Questo è la forma
più primitiva di scrittura che un uomo può avere.

Da un punto di vista estremo, gli anziani che vengono allontanati da casa e ospedalizzati diventano
totalmente incapaci di autogestirsi e questo è dovuto all'improvvisa perdita di punti di riferimento che
possiedono in casa e che gli aiutano a ricordare cosa fare e dove cercare se hanno bisogno di qualcosa.
Dennett definisce questo come “una separazione da gran parte della loro mente”.

Noi umani contiamo involontariamente su moltissimi punti di riferimento.

Es. La scrittura su carta → Nei casi di una moltiplicazione difficile, i simboli numerici ci
permettono di misurare i risultati intermedi e allo stesso tempo ci ricordano quale sarà il passo
successivo nella procedura.

Noi creature gregoriane abbiamo così tanti artefici utili grazie alla trasmissione di essi dai tempi della
Preistoria attraverso la cultura e l’eredità genetica.

Perché noi disegniamo sulla lavagna o sui fogli di carta? Perché ri-rappresentiamo l’informazione in un altro
formato che ci permette di utilizzare competenze percettive specializzate.

L’ambiente delle creature popperiane - e della sottovarietà delle culture gregoriane - si suddivide in due
parti:

- Ambiente interno → Gli “abitanti” dell'ambiente interno sono in larga misura onnipresenti e questo
gli permette di essere più controllabili e conoscibili; la conseguenza diretta è una maggiore
probabilità di essere progettati a beneficio dell’agente (ricorda la lista della spesa; quello che c’è
nella mente. c’è anche sulla lista)

- Ambiente esterno → Questo si modifica in molti modi e geograficamente è all’esterno della


creatura

La creatura deve sapere quali sono i suoi arti, quale bocca nutrire e anche qualcosa sul suo cervello. Essa
riesce in questo grazie all’uso di etichette e al piazzamento di punti di riferimento; un'altra fonte di
conoscenza su sé stesso è il SN. Tutto quello che riguarda l’ambiente interno non ha bisogno di etichette
poiché sarebbero vie di accesso ridondanti e multimodali ai nostri strumenti.

Per la creatura gregoriana, gli oggetti, interni o esterni, sono oggetti per diritto proprio, ovvero da
manipolare, spostare, accumulare, ….

Le nostre menti naturali sono fatte in modo da trattare solo modificazioni che abbiano luogo a ritmi
particolari; ciò che avviene più velocemente o lentamente è per noi invisibile (la fotografia ultrarapida ci
ha permesso di porre al nostro ritmo oggetti che nello stato naturale non lo erano). Prima delle foto, questo
avveniva attraverso i disegni, ma la grande differenza è che la macchina fotografica è “stupida”:

essa non deve comprendere il soggetto come lo farebbe un artista; questo allo stesso tempo permette una ri-
rappresentazione della realtà incontaminata, non manipolata e priva di giudizi.

Il problema delle fotografie è che devono essere etichettate perciò il vantaggio economico che si era
ottenuto (ovvero di non etichettare la realtà) è limitato. Il vantaggio rimane localizzando indirettamente gli
oggetti importanti senza che questi possano essere rintracciati direttamente
Es. Un singolo omicidio può non dirci nulla, ma se rappresentiamo sulla mappa, tramite puntini,
una serie di omicidi con caratteristiche simile, allora potremmo vedere quello che prima non
riusciamo a vedere

La mente umana conserva “puntatori” e “indici”, ma scarica sul mondo esterno quanti più dati è possibile
(es. nell’agenda, nel computer, nella cerchia di amici). La mente umana non è limitata al cervello;
maggiori sono i dati scaricati, maggiore è la dipendenza dai dispositivi periferici; maggiore è la familiarità
con essi e maggiore sarà la tendenza all'indipendenza (essi vengono immagazzinati nella testa).

Una fonte ricca di nuove tecniche di ri-rappresentazione è l’abitudine di mappare nuovi problemi sui
meccanismi di risoluzione di problemi preesistenti: noi pensiamo al tempo pensando in realtà allo spazio;
mappiamo il passato, il presente e il futuro con sinistra, destra, su e giù

Es. lunedì è a sinistra del martedì, le quattro stanno sotto le tre

Nella scienza, questa rappresentazione avviene ad un livello più avanzato poiché si usano i grafici (es.
temperatura lungo la giornata) Noi usiamo il nostro senso di spazio per vedere il passaggio del tempo; la
nostra capacità di immaginare i diagrammi è tipica delle creature gregoriane.

Grazie a tutti questi strumenti mentali, tendiamo a dimenticare che i nostri modi di pensare il mondo non
sono gli unici, infatti gli animali avranno una propria visione del mondo.

Secondo Dennett, le parole, scritte o parlate, sono lo strumento mentale più importante di tutti. Le parole
semplificano la cognizione e posizionano punti di riferimento per orientarsi nel mondo; senza di esse
sarebbe impensabile orientarsi nel mondo astratto e multidimensionale delle idee.

Parlare e scrivere sono spesso due fenomeni messi assieme, ma in realtà è necessaria una distinzione: ciò che
è stato scritto sul “linguaggio di pensiero”, presuppone che si stia pensando a un linguaggio del pensiero
scritto (Dennett: “cervello che scrive e la mente e che legge”). Tuttavia, quello che ha veramente potenziato
le nostre facoltà cognitive, è il linguaggio del pensiero parlato.

Parlare a noi stessi


Quando il progetto dell’Homo Sapiens riceve l'invenzione del linguaggio, esso viene catapultato di fronte a
tutte le specie di viventi. I bambini non “imparano” a parlare poiché sono predisposti geneticamente:
secondo Neon Chomsky, come gli uccelli non imparano le proprie penne, i bambini non imparano le lingue.

Per i primi due anni, i bambini esercitano le parole da soli, ma successivamente, quando si sentono sicuri,
comunicano con le persone e, perché no, agli animali domestici. Che cosa possono significare per la loro
mente i loro soliloqui? Per spiegare ciò, Dennett fa una lunga ipotesi.

Quando la mamma dice “Scotta! Non toccare la stufa”, il bambino non comprende il loro significato:
per lui, questi sono solo suoni che possono essere facilmente richiamabili in futuro. In secondo luogo, queste
parole evocano una situazione-tipo (avvicinamento ed evitamento della stufa) che viene udita come una
proibizione specifica. Il bambino successivamente, quando si avvicinerà alla stufa, si ripeterà tra sé le parole
della madre e di conseguenza si allontana dalla stufa.

All’inizio queste emissioni vocali saranno simili a “scarabocchi”, ma tramite la ripetizione (quasi come un
mantra), queste diventeranno delle esortazioni, proibizioni o descrizioni reali. L’abitudine di aggiungere
delle “etichette” si instaura ancora prima di comprenderne il significato. Soltanto quando il bambino
stabilirà una maggiore associazione fra i processi uditivi e gli schemi delle attività, allora riuscirà a creare
degli importanti nodi di memoria.
Le etichette che noi “costruiamo” devono essere un rapido amplificatore delle associazioni desiderate.
Riuscire a riconoscere un’etichetta ci permette di poterla utilizzare in un secondo momento: una volta
create le etichette e presa l’abitudine di attribuirle alle circostanze, abbiamo creato una nuova classe di
oggetti che a loro volta diventano oggetto dell’attività dei nostri meccanismi di riconoscimento.

Raffinando le nostre etichette riusciremo ad avvicinarci alla destrezza magica da cui abbiamo cominciato: la
mera contemplazione di una rappresentazione è sufficiente a richiamare alla mente tutte le associazioni
appropriate; quando riusciamo a comprendere gli oggetti che abbiamo creato, allora possiamo parlare di
concetti.

Un concetto è un’etichetta interna che può, o meno, includere fra le sue molte associazioni gli aspetti uditivi
e articolatori di una parola; le parole sono i prototipi dei concetti.
6. La nostra mente e le altre menti
La nostra coscienza, le loro menti
Una mente umana - senza le sue estensioni nella realtà - è qualcosa che non abbiamo mai visto ed è perciò
una riprogettazione culturale. E‘ facile stupirsi della potenza della mente se non se ne conoscono le
componenti; ognuna di esse risale a diversi miliardi di anni fa.

Prima del pensiero, le creature erano esseri dotati di intenzionalità inconsapevole - automi capaci prima
di tutto di rintracciare e discriminare oggetti, successivamente anche di reagire con essi in modo variabile a
seconda della situazione. Questi progetti di automi inseguivano qualcosa: le basi razionali delle proprie
funzioni.

Queste creature all’inizio cacciavano le prede e sfuggivano ai predatori senza sapere cosa stessero facendo.
In seguito, perfezionando il controllo sull’ambiente, hanno iniziato a collocare segnali nel mondo interno e
nel mondo esterno. Hanno così inizio le rappresentazioni, tuttavia esse non vengono usate
consapevolmente e quindi non si può ancora parlare di “pensiero”, ma di comportamento intelligente
inconsapevole; questo perché non era riflessivo e non poteva essere oggetto di riflessione.

Se per noi guidare la macchina è un'attività inconsapevole, è merito di un lungo periodo di sviluppo del
progetto esplicitamente autocosciente. Quando apprendiamo il linguaggio, il nostro cervello inizia a
perfezionarsi poiché è capace di riconsiderare e riprogettare le nostre attività. I processi che persistono più a
lungo e che acquistano influenza sono quelli che chiamiamo pensieri coscienti.

I contenuti mentali diventano coscienti quando risultano vincitori rispetto ad altri contenuti mentali nella
competizione per aggiudicarsi il controllo del comportamento. Essendo esseri parlanti e profondamente
influenzabili dal parlare a se stessi, un modo per aumentare l’influenza di un contenuto mentale è quello
di guidare le componenti che fanno uso del linguaggio.

Questa organizzazione dell’attività competitiva è una fra le numerosissime competenze sviluppate dal corpo
e che ci identifica:

“Tu sai “automaticamente” delle cose che hanno luogo nel tuo corpo perché, se così non fosse, non
sarebbe il tuo corpo!” (es. non potrei essere travolto dalla tristezza di qualcun altro credendo per
errore che fossero sentimenti miei).

Gli atti e gli eventi che ognuno di noi può raccontare ci appartengono perché li abbiamo fatti e di
conseguenza loro ci hanno fatto.

Le altre menti sono tanto diverse da quella umana?


Immaginiamo un uomo con un camice bianco da laboratorio che si arrampica a forza di braccia su una fune
tenendo fra i denti un secchio di plastica rossa. Questa capacità immaginativa è alla portata di uno
scimpanzé? L’uomo, il secchio, la fune, [...] sono oggetti che lo scimpanzé non può solo percepire, ma li
vede come uomo, fune, secchio, [...]. In forma minimale, lo scimpanzé ha un concetto di uomo, fune,
secchio, [...], ma la domanda è: che cosa può fare uno scimpanzé con i suoi concetti? Può uno scimpanzé
richiamare alla mente gli elementi di soluzione quando essi non sono presenti e quindi non forniscono alla
memoria dell’animale un aiuto visivo?

I capitoli precedenti hanno evidenziato come gli scimpanzé sono incapaci di tali attività. Per caso possono
mettere insieme in qualche modo i concetti rilevanti (i loro concetti) e che poi un risultato fortuito attiri la
loro attenzione.

Anatomicamente, il cervello umano e quello degli scimpanzé sono fatti della stessa materia, ma ciò che
differisce è la sua organizzazione. Ciò che rende cosciente una mente è la capacità di concentrarsi,
ricordare eventi passati, … Se si possiedono queste capacità, allora è possibile interrogarsi su questioni
moralmente più importanti.

Es. Un cane ha un concetto di gatto? Sì e no. Il concetto canino di gatto potrebbe avvicinarsi a
quello umano, ma la grande differenza è che il cane non si soffermerà mai a riflettere sul suo
concetto di gatto.

I concetti sono oggetti del nostro mondo di esseri umani perché noi abbiamo il linguaggio. Il più grande
ostacolo che si oppone ai tentativi di chiarire le competenze mentali degli animali non umani è la nostra
abitudine irresistibile da immaginare che essi accompagnano la loro attività intellettiva con un flusso di
coscienza riflessiva in qualche modo simile al nostro.

Secondo Dennett, l’articolo pubblicato nel 1974 da Thomas Nagel “What is like to be a Bat?” ci mette su
una strada verso un mistero impenetrabile e inconoscibile.

Com’è per un uccello costruire un nido? La domanda ci induce prima a immaginare come noi lo
costruiamo e successivamente immagineremmo le differenze con l’uccello. Siccome costruire un nido non
è un’attività abituale, dovremmo pensare a qualcosa di più familiare: allacciarsi le scarpe. A volte noi ci
concentriamo in questa attività, ma nella maggior parte dei casi la svogliamo inconsapevolmente, magari
mentre pensiamo ad altro.

Potremmo dire che l’uccello possa costruire un nido immaginando ad occhi aperti altro? Possibile, ma finora
le prove empiriche hanno dimostrato solo il contrario. Più ci soffermiamo sugli studi delle menti animali non
umane e più noi realizziamo come i nostri pensieri sono profondamente diversi.

Dolore e sofferenza: ciò che conta davvero


Nonostante siamo alla fine del libro, non abbiamo ancora trovato una risposta su quali entità sono senzienti o
meno e questo desta in noi un “disturbo” morale. È possibile che ricerche future potranno finalmente trovare
il confine che la natura ha voluto delineare tra gli esseri viventi, ma questa non è una possibilità su cui fare
affidamento poiché non sappiamo quale potrebbe essere questa scoperta e soprattutto se essa potrà colpirci
moralmente.

Qual’è quindi il rapporto fra dolore, sofferenza e coscienza? Gli stimoli provenienti dai nostri nocicettori
- stimoli che mentre dormiamo impediscono ai nostri arti di assumere strane posizioni che potrebbero
danneggiare le articolazioni- sono sperimentati come dolore? Non si parlerebbe piuttosto di “dolore
inconscio”? Perché gli stati del sistema nervoso sono volti alla protezione dell’organismo
Es. I bambini che subiscono violenze, ricorrono a due stratagemmi disperati per dimostrare a sé
stessi che non sono loro a soffrire:

- Rifiuto del dolore come proprio e l’osservazione di esso da lontano,


- Assumano che deve esistere un soggetto che li sopporta, per il quale essi contino in quanto
fonte di sofferenze nella scissione di più personalità (non sono “io” che sopporta questo
dolore, ma è lui”)

Per quanto possa sembrare assurda, gli psichiatri hanno osservato che questa “acrobazia” mentale
possa di fatto ridurre la sofferenza; sul dolore invece la riduzione è relativa.

Cosa dovremmo dire delle creature che per loro natura sono dissociate? Queste creature sono incapaci di
sopportare il tipo o la quantità di sofferenza a cui può resistere normalmente un umano e la conseguenza
diretta è che queste creature possano sentire dolore, ma non soffrono quanto gli umani (questa però non
è una giustificazione sufficiente per i cacciatori).

Questa ipotesi però può essere facilmente confutata pensando alla maggiore capacità di soffrire dei cani. I
cani sono gli unici animali addomesticati a cui rivolgiamo in enormi quantità un comportamento
“umanizzante”, ovvero un comportamento che gli rende partecipi delle nostre comunicazioni, dei nostri
dolori, delle nostre gioie, … Tutto questo è possibile perché i cani addomesticati, oltre ad una incredibile
reattività all’affetto umano, discendono da mammiferi sociali abituati alla cooperazione e all’interazione
(i gatti, infatti, non raggiungono tali livelli poiché discendono da una stirpe asociale).

Per migliaia di generazioni, i cani domestici sono stati selezionati dall’uomo in modo da assumere le
caratteristiche odierne. Tuttavia, l’uomo ha inconsapevolmente effettuato anche una selezione involontaria:
questa selezione ha reso i nostri cani sempre più simili a noi (vedi la suscettibilità alla socializzazione e
l’attenzione ai bambini). I cani sono gli animali più vicini ad una mente umana poiché se la coscienza umana
è una radicale ristrutturazione dell’architettura effettiva del cervello umano, ne segue che gli animali
vagamente capaci di qualcosa di simile sono quelli che hanno “subito” l'imposizione di questo meccanismo
culturale.

Che dire sul dolore? Quando si pesta il piede a qualcuno, il dolore che si prova è talmente momentaneo che
ha una significatività morale evanescente; la stessa cosa non si può dire se questo gesto si compie
deliberatamente.

Molte discussioni concludono che:

- Sofferenza e dolore sono la stessa cosa, ma su scale diverse


- Il dolore è “dolore sperimentato”
- La “quantità di sofferenza” è calcolata sommando i singoli dolori

Se la medicina moderna trovasse un modo per non far provare dolore e sofferenza per tutto l’anno, ma che
questo si accumula per essere poi scaricato nell’ultima settimana dell’anno, qualcuno accetterebbe questa
proposta? Se tutto questo non uccidesse, Dennett accetterebbe senza pensarci due volte questo patto, ma
capisce che tutto questo non può aver senso siccome non si può staccare il dolore e la sofferenza dal
nostro essere.

Quando succede qualcosa di orribile, non è la sofferenza che questo evento causa in me, ma la
sofferenza che questo evento è. Se volessimo ridurre la sofferenza, dovremmo studiare la vita delle creature
e non il loro cervello. Se però non riusciamo a trovare la sofferenza nelle creature, allora possiamo essere
tranquilli che non esista alcuna sofferenza in loro. Se ci imbattiamo nella sofferenza, la riconosceremo senza
difficoltà - è fin troppo familiare.

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