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Piergiorgio Giorilli
Elena Lipetskaia
PIERGIORGIO GIORILLI dal 1959 lavora nel laboratorio di famiglia, di cui ha assunto
la gestione. Dal 1987 è Maestro Panifi catore nelle Scuole Professionali del
settore. Nel 1994 partecipa al campionato del mondo a squadre e ottiene il secondo
posto individuale in Panifi cazione. Nel 1995 prepara la squadra nazionale che
risulterà vincente a Nantes al Campionato Europeo di categoria. Dal 1998 è docente
di CAST Alimenti di Brescia. Nel 2002 guida alla vittoria la squadra nazionale a
Bulle (CH), in occasione della Coupe d’Europe de la boulangerie artisanale. Nel
2007 è Presidente della Giuria al Mondial du Pain a Lione e Socio dell’Associazione
Francese degli Ambasciatori del Pane. Dal 6 ottobre 2012 fa parte della
Confraternita de la Chaine des Rôtisseurs con il titolo di Chevalier du Baillage
d’Italie. Con Gribaudo ha già pubblicato Pane & Pani e Snack Food – spuntini &
stuzzichini.
ELENA LIPETSKAIA si è laureata a San Pietroburgo nel 1996 e dal 1994 opera nel
settore della panifi cazione. È ingegnere tecnologo alimentare e lavora presso
Molini Valente. Collabora da molti anni con Piergiorgio Giorilli; con lui ha
realizzato il volume Panificando, di cui ha curato la parte tecnica.
PIERGIORGIO GIORILLI
ELENA LIPETSKAIA
Il grande libro del
Pane
FOTOGRAFIE DI
Ecco, questo libro ha lo scopo di portare nella già curiosa panificazione italiana
questi nuovi concetti produttivi, necessari oggi per dare una vigorosa spallata
alla pane diversità italiana, alla qualità del pane e, perché no?, alla redditività
delle nostre imprese. Spero che chi legge questo libro non si limiti a ciò, che
comunque è tanto, ma raccolga la provocazione di Giorgio Giorilli per far nascere
in ognuno di noi panificatori un pensiero orientato al miglioramento costante, alla
continua discussione dello scontato, usando l’osservazione, il perenne confronto,
la sperimentazione e la codifica dei processi panificatori.
Roberto Capello
Presidente Federazione
Italiana Panificatori
Non intendo ripercorrere qui l’intera storia di questo grande maestro, ma vorrei
ricordare alcuni momenti chiave. Dopo le prime competizioni a metà degli anni
Novanta, all’indomani della fondazione di CAST Alimenti, Piergiorgio Giorilli è
diventato docente della scuola e nostro punto di riferimento per la panificazione.
Negli stessi anni è nato per sua iniziativa il Richemont Club Italia, che insieme
alla scuola ha lavorato alacremente per portare in alto il nome della panificazione
italiana nel mondo. Di questo dobbiamo essere grati anche a Fausta, moglie di
Giorilli, esempio luminoso di come dietro a un grande uomo di professionalità ci
sia sempre una grande donna.
Buona lettura
Vittorio Santoro
Perché il miracolo del pane possa attraversare il nostro tempo. Bene antico, da
custodire e su cui investire. Per l’oggi e per il futuro.
Giuseppe Giuliani
Non fermarsi mai, non accontentarsi del risultato ottenuto, ma cercare sempre di
migliorare e di evolvere il prodotto e le tecniche per realizzarlo, tenendo conto
in primo luogo del valore del prodotto: renderlo sempre migliore, badando
soprattutto alla sua genuinità, ma senza rinunciare alle comodità di esecuzione. A
chi pratica questo mestiere l’ultima frase potrebbe sembrare non veritiera, in
effetti forse l’ultima cosa che guarda un panificatore è la comodità di esecuzione.
Ma pensate che ci sono molte tecniche che ce lo permettono: alcune nuove, ma per la
maggiore parte sistemi antichi, ora recuperati. Quali sono? Le scoprirete leggendo
questo volume.
Elena Lipetskaia
Il mondo dei
cereali
I tipi di cereali
I cereali appartengono alla famiglia delle Graminacee, che comprende diversi generi
(circa 500). Insieme ai cereali vengono raggruppate anche le piante appartenenti
alla famiglia delle Poligonacee, come il grano saraceno. I cereali più diffusi nel
mondo sono: il frumento (Triticum), il riso (Oryza), il grano turco o mais (Zea
mais), la segale (Secale), l’orzo (Hordeum), l’avena (Avena), il miglio, il farro,
il triticale e il grano saraceno.
Le vitamine
La cariosside dei cereali non contiene molti grassi, il loro valore medio è intorno
al 2-3%. Il cereale che ne contiene di più è l’avena (fino al 7,5%).
Le fibre contenute nei cereali sono quasi assenti nelle farine raffinate, ma sono
presenti nelle farine più scure (integrali, 1, 2). Esse hanno un ruolo molto
importante per l’organismo, soprattutto per l’apparato digerente:
Per cui una dieta bilanciata deve contenere una buona quantità di prodotti
integrali, ma non dovrebbe contenere soltanto questi. Negli strati esterni dei
cereali si trovano anche le sostanze antinutrizionali4 e antivitamine (per esempio
fitati e tannini).
a cariosside vestita;
a cariosside nuda.
Nel frumento a cariosside vestita gli strati esterni aderiscono strettamente alla
cariosside, per cui la loro separazione risulta difficile. A questo tipo appartiene
il farro (Triticum dicoccum, Triticum monococcum e Triticum spelta). Nell’altro
tipo di frumento, ossia quello a cariosside nuda, le glumelle possono essere
facilmente separate dal chicco. A questo tipo appartengono:
frumento tenero (Triticum aestivum o vulgare), che presenta spighe sottili, con
chicchi piccoli e leggeri, farinosi, di colore bianco-giallino. La farina ottenuta
dalla macinazione di questo tipo di frumento viene utilizzata più che altro per la
produzione di pane, dolci e prodotti da forno.
frumento duro (Triticum durum) che, a differenza del frumento tenero, presenta
spighe più tozze, chicchi più pesanti, molto vitrei e di colore ambrato. Questo
tipo di grano, una volta macinato, viene impiegato come semola per la produzione
delle paste alimentari, ma anche in forma di semola rimacinata per la realizzazione
di alcune ricette di pane (pugliese, siciliano ecc.).
Le numerose peculiarità del frumento spiegano la sua maggiore diffusione nel mondo.
È il cereale più utilizzato in assoluto. La caratteristica più importante che
distingue il frumento da tutti gli altri cereali è il suo particolare contenuto
proteico. Le proteine del frumento hanno la capacità di formare il glutine, che ha
una grande importanza nella produzione del pane, della pasta e dei diversi prodotti
da forno. Il pane confezionato con la farina di frumento è caratterizzato da un
volume superiore, un buon sviluppo della mollica e una più alta digeribilità.
Avendo un’ottima capacità di formare il glutine, il frumento non può essere
consumato dai celiaci.
I consumatori moderni sono diventati sempre più “gourmet”: non si accontentano dei
prodotti tradizionali e vanno alla scoperta di sapori e di gusti diversi dal
solito. La loro attenzione viene rivolta anche verso i prodotti tipici della cucina
estera. Suscitano l’interesse i prodotti da agricoltura biologica e quelli
preparati con ingredienti particolari. La stessa tendenza si nota anche nel campo
della panificazione, dove vengono introdotti sempre di più i cereali diversi dal
frumento, i cosiddetti “cereali minori”, data la loro limitata diffusione
nell’agricoltura italiana. Presentiamo alcuni di loro.
FARRO
Triticum monococcum o Einkorn, detto farro piccolo; originario del Medio Oriente e
risalente a 10.000-9.000 anni fa, è la più antica specie di cereale coltivata
dall’uomo. I chicchi del monococcum sono di colore dorato (ricchi di pigmenti
carotenoidi) e hanno un lieve profumo di nocciola, data una buona presenza di
polifenoli;
Triticum dicoccum o Emmer, detto anche farro medio; è sempre originario del Medio
Oriente e diffuso nel bacino del Mediterraneo da più di 10.000-7.000 anni. Era il
cereale più coltivato e più importante per gli antichi Egizi;
Triticum spelta o Spelt, detto anche farro grande o spelta; è coltivato da più di
8.000 anni. Originario dalla zona del Mar Nero, si è poi diffuso in tutta l’Europa
centrale. La farina di questo cereale è caratterizzata da un colore scuro e da un
profumo intenso; ha ottime attitudini alla panificazione.
Fra questi tipi, i più utilizzati nella panificazione sono il Triticum dicoccum e
il Triticum spelta, mentre il Triticum monococcum ha una diffusione minore.
Le cariossidi del farro sono più piccole rispetto a quelle del frumento e hanno una
forma più arrotondata. Il farro è resistente alle cattive condizioni climatiche e
alle malattie, tanto che la sua coltivazione non necessita di pesticidi e
fitofarmaci. Date le tendenze del mercato oggi, in cui la genuinità del prodotto
viene messa al primo posto, questo cereale presenta una notevole importanza per
l’alimentazione. L’unico scompenso del farro è la sua scarsa produttività, per cui
la sua coltivazione non è molto diffusa. Studi recenti si occupano del
miglioramento del patrimonio genetico del farro, soprattutto per quanto riguarda la
fertilità. Fra tutti i tipi, lo spelta è quello che presenta il miglior contenuto
proteico. Il valore medio di proteine dello spelta è del 17%, che può arrivare
anche al 19% su 100 parti di sostanza secca, quindi risulta superiore a quello del
frumento tenero. Oltretutto, le proteine dello spelta hanno buone capacità di
formare il glutine (quindi questo cereale non va bene per i celiaci). Il tenore
medio in glutine secco dello spelta varia dal 13 al 17%. Il farro in media possiede
un contenuto proteico lievemente inferiore rispetto allo spelta, ma superiore a
quello del frumento tenero.
La farina di farro ha buone attitudini alla panificazione, per cui questo cereale
trova sempre più campo nella produzione di vari tipi di pane confezionati con
tecniche diverse, anche con l’uso del lievito madre, creato e mantenuto con tale
sfarinato.
KHORASAN (KAMUT®)
È un cereale minore appartenente al genere Triticum turgidum turanicum, la cui
specie più diffusa, detta anche “grano grosso” o Khorasan (Triticum turanicum), è
stata registrata dal Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti nel 1990 ed è più
nota con la denominazione commerciale di Kamut®.
FRUMENTO KAMUT®
non può essere utilizzato in prodotti il cui nome sia ingannevole o fuorviante
sulla percentuale di esso contenuta;
SEGALE
Finora la farina di segale non ha trovato un grande impiego nei panifici italiani,
salvo in località di montagna, dove il pane preparato con farina di segale è
diffuso per tradizione. Negli altri Paesi (Austria, Germania, Russia ecc.) il
consumo del “pane nero” (così viene chiamato il pane confezionato con maggiore
percentuale di farina di segale) quasi supera il consumo del pane con la farina di
frumento.
Fra le numerose peculiarità della segale si può citare anche la sua capacità di
fluidificare il sangue e di ridurre il contenuto di colesterolo, mantenendo così le
arterie più elastiche. Infatti, le popolazioni che consumano abitualmente il pane
di segale sono difficilmente afflitte da malattie cardiovascolari. La farina di
segale si presta abbastanza bene alla panificazione, ma per panificare con segale
bisogna considerare le sue differenze rispetto alla farina di frumento. La prima
differenza consiste nel fatto che la farina di segale non ha quasi capacità di
formare glutine. Ma quel poco che forma rende questo cereale non idoneo per
l’alimentazione dei celiaci.
Solo grazie a un alto contenuto di fibre, capaci di assorbire molti liquidi, si
riesce a ottenere una consistenza dell’impasto abbastanza accettabile per poter
formare il pane; infatti la quantità di cellulose e pentosani (fibre solubili)
nella segale è due volte superiore rispetto a quella contenuta nella farina di
frumento.
Il pane confezionato con 100% di farina di segale non potrà mai essere voluminoso
come il pane preparato con farina di frumento e anche la sua alveolatura non potrà
essere molto sviluppata, mentre la mollica rimarrà più umida, compatta e
appiccicosa. Un’altra differenza fra il pane di segale e il pane di frumento
consiste nel colore più scuro del primo, sia per la mollica che per la crosta.
Questo colore viene ancora più accentuato se si utilizza malto scuro (non
diastasico, vedi).
Il colore scuro è dovuto anche a una quantità più alta di zuccheri contenuti nella
farina di segale (infatti ha una quantità di zuccheri propri tre volte superiore
rispetto a quelli della farina di frumento), ma è dovuto anche all’alta attività
amilasica che possiede la farina di segale. Oltre al fatto che le amilasi sono
contenute nella farina di segale in parecchia quantità, la loro azione è anche più
facilitata, perché l’amido nella farina di segale risulta più attaccabile per un
semplice motivo: comincia a gelatinizzarsi a una temperatura di 54 °C, mentre
l’amido della farina di frumento ha la massima gelatinizzazione a una temperatura
di 80 °C.
Un’attività troppo alta della a-amilasi nella farina di segale, data l’azione
liquefacente di tale enzima, influenza negativamente le caratteristiche fisiche
dell’impasto. Inoltre, le amilasi agiscono in modo attivo anche durante la cottura,
formando la mollica umida e appiccicosa del prodotto pronto. Per questo motivo
nella preparazione del pane di segale è necessario avere un impasto più acido,
perché un alto grado di acidità inattiva l’attività delle amilasi. Per aumentare
l’acidità dell’impasto è necessario sviluppare in esso batteri lattici, i quali,
fermentando, producono una serie di acidi organici atti al processo. Inoltre, danno
anche altri benefici, come una più lunga durata di conservazione e un gusto più
intenso. In Russia, a questo scopo, vengono adoperati crescenti specifici, molto
ricchi di batteri lattici, che si chiamano zacvaschi. Sono rinnovati
quotidianamente con acqua e farina di segale e contengono parecchie quantità di
batteri lattici selezionati, per cui hanno un alto grado di acidità.
TRITICALE
È una coltura nuova, che rappresenta una nuova specie botanica e deriva
dall’incrocio del frumento con la segale.
La quantità di glutine ottenuta dal triticale è più alta rispetto a quella ottenuta
dal frumento, ma le caratteristiche qualitative sono più basse, perché fra le
proteine prevalgono le gliadine. Il triticale possiede un buon quantitativo di
fibre e di sostanze gelatinose. L’attitudine alla panificazione degli sfarinati di
triticale è più bassa rispetto a quella degli sfarinati di frumento. Il pane
ottenuto dalla farina di triticale ha un volume minore rispetto a quello del
frumento, la sua mollica è più compatta ed è più appiccicosa; spesso la crosta
presenta spaccature.
GRANO SARACENO
La pianta proviene dall’Asia centrale e viene coltivata anche in Europa, nei Paesi
scandinavi e nel Nord America. In Italia la coltivazione del grano saraceno non è
molto diffusa e si limita in alcune zone nel nord del Paese.
I semi hanno una forma piramidale e sono ricoperti da una corteccia spessa, la cui
colorazione può variare dal grigio chiaro al marrone. Il germe del seme ha una
forma a “S”, attraversa tutto il chicco e le sue dimensioni sono notevoli. Durante
la macinazione esso non viene separato, quindi i suoi principi nutritivi si
ritrovano nel prodotto finale.
La composizione chimica del seme del grano saraceno è comune a tutti i cereali:
mediamente contiene circa 65% di carboidrati (fra cui l’amido, circa 54,9%,
zuccheri in quantità abbastanza bassa, circa 1,5%, e una buona percentuale di
fibra, il 10,8%). I grassi sono circa il 2,3%. I chicchi contengono numerosi acidi
organici, che determinano un’assimilazione migliore di tutti i nutrienti da parte
dell’organismo. La percentuale di sali minerali non è molto alta (1,8%), ma essi
contengono preziosi elementi, come fosforo, magnesio e soprattutto calcio, la cui
quantità è superiore rispetto a quella degli altri cereali. Il contenuto proteico
del grano saraceno varia dall’11,6 al 13% di sostanza secca del seme.
Per poter realizzare pani e prodotti da forno con la farina di grano saraceno è
necessario miscelarla con una buona percentuale di farina di frumento. Il
patrimonio vitaminico è ben rappresentato: il grano saraceno contiene le vitamine
B1, (tiamina), B2 (riboflavina), PP (niacina) e anche la vitamina P (rutina), che è
un componente dei bioflavonoidi, sostanze che favoriscono l’utilizzo da parte
dell’organismo della vitamina C.
Le vitamine, i sali minerali, i grassi e le altre sostanze nutritive, per una gran
parte contenuti nel germe del seme, rimangono in abbondante quantità nella farina
dopo la macinazione perché, come avevamo accennato, a differenza dagli altri
cereali il germe non viene separato durante la lavorazione. Per cui lo sfarinato
ottenuto dal grano saraceno sarà assai più ricco di sostanze indispensabili per
l’organismo.
I fiori della pianta si usano anche nell’apicoltura per la produzione del miele,
avente un sapore molto ricco e caratteristico. Il grano saraceno può essere
consumato integralmente (in forma di chicchi) per la preparazione dei contorni o
delle kasci (piatti tipici della Russia e dei Paesi scandinavi, a base di latte,
con l’aggiunta di zucchero e sale, in cui vengono cotti i grani oppure i derivati
dei grani, alcuni messi precedentemente a bagno), e dei piatti regionali, oppure
sotto forma di farina per realizzare pani, biscotti e vari prodotti dietetici ad
alto contenuto nutrizionale, come anche la pasta (sono celebri i pizzoccheri, il
prodotto tipico della Valtellina).
ORZO
Il complesso vitaminico dell’orzo comprende, oltre alle vitamine comuni agli altri
cereali (B1, B2, PP) anche la vitamina B12 (cianocobalamina), necessaria per la
formazione dei globuli rossi, per cui svolge una funzione antianemica, inoltre fa
parte di numerosi sistemi enzimatici nell’organismo. L’orzo possiede anche la
vitamina E (tocoferolo), contenuta principalmente nel germe, che è una sostanza
antiossidante, indispensabile per il funzionamento dei tessuti nervosi e muscolari
e per la prevenzione dell’invecchiamento.
AVENA
L’avena (Avena sativa) viene coltivata soprattutto nei climi freddi e temperati ed
è diffusa nelle zone nordiche dell’Europa, in Russia e in alcune zone asiatiche,
meno in Italia. In passato l’avena veniva usata principalmente come mangime per
cavalli, mentre il suo uso nell’alimentazione umana era molto limitato.
Oggi l’inserimento di questo alimento nella dieta suscita sempre più interesse,
dati i suoi pregi nutrizionali e le sue marcate proprietà benefiche.
I chicchi d’avena sono ricoperti da numerosi strati, la cui percentuale risulta più
alta fra tutti i cereali e raggiunge circa il 18-45% del peso totale della
cariosside. Fra tutti i cereali, l’avena è quella che ha un minore peso specifico
(55-68 kg/hl). Esistono due classi principali di avena, che si differenziano tra di
loro a seconda della forma e della massa del chicco. L’avena appartenente al primo
gruppo ha chicchi robusti, di forma quasi cilindrica, il cui colore può variare dal
bianco al giallo, e viene destinata soprattutto all’alimentazione umana. Le
cariossidi dell’avena appartenente al secondo gruppo sono più sottili e allungate.
Questo tipo di avena trova impiego soprattutto per l’alimentazione del bestiame.
L’avena è un cereale con un alto valore nutritivo: 100 g di avena forniscono quasi
400 Kcal. Il suo contenuto in glucidi è simile a quello degli altri cereali (circa
70-72% su 100 parti di sostanza secca). Il contenuto proteico è abbastanza alto
(varia dal 12 al 14%) e sono importanti anche le proprietà delle proteine. Queste
si caratterizzano per un alto valore biologico, perché contengono un numero
maggiore di aminoacidi essenziali (la lisina, in particolare) rispetto agli altri
cereali, la cui quantità supera del 4,8% il frumento. Il contenuto in gluteline
(proteine formanti il glutine) dell’avena è molto basso, per cui le sue qualità
panificabili risultano molto scarse. Questo cereale possiede un elevato contenuto
di grassi (dal 6,5 all’8%), molto più alto rispetto agli altri cereali, il che
spiega il suo alto valore energetico. I lipidi d’avena contengono preziosi acidi
grassi essenziali come l’acido linoleico e l’acido linolenico, che esaltano
ulteriormente le qualità nutrizionali dell’avena. È costituita anche da una
quantità significativa di sali minerali, che contengono elementi come il ferro, il
fosforo, lo zinco, il sodio, il magnesio e il calcio.
L’avena non forma il glutine e quindi il suo consumo non dovrebbe creare problemi
ai celiaci, ma il rischio di ipersensibilità alla gliadina (proteina presente
nell’avena e maggiore responsabile del morbo celiaco) può esistere, per cui anche
questo cereale per sicurezza viene proibito nella dieta di un celiaco.
MIGLIO
Per cui il consumo del miglio riveste un’importante funzione nella rigenerazione
del sangue, nella prevenzione dell’anemia e in tutte le situazioni di affaticamento
fisico e mentale. Il miglio ha anche un buon contenuto vitaminico, rappresentato
soprattutto dalle vitamine del gruppo B e dalla vitamina A (sotto forma di beta-
carotene), che è necessaria non soltanto per la vista, ma anche per la pelle, per
la crescita e per il rinnovamento dei tessuti.
In Italia il miglio viene usato principalmente come mangime per i volatili e meno
per l’alimentazione umana. In commercio si trovano sia la farina di miglio, sia il
miglio mondato (decorticato), che si presenta sotto forma di granelli rotondi, di
colore giallino e di sapore gradevole, dolciastro. Può essere usato per la
preparazione di dolci tipici, di croccanti, di pani tradizionali e di piatti
regionali. La farina di miglio non ha buone attitudini alla panificazione: per
poter essere usata nella confezione dei pani deve essere mischiata alla farina di
frumento. In tale forma o anche come componente delle miscele di altri sfarinati
può essere usata per produrre pani particolari, arricchiti di sostanze
nutrizionali.
In Russia e nei Paesi scandinavi (Finlandia, Norvegia) il miglio, come anche gli
altri grani (l’avena in fiocchi, il semolino, il grano saraceno ecc.), serve per la
preparazione delle kasci, le quali costituiscono il piatto principale per la prima
colazione.
MAIS
Il mais, cereale appartenente al genere Zea mais, può essere coltivato in diverse
varietà. Proviene dall’America centrale, da cui a partire dalla fine del
Quattrocento viene introdotto in Europa e ora è largamente coltivato e diffuso in
molti Paesi. Il mais è una pianta annuale; la sua semenza spunta alla temperatura
di 10-12 °C, per cui non può crescere nelle zone del Nord. Le varietà di mais
possono essere suddivise in diverse sottospecie, che si differenziano a seconda
delle caratteristiche: il numero degli involucri del chicco (possono essere chicchi
“nudi” o “vestiti”), la forma e la superficie della cariosside, il colore della
cariosside, la durezza del chicco ecc.
La quantità di gluteline del mais è assai minore: ciò spiega l’incapacità di questo
cereale di formare il glutine e quindi la sua scarsa attitudine alla panificazione.
Per lo stesso motivo il pane e i prodotti da forno a base di mais sono
particolarmente indicati ai malati di celiachia.
Tutto sommato, il mais è un cereale con un alto valore energetico (100 g di mais
fornisce 355 Kcal), ricco di carboidrati complessi (come l’amido), ma con un
moderato contenuto di proteine, di vitamine e di sali minerali. Nella dieta deve
essere integrato con prodotti ricchi di proteine, di calcio e di vitamine
(soprattutto PP).
Dal mais si possono ricavare i seguenti prodotti: farine e semolati, fiocchi, pop
corn, olio di semi, amido e prodotti ottenuti dalla sua idrolisi (gli zuccheri come
il glucosio, le destrine, gli sciroppi ecc.) e dalla successiva fermentazione
(alcol e derivati), oltre ad alimenti zootecnici. La farina di mais viene
utilizzata nella produzione della polenta e di alcuni dolci. Nella panificazione
trova minor impiego, viste le sue scarse caratteristiche di panificabilità. Per
ottenere i pani con il mais è opportuno miscelare tale farina con farina di grano
tenero di forza, per consentire lo sviluppo (anche se parziale) della maglia
glutinica. In ogni caso i pani a base di farina di mais non saranno molto
voluminosi, ma avranno un gusto ricco e particolare e un’ottima conservabilità.
Utilizzando i preimpasti “a caldo”, in cui la farina di mais viene portata alla
temperatura della gelatinizzazione dell’amido, si possono ottenere i risultati
migliori per quanto riguarda il volume del prodotto.
RISO
Essendo un cereale molto ricco di amido (la cui quantità è pari al 70-80% dalla
sostanza secca del seme), il riso è un alimento altamente energetico e costituisce
la risorsa alimentare principale per molte popolazioni, soprattutto quelle
asiatiche. È un prodotto dietetico e di alta digeribilità, per cui viene
consigliato nelle diete.
I lipidi sono contenuti nel riso in quantità dall’1,5 al 3%. Essi contengono i
residui degli acidi grassi come palmitico, oleico, stearico e soprattutto quelli
essenziali come linolenico e linoleico (maggiormente rappresentato nelle sostanze
grasse del riso). Nel riso raffinato il contenuto in grassi risulta nettamente
inferiore, perché essi si trovano per la maggior parte nel germe, che viene
eliminato con la lavorazione, per consentire al prodotto una più lunga
conservazione. Il riso integrale contiene più sostanze grasse rispetto al riso
brillato, però ha una conservazione più limitata. Inoltre, il riso integrale
possiede la fibra (circa 1-1,5%), invece il riso brillato risulta quasi privo di
essa. I sali minerali del riso, oltre a contenere il fosforo e il calcio,
contengono anche altri elementi come il potassio, il sodio, il ferro ecc.
Il contenuto salino si perde in gran parte con gli scarti della lavorazione del
cereale, per cui il riso brillato conterrà soprattutto il fosforo e il potassio e
sarà impoverito di elementi come calcio, ferro e sodio. Nel riso integrale sono
contenute, in quantità moderata, vitamine come la tiamina (B1), la riboflavina
(B2), la niacina (PP), la piridossina (B6), la biotina, l’acido pantotenico (B5),
l’acido folico, il tocoferolo (E). Anche la loro quantità è notevolmente ridotta
nel riso brillato, per cui l’alimentazione basata esclusivamente sul consumo di
riso (soprattutto raffinato) può causare alcune malattie, dovute alla carenza di
vitamine (detta avitaminosi), come per esempio il beri-beri, provocato dalla
carenza di vitamina B1, che in passato era molto diffusa soprattutto fra la
popolazione povera dei Paesi asiatici.
Il grado di raffinazione incide molto sul valore nutritivo del prodotto: il riso
brillato non possiede un alto valore nutritivo, ma ha un alto valore energetico
(360 Kcal per 100 g di prodotto), rispetto al riso integrale (100 g forniscono 330
Kcal, però contengono più sostanze indispensabili per il nostro organismo come le
vitamine, le fibre e i sali minerali).
La farina di riso non è capace di formare il glutine, quindi, come il mais, ha una
scarsa attitudine alla panificazione, ma essendo molto soffice e ricca di amido
trova impiego in pasticceria. Inoltre, avendo un’alta digeribilità, è molto
indicata per i prodotti dietetici e per la prima infanzia, oppure per i malati di
celiachia (grazie all’incapacità di formare il glutine).
QUINOA
Gli steli della pianta terminano con un’inflorescenza, detta panicolo, da cui
vengono estratti i chicchi aventi piccole dimensioni, di forma sferica. La quinoa è
un cereale storico delle popolazioni indigene del Sud America, coltivato da almeno
5.000 anni. È una pianta resistente ai climi tempestosi e cresce anche in altezza
fino a 4.000 metri. Sopporta sia freddo che siccità e non necessita di trattamenti
specifici, per questo spesso viene coltivata in regime biologico. Preferisce le
temperature non molto alte e poca umidità, per cui l’ambiente ideale per la sua
coltivazione rimane la zona delle Ande. Attualmente è più coltivata in Bolivia, in
Perù, in Equador e in Cile, e a seguire in Argentina e in Francia.
fibra (g) 7
Farina,
acqua, sale,
lievito...
Gli ingredienti di base per preparare il pane sono quattro: farina, acqua, sale,
lievito. Ma da questi semplici elementi utilizzati sapientemente dal panificatore
nasce un’infinità di prodotti da forno, tutti unici nel loro genere, e ciascuno con
il proprio carattere; un bouquet di sapori e di profumi. I prodotti speciali da
forno oltre agli ingredienti di base contengono il condimento (materia grassa),
alcuni (prodotti dolci) le uova, lo zucchero, il latte e il burro. Ma in realtà gli
ingredienti per i pani speciali sono svariati: purché siano commestibili, possono
essere utilizzati quasi tutti in base alla fantasia del panificatore, ai gusti e
alle usanze del territorio. Così la tradizione artigiana italiana offre ai
consumatori numerose varietà di prodotti da forno, in continua evoluzione, per la
fortuna dei panificatori. E chi pratica questo mestiere non si annoia mai!
Come una casa nasce dalle fondamenta, allo stesso modo un impasto nasce dalla
farina, l’ingrediente basilare per preparare qualsiasi prodotto da forno, che si
ottiene dalla macinazione dei cereali.
C’erano una volta antichi mulini, movimentati dall’acqua di un fiume che scorreva
accanto, dove si macinava il grano che cresceva nei campi vicini...
Il primo controllo prevede anche l’esame di attività enzimatica del grano (analisi
di Falling Number, vedi attraverso il controllo di micotossine (oppure di
vomitossine).
Tutta la merce che arriva oggi nei mulini deve corrispondere ai requisiti dei
controlli igienico-sanitari. Deve avere livelli non superiori a quelli consentiti
dalla legge di batteri e muffe (si verificano attraverso i controlli
microbiologici), corpi estranei e insetti vivi o morti (si verificano attraverso
filth-test), residui chimici come metalli pesanti (in particolare cadmio e piombo),
residui antiparassitari e organofosfati (si verificano attraverso esami chimici).
Quindi, la fase di accettazione della materia prima riveste una grande importanza
per quanto riguarda i seguenti obiettivi:
sicurezza alimentare: la merce deve avere un’umidità corretta, deve essere priva di
infestanti, non deve avere micotossine, residui antiparassitari e metalli pesanti,
quindi deve corrispondere ai limiti stabiliti dalle leggi in vigore;
La durezza del grano (detta hardness), dipende dalla genetica del grano e dal
contenuto proteico della sua cariosside. Per il frumento tenero esistono tre classi
di durezza: S - soft, M - medium, H - hard.
I grani soft (soffici) hanno un peso specifico più basso, non possiedono molte
proteine, si frantumano facilmente, dando sfarinati di resa minore con particelle
piccole e leggere.
I grani hard (duri) hanno un peso specifico più alto, di solito sono più ricchi di
proteine, resistono di più alla frantumazione e nella macinazione danno sfarinati
di resa più alta, con particelle di dimensioni più grossolane, semolose.
Le prove successive a cui viene sottoposto il prodotto in esame (il grano macinato,
la farina finita o la base di macinazione) sono soprattutto quelle reologiche, in
cui viene valutato il glutine del prodotto e attraverso un esame su apparecchi
specifici vengono valutate le caratteristiche come la “forza”2 del prodotto, la
resistenza e l’estensibilità.
2 FORZA Termine con cui si intende un insieme di due capacità: quella di assorbire
i liquidi durante l’impasto e quella di mantenere i gas durante la lievitazione.
L’ALVEOGRAFO E IL FARINOGRAFO
Nell’esame con l’alveografo la farina ottenuta viene impastata con acqua salata,
successivamente si formano 5 dischetti (in modo che ne rimangano almeno 3 per la
validità della prova, nel caso alcuni dovessero rompersi durante l’estrazione) e,
dopo un breve tempo di riposo, vengono sottoposti al rigonfiamento con aria,
formando una palla che si gonfia progressivamente fino alla sua rottura. Durante
l’esame viene misurato il raggio della bolla ottenuta in funzione della pressione
dell’aria. Si ottiene così un grafico, in cui vengono tracciate cinque curve
(rispettivamente per i cinque dischetti di pasta) e viene evidenziata una curva
media, sulla quale si fanno le misurazioni (pag. 34): la superficie (indice W) e il
rapporto fra l’altezza e lunghezza del grafico (l’indice P/L).
Alveografo Chopin.
L’alveogramma
PARAMETRI RISULTATI
TEMPERATURA DI LABORATORIO 20.0 °C P = 69 mmH2O
P/L = 0.58
Ie = 62.0 %
W (O) = 0 10E-4J
Adesso anche negli scaffali dei supermercati appaiono i sacchetti di farina su cui
è riportato il valore W, mentre prima si trovavano soltanto le informazioni
riguardanti il tipo di farina (00, 0, integrale). È un fatto positivo, perché in
questo modo il cliente ha un’idea sulla forza della farina, e quindi sulla sua
destinazione. Ma teniamo sempre presente che il valore rilevato con l’alveografo
Chopin è puramente teorico, per cui viene preso in considerazione come punto di
riferimento, ma mai come un dato assoluto e irrevocabile (considerate le diverse
imperfezioni di questo strumento).
L’esame del farinografo, invece, consiste nel misurare la forza necessaria per
creare un impasto di farina e acqua, per precisione vengono sempre adoperati 300 g
di farina in esame e l’acqua viene unita in base all’assorbimento della farina da
buretta calibrata (il tipico contenitore di vetro con il rubinetto nella parte
inferiore). Lo strumento è composto da una piccola impastatrice, alle pale della
quale è collegato uno strumento, il dinamometro, che serve per misurare lo sforzo
necessario per realizzare l’impasto con il prodotto in esame. I dati vengono
trasmessi al lettore. Dal grafico si ricavano informazioni come: tempo di sviluppo
(tempo di evoluzione dell’impasto), tempo di stabilità (in cui l’impasto avrà le
caratteristiche stabili) e caduta (peggioramento delle caratteristiche
dell’impasto), dalla buretta si misura anche la quantità necessaria d’acqua
(assorbimento del prodotto).
ASSORBIMENTO ACQUA
GRADO DI RAMMOLLIMENTO
UF (unità farinografiche)
Per esempio, nel grafico alla pagina precedente la farina in esame panificabile è
debole con stabilità 5 minuti; ha un buon assorbimento d’acqua, 57,8% (riferito
all’umidità 14%).
Estensografo Brabender.
strumento per misurare il falling number o indice di caduta (chiamato anche indice
di Harberg in onore di chi lo ha inventato: gli scienziati Harberg e Perten.
Nell’analisi, la provetta contenente una miscela composta da farina e acqua viene
inserita all’interno dell’apparecchio, la cui camicia contiene dell’acqua bollente,
in modo che la farina gelatinizzi. L’asticella dell’agitatore (inserita all’interno
della provetta) successivamente cade dalla sua posizione massima fino al fondo
della provetta. Il tempo della sua caduta viene misurato in secondi e questo valore
è l’indice di caduta. Tanto più densa è la miscela, tanto più tempo ci vorrà per la
caduta dell’agitatore, e viceversa: nella miscela più liquida l’agitatore cadrà più
rapidamente. Questo tempo è in relazione con l’attività degli enzimi della farina:
se sono più attivi, la miscela diventa più liquida.
< 220 secondi: la farina ha alta attività enzimatica (normalmente non viene
commercializzata dal mulino);
Anche l’analisi con l’amilografo si basa sullo stesso principio, ma nel recipiente
che contiene la miscela di farina e acqua vengono inserite anche le sonde, che
misurano l’inizio della gelatinizzazione e la massima gelatinizzazione, dando
un’informazione più completa.
D’obbligo devono essere eseguiti controlli a tappeto delle ceneri, per verificare
la corrispondenza del prodotto finito alla categoria di appartenenza a seconda del
grado di raffinatezza: 00, 0, 1 ecc. In questa analisi nei crogioli (piccoli
recipienti in materiale termoresistente come quarzo oppure marmo) viene pesata una
porzione di farina in esame. I crogioli vengono inseriti in una stufa (chiamata
“muffola”), la quale ha una temperatura che va da 550 a 600 °C. Inizialmente il
prodotto nel crogiolo prende fuoco, poi viene carbonizzato per 6 ore minimo. Quello
che resta sono le ceneri, le quali vengono pesate. Nelle ceneri vanno a finire le
parti non carbonizzabili (come per esempio i sali minerali), che si trovano negli
strati esterni del chicco di grano, quindi dalla loro quantità possiamo risalire al
grado di raffinatezza della farina. Se le ceneri sono più basse, la farina sarà più
raffinata, viceversa la farina integrale avrà un più alto valore di ceneri. La
quantità di ceneri per tipologie di farine italiane è regolamentata dalla legge.
Amilografo.
Alcune persone sono convinte che una farina 0 sia debole, mentre una farina 00 sia
forte. Questo tipo di classificazione non ha nessuna incidenza con la forza della
farina. Possiamo avere una farina integrale forte e una farina 00 debole. La forza
della farina dipende soprattutto dai grani che la compongono e da come viene fatta.
In base alle prove reologiche possiamo vedere a che famiglia appartiene il nostro
grano.
> 14,5 130 > 12,5 130 > 11 130 < 9 130
1,2-0,7 100 < 0,8 100 < 0,7 100 < 0,5 100
indice di Hagberg (secondi) > 250 > 220 > 220 > 220
PREPULITURA
LO STOCCAGGIO
Dai vari silos vengono prelevate porzioni di grano in proporzioni necessarie per
comporre la miscela desiderata, destinata alla macinazione. Inizialmente il grano
passa attraverso dei separatori per eliminare le impurità di dimensioni diverse da
quelle delle cariossidi. Le eventuali particelle o i pezzettini di ferro si
eliminano mediante un passaggio attraverso separatori magnetici. I semi estranei si
separano con macchine dette “svecciatoi”, aventi tamburi con degli alveoli a forma
di semi, con separatori elicoidali nei quali i semi estranei vengono separati per
la differenza della velocità nella discesa. Successivamente il grano viene
spazzolato e aspirato per assicurare la massima pulizia. Alcuni mulini moderni
possiedono anche selezionatrici ottiche in grado di ispezionare il grano non
soltanto dalla superficie, ma anche in profondità attraverso il passaggio vicino a
telecamere ottiche e a raggi infrarossi. Il flusso del grano passa vicino alle
telecamere che lo ispezionano, consentendo ai chicchi sani di proseguire il
passaggio verso le fasi successive del processo molitorio, invece quelli difettosi
(frantumati, volpati, bianconati, bucati, fusariati, oppure semi estranei) vengono
espulsi con un getto d’aria nello scarto.
I laminatoi
IL CONDIZIONAMENTO
In questa fase le cariossidi vengono bagnate fino a che non raggiungono un tasso di
umidità del 16-17%. Il grano viene agitato per permettere un’omogenea distribuzione
dell’acqua all’interno dei chicchi. Successivamente il frumento subisce un riposo,
che dura mediamente 24 ore, ma può essere più lungo o più breve a seconda della
durezza del grano. L’operazione del condizionamento facilita la separazione delle
parti corticali dalla mandorla farinosa, rende le cariossidi meno fragili e più
elastiche, migliorando così le caratteristiche viscoso-elastiche del glutine, e
dona allo sfarinato una migliore attitudine alla panificazione.
LA MOLITURA
I plansichter
Dalla prima rottura della cariosside (B1) mediante il passaggio nel plansichter si
ricavano prodotti intermedi, fra cui semole vestite di varie dimensioni, crusca
larga e un po’ di farina. I prodotti più grossolani vengono inviati al passaggio di
rottura B2, mentre le semole vestite vengono inviate a più semolatrici in base alle
dimensioni per separare sempre meglio i prodotti.
LE SEMOLATRICI
La farina ottenuta dalla macinazione o dalla miscelazione viene stoccata nei silos
di maturazione, da dove può essere prelevata da autocarri destinati per il
trasporto della farina, oppure subisce il confezionamento nei sacchi di pura
cellulosa da 25 kg (per i panifici), da 5, da 10, oppure da 1 kg (per la
distribuzione nei supermercati). I sottoprodotti vengono destinati ai mangimifici.
I prodotti finali della macinazione
I prodotti ottenuti attraverso le varie fasi della macinazione del frumento tenero
sono:
farina 75-78%
Dal D.L. n. 109 del 27 gennaio 1992, è denominato “farina di grano tenero” il
prodotto ottenuto dalla macinazione e conseguente abburattamento del grano tenero
liberato dalle sostanze estranee e dalle impurità. Le farine di grano tenero
destinate al commercio possono essere prodotte soltanto nei tipi 00, 0, 1, 2,
integrale. La farina tipo 00 può essere prodotta anche sotto forma di sfarinato
granulare (granito). Viene altresì denominato “semola di grano duro” o
semplicemente “semola” il prodotto granulare a spigolo vivo ottenuto dalla
macinazione e conseguente abburattamento del grano duro, liberato dalle sostanze
estranee e dalle impurità. La farina di grano duro può essere prodotta in forma di
semola, semolato o di farina integrale. È consentita la produzione di farina di
grano duro, da destinare esclusivamente alla panificazione, avente un contenuto in
ceneri minimo di 1,35 e massimo di 1,60, cellulosa massimo 1, sostanze azotate
minimo 11,50 su 100 parti di sostanza secca. La legge n. 580 del 4 luglio 1967 con
le successivi modifiche definisce alcuni requisiti per le farine di grano tenero e
di grano duro.
La differenza tra le categorie sta nella quantità di parti corticali rimaste nella
farina dopo la sua macinazione. La farina 00 sarà più raffinata e quindi avrà una
minima quantità di parti cruscali, invece la farina integrale ne avrà la massima
quantità.
Tuttavia, alcune farine a parità di forza danno prestazioni migliori e altre meno.
La differenza maggiore sta nella qualità dei grani che compongono le farine. Le
farine prodotte dalle miscele dei grani più nobili e più pregiati hanno le qualità
panificabili migliori. Esistono le farine di forza, preparate con i grani di base
di modesta qualità e arricchite con tanto glutine: raggiungono i valori di forza
richiesti, ma a livello di panificazione danno prestazioni inferiori rispetto alle
farine che hanno la stessa forza, ma sono state ottenute con dei grani più pregiati
e più validi, con molto meno glutine aggiunto o anche senza quest’ultimo.
farine deboli, con poche proteine: per i prodotti di pasta frolla e simili;
farine deboli, ma leggermente più forti di quelli per pasta frolla: per pan di
Spagna e prodotti simili;
farine deboli panificabili: grissini, focacce dirette, da rinfresco per gli impasti
a base di biga, per i pani di grosso formato e per prodotti rustici;
farine di forza media: per tutti i tipi di pane, compresi quelli di lunga
fermentazione, per poolish medio-lungo e per i prodotti a base di poolish, per
pizza e focaccia di media lievitazione, per sfoglia non contenente lievito;
farine di forza: per biga e i prodotti soffici a base di biga (ciabatta, rosetta
soffiata), per i prodotti sfogliati lievitati (croissant, brioche), per il
mantenimento del lievito madre, per i prodotti di ricorrenza (panettone, colomba,
pandoro).
Macinando il grano duro, mediamente si ottiene circa il 60-62% di semola, che può
essere ulteriormente rimacinata, passando attraverso speciali laminatoi con dei
cilindri rigati, per ottenere la semola rimacinata di grano duro, idonea per la
panificazione. Mentre, rimacinando direttamente le prime rotture del grano, si
ottiene la semola rimacinata integrale.
La composizione chimica del grano duro presenta alcune differenze rispetto al grano
tenero. Il glutine di grano duro ha un’elevata resistenza, è corto e tenace (i
valori medi del rapporto P/L dall’analisi alveografica oscillano da 1,1 a 3,0, con
modesto valore di W, pari a 190-220). La semola rimacinata ha un’alta capacità
d’assorbimento e di trattenimento d’acqua (60-68% rispetto a valori medi di 50-60%
per la farina di grano tenero). Risulta maggiore anche la resa in pane (130-140%
per i prodotti confezionati con gli sfarinati di grano duro, rispetto a una media
di 120% per il pane di grano tenero).
L’ACQUA
Per essere idonea per la preparazione dei prodotti da forno l’acqua dovrà essere
potabile, quindi in base al D.L. 31/2001 e successive modifiche (D.L. 27/2002) e in
base alla Direttiva Europea 98/83/CE, dovrà rispondere ai seguenti parametri:
torbidità assente;
2 Si deve aggiungere di solito più acqua per lo stesso tipo di impasto se la farina
è più forte, se contiene più fibra, oppure se ha l’umidità più bassa. In genere
quando la farina viene conservata per più tempo diventa più asciutta e più forte,
richiede quindi più acqua nell’impasto.
La quantità di sale nell’impasto solitamente varia dal 1,8 al 2,5% dalla quantità
di farina, a seconda delle ricette e del tipo di farina. Per la maggior parte delle
preparazioni la sua percentuale è del 2%. Esistono anche tipi di pane (come per
esempio il pane toscano) che non contengono sale. In generale, oggi si cerca di
ridurne la quantità per seguire al meglio una sana alimentazione.
Nella preparazione del pane il sale ha un ruolo molto importante: la sua aggiunta a
un impasto cambia la sue proprietà reologiche e fermentative. Fornisce resistenza
ed elasticità a un impasto e rallenta l’attività microbica e quella degli enzimi.
Un impasto senza sale fermenta più in fretta e ha una minore capacità di mantenere
la forma, fornendo prodotti finali con un volume minore (rispetto a un impasto con
sale), mollica più compatta e la crosta di colore più chiaro.
Nei confronti del glutine il sale rende la maglia glutinica più resistente.
L’impasto con l’aggiunta del sale risulta asciutto ed elastico, durante la
lavorazione non si appiccica. Un’eccessiva quantità di sale nell’impasto rende però
la maglia glutinica troppo rigida e corta, rallentando la fermentazione e
peggiorando la qualità dell’impasto e del prodotto finale.
Di solito nell’impasto il sale viene aggiunto non subito, ma dopo qualche minuto
dall’inizio della lavorazione.
Quando invece viene preparato il pane volutamente senza sale (è il caso del pane
toscano) oppure quello con “mezzo sale”, l’impasto deve essere arricchito con una
buona quantità di pasta di riporto (25-30% sulla quantità della farina), in grado
di fornire all’impasto più “forza” e resistenza, caratteristiche che permettono di
ottenere un buon sviluppo del prodotto anche senza sale o con poco sale. In questi
casi è opportuno aggiungere nell’impasto anche della semola rimacinata, perché
questo sfarinato ha una buona resistenza, che favorisce la consistenza
dell’impasto.
IL LIEVITO
Quando utilizziamo il lievito compresso, la sua quantità varia mediamente dallo 0,5
al 5% dal peso della farina, a seconda della ricetta e del metodo di preparazione.
Se si utilizza il lievito secco attivo, la sua quantità necessaria è di circa un
terzo dalla quantità del lievito compresso. Se l’impasto è indiretto, la quantità
di lievito utilizzato è minore (nella biga viene messo l’1% di lievito compresso,
nel poolish dallo 0,1 al 2,5% in base alle ore di fermentazione). Anche gli impasti
di lunga fermentazione hanno basse quantità di lievito compresso. D’estate la
quantità di lievito diminuisce e d’inverno aumenta. Se l’impasto contiene i
condimenti, la quantità di lievito viene maggiorata, ma non deve superare il 5%.
Con maggiori quantità di lievito compresso l’impasto fermenta prima, ma dopo una
certa soglia (superiore al 5% per gli impasti conditi o al 3% per gli impasti senza
condimenti) si abbassano la digeribilità e la qualità del prodotto finito.
I metodi più lunghi della preparazione del prodotto con minore quantità di lievito
utilizzato valorizzano di più il prodotto finito e lo rendono più digeribile.
L’UOVO
Grazie alla sua capacità di legarsi agli altri ingredienti, l’uovo è adatto alla
realizzazione di diversi prodotti da forno e di pasticceria, ma anche di molte
pietanze e gelati. È un’unica cellula, di grandi dimensioni, nella quale sono
presenti tutti i componenti necessari per la formazione e la crescita del pulcino,
per cui è un concentrato di lipidi, proteine, vitamine e sali minerali che lo rende
un alimento di altissimo valore nutrizionale e biologico.
Il tuorlo è composto per il 50% da acqua, ma contiene anche proteine (16% circa),
sali minerali, vitamine, tracce di glucosio, ed è particolarmente ricco di grassi
(ne contiene circa il 32%). Questi ultimi sono costituiti principalmente da
trigliceridi e da fosfolipidi (soprattutto lecitine). Nel tuorlo è contenuto anche
il colesterolo in quantità abbastanza notevoli. Le proteine del tuorlo hanno
un’elevata quantità di aminoacidi essenziali (non sintetizzabili dall’uomo), che
determina l’alto valore biologico di questo alimento, tanto che vengono prese come
“unità di misura” per tutte le altre proteine animali. I sali minerali si trovano
per lo più nel tuorlo, e contengono gli elementi come calcio, zolfo, ferro,
potassio, ma soprattutto fosforo (specie in forma legata alle proteine e ai
lipidi), il cui contenuto esalta il valore nutritivo dell’uovo. Fra le vitamine,
anch’esse principalmente nel tuorlo, ci sono: la vitamina B1 (presente anche
nell’albume), la vitamina B2, la vitamina D, la vitamina PP, e la vitamina A,
contenuta soltanto nel tuorlo e che ne determina la caratteristica colorazione
gialla.
Per quanto riguarda l’uso delle uova nei prodotti di lievitazione biologica, le
loro funzioni possono essere così riassunte: aiutano a legare i vari ingredienti
fra loro, formando gli impasti omogenei, di elasticità più alta; conferiscono al
prodotto uno sviluppo maggiore; i tuorli in particolare favoriscono il sapore e il
colore della mollica e consentono al prodotto di avere una più lunga durata di
conservazione.
LA MATERIA GRASSA
L’azione della materia grassa negli impasti dei prodotti da forno può essere
riassunta nei punti qui descritti.
4 Nei confronti del lievito la materia grassa agisce negativamente, perché rallenta
la sua attività vitale, isolando le cellule del lievito con uno strato oleoso, che
non lascia penetrare l’acqua e le sostanze alimentari necessarie per la loro vita.
Di conseguenza, quando la materia grassa viene aggiunta nell’impasto la quantità di
lievito di birra va aumentata. Se la quantità di materia grassa nell’impasto è
notevole, il lievito risulta quasi completamente inattivato, per questo, in alcune
ricette di pasticceria lievitata (per esempio per i prodotti di ricorrenza) per
riuscire a utilizzare la lievitazione biologica vengono effettuati più impasti, in
modo da dosare poco per volta la materia grassa. Nei casi in cui la preparazione
dell’impasto preveda l’aggiunta di parecchia quantità di materia grassa (come in
alcuni prodotti di pasticceria), per la lievitazione si usano degli agenti
lievitanti chimici.
Le sostanze grasse contengono degli acidi grassi nella loro struttura, che possono
essere:
I grassi contenenti gli acidi grassi saturi hanno un punto di fusione più alto
rispetto a quelli contenenti gli acidi grassi insaturi. I primi, quindi, risultano
solidi a temperatura ambiente, mentre i secondi liquidi. Questo dipende dal fatto
che le catene di acidi grassi saturi risultano lineari (quindi possono
ulteriormente legarsi fra loro, formando una rigida struttura cristallina) e quelle
di acidi grassi insaturi sono ripiegate nel punto in cui si trova il doppio legame
(ciò comporta l’allontanamento di queste catene fra loro e quindi l’impossibilità
della formazione dei legami fra di loro).
L’OLIO DI OLIVA
È il tipico ingrediente non soltanto della panificazione italiana, ma di tutta la
cucina mediterranea. Viene prodotto per spremitura delle olive. Mediamente da 100
kg di olive vengono prodotti circa 25 kg di olio di oliva, di cui 5 kg è costituito
da olio di sansa, e i restanti 20 kg sono suddivisi fra l’olio vergine (con acidità
bassa) e l’olio lampante (con l’acidità superiore al 2%); il resto è lo scarto di
produzione (30 kg di sansa esausta, che è un combustibile, e 45 kg di acqua di
vegetazione).
La legge prevede che l’olio possa essere dichiarato italiano solo se l’intero ciclo
di raccolta, produzione, lavorazione e condizionamento si sia svolto sul territorio
nazionale. Per l’olio di oliva vergine extra esistono le denominazioni di origine
controllata nazionali (DOC) e le denominazioni d’origine protetta europee (DOP).
Inoltre la Oil Masters Corporation ha promosso la creazione di un marchio HS,
attribuibile all’olio vergine extra prodotto secondo i parametri di un rigoroso
disciplinare. L’olio in questione deve avere un’acidità massima dello 0,5%, una
quantità minima definita di acido oleico e altre caratteristiche che lo
differenziano dagli altri oli.
Per essere conservato al meglio l’olio deve essere ermeticamente chiuso: può essere
confezionato in lattine di alluminio o in contenitori di vetro, preferibilmente
scuro od opaco per proteggerlo dalla luce. Spesso i contenitori di vetro che
contengono gli oli pregiati vengono rivestiti esternamente con la carta di
alluminio.
Detti oli di oliva sono oggetto della classificazione e delle denominazioni che
seguono.
Olio di oliva vergine extra: è ottenuto tramite estrazione con soli metodi
meccanici e la sua acidità non deve superare l’0,8%.
Olio di oliva vergine: è ottenuto tramite estrazione con soli metodi meccanici e la
sua acidità non deve superare il 2%.
Olio di oliva vergine lampante: è ottenuto tramite estrazione con soli metodi
meccanici, ma non è utilizzabile per il consumo alimentare; l’acidità è superiore
al 2%.
4 Olio di sansa di oliva greggio: olio ottenuto mediante trattamento con dei
solventi di sansa di oliva, esclusi gli oli ottenuti con processi di
riesterificazione e qualsiasi miscela con oli di altra natura.
Con la legge n. 169 del 5 febbraio del 1992 è stato disciplinato il riconoscimento
della denominazione di origine controllata degli oli di oliva vergini ed
extravergini.
OLI VARI
1 Gli oli di semi possono essere utilizzati singolarmente, oppure in miscela con
gli altri oli per la fabbricazione delle margarine e per la preparazione degli oli
di semi vari. Tutti gli oli di semi contengono la parte lipidica pari a 100%,
composta prevalentemente dagli acidi grassi insaturi (fra cui prevale l’acido
linoleico) e una parte minore di acidi grassi saturi. L’acido linoleico appartiene
agli acidi grassi polinsaturi ed è l’acido essenziale per l’organismo umano (ciò
significa che tale acido non viene prodotto dall’organismo, quindi per garantire
una dieta equilibrata deve essere assunto con i prodotti alimentari che lo
contengono). Il contenuto di acidi grassi della frazione lipidica cambia a seconda
della specie da cui provengono gli oli.
L’olio di semi di girasole è composto quasi del tutto dagli acidi grassi insaturi
(per il 85-90%), fra cui la metà è l’acido linoleico. Dato il suo alto contenuto di
acidi grassi polinsaturi risulta non molto indicato per la frittura.
L’olio di soia contiene circa il 50% di acido linoleico, il 25% di acido oleico e
il 4-10% di acido linolenico. Per il suo alto contenuto di acidi grassi polinsaturi
risulta non molto adatto per la cottura. Inoltre tende a ossidarsi rapidamente, per
cui viene confezionato nelle bottiglie di vetro scuro. Viene utilizzato sia per
alimentazione diretta (soprattutto nei condimenti) ma anche per la produzione di
margarine e di grassi idrogenati.
Avendo un alto contenuto in acidi grassi polinsaturi, i grassi degli oli dei semi
risultano più sensibili al calore rispetto all’olio di oliva e più portati
all’ossidazione. Come tutti i grassi vegetali, anche gli oli di semi non contengono
il colesterolo, ma addirittura hanno la tendenza di diminuirlo (se vengono assunti
a crudo). Essendo sottoposti all’operazione di rettificazione hanno un contenuto
vitaminico molto ridotto.
2 L’olio di mais viene estratto dal germe della cariosside di mais, che contiene il
15-20% di olio. Contiene una percentuale abbastanza alta di acido linoleico (40-
60%) e il 25-40% di acido oleico. Dato suo alto contenuto in acido linoleico non è
molto adatto per la cottura ed è portato all’ossidazione (per cui viene conservato
in lattine o recipienti opachi).
3 L’olio di grasso di palma viene ottenuto dalla polpa del frutto della palma
africana (Elaeis guineensis) o di quella sudamericana (Elaeis melanococca). Dalla
spremitura dei frutti si ottiene un olio di colore arancio, che dopo la
raffinazione diventa giallo di odore tipico, composto per il 50% da acidi grassi
saturi (fra cui prevale l’acido palmitico) e per il 46% dagli acidi grassi
monoinsaturi (oleico e stearico). L’olio di palmisti si ottiene dalla lavorazione
dell’endocarpo, che ha all’interno un seme oleoso con contenuto in olio compreso
tra il 46 e il 53%. L’olio di palmisti presenta un contenuto elevato (85% circa) di
acidi grassi saturi, maggiore rispetto all’olio di palma, rappresentati soprattutto
dall’acido laurico, e contiene soltanto il 13% dell’acido oleico.
IL BURRO
Normalmente contiene circa l’82% di materia grassa. Esiste anche il burro anidro
(contenente 99,7% di materia grassa), caratterizzato da un’alta conservabilità.
IL BURRO DI CACAO
LO STRUTTO
Per mancanza di antiossidanti naturali, che si trovano invece nei grassi vegetali,
lo strutto può irrancidire facilmente, per cui in genere viene addizionato da
butilidrossitoluolo (BHT), che lo protegge dall’ossidazione. Lo strutto può essere
puro, ottenuto dagli strati adiposi nobili del maiale e non sottoposto ai
trattamenti chimici, oppure emulsionato con acqua attraverso l’aggiunta di sostanze
emulsionanti. In commercio esistono anche gli strutti raffinati, ottenuti
dall’estrazione con dei solventi da altri tessuti di suino, come organi interni,
ossa, cute, con la successiva raffinazione che elimina dal prodotto i colori, gli
odori e i sapori sgradevoli.
A causa del suo basso costo e delle ottime capacità di prestarsi a numerose
lavorazioni, in particolare per la preparazione del pane speciale, delle focacce,
dei biscotti, lo strutto è largamente utilizzato nel settore della panificazione e
della pasticceria soprattutto a livello industriale.
Il ruolo degli zuccheri nei prodotti da forno può essere riassunto in due punti
principali.
Gli zuccheri possono essere aggiunti negli impasti dei prodotti da forno, ma anche
se ciò non avviene si creano in ogni impasto a base di farina attraverso la
scissione dell’amido contenuto in essa. Per produrre pane quindi non è necessario
unirli all’impasto. Ma se vengono aggiunti, stimolano la fermentazione, se la loro
quantità non è molto alta.
Il lattosio
Glucosio Viene chiamato anche destrosio, perché ruota verso destra il piano della
luce polarizzata. È lo zucchero più diffuso in natura (è maggiormente contenuto
nell’uva). Solvendosi, il glucosio depone calore, per cui assaggiandolo si sente un
gusto dolce e fresco. Il suo gusto è meno dolce rispetto al saccarosio.
Fruttosio Chiamato anche levulosio, perché ruota il piano delle luce polarizzata
verso sinistra, al contrario del glucosio e del saccarosio. È contenuto soprattutto
nella frutta e nel miele. Ha potere dolcificante 1,2-1,5 volte superiore a quello
di saccarosio, ma ha un costo più elevato. Viene utilizzato nei prodotti per i
diabetici perché il suo metabolismo non dipende dall’insulina. È inoltre acariogeno
(non forma la carie dentale). Apporta le stesse calorie del saccarosio, ma, avendo
il potere dolcificante superiore, può essere utilizzato in dosi minori. Tra tutti
zuccheri il fruttosio ha una più alta solubilità e possiede un potere anti-
cristallizzante. È il più igroscopico tra tutti zuccheri ed è in grado di
trattenere l’acqua contenuta nel prodotto, aumentando così la sua shelf-life. Il
fruttosio, tra l’altro, è particolarmente sensibile al calore, e a temperature
superiori a 70 °C si decompone contribuendo all’intensificazione della colorazione
del prodotto.
Zucchero invertito Viene ottenuto per idrolisi acida o enzimatica del saccarosio in
una miscela di glucosio e fruttosio. Ha proprietà igroscopiche e anti-
cristallizzanti e viene largamente impiegato in quei prodotti da forno che devono
rimanere umidi per periodi lunghi; inoltre, può avere un potere dolcificante
superiore a quello del saccarosio. In cottura lo zucchero invertito partecipa e
contribuisce alla reazione di Maillard, intensificando la colorazione del prodotto
finito.
Miele Secondo la legge n. 753 “si intende per miele il prodotto che le api
domestiche producono dal nettare dei fiori o dalle secrezioni provenienti da parti
vive di piante o che si trovano sulle stesse, che esse bottinano, trasformano,
combinano con sostanze specifiche proprie, immagazzinano e lasciano maturare nei
favi dell’alveare”. Tra gli zuccheri del miele (80% circa del peso totale) in
maggioranza ci sono il glucosio e il fruttosio, mentre gli altri sono poco
presenti. Circa il 17% del peso totale del miele è acqua, mentre il 3% del miele è
costituito da altre sostanze come aminoacidi e proteine, acidi organici, sostanze
minerali (sali di ferro, potassio, magnesio ecc.), vitamine (B1, B2, PP, C, E
ecc.), enzimi, aromi, pigmenti, fattori antibiotici. Il miele è igroscopico, e
quindi la sua aggiunta ai prodotti da forno contribuisce ad allungare la loro
shelf-life.
I DOLCIFICANTI
La stevia
Per anni la stevia non era ammessa nella produzione alimentare europea, a causa del
potenziale pericolo di un suo componente (steviolo), ritenuto tossico. Ma dopo
numerosi approfondimenti si è rilevato che il pericolo non esiste in caso di
consumo giornaliero medio, o comunque non superiore a 2 mg/kg peso corporeo. Da
aprile 2010 è stato approvato suo utilizzo come additivo alimentare. Da luglio 2012
è consentita produzione e vendita di stevia come dolcificante alimentare in tutta
la Comunità Europea.
lattosio 0,2 – –
maltosio 0,33 – –
galattosio 0,5 – –
sorbitolo 0,54 – –
mannitolo 0,70 – –
maltitolo 0,75 – –
glucosio 0,76 – –
saccarosio 1 6 24
xilitolo 0,9-1,10 – –
fruttosio 1,52 4 16
acesulfame K 30 0,2 0
stevia 200 – 0
taumatina 3.000 – –
IL MALTO
È un prodotto derivato dalla germinazione dei chicchi dei cereali, tra i quali i
più adatti sono l’orzo e il frumento. La trasformazione dei chicchi dei cereali in
malto si chiama maltaggio e consiste nella germinazione dei chicchi,
precedentemente messi a macerare in acqua; di seguito avvengono l’asciugatura, la
separazione dalla piantina e quindi la macinazione. Quando il chicco di cereale
inizia a germinare, nella cariosside avvengono numerose reazioni chimiche, volte
all’alimentazione della piantina, in modo che essa possa nutrirsi e crescere. Tra
queste reazioni la principale è la trasformazione dell’amido, presente nella
cariosside in zucchero maltosio (la saccarificazione dell’amido) con l’aiuto degli
enzimi diastasi (alfa- e beta-amilasi, pag. 95).
Quello che si ottiene dalla macinazione del chicco germinato è la farina di malto
(farina maltata), che oltre allo zucchero maltosio conterrà anche altri componenti
chimici residui del chicco, come gli enzimi, fra i quali hanno una grande
importanza le amilasi. Per questo il malto non è fonte soltanto degli zuccheri ma
anche degli enzimi (fra cui i più importanti sono le a- e b-amilasi). Poiché
durante la fermentazione le cellule di lievito si nutrono con gli zuccheri, se la
loro quantità nell’impasto sarà maggiore, la fermentazione sarà più attiva. Si
potrebbe così pensare che, per attivare la fermentazione, sia sufficiente solamente
aggiungere all’impasto dello zucchero: in realtà l’aggiunta all’impasto di
zucchero, sia esso maltosio o saccarosio, non risolverebbe nulla, perché le cellule
di lievito lo esaurirebbero subito. Quindi per alimentare le cellule del lievito lo
zucchero deve continuamente crearsi nell’impasto tramite la saccarificazione
dell’amido della farina con l’aiuto delle amilasi. L’attività degli enzimi presenti
nel malto è proprio quella caratteristica che determina il suo valore. Non tutti i
malti hanno la stessa capacità enzimatica, definita anche “potere diastasico”):
essa si misura in unità Pollak. Quando un malto presenta un alto valore Pollak,
significa che ha un alto potere diastasico, quindi i suoi enzimi (in particolare a-
e b-amilasi) sono molto attivi. L’aggiunta di tale malto all’impasto stimola molto
la fermentazione, perché può generare tanti zuccheri nell’impasto, nutrendo quindi
nel modo migliore il lievito.
In genere per il malto, i valori delle unità di misura Pollak variano da 6.000-
8.000 a 24.000 (per estratto di malto concentrato). In commercio esistono i
seguenti tipi di malto:
malto non diastasico (specifico ad esempio per i pani di segale, in cui gli enzimi
diastasici sono disattivati). Questo tipo di malto fornisce soltanto la colorazione
più scura sia all’impasto che al prodotto, favorisce l’aroma e la colorazione della
crosta, ma non aumenta l’attività fermentativa dell’impasto.
più sviluppata alveolatura del prodotto e quindi il prodotto più leggero e più
digeribile, più dorata colorazione della crosta;
L’utilizzo del malto risulta indispensabile soprattutto per le farine che hanno una
bassa attività amilasica (con un alto Indice di Hagberg, vedi) e per gli impasti
preparati con le bighe (perché dopo tante ore di fermentazione la quantità degli
zuccheri risulta bassa). Invece, per le farine che hanno già un’alta attività
amilasica, l’utilizzo del malto diastasico non è consigliabile, perché può portare
ai risultati negativi (come l’impasto troppo appiccicoso, la crosta del prodotto
troppo scura, la mollica umida ecc.).
I MIGLIORATORI
Sono sostanze d’origine chimica o biologica che, aggiunte in piccole quantità alle
farine o agli impasti, sono in grado di migliorarne le caratteristiche
organolettiche e reologiche, le capacità fermentative, la velocità della produzione
e anche la qualità e la conservabilità del prodotto finito. Inoltre i miglioratori
aiutano a correggere gli eventuali errori tecnologici della lavorazione e
permettono di assicurare la ripetibilità della produzione.
Nelle lavorazioni dei grissini stirati oppure per le produzioni dove è richiesta
un’estrema estensibilità degli impasti possono essere utili gli agenti riducenti
(le proteasi, la cisteina, il lievito disattivato, il glutine idrolizzato ecc.) in
grado di rammollire l’impasto e renderlo più malleabile.
Per panificare bene ci sono poche regole da rispettare: scegliere le materie prime
di qualità e soprattutto seguire con cura il processo produttivo, optando per le
lavorazioni indirette oppure per le dirette ma con molte ore di fermentazione e di
conseguenza con poco lievito. Al top della qualità restano i prodotti a base di
lievito madre.
all’interno dell’impasto
I lieviti sono:
3 microrganismi anaerobici facoltativi: possono vivere sia con ossigeno che senza.
Nelle condizioni aerobiche (in presenza dell’ossigeno) i lieviti si moltiplicano,
mentre nelle condizioni anaerobiche (in assenza dell’ossigeno) fermentano.
La moltiplicazione delle cellule del lievito risulta più attiva se la loro quantità
iniziale è più bassa, inoltre essa viene stimolata anche dalla presenza delle
sostanze necessarie per il loro metabolismo, come le vitamine (la tiamina, la
biotina, l’acido pantotenico e tutte le vitamine del gruppo B) e i sali minerali
(fosfato di calcio, CaPO4; fosfato di ammonio (NH4)2PO4; solfato di ammonio
(NH4)2SO4 e tutti i sali di ammonio). Le fonti di azoto sono necessarie per sintesi
di aminoacidi, purine e pirimidine. Mentre alcune sostanze (come alcol etilico,
anidride carbonica, acido sorbico e suoi sali, teobromina ecc.) rallentano la
moltiplicazione delle cellule di lievito. Le condizioni dell’ambiente (la
temperatura, l’umidità, il pH) influenzano molto il metabolismo dei lieviti. I
lieviti sono dei microrganismi mesofili, ovvero preferiscono le temperature medie,
comprese fra 20 °C e 40 °C per il loro metabolismo. La loro attività rimane molto
bassa, quasi nulla, alle temperature fino a 4 °C. Alla temperatura di 35 °C avviene
la massima attività fermentativa, il lievito rimane attivo fino alla temperatura di
42 °C, dopo di che avviene una progressiva perdita di attività e a 55 °C il lievito
muore.
Il “lievito di birra”
Scoperto da un ottico danese (A. Van Leeuwenhoek) nel 1680, fu chiamato così perché
lo scienziato è riuscito a evidenziarne i microrganismi dei lieviti osservando al
microscopio dei residui della produzione di birra. Circa due secoli dopo, nel 1850,
lo scienziato francese Louis Pasteur riuscì a capire il metabolismo riproduttivo e
fermentativo delle cellule di lievito, ossia la loro “vita senz’aria”, e riuscì a
identificare la loro capacità di trasformare gli zuccheri in assenza di ossigeno
nell’alcol etilico e anidride carbonica, spiegando così la lievitazione degli
impasti. L’industria del lievito, però, è nata negli anni Trenta, dopo la
conoscenza più approfondita delle specie dei lieviti, impiegate nella produzione
alimentare (del pane e della birra) e delle condizioni necessarie per la loro
crescita. Così è stato isolato il Saccharomyces cerevisiae, il ceppo che con la
fermentazione produce le maggiori quantità di CO2.
Per la riproduzione del lievito l’ambiente deve avere l’umidità necessaria, mentre
il criterio dell’acidità (il pH) deve essere compreso fra 3 e 6 (il pH ottimale è
4,5-5,5), perché il lievito preferisce l’ambiente leggermente acido.
Accanto a questi prodotti finali sono presenti anche i sottoprodotti della reazione
(in particolare gli acidi organici) che influiscono sull’aroma dell’impasto e del
prodotto finito.
Le cellule del lievito nella loro membrana cellulare contengono gli enzimi
necessari per ricevere e assimilare i nutrienti. Alcuni di loro svolgono le loro
funzioni all’esterno della membrana: come la invertasi, che scompone il saccarosio
(disaccaride, costituito da due molecole: glucosio e fruttosio) nelle due parti che
lo compongono, glucosio e fruttosio. Gli enzimi maltopermeasi trasportano lo
zucchero maltosio all’interno della cellula. Gli altri, chiamati anche enzimi
endocellulari (come isomerasi, maltasi e zimasi) esplicano la loro azione
all’interno della cellula. Il fruttosio all’interno della cellula del lievito
subisce ulteriormente un’altra trasformazione fino al glucosio con l’aiuto
dell’enzima isomerasi. La maltasi scompone lo zucchero maltosio (disaccaride) nelle
due molecole di glucosio che lo compongono. Le zimasi servono per metabolizzare il
glucosio.
3 La filtrazione è la fase in cui la crema del lievito viene passata attraverso dei
filtri-pressa o in tamburi rotanti per eliminare il liquido in eccesso. Una volta
trasformata in una massa densa, malleabile e omogenea, essa successivamente viene
formata in cubetti del peso di 25 g o 500 grammi. In tale forma, dopo il
confezionamento precedente, il lievito compresso arriva in commercio.
Lieviti osmotolleranti
Alcuni ceppi selezionati di lievito sono gli osmotolleranti, ossia funzionano anche
negli impasti con alte concentrazioni di zucchero. Oltre ad avere la membrana
cellulare più robusta, contenente più zucchero trealosio, hanno un contenuto minore
di enzima invertasi in grado di disfare lo zucchero saccarosio (e farlo quindi
trapassare membrana cellulare in forma di zuccheri semplici).
Per uso professionale è utilizzata anche una forma contenente maggiori quantità di
acqua: la crema di lievito. Deve essere conservata alla temperatura del frigorifero
(max 4 °C). Poiché il contenuto di sostanza secca è più basso rispetto al lievito
compresso, la quantità di utilizzo è maggiore di circa il 50% rispetto alla
quantità di lievito compresso.
IL LIEVITO COMPRESSO
Come si conserva
Con attività enzimatica si intende l’attività degli enzimi zimasi, ossia la loro
capacità di trasformare lo zucchero in anidride carbonica ed alcol etilico. Per
determinare l’attività enzimatica del lievito esistono diversi metodi. Alcuni
possono essere svolti nel proprio laboratorio di panificazione, per esempio:
Lievito compresso
mesofili (dimostrano il massimo della loro attività alla temperatura di 30-35 °C),
come la maggior parte dei batteri lattici eterofermentanti, per esempio
Lactobacillus brevis, Lactobacillus casei, Lactobacillus fermentum, Lactobacillus
sanfranciscensis, Lactobacillus plantarum;
termofili (la temperatura ottimale per il loro funzionamento è più alta rispetto a
quella dei batteri mesofili: 35-54 °C), come i batteri lattici omofermentanti
Lactobacillus Delbrueckii, Lactobacillus bulgaricus, Lactobacillus acidophilus.
Sono importanti comunque entrambi gli acidi, perché l’impasto deve possedere una
certa resistenza ed estensibilità. L’impasto con un giusto grado di acidità ha
ottime caratteristiche strutturali: è in grado di assorbire bene l’acqua e si
caratterizza da elasticità ed estensibilità.
Nello stesso tempo l’acidità dell’impasto (o del preimpasto) non deve essere
eccessiva, altrimenti si avranno dei risultati negativi (il prodotto finito avrà un
gusto e un profumo sgradevoli per eccesso di acidità), inoltre il prodotto avrà
poco volume e la mollica sarà compatta e umida. Infatti, un’eccessiva acidità
dell’impasto (o del preimpasto) provoca la rottura della maglia glutinica, che fa
da struttura portante in un impasto lievitato.
Il lievito
madre
in diverse declinazioni
Un po’ di tempo fa (per la precisione fino agli anni Trenta) nessuno per panificare
utilizzava il “lievito di birra” per un semplice motivo: non lo producevano ancora.
Spesso il pane si preparava in famiglia e le madri o le nonne addette alla sua
preparazione tenevano un pezzo dell’impasto avanzato dal giorno prima da usare il
giorno dopo e con questa base facevano l’impasto. Questo pezzo d’impasto veniva
chiamato “crescente” o “crescito” (nell’Italia del Sud). In realtà, in alcuni casi
poteva essere considerato “lievito madre” se nasceva soltanto da farina e acqua, e
veniva rinnovato solo con farina e acqua e conservato per le lavorazioni
successive. Invece in altri casi si trattava di un pezzo di pasta di riporto
reimpiegato per il giorno dopo, contenente quindi del sale e a volte anche dei
condimenti (olio o strutto). Il sistema a base di pasta di riporto rinnovata è
ancora utilizzato in Meridione per preparare i pani di grande formato con semola o
con farina di frumento. Il lievito madre invece è impiegato oggi soprattutto per la
preparazione dei prodotti di ricorrenza (panettone, colomba, pandoro), per alcuni
pani tipici, e per i pani di segale (dove risulta indispensabile per inibire le
amilasi la cui attività, in questo tipo di farina, risulta normalmente elevata).
Nel lievito madre le cellule dei Saccaromiceti non si trovano in forma selezionata
(come nel “lievito di birra”), ma insieme agli altri microrganismi fanno parte di
un impasto. Infatti, il lievito madre non è altro che un pezzo di pasta inacidita,
preparato con farina e acqua, e lasciato maturare nell’ambiente per un tempo più o
meno lungo. Durante questo periodo di maturazione, l’azione dei microrganismi
presenti nella farina, nell’acqua e nell’aria innesca la loro riproduzione e, in
seguito, la loro fermentazione. Nella partenza del lievito madre possono essere
presenti numerosi microrganismi, ma poi rimangono soprattutto i batteri lattici e i
lieviti.
Il lievito di birra
I batteri lattici che predominano nel lievito madre fermentano gli zuccheri e
producono gli acidi organici e le altre sostanze, che contribuiscono al prodotto
finale quell’aroma unico e inimitabile, tipico del lievito madre.
Microbi in simbiosi
L’utilizzo del lievito madre richiede una maggiore attenzione, un’accurata pulizia
dei locali e delle attrezzature e anche dei tempi più lunghi di produzione. Ma il
risultato appaga pienamente: è risaputo che il prodotto panificato sapientemente
con il lievito madre raggiunge il massimo della qualità, inoltre presenta
eccellenti caratteristiche organolettiche (sapore, profumo), una bella mollica (che
ha un ottima alveolatura, sviluppata ed aperta, e un’eccellente elasticità), una
crosta fragrante e di ottima colorazione. Ma il beneficio principale riguarda
l’imbattibile conservabilità di questi prodotti a causa di un’attiva fermentazione
lattica, che caratterizza tutti i prodotti a base di lievito madre. Essi hanno
anche una maggiore digeribilità, un fattore dovuto soprattutto alla trasformazione
da parte di numerosi microrganismi, presenti nel lievito, da sostanze più complesse
a sostanze più semplici, e quindi più facilmente assimilabili dal nostro organismo,
ma anche perché in questi prodotti a causa dell’alta acidità avviene quasi completa
l’idrolisi dell’acido fitico.1
Per creare il lievito madre è sufficiente partire con farina e acqua. Impastare,
lasciare per un certo periodo a riposare (maturare), dopo “rinnovare”, cioè
reimpastare con farina e acqua, quindi lasciare nuovamente maturare. Le operazioni
di impasto e di maturazione continuano fino al raggiungimento di una certa
potenzialità fermentativa che acquisisce il lievito madre maturo. Un lievito madre
può essere considerato maturo quando dopo il rinnovo cresce bene (o almeno
raddoppia il suo volume iniziale) nell’arco di quattro ore alla temperatura tra i
28 °C e i 30 °C.
Per la partenza del lievito madre può essere idoneo qualsiasi cereale. I sistemi e
gli schemi di avvio sono vari. Alcuni prevedono l’utilizzo della frutta frullata o
dell’acqua filtrata, in cui precedentemente era stata messa a macerare la frutta.
Altri consigliano di inserire nell’impasto di farina e acqua dello yogurt o delle
altre fonti di microrganismi. Queste azioni non sono indispensabili, anche se
l’inserimento delle fonti microbiche aiuta ad abbreviare i tempi di maturazione del
lievito madre. A volte però la microflora che si sviluppa in un lievito maturo può
essere imperfetta o avere delle sfumature di gusto o profumo non desiderati. Il
sistema più sicuro resta comunque quello di prendere da qualcuno di fiducia un
lievito madre buono e poi rinnovarlo, mantenendolo il più possibile costante e
sano.
Questo consiglio è valido soprattutto per il lievito madre di frumento, data la sua
maggiore diffusione in Italia. Se però si vuole creare il lievito madre con un
altro cereale (per esempio con segale, vedi), bisogna seguire le seguenti fasi.
Queste operazioni continuano fino alla giusta maturazione del lievito madre.
Il lievito madre solido maturo potrà essere utilizzato per gli impasti di pane e
paste dolci lievitate, dopo una serie di rinfreschi, oppure potrà essere conservato
con vari sistemi. Conosciamo due metodi principali per conservare il lievito madre
solido: all’asciutto (legato) e a bagno in acqua.
4 Per un periodo più lungo di conservazione del lievito madre (5-6 giorni), le dosi
di farina e acqua andranno aumentate di tre o quattro volte rispetto alla dose
utilizzata normalmente per il rinfresco (il medesimo procedimento vale anche per il
lievito legato)*. Dopo si pone in acqua (20 °C circa) l’impasto e, quando sarà
risalito in superficie, andrà messo (con il suo contenitore e la sua acqua) in
frigorifero a 6 max 8 °C per poter rallentare l’attività fermentativa.
per un mantenimento limitato o quando il lievito madre non è molto forte oppure
quando la sua quantità non è molta (se la massa di lievito è notevole, il
raffreddamento è più lento) il lievito può essere conservato a una temperatura tra
i 15 e i 18 °C e rinfrescato giornalmente;
Bisogna prendere soltanto la parte centrale del lievito madre (non utilizzate la
crosta, perché è priva di attività e potrebbe introdurre microrganismi
indesiderati), aggiungere a questa della farina (forte e non alta di ceneri, di
tipo 00) di pari peso o di più, impastare tutto con un quantitativo d’acqua pari
circa al 50% dal peso della farina.
250 ml acqua
3 Si procede quindi al secondo rinfresco, seguendo le stesse dosi (vedi foto qui
sotto).
Per la preparazione del pane possono essere sufficienti uno o due rinfreschi,
mentre per i prodotti di ricorrenza (panettone, colomba ecc.) ne servono almeno
tre.
Come si può notare dalla foto in basso a sinistra, la forza del lievito madre
aumenta progressivamente con il numero dei rinfreschi. Dopo tre rinfreschi il
lievito madre ha la forza necessaria per affrontare il primo impasto di panettone o
altri prodotti simili. La porzione necessaria per la conservazione (lievito madre)
viene solitamente prelevata dal secondo o dal terzo rinfresco, perché così il
lievito ha un’attività migliore.
Per una conservazione lunga (senza dover rinnovare il lievito) si può ricorrere a
due tecniche: quella del surgelamento e quella della polverizzazione.
1 Per la prima tecnica si prende una parte, generalmente dal secondo rinfresco, la
si pone in acqua e la si lascia venire in superficie. Si attende un’ora circa poi
lo si passa in frigorifero (4-5 °C) per qualche ora, poi, sempre a bagno
nell’acqua, si mette nel congelatore. Il lievito madre può rimanere anche per
lunghissimi periodi in queste condizioni.
Lo scongelamento dovrà poi avvenire a temperatura ambiente (20-22 °C) nello stesso
recipiente per circa 2 giorni e lasciato poi lievitare per altre 24 ore per
terminare la sua ripresa. A questo punto si potrà procedere alle normali operazioni
giornaliere di rinfresco.
porre nella planetaria farina e lievito madre in pari quantità e mescolare a bassa
velocità sino a ottenere una polvere che dovrà essere stesa su un panno pulito e
fatta asciugare completamente. Quando sarà ben asciutta, disporla in sacchetti di
plastica per alimenti che poi metterete in frigorifero (5-6 °C) per la
conservazione, che può durare lunghi periodi;
Come si può vedere dalla foto qui in basso, il lievito madre solido di buona
qualità deve avere:
il profumo acido-dolce fruttato (simile al profumo del miele o del pane di segale);
l’acidità corretta.
l’acidità scarsa.
Misurare il pH del lievito madre per determinare il suo grado di acidità non è un
sistema molto preciso. Il sistema più preciso è quello di fare l’acidità
titolabile. Questa analisi solitamente viene effettuata dalle industrie.
Nell’analisi una porzione del lievito madre viene sminuzzata in acqua distillata
(le quantità di farina e di acqua sono diverse in base ai metodi utilizzati, anche
la valutazione dei valori quindi è differente). La miscela lievito madre-acqua
viene addizionata di qualche goccia di fenolftaleina (un indicatore), dopo di che
con una buretta graduata si aggiunge poco alla volta idrossido di sodio
(concentrazione 0,1N) fino al punto di viraggio (finché la miscela non diventa di
colore rosa stabile per qualche minuto). In base alla quantità utilizzata di
idrossido di sodio si valuta l’acidità del lievito madre. Indipendentemente dal
metodo utilizzato: più è alta la sua quantità, più è alta l’acidità del lievito. A
livello artigianale il sistema migliore è quello di sviluppare la propria
percezione tattile, olfattiva e gustativa per determinare la qualità del lievito,
che può avvenire soltanto con tanta pratica.
Un lievito madre troppo forte ha:
notevole acidità.
1 Per migliorare il lievito madre troppo debole bisogna modificare le dosi dei
rinfreschi: aggiungere meno farina e aumentare lievemente il tasso di idratazione
(a volte deve essere anche aumentata la temperatura o il tempo di impasto). Si può
effettuare l’aggiunta di 1/1.000 di zucchero dalla quantità dell’acqua. Il lievito
troppo debole subito dopo il rinfresco necessita di temperature di fermentazione
leggermente più alte.
2 Per migliorare il lievito madre troppo acido occorre modificare le dosi del
rinfresco: aumentare la quantità della farina e diminuire la percentuale
dell’acqua, rendendo la consistenza dell’impasto più asciutta.
3 A volte, nonostante il giusto grado di acidità, nel lievito madre può avvenire
uno squilibrio di microflora. Per esempio, per l’eccessivo sviluppo dei batteri
lattici: in questo caso il lievito madre acquista l’odore di formaggio fresco, ha
il gusto simile a quello dello yogurt e il colore eccessivamente chiaro (quasi
bianco). A volte possono inserirsi dei microrganismi esterni: in questo caso il
lievito madre diventa più scuro e assume un gusto amaro, e odore di formaggio
stagionato (mentre la sua acidità può essere anche nella norma). In questo caso il
lievito madre non ha la forza fermentativa necessaria, perché contiene
Saccaromiceti leggermente inibiti, dominati dagli altri microrganismi. Per
correggere il lievito con la microflora non equilibrata è necessario effettuare il
lavaggio. Lo stesso rimedio può essere utile anche nel caso del lievito
eccessivamente acido.
Per effettuare il lavaggio del lievito madre bisogna procedere in questo modo:
preparare un recipiente contenente una quantità d’acqua circa 4-5 volte superiore
rispetto al volume del lievito madre. La temperatura dell’acqua deve essere in
relazione alla temperatura del lievito madre (per esempio, se il lievito madre
proviene dal frigorifero, la temperatura dell’acqua può essere anche di 40 °C; se
il lievito madre proviene dall’ambiente, la temperatura dell’acqua potrebbe essere
più bassa, di 20-30 °C), in modo che in totale nell’acqua con del lievito dentro si
raggiungano i 30-35 °C;
lasciate le fette del lievito madre a bagno nell’acqua per circa 30-40 minuti;
* In certi metodi di maturazione del lievito madre liquido si utilizzano farine non
forti, oppure non molto raffinate (con ceneri superiori di 0,55). In questo caso la
maturazione del lievito madre è più rapida e quindi i suoi rinnovi saranno più
frequenti.
Il lievito madre liquido, una volta maturo, va messo in frigorifero per essere poi
utilizzato durante la giornata di lavorazione. Al termine della lavorazione il
lievito avanzato viene reimpastato con farina e acqua in pari percentuale (che
varia in base alle necessità) per essere nuovamente lasciato fermentare.
Esempio: se domani bisogna lavorare con il lievito madre, si rinfresca con le
seguenti dosi:
300 ml di acqua
1 Si impasta bene e si lascia maturare a temperatura ambiente (22-24 °C) per circa
2 ore fino a quando appaiono delle bollicine.
oppure riporlo in luogo fresco (a 6-18 °C) se la sua acidità è corretta e se la sua
quantità è più abbondante;
Attenzione! Il lievito madre non viene mai messo al freddo immediatamente subito
dopo il rinnovo, altrimenti si blocca e rallenta notevolmente la sua attività.
In genere la quantità della farina per mantenere il lievito madre liquido dall’oggi
al domani è 1:3:3, ma può essere cambiata in base all’acidità del lievito madre
liquido e in base al tempo di conservazione.
Per esempio, se l’acidità del lievito madre liquido è più alta, il peso della
farina del rinnovo può essere aumentato, mentre la quantità dell’acqua può essere
leggermente più bassa rispetto a quella della farina di rinnovo (stesso principio
come per il lievito naturale solido). Perché con il grado di acidità superiore al
dovuto il glutine del lievito madre rimane più disgregato e la consistenza più
liquida, quindi, oltre ad aumentare la farina è necessario anche ridurre l’acqua
per ottenere la consistenza del prodotto giusta.
400 ml di acqua
450-500 ml di acqua
Le stesse dosi possono essere utilizzate se il lievito madre liquido non serve per
la preparazione del prodotto e se deve essere mantenuto per più giorni senza
rinnovarlo. Il lievito madre liquido può essere conservato senza essere rinnovato
al massimo 4-5 giorni. In questo caso dopo l’impasto con le dosi 1:5:5, il lievito
madre viene lasciato dopo l’impasto anche meno di 2 ore a temperatura ambiente per
far ripartire la fermentazione (almeno 30 minuti), dopo di che viene riposto in
frigorifero, dove prosegue molto lentamente la sua maturazione.
Invece, quando il lievito madre liquido è più debole del dovuto (per esempio è
stato lasciato maturare in un luogo molto freddo) si presenta poco acido come
sapore, meno soffice e più denso, poco cresciuto di volume, molto chiaro e con
l’aroma quasi assente. In questo caso bisogna metterlo al caldo in cella per
agevolare la fermentazione; invece nella fase del rinnovo aggiungere l’1per mille
di zucchero nell’acqua dell’impasto (stessi rimedi come per il lievito madre
solido).
Per preparare il pane di segale è necessario creare una buona acidità nell’impasto,
per cui per la panificazione con la segale vengono preferiti sempre i metodi
indiretti, come per esempio quello a base di lievito madre. Il lievito madre di
segale ha un’alta diffusione nei Paesi nordici, in particolare in Russia, dove
viene chiamano zakvaska. Il lievito madre può essere utilizzato sia per produrre il
pane con 100% di segale, ma anche per i pani contenenti percentuali minori di
questo sfarinato.
1 Impastare la farina di segale con acqua in quantità di pari peso, per esempio:
500 g farina di segale (per iniziare utilizzare preferibilmente quella integrale
per apportare più microrganismi, ma per i rinnovi successivi usare la farina di
segale bianca) + 500 ml di acqua. Quindi mettere in un recipiente alto e stretto
(di plastica, di legno o di vetro), coperto con un cavovaccio, e lasciare
fermentare a temperatura ambiente. Non coprire con pellicola per alimenti: bisogna
consentire la moltiplicazione dei microrganismi.
Lievito madre di segale subito dopo il rinnovo.
2 Trascorse 24 ore, l’impasto presenta delle piccole bollicine (sono i primi segni
di fermentazione), non devono sentirsi degli odori estranei.
4 L’operazione del rinnovo del lievito liquido di segale può essere eseguita
aggiungendo all’impasto 250 g di farina di segale bianca e 250 ml d’acqua.
Impastare per bene. Dopo di che lasciare nuovamente fermentare l’impasto così
ottenuto a temperatura ambiente, coperto con un canovaccio per 3 giorni. Trascorso
questo periodo, si può già osservare una buona crescita di volume, la consistenza
sarà molto spugnosa e alveolata, e si avverte una buona acidità nel profumo e nel
sapore. Come sempre non devono essere presenti aromi estranei.
Una dose va tenuta da parte, rinnovata, lasciata fermentare per due ore a
temperatura ambiente e, successivamente messa in frigorifero in un contenitore
coperto con canovaccio o con pellicola per alimenti. Si può conservare fino a 7
giorni senza essere rinnovata. In questo caso la quantità di farina rispetto al
lievito madre è di 8 volte superiore e viene messa tanta acqua quanta è la farina
(1:8:8). Se viene utilizzata dopo una settimana, per il primo rinnovo bisogna
mettere la farina in dose 8 volte superiore rispetto al lievito (l’acqua invece
sempre nella stessa quantità della farina), va rinnovata e lasciata fermentare per
24-36 ore (a una temperatura nell’ambiente di 22-24 °C), dopo di che va inserita
nell’impasto. Se viene rinnovata giornalmente la quantità di farina rispetto al
lievito varia da 3 a 5 volte tanto (dipende dall’acidità del lievito madre) e in
questo caso può essere conservata a temperatura ambiente (oppure in un ferma-biga).
Il lievito madre di segale di buona qualità deve avere una consistenza spugnosa,
liquida, ma non deve essere estremamente appiccicosa, deve presentare numerose
bollicine (se scarseggiano significa che l’attività dei lieviti è più scarsa,
inoltre la consistenza non deve essere stratificata), l’aroma e il sapore devono
essere dolce-acidi, gradevoli, senza retrogusti estranei. Deve crescere 2,5 volte
rispetto al volume iniziale e formare una conca al centro.
Fra i lieviti della zakvaska possiamo distinguere ceppi tra cui Saccharomyces
cerevisiae (temperatura ottimale 30 °C) e Saccharomyces minor (temperatura ottimale
25 °C), ma soprattutto il ceppo tipico per la segale (P-14), più resistente
all’acidità.
Impasti,
cottura e
panificazione
LA PREPARAZIONE DELL’IMPASTO
Prima di analizzare diverse fasi della preparazione del pane o dei prodotti da
forno in generale, precisiamo quali sono quelle indispensabili per preparare
qualsiasi prodotto da forno:
3 lievitazione finale;
4 cottura.
Ognuna di queste fasi ha importanza per la qualità del prodotto, ma forse quella
fondamentale rimane l’impasto. La qualità del prodotto finito dipende soprattutto
da come è stato preparato l’impasto, con che metodo e qual è il suo contenuto.
È necessario mescolare bene tutti gli ingredienti, non solo per incorporarli
uniformemente nell’impasto, ma anche perché impastando si ottengono l’attrito e
l’unione a livello molecolare dei componenti chimici della farina e degli altri
ingredienti, che formano una massa omogenea chiamata “impasto”. La reazione
principale di questa fase è la formazione del glutine1 attraverso l’unione delle
proteine insolubili della farina.
Dalla quantità e dalla qualità del glutine (proporzione fra gliadine e glutenine)
dipendono le caratteristiche dell’impasto.
Il glutine a sua volta dipende dalla qualità di farina utilizzata (dalle sue
proprietà reologiche, vedi), ma anche dal tempo dell’impasto e dalla sua
temperatura.
a forcella 3-6
a spirale 9-22
– Temperatura dell’ambiente
ESEMPIO
11 °C
IL TEMPO DELL’IMPASTO
dalla forza della farina (l’impasto di una farina debole è inferiore a un impasto
di una farina forte, in quanto ha una resistenza della maglia glutinica inferiore);
dal tipo dell’impasto (molle, morbido, asciutto). Infatti gli impasti molli devono
essere impastati maggiormente (a differenza dagli impasti asciutti), dato che c’è
meno attrito fra i vari componenti e quindi c’è bisogno di fornire all’impasto più
energia per raggiungere il top di consistenza. Gli impasti asciutti invece devono
risultare piuttosto freddi dopo l’impastamento, e vanno tolti prima
dall’impastatrice, anche se non sono completamente formati, perché generalmente
vengono cilindrati. Durante la cilindratura avviene un ulteriore riscaldamento
dell’impasto e si raggiunge la sua consistenza ottimale;
Oltre alla formazione del glutine, durante l’impasto si incamera una parte di aria,
e avviene l’ossigenazione: l’impasto diventa meno denso e più soffice. Ossigenare
l’impasto è importante non soltanto per renderlo più soffice, ma anche per favorire
la moltiplicazione di microrganismi e quindi il processo di fermentazione di
seguito, in quanto l’ossigenazione dell’impasto stimola l’attività vitale dei
lieviti. Inoltre l’azione dell’ossigeno rinforza la maglia glutinica, formata
durante l’impastamento, perché ossida i gruppi tiolici delle proteine della farina:
i gruppi -SH-, non legati fra loro, trasformandoli in gruppi disolfurici: -S=S-, i
ponti legati. In questo modo la struttura portante dell’impasto: glutine ha dei
“ponti” in più. Un composto impastato non a sufficienza e meno ossigenato risulta
più debole perché il suo glutine ha meno legami.
Inoltre, con l’aiuto degli enzimi della farina, attivati con l’acqua, nell’impasto
cominciano le reazioni dell’idrolisi2 delle proteine e dell’amido.
Gli enzimi sono presenti nelle farine. La parte in cui sono maggiormente
concentrati è lo strato aleuronico, quello strato aderente alla mandorla farinosa,
intermedio fra la mandorla farinosa e gli involucri esterni. Le farine più scure
avranno più enzimi rispetto alle farine più raffinate. Importanti sono anche le
condizioni in cui matura il grano e con cui le farine si conservano. Se le
condizioni climatiche sono più calde e più umide, allora l’attività degli enzimi è
più alta del dovuto e possono sorgere problemi della conduzione dell’impasto.
Gli enzimi possono essere attivati o inibiti da alcune sostanze. Per esempio, Cu,
Hg, Fe inibiscono le amilasi (gli enzimi responsabili dell’idrolisi dell’amido),
mentre il calcio, al contrario, le attiva.
Gli enzimi sono molto sensibili alle temperature: sono attivi a determinate
temperature, sotto le quali diminuiscono la loro attività senza disgregarsi; invece
superando progressivamente queste temperature perdono attività e dopo si disgregano
in modo irreversibile. Gli enzimi hanno anche un pH ottimale con cui reagiscono, un
valore al di sotto e al di sopra del quale sono meno efficaci.
Nei processi dell’impasto sono coinvolti vari enzimi. I principali sono le proteasi
e le amilasi. Sotto l’azione delle proteasi,3 le proteine della farina cominciano a
disgregarsi in peptidi (pezzi più piccoli, composti da diversi aminoacidi). La
reazione si chiama proteolisi: aiuta l’impasto a diventare più molle e più
malleabile Questo processo avviene in ogni impasto, però può essere più o meno
attivo, dipende da vari fattori, quali attività enzimatica della farina, proprietà
del glutine, temperatura dell’impasto ecc.
3 PROTEASI Sono gli enzimi che scompongono le proteine del glutine. Come tutti gli
enzimi si attivano quando la farina va a contatto con l’acqua e progressivamente
con il salire della temperatura aumentano sempre di più la loro attività. Il
massimo della loro attività si raggiunge a temperature comprese fra i 40 e i 55 °C.
4 AMILASI Le amilasi sono gli enzimi che disfano l’amido. Si attivano anch’esse
quando la farina va a contatto con l’acqua. Possono essere di due tipi: (α) alfa- e
(β) beta-. L’(α)alfa-amilasi scinde l’amido dalla parte interna soprattutto in
destrine (pezzi contenenti diverse molecole di glucosio, ma solubili in acqua,
mentre l’amido non è solubile), che provoca quindi la liquefazione dell’impasto.
Questo enzima si chiama anche “liquifacente”. Mentre la (fβ)beta-amilasi agisce
dalla parte esterna della molecola dell’amido, staccando poco per volta le molecole
di zucchero maltosio, oppure sulle destrine, prodotte prima da a-amilasi. Esistono
anche le isoamilasi (pullulanasi) tipiche del lievito madre che spezzano i legami
verticali delle molecole dell’amido, rallentando così raffermamento. Le enzimi
glucoamilasi invece spezzano l’amido fino alle singole molecole di glucosio.
Il profumo del pane dipende soprattutto dalla quantità e dai tipi di acidi organici
generati nell’impasto dai batteri lattici, perché durante la cottura gli acidi
organici reagiscono con l’alcol etilico (che si forma durante la fermentazione
alcolica) formando numerose sostanze volatili aromatizzanti.
Oltre agli acidi organici e all’alcol etilico, altri fattori sono responsabili
nella formazione degli aromi durante la cottura. Innanzitutto, gli zuccheri
dell’impasto.
Durante l’infornamento sulla superficie del prodotto avviene una serie di processi
chimici, i quali forniscono alla crosta del pane il colore marroncino-dorato e il
gusto e il profumo caratteristici.
Il prodotto nel momento della cottura deve quindi avere una buona percentuale di
zuccheri (ma non troppi) per consentire una giusta colorazione e un buon profumo.
Tale quantità dipende a sua volta dalle capacità fermentative della farina, cioè
dalla capacità della farina di creare zuccheri, ossia dalla sua attività amilasica,
e dal grado di lievitazione del prodotto (in un prodotto poco lievitato troviamo
più zuccheri rispetto a un prodotto più lievitato). Va ricordato però che il
prodotto più lievitato (ma non con lievitazione eccessiva) è più soffice, più
voluminoso, ha una crosta migliore ed è anche più digeribile.
Anche la forza necessaria per formare ogni pezzo deve essere bilanciata e
proporzionata per ogni tipo di prodotto. Per esempio, le forme avvolte (tipo
filoni) non devono essere né troppo molli (altrimenti saranno soggette ad aprirsi
di meno durante la cottura, e appariranno più piatte e meno voluminose, avendo poca
“forza”), né avvolte troppo strette, con troppa “forza”, altrimenti le forme si
strappano, causando uno sviluppo più scarso nel prodotto finale e una mollica più
brutta.
Quindi, riscaldandosi fino a 100 °C la parte esterna del prodotto sottoposto alla
cottura diventa crosta. Una volta arrivata a raggiungere un certo spessore, essa
impedisce la crescita del volume del prodotto. Nei pani in cui è richiesto un
notevole aumento del volume nel forno (per esempio nel prodotto come la rosetta
soffiata), la formazione della crosta deve essere rallentata. A tale scopo nei
forni professionali per la maggiore parte dei prodotti viene dato il vapore.
Normalmente si cerca di formare la crosta nei primi 6-8 minuti dall’inizio della
cottura (il tempo in cui avviene la crescita del volume nel prodotto). Terminata la
crescita, si forma la crosta. Se inforniamo un prodotto che richiede il vapore
nella cottura, senza vapore, esso avrà una crosta opaca, più spessa, e può avere
degli strappi con fuoriuscita della mollica (dato che il volume cerca di
svilupparsi, ma la crosta ne impedisce lo sviluppo, nei prodotti che hanno una
certa forza avviene lo strappo superficiale), come spiegato alle pagine 133-134.
Il vapore dato all’inizio della cottura si condensa sulla superficie del prodotto e
rallenta la formazione della crosta. L’amido che si trova sulla superficie si
gelatinizza, si trasforma parzialmente in destrine (pezzettini più corti, solubili
in acqua). L’amido gelatinizzato insieme alle destrine liscia la superficie,
riempendo i pori, e la distende. Così, una volta disidratata, la crosta rimane più
sottile e più lucida.
Alla stessa temperatura (70-90 °C) sulla superficie del prodotto avviene la
denaturazione delle proteine (perdita della loro struttura nativa), che, insieme
all’evaporazione dell’umidità superficiale, contribuisce alla formazione della
crosta.
Alcuni pani (tipo “francesino” o simili) si possono preparare in due modi in base
alle preferenze: con un po’ meno vapore (così avranno un aspetto “più rustico”) o
con una normale quantità di vapore (per avere una crosta più sottile e più liscia).
I prodotti che devono avere la crosta più opaca e più spessa possono essere cotti
senza vapore. Alcuni tipi di pane (per esempio biova e pasta dura), addirittura
vengono infornati senza vapore e con delle valvole aperte per agevolare la
formazione della crosta e per facilitare “lo sfogo” della mollica nel taglio,
eseguito prima della cottura.
Per la panificazione casalinga, per la maggiore parte dei prodotti per i quali è
richiesta l’umidificazione del forno si può mettere all’interno del forno una
pentola con dell’acqua bollente, oppure spruzzare dell’acqua immediatamente prima
della cottura sul prodotto o, preferibilmente (se si può), nella camera di cottura.
Quindi, la mollica del prodotto può essere immaginata come una struttura delle
proteine denaturate, nella quale sono immersi i granuli dell’amido gelatinizzato.
Per quanto riguarda l’attività enzimatica nel pezzo sottoposto alla cottura, essa
persiste ancora per molto tempo. Affinché gli enzimi non si disattivino, avvengono
i processi della disgregazione delle proteine e dell’amido. Le beta-amilasi si
disattivano prima (possono essere attive al massimo fino alla temperatura di 82-84
°C), mentre le alfa-amilasi possono resistere fino a 97-98 °C (solo se l’impasto è
scarsamente acido), quindi alcune volte possono presentare l’attività anche nel
prodotto cotto. Nei prodotti aventi un’alta acidità dell’impasto (come per esempio
i prodotti a base di lievito madre di segale) gli enzimi amilolitici si disattivano
prima (le b-amilasi alle temperature di 60 °C e le a-amilasi alle temperature di 75
°C). Affinché le amilasi rimangano attive, essi continuano a disgregare l’amido,
fino alle destrine, e se l’amido è gelatinizzato, loro “lavorano” ancora con più
facilità. Le proteasi (gli enzimi che scompongono le proteine) rimangono attive nel
prodotto con acidità moderata fino alle temperature di 80-85 °C. Tanto più attive
saranno le disgregazioni delle proteine e dell’amido per opera degli enzimi, tanto
più marcata sarà la reazione di Maillard. Infatti, i prodotti preparati con una
farina di eccessiva attività enzimatica si caratterizzano non soltanto dalla
mollica appiccicosa, ma anche da una forma più piatta e da una crosta più scura.
La velocità della cottura dipende anche dalla massa del prodotto e dalla sua forma,
ma anche da come è umidificata la camera di cottura: con più vapore (nei forni
professionali per la maggior parte dei prodotti da forno viene dato il vapore) la
cottura avviene prima. Si potrebbe pensare che se c’è più umidità nella camera di
cottura, il prodotto impiega più tempo per asciugarsi. Bisogna invece considerare
che il prodotto, prima di asciugarsi (processo che avviene nella fase finale di
cottura), deve sviluppare il volume. Con il vapore, il volume si sviluppa
maggiormente, quindi la sua mollica avrà una struttura più soffice e leggera, che
potrà cuocersi con più facilità.
Il pane mediamente può cuocere con temperatura compresa fra i 210 e i 280 °C. I
prodotti di pasticceria lievitata contenenti lo zucchero sono cotti a temperature
più basse, 210 °C: i croissant e i prodotti simili si cuociono alle temperature di
210-200 °C. I prodotti di ricorrenza a temperature ancora più basse (170-190 °C).
Mentre per la pasticceria secca la cottura viene svolta alle temperature ancora più
basse (fino a 110 °C per le meringhe). Viceversa, per pizza da platea (di pizzeria)
la temperatura di cottura è molto alta (330-360 °C), data la sua permanenza molto
breve nella camera di cottura.
È ovvio che per cuocere la focaccia il calore nella camera di cottura deve essere
superiore (per esempio 250-240 °C), mentre per il filone è un po’ più basso (230-
220 °C), e ancora minore è per la forma in cassetta (220 °C).
Non tutti i forni cuociono allo stesso modo, per cui la temperatura impostata di un
forno può corrispondere a un’altra in un altro forno. Allora come regolarsi con la
temperatura di cottura? Come procedere? Per esempio, se si deve cuocere nel forno
un prodotto (va bene l’esempio di prima: filone di 600 g di massa). Sappiamo che
per la cottura servono circa 35 minuti. Quindi si deve cercare di impostare il
forno in modo che la cottura avvenga in questo tempo. In generale, per la cottura
di ogni prodotto il tempo è il fattore fisso. La temperatura del forno deve essere
tale per garantire la cottura del prodotto nel tempo necessario. Ritornando
all’esempio di prima, si imposta il forno alla temperatura di 230 °C, che dopo i
primi 10 minuti di cottura deve essere abbassata a 220-210 °C e si controlla il
tempo in cui avviene la cottura. Se il tempo è superiore al dovuto, allora per la
prossima volta si imposta il forno a temperatura più alta; viceversa, se il tempo è
inferiore del dovuto, allora si dovrà impostare il forno a temperatura più bassa.
Purtroppo, se il prodotto è stato tenuto nel forno troppo tempo (a una temperatura
più bassa del dovuto), o, viceversa, poco tempo (a una temperatura più alta del
dovuto), il prodotto potrebbe avere dei difetti.
E se il forno non ha molta regolazione, come nel caso del forno a legna?
Attualmente anche i forni a legna hanno dei termometri che possono essere
installati nella parete del forno (la sonda preferibilmente deve essere posizionata
non troppo vicino alla parete), che aiutano ad avere delle indicazione per la
temperatura. Comunque anni fa le nonne (o bisnonne), addette alla cottura dei
prodotti, per le prime cotture nel forno a legna riservavano i prodotti che
richiedono una temperatura di cottura più alta (come pizza da teglia o focaccia),
per poi passare alla cottura del pane (all’epoca cuocevano soprattutto i pani di
grosso formato), e finivano la cottura nel forno con i prodotti che richiedevano il
calore minore (grissini, poi crostate). Erano intelligenti, razionali, e
risparmiavano anche l’energia (calore): tutte buone abitudini da mantenere.
I vecchi dicevano che un buon pane deve essere ben cotto e ben lievitato. È proprio
vero: il tempo di cottura deve essere tale da garantire una cottura sufficiente, ma
non eccessiva. Un prodotto che rimane nel forno per troppo tempo, viene “asciugato”
troppo durante la cottura, risulta più secco, sia nella mollica, sia nella crosta;
non si conserva bene; è quasi completamente privo di aroma (ha disperso eccessive
sostanze aromatizzanti durante la cottura). Invece, i prodotti cotti a una
temperatura più alta del dovuto si colorano rapidamente sulla crosta e sono meno
cotti nella mollica, che risulta più umida e più pesante; alcuni prodotti sono
anche soggetti a deformarsi dopo la cottura data una fragile struttura della
mollica.
Durante la cottura il prodotto perde peso. Questa perdita varia in media dal 5 al
15% dal peso della forma cruda ed è dovuta soprattutto alla disidratazione dello
strato superficiale, e in modo minore dalla perdita di gas dell’impasto (anidride
carbonica, alcol etilico e altri componenti aromatici volatili). Per cui la perdita
di peso dovuto alla cottura per i prodotti piccoli sarà più grande, al contrario
dei prodotti di grosso formato. Esempio: un bocconcino da 50 g perderà circa l’11%
di peso con la cottura e una forma rotonda da 500 g dallo stesso impasto perderà
circa l’8%, perché la percentuale della superficie esterna rispetto alla massa del
prodotto come il bocconcino è maggiore.
forni a platea (così viene chiamata la parte bassa del forno, su cui direttamente
viene appoggiato il prodotto). La platea può essere fissa o mobile (nei forni
industriali, del tipo “tunnel”);
Certi tipi di prodotto necessitano una cottura nel forno “a platea” (fissa o
mobile), alcuni, invece, sono di più facile riuscita nei forni a convezione.
IL PANE PRECOTTO
Una volta abbattuto, il prodotto può essere conservato nel freezer a –18 °C, per un
tempo più o meno lungo (la sua conservazione può arrivare fino ad alcuni mesi). In
tale stato (surgelato) il prodotto, opportunamente imballato, viene trasportato nei
negozi direttamente per la vendita ai consumatori oppure per il completamento della
cottura. Il pane surgelato parzialmente cotto, se è destinato al consumatore
finale, deve essere venduto negli imballaggi preconfezionati (sull’etichetta dei
quali devono essere specificati oltre al tipo del prodotto, la ragione sociale e la
sede del produttore, l’elenco degli ingredienti, la data di scadenza ecc.).
Nell’imballaggio devono apparire anche la dicitura: “Pane surgelato parzialmente
cotto, da consumarsi previa cottura” e le avvertenze che, una volta scongelato, il
prodotto deve essere consumato previa la cottura, quindi non potrà essere
ricongelato. Il pane ottenuto per il completamento della cottura da pane
parzialmente cotto, surgelato o non surgelato, destinato al consumatore finale,
deve riportare sull’etichetta, oltre alle solite voci (denominazione del prodotto,
ragione sociale e sede del produttore, elenco degli ingredienti, la data di
scadenza ecc.), anche la dicitura: “Ottenuto da pane parzialmente cotto surgelato”
(in caso di surgelato) oppure “ottenuto da pane parzialmente cotto”.
Nel D.P.R. 30.11.98 n. 502, l’articolo 1 dice: “Il pane ottenuto mediante
completamento di cottura da pane parzialmente cotto, surgelato o non surgelato,
deve essere distribuito e messo in vendita in comparti separati dal pane fresco e
in imballaggi preconfezionati riportati oltre alle indicazioni previste dal D. L.
27.1.92, n. 109, anche le seguenti: a) ottenuto da pane parzialmente cotto
surgelato, in caso di provenienza da prodotto surgelato; b) ottenuto da pane
parzialmente cotto, in caso di provenienza da prodotto non surgelato né congelato.”
L’articolo 2 dipone: “Ove le operazioni di completamento della cottura e di
preconfezionamento del pane non possano avvenire in aree separate da quelle di
vendita del prodotto, dette operazioni possono avvenire, fatte salve comunque le
norme igienico-sanitarie, anche nella stessa area di vendita e la specifica
dicitura di cui al comma I deve figurare altresì su un cartello esposto in modo
chiaramente visibile al consumatore nell’area di vendita”.
Anche se l’amido in realtà non riesce mai a tornare in una configurazione simile a
quella iniziale, si forma una struttura intermedia rigida dovuta all’avvicinamento
delle catene di amilosio5 e alla crescita dei cristalli di amilopectina.6
Quando, con il passare del tempo, nel caso del pane, si verifica la migrazione
dell’acqua verso la crosta esterna si ha l’avvicinamento delle catene di amilosio,
la cristallizzazione dei componenti amilacei e il conseguente aumento della
consistenza (indurimento della struttura). La digeribilità in questo caso
diminuisce. Con il raffermamento i granuli dell’amido sprigionano l’acqua
assorbita. Parzialmente l’acqua passa dall’amido al glutine, migra verso la crosta
del prodotto e fuoriesce dalla crosta nell’ambiente. L’acqua, che fuoriesce dalla
mollica, in parte evapora nell’ambiente e in parte si concentra sulla crosta. Con
il tempo la mollica del prodotto rimane sempre più secca e la crosta sempre più
umida. Un’alta umidità della crosta nel prodotto raffermo è uno dei fattori
favorevoli alla crescita di muffe ecc.
acqua fortemente legata: forma uno strato monomolecolare legato ai sali e ai gruppi
polari di proteine e polisaccaridi;
3 La presenza di grasso (il grasso forma una specie di pellicola sottile intorno
all’amido, bloccando la migrazione dell’acqua e rallentando la scadenza del
prodotto).
Il tempo di conservazione del prodotto da forno può essere diverso in base alla
tipicità del prodotto e alla tecnologia applicata: può durare pochi giorni, e può
durare diversi mesi.
Per avere una buona conservazione del prodotto dobbiamo innanzi tutto evitare la
proliferazione dei batteri patogeni e delle muffe (Penicillium, Aspergillus,
Rhizopus ecc.), dei funghi, e di altri microrganismi (perché essi possono produrre
sostanze di scarto tossiche per l’uomo), ma bisogna anche ritardare l’ossidazione
dei grassi responsabile dell’irrancidimento, ritardare la retrogradazione
dell’amido e impedire lo spostamento dell’acqua libera nel prodotto.
I metodi più diffusi di conservazione dei prodotti possono essere suddivisi in:
2 Confezione sottovuoto.
3 Aggiunta delle sostanze che salvaguardano lo stato d’amido (per esempio i grassi
e gli emulsionanti).
4 Aggiunta delle sostanze in grado di trattenere l’acqua libera (per esempio gli
amidi, le fibre, soprattutto quelle solubili, come i pentosani, e gli
stabilizzanti).
L’impasto può essere preparato con diversi metodi. I più diffusi sono i seguenti:
diretto semplice;
L’impasto confezionato con il metodo diretto, se non viene arricchito con dei
preparati a base di biga o pasta acida liquida, essiccata o liofilizzata, ha la
composizione in acidi più scarsa rispetto all’impasto preparato con il metodo
indiretto, per cui il prodotto ottenuto non potrà vantarsi né di un gusto
particolarmente ricco né di una più lunga durata di conservazione.
Una breve premessa: la conservabilità del prodotto dipende innanzitutto dal tipo
del prodotto (pezzatura, mollica) e dal contenuto dell’impasto. Un altro aspetto
dal quale dipende la qualità del prodotto è la quantità di “lievito di birra”
utilizzata nell’impasto diretto. Si sa che gli impasti diretti hanno una quantità
maggiore di lievito rispetto agli impasti indiretti. Però una quantità di lievito
eccessivamente alta (superiore al 6% per gli impasti conditi o al 4% per gli
impasti senza condimenti) porterebbe a effetti negativi: si rallenterebbe la
fermentazione dell’impasto e si abbasserebbe la digeribilità del prodotto finito.
Un’elevata quantità di lievito blocca la moltiplicazione delle cellule del lievito
stesso, perché l’accumulo dei prodotti tossici per le cellule del lievito, deposti
durante il loro metabolismo, sarà alto, in grado di “soffocare” le cellule stesse,
e quindi di abbassare la loro attività vitale. Inoltre, un’eccessiva quantità di
lievito aggiunto nell’impasto porta a un elevato contenuto di purine nel prodotto
finito, che risulta dannoso per l’organismo umano, e specialmente per il fegato.
Può essere a base di lievito di birra, di lievito madre, oppure di due lieviti (di
birra e madre), ossia “a lievito misto” (vedi). Le quantità del lievito in questi
casi sono le seguenti: per il metodo con il lievito di birra si mette mediamente da
0,2 a 0,5% di lievito sulla quantità di farina (per 1 kg di farina da 2 g a 5 g di
lievito di birra); nel metodo di lunga fermentazione a base di lievito madre si
mette dal 5% al 7% di lievito madre (per 1 kg di farina da 50 a 70 g di lievito
madre), mentre in un impasto a base di lievito misto si usano circa 0,2-0,3% di
lievito di birra e dal 2% al 3% di lievito madre (per 1 kg di farina 2-3 g di
lievito di birra e 20-30 g di lievito madre).
I numerosi benefici ottenuti utilizzando questa tecnica derivano dal fatto che
nell’impasto di lunga fermentazione avviene un’attiva fermentazione lattica (quella
dei lieviti avviene in modo lento e graduale a causa della poca quantità di lievito
iniziale) e un attivo lavoro degli enzimi (hanno molte ore a disposizione per
svolgere il loro compito), l’impasto così diventa più malleabile, con maglia
glutinica più predisposta a distendersi durante la cottura, generando
un’alveolatura più sviluppata. Inoltre si generano anche più zuccheri, necessari
per il metabolismo dei lieviti e dei batteri lattici. Questi ultimi a loro volta
producono gli acidi organici che contribuiscono a generare i profumi durante la
cottura, nello stesso tempo regolano l’attività degli enzimi. Anche la presenza del
sale nell’impasto aiuta a limitare i processi enzimatici e fermentativi,
bilanciando così il grado di fermentazione e di rilassamento dell’impasto.
1 Si utilizza negli impasti così com’è, direttamente dal frigorifero (il giorno
prima dopo le prime 2-3 ore di fermentazione è opportuno metterla in frigorifero).
2 Il giorno successivo, prima dell’utilizzo va rinnovata con farina e acqua e
lasciata nuovamente fermentare per circa 2 ore, dopo procedere all’impasto finito.
Questa tecnica viene largamente utilizzata in Meridione soprattutto per i pani di
grano duro e in generale per i pani di grosso formato.
Infatti spesso per realizzare le ricette, come pasta dura o pane pugliese, vengono
utilizzate tutte e due, sia biga sia pasta di riporto, in modo da sfruttare le
peculiarità di ambedue le paste. Se si analizza l’acidità di un impasto a base di
pasta di riporto si riscontra una percentuale di acido acetico superiore, rispetto
a quella contenuta in una biga, e una quantità minore di acido lattico. Da ciò
derivano una buona resistenza della maglia glutinica, ma una minore estensibilità
rispetto all’impasto a base di biga, un ottimo sviluppo nel forno e un gusto deciso
e caratteristico. L’utilizzo della pasta di riporto può essere un metodo molto
utile, che consente di risparmiare il tempo di lavorazione e di migliorare la
qualità del prodotto finale, e soprattutto impedisce gli sprechi nella produzione.
È quindi un metodo molto valido e largamente utilizzato nella panificazione.
IL METODO SEMIDIRETTO A LIEVITO MISTO
un gusto e un profumo più accentuati, tipici dei prodotti preparati con lievito
madre, ma ovviamente meno intensi rispetto alla panificazione con lievito madre al
100%;
Anche i prodotti a lievitazione mista possono essere preparati con delle diverse
tecniche. Per esempio possono essere diretti, ma a lievitazione mista, quando
l’impasto avviene in un’unica fase: all’interno dell’impasto vengono messi tutti
gli ingredienti e insieme lievito di birra e lievito madre avanzato, in forma
solida oppure liquida. Di solito la corretta quantità di lievito madre da inserire
negli impasti diretti a lievitazione mista varia dal 10 al 30% in base all’acidità
del lievito (se si utilizza il lievito leggermente più forte, va diminuita la sua
quantità).
Inoltre, questi metodi di lavorazione non comportano dei passaggi in più, come già
accennato, e con pochi sforzi migliorano notevolmente il prodotto. Possono essere
anche un ottimo sistema per smaltire gli scarti del lievito madre (le quantità in
eccesso che avanzano dal rinnovo) e per migliorare la conoscenza della materia del
lievito madre, soprattutto per chi non ha ancora molta dimestichezza con esso, ma
vuole avvicinarsi al mondo della lievitazione naturale.
È comprensibile che a volte il lievito madre non sia molto utilizzato, dato che le
lavorazioni che ne prevedono l’uso richiedono i tempi un po’ più lunghi. In questo
caso la lavorazione con il lievito misto è un eccellente compromesso, che coniuga
un ottimo gusto e qualità del prodotto con una buona tempistica di lavorazione.
Prevede due fasi: nella prima si prepara un preimpasto (i più diffusi sono biga e
poolish), nella seconda si aggiungono ai preimpasti, precedentemente fermentati,
tutti gli altri ingredienti e si effettua l’impasto finito. Come sempre seguono
tutte le operazioni successive: fermentazione dell’impasto finito, modellatura,
lievitazione finale, cottura.
I due preimpasti principali sono la biga e il poolish. Ecco che cosa sono e come
vengono preparati.
La biga
È un preimpasto asciutto, che può avere molte ore di fermentazione (da 16 a 48, o
anche fino ai 72 ore), ottenuto con la farina, l’acqua e il lievito compresso. La
preparazione della biga richiede l’impiego di farine forti.
La temperatura finale per una biga alla fine della miscelazione deve essere
abbastanza bassa, intorno 20-22°C, per cui i tempi di impastamento (miscelazione)
sono molto brevi: con un’impastatrice “a spirale” circa 4 minuti e soltanto alla
prima velocità, 6 minuti con un’impastatrice “a braccia tuffanti”. Rispettando
questi tempi non si ottiene la consistenza liscia e omogenea (come per un impasto
finito), ma si ha una consistenza ruvida e grumosa. Il tempo d’impasto per una biga
(in relazione con la quantità d’energia trasmessa dall’organo dell’impastatrice) è
un fattore molto importante perché influenza la fermentazione della biga stessa.
Maggiore energia si fornisce durante l’impasto, più sviluppata sarà la biga e
raggiungerà la maturazione più velocemente, invece la sua tenuta si ridurrà Per
esempio, una biga contenente lo 0,5% di lievito con un tempo maggiore di
miscelazione può avere una lievitazione più veloce rispetto a una biga con 1% di
lievito ma con minor tempo di miscelazione, ma non avrà la stessa tenuta (se non
viene utilizzata per tempo deteriora velocemente).
55 – Ta ambiente – Ta farina
È molto importante utilizzare una biga di maturazione giusta. Le bighe poco mature
e quelle troppo mature causano dei difetti nei prodotti finiti.
Per fare un esempio pratico ecco l’effetto del grado di fermentazione della biga
sul prodotto “rosetta soffiata”.
Una biga troppo matura si presenta più scura, più molle, più forte di aroma,
rilascia l’umidità sui bordi del mastello.
Inoltre ci si accorge del fatto che la maturazione della biga è andata oltre quando
si impasta. L’impasto a base di una biga troppo matura assorbe meno acqua e si
impasta prima del tempo necessario, risulta anche più appiccicoso.
Questo si spiega con il fatto che una biga troppo matura è più acida, e l’eccessiva
acidità disgrega la maglia glutinica che si forma all’interno dell’impasto.
L’impasto preparato da una biga troppo matura ha tendenza ad allargarsi e non
tenere la forma. Le forme del prodotto finito rimangono più piatte e risultano più
chiare sulla crosta.
Vediamo il caso contrario: una biga poco matura. Una biga poco matura è ancora
molto a grumi, più compatta, meno soffice e meno sviluppata, poco profumata.
L’impasto finito rimane più grezzo, meno liscio e meno elastico, sembra che sia
stato prodotto da una farina più rigida. La pasta durante la fermentazione rimane
più compatta e le forme dopo la lievitazione sono più piene e meno soffici.
Il poolish
acqua 100% 1 l
Per scegliere il tipo di farina idoneo per il poolish ci si basa sulla quantità di
ore a disposizione per la sua fermentazione. Se si tratta di un poolish corto (2-5
ore di fermentazione), allora la farina idonea potrebbe essere non molto forte (W
non superiore a 300), mentre se si tratta di un poolish lungo (12-18 ore di
fermentazione), allora si deve scegliere il tipo di farina di forza.
Quando si utilizza un poolish lungo, nell’impasto finale in genere non si mette più
malto (c’è già una buona attività enzimatica), mentre la quantità di farina di
solito è almeno doppia rispetto a quella utilizzata nel poolish.
70 – Ta ambiente – Ta farina
Esempio:
Nel preimpasto poolish anche come nel preimpasto biga si sviluppano i lieviti, ma
soprattutto i batteri lattici. Inoltre, avvengono i processi enzimatici (con
un’intensità minore nella biga dato la sua temperatura più bassa di fermentazione e
la sua consistenza più asciutta, e con un’ intensità maggiore nel poolish, date la
consistenza più liquida e una maggiore temperatura di maturazione).
Si può dedurre che un poolish di molte ore ha una maggiore efficacia e, viceversa,
meno funzionale sarà un poolish di poche ore. Perché con più ore a disposizione gli
enzimi e i batteri lattici potranno funzionare di più e quindi i processi
enzimatici (grazie ai quali l’impasto si rilassa e si distende) e fermentativi
(soprattutto fermentazione lattica, con la quale si producono degli acidi organici
necessari per la creazione degli aromi, per lo sviluppo del prodotto e per la sua
conservabilità) saranno più presenti. Il prodotto finito quindi può presentare
volume maggiore, avere un’alveolatura più sviluppata, un profumo più ricco e una
conservabilità maggiore.
Per la preparazione del pane necessitano di 1-2 rinfreschi del lievito madre
solido, precedenti all’impasto o agli impasti. Invece per il panettone o la colomba
ne servono almeno 3.
Per realizzare il pane con il lievito madre con il sistema classico si seguono le
seguenti fasi:
Qui sotto si può vedere lo schema della produzione del panettone milanese con il
lievito madre solido.
Utilizzare il lievito madre liquido con una notevole agevolazione nei tempi. In
questo caso si può procedere con un impasto diretto semplice (utilizzando un
impasto in cui viene inserito soltanto il lievito madre liquido (o più lieviti
madri). La quantità di lievito madre sarà all’incirca il 30% dal peso della farina.
I tempi medi saranno i seguenti: 1 ora e 30 minuti puntata in massa (a 30 °C) e 2
ore 30 minuti lievitazione finale della forma (a 30 °C). Oppure si utilizza un
impasto di lunga fermentazione con il lievito madre.
Per agevolare chi desidera panificare con il lievito madre, ma per i motivi tecnici
e organizzativi non riesce a seguire i rinfreschi del lievito madre, in commercio
esistono anche delle colture starter, che rappresentano le fonti dei microrganismi
selezionati (normalmente sono composti dai batteri lattici oppure dai lieviti),
necessari per la partenza della fermentazione, provenienti da laboratorio oppure da
impasti acidi. Esistono colture starter pure (contenenti un unico microrganismo)
oppure miste (formate da diversi microrganismi). In commercio le colture starter si
possono trovare in forma liquida, congelata, oppure essiccata o liofilizzata.
Non tutte le farine (e non tutti gli impasti a base di farina) hanno la stessa
capacità di generare gli zuccheri, questa capacità dipende:
dalle condizioni con cui è avvenuta la maturazione del grano, per esempio, dopo
piogge intense il grano raccolto ha generalmente attività enzimatica (e in
particolare attività amilasica) molto alta, fino a renderlo difettoso e
inutilizzabile per questo motivo);
dalle condizioni in cui viene stoccato il grano (ovviamente eccessive temperature e
umidità contribuiscono all’aumento dell’attività enzimatica);
dalla presenza di acidità nell’impasto (tanto più acido è l’impasto, tanto meno
attive saranno le amilasi; su questo principio è basata la panificazione con
segale);
L’attività degli enzimi amilasi di una farina viene analizzata con il Falling
Number (indice di caduta) oppure con l’esame che utilizza l’Amilografo Brabender
(pag. 37). Le farine che hanno un’eccessiva attività amilasica generano impasti
troppo appiccicosi, di difficile lavorabilità, e i prodotti finiti saranno troppo
rossi sulla crosta, piatti come forma e con una mollica molto appiccicosa, quasi
collosa. In caso contrario, l’impasto fermenta troppo lentamente e tutti i processi
dell’impasto sono rallentati e poco intensivi, il prodotto avrà un volume non molto
sviluppato, con una mollica compatta, tendente a sbriciolarsi.
Un altro rimedio per aumentare l’attività fermentativa negli impasti con una farina
di scarsa attività amilasica è quello di utilizzare gli impasti a caldo, che
contribuiscono anche ad arricchire il gusto e il profumo del prodotto, forniscono
una più vivace colorazione alla crosta e soprattutto permettono alla mollica di
restare morbida più a lungo. Il loro utilizzo migliora inoltra l’alveolatura della
mollica e ingentilisce la struttura dell’impasto. Queste caratteristiche sono
soprattutto richieste per i pani di lunga conservazione oppure per i prodotti tipo
hamburger, pane da tramezzino o simili. Gli impasti a caldo sono anche un ottimo
nutrimento per la microflora del lievito madre: funzionano come rimedio per nutrire
un lievito madre più debole.
La tecnica degli impasti a caldo è particolarmente diffusa nei paesi nordici per i
prodotti di segale. I prodotti di segale preparati con la tecnica dell’impasto a
caldo si caratterizzano da una crosta e una mollica particolarmente scuri, da una
struttura della mollica più sviluppata e da un gusto e un aroma tipici (dolce-
acido). Inoltre, è particolarmente idonea per le farine con molta fibra, aiuta
anche ad ammorbidire componenti cruscali, nonché per il grano spezzato. Se nella
ricetta sono contenuti dei semi (girasole, sesamo ecc.) o delle spezie (cumino,
finocchietto ecc.), è opportuno inserire anche questi nell’impasto a caldo, così le
loro componenti aromatiche si esprimono maggiormente nel prodotto finito.
La quantità della farina necessaria per gli impasti a caldo può essere dal 3% al
25% circa dalla totale quantità della farina della ricetta. In generale, non è
possibile eseguire una ricetta con la percentuale della farina per impasto a caldo
superiore al 30% a causa della quantità d’acqua necessaria per prepararlo.
La farina viene mescolata con acqua bollente (due o tre volte superiore al suo
peso), dopo di che l’impasto a caldo così ottenuto viene lasciato a raffreddarsi
(di solito fino al giorno dopo) per poi procedere all’impasto finale. Le farine con
più crusca (per le quali è particolarmente raccomandata questa tecnica)
assorbiranno tre volte l’acqua rispetto al loro peso, mentre quelle più raffinate
soltanto il doppio del peso dalla loro quantità.
Per gli impasti a caldo di segale a volte inizialmente si aggiungono metà acqua con
temperatura 65 °C, si mescolano e poi la restante metà si aggiunge bollente. Questa
operazione aiuta a facilitare l’impasto, a non avere grumi, e non disturba alla
gelatinizzazione dell’amido, perché l’amido della segale gelifica alle temperature
più basse rispetto a quello di frumento.
Impasto a caldo appena fatto (sopra) e impasto a caldo dopo il riposo (sotto).
Una porzione della farina destinata per l’impasto a caldo (10% circa) si lascia da
parte e si mescola il restante 90% della farina con l’acqua bollente. Dopo che la
miscela si raffredda fino a 60-65 °C, si aggiunge la restante farina (quella
lasciata da parte). In questo modo le amilasi presenti nella farina lasciata da
parte riescono ad agire in maggior misura. Il tempo necessario per l’esecuzione di
questi impasti rimane quindi più corto: saranno sufficienti soltanto 2-3 ore, fino
a che l’impasto si raffredda, per poi inserirlo nell’impasto finale.
Con questo tipo di procedimento i tempi sono più brevi, inoltre, le percentuali
della farina utilizzata per gli impasti a caldo possono essere minori per avere una
simile efficacia.
Nell’impasto a caldo viene aggiunto il malto diastasico (chiaro), sempre come per
gli impasti sopra, dopo che l’impasto viene raffreddato fino alla temperatura di
60-65 °C. In questo modo i tempi di preparazione sono veloci (come sopra) e la
quantità di farina destinata per l’impasto a caldo potrebbe essere ancora minore.
Nella preparazione la farina viene mescolata con soluzione salina (acqua bollente
con tutto il sale della ricetta). Questi impasti a caldo sono utili per la stagione
estiva e per le farine deboli, oppure per quelle un’alta attività amilasica, nonché
per i tempi più lunghi (in cui si lascia l’impasto a caldo).
Additivati con batteri lattici oppure con del lievito madre (fonte di batteri
lattici), sempre dopo il loro raffreddamento.
Prima fase: preparazione dell’impasto a caldo (con uno dei metodi elencati prima).
Terza fase: rinnovo del terzo impasto con farina e acqua e fermentazione di
seguito.
Miscelare tutto a mano o in una planetaria con frusta fino a ottenere una
consistenza omogenea, senza grumi. Lasciare maturare coperto con telo e il foglio
di plastica sopra per un tempo da 3 a 18 ore a temperatura ambiente.
Nella prima fase nell’impastatrice vengono dosati gli ingredienti di base, farina e
acqua (55%), impastati (per esempio con l’impastatrice a spirale 5-8 minuti,
soltanto alla prima velocità).
L’impasto così ottenuto subisce successivamente il riposo (seconda fase), che può
durare da 20 minuti a 24 ore. Se il tempo di riposo è superiore a 5-6 ore, si
consiglia di aggiungere alla miscela una parte del sale e non superare il 45-50% di
acqua, la successiva conservazione dovrà essere effettuata alla temperatura di 18-
20 °C. Mentre per il periodo di riposo abbastanza breve l’impasto viene lasciato a
temperatura ambiente, eventualmente nella vasca stessa dell’impastatrice.
Infine segue la terza fase (l’impasto finale), in cui vengono aggiunti gli
ingredienti mancanti (lievito, malto, eventualmente acqua, sale) o gli altri
ingredienti in base alla ricetta. Il tutto viene impastato soltanto alla seconda
velocità per il tempo necessario. L’impasto autolitico può essere utilizzato
totalmente o parzialmente (con una dose minima del 20% dalla farina totale).
Queste peculiarità nel prodotto sono il risultato dei processi fisici, chimici e
colloidali che avvengono durante il riposo della pasta. In questa fase il glutine
subisce delle modifiche (lisi) a opera degli enzimi (in particolare amilasi e
proteasi), attivati dall’acqua dell’impasto.
Sotto l’azione degli enzimi amilasi, come è già stato spiegato, l’amido viene
trasformato in zuccheri, fornendo più zuccheri disponibili nell’impasto, agevolando
così la fermentazione e apportando al prodotto finale le migliori caratteristiche
organolettiche (come gusto e profumo più intensi).
Gli enzimi proteasi sono protagonisti della reazione della proteolisi, che avviene
in qualsiasi impasto e prende sviluppo soprattutto durante il periodo di riposo
della pasta. Con tale reazione la maglia glutinica della pasta viene frantumata in
pezzi più piccoli, le catene proteiche così ottenute si allungano, la pasta
acquista una maggiore estensibilità e diventa più malleabile. La reazione delle
proteolisi può essere più o meno attiva in base ai diversi fattori (la struttura
delle proteine – in particolare le proprietà del glutine –, l’attività enzimatica
della farina, la presenza nell’impasto di alcune sostanze, la temperatura
dell’impasto ecc.).
Inoltre nell’impasto autolitico avviene una reazione opposta alla proteolisi, ossia
il rinforzamento della maglia glutinica dovuto all’azione dell’ossigeno dell’aria,
inglobato dalla pasta durante l’impastamento. Sotto l’azione dell’ossigeno i gruppi
della maglia glutinica (SH-) si trasformano in ponti disolfurici (-S=S-), il
glutine si rinforza, diventa più elastico e potrà assorbire quantità superiori
d’acqua. Tale reazione prende sviluppo soprattutto durante l’impasto (nella prima
fase di autolisi e nell’ultima fase, quella dell’impasto finale), in minor modo
avviene anche durante il riposo della pasta. Durante il riposo della pasta la
maglia glutinica viene trasformata, le catene proteiche si allungano, si gonfiano,
assorbendo l’aria e l’acqua, completano la loro idratazione, così l’impasto durante
la sua lavorazione finale raggiunge il top della consistenza in un periodo più
breve, con quantità maggiori d’acqua.
Poiché è una tecnica che dona all’impasto una particolare estensibilità, l’autolisi
può essere particolarmente utile per la panificazione con il lievito naturale, per
la produzione dei pani con semola oppure quando vengono utilizzate le farine più
resistenti.
La proteolisi
Il freddo può essere applicato agli impasti già formati o ancora da formare e al
prodotto parzialmente cotto (chiamato precotto).
Il freddo si può utilizzare per abbattere a temperature negative per poi stoccare
(a –18 °C) il prodotto precotto o le forme crude ancora da lievitare. In questo
caso parliamo di surgelazione.
Le forme crude già formate (che devono ancora lievitare) oppure i prodotti precotti
prima di essere stoccati nelle celle freezer di solito passano negli abbattitori
(celle in cui la temperatura è molto bassa: da –35 a –40 °C, dotati di potenti
ventole, in grado di “abbattere” il prodotto in modo che il cuore del prodotto
arrivi rapidamente a –18 °C). Questo passaggio attraverso l’abbattitore permette la
formazione all’interno del prodotto di microcristalli di ghiaccio, che non
distruggono quasi la sua struttura. Mentre senza il passaggio nell’abbattitore
possono formarsi dei macro-cristalli di ghiaccio ed esercitare un’azione
distruttiva alla struttura del prodotto.
Per l’utilizzo corretto è necessario rispettare alcune regole importanti per quanto
riguarda la panificazione.
La temperatura finale dell’impasto non deve essere alta, può variare da 20 a 25-26
°C.
2 Da questo momento inizia la fase di abbattimento del prodotto (durata 2 ore circa
o meno in base al prodotto). Il prodotto viene raffreddato sino a una temperatura
di –5 o –6 °C dopo di che si passa alla fase successiva.
CONSIGLI UTILI PER UNA BUONA RIUSCITA DEL PRODOTTO CON FERMA-LIEVITAZIONE
Lasciare riposare l’impasto prima della formatura per un periodo non molto lungo,
compatibilmente con la lavorabilità della pasta. Escluso per i prodotti a base di
lievito madre, che devono avere una normale puntata.
La temperatura finale dell’impasto non deve essere alta: può variare da 20 °C a 25-
26 °C in base al prodotto.
Usare farine di buona qualità. La farina deve essere sufficientemente forte e non
avere troppa attività enzimatica.
Occorre adottare un metodo di lavoro molto preciso ed essere molto esatti nella
pesatura degli ingredienti e nella temperatura finale degli impasti per non
incorrere in lievitazioni fuori orario (anticipate o ritardate).
Cuocere con un forno leggermente meno caldo del normale (10-20 °C in meno),
altrimenti il prodotto si colorerà più rapidamente.
Non dare troppo vapore durante la cottura. Si consiglia anche di introdurre del
vapore prima dell’infornamento. In effetti, troppo vapore durante la cottura
rischia di provocare una leggera formazione di bolle;
Pronto intervento.
I difetti
del pane:
come riconoscerli
e correggerli
Questo capitolo ha una grande importanza dal punto di vista pratico. Conoscere i
difetti del pane e capire da che cosa provengono, riuscire a intervenire per
correggerli (quando è possibile) oppure conoscere la causa e impedire che avvenga
nuovamente: questi sono gli aspetti fondamentali del lavoro che vengono affrontati
tutti i giorni dagli operatori e dagli appassionati del settore. È un tema
piuttosto vasto e complesso, perché a volte sullo stesso difetto possono incidere
diversi fattori, oppure svariate cause, a volte opposte, possono provocare simile
difetto. Per cui non è possibile descrivere in queste pagine tutti i difetti che
possono manifestarsi, e le loro eventuali cause, ma viene proposta una selezione
dei casi più comuni.
1 SE È INSIPIDO.
RIMEDI
In questo caso avviene la frattura della maglia glutinica con dispersione del gas,
che porta all’appiattimento della forma, e quindi al peggioramento
dell’alveolatura, che rimane meno soffice, quindi più compatta e umida, con gli
alveoli sono allungati orizzontalmente. Se continua ancora, la lievitazione
protratta porta al “collasso” della forma. Inoltre, i lieviti “lavorando” troppo,
esauriscono gli zuccheri dell’impasto, e in mancanza degli zuccheri la colorazione
della crosta rimane più chiara. L’eccesso di lievitazione non è sempre causato da
un tempo troppo lungo della lievitazione finale, ma può dipendere dalla temperatura
della lievitazione troppo alta, da un impasto troppo caldo o con più lievito
nell’impasto, oppure contenente pasta di riporto o biga troppo mature.
RIMEDI
ESEMPI PRATICI
Il prodotto rimane più piatto, di colorazione più chiara del dovuto, la mollica ha
degli alveoli allargati orizzontalmente.
Se un prodotto con una lievitazione eccessiva non viene subito infornato, collassa,
perché la struttura non riesce a trattenere il gas (l’anidride carbonica) prodotto
con la lievitazione: in un caso del genere la crosta superiore presenta un
cedimento centrale (foto qui sotto).
3 SE HA SAPORE DI LIEVITO.
RIMEDI
RIMEDI
Se la causa del difetto è la temperatura dell’impasto troppo alta, allora bisogna
abbassare la temperatura dell’acqua nell’impasto, eventualmente diminuire il tempo
dell’impasto, abbassare la temperatura della fermentazione. Se la causa è l’impasto
troppo lungo, allora bisogna diminuire i tempi dell’impasto, effettuare le pieghe1
a metà della fermentazione, cercando così di “ricostruire” la maglia glutinica.
ESEMPI PRATICI
I difetti dovuti all’impasto troppo caldo sul prodotto “ciabatta” sono dovuti
all’eccessiva temperatura (32 °C, invece di 27-28 °C): l’impasto si presenta più
molle e con una maglia glutinica disgregata.
L’impasto non è più “incordato”, non cresce bene nel mastello e rimane molle.
Una volta rovesciato il mastello, si allarga sul tavolo. La formatura risulta assai
difficoltosa, dopo la lievitazione le forme sono molto allargate e deboli: non è
possibile infornarli.
RIMEDI
Correggere la consistenza, aggiungendo della farina durante l’impasto (ovviamente è
consigliabile aggiungere l’acqua poco alla volta per evitare di aggiungere farina).
Aumentare il tempo di impasto e di puntata (prima fermentazione) e diminuire il
tempo e la temperatura della lievitazione finale.
Sembra strano, ma a volte nei panifici capita che il sale viene aggiunto due volte,
specialmente se l’impasto è seguito da più persone.
Il pane è troppo salato, la mollica è poco porosa e ruvida (le pareti degli alveoli
sono consistenti), il prodotto non è voluminoso, possono esserci degli strappi
sulla superficie, la crosta del prodotto è più scura del normale (l’eccesso di sale
ha rallentato troppo il lievito e gli zuccheri non sono stati consumati a
sufficienza, rimanendo in quantità eccessiva nel momento della cottura).
RIMEDIO
In questo caso la lievitazione finale delle forme è più lenta, per cui, se non
viene aumentato il tempo per la lievitazione finale il prodotto finito ha il volume
insufficiente, la mollica rimane compatta e non sviluppata, possono esserci degli
strappi sulla superficie, la crosta rimane più scura.
RIMEDI
RIMEDI
Potrebbe essere stato messo nell’impasto troppo poco lievito o lievito deteriorato.
RIMEDI
In questo caso l’alveolatura può essere irregolare, ma con gli alveoli rotondi, la
mollica del prodotto risulta più pesante e più umida e la crosta è più rossa del
dovuto, a volte può avere degli strappi superficiali, con la fuoriuscita della
mollica.
RIMEDI
ESEMPI PRATICI
Un prodotto come “pane in cassetta” realizzato con una farina debole, e con una
scarsa lievitazione presenta degli strati superficiali laterali.
IL PRODOTTO HA UNA FORMA PIÙ PIATTA RISPETTO AL SOLITO, SCARSO SVILUPPO, MOLLICA
PIÙ PESANTE E UNA CROSTA DI COLORAZIONE PIÙ ROSSA RISPETTO AL SOLITO
L’impasto risulta ancora non formato e ha una maglia glutinica debole, quindi la
ritenzione di gas da parte dell’impasto è più scarsa e le forme lievitando non
aumentano molto di volume e si afflosciano. Il prodotto finito risulta di volume
non molto alto, ha la mollica compatta, poco sviluppata e umida, la sua forma è
lievemente appiattita e la crosta di colorazione più rossa (perché a causa della
temperatura più bassa del dovuto i lieviti hanno funzionato di meno, lasciando più
zuccheri non consumati nel momento della cottura). In caso di impasti molli possono
apparire anche delle bolle immediatamente sotto la crosta.
RIMEDI
ESEMPI PRATICI
Il prodotto cotto rimane meno sviluppato, le forme possono essere o più piatte
oppure avere tendenza a svilupparsi maggiormente verso l’alto, ma rimangono
comunque meno aperte e più “legate”, la crosta è meno fine ed è più ruvida.
Una “rosetta soffiata” realizzata con un impasto troppo freddo ha uno sviluppo
minore, una forma più piatta e larga alla base e una crosta più rossa.
Con scarsa puntata si intende l’impasto non fermentato a sufficienza ovvero per un
tempo insufficiente, oppure perché è stato lasciato a fermentare in un luogo troppo
freddo. Ogni prodotto ha il suo tempo necessario di puntata, dipende dalla
tipologia e dalla quantità di lievito utilizzata: la puntata può essere nulla (per
tipi di pane come prodotti di pasta dura) o, viceversa, durare molte ore (per i
prodotti di lunga fermentazione). Generalmente gli impasti asciutti puntano prima e
gli impasti molli hanno bisogno di puntare per più tempo. Al contrario, per quanto
riguarda la lievitazione finale, le forme degli impasti asciutti lievitano per più
tempo e quelle da impasti molli per un tempo inferiore. Durante la puntata il
glutine completa la sua formazione, avvengono i processi enzimatici e fermentativi.
Se non lasciamo puntare l’impasto per il tempo necessario, troviamo la sua
consistenza meno forte e quindi il prodotto avrà una capacità di ritenzione del gas
inferiore, la struttura del prodotto cede sotto la pressione di CO2, creata dai
lieviti, generando i prodotti con volume più scarso, e con uno sviluppo
insufficiente nel forno. Anche la crosta superiore avrà una colorazione più scura a
causa degli zuccheri non consumati a sufficienza dai lieviti.
RIMEDI
Inoltre il prodotto potrebbe presentare anche delle bolle grosse al centro della
mollica oppure avere le cavità immediatamente sotto la crosta.
RIMEDI
RIMEDI
Quando una farina è macinata più fine, l’amido rimane più danneggiato e la sua
capacità di assorbire acqua aumenta. Ma se la macinazione è estremamente fine,
allora l’amido inizialmente assorbe l’acqua nell’impasto, ma poi non la trattiene e
la rilascia. Questa, durante la cottura migra nella mollica, generando o le cavità
sotto la crosta (in caso di una temperatura di infornamento elevata) oppure
“l’osso”, cioè la parte compatta vicino alla crosta inferiore del prodotto (in caso
di infornamento a una temperatura più bassa del dovuto). Inoltre quando l’amido è
più danneggiato, risulta più attaccabile dagli enzimi amilasi, quindi la sua
trasformazione in zuccheri è più rapida, da cui ne deriva una più marcata
liquefazione dell’impasto e l’esubero degli zuccheri. Il prodotto finito ha una
forma più piatta, una mollica irregolare e una crosta più scura.
RIMEDI
Quando viene utilizzata una farina troppo debole oppure a causa di un impasto
troppo freddo oppure per una puntata (prima fermentazione) troppo scarsa. In questo
ultimo caso l’impasto non acquista “forza” e genera i prodotti di volume
insufficiente, con uno sviluppo più scarso e con una forma più piatta.
La farina utilizzata è troppo estensibile.
Spesso si sentono i commenti dai panificatori che prediligono “una farina morbida”.
Ma in realtà si confondono i termini “elasticità” ed “estensibilità”. Per avere un
buono sviluppo, la farina deve essere elastica ed equilibrata (avere le buone
proprietà viscoso-elastiche), non deve essere né troppo “morbida” né troppo
“rigida”. Al contrario di quanto si crede, la farina estremamente morbida non
produce buoni risultati in panificazione. Pani preparati con l’utilizzo delle
farine troppo estensibili hanno uno sviluppo più scarso e una forma più piatta. Se
vengono tagliati prima di infornare, i tagli hanno tendenza a non aprirsi, ma ad
allargarsi. Se si tratta di un prodotto soggetto a un alto sviluppo nel forno (come
per esempio la rosetta soffiata), questo rimane meno voluminoso e ha una forma più
piatta (con la base larga e la punta stretta, in gergo si dice “a pera”). Inoltre,
le farine troppo “morbide” risultano più deboli e quindi richiedono spesso
l’utilizzo dei miglioratori per equilibrare gli impasti.
IL DISTACCO DELLA CROSTA DALLA MOLLICA, CON GROSSA BOLLA D’ARIA IMMEDIATAMENTE
SOTTO LA CROSTA
Un impasto debole.
Perché il tempo di impasto è insufficiente, oppure è più freddo del dovuto, oppure
ha una puntata scarsa, oppure è stato preparato con una biga poco matura.
RIMEDI
Impastare per il tempo necessario, avere l’impasto con una giusta temperatura,
lasciare maturare la biga per più tempo e raggiungere la sua temperatura adeguata.
L’acidità dell’impasto non è corretta: l’impasto poco maturo, una scarsa acidità
nell’impasto.
RIMEDI
RIMEDI
Non usare il malto nell’impasto, aumentare l’acidità nell’impasto, aggiungendo
biga, pasta di riporto oppure il lievito madre. Inoltre controllare la temperatura
e l’umidità del luogo in cui viene conservata la farina.
Una farina troppo fresca (subito dopo la macinazione, non lasciata maturare) si
comporta come una farina debole. Qualsiasi farina subito dopo la macinazione deve
essere lasciata a maturare per un certo periodo, che dipende dalle caratteristiche
di partenza della farina e dalla stagione: è più breve d’estate e può essere più
lungo d’inverno. Le farine troppo fresche, essendo ancora deboli, non hanno buone
capacità di assorbire e di trattenere i liquidi dell’impasto e il gas prodotto con
la fermentazione dei lieviti. Per cui i prodotti finiti hanno un volume inferiore,
una forma più piatta e un’alveolatura irregolare, cioè presentare grosse cavità al
centro oppure le bolle immediatamente sotto la crosta.
RIMEDI
Lasciare maturare la farina (nel caso di una farina troppo fresca) oppure aumentare
l’acidità dell’impasto, inoltre rinforzare la struttura dell’impasto effettuando le
“pieghe” oppure schiacciando l’impasto durante la fermentazione.
Il prodotto è stato infornato troppo precoce con una temperatura troppo alta del
forno (soprattutto con temperatura della platea più alta del necessario)
RIMEDI
Il difetto è presente soprattutto nei pani di grosso formato e può essere causato
da alcuni aspetti.
Prodotto da una farina debole, oppure avente la temperatura più fredda del
necessario, o impastato per poco tempo.
RIMEDI
Controllare che l’impasto non sia freddo, che sia forte e sufficientemente maturo
(aumentare l’acidità dell’impasto e il grado di maturazione), diminuire la quantità
di acqua nell’impasto, controllare inoltre i parametri di cottura.
Una lievitazione delle forme troppo “spinta” (condotta in breve tempo alle
temperature elevate, a volte anche con eccessivo tasso d’umidità nella cella di
lievitazione).
RIMEDI
RIMEDI
A causa di temperatura troppo bassa nel forno a volte il prodotto finito può essere
piatto (se avviene il “collasso” dell’impasto) o altrimenti può avere il volume
troppo alto (specialmente per il pane in cassetta). La crosta del prodotto è troppo
chiara, è più dura. Il prodotto è mal cotto o secco a causa di troppa permanenza
nel forno.
RIMEDI
Quando si lavora negli ambienti più caldi, bisogna ridurre la quantità di lievito e
il tempo di puntata. Se invece lasciamo a puntare gli impasti per il solito tempo,
essi acquistano “più forza” del necessario e quindi il prodotto finito risulta
sviluppato, ma ha una crosta troppo vitrea e un invecchiamento precoce. Si hanno
delle difficoltà nella formatura, perché l’impasto presenta troppe bolle e le forme
risultano strappate.
RIMEDI
Ridurre il tempo di puntata, partire con l’impasto più freddo (con la corretta
temperatura).
Si manifesta quando viene utilizzata una farina troppo forte o perché viene
aggiunto il miglioratore in quantità superiore al necessario. Se la farina ha già
una buona forza non serve aggiungere il miglioratore altrimenti si ottengono dei
difetti; inoltre, il prodotto perde sapore per troppo sviluppo e quindi si avrà
un’eccessiva asciugatura durante la cottura. L’eccesso di forza potrebbe anche
causare lo sbriciolamento della crosta superiore a causa dell’eccessivo sviluppo e
un assottigliamento durante la cottura.
RIMEDI
Utilizzare una farina meno forte, tagliarla con una farina più debole, diminuire la
temperatura dell’impasto, aumentare l’acqua nell’impasto (per indebolirlo), non
utilizzare il miglioratore o almeno ridurre la sua quantità.
RIMEDI
RIMEDI
Quando nella camera di cottura c’è troppo vapore, il prodotto rimane più piatto e
più largo, ha la superficie estremamente lucida, di una colorazione eccessiva,
estremamente sottile e fragile, con delle screpolature.
RIMEDI
Ridurre il vapore nella camera di cottura, aprire il tiraggio verso la fine della
cottura per agevolare la fuoriuscita di umidità residua dalla camera di cottura,
moderare l’umidità nella cella di lievitazione. Eventualmente togliere il prodotto
dalla cella qualche minuto prima.
RIMEDI
In questo caso la colorazione della crosta è più rossa del dovuto, la forma è
compatta ed è meno sviluppata, possono presentarsi anche degli strappi laterali.
RIMEDI
RIMEDI
RIMEDI
Aumentare l’umidità nella cella di lievitazione, dare più vapore nella camera di
cottura.
L’etichetta nutrizionale
“Siamo quello che mangiamo” dice un vecchio detto. Ma conosciamo davvero le basi
della sana nutrizione? Per scegliere al meglio i cibi delle nostra dieta è
necessario attenerci ai principi fondamentali di una corretta ed equilibrata
alimentazione.
Il materiale di questo capitolo è in parte estratto dalle linee guida del Ministero
della Salute, dalle linee guida dello Sportello Europa presse le Camere di
commercio piemontesi e italiane, dalle leggi e regolamenti UE e le normative del
settore.
LA PIRAMIDE ALIMENTARE
frutta e verdura;
latte e derivati;
Ogni alimento di ciascun gruppo fornisce alcuni nutrienti, ma non tutti, per cui è
necessario comporre la dieta utilizzando più alimenti.
Nessun gruppo è più importante di un altro. Solo l’ultimo (snack, dolci ecc.) può
essere considerato superfluo.
È molto importante variare spesso i cibi e mantenere uno stile di vita attivo (non
sedentario). Nessun alimento (salvo intolleranze e allergie) va eliminato dalla
dieta ma consumato con moderazione all’interno di un regime equilibrato e variato
al fine di soddisfare il bilancio energetico e nutrizionale.
Il bilancio energetico della dieta giornaliera varia in base all’età della persona,
dal sesso, dall’attività che svolge, dalla costituzione e dagli altri fattori.
Grassi totali 70 g
Carboidrati 260 g
Zuccheri 90 g
Proteine 50 g
Sale 6 g
I CARBOIDRATI (GLUCIDI)
Fonti di carboidrati complessi sono soprattutto: pane, pasta, patate, riso ecc.
Questi alimenti non devono mancare in una dieta equilibrata.
LE PROTEINE
Sono la parte strutturale delle cellule e dei tessuti, comprese le cellule del
sistema nervoso, e sono indispensabili per l’assimilazione nell’organismo delle
vitamine liposolubili come la vitamina A e la vitamina D. La mancanza di grassi
nella dieta può provocare una serie di disfunzioni nell’organismo umano: nel
sistema nervoso, nel sistema immunitario, nella funzione dei reni, degli occhi e
altri. Ma anche l’eccesso di grassi può avere degli effetti negativi ai danni
dell’apparato cadiovascolare.
I SALI MINERALI
Non apportano calorie, ma sono indispensabili nella dieta, perché partecipano nei
processi biochimici. Calcio, fosforo e magnesio consentono la sintesi e il
funzionamento normale dei tessuti dello scheletro. Ferro e rame regolano il
trasporto dell’ossigeno dai tessuti. Sodio e potassio aiutano nell’osmosi delle
cellule e del sangue. Il cloro serve per la formazione dei succhi gastrici. Il
cobalto fa parte della vitamina B12. Lo iodio serve per un corretto funzionamento
della tiroide. La carenza dei sali minerali nella dieta ha effetti negativi per
l’organismo umano, ma anche il loro eccesso non è raccomandato. Per esempio, troppo
sale da cucina (cloruro di sodio) ha degli effetti negativi sul funzionamento del
cuore e dei reni.
LE VITAMINE
L’ETICHETTA NUTRIZIONALE
Ormai gran parte dei consumatori legge l’etichetta del prodotto prima di effettuare
l’acquisto. È una buona abitudine, perché ci permette di scegliere il prodotto in
modo più consapevole, tenendo conto delle calorie e dei nutrienti ed evidenziando
tutti i possibili allergeni. Le etichette nutrizionali ci permettono di scegliere
nel momento dell’acquisto il prodotto migliore, ma anche per conservare, manipolare
e consumare gli alimenti adeguatamente, così da evitare rischi per la salute.
Va ricordato però, che non ci sono “buoni” o “cattivi” alimenti, ma è vero che ci
sono buone o cattive abitudini alimentari.
Cereali contenenti glutine: grano, segale, orzo, avena, farro, kamut o i loro ceppi
ibridati e prodotti derivati, tranne: a) sciroppi di glucosio a base di grano,
incluso destrosio; b) maltodestrine a base di grano.
Frutta a guscio: mandorle, nocciole, noci, noci di acagiù, noci di pecan, noci del
Brasile, pistacchi, noci macadamia o noci del Queensland, e i loro prodotti, tranne
per la frutta a guscio utilizzata per la fabbricazione di distillati alcolici,
incluso l’alcol etilico di origine agricola.
DICHIARAZIONE NUTRIZIONALE
valore energetico;
grassi;
carboidrati;
zuccheri;
proteine;
sale.
Dal D.Lgs. 109/1992 (art. 5 comma 1): «Per ingrediente si intende qualsiasi
sostanza, compresi gli additivi, utilizzata nella fabbricazione o nella
preparazione di un prodotto alimentare, ancora presente nel prodotto finito, anche
se in forma modificata».
Quindi, qualora una sostanza utilizzata nel processo produttivo risulti assente nel
prodotto finito, questa non è considerata ingrediente e, perciò, non deve essere
inserita nell’elenco degli ingredienti. Un ingrediente che si presenti nel prodotto
finito in una forma modificata per caratteristiche, composizione o altro, deve
essere menzionato con il nome con cui era identificato al momento della
preparazione dell’alimento (per esempio, se un prodotto da forno è stato preparato
con yogurt, una volta cotto lo yogurt non conterrà dei fermenti lattici vivi, ma
nell’elenco degli ingredienti esso sarà indicato con la menzione “yogurt”).
Dal Reg. (UE) 1169/2011 (allegato VII) “Acqua aggiunta e ingredienti volatili sono
indicati nell’elenco in funzione del loro peso nel prodotto finito. La quantità
d’acqua aggiunta come ingrediente in un alimento è determinata sottraendo dalla
quantità totale del prodotto finito la quantità totale degli altri ingredienti
utilizzati. Questa quantità può non essere presa in considerazione se, in termini
di peso, non supera il 5% del prodotto finito”.
L’acqua aggiunta, inoltre, può non essere menzionata qualora il suo peso nel
prodotto finito sia inferiore al 5% (art. 5, comma 4). La regola del 5% non si
applica agli altri ingredienti volatili diversi dall’acqua (vino ecc.).
2 Fatto salvo l’articolo 21, l’elenco degli ingredienti previsto per gli
ingredienti composti non è obbligatorio:
B per gli ingredienti composti che consistono in miscele di spezie e/o di piante
aromatiche che costituiscono meno del 2% del prodotto finito, ad eccezione degli
additivi alimentari, fatto salvo l’articolo 20, lettere da a) a d);
Elenco degli ingredienti Farina di frumento, uova, uva passa, burro, zucchero,
latte..., cioccolato al latte (zucchero, burro di cacao, latte magro in polvere,
pasta di cacao, emulsionante lecitina di soia)
Nell’elenco degli ingredienti essi “devono essere designati con il nome della loro
categoria seguito dal loro nome specifico o dal relativo numero CE. Qualora un
ingrediente appartenga a più categorie, deve essere indicata la categoria
corrispondente alla funzione principale che esso svolge nel prodotto finito” (per
esempio, si può indicare “Conservante E200 oppure Conservante acido sorbico”).
Distinguiamo due indicazioni che possiamo trovare sulla confezione del prodotto.
Data di scadenza: nel caso di prodotti molto deperibili, la data è preceduta dalla
dicitura “Da consumare entro il...” che rappresenta il limite oltre il quale il
prodotto non deve essere consumato.
Termine minimo di conservazione (TMC): nel caso di alimenti che possono essere
conservati più a lungo si troverà la dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro
il...” che indica che il prodotto, oltre la data riportata, può aver modificato
alcune caratteristiche organolettiche come il sapore e l’odore ma può essere
consumato senza rischi per la salute.
Conoscere la differenza tra data di scadenza e TMC può essere utile per evitare che
un prodotto venga gettato quando ancora commestibile, riducendo gli sprechi.
4 I valori dichiarati sono valori medi stabiliti, a seconda dei casi, sulla base:
b del calcolo effettuato a partire dai valori medi noti o effettivi relativi agli
ingredienti utilizzati;
Dal punto di vista pratico per stabilire i valori medi nutrizionali possiamo
attenerci ai siti ufficialmente riconosciuti (per esempio INRAN, EFSA, USDA ecc.),
non siamo obbligati ad analizzare il prodotto (vedi Art. 31).
Impasto: 10 kg di farina di frumento tenero tipo 00, 5,2 l di acqua, 200 g di sale,
200 g di lievito compresso, 100 g di malto. Peso prodotto cotto: 9,91 kg.
Per effettuare questo calcolo il peso del prodotto deve essere molto preciso
(ovviamente si considera il prodotto raffreddato e non appena sfornato).
1 Primo passaggio
Teniamo conto soltanto delle sostanze che apportano l’energia oppure dei valori che
dobbiamo indicare sull’etichetta, acqua non consideriamo. Facciamo proporzione: se
per produrre i 9,91 kg di grissini all’acqua noi abbiamo utilizzato 10 kg di
farina, 200 g di sale, 200 g di lievito compresso, 100 g di malto, quanti
ingredienti avremo utilizzato per produrre 100 g di prodotto cotto?
Risultano rispettivamente:
Non è un dato errato. Teniamo sempre da conto l’umidità media dei grissini (l’8%),
inferiore alla farina (15%).
Stessi conti facciamo anche per altri ingredienti e quindi troveremo che per fare i
100 g di grissini all’acqua, noi utilizziamo 100,9 g di farina, 2 g di sale, 2 g di
lievito compresso e 1 g di malto.
2 Secondo passaggio
E per 1 g di malto: 0,11 g di proteine, 0,02 g lipidi, 0,5 g di carboidrati (di cui
0,5 g di zuccheri).
3 Terzo passaggio
Quindi ci risultano i seguenti valori: 0,9 g di grassi (acidi grassi saturi 0,1),
79 g di carboidrati (di cui 2,0 g di zuccheri), 2,4 g di fibre, 9,8 g di proteine,
2 g di sale.
Basandoci sui valori di kcal indicati dall’allegato XIV del Reg. UE 1169/2011 (pag.
149) moltiplichiamo il valore dei carboidrati e delle proteine × 4 per ottenere le
Kcal, mentre dobbiamo moltiplicare × 17 per ottenere le KJ. Il valore dei grassi va
moltiplicato × 9 per ottenere il valore in Kcal, mentre × 37 per ottenere il valore
in KJ. Il valore della fibra va moltiplicato × 2 per ottenere il valore in Kcal, e
rispettivamente × 8 per ottenere il valore in KJ. Tutti i dati vengono riportati in
tabella (vedi sotto), con la specifica che sono i valori medi riferiti per 100 g di
prodotto; seguendo lo stesso ordine: grassi, di cui acidi grassi saturi,
carboidrati, di cui zuccheri, fibre, proteine e sale.
di cui:
carboidrati/carbohydrate (g) 79
di cui:
sale/salt (g) 2
Le
ricette
Nelle prossime pagine potrete trovare una serie di ricette riproducibili anche a
casa.
Dalle baghette ai filoni, dai pani con lievito madre a quelli con biga e poolish.
Una quarantina di preparazioni naturali per mettersi alla prova e realizzare pani
di alta qualità.
1.500 g di acqua
15 g di malto in polvere
15 g di lievito compresso
60 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Lasciate puntare per un’ora e mezza, poi spezzate del peso di 330 g (step 1).
Formate a filone corto senza stringere molto (step 2) e dopo circa 10-15 minuti
allungate a 60 cm (step 3 e 4).
Lasciate lievitare per un’ora e mezza circa a una temperatura ambiente di 24 °C
nelle tele disposte a ventaglio e coperte.
Infornate con vapore a 240 °C. Aprite il tiraggio nei 5 minuti finali della
cottura.
INGREDIENTI
625 g di lievito madre mantenuto in acqua dopo il 2° rinfresco per circa 16 ore a
16-18 °C
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con semola di grano duro, lievito madre, il 55% di acqua e, a
metà impasto, aggiungete il sale e lentamente l’acqua rimasta.
Lasciate riposare l’impasto per circa un’ora e mezza a 27-28 °C, con pezzature
possibilmente superiori a 500 g arrotondate (step 1) e, dopo un riposo di 20
minuti, formate a ciambella (step 2) e posate su tavole infarinate (step 3).
Capovolgete, incidete (step 4) e infornate con vapore a 220-230 °C. Dopo qualche
minuto abbassate la temperatura di 10 °C. Terminate la cottura con tiraggio aperto.
Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base (farina
e acqua al 55%) per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo l’autolisi, di circa 30 minuti,
riprendete l’impastamento in 2a velocità aggiungendo gli altri ingredienti e
l’acqua rimasta. Questo metodo è particolarmente raccomandato per la panificazione
con lievito madre. I benefici sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta
(che diventa liscia più velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una
formatura più agevole, un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore
sofficità della mollica.
TEMPI DI IMPASTO
biga
TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
Impastatrice tuffante:
25-26 °C
TEMPO DI COTTURA
Spezzate il resto dell’impasto del peso desiderato (si consiglia una pezzatura di
350-400 g) arrotondate i pezzi, deponeteli sulle forme ritagliate e lasciateli
lievitare per circa 50 minuti a una temperatura di 27-28 °C.
Capovolgete i pezzi, spolverateli con farina di segale e infornate con vapore a una
temperatura di 220-230 °C.
FILONE CAMPAGNOLO
340 g di acqua
5 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
50 g di lievito compresso
1.500 g di acqua
125 g di yogurt naturale
42,5 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Spezzate del peso desiderato, arrotondate e dopo qualche minuto allungate a filone.
Ponete su tavole infarinate con farina di segale e chiusura rivolta verso l’alto.
Con una lama incidete tre volte a croce (come da foto, a destra. In alternativa,
potete realizzare una decorazione, come il filone a sinistra della foto). Infornate
con vapore a una temperatura di 230 °C e, dopo 10 minuti, diminuite la temperatura
di 10 °C. Terminate la cottura con valvola aperta.
350 g di acqua
2,5 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
1° impasto
2.000 g di farina 1
2.000 g di acqua
15 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27-28 °C
TEMPO DI COTTURA
circa 45 minuti
Spezzate e formate delle pagnottelle da 200 grammi. Dopo qualche minuto avvolgetele
una seconda volta, accostate 3 pagnottelle e ponetele su tavole infarinate.
PANE PREALPINO
15 g di lievito compresso
1.500 g di acqua
50 g di farina di monococco
poolish
2.000 g di acqua
25 g di malto in polvere
20 g di lievito compresso
100 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
30-35 minuti per pezzi da 300 g
Iniziate l’impasto con poolish, farine, malto, lievito e l’80% di acqua. A metà
impasto aggiungete l’acqua mancante e il sale.
Lasciate puntare l’impasto per circa un’ora e mezza, spezzate del peso di 300 g o
del peso desiderato e arrotondate.
Ponete a lievitare per circa un’ora e 10 minuti a una temperatura di 27-28 °C (step
4).
TEMPI DI IMPASTO
biga
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25-26 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 12-14 ore a 17-20 °C.
Impastate poi la biga e gli altri ingredienti, tranne il sale che verrà aggiunto a
metà impasto (step 1).
Spezzate del peso desiderato (pezzatura consigliata 300 g), formate prima a
pagnotta e dopo qualche minuto a filone (step 2) e successivamente schiacciate il
filone formandone uno lungo e uno più corto (step 3 e 4).
INGREDIENTI
27,5 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
Il pane di campagna si adatta a ogni piatto con o senza sughi (carni, selvaggina,
pollame, pesce, salumi) e con formaggi di ogni regione. Può anche essere consumato
a fette tostate per la prima colazione.
Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base (farina
e acqua al 55%) per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo l’autolisi, di circa 30 minuti,
riprendete l’impastamento in 2a velocità aggiungendo gli altri ingredienti e
l’acqua rimasta. Questo metodo è particolarmente raccomandato per la panificazione
con lievito madre. I benefici sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta
(che diventa liscia più velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una
formatura più agevole, un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore
sofficità della mollica.
Ponete su tavole infarinate con chiusura rivolta verso l’alto e lasciate lievitare
per circa un’ora e mezza in cella a 27 °C.
INGREDIENTI
1.650 g di farina W 300 P/L 0,55
65 g di lievito compresso
500 g di acqua
300 g di latte
150 g di burro
2 uova
40 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Questo pane è molto gradito a colazione perché permette di fare il pieno di energia
prima di iniziare la giornata. Accompagna anche a meraviglia le selvaggine in salsa
e il cinghiale in salsa ai fichi.
Iniziate l’impasto con farina, farina di teff, farina di castagne, lievito, acqua,
latte e burro. A metà impasto aggiungete la pasta di riporto, le uova e il sale. A
impasto ultimato incorporate le noci, le nocciole e i cubetti di albicocche.
Impastate ancora per qualche minuto lentamente. Lasciate riposare l’impasto per
circa 30 minuti. Spezzate dei pezzi da 50 g e arrotondateli stringendo molto bene.
300 g di acqua
1,25 g di sale
poolish
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27 °C
TEMPO DI COTTURA
Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base (farina
e acqua al 55%) per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo l’autolisi, di minimo 30
minuti, riprendete l’impastamento in 2a velocità, aggiungete il poolish, il sale e
l’acqua rimasta. Questo metodo è particolarmente raccomandato per la panificazione
con lievito naturale. I benefici sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta
(che diventa liscia più velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una
formatura più agevole, un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore
sofficità della mollica.
900 g di acqua
20 g di lievito compresso
biga
600 g di acqua
20 g di malto in polvere
48 g di sale
5 g di lievito compresso
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con biga, farina, malto, lievito compresso e una parte di acqua.
A metà impasto aggiungete il sale e lentamente l’acqua rimasta.
50 g di malto disattivato
impasto a caldo
25 g di lievito compresso
1.150 g di acqua
15 g di malto in polvere
60 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate a lavorare l’impasto a caldo con farina di segale, farina di grano tenero,
malto. lievito compresso, lievito madre di segale e un litro di acqua. A metà
impasto aggiungete l’acqua mancante e il sale.
Capovolgete e infornate con vapore a una temperatura di 230 °C. Dopo 4 minuti
aprite il tiraggio e tenetelo aperto per 5 minuti. Chiudetelo e dopo circa 5 minuti
date ancora vapore. E dopo circa 10 minuti date ancora vapore.
Questa operazione serve per avere la crosta più sottile. Aprite il tiraggio negli
ultimi minuti di cottura.
INGREDIENTI
1.100 g di acqua
80 g di burro
20 g di malto disattivato
10 g di malto in polvere
36 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27 °C
TEMPO DI COTTURA
40-45 minuti
Iniziate l’impasto con le farine, un litro di acqua, i due lieviti madre, il malto
disattivato, il malto in polvere e, a metà impasto aggiungete l’acqua mancante, il
sale e, successivamente il burro.
Terminato l’impasto incorporate l’uva passa. Lasciate riposare l’impasto per circa
2 ore e 30 minuti in cella di lievitazione con temperatura di 28-30 °C.
Dopo qualche minuto abbassate la temperatura a 200 °C. Terminate la cottura con
tiraggio aperto.
INGREDIENTI
2 l di acqua (67%)
60 g di sale (2%)
Oppure
2.700 g di farina W 280 P/L 0,55
2 l di acqua (67%)
60 g di sale (2%/)
26 °C
TEMPO DI COTTURA
Miscelate per 5-6 minuti in 1a velocità la farina e il 55% di acqua (1,650 l).
Lasciate lievitare per circa 20 ore a una temperatura di 25-26 °C, date una piega
in quattro e dopo un riposo di 30 minuti piegate ancora in quattro.
Lasciate puntare per circa 40-50 minuti. Spezzate del peso desiderato, formate a
filone, posate su tavole infarinate con chiusura rivolta verso l’alto.
Lasciate lievitare per circa un’ora a una temperatura di 27-28 °C. Capovolgete,
tagliate in senso longitudinale o con due tagli e infornate con vapore a una
temperatura di 220-230 °C.
500 g di latte
75 g di lievito compresso
100 g di burro
70 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Per la miscela, versate l’acqua bollente sulla farina e sui fiocchi, miscelate
senza formare grumi. Lasciate raffreddare completamente in frigorifero a 5 °C.
Cuocete in forno mediamente caldo a 200 °C con vapore. Aprite la valvola dopo 10
minuti e finite di cuocere dorato.
1.200 g di acqua
poolish
2.200 g di farina 1
700 g di acqua
50 g di lievito compresso
10 g di malto in polvere
70 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con poolish, le farine, acqua, lievito e malto. A metà impasto
aggiungete la miscela di semi di chia, i fiocchi d’orzo sbollentati, l’olio e
successivamente il sale.
Lasciare puntare l’impasto 45-50 minuti, poi spezzate da 400 g o del peso
desiderato.
Arrotondate i pezzi (step 1), e dopo circa 20 minuti, allungateli a filone senza
stringere molto (step 2).
Dopo un breve riposo, premete i filoni con una bacchetta di metallo una volta nel
senso della lunghezza (step 3) e cinque volte nel senso della larghezza, in base
alla lunghezza del filone (step 4).
Spolverate con farina di frumento (step 5) e infornate con leggero vapore a 220 °C.
Terminate la cottura con tiraggio aperto.
PANE AL MIELE
90 g di acqua (45%)
TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
4 minuti in 1a velocità
Impastatrice tuffante:
4 minuti in 1a velocità
Impastatrice a forcella:
5 minuti in 1a velocità
biga
600 g di acqua
50 g di lievito compresso
25 g di sale
130 g di miele
130 g di zucchero
70 g di burro
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 18-22 ore a una
temperatura di 17-20 °C.
Lasciate riposare l’impasto per 35-40 minuti, spezzate del peso desiderato e
formate a filone corto.
Dopo qualche minuto allungate i filoni (step 1), intrecciateli a due (step 2 e 3),
lucidateli con uovo (step 4) e passateli nella granella di nocciole (step 5).
Infornate con vapore a una temperatura di 210 °C, aprendo il tiraggio nei 5 minuti
finali di cottura.
INGREDIENTI
1.800 g di farina W 320 P/L 0,55
70 g di lievito compresso
1.300 g di acqua
50 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
Lasciate puntare l’impasto per circa 30-40 minuti, spezzate del peso desiderato e
avvolgete posando i pezzi su tavole con chiusura rivolta verso il basso.
Dopo circa 20 minuti tagliate partendo dalla metà, girate una metà nel senso
opposto, posate su teglie o telai e mettete a lievitare in cella con una
temperatura di 27-28 °C per circa 25-30 minuti.
Infornate con vapore a 220 °C. Terminate la cottura a tiraggio aperto per i pezzi
non di piccolo formato.
500 g di acqua
15 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
IMPASTO FINALE
1.150 g di acqua
15 g di malto in polvere
1° impasto
33 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate il 1° impasto con gli ingredienti. Lasciate lievitare 16-18 ore da una
temperatura finale impasto 19-20 °C.
Iniziate l’impasto con farina, 80% di acqua e malto. A metà impasto aggiungete il
1° impasto, il sale e lentamente la rimanente acqua.
Spezzate (si consigliano pezzature da 300 g), lasciate riposare per circa 15-20
minuti e date la forma definitiva a filone attorcigliato.
INGREDIENTI
45 g di sale (2,2%)
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
24 °C
TEMPO DI COTTURA
Spezzate del peso desiderato e arrotondate senza stringere molto. Dopo circa 10
minuti allungate a filone e ponete su tavole infarinate (facoltativo) con chiusura
rivolta verso il basso.
Infornate a una temperatura di 230 °C con vapore. Terminate la cottura con valvola
aperta.
TERRINA DI SEGALE
30 g di lievito compresso
TEMPI DI IMPASTO
900 g di farina 1
1.800 g di acqua
70 g di lievito compresso
biga
100 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 6-8 ore a una temperatura
di 18 °C.
Iniziate l’impasto con farina di segale, farina 1, acqua, lievito e a metà impasto
aggiungete la biga e il sale.
Lasciate riposare l’impasto per 30-35 minuti. Suddividete del peso desiderato,
arrotondate a pagnotta e ponete su tavole infarinate con chiusura rivolta verso il
basso.
Utilizzate per servire delle minestre d’orzo, di farro, di cipolle o anche risotti
e zuppe in genere.
INGREDIENTI
1.000 g di acqua
45 g di sale
50 g di lievito compresso
fiocchi d’avena
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25-26 °C
TEMPO DI COTTURA
Impastate tutti gli ingredienti tranne il sale che verrà aggiunto a metà impasto e
500 g di fiocchi d’avena che dovranno essere aggiunti a fine impasto prolungandolo
fino al completo assorbimento dei fiocchi.
600 g di acqua
40 g di lievito compresso
150 g di zucchero
35 g di sale
150 g di burro
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con farina, acqua, pasta di riporto e lievito. A metà impasto
aggiungete il sale, lo zucchero, il burro e la miscela di farina di mais
ammorbidita.
Infornate con leggero vapore a una temperatura di 210 °C. Terminate la cottura a
valvola aperta.
150 g di acqua
450 g di acqua
10 g di lievito compresso
TEMPI DI IMPASTO
biga
TEMPI DI IMPASTO:
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 18-20 ore a 18-20 °C.
A fine impasto incorporate la miscela di semi impastando ancora per qualche minuto.
Lasciate riposare l’impasto per circa 30 minuti, spezzate del peso desiderato e
formate a filone, quindi date la forma definitiva.
Ponete su teglie o telai, lasciate lievitare per circa un’ora a 27-28 °C.
STIRATO RUSTICO
INGREDIENTI PER LA BIGA
TEMPI DI IMPASTO
biga
25 g di malto in polvere
940 g di acqua
55 g di sale
10 g di lievito compresso
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 20-24 ore a 18 °C.
120 g di farina 1
50 g di semi di girasole
50 g di semi di lino
50 g di miglio
50 g di fiocchi d’avena
impasto a caldo
2.000 g di farina 1
5 g di lievito compresso
1.200 g di acqua
40 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
A questo punto incorporate la miscela di semi e impastate ancora per pochi minuti.
Lasciate fermentare per circa 15-17 ore a una temperatura di circa 18-20 °C.
Spezzate del peso desiderato (pezzatura consigliata 500 g). Arrotondate le forme e
dopo qualche minuto formate a filone, ponete negli stampi per pane in cassetta.
Lasciate lievitare per 3 ore circa in cella a una temperatura di 30 °C con 70% UR
(cioè di umidità relativa).
Infornate con vapore a 220 °C, aprite il tiraggio negli ultimi minuti di cottura.
CIABATTA RUSTICA
TEMPI DI IMPASTO
biga
1.500 g di acqua (75% sul totale della farina)
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
27-28 °C
IL TEMPO DI COTTURA
Impastate poi tutti gli ingredienti, compresa la biga, tranne il sale, che verrà
aggiunto a metà impasto e il 20% di acqua che verrà aggiunta lentamente dopo il
sale.
Lasciate riposare l’impasto in un contenitore unto di olio per circa 35-40 minuti.
Tagliate del peso desiderato e sistemate su tavole ben infarinate con la parte del
taglio rivolta verso l’alto.
Infornate con vapore a 240-250 °C. Terminate la cottura con tiraggio aperto.
BIOVE DI SEMOLA
TEMPI DI IMPASTO
500 g di Tumminia
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
impastatrice a forcella:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 14-16 ore a 17-18 °C.
Per il rinfresco, impastate tutti gli ingredienti, compresa la biga, tranne il sale
che verrà aggiunto a metà impasto, e lasciate riposare per 10 minuti.
Dividete l’impasto in pezzi del peso desiderato, allungate a filone e dopo qualche
minuto formate a bocconcino e schiacciate le punte verso l’interno.
Lasciate lievitare per circa 50-60 minuti in tele poste a ventaglio, tagliate a
metà con l’apposito attrezzo e infornate con il taglio rivolto verso l’alto.
INGREDIENTI
50 g di crusca tostata
2 uova
50 g di lievito compresso
25 g di sale
5 g di cannella
180 g di miele
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con farina, crusca, latte, uova e lievito. A metà impasto
aggiungete il sale, lo zucchero, la cannella e la crema di sesamo. Successivamente
il miele.
Quando l’impasto sarà ultimato, incorporate le noci e l’uva passa che avrete messo
a bagno per 30 minuti circa e poi scolato. Impastate ancora per qualche minuto.
Dopo una puntatura di 10-15 minuti, dividete l’impasto del peso adeguato alla
misura degli stampi da plum cake. Formate a filone e posate nelle forme.
375 g di acqua
1.600 g di acqua
75 g di lievito compresso
67,5 g di sale
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Per l’impasto, fate bollire l’acqua, poi versatela sulla farina e miscelate in
planetaria. Ricoprite con pellicola per alimenti e lasciate raffreddare.
Iniziate l’impasto con farina, acqua, lievito e miscela sbollentata. Dopo qualche
minuto unite l’olio e verso la fine aggiungete il sale.
Impastate fino a ottenere un impasto morbido, quindi incorporate i semi di girasole
e miscelateli delicatamente all’impasto.
Lasciate brevemente riposare poi appiattite e pressate con un divisore per torte.
Cuocete in forno mediamente caldo con vapore. A metà cottura aprite il tiraggio e
finite di cuocere.
225 g di acqua
5 g di lievito compresso
TEMPI DI IMPASTO
biga
20 g di lievito compresso
200 g di latte
400 g di acqua
30 g di sale
50 g di idrossido di sodio
1 l di acqua
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
26 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 18-22 ore a una
temperatura di 18 °C.
Iniziate l’impasto con biga, farina, farro, lievito, latte e acqua; a metà impasto
aggiungete il sale.
Lasciate puntare l’impasto per circa 20 minuti poi passatelo al freddo per 30-40
minuti circa.
Immergete i cornetti nella salamoia (step 4), deponete su teglie e cospargete con
sale per Brezel (step 5).
Lasciate lievitare per altri 20 minuti, praticate delle incisioni con una forbice
(step 6) e poi infornate a una temperatura di 230 °C con poco vapore.
TEMPI DI IMPASTO
biga
550 g di acqua
30 g di lievito compresso
10 g di malto in polvere
20 g di sale
50 g di burro
50 g di zucchero
mandorle filettate
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
24-25 °C
TEMPO DI COTTURA
Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare per 18-20 ore a 18 °C.
Spezzate del peso desiderato e formate prima un panetto allungato (step 1); dopo un
riposo di circa 10 minuti appuntite le forme (step 2 e 3).
Lucidate con un uovo (step 4) e passate nelle mandorle filettate (step 5).
Lasciate lievitare in cella a 27-28 °C per circa un’ora e infornate con vapore a
una temperatura di 210 °C.
INGREDIENTI
60 g di lievito compresso
4 uova
500 g di latte
100 g di zucchero
20 g di sale
50 g di burro
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
24 °C
TEMPO DI COTTURA
Spezzate, formate a piacere e ponete su teglie o negli stampi. Dorate con uovo una
prima volta, poi lasciate lievitare per circa 40-50 minuti.
Dorate con uovo una seconda volta e infornate con vapore a 200 °C circa.
INGREDIENTI
300 g di latte
10 g di curry
200 g di uova
40 g di lievito compresso
100 g di zucchero
25 g di sale
200 g di burro
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
TEMPERATURA DI BASE
52 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con farina, latte (nel quale sarà stato sciolto il curry), uova
e lievito. A metà impasto aggiungete lo zucchero, il sale e il burro ammorbidito.
Dopo una puntatura di 10-15 minuti, spezzate del peso adeguato agli stampi che
andrete a utilizzare.
Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo degli stampi, dorate con uovo e
infornate a una temperatura di 190-200 °C con vapore.
INGREDIENTI
400 g di latte
200 g di uova
40 g di lievito compresso
100 g di zucchero
25 g di sale
200 g di burro
50 g di noci tritate
50 g di pistacchi tritati
50 g di arachidi tritate
50 g di mandorle tritate
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
TEMPERATURA DI BASE
52 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con farina, latte, uova e lievito. A metà impasto aggiungete lo
zucchero, il sale e il burro ammorbidito. Successivamente incorporate la frutta
secca. L’impasto finale deve essere liscio ed estensibile.
Dopo una puntatura di 10-15 minuti, spezzate del peso adeguato agli stampi che
utilizzerete, arrotondate i pezzi e lasciateli rilassare per 15 minuti, poi
allungateli a filone e posateli negli stampi per plum cake imburrati oppure formate
delle trecce a tre filoni.
Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo degli stampi, dorate con uovo e
infornate a una temperatura di 190-200 °C con vapore.
INGREDIENTI
150 g di latte
30 g di lievito compresso
20 g di sale
150 g di ricotta
20 g di pepe rosa
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
24 °C
IL TEMPO DI COTTURA
Dopo una puntatura di circa 10 minuti dividete l’impasto del peso adeguato agli
stampi che verranno utilizzati.
Formate a filone e posate negli stampi comprimendo bene per colmare gli angoli.
Lasciate lievitare quasi a raggiungere il bordo dello stampo, poi chiudete con il
coperchio.
INGREDIENTI
200 g di latte
200 g di uova
40 g di lievito compresso
100 g zucchero
25 g di sale
200 g di burro
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
TEMPERATURA DI BASE
52 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con la farina, il latte, le uova, gli spinaci tritati finemente
e il lievito. A metà impasto aggiungete lo zucchero, il sale e il burro morbido.
L’impasto finale deve essere liscio ed estensibile.
Dopo una puntatura di 10-15 minuti, spezzate del peso adeguato agli stampi che
utilizzerete, arrotondate i pezzi e lasciateli rilassare per 15 minuti.
Poi allungateli a filone e posateli negli stampi per plum cake imburrati in
precedenza oppure formate 6 tartine e inseritele negli stampi in modo alternato.
Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo degli stampi, dorate con uovo e
infornate a una temperatura di 190-200 °C con vapore.
PANE SFOGLIATO
INGREDIENTI
500 g di acqua
40 g di lievito compresso
20 g di zucchero
50 g di burro
20 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
Impastatrice tuffante:
23 °C
TEMPO DI COTTURA
20 minuti circa
Con il burro sfogliate una volta a 4 pieghe e una volta a 3 pieghe. Ponete a 4 °C
per circa 30 minuti, quindi stendete a un’altezza di 2 millimetri.
Ritagliate dei rettangoli da 30×20 cm o della lunghezza della teglia (60×20 cm),
pennellate con burro fuso tutta la superficie e poi arrotolate i pezzi stringendo
molto bene.
Ponete in frigorifero per 30 minuti circa, praticate un taglio nel senso della
lunghezza, quindi intrecciate i due pezzi ottenuti. Posateli su teglie ondulate e
passate alla lievitazione in cella a 26 °C per un’ora circa.
INGREDIENTI
500 g di acqua
35 g di lievito compresso
20 g di zucchero
1 uovo
50 g di burro
20 g di sale
10 g di malto disattivato
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
23 °C
TEMPO DI COTTURA
15 minuti
Stendete la pasta a forma di rettangolo e posate il burro sui 2/3 della superficie
della pasta; piegate la in tre ponendo la pasta senza burro al centro e una parte
senza burro sopra.
Sfogliate una volta a quattro e una volta a tre pieghe. Passate al freddo a 4 °C
per circa 20-30 minuti.
INGREDIENTI
900 g di latte
80 g di lievito compresso
10 g di malto in polvere
300 g di burro
300 g di uova
40 g di sale
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
23-24 °C
TEMPO DI COTTURA
Iniziate l’impasto con farina, latte, lievito, malto e uova. A metà impasto
aggiungete il sale e successivamente il burro. Terminato l’impasto dividetelo in
due parti.
Lasciate riposare gli impasti per circa 5-6 minuti, divideteli del peso adeguato
agli stampi.
Dopo circa 15 minuti allungate a filone corto, formate una treccia a 2 filoni (uno
per tipo) e deponete negli stampi.
Lasciate lievitare fino al raggiungimento di 3/4 dello stampo, poi lucidate con
l’uovo.
Questa ricetta è molto versatile e consente di ottenere altri tre prodotti diversi:
potete togliere parmigiano e noci o utilizzare il grana in dose doppia, oppure
aggiungendo solo noci in dose doppia.
1.300 g di acqua
15 g di malto in polvere
35 g di sale
60 g di baking
TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:
impastatrice tuffante:
25 °C
TEMPO DI COTTURA
Modellate subito a filone e ponete negli stampi per plum cake unti in precedenza.
BIBLIOGRAFIA
O. AFANASIEVA, Controllo microbiologica della produzione del pane, Industria
alimentare, Mosca
E. KASAKOV, V. KRETOVIC, Biochimica del grano e dei prodotti della sua lavorazione,
Kolos, Mosca
V. KRETOVIC, R. TOKAREVA, Problema del valore nutrizionale del pane, Nauka, Mosca
P. PIETTA, A. PIETTA, Benessere non solo dalla tavola, La Compagnia della Stampa
Massetti Rodella Editori, Brescia
I. ROITER, Tecnologia moderna della produzione degli impasti nelle fabbriche del
pane, Tecnica, Kiev
RINGRAZIAMENTI
Al Molino Dallagiovanna e ai Molini Valente, che ci hanno fornito le farine per la
produzione dei pani, e a Cast Alimenti per aver messo a disposizione i laboratori
per la realizzazione dei pani fotografati.
Grazie a tutti i colleghi e gli amici, dai quali c’è sempre da imparare, che
condividono con noi le nuove idee, e un grazie speciale a Fausta Consonni, nostra
instancabile organizzatrice.
INDICE
L’etichetta nutrizionale
Le ricette
Bibliografia
Ringraziamenti