Sei sulla pagina 1di 193

Il grande libro del pane

Tutti i segreti della panificazione, svelati da un grande maestro

Piergiorgio Giorilli

Elena Lipetskaia

ISBN edizione cartacea: 9788858013823

L’esperienza di Piergiorgio Giorilli, indiscusso maestro dell’arte bianca, unita


alla competenza di Elena Lipetskaia, ingegnere tecnologo alimentare, rendono
accessibile a tutti il mondo della panificazione.

Addetti ai lavori e semplici appassionati troveranno in questo volume tutte le


informazioni necessarie per creare impasti lievitati a regola d’arte.
Caratteristiche delle farine, dell’acqua, del sale e dei lieviti; materie grasse,
zucchero, uova e miglioratori; lieviti e batteri lattici; lievito madre e sue
varianti; biga, poolish e pasta di riporto; autolisi, impasto a caldo e
lievitazione controllata; manipolazione dell’impasto; precottura, cottura e
conservazione: questi e molti altri sono gli argomenti affrontati in modo chiaro e
approfondito.

PIERGIORGIO GIORILLI dal 1959 lavora nel laboratorio di famiglia, di cui ha assunto
la gestione. Dal 1987 è Maestro Panifi catore nelle Scuole Professionali del
settore. Nel 1994 partecipa al campionato del mondo a squadre e ottiene il secondo
posto individuale in Panifi cazione. Nel 1995 prepara la squadra nazionale che
risulterà vincente a Nantes al Campionato Europeo di categoria. Dal 1998 è docente
di CAST Alimenti di Brescia. Nel 2002 guida alla vittoria la squadra nazionale a
Bulle (CH), in occasione della Coupe d’Europe de la boulangerie artisanale. Nel
2007 è Presidente della Giuria al Mondial du Pain a Lione e Socio dell’Associazione
Francese degli Ambasciatori del Pane. Dal 6 ottobre 2012 fa parte della
Confraternita de la Chaine des Rôtisseurs con il titolo di Chevalier du Baillage
d’Italie. Con Gribaudo ha già pubblicato Pane & Pani e Snack Food – spuntini &
stuzzichini.

ELENA LIPETSKAIA si è laureata a San Pietroburgo nel 1996 e dal 1994 opera nel
settore della panifi cazione. È ingegnere tecnologo alimentare e lavora presso
Molini Valente. Collabora da molti anni con Piergiorgio Giorilli; con lui ha
realizzato il volume Panificando, di cui ha curato la parte tecnica.

PIERGIORGIO GIORILLI

ELENA LIPETSKAIA
Il grande libro del

Pane

TUTTI I SEGRETI DELLA PANIFICAZIONE SVELATI DA UN GRANDE MAESTRO

FOTOGRAFIE DI

FRANCESCA BRAMBILLA E SERENA SERRANI

Il grande libro del Pane

Testi: Piergiorgio Giorilli, Elena Lipetskaia

Fotografie ricette e foto di copertina: Francesca Brambilla, Serena Serrani

Fotografie parte introduttiva: Francesca Brambilla, Serena Serrani, Elena


Lipetskaia, Molini Valente, Shutterstock Images.

© IF - Idee editoriali Feltrinelli srl

Prima edizione digitale: febbraio 2018

ISBN Ebook: 9788858020531

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

La panificazione italiana è caratterizzata da un’offerta estremamente variegata.


Questa si chiama “pane diversità”.

La pane diversità è la chiave del successo della panificazione italiana e


dell’esistenza di migliaia di imprese artigiane. Tuttavia, questa architettura
organizzativa, alimenta la sopravvivenza della pane diversità stessa generando,
alla fine, valore per il consumatore, che è la cosa più importante. Il pane, quello
italiano in particolare, è in continua evoluzione grazie anche al contributo di
migliaia di panificatori artigiani italiani che provano e sperimentano
quotidianamente, facendo definire il pane un prodotto open source, cioè che evolve
grazie al contributo di tutti. Talvolta però si fanno queste modifiche utilizzando
comunque gli stessi paradigmi produttivi e, una volta esplorati in tutte le loro
potenzialità, l’evoluzione si ferma o nascono solo delle banalità. Allora è
necessario introdurre concetti nuovi, inediti, inesplorati, o recuperare concetti
dimenticati, portando della positiva contaminazione, sulla quale la migliore e non
rudimentale creatività artigiana possa lavorare. Si badi bene che questo è ciò che
fa la natura, da sempre, ovvero l’evoluzione di tutte le forme di vita.
Il maestro, Giorgio Giorilli, grazie anche ai suoi continui confronti
internazionali, ha cercato nei cassetti della panificazione mondiale questi nuovi,
inediti o dimenticati paradigmi e, dopo averli provati e testati, li ha codificati
in questo suo (ultimo) lavoro. Per un panificatore, come me, alcuni concetti
possono essere ritenuti delle eresie, ma funzionano. E Giorgio Giorilli lo
dimostra.

Ecco, questo libro ha lo scopo di portare nella già curiosa panificazione italiana
questi nuovi concetti produttivi, necessari oggi per dare una vigorosa spallata
alla pane diversità italiana, alla qualità del pane e, perché no?, alla redditività
delle nostre imprese. Spero che chi legge questo libro non si limiti a ciò, che
comunque è tanto, ma raccolga la provocazione di Giorgio Giorilli per far nascere
in ognuno di noi panificatori un pensiero orientato al miglioramento costante, alla
continua discussione dello scontato, usando l’osservazione, il perenne confronto,
la sperimentazione e la codifica dei processi panificatori.

Roberto Capello

Presidente Federazione

Italiana Panificatori

Il maestro Piergiorgio Giorilli per CAST Alimenti è un irrinunciabile compagno di


viaggio. Comune è stata la missione, fin dal primo giorno: elevare gli standard
professionali e qualitativi dell’arte bianca italiana. Un progetto che ci univa
allora e che rappresenta tutt’oggi la nostra principale motivazione ad agire.

Non intendo ripercorrere qui l’intera storia di questo grande maestro, ma vorrei
ricordare alcuni momenti chiave. Dopo le prime competizioni a metà degli anni
Novanta, all’indomani della fondazione di CAST Alimenti, Piergiorgio Giorilli è
diventato docente della scuola e nostro punto di riferimento per la panificazione.
Negli stessi anni è nato per sua iniziativa il Richemont Club Italia, che insieme
alla scuola ha lavorato alacremente per portare in alto il nome della panificazione
italiana nel mondo. Di questo dobbiamo essere grati anche a Fausta, moglie di
Giorilli, esempio luminoso di come dietro a un grande uomo di professionalità ci
sia sempre una grande donna.

Le competenze raccolte in questo libro, un manuale avanzato che rispolvera tecniche


antiche in chiave moderna e racconta la realtà della panificazione contemporanea,
nascono dalla lunga esperienza didattica, da importanti vittorie in ambito
internazionale – prima fra tutte il trionfo come coach ai Mondial du Pain del 2007
– e da uno stretto legame con il mondo professionale. Il maestro Giorilli ha
cominciato a quindici anni con il padre ed è stato attento testimone dei
cambiamenti nell’ambito della panificazione: un’evoluzione che coinvolge materie
prime e attrezzature. È una storia che ritroverete nelle pagine di questo libro,
rivolto al futuro ma allo stesso tempo custode di un passato prezioso.

Buona lettura

Vittorio Santoro

Direttore Cast Alimenti di Brescia

Le mani affondate nell’impasto. L’aroma dei lieviti. Il velo impalpabile della


farina. Il buio della notte e la luce tenue dell’alba.

È il miracolo del pane. Fragranza quotidiana. Sacrificio, studio, esperienza.


Mestiere e professione, come sa bene chi all’arte bianca si è dedicato totalmente,
senza riserve. Come l’amico Giorgio Giorilli, coautore di questo volume il cui
titolo è sintesi perfetta del messaggio che si riecheggia da una pagina all’altra:
“Il grande libro del pane”.

Un manuale generoso di verità scientifiche, di informazioni, di suggerimenti.


Strumento di conoscenza e di aggiornamento.

A Giorgio Giorilli mi lega un’amicizia pluridecennale, di cui sono profondamente


grato. Abbiamo condiviso impegni e responsabilità. E ho avuto il privilegio di
essere testimone diretto della sua straordinaria avventura professionale,
costellata di riconoscimenti importanti in Italia e non solo. Un maestro, che in
queste pagine ancora una volta sceglie di condividere sapere e abilità, mettendosi
a disposizione di un pubblico vasto e sconosciuto.

Perché il miracolo del pane possa attraversare il nostro tempo. Bene antico, da
custodire e su cui investire. Per l’oggi e per il futuro.

Giuseppe Giuliani

Presidente Associazione Panificatori di Varese

Conosco i coniugi Giorilli da molti anni e continuo ad ammirarli: lui è un maestro


di fama internazionale, pilastro di panificazione italiana e forse anche
internazionale, indiscutibile autorità nel settore di panificazione; lei è una
grande lavoratrice, persona instancabile, piena di energia e di nuove idee, che
stimola costantemente ed alimenta la crescita professionale del marito, che
nonostante molti anni trascorsi in questo settore guarda sempre avanti e non si
ritiene ancora “arrivato”, ma è sempre in continua evoluzione. E proprio in questo
sta la chiave del loro successo.

Non fermarsi mai, non accontentarsi del risultato ottenuto, ma cercare sempre di
migliorare e di evolvere il prodotto e le tecniche per realizzarlo, tenendo conto
in primo luogo del valore del prodotto: renderlo sempre migliore, badando
soprattutto alla sua genuinità, ma senza rinunciare alle comodità di esecuzione. A
chi pratica questo mestiere l’ultima frase potrebbe sembrare non veritiera, in
effetti forse l’ultima cosa che guarda un panificatore è la comodità di esecuzione.
Ma pensate che ci sono molte tecniche che ce lo permettono: alcune nuove, ma per la
maggiore parte sistemi antichi, ora recuperati. Quali sono? Le scoprirete leggendo
questo volume.

Trasmettere la voglia di provare e l’entusiasmo per arrivare al frutto del tuo


lavoro: il pane, che possiamo considerare una vera e propria opera d’arte. Forse
questo è stato nostro stimolo per realizzare questo libro. Per quanto riguarda me,
sono fiera di esserne la coautrice, a fianco del maestro Giorilli. Quest’opera in
realtà non è stata realizzata a quattro mani, ma a sei, perché dietro al nostro
lavoro c’è sempre stato l’occhio vigile di Fausta (moglie del maestro), nostra
prima critica e prima lettrice (correttrice anche). E nonostante molte notti
passate in bianco per scrivere la parte teorica di questo volume, sono contenta del
risultato e spero che la fatica sarà appagata. Confido nel vostro giudizio e
accetto anche le critiche, che servono sempre per migliorare.

Con stima a voi, lettori

Elena Lipetskaia
Il mondo dei

cereali

E tutto prese inizio dai cereali...

Da loro nasce non soltanto la cultura della panificazione, un’arte tramandata di


padre in figlio e da una generazione all’altra, ma tutta la civiltà. Infatti,
grazie alla coltivazione dei cereali l’uomo, da nomade e cacciatore, si trasforma
in coltivatore, e letteralmente “pianta le radici” nel luogo dove abita. Si
sviluppano, così, le civiltà, le cui conseguenti espansioni sono strettamente
dipendenti dallo sviluppo delle coltivazioni e dalla disponibilità di fondamentali
alimenti come, appunto, i cereali.

Coltivati a partire da almeno 10.000 anni prima di Cristo, tutt’ora rappresentano


la risorsa alimentare primaria per l’umanità e, grazie all’eccellente
conservabilità, all’alto valore energetico e alla relativa semplicità di
coltivazione, sono stati a partire dalla notte dei tempi la salvezza di intere
popolazioni e ancora oggi stanno alla base della piramide di una corretta
alimentazione.

L’attitudine alla panificazione dei cereali dipende soprattutto dal contenuto


proteico dello sfarinato ottenuto (dalle capacità delle sue proteine di formare
glutine1). Fra tutti i cereali, quelli che hanno le migliori qualità per essere
panificati sono: il frumento, il farro, la segale, il triticale, l’orzo e il
khorasan (Kamut®). Gli altri cereali per poter essere utilizzati per la confezione
dei prodotti da forno devono essere miscelati con la farina di frumento o con fibre
e addensanti (per esempio per i prodotti per celiaci 2).

1 GLUTINE È una massa gommosa e porosa, formata dall’unione, durante l’impasto,


delle proteine insolubili dello sfarinato. Alcuni cereali non possono formare
glutine.

2 CELIACHIA È una malattia autoimmune dell’intestino tenue. Chi ne è affetto deve


evitare l’assunzione dei cibi contenenti glutine.

La struttura del chicco (cariosside)

Tutte le piante dei cereali possiedono chicchi (i cariossidi), i quali, avendo


forme diverse per i vari cereali, contengono le parti comuni come la crusca (gli
involucri esterni e lo strato aleuronico), l’endosperma e il germe.

I tipi di cereali

I cereali appartengono alla famiglia delle Graminacee, che comprende diversi generi
(circa 500). Insieme ai cereali vengono raggruppate anche le piante appartenenti
alla famiglia delle Poligonacee, come il grano saraceno. I cereali più diffusi nel
mondo sono: il frumento (Triticum), il riso (Oryza), il grano turco o mais (Zea
mais), la segale (Secale), l’orzo (Hordeum), l’avena (Avena), il miglio, il farro,
il triticale e il grano saraceno.

I VALORI NUTRIZIONALI DEI CEREALI

Fra i cereali, la segale, la quinoa, l’amaranto, il grano saraceno e l’avena sono


quelli che contengono le maggiori quantità di aminoacidi essenziali (lisina,
treonina e triptofano). Il cereale più ricco di proteine è il farro, mentre il riso
è quello che contiene la minor quantità di proteine; il frumento ha un medio valore
proteico, che può variare dal 9 al 17%. Nella farina ottenuta dai cereali il valore
proteico è più basso.

Le vitamine

I cereali contengono la vitamina B1 (tiamina), B2 (riboflavina) e la vitamina PP


(niacina). Alcuni (frumento duro, mais giallo, miglio e avena) contengono la
vitamina A, alcuni contengono le vitamine E, B12, B6 e P, ma tutti sono privi
completamente di vitamina C.

La cariosside dei cereali non contiene molti grassi, il loro valore medio è intorno
al 2-3%. Il cereale che ne contiene di più è l’avena (fino al 7,5%).

I cereali, se ben conservati, hanno un basso contenuto di acqua: mediamente varia


dal 10 al 13%.

Il contenuto vitaminico dei cereali è rappresentato soprattutto dalle vitamine del


gruppo B.

Il contenuto dei cereali in sali minerali è moderato (mediamente varia intorno al


2%). I sali minerali dei cereali contengono maggiormente il fosforo (P) e il
magnesio (Mg), in minore quantità calcio (Ca), ferro (Fe) e zinco (Zn). Alcuni
cereali nella composizione dei loro sali minerali hanno anche il sodio (Na) e il
potassio (K), come il riso e l’orzo, alcuni lo iodio (J), altri il selenio (Se),
come il Khorasan.

Le fibre contenute nei cereali sono quasi assenti nelle farine raffinate, ma sono
presenti nelle farine più scure (integrali, 1, 2). Esse hanno un ruolo molto
importante per l’organismo, soprattutto per l’apparato digerente:

non apportano quasi calorie, però aumentano il senso di sazietà e migliorano le


funzionalità intestinali;

riducono il rischio per importanti malattie cronico-degenerative, in particolare


per i tumori al colon-retto;

riducono il rischio di diabete e delle malattie cardiovascolari (per una riduzione


dei livelli ematici di colesterolo).

Per cui una dieta bilanciata deve contenere una buona quantità di prodotti
integrali, ma non dovrebbe contenere soltanto questi. Negli strati esterni dei
cereali si trovano anche le sostanze antinutrizionali4 e antivitamine (per esempio
fitati e tannini).

Se i prodotti vengono preparati utilizzando il metodo indiretto di panificazione (i


metodi sono specificati qui), che aiuta a creare una buona acidità nell’impasto
(per esempio i prodotti con biga, con pasta di riporto, o ancora meglio con il
lievito madre), le sostanze antinutrizionali vengono distrutte e aumenta quindi il
valore biologico dell’alimento.

La composizione dei cereali

Tutti i cereali presentano elementi comuni nella composizione chimica. Generalmente


sono caratterizzati da un alto contenuto di carboidrati complessi, rappresentati
soprattutto dall’amido. Fra i cereali il riso è il più ricco d’amido (ne contiene
quasi l’88%, mentre il frumento ne contiene mediamente il 60-68%). Il contenuto
proteico dei cereali, invece, risulta modesto, e oltretutto le proteine presenti
nei cereali sono caratterizzate da un valore biologico non molto alto, perché
contengono maggiormente aminoacidi3 non essenziali e pochi aminoacidi essenziali.

3 AMINOACIDI Sono costituenti delle proteine. Quelli essenziali non sono


sintetizzati dall’uomo, quindi devono essere introdotti con la dieta.

4 SOSTANZE ANTINUTRIZIONALI Sono quelle che disturbano l’assimilazione delle


sostanze utili e indispensabili per l’organismo (come sali minerali e vitamine).

Il valore energetico e il contenuto medio in sali minerali e vitamine di alcuni


cereali è rappresentato nella seguente tabella:

Valore energetico e contenuto medio in vitamine e sali minerali di alcuni cereali


per 100 g di prodotto

CEREALE SALI MINERALI (mg) VITAMINE (mg) ENERGIA (KCal)

Ferro Calcio Fosforo B1 B2 PP

frumento duro 3,6 30 330 0,43 0,15 5,7 314

frumento tenero 3,3 35 304 0,42 0,14 5,4 319

mais 2,4 15 256 0,36 0,20 1,5 355

orzo 0,7 14 189 0,09 0,08 3,1 318

riso 0,6 6 120 0,06 0,03 1,3 362

segale 3,0 25 530 0,4 0,2 1,4 302

IL FRUMENTO, IL CEREALE PIÙ DIFFUSO PER LA PRODUZIONE DEL PANE


In Italia il cereale più usato in assoluto per la confezione del pane è il frumento
(Triticum). Il Triticum si può dividere in due gruppi:

a cariosside vestita;

a cariosside nuda.

Nel frumento a cariosside vestita gli strati esterni aderiscono strettamente alla
cariosside, per cui la loro separazione risulta difficile. A questo tipo appartiene
il farro (Triticum dicoccum, Triticum monococcum e Triticum spelta). Nell’altro
tipo di frumento, ossia quello a cariosside nuda, le glumelle possono essere
facilmente separate dal chicco. A questo tipo appartengono:

frumento tenero (Triticum aestivum o vulgare), che presenta spighe sottili, con
chicchi piccoli e leggeri, farinosi, di colore bianco-giallino. La farina ottenuta
dalla macinazione di questo tipo di frumento viene utilizzata più che altro per la
produzione di pane, dolci e prodotti da forno.

frumento duro (Triticum durum) che, a differenza del frumento tenero, presenta
spighe più tozze, chicchi più pesanti, molto vitrei e di colore ambrato. Questo
tipo di grano, una volta macinato, viene impiegato come semola per la produzione
delle paste alimentari, ma anche in forma di semola rimacinata per la realizzazione
di alcune ricette di pane (pugliese, siciliano ecc.).

Le numerose peculiarità del frumento spiegano la sua maggiore diffusione nel mondo.
È il cereale più utilizzato in assoluto. La caratteristica più importante che
distingue il frumento da tutti gli altri cereali è il suo particolare contenuto
proteico. Le proteine del frumento hanno la capacità di formare il glutine, che ha
una grande importanza nella produzione del pane, della pasta e dei diversi prodotti
da forno. Il pane confezionato con la farina di frumento è caratterizzato da un
volume superiore, un buon sviluppo della mollica e una più alta digeribilità.
Avendo un’ottima capacità di formare il glutine, il frumento non può essere
consumato dai celiaci.

NUOVE TENDENZE NEL CONSUMO DEGLI SFARINATI

I consumatori moderni sono diventati sempre più “gourmet”: non si accontentano dei
prodotti tradizionali e vanno alla scoperta di sapori e di gusti diversi dal
solito. La loro attenzione viene rivolta anche verso i prodotti tipici della cucina
estera. Suscitano l’interesse i prodotti da agricoltura biologica e quelli
preparati con ingredienti particolari. La stessa tendenza si nota anche nel campo
della panificazione, dove vengono introdotti sempre di più i cereali diversi dal
frumento, i cosiddetti “cereali minori”, data la loro limitata diffusione
nell’agricoltura italiana. Presentiamo alcuni di loro.
FARRO

Per le sue caratteristiche è molto simile al frumento tenero, di cui è l’antenato.


Il farro, come il frumento, appartiene al genere Triticum, ed è a cariosside
“vestita”. Le sottospecie del farro possono essere suddivise in:

Triticum monococcum o Einkorn, detto farro piccolo; originario del Medio Oriente e
risalente a 10.000-9.000 anni fa, è la più antica specie di cereale coltivata
dall’uomo. I chicchi del monococcum sono di colore dorato (ricchi di pigmenti
carotenoidi) e hanno un lieve profumo di nocciola, data una buona presenza di
polifenoli;

Triticum dicoccum o Emmer, detto anche farro medio; è sempre originario del Medio
Oriente e diffuso nel bacino del Mediterraneo da più di 10.000-7.000 anni. Era il
cereale più coltivato e più importante per gli antichi Egizi;

Triticum spelta o Spelt, detto anche farro grande o spelta; è coltivato da più di
8.000 anni. Originario dalla zona del Mar Nero, si è poi diffuso in tutta l’Europa
centrale. La farina di questo cereale è caratterizzata da un colore scuro e da un
profumo intenso; ha ottime attitudini alla panificazione.

Fra questi tipi, i più utilizzati nella panificazione sono il Triticum dicoccum e
il Triticum spelta, mentre il Triticum monococcum ha una diffusione minore.

Le cariossidi del farro sono più piccole rispetto a quelle del frumento e hanno una
forma più arrotondata. Il farro è resistente alle cattive condizioni climatiche e
alle malattie, tanto che la sua coltivazione non necessita di pesticidi e
fitofarmaci. Date le tendenze del mercato oggi, in cui la genuinità del prodotto
viene messa al primo posto, questo cereale presenta una notevole importanza per
l’alimentazione. L’unico scompenso del farro è la sua scarsa produttività, per cui
la sua coltivazione non è molto diffusa. Studi recenti si occupano del
miglioramento del patrimonio genetico del farro, soprattutto per quanto riguarda la
fertilità. Fra tutti i tipi, lo spelta è quello che presenta il miglior contenuto
proteico. Il valore medio di proteine dello spelta è del 17%, che può arrivare
anche al 19% su 100 parti di sostanza secca, quindi risulta superiore a quello del
frumento tenero. Oltretutto, le proteine dello spelta hanno buone capacità di
formare il glutine (quindi questo cereale non va bene per i celiaci). Il tenore
medio in glutine secco dello spelta varia dal 13 al 17%. Il farro in media possiede
un contenuto proteico lievemente inferiore rispetto allo spelta, ma superiore a
quello del frumento tenero.

La farina di farro ha buone attitudini alla panificazione, per cui questo cereale
trova sempre più campo nella produzione di vari tipi di pane confezionati con
tecniche diverse, anche con l’uso del lievito madre, creato e mantenuto con tale
sfarinato.

KHORASAN (KAMUT®)
È un cereale minore appartenente al genere Triticum turgidum turanicum, la cui
specie più diffusa, detta anche “grano grosso” o Khorasan (Triticum turanicum), è
stata registrata dal Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti nel 1990 ed è più
nota con la denominazione commerciale di Kamut®.

“Kamut” non è il nome di una varietà di grano: è un marchio registrato utilizzato


per commercializzare una varietà di grano che garantisce determinate
caratteristiche.

Nel 1990 la famiglia Quinn ha registrato la parola “Kamut” come un marchio


depositato per proteggere e preservare le qualità eccezionali dell’antico grano
Khorasan, a beneficio di tutti coloro che cercano un alimento sano e di alta
qualità. Solo attraverso l’uso di un marchio registrato si può garantire ai clienti
che i prodotti a base di grano Khorasan Kamut® contengono la pura e antica varietà
di grano Khorasan, coltivato secondo il metodo dell’agricoltura biologica e con
elevati standard di qualità. Il grano Kamut® ha le seguenti caratteristiche:

Valori medi per 100 g prodotto

FRUMENTO KAMUT®

valore energetico (Kcal) 348 359

proteine 12.3 17.3

grassi 1.9 2.6

carboidrati 70.5 66.7

ceneri 1.7 1.8

appartiene all’antica varietà chiamata Khorasan;

deve essere coltivato rigorosamente secondo il metodo dell’agricoltura certificata


biologica;

contiene un range di proteine fra il 12 e il 18%;

è puro al 99% da contaminazioni con varietà di grano moderne;

è al 98% privo di segni di malattia;

contiene tra i 400 e 1000 ppb di selenio;

non può essere utilizzato in prodotti il cui nome sia ingannevole o fuorviante
sulla percentuale di esso contenuta;

non deve essere mescolato a grano moderno nella pasta.

Il Kamut® ha un valore calorico superiore al frumento. La sua composizione chimica


è molto interessante: questo cereale contiene proteine in una quantità superiore
del 40% rispetto al frumento. La farina di Kamut® si caratterizza per un ottimo
assorbimento dell’acqua e una buona resistenza della maglia glutinica; inoltre,
applicando tecniche particolari (esempio l’autolisi, vedi) si riesce a ottenere
anche una sufficiente estensibilità dell’impasto e un sufficiente volume del
prodotto. Dal punto di vista nutrizionale le proteine del Kamut® hanno un valore
biologico superiore al frumento per un contenuto superiore in aminoacidi
essenziali. Il germe di Kamut® contiene una quantità superiore di acidi grassi mono
e polinsaturi rispetto al frumento. Contenendo una buona quantità di pigmenti
carotenoidi, il Kamut® ha un ottimo indice di giallo, quindi anche i prodotti
finiti si caratterizzano per una colorazione più gialla della mollica e più
accentuata della crosta. Il pane con Kamut® ha un gusto marcato e particolare
(leggermente dolciastro) e risulta particolarmente gradevole se viene preparato a
base di lievito madre, acquisendo così un sapore squisito dal retrogusto dolce-
acido.

SEGALE

Finora la farina di segale non ha trovato un grande impiego nei panifici italiani,
salvo in località di montagna, dove il pane preparato con farina di segale è
diffuso per tradizione. Negli altri Paesi (Austria, Germania, Russia ecc.) il
consumo del “pane nero” (così viene chiamato il pane confezionato con maggiore
percentuale di farina di segale) quasi supera il consumo del pane con la farina di
frumento.

La farina di segale è ideale per prodotti da forno dietetici e salutistici e


contiene una quantità notevole di fibra, soprattutto quella solubile. Le proteine
della segale sono più pregiate rispetto a quelle del frumento, dato che contengono
più aminoacidi essenziali (come lisina e treonina); inoltre la farina di segale
contiene più vitamine e sali minerali rispetto a quella di frumento ed è anche meno
calorica, oltre ad avere un indice glicemico più basso rispetto alla farina di
frumento.

I sali minerali della segale contengono elementi come il sodio, il potassio, il


calcio, il ferro, lo iodio, ma soprattutto il fosforo (fino a 530 mg per 100 g di
prodotto). Il complesso vitaminico della segale comprende, oltre alle vitamine del
gruppo B (B1, B2, B6), PP, anche l’acido folico. Tale vitamina ha una notevole
importanza per l’organismo, perché partecipa alle reazioni di sintesi degli acidi
nucleici (DNA, RNA).

Date le sue proprietà depurative, rinfrescanti e rigeneranti del sangue, la segale


riveste una particolare importanza nell’alimentazione della prima infanzia o dei
convalescenti. L’alto contenuto in fosforo e un buon valore biologico delle
proteine fanno sì che il consumo del pane di segale sia molto raccomandato per gli
studenti o per chi svolge un intenso lavoro mentale. Un’alta percentuale di fibre
rende questo cereale indispensabile per le diete depurative, soprattutto per chi
soffre di stipsi.

Fra le numerose peculiarità della segale si può citare anche la sua capacità di
fluidificare il sangue e di ridurre il contenuto di colesterolo, mantenendo così le
arterie più elastiche. Infatti, le popolazioni che consumano abitualmente il pane
di segale sono difficilmente afflitte da malattie cardiovascolari. La farina di
segale si presta abbastanza bene alla panificazione, ma per panificare con segale
bisogna considerare le sue differenze rispetto alla farina di frumento. La prima
differenza consiste nel fatto che la farina di segale non ha quasi capacità di
formare glutine. Ma quel poco che forma rende questo cereale non idoneo per
l’alimentazione dei celiaci.
Solo grazie a un alto contenuto di fibre, capaci di assorbire molti liquidi, si
riesce a ottenere una consistenza dell’impasto abbastanza accettabile per poter
formare il pane; infatti la quantità di cellulose e pentosani (fibre solubili)
nella segale è due volte superiore rispetto a quella contenuta nella farina di
frumento.

Il pane confezionato con 100% di farina di segale non potrà mai essere voluminoso
come il pane preparato con farina di frumento e anche la sua alveolatura non potrà
essere molto sviluppata, mentre la mollica rimarrà più umida, compatta e
appiccicosa. Un’altra differenza fra il pane di segale e il pane di frumento
consiste nel colore più scuro del primo, sia per la mollica che per la crosta.
Questo colore viene ancora più accentuato se si utilizza malto scuro (non
diastasico, vedi).

Il colore scuro è dovuto anche a una quantità più alta di zuccheri contenuti nella
farina di segale (infatti ha una quantità di zuccheri propri tre volte superiore
rispetto a quelli della farina di frumento), ma è dovuto anche all’alta attività
amilasica che possiede la farina di segale. Oltre al fatto che le amilasi sono
contenute nella farina di segale in parecchia quantità, la loro azione è anche più
facilitata, perché l’amido nella farina di segale risulta più attaccabile per un
semplice motivo: comincia a gelatinizzarsi a una temperatura di 54 °C, mentre
l’amido della farina di frumento ha la massima gelatinizzazione a una temperatura
di 80 °C.

L’impasto preparato con la farina di segale risulta appiccicoso e umido non


soltanto perché è quasi privo di glutine, ma anche perché l’amido contenuto nella
farina risulta quasi completamente idrolizzato (spezzato con distacco di una
molecola dell’acqua) dalle amilasi e quindi non è in grado di trattenere i liquidi
dell’impasto.

Un’attività troppo alta della a-amilasi nella farina di segale, data l’azione
liquefacente di tale enzima, influenza negativamente le caratteristiche fisiche
dell’impasto. Inoltre, le amilasi agiscono in modo attivo anche durante la cottura,
formando la mollica umida e appiccicosa del prodotto pronto. Per questo motivo
nella preparazione del pane di segale è necessario avere un impasto più acido,
perché un alto grado di acidità inattiva l’attività delle amilasi. Per aumentare
l’acidità dell’impasto è necessario sviluppare in esso batteri lattici, i quali,
fermentando, producono una serie di acidi organici atti al processo. Inoltre, danno
anche altri benefici, come una più lunga durata di conservazione e un gusto più
intenso. In Russia, a questo scopo, vengono adoperati crescenti specifici, molto
ricchi di batteri lattici, che si chiamano zacvaschi. Sono rinnovati
quotidianamente con acqua e farina di segale e contengono parecchie quantità di
batteri lattici selezionati, per cui hanno un alto grado di acidità.

TRITICALE

È una coltura nuova, che rappresenta una nuova specie botanica e deriva
dall’incrocio del frumento con la segale.

Le sue caratteristiche particolari (un’alta capacità di adattamento, un’alta


fertilità, un alto contenuto proteico, con una buona presenza di aminoacidi
essenziali come la lisina e il triptifano, un alto valore nutrizionale) evidenziano
l’importanza di questo cereale, le cui qualità superano quelle dei suoi
progenitori. Il triticale è un cereale molto resistente alle malattie, al freddo e
ad altre condizioni ambientali sfavorevoli, si adatta perfettamente ai climi
temperati e ai terreni poveri. Le sue cariossidi assomigliano a quelle della segale
e a quelle del frumento. Solitamente i chicchi sono più lunghi rispetto a quelli
del frumento e più larghi rispetto a quelli della segale; le cariossidi mature si
presentano rugose. I grani del triticale hanno un peso specifico inferiore a quello
del frumento, ma superiore a quello della segale.

La quantità di glutine ottenuta dal triticale è più alta rispetto a quella ottenuta
dal frumento, ma le caratteristiche qualitative sono più basse, perché fra le
proteine prevalgono le gliadine. Il triticale possiede un buon quantitativo di
fibre e di sostanze gelatinose. L’attitudine alla panificazione degli sfarinati di
triticale è più bassa rispetto a quella degli sfarinati di frumento. Il pane
ottenuto dalla farina di triticale ha un volume minore rispetto a quello del
frumento, la sua mollica è più compatta ed è più appiccicosa; spesso la crosta
presenta spaccature.

Le caratteristiche dell’impasto ottenuto dalla farina di triticale assomigliano a


quelle dell’impasto ottenuto con la segale. I risultati migliori nella confezione
del pane si ottengono mischiando la farina di triticale insieme a quella di
frumento, oppure usando i metodi tradizionali, specifici per la produzione del pane
con la segale, come zakvaski con la pasta madre acida, i preimpasti caldi ecc.
Tuttora il triticale trova impiego soprattutto come alimento per il bestiame e meno
per la preparazione del pane. Oggi, però, si stanno perfezionando le tecniche per
diffondere questo cereale nella panificazione, viste le sue numerose peculiarità
riguardanti soprattutto il valore biologico e quello nutrizionale.

GRANO SARACENO

Proviene da una Poligonacea (Polygonum fagopurum), quindi non appartiene alle


Graminacee, però viene raggruppato insieme agli altri cereali per la sua buona
capacità di frantumarsi fino a ottenere la farina e per la composizione chimica del
seme simile a quella delle Graminacee.

La pianta proviene dall’Asia centrale e viene coltivata anche in Europa, nei Paesi
scandinavi e nel Nord America. In Italia la coltivazione del grano saraceno non è
molto diffusa e si limita in alcune zone nel nord del Paese.

I semi hanno una forma piramidale e sono ricoperti da una corteccia spessa, la cui
colorazione può variare dal grigio chiaro al marrone. Il germe del seme ha una
forma a “S”, attraversa tutto il chicco e le sue dimensioni sono notevoli. Durante
la macinazione esso non viene separato, quindi i suoi principi nutritivi si
ritrovano nel prodotto finale.

La composizione chimica del seme del grano saraceno è comune a tutti i cereali:
mediamente contiene circa 65% di carboidrati (fra cui l’amido, circa 54,9%,
zuccheri in quantità abbastanza bassa, circa 1,5%, e una buona percentuale di
fibra, il 10,8%). I grassi sono circa il 2,3%. I chicchi contengono numerosi acidi
organici, che determinano un’assimilazione migliore di tutti i nutrienti da parte
dell’organismo. La percentuale di sali minerali non è molto alta (1,8%), ma essi
contengono preziosi elementi, come fosforo, magnesio e soprattutto calcio, la cui
quantità è superiore rispetto a quella degli altri cereali. Il contenuto proteico
del grano saraceno varia dall’11,6 al 13% di sostanza secca del seme.

Le sue proteine, che si distinguono per un elevato valore biologico, contengono


notevoli quantità di aminoacidi essenziali come la lisina e il triptofano, di cui
gli altri cereali risultano carenti. Le sostanze proteiche del grano saraceno per
la maggior parte sono solubili nell’acqua e in soluzioni saline (la quantità delle
albumine raggiunge circa il 58% e quella delle globuline il 28%), mentre le
sostanze insolubili (formanti glutine) sono in minoranza, per cui lo sfarinato non
ha la capacità di formare il glutine e quindi le sue caratteristiche di
panificazione sono scarse. Per questo è indicato nell’alimentazione dei celiaci.

Per poter realizzare pani e prodotti da forno con la farina di grano saraceno è
necessario miscelarla con una buona percentuale di farina di frumento. Il
patrimonio vitaminico è ben rappresentato: il grano saraceno contiene le vitamine
B1, (tiamina), B2 (riboflavina), PP (niacina) e anche la vitamina P (rutina), che è
un componente dei bioflavonoidi, sostanze che favoriscono l’utilizzo da parte
dell’organismo della vitamina C.

Le vitamine, i sali minerali, i grassi e le altre sostanze nutritive, per una gran
parte contenuti nel germe del seme, rimangono in abbondante quantità nella farina
dopo la macinazione perché, come avevamo accennato, a differenza dagli altri
cereali il germe non viene separato durante la lavorazione. Per cui lo sfarinato
ottenuto dal grano saraceno sarà assai più ricco di sostanze indispensabili per
l’organismo.

I fiori della pianta si usano anche nell’apicoltura per la produzione del miele,
avente un sapore molto ricco e caratteristico. Il grano saraceno può essere
consumato integralmente (in forma di chicchi) per la preparazione dei contorni o
delle kasci (piatti tipici della Russia e dei Paesi scandinavi, a base di latte,
con l’aggiunta di zucchero e sale, in cui vengono cotti i grani oppure i derivati
dei grani, alcuni messi precedentemente a bagno), e dei piatti regionali, oppure
sotto forma di farina per realizzare pani, biscotti e vari prodotti dietetici ad
alto contenuto nutrizionale, come anche la pasta (sono celebri i pizzoccheri, il
prodotto tipico della Valtellina).

Dato il loro moderato contenuto in glucidi, una notevole presenza di cellulosa


(fibra alimentare), un alto valore biologico delle proteine e un alto contenuto
degli acidi organici, che aiutano la digestione, i prodotti di grano saraceno in
sostituzione a quelli analoghi di frumento (come pane e pasta) sono particolarmente
raccomandabili per le persone aventi un’alta glicemia, diabete o diversi problemi
di metabolismo. Il consumo di tale cereale è anche molto raccomandato alle persone
con vasi sanguigni deboli, data la presenza nei semi dei bioflavonoidi.

ORZO

Appartiene al genere Hordeum. L’orzo è un cereale dalle origini molto antiche:


6.000 anni fa era già conosciuto in Egitto, ed è stato il primo cereale diffuso nel
bacino mediterraneo. La cariosside dell’orzo ha una forma allungata, appiattita,
rigonfia al centro e assottigliata sulle estremità, con una striscia bruna in
mezzo. È composta per il 74% da carboidrati, rappresentati soprattutto dall’amido,
e contiene circa il 10% delle proteine, una media quantità di lipidi, acqua, sali
minerali, vitamine e fibre.

Il complesso proteico dell’orzo è rappresentato soprattutto dalle albumine (gruppo


delle proteine solubili), ma contiene anche le prolamine e le gluteline, per cui la
farina di orzo può formare il glutine, la cui quantità può variare dal 3 al 28%, ma
possiede caratteristiche piuttosto scarse, perché si forma molto lentamente e
risulta corto e rigido, privo d’estensibilità. Formando glutine, l’orzo non va bene
per i celiaci. Fra le proteine dell’orzo riveste una grande importanza l’ordeina
(appartenente al gruppo delle prolamine), perché contiene un aminoacido essenziale,
l’acido glutammico, necessario per le funzioni celebrali dell’organismo. Le
proteine dell’orzo sono quasi prive di altri aminoacidi essenziali come la lisina e
il triptofano.

Il complesso vitaminico dell’orzo comprende, oltre alle vitamine comuni agli altri
cereali (B1, B2, PP) anche la vitamina B12 (cianocobalamina), necessaria per la
formazione dei globuli rossi, per cui svolge una funzione antianemica, inoltre fa
parte di numerosi sistemi enzimatici nell’organismo. L’orzo possiede anche la
vitamina E (tocoferolo), contenuta principalmente nel germe, che è una sostanza
antiossidante, indispensabile per il funzionamento dei tessuti nervosi e muscolari
e per la prevenzione dell’invecchiamento.

I sali minerali dell’orzo contengono calcio, magnesio, ferro, potassio, ma


soprattutto fosforo, che rende questo cereale particolarmente utile per
l’alimentazione degli organismi in crescita. L’orzo ha un ottimo contenuto in fibre
vegetali e in sostanze gelatinose. Le fibre di orzo contengono beta-glucani5.

Date le sue proprietà rinfrescanti e decongestionanti, l’orzo è particolarmente


indicato per le diete depurative. Trova l’impiego principalmente nella produzione
del malto, della birra e delle bevande fermentate, dei distillati, del caffè,
oppure come ingrediente nelle minestre o in forma di fiocchi come alimento da prima
colazione. Dall’orzo duro si ottengono principalmente l’orzo mondato (con chicchi
privi degli strati corticali che, dopo essere ammollati nell’acqua e cotti, vengono
usati nella farcitura delle torte o nella preparazione di alcuni piatti regionali),
l’orzo perlato (raffinato, sbramato, privo di tutti gli strati esterni della
cariosside, che viene principalmente usato nella preparazione delle minestre), i
fiocchi d’orzo (che si ottengono dalle cariossidi dell’orzo mondato, compresse a
caldo) e la farina. La farina d’orzo ha un colore bianco-grigiastro, giallino e non
ha buone attitudini alla panificazione, date le scarse caratteristiche del glutine.
Il pane confezionato con tale sfarinato sarà pesante e poco voluminoso. I risultati
migliori si ottengono miscelando la farina d’orzo con quella di frumento. La farina
d’orzo trova maggior impiego nella preparazione dei biscotti e dei prodotti da
forno dietetici. Dalla tostatura, e conseguente macinazione, dei chicchi dell’orzo
tenero si ottiene il caffè d’orzo, il cui infuso ha un gusto gradevole. Si utilizza
in sostituzione al caffè classico e può essere particolarmente indicato per chi non
può assumere il caffè, oppure per i bambini e gli anziani. Dalla germinazione
dell’orzo tenero si ottiene il malto, che è un prodotto più importante ottenuto da
questo cereale, il quale trova impiego sia nella panificazione che nella produzione
della birra e di alcuni distillati (come il whisky).

5 BETA-GLUCANI Sono polisaccaridi che costituiscono i maggiori componenti della


frazione solubile della fibra alimentare.

AVENA
L’avena (Avena sativa) viene coltivata soprattutto nei climi freddi e temperati ed
è diffusa nelle zone nordiche dell’Europa, in Russia e in alcune zone asiatiche,
meno in Italia. In passato l’avena veniva usata principalmente come mangime per
cavalli, mentre il suo uso nell’alimentazione umana era molto limitato.

Oggi l’inserimento di questo alimento nella dieta suscita sempre più interesse,
dati i suoi pregi nutrizionali e le sue marcate proprietà benefiche.

I chicchi d’avena sono ricoperti da numerosi strati, la cui percentuale risulta più
alta fra tutti i cereali e raggiunge circa il 18-45% del peso totale della
cariosside. Fra tutti i cereali, l’avena è quella che ha un minore peso specifico
(55-68 kg/hl). Esistono due classi principali di avena, che si differenziano tra di
loro a seconda della forma e della massa del chicco. L’avena appartenente al primo
gruppo ha chicchi robusti, di forma quasi cilindrica, il cui colore può variare dal
bianco al giallo, e viene destinata soprattutto all’alimentazione umana. Le
cariossidi dell’avena appartenente al secondo gruppo sono più sottili e allungate.
Questo tipo di avena trova impiego soprattutto per l’alimentazione del bestiame.

L’avena è un cereale con un alto valore nutritivo: 100 g di avena forniscono quasi
400 Kcal. Il suo contenuto in glucidi è simile a quello degli altri cereali (circa
70-72% su 100 parti di sostanza secca). Il contenuto proteico è abbastanza alto
(varia dal 12 al 14%) e sono importanti anche le proprietà delle proteine. Queste
si caratterizzano per un alto valore biologico, perché contengono un numero
maggiore di aminoacidi essenziali (la lisina, in particolare) rispetto agli altri
cereali, la cui quantità supera del 4,8% il frumento. Il contenuto in gluteline
(proteine formanti il glutine) dell’avena è molto basso, per cui le sue qualità
panificabili risultano molto scarse. Questo cereale possiede un elevato contenuto
di grassi (dal 6,5 all’8%), molto più alto rispetto agli altri cereali, il che
spiega il suo alto valore energetico. I lipidi d’avena contengono preziosi acidi
grassi essenziali come l’acido linoleico e l’acido linolenico, che esaltano
ulteriormente le qualità nutrizionali dell’avena. È costituita anche da una
quantità significativa di sali minerali, che contengono elementi come il ferro, il
fosforo, lo zinco, il sodio, il magnesio e il calcio.

Dal Reg. UE n. 432/2012 della Commissione del 16/05/2012

I beta-glucani contribuiscono al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel


sangue.

L’assunzione di beta-glucani da orzo e avena nell’ambito di un pasto contribuisce


alla riduzione dell’aumento del glucosio ematico post-prandiale.

Le diverse trasformazioni dell’avena: chicchi (in alto a sinistra), fiocchi (in


basso a sinistra), crusca (in alto a destra) e farina (in basso a destra).

Anche il contenuto vitaminico dell’avena è ben rappresentato: oltre alle vitamine


comuni agli altri cereali, come B1, B2 e PP, essa contiene vitamine liposolubili
(solubili in grassi), come la A (in forma di beta-carotene), la D e anche la
vitamina E (tocoferolo), che è un antiossidante naturale atto a proteggere le
membrane cellulari del nostro organismo dai radicali liberi, rallentando
l’invecchiamento.
Gli strati esterni delle cariossidi d’avena sono molto aderenti all’endosperma, per
cui risultano difficilmente separabili dal prodotto durante la lavorazione. Per
questo motivo l’avena possiede una notevole quantità di fibre vegetali e di
sostanze gelatinose, come beta-glucani, araboxilani e le cellulose. Esse svolgono
numerose azioni benefiche sul nostro organismo: lo depurano, diminuiscono il
contenuto del colesterolo nel sangue, aiutano a perdere peso, stimolando il
transito degli alimenti nell’intestino. Però riducono notevolmente l’assorbimento
delle sostanze nutritive da parte dell’organismo, rendendo così la loro digestione
più difficoltosa. Anche un alto contenuto negli strati cruscali dei fitati,
sostanze antinutritive che limitano l’assorbimento di ferro e calcio da parte del
nostro organismo, diminuiscono la digeribilità dell’avena.

La trasformazione in fiocchi, rende il prodotto più digeribile. Tale lavorazione


consiste nel trattamento delle cariossidi, precedentemente pulite e liberate il più
possibile dagli strati cruscali, tramite il vapore, con le conseguenti operazioni
della laminazione e dell’essiccamento. In forma di fiocchi, l’avena diventa un
alimento energetico e di buona digeribilità, ottimale soprattutto per la prima
colazione, ma che può essere utilizzato anche nelle preparazioni di torte, prodotti
da forno e piatti tipici. L’avena integrale, prepulita e decorticata, in forma di
chicchi, messa precedentemente a bagno e cotta, può essere usata come componente
delle minestre. La farina ottenuta dalla macinazione dei chicchi d’avena non ha una
buona attitudine alla panificazione a causa del basso contenuto in gluteline, con
le conseguenti difficoltà nella formazione del glutine. Per poterla utilizzare
nella panificazione è opportuno miscelarla alla farina di frumento, preferibilmente
quella “di forza” (pag. 33). Gli sfarinati d’avena possono essere utilizzati anche
per la produzione dei biscotti, dei dolci e dei prodotti dietetici.

Tutto sommato, l’avena è un cereale prezioso per le sue proprietà tonificanti,


rigeneranti, energetiche e depurative; il suo inserimento nella dieta può essere
molto interessante dal punto di vista salutistico.

L’avena non forma il glutine e quindi il suo consumo non dovrebbe creare problemi
ai celiaci, ma il rischio di ipersensibilità alla gliadina (proteina presente
nell’avena e maggiore responsabile del morbo celiaco) può esistere, per cui anche
questo cereale per sicurezza viene proibito nella dieta di un celiaco.

MIGLIO

Il miglio (Panicum miliaceum) appartiene al genere Panicee. Si ritiene che il


miglio sia il cereale più antico, largamente coltivato in Asia e in Africa (dove
tuttora è considerato un alimento principale), in minor parte in Europa
(soprattutto in orientale e in Russia); in Italia finora è poco diffuso.

La composizione chimica del miglio si caratterizza per un moderato contenuto in


glucidi: possiede quantità di amido non molto alte rispetto agli altri cereali, ha
un buon apporto di fibre (mediamente il 4-8%) e contenuto in zuccheri di circa il
2,5%. Il contenuto proteico del miglio è medio (varia da 10 a 11,2%). Inoltre, le
sue proteine non hanno un alto valore biologico, perché sono carenti degli
aminoacidi essenziali come la lisina, la cistina e il triptofano.

Il miglio presenta abbondanti quantità di lipidi (mediamente dal 3 al 4,8%). Questo


arricchisce le sue caratteristiche nutrizionali, ma ne limita la conservazione,
perché i grassi in esso contenuti irrancidiscono facilmente. Dato che sono
concentrati soprattutto nel germe del seme, è necessario separare tale parte
durante la lavorazione. Il germe può essere destinato alla produzione di olio
vegetale oppure di mangimi.

Il miglio presenta buone quantità di sali minerali (mediamente 2,9%), che


contengono elementi come il fosforo, il magnesio, ma soprattutto il ferro. Fra
tutti i cereali, il miglio è quello che ne contiene in maggioranza.

Per cui il consumo del miglio riveste un’importante funzione nella rigenerazione
del sangue, nella prevenzione dell’anemia e in tutte le situazioni di affaticamento
fisico e mentale. Il miglio ha anche un buon contenuto vitaminico, rappresentato
soprattutto dalle vitamine del gruppo B e dalla vitamina A (sotto forma di beta-
carotene), che è necessaria non soltanto per la vista, ma anche per la pelle, per
la crescita e per il rinnovamento dei tessuti.

In Italia il miglio viene usato principalmente come mangime per i volatili e meno
per l’alimentazione umana. In commercio si trovano sia la farina di miglio, sia il
miglio mondato (decorticato), che si presenta sotto forma di granelli rotondi, di
colore giallino e di sapore gradevole, dolciastro. Può essere usato per la
preparazione di dolci tipici, di croccanti, di pani tradizionali e di piatti
regionali. La farina di miglio non ha buone attitudini alla panificazione: per
poter essere usata nella confezione dei pani deve essere mischiata alla farina di
frumento. In tale forma o anche come componente delle miscele di altri sfarinati
può essere usata per produrre pani particolari, arricchiti di sostanze
nutrizionali.

In Russia e nei Paesi scandinavi (Finlandia, Norvegia) il miglio, come anche gli
altri grani (l’avena in fiocchi, il semolino, il grano saraceno ecc.), serve per la
preparazione delle kasci, le quali costituiscono il piatto principale per la prima
colazione.

La farina di miglio non ha la capacità di formare il glutine e quindi può essere


consumata dai celiaci.

MAIS

Il mais, cereale appartenente al genere Zea mais, può essere coltivato in diverse
varietà. Proviene dall’America centrale, da cui a partire dalla fine del
Quattrocento viene introdotto in Europa e ora è largamente coltivato e diffuso in
molti Paesi. Il mais è una pianta annuale; la sua semenza spunta alla temperatura
di 10-12 °C, per cui non può crescere nelle zone del Nord. Le varietà di mais
possono essere suddivise in diverse sottospecie, che si differenziano a seconda
delle caratteristiche: il numero degli involucri del chicco (possono essere chicchi
“nudi” o “vestiti”), la forma e la superficie della cariosside, il colore della
cariosside, la durezza del chicco ecc.

La composizione chimica del mais assomiglia a quella del frumento; le differenze


sono dovute soprattutto alla quantità e alla composizione proteica del cereale. Il
componente principale della cariosside è l’amido, la cui quantità varia dal 66 al
75%. Le proteine sono presenti in quantità di circa il 10%. Oltre a essere presenti
in quantità minore rispetto a quelle del frumento, le proteine del mais non hanno
un alto valore biologico perché contengono pochi aminoacidi essenziali (come la
lisina, la treonina, l’isoleucina e il triptofano), che sono costituiti
principalmente dalla zeina, contenente soprattutto aminoacidi non essenziali. La
zeina appartiene al gruppo delle proteine insolubili, le prolamine, la cui quantità
totale raggiunge circa il 45% di tutte le proteine del mais.

La quantità di gluteline del mais è assai minore: ciò spiega l’incapacità di questo
cereale di formare il glutine e quindi la sua scarsa attitudine alla panificazione.
Per lo stesso motivo il pane e i prodotti da forno a base di mais sono
particolarmente indicati ai malati di celiachia.

La quantità di grassi contenuti nel mais si aggira intorno al 4,5%. Sono


localizzati soprattutto nel germe e contengono prevalentemente acidi grassi
polinsaturi (come l’acido linoleico), i quali determinano il suo alto valore
nutritivo. La quantità di sali minerali del mais è quasi uguale a quella del
frumento. Questi contengono soprattutto il fosforo, mentre le quantità di calcio,
di ferro e di magnesio risultano assai minori. Inoltre, il mais contiene l’acido
fitico (sostanza antinutriente che impedisce l’assorbimento di questi elementi
nell’organismo). La quantità totale di vitamine è lievemente minore rispetto a
quella del frumento. Sono rappresentate soprattutto da quelle del gruppo B (come la
tiamina, B1) e la riboflavina (B2). Il mais presenta tracce di vitamina PP, la
quale, però, non può essere usata dall’organismo, perché nel cereale sono contenute
anche le sostanze antivitamine, che ne impediscono l’assimilazione. La vitamina E
(tocoferolo) è presente nel germe della cariosside, mentre la vitamina A (beta-
carotene) è presente sotto forma di tracce soltanto nel mais giallo.

Tutto sommato, il mais è un cereale con un alto valore energetico (100 g di mais
fornisce 355 Kcal), ricco di carboidrati complessi (come l’amido), ma con un
moderato contenuto di proteine, di vitamine e di sali minerali. Nella dieta deve
essere integrato con prodotti ricchi di proteine, di calcio e di vitamine
(soprattutto PP).

Dal mais si possono ricavare i seguenti prodotti: farine e semolati, fiocchi, pop
corn, olio di semi, amido e prodotti ottenuti dalla sua idrolisi (gli zuccheri come
il glucosio, le destrine, gli sciroppi ecc.) e dalla successiva fermentazione
(alcol e derivati), oltre ad alimenti zootecnici. La farina di mais viene
utilizzata nella produzione della polenta e di alcuni dolci. Nella panificazione
trova minor impiego, viste le sue scarse caratteristiche di panificabilità. Per
ottenere i pani con il mais è opportuno miscelare tale farina con farina di grano
tenero di forza, per consentire lo sviluppo (anche se parziale) della maglia
glutinica. In ogni caso i pani a base di farina di mais non saranno molto
voluminosi, ma avranno un gusto ricco e particolare e un’ottima conservabilità.
Utilizzando i preimpasti “a caldo”, in cui la farina di mais viene portata alla
temperatura della gelatinizzazione dell’amido, si possono ottenere i risultati
migliori per quanto riguarda il volume del prodotto.

RISO

Il riso è una Graminacea appartenente al genere Oryza, il quale comprende numerose


specie. Oryza sativa (la più coltivata) può essere suddivisa in due sottospecie:
Oryza sativa indica, proveniente dall’India e coltivata nelle zone equatoriali e
meridionali, e Oryza sativa japonica, proveniente dal Giappone e coltivata nelle
zone del Nord. In Italia viene coltivato il riso appartenente alla sottospecie
japonica. Il riso è uno dei cereali più diffusi nel mondo dopo il frumento. I
maggiori produttori sono: Cina, Giappone, India e Birmania. Fra i Paesi europei
l’Italia è al primo posto come produttrice del riso. È una pianta annuale, che
generalmente viene seminata verso fine di marzo-inizio aprile e raccolta in autunno
(verso la fine di ottobre). Il fattore principale per la coltivazione del riso è
l’acqua, per cui la sua crescita avviene nelle risaie (appositi terreni, sommersi
d’acqua). L’acqua serve sia per la nutrizione della pianta sia per la sua
protezione dal freddo.

Essendo un cereale molto ricco di amido (la cui quantità è pari al 70-80% dalla
sostanza secca del seme), il riso è un alimento altamente energetico e costituisce
la risorsa alimentare principale per molte popolazioni, soprattutto quelle
asiatiche. È un prodotto dietetico e di alta digeribilità, per cui viene
consigliato nelle diete.

Avendo chicchi igroscopici, è in grado di assorbire i liquidi e i gas


dell’intestino, perciò è indicato per le persone aventi scompensi intestinali. Il
contenuto proteico del riso è moderato (dal 7 al 9%). Inoltre le proteine del riso
non hanno un alto valore biologico, perché risultano carenti di aminoacidi
essenziali come la lisina e il triptofano (soltanto il riso integrale ne contiene
alcuni).

I lipidi sono contenuti nel riso in quantità dall’1,5 al 3%. Essi contengono i
residui degli acidi grassi come palmitico, oleico, stearico e soprattutto quelli
essenziali come linolenico e linoleico (maggiormente rappresentato nelle sostanze
grasse del riso). Nel riso raffinato il contenuto in grassi risulta nettamente
inferiore, perché essi si trovano per la maggior parte nel germe, che viene
eliminato con la lavorazione, per consentire al prodotto una più lunga
conservazione. Il riso integrale contiene più sostanze grasse rispetto al riso
brillato, però ha una conservazione più limitata. Inoltre, il riso integrale
possiede la fibra (circa 1-1,5%), invece il riso brillato risulta quasi privo di
essa. I sali minerali del riso, oltre a contenere il fosforo e il calcio,
contengono anche altri elementi come il potassio, il sodio, il ferro ecc.

Le varietà di riso in commercio.

Il contenuto salino si perde in gran parte con gli scarti della lavorazione del
cereale, per cui il riso brillato conterrà soprattutto il fosforo e il potassio e
sarà impoverito di elementi come calcio, ferro e sodio. Nel riso integrale sono
contenute, in quantità moderata, vitamine come la tiamina (B1), la riboflavina
(B2), la niacina (PP), la piridossina (B6), la biotina, l’acido pantotenico (B5),
l’acido folico, il tocoferolo (E). Anche la loro quantità è notevolmente ridotta
nel riso brillato, per cui l’alimentazione basata esclusivamente sul consumo di
riso (soprattutto raffinato) può causare alcune malattie, dovute alla carenza di
vitamine (detta avitaminosi), come per esempio il beri-beri, provocato dalla
carenza di vitamina B1, che in passato era molto diffusa soprattutto fra la
popolazione povera dei Paesi asiatici.

Il grado di raffinazione incide molto sul valore nutritivo del prodotto: il riso
brillato non possiede un alto valore nutritivo, ma ha un alto valore energetico
(360 Kcal per 100 g di prodotto), rispetto al riso integrale (100 g forniscono 330
Kcal, però contengono più sostanze indispensabili per il nostro organismo come le
vitamine, le fibre e i sali minerali).

La farina di riso non è capace di formare il glutine, quindi, come il mais, ha una
scarsa attitudine alla panificazione, ma essendo molto soffice e ricca di amido
trova impiego in pasticceria. Inoltre, avendo un’alta digeribilità, è molto
indicata per i prodotti dietetici e per la prima infanzia, oppure per i malati di
celiachia (grazie all’incapacità di formare il glutine).

QUINOA

La quinoa (Chenopodium quinoa) è una pianta annuale appartenente alla famiglia


delle Chenopodiacee, insieme agli spinaci e alla barbabietola. Nonostante non
appartenga alle Graminacee, viene raggruppata insieme agli altri cereali ed è
considerata un cereale data la sua composizione chimica simile: contiene, come
tutti i cereali, in maggioranza l’amido, e ha anche un buon valore proteico.

Gli steli della pianta terminano con un’inflorescenza, detta panicolo, da cui
vengono estratti i chicchi aventi piccole dimensioni, di forma sferica. La quinoa è
un cereale storico delle popolazioni indigene del Sud America, coltivato da almeno
5.000 anni. È una pianta resistente ai climi tempestosi e cresce anche in altezza
fino a 4.000 metri. Sopporta sia freddo che siccità e non necessita di trattamenti
specifici, per questo spesso viene coltivata in regime biologico. Preferisce le
temperature non molto alte e poca umidità, per cui l’ambiente ideale per la sua
coltivazione rimane la zona delle Ande. Attualmente è più coltivata in Bolivia, in
Perù, in Equador e in Cile, e a seguire in Argentina e in Francia.

La quinoa veniva considerata dalle popolazioni indigene sudamericane come la “madre


di tutti i semi”. Ha, infatti, un potere nutrizionale molto alto: contiene tanta
fibra e minerali come fosforo, magnesio, ferro e zinco. I grassi contenuti nella
quinoa hanno in prevalenza acidi grassi polinsaturi. Anche il contenuto in vitamine
della quinoa è superiore a confronto di tutti gli altri cereali. Contengono più
aminoacidi essenziali fra tutti i cereali, ma non sono in grado di formare il
glutine. Per questo la quinoa può essere consumata dai celiaci. Ha un alto
contenuto di trimetilglicina, sostanza che viene considerata protettrice del DNA,
con proprietà antiinvecchiamento e antitumorali.

Non formando il glutine, la panificazione di questo cereale da solo è difficoltosa,


ma può avvenire miscelandolo, per esempio, con il frumento.

Dall’alto verso il basso: quinoa rossa, nera e bianca.

Valori nutrizionali medi della farina di quinoa per 100 g di prodotto

PER 100 G DI PRODOTTO VALORI MEDI % RDA

valore energetico (Kcal) 368 18,4

proteine (g) 14.1

grassi (g) 6.1

carboidrati (g) 64.2

fibra (g) 7

sodio (Na) (mg) 5


potassio (K) (mg) 563 28,2

ferro (Fe) (mg) 4,6 32,6

calcio (Ca) (mg) 47 5,9

fosforo (P) (mg) 457 57,1

magnesio (Mg) (mg) 197 65,7

zinco (Zn) (mg) 3,1 20,7

vitamina B1 (mg) 0,36 25,7

vitamina B2 (mg) 0,318 19,8

vitamina PP (mg) 1,52 8,4

vitamina E (mg) 2,44 24,4

Fonte: FDA (USA)

Farina,

acqua, sale,

lievito...

Gli ingredienti di base per preparare il pane sono quattro: farina, acqua, sale,
lievito. Ma da questi semplici elementi utilizzati sapientemente dal panificatore
nasce un’infinità di prodotti da forno, tutti unici nel loro genere, e ciascuno con
il proprio carattere; un bouquet di sapori e di profumi. I prodotti speciali da
forno oltre agli ingredienti di base contengono il condimento (materia grassa),
alcuni (prodotti dolci) le uova, lo zucchero, il latte e il burro. Ma in realtà gli
ingredienti per i pani speciali sono svariati: purché siano commestibili, possono
essere utilizzati quasi tutti in base alla fantasia del panificatore, ai gusti e
alle usanze del territorio. Così la tradizione artigiana italiana offre ai
consumatori numerose varietà di prodotti da forno, in continua evoluzione, per la
fortuna dei panificatori. E chi pratica questo mestiere non si annoia mai!

LA FARINA, L’INGREDIENTE N. 1 DEL PANE

Come una casa nasce dalle fondamenta, allo stesso modo un impasto nasce dalla
farina, l’ingrediente basilare per preparare qualsiasi prodotto da forno, che si
ottiene dalla macinazione dei cereali.

C’erano una volta antichi mulini, movimentati dall’acqua di un fiume che scorreva
accanto, dove si macinava il grano che cresceva nei campi vicini...

Il profumo di questo grano è rimasto, ma oggi il settore molitorio è cresciuto, i


mulini moderni sono attrezzati diversamente, il prodotto che forniscono è più
sicuro ed è più controllato: si eseguono numerosi accertamenti in fase di
accettazione delle materie prime, durante la macinazione e infine sui prodotti
finiti.

COME FUNZIONA L’INDUSTRIA MOLITORIA OGGI?

Il processo di macinazione percorre le tappe elencate di seguito.

RICEVIMENTO DELLA MERCE E CONTROLLO DI QUALITÀ ALL’ARRIVO

Il grano solitamente arriva nei mulini all’interno di autocarri specifici per il


suo trasporto, oppure nei treni. Successivamente si preleva un campione per
valutarne il tenore in proteine, l’umidità, il peso specifico e la percentuale di
impurità (che deve essere minima). Si svolge anche un esame visivo del campione per
valutare la qualità del prodotto.

Il peso specifico (o peso ettolitrico) è il peso necessario per riempire un volume


stabilito. Per l’analisi viene riempito un apposito contenitore per i chicchi da un
litro o da 0,25 l e poi viene pesato. Il peso specifico viene misurato in
chilogrammi/ettolitro (kg/hl) e generalmente per il frumento varia da 74 a 82. Il
controllo delle proteine, dell’umidità e della durezza avviene nella maggior parte
dei mulini moderni negli apparecchi NIR attraverso l’ispezione a raggi infrarossi
del campione prelevato, che penetrano nel prodotto. Lo strumento elabora delle
immagini e mette i dati ottenuti a confronto con i dati di curve di taratura,
quindi sullo schermo appaiono i valori in questione. Attualmente anche il peso
specifico viene misurato attraverso lo strumento NIR. Nell’analisi visiva del
campione si controlla anche la quantità delle impurità eventualmente presenti (come
sassolini, sabbia, frammenti di semi diversi o ammuffiti, insetti ecc.), che non
deve superare un valore stabilito. Questa è la prima analisi, che viene effettuata
all’arrivo della merce, dopo di che il grano subisce le fasi di pesatura e di
prepulitura.

Il primo controllo prevede anche l’esame di attività enzimatica del grano (analisi
di Falling Number, vedi attraverso il controllo di micotossine (oppure di
vomitossine).

Tutta la merce che arriva oggi nei mulini deve corrispondere ai requisiti dei
controlli igienico-sanitari. Deve avere livelli non superiori a quelli consentiti
dalla legge di batteri e muffe (si verificano attraverso i controlli
microbiologici), corpi estranei e insetti vivi o morti (si verificano attraverso
filth-test), residui chimici come metalli pesanti (in particolare cadmio e piombo),
residui antiparassitari e organofosfati (si verificano attraverso esami chimici).

Quindi, la fase di accettazione della materia prima riveste una grande importanza
per quanto riguarda i seguenti obiettivi:

sicurezza alimentare: la merce deve avere un’umidità corretta, deve essere priva di
infestanti, non deve avere micotossine, residui antiparassitari e metalli pesanti,
quindi deve corrispondere ai limiti stabiliti dalle leggi in vigore;

classificazione delle partite di frumento: dopo la misurazione del contenuto


proteico (conoscendo varietà e classe di appartenenza, origine geografica e dati
tecnologici del grano per vedere la sua corrispondenza alle specifiche di acquisto)
viene stabilito il silos di destinazione.

UN APPROFONDITO CONTROLLO IN LABORATORIO

Il laboratorio del mulino valuta anche le caratteristiche tecnologiche del grano. A


questo scopo il campione, dopo essere stato setacciato, subisce il condizionamento
(in cui si aggiunge l’acqua necessaria a seconda della sua umidità).
Successivamente segue il riposo, che può essere più o meno lungo a seconda della
durezza del grano.

La durezza del grano (detta hardness), dipende dalla genetica del grano e dal
contenuto proteico della sua cariosside. Per il frumento tenero esistono tre classi
di durezza: S - soft, M - medium, H - hard.

1 FUSARIUM Sono funghi in grado di attaccare la superficie del grano o della


frutta, si riproducono in presenza di tanta umidità e possono produrre micotossine
pericolose per l’uomo e gli animali, in quanto non vengono distrutti con la cottura
e risultano cancerogeni. Nella foto si possono vedere sopra i chicchi sani e sotto
quelli attaccati da Fusarium.

I grani soft (soffici) hanno un peso specifico più basso, non possiedono molte
proteine, si frantumano facilmente, dando sfarinati di resa minore con particelle
piccole e leggere.

I grani hard (duri) hanno un peso specifico più alto, di solito sono più ricchi di
proteine, resistono di più alla frantumazione e nella macinazione danno sfarinati
di resa più alta, con particelle di dimensioni più grossolane, semolose.

I grani medium possiedono caratteristiche intermedie fra i due tipi elencati.

Successivamente il grano viene macinato e la farina ottenuta viene sottoposta alle


prove chimiche e reologiche (la reologia è il ramo della fisica che studia le
deformazioni che subisce una materia quando viene sottoposta allo sforzo meccanico)
per stabilirne la qualità. Alle stesse prove vengono poi sottoposte le basi di
macinazioni e le farine finite. Le prove del laboratorio reologico cominciano dalla
valutazione del prodotto attraverso un controllo con NIR, da cui si rilevano
soprattutto il tenore in umidità e la quantità delle proteine.
Strumento NIR.

Le prove successive a cui viene sottoposto il prodotto in esame (il grano macinato,
la farina finita o la base di macinazione) sono soprattutto quelle reologiche, in
cui viene valutato il glutine del prodotto e attraverso un esame su apparecchi
specifici vengono valutate le caratteristiche come la “forza”2 del prodotto, la
resistenza e l’estensibilità.

2 FORZA Termine con cui si intende un insieme di due capacità: quella di assorbire
i liquidi durante l’impasto e quella di mantenere i gas durante la lievitazione.

L’ALVEOGRAFO E IL FARINOGRAFO

Tutti i mulini moderni possiedono apparecchi come l’alveografo Chopin e il


farinografo Brabender.

Nell’esame con l’alveografo la farina ottenuta viene impastata con acqua salata,
successivamente si formano 5 dischetti (in modo che ne rimangano almeno 3 per la
validità della prova, nel caso alcuni dovessero rompersi durante l’estrazione) e,
dopo un breve tempo di riposo, vengono sottoposti al rigonfiamento con aria,
formando una palla che si gonfia progressivamente fino alla sua rottura. Durante
l’esame viene misurato il raggio della bolla ottenuta in funzione della pressione
dell’aria. Si ottiene così un grafico, in cui vengono tracciate cinque curve
(rispettivamente per i cinque dischetti di pasta) e viene evidenziata una curva
media, sulla quale si fanno le misurazioni (pag. 34): la superficie (indice W) e il
rapporto fra l’altezza e lunghezza del grafico (l’indice P/L).

Alveografo Chopin.

Dal grafico si possono ottenere i seguenti dati:

P = altezza massima della curva. La pressione P è in relazione con la resistenza


dell’impasto.

L = la lunghezza della curva è in relazione con l’estensibilità dell’impasto.

W = è l’area dell’alveogramma ed è in relazione con la forza della farina.

L’alveogramma

Di seguito vi è un esempio di alveogramma, il grafico ottenuto dall’analisi con


l’alveografo Chopin. Le linee colorate rappresentano rispettivamente i 5 dischetti
di pasta, mentre la M tratteggiata indica la media delle 5 prove.

PARAMETRI RISULTATI
TEMPERATURA DI LABORATORIO 20.0 °C P = 69 mmH2O

FARINA 0 marrone L = 119 mm

UMIDITÀ 15.1% G = 24.3

TASSO IGROMETRICO DI LABORATORIO 85.0% W = 268 10E-4J

P/L = 0.58

Ie = 62.0 %

W (O) = 0 10E-4J

INDICAZIONE GENERICA DEI VALORI ALVEOGRAFICI

P/L > 1 la farina è resistente

P/L < 0,5 la farina è estensibile

W ≥ 450 la farina è molto forte

W ≥ 350/400 la farina è forte

W = 280/350 la farina è di forza rmale

W = 200/250 la farina è debole

W ≤ 180 la farina è molto debole

W ≤ 130 la farina non è panificabile, va bene per pasta frolla

Adesso anche negli scaffali dei supermercati appaiono i sacchetti di farina su cui
è riportato il valore W, mentre prima si trovavano soltanto le informazioni
riguardanti il tipo di farina (00, 0, integrale). È un fatto positivo, perché in
questo modo il cliente ha un’idea sulla forza della farina, e quindi sulla sua
destinazione. Ma teniamo sempre presente che il valore rilevato con l’alveografo
Chopin è puramente teorico, per cui viene preso in considerazione come punto di
riferimento, ma mai come un dato assoluto e irrevocabile (considerate le diverse
imperfezioni di questo strumento).

L’esame del farinografo, invece, consiste nel misurare la forza necessaria per
creare un impasto di farina e acqua, per precisione vengono sempre adoperati 300 g
di farina in esame e l’acqua viene unita in base all’assorbimento della farina da
buretta calibrata (il tipico contenitore di vetro con il rubinetto nella parte
inferiore). Lo strumento è composto da una piccola impastatrice, alle pale della
quale è collegato uno strumento, il dinamometro, che serve per misurare lo sforzo
necessario per realizzare l’impasto con il prodotto in esame. I dati vengono
trasmessi al lettore. Dal grafico si ricavano informazioni come: tempo di sviluppo
(tempo di evoluzione dell’impasto), tempo di stabilità (in cui l’impasto avrà le
caratteristiche stabili) e caduta (peggioramento delle caratteristiche
dell’impasto), dalla buretta si misura anche la quantità necessaria d’acqua
(assorbimento del prodotto).

Farinografo Brabender aperto.


Il farinogramma

È il grafico ottenuto dal farinografo.

UMIDITÀ CONTENTUTA: 15,1% CONSISTENZA: 512 UF con assorbimento acqua

ASSORBIMENTO ACQUA

(corretta a 500 UF): 55,8% ASSORBIMENTO ACQUA

(corretta a 14.0%): 57,8%

SVILUPPO: 1,7 min STABILITÀ: 5,0 min

GRADO DI RAMMOLLIMENTO

(10 min dopo inizio): 64 UF GRADO DI RAMMOLLIMENTO

(ICC/12 min dopo il massimo): 86 UF

NUMERO DI QUALITÀ FARINOGRAFICA: 48

UF (unità farinografiche)

In base ai dati ottenuti si stabilisce un giudizio sull’assorbimento e sulla forza


della farina. Le farine forti generalmente assorbono più acqua (≥ 58%) e hanno una
stabilità più lunga (≥ 20 minuti). Le farine deboli hanno una stabilità corta (≤ 5
minuti) e assorbono meno acqua (≤ 54%). Quelle di forza media hanno caratteristiche
medie fra le prime due.

Per esempio, nel grafico alla pagina precedente la farina in esame panificabile è
debole con stabilità 5 minuti; ha un buon assorbimento d’acqua, 57,8% (riferito
all’umidità 14%).

Molti laboratori dei mulini moderni hanno strumenti di approfondimento come


l’estensografo Brabender, per cui i grafici ottenuti fanno luce sulla tenuta del
prodotto nel tempo, nonché sulle sue caratteristiche di forza, resistenza ed
estensibilità. Per l’esame si prepara un impasto con farina e acqua salata
utilizzando l’impastatrice del farinografo, con la seguente formatura si ottengono
i filoni, i quali, dopo periodi di riposo (tre di 45 minuti ciascuno), subiscono la
stiratura con un gancio fino alla loro rottura (la performance viene segnalata allo
schermo, alla fine si produce il grafico con tre doppie curve). Tanto più sono
voluminosi, tanto è più forte il prodotto in esame; inoltre vengono sempre valutate
l’altezza e la lunghezza delle curve.

Estensografo Brabender.

Un altro strumento, detto Glutomatic, serve soprattutto per verificare la quantità


di glutine. Il campione di farina viene impastato con acqua salata e durante
l’impasto viene lavato costantemente sotto un getto d’acqua salata, che passa
attraverso un filtro sul fondo del recipiente, portando tutte le componenti
dell’impasto che si trovano in soluzione. Quello che resta al termine del lavaggio
è una spugna compatta, elastica e porosa, ossia il glutine. Il glutine ottenuto
viene centrifugato per allontanare i liquidi in eccesso, poi pesato (glutine umido)
e successivamente essiccato in un apposito apparecchio per 4 minuti. Otteniamo così
il peso di glutine secco.

Glutine secco sulla bilancia (a sinistra) e glutine ottenuto con il Glutomatic (a


destra).

Altri strumenti misurano le attività degli enzimi della farina (amilasi):

strumento per misurare il falling number o indice di caduta (chiamato anche indice
di Harberg in onore di chi lo ha inventato: gli scienziati Harberg e Perten.
Nell’analisi, la provetta contenente una miscela composta da farina e acqua viene
inserita all’interno dell’apparecchio, la cui camicia contiene dell’acqua bollente,
in modo che la farina gelatinizzi. L’asticella dell’agitatore (inserita all’interno
della provetta) successivamente cade dalla sua posizione massima fino al fondo
della provetta. Il tempo della sua caduta viene misurato in secondi e questo valore
è l’indice di caduta. Tanto più densa è la miscela, tanto più tempo ci vorrà per la
caduta dell’agitatore, e viceversa: nella miscela più liquida l’agitatore cadrà più
rapidamente. Questo tempo è in relazione con l’attività degli enzimi della farina:
se sono più attivi, la miscela diventa più liquida.

Come interpretare i valori di falling number

I risultati della prova di falling number vengono così riassunti:

< 220 secondi: la farina ha alta attività enzimatica (normalmente non viene
commercializzata dal mulino);

250 secondi: la farina ha attività enzimatica medio-alta (bisogna diminuire il


malto);

300-350 secondi: la farina ha normale attività enzimatica;

400 secondi: la farina ha scarsa attività enzimatica (bisogna aumentare il malto).

Anche l’analisi con l’amilografo si basa sullo stesso principio, ma nel recipiente
che contiene la miscela di farina e acqua vengono inserite anche le sonde, che
misurano l’inizio della gelatinizzazione e la massima gelatinizzazione, dando
un’informazione più completa.

Alcuni laboratori possiedono lo strumento per misurare l’amido danneggiato e fanno


controlli per la viscosità della farina.

D’obbligo devono essere eseguiti controlli a tappeto delle ceneri, per verificare
la corrispondenza del prodotto finito alla categoria di appartenenza a seconda del
grado di raffinatezza: 00, 0, 1 ecc. In questa analisi nei crogioli (piccoli
recipienti in materiale termoresistente come quarzo oppure marmo) viene pesata una
porzione di farina in esame. I crogioli vengono inseriti in una stufa (chiamata
“muffola”), la quale ha una temperatura che va da 550 a 600 °C. Inizialmente il
prodotto nel crogiolo prende fuoco, poi viene carbonizzato per 6 ore minimo. Quello
che resta sono le ceneri, le quali vengono pesate. Nelle ceneri vanno a finire le
parti non carbonizzabili (come per esempio i sali minerali), che si trovano negli
strati esterni del chicco di grano, quindi dalla loro quantità possiamo risalire al
grado di raffinatezza della farina. Se le ceneri sono più basse, la farina sarà più
raffinata, viceversa la farina integrale avrà un più alto valore di ceneri. La
quantità di ceneri per tipologie di farine italiane è regolamentata dalla legge.

Strumento per misurare il falling number.

Amilografo.

Quantità di ceneri per tipologie di farine italiane

TIPO E DENOMINAZIONE UMIDITÀ MASSIMA % SU 100 PARTI DI SOSTANZA SECCA

CENERI PROTEINE MINIME

min max 9.00

farina di grano tenero 00 14,50 _ 0.55 11.00

farina di grano tenero 0 14,50 _ 0.65 12.00

farina di grano tenero 1 14,50 _ 0.80 12.00

farina di grano tenero 2 14,50 _ 0.95 12.00

farina integrale di grano tenero 14,50 1,30 1,7 12.00

Alcune persone sono convinte che una farina 0 sia debole, mentre una farina 00 sia
forte. Questo tipo di classificazione non ha nessuna incidenza con la forza della
farina. Possiamo avere una farina integrale forte e una farina 00 debole. La forza
della farina dipende soprattutto dai grani che la compongono e da come viene fatta.

Spesso i mulini sono anche attrezzati con un piccolo laboratorio di panificazione,


in cui sul prodotto viene effettuato un bakery-test per verificare la sua
attitudine alla panificazione.

Le valutazioni chimiche e reologiche vengono riassunte in un unico valore, detto


Indice Sintetico di Qualità (ISQ), proposto da Italmopa (Associazione degli
Industriali Mugnai e Pastai), che generalmente varia da 70 a 130. Così le varietà
del frumento tenero possono essere suddivise in quattro categorie:

frumenti di forza (FF);

frumenti panificabili superiori (FPS);

frumenti panificabili (FP);

frumenti per biscotteria (FB).

La classificazione dei frumenti teneri mediante l’Indice Sintetico di Qualità

In base alle prove reologiche possiamo vedere a che famiglia appartiene il nostro
grano.

PARAMETRI QUALITATIVI FF FPS FP FB


LIMITI PUNTI LIMITI PUNTI LIMITI PUNTI LIMITI PUNTI

proteine (%) 12,5-13,5 70 10,5-11,5 70 9-10 70 11-10 70

13,5-14,5 100 11,5-12,5 100 10-11 100 10-9 100

> 14,5 130 > 12,5 130 > 11 130 < 9 130

stabilità (min.) dal farinografo 11-13 70 7-9 70 3-5 70

13-16 100 9-11 100 5-6 100 < 4 100

> 16 130 > 11 130 > 6 130

W dall’alveografo 270-300 70 220-250 70 140-170 70 140-110 70

300-340 100 > 250 100 170-200 100 110-80 100

> 340 130 > 200 130 < 80 130

P/L dall’alveografo 1,8-1,2 70 1,2-0,8 70 1,2-0,7 70 0,7-0,5 70

1,2-0,7 100 < 0,8 100 < 0,7 100 < 0,5 100

< 0,7 130

peso specifico (kg/hl) > 75 > 75 > 75 > 75

indice di Hagberg (secondi) > 250 > 220 > 220 > 220

PREPULITURA

Dopo l’esame all’arrivo, il grano viene pesato. Successivamente si effettua una


pulitura grossolana per allontanare dal prodotto la polvere, i sassolini, la terra,
la sabbia ecc., infine il prodotto viene immagazzinato nei silos.

LO STOCCAGGIO

I silos per la conservazione della materia prima di solito vengono collegati


all’impianto di macinazione. Il frumento, per garantire una buona conservazione,
deve essere asciutto e contenere una quantità minima di impurità. La temperatura e
l’umidità all’interno dei silos devono essere costantemente controllate. Le varietà
aventi caratteristiche simili possono essere stoccate nello stesso silos.
LA PULITURA

Dai vari silos vengono prelevate porzioni di grano in proporzioni necessarie per
comporre la miscela desiderata, destinata alla macinazione. Inizialmente il grano
passa attraverso dei separatori per eliminare le impurità di dimensioni diverse da
quelle delle cariossidi. Le eventuali particelle o i pezzettini di ferro si
eliminano mediante un passaggio attraverso separatori magnetici. I semi estranei si
separano con macchine dette “svecciatoi”, aventi tamburi con degli alveoli a forma
di semi, con separatori elicoidali nei quali i semi estranei vengono separati per
la differenza della velocità nella discesa. Successivamente il grano viene
spazzolato e aspirato per assicurare la massima pulizia. Alcuni mulini moderni
possiedono anche selezionatrici ottiche in grado di ispezionare il grano non
soltanto dalla superficie, ma anche in profondità attraverso il passaggio vicino a
telecamere ottiche e a raggi infrarossi. Il flusso del grano passa vicino alle
telecamere che lo ispezionano, consentendo ai chicchi sani di proseguire il
passaggio verso le fasi successive del processo molitorio, invece quelli difettosi
(frantumati, volpati, bianconati, bucati, fusariati, oppure semi estranei) vengono
espulsi con un getto d’aria nello scarto.

I laminatoi

Possono essere suddivisi nei seguenti gruppi:

laminatoi di rottura (B, da brojage). I loro cilindri hanno rigature profonde, ma


non molto ravvicinate. Essi frantumano le cariossidi staccando le parti cruscali
grossolane;

laminatoi di svestimento (D, da disagregage), aventi cilindri con delle rigature


più ravvicinate per svestire i frammenti della crusca, ancora attaccati;

laminatoi di rimacina (C, da convertissage), dotati di rulli lisci, che riducono in


farina i pezzi della mandorla farinosa, privi di frammenti cruscali.

IL CONDIZIONAMENTO

In questa fase le cariossidi vengono bagnate fino a che non raggiungono un tasso di
umidità del 16-17%. Il grano viene agitato per permettere un’omogenea distribuzione
dell’acqua all’interno dei chicchi. Successivamente il frumento subisce un riposo,
che dura mediamente 24 ore, ma può essere più lungo o più breve a seconda della
durezza del grano. L’operazione del condizionamento facilita la separazione delle
parti corticali dalla mandorla farinosa, rende le cariossidi meno fragili e più
elastiche, migliorando così le caratteristiche viscoso-elastiche del glutine, e
dona allo sfarinato una migliore attitudine alla panificazione.

LA MOLITURA

Durante questa fase i cereali si trasformano in farina mediante una frattura


frazionata e progressiva dei chicchi, sottoposti a più passaggi di rottura,
ciascuno seguito da una setacciatura, con la quale si eliminano gradualmente gli
strati esterni della cariosside (crusca, cruschello, tritello e farinaccio), fino a
ottenere la separazione della farina dalle altri parti corticali. La molitura
industriale si effettua nei laminatoi (dotati di coppie di cilindri che ruotano
l’uno contro l’altro e coinvolgono il prodotto schiacciandolo). La distanza fra i
cilindri e la dimensione della loro rigatura determina il grado di macinazione.
Ogni passaggio di macinazione è seguito dalla setacciatura per dividere i prodotti
sulla base delle dimensioni e del peso specifico. A questo scopo si utilizzano i
buratti (plansichter), aventi piani di setacci sovrapposti a oscillazione libera,
con lunghe maglie diverse per suddividere il prodotto in più frazioni con
dimensioni e caratteristiche diverse.

I plansichter

Dalla prima rottura della cariosside (B1) mediante il passaggio nel plansichter si
ricavano prodotti intermedi, fra cui semole vestite di varie dimensioni, crusca
larga e un po’ di farina. I prodotti più grossolani vengono inviati al passaggio di
rottura B2, mentre le semole vestite vengono inviate a più semolatrici in base alle
dimensioni per separare sempre meglio i prodotti.

LE SEMOLATRICI

Dividono le semole “nude” prive di frammenti cruscali da quelle “vestite” con


particelle di crusca aderenti alla semola. Le semole vestite vengono inviate nei
laminatoi di svestimento (D) per distaccare la crusca. Un successivo passaggio nel
buratto separa le semole rimaste vestite, che vengono nuovamente inviate nei
laminatoi di svestimento (D2), dalle semole nude, dalla farina e dal tritello. Le
semole nude provenienti dai passaggi di rottura e di svestimento vengono inviate ai
laminatoi di rimacina (C). La farina che si ottiene da ciascuna macinazione può
essere usata tal quale oppure miscelata con altre farine ottenute dalla macinazione
dei grani con caratteristiche reologiche diverse per ottenere un prodotto ideale
per l’utilizzatore. La miscelazione avviene nel miscelatore. Generalmente i mulini
possiedono loro cataloghi con le diverse varietà delle farine finite e delle
miscele, per soddisfare pienamente le necessità dei loro clienti. Questo schema di
molitura rappresenta la lavorazione del grano tenero, mentre per il grano duro il
principio di macinazione è lo stesso, però il numero dei passaggi con rulli rigati
e di semolatrici deve essere assai maggiore per ottenere la maggiore quantità
possibile di semola.

LO STOCCAGGIO DELLA FARINA NEI SILOS E IL CONFEZIONAMENTO

La farina ottenuta dalla macinazione o dalla miscelazione viene stoccata nei silos
di maturazione, da dove può essere prelevata da autocarri destinati per il
trasporto della farina, oppure subisce il confezionamento nei sacchi di pura
cellulosa da 25 kg (per i panifici), da 5, da 10, oppure da 1 kg (per la
distribuzione nei supermercati). I sottoprodotti vengono destinati ai mangimifici.
I prodotti finali della macinazione

I prodotti ottenuti attraverso le varie fasi della macinazione del frumento tenero
sono:

farina 75-78%

farinetta e farinaccio 2,5-3%

crusca, cruschello e tritello 20-22%

scarti di pulitura 0,2-2%

Dal D.L. n. 109 del 27 gennaio 1992, è denominato “farina di grano tenero” il
prodotto ottenuto dalla macinazione e conseguente abburattamento del grano tenero
liberato dalle sostanze estranee e dalle impurità. Le farine di grano tenero
destinate al commercio possono essere prodotte soltanto nei tipi 00, 0, 1, 2,
integrale. La farina tipo 00 può essere prodotta anche sotto forma di sfarinato
granulare (granito). Viene altresì denominato “semola di grano duro” o
semplicemente “semola” il prodotto granulare a spigolo vivo ottenuto dalla
macinazione e conseguente abburattamento del grano duro, liberato dalle sostanze
estranee e dalle impurità. La farina di grano duro può essere prodotta in forma di
semola, semolato o di farina integrale. È consentita la produzione di farina di
grano duro, da destinare esclusivamente alla panificazione, avente un contenuto in
ceneri minimo di 1,35 e massimo di 1,60, cellulosa massimo 1, sostanze azotate
minimo 11,50 su 100 parti di sostanza secca. La legge n. 580 del 4 luglio 1967 con
le successivi modifiche definisce alcuni requisiti per le farine di grano tenero e
di grano duro.

ANCORA QUALCHE APPROFONDIMENTO SULLA FARINA

FARINA DI FRUMENTO TENERO

Le categorie della farina di frumento tenero si distinguono a seconda del tasso di


abburattamento3 (verificato attraverso le analisi delle ceneri, vedi) e sono le
seguenti: 00, 0, 1, 2, integrale.

La differenza tra le categorie sta nella quantità di parti corticali rimaste nella
farina dopo la sua macinazione. La farina 00 sarà più raffinata e quindi avrà una
minima quantità di parti cruscali, invece la farina integrale ne avrà la massima
quantità.

Poiché la farina è un ingrediente fondamentale per i prodotti da forno, la sua


qualità determina direttamente la qualità del prodotto finito. Importano sia il
tipo della farina utilizzata (dipende dal cereale macinato) e il suo grado di
raffinatezza (00, 0, 1, 2, integrale) sia le sue caratteristiche reologiche
(riguardanti la forza e il rapporto fra resistenza ed estensibilità) e fermentative
(attività amilasica). Una farina più forte (capace di formare più glutine) dà il
prodotto più voluminoso, con la crosta più sottile, al contrario di una farina
debole. Ma, d’altro canto, i prodotti più voluminosi hanno la mollica più
sviluppata e più soffice (che rimane più appetitosa e più digeribile), ma è
predisposta a disperdere maggiormente le sostanze aromatizzanti durante la cottura,
e ad asciugarsi prima nel prodotto cotto. Alcuni tipi di prodotti devono essere
realizzati con farine di forza (per esempio, rosetta soffiata, ciabatta con biga,
prodotti di ricorrenza come panettone, colomba, prodotti sfogliati lievitati ecc.),
perché devono avere uno sviluppo eccellente e una mollica estremamente fine e
soffice.

Per i prodotti dove è ricercata maggiore estensibilità dell’impasto (grissini


stirati, focaccia diretta) è raccomandato l’utilizzo della farina debole. Anche per
i pani “rustici” è più raccomandato l’utilizzo delle farine deboli (per dare una
mollica più consistente e una crosta non molto sottile, ma croccante, tipica di
tali prodotti). Queste caratteristiche saranno ancora più marcate se viene
utilizzata una farina meno raffinata (1, 2, oppure integrale). Mollica consistente
e una crosta più presente le avranno anche i prodotti a base di semola che, però,
si possono vantare di una bella colorazione della crosta e della mollica e di un
sapore inconfondibile. Anche i prodotti confezionati con le farine più scure di
grano tenero saranno più saporiti rispetto a quelli confezionati con le farine 00,
per non parlare dei benefici salutistici e nutrizionali. Inoltre, i prodotti
preparati con le farine più scure e con la semola possono vantarsi di un resa più
alta in pane, un altro fattore da non sottovalutare.

Tuttavia, alcune farine a parità di forza danno prestazioni migliori e altre meno.
La differenza maggiore sta nella qualità dei grani che compongono le farine. Le
farine prodotte dalle miscele dei grani più nobili e più pregiati hanno le qualità
panificabili migliori. Esistono le farine di forza, preparate con i grani di base
di modesta qualità e arricchite con tanto glutine: raggiungono i valori di forza
richiesti, ma a livello di panificazione danno prestazioni inferiori rispetto alle
farine che hanno la stessa forza, ma sono state ottenute con dei grani più pregiati
e più validi, con molto meno glutine aggiunto o anche senza quest’ultimo.

È opportuno conoscere la forza della farina per stabilire l’utilizzo migliore. A


volte i prodotti non vengono bene non perché abbiamo utilizzato una “farina
cattiva”, ma semplicemente perché non abbiamo scelto il tipo giusto per la nostra
lavorazione.

3 TASSO DI ABBURATTAMENTO Chiamato anche “tasso di estrazione”, è la quantità di


farina ottenuta dalla macinazione di 100 kg di grano. Di conseguenza, quanto più è
alto il tasso di estrazione tanto meno è raffinata la farina.

Per una corretta destinazione delle farine di frumento potete scegliere:

farine deboli, con poche proteine: per i prodotti di pasta frolla e simili;

farine deboli, ma leggermente più forti di quelli per pasta frolla: per pan di
Spagna e prodotti simili;

farine deboli panificabili: grissini, focacce dirette, da rinfresco per gli impasti
a base di biga, per i pani di grosso formato e per prodotti rustici;

farine di forza media: per tutti i tipi di pane, compresi quelli di lunga
fermentazione, per poolish medio-lungo e per i prodotti a base di poolish, per
pizza e focaccia di media lievitazione, per sfoglia non contenente lievito;

farine di forza: per biga e i prodotti soffici a base di biga (ciabatta, rosetta
soffiata), per i prodotti sfogliati lievitati (croissant, brioche), per il
mantenimento del lievito madre, per i prodotti di ricorrenza (panettone, colomba,
pandoro).

LA SEMOLA RIMACINATA DI GRANO DURO

Macinando il grano duro, mediamente si ottiene circa il 60-62% di semola, che può
essere ulteriormente rimacinata, passando attraverso speciali laminatoi con dei
cilindri rigati, per ottenere la semola rimacinata di grano duro, idonea per la
panificazione. Mentre, rimacinando direttamente le prime rotture del grano, si
ottiene la semola rimacinata integrale.

Secondo la legge n. 580, vigente nella panificazione, viene denominato “semola di


grano duro” o semplicemente “semola”, il prodotto granulare a spigolo vivo ottenuto
dalla macinazione e conseguente abburattamento del grano duro, liberato dalle
sostanze estranee e dalle impurità, che deve possedere le caratteristiche elencate
nella tabella qui sotto.

La composizione chimica del grano duro presenta alcune differenze rispetto al grano
tenero. Il glutine di grano duro ha un’elevata resistenza, è corto e tenace (i
valori medi del rapporto P/L dall’analisi alveografica oscillano da 1,1 a 3,0, con
modesto valore di W, pari a 190-220). La semola rimacinata ha un’alta capacità
d’assorbimento e di trattenimento d’acqua (60-68% rispetto a valori medi di 50-60%
per la farina di grano tenero). Risulta maggiore anche la resa in pane (130-140%
per i prodotti confezionati con gli sfarinati di grano duro, rispetto a una media
di 120% per il pane di grano tenero).

La stabilità farinografica della semola è molto modesta (generalmente non supera 5


minuti), per cui la semola non è adatta alle lunghe lievitazioni. Infatti, non è
possibile di realizzare una biga di 24 ore soltanto con semola. Se, invece, c’è
necessità di preparare una biga con semola, solitamente quella viene miscelata con
farina di forza di frumento tenero al 50%.

Per panificare con semola risulta particolarmente indicato anche l’utilizzo di


pasta di riporto (preferibilmente dall’impasto di semola) o meglio ancora del
lievito madre. Un’altra tecnica che potrebbe essere utile per la preparazione dei
prodotti di semola è quella dell’autolisi (vedi).

Caratteristiche della semola

TIPO E DENOMINAZIONE UMIDITÀ MASSIMA% SU 100 PARTI DI SOSTANZA SECCA

CENERI CELLULOSA SOSTANZE AZOTATE

min max min max min

semola 14,50 0,70 0,85 0,20 0,45 10,50

semolato 14,50 0,90 1,20 – 0,85 11,50

Per valutare la qualità della semola rimacinata è importante soprattutto conoscere


il suo tenore di glutine.

Vengono valutate anche le altre caratteristiche tecnologiche come granulometria,


luminosità e indice di giallo, che dipende dal colore dello sfarinato. Il colore
giallo della farina di grano duro è determinato dalla presenza di numerosi pigmenti
carotenoidi (come luteina, b-carotene) che rivestono un’importanza non soltanto a
livello organolettico (forniscono la colorazione più o meno gialla alla mollica e
l’oscuramento più o meno intenso alla crosta), ma anche salutistico, per quanto
hanno dimostrato di essere utili nella prevenzione dell’invecchiamento cellulare e
di alcuni tumori.

La semola rimacinata presenta anche il più alto contenuto di ceneri (0,75-0,85%)


rispetto alle farine di grano tenero (0 e 00). A causa delle quantità più alte di
fibra alimentare, di sali minerali e di vitamine che possiedono, gli sfarinati di
grano duro assumono ancor più importanza nella dieta di ogni giorno.

L’ACQUA

Impossibile formare un prodotto da forno lievitato senza acqua, che nell’impasto è


indispensabile per permettere le reazioni chimiche, enzimatiche e fermentative.
Dalla sua quantità, qualità e temperatura dipendono le caratteristiche
dell’impasto.

Per essere idonea per la preparazione dei prodotti da forno l’acqua dovrà essere
potabile, quindi in base al D.L. 31/2001 e successive modifiche (D.L. 27/2002) e in
base alla Direttiva Europea 98/83/CE, dovrà rispondere ai seguenti parametri:

presenza incolore, insapore, inodore;

durezza4 totale compresa fra 15 e 50 °F (è preferibile attorno 15-30 °F);

pH (criterio di acidità) compreso fra 6,5 e 9,5;

microbiologicamente pura (coliformi-fecali-enterococchi-streptococchi spore


Escherichia coli) assenti;

temperatura 12-25 °C;

conducibilità 20 °C V.G. (valore guida) 400 µS/cm;

residuo fisso 180 °C limite 1500 mg/l;

torbidità assente;

ossidabilità limite 5 mg/l;

sodio (Na) limite 200 mg/l;

cloruri (Cl) limite 250 mg/l;

nitrati (NO3) limite 50 mg/l;

nitriti (NO2) limite 0,5 mg/l;

ammoniaca (NH4) limite 0,5 mg/l;

selenio limite 10 µg/l;


vanadio limite 50 µg/l;

nichel limite 20 µg/l;

mercurio limite 1 µg/l;

rame limite 1 mg/l;

bromati limite 10 µg/l;

arsenico limite 10 µg/l;

cadmio (Cd) limite 5 µg/l;

cromo (Cr) limite 50 µg/l;

ferro (Fe) limite 200 µg/l;

manganese (Mn) limite 50 µg/l;

alluminio (Al) limite 200 mg/l;

fluoro limite 1,5 mg/l;

piombo (Pb) limite 10 µg/l;

disinfettante residuo 0,2 mg/l.

4 DUREZZA DELL’ACQUA È determinata dai sali di calcio e di magnesio. Viene misurata


in gradi francesi (F). Un grado francese corrisponde a un grammo di carbonato di
calcio disciolto in 100 l d’acqua. Per panificare non è consigliato l’utilizzo di
acqua troppo dolce (poco dura), perché gli impasti possono restare più molli, né
troppo dura, che produrrebbe impasti più rigidi.

Come stabilire la quantità di acqua da aggiungere agli impasti? Dipende da almeno


tre fattori.

1 Bisogna considerare il tipo di pane. Nella panificazione italiana esistono tre


principali tipi dell’impasto:

morbido (con 50-60% d’acqua dalla massa della farina);

asciutto (con meno di 45% d’acqua);

molle (con più di 70% d’acqua nell’impasto).

2 Si deve aggiungere di solito più acqua per lo stesso tipo di impasto se la farina
è più forte, se contiene più fibra, oppure se ha l’umidità più bassa. In genere
quando la farina viene conservata per più tempo diventa più asciutta e più forte,
richiede quindi più acqua nell’impasto.

3 Se nell’impasto si mette il condimento (una dose significativa di zucchero, di


grasso, di uova ecc.) la quantità di acqua da aggiungere si riduce.
IL SALE

La quantità di sale nell’impasto solitamente varia dal 1,8 al 2,5% dalla quantità
di farina, a seconda delle ricette e del tipo di farina. Per la maggior parte delle
preparazioni la sua percentuale è del 2%. Esistono anche tipi di pane (come per
esempio il pane toscano) che non contengono sale. In generale, oggi si cerca di
ridurne la quantità per seguire al meglio una sana alimentazione.

Il sale da cucina chimicamente è quello inorganico, il cloruro di sodio (NaCl). Il


sale può essere estratto dalle acque del mare (marino) e dai giacimenti minerari
(salgemma). Esiste anche quello iodato, arricchito di iodio (sotto forma di iodato
di potassio). Si presenta come una polvere cristallina di piccole dimensioni
(fino), come prodotto con cristalli di dimensioni medie (medio), oppure con
dimensioni di cristalli più grandi, fino a 2-3 mm di diametro (grosso). Ha gusto
molto sapido, è igroscopico (richiama l’acqua dall’ambiente) e, data tale
caratteristica, a volte a quello da tavola vengono aggiunte delle sostanze
(solitamente dei carbonati) per ridurla. Normalmente il sale da cucina contiene
circa il 97-98% di cloruro di sodio e residui di cloruri di magnesio, solfato e
calcio.

Nella preparazione del pane il sale ha un ruolo molto importante: la sua aggiunta a
un impasto cambia la sue proprietà reologiche e fermentative. Fornisce resistenza
ed elasticità a un impasto e rallenta l’attività microbica e quella degli enzimi.
Un impasto senza sale fermenta più in fretta e ha una minore capacità di mantenere
la forma, fornendo prodotti finali con un volume minore (rispetto a un impasto con
sale), mollica più compatta e la crosta di colore più chiaro.

Il sale, se messo a contatto diretto con il lievito, ne uccide le cellule,


provocando la loro rottura. Una prova di ciò consiste nel mettere sopra a dei
pezzetti di lievito compresso un pizzico di sale: dopo qualche minuto si potrà
osservare la fuoriuscita di acqua dal lievito per effetto della pressione osmotica.
Il sale rallenta l’attività microbica dell’impasto: sia dei lieviti sia dei batteri
lattici, perciò non è consigliabile la sua aggiunta nei preimpasti come biga e
poolish, dove deve svilupparsi la microflora, a esclusione dei casi in cui bisogna
rallentare la fermentazione. La presenza del sale nell’impasto rallenta anche
l’attività di tutti gli enzimi, e in particolare delle proteasi (svolgono la
reazione della proteolisi), e delle amilasi, responsabili del rammollimento
dell’impasto. Quindi, con l’aggiunta del sale, l’impasto diventa meno appiccicoso e
più elastico.

Nei confronti del glutine il sale rende la maglia glutinica più resistente.
L’impasto con l’aggiunta del sale risulta asciutto ed elastico, durante la
lavorazione non si appiccica. Un’eccessiva quantità di sale nell’impasto rende però
la maglia glutinica troppo rigida e corta, rallentando la fermentazione e
peggiorando la qualità dell’impasto e del prodotto finale.

Di solito nell’impasto il sale viene aggiunto non subito, ma dopo qualche minuto
dall’inizio della lavorazione.

Se è unito in quantità moderata, il sale influisce positivamente sulle


caratteristiche del prodotto finito, conferendogli l’esatto volume, rendendolo
soffice, fragrante, profumato e con la crosta della giusta colorazione. Un prodotto
in cui non sia stato aggiunto il sale, oltre a essere insipido, avrà una forma
piatta e larga, un volume basso e una crosta troppo chiara. La forma piatta e larga
è il risultato delle scarse caratteristiche dell’impasto (che si dimostrava
appiccicoso e colloso), invece la crosta rimane chiara per il motivo della
fermentazione eccessiva: in mancanza del sale, che rallentava l’attività del
lievito, la fermentazione dell’impasto è stata troppo veloce, consumando gli
zuccheri necessari per la colorazione della crosta.

Quando invece viene preparato il pane volutamente senza sale (è il caso del pane
toscano) oppure quello con “mezzo sale”, l’impasto deve essere arricchito con una
buona quantità di pasta di riporto (25-30% sulla quantità della farina), in grado
di fornire all’impasto più “forza” e resistenza, caratteristiche che permettono di
ottenere un buon sviluppo del prodotto anche senza sale o con poco sale. In questi
casi è opportuno aggiungere nell’impasto anche della semola rimacinata, perché
questo sfarinato ha una buona resistenza, che favorisce la consistenza
dell’impasto.

IL LIEVITO

Un prodotto da forno di lievitazione biologica contiene i lieviti che ne permettono


la crescita e conferiscono il caratteristico profumo.

In panificazione generalmente viene utilizzato il lievito “di birra” (compresso,


cioè a cubetti, oppure disidratato, come il lievito istantaneo o lievito secco
attivo). In alternativa si può usare il lievito madre. È possibile anche realizzare
i prodotti “a lievitazione mista”, cioè a base di lievito di birra con
l’inserimento di una porzione del lievito madre. In questo caso i vantaggi non
saranno tanto marcati, ma comunque sarà migliorata la qualità del prodotto finito.

L’utilizzo del lievito madre è indispensabile per realizzare i lievitati importanti


(dolci di ricorrenza come panettone, pandoro, colomba...), mentre non è
fondamentale per realizzare veneziane, brioche ecc. perché possono essere preparati
anche con il lievito di birra. Con il lievito madre però si avrà una conservabilità
più lunga, e saranno migliori anche le caratteristiche organolettiche dei prodotti,
ma ovviamente i tempi di realizzazione saranno più lunghi.

Quando utilizziamo il lievito compresso, la sua quantità varia mediamente dallo 0,5
al 5% dal peso della farina, a seconda della ricetta e del metodo di preparazione.
Se si utilizza il lievito secco attivo, la sua quantità necessaria è di circa un
terzo dalla quantità del lievito compresso. Se l’impasto è indiretto, la quantità
di lievito utilizzato è minore (nella biga viene messo l’1% di lievito compresso,
nel poolish dallo 0,1 al 2,5% in base alle ore di fermentazione). Anche gli impasti
di lunga fermentazione hanno basse quantità di lievito compresso. D’estate la
quantità di lievito diminuisce e d’inverno aumenta. Se l’impasto contiene i
condimenti, la quantità di lievito viene maggiorata, ma non deve superare il 5%.
Con maggiori quantità di lievito compresso l’impasto fermenta prima, ma dopo una
certa soglia (superiore al 5% per gli impasti conditi o al 3% per gli impasti senza
condimenti) si abbassano la digeribilità e la qualità del prodotto finito.

I metodi più lunghi della preparazione del prodotto con minore quantità di lievito
utilizzato valorizzano di più il prodotto finito e lo rendono più digeribile.

La lievitazione del pane è sempre e comunque biologica. Invece, i prodotti di


pasticceria secca possono essere “lievitati” attraverso la lievitazione fisica, che
avviene durante la cottura prevalentemente attraverso l’espansione delle bolle di
gas d’aria, incorporate precedentemente dall’impasto durante la sua montatura (per
esempio le meringhe), oppure attraverso l’espansione delle bolle di acqua
(trasformata in stato gassoso nel forno), che non possono uscire dal prodotto a
causa dgli strati di materia grassa (prodotti sfogliati non contenenti lievito) che
fanno da barriera. In questi ultimi l’acqua dell’impasto durante la cottura passa
dallo stato liquido a quello gassoso, che comporta aumento di volume, e non può
fuoriuscire dall’impasto e disperdersi nell’ambiente, perché la materia grassa
isola l’impasto da quest’ultimo, il prodotto aumenta il suo volume, quindi lievita.
La lievitazione può avvenire anche con la lievitazione chimica, utilizzando degli
agenti lievitanti chimici.5

Utilizzando il lievito compresso oppure il lievito madre, si è sempre in presenza


di lievitazione biologica, con la quale l’anidride carbonica viene creata
nell’impasto attraverso la reazione della fermentazione alcolica (a differenza
degli agenti lievitanti chimici), svolta da parte dei microrganismi viventi, i
lieviti. Tra tutti i tipi di lievitazione è quella che conferisce al prodotto
finale migliore digeribilità e un aroma più ricco e caratteristico.

5 AGENTI LIEVITANTI CHIMICI Nella produzione di alcuni prodotti di pasticceria la


lievitazione può essere ottenuta anche a opera di agenti lievitanti chimici,
aggiunti nell’impasto. I più usati sono bicarbonato di ammonio (NH4)2 CO3 e
bicarbonato di sodio Na2 CO3. Tali sostanze sono in grado di produrre chimicamente
il gas CO2 (l’anidride carbonica), che viene trattenuto dalla struttura
dell’impasto. Durante la cottura le bollicine di CO2 si dilatano sotto l’azione
termica, così avviene la crescita del volume del prodotto, ossia la sua
lievitazione. In commercio esistono già pronti “baking powder” che contengono
insieme agli agenti lievitanti di base anche dei sali acidi per agevolarne la
funzione, l’amido (come eccipiente) e gli aromi (per esempio vanillina).

GLI INGREDIENTI PER I PRODOTTI SPECIALI

L’UOVO

Grazie alla sua capacità di legarsi agli altri ingredienti, l’uovo è adatto alla
realizzazione di diversi prodotti da forno e di pasticceria, ma anche di molte
pietanze e gelati. È un’unica cellula, di grandi dimensioni, nella quale sono
presenti tutti i componenti necessari per la formazione e la crescita del pulcino,
per cui è un concentrato di lipidi, proteine, vitamine e sali minerali che lo rende
un alimento di altissimo valore nutrizionale e biologico.

Nel guscio dell’uovo si trova la membrana protettiva e al suo interno vi sono le


due parti principali: l’albume e il tuorlo. Mediamente da due uova di peso medio
(60 g circa) si ottengono i 100 g di parte commestibile (composta per il 74% da
acqua, per il 12-13% da proteine, per l’11% da lipidi, da sali minerali, vitamine,
enzimi e in quantità minima da glucidi, distribuiti fra il tuorlo e l’albume).

L’albume ha una consistenza acquosa e gelatinosa, è quasi incolore ed è insapore,


copre i 2/3 del peso dell’uovo senza guscio, ed è costituito principalmente
dall’acqua (per l’87%), da proteine (per 11% circa), presenta qualche traccia di
vitamine e di sali minerali ed è privo di grassi. Le proteine dell’albume sono
composte principalmente da ovoalbumina (60% circa), una fosfoproteina, contenente
anche i gruppi sulfidrili (-SH) e possiede le proprietà gelificanti e
stabilizzanti.

Il tuorlo è composto per il 50% da acqua, ma contiene anche proteine (16% circa),
sali minerali, vitamine, tracce di glucosio, ed è particolarmente ricco di grassi
(ne contiene circa il 32%). Questi ultimi sono costituiti principalmente da
trigliceridi e da fosfolipidi (soprattutto lecitine). Nel tuorlo è contenuto anche
il colesterolo in quantità abbastanza notevoli. Le proteine del tuorlo hanno
un’elevata quantità di aminoacidi essenziali (non sintetizzabili dall’uomo), che
determina l’alto valore biologico di questo alimento, tanto che vengono prese come
“unità di misura” per tutte le altre proteine animali. I sali minerali si trovano
per lo più nel tuorlo, e contengono gli elementi come calcio, zolfo, ferro,
potassio, ma soprattutto fosforo (specie in forma legata alle proteine e ai
lipidi), il cui contenuto esalta il valore nutritivo dell’uovo. Fra le vitamine,
anch’esse principalmente nel tuorlo, ci sono: la vitamina B1 (presente anche
nell’albume), la vitamina B2, la vitamina D, la vitamina PP, e la vitamina A,
contenuta soltanto nel tuorlo e che ne determina la caratteristica colorazione
gialla.

La particolare composizione chimica dell’uovo spiega le sue proprietà schiumogene,


coagulanti ed emulsionanti, adatte a molteplici usi di questo alimento in cucina e
in pasticceria.

Nelle lavorazioni l’albume e il tuorlo dell’uovo spesso vengono separati, perché


hanno caratteristiche differenti che si prestano a diverse preparazioni.

Le proteine dell’uovo, specie quelle dell’albume, hanno una struttura globulare,


simile a quella del gomitolo di lana, in cui le catene aminoacidiche vengono
ripiegate e arrotolate su se stesse, fissandosi in diversi punti con dei legami di
diversa natura (ionici, covalenti ecc.). Con l’aumento della temperatura,
dell’acidità o della concentrazione del sale, i legami, che tengono unita questa
struttura si rompono, facendo sì che le proteine perdano la loro struttura
originaria, acquistando una struttura lineare, mentre i legami liberi possono
collegarsi con le catene aminoacidiche delle altre proteine. Questo processo viene
chiamato coagulazione. Si forma così un agglomerato proteico, con una struttura
solida che può inglobare al suo interno sia l’aria sia l’acqua, e può diventare più
o meno gelatinosa, a seconda del tipo e del numero dei legami fra le proteine:
tanto sono più numerosi e forti, tanto più densa sarà la massa, altrimenti si avrà
una consistenza più acquosa.

Le proteine dell’albume coagulano alla temperatura di 62 °C, mentre quelle del


tuorlo a 65 °C. Le molecole d’acqua sono collegate alle proteine con dei legami “a
idrogeno”, abbastanza deboli e capaci di disfarsi rapidamente con l’aumento del
calore. Infatti, durante la cottura i complessi proteici dell’uovo rilasciano
l’acqua, mentre le catene aminoacidiche delle diverse proteine si avvicinano,
formando delle nuove strutture. Di questo fenomeno bisogna tenere conto, perché le
modalità di formazione dell’impasto contenente l’uovo e della cottura incidono
sulle caratteristiche e qualità dei prodotti finali. Oltre al calore, anche
l’aggiunta di ingredienti come latte, zucchero, sale e sostanze acide (succo di
limone, di frutta ecc.) possono influenzare la coagulazione delle proteine. Per
esempio, il latte e lo zucchero allontanano le proteine fra loro, disturbando la
loro coagulazione, mentre il sale e gli acidi la favoriscono.

Un’altra importante caratteristica dell’uovo è la capacità schiumogena del suo


albume. Tale capacità viene sfruttata soprattutto nella pasticceria per consentire
la lievitazione fisica in molti prodotti a base di impasti montati (meringhe, pan
di Spagna, biscotti savoiardi, soufflé ecc.). Durante la montatura del bianco
d’uovo le sue catene proteiche si distendono e si legano nuovamente fra loro,
formando un reticolo che ingloba aria e acqua e che possiede una certa stabilità.
Contribuiscono alla formazione della schiuma le proteine maggiormente contenute
nell’albume (ovalbumine, ovomucine e globuline). Le ovoalbumine e le globuline
favoriscono l’aumento della viscosità del prodotto montato, mentre le ovomucine
formano una pellicola insolubile intorno alle bolle d’aria, stabilizzando la
struttura.

L’aggiunta di alcuni ingredienti (sale, grasso) riduce le proprietà schiumogene


dell’albume, mentre alcuni (acidi, zucchero in piccole quantità) favorisce la
stabilità della schiuma. Sulla montatura del bianco influisce anche la freschezza
dell’uovo: si ha più difficoltà nel montarlo quando l’uovo è meno fresco. Un altro
fattore da considerare è il tempo di montatura, che non deve essere eccessivo,
altrimenti si avrà una parziale rottura della struttura con la fuoriuscita
dell’aria precedentemente incorporata.

Il tuorlo non ha le proprietà schiumogene dell’albume a causa del suo elevato


contenuto di grassi e della diversa struttura proteica, però ha un forte potere
emulsionante, grazie a un alto contenuto di fosfolipidi (lecitine). Questo potere
viene sfruttato soprattutto nelle preparazione delle ricette contenenti materia
grassa, perché favorisce la formazione di un’emulsione stabile fra i componenti non
mescolabili tra loro (per esempio olio e acqua), in cui un liquido viene disperso
nell’altro in forma di piccole particelle, formando così un impasto omogeneo.
Inoltre le lecitine, come tutti gli altri emulsionanti in generale, conferiscono al
prodotto lievitato uno sviluppo migliore e una più lunga durata di conservazione.

Per quanto riguarda l’uso delle uova nei prodotti di lievitazione biologica, le
loro funzioni possono essere così riassunte: aiutano a legare i vari ingredienti
fra loro, formando gli impasti omogenei, di elasticità più alta; conferiscono al
prodotto uno sviluppo maggiore; i tuorli in particolare favoriscono il sapore e il
colore della mollica e consentono al prodotto di avere una più lunga durata di
conservazione.

LA MATERIA GRASSA

L’azione della materia grassa negli impasti dei prodotti da forno può essere
riassunta nei punti qui descritti.

1 Il grasso svolge l’azione lubrificante negli impasti dei prodotti da forno,


formando uno strato sottile di sostanza grassa tra le particelle dell’amido e delle
proteine e collegando le varie componenti dell’impasto tra loro. Con l’aggiunta di
materia grassa l’impasto risulta più estensibile e più malleabile, dando l’origine
a prodotti più voluminosi. Avvolgendo con la pellicola oleosa le bolle d’anidride
carbonica, formate all’interno dell’impasto, il grasso ha la capacità di
stabilizzarle. Quindi la materia grassa dell’impasto migliora non soltanto il
volume, ma anche l’alveolatura (la mollica del prodotto finito rimane più fine, più
omogenea e più soffice).

2 I grassi contenuti nell’impasto prolungano la freschezza del prodotto finito,


perché hanno la capacità di isolare l’amido. Invecchiando, i granuli dell’amido
depongono l’acqua assorbita, quest’ultima parzialmente viene trattenuta dal
glutine, ma parzialmente migra in forma di acqua libera dalla mollica alla crosta e
fuoriesce nell’ambiente. Così, andando avanti nel tempo, la mollica diventa sempre
più secca e la crosta sempre più umida, creando l’ambiente ideale per la crescita
delle muffe. La presenza del grasso rallenta questi processi, perché esso forma una
specie di pellicola impermeabile intorno all’amido, che ne impedisce la fuoriuscita
d’acqua e quindi la sua migrazione, prolungando la durata della conservazione del
prodotto.

3 L’aggiunta di materia grassa aumenta il valore nutritivo del prodotto.

4 Nei confronti del lievito la materia grassa agisce negativamente, perché rallenta
la sua attività vitale, isolando le cellule del lievito con uno strato oleoso, che
non lascia penetrare l’acqua e le sostanze alimentari necessarie per la loro vita.
Di conseguenza, quando la materia grassa viene aggiunta nell’impasto la quantità di
lievito di birra va aumentata. Se la quantità di materia grassa nell’impasto è
notevole, il lievito risulta quasi completamente inattivato, per questo, in alcune
ricette di pasticceria lievitata (per esempio per i prodotti di ricorrenza) per
riuscire a utilizzare la lievitazione biologica vengono effettuati più impasti, in
modo da dosare poco per volta la materia grassa. Nei casi in cui la preparazione
dell’impasto preveda l’aggiunta di parecchia quantità di materia grassa (come in
alcuni prodotti di pasticceria), per la lievitazione si usano degli agenti
lievitanti chimici.

Le sostanze grasse contengono degli acidi grassi nella loro struttura, che possono
essere:

saturi (a catena semplice, non contenente dei doppi legami);

insaturi (la cui catena contiene uno o più doppi legami).

Le sostanze grasse utilizzate per i prodotti da forno possono essere di origine


animale (per esempio burro, strutto, lardo) e vegetale (oli di oliva, oli di semi,
margarine, grassi vegetali).

I grassi contenenti gli acidi grassi saturi hanno un punto di fusione più alto
rispetto a quelli contenenti gli acidi grassi insaturi. I primi, quindi, risultano
solidi a temperatura ambiente, mentre i secondi liquidi. Questo dipende dal fatto
che le catene di acidi grassi saturi risultano lineari (quindi possono
ulteriormente legarsi fra loro, formando una rigida struttura cristallina) e quelle
di acidi grassi insaturi sono ripiegate nel punto in cui si trova il doppio legame
(ciò comporta l’allontanamento di queste catene fra loro e quindi l’impossibilità
della formazione dei legami fra di loro).

In base al loro stato fisico e alla temperatura dell’ambiente i grassi possono


essere:

grassi solidi, che si presentano solidi o semisolidi a temperatura ambiente, come


burro, strutto, sego, margarina, grassi idrogenati;

oli, liquidi a temperatura ambiente, come oli di oliva, di arachidi e di semi.

L’OLIO DI OLIVA
È il tipico ingrediente non soltanto della panificazione italiana, ma di tutta la
cucina mediterranea. Viene prodotto per spremitura delle olive. Mediamente da 100
kg di olive vengono prodotti circa 25 kg di olio di oliva, di cui 5 kg è costituito
da olio di sansa, e i restanti 20 kg sono suddivisi fra l’olio vergine (con acidità
bassa) e l’olio lampante (con l’acidità superiore al 2%); il resto è lo scarto di
produzione (30 kg di sansa esausta, che è un combustibile, e 45 kg di acqua di
vegetazione).

L’olio di oliva extravergine contiene soprattutto nobili acidi grassi: monoinsaturi


e polinsaturi (85% circa) e in minore quantità acidi grassi saturi, per cui può
vantare un’alta digeribilità e un buon valore biologico. Inoltre gli oli di oliva
contengono le vitamine liposolubili (come A ed E) e tocoferoli (vitamina E) che
sono anche antiossidanti naturali, utili nella prevenzione dell’invecchiamento
cellulare nell’organismo umano.

A causa dell’elevata quantità di acidi grassi insaturi e polinsaturi, l’olio di


oliva è soggetto all’irrancidimento.6 I fattori che accelerano questo processo sono
la luce, il calore, ma soprattutto l’ossigeno dell’aria.

6 IRRANCIDIMENTO Sotto l’azione di ossigeno gli oli irrancidiscono, il loro odore


diventa sgradevole, il sapore acre e si ha un forte aumento dell’acidità. Con
questo processo i trigliceridi inizialmente si scindono in glicerolo e acidi
grassi, e questi ultimi si trasformano in perossidi. La perossidazione riguarda
soprattutto gli acidi grassi insaturi. I perossidi che si formano sono dei composti
instabili e attraverso una serie di reazioni si trasformano in aldeidi, chetoni e
acidi grassi volatili, dall’odore sgradevole (di rancido).

La legge prevede che l’olio possa essere dichiarato italiano solo se l’intero ciclo
di raccolta, produzione, lavorazione e condizionamento si sia svolto sul territorio
nazionale. Per l’olio di oliva vergine extra esistono le denominazioni di origine
controllata nazionali (DOC) e le denominazioni d’origine protetta europee (DOP).
Inoltre la Oil Masters Corporation ha promosso la creazione di un marchio HS,
attribuibile all’olio vergine extra prodotto secondo i parametri di un rigoroso
disciplinare. L’olio in questione deve avere un’acidità massima dello 0,5%, una
quantità minima definita di acido oleico e altre caratteristiche che lo
differenziano dagli altri oli.

Per essere conservato al meglio l’olio deve essere ermeticamente chiuso: può essere
confezionato in lattine di alluminio o in contenitori di vetro, preferibilmente
scuro od opaco per proteggerlo dalla luce. Spesso i contenitori di vetro che
contengono gli oli pregiati vengono rivestiti esternamente con la carta di
alluminio.

Una delle caratteristiche che determinano la qualità dell’olio di oliva è il suo


grado di acidità. Il tenore di acidità nell’olio di buona qualità dev’essere basso
(la quantità di acidi grassi liberi non deve superare il 2%). Se presenta un valore
di acidità alto significa che è prodotto da olive alterate o conservate troppo a
lungo, o ancora se è conservato malamente. Le denominazioni commerciali sono
regolamentate dalla Direttiva 136/66/CEE. Il regolamento CE 2568/91 e regolamento
CE 1989/03 specificano le categorie di oli di oliva.

1 Oli di oliva vergini: ottenuti dal frutto dell’olivo soltanto mediante


procedimenti meccanici o altri processi fisici, in condizioni, segnatamente
termiche, che non causano alterazioni dell’olio, e che non hanno subito alcun
trattamento diverso dal lavaggio, dalla decantazione, dalla centrifugazione e dalla
filtrazione, esclusi gli oli ottenuti mediante solvente o con processi di
riesterificazione e qualsiasi miscela con oli di altra natura.

Detti oli di oliva sono oggetto della classificazione e delle denominazioni che
seguono.

Olio di oliva vergine extra: è ottenuto tramite estrazione con soli metodi
meccanici e la sua acidità non deve superare l’0,8%.

Olio di oliva vergine: è ottenuto tramite estrazione con soli metodi meccanici e la
sua acidità non deve superare il 2%.

Olio di oliva vergine lampante: è ottenuto tramite estrazione con soli metodi
meccanici, ma non è utilizzabile per il consumo alimentare; l’acidità è superiore
al 2%.

2 Olio di oliva raffinato: è ottenuto tramite rettificazione di oli vergini


lampanti con metodi fisici e chimici e successiva raffinazione, la cui acidità
espressa non può eccedere lo 0,3%.

3 Olio di oliva composto: olio di oliva ottenuto da un taglio di olio di oliva


raffinato e di oli vergini diversi dall’olio lampante, la cui acidità espressa in
acido oleico non può eccedere l’1,0%.

4 Olio di sansa di oliva greggio: olio ottenuto mediante trattamento con dei
solventi di sansa di oliva, esclusi gli oli ottenuti con processi di
riesterificazione e qualsiasi miscela con oli di altra natura.

5 Olio di sansa di oliva raffinato: olio ottenuto dalla raffinazione di olio


greggio di sansa di oliva, la cui acidità espressa in acido oleico non può eccedere
lo 0,3%.

6 Olio di sansa di oliva: olio ottenuto da un taglio di olio di sansa d’oliva


raffinato e di oli di oliva vergini diversi dall’olio lampante, la cui acidità
espressa in acido oleico non può eccedere l’1,0%.

Le suddette denominazioni e definizioni risultano obbligatorie per la


commercializzazione in ciascuno degli Stati membri della Comunità Europea nonché
negli scambi intracomunitari e con i Paesi terzi. Per il commercio al minuto
possono essere commercializzati, preconfezionati in recipienti ermeticamente
chiusi, soltanto i prodotti corrispondenti alle seguenti denominazioni: olio di
oliva vergine extra, olio di oliva vergine, olio di oliva, olio di sansa di oliva.

Denominazione di origine controllata degli oli di oliva vergini ed extravergini

Con la legge n. 169 del 5 febbraio del 1992 è stato disciplinato il riconoscimento
della denominazione di origine controllata degli oli di oliva vergini ed
extravergini.

1 Per denominazione di origine controllata degli oli vergini ed extravergini di


oliva s’intende il nome geografico con indicata una zona caratterizzata da
specifici fattori naturali e umani, usato per designare gli oli vergini ed
extravergini che ne sono originari e le cui caratteristiche sono dovute
essenzialmente agli oliveti da cui è ricavata la materia prima, ai predetti fattori
naturali e umani e alla tecnica di lavorazione.

2 Le denominazioni di origine controllata degli oli vergini ed extravergini d’oliva


sono riservate agli oli che rispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti,
per ciascuna denominazione, nei relativi disciplinari di produzione che
stabiliscono:

la denominazione di origine dell’olio;

la delimitazione della zona di produzione e di trasformazione delle olive;

le seguenti condizioni di produzione: caratteristiche naturali dell’ambiente,


varietà degli olivi; pratiche d’impianto e di coltivazione, produzione massima di
olive per ettaro, modalità di oleificazione;

la resa massima di olive e di olio;

le caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche dell’olio prodotto nella zona


di cui alla lettera b, rispondenti ai regolamenti (CEE) n. 1915/87 del Consiglio
del 2 luglio 1987 e n. 2568/91 della Commissione dell’11 luglio 1991.

Reg. CE n. 510 del 20/03/2006 regolamenta la protezione delle indicazioni


geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari.

OLI VARI

Per l’estrazione dell’olio commestibile le fonti più utilizzate sono i semi di


girasole, di arachide, di soia, di sesamo, di colza, di mais, di palma ecc.

1 Gli oli di semi possono essere utilizzati singolarmente, oppure in miscela con
gli altri oli per la fabbricazione delle margarine e per la preparazione degli oli
di semi vari. Tutti gli oli di semi contengono la parte lipidica pari a 100%,
composta prevalentemente dagli acidi grassi insaturi (fra cui prevale l’acido
linoleico) e una parte minore di acidi grassi saturi. L’acido linoleico appartiene
agli acidi grassi polinsaturi ed è l’acido essenziale per l’organismo umano (ciò
significa che tale acido non viene prodotto dall’organismo, quindi per garantire
una dieta equilibrata deve essere assunto con i prodotti alimentari che lo
contengono). Il contenuto di acidi grassi della frazione lipidica cambia a seconda
della specie da cui provengono gli oli.

I grassi dell’olio di arachide per 40-60% contengono l’acido oleico (monoinsaturo),


circa 25% di acido linoleico e 6-15% di acido palmitico. Composizione simile ha
anche l’olio di sesamo, in cui prevalgono gli acidi grassi insaturi, soprattutto
l’acido oleico (40%) e linoleico (44%). Questi oli sono abbastanza stabili al
calore, adatti anche per la cottura.

L’olio di semi di girasole è composto quasi del tutto dagli acidi grassi insaturi
(per il 85-90%), fra cui la metà è l’acido linoleico. Dato il suo alto contenuto di
acidi grassi polinsaturi risulta non molto indicato per la frittura.

L’olio di soia contiene circa il 50% di acido linoleico, il 25% di acido oleico e
il 4-10% di acido linolenico. Per il suo alto contenuto di acidi grassi polinsaturi
risulta non molto adatto per la cottura. Inoltre tende a ossidarsi rapidamente, per
cui viene confezionato nelle bottiglie di vetro scuro. Viene utilizzato sia per
alimentazione diretta (soprattutto nei condimenti) ma anche per la produzione di
margarine e di grassi idrogenati.

Avendo un alto contenuto in acidi grassi polinsaturi, i grassi degli oli dei semi
risultano più sensibili al calore rispetto all’olio di oliva e più portati
all’ossidazione. Come tutti i grassi vegetali, anche gli oli di semi non contengono
il colesterolo, ma addirittura hanno la tendenza di diminuirlo (se vengono assunti
a crudo). Essendo sottoposti all’operazione di rettificazione hanno un contenuto
vitaminico molto ridotto.

2 L’olio di mais viene estratto dal germe della cariosside di mais, che contiene il
15-20% di olio. Contiene una percentuale abbastanza alta di acido linoleico (40-
60%) e il 25-40% di acido oleico. Dato suo alto contenuto in acido linoleico non è
molto adatto per la cottura ed è portato all’ossidazione (per cui viene conservato
in lattine o recipienti opachi).

3 L’olio di grasso di palma viene ottenuto dalla polpa del frutto della palma
africana (Elaeis guineensis) o di quella sudamericana (Elaeis melanococca). Dalla
spremitura dei frutti si ottiene un olio di colore arancio, che dopo la
raffinazione diventa giallo di odore tipico, composto per il 50% da acidi grassi
saturi (fra cui prevale l’acido palmitico) e per il 46% dagli acidi grassi
monoinsaturi (oleico e stearico). L’olio di palmisti si ottiene dalla lavorazione
dell’endocarpo, che ha all’interno un seme oleoso con contenuto in olio compreso
tra il 46 e il 53%. L’olio di palmisti presenta un contenuto elevato (85% circa) di
acidi grassi saturi, maggiore rispetto all’olio di palma, rappresentati soprattutto
dall’acido laurico, e contiene soltanto il 13% dell’acido oleico.

Si caratterizza per un largo intervallo di fusione (compreso tra 38 °C e 50 °C),


per questo motivo non fonde in bocca, lasciando sensazioni non molto gradevoli. Non
ha buone caratteristiche organolettiche, ma avendo un’alta quantità di acidi grassi
saturi, risulta resistente all’irrancidimento. È resistente anche al calore ed è
utilizzato per la preparazione delle margarine, dei grassi industriali e di oli
speciali per la frittura. Nella panificazione si utilizza soprattutto per i
biscotti secchi e grissini.

IL BURRO

Normalmente contiene circa l’82% di materia grassa. Esiste anche il burro anidro
(contenente 99,7% di materia grassa), caratterizzato da un’alta conservabilità.

È un alimento a elevato valore calorico (mediamente 100 g di burro forniscono i 750


kcal), ma inferiore rispetto a quello degli oli, dato che essi non contengono
l’acqua. Fra i trigliceridi del burro prevalgono quelli contenenti i residui di
acidi grassi saturi a catena corta (butirrico, caprinico, capronico, valerianico
ecc.), da cui la consistenza particolarmente plastica. Inoltre la presenza nella
frazione lipidica del burro di numerosi acidi grassi a catena corta lo rende
particolarmente assimilabile da parte dell’organismo umano. Il burro contiene anche
fosfolipidi e steroli (in particolare colesterolo), vitamine liposolubili (in
particolare carotene, i precursori della vitamina A, e la vitamina D), una piccola
percentuale di proteine (0,4-0,8%), zuccheri (rappresentati soprattutto da
lattosio, 0,5-0,6%) e sali minerali (0,1-0,2%), per lo più calcio e fosforo. Il
burro può essere salato e contenere anche il cloruro di sodio (sale da cucina), in
percentuale del 2,5%.

Il burro è un alimento che può alterarsi facilmente, soprattutto per


l’irrancidimento provocato da aria, luce e calore. Per una corretta conservazione
deve essere tenuto in frigorifero, avvolto con carta pergamena o alluminio per
alimenti o all’interno di un contenitore ermetico. Alla temperatura del frigorifero
la conservazione si limita ad alcune settimane, mentre in freezer, a –18 °C, il
burro può durare fino a un anno. Addizionato di sale il burro ha una maggiore
conservabilità.

Il burro tende ad ammorbidirsi alla temperatura dell’ambiente, ha il punto di


fusione breve, compreso fra 28 °C e 33 °C. Si scoglie velocemente in bocca, il che
lo rende gradevole al palato. Viene utilizzato per la preparazione di numerosi
prodotti da forno e di pasticceria perché dona una morbidezza e un gusto
caratteristici. Quando viene impiegato per la produzione dei prodotti sfogliati
lievitati, bisogna tenere presente il suo punto di fusione, non molto alto, e
quindi condurre la lievitazione finale alla temperatura non superiore ai 26 °C.

IL BURRO DI CACAO

Viene estratto dalle fave di cacao e si presenta solido a temperatura ambiente.


Contiene acidi grassi saturi e acidi grassi insaturi. Il burro di cacao è fragile a
temperature al di sotto di 27 °C e ha un intervallo di fusione abbastanza breve
(compreso fra 34 °C e 35 °C). Fonde in bocca con facilità dato il suo punto di
fusione più basso della temperatura corporea, ha un sapore molto gradevole e viene
utilizzato nelle ricette di pasticceria.

LO STRUTTO

Per la legge il nome strutto è riservato unicamente al prodotto ottenuto per


estrazione a caldo dei tessuti adiposi del maiale. È vietata la fabbricazione di
strutto contenente grassi diversi da quello di maiale ed è stabilizzato all’1% il
quantitativo massimo di acqua. È permessa l’aggiunta di sale da cucina, di acido
sorbico (agente conservante) e di antiossidanti.

Lo strutto contiene circa il 99,5% di grasso e 100 g di strutto apportano


mediamente 890 kcal. È ricco di acidi grassi saturi, in particolare palmitico e
stearico, responsabili del suo alto punto di fusione (42 °C), ma contiene anche una
buona quantità di acidi grassi monoinsaturi (per esempio oleico) e una piccola
percentuale di acidi grassi polinsaturi (linoleico). Lo strutto risulta abbastanza
stabile al calore, ma la sua digeribilità non è molto alta. La quantità di
colesterolo contenuto risulta inferiore a quella del burro, ma abbastanza alta (95
mg per 100 g di prodotto): ciò lo rende controindicato per chi ha problemi di
ipercolesteromia.

Per mancanza di antiossidanti naturali, che si trovano invece nei grassi vegetali,
lo strutto può irrancidire facilmente, per cui in genere viene addizionato da
butilidrossitoluolo (BHT), che lo protegge dall’ossidazione. Lo strutto può essere
puro, ottenuto dagli strati adiposi nobili del maiale e non sottoposto ai
trattamenti chimici, oppure emulsionato con acqua attraverso l’aggiunta di sostanze
emulsionanti. In commercio esistono anche gli strutti raffinati, ottenuti
dall’estrazione con dei solventi da altri tessuti di suino, come organi interni,
ossa, cute, con la successiva raffinazione che elimina dal prodotto i colori, gli
odori e i sapori sgradevoli.

A causa del suo basso costo e delle ottime capacità di prestarsi a numerose
lavorazioni, in particolare per la preparazione del pane speciale, delle focacce,
dei biscotti, lo strutto è largamente utilizzato nel settore della panificazione e
della pasticceria soprattutto a livello industriale.

LE MARGARINE E I GRASSI IDROGENATI

La margarina è un’emulsione, costituita dalla fase solida continua (frazione


grassa), nella quale sono disperse le particelle della fase liquida (acqua). Per la
legge italiana, le miscele ed emulsioni confezionate con grassi alimentari di
origine animale o vegetale diverse dal burro e dai grassi suini, contenenti più del
2% di umidità e materia grassa non inferiore all’80%, hanno denominazione generica
e obbligatoria di “margarina”. Tra gli additivi, nella margarina sono permessi:
emulsionanti (lecitina, mono- e digliceridi degli acidi grassi e loro esteri,
sucrogliceridi e sucresteri, esteri dell’acido lattico, acetico, tartarico),
antiossidanti (butilidrossianisolo, butilidrossitoluolo, tocoferoli, palpitato di
L-ascorbile, gallati di ottile e dodecile), antimicrobici (acido sorbico e suoi
sali di sodio, calcio, potassio), coloranti (solo nelle margarine per il consumo
diretto) e aromatizzanti autorizzati. Il nichel deve essere assente. L’acidità
libera non deve superare l’1%. Esistono anche margarine leggere a ridotto contenuto
di grassi, che deve essere compreso tra il 40 e il 42%. Le margarine possono essere
costituite da un solo tipo di olio o da più tipi di olio, ed essere prodotte con
grassi vegetali, animali o con loro miscele. Il più utilizzato per la produzione
delle margarine per i prodotti da forno è l’olio di palma.

7 IDROGENAZIONE È un processo che consiste nell’insufflazione nell’olio di base


dell’idrogeno in presenza di nichel metallico come catalizzatore. I doppi legami
degli acidi grassi insaturi degli oli vengono idrogenati e si trasformano in legami
semplici. La solidificazione dell’olio dipende sia dalla trasformazione degli acidi
grassi insaturi in saturi sia dalla isomerizzazione dei doppi legami cis
(configurazione naturale del doppio legame) a trans (configurazione che conferisce
all’acido grasso un più alto punto di fusione). Infatti, la configurazione trans si
presenta lineare rispetto alla cis e ha come conseguenza la solidificazione del
grasso, a causa delle più numerose interazioni tra le catene di acidi.

La preparazione della margarina parte in genere da oli di semi che, attraverso un


processo di idrogenazione7 vengono resi solidi. I grassi idrogenati sono impiegati
nella produzione di margarine e nella preparazione di miscele di grassi per
l’industria alimentare (shortening). Gli shortening sono grassi idrogenati a uso
industriale, privi d’acqua. Vengono così chiamati per il loro effetto nell’impasto,
in cui spezzano la maglia glutinica.

La legislazione italiana consente l’utilizzo delle margarine per i prodotti da


forno, ma non per la produzione del pane.

GLI ZUCCHERI UTILIZZATI PER LA PANIFICAZIONE

Il ruolo degli zuccheri nei prodotti da forno può essere riassunto in due punti
principali.

1 Gli zuccheri nutrono i microrganismi contenuti nell’impasto, come lieviti e


batteri lattici, permettendo la fermentazione alcolica e lattica.

2 Gli zuccheri rimasti nell’impasto al termine della fermentazione partecipano


nelle reazioni di formazione degli aromi e di colorazione durante la cottura, come
la reazione di Maillard (pag. 96).

Gli zuccheri possono essere aggiunti negli impasti dei prodotti da forno, ma anche
se ciò non avviene si creano in ogni impasto a base di farina attraverso la
scissione dell’amido contenuto in essa. Per produrre pane quindi non è necessario
unirli all’impasto. Ma se vengono aggiunti, stimolano la fermentazione, se la loro
quantità non è molto alta.

Quando la quantità di zuccheri aggiunti è notevole, la fermentazione dell’impasto


non viene attivata, ma anzi rallentata. Questo fatto è spiegato dall’osmosi che lo
zucchero esercita nei confronti delle cellule dei microrganismi (come lieviti).
Quando la concentrazione del soluto (zucchero) nel solvente (liquido dell’impasto)
attorno a ogni singola cellula di lievito aumenta, la cellula cede i propri liquidi
per diluire l’ambiente circostante, quindi si disattiva e infine cessa la propria
attività vitale. Per cui nelle ricette contenenti un’alta percentuale di zucchero
viene maggiorata la quantità di lievito da utilizzare e si scelgono i ceppi di
lievito osmotolleranti, aventi la membrana cellulare più robusta. Nel caso in cui
la quantità di zucchero è notevole, vengono effettuati più impasti in modo da
aggiungere lo zucchero poco per volta. In casi con una quantità di zucchero molto
alta, in cui la lievitazione biologica non è possibile (come per alcuni prodotti di
pasticceria) vengono utilizzati agenti lievitanti chimici.

Nella produzione dei prodotti da forno vengono utilizzati questi zuccheri.

Saccarosio È lo zucchero comune da tavola, estratto da canna da zucchero o dalla


barbabietola da zucchero. Chimicamente è un disaccaride, composto da glucosio e
fruttosio. I cristalli di saccarosio sono trasparenti, molto solubili nell’acqua,
hanno la temperatura di fusione 185-186 °C.

Il lattosio

È lo zucchero che si trova nel latte dei mammiferi. È un disaccaride, composto da


glucosio e galattosio, non ha un alto potere dolcificante (15% da quello di
saccarosio). Non viene fermentato dai lieviti, però nella cottura partecipa a tutte
le reazioni, compresa quella di Maillard (pag. 96), per cui quando aggiungiamo
nell’impasto il latte la colorazione della crosta del prodotto finito rimane più
intensa.

Glucosio Viene chiamato anche destrosio, perché ruota verso destra il piano della
luce polarizzata. È lo zucchero più diffuso in natura (è maggiormente contenuto
nell’uva). Solvendosi, il glucosio depone calore, per cui assaggiandolo si sente un
gusto dolce e fresco. Il suo gusto è meno dolce rispetto al saccarosio.

Fruttosio Chiamato anche levulosio, perché ruota il piano delle luce polarizzata
verso sinistra, al contrario del glucosio e del saccarosio. È contenuto soprattutto
nella frutta e nel miele. Ha potere dolcificante 1,2-1,5 volte superiore a quello
di saccarosio, ma ha un costo più elevato. Viene utilizzato nei prodotti per i
diabetici perché il suo metabolismo non dipende dall’insulina. È inoltre acariogeno
(non forma la carie dentale). Apporta le stesse calorie del saccarosio, ma, avendo
il potere dolcificante superiore, può essere utilizzato in dosi minori. Tra tutti
zuccheri il fruttosio ha una più alta solubilità e possiede un potere anti-
cristallizzante. È il più igroscopico tra tutti zuccheri ed è in grado di
trattenere l’acqua contenuta nel prodotto, aumentando così la sua shelf-life. Il
fruttosio, tra l’altro, è particolarmente sensibile al calore, e a temperature
superiori a 70 °C si decompone contribuendo all’intensificazione della colorazione
del prodotto.

Zucchero invertito Viene ottenuto per idrolisi acida o enzimatica del saccarosio in
una miscela di glucosio e fruttosio. Ha proprietà igroscopiche e anti-
cristallizzanti e viene largamente impiegato in quei prodotti da forno che devono
rimanere umidi per periodi lunghi; inoltre, può avere un potere dolcificante
superiore a quello del saccarosio. In cottura lo zucchero invertito partecipa e
contribuisce alla reazione di Maillard, intensificando la colorazione del prodotto
finito.

Miele Secondo la legge n. 753 “si intende per miele il prodotto che le api
domestiche producono dal nettare dei fiori o dalle secrezioni provenienti da parti
vive di piante o che si trovano sulle stesse, che esse bottinano, trasformano,
combinano con sostanze specifiche proprie, immagazzinano e lasciano maturare nei
favi dell’alveare”. Tra gli zuccheri del miele (80% circa del peso totale) in
maggioranza ci sono il glucosio e il fruttosio, mentre gli altri sono poco
presenti. Circa il 17% del peso totale del miele è acqua, mentre il 3% del miele è
costituito da altre sostanze come aminoacidi e proteine, acidi organici, sostanze
minerali (sali di ferro, potassio, magnesio ecc.), vitamine (B1, B2, PP, C, E
ecc.), enzimi, aromi, pigmenti, fattori antibiotici. Il miele è igroscopico, e
quindi la sua aggiunta ai prodotti da forno contribuisce ad allungare la loro
shelf-life.

I DOLCIFICANTI

In base all’origine gli edulcoranti (dolcificanti) li possiamo distinguere in


questi due grandi gruppi.

1 Dolcificanti di massa, con potere dolcificante paragonabile allo zucchero, come


sorbitolo (E420), xilitolo (E967), mannitolo (E421), maltitolo (E965), isomalto
(E953). Alcuni di loro sono presenti in natura, come sorbitolo (isolato dalle
bacche, ma presente anche in molti frutti), xilitolo (zucchero del legno, presente
in corteccia di betulla) e mannitolo (presente in alghe e funghi). Alcuni (come
isomalto) vengono sintetizzati dall’uomo. Chimicamente sono dei polioli, apportano
circa metà calorie rispetto allo zucchero, nell’organismo umano vengono assorbiti
più lentamente del saccarosio, e possono essere utilizzati dai diabetici, perché
hanno un metabolismo indipendente dall’insulina. Sono acariogeni (non formano carie
dentale). Sostituiscono circa 1:1 il saccarosio o comunque in base al potere
dolcificante, come da tabella qui sotto (potere edulcorante8). Il loro utilizzo nei
prodotti produce un effetto lassativo (le avvertenze devono essere specificate
nell’etichetta del prodotto), per cui il consumo deve essere comunque moderato.

8 POTERE EDULCORANTE È il rapporto tra la concentrazione di una soluzione di


saccarosio e quella di un dolcificante che ha la stessa intensità di sapore.

La stevia

Per anni la stevia non era ammessa nella produzione alimentare europea, a causa del
potenziale pericolo di un suo componente (steviolo), ritenuto tossico. Ma dopo
numerosi approfondimenti si è rilevato che il pericolo non esiste in caso di
consumo giornaliero medio, o comunque non superiore a 2 mg/kg peso corporeo. Da
aprile 2010 è stato approvato suo utilizzo come additivo alimentare. Da luglio 2012
è consentita produzione e vendita di stevia come dolcificante alimentare in tutta
la Comunità Europea.

2 Dolcificanti intensivi, come l’aspartame (E951), la saccarina (E954),


l’acesulfame K (E950), taumatina (E957). Sono tutti acariogeni e hanno un alto
potere dolcificante. I primi sono sintetici. La taumatina è un dolcificante
naturale, costituito da una miscela di polipeptidi ottenuti per estrazione dal
frutto della pianta africana (Thaumatococcus daniellii), e ha un altissimo potere
dolcificante. Alcuni di loro, come la saccarina, lasciano un retrogusto specifico,
alcuni, come l’aspartame, oltre a essere non resistenti al calore e quindi inadatti
per i prodotti che subiscono la cottura, sono vietati alle donne in gravidanza.
Esistono comunque dei limiti al loro consumo giornaliero. Un interesse particolare
attualmente è riservato alla stevia, estratta da pianta erbacea-arbustiva di
piccole dimensioni, nativa dell’America Latina (Paraguay e Brasile). Ha un potere
dolcificante da 150 a 250 volte superiore rispetto allo zucchero, apporta 0 calorie
e resiste bene al calore, per cui è idonea per tutti i prodotti da forno.

Potere edulcorante degli zuccheri e dei dolcificanti

ZUCCHERI ED EDULCORANTI POTERE DOLCIFICANTE QUANTITÀ (g) ENERGIA (Kcal)

lattosio 0,2 – –

maltosio 0,33 – –

galattosio 0,5 – –

sorbitolo 0,54 – –

mannitolo 0,70 – –

maltitolo 0,75 – –

glucosio 0,76 – –

saccarosio 1 6 24

xilitolo 0,9-1,10 – –
fruttosio 1,52 4 16

acesulfame K 30 0,2 0

aspartame 180 0,03 0

stevia 200 – 0

saccarina 300-500 0,01-0,02 0

taumatina 3.000 – –

IL MALTO

È un prodotto derivato dalla germinazione dei chicchi dei cereali, tra i quali i
più adatti sono l’orzo e il frumento. La trasformazione dei chicchi dei cereali in
malto si chiama maltaggio e consiste nella germinazione dei chicchi,
precedentemente messi a macerare in acqua; di seguito avvengono l’asciugatura, la
separazione dalla piantina e quindi la macinazione. Quando il chicco di cereale
inizia a germinare, nella cariosside avvengono numerose reazioni chimiche, volte
all’alimentazione della piantina, in modo che essa possa nutrirsi e crescere. Tra
queste reazioni la principale è la trasformazione dell’amido, presente nella
cariosside in zucchero maltosio (la saccarificazione dell’amido) con l’aiuto degli
enzimi diastasi (alfa- e beta-amilasi, pag. 95).

Quello che si ottiene dalla macinazione del chicco germinato è la farina di malto
(farina maltata), che oltre allo zucchero maltosio conterrà anche altri componenti
chimici residui del chicco, come gli enzimi, fra i quali hanno una grande
importanza le amilasi. Per questo il malto non è fonte soltanto degli zuccheri ma
anche degli enzimi (fra cui i più importanti sono le a- e b-amilasi). Poiché
durante la fermentazione le cellule di lievito si nutrono con gli zuccheri, se la
loro quantità nell’impasto sarà maggiore, la fermentazione sarà più attiva. Si
potrebbe così pensare che, per attivare la fermentazione, sia sufficiente solamente
aggiungere all’impasto dello zucchero: in realtà l’aggiunta all’impasto di
zucchero, sia esso maltosio o saccarosio, non risolverebbe nulla, perché le cellule
di lievito lo esaurirebbero subito. Quindi per alimentare le cellule del lievito lo
zucchero deve continuamente crearsi nell’impasto tramite la saccarificazione
dell’amido della farina con l’aiuto delle amilasi. L’attività degli enzimi presenti
nel malto è proprio quella caratteristica che determina il suo valore. Non tutti i
malti hanno la stessa capacità enzimatica, definita anche “potere diastasico”):
essa si misura in unità Pollak. Quando un malto presenta un alto valore Pollak,
significa che ha un alto potere diastasico, quindi i suoi enzimi (in particolare a-
e b-amilasi) sono molto attivi. L’aggiunta di tale malto all’impasto stimola molto
la fermentazione, perché può generare tanti zuccheri nell’impasto, nutrendo quindi
nel modo migliore il lievito.

In genere per il malto, i valori delle unità di misura Pollak variano da 6.000-
8.000 a 24.000 (per estratto di malto concentrato). In commercio esistono i
seguenti tipi di malto:

farina di malto o farina maltata;

estratto di malto in sciroppo;


estratto di malto concentrato in sciroppo;

estratto di malto in polvere;

malto non diastasico (specifico ad esempio per i pani di segale, in cui gli enzimi
diastasici sono disattivati). Questo tipo di malto fornisce soltanto la colorazione
più scura sia all’impasto che al prodotto, favorisce l’aroma e la colorazione della
crosta, ma non aumenta l’attività fermentativa dell’impasto.

Dal punto di vista pratico, l’aggiunta del malto diastasico all’impasto dà i


seguenti effetti:

più attiva fermentazione dell’impasto;

più sviluppata alveolatura del prodotto e quindi il prodotto più leggero e più
digeribile, più dorata colorazione della crosta;

gusto e profumo più intensi.

L’utilizzo del malto risulta indispensabile soprattutto per le farine che hanno una
bassa attività amilasica (con un alto Indice di Hagberg, vedi) e per gli impasti
preparati con le bighe (perché dopo tante ore di fermentazione la quantità degli
zuccheri risulta bassa). Invece, per le farine che hanno già un’alta attività
amilasica, l’utilizzo del malto diastasico non è consigliabile, perché può portare
ai risultati negativi (come l’impasto troppo appiccicoso, la crosta del prodotto
troppo scura, la mollica umida ecc.).

I MIGLIORATORI

Sono sostanze d’origine chimica o biologica che, aggiunte in piccole quantità alle
farine o agli impasti, sono in grado di migliorarne le caratteristiche
organolettiche e reologiche, le capacità fermentative, la velocità della produzione
e anche la qualità e la conservabilità del prodotto finito. Inoltre i miglioratori
aiutano a correggere gli eventuali errori tecnologici della lavorazione e
permettono di assicurare la ripetibilità della produzione.

I miglioratori più utilizzati in panificazione sono quelli che modificano le


proprietà reologiche dell’impasto (lo rinforzano oppure indeboliscono, rendono più
resistente oppure, al contrario, più estensibile); quelli che intervengono sulla
fermentazione degli impasti (farina maltata, malto, amilasi ecc.); gli emulsionanti
e gli agenti conservanti.

Quando servono i miglioratori? Per esempio in tutte le lavorazioni in cui è


coinvolta la tecnologia di surgelazione degli impasti lievitati (soprattutto per i
prodotti crudi formati ancora da lievitare e per i prelievitati), oppure per la
tecnica di ferma-lievitazione (vedi E300, oppure può essere utilizzato il glutine
essiccato), abbinato a qualche agente fermentativo, in grado anche di rilassare
l’impasto (amilasi, farina maltata ecc.) e a uno o più emulsionanti.

Per i prodotti di lunga conservazione o in generale per i prodotti che devono


restare morbidi a lungo possono essere utili i miglioratori a base di agenti
emulsionanti (come mono- e di-gliceridi degli acidi grassi (E471), di loro esteri
(E472) oppure di lecitina di soia (E 322), che aiutano ad allungare la shelf-life
del prodotto. A questo scopo possono essere utilizzati anche alcuni enzimi (per
esempio a-amilasi di origine batterica). Spesso nei prodotti soggetti a lunga
conservazione sono utilizzati anche agenti conservanti, chiamati “antimuffa”. I più
utilizzati sono: acido sorbico (E200) e suoi sali – sorbato di sodio (E201),
potassio sorbato (E202), calcio sorbato (E 203) – e acido propionico (E280) e suoi
sali: propionato di sodio (E281), propionato di potassio (E282) e propionato di
calcio (E283).

Nelle lavorazioni dei grissini stirati oppure per le produzioni dove è richiesta
un’estrema estensibilità degli impasti possono essere utili gli agenti riducenti
(le proteasi, la cisteina, il lievito disattivato, il glutine idrolizzato ecc.) in
grado di rammollire l’impasto e renderlo più malleabile.

Agenti miglioratori come farina maltata (o malto) oltre a stimolare la


fermentazione degli impasti sono in grado di migliorarne (accentuare) la
colorazione, la fragranza e la profumazione del prodotto. Sono indispensabili
soprattutto per gli impasti indiretti. Per gli impasti diretti gli agenti
miglioratori delle caratteristiche fermentative della farina (come malto, ma anche
il destrosio e le amilasi) in effetti contribuiscono alla formazione di più
zuccheri in un impasto e, quindi, alla creazione degli aromi e alla colorazione
della crosta nel prodotto durante la cottura, ma non apportano acidi a sufficienza,
con limitazione del gusto del prodotto finito.

Invece contribuiscono a migliorare acidità, aroma, gusto e conservabilità dei


prodotti i miglioratori a base di lievito madre essiccato o liofilizzato. Questi
ultimi possono essere d’aiuto per chi non è pratico nell’utilizzare il lievito
madre vero e proprio, ma che comunque vuole ottenere i prodotti di qualità
migliore.

I miglioratori di ultima generazione sono quelli di natura enzimatica. Fino a poco


tempo fa gli enzimi erano utilizzati nei miglioratori per ammorbidire gli impasti
(proteasi e amilasi) e per accelerare la fermentazione (amilasi). Attualmente
utilizzano anche gli altri in grado di rafforzare gli impasti quasi a pari con
acido ascorbico (come glucosio-ossidasi, lipossigenasi). Gli altri enzimi agiscono
in maniera simile agli emulsionanti (carboxil-esterasi, xilanasi) e li possono
sostituire, mantenendo l’etichetta “pulita” (mentre gli emulsionanti devono essere
obbligatoriamente dichiarati in etichetta). In base alle fonti di origine, nonché
dalle combinazioni utilizzate di diversi enzimi, si possono creare i più svariati
miglioratori destinati a utilizzi diversi.

I miglioratori usati nella panificazione sono le sostanze organiche, alcune di


origine naturale, e il loro utilizzo non è dannoso per la salute. Ma sono davvero
indispensabili per la panificazione moderna? Alcune lavorazioni, come illustrato
sopra, necessitano il loro utilizzo, ma la maggior parte, specialmente in un
laboratorio artigianale, no. Inoltre chi utilizza i miglioratori spesso lo fa per
risparmiare tempo, e in questo modo di certo non favorisce il gusto e la qualità
del prodotto in generale.

Per panificare bene ci sono poche regole da rispettare: scegliere le materie prime
di qualità e soprattutto seguire con cura il processo produttivo, optando per le
lavorazioni indirette oppure per le dirette ma con molte ore di fermentazione e di
conseguenza con poco lievito. Al top della qualità restano i prodotti a base di
lievito madre.

9 ACIDO ASCORBICO (E300) È un agente antiossidante e come tale viene impiegato in


numerose conserve alimentari. Ma negli impasti di prodotti da forno si trasforma in
acido deidroascorbico, che è un potente agente ossidante in grado di rafforzare
l’impasto, aumentare quindi il suo assorbimento, e di migliorare la lievitazione e
il volume del prodotto finito.
La vita

all’interno dell’impasto

L’impasto di un prodotto da forno di lievitazione biologica è una materia viva, che


cresce, respira e si trasforma. All’interno di un impasto lievitato vi sono
miliardi di cellule di microrganismi viventi, protagonisti dei suoi processi
fermentativi. Ecco che cosa sono, in quali condizioni vivono e di che cosa si
nutrono.

I LIEVITI: CHE COSA SONO E COME FUNZIONANO

I protagonisti della fermentazione alcolica sono i lieviti, appartenenti al gruppo


dei Saccharomyceti. Essi possiedono le capacità riproduttive e fermentative. Il
tipo selezionato e utilizzato nella panificazione è il Saccharomyces cerevisiae,
chiamato anche “lievito di birra”.

I lieviti sono:

1 funghi unicellulari (microrganismi completi, composti da un’unica cellula), che


ha dimensioni medie: da 4 a 8 µm di larghezza e da 5 ai 16 µm di lunghezza: in 1 g
di lievito compresso sono contenute almeno 1.010 cellule;

2 microrganismi eucarioti (cioè contengono un nucleo ben definito, racchiuso dalla


membrana nucleare, che lo separa dal resto della cellula, e in cui è concentrato il
materiale genetico per il metabolismo della cellula, il DNA). Le cellule del
lievito sono coperte da una parete cellulare, all’interno della quale si trova una
membrana semimpermeabile, dentro la quale si trova il liquido cellulare
(citoplasma), in cui oltre al nucleo si trovano le altri parti vitali: mitocondri,
vacuolo, ribosomi (vedi disegno a lato). Le cellule di lievito si riproducono
soprattutto per gemmazione, ovvero dalla cellula madre appare una protuberanza,
cellula figlia, che cresce fino a raggiungere le dimensioni della cellula madre,
dopo di che potrà staccarsi e continuare in autonomia il suo ciclo vitale, oppure
continuare il suo metabolismo in colonia;

3 microrganismi anaerobici facoltativi: possono vivere sia con ossigeno che senza.
Nelle condizioni aerobiche (in presenza dell’ossigeno) i lieviti si moltiplicano,
mentre nelle condizioni anaerobiche (in assenza dell’ossigeno) fermentano.

In presenza di ossigeno avviene la crescita di massa cellulare del lievito,


inoltre, si depongono il calore, l’acqua e l’anidride carbonica.
C6H12O6 + 6O2 → 6H2O + 6CO2 + energia

La moltiplicazione delle cellule del lievito risulta più attiva se la loro quantità
iniziale è più bassa, inoltre essa viene stimolata anche dalla presenza delle
sostanze necessarie per il loro metabolismo, come le vitamine (la tiamina, la
biotina, l’acido pantotenico e tutte le vitamine del gruppo B) e i sali minerali
(fosfato di calcio, CaPO4; fosfato di ammonio (NH4)2PO4; solfato di ammonio
(NH4)2SO4 e tutti i sali di ammonio). Le fonti di azoto sono necessarie per sintesi
di aminoacidi, purine e pirimidine. Mentre alcune sostanze (come alcol etilico,
anidride carbonica, acido sorbico e suoi sali, teobromina ecc.) rallentano la
moltiplicazione delle cellule di lievito. Le condizioni dell’ambiente (la
temperatura, l’umidità, il pH) influenzano molto il metabolismo dei lieviti. I
lieviti sono dei microrganismi mesofili, ovvero preferiscono le temperature medie,
comprese fra 20 °C e 40 °C per il loro metabolismo. La loro attività rimane molto
bassa, quasi nulla, alle temperature fino a 4 °C. Alla temperatura di 35 °C avviene
la massima attività fermentativa, il lievito rimane attivo fino alla temperatura di
42 °C, dopo di che avviene una progressiva perdita di attività e a 55 °C il lievito
muore.

Il “lievito di birra”

Scoperto da un ottico danese (A. Van Leeuwenhoek) nel 1680, fu chiamato così perché
lo scienziato è riuscito a evidenziarne i microrganismi dei lieviti osservando al
microscopio dei residui della produzione di birra. Circa due secoli dopo, nel 1850,
lo scienziato francese Louis Pasteur riuscì a capire il metabolismo riproduttivo e
fermentativo delle cellule di lievito, ossia la loro “vita senz’aria”, e riuscì a
identificare la loro capacità di trasformare gli zuccheri in assenza di ossigeno
nell’alcol etilico e anidride carbonica, spiegando così la lievitazione degli
impasti. L’industria del lievito, però, è nata negli anni Trenta, dopo la
conoscenza più approfondita delle specie dei lieviti, impiegate nella produzione
alimentare (del pane e della birra) e delle condizioni necessarie per la loro
crescita. Così è stato isolato il Saccharomyces cerevisiae, il ceppo che con la
fermentazione produce le maggiori quantità di CO2.

Attività del lievito in base alla temperatura

Per la riproduzione del lievito l’ambiente deve avere l’umidità necessaria, mentre
il criterio dell’acidità (il pH) deve essere compreso fra 3 e 6 (il pH ottimale è
4,5-5,5), perché il lievito preferisce l’ambiente leggermente acido.

Durante l’impastamento viene assorbita una notevole quantità d’ossigeno, quindi i


lieviti, trovandosi nelle condizioni aerobiche, iniziano a riprodursi. Continuano
la riproduzione durante la puntata e una volta esaurito l’ossigeno attorno ogni
singola cellula, cominciano a fermentare.

La reazione della fermentazione alcolica, svolta dai lieviti, è fondamentale per


ogni impasto lievitato poiché produce il gas (l’anidride carbonica), aumenta il
volume dell’impasto, dando la sofficità sia all’impasto stesso che al prodotto
finito, inoltre contribuisce alla formazione del profumo. Lo schema della
fermentazione alcolica può essere così riassunta:
Come si nota dallo schema, i lieviti, tramite il complesso delle zimasi (gli enzimi
glucolitici, contenuti nel lievito), trasformano lo zucchero (glucosio) in alcol
etilico e anidride carbonica.

Accanto a questi prodotti finali sono presenti anche i sottoprodotti della reazione
(in particolare gli acidi organici) che influiscono sull’aroma dell’impasto e del
prodotto finito.

Per la cellula di Saccharomyces cerevisiae tutti gli zuccheri, tranne il lattosio,


risultano fermentescibili. Il lievito può nutrirsi soltanto degli zuccheri semplici
(monosaccaridi) come glucosio e fruttosio, mentre tutti gli altri zuccheri presenti
nell’impasto (disaccaridi come maltosio e saccarosio) per poter essere utilizzati
dal lievito devono essere trasformati in zuccheri semplici.

Le cellule del lievito nella loro membrana cellulare contengono gli enzimi
necessari per ricevere e assimilare i nutrienti. Alcuni di loro svolgono le loro
funzioni all’esterno della membrana: come la invertasi, che scompone il saccarosio
(disaccaride, costituito da due molecole: glucosio e fruttosio) nelle due parti che
lo compongono, glucosio e fruttosio. Gli enzimi maltopermeasi trasportano lo
zucchero maltosio all’interno della cellula. Gli altri, chiamati anche enzimi
endocellulari (come isomerasi, maltasi e zimasi) esplicano la loro azione
all’interno della cellula. Il fruttosio all’interno della cellula del lievito
subisce ulteriormente un’altra trasformazione fino al glucosio con l’aiuto
dell’enzima isomerasi. La maltasi scompone lo zucchero maltosio (disaccaride) nelle
due molecole di glucosio che lo compongono. Le zimasi servono per metabolizzare il
glucosio.

Lieviti maltosio negativi

Non tutti i lieviti possono utilizzare lo zucchero maltosio (un disaccaride,


contenuto nel malto). Saccharomyces exiguus, Candida holmii e Candida milleri,
specie evidenziate nel lievito madre si definiscono per tale motivo maltosio
negativi.

LO SCHEMA DI PRODUZIONE DEL LIEVITO

1 Per la prima fase di produzione, la riproduzione, i lieviti utilizzano una


coltura madre pura derivante dal laboratorio. Il liquido per la crescita è composto
dalla soluzione del malto e del melasso contenente sali minerali e vitamine.
Vengono mantenuti costanti il pH del liquido, la sua concentrazione e anche la
temperatura (30 °C). I contenitori di crescita devono essere continuamente
arieggiati. Per la preparazione del liquido, idoneo per la crescita del lievito,
come materia prima viene usato il melasso di barbabietola. Essendo uno scarto della
produzione di zucchero e quindi accessibile a basso costo, il melasso è un alimento
indispensabile per le cellule del lievito, perché ricco di elementi contenenti
azoto (tipo i sali di ammonio), sali minerali (particolarmente fosfati), vitamine
(specie del gruppo B), ma soprattutto è una fonte di zucchero. Per ottenere una
maggiore resa del lievito, ossia per velocizzare la riproduzione delle sue cellule,
nel melasso vengono aggiunti degli elementi supplementari come alcuni sali
inorganici (tipo: solfato d’ammonio, solfato di magnesio, cloruro di potassio) e
altri elementi (vitamina H) ecc., inseriti nella soluzione del melasso in
proporzione all’incirca del 10% dalla sua massa.
2 Il lievito ottenuto dalla fase 1 viene separato dal brodo, lavato con dell’acqua
e centrifugato, in modo da ottenere una crema. In questa forma può essere
commercializzato.

3 La filtrazione è la fase in cui la crema del lievito viene passata attraverso dei
filtri-pressa o in tamburi rotanti per eliminare il liquido in eccesso. Una volta
trasformata in una massa densa, malleabile e omogenea, essa successivamente viene
formata in cubetti del peso di 25 g o 500 grammi. In tale forma, dopo il
confezionamento precedente, il lievito compresso arriva in commercio.

4 Il lievito compresso può essere successivamente essiccato. Per produrre il


lievito secco attivo si scelgono i ceppi termoresistenti di Saccharomyces
cerevisiae (con un alto contenuto di zucchero trealosio). Il lievito compresso deve
inizialmente passare attraverso una pressa con dei fori, da cui esce in forma di
spaghetti, successivamente tagliati. Per ottenere la forma sferica, le particelle
del lievito vengono essiccate con aria tiepida in tamburi rotativi: la forza della
centrifuga fa sì che le particelle del levito, spinte contro le pareti del tamburo,
acquistino così la forma sferica caratteristica. In questo modo si produce il
lievito secco attivo. Per produrre il lievito secco istantaneo i blocchi di lievito
compresso, usciti dalla pressa con i fori in forma di spaghetti, vengono sollevati
da un getto di aria calda a una temperatura più bassa rispetto all’essiccatore. Con
questo metodo, detto “a letto fluido”, l’essiccamento del levito dura poco tempo, e
il lievito così ottenuto risulta meno danneggiato dal calore e quindi più attivo.
Inoltre, avendo le particelle molto porose, ha un elevato assorbimento d’acqua,
perciò non ha bisogno di essere reidratato e può essere aggiunto direttamente
all’impasto. A causa dei granuli porosi il lievito istantaneo è in grado di
assorbire l’ossigeno dell’aria, che può provocarne una notevole perdita di
attività, di conseguenza deve essere confezionato sottovuoto. La sua confezione,
una volta aperta, deve essere consumata in breve tempo.

Dall’Articolo 8 del D.P.R. n. 502 del 30 novembre 1998

Il lievito impiegabile nella panificazione deve essere costituito da cellule in


massima parte viventi, con adeguato potere fermentativo, con umidità non superiore
al 75% e con ceneri non superiori all’8% riferito alla sostanza secca. La crema di
lievito impiegabile nella panificazione deve essere costituita da cellule in
massima parte viventi con adeguato potere fermentativo, con umidità non superiore
all’80% e con ceneri non superiori all’8% riferito alla sostanza secca.

Lieviti osmotolleranti

Alcuni ceppi selezionati di lievito sono gli osmotolleranti, ossia funzionano anche
negli impasti con alte concentrazioni di zucchero. Oltre ad avere la membrana
cellulare più robusta, contenente più zucchero trealosio, hanno un contenuto minore
di enzima invertasi in grado di disfare lo zucchero saccarosio (e farlo quindi
trapassare membrana cellulare in forma di zuccheri semplici).

Quindi in commercio possiamo trovare “il lievito di birra” in diverse forme.

Compresso, in cubetti da 25 g (per la vendita al dettaglio) oppure da 500 g (per


uso professionale), conservabile in frigofero a 4 °C, contenente umidità massima
75%. Viene messo direttamente nell’impasto.

Secco attivo, solitamente in forma di piccoli granuli, si conserva a temperatura


ambiente. Prima di essere utilizzato viene riattivato in acqua tiepida con poco
zucchero per circa 10 minuti. Avendo una più alta percentuale di sostanza secca
(circa 72%) la sua dose d’utilizzo è circa metà rispetto alla quantità di lievito
compresso .

Secco istantaneo, sotto forma di piccole particelle allungate, viene conservato in


confezioni sottovuoto perché le sue particelle sono molto porose e assorbono
velocemente gas d’aria, che potrebbe portare al deperimento. Per lo stesso motivo,
una volta finite nell’impasto, le particelle assorbono rapidamente i liquidi e si
rendono subito attive. Avendo la percentuale di sostanza secca più alta (74-76%) e
alta attività, la quantità necessaria di utilizzo è 1/3 della quantità di lievito
compresso.

Per uso professionale è utilizzata anche una forma contenente maggiori quantità di
acqua: la crema di lievito. Deve essere conservata alla temperatura del frigorifero
(max 4 °C). Poiché il contenuto di sostanza secca è più basso rispetto al lievito
compresso, la quantità di utilizzo è maggiore di circa il 50% rispetto alla
quantità di lievito compresso.

IL LIEVITO COMPRESSO

È costituito per due terzi dall’acqua. Il resto (sostanza secca) è composta da


proteine, carboidrati (fra cui trealosio, lo zucchero disaccaride costituente della
parete cellulare, glicogeno e altri zuccheri). La fibra corrisponde a circa il 6%;
pochi i lipidi e i sali minerali. Le vitamine contenute nel lievito sono
soprattutto appartenenti al gruppo B (B1, B2, B6).

La composizione del lievito compresso varia in base al suo utilizzo. I ceppi


contenenti più proteine sono più rapidi nell’azione, hanno più alta velocità di
fermentazione, ma non sono molto indicati per gli impasti contenenti molto zucchero
oppure per le produzioni dove è coinvolta la tecnica di surgelazione. Mentre i
ceppi osmotolleranti e crioresistenti (resistenti alle basse temperature) hanno più
alto contenuto in trealosio, ma minore quantità di proteine e quindi più bassa
velocità di fermentazione.

Come si conserva

Normalmente il lievito compresso si conserva in frigorifero, a una temperatura da 1


a 4 °C. Le temperature più alte riducono i tempi di conservazione del prodotto. Le
confezioni del lievito devono essere chiuse in uno strato di carta e avvolte con
una pellicola per alimenti, in modo che il prodotto mantenga costante la propria
umidità (il cui valore è all’incirca del 70-75%). Avvolgere il lievito è importante
non soltanto per impedire l’inquinamento o l’essiccamento delle cellule sulla
superficie, che potrebbe portare alla perdita delle loro attività, ma anche perché
in presenza di ossigeno il lievito comincia il processo ossidativo che, generando
calore, porta all’alterazione del prodotto stesso.
L’attività enzimatica

Con attività enzimatica si intende l’attività degli enzimi zimasi, ossia la loro
capacità di trasformare lo zucchero in anidride carbonica ed alcol etilico. Per
determinare l’attività enzimatica del lievito esistono diversi metodi. Alcuni
possono essere svolti nel proprio laboratorio di panificazione, per esempio:

Lievito compresso

Metodo rapido: si prepara una miscela composta da 6,5 g di lievito compresso, 7 g


di farina e acqua, in quantità tale da raggiungere la consistenza normale del
composto. L’impasto così ottenuto viene lavorato a forma di pallina e messo in un
bicchiere con dell’acqua tiepida. Si calcola il tempo dal momento in cui la pallina
è stata introdotta nel bicchiere al momento in cui la pallina si solleva sulla
superficie. Per il lievito di buona qualità bastano circa 20 minuti. Se il tempo
risulta superiore, l’attività del lievito è più bassa della media.

Metodo con utilizzo di reofermentografo, lo strumento della ditta produttrice


Chopin (vedi). Studia l’evoluzione durante la fermentazione di un impasto
sottoposto a sollecitazioni (temperatura, pesi applicati ecc.), secondo un
determinato protocollo. Vengono misurati lo sviluppo della pasta e, attraverso un
sensore di pressione, l’aumento di pressione della pasta in fase di fermentazione.

Tramite il test reofermentografico è possibile di avere informazioni sia sullo


sviluppo dell’impasto sia sulla quantità di CO2 sviluppata e trattenuta
efficacemente all’interno della massa: la conoscenza del tempo in cui appare la
cosiddetta “porosità” dell’impasto è di grande interesse tecnologico in quanto
direttamente correlato alla durata della lievitazione di un reale processo
produttivo. Con questo metodo, oltre a controllare l’efficacia del lievito si
verificano le caratteristiche della farina.

I BATTERI LATTICI E LA FERMENTAZIONE LATTICA

Durante la fermentazione dell’impasto si sviluppano anche altri microrganismi,


soprattutto i batteri lattici. Nell’impasto i batteri lattici vengono apportati dal
lievito compresso (il quale li contiene in piccole quantità come tracce), ma anche
dall’ambiente e dalla farina (sono presenti soprattutto nei residui di crusca). Di
conseguenza le farine di alta resa ne avranno di più, e le farine raffinate,
invece, di meno. I batteri lattici sono come i lieviti – gli anaerobici
facoltativi: vivono sia in presenza che in assenza di ossigeno. Possono essere a
forma di cocco oppure a bastoncino.

Tutti i batteri lattici, presenti nell’impasto, si possono dividere in tre gruppi a


seconda dei prodotti che formano durante la loro fermentazione:
omofermentanti (producono acido lattico dalla fermentazione degli zuccheri):

eterofermentanti facoltativi (fermentando producono soprattutto l’acido lattico, ma


in determinate condizioni anche acido acetico, formico e alcol etilico);

eterofermentanti obbligati (fermentando producono acido lattico, acido acetico,


alcol etilico e CO2).

A seconda delle temperature ottimali per il loro metabolismo, i batteri lattici si


possono dividere in due gruppi:

mesofili (dimostrano il massimo della loro attività alla temperatura di 30-35 °C),
come la maggior parte dei batteri lattici eterofermentanti, per esempio
Lactobacillus brevis, Lactobacillus casei, Lactobacillus fermentum, Lactobacillus
sanfranciscensis, Lactobacillus plantarum;

termofili (la temperatura ottimale per il loro funzionamento è più alta rispetto a
quella dei batteri mesofili: 35-54 °C), come i batteri lattici omofermentanti
Lactobacillus Delbrueckii, Lactobacillus bulgaricus, Lactobacillus acidophilus.

I batteri lattici mesofili hanno maggiore sviluppo nell’impasto, tenendo presente


la media temperatura con la quale l’impasto fermenta (intorno a 30 °C). Durante il
processo di fermentazione, il grado di acidità dell’impasto (o del preimpasto)
aumenta, favorendo il metabolismo dei lieviti, che preferiscono un ambiente
leggermente acido. L’aumento dell’acidità è provocato dall’accumulo nell’impasto di
acidi organici (lattico, acetico, butirrico ecc.) prodotti dalla fermentazione
lattica. Se la resa della macinazione della farina è più alta, allora il processo
dell’accumulo degli acidi sarà notevole, perché nella farina di alta resa la
percentuale di crusca è più alta, e quindi la quantità dei batteri lattici sarà
superiore.

La fermentazione lattica ha una notevole importanza per le caratteristiche


organolettiche (gusto e profumo) e per la conservabilità del prodotto finito. Il
profumo del pane dipende soprattutto dalla quantità e dai tipi degli acidi organici
generati nell’impasto dai batteri lattici, perché durante la cottura gli acidi
organici reagiscono con l’alcol etilico (che si forma durante la fermentazione
alcolica) formando numerose sostanze volatili aromatizzanti.

Nell’impasto si produce soprattutto l’acido lattico, che lo rende più estensibile e


fornisce al prodotto finito un gusto e un profumo migliori. L’acido acetico rende
la maglia glutinica più rigida e più corta, fornendo al prodotto un profumo e un
gusto troppo forti. In genere in un impasto di farina di frumento la quantità di
acido lattico è superiore a quella di tutti gli altri acidi (acetico compreso), i
quali, di solito, non superano il 25-30% dalla quantità totale degli acidi.
Nell’impasto preparato con farina di segale si produce soprattutto l’acido acetico,
e la quantità dell’acido lattico risulta più bassa (intorno al 30% dal totale degli
acidi).

Sono importanti comunque entrambi gli acidi, perché l’impasto deve possedere una
certa resistenza ed estensibilità. L’impasto con un giusto grado di acidità ha
ottime caratteristiche strutturali: è in grado di assorbire bene l’acqua e si
caratterizza da elasticità ed estensibilità.

Il prodotto finito ha un ottimo sviluppo perché il suo glutine, nonostante riveli


una certa resistenza e quindi una buona ritenzione dei gas prodotti con la
fermentazione, è in grado di estendersi bene, dando origine a prodotti voluminosi,
con mollica ben sviluppata ed elastica, e hanno un ottimo sapore e profumo al
contrario degli impasti scarsamente acidi.

I tipi di acidi che si formano nell’impasto e l’intensità della loro formazione


dipendono soprattutto dalla temperatura alla quale l’impasto fermenta (l’aumento
della temperatura contribuisce ad una maggiore produzione di acido lattico;
viceversa, con le temperature più basse si produce più acido acetico), dalla
consistenza dell’impasto (negli impasti più molli si crea più acido lattico, al
contrario degli impasti più asciutti, dove l’acido acetico si produce in maggiori
quantità) e dalla quantità iniziale dei batteri lattici. Influisce naturalmente
sulla fermentazione lattica anche la disponibilità di zuccheri, il loro nutrimento.

L’accumulo degli acidi nell’impasto abbassa l’attività degli enzimi (soprattutto le


amilasi, meno le proteasi); questo processo migliora le caratteristiche del
glutine.

La fermentazione lattica ha una funzione importante nei preimpasti. Infatti,


durante la fermentazione di una biga (di un poolish o di qualsiasi altro
preimpasto) avviene un’attiva moltiplicazione e la fermentazione dei batteri
lattici, che origina i numerosi acidi organici. Proprio questi ultimi spiegano i
benefici del metodo indiretto rispetto al metodo diretto, riguardanti il gusto e
profumo migliori e la più lunga durata di conservazione. La maggiore acidità
dell’impasto provoca una più attiva produzione delle sostanze aromatizzanti durante
la cottura, fornendo l’aroma più intenso al prodotto finito, e inibisce i
microrganismi indesiderati, responsabili per la crescita delle muffe, prolungando
così la freschezza del prodotto.

Nello stesso tempo l’acidità dell’impasto (o del preimpasto) non deve essere
eccessiva, altrimenti si avranno dei risultati negativi (il prodotto finito avrà un
gusto e un profumo sgradevoli per eccesso di acidità), inoltre il prodotto avrà
poco volume e la mollica sarà compatta e umida. Infatti, un’eccessiva acidità
dell’impasto (o del preimpasto) provoca la rottura della maglia glutinica, che fa
da struttura portante in un impasto lievitato.

Il lievito

madre

in diverse declinazioni

Oggi la panificazione tradizionale utilizza soprattutto il lievito di birra perché


consente maggiore velocità di produzione e flessibilità. Di recente, però, nei
confronti del lievito madre (o lievito naturale) si sta sviluppando sempre maggior
interesse. I prodotti a base di lievito madre trovano gradimento fra i consumatori,
e i produttori dunque cominciano ad attrezzarsi per offrirli al pubblico.
Finalmente questa antica e sana tradizione è in ripresa nonostante i ritmi sempre
più frenetici della vita moderna: in realtà basta organizzare bene i tempi
produttivi, ricordando il vecchio detto: “Veloce e bene non stanno insieme”.

Un po’ di tempo fa (per la precisione fino agli anni Trenta) nessuno per panificare
utilizzava il “lievito di birra” per un semplice motivo: non lo producevano ancora.
Spesso il pane si preparava in famiglia e le madri o le nonne addette alla sua
preparazione tenevano un pezzo dell’impasto avanzato dal giorno prima da usare il
giorno dopo e con questa base facevano l’impasto. Questo pezzo d’impasto veniva
chiamato “crescente” o “crescito” (nell’Italia del Sud). In realtà, in alcuni casi
poteva essere considerato “lievito madre” se nasceva soltanto da farina e acqua, e
veniva rinnovato solo con farina e acqua e conservato per le lavorazioni
successive. Invece in altri casi si trattava di un pezzo di pasta di riporto
reimpiegato per il giorno dopo, contenente quindi del sale e a volte anche dei
condimenti (olio o strutto). Il sistema a base di pasta di riporto rinnovata è
ancora utilizzato in Meridione per preparare i pani di grande formato con semola o
con farina di frumento. Il lievito madre invece è impiegato oggi soprattutto per la
preparazione dei prodotti di ricorrenza (panettone, colomba, pandoro), per alcuni
pani tipici, e per i pani di segale (dove risulta indispensabile per inibire le
amilasi la cui attività, in questo tipo di farina, risulta normalmente elevata).

CHE COS’È E COME NASCE

Nel lievito madre le cellule dei Saccaromiceti non si trovano in forma selezionata
(come nel “lievito di birra”), ma insieme agli altri microrganismi fanno parte di
un impasto. Infatti, il lievito madre non è altro che un pezzo di pasta inacidita,
preparato con farina e acqua, e lasciato maturare nell’ambiente per un tempo più o
meno lungo. Durante questo periodo di maturazione, l’azione dei microrganismi
presenti nella farina, nell’acqua e nell’aria innesca la loro riproduzione e, in
seguito, la loro fermentazione. Nella partenza del lievito madre possono essere
presenti numerosi microrganismi, ma poi rimangono soprattutto i batteri lattici e i
lieviti.

Il lievito naturale = lievito madre

Attenzione! Per lievito madre o lievito naturale non intendiamo il “lievito di


birra”, ma poiché non esiste una legge precisa che specifica queste denominazioni,
a volte possiamo trovare non soltanto sulle etichette dei prodotti da forno, ma
anche sugli scaffali del supermercato, diciture come “lievito naturale” per il
lievito di birra.

Si tratta sicuramente di un prodotto di origine naturale (non sintetica), ma va


ricordato che per lievito naturale intendiamo una miscela di farina e acqua
inacidita spontaneamente e che abbia una certa sofficità e carica fermentativa. La
differenza sta nel fatto che il lievito naturale (o madre) nella sua composizione
microbica contiene soprattutto i batteri lattici e in minore quantità i lieviti,
invece il “lievito di birra” microbiologicamente è soltanto o soprattutto
Saccharomyces cerevisiae.

Il lievito di birra
I batteri lattici che predominano nel lievito madre fermentano gli zuccheri e
producono gli acidi organici e le altre sostanze, che contribuiscono al prodotto
finale quell’aroma unico e inimitabile, tipico del lievito madre.

Tra i batteri lattici (oltre 300 le specie evidenziate) si possono distinguere


soprattutto gli eterofermentanti, appartenenti al genere Lactobacillus (il più
diffuso è il Lactobacillus sanfranciscensis evidenziato in un pane particolare di
San Francisco, Lac. brevis, Lac. fermentum, Lac. casei, Lac. plantarum ecc.),
quelli omofermentanti (Lac. Delbrueckii, Lac. acidophilus, Lac. Bulgaricus) e
quelli del genere Leuconostoc e Pediococcus. Mentre nei lieviti possono essere
presenti non soltanto Saccharomyces Cerevisiae, ma anche gli altri lieviti come
Sac. Exiguus, Sac. Ellipsoideus, Candida milleri ecc. In genere la quantità dei
batteri lattici supera da 10 a 120 volte quella dei lieviti. Una volta acquisito un
certo equilibrio, la microflora del lievito si mantiene costante e le specie
microbiche convivono in armonia, ma in complessa e continua evoluzione. In genere
in un lievito madre sono presenti soprattutto una specie di batterio lattico e una
specie di lievito, che vivono in simbiosi e a volte non utilizzano lo stesso
terreno di alimentazione. I batteri lattici creano l’ambiente acido, preferito dai
lieviti e a volte aiutano i lieviti a metabolizzare il cibo, e i lieviti a loro
volta rilasciano nell’impasto i prodotti del loro metabolismo, utili per la
moltiplicazione dei batteri lattici.

Microbi in simbiosi

Un caso particolare di una convivenza in simbiosi è quello dell’associazione del


Lactobacillus sanfranciscensis con il lievito Saccharomyces exiguus. Il Sac.
Exiguus non riesce a metabolizzare il maltosio, a differenza del Lac.
Sanfranciscensis, il quale lo metabolizza rapidamente e lo scompone in glucosio,
una parte del quale rimane nell’impasto a disposizione del saccaromiceto, che
riesce a metabolizzarlo. Il Sac. Exiguus a sua volta rilascia nell’impasto gli
amminoacidi essenziali, utili per la proliferazione del Lac. Sanfranciscensis.
Infatti, nel lievito madre in cui si trovano queste due specie microbiche, si
riscontra un’attiva produzione di CO2, che ci conferma l’ottima vitalità del
lievito.

1 ACIDO FITICO È considerato un antinutriente, capace di sottrarre gli elementi


utili e indispensabili per l’organismo umano come ferro, calcio, zinco. È presente
soprattutto in piccole quantità nella corteccia dei cereali. Per questo è
necessario usare il lievito madre soprattutto per la produzione del pane integrale,
così da aumentarne la digeribilità.

L’utilizzo del lievito madre richiede una maggiore attenzione, un’accurata pulizia
dei locali e delle attrezzature e anche dei tempi più lunghi di produzione. Ma il
risultato appaga pienamente: è risaputo che il prodotto panificato sapientemente
con il lievito madre raggiunge il massimo della qualità, inoltre presenta
eccellenti caratteristiche organolettiche (sapore, profumo), una bella mollica (che
ha un ottima alveolatura, sviluppata ed aperta, e un’eccellente elasticità), una
crosta fragrante e di ottima colorazione. Ma il beneficio principale riguarda
l’imbattibile conservabilità di questi prodotti a causa di un’attiva fermentazione
lattica, che caratterizza tutti i prodotti a base di lievito madre. Essi hanno
anche una maggiore digeribilità, un fattore dovuto soprattutto alla trasformazione
da parte di numerosi microrganismi, presenti nel lievito, da sostanze più complesse
a sostanze più semplici, e quindi più facilmente assimilabili dal nostro organismo,
ma anche perché in questi prodotti a causa dell’alta acidità avviene quasi completa
l’idrolisi dell’acido fitico.1

COME CREARE IL LIEVITO MADRE

Per creare il lievito madre è sufficiente partire con farina e acqua. Impastare,
lasciare per un certo periodo a riposare (maturare), dopo “rinnovare”, cioè
reimpastare con farina e acqua, quindi lasciare nuovamente maturare. Le operazioni
di impasto e di maturazione continuano fino al raggiungimento di una certa
potenzialità fermentativa che acquisisce il lievito madre maturo. Un lievito madre
può essere considerato maturo quando dopo il rinnovo cresce bene (o almeno
raddoppia il suo volume iniziale) nell’arco di quattro ore alla temperatura tra i
28 °C e i 30 °C.

Per la partenza del lievito madre può essere idoneo qualsiasi cereale. I sistemi e
gli schemi di avvio sono vari. Alcuni prevedono l’utilizzo della frutta frullata o
dell’acqua filtrata, in cui precedentemente era stata messa a macerare la frutta.
Altri consigliano di inserire nell’impasto di farina e acqua dello yogurt o delle
altre fonti di microrganismi. Queste azioni non sono indispensabili, anche se
l’inserimento delle fonti microbiche aiuta ad abbreviare i tempi di maturazione del
lievito madre. A volte però la microflora che si sviluppa in un lievito maturo può
essere imperfetta o avere delle sfumature di gusto o profumo non desiderati. Il
sistema più sicuro resta comunque quello di prendere da qualcuno di fiducia un
lievito madre buono e poi rinnovarlo, mantenendolo il più possibile costante e
sano.

Questo consiglio è valido soprattutto per il lievito madre di frumento, data la sua
maggiore diffusione in Italia. Se però si vuole creare il lievito madre con un
altro cereale (per esempio con segale, vedi), bisogna seguire le seguenti fasi.

Impasto iniziale: impastare la farina del cereale prescelto e acqua. La quantità di


acqua va messa a seconda del grado di assorbimento della farina e tenendo presente
la consistenza del lievito che si vuole ottenere. Il lievito madre può avere la
consistenza asciutta (con 50% o meno di acqua dalla farina), può essere semimorbido
(al 70% di idratazione) oppure liquido (con 100 o fino a 130% dell’acqua dalla
farina).

Periodo di riposo iniziale: varia da 24 a 48 ore. In questo intervallo iniziano a


lavorare gli enzimi della farina, che rilassano la consistenza dell’impasto.
Comincia anche la moltiplicazione dei microrganismi e iniziano diverse
fermentazioni. In questa fase l’impasto diventa più scuro e più molle, ma non
aumenta molto di volume, perché i lieviti e i batteri lattici non sono ancora in
quantità sufficiente per questo. Inoltre, inizialmente la microflora presente nella
miscela di farina e acqua è molto promiscua, possono essere presenti anche dei
microrganismi patogeni (specialmente se si utilizzano gli inneschi fermentativi
come frutta matura ecc.). Successivamente, quando si sviluppano in quantità
sufficiente i batteri lattici e si producono gli acidi organici, i microrganismi
patogeni vengono inibiti, in quanto non tollerano l’acidità. Invece, i lieviti, che
preferiscono l’ambiente acido, si moltiplicheranno di più. Con il tempo il colore
dell’impasto diventa sempre più chiaro e la consistenza più spugnosa.

Impasto successivo: dopo il periodo di riposo iniziale all’impasto si aggiungono


farina (di solito in quantità pari al peso dell’impasto) e acqua in base
all’idratazione desiderata, poi si impasta tutto;
Si lascia nuovamente riposare (maturare) per un certo periodo (in genere 24 ore o
più). Dopo di che si aggiungono nuovamente farina e acqua (scartando il pezzo di
pasta in eccesso), si impasta e si lascia nuovamente maturare.

Queste operazioni continuano fino alla giusta maturazione del lievito madre.

IL SISTEMA CLASSICO: IL LIEVITO MADRE SOLIDO

Il lievito madre solido maturo potrà essere utilizzato per gli impasti di pane e
paste dolci lievitate, dopo una serie di rinfreschi, oppure potrà essere conservato
con vari sistemi. Conosciamo due metodi principali per conservare il lievito madre
solido: all’asciutto (legato) e a bagno in acqua.

Per il lievito naturale a bagno in acqua il suo mantenimento sarà il seguente.

1 Rinfrescare il lievito madre con farina e il 40% di acqua. Esempio: 200 g di


lievito madre + 200 g di farina di frumento 00 + 80 ml di acqua.

2 Il lievito madre deve essere lavorato in condizioni di massima igiene; l’impasto


dovrà essere asciutto e omogeneo e messo a bagno in acqua a una temperatura di 20
°C circa e che copra bene tutta la superficie del lievito.

3 Lasciare che salga in superficie e mettere il lievito a riposare in un ambiente a


una temperatura di 18°C per circa 12-24 ore.

4 Per un periodo più lungo di conservazione del lievito madre (5-6 giorni), le dosi
di farina e acqua andranno aumentate di tre o quattro volte rispetto alla dose
utilizzata normalmente per il rinfresco (il medesimo procedimento vale anche per il
lievito legato)*. Dopo si pone in acqua (20 °C circa) l’impasto e, quando sarà
risalito in superficie, andrà messo (con il suo contenitore e la sua acqua) in
frigorifero a 6 max 8 °C per poter rallentare l’attività fermentativa.

* Se si utilizza il lievito madre, prelevato dall’acqua, nel primo rinfresco esso


viene impastato con una quantità di farina pari al suo peso e il 40% di acqua o
meno, perché il lievito madre prelevato dall’acqua, per quanto sia bene strizzato,
conterrà comunque dell’acqua.

Il metodo di conservazione all’asciutto è il più diffuso sia a livello artigianale


sia industriale.

1 In questo caso il lievito, generalmente prelevato dal secondo rinfresco, verrà


impastato con: peso lievito = peso farina e acqua (47-50%). Esempio: 200 g di
lievito madre + 200 g di farina + 94 ml di acqua. Il tempo di impasto dovrà
permettere di ossigenare bene il lievito ma senza eccessi per non surriscaldare il
prodotto. L’impasto ottenuto deve risultare chiaro e abbastanza liscio.

2 All’impasto del lievito verrà conferita la forma di un filone.


3 Successivamente andrà avvolto in un tessuto resistente a maglia larga che
permetta al lievito di respirare (non è consigliato di sigillare ermeticamente il
lievito). Quindi si lega con una corda.

4 Si lascia a temperatura ambiente per circa 2 ore (per permettere la riproduzione


dei lieviti e l’inizio della fermentazione). Quando inizia a “tirare” (gonfiarsi
nel sacco) va messo in un ambiente fresco e conservato in base alle condizioni
scelte che possono essere:

per un mantenimento limitato o quando il lievito madre non è molto forte oppure
quando la sua quantità non è molta (se la massa di lievito è notevole, il
raffreddamento è più lento) il lievito può essere conservato a una temperatura tra
i 15 e i 18 °C e rinfrescato giornalmente;

se la quantità di lievito madre è notevole oppure se la sua forza è alta, dopo


circa 2 ore di riposo a temperatura ambiente il sacco con il lievito va messo in
frigorifero a 6 °C. Anche per una conservazione più lunga, il lievito va tenuto in
frigorifero a 6 °C e rinfrescato almeno una volta alla settimana (se
precedentemente abbiamo triplicato la farina rispetto al lievito) o anche per due
settimane (se abbiamo messo farina in dose 5 volte superiore a quella del lievito).
Ovviamente quando si riprende il lievito madre dopo un periodo di riposo superiore
ai due giorni, non si può utilizzare per preparare pane o prodotti da forno.
Bisogna inizialmente rinnovarlo, seguendo le stesse dosi di rinnovo usate in
precedenza, lasciarlo a maturare e dopo utilizzarlo per i rinfreschi.

Attenzione! Non mettere il lievito in un luogo fresco subito dopo il rinnovo, ma


lasciarlo prima fermentare a temperatura ambiente.

I rinfreschi del lievito precedono l’impasto (o gli impasti) a base di lievito


naturale. Lo scopo di questi rinfreschi è quello di potenziare il lievito madre dal
punto di vista fermentativo e nello stesso tempo abbassare il suo grado d’acidità.
Per una buona riuscita delle operazioni di “rinfresco” del lievito si raccomanda di
utilizzare attrezzi e tavolo accuratamente puliti affinché le sostanze estranee non
alterino il processo di fermentazione.

Bisogna prendere soltanto la parte centrale del lievito madre (non utilizzate la
crosta, perché è priva di attività e potrebbe introdurre microrganismi
indesiderati), aggiungere a questa della farina (forte e non alta di ceneri, di
tipo 00) di pari peso o di più, impastare tutto con un quantitativo d’acqua pari
circa al 50% dal peso della farina.

Le dosi possono essere:

500 g lievito madre

550 g farina 00 forte

250 ml acqua

1 Si deve quindi impastare il tutto fino a ottenere un impasto omogeneo di


consistenza morbida. Raccogliere l’impasto, formarte una palla e disporla in un
recipiente (preferibilmente alto e stretto). Sulla superficie fare un taglio “a
croce”.
2 Coprire e lasciare fermentare a una temperatura compresa tra i 26 e i 28 °C.
Nell’arco di 4 ore il lievito deve aumentare il suo volume iniziale e crescere
circa 2-2,5 volte (vedi foto qui sotto).

3 Si procede quindi al secondo rinfresco, seguendo le stesse dosi (vedi foto qui
sotto).

Per la preparazione del pane possono essere sufficienti uno o due rinfreschi,
mentre per i prodotti di ricorrenza (panettone, colomba ecc.) ne servono almeno
tre.

Come si può notare dalla foto in basso a sinistra, la forza del lievito madre
aumenta progressivamente con il numero dei rinfreschi. Dopo tre rinfreschi il
lievito madre ha la forza necessaria per affrontare il primo impasto di panettone o
altri prodotti simili. La porzione necessaria per la conservazione (lievito madre)
viene solitamente prelevata dal secondo o dal terzo rinfresco, perché così il
lievito ha un’attività migliore.

CONSERVAZIONE DEL LIEVITO MADRE SOLIDO PER LUNGHI PERIODI

Per una conservazione lunga (senza dover rinnovare il lievito) si può ricorrere a
due tecniche: quella del surgelamento e quella della polverizzazione.

1 Per la prima tecnica si prende una parte, generalmente dal secondo rinfresco, la
si pone in acqua e la si lascia venire in superficie. Si attende un’ora circa poi
lo si passa in frigorifero (4-5 °C) per qualche ora, poi, sempre a bagno
nell’acqua, si mette nel congelatore. Il lievito madre può rimanere anche per
lunghissimi periodi in queste condizioni.

Lo scongelamento dovrà poi avvenire a temperatura ambiente (20-22 °C) nello stesso
recipiente per circa 2 giorni e lasciato poi lievitare per altre 24 ore per
terminare la sua ripresa. A questo punto si potrà procedere alle normali operazioni
giornaliere di rinfresco.

2 Per la conservazione attraverso la polverizzazione si dovranno effettuare le


seguenti operazioni:

porre nella planetaria farina e lievito madre in pari quantità e mescolare a bassa
velocità sino a ottenere una polvere che dovrà essere stesa su un panno pulito e
fatta asciugare completamente. Quando sarà ben asciutta, disporla in sacchetti di
plastica per alimenti che poi metterete in frigorifero (5-6 °C) per la
conservazione, che può durare lunghi periodi;

per ritornare al suo utilizzo, si dovrà impastarlo aggiungendo l’acqua necessaria


per il rinfresco ed effettuare una serie di rinfreschi giornalieri fino alla giusta
maturazione.
VERIFICA DELLE CARATTERISTICHE DEL LIEVITO MADRE SOLIDO

È importante verificare sempre la qualità del lievito madre prima di utilizzarlo


per l’impasto finale, controllando il livello di acidità e lo stato di maturazione.
Non ultima la temperatura, che può oscillare da 25 a 30 °C; è altresì importante
mantenerla a questi livelli non soltanto per avere un giusto grado di acidità nel
prodotto finito, ma anche per conservare l’esatto equilibrio tra le due acidità
prodotte nel lievito naturale (lattico e acetico).

Come si può vedere dalla foto qui in basso, il lievito madre solido di buona
qualità deve avere:

il colore chiaro bianco-avorio;

il sapore dolce-acido senza retrogusti;

l’alveolatura fine, sviluppata, con alveoli prolungati;

la consistenza morbida ma non appiccicosa;

il profumo acido-dolce fruttato (simile al profumo del miele o del pane di segale);

l’acidità corretta.

Un lievito madre troppo debole ha:

il sapore poco acido, quasi insipido simile al gusto di farina;

il colore eccessivamente chiaro, quasi bianco;

la consistenza troppo compatta;

l’alveolatura scarsa e poco sviluppata;

l’acidità scarsa.

Il grado di acidità del lievito madre

Misurare il pH del lievito madre per determinare il suo grado di acidità non è un
sistema molto preciso. Il sistema più preciso è quello di fare l’acidità
titolabile. Questa analisi solitamente viene effettuata dalle industrie.
Nell’analisi una porzione del lievito madre viene sminuzzata in acqua distillata
(le quantità di farina e di acqua sono diverse in base ai metodi utilizzati, anche
la valutazione dei valori quindi è differente). La miscela lievito madre-acqua
viene addizionata di qualche goccia di fenolftaleina (un indicatore), dopo di che
con una buretta graduata si aggiunge poco alla volta idrossido di sodio
(concentrazione 0,1N) fino al punto di viraggio (finché la miscela non diventa di
colore rosa stabile per qualche minuto). In base alla quantità utilizzata di
idrossido di sodio si valuta l’acidità del lievito madre. Indipendentemente dal
metodo utilizzato: più è alta la sua quantità, più è alta l’acidità del lievito. A
livello artigianale il sistema migliore è quello di sviluppare la propria
percezione tattile, olfattiva e gustativa per determinare la qualità del lievito,
che può avvenire soltanto con tanta pratica.
Un lievito madre troppo forte ha:

il sapore acido e contemporaneamente amaro;

il colore più scuro del normale;

l’alveolatura più brutta;

la consistenza più appiccicosa;

l’acidità troppo pronunciata.

Un lievito madre eccessivamente acido ha:

il sapore molto acido;

l’odore estremamente forte e pungente;

il colore scuro, ocra-grigio;

l’alveolatura quasi assente;

la consistenza viscida, appiccicosa;

notevole acidità.

ACCORGIMENTI CORRETTIVI PER MIGLIORARE IL LIEVITO MADRE

1 Per migliorare il lievito madre troppo debole bisogna modificare le dosi dei
rinfreschi: aggiungere meno farina e aumentare lievemente il tasso di idratazione
(a volte deve essere anche aumentata la temperatura o il tempo di impasto). Si può
effettuare l’aggiunta di 1/1.000 di zucchero dalla quantità dell’acqua. Il lievito
troppo debole subito dopo il rinfresco necessita di temperature di fermentazione
leggermente più alte.

2 Per migliorare il lievito madre troppo acido occorre modificare le dosi del
rinfresco: aumentare la quantità della farina e diminuire la percentuale
dell’acqua, rendendo la consistenza dell’impasto più asciutta.

3 A volte, nonostante il giusto grado di acidità, nel lievito madre può avvenire
uno squilibrio di microflora. Per esempio, per l’eccessivo sviluppo dei batteri
lattici: in questo caso il lievito madre acquista l’odore di formaggio fresco, ha
il gusto simile a quello dello yogurt e il colore eccessivamente chiaro (quasi
bianco). A volte possono inserirsi dei microrganismi esterni: in questo caso il
lievito madre diventa più scuro e assume un gusto amaro, e odore di formaggio
stagionato (mentre la sua acidità può essere anche nella norma). In questo caso il
lievito madre non ha la forza fermentativa necessaria, perché contiene
Saccaromiceti leggermente inibiti, dominati dagli altri microrganismi. Per
correggere il lievito con la microflora non equilibrata è necessario effettuare il
lavaggio. Lo stesso rimedio può essere utile anche nel caso del lievito
eccessivamente acido.
Per effettuare il lavaggio del lievito madre bisogna procedere in questo modo:

spellare il lievito madre e tagliarlo a fette;

preparare un recipiente contenente una quantità d’acqua circa 4-5 volte superiore
rispetto al volume del lievito madre. La temperatura dell’acqua deve essere in
relazione alla temperatura del lievito madre (per esempio, se il lievito madre
proviene dal frigorifero, la temperatura dell’acqua può essere anche di 40 °C; se
il lievito madre proviene dall’ambiente, la temperatura dell’acqua potrebbe essere
più bassa, di 20-30 °C), in modo che in totale nell’acqua con del lievito dentro si
raggiungano i 30-35 °C;

aggiungere all’acqua dello zucchero (1% dalla quantità dell’acqua);

immergere le fette di lievito madre nell’acqua con dello zucchero;

lasciate le fette del lievito madre a bagno nell’acqua per circa 30-40 minuti;

recuperare il lievito in superficie, strizzarlo bene e impastare con le seguenti


dosi: 100 g lievito madre + 150 g farina forte + 60 ml dell’acqua circa
(all’incirca 40%, ma viene regolata in base alla consistenza dell’impasto, perché
il lievito strizzato potrebbe contenere ancora dell’acqua);

avvolgere e mettere a conservare (se dev’essere soltanto conservato) oppure


lasciare crescere per il primo rinfresco (se si vuole procedere per un esecuzione
della ricetta finale).

IL LIEVITO MADRE LIQUIDO

Possiamo creare il lievito madre in consistenza liquida, oppure trasformarlo da


solido a liquido. In questa forma può essere riprodotto e mantenuto. La tecnica
risulta particolarmente idonea per la preparazione dei prodotti da forno, non
particolarmente ricchi di condimenti. Con la tecnica del lievito madre liquido non
c’è bisogno di effettuare la serie dei rinfreschi precedenti all’impasto e
l’impasto si prepara anche in un’unica fase (nella quale si inserisce il lievito
madre maturo insieme agli altri ingredienti), consentendo così un notevole
risparmio di tempo.

Utilizzando il lievito madre liquido, i tempi di fermentazione dell’impasto e di


lievitazione finale sono lievemente più lunghi rispetto alla panificazione con il
lievito di birra, ma più brevi rispetto al classico procedimento con il lievito
madre solido. Anche le caratteristiche organolettiche del prodotto finito sono a
favore di questa tecnica: in genere i prodotti a base di lievito madre liquido
vantano un ottimo sviluppo, un sapore e un profumo ricchi e gradevoli, invece la
loro acidità è molto bilanciata. Ovviamente anche la durata di conservazione dei
prodotti a base di lievito madre liquido è lunga (come per i prodotti confezionati
con il lievito madre solido).
COME TRASFORMARE IL LIEVITO MADRE SOLIDO IN LIQUIDO

Per trasformare il lievito madre solido (sia se è conservato con il metodo


nell’acqua sia con il metodo all’asciutto) in liquido bisogna procedere nel modo
seguente.

1 Prendere il lievito madre dal sacco o dall’acqua (viene utilizzato soltanto il


“cuore”, la parte centrale), aggiungere una quantità di farina (sempre forte e
appartenente al tipo 00) pari al doppio peso del lievito e una quantità di acqua
pari al peso della farina. Esempio: 100 g lievito madre solido + 200 g farina forte
00* + 200 ml acqua.

* In certi metodi di maturazione del lievito madre liquido si utilizzano farine non
forti, oppure non molto raffinate (con ceneri superiori di 0,55). In questo caso la
maturazione del lievito madre è più rapida e quindi i suoi rinnovi saranno più
frequenti.

2 Impastare o a mano o in una planetaria fino a ottenere la consistenza più


omogenea possibile (cercando di sminuzzare i pezzettini solidi del lievito).
Mettere l’impasto in una bacinella non troppo alta e stretta, coprire con un
canovaccio e con pellicola per alimenti, lasciare a temperatura ambiente (22-24 °C)
per 16-24 ore. La temperatura del lievito madre dovrebbe essere di 26 °C.

3 Il lievito comincia a maturare e si osserva una certa crescita e comparsa delle


bollicine. Ma il lievito non è ancora maturo.

4 Trascorso il tempo di fermentazione del lievito madre liquido, si possono


osservare numerose bollicine sulla superficie: il volume del lievito è raddoppiato
e al centro si forma una conca.

5 La sua consistenza è molto spugnosa, ma nello stesso tempo si ha una certa


elasticità (si sente il “nervo”).

6 Il lievito madre liquido è pronto e può essere utilizzato per la preparazione


delle ricette (senza necessità di aggiungere del lievito di birra).

COME MANTENERE IL LIEVITO MADRE LIQUIDO

Il lievito madre liquido, una volta maturo, va messo in frigorifero per essere poi
utilizzato durante la giornata di lavorazione. Al termine della lavorazione il
lievito avanzato viene reimpastato con farina e acqua in pari percentuale (che
varia in base alle necessità) per essere nuovamente lasciato fermentare.
Esempio: se domani bisogna lavorare con il lievito madre, si rinfresca con le
seguenti dosi:

100 g di lievito madre liquido

300 g di farina forte 00

300 ml di acqua

1 Si impasta bene e si lascia maturare a temperatura ambiente (22-24 °C) per circa
2 ore fino a quando appaiono delle bollicine.

2 Dopo di che si dovrà:

lasciarlo fermentare nell’ambiente se il lievito madre non è molto forte; oppure se


la sua quantità non è molta;

oppure riporlo in luogo fresco (a 6-18 °C) se la sua acidità è corretta e se la sua
quantità è più abbondante;

in alternativa introdurre la bacinella con il lievito madre in frigorifero, se il


lievito è più forte oppure se l’ambiente dove si lavora è molto caldo o se la
quantità del lievito è notevole.

Attenzione! Il lievito madre non viene mai messo al freddo immediatamente subito
dopo il rinnovo, altrimenti si blocca e rallenta notevolmente la sua attività.

In genere la quantità della farina per mantenere il lievito madre liquido dall’oggi
al domani è 1:3:3, ma può essere cambiata in base all’acidità del lievito madre
liquido e in base al tempo di conservazione.

Per esempio, se l’acidità del lievito madre liquido è più alta, il peso della
farina del rinnovo può essere aumentato, mentre la quantità dell’acqua può essere
leggermente più bassa rispetto a quella della farina di rinnovo (stesso principio
come per il lievito naturale solido). Perché con il grado di acidità superiore al
dovuto il glutine del lievito madre rimane più disgregato e la consistenza più
liquida, quindi, oltre ad aumentare la farina è necessario anche ridurre l’acqua
per ottenere la consistenza del prodotto giusta.

Esempio: se il lievito è leggermente più acido, si può osservare un leggero


collasso della struttura del lievito (il lievito scende e rimane più molle e più
viscido). Questo è un lievito appena più acido del dovuto e va rinnovato così:

100 g di lievito madre liquido più acido del dovuto

400 g farina 00 forte

400 ml di acqua

Se il lievito è più acido di questo, allora si rinnova con queste dosi:

100 g di lievito madre liquido più acido del dovuto


500 g di farina 00 forte

450-500 ml di acqua

Le stesse dosi possono essere utilizzate se il lievito madre liquido non serve per
la preparazione del prodotto e se deve essere mantenuto per più giorni senza
rinnovarlo. Il lievito madre liquido può essere conservato senza essere rinnovato
al massimo 4-5 giorni. In questo caso dopo l’impasto con le dosi 1:5:5, il lievito
madre viene lasciato dopo l’impasto anche meno di 2 ore a temperatura ambiente per
far ripartire la fermentazione (almeno 30 minuti), dopo di che viene riposto in
frigorifero, dove prosegue molto lentamente la sua maturazione.

Se il lievito madre liquido viene lasciato in frigorifero per un tempo superiore a


5 giorni senza essere rinnovato, diventa molto acido, diminuisce di volume,
acquista un colore scuro e si stratifica (l’eccessiva acidità rompe totalmente la
struttura dell’impasto) rilasciando dell’acqua (vedi foto qui sotto). In questi
casi tutta la superficie superiore va scartata, e si prende soltanto la parte del
fondo del recipiente, si allunga con molta farina (nella dose fino a 6-8 volte
rispetto al lievito), e si lascia a fermentare nell’ambiente fino alla formazione
della conca centrale. Dopo di che si procede con le dosi solite per rinnovarlo. Ma
ovviamente in questi casi sarà impossibile panificare il giorno dopo: saranno
necessari più giorni prima che il lievito acquisti una forza necessaria.

Invece, quando il lievito madre liquido è più debole del dovuto (per esempio è
stato lasciato maturare in un luogo molto freddo) si presenta poco acido come
sapore, meno soffice e più denso, poco cresciuto di volume, molto chiaro e con
l’aroma quasi assente. In questo caso bisogna metterlo al caldo in cella per
agevolare la fermentazione; invece nella fase del rinnovo aggiungere l’1per mille
di zucchero nell’acqua dell’impasto (stessi rimedi come per il lievito madre
solido).

IL LIEVITO MADRE DI SEGALE

Per preparare il pane di segale è necessario creare una buona acidità nell’impasto,
per cui per la panificazione con la segale vengono preferiti sempre i metodi
indiretti, come per esempio quello a base di lievito madre. Il lievito madre di
segale ha un’alta diffusione nei Paesi nordici, in particolare in Russia, dove
viene chiamano zakvaska. Il lievito madre può essere utilizzato sia per produrre il
pane con 100% di segale, ma anche per i pani contenenti percentuali minori di
questo sfarinato.

Per creare un lievito madre di segale da zero i passaggi sono i seguenti.

1 Impastare la farina di segale con acqua in quantità di pari peso, per esempio:
500 g farina di segale (per iniziare utilizzare preferibilmente quella integrale
per apportare più microrganismi, ma per i rinnovi successivi usare la farina di
segale bianca) + 500 ml di acqua. Quindi mettere in un recipiente alto e stretto
(di plastica, di legno o di vetro), coperto con un cavovaccio, e lasciare
fermentare a temperatura ambiente. Non coprire con pellicola per alimenti: bisogna
consentire la moltiplicazione dei microrganismi.
Lievito madre di segale subito dopo il rinnovo.

2 Trascorse 24 ore, l’impasto presenta delle piccole bollicine (sono i primi segni
di fermentazione), non devono sentirsi degli odori estranei.

3 Trascorse le 48 ore dall’inizio della preparazione, si osserva una notevole


presenza delle bollicine e si può sentire l’aroma acidulo, tipico dell’impasto
fermentato.

4 L’operazione del rinnovo del lievito liquido di segale può essere eseguita
aggiungendo all’impasto 250 g di farina di segale bianca e 250 ml d’acqua.
Impastare per bene. Dopo di che lasciare nuovamente fermentare l’impasto così
ottenuto a temperatura ambiente, coperto con un canovaccio per 3 giorni. Trascorso
questo periodo, si può già osservare una buona crescita di volume, la consistenza
sarà molto spugnosa e alveolata, e si avverte una buona acidità nel profumo e nel
sapore. Come sempre non devono essere presenti aromi estranei.

Lievito madre di segale trascorse le 24 ore di fermentazione.

5 Quindi è necessario un altro rinnovo del lievito liquido: ai 500 g di lievito


madre (dal passaggio precedente) vengono aggiunti 500 g di farina di segale bianca
e 350-400 ml di acqua circa. Si impasta per bene e si lascia nuovamente fermentare,
coperto con canovaccio, a temperatura ambiente.

6 Trascorse 24 ore, si ripete l’operazione.

Dopo una settimana dall’inizio delle operazioni, il lievito madre di segale


(zakvaska) è pronto: ha una consistenza liquida ma molto spugnosa, sapore e odore
sufficientemente acidi. Quindi può essere utilizzato direttamente nell’impasto per
preparare il pane di segale.

Una dose va tenuta da parte, rinnovata, lasciata fermentare per due ore a
temperatura ambiente e, successivamente messa in frigorifero in un contenitore
coperto con canovaccio o con pellicola per alimenti. Si può conservare fino a 7
giorni senza essere rinnovata. In questo caso la quantità di farina rispetto al
lievito madre è di 8 volte superiore e viene messa tanta acqua quanta è la farina
(1:8:8). Se viene utilizzata dopo una settimana, per il primo rinnovo bisogna
mettere la farina in dose 8 volte superiore rispetto al lievito (l’acqua invece
sempre nella stessa quantità della farina), va rinnovata e lasciata fermentare per
24-36 ore (a una temperatura nell’ambiente di 22-24 °C), dopo di che va inserita
nell’impasto. Se viene rinnovata giornalmente la quantità di farina rispetto al
lievito varia da 3 a 5 volte tanto (dipende dall’acidità del lievito madre) e in
questo caso può essere conservata a temperatura ambiente (oppure in un ferma-biga).

Il lievito madre di segale di buona qualità deve avere una consistenza spugnosa,
liquida, ma non deve essere estremamente appiccicosa, deve presentare numerose
bollicine (se scarseggiano significa che l’attività dei lieviti è più scarsa,
inoltre la consistenza non deve essere stratificata), l’aroma e il sapore devono
essere dolce-acidi, gradevoli, senza retrogusti estranei. Deve crescere 2,5 volte
rispetto al volume iniziale e formare una conca al centro.

La microflora del lievito madre di segale è composta prevalentemente dai batteri


lattici, in minor misura dai lieviti. La quantità dei batteri lattici normalmente è
60-80 volte superiore rispetto a quella dei lieviti. Fra i batteri lattici si
possono distinguere:

omofermentanti, che con il loro metabolismo producono soprattutto l’acido lattico,


e in piccolissime quantità acido acetico. I batteri lattici omofermentanti
contenuti nella zakvaska sono soprattutto mesofili (preferiscono temperature
moderate, dai 25 ai 30 °C), e in minor quantità termofili (preferiscono le
temperature più elevate, per esempio dai 40 ai 55 °C). Questi batteri non hanno la
capacità di formare gas come l’anidride carbonica, quindi non contribuiscono
all’aumento del volume nel prodotto, ma hanno un ruolo importante perché creano
l’acidità;

eterofermentanti: durante il loro metabolismo vengono prodotti insieme all’acido


lattico anche altri acidi organici (soprattutto acetico), l’anidride carbonica, e
una piccolissima quantità di alcol etilico. La temperatura ottimale per questi
batteri è dai 30 ai 35 °C. Questi batteri hanno un ruolo fondamentale nella
zakvaska, perché producendo anche gas contribuiscono all’aumento dell’acidità e
alla crescita del volume di un impasto.

Fra i lieviti della zakvaska possiamo distinguere ceppi tra cui Saccharomyces
cerevisiae (temperatura ottimale 30 °C) e Saccharomyces minor (temperatura ottimale
25 °C), ma soprattutto il ceppo tipico per la segale (P-14), più resistente
all’acidità.

L’acidità è superiore al lievito madre di frumento.

Impasti,

cottura e

panificazione

L’impasto di un prodotto da forno è una materia viva e in continua evoluzione.


All’interno di un impasto di lievitazione biologica avvengono numerosi processi
fisici, chimici, microbiologici. Anche se non conosciamo alla perfezione tutto ciò
che accade a causa della complessità dei processi, cerchiamo di capire e di
conoscere almeno i procedimenti principali per governare l’impasto al meglio: siamo
noi a condurlo e non viceversa. L’emozione che prova chi vede svilupparsi
all’interno della camera di cottura il pezzo dell’impasto, che cresce a vista
d’occhio, acquista colorazione, sviluppa i suoi profumi, è unica, come è unico ogni
tipo di pane con il suo profumo, sapore, forma. Senza esagerare si può affermare
che la cottura conclude la realizzazione dell’opera d’arte unica e complessa nel
suo genere: il pane. Da semplici ingredienti come farina, acqua, sale e lievito può
nascere un’infinità di prodotti da forno, differenti fra loro. Dipende soprattutto
dal metodo con il quale panifichiamo: in base ai prodotti che dobbiamo realizzare e
al tempo che abbiamo a disposizione, scegliamo quello più adatto.

LA PREPARAZIONE DELL’IMPASTO
Prima di analizzare diverse fasi della preparazione del pane o dei prodotti da
forno in generale, precisiamo quali sono quelle indispensabili per preparare
qualsiasi prodotto da forno:

1 preparazione dell’impasto (diretto, indiretto, semidiretto o a base di lievito


naturale) e sua fermentazione;

2 modellatura (spezzatura, formatura);

3 lievitazione finale;

4 cottura.

Ognuna di queste fasi ha importanza per la qualità del prodotto, ma forse quella
fondamentale rimane l’impasto. La qualità del prodotto finito dipende soprattutto
da come è stato preparato l’impasto, con che metodo e qual è il suo contenuto.

La formazione dell’impasto consiste nel miscelare gli ingredienti, e, fornendo


l’energia (in modo manuale o con l’uso dell’impastatrice), nel realizzare una massa
liscia e omogenea, che abbia una certa sofficità e una certa elasticità.
L’impastamento è un processo molto importante, da cui dipendono le caratteristiche
dell’impasto e il suo comportamento durante la fermentazione e durante la cottura,
di conseguenza la qualità del prodotto finito.

È necessario mescolare bene tutti gli ingredienti, non solo per incorporarli
uniformemente nell’impasto, ma anche perché impastando si ottengono l’attrito e
l’unione a livello molecolare dei componenti chimici della farina e degli altri
ingredienti, che formano una massa omogenea chiamata “impasto”. La reazione
principale di questa fase è la formazione del glutine1 attraverso l’unione delle
proteine insolubili della farina.

Dalla quantità e dalla qualità del glutine (proporzione fra gliadine e glutenine)
dipendono le caratteristiche dell’impasto.

Il glutine a sua volta dipende dalla qualità di farina utilizzata (dalle sue
proprietà reologiche, vedi), ma anche dal tempo dell’impasto e dalla sua
temperatura.

Ogni impasto deve avere la propria temperatura ottimale, innanzitutto perché


contiene i microrganismi viventi (lieviti e batteri lattici); perciò la temperatura
necessaria dell’impasto deve essere in relazione con la temperatura idonea per il
metabolismo di questi microrganismi, ma nello stesso tempo non deve accelerare
molto i processi enzimatici dell’impasto.

1 GLUTINE Alla sua formazione partecipano due tipi di proteine, insolubili


nell’acqua e nelle soluzioni saline: gliadine e glutenine. Le gliadine, assorbendo
acqua, formano una massa gelatinosa ed estensibile, mentre le glutenine, assorbendo
l’acqua, formano una massa elastica e resistente. Il glutine possiede
caratteristiche di entrambe.

La temperatura finale media dell’impasto deve essere intorno ai 25-28 °C, ma


risulta diversa per ogni tipo di impasto: per un impasto di consistenza morbida è
di 25-26 °C, gli impasti molli invece sono più caldi (27-28 °C), mentre per un
impasto asciutto la temperatura ottimale è 23-24 °C (anche perché generalmente gli
impasti asciutti dopo l’impastamento vengono cilindrati e l’operazione della
cilindratura porta a un ulteriore riscaldamento dell’impasto).

Per ogni impasto è importante ottenere la temperatura finale richiesta. Se un


impasto è troppo freddo, il glutine sarà formato male (si dice che l’impasto “non
ha forza”) e anche la fermentazione sarà rallentata. Il prodotto finito ha la forma
piatta, la crosta più rossa del solito, non tiene la forma e la lievitazione.

Viceversa, un impasto eccessivamente riscaldato avrà una maglia glutinica


inizialmente più forte, che poi si disfa e si liquefa (soprattutto a causa degli
enzimi più attivi). Tale impasto avrà una fermentazione troppo veloce e un grado di
acidità superiore al dovuto. Il prodotto finito può essere di volume inferiore
oppure avere un volume normale, ma la crosta troppo vitrea e un invecchiamento
precoce.

LA TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO

Il valore della temperatura finale dell’impasto dipende da quattro fattori:

temperatura dell’ambiente dove si impasta;

temperatura media degli ingredienti (tranne l’acqua), soprattutto della farina (o


della biga). Se la farina è conservata nell’ambiente, di solito è più fredda
rispetto all’ambiente stesso di 1 °C; se arriva dal silos o dal magazzino può avere
la temperatura diversa;

temperatura dell’acqua nell’impasto, da calcolare;

calore fornito dall’impastatrice, che varia in base al modello dell’impastatrice,


al riempimento della vasca e al metodo dell’impasto (diretto o indiretto, vedi
tabella).

TIPO DI IMPASTATRICE GRADI (°C) FORNITI

a forcella 3-6

a spirale 9-22

a bracci tuffanti 6-12

impastamento manuale 1-3

Formula per calcolare la temperatura dell’acqua

Temperatura dell’acqua = Temperatura finale dell’impasto moltiplicata per 3

– Temperatura dell’ambiente

– Temperatura della farina (o media fra gli ingredienti tranne acqua)

– Gradi di riscaldamento dall’impastatrice


* * *

ESEMPIO

Impasto morbido, temperatura ambiente di 28 °C, impastatrice a spirale.

Temperatura finale dell’impasto (25 °C) × 3 = 75 –

Temperatura dell’ambiente (28 °C) 28 –

Temperatura della farina (27 °C) 27 –

Riscaldamento dall’impastatrice (9 °C) 9 =

11 °C

Se il risultato del calcolo è inferiore a 4 °C, si consiglia di mettere l’acqua a 4


°C.

Questa formula è puramente empirica, non ha dunque nessun fondamento scientifico ma


funziona. L’unico momento critico è la valutazione del grado di riscaldamento
causato dall’impastatrice. Se per caso non lo abbiamo stimato in maniera giusta,
avremo delle differenze della temperatura dell’impasto. Bisogna comunque misurare
la temperatura al termine dell’impasto. Se è diversa da quella desiderata, per ogni
grado in più o in meno di impasto bisogna diminuire o aumentare di due gradi la
temperatura dell’acqua. E, di conseguenza, si potrà sapere l’aumento della
temperatura causato dell’impastatrice corretto per l’impasto in realizzazione e ci
si potrà regolare di seguito.

IL TEMPO DELL’IMPASTO

Un altro fattore di notevole importanza per una buona riuscita dell’impasto è il


tempo dell’impasto. Per ogni impasto il tempo necessario per raggiungere le
caratteristiche ottimali è diverso. Esso dipende:

dalla forza della farina (l’impasto di una farina debole è inferiore a un impasto
di una farina forte, in quanto ha una resistenza della maglia glutinica inferiore);

dal tipo dell’impasto (molle, morbido, asciutto). Infatti gli impasti molli devono
essere impastati maggiormente (a differenza dagli impasti asciutti), dato che c’è
meno attrito fra i vari componenti e quindi c’è bisogno di fornire all’impasto più
energia per raggiungere il top di consistenza. Gli impasti asciutti invece devono
risultare piuttosto freddi dopo l’impastamento, e vanno tolti prima
dall’impastatrice, anche se non sono completamente formati, perché generalmente
vengono cilindrati. Durante la cilindratura avviene un ulteriore riscaldamento
dell’impasto e si raggiunge la sua consistenza ottimale;

dal tipo dell’impastatrice. Per esempio, con un’impastatrice “a spirale” l’impasto


si forma prima rispetto a un’impastatrice a braccia tuffanti, perché il tipo a
spirale fornisce più attrito all’impasto. L’impastatrice “a forcella” è quella che
dà minore attrito e tra tutti i tipi risulta più lenta. Gli organi
dell’impastatrice possono avere diverse conformazioni: doppia spirale, wendel,
hidra ecc. Dal tipo dell’impastatrice e dalla quantità dell’impasto (di cui è
riempita la macchina) dipendono il tempo necessario dell’impasto e il
riscaldamento.

Oltre alla formazione del glutine, durante l’impasto si incamera una parte di aria,
e avviene l’ossigenazione: l’impasto diventa meno denso e più soffice. Ossigenare
l’impasto è importante non soltanto per renderlo più soffice, ma anche per favorire
la moltiplicazione di microrganismi e quindi il processo di fermentazione di
seguito, in quanto l’ossigenazione dell’impasto stimola l’attività vitale dei
lieviti. Inoltre l’azione dell’ossigeno rinforza la maglia glutinica, formata
durante l’impastamento, perché ossida i gruppi tiolici delle proteine della farina:
i gruppi -SH-, non legati fra loro, trasformandoli in gruppi disolfurici: -S=S-, i
ponti legati. In questo modo la struttura portante dell’impasto: glutine ha dei
“ponti” in più. Un composto impastato non a sufficienza e meno ossigenato risulta
più debole perché il suo glutine ha meno legami.

Le reazioni che avvengono nell’impasto sono numerose e complesse. Durante


l’impastamento si creano i diversi legami (covalenti, dipolari, ionici, idrogeno,
elettrostatici ecc.) tra le proteine formanti il glutine e gli altri componenti (le
proteine solubili, i sali minerali, l’amido, i lipidi ecc.), costruendo una materia
uniforme e omogenea chiamata “impasto”.

Inoltre, con l’aiuto degli enzimi della farina, attivati con l’acqua, nell’impasto
cominciano le reazioni dell’idrolisi2 delle proteine e dell’amido.

Nell’impasto si trovano numerosi enzimi. Sono le sostanze di natura proteica


(composte da aminoacidi come le proteine) e funzionano come catalizzatori
biologici. Significa che non fanno parte né dei reagenti né dei prodotti della
reazione ma allo stesso tempo risultano indispensabili nelle reazioni perché
aiutano ad accelerarle e a risparmiare l’energia necessaria per svolgerle.

2 IDROLISI Dal greco «sciogliere in acqua», indica le reazioni chimiche in cui le


molecole sono scisse in due o più parti per effetto dell’acqua.

Gli enzimi sono presenti nelle farine. La parte in cui sono maggiormente
concentrati è lo strato aleuronico, quello strato aderente alla mandorla farinosa,
intermedio fra la mandorla farinosa e gli involucri esterni. Le farine più scure
avranno più enzimi rispetto alle farine più raffinate. Importanti sono anche le
condizioni in cui matura il grano e con cui le farine si conservano. Se le
condizioni climatiche sono più calde e più umide, allora l’attività degli enzimi è
più alta del dovuto e possono sorgere problemi della conduzione dell’impasto.

Gli enzimi possono essere attivati o inibiti da alcune sostanze. Per esempio, Cu,
Hg, Fe inibiscono le amilasi (gli enzimi responsabili dell’idrolisi dell’amido),
mentre il calcio, al contrario, le attiva.

Gli enzimi sono molto sensibili alle temperature: sono attivi a determinate
temperature, sotto le quali diminuiscono la loro attività senza disgregarsi; invece
superando progressivamente queste temperature perdono attività e dopo si disgregano
in modo irreversibile. Gli enzimi hanno anche un pH ottimale con cui reagiscono, un
valore al di sotto e al di sopra del quale sono meno efficaci.

Nei processi dell’impasto sono coinvolti vari enzimi. I principali sono le proteasi
e le amilasi. Sotto l’azione delle proteasi,3 le proteine della farina cominciano a
disgregarsi in peptidi (pezzi più piccoli, composti da diversi aminoacidi). La
reazione si chiama proteolisi: aiuta l’impasto a diventare più molle e più
malleabile Questo processo avviene in ogni impasto, però può essere più o meno
attivo, dipende da vari fattori, quali attività enzimatica della farina, proprietà
del glutine, temperatura dell’impasto ecc.

Inoltre nell’impasto avviene l’idrolisi dell’amido sotto l’azione delle amilasi,4


inizia dall’impastamento, ma si sviluppa più che altro durante la fermentazione,
apportando gli alimenti (gli zuccheri) per le cellule di lievito, e per questo
motivo ha una notevole importanza. Anche questo processo (la saccarificazione
dell’amido) svolge l’azione liquefacente nell’impasto.

3 PROTEASI Sono gli enzimi che scompongono le proteine del glutine. Come tutti gli
enzimi si attivano quando la farina va a contatto con l’acqua e progressivamente
con il salire della temperatura aumentano sempre di più la loro attività. Il
massimo della loro attività si raggiunge a temperature comprese fra i 40 e i 55 °C.

4 AMILASI Le amilasi sono gli enzimi che disfano l’amido. Si attivano anch’esse
quando la farina va a contatto con l’acqua. Possono essere di due tipi: (α) alfa- e
(β) beta-. L’(α)alfa-amilasi scinde l’amido dalla parte interna soprattutto in
destrine (pezzi contenenti diverse molecole di glucosio, ma solubili in acqua,
mentre l’amido non è solubile), che provoca quindi la liquefazione dell’impasto.
Questo enzima si chiama anche “liquifacente”. Mentre la (fβ)beta-amilasi agisce
dalla parte esterna della molecola dell’amido, staccando poco per volta le molecole
di zucchero maltosio, oppure sulle destrine, prodotte prima da a-amilasi. Esistono
anche le isoamilasi (pullulanasi) tipiche del lievito madre che spezzano i legami
verticali delle molecole dell’amido, rallentando così raffermamento. Le enzimi
glucoamilasi invece spezzano l’amido fino alle singole molecole di glucosio.

I processi di fondamentale importanza negli impasti a lievitazione biologica sono


la fermentazione alcolica (quella dei lieviti) e quella lattica.

Con la reazione della fermentazione alcolica avviene la trasformazione dello


zucchero presente in un impasto in due prodotti principali: anidride carbonica e
alcol etilico. Durante la fase dell’impasto i lieviti si moltiplicano attivamente,
e una volta esaurito l’ossigeno attorno a ogni singola cellula di lievito, esso
passa alla fase di fermentazione.

La formazione del gas “anidride carbonica” (CO2), prodotto durante la fermentazione


e intrappolato dalla maglia glutinica, fa gonfiare questa ultima, causando la
crescita del volume nell’impasto, nel prodotto formato e, espandendo nel forno,
ulteriore sviluppo del prodotto durante la cottura.

All’inizio della fermentazione le cellule del lievito utilizzano gli zuccheri


propri della farina. Nel momento in cui gli zuccheri semplici della farina si
esauriscono, avviene la trasformazione dell’amido della farina (la farina è
composta prevalentemente dall’amido), ovvero la sua saccarificazione, in questo
modo:

Il glucosio, così ottenuto dall’amido, serve per alimentare le cellule di lievito.

Oltre ai lieviti nell’impasto hanno un ruolo fondamentale anche gli altri


microrganismi, come i batteri lattici.

La fermentazione lattica ha notevole importanza per le caratteristiche


organolettiche, ovvero il gusto e il profumo, e per la conservabilità del prodotto
finito.

Il profumo del pane dipende soprattutto dalla quantità e dai tipi di acidi organici
generati nell’impasto dai batteri lattici, perché durante la cottura gli acidi
organici reagiscono con l’alcol etilico (che si forma durante la fermentazione
alcolica) formando numerose sostanze volatili aromatizzanti.

Oltre agli acidi organici e all’alcol etilico, altri fattori sono responsabili
nella formazione degli aromi durante la cottura. Innanzitutto, gli zuccheri
dell’impasto.

Durante l’infornamento sulla superficie del prodotto avviene una serie di processi
chimici, i quali forniscono alla crosta del pane il colore marroncino-dorato e il
gusto e il profumo caratteristici.

Tra questi processi i più importanti sono: la caramellizzazione degli zuccheri


dello strato superficiale e la reazione di Maillard. Tale reazione consiste nella
formazione di sostanze di colorazione bruna (melanoidine) e di sostanze aromatiche,
formate dall’unione degli zuccheri con degli aminoacidi (questi ultimi derivano
dalla completa idrolisi delle proteine durante la cottura).

Il prodotto nel momento della cottura deve quindi avere una buona percentuale di
zuccheri (ma non troppi) per consentire una giusta colorazione e un buon profumo.
Tale quantità dipende a sua volta dalle capacità fermentative della farina, cioè
dalla capacità della farina di creare zuccheri, ossia dalla sua attività amilasica,
e dal grado di lievitazione del prodotto (in un prodotto poco lievitato troviamo
più zuccheri rispetto a un prodotto più lievitato). Va ricordato però che il
prodotto più lievitato (ma non con lievitazione eccessiva) è più soffice, più
voluminoso, ha una crosta migliore ed è anche più digeribile.

Dopo aver definito che importanza hanno il metodo di preparazione dell’impasto e le


sue caratteristiche (temperatura, modalità dell’impasto), occorre precisare che
anche la qualità della materia prima utilizzata riveste grande importanza.

Un fattore da non sottovalutare è l’attività enzimatica della farina, che deve


essere bilanciata. Le farine con una scarsa attività enzimatica (interessa prima di
tutto la sua attività amilasica) danno prodotti con sviluppo più scarso e con una
mollica più compatta e più asciutta. Tali difetti possono essere facilmente
corretti, utilizzando il malto, o aumentando la sua dose nell’impasto. I difetti
più gravi, invece, si riscontrano se una farina ha un’attività amilasica più alta
del dovuto. Normalmente, i mulini non mettono in commercio farine con un’attività
amilasica eccessiva (le farine con un falling number inferiore a 220 secondi di
solito non vengono commercializzate). Ma alcune volte le annate non sono molto
favorevoli alla maturazione corretta del grano: se matura con il clima molto umido
è soggetto ad avere un’attività enzimatica (in particolare attività amilasica) più
alta del dovuto. In tal caso, i prodotti finiti hanno una crosta della colorazione
più marcata, una mollica più umida e più appiccicosa e una forma più piatta. Per
risolvere questo problema il sistema migliore (oltre a cambiare la materia prima) è
quello di aumentare l’acidità dell’impasto (utilizzare una buona percentuale di
pasta di riporto per inibire le amilasi eccessivamente attivi).

La fase successiva all’impasto (prima fermentazione o cosiddetta “puntata”) ha


anch’essa un ruolo nella qualità del prodotto. Il tempo necessario per “puntata” è
soprattutto in funzione al tipo dell’impasto (gli impasti molli hanno bisogno di
più “puntata”, mentre gli impasti asciutti puntano prima), e pure in funzione alla
successiva formatura. Sono importanti non soltanto il tempo ma anche la temperatura
della puntata. Tuttavia, gli impasti che hanno una puntata scarsa generalmente
risultano più deboli, danno i prodotti meno voluminosi, mentre i prodotti preparati
dagli impasti troppo puntati generalmente sono caratterizzati da una mollica più
irregolare, a volte possono avere un volume inferiore, possono essere anche di
volume corretto, ma avere una crosta più vitrea e un invecchiamento precoce.

Anche le modalità di lavorazione dell’impasto influiscono sulla qualità del


prodotto. L’importante è che le operazioni di formatura siano effettuate il più
velocemente possibile per impedire all’impasto di fermentare durante la formatura,
acquisire troppa “forza” e di conseguenza causare strappi nelle forme, con
diminuzione del volume nel prodotto finale. Per cui la quantità dell’impasto
destinato alla formatura deve essere proporzionata alla capacità produttiva.
Quindi, non conviene preparare gli impasti grossi, se non si è in grado di formarli
in poco tempo. Piuttosto, si fanno più impasti di minor peso ciascuno.

Anche la forza necessaria per formare ogni pezzo deve essere bilanciata e
proporzionata per ogni tipo di prodotto. Per esempio, le forme avvolte (tipo
filoni) non devono essere né troppo molli (altrimenti saranno soggette ad aprirsi
di meno durante la cottura, e appariranno più piatte e meno voluminose, avendo poca
“forza”), né avvolte troppo strette, con troppa “forza”, altrimenti le forme si
strappano, causando uno sviluppo più scarso nel prodotto finale e una mollica più
brutta.

Anche il tempo e le modalità della lievitazione finale influiscono sulla qualità


del prodotto finito. Di solito la lievitazione finale delle forme può procedere o
in ambiente oppure nelle apposite celle di lievitazione (dove in genere viene
impostata la temperatura attorno 28-30 °C, o di meno per prodotti sfogliati, con
relativa umidità). Le lievitazioni più “spinte” (a temperature più alte, per
esempio 38-40 °C, per velocizzare il processo) rischiano di dare prodotti con una
mollica meno uniforme, con cavità grosse all’interno perché all’interno della
forma, dove la temperatura è ancora più alta; la proteolisi avviene più rapidamente
con conseguente indebolimento della maglia glutinica e quindi la sua parziale
rottura, e con sapore più forte e meno gradevole (a causa di una più attiva
produzione degli acidi nell’impasto).

Enorme importanza rivestono anche i tempi di lievitazione, che innanzitutto devono


essere compatibili con il tipo di prodotto. I prodotti soggetti a un alto sviluppo
in forno come quelli da taglio (forme di pasta dura, filoni tipo baguette, biove,
rosetta soffiata, e tutte le forme destinate a un’altissima crescita durante la
cottura) non devono essere infornati a una lievitazione troppo avanzata (un po’
prima rispetto ad altri tipi di prodotti). La lievitazione finale non deve però
essere troppo corta perché infornando un prodotto “giovane” (lievitato troppo poco)
si osservano i difetti come uno sviluppo inferiore rispetto al solito, una mollica
più compatta, strappi (di solito laterali) della crosta, inoltre la colorazione di
quest’ultima è più scura del previsto (data dagli zuccheri, non ancora consumati in
quantità sufficiente dai lieviti e quindi rimasti in esubero nel momento della
cottura). In caso contrario, cioè con una lievitazione eccessiva, i difetti saranno
peggiori: la crosta sarà più chiara del previsto, la forma appiattita (“ceduta” nei
casi peggiori), la mollica più scarsa, il gusto del prodotto più acido e il
prodotto finito avrà un invecchiamento precoce.

Indubbiamente, sulla qualità dei prodotti incidono anche le modalità di cottura


come il tempo e i parametri di cottura (temperatura, umidità nella camera di
cottura). I processi di cottura saranno illustrati nelle pagine successive.
ANCHE LA COTTURA HA LA SUA IMPORTANZA

La cottura è la fase finale della preparazione del pane e conclude tutte le


lavorazioni precedenti. Se è fatta sapientemente ci permette di sfornare un
prodotto che ci appaga di tutto il tempo impiegato e che ci fa sentire orgogliosi
del frutto del nostro lavoro. Soltanto conducendo una cottura in maniera corretta
possiamo sfornare un pane di qualità, altrimenti questa fase così delicata rischia
di rovinare il prodotto. Durante questo step il pezzo dell’impasto affronta
numerosi processi (fisici, biochimici e microbiologici) che lo trasformano in
prodotto cotto.

COSA SUCCEDE DURANTE LA COTTURA

Proviamo a focalizzare al meglio i processi più importanti durante la cottura per


comprenderli e poterli gestire. In sintesi sono:

riscaldamento del pezzo dell’impasto;

aumento del volume del prodotto;

formazione della crosta e della mollica;

formazione dell’aroma e del gusto;

diminuzione del peso del prodotto.

Per riscaldare un prodotto da 1 kg di peso per la cottura servono circa 300-550


KJoule. Questa energia serve per riscaldare la superficie del prodotto fino alla
temperatura di 180 °C, per riscaldare la mollica fino alla temperatura di 96-97 °C
(al centro della mollica) e per l’evaporazione dell’umidità da essa.

I prodotti durante la cottura si riscaldano gradatamente, cominciando dalla


superficie. Per cui tutti i processi della cottura avvengono non contemporaneamente
in tutte le parti del prodotto. Quando la parte superficiale del pezzo arriva a 100
°C, cede l’umidità e diventa crosta, mentre inizia il riscaldamento della zona
confinante fra la crosta e la mollica. A mano a mano questo processo progredisce
fino quasi ad arrivare al cuore della mollica, in cui non avviene l’evaporazione,
ma anzi, una parte dell’umidità si condensa (perché il “cuore” della mollica in un
prodotto ben cotto non arriva comunque ai 100 °C). Questa umidità residua fuoriesce
dal prodotto, dopo che è stato sfornato. Per questo motivo il prodotto appena
sfornato solitamente si lascia a raffreddare in ceste forate o anche su griglie di
acciaio o legno. Se chiudiamo in un sacchetto di nylon un pane correttamente cotto
appena sfornato, si potrà osservare la comparsa di gocce d’acqua sulle pareti del
sacchetto. Questo semplice esperimento ci aiuta a comprendere che il “cuore” della
mollica in un prodotto da forno completamente cotto è sempre inferiore ai 100 °C.

Quindi, riscaldandosi fino a 100 °C la parte esterna del prodotto sottoposto alla
cottura diventa crosta. Una volta arrivata a raggiungere un certo spessore, essa
impedisce la crescita del volume del prodotto. Nei pani in cui è richiesto un
notevole aumento del volume nel forno (per esempio nel prodotto come la rosetta
soffiata), la formazione della crosta deve essere rallentata. A tale scopo nei
forni professionali per la maggiore parte dei prodotti viene dato il vapore.
Normalmente si cerca di formare la crosta nei primi 6-8 minuti dall’inizio della
cottura (il tempo in cui avviene la crescita del volume nel prodotto). Terminata la
crescita, si forma la crosta. Se inforniamo un prodotto che richiede il vapore
nella cottura, senza vapore, esso avrà una crosta opaca, più spessa, e può avere
degli strappi con fuoriuscita della mollica (dato che il volume cerca di
svilupparsi, ma la crosta ne impedisce lo sviluppo, nei prodotti che hanno una
certa forza avviene lo strappo superficiale), come spiegato alle pagine 133-134.

Il vapore dato all’inizio della cottura si condensa sulla superficie del prodotto e
rallenta la formazione della crosta. L’amido che si trova sulla superficie si
gelatinizza, si trasforma parzialmente in destrine (pezzettini più corti, solubili
in acqua). L’amido gelatinizzato insieme alle destrine liscia la superficie,
riempendo i pori, e la distende. Così, una volta disidratata, la crosta rimane più
sottile e più lucida.

Alla stessa temperatura (70-90 °C) sulla superficie del prodotto avviene la
denaturazione delle proteine (perdita della loro struttura nativa), che, insieme
all’evaporazione dell’umidità superficiale, contribuisce alla formazione della
crosta.

La colorazione della crosta è dovuta soprattutto alla caramellizzazione degli


zuccheri e alla reazione fra gli zuccheri e gli aminoacidi (componenti primarie
delle proteine, in cui esse si disgregano completamente durante la cottura). Questa
reazione si chiama reazione di Maillard. Con essa avviene la formazione dei
prodotti chiamati melanoidine, che conferiscono alla crosta la tipica colorazione
di sfumatura bruno-chiara, mentre i prodotti intermedi di questa reazione (aldeidi,
chetoni ecc.) formano l’aroma e il gusto del prodotto.

Quindi, l’umidificazione della camera di cottura consente al prodotto di avere una


crosta più sottile, più lucida e più colorata, e di sviluppare meglio il volume.
Però, troppa umidità nella camera di cottura rende la crosta troppo sottile e
troppo fragile, e genera i prodotti con la forma più piatta e mollica più compatta.

Viceversa, i prodotti cotti con una camera di cottura eccessivamente asciutta si


caratterizzano da una crosta più spessa del dovuto, più opaca e di colorazione più
scarsa, con una mollica più umida del dovuto, spesso sono presenti anche gli
strappi superficiali sulle forme. Comunque, la quantità necessaria di vapore per la
cottura dipende sempre dal tipo di prodotto. I lavorati che devono avere una crosta
gentile (tipo ciabatta, rosetta soffiata) preferiscono molto vapore durante la
cottura.

Alcuni pani (tipo “francesino” o simili) si possono preparare in due modi in base
alle preferenze: con un po’ meno vapore (così avranno un aspetto “più rustico”) o
con una normale quantità di vapore (per avere una crosta più sottile e più liscia).

I prodotti che devono avere la crosta più opaca e più spessa possono essere cotti
senza vapore. Alcuni tipi di pane (per esempio biova e pasta dura), addirittura
vengono infornati senza vapore e con delle valvole aperte per agevolare la
formazione della crosta e per facilitare “lo sfogo” della mollica nel taglio,
eseguito prima della cottura.

Per la panificazione casalinga, per la maggiore parte dei prodotti per i quali è
richiesta l’umidificazione del forno si può mettere all’interno del forno una
pentola con dell’acqua bollente, oppure spruzzare dell’acqua immediatamente prima
della cottura sul prodotto o, preferibilmente (se si può), nella camera di cottura.

Nella mollica del prodotto sottoposto alla cottura avvengono contemporaneamente la


gelatinizzazione dell’amido e la denaturazione delle proteine. Con la temperatura
di 50-75 °C le proteine dell’impasto denaturano (perdono la struttura primaria) e
cedono l’acqua assorbita. Le proteine denaturate della mollica, perdendo l’acqua,
si irrigidiscono, fissano la forma e la struttura del prodotto. Se si riproduce il
prodotto “precotto”, esso infatti al “cuore” deve avere la temperatura di 77 °C
(con la quale le proteine sono denaturate, fissando la struttura). L’acqua
rilasciata dalle proteine viene assorbita dai granuli d’amido, che si gonfiano fino
alla loro rottura, si gelatinizzano (passano dalla struttura cristallina a una
struttura amorfa). Il processo della gelatinizzazione dell’amido avviene
pressappoco alla stessa temperatura con la quale si denaturano le proteine. Con la
gelatinizzazione l’amido assorbe l’acqua rilasciata dalle proteine (o in generale i
liquidi dell’impasto), per cui la mollica rimane non molto appiccicosa, a
esclusione dei casi in cui l’attività amilasica della farina sia alta. In questi
casi l’amido durante la cottura si scompone eccessivamente fino alle destrine
(solubili in acqua), il che contribuisce a una certa appiccicosità della mollica,
difetto tipico per i prodotti preparati con farina avente un’alta attività
amilasica.

Quindi, la mollica del prodotto può essere immaginata come una struttura delle
proteine denaturate, nella quale sono immersi i granuli dell’amido gelatinizzato.

Il volume del prodotto finisce di crescere quando le proteine dello strato


superficiale hanno finito completamente la denaturazione (alla temperatura di 90
°C), e rimane mediamente del 30% circa superiore rispetto al volume del prodotto
prima della cottura.

Finché il centro della mollica rimane di temperatura inferiore a 45 °C, i lieviti


continuano il loro “lavoro”, fermentando gli zuccheri e producendo alcol etilico e
anidride carbonica; dopo, superando la temperatura di 50 °C, muoiono. Anche i
batteri lattici rimangono ancora attivi nei primi minuti di cottura; quelli
mesofili esplicitano la loro attività al massimo alla temperatura di 35 °C e quelli
termofili a 48-54 °C. Ma dopo il riscaldamento del prodotto fino alla temperatura
di 60 °C, la sua microflora viene completamente disattivata.

Per quanto riguarda l’attività enzimatica nel pezzo sottoposto alla cottura, essa
persiste ancora per molto tempo. Affinché gli enzimi non si disattivino, avvengono
i processi della disgregazione delle proteine e dell’amido. Le beta-amilasi si
disattivano prima (possono essere attive al massimo fino alla temperatura di 82-84
°C), mentre le alfa-amilasi possono resistere fino a 97-98 °C (solo se l’impasto è
scarsamente acido), quindi alcune volte possono presentare l’attività anche nel
prodotto cotto. Nei prodotti aventi un’alta acidità dell’impasto (come per esempio
i prodotti a base di lievito madre di segale) gli enzimi amilolitici si disattivano
prima (le b-amilasi alle temperature di 60 °C e le a-amilasi alle temperature di 75
°C). Affinché le amilasi rimangano attive, essi continuano a disgregare l’amido,
fino alle destrine, e se l’amido è gelatinizzato, loro “lavorano” ancora con più
facilità. Le proteasi (gli enzimi che scompongono le proteine) rimangono attive nel
prodotto con acidità moderata fino alle temperature di 80-85 °C. Tanto più attive
saranno le disgregazioni delle proteine e dell’amido per opera degli enzimi, tanto
più marcata sarà la reazione di Maillard. Infatti, i prodotti preparati con una
farina di eccessiva attività enzimatica si caratterizzano non soltanto dalla
mollica appiccicosa, ma anche da una forma più piatta e da una crosta più scura.

Il riscaldamento del prodotto nella camera di cottura dipende soprattutto dalla


struttura del prodotto (i prodotti derivati dall’impasto molle e aventi
l’alveolatura più aperta si riscaldano prima, al contrario dei prodotti con la
mollica più strutturata). Quando la struttura della mollica è più leggera (come per
esempio nella ciabatta), il passaggio del calore all’interno è più rapido e più
veloce sarà anche la sua cottura, viceversa per i prodotti con la mollica dalla
struttura più fitta e più compatta (come per esempio in quelli a pasta dura). A
parità di peso (ciabatta e pasta dura da 100 g), la ciabatta si cuoce prima
rispetto al pane a pasta dura, perciò anche la temperatura deve essere maggiore.

La velocità della cottura dipende anche dalla massa del prodotto e dalla sua forma,
ma anche da come è umidificata la camera di cottura: con più vapore (nei forni
professionali per la maggior parte dei prodotti da forno viene dato il vapore) la
cottura avviene prima. Si potrebbe pensare che se c’è più umidità nella camera di
cottura, il prodotto impiega più tempo per asciugarsi. Bisogna invece considerare
che il prodotto, prima di asciugarsi (processo che avviene nella fase finale di
cottura), deve sviluppare il volume. Con il vapore, il volume si sviluppa
maggiormente, quindi la sua mollica avrà una struttura più soffice e leggera, che
potrà cuocersi con più facilità.

Il pane mediamente può cuocere con temperatura compresa fra i 210 e i 280 °C. I
prodotti di pasticceria lievitata contenenti lo zucchero sono cotti a temperature
più basse, 210 °C: i croissant e i prodotti simili si cuociono alle temperature di
210-200 °C. I prodotti di ricorrenza a temperature ancora più basse (170-190 °C).
Mentre per la pasticceria secca la cottura viene svolta alle temperature ancora più
basse (fino a 110 °C per le meringhe). Viceversa, per pizza da platea (di pizzeria)
la temperatura di cottura è molto alta (330-360 °C), data la sua permanenza molto
breve nella camera di cottura.

In generale, per i prodotti di grosso formato la temperatura di cottura è più


bassa, mentre per quelli di piccolo formato è leggermente più alta. Come accennato
prima, incide anche la tipologia del prodotto: se è di impasto molle serve una
temperatura del forno più alta. Viceversa per i prodotti provenienti da impasto
denso (pasta dura, per esempio) la temperatura deve essere più bassa.

Sulle modalità di cottura incide anche la forma del prodotto: a parità di


consistenza, quello avente volume più alto impiega più tempo per cuocere (si può
paragonare una focaccia con 600 g di pasta, per una teglia da 30x40 cm, con un pane
a forma di filone della stessa massa e dallo stesso impasto). Se per cuocere la
focaccia di questo peso servono circa 15 minuti, per il filone è necessario il
doppio di tempo (35 minuti circa). E ancora più tempo si impiega se questo pezzo
dell’impasto viene messo in una forma. In questo caso per il pezzo da 600 g di
pasta sono necessari circa 45 minuti di cottura.

È ovvio che per cuocere la focaccia il calore nella camera di cottura deve essere
superiore (per esempio 250-240 °C), mentre per il filone è un po’ più basso (230-
220 °C), e ancora minore è per la forma in cassetta (220 °C).

Non tutti i forni cuociono allo stesso modo, per cui la temperatura impostata di un
forno può corrispondere a un’altra in un altro forno. Allora come regolarsi con la
temperatura di cottura? Come procedere? Per esempio, se si deve cuocere nel forno
un prodotto (va bene l’esempio di prima: filone di 600 g di massa). Sappiamo che
per la cottura servono circa 35 minuti. Quindi si deve cercare di impostare il
forno in modo che la cottura avvenga in questo tempo. In generale, per la cottura
di ogni prodotto il tempo è il fattore fisso. La temperatura del forno deve essere
tale per garantire la cottura del prodotto nel tempo necessario. Ritornando
all’esempio di prima, si imposta il forno alla temperatura di 230 °C, che dopo i
primi 10 minuti di cottura deve essere abbassata a 220-210 °C e si controlla il
tempo in cui avviene la cottura. Se il tempo è superiore al dovuto, allora per la
prossima volta si imposta il forno a temperatura più alta; viceversa, se il tempo è
inferiore del dovuto, allora si dovrà impostare il forno a temperatura più bassa.
Purtroppo, se il prodotto è stato tenuto nel forno troppo tempo (a una temperatura
più bassa del dovuto), o, viceversa, poco tempo (a una temperatura più alta del
dovuto), il prodotto potrebbe avere dei difetti.

E se il forno non ha molta regolazione, come nel caso del forno a legna?
Attualmente anche i forni a legna hanno dei termometri che possono essere
installati nella parete del forno (la sonda preferibilmente deve essere posizionata
non troppo vicino alla parete), che aiutano ad avere delle indicazione per la
temperatura. Comunque anni fa le nonne (o bisnonne), addette alla cottura dei
prodotti, per le prime cotture nel forno a legna riservavano i prodotti che
richiedono una temperatura di cottura più alta (come pizza da teglia o focaccia),
per poi passare alla cottura del pane (all’epoca cuocevano soprattutto i pani di
grosso formato), e finivano la cottura nel forno con i prodotti che richiedevano il
calore minore (grissini, poi crostate). Erano intelligenti, razionali, e
risparmiavano anche l’energia (calore): tutte buone abitudini da mantenere.

I vecchi dicevano che un buon pane deve essere ben cotto e ben lievitato. È proprio
vero: il tempo di cottura deve essere tale da garantire una cottura sufficiente, ma
non eccessiva. Un prodotto che rimane nel forno per troppo tempo, viene “asciugato”
troppo durante la cottura, risulta più secco, sia nella mollica, sia nella crosta;
non si conserva bene; è quasi completamente privo di aroma (ha disperso eccessive
sostanze aromatizzanti durante la cottura). Invece, i prodotti cotti a una
temperatura più alta del dovuto si colorano rapidamente sulla crosta e sono meno
cotti nella mollica, che risulta più umida e più pesante; alcuni prodotti sono
anche soggetti a deformarsi dopo la cottura data una fragile struttura della
mollica.

Vale quindi la regola fondamentale che la temperatura necessaria per la cottura è


in funzione innanzitutto del tipo dell’impasto e della pezzatura del prodotto.

Durante la cottura il prodotto perde peso. Questa perdita varia in media dal 5 al
15% dal peso della forma cruda ed è dovuta soprattutto alla disidratazione dello
strato superficiale, e in modo minore dalla perdita di gas dell’impasto (anidride
carbonica, alcol etilico e altri componenti aromatici volatili). Per cui la perdita
di peso dovuto alla cottura per i prodotti piccoli sarà più grande, al contrario
dei prodotti di grosso formato. Esempio: un bocconcino da 50 g perderà circa l’11%
di peso con la cottura e una forma rotonda da 500 g dallo stesso impasto perderà
circa l’8%, perché la percentuale della superficie esterna rispetto alla massa del
prodotto come il bocconcino è maggiore.

Anche il tipo di forno utilizzato per la cottura ha una sua importanza.


Indipendentemente dal tipo di alimentazione (elettrico, a gas, a legna, a pellet
ecc.) i forni più utilizzati in panificazione sono di due tipi:

forni a platea (così viene chiamata la parte bassa del forno, su cui direttamente
viene appoggiato il prodotto). La platea può essere fissa o mobile (nei forni
industriali, del tipo “tunnel”);

forni a convezione (rotativi o fissi), in cui il prodotto non viene appoggiato


direttamente sulla platea, ma entra nel carrello (forno rotativo) oppure
posizionato nella teglia (forno fisso).

Certi tipi di prodotto necessitano una cottura nel forno “a platea” (fissa o
mobile), alcuni, invece, sono di più facile riuscita nei forni a convezione.

Nel “forno a platea” l’energia viene trasmessa al prodotto soprattutto tramite


l’irraggiamento dalle pareti del forno e dal cielo (parte alta del forno) in misura
dell’80% circa di energia totale, ma per i restanti 20% dalla conduzione (passaggio
del calore da un corpo caldo a quello più freddo) della platea e dalla convezione
(trasmissione del calore dallo spostamento di aria calda e di vapore acqueo che
investono il prodotto). Mentre nell’altro tipo di forni (quelli a convezione) come
si può dedurre dal loro nome, il prodotto riceve l’energia soprattutto per la
convezione dell’aria calda e del vapore acqueo, e per l’irraggiamento dalle pareti
del forno e dal cielo (la parte superiore) la conduzione invece avviene dopo,
quando ogni singola teglia su cui viene posizionato il prodotto si riscalda, e
quindi soltanto dopo trasmette l’energia al prodotto. Queste differenze fanno sì
che nel forno a platea avvenga una crescita del volume notevole subito all’inizio
della cottura. Per questo motivo i prodotti tipo rosetta soffiata o, in generale, i
pani che devono avere una spinta nel forno è preferibile cuocerli nei forni a
platea.

IL PANE PRECOTTO

Con il termine “precottura” si intende una cottura parziale (non completa) di un


prodotto. Nel caso del pane, la cottura viene interrotta dopo i primi minuti,
quando si arresta la crescita di volume del prodotto (la cottura viene fermata
prima che la crosta cominci a prendere il colore). Successivamente il prodotto
viene raffreddato (alla temperatura di 2-4 °C) e passa nell’abbattitore, che al suo
interno ha una temperatura molto bassa: da –35 a –40 °C, e una ventilazione forzata
d’aria per consentire al prodotto di raggiungere al cuore i –18 °C in breve tempo,
per far sì che nel prodotto l’acqua rimasta passi il più velocemente possibile
dallo stato liquido allo stato solido (ghiaccio), formando dei microcristalli (e
per impedire la formazione di macrocristalli, in grado di distruggere la struttura
del prodotto).

Una volta abbattuto, il prodotto può essere conservato nel freezer a –18 °C, per un
tempo più o meno lungo (la sua conservazione può arrivare fino ad alcuni mesi). In
tale stato (surgelato) il prodotto, opportunamente imballato, viene trasportato nei
negozi direttamente per la vendita ai consumatori oppure per il completamento della
cottura. Il pane surgelato parzialmente cotto, se è destinato al consumatore
finale, deve essere venduto negli imballaggi preconfezionati (sull’etichetta dei
quali devono essere specificati oltre al tipo del prodotto, la ragione sociale e la
sede del produttore, l’elenco degli ingredienti, la data di scadenza ecc.).
Nell’imballaggio devono apparire anche la dicitura: “Pane surgelato parzialmente
cotto, da consumarsi previa cottura” e le avvertenze che, una volta scongelato, il
prodotto deve essere consumato previa la cottura, quindi non potrà essere
ricongelato. Il pane ottenuto per il completamento della cottura da pane
parzialmente cotto, surgelato o non surgelato, destinato al consumatore finale,
deve riportare sull’etichetta, oltre alle solite voci (denominazione del prodotto,
ragione sociale e sede del produttore, elenco degli ingredienti, la data di
scadenza ecc.), anche la dicitura: “Ottenuto da pane parzialmente cotto surgelato”
(in caso di surgelato) oppure “ottenuto da pane parzialmente cotto”.

Per effettuare la precottura risultano più adatti i forni a convezione, che


consentono un rapido passaggio dell’aria calda (e di vapore acqueo, la cui quantità
deve essere più alta, rispetto alla solita cottura, per rallentare per quanto
possibile la formazione della crosta). Il prodotto deve quasi completare la
formazione della mollica, ma avere una minima formazione di crosta. Nel momento in
cui la cottura viene fermata (in genere dopo 5-10 minuti di cottura, ma questo
periodo può essere più o meno lungo, in base alla tipologia e alla pezzatura: conta
soprattutto l’alveolatura della mollica), al centro del prodotto la temperatura
arriva intorno a 75-77 °C. Questa temperatura consente la denaturazione delle
proteine e la gelatinizzazione dell’amido, i processi che formano la mollica, per
ora collosa, e dopo il completamento della cottura con il conseguente trasudamento,
solida. Per quanto riguarda la microflora del prodotto, i lieviti, una volta
raggiunta la temperatura 50-55 °C, cessano la loro attività, così come i batteri
lattici (sia mesofili e termofili), alcuni enzimi continuano a funzionare
(proteasi, amilasi), bloccati durante il surgelamento. Una volta scongelato il
prodotto, essi ripristinano la loro attività, contribuendo alla formazione
dell’aroma e del sapore nella cottura finale. È necessario fermare la precottura
prima che la crosta cominci a prendere colore non soltanto per impedire la
colorazione eccessiva durante la cottura finale, ma anche per conservare le
sostanze aromatiche che si producono con le reazioni tipiche della colorazione
della crosta (la caramellizzazione degli zuccheri e la reazione di Maillard, pag.
96), che conferiscono al prodotto l’aroma tipico del pane appena sfornato. Tali
reazioni prendono luogo nella cottura finale, conferendo al prodotto cotto aspetto,
sapore e profumo tipici.

La legislazione e il pane parzialmente cotto (precotto)

Nel D.P.R. 30.11.98 n. 502, l’articolo 1 dice: “Il pane ottenuto mediante
completamento di cottura da pane parzialmente cotto, surgelato o non surgelato,
deve essere distribuito e messo in vendita in comparti separati dal pane fresco e
in imballaggi preconfezionati riportati oltre alle indicazioni previste dal D. L.
27.1.92, n. 109, anche le seguenti: a) ottenuto da pane parzialmente cotto
surgelato, in caso di provenienza da prodotto surgelato; b) ottenuto da pane
parzialmente cotto, in caso di provenienza da prodotto non surgelato né congelato.”
L’articolo 2 dipone: “Ove le operazioni di completamento della cottura e di
preconfezionamento del pane non possano avvenire in aree separate da quelle di
vendita del prodotto, dette operazioni possono avvenire, fatte salve comunque le
norme igienico-sanitarie, anche nella stessa area di vendita e la specifica
dicitura di cui al comma I deve figurare altresì su un cartello esposto in modo
chiaramente visibile al consumatore nell’area di vendita”.

L’utilizzo del sistema di precottura consente di eliminare gli sprechi di


produzione e di avere più flessibilità nell’organizzare il lavoro. Rispetto alle
tecniche di surgelamento di forme crude, formate da lievitare oppure di prodotti
prelievitati, che risultano più difficoltose, utilizzando il sistema di precottura
il risultato finale è quasi sempre garantito.

Anche per la panificazione casalinga il sistema di precottura può essere molto


utile, quasi indispensabile per organizzare le feste ed eventi in casa, perché ci
consente di preparare i prodotti in anticipo.

COME ALLUNGARE LA FRESCHEZZA DEL PRODOTTO

Un prodotto da forno può considerarsi alterato o “invecchiato” se peggiora le sue


qualità organolettiche, se ammuffisce o si inquina, se perde le proprietà
nutrizionali.

L’invecchiamento del prodotto da forno è causato soprattutto dalla retrogradazione


dell’amido.

Quando avviene la retrogradazione dell’amido, il pane diventa raffermo.

Per spiegare meglio, si può immaginare il raffermamento come un processo inverso


della gelatinizzazione: esso consiste nella tendenza da parte dell’amido a
riassumere la struttura originaria cristallina.

Anche se l’amido in realtà non riesce mai a tornare in una configurazione simile a
quella iniziale, si forma una struttura intermedia rigida dovuta all’avvicinamento
delle catene di amilosio5 e alla crescita dei cristalli di amilopectina.6

La quantità di amido retrogradato è quindi direttamente proporzionale al contenuto


di amilosio.

Quando, con il passare del tempo, nel caso del pane, si verifica la migrazione
dell’acqua verso la crosta esterna si ha l’avvicinamento delle catene di amilosio,
la cristallizzazione dei componenti amilacei e il conseguente aumento della
consistenza (indurimento della struttura). La digeribilità in questo caso
diminuisce. Con il raffermamento i granuli dell’amido sprigionano l’acqua
assorbita. Parzialmente l’acqua passa dall’amido al glutine, migra verso la crosta
del prodotto e fuoriesce dalla crosta nell’ambiente. L’acqua, che fuoriesce dalla
mollica, in parte evapora nell’ambiente e in parte si concentra sulla crosta. Con
il tempo la mollica del prodotto rimane sempre più secca e la crosta sempre più
umida. Un’alta umidità della crosta nel prodotto raffermo è uno dei fattori
favorevoli alla crescita di muffe ecc.

5 AMILOSIO È la parte costituente dell’amido e ha una struttura lineare.


Nell’amilosio le molecole di glucosio sono collegate con il legame lineare (a-1-4).

6 AMILOPECTINA È l’altro componente dell’amido: ha una struttura ramificata, perché


le molecole di glucosio sono legate anche con dei legami verticali (a-1-6).

Il fenomeno di retrogradazione è massimo alla temperatura di circa –3 °C, mentre


viene ritardato dal congelamento.

Sull’invecchiamento del prodotto da forno oltre alla retrogradazione dell’amido


incidono anche le trasformazioni dell’acqua. Nei prodotti soggetti alla lunga
conservazione è opportuno misurare l’attività dell’acqua.7

La riduzione dell’attività chimica dell’acqua si ottiene con diversi trattamenti di


conservazione, che soprattutto riguardano:

una riduzione assoluta del tenore in acqua (essiccazione, liofilizzazione,


concentrazione ad esempio grazie all’aggiunta di zuccheri ecc.) oppure

congelamento dell’acqua libera (surgelazione, congelazione), che ha inoltre un


effetto batteriostatico.

In generale l’acqua si trova negli alimenti nelle seguenti forme:

acqua di struttura: è incorporata in reticoli cristallini e nelle macromolecole;

acqua fortemente legata: forma uno strato monomolecolare legato ai sali e ai gruppi
polari di proteine e polisaccaridi;

acqua debolmente legata: forma uno strato multi-molecolare legato a quello


precedente oppure occupa i pori (microcapillari) di diametro inferiore a 10 nm;

acqua libera: è quella non soggetta a forze di coesione, ha un’attività prossima a


quella dell’acqua pura e rappresenta la quota più rappresentata dell’umidità
complessiva. L’acqua libera è trattenuta dall’alimento in relazione alla sua
capacità di ritenzione, ed è il mezzo in cui si sviluppano i microrganismi.

In generale, ai fini della conservazione, si considera sfavorevole per lo sviluppo


microbico un’attività dell’acqua inferiore a 0,65.

7 ATTIVITÀ DELL’ACQUA (AW) È il rapporto fra la pressione di vapore dell’acqua


nell’alimento e la pressione di vapore dell’acqua pura. È un indice della sua
“disponibilità” per i processi biologici, biochimici e chimici. Il suo valore varia
da 0 (valore teorico in un qualsiasi sistema contenente acqua) a 1 (acqua pura);
quanto più è alto, tanto più l’alimento è suscettibile all’attacco microbico e ai
processi di idrolisi chimica o enzimatica.

I FATTORI CHE ALLUNGANO LA FRESCHEZZA DEL PRODOTTO

1 La presenza di zucchero nell’impasto (è igroscopico, quindi trattiene l’acqua).

2 La presenza di sale (trattiene l’acqua e rallenta l’attività dei microrganismi


patogeni: dei batteri e delle muffe).

3 La presenza di grasso (il grasso forma una specie di pellicola sottile intorno
all’amido, bloccando la migrazione dell’acqua e rallentando la scadenza del
prodotto).

4 La presenza degli additivi e delle sostanze capaci di legare l’acqua o impedire


alle catene di amilosio di riavvicinarsi, per esempio:

Le amilasi. La glucano 1,4-a-maltoidrolasi (o alfa-amilasi) è un enzima


maltogenico; si utilizza nell’industria della panificazione per rallentare la
retrogradazione dell’amido.

L’amido succinato è un estere dell’amido con l’acido succinico (è un acido


bicarbossilico, cioè contenente due gruppi carbossilici -COOH); sostituto
dell’amido con la caratteristica di ritardare la retrogradazione; la sua
idrofobicità (capacità di respingere l’acqua) è aumentata dal gruppo succinato, il
che lo rende idoneo all’impiego nella formazione di emulsioni. L’amido succinato di
tapioca (il prodotto brevettato) ha ultimamente un impiego notevole come
sostituente della materia grassa, infatti è in grado di sostituire nelle ricette
fino al 50% di materia grassa. È in grado di rallentare la retrogradazione, e
quindi allungare la shelf-life del prodotto.

Per rallentare la retrogradazione dell’amido vengono impiegati anche emulsionanti


(pag. 62).

Un impiego particolare per rallentare la retrogradazione dell’amido lo trovano le


fibre alimentari, soprattutto quelle solubili (per esempio quelle di soia, avena,
pectine, gomme, glucomannano), in grado di assorbire e di trattenere l’acqua.

5 Il grado dell’umidità nel prodotto finale (i prodotti più secchi si conservano


più a lungo, per esempio i grissini, i biscotti ecc.).

6 Le condizioni dell’ambiente in cui si conserva il prodotto (nell’ambiente più


fresco e più asciutto i prodotti si conservano più a lungo).

7 Lo stato fisico dell’acqua nel prodotto: se nel prodotto l’acqua si trova in


stato solido, ossia in forma di ghiaccio (quando il prodotto è surgelato), la
conservazione è più lunga.

8 Il grado dell’acidità dell’impasto: se l’acidità dell’impasto è più alta (per


esempio quando il pane viene preparato con biga lunga o con il lievito naturale),
vengono inibiti tutti i microrganismi patogeni ed il prodotto si conserva più al
lungo).

9 Quando vengono rispettate le norme igieniche del laboratorio e del magazzino.

10 Quando il prodotto viene confezionato sottovuoto (in maggioranza i microrganismi


patogeni sono aerobici e non vivono in assenza dell’ossigeno).

11 Quando la lievitazione del prodotto è stata più lenta e più graduale.

12 Quando nell’impasto sono stati aggiunti gli ingredienti supplementari (tipo il


burro, materia grassa), le uova (perché il tuorlo contiene la lecitina) ecc.

13 Le dimensioni: i prodotti di grosso formato si asciugano e raffermano più


lentamente a causa di maggiore umidità contenuta.

METODI DIVERSI PER UNA LUNGA CONSERVAZIONE DEI PRODOTTI DA FORNO

Il tempo di conservazione del prodotto da forno può essere diverso in base alla
tipicità del prodotto e alla tecnologia applicata: può durare pochi giorni, e può
durare diversi mesi.

Per avere una buona conservazione del prodotto dobbiamo innanzi tutto evitare la
proliferazione dei batteri patogeni e delle muffe (Penicillium, Aspergillus,
Rhizopus ecc.), dei funghi, e di altri microrganismi (perché essi possono produrre
sostanze di scarto tossiche per l’uomo), ma bisogna anche ritardare l’ossidazione
dei grassi responsabile dell’irrancidimento, ritardare la retrogradazione
dell’amido e impedire lo spostamento dell’acqua libera nel prodotto.

Nell’industria dei prodotti da forno le tecnologie di conservazione sono basate


soprattutto sul surgelamento, sul confezionamento (classico, sottovuoto oppure in
atmosfera modificata), sul lavoro delle sostanze microbiche positive per la
conservazione (per esempio i batteri lattici) nonché sulle aggiunte alimentari che
possono allungare la conservabilità (per esempio: la materia grassa, gli
emulsionanti, gli amidi, le fibre, gli enzimi ecc.), e ovviamente anche
sull’essiccazione del prodotto (per esempio: prodotti di pasticceria secca,
grissini, fette biscottate ecc.). Oltre al valore nutritivo, nei processi di
conservazione si presta attenzione anche all’aspetto e al sapore del prodotto.

Alcuni metodi di conservazione prevedono una chiusura ermetica dei prodotti,


immediatamente dopo il raffreddamento, nelle confezioni sottovuoto, oppure in
atmosfera modificata, oppure con micro-spruzzo di alcol etilico alimentare, per
prevenire la contaminazione microbica. Altri, come per esempio l’essiccazione,
permettono il normale impacchettamento senza la necessità di ricorrere a
particolari precauzioni.

I metodi più diffusi di conservazione dei prodotti possono essere suddivisi in:

1 metodi basati sulla riduzione dell’acqua (essiccazione);


2 metodi basati sulle basse temperature (surgelazione);

3 metodi basati sulle alte temperature (pastorizzazione).

La pastorizzazione consiste nel trattamento termico che distrugge la maggior parte


dei microrganismi presenti nell’alimento e disattiva gli enzimi.

Ai prodotti da forno destinati alla grande distribuzione, e soggetti a lunga


conservazione, può essere applicata la pastorizzazione con l’utilizzo di
radiofrequenze. È un trattamento estremamente efficace e si svolge in due fasi:

riscaldamento endogeno (dall’interno) rapido mediante radiofrequenze, dove la


temperatura del prodotto viene portata rapidamente ed in maniera uniforme (5-10 °C
in un minuto) fino al valore desiderato;

mantenimento in ambiente termostatato per il tempo necessario (da pochi secondi ad


alcuni minuti) fino all’abbattimento della carica microbica.

I risultati ottenuti hanno dimostrato un’elevata riduzione della carica microbica a


temperature più basse rispetto ai metodi tradizionali e con tempi di trattamento
molto più rapidi, inoltre si ha un buon mantenimento delle caratteristiche
chimiche, fisiche e organolettiche del prodotto.

METODI BASATI SUL CONFEZIONAMENTO PARTICOLARE

1 Confezione in atmosfera modificata.

L’atmosfera protettiva o atmosfera modificata (MAP, Modified Atmosphere Packaging)


è una tecnologia di confezionamento che funziona grazie alla sostituzione dell’aria
con una miscela di gas. Consente di aumentare il periodo di conservabilità (shelf-
life) dei prodotti da forno, in particolare quelli contenenti più acqua.

L’atmosfera protettiva contribuisce a prolungare la scadenza del prodotto


mantenendone inalterate le proprietà sensoriali e nutrizionali grazie all’azione
inibente e batteriostatica dei gas utilizzati.8 Inoltre l’assenza di ossigeno nelle
confezioni con atmosfera modificata consente di annullare oppure ritardare tutte le
alterazioni ossidative (soprattutto quelle dei grassi e dei polifenoli). Anche dopo
l’apertura della confezione i prodotti confezionati in atmosfera modificata
mantengono bene le loro caratteristiche e la loro conservabilità perché il prodotto
assorbe dalla confezione parte dell’anidride carbonica, diminuendo il proprio grado
di umidità e risulta meno attaccabile dagli agenti esterni. Bisogna tener presente
però che per avere una buona conservabilità il prodotto confezionato in atmosfera
modificata deve essere fresco e raffreddato in maniera corretta, e deve essere
idoneo dal punto di vista igienico e qualitativo.

2 Confezione sottovuoto.

3 Confezione in asepsi (in un ambiente sterile, chiamato in gergo “camera bianca”).

4 Confezione con micro-spruzzo di alcol etilico alimentare.


METODI CON L’UTILIZZO DELLE AGGIUNTE NEGLI IMPASTI

1 Acidificazione biologica (per esempio con il lievito madre).

2 Aggiunta dei conservanti (antimicrobici, antiossidanti).

3 Aggiunta delle sostanze che salvaguardano lo stato d’amido (per esempio i grassi
e gli emulsionanti).

4 Aggiunta delle sostanze in grado di trattenere l’acqua libera (per esempio gli
amidi, le fibre, soprattutto quelle solubili, come i pentosani, e gli
stabilizzanti).

5 Aggiunta degli enzimi in grado di rallentare la retrogradazione dell’amido (per


esempio alfa-amilasi batterica) e in grado di creare più fibre solubili, capaci di
trattenere l’acqua (come le emicellulasi-xilanasi ecc.).

8 GAS UTILIZZATI NEL CONFEZIONAMENTO IN ATMOSFERA PROTETTIVA Sono prevalentemente


costituiti da azoto, idrogeno e anidride carbonica, quali definiti dalla Direttiva
europea 95/2/CE sugli additivi come “gas d’imballaggio”, cioè gas differenti
dall’aria introdotti in un contenitore prima, durante o dopo aver introdotto in
tale contenitore un prodotto alimentare. Altri gas attualmente utilizzati in
atmosfera protettiva sono argon, elio e protossido di azoto.

METODI DI PREPARAZIONE DELL’IMPASTO

L’impasto può essere preparato con diversi metodi. I più diffusi sono i seguenti:

diretto semplice;

diretto di lunga fermentazione;

semidiretto con pasta di riporto;

semidiretto a lievito misto;

indiretto (con biga o con poolish);

indiretto a base di lievito madre;

indiretto con impasto a caldo;

indiretto con impasto autolitico.

IL METODO DIRETTO SEMPLICE


Consiste nell’impastare tutti gli ingredienti in un’unica fase. Seguono poi la
puntata (prima fermentazione), la modellatura (spezzatura e formatura), la
lievitazione finale e la cottura.

L’impasto confezionato con il metodo diretto, se non viene arricchito con dei
preparati a base di biga o pasta acida liquida, essiccata o liofilizzata, ha la
composizione in acidi più scarsa rispetto all’impasto preparato con il metodo
indiretto, per cui il prodotto ottenuto non potrà vantarsi né di un gusto
particolarmente ricco né di una più lunga durata di conservazione.

Una breve premessa: la conservabilità del prodotto dipende innanzitutto dal tipo
del prodotto (pezzatura, mollica) e dal contenuto dell’impasto. Un altro aspetto
dal quale dipende la qualità del prodotto è la quantità di “lievito di birra”
utilizzata nell’impasto diretto. Si sa che gli impasti diretti hanno una quantità
maggiore di lievito rispetto agli impasti indiretti. Però una quantità di lievito
eccessivamente alta (superiore al 6% per gli impasti conditi o al 4% per gli
impasti senza condimenti) porterebbe a effetti negativi: si rallenterebbe la
fermentazione dell’impasto e si abbasserebbe la digeribilità del prodotto finito.
Un’elevata quantità di lievito blocca la moltiplicazione delle cellule del lievito
stesso, perché l’accumulo dei prodotti tossici per le cellule del lievito, deposti
durante il loro metabolismo, sarà alto, in grado di “soffocare” le cellule stesse,
e quindi di abbassare la loro attività vitale. Inoltre, un’eccessiva quantità di
lievito aggiunto nell’impasto porta a un elevato contenuto di purine nel prodotto
finito, che risulta dannoso per l’organismo umano, e specialmente per il fegato.

IL METODO DIRETTO DI LUNGA FERMENTAZIONE

Consiste nell’impastare tutti gli ingredienti in un’unica fase, ma l’impasto poi


viene seguito da una fase molto lunga di prima fermentazione, dopo di che seguono
come sempre le fasi di modellatura, lievitazione finale e cottura. Questo metodo
consente di utilizzare piccolissime quantità di lievito.

Può essere a base di lievito di birra, di lievito madre, oppure di due lieviti (di
birra e madre), ossia “a lievito misto” (vedi). Le quantità del lievito in questi
casi sono le seguenti: per il metodo con il lievito di birra si mette mediamente da
0,2 a 0,5% di lievito sulla quantità di farina (per 1 kg di farina da 2 g a 5 g di
lievito di birra); nel metodo di lunga fermentazione a base di lievito madre si
mette dal 5% al 7% di lievito madre (per 1 kg di farina da 50 a 70 g di lievito
madre), mentre in un impasto a base di lievito misto si usano circa 0,2-0,3% di
lievito di birra e dal 2% al 3% di lievito madre (per 1 kg di farina 2-3 g di
lievito di birra e 20-30 g di lievito madre).

Questa tecnica è di facile esecuzione e ha diversi vantaggi. Il primo è il


risparmio di ore di lavoro notturno, per i professionisti del settore, ma anche per
chi panifica in casa: il giorno prima può preparare l’impasto e il giorno dopo lo
trova già fermentato da formare (seguono sempre la lievitazione e cottura). Un
altro vantaggio è quello di utilizzare pochissimo lievito, quindi i prodotti così
realizzati sono di alta digeribilità. Ma i vantaggi più notevoli li abbiamo a
livello di gusto e di profumo: i prodotti preparati con la tecnica di lunga
fermentazione hanno una profumazione molto intensa e un gusto tipico e
caratteristico. Inoltre, hanno un’eccellente sviluppo nel forno, una mollica
caratterizzata da un eccellente elasticità, con un’alveolatura sviluppata; hanno
una crosta fragrante e un ottimo sapore. La tecnica di lunga fermentazione risulta
molto adatta per gli impasti morbidi, molli e semimolli, forse non è molto adatta
per i prodotti di impasto asciutto (a causa dell’alta elasticità della mollica che
non è gradita per questa tipologia di prodotti). Un altro vantaggio da non
sottovalutare è l’ottima tenuta di lievitazione: un prodotto completamente
lievitato eseguito con questa tecnica può resistere per diverso tempo prima di
collassare e ha sempre un ottimo sviluppo nel forno.

I numerosi benefici ottenuti utilizzando questa tecnica derivano dal fatto che
nell’impasto di lunga fermentazione avviene un’attiva fermentazione lattica (quella
dei lieviti avviene in modo lento e graduale a causa della poca quantità di lievito
iniziale) e un attivo lavoro degli enzimi (hanno molte ore a disposizione per
svolgere il loro compito), l’impasto così diventa più malleabile, con maglia
glutinica più predisposta a distendersi durante la cottura, generando
un’alveolatura più sviluppata. Inoltre si generano anche più zuccheri, necessari
per il metabolismo dei lieviti e dei batteri lattici. Questi ultimi a loro volta
producono gli acidi organici che contribuiscono a generare i profumi durante la
cottura, nello stesso tempo regolano l’attività degli enzimi. Anche la presenza del
sale nell’impasto aiuta a limitare i processi enzimatici e fermentativi,
bilanciando così il grado di fermentazione e di rilassamento dell’impasto.

Il tempo di riposo negli impasti di lunga fermentazione varia da 10 a 20 ore in


base alla temperatura e al prodotto. Il metodo più diffuso è quello di tenere
l’impasto subito dopo averlo impastato per circa 30 minuti-un’ora e 30 minuti a
temperatura ambiente (22-24 °C) e poi spostarlo in un luogo fresco (esempio, in un
“ferma-biga”) alla temperatura di 16-20 °C. Per la stagione invernale gli impasti
possono stare a temperatura ambiente per tutto il tempo di fermentazione (se
l’ambiente non è molto caldo). Per la stagione estiva dopo le prime ore passate
all’ambiente a temperatura ambiente gli impasti possono essere messi in frigorifero
(non molto freddo, 6-8 °C).

Anche i prodotti a base di impasti sfogliati possono essere di lunga fermentazione,


ma in questo caso la quantità di lievito compresso o di lievito madre non si riduce
(rimane quella del metodo diretto semplice), e gli impasti riposano in frigorifero
per poter essere formati il giorno dopo, dove avviene una lenta fermentazione e un
leggero rilassamento della struttura (a causa della temperatura bassa i processi
fermentativi e quelli enzimatici sono rallentati). A confronto con gli impasti
diretti semplici, gli impasti sfogliati eseguiti con la tecnica di lunga
fermentazione hanno uno sviluppo maggiore, un gusto migliore e una più lunga shelf-
life.

IL METODO SEMIDIRETTO CON PASTA DI RIPORTO

Consiste nell’impastare in un’unica fase tutti gli ingredienti, ma con l’utilizzo


di pasta di riporto (è un pezzo dell’impasto, avanzato da quello precedente, che ha
maturato per un certo periodo e contiene tutti gli ingredienti base di un impasto).
Questo pezzo d’impasto (di solito la quantità necessaria non supera il 30% del peso
della farina) può essere utilizzato direttamente così com’è (risulta idoneo dopo
almeno 2-3 ore di fermentazione), oppure posto in in frigorifero e utilizzato il
giorno dopo (il sistema migliore per dare “più forza” al prodotto).

Se si utilizza la pasta di riporto del giorno prima si può procedere in diversi


modi.

1 Si utilizza negli impasti così com’è, direttamente dal frigorifero (il giorno
prima dopo le prime 2-3 ore di fermentazione è opportuno metterla in frigorifero).
2 Il giorno successivo, prima dell’utilizzo va rinnovata con farina e acqua e
lasciata nuovamente fermentare per circa 2 ore, dopo procedere all’impasto finito.
Questa tecnica viene largamente utilizzata in Meridione soprattutto per i pani di
grano duro e in generale per i pani di grosso formato.

3 Si rinnova la pasta di riporto il giorno prima. La pasta di riporto, avanzata al


termine della giornata (se supera diverse ore di fermentazione, va conservata in
frigorifero), va nuovamente impastata con farina (in rapporto 1:1) e acqua (di
quantità tale da arrivare alla consistenza asciutta dell’impasto), quindi
cilindrata e conservata in un luogo fresco (come per esempio in un fermabiga) per
essere utilizzata nuovamente il giorno successivo. Trattata in questo modo, la
pasta di riporto acquista molta “forza” e rappresenta un ideale supporto
fermentativo per realizzare diversi prodotti da forno, specialmente quelli che
devono avere una buona “spinta” durante la cottura. Risulta particolarmente utile
per la preparazione degli impasti asciutti e dei prodotti di grano duro;.

4 Si utilizza come pasta di riporto biga rinnovata.

Utilizzando la pasta di riporto si riducono i tempi della fermentazione


dell’impasto finale e l’impasto stesso dimostra le migliori caratteristiche
strutturo-meccaniche, inoltre si ha un minore consumo di lievito rispetto al metodo
diretto semplice.

Il prodotto preparato con pasta di riporto rinnovata si avvicina molto ai prodotti


realizzati i con il metodo indiretto. Si tratta di una procedura particolarmente
comoda da utilizzare e addirittura indispensabile per la preparazione dei prodotti
che devono avere molto sviluppo nel forno (pasta dura, pane di grano duro, pani di
grosso formato in generale ecc.). Con la pasta di riporto si possono realizzare
diversi prodotti da forno, ma comunque questa pasta (a volte chiamata “crescente”
perché è avanzata, “cresciuta” dal giorno prima) non ha niente a che vedere con il
lievito madre. Si possono realizzare i diversi prodotti a base di questo
“crescente”, senza aggiungere nell’impasto finale il lievito di birra, ma si tratta
comunque di una lievitazione a base di lievito di birra e non a base di lievito
madre, perché la partenza e il rinnovo del lievito madre non prevedono l’utilizzo
di lievito di birra. In confronto alla biga, la pasta di riporto (rinnovata e
lasciata a fermentare per il giorno dopo) ha una forza nettamente superiore, per
cui la sua quantità d’utilizzo rimane sempre limitata al 20%-30% dal peso della
farina, infatti non si possono realizzare prodotti con il 100% di pasta di riporto,
come avviene per la biga. Per esempio, la classica ciabatta o la rosetta soffiata
possono essere realizzate a base di 100% di farina in biga. Un impasto a base di
biga al 100% presenta diverse caratteristiche strutturali-meccaniche rispetto a un
impasto diretto, oppure contenente pasta di riporto, anche se l’aggiunta di
quest’ultima migliora le caratteristiche dell’impasto. Gli impasti a base di biga
hanno particolari proprietà viscoso-elastiche e risultano particolarmente lisci ed
estensibili. Tali risultati non si possono comunque ottenere utilizzando la pasta
di riporto.

Infatti spesso per realizzare le ricette, come pasta dura o pane pugliese, vengono
utilizzate tutte e due, sia biga sia pasta di riporto, in modo da sfruttare le
peculiarità di ambedue le paste. Se si analizza l’acidità di un impasto a base di
pasta di riporto si riscontra una percentuale di acido acetico superiore, rispetto
a quella contenuta in una biga, e una quantità minore di acido lattico. Da ciò
derivano una buona resistenza della maglia glutinica, ma una minore estensibilità
rispetto all’impasto a base di biga, un ottimo sviluppo nel forno e un gusto deciso
e caratteristico. L’utilizzo della pasta di riporto può essere un metodo molto
utile, che consente di risparmiare il tempo di lavorazione e di migliorare la
qualità del prodotto finale, e soprattutto impedisce gli sprechi nella produzione.
È quindi un metodo molto valido e largamente utilizzato nella panificazione.
IL METODO SEMIDIRETTO A LIEVITO MISTO

Il metodo di lievitazione mista si basa sull’utilizzo di più di un lievito


nell’impasto oppure nel preimpasto. Questa tecnica è semplice da eseguire, non
richiede degli altri passaggi di lavorazione, e quindi dell’altro tempo da dedicare
appositamente, ma dona ai prodotti diversi benefici, soprattutto consistenti in:

uno sviluppo migliore del prodotto;

un’alveolatura più sviluppata, tipica dei prodotti con lievito madre;

un gusto e un profumo più accentuati, tipici dei prodotti preparati con lievito
madre, ma ovviamente meno intensi rispetto alla panificazione con lievito madre al
100%;

una migliore conservabilità del prodotto finito;

nei prodotti di lunga fermentazione stabilizza maggiormente gli impasti.

Anche i prodotti a lievitazione mista possono essere preparati con delle diverse
tecniche. Per esempio possono essere diretti, ma a lievitazione mista, quando
l’impasto avviene in un’unica fase: all’interno dell’impasto vengono messi tutti
gli ingredienti e insieme lievito di birra e lievito madre avanzato, in forma
solida oppure liquida. Di solito la corretta quantità di lievito madre da inserire
negli impasti diretti a lievitazione mista varia dal 10 al 30% in base all’acidità
del lievito (se si utilizza il lievito leggermente più forte, va diminuita la sua
quantità).

A lievitazione mista si possono preparare anche gli impasti conditi di pasticceria


lievitata, che fermentano in frigorifero e vengono impastati il giorno prima e
lavorati il giorno dopo. In questo caso i prodotti possono essere chiamati a
impasto diretto lungo di lievitazione mista: le quantità dei lieviti rimane la
stessa della lavorazione diretta e della stessa ricetta.

Anche i prodotti con gli impasti di lunga fermentazione si possono preparare a


lievitazione mista con i due lieviti: quello di birra e quello madre. In questo
caso le quantità dei lieviti utilizzati sia quello compresso che quello naturale,
sono molto piccoli, all’incirca dieci volte di meno rispetto a quelli utilizzati
con il metodo diretto).

L’utilizzo dell’altro lievito, il lievito madre, in tutti i casi descritti prima


non è indispensabile per la lievitazione del prodotto, ma contribuisce ad
arricchire il profumo e il gusto, e a migliorarne lo sviluppo e la conservabilità.

Inoltre, questi metodi di lavorazione non comportano dei passaggi in più, come già
accennato, e con pochi sforzi migliorano notevolmente il prodotto. Possono essere
anche un ottimo sistema per smaltire gli scarti del lievito madre (le quantità in
eccesso che avanzano dal rinnovo) e per migliorare la conoscenza della materia del
lievito madre, soprattutto per chi non ha ancora molta dimestichezza con esso, ma
vuole avvicinarsi al mondo della lievitazione naturale.

In molti panifici è presente il lievito madre, ma viene utilizzato poco, spesso


solo per prodotti di ricorrenza, mentre potrebbe essere diffuso in molti prodotti,
valorizzandoli.

È comprensibile che a volte il lievito madre non sia molto utilizzato, dato che le
lavorazioni che ne prevedono l’uso richiedono i tempi un po’ più lunghi. In questo
caso la lavorazione con il lievito misto è un eccellente compromesso, che coniuga
un ottimo gusto e qualità del prodotto con una buona tempistica di lavorazione.

In generale, l’aggiunta di lievito madre nei metodi descritti arricchisce ogni


impasto, ed è ideale anche negli impasti dei lagaccio, del pan brioche, della
brioche sfogliata, della focaccia e in tanti altri prodotti: non comporta dei
passaggi in più e non allunga i tempi di lavorazione.

Un’altra tecnica è quella specifica per i prodotti completamente a lievitazione


naturale (contenenti esclusivamente solo il lievito madre), ma che hanno due
lieviti madre nello stesso impasto: per esempio il lievito madre di frumento e il
lievito madre di segale insieme.

Queste tipologie di impasti, pur essendo a lievitazione naturale al 100% si possono


comunque chiamare a lievito misto, dato che vengono utilizzati i due lieviti.

La tecnica è molto utilizzata in Francia e permette di realizzare dei prodotti


molto particolari, con un sapore molto ricco e caratteristico, con una
conservabilità eccellente e una stabilità di lavorazione maggiore.

IL METODO INDIRETTO CON BIGA O CON POOLISH

Prevede due fasi: nella prima si prepara un preimpasto (i più diffusi sono biga e
poolish), nella seconda si aggiungono ai preimpasti, precedentemente fermentati,
tutti gli altri ingredienti e si effettua l’impasto finito. Come sempre seguono
tutte le operazioni successive: fermentazione dell’impasto finito, modellatura,
lievitazione finale, cottura.

I due preimpasti principali sono la biga e il poolish. Ecco che cosa sono e come
vengono preparati.

La biga

È un preimpasto asciutto, che può avere molte ore di fermentazione (da 16 a 48, o
anche fino ai 72 ore), ottenuto con la farina, l’acqua e il lievito compresso. La
preparazione della biga richiede l’impiego di farine forti.

Ingredienti per la biga:

farina 00 forte 100% 10 kg

acqua* 45% 4,5 l

lievito compresso 1% 100 g


*Se si utilizza una farina contenente più parti cruscali oppure semola rimacinata
di grano duro, l’acqua va messa 50% dal peso della farina a causa di un
assorbimento maggiore della farina utilizzata.

La temperatura finale per una biga alla fine della miscelazione deve essere
abbastanza bassa, intorno 20-22°C, per cui i tempi di impastamento (miscelazione)
sono molto brevi: con un’impastatrice “a spirale” circa 4 minuti e soltanto alla
prima velocità, 6 minuti con un’impastatrice “a braccia tuffanti”. Rispettando
questi tempi non si ottiene la consistenza liscia e omogenea (come per un impasto
finito), ma si ha una consistenza ruvida e grumosa. Il tempo d’impasto per una biga
(in relazione con la quantità d’energia trasmessa dall’organo dell’impastatrice) è
un fattore molto importante perché influenza la fermentazione della biga stessa.
Maggiore energia si fornisce durante l’impasto, più sviluppata sarà la biga e
raggiungerà la maturazione più velocemente, invece la sua tenuta si ridurrà Per
esempio, una biga contenente lo 0,5% di lievito con un tempo maggiore di
miscelazione può avere una lievitazione più veloce rispetto a una biga con 1% di
lievito ma con minor tempo di miscelazione, ma non avrà la stessa tenuta (se non
viene utilizzata per tempo deteriora velocemente).

La temperatura per la fermentazione della biga varia a seconda delle ore di


fermentazione. Per esempio, per le bighe di 24 ore di fermentazione la temperatura
deve essere mediamente di 18-20 °C. I professionisti del settore per la maturazione
della biga utilizzano le celle chiamate “fermabiga”, dove impostano le temperature
(mediamente dai 16 ai 20 °C) in base alla necessità. Tale temperatura è ideale per
raggiungere le caratteristiche necessarie per una biga di buona qualità,
riguardanti soprattutto il livello di maturazione espresso nel grado dell’acidità
totale (causato soprattutto dall’accumulo degli acidi lattico e acetico, con
rapporto ottimale tra loro 3:1). Invece per le bighe lunghe (48 ore di
fermentazione o di più) la temperatura dev’essere rispettivamente bassa (fino a 4
°C), escluse le ultime 8-12 ore, in cui la temperatura è di 18 °C. Oppure per la
fermentazione di 48 ore si può lasciare a maturare tutte le 48 ore alla temperatura
di 13-14 °C. Alcune farine di forza resistono 48 ore di maturazione anche alla
temperatura di 18-20 °C.

Per calcolare l’acqua per la biga utilizziamo la seguente formula:

55 – Ta ambiente – Ta farina

L’ambiente è 25 °C e la farina 24 °C. Calcoliamo l’acqua per biga: 55-25-24 = 6 °C.

Quando vi sono temperature molto calde dell’ambiente, la temperatura dell’acqua


calcolata rimane inferiore a 0 °C. Come procedere? Semplicemente utilizzando
l’acqua con una temperatura più bassa possibile, e non mescolare per troppo tempo.
Si può anche introdurre subito dopo la miscelazione la biga in frigorifero a 4 °C
per qualche ora e poi spostarla in un fermabiga o in un luogo fresco.

È molto importante utilizzare una biga di maturazione giusta. Le bighe poco mature
e quelle troppo mature causano dei difetti nei prodotti finiti.

Per fare un esempio pratico ecco l’effetto del grado di fermentazione della biga
sul prodotto “rosetta soffiata”.

Una biga troppo matura si presenta più scura, più molle, più forte di aroma,
rilascia l’umidità sui bordi del mastello.

Inoltre ci si accorge del fatto che la maturazione della biga è andata oltre quando
si impasta. L’impasto a base di una biga troppo matura assorbe meno acqua e si
impasta prima del tempo necessario, risulta anche più appiccicoso.

Questo si spiega con il fatto che una biga troppo matura è più acida, e l’eccessiva
acidità disgrega la maglia glutinica che si forma all’interno dell’impasto.
L’impasto preparato da una biga troppo matura ha tendenza ad allargarsi e non
tenere la forma. Le forme del prodotto finito rimangono più piatte e risultano più
chiare sulla crosta.

Confrontiamo queste foto con quelle di una biga di giusta maturazione e


dell’impasto giusto: una biga di maturazione corretta si presenta soffice,
sviluppata, profumata, ma ha una colorazione abbastanza chiara, non ha consistenza
troppo molle e non si appiccica alle pareti del mastello.

L’impasto assorbe l’acqua dovuta e si impasta nei tempi programmati, ha una


consistenza liscia ed elastica.

Ecco come si presenta il prodotto finito.

Vediamo il caso contrario: una biga poco matura. Una biga poco matura è ancora
molto a grumi, più compatta, meno soffice e meno sviluppata, poco profumata.

L’impasto finito rimane più grezzo, meno liscio e meno elastico, sembra che sia
stato prodotto da una farina più rigida. La pasta durante la fermentazione rimane
più compatta e le forme dopo la lievitazione sono più piene e meno soffici.

Ma i difetti si pronunciano maggiormente nel prodotto cotto, che rimane di volume


più ristretto, meno sviluppato, con la crosta più spessa, e di colorazione troppo
rossa.

Il poolish

A differenza dalla biga, è un preimpasto liquido, ottenuto da farina e acqua in


pari quantità e lievito compresso. La quantità di lievito da aggiungere cambia in
base al tempo di fermentazione e alla temperatura dell’ambiente.

Sotto vi sono esempi di quantità di lievito compresso da mettere nel poolish in


base alle ore di fermentazione (alla temperatura dell’ambiente di 20-22 °C):

1-2 ore: 2,5-3%

4-5 ore: 1,5%


7-8 ore: 0,5%

10-12 ore: 0,2%

15-18 ore: 0,1%

Esempio di poolish di 2 ore di fermentazione:

farina 00 di forza media 100% 1 kg

acqua 100% 1 l

lievito compresso 2,5% 25 g

Il poolish deve avere la temperatura di 23-25 °C. Invece la temperatura necessaria


per la sua fermentazione è più bassa, intorno a 20-22 °C.

Il poolish fermentato è cresciuto di volume, assume una struttura soffice e


spugnosa e comincia cedere al centro, formando una conca.

Per scegliere il tipo di farina idoneo per il poolish ci si basa sulla quantità di
ore a disposizione per la sua fermentazione. Se si tratta di un poolish corto (2-5
ore di fermentazione), allora la farina idonea potrebbe essere non molto forte (W
non superiore a 300), mentre se si tratta di un poolish lungo (12-18 ore di
fermentazione), allora si deve scegliere il tipo di farina di forza.

In effetti, è preferibile utilizzare un poolish lungo (con più ore di


fermentazione), perché il prodotto finito avrà caratteristiche migliori: l’impasto
a base di un poolish lungo avrà una maglia particolarmente elastica ed estensibile
il prodotto finito potrà vantarsi di un volume superiore, avrà un’alveolatura più
sviluppata e gusto e profumo migliori. Questo è dovuto a una migliore fermentazione
lattica, ma anche al lavoro più completo degli enzimi. Essi risultano più attivi in
un impasto liquido come il poolish (e in un poolish lungo hanno più ore a
disposizione per svolgere il loro lavoro). Gli enzimi proteasi e amilasi
contribuiscono ad aumentare l’estensibilità dell’impasto, le amilasi inoltre
servono per creare più zuccheri fermentescibili. Nello stesso tempo una leggera
acidità creata dai batteri lattici impedisce l’eccesso dei processi enzimatici,
creando così un perfetto bilancio nel preimpasto poolish.

Quando si utilizza un poolish lungo, nell’impasto finale in genere non si mette più
malto (c’è già una buona attività enzimatica), mentre la quantità di farina di
solito è almeno doppia rispetto a quella utilizzata nel poolish.

Per calcolare l’acqua per impastare un poolish si utilizza la seguente formula:

70 – Ta ambiente – Ta farina

Esempio:

L’ambiente è di 25 °C e la farina a 24 °C. Si calcola l’acqua per poolish: 70–25–24


= 21 °C.

Nel preimpasto poolish anche come nel preimpasto biga si sviluppano i lieviti, ma
soprattutto i batteri lattici. Inoltre, avvengono i processi enzimatici (con
un’intensità minore nella biga dato la sua temperatura più bassa di fermentazione e
la sua consistenza più asciutta, e con un’ intensità maggiore nel poolish, date la
consistenza più liquida e una maggiore temperatura di maturazione).
Si può dedurre che un poolish di molte ore ha una maggiore efficacia e, viceversa,
meno funzionale sarà un poolish di poche ore. Perché con più ore a disposizione gli
enzimi e i batteri lattici potranno funzionare di più e quindi i processi
enzimatici (grazie ai quali l’impasto si rilassa e si distende) e fermentativi
(soprattutto fermentazione lattica, con la quale si producono degli acidi organici
necessari per la creazione degli aromi, per lo sviluppo del prodotto e per la sua
conservabilità) saranno più presenti. Il prodotto finito quindi può presentare
volume maggiore, avere un’alveolatura più sviluppata, un profumo più ricco e una
conservabilità maggiore.

IL METODO INDIRETTO CON IL LIEVITO MADRE

Oggi nella panificazione artigianale si nota sempre di più un grande interesse


verso il lievito madre. Nonostante il processo tradizionale di panificazione con
lievito madre sia più lungo rispetto a quello con il lievito di birra, il risultato
finale appaga. Il lievito madre risulta indispensabile per la produzione dei
prodotti dolciari di ricorrenza (panettone, colomba) ma anche di alcuni prodotti
tradizionali da prima colazione (biscotti lagaccio ecc.), dei prodotti dolciari
regionali (pandolce genovese ecc.). È particolarmente utile per la preparazione dei
pani di grosso formato, dei pani integrali e quelli di segale.

Il sistema di panificazione classico con il lievito madre prevede l’esecuzione di


rinfreschi del lievito (da 1 a 5 in base al prodotto da realizzare) precedenti
all’impasto o agli impasti. Lo scopo di questi rinfreschi è quello di potenziare le
capacità fermentative del lievito e nello stesso tempo di abbassare il suo grado di
acidità, rendendolo così pronto per l’impasto successivo. I rinfreschi sono
effettuati nel seguente modo: a una parte del lievito si aggiunge della farina (la
quantità di solito è pari al peso del lievito, ma può variare, dipende dalle
caratteristiche del lievito), e dell’acqua, in quantità pari al 50% circa dal peso
della farina, in modo da ottenere la consistenza morbida dell’impasto. Dopo segue
il riposo (in genere di 4 ore).

Per la preparazione del pane necessitano di 1-2 rinfreschi del lievito madre
solido, precedenti all’impasto o agli impasti. Invece per il panettone o la colomba
ne servono almeno 3.

Per realizzare il pane con il lievito madre con il sistema classico si seguono le
seguenti fasi:

Qui sotto si può vedere lo schema della produzione del panettone milanese con il
lievito madre solido.

Come si può osservare, i procedimenti di lavorazione con il lievito madre prevedono


una serie di rinnovi del lievito madre e risultano lunghi e laboriosi. Se si
realizzano i prodotti di ricorrenza bisogna comunque attenerci ai procedimenti
classici. Se si prepara il pane si possono seguire diverse metologie.

Procedimento classico con l’utilizzo di lievito madre solido (vedi).


Procedimento con il lievito madre solido abbreviato: utilizzare il lievito madre
solido, ma con un rinfresco il giorno prima, seguito dall’impasto e seguente
fermentazione in acqua, utilizzato l’indomani direttamente nell’impasto finale.

Utilizzare il lievito madre liquido con una notevole agevolazione nei tempi. In
questo caso si può procedere con un impasto diretto semplice (utilizzando un
impasto in cui viene inserito soltanto il lievito madre liquido (o più lieviti
madri). La quantità di lievito madre sarà all’incirca il 30% dal peso della farina.
I tempi medi saranno i seguenti: 1 ora e 30 minuti puntata in massa (a 30 °C) e 2
ore 30 minuti lievitazione finale della forma (a 30 °C). Oppure si utilizza un
impasto di lunga fermentazione con il lievito madre.

utilizzare la ferma-lievitazione (vedi).

Per agevolare chi desidera panificare con il lievito madre, ma per i motivi tecnici
e organizzativi non riesce a seguire i rinfreschi del lievito madre, in commercio
esistono anche delle colture starter, che rappresentano le fonti dei microrganismi
selezionati (normalmente sono composti dai batteri lattici oppure dai lieviti),
necessari per la partenza della fermentazione, provenienti da laboratorio oppure da
impasti acidi. Esistono colture starter pure (contenenti un unico microrganismo)
oppure miste (formate da diversi microrganismi). In commercio le colture starter si
possono trovare in forma liquida, congelata, oppure essiccata o liofilizzata.

I microrganismi contenuti nelle colture starter, sottoposti a diverse tecniche di


conservazione, si caratterizzano da una bassa o moderata vitalità a causa dei
trattamenti termici subiti. In tal caso, aggiungendoli agli impasti, per
ripristinare la loro attività vitale e per dare una buona partenza alla
fermentazione, si raccomanda di inserire inizialmente una piccola percentuale di
lievito di birra. Inoltre si raccomanda di utilizzare il metodo indiretto:
preparare il giorno prima l’impasto con inserimento dello starter e dopo 10-12 ore
di fermentazione eseguire l’impasto finale. L’utilizzo delle colture starter negli
impasti diretti annulla quasi il beneficio del loro utilizzo.

IL METODO INDIRETTO CON IMPASTO A CALDO

Come è noto, la farina di qualsiasi cereale è composta soprattutto dai carboidrati


complessi, di cui la percentuale più alta è riservata all’amido. Durante i processi
dell’impasto l’amido subisce la trasformazione fino agli zuccheri (fino alle sue
unità costitutive). Tale processo viene svolto da parte di enzimi diastasici (a- e
b-amilasi). Il glucosio così ottenuto serve per alimentare la microflora
dell’impasto (lievito e batteri lattici). Per garantire un’ottima conduzione della
fermentazione lattica e alcolica negli impasti, questo processo deve avere una
certa intensità.

Non tutte le farine (e non tutti gli impasti a base di farina) hanno la stessa
capacità di generare gli zuccheri, questa capacità dipende:

dall’origine dello sfarinato (esempio, la segale ha gli enzimi amilasi molto


attive);

dalle condizioni con cui è avvenuta la maturazione del grano, per esempio, dopo
piogge intense il grano raccolto ha generalmente attività enzimatica (e in
particolare attività amilasica) molto alta, fino a renderlo difettoso e
inutilizzabile per questo motivo);
dalle condizioni in cui viene stoccato il grano (ovviamente eccessive temperature e
umidità contribuiscono all’aumento dell’attività enzimatica);

dalla presenza di acidità nell’impasto (tanto più acido è l’impasto, tanto meno
attive saranno le amilasi; su questo principio è basata la panificazione con
segale);

ovviamente dalla temperatura e umidità dell’impasto e dell’ambiente dove viene


svolta la conduzione dell’impasto (tanto sono più alte, tanto più veloce sarà il
lavoro degli amilasi).

L’attività degli enzimi amilasi di una farina viene analizzata con il Falling
Number (indice di caduta) oppure con l’esame che utilizza l’Amilografo Brabender
(pag. 37). Le farine che hanno un’eccessiva attività amilasica generano impasti
troppo appiccicosi, di difficile lavorabilità, e i prodotti finiti saranno troppo
rossi sulla crosta, piatti come forma e con una mollica molto appiccicosa, quasi
collosa. In caso contrario, l’impasto fermenta troppo lentamente e tutti i processi
dell’impasto sono rallentati e poco intensivi, il prodotto avrà un volume non molto
sviluppato, con una mollica compatta, tendente a sbriciolarsi.

Le caratteristiche ottimali le avrà ovviamente un prodotto ottenuto da una farina


avente un’attività amilasica equilibrata. È più difficile correggere i difetti
dovuti all’utilizzo di una farina con eccessiva attività amilasica: l’unico rimedio
è provare ad aumentare l’acidità dell’impasto. È molto più facile correggere i
difetti di una farina con scarsa atttività amilasica: è sufficiente mettere malto
nell’impasto. Comunque, l’utilizzo del malto attualmente è una buona abitudine. La
sua quantità può essere minore per gli impasti diretti e più alta, in questo caso
possiamo dire anche indispensabile, per gli impasti a base di biga o pasta di
riporto, in cui troviamo scarsa presenza di zuccheri e quindi li compensiamo
aggiungendo il malto.

Un altro rimedio per aumentare l’attività fermentativa negli impasti con una farina
di scarsa attività amilasica è quello di utilizzare gli impasti a caldo, che
contribuiscono anche ad arricchire il gusto e il profumo del prodotto, forniscono
una più vivace colorazione alla crosta e soprattutto permettono alla mollica di
restare morbida più a lungo. Il loro utilizzo migliora inoltra l’alveolatura della
mollica e ingentilisce la struttura dell’impasto. Queste caratteristiche sono
soprattutto richieste per i pani di lunga conservazione oppure per i prodotti tipo
hamburger, pane da tramezzino o simili. Gli impasti a caldo sono anche un ottimo
nutrimento per la microflora del lievito madre: funzionano come rimedio per nutrire
un lievito madre più debole.

Come si preparano gli impasti a caldo?

Ci sono diversi sistemi e diversi tipi di impasto a caldo, ma tutti sfruttano lo


stesso principio: quello di gelatinizzare l’amido e quindi renderlo più attaccabile
da parte degli enzimi che lo scompongono (amilasi). Quindi, si formeranno più
zuccheri nell’impasto, e gli impasti fermenteranno con più intensità. Fermenteranno
di più non soltanto i lieviti, ma lavoreranno di più anche i batteri lattici,
creando una maggiore acidificazione dell’impasto, che arricchisce la gamma degli
aromi nel prodotto cotto. E gli zuccheri rimasti dopo la fermentazione
contribuiscono alla più attiva reazione di Maillard, fornendo più colorazione e più
profumo al prodotto. Inoltre, gli enzimi più attivi, come le amilasi, aiutano alla
conservazione del prodotto dopo la cottura, aumentando la sua shelf-life. Le
proteine nell’impasto a caldo denaturano, conferendo una struttura più fine
all’impasto. Quando l’impasto a caldo viene preparato erroneamente con acqua non
sufficientemente calda (intorno a 50 °C), nell’impasto a caldo e nell’impasto
finale si verifica un forte rammollimento e indebolimento della struttura, perché
gli enzimi proteasi risultano molto attivi (il loro optimum di temperatura è di 40-
45 °C), e anche le proteine risultano più attaccabili da parte loro, quindi le
proteasi distruggono in maniera molto attiva la struttura glutinica dell’impasto.
Per cui per assicurare l’efficacia dell’impasto conviene condurre la sua esecuzione
con dell’acqua bollente o quasi.

La tecnica degli impasti a caldo è particolarmente diffusa nei paesi nordici per i
prodotti di segale. I prodotti di segale preparati con la tecnica dell’impasto a
caldo si caratterizzano da una crosta e una mollica particolarmente scuri, da una
struttura della mollica più sviluppata e da un gusto e un aroma tipici (dolce-
acido). Inoltre, è particolarmente idonea per le farine con molta fibra, aiuta
anche ad ammorbidire componenti cruscali, nonché per il grano spezzato. Se nella
ricetta sono contenuti dei semi (girasole, sesamo ecc.) o delle spezie (cumino,
finocchietto ecc.), è opportuno inserire anche questi nell’impasto a caldo, così le
loro componenti aromatiche si esprimono maggiormente nel prodotto finito.

Per i prodotti di segale l’impasto a caldo viene usato soprattutto come un


preimpasto per diverse ricette, ma può essere utilizzato anche per il rinnovo di
zakvaska (lievito naturale liquido di segale, vedi) per alimentare la sua
microflora. Spesso nell’impasto a caldo di segale viene inserito anche il malto
scuro (non diastasico, specifico per la segale), che contribuisce a dare aroma e
colorazione più intensi.

La tecnica dell’impasto a caldo è comunque applicabile quasi a tutti i tipi di


impasto e per tutti i tipi di farina, e apporta i benefici sopra descritti.

Nella preparazione dell’impasto a caldo la farina viene portata fino alla


temperatura della gelatinizzazione dell’amido aggiungendo l’acqua bollente in
quantità 2-3 volte superiore al suo peso oppure per il contatto con il vapore
acqueo (procedimento industriale) con impastamento continuo fino a ottenere una
massa gelatinosa. Dopo di che questo impasto si lascia raffreddare (almeno fino a
35 °C) per poi eseguire l’impasto finale.

La quantità della farina necessaria per gli impasti a caldo può essere dal 3% al
25% circa dalla totale quantità della farina della ricetta. In generale, non è
possibile eseguire una ricetta con la percentuale della farina per impasto a caldo
superiore al 30% a causa della quantità d’acqua necessaria per prepararlo.

Gli impasti a caldo in base al loro contenuto e alla tecnica di esecuzione li


possiamo dividere in:

impasti a caldo “non zuccherati”;

impasti a caldo “autozuccherati”; e “zuccherati condotti”;

impasti a caldo salati;

impasti a caldo fermentati;

impasti a caldo acidificati.

1 Impasti a caldo “non zuccherati”

La farina viene mescolata con acqua bollente (due o tre volte superiore al suo
peso), dopo di che l’impasto a caldo così ottenuto viene lasciato a raffreddarsi
(di solito fino al giorno dopo) per poi procedere all’impasto finale. Le farine con
più crusca (per le quali è particolarmente raccomandata questa tecnica)
assorbiranno tre volte l’acqua rispetto al loro peso, mentre quelle più raffinate
soltanto il doppio del peso dalla loro quantità.

Per gli impasti a caldo di segale a volte inizialmente si aggiungono metà acqua con
temperatura 65 °C, si mescolano e poi la restante metà si aggiunge bollente. Questa
operazione aiuta a facilitare l’impasto, a non avere grumi, e non disturba alla
gelatinizzazione dell’amido, perché l’amido della segale gelifica alle temperature
più basse rispetto a quello di frumento.

Il tempo in cui l’impasto a caldo viene lasciato a raffreddare potrebbe essere da


2-3 ore fino alle 24 ore. Ovviamente, quando si lascia per più tempo si creeranno
più zuccheri, che quindi apportano anche più rammollimento nell’impasto
(caratteristica gradita per alcuni prodotti, e meno per altri). Comunque, con
questo tipo di impasto a caldo non avviene un notevole rammollimento nell’impasto,
perché parzialmente gli amilasi saranno disattivati dall’acqua bollente. Con questo
procedimento la percentuale della farina potrebbe essere anche fino a 30% dal peso
totale della farina. In generale, il tempo necessario per cui bisogna lasciare
l’impasto a caldo dipende dall’attività amilasica della farina e dalla presenza del
malto nell’impasto a caldo, nonché dalle caratteristiche dello sfarinato.

Impasto a caldo appena fatto (sopra) e impasto a caldo dopo il riposo (sotto).

2 Impasti a caldo “autozuccherati”

Una porzione della farina destinata per l’impasto a caldo (10% circa) si lascia da
parte e si mescola il restante 90% della farina con l’acqua bollente. Dopo che la
miscela si raffredda fino a 60-65 °C, si aggiunge la restante farina (quella
lasciata da parte). In questo modo le amilasi presenti nella farina lasciata da
parte riescono ad agire in maggior misura. Il tempo necessario per l’esecuzione di
questi impasti rimane quindi più corto: saranno sufficienti soltanto 2-3 ore, fino
a che l’impasto si raffredda, per poi inserirlo nell’impasto finale.

Con questo tipo di procedimento i tempi sono più brevi, inoltre, le percentuali
della farina utilizzata per gli impasti a caldo possono essere minori per avere una
simile efficacia.

3 Impasti a caldo “zuccherati”

Nell’impasto a caldo viene aggiunto il malto diastasico (chiaro), sempre come per
gli impasti sopra, dopo che l’impasto viene raffreddato fino alla temperatura di
60-65 °C. In questo modo i tempi di preparazione sono veloci (come sopra) e la
quantità di farina destinata per l’impasto a caldo potrebbe essere ancora minore.

4 Impasti a caldo salati

Nella preparazione la farina viene mescolata con soluzione salina (acqua bollente
con tutto il sale della ricetta). Questi impasti a caldo sono utili per la stagione
estiva e per le farine deboli, oppure per quelle un’alta attività amilasica, nonché
per i tempi più lunghi (in cui si lascia l’impasto a caldo).

5 Impasti a caldo fermentati

Additivati con i lieviti dopo il loro raffreddamento.


6 Impasti a caldo acidificati

Additivati con batteri lattici oppure con del lievito madre (fonte di batteri
lattici), sempre dopo il loro raffreddamento.

Sistemi per procedere con gli impasti a caldo

1 Sistema base in due fasi

Prima fase: preparazione dell’impasto a caldo (con uno dei metodi elencati prima).

Seconda fase: preparazione dell’impasto finale, in cui inseriamo l’impasto a caldo


precedentemente preparato, gli altri ingredienti della ricetta, il lievito (lievito
madre oppure il lievito di birra, oppure tutti due), o possiamo inserire anche
biga, poolish o pasta di riporto.

2 Sistema in due fasi ma di lunga fermentazione

Prima fase: preparazione dell’impasto a caldo.

Seconda fase: preparazione dell’impasto finale, in cui inseriamo l’impasto a caldo,


tutti gli altri ingredienti e poco lievito (lievito madre oppure il lievito di
birra, oppure tutti due), che fermenta poi per molte ore (di lunga fermentazione).

3 Sistema in tre fasi

Prima fase: preparazione dell’impasto a caldo.

Seconda fase: acidificazione dell’impasto a caldo.

Terza fase: preparazione dell’impasto finito.

4 Sistema in quattro fasi

Prima fase: preparazione dell’impasto a caldo.

Seconda fase: acidificazione dell’impasto a caldo.

Terza fase: rinnovo del terzo impasto con farina e acqua e fermentazione di
seguito.

Quarta fase: preparazione dell’impasto finito.

Esempio di un impasto a caldo:

farina di segale (fine) 250 g

malto scuro in pasta 125 g

timo o coriandolo (facoltativo) 5 g

acqua bollente (100 °C) 500 ml

Miscelare tutto a mano o in una planetaria con frusta fino a ottenere una
consistenza omogenea, senza grumi. Lasciare maturare coperto con telo e il foglio
di plastica sopra per un tempo da 3 a 18 ore a temperatura ambiente.

IL METODO INDIRETTO CON IMPASTO AUTOLITICO

L’utilizzo della tecnica di autolisi dona al prodotto finale numerosi benefici,


riguardanti in particolare le caratteristiche dell’impasto, la cui consistenza
risulta più liscia e malleabile. L’autolisi è una tecnica particolare che consente
di sfruttare l’autoevoluzione delle caratteristiche del glutine. Questo sistema si
pratica in tre fasi: miscelazione iniziale della farina con dell’acqua; riposo
dell’impasto autolitico così ottenuto; e infine l’impasto finale.

Nella prima fase nell’impastatrice vengono dosati gli ingredienti di base, farina e
acqua (55%), impastati (per esempio con l’impastatrice a spirale 5-8 minuti,
soltanto alla prima velocità).

L’impasto così ottenuto subisce successivamente il riposo (seconda fase), che può
durare da 20 minuti a 24 ore. Se il tempo di riposo è superiore a 5-6 ore, si
consiglia di aggiungere alla miscela una parte del sale e non superare il 45-50% di
acqua, la successiva conservazione dovrà essere effettuata alla temperatura di 18-
20 °C. Mentre per il periodo di riposo abbastanza breve l’impasto viene lasciato a
temperatura ambiente, eventualmente nella vasca stessa dell’impastatrice.

Infine segue la terza fase (l’impasto finale), in cui vengono aggiunti gli
ingredienti mancanti (lievito, malto, eventualmente acqua, sale) o gli altri
ingredienti in base alla ricetta. Il tutto viene impastato soltanto alla seconda
velocità per il tempo necessario. L’impasto autolitico può essere utilizzato
totalmente o parzialmente (con una dose minima del 20% dalla farina totale).

La tecnica di autolisi consente di ottenere il prodotto finale, caratterizzato da


tre particolarità: un sapore caratteristico, un ottimo sviluppo e una più lunga
shelf-life. Inoltre si riducono i tempi d’impasto, la sua consistenza diventa
particolarmente liscia e malleabile, la formatura è facilitata e il prodotto finito
ha un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore sofficità della
mollica.

Queste peculiarità nel prodotto sono il risultato dei processi fisici, chimici e
colloidali che avvengono durante il riposo della pasta. In questa fase il glutine
subisce delle modifiche (lisi) a opera degli enzimi (in particolare amilasi e
proteasi), attivati dall’acqua dell’impasto.

Sotto l’azione degli enzimi amilasi, come è già stato spiegato, l’amido viene
trasformato in zuccheri, fornendo più zuccheri disponibili nell’impasto, agevolando
così la fermentazione e apportando al prodotto finale le migliori caratteristiche
organolettiche (come gusto e profumo più intensi).

Gli enzimi proteasi sono protagonisti della reazione della proteolisi, che avviene
in qualsiasi impasto e prende sviluppo soprattutto durante il periodo di riposo
della pasta. Con tale reazione la maglia glutinica della pasta viene frantumata in
pezzi più piccoli, le catene proteiche così ottenute si allungano, la pasta
acquista una maggiore estensibilità e diventa più malleabile. La reazione delle
proteolisi può essere più o meno attiva in base ai diversi fattori (la struttura
delle proteine – in particolare le proprietà del glutine –, l’attività enzimatica
della farina, la presenza nell’impasto di alcune sostanze, la temperatura
dell’impasto ecc.).

Inoltre nell’impasto autolitico avviene una reazione opposta alla proteolisi, ossia
il rinforzamento della maglia glutinica dovuto all’azione dell’ossigeno dell’aria,
inglobato dalla pasta durante l’impastamento. Sotto l’azione dell’ossigeno i gruppi
della maglia glutinica (SH-) si trasformano in ponti disolfurici (-S=S-), il
glutine si rinforza, diventa più elastico e potrà assorbire quantità superiori
d’acqua. Tale reazione prende sviluppo soprattutto durante l’impasto (nella prima
fase di autolisi e nell’ultima fase, quella dell’impasto finale), in minor modo
avviene anche durante il riposo della pasta. Durante il riposo della pasta la
maglia glutinica viene trasformata, le catene proteiche si allungano, si gonfiano,
assorbendo l’aria e l’acqua, completano la loro idratazione, così l’impasto durante
la sua lavorazione finale raggiunge il top della consistenza in un periodo più
breve, con quantità maggiori d’acqua.

Poiché è una tecnica che dona all’impasto una particolare estensibilità, l’autolisi
può essere particolarmente utile per la panificazione con il lievito naturale, per
la produzione dei pani con semola oppure quando vengono utilizzate le farine più
resistenti.

La proteolisi

Le proteine sono composte dagli aminoacidi e possono essere ridotte in frammenti


più corti (chiamati peptidi) sotto l’azione degli enzimi proteasi. La proteolisi è
il processo di degradazione della struttura globulare della proteina. La proteolisi
avviene in ogni impasto, però può essere più o meno attiva, e coinvolgere più o
meno proteine. Quanto più attiva sarà la reazione della proteolisi, tanto più molle
diventerà l’impasto. La proteolisi, disfacendo le proteine, presenti nella maglia
glutinica, abbassa le sue capacità d’assorbimento dell’acqua e di trattenimento
d’anidride carbonica. Il progredire di questa reazione diminuisce la forza
dell’impasto e aumenta la sua estensibilità.

TECNICHE MODERNE: L’UTILIZZO DEL FREDDO NELLA PANIFICAZIONE

Utilizzando le basse temperature diventa più semplice razionalizzare il ciclo


produttivo perché questa tecnica permette ai professionisti del settore di ridurre
le ore di lavoro notturno e di programmare al meglio il ciclo produttivo del
lavoro, renderlo meno dispersivo e più flessibile. Risulta utile anche per chi fa
pane in casa, perché ci permette di impastare quando si è più comodi e di sfornare
il pane fresco in qualsiasi ora della giornata.

L’utilizzo del freddo nella panificazione si basa sul rallentamento (o addirittura


sul blocco) dell’attività fermentativa del lievito. Sappiamo che a temperature
inferiori a 4 °C il lievito rallenta notevolmente la sua capacità fermentativa.

Il freddo può essere applicato agli impasti già formati o ancora da formare e al
prodotto parzialmente cotto (chiamato precotto).

Il freddo si può utilizzare per abbattere a temperature negative per poi stoccare
(a –18 °C) il prodotto precotto o le forme crude ancora da lievitare. In questo
caso parliamo di surgelazione.

Le forme crude già formate (che devono ancora lievitare) oppure i prodotti precotti
prima di essere stoccati nelle celle freezer di solito passano negli abbattitori
(celle in cui la temperatura è molto bassa: da –35 a –40 °C, dotati di potenti
ventole, in grado di “abbattere” il prodotto in modo che il cuore del prodotto
arrivi rapidamente a –18 °C). Questo passaggio attraverso l’abbattitore permette la
formazione all’interno del prodotto di microcristalli di ghiaccio, che non
distruggono quasi la sua struttura. Mentre senza il passaggio nell’abbattitore
possono formarsi dei macro-cristalli di ghiaccio ed esercitare un’azione
distruttiva alla struttura del prodotto.

La surgelazione eseguita in modo corretto permette una varietà di prodotti


mantenuti per lungo tempo senza che ne vengano alterati i valori qualitativi,
consente lo stoccaggio dei prodotti programmato giornalmente per poi prelevare la
quantità necessaria in base alle esigenze di utilizzo. Questo sistema ha il
vantaggio di non dover realizzare tutti i giorni gli stessi prodotti e averli a
disposizione per la vendita già dalle prime ore del mattino.

Per l’utilizzo corretto è necessario rispettare alcune regole importanti per quanto
riguarda la panificazione.

Utilizzare farine di buona qualità.

Togliere i riposi agli impasti.

Nei prodotti lievitati è meglio praticare una fase di raffreddamento e


successivamente il congelamento (i lieviti devono disidratarsi e acclimatarsi).

È indispensabile utilizzare un coadiuvante del freddo per la congelazione.

Se il tempo di stoccaggio viene prolungato è necessario aumentare le quantità di


lievito e utilizzare miglioratori adatti alla surgelazione (che contengono oltre
all’acido ascorbico e alle amilasi anche l’emulsionante lecitina di soia, oppure
mono- e di-gliceridi o loro esteri).

Se viene utilizzato il malto è meglio impiegare prodotti a bassa diastasi (con


moderato valore di Pollak, pag. 61) e in quantità ridotta rispetto al normale
utilizzo.

La temperatura finale dell’impasto non deve essere alta, può variare da 20 a 25-26
°C.

Non passare immediatamente dallo stoccaggio del prodotto alla lievitazione. È


fondamentale una scongelazione graduale a partire da 4-8 °C in base alle dimensioni
del prodotto.

Invece per chi fa pane in casa e non ha a disposizione l’abbattitore, è preferibile


utilizzare il freddo, se occorre, applicato ai prodotti precotti. In questo modo si
possono organizzare meglio i tempi e avere la scorta del prodotto (fino a 15
giorni) che può essere sfornato caldo all’occorrenza.

Un’altra tecnica, quella di ferma-lievitazione o di lievitazione controllata (così


viene chiamato il sistema di panificazione in cui la fase di lievitazione viene
rallentata utilizzando il freddo) può essere tranquillamente applicata nella
panificazione casalinga. Non esistono ricette precise per ottenere un ottimo
risultato nella panificazione con l’uso del ferma-lievitazione, come non ne
esistono nella normale panificazione.

Per utilizzare il metodo di lievitazione controllata i professionisti del settore


utilizzano le celle di ferma-lievitazione, in cui è possibile programmare varie
fasi.
1 La prima fase è la fase di accumulo che dura il tempo necessario per portare
l’ambiente interno a –8 °C, o anche meno per i pani più grossi. La fase di accumulo
cessa non appena si inserisce il prodotto.

2 Da questo momento inizia la fase di abbattimento del prodotto (durata 2 ore circa
o meno in base al prodotto). Il prodotto viene raffreddato sino a una temperatura
di –5 o –6 °C dopo di che si passa alla fase successiva.

3 Fase di mantenimento: la temperatura in questa fase normalmente è di circa 2-3 °C


con un’umidità del 75-85% variabile in base alla percentuale di acqua contenuta
nell’impasto (per l’impasto asciutto serve più umidità, per l’impasto più morbido
meno umidità). Non tutte le celle riescono a produrre l’umidità alle temperature
inferiori a 16 °C. Tuttavia il prodotto contenuto nella cella depone l’umidità
necessaria per impedire l’incrostazione superficiale.

4 Fase di pre-lievitazione: è di circa 1-2 ore fino a raggiungere la temperatura di


15 °C (questa fase di lievitazione eseguita molto lentamente migliora la qualità e
il sapore del pane). In certe celle è prevista anche una fase intermedia,
programmabile solitamente su temperatura di 8 °C.

5 Fase di lievitazione finale: dura normalmente 1-2 ore a 25-26 °C.

CONSIGLI UTILI PER UNA BUONA RIUSCITA DEL PRODOTTO CON FERMA-LIEVITAZIONE

Raffreddare la cella in precedenza in modo che al momento di introdurre il pane la


temperatura sia di almeno –8 °C all’interno della stessa.

Lasciare riposare l’impasto prima della formatura per un periodo non molto lungo,
compatibilmente con la lavorabilità della pasta. Escluso per i prodotti a base di
lievito madre, che devono avere una normale puntata.

Appena formato il pane, introdurlo rapidamente in cella. Prima della conservazione,


l’anidride carbonica deve essere minima per evitare la scomparsa in gran parte dei
nuclei generatori di alveolatura dell’impasto.

Se si usano miglioratori, utilizzare quelli adatti al freddo.

Utilizzare biga, pasta di riporto oppure il lievito madre.

Se si usa malto è meglio impiegare prodotti a bassa diastasi e in quantitativo


ridotto della metà rispetto al normale utilizzo, la stessa cosa dicasi per
l’aggiunta di zuccheri.

La temperatura finale dell’impasto non deve essere alta: può variare da 20 °C a 25-
26 °C in base al prodotto.

Usare farine di buona qualità. La farina deve essere sufficientemente forte e non
avere troppa attività enzimatica.

Diminuire la quantità di lievito, o per lo meno non abbondare.

Dopo il periodo di mantenimento, la temperatura del prodotto deve avere un aumento


graduale sia in fase di prelievitazione che in fase di lievitazione finale, per
evitare shock termici al glutine e ai lieviti.
Possibilmente non infornare il prodotto appena tolto dalla cella di ferma-
lievitazione, è consigliabile farlo asciugare per evitare difetti alla crosta.

Per utilizzare il sistema di ferma-lievitazione per la panificazione casalinga, si


può semplicemente porre il prodotto (di pezzatura piccola) in frigorifero alla
temperatura di 2-4 °C per il tempo necessario (fino alle 24 ore), dopo di che
estrarlo e lasciare a lievitare a temperatura ambiente per il periodo necessario,
quindi cuocere. Troppo diversi sono i prodotti, la qualità delle materie prime
utilizzate, la tipicità dei laboratori; esistono comunque delle regole generali che
sarebbe bene rispettare.

Occorre adottare un metodo di lavoro molto preciso ed essere molto esatti nella
pesatura degli ingredienti e nella temperatura finale degli impasti per non
incorrere in lievitazioni fuori orario (anticipate o ritardate).

CONSIGLI PER LA COTTURA AL TERMINE DI FERMA-LIEVITAZIONE

Cuocere con un forno leggermente meno caldo del normale (10-20 °C in meno),
altrimenti il prodotto si colorerà più rapidamente.

Non dare troppo vapore durante la cottura. Si consiglia anche di introdurre del
vapore prima dell’infornamento. In effetti, troppo vapore durante la cottura
rischia di provocare una leggera formazione di bolle;

Se il pane in cottura prende troppo colore:

· abbassare la temperatura di cottura del forno (10-20° C in meno);· utilizzare


nell’impasto pasta di riporto o biga sufficientemente acide in percentuale del 30%
circa sulla quantità della farina, oppure inserire il lievito madre in quantità del
20% sulla farina;

· in generale, diminuire quanto basta la quantità d’acqua nell’impasto e aumentare


l’acidità dell’impasto.

Le difficoltà che possiamo riscontrare utilizzando la tecnica di ferma-lievitazione


sono dovute ai diversi fattori, non ultimi gli enzimi. Gli enzimi naturalmente
contenuti nella farina (amilasi e proteasi) hanno capacità d’azione anche con le
temperature negative dell’impasto. Sotto la loro azione avviene l’indebolimento
della struttura dell’impasto, aggravato dall’azione dei cristalli di ghiaccio sulla
maglia glutinica, che contribuiscono a distruggerla. L’inserimento nell’impasto dei
componenti acidi aiuta ad abbassare l’attività degli enzimi (soprattutto delle
amilasi), permettendo così all’impasto di restare più consistente e meno debole.
Inoltre contribuisce a conferire al prodotto finito una colorazione della crosta
meno rossa e più gradevole, donare un sapore e un profumo più intensi e una
migliore conservazione.

Pronto intervento.

I difetti
del pane:

come riconoscerli

e correggerli

Questo capitolo ha una grande importanza dal punto di vista pratico. Conoscere i
difetti del pane e capire da che cosa provengono, riuscire a intervenire per
correggerli (quando è possibile) oppure conoscere la causa e impedire che avvenga
nuovamente: questi sono gli aspetti fondamentali del lavoro che vengono affrontati
tutti i giorni dagli operatori e dagli appassionati del settore. È un tema
piuttosto vasto e complesso, perché a volte sullo stesso difetto possono incidere
diversi fattori, oppure svariate cause, a volte opposte, possono provocare simile
difetto. Per cui non è possibile descrivere in queste pagine tutti i difetti che
possono manifestarsi, e le loro eventuali cause, ma viene proposta una selezione
dei casi più comuni.

IL PRODOTTO HA UNA FORMA PIATTA E ALLARGATA, LA MOLLICA NON È MOLTO SOFFICE, LA


CROSTA È CHIARA

Le cause: valutiamo gli alveoli e assaggiamo il prodotto.

1 SE È INSIPIDO.

Forse abbiamo dimenticato di aggiungere sale.

L’impasto senza sale risulta appiccicoso e molle, difficile da lavorare. Il


prodotto finito è insipido ed è poco voluminoso. L’alveolatura è allungata
orizzontalmente. La crosta risulta chiara, perché a causa della mancanza del sale i
lieviti hanno “lavorato” troppo e hanno esaurito tutti gli zuccheri, quindi non
sono rimasti per garantire una buona colorazione superficiale.

RIMEDI

Correggere la quantità di sale nell’impasto per la prossima volta.

2 SE IL PRODOTTO HA IL GUSTO ACIDO.

Potrebbe trattarsi di un’eccessiva lievitazione.

In questo caso avviene la frattura della maglia glutinica con dispersione del gas,
che porta all’appiattimento della forma, e quindi al peggioramento
dell’alveolatura, che rimane meno soffice, quindi più compatta e umida, con gli
alveoli sono allungati orizzontalmente. Se continua ancora, la lievitazione
protratta porta al “collasso” della forma. Inoltre, i lieviti “lavorando” troppo,
esauriscono gli zuccheri dell’impasto, e in mancanza degli zuccheri la colorazione
della crosta rimane più chiara. L’eccesso di lievitazione non è sempre causato da
un tempo troppo lungo della lievitazione finale, ma può dipendere dalla temperatura
della lievitazione troppo alta, da un impasto troppo caldo o con più lievito
nell’impasto, oppure contenente pasta di riporto o biga troppo mature.

RIMEDI

Diminuire i tempi e la temperatura della lievitazione. Eventualmente diminuire il


lievito nell’impasto. Se il difetto è causato da una biga oppure da una pasta di
riporto troppo acide, diminuire la loro quantità nell’impasto. Nel caso, diminuire
la temperatura dell’acqua nell’impasto e i tempi di impasto.

ESEMPI PRATICI

Il caso di una lievitazione eccessiva per il prodotto tipo “bocconcino”.

Il prodotto rimane più piatto, di colorazione più chiara del dovuto, la mollica ha
degli alveoli allargati orizzontalmente.

Eccessiva lievitazione (sopra) e giusta lievitazione (sotto).

Se un prodotto con una lievitazione eccessiva non viene subito infornato, collassa,
perché la struttura non riesce a trattenere il gas (l’anidride carbonica) prodotto
con la lievitazione: in un caso del genere la crosta superiore presenta un
cedimento centrale (foto qui sotto).

3 SE HA SAPORE DI LIEVITO.

C’è troppo lievito nell’impasto.

L’impasto ha un’eccessiva fermentazione, la mollica del prodotto presenta


un’alveolatura irregolare, possono esserci delle bolle al centro della mollica, e
tra la mollica e la crosta. Il prodotto lievita troppo in fretta, per cui può avere
la forma bassa e la crosta più chiara, ed è poco digeribile e di scarsa
conservazione.

RIMEDI

Correggere la quantità di lievito nell’impasto, diminuire la temperatura e il tempo


di lievitazione.

4 SE LA MOLLICA PRESENTA DELLE BOLLE GRANDI NELLA PARTE CENTRALE.

Significa che la temperatura dell’impasto è troppo alta a causa dell’acqua


nell’impasto di temperatura superiore a quella desiderata oppure per eccesso
dell’impasto.

In questo caso si hanno una fermentazione precoce e un eccessivo sviluppo


dell’acidità. Inoltre, tutti i processi enzimatici sono molto accelerati. La
mollica del prodotto finito può presentare delle bolle grosse (soprattutto al
centro della mollica). Invece quando il composto è stato impastato troppo a lungo
la sua maglia glutinica si strappa, rilascia parzialmente l’acqua, e si
rammollisce. Il prodotto finito sarà di volume basso, la mollica risulterà compatta
e poco sviluppata, oppure potrà avere il volume normale, ma un’alveolatura
irregolare, con bolle grosse al centro.

RIMEDI
Se la causa del difetto è la temperatura dell’impasto troppo alta, allora bisogna
abbassare la temperatura dell’acqua nell’impasto, eventualmente diminuire il tempo
dell’impasto, abbassare la temperatura della fermentazione. Se la causa è l’impasto
troppo lungo, allora bisogna diminuire i tempi dell’impasto, effettuare le pieghe1
a metà della fermentazione, cercando così di “ricostruire” la maglia glutinica.

1 “PIEGHE” NELL’IMPASTO Si effettuano in questo modo: solitamente a metà della


fermentazione l’impasto viene rovesciato sul tavolo, lievemente spianato e richiuso
a busta. Dopo viene posto nuovamente a fermentare nel contenitore. Questa
operazione aiuta a rinforzare la struttura dell’impasto.

ESEMPI PRATICI

Come si presenta l’impasto troppo impastato su una “rosetta soffiata”: quando si


impasta per un tempo troppo lungo l’impasto si disgrega per un eccessivo sforzo
meccanico, rimane troppo molle e colloso, ha una consistenza troppo appiccicosa e,
una volta messo sul tavolo, ha tendenza ad allargarsi e appiattirsi (vedi foto
pagina seguente).

Impasto corretto (a sinistra) e troppo impastato (a destra).

Durante la fermentazione il pastone rimane più molle e si affloscia, assumendo una


forma piatta. Il prodotto finito risulta più piatto, meno sviluppato e ha la crosta
più chiara del dovuto.

I difetti dovuti all’impasto troppo caldo sul prodotto “ciabatta” sono dovuti
all’eccessiva temperatura (32 °C, invece di 27-28 °C): l’impasto si presenta più
molle e con una maglia glutinica disgregata.

L’impasto non è più “incordato”, non cresce bene nel mastello e rimane molle.

Una volta rovesciato il mastello, si allarga sul tavolo. La formatura risulta assai
difficoltosa, dopo la lievitazione le forme sono molto allargate e deboli: non è
possibile infornarli.

Se invece si riesce, la superficie si presenta più chiara e vitrea, e il prodotto


ha un invecchiamento precoce.

5 SE LA MOLLICA HA UN’ALVEOLATURA PIÙ GROSSOLANA RISPETTO AL SOLITO.

Potrebbe avere troppa acqua nell’impasto.

L’impasto è appiccicoso, si lavora con difficoltà, lievita troppo in fretta. Il


prodotto finito rimane di volume basso, ha la forma appiattita e la mollica umida,
con l’alveolatura grossolana.

RIMEDI
Correggere la consistenza, aggiungendo della farina durante l’impasto (ovviamente è
consigliabile aggiungere l’acqua poco alla volta per evitare di aggiungere farina).
Aumentare il tempo di impasto e di puntata (prima fermentazione) e diminuire il
tempo e la temperatura della lievitazione finale.

IL PRODOTTO HA UNA FORMA RISTRETTA (POCO SVILUPPATA), MA NON ALLARGATA, HA UNA


MOLLICA COMPATTA, UNA CROSTA SPESSA, A VOLTE CON DEGLI STRAPPI SUPERFICIALI

Le cause: valutiamo gli alveoli e assaggiamo il prodotto.

1 SE IL PANE È TROPPO SALATO.

Forse il sale è stato aggiunto due volte per errore.

Sembra strano, ma a volte nei panifici capita che il sale viene aggiunto due volte,
specialmente se l’impasto è seguito da più persone.

Il sale non è stato pesato ed è stato messo in quantità eccessiva.

Il pane è troppo salato, la mollica è poco porosa e ruvida (le pareti degli alveoli
sono consistenti), il prodotto non è voluminoso, possono esserci degli strappi
sulla superficie, la crosta del prodotto è più scura del normale (l’eccesso di sale
ha rallentato troppo il lievito e gli zuccheri non sono stati consumati a
sufficienza, rimanendo in quantità eccessiva nel momento della cottura).

RIMEDIO

Correggere la quantità del sale nell’impasto.

2 SE IL PANE NON È TROPPO SALATO, MA LA MOLLICA È TROPPO COMPATTA.

Potrebbe essere un impasto più asciutto del dovuto.

In questo caso la lievitazione finale delle forme è più lenta, per cui, se non
viene aumentato il tempo per la lievitazione finale il prodotto finito ha il volume
insufficiente, la mollica rimane compatta e non sviluppata, possono esserci degli
strappi sulla superficie, la crosta rimane più scura.

RIMEDI

Aumentare il tempo della lievitazione finale, per la prossima volta mettere


nell’impasto la quantità di acqua corretta.

Potrebbe essere stata utilizzata un farina più tenace.

Nell’impastatrice tale farina assorbe acqua a sufficienza, ma l’impasto non


acquista l’estensibilità, fermentando, non aumenta molto di volume e rimane
gommoso. Il prodotto finito non è molto voluminoso, ha la mollica abbastanza
compatta, che tende a sbriciolarsi e può avere le screpolature sulla crosta.

RIMEDI

In questo caso sarebbe opportuno utilizzare la tecnica di autolisi, è anche utile


aumentare l’acidità dell’impasto, utilizzando preferibilmente una biga. Inoltre è
utile aumentare il tempo di lievitazione finale (compatibile con la forza del
prodotto).

Potrebbe essere stato messo nell’impasto troppo poco lievito o lievito deteriorato.

In questo caso l’impasto stenta a fermentare, si prolungano tutti i tempi di riposo


della pasta. Nell’impasto si accumulano gli acidi, ma si crea una scarsa quantità
di CO2. Il prodotto finito risulta poco lievitato, ha il volume insufficiente e la
mollica compatta e umida, la crosta è scura, possono esserci degli strappi sulla
superficie.

RIMEDI

Cambiare il lievito, aumentare i tempi e la temperatura della prima fermentazione e


della lievitazione finale.

3 QUANDO È ACCOMPAGNATO DAGLI STRAPPI LATERALI DELLA FORMA.

Potrebbe essere avvenuta una scarsa lievitazione finale.

In questo caso l’alveolatura può essere irregolare, ma con gli alveoli rotondi, la
mollica del prodotto risulta più pesante e più umida e la crosta è più rossa del
dovuto, a volte può avere degli strappi superficiali, con la fuoriuscita della
mollica.

RIMEDI

Aumentare l’umidità, la temperatura e il tempo di lievitazione finale.

ESEMPI PRATICI

Il prodotto “bocconcino” poco lievitato: ha la forma più stretta e meno sviluppata,


se si tratta di una forma rotonda, risulta “a palloncino”, ha strappi sulla crosta,
con fuoriuscita della mollica e una crosta dalla colorazione più scura del dovuto,
l’alveolatura è meno sviluppata, più compatta, con degli alveoli più stretti, tutti
segnali di una scarsa lievitazione (vedi foto in alto a destra).

Un prodotto come “pane in cassetta” realizzato con una farina debole, e con una
scarsa lievitazione presenta degli strati superficiali laterali.

IL PRODOTTO HA UNA FORMA PIÙ PIATTA RISPETTO AL SOLITO, SCARSO SVILUPPO, MOLLICA
PIÙ PESANTE E UNA CROSTA DI COLORAZIONE PIÙ ROSSA RISPETTO AL SOLITO

Questo difetto potrebbe dipendere da diversi fattori.

L’impasto è troppo freddo: è poco impastato o l’acqua dell’impasto è troppo fredda,


oppure se è a base di biga, questa è poco matura oppure più fredda.

L’impasto risulta ancora non formato e ha una maglia glutinica debole, quindi la
ritenzione di gas da parte dell’impasto è più scarsa e le forme lievitando non
aumentano molto di volume e si afflosciano. Il prodotto finito risulta di volume
non molto alto, ha la mollica compatta, poco sviluppata e umida, la sua forma è
lievemente appiattita e la crosta di colorazione più rossa (perché a causa della
temperatura più bassa del dovuto i lieviti hanno funzionato di meno, lasciando più
zuccheri non consumati nel momento della cottura). In caso di impasti molli possono
apparire anche delle bolle immediatamente sotto la crosta.

RIMEDI

Aumentare il tempo di impasto (se il difetto è causato da un impasto insufficiente)


o la temperatura dell’acqua nell’impasto (se il difetto è causato dall’impasto
troppo freddo), effettuare le ”pieghe” durante la fermentazione per “rinforzare” la
consistenza dell’impasto, aumentare il tempo di prima fermentazione (puntata),
porre a fermentare l’impasto in un luogo tiepido. Se il difetto è causato dalla
scarsa maturazione della biga (in questo caso la forma è stretta e la crosta è più
spessa del dovuto), allora bisogna lasciare la biga a maturare per più tempo.

ESEMPI PRATICI

Un impasto del prodotto “rosetta soffiata” impastato per un tempo insufficiente


rimane più ruvido e meno liscio, sembra quasi che sia prodotto da una farina più
scarsa e più debole.

Questo è dovuto al fatto che, quando scarseggia il tempo dell’impasto, il glutine


non si forma del tutto e l’impasto risulta come se fosse stato prodotto da una
farina più debole.

Quando fermenta, ha la superficie più ruvida e ha tendenza di rilasciare acqua


sulla superficie rispetto a un impasto corretto.

Il prodotto cotto rimane meno sviluppato, le forme possono essere o più piatte
oppure avere tendenza a svilupparsi maggiormente verso l’alto, ma rimangono
comunque meno aperte e più “legate”, la crosta è meno fine ed è più ruvida.

Una “rosetta soffiata” realizzata con un impasto troppo freddo ha uno sviluppo
minore, una forma più piatta e larga alla base e una crosta più rossa.

I difetti sono ancora più evidenti se si considera il caso di un impasto freddo di


consistenza molle come la “ciabatta”. Se ha circa 24 °C, anziché una temperatura di
27-28 °C, rimane molto molle, debole e appiccicoso, non “incordato” (non ha
“nervo”), perché per formare bene il glutine serve anche il calore giusto.

Dopo la fermentazione l’impasto rimane sempre molle, appiccicoso e non sviluppa


bene il volume.

Una volta rovesciato sul tavolo, l’impasto si allarga e la formatura è molto


difficoltosa. Le forme dopo la lievitazione rimangono deboli e si allargano.

Impasto poco impastato (a sinistra) e corretto (a destra).

Spesso non è possibile nemmeno infornarle, ma se fosse possibile, il prodotto


finito sarebbe di forma più piatta del dovuto, con la base larga e con la crosta
più rossa.

L’impasto è poco maturo (con una scarsa puntata).

Con scarsa puntata si intende l’impasto non fermentato a sufficienza ovvero per un
tempo insufficiente, oppure perché è stato lasciato a fermentare in un luogo troppo
freddo. Ogni prodotto ha il suo tempo necessario di puntata, dipende dalla
tipologia e dalla quantità di lievito utilizzata: la puntata può essere nulla (per
tipi di pane come prodotti di pasta dura) o, viceversa, durare molte ore (per i
prodotti di lunga fermentazione). Generalmente gli impasti asciutti puntano prima e
gli impasti molli hanno bisogno di puntare per più tempo. Al contrario, per quanto
riguarda la lievitazione finale, le forme degli impasti asciutti lievitano per più
tempo e quelle da impasti molli per un tempo inferiore. Durante la puntata il
glutine completa la sua formazione, avvengono i processi enzimatici e fermentativi.
Se non lasciamo puntare l’impasto per il tempo necessario, troviamo la sua
consistenza meno forte e quindi il prodotto avrà una capacità di ritenzione del gas
inferiore, la struttura del prodotto cede sotto la pressione di CO2, creata dai
lieviti, generando i prodotti con volume più scarso, e con uno sviluppo
insufficiente nel forno. Anche la crosta superiore avrà una colorazione più scura a
causa degli zuccheri non consumati a sufficienza dai lieviti.

RIMEDI

Aumentare il tempo di puntata; nel caso in cui la scarsa maturazione dell’impasto


sia dovuta all’ambiente molto freddo, si può agevolare la maturazione dell’impasto
utilizzando per lo stesso e per la biga l’acqua con una temperatura più alta e
lasciare a fermentare la biga o l’impasto finale in un luogo più tiepido.

L’attività amilasica della farina è troppo alta.

Quando l’attività amilasica della farina è troppo alta l’impasto risulta


appiccicoso, durante la lievitazione le forme si afflosciano, il prodotto finito è
piatto e allargato e la mollica è appiccicosa e umida, ha alveolatura grossolana, è
di volume basso, la crosta è troppo scura.

Inoltre il prodotto potrebbe presentare anche delle bolle grosse al centro della
mollica oppure avere le cavità immediatamente sotto la crosta.

RIMEDI

Non usare il malto nell’impasto, aumentarne l’acidità, aggiungendo biga, pasta di


riporto oppure il lievito madre. Inoltre controllare la temperatura e l’umidità del
luogo in cui viene conservata la farina.

È stato messo troppo malto nell’impasto.

In questo caso l’impasto fermenta troppo velocemente, risulta più appiccicoso, il


prodotto finito ha un’eccessiva colorazione della crosta e l’alveolatura della
mollica è grossolana e irregolare. In questo caso la crosta superiore non sempre è
più scura del dovuto. In effetti, con più malto la fermentazione alcolica è più
rapida e quindi spesso gli impasti fermentano più in fretta, risultano troppo
puntati e si strappano durante la formatura. Inoltre, lievitando più in fretta,
possono generare i prodotti più piatti con colorazione della crosta più chiara del
dovuto (a causa dell’eccessiva lievitazione).

RIMEDI

Diminuire il malto nell’impasto, accorciare i tempi di puntata e di lievitazione


finale.

La farina è macinata troppo fine.

Quando una farina è macinata più fine, l’amido rimane più danneggiato e la sua
capacità di assorbire acqua aumenta. Ma se la macinazione è estremamente fine,
allora l’amido inizialmente assorbe l’acqua nell’impasto, ma poi non la trattiene e
la rilascia. Questa, durante la cottura migra nella mollica, generando o le cavità
sotto la crosta (in caso di una temperatura di infornamento elevata) oppure
“l’osso”, cioè la parte compatta vicino alla crosta inferiore del prodotto (in caso
di infornamento a una temperatura più bassa del dovuto). Inoltre quando l’amido è
più danneggiato, risulta più attaccabile dagli enzimi amilasi, quindi la sua
trasformazione in zuccheri è più rapida, da cui ne deriva una più marcata
liquefazione dell’impasto e l’esubero degli zuccheri. Il prodotto finito ha una
forma più piatta, una mollica irregolare e una crosta più scura.

RIMEDI

Diminuire il malto nell’impasto, aumentare l’acidità nell’impasto, aggiungendo


biga, pasta di riporto oppure il lievito madre. Si possono effettuare anche delle
“pieghe” durante la fermentazione dell’impasto per rinforzare la sua struttura.

IL PRODOTTO CON TAGLI SUPERFICIALI HA MENO SVILUPPO E I TAGLI NON SI APRONO

Quali sono le cause.

Una lievitazione eccessiva del prodotto

I prodotti con tagli superficiali devono essere infornati un po’ prima. Se


aspettiamo una lievitazione completa, i tagli non si aprono nel forno.

1 Corretta lievitazione. 2 Con una lievitazione di 5 minuti in più del dovuto. 3


Con una lievitazione di 20 minuti in più del dovuto. 4 Prodotto di volume
insufficiente con sviluppo più scarso e con forma più piatta a causa di debolezza
dell’impasto.

Troppa debolezza nell’impasto.

Quando viene utilizzata una farina troppo debole oppure a causa di un impasto
troppo freddo oppure per una puntata (prima fermentazione) troppo scarsa. In questo
ultimo caso l’impasto non acquista “forza” e genera i prodotti di volume
insufficiente, con uno sviluppo più scarso e con una forma più piatta.
La farina utilizzata è troppo estensibile.

Spesso si sentono i commenti dai panificatori che prediligono “una farina morbida”.
Ma in realtà si confondono i termini “elasticità” ed “estensibilità”. Per avere un
buono sviluppo, la farina deve essere elastica ed equilibrata (avere le buone
proprietà viscoso-elastiche), non deve essere né troppo “morbida” né troppo
“rigida”. Al contrario di quanto si crede, la farina estremamente morbida non
produce buoni risultati in panificazione. Pani preparati con l’utilizzo delle
farine troppo estensibili hanno uno sviluppo più scarso e una forma più piatta. Se
vengono tagliati prima di infornare, i tagli hanno tendenza a non aprirsi, ma ad
allargarsi. Se si tratta di un prodotto soggetto a un alto sviluppo nel forno (come
per esempio la rosetta soffiata), questo rimane meno voluminoso e ha una forma più
piatta (con la base larga e la punta stretta, in gergo si dice “a pera”). Inoltre,
le farine troppo “morbide” risultano più deboli e quindi richiedono spesso
l’utilizzo dei miglioratori per equilibrare gli impasti.

IL DISTACCO DELLA CROSTA DALLA MOLLICA, CON GROSSA BOLLA D’ARIA IMMEDIATAMENTE
SOTTO LA CROSTA

La causa: è la scarsa ritenzione dell’acqua da parte dell’impasto. Questo a sua


volta potrebbe dipendere da vari fattori.

Un impasto debole.

Perché il tempo di impasto è insufficiente, oppure è più freddo del dovuto, oppure
ha una puntata scarsa, oppure è stato preparato con una biga poco matura.

RIMEDI

Impastare per il tempo necessario, avere l’impasto con una giusta temperatura,
lasciare maturare la biga per più tempo e raggiungere la sua temperatura adeguata.

L’acidità dell’impasto non è corretta: l’impasto poco maturo, una scarsa acidità
nell’impasto.

Assaggiando il prodotto possiamo capire se il gusto è molto neutro, allora si


tratta di una scarsa acidità dell’impasto.

RIMEDI

Aumentare l’acidità dell’impasto.

Un’eccessiva attività enzimatica della farina.

Gli enzimi eccessivamente attivi spezzano il glutine dell’impasto, abbassando la


sua capacità di assorbire e legare l’acqua. L’acqua non legata durante la cottura
si trasforma rapidamente in vapore, per cui le bolle salgono in alto verso la
crosta, provocando la formazione delle grosse bolle d’aria immediatamente sotto la
crosta, mentre nella parte inferiore del prodotto la mollica rimane umida e
compatta.

RIMEDI
Non usare il malto nell’impasto, aumentare l’acidità nell’impasto, aggiungendo
biga, pasta di riporto oppure il lievito madre. Inoltre controllare la temperatura
e l’umidità del luogo in cui viene conservata la farina.

La farina è troppo fresca (appena macinata) o macinata troppo fine.

Una farina troppo fresca (subito dopo la macinazione, non lasciata maturare) si
comporta come una farina debole. Qualsiasi farina subito dopo la macinazione deve
essere lasciata a maturare per un certo periodo, che dipende dalle caratteristiche
di partenza della farina e dalla stagione: è più breve d’estate e può essere più
lungo d’inverno. Le farine troppo fresche, essendo ancora deboli, non hanno buone
capacità di assorbire e di trattenere i liquidi dell’impasto e il gas prodotto con
la fermentazione dei lieviti. Per cui i prodotti finiti hanno un volume inferiore,
una forma più piatta e un’alveolatura irregolare, cioè presentare grosse cavità al
centro oppure le bolle immediatamente sotto la crosta.

RIMEDI

Lasciare maturare la farina (nel caso di una farina troppo fresca) oppure aumentare
l’acidità dell’impasto, inoltre rinforzare la struttura dell’impasto effettuando le
“pieghe” oppure schiacciando l’impasto durante la fermentazione.

Il prodotto è stato infornato troppo precoce con una temperatura troppo alta del
forno (soprattutto con temperatura della platea più alta del necessario)

RIMEDI

Controllare il grado di lievitazione, abbassare la temperatura all’inizio della


cottura.

LA FORMAZIONE DELLA STRISCIA COMPATTA (COSIDDETTO “OSSO”) NELLA PARTE INFERIORE


DELLA MOLLICA

Il difetto è presente soprattutto nei pani di grosso formato e può essere causato
da alcuni aspetti.

L’utilizzo di una farina macinata eccessivamente fine.

Durante l’impasto quest’ultima assorbe notevole quantità d’acqua, ma dopo non la


trattiene, causando a volte l’accumulo dell’umidità nella parte bassa del prodotto,
soprattutto se è accompagnato da un impasto più freddo del dovuto o
dall’infornamento alla temperatura più bassa del dovuto.

Troppa attività amilasica della farina (pag. 136).

Un impasto troppo debole.

Prodotto da una farina debole, oppure avente la temperatura più fredda del
necessario, o impastato per poco tempo.

Acqua legata male nell’impasto.

A causa di una quantità eccessiva e un tempo inferiore dell’impasto.


Impasto non sufficientemente maturo e scarsa acidità dell’impasto.

Temperatura troppo bassa nella camera di cottura.

RIMEDI

Controllare che l’impasto non sia freddo, che sia forte e sufficientemente maturo
(aumentare l’acidità dell’impasto e il grado di maturazione), diminuire la quantità
di acqua nell’impasto, controllare inoltre i parametri di cottura.

LA FORMAZIONE DELLE CAVITÀ VUOTE NELLA MOLLICA

Tale difetto viene causato soprattutto da quattro avvenimenti.

Una lievitazione delle forme troppo “spinta” (condotta in breve tempo alle
temperature elevate, a volte anche con eccessivo tasso d’umidità nella cella di
lievitazione).

Una temperatura dell’impasto troppo alta oppure per un eccessivo tempo


dell’impasto.

Un impasto eccessivamente acido.

RIMEDI

Diminuire la temperatura dell’impasto (se la causa è l’impasto troppo caldo). Se il


difetto è causato da un impasto troppo acido a causa di una biga e pasta di riporto
troppo mature, diminuire le loro quantità nell’impasto e correggere il loro grado
di fermentazione per la prossima volta. Tenere sotto controllo la lievitazione
finale delle forme (non tenerle in un luogo tropo caldo e troppo umido). Abbassare
eventualmente anche la temperatura nella camera di cottura.

Gli enzimi contenuti nella farina sono eccessivamente attivi.

Essi agevolano la distruzione del glutine e l’unione delle bolle piccole


dell’anidride carbonica nelle bolle grosse. In questo caso il difetto è
accompagnato da un altro difetto: la mollica troppo umida, appiccicosa, compatta e
irregolare.

RIMEDI

Per correggere il difetto bisogna aumentare l’acidità dell’impasto e non utilizzare


il malto.

IL PRODOTTO HA UNA SUPERFICIE DI COLORAZIONE PIÙ CHIARA, È PIÙ SECCO


La temperatura del forno è toppo bassa.

A causa di temperatura troppo bassa nel forno a volte il prodotto finito può essere
piatto (se avviene il “collasso” dell’impasto) o altrimenti può avere il volume
troppo alto (specialmente per il pane in cassetta). La crosta del prodotto è troppo
chiara, è più dura. Il prodotto è mal cotto o secco a causa di troppa permanenza
nel forno.

RIMEDI

Alzare la temperatura del forno, soprattutto all’inizio della cottura.

IL PRODOTTO HA UN BUON SVILUPPO ED È VOLUMINOSO, MA INVECCHIA PRECOCEMENTE, HA UNA


CROSTA VITREA ED È GOMMOSO

Tale difetto spesso si manifesta in estate ed è dovuto a due fattori.

Una puntata (prima fermentazione) eccessiva.

Quando si lavora negli ambienti più caldi, bisogna ridurre la quantità di lievito e
il tempo di puntata. Se invece lasciamo a puntare gli impasti per il solito tempo,
essi acquistano “più forza” del necessario e quindi il prodotto finito risulta
sviluppato, ma ha una crosta troppo vitrea e un invecchiamento precoce. Si hanno
delle difficoltà nella formatura, perché l’impasto presenta troppe bolle e le forme
risultano strappate.

RIMEDI

Ridurre il tempo di puntata, partire con l’impasto più freddo (con la corretta
temperatura).

Un eccesso di forza nell’impasto.

Si manifesta quando viene utilizzata una farina troppo forte o perché viene
aggiunto il miglioratore in quantità superiore al necessario. Se la farina ha già
una buona forza non serve aggiungere il miglioratore altrimenti si ottengono dei
difetti; inoltre, il prodotto perde sapore per troppo sviluppo e quindi si avrà
un’eccessiva asciugatura durante la cottura. L’eccesso di forza potrebbe anche
causare lo sbriciolamento della crosta superiore a causa dell’eccessivo sviluppo e
un assottigliamento durante la cottura.

RIMEDI

Utilizzare una farina meno forte, tagliarla con una farina più debole, diminuire la
temperatura dell’impasto, aumentare l’acqua nell’impasto (per indebolirlo), non
utilizzare il miglioratore o almeno ridurre la sua quantità.

LA CROSTA INFERIORE DEL PRODOTTO È PIÙ CHIARA ED È CONCAVA


Manca il calore nella platea.

RIMEDI

Aumentare il calore nella platea (parte bassa) del forno.

IL PRODOTTO HA UNA SUPERFICIE SUPERIORE ONDULATA, DI COLORAZIONE ACCENTUATA, È


DEFORMATO, LA MOLLICA È PIÙ COMPATTA, MALCOTTA

La temperatura del forno è troppo alta.

Il prodotto si cuoce esternamente e non internamente, è malcotto, ha ancora troppa


umidità contenuta, ha una struttura più fragile, per cui dopo la cottura la forma
(oppure la superficie) si deforma, la superficie risulta di colorazione troppo
scura, a volte la crosta è troppo sottile ed è ondulata, assomiglia al difetto di
quando c’è troppo vapore.

RIMEDI

Abbassare la temperatura della camera di cottura e allungare il tempo di cottura.

LA CROSTA DEL PRODOTTO È TROPPO FRAGILE ED È SCREPOLATA, SI SBRICIOLA, LA


COLORAZIONE È ACCENTUATA

Questo difetto viene causato solitamente da due aspetti.

Troppo vapore (o troppa umidità residua) nella camera di cottura.

Quando nella camera di cottura c’è troppo vapore, il prodotto rimane più piatto e
più largo, ha la superficie estremamente lucida, di una colorazione eccessiva,
estremamente sottile e fragile, con delle screpolature.

Un’eccessiva umidità nella cella lievitazione.

Le forme appiattiscono durante la lievitazione e hanno la superficie appiccicosa.


Il prodotto finito è di volume basso, la crosta risulta eccessivamente sottile,
fragile e screpolata, può avere delle bolle superficiali. Inoltre possono esserci
grossi alveoli al centro della mollica e immediatamente sotto la crosta.

RIMEDI

Ridurre il vapore nella camera di cottura, aprire il tiraggio verso la fine della
cottura per agevolare la fuoriuscita di umidità residua dalla camera di cottura,
moderare l’umidità nella cella di lievitazione. Eventualmente togliere il prodotto
dalla cella qualche minuto prima.

LA MOLLICA DEL PRODOTTO È TROPPO COMPATTA E TENDE A SBRICIOLARSI

Questo difetto potrebbe avere varie cause.

Un’attività amilasica della farina troppo bassa.

L’impasto fermenta lentamente, le forme non sviluppano bene il volume. Il prodotto


finito ha la mollica secca, compatta.

RIMEDI

Aggiungere più malto nell’impasto, aumentare la temperatura e il tempo di


fermentazione dell’impasto e della lievitazione finale.

La consistenza dell’impasto è troppo asciutta e la lievitazione finale delle forme


è insufficiente.

In questo caso la colorazione della crosta è più rossa del dovuto, la forma è
compatta ed è meno sviluppata, possono presentarsi anche degli strappi laterali.

RIMEDI

Aumentare la quantità d’acqua nell’impasto e aumentare la lievitazione finale.

L’impasto non è maturo o manca acidità nell’impasto.

RIMEDI

Condurre l’impasto utilizzando il metodo indiretto oppure inserire del lievito


madre oppure della pasta di riporto, aumentare la puntata.

IL VOLUME È PIÙ STRETTO, LA CROSTA È RUVIDA ED È OPACA, CI SONO STRAPPI


SUPERFICIALI DELLA FORMA

Le cause potrebbero essere molteplici.

Mancanza di vapore nel forno.

Molti prodotti da forno necessitano della presenza di vapore all’inizio della


cottura. Se manca il vapore il prodotto rimane meno sviluppato, più compatto, più
pesante e più umido, ha una crosta più spessa e più opaca, di una colorazione
diversa, spesso le forme presentano degli strappi laterali con fuoriuscita della
mollica.
RIMEDI

Aumentare il vapore nella camera di cottura.

L’umidità nella cella di lievitazione è troppo bassa.

Le forme sono incrostate. Il prodotto finito è pesante, il suo volume non è


sviluppato, ha una crosta troppo spessa, opaca e ruvida e una mollica umida.
Possono esserci degli strappi sulla crosta e la fuoriuscita della mollica.

RIMEDI

Aumentare l’umidità nella cella di lievitazione, dare più vapore nella camera di
cottura.

L’etichetta nutrizionale

“Siamo quello che mangiamo” dice un vecchio detto. Ma conosciamo davvero le basi
della sana nutrizione? Per scegliere al meglio i cibi delle nostra dieta è
necessario attenerci ai principi fondamentali di una corretta ed equilibrata
alimentazione.

Il materiale di questo capitolo è in parte estratto dalle linee guida del Ministero
della Salute, dalle linee guida dello Sportello Europa presse le Camere di
commercio piemontesi e italiane, dalle leggi e regolamenti UE e le normative del
settore.

LA PIRAMIDE ALIMENTARE

I principi di una sana e corretta alimentazione sono rappresentati dalla cosiddetta


piramide alimentare, che divide gli alimenti nei seguenti gruppi:

frutta e verdura;

patate, cereali e derivati;

latte e derivati;

carni, pesci, uova e legumi;

grassi di condimento e zuccheri aggiunti;

snack salati, dolci e bibite:

Ogni alimento di ciascun gruppo fornisce alcuni nutrienti, ma non tutti, per cui è
necessario comporre la dieta utilizzando più alimenti.
Nessun gruppo è più importante di un altro. Solo l’ultimo (snack, dolci ecc.) può
essere considerato superfluo.

È molto importante variare spesso i cibi e mantenere uno stile di vita attivo (non
sedentario). Nessun alimento (salvo intolleranze e allergie) va eliminato dalla
dieta ma consumato con moderazione all’interno di un regime equilibrato e variato
al fine di soddisfare il bilancio energetico e nutrizionale.

Il cibo ci fornisce l’energia necessaria per il nostro metabolismo e per tutte le


nostre attività. I nutrienti di parte edile di ciascun prodotto (proteine, grassi,
carboidrati...) partecipano nei processi ossidativi dell’organismo umano, deponendo
l’energia, che viene misurata in kcal.1

Il bilancio energetico della dieta giornaliera varia in base all’età della persona,
dal sesso, dall’attività che svolge, dalla costituzione e dagli altri fattori.

I consumi di riferimento di elementi energetici e di determinati elementi nutritivi


diversi dalle vitamine e dai sali minerali per un maschio adulto sono stati
calcolati di 2.000 kcal/8.400 kJ (Reg.UE1169/2011, allegato XIII) e sono così
distribuiti:

Energia 8.400 kJ = 2.000 kcal

Grassi totali 70 g

Acidi grassi saturi 20 g

Carboidrati 260 g

Zuccheri 90 g

Proteine 50 g

Sale 6 g

I CARBOIDRATI (GLUCIDI)

Sono le sostanze chimiche composte da carbonio, idrogeno e ossigeno. Sono molto


importanti nella dieta perché forniscono l’energia, ma svolgono anche l’azione
plastica perché entrano nella costituzione di strutture essenziali per gli
organismi viventi. I carboidrati e loro metaboliti partecipano nella sintesi degli
aminoacidi e degli acidi nucleici, delle glicoproteine, dei coenzimi e degli altri
elementi. In base alla loro struttura i glucidi possono essere suddivisi in:

semplici (monosaccaridi, disaccaridi e oligosaccaridi): zuccheri;

complessi (polisaccaridi): amido, cellulosa, pentosani.

1 1 KCAL È la quantità di energia necessaria per innalzare di 1 °C la temperatura


di 1 kg di acqua distillata posta a livello del mare ed è usata per indicare
l’apporto energetico medio di un alimento in combinazione con l’unità di massa
espressa in grammi.
Fonti in natura di zuccheri semplici come glucosio e fruttosio sono soprattutto
frutta e miele, e fonte di saccarosio sono la canna da zucchero e la barbabietola
da zucchero, mentre i carboidrati complessi, come amido e destrine, si trovano
soprattutto nei cereali, nei legumi e nei tuberi. L’altro polisaccaride complesso
di origine animale, come il glicogeno, si trova nella carne e nei pesci.
L’oligosaccaride inulina si trova nel topinambur, nella cipolla e nella cicoria,
mentre oligosaccaridi mannosani sono prevalentemente nei legumi. La cellulosa è
contenuta nella parte periferica dei vegetali, nei cereali integrali, legumi,
frutta. Invece le fonti di fibre solubili (come pentosani e pectine) sono
soprattutto frutta e leguminose, ma anche cereali (per lo più avena, segale e grano
saraceno).

I carboidrati complessi non assimilabili o parzialmente assimilabili (per esempio


la cellulosa, l’emicellulosa e la pectina) sono le più importanti componenti della
fibra alimentare, elemento fondamentale di ogni dieta equilibrata. Le fibre non
devono mancare nel nostro cibo, ma allo stesso tempo la nostra dieta non deve
prevedere il consumo soltanto dei prodotti integrali o ricchi di fibra.

La possibilità dell’organismo umano di depositare i carboidrati è limitata, per


questo motivo devono essere introdotti con la dieta. Il metabolismo dei carboidrati
è collegato anche con il metabolismo dei grassi. Nelle condizioni in cui
l’organismo consuma molta energia (più di quella prodotta dagli alimenti) e mancano
i carboidrati, l’organismo è capace di sintetizzarli dai grassi. Però in caso
contrario, quando l’attività fisica è ridotta e l’organismo consuma poca energia,
ma la quantità di carboidrati introdotti con alimentazione è alta, l’organismo
trasforma i carboidrati non consumati in grasso adiposo.

La FAO (Food and Agriculture Organization) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della


Sanità) raccomandano l’assunzione complessiva dei carboidrati in misura del 55-75%
dell’energia totale, ma solo il 10% di questi dagli zuccheri semplici perché questi
ultimi forniscono all’organismo soltanto l’energia e quella che non viene consumata
si trasforma in materiale adiposo. Gli alimenti contenenti carboidrati complessi,
invece, oltre a fornire energia a più lento rilascio, rispetto a quelli semplici,
apportano anche gli altri nutrienti fondamentali all’equilibrio generale della
dieta.

Fonti di carboidrati complessi sono soprattutto: pane, pasta, patate, riso ecc.
Questi alimenti non devono mancare in una dieta equilibrata.

LE PROTEINE

Le sostanze proteiche hanno un ruolo molto importante nella nutrizione dell’uomo.


Sono le fonti del rinnovo e della sintesi delle cellule: fanno parte del
protoplasma e anche del nucleo e sono tra le componenti degli ormoni e degli
enzimi. Il valore nutrizionale delle proteine determina la loro composizione in
aminoacidi (componenti delle proteine). In natura ci sono 20 aminoacidi, di cui 8
sono chiamati essenziali. Significa che il nostro organismo non è in grado di
sintetizzarli e quindi questi devono essere introdotti con la dieta. A questi
appartengono: isoleucina, leucina, lisina, metionina, fenilalanina, triptofano,
treonina e valina.
I GRASSI

Sono la parte strutturale delle cellule e dei tessuti, comprese le cellule del
sistema nervoso, e sono indispensabili per l’assimilazione nell’organismo delle
vitamine liposolubili come la vitamina A e la vitamina D. La mancanza di grassi
nella dieta può provocare una serie di disfunzioni nell’organismo umano: nel
sistema nervoso, nel sistema immunitario, nella funzione dei reni, degli occhi e
altri. Ma anche l’eccesso di grassi può avere degli effetti negativi ai danni
dell’apparato cadiovascolare.

I SALI MINERALI

Non apportano calorie, ma sono indispensabili nella dieta, perché partecipano nei
processi biochimici. Calcio, fosforo e magnesio consentono la sintesi e il
funzionamento normale dei tessuti dello scheletro. Ferro e rame regolano il
trasporto dell’ossigeno dai tessuti. Sodio e potassio aiutano nell’osmosi delle
cellule e del sangue. Il cloro serve per la formazione dei succhi gastrici. Il
cobalto fa parte della vitamina B12. Lo iodio serve per un corretto funzionamento
della tiroide. La carenza dei sali minerali nella dieta ha effetti negativi per
l’organismo umano, ma anche il loro eccesso non è raccomandato. Per esempio, troppo
sale da cucina (cloruro di sodio) ha degli effetti negativi sul funzionamento del
cuore e dei reni.

LE VITAMINE

Sono indispensabili per un corretto svolgimento delle reazioni biochimiche


nell’organismo. Le vitamine sono coenzimi e quindi servono per una buona
assimilazione dei nutrienti, per la crescita e per il rinnovo dei tessuti. Durante
la cottura del pane alcune vitamine parzialmente perdono loro attività. Non hanno
una buona termostabilità le vitamine B1, B2 e vitamina E. Quindi nel pane cotto
(soprattutto nella parte esterna) si disattivano. Invece alcune vitamine (tra cui
la PP) hanno una buona termostabilità e rimangono attive in buona parte anche nel
prodotto cotto (nella parte centrale).

L’ETICHETTA NUTRIZIONALE

Ormai gran parte dei consumatori legge l’etichetta del prodotto prima di effettuare
l’acquisto. È una buona abitudine, perché ci permette di scegliere il prodotto in
modo più consapevole, tenendo conto delle calorie e dei nutrienti ed evidenziando
tutti i possibili allergeni. Le etichette nutrizionali ci permettono di scegliere
nel momento dell’acquisto il prodotto migliore, ma anche per conservare, manipolare
e consumare gli alimenti adeguatamente, così da evitare rischi per la salute.

Va ricordato però, che non ci sono “buoni” o “cattivi” alimenti, ma è vero che ci
sono buone o cattive abitudini alimentari.

Che cos’è l’etichetta? “Qualunque marchio commerciale o di fabbrica, segno,


immagine o altra rappresentazione grafica scritto, stampato, stampigliato,
marchiato, impresso in rilievo o a impronta sull’imballaggio o sul contenitore di
un alimento o che accompagna tale imballaggio o contenitore.” (Art. 1 Reg.
1169/2011).

Attualmente insieme al Decreto Legislativo del Governo n°109 del 27/01/1992


concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti
alimentari vi è anche anche il Regolamento (UE) 1169/2011 relativo alla fornitura
di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che aggiorna le norme precedenti
sull’etichettatura degli alimenti.

Mentre il Regolamento (CE) 1924/2006 disciplina le indicazioni nutrizionali fornite


sui prodotti alimentari.

Questi regolamenti hanno come scopo di tutelare ulteriormente la salute dei


consumatori e assicurare un’informazione chiara e trasparente.

Il Reg. UE 1169/2011 ha introdotto diverse novità che riguardano la leggibilità


dell’etichetta: tutte le indicazioni devono essere stampate in modo chiaro e
leggibile in carattere pari o superiore a 1,2 millimetri. Nelle confezioni più
piccole il carattere deve essere pari o superiore a 0,9 millimetri. Il nome del
prodotto e la quantità netta devono apparire nello stesso campo visivo. Quando la
superficie della confezione è inferiore a 10 cm quadrati è sufficiente riportare le
notizie essenziali: denominazione di vendita, allergeni eventualmente presenti,
peso netto, termine minimo di conservazione (“da consumarsi preferibilmente
entro...”) o data di scadenza (“da consumarsi entro...”). L’elenco degli
ingredienti può essere indicato anche con altre modalità (per esempio negli stand
di vendita) e deve essere sempre disponibile su richiesta del consumatore.

Sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze

Cereali contenenti glutine: grano, segale, orzo, avena, farro, kamut o i loro ceppi
ibridati e prodotti derivati, tranne: a) sciroppi di glucosio a base di grano,
incluso destrosio; b) maltodestrine a base di grano.

Sciroppi di glucosio a base di orzo.

Cereali utilizzati per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol


etilico di origine agricola.

Crostacei e prodotti a base di crostacei.

Uova e prodotti a base di uova.

Pesce e prodotti a base di pesce, tranne: a) gelatina di pesce utilizzata come


supporto per preparati di vitamine o carotenoidi; b) gelatina o colla di pesce
utilizzata come chiarificante nella birra e nel vino.

Arachidi e prodotti a base di arachidi.

Soia e prodotti a base di soia, tranne: a) olio e grasso di soia raffinato; b)


tocoferoli misti naturali (E306), tocoferolo D-alfa naturale, tocoferolo acetato D-
alfa naturale, tocoferolo succinato D-alfa naturale a base di soia; c) oli vegetali
derivati da fitosteroli e fitosteroli esteri a base di soia; d) estere di stanolo
vegetale prodotto da steroli di olio vegetale a base di soia.

Latte e prodotti a base di latte: a) siero di latte utilizzato per la fabbricazione


di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola; b) lattiolo.

Frutta a guscio: mandorle, nocciole, noci, noci di acagiù, noci di pecan, noci del
Brasile, pistacchi, noci macadamia o noci del Queensland, e i loro prodotti, tranne
per la frutta a guscio utilizzata per la fabbricazione di distillati alcolici,
incluso l’alcol etilico di origine agricola.

Sedano e prodotti a base di sedano.

Senape e prodotti a base di senape.

Semi di sesamo e prodotti a base di semi di sesamo.

Anidride solforosa e solfiti in concentrazioni superiori a 10 mg/kg o 10 mg/litro


in termini di SO2 totale da calcolarsi per i prodotti così come proposti pronti al
consumo o ricostituiti conformemente alle istruzioni dei fabbricanti.

Lupini e prodotti a base di lupini.

Molluschi e prodotti a base di molluschi.

La presenza di allergeni o di loro eventuali tracce deve essere segnalata in modo


da potere essere facilmente individuata (per esempio grassetto, colore o
sottolineatura). Se l’allergene non è contenuto nella lista degli ingredienti, la
sostanza che causa allergie o intolleranze dev’essere indicata sotto con la voce
“contiene...”.

Le sostanze e i prodotti che possono causare le allergie devono essere indicati


anche sui prodotti non confezionati. Anche i ristoranti e le attività di
somministrazione di alimenti e bevande dovranno comunicare tempestivamente gli
allergeni, tramite adeguati supporti (menu, cartelli, lavagna o registri), ben
visibili alla clientela.

DICHIARAZIONE NUTRIZIONALE

Sono obbligatorie indicazioni su:

valore energetico;

grassi;

acidi grassi saturi;

carboidrati;

zuccheri;
proteine;

sale.

La dichiarazione nutrizionale può essere integrata con l’indicazione su acidi


grassi monoinsaturi, acidi grassi polinsaturi, polioli, amido, fibre.

L’indicazione del valore energetico è riferita a 100 g/100 ml dell’alimento, oppure


alla singola porzione. Il valore energetico può essere espresso come percentuale
delle assunzioni di riferimento per un adulto medio ossia circa 2.000 kcal al
giorno.

Nell’elenco degli ingredienti vengono citate tutte le sostanze impiegate nella


produzione, in ordine decrescente di peso al momento della loro utilizzazione.

Dal D.Lgs. 109/1992 (art. 5 comma 1): «Per ingrediente si intende qualsiasi
sostanza, compresi gli additivi, utilizzata nella fabbricazione o nella
preparazione di un prodotto alimentare, ancora presente nel prodotto finito, anche
se in forma modificata».

Il Reg. 1169/2911 definisce l’ingrediente come “qualunque sostanza o prodotto,


compresi gli aromi, gli additivi e gli enzimi alimentari, e qualunque costituente
di un ingrediente composto utilizzato nella fabbricazione o nella preparazione di
un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se sotto forma modificata;
i residui non sono considerati come ingredienti”.

Quindi, qualora una sostanza utilizzata nel processo produttivo risulti assente nel
prodotto finito, questa non è considerata ingrediente e, perciò, non deve essere
inserita nell’elenco degli ingredienti. Un ingrediente che si presenti nel prodotto
finito in una forma modificata per caratteristiche, composizione o altro, deve
essere menzionato con il nome con cui era identificato al momento della
preparazione dell’alimento (per esempio, se un prodotto da forno è stato preparato
con yogurt, una volta cotto lo yogurt non conterrà dei fermenti lattici vivi, ma
nell’elenco degli ingredienti esso sarà indicato con la menzione “yogurt”).

La normativa nazionale attualmente in vigore prevede delle eccezioni per gli


ingredienti utilizzati in forma concentrata o disidratata (art. 5, comma 6) e per
gli ingredienti composti (art. 5, comma 11).

Qualora in un alimento si utilizzasse, per esempio, del “latte in polvere” –


denominazione di vendita prevista dal D. Lgs. 49/2004 – e questo fosse ricostruito
al momento della sua utilizzazione nella preparazione di un prodotto composto, esso
potrebbe essere indicato nell’elenco semplicemente come “latte”, oppure “latte
intero reidratato”. Stessa cosa riguarda se viene utilizzato un ingrediente
concentrato, ricostituito nel momento della sua utilizzazione.

Dal Reg. (UE) 1169/2011 (allegato VII) “Acqua aggiunta e ingredienti volatili sono
indicati nell’elenco in funzione del loro peso nel prodotto finito. La quantità
d’acqua aggiunta come ingrediente in un alimento è determinata sottraendo dalla
quantità totale del prodotto finito la quantità totale degli altri ingredienti
utilizzati. Questa quantità può non essere presa in considerazione se, in termini
di peso, non supera il 5% del prodotto finito”.

L’acqua aggiunta durante la preparazione del prodotto è considerata ingrediente


mentre non deve essere considerata tale l’acqua di costituzione di altri
ingredienti del prodotto alimentare. Se in un prodotto dolciario da forno il tasso
di umidità fosse pari al 20%, e questo derivasse esclusivamente da ingredienti
diversi dall’acqua (latte e uova), non deve essere riportata nell’elenco degli
ingredienti l’indicazione dell’acqua.

L’acqua aggiunta, inoltre, può non essere menzionata qualora il suo peso nel
prodotto finito sia inferiore al 5% (art. 5, comma 4). La regola del 5% non si
applica agli altri ingredienti volatili diversi dall’acqua (vino ecc.).

Dal Regolamento 1169/2011, allegato VII, parte E “Designazione degli ingredienti


composti”

1 Un ingrediente composto può figurare nell’elenco degli ingredienti sotto la sua


designazione, nella misura in cui essa è prevista dalla regolamentazione o fissata
dall’uso, in rapporto al suo peso globale, e deve essere immediatamente seguita
dall’elenco dei suoi ingredienti.

2 Fatto salvo l’articolo 21, l’elenco degli ingredienti previsto per gli
ingredienti composti non è obbligatorio:

A quando la composizione dell’ingrediente composto è definita nel quadro di


disposizioni vigenti dell’Unione e nella misura in cui l’ingrediente composto
interviene per meno del 2% nel prodotto finito; tuttavia, tale disposizione non si
applica agli additivi alimentari, fatto salvo l’articolo 20, lettere da a) a d);

B per gli ingredienti composti che consistono in miscele di spezie e/o di piante
aromatiche che costituiscono meno del 2% del prodotto finito, ad eccezione degli
additivi alimentari, fatto salvo l’articolo 20, lettere da a) a d);

C quando l’ingrediente composto è un alimento per il quale l’elenco degli


ingredienti non è richiesto dalle disposizioni dell’Unione. IT L 304/54 Gazzetta
ufficiale dell’Unione europea 22/11/2011.

Esempi di prodotti contenenti ingredienti composti

TORTA PREPARATA CON CONFETTURA DI ALBICOCCHE

Menzione nell’elenco degli ingredienti della confettura di albicocche Confettura di


albicocche < 2% Confettura di albicocche > 2%

“confettura di albicocche” “confettura di albicocche: albicocche, zucchero ecc.”

PANETTONE AL CIOCCOLATO CON COPERTURA AL CIOCCOLATO AL LATTE DEL 4%

Elenco degli ingredienti Farina di frumento, uova, uva passa, burro, zucchero,
latte..., cioccolato al latte (zucchero, burro di cacao, latte magro in polvere,
pasta di cacao, emulsionante lecitina di soia)

La normativa sull’etichettatura dei prodotti alimentari considera gli additivi come


ingredienti e li classifica in base alla funzione tecnologica: coloranti,
edulcoranti, conservanti, acidificanti ecc.

Nell’elenco degli ingredienti essi “devono essere designati con il nome della loro
categoria seguito dal loro nome specifico o dal relativo numero CE. Qualora un
ingrediente appartenga a più categorie, deve essere indicata la categoria
corrispondente alla funzione principale che esso svolge nel prodotto finito” (per
esempio, si può indicare “Conservante E200 oppure Conservante acido sorbico”).

Esenzioni dall’indicazione degli ingredienti


Art. 7 del D. Lgs. 109/1992

1 Non sono considerati ingredienti:

A i costituenti di un ingrediente che, durante il procedimento di lavorazione,


siano stati temporaneamente tolti per esservi immessi successivamente in quantità
non superiore al tenore iniziale;

B gli additivi, la cui presenza nel prodotto alimentare è dovuta unicamente al


fatto che erano contenuti in uno o più ingredienti di detto prodotto, purché essi
non svolgano più alcuna funzione nel prodotto finito, secondo quanto stabilito dai
decreti ministeriali adottati ai sensi degli articoli 5, lettera g), e 22 della
legge 30 aprile 1962, n. 283;

C i coadiuvanti tecnologici; per coadiuvante tecnologico si intende una sostanza


che non viene consumata come ingrediente alimentare in sé, che è volontariamente
utilizzata nella trasformazione di materie prime, prodotti alimentari o loro
ingredienti, per rispettare un determinato obiettivo tecnologico in fase di
lavorazione o trasformazione e che può dar luogo alla presenza, non intenzionale ma
tecnicamente inevitabile, di residui di tale sostanza o di suoi derivati nel
prodotto finito, a condizione che questi residui non costituiscano un rischio per
la salute e non abbiano effetti tecnologici sul prodotto finito;

D le sostanze utilizzate, nelle dosi strettamente necessarie, come solventi o


supporti per gli additivi e per gli aromi e le sostanze il cui uso è prescritto
come rivelatore.

Queste esenzioni elencate non si applicano nel caso di allergeni alimentari


(allegato II) del Reg. 1169/2011.

DURABILITÀ DEL PRODOTTO

Distinguiamo due indicazioni che possiamo trovare sulla confezione del prodotto.

Data di scadenza: nel caso di prodotti molto deperibili, la data è preceduta dalla
dicitura “Da consumare entro il...” che rappresenta il limite oltre il quale il
prodotto non deve essere consumato.

Termine minimo di conservazione (TMC): nel caso di alimenti che possono essere
conservati più a lungo si troverà la dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro
il...” che indica che il prodotto, oltre la data riportata, può aver modificato
alcune caratteristiche organolettiche come il sapore e l’odore ma può essere
consumato senza rischi per la salute.

Conoscere la differenza tra data di scadenza e TMC può essere utile per evitare che
un prodotto venga gettato quando ancora commestibile, riducendo gli sprechi.

COME CALCOLARE I VALORI NUTRIZIONALI


L’Art. 31 del Reg. UE 1169/2011 ci permette per il calcolo dei valori energetici.

1 Il valore energetico è calcolato mediante i coefficienti di conversione elencati


nell’allegato XIV.

2 La Commissione può adottare, mediante atti delegati ai sensi dell’articolo 51, i


coefficienti di conversione di vitamine e sali minerali di cui alla parte A, punto
1, dell’allegato XIII, al fine di calcolare in modo più preciso il tenore di tali
vitamine e sali minerali negli alimenti. Detti coefficienti di conversione sono
aggiunti nell’allegato XIV.

3 Il valore energetico e le quantità di sostanze nutritive di cui all’articolo 30,


paragrafi da 1 a 5, si riferiscono all’alimento così com’è venduto.

Se del caso, tali informazioni possono riguardare l’alimento dopo la preparazione,


a condizione che le modalità di preparazione siano descritte in modo
sufficientemente particolareggiato e le informazioni riguardino l’alimento pronto
per il consumo.

4 I valori dichiarati sono valori medi stabiliti, a seconda dei casi, sulla base:

a dell’analisi dell’alimento effettuata dal fabbricante;

b del calcolo effettuato a partire dai valori medi noti o effettivi relativi agli
ingredienti utilizzati;

c del calcolo effettuato a partire da dati generalmente stabiliti e accettati.

La Commissione può adottare atti di esecuzione che definiscono norme dettagliate


per l’attuazione uniforme del presente paragrafo per quanto riguarda la precisione
dei valori dichiarati, ad esempio gli scarti tra i valori dichiarati e quelli
constatati in occasione di controlli ufficiali. Tali atti di esecuzione sono
adottati secondo la procedura d’esame di cui all’articolo 48, paragrafo 2.

Dall’allegato XIV i coefficienti di conversione per calcolo dell’energia per alcuni


nutrienti:

carboidrati (a esclusione dei polioli) 17 kJ/g = 4 kcal/g;

polioli 10 kJ/g = 2,4 kcal/g;

proteine 17 kJ/g = 4 kcal/g;

grassi 37 kJ/g = 9 kcal/g;

fibre 8 kJ/g = 2 kcal/g.

Dal punto di vista pratico per stabilire i valori medi nutrizionali possiamo
attenerci ai siti ufficialmente riconosciuti (per esempio INRAN, EFSA, USDA ecc.),
non siamo obbligati ad analizzare il prodotto (vedi Art. 31).

Facciamo un esempio pratico come possono essere calcolati i valori nutrizionali.

Prodotto “Grissini all’acqua”.

Impasto: 10 kg di farina di frumento tenero tipo 00, 5,2 l di acqua, 200 g di sale,
200 g di lievito compresso, 100 g di malto. Peso prodotto cotto: 9,91 kg.

Per effettuare questo calcolo il peso del prodotto deve essere molto preciso
(ovviamente si considera il prodotto raffreddato e non appena sfornato).

In questo tipo di prodotto la quantità di farina è superiore alla quantità del


prodotto cotto. Non è un errore, pensate che l’umidità media dei grissini è
dell’8%, mentre quella della farina è del 15%.

1 Primo passaggio

Teniamo conto soltanto delle sostanze che apportano l’energia oppure dei valori che
dobbiamo indicare sull’etichetta, acqua non consideriamo. Facciamo proporzione: se
per produrre i 9,91 kg di grissini all’acqua noi abbiamo utilizzato 10 kg di
farina, 200 g di sale, 200 g di lievito compresso, 100 g di malto, quanti
ingredienti avremo utilizzato per produrre 100 g di prodotto cotto?

Risultano rispettivamente:

X g = 10.000 × 100 / 9.910 = 100,9 g.

Non è un dato errato. Teniamo sempre da conto l’umidità media dei grissini (l’8%),
inferiore alla farina (15%).

Stessi conti facciamo anche per altri ingredienti e quindi troveremo che per fare i
100 g di grissini all’acqua, noi utilizziamo 100,9 g di farina, 2 g di sale, 2 g di
lievito compresso e 1 g di malto.

2 Secondo passaggio

Seguendo i siti ufficialmente riconosciuti (elencati sopra) oppure prendendo delle


schede nutrizionali fornite dai produttori della materia prima possiamo scomporre i
nostri ingredienti. Per esempio, il produttore della farina ci ha fornito i
seguenti dati per 100 g di prodotto “farina di frumento tenero tipo 00”: 9,4 g di
proteine, 0,87 g di lipidi, 78 g di carboidrati (di cui 1,5 g di zuccheri), 2,3 g
di fibra. Quindi in 100,9 g di farina di frumento 00 noi troviamo:

X g = 9,4 × 100,9 / 100 = 9,48.

Così rispettivamente troviamo che in 100,9 g di farina di frumento tenero tipo 00


ci sono: 9,48 g di proteine, 0,87 g di lipidi, 78,7 g di carboidrati (di cui 1,5 g
di zuccheri), 2,3 g di fibra.

Il medesimo procedimento lo seguiamo anche per gli altri ingredienti e così


possiamo trovare anche i nutrienti per 2 g di lievito compresso: proteine 0,24 g;
lipidi 0,008 g, carboidrati 0,022 g (di cui zuccheri 0,022 g), fibra 0,138 g.

E per 1 g di malto: 0,11 g di proteine, 0,02 g lipidi, 0,5 g di carboidrati (di cui
0,5 g di zuccheri).

3 Terzo passaggio

Sommiamo i nutrienti di tutti gli ingredienti. Così troviamo la somma dei


carboidrati: 79,2 g (di cui 2 g di zuccheri), 9,83 g di proteine, 0,89 g di lipidi,
2,44 g di fibra. Per il sale riportiamo quello che era inserito nella ricetta
sommandolo ai valori del cloruro di sodio, se è eventualmente contenuto negli altri
ingredienti. La percentuale degli acidi grassi la rileviamo sempre per ogni singolo
ingrediente utilizzato basandoci sui valori disponibili nei siti ufficialmente
riconosciuti oppure sulle schede tecniche dei fornitori. Dobbiamo arrotondare i
valori, seguendo questo principio: quando il valore di un nutriente è ≤ a 10,
dobbiamo lasciare un decimale dopo la virgola. Se il valore è > a 10, non dobbiamo
mettere il decimale.

Quindi ci risultano i seguenti valori: 0,9 g di grassi (acidi grassi saturi 0,1),
79 g di carboidrati (di cui 2,0 g di zuccheri), 2,4 g di fibre, 9,8 g di proteine,
2 g di sale.

4 Quarto e ultimo passaggio

Basandoci sui valori di kcal indicati dall’allegato XIV del Reg. UE 1169/2011 (pag.
149) moltiplichiamo il valore dei carboidrati e delle proteine × 4 per ottenere le
Kcal, mentre dobbiamo moltiplicare × 17 per ottenere le KJ. Il valore dei grassi va
moltiplicato × 9 per ottenere il valore in Kcal, mentre × 37 per ottenere il valore
in KJ. Il valore della fibra va moltiplicato × 2 per ottenere il valore in Kcal, e
rispettivamente × 8 per ottenere il valore in KJ. Tutti i dati vengono riportati in
tabella (vedi sotto), con la specifica che sono i valori medi riferiti per 100 g di
prodotto; seguendo lo stesso ordine: grassi, di cui acidi grassi saturi,
carboidrati, di cui zuccheri, fibre, proteine e sale.

Valori medi per 100 g di grissini all’acqua

energia/energy value (kJ/kcal) 1.563/368

grassi/total fat (g) 0,9

di cui:

acidi grassi saturi/fatty acids, total saturated (g) 0,1

carboidrati/carbohydrate (g) 79

di cui:

zuccheri/sugars (g) 2,0

fibre/fiber total (g) 2,5

proteine/protein (g) 9,8

sale/salt (g) 2

Le

ricette

Dalla teoria alla pratica.

Nelle prossime pagine potrete trovare una serie di ricette riproducibili anche a
casa.
Dalle baghette ai filoni, dai pani con lievito madre a quelli con biga e poolish.

E poi, ancora, pane ai semi di chia, al miele, al grano saraceno, ai fiocchi


d’avena, alla segale...

Una quarantina di preparazioni naturali per mettersi alla prova e realizzare pani
di alta qualità.

BAGUETTE CON LIEVITO MADRE LIQUIDO CON METODO AUTOLISI

INGREDIENTI PER LE BAGUETTE

2.500 g di farina W 260 P/L 0,55

1.500 g di acqua

15 g di malto in polvere

15 g di lievito compresso

650 g di lievito madre liquido

60 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

7 minuti in 1a velocità 3 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

8 minuti in 1a velocità 3 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Effettuate un’autolisi di un’ora con farina, 1.375 g di acqua (55%) e malto.


Miscelate 4 minuti con impastatrice a spirale o 5 minuti con tuffante.

Dopo il riposo dell’autolisi, continuate l’impasto aggiungendo il lievito


compresso, il lievito madre liquido, l’acqua rimasta e successivamente il sale.

Lasciate puntare per un’ora e mezza, poi spezzate del peso di 330 g (step 1).

Formate a filone corto senza stringere molto (step 2) e dopo circa 10-15 minuti
allungate a 60 cm (step 3 e 4).
Lasciate lievitare per un’ora e mezza circa a una temperatura ambiente di 24 °C
nelle tele disposte a ventaglio e coperte.

Ponete su telai (step 5). Praticate 5 tagli sottopelle (step 6).

Infornate con vapore a 240 °C. Aprite il tiraggio nei 5 minuti finali della
cottura.

PANE CON LIEVITO MADRE A UN IMPASTO CON SEMOLA DI GRANO DURO

INGREDIENTI

2.500 g di semola di grano duro

625 g di lievito madre mantenuto in acqua dopo il 2° rinfresco per circa 16 ore a
16-18 °C

1.750 g di acqua (70% sulla semola aggiunta) 57,5 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

2 minuti in 1aa velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

2 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura (45 minuti per pezzi da 500 g)

Iniziate l’impasto con semola di grano duro, lievito madre, il 55% di acqua e, a
metà impasto, aggiungete il sale e lentamente l’acqua rimasta.

Lasciate riposare l’impasto per circa un’ora e mezza a 27-28 °C, con pezzature
possibilmente superiori a 500 g arrotondate (step 1) e, dopo un riposo di 20
minuti, formate a ciambella (step 2) e posate su tavole infarinate (step 3).

Lasciate lievitare per circa 2 ore e mezza a una temperatura di 28 °C.

Capovolgete, incidete (step 4) e infornate con vapore a 220-230 °C. Dopo qualche
minuto abbassate la temperatura di 10 °C. Terminate la cottura con tiraggio aperto.

Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base (farina
e acqua al 55%) per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo l’autolisi, di circa 30 minuti,
riprendete l’impastamento in 2a velocità aggiungendo gli altri ingredienti e
l’acqua rimasta. Questo metodo è particolarmente raccomandato per la panificazione
con lievito madre. I benefici sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta
(che diventa liscia più velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una
formatura più agevole, un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore
sofficità della mollica.

PANE AL FARRO E SEGALE

INGREDIENTI PER LA BIGA

1.500 g di farina W 320 P/L 55

750 g di acqua (50%)

15 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: in 1a velocità 4 minuti

impastatrice tuffante: in 1a velocità 5 minuti

impastatrice con forcella: in 1a velocità 6 minuti

INGREDIENTI PER IL RINFRESCO

biga

1.000 g di farina di farro

400 g di farina di segale

990 g di acqua (60% sul totale della farina)

42,5 g di lievito compresso (3% sulla farina aggiunta)

62,5 g di sale (2,2% sul totale della farina)

TEMPI DI IMPASTO

Impastatrice a spirale:

6 minuti in 1a velocità 4 minuti in 2a velocità

Impastatrice tuffante:

8 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2 velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO

25-26 °C

TEMPO DI COTTURA

35-40 minuti circa


Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 18-22 ore a una
temperatura di 18 °C.

Iniziate l’impasto con la biga, le farine, l’acqua e il lievito. A metà impasto


aggiungete il sale. Lasciate puntare l’impasto 45-50 minuti.

Prelevate una parte di impasto, abbassatela a 2 mm e passatela al freddo.


Ritagliate con la forma desiderata e posate su tavole.

Spezzate il resto dell’impasto del peso desiderato (si consiglia una pezzatura di
350-400 g) arrotondate i pezzi, deponeteli sulle forme ritagliate e lasciateli
lievitare per circa 50 minuti a una temperatura di 27-28 °C.

Capovolgete i pezzi, spolverateli con farina di segale e infornate con vapore a una
temperatura di 220-230 °C.

Dopo 10 minuti abbassate la temperatura di 10 °C. Aprite il tiraggio nei 10 minuti


finali della cottura.

FILONE CAMPAGNOLO

INGREDIENTI PER IL LIEVITO

500 g di farina W 300

340 g di acqua

2,5 g di lievito compresso

5 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

lievito del giorno precedente

1.625 g di farina W 300

375 g di farina di segale

50 g di lievito compresso

1.500 g di acqua
125 g di yogurt naturale

42,5 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

6 minuti in 1a velocità 4 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

7 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate il lievito, lasciatelo riposare per circa 2 ore a temperatura ambiente


poi passatelo in frigorifero a 5 °C per 18 ore circa.

Iniziate l’impasto con il lievito del giorno precedente, le farine, il lievito


compresso e l’80% di acqua.

A metà impasto aggiungete il sale, lo yogurt e, successivamente, lentamente l’acqua


mancante. Lasciate puntare l’impasto un’ora a temperatura ambiente.

Spezzate del peso desiderato, arrotondate e dopo qualche minuto allungate a filone.
Ponete su tavole infarinate con farina di segale e chiusura rivolta verso l’alto.

Dopo circa 10 minuti, capovolgete e posate sui telai d’infornamento e lasciate


lievitare 40-45 minuti.

Con una lama incidete tre volte a croce (come da foto, a destra. In alternativa,
potete realizzare una decorazione, come il filone a sinistra della foto). Infornate
con vapore a una temperatura di 230 °C e, dopo 10 minuti, diminuite la temperatura
di 10 °C. Terminate la cottura con valvola aperta.

PANE CON LIEVITO MADRE A BASSO CONTENUTO DI SODIO

INGREDIENTI PER IL 1° IMPASTO

100 g di lievito madre pronto dopo 2 rinfreschi

600 g di farina W 320 P/L 0,50

350 g di acqua

2,5 g di sale
TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO FINALE

1° impasto

2.000 g di farina 1

1.000 g di farina integrale

2.000 g di acqua

15 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27-28 °C

TEMPO DI COTTURA

circa 45 minuti

Con gli ingredienti iniziate il 1° impasto.

Lasciate lievitare a una temperatura di 18 °C per 12-14 ore. Se la lievitazione è


inferiore alle 4 ore a 27-28 °C, non aggiungete il sale.

Iniziate l’impasto finale con il 1° impasto, le farine e il 55% di acqua. A metà


impasto aggiungete il sale e l’acqua rimasta.

Lasciate riposare l’impasto per circa 1 ora e mezza a 27-28 °C.

Spezzate e formate delle pagnottelle da 200 grammi. Dopo qualche minuto avvolgetele
una seconda volta, accostate 3 pagnottelle e ponetele su tavole infarinate.

Lasciate lievitare per circa 2 ore a una temperatura di 27-28 °C.

Capovolgete e infornate con vapore a 220-230 °C e dopo qualche minuto abbassate la


temperatura di 10 °C. Terminate la cottura con tiraggio aperto. Il tempo di cottura
è di circa 45 minuti.
Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base:
lievito madre, farine e acqua al 55%, per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo
l’autolisi, di circa 30 minuti, riprendete l’impastamento in 2a velocità
aggiungendo gli altri ingredienti e l’acqua rimasta. Questo metodo è
particolarmente raccomandato per la panificazione con lievito madre. I benefici
sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta (che diventa liscia più
velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una formatura più agevole, un
volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore sofficità della mollica.

PANE PREALPINO

INGREDIENTI PER IL POOLISH

15 g di lievito compresso

1.500 g di acqua

100 g di farina di segale

1.350 g di farina W 300 P/L 0,55

50 g di farina di monococco

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

poolish

3.200 g di farina W 280 P/L 0,55

300 g di farina di segale integrale

2.000 g di acqua

25 g di malto in polvere

20 g di lievito compresso

100 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 10 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 12 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA
30-35 minuti per pezzi da 300 g

Per il poolish, sciogliete il lievito nell’acqua, poi aggiungete le farine e


impastate (questa operazione può essere effettuata anche a mano). La temperatura di
base è 66 °C, il tempo di lievitazione è di 3 ore a una temperatura di 25 °C.
Quando inizierà a cedere al centro potrete utilizzarlo.

Iniziate l’impasto con poolish, farine, malto, lievito e l’80% di acqua. A metà
impasto aggiungete l’acqua mancante e il sale.

Lasciate puntare l’impasto per circa un’ora e mezza, spezzate del peso di 300 g o
del peso desiderato e arrotondate.

Dopo circa 20-25 minuti stampate con un matterello sottile (step 1 e 2)

Capovolgete e posate nei cestini (step 3).

Ponete a lievitare per circa un’ora e 10 minuti a una temperatura di 27-28 °C (step
4).

Capovolgete (step 5) e infornate con leggero vapore a una temperatura di 230 °C e


dopo 10 minuti abbassate la temperatura a 210 °C.

Aprite il tiraggio nei 10 minuti finali della cottura.

PANE CON FARINA DI MONOCOCCO

INGREDIENTI PER LA BIGA

1.500 g di farina di monococco

750 g di acqua (50%)

15 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 5 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 6 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER IL RINFRESCO

biga

1.500 g di farina di monococco


1,050 l di acqua (60%)

45 g di lievito compresso (3% sulla farina aggiunta)

60 g di sale (2% sul totale della farina)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

6 minuti in 1a velocità 4 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

7 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25-26 °C

TEMPO DI COTTURA

35 minuti per pezzi da 300 g

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 12-14 ore a 17-20 °C.

Impastate poi la biga e gli altri ingredienti, tranne il sale che verrà aggiunto a
metà impasto (step 1).

Lasciate puntare l’impasto 45-50 minuti.

Spezzate del peso desiderato (pezzatura consigliata 300 g), formate prima a
pagnotta e dopo qualche minuto a filone (step 2) e successivamente schiacciate il
filone formandone uno lungo e uno più corto (step 3 e 4).

Ponete su teglie o telai e a metà lievitazione infarinate con farina di monococco,


quindi incidete (step 5 e 6).

Terminate la lievitazione (lievitazione totale 50 minuti) in cella a 27 °C.

Infornate con vapore a 220-230 °C e finite la cottura con tiraggio aperto.

PANE DI CAMPAGNA CON LIEVITO MADRE LIQUIDO

INGREDIENTI

1.200 g di farina W 260 P/L 0,55

100 g di farina di Tritordeum

325 g di lievito madre liquido

7,5 g di lievito compresso


725 g di acqua

27,5 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Il pane di campagna si adatta a ogni piatto con o senza sughi (carni, selvaggina,
pollame, pesce, salumi) e con formaggi di ogni regione. Può anche essere consumato
a fette tostate per la prima colazione.

Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base (farina
e acqua al 55%) per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo l’autolisi, di circa 30 minuti,
riprendete l’impastamento in 2a velocità aggiungendo gli altri ingredienti e
l’acqua rimasta. Questo metodo è particolarmente raccomandato per la panificazione
con lievito madre. I benefici sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta
(che diventa liscia più velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una
formatura più agevole, un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore
sofficità della mollica.

Iniziate l’impasto con le farine, il lievito madre liquido, il lievito compresso e


80% di acqua; a metà impasto aggiungete l’acqua rimasta e il sale.

Lasciate puntare l’impasto per circa un’ora e 30 minuti.

Spezzate e formate a pagnottella, lasciate riposare per 20 minuti e date la forma


definitiva a filone.

Ponete su tavole infarinate con chiusura rivolta verso l’alto e lasciate lievitare
per circa un’ora e mezza in cella a 27 °C.

Capovolgete, incidete in senso diagonale con una lama tenuta verticalmente e


infornate con vapore 220 °C. Terminate la cottura con tiraggio aperto.

PANE MORBIDO D’AUTUNNO

INGREDIENTI
1.650 g di farina W 300 P/L 0,55

150 g di farina di teff

150 g di farina di castagne

65 g di lievito compresso

500 g di acqua

300 g di latte

150 g di burro

500 g di pasta di riporto

2 uova

40 g di sale

120 g di granella di nocciole

120 g di granella di noci

200 g di albicocche disidratate a piccoli cubetti

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

25 minuti se a grappolo o in base alla pezzatura

Questo pane è molto gradito a colazione perché permette di fare il pieno di energia
prima di iniziare la giornata. Accompagna anche a meraviglia le selvaggine in salsa
e il cinghiale in salsa ai fichi.

Iniziate l’impasto con farina, farina di teff, farina di castagne, lievito, acqua,
latte e burro. A metà impasto aggiungete la pasta di riporto, le uova e il sale. A
impasto ultimato incorporate le noci, le nocciole e i cubetti di albicocche.

Impastate ancora per qualche minuto lentamente. Lasciate riposare l’impasto per
circa 30 minuti. Spezzate dei pezzi da 50 g e arrotondateli stringendo molto bene.

Poneteli su teglia a forma di grappolo o a piacere. Infarinate con un setaccio e


passate in cella a lievitare a una temperatura di 28 °C per circa un’ora.

Infornate con vapore a 220 °C.

PANE CON LIEVITO MADRE CON METODO POOLISH

INGREDIENTI PER IL POOLISH

50 g di lievito madre pronto dopo 2 rinfreschi

300 g di acqua

300 g di farina W 320 P/L 0,55

1,25 g di sale

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

poolish

1.500 g di farina 1 W 280 P/L 0,55

1.025 g di acqua (70% sul totale della farina)

35 g di sale (2% sul totale della farina)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura (40-45 minuti per pezzi da 500 g)

Per il poolish, sciogliete il lievito madre nell’acqua, aggiungete la farina e il


sale e miscelate con una planetaria. Lasciate lievitare a una temperatura di 16-18
°C per 12-14 ore circa.

Iniziate l’impasto con il poolish, la farina e il 55% di acqua. A metà impasto


aggiungete il sale e l’acqua rimasta.

Lasciate riposare l’impasto per circa un’ora e mezza a 27-28 °C.

Formate a pagnotta (con pezzature possibilmente non inferiori a 500 g) e lasciate


riposare per circa un’ora.

Stampate, capovolgete su tavole infarinate e lasciare lievitare per circa 2 ore a


27-28 °C.

Capovolgete e infornate con vapore a 220-230 °C e dopo qualche minuto abbassate la


temperatura di 10 °C.

Terminate la cottura con tiraggio aperto.

Volendo adottare il sistema con autolisi, impastate gli ingredienti di base (farina
e acqua al 55%) per 5-6 minuti in 1a velocità. Dopo l’autolisi, di minimo 30
minuti, riprendete l’impastamento in 2a velocità, aggiungete il poolish, il sale e
l’acqua rimasta. Questo metodo è particolarmente raccomandato per la panificazione
con lievito naturale. I benefici sono molti: aumento dell’estensibilità della pasta
(che diventa liscia più velocemente con diminuzione dei tempi di impasto), una
formatura più agevole, un volume superiore, una migliore alveolatura e una maggiore
sofficità della mollica.

PANE CON BIGA A LIEVITO MISTO

INGREDIENTI PER LA BIGA

120 g di lievito madre

2.000 g di farina W 380 P/L 0,55

900 g di acqua

20 g di lievito compresso

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

biga

200 g di farina W 260 P/L 0,55

600 g di acqua

20 g di malto in polvere

48 g di sale

5 g di lievito compresso

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità


TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Per la biga, sciogliete nell’acqua il lievito madre e il lievito compresso,


aggiungete la farina e miscelate ancora per 4 minuti.

Lasciate riposare per 12-15 ore a 18 °C.

Iniziate l’impasto con biga, farina, malto, lievito compresso e una parte di acqua.
A metà impasto aggiungete il sale e lentamente l’acqua rimasta.

Lasciate riposare l’impasto in un contenitore leggermente unto di olio per 45


minuti circa, spezzate del peso desiderato, formate a piacere e lasciate lievitare
per altri 50-60 minuti.

Infornate con vapore a 230-240 °C e terminate la cottura con tiraggio aperto.

PANE ROTONDO RUSTICO

INGREDIENTI PER L’IMPASTO A CALDO

500 g di acqua bollente

250 g di farina di segale bianca

50 g di malto disattivato

INGREDIENTI PER IL PANE

impasto a caldo

1.200 g di farina di segale bianca

1.350 g di farina W 380 P/L 0,55

25 g di lievito compresso

1.500 g di lievito madre di segale

1.150 g di acqua

15 g di malto in polvere

60 g di sale

amido (di mais, di riso ecc.)

TEMPI DI IMPASTO
impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27 °C

TEMPO DI COTTURA

45-50 minuti per pezzi da 800 g

Per l’impasto a caldo, impastate e lasciate coperto a temperatura ambiente. Il


tempo può variare dalle 3 alle 18 ore.

Iniziate a lavorare l’impasto a caldo con farina di segale, farina di grano tenero,
malto. lievito compresso, lievito madre di segale e un litro di acqua. A metà
impasto aggiungete l’acqua mancante e il sale.

Lasciate fermentare per circa 2 ore, spezzate da 800 g e arrotondate leggermente


con l’utilizzo di amido e ponete su tavole di legno sempre spolverate con amido.

Ponete in cella a lievitare per circa un’ora con temperatura di 30 °C e il 75-80%


di umidità.

Capovolgete e infornate con vapore a una temperatura di 230 °C. Dopo 4 minuti
aprite il tiraggio e tenetelo aperto per 5 minuti. Chiudetelo e dopo circa 5 minuti
date ancora vapore. E dopo circa 10 minuti date ancora vapore.

Questa operazione serve per avere la crosta più sottile. Aprite il tiraggio negli
ultimi minuti di cottura.

PANE A LIEVITAZIONE NATURALE CON DUE LIEVITI DIVERSI

INGREDIENTI

1.400 g di farina W 400 P/L 0,55

600 g di farina di segale bianca

1.100 g di acqua

360 g di lievito madre liquido di frumento

280 g di lievito madre liquido di segale

300 g di uva passa

80 g di burro
20 g di malto disattivato

10 g di malto in polvere

36 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27 °C

TEMPO DI COTTURA

40-45 minuti

Iniziate l’impasto con le farine, un litro di acqua, i due lieviti madre, il malto
disattivato, il malto in polvere e, a metà impasto aggiungete l’acqua mancante, il
sale e, successivamente il burro.

Terminato l’impasto incorporate l’uva passa. Lasciate riposare l’impasto per circa
2 ore e 30 minuti in cella di lievitazione con temperatura di 28-30 °C.

Spezzate indicativamente da 500 g, arrotondate e ponete su tavole infarinate con


chiusura rivolta verso l’alto.

Ponete a lievitare per circa 2 ore a una temperatura di circa 30 °C.

Capovolgete, incidete a piacimento e infornate a una temperatura di 220 °C circa


con abbondante vapore.

Dopo qualche minuto abbassate la temperatura a 200 °C. Terminate la cottura con
tiraggio aperto.

PANE A LIEVITAZIONE SPONTANEA CON METODO AUTOLISI

INGREDIENTI

3.000 g di farina W 280 P/L

2 l di acqua (67%)

60 g di sale (2%)

Oppure
2.700 g di farina W 280 P/L 0,55

300 g di farina di segale

2 l di acqua (67%)

60 g di sale (2%/)

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Miscelate per 5-6 minuti in 1a velocità la farina e il 55% di acqua (1,650 l).

Dopo un riposo minimo di 30 minuti, riprendete l’impasto, aggiungete il sale e


l’acqua rimasta e impastate per 6 minuti in 2a velocità.

Lasciate lievitare per circa 20 ore a una temperatura di 25-26 °C, date una piega
in quattro e dopo un riposo di 30 minuti piegate ancora in quattro.

Lasciate puntare per circa 40-50 minuti. Spezzate del peso desiderato, formate a
filone, posate su tavole infarinate con chiusura rivolta verso l’alto.

Lasciate lievitare per circa un’ora a una temperatura di 27-28 °C. Capovolgete,
tagliate in senso longitudinale o con due tagli e infornate con vapore a una
temperatura di 220-230 °C.

Un consiglio: è facoltativa l’aggiunta di olio extravergine di oliva (90 g), da


incorporare con il sale e prima di aggiungere l’acqua mancante.

PANE ANTICHI SAPORI

INGREDIENTI PER LA MISCELA

1.250 g di acqua bollente a 95 °C

200 g di farina di farro grezzo

200 g di fiocchi d’avena

200 g di fiocchi di soia

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

1.000 g di farina W 320

500 g di farina integrale

500 g di farina di segale


500 g di acqua

500 g di latte

1.850 g della miscela sbollentata

75 g di lievito compresso

300 g di pasta di riporto

100 g di burro

70 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 10 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 12 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Per la miscela, versate l’acqua bollente sulla farina e sui fiocchi, miscelate
senza formare grumi. Lasciate raffreddare completamente in frigorifero a 5 °C.

Iniziate l’impasto con le farine, l’acqua, il latte, la miscela, il lievito e la


pasta di riporto. Dopo 4 minuti aggiungete il burro e successivamente il sale.

Pesate dei pezzi da 500 g e arrotondateli leggermente. Successivamente date una


forma ovale e appuntita ai lati.

Formate delle S, posatele su tavole e ricoprite. Lasciate lievitare 10-15 minuti a


temperatura ambiente, poi 10-20 minuti in frigorifero a 5 °C.

Trasferite su un tappeto da infornamento, spolverate con farina e incidete una S


con una lama affilata.

Cuocete in forno mediamente caldo a 200 °C con vapore. Aprite la valvola dopo 10
minuti e finite di cuocere dorato.

PANE AI FIOCCHI D’ORZO E SEMI DI CHIA

INGREDIENTI PER IL POOLISH


1.200 g di farina W 300 P/L 0,55

1.200 g di acqua

1,2 g di lievito compresso

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

poolish

2.200 g di farina 1

200 g di farina di monococco

700 g di acqua

50 g di lievito compresso

10 g di malto in polvere

200 g di semi di chia

700 g di fiocchi d’orzo integrale

70 g di olio extravergine di oliva

70 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Il giorno precedente ammorbidite i semi di chia in 600 g di acqua e mettete a bagno


i fiocchi d’orzo integrale in 800 g di acqua a 90 °C.

Preparate il poolish. Lasciate in fermentazione 16-18 ore a una temperatura di 16


°C.

Iniziate l’impasto con poolish, le farine, acqua, lievito e malto. A metà impasto
aggiungete la miscela di semi di chia, i fiocchi d’orzo sbollentati, l’olio e
successivamente il sale.

Lasciare puntare l’impasto 45-50 minuti, poi spezzate da 400 g o del peso
desiderato.
Arrotondate i pezzi (step 1), e dopo circa 20 minuti, allungateli a filone senza
stringere molto (step 2).

Dopo un breve riposo, premete i filoni con una bacchetta di metallo una volta nel
senso della lunghezza (step 3) e cinque volte nel senso della larghezza, in base
alla lunghezza del filone (step 4).

Posate su telai di infornamento o su teglie e mettete a lievitare per 50 minuti a


una temperatura di 27 °C.

Spolverate con farina di frumento (step 5) e infornate con leggero vapore a 220 °C.
Terminate la cottura con tiraggio aperto.

PANE AL MIELE

INGREDIENTI PER LA BIGA

200 g di farina W 320 P/L 55-60

90 g di acqua (45%)

2 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

Impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità

Impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità

Impastatrice a forcella:

5 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

biga

200 g di farina di quinoa

900 g di farina W 280 P/L 0,55

600 g di acqua

50 g di lievito compresso
25 g di sale

130 g di miele

130 g di zucchero

70 g di burro

250 g di granella di nocciole tostate

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 18-22 ore a una
temperatura di 17-20 °C.

Iniziate l’impasto con la biga, le farine, l’acqua e il lievito. A metà impasto


aggiungete il sale e successivamente il miele. Quando sarà stato assorbito, unite
lo zucchero, il burro morbido e verso la fine la granella di nocciole.

Lasciate riposare l’impasto per 35-40 minuti, spezzate del peso desiderato e
formate a filone corto.

Dopo qualche minuto allungate i filoni (step 1), intrecciateli a due (step 2 e 3),
lucidateli con uovo (step 4) e passateli nella granella di nocciole (step 5).

Posate su teglie e ponete a lievitare per circa un’ora e 10 minuti in cella a 28


°C.

Infornate con vapore a una temperatura di 210 °C, aprendo il tiraggio nei 5 minuti
finali di cottura.

PANE CON GRANO SARACENO

INGREDIENTI
1.800 g di farina W 320 P/L 0,55

300 g di farina di grano saraceno

500 g di biga a giusta lievitazione

70 g di lievito compresso

1.300 g di acqua

50 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

3 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con le farine, la biga, il lievito e il 70% di acqua. A metà


impasto aggiungete l’acqua mancante e il sale.

Lasciate puntare l’impasto per circa 30-40 minuti, spezzate del peso desiderato e
avvolgete posando i pezzi su tavole con chiusura rivolta verso il basso.

Dopo circa 20 minuti tagliate partendo dalla metà, girate una metà nel senso
opposto, posate su teglie o telai e mettete a lievitare in cella con una
temperatura di 27-28 °C per circa 25-30 minuti.

Infornate con vapore a 220 °C. Terminate la cottura a tiraggio aperto per i pezzi
non di piccolo formato.

Un consiglio: questo pane è ottimo con il caviale.

PANE CON LIEVITO CHEF

INGREDIENTI PER IL 1° IMPASTO

50 g di pasta fermentata di 3 o 4 ore

780 g di farina W 300 P/L 0,55


50 g di farina di segale

500 g di acqua

15 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 5 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 6 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 7 minuti in 1a velocità

IMPASTO FINALE

1.650 g di farina W 260 P/L 0,55

1.150 g di acqua

15 g di malto in polvere

1° impasto

33 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

6 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura (30-35 minuti per pezzi da 300 g)

Preparate il 1° impasto con gli ingredienti. Lasciate lievitare 16-18 ore da una
temperatura finale impasto 19-20 °C.

Iniziate l’impasto con farina, 80% di acqua e malto. A metà impasto aggiungete il
1° impasto, il sale e lentamente la rimanente acqua.

Lasciate puntare l’impasto per circa 3 ore.

Spezzate (si consigliano pezzature da 300 g), lasciate riposare per circa 15-20
minuti e date la forma definitiva a filone attorcigliato.

Ponete su tavole infarinate, lasciate lievitare per circa 2 ore e 30 a 27 °C,


capovolgete la parte infarinata verso l’alto. Infornate con vapore a 230 °C, dopo
circa 10 minuti riducete la temperatura di 20 °C.
PANE A IMPASTO DIRETTO LUNGO

INGREDIENTI

2.000 g di farina W 280 P/L 0,55

1.400 g di acqua (70%)

4 g di lievito compresso (0,2%)

45 g di sale (2,2%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 4 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

24 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con la farina, il 50% di acqua e il lievito. A metà impasto


aggiungete il sale e lentamente l’acqua rimasta.

Lasciate lievitare l’impasto per circa 16 ore a una temperatura di 16 °C.

Spezzate del peso desiderato e arrotondate senza stringere molto. Dopo circa 10
minuti allungate a filone e ponete su tavole infarinate (facoltativo) con chiusura
rivolta verso il basso.

Lasciate lievitare in cella a 27-28 °C per circa 50 minuti poi capovolgete.

Infornate a una temperatura di 230 °C con vapore. Terminate la cottura con valvola
aperta.

TERRINA DI SEGALE

INGREDIENTI PER LA BIGA

1.800 g di farina di segale bianca


1.200 g di acqua

30 g di lievito compresso

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 5 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 6 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

1.800 g di farina di segale bianca

900 g di farina 1

1.800 g di acqua

70 g di lievito compresso

biga

100 g di sale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 3 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

6 minuti in 1a velocità 3 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 6-8 ore a una temperatura
di 18 °C.

Iniziate l’impasto con farina di segale, farina 1, acqua, lievito e a metà impasto
aggiungete la biga e il sale.

Lasciate riposare l’impasto per 30-35 minuti. Suddividete del peso desiderato,
arrotondate a pagnotta e ponete su tavole infarinate con chiusura rivolta verso il
basso.

Dopo qualche minuto capovolgete e incidete leggermente con stampo rotondo.

Lasciate lievitare per circa 40 minuti in cella a una temperatura di 27 °C.


Infornate con vapore a 220 °C circa aprendo il tiraggio nei 10 minuti finali della
cottura.

Una volta raffreddate le pagnotte, ritagliate la calotta superiore segnata in


precedenza con lo stampo, togliete la mollica e passate al forno per asciugare
(compresa la calotta).

Utilizzate per servire delle minestre d’orzo, di farro, di cipolle o anche risotti
e zuppe in genere.

PANE AI FIOCCHI D’AVENA

INGREDIENTI

450 g di pasta di riporto

1.350 g di farina 00 W 280 P/L 0,60

150 g di farina di segale tostata

1.000 g di acqua

45 g di sale

50 g di lievito compresso

fiocchi d’avena

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25-26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Questo pane è ottimo in accompagnamento alle verdure in pinzimonio.

Impastate tutti gli ingredienti tranne il sale che verrà aggiunto a metà impasto e
500 g di fiocchi d’avena che dovranno essere aggiunti a fine impasto prolungandolo
fino al completo assorbimento dei fiocchi.

Lasciate puntare l’impasto per circa 40 minuti.

Suddividetelo poi in pezzi del peso desiderato, arrotondateli e, dopo qualche


minuto, allungateli leggermente.

Pennellate con uovo (miscelato al latte e a un pizzico di sale) la parte superiore


e passate i pezzi in un letto di fiocchi d’avena.

Posateli su teglie e lasciate lievitare per un’ora circa a una temperatura di 27


°C.

Infornate con vapore a 220 °C. Terminate la cottura a tiraggio aperto.

PANE DOLCE AL MAIS

INGREDIENTI PER LA MISCELA DI FARINA MAIS

300 g di farina di mais fioretto

600 g di acqua bollente

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

600 g di pasta di riporto

1.200 g di farina W 300 P/L 0,55

600 g di acqua

40 g di lievito compresso

150 g di zucchero

35 g di sale

150 g di burro

miscela di farina di mais

300 g di uva passa

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

6 minuti in 1a velocità 4 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

7 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO


25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Per la miscela, fate ammorbidire la farina di mais fioretto nell’acqua. Mescolate


con una frusta e lasciate riposare un’ora.

Iniziate l’impasto con farina, acqua, pasta di riporto e lievito. A metà impasto
aggiungete il sale, lo zucchero, il burro e la miscela di farina di mais
ammorbidita.

Terminato l’impasto unite l’uva passa e impastate ancora qualche minuto in 1a


velocità.

Lasciate puntare l’impasto 20-30 minuti.

Spezzate del peso desiderato e formate a piacere o in forme rotonde.

Ponetele su tavole di legno e dopo circa 20 minuti stampate e posatele su teglie


con carta da forno.

Mettetele su teglie, spolverate con farina e passate in cella per la lievitazione


per circa 30 minuti a una temperatura di 27 °C.

Infornate con leggero vapore a una temperatura di 210 °C. Terminate la cottura a
valvola aperta.

PANE CON MISCELA DI SEMI

INGREDIENTI PER LA MISCELA DI SEMI

200 g tra sesamo, soia, girasole e fiocchi d’avena in parti uguali

150 g di acqua

100 g di yogurt naturale

INGREDIENTI PER LA BIGA

1.000 g di farina W 320

450 g di acqua

10 g di lievito compresso

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 5 minuti in 1a velocità


impastatrice a forcella: 6 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

biga

900 g di farina W 320

100 g di farina di quinoa

25 g di lievito compresso (2,5% sulla farina aggiunta)

650 g di acqua (55% sul totale della farina)

10 g di malto in polvere (0,5% sul totale della farina)

50 g di sale (2,5% sul totale della farina)

TEMPI DI IMPASTO:

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la miscela di semi: mescolateli e lasciateli ammorbidire in acqua e


yogurt per un’ora.

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 18-20 ore a 18-20 °C.

Iniziate l’impasto con la biga, le farine, il lievito, il malto e l’80% di acqua. A


metà impasto aggiungete l’acqua rimasta e il sale.

A fine impasto incorporate la miscela di semi impastando ancora per qualche minuto.

Lasciate riposare l’impasto per circa 30 minuti, spezzate del peso desiderato e
formate a filone, quindi date la forma definitiva.

Ponete su teglie o telai, lasciate lievitare per circa un’ora a 27-28 °C.

Infornate con vapore a una temperatura di 220-230 °C. Terminate la cottura a


tiraggio aperto.

STIRATO RUSTICO
INGREDIENTI PER LA BIGA

2.400 g di farina W 380 P/L 0,55

100 g di farina di segale

1.125 g di acqua (45%)

25 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 3 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 4 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER IL RINFRESCO

biga

200 g di farina 2 W 260 P/L 0,55

50 g di farina di segale tostata

25 g di malto in polvere

940 g di acqua

55 g di sale

10 g di lievito compresso

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 10 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 12 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 20-24 ore a 18 °C.

Iniziate l’impasto con la biga, le farine, il lievito, il malto e una parte di


acqua. A metà impasto aggiungete il sale e, lentamente, l’acqua rimasta.
Lasciate riposare l’impasto 40-45 minuti circa.

Spezzate del peso desiderato e formate a filone. Disponete i filoni su tavole


infarinate con chiusura rivolta verso l’alto, coprendo per evitare incrostazioni.

Lasciate lievitare per circa un’ora e 10 minuti, quindi capovolgete i filoni


allungandoli fino a raggiungere il doppio della lunghezza iniziale.

Infornate con vapore a 230-240 °C terminando la cottura con valvola aperta.

PANE A LUNGA FERMENTAZIONE CON IMPASTO A CALDO

INGREDIENTI PER L’IMPASTO A CALDO

120 g di farina 1

300 g di acqua (90 °C)

INGREDIENTI PER LA MISCELA DI SEMI

50 g di semi di girasole

50 g di semi di lino

50 g di miglio

50 g di fiocchi d’avena

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

impasto a caldo

2.000 g di farina 1

50 g di lievito madre liquido

5 g di lievito compresso

1.200 g di acqua

40 g di sale

80 g di olio extravergine di oliva

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

5 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità


TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

40 minuti circa per pezzi da 500 g

Miscelate l’impasto a caldo e lasciate coperto a temperatura ambiente. Il tempo può


variare da un minimo di 3 ore a un massimo di 18 ore.

Iniziate l’impasto con l’impasto a caldo, la farina, il lievito madre liquido, il


lievito compresso e un litro di acqua.

A metà impasto aggiungete il sale, l’olio e successivamente l’acqua rimasta.

A questo punto incorporate la miscela di semi e impastate ancora per pochi minuti.

Lasciate fermentare per circa 15-17 ore a una temperatura di circa 18-20 °C.

Spezzate del peso desiderato (pezzatura consigliata 500 g). Arrotondate le forme e
dopo qualche minuto formate a filone, ponete negli stampi per pane in cassetta.

Lasciate lievitare per 3 ore circa in cella a una temperatura di 30 °C con 70% UR
(cioè di umidità relativa).

Infornate con vapore a 220 °C, aprite il tiraggio negli ultimi minuti di cottura.

CIABATTA RUSTICA

INGREDIENTI PER LA BIGA

4.600 g di farina W 380 P/L 0,55

200 g di farina di segale

200 g di farina integrale

2.250 g di acqua (45%)

50 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 5 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

biga
1.500 g di acqua (75% sul totale della farina)

15 g di lievito compresso (0,3% sul totale della farina)

50 g di malto in polvere (1% sul totale della farina)

100 g di sale (2% sul totale della farina)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

5 minuti in 1a velocità 10 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 12 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

27-28 °C

IL TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Miscelate le farine, quindi preparate la biga. Lasciatela lievitare 20-24 ore a 18


°C.

Impastate poi tutti gli ingredienti, compresa la biga, tranne il sale, che verrà
aggiunto a metà impasto e il 20% di acqua che verrà aggiunta lentamente dopo il
sale.

Lasciate riposare l’impasto in un contenitore unto di olio per circa 35-40 minuti.

Rovesciate il contenitore sul tavolo da lavoro delicatamente.

Tagliate del peso desiderato e sistemate su tavole ben infarinate con la parte del
taglio rivolta verso l’alto.

Lasciate lievitare 35-40 minuti evitando incrostazioni, poi girate delicatamente e


allungate leggermente.

Infornate con vapore a 240-250 °C. Terminate la cottura con tiraggio aperto.

BIOVE DI SEMOLA

INGREDIENTI PER LA BIGA

500 g di farina W 320 P/L 0,55

2.000 g di farina di grano duro rimacinata

1.250 g di acqua (50%)


25 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 5 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 6 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER IL RINFRESCO

2.000 g di farina di grano duro rimacinata

500 g di Tumminia

1.750 g di acqua (60% sul totale della farina)

75 g di lievito compresso (3% sulla farina aggiunta)

110 g di sale (2,2% sul totale della farina)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

6 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice a forcella:

7 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare 14-16 ore a 17-18 °C.

Per il rinfresco, impastate tutti gli ingredienti, compresa la biga, tranne il sale
che verrà aggiunto a metà impasto, e lasciate riposare per 10 minuti.

Dividete l’impasto in pezzi del peso desiderato, allungate a filone e dopo qualche
minuto formate a bocconcino e schiacciate le punte verso l’interno.

Lasciate lievitare per circa 50-60 minuti in tele poste a ventaglio, tagliate a
metà con l’apposito attrezzo e infornate con il taglio rivolto verso l’alto.

Infornate a una temperatura di 220-230 °C con tiraggio aperto e chiudetelo a


sviluppo avvenuto.
Riaprite nuovamente il tiraggio negli ultimi 5 minuti di cottura.

Un consiglio: l’accostamento ideale è con gli antipasti di salumi, ma con le uova


al tegamino è una prelibatezza.

PANE DEL NILO

INGREDIENTI

950 g di farina W 300 P/L 0,55

50 g di crusca tostata

500 g di latte di soia

2 uova

50 g di lievito compresso

25 g di sale

100 g di zucchero grezzo di canna

5 g di cannella

150 g di tahina (crema di sesamo)

180 g di miele

300 g di granella di noci

200 g di uva passa

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con farina, crusca, latte, uova e lievito. A metà impasto
aggiungete il sale, lo zucchero, la cannella e la crema di sesamo. Successivamente
il miele.
Quando l’impasto sarà ultimato, incorporate le noci e l’uva passa che avrete messo
a bagno per 30 minuti circa e poi scolato. Impastate ancora per qualche minuto.

Dopo una puntatura di 10-15 minuti, dividete l’impasto del peso adeguato alla
misura degli stampi da plum cake. Formate a filone e posate nelle forme.

Lasciate lievitare in cella a 28 °C fino quasi a raggiungere il bordo dello stampo,


poi infornate con vapore con temperatura del forno moderata (200 °C circa).

Oppure formate a tartina, posate in uno stampo lungo infarinato, capovolgete e


incidete prima di infornare.

PANE RAGGIO DI SOLE CON SEMI DI GIRASOLE

INGREDIENTI PER IL FARRO SBOLLENTATO

250 g di farina di farro integrale

375 g di acqua

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

1.600 g di acqua

2.250 g di farina W 320 P/L 0,55

75 g di lievito compresso

625 g di miscela sbollentata

100 g di olio extravergine di oliva

67,5 g di sale

250 g di semi di girasole grigliati

1 uovo e semi di girasole per la superficie

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Sbollentate la farina di farro integrale nell’acqua.

Per l’impasto, fate bollire l’acqua, poi versatela sulla farina e miscelate in
planetaria. Ricoprite con pellicola per alimenti e lasciate raffreddare.

Iniziate l’impasto con farina, acqua, lievito e miscela sbollentata. Dopo qualche
minuto unite l’olio e verso la fine aggiungete il sale.
Impastate fino a ottenere un impasto morbido, quindi incorporate i semi di girasole
e miscelateli delicatamente all’impasto.

Lasciate lievitare in ambiente per un’ora e 15 minuti circa.

Pesate dei pezzi da 500 g e arrotondateli dapprima leggermente e poi allungateli


con le estremità appuntite.

Lasciate brevemente riposare poi appiattite e pressate con un divisore per torte.

Dorate la superficie con l’uovo, passate le pezzature nei semi di girasole e


posatele direttamente sul tappeto di infornamento per la lievitazione o su teglie.

Lasciate lievitare in cella a 27 °C per circa 50 minuti.

Cuocete in forno mediamente caldo con vapore. A metà cottura aprite il tiraggio e
finite di cuocere.

PANE METODO INDIRETTO CON IDROSSIDO DI SODIO

INGREDIENTI PER LA BIGA

500 g di farina W 320 P/L 0,55

225 g di acqua

5 g di lievito compresso

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 3 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 5 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

biga

700 g di farina W 260 P/L 0,50

300 g di farro bianco

20 g di lievito compresso

200 g di latte

400 g di acqua

30 g di sale

sale per Brezel per la superficie


INGREDIENTI PER LA SALAMOIA

50 g di idrossido di sodio

1 l di acqua

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

26 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciate lievitare 18-22 ore a una
temperatura di 18 °C.

Iniziate l’impasto con biga, farina, farro, lievito, latte e acqua; a metà impasto
aggiungete il sale.

Lasciate puntare l’impasto per circa 20 minuti poi passatelo al freddo per 30-40
minuti circa.

Stendete la pasta in uno spessore di 4 mm e formate a cornetto (step 1-3).

Lasciate lievitare per circa 40 minuti a temperatura ambiente evitando


incrostazioni, poi passate in frigorifero a 4 °C per circa 10 minuti.

Preparate la salamoia: portate a ebollizione l’acqua con l’idrossido di sodio.


Quindi utilizzatela tiepida.

Immergete i cornetti nella salamoia (step 4), deponete su teglie e cospargete con
sale per Brezel (step 5).

Lasciate lievitare per altri 20 minuti, praticate delle incisioni con una forbice
(step 6) e poi infornate a una temperatura di 230 °C con poco vapore.

PANE ALLE MANDORLE E GOCCE DI CIOCCOLATO BIANCO

INGREDIENTI PER LA BIGA

300 g di farina W 380 P/L 0,55


135 g di acqua (45%)

3 g di lievito compresso (1%)

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale: 3 minuti in 1a velocità

impastatrice tuffante: 4 minuti in 1a velocità

impastatrice a forcella: 5 minuti in 1a velocità

INGREDIENTI PER L’IMPASTO

biga

1.000 g di farina W 300 P/L 0,55

550 g di acqua

30 g di lievito compresso

10 g di malto in polvere

20 g di sale

50 g di burro

50 g di zucchero

mandorle filettate

300 g di gocce di cioccolato bianco

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

24-25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Preparate la biga con gli ingredienti. Lasciatela lievitare per 18-20 ore a 18 °C.

Iniziate l’impasto con la biga, la farina, l’acqua, il lievito e il malto. A metà


impasto aggiungete il sale e lo zucchero e successivamente il burro morbido.
Terminato l’impasto unite 200 g di mandorle e, quando saranno incorporate,
aggiungete le gocce di cioccolato (poste precedentemente al freddo) e incorporatele
lentamente.

Lasciate riposare l’impasto per circa 20 minuti a temperatura ambiente.

Spezzate del peso desiderato e formate prima un panetto allungato (step 1); dopo un
riposo di circa 10 minuti appuntite le forme (step 2 e 3).

Lucidate con un uovo (step 4) e passate nelle mandorle filettate (step 5).

Unite le forme e posate su teglie (step 6).

Lasciate lievitare in cella a 27-28 °C per circa un’ora e infornate con vapore a
una temperatura di 210 °C.

PANE AL CIOCCOLATO E COCCO

INGREDIENTI

1.000 g di farina W 320 P/L 0,55

60 g di lievito compresso

4 uova

500 g di latte

100 g di zucchero

20 g di sale

50 g di burro

130 g di cocco rapè

250 g di gocce di cioccolato

2 uova per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

24 °C
TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con farina, lievito, uova e 80% di latte; successivamente lo


zucchero.

Aggiungete il sale, il latte rimasto e alla fine il burro. Terminato l’impasto


incorporate il cocco rapè e poi le gocce di cioccolato messe precedentemente al
freddo.

Lasciate lievitare in luogo fresco per circa 30 minuti.

Spezzate, formate a piacere e ponete su teglie o negli stampi. Dorate con uovo una
prima volta, poi lasciate lievitare per circa 40-50 minuti.

Dorate con uovo una seconda volta e infornate con vapore a 200 °C circa.

PAN BRIOCHE AL CURRY E UVA PASSA

INGREDIENTI

1.000 g di farina W 300 P/L 0,55

300 g di latte

10 g di curry

200 g di uova

40 g di lievito compresso

100 g di zucchero

25 g di sale

200 g di burro

300 g di uva passa

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA DI BASE
52 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con farina, latte (nel quale sarà stato sciolto il curry), uova
e lievito. A metà impasto aggiungete lo zucchero, il sale e il burro ammorbidito.

Terminato l’impasto incorporate l’uva passa, precedentemente messa a bagno per


circa un’ora e poi scolata, impastando lentamente in 1a velocità.

L’impasto finale deve essere liscio ed estensibile.

Dopo una puntatura di 10-15 minuti, spezzate del peso adeguato agli stampi che
andrete a utilizzare.

Arrotondate i pezzi e lasciateli rilassare per 15 minuti, poi allungateli a filone


e posateli negli stampi per plum cake imburrati in precedenza oppure formate 5
tartine e ponetele negli stampi in modo alternato.

Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo degli stampi, dorate con uovo e
infornate a una temperatura di 190-200 °C con vapore.

PAN BRIOCHE ALLA FRUTTA SECCA

INGREDIENTI

1.000 g di farina W 300 P/L 0,55

400 g di latte

200 g di uova

40 g di lievito compresso

100 g di zucchero

25 g di sale

200 g di burro

50 g di granella di nocciole tostate

50 g di noci tritate

50 g di pistacchi tritati

50 g di arachidi tritate

50 g di mandorle tritate

1 uovo per la superficie


TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA DI BASE

52 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con farina, latte, uova e lievito. A metà impasto aggiungete lo
zucchero, il sale e il burro ammorbidito. Successivamente incorporate la frutta
secca. L’impasto finale deve essere liscio ed estensibile.

Dopo una puntatura di 10-15 minuti, spezzate del peso adeguato agli stampi che
utilizzerete, arrotondate i pezzi e lasciateli rilassare per 15 minuti, poi
allungateli a filone e posateli negli stampi per plum cake imburrati oppure formate
delle trecce a tre filoni.

Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo degli stampi, dorate con uovo e
infornate a una temperatura di 190-200 °C con vapore.

Questo pan brioche è ottimo con gli antipasti di salumi.

PANE IN CASSETTA AL PEPE ROSA

INGREDIENTI

900 g di farina W 260 P/L 0,55

100 g di farina di segale

150 g di latte

400 g di passata di pomodoro

30 g di lievito compresso

70 g di olio extravergine di oliva

20 g di sale

150 g di ricotta

20 g di pepe rosa
TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

6 minuti in 1a velocità 4 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

7 minuti in 1a velocità 5 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

24 °C

IL TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con le farine, il latte, la passata di pomodoro e il lievito.

A metà impasto aggiungete l’olio e il sale e, successivamente, la ricotta e il pepe


rosa. L’impasto dovrà essere estensibile ma consistente.

Dopo una puntatura di circa 10 minuti dividete l’impasto del peso adeguato agli
stampi che verranno utilizzati.

Formate a filone e posate negli stampi comprimendo bene per colmare gli angoli.

Lasciate lievitare quasi a raggiungere il bordo dello stampo, poi chiudete con il
coperchio.

Infornate a una temperatura di 200 °C.

PAN BRIOCHE AGLI SPINACI

INGREDIENTI

1.000 g di farina W 300 P/L 0,55

200 g di latte

200 g di uova

300 g di spinaci lessati

40 g di lievito compresso

100 g zucchero

25 g di sale

200 g di burro

1 uovo per la superficie


TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

5 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA DI BASE

52 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con la farina, il latte, le uova, gli spinaci tritati finemente
e il lievito. A metà impasto aggiungete lo zucchero, il sale e il burro morbido.
L’impasto finale deve essere liscio ed estensibile.

Dopo una puntatura di 10-15 minuti, spezzate del peso adeguato agli stampi che
utilizzerete, arrotondate i pezzi e lasciateli rilassare per 15 minuti.

Poi allungateli a filone e posateli negli stampi per plum cake imburrati in
precedenza oppure formate 6 tartine e inseritele negli stampi in modo alternato.

Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo degli stampi, dorate con uovo e
infornate a una temperatura di 190-200 °C con vapore.

PANE SFOGLIATO

INGREDIENTI

1.000 g di farina W 300 P/L 0,55

500 g di acqua

40 g di lievito compresso

20 g di zucchero

50 g di burro

20 g di sale

250 g di burro per sfogliare

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

Impastatrice tuffante:

3 minuti in 1a velocità 10 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

23 °C

TEMPO DI COTTURA

20 minuti circa

Iniziate l’impasto con la farina, l’acqua e il lievito. A metà impasto aggiungete


il sale, lo zucchero e, successivamente, i 50 g di burro.

Lasciate puntare l’impasto un’ora circa a temperatura ambiente e successivamente a


4 °C per un’ora oppure, terminato l’impasto, ponetelo al freddo a 4 °C per 12 ore.

Con il burro sfogliate una volta a 4 pieghe e una volta a 3 pieghe. Ponete a 4 °C
per circa 30 minuti, quindi stendete a un’altezza di 2 millimetri.

Ritagliate dei rettangoli da 30×20 cm o della lunghezza della teglia (60×20 cm),
pennellate con burro fuso tutta la superficie e poi arrotolate i pezzi stringendo
molto bene.

Ponete in frigorifero per 30 minuti circa, praticate un taglio nel senso della
lunghezza, quindi intrecciate i due pezzi ottenuti. Posateli su teglie ondulate e
passate alla lievitazione in cella a 26 °C per un’ora circa.

Dorate con uovo e infornate a una temperatura di 200-210 °C.

PANE SFOGLIATO CON FARINA DI SEGALE

INGREDIENTI

900 g di farina W 320 P/L 0,55

100 g di farina di segale

500 g di acqua

35 g di lievito compresso

20 g di zucchero

1 uovo

50 g di burro

20 g di sale
10 g di malto disattivato

250 g di burro per sfogliare

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

23 °C

TEMPO DI COTTURA

15 minuti

Iniziate l’impasto con le farine, l’acqua, il lievito e lo zucchero. A metà impasto


aggiungete l’uovo e il sale e successivamente il burro e il malto disattivato.

Lasciate riposare l’impasto in frigorifero a 4 °C per 12 ore circa.

Stendete la pasta a forma di rettangolo e posate il burro sui 2/3 della superficie
della pasta; piegate la in tre ponendo la pasta senza burro al centro e una parte
senza burro sopra.

Sfogliate una volta a quattro e una volta a tre pieghe. Passate al freddo a 4 °C
per circa 20-30 minuti.

Stendete la pasta a uno spessore di 2,5 mm, tagliate a triangolo e formate a


cornetto dalla grandezza desiderata senza curvare le estremità.

Dorate con uovo e ponete a lievitare per un’ora e 10-20 minuti.

Dorate nuovamente e infornate a una temperatura di 200 °C per circa 15 minuti.

PANCARRÉ NOCI E FORMAGGIO

INGREDIENTI

2.000 g di farina W 280 P/L 0,55

900 g di latte

80 g di lievito compresso
10 g di malto in polvere

300 g di burro

300 g di uova

40 g di sale

200 g di grana grattugiato

400 g di granella di noci

1 uovo per la superficie

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

4 minuti in 1a velocità 6 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

23-24 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Iniziate l’impasto con farina, latte, lievito, malto e uova. A metà impasto
aggiungete il sale e successivamente il burro. Terminato l’impasto dividetelo in
due parti.

Impastate una parte aggiungendo il grana grattugiato fino al suo assorbimento, e


una parte incorporando 400 g di granella di noci fino al loro assorbimento.

Lasciate riposare gli impasti per circa 5-6 minuti, divideteli del peso adeguato
agli stampi.

Dopo circa 15 minuti allungate a filone corto, formate una treccia a 2 filoni (uno
per tipo) e deponete negli stampi.

Lasciate lievitare fino al raggiungimento di 3/4 dello stampo, poi lucidate con
l’uovo.

Infornate a una temperatura di 200-220 °C circa.

Questa ricetta è molto versatile e consente di ottenere altri tre prodotti diversi:
potete togliere parmigiano e noci o utilizzare il grana in dose doppia, oppure
aggiungendo solo noci in dose doppia.

PANE INTEGRALE CON LIEVITO BAKING


INGREDIENTI

1.000 g di farina W 280 P/L 0,55

1.000 g di farina integrale

1.300 g di acqua

15 g di malto in polvere

35 g di sale

60 g di baking

100 g di yogurt naturale

TEMPI DI IMPASTO

impastatrice a spirale:

3 minuti in 1a velocità 7 minuti in 2a velocità

impastatrice tuffante:

4 minuti in 1a velocità 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE IMPASTO

25 °C

TEMPO DI COTTURA

è determinato dalla pezzatura

Impastate le farine, l’acqua, il malto e il sale.

Lasciate riposare l’impasto 12-15 ore a temperatura ambiente.

Dopo il riposo aggiungete il baking, lo yogurt e impastate per qualche minuto.

Modellate subito a filone e ponete negli stampi per plum cake unti in precedenza.

Date un riposo di circa 15 minuti, infornate con vapore e a 200 °C.

A tre quarti di cottura togliete i pani dagli stampi e terminate la cottura su


teglia.

È possibile ottenere varianti di questo prodotto, aggiungendo all’impasto: 50 g di


rosmarino oppure 500 g di cipolle oppure 600 g di olive verdi o, ancora, 800 g di
noci oppure 800 di uva passa o, infine, 250 g di semi di sesamo.

BIBLIOGRAFIA
O. AFANASIEVA, Controllo microbiologica della produzione del pane, Industria
alimentare, Mosca

I. APET, S. PASCIUK, Pane e prodotti da forno, Minsk

L. AUERMAN, Tecnologia della produzione del pane, Professia, San Pietroburgo

V. BARANOVSKIY, Manuale del pasticciere, Casa Editrice Fenix, Rostov

P. CAPELLI, V. VANUCCHI, Chimica degli alimenti, conservazione e trasformazioni,


Zanichelli, Bologna

R. CAPELLO, Il manuale del panificatore, Editrice San Marco, Bergamo

B. CARRAI, Arte bianca: Materie prime, processi e controlli, Calderini Edagricole,


Bologna

G. DONEGANI, G. MENAGGIA, Manuale di Merceologia, Igiene e Sicurezza


dell’alimentazione, Lucisano-Zanichelli, Milano

O. ELZOVA, I. ROITER, A. VITAVSKAIA, Intensificazione della produzione del pane di


frumento attraverso l’utilizzo del lievito madre liquido, ZNIITEIpisceprom, Mosca

P. GIORILLI, S. LAURI, Il pane: un’arte, una tecnologia, Lucisano-Zanichelli,


Milano

P. GIORILLI, E. LIPETSKAIA, Panificando..., Lucisano-Zanichelli, Milano

I. GRACHEVA, N. GAVRILOVA, N. IVANOVA, Tecnologia dei preparati microbici proteici,


degli aminoacidi e dei lipidi, Industria alimentare, Mosca

J. HAMELMAN, Bread: A Baker’s Book of Tecniques and Recipes, Wiley, Hoboken

S. ILIASOV, V. KRASNIKOV, Le basi fisiche dell’irraggiamento con infrarossi dei


prodotti alimentari, Industria alimentare, Mosca

E. KASAKOV, V. KRETOVIC, Biochimica del grano e dei prodotti della sua lavorazione,
Kolos, Mosca

N. KOSMINA, Biochimica della produzione del pane, Industria alimentare, Mosca

I. KOSTROVA, I. VASILINEZ, I principi fondamentali di biochimica


nell’ottimizzazione della produzione del pane, Appunti per gli studenti della
specializzazione, Accademia del freddo e delle tecnologie alimentari, San
Pietroburgo

I. KOSTROVA, Piccolo panificio. Le basi principali, GIORD, San Pietroburgo

V. KRETOVIC, Biochimica dei vegetali, Alta scuola, Mosca

V. KRETOVIC, R. TOKAREVA, Problema del valore nutrizionale del pane, Nauka, Mosca

A. LEHNINGER, Principi di biochimica, Zanichelli, Bologna

G. QUAGLIA, Scienza e tecnologia della panificazione, Chiriotti Editori, Pinerolo

M. MATVEEVA, I. BELIAVSKAIA, Gli additivi alimentari e miglioratori nella


produzione dei prodotti da forno, MGUPP, Mosca
I. MATVEEVA, I. BELIAVSKAIA, Le basi biotecnologiche della produzione del pane,
Delprint, Mosca

A. NECHAEV, A. KOCHETKOVA, A. ZAIZEV, Gli additivi alimentari, Kolos, Mosca

A. PASHENKO, I. ZHARKOVA, Tecnologia dei prodotti da forno, Kolos, Mosca

P. PIETTA, A. PIETTA, Benessere non solo dalla tavola, La Compagnia della Stampa
Massetti Rodella Editori, Brescia

R. PIROLE, Analisi chimica degli alimenti, Franco Lucisano Editore, Milano

P. PLOTNIKOV, M. KOLESNIKOV, 350 varietà dei prodotti da forno, Piscepromisdat,


Mosca

R. POLANDOVA, T. BOGATYRJOVA, Manuale della produzione del lievito madre liquido


nelle fabbriche del pane, RASN, GosNIIHP, Mosca

K. PTROVSKIY, Igiene dell’alimentazione, Medizina, Mosca

L. PUCKOVA, Manuale del laboratorio della tecnologia di panificazione, Industria


alimentare, Mosca

L. PUCHKOVA, I prodotti da forno, MGUPP, Mosca

RICHEMONT SCUOLA PROFESSIONALE, Bread/Pane, Lucerna

C. ROBERTSON, Tartine bread, Chronicle Books, San Francisco

C. ROBERTSON, Tartine: Modern Ancient Classic - Whole 3, Chronicle Books, San


Francisco

I. ROITER, Manuale dell’industria della produzione del pane, Industria alimentare,


Mosca

I. ROITER, Tecnologia moderna della produzione degli impasti nelle fabbriche del
pane, Tecnica, Kiev

M. ROTE, L’aroma del pane, Industria alimentare, Mosca

E. SOBOLEVA, T. MELEDINA, E. SERGACIOVA, G. TERNOVSKIY, Utilizzo dei ceppi di


Saccharomyces Cerevisiae per rallentare il deterioramento microbico del pane di
frumento, Industria alimentare, Russia N 1/

A. SVEREVA, S. NEMZOVA, N. VOLKOVA, Tecnologia, controllo tecnologico e chimico


della produzione del pane, Industria alimentare, Mosca

C. TARABIONO, Manuale pratico per la macinazione del grano, Chiriotti Editori,


Pinerolo

T. ZYGANOVA, Tecnologia della produzione del pane, ProfObrIzdat, Mosca

RINGRAZIAMENTI
Al Molino Dallagiovanna e ai Molini Valente, che ci hanno fornito le farine per la
produzione dei pani, e a Cast Alimenti per aver messo a disposizione i laboratori
per la realizzazione dei pani fotografati.

Un ringraziamento particolare ai titolari e ai colleghi dei Molini Valente.

Grazie a tutti i colleghi e gli amici, dai quali c’è sempre da imparare, che
condividono con noi le nuove idee, e un grazie speciale a Fausta Consonni, nostra
instancabile organizzatrice.

INDICE

Il mondo dei cereali

Farina, acqua, sale, lievito...

La vita all’interno dell’impasto

Il lievito madre in diverse declinazioni

Impasti, cottura e panificazione

Pronto intervento. I difetti del pane: come riconoscerli e correggerli

L’etichetta nutrizionale

Le ricette

Bibliografia

Ringraziamenti

Potrebbero piacerti anche