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Hans Jonas riassunto

La vita e le opere

Hans Jonas (Mönchengladbach 1903 – New York 1993) è stato un filosofo e storico delle
religioni tedesco, naturalizzato statunitense. Studiò con maestri del calibro di Husserl,
Heidegger e Bultmann. Di origini ebraiche, Jonas si rifugiò in Inghilterra con l’avvento del
nazismo, ed emigrò nel 1935 in Palestina.

Nel 1940 tornò in Europa per unirsi all’esercito britannico che aveva organizzato una brigata
speciale per gli ebrei tedeschi che volevano combattere contro Hitler. Si sposò con Lore Weiner
(incontrata nel 1937 in un carnevale ebraico), la quale divenne sua moglie nel 1943.

Subito dopo la guerra tornò a Mönchengladbach per cercare sua madre, ma scoprì che era stata
mandata nelle camere a gas del campo di concentramento di Auschwitz. Dopo aver scoperto questo,
e dopo essere rimasto con l’amaro in bocca nel suo incontro con vari conoscenti (come il nuovo
proprietario della sua casa natale in via Mozartstrasse 9 il quale negò la deportazione della madre) e
colleghi come il maestro Martin Heidegger (il quale, pur avendo aderito al nazismo per pochi mesi,
rincontrando Jonas non gli chiese nemmeno scusa per le sue scelte politiche) decise di non tornare
mai più a vivere in Germania.

Tornato in Palestina, Jonas partecipò perfino alla guerra arabo-israeliana del 1948 e poté
continuare gli studi presso la Hebrew University di Gerusalemme. Nel 1950 partì per il
Canada, insegnando alla Carleton University. Da lì si trasferì nel 1955 a New York City, dove
reincontrò i suoi vecchi amici Hannah Arendt, Günther Anders e Karl Löwith e dove sarebbe
vissuto per il resto della sua vita.

Tra le opere importanti da segnalare all’interno della produzione jonasiana ricordiamo: Gnosi e
spirito tardo antico (vol. I, 1934; vol. II, 1954), Organismo e libertà: verso una biologia filosofica
(1966); Lo gnosticismo (2ª ed., 1972); Il Principio responsabilità. Un’etica per la civiltà
tecnologica (1979), Tecnica, medicina ed etica (1985); Il concetto di Dio dopo Auschwitz (1987);
Materia, spirito e creazione (1988); Memorie (2008).

Dagli studi gnostici ad una biologica filosofica

In Gnosi e spirito tardo antico (vol. I, 1934; vol. II, 1954), una delle sue opere più importanti,
Jonas affianca la gnosi antica all’esistenzialismo contemporaneo, riconducendoli a una
comune esperienza di separatezza: la perdita di un ordine cosmico compiuto nel primo caso;
l’oggettivazione della natura sotto lo sguardo della conoscenza scientifica nel secondo caso.
La separatezza è insita nello stesso sorgere e differenziarsi del mondo organico, e su questa
base, Jonas fornisce una spiegazione dei fenomeni biologici che mette capo ad una vera e propria
filosofia della vita.

Prendendo le distanze dall’antropocentrismo (condiviso sia dal pensiero idealistico sia


dall’esistenzialismo) come pure dal materialismo implicito nell’atteggiamento delle scienze della
natura, Jonas (passando anche per la critica del dualismo corpo-anima, così come lo aveva anche
criticato Bergson) afferma che il concetto-chiave per la comprensione della vita e del suo
sviluppo è la libertà. La libertà, afferma Jonas, è perfettamente compatibile con la moderna
concezione delle leggi di natura da quando è apparsa sulla scena la meccanica quantistica. Inoltre,
l’irruzione della libertà comporta l’infrangersi della compattezza dell’essere, il suo dissolversi
nello spazio illimitato dei possibili. La libertà si prefigura nel mondo organico come indipendenza
della materia dalla forma. Per l’uomo la libertà costituisce la condizione dell’incontro con sé stesso:
dalla filosofia della natura come «biologia filosofica», siamo così condotti all’etica. In particolare
Jonas ha inteso formulare, a partire dal Il principio responsabilità (1979), un’etica adatta
all’età della tecnica contemporanea (confronta anche La questione della tecnica di Martin
Heidegger). È la natura stessa che sembra chiedere una tutela della sua integrità contro le
minacce dello sviluppo tecnologico odierno e futuro. L’orizzonte dell’etica viene su questa via
a dilatarsi: suo oggetto non sono più soltanto i rapporti interumani, ma l’intera biosfera. Si
modifica così anche il concetto di responsabilità, che non riguarda più semplicemente il soggetto
singolo, ma l’umanità nel suo complesso.

Il principio responsabilità

Il principio responsabilità è l’opera più famosa di Hans Jonas e tale notorietà è dovuta alla
portata (all’epoca per certi versi perfino profetica) del messaggio contenuto in essa. Se in
Organismo e libertà, Jonas evidenziava la differenza qualitativa della libertà umana rispetto
alle altre forme viventi (l’uomo ha una vastissima pluralità di scopi) e la differenza qualitativa
(differenza ontologica) della vita rispetto alla non-vita, in Il principio responsabilità la sua
attenzione si concentra sul potere che questa libertà (di vivere) ha dato all’uomo.

Riprendendo la distinzione fra etica dell’intenzione (detta anche della convinzione) ed etica della
responsabilità (o del render conto) operata da Max Weber, e polemizzando contro l’utopismo de Il
principio speranza di Ernest Bloch, Jonas elabora un’etica capace di tener conto delle mutate
condizioni dell’agire umano (rispetto al passato ed in particolare rispetto alla tecnica antica) e
del fatto che la permanenza stessa del mondo e della biosfera pare messa in questione dagli
sviluppi incontrollabili della tecnica (prima tra tutti la manipolazione genetica).

Difatti, le etiche classiche si basavano su antiche premesse:

1) La condizione umana (definita dalla natura dell’uomo) era data una volta per tutte nei suoi tratti
fondamentali

2) Su questa base (quella della condizione umana fissa) si poteva determinare il bene umano

3) La portata dell’agire umano (e quindi della sua responsabilità nell’agire) era strettamente
circoscritta

Secondo Jonas, queste premesse non reggono più, poiché:

1) L’ingegneria genetica può stravolgere completamente la natura umana


2) Di conseguenza il bene umano si perde di vista

3) L’essere umano può sterminare la specie (auto-estinguersi; confronta, ad esempio la bomba H)

Così, Jonas, cerca di costruire un “sistema filosofico” che sia in grado di adeguarsi a questi
cambiamenti. Per fare ciò, Jonas propone una “ristrutturazione” degli imperativi kantiani e li
ripropone così:

1) “Il primo imperativo categorico è che ci sia un’umanità”. Questo imperativo impone di
salvare e tutelare l’idea generale di essere umano, prima ancora dei singoli individui. La
manifestazione concreta di questo imperativo categorico è il senso di responsabilità che trova il suo
archetipo originario nelle cure dei genitori nei confronti dei figli (è proprio il neonato che, nella sua
nuda e indifesa esistenza, funge da “paradigma ontico” della coincidenza ontologica tra essere e
dover essere, cioè da manifestazione evidente in bilico tra la vita e l’appello a far sì che la vita
continui).

2) Il secondo imperativo è: “Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano
compatibili con la presenza di una autentica vita umana sulla terra”. Tale imperativo può
essere declinato anche in negativo: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non
distruggano la possibilità futura di una autentica vita umana”. Oppure ancora con un’altra
formulazione: “Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua
volontà”. O ancora in negativo: “Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza
indefinita dell’umanità sulla terra”.

Per porre questi imperativi bisogna dunque postulare, sul piano filosofico, l’essere in senso
assoluto come migliore rispetto al non essere. Per Jonas vi è dunque un primato dello scopo
(cioè dell’essere) sull’assenza di scopi (cioè il non essere). Tale primato rappresenta il cuore
del fondamento ontologico della filosofia di Hans Jonas e rappresenta una fortissima
dichiarazione (neoaristotelica, se vogliamo) la quale afferma “il dover essere è contenuto
nell’essere”, e cioè “vi è un finalismo interno all’ordine delle cose” il quale finalismo fa sì che
“la vita esiga la conservazione della vita”. Una ameba, dunque, vale di più di un sasso, poiché
manifesta almeno uno scopo insito in se stessa, rispetto al sasso che non ne manifesta alcuno.

Nel tentare di applicare questi imperativi, uno strumento che potrebbe aiutare dovrebbe
essere quello dell’euristica della paura. L’euristica (ripresa dall’epistemologia e dalla ricerca nel
metodo scientifico) è una metodologia di ricerca dei fatti e delle verità scientifiche, che si occupa di
favorire l’accesso a nuovi sviluppi teorici, nuove scoperte empiriche e nuove tecnologie. Tuttavia, il
tradizionale approccio euristico ai problemi non segue un chiaro percorso, ma si affida allo stato
temporaneo delle circostanze, al qui ed ora, liberandosi della responsabilità nei confronti di ciò che
potrebbe accadere in futuro, come conseguenza delle proprie azioni.

Viste le caratteristiche e la pericolosità di questo particolare metodo, Jonas ci induce ad elaborare


quella che egli definisce una “euristica della paura” cioè il “mettere la previsione peggiore
sempre davanti alla previsione migliore” nel momento del calcolo e dei pro e dei contro. La
nuova etica per la civiltà tecnologica deve orientare le nostre scelte in modo da agire con la
consapevolezza che il male, che può compiersi a seguito a talune scelte, può mettere in pericolo
la vita stessa dell’umanità.
Solo quando alla potenzialità dell’Homo Faber (tenere qui presente la tematica del Prometeo
scatenato) s’accompagnerà la capacità di riflettere sulle conseguenze del proprio agire, sostituendo
alla speranza che il bene si compirà la paura che il male si realizzerà, solo allora l’euristica della
paura si trasformerà in un imperativo volto alla responsabilità, alla tutela e alla cura dell’altro.
L’«euristica della paura» si distacca dall’antropocentrismo classico; è necessario misurare le azioni
umane guardando al nuovo imperativo del futuro: l’«incondizionato dovere dell’umanità
all’esserci». Sulla base della propria filosofia della biologia (Organismo e libertà), l’argomento di
Jonas si incentra dunque sulla nozione di finalità. Se lo scopo è «ciò per cui una cosa esiste», e vi
possono essere scopi esterni (un martello serve per martellare), esterni e interni insieme (un
tribunale è garantito dal diritto, di cui si fa a sua volta garante), o prettamente interni (un organismo
conserva sé stesso e la sua specie), quello che chiamiamo “valore” può definirsi solo sulla base di
uno (o più) scopo.

Certo vi sono giudizi di valore fondati su un punto di vista meramente soggettivo e particolare
(come per assurdo, ad esempio, l’accusare i leoni perché essi non sono vegetariani); tuttavia è
innegabile che ogni giudizio di valore implichi una sorta di schema, per cui di bene si può parlare
solo «nell’orientamento teleologico pre-esistente».

In natura si manifestano scopi immanenti (cioè insiti nella natura stessa), che possono ben
contrastare con la volontà umana, individuale o collettiva; ma «nella capacità di avere degli
scopi in generale possiamo scorgere un bene-in-sé, la cui infinita superiorità rispetto a ogni
assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa». Ciò è per Jonas evidente per esempio
nella cura che caratterizza il rapporto genitori-figli, archetipo della relazione di
responsabilità. Nella sopravvivenza del genere umano è dunque immediatamente contenuto un
«primo comandamento anonimo», cioè l’essere orientato allo scopo.

Ignorare l’imperativo del “trarre il dovere dall’essere” (con la famosa espressione “no-ought-from-
is”, Hume affermava che non si possono trarre conclusioni morali da premesse non morali) è un
gesto peculiare delle teorie etiche moderne (come quelle di D. Hume e G.E. Moore). Ciò, unito alle
concrete modalità etico-politiche di un’applicazione del principio di responsabilità, ha scatenato un
ampio dibattito intorno alla proposta di Jonas. Tale dibattito è ancora molto attuale.

Potenzialità e responsabilità. Dal fatto ontico al comandamento ontologico

Nell’ottica jonasiana, dunque, la “responsabilità” (la quale impone di pensare alle generazioni
future, e specialmente a chi non è ancora nato) non è solo l’altra faccia della medaglia della
“potenzialità” ma diventa il nuovo imperativo categorico, poiché è una condizione
ineliminabile per la sopravvivenza dell’umanità nel futuro.

E così, il “primato dell’essere” non abbandona l’ente nell’abisso del nulla, ma lo coinvolge in
termini etici nell’avventura della vita: il “puro fatto ontico” dell’esistenza dell’umanità
diventa perciò il “comandamento ontologico in base al quale l’umanità deve continuare ad
esistere” (per approfondire, vedere le differenze tra ontico ed ontologico), il futuro della vita
diventa così lo scopo di tutti i soggetti responsabili e lo scopo di tutti gli scopi risulta perciò essere
la vita sulla terra.  In questa ottica, l’imperativo del «che ci sia un’umanità» diventa impegno
morale – esclusivo dell’essere umano nella misura in cui egli solo può avere contemporaneamente
molteplici scopi e quindi anche molteplici responsabilità – per una garanzia di tutte le forme di vita
sulla terra e del rispetto per la vita in generale e per le sue molteplici forme di libertà (confronta Il
Principio responsabilità, pp. 54 e seguenti)

Le riflessioni su Dio dopo Auschwitz

Per quanto riguarda la tematica della libertà, Jonas si interrogò (forte delle sue origini) anche
sull’olocausto e sul senso della speculazione teologica e filosofica intorno a Dio dopo le guerre
mondiali ed in particolare dopo il grande genocidio subìto dagli ebrei. Secondo Jonas “Dio è
bontà assoluta” poiché “un Dio non buono non sarebbe Dio”, ma che ne è dell’onnipotenza di Dio
(soprattutto) con il ventesimo secolo? Perché Dio “non ha fatto il miracolo di salvare gli innocenti
da menti stravolte e mani assassine”? Secondo Jonas “Dio restò muto” in quei frangenti,
rinunciando alla propria onnipotenza. “Dio non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu
in condizione di farlo”. In altri termini, Dio, creando l’uomo libero in tutto e per tutto, ha
rinunciato per sempre alla propria onnipotenza. Bisogna quindi cercare una nuova risposta
all’interrogativo di Giobbe (perché il male? perché la sofferenza se Dio è buono?): mentre la
domanda di Giobbe (e una conseguente risposta) richiama alla pienezza di potenza del Dio creatore,
Jonas afferma che Dio ha rinunciato alla sua potenza nel momento stesso della creazione dell’uomo.

Il dibattito sulla bioetica contemporanea

Hans Jonas è molto attivo non solo sul piano della speculazione filosofica a livello biologico, ma è
anche considerato unanimemente uno dei fondatori della bioetica contemporanea. Per quanto
riguarda i problemi sull’ingegneria genetica e quindi sulla manipolazione genetica, Jonas ha
due punti di vista:

1) È a favore della tecnologia genetica terapeutica (la cosiddetta eugenetica negativa).

2) Nutre serissimi dubbi sull’intervento diretto nel processo genetico dell’ereditarietà (la
famosa eugenetica positiva).

Nel secondo caso, difatti, quello che facciamo “non è circoscritto all’individuo sul quale noi
lavoriamo, ma avrà effetti sulla catena delle generazioni che seguiranno; e noi non sappiamo
quel che abbiamo prodotto già nella prima, la seconda e la terza generazione e probabilmente
sopravvalutiamo le nostre forze se lo facciamo”. Il “Prometeo scatenato” (confronta, il
“prometeismo” e soprattutto l’opera Tecnica, Medicina ed etica) sta minacciando la sopravvivenza
stessa del globo.

Inoltre, il timore di una possibile catastrofe ecologica (che porta Jonas a criticare anche la Chiesa
cattolica e il magistero “dissennato” del papa a proposito della natalità) non conduce l’Autore
verso un esito pessimistico, al contrario. Andando contro corrente rispetto agli scrittori del tempo,
Jonas conserva una moderata fiducia nella ragione e nella libertà umane. Dirà in Scienza come
esperienza personale (pag. 48): “Malgrado tutto la mia speranza poggia in ultima analisi sulla
ragione umana, quella ragione che si è già dimostrata così straordinaria nell’ottenere il nostro
potere e che ora deve assumere la guida circoscrivendolo. Dubitare di essa sarebbe
irresponsabile”.

Il principio responsabilità si mantiene dunque in quello che possiamo chiamare il solco del
“razionalismo occidentale” e si propone come una sorta di “terza via” tra l’eccesso di speranza di
Ernest Bloch e l’eccesso di disperazione di Günter Anders.

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