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HANS JONAS E L'ECOLOGIA

Dominique Bourg

Ne Il principio responsabilità1, opera che in Germania, suo paese d'origine, ha conosciuto un


successo fuori dal comune, Hans Jonas auspica un cambiamento radicale del ruolo delle scienze e
delle tecniche in seno alle società occidentali. Ciò può suscitare qualche inquietudine presso coloro
che raccomandano la salvaguardia dello statu quo - a imitazione dei firmatari dell'Appello di
Heidelberg lanciato alla vigilia del summit di Rio del giugno 1992 e contrassegnato dalla presenza di
numerosi premi Nobel - e che fustigano «l'ideologia irrazionale che si oppone al progresso
scientifico e industriale e nuoce allo sviluppo economico e sociale». In compenso l'opera soddisfa
l'aspettativa di coloro cui preoccupa, al contrario, il corso preso dalla modernità tecnico-scientifica.
Secondo Jonas, i progressi scientifici e tecnici possono rivelarsi pericolosi ben al di là delle loro sole
ripercussioni militari, attentando ai grandi equilibri delle biosfera o minacciando l'integrità dell'uomo.
Le scienze e le tecniche possono compromettere la qualità della vita e perfino la sopravvivenza delle
generazioni future.
Nato in Germania nel 1903, scomparso nel febbraio 1993, Jonas ha avuto come maestri due dei
maggiori pensatori del secolo: il filosofo Martin Heidegger (1889-1976) e il teologo ed esegeta
Rudolf Bultmann (1884-1976). La frequentazione di Bultmann porterà Jonas a specializzarsi nello
studio delle religioni sino a divenire un grande conoscitore della gnosi. È solo a partire dagli anni
Sessanta che egli si interesserà delle scienza moderna, specificatamente della biologia, che egli ha
lungamente studiato da autodidatta. Fin dal 1933 Jonas fugge dalla Germania nazista per recarsi in
Inghilterra, successivamente in Palestina, e nel 1940 s'arruola nell'esercito inglese. Sia le scelte
politiche di Jonas come la sua riflessione sulla nuova condizione dell'uomo lo accostano a Hannah
Arendt (scomparsa nel 1975), filosofa notoriamente conosciuta per la sua critica delle due forme di
totalitarismo del XX secolo: lo stalinismo e il nazismo. Dopo la guerra, Jonas insegna in Canada, poi
a New York dove occuperà la cattedra di filosofia alla New School of Social Research. Durante
tutto il corso degli anni Settanta, egli lavorerà alla redazione de Il principio responsabilità.
L'opera apparirà nel 1979 e si vedrà assegnare nel 1987 il premio per la Pace dei librai tedeschi. La
vendita che all'inizio degli anni Ottanta ammontava a 30.000 esemplari raggiungerà la cifra record di
150.000. Più importante ancora è l'aura di cui godette Il principio responsabilità presso la classe
politica tedesca. Il cancelliere Helmut Schmidt dichiarava fin dal 1980 di portarselo in vacanza e il
suo esempio sembra esser stato seguito, ben al di là del suo proprio partito, dagli uomini politici che
citano la sua opera. Curiosamente, Jonas è più evocato dai liberali o dai socialdemocratici che dai
Verdi, ma la sua inclinazione verso un governo di esperti spiega probabilmente la reticenza di
quest'ultimi nei suoi riguardi, propendendo essi piuttosto per la democrazia diretta, o perlomeno per
l'estensione massimale delle procedure democratiche di decisione.
Se in Francia la reputazione di Jonas non oltrepassa di molto qualche ristretto ambiente intellettuale,
Il principio responsabilità è frequentemente citato nella letteratura ambientale anglo-sassone. In
linea di massima, il nocciolo stesso dell'etica di Jonas - il pensiero per le generazioni future - è
divenuta una preoccupazione internazionale ufficiale. Così la nozione di «sviluppo durevole», che si
deve alla Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo, è fondata sulla considerazione
dell'interesse delle generazioni a venire2.
Si noterà senza fatica la radicalità del cambiamento auspicato da Jonas quanto al ruolo delle scienze e
delle tecniche. La loro stessa potenza e le minacce che ne derivano, secondo lui, devono condurci a

1
Hans Jonas Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, a cura di P. P. Portinaro, Torino, Einaudi
2002.
2 Notre Avenir à tous. La Commission mondiale sur l'environnement et le développement, Editions du Fleuve, 1988.
rinunciare alla speranza quasi religiosa che ha accompagnato il progresso della scienza moderna. Una
lunga tradizione filosofica, da La Nuova Atlantide (1627) del cancelliere Bacone sino al Principio
speranza (1954-1956) del filosofo marxista Ernst Bloch, contro il quale Il principio responsabilità è
stato notoriamente redatto, ha in effetti accreditato le scienze e le tecniche del potere di realizzare la
città radiosa. La Nuova Atlantide può anche apparire come una anticipazione della nostra modernità.
Bacone vi propone che si organizzi la Città intorno alle scienze e alle tecniche, dato che la
conoscenza delle «cause» permette l'amplificazione di tutte le nostre facoltà e delle nostre fonti di
piacere. Il dominio della natura doveva partorire una umanità realizzata, liberata da tutte le forme di
costrizione e di alienazione.
Jonas rompe con questo utopismo della tecnica e ci invita a superare l'essenza stessa della civiltà
occidentale moderna, per la quale converrebbe far «indietreggiare i limiti dell'Impero Umano», in
tutte le cose secondo l'espressione di Bacone. Seguendo questo stesso principio parrebbe opportuno
accumulare sempre più sapere, sempre più tecnica, sempre più industrie e sempre più consumi per
avere, si spera, più benessere o perfino più felicità; è ciò che in termini economici si chiama crescita,
concepita come un processo uniforme. Jonas vede in questa concatenazione quasi automatica una
dinamica suicida e le oppone tutt'altro atteggiamento: quello che consiste nell'anticipare le
conseguenze eventualmente distruttrici delle nostre azioni ed imporgli loro dei limiti. Giacché è il
potere stesso delle scienze e delle tecniche, direttamente o indirettamente distruttivo, che ci costringe
a cambiare atteggiamento. Questo potere ci conferisce una responsabilità nuova e inedita: lasciare in
lascito alle generazioni future una terra umanamente abitabile, e non alterare le condizioni biologiche
dell'umanità. In mancanza di ciò queste generazioni non saprebbero esercitare la loro propria
responsabilità. Donde la massima cardinale di Jonas, ricalcata sull'imperativo categorico kantiano:
«Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza d'una vita
autenticamente umana sulla terra» e «in modo che gli effetti della tua azione non siano distruttivi
per la possibilità futura d'una tale vita». Se non si dà questo caso conviene allora rinunciare
all'azione progettata.
Può essere utile precisare che questo atteggiamento non contiene alcuna condanna della scienza e
della tecnica in se stesse. Non si saprebbe d'altronde edificare un sistema di produzione più rispettoso
delle costrizioni ecologiche senza uno sforzo scientifico e tecnico appropriato. È condannato solo il
fatto che la scienza e la tecnica siano esclusivamente messe al servizio della ricerca di un surplus
illimitato di potenza e di prestazioni, senza altra finalità che le capacità di assorbimento del mercato.
Sin qui sembra difficile non sottoscrivere il «principio di responsabilità». In compenso, le difficoltà si
accumulano dal momento in cui si affronta la questione delle modalità di applicazione di un tale
principio. In effetti, quale traduzione concreta conviene dargli e, più ancora, in quale organizzazione
politica potrà sboccare? Noi vedremo che, su questo punto, Jonas formula delle raccomandazioni
sorprendenti.
Il merito essenziale di Hans Jonas è quello di aver tratto le conseguenze della nostra situazione
odierna quanto alla nozione stessa di obbligazione morale. Oltre alle nuove possibilità dell'agire
umano, conviene poi considerare i cambiamenti che intaccano la nostra percezione del quadro stesso
dell'azione umana. Per il pensiero moderno, legato all'avvento della scienza newtoniana, il quadro
dell'azione è intangibile e perenne. L'infinità dell'Universo rafforza l'idea della prodigalità illimitata
della natura. Ma oggi, l'Universo della meccanica classica ha ceduto il posto a un Universo in
evoluzione, regolato dalla legge dell'entropia, che non può offrire all'azione umana che un quadro
finito e perituro. Per Jonas, la fragilità del mondo, associata al nostro potere di alterare la natura
intorno a noi e in noi, ha per conseguenza una modifica radicale dell'ordine di grandezza dei nostri
obblighi. Essi non concernono più solamente i nostri contemporanei, ma anche le generazioni future,
rendendoci responsabili della natura intorno a noi e in noi.
In che cosa sono cambiate le nostre responsabilità? La prima modifica ha indissociabilmente attinto al
tempo e all'oggetto stesso della responsabilità. La concezione moderna della responsabilità, così
come la definisce per esempio il diritto, è essenzialmente volta al passato e all'imputabilità personale.
Non si può essere responsabili che di ciò che si è effettivamente commesso o causato. Sono
considerate solo le conseguenze prossime dell'azione. Sin dal XIX secolo gli incidenti di lavoro, che
non sono necessariamente imputabili a una mancanza personale ma possono appartenere al
funzionamento normale della produzione industriale, conducono a un allargamento del concetto
giuridico di responsabilità. La responsabilità supera la nozione di imputabilità personale pur restando
nei limiti del passato. La nuova responsabilità, definita da Jonas, eccede contemporaneamente il
quadro del passato e quello dell'imputabilità della colpa. Nello stesso tempo, il principio secondo cui
la responsabilità non si ravviserebbe che per i danni inflitti a delle vittime particolari viene a cadere.
Per Jonas non si tratta più di considerare solamente le conseguenze prossime delle nostre azioni sui
nostri contemporanei, ma anche le loro conseguenze lontane, al di là di ogni possibilità di
riparazione, quanto alla preservazione d'una vita autenticamente umana per le generazioni future.
Inoltre, la responsabilità in questione è essenzialmente collettiva: il livello di vita delle generazioni
attuali può mettere in pericolo la qualità della vita e la sopravvivenza delle generazioni a venire.
Tanto varrebbe dire che una tale concezione non può avere una traduzione giuridica immediata.
La preservazione della specie umana, ormai considerata come peritura, ci rende in ugual misura
responsabili della natura. Poiché se «L'avvenire dell'umanità è la prima obbligazione del
comportamento», una seconda obbligazione si esercita nei riguardi della natura: la natura in noi, e
cioè l'identità genetica della specie, e la natura intorno a noi, ossia la biosfera. «Anche se - prosegue
Jonas - l'obbligo riguardo all'uomo continua ancora ad avere un valore assoluto, esso nondimeno
include ormai la natura come condizione della sua propria sopravvivenza e come uno degli
elementi della sua propria completezza esistenziale. Noi andiamo ancora più lontano e diciamo che
la solidarietà di destino tra l'uomo e la natura, solidarietà nuovamente riscoperta attraverso il
pericolo, ci fa ugualmente riscoprire la dignità autonoma della natura e ci impone di rispettare la
sua integrità al di là dell'aspetto utilitaristico». Questa « dignità autonoma della natura » non
permette tuttavia di ridurre Jonas alle tesi della deep ecology, corrente antiumanista dell'ecologia
radicale anglo-sassone, contrariamente a ciò che afferma il filosofo Luc Ferry e a ciò che ho io stesso
affermato3. Per Jonas non è questione di diritti che si potrebbero eventualmente far valere contro
l'umanità, ma piuttosto dei doveri dell'uomo verso la natura. E se noi dobbiamo alla «totalità (delle)
produzioni (della natura) una fedeltà», è «per quel che essa ci ha prodotto», per quanto la fedeltà
che « noi dobbiamo al nostro proprio essere» è la «sommità più elevata» di quella che noi dobbiamo
alla natura stessa. In ciò non compare la negazione del primato né della superiorità dell'uomo.
Il terzo cambiamento introdotto da Jonas in merito alla nozione di responsabilità concerne le
relazioni tra l'essere e il dover essere. La loro moderna separazione deve essere rifiutata. Se il primo
dovere dell'umanità è quello di vigilare sulla propria conservazione futura, allora non si potrebbe
separare l'essere dal dovere. In effetti ciò a cui mira l'etica del futuro non è tanto questo o
quell'aspetto dell'agire quanto l'esistenza stessa dell'uomo la quale ingloba, come abbiamo visto, la
biosfera. Per questo l'etica ci rinvia alla «metafisica in quanto dottrina dell'essere, di cui l'idea
dell'uomo costituisce una parte». Il dovere e l'ordine dei valori ai quali si conforma si radicano così
nell'essere. Meglio ancora, il valore fondamentale non è altro che il privilegio accordato all'essere
contro il non-essere.
Infine, l'ultima modifica legata al nuovo concetto di responsabilità tocca le relazioni tra sapere e
dovere. L'etica antica, così come quella moderna, distingueva la ragione teorica dalla ragione pratica.
L'azione rinviava ad una facoltà particolare, distinta dalla ragione teorica, il giudizio prudente per
Aristotele o la buona volontà per Kant. Ora la scienza moderna ha reso effimera la separazione tra la
ragione teorica e quella pratica, perché i limiti dell'azione umana non cessano di essere ridefiniti in
funzione delle ripercussioni tecniche del sapere scientifico. La tecnica, indissociabile dalla scienza, e
le incertezze che essa fa pesare sul nostro lontano divenire, appartengono ormai al dominio dell'etica.

3L. Ferry, Le Nouvel ordre écologique, Grasset, 1992; D. Bourg, Esprit, p. 80, ottobre 1992; D. Bourg, Géopolitique,
40, 21, 1992-1993.
Idealmente, converrebbe poter conoscere le conseguenze lontane delle nostre azioni sulla natura in
noi e intorno a noi per poterle apprezzare moralmente. Ma questo sapere è per noi inaccessibile.
Bisogna dunque sopperire a questa ignoranza con un'altra forma di anticipazione, che Jonas chiama
l'euristica della paura. Tenuto conto della gravità e della irreversibilità dei rischi cui noi facciamo
incorrere l'umanità futura, tenuto conto dell'impossibilità in cui ci troviamo di prevederli
scientificamente, diventa moralmente obbligatorio immaginare le conseguenze spaventose che
potrebbero risultare dalle nostre decisioni. Se sembra che una tecnica può, fosse pure con una debole
probabilità, mettere in pericolo l'esistenza o l'essenza dell'umanità, a dispetto dei vantaggi che
potrebbero eventualmente derivarne, dobbiamo rinunciarci. Allo stesso modo bisogna finirla con
l'utopismo tecnicista secondo il quale la tecnica sarebbe sempre idonea a risolvere i problemi che essa
crea. I rischi corsi ci proibiscono una tal scommessa, perché noi non potremmo scommettere sulla
sopravvivenza della specie.
Rimane da analizzare un aspetto importante dell'approccio di Jonas cui mi accontenterò di accennare
brevemente: il fondamento dell'etica della responsabilità. Secondo Jonas, non si può accontentarsi
della comprensione della natura in termini esclusivamente fisici e chimici, perché, sostiene, la «il fine
come tale è domiciliato nella natura». La soggettività umana, e di conseguenza la finalità cosciente,
non sarebbe che la manifestazione estrema di una finalità incosciente, inerente agli esseri viventi.
«Con la produzione della vita, - scrive Jonas - la natura manifesta almeno un fine determinato, e
cioè la vita stessa » 4. Si ritrova qui il radicamento ontologico del valore, la preferenza accordata
all'essere contro il non-essere. Anche in questo caso, malgrado una affinità tutta relativa, non penso
che si possa parlare d'una identicità tra il pensiero di Jonas e la deep ecology. Innanzitutto perché noi
siamo responsabili della perpetuazione della responsabilità umana nell'avvenire e, come sottolinea
Paul Ricoeur nel suo saggio su Jonas, «l'idea di umanità oltrepassa l'idea di vita »5. In secondo
luogo perché l'esercizio della responsabilità non potrebbe essere ridotto ad una qualsiasi imitazione
della natura. Con la comparsa dell'uomo « la natura, - scrive in effetti Jonas - si è perturbata da sé»;
essa ha reso possibile l'esistenza di un « sapere e (di un) volere indipendenti dal resto del mondo».
La «politica pubblica » appare a Jonas come la reale sfera d'applicazione del « principio
responsabilità ». Tuttavia, le conseguenze politiche che egli intendeva dare a detto principio nel
1979, data di pubblicazione del libro, non sono molto convincenti. Le prime difficoltà concernono
l'indeterminatezza dell'oggetto stesso della responsabilità, cioè il mantenimento «d'una vita
autenticamente umana sulla terra». Per Jonas, ciò mira allo stesso tempo al grado di abitabilità
della Terra e alla permanenza dell'identità genetica della specie. In riferimento all'abitabilità della
Terra mi sembra difficile dare a questa espressione una accezione universale e già fin d'ora sul
pianeta ci sono dei luoghi dove questa abitabilità è compromessa. Al contrario, è probabile che le
generazioni future si assueferanno a un grado di artificiosità ben superiore a quella che abbiamo oggi
in Occidente. Per loro quale sarà allora il senso di questo principio? Quello che ha per noi, o quello
corrispondente al loro stile di vita?
Le cose non appaiono molto più semplici riguardo all'identità del patrimonio genetico. Supponiamo
che un giorno sia possibile modificare l'identità genetica della specie. Supponiamo ancora che lo
strato d'ozono, per delle ragioni naturali, arrivi a languire al punto di minacciare la salute umana.
Immaginiamo infine che non ci sia altra soluzione possibile per far fronte a questo stato di cose che
una modifica del nostro genoma. Dovremmo rinunciarci? Di fronte alla degradazione naturale e
inevitabile della biosfera nei millenni a venire, non sarà la demiurgia umana il solo mezzo di
preservare l'esistenza della specie?

4 H. Jonas, The Phenomenon of Life. Towards a Philosophical Biology, Harper and Row, 1966; H. Jonas, Macht oder
Ohnmacht der Subjektivität? Das Leib-Seele-Problem im Vorfeld des Prinzips Verantwortung, 1981; H. Jonas,
Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, 1985.
5 P. Ricoeur, Lectures 2, Le Seuil, 1992, p. 304; «Penser la terre. Lectures de Hans Jonas», Le Messager européen, 5,
173, 1991; B. Sève. Esprit, p. 72, ottobre 1990.
All'epoca della pubblicazione de Il principio responsabilità nel 1979, Jonas contrapponeva ai regimi
liberali i «regimi marxisti concreti» o i «partiti comunisti concreti». Solo quest'ultimi gli apparivano
propizi all'instaurazione di una tirannia di un nuovo genere, bonariamente definita come «tirannia
benevola» (eine wohlwollen-de Tyrannis). Difatti, dato che il « complesso capitalista-liberal-
democratico » non conosce come unica logica che la crescita dei consumi e la soddisfazione degli
interessi immediati, Jonas sosteneva che bisognava opporre all'appetito insaziabile delle folle edoniste
la chiaroveggenza di una «élite», la sola capace «di assumere eticamente e intellettualmente la
responsabilità per l'avvenire». Questa «élite con delle lealtà segrete e delle finalità segrete» non
esiterà a usare una «bugia pietosa» se tuttavia la «verità è difficile da sopportare». Jonas, che
provava tuttavia qualche inquietudine in merito alla possibilità di veder formarsi una tal élite nei
regimi comunisti, si consolava nondimeno all'idea dell'immensità del potere di cui essa disporrebbe
nei confronti di masse ricettive già avvezze alla frugalità e all'ascetismo. Certo, il discorso di Jonas è
dopo di allora cambiato per quel che concerne gli ex-paesi dell'Est. Egli ha riconosciuto di aver perso
tutte le sue illusioni in materia. Nondimeno il suo scetticismo riguardo alla capacità delle democrazie
a mettere in primo piano l'etica della rinuncia non sembra molto migliorato. È tuttavia giocoforza
constatare la totale legittimità della sua domanda: gli elettori saranno capaci di accettare delle misure
preventive di salvaguardia esigenti dei pesanti sacrifici? E riconosciamo anche la sua liberalità
d'animo: «Ma forse gli uomini sono così sottostimati - forse l'austera verità può esaltare anche lei,
e non solamente il piccolo numero, ma finalmente anche il grande numero». Quanto alla fondatezza
delle soluzioni non democratiche - come quella considerata da Jonas all'occorrenza, e cioè il governo
quasi segreto di una élite - la questione mi pare per lo meno pericolosa.
I paesi dell'Est ci hanno mostrato in quale misura una piccola élite poteva, in materia d'ambiente,
preservare i suoi interessi disprezzando completamente quelli della massa. La nomenklatura rumena,
per esempio, faceva produrre, in margine al disastro generale, alimenti biologicamente sani per il suo
uso esclusivo. Invece, un tale sfacelo ecologico non si è prodotto nelle democrazie occidentali,
giacché sarebbe stato impossibile risparmiarne gli effetti alla maggioranza. Ma più semplicemente
ancora l'idea stessa di affidare il potere a qualche élite segreta mi pare inaccettabile. Tale idea
partecipa di un'assenza totale di sensibilità ai rischi drammatici della condizione umana, alla
conversione sempre possibile di bene in male, che Jonas invece tanto rimprovera,
contradditoriamente, agli utopisti marxisti. Cosa ci garantirà contro una evoluzione funesta di questi
re-filosofi stile Hans Jonas? Come risolveranno i dissensi che non mancheranno di frapporsi tra loro?
Quale regime incoraggeranno all'interno degli eco-gulag? Infine, cosa ci può essere di più pericoloso
che un piccolo gruppo di uomini abbandonati a loro stessi, senza controlli di sorta, convinti di
detenere la chiave per la salvezza dell'umanità a dispetto di tutti.
Di gran lunga più prudente mi sembra la doppia procedura di controllo inerente al funzionamento
delle democrazie: il controllo delle élites da parte dei cittadini e quello dei cittadini da parte delle
élites. Il meccanismo della rappresentanza parlamentare e le garanzie afferenti lo Stato di diritto
rendono in effetti possibile una certa messa a distanza della rappresentanza nazionale in rapporto ai
cittadini, senza pertanto abbandonarla al suo proprio arbitrio. Si ravvisa in questo proprio un
dispositivo per evitare i più funesti scivoloni.
Efficaci e illuminanti, le analisi de Il principio responsabilità non restano meno problematiche
appena ci si informi delle loro modalità di applicazione. Oltre a quella di Jonas altre possibilità sono
state immaginate per mettere in atto delle procedure di autolimitazione della produzione. Così
l'antropologa Mary Douglas non esita a stimare quali potrebbero essere le possibilità di riuscita, nelle
nostre democrazie, di un movimento favorevole all'ascetismo ecologista6. Meno aleatorio mi sembra
il programma proposto dal filosofo André Gorz, d'altronde ostile a ogni deriva «espertocratica»

6M. Douglas, «A quelles conditions un ascétisme environnementaliste peut-il reussir?», in D. Bourg, (a cura di), La
Nature en politique, Association Descartes/L'Harmattan, 1993.
dell'ecologia politica, che oscilla tra riduzione del tempo di lavoro e limitazione della produzione7.
Comunque sia, il merito essenziale di Jonas - aver considerato i doveri che ci legano alle generazioni
future - resta intatto perché non potrebbe esserci ecologia politica senza considerazione per
l'avvenire della nostra specie. L'insistenza degli ispiratori del pensiero ecologista, come Nicholas
Georgescu-Roegen8, sul carattere limitato del patrimonio dell'umanità in energia di bassa entropia
non ha importanza se non che ci si preoccupi della sorte dell'umanità a venire. L'ecologia non si
oppone al progresso, essa tende piuttosto a non sciuparne la possibilità per coloro che ci
succederanno.

(La recherche, n. 256, volume 24, Juillet-Août 1993, traduzione di Valerio Pignatta)

7A. Gorz, Actuel Marx, 12, 15, 1992.


8N. Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, Harvard University Press, 1971; N. Georgescu-
Roegen, Demain la décroissance. Entropie-écologie-économie, Editions Pierre-Marcel Favre, 1979.

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