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DELLA NUOVA INTRODUZIONE


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Manuel Castells
Comunicazione
e Potere
Titolo originale: Communication Power
Copyright © 2009, 2013 Manuel Castells
Originally published by Oxford University Press
Per l’edizione in lingua italiana
Copyright © 2009, 2014 EGEA
Università Bocconi Editore
Traduzione: Bruno Amato
Paola Conversano (Appendice)
Copertina: ZAZO, Milano
EGEA S.p.A.
Via Salasco, 5 - 20136 Milano
Tel. 02/5836.5751 – Fax 02/5836.5753
egea.edizioni@unibocconi.it - www.egeaonline.it
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Per altre informazioni o richieste di riproduzione si veda il sito www.egeaonline.it/fotocopie.htm
Date le caratteristiche di Internet, l’Editore non è responsabile per eventuali variazioni di indirizzi e contenuti dei
siti Internet menzionati.
ISBN 978-88-8350-091-6
Realizzazione del formato digitale a cura di Promedia, Torino
Alla memoria di Nicos Poulantzas,
un fratello,
teorico del potere
INDICE
DOWNLOAD DELLA NUOVA INTRODUZIONE
Ringraziamenti
Apertura
1.Il potere nella società in rete
Che cos’è il potere?
Stato e potere nell’era globale
Reti
La società in rete globale
Lo stato a rete
Il potere nelle reti
Potere e contropotere nella società in rete
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale
2.La comunicazione nell’età digitale
Una rivoluzione nella comunicazione?
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla
comunicazione di massa all’autocomunicazione di massa
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali
multimediali globali
La politica delle politiche di regolamentazione
Il mutamento culturale nel mondo globalizzato
L’audience creativa
La comunicazione nell’età digitale globale
3.Le reti della mente e il potere
I mulini a vento della mente
Emozione, cognizione e politica
Emozione e cognizione nelle campagne politiche
Politica e credenze
Il framing della mente
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla
disinformazione alla mistificazione
Il potere del frame
4.Intervenire sulle reti di comunicazione: politica mediatica, politica dello scandalo e crisi
della democrazia
Il potere dell’immagine
Omicidi semantici: la politica mediatica all’opera
Monitorare l’accesso alle democrazia
The message is the medium: politica mediatica e politica dell’informazione
Progettare il messaggio: i think tank politici
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza
La pista del denaro
La manipolazione delle notizie
Il momento della falsità: le campagne elettorali
Le campagne in un ambiente digitale multimediale
La politica dello scandalo
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica
Politica scandalistica e politica mediatica
L’impatto politico della politica dello scandalo
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna
socialista
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded»
nei media
Russia: censura te stesso
Cina: dominare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione politica
Crisi della democrazia?
5.Riprogrammare le reti di comunicazione: movimenti sociali, politica insorgente e nuovo
spazio pubblico
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova
cultura della natura
La rete è il messaggio: i movimenti globali contro la globalizzazione delle
grandi corporation
La resistenza cellulare: comunicazione wireless e le comunità insorgenti di
prassi
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del
2008
Riprogrammare le reti, ristrutturare le menti, cambiare il mondo

Conclusione: verso una teoria comunicazionale del potere

Appendice

Bibliografia

Indice dei nomi

Informazioni sul Libro

Circa l’autore
RINGRAZIAMENTI
I libri di solito sono un’impresa collettiva sotto la responsabilità esclusiva dell’autore.
Questo non fa eccezione. È nato nella mia mente molto tempo fa, ma si è evoluto
nell’interazione con colleghi e studenti di tante parti del mondo, e ha preso forma grazie
agli ambienti accademici e sociali in cui ho vissuto e lavorato fin dall’inizio di questo
millennio. Per questo motivo, citare le persone e le istituzioni che hanno cooperato alla
produzione di quest’opera non è un fatto di cortesia, ma di precisione nel firmare il libro.
Il mio primo ringraziamento va ad Amelia Arsenault, mia studentessa di dottorato,
eccellente assistente per le ricerche e Wallis Annenberg, Graduate Research Fellow presso
la Annenberg School for Communication, University of Southern California. In parole
povere, senza la qualità intellettuale e la dedizione personale del suo lavoro nel corso degli
anni, questo libro, nella sua forma attuale, non esisterebbe. Proseguirà la sua carriera
accademica diventando una grande studiosa fornita di splendide doti, impegnata a capire il
mondo per renderlo migliore.
Un ulteriore sostegno per le ricerche su cui si basa questo libro è venuto dalla preziosa
assistenza di Lauren Movius, Sasha Costanza-Chock, e Sharon Fain, studenti laureati della
Annenberg School for Communication, e della dottoressa Meritxell Roca, mia
collaboratrice all’Internet Interdisciplinary Institute dell’Universitat Oberta de Catalunya a
Barcellona. Precedenti versioni delle analisi presentate in questo volume sono state
discusse e modificate grazie all’interazione con i miei studenti alla Annenberg School for
Communication. Desidero rivolgere un ringraziamento speciale agli studenti del mio
seminario di ricerca Comm620: «Communication, Technology, and Power», tenuto nella
primavera del 2008. Specifici riconoscimenti del lavoro svolto da diversi studenti in
questo e in altri seminari si possono trovare nelle note e nei riferimenti del libro.
Le mie ricerche attuali, in questo libro e in altre opere, hanno tratto un considerevole
beneficio dallo stimolo intellettuale di due sedi accademiche: la Annenberg School for
Communication presso la University of Southern California (USC) a Los Angeles, e
l’Internet Interdisciplinary Institute dell’Universitat Oberta de Catalunya (UOC) a
Barcellona. Ho un profondo debito di gratitudine con i miei colleghi in entrambe le
istituzioni per l’appoggio e la collegialità che mi hanno fornito nel corso degli anni.
Ringrazio in particolare il preside Geoffrey Cowan, il preside Ernest Wilson, il direttore
Larry Gross, il direttore Patricia Riley dell’USC, e il rettore Imma Tubella dell’UOC, per
lo straordinario sostegno personale e istituzionale che hanno dato alla mia ricerca da
quando sono entrato a far parte della Annenberg School for Communication all’USC e
dell’Internet Interdisciplinary Institute all’UOC. Queste istituzioni accademiche sono la
punta avanzata della ricerca e della didattica sulla società nella rete globale, e sono fiero di
condividere con loro l’importante progetto di situare l’università all’interno delle
condizioni tecnologiche e intellettuali dell’Età dell’Informazione.
Sono anche grato ai miei colleghi e studenti del Massachusetts Institute of Technology
(MIT Science, Technology, and Society Program; Department of Urban Studies and
Planning; e Media Lab) per la loro significativa interazione durante i miei ripetuti periodi
di insegnamento come visiting professor in una delle istituzioni scientifiche più prestigiose
del mondo. Uno speciale ringraziamento va a William Mitchell, Rosalind Williams, David
Mindell, Larry Vale e Malo Hutson.
Quando affermo che questo libro è un lavoro collettivo, lo dico con convinzione. Ha
ricevuto il generoso contributo intellettuale di numerosi colleghi che l’hanno letto tutto o
in parte nelle varie stesure del manoscritto, e l’hanno commentato diffusamente. Ho
sottoposto ogni capitolo a diversi giri di revisione, poiché ogni volta che pensavo di aver
raggiunto il punto in cui la mia ricerca potesse essere comunicata, arrivavano nuovi
commenti e suggerimenti da colleghi pronti a imbastire un dialogo con me durante il
processo di elaborazione di questo libro. Ho modificato argomentazioni, aggiornato dati,
asciugato la prosa in seguito a queste molteplici interazioni con colleghi di diverse
istituzioni accademiche. Non sono riuscito a integrare ogni commento, in quanto molti di
loro provenivano da prospettive diverse, ma ho attentamente considerato ogni singolo
commento ricevuto, e questo ha prodotto modifiche sostanziali nella teoria e nelle analisi
presentate nel libro. Inutile dire che fraintendimenti ed errori durante questo lungo
processo di revisione sono mia responsabilità esclusiva. E così, voglio esprimere
pubblicamente la mia più profonda gratitudine ad Antonio Damasio, Hanna Damasio,
Jerry Feldman, George Lakoff, Jonathan Aronson, Tom Hollihan, Peter Monge, Sarah
Banet-Weiser, Ernest Wilson, Jeffrey Cole, Jonathan Taplin, Marty Kaplan, Elizabeth
Garrett, Robert Entman, Lance Bennett, Frank Webster, Robin Mansell, William Dutton,
Rosalind Williams, Imma Tubella, Michael Dear, Ingrid Volkmer, Geoffrey Bowker, John
Thompson, Ronald Rice, James Katz, W. Russell Neuman, George Marcus, Giancarlo
Bosetti, Svetlana Balmaeva, Eric Klinenberg, Emma Kiselyova, Howard Tumber, Yuezhi
Zhao, René Weber, Jeffrey Juris, Jack Linchuan Qiu, Irene Castells, Robert McChesney e
Henry Jenkins. La loro collegialità dimostra che la coproduzione open-source in realtà è
un’invenzione medievale che ebbe inizio nell’ambiente universitario, e continua oggi
come pratica essenziale nell’indagine scientifica.
Sono anche grato ai colleghi, gli studenti e i cittadini in genere che hanno commentato
le pubbliche presentazioni delle idee e delle analisi sulla comunicazione e il potere che
hanno poi condotto all’elaborazione di questo libro. Tale interazione svoltasi in diverse
sedi tra il 2003 e il 2008 ha rifinito notevolmente l’argomentazione appena abbozzata che
avevo in mente anni fa quando per la prima volta mi dedicai a questo progetto di ricerca.
In particolare vorrei ricordare il consiglio direttivo dell’International Communication
Association (ICA), con uno speciale ringraziamento a Ingrid Volkmer e Ronald Rice, e i
partecipanti alla mia conferenza al convegno del 2006 dell’ICA a Dresda; l’American
Political Science Association, e i partecipanti alla mia Ithiel de Sola Pool Lecture tenuta a
Chicago nel 2004; la London School of Economics and Political Science; il Program in
Science, Technology, and Society al MIT; la Milano Graduate School of Management
presso la New School University di New York; il De Balie Cultural Center di Amsterdam;
l’Accademia spagnola di Cinema e Televisione di Madrid; il Parlamento catalano di
Barcellona; l’Institute Fernando Henrique Cardoso di São Paulo; il World Political Forum
di Venezia; la Gulbenkian Foundation di Lisbona; la School of Information Science
dell’University of California, Berkeley; i miei colleghi del Center for Science,
Technology, and Society della Santa Clara University; e i miei colleghi del Los Angeles
Institute of the Humanities.
L’elaborazione e la realizzazione di questo libro sono state rese possibili dalla
professionalità e dalla dedizione di Melody Lutz, mia assistente personale alla Annenberg
School for Communication, e di Anna Sanchez-Juarez, mia assistente personale
all’Universitat Oberta de Catalunya. Senza il loro accurato coordinamento, pianificazione
ed esecuzione, questo complesso progetto non sarebbe potuto arrivare a completamento.
La mia calorosa gratitudine a entrambe.
La scrittura di questo libro ha tratto vantaggio da un lavoro editoriale di prim’ordine. La
mia assistente Melody Lutz, lei stessa scrittrice professionale, ha guidato la mia scrittura
pur rispettando il mio stile, uno stile derivato, nel bene e nel male, dalla remix culture che
caratterizza la mia vita. Sono sicuro che il suo sforzo sarà ricompensato dalla gratitudine
di molti lettori, in particolare di quegli studenti che abitualmente devono districarsi tra le
pagine dei miei libri per svolgere i lavori loro assegnati.
Come per tutti i miei libri del decennio passato, a far da collegamento tra voi, i lettori, e
me, l’autore, è stata la mia copy-editor, Sue Ashton. Sono grato per l’aiuto che mi ha dato
negli anni.
Voglio anche ringraziare sinceramente il mio editor alla Oxford University Press, David
Musson, con cui ho iniziato un dialogo intellettuale aperto un decennio fa, un dialogo da
cui sono scaturiti numerosi progetti, compreso questo libro. Desidero anche ricordare il
bel lavoro editoriale compiuto da Matthew Derbyshire e Kate Walker durante la
produzione di questo libro presso la Oxford University Press.
Ho un grande debito di riconoscenza verso i medici che mi hanno tenuto a galla durante
tutti questi anni, restituendomi dopo una grave malattia a una vita normale e produttiva.
Vorrei tanto che la mia esperienza potesse dare speranza a chi ne ha bisogno. Per questo,
sono profondamente grato al dottor Peter Carroll e al dottor James Davis della University
of California, San Francisco Medical Center; al dottor Benet Nomdedeu della Clinica
Ospedaliera, della Università di Barcellona; e al dottor John Brodhead della Keck School
of Medicine, University of Southern California.
Da ultimo, ma certamente non per importanza, la mia famiglia ha continuato a mettermi
a disposizione l’atmosfera affettiva che fa di me una persona, e per di più una persona
felice. Per questo, vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio amore a mia moglie Emma
Kiselyova, a mia figlia Nuria, alla mia figliastra Lena, ai miei nipoti Clara, Gabriel e
Sasha, a mia sorella Irene e a mio cognato José Bailo. Un ringraziamento speciale va a
Sasha Konovalova, con cui ho condiviso l’ufficio per un anno intero nel periodo finale
della stesura di questo libro, mentre lei scriveva i suoi paper per il college. Non solo non
ha mai disturbato la mia concentrazione, ma è diventata anche una acuta commentatrice e
un punto di riferimento nella mia esplorazione della cultura giovanile nel nuovo ambiente
di comunicazione.
E così, questo per me non è solo un altro libro, ma un libro speciale perché mette
insieme la mia ricerca e con il desiderio di un mondo reso migliore dalla libera
comunicazione delle persone. Purtroppo, come vedrete andando oltre questa pagina, le
cose non sono così semplici. Vi invito quindi a condividere il mio viaggio intellettuale.
Manuel Castells
Santa Monica, California, agosto 2008
APERTURA
Avevo diciotto anni. La mia ansia di libertà urtava contro i muri che il dittatore aveva
eretto intorno alla vita. La mia vita e quella di chiunque altro. Scrissi un articolo per il
giornale della facoltà di legge, e il giornale fu chiuso. Recitai nel Caligola di Camus, e il
nostro gruppo teatrale fu incriminato per incoraggiamento dell’omosessualità. Quando mi
sintonizzavo sulla BBC per cambiar musica, non sentivo assolutamente nulla al di là del
crepitio delle interferenze radio. Quando volevo leggere Freud, dovevo raggiungere
l’unica biblioteca di Barcellona che avesse accesso alla sua opera e riempire un modulo
che spiegava il motivo della mia richiesta. Quanto a Marx o Sartre o Bakunin, nemmeno a
pensarci – a meno che non fossi disposto a prendere l’autobus fino a Tolosa e nascondere i
libri alla frontiera, correndo rischi impensabili se mi avessero beccato a contrabbandare
propaganda sovversiva. E così decisi di affrontare questo soffocante, demente regime
franchista ed entrai a far parte della resistenza clandestina. A quel tempo la resistenza
all’Università di Barcellona contava qualche decina appena di studenti, dato che la
repressione poliziesca aveva decimato la vecchia opposizione democratica, e la nuova
generazione nata dopo la guerra civile stava appena entrando nell’età adulta. Eppure, la
profondità della nostra rivolta, e la promessa della nostra speranza, ci dava la forza di
ingaggiare una lotta assolutamente impari.
Ed eccomi lì, nell’oscurità di una sala cinematografica in un quartiere operaio, pronto a
risvegliare la coscienza delle masse sfondando i cordoni della comunicazione ufficiale
dietro i quali erano relegati – o almeno così pensavo. Avevo un mazzo di volantini in
mano. Erano quasi illeggibili, stampati com’erano con un rudimentale ciclostile a mano
impregnato di inchiostro violaceo, l’unico mezzo di comunicazione di cui disponessimo in
un paese soffocato dalla censura. (Mio zio, un colonnello dell’esercito, aveva un comodo
lavoro di censore, in cui leggeva ogni libro possibile – era lui stesso scrittore – e inoltre
vedeva in anteprima tutti i film sexy per decidere che cosa tagliare per il pubblico e che
cosa tenere per sé e i colleghi nella chiesa e nell’esercito). E così decisi di rimediare al
collaborazionismo della mia famiglia con le forze delle tenebre distribuendo qualche
foglio ai lavoratori, per denunciare le loro condizioni di vita (come se non le conoscessero
già), e chiamarli all’azione contro la dittatura, senza perdere di vista il rovesciamento
futuro del capitalismo, radice di ogni male. L’idea era quella di lasciare i volantini sulle
poltrone vuote del cinema, così che alla fine dello spettacolo, all’accensione delle luci, gli
spettatori raccogliessero il messaggio – un audace messaggio dalla resistenza per infonder
loro speranza e impegno nella lotta per la democrazia.
Quella sera mi feci sette cinema, spostandomi, per non farmi individuare, ogni volta in
una zona diversa in un quartiere operaio differente. Per quanto ingenua fosse la strategia di
comunicazione, non era un gioco da ragazzi, perché essere scoperti significava farsi
massacrare di botte dalla polizia e con ogni probabilità finire dentro, cosa che era successa
a diversi miei amici. Ma, ovviamente, la prodezza delle nostre azioni ci eccitava e dava
alla testa, sperando al tempo stesso di evitare calci in testa. Quando l’azione rivoluzionaria
del giorno era finita (uno di quei tanti giorni prima di finire in esilio a Parigi, due anni
dopo), chiamai la mia ragazza, fiero di me, sentendo che le parole che avevo trasmesso
potevano cambiare un po’ di menti, che avrebbero finito per cambiare il mondo. All’epoca
erano tante le cose che non sapevo. Non che oggi ne sappia molte di più. Ma allora ancora
non sapevo che il messaggio è efficace solo se il ricevente è pronto ad accoglierlo (e la
maggioranza non lo era) e se il latore è identificabile e affidabile. E il Fronte Operaio di
Catalogna (al 95 per cento composto da studenti) non era un brand politico serio quanto i
comunisti, i socialisti, i nazionalisti catalani, o quello di ogni altro partito consolidato,
proprio perché volevamo essere diversi – eravamo in cerca di un’identità in quanto
generazione del dopo guerra civile.
Così, dubito che il mio effettivo contributo alla democrazia spagnola fu pari alle mie
aspettative di allora. Eppure, il cambiamento sociale e politico si è sempre realizzato,
dappertutto e in tutti i tempi, a partire da una miriade di azioni gratuite, a volte così
inutilmente eroiche (la mio certamente non lo era) da essere sproporzionate rispetto alla
loro efficacia: le gocce di una pioggia ininterrotta di lotte e sacrifici che alla fine inondano
i bastioni dell’oppressione, se e quando i muri dell’incomunicabilità tra solitudini parallele
cominciano a creparsi, e il pubblico diventa «We the people». Dopotutto, per ingenue che
fossero le mie aspirazioni rivoluzionarie, avevo la ragione dalla mia parte. Perché il
regime avrebbe chiuso ogni canale di comunicazione al di fuori del suo controllo se la
censura non fosse stata l’essenza della perpetuazione del suo potere? Perché i Ministeri
dell’Istruzione, allora come adesso, continuano a commissionare manuali di storia e, in
alcuni paesi, decidono persino quali dei (solo quelli autentici) si debbano omaggiare
nell’aula scolastica? Perché gli studenti dovettero lottare per la libertà di parola; i sindacati
per il diritto a diffondere informazioni su lavoro in azienda (allora sulla bacheca, oggi sul
sito web); le donne per creare librerie delle donne; le nazioni sottomesse per comunicare
nella propria lingua; i dissidenti sovietici per distribuire la letteratura dei samizdat; perché
gli afroamericani negli USA e i popoli colonizzati in tutto il mondo hanno dovuto lottare
perché gli fosse concesso di leggere? Quello che sentivo allora, e che penso adesso, è che
il potere è basato sul controllo della comunicazione e dell’informazione, sia che si tratti
del macropotere dello stato e delle corporation dei media, o del micropotere di
organizzazioni di ogni sorta. E così, la mia lotta per la comunicazione libera, nel blog
d’inchiostro viola dell’epoca, era davvero un atto di sfida, e i fascisti, dal loro punto di
vista, avevano ragione a cercare di prenderci e rinchiuderci, così da bloccare i canali che
collegavano le menti individuali e la mente pubblica. Il potere è più che comunicazione, e
la comunicazione eccede il potere. Ma il potere si fonda sul controllo della
comunicazione, come il contropotere dipende dall’infrangere quel controllo. E la
comunicazione di massa, la comunicazione che potenzialmente raggiunge l’intera società,
è modellata e governata da relazioni di potere, radicate nel business dei media e nella
politica dello stato. Il potere della comunicazione sta al cuore della struttura e della
dinamica della società.
Questo è l’argomento di questo libro. Perché, come, e da chi le relazioni di potere sono
costruite ed esercitate attraverso la gestione dei processi di comunicazione, e come queste
relazioni di potere possono essere alterate da attori sociali che puntano al cambiamento
sociale influenzando l’opinione pubblica. La mia ipotesi di lavoro è che la forma più
fondamentale di potere consiste nell’abilità di plasmare la mente umana. Il modo in cui
sentiamo e pensiamo determina il modo in cui agiamo, individualmente e collettivamente.
Certamente, la coercizione, e la capacità di esercitarla, legittimamente o no, è una fonte
essenziale del potere. Ma la coercizione da sola non è in grado di stabilizzare il dominio.
La capacità di costruire consenso, o almeno di instillare timore e rassegnazione nei
confronti dell’ordine costituito, è essenziale per imporre le regole che governano le
istituzioni e le organizzazioni della società. E quelle regole, in tutte le società, manifestano
relazioni di potere incasto-nate nelle istituzioni in seguito a processi di lotta e
compromesso tra attori sociali in conflitto che si mobilitano per i propri interessi sotto la
bandiera dei propri valori. Inoltre, il processo d’istituzionalizzazione delle norme e regole
e la sfida a queste norme e regole da parte di attori che non si sentono adeguatamente
rappresentati nei meccanismi del sistema procedono simultaneamente, in un movimento
incessante di riproduzione della società e di produzione del cambiamento sociale. Se la
battaglia fondamentale sulla definizione delle norme della società, e l’applicazione di
queste norme nella vita quotidiana, ruota intorno al processo di plasmazione della mente
umana, la comunicazione occupa un posto centrale in questa battaglia. Perché è attraverso
la comunicazione che la mente umana interagisce con il suo ambiente sociale e naturale. Il
processo di comunicazione opera in base alla struttura, la cultura, l’organizzazione e la
tecnologia di comunicazione di una data società. Il processo di comunicazione media in
maniera decisiva il modo in cui le relazioni di potere vengono costruite e contestate in
ogni ambito della prassi sociale, ivi compresa la prassi politica.
L’analisi presentata in questo libro si riferisce a una specifica struttura sociale: la società
in rete. La struttura sociale che caratterizza la società del primo XXI secolo, una struttura
sociale costruita intorno a (ma non determinata da) reti digitali di comunicazione. Affermo
che il processo di formazione e di esercizio delle relazioni di potere si è drasticamente
trasformato nel nuovo contesto organizzativo e tecnologico derivato dalla nascita delle reti
digitali globali di comunicazione come fondamentali sistemi di elaborazione di simboli del
nostro tempo. Pertanto, l’analisi delle relazioni di potere richiede la comprensione della
specificità delle forme e dei processi di comunicazione socializzata, il che nella società in
rete significa sia i mass media multimodali sia le reti di comunicazione orizzontali e
interattive, costruite intorno a Internet e alla comunicazione wireless. Anzi, queste reti
orizzontali rendono possibile l’emergere di quella che chiamo autocomunicazione di
massa, accrescendo drasticamente l’autonomia dei soggetti comunicanti rispetto alle
corporation delle comunicazioni, in quanto gli utenti diventano al tempo stesso mittenti e
destinatari di messaggi.
Per spiegare però in che modo il potere è costruito nelle nostre menti mediante processi
di comunicazione, dobbiamo andare al di là del come e da chi i messaggi sono originati
nel processo di formazione del potere e trasmessi/formattati nelle reti elettroniche di
comunicazione. Dobbiamo capire anche in che modo sono elaborati nelle reti del cervello.
È nelle specifiche forme di connessione tra reti di comunicazione e significato nel nostro
mondo e reti di comunicazione e significato nel nostro cervello che è possibile in ultima
analisi identificare i meccanismi formazione del potere.
Un tale obiettivo di ricerca costituisce un’impresa davvero ardua. Così, nonostante i
tanti anni dedicati al progetto intellettuale comunicato in questo libro, non pretendo di
fornire risposte definitive agli interrogativi che sollevo. Il mio scopo, già di per sé
ambizioso, è quello di proporre un nuovo approccio all’interpretazione del potere nella
società in rete. E, come passo necessario verso questo obiettivo, specificare la struttura e la
dinamica della comunicazione nel nostro contesto storico. Per portare avanti la
costruzione di una fondata teoria del potere nella società in rete (che, per me, è equivalente
a una teoria del potere della comunicazione), concentrerò i miei sforzi sullo studio dei
processi in corso di affermazione del potere e del contropotere in politica, usando le
ricerche accademiche disponibili sull’argomento, e conducendo un certo numero di studi
di casi su una varietà di contesti sociali e culturali. Sappiamo però che il potere politico
rappresenta solo una delle dimensioni del potere, in quanto le relazioni di potere si
costruiscono in una complessa interazione tra le sfere multiple della pratica sociale. E così,
la mia analisi empirica sarà necessariamente incompleta, benché speri di stimolare un
prospettiva analitica simile per lo studio del potere lungo altre dimensioni, come la
cultura, la tecnologia, la finanza, la produzione o il consumo.
Confesso che la scelta del potere politico come oggetto primario della mia indagine è
stata determinata dall’esistenza di una consistente letteratura scientifica che in anni recenti
ha esaminato la connessione tra comunicazione e potere politico sul confine tra scienza
cognitiva, ricerca comunicazionale, psicologia politica e comunicazione politica. In questo
libro, combino la mie personali competenze di analisi sociopolitica e sullo studio delle
tecnologie di comunicazione con i lavori di studiosi che si sono occupati dell’interazione
tra cervello e potere politico, così da offrire un corpus di osservazioni che possono dar
conto dell’importanza di questo approccio interdisciplinare. Ho esplorato le fonti delle
relazioni di potere politico nel nostro mondo cercando di stabilire un nesso tra la dinamica
strutturale della società in rete, la trasformazione del sistema di comunicazione,
l’interazione tra emozione, cognizione e comportamento politico, e lo studio della politica
e dei movimenti sociali in una varietà di contesti. Questo è il progetto alla base del libro, e
sta al lettore valutarne la potenziale utilità. Io continuo a credere che le teorie non sono
altro che attrezzi effimeri nella produzione di conoscenza, sempre destinate a essere
soppiantate, o perché scartate in quanto irrilevanti o, com’è augurabile in questo caso,
perché inserite in un quadro analitico elaborato da qualcuno in qualche punto della
comunità scientifica per spiegare l’esperienza del potere sociale.
Per favorire il processo di comunicazione tra voi e me, voglio delineare la struttura e la
sequenza degli argomenti di questo libro, che, a mio avviso, segue la logica che ho appena
illustrato. Comincio definendo che cosa intendo per potere. Così, il capitolo 1 cerca di
chiarire il significato di potere proponendo alcuni elementi della teoria del potere. Per far
questo, mi avvalgo di alcuni contributi classici nella scienza sociale che trovo pertinenti e
utili per il genere di domande che pongo. Si tratta, va da sé, di una lettura selettiva delle
teorie del potere, che in alcun modo va vista come il tentativo di partecipare al dibattito
teorico. Non scrivo libri su altri libri. Uso le teorie, qualsiasi teoria, nello stesso modo in
cui mi auguro che sarà usata la mia teoria da chiunque altro: come una cassetta degli
attrezzi da utilizzare per capire la realtà sociale. Per questo motivo uso ciò che trovo utile
e non prendo in considerazione ciò che, come la maggioranza dei contributi alla teoria del
potere, non è direttamente in relazione con lo scopo della mia indagine. Di conseguenza,
non intendo contribuire alla deforestazione del pianeta stampando pagine e pagine di
critica a opere che, nonostante l’eleganza intellettuale o l’interesse politico, non rientrano
nell’orizzonte della mia ricerca. Inoltre, situo la mia interpretazione delle relazioni di
potere nel nostro tipo di società, che concettualizzo come la società in rete, che sta all’Età
dell’Informazione come la società industriale stava all’Età Industriale. Non entrerò nei
particolari della mia analisi sulla società in rete, avendo dedicato un’intera trilogia a
questo compito in anni recenti (Castells, 2000a, c, 2004c). Tuttavia, nel capitolo 1
ricombino gli elementi chiave della mia concettualizzazione della società in rete per
comprendere le relazioni di potere nel nuovo contesto storico che viviamo.
Dopo aver stabilito le fondamenta concettuali dell’analisi del potere, procedo, nel
capitolo 2, a un’operazione analitica dello stesso tipo riguardo alla comunicazione.
Tuttavia, in materia di comunicazione vado oltre, esaminando empiricamente la struttura e
la dinamica della comunicazione di massa in condizioni di globalizzazione e
digitalizzazione. Analizzo tanto i mass media quanto le reti orizzontali di comunicazione
interattiva, concentrandomi sulle loro differenze come sulle loro intersezioni. Studio la
trasformazione del pubblico dei media da ricevitori di messaggi a mittenti/destinatari di
messaggi, ed esploro la relazione tra questa trasformazione e il processo di mutamento
culturale nel nostro mondo. Infine, identifico le relazioni di potere insite nel sistema di
comunicazione di massa e nell’infrastruttura di rete da cui la comunicazione dipende, ed
esploro le connessioni tra business, media e politica.
Una volta fissati le determinanti strutturali della relazione tra potere e comunicazione
nella società in rete, cambio la prospettiva della mia analisi dalla struttura all’agente. Se il
potere opera agendo sulla mente mediante la comunicazione di messaggi, dobbiamo capire
come la mente umana elabori questi messaggi, e come questa elaborazione si traduca nel
regno della politica. Questa è la transizione analitica chiave del libro, e forse il solo
elemento dell’indagine che richiederà uno sforzo aggiuntivo al lettore (come lo ha
richiesto da parte mia) perché l’analisi politica comincia solo adesso a integrare la
determinazione strutturale con i processi cognitivi. Non mi sono imbarcato in questa
complessa impresa in omaggio alla moda intellettuale. L’ho fatto perché ho trovato
rivelatrice la gran massa di letteratura che nel decennio passato ha condotto ricerche
sperimentali per gettar luce sui processi della decisione politica individuale; rivelatrice
sulla relazione tra processi mentali, pensiero metaforico e la creazione politica delle
immagini. Senza accettare le premesse riduzioniste di alcuni di questi esperimenti, penso
che la scuola dell’intelligenza affettiva, e altre opere sulla comunicazione politica, offrano
un ponte necessario tra strutturazione sociale ed elaborazione individuale delle relazioni di
potere. Le basi scientifiche di gran parte di queste ricerche sono da ritrovarsi nelle recenti
scoperte delle neuroscienze e della scienze della cognizione, rappresentate per esempio dai
lavori di Antonio Damasio, Hanna Damasio, George Lakoff e Jerry Feldman. Così, ho
ancorato la mia analisi delle relazioni tra comunicazione e prasi politica a queste teorie, e
all’evidenza empirica nel campo della psicologia politica che meglio si può comprendere
da una prospettiva neuroscientifica, come l’opera di Drew Westen.
Pur non disponendo di una particolare competenza in questo campo, con l’aiuto di
colleghi ho cercato di presentare nel capitolo 3 un’analisi delle relazioni specifiche tra
emozione, cognizione e politica. Ho messo quindi in relazione i risultati di questa analisi
con ciò che la ricerca sulla comunicazione sa sul condizionamento della comunicazione
politica da parte di attori politici che intervengono deliberatamente nei media e in altre reti
di comunicazione per favorire i propri interessi, attraverso meccanismi come la scelta
dell’agenda, la falsificazione e la manipolazione delle notizie e di altri messaggi. Per
illustrare il potenziale valore esplicativo di questa prospettiva, e per semplificarne la
complessità, ho proceduto nel capitolo 3 a un’analisi empirica del processo di
disinformazione del pubblico americano da parte dell’amministrazione Bush sulla guerra
in Iraq. Così facendo, mi auguro di essere riuscito a trarre le implicazioni politiche
pratiche di un complicato approccio analitico. I processi sono complessi, ma i loro risultati
sono semplici e consequenziali, visto che i processi di comunicazione hanno impiantato la
cornice (frame) della «guerra al terrore» nelle menti di milioni di persone, inducendo una
cultura della paura nella nostre vite.
Quindi, i primi tre capitoli di questo libro sono inestricabilmente intrecciati perché per
capire la costruzione delle relazioni di potere tramite la comunicazione nella società in rete
bisogna integrare le tre componenti chiave del processo esaminate separatamente nei tre
capitoli:
• le determinanti strutturali del potere sociale e politico nella società in rete globale;
• le determinanti strutturali del processo di comunicazione di massa nelle condizioni
organizzative, culturali e tecnologiche del nostro tempo;
• l’elaborazione cognitiva dei segnali presentati dal sistema di comunicazione alla
mente umana, nella misura in cui è in relazione con la prassi sociale politicamente
rilevante.
Dopo ciò, sono in grado di affrontare specifiche analisi empiriche che utilizzano,
almeno in una certa misura, i concetti e le rilevazioni dei primi tre capitoli che, presi
insieme, costituiscono il quadro teorico proposto in questo libro. Il capitolo 4 spiega e
documenta il motivo per cui, nella società in rete, la politica diventa fondamentalmente
politica dei media, concentrandosi sulla sua espressione più caratteristica, la politica dello
scandalo, e collegando i risultati dell’analisi con la crisi mondiale di legittimazione
politica che mette in discussione il significato stesso di democrazia in gran parte del globo.
Il capitolo 5 esplora il modo in cui i movimenti sociali e gli agenti del cambiamento
politico procedono nella nostra società alla riprogrammazione delle reti di comunicazione,
così da essere nelle condizioni di veicolare messaggi che introducono nuovi valori nelle
menti delle persone per suscitare la speranza del cambiamento politico. Entrambi i capitoli
trattano il ruolo specifico dei mass media e delle reti di comunicazione orizzontale, dal
momento che la politica mediatica e i movimenti sociali usano entrambi gli insiemi di reti,
e che le reti dei media e le reti di Internet sono interconnesse. Ma il mio assunto, che andrà
testato, è che maggiore è l’autonomia offerta agli utenti dalle tecnologie di comunicazione,
maggiore è la probabilità che nuovi valori e nuovi interessi entrino nel campo della
comunicazione socializzata, raggiungendo così la mente del pubblico. In questo modo,
l’ascesa della autocomunicazione di massa, come chiamo le nuove forme di
comunicazione sulla Rete, aumenta le occasioni di cambiamento sociale. Le persone, ossia
noi stessi, sono contemporaneamente angeli e demoni, e così la nostra accresciuta capacità
di agire sulla società non farà che portare allo scoperto ciò che in realtà siamo in ciascun
contesto spazio-temporale.
Procedendo con una serie di analisi empiriche, mi baserò sui dati a disposizione, oltre
che su alcuni studi di casi da me effettuati, provenienti da una varietà di contesti sociali,
culturali e politici. La gran parte del materiale riguarda gli Stati Uniti per la semplice
ragione che qui si è fatta più ricerca accademica sugli argomenti affrontati da questo libro.
Sono però convinto che la prospettiva analitica che in esso è portata avanti non dipende
dal contesto nazionale scelto, e può essere utilizzata per comprendere processi politici in
una varietà di paesi, compresi quelli in via di sviluppo. Questo perché la società in rete è
globale, e tali sono le reti di comunicazione, mentre i processi cognitivi nella mente
umana sono universali e condividono i caratteri di base, sia pure con una gamma di
variazioni nelle forme culturali della loro manifestazione. Dopotutto, le relazioni di potere
sono le relazioni basilari della società spaziando attraverso la storia, la geografia e le
culture. E se le relazioni di potere sono costruite nella mente umana mediante i processi di
comunicazione, come questo libro cercherà di dimostrare, queste connessioni nascoste
potrebbero ben essere il codice sorgente della condizione umana.
Ora nel cinema le luci si sono accese. La sala si svuota lentamente mentre gli spettatori
compiono la transizione tra le immagini sullo schermo e le immagini nella loro vita. Vi
mettete in coda per l’uscita, un’uscita verso qualsiasi luogo. Forse alcune parole del film
risuonano ancora dentro di voi. Parole come quelle che concludono Il prestanome (1976)
di Martin Ritt, in particolare le parole di Woody Allen ai maccartisti: «Miei signori… io
non riconosco a codesta commissione il diritto di farmi domande del genere. E inoltre,
vogliate anche andare tutti affanculo». Poi, le immagini di Allen ammanettato, diretto alla
prigione. Potere e sfida al potere. E il bacio della ragazza. Ammanettato, ma libero e
amato. Un turbine di immagini, idee, sentimenti.
Poi, improvvisamente, vedete questo libro. L’ho scritto per voi e l’ho lasciato lì perché
lo ritrovaste. Noterete la bella copertina. Potere. Comunicazione. Sapete ciò di cui parlo.
Quale che sia stata la connessione con la vostra mente, ha funzionato perché state
leggendo queste parole. Ma non sto dicendovi che cosa fare. Almeno questo l’ho imparato
dal mio lungo viaggio. Io combatto le mie battaglie: non chiedo agli altri di farlo per me, e
nemmeno con me. Eppure, continuo a pronunciare le mie parole, parole imparate grazie al
mio lavoro e alla mia attività di ricercatore di scienze sociali. Parole che, in questo caso,
raccontano la storia del potere. O meglio, la storia del potere nel mondo in cui viviamo. E
questo è il mio modo, l’unico che ho davvero a disposizione, per sfidare i poteri forti:
svelare la loro presenza nei meccanismi della nostra mente.
Capitolo 1
IL POTERE NELLA SOCIETÀ IN RETE
Che cos’è il potere?
Il potere è il processo più fondamentale nella società, giacché la società si definisce
intorno a valori e istituzioni, e ciò che è considerato di valore e istituzionalizzato è definito
da relazioni di potere.
Il potere è la capacità relazionale che permette a un attore sociale di influenzare
asimmetricamente le decisioni di altri attori sociali in modo tale da favorire la volontà, gli
interessi e i valori dell’attore che esercita il potere. Il potere è esercitato con mezzi di
coercizione (o con la possibilità di ricorrervi) e/o con la costruzione di significato sulla
base dei discorsi attraverso i quali gli attori sociali guidano la loro azione. Le relazioni di
potere sono inquadrate dal dominio, ossia dal potere che è insito nelle istituzioni della
società. La capacità relazionale del potere è condizionata, ma non determinata, dalla
capacità strutturale di dominio. Le istituzioni possono essere coinvolte in relazioni di
potere basate sul dominio che esse esercitano sui loro soggetti.
Questa definizione è tanto ampia da comprendere la maggior parte delle forme di potere
sociale, ma richiede alcune specificazioni. Il concetto di attore si riferisce a una varietà di
soggetti dell’azione: attori individuali, attori collettivi, organizzazioni, istituzioni e reti. In
ultima analisi, comunque, tutte le organizzazioni, istituzioni e reti esprimono l’azione di
agenti umani, anche se questa azione è stata nel passato istituzionalizzata o organizzata da
processi. Capacità relazionale vuol dire che il potere non è un attributo bensì una
relazione. Non può essere astratto dalla specifica relazione tra i soggetti del potere, quelli
che detengono il potere e quelli che in un dato contesto sono soggetti a tale detenzione.
Asimmetricamente significa che anche se in una relazione l’influenza è sempre reciproca,
nelle relazioni di potere c’è sempre un maggior grado di influenza di un attore sull’altro.
In ogni caso, non c’è mai un potere assoluto, un grado zero di influenza di coloro che sono
soggetti al potere su quelli che sono in posizione di potere. C’è sempre la possibilità di
opporre una resistenza che metta in discussione la relazione di potere. Inoltre, in ogni
relazione di potere c’è un certo grado di duttilità e di accettazione da parte di coloro che vi
sono soggetti. Quando resistenza e rifiuto diventano significativamente più forti di duttilità
e dell’accettazione, le relazioni di potere vengono trasformate: i termini della relazione
cambiano, i potenti perdono potere, e un processo di mutamento istituzionale o di
cambiamento strutturale ne consegue, a seconda del grado di trasformazione delle
relazioni di potere. Oppure le relazioni di potere diventano relazioni non sociali. Questo
perché, se la relazione di potere può essere mantenuta in vita solo poggiando sul dominio
strutturale sostenuto dalla violenza, quelli al potere, per conservare il loro dominio,
devono distruggere la capacità relazionale dell’attore o degli attori che oppongono
resistenza, cancellando così la relazione stessa. Io avanzo il concetto che la brutale
imposizione con la forza non è una relazione sociale perché porta all’annullamento
dell’attore sociale dominato, così che la relazione scompare a causa dell’estinzione di uno
dei suoi termini. È però un’azione sociale con significato sociale perché l’uso della forza
costituisce un’influenza intimidatrice sui soggetti che sopravvivono a un simile dominio,
contribuendo a riaffermare relazioni di potere rispetto a questi soggetti. Inoltre, non
appena la relazione di potere è ristabilita nelle sue molteplici componenti, il complesso
meccanismo stratificato del dominio riprende a funzionare, facendo della violenza un
fattore tra gli altri in un insieme più ampio di determinanti. Più la costruzione di
significato a favore di interessi e valori specifici svolge un ruolo nell’affermare il potere in
una relazione, meno diventa necessario il ricorso (legittimo o meno) alla violenza.
Comunque, l’istituzionalizzazione del ricorso alla violenza all’interno dello stato e suoi
derivati istituisce il contesto di dominio all’interno del quale la produzione culturale di
significato può esprimere tutta la sua efficacia.
Esiste un rapporto di complementarità e di reciproco sostegno tra i due principali
meccanismi di formazione del potere identificati dalle teorie del potere: violenza e
discorso. Dopotutto Michel Foucault apre il suo Sorvegliare e punire (1975) con la
descrizione della tortura di Damiens, procedendo soltanto dopo a esporre la sua analisi
della costruzione del discorso disciplinare, discorso che costituisce una società in cui
«fabbriche, scuole, caserme, strutture ospedaliere, assomigliano tutte a prigioni» (1975, p.
264). Questa complementarità delle fonti del potere la si percepisce anche in Max Weber.
Questi definisce il potere sociale come «la probabilità che un attore all’interno di una
relazione sociale si trovi in condizione di mettere in atto il proprio volere
indipendentemente dalla base su cui tale probabilità poggia» ([1922] 1985, p. 53), e
finisce per mettere in relazione il potere con la politica e la politica con lo stato, «una
relazione di uomini che dominano uomini, una relazione sostenuta per mezzo della
violenza legittima. Se si vuole che lo stato esista, i dominati devono obbedire all’autorità
che i poteri costituiti rivendicano… Il mezzo decisivo per la politica è la violenza» ([1919]
1946, p. 78). Ma avverte anche che uno stato esistente «la cui età eroica non è sentita
come tale dalle masse può comunque essere decisivo come potente sentimento di
solidarietà nonostante i più grandi antagonismi interni» ([1919] 1946, p. 177).
È per questo che il processo di legittimazione, nucleo della teoria politica di Habermas,
è la chiave che mette lo stato in grado di stabilizzare ed esercitare il suo dominio
(Habermas, 1976). E la legittimazione può essere effettuata attraverso svariate procedure,
e la democrazia costituzionale, quella che Habermas predilige, è soltanto una di esse. La
democrazia è infatti un insieme di processi e di procedure, non una scelta di politiche.
Infatti, se interviene nella sfera pubblica a favore degli interessi specifici che prevalgono
al suo interno, lo stato induce una crisi di legittimazione perché si rivela uno strumento di
dominio anziché un’istituzione rappresentativa. La legittimazione si basa in larga misura
sul consenso che viene suscitato dalla costruzione di significato condiviso; per esempio, la
fiducia nella democrazia rappresentativa. La costruzione di senso nella società avviene
tramite un processo di azione comunicativa. La razionalizzazione cognitiva fornisce la
base dell’azione agli attori sociali. Così, la capacità della società civile di fornire il
contenuto dell’azione dello stato tramite la sfera pubblica («una rete per comunicare
informazioni e punti di vista» [Habermas, 1996, p. 360]) è ciò che assicura la democrazia
e in ultima analisi crea le condizioni per il legittimo esercizio del potere: il potere come
rappresentazione dei valori e degli interessi di cittadini espressi per mezzo del loro
dibattito nella sfera pubblica. Così, la stabilità istituzionale è fondata sulla capacità di
articolare differenti interessi e valori nel processo democratico tramite reti di
comunicazione (Habermas, 1989).
Quando c’è separazione tra uno stato interventista e una società civile critica, lo spazio
pubblico crolla, sopprimendo così la sfera intermedia tra l’apparato amministrativo e i
cittadini. L’esercizio democratico del potere dipende a conti fatti dalla capacità
istituzionale di trasferire il significato generato dall’azione comunicativa nel
coordinamento funzionale dell’azione organizzata nello stato secondo i principi di
consenso costituzionale. Così, l’accesso costituzionale alla capacità coercitiva e le risorse
comunicative che permettono la coproduzione di significato sono complementari nello
stabilire relazioni di potere.
Così, a mio parere, alcune delle più influenti teorie del potere, nonostante le diversità
teoriche e ideologiche, condividono un’analisi sfaccettata della costruzione del potere
nella società 1: la violenza, la minaccia di ricorrervi, i discorsi disciplinari, la minaccia di
mettere in atto la disciplina, l’istituzionalizzazione delle relazioni di potere come dominio
riproducibile e il processo di legittimazione in base al quale i valori e le regole sono
accettati dai soggetti in questione, sono tutti elementi che interagiscono nel processo di
produzione e riproduzione delle relazioni di potere nelle pratiche sociali e nelle forme
organizzative.
Questa visione eclettica del potere – utile, mi auguro, come strumento di ricerca al di là
del suo livello di astrazione – articola i due termini della distinzione classica tra potere su
e potere di proposta da Talcott Parsons (1963) e sviluppata da diversi teorici (per esempio,
Goehler [2000] che distingue tra potere transitivo [potere su qualcuno] e potere
intransitivo [potere di fare]). Poiché, se assumiamo che tutte le strutture sociali sono
basate su relazioni di potere insite in istituzioni e organizzazioni (Lukes, 1974), perché un
attore sociale si impegni in una strategia mirante a un determinato scopo, essere in
condizione di agire sui processi sociali significa necessariamente intervenire sull’insieme
di relazioni di potere che inquadrano ogni dato processo sociale e condizionano il
raggiungimento di un dato scopo. L’emancipazione di un attore sociale non può essere
separata dall’aumento del proprio potere contro altri attori sociali, a meno che non
accettiamo l’immagine ingenua di una comunità umana riconciliata, un’utopia normativa
che l’osservazione storica smentisce (Tilly, 1990, 1993; Fernández-Armesto, 2000). Il
potere di fare qualcosa, nonostante quanto affermi Hannah Arendt (1958), è sempre il
potere di fare qualcosa contro qualcuno, o contro i valori e gli interessi di questo
«qualcuno» che sono inscritti negli apparati che governano e organizzano la vita sociale.
Come ha scritto Michael Mann nell’introduzione al suo studio storico sulle fonti del potere
sociale, «nel senso più generale del termine il potere è la capacità di perseguire e
conseguire scopi tramite la padronanza del proprio ambiente» (1986, p. 6). E, dopo aver
riportato le distinzioni di Parsons tra potere distributivo e potere collettivo, afferma che:

Nella maggior parte delle relazioni sociali i due aspetti del potere, distributivo e
collettivo, estrattivo e funzionale, operano e sono interconnessi. Tra i due esiste una
relazione dialettica. Nel perseguimento dei propri scopi, gli esseri umani entrano in
relazioni di potere di tipo cooperativo, collettivo gli uni con gli altri. Ma il realizzare
fini collettivi, dà origine sia all’organizzazione sociale sia alla divisione del lavoro…
I pochi al vertice riescono a mantenere obbedienti le masse alla base della società,
purché tale controllo sia istituzionalizzato nelle leggi e nelle norme del gruppo
sociale in cui entrambi operano (Mann, 1986, pp. 6-7).
Quindi le società non sono comunità, con valori e interessi comuni. Sono strutture sociali
contraddittorie poste in essere da conflitti e negoziati tra attori sociali diversi e spesso in
opposizione tra loro. I conflitti non cessano mai; semplicemente si sospendono grazie ad
accordi temporanei e contratti instabili che sono trasformati in istituzioni di dominio da
quegli attori sociali che raggiungono una posizione di vantaggio nella lotta di potere, sia
pure a costo di concedere un certo grado di rappresentatività istituzionale alla pluralità di
interessi e valori che rimangono subordinati. Così, le istituzioni dello stato e, oltre lo stato,
le istituzioni, le organizzazioni e i discorsi che inquadrano e regolano la vita sociale non
sono mai l’espressione della «società», una scatola nera dal significato polisemico, la cui
interpretazione dipende dalle prospettive degli attori sociali. Sono relazioni di potere
cristallizzate; sono cioè i «mezzi generalizzati» (Parsons) che mettono gli attori in grado di
esercitare potere su altri attori sociali così da avere il potere di realizzare propri scopi.
Questo è un approccio tutt’altro che inedito. Poggia sulla teoria della produzione della
società di Touraine (1973) e sulla teoria della strutturazione di Giddens (1984). Gli attori
producono le istituzioni della società in base alle condizioni delle posizioni strutturali che
occupano, ma hanno anche la capacità (in ultima analisi mentale) di dar luogo ad azione
sociale che è autogenerata, finalizzata, dotata di senso. È in questo modo che struttura e
azione vengono integrate nell’interpretazione della dinamica sociale, senza dover accettare
o respingere i riduzionismi gemelli dello strutturalismo e del soggettivismo. Questo
approccio non soltanto è un plausibile punto di convergenza per le teorie sociali al
riguardo, ma è anche ciò che sembra indicare la testimonianza della ricerca sociale
(Giddens, 1979; Mann, 1986, 1992; Melucci, 1989; Dalton e Kuechler, 1990; Bobbio,
1994; Calderon, 2003; Tilly, 2005; Sassen, 2006).
Comunque, i processi di strutturazione sono pluristratificati e multiscalari. Operano su
diverse forme e vari livelli della prassi sociale: economico (produzione, consumo,
scambio), tecnologico, ambientale, culturale, politico e militare. E includono relazioni di
genere che costituiscono relazioni trasversali di potere attraverso l’intera struttura. Questi
processi pluristratificati di strutturazione generano specifiche forme di tempo e spazio.
Ciascuno di questi livelli di pratica, e ciascuna forma spazio-temporale, (ri)producono e/o
contestano le relazioni di potere all’origine di istituzioni e discorsi. E queste relazioni
coinvolgono complesse articolazioni tra i diversi livelli di prassi e istituzionali: globale,
nazionale, locale e individuale (Sassen, 2006). Quindi, se la strutturazione è multipla, la
sfida analitica consiste nel comprendere la specificità delle relazioni di potere in ognuno di
questi livelli, forme e scale della pratica sociale, nonché nei loro esiti strutturati
(Haugaard, 1997). Così, il potere non è localizzato in una specifica sfera sociale o
istituzione, ma è distribuito sull’intero ambito dell’azione umana. Esistono però
espressioni concentrate di relazioni di potere in determinate forme sociali che
condizionano e inquadrano la pratica del potere nella società più ampia imponendo il
dominio. Il potere è relazionale, il dominio è istituzionale. Storicamente, una forma
particolarmente rilevante di dominio è rappresentata dallo stato, nelle sue diverse
manifestazioni (Poulantzas, 1978; Mulgan, 2007). Ma gli stati sono entità storiche (Tilly,
1974). Di conseguenza, la quantità di potere che detengono dipende dalla struttura sociale
complessiva in cui operano. E questa è la questione più decisiva per capire la relazione tra
potere e stato.
Nella classica formulazione weberiana, «in ultima analisi si può definire lo stato
moderno solo nei termini dei mezzi specifici a esso peculiari, così come a ogni altra forma
di associazione politica, vale a dire l’uso politico della forza. Ogni stato è fondato sulla
forza» ([1919] 1946, p. 77; corsivo mio). Dato che lo stato può essere invocato per
imporre relazioni di potere in tutti gli ambiti della prassi sociale, è lo stato il garante di
ultima istanza di tutti i micro-poteri; ossia dei poteri esercitati al di fuori dalla sfera
politica. Quando le relazioni di micro-potere entrano in conflitto con le strutture di
dominio insite nello stato, o lo stato cambia o il dominio è riaffermato con mezzi
istituzionali. Anche se l’enfasi qui è sulla forza, la logica del dominio può essere anche
insita nei discorsi, in quanto forme alternative o complementari di esercitare potere. I
discorsi sono intesi, nella tradizione foucaultiana, come combinazioni di sapere e
linguaggio. Ma non c’è contraddizione tra il dominio esercitato tramite la possibilità di
ricorrere alla forza e quello imposto tramite discorsi disciplinari. Anzi, l’analisi di
Foucault dei discorsi disciplinari che soggiacciono alle istituzioni della società riguarda
principalmente istituzioni statali o parastatali: la prigione, le forze armate, il manicomio.
La logica basata sullo stato è estesa anche ai mondi disciplinari della produzione (la
fabbrica) o della sessualità (la famiglia patriarcale eterosessuale; Foucault, 1976, 1984a,
b). In altri termini, i discorsi disciplinari sono sostenuti dall’uso potenziale della violenza,
e la violenza di stato è razionalizzata, interiorizzata, e in ultima analisi legittimata dai
discorsi che inquadrano/plasmano l’azione umana (Clegg, 2000). Di fatto, le istituzioni e
le paraistituzioni dello stato (per esempio le istituzioni religiose, le università, le élite
colte, in una certa misura i media) sono le fonti principali di questi discorsi. Per sfidare le
relazioni di potere esistenti, è necessario produrre discorsi alternativi che abbiano la
potenzialità di sopraffare la capacità discorsiva disciplinare dello stato, come passo
necessario per neutralizzare il suo uso della violenza. Di conseguenza, mentre le relazioni
di potere sono distribuite nella struttura sociale, lo stato, da una prospettiva storica, rimane
un esempio strategico dell’esercizio del potere con mezzi variegati. Ma lo stato stesso
dipende da una varietà di fonti di potere. Geoff Mulgan ha teorizzato la capacità dello
stato di assumere ed esercitare il potere tramite l’articolazione di tre fonti di potere: la
violenza, il denaro e la fiducia.

Insieme, le tre fonti di potere puntellano il potere politico, il potere sovrano di


imporre leggi, emettere ordini e tenere insieme un popolo e un territorio… Concentra
forza attraverso i suoi eserciti, concentra risorse tramite le finanze, e concentra il
potere di modellare le menti, più di recente tramite grandi sistemi di istruzione e
comunicazione che sono i due veri collanti degli stati-nazione moderni… Delle tre
fonti del potere la più importante per la sovranità è il potere sui pensieri che dà
origine alla fiducia. La violenza può essere usata solo negativamente; il denaro può
essere usato solo su due dimensioni, il dare e il togliere. Ma la conoscenza e i
pensieri possono trasformare le cose, muovere le montagne e far apparire permanente
un potere effimero (Mulgan, 2007, p. 27).
Comunque, le modalità di esistenza dello stato e la sua capacità di agire sulle relazioni di
potere dipendono dagli elementi specifici della struttura sociale in cui lo stato opera. Anzi,
le nozioni stesse di stato e di società dipendono dai confini che definiscono la loro
esistenza in un dato contesto storico. E il nostro contesto storico è contrassegnato dai
contemporanei processi di globalizzazione e dall’emergere della società in rete, gli uni e
l’altra basati su reti di comunicazione che elaborano conoscenza e pensieri per fare e
disfare la fiducia, la fonte decisiva del potere.
Stato e potere nell’era globale
Per Weber, la sfera d’azione di ogni dato stato è delimitata in senso territoriale: «Oggi
dobbiamo dire [in contrasto con varie istituzioni del passato basate sulla forza] che lo stato
è una comunità umana che rivendica (ottenendolo) il monopolio sull’uso legittimo della
violenza all’interno di un dato territorio. Si noti che il territorio è una delle caratteristiche
dello stato» ([1919] 1946, p. 78). Non si tratta necessariamente di uno stato-nazione, ma
ciò vale abitualmente nella sua manifestazione moderna: «Una nazione è una comunità del
sentire che si manifesta adeguatamente in uno stato suo proprio; quindi, una nazione è una
comunità che normalmente tende a produrre uno stato suo proprio» ([1922] 1978, p. 176).
Così, le nazioni (comunità culturali) producono stati, e lo fanno rivendicando il monopolio
della violenza entro un dato territorio. L’articolazione del potere statale, e della politica, ha
luogo in una società che viene definita come tale dallo stato. Questo è l’assunto implicito
di quasi tutte le analisi del potere, che osservano le relazioni di potere esistenti all’interno
di uno stato costituito territorialmente, oppure tra stati. Nazione, stato e territorio
definiscono i confini della società.
Questo «nazionalismo metodologico» viene giustamente contestato da Ulrich Beck
perché la globalizzazione ha ridefinito i limiti territoriali dell’esercizio del potere:

La globalizzazione, portata alla sua logica conclusione, implica che la scienza sociale
deve tornare a essere una scienza della realtà transnazionale – concettualmente,
teoricamente, metodologicamente e anche organizzativamente. Questo include il fatto
che bisogna che i concetti base della «società moderna» – famiglia, genere, classe,
democrazia, dominio, stato, economia, sfera pubblica, politica e così via – vengano
liberati dalle fissazioni del nazionalismo metodologico e ridefiniti e riconcettualizzati
nel contesto di un cosmopolitismo metodologico (Beck, 2005, p. 50).
David Held, a partire dal suo fondamentale articolo del 1991 e nelle sue successive analisi
politiche della globalizzazione, ha rilevato come la teoria classica del potere, concentrata
sullo stato-nazione o sulle strutture governative subnazionali, non abbia un quadro di
riferimento non appena uno delle componenti chiave della struttura sociale è
contemporaneamente locale e globale e non locale o nazionale (Held, 1991, 2004; Held et
al., 1999; Held e McGrew, 2007). Habermas (1998) riconosce i problemi sollevati
dall’avvento di quella che definisce «la costellazione postnazionale» per i processi di
legittimazione democratica, in quanto la Costituzione (l’istituzione determinante) è
nazionale mentre le fonti del potere vengono sempre più costruite nella sfera
sovranazionale. Bauman (1999) teorizza una nuova lettura della politica nel mondo
globalizzato. E Saskia Sassen (2006) ha mostrato la trasformazione dell’autorità e dei
diritti, e quindi delle relazioni di potere, operata dall’evoluzione della struttura sociale
verso «assemblaggi globali».
In sintesi: se le relazioni di potere esistono in specifiche strutture sociali che sono
costituite sulla base di formazioni spazio-temporali, e queste formazioni spazio-temporali
non sono più principalmente collocate al livello nazionale ma sono globali e locali al
tempo stesso, il confine della società cambia, e cambia anche il quadro di riferimento delle
relazioni di potere che trascendono il nazionale (Fraser, 2007). Con questo non si vuol dire
che lo stato-nazione scompare, ma piuttosto che i confini nazionali delle relazioni di
potere sono solo una delle dimensioni in cui operano potere e contropotere. Ciò finisce per
condizionare lo stato-nazione stesso. Anche se non svanisce come specifica forma di
organizzazione sociale, modifica il proprio ruolo, la propria struttura e le proprie funzioni,
evolvendo gradualmente verso una nuova forma di stato: lo stato a rete che analizzerò in
seguito.
Come possiamo comprendere, nel nuovo contesto, le relazioni di potere che non sono
definite primariamente all’interno dei confini territoriali stabiliti dallo stato? La
costruzione teorica proposta da Michael Mann per interpretare le fonti sociali del potere
offre una possibilità di lettura della questione, perché egli, sulla base della sua indagine
storica, concettualizza le società come «costituite da multiple reti socio-spaziali di potere,
che si sovrappongono e s’intersecano» (1986, p. 1). Pertanto, anziché metterci alla ricerca
di confini territoriali, dobbiamo individuare le reti socio-spaziali del potere (locali,
nazionali, globali) che, nella loro intersezione, configurano le società. Invece di una
visione dell’autorità politica mondiale centrata sullo stato per fornire una chiara
indicazione dei confini della società e, di conseguenza, dei centri di potere nel contesto
dell’era globale, dobbiamo cominciare dalle reti per comprendere le istituzioni, per usare
la caratterizzazione di Beck (2005). O, adottando la terminologia di Sassen (2006), le
forme degli assemblaggi, né globali né locali ma entrambe le cose simultaneamente,
definiscono lo specifico insieme delle relazioni di potere che forniscono il fondamento di
ciascuna società. In ultima analisi, si potrebbe dover mettere in discussione la nozione
tradizionale di società perché ciascuna rete (economica, culturale, politica, tecnologica,
militare e simili) ha la sua propria configurazione spaziotemporale e organizzativa, così
che i loro punti di intersezione sono soggetti a un’incessante trasformazione. Le società
come società nazionali diventano segmentate e sono continuamente rimodellate
dall’azione che reti dinamiche esercitano sulle loro strutture sociali storicamente ereditate.
Nei termini di Michael Mann: «Una società è una rete di interazione sociale ai cui confini
esiste un certo livello di chiasmo nell’interazione tra essa e il suo ambiente. Una società è
un’unità dotata di confini» (1986, p. 13).
In effetti, è difficile concepire una società priva di confini. Ma le reti non hanno confini
fissi: sono aperte e poligonali, e il loro movimento di espansione e contrazione dipende
dalla compatibilità o la competizione tra gli interessi e i valori programmati in ciascuna
rete e gli interessi e i valori programmati nelle reti con cui entrano in contatto nel loro
movimento di espansione. In termini storici, lo stato (nazionale o di altro genere) può
essere stato in grado di funzionare come guardiano dell’interazione tra reti, fornendo una
certa stabilità per una particolare configurazione di reti sovrapposte di potere. Ma, entro le
condizioni della globalizzazione stratificata, lo stato diventa un nodo (per quanto
importante) di una particolare rete, la rete politica, istituzionale e militare che si
sovrappone ad altre reti significative nella costruzione della pratica sociale. Così, la
dinamica sociale che si genera intorno alle reti sembra dissolvere la società quale forma
sociale stabile di organizzazione. Comunque, un approccio più costruttivo
all’interpretazione del processo di cambiamento storico è quello di concettualizzare una
nuova forma di società, la società in rete, costituita da specifiche configurazioni di reti
globali, nazionali e locali in uno spazio multidimensionale di interazione sociale. La mia
ipotesi è che configurazioni relativamente stabili di reti globali, nazionali e locali costruite
a partire dalle intersezioni di queste reti possono delimitare e ridefinire una nuova
«società», con l’intesa che questi confini sono altamente instabili per l’incessante
mutamento nella geometria delle reti globali che strutturano le pratiche e le organizzazioni
sociali. Per verificare questa ipotesi devo prendere una deviazione verso la teoria delle
reti, e poi devo introdurre la specificità della società in rete come tipologia particolare di
struttura sociale. Soltanto allora potremo ridefinire le relazioni di potere nelle condizioni
di una società globale in rete.
Reti
Una rete è un insieme di nodi interconnessi. I nodi possono essere di variabile rilevanza, e
così nodi particolarmente importanti sono chiamati «centri» in alcune versioni della teoria
delle reti. In ogni caso, qualsiasi componente di una rete («centri» compresi) è un nodo, la
cui funzione e il cui significato dipendono dai programmi della rete e dalla sua interazione
con altri nodi della rete. I nodi accrescono la loro importanza per la rete assorbendo una
maggior quantità di informazioni pertinenti ed elaborandole più efficientemente.
L’importanza relativa di un nodo non deriva dalle sue caratteristiche specifiche ma dalla
capacità di contribuire all’efficacia della rete nel realizzare i propri obiettivi, definiti dai
valori e dagli interessi programmati nelle reti. Tutti i nodi di una rete, però, sono necessari
per la sua performance, anche se le reti ammettono una certa ridondanza come misura di
sicurezza per il proprio funzionamento. Quando qualche nodo perde la sua utilità per il
raggiungimento degli obiettivi della rete, le reti tendono a riconfigurarsi, cancellando
alcuni nodi e aggiungendone altri. I nodi esistono e funzionano solo come componenti di
reti. L’unità è la rete, non il nodo.
Nella vita sociale, le reti sono strutture comunicative: «Le reti di comunicazione sono i
pattern di contatto che vengono creati dai flussi dei messaggi tra comunicatori nel tempo e
nello spazio» (Monge e Contractor, 2003, p. 39). Così, le reti elaborano flussi. I flussi
sono correnti di informazioni tra nodi, che circolano attraverso i canali di comunicazione
esistenti fra i nodi. Una rete è definita dal programma che le assegna gli obiettivi e le
regole di performance. Questo programma è fatto di codici che comprendono valutazioni
della performance e criteri di successo e fallimento. Nelle reti sociali e organizzative, gli
attori sociali, promuovendo i propri valori e interessi, e in interazione con altri attori
sociali, sono all’origine della creazione e della programmazione delle reti. Ma, una volta
istituite e programmate, le reti seguono le istruzioni inscritte nel loro sistema operativo, e
diventano capaci di autoconfigurazione entro i parametri degli obiettivi e delle procedure
loro assegnati. Per modificare gli esiti di una rete, è necessario che un nuovo programma
(un insieme di codici compatibili, orientati all’obiettivo) venga installato in essa –
dall’esterno della rete stessa.
Le reti (e gli insiemi di interessi e valori che esse incarnano) cooperano o competono tra
loro. La cooperazione è basata sulla capacità di comunicare tra reti. Questa capacità
dipende dall’esistenza di codici di traduzione e interoperatività tra le reti (protocolli di
comunicazione) e dall’accesso a punti di connessione (commutatori). La competizione
dipende dalla capacità che una rete ha di superare le altre grazie a una superiore efficienza
performativa o di capacità di cooperazione. La competizione può assumere anche una
forma distruttiva facendo saltare i commutatori (switches) di reti concorrenti e/o
interferendo con i loro protocolli di comunicazione. Le reti operano in base a una logica
binaria: inclusione/esclusione. All’interno della rete, la distanza tra i nodi tende a zero
quando ciascun nodo è connesso direttamente a ogni altro nodo. Tra i nodi nella rete e
quelli al di fuori di essa la distanza è infinita, non esistendo accesso a meno che non si
modifichi il programma della rete. Quando i nodi nella rete sono raggruppati, le reti
seguono la logica delle proprietà dei piccoli mondi: i nodi sono in grado di connettersi
all’intera rete e con le reti collegate a partire da ogni nodo della rete tramite un numero
limitato di passi (Watts e Strogatz, 1998). Nel caso delle reti di comunicazione,
aggiungerei la condizione della condivisione di protocolli di comunicazione.
Le reti dunque sono strutture di comunicazione complesse costruite intorno a un
insieme di obiettivi che assicurano simultaneamente unità di scopo e flessibilità di
esecuzione grazie alla loro adattabilità all’ambiente operativo. Sono al tempo stesso
programmate e autoconfigurabili. Nelle reti sociali e organizzative, obiettivi e procedure
operative sono programmati da attori sociali. La struttura si evolve in base alla capacità
della rete di autoconfigurarsi nella ricerca continua di assetti di rete più efficienti.
Le reti non sono appannaggio esclusivo delle società del XXI secolo, e nemmeno, in
effetti, dell’organizzazione umana (Buchanan, 2002). Le reti costituiscono il modello
fondamentale della vita, di ogni genere di vita. Come scrive Fritjof Capra, «la rete è un
modello che è comune a tutta la vita. Dovunque vediamo vita, vediamo reti» (2002, p. 9).
Nella vita sociale, gli analisti delle reti sociali vanno da tempo indagando sulla dinamica
delle reti sociali che si trovano nel cuore dell’interazione sociale e della produzione di
significato (Burt, 1980), un’indagine che ha portato alla formulazione di una teoria
sistematica delle reti di comunicazione (Monge e Contractor, 2003). Inoltre, in termini di
struttura sociale, gli archeologi e gli storici dell’antichità hanno evidenziato che la
documentazione storica mostra la pervasività e l’importanza delle reti come spina dorsale
delle società, a partire da migliaia di anni fa, nelle civiltà antiche più avanzate sviluppatesi
in diverse regioni del pianeta. In effetti, se trasferiamo la nozione di globalizzazione nella
geografia del mondo antico, determinata dalle tecnologie di trasporto disponibili, vediamo
che già nell’antichità esisteva una sorta di globalizzazione retificata, dal momento che le
società dipendevano per il proprio sostentamento, le risorse e il potere dalla connettività
delle loro principali attività con reti che trascendevano i limiti locali (LaBianca, 2006).
Storicamente, la cultura musulmana si è sempre basata su reti globali (Cooke e Lawrence,
2005). E McNeill e McNeill (2003) hanno mostrato il ruolo cruciale delle reti
nell’organizzazione sociale nel corso della storia.
Questa valutazione della documentazione storica effettiva va contro la visione
predominante dell’evoluzione della società, che si è concentrata su un diverso tipo di
organizzazione: la burocrazia gerarchica basata sull’integrazione verticale di risorse e
sudditi come espressione del potere organizzato di un’élite sociale, legittimata dalla
mitologia e dalla religione. Questa in una certa misura è una visione distorta, in quanto
l’analisi storica e sociale, il più delle volte, è stata costruita sull’etnocentrismo e
l’ideologia anziché sull’esame scientifico delle complessità di un mondo multiculturale.
Ma la relativa insensibilità della nostra rappresentazione storica all’importanza delle reti
nella struttura e nelle dinamiche della società può essere anche connessa alla
subordinazione di queste reti alla logica delle organizzazioni verticali, il cui potere era
inscritto nelle istituzioni della società e distribuito secondo flussi monodirezionali di
comando e controllo (Braudel, 1949; Mann, 1986, 1992; Colas, 1992; Fernández-Armesto,
1995). La mia ipotesi per spiegare la superiorità storica delle organizzazioni
verticali/gerarchiche sulle reti orizzontali è che la forma-rete di organizzazione sociale
aveva dei limiti materiali da superare, limiti che erano fondamentalmente legati alle
tecnologie disponibili. In effetti, il punto di forza delle reti sta nella loro flessibilità,
adattabilità e capacità di autoriconfigurarsi. Ma, al di là di una certa soglia di dimensione,
complessità e volume di flussi, esse diventano meno efficienti delle strutture verticalmente
organizzate di comando-e-controllo, entro le condizioni della tecnologia di comunicazione
pre-elettronica (Mokyr, 1990). Sì, le navi a vela potevano costruire, attraverso i mari e
persino gli oceani, reti di commercio e conquista. E gli emissari a cavallo o i messaggeri
che correvano a piedi potevano mantenere la comunicazione tra il centro e la periferia di
vasti imperi territoriali. Ma la lentezza del tempo di riscontro nel processo di
comunicazione era tale che la logica del sistema equivaleva a un flusso monodirezionale
della trasmissione delle informazioni e delle istruzioni. In tali condizioni, le reti erano
un’estensione del potere concentrato all’apice di quelle organizzazioni verticali che hanno
plasmato la storia dell’umanità: stati, apparati religiosi, signori della guerra, eserciti,
burocrazie, e i loro subordinati incaricati della produzione, del commercio e della cultura.
La capacità delle reti di introdurre nuovi attori e nuovi contenuti nel processo
dell’organizzazione sociale, dotati di una relativa autonomia rispetto ai centri di potere, è
cresciuta nel tempo con il cambiamento tecnologico e, più precisamente, con l’evolversi
delle tecnologie della comunicazione. È avvenuto così in particolare grazie alla possibilità
di far affidamento sulla rete di energia distribuita che ha caratterizzato l’avvento della
rivoluzione industriale (Hughes, 1983). Le ferrovie e il telegrafo hanno costituito la prima
infrastruttura di rete globale di comunicazione dotata di capacità di autoriconfigurazione
(Beniger, 1986). La società industriale però (tanto nella sua versione capitalista quanto in
quella statalista) era strutturata in misura predominante intorno a organizzazioni verticali
di produzione su larga scala e a istituzioni statali estremamente gerarchizzate, che in
alcuni casi hanno dato vita a sistemi totalitari. Ciò vuol dire che le precedenti tecnologie di
comunicazione elettrica non erano sufficientemente potenti per conferire alle reti
autonomia in tutti i nodi, in quanto tale autonomia avrebbe richiesto la multidirezionalità e
il flusso continuo di elaborazione interattiva dell’informazione. Ma implica anche che la
disponibilità di una tecnologia adeguata è condizione necessaria ma non sufficiente per la
trasformazione della struttura sociale. Fu solo entro le condizioni di una società industriale
matura che poterono emergere progetti autonomi di networking organizzativo. Quando ciò
avvenne, tali progetti poterono sfruttare il potenziale delle tecnologie di comunicazione
digitale basate sulla microelettronica (Benkler, 2006).
Così, le reti sono diventate le forme organizzative più efficienti grazie a tre principali
caratteristiche che hanno tratto vantaggio dal nuovo ambiente tecnologico: flessibilità,
scalabilità e capacità di sopravvivenza. La flessibilità è la capacità di riconfigurarsi in
sintonia con l’ambiente in mutamento e di conservare i propri obiettivi pur cambiando le
componenti, a volte bypassando i blocchi dei canali di comunicazione per trovare nuove
connessioni. La scalabilità è la capacità di espandere o ridurre le proprie dimensioni con
perturbazioni limitate. La capacità di sopravvivenza sta nell’abilità delle reti, visto che
non possiedono un singolo centro e possono operare secondo un’ampia gamma di
configurazioni, di resistere agli attacchi ai propri nodi e codici perché i codici della rete
sono contenuti in molteplici nodi capaci di riprodurre le istruzioni e trovare nuovi modi di
operare. Così, solo la capacità materiale di distruggere punti di connessione può eliminare
la rete.
Al centro del mutamento tecnologico che ha liberato il potere delle reti c’è stata la
trasformazione delle tecnologie di informazione e comunicazione, grazie alla rivoluzione
microelettronica che ha preso forma negli anni Cinquanta e Sessanta (Freeman, 1982;
Perez, 1983). Ciò ha costituito il fondamento di un nuovo paradigma tecnologico,
consolidatosi negli anni Settanta, prima negli Stati Uniti, e in breve diffusosi in tutto il
mondo, aprendo la porta a quella che ho definito l’Età dell’Informazione (Castells, 2000a,
c, 2004c). William Mitchell (2003) ha concettualizzato la logica evolutiva della tecnologia
dell’informazione e della comunicazione nel corso della storia come un processo di
espansione e accrescimento del corpo umano e della mente umana: un processo che,
all’inizio del XXI secolo, è caratterizzato dall’esplosione dei dispositivi portatili che
offrono in ogni luogo capacità di comunicazione ed elaborazione wireless. Questo
permette a unità sociali (individui o organizzazioni) di interagire ovunque, in qualsiasi
momento, basandosi su un’infrastruttura di supporto che gestisce risorse materiali in una
griglia di potere informazionale distribuito (Castells et al., 2006b). Con l’avvento della
nanotecnologia e la convergenza della microelettronica e dei processi e materiali biologici,
i confini tra vita umana e vita delle macchine sfumano, così che le reti estendono la loro
interazione dal nostro io interiore all’intero regno dell’attività umana, trascendendo le
barriere del tempo e dello spazio. Né Mitchell né io indulgiamo in scenari fantascientifici
come sostituti delle analisi del processo di trasformazione socio-tecnologica. Ma è
indispensabile, proprio nell’interesse dell’analisi, sottolineare il ruolo della tecnologia nel
processo di trasformazione sociale, in particolare quando consideriamo la tecnologia
centrale del nostro tempo – la tecnologia della comunicazione – che arriva al cuore della
specificità della specie umana: la comunicazione consapevole e significativa (Capra, 1996,
2002; Damasio, 2003). È stato grazie alle tecnologie elettroniche dell’informazione e della
comunicazione che la società in rete ha potuto dispiegarsi pienamente, trascendendo i
limiti storici delle reti come forme di organizzazione e interazione sociali.
La società in rete globale2
Una società in rete è una società la cui struttura sociale ruota intorno alle reti attivate da
tecnologie dell’informazione e della comunicazione elaborate digitalmente basate sulla
microelettronica. Considero le strutture sociali come gli assetti organizzativi degli esseri
umani che entrano in relazioni di produzione, consumo, riproduzione, esperienza e potere,
espresse in una comunicazione dotata di senso codificata dalla cultura.
Le reti digitali sono globali, in quanto hanno la capacità di riconfigurarsi, secondo le
direzioni dei loro programmatori, trascendendo i confini territoriali e istituzionali grazie a
reti di computer in telecomunicazione. Così, una struttura sociale la cui infrastruttura è
basata su reti digitali ha la potenzialità di essere globale. La tecnologia della rete, però, e
l’organizzazione reticolare, sono solo mezzi per mettere in atto le tendenze inscritte nella
struttura sociale. Il processo contemporaneo di globalizzazione ha la sua origine in fattori
economici, politici e culturali, come documentano le analisi accademiche della
globalizzazione (Beck, 2000; Held e McGrew, 2000, 2007; Stiglitz, 2002). Ma, come
indicano diversi studi, le forze che trainano la globalizzazione hanno potuto essere messe
in atto solo perché hanno a disposizione la capacità di networking globale offerta dalle
tecnologie di comunicazione e dai sistemi di informazione digitali, ivi comprese le reti
logistiche computerizzate a vasto raggio (Kiyoshi et al., 2006; Grewal, 2008). Questo è
nella pratica ciò che, per dimensioni, velocità e complessità, separa il processo attuale di
globalizzazione da precedenti forme storiche di globalizzazione.
Dunque, la società in rete è una società globale. Questo però non vuol dire che
dappertutto gli individui siano inclusi nelle sue reti. Per il momento, la maggioranza non
lo è (Hammond et al., 2007). Ma tutti sono toccati dai processi che hanno luogo nelle reti
globali che costituiscono la struttura sociale. Le attività centrali che modellano e
controllano la vita umana in ogni angolo del pianeta sono organizzate da reti globali: i
mercati finanziari; la produzione, gestione e distribuzione transnazionale di beni e servizi;
il lavoro altamente specializzato; la scienza e la tecnologia, inclusa l’istruzione
universitaria; i mass media; le reti di Internet di comunicazione interattiva multiscopo; la
cultura; l’arte; lo spettacolo; lo sport; le istituzioni internazionali che gestiscono
l’economia globale e le relazioni intergovernative; la religione; l’economia criminale; e le
ONG e i movimenti sociali transnazionali che affermano i diritti e i valori di una nuova
società civile globale (Held et al., 1999; Volkmer, 1999; Castells, 2000a; Jacquet et al.,
2002; Stiglitz, 2002; Kaldor, 2003; Grewal, 2008; Juris, 2008). La globalizzazione è intesa
al meglio come la connessione in rete di queste reti globali socialmente decisive. Pertanto,
l’esclusione da queste reti, spesso in un processo cumulativo di esclusione, equivale
all’emarginazione strutturale nella società globale in rete (Held e Kaya, 2006).
La società in rete si diffonde selettivamente nel pianeta, operando su siti, culture,
organizzazioni e istituzioni preesistenti che costituiscono ancora la gran parte
dell’ambiente materiale di vita degli individui. La struttura sociale è globale, ma il grosso
dell’esperienza umana è locale, in termini sia territoriali sia culturali (Borja e Castells,
1997; Norris, 2000). Le società specifiche, definite dagli attuali confini degli stati-nazione,
o dai confini culturali delle loro identità storiche, sono profondamente frammentate dalla
duplice logica di inclusione ed esclusione in azione nelle reti globali che strutturano la
produzione, il consumo, la comunicazione e il potere. Io propongo l’ipotesi che le
frammentazione della società in inclusi ed esclusi sia qualcosa di più dell’espressione del
ritardo richiesta dalla graduale assimilazione di precedenti forme sociali nella nuova
logica dominante. È, piuttosto, un carattere strutturale della società in rete globale. Ciò
perché le capacità di riconfigurazione insite nel processo di inserimento in rete permette ai
programmi che governano ciascuna rete di cercare dovunque aggiunte utili e di
incorporarle, scavalcando ed escludendo quei territori, quelle attività e quegli individui
che hanno valore scarso o nullo per l’esecuzione dei compiti assegnati alla rete. In effetti,
come osserva Geoff Mulgan, «le reti sono create non soltanto per comunicare, ma anche
per guadagnare posizioni, per coprire la comunicazione altrui» (1991, p. 21). La società in
rete opera in base a una logica binaria di inclusione/esclusione, i cui confini mutano nel
tempo, a seconda sia dei cambiamenti nei programmi delle reti sia nelle condizioni di
esecuzione di questi programmi. Dipende anche dalla capacità degli attori sociali, in vari
contesti, di operare su questi programmi, modificandoli in direzione dei loro interessi. La
società in rete globale è una struttura dinamica altamente malleabile alle forze sociali, alla
cultura, alla politica e alle strategie economiche. Ma ciò che resta in tutti i casi è il suo
dominio su attività e individui che sono esterni alle reti. In questo senso, il globale ha la
meglio sul locale – a meno che il locale non venga connesso al globale in quanto nodo di
reti globali alternative costruite dai movimenti sociali.
Così, la globalizzazione ineguale della società in rete è, nella pratica, un tratto
fortemente significativo della sua struttura sociale. La coesistenza della società in rete,
come struttura globale, con società industriali, rurali, comunali o di sopravvivenza,
caratterizza la realtà di tutti i paesi, sia pure con quote diverse di popolazione e territorio
da un versante e dall’altro dello spartiacque, a seconda della rilevanza di ciascun segmento
sociale per la logica dominante di ciascuna rete. Ciò vuol dire che le varie reti hanno
diverse geometrie e geografie di inclusione ed esclusione: la mappa dell’economia
criminale globale non è la stessa di quella che risulta dagli schemi di ubicazione
internazionale dell’industria dell’alta tecnologia.
In termini teorici, la società in rete dev’essere analizzata, primo, come un’architettura
globale di reti autoconfiguranti incessantemente programmate e riprogrammate dai poteri
costituiti in ciascuna dimensione; secondo, come il risultato dell’interazione tra le varie
geometrie e geografie delle reti che includono le attività centrali – ossia, le attività che
danno forma alla vita e al lavoro nella società; e, terzo, come il risultato di interazioni di
secondo ordine tra queste reti dominanti e la geometria e la geografia della disconnessione
delle formazioni sociali lasciate al di fuori della logica del networking globale.
Qualsiasi interpretazione delle relazioni di potere nel nostro mondo deve riferirsi nello
specifico a questa particolare società. Una discussione informata di questa specificità
richiede la caratterizzazione della società in rete secondo le sue componenti primarie:
produzione e distribuzione di valore, lavoro, comunicazione, cultura, e sua modalità di
esistenza in quanto formazione spaziotemporale. Solo allora potrò avanzare la mia ipotesi
sulla specificità delle relazioni di potere nella società globale in rete – un’ipotesi che
guiderà l’analisi presentata nel corso di questo libro.
Che cosa è il valore nella società in rete?
Le strutture sociali, come la società in rete, hanno la loro origine nei processi di
produzione e distribuzione del valore. Ma che cosa costituisce valore nella società in rete?
Che cosa muove il sistema di produzione? Che cosa motiva gli appropriatori di valore e i
controllori della società? Qui non c’è alcun cambiamento rispetto alle strutture sociali
precedenti: valore è ciò che le istituzioni dominanti della società decidono che sia valore.
Così, se il capitalismo globale plasma il mondo e l’accumulazione di capitale basata sulla
valutazione degli attivi finanziari sui mercati finanziari globali è il valore supremo, questo
sarà valore in ogni circostanza, in quanto, sotto il capitalismo, l’estrazione del profitto e la
sua materializzazione in termini monetari possono in ultima analisi acquisire tutto il resto.
Il punto critico è che, in una struttura sociale organizzata in reti globali, la gerarchia tra le
reti, quale che essa sia, diventerà la regola nell’intera griglia di reti che
organizzano/dominano il pianeta. Se, per esempio, diciamo che l’accumulazione di
capitale è ciò che fa muovere il sistema, e che il rendimento del capitale si realizza
fondamentalmente sui mercati finanziari globali, questi ultimi assegneranno valore a ogni
transazione in ogni paese, dal momento che nessuna economia è indipendente dalla
valutazione finanziaria assegnata dai mercati finanziari globali. Ma se invece stabiliamo
che il valore supremo è il potere militare, allora la capacità tecnologica e organizzativa
degli apparati militari strutturerà il potere nelle loro sfere di influenza e creerà le
condizioni perché altre forme di valore – per esempio l’accumulazione del capitale o il
dominio politico – procedano sotto la loro protezione. Se però la trasmissione di
tecnologia, informazione e conoscenza a una particolare organizzazione armata viene
bloccata, questa organizzazione diventa irrilevante nel contesto mondiale. Così, possiamo
dire che le reti globali di informazione e tecnologia sono quelle dominanti perché
condizionano la capacità militare che, a sua volta, fornisce la sicurezza necessaria per il
funzionamento del mercato. Un altro esempio illustra questa diversità nei processi di
creazione del valore: possiamo affermare che la fonte più importante di influenza nel
mondo attuale è la trasformazione della mentalità degli individui. Se è così, i media sono
le reti chiave in quanto, organizzati in conglomerati e in reti di distribuzione globali,
rappresentano le fonti primarie dei messaggi e delle immagini che raggiungono la mente
degli individui. Se invece consideriamo i media principalmente come business mediatico,
allora la logica che diventa sovrana è quella della creazione di profitto, sia nella
commercializzazione dei media da parte dell’industria pubblicitaria sia nella valutazione
dei loro capitali azionari.
Così, data la varietà delle potenziali origini della dominazione di rete, la società in rete è
una struttura sociale multidimensionale in cui reti di diverso tipo hanno diverse logiche di
creazione del valore. La definizione di ciò che costituisce valore dipende dalla specificità
della rete e del suo programma. Qualsiasi tentativo di ricondurre ogni valore a uno
standard comune si scontra con difficoltà metodologiche e pratiche insormontabili. Per
esempio, se la creazione di profitto è il valore supremo sotto il capitalismo, il potere
militare è la base del potere statale, e lo stato ha una considerevole capacità di decidere e
di imporre nuove regole per gli operatori economici (chiedete di Putin agli oligarchi russi).
Contemporaneamente, il potere statale, anche in contesti non democratici, dipende in larga
misura da ciò che la gente crede, dalla sua capacità di accettare le regole o, viceversa,
dalla sua volontà di opporsi. Quindi, il sistema dei media, e altri mezzi di comunicazione,
come Internet, potrebbero precedere il potere statale, il che a sua volta condizionerebbe le
regole della creazione di profitto, e ciò esautorerebbe il valore del denaro quale valore
supremo.
Dunque, il valore è, di fatto, un’espressione del potere: coloro che detengono il potere
(che spesso non coincidono con coloro che sono al governo) decidono che cosa è di
valore. A questo riguardo, la società in rete non introduce innovazioni. Quello che è
nuovo, invece, è la sua portata globale, e la sua architettura reticolare. Ciò vuol dire, da
una parte, che le relazioni di dominio tra reti sono cruciali. Sono caratterizzate da una
costante, flessibile interazione: per esempio, tra mercati finanziari globali, processi
geopolitici e strategie mediatiche. Dall’altra parte, siccome la logica della creazione di
valore come espressione di dominio è globale, quei casi che presentano un impedimento
strutturale a esistere globalmente si trovano in posizione di svantaggio rispetto ad altri la
cui logica è intrinsecamente globale. Questo riveste una considerevole importanza pratica
perché è alla radice della crisi dello stato-nazione ereditato dall’età industriale (non dello
stato in quanto tale, perché ogni struttura sociale genera la forma di stato sua propria).
Poiché lo stato-nazione può imporre le proprie regole solo sul proprio territorio, salvo il
caso di alleanze o di invasione, esso deve diventare o imperiale o reticolare quando si
mette in rapporto con altre reti nella definizione del valore. È per questo che, per esempio,
all’inizio del XXI secolo lo stato americano si è sentito in dovere di definire la sicurezza
contro il terrorismo come il valore preminente per il mondo intero. Era un modo per
costruire una rete di natura militare che assicurasse la permanenza della propria egemonia
ponendo la priorità della sicurezza al di sopra della creazione di profitto o di obiettivi di
secondo piano, come il rispetto dei diritti umani o la difesa dell’ambiente. Tuttavia, la
logica capitalista spesso si addentella rapidamente ai progetti di sicurezza, come illustra in
maniera lampante il lucroso business delle aziende americane clienti del governo in Iraq
(Klein, 2007).
Al capitalismo è sempre piaciuta l’idea di un mondo senza confini, come ci ha
ripetutamente ricordato David Harvey, tanto che le reti finanziarie globali hanno una
posizione di vantaggio quali istanze di attribuzione di valore nella società in rete globale
(Harvey, 1990). Ma il pensiero umano è probabilmente l’elemento che ha la maggiore
rapidità di propagazione e la maggiore influenza in ogni sistema sociale, a condizione che
si basi su un sistema di comunicazione globale/locale interattivo in tempo reale – il che è
esattamente ciò che, per la prima volta nella storia, sta emergendo adesso (Dutton, 1999;
Benkler, 2006). Così le idee, e specifici insiemi di idee, possono imporsi come il valore
autenticamente supremo (come l’idea di preservare il nostro pianeta o la nostra specie,
oppure quella di servire il disegno di Dio), quale prerequisito per ogni altra cosa.
In sintesi: la vecchia domanda della società industriale – la pietra angolare
dell’economia politica classica – «che cos’è il valore?», non ha una risposta definita nella
società in rete globale. Valore è ciò che viene elaborato in ogni rete dominante in ogni
momento in ogni luogo in base alla gerarchia programmata nella rete dagli attori che sulla
rete agiscono. Il capitalismo non è morto. Anzi, è più pervasivo che mai. Ma,
contrariamente a una percezione ideologica diffusa, non è l’unico gioco in circolazione
nella città globale.
Occupazione, lavoro, classe e genere: l’impresa a rete e la nuova divisione sociale del
lavoro
La precedente analisi della nuova economia politica della creazione di valore nelle reti
globali apre la strada per comprendere la nuova divisione del lavoro, e quindi il lavoro, la
produttività e lo sfruttamento. La gente lavora: lo ha sempre fatto. In realtà oggi, in
termini di ore lavorative totali prestate in una data società, la gente lavora più di quanto
abbia mai fatto, perché gran parte del lavoro femminile un tempo non era contato come
attività socialmente riconosciuta (e quindi pagata). La questione cruciale è sempre stata il
modo in cui il lavoro è organizzato e retribuito. La divisione del lavoro era, ed è ancora,
una misura di ciò che ha valore e ciò che non ne ha nella prestazione di lavoro. Questo
giudizio di valore organizza il processo della produzione. Definisce anche i criteri in base
ai quali il prodotto viene diviso, determinando consumo differenziale e stratificazione
sociale. La divisione fondamentale nella società in rete, ma non l’unica, è quella che
separa forza lavoro autoprogrammabile da forza lavoro generica (Carnoy, 2000; Castells,
2000c; Benner, 2002). La forza lavoro autoprogrammabile ha la capacità autonoma di
concentrarsi sull’obiettivo assegnato nel processo di produzione, di reperire le relative
informazioni, di ricombinarle in conoscenza usando lo stock di conoscenza disponibile, e
di applicarla nella forma di compiti orientati agli obiettivi del processo. Più i sistemi di
informazione sono complessi, e interattivamente connessi a database e fonti di
informazioni tramite le reti di computer, più quello che è richiesto al lavoratore è la
capacità di cercare e ricombinare informazione. Questo richiede un’appropriata
formazione e addestramento, in termini non di specializzazione ma di capacità creativa, e
dell’abilità di sapersi evolvere al passo dei cambiamenti che si verificano
nell’organizzazione, nella tecnologia e nella conoscenza. Viceversa, compiti che sono di
scarso valore, ma necessari, sono assegnati alla forza lavoro generica, che verrà prima o
poi sostituita da macchine o trasferita verso altri siti di produzione che hanno costi
inferiori, in base a un’analisi costibenefici dinamica. La più grande massa delle persone
che lavorano nel pianeta, e la maggioranza nei paesi progrediti, è costituita ancora da
manodopera generica. Questi lavoratori sono usa-e-getta, a meno che non riescano ad
affermare con l’azione collettiva il loro diritto a esistere come esseri umani e come
cittadini. Ma in termini di creazione di valore (nella finanza, nel settore manifatturiero,
nella ricerca, negli sport, nell’intrattenimento, nell’azione militare o nel capitale politico) è
il lavoratore autoprogrammabile quello che conta per qualunque organizzazione che abbia
il controllo delle risorse. Così, l’organizzazione del processo di lavoro nella società in rete
agisce in base a una logica binaria, separando il lavoro autoprogrammabile dalla
manodopera generica. Inoltre, la flessibilità e adattabilità di entrambi i generi di forza
lavoro a un ambiente in costante mutamento è una precondizione per il loro impiego.
Questa specifica divisione della forza lavoro è connotata per genere. La nascita del
lavoro flessibile è direttamente connessa alla femminilizzazione del lavoro remunerato,
una tendenza fondamentale della struttura sociale nell’ultimo trentennio (Carnoy, 2000).
L’organizzazione patriarcale della famiglia induce le donne a vedere l’organizzazione
flessibile del lavoro professionale come l’unico modo per rendere i doveri della famiglia
compatibili con quelli dell’attività lavorativa. È per questo che la grande maggioranza dei
lavoratori part-time e temporanei in quasi tutti i paesi è costituita da donne. Inoltre,
l’occupazione delle donne rientra nella maggior parte dei casi nel lavoro generico: anche
se il loro livello di istruzione è cresciuto notevolmente rispetto a quello degli uomini,
salari e condizioni di lavoro non sono migliorati in pari misura. Così la donna è diventata
il lavoratore ideale dell’economia capitalista globale in rete: da una parte, è in grado di
lavorare efficientemente, e di adattarsi alle mutevoli esigenze del business; dall’altra
riceve un compenso inferiore a parità di lavoro, e ha minori opportunità di promozione a
causa dell’ideologia e della prassi sessuata della divisione del lavoro nel sistema
patriarcale. La realtà però è, per usare un vecchio vocabolo, dialettica. Anche se
l’inserimento di massa delle donne nel lavoro retribuito, in parte a causa della loro
condizione di subordinazione patriarcale, è stato un fattore decisivo per l’espansione del
capitalismo informazionale globale, la trasformazione stessa della condizione delle donne
in quanto salariate ha finito per minare il patriarcato stesso. Le idee femministe emerse dai
movimenti sociali degli anni Settanta hanno trovato terreno fertile fra le lavoratrici esposte
all’esperienza della discriminazione. Ancora più importante, il potere contrattuale di tipo
economico conquistato dalle donne nella famiglia ha rafforzato la loro posizione rispetto
al capofamiglia maschio, minando al tempo stesso la giustificazione ideologica della loro
subordinazione, basata com’era sul rispetto dovuto all’autorità del maschio che manteneva
la famiglia con il suo lavoro. Così, la divisione del lavoro nella nuova organizzazione
sociale è connotata per genere, ma questo è un processo dinamico, in cui le donne stanno
ribaltando tendenze strutturali dominanti e inducendo le imprese a sottoporre gli uomini
alle stesse forme di flessibilità, precarietà, riduzione ed esternalizzazione dei posti di
lavoro che un tempo erano appannaggio delle donne. Così, invece di essere le donne a
venir innalzate al livello dei lavoratori maschi, è la maggioranza dei maschi che vengono
portati al livello della maggioranza delle lavoratrici, mentre le donne professioniste hanno
raggiunto un livello superiore di connettività in quelli che un tempo erano old boys’
networks. Queste linee di tendenza hanno profonde implicazioni sia per la struttura di
classe della società sia per la relazione tra uomini e donne sul posto di lavoro e in famiglia
(Castells e Subirats, 2007).
La creatività, l’autonomia e la capacità di autoprogrammazione dei lavoratori della
conoscenza non darebbero il loro frutto in fatto di produttività se non avessero la
possibilità di essere combinate con il networking del lavoro. Anzi, il motivo fondamentale
del bisogno strutturale di flessibilità e autonomia è la trasformazione organizzativa del
processo di produzione. Questa trasformazione è rappresentata dalla nascita dell’impresa
a rete. La nuova forma di organizzazione aziendale è l’equivalente storico sotto
l’informazionalismo della cosiddetta organizzazione fordista dell’industrialismo (tanto
capitalista quanto statalista), ossia l’organizzazione caratterizzata da una produzione di
massa standardizzata e dal controllo verticale del processo lavorativo secondo uno schema
razionalizzato dall’alto verso il basso (il «management scientifico» e il taylorismo, metodi
che suscitarono l’ammirazione di Lenin portando alla loro introduzione nell’Unione
Sovietica). Anche se sono ancora milioni i lavoratori nelle fabbriche organizzate in questo
modo, le attività che producono valore ai vertici del processo di produzione (R&S,
innovazione, design, marketing, management, e produzione flessibile customizzata in alti
volumi) dipendono da un tipo totalmente differente di azienda e, quindi, da un diverso tipo
di processo e di prestazione lavorativa: l’impresa a rete. Questa non è la stessa cosa di una
rete di imprese. È la rete costituita da aziende o segmenti di aziende, e/o dalla
segmentazione interna di un’azienda. Così, le grandi imprese sono internamente
decentrate come reti. Le piccole e medie imprese sono connesse in reti, assicurando così la
massa critica del proprio contributo in qualità subappaltatori, pur conservando la loro
risorsa principale: la flessibilità. Reti di piccole e medie imprese sono spesso satelliti di
grandi corporation; in molti casi di diverse di esse. Le grandi corporation, e le loro reti
sussidiarie, di solito formano reti di cooperazione chiamate, nella pratica aziendale,
alleanze o partnership strategiche.
Ma raramente queste alleanze costituiscono strutture di cooperazione permanente. Non
stiamo parlando di processi di cartellizzazione oligopolistica. Queste reti complesse sono
legate a specifici progetti di business e riconfigurano la loro cooperazione in reti diverse a
ogni nuovo progetto. La consueta pratica di business in questa economia reticolare è
quella delle alleanze, delle partnership e delle collaborazioni che sono specifiche a un dato
prodotto, processo, tempo e spazio. Queste collaborazioni sono basate sulla condivisione
di capitale e lavoro, ma più fondamentalmente di informazione e conoscenza, allo scopo di
conquistare quote di mercato. Sono quindi principalmente reti informazionali, che
connettono fornitori e clienti tramite l’azienda reticolare. L’unità del processo produttivo
non è l’azienda bensì il progetto di business, realizzato da una rete, l’impresa a rete.
L’azienda continua a essere l’unità legale di accumulazione del capitale, ma poiché il
valore dell’azienda dipende in ultima analisi dalla sua valutazione finanziaria sul mercato
borsistico, l’unità di accumulazione di capitale, l’azienda, diventa essa stessa nodo di una
rete globale di flussi finanziari. Così, nell’economia a rete, lo strato dominante è il
mercato finanziario globale, madre di tutte le valutazioni. Il mercato finanziario globale
opera solo in parte secondo le regole di mercato. È anche plasmato e mosso da turbolenze
dell’informazione di varia origine, elaborate e comunicate dalle reti informatiche che
costituiscono il sistema nervoso dell’economia capitalista globale e informazionale
(Hutton e Giddens, 2000; Obstfeld e Taylor, 2004; Zaloom, 2006).
La valutazione finanziaria determina le dinamiche di breve periodo dell’economia, ma
sul lungo periodo tutto dipende dalla crescita della produttività. È per questo che la fonte
principale della produttività costituisce la pietra angolare della crescita economica, e
quindi di profitti, salari, accumulazione e investimento (Castells, 2006). E il fattore chiave
per la crescita della produttività in questa economia reticolare knowledge-intensive è
l’innovazione (Lucas, 1999; Tuomi, 2002), ossia la capacità di ricombinare i fattori di
produzione in modo più efficiente, e/o di produrre maggior valore aggiunto in un processo
o prodotto. Gli innovatori dipendono dalla creatività culturale, o dall’apertura delle
istituzioni all’imprenditorialismo, dall’autonomia della manodopera nel processo di
lavoro, e dal genere appropriato di finanziamento per questa economia trainata
dall’innovazione.
La nuova economia del nostro tempo è sicuramente capitalista, ma di un capitalismo di
nuovo genere: dipende dall’innovazione come fonte di crescita della produttività; dai
mercati finanziari globali legati da reti di computer, i cui criteri di valutazione sono
influenzati da turbolenze dell’informazione; dalla retificazione della produzione e della
gestione, internamente quanto esternamente, localmente quanto globalmente; e da una
forza lavoro che è flessibile e adattabile. I creatori di valore devono essere
autoprogrammabili e capaci di elaborare autonomamente informazioni trasformandole in
conoscenza specifica. I lavoratori generici, ridotti al ruolo di esecutori, devono essere
pronti ad adattarsi ai bisogni dell’impresa a rete, altrimenti vengono rimpiazzati da
macchine o da forze lavoro alternative.
In questo sistema, oltre alla permanenza dello sfruttamento in senso tradizionale, la
questione chiave per la forza lavoro è la segmentazione in tre categorie: quelli che sono
fonte di innovazione e valore; quelli che sono semplici esecutori di istruzioni; e quelli che
sono strutturalmente irrilevanti, dal punto di vista dei programmi di profitto del
capitalismo globale, o come lavoratori (perché inadeguatamente istruiti e residenti in aree
prive delle infrastrutture e dell’ambiente istituzionale adatti alla produzione globale) o
come consumatori (troppo poveri per partecipare al mercato), o in entrambe le vesti. La
prima preoccupazione per gran parte della popolazione mondiale è quella di sottrarsi
all’irrilevanza, entrando invece in una relazione di senso, come quella che chiamiamo
sfruttamento – perché lo sfruttamento ha un significato per lo sfruttato. Il pericolo
maggiore lo corrono quelli che diventano invisibili ai programmi che comandano le reti
globali di produzione, distribuzione e creazione di valore.
Lo spazio dei flussi e il tempo acrono
Come accade in ogni trasformazione storica, l’emergere di una nuova struttura sociale è
connesso con la ridefinizione delle basi materiali della nostra esistenza, lo spazio e il
tempo, come hanno sostenuto tra gli altri Giddens (1984), Adam (1990), Harvey (1990),
Lash e Urry (1994), Mitchell (1999, 2003), Hall e Pain (2006) e Tabboni (2006). Le
relazioni di potere sono insite nella costruzione sociale di spazio e tempo, essendo allo
stesso tempo condizionate dalle formazioni spazio-temporali che caratterizzano la società.
Due forme sociali emergenti di tempo e spazio caratterizzano la società in rete, pur
coesistendo con le forme precedenti. Sono lo spazio dei flussi e il tempo acrono. Spazio e
tempo sono correlati, in natura come nella società. Nella teoria sociale lo spazio può
essere definito come il supporto materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo:
ossia, la costruzione della simultaneità. Lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione
può essere inteso come il graduale decoupling tra contiguità e condivisione del tempo. Lo
spazio dei flussi si riferisce alla possibilità tecnologica e organizzativa di praticare la
simultaneità senza contiguità. Si riferisce anche alla possibilità di un’interazione asincrona
in un tempo scelto, a distanza. La maggior parte delle funzioni dominanti della società in
rete (mercati finanziari, reti di produzione transnazionali, network mediatici, forme
reticolari di governance globale, movimenti sociali globali) sono organizzate intorno allo
spazio dei flussi. Comunque lo spazio dei flussi non è aspaziale. È fatto di nodi e reti;
ovvero, di luoghi connessi da reti di comunicazione operate elettronicamente attraverso le
quali circolano e interagiscono i flussi di informazioni che assicurano la condivisione
temporale di pratiche elaborate in uno spazio. Mentre nello spazio dei luoghi – basato
sulla contiguità di pratica – significato, funzione e località sono strettamente correlati,
nello spazio dei flussi i luoghi ricevono il loro significato e la loro funzione dal ruolo
nodale che rivestono nelle specifiche reti a cui appartengono. Così, lo spazio dei flussi non
è lo stesso per le attività finanziarie e per la scienza, per i network mediatici e per le reti
del potere politico. Nella teoria sociale, lo spazio non è concepibile come qualcosa di
separato dalla pratica sociale. Pertanto, ognuna delle dimensioni della società in rete che
abbiamo analizzato in questo capitolo ha una sua manifestazione spaziale. Essendo le
pratiche in rete, lo è anche il loro spazio. Dal momento che le pratiche retificate sono
basate su flussi di informazione elaborati tra vari siti da tecnologie di comunicazione, lo
spazio della società in rete è costituito dall’articolazione di tre elementi: i luoghi dove le
attività (e gli individui che le svolgono) sono situati; le reti materiali di comunicazione che
legano queste attività; e il contenuto e la geometria dei flussi di informazione che operano
le attività in termini di funzione e significato. Questo è lo spazio dei flussi.
Il tempo, in termini sociali, veniva abitualmente definito come la segmentazione
sequenziale di pratiche. Il tempo biologico, caratteristico di gran parte dell’esistenza
umana (e ancora oggi la condizione di vita della grande maggioranza della popolazione
del mondo) è definito dalla sequenza programmata nei cicli vitali della natura. Il tempo
sociale è stato plasmato nel corso della storia da ciò che chiamo tempo burocratico, che è
l’organizzazione del tempo, nelle istituzioni e nella vita quotidiana, secondo i codici degli
apparati ideologico-militari, che vengo sovrapposti ai ritmi del tempo biologico. Nell’età
industriale, emerse gradualmente il tempo dell’orologio, comprendente anche quello che
chiamo, nella tradizione foucaultiana, tempo disciplinare. Esso è la misura e
l’organizzazione della sequenzialità con precisione sufficiente ad assegnare compiti e
ordine a ogni momento della vita, a partire dal lavoro industriale standardizzato e dal
calcolo dell’orizzonte temporale delle transazioni commerciali: due componenti
fondamentali del capitalismo industriale, il quale non potrebbe funzionare senza il tempo
dell’orologio: il tempo è denaro e il denaro si fa nel corso del tempo. Nella società in rete,
l’accento sulla sequenzialità è inversa. Il rapporto con il tempo è definito dall’uso delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nello sforzo incessante di annullare il
tempo negando la sequenzialità: da una parte comprimendolo (come nelle transazioni
finanziarie globali concluse in una frazione di secondo o nella pratica generalizzata del
multitasking, concentrando un maggior numero di attività in un dato tempo); dall’altra
parte, offuscando la sequenza delle pratiche sociali, mescolando passato, presente e futuro
in un ordine casuale, come nell’ipertesto elettronico del Web 2.0, o l’allontanamento dai
cicli naturali tanto nel lavoro quanto nella pratica genitoriale.
Nella società industriale, organizzata attorno all’idea di progresso e allo sviluppo delle
forze produttive, il divenire strutturava l’essere, e il tempo si conformava allo spazio.
Nella società in rete, lo spazio dei flussi dissolve il tempo scompigliando la sequenza degli
eventi e rendendoli simultanei nelle reti di comunicazione; pone così la società in una
condizione di transitorietà strutturale: l’essere cancella il divenire.
La costruzione di spazio e tempo è socialmente differenziata. Lo spazio molteplice dei
luoghi, frammentato e sconnesso, esibisce temporalità diversificate, dal dominio
eminentemente tradizionale dei ritmi biologici al controllo del tempo dell’orologio.
Funzioni e individui scelti trascendono il tempo (per esempio passando da un fuso orario
all’altro), mentre attività svalutate e individui subordinati sopportano la vita guardando il
tempo che passa. Esistono però progetti alternativi di strutturazione di tempo e spazio,
espressioni di movimenti sociali che mirano a modificare i programmi dominanti della
società in rete. Così, anziché accettare il tempo senza tempo dell’automazione finanziaria,
il movimento ambientalista propone di vivere il tempo secondo la prospettiva cosmologica
della longue durée, che vede le nostre vite come parte dell’evoluzione della specie umana,
in solidarietà con le generazioni future ed esprimendo un senso di appartenenza
cosmologica: è ciò che Lash e Urry (1994) concettualizzano come tempo glaciale.
Tante comunità in tutto il mondo si battono per conservare il senso di appartenenza
locale e per affermare lo spazio dei luoghi, basato sull’esperienza, contro la logica dello
spazio dei flussi, basato sulla strumentalità, nel processo che ho descritto come il
grassrooting dello spazio dei flussi (Castells, 1999). In effetti, lo spazio dei flussi non
scompare, in quanto è la forma spaziale della società in rete; ma la sua logica potrebbe
essere trasformata. Anziché rinchiudere significato e funzione nei programmi delle reti,
potrebbe fornire supporto materiale alla connessione globale dell’esperienza locale, come
nelle comunità di Internet che emergono dalla messa in rete di culture locali (Castells,
2001).
Spazio e tempo sono ridefiniti sia dall’emergere di una nuova struttura sociale sia dalle
lotte di potere che si svolgono sulla forma e i programmi di questa struttura sociale.
Spazio e tempo esprimono le relazioni di potere della società in rete.
La cultura della società in rete
Le società sono costrutti culturali. Io intendo la cultura come l’insieme dei valori e delle
credenze che informano, guidano e motivano il comportamento della gente. Così, se esiste
una specifica società in rete, dovrebbe esistere una cultura della società in rete che è
possibile identificare come suo marcatore storico. Anche in questo caso, però, la
complessità e la novità della società in rete impongono prudenza. Prima di tutto, essendo
globale, la società in rete attiva e integra una molteplicità di culture, legate alla storia e
alla geografia di ciascuna area del mondo. In pratica, l’industrialismo (e la cultura della
società industriale) non ha fatto sì che specifiche culture nel mondo sparissero. La società
industriale disponeva di numerose manifestazioni culturali, diversificate quando non
conflittuali (dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dal Giappone al Regno Unito). Nuclei
industrializzati erano presenti anche in società per altri versi in larga misura rurali e
tradizionali. Neppure il capitalismo ha unificato culturalmente il suo regno storico. Il
mercato ha sì regnato in ogni paese capitalista, ma sottostando a tali regole specifiche, e
con una tale varietà di forme culturali, che identificare una data cultura come capitalista è
di scarsa utilità analitica, a meno che con cultura capitalista non intendiamo la cultura
americana o occidentale, il che si rivela empiricamente sbagliato.
Nello stesso modo, la società in rete si sviluppa in una molteplicità di ambientazioni
culturali, prodotte dalla storia differenziata di ciascun contesto. Si materializza in forme
specifiche, portando alla formazione di sistemi istituzionali e culturali altamente
diversificati (Castells, 2004b). Comunque, esiste un nucleo comune nella società in rete,
come esisteva per la società industriale. Ma nella società in rete c’è uno strato ulteriore di
unità. Essa esiste globalmente in tempo reale. È globale nella sua struttura. Così, non solo
esprime la sua logica all’intero mondo, ma mantiene la sua organizzazione reticolare a
livello globale specificandosi però in ciascuna società. Questo duplice movimento di
comunalità e singolarità ha due principali conseguenze a livello culturale.
Da una parte specifiche identità culturali diventano comuni di autonomia, e talvolta
trincee di resistenza, per collettivi e individui che rifiutano di dissolversi nella logica delle
reti dominanti (Castells, 2004c). Essere francese diventa rilevante quanto essere cittadino
o consumatore. Essere catalano, basco, galiziano, irlandese, gallese, scozzese, québecois,
curdo, sciita, sunnita, aymara o maori diventa invece una chiamata all’autoidentificazione
rispetto al dominio di stati-nazione imposti. Malgrado quanto dicano visioni normative o
ideologiche che propongono la fusione di tutte le culture nel melting pot cosmopolita dei
cittadini del mondo, il mondo non è piatto. In queste prime fasi dello sviluppo della
società in rete globale sono esplose le identità di resistenza, provocando i conflitti sociali e
politici più drammatici degli ultimi tempi. Stimabili teorici e meno stimabili ideologi
possono anche mettere in guardia sui pericoli di un simile sviluppo, ma noi non possiamo
ignorarlo. L’osservazione deve informare la teoria, non viceversa. In questo senso, ciò che
caratterizza la società in rete globale è la contrapposizione tra logica globale della rete e
l’affermazione di una molteplicità di sé locali, come ho cercato di sostenere e documentare
nel mio lavoro (Castells, 2000a, c, 2004c; vedi anche Tilly, 2005).
Più che la nascita di una cultura globale omogenea, quello che osserviamo è la diversità
culturale storica come tendenza principale: frammentazione più che convergenza. La
questione chiave che sorge allora è la capacità di queste specifiche identità culturali (fatte
con materiali ereditati da singolarità storiche rielaborate nel nuovo contesto) di
comunicare tra loro (Touraine, 1997). Altrimenti, la condivisione di una struttura sociale
globale, interdipendente, che però non è in grado di parlare una lingua comune di valori e
convinzioni, porta a fraintendimenti sistemici, alla base della violenza distruttiva contro
l’altro. Così, i protocolli di comunicazione tra le diverse culture sono il punto critico per la
società in rete, giacché senza di essi non esiste alcuna società ma solo reti dominanti e
comuni di resistenza. Il progetto di una cultura cosmopolita comune ai cittadini del mondo
pone le basi di una governance globale democratica e tocca la questione culturale-
istituzionale centrale della società in rete (Habermas, 1998; Beck, 2005). Purtroppo,
questa visione propone la soluzione senza identificare, se non in termini normativi, i
processi con cui questi protocolli di comunicazione vadano creati o possano essere creati,
considerando che la cultura cosmopolita, a quanto ci informa la ricerca empirica, è
presente, anche in Europa, solo in una minima parte della popolazione (Norris, 2000;
Commissione Europea, Eurobarometer, vari anni). Così, per quanto si possa
personalmente auspicare che la cultura del cosmopolitismo accresca gradualmente la
comunicazione tra popoli e culture, l’osservazione delle tendenze attuali indica una
direzione diversa.
La questione di quali possano essere questi protocolli di comunicazione interculturale è
materia di investigazione. Tale investigazione verrà affrontata in questo libro, sulla base
della seguente ipotesi: la cultura comune della società in rete globale è una cultura di
protocolli di comunicazione che permettono la comunicazione tra culture diverse sulla
base non di valori condivisi ma della condivisione dei valori della comunicazione. Ossia:
la nuova cultura non è fatta di contenuti ma di processi, come la cultura democratica
costituzionale è fondata su procedure, non su programmi concreti. La cultura globale è una
cultura della comunicazione per la comunicazione. È una rete aperta di significati culturali
che possono non solo coesistere, ma anche interagire e modificarsi a vicenda sulla base di
questo scambio. La cultura della società in rete è una cultura di protocolli di
comunicazione tra tutte le culture del mondo, sviluppata sulla base del comune
convincimento nel potere del networking e delle sinergie ottenute dando ad altri e
ricevendo da altri. Il processo di costruzione materiale della cultura della società in rete è
in corso. Ma non si tratta della diffusione della mentalità capitalista tramite il potere
esercitato sulle reti globali dalle élite dominanti ereditate dalla società industriale. Né si
tratta della proposta idealistica di filosofi che sognano un mondo di astratti cittadini
cosmopoliti. È il processo con cui attori sociali consapevoli, con origini svariate, portano
agli altri le loro risorse e convinzioni, aspettandosi di ricevere in cambio lo stesso, e anche
di più: la condivisione di un mondo diversificato, ponendo così fine alla paura ancestrale
dell’altro.
Lo stato a rete
Il potere non si riduce allo stato. Ma una interpretazione dello stato e della sua specificità
storica e culturale è un elemento indispensabile per ogni teoria del potere. Per stato,
intendo le istituzioni del governo della società e le loro agenzie istituzionalizzate di
rappresentanza politica e di gestione e controllo della vita sociale; ovvero, l’esecutivo, il
legislativo, il giudiziario, l’amministrazione pubblica, le forze armate, le forze di polizia e
tutela della legge, le authority di regolamentazione e i partiti politici, ai vari livelli di
governance: nazionale, regionale, locale e internazionale.
Lo stato mira ad affermare la propria sovranità, il monopolio di ultima istanza sulle
decisioni che riguardano i propri soggetti entro dati confini territoriali. Lo stato definisce
la condizione di cittadinanza, conferendo così diritti e imponendo doveri ai suoi soggetti.
Estende inoltre la propria autorità sui cittadini stranieri che si trovano sotto la sua
giurisdizione. E allaccia relazioni di cooperazione, di competizione e di potere con gli altri
stati. Nell’analisi presentata sopra, ho mostrato, in sintonia con diversi studiosi e
osservatori, la crescente contraddizione tra la strutturazione di relazioni strumentali nelle
reti globali e il relegamento dell’autorità dello stato-nazione entro le sue frontiere
territoriali. È in corso, in effetti, una crisi dello stato-nazione come entità sovrana
(Appadurai, 1996; Nye e Donahue, 2000; Jacquet et al., 2002; Price, 2002; Beck, 2005;
Fraser, 2007). Tuttavia, gli statinazione, nonostante le loro crisi multidimensionali, non
scompaiono; si trasformano adattandosi al nuovo contesto. La loro trasformazione
pragmatica è ciò che in realtà modifica il paesaggio della politica e della formazione delle
linee politiche nella società in rete globale. Questa trasformazione subisce l’influenza di
una varietà di progetti che su di essa si scontrano, e che costituiscono il materiale
culturale/ideale su cui operano i diversificati interessi politici e sociali presenti in ogni
società per realizzare la trasformazione dello stato.
Gli stati-nazione reagiscono alle crisi indotte dal duplice processo di globalizzazione
della strumentalità e identificazione della cultura, mediante tre meccanismi principali.
1. Si associano tra loro e formano reti di stati, alcune delle quali multifunzionali e a
sovranità condivisa, come l’Unione Europea. Altre sono concentrate su un insieme di
questioni, in genere di tipo commerciale (per esempio il NAFTA o il Mercosur) o di
sicurezza (per esempio la NATO). Altre ancora si costituiscono come spazi di
coordinamento, negoziato e dibattito tra stati che hanno interessi in specifiche regioni del
mondo; per esempio, l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), l’UA (Unione
Africana), la Lega Araba, l’ASEAN (Association of South East Asian Nations), l’APEC
(Asia-Pacific Economic Cooperation Forum), l’East Asian Summit, la Shanghai
Cooperation Organization, e così via. Nelle reti più forti, gli stati condividono alcuni
attributi della sovranità. Gli stati stabiliscono anche reti informali permanenti o
semipermanenti per elaborare strategie e gestire il mondo secondo gli interessi dei
partecipanti alla rete. Esiste un «ordine di beccata» fra questi raggruppamenti, con il G8
(che sta diventando il G20 o il G22) al vertice della catena alimentare.
2. Gli stati hanno istituito una rete sempre più fitta di istituzioni internazionali e
organizzazioni sovranazionali per affrontare questioni globali, dalle istituzioni a scopo
generale (per esempio le Nazioni Unite) a quelle più specializzate (il WTO, l’FMI, la
Banca Mondiale, il Tribunale Penale Internazionale e così via). Ci sono anche istituzioni
internazionali ad hoc definite intorno a un insieme di questioni (per esempio, i trattati
globali sull’ambiente e le agenzie connesse).
3. Gli stati-nazione in molti paesi hanno iniziato un processo di devoluzione del potere
ai governi regionali e ai governi locali, aprendo contemporaneamente canali di
partecipazione con organizzazioni non governative, nella speranza di metter fine alla crisi
di legittimazione politica che li attanaglia entrando in rapporto con l’identità delle persone.
Il processo concreto di formazione delle decisioni politiche opera in una rete di
interazione tra istituzioni nazionali, sovranazionali, internazionali, co-nazionali, regionali
e locali, estendendosi fino a raggiungere anche le organizzazioni della società civile. In
questo processo, assistiamo al un mutamento dello stato-nazione sovrano che è emerso nel
corso dell’età moderna, con la sua trasformazione in una nuova forma di stato – che io
concettualizzo come lo stato a rete (Castells, 2000a, pp. 338-365). Lo stato a rete
emergente è caratterizzato dalla condivisione di sovranità e responsabilità tra diversi stati e
livelli di governo; dalla flessibilità delle procedure di governance; e da una maggiore
diversificazione di tempi e spazi rispetto al precedente stato-nazione nella relazione tra
governi e cittadini.
L’intero sistema si sviluppa in un modo pragmatico, attraverso decisioni ad hoc,
aprendo la porta a regole e istituzioni talvolta contraddittorie, e rendendo il sistema della
rappresentanza politica più oscuro, e ancor più distante dal controllo dei cittadini.
L’efficienza dello stato-nazione migliora ma la sua crisi di legittimazione si aggrava,
anche se la legittimazione politica complessiva può rafforzarsi se le istituzioni locali e
regionali svolgono efficientemente il proprio ruolo. Eppure, la crescente autonomia dello
stato locale e regionale potrebbe mettere in contraddizione i diversi livelli dello stato,
ponendoli l’uno contro l’altro. Questa nuova forma di stato introduce nuovi generi di
problemi, derivati dal conflitto tra la natura storicamente costruita delle istituzioni e le
nuove funzioni e i nuovi meccanismi che esse devono adottare per agire in rete, mentre
devono continuare a mantenere il loro riferimento a società nazionali territorialmente
definite.
Così, lo stato a rete si trova ad affrontare un problema di coordinamento, che presenta
tre aspetti: organizzativo, tecnico e politico:
1. organizzativo: agenzie dedite a proteggere il proprio campo d’intervento e la propria
posizione privilegiata di comando rispetto alle loro società, non possono avere la stessa
struttura, gli stessi sistemi di incentivo, e gli stessi principi operativi di quelle agenzie il
cui ruolo fondamentale è trovare una sinergia con altre agenzie;
2. tecnico: i protocolli di comunicazione non funzionano. L’introduzione delle reti
informatiche spesso disorganizza le agenzie partecipanti anziché connetterle, come nel
caso della nuova Homeland Security Administration creata negli Stati Uniti all’indomani
della dichiarazione di «guerra al terrore». Le agenzie sono riluttanti ad adottare una
tecnologia di rete che implica il networking delle loro pratiche, perché potrebbe mettere a
repentaglio la capacità di mantenere il controllo sul loro orticello burocratico;
3. politico: la strategia di coordinamento non è solo orizzontale tra agenzie, ma è anche
verticale in due direzioni: in rete con i loro supervisori politici, perdendo così l’autonomia
burocratica; e con i cittadini elettori, essendo così obbligate ad accrescere la propria
trasparenza.
Lo stato a rete si trova ad affrontare anche un problema ideologico: coordinare una
politica comune comporta una lingua comune e un insieme di valori condivisi, per
esempio contro il fondamentalismo di mercato nella regolamentazione dei mercati, o
nell’accettazione dello sviluppo sostenibile nella politica ambientale, o per il primato dei
diritti umani sulla ragion di stato nella politica della sicurezza. Non è detto che tale
compatibilità esista tra diversi apparati dello stato.
C’è, per di più, un problema geopolitico. Gli stati-nazione vedono ancora le reti di
governance come un tavolo di trattativa su cui favorire i propri interessi. Anziché
cooperare per il bene comune globale, gli stati-nazione continuano a farsi guidare da
principi politici tradizionali come: a) massimizzare gli interessi dello stato-nazione, e b)
porre come priorità gli interessi personali/politici/sociali degli attori politici al comando in
un dato stato-nazione. La governance globale è vista come un terreno di opportunità dove
massimizzare i propri vantaggi, anziché come un nuovo contesto in cui istituzioni
politiche condividono la governance intorno a progetti comuni. In realtà, quanto più
procede il processo di globalizzazione, tanto più le contraddizioni che esso genera (crisi di
identità, crisi economiche, crisi di sicurezza) portano alla reviviscenza del nazionalismo e
a tentativi di restaurare il primato della sovranità. In effetti, il mondo è oggettivamente
multilaterale ma alcuni degli attori politici più potenti sulla scena internazionale (per
esempio gli Stati Uniti, la Russia o la Cina), tendono ad agire unilateralmente, mettendo
al primo posto il proprio interesse nazionale senza preoccuparsi della destabilizzazione
del mondo esterno a essi. Così facendo, mettono a repentaglio anche la loro stessa
sicurezza, perché agire unilateralmente nel contesto di un mondo globalmente
interdipendente induce una situazione di caos sistemico (per esempio, vedi il nesso tra la
guerra in Iraq, le tensioni con l’Iran, l’intensificarsi della guerra in Afghanistan, l’aumento
di prezzi del petrolio e la flessione economica globale). Fintantoché queste contraddizioni
geopolitiche persistono, il mondo non potrà passare da una forma retificante pragmatica,
ad hoc, di formazione delle decisioni a un sistema di governance globale
costituzionalmente fondata a rete.
In ultima analisi, è solo il potere della società civile globale, che agisce sulla mente
pubblica tramite i media e le reti di comunicazione, ciò che potrà alla fine superare
l’inerzia storica degli statinazione e così portarli ad accettare la realtà del loro potere
limitato in cambio di una crescita della loro legittimazione ed efficienza.
Il potere nelle reti
Ora ho riunito gli elementi analitici che mi occorrevano per dedicarmi alla questione che
costituisce il tema centrale di questo libro: dove risiede il potere nella società in rete
globale? Per affrontare la questione devo prima differenziare quattro forme distinte di
potere:
• potere retificante (networking power);
• potere in rete (network power);
• potere reticolare (networked power);
• e potere di creazione delle reti (network-making power).
Ciascuna di queste forme di potere definisce specifici processi di esercizio del potere.
Potere retificante si riferisce al potere che gli attori e le organizzazioni inclusi nelle reti
che costituiscono il nucleo della società globale in rete esercitano sulle collettività umane
o sugli individui che non sono inclusi in queste reti globali. Questa forma di potere opera
per esclusione/inclusione. Tongia e Wilson (2007) hanno proposto un’analisi formale che
mostra che il costo dell’esclusione dalle reti cresce più rapidamente dei benefici tratti
dall’inclusione in esse. Questo perché il valore dell’essere in una rete cresce in misura
esponenziale con la dimensione della rete, come asserito nella Legge di Metcalfe del 1976.
Ma, al tempo stesso, anche la svalutazione collegata all’esclusione dalla rete cresce in
misura esponenziale, e a un tasso più rapido del valore dell’essere inclusi. La network
gatekeeping theory ha studiato i vari processi con cui i nodi vengono inclusi o esclusi dalla
rete, mostrando il ruolo chiave che la funzione di guardia (gatekeeping) ha nell’imporre il
potere collettivo di alcune reti su altre, o di una data rete su unità sociali sconnesse
(Barzilal-Nahon, 2008). Gli attori sociali possono fissare la propria posizione di potere
istituendo una rete che accumuli risorse variabili e poi esercitando le loro strategie di
guardia per sbarrare l’accesso a quelli che non aggiungono valore alla rete o che mettono a
repentaglio gli interessi che sono dominanti nei programmi di questa.
Il potere in rete si può comprendere meglio nella concettualizzazione proposta da
Grewal (2008) per teorizzare la globalizzazione dal punto di vista dell’analisi delle reti. In
questa prospettiva, la globalizzazione implica il coordinamento sociale tra attori multipli
collegati alla rete. Questo coordinamento richiede degli standard:

Gli standard che permettono il coordinamento globale mostrano ciò che definisco
network power. Il concetto di potere in rete consiste nella connessione di due idee:
primo, che gli standard di coordinamento hanno più valore quando sono usati da un
più ampio numero di individui e, secondo, che questa dinamica – che definisco come
una forma di potere – può condurre alla progressiva eliminazione delle alternative
sulle quali altrimenti la libera scelta potrebbe essere collettivamente esercitata… Gli
standard globali emergenti… [offrono] la soluzione al problema del coordinamento
globale tra diversi partecipanti ma lo fanno innalzando una soluzione al di sopra delle
altre e minacciando l’eliminazione di soluzioni alternative per lo stesso problema
(Grewal, 2008, p. 5).
Pertanto, gli standard o, nella mia terminologia, i protocolli di comunicazione,
determinano le regole che si devono accettare una volta entrati nella rete. In questo caso, il
potere è esercitato non con l’esclusione dalle reti, ma con l’imposizione delle regole di
inclusione. Ovviamente, a seconda del livello di apertura della rete, queste regole possono
essere negoziate tra le sue componenti. Ma una volta fissate, le regole diventano vincolanti
per tutti i nodi della rete, in quanto la loro osservanza è ciò che rende possibile l’esistenza
della rete come struttura comunicativa. Il potere in rete è il potere degli standard della rete
sulle sue componenti, anche se questo potere favorisce in ultima analisi gli interessi di un
insieme specifico di attori sociali, quelli che sono all’origine della formazione della rete e
dell’istituzione degli standard (protocolli di comunicazione). Il concetto del cosiddetto
«Washington consensus» come principio operativo dell’economia di mercato globale
illustra il significato del potere in rete.
Ma chi ha potere nelle reti dominanti? Come opera il potere reticolare? Come ho
proposto in precedenza, il potere è la capacità relazionale di imporre la volontà di un
attore sulla volontà di un altro attore, grazie alla capacità strutturale di dominio insita nelle
istituzioni della società. Seguendo questa definizione, la questione della detenzione del
potere nelle reti della società in rete potrebbe avere una risposta o semplicissima o
impossibile.
È semplice se rispondiamo analizzando il funzionamento di ciascuna specifica rete
dominante. Ogni rete definisce le proprie relazioni di potere in base ai propri obiettivi
programmati. Così, nel capitalismo globale, i mercati finanziari globali hanno l’ultima
parola, e l’FMI o le agenzie di rating (per esempio Moody’s o Standard & Poor) sono le
autorità che interpretano la loro volontà per i comuni mortali. Quella parola è spesso
espressa nell’idioma del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, dei vertici della Federal
Reserve o di Wall Street, o magari con qualche accento tedesco, francese, giapponese,
cinese, oppure di Oxbridge, a seconda del tempo e dello spazio. Oppure, l’ultima parola
potrebbe essere quella degli Stati Uniti, in quanto potenza statale-militare, e, in termini più
analitici, il potere di qualsiasi apparato in grado di imbrigliare l’innovazione tecnologica e
la conoscenza nella ricerca della potenza militare, e che ha le risorse materiali per
investimenti su larga scala in sistemi bellici.
Ma la domanda potrebbe diventare un vicolo cieco per l’analisi se cerchiamo di darle
una risposta unidimensionale e ci proponiamo di determinare «l’Origine del Potere» come
singola entità. Il potere militare non può prevenire una crisi finanziaria catastrofica; anzi,
in determinate condizioni di paranoia difensiva irrazionale, potrebbe provocarla con la
destabilizzazione dei paesi produttori di petrolio. Oppure, i mercati finanziari globali
potrebbero diventare un automa, sfuggendo al controllo di centro di regolamentazione, a
causa della dimensione, il volume e la complessità dei flussi di capitale che circolano nelle
sue reti, e a causa della dipendenza dei suoi criteri di valutazione da imprevedibili
turbolenze nell’informazione. La formazione delle decisioni politiche dipende si dice, dai
media, ma i media costituiscono un terreno plurale, per quanto affetti da distorsioni
ideologiche e politiche, e il processo della politica mediatica è altamente complesso (vedi
capitolo 4). Quanto alla classe capitalista, essa ha sì un certo potere, ma non il potere su
tutto e tutti: dipende fortemente tanto dalle dinamiche autonome dei mercati globali
quanto dalle decisioni dei governi in termini di regolamenti e linee politiche. Infine, i
governi stessi sono connessi in reti complesse di un’imperfetta governance globale,
condizionati dalle pressioni del business e dei gruppi di interesse, obbligati a negoziare
con i media che trasmettono le azioni dei governi ai loro cittadini, e assaliti
periodicamente da movimenti sociali e da espressioni di resistenza che non hanno alcuna
intenzione di farsi seppellire nelle discariche della fine della storia (Nye e Donahue, 2000;
Juris, 2008; Sirota, 2008). Sì, in alcuni casi, come negli USA dopo l’11 settembre, o nelle
aree di influenza della Russia o della Cina o dell’Iran o di Israele, i governi possono
impegnarsi in azioni unilaterali che gettano nel caos la scena internazionale. Ma lo fanno a
loro rischio e pericolo (mentre noi diventiamo le vittime dei danni collaterali). Così, alla
fine l’unilateralismo geopolitico cede il posto alle realtà del nostro mondo globalmente
interdipendente. In sintesi, gli stati, anche i più potenti, hanno un certo potere (soprattutto
il potere di distruggere) ma non Il Potere.
Forse dunque la questione del potere, nella sua formulazione tradizionale, non ha più
senso nella società in rete. Ma nuove forme di dominio e di determinazione sono cruciali
nel modellare la vita delle persone a prescindere dalla loro volontà. Così, relazioni di
potere sono all’opera, sia pure in nuove forme e con attori di nuovo genere. E le forme più
cruciali di potere seguono la logica del potere di creare reti. Provo a spiegare.
In un mondo di reti, la capacità di esercitare il controllo su altri dipende da due
meccanismi base: 1) la capacità di costituire reti, e di programmare/riprogrammare reti
alla luce degli obiettivi assegnati nella rete; e 2) la capacità di connettere e assicurare la
cooperazione di diverse reti condividendo obiettivi comuni e combinando risorse,
contrastando al tempo stesso la concorrenza di altre reti con l’istituzione di forme di
cooperazione strategica.
I detentori della prima posizione di potere li chiamo programmatori; i detentori della
seconda posizione di potere li chiamo commutatori. È importante notare che questi
programmatori e commutatori sono senza dubbio attori sociali, ma non vanno
necessariamente identificati con un particolare gruppo o uno specifico individuo. Il più
delle volte questi meccanismi operano come interfaccia tra vari attori sociali, definiti alla
luce della loro posizione nella struttura sociale e nella cornice organizzativa della società.
Così, suggerisco che in molti casi chi detiene il potere sono le reti stesse. Non reti astratte,
inconsapevoli, non automi: sono esseri umani organizzati intorno a progetti e interessi. Ma
non sono singoli attori (individui, gruppi, classi, leader religiosi, leader politici), dal
momento che l’esercizio del potere nella società in rete richiede un complesso insieme di
azioni congiunte che vanno oltre semplici alleanze dando vita a una nuova forma di
soggetto, affine a quello che Bruno Latour (2005) ha brillantemente teorizzato come
«attore-rete».
Esaminiamo il funzionamento di questi due meccanismi di creazione del potere nelle
reti: la programmazione e la commutazione. La capacità di programmazione degli
obiettivi della rete (e la capacità di riprogrammarla) è, ovviamente, decisiva perché, una
volta programmata, la rete si comporterà in maniera efficiente, e si riconfigurerà in termini
di struttura e nodi per realizzare i suoi obiettivi. Il modo in cui diversi attori programmano
la rete è un processo specifico a ciascuna di esse. Il processo non è lo stesso nella finanza
globale e nel potere miliare, nella ricerca scientifica, nella criminalità organizzata, o negli
sport professionistici. Quindi, le relazioni di potere al livello di rete vanno identificate e
intese nei termini specifici di ciascuna rete. Tutte le reti però hanno un tratto comune:
idee, visioni, progetti e frame generano i programmi. Questi sono materiali culturali. Nella
società in rete, la cultura è in gran parte incorporata nel processo di comunicazione, in
particolare nell’ipertesto elettronico, il cui nucleo è costituito dalle reti dei business
multimediali globali e da Internet. Così, le idee possono essere generate a partire da una
varietà di origini, e connesse a specifici interessi e subculture (per esempio, l’economia
neoclassica, le religioni, le identità culturali, il culto della libertà individuale e così via).
Ma le idee sono elaborate nella società in base al modo in cui vengono rappresentate nel
regno della comunicazione. E in ultima analisi queste idee raggiungono le popolazioni di
ciascuna rete in relazione al livello di esposizione di queste popolazioni ai processi di
comunicazione. Così, il controllo delle reti di comunicazione, o l’influenza su di esse, e la
capacità di creare un efficace processo di comunicazione e di persuasione lungo le linee
che assecondano i progetti degli aspiranti programmatori, sono le risorse chiave nella
capacità di programmare ciascuna rete. In altri termini, il processo di comunicazione nella
società, e le organizzazioni e le reti che mettono in atto tale processo, sono i campi chiave
in cui si formano i progetti di programmazione, e in cui si costruiscono le popolazioni per
questi progetti. Sono i campi del potere nella società in rete.
C’è una seconda fonte di potere: il controllo dei punti di connessione tra le varie reti
strategiche. Chiamo coloro che detengono queste posizioni i commutatori switchers.
Questi punti di collegamento, per esempio, sono le connessioni che si stabiliscono tra reti
di leadership politica, reti mediatiche, reti scientifiche e tecnologiche, e reti militari e di
sicurezza, per affermare una strategia geopolitica. Oppure riguarda la connessione tra reti
politiche e reti mediatiche per produrre e diffondere specifici discorsi politico-ideologici.
Oppure la relazione tra reti religiose e reti politiche per portare avanti un progetto
religioso in una società laica. Oppure, quella esistente tra reti accademiche e reti
imprenditoriali per fornire conoscenza e legittimazione in cambio di risorse per le
università e posti di lavoro per i propri prodotti finali (ossia i laureati). Non si tratta
dell’old boys’ network. Sono specifici sistemi di interfaccia posti su una base
relativamente stabile allo scopo di articolare il concreto sistema operativo della società al
di là dell’autorappresentazione formale di istituzioni e organizzazioni.
Attenzione: non sto riesumando l’idea di un’élite del potere. Non c’è. Si tratta di
un’immagine semplificata del potere nella società, il cui valore analitico è limitato ad
alcuni casi estremi. È proprio perché non esiste un’élite unificata al potere, capace di
tenere sotto controllo le operazioni di programmazione e commutazione di tutte le reti
importanti, che occorre istituire sistemi di imposizione del potere più sottili, complessi e
frutto di negoziato. Perché queste relazioni di potere si possano affermare, i programmi
delle reti dominanti della società devono porre obiettivi compatibili tra di esse (per
esempio, dominio del mercato e stabilità sociale; potenza militare e prudenza finanziaria;
rappresentatività politica e riproduzione del capitalismo; libertà di espressione e controllo
culturale). E devono essere in grado, tramite i processi di commutazione attuati da reti-
attori, di comunicare tra loro, aumentando le sinergie e limitando le contraddizioni. È per
questo che è così importante che i magnati dei media non diventino leader politici, come
nel caso di Berlusconi. O che i governi non abbiano il controllo totale sui media. Quanto
più i commutatori sono rozze espressioni di dominio a senso unico, tanto più le relazioni
di potere nella società in rete soffocano il dinamismo e l’iniziativa delle sue molteplici
fonti di strutturazione sociale e di cambiamento sociale. I commutatori non sono persone
ma sono fatti di persone. Sono attori, fatti di reti di attori impegnati in interfacce
dinamiche che sono specificamente operate in ciascun processo di connessione.
Programmatori e commutatori sono quegli attori e quelle reti di attori che, grazie alla loro
posizione nella struttura sociale, detengono il potere di creare reti, la forma suprema di
potere nella società in rete.
Potere e contropotere nella società in rete
I processi di formazione del potere vanno visti da due diverse prospettive: da una parte,
tali processi possono imporre un dominio esistente o appropriarsi di posizioni strutturali di
dominio; dall’altra, esistono anche processi compensativi che si oppongono al dominio
costituito a favore degli interessi, valori e progetti che sono esclusi o scarsamente
rappresentati nei programmi e nella composizione delle reti. Analiticamente, entrambi i
processi finiscono per configurare la struttura del potere mediante la loro interazione.
Sono distinti, e tuttavia operano in base alla stessa logica. Ciò vuol dire che la resistenza al
potere si ottiene mediante i medesimi due meccanismi che nella società in rete
costituiscono il potere: i programmi delle reti e le commutazioni tra reti. Così, l’azione
collettiva dei movimenti sociali, nelle loro svariate forme, mira a introdurre nuove
istruzioni e nuovi codici nei programmi delle reti. Per esempio, nuove istruzioni per le reti
finanziarie globali significano che, in condizioni di estrema povertà, vada abbuonato il
debito ad alcuni paesi, come richiesto e in parte ottenuto da Jubilee, il movimento
internazionale per la cancellazione del debito. Un altro esempio di nuovi codici nelle reti
finanziarie globali è la proposta di valutare gli stock delle società in base alla loro etica
ambientale o al loro rispetto per i diritti umani, contando sul fatto che questo finirà per
incidere sull’atteggiamento di investitori e azionisti rispetto a imprese ritenute buone o
cattive cittadine del pianeta. Entro queste condizioni, il codice del calcolo economico si
sposta dal potenziale di crescita al potenziale di crescita sostenibile. Riprogrammazioni
più radicali vengono da movimenti di resistenza che mirano ad alterare il principio
fondamentale di una rete – o il kernel del sistema operativo, se posso permettermi un
parallelo con il linguaggio dell’informatica. Per esempio, se il volere di Dio deve
prevalere in ogni condizione (come vogliono i fondamentalisti cristiani), le reti
istituzionali che costituiscono il sistema legale e giudiziario devono essere riprogrammate
perché non seguano i dettami della costituzione, le prescrizioni legali, o le decisioni del
governo (per esempio, lasciare che siano le donne a decidere del proprio corpo e delle
proprie gravidanze), ma le sottomettano all’interpretazione di Dio con il tramite dei suoi
rappresentanti in terra. Per fare un altro esempio, quando il movimento altermondialista
chiede la riformulazione degli accordi commerciali da parte della World Trade
Organization perché vi siano inclusi la difesa dell’ambiente, i diritti sociali e il rispetto per
le minoranze indigene, agisce per modificare i programmi in base ai quali operano le reti
dell’economia globale.
Il secondo meccanismo di resistenza consiste nel blocco dei commutatori di
connessione tra reti, quelli che fanno sì che le reti siano controllate dal metaprogramma di
valori che esprime il dominio strutturale – per esempio, dando corso ad azioni legali o
influenzando il Congresso USA per sciogliere il cordone che lega il business mediatico
oligopolistico al governo, contestando le regole della FCC che consentono nel settore una
concentrazione della proprietà ancora maggiore. Altre forme di resistenza comprendono il
blocco del collegamento in rete tra le grandi aziende e il sistema politico, regolando il
finanziamento delle campagne elettorali o evidenziando l’incompatibilità tra essere
vicepresidente e continuare a ricevere compensi dalla propria azienda che si è aggiudicata
appalti militari. Oppure opponendosi all’asservimento intellettuale ai poteri costituiti,
come accade quando gli accademici usano le loro cattedre come piattaforme di
propaganda. Una minaccia più radicale ai commutatori riguarda l’infrastruttura materiale
della società in rete: gli attacchi materiali e psicologici ai trasporti aerei, alle reti di
computer, ai sistemi di informazione e alle reti di strutture da cui dipendono il
sostentamento della società nel sistema altamente complesso e interdipendente che
caratterizza il mondo informazionale. La sfida del terrorismo è dichiarata esattamente su
questa capacità di prendere a bersaglio commutatori materiali strategici in modo tale che
la loro messa fuori uso, o la minaccia di una loro messa fuori uso, scompagini la vita
quotidiana della gente e la costringa a vivere in uno stato di emergenza – alimentando così
la crescita di altre reti di potere, le reti della sicurezza, che si estendono a ogni ambito
della vita. Esiste, in effetti, un rapporto simbiotico tra la disattivazione dei commutatori
strategici con azioni di resistenza e la riconfigurazione delle reti di potere in direzione di
un nuovo insieme di commutatori organizzati intorno a reti securitarie.
La resistenza al potere programmato nelle reti si svolge anch’essa mediante e tramite le
reti. Anche queste sono reti di informazione alimentate da tecnologie di informazione e
comunicazione (Arquilla e Rondfeldt, 2002). Quello impropriamente etichettato come
«movimento antiglobalizzazione» è una rete globale-locale organizzata e dibattuta su
Internet, e strutturalmente collegata con le reti mediatiche (vedi capitolo 5). Al Qaeda, e le
sue organizzazioni correlate, è una rete composta da molteplici nodi, che hanno scarso
coordinamento centrale e che mirano anch’essi alla commutazione con le reti mediatiche,
attraverso le quali contano di spargere la paura tra gli infedeli e di infondere speranza tra
le masse oppresse dei credenti (Gunaratna, 2006; Seib, 2008). Il movimento ecologista è
una rete radicata localmente e connessa globalmente, che si prefigge di cambiare la
mentalità del pubblico come mezzo per influenzare le decisioni politiche, così da salvare il
pianeta o almeno il proprio quartiere o territorio (vedi capitolo 5).
Una caratteristica centrale della società in rete è che sia la dinamica del dominio sia la
resistenza al dominio si basano sulla formazione di reti e strategie di rete di offesa e
difesa. In effetti, ciò ripercorre l’esperienza storica di precedenti tipi di società, come la
società industriale. La fabbrica e la grande impresa industriale organizzata verticalmente
hanno costituito le basi materiali per lo sviluppo sia del capitale transnazionale sia del
movimento operaio. Analogamente, oggi, le reti informatiche dei mercati finanziari
globali, i sistemi di produzione transnazionali, le forze armate «intelligenti» a raggio
globale, le reti di resistenza terrorista, la società civile globale, e i movimenti sociali
collegati in rete che si battono per un mondo migliore, sono tutte componenti della società
globale in rete. I conflitti del nostro tempo sono combattuti da attori sociali in rete che
mirano a raggiungere i loro bacini di consenso e le loro platee tramite il collegamento
decisivo con le reti di comunicazione multimediale.
Nella società in rete, il potere viene ridefinito, ma non scompare. Né svaniscono le lotte
sociali. Dominio e resistenza al dominio cambiano di carattere in base alla specifica
struttura sociale da cui traggono origine e che modificano con la loro azione. Il potere
governa, i contropoteri lottano. Le reti elaborano i loro programmi contraddittori mentre la
gente cerca di dare un senso alle proprie fonti di paura e speranza.
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale
Le fonti del potere sociale nel nostro mondo – violenza e discorso, coercizione e
persuasione, dominio politico e costruzione culturale – non hanno subito cambiamenti
fondamentali rispetto all’esperienza storica, come teorizzata da alcuni dei maggiori
studiosi del potere. Ma il terreno su cui le relazioni di potere operano è cambiato
soprattutto in due sensi: è principalmente costruito attorno all’articolazione tra globale e
locale; ed è principalmente organizzato attorno a reti, non a singole unità. Poiché le reti
sono molteplici, le relazioni di potere sono specifiche a ciascuna rete. Ma esiste una forma
fondamentale di esercizio del potere che è comune a tutte le reti: l’esclusione dalla rete.
Anche questo è specifico a ciascuna rete: una persona, o un gruppo, o un territorio può
essere escluso da una rete ma incluso in altre. Tuttavia, poiché le reti chiave, strategiche,
sono globali, esiste una forma di esclusione – e cioè di potere – che è pervasiva in un
mondo di reti: includere tutto ciò che ha valore nel globale escludendo il locale senza
valore. Vi sono cittadini del mondo, viventi nello spazio dei flussi, in opposizione ai
locali, che vivono nello spazio dei luoghi. Poiché lo spazio nella società in rete è
configurato intorno all’opposizione tra spazio dei flussi (globale) e spazio dei luoghi
(locale), la struttura spaziale della nostra società è una fonte primaria della strutturazione
delle relazioni di potere.
Lo stesso vale per il tempo. Il tempo atemporale, il tempo della società in rete, non ha
né passato né futuro. Nemmeno un passato prossimo. È la cancellazione della sequenza, e
quindi del tempo, mediante o la compressione o la sfocatura della sequenza. Così, le
relazioni di potere sono costruite attorno all’opposizione tra tempo atemporale e tutte le
altre forme di temporalità. Il tempo acrono, che è il tempo del «qui e ora», privo di
sequenze o di cicli, è il tempo dei potenti, di quelli che saturano il loro tempo fino al limite
perché la loro attività è di grande valore. E il tempo è compresso fino al nanosecondo per
coloro per cui il tempo è denaro. Il tempo della storia, e delle identità storiche, tramonta in
un mondo in cui conta solo la gratificazione immediata, e dove i bardi dei vincitori
proclamano la fine della storia. Ma il tempo dell’orologio del taylorismo è ancora la sorte
della maggioranza dei lavoratori, e il tempo della longue durée, di quelli che prefigurano
ciò che potrebbe accadere al pianeta, è il tempo dei progetti alternativi che si rifiutano di
sottostare al dominio dei cicli accelerati del tempo strumentale. Fatto interessante, esiste
anche un mitico «tempo futuro» dei potenti che è il tempo proiettato in avanti dai
futurologi del mondo aziendale. In effetti, questa è la forma suprema del tempo di
conquista. Colonizza il futuro estrapolando nelle proiezioni i valori dominanti del
presente: come continuare a fare la stessa cosa, con accresciuti profitti e potere, di qui a
vent’anni. La capacità di proiettare il proprio tempo attuale, negando intanto il passato e il
futuro per l’umanità in generale, è un altro modo di imporre il tempo atemporale come una
forma di affermazione del potere nella società in rete.
Ma come viene esercitato il potere all’interno delle reti e dalle reti, per coloro che sono
inclusi nelle reti centrali che strutturano la società? Considererò dapprima le modalità
contemporanee di esercizio del potere mediante il monopolio della violenza, e poi
attraverso la costruzione di significato nelle varie forme di discorso disciplinare.
Primo, avendo le reti carattere di globalità, lo stato, che esercita il potere mediante il
monopolio della violenza, troverà notevoli limitazioni alla sua capacità coercitiva, a meno
che non si impegni in relazioni reticolari con altri stati, e con chi detiene il potere nelle reti
decisive che danno forma alle pratiche sociali nei loro territori, pur venendo anche
impiegate in ambito globale. Quindi, la capacità di connettere diverse reti, e di restaurare
una qualche sorta di confine entro il quale lo stato conservi la capacità di intervenire,
diventa fondamentale per la riproduzione del dominio istituzionalizzato nello stato. Ma la
capacità di istituire la connessione non si trova necessariamente nelle mani dello stato. Il
potere di collegamento è detenuto dai commutatori, attori sociali di generi diversi che
sono definiti dal contesto in cui specifiche reti devono essere connesse per specifiche
finalità. Ovviamente, gli stati possono sempre bombardare, imprigionare e torturare. Ma se
non trovano qualche sistema per mettere insieme diverse reti strategiche interessate ai
vantaggi della capacità statale di esercitare la violenza, il pieno esercizio del potere
coercitivo ha di solito vita breve. Il dominio stabile, fornendo le basi per l’imposizione di
relazioni di potere in ciascuna rete, richiede una complessa contrattazione per istituire
partnership con gli stati, o con lo stato a rete, che contribuiscono a migliorare il
raggiungimento degli obiettivi assegnati a ciascuna rete dai rispettivi programmi.
Secondo, i discorsi del potere forniscono obiettivi sostanziali ai programmi delle reti.
Le reti elaborano i materiali culturali che sono costruiti nel variegato regno del discorso.
Questi programmi sono finalizzati alla realizzazione di determinati interessi e valori
sociali. Ma per essere efficaci nel programmare le reti, essi devono basarsi su un
metaprogramma che assicura che i destinatari del discorso interiorizzino le categorie
tramite cui attribuiscono significato alle proprie azioni, in sintonia con i programmi delle
reti. Questo è particolarmente importante in un contesto di reti globali perché la diversità
culturale del mondo dev’essere inquadrata da alcune cornici comuni che fanno riferimento
ai discorsi veicolanti gli interessi condivisi di ciascuna rete globale. In altri termini, è
necessario produrre una cultura globale che vada ad aggiungersi alle specifiche identità
culturali, anziché scalzarle, affinché i programmi delle reti che sono globali per portata e
finalità possano attuarsi. Per esistere, la globalizzazione deve affermare un discorso
disciplinare in grado di inquadrare le culture specifiche (Lash e Lury, 2007).
Così, il collegamento e la programmazione delle reti globali sono le forme di esercizio
del potere nella nostra società in rete globale. Il collegamento è effettuato dai
commutatori; la programmazione è realizzata dai programmatori. Chi sono i commutatori
e chi sono i programmatori in ciascuna rete è una specificità della rete che non può essere
determinata senza esaminare ogni caso particolare.
La resistenza alla programmazione e la manomissione dei collegamenti per difendere
valori e interessi alternativi sono le forme di contropotere attuate dai movimenti sociali e
dalla società civile – a livello locale, nazionale e globale – con il problema che le reti di
potere sono di norma globali mentre la resistenza del contropotere è di norma locale.
Come raggiungere il globale dal locale, tramite l’allacciamento in rete con altre località –
come realizzare il «grassrooting» dello spazio dei flussi – diventa la questione strategica
chiave per i movimenti sociali della nostra epoca.
I mezzi specifici di collegamento e di programmazione determinano in larga misura le
forme di potere e contropotere nella società in rete. Collegare diverse reti richiede la
capacità di costruire un’interfaccia culturale e organizzativa, una lingua comune, un
medium comune, un supporto di valore universalmente accettato: un valore di scambio.
Nel nostro mondo, la forma tipica multiscopo di valore di scambio è il denaro. È
attraverso questa comune valuta che il più delle volte viene misurata la condivisione del
potere tra le diverse reti. Questa unità di misura è essenziale perché rimuove il ruolo
decisivo dello stato, in quanto la distribuzione di valore da parte di tutte le reti diventa
dipendente da transazioni finanziarie. Ciò non vuol dire che i capitalisti controllano tutto.
Significa semplicemente che chi ha abbastanza denaro, leader politici inclusi, avrà
migliori opportunità di azionare lo switch della rete in suo favore. Tuttavia, come
nell’economia capitalista, oltre che alle transazioni monetarie si può ricorrere anche al
baratto: uno scambio di servizi tra reti (per esempio, potere di regolamentazione in cambio
di finanziamento elettorale, o di accesso ai media per l’influenza politica). Così, il potere
di collegamento dipende dalla capacità di generare valore di scambio, tramite moneta o
tramite baratto.
Esiste una seconda maggior fonte di potere: la capacità di programmazione delle reti.
Questa capacità dipende in ultima analisi dall’abilità di generare, diffondere e
condizionare i discorsi che inquadrano l’azione umana. Senza questa capacità discorsiva,
la programmazione delle specifiche reti è fragile, e dipende esclusivamente dal potere
degli attori inseriti nelle istituzioni. I discorsi, nella nostra società, plasmano la mentalità
del pubblico tramite una specifica tecnologia: quella delle reti di comunicazione che
organizzano la comunicazione socializzata. Poiché la public mind – ossia l’insieme di
valori e cornici interpretative che hanno ampia esposizione nella società – è in ultima
analisi ciò che influenza il comportamento collettivo, la programmazione delle reti di
comunicazione è la fonte decisiva dei materiali culturali che alimentano gli obiettivi
programmati da ogni altra rete. Inoltre, poiché le reti di comunicazione connettono il
locale con il globale, i codici diffusi in queste reti hanno portata globale.
Progetti e valori alternativi portati avanti dagli attori sociali che mirano a
riprogrammare la società devono anch’essi passare attraverso le reti di comunicazione per
trasformare la consapevolezza e i punti di vista nella mente delle persone perché
contestino i poteri costituiti. Ed è solo agendo sui discorsi globali tramite le reti di
comunicazione che riescono a influire sulle relazioni di potere nelle reti globali che
strutturano tutte le società. In ultima analisi, il potere di programmazione condiziona il
potere di commutazione perché i programmi delle reti determinano la gamma di possibili
interfacce nel processo di commutazione. I discorsi inquadrano le opzioni su ciò che le reti
possono o non possono fare. Nella società in rete, i discorsi sono generati, diffusi,
combattuti, interiorizzati, e infine incorporati nell’azione umana, nel regno della
comunicazione socializzata costruito intorno alle reti locali-globali di comunicazione
multimodale, digitale, in particolare Internet e i media. Il potere nella società in rete è il
potere di comunicare.
1
L’analisi di Gramsci delle relazioni tra stato e società civile in termini di egemonia è vicina a questa formulazione,
anche se è concettualizzata secondo una prospettiva teorica diversa, vale a dire in termini di analisi di classe (vedi
Gramsci 1975).
2
Questa sezione riprende e aggiorna l’analisi presentata in La nascita della società in rete (2000c). Mi prendo la
libertà di rinviare il lettore a quel libro per un’ulteriore elaborazione e supporto empirico della teorizzazione presentata
qui. Ulteriore materiale di supporto si può trovare nei miei testi successivi (Castells, 2000b, 2001, 2004b, 2005a, b,
2008, b; Castells e Himanen, 2002; Castells et al., 2006b, 2007).
Capitolo 2
LA COMUNICAZIONE NELL’ETÀ DIGITALE
Una rivoluzione nella comunicazione?
La comunicazione è la condivisione di significato tramite lo scambio di informazione. Il
processo di comunicazione è definito dalla tecnologia della comunicazione, dalle
caratteristiche dei mittenti e dei destinatari dell’informazione, dai loro codici culturali di
riferimento e protocolli di comunicazione, e dalla portata del processo di comunicazione.
Il significato non può essere inteso che nel contesto delle relazioni sociali in cui
informazioni e comunicazione vengono elaborate (Schiller, 2007, p. 18). Approfondirò gli
elementi di questa definizione nel contesto della società in rete globale.
A partire dalla portata del processo, la comunicazione interpersonale dev’essere distinta
dalla comunicazione a livello sociale. Nella prima, mittenti e destinatari sono i soggetti
della comunicazione. Nella seconda, il contenuto della comunicazione ha la potenzialità di
essere diffuso alla società nel suo intero: questo è ciò che abitualmente si chiama
comunicazione di massa. La comunicazione interpersonale è interattiva (il messaggio è
inviato one-to-one con annessi circuiti di feedback), mentre la comunicazione di massa
può essere interattiva ma anche unidirezionale. La comunicazione di massa tradizionale è
generalmente unidirezionale (il messaggio è inviato da uno a molti, come accade con i
libri, i giornali, i film, la radio e la televisione). Per la verità, alcune forme di interattività
possono essere inserite nella comunicazione di massa tramite altri mezzi di
comunicazione. Per esempio, il pubblico può commentare programmi radiofonici o
televisivi telefonando, scrivendo o mandando e-mail. Ma la comunicazione di massa
rimaneva prevalentemente unidirezionale. Con la diffusione di Internet, però, è emersa una
nuova forma di comunicazione interattiva, caratterizzata dalla possibilità di inviare
messaggi many-to-many, in tempo reale o in un momento stabilito, e con la possibilità di
usare la comunicazione point-to-point, in narrowcasting o broadcasting, a seconda dello
scopo e delle caratteristiche della pratica comunicativa prescelta.
Chiamo autocomunicazione di massa questa forma storicamente nuova di
comunicazione. È comunicazione di massa perché ha la potenzialità di raggiungere un
pubblico globale, come accade quando si posta un video su YouTube, si tiene un blog con
link RSS a varie fonti del web, o si invia un messaggio a una grossa mailing list. Ma è
contemporaneamente autocomunicazione perché la produzione del messaggio è
autogenerata, la definizione dei potenziali destinatari è autodiretta, e il reperimento di
specifici messaggi o contenuti dal World Wide Web e dalle reti di comunicazione
elettronica è autoselezionato. Le tre forme di comunicazione (interpersonale,
comunicazione di massa e autocomunicazione di massa) coesistono, interagiscono tra loro
e si complementano più che sostituirsi a vicenda. Quel che è storicamente inedito, con
conseguenze importanti per l’organizzazione sociale e la mutazione culturale, è
l’articolazione di tutte le forme di comunicazione in un ipertesto digitale composito e
interattivo che include, mixa e ricombina nella loro diversità l’intero ventaglio delle
espressioni culturali veicolate dall’interazione umana. In effetti, la dimensione più
importante della convergenza comunicazionale, come scrive Jenkins, «si produce nel
cervello dei singoli consumatori e tramite la loro interazione sociale con gli altri» (2006,
p. 3).
Eppure, perché questa convergenza si verificasse, sono dovute avvenire diverse
trasformazioni cruciali in ciascuna delle dimensioni del processo comunicativo, quale lo
abbiamo definito sopra. Queste varie dimensioni costituiscono un sistema, e una singola
trasformazione non può essere compresa senza le altre. Insieme, formano lo sfondo di ciò
che Mansell (2002) e McChesney (2007) hanno etichettato come «rivoluzione della
comunicazione», che Cowhey e Aronson (2009) caratterizzano come «il punto di
inflessione», o che, qualche tempo fa, Rice et al. (1984) identificavano come l’emergere di
nuovi media tramite l’interazione tra cambiamento tecnologico e comunicazione. Per
maggior chiarezza, esaminerò separatamente le trasformazioni in atto, senza sottintendere
alcun nesso di causa nell’ordine della mia presentazione. Quindi analizzerò la loro
interazione.
Primo, esiste una trasformazione tecnologica che è basata sulla digitalizzazione della
comunicazione, sulle reti informatiche, sul software avanzato, sulla diffusione di una
migliorata capacità di trasmissione su banda larga, e sulla ubiquità della comunicazione
locale/globale tramite le reti wireless, che sempre di più consentono l’accesso a Internet.
In secondo luogo, la definizione di mittente e ricevente si riferisce alla struttura della
comunicazione organizzativa e istituzionale, in particolare della comunicazione
socialitaria, dove i mittenti sono i media e i destinatari il cosiddetto pubblico (persone che
vengono identificate come consumatori di media). Nell’ultimo ventennio in questo ambito
è avvenuta una trasformazione fondamentale:
• commercializzazione diffusa dei media in gran parte del mondo;
• globalizzazione e concentrazione del business mediatico tramite conglomerazione e
networking;
• la segmentazione, customizzazione e diversificazione dei mercati dei media, con
l’accento sull’identificazione culturale del pubblico;
• la formazione di gruppi commerciali multimediali che si estendono a tutte le forme di
comunicazione, compreso ovviamente Internet;
• e una crescente convergenza di business tra imprese di telecomunicazione, case di
computer, società di Internet e aziende mediatiche.
La formazione di queste reti aziendali globali è stata resa possibile dalle politiche
pubbliche e dai mutamenti istituzionali caratterizzati da liberalizzazione, privatizzazione e
regolamentazione proderegulation, a livello nazionale e internazionale, sulla scia delle
politiche governative promercato che a partire dagli anni Ottanta si sono diffuse in tutto il
mondo.
Terzo, la dimensione culturale del processo di trasformazione multistratificata della
comunicazione può essere colta all’intersezione tra due coppie di tendenze contraddittorie
(ma non incompatibili): lo sviluppo parallelo di una cultura globale e di culture a identità
multipla; e la nascita simultanea dell’individualismo e del comunalismo come due modelli
culturali opposti, ma ugualmente potenti, che caratterizzano il nostro mondo (Norris,
2000; Castells, 2004c; Baker, 2005; Rantanen, 2005). La capacità o incapacità di generare
protocolli di comunicazione tra questi quadri culturali contraddittori definisce la
comunicabilità o incomunicabilità tra i soggetti di diversi processi di comunicazione. I
media, dai notiziari televisivi policulturali (per esempio, Al Jazeera in arabo/inglese o la
CNN American/International/en español) al Web 2.0 possono essere protocolli di
comunicazione che o colmano divisioni culturali o frammentano ulteriormente le nostre
società in isole culturali autonome e trincee di resistenza.
Infine, ciascuna delle componenti della grande trasformazione della comunicazione
rappresenta l’espressione delle relazioni sociali, relazioni in ultima analisi di potere, che
stanno alla base dell’evoluzione del sistema di comunicazione multimodale. Questo è
evidente soprattutto nella permanenza del digital divide tra paesi e all’interno di essi, in
relazione al loro potenziale di consumo e al livello delle infrastrutture di comunicazione.
Anche con l’attuale accesso a Internet e alla comunicazione wireless, la disuguaglianza
abissale nella disponibilità della banda larga, e il divario nell’istruzione riguardante la
capacità di operare in una cultura digitale, tendono a riprodurre e amplificare le strutture di
classe, etnia, razza, età e genere del dominio sociale tra paesi ed entro i paesi (Wilson,
2004; Galperin e Mariscal, 2007; Katz, 2008). La crescente influenza che le corporation
nei settori dei media, dell’informazione e della comunicazione esercitano sulle authority
pubbliche di regolamentazione possono distorcere la rivoluzione della comunicazione
mettendola al servizio degli interessi del business. L’influenza dell’industria della
pubblicità sul business dei media, attraverso la trasformazione della popolazione in
audience misurabile, tende a subordinare l’innovazione culturale o il piacere
dell’intrattenimento al consumismo commerciale. La libertà di espressione e di
comunicazione su Internet e nel sistema multimediale globale/locale è spesso limitata e
sorvegliata da burocrazie governative, élite politiche e apparati ideologico-religiosi. La
privacy è da tempo scomparsa in un turbine di «cookies» e di strategie di raccolta di dati
personali, con la parziale eccezione di quegli utenti che dispongono di un alto livello di
sofisticazione tecnica (Whitaker, 1999; Solove, 2004).
Al tempo stesso, però, attori sociali e singoli cittadini in tutto il mondo stanno usando
la nuova capacità di comunicazione in rete per portare avanti i propri progetti, difendere i
propri interessi e affermare i propri valori (Downing, 2003; Juris, 2008; Costanza-Chock,
di prossima pubbl.). Inoltre, essi sono diventati sempre più consapevoli del ruolo cruciale
che il nuovo sistema multimediale e le sue istituzioni di regolamentazione svolgono nella
cultura e nella politica della società. Così, in alcune aree del mondo, e in particolare negli
Stati Uniti, stiamo assistendo a mobilitazioni sociali e politiche che mirano a stabilire un
certo grado di controllo da parte della cittadinanza sui controllori della comunicazione e
affermare il loro diritto alla libertà nello spazio della comunicazione (Couldry e Curran,
2003; Klinenberg, 2007; McChesney, 2007, 2008).
Così, il nuovo campo di comunicazione nel nostro tempo sta emergendo attraverso un
processo di cambiamento multidimensionale, un processo che prende forma da conflitti
che sorgono dalla struttura contraddittoria di interessi e valori che costituiscono la
società. Di seguito, identificherò in termini più precisi il processo di cambiamento lungo
ciascuna di queste dimensioni che, prese assieme, definiscono la trasformazione della
comunicazione nell’età digitale.
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla
comunicazione di massa all’autocomunicazione di massa
Un processo denominato convergence of modes sta rimescolando i confini tra i
media, persino tra comunicazioni point-to-point come la posta, il telefono e il
telegrafo, e i mezzi di comunicazione di massa come la stampa, la radio e la
televisione. Un singolo mezzo fisico – che si tratti di fili, cavi o onde radio – può
trasportare servizi che in passato erano forniti in modo separato. Viceversa, un
servizio che era offerto in passato da uno specifico medium – come la radio, la
stampa, la telefonia – può essere fornito con diversi mezzi fisici. Così il rapporto di
uno a uno che esisteva tra il medium e il suo uso si sta erodendo (Ithiel de Sola Pool,
1983, cit. in Jenkins, 2006, p. 10).
La tendenza identificata nel 1983 nell’opera pionieristica di Ithiel de Sola Pool è oggi una
realtà che ha ridisegnato il panorama della comunicazione. Non sorprende che l’emergere
negli anni Settanta di un nuovo paradigma tecnologico basato sulle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione abbia esercitato un’influenza decisiva sul mondo
della comunicazione (Freeman, 1982; Perez, 1983; Castells, 2000c; Mansell e
Steinmueller, 2000; Wilson, 2004). Dal punto di vista tecnologico, le reti di
telecomunicazione, le reti informatiche e le reti di informazione si sono trovate a
convergere grazie al networking digitale e alle nuove tecnologie di trasmissione e di
immagazzinaggio dati, in particolare la fibra ottica, la comunicazione satellitare, e il
software avanzato (Cowhey e Aronson, 2009).
Comunque, diverse tecnologie e modelli di business, sostenuti dalle politiche delle
agenzie di regolamentazione, hanno indotto varie tendenze trasformative in ciascuna delle
componenti del sistema di comunicazione. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta,
l’informazione via etere si è evoluta lungo una traiettoria che sottolineava la continuità
nella forma di comunicazione, aumentando però la diversificazione delle piattaforme di
ricezione e la concentrazione proprietaria dei media (Hesmondhalgh, 2007). Le
trasmissioni radiotelevisive e la stampa rimanevano, in linea di massima, mezzi di
comunicazione di massa. Invece le reti di computer e le telecomunicazioni sfruttavano
rapidamente il potenziale della digitalizzazione e del software open source per generare
nuove forme di comunicazione interattiva locale/globale, spesso iniziata dagli utenti delle
reti (Benkler, 2006). La convergenza tecnologica e organizzativa tra i due sistemi ha
cominciato a prodursi nel primo decennio del XXI secolo e ha portato alla formazione
graduale di un nuovo sistema multimediale (Jenkins, 2006).
Televisione mutante: l’eterna compagna
Dai primi anni Novanta, la televisione, il mezzo archetipico della comunicazione di massa,
è sfuggita alle restrizioni dell’allocazione dello spettro sviluppando nuove forme di
trasmissione via cavo e via satellite. Il medium è passato da un sistema di comunicazione
monodirezionale altamente centralizzato, basato su un numero limitato di network e di
stazioni, a un sistema di broadcasting diversificato e decentrato basato su una migliorata
capacità di trasmissione (Croteau e Hoynes, 2006). Le tecnologie digitali hanno permesso
la moltiplicazione del numero dei canali che è possibile ricevere (Galperin, 2004). Mentre
la televisione digitale migliora la capacità del mezzo liberando spettro, la sua operatività è
iniziata solo nei paesi più avanzati per il periodo 2009-2012. Tuttavia, già prima
dell’avvento della televisione digitale si è assistito in tutto il mondo all’esplosione dei
canali TV e alla diversificazione della programmazione televisiva. Nel 2007, la famiglia
americana media aveva accesso a 104 canali, 16 più che nel 2006 e 43 più che nel 2000
(Nielsen, 2007) 1. Secondo l’Osservatorio Audiovisivo Europeo, nei paesi europei
dell’OCSE il numero totale di canali televisivi disponibili (sommando il terrestre, l’etere e
il satellite) è salito da 816 nel 2004 a 1165 nel 2006, con un incremento del 43 per cento
(OECD, 2007, p. 175). Dati parziali relativi al mondo intero mostrano incrementi analoghi
(Sacr, 2001; Hafez, 2005; Rai e Cottle, 2007).
Anche la penetrazione televisiva si è mantenuta costante negli USA, al 98 per cento
negli ultimi vent’anni. In Europa, il numero di famiglie con accesso alla televisione è
cresciuto da 1.162.490,4 nel 2002 a 1.340.201,3 nel 2007 (Euromonitor, 2007). Il numero
di ore davanti alla televisione è aumentato costantemente in quasi tutti i paesi. Negli USA,
la famiglia media passava settimanalmente 57 ore e 37 minuti a guardare la televisione nel
2006, un aumento di 20 minuti rispetto al 2005 e di quasi 10 ore da quando, un ventennio
fa, Nielsen cominciò a rilevare l’audience usando i people meters (Mandese, 2007). E tra
il 1997 e il 2005 la quantità di tempo dedicata all’ascolto televisivo da parte dello
spettatore medio è aumentata in quasi tutti i paesi OCSE (eccettuate la Nuova Zelanda, la
Spagna e la Corea del Sud: OECD, 2007, p. 176). Insomma, la televisione è viva e vegeta,
e resta il primo mezzo di comunicazione di massa dell’inizio del XXI secolo. Quello che è
cambiato è la frammentazione della televisione in canali molteplici, spesso mirati a
pubblici specifici, in una pratica detta di narrowcasting che tende ad accrescere la
differenziazione culturale nel mondo massmediale (Turow, 2005). Inoltre, la pratica della
videoregistrazione digitale e della programmazione computerizzata dell’ascolto televisivo,
con l’introduzione di dispositivi come il TiVo, ha individualizzato e personalizzato la
ricezione dei programmi. Così, la televisione resta un mezzo di comunicazione di massa
dal punto di vista del mittente, ma è spesso un mezzo di comunicazione personale dal
punto di vista del ricevente. La crescente capacità di controllare la ricezione della
televisione include software in grado di programmare le registrazioni saltando la
pubblicità, una pesante minaccia per la maggior fonte di entrate del broadcasting
televisivo.
Dunque, pur essendo ancora il mezzo dominante di comunicazione di massa, la
televisione è stata profondamente trasformata dalla tecnologia, dal business e dalla cultura,
al punto che ora può essere meglio intesa come un medium che combina il broadcasting di
massa con il narrowcasting di massa. Nel 1980, il 40 per cento delle famiglie USA si
sintonizzava su uno di tre maggiori notiziari dei network in una data serata. Nel 2006 il
numero era calato al 18 per cento (Project for Excellence in Journalism, 2007) 2. Secondo
la Nielsen Media Research, nel 2006 più dell’85 per cento delle famiglie USA utilizzava la
televisione via cavo o satellitare; un aumento dal 56 per cento rispetto al 1990. L’audience
di prima serata per la televisione via etere (dalle 20 alle 23) è calata dall’80 per cento del
1998 al 56 per cento del 2006 (Standard and Poor, 2007a).
Mentre però la nuova infrastruttura tecnologica e lo sviluppo della trasmissione via
cavo o via satellite ha aumentato la customizzazione del prodotto mirando alla
segmentazione del pubblico, l’integrazione verticale delle stazioni televisive locali nei
network nazionali di proprietà di grandi imprese (come è avvenuto negli Stati Uniti, ma
anche in Italia, in India, in Australia e altrove) ha indotto una crescente standardizzazione
dei contenuti sotto la sembianza della differenziazione (Chatterjee, 2004; Bosetti, 2007;
Flew, 2007; Hesmodalgh, 2007; Schiller, 2007; Campo Vidal, 2008). Così, Eric
Klinenberg (2007), nel suo studio innovativo sui dibattiti politici sorti intorno alla
trasformazione dei media negli Stati Uniti, ha documentato come le affiliate locali dei
network televisivi hanno visto ridursi la possibilità di decidere sui contenuti della propria
programmazione, e sono state spinte a mandare in onda prodotti realizzati centralmente,
spesso sulla base di sistemi in gran parte automatizzati, come i servizi meteorologici
«locali» presentati in tono familiare da conduttori che non hanno mai messo piede nelle
località di cui parlano.
Radio: mettere in rete il locale immaginato
La radio, il mezzo di comunicazione di massa più adattabile individualmente ai tempi e ai
luoghi del pubblico nel XX secolo, ha seguito un analogo sentiero di integrazione
verticale. Il cambiamento tecnologico, entro condizioni di concentrazione proprietaria, ha
portato a un crescente controllo sui contenuti locali da parte di studi centralizzati che
servono l’intero network. Registrazione ed editing digitali permettono l’integrazione di
stazioni radio locali in network nazionali. Gran parte del contenuto dei notiziari locali è, in
realtà, non locale, e molte inchieste «esclusive» sono in realtà programmi generici adattati
per il contesto di ciascun pubblico. La trasmissione di musica automatizzata in base a
cataloghi preregistrati porta le stazioni radio ad avvicinarsi al modello iPod della musica
su richiesta. Anche in questo caso il potenziale di customizzazione e differenziazione
consentito dalle tecnologie digitali è stato usato per travestire la produzione centrale di
prodotti da distribuire localmente a un pubblico specifico sulla base di modelli di
marketing. Negli Stati Uniti, prima che il Telecommunications Act del 1996 rimuovesse
molte delle restrizioni all’eccessiva concentrazione di proprietà, c’erano più di 10.400
radio commerciali di proprietà individuale (vedi sotto). Durante il biennio 1996-1998, il
numero totale dei proprietari di stazioni si era ridotto di 700 unità. Nei due anni successivi
all’approvazione del Telecommunications Act da parte del Congresso, i grandi gruppi
hanno comprato e venduto più di 4400 stazioni radio istituendo grandi network nazionali
con una presenza oligopolistica nelle maggiori aree metropolitane. Così, le tecnologie di
libertà e il loro potenziale di diversificazione non portano necessariamente alla
differenziazione della programmazione e alla localizzazione dei contenuti: piuttosto,
permettono la falsificazione dell’identità nello sforzo di combinare il controllo
centralizzato e la distribuzione decentrata come efficaci strategie di business (Klinenberg,
2007, p. 27).
L’avvento di Internet e della comunicazione wireless
Le reti informatiche, il software open source (protocolli di Internet compresi) e il rapido
sviluppo della capacità di accesso e di trasmissione digitale nelle reti di
telecomunicazione, hanno portato alla spettacolare espansione di Internet dopo la sua
privatizzazione negli anni Novanta. In effetti Internet è una tecnologia vecchia: fu
utilizzata per la prima volta nel 1969. Ma si è diffusa su larga scala venti anni dopo grazie
a diversi fattori: mutamenti di normative, maggiore ampiezza di banda nelle
telecomunicazioni, diffusione del personal computer, programmi di software user-friendly
che rendevano facile caricare, accedere e comunicare contenuti (a partire dai server e dai
browser del World Wide Web negli anni Novanta) e la domanda sociale in rapida crescita
del collegamento in rete di ogni cosa, nata dalle esigenze del mondo del business e dal
desiderio del pubblico di istituire proprie reti di comunicazione (Abbate, 1999; Castells,
2001; Benkler, 2006).
Di conseguenza, il numero degli utenti Internet sul pianeta è cresciuto da meno di 40
milioni nel 1995 a circa 1,4 miliardi nel 2008. Nel 2008, la penetrazione aveva superato il
60 per cento in gran parte dei paesi sviluppati e stavano crescendo a un tasso rapido nei
paesi in via di sviluppo (Center for the Digital Future, vari anni). La penetrazione di
Internet a livello globale nel 2008 si attestava intorno a un quinto della popolazione della
terra, e meno del 10 per cento degli utenti Internet aveva accesso alla banda larga.
Comunque, dal 2000, il digital divide, misurato in termini di accesso alla Rete, si è andato
riducendo. Il rapporto tra l’accesso a Internet nei paesi OCSE e in quelli in via di sviluppo
è precipitato da 80,6:1 nel 1997 a 5,8:1 nel 2007. Nel 2005, i nuovi utenti di Internet nei
paesi in via di sviluppo erano quasi il doppio che nei paesi OCSE (ITU, 2007). La Cina è
il paese con la crescita più rapida nel numero di utenti Internet, anche se il tasso di
penetrazione rimaneva nel 2008 al di sotto del 20 per cento della popolazione. Al luglio
2008, il numero di utilizzatori di Internet in Cina era di 253 milioni, sorpassando gli Stati
Uniti con i suoi circa 223 milioni di utenti (CNNIC, 2008). I paesi OCSE nell’insieme
avevano un tasso di penetrazione di circa il 65 per cento della popolazione nel 2007.
Inoltre, data l’enorme disparità nell’uso di Internet esistente tra ultrasessantenni e minori
di trent’anni, con lo scomparire della generazione più anziana la proporzione utenti
raggiungerà un punto di quasi saturazione nei paesi sviluppati e aumenterà
sostanzialmente in tutto il mondo.
A partire dagli anni Novanta in tutto il mondo si è compiuta un’altra rivoluzione nella
comunicazione: l’esplosione della comunicazione wireless, con una crescente capacità di
connessione e di ampiezza di banda delle generazioni di telefoni cellulari che si sono
succedute (Castells et al., 2006b; Katz, 2008). È la tecnologia di comunicazione che ha
avuto la più veloce diffusione in tutta la storia. Nel 1991, c’erano nel mondo circa 16
milioni di abbonamenti alla telefonia mobile. Nel luglio 2008 le utenze cellulari avevano
superato i 3,4 miliardi, ossia circa il 52 per cento della popolazione mondiale. Usando un
moltiplicatore prudenziale (i bambini non usano [ancora] i cellulari, e nei paesi poveri
famiglie e villaggi condividono uno stesso abbonamento), possiamo calcolare con
sicurezza che nel 2008 oltre il 60 per cento della popolazione del pianeta aveva accesso
alla comunicazione mobile, anche se il vincolo di reddito ancora incide. In effetti, studi
condotti in Cina, America Latina e Africa hanno mostrato che i poveri danno una priorità
alta alle proprie esigenze di comunicazione e usano una porzione consistente del loro
magro bilancio per soddisfarle (Qiu, 2007; Katz, 2008; Sey, 2008; Wallis, 2008). Nei paesi
sviluppati, il tasso di penetrazione della telefonia wireless va dall’82,4 per cento (Stati
Uniti) al 102 per cento (Italia o Spagna) e sta avviandosi al punto di saturazione.
C’è un nuovo ambito di convergenza tecnologica fra la comunicazione via Internet e
quella wireless, come le reti Wi-Fi e WiMAX, e le applicazioni multiple che
distribuiscono capacità comunicativa lungo le reti mobili, moltiplicando i punti di accesso
a Internet. Questo è particolarmente importante per il mondo in via di sviluppo perché il
tasso di crescita della penetrazione di Internet è rallentato dalla scarsità di linee telefoniche
via cavo. Nel nuovo modello di telecomunicazioni, la comunicazione senza fili è diventata
dovunque la forma predominante di comunicazione, e in particolare nei paesi in via di
sviluppo. Nel 2002 il numero di utenti wireless ha superato quello degli abbonati alle reti
fisse a livello mondiale. Così, la capacità di connettersi a Internet da un’apparecchiatura
senza fili diventa il fattore critico per una nuova ondata di diffusione di Internet nel
pianeta. Questo dipende in larga misura dall’edificazione di infrastrutture wireless, dai
nuovi protocolli per Internet senza fili, e dalla diffusione di capacità a banda larga
avanzata. Dagli anni Ottanta, la capacità di trasmissione nelle reti di telecomunicazione si
è ampliata in maniera considerevole. I leader globali per utilizzo della banda larga sono la
Corea del Sud, Singapore e i Paesi Bassi. Il mondo nel suo complesso ha ancora molta
strada da percorrere per arrivare al loro livello. Ma la realizzabilità tecnologica di una rete
wireless a banda larga quasi universalmente ubiqua esiste già, aumentando così il
potenziale di comunicazione multimodale di ogni genere di dati, in qualunque formato, da
chiunque a chiunque, e da qualsiasi a qualsiasi luogo. Perché questa rete globale funzioni
effettivamente, bisogna però che, a livello nazionale e internazionale, venga costruita
l’appropriata infrastruttura e vengano emanate normative capaci di favorirne lo sviluppo
(Cowhey e Aronson, 2009).
Autocomunicazione di massa
Si noti che la nostra discussione si è spostata dal broadcasting e i mass media alla
comunicazione in generale. Internet, il web e la comunicazione wireless non sono media
in senso tradizionale. Piuttosto sono i veicoli della comunicazione interattiva. Comunque,
io sostengo, come la maggioranza degli analisti in questo campo, che i confini tra la
comunicazione dei mass media e tutte le altre forme di comunicazione stanno saltando
(Cardoso, 2006; Rice, 2008). La posta elettronica è in massima parte una forma di
comunicazione da individuo a individuo, anche considerando le e-mail in cc e il mailing di
massa. Ma Internet è molto più ampio. Il World Wide Web è una rete di comunicazione
usata per postare e scambiare documenti. Questi documenti possono essere testi, audio,
video, programmi di software – letteralmente tutto ciò che può essere digitalizzato. È per
questo che non ha senso confrontare Internet con la televisione in termini di «audience»,
come accade spesso nelle analisi di vecchio stampo sui media. In realtà, nell’economia
dell’informazione, la gran parte del tempo passato in Internet è tempo di lavoro o di studio
(Castells et al., 2007). Noi non «guardiamo» Internet come guardiamo la televisione. In
pratica, gli utenti di Internet (la maggioranza della popolazione nelle società avanzate e in
una percentuale crescente del terzo mondo) vivono con Internet. Come ha dimostrato una
cospicua massa di elementi empirici, Internet, nella variegata gamma delle sue
applicazioni, è il tessuto di comunicazione delle nostre vite, per il lavoro, per i contatti
personali, per il networking sociale, per l’informazione, per l’intrattenimento, per i servizi
pubblici, per la politica e la religione (Katz e Rice, 2002; Wellman e Haythornthwaite,
2002; Center for the Digital Future, 2005, 2007, 2008; Cardoso, 2006; Castells e Tubella,
2007). Non possiamo isolare l’intrattenimento o le notizie fruiti dall’uso ininterrotto di
Internet e compararli ai mass media in termini di ore di «visione», perché lavorare con
Internet include qualche occasionale navigazione su siti non legati al lavoro o l’invio di e-
mail personali, risultato del multitasking diffuso del nuovo ambiente informazionale
(Montgomery, 2007; Katz, 2008; Tubella et al., 2008). Inoltre, Internet viene usato sempre
più per accedere ai mass media (televisione, radio, quotidiani), oltre che a ogni forma di
prodotto digitalizzato culturale o d’informazione (film, musica, riviste, libri, articoli di
giornali, database).
Il web ha già trasformato la televisione. Gli adolescenti intervistati dai ricercatori
dell’USC Center for the Digital Future non riescono neppure a capire il concetto di una
televisione guardata secondo la programmazione stabilita da qualcun altro. Seguono i
programmi televisivi sul monitor dei loro computer e, sempre di più, su dispositivi
portatili. Così, la televisione continua a essere un importante medium di massa, ma la sua
programmazione e il suo formato subiscono una trasformazione con la personalizzazione
della sua ricezione (Center for the Digital Future, World Internet Survey, vari anni;
Cardoso, 2006). Un fenomeno analogo ha avuto luogo nella stampa cartacea. In tutto il
mondo, gli utenti di Internet al di sotto dei trent’anni leggono i quotidiani soprattutto
online. Così, pur rimanendo il giornale un mezzo di comunicazione di massa, la sua
piattaforma di trasmissione cambia. Non c’è ancora un chiaro modello di business per il
giornalismo online (Beckett e Mansell, 2008). Ma Internet e le tecnologie digitali hanno
trasformato il processo lavorativo dei quotidiani e dei mass media in generale. I giornali
sono diventati organizzazioni internamente retificate, connesse globalmente ai network di
informazione su Internet. Inoltre, le componenti online dei quotidiani hanno indotto
networking e sinergie con altre organizzazioni di notizie e di media (Weber, 2007). Le
redazioni dei giornali, della televisione e delle radio sono state trasformate dalla
digitalizzazione delle notizie e dalla loro ininterrotta elaborazione globale/locale
(Boczkowski, 2005). Così, la comunicazione di massa in senso tradizionale è ora
anch’essa comunicazione che si basa su Internet tanto nella produzione quanto nella
distribuzione.
Inoltre, la combinazione di notizie online con l’interattività dei blog e delle e-mail, oltre
che i feed RSS a questi e altri documenti sul web, hanno trasformato i giornali in una delle
componenti di una forma diversa di comunicazione: quella che ho definito sopra
autocomunicazione di massa. Questa forma di comunicazione è emersa con lo sviluppo
dei cosiddetti Web 2.0 e Web 3.0, ossia il grappolo di tecnologie, dispositivi e applicazioni
che supportano la proliferazione degli spazi sociali in Internet grazie all’accresciuta
capacità di banda larga, al software innovativo open source e al perfezionamento di
computer graphics e interfacce, compresa l’interazione che avviene tra avatar digitali in
spazi virtuali tridimensionali.
Con la convergenza tra Internet e comunicazione wireless e la graduale diffusione di
maggiore capacità di banda, la potenza di comunicazione ed elaborazione di informazioni
di Internet viene distribuita a tutti gli ambiti della vita sociale, allo stesso modo in cui la
rete elettrica e il motore elettrico distribuivano energia alla società industriale (Hughes,
1983; Benkler, 2006; Castells e Tubella, 2007). Appropriandosi di nuove forme di
comunicazione, gli individui (i cosiddetti utenti) hanno costruito loro sistemi personali di
comunicazione di massa, tramite SMS, blog, vlog, podcast, wiki e simili (Cardoso, 2006;
Gillespie, 2007; Tubella et al., 2008). Reti di file-sharing e p2p (peer-to-peer) rendono
possibile la circolazione, la miscelazione e la riformattazione di ogni possibile contenuto
digitalizzato. Nel febbraio 2008, Technorati ha censito 112,8 milioni di blog e oltre 250
milioni di articoli di media sociali tagged, a confronto dei 4 milioni di blog dell’ottobre
2004. In media, secondo le informazioni raccolte in un periodo di 60 giorni, ogni giorno
vengono creati 120.000 nuovi blog, pubblicati 1,5 milioni di post, e aggiornati circa 60
milioni di blog (Baker, 2008). La cosiddetta blogosfera è uno spazio di comunicazione
multilingue e internazionale. Anche se l’inglese ha dominato nelle prime fasi dello
sviluppo dei blog, nell’aprile 2007 solo il 36 per cento dei post sui blog erano scritti in
inglese, contro il 37 per cento in giapponese e l’8 per cento in cinese. Altre lingue molto
presenti nei post erano spagnolo (3 per cento), italiano (3 per cento), russo (2 per cento),
francese (2 per cento), portoghese (2 per cento), tedesco (1 per cento) e farsi (1 per cento)
(Sifry, 2007; Baker, 2008). I blog stanno diventando un importante ambito di espressione
per i giovani cinesi (Dong, 2008a). Un conteggio più accurato dei blog cinesi porterebbe
probabilmente la percentuale in cinese della blogosfera più vicina a quella dell’inglese o
del giapponese.
In tutto il mondo, la maggioranza dei blog è a carattere personale. Secondo il Pew
Internet and American Life Project, il 52 per cento dei blogger afferma di tenere i loro
blog soprattutto per se stessi, mentre il 32 per cento lo fa per un pubblico (Lenhart e Fox,
2006, p. III) 3. Così, in una certa misura, una quota significativa di questa forma di
autocomunicazione di massa è più vicina all’«autismo elettronico» che a una vera e
propria comunicazione. Ogni messaggio postato su Internet, però, a prescindere dalle
intenzioni dell’autore, diventa una bottiglia che galleggia nell’oceano della comunicazione
globale, un messaggio sempre suscettibile di essere ricevuto e rielaborato in modi
inaspettati.
Forme rivoluzionarie di autocomunicazione di massa hanno avuto origine grazie
all’ingegno di giovani user trasformatisi in producer. Un esempio è YouTube, un sito web
di condivisione di video in cui singoli utenti, organizzazioni, aziende e governi possono
caricare i propri contenuti video 4. Fondata nel 2005 da Jawed Karim, Steven Chen, e
Chad Hurley 5, tre americani che si sono conosciuti quando lavoravano insieme a PayPal,
YouTube americana ospitava 69.800.000 video nel febbraio 2008. Per esempio, durante il
mese di novembre 2007, 74,5 milioni di persone hanno visto 2,9 miliardi di video su
YouTube.com (39 video a spettatore; ComScore, 2008). Inoltre, emittenti internazionali
come Al Jazeera, CNN, NTV Kenya, France 24, TV3 catalana, e numerosi altri servizi
media mantengono canali su YouTube allo scopo di costruire nuovo pubblico e connettere
i membri interessati delle rispettive diaspore linguistiche. Oltre a ciò, nel luglio 2007
YouTube ha lanciato anche 18 siti partner per specifici paesi e un sito espressamente
dedicato agli utenti di telefonia mobile. Questo ha fatto di YouTube il più grande mezzo di
comunicazione di massa al mondo. In Internet stanno proliferando i siti web che emulano
YouTube, tra cui ifilm.com, Revver.com e Grouper.com. In Cina, Tudou.com è il sito di
video più popolare e uno dei siti dalla crescita più rapida; nell’agosto 2007 richiamava più
di 6 milioni di utenti unici al giorno, un aumento del 175 per cento rispetto al numero
degli spettatori appena tre mesi prima (Nielsen/NetRatings, 2007). Anche siti di social
networking come MySpace.com offrono la possibilità di caricare video. In effetti,
MySpace nel 2008 era il secondo sito del web di video-sharing. Nel novembre 2007, 43,2
milioni di persone hanno visto 382 milioni di video su MySpace.com (ComScore, 2008).
Il video streaming è una forma sempre più popolare di consumo e produzione di media.
Uno studio di Pew Internet and American Life Project ha rilevato che nel dicembre 2007 il
48 per cento degli utenti americani consumava regolarmente video online, rispetto al 33
per cento di un anno prima. Questa tendenza era più pronunciata per gli utenti al di sotto
dei trent’anni di età, il 70 per cento dei quali visita siti di video online (Rainie, 2008, p. 2).
Dunque, YouTube e altri siti web di contenuto generato dagli utenti sono mezzi di
comunicazione di massa. Ma sono diversi dai mass media tradizionali. Chiunque può
caricare un video su YouTube, con poche restrizioni. E l’utente sceglie il video che vuole
guardare e commentare tra un elenco immenso di possibilità. Ovviamente, su YouTube
vengono esercitate pressioni sulla libertà d’espressione, in particolare con minacce di
azioni legali per la violazione del copyright e con la censura governativa su video di
contenuto politico in situazioni di crisi. Ma YouTube è così pervasivo che la regina
d’Inghilterra ha deciso di mettere sul suo sito il discorso di Natale del 2007. Anche i
dibattiti televisivi per le elezioni presidenziali statunitensi del 2008 e le elezioni
parlamentari spagnole del 2008 sono stati mandati in simultanea su YouTube e integrati
interattivamente dai commenti dei cittadini.
Le reti orizzontali di comunicazione costruite attorno alle iniziative, gli interessi e i
desideri della gente sono multimodali e incorporano diversi generi di documenti, dalle
fotografie (ospitate da siti come Photobucket.com, che nel febbraio 2008 aveva 60 milioni
di utenti registrati) e i progetti cooperativi di larga scala come Wikipedia (l’enciclopedia
open source con 26 milioni di collaboratori, anche se di questi solo 75.000 sono redattori
attivi) alla musica e i film (reti p2p basati su programmi informatici gratuiti come Kazaa)
e alle reti dell’attivismo sociale/politico/religioso che combinano forum di dibattito basati
sul web con inserimento a livello globale di video, audio e testi.
Per i teenager, con la capacità che hanno di generare contenuto e distribuirlo in rete, ciò
che importa «non è avere quindici minuti, ma quindici megabyte di fama» (Jeffrey Cole,
comunicazione privata, luglio 2008). Gli spazi sociali sul web, costruiti sulla tradizione
pionieristica delle comunità virtuali degli anni Ottanta e superando le prime miopi forme
commerciali di spazio sociale introdotte da AOL, si sono moltiplicati in contenuto e in
numero fino a formare una variegata e diffusa società virtuale sul web. Al giugno 2008,
MySpace (con 114 milioni di utenti) e Facebook (con 123,9 milioni di utenti) spiccavano
come i siti web di maggior successo a livello mondiale per l’interazione sociale tra utenti
di diversa collocazione demografica ed estrazione sociale (McCarthy, 2008). Le comunità
online sono impegnate in tutta una serie di progetti, come, per esempio, la Society for
Creative Anachronism, con oltre 30.000 membri paganti nel dicembre 2007, una comunità
virtuale di ricostruzione storica fondata nel 1996. Per milioni di utenti di Internet al di
sotto dei trent’anni, le comunità online sono diventate una dimensione fondamentale della
vita quotidiana che continua a crescere dappertutto, compresa la Cina e i paesi in via di
sviluppo, e la loro crescita è stata rallentata solo dalle limitazioni dell’ampiezza di banda e
dell’accesso (Boyd, 2006a, b; Montgomery, 2007; Williams, 2007). Con la prospettiva
dell’espansione dell’infrastruttura e del declino dei prezzi della comunicazione, non è una
predizione ma un’osservazione dire che le comunità online stanno conoscendo un rapido
sviluppo non come mondo virtuale ma come una virtualità reale integrata con altre forme
di interazione in una vita quotidiana sempre più ibridata dai media (Center for the Digital
Future, 2008).
Una nuova generazione di programmi di software sociale ha reso possibile l’esplosione
di videogame e giochi per computer interattivi, oggi un’industria globale che vale 40
miliardi di dollari. Nei soli Stati Uniti, nel 2007 l’industria dei videogame e dei giochi per
computer ha fatturato 18,7 miliardi di dollari. Nel suo primo giorno di uscita, nel
settembre 2007, Halo 3 della Sony ha guadagnato 170 milioni di dollari, più dell’incasso
mai realizzato in un weekend da un film di Hollywood 6. La più vasta comunità di giochi
online, World of Warcraft (WOW), che rappresenta poco più della metà del settore dei
MMOG (Massive Multiplayer Online Game), nel 2008 ha superato i 10 milioni di membri
attivi (oltre la metà dei quali risiede nel continente asiatico). Questi membri sono
accuratamente organizzati in strutture gerarchiche basate su merito e affinità (Blizzard
Entertainment, 2008). Dato che i media sono in gran parte basati sull’intrattenimento, la
nuova forma di entertainment, basata interamente su Internet e sulla programmazione
digitale, è attualmente diventata una componente sostanziale del sistema dei media.
Le nuove tecnologie stanno anche favorendo lo sviluppo di spazi sociali di realtà
virtuale che combinano la socievolezza e la voglia di sperimentazione con i giochi di
ruolo. Il maggior successo l’ha avuto Second Life (Au, 2008). Nel mese di febbraio 2008
aveva circa 12,3 milioni di utenti registrati e circa 50.000 visitatori in un dato momento di
un giorno di media affluenza. Per molti osservatori, la tendenza più interessante delle
comunità di Second Life è la loro incapacità di dar vita a un’Utopia, pur in assenza di
limitazioni istituzionali o spaziali. I residenti di Second Life hanno riprodotto molti dei
tratti della nostra società, comprese molte delle sue negatività, come l’aggressione e lo
stupro. Inoltre, Second Life è di proprietà della Linden Corporation, e l’immobiliare
virtuale è presto diventato un business redditizio, al punto che l’Internal Revenue Service
degli Stati Uniti ha cominciato a sviluppare progetti per tassare i dollari Linden, che sono
convertibili in dollari USA. Ma questo spazio virtuale ha una tale capacità comunicativa
che alcune università hanno aperto dei campus su Second Life; vi sono anche esperimenti
in cui viene usata come piattaforma didattica; banche virtuali aprono e vanno in fallimento
seguendo gli alti e bassi dei mercati statunitensi; nella città virtuale si tengono
manifestazioni politiche e anche scontri violenti tra schieramenti di sinistra e di destra; e le
notizie interne a Second Life raggiungono il mondo reale attraverso un corpo sempre più
attento di corrispondenti dei media. Utopisti delusi stanno già lasciando Second Life per
cercare la libertà in un’altra terra virtuale dove possano iniziare una nuova vita, come gli
emigranti nomadi hanno sempre fatto nel mondo fisico. Nel far questo, stanno ampliando
la frontiera della virtualità fino al confine esterno della interazione tra le diverse forme
della nostra costruzione mentale.
La comunicazione wireless è diventata la piattaforma di distribuzione principale per
molti generi di prodotti digitalizzati, tra cui giochi, musica, immagini e notizie, oltre che
per una messaggistica istantanea che copre l’intera gamma dell’attività umana, dalle reti di
sostegno personale ai compiti professionali e alla mobilitazione politica. Così, la griglia
della comunicazione elettronica si sovrappone a tutto ciò che facciamo, sempre e ovunque
(Ling, 2004; Koshinen, 2007). Gli studi dimostrano che la maggioranza delle telefonate e
dei messaggi da cellulare vengono da casa, dal lavoro e da scuola – i luoghi abituali dove
si trova la gente, spesso con una linea telefonica fissa a disposizione. Il carattere chiave
della comunicazione wireless non è la mobilità ma la connettività perpetua (Katz e
Aakhus, 2002; Castells et al., 2006a; Katz, 2008).
La crescita della autocomunicazione di massa non è limitata al settore di punta della
tecnologia. Organizzazioni di base e pionieri individuali stanno usando nuove forme di
comunicazione autonoma, come le stazioni radio a bassa potenza, le stazioni televisive
pirata, e pratiche di produzione video indipendenti che sfruttano le capacità di produzione
e distribuzione a basso costo del video digitale (Costanza-Chock, di prossima pubbl.).
Certamente, i media mainstream stanno usando blog e reti interattive per distribuire i
loro contenuti e interagire con il pubblico, mescolando modalità di comunicazione
orizzontali e verticali. Ma vi sono molti esempi in cui i media tradizionali, come la TV via
cavo, sono alimentati da una produzione autonoma di contenuti che usano la capacità
digitale per produrre e distribuire molti generi di contenuti. Negli Stati Uniti, uno degli
esempi più noti di questo genere è la Current TV di Al Gore, in cui i contenuti provenienti
dagli utenti, ed elaborati professionalmente, costituiscono circa il 40 per cento della
programmazione della stazione. News media basati su Internet, che si avvalgono
massicciamente di informazioni fornite dagli utenti, come Jinbonet e Ohmy News in
Corea del Sud o Vilaweb di Barcellona, sono diventati fonti di informazione relativamente
affidabili e indipendenti su scala di massa. Così, la crescente interazione tra reti di
comunicazione orizzontali e verticali non equivale a dire che i media mainstream stiano
rilevando le nuove forme autonome di produzione e distribuzione di contenuto. Vuol dire
che è in atto un processo di complementarità che dà vita a una nuova realtà mediatica i cui
contorni e i cui effetti saranno decisi in ultima analisi da conflitti di potere politici ed
economici, mentre i padroni dei network delle telecomunicazioni si posizionano per
controllare l’accesso e il traffico a favore di soci d’affari e clienti preferiti (vedi sotto).
Il crescente interesse della grande industria dei media per le forme di comunicazione
basate su Internet testimonia l’importanza della autocomunicazione di massa. È
comunicazione di massa perché raggiunge un pubblico potenzialmente globale tramite le
reti p2p e la connessione a Internet. È multimodale, in quanto la digitalizzazione dei
contenuti e il software sociale avanzato, spesso basato su programmi open source che si
possono scaricare gratuitamente, permette la riformattazione di quasi ogni contenuto in
quasi ogni forma, con una sempre maggiore distribuzione tramite reti wireless. È anche
autogenerata per contenuto, autodiretta per emissione e autoselezionata per ricezione da
molti che comunicano con molti. Questo è un nuovo regno della comunicazione, e alla fin
fine un nuovo medium, la cui spina dorsale è fatta di reti di computer, il cui linguaggio è
digitale, e i cui mittenti sono globalmente distribuiti e globalmente interattivi. È vero che
un mezzo, anche un medium rivoluzionario come questo, non determina il contenuto e
l’effetto del suo messaggio. Ma ha la potenzialità di rendere possibile un’illimitata
diversificazione e produzione autonoma di gran parte dei flussi di comunicazione che
danno luogo a significato nella mente pubblica. Eppure, la rivoluzione nella tecnologia
della comunicazione e le nuove culture della comunicazione autonoma sono elaborate e
condizionate (benché non determinate) da organizzazioni e istituzioni che sono guidate da
strategie commerciali di profitto e di espansione del mercato.
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali
multimediali globali7
Nella società in rete i media operano per lo più seguendo una logica commerciale,
indipendentemente dallo status giuridico. Contano sugli inserzionisti, sugli sponsor
aziendali e sugli abbonamenti dei consumatori per creare profitti a favore dei loro
azionisti. Anche se esistono alcuni casi di servizio pubblico relativamente indipendente
(per esempio la BBC, la TVE spagnola, la RAI italiana, la SABC sudafricana, la CBC
canadese, l’ABC australiana e così via), queste emittenti sono sottoposte a una crescente
pressione per commercializzare la programmazione allo scopo di mantenere la loro quota
di audience a fronte della concorrenza del settore privato (EUMap, 2005, 2008). In effetti,
molte emittenti pubbliche, come la BBC e la sudafricana SABC, hanno istituito rami
commerciali per finanziare le proprie iniziative pubbliche. Intanto, in paesi come la Cina,
le strutture mediatiche controllate dallo stato stanno passando da un modello orientato alla
propaganda a un modello aziendale centrato sulla audience (Huang, 2007) 8. Inoltre,
mentre Internet è una rete autonoma di comunicazione locale/globale, anche le aziende
private e pubbliche possiedono parte della sua infrastruttura, e i loro spazi sociali e siti
web più popolari stanno rapidamente diventando un segmento del business multimediale
(Artz, 2007; Chester, 2007).
Poiché i media sono prevalentemente un business, le stesse grandi tendenze che hanno
trasformato il mondo del business – globalizzazione, digitalizzazione, networking e
deregulation – hanno radicalmente modificato le aziende mediatiche (Schiller, 1999,
2007). Queste tendenze hanno rimosso gran parte dei limiti all’espansione dei media
privati, permettendo il consolidamento del controllo oligopolistico da parte di poche
aziende su gran parte del nucleo centrale della rete globale dei media 9. Comunque, i
maggiori conglomerati di media hanno radice in Occidente, ma gran parte delle imprese
mediatiche nel mondo continuano a concentrare il loro interesse a livello nazionale e/o
locale. Quasi nessuna organizzazione mediatica è autenticamente globale e il numero delle
imprese mediatiche esclusivamente locali è in diminuzione. A essere globali sono le reti
che connettono il finanziamento, la produzione e la distribuzione dei media entro i paesi e
tra paesi. La maggiore trasformazione organizzativa dei media che possiamo osservare è
la formazione di reti globali di aziende multimediali interconnesse organizzate intorno a
partnership strategiche.
Queste reti, però, sono organizzate intorno a nodi dominanti. Un piccolo numero di
megacorporation formano la spina dorsale della rete globale delle reti mediatiche. Il loro
predominio è fondato sulla capacità di influenzare e connettersi dovunque a
organizzazioni mediatiche focalizzate localmente e nazionalmente. Viceversa,
organizzazioni mediatiche focalizzate nazionalmente e regionalmente si fondano sempre
più su partnership con queste megacorporation per facilitare la propria espansione
imprenditoriale. Mentre il capitale e la produzione sono globalizzati, il contenuto dei
media è personalizzato sulle culture locali e sulla diversità di un pubblico segmentato.
Così, con modalità che sono tipiche anche di altri settori, la globalizzazione e la
diversificazione procedono di pari passo. Anzi, i due processi sono intrecciati: solo reti
globali possono padroneggiare le risorse della produzione mediatica globale, ma la loro
capacità di conquistare quote di mercato dipende dall’adattamento del loro contenuto al
gusto del pubblico locale. Il capitale è globale; le identità sono locali o nazionali.
La digitalizzazione della comunicazione ha stimolato la diffusione di un sistema dei
media tecnologicamente integrato in cui prodotti e processi sono sviluppati su piattaforme
diversificate che supportano una varietà di contenuti e di espressioni mediatiche
all’interno della stessa rete di comunicazione globale/locale. Il comune linguaggio
digitale permette economie di scala e, cosa ancora più importante, economie di sinergia tra
le varie piattaforme e i vari prodotti. Con economie di sinergia intendo che l’integrazione
di piattaforme e prodotti dà un ritorno maggiore della somma delle parti investite nella
fusione o nel networking di tali piattaforme e prodotti. La sinergia si verifica in seguito a
processi di creatività e innovazione facilitati dall’integrazione.
La diffusione di Internet e della comunicazione wireless ha decentrato la rete di
comunicazione, offrendo l’opportunità di molteplici punti di accesso alla rete delle reti.
Mentre la nascita di questa forma di autocomunicazione di massa accresce l’autonomia e
la libertà degli attori in comunicazione, questa autonomia culturale e tecnologica non
conduce necessariamente all’autonomia dal business mediatico. Crea piuttosto nuovi
mercati e nuove opportunità commerciali. I gruppi mediatici si sono integrati in reti
multimediali globali, uno dei cui scopi è la privatizzazione e la commercializzazione di
Internet per espandere e sfruttare questi nuovi mercati.
Il risultato di queste varie tendenze e della loro interazione è la formazione di un nuovo
sistema multimediale globale. Per comprendere la comunicazione nel XXI secolo è
necessario identificare la struttura e le dinamiche di tale sistema multimediale. A questo
scopo, comincerò mettendo a fuoco il nucleo globale di questa struttura, e le reti di
comunicazione chiave concentrate intorno al nucleo. Quindi analizzerò l’organizzazione e
le strategie delle maggiori organizzazioni multimediali che costituiscono la spina dorsale
della rete mediatica globale. Terzo, esaminerò l’interrelazione tra queste organizzazioni di
«media globali» e organizzazioni mediatiche regionali e/o focalizzate localmente. Infine,
porterò allo scoperto le dinamiche delle reti mediatiche spiegando in che modo le
organizzazioni di media negoziano e influenzano reti parallele e cercano di controllare i
commutatori di collegamento tra reti dei media e reti finanziarie, industriali o politiche.
Il nucleo delle reti mediatiche globali
Il nucleo delle reti mediatiche globali è formato da grandi imprese multimediali la cui
maggiore fonte di reddito e le cui proprietà diversificate provengono da svariate regioni e
paesi del mondo. Come abbiamo affermato, le global media organizations non sono
realmente globali; le loro reti sì. Comunque, alcune imprese mediatiche hanno una
presenza internazionale più forte di altre, e le strategie globalizzanti di organizzazioni
mediatiche locali e regionali dipendono (facilitandole) dalle dinamiche di questo nucleo di
reti mediatiche globali. Così, esaminerò l’organizzazione delle maggiori corporation
mediatiche globalizzate (misurate per reddito nel 2007 circa): Time Warner, Disney, News
Corporation, Bertelsmann, NBC Universal, Viacom e CBS. Quindi includerò in tale
analisi l’interazione tra queste «Magnifiche Sette» e le maggiori società diversificate di
Internet/computer: Google, Microsoft, Yahoo! e Apple.
Guardando la configurazione di questo core dei media globali, possiamo osservare
quattro tendenze correlate:
1. la proprietà dei media è sempre più concentrata;
2. contemporaneamente, i conglomerati mediatici ora sono in grado di trasmettere una
varietà di prodotti su una sola piattaforma oltre che un singolo prodotto su una varietà di
piattaforme. Inoltre formano nuovi prodotti con la combinazione di segmenti digitali di
diversi prodotti;
3. la personalizzazione e segmentazione del pubblico allo scopo di massimizzare le
entrate della pubblicità è incoraggiata dal movimento fluido dei prodotti della
comunicazione tra piattaforme;
4. infine, la misura del successo di queste strategie è determinata dalla capacità delle
reti mediatiche interne di trovare economie di sinergia ottimali che sfruttano le mutazioni
dell’ambiente delle comunicazioni;
Approfondiamo ognuna di queste caratteristiche del nucleo delle reti multimediali
globali.
Concentrazione della proprietà
Numerosi analisti hanno documentato la tendenza verso la corporizzazione e la
concentrazione dei media in diversi punti del tempo e in diverse aree del mondo (per
esempio, McChesney, 1999, 2004, 2007, 2008; Bagdikian, 2000, 2004; Bennett, 2004;
Thussu, 2006; Hesmondhalgh, 2007; Campo Vidal, 2008; Rice, 2008).
La concentrazione dei media non è una novità. La storia è piena di esempi di un
controllo oligopolistico sui mezzi di comunicazione, compreso il controllo del ceto
sacerdotale sulle tavolette d’argilla incise con lo stilo, il controllo della chiesa sulla Bibbia
in latino, gli statuti degli stampatori, i sistemi postali governativi e i le reti di segnalazione
militari, tra gli altri. Ogni volta che rivolgiamo uno sguardo alla storia e alla geografia,
vediamo una stretta associazione tra la concentrazione del potere e la concentrazione dei
mezzi di comunicazione (Rice, comunicazione privata, 2008). Nel XX secolo, negli Stati
Uniti, tre network, le «Big Three» ABC, CBS e NBC, hanno dominato radio e televisione
fino agli anni Ottanta. Per tutta la prima parte del XX secolo, tre agenzie di stampa, la
britannica Reuters, la francese Havas e la tedesca Wolff, formavano un «cartello globale
delle notizie» che dominò la trasmissione dei servizi giornalistici internazionali (Rantanen,
2006). Al di fuori degli Stati Uniti la maggior parte dei governi ha tradizionalmente
mantenuto il monopolio sulle reti radiofoniche e televisive. Il controllo sullo spazio della
comunicazione ha così sempre seguito un andamento oscillatorio in seguito ai
cambiamenti complementari e contraddittori che si verificavano nei regolamenti, i
mercati, l’ambiente politico e nell’innovazione tecnologica. Ma la digitalizzazione
dell’informazione e la nascita delle piattaforme di comunicazione satellitari, wireless e via
Internet hanno fatto sì che i tradizionali blocchi all’espansione della proprietà
diminuissero. A cominciare dagli anni Novanta, le fusioni e le acquisizioni di media hanno
subito un’accelerazione senza precedenti. Per esempio, tra il 1990 e il 1995 sono avvenute
lo stesso numero di fusioni che tra il 1960 e il 1990 (Greco, 1996, p. 5; Hesmondhalgh,
2007, p. 162).
Nella prima edizione del suo influentissimo libro The Media Monopoly (1983), Ben
Bagdikian identificava 50 aziende mediatiche che dominavano il mercato USA dei media.
Varie edizioni rivedute del testo rivelavano un numero sempre più ridotto di aziende
dominanti: 29 nel 1987, 23 nel 1990, 10 nel 1997, 6 nel 2000 e 5 nel 2002 (cit. in
Hesmondhalgh, 2007, p. 170). Mentre Bagdikian metteva a fuoco la situazione negli Stati
Uniti, la stessa concentrazione emergeva a livello globale (Fox e Waisbord, 2002; Campo
Vidal, 2008; Winseck, 2008). Per esempio, nel 2006, Disney, Time Warner, NBC
Universal, Fox Studios (New Corporation) e Viacom coprivano il 79 per cento della
produzione cinematografica e il 55 per cento della distribuzione di film in tutto il mondo
(IBIS, 2007a, b).
Questo graduale restringimento del campo dei media deriva non solo dalla concorrenza,
ma anche dalla accresciuta capacità delle majors di far rete sia tra loro sia con attori
regionali (ne parleremo più in dettaglio nella prossima sezione). La figura 2.1 mostra le
partnership chiave e gli investimenti incrociati tra aziende dominanti multimediali e di
Internet a livello globale.

FIG. 2.1. Interconnessioni chiave tra media multinazionali e aziende di Internet diversificate. Si noti che il diagramma
rappresenta solo le partnership e gli investimenti incrociati chiave. Non è esaustivo. Le relazioni si riferiscono
al febbraio 2008.
Fonte: Arsenault e Castells (2008a, p. 713).

Come illustra la figura 2.1, le Magnifiche Sette e le maggiori aziende di Internet sono
connesse da una fitta trama di partnership, investimenti incrociati, amministratori e
manager 10. National Amusement, l’azienda di famiglia di Sumner Redstone, detiene una
quota di controllo dell’80 per cento tanto nella CBS quanto in Viacom. NBC Universal e
News Corporation posseggono congiuntamente il fornitore di contenuti online Hulu.com,
lanciato nel 2007 come rivale di YouTube, la piattaforma di video in streaming di Google.
AOL di Time Warner, MSN di Microsoft, MySpace di News Corporation, e Yahoo!
forniscono anch’esse distribuzione per la piattaforma Hulu. Ma mentre Hulu mira a
infrangere il potere di mercato di YouTube sul mercato del video digitale, chi l’appoggia
ha altrove partnership strategiche con Google. Google fornisce distribuzione di pubblicità
per il sito di social networking MySpace della News Corporation di Murdoch. Nel
febbraio 2008, Microsoft ha fatto un’offerta, poi non andata in porto, di 44,6 miliardi di
dollari per acquistare Yahoo!. Così, queste conglomerate multimediali simultaneamente
competono e colludono secondo le esigenze del loro business.
Quando determinate corporation ammassano un controllo sproporzionato sui
meccanismi di consegna o produzione di contenuti, come nel caso del predominio di
YouTube sui video in Internet, altre proprietà mediatiche cercano di forzare questo collo di
bottiglia con investimenti o sviluppo di proprietà rivali. La diversificazione delle proprietà
va di pari passo con la concentrazione dei media. La capacità dei colossi dei media di
spuntare accordi favorevoli, tra loro o con altre aziende chiave per i media, dipende
dall’abilità che hanno di accumulare proprietà mediatiche diversificate attraverso
partnership, investimenti o acquisizioni dirette.
Diversificazione delle piattaforme
Le maggiori organizzazioni mediatiche oggi possiedono proprietà sterminate, e
controllano anche più contenuto proprietario di quanto venga diffuso tramite piattaforme
diverse. La figura 2.2 dà un quadro delle principali proprietà attualmente controllate, o
parzialmente controllate, dalle sette maggiori organizzazioni multimediali globali al 2008.
Come illustra la figura, tutte le aziende leader sono verticalmente integrate. Time Warner,
per esempio, controlla la Warner Brothers, che rappresenta il 10 per cento della
produzione globale cinematografica e televisiva. Time Warner possiede anche il secondo
maggior operatore TV via cavo degli Stati Uniti, 47 canali via cavo regionali e
internazionali, e la piattaforma Internet AOL attraverso la quale vengono distribuite queste
produzioni. News Corporation, forse la società più verticalmente integrata di tutte,
possiede 47 stazioni televisive USA e la piattaforma di social networking MySpace, ha
interessi nelle piattaforme di trasmissione satellitare in cinque continenti, e controlla la
Twentieth Century Fox Studios and Home Entertainment, oltre a numerosi canali televisivi
regionali. L’integrazione verticale è cresciuta soprattutto perché la capacità di distribuire
prodotti è cruciale per il successo di qualsiasi prodotto culturale. L’integrazione verticale
della produzione e distribuzione televisiva e cinematografica ha avuto una forte spinta
negli anni Ottanta con l’integrazione della Twentieth Century Fox di News Corporation
con Metromedia e poi è decollata quando nel 1995 Disney ha acquistato ABC.

FIG. 2.2. Proprietà delle maggiori multinazionali conglomerate di media al febbraio 2008.
Fonte: Arsenault e Castells (2008a, p. 715).

Oggi l’integrazione verticale delle società dei media riguarda anche Internet. Le
organizzazioni mediatiche stanno entrando in Internet, mentre le società di Internet creano
partnership con le organizzazioni mediatiche e investono in funzionalità di streaming
audio e video. Fatto significativo, la più grande acquisizione nel settore dei media a oggi,
è costituita dall’acquisto per 164 miliardi di dollari di Time Warner, un grande gruppo
mediatico tradizionale, da parte di America On Line (AOL), una start-up di Internet.
L’accordo fu finanziato con azioni gonfiate di AOL al culmine della bolla di Internet nel
2000. Negli anni recenti l’evanescenza dei confini tra aziende di Internet, media e
telecomunicazioni è cresciuta ulteriormente. Nel 2005, News Corporation ha pagato 560
milioni di dollari per Intermix, l’azienda madre del sito di social networking MySpace.
Nel 2007, Google ha acquistato YouTube per 1,6 miliardi. Nel 2007, Google, Apple,
Yahoo! e Microsoft hanno iniziato tentativi di scalata competendo con conglomerati
multimediali più tradizionali per il controllo sul mercato sempre più lucroso dei video
online. NBC e News Corporation hanno lanciato Hulu.com nell’intento di competere con
il servizio video di iTunes della Apple e con YouTube di Google, il sito dominante per i
video in streaming. Reciprocamente, le società di Internet si sono mosse per penetrare nel
mercato mediatico offline. Il canale di informazione via cavo MSNBC fu lanciato come
joint venture da Microsoft e NBC nel 1996. E nel 2007, Google ha varato una partnership
con Panasonic per lanciare un televisore ad alta definizione che doveva raccogliere
programmi della televisione tradizionale oltre a contenuti Internet (Hayashi, 2008).
Segmentazione e personalizzazione: il cambiamento delle forme di pubblicità come forza
di trasformazione nell’industria dei media
Le organizzazioni mediatiche possono massimizzare il fatturato pubblicitario con
l’espansione del loro pubblico potenziale trasferendo contenuto da una piattaforma di
distribuzione all’altra. Nel 2006, la spesa globale in pubblicità ha superato i 446 miliardi
di dollari (Future Exploration Network, 2007). Ma se la spesa in pubblicità continua a
crescere, i media continuano a frammentarsi. Per esempio, nel 1995 erano 225 i
programmi della televisione britannica che raggiungevano un pubblico di oltre 15 milioni
di persone; dieci anni dopo non ce n’era più neppure uno (Future Exploration Network,
2007, p. 4). Così, i ricavi pubblicitari affluiscono da un numero sempre crescente di
piattaforme e canali (Gluck e Roca-Sales, 2008).
Inoltre, le barriere tradizionali tra le aziende mediatiche «vecchie» e «nuove» stanno
sparendo con la diversificazione dei portafogli delle corporation. Come abbiamo
documentato, la digitalizzazione di tutte le forme di comunicazione significa che le
barriere tra reti mobili, mediatiche e di Internet si stanno dissolvendo. La capacità di
produrre contenuti tramite dispositivi mobili e di caricare, scambiare e ridistribuire questi
contenuti attraverso il web allarga l’accesso e al contempo complica i ruoli tradizionali di
mittente e ricevente. Le organizzazioni mediatiche hanno più piattaforme con cui proporre
pubblico agli inserzionisti, ma il compito di attribuire, distribuire e controllare i messaggi
sta contemporaneamente diventando più complicato. La diversificazione delle piattaforme,
in particolare le acquisizioni strategiche di proprietà e partnership online con aziende di
Internet come Yahoo! e Google, rappresenta un tentativo di indirizzare le loro scommesse
sulla via centrale che arriva al pubblico in un ambiente mediatico in rapido mutamento, e
insieme una mossa per trarre vantaggio dalla capacità di segmentare il pubblico e farne un
target specifico.
Le organizzazioni mediatiche si stanno muovendo verso modalità nuove e dinamiche
per identificare e trasmettere contenuto individualizzato che prende di mira mercati
pubblicitari critici. L’avvento della videoregistrazione digitale controllata dal computer
significa che gli utenti della televisione possono senza difficoltà saltare gli spot
pubblicitari pagati. Materiale sostenuto dalla pubblicità inserita nel contenuto sta
soppiantando i modelli del contenuto pagato (come i tradizionali spot da 30 secondi). Nel
2006, il product placement nei media confezionati a copione (scripted) è salito a 3 miliardi
di dollari, il 40 per cento in più rispetto al 2004 (Future Exploration Network, 2007, p. 5).

FIG. 2.3. Fatturato pubblicitario globale per medium, 2002-2007.


Fonte: Compilato da Arsenault e Castells (2008a, p. 718), da Zenith Optimedia (2007).

Tra i giganti dei media globali e altre organizzazioni mediatiche, la digitalizzazione


dell’informazione e l’espansione delle reti di autocomunicazione di massa hanno alleviato
una preoccupazione su come monetizzare queste reti in termini di pubblicità. La figura 2.3
illustra la rapida crescita del mercato pubblicitario di Internet tra il 2002 e il 2007. Nel
2000, la pubblicità online non era neppure inclusa nelle previsioni dei media pubblicitari.
Nel 2007, secondo Zenith Optimedia, rappresentava l’8,1 per cento della pubblicità.
Anche se in termini percentuali questa resta una piccola fetta della torta, traducendo il dato
in dollari si vede che la pubblicità online oggi rappresenta entrate per quasi 36 miliardi di
dollari. Inoltre, gli introiti pubblicitari di Internet stanno crescendo in media sei volte più
rapidamente delle entrate dei media tradizionali (The Economist, 2008). In paesi con alta
penetrazione della banda larga, come la Svezia, la Norvegia, la Danimarca e il Regno
Unito, la pubblicità online oggi vale il 15 per cento del mercato. Zenith Optimedia e Bob
Coen, un istituto e uno studioso che sono tra i più affidabili specialisti in previsioni sulla
pubblicità, hanno calcolato che entro il 2010 vi sarà più pubblicità su Internet che su radio
o riviste. Come da prevedersi, i colossi dei media hanno investito sui meccanismi di
trasmissione della pubblicità online. Nel 2007, Microsoft ha offerto 6 miliardi di dollari
per aQuantitative, e Yahoo! ha speso 600 milioni di dollari per acquisire l’80 per cento
delle rimanenti azioni di Right Media.
Anche i grandi inserzionisti stanno investendo in contenuto online brandizzato e
scripted in alternativa alla pubblicità convenzionale. Per esempio, Disney ha fatto inserire
uno dei suoi film in un episodio di KateModern, una serie che ha debuttato nel luglio 2007
su Bebo, un sito britannico di social networking. E il brand Volvo compariva nel 2007 in
Driving School, una serie in 12 episodi per la MSN, con Craig Robinson di The Office
della NBC. Comunque, il contenuto brandizzato costituisce ancora una parte esigua del
denaro speso in pubblicità su video che, secondo il consulente mediatico Veronis Suhler
Stevenson, potrebbe essere stimato in 600 milioni di dollari nel 2007 (Shahnaz e
McClellan, 2007).
La diversificazione delle piattaforme rende anche indispensabile trovare modi di
aumentare l’attrattiva dell’identità di marchio delle proprietà mediatiche. Nonostante il
proliferare di blog e di altri siti di notizie e informazioni, le organizzazioni dei media
mainstream continuano a dominare il mercato online delle notizie. Nel 2005, 16 dei primi
20 siti di notizie online più popolari, secondo la classifica Nielsen/NetRatings, erano di
proprietà delle 100 maggiori società mediatiche in termini di fatturato netto totale generato
negli USA in quell’anno.
La News Corporation si è concentrata sull’acquisto e l’ampliamento di proprietà con
forte identità di brand e una presenza multimodale. L’Annual Report del 2007 della News
Corporation presentava l’acquisto della Dow Jones Company e di altre proprietà
strategiche digitali come una mossa «per sfruttare le due tendenze sociali ed economiche
più profonde della nostra epoca, la globalizzazione e la digitalizzazione». Il Report
continuava:

Siamo in un momento della storia in cui si verifica una confluenza tra contenuti e
trasmissione digitale, e sistemi sempre più sofisticati di micropagamento; il che vuol
dire che il valore dell’analisi e dell’intelligence per un utente business riesce a essere
riflesso molto più accuratamente dal prezzo di quel contenuto (News Corporation,
2007, p. 8).
Sotto la proprietà di News Corporation, MySpace ha sviluppato un sistema hypertargeted
di distribuzione pubblicitaria basato sulle nostre abitudini di ricerca. Inoltre, l’acquisto nel
2007 del Wall Street Journal è stata una mossa per acquisire un marchio editoriale che
aveva una forte identità globale in entrambe le versioni, cartacea e online. Le edizioni
indiana e cinese del Wall Street Journal offrono una fonte fondamentale per la pubblicità
rivolta alle élite emergenti in mercati che molto probabilmente in un prossimo futuro
saranno al centro della crescita pubblicitaria globale (Bruno, 2007).
Economie di sinergia
La capacità di replicare contenuti e di conseguenza di distribuire pubblicità su piattaforme
diversificate genera economie di scopo o sinergia, una componente fondamentale della
strategia delle reti aziendali. Lance Bennett (2004) ridimensiona l’importanza della
grandezza e della scala come criteri di dominio sulla scena del business mediatico, in
quanto «i colossi aziendali sono tutt’altro che macchine bene organizzate» (2004, p. 132).
Rileva come AOL e Time Warner e Viacom e CBS non siano state capaci di creare
sinergie redditizie. Gli effetti sinergici dipendono dal valore aggiunto derivante dalla
riuscita integrazione in un processo di produzione che genera superiore produttività, e
quindi maggiori profitti, per tutte le sue componenti. Così, la semplice aggiunta di risorse
mediante acquisizioni non garantisce profitti superiori. Anzi, l’incapacità di CBS e
Viacom di fondere le loro culture aziendali è un esempio eccellente di come le economie
di scala non sempre siano vantaggiose. La relazione tra CBS e Viacom risale al 1973,
quando la CBS fu costretta a scorporare Viacom, la sua unità di syndication televisiva, in
base alle normative della Federal Communications Commission (FCC) che vietava ai
network televisivi statunitensi di possedere aziende di distribuzione televisiva o d’altro
genere, cioè di syndication. Nel 2000, Viacom era diventata la società di maggior successo
e acquistò l’azienda madre, la CBS, per 22 miliardi di dollari, in quella che è stata la più
grande fusione di media mai avvenuta. Le società tornarono a dividersi però nel 2005,
perché tra loro c’erano minori economie di sinergia. National Amusement, una delle più
antiche e più grandi catene di sale cinematografiche degli Stati Uniti, e l’azienda di
famiglia di Sumner Redstone, detiene quote di controllo in entrambe le società. Dopo la
separazione, CBS deteneva la maggioranza delle piattaforme di distribuzione contenuti
(per esempio, CBS Network, CBS Radio e CW), mentre Viacom manteneva la
maggioranza delle proprietà di creazione contenuti (per esempio, Paramount Studios e la
famiglia di network di MTV).
La chiave è la sinergia. La sinergia si basa sulla compatibilità dei network che
realizzano le fusioni. Fusioni di produzioni, non di proprietà. Nei conglomerati
multimediali contemporanei, l’organizzazione a rete mostra di essere il modello di
business di maggior successo per l’integrazione orizzontale di proprietà. In effetti, negli
ultimi anni, diverse delle società mediatiche più altamente capitalizzate hanno cominciato
a snellire le proprie strutture. Clear Channel, un società con sede negli USA, con proprietà
principalmente nel settore radiofonico, ha venduto la sua divisione televisiva. Anche la
New York Times Company ha liquidato le proprie attività nell’emissione televisiva.
Il crescente vantaggio competitivo della News Corporation sul mercato globale dipende
non tanto dalla sua dimensione quanto dalla sua strategia organizzativa di retificazione,
che supporta economie di sinergia. Louw (2001) vede il modello di business globale della
News Corporation come un esempio dell’impresa globale a rete, in cui «possiamo
riscontrare che molteplici (e ancora proliferanti) stili di controllo e di decisione vengono
tollerati in diversi settori del network, purché quelli al centro della rete possano
guadagnare dall’esistenza di una particolare pratica e/o disposizione organizzativa in una
provincia del loro “impero” in rete» (Louw, 2001, p. 64). Mentre Rupert Murdoch ha
mantenuto un rigido controllo verticale, la News Corporation si è trasformata da
un’impresa le cui risorse negli anni Ottanta si trovavano in misura preponderante
nell’editoria di quotidiani e riviste, a un’azienda che, nel primo decennio di questo secolo,
ha il 63,7 per cento degli attivi a bilancio nei settori della programmazione
cinematografica, televisiva e dei network via cavo/satellite (Flew e Gilmour, 2003, p. 14),
e ora sta muovendosi verso proprietà Internet. La News Corporation si è concentrata sulla
massimizzazione della redditività di singoli segmenti della sua rete piuttosto che
sull’integrazione della gestione quotidiana delle sue diverse proprietà (Fine, 2007). Così,
la News Corporation viene generalmente indicata come il più «globale» business
mediatico in termini di proprietà e al tempo stesso come la più sostenibile in termini della
sua strategia di gestione reticolare interna (Gershon, 2005).
In sintesi, le società che formano il nucleo delle reti mediatiche globali perseguono
politiche di concentrazione della proprietà, partnership interaziendali, diversificazione
delle piattaforme, customizzazione del pubblico ed economie di sinergia con vari gradi di
successo. A sua volta, la configurazione interna di questi business mediatici dipende
pesantemente dalla loro capacità di influenzare e agganciare la rete più ampia dei business
mediatici. Inoltre, la sorte delle industrie mediatiche nazionali del secondo strato dipende
in larga misura dalla loro capacità di connettersi con queste reti mediatiche globali.
La rete globale dei network mediatici
Come notato in precedenza, i giganti dei media, diversificati e multinazionali, restano
ancorati territorialmente ai loro mercati principali. Per esempio, la News Corporation,
forse la più globale conglomerata mediatica in termini di proprietà, raccoglie il 53 per
cento del suo fatturato negli Stati Uniti e il 32 per cento in Europa (Standard and Poor,
2007b). Ma una collocazione favorevole nella rete globale delle organizzazioni dei media
comporta molto di più che l’espansione territoriale, la concentrazione delle proprietà e la
diversità delle piattaforme. Il successo dei network interni della News Corporation e di
altre aziende simili, sta nella capacità di sapersi connettere alla rete globale della
comunicazione mediatizzata. Se è vero che alcune organizzazioni mediatiche formano la
spina dorsale della rete globale dei media, ciò non equivale a un dominio unilaterale. I
media locali e nazionali non stanno cadendo sotto l’inarrestabile espansione di
organizzazioni «mediatiche globali». Piuttosto, le aziende globali stanno intensificando
partnership e investimenti incrociati con aziende nazionali, regionali e locali per facilitare
l’espansione del mercato e viceversa. Gli attori regionali stanno importando attivamente
contenuti globali, localizzandoli, e le organizzazioni mediatiche globali cercano partner
locali per trasmettere contenuto personalizzato al pubblico. I processi di localizzazione e
globalizzazione operano di conserva a espandere una rete globale. Cercherò di identificare
più puntualmente il ruolo della struttura e delle dinamiche di questa rete globale. Per farlo,
analizzerò dapprima le strutture formali della collaborazione tra il nucleo mediatico
globale e le organizzazioni regionali, locali e nazionali. Quindi esaminerò in che modo
queste strutture dipendono dai processi della localizzazione di prodotti globalizzati. Infine,
esplorerò le dinamiche dei flussi di produzione mediatica e dell’organizzazione per
documentare come il locale influisce e agisce sulla presenza delle imprese mediatiche
globali.
Strutture di collaborazione
Media multinazionali, sotto forma di agenzie di stampa come la Reuters (istituita nel
1851), esistono fin dalla metà del XIX secolo, aprendo la strada a una maggiore
sovrapposizione tra organizzazioni mediatiche multinazionali e locali (vedi sotto). Il
Telecommunications Act statunitense del 1996, la fondazione della World Trade
Organization nel 1995, e l’appoggio alla privatizzazione dei media dato dal Fondo
Monetario Internazionale (FMI) e da altre istituzioni internazionali, hanno contribuito a
denazionalizzare i processi di produzione e distribuzione di media (Artz, 2007). Reti
mediatiche globali si sono consolidate grazie all’interrelazione tra globalizzazione e
localizzazione, e all’affermarsi di nuovi modelli aziendali di produzione e distribuzione.
La portata globale di organizzazioni come Time Warner e Disney non si può misurare
esclusivamente in base alle loro proprietà. Partnership e investimenti incrociati hanno
ampliato il loro raggio di azione. La figura 2.4 offre un’immagine dei più importanti
investimenti incrociati e partnership tra maggiori attori mediatici globali ed elementi
regionali chiave.
FIG. 2.4. Interconnessioni tra gruppi mediatici multinazionali di secondo strato e il nucleo globale.
Fonte: Arsenault e Castells (2008a, p. 723).

La figura 2.4 mostra solo investimenti e partnership chiave con imprese di secondo
livello. Riflette soltanto una piccola percentuale degli accordi stretti tra le Magnifiche
Sette e altri attori di mercato. Per esempio, Disney ha una presenza ampia ma disuguale in
Cina. I suoi programmi vanno in onda alla televisione statale cinese; personaggi Disney
appaiono nei videogame Shanda; catene commerciali globali come Wal-Mart vendono la
loro mercanzia nei negozi cinesi; e una percentuale dei film stranieri di cui è legalmente
consentita la programmazione in Cina sono anch’essi prodotti e distribuiti dalla Disney. Il
diagramma non include una schiera di partnership e investimenti incrociati ormai defunti,
come la partnership di Bertelsmann con Time Warner per lanciare la AOL Europe. La
figura 2.4 offre però un quadro della vasta rete di partnership e investimenti incrociati
strategici sulla quale si basano l’espansione e la crescita aziendale delle Magnifiche Sette.
Vivendi Universal SA, una società francese, ha ceduto la sua quota nella Universal
Entertainment in cambio di una partecipazione del 20 per cento nella NBC Universal.
Vivendi ha anche una partecipazione congiunta con Bertelsmann nella tedesca Vox.
Bertelsmann, a sua volta, ha interessi nella tedesca Premiere TV insieme alla News
Corporation. La Kingdom Holdings del principe saudita Al-Walid bin Talal è uno dei
maggiori investitori nel settore dei media in Medio Oriente con quote in LBC, Rotanna, e
numerosi altri media commerciali. Inoltre, la società ha partecipazioni anche in molte
delle maggiori aziende di media globali come News Corporation (è il suo terzo maggiore
investitore), Apple, Amazon e Microsoft.
Come illustra la figura 2.4, grandi complessi come News Corporation e Time Warner
sono inseriti in una rete più vasta di organizzazioni mediatiche più focalizzate
regionalmente e localmente, che stanno a loro volta mettendo in atto simili strategie di
espansione e diversificazione. Queste società seguono analoghi schemi di concentrazione
proprietaria e di diversificazione. La figura 2.5 offre una panoramica per regione delle
principali proprietà delle società mediatiche chiave. Come illustrano le figure 2.4 e 2.5,
quello che Lance Bennet (2004) definisce il «second tier» di conglomerate multimediali
sta anch’esso perseguendo strategie di diversificazione, concentrazione di proprietà e
investimenti incrociati. Questi processi sono sostenuti dalla capacità della rete globale
delle reti mediatiche di influenzare condizioni locali e nazionali di produzione e
distribuzione, e viceversa.
Il globale influenza il locale
Le conglomerate globalizzate irrompono in nuovi mercati e riprogrammano efficacemente
il mercato regionale verso un formato commerciale che agevola la connessione con le sue
reti di business. Questa influenza si manifesta in numerose linee di tendenza.
Un esempio ovvio dell’influenza globale sui mercati locali dei media è l’importazione
diretta di programmazione e canali come CNN, Fox, ESPN, HBO, e altri canali mediatici
transnazionali. Secondo, le multinazionali dei media hanno contribuito a diffondere un
modello mediatico di tipo aziendale. L’introduzione dei prodotti mediatici delle
multinazionali crea ulteriore domanda per questi prodotti e spinge gli attori a valle della
catena dei media a adeguarsi ai loro comportamenti. Per esempio, i contratti della CBS
con la SABC (l’azienda di stato sudafricana). I loro programmi hanno successo e
stimolano la domanda dei consumatori. La SABC riconosce il successo di questo modello
di business e crea programmi che si basano sul modello commerciale piuttosto che su
quello del servizio pubblico, e poi li smercia a operatori mediatici minori in tutta l’Africa.
Teer-Tomaselli et al. (2006, p. 154) sostiene che «mentre i media sudafricani occupano
una posizione marginale nell’arena mediatica globale, come mercato per prodotti
mediatici di proprietà e produzione transnazionale, estendono la loro influenza (sia pure su
scala molto inferiore) come attori nel gioco dei media regionale e continentale.» Iwabuchi
(2008) identifica un trend analogo nel mercato dei media giapponese in cui le società di
media cercano attivamente di localizzare il format delle fiction televisive giapponesi per i
mercati locali di tutta l’Asia. Una volta che questi format diventano popolari, vengono
fatti ulteriormente circolare da altre società di media, come è accaduto con i produttori
televisivi coreani che hanno ricercato attivamente format televisivi giapponesi da adattare
al mercato mediatico cinese (Iwabuchi, 2008).
FIG 2.5. Mappa proprietaria dei conglomerati multimediali «di secondo strato». Dati raccolti dalle ultime proxy
statements disponibili e/o dai siti web aziendali al febbraio 2008. Il grafico comprende proprietà chiave e non
rappresenta una lista completa.
Fonte: arsenault e castells (2008a, p. 725).
Diversi studiosi hanno scritto di come format aziendali e culturali si siano diffusi dalla
sfera globale a quella locale. Thussu (1998) definisce la «murdochizzazione dei media» in
India come «il processo che comporta lo spostamento del potere dei media dal settore
pubblico alle corporation multimediali private transnazionali che controllano sia i sistemi
di diffusione sia il contenuto delle reti di informazione globali» (1998, p. 7). Questa
«murdochizzazione» è caratterizzata «dalla tendenza al giornalismo trainato dal mercato
che vive delle guerre di share e di rating; dall’influenza transnazionale di format, prodotti
e discorsi mediatici di ispirazione americana; e infine dall’enfasi sull’infotainment,
l’informazione-intrattenimento, minando il ruolo dei media di pubblica informazione.»
Lee Hartz (2007) ha analizzato la nascita di «progetti mediatici transnazionali» o di
«imprese che producono all’interno di una singola nazione ma sono di proprietà congiunta
di svariate aziende di svariate nazioni [… e] non hanno alcun vincolo di fedeltà nazionale
e mettono insieme classi capitaliste di due o più nazioni allo scopo di produrre e trarre
profitto dalle merci mediatiche» (2007, p. 148). Per esempio, il canale televisivo tedesco
Vox è di proprietà della australo-americana News Corporation (49,5 per cento), della
francese Canal Plus (24,9 per cento), e della tedesca Bertelsmann (24,9 per cento).
Terzo, gli attori mediatici globali esportano programmi e contenuti che sono prodotti
per format locali, ma tipicamente sono basati su format standard popolarizzati in
Occidente. Iwabuchi (2008, p. 148) parla di questo processo chiamandolo
«mimetizzazione locale». Spettacoli come Pop Idol, Survivor e Who Wants to Be a
Millionaire sono stati distribuiti in molti paesi e molte lingue. Viacom è stata in prima
linea nel processo di localizzazione del contenuto. Il suo motto è «pensare globalmente,
agire localmente». La sua controllata MTV (Music Television) è forse la piattaforma
mediatica più customizzata del mondo con servizi in 140 paesi e canali asiatici,
mediorientali, latinoamericani, africani ed europei in cui compaiono talenti e conduttori
locali. MTV stringe anche partnership con emittenti locali. In Cina, per esempio, MTV
sponsorizza importanti trasmissioni a premio in collaborazione con CCTV e lo Shanghai
Media Group (Murdock, 2006). Viacom ha creato anche versioni internazionali di
America’s Top Model, uno spettacolo televisivo prodotto originariamente per l’americana
UPN Network (che oggi fa parte del network CW). Top Model è stato dato in franchising
in 17 paesi, tra cui Taiwan (Supermodel #1), Turchia (Top Model Turkiye’s), Spagna
(Supermodelo), e Russia (Russia’s Next Top Model). E, pur non avendo ufficialmente il
franchising di Top Model, una televisione locale afghana ha fatto scalpore nell’autunno del
2007 quando ha lanciato la sua replica a basso costo del format.
Il locale influenza il globale
Comunque, pur controllando un numero sproporzionato di processi distributivi e
produttivi, le corporation mediatiche globali non detengono il monopolio sui mercati in
cui operano. Anzi, vi sono numerosi «controflussi» che impattano sulla forma e la
struttura delle operazioni di questi giganti dei media (Thussu, 2006).
L’esempio più ovvio di influenza locale/nazionale sulle reti mediatiche globali è quella
che si esercita tramite regulation e deregulation. L’apertura dei mercati dei media in Cina e
in India ha stimolato un’ondata di tentativi da parte delle multinazionali globali di
conquistare quei mercati. Questi stati però mantengono un forte controllo sulla struttura e i
contenuti della loro penetrazione. Per esempio, quando Microsoft e Yahoo! si sono
lanciate in Cina, hanno dovuto installare un software che filtra automaticamente parole
controverse come Tibet, Falun Gong, libertà, democrazia. In precedenza, la Star TV di
Murdoch aveva accettato di rimuovere il World Service della BBC dalla sua
programmazione per avere il permesso di entrare in Cina. Come rileva Murdock (2006), le
strategie di localizzazione delle organizzazioni mediatiche globali devono tener conto del
contemporaneo affermarsi delle strategie di globalizzazione da parte di piattaforme
mediatiche regionali. Cita l’India come l’archetipo di questo processo, dove la
globalizzazione più che come influsso della cultura occidentale si manifesta con la
diffusione di prodotti culturali indiani nella sfera globale (2006, p. 25). Analogamente,
Cullity (2004, p. 408) identifica una nuova forma di nazionalismo culturale basato sulla
attiva e consapevole indigenizzazione dei media globali (per esempio, la tradizione di
Miss India che indossa il sari nella sfilata del concorso di Miss Universo, manifestazione
di cui è proprietario Donald Trump).
Inoltre, se le conglomerate multinazionali hanno contribuito a trasmettere in tutto il
mondo la formula alla base di trasmissioni come Pop Idol e Top Model, le origini di questi
programmi sono svariate. La versione originale del Grande Fratello nasce da un ramo
produttivo indipendente di Endemol, una società di produzione televisiva olandese. Betty
La Fea, una telenovela colombiana, è andata in onda su oltre settanta mercati in tutto il
mondo sia come programma preconfezionato sia come format (vedi più avanti). In seguito
al successo di Ugly Betty nel mercato statunitense, Disney-ABC International Television
ha stretto accordi di programmazione con 13 territori in tutto il mondo, facendo di Ugly
Betty a tutt’oggi la franchise più popolare mai realizzata (World Screen 2007). Allo stesso
modo, il produttore esecutivo di Who Wants to Be a Millionaire aveva precedentemente
sviluppato un programma analogo per la ABC, che l’azienda aveva rifiutato. Solo dopo il
successo sul mercato britannico e in diversi altri mercati, lo show ha raggiunto il mercato
USA. Dunque, mentre le imprese mediatiche globali stanno cercando di introdurre loro
contenuti su mercati locali, altre organizzazioni di media mettono in atto strategie per far
circolare globalmente i loro contenuti, spesso tramite le corporation mediatiche globali
appartenenti al nucleo centrale dei media. Per esempio, la vicenda e i personaggi di Re
Leone di Disney hanno la loro origine nei manga giapponesi.
In molti mercati è in atto tra i media una consistente attività di progettazione comune,
per cui l’agenda mediatica delle aziende globali è influenzata da altre organizzazioni. Gli
studi di Van Belle (2003) e Golan (2006) dimostrano che le corporation «mediatiche
globali» dipendono da pubblicazioni d’élite chiave (non di loro proprietà) per fissare la
loro agenda delle news negli Stati Uniti. Per esempio, Golan (2006) ha rilevato che la
programmazione delle notizie per i telegiornali serali di CBS, NBC e ABC si basava sugli
articoli pubblicati la mattina dal New York Times. È per questo che l’acquisto da parte di
Murdoch della Dow Jones è cruciale – The Wall Street Journal è un elemento chiave nella
programmazione cross-media. Anche Al Jazeera, il World Service della BBC e The
Economist sono fonti fondamentali per l’agenda-setting sia sui media sia pubblica. Quindi,
non è possibile misurare l’influenza delle Magnifiche Sette in termini di puri dati d’ascolto
e/o di introiti di mercato. Queste aziende provvedono alla circolazione e al filtraggio di
contenuti prodotti internamente e da altri membri della rete dell’organizzazione dei media.
L’identità conta: i limiti della concorrenza e della cooperazione
Molte delle più grandi aziende mediatiche hanno azionisti in comune, sono proprietarie di
porzioni l’una dell’altra, hanno consigli di amministrazione incrociati (vedi tabella A2.1 in
Appendice), o sono in dipendenza reciproca per il fatturato pubblicitario (McChesney,
2008). Esistono però numerosi controesempi che illustrano che le industrie dei media
costruite intorno a identità culturali e politiche possono svilupparsi in reti pressoché
parallele.
Al Jazeera, che comprende due network internazionali (in arabo e in inglese) oltre a
diversi canali specializzati dedicati ai bambini e allo sport, è finanziata in misura
prevalente dal principe ereditario dell’emirato del Qatar. Poiché solo il 40 per cento dei
suoi introiti operativi proviene dalla pubblicità, Al Jazeera ha più spazio per l’utilizzo di
format non commerciali. Ed è in concorrenza diretta con canali come la CNN, la BBC e la
CNBC, tanto in Medio Oriente quanto per le popolazioni di lingua araba al di fuori della
regione. La presenza di Al Jazeera all’esterno del Medio Oriente, però, dipende
esclusivamente dalla sua capacità di connettersi ad altre reti mediatiche, o tramite contratti
di fornitura di contenuto e/o con il collocamento su pacchetti televisivi satellitari o via
cavo. Per esempio, la sua presenza nel continente africano è facilitata dagli accordi di
fornitura di contenuti con la SABC e la Multi-choice in Sudafrica.
L’industria cinematografica indiana, la cosiddetta Bollywood, è un altro esempio di
industria che in gran parte si è evoluta indipendentemente dalla rete globale delle reti
mediatiche. Oggi produce oltre 800 film all’anno rispetto ai 600 di Hollywood (The
Economist, 2008) e controlla una porzione significativa di imprese cinematografiche
internazionali. I film di Bollywood dipendono in grande misura da un format culturale
indiano che si discosta quasi totalmente dal format hollywoodiano. Le strutture di
collaborazione tra Bollywood e Hollywood, però, si stanno intensificando. Nel novembre
2007, Sony Pictures Entertainment ha realizzato la sua prima produzione bollywoodiana,
Saawariya, un film che è costato 10 milioni di dollari e ne ha incassati 20. Viacom, tramite
il suo ramo Viacom 18, possiede congiuntamente alla società mediatica indiana TV18 la
Indian Film Company. I cineasti di Bollywood ricorrono con sempre maggior frequenza
anche alle promozioni incrociate e ai prodotti tie-in popolarizzati dagli studi di Holly
wood per incrementare gli introiti.
L’industria cinematografica nigeriana, detta Nollywood, produce oltre 1000 film
all’anno, incassa annualmente 2,75 miliardi di dollari, ed è ormai la terza industria
cinematografica mondiale (UNCTAD, 2008, p. 5). Tipicamente, i film di Nollywood sono
realizzati pensando al mercato interno nigeriano e sono prodotti nelle più diffuse fra le 250
lingue tribali della Nigeria e in inglese (il 65 per cento del mercato d’esportazione). Il
successo dell’industria è nato grazie a un pool di talenti creativi e a un format produttivo a
basso costo che non necessita di grandi disponibilità finanziarie da parte di chi inizia
l’attività. L’economicità dei costi di produzione offre alti utili sul capitale investito. Questi
film sono di norma girati su video in un arco di due settimane e poi distribuiti su video
cassette vendute in tutto il paese (Marston et al., 2007). Nollywood è un esempio di
industria che ha prosperato sviluppando un mercato principalmente nazionale basato su un
format mediatico che non è immediatamente esportabile all’estero. Ma il successo dei film
di Nollywood ha richiamato l’interesse delle conglomerate multinazionali. Nel 2007, Time
Warner e Comcast hanno formato una partnership con IAD per distribuire i film di
Nollywood. Inoltre, membri del governo nigeriano e dell’industria cinematografica
corteggiano attivamente gli investitori di Hollywood. Nel 2006, esponenti dei media e
funzionari governativi hanno invitato a Los Angeles membri della comunità del cinema da
tutti gli Stati Uniti per «The Nollywood Foundation Convention 2006: African Cinema
and Beyond» allo scopo di richiamare una maggiore attenzione da parte del pubblico e
degli investitori internazionali. Così, anche se si tratta di industrie mediatiche e di
operatori che hanno avuto successo indipendentemente dal nucleo delle reti dei media
globali, queste industrie stanno cominciando a stringere legami più stretti con la rete
globale per aumentare gli utili e ampliare la quota di audience.
Passare da una rete all’altra
Le reti mediatiche non esistono nel vuoto. Il loro successo dipende dalla capacità di
attivare efficacemente connessioni con altre reti critiche come quelle della finanza, della
tecnologia, dell’industria culturale, dell’industria pubblicitaria, dei fornitori di contenuto,
delle agenzie di regolamentazione e degli ambienti politici in generale. Il business
mediatico si connette con altre reti mediante molteplici meccanismi. Tra questi,
l’affiliazione incrociata di amministratori e dirigenti è forse il meccanismo più facile da
documentare. La tabella A2.1 in Appendice offre una panoramica delle affiliazioni a
livello globale di dirigenti chiave e di membri dei consigli di amministrazione delle
società multimediali e dei giganti di Internet.
Reti finanziarie
L’intreccio dei consigli di amministrazione e delle direzioni è solo una delle componenti
di queste connessioni. Il consolidamento e l’espansione della rete mediatica globale
dipende anche da numerose altre connessioni con reti non mediatiche, che a loro volta
attivano anch’esse le loro connessioni con le organizzazioni dei media. Così, la
connessione alle reti finanziarie è una componente essenziale delle reti dell’industria dei
media. La tabella A2.1 in Appendice mostra le connessioni personali tra le reti finanziarie
e le reti del business mediatico. I consigli di amministrazione delle multinazionali dei
media sono pieni di individui che siedono come amministratori nei consigli di altre grandi
multinazionali non mediatiche, banche d’investimento e private equity firms, e/o rivestono
posizioni importanti in organizzazioni come il NASDAQ e la Borsa di Wall Street. Queste
interconnessioni non sono prive di conseguenze. Nel suo proxy statement del 2007, per
esempio, Time Warner riferiva di aver condotto transazioni con un numero significativo di
società cui erano affiliati anche membri del proprio consiglio di amministrazione. Anche
se il ruolo specifico di ciascun membro del consiglio nel favorire queste transazioni è
difficile da documentare, è chiaro che questa interconnessione di amministratori non è
priva di conseguenze.
I business mediatici e i relativi settori di attività sono una componente significativa
delle reti del capitale finanziario. Nel 2007, un quinto delle maggiori aziende del mondo in
termini di capitalizzazione di mercato secondo la classifica di The Financial Times erano
società di media, Internet o telecomunicazioni 11. La produzione di hardware e software
per sostenere la distribuzione e il consumo dei prodotti mediatici è tra le maggiori
industrie del mondo. Anche se la stampa popolare abitualmente si concentra sulla
leadership di queste multinazionali mediatiche (per esempio Rupert Murdoch come CEO
della News Corporation e Sumner Redstone come proprietario di maggioranza di CBS e
Viacom), anche un certo numero di organizzazioni non mediatiche detiene significative
partecipazioni in queste aziende (per una lista dei maggiori investitori istituzionali in
queste attività vedi la tabella A2.2 in Appendice). AXA, una compagnia di assicurazioni
francese, per esempio, detiene una quota significativa sia in Yahoo! (0,8 per cento) sia in
Time Warner (5,79 per cento), e Fidelity ha un’importante partecipazione in Google e in
News Corporation.
Tra il 2002 e il 2007 le organizzazioni mediatiche sono state sostenute da un
significativo afflusso di investimenti da ditte di private equity e venture capital per
finanziare le loro fusioni e acquisizioni. Nel solo 2007 i fondi di private equity hanno
investito 50 miliardi di dollari in proprietà mediatiche (Malone, 2007). Così, non
sorprende che le direzioni delle società mediatiche globali siano piene di individui con
strette connessioni con i fondi di private equity come la Bank of America (che gestisce un
fondo di investimento da 2 miliardi di dollari), Highpoint Capital Management, e
Templeton Emerging Markets Investments.
I business mediatici costituiscono un’attrattiva particolarmente allettante per gli
investitori privati perché in linea di massima richiedono un basso immobilizzo di capitale
e generano alti utili. Questi investitori di norma cercano di massimizzare il rendimento
sugli investimenti 12, ma non svolgono alcuna funzione nelle operazioni giornaliere dei
loro investimenti mediatici. L’intervento di questi investitori privati in fusioni e
acquisizioni di media può però avere un ruolo cruciale nel loro successo o fallimento. La
riuscita offerta della Sony per la Metro-Goldwyn-Mayer nel 2004, per esempio, è stata
finanziata dalla Providence Equity Partners e dal Texas Pacific Group, mentre l’offerta del
Grupo Televisa per il canale USA in spagnolo Univision è fallita quando è mancato
l’appoggio di due società di private equity, Blackstone Group e Kohlberg Kravis Roberts.
Reciprocamente, gli attori di potere appartenenti all’élite dell’intrattenimento globale
partecipano alle iniziative delle private equity firm e del capitale di rischio che investono
in attività sia mediatiche sia non relative ai media. Per gli investimenti, Bill Gates usa una
private equity firm personale, la Cascade Investments. Questa società ha partecipazioni in
Gay.com, Planet Out, Groupo Televisa, e ha partecipato alla fallita scalata della Univision
nel 2007. Il suo portafoglio di 4 miliardi di dollari comprende molte imprese non
mediatiche e di tecnologia, come la Canadian National Railway, la Bekshire Hathaway e i
Six Flags Amusement Parks (United States SEC, File 28-05149). Nel 2006 la Cascade
Investments ha partecipato anche a una joint venture con Kingdom Holdings per
l’acquisto della catena di alberghi Four Seasons. E nell’aprile 2007, per ampliare le sue
proprietà, Bertelsmann ha dirottato il 10 per cento del budget destinato alle acquisizioni in
un private equity group da 1 miliardo di dollari messo insieme a Citigroup Privare Equity
e Morgan Stanley Principal Investment.
L’importanza dell’accesso al capitale privato non è esclusiva delle Magnifiche Sette.
Imprese come Blackstone, Cisco e 3i hanno investito pesantemente nelle produzioni
cinematografiche di Bollywood. Inoltre, società indiane come l’Indian Film Company e
altre corporation hanno raccolto liquidità sul British Alternative Investment Market (AIM)
per finanziare propri progetti. Per fare un altro esempio, il ramo del capitale di rischio
dell’Abu Dhabi Group con sede negli Emirati Arabi Uniti ha fatto un importante
investimento nel gruppo Arvada Middle East Sales di Bertelsmann per mettere in piedi un
business dell’intrattenimento digitale a livello regionale.
L’industria della pubblicità
L’industria della pubblicità è un’altra rete decisiva che si connette con le reti del business
mediatico. Le società mediatiche dipendono dalla propria capacità di connettersi
all’industria pubblicitaria globale. Nel solo 2007, le grandi aziende (comprese quelle
governative) hanno speso 466 miliardi di dollari in pubblicità (US Optomedia, riportato in
Future of Media Report 2007 [Future Exploration Network, 2007]) 13. L’industria della
pubblicità comprende oltre alle agenzie pubblicitarie anche servizi di graphic design, di
display advertising e rappresentanti dei media (IBIS, 2008). L’accesso alla rete
pubblicitaria può determinare il successo o il fallimento di un’organizzazione mediatica.
Non è un caso che un gran numero delle affiliazioni che compaiono nella tabella A2.1 in
Appendice siano corporation collocate tra i maggiori acquirenti di spazio pubblicitario
(queste organizzazioni sono presentate in corsivo). Anche l’industria cinematografica, che
storicamente si basava sugli incassi al botteghino, dipende sempre di più dai prodotti di
consumo tiein e dalle promozioni incrociate (Hesmondhalgh, 2007, p. 196). Questo
processo è ulteriormente complicato dal fatto che le conglomerate multimediali sono tra i
maggiori acquirenti mondiali di spazi pubblicitari. Time Warner, Disney, GF (azienda
madre di NBC), News Corporation, Viacom e Microsoft sono tra i primi 100 compratori di
pubblicità a livello globale. IBIS (2008) calcola che i media di intrattenimento sono la
terza maggiore base di domanda per l’industria della pubblicità, costituendo il 16 per
cento del fatturato totale del settore.
La diversificazione delle reti mediatiche condiziona i mutamenti nella spesa
pubblicitaria, e viceversa. Le multinazionali sono state in competizione per entrare nel
mercato dei media cinesi, perché la Cina è uno dei mercati pubblicitari che sta crescendo
più rapidamente, stimato in un valore di 14 miliardi di dollari per il 2007 (Gale, 2008).
Reciprocamente, gli inserzionisti sono attirati dal mercato cinese proprio perché
attualmente qui è disponibile un maggior numero di meccanismi di erogazione.
L’industria pubblicitaria è diventata anche sempre più concentrata. Le agenzie più
importanti sono in maggioranza di proprietà di quattro grandi holding mediatiche: WPP
Group, Interpublic Group of Companies, Publicis Groupe, e Omnicom Group (IBIS,
2008). Oltre a possedere la maggioranza delle agenzie di pubblicità e di marketing del
mondo, questi gruppi hanno anche diversificato i loro investimenti acquistando tecnologie
di distribuzione su Internet che attraggono gli inserzionisti dell’industria dei media e
dell’intrattenimento. Nel 2007, il gruppo WPP, per esempio, ha acquistato 24/7
RealMedia, una società di marketing specializzata in motori di ricerca; Schematic,
un’agenzia pubblicitaria interattiva sul web; e BlastRadius, una società specializzata in
pubblicità sui social network. Le reti mediatiche forniscono così piattaforme su cui altre
corporation promuovono i loro interessi commerciali, veicoli per la pubblicità, e fonti
cruciali di clienti per le vendite di spazi pubblicitari.
Internet, reti di comunicazione wireless e reti mediatiche
Internet e le reti wireless hanno fornito alle conglomerate dei media nuovi mercati per la
pubblicità, ma sono anche spazi aspramente contesi. All’ingresso degli attori mediatici
globali in Internet è corrisposto lo sforzo di rimercificare media e informazioni che
affluiscono dalla cultura della convergenza. Inoltre, YouTube, Facebook, MySpace e altre
simili proprietà online stanno probabilmente emergendo come punti critici di connessione
tra reti mediatiche, reti autonome di autocomunicazione di massa, interessi commerciali
(inserzionisti) e attori politici (che vorrebbero filtrare o introdurre contenuti su tutte queste
reti).
Nel 2008 Google era la più grande società mediatica del mondo per valore azionario,
ma aveva un utile annuo molto minore di quelli degli altri giganti della multimedialità. Il
raggio globale di Google, Microsoft, Yahoo! e delle loro numerose partnership con società
regionali mediatiche e di Internet, non permette di considerare separatamente i giganti
globali di Internet. Inoltre, risulta che le loro iniziative stanno sempre di più fissando
l’agenda di altri giganti multimediali che dispongono di minori proprietà online. Ora che
Google possiede YouTube, Yahoo! possiede Xanga e Microsoft ha una partecipazione in
Facebook, queste imprese controllano nodi critici tra la sfera mediatica e la sfera online.
Tutti i maggiori attori stanno cercando di capire in che modo riportare nell’alveo
commerciale l’autocomunicazione di massa autonoma basata su Internet. Stanno facendo
esperimenti con siti che vivono di pubblicità, con siti a pagamento, con portali di video
streaming gratuiti, e con portali a pagamento.
Con il crescere della quantità dei prodotti mediatici che vengono distribuiti e consumati
online e si intrecciano con il social networking e con altri contenuti online generati dagli
utenti, il comportamento del singolo utente ha finito per svolgere un ruolo più centrale
quale elemento trainante della pubblicità. I motori di ricerca sono ormai configurati in
modo da introdurre una tacita, benché non necessariamente consapevole, partecipazione
dell’utente finale. Gli osservatori mettono in evidenza la crescente importante della
«googlarchia», la collocazione cioè nella lista dei risultati di una ricerca online (Hindman
et al., 2003). Per determinare l’ordine dei risultati della ricerca, Google, Yahoo! e altri siti
web usano una combinazione di rilevanza delle parole chiave, popolarità dei termini di
ricerca, link ad altri siti, e comportamento degli utenti finali. Più sono gli utenti che
seguono un determinato link, più la posizione di questa fonte sale nella googlarchia. In
questo modo gli utenti dei motori di ricerca consumano informazioni e
contemporaneamente contribuiscono a determinare l’accessibilità e il predominio di quella
fonte di informazioni per altri utenti nella sfera di Internet. Questo scatena un effetto
domino. Ci sono tutte le probabilità che gli utenti clicchino su uno dei link presenti nelle
prime pagine dei risultati. La rilevanza quindi genera rilevanza. Per esempio, chi cerca
argomenti riguardanti l’Africa fa scarso uso di fonti africane in quanto queste non si
trovano nella prima schermata di risultati. Solo gli utenti più sofisticati possono
raggiungere fonti a cui i criteri programmati da Google non assegnano una collocazione
alta.
Partnership strategiche tra aziende mediatiche e Yahoo!, Google, Microsoft e molti dei
più diffusi motori di ricerca stanno tentando di agganciare il comportamento degli utenti
per massimizzare gli utili pubblicitari. Nel 2007, per esempio, News Corporation ha
firmato un contratto da 900 milioni di dollari con Google per fornire search advertising
mirata per le sue proprietà in Internet.
Le tecnologie del Web 2.0 hanno messo i consumatori in grado di produrre e distribuire
i propri contenuti. Il successo contagioso di queste tecnologie ha spinto organizzazioni di
media a mettere le mani sul potere produttivo dei consumatori tradizionali. Quasi ognuna
delle maggiori organizzazioni di informazioni offre ai visitatori dei loro siti l’opportunità
di caricare contenuti che, se abbastanza interessanti, saranno mandati online, e cresce il
numero dei programmi televisivi che presentano contenuti generati dagli utenti (per
esempio iReport della CNN e Web Junk 2.0 di VHI). Analogamente i giornali ora citano e
utilizzano membri della blogosfera come fonti di notizie di punta, politiche e sociali.
Questa dissoluzione di confini ha facilitato l’instaurarsi di quello che Thomas McPhail
(2006) definisce un «paradigma del caos» nella comunicazione internazionale.
Reti di offerta e network multimediali
Le reti di fornitori sono fondamentali per l’attività delle reti multimediali. Queste
comprendono, tra l’altro, le agenzie di stampa, le agenzie di talenti e le reti lavorative. La
corporatizzazione dei media ha incoraggiato l’introduzione di misure per ridurre i costi
quali la chiusura degli uffici regionali e internazionali e lo snellimento delle procedure
giornalistiche. Agenzie di stampa come Reuters, Bloomberg, Associated Press e World
Television News diventano così fornitori fondamentali di notizie per gran parte delle
attività mediatiche in tutto il mondo (Klinenberg, 2005). Wu (2005), per esempio,
evidenzia come le agenzie di stampa siano elemento determinante per la copertura
internazionale di CNN e del New York Times.
Poiché l’utilità delle agenzie di stampa è valutata in base alla globalità del loro raggio
d’azione, il settore è nelle mani di un piccolo gruppo di operatori storicamente consolidati:
Associated Press, Getty Images, Bloomberg, Dow Jones, Reuters e Agence France Press
controllano il 70 per cento del mercato globale delle notizie (IBIS, 2007b, p. 17). Dal
2000, questi nuovi consorzi hanno ampliato la loro presenza internazionale per rispondere
alla accresciuta domanda dei loro prodotti. La convergenza digitale ha espanso la
domanda del loro contenuto collettivo mentre i giornali cercano di mantenere ciascuno
una sua versione online dinamica e continuamente aggiornata. I margini di profitto delle
agenzie di stampa seguitano a crescere. Getty Images, per esempio, ha raccolto un
fatturato di 484,8 milioni di dollari nel 2000, raddoppiandolo quasi nel 2006 (807,3
milioni; IBIS, 2007, p. 21). Inoltre, televisione, riviste e radio stanno facendo un uso
sempre più intenso di servizi di informazione digitali (IBIS, 2007b, p. 28). Queste
organizzazioni stanno diversificando i loro contenuti con immagini e video per provvedere
alle esigenze di queste piattaforme.
La connessione con autori, attori, artisti e altri professionisti creativi è anch’essa
essenziale per il successo del business mediatico. Nei soli Stati Uniti, la rete delle agenzie
per artisti, atleti e intrattenitori rappresenta un’industria da 6 miliardi di dollari l’anno
(IBIS, 2007a). Le perdite finanziarie provocate dagli scioperi proclamati nel 2007-2008
dalla Writers Guild of America (WGA) ha mostrato quanto siano importanti queste reti per
il successo complessivo dei business dei media. Lo sciopero ha bloccato la produzione di
tutti i maggiori programmi di fiction televisiva e ha portato alla cancellazione di numerosi
eventi in diretta. Non meno importante è la capacità di influenzare le reti che producono e
alimentano l’infrastruttura fisica della produzione e della distribuzione mediatica. Nel
2006 la produzione di apparecchiature per trasmissioni radiofoniche e televisive, per il
solo mercato USA, ha toccato un fatturato annuo di 38 miliardi di dollari.
Oltre a quelle citate qui, esistono numerose altre reti che hanno una stretta connessione
con l’industria mediatica. Per esempio, come sosterrò più avanti, la capacità di connettersi
con gli attori politici che hanno influenza sulla regolamentazione delle reti, dei media e
delle telecomunicazioni è un fattore determinante perché le aziende mediatiche possano
espandersi e cogliere economie di scala e di sinergia. Così, lo sviluppo e la prosperità delle
reti mediatiche globali dipendono non solo dalla loro capacità di configurare le reti interne
e di espandere il proprio mercato e le reti dei fornitori, ma anche dalla capacità di istituire
commutatori che assicurino la loro connessione a reti cardine in altre aree dell’economia,
della politica e della società in senso lato. La configurazione di vecchie e nuove imprese
mediatiche e società di comunicazione dipende in ultima analisi dalla politica delle
politiche di regolamentazione.
La politica delle politiche di regolamentazione
La trasformazione tecnologica e culturale della comunicazione nella società è stata
incanalata e modellata da strategie di business che hanno portato alla formazione di un
sistema di business multimediale globalmente retificato, secondo l’analisi che abbiamo
presentato nella sezione precedente. Il processo di formazione di questo sistema di
business, però, è stato reso possibile e condizionato dall’evoluzione delle politiche di
regolamentazione in tutto il mondo. In effetti, la comunicazione nella società è una pratica
regolata da istituzioni politiche in ogni paese a causa del ruolo essenziale che essa svolge
sia nell’infrastruttura sia nella cultura della società. Nell’evoluzione della comunicazione,
non esiste una necessità tecnologica o una determinazione spinta dalla domanda. Mentre la
rivoluzione nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è una componente
fondamentale della trasformazione in corso, le sue conseguenze concrete nell’ambito della
comunicazione dipendono da decisioni politiche che risultano dai dibattiti e dai conflitti
tra gruppi di interessi commerciali, sociali e politici che cercano di fissare il regime
normativo all’interno del quale le corporation e gli individui operano. Per esempio, Wu
(2007), nella sua analisi delle strategie degli operatori della comunicazione wireless negli
Stati Uniti, ha mostrato come le strategie di integrazione verticale, che nelle intenzioni
avrebbero dovuto mantenere uno stretto controllo sulle loro reti, in realtà ostacolavano
l’innovazione tecnologica, riducevano la gamma delle applicazioni, e alla fin fine
limitavano l’espansione delle reti, indebolendo così la capacità di aggiungere valore alle
reti. Gli interessi del business, non la tecnologia o il servizio pubblico, spesso sono gli
attori caratterizzanti nello spiegamento delle reti di comunicazione. Non è una regola
ferrea. Dipende tutto dall’interazione tra attori sociali che sta alla base del processo
decisionale riguardo alle linee politiche.
Dalla metà degli anni Ottanta al primo decennio del XXI secolo si è assistito a
movimenti tettonici nella normativa sulla comunicazione, sia pure con diversi
orientamenti ed enfasi in relazione alla cultura e alla politica di ciascun paese. Ma, nel
complesso, la tendenza dominante è andata in direzione delle politiche di liberalizzazione,
privatizzazione e deregulation dei settori radiotelevisivo e delle telecomunicazioni.
È utile differenziare tra quattro principali campi di regolamentazione della
comunicazione: le trasmissioni radiotelevisive (broadcasting), la stampa cartacea, Internet
e le reti di telecomunicazione. Tra i quattro settori esiste un rapporto di reciprocità, e la
loro convergenza ha dato vita al sistema di comunicazione digitale. D’altra parte, poiché le
agenzie di regolamentazione hanno una loro storia pregressa, le linee politiche si sono
sviluppate in maniera differente in ciascuno di questi quattro ambiti. Inoltre, vi sono
almeno tre diverse aree di regolamentazione che sono trasversali ai quattro ambiti citati
sopra, e cioè: regolamentazione del contenuto, compresa l’imposizione dei diritti di
proprietà intellettuale; regolamentazione della proprietà; e regolamentazione del servizio
per operatori ed emittenti (per esempio il servizio universale di telefonia, l’accesso non
discriminatorio alle reti dei gestori, e così via).
Vediamo che la faccenda è ulteriormente complicata se adottiamo una prospettiva
globale perché il regolatore è un attore plurale, in quanto differenti istituzioni assumono
specifiche responsabilità in ciascuno di questi quattro ambiti e di queste tre aree. Persino
negli Stati Uniti, dove una authority presumibilmente indipendente come la Federal
Communication Commission (FCC) ha responsabilità tanto per il broadcasting quanto per
le telecomunicazioni (a differenza, per esempio, di quanto accade nella maggioranza dei
paesi europei), la governance su Internet era originariamente sotto la giurisdizione del
Dipartimento della Difesa, ed è oggi responsabilità del Dipartimento del Commercio; la
regolamentazione della proprietà delle società mediatiche e di Internet ricade parzialmente
sotto la legislazione antitrust di competenza del Dipartimento di Giustizia; e la
sorveglianza dell’attività è condotta dalla Homeland Security Agency, mentre il Congresso
cerca di legiferare su una varietà di temi (come il fallito tentativo di imporre la censura in
Internet con il Communication Decency Act del 1996) e i tribunali intervengono in ultima
istanza per risolvere il crescente numero di conflitti derivanti dall’applicazione delle linee
politiche sulla comunicazione. A rendere la questione ancora più complessa, in Europa la
Commissione Europea ha giurisdizione sulle telecomunicazioni nazionali e le imprese
mediatiche, e la governance di Internet si ritiene debba essere globale, dal momento che
Internet è una rete globale di reti di computer.
Un’analisi di questo complesso insieme di istituzioni, politiche e pratiche normative
travalica i limiti di questo libro, e in effetti non è necessaria perché esistono diversi
eccellenti studi sull’argomento (Price, 2002; Wilson, 2004; Goldsmith e Wu, 2006;
International Journal of Communication, 2007; Klinenberg, 2007; Rice, 2008; Terzis,
2008; Cowbey e Aronson, 2009). Ma è il caso di puntualizzare il processo normativo e di
regolamentazione che, pervadendo le pratiche comunicative odierne, dà forma all’attuale
sistema della comunicazione digitale multimodale. Userò gli Stati Uniti come campione
per la mia analisi prima di ampliare il ragionamento in riferimento ad altri contesti.
L’evoluzione delle politiche di regolamentazione negli Stati Uniti: le telecomunicazioni, la
proprietà intellettuale e Internet
Negli Stati Uniti, si sono avuti tre momenti cardine nell’evoluzione della deregulation
regolamentata sulle comunicazioni nell’età digitale. Il primo è stato nel 1984 con lo
smembramento del monopolio di AT&T nelle telecomunicazioni, che ha aperto la porta alla
concorrenza manovrata nei settori della comunicazione, preservando al tempo stesso i
monopoli locali per gli operatori via cavo. Di conseguenza, le cosiddette «Baby Bells»,
originariamente installate in diversi mercati regionali, sono diventate potenti attori
nazionali e globali dediti a un’intensa attività di lobby presso il Congresso e l’FCC al fine
di affermare il proprio controllo sull’«ultimo miglio» (oggi ribattezzato «primo miglio» da
corporation come Verizon) in accesa concorrenza con le compagnie via cavo, prima che la
regolamentazione permettesse le partnership tra i due settori. La diffusione relativamente
lenta della banda larga negli Stati Uniti è dipesa in parte da questo originario conflitto tra
compagnie via cavo e operatori telefonici, che ha portato a fallimenti
dell’interconnessione a livello nazionale e locale.
La seconda misura legislativa chiave è stato il Telecommunications Act del 1996, che
ha drasticamente ridotto le restrizioni sulla concentrazione proprietaria nelle industrie
mediatiche. Come diretta conseguenza di questa legge, si è assistito a una corsa alle
fusioni societarie, con la formazione di oligopoli multimediali, in particolare nelle
maggiori aree metropolitane, come abbiamo documentato nella sezione precedente di
questo capitolo. Questa concentrazione di proprietà ha toccato televisione, radio e stampa,
anche se in quest’ultimo caso il processo di concentrazione precede l’Act del 1996. Per
esempio, nel 1945, i quotidiani americani erano posseduti privatamente per l’80 per cento,
spesso da famiglie. Nel 2007 più dell’80 per cento dei quotidiani erano di proprietà di
corporation, nella maggior parte sussidiarie di grandi gruppi multimediali (Klinenberg,
2007, p. 31). Inoltre, la legge del 1996 autorizzava fusioni e alleanze tra società di diversi
segmenti dell’industria (per esempio, tra operatori di telecomunicazioni e società
mediatiche, comprese le società di Internet), aprendo così la strada al sistema di
comunicazione commerciale interconnesso che è emerso all’inizio del XXI secolo. L’Act
del 1996 era importante anche perché ribadiva l’obbligo degli operatori di permettere la
condivisione della rete a pari condizioni per tutti gli utenti (la cosiddetta politica dello
spacchettamento). Questo limitava la capacità delle nuove megacorporation risultanti dalle
fusioni autorizzate ad appropriarsi a loro vantaggio della rivoluzione tecnologica.
In termini di contenuto dei media, l’FCC ha tradizionalmente mantenuto un basso
profilo per evitare di interferire con il principio della libertà di espressione garantito dal
Primo Emendamento, anche se invitava alla discrezione per proteggere i bambini da
programmi dannosi e per limitare la trasmissione di pornografia. Il Congresso e il
governo, però, sono diventati molto più agguerriti in fatto di controllo dei contenuti di
Internet. La motivazione chiave del Communication Decency Act del 1996 era la
prevenzione della pedopornografia online. Ma dopo che i tribunali hanno respinto le
disposizioni della legge relative al controllo della libera comunicazione in Internet, i
tentativi di censura sono andati affievolendosi fino al 2001, quando la minaccia del
terrorismo ha agevolato l’emanazione di nuove norme legislative che autorizzavano la
sorveglianza governativa di Internet e il controllo della diffusione di determinati tipi di
informazioni. Questo proposito si è rivelato praticamente impossibile da realizzare, come
mostra la proliferazione dei proclami di Bin Laden e la comparsa in rete di materiale di
altri gruppi terroristi.
Quella che è diventata la questione più importante in termini di controllo dei contenuti
in Internet è stata l’imposizione di leggi sul copyright, tecnologicamente obsolete, sul
materiale digitalizzato circolante nel web, in particolare tramite le reti p2p. Sotto le
incessanti pressioni dell’industria mediatica e culturale, il Congresso ha varato una
legislazione che estende ed espande la protezione del copyright, e i tribunali sono stati
usati come una barriera contro la cultura della condivisione e del remixing che era fiorita
in Internet. Anzi, il Digital Millennium Copyright Act del 1998 rappresentava una seria
minaccia alla cultura del remix che costituisce il cuore della creatività nell’età digitale.
Nonostante il suo effetto intimidatorio sugli utenti della rete, questo arsenale legislativo
non è riuscito a prevenire l’insurrezione di massa degli utenti/produttori di contenuti (a
decine di milioni) contro quello che era percepito come il sequestro della libera cultura
digitale da parte degli oligopoli mediatici (Lessing, 2004; Benkler, 2006; Gillespie, 2007).
Chiamando al soccorso la tecnologia, l’industria dell’intrattenimento ha sviluppato un
nuovo sistema di «management dei diritti digitali» (Digital Rights Management, DRM)
per impedire la riproduzione non autorizzata di materiale. Ma il DRM limita soltanto una
minima parte delle presunte infrazioni perché non impedisce la crescita delle reti p2p, né
blocca il posting di materiale remixato su YouTube e altri siti del Web 2.0 con milioni di
utenti e produttori di contenuti.
L’improvvisata evoluzione della regolamentazione e della gestione di Internet
rispecchia l’accidentale maturazione di Internet in quanto «commons»; bene comune
comunicazionale della società in rete (Abbate, 1999; Castells, 2001; Movius, di prossima
pubblicazione). Al suo apparire nel 1969, ARPANET, il predecessore di Internet, era un
progetto sperimentale di collegamento tra computer che aveva origine nel DARPA,
l’agenzia di ricerca del Dipartimento della Difesa USA, ed era gestito quasi interamente
dagli scienziati e i tecnici che l’avevano creato. Nel 1970 il Dipartimento della Difesa offrì
di trasferirne l’uso e la proprietà ad AT&T. Dopo averne soppesato l’opportunità per
qualche settimana, AT&T, non riuscendo a individuare alcun interesse commerciale in
ARPANET, declinò l’offerta (Abbate, 1999). Grazie a questa monumentale miopia di
AT&T, e all’incapacità di Microsoft di cogliere l’importanza di Internet, il mondo è
diventato oggi quello che è. E c’è chi parla di determinismo tecnologico.
Nel 1984, mentre la rete di Internet si sviluppava e cominciava a essere utilizzata in
tutto il mondo, DARPA e i più eminenti progettisti di Internet, istituirono l’Internet
Activities Board costituito da un certo numero di diverse task force. Una di queste divenne
l’Internet Engineering Task Force (IEFT) creata nel 1986 per gestire lo sviluppo degli
standard tecnici di Internet. Le decisioni dell’IETF venivano prese su base consensuale e
coinvolgevano una ampia varietà di individui e di istituzioni. In linea di massima Internet
emergeva in un vuoto legislativo, con scarsa supervisione da parte delle agenzie di
regolamentazione, FCC compresa. Le agenzie che venivano create si sviluppavano su
punti ad hoc per risolvere le necessità degli utenti della rete. La decisione più cruciale fu
quella di istituire un sistema coerente per assegnare i domini e gli indirizzi IP, un sistema
che organizzasse il traffico in Internet in modo che i pacchetti raggiungessero gli indirizzi
designati. Fu essenzialmente un’operazione in solitario, intrapresa alla metà degli anni
Ottanta da Jon Postel, professore di ingegneria alla University of Southern California, e
uno dei primi co-progettisti di Internet. Questi formulò il sistema sotto contratto con
DARPA e in connessione con lo Stanford Research Institute (SRI, non affiliato alla
Stanford University). L’organizzazione risultante divenne nota collettivamente come
l’Internet Assigned Names Authority (IANA). Postel amministrava gli stanziamenti che il
governo USA assegnava alla IANA per mantenere le sue liste di numeri di riferimento
univoci. Sebbene i root server della IANA fossero mandati avanti su base volontaria da
tredici diverse organizzazioni, era Postel a prendere, dal suo ufficio all’USC, la maggior
parte delle decisioni tecniche. Che una sola persona, senza profitto finanziario per se
stessa, e senza un diretto controllo da parte di un’autorità superiore, abbia creato il sistema
dei domini di Internet senza contestazioni, grazie alla fiducia riposta in lui dalla comunità
degli utenti, è uno degli eventi più straordinari dell’Età dell’Informazione.
Nel 1992, la National Science Foundation (NSF) aveva assunto la responsabilità del
coordinamento e finanziamento della gestione di Internet, lasciando le piccole componenti
militari della rete sotto la giurisdizione del Dipartimento della Difesa. Nel 1993, la
National Science Foundation appaltò l’amministrazione del Domain Name System (DNS)
alla società privata statunitense Network Solutions, Inc. (NSI), anche se Postel ha
continuato a svolgere un suo ruolo fino al 1998, quando è morto di cancro all’età di 55
anni. Poi, nel 1998, allo scadere del contratto dell’NSI con l’NSF, e senza la presenza di
Postel che agisse come fidato garante dell’assegnazione degli indirizzi IP, sono cresciute le
pressioni per formalizzare la gestione istituzionale di Internet. La controversia che ne è
seguita ha portato la IANA e l’organizzazione autonoma creata dalla prima comunità di
utenti – l’Internet Society (ISOC), presieduta da un altro fidato «padre di Internet», Vin
Cerf – a organizzare l’International Ad Hoc Committee (IAHC) per risolvere questioni di
gestione del DNS. L’invenzione del World Wide Web e la libera diffusione del suo
programma di web server da parte del suo creatore Tim Berners-Lee nel 1990 ha fornito il
fondamento tecnologico per lo sviluppo di un’Internet user-friendly. Diventando Internet
un’opportunità immensamente remunerativa per gli investimenti del business, il 1o luglio
1997 il presidente Clinton diede indicazione al segretario del Commercio di privatizzare il
DNS, in modo da aumentare la concorrenza e facilitare la partecipazione internazionale
alla sua gestione. Il Dipartimento del Commercio USA applicò la direttiva e istituì
l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) nel novembre 1998.
Appena Internet fu riconosciuta come una forma straordinariamente importante di
comunicazione retificata, con un’ampia gamma di potenziali applicazioni, gli appetiti
delle imprese per la sua commercializzazione crebbero in misura esponenziale. Ma la
storia, la cultura e l’architettura di Internet rendevano difficile appropriarsene
privatamente o regolarla esclusivamente a favore dei profitti commerciali. Inoltre,
trattandosi di una rete mondiale, e poiché era precisamente questa una delle maggiori
attrattive per gli utenti come per il business, il Dipartimento del Commercio dovette
cedere parte del controllo a enti di regolamentazione internazionali e alla comunità degli
utenti, cosa che condusse nel 2000 a un evento senza precedenti, l’elezione elettronica del
consiglio di amministrazione dell’ICANN da parte di più di 200.000 utenti di Internet
registrati, un’espressione di partecipazione di base nonostante la mancanza di
rappresentatività di questo elettorato. Una coalizione formata da un’attiva comunità di
utenti, operatori delle libertà civili e tribunali statunitensi, divenne il guardiano
dell’autonomia di Internet, così che gran parte di Internet rimaneva un vasto spazio sociale
di sperimentazione, scambio sociale ed espressione culturale autonoma. Ogni tentativo di
addomesticare o parcellizzare Internet fu contrastato con una tale determinazione che
governi e corporation dovettero imparare a usare Internet a loro vantaggio senza
soffocarne lo sviluppo autonomo. Non solo il genio era uscito dalla bottiglia, ma il
patrimonio genetico del genio rifiutava l’imprigionamento di questa nuova libertà di
comunicazione, e questo per deliberato disegno dei suoi creatori, esemplificato dalla
decisione di Tim Berners-Lee di rilasciare liberamente il software del World Wide Web.
Quando però nel primo decennio del XXI secolo l’espansione della banda larga e la
nascita del Web 2.0 aprirono nuove opportunità di profitto, venne introdotto un nuovo
insieme di politiche di regolamentazione miranti all’appropriazione privata non di Internet
in sé ma dell’infrastruttura reticolare su cui Internet si basa.
Recintare i commons dell’Età dell’Informazione (o almeno provarci)
Il terzo maggior passo verso la creazione di un nuovo ambiente normativo per la
comunicazione negli Stati Uniti si è verificato nel primo decennio del XXI secolo: una
serie di disegni di legge approvati al Congresso e di decisioni adottate dalla Federal
Communications Commission (FCC) che riscrivevano le misure dell’Act del 1996, in tal
modo permettendo alle società di investire in diversi settori e di procedere
all’integrazione verticale tra gestori, manifatturieri e fornitori di contenuti, riducendo la
sorveglianza pubblica sulle pratiche del business (Benkler, 2006; Klinenberg, 2007;
McChesney, 2007; Schiller, 2007). Nel 2004 l’FCC introduceva un criterio chiamato
«flessibilità di spettro», che mirava ad aumentare lo spettro disponibile, in particolare per
le comunicazioni wireless, e ad autorizzare la libera rivendita di parti dello spettro da parte
di aziende che operavano entro frequenze regolate, creando così un mercato per le
frequenze che aumentava il campo di azione delle grandi imprese. L’FCC metteva fine
anche alle norma sullo spacchettamento, liberando così gli operatori Bell dai loro obblighi
di condivisione della rete e permettendo anche agli operatori della televisione via cavo di
introdurre la banda larga nelle loro reti e di vendere servizi sulle loro reti proprietarie.
Questa nuova politica dava ai gestori e agli operatori ampia libertà di manovra su accesso
e prezzi nelle reti di loro proprietà.
Come logica continuazione di questo trasferimento di potere in direzione degli operatori
della rete, l’ultima fase della deregulation statunitense punta al rovesciamento della
tradizionale politica di «neutralità della rete» (net neutrality), ossia la consuetudine per cui
le reti degli operatori delle telecomunicazioni sono considerati infrastrutture a uso
generale, il cui accesso non può essere impedito, né sottoposto a condizioni o a
discriminazioni da parte dell’operatore nei confronti degli utenti 14. La decisione chiave
che ha aperto il dibattito sulla neutralità della rete è stato il Cable Modem Order dell’FCC
del 2002, che dichiarava che il servizio su banda larga non veniva più considerato un
servizio di telecomunicazione (soggetto a regolamentazione) come invece lo era in base al
Telecommunication Act del 1996, bensì un «information service» al di fuori della
competenza del regolatore. La Corte Suprema confermava questa decisione nel 2005,
accendendo così un grosso dibattito tra due schieramenti. Da una parte, utenti Internet,
società innovative dell’high-tech e fornitori di contenuti per Internet, come Google,
Yahoo!, Amazon e e-Bay, che rivendicano il libero accesso alle reti. Dall’altra, gli
operatori delle reti vorrebbero differenziare l’accesso e i prezzi per agevolare il loro
controllo privato sull’infrastruttura della comunicazione.
Questo conflitto è qualcosa di più di una disputa tra diversi settori latori di specifici
interessi. Come scrive Clark (2007, p. 207) «In questo momento, ciò su cui sono in lotta è
il futuro della televisione.» Questo perché la digitalizzazione di tutti i contenuti (i bit sono
bit) spiana la strada al fatto che Internet diventi un vettore per la TV. Per esempio,
Hulu.com è usato da quasi tutte le maggiori conglomerate mediatiche per mettere i loro
contenuti in streaming a disposizione gratuita del pubblico, e Joost.com, un servizio
lanciato nel gennaio 2007, trasmette la sua programmazione televisiva usando tecnologia
peer-to-peer. Internet veicola già un consistente traffico voce (vedi Skype), alterando così
fondamentalmente il modello di entrate sia delle compagnie di broadcasting e sia delle
telecom. Così, benché la liberalizzazione e la deregulation abbiano stimolato lo sviluppo
di Internet nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta (in buona parte perché non
interferivano con lo sviluppo autogestito di Internet), il cambiamento normativo tentato
dall’FCC sotto l’amministrazione Bush nel primo decennio del secolo equivaleva a una ri-
regolamentazione a favore delle aziende di telecomunicazione, via cavo e via etere che
continuavano a opporre resistenza alle sfide che la diffusione della banda larga in Internet,
e dei relativi contenuti e servizi del Web 2.0, poneva al loro modello di business.
Così, mentre l’attenzione del mondo era puntata sulla libertà di espressione su Internet,
la trasformazione dell’infrastruttura della comunicazione in una serie di «aiuole recintate»
gestite da operatori di rete attenti solo agli interessi specifici del loro business, imponeva
restrizioni fondamentali all’espansione della nuova cultura digitale. Le condutture della
Galassia Internet sono in via di privatizzazione e lasciate alla gestione frammentata
esistente. Mentre noi eravamo occupati a proteggere la libera frontiera elettronica
dall’intrusione del Grande Fratello (il governo), le Grandi Sorelle (gli operatori delle reti
maggiori) che si appropriano e gestiscono il traffico della banda larga circolante lungo le
Information Superhighways, sono diventate responsabili del restringimento del libero
spazio virtuale.
L’evoluzione delle politiche di regolamentazione è stato il risultato di strategie di
costruzione del potere attuate tramite l’articolazione di interessi commerciali e politici,
rivestite di discorsi sui portenti della tecnologia e la scelta del consumatore, e sostenute da
modelli economici che hanno il culto della suprema autorità della Mano Invisibile. Mentre
negli anni Novanta c’erano conflitti intra-business tra i partigiani delle Baby Bell (le
compagnie telefoniche nate dallo smembramento di AT&T) e quelli degli operatori via
cavo, quando si è trattato di arrivare alla fondamentale decisione di lasciare che il mercato
(ossia il big business) decidesse la forma della rivoluzione comunicazionale, gran parte
della classe politica ha abbracciato quella strategia. L’Act del 1996, sotto Clinton,
raccoglieva il consenso repubblicano al Congresso, e molte delle misure che consentivano
l’integrazione verticale e gli investimenti incrociati tra settori ha raccolto sostenitori in
entrambi i partiti. Questo perché l’industria delle telecomunicazioni svolge un ruolo di
primo piano nel finanziamento delle campagne elettorali, mentre l’industria
radiotelevisiva è essenziale per facilitare la copertura mediatica dei candidati politici. Le
imprese di una neonata Internet non avevano avuto ancora il tempo di sviluppare influenza
politica e si erano lasciate persuadere dal loro stesso mantra, quello che glorificava la loro
innata superiorità di innovatori tecnologici, per preoccuparsi del futuro normativo. Inoltre,
il pubblico era in larga parte ignaro dell’importanza delle questioni che si andavano
decidendo in assenza di qualsivoglia consultazione o dibattito. La regolamentazione delle
comunicazioni era un campo oscuro riservato ad avvocati, economisti e tecnici
apparentemente senza alcuna relazione con gli interessi della gente comune, tranne che per
la fissazione dei prezzi e nelle denunce di abuso di servizio mosse agli operatori
monopolisti via cavo: problemi che il più delle volte erano attribuiti alle licenze concesse
da governi locali scarsamente informati su ciò che stavano facendo.
Le cose sono cambiate drasticamente con l’inizio del secolo, in parte per l’arroganza di
Michael Powell, il nuovo presidente dell’FCC nominato dal presidente Bush. Uomo delle
forze armate e figlio dell’allora segretario di stato Colin Powell, era (ed è) un
fondamentalista del libero mercato; dopo aver lasciato l’FFC nel 2004 è andato a lavorare
per la Providence Equity Partners, una società di investimenti che gestisce risorse per
quelle stesse aziende di media e di telecomunicazione che Powell aveva l’incarico di
regolamentare. Il presidente Bush gli ha dato il suo appoggio personale perché annullasse
le restrizioni sulla proprietà incrociata dei media e ri-regolamentasse a favore delle grandi
aziende nell’industria delle telecomunicazioni e delle emissioni radiotelevisive. La News
Corporation di Rupert Murdoch è stata tra le maggiori beneficiarie della nuova politica. La
concentrazione mediatica nella televisione, nel cavo, nella radio e nella stampa cartacea
che si è verificata in seguito alla decisione dell’FCC ha scatenato un’ondata di protesta,
mobilitando attivisti progressisti, associazioni civiche, operatori delle libertà civili e
sostenitori del governo locale in America, inclusi potenti gruppi conservatori come la
National Rifle Association. Da questa protesta è emerso un movimento sociale potente e
sfaccettato, che comprendeva organizzazioni quali Free Press, il Center for Digital
Democracy, Media Access Project, Reclaim the Media, Media Alliance, Media-Tank, il
Prometheus Radio Project (che rivendica «low power to the people» alludendo alla radio
indipendente in LP, bassa potenza), e molte altre che sono riuscite efficacemente a
respingere il tentativo dell’FCC di separare i cittadini dalla politica della comunicazione.
Questi gruppi hanno suscitato nel pubblico un livello di interesse insolitamente alto per le
udienze pubbliche dell’FCC. Hanno protestato in Internet, esercitato pressioni sul
Congresso e presentato azioni legali presso i tribunali federali, rendendo la nuova
maggioranza democratica in Congresso più ricettiva alle richieste di un controllo da parte
dei cittadini della comunicazione. Questa vasta mobilitazione si è unita ad altri fattori che
hanno finito per portare alle dimissioni di Powell dall’FCC (Costanza-Chock, 2006;
Klinenberg, 2007; McChesney, 2007; Neuman, comunicazione personale, 2007). Quando
nel 2005-2007, in tema di politica della comunicazione, si è aperto un nuovo dibattito
sulla questione della neutralità della rete, una cittadinanza informata è entrata nell’arena
della politica della comunicazione, sospingendola in primo piano nel dibattito pubblico.
Come dice Robert McChesney, «quello che fu cruciale nel 2003 fu il fatto che per milioni
di americani si accese la luce. Non erano tenuti ad accettare tutti le prerogative dei media
come un dato “immodificabile”. Quello mediatico non era un sistema naturale: era il frutto
di scelte politiche» (2007, p. 159). Comunque, per mettere in prospettiva questa
esperienza di presa di coscienza, è il caso di ricordare un dato che fa riflettere sul potere
dell’industria della comunicazione: anche nella campagna elettorale del 2008, come in
ogni altra campagna precedente, nessun candidato presidenziale di primo piano ha
sottolineato la questione del controllo che la cittadinanza deve avere sui media e le reti di
comunicazione.
Deregolamentare il mondo (ma non all’americana)
A partire dagli anni Ottanta, in tutto il mondo, si è assistito a una generale tendenza alla
liberalizzazione, la privatizzazione e la deregulation del broadcasting e delle
telecomunicazioni, ma a un ritmo più lento che negli Stati Uniti. Comunque, il regime
normativo era, ed è ancora, in larga misura diverso da quello degli Stati Uniti. In effetti,
gli Stati Uniti rappresentano l’eccezione nella storia della regolamentazione della
comunicazione da un punto di vista globale. Questo perché, nel resto del mondo, la
comunicazione è sempre stata considerata troppo importante per essere lasciata nelle mani
del business privato. Nel corso della storia la comunicazione è sempre stata vista come un
ambito critico in cui affermare il ruolo dello stato, a volte a favore dell’interesse pubblico,
a volte come pura espressione di potere, mantenendo gli interessi commerciali sempre al
secondo posto. Inoltre, c’è stata in tutto il mondo una netta separazione tra la
regolamentazione dei media e quella delle telecomunicazioni. Queste ultime erano viste
come un’infrastruttura del servizio pubblico, mentre i primi erano considerati uno
strumento chiave di controllo politico e culturale. Così, in linea di massima, i media erano
regolamentati dalle istituzioni politiche e ideologiche dello stato. Televisione e radio erano
di solito di proprietà statale e gestite dal governo, anche se veniva lasciato un certo
margine a disposizione del mercato privato, tenuto però sempre sotto l’occhio vigile di
aspiranti censori. Viceversa, i giornali e la stampa erano abitualmente affidati alle varie
élite, in modo che queste potessero avere la loro voce nella sfera pubblica, con l’eccezione
di paesi sotto dittature di destra o di sinistra, in cui tutti i media erano sotto il controllo del
partito o del dittatore. Ma anche nei paesi democratici, la stampa non era immune da
condizionamenti politici, così che l’immagine idilliaca di una stampa professionale
indipendente era di norma smentita dall’allineamento politico e ideologico di gran parte
dei media, spesso espressione di affiliazioni religiose, preferenze ideologiche, interessi
commerciali e partiti politici. Nel complesso, la matrice dei media erano gli apparati statali
e ideologici più che il mercato. Ovviamente, il business aveva una sua presenza nei media,
ma le strategie commerciali dovevano operare sotto l’ombrello dei detentori del potere
politico-ideologico.
Questo stato di cose è cambiato in molte parti del mondo a partire dagli anni Ottanta.
All’origine del cambiamento c’è stata l’ondata di politiche di liberalizzazione legata a
nuove strategie economiche nel contesto della globalizzazione, il rapido cambiamento
tecnologico che apriva un nuovo universo di potenzialità comunicative, e la svolta
culturale verso l’individualismo e la libertà di scelta che indeboliva le fondamenta del
conservatorismo ideologico, in particolare nei paesi sviluppati. Il modo in cui questo si è
tradotto in nuove forme di regolamentazione varia da paese a paese. In alcuni dei più
importanti del mondo (Cina, Russia, India), nonostante una crescente presenza del
business, esiste ancora nel XXI secolo un rigido controllo governativo diretto (Cina,
Russia) o indiretto (India) sui media. Ma nella maggioranza dei paesi, il regime normativo
è esercitato con una combinazione di proprietà governativa e licenze governative a gruppi
imprenditoriali che devono seguire regole che limitano il loro potere come gruppi
mediatici pienamente indipendenti. Il metodo consueto di sottomettere il business alla
volontà politica nell’industria mediatica consiste nel distribuire licenze di spettro tra
diverse partnership aziendali relative a una pluralità di orientamenti politici. Così,
chiunque sia al potere ha sempre un certo accesso a qualche gruppo mediatico.
L’integrazione verticale di televisione, radio e stampa facilita la divisione del lavoro nei
media sotto il controllo del sistema politico in senso lato. Inoltre, in tutti i paesi esistono
ancora alcune reti che sono di proprietà del governo e in cui l’indipendenza dei media è
limitata.
Vi sono eccezioni, da un lato e dall’altro, a questo schema generale. Per esempio, la
BBC è salutata in tutto il mondo come modello di azienda pubblica che afferma la propria
libertà dalle ingerenze del governo, anche se alcune azioni del governo Blair hanno
offuscato la sua immagine di indipendeza editoriale pur senza distruggere la reputazione
della BBC come punto di riferimento per i media pubblici in tutto il mondo. La BBC però
doveva competere con i network televisivi e le emittenti satellitari e via cavo che hanno
conquistato una quota consistente della audience, così che la BBC ha perso la sua
posizione dominante. All’altro estremo del mondo mediatico liberalizzato, l’Italia, sotto il
governo di Berlusconi, ha prodotto un modello estremamente peculiare di partnership
pubblico-privato. Il governo italiano possedeva le tre reti RAI, soggette a pesanti pressioni
politiche nonostante l’energica resistenza di giornalisti e produttori. Dall’altra parte,
Berlusconi, un imprenditore immobiliare, con l’appoggio del primo ministro socialista
Bettino Craxi, usò una scappatoia presente nella Costituzione italiana per mettere in piedi
tre network privati nazionali basati sulle stazioni televisive locali di cui era proprietario.
Berlusconi usò il potere mediatico di queste reti per essere eletto primo ministro nel 1994,
e poi per essere rieletto nel 2001. Così, per gran parte del primo decennio di questo secolo,
tutte le reti televisive nazionali, pubbliche e private, sono state sotto il suo controllo, con
evidenti conseguenze per l’impoverimento della diversità culturale e politica dell’Italia
(Bosetti, 2007). La Francia ha privatizzato gran parte della televisione pubblica (TF1 è
stata venduta a una azienda edilizia), mantenendo il controllo su alcuni canali, come TV7,
e in parte dedicando un singolo network pubblico (Antenne 2) alla programmazione
culturale a beneficio degli intellettuali francesi.
Germania, Portogallo e Spagna hanno seguito un sentiero analogo. La Spagna, durante
il governo socialista di Felipe González negli anni Ottanta, ha mantenuto due reti
nazionali sotto il controllo del governo e ha concesso licenze a due network televisivi
privati e un canale satellitare a tre consorzi di investitori privati, convenientemente
distribuiti tra diversi gruppi aziendali con la condizione che nessun azionista potesse
possedere più del 25 per cento dei network. Nel 1996, il successore di González, il primo
ministro conservatore José María Aznar, ha seguito il modello di Berlusconi usando il suo
controllo su Telefonica, la multinazionale spagnola delle telecomunicazioni, per acquisire
uno dei canali privati ed esercitare pressioni sull’altro, monopolizzando in pratica gran
parte delle reti televisive durante il periodo 1996-2004. Nel 2006 il nuovo governo
socialista ha assegnato altre due reti televisive a gruppi di investitori simpatizzanti e ha
accelerato la transizione alla televisione digitale, fatto che ha liberato ulteriore spettro
lasciando spazio a un ventaglio più ampio di aziende mediatiche nazionali e internazionali
(Campo Vidal, 2008). Comunque, la trasformazione più profonda del sistema mediatico
spagnolo è avvenuto in seguito alla modificazione costituzionale dello stato che, dal 1978,
ha assunto l’assetto di stato semifederale. Le Comunità Autonome spagnole (l’equivalente
dei Länder tedeschi) ottenevano la possibilità di sviluppare proprie reti radiotelevisive
pubbliche entro i confini del loro territorio. Hanno usato questa capacità appieno, con il
risultato che in Catalogna e in altre aree della Spagna le reti televisive regionali catturano
la maggioranza del pubblico, e in Catalogna, nei Paesi Baschi e in Galizia, sono diventate
uno strumento chiave per il consolidamento dell’identità nazionale tramite, tra l’altro, la
preservazione delle proprie lingue (Imma Tubella, 2004).
In breve, la politica normativa più importante in Europa e in gran parte del mondo è
consistita nel graduale, ma limitato, abbandono del controllo dei governi nazionali su
radio e televisione, e indirettamente sulla stampa, a favore di una diversità di gruppi
commerciali privati e di governi regionali. Le aziende mediatiche hanno spesso usato
questa relativa autonomia per agganciarsi alle reti di business globali, accrescendo così la
propria indipendenza dal governo.
La commercializzazione dei media nel mondo ha ricevuto il vasto appoggio della
pubblica opinione perché hanno significato una liberazione (e in molti paesi il processo è
ancora in corso) dalla gabbia delle burocrazie politiche. L’intrattenimento appena
confezionato ha la meglio sulla propaganda somministrata con vecchi film e folclore
nazionale. Questo sentimento di relativa liberazione dalla stretta politica avvenuta
nell’ultimo ventennio può spiegare la pressoché totale assenza di opposizione sociale
contro la politica mediatica in gran parte dei paesi, a eccezione delle rivendicazioni
interessate dei gruppi di business lasciati fuori dal giro delle concessioni. Anzi, quando e
dove si sono avuti movimenti sociali orientati ai media, questi non hanno preso di mira i
business mediatici ma lo stato, per combattere la sua censura. Questo vale in particolare
per la Russia di Putin, dove giornalisti e cittadini stanno lottando contro un regime
mediatico autoritario governato da motivazioni politiche ai più alti livelli dello stato (vedi
capitolo 4).
In quasi tutto il mondo la regolamentazione delle telecomunicazioni è cambiata
drasticamente passando da un regime monopolistico (legale o di fatto) a una politica di
regolamentazione e concorrenza che ha cominciato a prendere piede in Europa nel 1998 e
in Giappone nel 2000 (Rutherford, 2004; EOCD, 2007; Cowhey e Aronson, 2009).
Garanti delle comunicazioni, in teoria indipendenti, sono stati istituiti in molti paesi, e
nell’Unione Europea la Commissione Europea ha assunto il controllo dei regolatori
nazionali. Queste autorità impediscono le pratiche monopolistiche e gli abusi di mercato
nella formazione dei prezzi, sottoponendo le aziende a multe e direttive forzose. Ma i
monopoli originari, anche dopo essere stati privatizzati, hanno impiegato le loro risorse e
connessioni politiche per conservare una posizione dominante nei territori nazionali,
imbarcandosi al tempo stesso in ambiziose politiche di espansione globale e di partnership
strategiche.
La comunicazione wireless è un campo più competitivo perché si tratta di un settore di
recente nascita, e in alcuni paesi, come in Cina, gli operatori privati di wireless sono usati
dal governo per esercitare pressioni sui vecchi operatori di rete fissa (Qiu, 2007).
Comunque, questa politica di concorrenza controllata in Europa, Giappone e Corea del
Sud sembra aver avuto la meglio sulla concorrenza disorganizzata indotta negli USA
dall’FCC con le sue politiche di «liberi tutti». La penetrazione della banda larga è più alta
in nord Europa, in Giappone e in Corea del Sud che negli Stati Uniti, e il suo costo per bit
è inferiore. La regola dello spacchettamento è ancora in vigore in Europa, mantenendo in
piedi, per il momento, il principio della neutralità della rete. Inoltre, l’accordo sugli
standard e gli schemi di prezzo imposto dalla Commissione Europea agli operatori di
telefonia cellulare in Europa ha condotto a una maggiore penetrazione di questo tipo di
comunicazione, a un uso più diffuso e a un servizio di qualità superiore in Europa rispetto
agli Stati Uniti. Il vantaggio competitivo di Europa e Asia in quest’area è stato anche
agevolato dalla qualità della tecnologia di comunicazione wireless e del design
manifatturiero in Europa (in particolare nei paesi del nord) e nell’Asia orientale. In breve,
la regolamentazione nelle reti di telecomunicazione nel mondo in generale ha mantenuto
un grado di controllo governativo sugli operatori maggiore che negli Stati Uniti, dando
vita a forme di concorrenza controllata. Il risultato finale è stato un’espansione della
comunicazione a banda larga e wireless, spianando il terreno a una diffusione globale
dell’infrastruttura dell’età della comunicazione digitale, e in particolare di Internet, nelle
sue nuove incarnazioni del Web 2.0 e del Web 3.0.
La regolamentazione delle libertà: quando il Cappuccetto Rosso di Internet incontra il
lupo cattivo delle multinazionali
Internet è una rete globale, e quindi la sua regolamentazione non poteva essere lasciata al
Dipartimento del Commercio USA, nemmeno nella forma di un consiglio di
amministrazione ICANN eletto dagli utenti della rete. Ma dal momento che non esiste un
governo globale, Internet si è diffusa globalmente arginata solo dai limiti che ciascun
governo nazionale ha potuto imporre all’interno della propria giurisdizione territoriale.
Ma, a meno che non si pensi di staccare la spina a Internet, è difficile controllarne le
capacità di reticolazione perché queste possono sempre essere reindirizzate a un’altra
spina dorsale da qualche altra parte del pianeta. È vero che è possibile bloccare l’accesso a
determinati siti designati, ma non ai triliardi di e-mail e ai milioni di siti web in constante
aggiornamento. Sì, Internet può essere sottoposta a una supervisione e, in effetti è
attivamente controllata da tutti i governi del mondo (Delibert et al., 2008). Ma il più che i
governi possono fare per imporre la loro legislazione è perseguire alcuni sfortunati
colpevoli colti sul fatto, mentre milioni di altri si godono la loro felice navigazione nella
rete. Centinaia di combattenti per la libertà (più qualche truffatore e qualche
pedopornografo) finiscono in galere reali per espiare le loro malefatte virtuali. Ma, mentre
alcuni dei messaggeri vengono puniti, i messaggi continuano a circolare, solcando liberi
l’oceano della comunicazione globale (vedi capitolo 4).
È per questo motivo che l’unico organismo legittimo con responsabilità per la
governance globale, l’ONU, ha affrontato la questione di Internet in due consecutivi
vertici mondiali sull’informazione, uno a Ginevra nel 2003 e l’altro nel 2005 a Tunisi
(capitale di un paese noto per la sua censura su Internet e in cui i giornalisti che hanno
seguito il meeting sono stati arrestati). Nel dicembre 2003, a Ginevra, si discussero diversi
obiettivi, concentrandosi sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a
beneficio della popolazione mondiale. Naturalmente Internet divenne un punto focale in
molte di queste discussioni. La Dichiarazione dei Principi di Ginevra e il Piano d’Azione
di Ginevra furono adottati il 12 dicembre 2003, ma i partecipanti non riuscirono a
concordare una definizione comune di Internet governance. Le discussioni si concentrano
sulla distinzione tra una definizione «ristretta» che toccava solo le funzioni relative a
ICANN (assegnamento e allocazione delle risorse su Internet) e una definizione
«allargata» che avrebbe finito per includere anche il controllo sui contenuti circolanti in
Internet. Come capita abitualmente nei meeting delle Nazioni Unite, di fronte al
disaccordo sul concetto stesso di «governance di Internet», l’ONU ha istituito un Working
Group on Internet Governance (WGIG) il cui obiettivo era trovare una definizione del
termine e fornire l’input per la seconda fase del World Summit, da tenersi a Tunisi nel
novembre 2005. Dopo due anni di duro lavoro portato avanti dai quaranta membri del
gruppo, di cui facevano parte rappresentanti dei governi, del settore privato e della società
civile, il rapporto del WGIG dell’agosto 2005 dava vita alla seguente definizione
operativa:

Per governance di Internet si intende lo sviluppo e l’applicazione da parte dei


governi, del settore privato e della società civile, nei loro rispettivi ruoli, di un
insieme condiviso di principi, norme, regole, procedure decisionali e programmi che
danno forma all’evoluzione e all’uso di Internet.
Illuminato da questa definizione rivoluzionaria, il summit mondiale dell’ONU del 2005
sulla Società dell’Informazione (Seconda fase) a Tunisi, dopo un dibattito su principi di
linea politica, confermava la funzione dell’ICANN e il ruolo di supervisione del
Dipartimento del Commercio USA, definiva un’agenda per la società dell’informazione
globale, e istituiva l’Internet Governance Forum (IGF). L’IGF è un’organizzazione
internazionale il cui scopo è «sostenere il Segretario generale delle Nazioni Unite nello
svolgimento del mandato del World Summit on the Information Society (WSIS) riguardo
alla convocazione di un nuovo forum per un dialogo sulla linea politica tra rappresentanti
di una molteplicità di interessi.» Il Segretario generale dell’ONU istituiva un Gruppo
Consultivo e un Segretariato come organismi istituzionali dell’IGF. Successivamente,
l’IGF ha tenuto diversi incontri: in Grecia nel 2006, a Rio de Janeiro nel 2007, a
Hyderabad nel novembre 2008, e, nel momento in cui scrivo, un meeting è in programma
per l’ottobre 2009 al Cairo. Si sono identificate le aree politiche chiave in discussione.
Esse sono:
1. infrastruttura e gestione delle risorse di Internet (infrastruttura fisica; VoIP; politiche
di spettro; standard tecnici; gestione delle risorse; amministrazione dei nomi e degli
indirizzi di rete; amministrazione del sistema dei root server e dei file della root zone);
2. questioni relative all’uso di Internet (sicurezza della rete e dei sistemi di
informazione; spam, politiche e normative nazionali; protezione dell’infrastruttura critica);
3. questioni dotate di un impatto più ampio oltre la Rete (autenticazione elettronica;
politiche di concorrenza, liberalizzazione, privatizzazione, regolamentazioni; protezione
dell’accesso, protezione del consumatore/utente, privacy; contenuti e pratiche illegali;
risoluzione delle controversie; diritti di proprietà intellettuale; e-commerce e tassazione
dell’e-commerce; e-government e privacy; libertà di informazione e media);
4. questioni dotate di un impatto di sviluppo (costi delle linee; agibilità universale e
accessibile; educazione, costruzione di capacità umane; sviluppo delle infrastrutture
nazionali; dimensioni sociali e inclusione; accessibilità dei contenuti; open source e
software libero; diversità culturale e linguistica).
Secondo fonti affidabili, il dibattito politico sta procedendo al passo abituale di questo
genere di iniziative istituzionali, anche se al momento in cui scrivo non c’è ancora nessuna
conclusione da riferire. Spero di essere in grado di analizzare la struttura e la politica della
governance globale di Internet che emergerà da questo dibattito in una seconda, o magari
terza, edizione di questo libro.
Il mio scetticismo sui risultati di simili discussioni deriva dalle esperienze che ho avuto
con diversi organismi consultivi nazionali e internazionali sulla politica di Internet. Sono
arrivato a formarmi la convinzione (che ha portato, ovviamente, alla mia uscita da tutti
questi organismi, compresi quelli che facevano riferimento alle Nazioni Unite) che
l’interesse fondamentale di quasi tutti i governi sta nell’istituire normative per controllare
Internet e individuare meccanismi per imporre questo controllo in base alle logiche
tradizionali di legge e ordine. A prescindere dalla mia posizione personale su una politica
del genere (sono contrario), vi sono seri motivi per dubitare dell’efficacia dei controlli
proposti quando non sono diretti a specifiche corporation o organizzazioni ma alla
comunità degli utenti in generale (a meno che non vi sia un attacco generalizzato agli
Internet provider che affossi l’intero sistema di comunicazione della rete – mai dire mai).
Questa però è un’ipotesi improbabile data la portata degli interessi commerciali già
investiti in Internet e il vasto appoggio di cui essa gode tra la maggior parte degli 1,4
miliardi di utenti per i quali il web è diventato il tessuto di comunicazione delle proprie
vite. Per questo la regolamentazione di Internet ha spostato l’attenzione da Internet in sé a
specifici casi di censura e repressione operate da burocrazie governative, e alla
privatizzazione dell’infrastruttura comunicazionale globale che sostiene il traffico della
rete. Così, nonostante la regolamentazione, Internet prospera come il mezzo di
comunicazione locale/globale della nostra epoca. Ma sottostà, come ogni altra cosa a
questo mondo, alle implacabili pressioni di due fonti essenziali di dominio che ancora
incombono sulla nostra esistenza: il capitale e lo stato.
La relazione tra capitale e stato è in effetti il punto di origine delle politiche di
liberalizzazione e deregulation che hanno prodotto la nascita del capitalismo globale e la
formazione delle reti commerciali multimediali globali che stanno al centro del nuovo
sistema di comunicazione digitale. Ma poiché gli interessi commerciali sembrano
prevalere nella loro interazione con lo stato, e poiché il business vede un nuovo importante
campo di investimento nell’espansione della comunicazione digitale, le politiche di
regolamentazione hanno contribuito a portare alla diffusione globale di nuove forme di
comunicazione, compresa l’autocomunicazione di massa. Entro tali condizioni, il pubblico
dei media è trasformato in un soggetto comunicativo sempre più capace di ridefinire i
processi tramite cui la comunicazione sociale inquadra la cultura di una società.
Paradossalmente, il cedimento dello stato agli interessi del capitale porta alla nascita di
una nuova forma di comunicazione che potrebbe accrescere il potere dei cittadini sia sul
capitale sia sullo stato.
Il mutamento culturale nel mondo globalizzato
Perché la comunicazione si realizzi, occorre che mittenti e riceventi abbiano codici
condivisi. Nel business dei media si è assistito a un passaggio strategico: da rivolgersi a un
pubblico generico (dando per scontata la sua capacità di condividere il significato di un
singolo messaggio omogeneo) al targeting di audience specifiche, adattando così il
messaggio al ricevente prescelto. Secondo l’analisi presentata sopra, questo è stato reso
possibile dalla retificazione del business mediatico globale e dalle nuove tecnologie
digitali che consentono la combinazione di produzione di massa e distribuzione
personalizzata dei contenuti. L’identificazione del pubblico richiede la comprensione dei
suoi svariati codici culturali. Quindi, l’evoluzione del formato e del contenuto dei
messaggi mediatici, generici o specifici che siano, dipende dall’evoluzione culturale della
società. In questa evoluzione, ogni società ha il suo percorso e il suo ritmo. Ma poiché la
società in rete è globale, il processo di trasformazione culturale presenta elementi comuni
e interdipendenze. Lash e Lury (2007), nella loro analisi dell’industria culturale globale,
evidenziano il mutamento qualitativo rappresentato dalla globalizzazione nell’ambito
culturale. Scrivono:

La cultura ha assunto un’altra, diversa logica con la transizione dell’industria


culturale a industria culturale globale; la globalizzazione ha assegnato all’industria
culturale un modus operandi radicalmente diverso… Le entità culturali erano ancora
un’eccezione… Ma nel 2005 gli oggetti culturali sono dappertutto: come
informazione, come comunicazione, come prodotti di marca, come servizi finanziari,
come prodotti mediatici, come servizi di trasporto e di svago; le entità culturali non
sono più l’eccezione: sono la regola. La cultura è così onnipresente che, per così dire,
tracima dalla sovrastruttura e arriva a infiltrarsi nella struttura stessa fino a prenderne
possesso. Finisce per dominare l’economia come esperienza di vita quotidiana…
Nell’industria culturale globale, la produzione e il consumo sono processi della
costruzione di differenza (Lash e Lury, 2007, pp. 3-5; corsivi miei).
Come si costruisce questa differenza? Quali sono i materiali culturali che filtrano
attraverso i diversi ambiti dell’esperienza e strutturano le cornici di significato in cui
operano i media? Come ipotesi di lavoro, propongo un quadro in cui il processo di
trasformazione culturale nel nostro mondo si evolve lungo due grandi assi polari:
l’opposizione tra globalizzazione e identificazione e il chiasmo tra individualismo e
comunalismo (Inglehart, 2003; Castells, 2004c; Tubella, 2004; Baker, 2005; Cardoso,
2006; Qvortrup, 2006).
Globalizzazione culturale si riferisce all’emergere di uno specifico insieme di valori e
convinzioni che sono largamente condivisi nel pianeta.
Identificazione culturale si riferisce all’esistenza di specifici insiemi di valori e
convinzioni in cui si riconoscono specifici gruppi umani. L’identificazione culturale è in
larga misura risultato della situazione geografica e storica dell’organizzazione umana, ma
può formarsi anche in base a progetti specifici di costruzione dell’identità.
Individualismo è l’insieme di valori e convinzioni che dà la priorità alla soddisfazione
di bisogni, desideri e progetti individuali nell’orientamento del comportamento.
Comunalismo è l’insieme di valori e convinzioni che pone il bene collettivo di una
comunità al di sopra della soddisfazione individuale dei membri. La comunità, in questo
contesto, si definisce come il sistema sociale organizzato intorno alla condivisione di uno
specifico sottoinsieme di attributi culturali e/o materiali.
Esaminiamo il contenuto concreto di questo processo di mutazione culturale. Che cos’è
una cultura globale? Ci troviamo in un mondo di crescente omogeneità culturale? Sì e no.
In gran parte no (Lull, 2007; Page, 2007). Il World Values Survey della University of
Michigan mostra il prevalere delle identità nazionali e regionali sull’identità cosmopolita,
la quale è adottata solo da una esigua minoranza della popolazione mondiale (Norris,
2000; Inglehart, 2003; Inglehart et al., 2004). Gli abitanti dell’Europa si sentono molto
meno europei che cittadini di una nazione o regione (Castells, 2004b). Analogamente, i
dati del Latinobarometer indicano la forza che ha l’identificazione nazionale, regionale ed
etnica in America Latina (Calderon, 2006). La religione è una fonte di identificazione
collettiva importante in alcune parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti, in America
Latina, in India e nelle società islamiche, ma non in gran parte dell’Europa (con alcune
eccezioni: per esempio la Polonia o l’Irlanda), né in Asia Orientale, dove è una questione
prevalentemente individuale che non ha particolare influenza (Norris e Inglehart, 2004).
Eppure, esiste una cultura globale che si può osservare a tre livelli. Primo, per una
piccola ma influente minoranza di persone, c’è la coscienza del destino condiviso del
pianeta che abitiamo, in termini di ecologia, o di diritti umani, di principi morali, di
interdipendenza economica globale o di sicurezza geopolitica. Questo è il principio del
cosmopolitismo sostenuto da attori sociali che vedono se stessi come cittadini del mondo
(Beck, 2005). I dati delle indagini mostrano che sono in misura prevalente membri dei
segmenti più istruiti e benestanti della società, sebbene anche l’età sia un fattore: più
giovani sono le persone, più sono aperte a una visione cosmopolita del mondo (Inglehart,
2003). Secondo, esiste una cultura globale multiculturale caratterizzata dalla ibridazione
e dal remixing di culture dalle origini differenti, come nella diffusione dell’hip hop in
versioni adattate in tutto il mondo o nei video remixati che spopolano su YouTube. Terzo,
quello che costituisce forse lo strato più fondamentale della globalizzazione culturale è la
cultura del consumismo, in relazione diretta con la formazione di un mercato capitalista
globale (Barber, 2007). Perché il capitalismo si globalizzi, la cultura della mercificazione
dev’essere presente dappertutto. E il fatto stesso che il capitalismo è globale e che tutti i
paesi oggi vivono sotto il capitalismo (salvo la Corea del Nord al momento in cui scrivo)
fornisce la base per la condivisione planetaria dei valori di mercato e della cultura del
consumo.
Al tempo stesso, l’esistenza di fonti diverse di identificazione culturale crea un modello
complesso di interazione tra consumismo globale, cosmopolitismo e ibridazione globale
da una parte, e diverse fonti di identificazione culturale (nazionale, religiosa, territoriale,
etnica, sessuale, di scelta individuale) dall’altro (Inglehart et al., 2004).
Un altro asse di differenziazione culturale contrappone individualismo a comunalismo.
L’analisi empirica condotta da Wayne Baker sull’evoluzione dei valori americani mostra
lo sviluppo parallelo di entrambe le tendenze nelle menti degli americani nel corso
dell’ultimo trentennio (Baker, 2005). Gli Stati Uniti sono una cultura bipolare, fatta di una
cultura Me (Mitchell, 2003) e di una cultura God (Domke et al., 2008). In entrambe le
culture vi sono posizioni estreme in direzione dell’individualismo libertario da una parte e
della sottomissione alla legge di Dio (chiunque esso sia) dall’altra. La cultura del
familismo è anch’essa un insieme di valori che fa da ponte tra l’individuo e il suo
contributo, e i principi morali della società. Io, la mia famiglia e il mio Dio costituiscono
la santa trinità dei valori americani.
In un diverso contesto, lo studio che io e i miei colleghi abbiamo svolto su un campione
rappresentativo della popolazione catalana nel 2002 ha mostrato l’importanza
dell’identificazione familiare come principio organizzativo primario della vita per il 56 per
cento della popolazione, seguito da «me stesso» (8,7 per cento) e i pari (4,9 per cento;
Castells e Tubella, 2007). Tutte le fonti di identificazione collettiva prese insieme
(nazione, etnia, religione e territorialità) erano il principio di autoidentificazione
prevalente soltanto per il 9,7 per cento del campione. Quando però si chiedeva ai soggetti
di scegliere in base alla loro affiliazione nazionale primaria, il 37,5 per cento si
consideravano in primo luogo catalani, mentre il 19,7 per cento si vedevano come
spagnoli, il 36,2 per cento come tanto catalani quanto spagnoli, e il 6,6 per cento si
identificava con il mondo in generale (Castells e Tubella, 2007). La religione era il fattore
primario di identificazione solo per il 2,5 per cento. Intanto, il 13,1 per cento della
popolazione citava una combinazione di natura, umanità e mondo in generale (indicatori
di cosmopolitismo) come loro maggiore principio di autoidentificazione. Fatto piuttosto
interessante, questa è la stessa percentuale delle persone che a livello mondiale si
identificano in primo luogo con il cosmopolitismo, secondo il World Values Survey
(Norris, 2000), con percentuali che diventano più pronunciate nei gruppi d’età più giovani.
Ciò vuol dire che in società in cui la religione non è una fonte primaria di identificazione
(come in Catalogna e in gran parte d’Europa), da una parte l’individuo e la sua famiglia e
dall’altra il cosmopolitismo emergono come i principali riferimenti culturali per la gente, e
in particolare per i giovani. L’identificazione nazionale, regionale e locale (o identità
nazionali non statali come nel caso della Catalogna) restano un principio di identificazione
forte come identità di resistenza quando si devono affrontare le sfide o della
globalizzazione o degli stati nazionali dominanti (Castells, 2004c; Castells e Tubella,
2007).
Se combiniamo i due assi bipolari di identificazione cultura le, possiamo individuare
quattro combinazioni significative che sono espresse in forme definite di modelli culturali,
come mostra la tabella 2.1. Approfondirò il contenuto della tipologia qui presentata.
L’articolazione tra globalizzazione e individualismo porta alla diffusione del consumismo,
in quanto forma individuale del processo di relazione con il processo di globalizzazione
dominato dall’espansione del capitalismo (Barber, 2007). Un’espressione particolarmente
importante di questa relazione individuale con la cultura capitalista globale, come
propongono Scott Lash e Celia Lury (2007), è il branding. Il branding è la dimensione
culturale del mercato globale, e il processo con cui gli individui attribuiscono significato
al proprio consumismo (Banet-Weiser, 2007).
TAB. 2.1. Tipologia dei modelli culturali

Globalizzazione Identificazione
Individualismo Consumismo brandizzato Individualismo in rete
Comunalismo Cosmopolismo Multiculturalismo

La combinazione di identificazione e individualismo è all’origine della cultura


dell’individualismo in rete che a quanto rilevano i sociologi costituisce il modello di
socializzazione prevalente nella società in rete (Wellman, 1999; Castells, 2001; Hampton,
2004, 2007). Nell’era di Internet, gli individui non si ritirano nell’isolamento della realtà
virtuale. Al contrario, espandono la loro esperienza sociale usando la ricchezza delle reti
di comunicazione a loro disposizione, ma lo fanno selettivamente, costruendo il proprio
mondo culturale nei termini delle proprie preferenze e dei propri progetti, e modificandolo
in base all’evoluzione dei loro interessi e valori personali (Katz e Aakhus, 2002; Center
for the Digital Future, 2005, 2007, 2008; Castells e Tubella, 2007)
All’intersezione tra comunalismo e globalizzazione, troviamo la cultura del
cosmopolitismo, ossia il progetto di condividere valori collettivi su scala planetaria e così
costruire una comunità umana che trascenda i confini e la specificità a favore di un
principio superiore. Questo è, chiaramente, il caso della Umma islamica (Moaddel, 2007),
ma potrebbe anche essere la cultura ecologista (Wapner, 1996), che celebra Gaia a favore
del passato e del futuro dell’umanità, o la cultura cosmopolita, che afferma i valori
collettivi della democrazia nel nuovo spazio della cittadinanza globale (Beck, 2005).
Infine, la fusione di comunalismo e identificazione porta al riconoscimento di identità
multiple in un mondo costituito da una diversità di comunità culturali. Questo equivale a
riconoscere il multiculturalismo come una tendenza decisiva del nostro mondo
interdipendente (Al-Sayyad e Castells, 2002; Modood, 2005).
Così, dall’interazione tra le due maggiori tendenze bipolari che caratterizzano la società
in rete globale emergono quattro configurazioni culturali: consumismo (il cui segno
distintivo è il brand), individualismo in rete, cosmopolitismo (sia esso ideologico, politico
o religioso) e multiculturalismo. Questi sono i modelli culturali base della società in rete
globale. E questo è lo spazio culturale entro cui deve operare il sistema di comunicazione.
I vettori comunicazionali dei modelli culturali
Non esiste una connessione diretta ed esclusiva tra ciascuno dei quattro modelli culturali
definiti sopra e specifiche tecnologie o forme di comunicazione. I quattro modelli culturali
sono presenti nei mass media e nell’autocomunicazione di massa, e sostengono pratiche
comunicative sull’intera gamma delle tecnologie e delle piattaforme di distribuzione.
Tuttavia, ognuno di questi modelli culturali è più adatto a quella forma di comunicazione
che ha maggiori probabilità di costruire i codici culturali che massimizzano l’effetto di
comunicazione nelle menti del pubblico. Ossia, di inquadrare il processo dell’azione
comunicativa.
Precursore del consumismo di marca è l’industria globale dell’intrattenimento nella
variegata gamma dei suoi prodotti: film, musica, spettacoli, soap operas, videogiochi,
giochi online a partecipazione di massa, quotidiani, riviste, editoria libraria, e l’intero
armamentario di icone di supporto, dall’abbigliamento ai beni di consumo firmati.
L’integrazione globale verticale dell’industria facilita l’erogazione del marchio attraverso
molteplici canali che si rafforzano a vicenda. Inoltre, l’evoluzione delle notizie in
direzione dell’infotainment allarga la portata del consumismo all’intero ambito sociale e
politico, dove gli eventi mondiali e la politica locale si mescolano alla spettacolarizzazione
dei bollettini meteorologici e all’esibizione di beni e servizi da consumare. Il complesso
industriale di Hollywood ha finito per essere identificato come la fonte di gran parte di
questa produzione e distribuzione culturale globale (Wasko, 2001; Miller et al., 2004). Un
simile predominio commerciale storicamente radicato ha portato alla tesi ideologica
dell’imperialismo culturale, di solito assimilato al dominio unilaterale della cultura
statunitense su tutte le altre culture del mondo (Hesmondhaldh, 2007). In realtà, le culture
resistono e si evolvono per conto loro, come cercherò di dimostrare più avanti. Ma c’è
dell’altro, che è più importante in termini analitici e pratici: la cultura globale non è una
cultura americana nonostante la quota sproporzionata di business dell’industria culturale
abbia base in America. Globale è globale. Ciò vuol dire che lo strato di cultura globale,
costruito intorno al consumismo e al branding, elabora prodotti culturali di ogni origine, e
li trasmette in pacchetti su misura per massimizzarne il potere comunicativo in ciascuno
dei mercati a cui si rivolge (Straubhaar, 1991; Waisbord, 2004a). Un esempio chiarirà
l’analisi; l’industria delle telenovelas e una telenovela in particolare: Ugly Betty (Miller,
2007).
Le telenovelas, melodrammi seriali per la televisione, pur essendo prodotti
originariamente in America Latina, soprattutto Venezuela, Messico, Brasile e Colombia,
sono diventati prodotti di esportazione in tutto il mondo, a volte come prodotti
preconfezionati, soltanto da doppiare; a volte realizzati da zero e riformattati per il gusto
di ciascuna cultura (Sinclair, 1999; La Pastina et al., 2003; Martinez, 2005). Le
telenovelas sono state capaci di agganciare il pubblico internazionale meglio delle soap
operas, dal cui formato divergono sostanzialmente, in paesi tanto diversi tra loro come la
Russia, l’India, l’Italia e la Germania, oltre che nei loro mercati in lingua dell’America
Latina e della Spagna. Le telenovelas di successo, una volta testate sul mercato interno,
vengono vendute, prodotte, e distribuite da aziende televisive globali, spesso con sede
negli USA. Le telenovelas hanno raggiunto inizialmente il vasto mercato ispanico negli
Stati Uniti, ma in seguito hanno realizzato significative incursioni nel mercato americano
mainstream. Il punto di svolta di questa penetrazione di mercato è stato il successo di Ugly
Betty nel 2006.
Prodotto inizialmente in Colombia con il titolo di Betty la Fea nel 1999, il programma
raggiunse in prima serata un ascolto del 70 per cento nel suo paese d’origine, e poi passò a
ottenere analoghi livelli di popolarità in tutta l’America Latina. In seguito, fu esportato
globalmente sia come programma preconfezionato sia come serie prodotta ex novo, e fu
mandata in onda in settanta paesi. Dato il suo impatto globale, l’ABC decise, non senza
esitazioni, di trasmettere in prima serata la sua versione americana adattata. La prima
puntata di Ugly Betty nell’autunno del 2006 richiamò 16,3 milioni di spettatori e divenne
uno dei telefilm di maggior successo nel mercato americano. Jade Miller ha condotto
un’indagine sull’importanza del fenomeno Ugly Betty, concludendo che:

Il modo migliore per intendere le telenovelas è vederle come prodotti culturali


localizzabili ma di richiamo universale, che attraversano le reti globali degli interessi
culturali capitalistici. Betty la Fea serve come esempio del modo in cui un prodotto
apparentemente locale è intrinsecamente un prodotto globale. Il globale è presente
non solo nell’appello universale di una trama in stile Cenerentola, ma anche nelle
piste multidirezionali lungo le quali il programma è stato importato ed esportato, e
nella struttura globalmente interconnessa delle corporation coinvolte nella
produzione e distribuzione di Betty la Fea. Che si chiami Betty, Lisa o Jassi, e che
parli spagnolo, tedesco, hindi o inglese, Betty è una finestra da cui guardare
all’industria delle telenovelas non come un controflusso di cultura dal sud al nord, ma
come una rete globale di contenuti culturalmente specifici dotati di un richiamo al
contempo locale e globale (Miller, 2007, p. 1).
In sintesi: l’industria globale dell’intrattenimento, che sostiene ed è sostenuta dalla
pubblicità, è il principale canale per la costruzione di una cultura consumista di marchio.
L’industria degli Stati Uniti, esemplificata dal complesso industriale di Hollywood, è un
maggior componente di questo settore, ma assolutamente non l’unico. Inoltre, l’industria
dell’intrattenimento globale non diffonde solo cultura americana, ma ogni prodotto
culturale che si venda sia a livello globale sia nella sua forma personalizzata,
culturalmente specifica.
La cultura consumista globale non è l’unico modello culturale con una portata
consapevolmente globale. Il cosmopolitismo, all’intersezione di globalizzazione e
comunalismo, mira a costruire una sfera pubblica globale intorno a valori condivisi di
cittadinanza globale. I cosiddetti global media news networks, nella loro diversità,
puntano alla costruzione di questa sfera pubblica comunicativa che riunisca paesi e
culture nello spazio dei flussi dell’informazione globale 24 ore su 24, come ha mostrato
Ingrid Volkmer (1999) nel suo studio sulla CNN. Tuttavia, secondo la Volkmer e altri
analisti, la costruzione di questa informazione globale non è neutrale. È sbilanciata in
direzione di determinati valori e interessi. Ciononostante, se consideriamo non soltanto la
CNN ma l’intero insieme delle reti dell’informazione globale che distribuiscono
globalmente le notizie e i volti del mondo, in tempo reale o in un momento scelto, ci
accorgiamo che si sta formando in realtà una sfera comunicativa globale diversificata.
Questo vale per la BBC, la TeleSur con sede in Venezuela (a un livello molto più
modesto), l’A24 sudafricana, EuroNews, e, in modo estremamente significativo, Al
Jazeera e diverse altre reti arabe. Anche se alcuni di questi network iniziarono come
culturalmente specifici, essi tendono a diffondersi globalmente; per esempio, Al Jazeera
ha cominciato la sua programmazione in lingua inglese nel 2007. Al Jazeera rappresenta
effettivamente uno sviluppo significativo perché è stata creata, ed è ancora posseduta,
come notato in precedenza, dal principe ereditario del Qatar, l’emirato dove si trova la più
grande base militare USA della penisola arabica. Eppure, veniva considerata più affidabile
dei notiziari occidentali, e presto è diventata una fonte alternativa di informazioni per il
pubblico di lingua araba (El-Nawawy e Iskandar, 2002; Miles, 2005; Sakr, 2006). Il
network ha pagato la sua indipendenza con la vita dei giornalisti e tecnici uccisi durante i
bombardamenti americani degli uffici dell’emittente in Iraq. E si trova ad affrontare la
permanente ostilità degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno fatto di tutto per
boicottarne le entrate pubblicitarie.
Anche la CNN trasmette in diverse versioni a seconda del pubblico. CNN International
è molto diversa dalla CNN americana; CNN in spagnolo (in America Latina) ha specifiche
politiche di programmazione e di informazione; e CNN+ in Spagna critica apertamente la
politica estera USA, un prerequisito indispensabile per richiamare spettatori spagnoli in un
paese in cui il 93 per cento della popolazione era fin dall’inizio contrario alla guerra in
Iraq. È attraverso questa diversità di reti globali di notizie e informazioni che una cultura
cosmopolita embrionica si avvale della piattaforma di distribuzione dei media.
Sistemi di comunicazione di diverso tipo che promuovono altre forme di
cosmopolitismo, e cioè quello religioso, sono le reti globali delle televisioni confessionali,
la cui programmazione è trasmessa in tutto il mondo per raggiungere i fedeli di ciascuna
religione sparsi nel pianeta. I confini culturali della religione sono oggi definiti dalle reti
globali che riuniscono i fedeli al di là dei confini politici in tutto il mondo. In un certo
senso non sono cosmopolite perché si rivolgono alla comunità dei credenti. Ma, in un
senso più fondamentale, sono sì cosmopolite perché mirano a includere ognuno nella loro
comunità religiosa. Questo vuol dire che il cosmopolitismo è definito dal punto di vista
degli aspiranti cosmopoliti.
Il multiculturalismo nel nostro mondo è la regola più che l’eccezione. Esiste per questo
una straordinaria diversità di produzione e distribuzione culturale di contenuti. Come si è
detto, la Nigeria ha una fiorente industria cinematografica che raggiunge un enorme
pubblico in Africa, ed è in generale distribuita tramite videocassette vendute attraverso reti
informali (Dessa, 2007). È l’India, non gli Stati Uniti, il maggior produttore di film del
mondo. È vero che sono culturalmente specifici e sono rimasti a lungo confinati in India.
Ma Bollywood sta estendendo le proprie reti di distribuzione alla numerosissima diaspora
indiana (Bamzai, 2007; Gopal e Moorti, 2008). E l’immenso mercato televisivo indiano è
dominato da contenuti prodotti internamente (Chattrjee, 2004). I contenuti di produzione
autoctona dominano anche il mercato televisivo in Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia,
America Latina, Europa e nel mondo in generale (Abrahamson, 2004). La ricerca ha
rilevato che il pubblico è più sensibile a contenuti che siano specifici alla sua cultura
(Miller, 2007). E così, pur esistendo uno strato di cultura globale in tutti i settori
dell’industria dei media, la maggior parte dei prodotti culturali sono locali più che globali.
Anzi, uno studio di Tubella e Imma (2004) mostra l’importanza decisiva della televisione
nella formazione dell’identità nazionale entro le condizioni di dominio culturale di
un’altra nazione, come rileva l’esempio importante della televisione catalana in Spagna
dopo che nel 1980 il regime democratico postfranchista ha devoluto l’autonomia politica
alla Catalogna. Cosa interessante, una delle strategie della nuova televisione catalana, per
diffondere il catalano tra gli immigrati spagnoli in Catalogna, consistette nell’acquisire i
diritti in lingua spagnola e catalana per serie televisive globali popolari, come Dallas, e
mandarle in onda solo in catalano. Così, l’icona della globalizzazione della cultura
americana divenne uno strumento dell’identificazione della cultura catalana nella sfera
mediatica.
Infine, la cultura dell’individualismo in rete trova la sua piattaforma di prima scelta
nell’universo diversificato dell’autocomunicazione di massa: Internet, comunicazione
wireless, giochi online, e reti digitali di produzione, remixaggio e distribuzione culturale.
Non che Internet sia dominio esclusivo dell’individualismo. Internet è una rete di
comunicazione, e in quanto tale è anche uno strumento di diffusione del consumismo e
dell’intrattenimento globale, del cosmopolitismo, e del multiculturalismo. Ma la cultura
dell’individualismo in rete può trovare la sua migliore forma di espressione in un sistema
di comunicazione caratterizzato da autonomia, retificazione orizzontale, interattività, e la
ricombinazione di contenuti a iniziativa dell’individuo e delle sue reti.
È stato mostrato che le radici culturali di Internet affondano nella cultura libertaria e
nella specifica cultura degli hacker (Castells, 2001; Himanen, 2001; Thomas, 2002;
Markoff, 2006). Esiste in effetti risonanza culturale tra la cultura degli architetti di
Internet, le caratteristiche di essa come rete relativamente autonoma di comunicazione, e il
sorgere di una cultura della sperimentazione che si fa strada nella mente di milioni di
persone sulla base del networking multidirezionale costruito da milioni di
mittenti/destinatari di messaggi.
Protocolli di comunicazione in un mondo multiculturale
C’è ancora un punto importante da esaminare nell’analisi del mutamento culturale. In
questo mondo globalizzato, caratterizzato da distinti modelli culturali, come avviene la
comunicazione? In che modo, nonostante frammentazione, differenziazione,
customizzazione e segmentazione dei processi comunicativi, la comunicazione viene
reintegrata in un’attività comunicativa che trascende tutte queste divisioni? La cultura è
frammentata oppure integrata nel processo di comunicazione? In realtà, è l’una e l’altra
cosa. È frammentata nella trasmissione di messaggi e integrata nella produzione di senso
tramite una serie di protocolli comunicativi che rendono possibile l’intelligibilità in una
cultura imperniata sulla comunicazione. L’edificazione della nuova sfera pubblica nella
società in rete procede costruendo protocolli di comunicazione tra diversi processi
comunicativi. Come ha luogo questa costruzione? E che cosa sono questi protocolli di
comunicazione?
Parlando di protocolli di comunicazione, in questo contesto, mi riferisco alle pratiche, e
alle loro piattaforme organizzative di sostegno, che rendono possibile la condivisione di
senso tra i campi culturali della società in rete globale (consumismo, individualismo in
rete, cosmopolitismo e multiculturalismo). I protocolli di comunicazione sono pratiche
trasversali che si intrecciano con le pratiche incarnate in ciascuno dei quattro modelli
culturali che ho identificato. I protocolli primari di comunicazione sono i seguenti.
La pubblicità è la spina dorsale delle reti commerciali mediatiche globali e locali
(Gluck e Roca-Sales, 2008). Pertanto, essa è presente dappertutto, in tutti i modelli
culturali, e usa tutte le piattaforme, dalla televisione e la radio a Internet e i cellulari. È
attraverso la pubblicità che la cultura della mercificazione, al centro del capitalismo
globale, influenza tutte le espressioni culturali e i loro supporti mediatici.
La costruzione di un comune linguaggio mediatico, tramite la riformattazione di una
formula condivisa di narrazione e l’integrazione di generi (per esempio l’infotainment), è
resa possibile dalla versatilità della digitalizzazione (McClean, 2007).
Il branding (commerciale o d’altro genere) struttura la relazione tra individui e
collettività in presenza di modelli culturali differenti. Il branding raggiunge la massima
efficacia in presenza dell’integrazione verticale di prodotti mediatici, facilitata dalla
globalizzazione e dal networking delle industrie culturali (Lash e Lury, 2007).
L’emergere di un ipertesto digitale retificato fatto di inserimenti multidirezionali di ogni
genere di cose, e basato su modelli di connessione interattiva da chiunque a chiunque,
induce una cultura comune: la cultura della coproduzione del contenuto che viene
consumato, indipendentemente dal contenuto specifico.
Nella nostra società, i protocolli di comunicazione non sono basati sulla condivisione
della cultura ma sulla cultura della condivisione. È per questo che, in ultima analisi, i
protocolli di comunicazione non sono esterni al processo dell’azione comunicativa. Sono
costruiti nella mente della gente attraverso l’interazione tra i molteplici punti di
connessione nel sistema comunicativo e nella costruzione mentale della gente stessa nel
suo multitasking comunicativo. Ne segue che il cosiddetto pubblico è all’origine del
processo di mutamento culturale, ribaltando la storica dipendenza dai media subita durante
l’era della comunicazione di massa.
L’audience creativa
Il processo di comunicazione di massa è stato erroneamente costruito intorno al concetto
artificiale di «audience». Questa idea viene adottata ricavandola direttamente dalla
mentalità delle industrie mediatiche e dei pubblicitari che le alimentano, per i quali è
necessario definire i propri potenziali consumatori come bersagli passivi dei loro messaggi
per poter programmare contenuti destinati a vendersi sul mercato. Come in ogni vendita,
vengono prese in considerazione le misure della reazione del consumatore per rifinire
l’adattamento della mercanzia alle preferenze del consumatore. Il pubblico rimane però
l’oggetto, non il soggetto della comunicazione (Burnett e Marshall, 2003).
Come ho documentato, in seguito alla moltiplicazione dei canali e delle modalità di
comunicazione consentita dalle nuove tecnologie e dai cambiamenti nelle normative, il
settore si è evoluto trasformandosi da mezzo di comunicazione di massa prevalentemente
omogeneo, ancorato intorno a network radiotelevisivi nazionali, a sistema mediatico
diversificato che combina broadcasting e narrowcasting diretti a segmenti di nicchia del
pubblico. Ma anche un pubblico frammentato che consuma una programmazione su
misura rimane un destinatario subordinato le cui preferenze sono interpretate dalle
corporation dei media in base a profili sociodemografici.
Fatto piuttosto interessante, spesso i teorici critici della comunicazione abbracciano
questa visione unilaterale del processo della comunicazione (Mattelart, 1979; Postman,
1986; Mattelart e Mattelart, 1992; De Zengotita, 2005). Assumendo la nozione di un
pubblico inerme manipolato dai media, essi situano la fonte dell’alienazione sociale nel
regno della comunicazione di massa consumista. Eppure, un filone consolidato della
ricerca, in particolare nel campo della psicologia della comunicazione, mette in evidenza
capacità degli individui di modificare il senso dei messaggi che ricevono mescolando i
messaggi di una particolare fonte con il ventaglio variegato di pratiche comunicative di cui
fanno uso (Neumann, 1991). Così, Umberto Eco, in un importante testo dal titolo
suggestivo di «Does the Audience Have Bad Effects on Television?» (Eco, 1994),
sottolinea la capacità degli individui in generale di aggiungere ai codici del mittente propri
codici e subcodici che costituiscono i significanti del messaggio. Propone uno schema di
rappresentazione del processo comunicativo che aggiunge complessità al semplice schema
della comunicazione monodirezionale (vedi figura 2.6).

FIG. 2.6. Rappresentazione schematica del processo comunicativo secondo Umberto Eco. Lo schema superiore
rappresenta il modello classico della comunicazione; lo schema inferiore rappresenta il modello ridefinito da
Eco.
Fonte: Eco (1994, p. 80).

Nel definire il proprio significante nel processo ricettivo del messaggio significato, il
destinatario costruisce il senso del messaggio per la sua propria pratica, lavorando sui
materiali del messaggio inviato ma incorporandoli in un diverso campo semantico di
interpretazione. Questo non equivale a dire che il soggetto comunicativo non sia
influenzato dal contenuto e dal formato del messaggio. Ma la costruzione di significato è
complessa, e dipende da meccanismi di attivazione che combinano svariati livelli di
coinvolgimento nella ricezione del messaggio. Come scrive Russell Neumann nel suo
studio innovativo sul futuro del pubblico di massa:

Il membro dell’audience è al tempo stesso passivo e attivo. La mente è fatta in modo


tale che nuove informazioni, idee e impressioni vengono raccolte e valutate e
interpretate alla luce di schemi cognitivi e di informazioni accumulate dall’esperienza
passata… La ricerca svolta negli ultimi decenni conferma che il membro medio del
pubblico dedica un’attenzione relativamente scarsa, trattiene solo una esigua
frazione, e non è affatto sovraccaricato dal flusso di informazioni o dalle scelte
disponibili tra i media e i messaggi (Neumann, 1991, p. 114).
Con la diversificazione delle fonti dei messaggi nel mondo della comunicazione di massa,
il pubblico, pur rimanendo confinato nel suo ruolo di ricevente dei messaggi, ha
incrementato il proprio ventaglio di scelta e utilizzato le nuove opportunità offerte dai
media per esprimere le sue preferenze. Con un numero più ampio di canali televisivi, la
pratica dello zapping si è intensificata nel corso del tempo. La fedeltà a specifici network e
programmi si è indebolita. Telespettatori, radioascoltatori e lettori costruiscono tutti i
propri panieri di notizie e di intrattenimento, influenzando così il contenuto e il formato
della programmazione. La trasformazione dei programmi per bambini è un buon esempio
dell’evoluzione che hanno subito i messaggi per adeguarsi alla diversità delle culture dei
piccoli (Banet-Weiser, 2007). Ma diversità di canali e programmi non significa
necessariamente diversità di contenuti. Negli Stati Uniti, come s’è detto, gli studi hanno
mostrato che una famiglia tipo guarda soltanto 15 canali nel corso di una settimana
(Mandese, 2007). Gran parte del contenuto è ripetitivo. La capacità di consumare film a
base di sesso e di violenza con trame molto simili è piuttosto limitata. Così, il paradiso
promesso al telespettatore, fatto di 100 o 500 canali, si ridimensiona presto quando si
osserva il contenuto poco fantasioso proposto e i budget limitati di denaro e tempo a
disposizione.
Comunque, la potenzialità che il pubblico si prenda carico delle proprie pratiche
comunicative è cresciuta in misura consistente con gli sviluppi concomitanti della cultura
dell’autonomia e della nascita dell’autocomunicazione di massa, Da una parte, un numero
crescente di persone, e in particolare di giovani, afferma la propria autonomia dalle
istituzioni della società e dalle forme tradizionali di comunicazione, mass media compresi
(Banet-Weiser, 2007; Caron e Caronia, 2007; Montgomery, 2007). Dall’altra, la diffusione
di Internet e della comunicazione wireless sostiene e rafforza le pratiche di autonomia,
inclusi i contenuti prodotti dagli utenti che vengono caricati sul web. Per esempio, nella
ricerca che abbiamo condotto su un campione rappresentativo della popolazione catalana
(3005 individui) con l’impiego dell’analisi fattoriale, Imma Tubella e io abbiamo
identificato sei dimensioni diverse, e statisticamente indipendenti, di autonomia:
personale, imprenditoriale, professionale, comunicativa, sociopolitica e fisica. Studiando
gli utilizzi di Internet da parte dei soggetti analizzati e confrontandoli con i loro indici di
autonomia, abbiamo trovato che più alto è il livello di autonomia, in qualsiasi dimensione,
più alta è la frequenza e l’intensità dell’uso di Internet. E quanto più i soggetti usavano
Internet, tanto più si innalzava il loro livello di autonomia. Così, la diffusa visione di
Internet come strumento di costruzione dell’autonomia è stata empiricamente confermata
dal nostro studio (Castells e Tubella, 2007).
Altri studi sugli usi di Internet (Katz e Rice, 2002; Wellman e Haythornthwaite, 2002;
Cardoso, 2006; Center for the Digital Future, 2008) e sulla comunicazione wireless
(Castells et al., 2006b; Katz, 2008) mostrano risultati analoghi. Le reti orizzontali di
comunicazione basate su Internet sono attivate da soggetti comunicativi che determinano e
il contenuto e la destinazione del messaggio, e sono contemporaneamente mittenti e
ricevitori di flussi multidirezionali di messaggi. Seguendo la terminologia di Eco, i
mittenti sono anche destinatari, così che un nuovo soggetto della comunicazione, il
mittente/ricevente, emerge come figura centrale della Galassia Internet. Nella figura 2.7
propongo un modello della comunicazione che segue la logica di Eco ma la situa nel
contesto dell’autocomunicazione di massa.
FIG. 2.7. Il processo di comunicazione da parte dell’audience creativa.

Proverò a spiegare il significato del processo rappresentato nella figura 2.7. Mittenti e
destinatari sono collettivamente il medesimo soggetto. Specifici individui o organizzazioni
non sono necessariamente in corrispondenza reciproca: un mittente/ricevente potrebbe non
ricevere necessariamente messaggi dal mittente/ricevente a cui ha inviato un messaggio.
Ma prendendo il processo di comunicazione come una rete multidirezionale condivisa,
tutti i mittenti sono destinatari e viceversa. La comunicazione nella nuova cornice
tecnologica è multicanale e multimodale. La multimodalità si riferisce a varie tecnologie
di comunicazione. La multicanalità si riferisce agli assetti organizzativi delle fonti di
comunicazione. Se un messaggio è multimodale, è veicolato attraverso Internet (via fili o
senza), dispositivi wireless, televisione (con le sue diverse tecnologie di trasmissione),
radio, videoregistratori, stampa, libri, e simili. Inoltre, la multimodalità può fondersi in un
particolare processo comunicativo (per esempio, IPTV, trasmissioni televisive interattive,
MMOG, giornali online, e così via). Ciascuna di queste modalità, e i loro composti,
organizza un particolare codice di comunicazione, da identificare specificamente in
ciascun contesto e processo. Per esempio, sappiamo che l’IPTV non è la stessa cosa della
TV tradizionale, ma le specifiche differenze nei termini del codice implicito di ciascun
medium è più una questione di indagine che l’applicazione di un principio generale.
La comunicazione procede anche tramite molteplici canali: una varietà di canali
televisivi e di stazioni radio (globali, nazionali e locali) e dei loro network, molteplici
giornali cartacei e online, e un oceano ininterrotto di spazi sociali basati sul web che
organizzano le reti di comunicazione di milioni di mittenti e destinatari. Ognuno di questi
canali rappresenta un codice. Per esempio, una rete basata su notiziari televisivi
ventiquattr’ore su ventiquattro fissa un particolare frame di riferimento. YouTube
definisce il proprio codice con un mix di video e libero upload e download, accompagnati
da commenti e classifiche. I network della televisione religiosa o le stazioni porno
preselezionano il proprio pubblico con la propria autodefinizione. Ognuno di questi canali
ha specifiche caratteristiche che definiscono un determinato codice (religioso,
pornografico, video gratuito, networking sociale come in Facebook, cittadinanza virtuale
come in Second Life, e simili).
Così, seguendo il mio adattamento al nuovo contesto comunicativo dello schema di
comunicazione proposto da Eco, avanzo l’idea che diverse modalità di comunicazione
possono essere definite come Codice M e diversi canali di comunicazione come Codice C.
Il Codice M (per esempio la televisione o il web) opera tramite un certo numero di
subcodici che sono le modalità specifiche di un dato processo comunicativo (per esempio
la televisione via cavo contro la televisione specializzata, o l’IPTV contro i giochi online).
In modo simile, il Codice C (per esempio i telegiornali globali o i canali religiosi) operano
tramite vari subcodici (network islamici contro Fox News, Sports IPTV contro diffusione
IPTV dei clip della programmazione televisiva in broadcasting). Così il Codice M opera
tramite un numero 1…n di subcodici M e il Codice C opera tramite un numero 1…n di
subcodici C.
Operano producendo e inviando messaggi (significanti che recano significato).
Ma, purtroppo, devo aggiungere un altro livello di complessità per la comprensione del
nuovo processo di comunicazione. Come nella formulazione di Eco, mittenti e destinatari
interpretano i codici e i subcodici facendo intervenire i propri codici che disaccoppiano la
relazione tra significante e significato nel messaggio che è stato inviato, e filtrano il
significante per ottenere un diverso significato. Il problema è che nel mondo della
comunicazione di massa, mittenti e destinatari si fondono nello stesso soggetto, così che
questo soggetto dovrà negoziare il senso tra il codice del messaggio che ha inviato e il
codice del messaggio che ha ricevuto per poter produrre il proprio significante (il senso
del messaggio per l’individuo coinvolto nella comunicazione). Così, la complessità del
processo di comunicazione si presenta come segue.
Il mittente/ricevente deve interpretare i messaggi che gli arrivano in molteplici modalità
di comunicazione e da molteplici canali di comunicazione, impegnando il proprio codice
nell’interazione con il codice del messaggio originato dal mittente ed elaborato secondo
subcodici di modalità e di canali. Inoltre, deve negoziare il senso quale ricevente sulla
base della propria esperienza di mittente. Alla fine, c’è un significato autoselezionato che
lavora con gli svariati materiali del processo comunicativo. Inoltre, i soggetti comunicativi
non sono entità isolate; interagiscono invece tra loro formando reti di comunicazione che
producono senso condiviso. Siamo passati dalla comunicazione di massa rivolta
all’audience, a un’audience attiva che ritaglia il proprio senso mettendo a confronto la
propria esperienza con i flussi monodirezionali dell’informazione che riceve. Così,
osserviamo la nascita della produzione interattiva di significato. Questo è ciò che io
chiamo audience creativa, la fonte della cultura del remix che caratterizza il mondo
dell’autocomunicazione di massa.
Se è vero che questa è una rappresentazione astratta del processo comunicativo, è anche
vero che essa può offrire un quadro per comprendere l’attuale complessità del nuovo
processo comunicativo osservato dai ricercatori della comunicazione. Così, Tubella et al.
(2008) nel 2007 hanno esplorato l’interazione tra diverse modalità di comunicazione nella
pratica di un focus group di 704 individui in Catalogna. Inizialmente hanno analizzato i
dati (comprese indagini originali compiute da loro stessi) relativi agli usi dei media e di
Internet nella popolazione in senso lato. Il loro campo di osservazione è interessante
perché la Catalogna è un’economia avanzata e ha un sistema multimediale sviluppato, con
circa il 51 per cento delle famiglie connesse a Internet, in grande maggioranza con linee
DSL. Il 56 per cento della popolazione è utente di Internet e, tra questi, l’89 per cento ha
meno di 24 anni. Al tempo stesso, si tratta di una società in transizione, che presenta un
misto di popolazione anziana e non istruita, e popolazione giovane, dinamica, istruita,
esperta di Internet. Così, mentre solo l’8,9 per cento delle persone al di sopra dei 60 anni
erano utenti quotidiani di Internet nel 2006, la percentuale del gruppo tra i 16 e i 29 anni
era del 65,7 per cento.
Da una parte, la televisione (soprattutto la televisione in chiaro via etere) continua a
essere dominante tra i mass media, con quasi l’87 per cento di persone che la guarda ogni
giorno. Inoltre, sia per la Catalogna sia per la Spagna, il numero di ore passato in media a
guardare la televisione è rimasto stabile, tra il 1993 e il 2006, a un livello di 3,5 ore
giornaliere. Dall’altra parte, il sottoinsieme di utenti attivi su Internet, molti dei quali al di
sotto dei 40 anni, mostra un profilo molto netto di pratica comunicativa. Per esaminare
questo nuovo modello di relazione con i media, i ricercatori catalani hanno costituito un
focus group di 704 soggetti che sono stati osservati, usando diverse tecniche, con il loro
pieno consenso, per alcuni mesi. Sono utenti attivi delle nuove tecnologie di
comunicazione, compreso Internet, comunicazione wireless e console di videogame. Il
segmento 18-30 anni di questo focus group si collega a Internet, in media, per 4 ore al
giorno, per lo più da casa. Guarda meno TV del telespettatore medio, e dorme anche
meno. Ma il tempo che questi soggetti passano in Internet è intrecciato con il tempo in cui
guardano la televisione. Cosa più importante, smentiscono il concetto di «prime time».
Gestiscono il proprio tempo di comunicazione, comunicano nel corso della giornata con
mezzi diversi, e spesso lo fanno simultaneamente. Per questo gruppo il multitasking è la
regola più che l’eccezione. Contemporaneamente guardano la televisione, sono online,
ascoltano musica (o la radio), controllano gli SMS sui cellulari e giocano con la consolle.
Nell’uso di Internet, mandano e-mail, navigano tra i siti web, leggono i giornali online,
lavorano e studiano nello stesso quadro temporale. Inoltre, non sono ricettori passivi di
messaggi e informazioni. Un significativo sottogruppo è anche produttore di contenuti.
Remixano e caricano video, scaricano e condividono musica e film, creano blog e vi
partecipano. L’uso di Internet è altamente diversificato.
L’intenso uso di Internet ha effetto su altre pratiche comunicative. Così, circa il 67 per
cento dei membri del focus group dice di vedere meno televisione come conseguenza
dell’attività su Internet. E il 35 per cento legge meno stampa cartacea (leggono invece i
giornali online). D’altra parte, il 39 per cento ascolta più musica (scaricata dalla Rete), e il
24 per cento ascolta più radio, i due canali di comunicazione che possono essere inclusi
senza eccessive interferenze in un’attività di comunicazione basata su Internet. In effetti,
quelle attività che sono incompatibili con l’uso che fanno di Internet (leggere libri,
dormire) o richiedono attenzione visiva (televisione tradizionale) diminuiscono per
quantità di tempo loro assegnata dagli utenti attivi su Internet.
Così, sulla base di questa indagine sull’interazione tra media tradizionali e media basati
su Internet, appare che l’uso attivo di Internet nelle sue varie modalità produce tre effetti
principali:
1. sostituzione temporale della comunicazione basata su Internet al posto di attività
incompatibili;
2. graduale dissoluzione del «prime time» a favore del «my time»;
3. crescente simultaneità delle pratiche comunicative, integrate intorno a Internet e a
dispositivi wireless, dalla generalizzazione del multitasking e della capacità dei soggetti
comunicanti di combinare la propria attenzione su diversi canali, e di complementare fonti
di informazione e di intrattenimento mescolando modalità e canali in base ai propri
interessi.
Questi interessi definiscono i propri codici comunicativi. Come scrivono Tubella et al.
(2008):

Con Internet in casa, il consumo audiovisivo si fa specializzato e diversificato,


evolvendo in direzione di un universo che è multimodale, multicanale e
multipiattaforma. Le nuove tecnologie permettono maggiore flessibilità e mobilità,
supportando così la gestione di qualsiasi attività in qualsiasi spazio ovunque. Con la
diffusione degli strumenti che rendono possibile la partecipazione ai processi di
produzione, editing e distribuzione di informazioni e contenuti, il consumatore
diventa, al tempo stesso, un attivo creatore dotato della capacità di produrre e di
condividere le molteplici visioni del mondo in cui vive (2008, p. 235; corsivo mio).
Certo, questo modello di comunicazione non è predominante né in Catalogna né nel
mondo in generale. Ma se consideriamo che è ampiamente diffuso tra la popolazione
inferiore ai trent’anni e tra gli utenti attivi su Internet, potrebbe benissimo preludere ai
modelli di comunicazione che prevarranno nel prossimo futuro. In effetti, l’unica cosa che
sappiamo del futuro è che saranno i giovani di oggi a farlo, e che l’uso di Internet
diventerà generalizzato grazie alla generalizzazione delle reti senza fili, considerando
l’inevitabilità della scomparsa delle generazioni più anziane, tra le quali il tasso di
penetrazione di Internet è inferiore.
I risultati dello studio catalano possono essere estrapolati nel loro significato analitico.
La grande convergenza nella comunicazione, come ha proposto Jenkins (2006), non è
soltanto tecnologica e organizzativa, anche se queste sono dimensioni chiave per creare la
base materiale per il più ampio processo di convergenza. La convergenza è
fondamentalmente culturale e si svolge, in primo luogo, nella mente dei soggetti
comunicanti che integrano varie modalità e vari canali di comunicazione nella loro pratica
e nella loro interazione reciproca.
La comunicazione nell’età digitale globale
Sono ora in grado di mettere insieme i fili che formano il tessuto comunicativo dell’età
digitale globale. L’informazione e le tecnologie della comunicazione basate sulla
microelettronica rendono possibile la combinazione di tutte le forme di comunicazione in
un ipertesto globale, multimodale e multicanale. La potenzialità interattiva del nuovo
sistema di comunicazione apre la porta a una nuova forma di comunicazione,
l’autocomunicazione di massa, che moltiplica e diversifica i punti d’accesso nel processo
comunicativo. Questo permette ai soggetti comunicativi di comunicare in senso lato con
un’autonomia senza precedenti. Eppure, questo potenziale di autonomia è modellato,
controllato e frenato dalla crescente concentrazione e concatenamento delle grandi aziende
mediatiche in tutto il mondo. Le reti commerciali multimediali globali (inclusi i media di
proprietà statale) hanno sfruttato l’ondata di deregulation e liberalizzazione per integrare
le reti di comunicazione, le piattaforme di comunicazione e i canali di comunicazione
nelle loro organizzazioni multistratificate, collocando allo stesso tempo commutatori che
consentono l’accesso alle reti dei capitali, della politica e della produzione culturale.
Questo però non equivale a un controllo unilaterale e verticale delle pratiche
comunicative, per quattro ragioni: 1) la comunicazione delle multinazionali è diversificata
e, in una certa misura, competitiva, lasciando spazio per scelte diverse di strategia di
marketing; 2) le reti di comunicazione autonome hanno bisogno di un certo margine di
libertà per esercitare attrattiva sui cittadini/consumatori, espandendo così nuovi mercati
per la comunicazione; 3) le politiche di regolamentazione sono nelle mani di istituzioni
che dovrebbero difendere l’interesse pubblico, ma che spesso tradiscono questo principio,
come è avvenuto nell’ultimo ventennio negli Stati Uniti; 4) nuove tecnologie di libertà
accrescono la capacità della gente di appropriarsi delle nuove forme di comunicazione
secondo modalità che cercano incessantemente, anche se sempre con successo, di sottrarsi
alla mercificazione e al controllo.
Inoltre, le organizzazioni della comunicazione operano entro i diversi modelli culturali
del nostro mondo. Questi modelli sono caratterizzati dall’opposizione tra globalizzazione
e identificazione, e dalla tensione tra individualismo e comunalismo. Di conseguenza, la
cultura globale della mercificazione universale è culturalmente diversificata e in ultima
analisi contestata da altre espressioni culturali. Le organizzazioni mediatiche usano nuove
tecnologie e nuove forme di gestione, basate sul networking, per customizzare il
messaggio rispetto a pubblici specifici, e fornendo al tempo stesso un canale per lo
scambio di manifestazioni culturali locali. Di conseguenza, il sistema della comunicazione
digitale globale, pur rispecchiando relazioni di potere, non è basato sulla diffusione
dall’alto verso il basso di un’unica cultura dominante. Esso è diversificato e flessibile,
aperto nel contenuto dei messaggi, dipendente da specifiche configurazioni di business,
potere, cultura.
Poiché alle persone viene riconosciuta la loro diversità (fintantoché rimangono
consumatori) e poiché le tecnologie dell’autocomunicazione di massa permettono
maggiore iniziativa ai soggetti comunicanti (fintantoché si affermano come cittadini),
emerge una audience creativa, che rimescola la molteplicità di messaggi e codici che
riceve con i propri codici e progetti di comunicazione. Così, nonostante la crescente
concentrazione di potere, capitale e produzione nel sistema di comunicazione globale, il
contenuto e il formato concreti delle pratiche della comunicazione sono sempre più
diversificati.
Ma proprio perché il processo è così diversificato, e le tecnologie della comunicazione
così versatili, il nuovo sistema di comunicazione digitale globale diventa sempre più
inclusivo e comprensivo di ogni forma e contenuto esistenti della comunicazione sociale.
Tutto e tutti trovano modo di esistere in questo testo di comunicazione intrecciato,
multimodale, interattivo, così che ogni messaggio esterno a tale testo rimane
un’esperienza individuale che non ha grandi probabilità di essere comunicata socialmente.
Poiché le reti neurali del nostro cervello sono attivate tramite un’interazione retificata con
il proprio ambiente, compreso l’ambiente sociale, questo nuovo regno della
comunicazione, nelle sue forme variegate, diventa la principale fonte dei segnali che
portano alla costruzione di senso nella mente della gente. Dal momento che è in gran parte
il senso a determinare l’azione, comunicare significato diventa la fonte del potere sociale
perché inquadra la mente umana.
1
Ma il numero di canali su cui materialmente si sintonizzava la famiglia media americana rimaneva più o meno lo
stesso, attestandosi a 15,7 nel 2006 rispetto a 15,4 del 2005 e 15,0 del 2004, il primo anno in cui Nielsen riporta il dato
(Mandese, 2007).
2
Secondo la Nielsen Media Research, però, nonostante il rapido incremento nel numero di canali disponibili, il
consumatore medio guarda soltanto 15 canali la settimana (OECD, 2007, p. 175).
3
Inoltre, secondo la stessa indagine del Pew, solo l’11 per cento dei nuovi blog vertono sulla politica (Lenhart e Fox,
2006, pp. II-III).
4
Ma il Pew Internet Project ha anche rilevato che gli utenti preferiscono in misura predominante contenuto video
professionale (62 per cento) rispetto al solo 19 per cento che preferisce contenuto amatoriale e l’11 per cento che non ha
preferenze (Madden, 2007, p. 7). Con il crescere continuo delle società mediatiche che distribuiscono i propri video
online, la tendenza sembra stia remando contro i video prodotti dagli utenti (anche se il fenomeno potrebbe essere
temporaneo).
5
Jawed Karim è di origine tedesca ma si è trasferito negli USA all’età di tredici anni; Steven Chen è arrivato negli
Stati Uniti da Taiwan quando aveva otto anni.
6
www.boxofficemojo.com/alltime/weekends (accesso del 5 agosto 2008).
7
Questa sezione si basa su un articolo scritto in collaborazione con Amelia Arsenault (Arsenault e Castells, 2008b).
8
La commercializzazione del mercato cinese dei media viene detta guan ting bing zhuan, espressione che si riferisce
a un processo in cui i media statali che non danno risultati economici vengono chiusi o assorbiti, fusi con organizzazioni
mediatiche commerciali, o trasformate in entità aziendali commerciali (Huang, 2007, p. 418). Tra il 2003 e il 2007, sono
stati chiusi 677 giornali di partito o di governo, e 325 sono stati trasformati in gruppi editoriali commerciali.
9
L’era postbellica degli studios hollywoodiani è stata anch’essa contrassegnata dall’integrazione verticale e dal
controllo sproporzionato sul mercato cinematografico mondiale da parte di pochi elementi privilegiati. Comunque, la
digitalizzazione e la globalizzazione fanno sì che i conglomerati multimediali odierni controllino al momento una
gamma molto più ampia di piattaforme di diffusione (Warf, 2007).
10
La figura 2.1 riporta le relazioni interaziendali al febbraio 2008, tralasciando le numerose partnership temporanee
condotte da queste corporation. Per esempio, quando la NBC Universal ha acquisito i diritti di trasmissione delle
Olimpiadi invernali di Torino del 2006, ha firmato un contratto di fornitura di contenuti con ESPN.com (di proprietà
Disney) e contratti pubblicitari con Google. Quindi, la figura 2.1 fornisce solo un’istantanea di un momento specifico
delle interconnessioni tra queste società. Alle variazioni subite dai loro portafogli proprietari corrispondono variazioni
nella forma e nei contenuti di queste interconnessioni. Comunque, il fatto che questi dati siano datati non riduce
l’interesse analitico del nostro contributo (Arsenault e Castells, 2008b). Questo perché stiamo ipotizzando l’esistenza di
un pattern di organizzazione e strategia delle reti commerciali multimediali globali che può cambiare nella sua
composizione ma potrebbe benissimo rimanere il modello standard per il mondo del business multimediale per i
prossimi anni. In effetti, ci auguriamo che i ricercatori aggiornino, amplino e correggano la nostra valutazione attuale di
queste reti commerciali.
11
La classifica annuale del Financial Times delle 500 principali imprese globali è disponibile su
http://www.ft.com/reports/ft5002007.
12
Queste società di investimento restano in larga misura non regolate, in quanto la maggior parte della normativa sui
media, in particolare negli Stati Uniti, pone limiti alle imprese solo se hanno potestà di management sulle operazioni di
ordinaria amministrazione di una data proprietà mediatica. L’incremento degli investimenti dei fondi di private equity ha
suscitato una simile preoccupazione per le ramificazioni delle loro proprietà, perché queste società restano in gran parte
non regolamentate. Inoltre, mentre abitualmente non sono coinvolte nella gestione ordinaria di queste imprese, sono stati
avanzati sospetti su una loro indebita influenza sui media. Per esempio, nel 2007 Harbinger Capitel Partners Funds e
Firebrand hanno usato il leverage del 4,9 per cento delle loro proprietà combinate nella New York Times Company per
nominare quattro direttori all’assemblea annuale del 2008.
13
Il governo degli Stati Uniti, per esempio, risulta il ventinovesimo maggior inserzionista americano, con una spesa
di 1132,7 milioni di dollari (Advertising Age, 2007).
14
Per una diversa e ben documentata analisi di questo fondamentale sviluppo di politica, vedi il numero speciale sulla
neutralità della rete pubblicato dall’International Journal of Communication, nel suo volume del 2007.
Capitolo 3
LE RETI DELLA MENTE E IL POTERE
I mulini a vento della mente1
La comunicazione avviene attivando menti nella condivisione di significato. La mente è il
processo di creazione e manipolazione di immagini mentali (visive o meno) nel cervello.
Le idee si possono vedere come configurazioni di immagini mentali. Con ogni probabilità,
le immagini mentali corrispondono a modelli neurali. I modelli neurali sono
configurazioni di attività nelle reti neurali. Le reti neurali connettono i neuroni, che sono
cellule nervose. I modelli neurali e le immagini corrispondenti aiutano il cervello a
regolare la sua interazione con il corpo fisico e con il suo ambiente. La conformazione dei
modelli neurali dipende dall’evoluzione della specie, dalla dotazione cerebrale originaria
alla nascita e dall’esperienza appresa del soggetto.
La mente è un processo, non un organo. È un processo materiale che si svolge nel
cervello che interagisce con il corpo fisico. A seconda del livello di vigilanza, attenzione e
connessione con il sé, le immagini mentali che costituiscono la mente possono essere o
meno consapevoli. Essere consapevoli di qualcosa vuol dire: a) avere un certo livello di
vigilanza; b) avere l’attenzione focalizzata; c) connettere l’oggetto dell’attenzione con un
protagonista centrale (il sé).
Il cervello e il corpo costituiscono un organismo connesso da reti neurali attivate da
segnali chimici che circolano nel flusso sanguigno e da segnali elettrochimici inviati
tramite le vie nervose. Il cervello elabora gli stimoli ricevuti dal corpo e dal suo ambiente
con il fine ultimo di assicurare la sopravvivenza e aumentare il benessere del possessore
del cervello. Le immagini mentali, per esempio, le idee, sono generate con l’interazione
tra specifiche regioni del cervello e il corpo, rispondendo a stimoli interni ed esterni. Il
cervello costruisce modelli neurali dinamici mappando e immagazzinando attività e le
reazioni che queste suscitano.
Vi sono due generi di immagini del corpo: quelle dell’interno del corpo, e quelle
provenienti da speciali sonde sensoriali che catturano le alterazioni nell’ambiente. In tutti i
casi, queste immagini hanno origine da un evento del corpo o da un evento che è percepito
come relativo al corpo. Alcune immagini si riferiscono al mondo interno al corpo, altre al
mondo esterno. In tutti i casi, le immagini corrispondono ad alterazioni nel corpo e nel suo
ambiente, trasformate nel cervello grazie a un complesso processo con cui si costruisce la
realtà lavorando sulla materia prima dell’esperienza sensoriale tramite l’interazione tra
varie aree del cervello e le immagini immagazzinate nella sua memoria. La costruzione di
immagini complesse a partire da diverse fonti avviene con il legame neurale che si
raggiunge con la simultanea attività neuronale svolta in diverse aree del cervello per
raccogliere insieme, in un singolo intervallo di tempo, l’attività in arrivo da varie fonti. Le
reti di associazioni di immagini, idee e sentimenti che vengono connessi nel corso del
tempo costituiscono modelli neurali che strutturano emozioni, sentimenti e coscienza.
Così, la mente procede collegando in rete modelli presenti nel cervello con modelli della
nostra percezione sensoriale che derivano dal contatto che stabiliamo con le reti di
materia, energia e attività che costituiscono la nostra esperienza passata, presente e futura
(tramite la previsione delle conseguenze di determinati segnali in base alle immagini
immagazzinate nel cervello). Noi siamo reti in connessione con un mondo di reti. Ogni
neurone ha migliaia di connessioni in entrata da altri neuroni, e migliaia di connessioni in
uscita verso altri neuroni. Vi sono tra i 10 e i 100 miliardi di neuroni nel cervello umano,
per cui le connessioni sono nell’ordine delle migliaia di miliardi. La chiusura dei circuiti
crea esperienza: immediata o accumulata nel tempo.
Noi costruiamo la realtà in reazione a eventi reali, interni o esterni, ma il nostro cervello
non si limita a rispecchiare questi eventi. Piuttosto, li elabora in base ai propri modelli.
Gran parte dell’attività di elaborazione è inconscia. Così, la realtà per noi non è né
oggettiva né soggettiva, ma una costruzione materiale di immagini che mescolano ciò che
accade nel mondo fisico (all’interno e all’esterno di noi) con l’iscrizione materiale
dell’esperienza nei circuiti del nostro cervello. Questo avviene tramite un insieme di
corrispondenze, istituite nel corso del tempo dai legami neurali, tra le caratteristiche degli
eventi e il catalogo di reazioni che il cervello ha a disposizione per svolgere la sua
funzione regolatoria. Queste corrispondenze non sono fisse. Possono essere manipolate
nella nostra mente. Il legame neurale crea nuove esperienze. Possiamo istituire relazioni
spaziali e temporali tra gli oggetti che percepiamo. La costruzione del tempo e dello
spazio definisce in larga misura la nostra costruzione della realtà. Questo richiede un
livello superiore di manipolazione delle immagini. Ossia, richiede la mente conscia: una
mente che simbolizza corrispondenze tra eventi e mappe mentali; per esempio, con l’uso
di metafore, molte delle quali derivate dall’esperienza del corpo fisico. Anzi, il corpo
fisico è la fonte dell’attività della mente, inclusa la mente conscia. Ma l’elaborazione di
questi segnali a livelli più alti di astrazione diventa un meccanismo fondamentale per la
preservazione e il benessere del corpo fisico. Come scrive Damasio: «La mente del
cervello, arredata dal corpo, governata dal corpo, è serva dell’intero corpo» (2003, p. 206).
La coscienza probabilmente emerge dalla necessità di integrare un maggior numero di
immagini mentali provenienti dalla percezione con immagini della memoria. Più grande è
la capacità di integrazione di un processo mentale, maggiore sarà la capacità della mente
di risolvere problemi a vantaggio del corpo. Questa maggiore capacità ricombinante è
associata con ciò che chiamiamo creatività e innovazione. Ma la mente conscia ha bisogno
di un principio organizzativo per orientare questo livello superiore di attività. Questo
principio organizzativo è il sé: l’identificazione dello specifico organismo che deve essere
servito dal processo di manipolazione delle immagini mentali. A partire da una finalità
generica di sopravvivenza e benessere, il mio cervello definisce una specifica
manipolazione mentale per la sopravvivenza e il benessere di me stesso. I sentimenti, e
quindi le emozioni da cui essi nascono, svolgono un ruolo fondamentale nell’orientamento
della mente nell’assicurare la destinazione dell’attività verso il giusto corpo fisico. In
effetti, senza la coscienza, il corpo umano non può sopravvivere.
La coscienza opera sui processi della mente. È l’integrazione delle emozioni, i
sentimenti e i ragionamenti che portano alla formazione delle decisioni a determinare
questi processi. Le rappresentazioni mentali diventano motori di azione significativa
incorporando le emozioni, i sentimenti e i ragionamenti che definiscono il modo in cui
viviamo. Abbiamo bisogno di comprendere questo meccanismo per poter afferrare ciò che
intendiamo concretamente quando parliamo di politica emozionale o quando dico che
voglio fare quello che mi sento di fare. Emozioni, sentimenti e ragionamenti originano
tutti dalla stessa modellazione neuronica tra il cervello e il corpo fisico, e seguono le
stesse regole di associazione e rappresentazione stratificata che caratterizzano la dinamica
della mente.
Antonio Damasio (1994, 1999, 2003) ha dimostrato, sperimentalmente e teoricamente,
il ruolo preminente delle emozioni e dei sentimenti nel comportamento sociale. Le
emozioni sono modelli caratteristici di reazioni chimiche e neurali risultanti
dall’individuazione da parte del cervello di uno stimolo emozionalmente adeguato (ECS,
Emotionally Competent Stimulus), ossia di mutamenti nel cervello e nel corpo indotti dal
contenuto di una determinata percezione (come un’emozione di paura quando ci si trova di
fronte a un’immagine della morte o che evoca la morte). Le emozioni sono impiantate
profondamente nel nostro cervello (e nel cervello della maggior parte delle specie) perché
sono state indotte dalla spinta a sopravvivere nel corso del processo di evoluzione. Ekman
(1973) ha identificato sei emozioni di base riconoscibili dappertutto. La ricerca
sperimentale mostra che l’operato di queste emozioni può essere correlato a specifici
sistemi nel cervello. Le sei emozioni basilari sono: paura, disgusto, sorpresa, tristezza,
felicità e rabbia. Specie o individui che non sono attrezzati con il corretto sistema di
percezione emozionale hanno scarsa probabilità di sopravvivere.
Le emozioni sono percepite nel cervello come sentimenti. «Un sentimento è la
percezione di un certo stato del corpo accompagnato dalla percezione di un certo modo di
pensare, e di pensieri con determinati temi» (Damasio, 2003, p. 86). I sentimenti derivano
da mutamenti attivati per via emozionale nel cervello, i quali raggiungono un livello di
intensità sufficiente per essere elaborati consciamente. Il processo del sentimento però non
è una semplice trascrizione di emozioni. I sentimenti elaborano emozioni nella mente nel
contesto della memoria (ossia i sentimenti comprendono associazioni ad altri eventi,
direttamente vissuti dall’individuo o trasmessi per via genetica o culturale). Inoltre, i
modelli emozionali derivano dall’interazione tra le caratteristiche dello stimolo
emozionalmente adeguato e le caratteristiche delle mappe cerebrali di uno specifico
individuo.
Le immagini nel nostro cervello sono stimolate da oggetti o eventi. Noi non
riproduciamo gli eventi, li elaboriamo. I modelli neurali conducono a immagini mentali e
non viceversa. Le immagini primarie su cui opera la mente hanno origine nel corpo o
tramite suoi sensori periferici (per esempio i nervi ottici). Queste immagini si basano su
modelli neurali di attività o inattività riferiti all’interno del corpo o al suo ambiente
esterno.
Il nostro cervello elabora eventi (interiori o esteriori) in base alle proprie mappe (o reti
di associazioni costituite). Tali eventi sono strutturati nel cervello. Collegando queste
mappe agli eventi, il legame neurale crea esperienze emozionali con l’attivazione di due
vie emozionali definite da neurotrasmettitori specifici: il circuito della dopamina veicola
emozioni positive; il circuito della norepinefrina trasmette le emozioni negative. Queste
vie emozionali sono collegate reticolarmente con il prosencefalo, dove si svolge gran parte
del processo decisionale. Questi sentieri convergenti sono denominati marcatori somatici
e svolgono un ruolo chiave nel collegare emozioni a sequenze di eventi.
L’attività cerebrale necessaria a produrre il proto-sé, un passo indispensabile per
costituire il sé, condivide alcuni meccanismi con la produzione dei sentimenti nel cervello.
Così, i sentimenti e la costituzione del sé emergono in stretta relazione, ma è solo quando
il sé è formato che le emozioni vengono elaborate come sentimenti. Diventando noti al sé
conscio, i sentimenti sono in grado di governare il comportamento sociale, e in ultima
analisi di influenzare il processo decisionale collegando sentimenti del passato e del
presente per anticipare il futuro, attivando le reti neurali che associano sentimenti ed
eventi. Questa capacità associativa amplifica in misura straordinaria la capacità del
cervello di apprendere ricordando emotivamente eventi e le loro conseguenze.
Emozioni e sentimenti sono connessi nella mente per orientare il sé verso il processo
decisionale in relazione alle reti interne ed esterne del sé. La mente umana è caratterizzata
dalla capacità di pensare il futuro, che è l’abilità di mettere in relazione eventi prevedibili
con le mappe cerebrali. Perché il cervello operi la connessione tra queste mappe ed eventi
esterni, bisogna che abbia luogo un processo comunicativo. In parole povere, la mente
umana si attiva tramite l’accesso alle mappe cerebrali che avviene mediante il linguaggio.
Perché la comunicazione avvenga, il cervello e le sue percezioni sensoriali necessitano
di protocolli di comunicazione. I protocolli di comunicazione più importanti sono le
metafore. Il nostro cervello pensa per metafore, forme cui il linguaggio può accedere ma
che sono strutture fisiche nel cervello (Lakoff e Johnson, 1980; Lakoff, 2008). Secondo
l’analisi di Lakoff:

Come dicono i neuroscienziati, «neurons that fire together wire together» (i neuroni
che attivano insieme si connettono insieme). Man mano che lo stesso circuito viene
attivato un giorno dopo l’altro, le sinapsi dei neuroni nel circuito si rafforzano finché
si forma un circuito permanente. Questo fenomeno prende il nome di reclutamento
neuronale… «Reclutamento» è il processo con cui si rafforzano le sinapsi lungo un
percorso per creare un sentiero nel quale un’attivazione sufficientemente forte possa
fluire. Più i neuroni vengono usati insieme, e più ne escono «rafforzati». Il
«rafforzamento» è un incremento fisico nel numero di recettori chimici dei
neurotrasmettitori a livello di sinapsi. Un tale circuito «reclutato» costituisce
fisicamente la metafora. Così, il pensiero metaforico è fisico… Semplici metafore
possono poi essere combinate mediante il legame neuronale per formare metafore
complesse (2008, pp. 83-84).
Le metafore sono fondamentali per connettere il linguaggio (e quindi la comunicazione
umana) ai circuiti cerebrali. È tramite le metafore che si costruiscono le narrazioni. Le
narrazioni sono composte di frame, strutture della narrazione corrispondenti alle strutture
del cervello che si sono prodotte mediante l’attività cerebrale nel corso del tempo. I frame
sono reti neurali di associazione a cui è possibile accedere col linguaggio mediante
connessioni metaforiche. Il framing consiste nell’attivare specifiche reti neurali. Nel
linguaggio, le parole sono associate a campi semantici. Questi campi semantici rimandano
a frame concettuali. Così linguaggio e mente comunicano mediante frame che strutturano
narrazioni che attivano le reti nel cervello. Le metafore traducono in frame la
comunicazione scegliendo specifiche associazioni tra lingua ed esperienza in base alla
mappatura cerebrale. Ma le strutture dei frame non sono arbitrarie. Sono basate
sull’esperienza, ed emergono dall’organizzazione sociale che definisce i ruoli sociali
all’interno della cultura che poi viene fissata nei circuiti cerebrali. Così, la famiglia
patriarcale si fonda sul ruolo del padre/patriarca e della madre/massaia derivati
dall’evoluzione e fissati dal dominio e dalla divisione di genere del lavoro nel corso della
storia, che viene poi inscritta nelle reti cerebrali attraverso l’evoluzione biologica e
l’esperienza culturale. Da lì, se seguiamo la proposizione di Lakoff, emergono i frame del
genitore autoritario e del genitore che cura e protegge (non della padre o della madre,
perché le metafore di genere sono culturali) che alimenta, su cui poggiano molte strutture
sociali e istituzionali. Mentre è aperto il dibattito sull’universalità di quest’ultima
proposizione (in realtà Lakoff si riferisce specificamente alla cultura americana), il
meccanismo del framing rivelato da Lakoff regge indiscusso.
Le narrazioni definiscono ruoli sociali entro contesti sociali. I ruoli sociali sono basati
su frame che esistono sia nel cervello sia nella pratica sociale. L’analisi di Goffman (1959)
sul gioco di ruolo come base dell’interazione sociale si fondava anch’essa sulla
determinazione dei ruoli che strutturano le organizzazioni nella società. Il framing risulta
dall’insieme delle corrispondenze tra ruoli organizzati in narrazioni, narrazioni strutturate
in frame, semplici frame combinati in narrazioni complesse, campi semantici (parole
correlate) nel linguaggio connessi a frame concettuali, e la mappatura dei frame nel
cervello grazie all’azione di reti neurali costruite sulla base dell’esperienza (evolutiva e
personale, passata e presente). Il linguaggio non è semplicemente lingua verbale; può
essere anche comunicazione non verbale (per esempio il linguaggio del corpo), oltre che
una costruzione di immagini e suoni mediata tecnologicamente. Gran parte della
comunicazione è costruita intorno a metafore perché questa è la via d’accesso al cervello:
con l’attivazione delle reti cerebrali opportune che saranno stimolate nel processo
comunicativo.
L’azione umana si svolge tramite un processo decisionale che coinvolge emozioni,
sentimenti e componenti di ragionamento, come mostra la figura 3.1 proposta da Damasio.
Il punto critico in questo processo è che le emozioni svolgono un duplice ruolo
nell’influenzare il processo di decisione. Da una parte, attivano in modo velato le
esperienze emozionali relative alla questione che è oggetto di decisione. Dall’altra, le
emozioni possono agire direttamente sul processo decisionale, spingendo il soggetto a
decidere come si sente. Non vuol dire che il giudizio diventi irrilevante, ma che gli
individui tendono a selezionare le informazioni in modo da favorire la decisione che sono
già inclini a prendere.
FIG. 3.1. Il processo decisionale secondo Antonio Damasio.
Fonte: Damasio (2003, p. 149).

Dunque il processo decisionale ha due percorsi, uno basato sul ragionamento per frame,
l’altro direttamente emotivo. Ma la componente emotiva può agire sulla decisione
direttamente, oppure indirettamente marcando il ragionamento con un segnale positivo o
negativo che riduce lo spazio decisionale in base alla nostra passata esperienza. I segnali
rimandano nell’uno o nell’altro senso al corpo, quindi questi segnali sono marcatori
somatici. Gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (1973) sulle decisioni
economiche sembrerebbero confermare l’esistenza di questa scorciatoia per passare dalle
emozioni e dai sentimenti al processo decisionale senza alcuna elaborazione indiretta del
pensiero strategico.
La comunicazione, nelle sue diverse modalità, svolge un ruolo di primo piano
nell’attivare le pertinenti reti neurali in un processo decisionale. Questo perché «parte
della medesima struttura neurale nel cervello è usata quando agiamo una narrazione e
quando vediamo qualcun altro che agisce quella narrazione» (Lakoff, 2008, p. 40). Anche
se tra i due processi esiste una differenza, il nostro cervello usa le stesse strutture per la
percezione e per l’immaginazione.
Un modo in cui l’esposizione alla comunicazione può influenzare il comportamento è
tramite l’attivazione nel cervello dei cosiddetti neuroni specchio (Gallese e Golfman,
1998; Gallese et al., 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004). I neuroni specchio rappresentano
l’azione di un altro soggetto. Attivano processi di imitazione e di empatia. Rendono
possibile mettersi in relazione con lo stato emozionale di altri individui, un meccanismo
che sta alla base della cooperazione negli animali e negli umani. Comunque, i neuroni
specchio non agiscono da soli. Dipendono da processi più ampi nelle reti cerebrali.
Secondo Damasio e Meyer:

Le cellule nelle aree dei neuroni specchio non recano in sé significato, e da sole non
sono in grado di realizzare la simulazione interna di un’azione… I neuroni specchio
inducono una diffusa attività neuronica basata su modelli appresi di connettività;
questi modelli generano la stimolazione interna e stabiliscono il significato delle
azioni… Tutto sommato i neuroni che si trovano al centro di questo processo non
sono poi tanto simili a degli specchi. Sono più come dei burattinai, che tirano i fili di
varie memorie… I neuroni specchio muovono i fili, ma il burattino vero e proprio è
fatto di una vasta rete cerebrale (Damasio e Meyer, 2008, p. 168).
Le emozioni non sono cruciali soltanto per i sentimenti e il ragionamento, ma sono anche
indispensabili per la comunicazione negli animali sociali. I neuroni specchio, attivando
determinati modelli neuronali, mostrano di svolgere un ruolo importante nella
comunicazione emotiva perché le stesse reti neurali sono attivate quando ho paura e
quando vedo qualcun altro che ha paura, o quando vedo immagini di umani che hanno
paura, o quando assisto a eventi che evocano la paura. Inoltre, i processi di simulazione
generati dai modelli attivati dai neuroni specchio facilitano la costruzione del linguaggio
perché presiedono alla transizione dall’osservazione e l’azione alla rappresentazione
generale, vale a dire al processo di astrazione. La capacità di astrazione introduce
l’espressione simbolica, la fonte della comunicazione tramite il linguaggio.
Gli effetti dei neuroni specchio e dei modelli neuronici da loro attivati assistono la
mente nella rappresentazione degli stati intenzionali altrui (Schreiber, 2007). I neuroni
specchio si eccitano quando quando si esegue un’azione e quando si osserva l’azione di un
altro soggetto. Perché questa azione abbia un senso nel mio cervello, però, debbo valutare
che cosa sta facendo il soggetto. La corteccia parietale mediale è attivata da eventi
emozionalmente adeguati (ECS) risultanti dalla valutazione che fa dell’ambiente (Raichle
et al., 2001). Poiché queste regioni mediali sono attive nell’individuazione,
rappresentazione, valutazione e integrazione degli stimoli autoreferenziali, diversi
neuroscienziati ritengono questa regione del cervello fondamentale per la costruzione del
sé (Damasio, 1999; Damasio e Meyer, 2008). Gli esperimenti hanno dimostrato che la
capacità di valutare gli stati intenzionali altrui e di inviare segnali per manipolare queste
intenzioni può agevolare l’evoluzione verso una maggiore cooperazione, inducendo
migliori risultati individuali e di gruppo (Schreiber, 2007, p. 56).
L’attivazione del nostro cervello tramite modelli neuronali indotti dai neuroni specchio
è alla base dell’empatia, l’identificazione o il rifiuto verso le narrazioni della televisione,
del cinema o della letteratura, e verso le narrazioni politiche di partiti e candidati. Come
afferma Lakoff (2008), l’uso della stessa struttura neurale tanto per l’esperienza quanto
per la rappresentazione dell’esperienza ha «enormi conseguenze politiche» (p. 40). Nelle
parole di Westen: «la persuasione politica è fatta di reti e narrazioni» (2007, p. 12) perché
«il cervello politico è un cervello emotivo» (2007, p. XV). È per questo che «gli stati che
davvero decidono le elezioni sono gli stati mentali dei votanti» (2007, p. 4).
In effetti, una mole sempre crescente di ricerche nel campo della politologia e della
comunicazione politica ha stabilito l’esistenza di una complessa serie di connessioni tra
mente e potere nel processo politico. Il potere, come tutta la realtà, è costruito nelle reti
neurali del nostro cervello. Il potere si genera nei mulini a vento della mente.
Emozione, cognizione e politica
La cognizione politica è un fattore chiave nell’evoluzione dell’umanità, contribuendo ad
alimentare la cooperazione e le decisioni collettive nella ricerca della sopravvivenza e del
benessere. Un filone sempre più influente di ricerche dimostra l’integrazione della
cognizione e dell’emozione nel processo di decisione politica. La cognizione politica è
plasmata per via emozionale. Non c’è opposizione tra cognizione ed emozione, ma vi sono
più forme di articolazione tra emozione e cognizione nel processo decisionale.
L’elaborazione delle informazioni (cognizione) può operare in presenza o in assenza di
ansia (emozione), conducendo a due forme diverse di decisionalità: un processo
decisionale razionale come processo di valutazione di nuove informazioni, e modelli
decisionali di routine basati su esperienze passate elaborate nelle mappe cerebrali.
La teoria dell’intelligenza affettiva fornisce un’utile cornice analitica a cui si ispira un
variegato corpus di documentazione nella comunicazione politica e nella psicologia
politica, documentazione che supporta l’idea che gli appelli emotivi e le scelte razionali
sono meccanismi complementari, la cui interazione e il cui peso relativo nel processo
decisionale dipendono dal contesto del processo (Marcus et al., 2000; MacKuen et al.,
2007; Neuman et al., 2007; Marcus, 2008). In effetti, le menomazioni affettive disattivano
la capacità di operare corretti giudizi cognitivi. La valutazione degli eventi è emozionale, e
modellata dai marcatori somatici (Spezio e Adolphs, 2007, pp. 71-95). Secondo MacKuen
et al., «La razionalità è appropriata solo in alcune situazioni» (2007, p. 126). Un aumento
dell’ansia è indice di incertezza e l’incertezza è associata con la razionalità:

L’ideologia domina la scelta degli elettori compiacenti – votanti che non provano
disagio verso il proprio candidato. Dall’altra parte, quando è impegnata da
meccanismi di allerta emotiva, la gente modifica il proprio comportamento…
Quando sono emozionalmente stimolati a una riflessione ragionata che è altamente
ansiosa riguardo al proprio candidato di partito, i cittadini riducono il ricorso alla
predisposizione e accrescono la valutazione di informazioni recenti (MacKuen et al.,
2007, p. 136).
Quindi, cosa piuttosto interessante, le emozioni forti attivano meccanismi di allarme che
accrescono la rilevanza della valutazione razionale riguardo alla decisione (Schreiber,
2007). L’emozione evidenzia il ruolo della cognizione influenzando al tempo stesso il
processo cognitivo.
Secondo la teoria dell’intelligenza affettiva, le emozioni particolarmente rilevanti per il
comportamento politico sono l’entusiasmo (e il suo opposto, la depressione) e la paura (e
la sua controparte, la calma). Ma quali sono le fonti di queste emozioni politiche? E in che
modo le emozioni si colorano positivamente o negativamente in presenza di uno specifico
evento?
Il comportamento politico è condizionato da due sistemi emozionali: a) il sistema di
disposizione induce entusiasmo e organizza comportamenti per raggiungere gli scopi del
soggetto entusiasta in un dato ambiente; b) il sistema di sorveglianza quando si prova
paura o ansia a causa della presenza di un determinato ECS, fa appello al meccanismo del
ragionamento per valutare accuratamente la risposta adeguata alla minaccia percepita.
Così, l’agire sulle predisposizioni comportamentali dovrebbe attivare l’entusiasmo, mentre
l’ansia dovrebbe aumentare la considerazione della complessità di circostanze specifiche. I
cittadini entusiasti seguono la linea di partito, mentre i cittadini ansiosi esaminano più
minutamente le loro opzioni.
Secondo l’analisi di Huddy et al. (2007), affetti positivi e negativi sono connessi ai due
sistemi motivazionali di base che risultano dall’evoluzione umana: approccio ed
evitamento. Il sistema di approccio è collegato al comportamento orientato alla produzione
di emozioni positive, dirigendo un individuo verso esperienze e situazioni che producono
piacere e ricompensa. L’affetto negativo è associato all’evitamento che mira a proteggere
un individuo da circostanze negative. La loro analisi si basa sull’evidenza empirica che
mostra l’attivazione di entrambi i sistemi in diverse regioni del cervello e secondo diversi
percorsi neurochimici (Davidson, 1995). Esiste un debole legame tra emozioni positive e
negative; le une non sono l’opposto delle altre. Le emozioni positive sono più comuni. Le
emozioni negative vengono acuite quando è il momento di passare dalla decisione
all’azione. Comunque, questo modello analitico non tiene conto della differenza tra i
diversi tipi di emozioni negative, come l’ansia e la rabbia. La ricerca neurologica connette
rabbia a comportamento di approccio, e ansia a comportamento di evitamento. Inoltre,
esiste un’associazione tra ansia e rifiuto del rischio, e rabbia e accettazione del rischio
(Huddy et al., 2007, p. 212). L’ansia si associa all’acuita vigilanza e all’evitamento del
pericolo. Ma la rabbia no. L’ansia è una reazione a una minaccia esterna su cui la persona
minacciata ha scarso controllo. La rabbia è la reazione a un evento negativo che
contraddice un desiderio. L’ansia aumenta con la percezione di un atto ingiusto e con
l’identificazione dell’agente responsabile dell’atto. Ansia e rabbia hanno diverse
conseguenze. La rabbia porta all’elaborazione imprudente degli eventi, alla riduzione
della percezione del rischio, e alla maggiore accettazione dei rischi legati a una
determinata azione. L’ansia è connessa all’evitamento e induce un maggior livello di
valutazione della minaccia, una maggiore preoccupazione per il rischio implicato, e una
valutazione prudente delle informazioni. Per esempio, alcuni studi sulle emozioni negative
e il conflitto in Iraq non hanno rilevato l’esistenza di una relazione tra sentimenti e
atteggiamento nei confronti della guerra. Ma questo perché non hanno distinto fra rabbia e
ansia. Uno studio condotto da Huddy et al. (2002) ha rilevato un nesso tra la rabbia verso
Saddam Hussein e verso i terroristi e l’appoggio degli americani alla guerra in Iraq, e un
legame tra l’ansia riguardo agli stessi soggetti e l’opposizione alla guerra. L’ansia porta a
comportamenti di rifiuto del rischio. La rabbia porta a comportamenti di affrontamento del
rischio. L’ansia è associata a oggetti ignoti. Il rifiuto è associato con ben noti oggetti
negativi (Neuman, comunicazione personale, 2008).
L’emozione influenza il giudizio politico attraverso due percorsi: a) fedeltà a partiti,
candidati o opinion-leader basata sull’attaccamento (quando le circostanze sono familiari);
b) disamina critica di partiti, candidati o opinion-leader basata su calcoli razionali
influenzati da un incremento dell’ansia (quando le circostanze non sono familiari). In
entrambi i casi, non è la sola razionalità a determinare la decisione; è un’elaborazione di
secondo livello di informazioni che dipende dalle emozioni attivate.
La componente emozionale della cognizione politica condiziona l’efficacia
dell’elaborazione delle informazioni relative ai temi e ai candidati. Per comprendere in che
modo i cittadini elaborano la conoscenza politica, Redlawk et al. (2007) hanno condotto
un esperimento su un gruppo di studenti usando tecniche di voto a processo dinamico. Le
loro risultanze mostrano che l’ansia agisce solo a favore dei candidati preferiti e dipende
dall’ambiente. In un ambiente ad alto pericolo, l’ansia porta a una attenta elaborazione
delle informazioni, un maggiore sforzo per raccogliere informazioni sul candidato che
genera ansia, e maggiore attenzione alla posizione del candidato sulle singole questioni.
Ma in un ambiente a basso pericolo, l’ansia non ha molto effetto sull’elaborazione e
l’acquisizione delle informazioni. Sembra esista una soglia di ansia: se c’è troppo poca
ansia nell’ambiente, l’apprendimento non viene attivato; ma troppa ansia indebolisce
l’apprendimento. In entrambi gli ambienti, l’ansia non influisce sull’elaborazione delle
informazioni sul candidato o i candidati meno preferiti.
La rabbia, è il caso di ripeterlo, è diversa dall’ansia nei suoi effetti sugli affetti. In
ambienti a bassa minaccia, si presta più attenzione alle informazioni che evocano rabbia.
Quando la rabbia è diretta verso un candidato che si era in precedenza apprezzato, segue
l’avversione: i votanti appoggiano altri candidati e tendono a ricordare in maniera non
corretta le posizioni del candidato che hanno rifiutato dopo un appoggio iniziale. Dall’altra
parte, più entusiasmo si traduce in più ricerca di informazioni, anche se non sempre una
ricerca più frequente si traduce in una più accurata valutazione delle questioni in gioco.
Livelli più alti di esperienza politica aumentano le connessioni emozionali a candidati e
partiti, dal momento che i cittadini si basano sulle associazioni implicite immagazzinate.
Viceversa, chi è privo di esperienza politica è più portato a usare i meccanismi cognitivi
per valutare le opzioni a disposizione (Redlawk et al., 2007).
Uno studio ormai classico di Zaller (1992) ha scoperto che l’incertezza stimolava
l’attenzione per le informazioni politiche e aumentava la probabilità che l’informazione
venisse effettivamente trattenuta. Nella ricerca di informazioni, la gente parte dai propri
valori, e poi cerca informazioni che confermino quei valori. Analogamente, Popkin (1991)
ha mostrato che gli individui sono «taccagni cognitivi» che si limitano alle informazioni
che confermino le convinzioni e le abitudini preesistenti, in una scorciatoia cognitiva che
riduce lo sforzo mentale necessario a eseguire un compito (Popkin, 1991; Schreiber,
2007). Per esempio, la gente formula giudizi basandosi su informazioni che può
richiamare dalla memoria, anziché su un insieme completo di informazioni raccolte dalle
varie fonti. Richiamare la memoria impegna il sistema riflessivo. Il sistema riflessivo, nel
frattempo, svolge un ruolo subconscio nella formazione degli atteggiamenti.
Gli atteggiamenti espliciti costruiscono un set limitato di informazioni. Le opinioni
implicite risultano da associazioni automatiche tra molti fattori, e sono esposte agli
stereotipi. Disposizioni implicite ed esplicite spesso sono in conflitto. Gli atteggiamenti
impliciti hanno un ruolo forte nelle decisioni politiche perché contribuiscono a costruire le
coalizioni che favoriscono la cooperazione. Coalizione e cooperazione sono state
fondamentali per la sopravvivenza dei primi esseri umani e hanno provocato l’evoluzione
dell’intelligenza umana inducendo la competizione cognitiva. Gli umani formano
coalizioni intorno a caratteristiche condivise: una di queste caratteristiche è la razza, cosa
che porta agli stereotipi razziali. Le coalizioni multirazziali debbono stabilire la
cooperazione intorno ad altre caratteristiche comuni. Così, è la cooperazione più che le
specifiche caratteristiche di chi coopera la chiave del legame politico in grado di
trascendere gli stereotipi di razza o genere (Schreiber, 2007, p. 68).
Tutta la politica è personale. Le reti sociali svolgono un ruolo importante nel definire il
comportamento politico. Se la gente trova opinioni congeniali nella propria rete sociale, è
più attiva politicamente, mentre idee contrastanti nella rete sociale riducono la
partecipazione. Le opinioni dei soggetti sono influenzate dai sentimenti verso altre
persone della rete. Le opinioni si producono nella pratica condivisa, e quindi possono
cambiare se cambia la pratica (MacKuen et al., 2007). Le opinioni dipendono dai
sentimenti, e i sentimenti si costruiscono attraverso la percezione delle emozioni. Come
abbiamo visto, gli studi mostrano il ricorrere di un certo numero di emozioni attraverso le
varie culture. Alcune di queste emozioni svolgono un ruolo particolarmente importante nel
processo politico. Una di queste emozioni è la paura. Un’altra è la speranza (Just et al.,
2007). Giacché implica la proiezione di comportamento nel futuro, la speranza è
accompagnata dalla paura che non si realizzerà. Dato che un carattere distintivo della
mente umana è la capacità di immaginare il futuro, la speranza è un ingrediente
fondamentale nell’attivazione della mappe cerebrali che motivano il comportamento
politico orientato al conseguimento di benessere nel futuro come conseguenza dell’azione
presente. Così, la speranza è una componente chiave della mobilitazione politica.
Ma la speranza è anche mescolata con la paura che il candidato preferito perda, o che
tradisca il proprio elettorato. Speranza e paura si combinano nel processo politico, e i
messaggi delle campagne elettorali sono spesso diretti a stimolare la speranza e a instillare
la paura dell’avversario. La paura è essenziale per l’autoconservazione, ma la speranza è
essenziale per la sopravvivenza perché permette agli individui di progettare l’esito delle
loro decisioni e li spinge a muoversi verso una linea di azione dalla quale si aspettano di
trarre beneficio. Paura e speranza incoraggiano entrambe a cercare più informazioni sulle
proprie decisioni. Speranza ed entusiasmo non sono la stessa cosa. La speranza comporta
un livello di incertezza sul soggetto tramite il quale la speranza è mediata (ossia il partito o
il candidato). L’entusiasmo è semplicemente una valutazione positiva e non richiede
necessariamente la proiezione del cambiamento sociale. Ma il punto cardine è che la
valutazione dei candidati o delle opzioni politiche viene elaborata in relazione agli
obiettivi del sé. Non esiste la politica-in-generale: è sempre la «mia politica», elaborata dai
modelli neuronici del mio cervello e messa in atto da decisioni che articolano le mie
emozioni e le mie capacità cognitive, comunicate attraverso i miei sentimenti. Questa è la
cornice dell’azione umana in cui opera il processo politico.
Emozione e cognizione nelle campagne politiche
Come rileva Brader (2006), per molto tempo la ricerca accademica ha sottovalutato
l’impatto che i media e le campagne politiche hanno sul risultato delle elezioni (per
esempio, Lazarsfeld et al., 1944), in contraddizione con le convinzioni e la prassi della
maggioranza dei consulenti politici. A partire dagli anni Novanta, però, si è formato un
consistente corpus di studi sulla comunicazione politica che ha fornito le prove
dell’influenza che i notiziari, le campagne mediatiche e la propaganda politica esercitano
sui processi decisionali dei cittadini (per esempio Ansolabehere et al., 1993; Ansolabehere
e Iyengart, 1995; Saller, 1992; Valentino et al., 2002). La maggioranza di questi studi vede
nel contenuto dei messaggi e nei temi politici i fattori primari nelle decisioni in politica.
Un numero crescente di studi, però, mette in evidenza il ruolo degli appelli all’emotività
presenti nelle campagne politiche (Jamieson, 1992; West, 2001, 2005; Richardson, 2003).
Marcus et al. (Marcus et al., 2000; Marcus, 2002), sulla base delle scoperte della
neuroscienza e della psicologia cognitiva di cui abbiamo riferito nella sezione precedente,
hanno dimostrato la connessione tra emozione e pensiero finalizzato nel processo
decisionale politico. La loro ricerca sulle elezioni presidenziali statunitensi dal 1980 al
1996 ha mostrato che due terzi dei voti possono essere spiegati da due variabili: sentimenti
verso il partito e sentimenti verso il candidato, mentre le questioni politiche pesavano
molto meno sulla decisione dei votanti. Inoltre, le questioni politiche diventavano
importanti soprattutto quando suscitavano emozioni tra gli elettori.
Brader (2006) è partito da questo corpus di ritrovamenti, oltre che dalla teoria
damasiana dei marcatori somatici (Damasio, 1994) e da quella dell’intelligenza emotiva
(Marcus et al., 2000), per verificare empiricamente il ruolo delle emozioni e determinare
gli effetti della propaganda politica sul comportamento di voto, concentrandosi su due
emozioni base considerate le fonti motivazionali chiave: l’entusiasmo e la paura.
Dapprima ha condotto esperimenti miranti a riprodurre il più fedelmente possibile il
processo decisionale reale allo scopo di identificare i meccanismi attraverso i quali le
emozioni insite nella propaganda politica, e in particolare nella musica e nelle immagini,
possono influenzare le intenzioni di voto. I suoi risultati mostrano che la pubblicità
politica che suscita l’entusiasmo mobilita i votanti. Ma polarizza anche le loro scelte,
portando a riaffermare le scelte che avevano già fatto e inducendo un più forte rigetto del
candidato opposto, indipendentemente dalla pubblicità politica cui si è esposti. Viceversa,
l’esposizione a materiale di propaganda basato sulla paura introduceva incertezza nella
scelta del votante, accrescendo così la probabilità che le preferenze politiche del
destinatario mutassero. La propaganda basata sulla paura tende a erodere la base di
sostegno dell’avversario, facendo aumentare la percezione dell’importanza del voto in
quegli osservatori resi ansiosi dalla pubblicità politica. Ma le pubblicità che fanno leva
sulla paura possono anche smobilitare i votanti. Così, una pubblicità che mira a instillare
paura ha un effetto potente a favore di chi la propone, e questo in due direzioni: mobilita i
sostenitori del propositore e scoraggia i potenziali elettori dell’avversario. Fatto
interessante, i cittadini più preparati sono anche i più reattivi agli appelli emozionali.
Questo concorda con l’argomento della teoria dell’intelligenza affettiva, secondo la quale
le emozioni fungono da «rivelatori di rilevanza». Si verifica una situazione di acuita
attenzione verso le posizioni di un candidato quando un messaggio accende la paura delle
conseguenze negative di un dato esito elettorale. Così, l’ipotesi presentata nella sezione
precedente è confermata empiricamente: l’emozione non è un sostituto dell’analisi nel
processo decisionale; è un fattore che attiva un livello più alto di comportamento
riflessivo.
Sulla base delle risultanze del suo esperimento, Brader è passato a effettuare un’analisi
del contenuto di 1400 pubblicità elettorali di candidati al Congresso o alla carica di
governatore di uno stato prodotte durante le campagne elettorali americane del 1999 e del
2000. Ha rilevato che la maggior parte delle pubblicità aveva un forte contenuto
emozionale e che l’entusiasmo e la paura erano i frame dominanti nel campione
considerato. C’era nei candidati in carica la tendenza a basarsi sull’entusiasmo e negli
sfidanti a ricorrere alla paura. Più i votanti sono preoccupati delle conseguenze di una data
politica, maggiore è la probabilità di messaggi di parte che ricorrono alla paura. Tuttavia,
paura ed entusiasmo venivano spesso mescolati nella stessa pubblicità, e messi in
relazione a questioni di decisione politica. In altre parole, Brader scopriva che non c’è
opposizione tra propaganda emotiva e propaganda ragionata. Le emozioni sono incanalate
per veicolare tesi. Come scrive Brader:

Emozione e informazione sono collegate. Sostanza e argomenti sono spesso necessari


per dare il messaggio complessivo… Il messaggio deve fornire ai votanti un’idea di
ciò che devono temere o sperare, e in molti casi di ciò che i votanti dovrebbero fare
con tali sentimenti… Le emozioni non sono semplici estensioni dell’argomento.
Danno forza all’argomento, non tanto rendendolo più convincente ma piuttosto
contribuendo a spostare l’attenzione e a spingere il pensiero a farsi azione. Le
emozioni ci mandano segnali che dicono: «Questo è importante!». E la rapidità delle
nostre reazioni emozionali permette a questo processo di condizionare, nel bene e nel
male, la reazione all’informazione che stiamo ricevendo (2006, p. 185).
Dunque, simultaneamente le emozioni stimolano il ragionamento, inquadrano la
comprensione e mobilitano l’azione entro i frame trasmessi dal messaggio costruito. Gli
effetti dei messaggi emozionali, però, variano a seconda del contesto della loro ricezione.
Dipendono dai sentimenti dei destinatari del messaggio nel momento e nel luogo della sua
ricezione. È la capacità che un dato insieme di stimoli ha di attivare un dato frame ciò che
ne definisce l’impatto. Mentre i frame sono condizioni preesistenti nel nostro cervello, la
loro associazione con immagini specifiche dipende dal significato delle immagini in un
dato ambiente cognitivo: per esempio, l’attentato al World Trade Center messo in
relazione al messaggio politico della guerra al terrorismo nel contesto di essere ancora in
guerra; mentre la visione di una fabbrica abbandonata ha una risonanza molto diversa a
seconda se si è in depressione economica (disoccupazione) o in un’economia in pieno
boom (che si lascia alle spalle il vecchio passato industriale per i lavori meglio pagati nelle
nuove tecnologie). Informazioni ed emozioni sono mescolate nella costruzione dei
messaggi politici come nella mente delle persone.
Poiché la mente degli individui si costruisce tramite l’esperienza, la pubblicità politica e
le campagne elettorali puntano a connettere date immagini con specifiche esperienze per
attivare o disattivare le metafore che più potrebbero motivare l’appoggio a un determinato
attore politico. I cittadini prendono decisioni governando i conflitti (spesso
inconsciamente) tra condizione emozionale (come si sentono) e condizione cognitiva (che
cosa sanno). La politica emozionale è solo una delle dimensioni dell’intelligenza affettiva,
l’atto riflessivo di scegliere la migliore opzione per il nostro essere riflessivo.
Politica e credenze
I materiali di base che vanno a formare l’opinione pubblica sono di tre generi: valori,
predisposizioni di gruppo e interessi materiali (Kinder, 1998). Le ricerche di cui
disponiamo mostrano che le predisposizioni e i valori (gli ingredienti della politica
simbolica) pesano di più nella formazione dell’opinione politica rispetto all’interesse
materiale (Brader e Valentino, 2007).
Che cosa accade quando il conflitto tra cognizione ed emozione si acuisce? Numerosi
studi sembrano indicare che la gente tende a credere a ciò che vuole credere. In effetti, gli
esperimenti mostrano che siamo molto più critici nel valutare fatti che contraddicono le
nostre convinzioni che non quelli che confermano ciò che pensiamo. Questa selettività
distorta della mente critica compare già nei primi anni di scuola (Westen, 2007, p. 100).
Più i cittadini sono istruiti, più sono capaci di elaborare interpretazioni delle informazioni
a disposizione a sostegno delle proprie preferenze politiche predeterminate. Questo perché
un livello di sapere più alto fornisce maggiori risorse intellettuali per razionalizzare le
proprie preconcezioni emozionalmente indotte. In uno studio condotto tra il 1998 e il 2004
riguardo il giudizio degli individui sulle autorità giudiziarie e politiche (presidenti
compresi) nel corso di tre crisi politiche, Westen e i suoi colleghi furono in grado di
prevedere il giudizio dei soggetti nell’80 per cento dei casi in base ai soli vincoli
emozionali. Come scrive Westen, «Quando la gente formula giudizi su eventi politici
emotivamente significativi, i vincoli cognitivi contano, ma i loro effetti sono molto
limitati. Quando la posta in gioco è alta si preferisce alla verità ciò che Stephen Colbert ha
chiamato thruthiness2» (2007, p. 103).
Sulla stessa linea argomentativa, la teoria degli effetti del ragionamento motivato
afferma, in base agli esperimenti, che gli individui mostrano una diffusa tendenza a
fissarsi sulla propria valutazione degli eventi persino quando si trovano di fronte a
informazioni che contraddicono il loro giudizio (Kunda, 1990; Lodge e Taber, 2000). Gli
individui tendono a ricordare meglio le informazioni che confermano i loro esiti desiderati
o i loro scopi. Tendono anche a ricorrere alle proprie risorse intellettuali per cercare
informazioni che appoggiano anziché contraddire i loro scopi. La motivazione è quindi un
fattore chiave nel determinare in che modo gli individui elaborano le informazioni che li
portano a formulare giudizi, in particolare quando si tratta di questioni importanti.
Emozioni conflittuali intensificano l’attenzione su determinate informazioni, diminuendo
al tempo stesso la percezione di nuove informazioni contrastanti.
Sears e Henry (2005) hanno sistematizzato le conclusioni di un trentennio di ricerche, le
quali confermano il fatto che gli interessi economici non hanno un effetto significativo sui
comportamenti di voto, tranne quando quegli interessi economici rappresentano i valori e
le convinzioni dei votanti. Questo non vale quando si verifica una grande crisi economica
o un altro evento che sconvolge nel profondo la vita quotidiana. Tuttavia, anche in una
crisi economica, è la risposta emozionale dell’individuo alla crisi, più che il calcolo
razionale di come reagirvi, a organizzare il pensiero e la pratica politica delle persone. In
What’s the Matter with Kansas?, Frank (2005) analizza il meccanismo che porta alla
frattura tra interessi materiali e comportamento politico. I valori plasmano le decisioni dei
cittadini più spesso di quanto facciano i loro interessi. Le strutture di mediazione tra valori
e interessi sono i partiti e i candidati. La gente vede la politica attraverso gli occhi dei
candidati, e agisce in base ai sentimenti, positivi o negativi, che prova nei confronti di
loro. Sintetizzando l’insieme delle ricerche sull’argomento, Westen scrive: «I dati offerti
dalla scienza politica sono cristallini: la gente vota per il candidato che suscita i sentimenti
giusti, non il candidato che presenta gli argomenti migliori» (2007, p. 125). E quando non
ha un sentimento chiaro o non si fida abbastanza della connessione tra i sentimenti e le
istanze di mediazione, si allontana dal processo elettorale o ripiega sul cinismo politico.
Come risulta dall’analisi che svolgo nel capitolo 4.
Una fonte chiave della costrizione emozionale per i cittadini è la partigianeria, o la
fedeltà al partito per cui si è votato in passato. Questa è una caratteristica istituzionale e al
tempo stesso emozionale. È istituzionale perché è radicata nella storia del paese. È
emozionale, perché le esperienze di partigianeria, spesso ricevute dalla famiglia
nell’infanzia, sono impiantate nel cervello, essendo associate con svariati eventi emotivi.
Questo è ancora più importante in quei contesti istituzionali, come l’Europa Occidentale,
il Cile, l’India o il Sudafrica, in cui i partiti politici con organizzazione di massa hanno una
tradizione più consolidata che negli Stati Uniti. Si assiste però dovunque a una tendenza
universale alla disaffezione verso i partiti tradizionali, come documenterò nel capitolo 4.
Così, mentre i sentimenti di affiliazione partitica sono importanti nel determinare le scelte
politiche, le convinzioni dei cittadini appaiono il fattore chiave nel determinare il
comportamento politico. E queste convinzioni dipendono in larga misura da ciò che i
cittadini desiderano. Per cambiare le loro convinzioni, debbono cambiare ciò che
vogliono. Così, secondo la ricerca di Westen, gli elettori repubblicani hanno adattato le
proprie motivazioni per appoggiare la guerra in Iraq nel periodo 2003-2006 in modo da
inserire le nuove prove emerse entro nuovi argomenti a favore della guerra. Inizialmente
erano convinti dell’esistenza delle armi di distruzione di massa. Quando questa
circostanza è stata smentita, hanno riformulato la propria posizione dirottandola sulla
difesa della libertà in Iraq. Solo quando le sofferenze umane ed economiche provocate
dalla guerra sono diventate troppo evidenti da poterle ignorare, la maggioranza degli
americani ha cominciato ad accettare la dura realtà e a adattare i propri processi
emozionali. Tuttavia, come sosterrò nella prossima sezione, il desiderio di vittoria dei
sostenitori conservatori li ha portati a adottare un nuovo corredo di convinzioni nel 2007-
2008, che si basava su informazioni compatibili con la loro preferenza emozionale per la
vittoria quale banco di prova dell’orgoglio nazionale e del potere della nazione. Per questi
cittadini, finché continuano ad associare il patriottismo con la vittoria militare, e finché
vivono nel frame della guerra al terrorismo, le notizie sulla guerra vengono
automaticamente filtrate in base a una narrazione di vittoria.
Tuttavia, la connessione tra messaggi politici e processo decisionale politico non è
diretta. È elaborata dalla mente in base agli stimoli che riceve dal suo ambiente
comunicativo. Adesso, dunque, passerò a esaminare gli specifici meccanismi tramite i
quali i sistemi di comunicazione attivano la mente.
Il framing della mente
I meccanismi di elaborazione dell’informazione, quei meccanismi che mettono il
contenuto e il formato dei messaggi in relazione con i frame (modelli di reti neurali)
esistenti nella mente, sono attivati da messaggi generati nel regno della comunicazione.
Particolarmente importante per l’analisi della formazione del potere è comprendere in che
modo si producono le notizie nei media e come vengono selezionate e interpretate dalla
gente.
In effetti il pubblico dedica livelli di attenzione marcatamente diversi a diverse notizie
giornalistiche. Uno studio di Graber (2007) documenta che, secondo un’indagine Pew del
1986-2003, solo il 7 per cento delle notizie riportate dai media USA si assicurava un forte
livello di attenzione. Le notizie più salienti erano quelle che minacciavano la sicurezza del
consumatore dei media o violavano norme sociali. Le situazioni che risvegliano la paura
sono quelle che richiamano il pubblico più vasto (Graber, 2007, p. 267). Si tratta di
reazioni a eventi che minacciano la sopravvivenza, e queste reazioni mobilitano risorse
cognitive che attivano l’attenzione. Graber riporta, oltre alle linee delle analisi degli
scienziati cognitivi discusse nelle sezioni precedenti, che non è necessario vivere
personalmente l’esperienza di quella situazione. Le notizie (e in particolare le immagini)
possono operare come fonti di stimoli equivalenti all’esperienza vissuta. Odio, ansia,
paura e accesa euforia sono particolarmente stimolanti e sono anche trattenuti nella
memoria a lungo termine. Come ho accennato in questo capitolo, quando l’informazione
suggerisce che non è richiesta alcuna reazione inusuale, gli individui adottano risposte di
routine agli stimoli che rimandano ai loro sistemi di disposizione. Ma quando nel sistema
di sorveglianza del cervello entrano in funzione i meccanismi emozionali, vengono
attivate capacità decisionali di livello superiore, con conseguente maggiore attenzione
all’informazione e maggiore ricerca attiva di informazioni. È per questo che il framing
deliberato è basato tipicamente sul risveglio delle emozioni.
Nelson e Boynton (1997) hanno analizzato gli spot elettorali televisivi che inducono
paura. Paura e altre emozioni forti spingono a cercare informazioni ma anche determinano
nuove scelte. Così, secondo Graber (2007), i telegiornali (la fonte principale di
informazione politica) fissano l’agenda su uno specifico argomento rimandando in onda
ripetutamente il servizio, inserendo la notizia nei titoli della trasmissione, aumentandone
la durata, dichiarandone l’importanza, scegliendo parole e immagini per presentarla, e
preannunciando le notizie che stanno arrivando nel programma. Il framing deriva da
struttura e forma della narrazione, e dall’uso selettivo di suoni e immagini. Basandosi sui
dati delle indagini Pew, Graber (2007) ha analizzato i meccanismi sottostanti
all’attenzione per le notizie. Ha proposto una tipologia di sette gruppi di notizie
giornalistiche e ha misurato l’attenzione dedicata a ciascuna storia dagli spettatori. Le sue
risultanze mostrano che gli elementi che suscitano la paura, gli stimoli che fanno presagire
un pericolo imminente per sé o per i propri cari, e i segnali che sottolineano l’importanza
giornalistica dell’informazione, incrementavano l’attenzione per le notizie. La paura di un
pericolo a livello individuale interagisce con la percezione di un potenziale danno a livello
di società. I dati di questo studio smentiscono l’indispensabilità di un contesto di supporto
in termini di eventi sociali e politici. Lo stimolo agisce da sé. In altre parole, non occorre
aggiungere una interpretazione esplicita: il framing opera attivando la mente con uno
stimolo adatto. Una volta che un frame sia comunicato, l’ampiezza del pericolo nella
narrazione è la fonte critica d’impatto, più che i suoi effetti visivi. La chiave sta nella
registrazione dell’informazione, anche se la presentazione non è spettacolare. Una
copertura giornalistica più prolungata permette maggiori stimoli e aumenta l’efficacia del
framing.
Poiché i media costituiscono la principale fonte di comunicazione socializzata –
comunicazione cioè potenzialmente capace di raggiungere la società nel suo insieme – il
framing della mente pubblica è effettuato in gran parte tramite processi che si svolgono
nei media. La ricerca sulla comunicazione ha identificato i tre maggiori processi implicati
nelle relazioni tra i media e le persone nell’invio e la ricezione di notizie, attraverso i quali
i cittadini si percepiscono in relazione con il mondo: l’agenda-setting, il priming e il
framing.
L’agenda-setting, vale a dire l’attribuzione di priorità ai problemi da affrontare, si
riferisce all’attribuzione di una speciale rilevanza a una particolare questione o insieme di
informazioni da parte della fonte del messaggio (ossia una specifica organizzazione
mediatica) con l’aspettativa che il pubblico risponda con accentuata attenzione al
contenuto e al formato del messaggio. La ricerca sull’agenda-setting ritiene che i media,
anche se non sono in grado di dire alla gente come deve pensare, hanno un ruolo di primo
piano nell’influenzare ciò a cui deve pensare (Cohen, 1963). Gli studi sull’agenda-setting
hanno rilevato che la consapevolezza del pubblico sui temi, in particolare quelli politici, è
strettamente legata al livello di copertura giornalistica che di quel tema danno i media
nazionali (Iyengar e Kinder, 1987; McCombs e Zhu, 1998). Inoltre, l’agenda-setting dei
media è particolarmente importante quando è in relazione con la vita quotidiana
dell’osservatore (Erbring et al., 1980). Così, le posizioni politiche tanto delle élite quanto
della gente in generale sembrano plasmate in gran parte dalle informazioni messe a
disposizione dai mass media o da altre fonti capaci di ampia diffusione, come Internet
(McCombs et al., 1997; Gross e Aday, 2003; Soroka, 2003).
Il priming si presenta:

quando il contenuto delle notizie suggerisce alla audience che dovrebbe usare
determinate questioni specifiche come metro per valutare la performance di leader e
governi. Spesso viene considerato un’estensione dell’agenda-setting… Rendendo
alcuni temi più salienti nella mente delle persone (agenda-setting), i mass media
possono anche dar forma alle considerazioni di cui la gente tiene conto quando
formula giudizi su candidati o questioni politiche (priming) (Scheufele e Tewksbury,
2007, p. 11).
L’ipotesi del priming poggia sul modello cognitivo delle reti associative presentato nelle
sezioni precedenti di questo capitolo. Ipotizza che i servizi su questioni che colpiscono un
dato nodo della memoria possono estendere la propria influenza anche su altre opinioni e
posizioni relative ad altri temi. Così, più spesso si parla di una questione, più probabilità ci
sono che la gente attinga alle informazioni presentate nel suo trattamento giornalistico per
formulare le proprie valutazioni politiche.
Il framing è il processo con cui «si selezionano e sottolineano alcuni aspetti di eventi o
temi, e si stabiliscono tra loro connessioni in modo tale da promuovere una particolare
interpretazione, valutazione e/o soluzione» (Emman, 2004, p. 5). Il framing è un
meccanismo fondamentale nell’attivazione della mente perché lega direttamente la
struttura di una narrazione veicolata dai media alle reti neurali cerebrali. Si ricorderà che i
frame sono reti neurali associative. Il framing, come azione da parte del mittente del
messaggio, è a volte deliberato, a volte accidentale, e a volte istintivo. Ma fornisce sempre
una connessione diretta tra il messaggio, il cervello ricevente e l’azione che segue.
Secondo Lakoff (2008), il framing non è semplicemente una questione di slogan; è una
modalità di pensiero, una modalità di azione. Non sono solo parole, anche se le parole o le
immagini sono indispensabili per costruire il frame e per comunicarlo. Il punto
fondamentale è che i frame non sono esterni alla mente. Solo quei frame che sono in grado
di connettersi al messaggio di frame preesistenti diventano attivatori di condotta. Entman
(2004) sostiene che i frame che impiegano i termini culturalmente più consonanti hanno il
maggior potenziale per influenzare: parole e immagini che si fanno notare, che sono
comprensibili, memorizzabili e emozionalmente cariche. I frame sono efficaci se trovano
risonanza e accrescono l’ampiezza della loro ripetizione. Maggiori sono la risonanza e la
magnitudo e più probabilità ha il framing di evocare pensieri e sentimenti simili in un
pubblico più vasto. Il framing opera lasciando nelle informazioni lacune che il pubblico
riempie con i propri schemi preconcetti: è un processo interpretativo che si svolge nella
mente umana in base a idee e sentimenti correlati immagazzinati nella memoria. In
assenza di contro-frame alle informazioni fornite dai media, il pubblico graviterà verso i
frame che gli vengono suggeriti. I frame sono organizzati in paradigmi: reti di schemi
abituali che provvedono all’applicazione di analogie tratte da storie precedenti a nuovi
sviluppi. Per esempio, i frame possono reiterare una narrazione ben nota con forte
contenuto emozionale, come il paradigma del terrorismo, evocando in tal modo la morte e
inducendo la paura.
Mentre agenda-setting, priming e framing sono meccanismi chiave nella costruzione del
messaggio, l’erogazione dei messaggi nei media dipende anch’essa da specifiche
operazioni che riducono l’autonomia del pubblico che interpreta il messaggio. Una di
queste operazioni è l’indexing, o indicizzazione. Bennett (1990, 2007; Bennett et al.,
2006) ha indagato sull’importanza dell’indicizzazione nella pratica del giornalismo
professionale. Editori e direttori tendono a indicizzare il rilievo di notizie e punti di vista
in base alla percepita importanza di una data questione tra le élite e nella pubblica
opinione. Più specificamente, i professionisti dei media tendono a classificare
l’importanza di una questione in base alle dichiarazioni del governo. Ciò non vuol dire che
semplicemente riproducano il punto di vista del governo. Significa piuttosto che il
governo è la fonte primaria di informazione sulle questioni di primo piano, ed è
l’organismo che ha la responsabilità di applicare concretamente una proposta politica o
una linea d’azione. Di conseguenza, è comprensibile, per quanto deplorevole, che il
materiale fornito dal governo, o le dichiarazioni delle autorità governative, ricevano
particolare attenzione nel processo di indicizzazione.
La capacità dei media di decidere in fatto di indicizzazione dipende dal livello di
accordo o disaccordo che esiste su un tema tra le élite e gli opinion leader. Se il dissenso
non è forte, i media indicizzeranno secondo un singolo insieme di valutazioni relativo a
una data questione (per esempio, l’11 settembre nelle sue conseguenze immediate negli
Stati Uniti, che indusse l’accettazione del frame della «war on terror»). Viceversa, più
profonda è la divisione e l’ambiguità nelle reazioni dell’élite a una crisi (per esempio,
all’indomani dell’uragano Katrina negli Stati Uniti), più i media esercitano il proprio
giudizio diversificato nell’indicizzazione di un evento. Secondo Bennett (comunicazione
personale, 2008), l’indicizzazione da parte dei giornalisti non dipende dall’importanza di
una questione per il pubblico, ma dal livello di interesse per le élite. I sondaggi sono
selezionati in modo da appoggiare la narrazione che si adatta all’informazione
giornalistica. Inoltre, l’indicizzazione dipende non soltanto dalle posizioni delle élite, ma
anche dal grado di discordia delle élite al potere.
Un’analisi dell’indexing è essenziale per integrare la prospettiva dello studio in termini
di agenda-setting perché fa luce sulla fonte delle notizie. Le organizzazioni giornalistiche
strutturano le loro narrazioni in base all’indicizzazione che favorisce quelle questioni e
quei frame che hanno origine negli ambienti del potere per influenzare il pubblico. Così,
Hallin (1986), in un importante studio sull’opinione pubblica durante la guerra del
Vietnam, mostrava che la grande maggioranza dei media americani rimase non contraria
alla guerra fino all’offensiva del Tet del 1968, e che questa svolta era «intimamente
connessa con il livello di unità e chiarezza del governo, oltre che con il grado di consenso
nella società in senso lato» (1986, p. 213). In un altro studio sull’indicizzazione degli
eventi politici, Mermin (1997) documenta come la decisione USA di intervenire in
Somalia nel 1993 non fu spinta dai media. Invece, il grosso della copertura mediatica della
crisi da parte dei network televisivi seguì più che precedere la decisione del governo
statunitense di concentrarsi sui disordini in Somalia (Mermin, 1997, p. 392). Livingston e
Bennett (2003) analizzano otto anni di copertura internazionale della CNN e rilevano che
mentre le nuove tecnologie hanno aumentato la quantità di servizi su storie dettate dagli
eventi, le autorità «sembrano far parte più che mai delle notizie» (2003, p. 376).
Tuttavia, quando e se gli opinion leader sono divisi nelle loro posizioni, i media offrono
lo spazio per l’espressione dei loro dibattiti e del dissenso. A sua volta, la differenziazione
delle opinioni delle élite su questioni di scelte politiche può riflettere in una certa misura il
modo in cui la pensa la gente su quei temi. Ma, per poter ottenere un’opinione informata, i
cittadini hanno bisogno di informazioni e controframe per esercitare una scelta
nell’interpretazione. Herbst (1998) ha analizzato in che modo le élite politiche operano il
framing sulla pubblica opinione. Mostra come membri degli staff di leader politici,
attivisti, e giornalisti costruiscono dati sulla «pubblica opinione» e si basano su
rappresentanti di gruppi di interessi e opinionisti dei media per le loro interpretazioni.
Howard (2003) sostiene che una piccola élite professionale compila dati sulla pubblica
opinione per influenzare i leader oltre che il pubblico – dati che vengono presentati al
pubblico con tanto di opinioni aggregate a corredo, come se si trattasse di un verdetto
autogenerato sui temi di discussione.
Il framing non va inteso come una sistematica tendenziosità politica da parte dei media.
Diversi studi mostrano che non esistono prove di una tendenza politica uniforme nei
media. Ma come afferma Entman (2007), ciò è contraddetto da altre analisi che
dimostrano che notiziari e servizi giornalistici favoriscono determinate interpretazioni.
Così, potrebbe darsi che la questione non sia formulata in maniera corretta. Invece,

La domanda da porsi è se l’agenda-setting e il contenuto dei testi del framing e il loro


effetto di priming sul pubblico ricade entro schemi ricorrenti politicamente rilevanti.
Gli attori del potere impiegano massicce risorse per favorire i propri interessi proprio
imponendo questi schemi sulle comunicazioni mediali (2007, p. 164).
Entman prosegue proponendo un’integrazione analitica tra agenda-setting, framing e
priming sotto la nozione di parzialità. Parzialità ha tre significati. Parzialità per
distorsione si riferisce alle notizie che distorcono deliberatamente la realtà. Parzialità di
contenuto si riferisce a «consistenti modelli nel framing della comunicazione mediata che
promuovono l’influenza di una parte nei conflitti sull’uso del potere statale» (Entman,
2007, p. 166). Parzialità decisionale si riferisce alle motivazioni che hanno i professionisti
dei media per produrre contenuto tendenzioso. Secondo Entman, mettendo insieme i tre
meccanismi per influenzare l’opinione pubblica, i media non solo dicono al pubblico a che
cosa pensare, come nella proposizione classica di Cohen (1963), ma anche che cosa
pensare:

È attraverso il framing che gli attori politici danno forma ai testi che influenzano o
innescano le agende e le considerazioni a cui pensa la gente… Poiché la migliore
definizione sintetica del potere è la capacità di qualcuno di indurre altri a fare quello
che costui vuole (Nagel, 1975), dire agli altri cosa pensare è il modo in cui
l’influenza politica viene esercitata nei sistemi politici non coercitivi (e in misura
minore in quelli coercitivi) (Entman, 2007, p. 165).
Il potere di framing nei media può essere esemplificato dallo studio di Bennett et al.
(2006) sul caso delle torture dei prigionieri iracheni per mano di militari americani nel
carcere di Abu Ghraib nel 2003-2004. Nonostante la più che abbondante documentazione
fotografica di pratiche di tortura che autorità militari responsabili della prigione a dir poco
tolleravano, i media adottarono immediatamente il frame per cui Abu Ghraib
rappresentava abusi isolati a opera di pochi militari. Un meccanismo chiave era l’assenza
della parola «tortura» nella maggior parte degli articoli giornalistici. La vicenda sparì in
fretta dai titoli dei notiziari, con le autorità che ne minimizzavano la rilevanza e con i
media mainstream restii a muovere critiche alle forze armate americane nel bel mezzo di
una guerra. Per limitare l’accesso del pubblico alla realtà delle torture effettuate dalle
truppe USA, era fondamentale limitare l’esposizione a immagini «offensive». Il pretesto
era che il loro contenuto poteva essere eccessivamente traumatico per gli spettatori
sensibili. Internet ha offerto una piattaforma globale per esporre la brutalità dei carcerieri
di Abu Ghraib. Ma nella presentazione di queste immagini i media americani si sono
mostrati molto più reticenti dei loro omologhi europei e del resto del mondo.
Sono stati fatti straordinari sforzi per limitare l’esposizione delle immagini di Abu
Ghraib nella sfera pubblica americana. Per esempio, il celebre artista colombiano
Ferdinando Botero ha esposto le sue opere sconvolgenti sulle torture di Abu Ghraib in
importanti gallerie d’arte europee, ma le sue ripetute offerte di portare la mostra negli Stati
Uniti sono state educatamente respinte da tutte le maggiori gallerie del paese. Alla fine, il
Center of Latin American Studies dell’University of California a Berkeley ha presentato i
dipinti nella biblioteca dell’università, tra le acclamazioni dei critici d’arte e dei visitatori.
Botero ha quindi donato i quadri a Berkeley, dove sono ancora in mostra. Ma la
testimonianza artistica di Botero è stata accuratamente rimossa dal dibattito pubblico in
America a causa del suo carattere controverso, pur essendo ispirata da una ben nota realtà.
Ma una realtà senza immagini è una realtà sbiadita.
Il framing dei media rappresenta un processo stratificato che inizia con un negoziato tra
attori politici chiave o gruppi d’interesse e i media prima di raggiungere la mente della
cittadinanza. Entman ha proposto un influente modello analitico noto come attivazione a
cascata. Lo presentiamo schematicamente nella figura 3.2. Il modello, basato sulla ricerca
di Entman (2004) sulla relazione tra framing delle notizie, pubblica opinione e potere, a
proposito di temi di politica estera USA, evidenzia l’interazione sequenziale tra diversi
attori in una gerarchia di influenza che combina i meccanismi di agenda-setting, priming,
framing e indicizzazione in un singolo processo caratterizzato dalle relazioni asimmetriche
tra gli attori, temperate da loop di feedback. Dichiarazioni e notizie generate al vertice
della gerarchia politica (autorità degli alti livelli dell’amministrazione) il più delle volte
danno l’avvio a notizie giornalistiche di politica nazionale e internazionale. Questo per
due motivi principali: costoro sono in possesso di informazioni privilegiate, e le loro scelte
politiche sono quelle che hanno maggiori probabilità di produrre conseguenze (per
esempio, in determinati casi la decisione tra la guerra e la pace). Il processo di agenda-
setting è filtrato da élite politiche di secondo strato o da élite straniere di primo strato, fino
a raggiungere i media che forniscono i frame per il pubblico in base ai messaggi ricevuti
dalle élite politiche. I frame si diffondono nei media e le reti interpersonali, e vengono
attivati nella mente delle persone. Ma il pubblico reagisce anche influenzando i media, o
con i suoi commenti o semplicemente con il livello di attenzione, che viene misurato in
termini di audience mediatica.
FIG. 3.2. Attivazione a cascata delle reti.
Fonte: Adattato da Entman (2004, p. 10, figura 1.2).

È importante notare che, una volta costruiti, i frame giornalistici hanno un effetto di
feedback sulle élite politiche. Per esempio, una volta che i frame della «guerra al terrore»
si sono ben impiantati nei media, è diventato assai rischioso per le élite politiche di
secondo strato contrastarli con dichiarazioni e voti. Robinson (2002) ha dimostrato che
l’influenza dei frame mediatici sulle élite politiche è più pronunciata quando le decisioni
politiche sono incerte. Robinson propone un modello di interazione media-politica basato
sull’analisi di sei diverse crisi umanitarie in cui i frame mediatici dominanti riguardavano
la questione dell’intervento USA. In tutti i sei casi, rilevava che il livello di incertezza
politica combinato con il framing mediatico era il miglior elemento di previsione sulla
decisione finale riguardo all’intervento americano. Questi riscontri collimano con la tesi
presentata nel corso di questo capitolo: l’incertezza induce ansia che provoca l’acuirsi
dell’attenzione nell’opinione pubblica come nell’establishment politico, predisponendo
così il governo ad agire su questioni di alta priorità.
Nel modello di attivazione a cascata, la audience è equiparata alla pubblica opinione,
quale viene riflessa nei sondaggi di opinione, nei pattern di voto e in altri indicatori di
comportamento aggregato. In questo senso, la logica del modello è interna al sistema
politico. Il pubblico è visto come una miscela di consumatori politici e di audience
reattiva. Questa, ovviamente, non è l’opinione dei ricercatori, e tanto meno quella di
Entman. Riflette la costruzione del processo di agenda-setting e del framing dal punto di
vista delle élite politiche e dei media. Il modello prevede una certa misura di dominanza
del frame, dalla dominanza assoluta di un singolo frame nelle notizie alla «parità di
frame» in cui «due o più interpretazioni sono grosso modo sullo stesso piano», che
rappresentano «le condizioni che le teorie della libertà di stampa preferiscono» (Entman,
2004, p. 48). La ricerca indica però che la parità di frame costituisce l’eccezione a una
regola di dominanza del frame quando si tratta di politica estera, anche se un certo grado
di contestazione del frame si presenta in una consistente minoranza di casi (Entman,
comunicazione personale, 2008).
Le élite politiche dominanti detengono il massimo controllo sui frame mediatici. Questo
livello di controllo si intensifica quando tali frame si riferiscono a eventi culturalmente
congruenti (per esempio, la difesa della nazione contro il nemico dopo l’11 settembre o in
tempo di guerra). In effetti, Gitlin (1980), Hallin (1986) e Luther e Miller (2005) hanno
rilevato che in tempo di guerra la stampa americana tende a emarginare le voci di dissenso
(per esempio, il movimento pacifista), privilegia i professionisti della politica, e spesso si
concentra sullo spettacolo della protesta in sé anziché sulle posizioni dei manifestanti.
Questo non è un carattere esclusivo dei media americano. Gli studi sulla copertura
giornalistica della guerra in Iraq hanno evidenziato che il fenomeno per cui le posizioni
politiche ufficiali ricevono uniformemente maggior tempo mediatico di quelli che
dissentono è attestato anche nel Regno Unito (Murray et al., 2008), in Svezia (Dimitrova e
Strömbach, 2005) e in Germania (Lehmann, 2005; Dornschneider, 2007).
I contro-frame hanno una maggiore influenza quando si riferiscono a eventi
culturalmente ambigui; per esempio, la gestione della catastrofe provocata dall’uragano
Katrina, quando il ruolo di protezione della popolazione civile da parte del governo veniva
contraddetto dai rapporti sul campo. C’è però la possibilità che i media accettino il
framing dell’amministrazione su una questione ma non l’interpretazione dell’azione che
ne segue, come mostrano i casi dell’invasione di Grenada (1983), del bombardamento
della Libia (1986) e dell’invasione di Panama (1989-1990; Entman, 2004).
Nel modello di attivazione a cascata, anche i media sono stratificati. Così, New York
Times e altre pubblicazioni di primo piano hanno una ricaduta sugli altri media grazie a un
processo di agenda-setting intermediatico (Van Belle, 2003; Entman, 2004, p. 10; Golan,
2006). Le variazioni nell’elaborazione del framing nel modello a cascata dipendono da
due fattori principali: il livello di unità o di dissenso nell’élite politica e la congruenza o
incongruenza culturale dei frame proposti al vertice della cascata. Le opportunità di cui
dispongono i professionisti dei media di introdurre contro-frame o una varietà di schemi
interpretativi sono molto più ampie quando esiste una discrepanza tra le élite e/o
incongruenze culturali tra chi formula le decisioni e la cultura del paese (per esempio,
palesi violazioni dei diritti umani). Perché siano sufficientemente potenti da rappresentare
una sfida per i frame indotti dalle élite, i contro-frame debbono essere culturalmente
consonanti con il pubblico – o almeno con la percezione che i giornalisti hanno della
pubblica opinione.
L’attivazione, a ogni livello della cascata, dipende dalla quantità di informazione che
viene comunicata in un particolare set di framing. Ciò che passa da un livello a un altro è
basato sulla comprensione selettiva. Le motivazioni svolgono un ruolo chiave
nell’efficacia del framing a ciascun livello della cascata. I partecipanti al processo di
comunicazione sono «avari cognitivi» che selezioneranno le informazioni in base alle loro
abitudini, come si è già detto in questo capitolo. Le élite scelgono i frame che favoriscono
le loro carriere politiche . I professionisti dei media scelgono le notizie capaci di esercitare
un maggior richiamo sul pubblico senza rischiare ritorsioni da parte degli attori potenti. La
gente tende a evitare la dissonanza emozionale, e quindi si rivolge a quei media che
confermano i suoi punti di vista. Per esempio, quando si cerca di sottrarsi al processo di
cascata in un sistema mediatico perché si dissente da quei frame, si cercano notizie online
da fonti estere. Best et al. (2005) hanno mostrato che individui insoddisfatti del frame
dominante nel loro paese cercano informazioni di conferma (di solito tramite Internet) in
fonti mediatiche straniere. Così, l’attivazione a cascata opera all’interno di specifici
sistemi di politica e in relazione a specifici ambienti mediatici. La rete globale dei media
giornalistici offre al pubblico un’alternativa quando il framing in un particolare contesto
mediatico non riesce a strappare l’accettazione o a fiaccare la resistenza. In effetti, il
framing mediatico non è un determinante irresistibile delle percezioni e del
comportamento della gente. È certamente importante svelare il meccanismo con cui gli
attori sociali influenzano le menti umane tramite i media, ma altrettanto fondamentale è
evidenziare la capacità di quelle stesse menti di rispondere a frame alternativi provenienti
da fonti diverse o di bloccare la ricezione di notizie che non corrispondono al loro modo di
pensare.
Per esaminare l’interscambio tra framing e contro-framing nel modellare la mente
umana attraverso il processo della comunicazione, passerò ora a un caso di studio di
particolare rilevanza per la nostra comprensione di comunicazione e potere: il framing del
pubblico americano nel processo che ha portato alla guerra in Iraq.
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla
disinformazione alla mistificazione3
Nel marzo 2004, la Sottocommissione della Camera USA sulla Riforma del governo
(2004) produsse una relazione (The Waxman Report) che comprendeva un database
consultabile di 237 affermazioni false o fuorvianti sulle ragioni della guerra americana in
Iraq, fatte dal presidente George Bush, dal vicepresidente Richard Cheney, dal segretario
alla Difesa Donald Rumsfeld, dal segretario di Stato Colin Powell, e dalla consigliera per
la Sicurezza Nazionale Condoleezza Rice in 125 diverse apparizioni pubbliche4. Queste
dichiarazioni comprendevano riferimenti alle capacità nucleari dell’Iraq, ai suoi legami
con Al Qaeda e al coinvolgimento di Saddam Hussein negli attentati dell’11 settembre.
Nel giugno 2004 il 9/11 Commission Report sottolineava la mancanza di prove su un
collegamento tra Saddam Hussein e Al Qaeda. Il mese seguente, luglio 2004, la
Commissione del Senato sull’Intelligence diffuse un rapporto simile che smentiva le
affermazioni dell’amministrazione. Nell’ottobre 2004, Charles Duelfer, incaricato
dall’amministrazione Bush di indagare sulla questione, produsse un rapporto che
dichiarava che le indagini non avevano trovato alcuna prova di un programma
complessivo di armamenti dopo il 1991 (Duelfer, 2004). A tutt’oggi, nessuna prova
dell’esistenza di armi di distruzione di massa è stata trovata né è stata stabilita alcuna
connessione tra l’Iraq e Al Qaeda anteriore alla guerra.
A suo tempo i media americani e internazionali hanno dato ampia diffusione a questi
risultati. Eppure, nell’ottobre 2004, secondo un sondaggio Harris, il 30 per cento degli
americani era ancora convinto che gli Stati Uniti avessero individuato armi di distruzione
di massa (WMD, Weapons of Mass Destruction) in Iraq. Inoltre, per il 62 per cento «l’Iraq
ha dato un appoggio sostanziale ad Al Qaeda» (Harris, 2004b). La cosa ancor più
straordinaria è che nel luglio 2006, dopo anni di informazioni ufficiali e rapporti mediatici
che documentavano la falsificazione della situazione prebellica in Iraq, un altro sondaggio
Harris (2006) rilevava che il numero di americani convinti che in Iraq erano state trovate
WMD era salito al 50 per cento (dal 36 per cento del febbraio 2005) e che la convinzione
che Saddam Hussein avesse stretti contatti con Al Qaeda era tornata al 64 per cento (da un
punto minimo del 41 per cento nel dicembre 2005; vedi tabella 3.1).
TAB. 3.1. Percezioni errate degli americani sulla guerra in Iraq, 2003-2006
Saddam aveva armi di distruzione di massa (%) a Saddam aveva stretti legami con Al Qaeda (%) a
Giugno 2003 69 48
Agosto 2003 67 50
Ottobre 2003 60 49
Febbraio 2004 51 47
Aprile 2004 51 49
Giugno 2004 – 69
Ottobre 2004 38 62
Febbraio 2005 36 64
Dicembre 2005 26 41
Luglio 2006 50 64
a
Margine di errore +/– 3%.
Fonte: Harris Poll (2004a, b, 2005, 2006).

Una serie di sondaggi effettuati da una fonte diversa e altrettanto affidabile, il Program
for International Policy Attitudes (PIPA), individuava anch’essa diffuse percezioni erronee
sulle circostanze che avevano portato alla guerra in Iraq. Così, secondo il PIPA nell’agosto
2004, cioè dopo che molteplici fonti governative avevano confermato che tali percezioni
erano sbagliate, il 35 per cento degli americani credeva ancora che gli Stati Uniti avessero
localizzato armi di distruzione di massa in Iraq e un ulteriore 19 per cento era convinto
che, sebbene non fossero state trovate le armi, l’Iraq disponesse di un programma
avanzato per crearle. Inoltre, il 50 per cento credeva o che «l’Iraq ha dato un appoggio
sostanziale ad Al Qaeda, ma non era coinvolto negli attacchi dell’11 settembre 2001» (35
per cento) o che «l’Iraq era direttamente coinvolto negli attacchi dell’11 settembre 2001»
(15 per cento). Inoltre nel dicembre 2006, dopo anni di informazioni ufficiali e di rapporti
giornalistici che documentavano la falsificazione della situazione prebellica in Iraq, una
nuova indagine condotta dal PIPA rilevava che il 51 per cento degli americani credeva
ancora che fossero state trovate WMD o che l’Iraq avesse un programma significativo per
realizzarle, e il 50 per cento degli americani credeva che Saddam Hussein avesse stretti
legami con Al Qaeda o fosse direttamente implicato nell’11 settembre5.
Com’è possibile che una percentuale così significativa di popolazione è potuta rimanere
così disinformata tanto a lungo? Qual è il processo sociale che ha portato all’adozione
diffusa della disinformazione? E quali sono stati gli effetti politici di queste percezioni
distorte, in particolare rispetto alle posizioni nei confronti della guerra? Come è stato
ottenuto il sostegno per la guerra a partire dalle errate percezioni attivate nelle elezioni
presidenziali e congressuali? Per affrontare queste domande, mi baserò sulla teoria e la
ricerca presentata in questo capitolo, senza fare ulteriori rimandi a ciò che ho già citato e
documentato.
Comincerò riaffermando che la gente tende a credere a ciò che vuole credere. Filtra le
informazioni per adottarle a giudizi preconcetti. È molto più riluttante ad accettare dati di
fatto che contraddicono le proprie certezze che non quelli che rafforzano le proprie
convinzioni. Inoltre, nonostante tutte le informazioni in senso contrario, l’amministrazione
Bush ha continuato per anni dopo l’inizio della guerra a diffondere dichiarazioni fuorvianti
che giocavano su preesistenti percezioni errate. Per esempio, nel giugno 2004,
rispondendo per il 9/11 Commission Report, il presidente Bush dichiarò ai giornalisti che
«il motivo per cui continuo a insistere che esisteva una relazione tra l’Iraq e Saddam e Al
Qaeda è che c’era una relazione tra Iraq e Al Qaeda». In un altro esempio, il 22 giugno
2006, il senatore repubblicano Rick Santorum, leggendo da un rapporto del National
Ground Intelligence Center, disse a una conferenza stampa:

Abbiamo trovato armi di distruzione di massa in Iraq, armi chimiche. Dal 2003 le
forze della coalizione hanno recuperato circa 500 munizioni di armamenti, che
contengono iprite o agente nervino sarin. Nonostante i ripetuti sforzi per localizzare e
distruggere le munizioni chimiche irachene nella prima guerra del Golfo, è stato
accertato che le munizioni chimiche presenti prima della guerra del Golfo esistono
ancora (Fox News, 2006).
I ricercatori hanno riscontrato che le connessioni emozionali e cognitive tra terrorismo e
guerra in Iraq sono state fondamentali per aumentare il livello del sostegno popolare alla
guerra. Diversi studi hanno mostrato che gli individui che più temevano futuri attacchi
terroristici, e/o erano più preoccupati della propria mortalità, erano maggiormente portate
ad appoggiare il presidente Bush, la guerra in Iraq, e la più ampia guerra al terrore (p. es.,
Huddy et al., 2002; Hetherington e Nelson, 2003; Kull et al., 2003-2004; Landau et al.,
2004; Cohen et al., 2005; Valentino et al., 2008). Così, in un sondaggio sulle opinioni nei
confronti della guerra in Iraq condotto da Huddy et al. (2007), gli individui ansiosi erano
più portati a opporsi alla guerra che non gli individui arrabbiati. L’ansia acuiva il rischio
percepito e riduceva l’appoggio alla guerra, mentre la rabbia riduceva la percezione del
rischio e aumentava l’appoggio a favore dell’intervento militare. La rabbia riduceva anche
la connessione tra le conoscenze sull’Iraq e l’appoggio alla guerra. Le persone arrabbiate
non erano meno informate, ma le informazioni non indebolivano il loro appoggio alla
guerra rispetto alle persone non arrabbiate. Viceversa, un livello superiore di informazione
riduceva l’appoggio alla guerra tra le persone ansiose. L’ansia, comunque, se spinge gli
individui a cercare nuove informazioni, ha anche l’effetto di ridurre la capacità di valutare
e/o ricordare informazioni. Huddy et al. (2005) rilevano che quelli più ansiosi tra l’11
settembre e l’inizio della guerra in Iraq, mentre seguivano la politica con più attenzione,
erano anche meno accurati nel ricordo di quegli eventi.
Questi risultati hanno potenti implicazioni se accoppiati con gli studi da cui risulta che
gli individui che disponevano di meno fatti e più percezioni errate sulla guerra erano più
portati ad appoggiarla (Kull et al., 2003-2004; Valentino et al., 2008). Così, quelli che
erano arrabbiati erano più portati a sottovalutare le conseguenze della guerra, mentre
quelli più ansiosi erano portati a cercare più informazioni. Tuttavia, considerando che la
messa in circolazione di informazioni errate da parte dell’amministrazione avveniva
tramite i media, anche i soggetti ansiosi si basavano su informazioni imprecise e così
erano meno portati a ricordare le informazioni di smentita (Valentino et al., 2008). In altre
parole, le persone ansiose potevano essere meno portate ad appoggiare la guerra, ma le
persone ansiose che comunque appoggiavano la guerra erano meno portate a lasciare che
le loro opinioni fossero influenzate dall’introduzione di informazioni correttive.
Si direbbe che le informazioni in se stesse non alterano le opinioni a meno che non vi
sia un eccezionale livello di dissonanza cognitiva. Questo perché la gente sceglie le
informazioni in base ai propri frame cognitivi. Stimoli destinati a produrre effetti
emozionali che condizionano l’elaborazione delle informazioni e danno forma ai processi
decisionali possono attivare determinati frame. Gli sforzi per mobilitare gli americani in
appoggio alla guerra in Iraq attivavano due frame principali: la guerra al terrore e il
patriottismo. L’amministrazione Bush e i media formavano chiaramente e costantemente
connessioni tra la guerra al terrorismo e la guerra in Iraq (Fried, 2005; Western, 2005). La
guerra al terrorismo e le immagini e i temi a essa associati (Al Qaeda, l’Afghanistan, la
guerra in Iraq, l’islamismo radicale, i musulmani in generale) costruivano una rete di
associazioni nella mente delle persone (Lakoff, 2008). Attivavano l’emozione più
profonda esistente nel cervello umano: la paura della morte. Esperimenti psicologici in
una varietà di paesi hanno accertato che connettere tematiche ed eventi con la morte
favorisce il formarsi di posizioni politiche conservatrici nel cervello degli individui
(Western, 2007, pp. 349-376). Una volta che sia stata evocata la paura della morte, la
gente si aggrappa a quello che ha e a quello in cui crede come rifugio e difesa,
riaffermando così valori tradizionali, valori sperimentati dalla storia e dall’esperienza
collettiva. Le persone diventano meno tolleranti verso il dissenso e più inclini a politiche
di legge e ordine, più nazionaliste, e maggiormente sostenitrici della famiglia patriarcale.
Le ragioni sono profonde.
Come ha affermato Ernest Becker (1973) nel suo ormai classico The Denial of Death, e
come io ho elaborato nella mia analisi sulla trasformazione del tempo nella società in rete
(1996, pp. 481-491), la psicologia individuale e le culture collettive hanno sviluppato
determinati meccanismi per evitare di affrontare la morte quale nostra unica certezza.
Rifiutare la consapevolezza del non essere è una condizione per l’essere. Mettendo le idee
di Becker alla prova della ricerca, Cohen et al. (2005), come riporta Westen (2007), hanno
mostrato gli effetti della salienza della mortalità sulle opinioni e il comportamento delle
persone. Indagando sull’impatto dell’ansia che ne deriva sulle decisioni politiche, hanno
rilevato che la presenza della morte nella mente degli elettori ha portato a un forte
appoggio per Bush e per la sua politica in Iraq nelle elezioni del 2004, anche tra persone di
ideologia liberale. In una indagine mirata, gli elettori nel Nordest hanno votato 4 a 1 a
favore del candidato presidenziale democratico John Kerry quando non gli si ricordava
della morte, mentre quelli che hanno riempito un «questionario sulla morte» votavano 2 a
1 per Bush (Westen, 2007, p. 367). I riscontri combaciano con la teoria della gestione del
terrore sviluppata da Solomon e colleghi, secondo la quale l’evocazione della morte è un
potente strumento strategico nella politica e in particolare nella politica conservatrice
(Solomon et al., 1991; Landau et al., 2004).
I frame guerra al terrorismo e patriottismo sono stati entrambi particolarmente efficaci
nel clima psicologico uscito dagli attacchi dell’11 settembre. Ma sono due cose distinte.
La metafora della guerra al terrore attiva un frame di paura, che come abbiamo visto è
associato con la rabbia e l’ansia (Huddy et al., 2007). La metafora del patriottismo agisce
sull’emozione dell’entusiasmo, suscitando mobilitazione in appoggio al paese, radunando
letteralmente la gente intorno all’immagine della bandiera americana che sventola sugli
schermi televisivi, sui veicoli dei pompieri e della gente comune, e sui distintivi esibiti
dagli opinion-leader (Brewer et al., 2003).
But who framed whom? In linea di massima, l’agenzia politica ha fornito i frame ai
media, che a loro volta li hanno offerti al loro pubblico. Anzi, la gente dipende dai media
per ricevere informazioni e opinioni. Gli studi sull’influenza della copertura
massmediatica sul terrorismo hanno messo in evidenza la correlazione tra l’accresciuta
copertura e le percezioni pubbliche della minaccia del terrorismo (Kern et al., 2003;
Nacos, 2007; Nacos et al., 2008). Ma queste informazioni, quando si riferiscono a
importanti temi politici, hanno origine all’interno del sistema politico e vengono fornite
sotto forma di frame. Sono anche i frame a definire la relazione tra diverse componenti
dell’agenzia politica. Questa relazione è asimmetrica. La presidenza è solo una delle
componenti di questa agenzia, sia pure la più importante a causa della sua facoltà
costituzionale di realizzare il potere esecutivo (Entman, 2004). L’agenzia politica
comprende anche il Congresso (differenziando tra repubblicani e democratici), le forze
armate come istituzione, le Nazioni Unite, e leader stranieri, differenziando tra gli alleati
dell’amministrazione e altri governi. Il successo iniziale dell’amministrazione
nell’imporre i frame della guerra al terrore e del patriottismo alle élite politiche americane
(repubblicane e democratiche senza differenza) ha disarmato la potenziale opposizione.
Associando la guerra all’Iraq con la guerra al terrore e alla difesa della nazione, ogni
dissenso di una qualche entità sarebbe stato facilmente etichettato come antiamericano, o
dall’amministrazione o dai suoi surrogati nei media, mettendo così a repentaglio intere
carriere di politici (Jamieson e Waldman, 2003; Western, 2005; Lakoff, 2008)6.
George Lakoff ha analizzato il modo in cui l’amministrazione Bush ha usato successivi
frame per neutralizzare le critiche dei democratici alla guerra, anche quando, nel
novembre 2006, i democratici hanno conquistato il controllo di entrambe le camere.
Secondo le parole di Lakoff, «la battaglia politica era una battaglia per il framing» (2008,
p. 148). L’amministrazione Bush ha combattuto questa battaglia in fasi successive,
cambiando la narrazione in seguito all’imprevista evoluzione della guerra. Il frame
originario, basato sulla minaccia costituita dalle armi di distruzione di massa, poggiava su
una narrazione di autodifesa. Nelle prime settimane della guerra, mentre le truppe USA
entravano a Baghdad, fu evocato il frame della vittoria per dirottare l’agenda dai pesanti
combattimenti nella capitale e dintorni. In una scena allestita dai militari a beneficio dei
giornalisti, i soldati americani aiutavano i cittadini iracheni a rovesciare una grande statua
di Saddam Hussein in modo tale da evocare un frame di vittoria. Aday et al. (2005), in una
analisi di contenuto sulla copertura dei telegiornali americani sull’episodio della statua,
illustrano lo zelo con cui i media adottavano il «frame vittoria» veicolato dall’evento.
Rilevano anche che, in seguito a questo evento, il numero di servizi che documentavano il
perdurare delle violenze in Iraq diminuì drasticamente, lasciando pensare che nella sfera
mediatica il frame vittoria batteva le narrazioni potenzialmente competitive. Come già
detto, la propensione della stampa a riecheggiare la narrazione fissata
dall’amministrazione in tempo di guerra non è una caratteristica esclusiva degli Stati
Uniti. In uno studio transnazionale sulle immagini che accompagnavano gli articoli dei
quotidiani sulla statua di Saddam Hussein, Fahmy (2007) ha verificato che i quotidiani
pubblicati nei paesi della coalizione usavano più immagini dell’evento complessivo e più
immagini che appoggiavano il frame di vittoria di quanto accadesse nei paesi che non
facevano parte della coalizione. Il frame della vittoria venne parimenti evocato quando il
presidente Bush sbarcò su una portaerei davanti a una folla di soldati (più tardi si scoprì
che il tutto era avvenuto a San Diego) con uno striscione sullo sfondo che annunciava
«Missione compiuta». I critici sottolineano che l’evento aveva un evidente carattere
teatrale. Bush arrivava in tuta di volo a bordo di un caccia, anche se l’elicottero
presidenziale avrebbe potuto comodamente trasportarlo sulla portaerei.
Non essendo state scoperte armi di distruzione di massa, fu introdotta la narrazione del
soccorso: gli USA erano in Iraq per accorrere in aiuto degli iracheni e portare il dono della
democrazia. Quando ben presto fu chiaro che la «missione» era tutt’altro che «compiuta»,
e che la resistenza all’occupazione e la guerra civile intensificavano la violenza in Iraq, gli
iracheni ufficialmente liberati improvvisamente diventarono «insorti» o «terroristi» e fu
reintrodotta la narrazione della guerra per autodifesa. Al Qaeda venne immessa nel frame
con maggiore credibilità, ora che il rovesciamento di Saddam Hussein e lo smantellamento
dell’esercito iracheno facilitavano la presenza di Al Qaeda in Iraq dopo l’invasione del
paese. Nella prima metà del 2004, quando, proprio all’epoca della campagna elettorale per
le presidenziali, l’appoggio alla guerra cominciò a vacillare, i caduti americani
cominciarono a crescere, e vennero alla luce le prove delle torture dei prigionieri di Abu
Ghraib per mano dei militari USA, l’amministrazione intensificò i tentativi di inserire la
guerra in Iraq in un frame che la connetteva con l’11 settembre e con Al Qaeda. I sondaggi
Harris, condotti subito dopo che la commissione sull’11 settembre aveva pubblicato le sue
conclusioni, mostrano che il numero degli americani convinti che Saddam Hussein avesse
forti legami con Al Qaeda guadagnava ben venti punti percentuali, passando dal 49 per
cento dell’aprile 2004 al 69 per cento del giugno 2004.
Perché il presidente assumesse i poteri di guerra era essenziale che l’amministrazione
evitasse di menzionare la parola occupazione e mantenesse il frame della guerra come
parte della guerra al terrorismo per la sicurezza dell’America. Ma una volta iniziata la
guerra, la chiave di una riuscita strategia di framing era introdurre il frame patriottico nel
dibattito, concretizzato nell’«appoggio alle nostre truppe». Qualsiasi tentativo del
Congresso di disimpegnare il paese dall’occupazione dell’Iraq divenne suscettibile di
accuse di slealtà verso il paese e la guerra, e di tradimento per le truppe in azione sul
campo. Il presidente Bush riuscì a utilizzare questi frame per respingere ogni serio
tentativo da parte dei democratici di tagliare i finanziamenti per la guerra, e fu in grado
persino, nel maggio 2007, di convincere il 90 per cento dei rappresentanti nel caucus «Out
of Iraq» nel Congresso a votare la prosecuzione dei finanziamenti, in netto contrasto con
la posizione da loro dichiarata e con la volontà espressa dal loro elettorato nel novembre
2006.
I leader stranieri e le Nazioni Unite venivano o cooptati come «coalizione dei
volenterosi» o attaccati come partner inaffidabili. Poiché la scelta politica doveva
procedere sulla via dell’unilateralismo come esibizione della superpotenza americana,
l’effetto voluto era quello di trascinare la pubblica opinione americana, indipendentemente
dalla pubblica opinione mondiale. Per contrastare l’idea di un isolamento, fu attivato il
frame patriottico: noi, in quanto americani, siamo i difensori della libertà a prescindere
dall’indecisione o dall’irresponsabilità di altri paesi. Nei mesi che precedettero la guerra, il
framing arrivò al punto di cambiare il nome delle patatine fritte, da «French fries» a
«Freedom fries», nel ristorante del Congresso USA.
Il riuscito framing delle élite politiche da parte dell’amministrazione preparava la scena
per l’efficacia del processo di agenda-setting. L’agenda-setting è rivolta ai media, e
tramite i media è trasmessa per influenzare l’opinione pubblica. L’agenda-setting implica
due operazioni connesse: dare evidenza a determinate questioni e definire una narrazione
per tali questioni. In questo caso, l’amministrazione Bush fissava l’agenda collegando la
guerra in Iraq con la guerra al terrorismo, e mobilitando il paese intorno ai sacrifici e agli
atti eroici delle truppe americane. Come s’è detto, la narrazione originaria si basava sulla
disinformazione: Saddam Hussein aveva sviluppato armi di distruzione di massa e non
intendeva cederle; Saddam era collegato con Al Qaeda; Al Qaeda aveva attaccato gli USA
e aveva giurato di intensificare la potenza devastante di futuri attacchi. Ergo, l’Iraq
rappresentava una minaccia diretta alla sopravvivenza del popolo americano, alimentando
le reti del terrorismo che avrebbero finito per seminare il disastro in America e distruggere
lo stile di vita occidentale in tutto il mondo. L’azione preventiva era un imperativo morale
e una necessità difensiva. Come disse George Bush in un discorso ai soldati di Fort Lewis
nel giugno 2004:

Questo è un regime che odiava l’America. E così abbiamo visto una minaccia, ed era
una minaccia reale. E per questo sono andato alle Nazioni Unite… I membri del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno visto il materiale dell’intelligence e
hanno visto una minaccia, e hanno votato all’unanimità per mandare un messaggio a
Mr Saddam Hussein, disarmare o affrontare gravi conseguenze. Come al solito, lui ha
ignorato le richieste del mondo libero. E così avevo una scelta da fare – fidarmi della
parola di un pazzo, o difendere l’America. Davanti a una scelta simile, io difenderò
sempre l’America.
Chiaramente, la protezione delle riserve petrolifere e la liberazione del popolo iracheno
erano elementi aggiuntivi dell’argomento, ma si trattava di argomentazioni cognitive, e
pertanto subordinate all’impatto emotivo cercato con il riferimento alle armi di distruzione
di massa nelle mani dei terroristi dell’11 settembre7.
Seguendo la teoria dell’attivazione a cascata, propongo l’idea che l’agenda-setting è
diretta principalmente ai media perché è per loro tramite che frame e narrazioni
raggiungono la popolazione generale. Come hanno dimostrato Entman (2004, 2007),
Bennett et al. (2007) e altri, i media reagiscono in modo diverso a seconda del livello di
accordo esistente tra élite politiche. Maggiore è il dissenso, più diversificato è il
trattamento della narrazione, con l’accresciuta possibilità di introdurre contro-frame nel
riportare e dibattere le questioni. I media reagiscono al clima politico con il priming degli
eventi e l’indicizzazione delle notizie. Nel periodo 2002-2003, c’era scarso dissenso nel
Congresso USA rispetto alla guerra in Iraq e alla guerra al terrorismo. Finché non
percepirono una seria spaccatura nella valutazione del conflitto, i media rimasero in larga
misura confinati entro la narrazione fornita dall’amministrazione. È questo il motivo per
cui va differenziata l’analisi tra il periodo 2002-2003 e il periodo che ha portato e ha
seguito le elezioni presidenziali del 2004, quando il dissenso politico è cominciato ad
affiorare in termini di narrazione, pur senza mettere in discussione i frame predominanti
che erano stati attivati nella mente della gente.
TAB. 3.2. Frequenza delle percezioni errate per fonte di notizie (%)

Fonte: Kull et al. (2003-2004, p. 582).

Ma prima di introdurre un punto di vista dinamico nell’analisi, c’è da fare una


considerazione basilare: i media sono diversificati. Nella loro diversità, esiste una
fondamentale differenza che domina tutte le altre: media di parte contro media
mainstream. Entrambi, comunque, sono dominati da considerazioni commerciali. Come
ho sostenuto nel capitolo 2, in alcuni casi il giornalismo schierato costituisce un efficace
modello di business in quanto cattura un segmento importante del mercato richiamando
individui che desiderano trovare nell’informazione mediatica una conferma ai propri punti
di vista. Negli Stati Uniti, questo vale in particolare per i talk show radiofonici
conservatori e liberal e per il network televisivo Fox News. I media conservatori hanno
abbracciato i due frame, il patriottismo e la guerra al terrore, e li hanno legati alla guerra in
Iraq. Di conseguenza, la copertura giornalistica della guerra è stata caratterizzata da una
parzialità distorsiva. La tabella 3.2 presenta le risultanze di uno studio condotto da Kull et
al. (2003-2004) utilizzando dati raccolti dal PIPA nei mesi di giugno, luglio e agosto del
2003. Illustra l’associazione tra la fonte delle notizie sulla guerra in Iraq e il livello di
percezione erronea tra il pubblico, con gli spettatori di Fox News significativamente più
portati degli altri ad accettare la narrazione dell’amministrazione. All’altra estremità dello
spettro, i notiziari dei network non commerciali NPR e PBS davano luogo a una lettura
più critica delle versioni ufficiali.
Gli effetti della parzialità dei media sulle percezioni errate non si spiegano con
l’ideologia politica. Mentre i repubblicani erano più portati a dar credito alla versione
dell’amministrazione repubblicana, il loro livello di percezione errata variava con la fonte
delle loro notizie. Così, nel giugno-settembre 2003, il 43 per cento dei repubblicani
credevano ancora all’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. Ma questa
convinzione riguardava il 54 per cento dei repubblicani la cui fonte di notizie era la Fox,
rispetto al 32 per cento dei repubblicani la cui fonte di notizie erano la NPR o la PBS
(PIPA, 2004). Questa parzialità dei media non si limitava ai momenti eccezionali del dopo
11 settembre e del primo periodo della guerra in Iraq. Lo studio di Jacobson (2007b), tre
anni più tardi, basato sui dati del Cooperative Congressional Election Study del 2006,
mostra la correlazione tra la fonte delle notizie e le percezioni errate (tabella 3.3). Lo
studio evidenzia anche che gli spettatori della Fox erano più portati ad associare la guerra
in Iraq con convinzioni religiose (per esempio, l’idea che Bush fosse stato scelto da Dio
per guidare la guerra al terrore).
TAB. 3.3. Fonti televisive e credenze sull’Iraq e Bush (%)

Fonte: CCES, elaborazioni di Jacobson (2007b, p. 28, tabella 11).

Le teorie della gestione del terrore ci dicono che gli stimoli subliminali di morte
accrescono negli individui la tendenza ad appoggiare politiche e azioni che sostengono la
propria visione del mondo o il proprio orientamento culturale (per esempio, la guerra al
terrore; Landau et al., 2004). È anche provato che entro queste condizioni, gli individui
tendono a gravitare verso leader che sembrano rispecchiare la loro visione del mondo e la
loro cultura. Attraverso uno studio sperimentale, per esempio, Cohen et al. (2005) hanno
scoperto che i soggetti per cui la mortalità rivestiva un livello di salienza alta erano molto
più portati a gravitare verso Bush, un leader che consideravano carismatico e rispecchiante
la propria visione del mondo, anziché verso John Kerry, un candidato che era percepito
come «task-oriented». Per estensione, possiamo ritenere che gli americani alla ricerca di
una conferma della propria visione del mondo si rivolgessero al Fox News Channel,
un’emittente che riaffermava costantemente il primato della supremazia politica e
culturale dell’America (Iskandar, 2005). La questione, quindi, diventa quella della
causalità. Gli spettatori sono influenzati dalla parzialità dei media oppure sono attirati da
quegli organi mediatici che ritengono più in sintonia con il proprio punto di vista? Kull et
al. (2003-2004) propendono per l’ipotesi di un effetto indipendente delle fonti mediatiche
sulle percezioni. Ma è probabile che siano in atto entrambi i processi. Le persone che sono
motivate dai propri pregiudizi danno retta solo a chi vogliono ascoltare (Gentzkow e
Shapiro, 2006). Per chi è portato a un maggiore approfondimento a causa dell’ansia
indotta da emozioni negative, l’esposizione a specifiche fonti mediatiche può ribaltare
l’opinione nell’uno o nell’altro senso.
Nei media mainstream, il content bias ha dominato finché le opinioni delle élite
politiche sono rimaste coerenti con i frame istituiti dall’amministrazione8. Quando le élite
hanno cominciato a dividersi sulla guerra, è stata introdotta una parzialità sul processo
decisionale, con i giornalisti professionisti che interpretavano i segnali in arrivo dal
pubblico e propri criteri per differenziare i punti di vista, pur senza mettere in discussione i
frame fondamentali del patriottismo e della guerra al terrore. Quando le critiche sulla
conduzione della guerra sono emerse tra i democratici e si sono intensificate nel mondo, i
media mainstream hanno smesso di seguire l’agenda fissata dall’amministrazione Bush e
hanno dissociato la guerra in Iraq dai frame dominanti che fino a quel momento avevano
influenzato i loro servizi. Hanno iniziato a parlare di disinformazione, introducendo così
dei contro-frame nel processo. Più la competizione politica trasformava il panorama e
l’agenda-setting, più i giornalisti dei media mainstream usavano la parzialità decisionale
(ossia esercitavano le proprie preferenze professionali nel priming e nell’indicizzazione
delle notizie) offrendo tagli diversi, a seconda dell’interazione tra politica d’élite e «fatti
sul terreno». Tuttavia, i frame prodotti dall’amministrazione Bush hanno a lungo dominato
fino alla campagna presidenziale del 2004. Per esaminare l’evoluzione dell’appoggio alla
guerra e della valutazione della sua conduzione, e individuare i punti di flessione in questa
evoluzione, Amelia Arsenault e io abbiamo preparato la tabella A3.1 presente in
Appendice. La tabella A3.1 fornisce una visione d’insieme dei cambiamenti nella pubblica
opinione riguardo alla guerra, in base alla documentazione del Pew Research Center for
the People and the Press, e i mutamenti concreti sul terreno in Iraq come sono stati
presentati dal Brookings Institution Iraq Index tra il marzo 2003 e l’aprile 2008. I dati
della tabella A3.1 sono riportati in forma di grafico nella figura 3.3.
Baserò la mia analisi sulla lettura di questi dati. Nel gennaio 2004, il 65 per cento degli
americani era ancora convinto che l’invasione USA dell’Iraq fosse stata la decisione giusta
e il 73 per cento pensava che la guerra stesse procedendo bene. Nel febbraio 2004
l’opinione cominciò a rivolgersi contro la guerra: il sostegno calò in misura significativa
nel mese di maggio, a un livello del 51 per cento, e raggiunse per la prima volta dall’inizio
del conflitto un livello minoritario di approvazione nell’ottobre 2004 (46 per cento). Per
spiegare come si sia verificato questo cambiamento e come esso fosse connesso alla
disinformazione, dobbiamo riandare alla teoria e ricordare specifici eventi.
Poiché il 2004 era un anno di elezioni presidenziali, i media erano ricettivi a una fonte
di agenda-setting diversa dalle élite politiche. Il presidente Bush fece nella guerra in Iraq il
tema centrale della sua campagna in un periodo in cui godeva di un ampio supporto,
compreso un certo appoggio tra i democratici all’inizio del 2004. Dall’altra parte la
campagna per le primarie di Howard Dean, che rimase il front-runner democratico fino
alla sua sconfitta nei caucus dello Iowa nel gennaio 2004, raccoglieva l’opposizione alla
guerra in Iraq e allargava lo spazio disponibile per l’inclusione di contro-frame nel
dibattito pubblico. Poiché Dean organizzò buona parte della sua campagna intorno a
Internet (Teachout e Streeter, 2008), la discussione sulla guerra divenne particolarmente
intensa nella blogosfera, e parte di questo dibattito ampliò il campo di attenzione dei
media. Il citizen journalism cominciò a giocare un ruolo. Alcune informazioni riuscirono a
penetrare nel labirinto dell’agenda-setting, fino ad allora controllato in gran parte
dall’amministrazione.

FIG. 3.3. Sostegno alla guerra in Iraq e valutazione del suo andamento, marzo 2003 - aprile 2008.
Fonte: Compilato ed elaborato da Amelia Arsenault.

Nell’aprile 2004, la fotografia di personale militare che scaricava in segreto bare


contenenti salme di soldati americani da un aereo da trasporto a Seattle finì sulla prima
pagina del Seattle Times, e su Internet, grazie a lavoratori coscienziosi che persero il posto
per aver divulgato le foto. E il 28 aprile 2004, 60 Minutes della CBS divulgò la vicenda di
Abu Ghraib, riportata da Seymour Hersh sul New Yorker due giorni dopo, in base a quanto
trapelato a un rapporto militare interno. Anche se non ne conosciamo la fonte, la fuga di
notizie indica l’esistenza di dissenso all’interno della struttura militare sulle tattiche
impiegate nella guerra al terrore. Questo dissenso diede l’occasione a una parte dei media
di distaccarsi da quello che fino ad allora era stato il frame dominante sulla guerra.
Bennett (2007, pp. 72-107) ha analizzato in dettaglio il tentativo dei media di annacquare
l’episodio di Abu Ghraib evitando deliberatamente l’uso della parola «tortura» e
rappresentandolo come un incidente isolato. Le reti di Internet, però, e alcuni organi della
stampa cartacea, guidati dall’articolo di Seymour Hersh sul New Yorker, seguito poi dal
Washington Post, decisero di non diluire la notizia. Così, dopo un mese dalla loro
pubblicazione, il 76 per cento degli americani aveva visto le foto incriminate, anche se un
terzo di questi riteneva che fossero state eccessivamente pubblicizzate, e gran parte delle
immagini fossero considerate troppo scottanti per essere mostrate in televisione (Pew,
2004).
La campagna presidenziale del 2004 amplificò la tendenza ad allargare il ventaglio delle
posizioni sul conflitto nei media nonostante il fatto che John Kerry, il candidato
democratico alla presidenza, avesse appoggiato la guerra e fosse molto attento a non farsi
dare l’etichetta di morbido verso la guerra al terrore. Kerry, nei fatti, cercò di contrastare il
vantaggio di cui disponeva Bush in quanto presidente in guerra, usando le proprie
credenziali di eroe della guerra in Vietnam e «presentandosi a rapporto» (parole sue) alla
Convenzione Democratica del 2004, sottintendendo che sarebbe stato un comandante in
capo più competente di chi (Bush) si era sottratto alla leva militare. Tuttavia, durante la
campagna cambiò posizione sul conflitto per venire incontro al sentimento contrario alla
guerra che sempre più si andava diffondendo tra i democratici. La percezione di questo
tira e molla sull’Iraq minò la sua credibilità e lo espose ai devastanti attacchi della
campagna dei Republican Swiftboard Veterans che, con una brillante manovra di calunnia
e manipolazione politica, contribuirono al fallimento della sua sfida elettorale. La
campagna propagandistica fu efficace perché negava la narrazione che Kerry offriva di sé
come eroe di guerra, che era stata la base dell’immagine della sua campagna elettorale.
Comunque, introducendo il dibattito sulla guerra nella campagna del 2004, i democratici
crearono un’apertura perché nei media prendesse corpo una disamina più lucida della
guerra.
Se Kerry e il suo candidato vicepresidente, John Edwards, non si opposero apertamente
alla guerra per paura di una ricaduta politica negativa (una decisione di cui Edwards in
seguito si pentì pubblicamente), cresceva il numero dei democratici che invece si
opponevano ad essa. Questo spinse Kerry e Edwards a adottare una posizione più critica
nell’ultima fase della campagna. E così, la combinazione di una maggiore consapevolezza
del processo di manipolazione che aveva portato alla guerra, e l’introduzione nei media di
informazioni negative sul conflitto, aprirono per i democratici impegnati (e in una certa
misura per gli indipendenti) la possibilità di sottrarsi al frame dell’amministrazione, allo
schieramento dei media obbedienti, e alla leadership democratica decisamente cauta che si
era raccolta intorno alla bandiera della nazione. Nell’ottobre 2004, l’ultimo mese prima
delle elezioni, il sostegno per la guerra scese per la prima volta al di sotto del 50 per cento,
toccando il 46 per cento. Tuttavia, la sconfitta elettorale di Kerry stabilizzò la tendenza
contraria alla guerra fino all’autunno del 2005. La coraggiosa campagna per la pace
portata avanti in solitario da Cindy Sheehan (madre di un soldato ucciso in Iraq)
nell’estate del 2005 rinvigorì il movimento pacifista9. Ma ciò che realmente cambiò il
clima politico complessivo fu la cattiva gestione delle conseguenze del disastro
dell’uragano Katrina da parte dell’amministrazione Bush (Bennet, 2007).
L’incapacità di Bush di soccorrere i suoi concittadini, sommata al suo evidente
disinteresse, minò l’efficacia di un frame fondamentale nella politica: il presidente come
padre protettivo ed efficiente leader nei momenti di crisi. Mentre i repubblicani
intransigenti continuavano ad appoggiare il presidente e la sua guerra, democratici e
indipendenti si sentivano sempre più svincolati dalla fedeltà a un presidente in guerra, e i
democratici, in un tempo di incertezza, riaffermavano i loro valori tradizionali di
solidarietà e prevenzione della guerra. I media colsero l’occasione per diversificare le
proprie fonti e introdussero dibattiti più interessanti sugli affari sia interni sia esteri.
Persino il Fox News Channel saltò sul carro facendosi più critico verso l’amministrazione,
sia pure a un livello inferiore rispetto agli altri network, continuando a mantenere il suo
frame patriottico (Baum e Groeling, 2007). Le brutte notizie dal fronte trovarono adeguata
risonanza nel contesto della campagna elettorale del 2006.
In previsione delle elezioni congressuali di mezzo termine nel novembre 2006, i
democratici puntarono sulle questione della guerra come il tema principale con cui
contrastare il predominio di Bush e dei candidati repubblicani. Si avvantaggiarono delle
crisi di fiducia verso il presidente all’indomani dell’uragano Katrina e di una serie di
scandali politici che stavano scuotendo l’amministrazione (vedi tabella A4.1 in
Appendice).
Mentre i democratici si mobilitavano, i repubblicani rafforzavano il loro appoggio al
presidente. Secondo le parole di Jacobson (2007a), rispetto alla valutazione della guerra,
democratici e repubblicani vivevano in due mondi cognitivi separati. Nell’autunno del
2006, solo il 20 per cento dei democratici appoggiava la guerra, contro l’80 per cento dei
repubblicani: i sentimenti partigiani dettavano le convinzioni e le posizioni sul conflitto.
Con solo il 40 per cento di indipendenti favorevoli alla guerra, le elezioni congressuali del
2006 riportavano i democratici a una situazione di maggioranza nel Congresso per la
prima volta dopo dodici anni, primo boomerang politico per i repubblicani della
disinformazione che avevano disseminato sulla guerra in Iraq. Nei fatti, a quel tempo, l’80
per cento dei democratici riteneva che il presidente avesse montato deliberatamente
informazioni false sull’Iraq (Jacobson, 2007b, p. 23).
Favorita dal mutamento di clima politico, l’impopolarità del conflitto in Iraq, esplosa
nel marzo 2006, divenne il maggior punto di scontro tra le élite politiche. Di conseguenza
i media ampliarono la gamma dei temi e delle narrazioni da trasmettere al pubblico,
aumentando così le opportunità per i cittadini di riaffermare la propria opinione contro la
guerra o di esaminare gli argomenti che confermavano i loro giudizi. Tuttavia, nel 2007, i
media tornarono a seguire una nuova agenda fissata dall’amministrazione Bush: il
successo della surge strategy, l’aumento delle truppe in Iraq. In una manovra disperata ma
brillante per mettere al sicuro l’eredità della guerra in Iraq, Bush licenziò Paul Wolfowitz
e poi Donald Rumsfeld, gli artefici della fallita strategia bellica, e trasferì la responsabilità
per la conduzione della guerra ai comandanti sul campo. Il presidente ordinò un aumento
delle truppe da combattimento e assegnò il comando al generale Petraeus, dandogli mano
libera per decidere la tempistica e la portata dei futuri movimenti di truppe in Iraq. Ma
così facendo, Bush cedeva la responsabilità dell’agenda-setting ai militari, l’istituzione
che godeva della maggior fiducia nel paese10.
In effetti, il tentativo dell’organizzazione di base MoveOn.org di delegittimare il
generale Petraeus, presentandolo per assonanza come «General Betray us» («il generale-
ci-tradisce») in una pubblicità a piena pagina su diversi quotidiani americani, ebbe un
effetto boomerang e costrinse i democratici a strigliare pubblicamente l’organizzazione cui
era stato riconosciuto il merito di aver rivitalizzato la politica democratica. Mentre alcuni
alti gradi protestarono in privato per come era stato scavalcato lo stato maggiore nel
processo decisionale, il generale Petraeus presto fece colpo sull’opinione pubblica
attraverso i media e la classe politica. Ufficiale colto, laureato a Princeton in relazioni
internazionali, il generale capì che la chiave per influenzare la pubblica opinione
consisteva nel ridurre le vittime americane e la violenza nel paese. Per raggiungere al più
presto questo risultato, rovesciò l’alleanza incondizionata con gli sciiti, formò un’alleanza
con i sunniti e fornì risorse militari, addestramento e legittimazione ai leader tribali e alle
milizie sunnite perché difendessero i loro territori, operando così una partizione di fatto
del paese. Negoziò con l’Esercito del Mahdi di al-Sadr, ottenendo una tregua e
consegnando a questa influente fazione sciita il controllo di un gran numero di località, tra
cui Sadr City a Baghdad e gran parte di Bassora, il suo porto e le sue reti di contrabbando.
Ribadì l’appoggio all’autonomia del Kurdistan rischiando di aggravare le tensioni con la
Turchia. Smorzata gran parte dei conflitti civili, Petraeus diresse il grosso delle forze
americane contro i piccoli gruppi militanti organizzati intorno ad Al Qaeda in Iraq,
danneggiandone la capacità operativa. Con in mano questa serie di progressi (vedi figura
3.4), la sua testimonianza al Congresso nel settembre 2007 diede credibilità alla nuova
agenda, questa volta fissata dai militari sul campo, con l’appoggio del presidente11.

FIG. 3.4. Morti e feriti tra le truppe USA in Iraq, gennaio 2006 - aprile 2008.
Fonte: Compilazione ed elaborazione di Amelia Arsenault.

La nuova agenda apparve sotto le sembianze di una ragionevole strategia per lasciare
l’Iraq a tempo debito dopo aver riportato la stabilità e ottenuto la vittoria su Al Qaeda.
Finché non si fossero consolidati i guadagni ottenuti con la surge strategy, lo spiegamento
di truppe sarebbe stato mantenuto a un livello sufficientemente alto, e i comandanti sul
campo sarebbero rimasti responsabili della decisione sulle fasi del ritiro. I media in
generale presero per buona questa agenda-setting e lo stesso fecero in qualche misura
molti democratici. L’amministrazione Bush riusciva, sia pure temporaneamente, a
consolidare l’idea della legittimità della guerra trasferendo il potere di agenda-setting a
una fonte più credibile e tradizionalmente stimata: i comandi militari impegnati nel
combattimento diretto con il nemico. Questo rappresentava la risurrezione sotto nuova
veste del frame della vittoria, un frame difficile da rifiutare. Quello della vittoria
incorporava sia il frame patriottico sia quello della guerra al terrore. Toccava anche la
paura generale della fallibilità americana che aveva dominato l’opinione pubblica fin
dall’11 settembre. Se la guerra in Iraq era la battaglia chiave contro Al Qaeda, ottenere la
vittoria in Iraq era un passo decisivo per vincere la guerra al terrore. Dotando di
territorialità le invisibili reti del terrorismo, la surge strategy lasciava intendere che la
sicurezza si poteva raggiungere con i mezzi tradizionali dello scontro militare. Poiché il
controllo territoriale richiede una continuità di presenza militare, la vigilanza sulla vittoria
implica una presenza di lungo termine delle forze armate USA, sia pure a livello ridotto,
nella più critica regione del mondo.
Quel che andava perso in questa narrazione era l’incapacità della surge strategy di
affrontare la ricostruzione dell’Iraq, la democratizzazione del paese, la coesistenza di
comunità religiose inconciliabili, l’instabilità istituzionale, l’inaffidabilità delle forze
armate e della polizia irachene, la difficoltà di preservare l’unità dell’Iraq, il
reinsediamento di milioni di sfollati, la funzionalità di un’economia in macerie, e il
mantenimento della presenza di decine di migliaia di mercenari profumatamente pagati dal
contribuente americano. I dati sulle perdite umane in diminuzione offrivano il meccanismo
chiave dell’agenda-setting. Con le immagini di violenza drasticamente ridotte nei
telegiornali, venivano attutiti gli aspetti emozionali della guerra in Iraq, mentre gli aspetti
cognitivi del conflitto, compresa la responsabilità originaria della guerra, diventavano
argomento di editoriali poco letti e di occasionali commenti di giornalisti professionisti
(Project for Excellence in Journalism, 2008b). La figura 3.5 fornisce un’approssimazione
dell’incapacità dei media giornalistici di rispondere adeguatamente alla domanda di
notizie sulla guerra in Iraq avanzata dal pubblico. La linea del grafico riflette la differenza
tra la percentuale di intervistati che riferivano di essere interessati alle notizie sull’Iraq più
che a qualsiasi altra informazione giornalistica e la percentuale dell’agenda dei notiziari
dedicata alla copertura della guerra.

FIG. 3.5. Copertura della guerra nei media a confronto della probabilità dell’interesse degli elettori per le notizie di
guerra, gennaio 2007 - aprile 2008.
Fonte: Dati dal Pew News Interest Index e dal Project for Excellence in Journalism News Index, giugno 2007 -
aprile 2008, elaborati da Amelia Arsenault.

Come illustra la figura 3.5, l’unico periodo in cui i media più che soddisfarono l’interesse
degli americani per le notizie sulla guerra in Iraq fu durante le testimonianze del generale
Petraeus, un periodo in cui l’amministrazione si trovava nella posizione privilegiata di
farsi paladina dei successi della guerra e di ricalibrare il frame delle notizie. In questo
periodo la mistificazione prendeva il posto della disinformazione quale principale
meccanismo dell’amministrazione per garantirsi la continuazione di un ambiente
favorevole per lo sforzo bellico. La maggioranza della popolazione statunitense rimaneva
contraria alla guerra, ma la surge strategy incoraggiava un sottile spostamento. Durante
questo periodo, l’evidenza del successo della strategia riduceva l’importanza della guerra
nella mente di molti americani, concedendo all’amministrazione una maggiore
indipendenza operativa.
Questa indipendenza operativa era agevolata dallo spostamento dell’attenzione
mediatica dalla guerra in Iraq al deteriorarsi dell’economia USA e alla campagna
elettorale presidenziale del 2008, il che metteva in sordina la rilevanza del conflitto in Iraq
nei notiziari. Questo, in realtà, era il risultato di un meccanismo fondamentale di parzialità
decisionale nei media. Frammenti di informazione, presentati come «storie»,
componevano la narrazione nei media, e in particolare alla televisione. Ogni storia ha sue
caratteristiche, un suo formato e una sua via di trasmissione. Sono indicizzate in
dipendenza dalla percepita rilevanza per il pubblico. Ogni storia rimanda a un ambito di
informazione. Il significato della relazione tra diverse storie è trattato come opinione o
analisi giornalistica. Così, a meno che non sia lo spettatore stesso a stabilire la
connessione tra le diverse storie, esse rimangono indipendenti, e portano a valutazioni
indipendenti. Nella realtà, esisteva una connessione evidente tra la guerra in Iraq,
l’economia e la campagna presidenziale. Non credo sia necessario qui fornire sostegno per
questa affermazione (vedi Stiglitz e Bilmes, 2008) perché qui mi concentro sul
meccanismo del media bias. Ma la chiave è la disgiunzione che avviene tra notizie
riportate e ciò che è intimamente connesso nella realtà. Comunque, le conseguenze
economiche della guerra venivano sottolineate da diversi candidati politici democratici, in
particolare da Barack Obama, fornendo in tal modo un contro-frame capace di raccogliere
consensi per la cessazione della guerra. Ma in termini di informazione giornalistica, le
notizie sul legame esistente tra la guerra e l’economia erano nascoste nelle pieghe dei
servizi sulla campagna elettorale. Quanto alla campagna in sé, nelle primarie presidenziali
del 2008 l’Iraq non fu un punto focale del dibattito perché c’era accordo di posizioni sia
all’interno del campo repubblicano sia all’interno di quello democratico (salvo la
sconfessione di Hillary Clinton del suo iniziale appoggio alla guerra nel 2002), e quindi
non c’era molto materiale da sottoporre a priming nel frame della corsa elettorale.
Tutt’altra cosa, come si sa, è stata la campagna presidenziale conclusasi con le elezioni
del novembre 2008. Ma al momento dell’inizio della campagna, considerando l’insolito
protrarsi delle primarie democratiche, la narrazione sul successo della cosiddetta surge
strategy era diventata dominante nei media, nonostante il fatto che tanto Obama quanto la
Clinton si fossero impegnati a un ritiro graduale dall’Iraq, in diretta contraddizione con gli
ammonimenti lanciati dal generale Petraeus nella testimonianza resa al Congresso
nell’aprile del 2008. Il generale veniva promosso capo del comando centrale responsabile
della supervisione in Iraq e in Afghanistan, mentre i contendenti presidenziali democratici
spostavano l’attenzione sulla galoppante crisi economica. Così, mentre oltre due terzi di
americani erano contrari alla guerra nella primavera del 2008, il frame della vittoria
istituito dall’amministrazione continuava a funzionare tra il nocciolo duro dei sostenitori
della guerra, mentre il contro-frame introdotto dai leader democratici rendeva la
conduzione della guerra un derivato della politica economica. A causa dei frame
contrapposti, indotti dalle mutate esigenze di opportunità politica, a partire dal dicembre
2007 l’opinione pubblica sull’evoluzione della guerra fu caratterizzata da alta volatilità più
che da un trend specifico di valutazione della conduzione della guerra. Come già
ricordato, Sears e Henry (2005) hanno rilevato che raramente, nel corso degli ultimi
trent’anni, le preoccupazioni economiche hanno influenzato le posizioni elettorali e
politiche, tranne che in presenza di una seria crisi economica o di un evento che sconvolge
nel profondo la vita quotidiana. Nel 2008, con i prezzi dei carburanti alle stelle, la
contrazione del mercato immobiliare, i massicci pignoramenti di case, e infine il crollo dei
mercati finanziari e una crisi economica paragonabile solo agli anni Trenta, ha diffuso tra
gli americani una maggiore consapevolezza della precaria condizione economica del loro
paese. Per la prima volta, secondo i sondaggi Gallup, l’economia sorpassava la guerra in
Iraq come «il problema più importante» che l’America si trovava davanti. Nel settembre
2006 solo il 7 per cento degli intervistati segnalava le preoccupazioni economiche come
preminenti, mentre il 39 per cento metteva al primo posto la guerra in Iraq. Nel marzo del
2008 la tendenza si era rovesciata. Solo il 15 per cento pensava che la guerra in Iraq fosse
il problema più importante, mentre il 39 per cento dava il primo posto all’economia.
Così, cinque anni di framing e contro-framing avevano portato il pubblico americano
dalla disinformazione alla mistificazione. Per connettere questo caso di studio all’analisi
degli effetti di frame, narrazioni, agenda-setting e altre forme di distorsione mediatica
sulla mente degli individui, sintetizzerò qui l’argomento e presenterò un’illustrazione
sintetica dell’analisi nella figura 3.6.

FIG. 3.6. Produzione sociale delle percezioni mediatiche sulla guerra in Iraq, 2001-2008.

Le conclusioni di questa analisi sulla produzione sociale delle percezioni erronee sulla
guerra in Iraq sono le seguenti. Nel processo che condusse alla guerra in Iraq, i cittadini
americani vennero sottoposti ai frame della guerra al terrore e del patriottismo tramite i
media, e poi disinformati dall’agenda fissata dall’amministrazione, con il consenso delle
élite politiche, come rappresentata dai media. Le emozioni positive (entusiasmo)
mobilitavano il sostegno per le truppe, e in ultima analisi per la guerra, sotto la forma
dell’orgoglio nazionale e dei sentimenti patriottici. La gente rispondeva in base alle
proprie routine ideologiche. Così, i conservatori si schieravano a favore della guerra e
respingevano le informazioni che mettessero in dubbio le proprie convinzioni (Jacobson,
2007b). Emozioni negative, come la paura, avevano differenti conseguenze a seconda del
fatto se scatenavano rabbia o ansia. La rabbia mobilitava all’azione e riduceva il vaglio
delle informazioni. L’ansia viceversa aumentava l’incertezza e attivava i meccanismi di
sorveglianza della mente inducendo a una più accurata ricerca di informazioni per limitare
il livello di rischio. Quindi, i conservatori schierati e i cittadini arrabbiati affermavano le
loro convinzioni in appoggio alla narrazione dell’amministrazione e opponevano
resistenza a qualsiasi informazione alternativa proveniente da fonti diverse, come Internet,
la National Public Radio (NPR), le fonti straniere, o gli editoriali dissenzienti sui media
mainstream. I democratici schierati erano dilaniati tra l’accettazione dei frame iniziali e la
sfiducia verso un presidente che, nell’opinione di molti, nel 2000 era stato eletto con la
frode. I cittadini ansiosi cercavano migliori informazioni per formulare i propri giudizi.
Tuttavia, dal momento che la maggioranza dei media diffondeva in linea di massima la
narrazione impostata originariamente dall’agenda dell’amministrazione, i risultati di tale
ricerca erano inevitabilmente limitati. Le percezioni errate sulla guerra son durate per
anni. In effetti, un sondaggio della CBS News condotto nel marzo 2008 rilevava che il 28
per cento degli americani credeva ancora che Saddam Hussein fosse coinvolto in prima
persona negli attentati dell’11 settembre (pollingreport.com).
Intensità e frequenza delle percezioni errate erano fortemente correlate con l’appoggio
alla guerra, con la convinzione che il conflitto stesse procedendo bene, con l’appoggio al
presidente e con l’appoggio ai repubblicani. Se i repubblicani erano i più portati a
mantenere le percezioni errate, queste erano molto diffuse anche tra i democratici. Una
volta che tali opinioni si erano consolidate nella mente degli individui, informazioni
aggiuntive non cambiavano le percezioni se queste erano radicate in convinzioni
partigiane. Anzi, coloro che erano pronti a votare per Bush nelle elezioni del 2004, più
seguivano le notizie, più rafforzavano i loro punti di vista e il loro appoggio per il
presidente. Per la gente in generale, invece, l’effetto delle notizie variava a seconda della
fonte, come dimostrano i citati studi di Kull et al. (2003-2004) e di Jacobson (2007a, b).
È stato dimostrato che l’appoggio alla guerra è stato pesantemente determinato dalla
disinformazione. Nei sondaggi del PIPA condotti nel luglio-agosto del 2003, tra gli
individui che non avevano nessuna delle tre maggiori percezioni errate sulle circostanze
della guerra (che erano informati cioè dell’inesistenza dei legami tra Saddam Hussein e Al
Qaeda, dell’inesistenza delle armi di distruzione di massa e dell’ostilità della maggioranza
dell’opinione pubblica mondiale nei confronti dell’invasione guidata dagli USA) solo il 23
per cento appoggiava la guerra. Tra quelli che avevano almeno una percezione errata, il
sostegno per la guerra raggiungeva il 53 per cento; tra quelli con due percezioni errate, il
sostegno arrivava al 78 per cento; e tra quelli con tutte e tre le percezioni errate, il
sostegno schizzava all’86 per cento (Kull et al., 2003-2004). La correlazione tra
percezioni errate e appoggio alla guerra continuava negli anni seguenti, anche se il livello
di percezione errata era ridotto, particolarmente per quelli che non erano repubblicani
schierati (PIPA, 2005, 2006; Harris, 2006).
Poiché la guerra era la questione politica più saliente, appoggiarla significava
appoggiare il presidente che l’aveva lanciata, che aveva fissato i frame per i media, e che
aveva disinformato la cittadinanza. Ma questa situazione cambiò nel corso del tempo. Il
dissenso tra le élite politiche diversificava l’agenda proposta ai media. Il giornalismo dei
cittadini e Internet forzavano i frame dominanti che avevano ingabbiato l’informazione.
La perdita di fiducia nel presidente, l’uragano Katrina e una serie di scandali che colpirono
l’amministrazione e il Partito repubblicano, stimolarono un maggiore approfondimento
delle informazioni e delle narrazioni sulla guerra. Le perdite umane cominciarono a essere
percepite come qualcosa di insensato, anziché come l’eroico sacrificio inevitabile
conseguenza della difesa della nazione. L’appoggio alle truppe portò molti ad appoggiare
il ritiro di uomini mandati allo sbaraglio per motivi oscuri o sbagliati. Le elezioni del
novembre 2006 tradussero l’opposizione alla guerra in cambiamento politico.
L’appoggio alla guerra però non svanì dopo queste elezioni (vedi tabella A3.1 in
Appendice). Questo perché un nocciolo duro di cittadini conservatori mantennero le
proprie convinzioni e in larga misura rimasero legati a concezioni sbagliate in quanto i
loro frame mentali non potevano accettare informazioni che ne contraddicessero le
opinioni. Così, al minimo storico dell’appoggio alla guerra, nel dicembre 2007, c’era
ancora un 36 per cento di americani convinto che la guerra fosse una decisione giusta
(saliti al 38 per cento nel febbraio 2008). Cosa ancora più importante, nella seconda metà
del 2007 e all’inizio del 2008 una crescente porzione dell’opinione pubblica (tra il 40 e il
45 per cento) era convinta che la guerra procedesse bene. Questo si può attribuire a due
meccanismi. Uno era il successo dell’agenda-setting proposta dai militari USA in Iraq e la
sua accettazione da parte di quasi tutti i media. La seconda era una certa ambiguità
presente tra i politici democratici, compresi i candidati presidenziali, che erano riluttanti a
porsi in rotta di collisione con i militari, non esistendo una facile via d’uscita dall’Iraq nel
breve termine. Così, l’influenza della nuova narrazione dei repubblicani, impersonata dal
senatore John McCain, si basava sul concetto di responsabilità: anche se dal primo
momento è stato un errore entrare in guerra, ora che siamo in Iraq dobbiamo restarci
finché la faccenda non sarà risolta. Gli esponenti della leadership democratica erano stretti
tra la volontà dell’81 per cento di chi li aveva votati nel 2006, che voleva che ci si ritirasse
dall’Iraq entro un anno, e la loro eleggibilità e responsabilità.
Comunque, la trasformazione più fondamentale nel corso dell’intero processo fu quella
che si verificò nella mente delle persone. Un’ampia maggioranza di cittadini americani
divenne più isolazionista di quanto il paese fosse mai stato dai tempi della guerra in
Vietnam. Erano pronti a barattare il ruolo imperiale del loro paese negli affari mondiali
con l’assistenza sanitaria e un lavoro sicuro. Il patriottismo vennne ridefinito in termini di
benessere della società, e il frame della guerra al terrore perse gran parte del suo spettrale
potere di intimidazione. Come scrivono Baum e Groeling dopo aver proceduto a un’analisi
statistica della relazione tra frame mediatici, agenda-setting politica e opinioni sulla guerra
in Iraq: «Prima o poi, sembrerebbe, il pubblico è in grado di discernere, almeno in una
certa misura, le autentiche qualità di un conflitto, indipendentemente degli sforzi in senso
contrario compiuti dalle élite» (2007, p. 40). Resta però il fatto che più tardi il pubblico
riesce a far saltare i frame della disinformazione, e più le azioni delle élite mistificatrici
riescono a produrre distruzione e sofferenza soprattutto «quando la stampa manca al suo
dovere» (Bennett et al., 2007).
Il potere del frame
La costruzione del potere procede plasmando la formazione delle decisioni, con la
coercizione o con la costruzione di senso, o con entrambe. La lotta secolare per la
democrazia ha portato all’elaborazione di regole di condivisione del potere sulla base della
condizione di cittadinanza. Si diventa cittadini assumendo il proprio ruolo e i propri diritti
come soggetti sovrani di potere, quindi delegando il proprio potere a rappresentanti tenuti
a rendere conto alla cittadinanza. Il meccanismo, imperfetto ma indispensabile, della
rappresentanza in teoria si basa su elezioni politiche libere, controllate da un sistema
giudiziario indipendente, e rese competitive dalla libertà di stampa e dal diritto alla libertà
di parola. Variazioni storiche e manipolazioni delle istituzioni da parte dei detentori del
potere hanno reso molte volte irriconoscibile la democrazia, se assumiamo una prospettiva
mondiale di lungo periodo. Ma gli ininterrotti tentativi di perfezionare la democrazia
continuano ad avere come obiettivo l’avvicinamento a questo tipo ideale di democrazia
procedurale. Si riteneva, e ancora si ritiene, che se si preserva l’apertura del sistema
politico, se i gruppi di pressione non controllano l’accesso alle cariche elettive, se i partiti
e i governi non hanno mano libera nella manipolazione a loro favore del sistema, i
cittadini, liberi, informati, capaci di mettere a confronto i loro punti di vista senza
impedimenti, riusciranno alla fine ad avvicinarsi a un processo trasparente di formazione
condivisa delle decisioni. Questo non garantirà un buon governo ma almeno una buona
governance, con la possibilità di rettificare gli eventuali errori nelle scelte operate dalla
maggioranza e nel rispetto dei diritti delle minoranze.
Ma in che modo il bene comune emerge dalla pluralità di liberi individui autodiretti?
Mediante l’aperta discussione delle opzioni politiche presentate ai cittadini dai loro
aspiranti leader. Così, in questa visione del processo politico, la chiave è il modo in cui
vengono decise le politiche. Ci sono buone politiche e cattive politiche per gruppi specifici
e per la collettività nel suo insieme. Il processo di aggregazione degli interessi tramite il
dibattito sulle scelte di politica implica l’esistenza di una razionalità superiore che
giungerà a rivelarsi grazie al libero confronto delle idee. Naturalmente, occorre che sia
presa in considerazione la pluralità degli interessi e dei valori sociali. La politica liberale è
la politica della ragione. Anzi, per un breve periodo all’apice della Rivoluzione francese,
la dea Ragione fu venerata e posta sul trono della cattedrale di Notre Dame il 10 novembre
1794; le chiese vennero convertite in templi dedicati alla dea. La ragione diventava la
nuova trascendenza, e annullava il potere di Dio facendo appello a quanto di meglio c’era
nella mente degli individui, alla loro unicità di specie autoconsapevole capace di
comprendere e controllare la vita, prefigurarsi il futuro, e appropriarsi della natura dopo
millenni in cui l’umanità si era assoggettata. La ragione ci rendeva superiori, mentre gli
«istinti» o le emozioni avrebbero abbassato la nostra umanità al livello degli animali. La
politica della ragione era modellata su questo principio, e lo è ancora. Ovviamente c’era, e
c’è, la chiara consapevolezza che questo non è un mondo perfetto, e che il comportamento
emozionale inquina il regno della razionalità. Quindi, la purezza degli ideali politici viene
perseguita nel confronto fra politiche ben strutturate a risolvere i problemi della
collettività, reprimendo al tempo stesso il comportamento irrazionale, emotivo, che
potrebbe condurci nelle turbolente acque della demagogia e del fanatismo. Come la
mettiamo, però, se sentimenti ed emozioni sono componenti essenziali del processo
decisionale? Cosa succede se le emozioni e i sentimenti in ultima analisi decidono il modo
in cui la politica, e la formazione del potere in generale, costituiscono significato, e quindi
comportamento, e danno luogo ad azione che, più che razionalmente decisa, è
razionalizzata? Come scrivono Leege e Wald (2007) seguendo Wuthnow (1987):

Il significato è un attributo del simbolismo ed è una funzione del contesto in cui il


simbolo dell’individuo stesso è collocato. I simboli più potenti si trovano non in
complicate teorie su tassazione e crescita economica, o in efficienti strutture per la
cura della salute o in strategie per combattere i terroristi o vincere una guerra. Si
trovano in immagini e suoni che attingono a esperienze primarie che i gruppi hanno
delle cose che promuovono orgoglio e soddisfazione, o attingono a riserve di paura o
repulsione… Il significato è permeato di emozione. È ben lontano dalla fredda
razionalità (Leege e Wald, 2007, pp. 296-297).
Questo non è un appello normativo al trionfo della politica delle emozioni, e tanto meno a
pratiche decisionali irrazionali. Piuttosto è il riconoscimento del modo concreto in cui gli
individui elaborano i segnali in base ai quali prendono le decisioni, per se stessi e per il
mondo in generale a proprio nome. Poiché la democrazia è fondamentalmente
procedurale, il modo in cui gli individui decidono non determina ciò che decidono.
Elaborare e applicare una politica – per esempio, una linea politica sulla guerra e la pace –
è un processo importantissimo che va condotto nel pieno esercizio della miglior capacità
cognitiva di cui disponiamo. Ma per raggiungere il livello decisionale per la politica, le
procedure democratiche vanno seguite con la comprensione piena dei processi implicati. E
questi processi sono in larga misura emozionali, articolati intorno a sentimenti consapevoli
e connessi a scelte che suscitano un complesso ventaglio di reazioni dipendenti dagli
stimoli ricevuti dal nostro ambiente comunicazionale. Poiché i politici di professione o i
leader naturali sanno come suscitare le emozioni necessarie per conquistare la mente e il
cuore della gente, il processo della concreta costruzione del potere si sovrappone alle
procedure formali della democrazia, determinando in larga misura l’esito della contesa.
L’analisi razionale di processi di formazione del potere inizia con una presa d’atto dei
limiti della razionalità nel processo. La discussione e l’analisi presentate in questo
capitolo, invece, mostrano come, attivando reti di associazione tra eventi e immagini
mentali attraverso processi comunicativi, la formazione del potere opera con dinamiche
stratificate in cui il modo in cui sentiamo struttura il modo in cui pensiamo, e infine il
modo in cui agiamo. L’evidenza empirica e le teorie della comunicazione politica
concordano nel sottolineare il potere del frame nel processo di costruzione del potere. Ma
chi forma i frame per chi, e come, e perché? Se davvero volete saperlo, continuate a
leggere.
1
Questa sezione è basata in gran parte sulle ricerche di neuroscienza teorizzate e sistematizzate da Antonio Damasio.
In appoggio all’analisi qui presentata, rimando il lettore ad alcune delle opere da lui pubblicate: Damasio (1994, 1999,
2003); Damasio e Meyer (2003). Ho anche appreso alcune nozioni di base nel campo della ricerca su emozione e
cognizione dalla mia continuata interazione con i professori Antonio Damasio e Hanna Damasio nel corso degli anni. Ho
un forte debito di riconoscenza con Antonio Damasio per i suoi consigli sull’analisi che qui presento. Desidero anche
ricordare l’influenza che su tutto questo capitolo hanno esercitato le conversazioni che ho avuto con George Lakoff e
Jerry Feldman (e la lettura dei loro libri), eminenti scienziati cognitivi e miei colleghi a Berkeley. Rinvio il lettore
all’analisi di George Lakoff presentata in Lakoff (2008). Va da sé che non rivendico alcuna competenza specifica nella
neuroscienza o nelle scienze cognitive. Il mio solo scopo, nell’introdurre questo elemento dell’analisi, è quello di
connettere la mia conoscenza della comunicazione politica e delle reti della comunicazione alle conoscenze di cui ora
disponiamo sui processi della mente umana. È solo con questa prospettiva scientifica interdisciplinare che possiamo
passare dalla descrizione alla spiegazione nell’interpretare l’effetto della costruzione di relazioni di potere sulla mente
umana. Ovviamente, di qualsiasi errore in questa analisi sono unico responsabile.
2
«Thruthiness è: “Quello che dico io è giusto, e niente di quello che chiunque altro dice può essere in alcun caso
vero”. Non è solo che io sento che è vero, ma che ciò io sento è vero. Non si tratta solo di una questione emotiva, ma
anche di una qualità egocentrica.» Intervista a Stephen Colbert di Nathan Rabin di A.V. Club, 26 gennaio 2006;
http://www.avclub.com/articles/stephen-colbert,13970/ [NdT].
3
Questa sezione amplia e aggiorna l’analisi pubblicata nel 2006 in un articolo scritto con Amelia Arsenault (Castells
e Arsenault).
4
http://oversight.house.gov/IraqOnTheRecord/.
5
Un sondaggio della Zoghy International condotto nel 2006 tra le truppe USA stanziate in Iraq rilevava che l’85 per
cento dei militari intervistati affermava di essere lì perché la missione USA in Iraq era «compiere una rappresaglia per il
ruolo di Saddam negli attacchi dell’11 settembre» e il 77 per cento diceva di credere anche che «la principale ragione
della guerra era far cessare la protezione che Saddam dava ad Al Qaeda in Iraq».
6
Anche i giornalisti si sono conformati al frame patriottico. A quel tempo anchorman della CHS News e reporter
veterano, Dan Rather dichiarò alla BBC nel 2002 che i media USA (lui compreso) avevano compromesso i principi del
giornalismo dopo l’11 settembre per paura di apparire antipatriottici. In un’intervista al programma Newsnight,
lamentava: «Per certi versi, la paura è quella di essere messi alla gogna, di ritrovarsi sul groppone l’etichetta di nemico
della patria. È questa paura che impedisce così spesso ai giornalisti di porre le domande più scomode e di continuare a
insistere sulle domande scomode. Ripeto, è umiliante dirlo, ma io stesso non posso assolvermi da queste critiche.»
7
In questo capitolo non sto analizzando le cause e le conseguenze della guerra in Iraq da un punto di vista sociale e
politico. Ho proposto la mia interpretazione della guerra e del suo contesto geopolitico in altri testi (Castells, 2004b,
2007). Nell’analisi presentata qui, sto usando il caso della guerra in Iraq per mettere al lavoro gli strumenti concettuali
proposti in questo capitolo per comprendere la relazione tra framing mentale e costruzione del potere.
8
Uno degli esempi più diretti del tentativo dell’amministrazione di controllare il framing delle notizie è stata la
politica di embedding dei giornalisti nelle unità militari sul terreno.
9
Cindy Sheehan lasciò il movimento pacifista e il Partito Democratico il 27 maggio 2007 per protesta contro la
decisione della maggioranza dei democratici di votare il finanziamento della guerra ribaltando le promesse fatte agli
elettori in occasione delle votazioni per il Congresso nel novembre 2006. Spiegò la sua decisione in una dichiarazione
scritta: «La prima conclusione è che sono stata la beniamina della cosiddetta sinistra finché mi sono limitata a protestare
contro George Bush e il Partito Repubblicano. Ovviamente, sono stata attaccata ed etichettata dalla destra come
“strumento” del Partito Democratico. Questa etichetta doveva servire a emarginare me e il mio messaggio. Come poteva
una donna avere un pensiero originale, o lavorare al di fuori del nostro sistema bipartitico? Comunque, quando ho
cominciato a valutare il Partito democratico con lo stesso metro che usavo per il Partito repubblicano, l’appoggio per la
mia causa ha cominciato a erodersi e la “sinistra” ha cominciato a lanciarmi gli stessi insulti usati dalla destra. Immagino
che nessuno mi abbia dato ascolto quando ho detto che la questione della pace e della gente che muore senza motivo non
è una questione di “destra o sinistra” ma di “giusto o sbagliato”».
10
Un sondaggio svolto nel settembre 2007 da CBS/New York Times rilevava che il 68 per cento degli intervistati si
fidava soprattutto dei militari per risolvere la questione della guerra, contro un 5 per cento che si fidava del presidente
Bush e il 21 per cento che si fidava maggiormente del Congresso (n = 1035 +/− 3 per cento; Myers e Thee, 2007). Da un
sondaggio svolto dal Pew Research Center for the People and the Press nell’agosto 2007 emergeva che più della metà
degli intervistati (52 per cento) riteneva che i militari fossero una fonte affidabile per l’esattezza delle informazioni sulla
guerra in Iraq, mentre solo il 42 per cento esprimeva una simile fiducia nella stampa (Pew, 2007b). Inoltre, questa
tendenza era più pronunciata tra i repubblicani, il 76 per cento dei quali affermava di fidarsi dei militari «molto» o
«parecchio» come fonte di informazione (Pew, 2007b). Tuttavia, la fiducia in entrambe le istituzioni ha subito un netto
calo dall’inizio della guerra, allorché l’85 per cento esprimeva fiducia nei militari e l’81 per cento esprimeva fiducia
nella copertura dei media sulla guerra.
11
Nell’aprile del 2008 le forze armate USA ribaltavano questa politica, portando a un’impennata nel numero di morti
e feriti tra le truppe americane e mettendo in discussione la giustificazione immediata e la funzionalità a lungo termine
della surge strategy.
Capitolo 4
INTERVENIRE SULLE RETI DI COMUNICAZIONE: POLITICA
MEDIATICA, POLITICA DELLO SCANDALO E CRISI DELLA
DEMOCRAZIA
Il potere dell’immagine
La politica è il processo di allocazione del potere nelle istituzioni dello stato. Come ho
sostenuto e documentato in questo libro, le relazioni di potere sono in larga misura basate
sulla capacità di plasmare la mente umana mediante il trasferimento di senso attraverso la
costruzione di immagini. Ricordiamo: le idee sono immagini (visive o meno) nel nostro
cervello. Per la società, distinta dal singolo individuo, la costruzione delle immagini
avviene nel regno della comunicazione socializzata. Nella società contemporanea,
dovunque nel mondo, sono i media a essere i vettori di comunicazione decisivi. Quando
dico media mi riferisco all’intera gamma delle organizzazioni e delle tecnologie di
comunicazione analizzate nel capitolo 2, includendo quindi tanto la comunicazione di
massa quanto l’autocomunicazione di massa. La media politics è la conduzione della
politica sui media e con i media. In questo capitolo mi propongo di dimostrare che, nel
nostro contesto storico, la politica è in primo luogo politica mediatica.
Messaggi, organizzazioni e leader che non hanno presenza sui media non esistono nella
mente del pubblico. Quindi, solo quelli che sono in grado di trasmettere i loro messaggi ai
cittadini in generale hanno la probabilità di influenzare le decisioni in modi che
consentano il proprio accesso a posizioni di potere nello stato e/o a mantenere la presa
sulle istituzioni politiche. È certamente così nella politica democratica: la politica, cioè, in
cui elezioni competitive, teoricamente libere, sono il principale meccanismo di accesso
all’ufficio politico. Ma questo vale anche per i regimi non democratici, perché il controllo
dei media è una forma potente di dominio. Senza infrangere le barriere organizzative e
tecnologiche che strutturano l’informazione e la comunicazione socializzata, le finestre
della speranza e del cambiamento sono troppo anguste per consentire una efficace
resistenza ai poteri costituiti. Quando il loro controllo sulla comunicazione viene a
mancare, i regimi autoritari vanno rapidamente incontro alla fine, con livelli di violenza e
trauma che variano a seconda delle circostanze del cambiamento politico (Randall, 1993;
Price, 2002). Inoltre, la maggioranza dei paesi del pianeta si colloca in posizione
intermedia dell’intervallo tra democrazia da manuale e bieco autoritarismo. I criteri per la
definizione di democrazia vanno contestualizzati perché la diversità globale delle culture
politiche non è riducibile alle idee originarie del liberalismo, emerse nel XVIII secolo in
una piccola, benché influente, area del mondo. La democrazia come pratica sociale e
istituzionale non è la stessa cosa dell’ideologia della democrazia, e meno ancora è
l’equivalente degli ideali della democrazia liberale.
Il fatto che la politica si svolga essenzialmente sui media non vuol dire che altri fattori
(per esempio l’attivismo dei militanti o la frode elettorale) non siano significativi nel
decidere l’esito di una contesa elettorale. Né implica che siano i media i detentori del
potere. I media non sono il Quarto Potere. Sono molto più importanti; sono lo spazio dove
si costruisce il potere. I media costituiscono lo spazio in cui le relazioni di potere vengono
decise tra attori politici e sociali in competizione. Quindi, quasi tutti gli attori e i messaggi
devono passare per i media per poter conseguire i loro obiettivi. Devono accettare le
regole dell’intervento mediatico, il linguaggio dei media e gli interessi dei media. I media
non sono neutrali, come sostiene l’ideologia del giornalismo professionistico; né sono
strumenti diretti del potere statale, con l’ovvia eccezione dei mass media nei regimi
autoritari. Gli attori mediatici costruiscono piattaforme di comunicazione e si impegnano
nella produzione di messaggi in linea con i loro specifici interessi organizzativi e
professionali (Schudson, 2002). Data la diversità degli attori mediatici, questi interessi
sono altrettanto diversificati. Come ho illustrato nel capitolo 2, i media commerciali sono
in primo luogo un business, e gran parte del loro business si fonda sull’intrattenimento,
notiziari compresi. Ma hanno anche interessi politici più ampi, essendo direttamente
implicati nella dinamica dello stato, una parte fondamentale dell’ambiente dove fanno
affari. Così le regole d’ingaggio per la politica nei media dipenderanno dagli specifici
modelli di business e dalla relazione che i media hanno con gli attori politici e con la
audience.
Per tutte le organizzazioni mediatiche, che siano concentrate sulla comunicazione di
massa o sull’autocomunicazione di massa, o su entrambe, la chiave è espandere influenza
e risorse espandendo e approfondendo il proprio pubblico. Diversi canali media
identificano il proprio pubblico secondo specifiche strategie. Così, lo scopo non è
semplicemente conquistare share di pubblico, ma anche conquistare un target specifico di
spettatori/utenti. Questa è la logica fondamentale alla base del modello dei media
schierati, come nel caso di Fox News negli Stati Uniti, di Antena 3 in Spagna o di
Mediaset in Italia. Questi network prendono di mira ideologicamente specifiche audience
interessate a vedere confermati i propri punti di vista più che a essere informate da fonti
indipendenti. In base a un modello diverso di audience targeting, i blog politici
indipendenti mirano a disseminare opinioni e informazioni che non si trovano nei media
mainstream per istituire una base di sostegno al loro specifico approccio a questioni
politiche. I media mainstream hanno il vantaggio chiave della credibilità. Naturalmente si
parla sempre in termini relativi, in quanto negli ultimi anni la credibilità dei media è
precipitata. Per esempio, negli Stati Uniti, nel 2007, il 36 per cento delle persone riteneva
che la stampa americana danneggiasse concretamente la democrazia, contro il 23 per cento
del 1985. E solo il 39 per cento affermava di pensare che la stampa presentasse
accuratamente i fatti, rispetto al 55 per cento nel 1985 (Pew, 2007b, p. 2)1. La gente si
affida in larga misura ai mass media per ottenere gran parte delle informazioni
politicamente rilevanti e, nonostante la crescente importanza di Internet, la televisione e la
radio restano le fonti ritenute più affidabili per le notizie politiche (Paniagua, 2006;
Eurobarometer, 2007; Public Opinion Foundation, 2007; Pew, 2008c). Il motivo è
evidente: se lo vedi, dev’essere vero, come ben sa chi cura i notiziari televisivi (Hart,
1999)2.
Graber (2001, pp. 11-42) ha mostrato che l’efficacia dei messaggi audiovisivi nel
veicolare informazione politica è connessa al modo in cui il nostro cervello elabora
messaggi, seguendo la logica della produzione e stimolo di immagini che ho analizzato nel
capitolo 3. Anche quando Internet è citata come una fonte chiave di notizie, molti dei siti
web citati sono quelli dei media mainstream, con il sito della BBC News al primo posto
come più visitato del mondo, con oltre 46 milioni di visitatori al mese, il 60 per cento
provenienti dal di fuori del Regno Unito. Escludendo Yahoo! News e Google News (che
raccolgono ma non producono notizie), gli altri siti di notizie più visitati sono, in ordine
decrescente, CNN, The New York Times, Weather.com. MSNBC e Reuters3.
Comunque, quando si dice che la politica della nostra epoca è la politica dei media si è
solo posto il problema, non la soluzione. Come si traduce questo nei meccanismi del
conflitto politico, nella competizione politica, nella partecipazione e nella formazione
delle decisioni politiche? In che modo l’azione politica si trasforma per essere più efficace
nel regno della politica mediatica? Qual è l’effetto specifico della politica mediatica sulle
campagne, la leadership e l’organizzazione politica? Fino a che punto le reti orizzontali
dell’autocomunicazione di massa, e in particolare Internet e la comunicazione wireless,
modificano le pratiche politiche rispetto alla conduzione della politica sui mass media?
Qual è la connessione tra politica mediatica e il ricorso alla politica scandalistica come
arma privilegiata nelle lotte di potere? E quali sono le conseguenze osservabili del nuovo
genere di politica sulla democrazia come forma di relazione tra stato e società?
Omicidi semantici: la politica mediatica all’opera
Qual è concretamente il modus operandi del killer politico?

Passo I: Il killer politico raccoglie il fango.

Passo II: Il fango viene messo in mano ai sondaggisti, che grazie a sofisticate
tecniche di sondaggio possono determinare quale parte di quel fango nella mente
degli elettori può arrecare maggior danno politico.

Passo III: I sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità


elettorale sui media, che passano i due o tre elementi più dannosi su TV, radio e
comunicazione postale, con l’intento di fare a pezzi l’avversario politico. Il terzo
passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l’incredibile talento degli addetti ai
media delle campagne… quando tutto è finito e la verità è stata messa in piazza,
l’avversario ha subito un serio colpo, da cui a volte non riesce più a riprendersi
(Stephen Marks, Confessions of a Political Hitman, 2007, pp. 5-6).
Il ruolo centrale della politica mediatica nelle strategie politiche si osserva in paesi di tutto
il mondo, come sostengono e documentano Swanson e Mancini (1996), Plasser (2000),
Graber (2001), Curran (2002), Hallin e Mancini (2003, 2004a, b, 2005), Bosetti (2007),
Hollihan (2008) e altri. La pratica della politica mediatica comporta l’esecuzione di
diversi compiti chiave:
1. Il primo è assicurare l’accesso ai media e agli attori sociali e politici impegnati nelle
strategie di costruzione del potere.
2. Il secondo è l’elaborazione di messaggi e la produzione di immagini che meglio
servono gli interessi di ciascun attore di potere. Formulare messaggi efficaci richiede
l’identificazione del pubblico o dei pubblici target secondo le necessità della strategia
politica. Per mettere in atto tale strategia è indispensabile ottenere informazioni che siano
rilevanti sia per il pubblico sia per il messaggio, oltre a generare conoscenza sul miglior
uso possibile di queste informazioni per realizzare gli obiettivi dell’attore politico. In
effetti la politica dei media è, in pratica, una delle componenti maggiori di una forma più
vasta di politica – la politica dell’informazione, l’uso dell’informazione e l’elaborazione
delle informazioni come strumento decisivo di formazione del potere.
3. Poi, la trasmissione del messaggio richiede l’uso di tecnologie e formati di
comunicazione specifici, oltre alla misurazione della sua efficacia mediante i sondaggi.
4. Last but not least, qualcuno deve pagare per tutte queste attività, peraltro sempre più
costose: il finanziamento della politica è un punto di connessione centrale tra potere
politico e potere economico.
Analizzerò ciascuna di queste operazioni e ricaverò le implicazioni dell’analisi per
l’esercizio del potere nella società. Ma prima di procedere con questa indagine, mi occorre
introdurre due annotazioni preliminari.
Primo, la politica mediatica non si limita esclusivamente alle campagne elettorali. È una
dimensione costante, fondamentale della politica, praticata da governi, partiti, leader e
attori sociali non governativi. Incidere quotidianamente sul contenuto dei notiziari è uno
degli obiettivi più importanti degli strateghi della politica. Benché, in democrazia, le
campagne elettorali siano effettivamente i momenti decisivi, è il continuo processo di
informazione e la diffusione di immagini rilevanti per la politica a conformare la mente
del pubblico in modo tale che difficilmente momenti di acuita attenzione riescono a
cambiare la percezione di una questione o di un candidato, a meno che un evento o
messaggio realmente drammatico non si verifichi in prossimità del momento della
decisione. In realtà, è una pratica frequente di governi e politici creare eventi o evidenziare
eventi come espedienti politici: per esempio facendo scoppiare una crisi con un altro
paese, ospitando una importante manifestazione internazionale (come i giochi olimpici) o
rivelando episodi di corruzione finanziaria o di cattiva condotta personale. Le scelte
politiche sono in larga misura dipendenti dalla politica. Non solo perché il potere politico
determina la capacità di applicare date politiche, ma perché esse sono il più delle volte
formulate allo scopo di produrre effetti politici.
La mia seconda annotazione preliminare riguarda la diversificazione della politica
mediatica, in base alla specificità istituzionale e culturale di ciascun paese (Hallin e
Mancini, 2004b). Per esempio, gli spot elettorali a pagamento in TV sono fondamentali
nelle campagne elettorali negli Stati Uniti. Questo è un fattore di primo piano nella
spiegazione del ruolo chiave della finanza nella politica, e quindi della capacità delle
lobby di influenzare i politici americani. Viceversa, in gran parte dei paesi europei, la
pubblicità mediatica in campagna elettorale è rigidamente regolamentata, e i governi
offrono accesso regolamentato alle reti televisive pubbliche (spesso quelle che hanno il
pubblico più vasto), seguendo precise regole di assegnazione dei tempi. Anche i dibattiti e
la propaganda sono di norma controllati dalle commissioni elettorali, e le forme e la
misura di questo controllo variano fortemente da paese e paese. Pur riconoscendo questa
differenziazione, e tenendone conto nella mia analisi dei casi riferiti a svariati contesti, è
possibile ritrovare delle costanti globali nella pratica della politica informazionale e nella
politica mediatica. Queste costanti definiscono i processi politici contemporanei. Come
scrivono Hallin e Mancini (2004b):

È chiaramente in atto un potente trend in direzione di una maggiore similitudine nel


modo in cui la sfera pubblica è strutturata nel mondo. Nei loro prodotti, nelle loro
pratiche professionali e culture, nei loro sistemi di relazioni con altre istituzioni
politiche e sociali, i sistemi mediatici del mondo stanno diventando sempre più
simili. I sistemi politici, da parte loro, stanno diventando sempre più somiglianti negli
schemi comunicativi che incorporano… È ragionevole affermare che
l’omogeneizzazione è in misura significativa una convergenza dei media mondiali
verso forme che hanno preso vita per la prima volta negli USA. Un tempo gli Stati
Uniti erano praticamente unici tra i paesi industrializzati ad avere un sistema di
broadcasting commerciale; ora il sistema commerciale è diventato la norma. Il
modello di professionismo orientato all’informazione politicamente neutrale che è
prevalso negli Stati Uniti e in minor grado in Gran Bretagna domina sempre di più i
media a livello mondiale. Le forme di campagna elettorale basate sui media, con
l’impiego di tecniche simili a quelle del marketing commerciale, anche queste
inaugurate negli USA, stanno diventando anch’esse sempre più comuni nella politica
europea (2004, p. 2).
Aggiungerei che le campagne politiche latinoamericane sono ancora più vicine alla pratica
statunitense, in quanto si concentrano su leadership personalizzate, spesso ricorrono a
consulenti americani, e fanno ampio uso di media commerciali (Scammell, 1998; Plasser,
2000; Castells, 2005a; Sussman, 2005; Calderon, 2007).
In effetti, più che un’americanizzazione, questo modello di convergenza della politica
verso la politica mediatica è un carattere della globalizzazione, come rilevano Hallin e
Mancini (2004a). La concentrazione mondiale del business mediatico che ho documentato
nel capitolo 2 e la crescente interdipendenza delle società in tutto il mondo, porta alla
nascita di una cultura mediatica globale e a pratiche professionali globali che si riflettono
in forme simili di politica sui media. La consulenza politica americana è diventata un
business globale, che esercita un’influenza diretta sulle elezioni in Russia, Israele e molti
altri paesi (Castells, 2004b; Hollihan, 2008). Di conseguenza, pur prestando attenzione
alla specificità di ciascun regime politico mediatico, e presentando qualche
esemplificazione di questa diversità, passerò in rassegna le componenti chiave della
politica informazionale e mediatica in termini generali.
Monitorare l’accesso alla democrazia
L’accesso ai media è fornito da gatekeepers, vale a dire custodi e guardiani dei flussi di
comunicazione (Curran, 2002; Bennett, 2007; Bosetti, 2007). Questa dimensione della
politica mediatica è essenziale perché, senza tale accesso, messaggi e messaggeri non
potrebbero raggiungere le proprie audience. Questa è anche fonte di maggiore
differenziazione fra regimi mediatici, in particolare per quanto riguarda l’informazione
radiotelevisiva. Dal rigido controllo governativo, basato sulla proprietà o la censura dei
media, al modello esclusivamente commerciale, esiste un’ampia gamma di variazione nei
meccanismi dell’accesso ai media, che accoglie tutte le configurazioni miste di accesso ai
media.
Preliminarmente, va fatta una distinzione tra l’accesso politico ai media tramite la
regolare programmazione mediatica e dell’informazione giornalistica, e l’accesso che
avviene attraverso la pubblicità politica a pagamento. La pubblicità politica a pagamento è
più importante negli Stati Uniti che negli altri paesi, e si riferisce essenzialmente alle
campagne elettorali (un’attività incessante in America). La sua pratica diffusissima carica
di un peso assai gravoso la democrazia negli Stati Uniti, facendo dei finanziamenti il
cardine delle campagne politiche. La politica mediatica garantisce al business dei media
un duplice beneficio: aumenta gli incassi pubblicitari e aumenta anche l’audience durante i
periodi di più intensa competizione politica (Hollihan, 2008). Approfondirò questo tema
fondamentale tra breve analizzando le campagne politiche. In Europa la pubblicità a
pagamento o non è consentita o svolge un ruolo secondario nel processo elettorale, anche
se il finanziamento è anche qui una questione significativa per motivi che spiegherò più
avanti. Le campagne politiche in America Latina, in Asia e in Africa offrono un panorama
diversificato che combina controllo governativo sui media, pubblicità a pagamento nei
media commerciali e reti clientelari alimentate con denaro e promesse di favori (Plasser,
2000; Sussman, 2005; CAPF, 2007).
Tuttavia, per il mondo in senso lato, Stati Uniti compresi, ipotizzo che l’accesso politico
alla normale programmazione radiotelevisiva e alla carta stampata sia il fattore più
importante nella pratica della politica mediatica. Nel processo sono presenti quattro
componenti (Tumber e Webster, 2006; Bosetti, 2007; Bennett et al., 2007; Campo Vidal,
2008): 1) il controllo e la supervisione organizzativa di entità governative o di imprese
commerciali (o, in alcuni casi, di imprese non profit); 2) le decisioni editoriali; 3) le scelte
del ceto del giornalismo professionale; e 4) la logica insita nell’adeguata performance del
compito attribuito all’organizzazione dei media, quello cioè di attirare il pubblico sul
messaggio del prodotto mediatico. Quest’ultima componente è fondamentale perché
introduce flessibilità in un flusso altrimenti unidirezionale di informazione. Richiede che
non venga trascurata la credibilità del mezzo quando si riferisce a questioni che la gente
percepisce come importanti e/o interessanti. Mancando di riportare eventi ben noti, o
mostrando un’informazione palesemente manipolata da parte del mittente, si indebolisce
la capacità dei media di influenzare il ricevente, limitando così la rilevanza della politica
mediatica.
La politica di accesso si gioca nell’interazione tra questi quattro livelli del processo di
gatekeeping. Così, maggiore è l’indipendenza di cui il mezzo di comunicazione gode
rispetto al controllo governativo, o grazie alla condizione di emittente pubblica
indipendente per statuto (come la BBC) o in quanto proprietà privata, più l’accesso sarà
influenzato da interessi commerciali (la pubblicità è una funzione della quota di audience)
e/o dalla corporazione professionale. Più il mezzo di comunicazione è dominato dalla
logica commerciale, più i giornalisti dovranno operare entro questi limiti. Più i giornalisti
hanno la possibilità di imporre la loro opinione sulla programmazione, il priming e il
framing, più vedono la capacità di attrarre il pubblico come una fonte della loro influenza
professionale. E più il corso concreto degli eventi penetra nei media, più l’influenza dei
media si espande, con la gente che si riconosce in ciò che legge o vede. Se combiniamo
questi diversi effetti, quello che troviamo nell’analisi è l’effetto di comune denominatore e
due filtri che operano nella selezione dell’accesso ai media.
Il terreno comune è il fatto che ciò che risulta attraente per il pubblico fa crescere
audience, introiti, influenza, e prestigio professionale per giornalisti e commentatori
televisivi. Tradotto nell’ambito della politica, vuol dire che l’informazione che ha maggior
successo è quella che massimizza gli effetti di intrattenimento che corrispondono alla
cultura consumista di marca di cui sono permeate le nostre società. Il concetto di
democrazia deliberativa basata sull’inchiesta d’approfondimento e la discussione
informata su questioni sostanziale sui mass media è in netto contrasto con le tendenze
culturali generali del nostro tempo (Graber, 2001). Anzi, è proprio di un segmento limitato
di media d’élite che si rivolgono principalmente ai decisori politici e alla minoranza più
istruita della popolazione4. Ciò non significa che la gente non abbia a cuore le questioni
importanti. Significa che affinché questi temi (per esempio l’economia, la guerra, la crisi
degli alloggi) vengano percepiti da un vasto pubblico, devono essere presentati nel
linguaggio dell’infotainment, nel senso più ampio del termine: non solo eventi comici, ma
anche drammi umani. Vista da questa prospettiva, la politica diventa una politica da
ippodromo: chi sta vincendo, chi sta perdendo, come, perché, e qual è l’ultimo
pettegolezzo o il tiro più sporco (Ansolabehere et al., 1993; Jamieson, 2000; Sussman,
2005)? Il linguaggio della politica mediatica riproduce il gergo degli sport competitivi
(Gulati et al., 2004). Se nelle elezioni americane è estremamente pronunciata, la tendenza
a ridurre le elezioni a corse di cavalli è evidente in molti paesi in tutto il mondo (Sussman,
2005)5.
Inoltre, è il sensazionalismo a guidare il giornalismo politico: esporre le malefatte dei
potenti è sempre stata la consolazione della gente comune, e oggi ciò può essere fatto sul
palcoscenico della comunicazione di massa (Plasser, 2005). Un carattere chiave della
politica-spettacolo è la sua personalizzazione (Bosetti, 2007). Un pubblico di massa
richiede un messaggio semplice. Il messaggio più semplice è l’immagine; e l’immagine
più semplice, e quella con cui la gente s’identifica di più, è il volto umano (Giles, 2002).
Per immagine non si intendono soltanto i tratti fisici di una persona o il colore dei suoi
abiti. Più importante è il carattere della persona, per come si manifesta nell’aspetto di lei o
di lui, nelle parole, nelle informazioni e nei ricordi che incarna. Ciò dipende in parte dal
fatto che comprendere questioni politiche complesse può risultare faticoso per molti
cittadini, mentre quasi tutti si fidano della propria capacità di giudicare il carattere;
capacità che è una risposta emozionale al comportamento di personaggi inseriti in
narrazioni politiche (Hollihan, comunicazione personale, 2008). Così, la politica mediatica
è politica personalizzata, o quella che Martin Wattenberg (1991, 2004, 2006) denomina
«politica imperniata sul candidato». Come rileva Wattenberg, le tecnologie mediali come
«la televisione, la propaganda per posta, e ora Internet, hanno liberato i candidati dalla
necessità di dover contare sui partiti politici, permettendo così di condurre campagne
elettorali in autonomia dall’affiliazione partitica» (2004, p. 144). Questo è forse l’effetto
più importante della politica mediatica sulle forze politiche, perché stimola partiti,
sindacati, ONG e altri attori politici a raccogliersi intorno a una singola persona e a
scommettere sulle sue sole chance nel mercato dei media politici.
Negli Stati Uniti e in America Latina è sempre stato così. Ma negli ultimi vent’anni, in
concomitanza con la crescente centralità della politica mediatica, la politica della
personalità ha finito per caratterizzare il processo politico in tutto il mondo, a detrimento
delle fedeltà di partito, delle affinità ideologiche e delle macchine politiche. La questione è
chi scegli chi. I media fanno conoscere i potenziali leader, si soffermano sulle loro
battaglie, vittorie e sconfitte, perché le narrazioni hanno bisogno di eroi (il candidato), di
cattivi (l’avversario) e di vittime da soccorrere (i cittadini). Ma gli aspiranti leader devono
presentarsi come meritevoli della presenza mediatica, usando ogni apertura a disposizione
per mostrare i propri trucchi (o anche le proprie virtù, s’intende). Possono farlo creando
eventi che obbligano i media a prestar loro attenzione, come nel caso di un candidato
secondario che vince inaspettatamente delle primarie. I media adorano le storie di
imprevedibili successi. Più una figura politica corrisponde a un frame di celebrità, più
facile è per i media incorporare notizie sul candidato in formato più vicino
all’infotainment popolare che alla distribuzione di notizie. Comunque, i frame «storia di
successo» vengono comunemente ribaltati, dato che le cronache delle cadute in disgrazia
sono altrettanto succose delle fiabe sui successi improbabili. È importante, però, ricordare
il principio: il materiale politico (personaggi, messaggi, eventi) viene elaborato come
elettrizzante materiale da infotainment, formattato nel linguaggio sportivo e inserito in
narrazioni il più vicine possibile a racconti di intrigo, sesso e violenza. Questo,
naturalmente, continuando a presentare nobili temi sulla democrazia, il patriottismo e il
benessere della nazione a vantaggio della gente comune (l’uomo della strada, questa
creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico).
Questa logica di selezione dell’accesso è fortemente modificata dall’attivazione di due
filtri. Il primo filtro è il controllo governativo diretto, sotto forma di censura esplicita o di
direttive occulte. Questo naturalmente riguarda i governi autoritari, come quelli di Cina o
Russia, che analizzerò più avanti in questo capitolo a causa della specificità dei loro
regimi mediatici. Ma anche nei regimi democratici, i governi spesso interferiscono
nell’attività delle emittenti nazionali o di altri organi mediatici su cui esercitano
un’influenza finanziaria diretta o indiretta. Direi addirittura che si tratta di una pratica
consueta. A volte il controllo viene intensificato, come nel caso di Berlusconi in Italia nel
periodo 1994-2004 (Bosetti, 2007) e della Spagna durante il governo Aznar nel periodo
1996-2004 (Campo Vidal, 2008). In questo caso il gatekeeping è strettamente politico e
favorisce gli interessi del governo, del partito politico di governo, o di uno specifico uomo
politico.
Il secondo filtro è quello imposto da proprietà e management aziendale sui criteri
editoriali, di solito corrispondenti ai propri interessi commerciali più che alle loro
preferenze ideologiche (Fallows, 1996; Tymber e Webster, 2006; Bennett et al., 2007;
Arsenault e Castells, 2008a, b; McClellan, 2008). È abbondante la documentazione
riportata sull’esistenza di queste pratiche in vari organi mediatici, sia nella carta stampata
sia nei network televisivi6. Questo non va confuso con la pratica del giornalismo
partigiano che non preclude l’accesso a visioni politiche avverse, dato che questo è il sale
e il pepe dell’attrattiva dell’infotainment. In alcuni casi, esiste la diretta decisione
editoriale di bloccare l’accesso a punti di vista politici o ad attori politici perché sono
incompatibili con le strategie commerciali del mezzo. In pratica, la maggior parte delle
critiche politiche radicali nelle società democratiche sono escluse dai media mainstream
perché sono considerate non in contatto con il paese, e quindi con gli interessi del
pubblico. Solo generando notizie (per esempio con manifestazioni colorate, che
preferibilmente degenerano in violenza grazie all’intervento della polizia) i radicals
riescono a sfondare la barriera dei media. Naturalmente questo li emargina ancora di più in
quanto li fa identificare con la violenza e il vandalismo, un secondo livello di esclusione
dalla mente del pubblico.
Un’osservazione importante riguardo all’accesso è che l’analisi presentata fin qui si
riferisce esclusivamente ai mezzi di comunicazione di massa. Ma nel capitolo 2 ho
evidenziato la crescente importanza dell’autocomunicazione di massa nel raggiungere la
mente delle persone. In questo caso le forme tradizionali di controllo dell’accesso non
sono applicabili. Chiunque può caricare un video su Internet, scrivere un blog, aprire un
forum di discussione, creare una gigantesca mailing list. L’accesso in questo caso è la
regola; bloccare l’accesso a Internet è l’eccezione. Internet e i mass media sono due
piattaforme di comunicazione distinte, per quanto collegate, che condividono un carattere
chiave nella costruzione del campo politico: in entrambi il processo di comunicazione è
plasmato dal messaggio.
The message is the medium: politica mediatica e politica dell’informazione
Le caratteristiche chiave della politica mediatica sono: la personalizzazione della politica,
le campagne elettorali imperniate sull’uso dei media, e l’elaborazione quotidiana
dell’informazione politica tramite pratiche di manipolazione, il cosiddetto spin. Bosetti
(2007) definisce lo spin come «l’attività esercitata dai politici, per lo più attraverso
consulenti, che consiste nel comunicare le cose in modo favorevole a sé, cercando di
nuocere ai loro avversari» (p. 18). Includerei anche lo spin esercitato dai soloni dei media,
che svolgono ruoli diversificati nel formattare l’informazione politica a seconda dei propri
pregiudizi.
L’obiettivo della politica mediatica, come di tutta la politica, è vincere e tenere per sé il
più a lungo possibile le spoglie della vittoria. Questo non vuol dire che gli attori politici
siano indifferenti al contenuto della politica. Ma come mi è stato ripetutamente ricordato
nei colloqui personali che ho avuto con leader politici di ogni parte del mondo,
raggiungere una posizione di potere è il prerequisito per realizzare qualsiasi progetto
politico. La vittoria si traduce in pratica nel controllo della carica politica e delle risorse di
sua pertinenza da parte della persona che rappresenta un progetto politico (comprese le sue
stesse ambizioni), sostenuta da un partito politico o da una coalizione. Così il messaggio
alla cittadinanza è semplice: sostenete il candidato e respingete i suoi avversari (o di
converso: respingete i suoi avversari con più forza di quanto sostenete la sua candidatura –
una circostanza più frequente nella politica odierna). Poiché il messaggio è chiaro e
semplice, e incarnato in una sola persona, il processo comunicativo è costruito intorno a
questo messaggio. In questo senso, il messaggio è il medium perché formati e piattaforme
di comunicazione, nella loro diversità, saranno selezionati alla luce della loro efficacia nel
sostenere il messaggio specifico, e cioè un determinato politico.
I messaggi politici devono superare una grossa difficoltà per raggiungere la mente dei
cittadini. Come ha documentato Doris Graber (2001), «La ricerca sull’elaborazione delle
informazioni mostra che l’americano medio [e lo stesso, aggiungerei io, accade in tutto il
mondo: M.C.] presta una vera attenzione solo alle notizie su temi significativi che sono in
relazione con la sua vita e le sue esperienze. Molti servizi giornalistici non rispondono a
questi criteri» (p. 129). In effetti, la maggioranza delle notizie politiche sono periferiche
rispetto alle preoccupazioni della vita quotidiana e, spesso, troppo complesse perché i
cittadini le seguano con tutto l’interesse necessario a elaborarle, e ancor più perché le
ricordino. Quando invece la notizia è presentata come infotainment, il che comprende la
personalizzazione della notizia mediante una particolare figura politica, in modo tale da
toccare le emozioni e gli interessi del destinatario, essa è più facilmente elaborata e
immagazzinata nella memoria.
Quindi, la produzione di questi messaggi deve fungere da interfaccia tra le
caratteristiche e i valori del politico e le caratteristiche e i valori del pubblico target.
Questo vale tanto per le campagne elettorali quanto per la politica quotidiana. Gli attori
politici formulano la loro strategia costruendo messaggi su misura in modo da produrre la
connessione più favorevole tra leader politici ed elettorato, tenendo conto dello specifico
formato di una varietà di piattaforme mediatiche: televisione, radio, carta stampata,
Internet, SMS, pubblicità a pagamento, interviste, dibattiti pubblici e così via.
L’accuratezza della strategia dipende dalla analisi circostanziata, sulla scorta delle scienze
sociali, dell’elettorato potenziale. Dipende anche, certo, dalle qualità contingenti del
politico. Ma sono i politici quelli che gestiscono le risorse allo scopo di competere, per cui
adatteranno la loro strategia a ciò che sono anziché viceversa. Finché perdono,
naturalmente. A quel punto le loro truppe troveranno nuovi signori più promettenti.
Come funziona la strategia? A lungo si è basata in gran parte su un misto di intuito,
speranza, consigli degli esperti, e riscontri in arrivo dalle reti di sostenitori. Lo sviluppo
degli strumenti della scienza politica e della psicologia della comunicazione ha portato
alla diffusione di una nuova forma di pratica politica professionalizzata, che definisco
politica informazionale.
Progettare il messaggio: i think tank politici
La politica informazionale inizia con l’articolazione di messaggi che dipendono dagli
interessi e i valori della coalizione sociopolitica costruita intorno ad attori politici
specifici. Il contenuto e il formato dei progetti politici vengono sempre più spesso decisi
con l’aiuto di think tank, centri di ricerca che raccolgono esperti, accademici, strateghi
politici e consulenti mediatici per elaborare la conduzione della politica e la formazione
delle linee politiche. L’uso di database e messaggi mirati e il ricorso continuo a sondaggi
va inteso all’interno del contesto di una prospettiva più ampia che ha preso piede in
America un trentennio fa, ma che in seguito si è diffusa in gran parte del mondo: la
formazione di think tank politici strategici, responsabili dell’analisi delle tendenze,
dell’interpretazione dei meccanismi cognitivi della gente e dell’applicazione dei risultati
dei loro studi all’elaborazione di tattiche efficienti per vincere elezioni, ottenere cariche, e
vincere importanti battaglie politiche, come, per esempio, sulla politica sanitaria, la
politica dell’energia, o il diritto all’aborto in America, o la riforma del welfare state in
Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, i think thank sono per lo più legati a gruppi conservatori
e, in ultima analisi, ai candidati del GOP7. Ricevevano alti livelli di sostegno finanziario
dalle grandi aziende e dai movimenti religiosi.
La loro origine si può far risalire al tempo degli sconvolgimenti sociali e politici dei
tardi anni Sessanta. A quell’epoca la società americana stava perdendo la propria
innocenza politica. Durante quel periodo, l’opinione pubblica cominciava a prendere
posizione contro l’atroce guerra del Vietnam, in opposizione all’escalation operata con il
pretesto ufficiale di false prove (l’incidente del Golfo del Tonchino nell’agosto 1964). La
generazione del secondo dopoguerra metteva in discussione, per la prima volta nella storia
americana, la legittimità della pretesa del governo di chiedere il supremo sacrificio. I
sommovimenti sociali interni amplificavano queste tendenze. Il movimento dei diritti
civili, le rivolte etniche urbane, la nascita dei movimenti controculturali scuotevano alle
fondamenta il conservatorismo sociale e politico. Anche se Nixon vinse le elezioni del
1968 e del 1972, in gran parte grazie all’incapacità dei democratici di trasformare la
protesta sociale in nuova proposta politica, la crisi della politica era sotto gli occhi di tutti.
Si materializzò poco dopo con lo scandalo Watergate e le dimissioni di Nixon, e con il
crollo della potenza statunitense in Vietnam. Complicata da una crisi economica che
segnalava la fine del modo di sviluppo economico che aveva arrecato benessere materiale
dopo la seconda guerra mondiale (Castells, 1980), l’incertezza politica sembrava il
preludio a un periodo di predominio dei democratici in politica, e a una società che si
sottraeva all’influenza dei valori conservatori. Una piccola élite di strateghi repubblicani
decise che era il momento di portare conoscenze accademiche e competenze professionali
nella pratica della politica. La situazione nel mondo e in America richiedeva una
approfondita riflessione, una visione politica di lungo respiro e gli strumenti per tradurre il
pensiero in tattica e la tattica in potere politico. In potere ai repubblicani, cioè. Furono
creati una serie di «think tank», e profumatamente finanziati, quando le élite conservatrici
decisero di prendere in mano la faccenda, mettendo da parte la politica dilettantistica dei
singoli candidati e puntando invece su quelle campagne politiche che rispondessero a
strategie conservatrici mirate.
Al Memorandum Powell viene spesso attribuito la funzione di aver lanciato l’ascesa dei
think tank di destra e il «nuovo approccio di destra» nella politica americana. Nell’agosto
1971, Lewis Powell, un avvocato che due settimane dopo sarebbe stato nominato giudice
della Corte Suprema da Nixon, distribuì un «Memorandum riservato: Attacco al sistema
americano della libera impresa» (che diventerà noto come il «Memorandum Powell»),
presentando i pericoli del controllo liberal sulle risorse accademiche e mediatiche. Il
documento ispirò la creazione della Heritage Foundation, del Manhattan Institute, del Cato
Institute, di Citizens for a Sound Economy, di Accuracy in Academe, e di altre influenti
organizzazioni. Tra le fonti di finanziamento dei nuovi think tank c’erano il denaro
bancario e petrolifero del Mellon-Scaifes di Pittsburgh, le fortune manifatturiere di Lynde
e Harry Bradley a Milwaukee, gli introiti dall’energia della famiglia Koch del Kansas, i
profitti chimici di John M. Olin di New York, l’impero farmaceutico Vicks della famiglia
Smith Richardson di Greensboro, NC, e i birrifici della dinastia Coors del Colorado, tra gli
altri. Joseph Coors fornì il finanziamento iniziale per la Heritage Foundation sulla spinta
della lettura del Memorandum. Del consiglio di amministrazione della Heritage
Foundation facevano parte Joseph Coors, l’ex segretario del Tesoro William E. Simon,
Richard M. Scaife, Grover Coors, Jed Bush e il cofondatore della Amway Corporation Jay
Van Andel. Il memorandum rimase «riservato» per più di un anno dopo che Powell lo
ebbe scritto. Ma mesi dopo la conferma alla Corte Suprema da parte del Senato, fu fatto
arrivare a Jack Anderson, un editorialista liberal. Questi pubblicò due articoli sul tema nel
settembre 1972, richiamando l’attenzione nazionale sul documento. Il ruolo di questi think
tank di destra divenne sempre più importante negli anni seguenti, e spesso a essi viene
attribuito il merito di aver contribuito all’elezione di Ronald Reagan nel 1980, di aver
ribaltato il predominio democratico nel Congresso nel 1994, e di aver formulato aspetti
chiave della candidatura di George W. Bush alla presidenza, compreso il piano della
«guerra al terrore» e la decisione di invadere l’Iraq (Rich, 2004, 2005a, b).
Nell’intento di fornire un contrappeso a queste istituzioni conservatrici, i democratici
ricorsero alla stessa soluzione, benché a un livello inferiore di finanziamento e con minore
impatto politico. Vi fu persino un tentativo da parte del capofila delle scienze cognitive,
George Lakoff, di istituire un think tank per sviluppare frame progressisti e così
contrastare il predominio conservatore nella politica dei frame. Il suo Rockridge Institute,
nonostante la notevole performance intellettuale e la consistente influenza politica, chiuse
nel 2008, all’apice della campagna presidenziale, quando più se ne sentiva la necessità, a
causa del mancato appoggio da parte di un establishment democratico che ancora non
aveva capito come stavano le cose.
Complessivamente, secondo Rich (2005), tra il 1970 e il 2005 il numero di think tank
negli USA si quadruplicò, e i think tank a base statale crescevano a un ritmo ancora
maggiore, raggiungendo la cifra di 183 centri di ricerca. Di questi 183 think tank, 117
avevano un programma di ricerca concentrato principalmente su questioni politiche
relative allo stato, un aumento di più di dieci volte rispetto alle dieci esistenti nel 1970. Tra
questi 117 think tank l’ideologia dominante è quella conservatrice. In un’indagine
condotta da Rich tra i think tank conservatori, un numero significativo – quasi il 40 per
cento – dei primi leader di tali organizzazioni proveniva dal settore privato; si trattava di
ex lobbisti o ex dirigenti d’azienda (38,2 per cento). Viceversa, quasi due terzi di quelli
che formavano i think tank liberal venivano dall’ambiente governativo o da quello del non
profit (63,1 per cento). Tra le massime priorità per i leader dei think tank conservatori
c’erano la competenza sulle questioni (61,8 per cento), l’esperienza di media e affari
pubblici (35,3 per cento), e un curriculum di pubblicazioni (32,3 per cento). Tre quarti dei
leader dei think tank conservatori indicavano l’influenza sulla pubblica opinione come
importante (73,5 per cento), mentre solo la metà dei leader dei think tank liberal la
giudicavano importante (52,6 per cento).
Una componente chiave di questi think tank conservatori è l’uso sistematico dei media
per plasmare la pubblica opinione, un compito costoso. Gli studi sui gruppi d’interesse
hanno mostrato che la dimensione del budget dell’organizzazione è ciò che più determina
la visibilità mediatica. Diverse fondazioni conservatrici hanno investito somme
considerevoli in think tank conservatori, come la Lynde and Harry Bradley Foundation, la
Carthage Foundation, la Earhart Foundation, le fondazioni benefiche Charles G. Koch,
David G. Koch e Claude R. Lambe, la Phillip M. McKenna Foundation, la JM
Foundation, la John M. Olin Foundation, la Henry Salvatori Foundation, la Sarah Scaife
Foundation e la Smith Richardson Foundation. Il robusto sostegno finanziario offerto da
queste fondazioni ha avuto un’importante influenza sulla visibilità dei think tank di destra.
Edie Goldenberg (1975), nel suo studio sui «gruppi con scarse risorse», rileva che
maggiori risorse equivalgono a una migliore capacità dei gruppi di ottenere visibilità
mediatica. Lucig H. Danielian (1992) analogamente individua nella forza economica
(ossia, nella maggiore dimensione) dei gruppi di interesse uno dei maggiori predittori della
visibilità sui notiziari televisivi, e ipotizza che la porzione di risorse che un’organizzazione
dedica agli affari pubblici e agli sforzi relativi ai media influisce sulla sua visibilità. Da
studi condotti negli anni Ottanta e Novanta risulta che i think tank conservatori
dedicavano una quantità di risorse significativamente superiori per promuovere i loro
prodotti e ricercare visibilità (Feulner, 1986; Covington, 1997). Viceversa, i think tank
liberal erano ritenuti più scarsi di risorse e meno portati a sostenere progetti che
generassero visibilità (Callahan, 1995, 1999; Shuman, 1998). In uno studio su think tank
conservatori e visibilità mediatica negli anni Novanta, Rich e Weaver (2000) riscontravano
che, pur rispettando la tendenza ideologica di ciascuna pubblicazione, i think tank che
spendevano di più ricevevano un numero di citazioni molto più ampio (per esempio, nel
Wall Street Journal e nel Washington Post).
Anche se i think tank conservatori erano meglio finanziati, le organizzazioni orientate a
sinistra hanno cominciato a recuperare terreno negli anni 2000 (Rich, 2005a). Oggi i think
tank liberali o «non ideologici» meglio finanziati sono spesso meglio organizzati di
organizzazioni come la Heritage Foundation. La differenza sta nel fatto che i think tank
liberal e indipendenti continuano a spendere gran parte del loro denaro in analisi politica,
mentre quelli conservatori dedicano fette significative delle loro risorse alle relazioni con i
media e alle attività di lobby sul governo. Per illustrare le contrastanti strategie, si
consideri il fatto che la Brookings Institution, uno dei maggiori think tank indipendenti,
nel 2004 spendeva il 3 per cento del suo budget da 39 milioni di dollari in comunicazioni;
nel 2002, l’anno più recente su cui disponiamo di dati, la conservatrice Heritage
Foundation spendeva il 20 per cento del suo bilancio da 33 milioni di dollari per i rapporti
con il pubblico e con il governo (Rich, 2005a). Secondo Herb Berkowitz, ex
vicepresidente per le comunicazioni della Heritage:

La nostra convinzione è che quando il prodotto della ricerca sia stato pubblicato, il
lavoro è stato fatto solo a metà. È qui che allora cominciamo a piazzarlo ai media…
Tra il nostro compito c’è lo smercio delle idee, la vendita di proposte politiche. Ci
dedichiamo attivamente a vendere queste cose, giorno dopo giorno. È la nostra
missione (cit. in Rich, 2005a, p. 25).
Così, mentre i think tank liberal e indipendenti sono impegnati principalmente
nell’analisi, in base alla loro fede nella politica razionale, i think tank conservatori sono
soprattutto orientati a plasmare le menti con i mezzi della politica mediatica.
Fatto piuttosto interessante, in Gran Bretagna, gli studiosi dei think tank politici più
attivi e lucidi hanno acquistato preminenza durante i primi tempi di Tony Blair nella carica
di primo ministro. Per esempio, Geoff Mulgan (1991, 1998), uno dei più innovativi
analisti della società in rete, partecipò nel 1993 alla fondazione della Demos e più tardi,
nel 1997, passò a guidare la Forward Strategy Unit di Tony Blair nell’ufficio del primo
ministro. Però, lo shock politico sofferto da molti di questi think tank in seguito
all’allineamento di Blair con Bush in seguito all’11 settembre portò a una separazione tra i
think tank più acuti e il Partito Laburista durante gli ultimi mandati di Blair. In altri paesi,
le fondazioni operanti sulle linee politiche sono abitualmente connesse ai maggiori partiti
politici. E così, per esempio, in Germania, con la Friedrich Ebert Foundation, associata
con i socialdemocratici. O, in Spagna, con la Fundación Alternativas e la Fundación Pablo
Iglesias in area socialista, e la FAES Foundation guidata dall’ex leader conservatore José
María Aznar. Ma la maggior parte di queste fondazioni svolgono principalmente un ruolo
nell’analisi delle politiche e nell’elaborazione ideologica più che possedere una funzione
operativa nel formulare la linea politica del partito. La pratica della politica
informazionale è di solito lasciata ai consulenti politici, un’industria globale in crescita le
cui radici affondano nella politica americana, come ho già ricordato (Sussman, 2005;
Bosetti, 2007).
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza
Una volta formulate politiche e strategie politiche, la politica mediatica entra in una nuova
fase operativa: l’identificazione di valori, convinzioni, opinioni, comportamenti sociali e
comportamenti politici (compresi gli schemi di voto) di segmenti della popolazione
identificati per distribuzione demografica e spaziale. Mark Penn, uno dei maggiori
sondaggisti americani, e nel 2008 consulente capo nella campagna per le primarie
presidenziali di Hillary Clinton, compie nel suo libro Microtrends (Penn e Zalesne, 2007)
una attenta dissezione dell’elettorato americano in base ai profili sociali. Illustra in che
modo, cercando le correlazioni statistiche tra caratteristiche demografiche, convinzioni,
inclinazioni mediatiche e comportamento politico, diventa possibile strutturare un target
per ciascun gruppo specifico e attingere alle sue predisposizioni, affilando così il
messaggio. Come si traduce, questo, in strategia politica? L’esempio che segue chiarirà il
metodo.
In un’intervista a Vanity Fair, Karl Rove, da molti considerato il principale artefice
della strategia comunicativa di George W. Bush, raccontava che quando nel quartiere
generale della campagna di Bush si seppe che la sitcom televisiva Will & Grace – su un
gay, Will, e la sua amica Grace che abitano insieme in un appartamento di New York – era
estremamente popolare tra i giovani repubblicani e i votanti incerti, particolarmente le
donne, saturarono il programma di 473 spot elettorali a pagamento. La campagna piazzava
le pubblicità in un programma che offriva un ritratto favorevole della vita dei gay urbani,
mentre allo stesso tempo puntava ad aumentare l’affluenza alle urne dei segmenti più
conservatori della popolazione presentando un emendamento costituzionale che metteva al
bando il matrimonio tra omosessuali (Purdum, 2006).
Così, il messaggio è unico: il politico. Le incarnazioni del candidato in diversi formati
varia con la popolazione target (Barisione, 1996). Ovviamente, entro limiti tali da evitare
di esporsi a clamorose contraddizioni tra le immagini proiettate in diversi gruppi, spazi e
tempi. I focus groups contribuiscono a rifinire i messaggi, e i sondaggi offrono un modo
per misurare l’efficacia del messaggio in tempo reale e per seguire l’evoluzione della
pubblica opinione. Per sé, però, i sondaggi non rappresentano uno strumento di
navigazione politica troppo sofisticato perché rivelano solo la posizione del politico nella
pubblica opinione e gli elementi positivi e negativi del suo messaggio. È la combinazione
di messaggi e analisi dei dati sociali ciò che offre un’interpretazione delle tendenze in
tempo reale e accresce l’opportunità di modificare sviluppi sfavorevoli operando su
opinioni latenti con nuove bordate di messaggi mirati differenziati per ciascuna categoria
sociale (Hollihan, 2008). La costituzione di database ha un altro effetto operativo diretto
sulle strategie politiche. È possibile calcolare i dati per ciascuna circoscrizione elettorale,
offrendo così una geografia politica di prima scelta che permette una propaganda politica
personalizzata con telefonate automatizzate dal vivo alle case dei potenziali elettori,
propaganda postale, e sollecitazione di voti, come spiegherò analizzando le campagne
politiche.
Il fatto che questa forma sofisticata di marketing politico sia derivata da marketing
commerciale è chiara indicazione della nascita del cittadino-consumatore come nuovo
personaggio della vita pubblica. In effetti, politici e aziende usano i medesimi database
perché esiste un attivo business della vendita dati, che nasce dall’uso di una massiccia
potenza informatica applicata all’elaborazione di dati di fonte governativa e accademica
grazie all’immensa raccolta di dati risultante dall’invasione della privacy da parte di
aziende di carte di credito, compagnie di telecomunicazione e aziende di Internet che
vendono informazioni su quei loro clienti (la maggioranza) che, ignorando le parti scritte
in piccolo nei contratti, non negano il loro consenso alla politica delle società di vendere i
dati dei loro clienti.
In effetti, il vasto e sofisticato sistema di targetizzazione degli elettori, trainato dalla
costruzione della «Voter Vault», la «cassaforte dei votanti», un database contenente
informazioni sulle popolazioni target, è stato uno dei fattori chiave nel successo del Partito
Repubblicano negli Stati Uniti nel corso dei cicli elettorali del 2000 e del 2004. Karl Rove,
il cervello brillante e privo di scrupoli che stava dietro all’ascesa al potere dei conservatori
nella politica americana, è considerato uno degli artefici chiave dell’adattamento delle
tecniche di marketing aziendale alle campagne elettorali statunitensi. Mi soffermerò
brevemente su questa analisi, essendo uno dei casi più rivelatori della politica
informazionale. Seguire la carriera di Karl Rove come operativo della politica offre una
finestra sull’evoluzione della pratica politica dei primi anni dell’Età dell’Informazione.
Karl Rove è stato il principale architetto della strategia politica dell’amministrazione
Bush fino a quando, nell’agosto del 2007, ha dato le dimissioni per evitare
l’incriminazione nell’affare Plame (vedi tabella A4.1 in Appendice). Ha inoltre guidato la
campagna per l’elezione di Bush nel 1994 e nel 1998 alla carica di governatore del Texas,
la riuscita candidatura di John Ashcroft nel 1994 al Senato, e i riusciti tentativi per il
Senato di John Coryn (2002) e di Phil Gramm (1982 per la Camera e 1984 per il Senato).
Era considerato il «cervello di Bush» e, insieme con Lee Atwater8, gli viene attribuita la
trasformazione delle strategie elettorali del Partito Repubblicano9.
Rove iniziò il suo lavoro ufficiale per il Partito Repubblicano nel 1971 quando lasciò il
college per assumere l’incarico di presidente esecutivo dei College Republicans. Lavorò
per la prima volta con Lee Atwater nel 1973, quando Atwater gli organizzò la campagna
per la presidenza nazionale dei College Republicans. Durante questa campagna, un
avversario che aveva abbandonato la competizione (Terry Dolan) passò dei nastri al
Washington Post in cui si sentiva Rove che spiegava le tecniche sporche impiegate in
campagna elettorale, come frugare nell’immondizia dell’avversario. Il Post pubblicò la
storia all’apice dello scandalo Watergate di Nixon. George H.W. Bush risolse la questione
se Rove dovesse vincere l’elezione date queste rivelazioni pronunciandosi a favore di
Rove. Fu così che Rove incontrò per la prima volta George W. Bush. Rove si trasferì in
Texas qualche anno dopo e lavorò come consulente per la prima candidatura al Congresso
di George W. Bush nel 1978. Due anni dopo George H.W. Bush assumeva Rove per la
campagna del 1980 – ma lo licenziò a metà corsa perché aveva passato informazioni alla
stampa. Lasciata la Casa Bianca, Rove divenne analista politico per il Fox News Channel,
come anche Dick Morris, a cui viene attribuita analogamente la responsabilità di aver
spinto Bill Clinton ad approcciarsi alla politica come a uno stile di vita, un processo di
marketing trainato dal consumismo10.
Sotto la guida di Rove, il Partito Repubblicano aprì la strada all’uso delle tecniche di
MLM (multi-level marketing), quello che i repubblicani e Rove definivano «metrica». Le
società di MLM sono tradizionalmente aziende che costruiscono business tramite un
reclutamento di tipo piramidale e tecniche di marketing (vendendo candidati come si
vendono Tupperware). Uno dei nomi di punta del multi-level marketing aziendale è
Amway. Richard De Vos fondò l’Amway nel 1959, una società che nel 2004 aveva vendite
che superavano i 6,2 miliardi di dollari. La famiglia De Vos ha da tempo un’affiliazione
con la politica del GOP. Ubertaccio (2006a, p. 174) afferma che l’ingresso ufficiale della
famiglia De Vos nella politica elettorale è solo l’ultima prova della sinergia tra partiti e
MLM. Secondo Ubertaccio (2006a), il Partito Repubblicano commissionò degli studi per
verificare l’efficacia di queste tecniche di KLK, a partire dal 2002, riconoscendo la
necessità di accrescere il numero degli elettori tra specifiche popolazioni di votanti se si
voleva spuntarla ancora una volta, visti i margini strettissimi della vittoria ottenuta nel
2000. La ricerca MLM nel mondo aziendale aveva mostrato che i volontari sono più
efficaci nel reclutare e dirigere altri volontari, in particolare nel campo del loro interesse
mirato. Fecero un uso politico di queste tecniche in due progetti che rappresentano la
politica informazionale al suo meglio: la 72-Hour Task Force e il progetto Voter Vault.
Con Rove, il Partito Repubblicano mise in piedi per la prima volta la 72-Hour Task
Force nel 2001 per spingere la partecipazione dei votanti repubblicani. Utilizzando dati di
MLM durante ciascuna elezione, la Task Force si concentra sull’obiettivo di incrementare
l’affluenza di votanti repubblicani durante una campagna mirata di tre giorni prima di una
data giornata elettorale. Lo fanno appoggiandosi a volontari scelti con cura che quindi
attivano le loro specifiche reti (per esempio, chiese, circoli di tiro, membri
dell’Associazione genitori e insegnanti, e così via).
Però, la strategia più ambiziosa ed efficace fu la costituzione di Voter Vault, uno
sterminato database costruito dal Partito Repubblicano in previsione delle elezioni
presidenziali 2004. Il database contiene informazioni su specifici gruppi, tra cui dati sui
consumi, registrazioni di licenze di caccia, abbonamenti a riviste considerate di carattere
«repubblicano». Il sistema possiede informazioni su oltre 175 milioni di individui e
include strumenti di organizzazione di base che facendo riferimento al web permettono
agli attivisti volontari di formare proprie «circoscrizioni». Vault è messa a disposizione dei
partiti nazionali e statali. Fu il sondaggista e stratega di Bush Matthew Dowd (che faceva
capo a Rove) a lanciare Vault. Voter Vault usa un sistema a punti che, in base a determinati
criteri di sollecitazione del voto, può rilevare se da una circoscrizione verrà più
probabilmente un voto repubblicano o democratico. Il materiale del database – elaborato
quasi interamente in India – proviene da varie fonti di informazioni pubbliche. I dati sono
acquistati legalmente in blocco sul web o raccolto da decine di migliaia di operatori sul
campo. I dati statistici venivano da rapporti e rating di credito, abbonamenti a riviste e
documentazione scambiata tra pubblicazioni mensili e settimanali, registrazioni
automobilistiche, questionari sul consumo a cui la gente rispondeva o che spediva in
cambio di un omaggio, registrazioni delle preferenze di acquisto dei consumatori raccolte
con le carte di sconto, liste di ogni locale chiesa evangelica fornita di bus, più i dati di
censimento sulla costituzione razziale e finanziaria di un determinato quartiere.
La Voter Vault contribuì a espandere l’uso da parte del Republican National Commitee
(RNC) di propaganda postale e telefonate micromirate. Nel 2004, il Partito Repubblicano
spese quasi 50 milioni di dollari in propaganda postale (dai 22 milioni del 2000). Spese
8,6 milioni di dollari in telefonate nel 2004 (contro i 3,6 milioni nel 2000; La Raja et al.,
2006, p. 118). Contemporaneamente, le spese per il personale di partito scendevano dai 43
milioni di dollari nel 2000 ai 33 milioni del 2004, probabilmente per il maggior uso di
sistemi automatizzati di targeting degli elettori. Nelle elezioni del 2006, il presidente
dell’RNC, Ken Mehlman, ampliò Vault, come spiegava a Vanity Fair: «Individuiamo il
target degli elettori come Visa individua i clienti delle carte di credito. Questa è la
differenza rispetto a prima. Un tempo li individuavamo in base alla collocazione
geografica. Oggi ci basiamo su quello che fanno e su come vivono» (Purdum, 2006).
Voter Vault permetteva un più alto microtargeting dei media. Nel 2004, il team di Bush
identificò quali siti web erano visitati dai potenziali votanti e quali canali via cavo questi
guardavano. Spese i soldi che aveva in conseguenza, piazzando pubblicità su emittenti via
cavo specializzate come il Golf Channel e l’ESPN, dal pubblico tendenzialmente
repubblicano. Questo permise al partito di inserire nel target votanti repubblicani residenti
in «aree a maggioranza liberal», che con i sistemi tradizionali sarebbero sfuggiti. Tra il
2004 e il 2006, l’RNC estese l’accesso a Vault a organizzatori in tutti i cinquanta stati e
addestrò al suo uso circa 10.000 volontari.
Per non essere da meno, a partire dal 2002 il Partito Democratico sviluppava due
database: DataMart, contenente i dati di 166 milioni di votanti registrati, e Demzilla, un
database più piccolo usato per la raccolta di fondi e per organizzare gli attivisti. Ma
diversamente da Voter Vault, i dati del database del Democratic National Committee
(DNC) coprivano solo le due elezioni precedenti, e soltanto 36 stati vi potevano accedere,
e l’elaborazione dei dati immessi era di gran lunga inferiore che nel sistema repubblicano.
A febbraio del 1997, per iniziativa personale di Howard Dean, al tempo presidente del
comitato democratico, il DNC rimpiazzò questi sistemi con VoteBuilder. Definito «lo stato
dell’arte dell’interfaccia per gli archivi dei votanti a livello nazionale», questo strumento
basato sul web era destinato a far sì che i candidati democratici, dal partito nazionale ai
partiti statali, avessero accesso agli strumenti necessari per vincere le elezioni. Ma solo
con la tornata elettorale del 2008 i democratici istituirono un database centralizzato,
continuamente aggiornato.
In quale misura queste nuove strategie informazionali incisero sul processo politico?
Panagopoulos e Wielhouwer (2008) hanno esaminato le indagini compiute dal National
Election Study (NES) per il 2000 e il 2004, gli anni che hanno visto la maggior quantità di
«propaganda a contatto personale» da quando quell’indagine hanno avuto inizio. Hanno
scoperto che, complessivamente, le campagne individuavano un target di elettori che
avevano già votato per il partito. Nel 2004 gli elettori degli stati in bilico erano una preda
assai ambita per entrambi i partiti. L’attenzione era concentrata sull’assicurarsi la base
elettorale del proprio partito, pur continuando a prestare attenzione agli indipendenti. I
database erano fondamentali per identificare i due gruppi di votanti. L’affluenza alle urne
crebbe nettamente nel 2004 – presumibilmente in seguito all’accresciuta concentrazione
sulla mobilitazione degli elettori. Di 202,7 milioni di votanti idonei, il 60,3 per cento votò
nelle elezioni presidenziali del 2004, un consistente incremento rispetto al dato del 2000,
del 54,2 per cento, e il secondo maggior tasso di partecipazione dagli anni Sessanta
(McDonald, 2004, 2005; Bergan et al., 2005). Questo aumento è particolarmente
significativo considerando il generale declino dell’affluenza elettorale che ha
caratterizzato le democrazie occidentali negli ultimi decenni (Dalton e Wattenberg, 2000).
Le strategie di mobilitazione degli elettori, accoppiate con la polarizzazione ideologica
(altro marchio di fabbrica di Rove), potrebbero aver costituito la combinazione decisiva
per le vittorie repubblicane del 2000 e del 2004. In effetti, secondo l’American National
Election Study del 2004, gli intervistati percepivano nei candidati una maggiore specificità
ideologica nel 2004 che nel 2000 (Bergan et al., 2005).
Esiste un lato più oscuro nella politica informazionale. È la ricerca di informazioni che
danneggiano gli avversari politici. Si tratta di un’attività altamente elaborata, denominata
dagli addetti ai lavori «ricerca sull’opposizione» (Marks, 2007). Poiché svolge un ruolo
essenziale nelle campagne politiche e nello sviluppo della politica scandalistica, mi
occuperò della questione in modo particolareggiato nelle seguenti sezioni di questo
capitolo.
La raccolta di dati, l’elaborazione delle informazioni e l’analisi basata sulla conoscenza
generano una messe di messaggi politicamente forti costruiti intorno alla promozione del
messaggio centrale: il personaggio politico stesso. Una volta costruiti i messaggi, il
processo per trasmetterli al pubblico target procede mediante una varietà di piattaforme e
formati, i più rilevanti dei quali sono la normale programmazione televisiva e le campagne
elettorali. Ho analizzato la prima nel capitolo 3, rimandando ai meccanismi di agenda-
setting, framing, priming e indicizzazione che determinano diverse forme di parzialità dei
media. In questo capitolo, esaminerò la pratica delle campagne politiche come strumento
chiave per conquistare il potere politico, in gran parte tramite la politica mediatica. Devo
prima, però, toccare la madre di tutte le politiche mediatiche: i piani di finanziamento.
La pista del denaro
La politica informazionale è dispendiosa, e in quasi tutti i paesi non può essere mantenuta
dal regolare finanziamento delle organizzazioni politiche. In massima parte la spesa è
legata alle campagne politiche, e in particolare alla pubblicità televisiva a pagamento in
paesi, come gli Stati Uniti, dove questo è il principale canale con cui i candidati
comunicano direttamente con gli elettori. Negli ultimi decenni il costo delle campagne
elettorali negli USA è andato alle stelle, con una significativa accelerazione dalla metà
degli anni Novanta. La figura 4.1 presenta il totale dei contributi raccolti dai candidati
presidenziali USA negli ultimi nove cicli elettorali.
L’impennata dei costi delle campagne non riguarda esclusivamente i candidati
presidenziali. Negli Stati Uniti, nel 2004, la spesa per conquistare un seggio in Senato era
in media di 7 milioni di dollari, mentre un seggio alla Camera richiedeva 1 milione, un
incremento di undici volte rispetto al 1976 (Bergo, 2006). Hollihan (1998) tuttavia
sostiene in maniera convincente che la crescita del finanziamento politico non dipende
esclusivamente dalle aumentate esigenze di campagne politiche a corto di fondi. In realtà è
un meccanismo con cui attori economici e altri interessi speciali esercitano la loro
influenza sul processo di formazione delle politiche a tutti i livelli di governo (Hollihan,
2008, pp. 240-273). L’offerta sembra ancora più consistente della domanda. I politici
possono permettersi di praticare una politica dispendiosa perché c’è abbondanza di fondi
di lobbisti e donatori. Anzi, alcuni politici non riescono neppure a spendere tutto il denaro
che ricevono; e così, lo usano invece per permettersi un altissimo tenore di vita giustificato
con tecniche di contabilità creativa. Dal 1974, negli Stati Uniti sono state introdotte
diverse riforme sui finanziamenti delle campagne, ma ogni volta vengono prontamente
aggirate con nuove pratiche. Così, le leggi elettorali USA oggi fissano un limite alla
somma che un singolo donatore può versare ai candidati durante un ciclo elettorale. Per
esempio, durante la tornata del 2007-2008, gli individui potevano contribuire con un
massimo di 2300 dollari al candidato di loro scelta durante le elezioni primarie e fino alla
stessa somma per le elezioni generali. Per aggirare questi limiti, furono creati dei Political
Action Committees (PAC), autorizzati a raccogliere somme superiori. Quando fu posto un
tetto ai finanziamenti dei PAC, si presentò una nuova possibilità: furono consentite senza
limiti donazioni in contanti effettuate direttamente ai partiti. Poiché i partiti lavorano per i
candidati, il denaro alla fine giunge ai candidati. Inoltre, esiste la diffusa pratica del
cumulo delle donazioni, che permette ad alcuni individui (per esempio il CEO di una
società, partner di uno studio legale, leader di un sindacato) di raccogliere donazioni
individuali (per esempio, dai dipendenti o tra i loro membri) a favore di un candidato.
Spesso le aziende offrono pacchetti di donazioni a entrambi i partiti, per coprirsi dai rischi.
La pubblicità a pagamento nei media – la maggiore voce di spesa in una campagna
elettorale – è spesso l’iniziativa dei cosiddetti gruppi 527 (dal codice fiscale che conferisce
loro uno status legale), privati cittadini o organizzazioni che esercitano il diritto alla libertà
di parola facendo propaganda a favore, o contro, un determinato candidato. Non possono
sollecitare il voto, ma il loro messaggio è inequivocabile, e di solito altamente negativo.
Naturalmente questi gruppi si sviluppano alla periferia delle campagne dei candidati
maggiori, per cui sono, in pratica, surrogati che possono assecondare i programmi di
specifici candidati al di fuori dei confini delle restrizioni ufficiali della raccolta di fondi.

FIG. 4.1. Contributi totali, cicli elettorali 1976-2008, candidati alle presidenziali USA.
Note: I totali comprendono i contributi per le primarie, il finanziamento pubblico per le elezioni generali e il
finanziamento pubblico per le convention. Le cifre in dollari non sono state aggiustate per l’inflazione.
Il dato del 2008 rispecchia il totale dei contributi fino al 6 giugno 2008.
Fonte: Dati della Federal Election Commission compilati dal Center for Responsive Politics.

Inoltre, singoli cittadini pagano migliaia di dollari per partecipare a manifestazioni e/o
banchetti per la raccolta di fondi, eventi che spesso fruttano milioni. Negli anni Novanta il
presidente Clinton raccoglieva finanziamenti invitando ricchi ospiti a pagare il privilegio
di soggiornare alla Casa Bianca o in quella che i media soprannominarono «Motel 1600»
(da 1600 Pennsylvania Avenue, l’indirizzo della residenza presidenziale). Cercando
donatori per la campagna della rielezione presidenziale nel 1996, ai suoi consiglieri venne
l’idea di usare il prestigio della presidenza e il richiamo della Casa Bianca per invitare
potenziali donatori in cambio di un finanziamento prestabilito. Per soli 12.500 dollari a
ogni donatore sarebbe stata offerta una cena di gala in un hotel di Washington e una foto
con il presidente. Per il caffè alla Casa Bianca con il presidente ed altri esponenti
dell’amministrazione, il donatore doveva versare 50.000 dollari. Se l’entusiasmo del
sostenitore del presidente raggiungeva quota 250.000, veniva invitato a passare un’intera
giornata alla Casa Bianca godendo delle sue attrattive, con una nuotata in piscina, una
partita a tennis, una partita a bowling sulla pista presidenziale, o un barbecue sul prato. Per
una donazione eccezionalmente generosa (dall’importo mantenuto riservato), finanziatori
di lusso poterono passare una notte nella camera da letto di Lincoln per riflettere in tutta
comodità sulla sorte della democrazia americana. Questo gruppo scelto divenne, in
pratica, un mercato di massa: tra il 1993 e il 1996 vi furono 103 colazioni di fundraising
alla Casa Bianca e 938 ospiti notturni. Circa la metà di questi erano parenti e amici
personali, ma gli altri erano i ricchi e famosi del mondo, tra cui un funzionario di una
fabbrica d’armi cinese, un broker finanziario incriminato per frode, un multimilionario
accusato di spiare i suoi dipendenti, una famiglia di banchieri indonesiani interessati a
spuntare una politica commerciale USA favorevole con l’Indonesia, il dirigente di un
birrificio cinese, e John Huang, il fundraiser del Democratic National Committee, che più
tardi sarà giudicato colpevole di aver violato le leggi sui finanziamenti per le campagne
sollecitando fondi a donatori asiatici. Ma con i finanziamenti a Clinton non vi furono
problemi legali: tutte le richieste furono fatte nel rispetto delle regole. Ai donatori non
furono chiesti contributi all’interno della Casa Bianca né in alcun’altra proprietà
governativa, e i pagamenti non furono richiesti che in un momento successivo (Fineman e
Isikoff, 1997; Frammolino e Fritz, 1997; entrambi citati da Hollihan, 2008, p. 246).
Anche i singoli candidati possono contribuire in maniera illimitata con fondi personali
alle loro stesse campagne. Di conseguenza, qualsiasi ricco americano può candidarsi a una
carica, aggirando i partiti e ogni altro intermediario e comprandosi l’accesso alla
cittadinanza attraverso i media e la propaganda politica diretta. Questo sistema di
finanziamento della politica negli Stati Uniti non è mai stato seriamente contestato, poiché
la Corte Suprema ha tutelato il diritto di contribuire alle campagne politiche nell’ambito
del diritto d’espressione, sottolineando che anche le corporation godono di tale diritto.
Inoltre, è ben difficile che i politici stessi pongano limiti a un sistema di cui gli eletti si
avvantaggiano. Così, la Federal Electoral Commission (FEC) è rimasta un inefficiente
organismo burocratico, in pratica svolgendo una funzione di facciata per distogliere
l’attenzione dalla imbarazzante verità di una democrazia americana letteralmente in
vendita. Nel caso degli Stati Uniti, il denaro governa la politica, e i politici che non
seguono questa regola non hanno alcuna possibilità di competere (Center for Responsive
Politics, 2008c; Garrett, 2008).
Comunque, è ancora possibile farsi sostenere dai finanziamenti della base nelle
campagne elettorali, come sosterrò più avanti. Ma con due avvertimenti: perché il
finanziamento di base sia significativo, dev’essere il risultato di un massiccio sostegno da
parte di un movimento politico al seguito di un leader carismatico; ma anche in queste
circostanze, non è mai abbastanza, e costringe il politico, indipendentemente dai propri
valori, a cercare fonti di finanziamento nel mondo aziendale e in quello degli interessi
particolari.
Il caso degli Stati Uniti è unico in quanto combina l’influenza diretta del finanziamento
politico diretto con un sistema giuridico che incoraggia le attività delle lobby, un’industria
di primo piano a Washington, tra l’indifferenza o la rassegnazione del grande pubblico
(Hollihan, 2008). Viceversa, in gran parte del mondo, ma non in tutto, il denaro compra
l’accesso alla politica, dalle amministrazioni locali alle cariche presidenziali, senza alcuna
cornice legale efficace che isoli il governo dagli interessi personali. Un esempio calzante è
quello del Kenya, paese democratico fin dall’indipendenza, dove la contestata, e poi
violenta, elezione del 2007 è stata la più dispendiosa della storia del paese. In effetti, tra il
1963 e il 2007 la spesa media per candidato parlamentare è cresciuta del 200.000 per
cento senza alcun quadro normativo che imponesse un rendiconto del flusso di denaro
(CAPF, 2007). I fondi venivano utilizzati per comprare voti, per corrompere giornalisti e
agenzie di sondaggi, per lanciare campagne rivolte ai giovani e alle donne nel paese, per
pagare la pubblicità sui media, per coprire spese di viaggio gonfiate, per pagare il
personale di partito e così via. I finanziamenti venivano da una varietà di fonti. Parte del
denaro per il partito di governo veniva dall’uso occulto di fondi pubblici attraverso conti
fasulli. Una fetta più consistente veniva dalle aziende che si assicuravano gli appalti dal
governo in cambio dell’appoggio finanziario e logistico. Consistenti donazioni
raggiungevano il partito di opposizione da fonti estere. I ricchi venivano sollecitati
implacabilmente dagli aspiranti parlamentari di entrambi i partiti, con richieste di forti
somme di denaro, al punto che le élite keniote sempre più spesso preferivano creare dei
loro partiti per avere un accesso diretto al parlamento senza dover pagare degli
intermediari (evidentemente un metodo più efficace in termini di costi).
Nel 2007, il lucroso business della politica keniana richiamava un numero record di
amanti della democrazia: 130 partiti politici presentarono 2500 candidati al parlamento. In
molti casi avevano dovuto raccogliere personalmente il denaro, ma il previsto guadagno,
in caso di successo, valeva lo sforzo. Uno studio dimostrava che l’investimento nelle
elezioni precedenti aveva prodotto un profitto legale di sette volte la somma investita
cinque anni dopo, in termini di retribuzioni, più le indennità11. Questo senza contare la
corruzione che permea il sistema politico. Dopo le elezioni, nel 2007, è stato fissato un
quadro normativo per il finanziamento delle campagne elettorali, ma osservatori
indipendenti lo reputano inefficace. Il finanziamento extra-legale e gli accordi politici
basati sul denaro sono un carattere sistemico della democrazia keniana (CAPF, 2007).
In fatto di denaro e politica, in una prospettiva globale, il Kenya è la regola più che
l’eccezione. Rapporti dal resto dell’Africa, dall’America Latina (a eccezione del Cile) e
dall’Asia puntano tutti nella stessa direzione (vedi sotto, la sezione sulla politica degli
scandali).
In qualche altro paese, in particolare in Europa occidentale e settentrionale, in Canada,
in Australia e in Nuova Zelanda, la situazione è più complessa, in quanto il finanziamento
pubblico della politica è la norma, la propaganda a pagamento sui media è limitata o
vietata, e il finanziamento diretto di politici in carica è sottoposto a una rigida
regolamentazione. Eppure, la pista del denaro non si ferma sulle loro sponde. A
illustrazione dell’argomento, prenderò in esame due democrazie che appaiono al di sopra
di ogni sospetto: il Regno Unito e la Spagna.
Organi normativi governano il finanziamento dei partiti politici tanto in Gran Bretagna
quanto in Spagna. In entrambi i paesi, come negli USA, i contributi ai partiti politici
devono essere dichiarati. Nel Regno Unito, i donatori e partiti sono tenuti a dichiarare i
contributi oltre una certa soglia, e i partiti devono dichiarare i contributi ricevuti. In
Spagna, vanno dichiarati tutti i contributi ricevuti. Inoltre, a differenza che negli Stati
Uniti, c’è un tetto alla somma che un partito spende per le elezioni. La differenza
fondamentale con gli USA è che in entrambi i paesi i partiti politici, e non i candidati,
ricevono un finanziamento pubblico diretto nel periodo elettorale e tra un’elezione e
l’altra. Lo scopo dei fondi è coprire le spese dell’amministrazione generale del partito e le
analisi e le proposte politiche, oltre a sostenere i costi delle campagne. Il finanziamento è
proporzionale ai risultati dei partiti nelle ultime elezioni, cosa che ovviamente favorisce il
permanere del predomini dei partiti politici maggiori. I costi delle campagne sono
sensibilmente ridotti rispetto agli Stati Uniti perché nel Regno Unito e in Spagna ai partiti
politici è riconosciuto il libero accesso ai media. I criteri di attribuzione del tempo di
trasmissione sono il numero e la distribuzione geografica dei candidati presentati in una
data elezione per il Regno Unito, e il risultato dell’elezione precedente per la Spagna.
D’altra parte, la pubblicità politica a pagamento in televisione è vietata in entrambi i paesi.
In periodo elettorale, ai partiti spagnoli e britannici vengono assegnati determinati spazi
nei canali televisivi terrestri e nelle emittenti radiofoniche nazionali. In Spagna, in periodo
elettorale, anche i notiziari politici delle emittenti statali sono regolamentati, con
un’attribuzione del tempo di presenza dei leader politici proporzionata ai precedenti
risultati elettorali.
Nel Regno Unito, la propaganda a pagamento è ampiamente usata in manifesti,
opuscoli, volantini e altri materiali. I conservatori spendono di più in propaganda (46 per
cento contro il 29 per cento dei laburisti nel 2005), mentre i laburisti spendono più dei
Tories in comizi e manifestazioni, usando quanto resta della loro infrastruttura di base.
Mentre la spesa per le campagne politiche è aumentata in misura sostanziale nel Regno
Unito tra il 2001 (£23,7 milioni per tutti i partiti) e il 2005 (£422 milioni), la somma
impallidisce a paragone degli Stati Uniti (vedi figura 4.1), anche tenendo conto della
diversa dimensione dei due elettorati. In effetti, i partiti del Regno Unito abitualmente
rispettano il tetto fissato per le spese elettorali. Così, una differenza fondamentale tra gli
Stati Uniti e gran parte delle democrazie dell’Europa occidentale sta nel soverchiante
predominio delle lobby nella politica americana, che è in netto contrasto con la
separazione regolata tra business e gruppi d’interesse della politica europea.
La tensione tra denaro e politica, comunque, non è meno reale in Europa che nel resto
del mondo. In effetti, l’attuale assetto regolatorio nel Regno Unito si è prodotto in seguito
alle diffuse preoccupazioni pubbliche nel 1998 sul finanziamento dei partiti politici dopo
una serie di scandali di alto profilo, e in particolare dopo che Tony Blair, nel 1997, andò
alla televisione per chiedere scusa per aver preso una donazione da un milione di sterline
per il Labour dal magnate della Formula 1 Bernie Ecclestone. Henry Drucker, il
fundraiser dei laburisti che si dimise poco dopo l’arrivo al potere del suo partito, criticò la
soluzione, oggi fuori legge, del «blind trust», che permetteva a multimilionari di effettuare
donazioni segrete al Labour senza che i vertici capissero da dove arrivava il denaro.
Queste donazioni non avevano l’obbligo della dichiarazione fino a quando, nel 2001, la
legge fu modificata. Il Committee on Standards in Public Life (un organismo
ufficialmente indipendente istituito da John Major) raccomandò un nuovo sistema per
regolamentare le attività finanziarie dei partiti politici. Il Political Parties, Elections and
Referendums Act (PPERA) fu approvato nel 2000, e le elezioni generali del 2001 nel
Regno Unito rappresentarono le prime elezioni in cui le spese dei partiti per la campagna
venivano controllate. Ciononostante, i problemi con i donatori continuarono a ri-
presentarsi nella politica britannica, e ad affliggere il Partito Laburista. Lo scandalo
divenne significativo durante le elezioni del 2005, quando una commissione della Camera
dei Lord scoprì che il Labour aveva ricevuto da ricchi donatori decine di milioni di sterline
in prestiti non dichiarati alla commissione elettorale. Questo indusse Scotland Yard a
indagare sul cosiddetto scandalo «Cash for honours». In poche parole, Blair stava
vendendo titoli nobiliari per avvantaggiare il partito. Ogni paese ha le sue tradizioni, e ora
quelle tradizioni erano in vendita. Clinton, come si è detto, dava in affitto l’appartamento
di Lincoln alla Casa Bianca con i cimeli presidenziali. Ora, anche la nobiltà inglese stava
diventando merce di scambio. Niente poteva far infuriare di più i pari del regno. Altre
forme di finanziamento occulto vennero alla luce quando fu reso noto che l’immobiliarista
David Abrahams aveva versato oltre 600.000 sterline al Labour Party, usando dei
prestanome per nascondere la propria identità, in aperta violazione delle norme fissate
dalla Electoral Commission (Hencke, 2007).
Quanto alla giovane e fervente democrazia spagnola, alle elezioni parlamentari del
2004, tutti i partiti spesero complessivamente 57,2 milioni di euro nelle due settimane di
campagna elettorale. Le spese elettorali furono ancora più limitate nel 2008: 50 milioni di
euro. Il motivo principale di questo comportamento parsimonioso è che il Ministero
dell’Economia fissa un tetto di spesa per ciascun partito: nel 2008, i due partiti maggiori, il
Socialista (PSOE) e il Conservatore (PP) erano autorizzati a spendere un massimo di 16,7
milioni di euro ciascuno. Intanto, il governo finanziava i partiti nella misura, nel 2008, di
0,79 euro per voto ricevuto e di 21.167,64 euro per seggio ottenuto al Parlamento, più le
spese di trasporto e di alloggio per i candidati. Gran parte dei fondi venivano usati per
manifesti, propaganda postale, materiale a stampa, per l’organizzazione di comizi e per
pubblicità alla radio e sulla stampa (Santos, 2008). I partiti spagnoli, tuttavia, cercano
attivamente donazioni private, alcune nell’area grigia della legalità (Bravo, 2008; Murillo,
2008; Santos, 2008).
Per quale motivo i partiti – le cui esigenze di base di propaganda sui media, campagne
elettorali e gestione dei candidati sono soddisfatte dal finanziamento pubblico – hanno
ugualmente bisogno di attingere a donatori privati? Certo, il denaro per soddisfare le
necessità politiche non è mai abbastanza. Ma visto che tutti i partiti sottostanno alle
medesime restrizioni, il campo da gioco è abbastanza livellato. Il problema è esattamente
questo. Individui ricchi, interessi particolari e grandi industrie aspirano a spostare una
delle opzioni politiche a loro favore fornendo denaro extra. Poiché l’operazione dev’essere
compiuta di nascosto, questo genere di favori ai leader e ai partiti hanno connotazione
assai personale. Questo non è un generico contributo a una causa politica, ma l’apertura di
una linea di credito politico cui il donatore può ricorrere alla bisogna. È clientelismo come
alternativa all’attività di lobby (ovviamente, la scena politica statunitense è
contrassegnata, oltre che dal lobbismo, da un diffuso clientelismo, come sarebbe
esemplificato, stando ai media, dal vicepresidente Dick Cheney e la sua Halliburton
Corporation). Comunque, come mai i partiti necessitano di questo denaro extra al di fuori
del sistema legale? Perché hanno bisogno di spendere i fondi in maniera flessibile e
riservata. Flessibile, perché essere innovativi in politica richiede spendere in aree e in
progetti che sfuggono alla definizione di attività politica nei termini rigidamente normativi
delle commissioni elettorali. Riservato, perché alcune operazioni politiche decisive al di
fuori dei periodi di campagna elettorale (per esempio la raccolta illegale di fondi, lo
spionaggio, la montatura di scandali contro l’avversario, la corruzione di giornalisti, il
pagamento di ricatti e simili) richiedono consistenti finanziamenti occulti. Inoltre, più
l’uso dei fondi è discrezionale, maggiori saranno le opportunità per gli intermediari
politici, all’interno e intorno al partito e alla sua leadership, di ricavare un guadagno
personale. La carica politica è la base per la personale accumulazione primitiva di capitale
dei detentori del potere in democrazia: proprio coloro che accettano la regola
dell’alternanza democratica sono quelli che devono fare buon uso dei tempi favorevoli
quando sono al potere, per sé stessi o per la lotta ideale per cui si battono (Rose-
Ackerman, 1999; International Foundation for Election Systems, 2002).
La manipolazione delle notizie
La gente prende le sue decisioni, comprese le decisioni politiche, in base a immagini e
informazioni che, in linea generale, vengono elaborate tramite i media, Internet inclusa. È
un processo continuo. In pratica, le campagne elettorali – il momento teatrale della scelta
in democrazia – opera sulle predisposizioni immagazzinate nella mente degli individui
attraverso la loro prassi nella vita quotidiana. Pertanto, la politica mediatica delle news è
la forma più significativa di politica mediatica. Certo, l’informazione con implicazioni
politiche non si limita ai notiziari (Delli Carpini e Williams, 2001; Barnet-Weiser,
comunicazione personale, 2008). E il notiziario televisivo (la maggior fonte di notizie per
molti) è inscenato come forma di intrattenimento: costituisce «la politica dell’illusione»
(Bennett, 2007). Ma è proprio perché formattati in modo da attrarre lo spettatore medio, i
media dell’informazione hanno una forte influenza nello stabilire la connessione tra le
predisposizioni degli individui e il loro giudizio sulle questioni che costituiscono la
sostanza della vita politica.
Come abbiamo analizzato nel capitolo 3, le strategie politiche mirano in primo luogo a
fissare l’agenda, a operare il framing e il priming dell’informazione nei media. Ma i
metodi per farlo variano fortemente a seconda del regime mediatico, a seconda
dell’interazione esistente tra governi, imprese e aziende media. Per poter individuare la
logica del framing politico nei media, utilizzerò inizialmente un’analisi dell’esperienza
italiana, seguendo in gran parte lo studio di Giancarlo Bosetti (2007). In effetti, la
televisione italiana è particolarmente adatta all’analisi. Primo, perché la televisione è la
fonte primaria di notizie politiche: oltre il 50 per cento degli italiani dipende dalla
televisione come fonte esclusiva di informazione politica. Questa percentuale balza al 77
per cento durante le campagne politiche, rispetto al 6,6 per cento che segue la campagna
sui giornali. Secondo, il caso italiano è rivelatore perché, pur propugnando formalmente
l’ideologia del giornalismo professionale indipendente, il regime televisivo italiano è, nei
fatti, il più politicizzato del mondo democratico (a eccezione della Russia, nella misura in
cui si possa ancora considerare una democrazia). Questo perché storicamente, prima degli
anni Novanta, i tre canali televisivi statali (quelli appartenenti alla RAI, l’azienda
pubblica) erano assegnati alle tre maggiori famiglie politiche, in ordine decrescente di
importanza: la Democrazia Cristiana (RAI Uno), i socialisti (RAI Due), e i comunisti e le
loro reincarnazioni successive (RAI Tre). Negli anni Novanta, approfittando dell’ondata
europea di liberalizzazione e privatizzazione della televisione, Silvio Berlusconi, un
immobiliarista diventato magnate dei media, riuscì a istituire tre network nazionali privati
gestiti dalla sua azienda Mediaset. Tradusse il suo potere televisivo in vittoria nelle
elezioni nazionali del 1994. Di conseguenza, da quando Berlusconi è stato eletto primo
ministro nel 1994 e poi riconfermato in altre due occasioni (l’ultima nel 2008), controlla
tutte le reti televisive italiane, pubbliche e private, con l’eccezione dei periodi d’instabile
governo della coalizione di centrosinistra. Mentre le reti locali e la televisione satellitare
mantengono la diversità del paesaggio mediatico, il grosso dell’informazione
politicamente rilevante passa per i filtri di figure nominate da Berlusconi.
Analizzando l’evoluzione dei notiziari televisivi italiani nel corso dell’ultimo ventennio,
Bosetti (2007) trova delle analogie tra l’Italia e gli Stati Uniti in alcune delle
caratteristiche chiave del telegiornalismo: personalizzazione, spettacolarizzazione,
frammentazione dell’informazione e sollecitazione di uno schema predominante costruito
intorno al concetto di ordine contro disordine. In effetti il tema dell’ordine è stato il
principale richiamo politico di Berlusconi, nonostante i sospetti di legami con la mafia, per
un elettorato profondamente stanco delle interminabili lotte intestine nei partiti e di una
politica che ruotava intorno agli interessi di una classe politica che godeva di privilegi e
stipendi senza uguali nel mondo democratico (Rizzo e Stella, 2007). Bosetti aggiunge al
menù una specialità italiana: gli attacchi personali tra politici nei telegiornali, che
accrescono il disgusto del pubblico verso la politica in generale, offrendo al tempo stesso
materiale di colore per i notiziari. L’informazione è costruita in gran parte intorno al
comportamento e alle dichiarazioni dei leader di partito, amplificando la personalizzazione
della politica, anche se la scena politica italiana include un’ampia varietà di botteghe
politiche, alcune di cui servono gli interessi di un solo personaggio politico (nella misura
in cui il suo voto può determinare il controllo del parlamento).
L’analisi dei contenuti di Bosetti non registra una particolare differenza tra i canali
televisivi pubblici e quelli privati nella formula che regge la cronaca politica sotto
Berlusconi (Bosetti, 2007, p. 62). Berlusconi usava il dominio dei media per condurre sue
battaglie personali contro i giudici e i parlamentari che cercavano senza successo di
portarlo in tribunale. Abilmente lanciava diverse offensive politiche mediatiche che
screditavano gli avversari, mentre coltivavano la sua immagine di uomo fatto da sé al di
sopra della politica partitica, difensore dell’essenza della nazione italiana, delle virtù del
libero mercato e delle radici cristiane dell’Europa (Bosetti, 2007, p. 85). Scavalcando i
partiti e rivolgendosi alla pubblica opinione, e quindi agli elettori, direttamente attraverso i
media, Berlusconi riusciva a istituire il potere di un’oligarchia mediatica che gradualmente
prendeva il posto dell’oligarchia partitica che aveva fin lì caratterizzato la politica italiana.
La messa in scena della politica diventava più significativa del priming delle notizie, con
canali specializzati nell’informazione 24 ore su 24 impossibilitati a contrastare la cultura
corrente della politica spettacolo, che spesso assumeva le vesti della farsa e della
commedia, e che è arrivata a permeare la scena mediatica italiana.
Pur riconoscendo che si tratta di un esempio estremo di manipolazione politica dei
media dell’informazione, il caso italiano offre una versione patologica dei giochi di
manipolazione che caratterizzano i mass media, e in particolare la televisione, in tutto il
mondo. Così, delineando la politica dei media d’informazione in America, Bennett (2007,
p. 14) scrive:

Secondo il parere di William Schneider, sondaggista della CNN e commentatore,


Washington è sempre di più una città di imprenditori politici individuali che per
l’appoggio politico si basano meno sui partiti che sulle proprie immagini
mediatiche… Il pubblico entra in questa realtà mediata in momenti scelti, quando
segmenti dell’audience target vengono spinti a votare, a partecipare a sondaggi, o a
mandare bordate di e-mail al Congresso. Più spesso, al pubblico ci si rivolge al
termine del processo politico quando bisogna «vendere» il risultato attraverso le
immagini dei notiziari. Governare con le news, quindi, significa anche controllare
cosa arriva al pubblico.
Nemmeno quel simbolo di servizio pubblico che è la BBC è potuto sfuggire alle
manipolazioni del governo Blair, come illustra la famigerata vicenda del «Dodgy
Dossier». All’inizio del 2003, Alistair Campbell, lo spin-doctor dell’ufficio del primo
ministro, architettava un documento di briefing per il governo Blair sotto il titolo «Iraq:
l’infrastruttura di occultamento, contraffazione e intimidazione». Il documento, presto
noto come «Dodgy Dossier», veniva distribuito ai giornalisti ai primi di febbraio del 2003.
Colin Powell elogiava il documento in quanto costituiva una forte base di sostegno alla
decisione americana, già presa, di attaccare l’Iraq. Il dossier affermava l’esistenza di prove
che l’Iraq celasse il possesso di armi di distruzione di massa, attingendo a «numerose
fonti, ivi compresi rapporti dell’intelligence». In realtà, come rivelò Glen Rangwala,
docente della Cambridge University, una sezione del documento era stata copiata
integralmente da un articolo scritto da uno studente laureato in California, Ibrahim al-
Marashi. Sezioni dell’articolo apparivano nel documento governativo riprese pari pari,
refusi compresi, dal testo originale. BBC Radio 4 riferì l’episodio quando i suoi reporter
vennero a sapere del plagio. Insieme con un precedente dossier di settembre («Le armi di
distruzione di massa dell’Iraq: la valutazione del governo britannico»), questi documenti
furono usati dal governo per giustificare il coinvolgimento nell’invasione dell’Iraq del
2003, e furono citati dal presidente Bush in appoggio alla decisione di entrare in guerra.
Affermazioni contenute nei dossier «Settembre» e «Iraq» furono messe in discussione
quando in Iraq di armi di distruzione di massa non fu trovata traccia. Tutte le accuse dei
dossier furono dimostrate false dall’Iraq Survey Group.
La denuncia della BBC della truffa del governo Blair portò a una controversia tra
Downing Street e l’emittente. Andrew Gilligan, corrispondente BBC, mandò in onda un
servizio per il programma Today di BBC Radio 4, il 29 maggio 2003. Gilligan affermava
che una fonte che desiderava rimanere anonima gli aveva detto che il dossier di settembre
era stato gonfiato – «sexed up» – e che le agenzie di intelligence erano interessate alla
veridicità dell’affermazione che Saddam Hussein potesse impiegare armi di distruzione di
massa entro 45 minuti dall’ordine di usarle. Il 1o giugno 2003 Gilligan scrisse sul Mail on
Sunday che Alistair Campbell era responsabile dell’inserimento della dichiarazione sui 45
minuti, spettacolare esempio di tattica della paura. Campbell pretendeva le scuse, ma la
BBC difendeva la versione di Gilligan. Campbell apparve nel notiziario di Channel 4 per
rispondere alle accuse. Blair dichiarò che la BBC era in errore riportando che il governo
avesse deliberatamente gonfiato il dossier e difese gli sforzi del suo collaboratore di
respingere l’accusa della BBC. Il gradimento di Blair nell’opinione pubblica precipitò, e la
maggioranza dei cittadini intervistati per i sondaggi dichiarò che non si sarebbero più
fidati della sincerità di Blair. Gli sforzi governativi per confutare l’accusa della BBC
portarono all’identificazione, da parte del governo, del dottor David Kelly, uno scienziato
che lavorava per il Ministero della Difesa, come probabile fonte della BBC. Nel luglio
2003, pochi giorni dopo la sua identificazione, il dottor Kelly fu trovato morto in
circostanze che facevano pensare al suicidio. Questi eventi portarono all’istituzione della
commissione Hutton per indagare sulla morte di Kelly. Il rapporto della commissione
assolveva il governo, in parte perché Gilligan non aveva rispettato le regole del buon
giornalismo. Il rapporto stabiliva che l’accusa di Gilligan era «infondata» e che le
procedure editoriali e direttive della BBC erano «carenti». Nel rapporto la BBC veniva
duramente criticata, con conseguenti dimissioni del presidente e del direttore generale.
Successivamente, i giornali nazionali accusarono la commissione Hutton di aver
partecipato a un insabbiamento perché il rapporto non aveva avuto il coraggio di
sottoporre a un serio esame il governo.
Se le operazioni politiche di spinning e di framing di solito non sono così clamorose e
drammatiche come le manipolazioni di Campbell e dei suoi operatori, di solito sono
comunque il piatto forte dell’informazione mediatica e della politica dei media in ogni
paese. Non è chiaro, però, chi usa chi. Mentre i politici nutrono i media, spesso i media
banchettano con la politica cruda, o da cucinare per il pubblico, o da lasciar andare a male,
in modo che il fornitore si trovi esposto: in questo modo richiamando l’interesse del
pubblico in entrambi i casi. In effetti, la politica mediatica è una pratica sociale composita
fatta di media e di politica.
Il momento della falsità: le campagne elettorali
Le campagne elettorali sono le occasioni chiave che mettono in grado di accedere ai posti
di potere istituzionali appellandosi alla formale delega di potere dei cittadini per mezzo del
voto. Sono gli ingranaggi della democrazia. Le elezioni però sono momenti specifici della
vita politica che operano in base alla costruzione quotidiana di significato che struttura gli
interessi e i valori dei cittadini. Le campagne elettorali operano sulle predisposizioni dei
votanti attivando o disattivando i processi di emozione e cognizione che ho analizzato nel
capitolo 3, con lo scopo di realizzare gli obiettivi della campagna. A prescindere
dall’ideologia e della retorica presenti nei discorsi politici, una cosa sola importa ai partiti
politici e ai candidati in campagna elettorale – vincere. Tutto il resto è secondario. Questo
implica che le proposte di linea politica vanno costruite come messaggi politici che
cercano di ottenere il supporto dell’elettorato. Naturalmente candidati e partiti si collocano
entro lo spazio politico del paese e fanno riferimento agli interessi e ai valori dei propri
sostenitori, così che le loro piattaforme politiche devono essere credibili in fatto di
congruenza cognitiva tra quello che è il candidato e quello che è il suo messaggio.
Tuttavia, i margini di variazione tra la storia di partiti e candidati e i programmi per una
data elezione si sono ampliati nel corso del tempo a causa della necessità di adeguare il
messaggio politico a un elettorato diversificato e sempre più volubile. In effetti, molte
campagne adottano una strategia a tre vie. Primo, cercano di assicurarsi la base storica di
supporto, i fedeli del partito. In molti paesi, i sentimenti per un dato partito o una specifica
tradizione politica costituiscono uno dei fattori chiave nel determinare il comportamento
di voto (Montero et al., 1998; Winneg e Jamieson, 2005; Westen, 2007). Quindi, un
candidato non può deviare eccessivamente dalle posizioni politiche che sono state
fondamentali in passato nell’istituire l’influenza del partito, senza erodere l’indispensabile
adesione del nucleo di supporto, come il diritto di scelta delle donne nell’aborto per la
sinistra o la riduzione delle tasse per la destra. La seconda componente di una strategia di
successo mira a smobilitare o confondere la base di sostegno dell’avversario, in particolare
evidenziandone i difetti o le malefatte, o la contraddizione tra l’avversario politico e i
valori dei potenziali elettori; per esempio, il suo appoggio ai diritti dei gay in un contesto
omofobico. C’è infine la terza e più decisiva mossa strategica: conquistare l’appoggio
degli indipendenti e degli indecisi. È questo il gruppo che determina il risultato elettorale,
posto che la sua base sia mobilitata. Ciò non vuol dire che le elezioni si vincano
corteggiando il centro dello spettro politico. A volte, spostarsi a sinistra o a destra del
centro è ciò che convince quelli che si collocavano lateralmente perché non in sintonia con
il messaggio di alcun candidato. La questione fondamentale per ottenere il sostegno degli
indipendenti sta nell’acuire la loro attenzione sui candidati. Così, è risultato che gli
indipendenti sono particolarmente sensibili a messaggi negativi (Ansolabehere e Jyengar,
1995; Hollihan, 2008, p. 159). Non avendo affiliazioni prestabilite, tendono a mobilitarsi
contro le potenziali conseguenze negative derivanti dall’elezione di un dato candidato.
Questo spiega l’importanza dei messaggi negativi, tramite i media o la propaganda
politica, sulla forma presa dalle elezioni (vedi capitolo 3).
La professionalizzazione delle campagne politiche
Per mettere in atto queste strategie di base, candidati e partiti devono prima costruire la
infrastruttura della campagna. La politica elettorale è ormai un’attività fortemente
professionalizzata, con alte barriere all’entrata per ogni partecipante, il che spiega perché i
«cani sciolti» tra i candidati devono comunque di norma operare entro i limiti della
politica partitica stabilizzata. L’infrastruttura inizia con la solvibilità finanziaria: senza
fondi sufficienti non c’è campagna credibile, al punto che il livello dei finanziamenti per i
candidati è uno dei criteri chiave di eleggibilità. È un circolo virtuoso (o vizioso): più soldi
ci sono, maggiore è il potenziale di vittoria nell’elezione, il che richiama altri
finanziamenti da individui e gruppi che puntano sul candidato. Denaro e politica sono
intrecciati. La campagna dipende anche dalla qualità dei consulenti, e dall’accuratezza
della loro politica informazionale. Questo include la costituzione di un database affidabile
che permetta di disegnare il target delle caratteristiche sociali e della distribuzione spaziale
di specifici gruppi di votanti, e di adeguare il messaggio della campagna a ciascun
contesto. Si basa anche sull’istituzione di una campagna grassroots, dal basso, costituita
da un insieme di attivisti, volontari e pagati, la cui funzione varia da paese a paese. Negli
Stati Uniti, sembra essenziale contattare potenziali votanti e metterli in relazione con il
candidato, con contatti telefonici o porta a porta, fornendo materiale stampato, registrando
nuovi votanti prima delle elezioni, e spuntando il voto sollecitando l’appoggio degli
elettori ritenuti impegnati il giorno delle elezioni. Più una campagna conta sull’appoggio
di sostenitori ideologicamente impegnati, più il richiamo potenziale di un candidato dà
frutti nella cabina elettorale. In altri paesi, come la Spagna, sarebbe controproducente
bussare alle porte, e i contatti telefonici sono ritenuti inefficaci. La distribuzione di
propaganda elettorale nei luoghi pubblici o per posta, i comizi locali, le sfilate festive e le
grandi manifestazioni politiche, raccogliendo migliaia di sostenitori, sono in generale i
mezzi per dare energia al nucleo sicuro della base elettorale, mentre si esibisce la forza del
partito davanti alle telecamere, piuttosto che per conquistare nuovi elettori. In molti casi, e
in tutti i paesi, le campagne sono basate essenzialmente sulla comunicazione tramite i
media, o con la pubblicità diretta o fornendo ai media i messaggi da trasmettere. In effetti
le manifestazioni politiche sono convocate per i media, in orari stabiliti in base alla
programmazione dei media per aumentare le probabilità di una copertura dal vivo del
candidato, il quale viene immediatamente avvertito della presenza dei media e
abitualmente cambia di conseguenza il contenuto e il tono del discorso, anche a metà di
una frase, per andare in diretta TV.
La dimensione delle campagne politiche che sta assumendo sempre maggiore
importanza è l’uso di Internet per gestire la campagna ed entrare in contatto con i
sostenitori. In paesi come gli Stati Uniti che autorizzano le donazioni individuali alle
campagne elettorali, Internet è diventato il principale veicolo per sollecitare ed elaborare
queste donazioni. Nelle primarie presidenziali più dispendiose della storia, la contesa
democratica tra Barack Obama e Hillary Clinton, una percentuale significativa dei
finanziamenti ai candidati fu raccolta in Internet, in particolare dalla campagna di Obama
(vedi capitolo 5). Inoltre, i candidati oggi fanno uso di Internet per coordinare le attività,
fornire aggiornamenti sulla campagna e ricevere input dai cittadini interessati. Forum di
discussione e reti di informazione in Internet sono diventati strumenti organizzativi
indispensabili per la politica odierna delle campagne. L’attrattiva e la funzionalità dei siti
web di una campagna sono diventati il marchio di un progetto politico di successo, sia in
termini del loro effetto sulla conduzione della campagna sia nel proiettare un’immagine di
modernità, interattività ed efficienza a favore del candidato. Inoltre, per i candidati che
desiderano affermare la propria autonomia dalla burocrazia tradizionale del partito,
Internet offre una piattaforma capace di raggiungere militanti ed elettori scavalcando le
macchine politiche (Bimber, 2003; Sey e Castells, 2004; Howard, 2005; Chadwick, 2006).
In molti paesi, i cellulari sono diventati un mezzo fondamentale per raggiungere sia i
simpatizzanti sia il pubblico in generale. Gli SMS rappresentano un sistema conveniente,
diretto e in tempo reale per diffondere informazioni, raccogliere supporto e arrecare
attacchi agli avversari politici (Castells et al., 2006a; Katz, 2008).
Le campagne in un ambiente digitale multimediale
L’essenza di una campagna è comunicare, il che impone l’identificazione del canale di
comunicazione più idoneo. La gente trae dai media gran parte dell’informazione politica,
e in particolare dalla televisione, come mostra la figura 4.2 per quanto riguarda gli Stati
Uniti, un carattere comune a quasi tutte le democrazie occidentali (Bosetti, 2007). In
Spagna, per esempio, nel 2005 la televisione era la più importante fonte di notizie
politiche quotidiane per il 72 per cento della popolazione, seguita dalla radio (39,5 per
cento), dai quotidiani (15,2 per cento) e da Internet (2,9 per cento) (Paniagua, 2006). La
figura 4.2, però, illustra anche il declino della televisione e la crescente importanza di
Internet come fonte di notizie sulle campagne negli Stati Uniti, con Internet che cresce dal
2 per cento come principale fonte d’informazione elettorale nel 1992 al 15 per cento nel
2007. Anzi, combinando prima e seconda fonte d’informazione, l’uso di Internet balza al
26 per cento. La tendenza è particolarmente accentuata per i giovani: per cittadini tra i 18
e i 29 anni, la rilevanza di Internet come la fonte primaria di notizie elettorali cresceva dal
21 per cento del gennaio 2004 al 46 per cento nel dicembre 2007, mentre la televisione
declinava dal 75 al 60 per cento (Pew, 2008c, p. 4). I più giovani che cercano online le
notizie sulle campagne citano una varietà di fonti maggiore dei più anziani. Alla richiesta
di nominare i siti web utilizzati, il 41 per cento tra i 18 e i 29 anni citava più di un sito, a
confronto del 24 per cento degli ultratrentenni. MySpace e YouTube sono un’esclusiva dei
più giovani (Pew, 2008c, p. 7).
FIG. 4.2. Principale fonte di notizie su campagne elettorali negli Stati Uniti, 1992-2008.
Nota: n = 1430, +/–3%.
Fonte: Pew (2008c).

Inoltre, circa un americano su sei (16 per cento) ha inviato o ricevuto e-mail nel gruppo
dei familiari e amici riguardo i candidati e la campagna, e il 14 per cento ha ricevuto e-
mail da gruppi o organizzazioni politiche sulla campagna elettorale (Pew, 2008c, p. 8).
Due terzi degli americani tra i 18 e i 29 anni dichiara di usare siti di social networking, e
più di un quarto di questo gruppo di età (27 per cento) dice di aver ricevuto da lì
informazioni su candidati e campagna. Quasi uno su dieci fra quelli in età inferiore ai 30
anni (8 per cento) dice di aver visto qualcosa della campagna in un video online – un
discorso, un’intervista, una pubblicità o un dibattito. Per ciascuno di questi quattro tipi di
intervento elettorale, circa il 12-13 per cento degli intervistati riferisce di averlo visto su
un video online. Tra gli intervistati più giovani, i numeri sono ancora più alti. Più del 41
per cento dei minori di 30 anni ha visto almeno uno di questi tipi di intervento online
(Pew, 2008c, pp. 9-10).
Queste risultanze sono confermate anche da uno studio relativo alla Catalogna sugli usi
di Internet e il multimedia nel 2006-2007 (Tubella et al., 2008). Internet è una fonte chiave
di informazione per i segmenti più giovani della popolazione, e poiché i giovani elettori
rappresentano la base principale del progetti politici innovativi e proattivi
(indipendentemente dalla loro ideologia), il ruolo della comunicazione di Internet nel
sostenere il cambiamento politico diventa decisivo. Tuttavia, le fonti principali di notizie
politiche in Internet sono i siti web dei mass media tradizionali (per esempio, MSBNC, 26
per cento; CNN, 23 per cento), oltre a siti web come Yahoo! News e Google News, che si
collegano ad altri media mainstream, e questo vale anche per i cittadini più giovani, anche
se MySpace rappresenta l’8 per cento e YouTube il 6 per cento dell’informazione politica
online per questo gruppo d’età, e «altri siti» sono al 20 per cento (Pew, 2008c, p. 7). Per la
popolazione americana nel suo complesso, tuttavia, nel 2008 il 40 per cento dichiarava
ancora di ricevere l’informazione politica dai notiziari televisivi locali dei network
nazionali (erano il 42 per cento nel 2004 e il 48 per cento nel 2000), e il 38 per cento
citava i canali all-news via cavo o satellite (MSNBC, CNN e Fox).
Tanto negli USA quanto nel mondo in generale, emerge un trend che differenzia i
cittadini per età, con la coorte più giovane che riceve informazioni da una varietà di fonti,
spesso via Internet, mentre la popolazione degli ultratrentenni sembra continuare a seguire
i mass media tradizionali come principali canali di informazione politica, anche se vi si
accede sempre più frequentemente da Internet. Una questione diversa è in che modo la
nuova informazione venga generata, ed è qui che Internet svolge un ruolo inedito e
significativo, come analizzerò nel capitolo 5. Ma in termini di distribuzione dei messaggi,
il grosso della politica elettorale è ancora una politica massmediatica.
Ballare con i media richiede di adattarsi al loro linguaggio e formato. Ciò vuol dire che
gli strateghi elettorali devono essere in grado di fornire ai media filmati interessanti e
informazioni stimolanti. Gli eventi di una campagna, come i discorsi dei candidati e le
visite a quartieri, scuole, fabbriche, aziende agricole, caffè, mercati e manifestazioni
politiche, devono essere tanto pittoreschi da intrattenere il pubblico se vogliono arrivare ai
media. Le dichiarazioni devono rispettare la regola del soundbite: frasi che devono colpire
ed essere più brevi possibile. Negli USA il soundbite medio per i candidati si è ridotto dai
40 secondi del 1968 ai 10 negli anni Ottanta (Hallin, 1992), poi ai 7,8 secondi nel 2000
(Lichter, 2001) e a 7,7 secondi nel 2004 (Bucy e Grabe, 2007). Tendenze analoghe sono
state riscontrate nel Regno Unito (Semetko e Scammell, 2005), in Nuova Zelanda
(Comrie, 1999), e in Brasile (Porto, 2007), anche se in questi casi la durata dei frammenti
sonori è di qualche secondo più lunga che negli Stati Uniti. Giornalisti e anchormen
dominano il tempo assegnato ai servizi sulle campagne negli USA, con una media di 34
secondi per servizio rispetto ai 18,6 dei candidati (Butch e Grabe, 2007).
L’«image bite», lo spezzone di immagine, sta rimpiazzando il soundbite come
messaggio predominante, e i video di YouTube (chiamati «sound blast» da alcuni
osservatori) sono diventati un potente strumento elettorale. Poiché la diffusione dei video
di YouTube è di tipo virale, questi hanno la potenzialità di influire sulle campagne
politiche formando l’immagine del candidato. Per esempio, nelle elezioni al Senato USA
del 2006, il senatore repubblicano Allen, che fino a quel momento era considerato un
promettente candidato presidenziale, fu sconfitto dopo la messa in rete di un video in cui
usava un epiteto razzista contro uno dei sostenitori del suo avversario durante un comizio,
un video che, postato su YouTube, fu poi ripreso dalla televisione e trasmesso in tutto il
paese nei telegiornali serali. La sua sconfitta personale fu l’evento decisivo che contribuì
alla perdita della maggioranza in Senato per i repubblicani nel 2006. Durante le primarie
presidenziali democratiche del 2008, la popolarissima campagna del senatore Obama
rischiò di deragliare in dirittura d’arrivo a causa dei video immessi su YouTube che
mostravano il suo ex pastore, il reverendo Wright, che teneva un polemico discorso nella
sua chiesa nel South Chicago. Anche se la fonte originale di questi video era la ABC
News, la loro diffusione su Internet indusse tutti gli organi mediatici a rimandare in onda
quelle dannose immagini per il resto della campagna12.
È l’interazione tra media mainstream e Internet ciò che caratterizza la politica
mediatica nell’era digitale. Mentre i media sono ancora i veicoli primari delle immagini e
dei suoni che modellano la mente dei votanti, i punti di accesso all’universo audiovisivo di
massa si sono moltiplicati. Chiunque può caricare un video, scrivere un blog o disseminare
informazioni. L’impatto potenziale del loro messaggio dipende dal modo in cui esso entra
in risonanza con le percezioni della gente, oltre che dalla misura in cui i mass media lo
ritengono rilevante per il pubblico. È per questo che le due forme di comunicazione, la
comunicazione di massa e l’autocomunicazione di massa, sono sempre più integrate con i
punti di vista del pubblico. La differenza chiave è il livello di controllo al punto di
ingresso nel sistema audiovisivo. Mentre i filtri istituiti da proprietari, inserzionisti,
direttori e giornalisti favoriscono o bloccano informazioni e immagini, Internet resta
l’ambito elettivo per i messaggi non controllati che ampliano il raggio delle fonti di
informazione e di disinformazione, introducendo una minore credibilità in cambio di una
maggiore diversità.
Le campagne politiche navigano nelle acque turbolente di questo variegato mondo
mediatico alimentando i Blackberry dei giornalisti dei media mainstream con le breaking
news, e insieme postando e contropostando in Internet. Cercano anche di inserire esperti e
surrogati nelle trasmissioni che fanno da cornice ai notiziari veri e propri e seguono la
corsa come se fosse una competizione sportiva. Al tempo stesso, devono mobilitare il
proprio supporto nella blogosfera che inonda i media mainstream, prestando al tempo
stesso attenzione ai commentatori dilettanti che si esprimono sulle notizie nei loro propri
siti web, spesso in termini poco amichevoli. Per la sostanza, nella politica mediatica non
c’è tempo né format: la questione è segnare punti. Così, i servizi vanno presentati in forma
di spettacolo, che raggiunge il proprio climax nei faccia a faccia in diretta.
La messinscena della scelta politica: i dibattiti elettorali
I dibattiti politici televisivi sono meno decisivi di quanto si pensi. Di norma, questi
dibattiti consolidano le predisposizioni e le opinioni della gente (Riley e Hollihan, 1981).
Questo è il motivo per cui il vincitore del dibattito è spesso il vincitore dell’elezione: le
persone tendono più a schierarsi con il loro candidato preferito come vincente, anziché
votare per il candidato che ha dibattuto in maniera più persuasiva. Così, nella campagna
elettorale spagnola del 2008, vi sono stati due dibattiti trasmessi alla televisione e su
Internet tra i candidati principali, il socialista Rodríguez Zapatero e il conservatore Rajoy.
Secondo la maggioranza dei sondaggi telefonici, Rodríguez Zapatero vinceva in entrambe
le occasioni con un ampio margine, quasi lo stesso che avrebbe in seguito riportato nel
risultato elettorale. Ma quando è stato fatto un sondaggio tra quelli che avevano seguito il
dibattito in Internet, la loro opinione rifletteva la tendenza ideologica del sito web che
avevano usato per seguire l’evento, trattandosi dei siti dei principali quotidiani, che di
solito presentavano un orientamento politico inequivocabile.
I dibattiti possono comunque avere un effetto potenzialmente significativo: facendo
degli errori e, di conseguenza, perdendo supporto, salvo che il candidato non sappia
sfruttare l’errore a suo vantaggio ricorrendo allo spirito o suscitando la simpatia degli
spettatori. L’obiettivo di una performance priva di errori porta alla cautela e riduce la
probabilità di uno scambio autentico di opinioni. Le regole di ingaggio vengono
accuratamente contrattate dai responsabili delle campagne di ciascun candidato: ci si
accorda anche sulla collocazione sul set, la sequenza delle domande, i moderatori e gli
intervistatori e, in alcuni casi, l’angolo di ripresa delle telecamere. Di solito è scontato che
lo sfidante attaccherà per erodere la posizione dominante dell’avversario. Spesso, ciò che
accade prima e dopo rappresenta il momento più importante del dibattito. Madsen (1991)
analizza i dibattiti politici televisivi come un discorso composto di tre elementi: il dibattito
in sé, lo spin post-dibattito dei commentatori, e la reazione dei media, che comprende
anche la risposta dei sondaggi e le reazioni del pubblico. Così, anziché un’arena di opzioni
politiche contrastanti, i dibattiti sono esibizioni di personalità e materiale da elaborare a
opera dei media, secondo le regole vigenti della narrazione politica (Jamieson, 2000;
Jamieson e Campbell, 2006).
La politica della personalità
La caratteristica fondamentale della politica dei media è la personalizzazione della
politica, e il fattore chiave nel decidere l’esito della campagna è la proiezione positiva o
negativa del candidato nella mente degli elettori. Numerosi fattori combinati spiegano il
ruolo critico della personalità proiettata dal candidato o dal leader di un partito in una
competizione politica: il declino dell’influenza diretta dei partiti politici nella società in
senso lato; i periodi di tempo tipicamente brevi delle elezioni che impongono che la
percezione di messaggi politici contrastanti sia fissata in poche settimane (con alcune
eccezioni, come le primarie presidenziali democratiche USA nel 2008); la diffusa
dipendenza dai media, e in particolare dalla televisione, quale fonte principale di notizie
politiche; il ruolo della pubblicità politica, a imitazione degli spot pubblicitari, intesa a
produrre un’immediata attrazione, o repulsione, per un candidato in base a caratteristiche
fisiche, postura, o sfondo musicale/scenografico; la tendenza a evitare la chiarezza su
questioni che potrebbero allontanare alcuni votanti, il che conduce a una generica
sollecitazione alla fiducia nella capacità del candidato a trovare soluzioni ai problemi che
colpiscono la popolazione (Paniagua, 2005; Hollilhan, 2008, pp. 75-99).
Ma forse il meccanismo più fondamentale che lega politica mediatica e
personalizzazione della politica è quella che Popkin (1994) individua come «bassa
razionalità di informazione» nel comportamento degli elettori. Mostra che i votanti
tendono a essere degli «avari cognitivi» che si sentono a disagio nel maneggiare questioni
politiche complesse e di conseguenza basano le proprie decisioni di voto sulle esperienze
della vita di tutti i giorni, comprese le informazioni ottenute dai media e i giudizi tratti
dall’interazione quotidiana con il proprio ambiente. Etichetta questo processo la «la
ricerca a tentoni dell’ubriacone», che si rifugia nelle vie più agevoli per l’acquisizione
d’informazione. La via più facile per acquisire informazioni su un candidato consiste nel
formarsi un giudizio basato sull’aspetto e sui tratti di personalità, in particolare in termini
di affidabilità, la qualità suprema che è apprezzata in un aspirante leader, in quanto
l’elezione è in ultima analisi una delega di potere da parte dei cittadini a una specifica
persona (Keller, 1987). Dall’altra parte, l’immagine del candidato deve anche trasmettere
potenziale di leadership, in quanto la gente non si fida della propria capacità di guida. I
votanti cercano qualcuno come loro, ma con una capacità superiore che sappia guidarli. In
pratica, essi procedono attraverso due fasi: prima, valutano la sincerità e le qualità umane
del candidato; secondo, esaminano la sua fermezza, competenza ed efficienza (Kendall e
Paine, 1995). Hollihan (2004, p. 94) cita la ricerca di Tannenbaum et al. (1962), da cui
emerge che quando a qualcuno si chiede quali siano le qualità più importanti di un
candidato, le tre caratteristiche più citate sono sincerità, intelligenza e indipendenza. Come
a dire: una persona a cui possa dar credito alla sua capacità di guidare il mio paese e me13.
In che modo le immagini personali incidono sul processo decisionale dell’elettore?
Hollihan (2001, pp. 85-99), sintetizzando le ricerche sulla questione, sottolinea il ruolo
delle emozioni, un rilievo che si connette direttamente all’analisi che ho presentato nel
capitolo 3. La valutazione emozionale positiva è trainata dalla sintonia tra candidati e
votanti. La capacità di un candidato di relazionarsi con gli elettori è fondamentale, e
spesso porta a racconti biografici che ne sottolineano le umili origini o, in mancanza di
questo, un comportamento alla mano, come nel caso di George W. Bush, la cui immagine
fu trasformata dai consulenti da quella di rampollo viziato in quella del goffo rancher
texano che scherza sulle proprie scarse capacità di lettura. In effetti, la ricostruzione
dell’immagine di George W. Bush da imboscato, alcolista, drogato al riabilitato cristiano
rinato che segue la guida di Dio e porta il paese alla «missione compiuta» è un esempio
magistrale di spinning. Questo esempio mostra che le personalità politiche di successo
sono più spesso create che scoperte. Evidentemente, però, i creatori di immagine hanno
bisogno di disporre in partenza di un buon materiale umano. La loro arte consiste nel
lavorare sul materiale a disposizione e adattare ciò che il candidato (scelto per il suo
denaro o per le connessioni che ha nel partito) ha da offrire. Così, la personalizzazione non
è tanto basarsi su quanto il candidato sia piacevole di aspetto o di pronto eloquio (anche se
importante, questo non è decisivo), ma su quanto sia in grado di relazionarsi con gli
elettori.
Anche nei paesi in cui la politica partitica ha una maggiore influenza, la
personalizzazione della politica non è irrilevante. Semplicemente modifica il meccanismo
di selezione. Così, Nicolas Sarkozy non ha avuto il sostegno della coalizione conservatrice
in Francia, e ha incontrato l’ostilità del «suo» presidente Jacques Chirac. Ma la sua
immagine pubblica, e l’efficacia della sua campagna mentre era ministro degli Interni
(basata su una posizione anti-immigrazione, tutta legge e ordine), ha suscitato un tale
livello di popolarità che il suo partito e, successivamente, la più ampia coalizione di cui
faceva parte, si sono affidati sul suo carisma per riportare la vittoria sulla candidata
socialista, Ségolène Royal, nelle elezioni presidenziali del 2007. I loro calcoli si sono
rivelati corretti.
In Spagna nei tardi anni Settanta, all’alba della democrazia, il Partito Socialista cercò
di presentarsi come un efficace partito di governo contando sull’entusiasmo degli spagnoli
per la ritrovata libertà politica, e attizzando la paura del colpo di coda dei fascisti (in effetti
un tentato golpe nel 1981 ebbe quasi successo). Gli strateghi del partito decisero di
puntare sulla personalità del loro giovane leader, Felipe González, un avvocato del lavoro
di Siviglia, che era carismatico, intelligente, piacente, pragmatico e un brillante
comunicatore. In breve, González era un leader naturale. Nonostante tutte queste qualità,
le prime elezioni democratiche nel 1979 videro il trionfo del Partito Centrista (UDC), che
contava anch’esso su un leader giovane e determinato, Adolfo Suárez, che era fuoriuscito
dal Partito Franchista per guidare la transizione dalla dittatura alla democrazia. I socialisti
comunque non si lasciarono scoraggiare. Si diedero da fare per migliorare l’immagine del
loro leader, dedicandosi contemporaneamente a distruggere con metodo l’immagine del
rispettato primo ministro Suárez, soprannominato «il giocatore del Mississippi»
(alludendo all’immagine dei sinistri personaggi nei popolari film western) in riferimento a
i presunti sporchi trucchi da lui eseguiti al governo. La campagna negativa funzionò e,
combinata con le pressioni provenienti dai settori di destra del partito di governo, portò
alle dimissioni di Suárez all’inizio del 1981.
Nel 1982, Felipe González portò i socialisti al più trascinante trionfo elettorale della
storia spagnola. L’intera campagna fu impostata intorno a lui. Era una grande deviazione
rispetto alla storia del partito, poiché il prevalere della macchina partitica aveva
caratterizzato i socialisti nel corso di tutto il lungo viaggio iniziato negli anni Ottanta
dell’Ottocento. Gli stessi strateghi che avevano portato González alla vittoria erano
preoccupati per la loro scelta. Sapevano che stavano consegnando il controllo del governo,
e dello stesso partito, al leader. Erano perfettamente consapevoli dei pericoli nascosti in
una simile mossa, tanto in termini di democrazia di partito quanto in termini di
vulnerabilità elettorale, in caso di caduta del leader. Percepivano però acutamente la
trasformazione della politica democratica in politica di immagine, e così continuarono a
coltivare l’immagine del leader, ora sostenuta dal rigido controllo delle reti televisive
nazionali e dall’opera di un dipartimento dell’immagine altamente professionale istituito
presso l’ufficio del primo ministro: elemento nuovo nella politica spagnola. Funzionò, più
e più volte, visto che i socialisti furono rieletti tre volte e rimasero al potere per i
successivi tredici anni, nonostante i continui attacchi dell’opposizione e di una parte dei
media (vedi sotto).
Licenza di uccidere: la politica dell’aggressione
La personalizzazione della politica ha conseguenze straordinarie per la tattica elettorale.
Se le probabilità di riuscita di una opzione politica dipendono dalle qualità percepite di
una persona, una campagna efficace deve esaltare le qualità del candidato gettando al
tempo stesso un’ombra sull’avversario. Inoltre, le immagini negative hanno sul
comportamento di voto un effetto più potente di quelle positive, come ho documentato e
analizzato nel capitolo 3 e in questo capitolo. Il killeraggio politico è dunque l’arma più
potente nella politica mediatica. Questo può realizzarsi in vari modi: mettendo in dubbio
l’integrità del candidato stesso, nella vita pubblica e in quella privata; ricordando agli
elettori, in modo esplicito o subliminale, gli stereotipi negativi associati alla personalità
del candidato (per esempio essere nero o musulmano in America o nel Regno Unito);
distorcendo le dichiarazioni o le posizioni politiche dei candidati in modo tale da farle
apparire in conflitto con valori fondamentali dell’elettorato; denunciando malefatte, o
dichiarazioni controverse di persone o organizzazioni legate al candidato; o rivelando
corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti o nelle organizzazioni che
appoggiano una candidatura. In tutti i casi, l’obiettivo è quello di sollevare dubbi tra i
potenziali sostenitori del candidato e mobilitare gli elettori dell’opposizione. A causa
dell’efficacia della costruzione di immagini negative, si è avuta una diffusa tendenza in
tutto il mondo all’uso di informazioni distruttive come tattica predominante delle
campagne politiche. Le informazioni lesive si possono reperire, fabbricare, o distorcere
intorno a un fatto isolato dal suo contesto. Così, una componente chiave di ogni campagna
politica è la pratica che negli Stati Uniti ha preso il nome di opposition research.
Stephen Marks, un consulente dei repubblicani, abbracciò con calore la ricerca
sull’opposizione come specializzazione professionale per oltre dodici anni (1993-2006).
Passava il tempo, secondo le sue parole, a «scavare nel fango» per distruggere le
opportunità elettorali degli avversari dei suoi clienti – di solito candidati democratici, ma
anche altri repubblicani alle primarie. Colpito da una certa stanchezza personale e morale,
ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un notevole libro intitolato
Confessions of a Political Hitman: My Secret Life of Scandal, Corruption, Hypocrisy and
Dirty Attacks That Decide Who Gets Elected (and Who Doesn’t) («Confessioni di un killer
politico: la mia vita segreta di scandali, corruzione, ipocrisia e sporchi attacchi che
decidono chi è eletto (e chi no)»; Marks, 2007). Marks non chiede scusa. Ritiene che
portare alla luce la vera natura dei politici è praticamente un servizio pubblico. E non ci
sono neppure illegalità – almeno non tra gli episodi riportati nel suo libro. La sua
testimonianza, per quanto autoassolutoria, apre una rara finestra sul mondo dei rat-
fuckers, il nome che fieramente si diedero gli operativi dell’affare Watergate. Il compito è
relativamente semplice. Richiede di identificare, con i sondaggi e con il parere di
consulenti politici, tutti i punti dannosi per un dato candidato in una data elezione. La
specificità è essen.ziale. Poi ha inizio la ricerca, usando documenti d’archivio come liste
elettorali, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici corredati di materiale esplicativo,
investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni dei redditi, proprietà, fonti delle
donazioni elettorali, e simili. In alcuni casi di ricerca sull’opposizione (non rivelati nel
libro di Marks ma presentati in altri resoconti), lo scavo tra le informazioni personali,
come le documentazioni delle carte di credito, i tabulati telefonici, le destinazioni e le
spese di viaggio, producono una massa di particolari che aiutano a ricostruire la vita
privata e pubblica del politico preso di mira (Hollihan, 2008). Poiché nessuno è perfetto, e
poiché la politica professionale impone frequenti compromessi morali per mandare avanti
le cose, una attenta ricerca raramente lascia a mani vuote. Questa evenienza è ancora più
rara se la ricerca si estende all’organizzazione politica madre, che si tratti del partito, di
stretti alleati o della campagna stessa. Le informazioni raccolte vengono quindi elaborate
alla luce di ciò che sarebbe più controproducente secondo i sondaggi, e vengono infine
trasformate in messaggi ai media, o come spot pubblicitario lesivo o come informazione
lasciata trapelare a giornalisti ben collocati, con tanto di prove visive a corredo quando
possibile.
Considerando l’efficacia degli attacchi negativi, i politici o i partiti devono essere pronti
a rispondere, anche se non vorrebbero, perché come diceva Truman e come Hillary
Clinton ha ripetuto all’infinito nella sua campagna per le primarie 2008, «Se non sopporti
il caldo, non stare in cucina». Quindi ogni campagna deve accumulare munizioni di
rappresaglia nel caso si rendessero necessarie, spesso come deterrente per l’avversario.
Non molto diversa dalla ricerca sull’opposizione è la «valutazione di vulnerabilità», ossia
una ricerca di informazioni sul candidato della propria parte per scoprire potenziali
problemi nella sua vita e nel suo comportamento prima che possa tirarli fuori l’avversario.
In realtà, i consulenti politici abitualmente includono queste competenze nei loro servizi (e
nei loro emolumenti). A metà strada tra attività di detective, ricatto legale, e marketing
politico, la professione è diventata sempre più popolare e ricercata, prima in America e poi
in giro per il mondo, con alcuni professionisti che sono diventate figure leggendarie. Per
esempio, di Averell «Ace» Smith – il consulente che si dice abbia gravitato per breve
tempo intorno alla campagna per le primarie 2008 di Hillary Clinton al modico costo di
$140.000 – un collega consulente democratico, che lavorava nello staff di Clinton alla
Casa Bianca, diceva che era «uno di quei tizi pelati e occhialuti che non mi piacerebbe
incontrare in un vicolo buio» (Abcarian, 2008, appendice 14).
Tuttavia, una campagna negativa ha i suoi costi, in quanto può produrre un effetto
boomerang tra elettori che non necessariamente amano il gioco sporco, nonostante il
fascino che può esercitare il lato oscuro delle celebrità. Occorre che esista un fine
equilibrio tra la negatività verso l’avversario e la correttezza da parte del candidato. È per
questo che la via più efficace alla distruzione dell’immagine consiste nel provocare una
fuga di notizie verso i media rimanendo al di fuori della mischia, mentre l’avversario
viene tempestato da rispettabili giornalisti trasformatisi di punto in bianco in paparazzi da
tabloid. È per questo che, nonostante le loro capacità, i signori e signore della black
propaganda non sono in grado di spuntare grosse vittorie senza un aiutino: quello dei
media, sempre pronti a diffondere succulente informazioni per mettere a terra qualche
personaggio politico; l’aiuto delle stesse organizzazioni politiche, che forniscono gran
parte del materiale e spesso passano informazioni per eliminare la competizione
all’interno del loro stesso partito; e l’aiuto di un oscuro esercito di trafficanti di
informazioni che riforniscono entrambi i campi di munizioni, in modo da prosperare
personalmente nei killing fields della politica mediatica.
La politica dello scandalo
Gli scandali sono lotte per il potere simbolico in cui sono in gioco reputazione e
fiducia.
(Thompson, 2000, p. 245)
Pechino, 1723. L’imperatore Yongzheng, quarto figlio dell’imperatore Kangxi, è appena
assurto al potere, secondo la volontà del padre. Ma era davvero la volontà del padre? No,
diceva una voce che circolava ai quattro angoli dell’impero. In realtà, dice la storia,
l’imperatore preferiva il suo quattordicesimo giglio. Ma un alto funzionario della corte
aveva aiutato Yongzheng ad alterare il testamento dell’imperatore morente. Benché mai
provate, queste accuse gettarono un’ombra sul regno di Yonghzeng, peraltro pieno di
successi, che durò fino al 1735. I dubbi sulla sua legittimità turbavano particolarmente
molti cinesi perché gli imperatori Qing e la loro corte non erano cinesi Han ma venivano
dalla Manciuria. I ribelli antimanciuriani trovarono appoggio alla loro causa rivoltandosi
contro un Figlio del Cielo che poteva essersi insediato grazie alle diaboliche cospirazioni
che popolavano la tenebrosa corte Manciù. La voce si diffuse presso i regni vassalli
dell’impero, tra cui la Corea, alimentando il risentimento popolare e macchiando l’eredità
dell’imperatore riformista Yongzheng nella mente dei sudditi. Nessuno conosce l’origine
della diceria, essendo probabile che gli eventuali testimoni della presunta frode e gli
indiscreti propagatori del pettegolezzo avessero fatto una brutta fine. Eppure, la vicenda
seguì Yongzheng fin nella tomba arrivando fino alle contemporanee soap opera storiche
cinesi, il formato grazie al quale la storia vive nella mente del pubblico (Chen, 2004).
Parigi, 1847. Segmenti delle classi benestanti escluse dalla rappresentanza da un
sistema politico oligarchico attaccano la monarchia istituita dalla rivoluzione del 1830 a
favore di Luigi Filippo d’Orléans con richieste di democratizzazione e riforme. François
Guizot, brillante accademico-politico che fu il cervello del governo per tutto il regime,
deteneva allora la carica di primo ministro. Resistette alle pressioni, convinto che la
democrazia dovesse essere ristretta a una scelta élite guidata dai «notabili», i politici della
monarchia. Guizot aveva già coniato la celebre frase con cui incoraggiava i francesi ad
arricchirsi, come principio guida per il paese (esempio che sarebbe stato ripreso
centocinquanta anni dopo da Deng Xiaoping all’inizio del capitalismo nella Cina
comunista). Se Guizot non indulgeva in obiettivi così banali, occupato com’era a fare la
storia e a scriverne, i suoi colleghi della classe politica procedevano con zelo a metter in
pratica il suo invito. Si batterono fieramente tra loro per appropriarsi della ricchezza
generata dall’incipiente processo di industrializzazione e dall’espansione del commercio
internazionale nella Francia protocapitalista. L’accesso ai posti ministeriali era la chiave
per l’accumulazione primitiva di risorse personali.
Per battere gli avversari, usavano la stampa che avevano creato e finanziato per formare
e controllare l’opinione delle classi istruite, escluse dal potere politico ma sempre più
influenti nella società. Nel 1845 in Francia c’erano 245 quotidiani, molti dei quali assai
fruttuosi, come Le Journal des débats, segretamente foraggiato dal Ministero delle
Finanze per manipolare il mercato azionario a beneficio degli amici del ministro. Gran
parte degli articoli di stampa riguardavano questioni politiche, con Guizot come bersaglio
preferito delle critiche. Guizot era indifferente a queste allusioni e non senza una certa
soddisfazione assisteva alla scena della folla scomposta dei suoi colleghi che si facevano a
pezzi a vicenda nei titoli dei giornali denunciando scandali politici, perché così non
avrebbero potuto coalizzarsi e mettere in piedi una cospirazione contro il re o contro di lui.
Nel 1847, però, la politica dello scandalo andò troppo in là. Un giornale dell’opposizione,
La Presse, denunciò la diffusa corruzione, e persino le pratiche criminali, tra i circoli più
elevati del regime, tra cui speculazioni finanziarie, omicidi, corruzione, e la
compravendita di titoli nobiliari (una pratica, quest’ultima, rein-ventata da Tony Blair
all’inizio del XXI secolo). Le fughe di notizie fatte trapelare alla stampa, tese a colpire i
concorrenti tra i notabili, ebbero l’effetto di gettare il discredito sull’intera classe
aristocratica (una società che Balzac racconta in modo mirabile in Splendori e miserie
delle cortigiane). Gli scandali acuirono l’ostilità della piccola borghesia politicamente
emarginata, a cui appartenevano i più avidi lettori della nascente stampa. Qualche mese
dopo, la rivoluzione del 1948 era in pieno corso, mettendo fine per sempre alla monarchia
in Francia e mandando Guizot in un confortevole esilio intellettuale a Londra (Jardin e
Tudesq, 1973; Winock, 2004).
Con questo si vuol dire che ben prima dell’avvento della società in rete la politica
scandalistica era già un elemento fondamentale nel determinare le relazioni di potere e il
mutamento istituzionale. Anzi, dovunque si posi il nostro sguardo nella storia delle società
del mondo, vediamo che la politica degli scandali come forma della lotta di potere è più
radicata e tipica che non la conduzione di una ordinata competizione politica svolta
secondo i dettami delle regole dello stato. Eppure, se è vero che non c’è niente di nuovo
sotto il sole, è anche vero che processi formalmente simili assumono nuove forme e nuovi
significati con la trasformazione dei contesti culturali, politici e comunicazionali. La
specificità della politica scandalistica nella società in rete, e la sua centralità nella
politica mediatica, è l’oggetto di questa sezione.
Iniziamo con la Francia del tardo XX secolo in sequenza storica con la vicenda che ho
presentato. Chalaby (2004) si concentra sul ruolo dei giudici e dei media nel riportare gli
scandali in Francia, in una relazione simbiotica che è stata notata spesso anche in altri
paesi (Ramírez, 2000; De Moraes, 2005; Bosetti, 2007; Heywood, 2007). A prescindere da
chi abbia scoperto per primo un illecito, tra giornalisti e giudici, essi si sostengono a
vicenda nelle loro iniziative al punto che, una volta che lo scandalo abbia avuto risonanza
presso il pubblico, i media tendono a elevare i giudici al ruolo di difensori della legge
contro la volontà contraria dei politici, in un frame di difensori della moralità contro
l’impunità dei potenti che trova consonanza nella mente della gente comune. Chalaby
(2004) fa risalire l’origine del giornalismo scandalistico nella Francia contemporanea alla
rivelazione, nell’ottobre del 1979, del settimanale satirico Le Canard enchaîné sui
diamanti donati dal generale Bokassa, autoproclamato imperatore dell’Impero
Centrafricano, al presidente Giscard d’Estaing. Nonostante le pressioni governative, Le
Monde e altre pubblicazioni raccolsero la notizia, assestando così un duro colpo a un
leader politico che aveva basato la propria carriera sull’onestà e l’efficienza nella gestione
delle finanze del paese. Da lì in avanti, i media francesi crearono diverse unità di inchiesta
investigativa che, nonostante le restrizioni economiche e legali di cui soffrivano,
riuscirono nel corso degli anni a scoprire numerosi casi di corruzione, tra cui l’affare
Dumas/Elf che coinvolgeva il ministro degli Esteri e la sua amante, infliggendo un potente
colpo all’amministrazione del presidente Mitterrand nell’ultimo periodo dei quattordici
anni della sua presidenza, e le accuse di corruzione al suo successore, il presidente Chirac,
relative al suo mandato come di sindaco di Parigi.

FIG. 4.3. La crescente vulnerabilità agli scandali dei politici francesi.


Fonte: Sondaggi TNS Sofres compilati da Adut (2004, p. 542).

Ari Adut (2004) illustra l’ascesa della politica dello scandalo in Francia negli anni
Novanta nel contesto di un calo di credibilità dei politici e della crescente sensazione che
le differenze ideologiche non contano in politica (vedi figura 4.3). Adut riporta centinaia
di casi di politici indagati tra il 1992 e il 2001 (vedi tabella 4.1) per il proprio
coinvolgimento in casi di corruzione politica. Mette in evidenza il ruolo dei magistrati nel
perseguire la corruzione politica come espressione dell’indipendenza del potere
giudiziario rispetto a quello politico, con magistrati che si fanno carico di imporre il
rispetto delle norme dell’interesse pubblico che sono fondamentali nella cultura francese,
ma che vengono spesso ignorate dalla classe politica. Dire che questa serie di scandali e di
indagini abbiano avuto un impatto negativo sulla fiducia dei cittadini nel governo sarebbe
davvero poco. La figura 4.3 fornisce un quadro delle opinioni dei francesi sui detentori di
carica elettive tra il 1977 e il 2001, secondo la documentazione dei sondaggi TNS Sofres
compilata da Adut (2004, p. 542).
TAB. 4.1. Risultati delle inchieste sulla corruzione in Francia negli anni Novanta

Politici di alto livello (1992-2000) Politici di massimo livello (1992-2001)


Numero politici investigati 346 53
Sotto inchiesta nel 2004 90 12
Inchiesta conclusa 256 41
Prosciolti in fase d’inchiesta 40 (16%) 12 (29%)
Incriminazioni 216 (84%) 29 (71%)
In attesa di giudizio 18 (7%) 5 (12%)
Assoluzione 43 (17%) 8 (20%)
Multe 20 (8%) 2 (5%)
Sentenze sospese 40 (16%) 6 (15%)
Sentenza di ineleggibilità con o senza – 5 (12%)
pena sospesa 73 (28%) –
Sentenza di prigione 22 (9%) 3 (6%)

Note: I numeri tra parentesi specificano la percentuale delle inchieste conclusesi con esiti legali entro la fine del
periodo specificato.
Adut (2004) definisce «politici di alto livello» i deputati dell’Assemblea Nazionale, i senatori e i sindaci. I «politici di
massimo livello» comprendono i politici nazionali; primi ministri, ministri, presidenti dell’Assemblea Nazionale e del
Consiglio Costituzionale e i segretari generali dei partiti politici – in carica o ex.
Fonte: Adut (2004, p. 564).

Negli Stati Uniti, lo scandalo Watergate aprì la strada a una nuova epoca nel giornalismo
investigativo con conseguenze dirette per la pratica della politica e il processo di
governance (Markovits e Silverstein, 1988; Ginsberg e Shefter, 1999; Liebes e Blum-
Kulka, 2004). Uno degli effetti più duraturi del Watergate è stata l’approvazione al
Congresso dell’Ethics of Government Act del 1978, che ha contribuito alla
regolamentazione della vita politica fissando procedure per indagare su pratiche
potenzialmente illegali da parte dell’esecutivo. Questo si è tradotto in una lunga serie di
indagini nei decenni successivi ed è diventato lo strumento di prima scelta con cui gli
avversari politici hanno potuto mettere in discussione la legittimità di un governo e, in
alcuni casi, bloccarne l’attività (Schudson, 2004). Inoltre, il Watergate ha offerto un
modello di giornalismo investigativo che è diventato lo standard di eccellenza negli USA e
in tutto il mondo, con aspiranti «gole profonde» e intraprendenti reporter che facevano
causa comune nella loro crociata dei giusti, raccogliendo così i benefici del loro potere
sopra i potenti. Dall’altra parte, i politici USA risposero intimidendo i potenziali
informatori e la stampa con la presentazione nel 2000 di una proposta di legge che doveva
punire con il carcere la divulgazione e la pubblicazione di informazioni riservate (definite
in termini molto ampi). Solo uno sforzo all’ultimo minuto delle lobby mediatiche spinse il
presidente Clinton a porre il veto sul progetto, nonostante l’appoggio che aveva dato in
origine alla proposta (Nelson, 2003).
Poiché la politica dello scandalo è l’arma preferita del partito di opposizione, negli anni
Novanta Bill e Hillary Clinton furono sottoposti a un fuoco ininterrotto di accuse e
indagini da parte repubblicana – alcune delle quali con gravi conseguenze, altre rigettate
in corso d’inchiesta. Clinton fu infine sottoposto alla procedura di impeachment alla
Camera dei Rappresentanti, quindi salvato da un Senato evidentemente influenzato dalle
minacce avanzate dagli uomini del presidente di rivelare alcuni degli scandali riguardanti
gli stessi senatori (Marks, 2007, pp. 216-249). Durante l’amministrazione Bush fu la volta
dei democratici di esporre una serie di azioni lesive compiute dall’amministrazione
presidenziale e da diversi leader repubblicani di punta, come è documentato nella tabella
A4.1 in Appendice. Così, si può dire che la politica americana nell’ultimo ventennio è
stata in larga misura dominata da rapporti e controrapporti su scandali e informazioni
dannose, aventi come obiettivo diretto specifici leader politici o i loro incaricati (per
esempio, Scooter Libby come uomo di Karl Rove e Dick Cheney). Le battaglie politiche
sono state in gran parte condotte per mezzo della politica scandalistica (Sabato et al.,
2000).
La prevalenza e l’importanza della politica scandalistica negli ultimi anni è stata
documentata e analizzata, su linee analoghe a queste, anche per Regno Unito, Germania,
Italia, Spagna, Argentina, Cina, India, e per una lista interminabile di paesi in tutto il
mondo (Arlachi, 1995; Rose-Ackerman, 1999; Thompson, 2000; Anderson e Tverdova,
2003; Esser e Hartung, 2004; Jimenez, 2004; Tumber, 2004; Tumber e Waisbord, 2004b;
Waisbord 2004b; Chang e Chu, 2006). Anziché appesantire questo capitolo con un esame
dettagliato di tutta questa documentazione, rimando all’estesa (ma non esaustiva) lista
degli scandali politici in tempi recenti elaborata da Amelia Arsenault e presentata nella
tabella A4.2 in Appendice. Inoltre, Transparency International (accessibile online)
contiene gli episodi resi pubblici di corruzione, compresa la corruzione politica,
riguardanti paesi di tutto il mondo: dimostrazione sia dell’universalità dell’occorrenza sia
della variazione della sua intensità a seconda delle culture e delle istituzioni. Le
democrazie più avanzate non sfuggono a questa regola generale della politica scandalistica
come pratica politica standard. La tabella A4.3 mostra la portata della politica degli
scandali e l’importanza dei suoi effetti politici nei paesi del G8, il club esclusivo che tiene
il timone del mondo.
Perché la politica dello scandalo è così diffusa? Da dove viene? È diversa rispetto al
passato nella sua frequenza e negli effetti che ha sulla vita politica? E perché? Esaminerò
questi punti cardine sulla base delle prove limitate disponibili grazie alla ricerca
accademica. La politica scandalistica non è la stessa cosa della corruzione politica
(Thompson, 2000). La corruzione politica, intesa come la vendita illegale di servizi da
parte di politici e funzionari in cambio di benefici per se stessi o per il partito (o per
entrambi) è un carattere standard dei sistemi politici nel corso della storia (King, 1989;
Allen, 1991; Bouissou, 1991; Fackler e Lin, 1995; Rose-Ackerman, 1999). Gli scandali
politici includono anche altri presunti abusi, come attività sessuali illecite, rispetto alle
norme di una data società. La distribuzione degli scandali tra diverse categorie di
comportamento varia da un paese all’altro. Per esempio, in una prospettiva storica, la
proporzione tra scandali illegali e non illegali in Francia e negli Stati Uniti è grosso modo
equivalente, mentre il sesso e lo spionaggio sono più prevalenti della corruzione
finanziaria nel Regno Unito (Barker, 1992). I dati storici compilati nel volume del
Longman International Reference, Political Scandals and Causes Célèbres since 1945 da
Louis Allen (1991), e il Global Corruption Barometer Survey di Transparency
International gestito dalla Gallup International Association dal 2003, non mostrano un
trend coerente in termini di frequenza e intensità di scandalo e corruzione. Variano per
paese e per periodo, a seconda delle congiunture politiche e delle capacità di
comunicazione dei media. La maggior parte degli analisti, tuttavia, sembra convenire che
l’uso degli scandali in politica sia in crescita (Thomson, 2000; Halaby, 2004; Jimenez,
2004; Tumber, 2004; Tumber e Waisbord, 2004a, b; Chang e Chou, 2006). In effetti si
direbbe lo strumento di prima scelta nella contesa politica. Così, Ginsberg e Shefter
(1999), analizzando le tendenze politiche negli Stati Uniti, scrivono:

In anni recenti le elezioni sono diventate meno decisive quale meccanismo per la
risoluzione dei conflitti e la formazione di governi negli Stati Uniti… Anziché
impegnarsi in una competizione a tutto campo per i voti, le forze politiche in
competizione sono arrivate a basarsi su armi di combattimento istituzionale quali le
inchieste congressuali, le rivelazioni dei media e i procedimenti giudiziari per
sconfiggere gli avversari. Nell’America contemporanea, il successo elettorale spesso
non conferisce la capacità di governare, e le forze politiche continuano a esercitare un
considerevole potere anche se perdono nelle urne, e perfino se non competono
nell’arena elettorale (1999, p. 16).
Diverse tendenze concorrono a porre gli scandali nel bel mezzo della vita politica in tanti
paesi in tutto il mondo: la trasformazione dei media; la trasformazione della politica; e la
specificità della politica mediatica.
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale
Riguardo ai media, l’infotainment predilige le storie di scandali, considerate materiale di
prim’ordine per attirare il pubblico. Questo è diventato particolarmente significativo con
l’avvento del ciclo di notizie sulle ventiquattr’ore, con continue «breaking news» per
alimentare la fame di avvenimenti sensazionali e insoliti (Fallowz, 1996; Sabato et al.,
2000). Poiché ormai tutti i maggiori organi mediatici sono in rete, il ciclo perpetuo delle
notizie non è limitato ai network di informazione televisivi o radiofonici: l’informazione
viene costantemente aggiornata sui siti web di quotidiani e riviste. Inoltre, Boczkowski
(2007) ha mostrato il processo di imitazione che caratterizza i titoli sui siti web dei media:
appena una storia appare da un sito web, viene immediatamente ripresa, riformattata e
discussa da tutti gli altri.
La comunicazione basata su Internet contribuisce in maniera potente all’affermarsi della
politica scandalistica, principalmente in due modi (Howard, 2003; McNair, 2006). Primo,
apre la comunicazione di massa ad accuse e denunce di svariata origine, scavalcando così
la funzione di gatekeeping dei media mainstream. L’esempio più noto è l’ondata di ansia
che percorse i media mainstream quando una newsletter su Internet (il Drudge Report)
diede la notizia che il presidente Clinton aveva avuto una relazione con Monica Lewinsky,
una stagista della Casa Bianca (Williams e Delli Carpini, 2004). La capacità di accedere
direttamente alle piattaforme di comunicazione di massa alimenta un vasto oceano di voci
e teorie del complotto. Apre anche alla possibilità per chiunque di esporre il
comportamento scorretto o illegale dei politici, spesso con il supporto audiovisivo di
YouTube o altre piattaforme. Per i leader politici non c’è più alcuna privacy. Il loro
comportamento è costantemente vulnerabile a essere esposto grazie a piccoli dispositivi di
registrazione digitale, come i cellulari, e messo immediatamente su Internet.
Secondo, qualsiasi notizia, rilasciata sotto qualsiasi forma da qualsiasi fonte, può essere
diffusa all’istante in maniera virale su Internet (McNair, 2006). Inoltre, i commenti dei
blogger e del pubblico in generale alimentano immediatamente le polemiche, portando
una condotta reprensibile al centro dell’agorà elettronica, sottoponendola a un dibattito
pubblico aperto e scatenando così le «guerre dei blog» (Perlmutter, 2008). In effetti, sono
sempre più numerosi i blogger che lavorano come consulenti politici, ora che la blogosfera
è diventata uno spazio comunicativo fondamentale in cui le immagini pubbliche vengono
fatte e rifatte (The Economist, 2008). Il gossip digitale in rete costituisce un amplificatore
di proporzioni gigantesche, che accende la miccia delle accuse scandalistiche nel giro di
qualche ora.
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica
La centralità degli scandali è anche una funzione della trasformazione della politica.
Tumber (2004) vede nell’indebolimento dell’identificazione partitica e nel declino del
partitismo l’origine dell’affermarsi della politica scandalistica, con una corrispondente
ascesa di una «cultura del promozionalismo» in cui politici, governi e aziende
promuovono i propri interessi al di sopra degli interessi della collettività (Tumber, 2004, p.
122). Gli analisti sottolineano il fatto che la competizione politica è contrassegnata dalla
lotta per occupare il centro dello spettro politico dell’elettorato in termini di messaggio
percepito, mettendo in secondo piano i contrasti ideologici: partiti e candidati, una volta
che si siano assicurato l’appoggio del nocciolo duro dei sostenitori, si danno da fare per
adottare temi e posizioni dell’avversario mirando a sottrargli potenziali votanti. Ne segue
la tendenza dei cittadini a basarsi più sulle caratteristiche personali dei leader e sull’onestà
dei loro partiti che sui loro programmi e dichiarazioni (Edwards e Dan, 1999). Così,
politici coinvolti in uno scandalo rappresentano buon materiale giornalistico perché questi
scandali minano la loro idoneità a ricevere la delega del potere da parte dei cittadini
(Thompson, 2000; Chalaby, 2004; Tumber e Waisbord, 2004a, b).
Esiste anche un certo numero di fattori che incide sulla crescente vulnerabilità agli
scandali che mostra il sistema politico. Alcuni di questi fattori sono legati a trend
strutturali insiti nella relazione tra globalizzazione e stato che incide sulla moralità della
politica. Così, qualche tempo fa, Guéhenno (1993) proponeva un’ipotesi interessante: dati
i limiti al potere degli stati nazionali imposti dalla globalizzazione, e considerato
l’offuscarsi dell’impegno ideologico, le ricompense del ricoprire una carica non sono più
distinte da quelle offerte nel resto della società: i soldi, che di solito significa soldi ricevuti
al di fuori dei canali ufficiali di retribuzione.
Inoltre, in un numero crescente di paesi, l’economia criminale globale è penetrata in
profondità nelle istituzioni dello stato, offrendo così la possibilità di svelare le connessioni
criminose del sistema politico, frequente fonte di scandali politici in America Latina o nel
Sudest asiatico, ma anche in altri paesi, come il Giappone, l’Italia e la Russia (Castells,
2000c; Campbell, 2008; Glenny, 2008). Il finanziamento illecito dei partiti politici diventa
una fonte di corruzione, accrescendo così le probabilità che informazioni dannose siano
usate dagli avversari (Ansolabehere et al., 2001). Poiché tutti i partiti partecipano a questa
pratica, dispongono tutti di servizi di intelligence e di eserciti di intermediari che
trafficano in minacce e controminacce, creando un mondo politico caratterizzato dalla
possibilità di mutua distruzione assicurata. Secondo questa logica politica, una volta
creatosi il mercato del materiale pericoloso, se non c’è materiale inequivocabilmente
scandaloso, si può sempre ricorrere alle insinuazioni e alle invenzioni. Anzi, la strategia
nella politica scandalistica non mira necessariamente al colpo decisivo inferto con un
singolo scandalo. Piuttosto, un flusso continuo di scandali di genere diverso, e con diversi
livelli di verificabilità, tessono le fila con cui le ambizioni politiche vengono realizzate o
minacciate dalla formazione delle immagini nella mente dei cittadini.
Politica scandalistica e politica mediatica
La politica scandalistica non è separabile dalla politica mediatica. Primo, perché è tramite
i media (compresi, ovviamente, i mezzi di autocomunicazione di massa) che gli scandali
vengono divulgati e diffusi nella società in senso lato. Ma, cosa più importante, non è
separabile perché le caratteristiche della politica mediatica fanno dell’uso degli scandali lo
strumento più efficace nelle contese politiche. Questo in primo luogo perché la politica
mediatica è strutturata sulla personalizzazione della politica, come risulta dall’analisi
presentata sopra. Poiché i messaggi più efficaci sono quelli negativi, e poiché il killeraggio
politico è la forma più netta di negatività, la distruzione di un leader politico attuata
facendo trapelare, inventando, formattando e propagando un comportamento scandaloso
che possa essergli (o esserle) attribuito, personalmente o per associazione, è il fine ultimo
della politica scandalistica. È per questo che tattiche come la «ricerca sull’opposizione»
che ho descritto in precedenza sono basate sul ritrovamento di informazioni incriminanti
che potrebbero essere usate per stroncare il richiamo popolare di un politico o di un
partito. La pratica della politica scandalistica rappresenta il livello più alto di esecuzione
nella strategia dell’introduzione di un effetto «affetto negativo». Poiché la politica
mediatica è la politica dell’Età dell’Informazione, la politica scandalistica è lo strumento
di prima scelta per impegnarsi nelle lotte politiche del nostro tempo. Tuttavia, gli scandali
sono sempre efficaci quanto vorrebbero i loro promotori? Le prove in proposito non sono
conclusive, se per efficacia intendiamo la capacità di distruggere un leader politico, un
partito o un governo.
L’impatto politico della politica dello scandalo
È in corso un notevole dibattito su come e se la politica scandalistica influenzi il
comportamento politico. Alcuni ricercatori sostengono che la politica dello scandalo
danneggia più i politici che il sistema politico. Poiché i politici si presentano sul mercato
puntando su tratti di personalità quali l’onestà e l’integrità, quando vengono colti in un
comportamento biasimevole i votanti potranno anche perdere la fiducia nel singolo
colpevole, ma il loro rispetto per il sistema politico non ne viene necessariamente toccato.
Welch e Hibbing (1997), per esempio, trovano che i candidati accusati di corruzione in
relazione a questioni di moralità possono veder diminuire il loro appoggio di un buon
dieci per cento nel voto dei due partiti. Analogamente, altri studi hanno riscontrato che
l’approvazione di singoli congressisti o politici ha poco a che fare con il livello di fiducia
dei cittadini o con la loro considerazione verso le istituzioni politiche in generale (Hibbing
e Theiss-Morse, 1995). Per esempio, negli Stati Uniti degli anni Novanta, secondo diversi
sondaggi Pew, dopo una iniziale caduta nel livello di fiducia politica, lo scandalo Monica
Lewinsky non ebbe che un impatto limitato sui livelli di fiducia politica.
L’evidenza empirica suggerisce quindi che gli scandali politici influenzano i
comportamenti di voto in maniera diversa a seconda del paese e del livello della carica
politica. Negli Stati Uniti le elezioni per il Congresso e per i parlamenti statali di solito
richiamano un basso numero di lettori, che sanno poco dei nomi dei loro rappresentanti o
dei loro sfidanti. Una massa crescente di ricerche lascia pensare che, per questi politici, in
particolare durante le primarie, essere implicati in uno scandalo potrebbe anzi essere
vantaggioso (Burden, 2002). Questo vantaggio è particolarmente pronunciato per gli
sfidanti. Come per primi hanno notato Mann e Wolfinger (1980), la gente è più brava a
riconoscere il nome di un candidato che a ricordarlo spontaneamente. Questo è importante
perché votare richiede soltanto che il votante riconosca un nome su una scheda. Così, la
partecipazione a uno scandalo potrebbe essere vantaggioso a questi livelli inferiori perché
accresce la riconoscibilità di un nome, il che può tradursi in una più alta percentuale di
voti. Viceversa, per i candidati politici maggiori, gli scandali sono deleteri perché i votanti
già possiedono informazioni su di loro e sono più portati a seguire i particolari dello
scandalo.
Sondaggi Pew condotti negli Stati Uniti suggeriscono anch’essi che lo schieramento con
un partito può influenzare il modo in cui lo scandalo incide sulla fiducia politica. Gli
indipendenti mostrano di essere influenzati dagli scandali politici più dei democratici e dei
repubblicani. Gli elettori indipendenti che pensano che i loro rappresentanti abbiano
intascato bustarelle sono tendenzialmente più del doppio di quelli che non lo pensano (46
per cento contro 20 per cento) portati a dire che l’interessato dovrebbe essere mandato a
casa alle successive elezioni (Dimock, 2006). La ricerca lascia intendere anche che mentre
gli indipendenti tendono a seguire i notiziari con minore attenzione dei loro corrispettivi
che fanno riferimento ai due partiti, il loro interesse per la corruzione nel Congresso è pari
a quella dei loro corrispettivi democratici e superiore a quello dei repubblicani.
Considerando l’importanza del voto indipendente in gran parte delle elezioni USA, questo
fa capire che le notizie degli scandali possono svolgere un ruolo chiave nell’influenzare
l’esito delle elezioni. Inoltre, il 77 per cento degli indipendenti che avevano seguito
vicende di corruzione nel Congresso ritenevano che la maggior parte dei suoi membri
dovessero essere mandati a casa alle elezioni successive. In un raffronto internazionale,
Simpser (2004) ha analizzato le conseguenze politiche della percezione della corruzione
nei votanti. Usando un insieme di dati originali con una nuova misura di corruzione
elettorale per 88 paesi nel 1990-2000, Simpser ha rilevato che la corruzione elettorale e
alti margini di vittoria erano associati con una minore affluenza di votanti in un ampio
ventaglio di paesi. Quindi, gli scandali possono incidere sulla fiducia verso le elezioni, e
non solo verso i politici.
Una questione chiave è il ruolo svolto dai media nel rafforzare l’impatto degli scandali.
Certo, senza i media, non ci sono scandali. Ma le notizie degli scandali riportate dai media
producono specifici effetti politici? Negli Stati Uniti, uno studio del Project for Excellence
in Journalism e del Pew Research Center (2000) effettuato su 2400 servizi e commenti di
quotidiani, televisione e Internet sulle elezioni presidenziali del 2000, rilevava che il 76
per cento di essi si concentrava su due temi: Al Gore mente/esagera ed è macchiato da
scandali. Nonostante le accuse di uso di cocaina e di irregolarità negli affari, lo studio
rilevava che George W. Bush riscuoteva molto più successo nel far arrivare il messaggio
della sua campagna che lo presentava come un «conservatore compassionevole» e «un
repubblicano di genere diverso». Lo studio accertava anche che le raffigurazioni negative
non sembravano trovare troppa risonanza presso i votanti. Mentre presentare Gore come
persona macchiata da scandali era il frame mediatico prevalente, solo il 26 per cento degli
intervistati faceva questa associazione.
Guardando specificamente all’affare Monica Lewinsky, John Zaller (1998) esprime
analoghi dubbi sul fatto che la comunicazione politica sui media abbia svolto un ruolo
nell’influenzare il pubblico nelle sue interpretazioni dello scandalo. Spiega la permanenza
dell’appoggio pubblico per Clinton, nonostante la copertura mediatica nella stragrande
maggioranza critica, facendo riferimento a tre variabili non legate ai media: a) la pace
(l’assenza di pesanti minacce alla sicurezza degli Stati Uniti); b) la prosperità (economia
forte); e c) le posizioni politiche moderate di Clinton. Zaller (1998) sottolinea che le
ramificazioni politiche dello scandalo vennero ampiamente eclissate dal valore che aveva
come puro intrattenimento, come dramma di sesso e potere nell’Ufficio Ovale. Lawrence e
Bennett (2001), però, dissentono da Zaller. Secondo la loro analisi, mentre lo scandalo
Lewinski non ebbe un impatto negativo sull’approvazione dei votanti e i livelli di fiducia,
ebbe invece un più vasto effetto in quanto provocò una discussione pubblica sul ruolo
della condotta sessuale nella vita pubblica americana. In altre parole, nel post-Monica, il
comportamento sessuale dei politici è diventato meno rilevante per il pubblico americano
in termini di impegno politico e fiducia. Lawrence e Bennett (2001) notano che l’appoggio
all’impeachment di Clinton, in caso avesse mentito sotto giuramento a proposito della sua
condotta sessuale, diminuì dal 50 al 31 per cento nel corso dello scandalo. Samuelson
(1998) attribuisce l’ininterrotto alto gradimento di Clinton alla stanchezza generale per la
cultura dell’aggressione politica in generale. Definisce «cultura dell’aggressione» la
degenerazione delle normali indagini pubbliche – da parte delle commissioni del
Congresso, della stampa, e di avvocati e magistrati indipendenti. Si rivelano meno
interessati a scoprire gli illeciti che a rovinare politicamente l’accusato. La gente
istintivamente trova il procedimento sconcertante, scorretto e (per la nazione)
autodistruttivo. Non volle premiarlo e perpetuarlo facendo di Clinton l’ultima e più grossa
preda (Samuelson, 1998, p. 19). Samuelson cita anche il fatto che gli indici di
disapprovazione per i repubblicani raddoppiarono passando dal 22 per cento del gennaio
1998 al 39 per cento di dicembre 1998, come prova ulteriore della stanchezza verso la
cultura dell’aggressione. L’apparente immunità di Clinton dall’indignazione pubblica a
proposito dello scandalo potrebbe essere stata anche una funzione del suo forte carisma
personale: da un sondaggio del Washington Post emergeva un balzo del 17 per cento (dal
44 al 61 per cento) nella percentuale di americani che approvava la direzione in cui stava
andando il paese immediatamente dopo la sua confessione pubblica televisiva (Renshon,
2002, p. 414). Waisbord (2004b) inoltre si basa sul lavoro di Keith Trester sulla
desensibilizzazione da parte dei media per spiegare come la copertura giornalistica
pervasiva di uno scandalo può tradursi nella «banalizzazione della corruzione» e generare
«stanchezza da scandalo» nel pubblico.
Da altri studi però risulterebbe che la conseguenza più seria dello scandalo Lewinsky si
produsse nella decisiva elezione presidenziale del 2000, quando il 18 per cento dei votanti
citarono la moralità come la caratteristica più importante che cercavano in un presidente
(Renshon, 2002). Rensohn rileva che mentre i votanti mostravano alti livelli di
approvazione per il lavoro del presidente Clinton, la stragrande maggioranza (74 per
cento) degli americani si diceva d’accordo con l’affermazione: «Sono stanco di tutti i
problemi associati all’amministrazione Clinton». Tra quelli che esprimevano tale
affaticamento, il 60 per cento dichiarava che avrebbe votato per George W. Bush, e il 35
per cento per Al Gore (Renshon, 2002, p. 424). Analogamente, Morin e Deane (2000),
scrivendo della stanchezza per Clinton, riscontravano che uno su tre votanti che
apprezzavano la politica di Clinton ma non il personaggio erano passati a Bush. Inoltre, i
ricercatori evidenziavano che la «sincerità» si poneva come il singolo tratto più importante
che i votanti nel 2000 cercavano nel prossimo presidente – e otto su dieci di questi votanti
appoggiavano Bush (Morin e Deane, 2000, appendice 10). In altre parole, i livelli di
approvazione per Clinton superavano indenni la serie di scandali durante la presidenza e il
voto sull’impeachment perché le sue politiche ricevevano un ampio sostegno, e la sua
condotta personale era considerata tipica della maggior parte dei politici. Tuttavia, Al
Gore pagò il prezzo dell’immoralità di Clinton, essendo rimasto macchiato per
associazione in un’elezione contro un candidato che era percepito come morale e sincero.
Noi, ovviamente, sappiamo che George W. Bush passerà alla storia come uno dei più
clamorosi e pericolosi mentitori della presidenza americana. Il paradosso estremo è che un
piccolo bugiardo come Clinton aprì la strada per l’arrivo al potere di un grande bugiardo
come Bush, permettendogli di avvolgersi nel manto dell’onestà, in contrasto con quella
persona per bene che era ed è Al Gore.
In sintesi: gli effetti della politica scandalistica sulla politica sono in larga misura
indeterminati. Dipendono dal contesto culturale e istituzionale, dalla relazione tra i tipo di
scandalo e il politico coinvolto, dal clima sociale e politico del paese, e dall’intensità
dell’effetto di stanchezza individuato tra i cittadini dopo l’interminabile catena di scandali
riportati dai media. Gli effetti vanno anche misurati nell’arco del tempo, e spesso sono
indiretti nelle loro manifestazioni: per esempio, un altro politico che ne subisce le
conseguenze per associazione.
Le prove invece le abbiamo su due importanti effetti politici. Primo, un numero
crescente di grandi cambiamenti politici nei governi di tutto il mondo è direttamente
associato con gli effetti degli scandali, come risulta dalla tabella A4.2 in Appendice. In
altre parole, mentre molti degli scandali politici hanno scarsi effetti politici diretti, sono
così tanti gli scandali che esplodono in continuazione nei media che alcuni di essi hanno
effettivamente un grosso impatto, talvolta travolgendo governi quando non regimi.
Secondo, a causa della prevalenza della politica scandalistica, indipendentemente dallo
specifico esito in un dato contesto, l’intero paesaggio politico è trasformato dappertutto
perché l’associazione generalizzata tra politica e comportamento scandaloso contribuisce
alla disaffezione dei cittadini verso le istituzioni politiche e la classe politica, contribuendo
a una crisi mondiale di legittimazione politica. In realtà, è proprio perché si fa di tutti i
politici un unico mazzo, sotto lo stesso giudizio negativo in fatto di moralità e credibilità
personale, che specifici scandali riferiti a specifici personaggi politici possono avere un
impatto poco significativo: giacché i politici sono considerati generalmente inaffidabili
dalla maggioranza della gente, i cittadini disincantati devono scegliere la persona
inaffidabile che sia più vicina ai loro valori e interessi. Questa osservazione solleva la
questione più rilevante riguardo alle relazioni di potere: la relazione tra politica
mediatica, politica scandalistica e crisi di legittimazione della politica. Approfondirò
l’esame delle dinamiche della politica degli scandali concentrandomi su un caso di studio
ricco di lezioni per la pratica della democrazia: la liquidazione dei socialisti spagnoli negli
anni Novanta come risultato di una ben architettata strategia di politica scandalistica.
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna socialista
González ha vinto tre elezioni con una maggioranza assoluta, e anche una quarta,
quando tutti i segnali indicavano la sconfitta. Così, abbiamo dovuto alzare la posta a
livelli tanto estremi che a volte hanno toccato lo stato stesso. González stava
bloccando qualcosa di essenziale nella democrazia: l’alternanza politica… La
capacità di González di comunicare, la sua forza politica, la sua straordinaria abilità,
portarono molti a concludere che era necessario mettere fine alla sua epoca. Visto che
i durissimi attacchi lanciatigli nel 1992-1993 non riuscivano a finirlo… ci siamo resi
conto della necessità di alzare il livello delle critiche. Poi, ci siamo messi a frugare in
questo intero mondo di irregolarità, di corruzione… Non c’era altro modo per far
cadere González.
(Luis María Anson, allora direttore del quotidiano ABC, intervistato dal settimanale
Tiempo, 23 febbraio 1998)
La serie di scandali orchestrati che finirono per abbattere il predominio di Felipe González
e del Partito Socialista portando alla loro sconfitta elettorale nel 1996, rappresenta un caso
da manuale di politica scandalistica (Anson, 1996; Ramírez, 2000; Amedo, 2006;
Heywood, 2007; Villoria Mendieta, 2007). Nel 1982, solo cinque anni dopo l’istituzione
della democrazia dopo il quarantennio della sanguinosa dittatura del generale Franco, i
socialisti ottennero una vittoria trionfale. Furono rieletti nel 1986, nel 1989, e, con un
margine minore, nel 1993. Tra i motivi del loro successo c’era la repulsione dei votanti per
i conservatori, molti dei quali erano stati associati allo screditato regime franchista:
l’orientamento di centrosinistra della maggioranza dell’elettorato spagnolo; e la
mobilitazione di «nazioni senza stati» come la Catalogna e il Paese Basco, in difesa
dell’autonomia più piena possibile, una richiesta a cui i conservatori si opponevano
(Alonso-Zaldivar e Castells, 1992). Una volta eletto, il governo socialista varò una serie di
politiche efficienti che stimolarono la crescita economica e l’occupazione, sviluppò una
sorta di welfare state, modernizzò il paese, istituì uno stato semifederale, prese il controllo
delle forze armate, e aprì la strada per l’adesione alla Comunità Europea nel 1986.
Ma l’abile uso della politica mediatica fu anch’esso un fattore che contribuì alle vittorie
elettorali dei socialisti permettendo una permanenza ininterrotta al potere di tredici anni.
Al centro della strategia c’era la personalizzazione della politica nel segretario generale
del partito, Felipe González. González, un socialdemocratico moderato, quarantenne al
momento in cui salì al potere, era assillato dai pericoli di una transizione democratica in
un paese che nel corso di tutta la sua storia tormentata non aveva mai conosciuto la
democrazia, tranne che per cinque anni negli anni Trenta. Il suo pragmatismo stabilizzò il
paese e assicurò la continuità di governo. Beneficiava di una efficiente squadra politica
che usava la politica mediatica e la costruzione dell’immagine in modo innovativo, a quel
tempo senza paralleli nella politica europea. Ad aiutare c’era la circostanza che la Spagna
ereditava un sistema mediatico in cui il governo aveva il monopolio delle emittenti
televisive, possedeva network radiofonici chiave, e aveva un’influenza indiretta su settori
del giornalismo della carta stampata. Va detto che fu proprio il governo González a
decentrare, liberalizzare e privatizzare i media, e questo permise due network televisivi
privati nazionali, aprì la strada alla televisione via cavo e via satellite, e autorizzò network
televisivi regionali controllati dai governi locali. Nel corso di questo processo, il più
importante quotidiano spagnolo, creato all’alba della democrazia come voce
filodemocratica, El País, divenne il fondamento del maggior gruppo mediatico nel paese,
e sviluppò una cooperazione reciprocamente fruttuosa con i socialisti (Machado, 2006).
Nei primi anni Novanta, una simile concentrazione di potere e media nelle mani dei
socialisti e dei loro alleati spinse gli avversari di González a decidere di portare la
battaglia al di fuori del terreno elettorale. Adottarono una strategia di distruzione
dell’immagine che mirava alla graduale erosione della reputazione di onestà e democrazia
alla base dell’attrazione dei socialisti sull’elettorato. Ma chi erano questi avversari?
Certamente includevano il blocco politico dei conservatori che subì numerose
trasformazioni prima di creare il Partido Popular (PP), affiliato con i partiti conservatori
europei. Ma negli anni Ottanta il PP era debole, con un’influenza limitata a una minoranza
dell’elettorato ancorato nella destra ideologica. Così, alla loro opposizione radicale ai
socialisti si unì la coalizione della Sinistra Unita guidata dai comunisti, un gruppo piccolo
ma attivo e influente in alcuni segmenti della società. Contava anche sul sostegno discreto
di alcuni gruppi imprenditoriali (nonostante le politiche di González a favore delle
imprese), e fu aiutato dalla chiesa cattolica, che si batteva per conservare i propri privilegi
finanziari e istituzionali. Ma la leadership reale della rete informale degli oppositori di
González fu assunta da gruppi di giornalisti che, per motivi personali, professionali e
ideologici entrarono nella mischia. L’autorevolissimo giornalista Pedro J. Ramírez,
direttore di Diario 16, un giornale di secondo piano e di tendenze centriste, fu l’attore
chiave. Ramírez, dopo un periodo a Washington, rimase affascinato dal caso Watergate, e
alimentò l’ossessione del giornalismo investigativo. Dopo aver appoggiato i suoi
giornalisti che investigavano sull’affare GAL (Grupos Antiterroristas de Liberación; vedi
sotto) e pubblicato diversi articoli che rivelavano le illegalità del governo, nel marzo 1989
fu licenziato, su richiesta, si pensa, dei socialisti. Giurò vendetta. Ottenne un sostegno
finanziario e qualche mese dopo iniziò la pubblicazione di El Mundo, che sarebbe
diventato l’implacabile inquisitore del governo socialista e, alla fine, un sostegno per i
conservatori. La qualità professionale del giornale e la sua indipendenza dal governo
socialista, fornendo al contempo una piattaforma per i critici di sinistra a González, ne
fece il secondo quotidiano per diffusione e ne garantì la sua buona posizione commerciale.
El Mundo divenne l’esplicito araldo della politica degli scandali e sviluppò un efficiente
format mediatico. Il giornale si procurava informazioni compromettenti sul partito o sul
governo con diritti esclusivi di pubblicazione. Quindi pubblicava una serie di articoli con
titoli esplosivi per diversi giorni di seguito. Dalle sue pagine, l’informazione si diffondeva
al resto dei media. I media erano obbligati a citare El Mundo e a pubblicare queste storie
per l’attrazione esercitata da questi scandali sul pubblico. Naturalmente questa strategia
richiedeva buon materiale scandalistico, e questo c’era in abbondanza. I socialisti erano
così sicuri del proprio controllo politico sul paese che si abbandonavano a disinvolte
operazioni illegali senza prendere le più elementari precauzioni. Squadre di giornalisti
investigativi a volte portavano alla luce le informazioni compromettenti con una mentalità
da crociati, affermando il potere della stampa libera, una conquista costata cara in Spagna,
sui politici. In molti casi, però, i media, e in particolare El Mundo grazie alla sua visibilità,
beneficiarono di fughe di notizie interessate fatte trapelare da vari partecipanti a
operazioni illegali, per rappresaglia o per salvare la faccia o la libertà quando i piani si
mettevano male. Fu così per l’affare Filesa, rivelato nel 1991, che portava alla luce la
creazione del Partito Socialista di una società di consulenza fasulla per estorcere tangenti
alle aziende a favore delle casse del partito. Diversi pezzi grossi della burocrazia del
partito furono giudicati colpevoli e finirono in carcere, quando la richiesta di pagamenti in
nero avanzata dal loro contabile fu rifiutata. Ma lo scandalo più significativo, e quello che
userò come esempio di una lunga serie di affari che non è necessario riportare in dettaglio
ai fini dell’analisi, è l’episodio del GAL.
La più grossa sfida politica interna che i socialisti si trovarono ad affrontare dopo aver
assunto il potere era la stessa sfida che tutti gli altri governi spagnoli hanno dovuto
affrontare negli ultimi cinquant’anni: la lotta dei baschi per l’indipendenza, e in particolare
il terrorismo praticato dall’organizzazione indipendentista più militante, l’ETA, con oltre
800 vittime al suo attivo al momento in cui scrivo. A causa della sensibilità verso la
questione dei militari e delle agenzie di polizia, i socialisti decisero di affrontare l’ETA a
testa bassa fin dall’inizio della loro amministrazione. In generale, l’offensiva socialista fu
politica, puntando sull’appoggio tra la classe operaia basca in varie forme di
collaborazione con il democratico e moderato Partito Nazionale Basco, eletto a governare
le istituzioni basche. Ma vi fu anche una decisa azione di polizia per sradicare l’ETA.
Questa fallì, come ha fallito con tutti gli altri governi, nonostante le decine di militanti
uccisi e le centinaia di arrestati. Poi, qualcuno, un certo Mr X, per usare la terminologia
del giudice Garzón, titolare delle indagini sul caso, immaginò una sorta di «soluzione
finale»: ammazzarli tutti. Perché perdere tempo con i legalismi? (Suona familiare,
all’inizio del XXI secolo?)
Secondo la documentazione che anni dopo forniva la base per le sentenze giudiziarie,
nel Ministero degli Interni fu creata una unità speciale utilizzando fondi segreti del
governo. Diversi elementi della polizia furono assegnati al compito, contattando poi killer
professionisti in Francia, in quanto il rifugio sicuro per l’ETA era in territorio francese. Fu
istituita un’organizzazione ombra e il «Gruppo Antiterrorismo di Liberazione» (GAL)
entrò in azione. Fu un disastro. Cominciarono con il sequestrare e assassinare due attivisti
baschi nell’ottobre 1983. Ma il secondo rapimento, tre mesi dopo, fu un caso di scambio
di persona. E poi, nel 1984, assassinarono per sbaglio un ballerino che non aveva alcuna
connessione con l’ETA. La mancanza di professionismo e l’uso da parte dei poliziotti che
effettuavano la supervisione di fondi neri per godere della vita notturna degli ambienti
criminali condusse all’arresto di due ufficiali di polizia incaricati della cospirazione,
Amedo e Dominquez. Furono giudicati e condannati a lunghi anni di carcere nel settembre
1991. Ma non rivelarono le loro connessioni di livello superiore perché, secondo
successive loro dichiarazioni, «qualcuno» nel governo socialista aveva promesso loro il
perdono giudiziario in cambio del silenzio.
Nell’ottobre del 1994, quando si resero conto di quanto valesse in realtà quella
promessa e che non avrebbero ottenuto alcun perdono, passarono dall’altra parte e
accusarono diversi pezzi grossi del Ministero degli Interni e il ministro stesso. Prima di
andare dal giudice, parlarono con i leader del Partido Popular dell’opposizione, con l’aiuto
del loro avvocato, poiché (secondo la versione di Amedo) gli era stata promessa la grazia
in futuro se il PP fosse andato al potere. Diedero anche un’intervista al direttore di El
Mundo, probabilmente in cambio di denaro (anche se El Mundo ha respinto tutte le
accuse). In base a queste nuove prove, il principale magistrato nei casi di terrorismo, il
giudice di rinomanza internazionale Baltasar Garzón (lo stesso che ha emesso l’ordine di
arresto a Londra contro il dittatore cileno Pinochet), riaprì il caso. Ad alimentare il
procedimento c’era il fatto che Garzón si era lasciato sedurre dall’invito del primo
ministro González di far parte dei suoi candidati alle elezioni del 1993, e poi si era sentito
deluso dall’esperienza di governo tornando al suo posto in tribunale appena in tempo per
assumere l’accusa contro il GAL. Tra il 1995 e il 1998, diversi processi furono celebrati
contro ministri, segretari di stato, il direttore generale della polizia, alti funzionari del
governo, e il segretario generale del Partito Socialista nel Paese basco. Diversi di loro
furono giudicati colpevoli e condannati a pene detentive, anche se con vari perdoni
giudiziari e una generosa applicazione della libertà sulla parola, non rimasero a lungo in
carcere. Nonostante le accuse di alcuni dei condannati, che portarono il giudice a inviare
alla Corte Suprema una richiesta di incriminazione del primo ministro, nulla poté essere
provato, in quanto Felipe González sostenne di essere all’oscuro dell’operazione GAL, e
denunciò la motivazione politica dell’accusa. La Corte Suprema non portò avanti
l’incriminazione contro di lui.
In questa tragica soap opera, Diario 16, e più tardi El Mundo, continuarono a dare in
pasto alla pubblica opinione e ad altri media i particolari e le prove della cospirazione del
GAL. La pista interna delle informazioni risaliva originariamente al lavoro di due cronisti
investigativi di Diario 16, che lavoravano sotto Pedro J. Ramírez. Nell’agosto 1987, pochi
giorni dopo un nuovo assassinio del GAL, questi giornalisti trovarono un bunker segreto
del GAL pieno di documenti, rapporti di polizia, fotografie e armi e munizioni del tipo
usato dalla polizia spagnola. Diario 16 procedette a pubblicare una serie di cinque articoli
esponendo il materiale ritrovato. Altri media seguirono, pubblicando interviste con diversi
individui coinvolti nell’affare. Come ho già detto, fu proprio la scoperta del GAL ciò che
portò al licenziamento di Ramírez da Diario 16 e alla creazione di El Mundo, implacabile
propalatore di scandali politici negli anni successivi.
Il deterioramento dell’immagine del governo che ne seguì, insieme con una contrazione
nell’economia, portò i socialisti sull’orlo della sconfitta nelle elezioni parlamentari del
marzo 1993. Una aggressiva campagna del loro leader, il leggendario Felipe González,
ribaltò tuttavia le previsioni di sondaggi e di esperti e diede ai socialisti un numero di
seggi sufficiente a governare in minoranza con l’appoggio dei partiti nazionalisti in
Catalogna e nel Paese Basco. Era troppo per la coalizione che aveva cercato per anni di
rovesciare González. Era il momento di lanciare un attacco frontale raccogliendo fango
dovunque si potesse trovare con la collaborazione di personale malcontento nel governo e
nella polizia. Per farlo, fu organizzata una vera e propria cospirazione mediatica, di cui,
naturalmente, faceva parte una squadra di El Mundo con Ramírez al timone, ma con
l’aggiunta di numerosi potenti giocatori: Luis María Anson, direttore di ABC, il più antico
e prestigioso quotidiano conservatore, e figura eminente negli ambienti di destra del
giornalismo spagnolo; il direttore del più grande network televisivo privato, Antena 3; il
direttore di un altro quotidiano, El Independiente; il COPE, il network radiofonico di
proprietà e gestione della chiesa cattolica; e diversi giornalisti influenti, più qualche
occasionale associato alla cospirazione proveniente da circoli diversi, tra cui politici di
primo piano del Partido Popular. Formalizzarono la loro alleanza istituendo una
Associazione di giornalisti e scrittori indipendenti (AEPI, secondo la sigla spagnola) che
faceva appello a tutti coloro che desiderassero contribuire alla scomparsa di Gonzâlez.
Poi, i cospiratori si misero all’opera.
Dal 1993 al 1996 una serie di grossi scandali politici scosse il governo e il paese. Nel
novembre 1993, Diario 16 rivelò che Luis Roldan, il primo civile nominato direttore
generale del corpo paramilitare della Guardia Civil (una forza d’élite con una lunga
tradizione nella storia spagnola), aveva rimpolpato sostanziosamente il suo reddito durante
la carica. Nell’aprile 1994 El Mundo forniva le prove delle fonti di questa ricchezza
ottenuta grazie ai pagamenti illeciti di sostenitori e appaltatori alla Guardia Civil, fondi
che Roldan spartiva con il partito nella regione di Navarra, intascandone la maggior parte.
Inoltre, si appropriò di parte dei fondi segreti destinati a operazioni clandestine di
imposizione della legge. A quel punto il parlamento aprì un’indagine. Roldan negò le
accuse ma qualche giorno dopo fuggì a Parigi, e concesse un’intervista a El Mundo,
riconoscendo di aver ricevuto pagamenti dai fondi segreti del governo, aggiungendo però
che il ministro degli Interni e altri funzionari delle forze di sicurezza facevano la stessa
cosa da anni. Quando il governo ne chiese l’estradizione dalla Francia, lui sparì.
Riapparve nel 1995 in Laos, e la polizia spagnola riuscì a mettergli le mani addosso
raggirandolo con falsi documenti di estradizione dal Laos; tornò in Spagna dove fu
condannato e incarcerato. Le sue denunce aggravavano le accuse contro gli alti livelli del
Ministero degli Interni sotto indagine per l’affare GAL. Diversi altri funzionari furono
condannati per appropriazione indebita di fondi pubblici.
Inoltre, nell’aprile 1994 El Mundo rivelava che il governatore della Banca di Spagna,
Mariano Rubio, oltre ad altre personalità, tra cui un ministro, avevano aperto conti segreti
per evadere il fisco tramite una finanziaria (Ibercorp) fondata da un ex presidente della
Borsa di Madrid. Finirono in prigione, e presto furono scarcerati sulla parola, anche se
Rubio morì poco dopo questa esperienza. Di nuovo, El Mundo, nel giugno 1995,
documentava il fatto che il servizio di intelligence militare spagnolo, il CESID, stava
intercettando illegalmente le telefonate di personalità politiche, imprenditori, giornalisti, e
persino del re di Spagna. In seguito a questo, il capo dell’agenzia e i ministri responsabili
si dimisero.
La lista degli illeciti e degli episodi di corruzione è ancora più lunga, ma gli scandali
che ho ricordato dovrebbero bastare a illustrare l’analisi. Alcuni punti analitici vanno
sottolineati:
1) Esiste una relazione diretta tra il livello e l’intensità dell’illegalità e della corruzione
in un’agenzia politica, e la capacità di indurre scandali politici. Mentre un’abile
manipolazione delle informazioni, e la capacità di intrecciare astutamente dati di fatto e
prove fabbricate, accrescono l’impatto dello scandalo, ciò che in ultima analisi determina
l’effetto degli scandali nella mente del pubblico è la materia prima fornita dall’ampiezza e
dall’importanza dell’illecito. Nel caso dei socialisti spagnoli, la corruzione e le pratiche
illegali erano innegabilmente fuori controllo nei piani alti del governo. È una cosa
eccezionale in democrazia che in soli due anni il ministro degli Interni, il capo della
principale forza di sicurezza, il capo dell’intelligence militare, e il governatore della Banca
Centrale, tra le altre autorità, vengano colti con le mani nel sacco. L’arroganza dei
socialisti, dopo un decennio al potere senza una reale sfida da parte dell’opposizione,
svolse chiaramente un ruolo nel creare un clima di elasticità morale e di arricchimento
personale. Mentre González e i suoi più prossimi collaboratori non parteciparono alla
corruzione (le indagini giudiziarie non hanno messo in luce alcun illecito da parte loro), il
suo lassismo su questi temi, occupato com’era a cambiare la Spagna e il mondo, lasciò
incontrollata la diffusione di comportamenti anetici e delinquenziali in pochi, ma
significativi, ambienti dell’amministrazione socialista.
2) I media, e in particolare un importante quotidiano, furono decisivi nello scoprire le
illegalità del governo. L’enfasi sul giornalismo investigativo, e la vendetta personale del
direttore di El Mundo svolsero un ruolo di primo piano nella fonte delle informazioni
compromettenti. I giornalisti scoprirono parte delle informazioni e poi le diffusero tramite
i media. La professione giornalistica si imponeva, dopo aver vissuto per decenni sotto la
censura, dandosi da fare per trovare prove di corruzione negli ambienti politici, locali e
nazionali. Comunque, gli stessi soggetti coinvolti nella corruzione fornirono gran parte dei
documenti che arrivarono a formare la base d’accusa in tribunale. I conflitti personali
interni alle cospirazioni spinsero a una strategia che cercava il vantaggio personale
formulando nella stampa una versione della storia tale che avrebbe permesso a quelli che
rivelavano la cospirazione di salvare la faccia e sottrarsi all’incriminazione finché fosse
ancora possibile farlo. Inoltre, spesso avvenne che passare informazioni compromettenti
alla stampa su avversari nel partito fu l’arma privilegiata nella lotta di fazioni all’interno
del Partito Socialista. In altre parole, gli scandali divennero l’espressione occulta della
lotta politica con altri mezzi, diversi dai dibattiti e dai voti, tanto tra i partiti quanto in
seno ai partiti.
3) I conflitti di business tra gruppi di media costituivano un altro strato che si
sovrapponeva a quello dei conflitti politici. Particolarmente pronunciato era il conflitto tra
il gruppo Prisa, che era editore di El País e vicino ai socialisti, e El Mundo, il gruppo
ABC, e Antena 3 TV, che erano più vicini ai conservatori (Machado, 2006; Campo Vidal,
2008). Oltre all’ideologia, era in gioco la competizione tra grandi aziende, con El Mundo
che cercava di aumentare la propria quota di pubblico presentandosi come l’indipendente
critico di un governo corrotto. Di fronte a una così accesa rivalità, El País e il suo gruppo
multimediale dovettero raccogliere e riportare alcune delle informazioni compromettenti
contro i loro alleati.
4) Portata in primo piano davanti al pubblico dalla campagna anticorruzione,
l’istituzione giudiziaria si caricò del ruolo di salvatore morale del paese, creando
un’alleanza di fatto tra giudici e giornalisti che ha finito per diventare dappertutto il
nucleo centrale del meccanismo della politica scandalistica.
In seguito all’assalto della politica scandalistica guidato dai media e appoggiato dalla
magistratura, Felipe González e il suo Partito Socialista furono infine allontanati dal
potere, con un minimo scarto, alle elezioni parlamentari dell’aprile 1996. Ma i processi
cognitivi e politici su cui poggiava questo esito sono complessi e meritano un esame
(Berreito e Sanchez-Curenca, 1998, 2000; Montero et al., 1998; Boix e Riba, 2000;
Cainzos, 2000; Barreiro, 2001; Jimenez e Fernando, 2004; Rico, 2005; Fundación
Alternativas, 2007).
Il comportamento politico degli spagnoli nel corso della breve storia della loro
democrazia è stato contrassegnato dal divario delle posizioni ideologiche tra
centrosinistra, centrodestra e «senza ideologia». Tra il 1986 e il 2004, la percentuale dei
cittadini che si collocavano nell’area del centrosinistra oscillava tra un minimo del 53 per
cento (nel 2000) e un massimo del 60 per cento (nel 1986 e nel 2004). Dall’altra parte,
quelli che occupavano una posizione di centrodestra rappresentavano un livello molto più
basso dell’elettorato, tra il 15,7 per cento nel 1986 e il 26,5 per cento, il punto più alto, nel
2000, per declinare di nuovo al 21 per cento nel 2004 (Fundación Alternativas, 2007).
Data la condizione minoritaria del voto di destra, le probabilità del Partito Conservatore di
vincere un’elezione dipendevano dalla sua capacità di attirare elettori privi di un’ideologia
dichiarata (tra il 18 e il 24 per cento dell’elettorato), e dalla mobilitazione differenziale tra
votanti di centrosinistra e di centrodestra in termini di partecipazione elettorale. Per tutti
gli anni Ottanta e Novanta, la leadership personalistica di Felipe González forniva il
fattore chiave alla capacità del centrosinistra di mobilitare i propri elettori e di attirare gli
indipendenti.
Esiste una forte correlazione tra la posizione dei leader nell’opinione dei cittadini e le
scelte di voto di questi ultimi. González era costantemente collocato in cima alla
classifica, ed è stato mostrato che tra i votanti che provavano per lui un’alta stima c’era
una probabilità del 23 per cento più alta che votassero socialista (Barreiro e Sanchez-
Cuenca, 1998). Fattori aggiuntivi che spiegano i comportamenti di voto erano l’ideologia
personale, l’ideologia di un partner o di amici, e, molto più arretrati nell’effetto di
causalità, i dibattiti elettorali alla televisione. Nel 1993, la contrazione economica e la
vasta opinione di una diffusa corruzione nel governo socialista (nel novembre 1992, il 75
per cento degli spagnoli pensavano che «il livello di corruzione era intollerabile»)
mostravano di pregiudicare le chance elettorali dei socialisti. Tuttavia, con la
partecipazione personale di González alla campagna nel marzo 1993, la sua leadership
mobilitò l’elettorato di centrosinistra (l’astensionismo fu contenuto al 23 per cento circa) e
richiamò il voto indipendente. In effetti, la sua posizione personale tra gli indecisi crebbe
da 5,58 a 7,58 (su una scala da 0 a 10) prima e dopo la campagna. La personalizzazione
della politica, un leader carismatico e un abile uso della politica mediatica furono
determinanti del comportamento politico più forti dei riconosciuti illeciti del partito di
governo. Gli elettori decisero di concedere a González una nuova occasione per rigenerare
la sua amministrazione, essendo ideologicamente riluttanti a trasferire il loro appoggio ai
conservatori, e continuarono a identificarsi con un leader eccezionale. Il ciclone degli
scandali tra il 1993 e il 1996 alterarono l’equazione politica, al punto che nel 1996
González indisse le elezioni anticipate. Secondo la sua versione, il motivo era la volontà di
sottoporsi al verdetto della cittadinanza. Nella versione di alcuni dei suoi collaboratori, lo
fece in seguito alla stanchezza personale e politica di dover sostenere un costante, e
sempre più virulento, assalto dei media, complicato dall’amarezza per il tradimento e la
corruzione del suo entourage. La cospirazione mediatica descritta sopra alla fine diede i
suoi frutti. Nel giugno 1994, il 19 per cento degli spagnoli riteneva che praticamente tutti
gli alti livelli della politica erano implicati nella corruzione, per il 38 per cento questo
valeva per la maggior parte di loro, e un altro 38 per cento riteneva che almeno alcuni di
loro fossero corrotti. Meno del 2 per cento pensava che l’amministrazione fosse pulita.
Opinioni simili furono espresse nel 1995 nel 1996 (Villoria Mendieta, 2007).
Il risultato fu che, nonostante una rinnovata mobilitazione del voto socialista, che
crebbe del 3 per cento, e un livello di astensione pari a quello del 1993 (22,6 per cento),
questa volta il voto non ideologico fu sensibile alla percezione della corruzione, e passò
dalla parte del Partito Conservatore, che di conseguenza aumentò il proprio voto del 18,5
per cento e vinse le elezioni per la prima volta nella Spagna democratica. Questi trend
politici furono accentuati nelle elezioni del 2000, quando la maggioranza dei votanti
indipendenti scelse il PP ai danni del PSOE, consolidando il potere del Partito
Conservatore che a quel punto si sentì libero di spostare la propria politica verso la destra,
una mossa che avrebbe finito per frustrare le sue attese di permanenza al potere. Tuttavia,
nel breve termine, la strategia della politica scandalistica, formulata nel 1993 da una
cospirazione di leader dei media, politici e imprenditori, con la benedizione della chiesa
cattolica, ebbe l’effetto di delegittimare i socialisti (che si fecero facile bersaglio grazie al
comportamento di un buon numero dei loro funzionari), e di spingere un esausto Felipe
González fuori dalla scena politica spagnola.
González gode ancora dell’ammirazione di molti, e ha continuato negli anni a svolgere
un ruolo significativo nella politica mondiale. Ma il Partito Socialista si è trovato ad
affrontare la sfida di rigenerarsi. Le ferite inferte dalla politica scandalistica persistono
nella memoria dei cittadini, e in particolare nella percezione dei giovani restii a cedere al
cinismo politico. Inoltre, tutta la politica spagnola è rimasta macchiata dallo stigma della
corruzione. Nonostante la mancanza di una equivalente strategia di scandali politici da
parte dell’opposizione dopo la vittoria dei conservatori nel 1996, la corruzione tra le élite
del nuovo governo, ora conservatrici, ha continuato a essere messa in luce sui media,
anche se con un fervore militante assai inferiore in El Mundo nel denunciare i corrotti. Nel
dicembre 1997, il 92 per cento degli spagnoli riteneva che la corruzione continuava a
essere un problema molto serio, e nel dicembre 1998 oltre il 50 per cento pensava che la
corruzione fosse sensibilmente aumentata durante il 1997 (Centro de Investigaciones
Sociológicas, 1998). Nel luglio 2003, il 74 per cento degli intervistati considerava che la
corruzione stesse «incidendo significativamente sulla vita pubblica» (Transparency
International, 2003). Di conseguenza, in Spagna la crisi di legittimazione del sistema
politico si è aggravata, in linea con le tendenze presenti nel resto del mondo. In questo
processo, la giovane democrazia ha perso la sua innocenza.
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo
Lo stato rimane un attore critico nella definizione delle relazioni di potere entro le reti di
comunicazione. Mentre abbiamo analizzato la complessità dell’interazione tra media e
politica, non dovremmo trascurare la forma più antica e diretta di politica mediatica:
propaganda e controllo. Si tratta di: a) la fabbricazione e diffusione di messaggi che
distorcono i fatti e inducono disinformazione allo scopo di favorire gli interessi del
governo: e b) la censura di ogni messaggio che si ritiene possa danneggiare tali interessi,
se necessario criminalizzando la comunicazione non controllata e perseguendo il
messaggero. La portata e le forme del controllo governativo sulle reti di comunicazione
variano a seconda dell’ambiente legale e sociale in cui opera un determinato stato.
Analizzerò quindi tre distinti contesti in cui lo stato esercita il controllo sulla
comunicazione seguendo diverse procedure adattate alle sue regole d’ingaggio con la
società in generale: Stati Uniti, Russia e Cina.
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded»
nei media
Il governo USA ha una tradizione consolidata di fabbricazione delle informazioni per
giustificare le proprie azioni, in particolare nei momenti di decisione tra guerra e pace, allo
scopo di dirottare la pubblica opinione (Kellner, 2005). Ma anche per gli standard
americani, la sfaccettata strategia di disinformazione che ha portato nel 2003 alla guerra
con l’Iraq, e ha sostenuto negli anni successivi lo sforzo bellico, spicca come un caso da
manuale di propaganda politica. Nel capitolo 3 ho analizzato il processo di produzione
sociale della disinformazione e della mistificazione intorno alla guerra in Iraq. Qui mi
riferisco a una forma diversa di strategia comunicativa, la penetrazione diretta delle reti
mediatiche da parte del Dipartimento della Difesa per fornire rapporti e commenti di
analisti cosiddetti indipendenti che lavorano per i network.
Il 20 aprile 2008 The New York Times pubblicava i risultati di un’inchiesta che
mostrava, con dettagliata precisione e informazioni di fonte sicura, come il Pentagono
avesse organizzato un gruppo di 75 analisti militari che avevano lavorato per i principali
network televisivi, come la Fox, la NBC, la CBS e l’ABC, tra il 2002 e il 2008, oltre a
collaborare per le reti dei quotidiani (Barstow, 2008). L’iniziativa fu lanciata all’inizio del
2002, mentre cominciava la marcia verso la guerra nonostante l’esitazione del pubblico a
impegnarsi in un’azione militare. Tori Clarke, vicesegretario alla Difesa per gli Affari
Pubblici, ideò un programma che prevedeva il reclutamento di ufficiali dell’esercito a
riposo perché lavorassero come commentatori presso i network mediatici. Grazie alla
credibilità abitualmente attribuita ai militari, erano considerati vettori più efficaci dei punti
di vista del Pentagono sulla guerra. La loro collaborazione fu facilitata dal fatto che di
solito erano felici di collaborare con le forze armate, l’istituzione a cui avevano dedicato
gran parte della loro vita. Fu anche d’aiuto il fatto che molti di questi analisti lavoravano,
e lavorano, per contractors militari o fanno attività di lobby per loro. Anche se non erano
sul libro paga del Pentagono (a parte le occasionali trasferte in Iraq), era in atto uno
scambio: riferisci quello che ti diciamo noi e riceverai accesso alle fonti, e, cosa più
importante, accesso ai contratti del Dipartimento della Difesa. In effetti, le sporadiche
critiche sulla condotta della guerra venivano punite con la perdita di un potenziale appalto,
cosa che portava all’estromissione dal lavoro di lobbista di quell’ufficiale che pretendeva
di avere un’opinione indipendente. Il gruppo degli analisti si incontrava regolarmente con
personale del Dipartimento, e nelle occasioni più importanti con Rumsfeld stesso che,
secondo i verbali delle sedute, dava direttamente istruzioni sul contenuto dei loro
commenti.
A ogni svolta critica del conflitto, quando arrivavano le brutte notizie e aumentava il
numero dei caduti, si tenevano riunioni speciali per coordinare i rapporti che dovevano
fornire una visione ottimistica della guerra, o per sottolinearne l’indispensabilità nel
contesto della guerra al terrore e della minaccia dell’Iran. Quando, nell’aprile 2006 diversi
generali criticarono apertamente Rumsfeld per l’incompetenza della sua leadership fu
montata una campagna in sua difesa, di cui faceva parte tra l’altro un commento sul Wall
Street Journal di due dei maggiori analisti del gruppo, i generali McInerney e Vallely, che,
secondo il New York Times, avevano richiesto l’input allo staff di Rumsfeld per l’articolo
(Barstow, 2008). Una società di monitoraggio dei media ricevette centinaia di migliaia di
dollari per verificare l’efficacia dei commenti pubblicati dai due analisti. Una delle prime
iniziative del generale Petraeus dopo aver assunto il comando in Iraq nel 2007 fu
l’incontro con il gruppo degli analisti. In pratica, organizzò una teleconferenza
nell’intervallo della sua testimonianza al Congresso. Le reti mediatiche erano al corrente
dell’esistenza del gruppo di analisti del Pentagono e della partecipazione dei loro
commentatori a quelle riunioni. La cosa, però, veniva giustificata con il pretesto di
ottenere accesso alle informazioni. Ma non è chiaro fino a che punto i network sapessero
del commercio della propaganda in cambio di un accesso a favore degli appaltatori
militari, che mostrava di essere la vera chiave dell’operazione. Come minimo, alcune reti
erano a conoscenza delle attività professionali dei loro esperti militari e preferirono non
fare domande. Anzi, appena si diffuse la voce, e risultò chiaro che esistevano lampanti
conflitti di interesse, alcuni degli analisti persero il lavoro con i media, anche se molti di
loro continuarono a sostenere, contro ogni evidenza, che riuscivano a separare le loro tre
identità – di dipendenti dei contractors militari, di propagandisti per il Pentagono, e di
analisti indipendenti per i media, senza dimenticare, ovviamente, il servizio patriottico alla
nazione14. Inoltre, nonostante le rivelazioni di Barstow (2008) sulla campagna di
propaganda interna del Pentagono, uno studio del Project for Excellence in Journalism
(2008a) rivelava che i maggiori organi mediatici che avevano in precedenza accolto gli
scritti di questi analisti militari non avevano mai pubblicato nulla sulla vicenda.
I casi di intervento diretto del governo USA sulle informazioni da trasmettere ai media,
tanto in America quanto nel resto del mondo, sono troppo numerosi per essere riportati qui
nei dettagli, ma costituiscono un insieme di regolarità. Così, l’amministrazione Bush
assoldò attori che si facevano passare per giornalisti. Produsse falsi bollettini di
informazione (i Video News Releases, noti come VNR) per proclamare il suo punto di
vista sulla guerra in Iraq. I VNR acquistarono notorietà per la prima volta all’inizio del
2005, quando The New York Times riferì che molte stazioni locali mandavano in onda
segmenti preconfezionati prodotti da agenzie federali sotto l’amministrazione Bush. I
VNR acclamavano la guerra in Iraq, il piano Medicare di Bush e altri programmi federali.
E il commentatore conservatore Armstrong Williams confessò che il Dipartimento
dell’Istruzione lo aveva pagato $240.000 per andare in televisione a promuovere le
politiche dell’istruzione del presidente Bush (Kirkpatrick, 2005). Questi interventi di
propaganda non sono insoliti. I loro artefici li giustificano con l’interesse superiore del
paese e, quando necessario, della democrazia nel mondo. In termini analitici, quel che è
rilevante sottolineare è la consapevolezza dello stato americano che la battaglia
sull’informazione, la costruzione della pubblica opinione tramite i media, è la condizione
necessaria per ottenere il supporto alle proprie azioni. L’esperienza della guerra del
Vietnam ha dimostrato che questo supporto è la condizione più importante per l’esercizio
del potere americano. Il generale Paul Vallely, analista delle Fox News fino al 2007, e
specialista di guerra psicologica, scrisse nel 1980 un saggio in cui accusava i media
americani di avere fatto perdere la guerra in Vietnam. Secondo Barstow del New York
Times, Vallely scrisse che «abbiamo perso la guerra – non perché siamo stati sconfitti sul
campo ma per la guerra psicologica dei media», e proseguiva proponendo strategie
psicologiche per le guerre future mirate sull’opinione interna, a cui dava il nome di
strategia di «guerra mentale», basata sui network radiotelevisivi (Barstow, 2008,
appendice 1). È per questo che nell’ambiente giuridico degli Stati Uniti, paese in cui il
potere statale di censura è limitato, il controllo dell’informazione prende abitualmente la
forma dei messaggi generati e poi affidati a messaggeri credibili i quali, volontariamente o
meno, trasmettono il falso a un pubblico sempre più mistificato.
Altri contesti istituzionali e culturali appaiono più inclini al controllo diretto del
governo sui media. In effetti è così per la maggior parte dei paesi del mondo. I governi
tendono a combinare varie strategie: controllo politico sui media pubblici (spesso i più
influenti); pressioni governative sui proprietari dei media; legislazione che dà al governo il
controllo di ogni forma di comunicazione; e, se tutto il resto non funziona, intimidazione
di giornalisti e blogger. Tale intimidazione è tipica dei tentativi di mettere sotto controllo
la comunicazione basata su Internet nei paesi in cui lo stato è l’istanza dominante della
società. Per esplorare le strategie di controllo governativo diretto delle reti di
comunicazione, analizzerò i processi in corso in due paesi che sono particolarmente
rilevanti per la nostra interpretazione per il ruolo cardine che hanno nel mondo e per
l’esplicita enfasi che danno al controllo della comunicazione nell’Età di Internet: la Russia
e la Cina.
Russia: censura te stesso
Lo stato russo in transizione verso la democrazia non ha mai dimenticato le lezioni
fondamentali del suo passato sovietico: l’informazione è potere e il controllo della
comunicazione è la leva per mantenere il potere15. Ma, ovviamente, la situazione è
cambiata dopo la pacifica transizione democratica che ha messo fine al regime comunista.
La Russia ora era sotto il dominio della legge, e la legge era sotto il dominio del mercato.
La censura fu bandita, tranne quando fosse applicabile una censura legalmente autorizzata,
in particolare nell’ambito della guerra al terrorismo in versione russa. I giornalisti erano
liberi di scrivere, ma potevano essere licenziati quando ritenuto necessario. I gestori dei
media potevano agire autonomamente, ma ci si aspettava che rispettassero lo stesso
obiettivo ultimo delle imprese mediatiche di tutto il mondo – la raccolta di profitto con la
pubblicità mediatica conquistando quote di audience – il che equivale a concentrarsi
sull’intrattenimento e sull’infotainment.
Così, i meccanismi chiave del controllo statale sui media si esplicitano attraverso
interventi burocratici e finanziari sulle reti mediatiche, diretti o indiretti. L’istituzione di
questi meccanismi fu il momento decisivo della lotta di Putin contro gli oligarchi, che
avevano approfittato della debolezza di Eltsin per impadronirsi di reti televisive nazionali
chiave come la NTV. Putin riaffermò il controllo sui media di proprietà governativa, e fece
in modo che i suoi oligarchi avessero la meglio sugli oligarchi avversi negli altri media
nazionali. Quanto alle regioni, la cosa fu più semplice. I governi regionali, dipendenti in
ultima istanza dal delegato del presidente, controllavano i media regionali, e importanti
aziende acquistarono reti televisive regionali, come nel caso di Lukoil che assunse il
controllo di Languepas, un tipico network di quella che in Russia si chiama «televisione
via tubo». Il momento cruciale della battaglia per il controllo sui media si presentò
all’indomani dell’elezione di Putin alla presidenza nel 1999. Appena eletto, Putin tolse a
Berezovsky la proprietà del principale network televisivo (Canale 1) e la restituì allo stato.
Incaricò inoltre Gazprom (il colosso dell’energia controllato dal governo) di chiedere il
rimborso del debito contratto da MediaMost, la conglomerata di proprietà di un altro
oligarca di Eltsin, Gusinsky, che possedeva uno dei più influenti network televisivi, NTV.
Di fatto, NTV era l’unico grande organo mediatico che si era opposto a Putin durante la
campagna elettorale. Il castigo fu immediato. Gusinsky finì in carcere (accusato di frode
fiscale, pratica abituale tra gli oligarchi russi) e finì per raggiungere Berezovsky nel suo
lussuoso esilio a Londra, mentre il suo impero mediatico veniva assorbito da Gazprom
Media.
Oggi Gazprom è diventata una delle più potenti conglomerate di media in Russia.
Possiede NTV (il terzo maggior network in termini di audience), oltre a NTV satellitare, lo
studio di produzione NTV, il network di intrattenimento TNT, lo storico quotidiano
Izvestia, importanti stazioni radio (come Echo Movsky, City FM, Popsa), la rivista Itogy,
società pubblicitarie e una varietà di canali media sparsi attraverso l’immensa estensione
geografica della Russia. Lo stato russo ha dato vita a un’altra grande conglomerata,
VGTRK, che controlla Rossiya TV Network, Kultura Network, Sport Network, 88 reti
televisive regionali, l’agenzia di stampa RIA Novosti, una partecipazione del 32 per cento
nel network europeo Euronews, e grandi investimenti nell’industria della produzione e
dell’esportazione cinematografica (Kiriya, 2007). Lo stato russo mantiene anche il
controllo su Channel 2, il principale network televisivo con il 21,7 per cento dell’audience
nel 2007, e l’ha usato per attirare investitori privati, guidati da Roman Abramovich,
concedendo loro una quota del 49 per cento del network, da gestire da centri finanziari
offshore. Le due reti dominate dallo stato rappresentano il 50 per cento del fatturato
pubblicitario totale (Kiriya, 2007). Altre reti minori, come Mohashny (concentrata su
programmi per famiglia), che fa parte della Holding STS Media, hanno una
programmazione specializzata con spazi limitati per l’informazione giornalistica. TV-3 e
DTV trasmettono esclusivamente film. L’unico oligarca eltsiniano dei media
sopravvissuto, Vladimir Potanin, ha adottato una prudente strategia di business,
concentrando le sue proprietà nella holding Profmedia e occupandosi quasi
esclusivamente di intrattenimento, dopo aver venduto le sue proprietà politicamente più
delicate, in particolare i giornali Komsomolskaya Pravda e Izvestia. Nel complesso, tutti i
gruppi mediatici sono o sotto il controllo diretto dello stato o dipendono dalla buona
volontà dello stato e dei suoi ispettori.
Il ventaglio delle pressioni burocratiche sui media è diversificato quanto creativo.
Secondo fonti affidabili che chiedono di non essere identificate per giustificato timore di
rappresaglie, la pubblicazione di rapporti sgraditi alle autorità (nazionali, regionali o
locali) può provocare diverse conseguenze negative. Potrebbe trattarsi di una visita degli
ispettori dei vigili del fuoco o dell’ufficio d’igiene, che porterebbe alla revoca del
permesso delle strutture di operare. O, se le rotative si trovano a un piano superiore
dell’edificio, l’ascensore può guastarsi all’improvviso e la sua riparazione sarà rimandata
all’infinito. Se l’organo mediatico indipendente non si rimette subito in riga, può esserci
un’escalation della rappresaglia e gli ispettori del fisco si dedicano a rovinare finanze
dell’azienda. Così, posti di fronte a questa poliedrica strategia di intimidazione, i media
indipendenti non possono opporre una reale lotta, dato che le denunce di ostacolare la
stampa libera possono essere facilmente messe in ridicolo se i problemi vengono
dall’azienda elettrica o dal proprietario dell’immobile che improvvisamente decide di
aumentare l’affitto. Inoltre, le esigue protezioni legali di cui i giornalisti godevano in
passato si sono gradualmente erose. Le cosiddette Camere Legali sui Reclami
dell’Informazione sono state sciolte appena hanno mostrato una qualche indipendenza.
Nuovi organismi, le Camere Pubbliche e i Consigli Regionali sui Reclami
dell’Informazione, sono stati istituiti nel 2006, gremite di burocrati e con sparuti
rappresentanti dei giornalisti. In simili condizioni, il meccanismo di controllo sui media è
semplice. Si basa sull’assennatezza dei giornalisti responsabili, e dei loro dirigenti, se
vogliono conservare il posto e preservare le proprie condizioni di lavoro. L’autocensura è
la regola.
Ma, se spinti dalla corsa all’audience o dal senso di professionalità, i giornalisti si
avventurano in informazioni politicamente scottanti, gli viene ricordato con forza quali
sono i poteri commerciali che sovrintendono al loro compito. Un esempio calzante è la
sospensione temporanea della pubblicazione del quotidiano Moskovsky Korrespondent (di
proprietà del miliardario Aleksandr Lebedev) nell’aprile 2008, quando il direttore generale
del giornale si trovò a fronteggiare pesanti problemi finanziari. I proprietari del quotidiano
negarono ogni connessione tra la sospensione e la pubblicazione sul giornale di notizie
riguardanti la presunta relazione tra il presidente Putin e la ginnasta e parlamentare Alina
Kabayeva.
Se il controllo proprietario e la persecuzione burocratica sono i principali meccanismi di
intervento sui media, il governo russo conta anche su una vasta gamma di strumenti
legali, che prendono di mira non solo i media generalisti ma anche la comunicazione via
Internet. In linea di principio, la censura è proibita, ma diverse leggi e decreti introducono
eccezioni per proteggere la sicurezza nazionale e combattere la cybercriminalità.
Particolarmente rilevanti sono le leggi Sorm 1 del 1996 e Sorm 2 del 1998 che autorizzano
l’FSB, l’agenzia per la sicurezza nazionale succeduta al KGB, al controllo delle
comunicazioni; la «dottrina sulla sicurezza dell’informazione» del 2000, che fu aggiunta
alla legge Sorm 2 per reprimere hacking e pirateria su Internet, proteggere l’industria delle
telecomunicazioni e prevenire la «propaganda» e la «disinformazione» in Internet; la
legge del 2001 sui «mass media» e la «lotta al terrorismo», mirante ufficialmente a
impedire ai terroristi l’accesso alle reti di comunicazione; e la legge del 2006 su
«tecnologie dell’informazione e protezione delle informazioni», che aggiornava e
rafforzava le misure sull’uso non autorizzato di quelle reti. Ma forse la legge più
controversa è quella approvata nel luglio 2007 per combattere l’«estremismo». Questa
legge comprende restrizioni alle critiche che i media possono muovere a pubblici ufficiali,
con pene come la sospensione della pubblicazione e la detenzione fino a tre anni. Tra i
casi di applicazione di questa legge ci sono le sanzioni ai portali Pravda.ru, Banklax.ru, e
Gazeta.ru, oltre che una multa comminata al direttore del giornale online Kursiv per la
pubblicazione di un articolo su Putin considerato «offensivo».
C’è poi il controllo del contenuto della programmazione politica da parte dei dirigenti
degli organi mediatici. Avversari politici di primo piano, come Gary Kasparov, Vladimir
Ryzhkov, rappresentanti del principale partito di opposizione (il Partito Comunista) e
persino ex alleati politici di Putin, come Mikhail Kasyanov o Andrei Illarionov, sono
praticamente spariti dalla televisione. Uno dei più popolari autori di satira politica, Viktor
Senderovitch, vide il suo programma di pupazzi e marionette cancellato: gruppi rock che
si esibivano per i partiti di opposizione videro le loro partecipazioni televisive annullate; e
c’è poco da ridere per le barzellette su Putin e Dmitry Medvedev, visto che i loro autori
vengono immediatamente rimossi dal teleschermo (Levy, 2008). Secondo le interviste
fatte da Levy a giornalisti russi, il Cremlino non teneva una lista ufficiale di quelli che non
dovevano apparire in televisione. Dicevano che, in realtà, erano gli stessi network a
operare in base a una lista nera informale, in base alla loro interpretazione di ciò che
avrebbe potuto contrariare il governo.
Inoltre, quando alcuni giornalisti coraggiosi si avventurano nelle torbide acque della
corruzione politica, o peggio ancora si occupano di terrorismo e controterrorismo, come le
operazioni clandestine della guerra in Cecenia, ci sono sempre i sicari per metterli a
tacere, come è accaduto all’autorevolissima giornalista russa Anna Politkovskaya,
assassinata a San Pietroburgo il 7 ottobre 2006, in circostanze che restano misteriose. In
effetti, dal 2000, 23 giornalisti sono stati uccisi in Russia, creando una situazione che
Reporters without Borders ha definito «difficile» per la stampa e per la libertà di
espressione. Nel World Freedom Press Index, la Russia si colloca al 144o posto nella
classifica di 169 paesi (Reporters without Borders, 2002-2008).
La luce della libera espressione nei media russi è tenuta in vita da alcune stazioni
radio, nonostante la regola non scritta per cui almeno il cinquanta per cento delle notizie
devono essere positive per il governo, nelle reti radiofoniche russe controllate dallo stato
(Kramer, 2007). La popolarissima Echo Moskvy, pur essendo di proprietà di Gazprom,
trasmette interviste con i leader dell’opposizione, tra cui Gary Kasparov, anche se dopo
una sua apparizione Kasparov è stato convocato per un’intervista di approfondimento
dall’FSB. Vi sono anche altri organi mediatici che mantengono un certo livello di
indipendenza politica, come il piccolo network nazionale REN TV, e qualche giornale
nazionale e regionale. Internet non è censurata quanto a contenuto prodotto dagli utenti
(vedi sotto) e presenta frequenti critiche al governo nelle sue comunità online e nei suoi
blog. In effetti, scrive Masha Lipman,

Il governo ha radicalmente ridotto la libertà di trasmissione delle notizie, ma non


controlla totalmente la parola. Alcuni organi radiotelevisivi, di stampa e online, con
audience di nicchia, hanno mantenuto una linea editoriale relativamente
indipendente, cosa che serve come valvola di sfogo. Questi organi possono creare
un’apparenza di libertà di informazione, ma sono rigidamente isolati dalla televisione
nazionale, praticamente emarginati e mantenuti politicamente irrilevanti (Lipman,
2008, appendice 13).
Tuttavia, come nel resto del mondo, le forme più importanti di controllo sui media
riguardano l’infrastruttura dei network e il contenuto della programmazione. In Russia, lo
stato possiede oltre l’80 per cento delle infrastrutture radiotelevisive. Ha anche
un’influenza decisiva sulle maggiori aziende di telecomunicazioni, possiede alcuni degli
studi cinematografici più importanti (Mosfilm), oltre alle macchine per la stampa del 40
per cento dei giornali e del 60 per cento dei libri16. Quanto al contenuto della
programmazione, nelle maggiori reti televisive il trend dominante a partire dal 2000 è di
seguire il modello occidentale spostando il contenuto verso l’intrattenimento. Uno studio
di Ilya Kiriya (2007) sui generi della programmazione televisiva in 16 reti, mostra che la
percentuale dei programmi di intrattenimento e di giochi è salita dal 32 per cento del 2002
al 35 per cento del 2005, e lo sport ha raddoppiato la sua presenza dal 4 all’8 per cento,
mentre il tempo dedicato ai programmi di notizie si è dimezzato dal 16 all’8 per cento.
Comunque, rispecchiando una caratteristica distintiva della cultura russa, i programmi
culturali e istruttivi sono aumentati dal 3 al 9 per cento, pur rimanendo circoscritti a
network specializzati. I film e i telefilm continuano a dominare la programmazione (il 37
per cento nel 2005), con la maggioranza di film di produzione straniera.
Mentre la maggior parte dei russi ha una visione critica della politica estera americana,
le sitcom americane (come Sposati con figli) sono tra i programmi al vertice del
gradimento del pubblico. Secondo l’analista Elena Prohkorova, si tratta di un riflesso dei
cambiamenti nella società russa perché «le sitcom richiedono una vita sociale molto
stabile» (cit. in Levy, 2007). Dall’altra parte, Danii B. Dondurel, caporedattore di Cinema
Art, avverte che «la televisione sta insegnando alla gente a non pensare a quale partito è in
parlamento, a quali leggi vengono approvate, a chi sarà al potere domani» (cit. in Levy,
2007). Comunque, la situazione del predominio straniero nella programmazione televisiva
potrebbe star cambiando, ora che i network delle televisioni russe producono film e serie
di telefilm che, insieme con i quiz e l’intrattenimento, occupano gran parte delle
trasmissioni prime time.
Tuttavia, mentre la programmazione dei media è sempre più spoliticizzata, l’interesse
dei russi per la politica continua a essere alto. Secondo un sondaggio condotto a livello
nazionale dalla Public Opinion Foundation nel luglio 2007, il 48 per cento dei russi erano
interessati alle notizie politiche (anche se solo il 35 per cento del gruppo dei più giovani
condivideva questo interesse). Il 48 per cento era anche interessato alle relazioni
internazionali, e il 40 per cento all’arte e alla cultura. La televisione nazionale è la
principale fonte di notizie per il 90 per cento della popolazione (meno a Mosca: 82 per
cento), seguita dai giornali nazionali (30 per cento) e dalle televisioni regionali (29 per
cento). L’interesse per le notizie sulla carta stampata, però, sta declinando: il 27 per cento
dei russi non legge alcun quotidiano, e i giornali più popolari, come Komsomolskaya
Pravda, hanno adottato il genere tabloid, concentrandosi sul giornalismo scandalistico a
base di sesso e violenza (Public Opinion Foundation, 2007; Barnard, 2008).
Inoltre, la disaffezione del pubblico russo per i democratici di Eltsin, e la popolarità di
Putin, che ha restaurato l’ordine nel paese beneficiando della crescita economica trainata
dagli alti prezzi dell’energia, rendono in larga misura non necessario il ricorso all’arsenale
legislativo, amministrativo e aziendale dei meccanismi di controllo sui media di cui lo
stato russo dispone. Nel sondaggio citato della Public Opinion Foundation, il 41 per cento
degli intervistati trovava la copertura politica della televisione nazionale sufficientemente
obiettiva, mentre il 36 per cento la considerava faziosa (anche se i moscoviti e i soggetti
dotati di istruzione universitaria erano più critici nei confronti del giornalismo di stato).
L’appoggio politico per Putin influenzava l’opinione sui notiziari politici. La percezione di
un giornalismo obiettivo era molto più alta fra il 47 per cento delle persone che
dichiaravano una fiducia totale in Putin, rispetto ala minoranza (21 per cento) che non si
fidava del presidente. In sintesi: più che la censura politica, in una situazione di controllo
diretto e indiretto sui media, e di consenso maggioritario per la presidenza, è
l’autocensura a far la parte del leone nel controllo statale sui media russi.
In ogni caso, non si vollero correre rischi quando si giunse alla campagna presidenziale
del febbraio 2008. Nonostante la vittoria fosse garantita per il candidato presidenziale
appoggiato da Putin, Dmitry Medvedev, lo sfaccettato controllo dei media fu messo al
servizio del candidato. Uno studio del Center for Journalism in Extreme Situations (CJES;
Melnikov, 2008) sulla copertura televisiva della campagna presidenziale mostrava che il
60 per cento dello spazio su Channel 1, il network principale, era occupato dal presidente
Putin. L’87 per cento di questi servizi era positivo verso Putin, e il resto era neutrale. Una
simile distribuzione sbilanciata del tempo di trasmissione si ritrovava nei canali a gestione
statale Rossiya e TV Tsentr. Quanto ai network televisivi privati, NTV (ricordiamo, di
proprietà Gazprom) assegnava il 54 per cento dello spazio a Putin e il 43 a Medvedev,
mentre REN TV era più bilanciata: Putin riceveva il 31 per cento dello spazio, ma i tre
candidati principali, Medvedev, Zyuganov e Zhirinovsky ricevevano ciascuno il 21 per
cento circa, e il tono dei servizi era generalmente neutrale, tranne che per Zhirinovsky, su
cui i commenti erano negativi. Ma, dato il predominio assoluto dei network controllati
dallo stato, la relativa neutralità della REN non faceva molta differenza. Così, il rapporto
CJES concludeva che la copertura mediatica faziosa della campagna era una delle
maggiori pecche dell’elezione. Lo attribuiva al controllo politico dei network a gestione
statale, oltre che alla pressione esercitata sulla maggioranza delle emittenti regionali.
Questa parzialità dei media riproduceva la situazione già denunciata in occasione delle
elezioni parlamentari del dicembre 2007. Emerge che, attraverso una vasta gamma di
procedure e pratiche, il controllo dei media rimane un pilastro del potere statale in Russia.
Internet modifica questo ambiente di controllo della comunicazione? Anche se solo il
25 per cento dei russi sono utenti di Internet, se non si conta il più diffuso uso della posta
elettronica (Levada Center, 2008), e solo il 9 per cento della popolazione cita Internet
come fonte di notizie politiche, i cittadini della Rete appartengono per lo più ai segmenti
più giovani, più istruiti, più attivi e più indipendenti della popolazione. In effetti, nella
regione moscovita, la percentuale di persone che citano Internet come fonte di
informazione politica sale al 30 per cento (Public Opinion Foundation, 2007). Gli spazi
sociali e i blog stanno diventando rapidamente un ambito chiave di espressione e
interazione per la nuova generazione russa. Siti come Odnoklassniki.ru, creato per
permettere a ex compagni di scuola di tenersi in contatto nel paese, o Vkontakte.ru,
l’equivalente russo di Facebook, stanno costruendo social network di utenti che si sentono
liberi di comunicare tra loro. Anche i blog stanno diffondendosi rapidamente. Secondo
Technorati, i blog russi attualmente rappresentano circa il 2 per cento dei blog del mondo.
Il blog più famoso è Zhivoi Zhurnal (Live Journal), creato negli USA nel 1999 e
acquistato nel 2005 dalla società russa SUP, di proprietà del banchiere Aleksander Mamut.
Come nel resto del mondo, solo un piccolo gruppo di blog è direttamente politico, ma
nella blogosfera si svolgono discussioni politiche. Nel dicembre 2007, i blogger misero in
evidenza frodi e pressioni politiche nelle elezioni parlamentari: in un caso, un blogger
caricò un video registrato con il telefonino di due agenti che manomettevano le urne
elettorali in un seggio di San Pietroburgo. Marina Litvinovitch, esperta di comunicazione
che appoggiava Gary Kasparov, affermò che «i blog sono uno dei sostegni più importanti
per noi… C’è un piccolo gruppo di utenti di Internet, forse il 2 per cento, che usa la rete a
scopi politici, ma fanno la differenza» (cit. in Billette, 2008).
Inoltre, il carattere globale di Internet, e la relativa apertura delle sue reti, rappresentano
una seria sfida per uno stato storicamente ossessionato dal controllo dell’informazione. La
prima reazione dello stato russo di fronte alla rapida diffusione di Internet, è stata armarsi
dei mezzi legali e tecnici per controllare la Rete. Come abbiamo detto, le leggi Sorm 1
(1996) e Sorm 2 (1998) fornivano la base per la sorveglianza di Internet, e ordinavano ai
provider della rete di installare sui server, a proprie spese, dispositivi che permettessero
all’FSB di intercettare e-mail, transazioni finanziarie e in generale interazioni online. Nel
2000, una nuova direttiva veniva incorporata nel Sorm 2 includendo la sorveglianza delle
comunicazioni telefoniche via cavo e wireless, e aggiornava i controlli su Internet. La
giustificazione in tutti questi casi era la lotta alla criminalità e alla cybercriminalità. Il
controllo giudiziario sulla sorveglianza è previsto, ma di solito è disatteso. Nel 2008, al
momento in cui scrivo, la Duma sta dibattendo una «Legge modello su Internet» che,
secondo le notizie del portale Lenta.ru, «definirà il sistema di sostegno governativo per
Internet, indicherà i partecipanti al processo di regolamentazione di Internet e le loro
funzioni nel regolamentare e definire le linee guida che riguardano luoghi e tempi
dell’esecuzione di azioni legalmente significative sull’uso di Internet». In realtà, le leggi
russe non censurano i contenuti in rete. Semplicemente permettono alla sorveglianza di
imporre nel cyberspazio le leggi e i decreti che esistono per ogni altro campo di attività,
incluse le leggi sulla sicurezza nazionale, le leggi sulla proprietà, i decreti contro la
pornografia, le leggi contro la diffamazione, e le leggi che vietano la propaganda razzista e
antisemita, benché raramente applicate. Di tanto in tanto, però, qualcosa accade, come nel
caso di un giovane di Syktyvkar, arrestato nell’aprile 2008 per aver postato un commento
antisemita sul blog di un amico nell’intento di incitare alla violenza contro la polizia17. A
prescindere dal giudizio sul contenuto del blog, è diventato chiaro che in Russia una
conversazione privata online non è privata, e se dà fastidio alla polizia, non è priva di
conseguenze.
Nonostante le limitate iniziative del governo contro la comunicazione in Internet,
appare chiaro che il governo russo si sta attrezzando per la battaglia nel cyberspazio
usando metodi simili a quelli che così bene hanno funzionato per gli altri media. Primo:
creare un ambiente giuridico in cui la sorveglianza è legale e fatta valere. Secondo:
diffondere l’intimidazione attraverso punizioni esemplari ben pubblicizzate. Terzo:
reclutare provider e webmaster di Internet nell’attività di sorveglianza, rendendoli
responsabili dei contenuti sui loro siti e passibili di punizione in caso di contenuti invisi al
potere. Quarto: usare aziende di proprietà statale per acquistare siti web popolari perché i
loro dirigenti tengano sotto controllo i temi politici. Così, RuTube, l’equivalente russo di
YouTube, creato nel dicembre 2006, con 300.000 utenti al giorno, nel marzo 2008 è stata
acquistata da Gazprom Media. Gazprom Media sta progettando di investire pesantemente
nei media di Internet. E, quinto e più importante, lo stato sta rispondendo alla sfida delle
reti di comunicazione libere intervenendo nelle discussioni e postando su Internet
attraverso mani prezzolate, o talpe del governo che si presentano come blogger
indipendenti, una questione che è stata messa in luce nel forum russo online del New York
Times nel 2008. Le dirigenze delle aziende di Internet, in effetti, contestano l’idea che vi
sia una censura nell’Internet russa. Così, Anton Nosik, figura di primo piano dell’Internet
russa fin dagli anni Novanta, direttore del Giornale in Diretta nel 2008, sostiene che:

Non esiste censura su Zhivoi Zhurnal… Al Cremlino non sono così stupidi. Hanno
visto che la pratica cinese e vietnamita di censurare Internet non porta a niente.
Preferiscono un metodo diverso: cercano di saturare la rete russa con i loro siti di
propaganda e di intervenire con i propri blogger sul web (cit. in Billette, 2008).
Marina Litvinovitch, una politica liberale, sembra concordare: «Internet è la riserva
naturale per la piccola élite intellettuale russa. Il potere la vede così, e tollera questo spazio
di libertà considerando che la sua capacità di creare problemi è limitata» (cit. in Billette,
2008). Medvedev, a differenza di Putin, sembra sia un lettore abituale di blog e siti web.
Comunque, se la società russa dovesse diventare più recalcitrante nei confronti dello
stato, con una nuova generazione che superi le frustrazioni del periodo di transizione e
arrivi a considerare la democrazia e la libertà di espressione come diritti fondamentali dei
cittadini, lo stato appare pronto a estendere a Internet e alle reti wireless il controllo sulla
comunicazione. Quello che non è chiaro, però, è quanta reale capacità politica, culturale e
tecnica abbia di procedere al controllo sistematico dell’opinione in un mondo di reti
interattive globali. È probabile che se e quando verrà il tempo di un simile sforzo, i
burocrati russi presteranno grande attenzione al tentativo a tutt’oggi più determinato e
sofisticato di controllare la comunicazione nell’Età di Internet: l’esperienza cinese.
Cina: domare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet
La storia della Cina è contrassegnata dall’infaticabile sforzo operato dallo stato per
controllare la comunicazione. Questa ossessione arrivò al punto di proibire nel 1430 la
costruzione di vascelli d’alto mare per impedire l’interazione con i paesi stranieri, una
mossa che, insieme con numerose altre misure isolazioniste, secondo alcuni storici ha
contribuito al ritardo tecnologico di quella che fino ad allora era stata probabilmente la
civiltà più ricca di conoscenze mai esistita sulla Terra (Mokyr, 1990). L’avvento dello
stato-Partito Comunista nel 1949 raffinò e approfondì il controllo sistematico
dell’informazione e della comunicazione da parte dell’apparato di partito, con una
concentrazione prevalente sui media, che divennero proprietà dello stato. Ma l’attenzione
della leadership del partito per il controllo della comunicazione si acuì a partire dal 1979,
quando i leader comunisti del dopo-Mao si impegnarono in una vasta trasformazione
dell’economia e della società, restando però aggrappati al monopolio del potere e al
primato dell’ideologia marxista-leninista, ignorando il suo aspetto anacronistico in una
Cina che si andava deliberatamente integrando nel capitalismo globale (Wang Hui, 2003).
Inoltre, il drammatico fallimento del tentativo di Gorbaciov di pilotare una simile
transizione economica e politica, mise in guardia i leader cinesi sui pericoli della glasnost,
ritenuta l’errore fondamentale che aveva messo la società sovietica fuori controllo. La
posta diventò ancora più alta quando la questione del controllo della comunicazione venne
complicata dalla necessità di ammodernare l’infrastruttura nelle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione come prerequisito per competere sul piano
globale, questione strutturale che sta alla base del crollo dell’Unione Sovietica (Castells e
Kiselyova, 1995). La leadership cinese affrontò la questione a testa bassa, con un chiaro
obiettivo che avrebbe guidato la sua azione nei due decenni successivi: affermare il
dominio politico incontrastato sulla società tramite il controllo della comunicazione,
modernizzando allo stesso tempo le capacità tecnologiche nelle telecomunicazioni e
nell’informazione della nuova Cina come fondamenta della sua competitività economica e
della sua potenza militare.
Per far questo, il partito organizzò due insiemi di istituzioni (Zhao, 2008, pp. 19-74).
Nel dicembre 2001 istituì il Gruppo di Leadership di Stato sull’Informatizzazione
(comprendente anche le telecomunicazioni), un organo sovraministeriale presieduto dal
primo ministro (Zhu Rongji al tempo, poi gli altri premier). Del gruppo facevano parte i
capi delle agenzie di comunicazione e di informazione più rilevanti nei settori della
tecnologia, nell’infrastruttura e nella sicurezza, costituendo un «gabinetto informale» al di
sopra dell’autorità del Consiglio di Stato per coordinare l’intero ventaglio delle politiche
relative all’economia dell’informazione e alla sicurezza dell’informazione. Quando
all’inizio degli anni 2000 Internet si diffuse in Cina, al gruppo fu aggiunto un Ufficio
Gestione Informazioni Internet, insieme con tutte le agenzie e le commissioni attinenti, per
dirigere la costruzione e la gestione delle reti di comunicazione. Sotto la guida di questo
gruppo di alto livello, varie agenzie governative (in particolare l’Amministrazione
Generale Stampa e Pubblicazioni, e l’Amministrazione Statale di Radio, Film e
Televisione) fissarono le normative per i diversi settori che costituivano i media:
quotidiani, periodici, editoria, pubblicazioni elettroniche, gestione dei film, gestione di
radio e televisione, e gestione delle strutture di ricezione a terra da satellite. Le normative
riguardavano sia l’industria in sé sia il contenuto dei suoi prodotti. Inoltre, ciascuna
agenzia governativa formulava sue «clausole» per applicare le linee guida generali al
proprio specifico ambito di attività.
Per modernizzare il settore mediatico e per concentrarlo sulla commercializzazione e
l’intrattenimento, senza abbandonare il rigido controllo politico, nel 2003 il governo varò
una vasta riforma dei media, chiudendo svariate pubblicazioni e stazioni, e
riorganizzandone altre. I media furono aperti alla commercializzazione, ma con uno
specifico statuto, in base al quale la regola della proprietà degli investitori non si applica.
Solo l’organizzazione sponsorizzatrice (sempre dipendente dal Partito Comunista) viene
riconosciuta come investitore. Tutti gli altri finanziamenti vengono trattati o come
donazioni benefiche o come prestiti, così che le aziende mediatiche hanno ricevuto
investimenti commerciali che possono essere compensati con profitti ma la proprietà e il
controllo restano nelle mani di un’organizzazione dipendente dal partito. Inoltre, ogni
forma di divulgazione delle informazioni deve essere autorizzata dal governo centrale
(Qinglian, 2004).
Inoltre, il tradizionale Dipartimento Propaganda del partito rafforzò il suo potere e
perfezionò i suoi metodi, in un processo che ebbe inizio cambiando il nome in
Dipartimento Pubblicità, termine considerato più professionale di «propaganda». Il
Dipartimento copre tutte le aree di potenziale diffusione di idee e informazioni in Cina,
comprese, oltre ai media, le istituzioni culturali, le università, e ogni forma di espressione
ideologica o politica organizzata. Estende le sue attività al controllo quotidiano di organi
mediatici, televisione, radio, carta stampata, agenzie di stampa, libri e Internet. Yuezhi
Zhao (2008) ha analizzato e documentato il concreto funzionamento del sistema di
controllo del Dipartimento Pubblicità. Opera su una «modalità direttiva», con specifiche
istruzioni su specifiche informazioni e linee guida ricavate dalle dichiarazioni dei leader e
dai rapporti dell’agenzia di stampa Xinhua. Un meccanismo chiave è la cosiddetta
«riunione di aggiornamento» che si svolge regolarmente in tutte le organizzazioni di
media, in cui i funzionari incaricati di controllare l’informazione trasmettono le istruzioni
del partito e valutano le possibili deviazioni dalla linea del partito. Quando un giornalista
che lavora per un’organizzazione mediatica non è presente alla «riunione di
aggiornamento» spesso riceverà un SMS dal suo supervisore in cui gli si dice di che cosa
non scrivere. Questa è la pratica che Qiu chiama «il guinzaglio wireless» (Qiu, 2007).
Secondo Yuezhi Zhao, sotto la leadership di Hu Jintao la disciplina politica nei media è
stata rinforzata grazie alla microgestione dell’informazione. Anche il controllo del
personale è importante, perché i giornalisti devono essere forniti di una certificazione, e
l’ideologia politica e un comportamento sociale accettabile sono importanti requisiti per
ottenerla.
Tuttavia, come hanno osservato Yuezhi Zhao e altri analisti, il processo di controllo è
più complesso di quanto appaia a prima vista. È impensabile che nel paese più popoloso
del mondo, e in una società altamente complessa, delle commissioni di partito possano
reprimere ogni deviazione nell’elaborazione e diffusione dei messaggi mediatici, in
particolare quando, in gran parte delle questioni, le direttive non possono essere precise
fino al minimo dettaglio. E i dettagli contano, in particolare in contesti locali. È per questo
che la sua struttura distribuita è il meccanismo critico attraverso il quale opera il
controllo della comunicazione. Figure di nomina politica sorvegliano da vicino l’intero
sistema dei media in una cascata di controlli che in ultima analisi scarica la responsabilità
sulle spalle dell’immediato supervisore incaricato della produzione e distribuzione di
ciascun messaggio mediatico, così che l’autocensura generalizzata è la regola.
Gli errori individuali si pagano. Tradizionalmente, i giornalisti perdono il lavoro e, a
seconda della gravità dell’errore, devono vedersela con la polizia politica o essere inseriti
nei programmi di rieducazione del partito. In tempi recenti, con un occhio al capitalismo,
un piccolo sbaglio potrà comportare in una riduzione del magro stipendio del colpevole, in
proporzione alla gravità dell’errore. Per esempio, stando a una fonte affidabile, alla
Televisione Centrale cinese ogni discrepanza tra quel che dice il lettore del notiziario e
quello che è scritto sul gobbo del testo si traduce in una multa di 250 yuan (nel 2008).
Quindi, in caso di dubbio, il giornalista o il conduttore, o l’autore, tende a optare per la
versione politicamente corretta del suo pezzo. Oppure possono rivolgersi al supervisore,
che procederà di conseguenza, distribuendo in questo modo lungo la gerarchia di comando
e controllo l’interiorizzazione della censura. Inoltre, quelli che hanno il potere di
interpretare le linee guida applicano in maniera flessibile il principio del controllo del
partito. Questa flessibilità è indispensabile perché il sistema funzioni in maniera realistica,
e anche perché mantenga la sua capacità di rigenerazione attraverso una relativa apertura
alle critiche. Così, vi sono questioni che sono considerate strategicamente importanti e
altre che sono aperte a una moderata critica. Per esempio, i comunisti sono da qualche
tempo (ultimamente meno) estremamente preoccupati per il Falun Gong, culto che
sembrava capace di scatenare un movimento messianico per la restaurazione delle
tradizioni cinesi (paradossalmente sotto la guida di un leader che risiedeva a New York e
organizzava il movimento attraverso Internet; Zhao, 2003). Così, ogni riferimento al Falun
Gong che ne faccia le lodi o sia anche solo neutrale farà certamente scattare tutti gli
allarmi. L’indipendenza di Taiwan è una questione scottante. Il ricordo del massacro di
Tiananmen deve essere sepolto nella storia. Dibattiti specifici sulla democrazia e sulla
leadership del partito non sono argomenti ben visti. Diritti umani è una frase che in Cina
desta sospetti. La questione tibetana resta abitualmente off limits per il dibattito pubblico,
se non per riaffermare la sovranità dello stato cinese o per ricordare alla popolazione le
connessioni del Dalai Lama con il nazismo durante la seconda guerra mondiale. E i servizi
sulle catastrofi naturali, che si tratti dell’epidemia di SARS o dei terremoti, devono essere
formulati in modo da non provocare allarme nel pubblico, anche se tanto durante la SARS
quanto nel terremoto del Sichuan ci sono stati momenti in cui la censura del governo non è
funzionata appieno.
E allora, che cosa rimane? In pratica, quasi tutto il resto, che è la stragrande
maggioranza degli argomenti e delle idee che interessano il popolo cinese. Quindi, le
critiche ai funzionari del governo locale o provinciale arrivano spesso sui media,
costituendo di fatto una delle forme della lotta politica interna al partito (Guo e Zhao,
2004; Liu, 2004). Le rivendicazioni dei cittadini dei propri diritti, oltre ai servizi sulle
proteste dei contadini e degli sfollati in città popolano la stampa cinese in modo filtrato,
anche se sono meno presenti in televisione (Hsing, di prossima pubblicazione). E i dibattiti
sui problemi sociali, entro i limiti retorici del rispetto per il partito, sono il cibo quotidiano
dei media cinesi. Inoltre, ciò che è proibito e ciò che non lo è cambia secondo il contesto e
l’interpretazione della linea del partito da parte di specifici censori. In un’espressione
indicativa della realtà della censura cinese sul terreno, Zhao (2008, p. 25) scrive che:

Alcuni argomenti sono o totalmente proibiti o da riportare sotto il più stretto


controllo… Altri temi tabù sono di carattere più transitorio e vengono «definiti
situazionalmente». Così, come dice un saggista della Rete, la linea del partito «non è
una linea retta, ma una curva continuamente mutevole e difficile da afferrare». Tutta
una serie di fattori, tra cui il cambiamento delle priorità politiche del partito in un
dato periodo, le lotte di potere tra élite, il clima politico interno e internazionale, e i
cambiamenti di stagione politica… sono tutte variabili possibili. Anziché indebolire
l’efficacia del controllo del partito, però, il carattere imprevedibile e in continua
trasformazione della linea del partito assicura la permanenza della sua rilevanza e del
suo potere disciplinare.
Come fanno giornalisti, dirigenti di media e blogger a governare l’incertezza e la
complessità delle norme che regolano la comunicazione? Fan Dong (2008b) sottolinea
l’esistenza di un addestramento che dura tutta la vita, attraverso il sistema educativo, per
interpretare i segnali provenienti dal controllo politico, così che in ciascun contesto è
facile percepire che cosa è politicamente corretto. Riportando il suo studio sul controllo
dei media cinesi, afferma che i suoi intervistati sono capaci di riportare l’ambiguità delle
regole e delle istruzioni generali alla realtà del loro ambiente professionale. Imparano
facendo, sulla base della loro esperienza. Ricorda un detto cinese: «il popolo sa sempre
trovare il modo di adattarsi alle politiche del governo cinese» (Dong, 2008b, p. 8).
Tuttavia, se il modello cinese di controllo dei media tradizionali è esaustivo e
ragionevolmente efficace, sorge la questione di quanto sia fattibile estrapolare il modello
per applicarlo a Internet. In effetti è una questione che domina il dibattito sulla vera
libertà di Internet in tutto il mondo. Quanto è contraddittoria, nei termini di Qiu (2004), la
diffusione di tecnologie di libertà all’interno di una società statalista? Perché la realtà di
questa diffusione esiste: mentre nel 2007 in Cina c’erano 210 milioni di utenti di Internet,
rispetto ai 216 milioni negli USA, secondo i dati del governo nel luglio 2009 gli internauti
in Cina erano giunti a 253 milioni, che la rendono attualmente il paese con il più alto
numero di utenti di Internet al mondo (CNNIC, 2008). Il governo cinese ha abbracciato
pienamente Internet come business, oltre che strumento di istruzione, cultura e
propaganda. Per esempio, il 25 giugno 2008 il presidente Hu Jintao ha interagito con gli
internauti per quattro minuti sulla Rete del Popolo, che appartiene all’agenzia di stampa
Xinhua, e ha sottolineato l’importanza di Internet come strumento di democrazia,
esortando le autorità di governo a impegnarsi in simili dialoghi con i cittadini. Il governo
cinese, però, come molti governi del mondo, non si allontana dalla lunga pratica di
sorveglianza dei contenuti, bloccando messaggi indesiderati e punendo di conseguenza i
messaggeri. Ma come può il governo esercitare un controllo su una rete di comunicazione
così gigantesca e decentrata, connessa alle reti globali, dove gli utenti cinesi passano oltre
due miliardi di ore alla settimana?
Dalla fine degli anni Novanta il governo cinese ha tentato di controllare Internet con la
stessa determinazione che da decenni mostra verso il settore dei media. Le stesse agenzie
responsabili del controllo della comunicazione hanno istituito specifiche unità per
controllare Internet. Già nel febbraio 1996 fu emesso un decreto, rivisto nel maggio 1997,
che fissava le misure per incanalare il traffico internazionale di Internet attraverso porte
d’ingresso approvate; di mettere sotto licenza i provider; di registrare tutti gli utenti
Internet; e di mettere al bando le informazioni pericolose. Decreti aggiuntivi miravano a
migliorare la «sicurezza in rete» e a vietare il criptaggio non autorizzato. Nel corso degli
anni, un fiume di nuove regole e misure di intimidazione ha accompagnato l’irresistibile
ascesa di Internet come rete di autocomunicazione di massa in Cina. Tecnicamente, è stata
installata la «Grande Muraglia», un immenso firewall per bloccare i siti web considerati
potenziali fonti di informazioni indesiderate; secondo alcune fonti, essi costituivano ben il
10 per cento dei siti del World Wide Web. Sono state implementate tecnologie
informatiche avanzate di intercettazione, e la Cisco è stata incaricata di mettere in piedi il
più sofisticato sistema di bloccaggio al mondo (il Progetto Golden Shield), anche se la sua
realizzazione è ancora in via di completamento alla metà del 2008.
Sul lato umano della repressione politica, decine di utenti Internet sono stati rintracciati,
arrestati e puniti (qualcuno con il carcere) per hacking informatico, per propaganda al
Falun Gong, per «incitamento alla sovversione», o per aver diffuso voci atte a suscitare
pubblico allarme, come nel caso della SARS (Qiu, 2004, p. 111). Inoltre, in momenti
critici un certo numero di siti web in tutto il mondo, tra cui alcuni dei maggiori media
occidentali (per esempio il New York Times) sono stati bloccati per un periodo di tempo, e
importanti siti come YouTube sono stati chiusi in Cina. Non solo, ma i cybercafé,
considerati luoghi sospetti per il libero uso di Internet, vengono regolarmente chiusi e
continuamente perseguitati e sorvegliati. Eppure, l’efficienza tecnica dei controlli è
discutibile. Questo perché, in ultima istanza, i meccanismi di sorveglianza sono basati su
sistemi automatici di analisi dei contenuti che individuano parole chiave. Quindi, se la
gente non usa «parolacce» (come Falun Gong, porno, Tienanmen, Taiwan, o democrazia),
difficilmente i bot riescono a riconoscere il messaggio perseguibile, anche con i nuovi
sistemi di analisi del contesto semantico che sono l’ultima generazione delle tecnologie di
sorveglianza. La gente usa scappatoie per dire quel che vuole senza ricorrere alle parole
incriminate. Solo pochi siti web sono chiusi definitivamente. La maggioranza degli altri
siti, tra cui quelli dei media tradizionali occidentali, sono bloccati solo per periodi di
tempo limitati. Gli utenti cinesi di Internet possono anche usare siti «proxy», per mezzo di
reti peer-to-peer, anziché collegarsi direttamente ai siti web sospetti. Anche se c’è per tutti
gli utenti di Internet l’obbligo di registrarsi, scrive Qiu (2004, p. 112),

non esiste un modo sistematico per essere sicuri che ognuno dei 59 milioni di utenti
Internet della Cina sia registrato o che le informazioni della registrazione siano
veritiere. Di solito si può accedere alla Rete in un cybercafé senza dover esibire un
documento di identità; ed è pratica comune usare una shangwangka, la carta che
fornisce la connessione telefonica senza chiedere informazioni personali. Anche se il
regime censorio cerca di bloccare, filtrare, e rintracciare chiunque, gli utenti cinesi
più determinati possono accedere a informazioni fuori legge attraverso i messaggi
criptati, l’FTP e, più di recente, le tecnologie peer-to-peer.
È per questo motivo che il sistema più efficace per controllare Internet in Cina è quello
che riproduce il metodo, ormai ben sperimentato, utilizzato nel corso degli anni per
controllare i media: la gerarchia a cascata di sorveglianza che finisce per indurre
l’autocensura a tutti i livelli, e punisce il colpevole a ciascun livello appena viene
individuata una significativa falla nella catena di controllo (Dong, 2008b). Così, la
proprietà dei provider di Internet è nelle mani del governo. I fornitori di servizi di Internet
sono sottoposti a licenza, e sono responsabili della diffusione di eventuale contenuto
indebito sulla rete. Anche i fornitori di contenuti a Internet sono responsabili, e inoltre
devono partecipare a sessioni di formazione del governo e ottenere un certificato per
gestire il servizio. Devono anche conservare la documentazione del loro traffico e
consegnare tutto il contenuto fornito dagli utenti, più i loro log, su richiesta delle autorità.
Questo vale anche per gli Internet café. Ma il contenuto generato dall’utente è più difficile
da controllare. È per questo che l’ultimo, e più efficace, livello di controllo è quello dei
webmaster. Ma qui sta la flessibilità segreta del sistema di controllo, come spiega l’analisi
di Dong (2008b). Secondo Guo Liang, autore di Academy of Social Sciences’ Internet
User Report in China, in un’intervista con Dong, personalità, età e retroterra dei
webmaster hanno un impatto diretto sullo stile e il contenuto delle interazioni online.
Mentre i webmaster più anziani sono più rigidi nel cancellare i contenuti, quelli che
appartengono alla nuova generazione di utenti di Internet capiscono meglio il significato
di quel che la gente (di solito giovane) dice, e i limiti di ciò che potrebbe essere offensivo
per i poteri superiori. Ne segue un misto di complicità e autocensura che rende vivibile la
vita in Internet per la stragrande maggioranza degli utenti, quelli che non hanno un’agenda
politica, anche se a volte si scambiano idee sulla politica cinese. Questo, di fatto, è il punto
fondamentale riguardo al controllo di Internet in Cina.
Nel suo studio sulla concreta efficacia del controllo di Internet in Cina, Dong (2008b)
ha seguito per alcune settimane nella primavera del 2008 l’interazione online in due forum
cinesi, registrandone i commenti, compresi quelli scambiati con i webmaster. Uno dei
forum era in Cina, mentre l’altro era negli Stati Uniti e quindi libero dal controllo
governativo. L’autrice ha usato parole chiave per cercare interazioni su temi divisi in tre
categorie: quelli più politicamente sensibili (come Falun Gong e Tiananmen); quelli
considerati mediamente sensibili (come il Tibet, Taiwan, la democrazia, i diritti umani); e i
temi meno sensibili, ma ugualmente controversi, come la corruzione e la libertà. Rileva
che le questioni più delicate non erano trattate direttamente in nessuno dei due forum,
mentre a Falun Gong ci si riferiva indirettamente solo nel forum americano. Il webmaster
sottopose al voto la questione, e una volta ottenuta l’approvazione degli utenti, diede il via
al dibattito, scatenando in realtà un bufera di critiche contro «le ruote» (i seguaci del Falun
Gong) sul forum. Per il secondo genere di questioni, sia con il Tibet sia con Taiwan, vi
furono accese discussioni in entrambi i forum, e in entrambi i forum operarono gli stessi
meccanismi: a determinare se il messaggio fosse bloccato o meno, non era il contenuto
della posizione politica ma il tono in cui veniva espresso. Per esempio, «dobbiamo liberare
immediatamente Taiwan!» era giudicato troppo controverso. Quanto al terzo livello delle
questioni dibattute, la corruzione fu discussa liberamente in entrambi i forum, ma mentre
in Cina ci si focalizzava su specifici casi di corruzione a opera di autorità locali, nel forum
con base negli USA la discussione verteva sulla corruzione come problema della società
cinese.
Anche se non è possibile estrapolare i risultati di questo studio, interessante ma limitato,
le loro implicazioni sono significative. Il dibattito politico in Internet è manovrato in
maniera flessibile dai webmaster, ed è in larga misura autogestito dai partecipanti ai forum
online. Per la stragrande maggioranza il contenuto prodotto dagli utenti in Internet è
apolitico, e così non cade sotto l’occhio dei censori. Quanto al numero ridotto dei
partecipanti ai dibattiti politici, il sostegno alla Cina come nazione, spesso identificata con
il governo, rappresenta la maggioranza delle opinioni. Questa osservazione è stata
confermata nella primavera del 2008 quando le critiche occidentali alla repressione cinese
delle manifestazioni politiche in Tibet scatenarono una tempesta politica su Internet,
particolarmente intensa tra gli studenti cinesi all’estero, che attaccavano i media
occidentali per la manipolazione delle immagini e difendevano la Cina e il suo governo,
da quelle che consideravano aggressioni colonialiste. Anche se è probabile che il governo
cinese gettasse benzina sul fuoco dell’indignazione studentesca, vi sono prove che si trattò
di un movimento genuino. Anzi, il governo cinese bloccò l’accesso a YouTube per placare
la controversia, censurando così i video che gli studenti avevano postato in appoggio alla
Cina in Tibet.
C’è, in effetti, una questione importante alla base della relazione tra la Cina e Internet.
Spesso si pensa che ampi settori del popolo cinese soffrano sotto il comunismo e non
siano in grado di esprimere le loro critiche. In realtà i dati dei sondaggi mostrano che nel
2005 il 72 per cento dei cinesi erano soddisfatti delle condizioni del paese, una
proporzione più alta di quella di ogni altro paese del mondo (Pew Global Attitudes
Project, 2005). Tra gli studenti e i giovani in generale, la principale ideologia politica che
suscita un forte appoggio è il nazionalismo, in particolare contro Giappone e Taiwan. Il
Partito Comunista, che arrivò al potere come un movimento nazionalista nella «guerra
patriottica» contro il Giappone prima di sconfiggere il Kuomintang, è stato capace di
presentare la propria leadership come l’espressione dell’indipendenza e della futura
grandezza della Cina. Così, mentre la democrazia, che il paese non ha mai conosciuto,
resta un ideale astratto, adottato da una esigua minoranza intellettuale, le ferite del
colonialismo e dell’umiliazione straniera rimangono vive e promuovono la fedeltà alla
nazione, e al suo governo, tra la generazione dei giovani. Se aggiungiamo che in Cina
oltre due terzi dell’uso di Internet riguarda l’intrattenimento, e che la principale ambizione
della popolazione urbana istruita, che costituisce il grosso degli utenti di Internet, è di
beneficiare del consumismo (Chinese Academy of Social Sciences, 2007), potrebbe anche
essere che il colossale sistema messo in piedi dal governo cinese per controllare Internet
sia il risultato più di un riflesso del passato che di una necessità attuale. Quanto al futuro,
le sollevazioni dei contadini nelle campagne e degli sfrattati nelle città contro
l’usurpazione speculativa dei suoli che sta al cuore dell’accumulazione primitiva cinese
potrebbero rappresentare una minaccia molto più grave dei pettegolezzi da salotto
scambiati su Internet (Hsing, di prossima pubblicazione).
E così, il potere dello stato, nelle sue manifestazioni più tradizionali, manipolazione e
controllo, è pervasivo sui media e Internet in tutto il mondo. Costituisce un altro strato
della politica mediatica mirata a influenzare il comportamento costruendo significato. Ma
non cancella i processi di formazione del potere esaminati in questo capitolo. In pratica,
con la politica scandalistica spesso ci si riferisce alla capacità dello stato stesso, e non solo
di attori politici, di fabbricare, rivelare o bloccare informazioni compromettenti relative ai
suoi oppositori. In alcuni casi i conflitti all’interno dello stato vengono combattuti sui
media, a volte con l’impiego della politica scandalistica. Così, vi sono molteplici forme di
politica mediatica, ma tutte hanno in comune due caratteristiche fondamentali: mirano alla
costituzione di potere plasmando la mente del pubblico; e contribuiscono alla attuale crisi
di legittimazione della politica che sta scuotendo le fondamenta istituzionali delle nostre
società.
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione della
politica
Come documentato nelle figure A4.1-A4.8 (vedi Appendice in fondo al volume), la
maggioranza dei cittadini del mondo non si fida dei propri governi o dei propri parlamenti,
e un gruppo ancora più folto di cittadini disprezza i politici e i partiti politici, e pensa che
il proprio governo non rappresenti la volontà del popolo. Ciò include anche le democrazie
avanzate, considerando le numerose indagini che mostrano che la fiducia nel governo e
nelle istituzioni politiche è calata in misura sostanziale negli ultimi trent’anni: vedi per
esempio, la Voice of the People Survey del World Economic Forum (2008),
l’Eurobarometer (2007), l’Asian Barometer (2008), il Latinobarometro (Corporación
Latinobarometro, 2007), Accenture (2006), Transparency International (2007), la BBC
(Globescan, 2006), la World Value Survey (Dalton, 2005b) e worldpublicopinion.org (Kull
et al., 2008). Secondo World Public Opinion (2008) il 63 per cento degli intervistati in
tutte le 18 nazioni incluse nell’indagine riteneva che il proprio paese fosse «governato da
pochi grandi interessi che pensano a se stessi» e solo il 30 per cento pensava che era
governato «per il bene di tutto il popolo» (p. 6). Nel settembre 2007, solo il 51 per cento
degli americani mostrava «molta» o «abbastanza» fiducia nel governo federale, la
percentuale più bassa da quando nel 1972 la Gallup iniziò a porre la domanda (Jones,
2007a). Nell’Unione Europea, secondo l’Eurobarometer (2007), oltre l’80 per cento dei
cittadini non si fida dei partiti politici, e oltre due terzi non si fidano del proprio governo
nazionale. In America Latina il 77 per cento degli intervistati da Voice of the People
Survey riteneva che i propri leader politici fossero disonesti (World Economic Forum,
2008).
Da che cosa dipende questa situazione? Indubbiamente l’insoddisfazione verso
specifiche scelte politiche, e verso lo stato dell’economia e della società in generale, sono
fattori importanti per spiegare la disaffezione dei cittadini. Ma i dati dei sondaggi rilevano
che la percezione della corruzione è il più significativo elemento di predizione della
sfiducia politica. Se il tasso di declino della fiducia varia da paese a paese, la generale
tendenza verso il basso è evidente in quasi tutti i paesi più sviluppati (a eccezione dei
Paesi Bassi tra gli anni Settanta e i Novanta). Hetherington (2005), Warren (2006) e altri
sostengono che il grado di fiducia nel sistema di governo è diventato ormai un indicatore
importante e indipendente dell’appoggio alle politiche governative, e che è più importante
del solo schieramento partitico o della sola ideologia. Diverse forme di fiducia politica
interagiscono tra loro. La mancanza di fiducia verso specifici candidati, per esempio, può
trasformarsi in sfiducia verso le istituzioni politiche, e, alla fine, verso il sistema politico
nel suo insieme. La fiducia politica è strettamente connessa con la fiducia sociale generale.
Gli studi sul capitale sociale (per esempio Putnam, 2000) sostengono che l’impegno civile
e la fiducia interpersonale contribuiscono alla fiducia sociale generale, e quindi politica.
Nel complesso, mentre la fiducia verso le istituzioni della società ha subito un netto calo
(con lievi fluttuazioni) nel periodo del secondo dopoguerra, l’impatto di questo declino
non è uniforme o diretto. Per esempio, una fiducia politica in declino non significa
necessariamente una minore affluenza alle urne o una riduzione nell’impegno civile, come
mostrerò nell’analisi che segue. È però opinione comune che periodi prolungati di sfiducia
nel governo generino insoddisfazione verso il sistema politico e potrebbero avere
implicazioni critiche per la governance democratica.
Riconoscendo il problema, i governi in tutto il mondo hanno varato nuove norme per
mitigare le manifestazioni di corruzione, e hanno aumentato il numero delle inchieste
politiche e dei controlli giudiziari. Nonostante questi sforzi, la percezione della corruzione
è dovunque in crescita. Un’indagine del 2007 condotta da Transparency International
(Global Corruption Barometer Survey, pp. 8, 9 e ss.) ha rilevato che:
– Il grande pubblico ritiene che i partiti politici, il parlamento, la polizia e il sistema
legale/giudiziario siano le istituzioni più corrotte della società.
– I partiti politici (al 70 per cento circa) e il ramo legislativo (al 55 per cento circa) sono
percepiti dalla gente nel mondo come le istituzioni più affette dalla corruzione.
– I poveri, tanto nei paesi in via di sviluppo quanto in quelli industrializzati, sono i più
penalizzati dalla corruzione. Sono anche più pessimisti sulle prospettive di una
diminuzione della corruzione in futuro.
– Circa una persona su dieci, a livello mondiale, ha dovuto pagare una tangente nel
corso dell’ultimo anno. I casi di corruzione sono cresciuti nell’Asia del Pacifico e
nell’Europa sudorientale.
– La corruzione è particolarmente diffusa nelle interazioni con la polizia, il sistema
giudiziario e i servizi di registrazione e di concessione di permessi.
– La metà degli intervistati – un numero sensibilmente superiore a quattro anni prima –
prevede che la corruzione nel loro paese aumenterà nei tre anni successivi, con l’eccezione
di alcuni paesi africani (probabilmente una funzione del livello attuale di corruzione).
– La metà degli intervistati pensa che gli sforzi del proprio governo per combattere la
corruzione siano inefficaci.
– Le ONG, le organizzazioni religiose e le forze armate sono percepite dai cittadini
come le meno toccate dalla corruzione.
– In generale, le percezioni dei cittadini sulla corruzione in istituzioni chiave non sono
cambiate sostanzialmente tra il 2004 e il 2007. Ma l’opinione su alcune istituzioni, come il
settore privato dell’economia, è peggiorata nel tempo. Ciò vuol dire che il pubblico oggi
ha una visione più critica che in passato del ruolo del business nell’equazione della
corruzione. Confrontando i dati del 2004 e del 2007, c’è stato a livello mondiale un
incremento nella proporzione delle persone che considerano le ONG corrotte. Ma la
proporzione a livello mondiale delle persone che considerano corrotti la magistratura, il
parlamento, la polizia, le autorità fiscali e i servizi sanitari e di istruzione è diminuita
leggermente nel periodo 2004-2007, anche se la maggioranza delle persone ha ancora una
visione negativa del governo e delle istituzioni giudiziarie.
Perché la percezione della corruzione è così importante per la fiducia politica?
Dopotutto, è una pratica pervasiva e antica quanto l’umanità. Eppure, dato che la
democrazia è essenzialmente procedurale, come ho sostenuto nel capitolo 1, se il processo
dell’allocazione del potere nelle istituzioni statali e la gestione delle istituzioni di governo
possono essere modificate da azioni extra-procedurali a favore di specifici gruppi di
interessi o individui, non c’è ragione per cui i cittadini debbano rispettare la delega del
potere ai governanti. Ciò che ne segue è una crisi di legittimazione; ossia, una diffusa
carenza di fiducia nel diritto dei leader politici di prendere decisioni a nome dei cittadini
per il benessere della società. La governance diventa una pratica da sopportare con
rassegnazione, o a cui resistere quando possibile, anziché da sostenere in seguito a
deliberazioni. Quando i cittadini pensano che il governo e le istituzioni politiche truffino
regolarmente, ognuno sente di avere pari opportunità di truffare. E con questo, vengono
gettati i semi della disgregazione istituzionale. Nei momenti di esplosione sociale, in molti
paesi la gente scende in piazza con lo slogan dei manifestanti argentini che nel 2001
fecero cadere il governo: «Que se vayan todos!!! [Ma che se ne vadano tutti!!!]», riferito
all’intera classe politica del paese.
Inoltre, se la corruzione può non essere cresciuta in misura sostanziale nella storia
recente (potrebbe essere vero il contrario), quel che è aumentato è la pubblicità della
corruzione, la percezione della corruzione, e l’impatto di tale percezione sulla fiducia
politica. Secondo Warren (2006, p. 7), la fiducia politica psicologica coinvolge un giudizio
sui valori e gli attributi morali associati a un determinato governo, una determinata
istituzione, e/o singoli leader politici. Pertanto, si riferisce al punto di vista che le persone
possono avere sulla affidabilità dei loro rappresentanti politici. Nella fiducia politica
basata sul ragionamento psicologico, la gente cerca la sincerità e la autenticità della
personalità, l’apparenza pubblica, il modo di parlare, e il comportamento dei leader
politici.
Quindi, la connessione tra esposizione alla corruzione politica e declino della fiducia
politica può essere riferita direttamente al predominio della politica mediatica e della
politica scandalistica nella conduzione della cosa pubblica. Diversi studi hanno trovato le
prove della relazione tra il declino della fiducia politica generale e la ricorrenza della
politica scandalistica. Treisman (2000) ha analizzato un campione di paesi, usando i dati
della World Value Survey della University of Michigan, e ha trovato una correlazione
diretta tra la corruzione percepita e il calo di fiducia politica, controllando per gli effetti
del PIL e della struttura politica nella stima statistica della fiducia degli elettori.
Guardando alla Germania, però, Herbert Bless e i suoi colleghi (Bless et al., 2000;
Schwarz e Bless, 1992; Bless e Schwarz, 1998) hanno rilevato che l’impatto degli scandali
sul giudizio dei giovani adulti non è semplice come sembrerebbe a prima vista. Hanno
dimostrato che l’effetto di uno scandalo politico in Germania sul giudizio politico dipende
dal soggetto in questione. Più precisamente, l’attivazione di un frame negativo sul politico
coinvolto in uno scandalo (per esempio, un politico inaffidabile) riduceva i giudizi di
affidabilità sui politici in generale (la categoria) ma accresceva i giudizi di affidabilità su
altri specifici politici non coinvolti nello scandalo. Regner e Le Floch (2005) replicavano i
risultati della ricerca di Bless nel contesto francese. Mentre trovavano esiti analoghi nei
partecipanti con alti livelli di conoscenza sull’affare Dumas/Elf, trovavano che era vero il
contrario per i partecipanti con bassa conoscenza. Quelli che disponevano di migliore
conoscenza mostravano effetti di contrasto e giudicavano più positivamente alcuni politici
rispetto a quelli coinvolti nello scandalo. Quelli con livelli inferiori di conoscenza non
esibivano effetti del genere: ritenevano tutti i politici, e la politica in generale, ancora
meno affidabili.
Mentre c’è ampio consenso intorno all’idea che la fiducia nelle strutture della società e
nelle istituzioni ha subito un calo (Putnam, 1995; Brehm e Rahn, 1997; Robinson e
Jackson, 2001), sul ruolo svolto dai media in questo processo la discussione è ancora
aperta. Diversi studiosi sostengono che la copertura negativa dei media porterebbe al
«malessere mediatico» tra i cittadini, accrescendo i sentimenti di impotenza, lo scetticismo
e l’isolamento (per esempio Patterson, 1993; Putnam, 1995, 2000; Cappella e Jamieson,
1997; Mutz e Reeves, 2005; Groeling e Linneman, 2008). In generale sostengono che,
mentre non è chiaro se il discorso civile sia cambiato radicalmente nel corso del tempo, la
proliferazione delle piattaforme mediatiche, in particolare della televisione, implica che i
cittadini siano sempre più esposti ad azioni politiche incivili, il che porta al declino nella
stima delle istituzioni politiche. Robinson (1975) è stato il primo a proporre il termine
«videomalessere» per riferirsi a questo fenomeno. La tendenza attuale è di parlare di
media malaise a proposito della copertura negativa della televisione che viene
scimmiottata dagli altri mezzi di comunicazione.
Dall’altra parte, un gruppo minore ma autorevole di studiosi, come Inglehart (1990),
Norris (1996, 2000) e Aarts e Semetko (2003), sostiene che l’aumento della copertura
mediatica crea una connessione più forte tra governati e governanti, portando a un
«circolo virtuoso» di maggior impegno civile. I termini del dibattito devono però essere
chiariti. Quello che mostrano i dati di Norris è che gli individui che sono più politicamente
impegnati sono più attenti ai media. Ma questo non dice molto sulla direzione del loro
impegno. I cittadini politicamente attivi si attivano per raccogliere informazioni da ogni
possibile fonte. Ma se una massa crescente di informazione politica si presenta nei termini
della politica scandalistica, una maggiore esposizione a queste informazioni potrebbe
minare la fiducia nel sistema politico, ma potrebbe anche condurre alla mobilitazione per
un mutamento sistemico. In altre parole sembrerebbe che la politica scandalistica sia più
direttamente collegata alla crisi di fiducia che non la politica mediatica in sé. Ma siccome
la politica scandalistica opera attraverso i media, e siccome è conseguenza della dinamica
della politica mediatica, come ho sostenuto sopra, la maggioranza degli studi trova una
correlazione tra copertura mediatica (per prospettiva e volume) e valutazioni sulle
istituzioni sociali e politiche. Così, Fan et al. (2001) rilevano che la copertura della stampa
sulla stampa stessa, sui militari e sulla religione organizzata ha un effetto sulla fiducia in
queste istituzioni secondo la misurazione dei dati della General Social Survey. Hibbing e
Theiss-Morse (1998) hanno riscontrato, in contesto USA, che quei cittadini che si basano
principalmente sulla televisione o la radio per valutare le istituzioni politiche esprimevano
valutazioni emozionali significativamente più negative sul Congresso USA che quelli che
sono esposti meno ai media, anche se le loro percezioni cognitive erano le stesse. In uno
studio sperimentale, Mutz e Reeves (2005) scoprivano che l’esposizione da parte della
televisione al discorso politico incivile riduceva significativamente la fiducia nei politici in
generale, la fiducia nel Congresso e la fiducia nel sistema politico americano, mentre
l’esposizione a un discorso civile tramite la televisione accresceva la fiducia (vedi figura
A4.8 in Appendice).
Altri studi indicano che gli individui che si basano sulla televisione come principale
fonte di notizie sarebbero più portati a soffrire di «malessere mediatico» perché il mezzo
visivo intensifica l’importanza delle caratteristiche di personalità (Keeter, 1987;
Druckman, 2003). Così, si può ben affermare che la copertura giornalistica degli scandali
politici mostra di avere un impatto maggiore nell’ambiente mediatico audiovisuale
pervasivo che caratterizza la nostra società.
La relazione tra gli scandali trainati dai media e la pubblica sfiducia si estende, al di là
dell’ambito della politica, alle istituzioni della società in senso lato. Così, in uno studio
sperimentale, Groeling e Linneman (2008) rilevavano che gli individui che erano esposti
ai servizi mediatici sugli scandali sessuali nella chiesa cattolica (specificamente lo
scandalo del cardinale di Boston) nel gruppo di trattamento mostravano significativi cali
di fiducia nella chiesa come istituzione, come pure in altre istituzioni non implicate
direttamente nello scandalo.
In ogni caso, la relazione tra politica scandalistica e fiducia politica è mediata dal
contesto culturale e ideologico in cui si svolgono gli scandali. Per esempio, analizzando
gli effetti politici dello scandalo delle armi argentine, Waisbord (2004b) evidenziava che la
corruzione percepita è fondamentale per le ramificazioni sociopolitiche dello scandalo.
Perché gli scandali tocchino l’immaginazione del pubblico, «hanno bisogno della
pubblicità di informazione che contraddice idee ampiamente diffuse sugli individui»
(2004b, p. 1090). Così, se il pubblico già percepisce che il governo è corrotto, come
avveniva per il 96 per cento degli argentini, scandali come quello del traffico di armi non
richiamano l’attenzione perché queste storie non fanno che confermare quello che la gente
già sospettava/si aspettava18. La diffusa corruzione percepita così alimenta la
«banalizzazione della corruzione», traducendosi in quella che Waisbord chiama
«stanchezza da scandali», che riduce il potenziale riformatore e trasformatore degli
scandali (2004b, p. 1090). Con questo non si vuol dire che tra la politica scandalistica e la
sfiducia del pubblico non vi sia un nesso. Significa che quando la sfiducia è già radicata
nella coscienza degli individui, ogni rivelazione aggiuntiva non fa che riaffermare la
disaffezione per le istituzioni politiche.
Una mediazione decisiva è il contesto ideologico in cui si realizza la politica
scandalistica. Così, negli Stati Uniti, tra il 1980 e il 2004 la fiducia politica in generale si
evolse secondo un modello simile tra diversi gruppi ideologici, suggerendo la presenza di
una bassa correlazione tra autocollocazione ideologica e fiducia. Dopo l’11 novembre,
questa relazione è cambiata drasticamente. Anche se non è chiaro se questo schema
manterrà nel futuro la sua validità, il periodo tra il 2000 e il 2004 ha visto la fiducia
politica verso il governo decollare tra i conservatori e aumentare leggermente tra i non-
ideologizzati, mentre la fiducia politica tra liberal e moderati è precipitata (Hetherington,
2008, pp. 20-22). Per Hetherington questi schemi dimostrano che «indiscutibilmente la
presidenza Bush e il sostegno serrato che il presidente ha ricevuto dalla maggioranza
repubblicana in Congresso hanno politicizzato ciò che significa per i cittadini comuni
fidarsi del governo di Washington» (2008, p. 22). Quindi, mentre la politica scandalistica e
la politica mediatica tendono a influire negativamente sulla fiducia politica in un
determinato contesto caratterizzato da un’acuta polarizzazione ideologica, il sostegno
militante o l’opposizione al governo trova argomenti nelle rivelazioni degli scandali o li
liquida come propaganda, seguendo il meccanismo cognitivo dell’elaborazione selettiva
dell’informazione che ho analizzato nel capitolo 3.
Il paradosso è che, nello svolgere il loro ruolo di propagare gli scandali e delegittimare
le istituzioni, i media corrono il rischio di perdere essi stessi la legittimazione del
pubblico. La fiducia nei media come istituzione è calata del 21 per cento tra il 1973 e il
2000 (Fan et al., 2001, p. 827). Nelle parole di Fan e colleghi (2001, pp. 826-852), i media
potrebbero essere diventati «il messaggero suicida». Nel loro studio, esaminano la
relazione tra la copertura giornalistica sui media e la susseguente opinione del pubblico
sulla stampa. Per contrasto, esaminano anche gli stessi trend per copertura e pubblica
opinione riguardo ai militari e alla religione organizzata. Rilevano che la copertura degli
scandali religiosi riduce la fiducia nelle istituzioni religiose e che la fiducia nei militari è
relativamente stabile a un livello alto, con un picco intorno alla prima guerra del Golfo.
Rilevano anche che, a differenza della fiducia in altre istituzioni, la fiducia nella stampa è
spiegata statisticamente dall’aumento degli articoli sulle carenze della stampa e sulla
perdita di credibilità giornalistica – in altre parole, la stampa è il suo stesso messaggero
suicida. Ciò posa sul loro lavoro precedente, che mostra che gli articoli di stampa in cui
comparivano conservatori che lamentavano le faziosità della stampa liberale accrescevano
le percezioni che la stampa in generale fosse faziosa (Watts et al., 1999). Lungo linee
argomentative simili, Wyatt et al. (2000) rilevavano che il miglior fattore di previsione sia
della fiducia nella stampa sia della credibilità dei media era la fiducia generale verso altre
istituzioni come misurata dalla General Social Survey19. I loro riscontri fanno pensare che
fiducia e credibilità della stampa sono misure di affetto verso le istituzioni in generale
piuttosto che indicatori che segnalano se il pubblico crede a date affermazioni fattuali
espresse in particolari servizi o programmi (Fan et al., 2001). In altre parole, mentre le
informazioni negative sulla stampa non mostrano di mettere in discussione la stampa
stessa, le notizie negative su istituzioni sociali in senso lato possono indebolire la
credibilità di tutte le istituzioni, media compresi.
Dunque, sembra vi sia una connessione, per quanto mediata e complessa, tra politica
mediatica, politica scandalistica e declino della fiducia nelle istituzioni politiche. Ma la
domanda decisiva è: in che modo questa crescente diffidenza dal basso influisce sulla
partecipazione e il comportamento politico? La risposta a questa domanda è fortemente
differenziata, a seconda dei contesti politici e dei regimi istituzionali.
Dappertutto nel mondo percepiamo una tendenza a una crescita dello scontento verso i
partiti politici e le istituzioni politiche. Ma questo non si traduce necessariamente in un
allontanamento dal sistema politico. I cittadini dispongono di svariate alternative. Primo,
possono mobilitarsi contro una specifica opzione politica, seguendo lo schema generale
della politica negativa, come fecero gli spagnoli nel 1996, nel 2004 e nel 2008. Secondo,
possono mobilitarsi alla luce di una ideologia fortemente sentita e mettere la propria forza
organizzativa al servizio di un grande partito e catturarlo diventandone una base elettorale
indispensabile, come hanno fatto gli evangelici con il Partito Repubblicano negli Stati
Uniti. Terzo, possono appoggiare candidature di partiti terzi con il voto di protesta, come è
accaduto in Francia durante le elezioni presidenziali del 2002, in America con la
candidatura di Ross Perot nel 1992, e (ripetutamente) con i liberali, i socialdemocratici e i
liberaldemocratici nel Regno Unito, nonostante le limitazioni presenti nel sistema
elettorale britannico. Quarto, possono raccogliersi intorno a una candidatura insurgent, che
sfida cioè l’establishment politico dall’interno del sistema, come è avvenuto con la
candidatura di Lula in Brazile nel 2003 e con la campagna presidenziale di Obama nel
2008 negli Stati Uniti, oppure dall’esterno del sistema, come nei casi delle prime
candidature di Chávez in Venezuela, Morales in Bolivia o Correa in Ecuador. Quindi, se
niente di tutto questo è attuabile, possono votare con l’astensione (tranne in paesi come
l’Italia o il Cile, in cui il voto è un dovere), anche se questa è evidentemente l’ultima
risorsa per chi cerca ancora di far sentire la propria voce pur nutrendo scarse speranze nel
cambiamento che la politica potrà portare nella sua vita. Poi, c’è ancora una sesta
possibilità: aumentare la mobilitazione sociale al di fuori del sistema politico. In effetti
questo tipo di movimento esterno al sistema è stato documentato da Inglehart e Catterberg
(2002) che, usando i dati della World Values Survey, hanno misurato gli indicatori di
azione di sfida alle élite al di fuori del sistema istituzionale in 70 paesi. Hanno osservato
un incremento nella mobilitazione sociale nel corso di tutti gli anni Novanta. La
circostanza è confermata dallo studio che abbiamo condotto con Imma Tubella in
Catalogna, da cui risultava che, mentre solo il 2 per cento della popolazione partecipa
all’attività di partiti politici (pur votando nelle elezioni generali), e la maggioranza dei
cittadini non si fida dei partiti politici, oltre due terzi pensa che si possa cambiare la
società tramite la mobilitazione sociale autonoma (Castells, 2007).
Persino negli Stati Uniti, considerati fino al 2008 un caso estremo di apatia elettorale tra
le democrazie avanzate, Mark Hetherington (2005, 2008) e altri hanno mostrato che,
nonostante la polarizzazione delle élite e gli accresciuti livelli di sfiducia, la
partecipazione e l’impegno politico sono anzi in aumento. Popkin (1994) sostiene che
l’affluenza alle urne come percentuale di popolazione in età di voto non è un indicatore
affidabile di cambiamento nel corso del tempo. Negli Stati Uniti contemporanei, nel
contesto di una massiccia criminalizzazione delle minoranze etniche e di una vasta
immigrazione senza documenti, la percentuale di popolazione in età di voto che non gode
dell’accesso al voto è molto più alta che in altri paesi, considerando quelli che sono stati
privati del diritto di voto perché in passato detenuti o a causa della condizione di
cittadinanza problematica (vedi capitolo 5). Quindi, la popolazione che ha diritto al voto
(VEP, Voting Eligible Population) è il denominatore più appropriato per calcolare le
percentuali di affluenza. Usando questo dato, risulta che l’affluenza alle urne è aumentata
nel corso delle ultime tre elezioni presidenziali, dal 52 per cento circa nel 1996 a oltre il
60 per cento nel 2004, raggiungendo il 63 per cento nelle elezioni presidenziali del 2008
(Center for the Study of the American Electorate, 2008). L’affluenza calcolata sulla VEP
era nel 2004 quasi esattamente uguale a quella del 1956, e solo di 3,5 punti percentuali
inferiore a quella del 1960 (Hetherington, 2008, p. 5). Inoltre, negli Stati Uniti c’è stato un
aumento del coinvolgimento della cittadinanza nel processo politico nel periodo 2000-
2004, come mostrano le tabelle A4.4 e A4.5 in Appendice, in gran parte per gli sforzi dei
partiti politici di connettersi con le loro basi elettorali. Hetherington (2008) rileva anche
che quelli con forti inclinazioni ideologiche hanno molte più probabilità di essere
contattati da un partito politico (vedi figura A4.9 in Appendice). Le primarie presidenziali
democratiche del 2008 hanno visto livelli senza precedenti di mobilitazione politica negli
Stati Uniti (vedi capitolo 5).
Questa accresciuta capacità dei partiti politici di mobilitare supporto potrebbe essere
connessa all’uso degli strumenti della politica informazionale analizzati in questo capitolo.
Inoltre, Internet sta svolgendo un ruolo di primo piano nel facilitare tanto la mobilitazione
autonoma quanto il collegamento diretto tra partiti, candidati e potenziali sostenitori (vedi
tabelle A4.5 e A5.6 in Appendice). Così, Shah et al. (2005) rilevano che l’uso dei media
informazionali incoraggia la comunicazione tra i cittadini, il che a sua volta induce
l’impegno civico. Quel che è più interessante di queste rilevazioni è il ruolo svolto da
Internet. La ricerca di informazioni online e i messaggi interattivi – l’uso del web come
risorsa e forum – influenzano fortemente l’impegno civile, spesso più dei tradizionali
media cartacei e via etere e della comunicazione faccia a faccia (Shah et al., 2005, p. 551).
La relazione tra fiducia politica e impegno civile mostra di essere diversa nelle
democrazie nuove rispetto a quelle consolidate. Mentre un accresciuto impegno civile
porta con sé una crescita di fiducia nei meccanismi sociali e politici nel mondo
industrializzato, Brehm e Rahn (1997) trovano una relazione negativa tra impegno civico e
fiducia politica nei paesi in via di sviluppo. In altre parole, quelli che sono più civilmente
impegnati nel mondo in via di sviluppo mostrano minore fiducia nella politica. Questo
rilievo converge con i risultati dello studio transculturale di Inglehart e Catterberg (2002).
I loro dati mostrano che nelle nuove democrazie dell’America Latina e dell’Europa
Orientale, una volta che si sia avuta esperienza della democrazia dopo il cambiamento di
regime, si verifica un declino nella partecipazione politica negli anni successivi,
inducendo quello che i due autori definiscono un declino da dopo luna di miele
nell’appoggio alla democrazia. Comunque, la disillusione sulla democrazia, e la
conseguente riduzione nella partecipazione politica, portano in molti casi a una accresciuta
mobilitazione sociopolitica (Inglehart e Catterberg, 2002), aumentando così il divario tra
istituzioni politiche e partecipazione politica.
Così, l’esperienza internazionale mostra la diversità delle risposte politiche alla crisi di
legittimazione della politica, la quale spesso dipende dalle regole elettorali, dalle
specificità istituzionali e da fattori ideologici, come ho cercato di documentare nella mia
analisi della crisi della democrazia nella società in rete (Castells, 2004c, pp. 402-418). In
molti casi, la crisi di legittimazione porta a un aumento della mobilitazione politica
anziché a un ritrarsi dalla politica. La politica mediatica e la politica scandalistica
contribuiscono alla crisi mondiale di legittimazione della politica, ma il declino nella
fiducia pubblica non equivale al declino della partecipazione politica. Davanti alla sfida
della disaffezione dei cittadini, i leader politici cercano nuove vie per raggiungere e
attivare i propri bacini elettorali. Diffidenti verso le istituzioni pubbliche, ma decisi ad
affermare i loro diritti, i cittadini sono in cerca di modi per mobilitarsi alle proprie
condizioni all’interno e all’esterno del sistema politico. È esattamente la distanza
crescente tra la fiducia nelle istituzioni politiche e il desiderio di azione politica a
costituire la crisi della democrazia.
Crisi della democrazia?
Mentre non c’è alcun dubbio sulla crisi mondiale di legittimazione politica, non è chiaro
se e come questo si traduca in una crisi della democrazia. Per accertare questa questione
fondamentale, dobbiamo essere precisi sul significato di democrazia. In effetti, la
democrazia come pratica storica, in contrapposizione alla democrazia come concetto della
filosofia politica, è contestuale. All’inizio del XXI secolo, in un mondo globalmente
interdipendente, la democrazia è abitualmente intesa come la forma di governo risultante
dalla volontà di cittadini che scelgono tra candidature concorrenti in elezioni relativamente
libere che si svolgono a intervalli di tempo obbligatori sotto controllo giudiziario.
Introduco l’elemento della relatività per segnalare l’ampio ventaglio di interpretazioni del
concetto di libere elezioni. Per essere generosi e realistici, poniamo come standard
minimale le elezioni presidenziali USA del 2000 in Florida. Inoltre, perché la pratica della
governance sia percepita come democratica, un certo livello di libertà di espressione, di
associazione e di rispetto dei diritti umani, oltre che determinati meccanismi di controlli
amministrativi e giudiziari sul governo, devono essere affermati dalle leggi e dalla
Costituzione del paese. Anche secondo questo basso livello di requisiti istituzionali per la
democrazia, numerosi paesi al mondo non soddisfano questi criteri, e alcune nazioni
importanti, come la Cina, non riconoscerebbero la definizione di democrazia in questi
termini, o la interpreterebbero in modi che si distaccano nettamente dall’idealtipo di
democrazia rappresentativa. Inoltre, paesi che rappresentano una grande porzione della
popolazione mondiale hanno fondato formalmente istituzioni democratiche solo negli
ultimi 60 anni, e in molti paesi queste istituzioni rimangono fortemente instabili. Ciò vuol
dire che, in una prospettiva globale, la democrazia è in uno stato di crisi permanente. La
questione reale è: quanto sono democratiche le democrazie autoproclamatesi tali, e quanto
stabili sono le loro istituzioni alla prova del crescente divario tra le loro norme
costituzionali e le convinzioni dei loro cittadini? È da questo punto di vista che valuterò la
potenziale crisi della democrazia in riferimento alla politica mediatica.
In larga misura, la crisi di legittimazione e le sue conseguenze per la prassi democratica
sono legate alla crisi dello stato-nazione nella società in rete globale, come conseguenza
dei processi contraddittori di globalizzazione e identificazione che abbiamo analizzato nel
capitolo 1. Poiché la moderna democrazia rappresentativa fu istituita nell’ambito dello
stato-nazione con la costruzione degli individui-cittadini come soggetti politici legalmente
riconosciuti, l’efficienza e la legittimazione dello stato sono state ridotte dalla sua
incapacità di controllare le reti globali di ricchezza, potere e informazione, mentre la sua
rappresentatività è stata oscurata dall’ascesa di soggetti culturali basati sull’identità. I
tentativi di riaffermare il potere dello stato-nazione con i mezzi tradizionali dell’uso della
forza, particolarmente intensi nel periodo successivo all’11 settembre, hanno incontrato
rapidamente i limiti dell’interdipendenza globale e delle strategie di controdominio a base
culturale. La graduale costruzione di reti di governance globale resta ancora dipendente da
istituzioni politiche nazionali che sono in interazione con la società civile locale e globale.
Così la relazione tra le convinzioni della gente e le istituzioni politiche continua a essere al
centro delle relazioni di potere. Più grande è la distanza tra cittadini e governi, più bassa
sarà la capacità dei governi di conciliare i loro sforzi globali con le loro locali/nazionali
fonti di legittimazione e potere.
È in questo specifico contesto che dobbiamo comprendere le conseguenze della politica
mediatica per la pratica della democrazia. La politica dei media, e la politica scandalistica
come suo corollario, hanno aggravato la sua crisi di legittimazione proprio nel momento in
cui lo stato-nazione ha più bisogno della fiducia dei suoi cittadini per navigare le acque
incerte della globalizzazione, incorporando al contempo valori di identità, individualismo
e cittadinanza. Tuttavia, nonostante la massiccia disaffezione dei cittadini verso la classe
politica, e verso la democrazia così come la sperimentano, il più delle volte la gente nel
mondo non rinuncia agli ideali democratici, anche se li interpreta a modo suo. Quello che
osserviamo è che i cittadini in generale hanno adottato una varietà di strategie per
correggere o contestare il malfunzionamento del sistema politico, come si è analizzato
sopra. Queste differenti reazioni/proazioni hanno effetti distintivi sulla pratica e le
istituzioni della democrazia.
Così, il voto usato per punire il politico in carica, anziché per sperare nel cambiamento,
potrebbe correggere la cattiva gestione dei politici mandando un potente avvertimento che
la loro carriera dipende dall’ascolto prestato alle proprie basi elettorali. Ma quando i
ripetuti avvertimenti hanno scarso effetto, e quando i partiti portati al potere dal voto di
protesta riproducono lo stesso disinteresse per la pubblica decenza, si produce una spirale
verso il basso, che arreca ancor più negatività e cinismo a una cittadinanza già stanca di
scandali. Spesso però, anziché rinunciare ai propri diritti, i cittadini si rivolgono a terze
parti, o a nuovi leader al di fuori delle correnti ufficiali, in quella che ha preso il nome di
insurgent politics. Se il loro appoggio si traduce in nuovi progetti, e alla fine in nuove
politiche più allineate con i loro valori e interessi, le istituzioni democratiche potrebbero
subire una rigenerazione, perlomeno temporanea, nella misura in cui sangue politico
fresco prende a scorrere nelle vecchie vene della democrazia, esattamente a causa
dell’adattabilità delle istituzioni democratiche a nuovi attori e a nuove idee. In altri casi,
invece, sfidare il fallimento della politica democratica per raccogliere le preoccupazioni
della società può condurre al cambiamento politico al di fuori del sistema istituzionale.
Questo mutamento è spesso guidato da leader populisti che rompono con il passato a
favore di una nuova legittimazione popolare, che di solito dà vita a una rifondazione delle
istituzioni. Nei casi di protesta radicale, lo scontento può produrre una rivoluzione: ossia
un cambiamento politico indipendente dalle procedure formali della successione politica.
Questo processo si traduce in un nuovo stato, trasformato dalle nuove relazioni di potere
insite in esso. In situazioni estreme, potrebbe intervenire direttamente o indirettamente la
forza militare nella trasformazione o nella restaurazione delle istituzioni politiche,
rompendo così con la prassi democratica. In tutti i casi di frattura istituzionale devianti
dalle pratiche costituzionalmente previste, la politica mediatica e la politica scandalistica
svolgono un ruolo importante nell’attizzare lo scontento e articolare le sfide. In questo
senso, esse sono direttamente legate alla crisi della democrazia.
Esiste però un’altra forma di crisi, meno evidente. Se accettiamo l’idea che la forma
cruciale del potere ha luogo attraverso la modellazione della mente umana, e che questo
processo dipende in gran parte dalla comunicazione, e in ultima analisi dalla politica
mediatica, allora la pratica della democrazia è messa in discussione quando c’è
dissociazione sistemica tra potere della comunicazione e potere rappresentativo. In altre
parole, se le procedure formali della rappresentanza dipendono dall’allocazione informale
del potere di comunicazione nel sistema multimediale, non esiste pari opportunità tra
attori, valori e interessi in campo per attivare i meccanismi concreti di allocazione del
potere nel sistema politico. Ne consegue che la crisi più importante della democrazia entro
le condizioni della politica mediatica è il confinamento della democrazia nell’ambito
istituzionale di una società in cui il significato si produce nella sfera dei media. La
democrazia può essere ricostruita nelle specifiche condizioni della società in rete solo se la
società civile, nella sua diversità, è in grado di sfondare le barriere aziendali, burocratiche
e tecnologiche poste alla costruzione dell’immagine sociale. Cosa interessante, lo stesso
ambiente della comunicazione pervasiva multimediale che racchiude la mente politica
nelle reti mediatiche potrebbe far da veicolo all’espressione diversificata di messaggi
alternativi nell’epoca della autocomunicazione di massa. È davvero così? O si tratta solo
dell’ennesima utopia che si trasforma in distopia sotto la lente d’ingrandimento dello
scienziato sociale? Il capitolo che segue indaga sulla questione.
1
Queste tendenze, tuttavia, non sono altrettanto pronunciate in Europa orientale e nei paesi in via di sviluppo, dove
l’Edelman Trust Barometer (Edelman, 2008), Eurobarometer (2007) e altri studi rilevano una ripresa della fiducia nei
media. Si pensa che queste tendenze riflettano un cambiamento nella definizione dei media (ossia, ottimismo rispetto
all’introduzione di Internet e delle nuove tecnologie mediatiche). È anche possibile che la mancanza di fiducia nelle
istituzioni governative porti alla ricerca di fonti alternative di informazione. Inoltre, molto sta cambiando con la
generazione Internet.
2
Secondo Eurobarometer (2007, p. 54), sono più gli europei che esprimono fiducia nella radio (66 per cento) e nella
televisione (56 per cento) rispetto alla stampa cartacea (47 per cento) o a Internet (35 per cento).
3
Secondo i rilevamenti di Alexa.com, giugno 2008.
4
Postman (2004, discorso pubblicato postumo) sostiene che la sovrabbondanza di fonti di informazione ha degradato
l’autorità di istituzioni sociali come la famiglia, la chiesa, la scuola e i partiti politici che tradizionalmente rivestivano il
ruolo di gatekeeping e di agenda-setting. Soverchiati dalle informazioni, gli individui oggi sono meno attrezzati per
identificare e partecipare ai processi democratici. Tuttavia, l’immagine di una società colta impegnata in passato in una
democrazia deliberativa sembra più un mito che la realtà. Così, Postman, nel suo classico Amusing Ourselves to Death
(1986), raffigura l’America coloniale del Settecento come una società di attivi lettori con una cultura basata sulla stampa.
Senza voler mettere in discussione gli importanti contributi di Postman all’analisi della relazione tra media, cultura e
democrazia, questa visione nostalgica si riferisce evidentemente ai segmenti istruiti e benestanti della società: ossia, il
maschio bianco colto. In realtà, agli afroamericani non era permesso leggere. Quanto ai tassi complessivi di
alfabetizzazione, gli storici hanno dimostrato che il campione di Postman era distorto, sovrarappresentando gli adulti di
età più avanzata, i maschi e i ricchi. Herndon (1996) ha corretto tale sampling bias nei dati per il Rhode Island, rilevando
tassi di alfabetizzazione nel New England alla metà del XVIII secolo del 67 per cento per i maschi e del 21,7 per cento
per le femmine. L’alfabetismo era più basso nelle colonie centrali e meridionali. E ancora nel 1870, il 20 per cento
dell’intera popolazione adulta e l’80 per cento della popolazione afroamericana era analfabeta (Cook, 1977; Murrin et
al., 2005). Questo vuol dire che l’immagine di un passato più culturale e l’idea di perdita della democrazia deliberativa
sono spesso il risultato di un pregiudizio nostalgico ed elitario.
5
Per questo trend in Canada, vedi anche Trimble e Sampert (2004); per l’Australia, vedi Denemark et al., (2007).
6
Il 28 maggio 2008, nel notiziario serale della CNN Anderson Cooper 360, Cooper intervistava una corrispondente
della CNN su un’affermazione fatta da Scott McClellan, ex portavoce della Casa Bianca per il presidente Bush, secondo
la quale la stampa era colpevole di non indagare adeguatamente sulla disinformazione operata dalla Casa Bianca a
proposito della guerra in Iraq. Con grande sorpresa di Cooper, la corrispondente riportava la propria esperienza di aver
subito pressioni dai vertici aziendali della CNN perché appoggiasse la versione di Bush. La direttiva aziendale della
CNN, ipotizzava la giornalista, nasceva dalla convinzione che l’allora alto livello di popolarità del presidente Bush si
potesse tradurre in ascolti altrettanto alti per l’emittente.
7
GOP (che sta per Grand Old Party) è l’espressione americana per Partito Repubblicano.
8
Atwater era consulente sia di Reagan sia di Bush I e più tardi presidente della RNC. È stato il creatore del ben noto
spot della porta girevole per Willie Horton che svolse un ruolo importante nella sconfitta di Dukakis. Arwater morì nel
1991.
9
Rove ha una storia pittoresca per raccontare i suoi sporchi trucchi. Nei suoi primi anni di attività, quando lavorava
per la campagna di un candidato repubblicano dell’Illinois per il Senato USA, finse di fare lavoro di volontariato per un
democratico di nome Alan J. Dixon, che correva per la tesoreria di stato (e più tardi come senatore). Rove rubò della
carta intestata dall’ufficio di Dixon, preparò un volantino che prometteva «birra a volontà, cibo a volontà, ragazze e
divertimento, gratis» e lo distribuì in migliaia di copie presso una comune, un concerto rock e un refettorio pubblico, e
tra gli ubriaconi in strada; una folla si presentò al quartiere generale di Dixon (Purdum, 2006).
10
Morris nel 2008 dirigeva vote.com, un portale web che chiede agli utenti di votare su determinate questioni e poi
inoltra i risultati ai legislatori interessati.
11
In effetti i consistenti benefici finanziari delle cariche politiche sono prevalenti anche negli Stati Uniti. Tuttavia, i
livelli di retribuzione in politica negli Stati Uniti e in gran parte delle democrazie occidentali impallidiscono rispetto ai
privilegi e agli stipendi di cui godono i politici italiani di ogni appartenenza politica, come è stato documentato in un
libro esplosivo di due giornalisti italiani (Rizzo e Stella, 2007).
12
A causa dell’importanza del tema per questo libro, analizzerò dettagliatamente la campagna di Obama nel capitolo
5.
13
Gli studi dimostrano che spesso la gente vota nelle iniziative referendarie a seconda dei personaggi che appoggiano
o respingono il quesito (Aronson, comunicazione personale, 2008).
14
Quando la faccenda venne alla luce, il Pentagono rese pubbliche ottomila pagine di documenti, relativi alle attività
dei suoi analisti sul sito web http://www.dod.mil/pubs/foi/milanalysts/. Inoltre, nel maggio 2008, la congressista
democratica Rosa L. DeLauro e quaranta suoi colleghi inviarono una lettera all’Ispettore generale del Dipartimento della
Difesa chiedendo l’apertura di un’inchiesta sue questa «campagna propagandistica mirante a deviare deliberatamente il
pubblico americano».
15
Alcuni dei dati presentati in questa analisi provengono dalle affidabili fonti web elencate qui sotto. A ulteriori fonti
si rimanda nel testo. http://www.fapmc.ru, http://www.fapmc.ru, http://www.freedomhouse.org, http://www.gdf.ru,
http://www.hrw.org. http://www.lenta.ru, http://www.oprf.ru, http://www.rfe.rferl.org, http://www.ruj.ru, http://sp.rian.ru.
16
Il controllo materiale dei macchinari per la stampa è un’antica tradizione in Russia. Tra le prime misure di Lenin,
dopo la presa del potere nel 1917, vi fu la nazionalizzazione delle reti telefoniche e telegrafiche, e della produzione della
carta da stampa.
17
Nel blog si leggeva: «Sarebbe un’ottima idea se nella piazza centrale di ogni città russa fosse costruita una fornace
come ad Auschwitz, e vi si bruciasse uno sbirro ateo una o, meglio ancora, due volte al giorno» (cit. in Rodríguez,
2008).
18
Il lavoro di Waisbord (2004a) solleva questioni di definizione. Importanti casi di corruzione svelata come la
questione delle armi argentine vanno ancora etichettati come scandali anche se il pubblico rimane in buona parte
disinteressato alla vicenda? Oppure possiamo distinguere tra scandali mediatizzati imperniati sulle élite e scandali
mediatizzati imperniati sulla pubblica opinione?
19
Riscontravano anche una relazione significativa tra la fiducia generale nella stampa e la specifica valutazione di
credibilità del mezzo di informazione che l’intervistato usava di più.
Capitolo 5
RIPROGRAMMARE LE RETI DI COMUNICAZIONE: MOVIMENTI
SOCIALI, POLITICA INSORGENTE E NUOVO SPAZIO PUBBLICO
Il cambiamento, sia esso di tipo evolutivo o rivoluzionario, è l’essenza della vita. Al punto
che lo stato di immobilità per un essere vivente equivale alla morte. Questo vale anche per
la società. Il cambiamento sociale è multidimensionale, ma in ultima analisi dipende da un
cambiamento di mentalità, sia per gli individui sia per le collettività. Il modo in cui
sentiamo/pensiamo determina il modo in cui agiamo. E i mutamenti nel comportamento
individuale e nell’azione collettiva esercitano una graduale ma inevitabile azione di
cambiamento sulle norme e le istituzioni che strutturano le pratiche sociali. Tuttavia, le
istituzioni sono cristallizzazioni di pratiche sociali relative a momenti storici anteriori, e
queste pratiche sociali hanno le loro radici nelle relazioni di potere. Le relazioni di potere
sono insite in istituzioni di ogni sorta. Queste istituzioni risultano dai conflitti e dai
compromessi tra attori sociali, che realizzano la costituzione della società in base ai loro
valori e interessi. Quindi, l’interazione tra mutazione culturale e cambiamento politico
produce il cambiamento sociale. Il mutamento culturale è il cambiamento di valori e
convinzioni elaborato nella mente umana su una scala sufficientemente ampia da
interessare la società nel suo insieme. Il cambiamento politico è l’adozione istituzionale
dei nuovi valori che si diffondono attraverso la cultura di una società. Inutile dire che
nessun processo di cambiamento sociale è generale e istantaneo. Molteplici cambiamenti
procedono secondo ritmi diversi all’interno di una varietà di gruppi, territori e ambiti
sociali. L’insieme di questi cambiamenti, con tutte le loro contraddizioni, convergenze e
divergenze, tesse la trama della trasformazione sociale. Il cambiamento non è automatico.
Risulta dalla volontà degli attori sociali, guidati dalle loro capacità emozionali e cognitive
nell’interazione reciproca e con il loro ambiente. Non tutti gli individui vengono coinvolti
dai processi di cambiamento sociale, ma nel corso della storia ci sono sempre stati
individui che si sono impegnati nel cambiamento, diventando così attori sociali. Gli altri
sono free-rider sociali, come li chiamerebbe la teoria economica. O, nella mia
terminologia, egoisti parassiti del divenire storico.
Concettualizzo gli attori sociali che mirano al cambiamento sociale (un mutamento di
valori) come movimenti sociali, e denomino insurgent politics, o politica insorgente, il
processo che punta a un cambiamento politico (mutamento istituzionale) che è in
discontinuità con la logica insita nelle istituzioni politiche. Propongo l’ipotesi che la
politica insorgente realizzi la transizione tra cambiamento culturale e cambiamento
politico incorporando soggetti mobilitati per il cambiamento politico o culturale di un
sistema politico di cui in precedenza non facevano parte, per una varietà di ragioni (per
esempio, perché non avevano il diritto di voto, erano esclusi dalla partecipazione politica,
o si erano ritirati dal sistema politico perché non vedevano più la possibilità di connettere i
propri valori o i propri interessi con il sistema di rappresentanza politica esistente). Inoltre,
tanto i movimenti sociali quanto la politica insorgente può prendere origine o
dall’affermazione di un progetto culturale o politico, o da un atto di resistenza alle
istituzioni politiche, quando le azioni di queste istituzioni sono percepite come ingiuste,
immorali e in ultima analisi illegittime. La resistenza potrebbe condurre o meno alla
nascita di progetti messi in pratica dai movimenti sociali o dalla politica insorgente. Solo
quando tali progetti nascono una trasformazione strutturale può aver luogo. Così, nessuno
può prevedere in anticipo l’esito dei movimenti sociali o della politica insorgente. Quindi,
in una certa misura, sappiamo se l’azione collettiva era effettivamente veicolo di
cambiamento sociale solo all’indomani di essa.
Questo pone la questione di quale sia la tabella di marcia per determinare quando sia
arrivato l’indomani: una questione che può ricevere una risposta specifica solo dalla
ricerca su un dato processo di cambiamento sociale, una ricerca concentrata su come,
quando e quanto i nuovi valori vengono istituzionalizzati nelle norme e nelle
organizzazioni della società. In termini analitici, non può esserci un giudizio normativo
sulla direzionalità del cambiamento sociale. I movimenti sociali si presentano in tutti i
formati, dato che la trasformazione della società non è predeterminata da leggi astoriche
operanti in base alla volontà divina o a profezie ideologiche, e tanto meno dal gusto
personale dell’analista. Ogni cambiamento strutturale nei valori istituzionalizzati in una
data società è il risultato di movimenti sociali, indipendentemente dai valori portati avanti
da ciascun movimento. In questo senso, la spinta collettiva per istituire la teocrazia è un
movimento sociale non meno di quanto lo sia la lotta per l’emancipazione femminile.
Indipendentemente dalle preferenze personali, il cambiamento sociale è il cambiamento
che le persone cercano di realizzare con le loro mobilitazioni. Quando hanno successo,
diventano i nuovi salvatori. Quando falliscono, vengono dichiarati folli o terroristi. E
quando falliscono ma alla fine i loro valori trionfano in una posteriore rinascita
istituzionale, vengono posti sugli altari come madri o padri fondatori del nuovo mondo o,
a seconda della loro sorte individuale, come protomartiri del nuovo vangelo1.
I movimenti sociali si formano comunicando messaggi di rabbia e di speranza. La
specifica struttura di comunicazione di una data società modella in larga misura i
movimenti sociali. In altri termini, i movimenti sociali e la politica (insorgenti o meno)
nascono e vivono nello spazio pubblico. Lo spazio pubblico è lo spazio dell’interazione
sociale di significato in cui idee e valori sono formati, trasmessi, appoggiati e respinti:
spazio che in ultima analisi diventa un terreno di addestramento per azione e reazione. È
per questo che, nel corso della storia, il controllo della comunicazione socializzata da parte
di autorità ideologiche e politiche, e da parte dei ricchi, è stato una fonte chiave del potere
sociale (Curran, 2002; vedi anche Sennett, 1978; Dooley e Boron, 2001; Blanning, 2002;
Morstein-Marx, 2004; Baker, 2006; Wu, 2008). Ora, questo è ciò che avviene nella società
in rete, adesso più che mai. In questo libro mi auguro di essere riuscito a dimostrare che le
reti di comunicazione multimodale costituiscono in linea di massima lo spazio pubblico
nella società in rete. E così, come ho documentato nei capitoli 3 e 4, forme differenti di
controllo e manipolazione dei messaggi e della comunicazione nello spazio pubblico sono
il nucleo di formazione del potere. La politica è politica mediatica, e questo si estende a
forme di relazioni di potere radicate nel mondo del business o nelle istituzioni culturali.
Ma lo spazio pubblico è un territorio conteso, per quanto sbilanciato verso gli interessi dei
produttori e dei guardiani di questo spazio. Senza poter contestare le immagini create e
proiettate nello spazio pubblico dai poteri costituiti, le menti degli individui non
saprebbero dar vita a una nuova mente pubblica, e così le società rimarrebbero
intrappolate in un processo senza fine di riproduzione culturale sterile, chiuso
all’innovazione, ai progetti alternativi e, in definitiva, al cambiamento sociale.
In sintesi: nella società in rete la battaglia delle immagini e dei frame, all’origine della
battaglia per le menti e le anime, si svolge entro le reti di comunicazione multimediali.
Queste sono programmate dalle relazioni di potere che nelle reti sono inserite, come
abbiamo visto dall’analisi svolta nel capitolo 4. Quindi, il processo del cambiamento
sociale richiede la riprogrammazione delle reti di comunicazione nei termini dei loro
codici culturali e dei valori e degli interessi sociali e politici impliciti che esse veicolano.
Non è un compito facile. Proprio perché multimodali, diversificate e pervasive, le reti di
comunicazione sono in grado di includere e accogliere diversità culturale e molteplicità di
messaggi in misura molto superiore a qualsiasi altro spazio pubblico nella storia. Così, la
mente pubblica è catturata da reti di comunicazione program-mata, che limitano l’impatto
delle forme autonome d’espressione all’esterno delle reti. Ma in un mondo contraddistinto
dall’ascesa dell’autocomunicazione di massa, i movimenti sociali e la politica insorgente
hanno la possibilità di penetrare nello spazio pubblico da molteplici fonti. Usando sia le
reti di comunicazione orizzontali sia i media tradizionali per trasmettere le proprie
immagini e messaggi, accrescono le proprie probabilità di operare il cambiamento sociale
e politico – anche se partono da una posizione subordinata per potere istituzionale, risorse
finanziarie o legittimità simbolica. Tuttavia, il loro potere accresciuto come messaggeri
alternativi ha un vincolo: devono adattarsi al linguaggio dei media e ai formati di
interazione vigenti nelle reti di comunicazione. Nel complesso, la nascita delle reti di
autocomunicazione di massa offre maggiori opportunità di autonomia. Però, perché questa
autonomia possa esistere, gli attori sociali devono affermare il diritto
all’autocomunicazione di massa difendendo libertà ed equità nel dispiegamento e nella
gestione dell’infrastruttura di rete della comunicazione e nella prassi dei settori
multimediali. La libertà, e in ultima analisi il cambiamento sociale, si intrecciano con la
funzionalità istituzionale e organizzativa delle reti di comunicazione. La politica
comunicazionale finisce per dipendere dalle politiche della comunicazione.
Approfondirò il processo del cambiamento sociale nel nuovo spazio pubblico costituito
dalle reti di comunicazione concentrandomi su due diversi tipi di movimenti sociali e su
due casi significativi di insurgent politics. Primo, la costruzione di una nuova coscienza
ambientale che porta alla consapevolezza universale della realtà, delle cause e delle
implicazioni del cambiamento climatico da parte di un movimento sociale basato sulla
scienza che agisce su e tramite i media e Internet. Secondo, la sfida alla globalizzazione
delle corporations lanciata dai movimenti sociali collegati in rete in tutto il mondo,
usando Internet come medium organizzativo e deliberativo per incoraggiare i cittadini a
premere su governi e grandi imprese per ottenere una globalizzazione giusta. Terzo, i
movimenti istantanei di resistenza agli illeciti politici, in diffusione ovunque, spesso
capaci di trasformare l’indignazione in politica insorgente appropriandosi della versatilità
e delle capacità di collegamento della telefonia mobile. Mentre rinvierò a molteplici casi
di queste «mobilitazioni», mi soffermerò su uno dei più significativi di questi movimenti:
la protesta spontanea contro la manipolazione delle informazioni attuata dal governo
spagnolo dopo gli attentati di Al Qaeda a Madrid nel marzo 2004. Infine, analizzerò la
campagna di Obama del 2008 per le primarie presidenziali americane, una campagna che
incarna la nascita di una nuova forma di insurgent politics che ha la potenzialità di
trasformare totalmente la pratica della politica. Come documenterò, è stata caratterizzata
dalla riproposizione di forme tradizionali di organizzazione comunitaria dal basso adattata
alle condizioni comunicative dell’Età di Internet, con notevole successo, si può dire,
compresa la sostituzione col finanziamento dei cittadini del finanziamento elettorale delle
lobby. Quindi cercherò di raccogliere il significato di questi movimenti diversificati in un
filone analitico comune: la potenziale sinergia tra la nascita dell’autocomunicazione di
massa e la capacità autonoma, da parte delle società civili del pianeta, di dare forma al
processo del cambiamento sociale.
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova
cultura della natura
Ormai siamo arrivati ad accettare, in linea di massima, l’idea che il clima del pianeta sta
cambiando, e che questo processo potenzialmente catastrofico è dovuto principalmente
alla mano dell’uomo. Se a questa presa d’atto facessero seguito misure e politiche
correttive, potremmo essere ancora in grado di prevenire la piega disastrosa che
prenderebbero gli eventi del XXI secolo, anche se si è perso molto tempo e molto danno è
già stato fatto alla vivibilità sul pianeta azzurro. I fatti sono noti: dalla metà degli anni
Settanta a oggi la temperatura media superficiale è salita di circa un grado Fahrenheit.
Attualmente la superficie della Terra si sta riscaldando a un ritmo di circa 0,32°F al
decennio, ossia 3,2°F al secolo. Tutti gli otto anni più caldi mai registrati (a partire dal
1850) si sono verificati dopo il 1998; il più caldo è stato il 2005. Dal 1979, quando si è
dato inizio alle misurazioni col satellite della temperatura della troposfera, vari insiemi di
dati satellitari per il tratto medio di questo strato dell’atmosfera mostravano tassi di
riscaldamento simili – da 0,09°F a 0,34°F a decennio, a seconda del metodo di analisi
utilizzato (National Aeronautics and Space Administration, 2007; National Oceanic and
Atmospheric Administration, 2008).
La grande maggioranza degli scienziati in questo campo, in base a un ventennio di
ricerche pubblicate su riviste sottoposte al controllo dei colleghi (peer-reviewed),
convengono che l’attività umana contribuisce in maniera essenziale al cambiamento
climatico globale. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che opera sotto
l’egida delle Nazioni Unite, nel rapporto presentato nel 2007 al convegno di Parigi a cui
partecipavano oltre 5000 scienziati, concludeva che il trend di riscaldamento globale è
«inequivocabile» e che l’attività umana «molto probabilmente» (intendendo una
probabilità di almeno il 90 per cento) ne è la causa. Il direttore esecutivo dello United
Nations Environment Program, Achim Steiner, dichiarò che il rapporto rappresentava un
punto di svolta nell’accumulazione dei dati sul cambiamento climatico, aggiungendo che
il 2 febbraio 2007, giorno di chiusura del convegno, sarà forse ricordato come il giorno in
cui il pensiero globale sul cambiamento climatico è passato dal dibattito all’azione
(Rosenthal e Revkin, 2007). Il riconoscimento ufficiale della gravità del problema, e
l’appello all’azione della comunità internazionale, sono arrivati mezzo secolo in ritardo
sui primi allarmi pubblici degli scienziati sulla questione e le prime pressioni degli attivisti
per l’ambiente sui governi, fino ad allora ignari del problema.
La lunga marcia dell’ambientalismo
Perché la consapevolezza del cambiamento climatico e delle sue conseguenze si
installasse nella mente del pubblico, e poi negli ambienti dove si prendono le decisioni,
era necessario un movimento sociale per informare, avvertire e, cosa più importante,
cambiare il modo in cui pensiamo il nostro rapporto collettivo con la natura. In realtà, tutta
una nuova cultura della natura doveva essere prodotta socialmente perché, nonostante i
segnali in arrivo da tempo dalla comunità scientifica, le relazioni di potere insite nelle
istituzioni e nella cultura delle nostre società erano irremovibili nel difendere a ogni costo
la cultura del produttivismo e del consumismo, perché la logica del profitto, base
dell’economia di mercato, e il perseguimento del consumo di massa, fondamento della
stabilità sociale, poggiano sulla premessa dell’uso della natura come risorsa anziché come
nostro ambiente di vita. Il modo in cui pensiamo la natura determina il modo in cui la
trattiamo – e il modo in cui la natura tratta noi. Durante tutta la rivoluzione industriale
l’umanità si prese la storica rivincita sulle forze della natura che per millenni avevano
mostrato di dominare la sopravvivenza senza possibilità di controllo da parte nostra.
Scienza e tecnologia ci misero in grado di mettere mano ai limiti imposti dalla natura. O
così pensavamo.
Seguì un processo largamente incontrollato di industrializzazione, urbanizzazione, e
ricostruzione tecnologica dell’ambiente vivente, un processo che si è tradotto in quello che
è il nostro stile di vita. Poiché in fatto di salute, istruzione, produzione alimentare, e
consumo di ogni cosa, gli standard di esistenza migliorarono in maniera spettacolare,
confermando la nostra fede nella crescita del PIL come indice di progresso, continuammo
a seguire un percorso di crescita lineare all’interno di un modello produttivista la cui
versione statalista era ancora più estrema verso l’ambiente dell’originaria matrice
capitalista. In effetti, ancora nel 1989, la US National Association of Manufacturers,
insieme con i settori petrolifero e automobilistico, organizzò la Global Climate Coalition
per opporsi alle normative vincolanti dei governi sul riscaldamento globale, una posizione
ancora rispecchiata nel primo decennio del nostro secolo da molti governi, tra cui
l’amministrazione Bush. Nell’aprile 1998, The New York Times pubblicava un articolo in
cui riferiva di un memorandum dell’American Petroleum Institute che delineava una
strategia verso i media per rendere «il riconoscimento dell’incertezza [del cambiamento
climatico]… parte del senso comune… e così educare e informare il pubblico, stimolando
[i media] a porre interrogativi sulle istanze preposte alle decisioni» (Cushman, 1998, p. 1).
Lance Bennett ha documentato le strategie dei leader repubblicani negli USA per imporre
ai media la negazione della responsabilità umana verso l’insorgere del cambiamento
climatico (Bennett, 2009, capitolo 3).
Va detto però che negli ultimi anni un certo numero di grandi aziende, comprese alcune
del settore petrolifero e automobilistico, hanno cambiato radicalmente la propria
posizione: tra queste la BP, la Shell, la Texaco, la Ford e la General Motors. Dal 2000, il
Carbon Disclosure Project ha lavorato con grandi aziende per eviden ha lavorato con
grandi aziende per evidenziarne le emissioni di carbonio, e nel 2008 il progetto ha
pubblicato i dati sulle emissioni di 3000 fra le maggiori aziende del mondo. Il World
Business Council for Sustainable Development, un’associazione di 200 grandi imprese, ha
persino fatto appello ai governi perché individuino obiettivi globali condivisi. Lo sforzo
congiunto di attivisti ecologisti e scienziati, che hanno usato i media per modificare
l’opinione del pubblico e influenzare chi è preposto alle decisioni, ha spinto il business a
cambiare atteggiamento, o almeno l’immagine di sé che desidera proiettare. Questo è
esattamente ciò che sintetizza il ruolo che hanno i movimenti sociali nel trasformare la
cultura della società, in questo caso la cultura della natura. I governi, invece, erano
riluttanti a riconoscere la gravità del problema, e ancora più riluttanti a riconoscere
l’attività umana come causa primaria del cambiamento climatico. Inoltre, nessuna misura
efficace è stata presa, mentre si tenevano convegni, si riunivano comitati e si pubblicavano
rapporti in una parata di dichiarazioni retoriche prive di significative conseguenze
politiche.
La comunità scientifica, però, stava studiando il riscaldamento globale, e discutendo
delle sue implicazioni, fin dal XIX secolo (Patterson, 1996). Nel 1938 uno scienziato
britannico, G.D. Calendar, presentò le prove del nesso tra combustibili fossili e
riscaldamento globale, anche se i risultati delle sue ricerche si scontrarono con lo
scetticismo degli specialisti di cambiamento climatico: radicata nelle menti della scienza
era la fede in un equilibrio che la natura avrebbe trovato da sé (Newton, 1993; Patterson,
1996)2.Un momento cardine nella diffusione dell’idea al di fuori del piccolo gruppo di
ricercatori che continuavano testardamente a indagare sulla questione, si presentò nel 1955
quando Roger Revelle, scienziato degli Scripps Laboratories, avvertì il pubblico della
tendenza al riscaldamento globale, e testimoniò al Congresso USA sulle possibili
conseguenze. Nel 1957 Charles Keeling, giovane ricercatore di Harvard, cominciò a
misurare il CO2 atmosferico e produsse la «curva di Keeling», che mostrava l’incremento
di temperatura nel tempo. Revelle assunse Keeling perché lavorasse con lui agli Scripps
Labs e, insieme, i due giunsero alla conclusione che il livello base di CO2 nell’atmosfera
era cresciuto a un tasso approssimativamente eguale a quello calcolato da Revelle (Weart,
2007)3.
Le risultanze di Keeling ebbero un impatto sugli scienziati del campo. La Conservation
Foundation patrocinò nel 1963 un convegno sul cambiamento climatico, e gli scienziati
produssero un rapporto che ammoniva sui «potenzialmente pericolosi incrementi
atmosferici di biossido di carbonio» (Conservation Foundation, 1963). Nel 1965 un
gruppo di esperti dello Science Advisory Committee del presidente affermava che il
riscaldamento globale era una questione di interesse nazionale. Ma il rapporto del panel lo
citava solo come una voce in breve in mezzo a molti altri problemi ambientali. Nonostante
questi avvertimenti, ricerche come quella di Keeling continuarono a essere finanziate in
misura insufficiente. In questo frangente critico, agli scienziati venne in aiuto il
movimento ambientalista che si era sviluppato negli Stati Uniti e in tutto il mondo, una
circostanza di cui era emblema la prima celebrazione dell’Earth Day, la Giornata della
Terra, nell’aprile 1970. Imbaldanzita dall’appoggio del movimento, la comunità scientifica
lanciava un forte appello perché si facessero più ricerche e un più attento monitoraggio
sull’influenza delle attività umane sull’ambiente naturale. Nel 1970 diversi scienziati,
guidati da Carroll Wilson, organizzarono un gruppo al MIT per concentrarsi sullo «Studio
dei problemi critici ambientali». Il rapporto finale del gruppo presentava il riscaldamento
globale come una questione di grande gravità di cui era necessario approfondire lo studio
(SCEP, 1970). Ma se i media dedicarono una certa attenzione a questo rapporto, lo studio
del riscaldamento globale rimase largamente trascurato (Weart, 2007). Wilson diede
seguito allo studio del MIT organizzando un convegno di esperti a Stoccolma, lo «Studio
sull’impatto dell’uomo sul clima», che è considerato una pietra miliare nello sviluppo
della consapevolezza del cambiamento climatico. La relazione finale, che ebbe una vasta
diffusione, si concludeva con il versetto di una preghiera in sanscrito: «Madre Terra…
perdonami se ti sto calpestando» (Wilson e Matthews, 1971).
Weart (2007) afferma che durante questo periodo i temi e le posizioni del movimento
ambientalista si diffusero rapidamente tra gli studiosi del clima, e nei media cominciò a
fare la sua comparsa un nuovo modo di vedere il rapporto tra scienza e società. Una
tendenza, questa, indicata dalla crescita sulle riviste americane del numero di articoli
dedicati al riscaldamento globale: negli anni Settanta si passò dai tre agli oltre venti
articoli per anno. Grazie a questa crescente attenzione, i burocrati posero l’anidride
carbonica in una nuova categoria: «Monitoraggio globale del cambiamento climatico».
Sotto questo titolo, i finanziamenti alla ricerca, che da anni erano fermi, raddoppiarono, e
raddoppiarono nuovamente tra il 1971 e il 1975. Per la fine degli anni Settanta gli
scienziati avevano ormai raggiunto un largo consenso sul fatto che il riscaldamento si
stava effettivamente verificando, e alcuni di essi si rivolsero al pubblico per chiedere che
si prendessero iniziative. In molti paesi gli ambientalisti premettero sui governi perché
varassero normative miranti alla protezione ambientale, e i governi risposero, tra le altre
misure, con provvedimenti atti a ridurre lo smog e purificare l’acqua (Weart, 2007). Nei
primi anni Ottanta, il tema del riscaldamento globale aveva raggiunto sufficiente notorietà
da essere incluso per la prima volta nei sondaggi di opinione. Nel marzo 1981 Al Gore
tenne un’udienza al Congresso sul cambiamento climatico, dove testimoniarono scienziati
come Revelle e Schneider. Questa udienza richiamò l’attenzione sul piano
dell’amministrazione Reagan di tagliare i fondi ai programmi di ricerca sul CO2.
Imbarazzata dall’attenzione dei media, l’amministrazione fece retromarcia. Le pressioni
delle organizzazioni ambientaliste salvarono il Dipartimento dell’Energia appena creato,
che era minacciato di smantellamento.
A livello internazionale, nel 1985 fu organizzato un convegno congiunto a Villach, in
Austria, dallo United Nations Environment Programme (UNEP), dalla World
Meteorological Organization (WMO) e dall’International Council of Scientific Unions
(ICSU) sulla «Valutazione del ruolo del biossido di carbonio e di altri gas serra nelle
variazioni climatiche e gli impatti associati.» UNEP, WMO e ICSU istituirono quindi
l’Advisory Group on Greenhouse Gases per assicurare valutazioni periodiche del sapere
scientifico sul cambiamento climatico e le sue implicazioni. Nel 1986 un rapporto di
WMO e NASA discuteva il modo in cui l’atmosfera stava subendo significative
alterazioni dovute all’attività umana. Negli Stati Uniti, il climatologo James Hansen
testimoniò alle udienze presiedute dal senatore John Chaffee nel 1986 e pronosticò che il
cambiamento climatico sarebbe diventato misurabile entro un decennio. Le affermazioni
di Hansen fecero scalpore tra gli scienziati, ma i media prestarono scarsa attenzione alla
sua deposizione. Il Congresso USA continuò a tenere udienze sul riscaldamento globale
nel 1987, e il senatore Joseph Biden presentò il Global Cli-Global Climate Protection Act,
firmato dal presidente Reagan, che innalzava il cambiamento climatico al livello di tema
di politica estera. Ma la preoccupazione per il riscaldamento globale era ancora
ampiamente confinata entro un ristretto gruppo di scienziati e di legislatori interessati.
Poi, nell’estate 1988, una delle estati più calde mai registrate, un’ondata di calore colpì
gli Stati Uniti. Nessuno può essere certo sulla relazione tra un’estate calda e il
riscaldamento globale, ma non è questo il punto. Perché la gente, e anche i media,
connetta il riscaldamento atmosferico alla propria esperienza quotidiana, bisogna che lo
percepisca in qualche modo, come accadde anni dopo con le stagioni particolarmente
colpite da uragani e tornado che divennero, nella mente di molti, messaggeri di apocalisse
climatica. E così, l’estate calda del 1988 «galvanizzò la comunità ambientalista» come
nessun evento aveva mai fatto dopo il primo Earth Day nel 1970 (Sarewitz e Pielke,
2000). All’inizio dell’estate solo la metà circa del pubblico americano era a conoscenza
dell’idea del riscaldamento globale (Weart, 2007). Poi il senatore Wirth, cogliendo
l’occasione offerta dall’ondata di calore, indisse un’udienza sul riscaldamento globale nel
giugno 1988 e convocò diversi testimoni chiave. Mentre in genere le udienze su temi
scientifici non erano particolarmente seguite, questa era gremita di reporter (Trumbo,
1995). James Hansen, lo scienziato NASA che aveva già deposto nel 1986 e nel 1987,
testimoniò di nuovo, e affermò che i dati dimostravano che gli aumenti di temperatura non
erano dovuti a una variazione naturale. Hansen sostenne che quello che si stava
verificando era un riscaldamento globale e che si trattava di un problema critico a cui era
necessario dare risposta immediata. Questa volta la sua testimonianza raggiunse le prime
pagine di tutto il mondo, non essendo mai accaduto prima che un autorevole scienziato
affermasse così perentoriamente che il riscaldamento globale costituiva una minaccia
diretta alla Terra. Un turbine di copertura mediatica portò il dibattito sul riscaldamento
globale nell’arena pubblica (Ingram et al., 1992). Tra la primavera e l’autunno del 1988,
gli articoli sul riscaldamento globale triplicarono (Weart, 2007). Il numero degli americani
che avevano sentito parlare dell’effetto serra balzò dal 38 per cento del 1981 al 58 per
cento nel settembre 1988 (vedi tabella 5.1), e i sondaggi mostrarono che gli americani
avevano cominciato a preoccuparsi parecchio del riscaldamento globale. Un tale allarme
nel pubblico spinse i politici ad aggiungere alla loro agenda la questione del riscaldamento
globale. Vi fu un aumento dell’attività congressuale relativa e nella seconda sessione del
centesimo Congresso furono presentati 32 disegni di legge, come il Global Warming Act e
il World Environmental Policy Act.
TAB. 5.1. Consapevolezza del riscaldamento globale negli Stati Uniti, 1982-2006: risposte affermative alla domanda:
«Ha mai sentito parlare di effetto serra/riscaldamento globale?» (%)

Anno Sì (%) Fonte


1982 41 Cambridge
1986 45 Harris
1988 58 Parents Magazine
1989 68 Cambridge
1990 74 Cambridge
1992 82 Cambridge
1997 85 CBS
2000 89 Harris
2001 88 Harris
2002 85 Harris
2006 91 Pew

Il 1988 fu anche l’anno in cui le iniziative intergovernative sul cambiamento climatico


cominciarono a prendere vigore. Questo è ovviamente essenziale, essendo il riscaldamento
globale, be’, globale. La decisione chiave che avrebbe avuto un considerevole impatto
istituzionale sulle future iniziative politiche fu l’istituzione dell’Intergovernmental Panel
on Climate Change (IPCC), sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’IPCC è un organismo
scientifico che studia il rischio di cambiamento climatico provocato dalle attività umane. Il
gruppo di studio fu istituito dal WMO e dall’UNEP. La sua principale attività consiste nel
fornire regolarmente una rassegna della letteratura scientifica sul clima e nel produrre
rapporti di valutazione sull’evoluzione del clima. Il primo rapporto fu pubblicato nel 1990,
e svolse un ruolo chiave nello sviluppo della United Nations Framework Convention on
Climate Change (UNFCCC), varata al summit di Rio de Janeiro del 1992 e istituita nel
1994. Questo accordo forniva il quadro delle linee politiche per affrontare la questione del
cambiamento climatico. Nel 1991, l’IPCC si aprì a tutti i paesi membri del WMO e
dell’UNEP. Il secondo rapporto di valutazione fu pubblicato nel 1995 dando l’input
necessario ai negoziati sul Protocollo di Kyoto del 1997. Il terzo rapporto fu iniziato nel
1997 e pubblicato nel 2001. Offriva ulteriori informazioni per lo sviluppo dell’UNFCCC e
del Protocollo di Kyoto.
Il quarto rapporto di valutazione fu presentato a Parigi il 2 febbraio 2007, come già
detto, e ricevette l’approvazione delle autorità di oltre 130 paesi dopo tre giorni di
trattative sulla sua formulazione (Kanter e Revkin, 2007). Durante questo incontro, i
delegati dei governi adottarono parola per parola il «Sommario per i responsabili delle
politiche» e poi accettarono il rapporto che vi stava alla base (IPCC, 2007a). Mentre i
membri del gruppo si riunivano a porte chiuse per una settimana, furono bombardati dai
messaggi di centinaia di esperti esterni che cercavano di modificare nell’una o nell’altra
direzione la presentazione dei dati raccolti o la loro formulazione. Alcuni scienziati
dicevano che la delegazione USA cercava di ammorbidire il linguaggio che suggeriva
l’esistenza di un nesso tra l’intensificarsi degli uragani e il riscaldamento causato
dall’attività umana (Kanter e Revmin, 2007). Erano presenti all’incontro anche diversi
osservatori di gruppi industriali, come la International Chamber of Commerce,
l’International Petroleum Industry Environmental Conservation Association, e
l’International Aluminum Institute, oltre a ONG ambientaliste come Greenpeace e Friends
of the Earth. Prima che il rapporto fosse pubblicato, tutte le luci della torre Eiffel vennero
spente per cinque minuti. Gli attivisti ambientalisti avevano richiesto l’oscuramento della
torre Eiffel all’interno di una campagna di «luci spente» destinata a risvegliare la
consapevolezza del pubblico sul riscaldamento globale (BBC, 2007b). L’IPCC divise il
Nobel per la Pace del 2007 con Al Gore. Il premio fu assegnato «per i loro sforzi per
accumulare e disseminare una maggiore conoscenza sul cambiamento climatico provocato
dall’uomo, e per porre le basi delle misure necessarie per contrastare tale cambiamento»
(Nobel Foundation, 2007).
Anche se meno nobile degli sforzi dell’IPCC, il rapporto (riservato) che la US
Congresso nel giugno 2008 è altrettanto indicativo della mutata mentalità nelle agenzie
governative a proposito del cambiamento climatico. Il rapporto non solo riconosceva
l’esistenza del riscaldamento globale ma lo definiva anche una minaccia alla sicurezza
nazionale degli Stati Uniti, in quanto le sue conseguenze rischiavano di incrementare il
terrorismo globale. La contorta argomentazione asseriva che le devastazioni provocate da
un futuro cambiamento climatico in molti paesi poveri del mondo avrebbero gettato in
miseria milioni di persone, tanto che quei paesi sarebbero diventati fertile terreno per il
reclutamento di terroristi. Così, anche se, secondo il rapporto, gli USA potevano ottenere
vantaggi economici dal riscaldamento globale (grazie a una più alta resa della produzione
agricola!), il cambiamento climatico avrebbe
messo a repentaglio l’interesse nazionale perché gli Stati Uniti dipendono dal
funzionamento senza intoppi di un sistema internazionale che assicura il flusso del
commercio e l’accesso al mercato di materie prime critiche, come il petrolio e il gas,
e dalla sicurezza di alleati e partner. Il cambiamento climatico e le politiche sul
cambiamento climatico potrebbero influire su tutto ciò (CNN, 2008).
Il fatto che il riscaldamento globale fosse elevato al livello di una questione di sicurezza
nazionale dalle agenzie di intelligence USA è indicativo del mutamento globale di
atteggiamento riguardo al cambiamento climatico, un problema che un trentennio prima
era pressoché totalmente ignorato. E se l’amministrazione Bush rimase riluttante fino alla
fine del suo mandato a mettere in atto misure politiche per contrastare il riscaldamento
globale (probabilmente per l’influenza indebita esercitata sia sul presidente sia sul
vicepresidente dall’industria petrolifera), lo stato di California, condotto da un governatore
repubblicano (chi non ricorda Terminator?), annunciava nel giugno 2008 un piano per
abbattere le emissioni di gas serra e riportarle ai livelli del 1990 regolando il modo in cui
viene generata l’elettricità, fissando standard per la fabbricazione delle auto e la
costruzione degli edifici, e istituendo un mercato per la compravendita di crediti di
carbonio. Quanto all’Unione Europea, il 9 marzo 2007 in un vertice a Bruxelles, i capi di
governo dei paesi dell’Unione concordarono un tetto vincolante per ridurre le emissioni
produttrici di gas serra di almeno il 20 per cento dai livelli del 1990 entro il 2020 (vedi
sotto). Così, verso la fine del primo decennio del XXI secolo, il riscaldamento globale era
diventato una questione primaria nella politica globale. In larga misura, questo era dipeso
dai cambiamenti che si erano verificati nelle menti dei cittadini nel mondo.
L’ascesa della mentalità verde
Dal tempo della celebrazione della prima Giornata della Terra, nell’aprile del 1970, la
mentalità pubblica ha subito una profonda modificazione riguardo all’ambiente in
generale, e in particolare sulla realtà e le implicazioni del riscaldamento globale. Questo
cambiamento di mentalità si è verificato in tutto il mondo. Anzi, i primi studi di
ambientalismo negli Stati Uniti e in Europa consideravano gli allarmi pubblici
sull’ambiente una conseguenza del benessere economico, e quindi un problema esclusivo
dei paesi occidentali industrializzati. Con l’ampliarsi però delle ricerche transnazionali,
questa percezione si rivelò inesatta. Per esempio, un sondaggio Gallup del 1992, che
esaminava 24 paesi di diverse condizioni socioeconomiche, trovava un alto livello di
preoccupazione per le questioni ambientali, riscaldamento globale compreso, nella
maggior parte di essi (Brechin, 2003). Negli Stati Uniti, la consapevolezza del
riscaldamento globale è cresciuta in misura considerevole dal 1985, quando la questione
fu proposta per la prima volta all’attenzione del pubblico (vedi tabella 5.1). Combinando
una varietà di risultati delle indagini, osserviamo una crescita costante nella
consapevolezza del riscaldamento globale come problema, con solo il 41 per cento del
pubblico USA al corrente del riscaldamento globale nel 1982, dato salito al 58 per cento
nel 1988, a più dell’80 per cento dal 1992, e al 91 per cento nel 2006 (vedi anche la tabella
A5.1 nell’Appendice).
In tempi recenti, e su scala globale, l’analisi di 11 sondaggi internazionali condotti da
World Public Opinion (2007b) riscontrava una diffusa e crescente preoccupazione sul
cambiamento climatico a livello mondiale. Ogni sondaggio internazionale rilevava che la
maggioranza degli intervistati sentiva il riscaldamento globale come un problema o una
minaccia. Per esempio, da un sondaggio Pew del 2007 risultava che la maggioranza di
tutti i 37 paesi studiati vedeva il riscaldamento globale come un problema grave. La
maggioranza in 25 paesi e una percentuale consistente in 6 paesi classificava il problema
come «molto grave». Il 75 per cento degli americani riteneva il problema grave, e il 47 per
cento lo giudicava molto grave. In Cina, l’88 per cento considerava il riscaldamento
globale un problema grave, mentre il 42 per cento lo definiva molto grave. Un sondaggio
Pew del 2006 rilevava che circa due giapponesi su tre (66 per cento) e circa due indiani su
tre (65 per cento) rispondevano di sentirsi personalmente «molto» preoccupati per il
riscaldamento globale, mentre circa la metà degli intervistati in Spagna (51 per cento) e in
Francia (45 per cento) erano molto preoccupati. Nel Regno Unito, invece, solo il 26 per
cento era molto preoccupato. Negli USA nel 2006 soltanto il 19 per cento degli intervistati
era molto preoccupato del riscaldamento globale, circa la stessa percentuale che in Cina
(20 per cento). Così, nel 2006, i due maggiori produttori di gas serra, gli Stati Uniti e la
Cina, erano anche i paesi con il livello più basso di preoccupazione per il riscaldamento
globale, pur riconoscendo che si trattava di un problema grave. Tuttavia, da un sondaggio
ABC News/Washington Post/Stanford del 2007 risultava che la percentuale degli
americani che identificavano nel riscaldamento globale il maggior problema ambientale
del mondo era raddoppiata in un solo anno, con il 33 per cento che lo citava come primo
tema ambientale nel 2007, rispetto al 16 per cento del 2006.
L’allarme sul cambiamento climatico sembrerebbe crescere rapidamente in tutto il
mondo. GlobeScan ha condotto sondaggi in vari paesi nel 2003 e nel 2006, trovando che
le percentuali che definiscono il cambiamento climatico/riscaldamento globale un
problema «molto grave» sono cresciute di una media di 16 punti. Per esempio, nel Regno
Unito, la percentuale è salita dal 50 per cento del 2003 al 70 per cento nel 2006, e negli
USA dal 31 per cento del 2003 al 49 per cento nel 2006. Anche il German Marshall Fund
ha individuato una crescente preoccupazione sul riscaldamento globale: in dieci paesi
europei esaminati nel 2005 e nel 2007, la percentuale media di cittadini che ritenevano il
riscaldamento globale una minaccia estremamente importante era salita di 5 punti (dal 51
al 56 per cento). Un aumento simile si poteva osservare negli Stati Uniti (dal 41 al 46 per
cento).
Fatto più importante in termini di conseguenze per le scelte politiche, vari sondaggi
internazionali rilevavano che la grande maggioranza degli intervistati percepisce il
cambiamento climatico come originato dall’attività umana. Tuttavia, la convinzione che
gli umani abbiano contribuito in misura significativa al cambiamento climatico è stata
accettata più prontamente in Europa che in altre parti del mondo, soprattutto negli Stati
Uniti (Pew, 2006). Nel 1999, GlobeScan verificava che la grande maggioranza degli
intervistati a livello mondiale era abbastanza o totalmente convinta che le attività umane
sono una causa del cambiamento climatico, a eccezione degli USA (Leiserowitz, 2007).
Questo probabilmente dipende dal fatto che negli USA la convinzione che gli umani
provochino il riscaldamento globale è profondamente polarizzata lungo linee politiche,
con il 24 per cento dei repubblicani, il 54 per cento dei democratici e il 47 per cento degli
indipendenti, che nel 2006 rispondevano che il riscaldamento globale è dovuto ad attività
umana (Pew, 2006). Però, un’indagine Pew del 2008 rilevava che il 47 per cento degli
intervistati americani affermavano che il riscaldamento globale è causato dall’attività
umana. Si tratta di un incremento di sei punti rispetto al 2006 e un forte balzo dalla metà
degli anni Novanta, quando pochi americani lo consideravano un problema che meritasse
la loro preoccupazione personale (Pew, 2008a). Gli uragani Katrina e Rita potrebbero aver
avuto un certo impatto sulla percezione degli americani sul ruolo delle cause umane nel
ripetersi di eventi climatici estremi. Per esempio, nel 2004, prima di un periodo di uragani
molto attivo, il 58 per cento considerava «eventi climatici estremi, compresi violente
tempeste, alluvioni e siccità» come «parte di uno schema naturale». Nel 2005, dopo che
gli uragani ebbero devastato il paese, la percentuale degli intervistati che attribuivano i
fenomeni climatici estremi a ciclicità naturali precipitò di 19 punti al 39 per cento (World
Public Opinion, 2006). Le campagne degli ambientalisti sul riscaldamento globale
sembrano avere una maggiore efficacia se la gente è stata colpita da immagini o
esperienze di disastri che la rende più pronta a cambiare opinioni profondamente radicate,
e quindi più portata a rapportarsi ai messaggi ambientalisti. Da un punto di vista globale, il
sondaggio BBC/GlobeScan/PIPA del 2007 (World Public Opinion, 2007a) rilevava che in
20 paesi su 21 (l’eccezione è l’India) due terzi o più della popolazione riteneva che
l’attività umana è una causa significativa del cambiamento climatico (vedi figura 5.1).

FIG. 5.1. Opinioni sull’attività umana come causa significativa del mutamento climatico.
Fonte: Sondaggio 2007 BBC/GlobeScan/PIPA, elaborato da Lauren Movius.

In sintesi: i dati mostrano che dai tardi anni Ottanta alla fine del primo decennio del
XXI secolo c’è stato un drastico spostamento nell’opinione pubblica sul riscaldamento
globale, per consapevolezza del fenomeno e preoccupazione sulle sue potenziali
conseguenze. Il riscaldamento globale, un tempo oscuro tema scientifico, è balzato in
primo piano nel dibattito pubblico. Perché, e come? Che cosa è successo tra il 1988 e il
2008? Chi erano gli attori e quali sono stati i processi di comunicazione che hanno portato
individui e istituzioni di tutto il mondo ad affrontare la crisi del riscaldamento globale?
L’inverdimento dei media
Come ho documentato nel corso di tutto questo libro, le persone si formano le loro idee in
base alle immagini e alle informazioni che raccolgono dalle reti di comunicazione; tra
queste i mass media sono stati la fonte primaria per la maggioranza dei cittadini durante i
due decenni in cui la consapevolezza del riscaldamento globale è aumentata. La ricerca sui
media negli Stati Uniti, sintetizzata da Nisbet e Myers (2007), ha mostrato una relazione
diretta tra l’attenzione mediatica e i cambiamenti nella pubblica opinione sulle questioni
dell’ambiente. Per esempio, nella prima metà degli anni Ottanta, con una scarsa copertura
giornalistica del tema, solo il 39 per cento degli intervistati aveva sentito parlare
dell’effetto serra. Nel settembre 1988, dopo la più calda estate mai registrata e un aumento
dell’attenzione dei media, il 58 per cento dei soggetti era al corrente della questione. Nei
primi anni Novanta, continuando ad aumentare l’attenzione dei media, tra l’80 e il 90 per
cento del pubblico aveva sentito parlare del riscaldamento globale4. Mentre però la
maggioranza degli americani crede nella realtà del riscaldamento globale, non è altrettanto
diffusa la convinzione che gli scienziati siano d’accordo tra loro. Nisbet e Myers (2007)
notano che, a seconda della specifica domanda e dello specifico sondaggio, la percentuale
di americani convinta che gli scienziati abbiano raggiunto un consenso va dal 30 al 60 per
cento. Tuttavia, anche secondo questo indicatore, c’è stato un netto spostamento nella
consapevolezza pubblica del riscaldamento globale. I sondaggi Cambridge e Gallup,
usando formulazioni analoghe, rilevavano che la percentuale del pubblico che rispondeva
«la maggior parte degli scienziati ritiene che il riscaldamento globale si stia producendo»
era del 28 per cento nel 1994, del 46 per cento nel 1997, del 61 per cento nel 2001 e del 65
per cento nel 2006. Il Program on International Public Attitudes (PIPA), usando una
formulazione diversa, rilevava che il 43 per cento del pubblico nel 2004 e il 52 per cento
nel 2005 rispondevano che c’era consenso tra gli scienziati riguardo all’esistenza e al
potenziale pericolo del riscaldamento globale.
In effetti, i servizi giornalistici potrebbero aver indotto più dubbi sul consenso nella
comunità scientifica a proposito del riscaldamento globale di quanto sia lecito pensare
dall’attuale livello della disputa sulla questione. Questo perché la copertura giornalistica
del riscaldamento globale ha presentato un acceso dibattito e un forte dissenso tra gli
scienziati, nonostante il fatto che esiste un forte consenso scientifico sul riscaldamento
globale (Antilla, 2005). Questa discrepanza è dovuta alla norma giornalistica
dell’«equilibrio» (Trumbo, 1995; Boykoff e Boykoff, 2007). Boykoff e Boykoff (2004)
hanno esaminato 636 articoli dei quattro maggiori quotidiani statunitensi tra il 1988 e il
2002, e hanno trovato che la maggior parte dei pezzi davano al piccolo gruppo di quelli
che dubitano del cambiamento climatico lo stesso spazio che al consenso scientifico.
Dispensa e Brulle (2003), analizzando articoli di cronaca sui maggiori quotidiani e riviste
scientifiche nell’anno 2000, hanno riscontrato che i media USA fornivano una visione
squilibrata del riscaldamento globale raffigurandolo come un tema controverso, mentre la
stampa della Nuova Zelanda e della Finlandia presentava la questione come
consensualmente accettata.
I mass media svolgono un ruolo chiave nell’identificazione e interpretazione delle
questioni ambientali, dato che le scoperte scientifiche spesso devono essere formulate nel
linguaggio dei media perché il pubblico le comprenda (Boykoff e Boykoff, 2007). Mentre
sulle questioni ambientali i convegni internazionali possono usare un profilo alto di fronte
all’élite politica mondiale, è attraverso i mass media che il pubblico viene a conoscenza
delle scoperte scientifiche relative a temi che toccano la vita della gente. Così, la visibilità
mediatica del riscaldamento globale è stata fondamentale per spostare il tema dallo stato di
condizione a quello di questione pubblica e a quello di preoccupazione di politica.
Secondo Dispensa e Brulle (2003, p. 79), «senza copertura mediatica è improbabile che un
problema importante entri nell’arena del discorso pubblico o entri a far parte dei temi
politici… I media sono la chiave per formare una cornice per il riscaldamento globale…»
Uno studio del 1995 di Kris Wilson, citato in Dispensa e Brulle (2003), mette in rilievo
che i mass media sono stati una fonte di conoscenza fondamentale sul riscaldamento
globale. Krosnick et al. (2006), analizzando i risultati di un campione rappresentativo di
statunitensi adulti raccolto nel 1996, trovavano che una maggiore esposizione alla
televisione corrispondeva a maggiori certezze sull’esistenza del riscaldamento globale.
Come abbiamo documentato nel capitolo 4, il priming dei media può accrescere la
rilevanza di un tema e provocare spostamenti nelle opinioni. Per questa specifica
questione, possiamo osservare all’opera il meccanismo di agenda-setting, ora che la
ricerca ha stabilito l’esistenza di un legame significativo tra il modo in cui i media
costruiscono la questione del riscaldamento globale e la natura delle risposte che vengono
dalle scelte politiche internazionali. Così, Newell (2000) riporta che i picchi di coscienza
ambientalista degli anni Sessanta e tra la metà e la fine degli anni Ottanta avevano forte
correlazione con la copertura mediatica dei temi dell’ecologia, così come la pressione sui
governi perché prendessero iniziative al riguardo, mentre sono declinati con il declinare
della copertura mediatica negli anni Novanta. Nell’analisi di Newell i media potrebbero
avere un effetto diretto di agenda-setting (politicizzando un tema e portandolo
all’attenzione del pubblico, con conseguente traduzione pratica in attività del governo) o
un effetto indiretto di formazione della pubblica opinione (framing del dibattito). Guber
(2003) rileva che l’attenzione dei media nel corso del tempo spiega in parte il livello
costante ma fluttuante dell’appoggio all’ambientalismo. Trumbo e Shanahan (2000),
analizzando i sondaggi di opinione, mostrano che il livello di preoccupazione degli
intervistati riguardo al riscaldamento globale cresce e cala con l’aumentare e il diminuire
della copertura televisiva della questione, e concludono che le oscillazioni nell’attenzione
del pubblico sul riscaldamento globale possono essere viste come un «riflesso dello
sviluppo di una specifica trama all’interno di specifici sviluppi narrativi» (2000, p. 202).
È chiaro quindi che l’attenzione dei media è stata essenziale nel creare una
consapevolezza globale del riscaldamento globale, portandola a un livello senza
precedenti nella lunga marcia dalla cultura del produttivismo alla cultura
dell’ambientalismo. Ma perché i media hanno sottolineato in modo così deciso la
questione del riscaldamento globale? Come risulta dall’analisi svolta nel capitolo 2, la
linea di fondo dei media consiste nell’attirare pubblico. Il pubblico gravita verso le notizie
che eccitano le sue emozioni. Le emozioni negative riescono più efficacemente delle
positive a concentrare l’attenzione. E la paura è l’emozione negativa più potente. La
connotazione catastrofica delle conseguenze del riscaldamento globale instilla una
profonda paura nel pubblico. In effetti, in alcune proiezioni, il riscaldamento globale
potrebbe portare all’innalzamento del livello degli oceani in molte aree del mondo, a
siccità che devasterebbero risorse idriche e produzione agricola, a uno schema ricorrente
di temporali, uragani, tornado e tifoni che porterebbero distruzione diffusa in un pianeta
largamente urbanizzato, inarrestabili incendi di foreste, desertificazione, e una lunga serie
di cavalieri dell’Apocalisse, amplificata dall’immaginazione di produttori e consumatori
di immagini nella nostra cultura degli effetti speciali. Con questo non si vuole negare la
gravità della minaccia del riscaldamento globale, ma semplicemente mostrare come
proiezioni scientifiche e avvertimenti accuratamente formulati si traducono nel linguaggio
mediatico finalizzato a mettere in guardia il pubblico sul pericolo che incombe,
visualizzando un futuro catastrofico. In effetti, Boykoff (2008) ha analizzato la copertura
televisiva negli Stati Uniti del cambiamento climatico dal 1995 al 2004 e ha rilevato che i
notiziari non riflettevano la visione scientifica del cambiamento climatico, ma seguivano il
verificarsi di determinati eventi di cui la gente ha esperienza nella propria vita. Boykoff e
Boykoff, analizzando i servizi mediatici in televisione e sui quotidiani USA dal punto di
vista del «modello interpretativo arena pubblica», affermano che perché un tema diventi
saliente nell’agenda dei media, bisogna che viaggi sulle spalle di eventi del mondo reale.
Così, nel tempo, politici, celebrità e attivisti dell’ambientalismo hanno rimpiazzato gli
scienziati come principale fonte di notizie sul riscaldamento globale (Boykoff e Boykoff,
2007).
In altre parole, i media sono essenziali nel processo di presa di coscienza, e numerosi
giornalisti hanno investito, professionalmente e ideologicamente, nel progetto di innalzare
la consapevolezza ambientale. In ogni caso, la costruzione della questione del
riscaldamento globale nei media è stata condotta lungo la linea di fondo del business
mediatico: richiamare il pubblico allestendo narrazioni che suscitano preoccupazione tra
i cittadini. E i media sono stati allertati sul dramma implicato nelle tendenze del
riscaldamento globale in gran parte grazie a un movimento ambientalista polimorfo, i cui
attori principali sono scienziati, celebrità e attivisti ecologisti. I media sono al tempo
stesso latori dei messaggi del movimento e produttori di tali messaggi in base al formato
che rientra nelle regole e negli obiettivi del loro mestiere.
La scienza arriva in soccorso
Se esiste un valore centrale nella scienza, è il fatto che la ricerca della verità è un
contributo fondamentale al miglioramento del genere umano, e talvolta un elemento
chiave per la sua sopravvivenza. Per quanto autopromozionale possa essere tale
affermazione, di tanto in tanto gli scienziati possono presentare un caso a conferma della
propria tesi. La scoperta del processo di cambiamento climatico, insieme con la
valutazione delle sue conseguenze, è uno di questi casi. Così, per gli ultimi cinquant’anni,
e con crescente intensità e successo, gli scienziati si sono dedicati al compito di avvertire
cittadini e governanti delle allarmanti implicazioni dei risultati delle loro arcane ricerche.
Primo, vorrei sottolineare che la ricerca scientifica sul cambiamento climatico ha
beneficiato in misura straordinaria di due importanti sviluppi: la rivoluzione nella
modellizzazione al computer e l’evoluzione della teoria dei sistemi. La capacità di
costruire giganteschi database ed elaborare calcoli ad alta velocità ha reso possibile la
costruzione di modelli di simulazione dinamici che sono in grado di analizzare e prevedere
un’ampia gamma di processi atmosferici. Intanto, mentre le teorie della complessità sono
ancora in fasce, numerosi scienziati stanno usando la teoria dei sistemi come strumento
metodologico chiave per comprendere il pianeta come ecosistema di ecosistemi, ponendo
le fondamenta della mappatura della relazione fra attività umana e trasformazione
dell’ambiente naturale (Capra, 1996, 2002; National Science Foundation, 2007).
Comunque, nonostante il rapido progresso della ricerca scientifica nell’area del
cambiamento climatico e dell’interdipendenza ecologica, la maggior parte degli scienziati
pubblica le proprie scoperte su riviste scientifiche, solo poche delle quali sono seguite dai
media, e in forma molto frammentaria. E così, quando alcuni scienziati cominciarono a
preoccuparsi seriamente per quanto avevano scoperto sul riscaldamento globale, cercarono
di rivolgersi in prima persona al pubblico e ai politici; per esempio, scrivendo libri
divulgativi. Questo avvenne per un lungo periodo con scarso impatto. In taluni paesi fu
avanzata qualche proposta di legge sul clima, ma la maggior parte dei politici mostrò ben
poco interesse. Nel 1974, alcuni scienziati statunitensi sollecitarono il governo a finanziare
il National Climate Program. Visto che le loro richieste venivano ignorate, cercarono
alleati nella comunità ambientalista e si associarono con l’Environmental Defense Fund, il
World Resources Institute, e altri gruppi. Insieme, cominciarono a pubblicare rapporti e a
fare opera di pressione sul Congresso a proposito del riscaldamento globale.
Alla metà degli anni Ottanta, tra i climatologi continuavano a crescere le
preoccupazioni sul riscaldamento globale, e i modelli informatici del clima conquistarono
la fiducia degli esperti (Weart, 2007). Scienza e scienziati svolsero un ruolo chiave nel
movimento ambientalista e nell’evoluzione della visione che il pubblico aveva del
riscaldamento globale (Ingram et al., 1992). Come già detto, le testimonianze di Hansen
furono un trauma per i colleghi e diedero la sveglia alle menti più acute. Ingram et al.
(1992) ipotizzano che, prima ancora di Hansen, l’archetipo dello scienziato-paladino era
stato Revelle, dato che la sua scoperta del 1957 fu una delle prime a richiamare
l’attenzione sul riscaldamento globale. Revelle fu anche fondamentale nel mettere insieme
uno studio sul cambiamento climatico e nel portarlo al pubblico. Un altro pioniere
nell’attivismo scientifico fu Stephen Schneider, che contemporaneamente conduceva
ricerche e conversava con i media e i politici perché il cambiamento climatico diventasse
un priorità politica. Al di là di queste singole personalità, fu la crescente comunità
scientifica di specialisti nel riscaldamento globale a presentare la questione del
cambiamento climatico come un problema di grande portata per l’umanità. Gli scienziati
che decidevano di farsi carico direttamente di dare una svegliata al pubblico dovevano
«imparare qualche trucco», perché i senatori li avrebbero ignorati – a meno che non
avessero visto gli scienziati in televisione (Weart, 2007). Alcuni scienziati usarono
tecniche di pubbliche relazioni producendo brevi dichiarazioni per i giornalisti. Così,
anche se gli scienziati erano responsabili della scoperta del riscaldamento globale e
tentarono per primi di avvertire il pubblico della gravità della questione, dovettero anche
diventare essi stessi attivisti, e aderire al movimento ambientalista per poter entrare in
contatto con il mondo. Il ruolo fondamentale della conoscenza scientifica nel movimento
globale contro il riscaldamento globale è ampiamente riconosciuto, con organizzazioni
ambientaliste che nominano scienziati in posizioni di rilievo e governi che vedono gli
scienziati come interlocutori privilegiati. In effetti, il riscaldamento globale come
fenomeno naturale poteva essere identificato e definito solo dalla scienza. Il discorso delle
appropriate risposte al riscaldamento globale è un discorso scientifico, così come lo sono
le affermazioni contrarie. Entrambe le parti del dibattito sul riscaldamento globale
ingaggiano l’opera di scienziati per dare forza ai propri argomenti.
I gruppi di scienziati coinvolti nell’IPCC possono essere visti come una comunità
epistemica (Patterson, 1996; Newell, 2000). Una comunità epistemica è una rete di
individui o gruppi che rivendicano il possesso di conoscenze rilevanti ai fini delle scelte
politiche (Drake e Nicolaidis, 1992; Haas, 1992). La comunità epistemica internazionale
costituita dagli specialisti del cambiamento climatico svolse un ruolo chiave di agenda-
setting: identificò il problema del riscaldamento globale, favorì la formazione del
consenso sulla natura del problema, e premette per una risposta politica (Patterson, 1996).
Senza le voci influenti provenienti dalla comunità scientifica, forse il riscaldamento
globale non sarebbe mai entrato nel regno delle iniziative politiche internazionali
(Patterson, 1996; Newell, 2000). Come già detto, l’IPCC ha avuto una precisa influenza
nel fissare i termini del dibattito sul riscaldamento globale. Nel settembre 1995 pubblicò
un rapporto che «cambiava ogni cosa» (Krosnick et al., 2000). Il rapporto affermava che
«il bilancio delle prove suggerisce l’esistenza di una riconoscibile influenza umana sul
clima globale» (IPCC, 1995, p. 3). Con questa transizione dalla mancanza di prove a un
certo livello di consenso scientifico, i media rivolsero la loro attenzione al rapporto, e
l’allarme pubblico cominciò a montare. Nel 2001, l’IPCC portò ancora più in là le sue
conclusioni scrivendo che «gran parte del riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni è
attribuibile alle attività umane» (IPCC, 2001, p. 5). Questo processo ha toccato il culmine
nel 2007, quando il rapporto dell’IPCC, come abbiamo detto, ha mobilitato l’opinione
pubblica internazionale e ha portato il riscaldamento globale in cima all’agenda politica
dei responsabili delle decisioni. Così, gli scienziati hanno trasformato il riscaldamento
globale da «questione oggettiva» in «questione esplicita nel discorso pubblico», e poi in
un dibattito di politica globale. Una volta che il riscaldamento globale fu entrato nel
discorso pubblico, i media cominciarono a parlarne, e questo ebbe un impatto
sull’opinione pubblica e finì per premere sui governi perché entrassero in azione. È chiaro
che non fu solo la scienza a portare il riscaldamento globale da problema oggettivo a
questione politica esplicita. Fu l’intreccio tra la comunità scientifica, attivisti ecologisti e
celebrità a portare il tema all’attenzione dei media, e lo comunicò al grande pubblico
tramite le reti multimediali.
Azione ecologista in rete e riscaldamento globale
L’alleanza tra scienziati, ecologisti e opinion leader che è alla fine riuscita a portare il
riscaldamento globale all’attenzione pubblica va compresa nel contesto del movimento
ambientalista, uno dei movimenti sociali decisivi del nostro tempo5.
Dato il carattere diversificato del movimento e la sua evoluzione differenziata nel
mondo, è difficile fornire un excursus sintetico del suo sviluppo. Penso però che un
indicatore significativo della crescita del movimento sia la partecipazione alle attività
dell’Earth Day dal 1970 al 2007. La figura 5.2 presenta una stima del numero di
partecipanti all’Earth Day. La giornata è stata celebrata tutti gli anni dal 1970. Ha avuto
inizio in America raggiungendo in breve proporzioni planetarie. Il senatore Nelson del
Wisconsin annunciò che nel 1970 ci sarebbe stata una manifestazione nazionale
sull’ambiente diffusa localmente. La risposta, in larga misura spontanea, superò ogni
aspettativa: furono 20 milioni gli americani che vi parteciparono. Nel 1990, la Giornata
della Terra diventò globale, mobilitando 220 milioni di persone in 141 paesi e portando lo
status dei temi ambientali sulla scena del mondo (earthday. net). L’Earth Day del 2000 si
concentrò sul riscaldamento globale e sull’energia pulita. Internet fu cruciale per
connettere gli attivisti delle varie parti del mondo per l’evento del 2000. Nel 2007 l’Earth
Day, con l’adesione dell’intero mondo, varcò il traguardo del miliar do di persone. Mai un
evento, di nessun genere, aveva ottenuto un tale livello di sostegno. Gli eventi sono
coordinati dall’Earth Day Network, un’organizzazione non profit fondata dagli
organizzatori della manifestazione del 1970. La Giornata della Terra è significativa in
termini di crescita della coscienza ambientalista globale in quanto evento celebrato
contemporaneamente in tutto il mondo. Nel 2008, la rete mobilitò 17.000 organizzazioni a
livello mondiale e 5000 organizzazioni negli USA. Nel 2007 il riscaldamento globale fu
uno dei temi principali sottoposti al dibattito dei partecipanti. Nel 2008 la Giornata ha
avuto il riscaldamento globale come questione centrale.

FIG. 5.2. Numero di partecipanti all’Earth Day, 1970-2007.


Fonte: US Environmental Protection Agency, Earth Day Network.

Dal 1970 in poi le organizzazioni ambientaliste negli Stati Uniti e nel mondo hanno
registrato una notevole crescita (Mitchell et al., 1992; Richardson e Rootes, 1995). Il
diffuso affermarsi di una profonda coscienza ecologica spiega come sia stato possibile che
del tema del riscaldamento globale si appropriassero immediatamente organizzazioni di
base, ONG ambientaliste e attivisti dei media, trasformandolo in un tema politico di primo
piano. Oggi, dopo un trentennio di lavoro militante in tutti gli ambiti dell’attivismo
ambientalista, queste organizzazioni sono le fonti più affidabili di informazioni
sull’ambiente. Nell’Unione Europea tanto le associazioni ambientaliste quanto gli
scienziati si piazzano al di sopra della televisione nella classifica delle fonti più affidabili
di informazioni ambientali (Eurobarometer, 2008). Facendo leva sulla legittimità di cui
godono nella pubblica opinione, gli attivisti dell’ambiente usano tutta una gamma di
strategie per influenzare le scelte politiche e i processi decisionali: esercitare pressione sui
politici, inscenare eventi mediatici e ricorrere all’azione diretta.
Come mostrerò più avanti, spesso i gruppi ambientalisti e le loro campagne ricorrono a
celebrità per assicurarsi una maggiore attenzione da parte dei media. Thrall et al. (2008)
affermano che le celebrità non sono usate soltanto per irrompere nella cronaca e richia-
mare l’attenzione, ma anche per irrompere nel mondo mediatico dell’intrattenimento, dal
momento che sempre più frequentemente gli spettatori si rivolgono ai media di
intrattenimento per essere informati. Così, i gruppi ambientalisti usano strategicamente le
vie dell’intrattenimento come canali per comunicare i loro messaggi, e tutto ciò è reso più
facile dalle reti di nuova tecnologia e digitali. Metà dei gruppi ambientalisti studiati da
Thrall et al. (2008) ha usato una forma di intrattenimento per diffondere il proprio
messaggio; tra le tattiche comparivano l’organizzazione di concerti, l’introduzione di
messaggi in trasmissioni di intrattenimento, e la diffusione di video in streaming con
interviste a personaggi famosi. L’esempio più noto di questo tipo di intrattenimento a
favore dell’ambiente è Live Earth, la serie di concerti patrocinata da Al Gore e da gruppi
ambientalisti per combattere il cambiamento climatico (vedi sotto). Nella tattica delle
organizzazioni ambientaliste c’è stato, per comunicare il loro messaggio, uno spostamento
dal broadcasting al narrowcasting. Negli approcci di narrowcasting rientrano: la creazione
di siti web, la formazione di canali su YouTube, l’apertura di pagine su siti di social
networking, e l’invio di SMS via cellulare. Con le reti orizzontali di comunicazione, la
gente può comunicare direttamente con i gruppi di difesa ambientale. Gli aspetti interattivi
possono essere semplici come permettere al visitatore di un sito web di inoltrare per e-
mail un link o una pagina web o una pagina web, oppure può trattarsi di chat o di siti di
social networking che creano reti di individui interessati. Per esempio, la Alliance for
Climate Protection e Current TV decisero di non rivolgersi ad agenzie pubblicitarie
producendosi da soli i propri ecospot. Celebrità come Cameron Diaz, George Clooney e
altri facevano da giudici per scegliere gli spot migliori. Usando la combinazione di
capacità organizzative grassroots, attivismo dal basso orientato ai media e le reti di
Internet, l’azione ecologista ha assunto forme nuove e molteplici in tutto il mondo, con
una crescente capacità di influenzare il pubblico.
Sfruttando la fitta e intensa rete dell’azione ecologista, organizzazioni e attivisti in tutto
il mondo stanno mettendosi insieme per lavorare sulla questione del riscaldamento
globale. Un esempio a questo proposito è Stop Climate Chaos, una coalizione di oltre 70
ONG. Stop Climate Chaos fu lanciato in Gran Bretagna nel settembre 2005 per
sottolineare i pericoli del cambiamento climatico in agguato. C’è grande diversità tra i
membri della coalizione, che va dalle maggiori organizzazioni ambientaliste del Regno
Unito alle agenzie internazionali di sviluppo fino a reti nazionali di attivismo, e
comprende, tra gli altri, Greenpeace, Islamic Relief, Oxfam, UNA-UK, WWF-UK e Youth
Against Climate Change. Stop Climate Chaos si finanzia con le sottoscrizioni dei suoi
membri. Il finanziamento iniziale fu offerto dal Network for Social Change, Friends of the
Earth, Greenpeace, la Royal Society for the Protection of Birds (RSPB), e WWF-UK. Lo
scopo dichiarato di Stop Climate Change è: «Costituire una massiccia coalizione, che dia
luogo a un mandato pubblico e univoco per l’azione politica tesa ad arrestare il
cambiamento climatico provocato dall’uomo». Al fine di realizzare questo obiettivo,
nell’ottobre 2006 Stop Climate Chaos ha lanciato la sua campagna «I count», «io conto».
La campagna fu sostenuta da post su siti web, pubblicità sui giornali e SMS. In occasione
del lancio della campagna fu scoperta una scultura di ghiaccio di un metro e venti
raffigurante la testa di Tony Blair con sullo sfondo la prima edizione del loro libro I
Count: Your Step-by-Step Guide to Climate Bliss. Il concetto era che via via che il Blair si
consumava, il cambiamento climatico diventava la questione più importante su cui
avrebbe potuto agire lasciando una sua eredità. Nel novembre 2006, 20.000 persone si
riunivano in Trafalgar Square chiedendo che il governo agisse sul riscaldamento globale.
Il manuale in 16 passi di Stop Climate Chaos, I Count fu pubblicato da Penguin e
l’Independent ne parlò in concomitanza con la manifestazione. Successivamente, la
coalizione organizzò oltre 200 eventi nel Regno Unito durante la «I Count Climate
Change Bill Week of Action», chiedendo un disegno di legge più deciso sul cambiamento
climatico.
L’uso di Internet è cruciale per Stop Climate Chaos sia per la messa in atto della
strategia mediatica sia ai fini organizzativi. Internet connette le organizzazioni che fanno
parte della coalizione e i loro siti web. La rete dei siti web contiene informazioni sul
riscaldamento globale, il manifesto della coalizione, una lista di eventi, e i link al sito della
campagna «I Count» (Io conto). Il sito web della campagna presenta video, notizie,
elenchi di eventi, podcast, newsletter, consigli di lettura e modi per partecipare, come
mandando messaggi ai ministri che prendono decisioni sui programmi relativi al clima.
Gli individui possono aggiungere la propria firma «per dire io conto» sul sito web. La
campagna invita a sottoscrivere perché «Più firme arrivano, più saremo notati. E più siamo
notati, più i politici ci ascolteranno. E più i politici ascoltano, più dovranno fare»
(www.icount.org.uk). Gli utenti possono anche impegnarsi online a compiere azioni nella
loro vita privata, e i dati sono raccolti dal sito web. Vengono mandati e-mail e SMS per
ricordare gli impegni. Le azioni elencate sul sito web cambiano periodicamente, e gli
utenti possono personalizzare l’esperienza creando un account «My Actions», che registra
le proprie attività.
Un’altra grande organizzazione che ha mobilitato l’opinione pubblica spingendola ad
agire sul riscaldamento globale è l’Alliance for Climate Protection fondata da Al Gore
negli Stati Uniti. Il compito che si è data l’Alliance è quello di educare il pubblico
sull’imporanza del cambiamento climatico e sul ruolo in esso delle attività umane, dato
che i sondaggi di opinione mostrano che, nonostante la consapevolezza del fenomeno in
USA, una minoranza significativa ancora non è ancora convinta del nesso con l’impatto
dell’uomo. La campagna lanciata dalla Alliance il 2 aprile 2008 (300 milioni di dollari per
la durata di tre anni) è una delle più costose campagne di sensibilizzazione sociale nella
storia americana (Eilperin, 2008). La campagna usa tecniche di organizzazione online e
spot pubblicitari in trasmissioni televisive popolari come American Idol e The Daily Show
with Jon Stewart.
Su scala globale, Friends of the Earth comprende sezioni nazionali in 70 paesi, e unisce
5000 gruppi di attivisti locali. Conta oltre 3 milioni di membri e sostenitori, e si presenta
come «la più grande rete ambientalista di base del mondo». Avendo individuato nel
cambiamento climatico «la più grave minaccia ecologica per il pianeta», è impegnata in
una intensa campagna per imporre la «giustizia climatica». Friends of the Earth mira a
unirsi con comunità che sono toccate dal cambiamento climatico per «costruire un
movimento globale». Fermare il cambiamento climatico è uno degli scopi primari anche
dell’attività di Greenpeace International, che cerca nuove politiche energetiche e
incoraggia gli individui a modificare le proprie modalità di consumo dell’energia.
Greenpeace vede la consapevolezza del cambiamento climatico come un obiettivo chiave.
È perfettamente consapevole del carattere retificato del suo movimento, e lavora al
networking con altre organizzazioni ambientaliste, aziende, governi e individui. Un altro
attore di primo piano che spinge all’azione consapevole sul cambiamento climatico è il
World Wide Fund for Nature, o World Wildlife Fund (WWF), una delle più grandi
organizzazioni ambientaliste del mondo, fondata in Svizzera nel 1961. Il WWF ha in corso
oltre 2000 progetti di conservazione ambientale, molti dei quali si concentrano su
questioni locali, dove lavorano in tandem con partner locali. Il cambiamento climatico è
una delle priorità delle loro campagne. Il WWF promuove la Earth Hour, di cui parleremo
più avanti.
Internet ha svolto una funzione sempre più importante nel movimento globale per
contrastare il riscaldamento globale. Come approfondirò nella prossima sezione di questo
capitolo, i movimenti sociali che si occupano di temi globali sono transnazionali per
raggio d’azione e dipendono da Internet per la diffusione delle informazioni, per la
comunicazione e per il coordinamento. I social network mediati da Internet sono
ingredienti chiave del movimento ambientalista nella società in rete globale. Internet ha
migliorato straordinariamente la capacità promozionale dei gruppi ambientalisti e ha
accresciuto la collaborazione internazionale. Così, Warkentin (2001) analizza gli usi di
Internet da parte di diverse ONG ambientaliste e determina il suo ruolo critico nel
rafforzare i servizi per i membri, nel diffondere risorse per le informazioni, e incoraggiare
la partecipazione politica. Per esempio, Internet ha aiutato l’Earth Island Institute ad
ampliare il numero dei suoi membri includendo nel suo sito web strumenti come le pagine
«Take Action» e «Get Involved» e un «Activist Toolbox». Identifica pratiche analoghe nel
Rainforest Action Network e in Greenpeace. Quest’ultima ha una rete di siti web per
coordinare le azioni globalmente e per spingere la gente ad agire con l’azione di
testimonianza. Questi atti sono pubblicizzati e documentati visivamente nella rete del sito
web.
Bimber (2003) ha studiato la maggiore efficienza raggiunta dall’Environmental Defense
Fund grazie al ricorso a Internet. Nel 1999 l’organizzazione si è letteralmente reinventata
su Internet, riducendo il personale a 25 dipendenti a tempo pieno e parziale e
trasformandosi in una rete di organizzazioni di base coordinate e informate attraverso
Internet. Bimber mette in evidenza che un’organizzazione basata sul web è meglio
attrezzata a formare coalizioni, riuscendo ad aggiungere gruppi e partner per campagne ad
hoc. Questo è esattamente quel che ha fatto Environmental Defense con notevole
successo. Nel Regno Unito, Pickerill (2003) ha analizzato il movimento ambientalista
britannico e ha sottolineato il ruolo di Internet nell’irrobustire il movimento. Elenca
cinque processi attraverso i quali le organizzazioni e i gruppi mobilitavano la
partecipazione tramite il computer networking: fornire vie di accesso all’attivismo,
innalzare il profilo delle campagne, mobilitare l’attivismo online, stimolare l’attivismo
locale, e richiamare partecipanti alle manifestazioni di protesta. Per esempio, Friends of
the Earth aveva 4000 link verso di sé a partire da altri siti, e il sito web offriva numerosi
punti di ingresso perché gli utenti si attivassero. Il sito web usava anche la tecnologia per
richiamare l’attenzione sulle campagne: per esempio, la mappa interattiva sul sito di una
bretella autostradale in progetto nel Regno Unito con foto delle aree minacciate, insieme
con la petizione contro l’autostrada che era possibile firmare online.
Molte ONG ambientaliste hanno pagine su MySpace, Facebook o analoghi siti di social
networking, con link a queste pagine dal loro sito web. Oltre a usare Internet per
mobilitare l’attivismo, per esempio con la partecipazione a manifestazioni di protesta, le
organizzazioni usano Internet anche per incoraggiare la partecipazione all’attivismo
online. Per esempio, la campagna online Climate Change di Friends of the Earth UK era
basata su una rete di individui che, su richiesta della ONG, mandavano e-mail ai leader
mondiali che partecipavano al vertice ONU di Kyoto sul cambiamento climatico.
Analogamente, Internet è usato per stimolare l’azione locale. I gruppi ambientalisti
forniscono dati e informazioni locali di interesse delle popolazioni locali. I siti web
contengono consigli su come esercitare pressioni sulle grandi corporation e su come
entrare in contatto con gruppi locali. Friends of the Earth UK incoraggia i cittadini a
dedicarsi all’attivismo locale fornendo informazioni e link per contattare gruppi locali sul
loro sito web. Per appoggiare le campagne su temi specifici, le organizzazioni
ambientaliste mettono a disposizione sul proprio sito bozze di lettere. Negli Stati Uniti, la
coalizione di Safe Climate Act usa i suoi siti web per incoraggiare gruppi o individui a
livello locale a lanciare una campagna o ad agganciare la loro campagna di zona a una rete
più vasta. Essere in grado di scaricare semplicemente materiale per la campagna, dalla
documentazione scientifica al materiale promozionale, semplifica grandemente il processo
di mobilitazione.
Internet accresce la capacità di un’organizzazione di diffondere il proprio messaggio.
Non solo i siti web forniscono informazioni per i visitatori, ma questi sono incoraggiati a
partecipare alla diffusione virale dell’informazione. Per esempio, molti siti offrono la
possibilità ai visitatori di inviare un determinato articolo a un amico via e-mail, di
spedirgli un formulario invitandolo ad aderire a una campagna, di taggare un pezzo usando
Delicious o Diggs, e di inserire video o banner e aggiungere il feed di un’organizzazione
al proprio sito web o al proprio blog. Il sito di Stop Global Warming ha una pagina di
«promozione», dove banner e immagini promozionali sono messi a disposizione per
essere usati su siti web, blog e altre pagine di comunità online. Ai visitatori del sito viene
chiesto di aiutare a far girare la voce sulla marcia virtuale di Stop Global Warming
invitando altri ad aderire oppure ospitando banner o button. In molti casi, il sito web
dell’organizzazione fa conoscere ai naviganti strumenti di cui probabilmente non erano
neppure a conoscenza.
Tuttavia, gli utilizzi di Internet sono integrati in una più ampia strategia multimediale
che caratterizza le azioni del movimento ambientalista. Per esempio, Greenpeace ha una
rete di siti web, podcast, un blog, pagine di siti di social networking e televisione su banda
larga (GreenTV). WWF ha un sito web ben sviluppato, accompagnato da una sua
newletter e suoi video su YouTube, ma usa anche spot televisivi, spot radiofonici e
pubblicità sui giornali per diffondere il messaggio sul riscaldamento globale. In sintesi: la
versatilità delle reti di comunicazione digitale ha permesso agli ecoattivisti di evolversi dal
precedente obiettivo di richiamare l’attenzione dei media tradizionali all’uso di diversi
canali mediatici a seconda dei messaggi e degli interlocutori che mirano a raggiungere.
Dalla sua enfasi originaria sul raggiungere un pubblico di massa, il movimento è passato
a stimolare la partecipazione di massa dei cittadini utilizzando al meglio la potenzialità
interattiva offerta da Internet. Così, le organizzazioni ecologiste agiscono sul pubblico e
sui responsabili delle decisioni sottoponendo temi alla loro attenzione nell’ambito della
comunicazione, tanto nei media tradizionali quanto in Internet. Per attuare questa
strategia, spesso contano sull’appoggio di una fonte potente di influenza sociale: le
celebrità.
Quando le celebrità salvano il mondo (e perché)
Le celebrità usano la loro fama e il loro appeal talvolta carismatico per richiamare
l’attenzione su diversi temi. Nell’ultimo decennio, alcuni degli artisti più popolari si sono
dedicati totalmente al risveglio della coscienza ambientale e alla causa della lotta al
riscaldamento globale. Se è vero che le celebrità hanno storicamente appoggiato
campagne di natura politica ed etica, i personaggi famosi attivi oggi hanno più incentivi ad
adottare cause globali e hanno più probabilità di successo nel proporre queste agende
(Drezner, 2007). Questo, più che con la fama della gente di spettacolo, ha a che vedere con
il modo in cui la gente consuma l’informazione. Per esempio, un numero crescente di
americani riceve le proprie informazioni sulla politica mondiale dalle trasmissioni di soft
news, in cui le celebrità la fanno da padrone (come Entertainment Tonight, Access
Hollywood, The Daily Show). Una tendenza simile si nota in tutto il mondo (Bennett,
2003b; Baum, 2007).
Questo passaggio alle soft news incide sulla formazione dell’opinione pubblica. Quale
che sia il tema, è un notevole impegno mantenere desta l’attenzione del pubblico tanto da
influenzare la politica. Con il crescere del pubblico delle soft news imperniate
sull’intrattenimento, un modo per mantenere l’attenzione è far leva sul richiamo delle
celebrità. Poiché gli attivisti tra i personaggi famosi hanno accesso a un più ampio
ventaglio di punti di esposizione, e quindi a un più vasto pubblico, le celebrità possono
avere un vantaggio rispetto agli attivisti politici nel far passare il messaggio. Drezner
esamina in che modo gli artisti stanno acquisendo un interesse attivo per la politica
mondiale:

Questi sforzi per rivestire di fascino la politica internazionale finiscono per influire su
ciò che i governi dicono e fanno. Il potere delle soft news ha concesso alle star dello
spettacolo un di più di autorità per portare avanti le loro cause. La loro abilità nel far
salire determinati temi in cima all’agenda globale sta crescendo (2007, par. 2).
Il patrocinio delle celebrità per certe cause è un tipo di «strategia esterna», basata sulla
forza delle star, della protesta sociale, una strategia con cui gruppi che operano al di fuori
del processo politico ufficiale si appoggiano a personaggi celebri per ottenere l’attenzione
dei media che con altri mezzi avrebbero maggiore difficoltà a raggiungere (Thrall et al.,
2008).
Quanto all’interesse personale degli artisti celebri, a parte il sincero impegno che molti
di loro avvertono per creare un mondo migliore, abbracciare cause benefiche e popolari
come l’ambientalismo, ha una forte ricaduta in termini di pubblicità gratuita. Legando il
proprio nome alle aspirazioni di milioni di persone in tutto il mondo, raggiungono nuove
platee e consolidano la propria posizione tra i fan. Quindi, è una partita a due con due
vincitori sicuri: lo status di celebrità dà popolarità a determinate campagne, il cui successo
a sua volta rafforza e nobilita la celebrità stessa. In effetti le star hanno avuto una grande
influenza nel portare il profilo del riscaldamento globale al livello di rilevante tema
pubblico. Tra i ben noti attori che appoggiano l’ambientalismo si trovano Leonardo Di
Caprio, Matt Damon, Brad Pitt, Angelina Jolie, Orlando Bloom e Sienna Miller. Nel 1998
Di Caprio ha istituito la Di Caprio Foundation e ha un sito web ambientalista che
raggiunge, informa e interagisce con un vasto pubblico mondiale. La fondazione ha
portato avanti la produzione del film-documentario ambientalista L’undicesima ora, di cui
Di Caprio è stato produttore e voce narrante. Brad Pitt è la voce di una serie
sull’architettura sostenibile.
Leonardo Di Caprio, Orlando Bloom, KT Tunstall, Pink, The Killers, Razorlight e Josh
Hartnett hanno offerto tutto il loro peso allo sforzo di «Global Cool», una fondazione del
Regno Unito istituita nel 2006 con l’obiettivo di raggiungere un miliardo di persone per
ridurre le emissioni di carbonio di una tonnellata procapite entro i dieci anni successivi.
Laurie David, moglie dell’attore Larry David, è un’altra ben nota attivista
dell’ambientalismo. Ha fondato la Stop Global Warming Virtual March con i senatori John
McCain e Robert F. Kennedy. Jr. Laurie David è anche produttrice di An Inconvenient
Truth (Una scomoda verità), che ha ricevuto il premio Oscar come miglior documentario
(vedi sotto). Nel 2007, la produttrice lanciò lo «Stop Global Warming College Tour» con
Sheryl Crow, nel quale visitarono i campus universitari per accrescere la consapevolezza
ecologica e invitare gli studenti a partecipare al movimento per fermare il riscaldamento
globale. Laurie David è stata dichiarata «la Bono del cambiamento climatico» da Vanity
Fair; le sono state dedicate diverse puntate dell’Oprah Winfrey Show ed è apparsa nello
speciale di un’ora della Fox News «The Heat is On». Laurie David è stata anche guest
editor di Elle Magazine, la prima rivista di moda che abbia dedicato un intero numero
all’ambiente, stampando tra l’altro le pagine su carta riciclata.
Anche se ovviamente non è un attore (in effetti la sua inter-pretazione in campagna
elettorale fu davvero mediocre), Al Gore è il più influente tra gli attivisti-celebrità
impegnati nella lotta al riscaldamento globale. Drezner sostiene che «Gore come
attivistacelebrità ha avuto di gran lunga più successo di quanto ne abbia mai avuto come
vicepresidente» e sottolinea i risultati limitati sulla questione del riscaldamento globale
che ebbe come politico convenzionale, e i successi invece significativi (compreso un
Oscar e il Nobel per la pace) come «celebrità post-Casa Bianca» (2007, p. 4). Al Gore ha
svolto un ruolo chiave nel dibattito sul riscaldamento globale come eminente attivista
dell’ambientalismo. Come già detto, Al Gore è il fondatore dell’Alliance for Climate
Protection. Ha anche organizzato, nel 2007, il concerto di beneficenza Live Earth contro il
riscaldamento globale. Consegnando il premio per la pace ad Al Gore, il comitato per il
Nobel dichiarava che Gore era «probabilmente l’individuo che da solo ha fatto di più per
suscitare una più ampia comprensione, a livello mondiale, delle misure che bisogna
adottare [per contrastare il riscaldamento globale]». Nel 2007 il Sierra Club ha conferito a
Gore il suo massimo riconoscimento, il John Muir Award, per il trentennale impegno nel
suscitare la consapevolezza dei pericoli del riscaldamento globale. Nel 2008, la Camera
dei Rappresentanti del Tennessee ha approvato la «risoluzione Gore», che onora i suoi
sforzi per affrontare il riscaldamento globale. Nel 2007 l’International Academy of
Television Arts and Sciences ha assegnato a Gore il Founders Award per la Current TV e
per il lavoro nell’area del riscaldamento globale.
Gore rappresenta un caso interessante, e raro, di politico di mestiere diventato attivista-
celebrità. Ma il suo interesse per i temi ambientali è nato molto tempo fa. Al Gore è stato
uno dei primi legislatori a «vedere le potenzialità insite nella questione del cambiamento
climatico globale» (Ingram et al., 1992, p. 49). Tenne le prime udienze al Congresso
sull’argomento nel 1981. Gore ha scritto che era sicuro che una volta ascoltate le prove, i
legislatori si sarebbero dati da fare. Ma non lo fecero. Come membro della Camera dei
Rappresentanti nel 1981, Gore appoggiò la proposta dell’American Association for the
Advancement of the Science per finanziare la ricerca sul cambiamento climatico globale.
Come vicepresidente si dichiarò a favore della carbon tax, che fu parzialmente applicata
nel 1993. Aiutò anche a far passare il Protocollo di Kyoto nel 1997, anche se questo non
venne poi ratificato dagli USA. Durante la campagna elettorale del 2000, Gore si impegnò
a ratificare il protocollo. Quando «perse» contro Bush nel 2000 (per una decisione di 5 a 4
della Corte Suprema statunitense), tornò a lavorare sul riscaldamento globale e cominciò a
portare in giro per il mondo uno slide show che documentava la questione. Laurie David,
fondatrice della Stop Global Warming Virtual March, vide lo slide show a New York nel
2004, dopo aver assistito alla prima di L’alba del giorno dopo, film su un disastro
ambientale che colpisce tutto il Nordamerica in un futuro prossimo. Divenne la produttrice
del documentario di Al Gore Una scomoda verità, che ha popolarizzato in maniera
significativa il dibattito sul riscaldamento globale. Il film è stato proiettato per la prima
volta al Sundance Film Festival nel 2006 e poi nel 2007 ha vinto l’Oscar per migliore
documentario. Sulla scorta del film Gore ha scritto anche un libro, che è stato bestseller
nel 2006. Gore ha destinato il 100 per cento della sua quota dei profitti del film e del libro
alla campagna dell’Alliance for Climate Protection, e la Paramount Classic, casa
distributrice del film, ha versato il 5 per cento dei profitti del film all’Alliance (Eilperin,
2008). Non è chiaro come e in quale misura il film abbia influenzato l’opinione pubblica,
ma ha scosso le élite economiche e politiche che lo hanno visto (Weart, 2007).
Film e programmi televisivi hanno contribuito in misura significativa a far crescere la
consapevolezza del riscaldamento globale. Prima che fosse realizzato Una scomoda
verità, i media avevano dedicato una notevole attenzione all’eco-catastrofista L’alba del
giorno dopo. Anche se si trattava di pura fiction che aveva solo un tenue rapporto con i
fatti scientifici, il film secondo molti servì a scuotere gli spettatori sul cambiamento
climatico (Semple, 2004). La David si incontrò con Gore per proporgli come si è detto di
trasformare lo slide show in un film (Booth, 2006). I gruppi ambientalisti furono pronti a
offrire i loro commenti al film, sperando di usarlo per far pesare le priorità dell’ecologia.
Da uno studio di Lowe et al. (2006) risultò che L’alba del giorno dopo aveva influenzato
le opinioni di chi l’aveva visto nel Regno Unito, confermando che gli spettatori erano più
preoccupati del cambiamento climatico dei non spettatori. In sintesi: si direbbe che
personaggi famosi di varie origini siano confluiti sulla stessa causa comune – una causa
che sembra trascendere la politica partitica (ma non è così) – usando la propria
reputazione e il proprio ascendente per chiamare alla difesa della vivibilità sul nostro
pianeta. Per farlo, creano eventi, una potente forma di politica mediatica.
Gli eventi come politica mediatica ambientalista
Il movimento ambientalista in generale e la mobilitazione contro il riscaldamento globale
in particolare creano eventi per accrescere la consapevolezza richiamando l’attenzione dei
media. Inoltre, si tratta spesso di eventi globali, o per il coordinamento di esibizioni
inscenate in diversi paesi del mondo, o assicurando alla manifestazione una copertura
globale. Come abbiamo detto, la Giornata della Terra è stata nel 1970 il primo di questi
eventi, e ha continuato a essere l’icona del movimento ambientalista globale. Ma, con
l’intensificarsi della sfaccettata campagna sul riscaldamento globale nel primo decennio
del nostro secolo, gli eventi globali sono diventati tanto strumento di azione quanto
terreno di organizzazione. Qualche esempio illustrerà i contorni contemporanei di questo
movimento sociale mediato dagli eventi.
Stop Climate Chaos è stata una delle principali coalizioni che hanno partecipato nel
2007 all’evento Global Day of Action against Climate Change, insieme con la Campaign
against Climate Change, Greenpeace e iniziative di base indipendenti. Il Global Day of
Action coincise con la conferenza dell’UNFCCC a Bali e con marce e manifestazioni
organizzate contemporaneamente in oltre 80 paesi. Il Global Day of Action iniziò nel 2005
perché coincidesse con la data dell’applicazione legale del Protocollo di Kyoto. Internet fu
fondamentale nel coordinare gli eventi internazionali, con nuovi siti che elencavano le
varie manifestazioni internazionali sul cambiamento climatico e informazioni su come
parteciparvi.
Un altro evento globale, il concerto Live Earth, fu promosso da Al Gore nel 2007.
Molte celebrità, tra cui Kelly Clarkson e Lenny Kravitz, si associarono a Gore e
mostrarono il loro appoggio esibendosi. Live Earth fu una serie di concerti tenuti il 7
luglio 2007 in vari paesi del mondo. Al Gore disse che i concerti davano inizio a una
campagna di tre anni per combattere il cambiamento climatico e «rendere tutti, sul nostro
pianeta, consapevoli di come possiamo risolvere la crisi del clima in tempo per evitare la
catastrofe» (Gore, 2007). I concerti portarono sul palco oltre 150 esibizioni in 11 località
in tutto il mondo e furono trasmessi alla televisione e alla radio, e in streaming in Internet.
Live Earth ebbe oltre 15 milioni di video stream durante il solo concerto dal vivo. Live
Earth agiva in associazione con Save Our Selves, organizzazione fondata da Kevin Wall,
che comprendeva partner come l’Alliance for Climate Protection di Al Gore, Earthlab, e
MSN.
Un altro grosso evento fu la Earth Hour, sponsorizzata dal WWF, svoltasi dalle 20 alle
21 del 29 marzo 2008. L’idea era quella di spegnere le luci per 60 minuti per invitare la
gente a prendere l’iniziativa sul cambiamento climatico. L’evento è per sua natura di tipo
individuale, con l’obiettivo di «creare un evento simbolico che possa diventare un
movimento» e un «semplice atto che crei un punto di svolta positivo» (video Earth Hour,
2007). Earth Hour ebbe inizio in Australia nel 2007, quando 2,2 milioni di persone e 2100
aziende di Sydney spensero le luci per un’ora – l’Ora della Terra – il 31 marzo 2007.
Poiché icone come il Sydney Harbour Bridge e l’Opera House aderirono, l’avvenimento
fece scalpore. L’evento fu promosso attraverso la radio, varie pubblicità, striscioni nelle
strade cittadine e messaggi di promemoria. Nel 2008 parteciparono persone di sei
continenti e più di quattrocento paesi, trasformando l’evento in una manifestazione di
portata mondiale. Grandi aziende ed edifici storici presero parte all’operazione, dal
Colosseo di Roma alla Sears Tower di Chicago al Golden Gate Bridge di San Francisco.
Google aveva un messaggio sulla homepage oscurata che diceva: «Abbiamo spento le
luci. Ora tocca a te».
L’ideatore di Earth Hour si disse stupito di quanto velocemente si fosse diffusa
l’iniziativa da quando, l’anno prima, era stata lanciata per la prima volta (AFP, 2008). In
effetti, Internet fornì lo strumento per seminare in lungo e in largo il messaggio. La pagina
buia di Google portò molti a conoscenza della cosa. Il sito web ufficiale di Earth Hour,
www.earthhour.org, ricevette oltre 2,4 milioni di visitatori nella sola giornata del 29 marzo
(Reuters, 2008). Il sito di Earth Hour contiene materiale informativo, invita gli utenti a
firmare e a impegnarsi a partecipare all’Earth Hour, e permette di mandare e-mail agli
amici con utili link, incoraggiandoli a partecipare. C’è un «kit scaricabile del sostenitore»,
con opuscoli e poster, in modo che gli individui possano diffondere il messaggio nella loro
zona. Il sito web ha anche link da aggiungere alla pagina di amici su MySpace, aderire alla
pagina dei fan su Facebook, postare foto sul gruppo Flickr, seguire su Twitter e caricare un
video YouTube. Un video sulla Earth Hour fu postato sul sito, e diverse versioni di quello
e altri provenienti da tutto il mondo furono messi su You-Tube: uno di questi al 30 marzo
2008 era stato visto 748.531 volte. Il video discute del cambiamento climatico e dei suoi
effetti negativi sul mondo e mostra come «l’attivismo sociale ha preso piede» nel marzo
2007 per Earth Hour.
StopGlobalWarming.org si definisce un movimento di base online che appoggia la Stop
Global Warming Virtual March. Sul sito si legge che «la Marcia Virtuale sta creando una
sola forte voce collettiva che sarà udita in tutto il mondo. Diffondendo la parola, stiamo
costruendo un movimento per arrestare il riscaldamento globale». I visitatori del sito
possono aderire alla Marcia Virtuale cliccando su un’icona e inserendo nome e indirizzo e-
mail. Stop Global Warming ha organizzato una marcia virtuale con 1.037.744 partecipanti,
marciatori verificati che si sono iscritti da tutti i cin-quanta stati degli USA, e da oltre 25
paesi del mondo. Più di 35 legislatori e governatori statunitensi si sono iscritti, tra cui John
McCain e Arnold Schwarzenegger (www.stopglobalwarming.org). Un altro evento, che è
organizzato via Internet ma si svolge in varie località negli Stati Uniti, è un programma di
manifestazioni sul cambiamento climatico connesse in rete chiamato Step It Up. Nel 2007,
Bill McKibben, docente al Middlebury College, lanciò un appello online perché il 14
aprile di quell’anno si tenessero manifestazioni a livello locale sotto la bandiera di «Step It
Up». L’obiettivo della campagna è quello di spingere il Congresso USA a ridurre le
emissioni di carbonio dell’80 per cento entro il 2050. L’appello online di McKibben
generò progetti per centinaia di eventi in tutti i cinquanta stati. Le azioni e le
manifestazioni sono organizzate online da una mezza dozzina di laureati di Middlebury
che «filtrano, attraverso le lenti di YouTube, una sorta di passione e di stile che ricorda gli
anni Sessanta», dice McKibben: «È una fonte di eterno piacere per me accendere il
computer ogni mattina e vedere che cosa la gente ha tirato fuori la sera prima» (Barringer,
2007).
Così, con l’aiuto delle celebrità e con l’impiego della capacità interattiva delle reti di
comunicazione globali, gli ambientalisti entrano in contatto con i cittadini nel mondo
agendo sui media. Mentre le organizzazioni di base svolgono un ruolo importante nel
movimento, il contatto spesso si verifica grazie a eventi mediatici, in cui gli attivisti
creano eventi che richiamano l’attenzione dei media, raggiungendo così un pubblico più
ampio. Molti attivisti ricorrono a tattiche di creazione di eventi che richiamano
l’attenzione e suscitano dibattito, dal farsi arrestare per aver disturbato un incontro al
soggiornare in cima a un albero per mesi (a Berkeley per oltre un anno). Eventi e azioni
dimostrative possono catturare l’attenzione dei media globali e contribuire a divulgare tra
il pubblico i temi dell’ambientalismo. In effetti, un ruolo importante delle organizzazioni
ambientaliste è quello di educare e far crescere la coscienza ecologica, «arrivando persino
a trasformare la cultura globale», come Greenpeace è stata capace di trasformare
l’immagine della caccia alle balene da impresa eroica in strage (Clapp e Dauvergne, 2005,
p. 79).
Comunque, pur svolgendo un ruolo chiave nel costruire immagini del riscaldamento
globale, i media sono diversificati, e quindi possono presentare svariate costruzioni sociali
del riscaldamento globale. Così, le organizzazioni ambientaliste spesso prendono in mano
personalmente il compito della costruzione del messaggio. Per esempio, l’Environmental
Defense Fund, un’organizzazione non profit fondata nel 1967, si è consociata con l’Ad
Council, altra organizzazione non profit, lanciando nel 2006 una campagna di propaganda
televisiva di servizio pubblico sul riscaldamento globale. Gli spot erano accompagnati da
un’iniziativa di educazione pubblica, che comprendeva informazioni su quei semplici
passi che gli individui potevano compiere personalmente. Il sito web della campagna
offriva anche strumenti interattivi con cui l’utente poteva calcolare la quantità di
inquinamento da carbonio prodotto da lui stesso. Gli spot sul riscaldamento globale
crearono un notevole clamore nei media, con servizi su Forbes, Newsweek, Time e varie
stazioni radiofoniche.
Libri, riviste specializzate e altri canali di comunicazione hanno anch’essi contribuito
alla nuova coscienza ambientalista. Clapp e Dauvergne (2005), discutendo dell’evoluzione
del discorso ambientalista globale, notano l’impatto pubblico del bestseller del 1962 di
Rachel Carson, Primavera silenziosa, che aveva un messaggio semplice e potente sugli
effetti distruttivi dei pesticidi sulla natura. Clapp e Dauvergne discutono di come
l’interesse del pubblico abbia mutato punto focale, davanti all’allarme degli ambientalisti
sugli effetti cumulativi dei problemi locali. Le foto della Terra dallo spazio divennero più
comuni e sempre più diffusa tra la popolazione si fece la visione della vita sul pianeta
come qualcosa di interconnesso (Clapp e Dauvergne, 2005, p. 49). I due autori concludono
che determinate pubblicazioni furono importanti nella diffusione dell’ambientalismo: tra
queste Silent Spring (1962), The Population Bomb (1968), Limits to Growth (1972), Small
is Beautiful (1973), il Founex Report e il Brundtland Report. Anche diversi organi
mediatici hanno avuto una forte influenza nel creare una coscienza ambientalista globale.
Uno di questi casi è quello della National Geographic Society, che da più di un secolo
promuove la conoscenza globale del pianeta, della gente che lo abita e dei modi per
proteggerlo. In anni recenti, le sue popolari trasmissioni televisive e i suoi siti web sono
stati tra i più forti paladini della conservazione del pianeta. E così, anche se i sentieri del
cambiamento di mentalità sono tortuosi, la maggior parte di essi sono stati aperti da quelli
che per primi hanno udito il richiamo di Gaia.
Azione, infine: i cambiamenti nelle politiche per l’ambiente come risultato dei
cambiamenti di mentalità
I leader politici sono consapevoli del crescente allarme tra il pubblico per il riscaldamento
globale. Gli appelli all’azione sul cambiamento climatico fanno aumentare gli indici di
gradimento dei politici. Dopo il rapporto di valutazione dell’IPCC del 2007, è diventato
difficile obiettare alla necessità di prendere l’iniziativa sul riscaldamento globale. Oggi
ormai, più che sulla realtà dell’influenza umana sul riscaldamento globale, il dibattito
verte sul che fare in proposito. La visione che il pubblico ha del riscaldamento globale
determina fino a che punto sono disposti a spingersi i politici, i quali a loro volta
dipendono dal ciclo elettorale.
In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, esiste tradizionalmente una spaccatura politica
nelle opinioni sul riscaldamento globale, ma questa divisione si sta riducendo. Il
sondaggista John Zogby spiega che sta crescendo il consenso sull’idea che il
riscaldamento globale deve essere risolto, non solo tra gli elettori di sinistra e giovani, che
sono stati tra i primi ad abbracciarla, ma sempre di più tra tutti i cittadini (Horsley, 2007).
Secondo Zogby, nelle elezioni statunitensi del 2006 di metà mandato, l’esistenza stessa del
riscaldamento globale era un «cuneo» che divideva democratici e repubblicani. Non è più
così. Persino il presidente Bush ha riconosciuto il problema nel discorso dello Stato
dell’Unione del 2007, anche se nei fatti la sua politica è rimasta indifferente alla questione.
Nell’aprile del 2007, la Corte Suprema degli Stati Uniti prendeva la sua prima decisione a
proposito del riscaldamento globale, e per cinque voti contro quattro respingeva la tesi
dell’amministrazione Bush per cui l’Environmental Protection Agency non era autorizzata
a regolamentare l’anidride carbonica. La decisione è stata definita una vittoria
fondamentale per l’ecologismo. Altri indicatori della politica sul cambiamento climatico
negli USA, nell’attesa di un nuovo presidente con una coscienza ambientalista,
comprendevano un’intensa attività congressuale sulle emissioni di gas serra. Al marzo
2008 i legislatori statunitensi avevano presentato più di 195 disegni di legge, risoluzioni
ed emendamenti che riguardavano specificamente il cambiamento climatico globale
durante il 110o Congresso (2007-2008) rispetto ai 106 atti legislativi presentati nel
precedente biennio congressuale, dal 2005 al 2006 (Pew Center on Global Climate
Change, 2008). Il Climate Security Act del 2007 di Lieberman e Warner fu approvato
dalla commissione senatoriale Ambiente e Lavori pubblici il 5 dicembre 2007. L’atto fu
definito dalla stampa un significativo elemento normativo per ridurre il riscaldamento
globale, ed è considerato una prova di quanta strada abbia fatto il Congresso sulla
questione del cambiamento climatico (Kelly, 2008).
Il riscaldamento globale ha svolto un ruolo importante nelle elezioni presidenziali 2008.
Storicamente, quelli dell’ambiente non sono temi di scontro decisivi nelle elezioni
nazionali statunitensi. Per le elezioni presidenziali del 2008, però, l’ambiente è emerso
come una questione significativa, con più del 30 per cento degli elettori che diceva che
avrebbe tenuto conto delle credenziali verdi del candidato: un forte aumento rispetto ad
appena l’11 per cento dei votanti nel 2004. Tutti i maggiori candidati presidenziali hanno
discusso a lungo del tema e hanno appoggiato proposte di tagliare le emissioni di
carbonio. La League of Conservation Voters ha creato un sito web (www.heatison.org) che
segue le opinioni dei candidati sul riscaldamento globale e tiene in caldo la questione nel
corso delle elezioni. I senatori Clinton, McCain e Obama auspicavano, almeno in termini
generali, politiche per ridurre il riscaldamento globale, in netto contrasto con
l’amministrazione Bush – anche se McCain e Obama appoggiavano contemporaneamente
una maggiore estrazione petrolifera in risposta all’aumento dei prezzi del petrolio.
Nell’Unione Europea, come già detto, il 9 marzo 2007, in un summit a Bruxelles, i capi
di stato e di governo concordarono un obiettivo vincolante per ridurre entro il 2020 le
emissioni di gas serra almeno del 20 per cento rispetto ai livelli del 1990. Mentre
l’obiettivo complessivo è il 20 per cento, l’accordo consente obiettivi nazionali aggiuntivi
per ciascuno dei 27 paesi membri. Per esempio, la Svezia conta di ridurre le sue emissioni
serra almeno del 30 per cento entro il 2020. Il 23 gennaio 2008 l’UE ha trovato l’accordo
su un pacchetto complessivo di proposte: il «Climate Action and Renewable Energy
Package». Il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha chiamato gli obiettivi
«20/20 per il 2020». Due obiettivi chiave sono stati fissati dal Consiglio Europeo: una
riduzione di almeno il 20 per cento di gas serra entro il 2020 – da portare al 30 per cento
se c’è un accordo internazionale che impegna gli altri paesi sviluppati; e una quota del 20
per cento di energie rinnovabili sul consumo di energia dell’Unione entro il 2020. Il
pacchetto comprende anche l’aggiornamento dell’Emissions Trading System per la
compravendita di emissioni in Europa. L’UE ha il primo programma al mondo di cap-and-
trade per le emissioni di anidride carbonica. Nel Regno Unito, in risposta all’intensa
pressione dei movimenti ambientalisti, tra cui Friends of the Earth e la Stop Climate
Change Coalition, il governo ha accettato di preparare un progetto di legge che introduca
una normativa finalizzata alla riduzione delle emissioni di gas serra (BBC, 2006; Wintour,
2006). Una Climate Change Bill è stata introdotta nel marzo 2007.
Anche la comunità internazionale sta agendo sul riscaldamento globale. Il Protocollo di
Kyoto, negoziato nel 1997, è entrato in vigore nel 2005, fissando limiti vincolanti alle
emissioni per i paesi industrializzati fino al 2012 (a eccezione degli Stati Uniti, che non
l’hanno ratificato). All’agosto 2008, gli USA e il Kazakhstan erano le uniche nazioni
firmatarie a non aver ratificato il Protocollo di Kyoto. Il primo periodo di impegno del
Protocollo termina nel 2012, e nel maggio 2007 sono iniziati colloqui internazionali su un
successivo periodo di impegno. La Climate Change Conference 2007 dell’ONU, tenutasi a
Bali, culminava nell’adozione della «Bali Roadmap» da parte dei paesi membri del
Protocollo di Kyoto. La Bali Roadmap stabiliva un processo della durata di due anni
mirante ad assicurare un accordo vincolante per il vertice ONU sul clima del dicembre
2009 a Copenaghen. E nel luglio 2008, al G8 di Sapporo, in un contesto di gravi crisi nei
prezzi dell’energia e delle derrate alimentari, il paese ospitante (il Giappone) poneva un
nuovo ciclo di misure contro il riscaldamento globale in cima all’agenda delle discussioni.
Tuttavia all’incontro non fu adottata alcuna misura correttiva a causa dell’indifferenza del
presidente Bush che, anatra zoppa a termine mandato, preferì lasciare il compito in eredità
al successore.
Così, dopo decenni di sforzi compiuti dal movimento ambientalista per mettere in
guardia il pubblico sui pericoli del cambiamento climatico, riprogrammando le reti di
comunicazione per trasmettere il proprio messaggio, il mondo ha finalmente preso
coscienza della minaccia di distruzione autoinflitta rappresentata dal riscaldamento
globale, e sembra si stia muovendo, pur a passo lento e incerto, verso l’adozione di
politiche capaci di rovesciare il processo della nostra scomparsa collettiva.
La nuova cultura della natura
Il movimento sociale per il controllo del cambiamento climatico ha avuto un notevole
successo nel far prendere coscienza e far adottare misure politiche – sia pure, fin qui,
penosamente inadeguate – aderendo al più ampio movimento ambientalista che
nell’ultimo quarantennio ha prodotto una nuova cultura della natura. Un confronto tra la
figura 5.2 e la figura 5.3 offre una buona indicazione della stretta associazione tra la
nascita dell’attivismo ecologista e la crescita della consapevolezza del riscaldamento
globale.

FIG. 5.3. Indice di consapevolezza sul riscaldamento globale negli USA, 1982-2006.
Fonte: Vedi tabella 5.1.

Così un movimento articolato, costituito da attivisti, scienziati e celebrità, attivo sui


media e collegato via Internet, ha trasformato il nostro modo di pensare la natura e la
nostra vita sul pianeta. Il cambiamento è tridimensionale: riguarda il nostro concetto di
spazio, il nostro concetto di tempo, e il concetto stesso dei confini della nostra società. Lo
spazio della nostra esistenza è diventato globale e locale al tempo stesso. Ci rendiamo
conto di avere una casa globale la cui capacità di sopravvivenza dipende da quello che
facciamo nelle nostre case locali. L’orizzonte temporale della nostra vita collettiva, come
lo propone il movimento ambientalista, potrebbe essere caratterizzato come tempo
glaciale, un concetto che ho preso da Lash e Urry per applicarlo all’analisi della società in
rete:

[quello di tempo glaciale è] un concetto in cui la relazione tra umani e natura è vista
come relazione di lunghissimo periodo di tipo evolutivo. Risale a prima della storia
umana contingente e si proietta in avanti verso un futuro totalmente indeterminabile
(Lash e Urry, 1994,p. 243).
Il tempo al rallentatore dell’ambiente naturale e dell’evoluzione della nostra specie, in
contrasto con il tempo in accelerazione della nostra vita quotidiana di individui effimeri,
soggiace al progetto ecologista di ridefinire i parametri della nostra esistenza.
Anche i confini della società vanno ripensati. La nostra organizzazione sociale non può
essere concepita esclusivamente nei termini del nostro presente o del nostro passato, ma
deve anche includere la visione del nostro futuro. La visione della solidarietà
intergenerazionale ci deve legare ai nostri nipoti e ai nipoti dei nostri nipoti, in quanto le
conseguenze del nostro agire riverbereranno per gene-razioni. Come scrivevo nel 1997 (e
mi scuso per questa eccezionale autocitazione):

La concezione olistica dell’integrazione tra esseri umani e natura, nei termini


proposti dai fautori della deep ecology, non allude a un’ingenua venerazione di
paesaggi incontaminati, ma al fondamentale principio secondo cui il livello
essenziale dell’esperienza non è quello individuale e neppure quello delle comunità
umane storicamente esistenti. Per fonderci con il nostro io cosmologico dobbiamo
innanzitutto modifi-care il concetto di «tempo», imparare a cogliere il «tempo
glaciale» che percorre le nostre vite, a captare l’energia delle stelle che ci scorre nel
sangue, e ad accogliere i fiumi dei nostri pensieri che fluiscono incessanti negli
illimitati oceani della multiforme materia vivente (Castells, 2004c, p. 183).
A dieci anni di distanza da questo testo, stiamo assistendo alla nascita di una profonda
trasformazione, una trasformazione culturale delle società in tutto il mondo. E adesso
stiamo agendo sul riscaldamento globale, o almeno stiamo cominciando a farlo. Ma per
poter agire, dovevamo cambiare il nostro modo di pensare. Dovevamo riprogrammare le
nostre reti mentali riprogrammando le reti del nostro ambiente comunicazionale.
La rete è il messaggio: i movimenti globali contro la globalizzazione delle
grandi corporation6
Stiamo costruendo un contropotere autonomo dei movimenti in rete e creando nostre
alternative senza aspettare il governo… e aiutando anche altri ad arrivare alle loro
(Pau, attivista di Infoespai, Barcellona, cit. in Juris, 2008, p. 282).
A partire dai tardi anni Novanta, un movimento polimorfo, collegato globalmente in rete,
ha messo in discussione l’inevitabilità e gli orientamenti della globalizzazione capitalista,
intesa come la priorità data ai mercati rispetto alle società nel processo di liberalizzazione
asimmetrica delle economie di tutto il mondo sotto la guida del cosiddetto Washington
Consensus, operata dal club dei G8, dalla World Trade Organization (WTO), dal Fondo
Monetario internazionale (FMI), dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni internazionali
(Stiglitz, 2002). Iniziate con le manifestazioni contro il vertice del WTO a Seattle nel
dicembre 1999, le proteste si diffusero attraverso una geografia simbolica globale, che
rispecchiava tempo e spazio delle riunioni dei detentori globali del potere con la presenza
di migliaia di manifestanti che contestavano i valori e gli interessi espressi nel nuovo
ordine mondiale in formazione. Questi manifestanti non erano contro la globalizzazione,
come vorrebbe l’etichetta di noglobal che i media si sono affrettati ad affibbiare al
movimento. Erano contro le politiche su cui poggiava una globalizzazione economica
unilaterale, priva di controllo sociale e politico, e anche contro il discorso che presentava
tale specifica forma di globalizzazione come una tendenza storica irresistibile. Resistendo
ai richiami a adattarsi all’unico mondo possibile, affermavano, in una varietà di ideologie
e organizzazioni, che un altro mondo era possibile. E così giunsero attivisti da tutto il
mondo a Washington nell’aprile 2000, a Quebec City nell’aprile 2001, a Genova nel luglio
2001, a New York (in proporzioni più modeste dopo l’11 settembre) nel gennaio 2002, a
Barcellona nel giugno 2001 e nel marzo 2002, a Cancún nel settembre 2003, a Gleneagles,
in Scozia, nel luglio 2005, e a Praga, Göteborg, Nizza, Ginevra, Bruxelles, Durban,
Fortaleza, Monterrey, Quito, Montreal, San Paolo, Johannesburg, Firenze, Copenaghen,
Atene, Miami, Zurigo, Sapporo, e numerose altre località in cui le reti globali del potere e
del contropotere sbarcavano contemporaneamente per affrontarsi sotto i riflettori dei
media. Ma questi eventi globali costituivano solo la punta di un iceberg molto più grande,
quello del malcontento sociale e della critica culturale alla direzione presa dal mondo
globale emergente. Migliaia di lotte locali su tutto un ventaglio di temi trovarono
connessione su Internet e diffusione sui media, sia quelli tradizionali sia le reti mediatiche
alternative che erano germogliate in tutto il pianeta (Melucci, 1989; Keck e Sikkink, 1998;
Waterman, 1998; Ayres, 1999; Ray, 1999; Riera, 2001; Appadurai, 2002; Klein, 2002;
Calderon, 2003; Hardt e Negri, 2004; della Porta et al., 2006).
Il World Social Forum, organizzato per la prima volta a Porto Alegre nel 2001, si
contrapponeva al World Economic Forum, dominato dalle grandi aziende, che si riuniva
annualmente a Davos, richiamando una partecipazione di massa per discutere
contemporaneamente progetti alternativi. Dopo l’incontro del 2005, il World Social Forum
migrò in diverse località, in una rotazione di sedi che permettesse di raggiungere aree del
mondo meno coinvolte nel movimento, da Hyderabad a Bamako. Furono organizzati
anche forum sociali regionali, in Europa e in America Latina. Nel tempo, il movimento
divenne più diffuso nelle sue espressioni iconiche, e meno presente sui media. Ma in
pratica si assicurò dappertutto una presa più forte nelle lotte quotidiane della gente, e la
sua articolazione in Internet, che divenne la sua forma organizzativa e al tempo stesso il
suo modello d’azione. In effetti, il movimento come tale è visibile soprattutto su Internet,
ed è in Internet che troviamo, dieci anni dopo Seattle, le variegate, globali espressioni
della sua esistenza.
I primi tentativi di costruire un’organizzazione permanente saltarono per la contrarietà
di tanti attivisti di accettare nuovi centri di comando e controllo responsabili della loro
azione collettiva. In effetti, la composizione del movimento, a partire dai manifestanti a
Seattle, respingeva ogni uniformità, in termini di caratteristiche sociali, ideologie e
obiettivi. Ecologisti e femministe si univano a movimenti indigeni in lotta per la
sopravvivenza della propria identità; i sindacati rivendicavano il diritto a un patto sociale
globale accanto agli agricoltori francesi che difendevano i loro formaggi; attivisti dei
diritti umani si fondevano con difensori dei delfini; la critica al capitalismo si mescolava
con la critica allo stato; e la richiesta unanime di democrazia globale si intrecciava con la
ricerca utopica dell’autogestione in rete. C’era convergenza nella protesta ma divergenza
nei progetti che affioravano dal rifiuto della globalizzazione così come veniva vissuta a
inizio XXI secolo. Ma nessuna grande componente di questo diversificato movimento di
massa ha mai preteso di unificarlo, di organizzarlo o di guidarlo (salvo alcuni
sopravvissuti della vecchia nuova sinistra, sempre pronti a rivendi-care un posto di
avanguardia alla guida delle masse). Ma invano.
Nella mia osservazione diretta del World Social Forum 2005 di Porto Alegre, con oltre
150.000 partecipanti, circa 50.000 erano attendati nella «città libera» dell’International
Youth Camp, un’area autogestita con scarso intervento della municipalità ospitante. Non
c’era alcun programma centrale per l’evento. Furono tenute più di 5000 tavole rotonde e
dibattiti, per iniziativa di specifiche persone o gruppi che semplicemente informavano il
centro di coordinamento dell’evento, cui veniva assegnato un orario e uno spazio. E
mentre gli autonominati intellettuali organici del movimento insisterono per scrivere e
rendere pubblico un manifesto, letto in presenza di Hugo Chávez, nel tentativo di reclutare
ribelli alla loro causa, molti partecipanti ignorarono i proclami e continuarono con il loro
networking locale, una miscela di condivisione di vita, scambio di idee, progettazione di
azioni, istituzione di reti future, esplorazione di media alternativi, grandi feste in comune.
L’estrema decentralizzazione e diversificazione del movimento lo rese relativamente
opaco ai media una volta che furono arretrate le manifestazioni militanti contro bersagli
prefissati. Ma nel momento in cui la sua metamorfosi l’aveva suddiviso in una miriade di
lotte locali e di reti globali ad hoc, il movimento aveva già portato all’attenzione del
pubblico le trappole della globalizzazione, e molti dei suoi temi erano stati incorporati nel
dibattito politico. Ciò include-va le discussioni in sedi come il World Economic Forum,
che tentò persino, senza successo, di organizzare una riunione congiunta con il World
Social Forum. Come scrive Stiglitz7:

Quando sono entrato nell’arena internazionale, ho scoperto che, specialmente nel


Fondo Monetario Internazionale, le decisioni si prendevano in base a quello che
sembrava uno strano mix di ideologia e cattiva economia, un dogma che a volte
sembrava velare a malapena interessi particolari… Sono stati i sindacati, gli studenti,
gli ambientalisti – gente comune – che marciano nelle strade di Praga, Seattle,
Washington e Genova, a iscrivere la necessità della riforma nell’agenda del mondo
sviluppato (2002, pp. XIII e 8).
Il movimento però non ha potuto, né ha mai voluto, presentare un piano complessivo per
un nuovo insieme di politiche globali. Alcuni dei suoi componenti (per esempio i
sindacati) avevano un’agenda molto specifica, e spesso riuscivano a difendere i propri
interessi, giacché in gran parte dei paesi, Stati Uniti compresi, l’opinione pubblica era
contro l’interpretazione della globalizzazione come adattamento al mercato mondiale al
prezzo di posti di lavoro e di qualità della vita. I sindacati, alleati con altri attori nel
movimento e nella società in generale, riuscirono a esercitare pressione sui politici per
temperare la logica rigidamente capitalista della globalizzazione. Ma per l’ala militante
del movimento, per quelli che non volevano solo un posto migliore nel mondo così com’è,
bensì un altro mondo organizzato intorno al primato dei valori umani, il movimento in sé
era il preannuncio della società futura, una società di comunità autogestite, coordinate e
attivate attraverso Internet. La forma di networking del movimento, uno strumento
organizzativo decisivo, divenne la norma di networking del movimento, in un processo
che Jeff Juris (2008) ha documentato e analizzato a fondo.
Le molteplici componenti del movimento contro la globalizzazione delle multinazionali
erano/sono locali e globali contemporaneamente. Sono largamente basate su militanti e
radicate in comunità locali, come i movimenti a Barcellona, uno dei nodi più attivi e
innovativi del movimento globale, che Juris ha osservato e a cui ha partecipato. Ma, al
tempo stesso, queste organizzazioni militanti, così come migliaia di singoli attivisti che si
mobilitano per specifiche campagne, si connettono tra loro in Internet per dibattere,
organizzare, agire e condividere. Inoltre, quando si progetta una protesta simbolica per una
particolare localizzazione – per esempio, il luogo d’incontro del club dei G8 – le reti di
Internet sono indispensabili per portare insieme le centinaia di organizzazioni locali e le
migliaia di attivisti che vengono al locale dal globale. Quindi, la pratica organizzativa in
Internet si basa su casi precedenti di interazione faccia a faccia, che, convergendo su
un’unica sede di eventi, crea nuove occasioni per più ampie interazioni faccia a faccia.
Internet è fondamentale in questa logica organizzativa e culturale che articola reti globali e
comunità locali. Così, Bennett (2003b, p. 164) conclude il suo studio su queste reti di
attivisti affermando che:

vari usi di Internet e di altri media digitali hanno agevolato le reti non rigidamente
strutturate, i legami deboli di identità e le campagne per temi e proteste dimostrative
che definiscono una nuova politica globale… Sembra che la facilità con cui vaste reti
politiche vengono create consenta alle reti attiviste globali di risolvere in scioltezza i
difficili problemi di identità collettiva che spesso impediscono la crescita dei
movimenti… Il successo delle strategie di comunicazione in rete in molte campagne
e dimostrazioni sembra aver prodotto sufficiente innovazione e cultura da mantenere
le organizzazioni a galla nonostante (e a causa di) il caos e il cambiamento dinamico
interno… La rete dinamica diventa l’unità di analisi secondo cui tutti gli altri livelli
(organizzativo, individuale, politico) possono essere analizzati in modo coerente.
La pratica del networking di movimento va al di là della funzione strumentale di
coordinare le azioni e sfruttare la flessibilità nelle reti diffuse dell’attivismo. Il networking
basato su Internet è cruciale a tre diversi livelli: strategico, organizzativo e normativo.
Quella che Juris (2008) chiama la nascita dell’utopia informazionale ha la sua origine
nella tattica e nella strategia del movimento, che nell’uso di Internet e nei media alternativi
trova gli attrezzi privilegiati per organizzare, informare e contro-programmare le reti
mediatiche. Uno strumento chiave in questo senso è lo sviluppo di Indymedia, una rete di
centinaia di centri mediatici, alcuni temporanei, altri permanenti, che forniscono agli
attivisti i mezzi tecnici per creare materiale informativo e distribuirlo sulla Rete o su
centinaia di stazioni radio e televisioni di comunità, mentre reporter e redattori di
Indymedia lavorano anche a servizi sul movimento e sui temi che il movimento solleva
(Downing, 2003; Costanza-Chock, di prossima pubbl. a). L’editoria digitale open source è
stata fondamentale nel fornire la capacità di generare e distribuire informazioni in diversi
formati senza dover passare per i media tradizionali. Apparecchiature di
videoregistrazione e produzione, economiche e di alta qualità, hanno messo il potere della
comunicazione nelle mani degli attivisti. La capacità di caricare video su YouTube e in
altri spazi sociali in Internet, o la possibilità di aggiungere link al movimento su siti web
popolari come MySpace o Facebook, hanno amplificato gli usi dell’autocomunicazione di
massa come espressione di nuovi valori e nuovi progetti. I media alternativi sono il nucleo
centrale dell’azione dei movimenti sociali alternativi (Coyer et al., 2007; Costanza-Chock,
di prossima pubbl. a).
Ma il movimento ha guadagnato anche la copertura dei media tradizionali inscenando
manifestazioni spettacolari, per esempio con l’estetica delle Tute Bianche italiane che,
completamente vestite di bianco, avanzavano in file compatte contro i cordoni della
polizia sotto scudi di plastica bianca, una eccezionale coreografia resa più appetibile ai
media quando, occasionalmente, il sangue dei manifestanti picchiati dalla polizia
macchiava l’immacolata purezza della loro pacifica protesta. Oppure il Black Bloc, in cui
giovani vestiti di nero, mascherati, e pronti all’azione, si impegnavano in una forma
simbolica di guerriglia urbana che non poteva mancare di richiamare l’attenzione delle
telecamere. L’esposizione mediatica ricevuta da queste tattiche era ottenuta al costo
dell’etichetta di «violenti» appioppata dai media, anche se le azioni violente erano messe
in mostra solo da una piccola minoranza dei partecipanti. Le performance di teatro di
strada, come quelle condotte dal gruppo britannico Reclaim the Streets o da quello
americano Art & Revolution, erano più efficaci. Altrettanto efficaci erano le parate festanti
con clown, musicisti e danzatori che reinventavano la rivoluzione del «flower power»
degli anni Sessanta. Ma, per quanto immaginative, queste forme di comunicazione
cedevano il control-lo dell’immagine del movimento ai media tradizionali, limitando il
loro impatto su un pubblico divertito ma distante dal modo di agire dei giovani ribelli.
È per questo che il movimento, fin dal suo inizio, non è mai arretrato nella volontà di
produrre personalmente i propri messaggi e di distribuirli attraverso media alternativi, che
fossero media comunitari o Internet. Le reti dell’informazione e della comunicazione
organizzate intorno a Indymedia sono l’espressione più significativa di questa capacità di
contro-programmazione. Tale capacità, pur radicata nella creatività e nell’impegno degli
attivisti, è inseparabile dalla rivoluzione nelle tecnologie digitali. Hacker e attivisti politici
si sono trovati insieme nelle reti dei media alternativi. Oltre a Indymedia, numerosi
hacklab, temporanei o permanenti, hanno popolato il movimento e usato la superiore
competenza tecnologica della nuova generazione per costituirsi una posizione di vantaggio
nella battaglia comunicazionale contro gli anziani dei media tradizionali. In alcuni casi, da
queste trincee di resistenza si sono svilup-pate azioni di guerriglia elettronica, invadendo i
siti web di organizzazioni dell’establishment globale, postando messaggi di movimento
nelle reti mediatiche, deridendo i globalizzatori con video che ne espongono l’ideologia e
ne mettono in ridicolo l’arroganza e, più in generale, praticando una disobbedienza civile
elettronica in linea con la strategia concepita qualche tempo fa dal Critical Art Ensemble
e, più tardi, dall’Electronic Disturbance Theater (EDT). Stefan Wray, il maggior teorico
dell’EDT, iniziò nel 1998 a organizzare sit-in virtuali usando software FloodNet per
permettere a un gran numero di attivisti di partecipare a manifestazioni di protesta con un
semplice clic sul browser. Da allora, gli hacker politicamente attivi (una minoranza degli
hacker) sono diventati una componente chiave del movimento per la giustizia globale. La
loro competenza tecnologica nell’usare le reti informatiche per scopi diversi da quelli
previsti dai loro proprietari aziendali ha portato gli hacker alla ribalta del movimento,
liberando l’attivismo dalle limitazioni imposte alla libera e autonoma espressione dal
controllo proprietario delle reti mediatiche. Come scrive Juris,

Gli «attivisti-hacker» chiave operano come ripetitori e deviatori [dei movimenti in


rete], ricevendo, interpretando e convogliando messaggi a svariati nodi della rete.
Come gli hacker informatici, gli attivisti-hacker combinano e ricombinano codici
culturali – in questo caso significanti politici – condividendo informazioni su
progetti, mobilitazioni, strategie e tattiche all’interno delle reti globali di
comunicazione (2008, p. 14).
Da forza di intervento nei media e organizzazione autonoma, il movimento si è evoluto,
almeno in alcune delle sue componenti più autoriflessive, in un progetto di organizzazione
di società intorno all’autogestione in rete. In alcuni casi, il movimento open source e il
movimento noglobal si sono trovati insieme nel proporre una nuova forma di produzione e
organizzazione sociale basata sulla logica dell’open source, come nel progetto tedesco
Oekonux (una combinazione di Oekonomie e Linux), una mailing list di individui
impegnati a esplorare un ordine postcapitalista basandosi sui principi del software libero.
Mentre Oekonux si concentra sulle nuove forme di produzione economica, progetti
analoghi prefigurano forme di democrazia diretta elettronica (Himanen, 2001; Levy, 2001;
Weber, 2004; Juris, 2008).
Più in generale, la corrente neoanarchica, che ha una forte presenza nel movimento
contro la globalizzazione delle multinazionali, vede l’espansione delle reti globali di
comunità e individui come un obiettivo politico: «La rete autoprodotta, autosviluppata e
autogestita diventa un diffuso ideale culturale, fornendo non solo un efficace modello di
metodo organizzativo politico ma anche un modello per riorganizzare la società nel suo
complesso» (Juris, 2008, p. 15). In un certo senso la dinamica del networking presente nel
movimento riporta alla luce l’antico ideale anarchico delle comuni autonome di liberi
individui che coordinano le loro forme autogestite di esistenza su una scala più vasta,
usando la rete come agorà globale di deliberazione che non deve sottomettersi ad alcuna
forma di burocrazia emergente dal meccanismo della delega di potere. Juris ha la lucidità
di citare Voline, l’anarchico russo che subito dopo la rivoluzione bolscevica, e prima che
in Unione Sovietica la voce degli anarchici venisse messa a tacere, dichiarava che:

È ovvio che la società deve essere organizzata… la nuova organizzazione… deve


essere istituita liberamente, socialmente, e soprattutto dal basso. Il principio di
organizzazione non deve provenire da un centro creato anticipatamente per catturare
il tutto e imporsi su di esso ma al contrario deve venire da tutti i lati per creare nodi di
coordinamento, centri naturali per servire tutti i punti (Voline, cit. in Juris, 2008,p.
10).
È possibile che la trasformazione tecnologica e organizzativa della società in rete fornisca
la base materiale e culturale perché l’utopia anarchica dell’autogestione in rete diventi una
pratica sociale? Questo, almeno, è ciò che molti attivisti del movimento contro la
globalizzazione capitalista sembrano pensare. Mentre la realizzazione della profezia
comunista sotto forma dello statalismo costruito su gerarchie verticali comandate e
controllate dal centro è stata ingoiata dalla storia, la promessa di reti autogestite rese
possibili da tecnologie di libertà, come Internet e la comunicazione wireless, appare in
prima linea dei nuovi movimenti sociali della nostra epoca. Eppure noi sappiamo, e Juris
ce lo ricorda con forza, che tutte le tecnologie possono essere usate per l’oppressione non
meno che per la liberazione, e che le reti connettono e disconnettono, includono ed
escludono, a seconda dei loro programmi e della loro configurazione. Tuttavia, il semplice
fatto che il movimento, o almeno una componente significativa del movimento, a
Barcellona e altrove, stia prendendo possesso del nuovo mezzo tecnologico per rivendi-
care la possibilità storica di nuove forme democratiche del vivere insieme, senza dover
sottostare a strutture di dominio, è già un progetto politco in sé. Utopico, certo. Ma le
utopie non sono chimere. Sono costruzioni mentali che grazie alla loro esistenza ispirano
l’azione e cambiano la realtà. Evocando il potere liberatorio delle reti elettroniche di
comunicazione, il movimento in rete contro la globalizzazione imposta apre nuovi
orizzonti di possibilità nell’antico dilemma tra libertà individuale e governance della
società.
La resistenza cellulare: comunicazione wireless e le comunità insorgenti di
prassi
La rabbia è una delle emozioni più potenti che sta alla base delle pratiche di ribellione, in
quanto riduce la percezione del rischio e accresce il comportamento di accettazione del
rischio. Inoltre, la rabbia si intensifica con la percezione di un’azione ingiusta e con
l’identificazione dell’agente responsabile dell’azione (vedi capitolo 3). Nel corso della
storia, la rabbia ha dato il via a proteste, resistenze e persino rivoluzioni, partendo da un
evento scatenante e precipitando nel rifiuto dell’autorità costituita, quando
l’accumulazione delle ingiurie e degli insulti subiti diventa improvvisamente intollerabile.
Il prezzo del pane, il sospetto di stregoneria, l’ingiustizia dei governanti sono state fonti di
rivolte e movimenti sociali più frequenti che non gli ideali di emancipazione. In pratica,
capita spesso che questi ideali vengano alla luce solo germinando nel fertile terreno della
rabbia popolare contro gli artefici dell’ingiustizia (Labrousse, 1943; Thompson, 1963; I.
Castells, 1970; Spence, 1996).
Ma affinché la resistenza emerga, occorre che sentimenti individuali, come la rabbia,
vengano comunicati ad altri, trasformando le notti solitarie di disperazione nelle giornate
condivise dell’ira. E così, il controllo della comunicazione e la manipolazione delle
informazioni sono sempre state la prima linea di difesa con cui i potenti cercano di far
passare le loro malefatte. Questo è particolarmente rilevante nel caso dell’indignazione
spontanea per un preciso evento in un determinato tempo e luogo. Più ristretta è la cerchia
degli scontenti, più facile sarà la repressione della loro protesta e più rapida la
restaurazione dell’ordine. Movimenti di solidarietà tra i protestatari sparsi su luoghi
distanti tra loro hanno sempre dovuto far fronte all’incertezza di ciò che avveniva
concretamente, in quanto i canali di comunicazione erano inesistenti o saltavano nei
momenti di crisi. Inoltre, le azioni dettate dalla rabbia montano in maniera istantanea.
Diventano un movimento di resistenza grazie a impreviste concatenazioni di eventi.
Capita di rado che i leader pianifichino la rivolta. Di solito diventano leader unendosi al
movimento alle proprie condizioni. È esattamente la natura imprevedibile di queste rivolte
a renderle pericolose e incontrollabili. Prendono fuoco come una scintilla infuoca la
prateria, anche se la prateria dev’essere stata prima inaridita dalla durezza di dover vivere
sotto padroni spietati. Storicamente, le modalità di comunicazione hanno sempre costituito
un fattore critico nel determinare la portata e le conseguenze delle rivolte e nello spiegare
come sia possibile che incidenti isolati raggiungano proporzioni di società (Dooley e
Baron, 2001; Burran, 2002). È per questo che uno dei più antichi meccanismi di resistenza
– le rivolte spontanee contro un’autorità ritenuta ingiusta – assume un senso nuovo nel
contesto della comunicazione digitale.
L’esistenza di 3,5 miliardi di utenti della telefonia mobile nel 2008 significa che è
possibile diffondere un messaggio ovunque in tempo reale. Il concetto di tempo reale è
essenziale in questo caso. Significa che la gente può formare reti istantanee di
comunicazione che, costruendosi su ciò che essa fa nella vita quotidiana, può propagare
informazioni, sentimenti e chiamate alle armi in modo multimodale e interattivo
(Rheingold, 2003). Il messaggio può essere un’immagine potente, una canzone, un testo o
una parola. L’immagine può essere raccolta all’istante registrando il comportamento
spregevole di quelli che sono al potere. Un breve SMS o un video caricato su YouTube
possono toccare come un nervo scoperto la sensibilità di determinate persone o della
società in generale facendo riferimento al più ampio contesto di diffidenza e umiliazione
in cui molti vivono. E nel mondo della comunicazione di massa in rete, un solo messaggio
di un solo messaggero può raggiungere migliaia, e potenzialmente centinaia di migliaia di
persone attraverso il meccanismo dell’effetto «com’è piccolo il mondo»: reti di reti che
accrescono in misura esponenziale la loro connettività (Buchanan, 2002). Inoltre, la forma
retificata di distribuzione del messaggio ha la sua importanza, perché se ogni ricevente
diventa un mittente che trasmette mediante cellulare a molti destinatari usando la sua
rubrica di indirizzi o la sua rete abituale di corrispondenti, il messaggio è identificato dal
ricevente come proveniente da una fonte nota. Nella maggior parte dei casi ciò equivale a
ricevere il messaggio da una fonte personalmente affidabile. Le reti di telefonia mobile
diventano reti di fiducia, e il contenuto trasmesso tramite quelle reti suscita empatia
nell’elaborazione mentale del messaggio. Dalle reti telefoniche mobili e dalle reti di
fiducia emergono reti di resistenza che invitano alla mobilitazione col mobile phone contro
un bersaglio identificato.
Nel primo decennio di questo secolo, con la diffusione in tutto il mondo della
comunicazione wireless nelle sue varie modalità, mobilitazioni sociopolitiche spontanee si
sono impossessate di questa piattaforma di comunicazione per consolidare la propria
autonomia rispetto ai governi e ai media tradizionali. In numerosi paesi, manifestanti e
attivisti potenziati da dispositivi che li dotano di «connettività perpetua» hanno usato la
loro capacità comunicativa per moltiplicare l’impatto delle proteste sociali, in alcuni casi
attivando rivoluzioni, alimentando resistenze, sospingendo candidati presidenziali, e
persino abbattendo governi e regimi politici. Per citare solo qualche esempio, l’uso dei
telefonini ha dimostrato di avere effetti significativi nel movimento People Power II, che
nel 2001 ha portato alla caduta del presidente Estrada nelle Filippine; nel portare al potere
il presidente coreano Moo-Hyun nel 2002; nella «rivoluzione arancione» in Ucraina nel
2005; nel movimento di Los Forajidos, che ha scalzato il presidente Gutiérrez in Ecuador
nel 2005; nella rivolta del 2006 in Thailandia contro un’intollerabile corruzione (proprio
nel business delle telecomunicazioni) sotto il primo ministro Shinawatra, spingendo infine
a un golpe militare per ripulire il regime; nella resistenza contro la repressione poliziesca
delle proteste popolari in Nepal nel 2007, che ha imposto libere elezioni e si è tradotta
nella fine della monarchia; e nelle manifestazioni per la democrazia in Birmania nel 2007,
che hanno scosso la dittatura militare e dato il via a un movimento di solidarietà inter-
nazionale che ha fatto sentire alla Giunta la straordinaria pressione della comunità
internazionale.
In termini meno spettacolari, i telefoni cellulari sono diventati una componente chiave
nell’organizzazione e nella mobilitazione della protesta sociale in tutto il mondo, dalla
gioventù etnica che si scontrava con la polizia nelle banlieues parigine agli studenti cileni
del «movimento dei pinguini» (Andrade-Jimenez, 2001; Bagalawis, 2001; Arillo, 2003;
Demick, 2003; Fulford, 2003; Hachigian e Wu, 2003; Rafael, 2003; Rhee, 2003; Uy-
Tioco, 2003; Fairclough, 2004; Salmon, 2004; Castells et al., 2006a; Brough, 2008;
Ibahrine, 2008; Katz, 2008; Rheingold, 2008; Win, 2008). Ma forse il movimento che
meglio esemplifica la nuova relazione tra controllo della comunicazione e autonomia della
comunicazione alla radice delle attuali forme di protesta e di resistenza è la mobilitazione
cellulare del marzo 2004 in Spagna, quando l’indignazione spontanea per le menzogne del
governo sull’attacco terrorista di Al Qaeda a Madrid accese la miccia di un movimento
che sfociò nella sconfitta elettorale del primo ministro Aznar, uno dei più solidi sostenitori
della politica del presidente Bush. È stato un movimento in cui l’uso delle reti di cellulari
ha svolto, come documento qui di seguito, un ruolo decisivo.
Terrore, bugie e cellulari: Madrid, 11-14 marzo 2004
L’11 marzo 2004, a Madrid, un gruppo islamico radicale composto principalmente da
marocchini, con sede nella capitale spagnola, e associato con Al Qaeda, mise in atto il più
grande attentato terroristico mai effettuato in Europa, facendo saltare quattro treni di
pendolari, uccidendo 199 persone e ferendone oltre 1400. L’attentato fu eseguito con la
detonazione telecomandata di borse d’esplosivo piazzate sui treni e attivate con i telefoni
mobili. Anzi, fu proprio la scoperta della scheda di un cellulare in una borsa inesplosa a
portare all’arresto e alla successiva eliminazione della cellula terrorista. Alcuni degli
attentatori si fecero saltare qualche giorno dopo quando la polizia circondò il loro
appartamento in un sobborgo di Madrid. Altri furono arrestati in Spagna e in altri paesi, e
processati. Quelli che vennero giudicati colpevoli ricevettero lunghe pene detentive, non
essendoci nell’Unione Europea la pena di morte. Al Qaeda rivendicò la responsabilità
dell’attentato la sera dell’11 marzo con un messaggio indirizzato alla sede londinese del
giornale online Al-Quds al-Arabi, mettendo esplicitamente in relazione l’attentato col
ruolo della Spagna come uno dei «crociati» che avevano portato la guerra nelle terre
musulmane.
L’attentato ebbe luogo in un contesto politico significativo, tre giorni prima delle
elezioni parlamentari spagnole. La campagna elettorale era stata dominata dal dibattito
sulla partecipazione della Spagna alla guerra in Iraq, una politica a cui era contraria la
grande maggioranza dei cittadini. Ciononostante si prevedeva che il partito conservatore,
il Partido Popular (PP), avrebbe vinto le elezioni, in base ai risultati di politica economica
e la posizione dura sul terrorismo basco. L’evoluzione dei sondaggi elettorali fornisce il
contesto politico della vicenda. Dopo aver ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in
parlamento nelle elezioni del 2000, il PP di José María Aznar mantenne un consistente
margine di vantaggio sul maggior partito di opposizione, il Partito Socialista (PSOE) fino
all’inizio del 2003. Poi Bush, Blair e Aznar si incontrarono nelle Azzorre poco prima
dell’invasione dell’Iraq per simboleggiare la loro alleanza e pianificare l’esito politico
della guerra, nel tentativo da parte di Bush di sostituire la mancata approvazione delle
Nazioni Unite con una «coalizione dei volenterosi». L’opinione pubblica spagnola era
assolutamente contraria alla guerra. Nell’aprile 2003, il 75 per cento pensava che «tutte le
guerre sono un disastro per tutti». Di conseguenza i cittadini si schierarono contro Aznar
(nel 2003 il 67 per cento non si fidava di lui), vedendolo come sottoposto del disprezzato
presidente Bush. Di conseguenza, i socialisti guadagnarono un vantaggio di cinque punti
sui conservatori dopo l’incontro delle Azzorre.
Nell’anno successivo, però, nel movimento pacifista si diffuse un senso di
scoraggiamento, come in altri paesi, per non essere stato capace di fermare la guerra, e il
partito conservatore riprese forza, soprattutto a causa di due fattori: il benessere
economico con uno dei tassi di crescita più alti d’Europa, bassa disoccupazione e bassa
inflazione; e la politica del governo di scontro diretto con il terrorismo dell’ETA,
l’organizzazione radicale del separatismo basco. Così, all’inizio della campagna elettorale,
un mese prima della data della consultazione fissata per il 14 marzo 2004, un sondaggio
nazionale tra i probabili elettori svolto dal Centro de Investigaciones Sociológicas (CIS)
attribuiva ai conservatori quattro punti di vantaggio sui socialisti. Per il sistema elettorale
spagnolo, il vincitore traduce il margine raccolto nel voto popolare in una più ampia
maggioranza di seggi, in base al metodo d’Hondt finalizzato a facilitare la stabilità di
governo. Poco prima delle elezioni, tutti i sondaggi prevedevano una vittoria dei
conservatori contro un Partito Socialista che dopo la sconfitta del 2000 si trovava allo
sbando, adesso guidato da un giovane leader intelligente ma non testato, José Luis
Rodríguez Zapatero, la cui campagna sottolineava l’impegno per una politica pulita e la
promessa di procedere immediatamente al ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq.
Poi, il mattino di giovedì 11 marzo, il terrorismo colpì Madrid. L’intera Spagna rimase
sgomenta e incredula, come il resto del mondo. Ma nel mezzo del dolore, la paura e la
rabbia che si diffondevano nella mente della gente, sorse immediatamente una domanda
insistente, nel momento in cui i media trasmisero i servizi sullo sfondo delle immagini di
lamiere insanguinate: chi era stato?
Appena l’attentato terroristico di Madrid colpì, e prima che fosse emersa alcuna prova,
il governo del PP affermò con la massima sicurezza che dietro le bombe c’era il gruppo
terrorista basco dell’ETA. Il primo ministro Aznar arrivò a contattare personalmente i
direttori dei maggiori quotidiani del paese verso l’una del pomeriggio dell’11 marzo
(quattro ore dopo l’attentato) per assicurare che con le informazioni che aveva in mano
non aveva alcun dubbio che gli autori del massacro fossero quelli dell’ETA. Li chiamò
una seconda volta alle otto di sera per ribadire la sua affermazione. In base a questa
assicurazione, El País, il più importante quotidiano della Spagna, il cui orientamento
politico è contrario ai conservatori, cambiò il titolo di prima pagina, che era già in stampa,
da «Massacro terrorista a Madrid» in «Massacro dell’ETA a Madrid», contribuendo così a
dare credibilità alla versione governativa degli eventi. La proprietà del governo della
maggiore rete televisiva, la TVE, il controllo politico su uno dei due network privati,
Antena 3 TV, più il sostegno ideologico degli altri giornali madrileni (El Mundo, ABC, La
Razón) assicurarono il continuo martellamento del messaggio del governo sulle
responsabilità per l’attacco. Ancora il 13 marzo, l’agenzia stampa statale EFE distribuiva
un articolo intitolato «Le piste portano all’ETA e scagionano Al Qaeda». Ma con il passare
delle ore, già il 12 marzo, si fece sempre più evidente che il colpevole era Al Qaeda,
poiché la polizia aveva trovato un furgone con i detonatori e un nastro con versetti
islamici, e Al Qaeda aveva rivendicato la responsabilità dell’attentato. Ma il ministro degli
Interni e il portavoce del governo continuarono a insistere sulla responsabilità dell’ETA
fino alla sera del 13, e anche allora riconobbero solo con riluttanza e in via ipotetica quello
che la polizia già sapeva. Anzi, nel pomeriggio del 13, mentre il ministro degli Interni
continuava a ripetere il ritornello sui terroristi baschi, a Madrid venivano arrestati i primi
islamici.
Come si spiega una volontà così ostinata di deviare la pubblica opinione, mettendo
probabilmente a repentaglio la sicurezza in altre capitali europee nel caso di un’offensiva
coordinata di Al Qaeda, in un momento di trauma psicologico collettivo nel paese? C’è
una risposta ovvia: la posta politica in gioco era altissima. Mancavano tre giorni alle
elezioni e, come scrisse in quei giorni il Financial Times:

Se fosse ritenuta responsabile l’ETA, la cosa potrebbe rafforzare il sostegno del


Partito Popolare al governo, che è già in testa nei sondaggi. Un eventuale
coinvolgimento di Al Qaeda, viceversa, potrebbe portare gli elettori a mettere in
discussione l’appoggio del governo all’occupazione dell’Iraq guidata dagli USA
(Crawford et al., 2004).
Nella mente di milioni di spagnoli (per la precisione il 65 per cento di loro) che espressero
un giudizio sugli eventi una settimana dopo (Instituto Opina, 2004), il governo aveva
manipolato le informazioni sull’attentato per ottenere un vantaggio politico. Il lavoro di
una commissione parlamentare d’inchiesta produsse le prove che, senza mentire
direttamente, il governo del PP aveva ritardato la pubblicazione di determinate
informazioni critiche sugli eventi di fatto avvenuti fra l’11 e il 14 marzo, trattando
elementi di prova che erano ancora materia di indagine come fatti indiscutibili. C’era
chiaramente una determinazione sistematica a favorire l’ipotesi del terrorismo basco
anziché seguire la pista islamica, nonostante gli indizi che instradavano la polizia in quella
direzione. La manipolazione fu particolarmente clamorosa nella stazione televisiva
governativa TVE1, che ha il maggior numero di telespettatori per quanto riguarda le
notizie, in cui il mezzobusto del telegiornale, Alfredo Urdazi, si fece in quattro per
omettere o ritardare ogni informazione sulla connessione islamica finché questa non fu
ufficialmente riconosciuta dal governo. E anche allora, la sera del 13 marzo, poche ore
prima dell’apertura dei seggi domenica 14, TVE1 cambiò la programmazione del sabato
sera mandando in onda il film Murder in February, che racconta la storia dell’assassinio
di un dirigente socialista basco per mano di terroristi dell’ETA.
In base alla documentazione disponibile (Rodríguez, 2004; Parlamento Spagnolo, 2004;
de Ugarte, 2004), gli articoli giornalistici e la conoscenza personale, credo che sia
possibile ricostruire la sequenza degli eventi che stanno dietro allo sforzo di
disinformazione del governo Aznar. Fu tutta una questione di tempi. L’11 marzo, le
emozioni erano troppo forti perché cittadini e giornalisti entrassero nella bagarre
sull’origine dell’attentato, anche se gli osservatori internazionali e alcuni giornalisti in
Spagna puntavano il dito contro Al Qaeda e avevano cominciato a mettere in dubbio la
responsabilità dell’ETA, mentre da parte sua l’ETA stessa negava ogni implicazione con
l’operazione terroristica. Il governo respinse la smentita, rifiutandosi di concedere ogni
credibilità all’ETA.
La giornata di venerdì 12 marzo fu dominata dalla massiccia ed emotiva espressione del
sentimento popolare contro il terrorismo di ogni origine. Oltre undici milioni di persone
sfilarono nelle strade delle città spagnole, con tutti i partiti politici uniti nella
manifestazione, in una rara esibizione di unità nazionale. Tuttavia, nonostante il
sentimento unanime di dolore, mentre la polizia raccoglieva rapidamente dati che
smentivano l’ipotesi ETA, e questa informazione cominciava a trapelare in una parte dei
media, molti dei manifestanti chiedevano di sapere la verità. Come poteva sperare il
governo di farla franca nascondendo informazioni su una questione così importante,
mentre la polizia e i media indipendenti stavano scoprendo la verità? In realtà Aznar e il
suo ministro degli Inter-ni dovevano trattenere le informazioni solo per un paio di giorni,
essendo la votazione prevista per domenica 14. Il punto critico era che sabato 13 era la
«giornata della riflessione», una data in cui per la legge spagnola è vietata ogni
dichiarazione elettorale o manifestazione politica pubblica. E così, mentre le indagini
andavano avanti il venerdì e il sabato, il governo rimaneva attaccato alla sua strategia di
disinformazione per ridurre al minimo ogni potenziale impatto elettorale di
un’associazione tra gli attentati terroristici e la partecipazione della Spagna alla guerra in
Iraq. Probabilmente si decise che si sarebbe riconosciuta la responsabilità di Al Qaeda il
lunedì, una volta concluse le operazioni di voto. Il calcolo era astuto, ma il suo effetto fu
un boomerang.
Questo perché, indipendentemente dalla portata della manipolazione che effettivamente
fu realizzata, quel che conta è che migliaia di cittadini si convinsero, il 12 e il 13 marzo,
dell’esistenza di questa manipolazione. Un fattore chiave della penetrazione dei media
nella strategia di agenda-setting del governo e nell’influenza-re l’opinione pubblica fu il
servizio del network radiofonico privato più importante, la SER, che molto precocemente
nel corso del processo mise in dubbio la versione degli eventi del governo e diffuse
informazioni provenienti dalla polizia che indicavano il terrorismo islamico. La strategia
determinata di informazione della SER, che affrontava direttamente il governo e i media a
esso vicini, rivela la relativa autonomia dei giornalisti rispetto all’azienda: il SER è di
proprietà del Grupo Prisa, la stessa azienda che controlla il quotidiano El País. Eppure,
mentre El País, nonostante la sua posizione distante dai conservatori, mostrò un
atteggiamento cauto nell’informare il pubblico su Al Qaeda, la radio portò alla luce ogni
possibile informazione e la diffuse immediatamente (in un caso, erroneamente, dando
credito a una voce secondo la quale un terrorista era stato trovato tra i rottami del treno).
Sabato mattina, diversi media cominciarono a mettere in discussione la versione degli
eventi fornita dal governo, e fra di essi la prima pagina di La Vanguardia, il maggior
quotidiano di Barcellona, che portava il titolo «Le prove indicano Al Qaeda ma il governo
insiste sull’ETA»8.
Così, entro il sabato mattina, un fiume di informazioni provenienti da una varietà di
fonti, compresi Internet e i media stranieri, era penetrato tra settori della pubblica
opinione, in particolare tra i più giovani, istruiti e politicamente indipendenti, spesso
caratterizzati da un atteggiamento di diffidenza nei confronti di governi e partiti. Più la
gente veniva a conoscenza della possibilità di manipolazione politica di una cosa tragica e
significativa come un attentato terroristico, più la rabbia saliva e spingeva il pubblico a
fare qualcosa in proposito. Ma che cosa? Quel giorno non erano consentite manifestazioni
politiche, i media governativi continuavano a riportare storie sul terrorismo basco (anche
se, a quel punto, la polizia sapeva che non c’entrava nulla), e i partiti politici e i leader
dell’opposizione erano imbavagliati dai regolamenti elettorali e dalla propria cautela a
poche ore dal voto. Così, l’opinione tacitata sul terrorismo e sulla verità sul terrorismo
doveva trovare canali di comunicazione alternativi per esprimere il proprio punto di vista e
lanciare un appello all’azione. La gente, particolarmente i giovani, usò Internet, come lo
usa tutti i giorni, per raccogliere informazioni, esprimere il proprio dolore, condividere le
opinioni e mandare e-mail alla propria rete di contatti.
Poi, la mattina di sabato 13, qualcuno a Madrid mandò dal suo cellulare un SMS a dieci
amici. Anche se aveva deciso di conservare l’anonimato, fu identificato dai giornalisti
come un trentenne, istruito e politicamente indipendente, che peraltro non aveva mai
pensato di poter lanciare un movimento. Come ha spiegato in seguito in un’intervista9, la
sua idea era quella di chiamare gli amici e gli amici degli amici a protestare davanti alla
sede madrilena del Partido Popular, e se fosse riuscito a mettere insieme quindici persone,
dopo sarebbero andati tutti insieme al cinema. Il messaggio che mandò era spontaneo e si
limitava ai 160 caratteri di un SMS standard. Diceva (ovviamente in spagnolo): «Aznar la
fa franca? La chiamano giornata di riflessione ma Urdazi [il conduttore della TVE
manipolatore di notizie] lavora? Oggi, 13 M, h18, sede PP, via Genova 13. Niente partiti.
In silenzio per la verità. Pasalo! [Inoltralo!]». E così, i suoi dieci amici inoltrarono il
messaggio a dieci loro amici, che fecero lo stesso con altri dieci amici, e così via. Il
traffico degli SMS crebbe in Spagna del 30 per cento rispetto a un sabato medio, a un
livello molto più alto che in un giorno feriale; inoltre, il messaggio fu inoltrato anche via
e-mail, e anche il traffico su Internet aumentò del 40 per cento (Campos Vidal, 2004,
usando fonti degli operatori delle telecomunicazioni). Alle 18 c’erano centinaia di
persone, soprattutto giovani, sedute in strada davanti al numero 13 di via Genova, a
Madrid. Un’ora dopo, la folla era arrivata a oltre cinquemila persone, secondo fonti dei
media. Tra gli slogan: «Chi è stato?!», «Prima di votare, vogliamo la verità!». «Le bombe
dell’Iraq esplodono a Madrid», e il messaggio più allarmante per Aznar: «Bugiardi!
Bugiardi! Domani voteremo, domani vi cacceremo via!!!».
Manifestazioni spontanee simili a questa, sospinte dalla massiccia diffusione di
messaggi uguali o simili a questo, si svolsero in varie città della Spagna, in particolare a
Barcellona. La polizia in tenuta antisommossa si schierò intorno alle sedi del PP, ma lo
stesso fecero i media. Così, sebbene le dimostrazioni fossero tecnicamente illegali, la
polizia esitava ad attaccare i manifestanti seduti pacificamente nelle strade a poche ore da
un’elezione generale. E poi, benché molti fossero rimasti a casa, non erano rimasti
indifferenti alla protesta. Nelle maggiori città spagnole, una forma di manifestazione
adottata dal movimento contro la guerra fu ripresa spontaneamente in migliaia di case:
battere pentole e padelle dalle finestre a un orario concordato, anche questo stabilito via
SMS. Con i rumori delle proteste che riempivano l’aria del sabato sera, e con le notizie
degli arresti di islamisti che venivano diffusi da alcuni organi mediatici e su Internet, il re
di Spagna stesso intervenne nella crisi. Fece una dichiarazione istituzionale condannando
l’attentato terroristico senza menzionare l’ETA. Ma prima di farlo, volle che prima di
parlare al paese il governo riconoscesse ciò che la polizia già sapeva: che la responsabilità
era di Al Qaeda. Per essere certo che il suo messaggio fosse inteso, distribuì il nastro della
sua dichiarazione alle reti televisive estere un quarto d’ora prima dell’orario previsto per la
messa in onda sui media spagnoli, lasciando al governo tempo sufficiente perché il
ministro degli Interni facesse un annuncio in quello stesso arco di tempo. Aznar fu
costretto a cedere. Alle 20:20 di sabato 13, meno di 12 ore prima che si aprissero i seggi, il
ministro degli Interni apparve alla televisione nazionale per annunciare l’arresto di una
cellula islamica e l’identificazione di altri militanti islamici complici dell’attentato.
Comunque, insistette sulla possibilità di una connessione tra Al Qaeda e l’ETA, una teoria
del complotto (che in alcune sue versioni includeva anche i socialisti spagnoli) che Aznar
continua ancora oggi a difendere, nonostante l’esplicita e inequivocabile smentita da parte
della polizia, della commissione parlamentare d’inchiesta, e dei tribunali che si sono
occupati del caso. In ogni caso, l’ammissione del ministro degli Interni di una
responsabilità di Al Qaeda si tradusse nel peggior esito possibile per il PP. Non solo
venivano messi in luce i pericoli derivanti dall’appoggio concesso a Bush in Iraq, tra lo
sgomento dei pacifici spagnoli ben contenti della posizione marginale del loro paese nei
conflitti mondiali, ma lo smascheramento del piano del governo di mentire al paese sul più
tragico evento della storia spagnola recente provocò il profondo risentimento dei cittadini,
e in particolare dei giovani che tendenzialmente sono più sensibili alle questioni morali
che alle ideologie politiche.
Questi sentimenti ebbero un preciso riflesso nel voto del 14 marzo 2004. Contro ogni
previsione, i socialisti vinsero le elezioni ottenendo il 42,6 per cento del voto popolare
contro il 37,6 per cento del PP. La differenza tra i sondaggi d’opinione raccolti prima degli
attentati terroristici e i risultati elettorali effettivi fu di oltre dieci punti. Ma come
sappiamo che il voto era connesso alla crisi e, più specificamente, alla mobilitazione che
denunciava la manipolazione delle informazioni attuata dal governo? Su questa questione
cruciale, mi baso ampiamente sull’approfondita analisi statistica di Narciso Michavila
(2005) sull’impatto elettorale degli attentati degli islamisti del 2004, che utilizza i dati
dell’indagine postelettorale del Centro de Investigaciones Sociológicas, oltre che gli exit
poll di diverse agenzie di sondaggi. È importante presentare la sottigliezza di questa
analisi per le sue più vaste implicazioni.
Il primo effetto importante del dramma che si svolse intorno alle elezioni fu la
mobilitazione dell’elettorato. Nel 2004 l’affluenza alle urne crebbe di 7 punti percentuali
rispetto al 2000, superando il 75 per cento dell’elettorato, il livello più alto dal 1996 (il
tasso di partecipazione calò di nuovo nel 2008, al 69 per cento). Mentre una grande
maggioranza degli elettori (il 71 per cento) non attribuiva alcuna influenza agli eventi di
marzo sulle loro decisioni di voto, il 21,5 per cento dichiarava che gli eventi avevano
avuto una grande o significativa influenza sul loro voto, una porzione dell’elettorato
sufficiente a cambiare il risultato delle elezioni. Michavila (2005), seguendo il paradigma
classico di Lazarsfeld et al. (1944), differenzia due meccanismi che stanno alla base di
questo cambiamento. Uno è l’attivazione, o mobilitazione del voto. L’altro è la
conversione, o cambiamento del voto. L’attivazione riguardò circa 1,7 milioni di votanti
su un totale di 25.847.000. L’attivazione fu particolarmente intensa tra gli elettori che in
precedenza si erano astenuti o tra i votanti di età inferiore ai 40 anni. La conversione
rappresentò il comportamento di circa un milione di votanti, soprattutto di mezza età e
molti dei quali votavano per la prima volta per il partito alle elezioni del 2004. I socialisti
ricevettero l’8,7 per cento dei loro voti da elettori attivati in conseguenza dell’attentato e
degli avvenimenti che lo circondavano, mentre solo il 3,5 per cento dei votanti
conservatori furono attivati dall’attentato. Delle persone in conversione in conseguenza
dell’attentato, quelli che cambiarono il voto a favore dei socialisti rappresentarono il 6,5
per cento del voto socialista, rispetto al solo 1,2 per cento del voto conservatore. Così, il
partito che ricevette più consensi in seguito all’attentato e al successivo processo di
manipolazione dell’informazione fu il Partito Socialista, in particolare perché 951.000
elettori che avevano deciso di non andare a votare cambiarono idea in seguito agli eventi
che avevano preceduto la giornata elettorale. Ma ancora più importante fu l’impatto dei
700.000 voti di conversione perché questi voti furono sottratti ai partiti abbandonati dagli
elettori, e nella gran parte andarono ai socialisti. Una conclusione simile si può ottenere
dall’analisi degli exit poll condotta da Sigma2 e secondo la quale l’aumento dei voti
socialisti veniva da un milione e mezzo di precedenti astenuti, da un milione e mezzo di ex
votanti per altri partiti, e da mezzo milione di nuovi elettori.
Un elemento chiave di questi flussi elettorali è stato il comportamento di voto dei
segmenti più giovani dell’elettorato. Rispetto alle elezioni del 2000, i socialisti
aumentavano il voto del 3 per cento nel gruppo di età 18-29, e del 2 per cento nel gruppo
di età 30-44, mentre i conservatori subivano un calo rispettivamente del 7 e del 4 per cento
(Sanz e Sanchez Sierra, 2005). Così, sembrerebbe che gli elettori giovani, che erano
all’origine delle mobilitazioni via cellulare, e che abitualmente decidono di votare in
proporzioni minori, aumentarono notevolmente la loro partecipazione, e lo fecero a favore
dei socialisti. Non sembra si tratti del risultato di posizioni ideologiche. Primo, perché c’è
una diffusa disaffezione tra i giovani spagnoli verso tutti i partiti politici istituzionalizzati,
compresi i socialisti. Secondo, perché il nuovo contingente di votanti sbilanciava
concretamente l’elettorato socialista verso il centro in termini ideologici, rispetto alle
elezioni del 2000. Questo perché uno spostamento verso i socialisti si verificava tra quei
votanti privi di una posizione ideologica definita. Terzo, nel 2004 votò per i socialisti una
porzione più alta dei ceti professionisti e dei gruppi con maggiore istruzione che non negli
anni precedenti – un altro cambiamento in un segmento dell’elettorato che potrebbe legare
la vittoria socialista a un allontanamento dai tradizionali schemi di voto per ragioni diverse
dall’influenza partitica. Quarto, gli individui attivati dagli eventi e votanti che cambiavano
voto in seguito a questi eventi, avevano un profilo ideologico più neutro dei votanti
abituali socialisti e conservatori. In altre parole, in una situazione di tensione sociale, i
votanti partitici restavano aderenti alle loro radici ideologiche, mentre i non ideologici
reagivano in base ai sentimenti, e sembra che questi sentimenti li portassero a votare, e a
votare contro i conservatori. In pratica, tra i votanti indecisi fino all’ultimo minuto e che
poi decidevano di votare socialista, il 56 per cento era ideologicamente conservatore.
Un metodo interessante per valutare i fattori che decisero le elezioni consiste
nell’analizzare i modelli di voto di quelli che decisero di votare o di cambiare voto
all’ultimo minuto. I socialisti ottenevano una fetta di voto maggiore dei conservatori tra
quelli che esitavano tra i partiti; i socialisti ricevevano il 4,1 per cento dei voti di quelli
che originariamente avevano deciso di non votare, rispetto ai conservatori che ottenevano
solo l’1,6 per cento di quei votanti. In altre parole: gli eventi di marzo mobilitarono i
votanti, e in particolare elettori indipendenti e non ideologici, a partecipare alle elezioni e
a farlo per votare contro i conservatori. Il gruppo di votanti socialisti che più esitava tra
votare conservatore o socialista aveva una proporzione più alta di giovani e di istruiti di
quelli che decidevano di votare conservatore. Interviste personali condotte da me con
alcuni dei votanti giovani a quel tempo illustravano la rabbia mirata di questi elettori
contro i «bugiardi», tanto da votare per un partito (i socialisti) per il quale sentivano scarsa
simpatia in quanto rientrava nella categoria generale dei politici tradizionali. Cosa
interessante, il partito meno «pro-establishment» dello spettro politico, quello dei
nazionalisti repubblicani catalani dell’ERC, ricevette il 17 per cento del voto dei votanti
dell’ultimo minuto, percentuale significativamente più alta di qualsiasi altro partito, indice
che i votanti giovani esitavano tra il rifiuto del sistema, l’adesione politica a qualche
nuova opzione, e il desiderio di usare efficacemente il voto socialista per mandar via «i
bugiardi». In effetti, i sondaggi svolti due mesi prima delle elezioni nazionali del marzo
2008 mostravano che i giovani erano portati a tornare al loro tasso di partecipazione più
basso, e che le loro tendenze di voto favorivano i socialisti meno del loro voto nel 2004
(La Vanguardia, 2008). Se Rodríguez Zapatero veniva rieletto nel 2008 nonostante un
sostegno dei giovani inferiore che nel 2004, doveva la sua vittoria alla mobilitazione degli
elettori catalani contro le minacce del PP alla loro amata autonomia.
Alla fine, quanto più gli elettori erano influenzati dagli eventi del marzo 2004, tanto più
esitavano a votare fino all’ultimo minuto; e quanto più si erano sentiti stimolati a votare
dall’11 marzo e dagli eventi successivi, tanto più il 14 marzo erano portati a votare per i
socialisti, come mostra graficamente la figura 5.4 elaborata da Michavila (2005). Sulla
base della sua analisi dei dati, Michavila conclude che «il nesso tra il risultato finale
dell’elezione e l’influenza degli attentati è statisticamente significativo» (2005, p. 29).
Così, un importante cambiamento politico aveva luogo in Spagna con significative
conseguenze per la geopolitica globale, in quanto Bush perdeva un alleato chiave in un
momento critico della costruzione della sua coalizione per sostenere la guerra in Iraq. Nei
fatti, il primo ministro Rodríguez Zapatero onorava la sua promessa elettorale e ordinava
l’immediato ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq (ma non dall’Afghanistan) nel suo primo
giorno in carica, provocando nelle relazioni con la Casa Bianca un gelo che sarebbe durato
fino all’ultimo giorno del mandato di Bush, mentre l’ex primo ministro Aznar era stato un
ospite abituale dei Bush. Era la prima frattura in una coalizione che negli anni successivi
si sarebbe disintegrata.

FIG. 5.4. Voto finale per PP, PSOE e altri, tra gli elettori indecisi fino all’ultimo nelle elezioni parlamentari spagnole del
14 marzo 2004, in base all’influenza degli eventi dell’11 marzo sulle decisioni dei votanti.
Fonte: Michavila (2005, p. 29).
La grande svolta politica risultava da un cambiamento di mentalità che si è instaurato in
Spagna nel corso degli ultimi trent’anni, con la generazione giovane che ha largamente
abbracciato il desiderio della pace mondiale, e aspira all’autenticità e alla moralità nella
conduzione degli affari mondiali (nonostante un’altrettanto sincera passione per le
discoteche, il sesso e il bere). La tristezza della morte e la rabbia contro gli assassini erano
complicate da un profondo senso di tradimento che era più personale che politico, meno
ideologico che morale. Scatenò un movimento di resistenza che faceva sentire
direttamente il suo impatto sullo stato, non solo cambiando il partito al governo, ma
mandando alla classe politica un messaggio che questa in futuro avrebbe ignorato a suo
rischio e pericolo. In effetti la prima amministrazione di Zapatero, nonostante i numerosi
errori, mostrava di mettere in pratica il criterio che l’onestà viene al primo posto nella
mente di un nuovo genere di cittadini, e nel 2008 è stato rieletto. Ma perché questo
movimento potesse evolvere da rivolta sdegnata a protesta civile doveva sottostare a un
processo di comunicazione che io considero specifico delle proteste sociali della nostra
epoca. Ne evidenzierò brevemente i suoi caratteri principali.
Il processo concreto di comunicazione alternativa ebbe inizio con l’ondata di emozione
che circondava le manifestazioni di piazza indette dal governo, con l’appoggio delle forze
politiche, la sera del venerdì 12. Questo è importante: fu in questo ritrovarsi fisico che la
gente cominciò per la prima volta a reagire, indipendentemente dai partiti politici che per
l’occasione rimasero in silenzio. Proprio lì, gli appelli spontanei dei dimostranti
cominciarono a mettere in dubbio la versione ufficiale. Mentre la manifestazione era stata
convocata dalle forze politiche e sociali dell’establishment per protestare contro il
terrorismo e in appoggio della Costituzione (indiretto riferimento al separatismo basco),
molti dei partecipanti portavano striscioni contro la guerra in Iraq. La manifestazione
doveva segnare la fine delle dichiarazioni politiche, portando alla giornata di riflessione
del sabato e al voto della domenica. Ma il sabato mattina, quando tanti individui, in gran
parte privi di affiliazione politica e indipendenti dai partiti tradizionali, cominciarono a far
circolare SMS tra gli indirizzi programmati nelle rubriche dei loro cellulari, crearono una
rete istantanea di comunicazione e di mobilitazione via cellulare che risuonò nella mente
di migliaia di persone il cui senso di disagio era cresciuto nelle ultime quarantott’ore. Il
sabato, come abbiamo detto, il traffico di SMS raggiunse un livello record. La questione
critica è che mentre la maggior parte dei messaggi erano molto simili, il mittente per
ciascun destinatario era una persona conosciuta, una persona che aveva l’indirizzo del
mittente nella rubrica del suo telefonino. Così, la rete di diffusione cresceva in misura
esponenziale ma senza perdere la prossimità della fonte, secondo la logica del fenomeno
da «piccolo mondo». Ed è importante ricordare che il tasso di penetrazione dei telefoni
mobili in Spagna a quel tempo era del 96 per cento. La gente usava anche Internet per
cercare altre fonti di informazione, in particolare dall’estero. Vi furono numerose
iniziative per organizzare reti di comunicazione alternative, tra cui alcune di giornalisti
che agivano di propria iniziativa istituendo siti web con informazioni e dibattiti da varie
fonti. Fatto interessante: il partito conservatore (il PP) diede il via esso stesso a una catena
di SMS, con un messaggio diverso: «ETA è responsabile del massacro. Pasalo!» Ma il
messaggio venne diffuso principalmente tramite i canali del partito, non raggiunse una
massa critica di persone da conoscente a conoscente, e, più importante, non era credibile
per le migliaia di persone che già dubitavano della parole del governo.
Anche il contesto fornito dai media mainstream fu significativo. I maggiori network
televisivi furono ben presto ignorati come fonti attendibili. I giornali, vista la loro
esitazione, divennero inaffidabili, anche se in alcuni casi, in particolare quello della
Vanguardia a Barcellona, le edizioni del sabato cominciarono a legittimare la versione che
associava Al Qaeda all’attentato. Dall’altra parte, come abbiamo riferito, il maggior
network radiofonico privato (SER), su iniziativa dei suoi giornalisti, cominciò
immediatamente a cercare prove al di fuori della pista basca. Molti, ma non tutti, i servizi
della SER si rivelarono esatti. Di conseguenza, molta gente ricorse alla radio come fonte
primaria di informazione, e poi interagì con SMS e comunicazioni a voce tramite i
cellulari: comunicazione a voce con gli amici più stretti, e SMS per diffondere i messaggi
loro o quelli che andavano ricevendo e con cui erano d’accordo.
Così, a fornire il contesto della comunicazione fu il ritrovarsi fisicamente insieme nelle
strade, circostanza che è all’origine della formazione dello spazio pubblico, e conseguenza
del processo di comunicazione politica: trovarsi tutti uniti davanti alle sedi del PP fu la
verifica dell’efficacia del messaggio. Le azioni in strada richiamarono l’attenzione di
alcune reti radiofoniche e televisive (televisione regionale, CNN-Spain), e infine
costrinsero il ministro degli Interni ad apparire pubblicamente alla televisione nazionale
per riconoscere il possibile ruolo di Al Qaeda. Più tardi, sarebbe apparso in televisione
anche il principale candidato del PP, che con il suo attacco furibondo ai manifestanti
diffondeva senza volerlo un’ulteriore crisi di fiducia tra l’intera popolazione. Così, un
errore di comunicazione politica, provocato in gran parte dai manifestanti e parzialmente
aiutato dal re, amplificava l’effetto delle manifestazioni. Mentre Internet svolgeva una
funzione importante come fonte di informazioni e forum di dibattito nei giorni che
precedettero le dimostrazioni, gli eventi critici furono le manifestazioni di sabato 13, un
tipico fenomeno di mobilitazione istantanea spinto da una massiccia rete di SMS che
faceva crescere esponenzialmente l’effetto della comunicazione attraverso canali
interpersonali. Adesso mi soffermerò sul significato analitico più profondo di questo e di
analoghi movimenti sociali.
Individualismo in rete e comunità insorgenti di prassi
La telefonia mobile è diventata un fondamentale medium di comunicazione e di intervento
per i movimenti di base e per l’attivismo politico in tutto il mondo, come mostra una
crescente letteratura sull’argomento, e come in maniera lampante illustra il caso della
mobilitazione cellulare spagnola contro il vergognoso comportamento di quel governo.
Ma, come ci insegna la storia sociale della tecnologia, la rilevanza di una specifica
tecnologia, e la sua accettazione da parte del grande pubblico, non deriva dalla tecnologia
in sé, ma dall’appropriazione della tecnologia da parte di individui e collettività per
soddisfare i propri bisogni e praticare la propria cultura. Lo studio che ho condotto con i
miei collaboratori sulla comunicazione mobile e la società (Castells et al., 2006b)
mostrava il ruolo chiave della comunicazione wireless nel sostenere l’autonomia personale
e culturale, pur mantenendo modelli di comunicazione e senso in tutti gli ambiti
dell’attività sociale. Gli usi sociopolitici della comunicazione wireless sono l’epitome di
questa analisi. Se i telefoni cellulari e altri dispositivi di comunicazione wireless stanno
diventando gli strumenti privilegiati del cambiamento politico lanciato a livello di base nel
nostro mondo, è perché le loro caratteristiche tecnicosociologiche rimandano direttamente
ai maggiori trend culturali su cui poggia la pratica sociale nella nostra società.
Come proposto nel capitolo 2, due maggiori trend definiscono con la loro interazione i
modelli culturali di base della società in rete globale: individualismo e comunalismo
reticolari. Da una parte, la cultura dell’individualismo, inscritta nella struttura sociale
caratteristica della società in rete, ricostruisce le relazioni sociali sulla base di individui
autodefiniti che mirano a interagire con gli altri seguendo le proprie scelte, i propri valori
e interessi, trascendendo attribuzione, tradizione e gerarchia. L’individualismo reticolare è
una cultura, non una forma organizzativa. Una cultura che parte dai valori e i progetti
dell’individuo ma costruisce un sistema di scambio con altri individui, in tal modo
ricostruendo la società più che riprodurla. L’individualismo reticolare ispira movimenti
sociali orientati al progetto che poggiano sulla condivisione di nuovi valori tra individui
che desiderano cambiare la propria vita e hanno bisogno gli uni degli altri per realizzare i
loro obiettivi. Dall’altra parte, in un mondo di valori e norme in flusso costante, in una
società del rischio, la gente si sente incerta e vulnerabile mentre gli individui cercano
rifugio in comunità che rispondano alle loro identità, sempre costruite, o con i materiali
della storia e della geografia, o con i desideri di cui i progetti sono fatti. Queste comunità
spesso diventano trincee di resistenza contro un ordine sociale percepito come estraneo e
imposto con la forza, quando le istituzioni che prima davano sicurezza (lo stato, la chiesa,
la famiglia) non funzionano più a dovere.
Vi sono anche movimenti sociali che risultano dall’incrocio tra i due modelli culturali:
individualismo e comunalismo reticolari. Sono movimenti che emergono da reti di
individui che reagiscono a un’oppressione percepita, e che poi trasformano la protesta
comune in una comunità di pratica, essendo la loro pratica la resistenza. Così, reti di
individui diventano comunità insorgenti. Proponendo questa formulazione concettuale, mi
appoggio alla tradizione analitica che mostra il ruolo decisivo delle comunità di pratica in
tutti gli ambiti della società (Wenger, 1999; Tuomi, 2002; Wenger e Synder, 2008). Le
comunità di pratica sono comunità: ossia, raggruppamenti sociali di individui che
condividono valori, convinzioni e norme con coloro che vengono identificati come
appartenenti alla comunità. Specifiche comunità si definiscono in base a specifici criteri:
confini territoriali, affiliazione religiosa, orientamento sessuale, identità nazionale e così
via. Le comunità di pratica sono quelle che si costituiscono intorno a una determinata
pratica condivisa, come un progetto scientifico, una creazione culturale, un’impresa
economica. Ciò che è peculiare è il fatto che durante la pratica formano stretti legami, ma
non permangono come comunità al di là della pratica. Sono effimere ma intense. E così,
possono riprodursi ed espandersi, formando differenti comunità; per esempio, degli
scienziati possono incontrare nuovamente i loro colleghi in un altro gruppo di ricerca
formato sulla base di una precedente riuscita esperienza. Ma ogni comunità di pratica è
definita dalla pratica, e si esaurisce nella specifica pratica che era all’origine della
formazione della comunità.
Da questi concetti si può ricavare una migliore comprensione della novità e della
portata delle emergenti mobilitazioni cellulari (mobil-isations), che costituiscono una
pratica di resistenza radunando reti di individui che aderiscono a una particolare occasione
di resistenza in un dato tempo e luogo. Poiché i cellulari permettono di essere
perennemente in rete, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, esplosioni di collera
avvertite a livello individuale hanno la potenzialità di svilupparsi in una comunità
insorgente grazie alla retificazione istantanea di molti individui diversi che sono uniti nella
loro frustrazione, ma non necessariamente uniti intorno a una posizione comune o a una
comune soluzione alla fonte percepita ingiusta di dominino. Basandosi su reti di pratiche
condivise, la comunicazione wireless è l’appropriata tecnologia di comunicazione per la
formazione spontanea di comunità di pratica impegnate nella resistenza al dominio; ossia,
comunità insorgenti istantanee. Poiché gli attori sociali scelgono e usano le tecnologie a
seconda dei loro bisogni e interessi, le persone che reagiscono individualmente contro il
dominio istituzionale, e hanno però bisogno di trovare supporto alla loro rivolta, si
rivolgeranno naturalmente alle forme di comunicazione che usano nella vita quotidiana sia
per essere se stessi sia per essere insieme con quelli con cui intendono condividere senso e
pratica. Entro queste condizioni culturali e tecnologiche, le esplosioni sociali di resistenza
non hanno bisogno di leader e di strateghi, in quanto chiunque può raggiungere chiunque
altro per condividere la propria rabbia. Se la rabbia è espressione di un sentimento
puramente individuale, l’SMS scivolerà senza far danni nell’oceano della comunicazione
digitale. Ma se la bottiglia gettata in mare viene aperta da molti, il genio uscirà, e la
comunità insorgente crescerà connettendo molte menti oltre la rivolta solitaria. Se pensate
che la cosa sia troppo teorica, chiedete a José María Aznar cosa ne pensa delle
conseguenze pratiche.
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del
200810
Speranza – speranza davanti alle difficoltà. Speranza davanti all’incertezza. L’audacia
della speranza! Alla fine, questo è il dono di Dio per noi più grande, il fondamento
della nazione. La fede in cose non viste. La fede che verranno giorni migliori. Io
credo che possiamo dare sollievo al nostro ceto medio e offrire alle famiglie
lavoratrici una strada di opportunità. Io credo che possiamo offrire posti di lavoro ai
disoccupati, case ai senzatetto, e sottrarre i giovani nelle città di tutta l’America alla
violenza e alla disperazione. Io credo che abbiamo alle spalle un vento di giustizia, e
ora che ci troviamo a un crocevia della storia, possiamo fare le scelte giuste per
affrontare le sfide che ci si parano innanzi (Barack Obama, discorso davanti alla
Convenzione nazionale democratica del 2004).
La crisi di legittimità della politica, documentata nel capitolo 4, si manifesta nella
mancanza di fiducia della gente nei suoi rappresentanti politici, nel basso livello di
partecipazione dei cittadini al processo politico, e nel prevalere delle motivazioni negative
nei comportamenti di voto. Da tutti i punti di vista, la più antica democrazia liberale del
mondo, gli Stati Uniti, non se l’è passata bene nell’ultimo trentennio. Tuttavia, nella
campagna per le primarie presidenziali del 2007-2008 un’ondata di partecipazione dei
cittadini e di entusiasmo politico ha segnalato la reviviscenza della democrazia americana
sullo sfondo delle dure realtà della guerra e del declino economico, e della dura realtà
delle menzogne presidenziali su questioni di vita e di morte. La mobilitazione politica è
cresciuta su tutto il campo: tra democratici, repubblicani e indipendenti. Comunque, ci
sono ampie prove che, durante la stagione delle primarie, i votanti democratici si sono
mobilitati in una percentuale molto più ampia degli elettori repubblicani. La lunghezza e
l’intensità della competizione alle primarie democratiche tra Barack Obama e Hillary
Clinton può giustificare in parte il salto nei livelli di partecipazione. Io però sosterrò che
sono state le personalità dei maggiori candidati democratici, Barack Obama e Hillary
Clinton, e la mobilitazione che hanno generato in grandi gruppi di elettori che non
esercitavano il diritto di voto o erano disincantati, a spiegare in gran parte la differenza.
Inoltre, sono stati la novità e l’entusiasmo della campagna di Obama ad attivare le schiere
di cittadini che fino a quel momento erano rimasti ai margini della democrazia durante
lunghi anni di scetticismo politico. Con questo non si vuole sminuire la capacità di Hillary
Clinton di attivare la mobilitazione, in particolare tra le donne, gli anziani e i latini. Ma io
propongo l’ipotesi che la sfida posta dall’improbabile concorrente, Obama, alla presunta
inarrestabile candidatura di lei abbia imposto alla sua campagna un cambiamento di tono,
strategia e impatto. Durante la transizione dalla vittoria data per scontata alla incombente
sconfitta, dopo aver perso in 11 primarie di seguito, Hillary si è trasformata nella leader di
un movimento (parzialmente proattivo e parzialmente reattivo a Obama), «trovando la
propria voce» e alterando il paesaggio della politica americana per anni a venire. Ma, a
prescindere dalle preferenze personali, era appropriato che alla fine perdesse la
nomination, dopo un combattimento accesissimo, perché il suo movimento era almeno in
parte il risultato del suo sforzo determinato di contrastare l’imprevedibile scatto di Barack
Obama che lo portava alla testa della corsa in una campagna che avrebbe potenzialmente
portato alla Casa Bianca.
Quindi, questo sarà il fulcro della mia analisi: come e perché un giovane uomo politico
– un afroamericano con un nome musulmano e discendenza keniana, con precedenti di
voto al senato tra i più di sinistra, privo di supporto significativo nell’establishment del
Partito Democratico, che rifiutava esplicitamente i finanziamenti delle lobby di
Washington – è riuscito ad assicurarsi la nomination democratica per la presidenza degli
Stati Uniti con un confortevole margine di vantaggio?11 Una parziale risposta
all’interessante questione è che è stato capace di penetrare nel cuore della politica
americana portando con sé un consistente numero di cittadini che erano stati emarginati o
scoraggiati dalla politica. Ed è stato in grado di farlo grazie a una combinazione di
personalità carismatica, di discorso politico di nuovo genere, e di innovativa strategia di
campagna che trasferiva gli antichi e sperimentati principi dell’organizzazione delle
comunità in America nella specificità dell’ambiente Internet. Seguendo le orme della
campagna primaria presidenziale di Howard Dean nel 2003-2004 (Sey e Castells, 2004),
Obama è riuscito a padroneggiare perfettamente le regole di ingaggio di quella che è stata
etichettata come «la prima campagna in rete» (Palmer, 2008). È a causa di queste
caratteristiche che la campagna di Obama costituisce un caso paradigmatico di politica
insorgente nell’Età di Internet.
Potere di voto a chi non ha potere
La democrazia, in ultima analisi, risiede nella capacità di contrastare il potere dell’eredità,
della ricchezza e dell’influenza personale con il potere della moltitudine, il potere dei
numeri – i numeri dei cittadini, chiunque essi siano. La politica insorgente è un processo
fondamentale per connettere segmenti senza potere della popolazione con procedure di
formazione del potere. La partecipazione politica è essenziale per mantenere in vita la
democrazia. E dunque, cominciamo con i fatti sulla mobilitazione elettorale12.La
registrazione dei votanti, il tallone d’Achille della democrazia americana13, è cresciuta
numericamente tra il 2004 e il 2008 nei 43 stati su 44 per i quali sono disponibili i dati
(quello che manca è l’Idaho; Jacobs e Burns, 2008). Diciassette stati su 43 toccavano dati
record di affluenza durante le primarie o i caucus tenuti dopo il «Super Tuesday»14 (il 5
febbraio 2008) quando McCain si era già assicurato la nomination repubblicana, segnando
un periodo in cui la campagna di Obama, in quel momento all’inseguimento della Clinton,
cominciava a riportare una serie di vittorie successive. L’incremento spettacolare della
registrazione al voto in stati generalmente considerati «at play» (né solidamente
democratici né solidamente repubblicani) alterò la mappa elettorale degli Stati Uniti. Circa
un quarto delle registrazioni di nuovi votanti ebbe luogo in quegli stati. Dieci stati
aumentarono le loro liste elettorali del 10 per cento e più: tra questi il New Hampshire (24
per cento), il Nevada (20 per cento), l’Arizona (18 per cento) e il New Mexico (11 per
cento; Jacobs e Burns, 2008).
Un caso indicativo è quello della Pennsylvania, uno stato critico nelle elezioni generali.
Tra il 1o gennaio e l’ultima data utile per registrarsi, il 24 marzo, 306.918 nuovi elettori si
iscrissero alle liste dei democratici. Inoltre, 146.166 primi votanti aderivano al Partito
Democratico e 160.752 spostavano la registrazione dai repubblicani o gli indipendenti ai
democratici (a iscriversi presso i repubblicani tra quelli che votavano per la prima volta
erano appena 39.019; Cogan, 2008). La campagna di Obama riportava la registrazione di
200.000 nuovi democratici in Pennsylvania, 165.000 in North Carolina, e più di 150.000
in Indiana durante la stagione delle primarie (Green, 2008). I democratici di nuova
registrazione in Pennsylvania erano concentrati negli ambienti afroamericani, un segmento
demografico che si mosse in misura prevalente per Obama, anche se le primarie della
Pennsylvania le perse. Questa spinta alla registrazione insolitamente intensa non era
casuale. Nelle elezioni del 1992 tra George H.W. Bush e Bill Clinton, Clinton passò dal
secondo posto alla vittoria in Illinois in gran parte grazie a una registrazione di nuovi
elettori senza precedenti. Nella sola Chicago si iscrissero 150.000 nuovi votanti, in grande
maggioranza afroamericani. Secondo un articolo del 1993 della Chicago Magazine:

L’elezione, in una certa misura, ruotava su questi totali… Clinton aveva un sostegno
quasi unanime tra i neri. Ma altrettanto importanti, benché meno ovvie, sono le
implicazioni che potrebbe avere il voto nero per future elezioni municipali e statali:
per la prima volta da dieci anni, più di mezzo milione di neri sono andati alle urne a
Chicago. E con le elezioni del governatore e del sindaco che si terranno nei prossimi
due anni, è una cosa a cui tutti, da Jim Edgar a Richard M. Daley, devono prestare
attenzione: un blocco elettorale afroamericano sarà una forza con cui fare i conti in
quelle competizioni. Niente di tutto ciò, ovviamente, è stato frutto del caso. La più
efficace spinta alla registrazione da parte di una minoranza di cui si abbia memoria è
stato il risultato di un minuzioso lavoro di Project Vote!, la filiale locale di
un’organizzazione nazionale non profit. «È stata la campagna più efficace che abbia
visto in vent’anni che faccio politica», dichiara Sam Burrell, consigliere comunale
del 29o distretto del West Side e veterano di molte campagne di registrazione. Alla
testa di questa iniziativa c’era un poco noto afroamericano trentunenne,
organizzatore di comunità e scrittore: Barack Obama (Reynolds, 1993; corsivo mio).
La mobilitazione dei giovani nella campagna per le primarie del 2008 è stata
significativa. Nelle primarie e nei caucus del 2008 hanno votato oltre 6,5 milioni di
persone di età inferiore ai trent’anni, così che il tasso di affluenza nazionale per le elezioni
primarie è raddoppiato quasi dal 9 per cento del 2000 al 17 per cento del 2008 (Marcelo e
Kirby, 2008, p. 1). Per la prima volta da quando il diritto di voto è stato portato a 18 anni,
la partecipazione dei giovani negli Stati Uniti ha continuato a crescere per tre elezioni di
seguito. Poiché l’affluenza alle elezioni generali abitualmente segue i trend riscontrati
nelle primarie, sembra che il voto giovanile comincerà a svolgere un ruolo significativo
negli Stati Uniti, un fattore di notevole importanza per il rinnovamento dei valori sociali,
di cui i candidati dovranno tener conto nelle competizioni elettorali. Un’indagine svolta
nella primavera del 2008 dall’Harvard University Institute of Politics (2008) sui giovani e
la politica concentrata sulla fascia d’età tra i 18 e i 24 anni, fornisce prove significative del
risveglio alla politica dei giovani americani. Tra le altre risposte, il 76 per cento diceva di
essere registrato al voto (un incremento di 7 punti rispetto al novembre 2007); il 64 per
cento affermava che avrebbe votato alle elezioni generali del 2008; il 40 per cento si
considerava politicamente attivo; il 40 per cento dichiarava di essere democratico, il 25
per cento repubblicano e il 35 per cento indipendente. In base a tutti i criteri di
misurazione, l’impegno civico dei giovani partecipanti al sondaggio crebbe rispetto al
novembre 2007 dopo che ebbero seguito le campagne per le primarie del 2008.
In effetti questo potrebbe essere un punto di svolta per la crisi di legittimità in America.
Analizzando i trend dell’impegno civile tra i giovani, Robert Putnam (2008) scrive:

Nel corso degli ultimi quattro decenni del XX secolo, l’impegno dei giovani nella
vita civica americana è declinato anno dopo anno con deprimente regolarità.
Nell’autunno del 1966, prima della piena fioritura delle proteste contro la guerra in
Vietnam, un sondaggio dell’UCLA sugli studenti di primo anno di college a livello
nazionale rilevava che «seguire la politica» era un obiettivo «molto importante» nella
vita per oltre il 60 per cento… Trentaquattro anni dopo il dato era precipitato al 28
per cento. Nel 1972, quando l’età del voto fu portata a 18 anni, l’affluenza alle
elezioni presidenziali della fascia tra i 18 e i 24 anni fu di un deludente 52 per cento.
Ma pur partendo da questi livelli modesti, le percentuali del voto giovanile nelle
elezioni presidenziali continuarono a calare costantemente negli anni Settanta,
Ottanta e Novanta, raggiungendo appena il 36 per cento nel 2000… Il mese scorso
[febbraio 2008] i ricercatori dell’UCLA riportavano «Per le matricole universitarie di
oggi, discutere di politica è un’attività tanto diffusa come non si vedeva da almeno 41
anni»… Nelle elezioni del 2004 e del 2006, l’affluenza tra i giovani cominciò
finalmente a risalire dopo decenni di declino, raggiungendo il punto più alto negli
ultimi vent’anni nel 2006. Mentre ci avvicinavamo alla stagione presidenziale del
2008, i giovani americani mostravano di essere, in effetti, pronti all’azione civica,
non per la fase della loro vita, ma per la permanenza degli effetti della crisi nazionale
unificante che avevano conosciuto nei loro anni formativi. Le competizioni per la
nomina presidenziale eccezionalmente vivaci di quest’anno – e, va detto, la
straordinaria candidatura di Barack Obama – hanno acceso di una fiammata
incandescente un’esca giovanile che era stata accatastata ed era pronta a divampare
da oltre sei anni… La partecipazione alle competizioni elettorali di questa primavera
finora è stata in generale più alta che nelle precedenti contese per la nomina
presidenziale, ma per quelli intorno ai vent’anni la crescita è stata davvero
fenomenale – un’affluenza in molti casi tre o quattro volte superiore a quanto mai
registrato. Le elezioni del 2008 sono quindi il party in cui questa nuova Greatest
Generationsi dichiara (Putnam, 2008, D9).
Grazie alla straordinaria impennata dei tassi di registrazione al voto, in particolare tra i
giovani e gli afroamericani (un settore chiave della base elettorale di Obama), milioni di
nuovi votanti erano registrati per le elezioni di novembre, preparando il terreno a
un’affluenza record alle urne. Riguardo alle percentuali dei votanti, complessivamente la
partecipazione alle primarie del 2008 è stata la più alta dal 1972. Per tutte le 34 primarie
condotte fino al 10 maggio 2008, votava nel 2008 il 19,2 per cento di democratici
registrati (dal 9,7 per cento del 2004; nel 1972 erano il 21,2 per cento; Gans, 2008b).
L’affluenza degli afroamericani cresceva del 7,8 per cento rispetto alle primarie del 2004,
ma la partecipazione degli elettori latini (che hanno votato in maggioranza per Hillary) è
cresciuta di un clamoroso 41,9 per cento. Comunque, il più alto incremento nel tasso di
affluenza riguarda il voto giovanile (18-29 anni), che ha superato il dato del 2004 del 52,4
per cento (Gans, 2008b; vedi tabella A5.2 in Appendice).
Obama potrebbe aver tratto vantaggio anche dalla generale crescita di popolarità del
Partito Democratico. Secondo Pew (2008b), dal 2004, l’identificazione con il Partito
Democratico è cresciuto in tutti i gruppi di età. Nel 2004 il 47 per cento di tutti i votanti si
identificava con il Partito Democratico o tendeva verso di esso, mentre il 44 per cento si
identificava con il GOP o tendeva verso di esso. Nei sondaggi dall’ottobre 2007 al marzo
2008, i democratici mantenevano un vantaggio di identificazione di partito di 13 punti (51
per cento contro 38 per cento). Forse il cambiamento più netto dal 2004 è avvenuto tra i
votanti nati tra il 1956 e il 1976 – i membri della cosiddetta Generazione X e i tardivi del
Baby Boom. Gli appartenenti a questo gruppo di età tendevano a essere più repubblicani
durante gli anni Novanta, e nel 2004 il GOP conservava ancora un lieve margine di
vantaggio nell’affiliazione partitica in questo gruppo (Keeter et al., 2008). Con questo si
vuol dire che l’ascesa di Obama va collocata nel contesto della crescente disaffezione del
popolo americano per il presidente Bush, dopo averlo eletto due volte (o almeno una volta
e mezzo). O, in altre parole, nella capacità di Obama di attingere alla riserva del desiderio
di cambiamento degli americani.
Obama annovera, comprensibilmente, gli afroamericani nel nucleo consolidato dei suoi
sostenitori. La cosa però non era ovvia all’inizio della campagna, perché Bill Clinton
disponeva di una considerevole influenza nel bacino elettorale afroamericano, e all’inizio
della campagna Hillary Clinton ha beneficiato di questa connessione. Ma con il progredire
della campagna, tre fattori hanno giocato a favore di Obama. Primo, l’idea che un
afroamericano fosse un candidato competitivo capace di arrivare fino in fondo, per la
prima volta nella storia, ha mobilitato e portato alla conversione di voto una grossa fetta
della precedente base elettorale clintoniana. Secondo, la sfumatura razziale di alcune
dichiarazioni della campagna della Clinton, e dello stesso Bill Clinton, ha allontanato da
Hillary molti votanti afroamericani. I dati anno per anno mostrano che, tra i democratici
neri Clinton è passata dall’essere competitiva con Obama come prima scelta per il
candidato del Partito Democratico nel 2007 – 42 per cento per Obama, 43 per cento per
Clinton – al punto in cui la stragrande maggioranza dell’82 per cento di democratici neri
preferiva Obama, rispetto al 15 per cento per Clinton, nel giugno 2008 (Gallup, 2008a).
Terzo, la capacità della campagna di Obama di mobilitare nuovi elettori è stata
particolarmente gradita tra i votanti neri disaffezionati. E così il giudizio sull’immagine di
Obama tra i neri era per il 68 per cento favorevole e per l’8 per cento sfavorevole nel
giugno 2007, passando all’86 per cento di favorevoli e al 9 per cento di sfavorevoli nel
giugno 2008.
Ma l’appoggio a Obama ha riguardato uno spettro molto più ampio della popolazione
americana, in particolare tra i segmenti più istruiti della cittadinanza (vedi tabella A5.3 in
Appendice). È vero che una prima valutazione dello scenario demografico dei votanti
nelle primarie indicherebbe una divisione per razza. Obama ha raccolto il voto
afroamericano in ogni singolo stato, mentre a Clinton andava il voto dei bianchi in tutti gli
stati tranne otto. Tuttavia, mentre la popolazione ispanica appoggiò Clinton durante le
primarie, gli ispanici sostennero Obama in maggior numero durante le elezioni generali,
con un appoggio leggermente superiore a Obama tra gli ispanici più giovani che tra la
popolazione generale (vedi sotto). Ma l’influenza apparentemente determinante della
razza nelle elezioni è il risultato di una appropriata analisi multivariata nell’interpretazione
dei dati. La variabile chiave che spiega l’appoggio a Obama alle primarie è l’età.
Secondo gli exit poll di Edison/Mitofsky, per il voto complessivo delle primarie Obama
aveva la meglio su Clinton tra i votanti dai 45 in giù, inclusa una maggioranza del voto
bianco. Nel voto inferiore ai 30 anni, Obama vinceva in tutti gli stati tranne cinque.
Riceveva anche il consenso dei votanti tra i 30 e i 44 anni in tutti gli stati tranne sette.
Clinton, da parte sua, prendeva tutti gli stati tranne sei nel gruppo di età dai 60 in su,
mentre i due candidati si dividevano gli adulti tra i 45 e i 59 (Carter e Cox). Nel
complesso, nel gruppo di età 18-29, Obama riceveva il 58 per cento dei voti contro il 38
per cento di Clinton, mentre tra i maggiori di 65, Clinton batteva Obama con il 59 per
cento contro il 34 per cento. Data la maggiore proporzione di donne tra i votanti anziani,
sembra sussistere un gap di genere, con il 52 per cento di donne anziane che votavano per
Clinton rispetto al 43 per cento per Obama, mentre il 50 per cento dei maschi votava per
Obama e il 54 per cento per Hillary. Ma controllando per l’età, il gap di genere si ribalta: il
56 per cento delle donne di meno di 30 anni votavano per Obama rispetto al 43 per cento
che votava per Clinton (Noveck e Fouhy, 2008).
Dunque, Obama è chiaramente il leader politico che negli ultimi decenni più ha ispirato
il voto giovanile. Ha anche ampliato il suo richiamo al di là delle linee di razza e di classe,
anche se la sua maggiore forza è tra i segmenti più istruiti della popolazione e tra la nuova
classe media dei professionisti, mentre Hillary ha ricevuto il massimo sostegno dagli
anziani, la maggioranza dei voti delle donne (ma non tra i segmenti più giovani delle
donne) e l’appoggio simbolicamente significativo di segmenti della classe operaia del
Midwest (ma non in tutti gli stati: per esempio il Wisconsin). Una rapida lettura di questi
risultati descrittivi, in attesa delle analisi accademiche una volta che siano disponibili i
dati, indica che Obama è stato il candidato della nuova America, l’America più giovane,
più istruita, e dalla mentalità più aperta, del XXI secolo. Inoltre, nuovi gruppi di cittadini
non solo si sono registrati e hanno votato, ma si sono anche impegnati attivamente nella
campagna. Così, la tabella 5.2 illustra il livello sostanzialmente più alto del
coinvolgimento nell’attivismo in Internet dei sostenitori di Obama rispetto ai sostenitori di
Hillary, essi stessi un gruppo parecchio attivo.
TAB. 5.2. Livelli di attivismo in Internet tra i democratici online (%)

Attività online Sostenitori Obama Sostenitori Clinton


Ha firmato una petizione online 24 11
Ha girato a qualcun altro commenti o scritti politici 23 13
Ha donato soldi a un candidato online 17 8

n = 516 utenti Internet; margine di errore +/–5%.


Fonte: Pew Internet and American Life Project, Spring Survey (2008).

Su Facebook – una applicazione di social networking usata dalla grande maggioranza


degli americani di meno di 30 anni – al luglio 2008 Obama aveva 1.120.565 sostenitori,
rispetto ai circa 158.000 sostenitori di Clinton e ai 119.000 di McCain. Nel maggio 2008, i
College Democrats of America espressero il loro appoggio a Obama:

Abbiamo sentito migliaia di voci giovani da Facebook, MySpace, YouTube e e-mail.


Senza dubbio, gli studenti dei college sono pronti al cambiamento e a un nuovo
genere di leadership. Il senatore Obama dà forza alle nostre voci e ci fa sentire una
parte importante del processo. È per questo che lo sosteniamo perché sia il prossimo
presidente degli Stati Uniti (cit. in Halperin, 2008).
Quanto ad altre forme di partecipazione politica alla campagna, nell’aprile 2008 il 25 per
cento dei minori di 30 anni, un bacino forte per Obama, dichiarava di aver lavorato a una
campagna elettorale, di aver aderito a un circolo politico, o di aver partecipato a comizi o
sfilate politiche (CBS/MTV 2008). Così, la campagna di Barack Obama accendeva un
fuoco di passione e di impegno tra vasti segmenti della società americana, che
includevano anche quelli che si tenevano lontani dal processo politico o erano mantenuti
in un ruolo passivo dalle élite dei politici professionisti che riducevano la politica a
clientelismo e costruzione di immagine. Come mai? Chi è quest’uomo venuto dall’incerto
sognando di arrivare alle stelle senza portare le strisce?
L’improbabile candidato presidenziale15
I fatti della vita di Barack Hussein Obama sono ormai ampiamente noti, e non è necessario
riferirli dettagliatamente. Qui mi limiterò a sintetizzare ciò che è rilevante ai fini della mia
analisi. Capire la vita di Obama potrebbe essere un compito da assegnare agli studenti che
intendono afferrare il senso del nostro mondo multiculturale. È nato nelle Hawaii nel
1961. Suo padre, figlio di un domestico di una famiglia britannica, era nato in Kenya,
membro della tribù Luo, ed era cresciuto allevando capre nel suo villaggio, prima di
eccellere a scuola e di vincere una delle borse di studio che permettevano di iscriversi a
un’università americana, assegnate a un piccolo gruppo di giovani keniani che si
preparava a diventare l’élite professionale del paese dopo la sua imminente indipendenza.
Si iscrisse alla University of Hawaii, dove si laureò in econometria, prima di vincere
un’altra borsa di studio per conseguire un PhD a Harvard, anche se alla fine si accontentò
di un Master’s degree. La madre di Obama, Ann Dunham, era figlia di un operaio
petrolifero del Kansas, che, cresciuta in Kansas, successivamente si era trasferita in Texas,
a Seattle, e infine alle Hawaii con i genitori. Ann e Barack si conobbero alla University of
Hawaii ad un corso di lingua russa. Divorziarono quando Obama aveva due anni. Suo
padre, dopo un periodo a Harvard, durante il quale si risposò, tornò in Kenya per lavorare
per il governo, e rivide Obama una volta soltanto prima di morire. La madre, che Obama
vede come la persona più direttamente responsabile di aver fatto di lui quello che è oggi,
morì di un tumore alle ovaie nel 1995. All’età di sei anni, Obama si trasferì a Giacarta con
la madre e il nuovo patrigno, Lolo Soetoro (musulmano praticante). Mentre si trovava in
Indonesia, Obama frequentò la Besuki School (che oggi si chiama Menteng 1), una scuola
pubblica non confessionale fondata per le élite europee e indonesiane senza affiliazione
musulmana. Gli studi religiosi sono obbligatori in tutte le scuole indonesiane e così la sua
giornata scolastica comprendeva un certo orario in cui gli studenti praticavano le loro
varie religioni.
La madre, che insegnava inglese agli uomini d’affari indonesiani e lavorava con
fondazioni americane per aiutare le famiglie povere in Indonesia, sentiva che il paese non
era sicuro per lui o per la sua istruzione. E così, a dieci anni, Obama tornò alle Hawaii
andando a vivere dai nonni e frequentando la Punahou School, una prestigiosa scuola
privata di Honolulu, con una borsa di studio. Era conosciuto con il nome di Barry16.
Obama ha ammesso di aver provato marijuana e cocaina al liceo, e ha anche scherzato sui
suoi trascorsi di scapestrato. Quando Jay Leno, conduttore di Tonight Show sull’ABC gli
ha chiesto, «Ricordi, senatore, lei è sotto giuramento. Ha aspirato?» «Era proprio lì il
punto». Alla laurea, si trasferì a Los Angeles e frequentò l’Occidental College per due
anni prima di passare alla Columbia University. Dopo essersi laureato, lavorò per una
società di ricerca di interesse pubblico e alla Business International per quattro anni prima
di trasferirsi a Chicago nel 1985, diventando organizzatore di comunità come direttore
dell’organizzazione cattolica Developing Communities Project (DCP), un’esperienza
critica che divenne il suo apprendistato in organizzazione di comunità. Tre anni dopo (a 29
anni), si iscrisse alla Harvard Law School e fu il primo presidente afroamericano della
Harvard Law Review. Fu a Harvard che conobbe la moglie, Michelle, che studiava anche
lei legge dopo essersi laureata a Princeton con l’aiuto di una borsa di studio. Nel 1991
ricevette una borsa dalla facoltà di giurisprudenza della University of Chicago per lavorare
a un libro sulle relazioni razziali, che sarebbe stato pubblicato nel 1995 con il titolo di
Dreams of My Father. Insegnò diritto costituzionale alla University of Chicago dal 1992 al
2004. A Chicago si impegnò nella politica locale concentrandosi sulle comunità
svantaggiate, con iniziative come Project Vote (un progetto di registrazione al voto per
elettori afroamericani) nel 1992. Nel 1993, Obama entrò a far parte della Davis, Miner,
Barnhill e Galland, uno studio legale di dodici avvocati specializzato in cause sui diritti
civili e sviluppo economico locale, dove fu membro associato per tre anni dal 1993 al
1996. Nel 1996 iniziò la carriera politica concorrendo con successo a un seggio per il
senato dell’Illinois.
Dagli anni da studente all’impegno nelle acque burrascose della politica di Chicago,
Obama ha attraversato un processo di costruzione dell’identità. Ha affermato con forza la
sua appartenenza alla comunità afroamericana, senza rinunciare alla sua discendenza
mista, con madre e nonni bianchi come sua famiglia immediata. Dopo il matrimonio,
Michelle e le figlie sono diventate, nelle parole di Obama stesso, la roccia della sua vita.
Questo duplice retroterra etnico è stato la fonte della sua perenne ricerca di un ponte che
varcasse la divisione razziale, quello che Gunnar Myrdal (1944) chiama il fondamentale
«Dilemma americano». Ha detto più volte che lui incarnava questo superamento della
spaccatura razziale. L’unità tra razze, classi e culture è diventato il suo orizzonte di azione.
In questo senso, si pone nettamente nel solco della tradizione di Saul Alinsky, per il quale
le persone possono trovare la comunità dei loro interessi, trascendendo le fratture
ideologiche e sociali della storia, lottando e organizzandosi in direzione di uno scopo
comune (vedi sotto).
Obama inizia la sua carriera politica ufficiale nel 1996 con la candidatura vittoriosa al
senato dell’Illinois (in rappresentanza del South Side di Chicago). Viene rieletto nel 1998
e di nuovo nel 2002. Non riuscendo a ottenere un seggio alla Camera dei Rappresentanti
nel 2000, annuncia la campagna per il Senato americano nel gennaio 2003. Dopo aver
ottenuto un consenso travolgente nelle primarie senatoriali nel marzo 2004, pronuncia il
discorso sulla linea politica («L’audacia della speranza») alla Convenzione nazionale
democratica nel luglio 2004, mettendosi per la prima volta sotto la luce dei riflettori
nazionali. Nel suo celebre discorso dichiara: «È la convinzione fondamentale: “io sono il
custode di mio fratello, io sono il custode di mia sorella” a mandare avanti questo paese. È
questo ciò che ci permette di inseguire i nostri sogni individuali, e rimanere ugualmente
uniti come un’unica famiglia americana». Questo tema risuona in tutta la sua carriera
politica, e in molti sensi evoca quel frame dei genitori che si prendono cura dei figli,
scoperto da Lakoff come elemento fondamentale del pensiero democratico in America
(Lakoff, 2004). Estratti del suo discorso vengono rilanciati dai maggiori network del
paese, catapultandolo in primo piano nell’attenzione nazionale. Molti attribuiscono a
questa frenesia mediatica un ruolo nella sua vittoria al Senato. Viene eletto nel novembre
2004 con il 70 per cento dei voti. Nel 2008 è l’unico afroamericano del Senato USA, il
quinto della storia americana, e il terzo dalla Ricostruzione. Verso la fine di marzo del
2005, Obama annuncia la sua prima proposta di legge in Senato, lo Higher Education
Opportunity through Pell Grant Expansion Act (HOPE Act), finalizzato a innalzare
l’ammontare massimo delle assegnazioni Pell Grant per aiutare gli studenti dei college
americani nei pagamenti delle rette. Nell’aprile del 2005, Time Magazine inserisce Obama
nell’elenco delle 100 persone più influenti del mondo in un servizio speciale su «Leader e
rivoluzionari» (Bacon, 2005).
Ma Obama non è un rivoluzionario: non lo è mai stato e non lo sarà mai. In effetti è
difficile collocarlo sull’asse destra/sinistra, nonostante i suoi precedenti di voto a sinistra.
Più appropriatamente si presenta su un altro insieme di coordinate: il futuro contro il
passato. Il suo progetto è di costruire una maggioranza americana sui temi che più hanno
importanza nella vita quotidiana di ognuno e di impegnarsi nel dialogo con tutti gli attori
della geopolitica, ribaltando la diplomazia aggressiva dei neoconservatori, al tempo stesso
senza esitare a rispondere alla minaccia terroristica là dov’è (per esempio in Afghanistan
anziché in Iraq). Questo pragmatismo si riflette nella scelta dei consiglieri, la cui
esperienza politica compensa la sua limitata pratica nell’ambito delle iniziative nazionali e
internazionali. Così, quando entra in Senato, arruola come suo capo dello staff Pete Rouse,
ex capo dello staff del leader democratico in Senato Tom Daschle, e come direttore delle
politiche l’economista Karen Kornbluh, ex vicecapo dello staff del segretario del Tesoro
Robert Rubin. Prende con sé Samantha Power, autrice di Human Rights and Genocide, e
gli ex funzionari dell’amministrazione Clinton Anthony Lake e Susan Rice, come
consiglieri per la politica estera. Per la corsa presidenziale, lavora con Zbigniew
Brzezinski, con il generale dell’Air Force Merrill McPeak, con Bill Daley (fratello del
sindaco di Chicago Richard Daley ed ex funzionario di Clinton), e Dennis Ross, che è
stato consigliere di Bill Clinton e dei due Bush come negoziatore in Medio Oriente per la
politica verso Israele e la Palestina.
Obama si vede come un unificatore, per il suo partito e al di là del suo partito. Appena
conclusa l’aspra campagna per le primarie, non solo ha aperto le porte alla collaborazione
con Hillary e Bill (senza spingersi a offrirle la vicepresidenza, in gran parte per possibili
conflitti di interesse con Bill) ma ha anche arruolato membri chiave della campagna di
Hillary, come il direttore della sicurezza nazionale della Clinton, Lee Feinstein; i suoi
consiglieri per la politica estera Mara Rudman, viceconsigliera per la sicurezza nazionale
sotto Bill Clinton, e Robert Einhorn, ex vicesegretario per la non proliferazione presso il
Dipartimento di Stato; e Stuard Eizenstat, specialista di commercio internazionale che fu
direttore della politica per la campagna di Jimmy Carter del 1976. Sul fronte interno, la
squadra politica di Obama ha mantenuto il maggior consigliere economico di Clinton,
Gene Sperling, come consulente.
Nel corso della sua carriera senatoriale Obama si allea anche con repubblicani di alto
profilo per far approvare leggi, come il Secure America and Orderly Immigration Act (con
McCain) e l’iniziativa Lugar-Obama, che amplia il disegno di legge Nunn-Lugar sul
Cooperative Threat Reduction Program. Il Democratic Republic of the Congo Relief,
Security, and Democracy Promotion Act rappresenta la prima normativa federale che
viene applicata con Obama come primo propositore.
In un paese religioso come gli Stati Uniti, ciò in cui crede Obama è una caratteristica
che lo definisce in termini di proiezione pubblica. La sua evoluzione religiosa è atipica
quanto il processo della sua costruzione di identità. In Dreams of My Father (1995, 2004),
descrive la sua educazione come sostanzialmente laica, anche se andava in chiesa a
Pasqua e a Natale con la nonna. Fu solo quando, ventiquattrenne, si trasferì a Chicago e
cominciò a frequentare la Trinity Church, dice, trovò la religione. Cosa interessante, più o
meno nello stesso periodo, abbracciò pienamente un’identità afroamericana, un’identità
che venne rafforzata più tardi dal matrimonio con Michelle, nata in una famiglia
afroamericana, a differenza di Obama che era di discendenza africana e americana. È
possibile che l’adesione alla Trinity facesse parte del suo passo decisivo in direzione di
un’identità autocostruita dopo varie peregrinazioni culturali e personali. La Trinity United
Church of Christ è una chiesa a diffu è una chiesa a diffusione nazionale, molto
autorevole, composta in gran parte di bianchi. Ma nel South Side di Chicago, a partire
dagli anni Ottanta, la Trinity Church fu «la» chiesa degli afroamericani della città. Tra gli
altri celebri frequentatori c’era Oprah Winfrey, che smise di andarvi alla metà degli anni
Novanta perché giudicava troppo estremista il pastore della chiesa, il reverendo Wright.
Wright ebbe una notevole influenza sulla visione religiosa e politica di Obama, al punto
che fu molto vicino a rovinare le sue chance politiche. Wright era un teologo di grande
cultura, con una reputazione a livello nazionale. Faceva parte del gruppo di leader religiosi
che furono chiamati per pregare con i Clinton alla Casa Bianca durante il periodo di
penitenza di Bill in seguito all’affare Monica Lewinsky e alla susseguente confessione
pubblica. Veniva dalla tradizione della teologia della liberazione nera, e a volte si lanciava
in invettive a tinte razziali sull’ingiustizia sociale in America. Senza seguire i punti di
vista estremisti di Wright su alcune questioni, Obama lo ha considerato, per vent’anni, il
proprio maestro morale. Fu lui a unire in matrimonio Barack e Michelle e a battezzarne le
figlie. Inoltre, Obama intitolò l’intervento che doveva portarlo alla fama nazionale (e il
suo secondo libro) con le parole di uno dei sermoni di Wright, «L’audacia della speranza».
E la speranza è diventata il tema centrale del discorso politico di Obama. È interessante
e significativo il fatto che Obama fosse capace di fondere la critica radicale della società
americana con una pratica politica moderata. È questa ambivalenza ciò che costituisce al
tempo stesso il fascino di Obama e lo rende vulnerabile agli attacchi politici da destra e da
sinistra. Se l’idea che l’ambivalenza possa essere un atout vincente nel costruire speranza
e fiducia appare controintuitiva, l’analisi teorica proposta da Simonetta Tabboni (2006)
nell’analizzare la nuova cultura giovanile in Europa espone il meccanismo con cui
l’ambivalenza apre il regno delle possibilità per la proiezione delle speranze da parte della
gente, che si identifica con la fonte dell’ambivalenza che la libera dalle certezze
artificiose. Secondo Simonetta Tabboni: «Parlo di “ambivalenza sociologica” quando
l’attore è attratto da, o impegnato in, aspirazioni, atteggiamenti o comportamenti che sono
in reciproca contraddizione, ma che hanno la stessa origine e sono inseparabili dal punto
di vista degli obiettivi che si vogliono realizzare» (2006, p. 166). Ambivalenza non è
doppiezza. Non è cambiare opinioni e posizioni a seconda dei risultati dei sondaggi.
Ambivalenza è un approccio mentale aperto alla vita; è dedicarsi agli obiettivi di
un’azione rimanendo incerti sui mezzi migliori per raggiungere quegli obiettivi. Quindi
non sto dicendo che l’ambivalenza di Obama è un calcolo. Lui è ambivalente rispetto alle
definizioni ideologiche standard. Si vede come un afroamericano che trascende le
divisioni razziali in un paese che sa costruito sulle divisioni razziali. Si situa al di là dei
confini di classe, pur riconoscendo l’esistenza della disuguaglianza sociale, delle difficoltà
dei lavoratori, dell’avidità delle aziende. Vorrebbe impegnarsi in un dialogo con tutto il
mondo, compresi i potenziali nemici del paese, restando implacabilmente avverso al
fanatismo e al terrorismo. Questa non è una posa politica, è una cosa connaturata alla sua
vita fuori dal comune, nei semplici ma profondi principi etici che gli ha posto nel cuore la
madre, e nella filosofia con i piedi per terra di sua nonna e, più tardi, di sua moglie. Come
scrive nel suo libro: «Lei [Michelle] non sempre sa come prendermi; teme che… io sia
una specie di sognatore. In effetti, nella sua eminente concretezza e negli atteggiamenti da
Midwest, mi ricorda non poco Toot [il nomignolo della nonna di Obama]» (1995/2004, p.
439).
È stata la sua vita fatta di discriminazioni vissute ma anche di partecipazione e successo
in alcune tra le migliori istituzioni di studio del paese (a partire dalla scuola alle Hawaii) a
insegnargli che, sì, poteva farcela. E così, è stata questa miscela di ambivalenza e
sicurezza di sé a fare di lui una personalità di genere raro, dotato di un pacato carisma
capace di accendere improvvisamente lui e il suo pubblico in una vampata di passione
trasmessa con le parole e con il linguaggio del corpo. Parole apprese dai pulpiti della
liberazione nera, linguaggio del corpo ereditato da un eminente esponente Luo e
riconfezionato nella facoltà di legge di Harvard. Nell’era della personalizzazione della
politica, Obama ha costruito il suo progetto politico su una personalità insolita,
affascinante, che incarna la poliedrica esperienza della sua vita. Verso la fine del suo
primo libro, scrive delle domande senza risposta che turbano le sue notti:

Che cos’è la nostra comunità, e cosa si può fare perché quella comunità si riconcili
con la nostra libertà? Fin dove arrivano i nostri obblighi? Come possiamo trasformare
il puro e semplice potere in giustizia, il puro e semplice sentimento in amore? Le
risposte che trovo nei manuali giuridici non sempre mi soddisfano… Trovo una
quantità di casi in cui la coscienza viene sacrificata alla convenienza o all’avidità.
Eppure, proprio nel dialogo, nell’unirsi delle voci, mi trovo modestamente
incoraggiato a credere che finché le domande si continueranno a fare, quel che ci
tiene uniti possa in qualche modo, alla fine, prevalere (Obama, 1995, 2004, p. 438).
Obama cerca le risposte nella politica del dialogo, nella politica che pone domande
anziché fornire risposte, la politica che cerca la comunità a partire dalla garanzia della
libertà, la politica come ideale e come processo, anziché le proposte politiche per la
costruzione elettorale dell’immagine. Sono approcci inusuali: attraenti, ma
apparentemente poco pratici nei campi di battaglia della politica mediatica. Eppure,
quando un freddo 10 febbraio 2007 Obama annuncia la sua candidatura a presidente,
davanti a 15.000 sostenitori sulla scalinata dell’Old State Capitol a Springfield, Illinois, lo
stesso edificio da cui Abraham Lincoln pronunciò il suo discorso del 1858 sulla «Casa
divisa», il discorso contro la schiavitù, si sta connettendo esplicitamente a quel messaggio.
Quello che sta dicendo è «We», e quello che sta dicendo è «We Can». Ma come è stato
capace di mobilitare il supporto per questo improbabile candidato? In che modo il suo
sogno si è materializzato nella politica di base, nel finanziamento della campagna, nelle
strategie mediatiche, nello schivare la politica delle aggressioni e la politica scandalistica?
Quali sono le lezioni della campagna di Obama per la nostra comprensione della politica
insorgente, o della politica in generale, nell’Età di Internet? Distillerò le più importanti di
queste lezioni, riferendo l’osservazione della campagna all’analisi presentata nel capitolo
4 sui caratteri chiave delle campagne politiche e delle strategie politiche.
Cambiare formula: dal potere del denaro al denaro dei senza potere
Il denaro domina ampiamente la politica in generale e la politica americana in particolare.
La raccolta dei finanziamenti è essenziale, dal momento che senza somme considerevoli
non c’è campagna competitiva. Questa è la soglia che le campagne meglio intenzionate
(per esempio, quella di John Edwards nel 2007-2008) non hanno varcato. La scelta è
semplice: o le aziende e i ricchi finanziano la tua campagna, rendendoti così debitore
verso i loro interessi (salvo qualche raro filantropo con sufficienti quattrini e valori
personali per essere l’eccezione), o devi cavartela da solo e gli elettori non sapranno mai
quanto bene avresti fatto per loro.
Obama è riuscito a sciogliere questo dilemma apparentemente insolubile. Secondo la
documentazione della FEC, per la campagna delle primarie (al 30 giugno 2008), Obama
ha raccolto la cifra record di $339.201.999. Compresi i fondi per l’elezione generale, ha
raccolto un totale, per entrambe le elezioni, di $744.985.655. In netto contrasto, la
campagna inizialmente ben finanziata di Hillary Clinton ha raccolto $233.005.665 (esclusi
i prestiti ma compresi $10.000.000 dei fondi personali di Clinton). In paragone, John
Kerry aveva raccolto $233.985.144 e George Bush $258.939.099 nel corso dell’intera
stagione delle primarie del 200417. Questo nonostante il fatto che, a differenza di Hillary,
Obama non ha voluto accettare denaro dai lobbisti registrati a livello federale. È arrivato al
punto di restituire $50.000 in contributi passati di straforo. Ha accettato invece i contributi
di lobbisti registrati a livello di stato. Obama ha rifiutato anche il denaro delle Political
Action Committees (PAC), ma ha accettato quello dei dipendenti di corporation e altre
imprese che impiegano lobbisti. Eppure, secondo il Center for Public Integrity, Obama ha
ricevuto finanziamenti significativi tramite raccoglitori di donazioni (anche se ne ha
pubblicato i nomi online nell’interesse della trasparenza). Un’analisi di 328 fundraiser
della sua campagna, che hanno raccolto somme dai $50.000 ai $200.000, rivela che hanno
portato almeno 31,65 milioni di dollari, circa l’11,9 per cento del totale degli oltre 265
milioni raccolti al 31 aprile 2008. Di questi 328, 78 hanno portato alla campagna circa
15,6 milioni di dollari – almeno il 5,8 per cento del totale dei fondi (Ginley, 2008).
Fatto sorprendente, Obama si è rivelato anche il candidato preferito tra i gestori degli
hedge fund, secondo un rapporto del Center for Responsive Politics (2008b). Secondo le
interviste a questi manager condotte dal New York Times, se Obama non è il candidato
naturale per il big business, offre però una cosa di cui la Clinton non dispone: potenzialità
di accesso (Sorkin, 2008). A differenza della cerchia interna della Clinton, che è in attività
da tempo, Obama, da nuovo arrivato, offre un’opportunità a chi è relativamente nuovo nei
circoli economici di farsi strada nella sfera politica. Questo potrebbe essere sorprendente,
dato che tanto Obama quanto la Clinton sono favorevoli a un aumento del prelievo fiscale
sui profitti degli hedge fund e dei private equity funds dal 15 al 35 per cento. Comunque, a
parte la spiegazione ovvia dell’atteggiamento opportunistico di chi va dove soffia il vento,
va ricordato che questi non sono contributi che vengono dalle aziende, ma da individui che
gestiscono o lavorano per queste imprese finanziarie, le cui donazioni potrebbero o meno
essere state raccolte in «pacchetti». Questa è in pratica un’indicazione del vasto richiamo
esercitato da Obama sulla classe istruita dei professionisti. Puoi essere un banchiere
d’investimento, ma voler ugualmente mettere fine alla guerra in Iraq. Anzi, le menti
migliori nel settore finanziario sono convinte del danno apportato alla stabilità economica
globale, a partire dai prezzi del petrolio, dalla sconsiderata politica estera
dell’amministrazione Bush. In altre parole, il metro di misura fondamentale
dell’indipendenza di una candidatura è la distanza dalle lobby di Washington perché le
loro donazioni sono direttamente o indirettamente legate alle decisioni politiche.
Il retroterra di classe dei donatori offre interessanti informazioni ma non può essere
assunto come un indicatore del dominio degli interessi di classe su un futuro presidente.
Certo nessuno, neppure Obama, conta di sfidare il capitalismo negli USA, e nemmeno, per
il momento, nel mondo in generale. Ma nel quadro del capitalismo, esiste un ampio
ventaglio di opzioni politiche, ed è improba-bile che questo ventaglio sia stato ristretto per
Obama dalla prove-nienza delle donazioni per la sua campagna. Questo dipende
fondamentalmente dal fatto che, pur considerando la diversificazione di queste donazioni,
come riportato, fino all’88 per cento dei fondi totali ricevuti da Obama per la campagna
delle primarie è venuto direttamente da donazioni individuali (il rimanente 12 per cento
proveniva da pacchetti di donazioni), arrivate da oltre un milione e mezzo di donatori
individuali (dati ufficiali della campagna). Per circa il 47 per cento queste donazioni
erano inferiori ai $200 e per il 76 per cento erano inferiori ai $2000 (Federal Election
Commission, 20 giugno 2008). Viceversa, il 39 per cento dei contributi per Hillary Clinton
e il 41 per cento di quelli di John McCain erano dai $2000 in su18.
Come è riuscita la campagna di Obama a raccogliere questa quantità di denaro senza
precedenti per sostenere il suo progetto politico? Un fattore chiave è l’abile uso di Internet
per la raccolta dei fondi. Anche se i dati non sono conclusivi, le stime sulla proporzione
delle donazioni arrivate attraverso Internet rispetto al totale vanno dal 60 al 90 per cento.
Questo corrisponde a una media del 6 per cento degli americani che effettuano donazioni a
una varietà di cause in Internet. La maggior parte di quelle donazioni venivano da piccoli
donatori che hanno versato piccole somme ripetutamente lungo tutta la durata della
campagna, senza raggiungere il limite massimo di $2300 per persona, e che potevano
quindi reagire prontamente all’evoluzione della campagna in base alle richieste e alle
informazioni presentate sul sito web di Obama. Un rapporto di Norman Ornstein (2008)
sui finanziamenti a Obama rileva che:

Disporre di una base di piccoli donatori tramite un processo incredibilmente poco


costoso da gestire, con costi di raccolta che vanno dai 5 ai 10 centesimi di dollaro
(rispetto ai 95 centesimi per la posta diretta) libera Obama dal tempo da dover
dedicare ai numerosi eventi di raccolta fondi e dalla fatica di fare migliaia di
telefonate a potenziali donatori (Naturalmente al tempo stesso Obama non ignora i
donatori da $2300 e i raccoglitori di pacchetti di donazioni, che potrebbero dargli
maggior fuoco di sbarramento nel corso del resto della campagna. Ma certamente
passerà molto meno tempo di McCain a corteggiare i donatori).
Però la questione più importante, ovviamente, era l’esistenza di un movimento popolare
molto ampio dietro la candidatura di Obama, con migliaia di attivisti impegnati e
letteralmente milioni di attivi sostenitori. Il sito web My.BarackObama.com contava circa
15 milioni di membri nel giugno 2008, anche se, naturalmente, gli iscritti venivano da
tutto il mondo19. Il punto è esattamente questo: l’attrattiva di Obama si estende al di là dei
confini degli Stati Uniti. Così, è stata l’esistenza del movimento ciò che ha permesso a
Obama di limitare notevolmente, se non di eliminare, l’influenza dei gruppi di interesse
nella sua campagna. E questa indipendenza attingeva al più grande supporto da parte dei
suoi entusiasti sostenitori, in un circolo virtuoso che lo ha sospinto fino alla nomination
democratica. Come si è generato questo supporto? Perché gente di così diversa
provenienza sociale ed etnica si è mobilitata in numeri senza precedenti e con un’intensità
assolutamente inusitata per Barack Obama?
Il messaggio e il messaggero
Consideriamo, innanzitutto, le emozioni, la materia di cui è fatta la politica (vedi capitolo
3). Secondo un Pew Study condotto nel marzo 2008, i punti di vista dei bianchi su Obama
sono influenzati più da come lui li fa sentire che dalle caratteristiche specifiche che gli
elettori gli attribuiscono. I democratici bianchi che affermano che Obama suggerisce loro
sentimenti di speranza e orgoglio gli attribuiscono voti più alti. E, dei tratti personali
proposti dal questionario, ispiratore è quello più di ogni altro associato con la percezione
del senatore dell’Illinois (vedi tabella 5.3; Pew, 2008b).
Mi concentrerò su Obama, anziché commentare Hillary. Le risultanze fondamentali qui
sono che le emozioni più importanti nell’indurre un’opinione positiva su Obama sono: a)
il messaggio che arriva da lui è fonte d’ispirazione; e b) il destinatario del messaggio
prova un sentimento di speranza. Questo è il nucleo centrale del messaggio della
campagna di Obama: speranza accoppiata a cambiamento. Sì, il cambiamento è
necessario, ma la speranza è l’emozione trainante. È l’emozione, questa, che secondo le
ricerche sulla cognizione politica (vedi capitolo 3), stimola l’entusiasmo per il candidato.
Solo a condizione di avere speranza il cambiamento diventa un «cambiamento in cui
possiamo sperare» perché il messaggero dà credibilità al messaggio, non necessariamente
per le credenziali di cui dispone ma per la capacità di ispirare speranza e fiducia
(sincerità). In effetti, la contesa tra Obama e Hillary è stata definita, fin dall’inizio della
campagna, dall’opposizione tra cambiamento ed esperienza (vedi tabella A5.4 in
Appendice) e tra speranza e soluzioni (Comella e Mahoy, 2008). Hillary scommetteva che
la gente avrebbe apprezzato la sua esperienza («pronta fin dal Giorno 1») e la sua capacità
di trovare soluzioni ai problemi. Questa strategia rientrava bene nel quadro tradizionale
delle caratteristiche della politica razionale dei democratici negli Stati Uniti e della sinistra
nel mondo (Lakoff, 2008). In pratica, in termini politici, le differenze tra Obama e Hillary
erano minime, salvo il fondamentale contrasto nella posizione presa nel 2002, contro
(Obama) e a favore (Hillary) della guerra in Iraq. Ma anche questa differenza era sparita al
tempo della campagna elettorale (vedi tabella A5.5 in Appendice). In effetti, lo stesso
sondaggio Pew del marzo 2008 mostrava che il 65 per cento dei democratici non credeva
che Obama e la Clinton avessero posizioni diverse sulla questione (Pew, 2008b, p. 16). Il
contrasto critico era tra l’approccio di Hillary agli elettori, che si proponeva con un buon
curriculum alle spalle per il lavoro svolto, rispetto al messaggio di speranza di Obama, che
poneva la possibilità di cambiamento nelle mani della gente stessa. Hillary liquidava la
superiore capacità retorica di Obama come «sono solo parole». In realtà, le parole
contano. O piuttosto, le immagini indotte nella nostra mente dalle parole, in un contesto di
formazione della decisione di chi votare, contano moltissimo. Noi viviamo delle parole e
delle metafore che esse costruiscono (Lakoff e Johnson, 1980). E così la speranza alla fine
si è annidata nella mente e nell’anima di milioni di persone che sognavano il cambiamento
dopo la paura del terrorismo, e la paura impressa su di loro dalla guerra al terrore.
Speranza, non paura. Questo è ciò che alla fine si è tradotto nella più attiva partecipazione
a una campagna politica della storia recente.
TAB. 5.3. Percezioni che condizionano l’opinione dei votanti democratici sui due candidati alle primarie

Effetto favorevole per


Consideri la persona… Obama Clinton
Ispiratrice 0,43 0,14
Onesta 0,35 0,37
Patriottica 0,34 0,30
Alla mano 0,23 0,31
Antipatica −0,25 −0,08
Falsa −0,38 −0,50

Ti ha fatto sentire…
Speranza 0,62 0,46
Orgoglio 0,58 0,34
A disagio −0,19 −0,28
Rabbia −0,21 −0,28
2
R 0,60 0,51

Questa tabella contiene coefficienti di regressione non standardizzati per l’effetto di ciascun tratto o emozione sul
giudizio di preferibilità dei candidati da parte di votanti democratici o di tendenze democratiche.
Fonte: Pew (2008b, p. 3).
FIG. 5.5. Disponibilità a votare per un candidato afroamericano, 1958-2007 (Domanda: Se il tuo partito candidasse alla
presidenza una persona ben qualificata, che fosse afroamericana, voteresti per quella persona?).
Fonte: Gallup Organization.

Un fatto interessante è che i dati presentati nella tabella 5.3 si riferiscono alle opinioni
degli elettori bianchi. Dov’è finita la razza nella politica americana? Obama ha trasceso
davvero le iniquità di razza semplicemente evocando la composizione unitaria della sua
famiglia e della sua famiglia estesa, una nuova America comunitaria? In effetti, si è
avvantaggiato di un lungo processo di adeguamento culturale alle realtà di una società
multietnica. Come illustra la figura 5.5, l’approvazione degli americani di un presidente
afroamericano è arrivata praticamente a toccare il livello massimo possibile. A paragone,
nel 2007 solo l’88 per cento degli americani dicevano di essere pronti a votare per un
candidato donna alla presidenza, e solo il 72 per cento avrebbe votato un candidato
mormone (Jones, 2007b). Tuttavia l’effetto Bradley20 ha ancora una sua validità, anche se
gli studi compiuti dal Pew Project Research Center lasciavano intendere che questo trend
stava per cambiare nel 2008:

L’analisi dei conteggi alle primarie e i dati dei sondaggi delle primarie iniziali,
compresi quelli svolti prima e in occasione del Supermartedì (5 febbraio), indicavano
che i sondaggi preelettorali esageravano effettivamente il supporto per il senatore
Barack Obama in tre stati con popolazioni nere relativamente poco numerose – New
Hampshire, California e Massachusetts. Ma il contrario valeva per il South Carolina,
l’Alabama e la Georgia, dove i neri costituiscono un blocco ben più vasto di votanti. I
dati rilevati in South Carolina, Alabama e Georgia ci hanno fatto pensare che ci
trovavamo in presenza di un effetto Bradley «rovesciato», ossia che negli stati con
popolazioni afroamericane relativamente numerose, i sondaggi pre-primarie
tendevano a sottostimare il sostegno per Obama (Greenwalt, 2008).
Parks e Rachlinski (2008) affermano che:

Anche se il senatore Obama abbraccia apertamente il fatto che è un nero, lo fa in


modo che non allarma eccessivamente i bianchi. Spesso ricorda che se il padre era
del Kenya, la madre era una bianca del Kansas. Non esita a strigliare i neri e la
comunità nera su determinati temi. Per esempio, ha parlato chiaro sulla assenza dalle
famiglie nere della figura paterna, sull’idea che circola tra alcuni neri che il successo
negli studi è «bianco», e contro l’antisemitismo e l’omofobia presenti nella comunità
nera. Il senatore Obama, però, non fa frequenti commenti sulle questioni di razza o
sul suo essere nero, in particolare davanti a un pubblico bianco. Di conseguenza, la
disponibilità che ha costruito tra i bianchi non viene subito erosa. È riuscito persino
ad abbracciare uno stereotipo sui neri in modo simpatico e disarmante quando ha
affermato scherzando che non sapeva se Bill Clinton fosse davvero il primo
presidente nero, perché non aveva ancora avuto l’occasione di vederlo ballare (2008,
p. 14).
In sintesi, anche se probabilmente il razzismo latente è più di quanto mostrino i sondaggi,
e il fattore razza è ancora presente nelle elezioni americane, la candidatura di Obama ha
tratto vantaggio dal graduale cambiamento di mentalità delle nuove generazioni
americane, mentre il suo messaggio di speranza ha allargato il sentiero per un insolito
messaggero presidenziale. Eppure, per mettere in atto il suo messaggio, ha dovuto trovare
un modo operativo per raggiungere la gente e mobilitare la sua speranza. Questo modo lo
ha trovato nella sua terra di adozione, la Città Ventosa.
Le radici chicagoane di Obama: Alinsky for President
La chiave del successo nella strategia della campagna elettorale di Obama è stata la sua
capacità di tradurre nel contesto di Internet il modello americano classico di
organizzazione di comunità, come elaborato mezzo secolo fa da Saul Alinsky a Chicago.
Facendo di Internet la sua base popolare e mettendo in rete la sua base popolare, Obama,
che aveva fatto il suo apprendistato di organizzatore sociale nelle strade del South Side di
Chicago, ha probabilmente inventato un nuovo modello di mobilitazione che potrebbe
essere uno dei suoi lasciti politici più duraturi. All’epoca in cui Obama si trasferì a
Chicago, Alinsky era già deceduto21. Ma alcuni suoi discepoli accolsero Obama nel loro
gruppo, e lo assunsero per dirigere il Developing Communities Project (DCP),
un’iniziativa mirante a registrare elettori nel South Side di Chicago. Fu qui che adottò il
«metodo Alinsky» della pratica organizzativa sociale basata, tra le altre tecniche, sulla
conquista della fiducia della comunità attraverso conversazioni uno a uno. Il compito
dell’organizzatore è tirar fuori le storie della gente, ascoltarne gli obiettivi e le ambizioni.
Obama anzi insegnò questo metodo nei suoi corsi alla Law School della University of
Chicago. Come direttore del DCP, Obama contribuì a costruire e guidare una piccola rete
di gruppi di base che si battevano per ottenere migliori campi da gioco, una raccolta dei
rifiuti più efficiente, e la rimozione dell’amianto dagli alloggi dell’edilizia pubblica. È
stato durante questo periodo al DCP, come Obama spiegò in occasione dell’annuncio della
sua campagna presidenziale, «che ho ricevuto la migliore educazione che avessi mai
avuto, ed è stato lì che ho imparato il vero significato della mia fede cristiana» (cit. in
Slevin, 2007, Appendice 1). Candidandosi per la prima volta nel 1995, Obama
riecheggiava gli insegnamenti di Alinsky quando dichiarò al Chicago Reporter:

È tempo che i politici e altri leader compiano il passo successivo e vedano gli elettori,
i residenti e i cittadini come produttori di questo cambiamento. Cosa succederebbe se
un politico vedesse il proprio lavoro come quello di un organizzatore, in parte
insegnante e in parte avvocato, uno che non imbroglia gli elettori ma li educa sulle
scelte reali di cui dispongono? (cit. in Slevin, 2007, appendice 1).
Anche se a The New Republic dichiarò che «Alinsky sottovalutava il grado in cui le
speranza e i sogni della gente, i suoi ideali e valori avessero per l’organizzazione non
minore importanza che l’interesse personale» (Lizza, 2007), questa è probabilmente una
salutare correzione al pragmatismo di Alinsky. Ed è una tendenza specifica della politica
di Obama quella di mescolare l’entrare in contatto con i sogni della gente alla sostanza di
fondo dell’organizzazione di base.
Alcuni degli organizzatori chiave di Obama erano veterani, induriti dalle lotte di strada,
provenienti dalle reti di Alinsky. Temo Figueroa era National Field Director di Obama e
antico organizzatore sindacale. Obama arruolò anche Marshall Ganz – ex organizzatore
dello Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC) e ora professore a Harvard e
uno dei maggiori teorici e pratici del paese nel campo dell’organizzazione sociale – perché
lo aiutasse nella formazione di organizzatori e volontari: una componente chiave della sua
campagna presidenziale. Ganz fu fondamentale nello strutturare l’esperienza di
addestramento dei volontari. Molti volontari della campagna di Obama passarono giorni di
intense sessioni di formazione, il cosiddetto «Camp Obama». Le lezioni erano tenute da
Ganz e altri esperti organizzatori, tra cui Mike Kruglik, uno dei mentori di Obama a
Chicago per l’organizzazione. Ai potenziali organizzatori sul campo veniva delineata la
storia delle tecniche dell’organizzazione di base, e suggerite le lezioni chiave da trarre
dalle campagne che avevano avuto successo o erano fallite (Dreirer, 2008). Nell’estate del
2008, la campagna lanciava il programma Obama Organizing Fellows per addestrare gli
studenti universitari nelle tattiche organizzative. Secondo Dreier22 (2008),

rispetto ad altre operazioni politiche, la campagna di Obama ha incarnato molte delle


caratteristiche di un movimento sociale – l’appello emancipatore a una società
migliore, il coniugare la trasformazione individuale con quella sociale. Questo è
dovuto non solo allo stile retorico di Obama, ma anche all’arruolamento nella sua
campagna di centinaia di stagionati organizzatori provenienti da sindacati, gruppi di
base, chiese, gruppi pacifisti e ambientalisti. Questi, a loro volta, hanno mobilitato
migliaia di volontari – molti dei quali erano neofiti della politica elettorale – in
squadre compatte, altamente motivate ed efficienti.
Mentre la linea di discendenza di Obama da Alinsky è facile da individuare, la sua
relazione con la macchina politica di Chicago è meno chiara, pur essendo un frequente
argomento dei commenti di analisti ed esperti. Internet è piena di speculazioni su accordi
illeciti sottobanco tra la macchina politica di Daley e Obama. Ma il rapporto di Obama
con i Daley è relativamente recente e sembra sia iniziato solo dopo che lui si è dimostrato
un candidato credibile e carismatico, anche se Axelrod, lo stratega capo di Obama, è stato
il responsabile della strategia delle relazioni pubbliche del sindaco di Chicago Richard
Daley, e il portavoce che andò in televisione per difendere il sindaco dalle accuse di
corruzione. I Daley (Richard e Bill) avevano sempre appoggiato gli avversari di Obama
fino alle elezioni generali per il Senato del 2004 (Avevano appoggiato lo State
Comptroller Dan Hynes nelle elezioni primarie. Hynes è figlio di Tom Hynes, esponente
di lunga data della macchina politica dei democratici). Ma poche ore prima che Obama
dichiarasse la propria candidatura, il sindaco Richard M. Daley annunciò il suo appoggio
ufficiale di Obama contro la Clinton: era solo la seconda volta che aveva deciso di
appoggiare un candidato alle primarie democratiche nei suoi 17 anni come sindaco. Nello
stesso periodo, suo fratello Bill Daley entrava nella campagna di Obama come consigliere
anziano. Obama quindi appoggiò la candidatura del sindaco Daley per la rielezione nel
gennaio 2007, dichiarando,
Non credo che ci sia una città in America che abbia conosciuto la fioritura che ha
avuto Chicago nell’ultimo ventennio – e questo in gran parte è dipeso dal nostro
sindaco. Ha anche una reputazione nazionale, ben meritata… di persona innovativa,
di persona dura, di persona disposta a prendere decisioni difficili, di persona che
pensa costantemente a come rendere migliore la città (cit. in Spielman, 2007).
In altre parole, Obama, astro nascente della politica nazionale in Illinois, stringeva
un’alleanza strategica con la macchina politica di Chicago, ma non ne entrava a far parte.
Tra parentesi, gli esperti di studi urbani concordano generalmente nella valutazione che le
politiche di Richard Daley a Chicago siano effettivamente tra le più riuscite degli Stati
Uniti. Può darsi che la leggenda della macchina politica di Chicago, basata sul lungo
regno del sindaco Daley, il sindaco di Chicago per antonomasia, e padre di Richard e Bill,
sia sopravvissuta alla realtà odierna, in quanto negli ultimi vent’anni Chicago ha
trasformato profondamente il proprio tessuto sociale e politico.
Internet come base sociale: il vantaggio competitivo di Obama
Nei primi anni del XXI secolo, negli USA come nel resto del mondo, i politici sono stati
restii ad affidare a Internet la sorte delle loro campagne elettorali (Sey e Castells, 2004). In
effetti, nel suo studio già classico, Bimber (2003) ha mostrato la limitata influenza
dell’uso di Internet sui comportamenti politici, con l’importante eccezione di
un’accresciuta volontà di elargire donazioni a un candidato. Tuttavia, la campagna per le
primarie presidenziali del 2003-2004 di Howard Dean, un caso frustrato di politica
insorgente, mostrava la potenzialità di Internet se accoppiata con uno sforzo di
mobilitazione della base popolare grossroots mobilization. Mostrava anche i limiti di
Internet rispetto al più ampio impatto dei media tradizionali sulle campagne politiche (Sey
e Castells, 2004).
Potrebbe ben darsi, però, che come per altre questioni relative all’uso di Internet, sia
troppo presto per valutare il suo impatto reale, considerando che solo ora che il decennio
si sta chiudendo, la nuova generazione, quella cresciuta con Internet, sta raggiungendo la
maggiore età, e che la diffusione dell’utilizzo della rete ha reso solo di recente Internet un
mezzo di comunicazione mainstream. Nel giugno del 2008, infatti, secondo un Pew
Survey su un campione nazionale, il 46 per cento degli adulti statunitensi usavano e-mail o
SMS per ricevere informazioni sulla campagna o per discutere di informazioni relative
alla campagna riguardo alle elezioni presidenziali (Smith e Rainie, 2008, p. I). Online i
democratici battevano i repubblicani in consumo di video (51 per cento contro 42 per
cento). Inoltre, i democratici erano in misura significativa più avanti come profile creators
nei siti di social networking: il 36 per cento di democratici online aveva di questi profili,
rispetto al 21 per cento dei repubblicani e al 28 per cento degli indipendenti. Il salto
maggiore nell’uso di Internet era tra gli elettori inferiori ai 50 anni. Per gli elettori oltre i
50, c’è stato solo un piccolo incremento rispetto al 2004. Comunque, il 60 per cento degli
intervistati dalla Pew, riteneva che Internet è pieno di disinformazione e propaganda a cui
troppi elettori danno credito (Smith e Rainie, 2008, p. III).
Forse il trend più significativo è il potenziale offerto all’interazione politica online
dall’esplosione dei siti di social networking. Un utente di Internet su tre ha un profilo su
un sito di social networking, come Facebook o MySpace, e il 40 per cento di questi (che
rappresentano il 10 per cento di tutti gli adulti) hanno usato questi siti per dedicarsi a un
qualche tipo di attività politica. Seguendo la natura conversazionale del dibattito politico
online, la più comune di queste attività è il semplice atto di scoprire gli interessi personali
o le affiliazioni politiche dei propri amici – il 29 per cento degli utenti di social
networking lo ha fatto, rispetto a uno su dieci che si è iscritto come amico di uno o più
d’uno dei candidati o ha lanciato un gruppo politico o vi ha aderito. Più di un terzo dei
democratici online (il 36 per cento) ha il profilo su un sito di social networking, una
percentuale notevolmente più alta dei dati confrontabili tanto per i repubblicani (21 per
cento) quanto per gli indipendenti (28 per cento; Smith e Rainie, 2008, p. III). Caricare e
guardare video con una qualche relazione con il contesto politico sta diventando una
forma diffusa di espressione politica, in particolare per il segmento giovane degli utenti di
Internet (vedi tabelle 5.2 e 5.4).
TAB. 5.4. Percentuale di utenti di Internet, per fasce d’età, che sono spettatori o creatori di video politici online

n = 1553; margine di errore +/–3%.


Fonte: Pew Internet and American Life Project, Spring Survey (2008); tabella riprodotta da Smith e Rainie (2008, p.
10).

Tuttavia, in termini di uso generale di Internet, c’è una notevole differenza nella
frequenza e intensità dell’attività online in dipendenza da caratteristiche sociali, e anche in
questo caso il fattore età è la principale fonte di differenziazione. Mentre il 58 per cento
del gruppo 18-29 anni usava Internet per scopi politici, solo il 20 per cento degli utenti con
più di 65 anni faceva altrettanto (vedi tabella A5.6 in Appendice).
Nell’uso di Internet per scopi politici nel 2008, i sostenitori di Obama erano
considerevolmente più attivi dei sostenitori di ogni altra campagna politica. Questo è in
parte funzione dell’età, come ho mostrato a proposito del considerevole vantaggio di
Obama su altri candidati nel gruppo di popolazione più giovane, ma vale anche
trasversalmente per tutti i gruppi di età. Secondo il sondaggio Pew della primavera 2008
su «Internet and American Life»23, tra i democratici, i sostenitori di Obama erano
tendenzialmente più portati dei sostenitori della Clinton a essere utenti di Internet (82 per
cento contro 71 per cento), probabilmente in funzione dell’età e del livello di istruzione.
Ma anche tra gli utenti di Internet di entrambi i campi, i sostenitori di Obama erano
attivamente impegnati online più dei sostenitori della Clinton – tre quarti dei sostenitori di
Obama (74 per cento) raccoglievano notizie e informazioni politiche online, rispetto al 57
per cento dei sostenitori della Clinton. Tra i democratici online, i sostenitori di Obama
mostravano una maggiore tendenza di quelli di Clinton a effettuare contributi online per la
campagna (17 per cento contro 8 per cento), a firmare petizioni online (24 per cento
contro 11 per cento), a inoltrare commenti politici sui blog e in altre forme (23 per cento
contro 13 per cento) e a guardare video di ogni genere relativi alla campagna (64 per cento
contro 43 per cento). I sostenitori di Obama avevano anche una maggiore tendenza di
quelli di McCain a impegnarsi nella attività online della campagna online. La tabella 5.5
mostra che i sostenitori di Obama erano utenti di Internet molto più intraprendenti di
quelli di Clinton.
TAB. 5.5. Percentuale di sostenitori di Obama e Clinton fra consumatori forti di contenuto politico online

Obama supporters (n = 284) Clinton supporters (n = 232)


Ha guardato discorsi e annunci 45 26
Ha guardato spot elettorali 41 31
Ha guardato interviste al candidato 41 26
Ha guardato dibattiti col candidato 36 23
Ha guardato video non ufficiali 34 23
Ha fatto una o più di queste cose 64 43

n = 516; margine di errore +/–5%. Tutte le differenze tra i sostenitori di Obama e di Clinton sono statisticamente
significative.
Fonte: Pew Internet and American Life Project, Spring Survey (2008); tabella riprodotta da Smith e Rainie (2008, p.
13).

Il seguito su Internet spiega anche la molto maggior inclinazione della campagna


Obama a spendere denaro nei media di Internet rispetto agli altri candidati. Secondo il
Center for Responsible Politics (2008a), le spese per i media di Obama al luglio 2008
erano le seguenti: media radiotelevisivi, $91.593.186; media della carta stampata,
$7.281.443; media di Internet, $7.263.508; media miscellanei, $1.139.810; consulenti
mediatici, $66.772. In netto contrasto con Obama, a tutto il mese di luglio 2008 la Clinton
aveva investito solo 2,9 milioni di dollari, e McCain 1,7 milioni di dollari nei media di
Internet.
È chiaro dunque che la campagna di Obama superava ogni campagna politica
precedente nel ricorso a Internet come strumento di mobilitazione politica, non solo negli
Stati Uniti ma nel mondo in generale. Obama for America ha usato Internet per
disseminare informazioni, per impegnarsi in un’interazione politica nei siti web di social
networking, per collegare questi siti con i siti della campagna di Obama, per avvertire i
sostenitori di attività nella loro zona, per fornire controargomenti alle voci negative
circolanti in Internet, per alimentare i media mainstream, per alimentare i dibattiti nella
blogosfera, per stabilire un rapporto costante, personalizzato con milioni di sostenitori, e
per offrire un metodo facile e affidabile per le donazioni individuali a sostegno della
campagna. Facendo affidamento sulla giovane età, l’istruzione e la relativa familiarità con
Internet del nucleo centrale dei suoi sostenitori, la campagna di Obama ha dimostrato la
straordinaria potenzialità politica che ha Internet quando viene trasformato da manifesto
pubblicitario tradizionale in medium interattivo che punta a stimolare la partecipazione
politica. Internet ha fornito una utilissima piattaforma per mobilitare quelli che ambivano
al cambiamento, e quelli che hanno creduto nel potenziale di Obama per far scaturire tale
cambiamento.
Mobilitarsi per il cambiamento nell’Età di Internet
Il successo della campagna di Obama è stato attribuito alla sua capacità di incorporare
nuovi attori politici in gran numero e di stimolarne la partecipazione attiva. Questo, in
effetti, è il tratto chiave della politica insorgente. Tra le altre strategie, la campagna ha
ideato numerose tattiche di mobilitazione degli elettori, tra cui:
1. My.BarackObama.com, che aveva circa 15 milioni di membri.
2. Vote for Change, una iniziativa di registrazione al voto nei 50 stati.
3. Obama Organizing Fellows: organizzazione di volontariato per formare studenti di
college nelle tattiche di mobilitazione a favore della campagna.
4. Centralized Funding Technology: la campagna di Obama ha richiamato oltre 1,5
milioni di donatori individuali, più di ogni altra campagna nella storia. Il suo sistema di
donazioni era computerizzato e centralizzato, così che il personale della campagna aveva a
portata di mouse l’accesso ai dati demografici, nomi, indirizzi, occupazioni, profilo delle
donazioni e dei comportamenti dei social networking. La sua rete di donatori era anche
così vasta da metterlo in grado di scavalcare Actblue24, diventando così più autosufficiente
quanto al suo database politico.
La campagna di Obama ha tratto vantaggio dalla combinazione di due fattori
importanti: la centralizzazione della raccolta di fondi e della raccolta dati, e la
localizzazione delle tattiche di mobilitazione. Ha tratto vantaggio dal micro-targeting dei
votanti tramite quello che il suo direttore di campagna, David Plouffe, ha definito un
«esercito di persuasione», oltre che da un sistema centralizzato di comunicazione e
raccolta di denaro grazie al quale poteva mobilitare l’intera base elettorale o suoi settori
specifici. L’infrastruttura gli ha permesso di lavorare al di fuori dei confini delle strutture
tradizionali del partito (ha costruito un sistema di raccolta dati alternativo alle banche dati
Demzilla e Datamart dei democratici, pur mantenendo l’accesso anche a quelle risorse).
Inoltre, usando tecniche di organizzazione di base e reti di volontariato locali, poteva
confezionare i messaggi in base alle esigenze di ogni specifica comunità. Per molti versi,
questo processo si presenta come una risposta alla «72-Hour Task Force» dello stratega
repubblicano Karl Rove e all’uso delle tecniche di MLM (Multi-Level Marketing; vedi
capitolo 4).
In generale, il messaggio sembra essere che, nella politica americana, gli elettori
desiderano la connessione personale e la specializzazione di messaggi che si rivolgono ai
loro personali interessi. Tuttavia, la novità della campagna di Obama consisteva nel
collegare gente e comunità tra loro, centralizzando le conoscenze su quelle comunità,
contribuendo a coordinare la loro strategia e usando la capacità di Internet di essere al
tempo stesso locale e globale, interattiva e centralizzatrice. Ha potuto farlo perché lui e la
sua linea avevano portato nel regno della politica una nuova generazione che
probabilmente gli storici chiameranno – indipendentemente dalla sorte di Obama – la
Generazione Obama.
Generazione Obama
In seguito ai primi caucus, Time Magazine proclamò il 2008 Anno del voto giovanile (Von
Drehle, 2008). Von Drehle (2008) rileva che:
Mentre entusiasti democratici di tutte le età hanno prodotto un aumento del 90 per
cento nell’affluenza alle urne per i primi caucus [nello Iowa], il numero di elettori
giovani è risultato superiore di un’altra metà: il 135 per cento. I ragazzi hanno
preferito Obama al concorrente immediatamente successivo per più di 4 a 1. La fetta
più giovane – la fascia dei minori di 25 anni, tipicamente i votanti più sfuggenti in
tutta la politica – ha dato a Obama un guadagno netto di circa 17.000 preferenze. Ha
vinto con poco meno di 20.000 voti.
È vero che il messaggio e lo stile (e l’età) di Obama si adattano bene alla mentalità aperta
della nuova generazione, ma la connessione tra lui e i giovani votanti non è frutto del caso.
All’inizio della sua campagna imbarcò diverse persone dotate di esperienza nella
mobilitazione del voto giovanile, come Hans Riemer, di Rock the Vote, che coordinava le
iniziative del voto giovanile di Obama; e Chris Hughes, cofondatore di Facebook, che
coordinava i suoi gruppi di social networking e ha contribuito a realizzare
My.BarackObama.com. Hughes si mise in congedo da Facebook con una significativa
riduzione salariale per lavorare a tempo pieno per la campagna di Obama, ed è considerato
da molti la principale ispirazione alla base delle strategie di networking di Obama. Il
nuovo capo dei media era Joe Rospars, che aveva fatto l’autore e lo stratega per la
campagna di Dean prima di dedicarsi a fondare Blue State Digital (una società
multimediale che progetta campagne sul web per i candidati democratici, compreso Dean
e il suo DNC). La competenza informatica di questi e altri sostenitori di Obama si mise
subito in luce: nel primo mese della sua esistenza (febbraio 2007), il sito di social
networking di Obama raggiunse le 773.000 visite uniche; a confronto, McCain (il più
incline alla tecnologia della rete tra i candidati repubblicani) contò 226.000 presenze nel
suo sito web (Schatz, 2007).
Tuttavia, una campagna elettorale che si basa su Internet è sostanzialmente una
campagna libera, e quindi gli strateghi politici di ogni campagna, quella di Obama
compresa, devono tener conto dei pericoli dell’autonomia esercitata da quelli che si
trovano all’esterno delle strutture ufficiali della campagna. Un episodio può aiutare a
illustrare queste tensioni. Quando Obama si assicurò per la prima volta il seggio del
Senato per l’Illinois nel 2004, Joe Anthony, un ventinovenne assistente di studio legale di
Los Angeles, lanciò una pagina su MySpace per Obama. Il rudimentale profilo conteneva
le informazioni biografiche di Obama e qualche foto. Nel corso degli anni, però, decine di
migliaia di utenti di MySpace aggiunsero Obama come loro amico. Quando Obama lanciò
ufficialmente la sua campagna, il profilo decollò. Chris Hughes (vedi sopra) contattò
Anthony chiedendogli di ampliare nel profilo il ruolo della campagna. Ma con il crescere
del numero dei visitatori, i responsabili della campagna cominciarono a preoccuparsi della
mancanza di controllo che avevano sul sito e del fatto che questo potesse violare le
limitazioni stabilite dalla FEC sui contributi in natura ai candidati politici (Schatz, 2007).
Sul suo blog (su My.BarackObama.com), Joe Rospars (2007) esprimeva la sua
apprensione: «E se qualcuno postasse un commento osceno durante il giorno, mentre Joe è
al lavoro?» (cit. anche da Schatz, 2007). Quando le trattative con Anthony arrivarono a un
punto morto, i responsabili della campagna contattarono direttamente MySpace per far
chiudere il sito su Obama di Anthony, così perdendo 160.000 «amici». Da allora al luglio
2008 quel numero è risalito a oltre 418.530 amici. La decisione del team elettorale di
tagliare la pagina di Anthony fu criticata da molti attivisti online. Anthony annunciò il
ritiro del suo appoggio, protestando, «Noi non siamo una lista di nomi e nemmeno
pubblicità a basso costo. Siamo esattamente la gente comune di cui parlate, e usiamo
Internet per cercare di cambiare il mondo» (cit. in Schatz, 2007). E così questo è il reale
processo di cambiamento, che libera la forza di Internet e degli spiriti indipendenti,
cercando nel frattempo di tenerla sotto controllo in base alle realtà politiche.
L’influenza di Obama sui giovani, pur derivando da profonde tendenze culturali e
sociali, fu incoraggiata dall’abile uso da parte della campagna della politica dei video e
della cultura pop. Questo in parte è legato all’appoggio ricevuto da Obama da un folto
gruppo di star del cinema, del rock e dell’hip-hop (per esempio, will.i.am [sic] dei Black
Eyed Peas, John Legend, George Clooney, Jennifer Aniston, Will Smith, Nick Cannon,
Jessica Biel, Nas, Jay Z. e molti altri). Ponendosi quanto più possibile come figura politica
iconoclastica, Obama riuscì ad aggregare i trend controculturali che sono alla fonte della
creatività nell’industria dell’intrattenimento. Inoltre, data l’importanza dei musicisti
afroamericani alla frontiera dell’hip-hop, il richiamo di Obama trovava un ambiente
ricettivo tra persone che sono, in molti casi, «ribelli senza una causa». Abbracciando
Obama, consolidavano una connessione con la cultura giovanile, connettendo al tempo
stesso Obama con una generazione politicamente attiva che non sparirà dalla scena che
hanno occupato per motivi di convenienza politica.
Il successo virale del video online «Yes We Can», composto e prodotto da will.i.am, e
diretto da Jesse Dylan (il figlio di Bob Dylan), è forse uno dei migliori esempi del ruolo
che ha avuto la cultura pop nell’elevare il profilo di Obama. Il pezzo musicale del video si
sovrappone allo «Yes We Can» di Obama, un discorso che pronunciò subito dopo le
primarie del New Hampshire, con cantanti e attori famosi che cantano le parole del
discorso. Will.i.am mandò il video il 2 febbraio 2008 su Dipfive.com e su YouTube con lo
username di «WeCan08». Anche se il testo era preso interamente dal discorso di Obama,
la campagna non ebbe alcun ruolo ufficiale nella sua produzione. Entro il 28 marzo 2008 il
video era stato visto oltre 17 milioni di volte (Stelter, 2008). In un altro esempio, nel
giugno 2007, il video «I’ve Got a Crush on Obama», creato dal pubblicitario trentaduenne
Ben Rellers e interpretato da una modella di ventisei anni di nome Amber Lee Ettinger,
divenne il video più virale dell’estate. Il video online presentava un montaggio delle
immagini di Obama in costume da bagno alle Hawaii con spezzoni della Ettinger che
ballava: in una scena con addosso un paio di mutandine con il nome di Obama stampato
sul sedere25. La campagna di Obama instaurò un rapporto reciprocamente benefico con le
celebrità sostenitrici, dato che questi video ebbero un successo sensazionale. Nel giugno
2008 il video «Yes We Can» vinse un Emmy Award nella categoria dei nuovi media, e la
Ettinger, prima sconosciuta, oggi vive di apparizioni sui media. In un altro esempio, una
star dell’hip-hop relativamente sconosciuta chiamata Taz Arnold (alias TI$A) iniziò la sua
carriera solista dedicando il primo singolo «Vote Obama» a Barack Obama. Il video
conteneva numerosi cameo di celebrità, tra cui Kayne West, Jay Z, Chris Brown, Travis
Barker, Shepard Fairey e Apple dei Black Eyed Peas.
Dalla politica mediatica alla politica scandalistica
Molto è stato detto sul colpo di fulmine dei media mainstream per Obama. Non c’è nessun
complotto dietro l’evidente attenzione per Obama durante le fasi iniziali della campagna
per le primarie. È stata una solida decisione commerciale, coniugata con l’interesse
professionale di giornalisti e commentatori politici. Le primarie presidenziali possono
richiamare grandi platee mediatiche o colare a picco nella modalità televisiva C-Span26, a
seconda dell’interesse e delle incertezze degli elettori sull’esito della campagna. Secondo
l’analisi svolta nel capitolo 4, la fusione di informazione e spettacolo inserisce le
campagne politiche nella narrazione delle corse dei cavalli o degli sport competitivi. Così,
nel 2008 risultò ben presto evidente che la maggioranza dell’elettorato non era disposto a
seguire un candidato evangelico (Huckabee) o mormone (Romney), e l’euforia per la
campagna repubblicana sfumò. Quanto alla campagna dei democratici, la presunta
inevitabilità della vittoria di Hillary ridusse l’interesse dei media per la sua campagna
prima ancora che questa iniziasse. Poi, la decisiva vittoria di Obama nei caucus dello Iowa
aprì un mondo di possibilità in termini di avvincenti storie «ippiche»: il candidato
improbabile contro l’establishment, l’uomo di colore contro la donna bianca, l’oppositore
alla guerra in Iraq contro una che l’aveva votata, con Bill Clinton e il suo fotogenico
personaggio nel bel mezzo dell’azione. Quando, in meno di due settimane, Hillary Clinton
passò dal ruolo di comandante in capo sbalzato dal trono a quello di vittoriosa donna in
lacrime salvata dalle donne del New Hampshire, la formula della soap opera era bell’e
servita. Quanto in realtà i media preferissero davvero Obama a Hillary è controverso. Per
esempio, per alcuni commentatori il dibattito sull’ABC moderato da George
Stephanopoulos, ex direttore delle comunicazioni di Bill Clinton alla Casa Bianca,
appariva sbilanciato a sfavore di Obama.
Ma quello che fu presto chiaro era che quella che in corso sarebbe stata una lunga e
combattuta stagione delle primarie, con alti e bassi e un candidato carismatico contro il
«comeback kid» (Clinton), l’intera faccenda resa più appetitosa dall’importanza storica (e
storicamente importante lo era, ovviamente), e illuminata dal carattere brillante e
intelligente dei due candidati (le candidature di Edwards e di Richardson non
sopravvissero alla potente spinta di un Obama ispiratore e di una Hillary pigliatutto).
Nell’insieme, divenne una delle storie più eclatanti nel business della politica mediatica da
anni. E i giornalisti professionisti, insieme con una legione di commentatori politici, si
misero all’opera con zelo e competenza per ricavare il meglio da questa campagna
pittoresca e comunque significativa. Il risultato fu uno show politico di sei mesi, di cui il
mondo raramente aveva visto eguali. Non che la corsa fosse prima di importanza o che gli
scambi di battute fossero privi di interesse. Anzi, tra le altre cose, e nonostante alcune
differenze, questa fu la campagna che, sulla scia del documentario di Michael Moore, fissò
la priorità del problema della sanità, una delle più grandi pecche del capitalismo
americano, nella mente degli americani. Ma la dinamica della campagna per le primarie
era costruita sui candidati, sulle loro esultanti vittorie, sulle loro tormentose sconfitte, sullo
scontro di volontà tra due personalità carismatiche e le loro schiere di impegnati
sostenitori. Hillary non aveva bisogno di un nome più riconoscibile di quello che già
aveva, anche se le ultime settimane della campagna rivelarono il suo lato populista che
dietro le tende chiuse della Casa Bianca era rimasto nascosto. Ma per Obama, l’intensità
della campagna lo aveva proiettato in una condizione di star mediatica, con tutti i pro e i
contro che questo può significare per la sua futura carriera politica. La sua sfida era, ed è,
come rimanere vicino alla base che mobilitava pur continuando a restare sotto i riflettori
dei media. Nel complesso, però, maneggiava bene la politica mediatica perché la sua
personalità e il suo modo di fare veniva fuori con grande naturalezza. La sicurezza di sé, la
profondità della sua cultura, e la capacità di usare le parole lo aiutavano. Sa quello che
vuole, lo dice e lo comunica.
Eppure, questo era solo il primo strato della politica mediatica nella campagna. Perché
appena fu chiaro che come candidato funzionava, Obama si trovò bersaglio della politica
dell’aggressione da parte della sua rivale democratica, e della politica dello scandalo da
parte di fonti ignote (Comella e Mahoy, 2008; Pitney, 2008). Quando Hillary vide chiara la
prospettiva della sua sconfitta, i suoi centurioni, e in particolare Mark Penn e James
Carville, usarono la sperimentata tattica della pubblicità di aggressione. Era più
subliminale che esplicita, ma mobilitava le classiche emozioni negative: paura e ansia. Un
tipico esempio fu lo spot delle «3 del mattino», che presentava una possibile crisi nel
cuore della notte alla Casa Bianca, mentre i bambini delle famiglie americane dormono, e
poneva la domanda retorica: «Chi vorresti che rispondesse al telefono?» sull’immagine di
una Hillary Clinton presidenziale. Funzionò nelle primarie decisive dell’Ohio, come
mostrano gli exit poll, e funzionò di nuovo, sia pure con minore efficacia, in Pennsylvania,
quando Hillary ne propose una nuova versione che prendeva di mira McCain ma usava lo
stesso frame delle tre del mattino per ricordare agli elettori la mancanza in Obama delle
credenziali del comandante in capo. In un altro caso, Hillary, e i media, colsero un
commento di Obama, che doveva rimanere privato, sull’amarezza che aveva scoperto tra i
lavoratori delle piccole cittadine della Pennsylvania, per accusarlo di elitarismo, riuscendo
così a creare un «bittergate».
In termini più subdoli, Hillary cercò anche di infangare Obama usando allusioni.
Quando alla televisione le chiesero se Obama fosse musulmano, lei rispose con un esitante
«Non che io sappia» anziché rispondere con chiarezza che era sicuramente cristiano.
Hillary ricevette in effetti una quantità di copertura mediatica negativa. Ma il più delle
volte, in particolare dopo che furono emerse le prove visive della falsità della sua
dichiarazione di essere atterrata a Sarajevo sotto il fuoco dei cecchini quando era First
Lady, la campagna di Obama, in generale, decise di mostrarsi superiore a queste cose.
Questa autolimitazione fu una scelta notevole, in particolare data l’estrema animosità di
molti obamiani nei confronti della «untuosa Hillary». Ma i responsabili della campagna
non vollero impegnarsi in una politica di aggressione, indipendentemente dai motivi di
principio, per due ragioni fondamentali: sapevano che a novembre avrebbero avuto
bisogno dei sostenitori di Hillary; e volevano proiettare l’immagine di un Obama che
rappresentava un nuovo genere di politico per un nuovo genere di politica. La cosa in larga
misura funzionò, nonostante la bellicosità dei sostenitori di entrambi i candidati, e l’effetto
che i duri scambi nella blogosfera rischiavano di avere sulle probabilità di Obama nelle
elezioni generali.
Obama però subì due seri attacchi alla sua candidatura. Il primo fu un’insidiosa serie di
voci e di leggende metropolitane che circolavano in Internet e venivano raccolte dai talk
show conservatori di tutto il paese (vedi tabella A5.7 in Appendice). A seconda della fonte
e del medium, queste erano: Obama era un musulmano che aveva prestato il giuramento
senatoriale sul Corano e non sulla Bibbia; era amico di ex estremisti; non era un patriota
(non portava il distintivo con la bandiera); era sposato con una donna che non era fiera
dell’America; e una lunga litania di altre accuse, un campione delle quali si può trovare
nell’Appendice (tabella A5.8) sui tentativi di lanciare scandali contro la candidatura di
Obama. Nonostante tutte le prove in contrario e l’intensa copertura mediatica sul suo
rapporto con il reverendo Wright a Chicago, l’idea che Obama fosse musulmano continuò
a permanere: il 14 per cento dei repubblicani, il 10 per cento dei democratici e l’8 per
cento degli indipendenti credevano che fosse musulmano, secondo un sondaggio Pew
condotto alla fine del mese di marzo del 2008 (Pew, 2008b). Gli elettori che non avevano
frequentato il college erano portati a credere che Obama fosse musulmano tre volte di più
di quelli in possesso di un diploma di college (il 15 per cento contro il 5 per cento). E gli
elettori del Midwest e del Sud erano circa il doppio di quelli del Nord-Est e dell’Ovest a
nutrire questa convinzione. Quasi un quinto dei votanti (il 19 per cento) nelle aree rurali
diceva che Obama era musulmano, come il 16 per cento dei protestanti bianchi evangelici.
Tuttavia, in gran parte perché la platea principale di questi messaggi era costituita da
repubblicani conservatori, l’accusa non funzionò durante la stagione delle primarie. I
dubbi su Obama ebbero l’effetto di mobilitare contro la sua candidatura il segmento più
conservatore degli elettori democratici, ma non fecero gravi danni tra i democratici
indipendenti e mainstream.
La campagna di Obama gestì abilmente i tentativi di diffamazione. Da una parte
mobilitò la sua vasta rete di organizzazioni di base perché intervenissero e correggessero
le voci false nel loro raggio di azione, in commenti sui media e in Internet. Non
ignorarono gli attacchi: li affrontarono con la convinzione che «nell’era di Internet, vi
saranno sempre menzogne che vengono diffuse dappertutto. Sono stato vittima di queste
menzogne. Fortunatamente, gli americani sono più intelligenti, secondo me, di quanto
creda la gente» (Obama, dibattito alla MSNBC, 15 gennaio 2008). Dall’altra parte, la
campagna di Obama manteneva un sito web di «reazione istantanea»: Fact Check
(http://factcheck.barackobama.com). Il sito Fact Check si apriva con la citazione: «Voglio
svolgere la campagna nello stesso modo in cui governerò, ossia rispondendo direttamente
ed energicamente con la verità» (Barack Obama, 11/08/07). La pagina elencava le
affermazioni false o fuorvianti fatte da altri politici e/o giornalisti seguite da una breve
correzione (Anche la Clinton aveva un sito di puntualizzazione dei fatti chiamato «Fact
Hub»).
Nei primi giorni della campagna per le primarie, però, Obama si spinse più avanti,
lanciando il 3 dicembre 2007 «Hillary Attacks», un sito web dedicato specificamente alle
affermazioni fatte dalla campagna della Clinton (il sito fu chiuso dai responsabili della
campagna alla fine della stagione delle primarie)27. L’unicità di questo sito stava nel fatto
che si concentrava specificamente su un singolo candidato e lo faceva in tono satirico. In
altre parole, usava gli attacchi di Hillary per mostrare una candidata in preda alla
disperazione. Per esempio, metteva in ridicolo i responsabili della campagna della Clinton
che, per dimostrare che Obama aveva mentito dicendo che la sua decisione di candidarsi
alla presidenza non era premeditata, avevano presentato un tema, scritto alle elementari,
intitolato «Voglio diventare presidente». La campagna si assicurò anche altri due URL:
«desperationwatch.com» e «desperatehillaryattacks.com», che reindirizzavano i visitatori
al sito web Hillary Attack, hillaryattacks.barackobama.com. Molte delle dichiarazioni più
compromettenti furono postate anche sul canale di YouTube della campagna
(http://my.barackobama.com/YouTube).
Comunque, l’esperienza di quasi morte (politica) subita da Obama venne
dall’esposizione a milioni di spettatori dei frammenti di videoclip dei sermoni politici più
estremisti del suo amato pastore, il reverendo Jeremiah Wright. Lo faccio rientrare nella
categoria degli scandali perché fu un deliberato tentativo di distruggere la credibilità e la
reputazione di Obama enfatizzando la sua associazione con una persona i cui punti di vista
estremi lui non condivideva. Tuttavia, come tutte le strategie efficaci della politica scan-
dalistica, l’attacco si basava su una presentazione selettiva dei fatti. Il reverendo Wright
era riconosciuto da Obama come suo pastore e come fonte di ispirazione per la sua vita
personale e politica. E pur esprimendo il suo disaccordo con il contenuto dei video,
inizialmente non lo disconobbe, finché il ripetuto comportamento provocatorio di Wright
non lo costrinse ad attaccare il pastore e a lasciare la Trinity Church. Poiché la vicenda è
ben nota, mi occuperò qui semplicemente di alcuni fatti di rilevanza analitica. I video del
reverendo Wright furono mostrati per la prima volta alla televisione nazionale dalla ABC
in Good Morning America del 13 marzo 2008, e poi si diffusero in maniera virale su
YouTube e nei network mediatici in America e nel mondo. Ma il servizio dell’ABC
probabilmente nasceva da diverse precedenti occasioni di pubblicazione del materiale.
Una delle prime critiche a Wright apparve durante il segmento «Obameter» nell’edizione
del 7 febbraio 2007 di Tucker sull’MSNBC. Il conduttore Tucker Carlson criticava
l’appartenenza di Obama alla Trinity Church, una chiesa che, diceva Carlson, «a me
sembra separatista» e che «contraddice le basi del cristianesimo». Il Chicago Tribune
pubblicò una critica analoga più o meno nello stesso periodo (Boehlert e Foser, 2007). Il
colpo finale doveva venire dal dibattito tra democratici del 26 febbraio 2008, quando il
moderatore Tim Russert chiese dell’appoggio di Wright a Louis Farrakhan28. L’ABC
mandò in onda il pezzo devastante il 13 marzo 2008. Il 16 marzo 2008 una testimonianza
di Wright in appoggio a Obama era scomparsa dal sito web della campagna di Obama29. Il
18 marzo 2008, Obama pronunciò il suo discorso sulla razza, parlando di Wright come suo
ex pastore, avvertendo però che non poteva rinnegare il pastore come non poteva
rinnegare l’America nera. I responsabili della sua campagna rilasciarono anche
dichiarazioni che presentavano il coinvolgimento di Obama nella Trinity Church come
un’esplorazione nella sua identità di afroamericano, un’identità che lottava per trovare a
causa della sua origine mista.
Il discorso di Obama fece scalpore, e la sua statura crebbe nella mente del pubblico.
Veniva riconosciuto come una persona che non si sottrae alla controversia e va alla
sostanza della questione, osando affrontare le ferite aperte di cui gli afroamericani e i loro
pastori soffrono ancora a causa del permanente razzismo nella società statunitense. La
posizione di Obama fu quella di partire dalla realtà della divisione, dal riconoscimento
della rabbia presente in alcuni aspetti della teologia della liberazione, di superarla
costruendo insieme una comunità multirazziale. Ma nelle settimane successive alla
controversia, Wright continuò imperterrito nella sua linea, pronunciando davanti al
National Press Club (NPC) e alla NAACP discorsi che non facevano che ribadire le sue
dichiarazioni precedenti (in un caso fu invitato da una eminente afroamericana che era
sostenitrice della Clinton). Definì gli attacchi che gli venivano portati «un attacco alla
chiesa nera». Fu solo dopo il discorso di Wright davanti all’NPC tenuto il 29 aprile che
Obama sconfessò apertamente il suo ex pastore (il 30 aprile).
Nelle settimane che seguirono alle rivelazioni dell’ABC sulla retorica razzista e
antiamericana di Wright, quasi otto americani su dieci (79 per cento) dissero che avevano
sentito almeno qualcosa sui sermoni di Wright (51 per cento molto, 28 per cento un poco)
e circa la metà (49 per cento) aveva visto il video dei sermoni. Analogamente, il 54 per
cento diceva di aver sentito molto del discorso di Obama e il 31 per cento aveva visto i
video del suo discorso, compreso un 10 per cento che li aveva visti su Internet (Pew,
2008a). Ed entro il 10 giugno, il discorso di Obama sulle questioni razziali in seguito alla
controversia, che era stato postato in Internet da diverse persone, era stato visto più di 6,5
milioni di volte su YouTube. Tuttavia, se l’indice di popolarità di Obama aveva subito un
lieve calo immediatamente dopo il video di Wright, entro il 22 marzo era risalito
superando di nuovo la Clinton nei sondaggi quotidiani Gallup.
Nei fatti, le differenze di schieramento nella reazione ai sermoni di Wright erano
consistenti: il 75 per cento dei votanti repubblicani che dicevano di aver sentito almeno
qualcosa dei sermoni dicevano che li trovavano offensivi, rispetto al 52 per cento degli
indipendenti e del solo 43 per cento dei democratici. Tra gli elettori democratici e orientati
verso i democratici, erano molto più numerosi i sostenitori della Clinton che quelli di
Obama a trovare offensivi i sermoni di Wright, anche se un terzo dei sostenitori di Obama
li trovava offensivi. Tra i votanti informati della questione, poco più della metà diceva che
Obama aveva gestito in maniera eccellente (23 per cento) o buona (28 per cento) la
controversia. Questi numeri erano più alti tra i democratici e gli afroamericani
(approssimativamente due terzi). Fatto notevole, anche un terzo degli intervistati
repubblicani diceva che Obama aveva gestito bene la cosa (Pew, 2008b). In sintesi:
l’affare Wright fu un attacco devastante che mise in discussione la credibilità di Obama
come potenziale presidente degli Stati Uniti. Fu opera dei media mainstream,
specificamente NBC e ABC, che consideravano terreno di caccia libera tutto ciò che
riguardasse i candidati presidenziali. In effetti era così. Obama si ritrovò in una situazione
di contraddizione quasi senza via d’uscita tra denunciare il suo mentore più importante e
rinunciare a una candidatura di portata storica. Tentò di non fare né l’una né l’altra cosa,
ponendosi su un diverso piano di controversia, spiegando e comprendendo, anziché
nascondere o condannare. Alla fine dovette accettare di separarsi da quelle radici, mentre
il reverendo Wright si crogiolava alla luce della sua perniciosa pubblicità. Ma lo fece in
maniera dignitosa. Sopravvisse, e il suo discorso sui rapporti tra le razze è stato
commentato nelle scuole di tutto il paese, e potrebbe passare alla storia come uno dei più
lucidi confronti diretti con questa realtà sottaciuta della società americana.
Ma non è questo il motivo per cui Obama sopravvisse politicamente. Come mostrano i
dati, sopravvisse perché i democratici in generale e i suoi sostenitori in particolare vollero
credere a lui, alla sua versione della vicenda, e alla sua smentita, mentre repubblicani e
commentatori conservatori, insieme con una campagna opportunistica di Hillary,
intravidero un’occasione per dare il colpo di grazia al carisma di Obama. Sappiamo però
(vedi capitolo 3) che la gente crede a quello che vuole credere, finché ne ha la possibilità.
Visto che diede un’ottima prova di buona fede affrontando il problema di petto e senza
allontanarsi dalla posizione dichiarata di armonia tra le razze nonostante l’ingiustizia
razziale, Obama offrì la possibilità a quelli che credevano in lui, e a molti democratici, di
rifiutare il reverendo pur continuando a sperare nella candidatura di Obama. Comella e
Mahoy (2008) documentano l’impatto negativo dello scandalo nelle primarie della
Pennsylvania, in particolare tra i votanti incerti fino all’ultimo. Ma il desiderio degli
elettori di credere in Obama, insieme con la sua eloquenza e franchezza, lo hanno
proiettato al di là dell’ostacolo di questa formidabile sfida fino ad assicurarsi la
candidatura. Lo scheletro, però, rimarrà nel suo armadio ancora per anni.
La lezione analitica più importante da trarre da questo episodio è che le parole si
possono combattere con le parole perché le parole contano. I sermoni di Wright erano
parole, parole offensive per molti americani, accentuate da un linguaggio del corpo che
suscitava la paura della rabbia razziale. Le parole di Obama erano analitiche, ma anche
emozionali, come quando ricordò la paura della nonna quando incrociava per strada un
nero, e poi guardava il nipote. Poiché lui incarna la sintesi razziale che propone al paese,
le sue parole gli guadagnarono credibilità; almeno una credibilità bastante a mantenere la
fiducia di quelli che avevano bisogno di fidarsi di lui.
Il significato dell’insorgenza
Poche settimane dopo la sua nomination, Obama prese una serie di decisioni calcolate, che
furono ritenute dagli osservatori dei media un chiaro spostamento verso il centro dello
spettro politico. Difese il suo atteggiamento sostenendo che non aveva cambiato posizione
e che quelli che lo criticavano probabilmente non avevano seguito con attenzione le sue
dichiarazioni durante la campagna. Anche se l’affermazione non è vera al cento per cento
(in realtà cambiò posizione sul disegno di legge che dava immunità alle aziende di
telecomunicazioni che intercettavano attività potenzialmente legate al terrorismo), in linea
generale è esatta, e va al cuore della questione: l’ambiguità strutturale di Obama nei
termini che ho analizzato sopra. Mentre il suo curriculum di voto al Senato lo pone nel
novero dei senatori più liberal, non si colloca significativamente più a sinistra di diver-si
politici democratici. Ma rappresenta effettivamente un politico di genere diverso, un
politico più attento al processo della politica che al risultato politico, più desideroso di
essere svincolato dagli interessi particolari e di prendere decisioni in base ai propri criteri,
e più pronto a prendersi la responsabilità dei propri atti, perché è qui che si trova il suo
capitale politico. Sarà la storia, un giorno, a giudicare le sue azioni, dato che la speranza e
la speranza tradita sono spesso intrecciate nel tessuto della politica, anche della politica
insorgente. Ma non sempre, per cui il giudizio è ancora sospeso.
Ma non è di questo che vuole occuparsi l’analisi presentata qui, per quanto
intensamente mi senta coinvolto nella questione in quanto cittadino impegnato. Ciò che è
significativo dal punto di vista della relazione tra comunicazione e potere è il fatto che un
candidato estremamente improbabile alla carica politica più importante del pianeta è stato
capace di penetrare il labirinto degli interessi costituiti che circonda l’establishment
politico e sopravvivere ai plotoni d’esecuzione della politica scandalistica raggiungendo la
candidatura alla presidenza. Inoltre, è riuscito in questo mobilitando milioni di cittadini,
tra cui molti che erano lontani dal sistema politico o che erano stati emarginati dal
business della politica consueta. E lo ha fatto comunicando un messaggio di speranza in
un cambiamento credibile in un contesto di rabbia e disperazione nel paese e nel mondo.
Sì, è stato il primo afroamericano a essere nominato da un grande partito americano, e già
questo è significativo in un paese in cui la politica identitaria è una dimensione
fondamentale della vita civica, e in cui la divisione razziale è stata una caratteristica
peculiare nel corso di tutta la sua storia. Tuttavia, posso sostenere che la nomination di
Hillary sarebbe stato un punto di svolta altrettanto epocale. Perché mentre diversi altri
paesi hanno già eletto una donna come loro leader, tra cui Israele, la Gran Bretagna,
l’India, il Pakistan, la Finlandia, la Norvegia, le Filippine, la Germania, il Cile, l’Argentina
e altri, i sondaggi del 2008 mostravano che negli Stati Uniti un afroamericano presidente
era più accettabile di una donna presidente.
E così, se è vero che il significato oggettivo della loro campagna per le primarie in
termini di identità riveste una straordinaria importanza per il futuro della politica
americana (entrambi hanno sfondato il muro di vetro della razza e del genere), non è
questo il risultato più significativo della campagna di Obama. Quello che ne fa un caso di
politica insorgente nell’Età dell’Informazione è stata la capacità del candidato di ispirare
emozioni positive (entusiasmo, fiducia, speranza) in un ampio segmento della società
connettendosi a direttamente agli individui e organizzandoli in reti e comunità di pratica,
cosicché la sua campagna fosse in gran parte la loro campagna. Fu questa connettività
interattiva a spingere milioni di persone a ribellarsi contro la solita politica. Ovviamente,
la Generazione Obama, i giovani cittadini che vivono parte della loro vita in Internet
aspirando al tempo stesso a un senso di comunità, i soggetti high tech/high touch della
nuova cultura, risposero in massa al richiamo di Obama. Ma l’impatto della campagna fu
molto più vasto. Attingeva alla voglia di politica positiva sentita da tanti, e apriva la strada
al desiderio politico che ognuno interpretava in modo diverso, ma sempre come un
progetto di speranza. Per molti versi la campagna ispirata da Obama andava ben al di là di
lui stesso e del suo specifico programma politico. È questo il motivo per cui il movimento
intorno alla candidatura di Obama era destinato a frammentarsi e a entrare in conflitto una
volta che l’urgenza tattica di battere McCain si dissipò dopo il processo elettorale. Anzi,
prima ancora della Convenzione demo-cratica si cominciarono a percepire i primi
brontolii tra i fedeli di Obama. In effetti, vi sono prove preliminari che l’affidamento di
Obama sull’organizzazione di base possa avere profonde ripercussioni per la sua
presidenza. Le stesse reti che si sono mobilitate per lui hanno anche la capacità di
mobilitarsi contro di lui se e quando dovesse adottare politiche prive di principi. Per
esempio, già nel luglio 2008, «Senatore Obama per favore voti NO all’immunità sulle
telecomunicazioni» divenne la rete più vasta di MyBo (il social network personale di
Obama) nel giro di una settimana dal suo lancio. Un’organizzazione come MoveOn, un
importante movimento di base in Internet con oltre tre milioni di membri e di donatori, il
cui attivo sostegno a Obama fu decisivo per la vittoria alle primarie, fu anch’essa
notevolmente rafforzata in seguito alla campagna, e si impegnò a non perdere di vista il
bersaglio della democrazia civile senza scendere a compromessi con chi fosse stato eletto,
di chiunque si trattasse. Questo è il marchio della insurgent politics, quando l’insurrezione
non termina con il mezzo (eleggere un candidato) ma persevera nel suo fine: realizzare il
cambiamento che la gente spera, e in cui crede.
Il day after
Il 4 novembre 2008 Obama è passato alla storia. Lo ha fatto non soltanto diventando il
primo presidente afroamericano degli Stati Uniti, sfondando l’invisibile barriera politica di
un paese con alle spalle una storia di schiavitù e apartheid razziale. È riuscito anche a far
tornare milioni di persone a credere nella democrazia, ha mobilitato giovani e minoranze
in numeri senza precedenti30, ha contribuito a un aumento nella registrazione dei votanti
stimato in oltre 42 milioni dal 200431, e ha portato la partecipazione elettorale a un livello
ragguardevole: 131.257.542 americani sono andati ai seggi per eleggere il presidente nel
2008, un aumento di nove milioni rispetto al 2004 (a fronte di un incremento di 6,5
milioni degli aventi diritto al voto; Center for the Study of the American Electorate, 2008).
Questo numero venne leggermente ridotto dal calo di affluenza dei repubblicani rispetto al
2004; comunque, con il 63 per cento degli aventi diritto, rappresentava ancora la più vasta
affluenza di votanti dal 1960 (CSAE, 2008)32. Obama è stato anche il primo candidato
democratico dopo Jimmy Carter nel 1976 a ottenere più del 50 per cento del voto
popolare. Particolarmente significativo è stato l’alto livello di partecipazione dei giovani e
dei membri delle minoranze, molti dei quali si erano sentiti privati del diritto di voto dal
sistema politico, e la cui affluenza record ai seggi ha costituito un supporto decisivo per la
candidatura di Obama33. Ma la vittoria di Obama è andata al di là della sua base
consolidata. Ha conquistato la larga maggioranza del voto femminile e una lieve
maggioranza del voto maschile. Ha ridisegnato la mappa elettorale degli Stati Uniti,
facendo passare nove stati dal rosso repubblicano al blu democratico, tra cui la Virginia e
l’Indiana, che non votavano democratico dal 1964. E lo ha fatto, in generale, senza
praticare la forma di politica della terra bruciata che ha caratterizzato l’America
nell’ultimo ventennio, come è documentato nel capitolo 4 di questo volume. Ha spezzato
la presa tradizionale delle lobby sulla politica presidenziale raccogliendo un livello
storicamente insuperato di finanziamento, oltre 658 milioni di dollari, oltre la metà dei
quali ($332.742.806) veniva da contributi individuali di $200 o meno34. Secondo le
statistiche fornite dal suo coordinatore per il social networking, Chris Hughes, il 7
novembre 2008, durante i 21 mesi della campagna di Obama, i suoi sostenitori, usando
l’infra-struttura di social network offerta da My.BarackObama.com, hanno creato 35.000
gruppi locali e organizzato oltre 200.000 eventi. I responsabili della campagna si
impegnavano anche a mantenere in funzione il sito e a gestirlo indefinitamente come
piattaforma per l’organizzazione sociale (Hughes, 2008). La campagna di Obama ha
dimostrato che in determinate condizioni un nuovo genere di politica, basata sulla
costruzione della fiducia e dell’entusiasmo anziché sull’induzione di diffidenza e paura,
può avere successo.
Comunque, il suo trionfo nelle elezioni presidenziali è stato favorito in maniera decisiva
da altri fattori, il più importante dei quali è stato l’aggravarsi della crisi economica e il
crollo finanziario dell’autunno del 2008. All’inizio di settembre, dopo le due convenzioni,
i due candidati erano statisticamente appaiati in gran parte dei sondaggi. L’effetto Sarah
Palin aveva mobilitato la base conservatrice del GOP e richiamato l’attenzione dei media
sulla sua pittoresca personalità. Alla fine, questa focalizzazione mediatica ha distrutto la
credibilità della Palin, e la sua performance sempre più stravagante ha colpito
negativamente la mente di tanti elettori. Il giorno delle elezioni, il 60 per cento dei votanti
dichiarava di ritenere che Sarah Palin non fosse qualificata per la carica; l’81 per cento di
quei votanti si esprimesse a favore di Obama (Pew, 2008d).
Inoltre, la campagna di McCain è stata una delle campagne presidenziali peggio gestite
di cui si abbia memoria. Spostava l’attenzione da un tema a un altro, altalenava tra
ignorare Obama e attaccarne le politiche, smentiva il proprio argomento chiave riguardo
all’inesperienza di Obama scegliendo la Palin (un potenziale presidente considerando l’età
e lo stato di salute di McCain), e si concentrava erroneamente sui votanti di Hillary
Clinton come potenziali sostenitori. Inoltre, il comportamento incoerente di McCain
durante la crisi finanziaria minava la fiducia nella sua capacità di pilotare il paese
attraverso l’incertezza economica, in netto contrasto con la solidità di Obama. Va anche
detto che Obama ha avuto fortuna a trovarsi di fronte John McCain, un candidato che da
lungo tempo criticava la politica dell’aggressione al rivale. Il tentativo di McCain nel 2000
alle primarie repubblicane naufragò quando durante le primarie del North Carolina furono
messi in circolazione volantini anonimi che affermavano che il figlio adottivo di McCain
era in realtà figlio suo, avuto da una prostituta afroamericana. All’indomani della
sconfitta, McCain rilasciò una serie di dichiarazioni in cui attaccava questa forma di
politica negativa, e asserendo che «prima o poi la gente capisce che se tutto quello che uno
sa fare sono attacchi negativi, non si ha una gran visione sul futuro o non si è capaci di
articolarla»35. Criticò anche spesso i suoi avversari durante le primarie presidenziali
repubblicane per il loro insistere sul negativo. Attribuì pubblicamente la sconfitta di Mitt
Romney in Iowa alle sue tattiche negative, dicendo a un comizio durante la campagna:
«La gente non si fa imbrogliare dalle campagne negative».
Nei primi giorni della sua campagna per le elezioni generali del 2008, mentre i comitati
d’azione politica repubblicani mettevano mano al solito armamentario di tattiche sporche,
e i talk show conservatori spargevano su Obama voci calunniose che circolavano
ampiamente in Internet, McCain tentava di mantenere gli attacchi negativi a Obama entro
i limiti del rispetto personale. Ma date le sue frequenti critiche alla politica
dell’aggressione durante questo periodo e nel corso di tutta la sua carriera, ogni
sconfinamento nel negativo minava la percezione di McCain più di quella di Obama.
McCain non ha mai adottato la forma di politica subdola di cui lui stesso era rimasto
vittima nel South Carolina. Tuttavia, quando alla fine si è spostato su una linea di attacchi
più personali e aggressivi a Obama, nei discorsi come nel materiale di propaganda, una
tattica che aveva aiutato precedenti candidati a mobilitare elettori, la cosa ha avuto un
effetto contrario, facendo dubitare della sua affermazione secondo la quale lui era al di
sopra della tradizionale pratica washingtoniana di gettare fango sull’avversario36. Un
sondaggio Pew condotto nel mese di ottobre 2008 metteva in evidenza che il 56 per cento
degli intervistati considerava McCain troppo personalmente critico di Obama (dal 96 per
cento del mese di giugno; Pew, 2008f). Poiché la macchina di attacco repubblicana non
poteva operare pienamente entro la logica della politica negativa, che ne era stata il
marchio di fabbrica fin dal regime di Karl Rove, emergeva una crescente contraddizione
tra il candidato e i consiglieri repubblicani, e tra i consiglieri di McCain e quelli della
Palin. Il caos risultante affossava le già scarse probabilità elettorali della candidatura
McCain.
In effetti la candidatura McCain era seriamente insidiata da una crisi finanziaria che
giungeva all’apice durante il momento più decisivo della campagna37. Obama non doveva
far altro che sottolineare le colpe dell’amministrazione Bush nella crisi, e collegare i
precedenti di McCain in fatto di voti e proposte di politica economica alla filosofia e alla
prassi di Bush. Il suo messaggio chiaro, trasmesso ininterrottamente con un fuoco di fila
mediatico negli stati chiave, e sostenuto da una performance controllata nei dibattiti
elettorali, in cui Obama prevaleva soprattutto evitando gli errori, è stato più che sufficiente
ad assicurargli la vittoria. I tentativi disperati di McCain di prendere le distanze
dall’amministrazione Bush fallivano e questo fallimento segnò la sua sorte.
Così, è plausibile affermare che qualsiasi candidato democratico serio, come Hillary
Clinton, portando avanti professionalmente una campagna elettorale, avrebbe vinto queste
elezioni nel contesto economico in cui si svolgevano. Obama ha aggiunto un livello di
entusiasmo e di mobilitazione, in particolare tra i nuovi elettori, che lo ha portato a una
decisa vittoria e gli ha dato il mandato che chiedeva per portare il cambiamento in
America e nel mondo. Ma non era più un presidente improbabile, dopo che era diventato il
candidato democratico di un’elezione presidenziale tenuta nel mezzo di una profonda crisi
economica e di due guerre impopolari. Se possiamo ancora definire l’elezione di Obama
un grande esempio di insurgent politics, è perché lui era l’improbabile candidato del
Partito Democratico. È stata la sua inattesa vittoria su Hillary Clinton e sulla formidabile
macchina dei Clinton (usando la politica dell’aggressione nel modo migliore) ciò a cui si
può attribuire il nuovo modo di fare politica di Obama, analizzato in questa sezione: una
politica di nuovo genere iniziata come un movimento sorto per lo più ai margini del
sistema politico e diventato un agente di trasformazione dello stesso sistema politico.
Inoltre, l’intensità e la durata delle primarie hanno favorito una messa a punto delle
operazioni della campagna di Obama, e migliorato di molto la sua posizione, facendone un
nome familiare in America e nel mondo. E così, quel che è analiticamente rilevante ai fini
di questo libro, e cioè l’esplorazione delle nuove strade del cambiamento sociale aperte
dalla nuova relazione tra comunicazione e potere, sta nello studio della campagna per le
primarie presidenziali presentato in questo capitolo. Perché è stata questa campagna a
mettere in grado Obama di diventare un decisivo agente politico di cambiamento sociale,
non solo in America ma nel mondo in generale. E non solo per le sue politiche ma per la
sua ispirazione, e per l’uso che ha fatto della Internet politics per costruirsi un’ampia base
di consenso.
Nel momento in cui leggerete questo testo, l’amministrazione Obama sarà nel pieno di
uno dei più impegnativi processi di governance degli ultimi decenni. Lui e la sua squadra
(una squadra politicamente e ideologicamente diversificata) hanno ereditato un paese in
macerie, un’economia globale in recessione, un mondo in guerra, e un pianeta in pericolo.
Nemmeno nelle più messianiche fantasie può qualcuno, e men che mai Obama, credere di
poter risolvere efficacemente tutti questi problemi. In qualcuno riuscirà, in altri fallirà, e
decidere sul bilancio toccherà agli storici e ai cittadini. Probabilmente ci proverà con tutte
le forze, con intelligenza e determinazione. Sicuramente deluderà molti. Non solo perché
tale è la natura della politica insorgente trainata dalla speranza, una volta che
quell’insorgenza diventa istituzionalizzata, ma anche a causa dell’ambivalenza di Obama,
intesa nei termini analizzati in questo capitolo. L’ambivalenza permette a ognuno di
riempire gli spazi vuoti con i propri sogni e desideri. Così, da una parte è una potente fonte
di mobilitazione e di fede, un generatore di entusiasmo e di sentimenti positivi. Dall’altra,
proprio perché la gente proietta il proprio discorso sul discorso di Obama, senza
necessariamente essere d’accordo con le sue idee e i suoi giudizi, vi saranno molti casi di
bruschi contrasti, disaccordi e senso di tradimento. Eppure, questa potenziale fonte di
disincanto non può essere equiparata alla manipolazione politica perché, come ho
sottolineato nell’analisi dell’ambivalenza di Obama, l’incertezza si riferisce ai mezzi, non
ai fini. Se Obama dovesse finire per modificare i suoi obiettivi (se non provvederà alla
assistenza sanitaria per tutti o se non metterà fine alla guerra in Iraq, per esempio) si
tratterebbe della solita politica. Se cercherà di realizzare gli obiettivi dichiarati (come la
creazione di occupazione, nuove politiche energetiche, cooperazione internazionale) con
mezzi pragmatici in qualche modo diversi dalle formule tradizionali della sinistra, questo
sarà coerente con il programma dichiarato, anche se certamente provocherà gli attacchi tra
i più ideologici fra i suoi sostenitori. In quale misura gli toccherà deviare dalle sue idee
originarie quando si troverà di fronte alle dure realtà dell’economia e della geopolitica del
nostro mondo, deve diventare oggetto di futura valutazione e ulteriore studio. Ma, mentre
io scrivo questo e voi, in un’altra piega dello spazio/tempo, lo leggete, la lezione analitica
fondamentale da ritenere è in che modo la politica insorgente della speranza è venuta in
primo piano sulla scena politica del mondo in un momento critico in cui la disperazione
era calata su di noi. Nella nostra memoria ci sarà sempre Berlino. E Grant Park.
Riprogrammare le reti, ristrutturare le menti, cambiare il mondo
I casi di studio presentati in questo capitolo sono finestre che si aprono sul paesaggio del
cambiamento sociale nel nostro tempo. Agendo sui codici culturali che costruiscono i
frame mentali, i movimenti sociali creano la possibilità di produrre un altro mondo, in
contraddizione con la riproduzione delle norme e discipline insite nelle istituzioni della
società. Introducendo nuove informazioni, nuove pratiche e nuovi attori nel sistema
politico, gli «insorti della politica» contestano l’inevitabilità della solita politica e
rigenerano le radici della nostra nascente democrazia. In entrambi i casi, alternano le
preesistenti relazioni di potere e e introducono nuove fonti di formazione delle decisioni
su chi ottiene che cosa, e su qual è il senso di ciò che otteniamo.
La realizzazione del cambiamento sociale nella società in rete procede riprogrammando
le reti di comunicazione che costituiscono l’ambiente simbolico per la manipolazione delle
immagini e l’elaborazione delle informazioni nelle nostre menti, determinanti ultime delle
pratiche individuali e collettive. Creare nuovi contenuti e nuove forme nelle reti che
connettono le menti e il loro ambiente comunicazionale equivale a ristrutturare
l’«impianto» delle nostre menti. Se sentiamo/pensiamo in maniera differente, acquisendo
nuovo significato e nuove regole per dar senso a questo significato, agiamo in maniera
differente, e finiamo per trasformare il modo in cui opera la società, o sovvertendo
l’ordine esistente o raggiungendo un nuovo contratto sociale che riconosca nuove relazioni
di potere in seguito ai cambiamenti nella mente pubblica. Pertanto, la tecnologia della
comunicazione che modella un dato ambiente comunicazionale ha conseguenze importanti
per il processo del cambiamento sociale. Quanto più grande è l’autonomia dei soggetti che
comunicano rispetto ai controllori dei nodi di comunicazione della società, tanto più alte
saranno le probabilità di introdurre messaggi che mettono in discussione valori e interessi
dominanti nelle reti di comunicazione. È questo il motivo per cui l’ascesa
dell’autocomunicazione di massa, come l’abbiamo analizzata nel capitolo 2, fornisce
nuove opportunità di cambiamento sociale in una società che è organizzata, in ogni ambito
di attività, intorno a una meta-rete di reti di comunicazione elettronica.
La riprogrammazione delle reti di significato influisce in misura sostanziale
sull’esercizio del potere nell’insieme delle reti. Se pensiamo alla natura come al nostro
fragile ambiente anziché come alla nostra risorsa da consumare, nuove forme di stili di
vita prevarranno sulle relazioni di potere costruite a favore dell’automobile, del petrolio e
delle industrie di costruzione, dei loro sostegni finanziari e dei loro emissari politici. Se la
globalizzazione è vista da un numero crescente di cittadini in tutto il mondo secondo
un’ottica multidimensionale, in cui mercati, diritti umani, salvaguardie ambientali e un
contratto sociale globale vanno armonizzati e regolati entro un nuovo sistema di
governance globale, l’imparare a vivere insieme in un mondo interdipendente potrà
prevalere sul potere delle multinazionali, degli operatori finanziari, degli apologeti
dell’appiattimento del mondo, dei burocrati del proclamato nuovo ordine globale. Se i
cittadini sapranno cogliere i loro governanti nell’atto di mentire, e se sapranno organizzare
la loro resistenza in comunità insorgenti istantanee, i governi in tutto il mondo dovranno
stare in guardia e prestare maggiore attenzione a quei principi della democrazia che in
larga misura hanno per così tanto tempo ignorato. I potenti spiano i loro sudditi fin
dall’inizio della storia, ma ora i sudditi possono osservare i potenti, almeno molto più che
in passato. Siamo tutti diventati potenziali citizen reporters che, se solo dotati di un
cellulare, possono registrare e immediatamente inviare nelle reti globali qualsiasi illecito
compiuto da chiunque, in qualsiasi luogo. A meno che le élite non si ritirino in
permanenza in uno spazio invisibile, i loro atti sono esposti alla sorveglianza decentrata di
milioni di occhi: oggi siamo tutti potenziali paparazzi. E se un outsider della politica punta
a diventare un leader politico mobilitando attori che il sistema emarginava, e rimpiazzando
il potere del denaro con il denaro di chi non ha potere, nuove strade di rappresentanza
democratica possono essere aperte dalla politica insorgente, usando il potere
dell’informazione e della comunicazione che rende possibile alle reti farsi base e alla base
farsi rete. Indipendentemente dal possibile tradimento della speranza inscritto nelle regole
della politica, il caso di studio di questo capitolo, come tante altre esperienze in tutto il
mondo, mostra che la speranza può essere imbrigliata per il cambiamento al punto che, se
inganno dovesse esserci, nuovi attori potrebbero levarsi a punire i falsi profeti e a
rivendicare il potere del popolo.
Tutti questi processi di cambiamento sociale, nei valori e nella politica, hanno trovato
una leva significativa nei mezzi offerti dalle reti dell’autocomunicazione di massa. È
tramite queste reti che la gente può essere raggiunta, e i media mainstream, impossibilitati
a ignorare il mondo in fermento dei molteplici canali di comunicazione che li circondano,
potrebbero essere costretti ad ampliare il ventaglio dei loro messaggi. Ovviamente, come
ho continuato a ripetere fino a risultare noioso nel corso di tutto questo libro, se la
tecnologia di per sé non produce cambiamento culturale e politico, ha tuttavia sempre
effetti potenti, di un genere indeterminato. Ma le possibilità create dal nuovo sistema di
comunicazione multimo-dale e interattivo rafforzano in misura straordinaria le possibilità
per nuovi messaggi e nuovi messaggeri di popolare le reti di comunicazione della società
in senso lato, riprogrammando in tal modo le reti intorno ai loro valori, interessi e progetti.
In questo senso, la costruzione di autonomia comunicativa è direttamente correlata allo
sviluppo dell’autonomia sociale e politica, un fattore chiave nell’assecondare il
cambiamento sociale.
Tuttavia, le tecnologie della libertà non sono libere. Governi, partiti, aziende, gruppi di
interesse, chiese, criminalità organizzata e apparati di potere hanno fatto una priorità
dell’imbrigliare il potenziale dell’autocomunicazione di massa al servizio dei loro interessi
specifici. Inoltre, nonostante il carattere diversificato di questi interessi, c’è un obiettivo
comune di questa variegata folla di poteri costituiti: tagliare gli artigli al potenziale
liberatorio delle reti di autocomunicazione di massa. Sono impegnati in un deciso progetto
strategico: le recinzioni elettroniche del nostro tempo. Come il potenziale della
rivoluzione industriale fu messo al servizio del capitalismo recintando i terreni comuni,
forzando in tal modo i contadini a diventare operai e permettendo ai proprietari terrieri di
diventare capitalisti, così i terreni comuni della rivoluzione comunicazionale vengono
espropriati per espandere l’intrattenimento per profitto e per mercificare la libertà
personale. La costruzione della storia non segue un copione già scritto, e così la sinergia
che ho documentato in questo capitolo tra la creazione di nuovo significato e
l’affermazione dell’autocomunicazione di massa è solo un episodio della lotta in corso tra
la disciplina dell’essere e la libertà del divenire.
È per questo forse che i movimenti sociali più decisivi della nostra epoca sono
esattamente quelli che mirano a preservare Internet libera, libera tanto dai governi quanto
dalle aziende, perché ritagliano uno spazio di autonomia comunicazionale che costituisce
il fondamento del nuovo spazio pubblico nell’Età dell’Informazione38.
1
Ho presentato altrove la mia teoria sui movimenti sociali, e non ritengo necessario ripeterla qui in dettaglio.
L’analisi dei casi presentati in questo capitolo fornirà un metodo migliore della formulazione astratta per comunicare la
teoria. Per i lettori interessati alla presentazione del retroterra teorico dello studio dei movimenti sociali, rimando alla
mia analisi in Il potere delle identità (Castells, 2004c, pp. 71-191). Per un’analisi dei movimenti sociali come «lotte
simboliche», concentrata sulle mobilitazioni contro la guerra e l’uso dei nuovi media nel Regno Unito, vedi Gillan et al.
(2008).
2
Il riscaldamento globale è un tipo di «cambiamento climatico» e i termini sono spesso usati in maniera
intercambiabile. La United Nations Framework Convention on Climate Change usa la formula «cambiamento climatico»
quando si riferisce alle modi usa la formula «cambiamento climatico» quando si riferisce alle modificazioni di origine
umana e «variabilità climatica» per gli altri tipi di cambiamento (United Nations Framework Convention on Climate
Change, 1992). Anche l’espressione «riscaldamento globale antropogenico» è usata quando si parla di cambiamenti
provocati dall’uomo.
3
Al Gore era allievo di Keeling a Harvard e ricorda di aver visto la «Curva di Keeling»; quel momento, scrive,
cambiò la sua visione del mondo (Gore, 1992).
4
I risultati variano a seconda della formulazione delle domande e dei diversi sondaggi. Nisbet e Myers (2007) fanno
notare che altri sondaggi mostrano che il 65 per cento del pubblico aveva sentito «molto» o «qualcosa» sul
riscaldamento globale nel 1997, dato che passa al 75 per cento del pubblico durante l’estate del 2001, al 76 per cento nel
2003, al 78 per cento nel 2006 e all’89 per cento nel 2007. Un altro sondaggio del Program on International Policy
Attitudes (PIPA Knowledge Networks Poll: Americans on Climate Change, 2005), con differenti misuratori, rileva che il
63 per cento del pubblico USA aveva sentito o letto «molto» o «qualcosa» sul riscaldamento globale nel 2004 e il 72 per
cento nel 2005.
5
Per la mia analisi del movimento ambientalista come movimento sociale, vedi la seconda edizione del mio Il potere
delle identità (Castells, 2004c: pp. 168-191).
6
Questa sezione si avvale ampiamente dello studio pionieristico condotto da un mio ex studente di Berkeley oggi
professore alla Northeastern University, Jeffrey Juris, per la sua dissertazione di dottorato in Antropologia, basata sui
suoi studi etnografici sui movimenti a Barcellona e in varie manifestazioni di protesta. L’indagine, svolta con la piena
informazione e consenso degli attivisti, ha fornito la base per un libro importante sullo sviluppo e il significato dei
movimenti sociali contro la globalizzazione delle multinazionali (Juris, 2008). Naturalmente questa sezione rispecchia la
mia interpretazione dei dati da lui raccolti, anche se penso che le nostre conclusioni non siano troppo distanti tra loro.
Per la mia analisi dei movimenti contro la globalizzazione delle multinazionali, vedi Castells (2004c, capitolo 2). Altre
fonti usate in questa sezione sono citate nel testo.
7
Joseph Stiglitz, professore di economia alla Stanford University, e premio Nobel per l’economia nel 2001, lasciò il
suo posto nell’amministrazione Clinton per diventare chief economist della Banca Mondiale. In dissenso con le politiche
economiche della Banca Mondiale e del FMI, da lui considerate disastrose (e dimostrate tali), finì per dimettersi dalla
Banca Mondiale, accettando cattedra alla Columbia University. Nei suoi scritti e nelle conferenze in giro per il mondo
documenta le sue critiche, proponendo politiche alternative orientate sia alla stabilità economica sia all’equità sociale
(vedi Stiglitz, 2002).
8
Una nota personale. A quel tempo mi trovavo a Barcellona, ed ero tra quelli che guardavano con scetticismo le
accuse del governo all’ETA, in parte perché avevo studiato Al Qaeda e l’attentato collimava perfettamente con quello
che sapevo della sua tattica. Così, pubblicai un articolo in La Vanguardia il mattino di sabato 13 sostenendo la
probabilità della connessione Al Qaeda e svelando la strategia di disinformazione del governo. L’articolo, insieme con
una seconda parte uscita la settimana dopo sullo stesso giornale, ricevette il premio Godo, uno dei maggiori
riconoscimenti nel giornalismo spagnolo; cosa sorprendente per me che non ho mai preteso di essere un giornalista.
9
Disponibile su
http://www.elpais.com/audios/cadena/ser/Entrevista/hombre/promovio/concentracion/sabado/frente/Genova/elpaud/20040316csrcsr_
10
Questa sezione è stata scritta tra l’aprile e l’agosto del 2008, a eccezione della parte conclusiva, sotto il titoletto «Il
day after»). Non è stata aggiornata perché il suo scopo è analitico e non documentario, e può rimanere così com’è. Il
risultato dell’elezione presidenziale mostra di essere coerente con le tendenze identificate in questo caso di studio. Ma,
quel che è rilevante dal punto di vista di questo libro è la funzione della nuova relazione tra comunicazione e insurgent
politics istituita dalla campagna di Obama, la prima campagna in cui gli usi politici di Internet hanno rivestito un ruolo
decisivo.
11
A partire dagli anni Ottanta il Partito Democratico USA ha scelto i suoi candidati alla corsa presidenziale con una
combinazione di 2000 delegati, che votano alla convenzione annuale di nomina secondo i risultati del voto popolare nei
loro rispettivi distretti, e 800 super-delegati, una selezione non eletta delle élite del Partito Democratico, che
comprendono senatori, congressisti e governatori di stato. Nelle primarie democratiche del 2008, Obama ha ottenuto
1763 voti dei delegati «vincolati» contro 1640 per Hillary, e 438 super-delegati contro 256 per Hillary. Comunque, la
maggior parte del vantaggio di Obama dai super-delegati è venuto da un movimento di supporto per la sua candidatura
nell’ultima fase della campagna, quando era ormai quasi certo che si sarebbe assicurato la maggioranza dei delegati
vincolati.
12
Milioni di cittadini americani non possono votare, o perché non sono registrati o non possono registrarsi
regolarmente, oppure perché hanno perso i diritti civili in seguito a una condanna penale, cosa che tocca principalmente
le minoranze. Inoltre, con l’eccezione degli Emirati del Golfo, gli Stati Uniti sono il paese in cui più estrema è la
contraddizione tra il vivere nel paese, lavorare e pagare le tasse, e partecipare alle elezioni. Ogni stato degli USA (tranne
il Vermont e il Maine) nega il diritto di voto a un individuo condannato a una pena detentiva, un divieto o permanente o
che dura finché si sia completata una complessa e spesso arbitraria serie di passi per ottenere la reintegrazione al voto. Il
Sentencing Project calcola che queste leggi sui reati escludono dal voto, a ogni tornata elettorale, approssimativamente
5,3 milioni di persone (King, 2006). Inoltre, nuove leggi approvate nel 2006 richiedono un documento d’identità con
foto rilasciato da un ente governativo per votare in determinati stati, una norma che esclude in misura sproporzionata dal
voto i poveri, gli immigrati naturalizzati e gli anziani. Si aggiungano a questi i circa 4-6 milioni di votanti i cui voti non
vengono conteggiati ai seggi in seguito a errori tecnici o umani, e il numero di cittadini americani che non esprimono il
proprio voto diventa straordinariamente alto (CalTech/MIT Voting Technology Project, 2006, p. 7). Le conseguenze sulla
vita civica sono gravi in termini di discrepanza tra essere lì e non avere il diritto di partecipare. Anche se, a essere
sinceri, il sistema americano di naturalizzazione, per quanto burocratico, è il più aperto del mondo nel riconoscere la
cittadinanza agli immigrati. La linea politica è ancora quella di facilitare l’accesso alla cittadinanza, ma il grosso di una
stima di 12 milioni di immigrati senza documenti rende difficile applicare il principio.
13
Secondo lo US Census Bureau, 126 milioni di americani hanno votato nel novembre del 2004, un record per un
anno elettorale presidenziale. Circa il 72% dei cittadini americani in età di voto si erano registrati per votare nel 2004,
secondo l’ultimo censimento USA. Tuttavia, questi dati non riflettono le disuguaglianze demografiche della
registrazione dei votanti negli USA. Anche se gli immigrati naturalizzati hanno il diritto di votare in tutte le elezioni
statunitensi fin dagli anni Venti, successive disposizioni di legge sull’immigrazione hanno reso più difficile il voto dei
cittadini immigrati. La maggior parte degli stati oggi richiedono un valido documento di identità con foto rilasciato dal
governo o il certificato di nascita, cosa che ha un impatto sproporzionato sulla capacità di voto degli immigrati
naturalizzati. Nel 2004, quasi il 93% dei votanti registrati era nato negli Stati Uniti e solo il 61% dei cittadini
naturalizzati era registrato per il voto (rispetto al 72% dei nativi). Anche l’età è un fattore importante: il 79% dei cittadini
oltre i 55 anni erano registrati al voto nel 2004 rispetto al 58% della fascia di età dai 18 ai 24 anni. Anche tra gli
americani bianchi la registrazione al voto è più alta (74%) che tra gli afroamericani (68,7%), gli ispanici (57,9%) o gli
asiatici (51,8%). Un altro fattore critico è il livello di istruzione. Solo il 52,9% degli americani privi di diploma superiore
sono registrati al voto, rispetto all’87,9% degli americani che hanno finito il college. Inoltre, solo il 48% degli americani
che vivono in famiglie con un reddito annuo inferiore ai $20.000 è registrato al voto rispetto al 77% di quelli che vivono
in famiglie che guadagnano più di $50.000 all’anno. Tutte queste statistiche sono prese da un documento ufficiale
rilasciato dallo US Census Bureau (vedi Holder, 2006).
14
Con tale espressione si indica il giorno in primavera in cui si tengono le primarie nel più alto numero di stati. Nella
primavera del 2007, 24 stati, rappresentanti oltre la metà dei delegati elettorali alla Convenzione nazionale, votavano per
spostare la data delle loro primarie al martedì 5 febbraio 2008, creando il più grande «supermartedì» mai tenuto, quello
che la stampa chiamava popolarmente il «super-super martedì».
15
Questa biografia di impostazione analitica si basa su articoli giornalistici e sulla mia lettura di Dreams of My
Father (1995, 2004) di Obama, il libro che, come è successo a tanti altri, mi ha fatto conoscere per la prima volta
l’affascinante personalità di Barack Obama.
16
Non era povero. La sua famiglia si poteva definire di classe media. Il nonno era un modesto venditore ma la nonna
fece carriera in una banca locale nelle Hawaii, diventandone vicepresidente. Comunque, per tre anni alle Hawaii lui visse
in un piccolo appartamento con la madre e la sorella Maya, mentre la madre studiava antropologia, e i tre vissero della
magra borsa di studio della madre, a volte con i buoni cibo.
17
I totali di Bush e Kerry si riferiscono ai fondi raccolti fino al 31 agosto 2004. Entrambi i candidati accettarono il
finanziamento pubblico per le elezioni generali del 2004, e così questi totali riguardano solo denaro raccolto per le
campagne per le primarie.
18
Per un resoconto aggiornato dei contributi a Obama, vedi il sito web della Federal Election Commission
Presidential Finance: http://www.fec.gov
19
Un’indagine su 24 paesi, condotto dalla Pew Global Attitudes Project (2008) da marzo ad aprile 2008, rileva che gli
intervistati esprimevano maggior fiducia in Obama che in McCain per fare la cosa giusta negli affari mondiali in ogni
paese tranne che negli Stati Uniti, dove la competenza dei candidati in politica estera era ritenuta alla pari, e in Giordania
e in Pakistan, dove poche persone avevano fiducia nell’uno o nell’altro candidato. Obama era visto più favorevolmente
della Clinton in quasi tutti i paesi tranne che in India (58% contro 33%), in Sudafrica (57% a 36%), e in Messico (36% a
30%).
20
I sondaggisti si accorsero per la prima volta del cosiddetto «effetto Bradley» nel 1982, quando il sindaco nero di
Los Angeles Tom Bradley aveva un solido vantaggio nei sondaggi svolti prima delle elezioni a governatore, ma perse di
misura con l’avversario repubblicano. I risultati di questa e altre elezioni in cui erano presenti candidati neri indicavano
che, quali che fossero i motivi, i sondaggi preelettorali tendevano a sopravvalutare il sostegno ai candidati neri rispetto
alle reali percentuali di voto.
21
Saul Alinsky, laureatosi in sociologia alla University of Chicago, si dedicò a organizzare i lavoratori e i residenti a
basso reddito nelle loro comunità per migliorarne le condizioni di vita. Arruolato da diverse chiese a Chicago e altrove
per consolidare e mobilitare i loro programmi sociali, fondò la sua Industrial Areas Foundation e sviluppò un metodo d
organizzazione di comunità che divenne un punto di riferimento per generazioni di operatori sociali in tutti gli Stati
Uniti. In un paese nettamente diviso per razza, etnia e classe, lui auspicava l’unità del popolo come popolo, e a questo
scopo la sua strategia consisteva nel trovare un tema concreto che fosse importante per una comunità e nell’organizzare
una coalizione delle organizzazioni di base già esistenti per dar battaglia su quel tema. Appena raggiunto l’obiettivo, era
fondamentale trovare un nuovo bersaglio per cui combattere, e poi un altro e un altro ancora. Questo perché a suo parere
l’unica risorsa su cui la gente potesse contare era la propria autorganizzazione, e questa poteva essere mantenuta in vita
solo grazie alla mobilitazione. Si definiva radicale, ma criticava le posizioni ideologiche, e diffidava dei politici, che per
lui erano un bersaglio su cui premere anziché i leader riconosciuti del popolo. Usava il termine «radical» nel suo senso
originale di andare alla radice. Alla radice della democrazia americana, una democrazia basata su comunità
autosufficienti e individui liberi. Non vedeva nulla di male nel sistema, sia come economia di mercato sia come
democrazia liberale. La sua critica riguardava lo squilibrio di potere esistente tra i ricchi, gli organizzati, e la cittadinanza
frammentata. Così, organizzando la gente comune, vedeva la possibilità di ristabilire l’equilibrio di potere tra i politici e
le grandi imprese da una parte e i cittadini dall’altra. Entro queste condizioni, la democrazia americana poteva
funzionare correttamente (vedi Alinsky, Reveille for Radicals, 1946). Ho analizzato l’esperienza di organizzazione di
comunità, nella teoria e nella pratica, nel mio The City and the Grassroots (1983, pp. 60-65 e 106-137). Penso che non
sarebbe fantasioso affermare che la voce di Alinsky risuona nella mente di Obama, anche se naturalmente egli ha
selezionato i temi e i toni che rientravano nella sua interpretazione della politica. È interessante ricordare che Hillary
Clinton lavorò con Alinsky nel 1968 e scrisse la tesi di laurea a Wellesley su di lui. Durante il periodo in cui era la First
Lady, chiese a Wellesley di non divulgare la sua tesi – probabilmente perché non voleva che il GOP la usasse contro i
Clinton.
22
Professore dell’Occidental College che scrive per The Huffington Post.
23
Salvo diversa indicazione, queste statistiche vengono dal Pew Internet and American Life (2008), n = 2551. Per
risultati basati sul campione totale si può dire con una sicurezza del 95 per cento che l’errore attribuibile alla
campionatura e ad altri effetti random è di più o meno 2,4 punti percentuali. Per risultati basati su utenti di Internet (n =
1553), il margine di errore del campione è ± 2,8 punti percentuali.
24
Una Political Action Committee (PAC) che permette a individui e gruppi di versare i loro dollari progressisti a
candidati e movimenti di loro scelta.
25
Qualche settimana dopo il successo di «Obama Girl», Taryn Southern, una cantautrice-attrice, mandò su YouTube
«Hott4Hill» come «risposta» al video precedente. Comunque «Hott4Hill» richiamò più attenzione per le sue
connotazioni lesbiche che per altro.
26
C-Span è un canale statunitense di servizio pubblico senza pubblicità creato nel 1979 e sostenuto dai providers
americani via cavo. Il canale presenta materiale in diretta non montato sulle attività del governo oltre a programmi
d’interesse pubblico.
27
La pagina si apriva con una lettera di David Plouffe che diceva: «Oggi lanciamo un sito web che raccoglierà tutti gli
attacchi che la senatrice Clinton ha lanciato da quando, alla cena Jefferson-Jackson, il 10 novembre, ha dichiarato che
non intendeva attaccare altri democratici. Chiediamo a voi tutti di vigilare e notificarci immediatamente gli attacchi della
senatrice Clinton e dei suoi sostenitori appena li vedete, così che possiamo rispondere con la verità immediatamente ed
energicamente. Questi attacchi potrebbero avvenire sotto forma di telefonate, volantini, post su blog, corrispondenza o
spot alla radio e alla televisione. Qualcuno potrebbe essere anche anonimo o inteso a essere tale. Vi preghiamo di
inviarceli via mail a hillaryattacks@barackobama.com non appena vedete qualcosa. La senatrice Clinton ha detto che per
lei è un divertimento attaccare Barack ogni giorno da qui in avanti, ed è per questo che abbiamo bisogno del vostro aiuto
per far cessare questi attacchi e far sì che Barack possa continuare a parlare con gli elettori e i partecipanti ai caucus
delle lotte che si trovano ad affrontare e della loro speranza per l’America».
28
Tim Russert disse al senatore Barack Obama, «Il titolo di uno dei suoi libri, The Audacity of Hope, come ha
ammesso lei stesso, viene da un sermone del reverendo Jeremiah Wright, il capo della Trinity United Church. Lui dice
che Louis Farrakhan [leader della Nation of Islam] “è emblema di grandezza”. Lei che cosa fa per assicurare agli ebrei
americani che, si tratti dell’appoggio di Farrakhan o delle attività del reverendo Jeremiah Wright, il suo pastore, lei sia
davvero coerente con le questioni riguardanti Israele e che in nessun modo ritenga che Farrakhan sia l’emblema di
grandezza?». In realtà, secondo un servizio di Media Matters (3 marzo 2008), Wright non aveva mai affermato che
Farrakhan fosse l’emblema di grandezza: a dirlo era stato un membro del suo staff.
29
Circostanza interessante, dal momento che le chiese ricadono sotto il capitolo 513 della normativa fiscale
riguardante le opere di carità, appoggiare candidati politici da parte loro è in realtà illegale, per cui la testimonianza di
Wright era effettivamente discutibile dal punto di vista della legalità. Ecco la testimonianza cancellata: «Rev. Jeremiah
A. Wright Jr., pastore anziano della Trinity United Church of Christ, Chicago, Ill., pastore del senatore Obama: “Le mie
preoccupazioni riguardano la sanità; la guerra in Iraq; l’alto tasso di recidività nel nostro sistema di giustizia penale; la
scadenti condizioni del sistema della scuola pubblica in Illinois. Molte delle risorse che vanno a sostenere programmi
come quelli per chi è affetto da HIV/AIDS oggi vengono spese per la guerra in Iraq. Dobbiamo comunicare… Io
appoggio Barack per la sua fede incarnata – la sua fede resa viva nella carne. Lui raggiunge tutte le comunità di fedeli e
anche quelli che non hanno alcuna fede. Sta costruendo una comunità in cui tutti abbiano valore. Questo genere di fede
non è facile da trovare nel 2007 e un uomo come Barack è una rarità”».
30
Obama ha quasi quadruplicato il distacco di John Kennedy su Richard Nixon tra gli elettori giovani. Il 66 per cento
dei votanti al di sotto dei trent’anni hanno sostenuto Obama, un vantaggio di oltre il 20% su John McCain. Inoltre, si
calcola che il 60% di tutti i votanti registrati per la prima volta nel 2008 erano di età inferiore ai trent’anni (CIRCLE,
2008).
31
Il 3 novembre 2008 la US National Association of Secretaries of State (NASS) pubblicava i numeri preliminari
della registrazione al voto. Il rapporto documentava un aumento record delle registrazioni in 20 stati. Comunque, i dati
finali saranno probabilmente più alti perché il rapporto preliminare comprendeva numeri raccolti prima del termine
finale della registrazione per molti stati. I dati definitivi non sono ancora disponibili al momento in cui scrivo.
32
Obama vinse le elezioni presidenziali assicurandosi i voti di 365 collegi elettorali contro i 173 di McCain. Ottenne
69.456.898 milioni di voti (il 52,87% dei voti totali), mentre 59.934.814 milioni di votanti sostenevano McCain. La
partecipazione degli elettori crebbe dal 60,6% del 2004 al 63% nel 2008, un aumento del 2,4% (Gans, 2008a). Ma questa
percentuale non fa giustizia del livello di partecipazione dei cittadini, perché la registrazione al voto crebbe da 143
milioni nel 2004 a circa 185 milioni nel 2008, un incremento largamente attribuito alla campagna di Obama. Ottenne più
voti, in termini numerici assoluti, di qualsiasi altro candidato presidenziale americano fino ad allora (nel 1984 Ronald
Reagan ricevette 54.455.472 voti, motivò la più alta partecipazione elettorale della storia da parte dei giovani, e produsse
la più alta percentuale di cittadini votanti in un’elezione presidenziale almeno dal 1964.
33
Secondo i dati degli exit poll del National Election Pool (NEP), Obama batteva John McCain in diverse categorie di
gruppi demografici, gruppi economici e gruppi di pressione (dati NEP riportati dal New York Times, 2008). Le sue fonti
di supporto più significative comprendevano: votanti sotto i trent’anni (66% contro il 46% che votavano per McCain),
elettori al primo voto (69% a 35%), afroamericani (95% a 4%), ispanici (66% a 32%) e redditi annui minori di $50.000)
(60% a 38%). Vinceva anche tra le donne (56% a 43%), i cattolici (54% a 45%) e gli ebrei (78% a 21%). Prendeva anche
i voti di chi aveva redditi annui superiori a $200.000 (52% a 46%), in netto contrasto con John Kerry che nel 2004 aveva
conquistato solo il 35% di questo gruppo demografico. Diventava anche il primo democratico dopo Bill Clinton nel 1992
a ottenere, sia pure di stretta misura, la maggioranza del voto maschile (49% a 48%). In termini di temi di interesse,
Obama vinceva con margine significativo tra gli elettori che consideravano la questione più importante l’economia (53%
a 44%), l’Iraq (59% a 39%), la sanità (73% a 26%) e l’energia (50% a 46%). Viceversa, McCain era in vantaggio tra gli
elettori che consideravano il terrorismo il tema più importante della piattaforma elettorale (86% contro il 13% per
Obama; Pew 2008d). John McCain riusciva a tenere in determinati gruppi demografici. Obama perdeva tra i votanti
bianchi (43% a 55%), tra i maggiori di 65 anni (45% a 53%), tra i protestanti (41% a 50%) e tra gli abitanti dei piccoli
centri e delle aree rurali (45% a 53%). In quasi tutti i casi, però, Obama ebbe migliori risultati con quelle popolazioni che
non i candidati democratici in precedenti cicli elettorali presidenziali. Per esempio, l’unico altro candidato democratico
che fu all’altezza del risultato di Obama tra gli elettori bianchi nelle elezioni successive al 1972 fu Bill Clinton nel 1996.
Vinse anche in tutti gli stati che avevano votato per Kerry nel 2004, e aggiunse nove stati che nel 2000 e nel 2004
avevano votato repubblicano, comprese alcune roccaforti repubblicane come l’Indiana, la Virginia, il North Carolina e la
Florida.
34
Le cifre provengono dalla dichiarazione ufficiale alla FEC della campagna di Obama, 24 novembre 2008.
35
Questa dichiarazione fu fatta durante un’intervista a NewsHour con Jim Lehrer, il 21 febbraio 2000.
36
Uno studio dello University of Wisconsin Advertising Project (2008) rileva che solo il 26% della pubblicità
elettorale di McCain era esente da attacchi a Obama, rispetto al 39% della campagna di Obama.
37
Nel settembre del 2008, in quella che è stata ampiamente percepita come una gaffe politica, McCain «sospendeva la
sua campagna» per tornare a Washington per contribuire a far passare al Congresso una legge per salvare il sistema
bancario americano. McCain però fu criticato per aver indebolito anziché facilitare la rapida approvazione del progetto
di legge. Un sondaggio Pew (2008e) condotto nel mese di ottobre rilevava che solo il 33% degli intervistati riteneva che
McCain potesse gestire meglio l’economia, il tema più citato come punto critico per i votanti nel giorno delle elezioni.
38
Questa fondamentale area di indagine dei movimenti sociali che puntano a dar forma all’uso e alle regole di Internet
e di altre reti di comunicazione sta diventando il centro di una notevole attenzione per la ricerca accademica, in
particolare tra la nuova generazione degli studiosi della comunicazione. Così, la mia studentessa di dottorato Lauren
Movius sta indagando sui movimenti sociali globali che mirano alla democratizzazione della governance globale di
Internet (Movius, di prossima pubbl.). Un altro dei miei studenti all’Annenberg School of Communication, Sasha
Costanza-Chock, sta conducendo un’analisi comparativa degli usi dei nuovi media di comunicazione da parte di
movimenti sociali locali, prendendone in considerazione sia la pratica locale sia il networking globale (Costanza-Chock,
di prossima pubbl. a). Tra molti altri studenti di Annenberg impegnati in questo campo di ricerca, posso citare Russell
Newman (2008) e Melissa Brough (2008). Le ricerche di Downing (2000), Couldry e Curran (2003), Cardoso (2006) e
McChesney (2008), tra gli altri, sono state all’avanguardia in questo campo di studio. Per un punto di vista europeo della
questione, vedi Milan (2008). Per un punto di vista cinese sui conflitti sociali legati alla emergente società in rete, vedi
Qiu (di prossima pubbl.).
Conclusione
VERSO UNA TEORIA COMUNICAZIONALE DEL POTERE
Le analisi presentate in questo libro offrono, a mio parere, supporto empirico a un certo
numero di ipotesi riguardanti la natura del potere nella società in rete. Il potere è esercitato
prevalentemente con la costruzione di significato nella mente umana tramite processi di
comunicazione attivati nelle reti multimediali globali/locali della comunicazione di massa,
ivi compresa l’autocomunicazione di massa. Anche se le teorie del potere e l’osservazione
storica segnalano l’importanza decisiva del monopolio statale della violenza come fonte
del potere sociale, io sostengo che la capacità di impegnarsi con successo nella violenza o
nell’intimidazione richiede l’inquadramento delle menti individuali e collettive secondo
frame inter-pretativi. Per esempio, la guerra in Iraq è stata resa possibile dalla campagna di
disinformazione condotta in base al frame della «guerra al terrore» dall’amministrazione
Bush per conquistare le menti degli americani allo scopo di conquistare l’Iraq e rimanere
in possesso della Casa Bianca.
Il fluido funzionamento delle istituzioni della società non deriva dalla capacità
giudiziaria e poliziesca che hanno di ridurre i cittadini alla sottomissione. Anzi, in una
società in cui le istituzioni diventano disfunzionali a causa di una loro penetrazione in
profondità da parte di reti criminali, la polizia diventa una minaccia per i cittadini
rispettosi della legge, che organizzano la loro vita il più lontano possibile dai corridoi del
Palazzo. Ciò che la gente pensa delle istituzioni sotto le quali vive, e il modo in cui si
relaziona con la cultura dell’economia e della società, definiscono chi esercita il potere e
come lo può esercitare. Nelle guerre atroci che proliferano nel pianeta, mentre entrano in
gioco nella carneficina gli interessi economici e le ambizioni personali, gli individui
uccidono altri individui per sentimenti che provano: ostilità etnica, fanatismo religioso,
odio di classe, xenofobia nazionalista, rabbia individuale. I messia, i trafficanti d’armi e le
potenze straniere si dedicano alla manipolazione simbolica per portare le masse
all’autodistruzione. Inoltre, la violenza politica è una forma di comunicazione, in quanto
agisce sulla mente della gente tramite immagini di morte per instillare paura e
intimidazione. Questa è la strategia del terrorismo, che ricorre a manifestazioni
spettacolari di distruzione indiscriminata allo scopo di produrre uno stato permanente di
insicurezza tra la popolazione presa di mira. Le misure di sicurezza adottate per
contrastare la minaccia prolungano paura e ansia, suscitando nei cittadini un appoggio
acritico verso capi e protettori. La violenza, trasmessa dalle reti di comunicazione, diventa
il medium per la cultura della paura.
Così, la violenza e la minaccia della violenza si combinano sempre, almeno nel contesto
odierno, con la costruzione di senso nella produzione e riproduzione delle relazioni di
potere in ogni ambito della vita sociale. Il processo di costruzione del senso opera in un
contesto culturale che è simultaneamente globale e locale, ed è caratterizzato da una
fortissima diversificazione. C’è però un tratto comune a tutti i processi di costruzione
simbolica: essi dipendono in larga misura dai messaggi e dai frame creati, formattati e
diffusi nelle reti di comunicazione multimediali. Anche se ogni singola mente umana
costruisce il proprio significato interpretando secondo i propri termini il materiale
comunicato, questa elaborazione mentale è condizionata dall’ambiente comunicazionale.
Inoltre, mentre nel nuovo mondo dell’autocomunicazione di massa e di un pubblico
altamente segmentato vi sono pochi casi di condivisione di massa simultanea dei messaggi
mediatici, ciò che è ampiamente condiviso è la cultura della condivisione dei messaggi
provenienti da mittenti/riceventi multipli. Proprio perché così versatile, diversificato e
aperto, il nuovo sistema di comunicazione integra messaggi e codici di ogni provenienza,
accogliendo gran parte della comunicazione socializzata nelle sue reti multimodali e
multicanale. Quindi, se le relazioni di potere sono costruite in gran parte nella mente
umana, e se la costruzione di significato nella mente umana è in primo luogo dipendente
dai flussi di informazioni e di immagini elaborati dalle reti di comunicazione, sarebbe
logico concludere che il potere risiede nelle reti di comunicazione e nei loro proprietari
commerciali.
Questa conclusione potrà anche essere logica, ma è empiricamente sbagliata. Perché se
è vero che le reti di comunicazione sono certamente i messaggeri, non sono però il
messaggio. Il medium non è il messaggio, anche se del messaggio condiziona formato e
distribuzione. Il messaggio è il messaggio, e il mittente del messaggio è alla fonte della
costruzione di significato. Per la precisione, è uno dei termini di questa costruzione.
L’altro è la mente, individuale e collettiva, del destinatario. Per mente collettiva intendo il
contesto culturale in cui il messaggio è recepito.
Rimandando alla concettualizzazione proposta nel capitolo 1, dirò che le reti di
comunicazione multimediale esercitano congiuntamente il potere di rete sui messaggi che
veicolano, perché tali messaggi devono adattarsi ai protocolli condivisi della
comunicazione (gli standard, nella formulazione di Grewal [2008]) insiti nella struttura e
nella gestione delle reti. Tuttavia, mentre le forme standardizzate della comunicazione di
massa possono modellare le menti tramite la formattazione dei messaggi (per esempio, i
notiziari come informazione-spettacolo), nel mondo dell’autocomunicazione di massa la
diversificazione dei formati è la norma. Così, apparentemente, gli standard sono svalutati
come fonte di potere della rete. La digitalizzazione però opera come un protocollo di
comunicazione. In linea di principio, tutto può essere digitalizzato, per cui non si direbbe
che questo standard inibisca il messaggio. Eppure, questo ha un significativo effetto
opposto: amplifica la diffusione del messaggio al di là del controllo di chiunque. La
digitalizzazione equivale alla potenziale diffusione virale attraverso le reti globali della
comunicazione. Questo è altamente positivo se vuoi diffondere il messaggio, ma è
devastante se non vuoi che il messaggio sia diffuso (se, poniamo, il messaggio è la
registrazione in video di qualcosa che non avresti dovuto fare). In questo caso, il potere di
rete esercitato dalle reti digitali assume una forma nuova: la cancellazione del controllo
sulla distribuzione del messaggio. Questo è in contrasto con il tradizionale potere di rete
dei mass media che riformatta il messaggio per adattarlo al pubblico secondo la strategia
aziendale.
Le reti multimediali, tuttavia, in quanto strutture di comunicazione, non detengono
autonomamente il potere di networking, il potere in rete o il potere di network-making.
Dipendono dalle decisioni e dalle istruzioni dei loro programmatori. Nel mio quadro
concettuale (vedi capitolo 1), il potere di networking consiste nella capacità di far andare
un medium o un messaggio in rete mediante procedure di gatekeeping. I responsabili delle
operazioni di ciascuna rete di comunicazione sono i guardiani (gatekeepers), e quindi
esercitano il potere di networking negando o concedendo l’accesso agli organi dei media
e/o ai messaggi che sono trasmessi alla rete. Lo definisco esercitare il gatekeeping dei nodi
e il gatekeeping dei messaggi. La nascita dell’autocomunicazione ha modificato
profondamente la capacità di guardia dei programmatori della comunicazione di massa.
Qualsiasi cosa raggiunga Internet può raggiungere il mondo in generale. Comunque, il
gatekeeping conserva ancora un notevole potere di networking perché gran parte della
comunicazione socializzata è ancora elaborata attraverso i mass media, e i siti web di
informazione più popolari sono quelli dei media mainstream a causa dell’importanza che
ha il branding nella fonte del messaggio. Inoltre, il controllo governativo su Internet e i
tentativi del business aziendale di rinchiudere le reti di comunicazione nei loro «giardini
cintati» di proprietà privata mostrano la persistenza del potere di networking nelle mani
dei gatekeeper.
Il potere reticolare (networked power), che va distinto dal potere in rete (network
power) e dal potere di networking (networking power), è la forma di potere esercitata da
determinati nodi su altri nodi all’interno della rete. Nelle reti di comunicazione, questo si
traduce in potere di agenda-setting, di direzione e di decisione editoriale nelle
organizzazioni che posseggono e gestiscono reti di comunicazione multimediali. Nei
capitoli 3 e 4 ho analizzato la struttura stratificata della pratica decisionale nei media
aziendali, concentrandomi sull’elaborazione di informazioni politicamente rilevanti. Ho
mostrato la complessa interazione tra i diversi soggetti di decisione nella produzione dei
notiziari (gli attori sociali che fissano l’agenda delle comunicazione, come i governi o le
élite sociali; i padroni delle reti di comunicazione e i loro sponsor di mercato, tramite
l’intermediazione delle agenzie pubblicitarie; i manager; i direttori di testata; i giornalisti;
e una audience sempre più interattiva). È a ciascuno di questi livelli che i programmatori
esercitano il potere. Vi sono molteplici programmatori in ciascuna rete. Mentre esiste una
gerarchia nella capacità di programmare la rete, è l’insieme dei programmatori a decidere
congiuntamente le operazioni della rete. Poiché interagiscono tra loro, oltre che con i
programmatori di altre reti di comunicazione, si può dire che i programmatori
costituiscono essi stessi una rete: una rete decisionale per stabilire e gestire i programmi
della rete. Ma si tratta di un potere specializzato: è finalizzato ad assicurare la
realizzazione degli obiettivi della rete, che consistono principalmente nel richiamare
pubblico, a prescindere dallo scopo associato all’obiettivo: che sia massimizzare i profitti,
influenzare, o altro. L’obiettivo generale della gestione delle reti da parte del potere
reticolare dei programmatori è quello di costituire i programmati. I programmati sono i
soggetti subordinati dei detentori del potere nelle reti di comunicazione. Tuttavia, il
governo reticolare delle reti di comunicazione opera entro le condizioni di un meta-
programma che è stato progettato da qualcun altro esterno alla rete. Questo enigmatico
«qualcun altro» è il soggetto della forma più determinante di potere: il potere della
creazione di reti.
Il potere della creazione di reti (network-making power) è la capacità di impiantare e
programmare una rete, in questo caso una rete multimediale di comunicazione di massa.
Questo si riferisce principalmente ai proprietari e controllori delle aziende mediatiche, che
si tratti del mercato o dello stato. Sono quelli che dispongono dei mezzi finanziari, legali,
istituzionali e tecnologici per organizzare e dirigere reti di comunicazione di massa. E
sono quelli che, in ultima analisi, decidono del contenuto e del formato della
comunicazione, secondo la formula che meglio realizzerà gli obiettivi che assegnano alla
rete: creazione di profitto, creazione di potere, creazione di cultura, o tutte e tre le cose.
Ma chi sono «quelli»? Posso fare qualche nome: Murdoch, Berlusconi, Bloomberg e, se
vogliamo aggiungere anche le compagnie di Internet, Sergey Brin, Larry Page, Jerry Yang,
David Filo e simili. Ma l’analisi presentata nel capitolo 2 mostra un’immagine assai
complessa della realtà delle reti commerciali multimediali globali, il nucleo dell’intero
sistema di comunicazione, globale, nazionale e locale. Il potere di creazione di reti è nelle
mani di un esiguo numero di conglomerate, loro surrogate e loro partner. Ma queste
conglomerate sono formate da reti di proprietà mediatiche incrociate che operano secondo
molteplici modalità e in molteplici ambienti culturali e istituzionali. E le conglomerate
multimediali sono partecipate da investitori finanziari di svariata origine, tra cui gli istituti
finanziari, i fondi sovrani, i fondi di private equity, gli hedge fund e altri. Vi sono alcuni
casi eccezionali di capacità decisionali altamente personalizzate, ma, come analizzo più
avanti, persino nel caso Murdoch, vige la dipendenza da altre fonti che hanno il potere
della creazione di reti.
In sintesi: i meta-programmatori dotati di capacità di creazione di reti sono essi stessi
reti aziendali, di cui ho presentato struttura e dinamiche nel capitolo 2. Sono reti che
creano reti e che le programmano per realizzare gli obiettivi che queste reti originarie
incarnano: massimizzazione dei profitti sui mercati finanziari globali; incremento del
potere politico per le aziende di comunicazione di proprietà statale; e l’attrazione, la
creazione e l’intrattenimento del pubblico come mezzo per accumulare capitale finanziario
e capitale culturale. Inoltre, la gamma di investimento delle reti commerciali multimediali
globali aumenta con il presentarsi delle nuove possibilità di comunicazione interattiva
multimodale, in particolare Internet e le reti di comunicazione wireless. In questo caso, la
programmazione delle reti non riguarda tanto il contenuto quanto il formato. Internet
diventa remunerativa solo se la gente la usa, e la gente la userebbe di meno se essa
perdesse i suoi caratteri fondamentali: interattività e comunicazione libera da vincoli,
indipendentemente da quanto possa essere sorvegliata dai governi. L’espansione delle reti
di Internet, e lo sviluppo del Web 2.0 e del Web 3.0, offrono straordinarie opportunità
commerciali per l’applicazione della strategia che io chiamo mercificazione della libertà:
recintare i beni comuni della comunicazione libera e mettere in vendita l’accesso alle reti
di comunicazione globale chiedendo in cambio alla gente che ceda la propria privacy e
diventi bersaglio della pubblicità. Tuttavia, una volta nel cyberspazio, la gente può farsi
venire in mente ogni genere di idee, compresa quella di sfidare lo strapotere delle imprese,
smantellare l’autorità del governo, e cambiare le basi culturali della nostra civiltà
invecchiata e acciaccata.
È dunque in atto un processo dialettico che ho documentato nel capitolo 2 e analizzato
nei termini delle sue manifestazioni politiche nel capitolo 5: quanto più le aziende
investono nell’espansione delle reti di comunicazione (traendo beneficio dai ricchi ritorni
economici), più la gente costruisce le proprie reti di autocomunicazione di massa,
acquisendo così potere. Quindi, il potere della creazione di reti nel regno della
comunicazione è caratterizzato dall’azione delle reti aziendali multimediali (commerciali e
statali) che interagiscono con gli utenti in rete, i quali consumano prodotti mediatici e al
tempo stesso creano una propria cultura. Le reti interagiscono con le reti nel processo
condiviso della creazione di reti.
Ma dov’è, in tutto questo, il potere? Se il potere è la capacità relazionale di imporre la
volontà e i valori di determinati attori sociali su altri, chi sono questi attori sociali? Ho
mostrato come il potere si realizza tramite le reti di comunicazione, come queste reti
operano, e come e da chi queste reti di comunicazione sono disseminate e programmate.
Ma di chi elaborano il potere queste reti? Se i meta-programmatori sono i padroni delle
reti commerciali multimediali, sono loro l’élite del potere nella società in rete? Si sarebbe
tentati di giocare con le parole e definire la trasformazione del potere nella società in rete
come il passaggio dalla proprietà dei mezzi di produzione alla proprietà dei mezzi di
comunicazione, visto che, come propongono alcuni teorici, siamo passati dalla produzione
di beni alla produzione di cultura. In effetti è una proposizione elegante, ma ci lascia
sospesi nel discorso senza un preciso riferimento al dramma concreto delle lotte di e
contro il potere nel nostro mondo.
I padroni delle reti aziendali multimediali globali (essi stessi reti, ma reti di persone al
timone di organizzazioni) sono certamente tra i detentori del potere della società in rete
perché programmano la rete decisiva: la meta-rete delle reti di comunicazione, di quelle
reti che elaborano i materiali ideativi con cui sentiamo, pensiamo, viviamo, ci
sottomettiamo o combattiamo. La loro relazione con gli attori sociali su cui esercitano il
potere è anch’essa facile da individuare: trasformano gli esseri umani in audience
vendendo l’immagine della vita che viviamo. Così, realizzano i loro interessi (fare denaro,
avere influenza) disegnando il contenuto della cultura in base alle proprie strategie
aziendali. Questo non vuol dire necessariamente che impongano i loro valori su di noi
(benché spesso lo facciano), perché l’efficacia dei media dipende dal loro adattamento a
diversi schemi culturali e stati mentali e dall’evoluzione differenziale di tali schemi e
umori. Vuol dire che la linea che sarà elaborata nelle reti dipende da che cosa si vende (o
di che cosa si vuole persuadere, se la motivazione è politico-ideologica),
indipendentemente dalla congruità tra ciò che le aziende vogliono e ciò che vogliamo noi.
La scelta del consumatore esiste, ma entro un ventaglio di prodotti predefiniti, e
presuppone il consumo più che la co-produzione. È per questo che la nascita
dell’autocomunicazione di massa, che accresce l’abilità nostra, del pubblico, di produrre
messaggi, è potenzialmente una sfida al controllo commerciale della comunicazione e
potrebbe cambiare le relazioni di potere nella sfera della comunicazione. Per il momento,
però, c’è ancora competizione ineguale tra la produzione mediatica professionalizzata e i
nostri home video di bassa qualità o i pettegolezzi sui blog. I media aziendali si sono
adattati al mondo digitale e stanno ampliando la gamma dei prodotti personalizzandoli su
profili individuali. Dal momento che non siamo capaci di reinventare Hollywood da soli,
usiamo Internet per il social networking (di solito attraverso piattaforme commerciali),
mentre la gran parte della produzione culturale è concentrata globalmente e mirata
individualmente. La relazione di potere tra le reti aziendali multimediali e la società in
senso lato ruota intorno alla configurazione della produzione culturale secondo la volontà,
i valori e gli interessi della proprietà e degli sponsor.
Tuttavia, lo spettro delle relazioni di potere è molto più ampio, e include, in particolare,
le relazioni di potere di tipo politico, che permettono di accedere alle istituzioni di
governance e di gestirle. In questo libro ho documentato che le reti di comunicazione sono
indispensabili alla costruzione del potere e del contropotere politico. I padroni delle reti di
comunicazione aziendali forniscono le piattaforme per la costruzione di significato anche
per altri attori sociali. In questo modo, esercitano il potere attraverso la produzione
culturale, ed esercitano il potere di networking su altri attori controllando l’accesso alle
reti di comunicazione: per esempio, rispetto ad attori politici che hanno bisogno di
accedere alla comunicazione per costruire le proprie relazioni di potere nei confronti della
cittadinanza. Nelle relazioni di potere di tipo politico, però, i meta-programmatori, quelli
che producono il messaggio, sono attori politici, non economici. Certo, gli attori politici si
basano sugli attori di cui rappresentano valori e interessi (per esempio organizzazioni
religiose, grandi aziende, il complesso militare-industriale). Ma articolano la diversità
degli interessi appoggiandone i progetti in modo da massimizzare la loro autonomia di
attori politici, per incrementare le possibilità di assumere il potere politico. Ma una volta
al potere, essi sono i programmatori dei processi politici e della creazione delle linee
politiche. I loro programmi sono diversificati perché diversi leader e le loro coalizioni si
contendono il potere in una competizione politica modellata dalle procedure di ciascun
sistema politico. Essi, tuttavia, condividono alcuni fondamentali protocolli di
comunicazione che mirano a preservare la stabilità del dominio dello stato entro le regole
costituzionali. Così, i programmi insiti nelle istituzioni politiche esercitano un potere di
networking sui cittadini e sugli attori politici. Il sistema giudiziario esercita il potere di
networking controllando l’accesso alla competizione politica in termini sia di attori che di
procedure. E il sistema politico nel suo insieme è basato sul potere reticolare distribuito ai
diversi livelli della relazione tra lo stato e la società.
Il potere di creazione di reti nell’ambito politico, che è il potere di definire regole e
linee nel politico, dipende dalla capacità di vincere la competizione per l’accesso alla
carica politica, e dall’ottenere il supporto o almeno la rassegnazione dei cittadini. Ho
mostrato nei capitoli 3 e 4 che la politica mediatica è il meccanismo fondamentale in cui
opera l’accesso al potere politico e la formazione delle politiche. Quindi, i programmi
insiti nelle reti multimediali modellano e condizionano l’applicazione dei programmi delle
reti politiche. Non sono i padroni dei media, però, a disegnare e a determinare i
programmi politici. Né sono passivi trasmettitori delle istruzioni dei programmi.
Esercitano il potere di gatekeeping, e formattano e distribuiscono i programmi politici in
base ai loro specifici interessi di organizzazioni mediatiche. Così, la politica mediatica non
è soltanto politica in generale, e non è politica dei media: è l’interfaccia dinamica tra reti
politiche e reti mediatiche. Chiamo la gestione di questa interfaccia tra due o più reti
commutazione reticolare. Il controllo di questa capacità di commutazione definisce una
forma fondamentale di potere nella società in rete: il potere di commutazione (switching
power). Chiamo switchers i detentori del potere di commutazione. Illustrerò questa
formulazione, astratta ma fondamentale, con i risultati del caso di studio di un esempio
significativo di switcher, Rupert Murdoch.
Ma prima mi è necessario ampliare il raggio dell’analisi in termini di potere di
commutazione riferendomi ad altre reti di potere nella società. In particolare, devo
considerare struttura e dinamica delle reti finanziarie al cuore del potere capitalista. In
effetti, la società in rete, per il momento, è una società capitalista, così come lo era la
società industriale in gran parte del mondo (benché in competizione con lo statalismo).
Inoltre, poiché la società in rete è globale, noi viviamo nel capitalismo globale. Per la
prima volta nella storia, l’intero pianeta è capitalista. Tuttavia, l’analisi del capitalismo in
generale non esaurisce l’interpretazione delle dinamiche delle relazioni di potere. Perché
la marca di capitalismo globale in cui viviamo oggi è molto diversa dalle forme storiche di
capitalismo precedenti, e perché la logica strutturale del capitalismo si articola nella prassi
secondo forme specifiche di organizzazione sociale nelle società del mondo. E così, le
dinamiche della società in rete globale interagiscono con le dinamiche del capitalismo per
costruire le relazioni sociali, ivi comprese le relazioni di potere. Come opera questa
interazione per costruire relazioni di potere intorno alle reti di comunicazione?
Le reti di comunicazione sono nella gran parte possedute e gestite da reti aziendali
multimediali globali. Anche se gli stati, e le aziende da loro controllate, fanno parte di
queste reti, il cuore delle reti di comunicazione globale è connesso con, e in gran parte ne
dipende, aziende che sono a loro volta dipendenti da investitori finanziari e mercati
finanziari. Questa è la linea di fondo del business multimediale, secondo l’analisi svolta
nel capitolo 2. Ma gli investitori finanziari fanno le loro puntate in base alla performance
attesa del business mediatico sui mercati finanziari globali, origine di tutte le
accumulazioni di capitale e rete dominante del capitalismo globale, come risulta
dall’analisi che ho svolto nella mia trilogia sull’Età dell’Informazione (Castells, 2000a, c,
2004c). Il punto critico è che il mercato finanziario globale è esso stesso una rete, fuori del
controllo di specifici attori sociali, e in larga misura impermeabile alla gestione normativa
delle istituzioni nazionali e internazionali di governance, in gran parte perché i regolatori
hanno deciso di deregolare le reti finanziari e di programmare di conseguenza i mercati
finanziari. Una volta che i mercati finanziari si sono organizzati in una rete globale
blandamente regolata, i loro standard sono diventati applicabili a transazioni finanziarie in
tutto il mondo, e quindi a tutte le attività economiche, dato che in un’economia finanziaria
la produzione di beni e servizi inizia con l’investimento di capitale per generare profitti da
convertire in assets finanziari. Il mercato finanziario globale esercita il potere in rete
sull’economia globale, come è risultato evidente dalla crisi dell’economia globale che è
esplosa nell’autunno del 2008 a seguito dell’assenza di una reale regolamentazione dei
mercati finanziari.
Il potere in rete dei mercati finanziari non appartiene alla mano invisibile – il mercato.
Perché, come numerosi studi documentano, i mercati finanziari si comportano solo
parzialmente secondo una logica di mercato. Quella che alcuni studiosi hanno chiamato
«esuberanza irrazionale» e che io chiamo «turbolenza informazionale» svolge un ruolo di
primo piano nel determinare la psicologia degli investitori, e quindi le loro decisioni
finanziarie. Inoltre, il networking globale dei mercati finanziari implica che ogni
turbolenza nell’informazione, da ovunque provenga, si diffonda istantaneamente nella
rete, sia che si tratti di instabilità politica, di guerra in Medio Oriente, di una catastrofe
naturale o di uno scandalo finanziario. Così, mentre il mercato finanziario globale esercita
il potere di rete, dopo che i governi dei paesi maggiori hanno esercitato il potere della
creazione di reti deregolando e liberalizzando i mercati finanziari a partire dalla metà degli
anni Ottanta, si verifica una diffusione del potere reticolare nelle reti finanziarie globali.
Ho usato l’espressione «automa globale» in alcun miei scritti, riferendomi al mercato
finanziario globale, in quanto esso funziona in gran parte in base a una dinamica propria,
senza il controllo da parte di determinate aziende o regolatori, eppure disciplina e plasma
l’economia globale. Non dico che siamo davanti a un modello automatico di esercizio del
potere, o di un potere disumanizzato. Il capitalismo delle corporation è incarnato nei
magnati della finanza, nei direttori finanziari, nei trader di titoli e nei legali delle società,
con le loro famiglie, reti personali, guardie del corpo, assistenti personali, circoli di golf,
templi, locali riservati, ricreazioni peccaminose. Tutta questa bella gente fa parte delle reti
che fanno girare i programmi che governano il mondo. Ma non sono soli in quelle reti, e
non controllano neppure le reti finanziarie in cui abitano, perché navigano in acque incerte
seguendo più gli istinti di pancia che i modelli matematici, come ha dimostrato Caitlin
Zaloom (2006) nella sua splendida indagine etnografica sugli scambi finanziari nelle sale
delle contrattazioni di Chicago e Londra.
La logica di networking dei mercati finanziari è della massima importanza, per
l’esercizio del potere nelle reti di comunicazione, su due livelli. Primo, perché le reti di
comunicazione saranno programmate, istituite, riconfigurate e, alla fine, smobilitate, in
base a calcoli finanziari – a meno che la funzione della rete di comunicazione non sia
prevalentemente politica. Ma anche in questo caso, la logica della formazione del potere si
applicherà a specifici nodi della rete di comunicazione globale, ma non alla rete in sé, il
cui principio supremo è il profitto ricercato sulla base della valutazione finanziaria da
parte del mercato finanziario globale. Secondo, perché le istituzioni finanziarie e i mercati
finanziari sono essi stessi dipendenti dal flusso di informazione generato, formattato e
diffuso nelle reti di comunicazione. Non solo in termini di informazioni finanziariamente
rilevanti, ma nei termini dell’influenza che le reti di comunicazione dell’informazione
esercitano sulla percezione e la formazione delle decisioni di imprese, investitori e
consumatori. Il mio argomento non è un circolo vizioso. Sì, sulla base dell’osservazione,
dico che le reti multimediali globali dipendono da reti finanziarie globali, e che le reti
finanziarie globali operano elaborando segnali prodotti e distribuiti nelle reti multimediali
globali. Ma non c’è niente di circolare in questo meccanismo. È, precisamente, un effetto
di rete.
Le reti finanziarie globali e le reti multimediali globali sono intimamente intrecciate, e
la particolare rete risultante detiene uno straordinario potere in rete, potere di networking e
potere di creazione di reti. Ma non tutto il potere. Perché questa meta-rete di finanza e
media è essa stessa dipendente da altre reti maggiori, come la rete politica, la rete di
produzione culturale (che comprende ogni genere di artefatti culturali, non solo prodotti
della comunicazione), la rete militare, la rete criminale globale e la decisiva rete globale di
concezione e applicazione di scienza, tecnologia e gestione della conoscenza.
Potrei procedere con un’esplorazione analoga delle dinamiche della formazione delle
reti in ciascuna di queste dimensioni fondamentali della società in rete. Ma questo compito
esula dalle finalità di questo libro, che si occupa del ruolo che hanno le reti di
comunicazione nella formazione del potere, con un’enfasi sulla formazione del potere
politico. Inoltre, questo non sarebbe realmente necessario per formulare la tesi centrale
che intendo presentare, una tesi che è sufficientemente in sintonia con le analisi empiriche
condotte nel libro. La mia tesi è triplice:
1. Il potere è multidimensionale e si costituisce attorno a reti programmate in vari campi
dell’attività umana secondo gli interessi e i valori degli attori sociali. Ma tutte le reti di
potere lo esercitano influenzando la mente umana prevalentemente (ma non
esclusivamente) tramite reti multimediali di comunicazione di massa. Così, le reti di
comunicazione sono le reti fondamentali di costituzione di potere (power-making) nella
società.
2. Le reti di potere nei vari ambiti dell’attività umana s’intrecciano tra loro. Ma non si
fondono. Si dedicano piuttosto a sinergie di partnership e concorrenza, praticando la
cooperazione e contemporaneamente la competizione, formando reti ad hoc intorno a
specifici progetti e cambiando partner a seconda degli interessi che hanno in ciascun
contesto e in ciascun momento della vita.
3. La rete di potere costituita intorno allo stato e al sistema politico svolge un ruolo
fondamentale nella retificazione complessiva del potere. È così perché, primo, il
funzionamento stabile del sistema, e la riproduzione delle relazioni di potere in ogni rete,
finiscono in ultima analisi per dipendere dalle funzioni di coordinamento e di
regolamentazione dello stato e del sistema politico, come si è visto nel crollo dei mercati
finanziari nel 2008 quando in tutto il mondo i governi sono stati chiamati al salvataggio.
Secondo, è tramite lo stato che le diverse forme di esercizio del potere nelle distinte sfere
sociali si relazionano al monopolio della violenza come alla capacità di esercizio del
potere di ultima istanza. Così, mentre le reti della comunicazione elaborano la costruzione
di significato su cui si basa il potere, lo stato costituisce la rete di default per il giusto
funzionamento di tutte le altre reti di potere.
La molteplicità delle reti di potere, e la loro necessaria interazione per l’esercizio del
potere nei rispettivi ambiti, fa scaturire una domanda fondamentale: come possono le reti
relazionarsi tra loro senza offuscare i punti focali che ne assicurano la specificità, e quindi
l’implementazione dei propri programmi? Per esempio, se le reti mediatiche si impegnano
in una crociata su una determinata opzione politica, la loro sorte viene a dipendere dal
successo di tale opzione. Perdono la relativa neutralità che avevano, il che quindi ne
abbassa la credibilità, il fattore chiave per arrivare a un pubblico ampio. Se scommettono e
perdono, le loro connessioni politiche potrebbero risultare danneggiate e potrebbero
doverne pagare il costo in termini di perdita di vantaggio normativo. Se i giornalisti
vengono scelti con criteri politici, la professionalità di solito ne soffre. Se l’astro politico
che fa da protettore tramonta, i risultati finanziari si deteriorano, facendo scattare l’allarme
per la proprietà e gli investitori. È vero che non sono pochi i casi in cui la crociata
ideologica (vedi Fox News o El Mundo in Spagna) si traduce anche in buon business, per
un considerevole periodo di tempo, e in uno specifico contesto politico. Ma in termini
generali, la «stampa di partito» è una proposta fallimentare dal punto di vista
commerciale. Inoltre, più evidente è l’autonomia politica di un organo mediatico,
maggiore è l’apporto che può offrire al bacino di consenso.
E dunque, come fanno le reti di potere a connettersi tra loro mantenendo la propria sfera
di azione? Io ipotizzo che lo facciano attraverso un meccanismo di formazione del potere
fondamentale nella società in rete, che ho teorizzato nel capitolo 1: il potere di
commutazione. È la capacità di connettere due o più reti diverse nel processo di
formazione del potere relativo a ciascuna di esse nei loro rispettivi campi. Illustrerò questa
analisi con l’aiuto di un caso di studio che Amelia Arsenault e io abbiamo condotto
sull’esercizio del switching power da parte di Rupert Murdoch e della sua rete
multimediale della News Corporation (Arsenault e Castells, 2008a). Non sto qui a
soffermarmi sui dettagli empirici dei nostri risultati, che si possono trovare nell’articolo
accessibile online. Ma ne sintetizzo il contenuto analiticamente rilevante.
Murdoch è un magnate dei media ideologicamente conservatore che mantiene il
controllo personale della più profittevole conglomerata multimediale al mondo, terza per
dimensioni. Ma è, soprattutto, un imprenditore di successo che ha capito che avrebbe
massimizzato potere tenendosi aperte tutte le opzioni. È solidamente ancorato alle reti
commerciali multimediali, ma usa il suo potere mediatico per offrire connessioni
remunerative alle reti finanziarie, e fruttuose partnership alle reti politiche. Inoltre, usa il
suo potere mediatico per intervenire nella costruzione dell’immagine e dell’informazione
in finanza e in politica. Il suo potere risiede della capacità che ha di connettere gli obiettivi
di programmazione di reti mediatiche, commerciali e politiche nell’interesse
dell’espansione della sua propria rete commerciale mediatica. Costruisce vantaggio
competitivo per la News Corporation mantenendo uno stretto controllo sui termini delle
sue connessioni aziendali e ricorrendo alla propria capacità di influenzare il pubblico in
tutto il mondo per ottenere favori politici. Così, politicamente, distribuisce le sue puntate
sostenendo una varietà di attori politici in ciascun paese. Per esempio, negli Stati Uniti, nel
periodo post 11 settembre, ha messo le sue piattaforme mediatiche, e in particolare Fox
News, al servizio dell’amministrazione Bush e della sua strategia per la guerra al terrore e
la guerra all’Iraq, donando allo stesso tempo più denaro ai candidati democratici che a
quelli repubblicani. Ha anche appoggiato la campagna di Hillary Clinton per il seggio di
New York al Senato USA. Ma, appena Obama è emerso come candidato presidenziale, il
suo New York Post ha sostenuto Obama, e più tardi, quando era in procinto di aggiudicarsi
la nomination, Murdoch ha elogiato Obama e ha espresso gradimento per la sua
leadership, continuando a riferirsi a McCain come al «mio vecchio amico». Allo stesso
modo, nel Regno Unito, Murdoch appoggiava Blair, una mossa che ha fatto infuriare molti
del Partito Laburista, ma ha mantenuto i suoi legami tradizionali con i Tories come mezzo
alternativo di influenza politica. Il consiglio di amministrazione della News Corporation
comprende leader politici oltre che personaggi che hanno forte influenza politica su aree
chiave del mondo, come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Cina. Vengono pagati
profumatamente per il loro lavoro di consiglieri, e così la promessa di un posto alla News
Corporation per ministri o primi ministri dopo che hanno lasciato la carica (per esempio,
lo spagnolo José María Aznar) consente a sir Rupert di sfruttare diverse vie d’influenza.
Nel corso degli anni, Murdoch ha praticato una strategia triplice: fornire piattaforme di
propaganda a chi era al potere, denaro all’opposizione, e favori personali a una variegata
folla di politici bisognosi. Grazie a questa strategia Murdoch ha influenzato nume-rose
misure legislative in diversi paesi, nella direzione che arrecava grandi benefici al suo
business. Nel 2007 ha compiuto anche un passo strategico per influenzare le reti della
finanza acquistando Dow Jones, la società madre del Wall Street Journal, uno dei più
influenti organi finanziari del mondo, ponendosi così nel bel mezzo della produzione di
informazioni finanziarie. La strategia di Murdoch ha abbracciato anche la rivoluzione
delle comunicazioni collocando News Corporation negli spazi di social networking del
pianeta Internet, mossa simboleggiata dall’acquisto di MySpace.com, a quel momento il
più grande sito di social networking al mondo. Lo ha fatto con buon senso, assumendo
professionisti esperti della cultura di Internet e preservando le modalità e le pratiche della
generazione del Web 2.0, perdendo così introiti ma accaparrandosi il futuro – o almeno lui
così crede.
Le diverse reti – mediatiche, politiche, finanziarie e culturali – connesse da Murdoch
sono separate e perseguono i loro specifici programmi. Ma lui agevola e migliora la
performance di ogni programma in ciascuna rete fornendo accesso e trasferendo risorse tra
le reti. Questo è il potere del commutatore. E questo è il potere di Rupert Murdoch, il più
consapevole dei commutatori, che crea potere su diverse reti grazie alla propria capacità di
connetterle. Tuttavia, la sua fonte primaria di potere resta il potere mediatico. È
contemporaneamente un meta-programmatore nella rete multimediale globale e
commutatore nella società in rete globale. Le funzioni di commutazione, e quindi i
commutatori, variano fortemente a seconda delle caratteristiche e dei programmi delle reti
commutate e delle procedure adottate per esercitare il potere di commutazione. Ma la loro
azione è centrale per la comprensione della formazione del potere.
Così, programmatori e commutatori sono i detentori del potere nella società in rete. Si
incarnano in attori sociali, ma non sono individui, sono reti essi stessi. Ho scelto di
proposito l’esempio di Murdoch perché simboleggia la personalizzazione del potere di
programmazione e del potere di commutazione. Eppure, Murdoch è solo un nodo, sia pure
il nodo chiave, di una particolare rete: la News Corporation e le sue reti satelliti nei media
e nella finanza.
La caratterizzazione apparentemente astratta di chi detiene il potere nella società in rete
ha, in realtà, riferimenti empirici molto diretti. Ovviamente le reti sono formate da attori
nelle loro strutturazioni reticolari. Ma chi siano questi attori e quali siano queste reti è
determinato dalla specifica configurazione di reti in ciascun particolare contesto e in
ciascun particolare processo. Pertanto, non sto dissolvendo le relazioni di potere in un
dispiegamento senza fine di reti. Piuttosto, faccio appello alla specificità nell’analisi delle
relazioni di potere e propongo un approccio metodologico: dobbiamo trovare la specifica
configurazione reticolare degli attori, interessi e valori che si dedicano alle strategie di
creazione del potere connettendo le proprie reti di potere alle reti di comunicazione di
massa, che sono la fonte della costruzione di significato nella mente pubblica. Mi
spingerei a osservare che ciò che considero una proposizione veramente astratta e
inverificabile è dire che il potere è della classe capitalista, del complesso militare-
industriale, o dell’élite di potere. Se non siamo in grado di specificare esattamente chi
detiene il potere in un dato contesto e in relazione a un dato processo, e come il suo potere
è esercitato, ogni affermazione generale sulle fonti del potere resta un articolo di fede
anziché uno strumento di ricerca.
Dunque non sto identificando i concreti attori sociali che sono detentori del potere. Sto
presentando un’ipotesi: che siano in tutti i casi reti di attori che esercitano il potere nelle
rispettive aree di influenza tramite le reti che costruiscono intorno ai propri interessi. Sto
proponendo l’ipotesi della centralità delle reti di comunicazione per implementare il
processo di formazione del potere in qualsiasi rete. E sto suggerendo che commutare tra
diverse reti è una fondamentale fonte di potere. Chi fa che cosa, come, dove e perché
attraverso questa strategia multiforme di networking è materia di indagine, non di
teorizzazione formale. La teoria formale avrà un senso solo sulla base dell’accumulo di
conoscenze attinenti. Ma perché questa conoscenza sia generata, abbiamo bisogno di una
costruzione analitica che sia adeguata al genere di società in cui ci troviamo. Questo è lo
scopo della mia proposizione: suggerire un approccio che possa essere utilizzato nella
ricerca, rettificato e modificato in modo tale da permettere la graduale costruzione di una
teoria del potere che l’osservazione empirica sia in grado di confutare. In questo libro ho
cercato di mostrare la potenziale rilevanza di un simile approccio indagando sulla
costruzione di senso all’origine del potere politico attraverso l’uso delle reti di
comunicazione da parte di una varietà di attori e delle loro reti di potere. La ricerca futura
sicuramente supererà il contributo che ho dato in questa sede, e auspicabilmente troverà il
modo di usare lo sforzo qui compiuto per tagliare attraverso il labirinto delle pratiche
sociali in rete che filano la trama della società nel nostro tempo.
Se il potere è esercitato programmando e collegando reti, il contropotere, il deliberato
tentativo di modificare le relazioni di potere, si attua riprogrammando le reti intorno a
interessi e valori alternativi e/o facendo saltare i commutatori dominanti collegando reti di
resistenza e cambiamento sociale. I casi di studio presentati nel capitolo 5 forniscono le
prove preliminari della pertinenza di questo approccio. Sta alla comunità della ricerca
sottoporre a verifica queste ipotesi nei movimenti sociali e nelle comunità politiche di
prassi in altri contesti. Quello che è teoreticamente pertinente è il fatto che gli attori del
cambiamento sociale sono in grado di esercitare un’influenza decisiva usando meccanismi
di creazione del potere che corrispondono alle forme e ai processi di potere della società in
rete. Impegnandosi nella produzione culturale sui mass media, e sviluppando reti
autonome di comunicazione orizzontale, i cittadini dell’Età dell’Informazione diventano
capaci di inventare nuovi programmi per le loro esistenze a partire dai materiali delle loro
sofferenze, paure, sogni e speranze. Costruiscono i loro progetti mettendo in comune le
loro esperienze. Sovvertono la pratica della comunicazione così com’è occupando il
medium e creando il messaggio. Superano l’impotenza della disperazione solitaria facendo
rete dei propri desideri. Combattono i poteri costituiti e ne identificano le reti. È per questo
motivo che la teoria, necessariamente radicata nell’osservazione, è rilevante per la prassi:
se non conosciamo le forme del potere nella società in rete, non possiamo neutralizzare
l’esercizio ingiusto del potere. E se non sappiamo chi sono esattamente i detentori del
potere e dove trovarli, non possiamo contestarne il loro occulto ma decisivo dominio.
E dunque, dove possiamo trovarli? Sulla base di ciò che ho analizzato in questo libro,
posso azzardare qualche risposta. Cerchiamoli nelle connessioni tra reti di comunicazione
aziendali, reti finanziarie, reti dell’industria culturale, reti della tecnologia e reti della
politica. Esaminiamo la loro retificazione globale e il loro funzionamento locale.
Identifichiamo i frame diffusi nelle reti che impongono uno schema alla nostra mente.
Pratichiamo il pensiero critico ogni giorno per esercitare la mente in un mondo
culturalmente inquinato, così come si fa esercizio fisico per ripulire il corpo dai veleni del
nostro ambiente chimico. Dobbiamo scollegare e ricollegare. Ricolleghiamo quello che ha
un senso e scolleghiamo quello che non ne ha.
Ma la conclusione pratica più importante dell’analisi presentata in questo libro è che la
costruzione autonoma di significato può avvenire solo difendendo i beni comuni nelle reti
di comunicazione rese possibili da Internet, che è una libera creazione di amanti della
libertà. Non sarà un compito facile – perché i detentori del potere nella società in rete non
possono fare a meno di cercare di recintare la comunicazione libera in reti
commercializzate e controllate, per inscatolare la mente pubblica e sigillare la connessione
tra comunicazione e potere.
Ma la mente pubblica è costruita dal networking di menti individuali come la tua. Così,
se la pensi diversamente, le reti di comunicazione opereranno diversamente, a condizione
che non solo tu, ma anche io e una moltitudine di altri decidiamo di voler costruire le reti
delle nostre vite.
APPENDICE
TAB. A2.1. Collegamenti tra leadership delle conglomerate mediatiche multinazionali e le altre reti (2008)
Nota: in corsivo sono le aziende che rientrano tra i 100 più grandi inserzionisti pubblicitari degli Stati Uniti e/o del
mondo, sec ondo Advertising Age. Indica che più di un membro del CdA è affiliato con quella corporation.
Fonte: Comunicazioni agli azionisti del febbraio 2008.
TAB. A2.2. Investitori istituzionali con diritti di proprietà o di voto nei conglomerati mediatici (febbraio 2008)

Time Dodge & Cox (7,14%), AXA (5,79% common stock), Capital Group (4,6%), Fidelity (4,13%), Goldman
Warner Sachs (3,25%), Liberty Media (3%), Vanguard (2,95%), Muneef Tarmoom (UAE) (2,39%)
Steve Jobs (7,3%), Fidelity (5,5%), State Street (3,64%), AXA (2,9%), Vanguard (2,6%), Southeastern
Disney
Asset Management (2,6%), Legg Mason (2,38%), State Farm (2,2%), Kingdom Holdings (1%)
Murdoch Family Trust (31,2% of class B common stock), Dodge & Cox (10,1% class A common stock),
News
HRH Prince Al-Walid bin Talal bin Abdulaziz Alsaud, c/o Kingdom Holding Company (5,7%), Fidelity
Corporation
Management & Research Company (0,96% class A)
Bertelsmann Bertelsmann Foundation (76,9%), Mohn Family (23%)
National Amusements (71,2% class A), Mario J. Gabelli (8,44% class A), Sherry Redstone (8%),
Viacom Franklin (7,8%), Morgan Stanley (6,81%), NWQ Investments (5,47%), Wellington (4,09%), State Street
(3,46%), Barclays (3,5%), Templeton Growth Fund (2,51%)
Sumner Redstone (71,2% class A), AXA (France) (12,2% class B), Sherry Redstone (8%), Goldman
CBS Sachs (6,8%), State Street (4,12%), Barclays (3,24%), Capital Research (2,48%), Neuberger Berman
(2,26%)
NBC (GE) General Electric (80%), Vivendi Universal SA (20%)
Bill Gates (9,33%), Capital Research (5,95%), Steven A. Ballmer (4,9%), Barclays (4,05%), Vanguard
Microsoft
(2,5%), AXA (1,26%), Goldman Sachs (1,2%)
Sergey Brin (President of Technology) (20,4% class B and 28,4% class A - assumes conversion), Larry
Page (21,5% of class B convertible into 28,3% of class A), Eric Schmidt (13,7% class A, 7,7% class B),
Google Fidelity Investments (11,49% class A Common), SAC Capital Advisors (10%), Capital Research (8,3%
class A common), Time Warner (8,2% class A), Citadel (4,6%), Sequoia Capital (3,2%), Legg Mason
Focus Capital (2,2%) common stock), Jennison Associates Capital Corp (1,75%)
Capital Research and Management Company (11,6%), Legg Mason (8,86%), David Filo (5,89%), Jerry
Yahoo!
Yang (4,0%), Citigroup (2,08%), Goldman Sachs (2,02%), Fidelity (1,622%), AXA (0,8%)
Fidelity Investments (6,44%), AXA (3,86%), Barclays (3,69%), State Street (2,96%), Vanguard (2,80%),
Apple Marisco Capital Management (2,44%), Janus Capital Management (2,36%), Bank of New York Mellon
Corp (1,54%)

Fonte: Comunicazioni agli azionisti e bilanci al febbraio 2008 inviati alla US Security and Exchange Commission.
TAB. A3.1. Evoluzione del sostegno alla guerra in Iraq e valutazione della sua gestione in relazione agli eventi bellici
(2003-08)
a
Dati al 4 maggio 2008.
Fonte: Pew (1° maggio 2008); Brookings Institution Iraq Index (1° maggio 2008).
TAB. A4.1. Principali scandali politici che hanno coinvolto l’amministrazione Bush e il Partito Repubblicano (2002/07)

Gennaio
Scandalo Enron. Si scopre che l’amministrazione Bush ha stretti legami con la società e informatori interni
2004
Scandalo Memo. Secondo la commissione giudiziaria del Senato, membri repubblicani dello staff hanno
Marzo
avuto accesso a circa 5.000 file contenenti memo strategici dei democratici sulle nomine giudiziarie
2004
effettuate dal presidente Bush. Alcuni memo sono poi stati passati ai media
28 aprile Scandalo Abu Ghraib. Il programma della CBS 60 Minutes manda in onda il primo servizio sulle torture
2004 inflitte dai soldati americani nella prigione USA di Abu Ghraib in Iraq
Giugno L’Autorità provvisoria delle forze di coalizione in Iraq riporta la scomparsa di una percentuale significativa
2004 di beni
Gennaio Si viene a sapere che l’amministrazione Bush ha pagato una serie di reporter affinché dessero un’immagine
2005 positiva della guerra in Iraq
Affare Plame. Membri chiave dell’amministrazione Bush vengono accusati di aver reso nota l’identità di un
agente CIA, Valerie Plame, a esponenti della stampa nel 2003 per screditare il marito, l’ambasciatore Joseph
Luglio Wilson, che aveva messo in dubbio la notizia data dall’amministrazione appena prima della guerra, ovvero
2005 che l’Iraq avesse cercato di comprare uranio dal Niger. Il 1o luglio 2005 un reporter della MSNCB
testimonia che è Karl Rove la fonte della fuga di notizie. Rove, principale artefice delle campagne
presidenziali di Bush del 2000 e del 2004, si dimette
Scandalo Abramoff. Jack Abramoff, lobbista molto vicino all’amministrazione Bush, viene accusato di
12 agosto
cospirazione e intercettazioni telefoniche. Viene formata una task force con il compito di indagare sulle
2005
accuse di corruzione e collusione con importanti membri repubblicani del Congresso
28
Tom DeLay, leader della maggioranza al Congresso, viene accusato di illeciti finanziari durante la campagna
settembre
elettorale
2005
Dicembre The New York Times pubblica un articolo sulle intercettazioni non autorizzate effettuate dall’Agenzia per la
2005 sicurezza nazionale a danno di cittadini USA
Gennaio Abramoff si dichiara colpevole. Tom DeLay rassegna le dimissioni da presidente della Camera dei
2006 Rappresentanti
Febbraio Lo scandalo Abramoff dilaga man mano che sale il numero dei senatori repubblicani, tra cui Harry Reid, che
2006 si sono fatti corrompere da lobbisti
Settembre Scandalo Foley. Mark Foley, membro conservatore del Congresso, si dimette dopo essere stato accusato di
2006 molestie sessuali nei confronti di giovani valletti parlamentari di Washington
Si dimette il ministro della Giustizia, Alberto Gonzales, per lo scandalo che lo vede accusato tra l’altro di
corruzione per il presunto ruolo avuto nella rimozione di 8 procuratori federali che indagavano su alti
Marzo
funzionari del Partito Repubblicano o si rifiutavano di confermare le accuse contro democratici detentori di
2007
cariche pubbliche che l’amministrazione Bush voleva eliminare alle elezioni del novembre 2006. Gonzales
rassegna formalmente le dimissioni nell’agosto 2007
6 marzo Scooter Libby, capo dello staff del vicepresidente Dick Cheney, viene accusato di falsa testimonianza e
2007 ostruzione alla giustizia per il suo ruolo nell’Affare Plame
Agosto Il senatore conservatore Larry Craig viene arrestato per comportamento osceno e lascivo in un bagno
2007 dell’aeroporto di Minneapolis
Settembre Scandalo Blackwater. L’attenzione si focalizza sulla corruzione dei mercenari che lavorano in Iraq per
2007 conto del governo americano quando i dipendenti della Blackwater uccidono 17 civili iracheni

TAB. A4.2. Scandali politici nel mondo (1988-2008)a


a
La tavola riporta i principali scandali politici nazionali che hanno provocato conseguenze politiche tangibili, quali
dimissioni, impeachment, e/o accuse a personaggi politici.
b
per «propagatore iniziale» si intende il modo in cui i misfatti descritti sono stati resi pubblici.
Fonte: in base alle ricerche condotte da amelia arsenault (2008).
TAB. A4.3. Scandali politici nei paesi del G8 (1998-2008)a

Canada
Affare Couillard. Vari parlamentari conservatori si dimettono dopo che vengono resi noti i loro rapporti
2008 illeciti con Julie Couillard, membro di una gang di motociclisti criminali, che cerca di ottenere una
commessa governativa
Scandalo sponsorship. Il primo ministro Paul Martin viene sfiduciato dopo lo scoppio di uno scandalo
2005/06 relativo alla distrazione di fondi governativi destinati a una campagna per promuovere il sentimento di
appartenenza nazionale in Quebec
APEC. L’assalto ai manifestanti con spray al peperoncino porta a un’inchiesta di 4 anni sulle procedure
1998 adottate dalla polizia e sul ruolo di supervisione del governo. Il procuratore generale Andy Scott si dimette
per aver detto, mentre era in aereo, che la polizia sarebbe stata il «capro espiatorio» dello scandalo
Airbus. Lungo scandalo che vede coinvolto l’ex primo ministro del Partito conservatore progressista Brian
1995/03
Mulroney, accusato di aver intascato delle tangenti. Controdenuncia di Mulroney per diffamazione
Shawnigate. Il primo ministro Jean Chrétien viene accusato di aver ripetutamente partecipato a transazioni
1993
immobiliari illegali nel corso del suo mandato
Francia
Affare Clearstream. Numerosi politici e membri dei servizi segreti francesi vengono accusati di riciclaggio
di denaro. Secondo accuse anonime, pubblicate dalla stampa nel 2006, nello scandalo sono coinvolti Nicolas
2001/06 Sarkozy, la mafia russa e molti altri. Vengono chieste le dimissioni del primo ministro Dominique de
Villepin, che viene accusato di aver aperto un’indagine su Sarkozy (il suo principale antagonista per la
leadership di partito) per screditarlo
Affare Elf Oil. Vengono processati 40 dirigenti dell’ex colosso petrolifero pubblico, nonché uomini politici
1996/03 e burocrati. Il ministro degli Esteri francese e la sua amante vengono condannati al carcere (lui in seguito
viene rilasciato)
Affare Mitterand-Pasqua. Vendita segreta e invio di armi al governo dell’Angola dall’Europa dell’Est.
1991
Vengono messe sotto accusa 42 persone
Germania
Kohlgate. Helmut Kohl viene accusato di aver intascato tangenti per 10 milioni di $ da Elf Oil durante la
campagna elettorale del 1994. Viene reso noto inoltre che il partito cristiano-democratico ha accettato
1999/00
numerose donazioni illegali durante la leadership di Kohl e che i fondi sono stati depositati su conti bancari
segreti. In seguito allo scandalo il partito praticamente si scioglieb
Waterkandgate. Der Spiegel porta alla luce uno scandalo sulla manipolazione di voti che comprende anche
1987/93
un omicidio e numerose azioni di copertura. All’apice dello scandalo si dimettono due presidenti del partitoc
Italia
Scandalo intercettazioni. La Repubblica pubblica una conversazione tra funzionari di Mediaset e della RAI
2007
in cui si accordano per parlare positivamente del premier Berlusconi
Bancopoli. Scandalo bancario-finanziario che porta alle dimissioni del governatore di BankItalia Antonio
2005/08
Fazio e di altri importanti uomini d’affarid
Tangentopoli. Indagine a 360° che vede coinvolti uomini politici, Vaticano e mafia. 6.000 indagati tra cui
1992/96 l’ex primo ministro socialista Bettino Craxi. Le indagini portano alla disintegrazione dei due principali
partiti politici del dopoguerra
Giappone
Scandalo Suzuki. Un importante membro del partito liberal democratico, Suzuki, viene accusato di aver
accettato denaro da un’azienda della sua circoscrizione, l’Hokkaido. Rassegna le dimissioni nel febbraio del
2002
2002 e a giugno viene condannato. Lo scandalo si ripercuote sul ministro degli Esteri. Il declino politico del
primo ministro Kuzami sembra dovuto anche alla sua indifferenza rispetto agli scandali
Sagawa Kyubin. Uno scandalo di tangenti e corruzione politica, che vede coinvolta anche la mafia, porta
1992 alla condanna del vicepresidente del partito liberal democratico, Shin Kanemaru. Si ritiene che lo scandalo
sia una delle cause della sconfitta elettorale nel 1993, la prima in 34 anni
Scandalo Recruit-Cosmos. Caso di corruzione politica molto esteso e con grande eco sui mezzi di
1988 informazione. 17 membri del governo vengono condannati per insider trading e l’intero gabinetto del primo
ministro Noboru Takeshita rassegna le dimissioni
Russia
Spionaggio tra le rocce. I servizi di sicurezza federali russi indicono una conferenza stampa durante la
quale accusano 12 ONG russe di essere spie dell’ambasciata britannica a Mosca e sostengono che il Regno
2006
Unito abbia nascosto dei dispositivi di spionaggio all’interno di rocce finte e li abbia poi posizionati in zone
pubbliche proprio nel mese in cui Putin decretava la messa al bando delle ONG straniere
Tre balene. Importante indagine per fatti di corruzione tra aziende fornitrici di arredi e funzionari federali. I
2001 testimoni chiave vengono assassinati durante le indagini, che alla fine portano alle dimissioni e/o alla
condanna di molti funzionari di alto livello
Scandalo in sauna. Il ministro della Giustizia Valentin Kovalev viene obbligato a lasciare l’incarico quando
1997 viene reso pubblico un video che lo ritrae mentre fa sesso di gruppo in una sauna. Si sospetta che la «fuga di
notizie» sia opera del ministro degli Interni
Scandalo giovani riformatori. In una serie di «attacchi sotterranei» e ad hoc per tutto l’anno giungono alla
stampa prove della corruzione di un certo numero di alti funzionari del Cremlino. Molti ritengono che la
1997
fonte delle informazioni sia il miliardario russo Boris Berezovsky, uno degli obiettivi delle indagini
intraprese proprio da quei funzionari
UK
Scandalo Peter Mandelson. Peter Mandelson si dimette da ministro per il Commercio e l’Industria in
1998 seguito a un grosso scandalo. La stampa svela infatti che ha ricevuto un prestito segreto da Geoffrey
Robinson, sottosegretario al Tesoro
Denaro in cambio di interrogazioni. Secondo articoli pubblicati da The Sunday Times e The Guardian,
alcuni parlamentari conservatori hanno accettato del denaro da lobbisti per fare delle interrogazioni alla
1994/97
Camera dei Comuni per conto del proprietario di Harrods, Mohamed Al-Fayed. Si può supporre che lo
scandalo abbia contribuito alla travolgente vittoria dei laburisti nel 1997
USA
Jack Abramoff. Il parlamentare Bob Ney, 2 funzionari della Casa Bianca e 9 lobbisti vengono condannati
2006/08
per corruzione
Scandalo Foley. Il parlamentare Mark Foley viene accusato di aver inviato espliciti messaggi sessuali a
2006 valletti minorenni del Congresso. Foley si dimette e la Commissione Etica della Camera apre un’indagine
per capire perché la leadership repubblicana abbia cercato di insabbiare il caso
Maitresse a Washington. Molti uomini politici di primo piano si dimettono quando si viene a sapere che
2006 sono coinvolti in un giro di prostituzione d’alto bordo a Washington. La maitresse sotto indagine consegna
ai giornalisti le registrazioni delle sue telefonate e lascia che vengano rese di pubblico dominio su Internet
2006 Abu Ghraib. Vengono rese pubbliche le foto dei soldati americani che torturano prigionieri iracheni
Affare Plame. Dirigenti della Casa Bianca lasciano trapelare l’identità di un’agente CIA, per screditare il
2003
marito, che sostiene che le prove a sostegno della guerra contro l’Iraq siano false
Scandalo Monica Lewinsky. Il presidente Clinton viene sottoposto a impeachment per aver mentito sotto
1998
giuramento sul suo rapporto con la stagista della Casa Bianca
Scandalo assegni scoperti. La House Bank (Banca del Congresso) viene obbligata a chiudere quando si
1992 viene a sapere che molti parlamentari andavano in rosso senza pagare interessi. L’indagine porta alla
condanna tra l’altro di 5 parlamentari e di un delegato, quando ormai non sono più in carica
Whitewater. Controversia politica circa il coinvolgimento del presidente Clinton e della moglie in una
società immobiliare. Lo scandalo si amplia quando il consigliere della Casa Bianca Vince Foster si suicida.
1992
Il Congresso apre diverse inchieste e affida a Kenneth Starr l’incarico di condurre un’indagine indipendente
sugli interessi dei Clinton
I 5 di Keating. I senatori Alan Cranston, Dennis DeConcini, John Glenn, John McCain e Donald W. Riegle
vengono accusati di aver fornito aiuti impropri a Charles H. Keating jr, presidente della fallita Lincoln
1989
Savings and Loan Association, oggetto di indagine da parte della Federal Home Loan Bank Board. Solo
McCain e Glenn si ricandidano
a
La tabella non vuole essere esaustiva di tutti gli scandali politici. Riporta i principali che hanno avuto grande eco sui
mezzi di informazione e significative conseguenze politiche a livello nazionale.
b
Wolfgang Hullen, capo della delegazione parlamentare cristiano-democratica per il settore finanza e bilancio, si
impicca al culmine delle indagini. Il Kohlgate rappresenta un punto di svolta per l’informazione e la politica tedesche
post-riunificazione. Secondo Hesser e Hartung (2004), lo scandalo – come primo grande scandalo dopo il trasferimento
nel 1999 del governo e dei mezzi di comunicazione da Bonn alla nuova capitale, Berlino – segna la fine della stampa di
parte e della cultura politica da guerra fredda che antepone la sopravvivenza dei partiti alle regole democratiche di
comportamento.
c
Il primo ministro cristiano-democratico Uwe Barschel si dimise nel 1987 dopo essere stato accusato di
manipolazione di voti. Aveva assunto come assistente il giornalista di un tabloid e attraverso di lui messo in atto una
serie di attività che avevano come vittima il suo avversario politico Björn Engholm. Lo faceva seguire da detective
privati, imponeva che venisse denunciato per evasione fiscale, faceva trapelare voci secondo cui era HIV positivo, lo
dipingeva come playboy, omosessuale e sostenitore della pedofilia. Dopo poco due giornalisti lo trovarono assassinato
nella vasca da bagno. Cinque anni dopo, nel 1993, Björn Engholm, segretario della SPD, viene obbligato a dare le
dimissioni in quanto il suo coinvolgimento nello scandalo risulta superiore a quanto presupposto prima delle indagini.
d
Lo scandalo esplode quando Il Giornale, di proprietà di Paolo Berlusconi, pubblica le trascrizioni di telefonate
private tra una serie di personaggi coinvolti nello scandalo, molti dei quali sono alti funzionari del governo di coalizione
di centrosinistra. Le trascrizioni non hanno alcun nesso ufficiale con le indagini e non sono neppure state iscritte tra le
prove. La fonte della fuga di notizie rimane anonima. Tuttavia le intercettazioni diventano uno degli argomenti clou della
campagna elettorale dell’aprile 2006.
Fonte: informazioni giornalistiche raccolte ed elaborate da Amelia Arsenault, 2008.
TAB. A4.4. Partecipazione politica diversa dal voto negli USA, 1980-2004 (valori %)

Fonte: Dati US NES riportati da Hetherington (2008, p. 10).


TAB. A4.5. Sforzi di mobilitazione compiuti dai partiti politici o da altre organizzazioni, 1980-2004 (% risposte
affermative)

Anno È stato contattato da un partito? Contattato da un’organizzazione diversa da un partito?


1980 24 10
1984 24 8
1988 24 8
1992 20 10
1996 26 10
2000 35 11
2004 43 18

Fonte: Dati US NES riportati da Hetherington (2008, p. 14).

FIG. A4.1. Percentuale di cittadini che hanno poca o nessuna fiducia nel governo, 1996-2007.
Nota: I dati Gallup ed Eurobarometro si riferiscono al 1997, 2002 e 2007; i dati Latinobarometer sono disponibili per
gli anni 1996, 2002 e 2006.
Domande:
Eurobarometro: «Tende ad avere o a non avere fiducia nel suo governo?».
Gallup: «Quanto spesso ritiene che il governo di Washington stia facendo la cosa giusta?». Le percentuali saranno le
risposte « Solo qualche volta» e «Mai».
Latinobarometer: «Por favor, mire esta tarjeta y dígame, para cada uno de los grupos/instituciones o personas
mencionadas en la lista. ¿Cuánta confianza tiene usted en ellas: mucha, algo, poca o ninguna confianza en …?» Aquí
solo «Mucha» y «Algo».
Fonte: Eurobarometer (1997, 2002, 2007); Gallup (1997, 2002, 2007); Latinobarometer (1996, 2002, 2006).

FIG. A4.2. Cittadini che hanno poca o nessuna fiducia nel parlamento/organo legislativo (valori %), 1997-2007.
Domande:
Eurobarometro: «Tende ad avere o non avere fiducia nel parlamento nazionale?»
Gallup: «Quanta fiducia ha in questo momento nell’organo legislativo, ovvero nel Senato e nella Camera dei
Rappresentanti?»
Latinobarometer: «Por favor, mire esta tarjeta y dígame, para cada uno de los grupos/instituciones o personas
mencionadas en la lista. ¿Cuánta confianza tiene usted en ellas: mucha, algo, poca o ninguna confianza en …?» Aquí
solo «Mucha» y «Algo».
Fonte: Sondaggi Eurobarometro (Europa), Gallup (USA) e Latinobarometer (America Latina).

FIG. A4.3. Cittadini che ritengono che i partiti politici del loro paese siano corrotti o estremamente corrotti (valori %).
Fonte: Barometro Globale della Corruzione da dati tratti da «Voice of the People Survey» di Gallup International in
60 paesi (2007).

FIG. A4.4. Percezione dei leader politici in 60 paesi (valori %), 2007.
Fonte: «Voice of People Survey» di Gallup International in 60 paesi (2007).

FIG. A4.5. Intervistati per regione che ritengono disonesti o non etici i loro leader politici (valori %), 2007.
Fonte: «Voice of the People Survey» di Gallup International in 60 paesi (2007).

FIG. A4.6. Intervistati che ritengono che il loro paese sia governato nell’interesse di pochi (valori %), 2008.
Fonte: Indagine in 19 paesi WorldPublicOpinion.org (2008).

FIG. A4.7. Fiducia in determinate categorie in 60 paesi (valori %).


Fonte: «Voice of the People Survey» di Gallup International in 60 paesi (2007).
FIG. A4.8. Gli effetti dell’inciviltà sulla fiducia nel governo e nei politici, 2005.
Nota: Le differenze tra condizioni civili e incivili sono sempre risultate significative nelle direzioni attese (F – 10,36,
p < 0,01; F – 6,00, p < 0,01; e F – 3,12, p < 0.05). I corrispondenti valori ƞ 2 parziali sono 0,14, 0,06, 0,05.
Fonte: Mutz e Reeves (2005, experiment 1).

FIG. A4.9. Elettori americani contattati da un partito politico, 1980-2004.


Fonte: Dati US NES riportati da Hetherington (2008, p. 15).
TAB. A5.1. Intervistati che hanno sentito parlare del riscaldamento globale per paesi (valori%), 2006

Gran Bretagna 100


Giappone 99
Francia 97
Germania 95
Spagna 93
Stati Uniti 91
Russia 80
Cina 78
Turchia 75
India 57
Giordania 48
Egitto 47
Pakistan 12

Fonte: Pew Survey (2006).


TAB. A5.2. Incremento % nella partecipazione di giovani e minoranze alle primarie democratiche, 2004-2008
Fonte: Five Thirty Eight (maggio 2008).
TAB. A5.3. Andamento demografico del voto per Obama e Clinton alle primarie del 2008a (valori %)

Clinton Obama
Tutti 48 46
Uomini 43 50
Donne 52 43
Bianchi 55 39
Neri 15 82
Ispanici 61 35
Uomini bianchi 48 45
Donne bianche 60 34
18-29 anni 38 58
65+ anni 59 34
Non laureati 52 42
Laureati 44 52
Bianchi non laureati 62 31
Bianchi laureati 48 47
Urbano 44 52
Suburbano 50 44
Rurale 52 40
Reddito < $50.000 51 44
$50.000-100.000 47 47
$100.000 + 45 51
Bianchi < $50.000 51 44
Bianchi $50.000-100.000 54 39
Bianchi $100.000 + 48 47
a
La tavola riporta i dati dei 39 stati in cui la National Election Pool (NEP) effettua gli exit poll nei giorni delle
elezioni. La NEP è un consorzio di organizzazioni operanti nel settore dei media di cui fanno parte ABC, CBS, CNN,
FOX, NBC e Associated Press, creato dopo le controversie sui dati contrastanti degli exit poll alle elezioni 2000 e 2002.
La tabella non riporta alcuni stati che scelgono il candidato senza votazioni e quindi non riflette appieno il vantaggio di
Obama sulla Clinton. Tuttavia non è possibile avere una stima esatta delle percentuali di voto popolare per ogni
candidato. Le primarie democratiche vengono decise in ogni stato per elezione diretta, scegliendo il candidato senza
votazione o adottando entrambi i metodi. Quattro stati che decidono senza votazione non riportano neppure il numero di
cittadini a sostegno di ciascun candidato. Inoltre, nel 2008 la Commissione democratica nazionale ha dichiarato non
valide le elezioni del Michigan (Obama aveva ritirato la propria candidatura dal ballottaggio) e della Florida a causa di
controversie sul modo in cui erano state programmate; di conseguenza, le stime differiscono a seconda che il totale di
questi due stati vengano inclusi, e in che misura, nel conteggio. Se si escludono gli stati problematici (Michigan, Florida,
Iowa, Nevada, Maine, Washington), si stima che Obama abbia ottenuto il 48,1% (17.535.458 voti) dei consensi rispetto
al 48% di Hillary Clinton (17.493.836 voti).
Fonte: ABC News che cita i risultati NEP nei 39 stati in cui vi sono stati gli exit poll.
TAB. A5.4. Primarie democratiche 2008: le qualità più importanti di un candidato al momento del voto (valori %)

Clinton Obama
Porta cambiamento 29 68
Ci tiene 48 42
Ha l’esperienza necessaria 91 6
Ha maggiori probabilità di vincere 50 47

Fonte: ABC News che cita i risultati NEP nei 39 stati in cui vi sono stati gli exit poll.
TAB. A5.5. Primarie democratiche 2008: le questioni più importanti al momento del voto (valori %)

Clinton Obama
Economia 51 44
Guerra in Iraq 42 53
Sanità 52 43

Fonte: ABC News che cita i risultati NEP nei 39 stati in cui vi sono stati gli exit poll.
TAB. A5.6. Impegno politico online durante le primarie democratiche 2008. Percentuali in ogni gruppo di adulti
intervistati (utenti e non utenti Internet) che hanno utilizzato Internet, e-mail e SMS per avere notizie di
politica o scambiarsi punti di vista sulla campagna elettorale

Sesso
Maschio 50
Femmina 43
Età (anni)
18-29 58
30-49 56
50-64 41
65+ 20
Reddito familiare annuo
< $ 30.000 28
$ 30.000-49.999 47
$ 50.000-74.999 56
$ 75.000 + 70
Razza/Etnia
Bianchi (non ispanici) 47
Neri (non ispanici) 43
Ispanici (che parlano inglese) 50
Livello di istruzione
Senza diploma 19
Diploma 32
Alcuni anni di università 56
Laureati 69

n = 2251; margine di errore ±2%.


Fonte: Pew Internet e American Life Spring Survey (2008).
TAB. A5.7. Politica su Internet: campagne e voci denigratorie tra i due candidati democratici, febbraio 2007 - giugno
2008

Data Candidato Evento


Alcuni giorni prima delle primarie in Indiana viene fatto circolare un video manipolato in cui si
Maggio vede il consigliere della Clinton Mickey Kantor che descrive con parolacce e oscenità gli
Clinton
2008 elettori di quello stato. Il video viene anche inviato ai reporter accompagnato dal messaggio
«Dovete diffonderlo perché può cambiare l’esito delle elezioni»
Viene messa in rete un’e-mail a catena in cui si asserisce che Michelle Obama si è dedicata
Obama anima e corpo a rendere la comunità afro-americana «la prima e la più importante» a scapito di
tutte le altre etnie presenti negli USA
Viene messa in rete un’e-mail a catena contenente citazioni false tratte dalla tesi di Michelle
Obama Obama a Princeton. Le citazioni dicono testualmente che gli Stati Uniti sono fondati «sul
crimine e sull’odio» e che i bianchi in America sono degli «irriducibili razzisti»
Viene messa in rete un’e-mail a catena che riporta passaggi estrapolati dal loro contesto tratti
Obama da L’audacia della speranza dello stesso Obama per avvalorare la tesi che il candidato starà
dalla parte dei musulmani se «dovesse cambiare il vento nella direzione sbagliata»
Aprile
Clinton Il pastore della Clinton viene accusato di aver molestato dei bambini
2008
Una catena di sant’Antonio avviata da missionari keniani fa numerosi riferimenti al credo
religioso di Obama, tra cui «Tra l’altro, il suo vero nome è Barack Hussein Muhammed
Obama
Obama. Sarà una dolce musica per le orecchie dei nostri nemici mentre giureranno su di lui sul
Corano! Che Dio vi benedica»
Vengono prima registrati su un MP3 poi pubblicati su Internet dalla blogger Mayhill Flower i
commenti di Obama, che a una raccolta di fondi a San Francisco l’11 aprile dice che gli elettori
Obama rurali, amareggiati dalla perdita del lavoro, «si aggrappano ai fucili, alla religione o
all’antipatia». L’evento diventa uno dei leitmotiv della campagna per le primarie in
Pennsylvaniaa
Circolano e-mail che asseriscono che sia Obama sia la Clinton intendono alzare i tassi di
Marzo Obama e
interesse e le imposte sui guadagni in conto capitale dei privati, indipendentemente dal reddito,
2008 Clinton
facendo leva sulle paure degli elettori spaventati dalla recessione economica
Viene immessa in rete un’e-mail a catena che lancia il seguente monito: «Secondo
L’Apocalisse L’anticristo sarà un uomo sulla quarantina, di discendenza musulmana, che
ingannerà la nazione con un linguaggio accattivante e avrà un fortissimo appeal come Gesù
Cristo… Secondo la profezia, la gente lo seguirà in massa ed egli farà promesse di falsa
Obama
speranza e di un mondo di pace. E quando sarà al potere, distruggerà ogni cosa. È forse
Obama?». Secondo PoliticalFact. com, in seguito all’e-mail Google registra 625.000 ricerche
di Obama + Anticristo

Febbraio Su Internet circolano voci anonime secondo le quali il Ku Klux Klan ha dato il proprio
Obama
2008 appoggio a Obama
Obama Circolano voci anonime secondo le quali Hugo Chavez sovvenziona la campagna di Obama
Obama Lo staff della Clinton fa circolare una foto di Obama vestito come un anziano somalo
Gennaio L’autista di limousine Larry Sinclair mette sul suo sito web un video in cui sostiene che Obama
Obama
2008 si è drogato e ha cercato di fare sesso orale con lui
Viene messa in rete un’e-mail a catena sui commenti fatti dall’ex consigliere di Bill Clinton,
Clinton Dick Morris, che afferma che Hillary Clinton non ha superato gli esami di avvocato a
Washington (cosa vera)
Viene messa in rete un’e-mail a catena che asserisce che, da studente, la Clinton ha avuto come
tutor il capo del partito comunista californiano. L’e-mail si basa su un articolo scritto da Dick
Clinton
Morris e pubblicato da FrontMag nell’agosto 2007. Numerose fonti dimostrano che le
asserzioni di Morris sono falseb
Viene messa in rete un’e-mail a catena secondo la quale la principale attività extracurriculare
della Clinton mentre frequentava la facoltà di legge di Yale consisteva nell’aiutare i membri
Clinton
delle Pantere Nere, che erano sotto processo nel Connecticut per aver torturato e ucciso un
agente federale
Circolano voci secondo le quali Obama ha prestato giuramento come membro del Senato sul
Obama
Corano invece che sulla Bibbia
Dicembre Girano due voci distinte: che la chiesa di Obama sia, in verità, musulmana e che accetti solo
Obama
2007 afroamericani
Ottobre Obama viene accusato di antipatriottismo per non aver indossato la spilletta con la bandiera in
Obama
2007 sostegno alle truppe
Obama viene accusato di antipatriottismo per non aver messo la mano sul cuore durante l’inno
Obama
nazionalec
Donny McClurkin, cantante gospel e «omosessuale della chiesa riformista», fa la sua comparsa
Obama
durante una raccolta fondi per Obama
Agosto
Clinton La Clinton fa presunti commenti marxisti
2007
Aprile
Obama Obama viene criticato per l’anacronismo del discorso fatto a Selma
2007
Marzo Un video anonimo anti Clinton e pro Obama viene messo su YouTube; è un adattamento della
Clinton
2007 pubblicità Apple «Think Different»d
Il 17 gennaio, il giorno successivo a quello in cui Obama annuncia di aver istituito una
commissione esplorativa per le elezioni presidenziali, InsightMag. com (conservatore) riporta
che «fonti vicine a un controllo sul passato» presumibilmente «condotto da ricercatori legati a»
Febbraio Hillary Clinton, hanno scoperto che Obama «ha trascorso almeno 4 anni in una Madrasa, o
Obama
2007 scuola coranica, in Indonesia». Secondo l’articolo le fonti hanno asserito che «l’idea è di
raffigurare Obama come bugiardo». Sempre secondo le fonti, la «Madrasa frequentata da
Obama» potrebbe avergli insegnato «una dottrina wahhabista che nega i diritti ai non
musulmani»e
a
Caren Bohan, «Obama defends “bitter” remarks; McCain attacks», Reuters, 14 aprile 2008.
b
Julie Millican, «Dick Morris makes numerous false claims in purported attempt to “correct” Bill Clinton’s syrupy
five minute ad for Hillary», Media Matters.org, 15 agosto 2007.
c
Torie Bosch, «How Barack Obama broke the law», Slate.com, 13 novembre 2007.
d
Si può vedere il video al seguente indirizzo: www.youtube.com/watch?v=6h3GlMZxjo.
e
John W. Delicath, «Myths and falsehoods about Barack Obama», Media Matters. org, 20 marzo 2007.
Fonte: Informazioni raccolte da Sharon Fain e Amelia Arsenault (2008). La documentazione sulle e-mail a catena
proviene da Politicalfact.com, servizio offerto da St. Petersburg Times e Congressional Quarterly.
TAB. A5.8. Principali eventi mediatici e scandali politici durante le primarie democratiche 2008, gennaio-giugno

Data Candidato Evento


Il reverendo Wright pronuncia discorsi dal tono duro e radicale davanti al National Press Club e
28/4-
Obama alla NAACP (l’associazione per il progresso delle persone di colore). Obama risponde
3/5
condannando Wright. La vicenda ottiene il 70% della copertura mediatica dedicata alla campagna
elettorale
11/4 Obama Obama definisce «acidi» alcuni elettori della Pennsylvania
La Clinton asserisce di essere atterrata in Bosnia sotto il fuoco dei cecchini. Salta subito fuori
24/3 Clinton un’immagine che dimostra che l’affermazione è falsaa. La vicenda ottiene il 36% della copertura
mediatica dedicata alla campagna elettorale di quella settimana
18/3 Obama Obama affronta il tema dei suoi rapporti con Wright e fa un discorso sulle razze in Americamb
14/3 Obama Lo scandalo del reverendo Wright è all’apice della copertura mediatica
Geraldine Ferraro, sostenitrice della Clinton, afferma che Obama «è molto fortunato a essere chi
11/3 Obama
è»c
07/3 Clinton Samantha Power, consigliere di Obama, definisce la Clinton un «mostro»d
La Clinton cita uno sketch da Saturday Night Live per dire che i media sono troppo soft nei
25/2 Clinton
confronti di Obama
La Clinton afferma che Obama sta usando tattiche da Karl Rove («la mente di Bush») e gli dice di
23/2 Clinton
«vergognarsi»e
19/2 Obama La campagna elettorale della Clinton accusa Obama di plagio nei suoi discorsif
Chris Matthews afferma che la Clinton si trova lì dov’è per la comprensione dimostrata nei
18/1 Clinton
confronti dell’infedeltà del maritog
Bill Clinton definisce la corsa alla Casa Bianca di Obama «una bella favola». Hillary Clinton
spiega la differenza tra politici che parlano e politici che agiscono, facendo dei paralleli tra i ruoli
11/1 Obama
che hanno avuto nel movimento per i diritti civili Lyndon Johnson e Martin Luther King e le
differenze tra la sua candidatura e quella di Obamah
07/1 Clinton La Clinton ha una «crisi di nervi» durante la campagna in Hampshirei
a
«Clinton says she “misspoke” about sniper fire», CNN.com, 25 marzo 2008.
b
«Obama urges Americans to help heal racial divide», CNN.com, 19 marzo 2008.
c
Brian Montopoli, «Ferraro: Obama “Very lucky to be who he is”», CBSnews.com, 11 marzo 2008.
d
«Obama advisor resigns; called Clinton “monster”», Associated Press, 7 marzo 2008.
e
«Clinton tells Obama “Shame on you”; Obama fires back», CNN.com, 23 febbraio 2008.
f
Beth Fouhy, «Clinton camp seeks to undermine Obama», Associated Press, 19 febbraio 2008.
g
David Bauder, «Matthews: I wronged Clinton with remark», Associated Press, 18 gennaio 2008.
h
«Bill Clinton defends “fairy tale” remark on Obama», Reuters, 11 gennaio 2008.
i
Timothy Noah, «The politics of weeping», Slate.com, 7 gennaio 2008.
Fonte: Informazioni raccolte da stampa e Internet da Sharon Fain e Amelia Arsenault (2008). Le percentuali di
copertura mediatica sono state fornite dal Project for Excellence in Journalism News Coverage Index.
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INDICE DEI NOMI
Aarts, Kees
Abrahams, David
Abramovich, Roman
Aday, Sean
Adut, Ari
Alinsky, Saul
Allen, Woody
Al Qaeda
Al-Walid bin Talal
Anderson, Jack
Anson, Luis María
Apple
Arendt, Hannah
Arnold, Taz
Aronson, Jonathan
Arsenault, Amelia
Arvada Middle East Sales
Ashcroft, John
Atwater, Lee
Aznar, José María
Bagdikian, Ben
Baker, Wayne
Bakunin, Mikhail
Barker, Travis
Barroso, José Manuel
Barstow, David
Bauman, Zygmunt
Baum, Matthew
Becker, Ernest
Beck, Ulrich
Bennett, Lance
Berezovsky, Boris
Berkowitz, Herb
Berlusconi, Silvio
Berners-Lee, Tim
Bertelsmann
Best, Samuel
Biden, Joseph
Bimber, Bruce
Blair, Tony
Bless, Herbert
Bloom, Orlando
Boczkowski, Pablo
Bokassa (generale)
Bosetti, Giancarlo
Botero, Ferdinando
Boykoff, Maxwell
Boynton, G. Robert
Brader, Ted
Bradley, Harry
Bradley, Tom
Brehm, John
Brin, Sergey
Brown, Chris
Brulle, Robert J.
Brzezinski, Zbigniew
Bush, George H.W.
Bush, George W.
Bush, Jed
Calendar, G.D.
Campbell, Alistair
Capra, Fritjof
Carson, Rachel
Carter, Jimmy
Catterberg, Gabriela
Cerf, Vint
Chalaby, Jean
Cheney, Richard
Chen, Steven
Chirac, Jacques
Clapp, Jennifer
Clark, David
Clarke, Tori
Clarkson, Kelly
Clinton, Bill
Clinton, Hillary
Clooney, George
Cohen, Bernard
Cohen, Florette
Colbert, Stephen
Comella, Rosemary
Coors, Grover
Coors, Joseph
Correa (presidente)
Coryn, John
Cowhey, Peter
Craxi, Bettino
Crow, Sheryl
Cullity, Jocelyn
Curran, James
Dalai Lama
Daley, Bill
Daley, Mayor Richard
Damasio, Antonio
Damasio, Hannah
Damon, Matt
Daschle, Tom
Dauvergne, Peter
David, Laurie
Deane, Claudia
Dean, Howard
de Sola Pool, Ithiel
d’Estaing, Giscard
De Vos, Richard
Diaz, Cameron
Di Caprio, Leonardo
Dispensa, Jaclyn M.
Dondurel, Danii B.
Dong, Fan
d’Orléans, Luigi Filippo
Dowd, Matthew
Drezner, Daniel
Drucker, Henry
Duelfer, Charles
Dunham, Ann (madre di Barack Obama)
Dylan, Jesse
Ecclestone, Bernie
Eco, Umberto
Edwards, John
Einhorn, Robert
Eizenstat, Stuard
Ekman, Paul
Eltsin, Boris
Endemol
Entman, Robert
Estrada, Joseph
Ettinger, Amber Lee
Fahmy, Shahira
Fairey, Shepard
Falun Gong
Farrakhan, Louis
Feinstein, Lee
Feldman, Jerry
Figueroa, Temo
Filo, David
Foucault, Michel
Franco (generale)
Freud, Sigmund
Fundacio Pablo Iglesias
Ganz, Marshall
Garzón, Baltasar
Gates, Bill
Giddens, Anthony
Gilligan, Andrew
Gitlin, Todd
Goffman, Erving
Golan, Guy
Goldenberg, Edie
González, Felipe
Gorbaciov, Mikhail
Gore, Al
Graber, Doris
Gramm, Phil
Gramsci, Antonio
Grewal, David
Groeling, Tim
Guber, Deborah L.
Guizot, François
Guo Liang
Gusinsky, Vladimir
Gutiérrez, Lucio
Habermas, Jürgen
Hallin, Daniel C.
Hansen, James
Hartnett, Josh
Harvey, David
Havas
Held, David
Henry, P.
Herbst, Susan
Hersh, Seymour
Hetherington, Mark
Hibbing, John R.
Hollihan, Thomas A.
Howard, Philip N.
Huang, John
Huddy, Leonie
Hughes, Chris
Hu Jintao
Hurley, Chad
Hussein, Saddam
Illarionov, Andrei
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Ingram, Helen
Iwabuchi, Kiochi
Jacobson, Gary C.
Jenkins, Henry
Jinbonet
Jolie, Angelina
Juris, Jeffrey
Kabayeva, Alina
Kahneman, Daniel
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Kasparov, Gary
Kasyanov, Mikhail
Keeling, Charles
Kelly, David
Kennedy, Robert F.
Kerry, John
Kiriya, Ilya
Klinenberg, Eric
Kohlberg Kravis Roberts
Kornbluh, Karen
Kravitz, Lenny
Krosnick, Jon
Kruglik, Mike
Kull, Steven
Lake, Anthony
Lakoff, George
Lash, Scott
Latour, Bruno
Lawrence, Regina G.
Lazarsfeld, Paul
Leege, D.
Lewinsky, Monica
Lieberman, Joseph
Lincoln, Abraham
Linneman, Jeffrey
Lipman, Masha
Litvinovitch, Marina
Livingston, Steven
Louw, P. Eric
Lowe, Vincent T.
Lury, Celia
Luther, Catherine A.
Mahoy, Scott
Mamut, Aleksander
Mancini, Paolo
Mann, Michael
Mann, Thomas
Mansell, Robin
Marcus, George E.
Marks, Stephen
Marx, Karl
McCain, John
McChesney, Robert
McInerney, Thomas G. (generale)
McKibben, Bill
McPeak, Merrill
McPhail, Thomas
Medvedev, Dmitry
Mehlman, Ken
Mermin, Jonathan
Meyer, Kaspar
Michavila, Narciso
Miller, Jade
Miller, M. Mark
Miller, Sienna
Miller, Toby
Mitchell, William
Mitterrand, François
Moo-Hyun, Roh
Moore, Michael
Morales, Evo
Morgan Stanley
Morin, Richard
Morris, Dick
Mulgan, Geoff
Murdoch, Rupert
Murdock, Graham
Mutz, Diana C.
Nelson, Gaylord (senatore)
Nelson, Jack
Neumann, W. Russell
Newell, Peter
Nisbet, Matthew C.
Nixon, Richard
Nollywood
Norris, Pippa
Nosik, Anton
Obama, Barack Hussein
Obama, Michelle
Page, Larry
Palin, Sarah
Panagopoulos, Costas
Parks, Gregory
Parsons, Talcott
Penn, Mark
Perot, Ross
Petraeus, David (generale)
Pickerill, Jenny
Pitt, Brad
Plasser, Fritz
Plouffe, David
Politkovskaya, Anna
Popkin, Samuel L.
Postel, Jon
Postman, Neil
Potanin, Vladimir
Powell, Colin
Powell, Lewis
Powell, Michael
Power, Samantha
Prohkorova, Elena
Putin, Vladimir
Putnam, Robert
Qing
Qiu, Jack L.
Rachlinski, Jeffrey J.
Rahn, Wendy
Rajoy, Mariano
Ramírez, Pedro J.
Rangwala, Glen
Reagan, Ronald
Redlawk, David P.
Reeves, Byron
Regner, Isabelle
Rellers, Ben
Renshon, Stanley A.
Revelle, Roger
Rice, Condoleezza
Rice, Ronald
Rice, Susan
Rich, Andrew
Riemer, Hans
Ritt, Martin
Robinson, Craig
Robinson, Michael J.
Robinson, Piers
Roldan, Luis
Romney, Mitt
Rospars, Joe
Ross, Dennis
Rouse, Pete
Rove, Karl
Royal, Ségolène
Rubin, Robert
Rubio, Mariano
Rudman, Mara
Rumsfeld, Donald
Russert, Tim
Ryzhkov, Vladimir
Samuelson, Robert J.
Santorum, Rick
Sarkozy, Nicolas
Sartre, Jean-Paul
Sassen, Saskia
Scaife, Richard M.
Schneider, Stephen
Schneider, William
Schwarzenegger, Arnold
Sears, David O.
Semetko, Holli
Senderovitch, Viktor
Shah, Dhavan V.
Shanahan, James
Sheehan, Cindy
Shinawatra, Thaksin
Simon, William E.
Simpser, Alberto
Smith, Averell “Ace”
Soetoro, Lolo
Sperling, Gene
Steiner, Achim
Stephanopoulos, George
Stiglitz, Joseph
Suárez, Adolfo
Swanson, David L.
Tabboni, Simonetta
Tannenbaum, Percy
Teer-Tomaselli, Ruth
Theiss-Morse, Elizabeth
Thrall, A. Trevor
Thussu, Daya Kishan
Tongia, Rahul
Touraine, Alain
Treisman, Daniel
Truman, Harry S.
Tubella, Imma
Tumber, Howard
Tunstall, KT
Tversky, Amos
Ubertaccio, Peter N.
Urdazi, Alfredo
Urry, John
Vallely, Paul
Van Andel, Jay
Van Belle, Douglas A.
Volkmer, Ingrid
Von Drehle, David
Waisbord, Silvio
Wald, Kenneth D.
Wall, Kevin
Warkentin, Craig
Warner, John
Warren, Mark E.
Wattenberg, Martin P.
Weart, Spencer
Weaver, R. Kent
Weber, Matthew
Weber, Max
Weber, René
Weber, Steve
Welch, Susan
Westen, Drew
West, Kayne
Wielhouwer, Peter
Wikipedia
Williams, Armstrong
Williams, Dmitri
Williams, Rosalind
Wilson, Carroll
Wilson, Ernest J.
Wilson, Kris
Winfrey, Oprah
Wirth, Timothy E.
Wolff
Wolfinger, Raymond
Wolfowitz, Paul
Wray, Stefan
Wright, Rev. Jeremiah
Wu, Irene S.
Wyatt, Robert O.
Yahoo!
Yang, Jerry
Yongzheng (imperatore)
YouTube
Z, Jay
Zaller, John
Zaloom, Caitlin
Zapatero, José Luis Rodríguez
Zhao, Yuezhi
Zhirinovsky, Vladimir
Zogby, John
Zyuganov, Gennady
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INFORMAZIONI SUL LIBRO
I media sono lo spazio dove oggi si decide la lotta politica fra attori, idee e interessi
contrapposti. Se le élite politiche cercano di imporre i propri modelli interpretativi sugli
eventi riportati da giornali e notiziari, la comunicazione via web e cellulare consente la
diffusione virale di messaggi alternativi che svelano i silenzi dei media e le bugie del
potere, dando luogo a opposizione sociale ai sistemi statali di controllo e alle logiche
capitaliste di networking.
CIRCA L’AUTORE
Manuel Castells è Professore di Sociologia e direttore dell’Internet Interdisciplinary
Institute della Universidad Oberta de Catalunya, Barcellona.
È inoltre docente di Sociologia e titolare della cattedra Wallis Annenberg di Tecnologia
della comunicazione e società alla University of Southern California, Los Angeles.
Table of Contents
DOWNLOAD DELLA NUOVA INTRODUZIONE
Frontespizio
Copyright
Dedica
Indice
Ringraziamenti
Apertura
1. Il potere nella società in rete
Che cos’è il potere?
Stato e potere nell’era globale
Reti
La società in rete globale
Lo stato a rete
Il potere nelle reti
Potere e contropotere nella società in rete
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale
2. La comunicazione nell’età digitale
Una rivoluzione nella comunicazione?
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla
comunicazione di massa all’autocomunicazione di massa
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali
multimediali globali
La politica delle politiche di regolamentazione
Il mutamento culturale nel mondo globalizzato
L’audience creativa
La comunicazione nell’età digitale globale
3. Le reti della mente e il potere
I mulini a vento della mente
Emozione, cognizione e politica
Emozione e cognizione nelle campagne politiche
Politica e credenze
Il framing della mente
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla
disinformazione alla mistificazione
Il potere del frame
4. Intervenire sulle reti di comunicazione: politica mediatica, politica dello scandalo e crisi
della democrazia
Il potere dell’immagine
Omicidi semantici: la politica mediatica all’opera
Monitorare l’accesso alle democrazia
The message is the medium: politica mediatica e politica dell’informazione
Progettare il messaggio: i think tank politici
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza
La pista del denaro
La manipolazione delle notizie
Il momento della falsità: le campagne elettorali
Le campagne in un ambiente digitale multimediale
La politica dello scandalo
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica
Politica scandalistica e politica mediatica
L’impatto politico della politica dello scandalo
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna socialista
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded» nei
media
Russia: censura te stesso
Cina: dominare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione politica
Crisi della democrazia?
5. Riprogrammare le reti di comunicazione: movimenti sociali, politica insorgente e nuovo
spazio pubblico
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova
cultura della natura
La rete è il messaggio: i movimenti globali contro la globalizzazione delle
grandi corporation
La resistenza cellulare: comunicazione wireless e le comunità insorgenti di
prassi
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del 2008
Riprogrammare le reti, ristrutturare le menti, cambiare il mondo
Conclusione: verso una teoria comunicazionale del potere
Appendice
Bibliografia
Indice dei nomi
Informazioni sul Libro
Circa l’autore
.

DOWNLOAD DELLA NUOVA INTRODUZIONE 2


Frontespizio 6
Dedica 8
Ringraziamenti 11
Apertura 14
1. Il potere nella società in rete 21
Che cos’è il potere? 21
Stato e potere nell’era globale 26
Reti 28
La società in rete globale 31
Lo stato a rete 42
Il potere nelle reti 45
Potere e contropotere nella società in rete 49
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale 51
2. La comunicazione nell’età digitale 55
Una rivoluzione nella comunicazione? 55
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla comunicazione di massa all’autocomunicazione di
massa 58
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali multimediali globali 67
La politica delle politiche di regolamentazione 89
Il mutamento culturale nel mondo globalizzato 102
L’audience creativa 110
La comunicazione nell’età digitale globale 116
3. Le reti della mente e il potere 120
I mulini a vento della mente 120
Emozione, cognizione e politica 126
Emozione e cognizione nelle campagne politiche 130
Politica e credenze 132
Il framing della mente 134
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla disinformazione alla mistificazione 142
Il potere del frame 159
4. Intervenire sulle reti di comunicazione: politica mediatica, politica dello scandalo e crisi della democrazia 163
Il potere dell’immagine 163
Omicidi semantici: la politica mediatica all’opera 165
Monitorare l’accesso alle democrazia 167
The message is the medium: politica mediatica e politica dell’informazione 171
Progettare il messaggio: i think tank politici 172
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza 176
La pista del denaro 180
La manipolazione delle notizie 186
Il momento della falsità: le campagne elettorali 189
Le campagne in un ambiente digitale multimediale 191
La politica dello scandalo 199
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale 204
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica 205
Politica scandalistica e politica mediatica 206
L’impatto politico della politica dello scandalo 206
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna socialista 209
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo 217
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded» nei media 217
Russia: censura te stesso 220
Cina: dominare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet 227
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione politica 234
Crisi della democrazia? 241
5. Riprogrammare le reti di comunicazione: movimenti sociali, politica insorgente e nuovo spazio pubblico 246
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova cultura della natura 249
La rete è il messaggio: i movimenti globali contro la globalizzazione delle grandi corporation 276
La resistenza cellulare: comunicazione wireless e le comunità insorgenti di prassi 282
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del 2008 295
Riprogrammare le reti, ristrutturare le menti, cambiare il mondo 329
Conclusione: verso una teoria comunicazionale del potere 336
Appendice 349
Bibliografia 373
Indice dei nomi 411
Informazioni sul Libro 424
Circa l’autore 425
.

DOWNLOAD DELLA NUOVA INTRODUZIONE 2


Frontespizio 6
Dedica 8
Ringraziamenti 11
Apertura 14
1. Il potere nella società in rete 21
Che cos’è il potere? 21
Stato e potere nell’era globale 26
Reti 28
La società in rete globale 31
Lo stato a rete 42
Il potere nelle reti 45
Potere e contropotere nella società in rete 49
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale 51
2. La comunicazione nell’età digitale 55
Una rivoluzione nella comunicazione? 55
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla comunicazione di massa all’autocomunicazione di
massa 58
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali multimediali globali 67
La politica delle politiche di regolamentazione 89
Il mutamento culturale nel mondo globalizzato 102
L’audience creativa 110
La comunicazione nell’età digitale globale 116
3. Le reti della mente e il potere 120
I mulini a vento della mente 120
Emozione, cognizione e politica 126
Emozione e cognizione nelle campagne politiche 130
Politica e credenze 132
Il framing della mente 134
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla disinformazione alla mistificazione 142
Il potere del frame 159
4. Intervenire sulle reti di comunicazione: politica mediatica, politica dello scandalo e crisi della democrazia 163
Il potere dell’immagine 163
Omicidi semantici: la politica mediatica all’opera 165
Monitorare l’accesso alle democrazia 167
The message is the medium: politica mediatica e politica dell’informazione 171
Progettare il messaggio: i think tank politici 172
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza 176
La pista del denaro 180
La manipolazione delle notizie 186
Il momento della falsità: le campagne elettorali 189
Le campagne in un ambiente digitale multimediale 191
La politica dello scandalo 199
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale 204
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica 205
Politica scandalistica e politica mediatica 206
L’impatto politico della politica dello scandalo 206
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna socialista 209
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo 217
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded» nei media 217
Russia: censura te stesso 220
Cina: dominare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet 227
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione politica 234
Crisi della democrazia? 241
5. Riprogrammare le reti di comunicazione: movimenti sociali, politica insorgente e nuovo spazio pubblico 246
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova cultura della natura 249
La rete è il messaggio: i movimenti globali contro la globalizzazione delle grandi corporation 276
La resistenza cellulare: comunicazione wireless e le comunità insorgenti di prassi 282
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del 2008 295
Riprogrammare le reti, ristrutturare le menti, cambiare il mondo 329
Conclusione: verso una teoria comunicazionale del potere 336
Appendice 349
Bibliografia 373
Indice dei nomi 411
Informazioni sul Libro 424
Circa l’autore 425

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