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Manuel Castells
Comunicazione
e Potere
Titolo originale: Communication Power
Copyright © 2009, 2013 Manuel Castells
Originally published by Oxford University Press
Per l’edizione in lingua italiana
Copyright © 2009, 2014 EGEA
Università Bocconi Editore
Traduzione: Bruno Amato
Paola Conversano (Appendice)
Copertina: ZAZO, Milano
EGEA S.p.A.
Via Salasco, 5 - 20136 Milano
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Date le caratteristiche di Internet, l’Editore non è responsabile per eventuali variazioni di indirizzi e contenuti dei
siti Internet menzionati.
ISBN 978-88-8350-091-6
Realizzazione del formato digitale a cura di Promedia, Torino
Alla memoria di Nicos Poulantzas,
un fratello,
teorico del potere
INDICE
DOWNLOAD DELLA NUOVA INTRODUZIONE
Ringraziamenti
Apertura
1.Il potere nella società in rete
Che cos’è il potere?
Stato e potere nell’era globale
Reti
La società in rete globale
Lo stato a rete
Il potere nelle reti
Potere e contropotere nella società in rete
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale
2.La comunicazione nell’età digitale
Una rivoluzione nella comunicazione?
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla
comunicazione di massa all’autocomunicazione di massa
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali
multimediali globali
La politica delle politiche di regolamentazione
Il mutamento culturale nel mondo globalizzato
L’audience creativa
La comunicazione nell’età digitale globale
3.Le reti della mente e il potere
I mulini a vento della mente
Emozione, cognizione e politica
Emozione e cognizione nelle campagne politiche
Politica e credenze
Il framing della mente
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla
disinformazione alla mistificazione
Il potere del frame
4.Intervenire sulle reti di comunicazione: politica mediatica, politica dello scandalo e crisi
della democrazia
Il potere dell’immagine
Omicidi semantici: la politica mediatica all’opera
Monitorare l’accesso alle democrazia
The message is the medium: politica mediatica e politica dell’informazione
Progettare il messaggio: i think tank politici
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza
La pista del denaro
La manipolazione delle notizie
Il momento della falsità: le campagne elettorali
Le campagne in un ambiente digitale multimediale
La politica dello scandalo
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica
Politica scandalistica e politica mediatica
L’impatto politico della politica dello scandalo
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna
socialista
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded»
nei media
Russia: censura te stesso
Cina: dominare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione politica
Crisi della democrazia?
5.Riprogrammare le reti di comunicazione: movimenti sociali, politica insorgente e nuovo
spazio pubblico
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova
cultura della natura
La rete è il messaggio: i movimenti globali contro la globalizzazione delle
grandi corporation
La resistenza cellulare: comunicazione wireless e le comunità insorgenti di
prassi
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del
2008
Riprogrammare le reti, ristrutturare le menti, cambiare il mondo
Appendice
Bibliografia
Circa l’autore
RINGRAZIAMENTI
I libri di solito sono un’impresa collettiva sotto la responsabilità esclusiva dell’autore.
Questo non fa eccezione. È nato nella mia mente molto tempo fa, ma si è evoluto
nell’interazione con colleghi e studenti di tante parti del mondo, e ha preso forma grazie
agli ambienti accademici e sociali in cui ho vissuto e lavorato fin dall’inizio di questo
millennio. Per questo motivo, citare le persone e le istituzioni che hanno cooperato alla
produzione di quest’opera non è un fatto di cortesia, ma di precisione nel firmare il libro.
Il mio primo ringraziamento va ad Amelia Arsenault, mia studentessa di dottorato,
eccellente assistente per le ricerche e Wallis Annenberg, Graduate Research Fellow presso
la Annenberg School for Communication, University of Southern California. In parole
povere, senza la qualità intellettuale e la dedizione personale del suo lavoro nel corso degli
anni, questo libro, nella sua forma attuale, non esisterebbe. Proseguirà la sua carriera
accademica diventando una grande studiosa fornita di splendide doti, impegnata a capire il
mondo per renderlo migliore.
Un ulteriore sostegno per le ricerche su cui si basa questo libro è venuto dalla preziosa
assistenza di Lauren Movius, Sasha Costanza-Chock, e Sharon Fain, studenti laureati della
Annenberg School for Communication, e della dottoressa Meritxell Roca, mia
collaboratrice all’Internet Interdisciplinary Institute dell’Universitat Oberta de Catalunya a
Barcellona. Precedenti versioni delle analisi presentate in questo volume sono state
discusse e modificate grazie all’interazione con i miei studenti alla Annenberg School for
Communication. Desidero rivolgere un ringraziamento speciale agli studenti del mio
seminario di ricerca Comm620: «Communication, Technology, and Power», tenuto nella
primavera del 2008. Specifici riconoscimenti del lavoro svolto da diversi studenti in
questo e in altri seminari si possono trovare nelle note e nei riferimenti del libro.
Le mie ricerche attuali, in questo libro e in altre opere, hanno tratto un considerevole
beneficio dallo stimolo intellettuale di due sedi accademiche: la Annenberg School for
Communication presso la University of Southern California (USC) a Los Angeles, e
l’Internet Interdisciplinary Institute dell’Universitat Oberta de Catalunya (UOC) a
Barcellona. Ho un profondo debito di gratitudine con i miei colleghi in entrambe le
istituzioni per l’appoggio e la collegialità che mi hanno fornito nel corso degli anni.
Ringrazio in particolare il preside Geoffrey Cowan, il preside Ernest Wilson, il direttore
Larry Gross, il direttore Patricia Riley dell’USC, e il rettore Imma Tubella dell’UOC, per
lo straordinario sostegno personale e istituzionale che hanno dato alla mia ricerca da
quando sono entrato a far parte della Annenberg School for Communication all’USC e
dell’Internet Interdisciplinary Institute all’UOC. Queste istituzioni accademiche sono la
punta avanzata della ricerca e della didattica sulla società nella rete globale, e sono fiero di
condividere con loro l’importante progetto di situare l’università all’interno delle
condizioni tecnologiche e intellettuali dell’Età dell’Informazione.
Sono anche grato ai miei colleghi e studenti del Massachusetts Institute of Technology
(MIT Science, Technology, and Society Program; Department of Urban Studies and
Planning; e Media Lab) per la loro significativa interazione durante i miei ripetuti periodi
di insegnamento come visiting professor in una delle istituzioni scientifiche più prestigiose
del mondo. Uno speciale ringraziamento va a William Mitchell, Rosalind Williams, David
Mindell, Larry Vale e Malo Hutson.
Quando affermo che questo libro è un lavoro collettivo, lo dico con convinzione. Ha
ricevuto il generoso contributo intellettuale di numerosi colleghi che l’hanno letto tutto o
in parte nelle varie stesure del manoscritto, e l’hanno commentato diffusamente. Ho
sottoposto ogni capitolo a diversi giri di revisione, poiché ogni volta che pensavo di aver
raggiunto il punto in cui la mia ricerca potesse essere comunicata, arrivavano nuovi
commenti e suggerimenti da colleghi pronti a imbastire un dialogo con me durante il
processo di elaborazione di questo libro. Ho modificato argomentazioni, aggiornato dati,
asciugato la prosa in seguito a queste molteplici interazioni con colleghi di diverse
istituzioni accademiche. Non sono riuscito a integrare ogni commento, in quanto molti di
loro provenivano da prospettive diverse, ma ho attentamente considerato ogni singolo
commento ricevuto, e questo ha prodotto modifiche sostanziali nella teoria e nelle analisi
presentate nel libro. Inutile dire che fraintendimenti ed errori durante questo lungo
processo di revisione sono mia responsabilità esclusiva. E così, voglio esprimere
pubblicamente la mia più profonda gratitudine ad Antonio Damasio, Hanna Damasio,
Jerry Feldman, George Lakoff, Jonathan Aronson, Tom Hollihan, Peter Monge, Sarah
Banet-Weiser, Ernest Wilson, Jeffrey Cole, Jonathan Taplin, Marty Kaplan, Elizabeth
Garrett, Robert Entman, Lance Bennett, Frank Webster, Robin Mansell, William Dutton,
Rosalind Williams, Imma Tubella, Michael Dear, Ingrid Volkmer, Geoffrey Bowker, John
Thompson, Ronald Rice, James Katz, W. Russell Neuman, George Marcus, Giancarlo
Bosetti, Svetlana Balmaeva, Eric Klinenberg, Emma Kiselyova, Howard Tumber, Yuezhi
Zhao, René Weber, Jeffrey Juris, Jack Linchuan Qiu, Irene Castells, Robert McChesney e
Henry Jenkins. La loro collegialità dimostra che la coproduzione open-source in realtà è
un’invenzione medievale che ebbe inizio nell’ambiente universitario, e continua oggi
come pratica essenziale nell’indagine scientifica.
Sono anche grato ai colleghi, gli studenti e i cittadini in genere che hanno commentato
le pubbliche presentazioni delle idee e delle analisi sulla comunicazione e il potere che
hanno poi condotto all’elaborazione di questo libro. Tale interazione svoltasi in diverse
sedi tra il 2003 e il 2008 ha rifinito notevolmente l’argomentazione appena abbozzata che
avevo in mente anni fa quando per la prima volta mi dedicai a questo progetto di ricerca.
In particolare vorrei ricordare il consiglio direttivo dell’International Communication
Association (ICA), con uno speciale ringraziamento a Ingrid Volkmer e Ronald Rice, e i
partecipanti alla mia conferenza al convegno del 2006 dell’ICA a Dresda; l’American
Political Science Association, e i partecipanti alla mia Ithiel de Sola Pool Lecture tenuta a
Chicago nel 2004; la London School of Economics and Political Science; il Program in
Science, Technology, and Society al MIT; la Milano Graduate School of Management
presso la New School University di New York; il De Balie Cultural Center di Amsterdam;
l’Accademia spagnola di Cinema e Televisione di Madrid; il Parlamento catalano di
Barcellona; l’Institute Fernando Henrique Cardoso di São Paulo; il World Political Forum
di Venezia; la Gulbenkian Foundation di Lisbona; la School of Information Science
dell’University of California, Berkeley; i miei colleghi del Center for Science,
Technology, and Society della Santa Clara University; e i miei colleghi del Los Angeles
Institute of the Humanities.
L’elaborazione e la realizzazione di questo libro sono state rese possibili dalla
professionalità e dalla dedizione di Melody Lutz, mia assistente personale alla Annenberg
School for Communication, e di Anna Sanchez-Juarez, mia assistente personale
all’Universitat Oberta de Catalunya. Senza il loro accurato coordinamento, pianificazione
ed esecuzione, questo complesso progetto non sarebbe potuto arrivare a completamento.
La mia calorosa gratitudine a entrambe.
La scrittura di questo libro ha tratto vantaggio da un lavoro editoriale di prim’ordine. La
mia assistente Melody Lutz, lei stessa scrittrice professionale, ha guidato la mia scrittura
pur rispettando il mio stile, uno stile derivato, nel bene e nel male, dalla remix culture che
caratterizza la mia vita. Sono sicuro che il suo sforzo sarà ricompensato dalla gratitudine
di molti lettori, in particolare di quegli studenti che abitualmente devono districarsi tra le
pagine dei miei libri per svolgere i lavori loro assegnati.
Come per tutti i miei libri del decennio passato, a far da collegamento tra voi, i lettori, e
me, l’autore, è stata la mia copy-editor, Sue Ashton. Sono grato per l’aiuto che mi ha dato
negli anni.
Voglio anche ringraziare sinceramente il mio editor alla Oxford University Press, David
Musson, con cui ho iniziato un dialogo intellettuale aperto un decennio fa, un dialogo da
cui sono scaturiti numerosi progetti, compreso questo libro. Desidero anche ricordare il
bel lavoro editoriale compiuto da Matthew Derbyshire e Kate Walker durante la
produzione di questo libro presso la Oxford University Press.
Ho un grande debito di riconoscenza verso i medici che mi hanno tenuto a galla durante
tutti questi anni, restituendomi dopo una grave malattia a una vita normale e produttiva.
Vorrei tanto che la mia esperienza potesse dare speranza a chi ne ha bisogno. Per questo,
sono profondamente grato al dottor Peter Carroll e al dottor James Davis della University
of California, San Francisco Medical Center; al dottor Benet Nomdedeu della Clinica
Ospedaliera, della Università di Barcellona; e al dottor John Brodhead della Keck School
of Medicine, University of Southern California.
Da ultimo, ma certamente non per importanza, la mia famiglia ha continuato a mettermi
a disposizione l’atmosfera affettiva che fa di me una persona, e per di più una persona
felice. Per questo, vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio amore a mia moglie Emma
Kiselyova, a mia figlia Nuria, alla mia figliastra Lena, ai miei nipoti Clara, Gabriel e
Sasha, a mia sorella Irene e a mio cognato José Bailo. Un ringraziamento speciale va a
Sasha Konovalova, con cui ho condiviso l’ufficio per un anno intero nel periodo finale
della stesura di questo libro, mentre lei scriveva i suoi paper per il college. Non solo non
ha mai disturbato la mia concentrazione, ma è diventata anche una acuta commentatrice e
un punto di riferimento nella mia esplorazione della cultura giovanile nel nuovo ambiente
di comunicazione.
E così, questo per me non è solo un altro libro, ma un libro speciale perché mette
insieme la mia ricerca e con il desiderio di un mondo reso migliore dalla libera
comunicazione delle persone. Purtroppo, come vedrete andando oltre questa pagina, le
cose non sono così semplici. Vi invito quindi a condividere il mio viaggio intellettuale.
Manuel Castells
Santa Monica, California, agosto 2008
APERTURA
Avevo diciotto anni. La mia ansia di libertà urtava contro i muri che il dittatore aveva
eretto intorno alla vita. La mia vita e quella di chiunque altro. Scrissi un articolo per il
giornale della facoltà di legge, e il giornale fu chiuso. Recitai nel Caligola di Camus, e il
nostro gruppo teatrale fu incriminato per incoraggiamento dell’omosessualità. Quando mi
sintonizzavo sulla BBC per cambiar musica, non sentivo assolutamente nulla al di là del
crepitio delle interferenze radio. Quando volevo leggere Freud, dovevo raggiungere
l’unica biblioteca di Barcellona che avesse accesso alla sua opera e riempire un modulo
che spiegava il motivo della mia richiesta. Quanto a Marx o Sartre o Bakunin, nemmeno a
pensarci – a meno che non fossi disposto a prendere l’autobus fino a Tolosa e nascondere i
libri alla frontiera, correndo rischi impensabili se mi avessero beccato a contrabbandare
propaganda sovversiva. E così decisi di affrontare questo soffocante, demente regime
franchista ed entrai a far parte della resistenza clandestina. A quel tempo la resistenza
all’Università di Barcellona contava qualche decina appena di studenti, dato che la
repressione poliziesca aveva decimato la vecchia opposizione democratica, e la nuova
generazione nata dopo la guerra civile stava appena entrando nell’età adulta. Eppure, la
profondità della nostra rivolta, e la promessa della nostra speranza, ci dava la forza di
ingaggiare una lotta assolutamente impari.
Ed eccomi lì, nell’oscurità di una sala cinematografica in un quartiere operaio, pronto a
risvegliare la coscienza delle masse sfondando i cordoni della comunicazione ufficiale
dietro i quali erano relegati – o almeno così pensavo. Avevo un mazzo di volantini in
mano. Erano quasi illeggibili, stampati com’erano con un rudimentale ciclostile a mano
impregnato di inchiostro violaceo, l’unico mezzo di comunicazione di cui disponessimo in
un paese soffocato dalla censura. (Mio zio, un colonnello dell’esercito, aveva un comodo
lavoro di censore, in cui leggeva ogni libro possibile – era lui stesso scrittore – e inoltre
vedeva in anteprima tutti i film sexy per decidere che cosa tagliare per il pubblico e che
cosa tenere per sé e i colleghi nella chiesa e nell’esercito). E così decisi di rimediare al
collaborazionismo della mia famiglia con le forze delle tenebre distribuendo qualche
foglio ai lavoratori, per denunciare le loro condizioni di vita (come se non le conoscessero
già), e chiamarli all’azione contro la dittatura, senza perdere di vista il rovesciamento
futuro del capitalismo, radice di ogni male. L’idea era quella di lasciare i volantini sulle
poltrone vuote del cinema, così che alla fine dello spettacolo, all’accensione delle luci, gli
spettatori raccogliessero il messaggio – un audace messaggio dalla resistenza per infonder
loro speranza e impegno nella lotta per la democrazia.
Quella sera mi feci sette cinema, spostandomi, per non farmi individuare, ogni volta in
una zona diversa in un quartiere operaio differente. Per quanto ingenua fosse la strategia di
comunicazione, non era un gioco da ragazzi, perché essere scoperti significava farsi
massacrare di botte dalla polizia e con ogni probabilità finire dentro, cosa che era successa
a diversi miei amici. Ma, ovviamente, la prodezza delle nostre azioni ci eccitava e dava
alla testa, sperando al tempo stesso di evitare calci in testa. Quando l’azione rivoluzionaria
del giorno era finita (uno di quei tanti giorni prima di finire in esilio a Parigi, due anni
dopo), chiamai la mia ragazza, fiero di me, sentendo che le parole che avevo trasmesso
potevano cambiare un po’ di menti, che avrebbero finito per cambiare il mondo. All’epoca
erano tante le cose che non sapevo. Non che oggi ne sappia molte di più. Ma allora ancora
non sapevo che il messaggio è efficace solo se il ricevente è pronto ad accoglierlo (e la
maggioranza non lo era) e se il latore è identificabile e affidabile. E il Fronte Operaio di
Catalogna (al 95 per cento composto da studenti) non era un brand politico serio quanto i
comunisti, i socialisti, i nazionalisti catalani, o quello di ogni altro partito consolidato,
proprio perché volevamo essere diversi – eravamo in cerca di un’identità in quanto
generazione del dopo guerra civile.
Così, dubito che il mio effettivo contributo alla democrazia spagnola fu pari alle mie
aspettative di allora. Eppure, il cambiamento sociale e politico si è sempre realizzato,
dappertutto e in tutti i tempi, a partire da una miriade di azioni gratuite, a volte così
inutilmente eroiche (la mio certamente non lo era) da essere sproporzionate rispetto alla
loro efficacia: le gocce di una pioggia ininterrotta di lotte e sacrifici che alla fine inondano
i bastioni dell’oppressione, se e quando i muri dell’incomunicabilità tra solitudini parallele
cominciano a creparsi, e il pubblico diventa «We the people». Dopotutto, per ingenue che
fossero le mie aspirazioni rivoluzionarie, avevo la ragione dalla mia parte. Perché il
regime avrebbe chiuso ogni canale di comunicazione al di fuori del suo controllo se la
censura non fosse stata l’essenza della perpetuazione del suo potere? Perché i Ministeri
dell’Istruzione, allora come adesso, continuano a commissionare manuali di storia e, in
alcuni paesi, decidono persino quali dei (solo quelli autentici) si debbano omaggiare
nell’aula scolastica? Perché gli studenti dovettero lottare per la libertà di parola; i sindacati
per il diritto a diffondere informazioni su lavoro in azienda (allora sulla bacheca, oggi sul
sito web); le donne per creare librerie delle donne; le nazioni sottomesse per comunicare
nella propria lingua; i dissidenti sovietici per distribuire la letteratura dei samizdat; perché
gli afroamericani negli USA e i popoli colonizzati in tutto il mondo hanno dovuto lottare
perché gli fosse concesso di leggere? Quello che sentivo allora, e che penso adesso, è che
il potere è basato sul controllo della comunicazione e dell’informazione, sia che si tratti
del macropotere dello stato e delle corporation dei media, o del micropotere di
organizzazioni di ogni sorta. E così, la mia lotta per la comunicazione libera, nel blog
d’inchiostro viola dell’epoca, era davvero un atto di sfida, e i fascisti, dal loro punto di
vista, avevano ragione a cercare di prenderci e rinchiuderci, così da bloccare i canali che
collegavano le menti individuali e la mente pubblica. Il potere è più che comunicazione, e
la comunicazione eccede il potere. Ma il potere si fonda sul controllo della
comunicazione, come il contropotere dipende dall’infrangere quel controllo. E la
comunicazione di massa, la comunicazione che potenzialmente raggiunge l’intera società,
è modellata e governata da relazioni di potere, radicate nel business dei media e nella
politica dello stato. Il potere della comunicazione sta al cuore della struttura e della
dinamica della società.
Questo è l’argomento di questo libro. Perché, come, e da chi le relazioni di potere sono
costruite ed esercitate attraverso la gestione dei processi di comunicazione, e come queste
relazioni di potere possono essere alterate da attori sociali che puntano al cambiamento
sociale influenzando l’opinione pubblica. La mia ipotesi di lavoro è che la forma più
fondamentale di potere consiste nell’abilità di plasmare la mente umana. Il modo in cui
sentiamo e pensiamo determina il modo in cui agiamo, individualmente e collettivamente.
Certamente, la coercizione, e la capacità di esercitarla, legittimamente o no, è una fonte
essenziale del potere. Ma la coercizione da sola non è in grado di stabilizzare il dominio.
La capacità di costruire consenso, o almeno di instillare timore e rassegnazione nei
confronti dell’ordine costituito, è essenziale per imporre le regole che governano le
istituzioni e le organizzazioni della società. E quelle regole, in tutte le società, manifestano
relazioni di potere incasto-nate nelle istituzioni in seguito a processi di lotta e
compromesso tra attori sociali in conflitto che si mobilitano per i propri interessi sotto la
bandiera dei propri valori. Inoltre, il processo d’istituzionalizzazione delle norme e regole
e la sfida a queste norme e regole da parte di attori che non si sentono adeguatamente
rappresentati nei meccanismi del sistema procedono simultaneamente, in un movimento
incessante di riproduzione della società e di produzione del cambiamento sociale. Se la
battaglia fondamentale sulla definizione delle norme della società, e l’applicazione di
queste norme nella vita quotidiana, ruota intorno al processo di plasmazione della mente
umana, la comunicazione occupa un posto centrale in questa battaglia. Perché è attraverso
la comunicazione che la mente umana interagisce con il suo ambiente sociale e naturale. Il
processo di comunicazione opera in base alla struttura, la cultura, l’organizzazione e la
tecnologia di comunicazione di una data società. Il processo di comunicazione media in
maniera decisiva il modo in cui le relazioni di potere vengono costruite e contestate in
ogni ambito della prassi sociale, ivi compresa la prassi politica.
L’analisi presentata in questo libro si riferisce a una specifica struttura sociale: la società
in rete. La struttura sociale che caratterizza la società del primo XXI secolo, una struttura
sociale costruita intorno a (ma non determinata da) reti digitali di comunicazione. Affermo
che il processo di formazione e di esercizio delle relazioni di potere si è drasticamente
trasformato nel nuovo contesto organizzativo e tecnologico derivato dalla nascita delle reti
digitali globali di comunicazione come fondamentali sistemi di elaborazione di simboli del
nostro tempo. Pertanto, l’analisi delle relazioni di potere richiede la comprensione della
specificità delle forme e dei processi di comunicazione socializzata, il che nella società in
rete significa sia i mass media multimodali sia le reti di comunicazione orizzontali e
interattive, costruite intorno a Internet e alla comunicazione wireless. Anzi, queste reti
orizzontali rendono possibile l’emergere di quella che chiamo autocomunicazione di
massa, accrescendo drasticamente l’autonomia dei soggetti comunicanti rispetto alle
corporation delle comunicazioni, in quanto gli utenti diventano al tempo stesso mittenti e
destinatari di messaggi.
Per spiegare però in che modo il potere è costruito nelle nostre menti mediante processi
di comunicazione, dobbiamo andare al di là del come e da chi i messaggi sono originati
nel processo di formazione del potere e trasmessi/formattati nelle reti elettroniche di
comunicazione. Dobbiamo capire anche in che modo sono elaborati nelle reti del cervello.
È nelle specifiche forme di connessione tra reti di comunicazione e significato nel nostro
mondo e reti di comunicazione e significato nel nostro cervello che è possibile in ultima
analisi identificare i meccanismi formazione del potere.
Un tale obiettivo di ricerca costituisce un’impresa davvero ardua. Così, nonostante i
tanti anni dedicati al progetto intellettuale comunicato in questo libro, non pretendo di
fornire risposte definitive agli interrogativi che sollevo. Il mio scopo, già di per sé
ambizioso, è quello di proporre un nuovo approccio all’interpretazione del potere nella
società in rete. E, come passo necessario verso questo obiettivo, specificare la struttura e la
dinamica della comunicazione nel nostro contesto storico. Per portare avanti la
costruzione di una fondata teoria del potere nella società in rete (che, per me, è equivalente
a una teoria del potere della comunicazione), concentrerò i miei sforzi sullo studio dei
processi in corso di affermazione del potere e del contropotere in politica, usando le
ricerche accademiche disponibili sull’argomento, e conducendo un certo numero di studi
di casi su una varietà di contesti sociali e culturali. Sappiamo però che il potere politico
rappresenta solo una delle dimensioni del potere, in quanto le relazioni di potere si
costruiscono in una complessa interazione tra le sfere multiple della pratica sociale. E così,
la mia analisi empirica sarà necessariamente incompleta, benché speri di stimolare un
prospettiva analitica simile per lo studio del potere lungo altre dimensioni, come la
cultura, la tecnologia, la finanza, la produzione o il consumo.
Confesso che la scelta del potere politico come oggetto primario della mia indagine è
stata determinata dall’esistenza di una consistente letteratura scientifica che in anni recenti
ha esaminato la connessione tra comunicazione e potere politico sul confine tra scienza
cognitiva, ricerca comunicazionale, psicologia politica e comunicazione politica. In questo
libro, combino la mie personali competenze di analisi sociopolitica e sullo studio delle
tecnologie di comunicazione con i lavori di studiosi che si sono occupati dell’interazione
tra cervello e potere politico, così da offrire un corpus di osservazioni che possono dar
conto dell’importanza di questo approccio interdisciplinare. Ho esplorato le fonti delle
relazioni di potere politico nel nostro mondo cercando di stabilire un nesso tra la dinamica
strutturale della società in rete, la trasformazione del sistema di comunicazione,
l’interazione tra emozione, cognizione e comportamento politico, e lo studio della politica
e dei movimenti sociali in una varietà di contesti. Questo è il progetto alla base del libro, e
sta al lettore valutarne la potenziale utilità. Io continuo a credere che le teorie non sono
altro che attrezzi effimeri nella produzione di conoscenza, sempre destinate a essere
soppiantate, o perché scartate in quanto irrilevanti o, com’è augurabile in questo caso,
perché inserite in un quadro analitico elaborato da qualcuno in qualche punto della
comunità scientifica per spiegare l’esperienza del potere sociale.
Per favorire il processo di comunicazione tra voi e me, voglio delineare la struttura e la
sequenza degli argomenti di questo libro, che, a mio avviso, segue la logica che ho appena
illustrato. Comincio definendo che cosa intendo per potere. Così, il capitolo 1 cerca di
chiarire il significato di potere proponendo alcuni elementi della teoria del potere. Per far
questo, mi avvalgo di alcuni contributi classici nella scienza sociale che trovo pertinenti e
utili per il genere di domande che pongo. Si tratta, va da sé, di una lettura selettiva delle
teorie del potere, che in alcun modo va vista come il tentativo di partecipare al dibattito
teorico. Non scrivo libri su altri libri. Uso le teorie, qualsiasi teoria, nello stesso modo in
cui mi auguro che sarà usata la mia teoria da chiunque altro: come una cassetta degli
attrezzi da utilizzare per capire la realtà sociale. Per questo motivo uso ciò che trovo utile
e non prendo in considerazione ciò che, come la maggioranza dei contributi alla teoria del
potere, non è direttamente in relazione con lo scopo della mia indagine. Di conseguenza,
non intendo contribuire alla deforestazione del pianeta stampando pagine e pagine di
critica a opere che, nonostante l’eleganza intellettuale o l’interesse politico, non rientrano
nell’orizzonte della mia ricerca. Inoltre, situo la mia interpretazione delle relazioni di
potere nel nostro tipo di società, che concettualizzo come la società in rete, che sta all’Età
dell’Informazione come la società industriale stava all’Età Industriale. Non entrerò nei
particolari della mia analisi sulla società in rete, avendo dedicato un’intera trilogia a
questo compito in anni recenti (Castells, 2000a, c, 2004c). Tuttavia, nel capitolo 1
ricombino gli elementi chiave della mia concettualizzazione della società in rete per
comprendere le relazioni di potere nel nuovo contesto storico che viviamo.
Dopo aver stabilito le fondamenta concettuali dell’analisi del potere, procedo, nel
capitolo 2, a un’operazione analitica dello stesso tipo riguardo alla comunicazione.
Tuttavia, in materia di comunicazione vado oltre, esaminando empiricamente la struttura e
la dinamica della comunicazione di massa in condizioni di globalizzazione e
digitalizzazione. Analizzo tanto i mass media quanto le reti orizzontali di comunicazione
interattiva, concentrandomi sulle loro differenze come sulle loro intersezioni. Studio la
trasformazione del pubblico dei media da ricevitori di messaggi a mittenti/destinatari di
messaggi, ed esploro la relazione tra questa trasformazione e il processo di mutamento
culturale nel nostro mondo. Infine, identifico le relazioni di potere insite nel sistema di
comunicazione di massa e nell’infrastruttura di rete da cui la comunicazione dipende, ed
esploro le connessioni tra business, media e politica.
Una volta fissati le determinanti strutturali della relazione tra potere e comunicazione
nella società in rete, cambio la prospettiva della mia analisi dalla struttura all’agente. Se il
potere opera agendo sulla mente mediante la comunicazione di messaggi, dobbiamo capire
come la mente umana elabori questi messaggi, e come questa elaborazione si traduca nel
regno della politica. Questa è la transizione analitica chiave del libro, e forse il solo
elemento dell’indagine che richiederà uno sforzo aggiuntivo al lettore (come lo ha
richiesto da parte mia) perché l’analisi politica comincia solo adesso a integrare la
determinazione strutturale con i processi cognitivi. Non mi sono imbarcato in questa
complessa impresa in omaggio alla moda intellettuale. L’ho fatto perché ho trovato
rivelatrice la gran massa di letteratura che nel decennio passato ha condotto ricerche
sperimentali per gettar luce sui processi della decisione politica individuale; rivelatrice
sulla relazione tra processi mentali, pensiero metaforico e la creazione politica delle
immagini. Senza accettare le premesse riduzioniste di alcuni di questi esperimenti, penso
che la scuola dell’intelligenza affettiva, e altre opere sulla comunicazione politica, offrano
un ponte necessario tra strutturazione sociale ed elaborazione individuale delle relazioni di
potere. Le basi scientifiche di gran parte di queste ricerche sono da ritrovarsi nelle recenti
scoperte delle neuroscienze e della scienze della cognizione, rappresentate per esempio dai
lavori di Antonio Damasio, Hanna Damasio, George Lakoff e Jerry Feldman. Così, ho
ancorato la mia analisi delle relazioni tra comunicazione e prasi politica a queste teorie, e
all’evidenza empirica nel campo della psicologia politica che meglio si può comprendere
da una prospettiva neuroscientifica, come l’opera di Drew Westen.
Pur non disponendo di una particolare competenza in questo campo, con l’aiuto di
colleghi ho cercato di presentare nel capitolo 3 un’analisi delle relazioni specifiche tra
emozione, cognizione e politica. Ho messo quindi in relazione i risultati di questa analisi
con ciò che la ricerca sulla comunicazione sa sul condizionamento della comunicazione
politica da parte di attori politici che intervengono deliberatamente nei media e in altre reti
di comunicazione per favorire i propri interessi, attraverso meccanismi come la scelta
dell’agenda, la falsificazione e la manipolazione delle notizie e di altri messaggi. Per
illustrare il potenziale valore esplicativo di questa prospettiva, e per semplificarne la
complessità, ho proceduto nel capitolo 3 a un’analisi empirica del processo di
disinformazione del pubblico americano da parte dell’amministrazione Bush sulla guerra
in Iraq. Così facendo, mi auguro di essere riuscito a trarre le implicazioni politiche
pratiche di un complicato approccio analitico. I processi sono complessi, ma i loro risultati
sono semplici e consequenziali, visto che i processi di comunicazione hanno impiantato la
cornice (frame) della «guerra al terrore» nelle menti di milioni di persone, inducendo una
cultura della paura nella nostre vite.
Quindi, i primi tre capitoli di questo libro sono inestricabilmente intrecciati perché per
capire la costruzione delle relazioni di potere tramite la comunicazione nella società in rete
bisogna integrare le tre componenti chiave del processo esaminate separatamente nei tre
capitoli:
• le determinanti strutturali del potere sociale e politico nella società in rete globale;
• le determinanti strutturali del processo di comunicazione di massa nelle condizioni
organizzative, culturali e tecnologiche del nostro tempo;
• l’elaborazione cognitiva dei segnali presentati dal sistema di comunicazione alla
mente umana, nella misura in cui è in relazione con la prassi sociale politicamente
rilevante.
Dopo ciò, sono in grado di affrontare specifiche analisi empiriche che utilizzano,
almeno in una certa misura, i concetti e le rilevazioni dei primi tre capitoli che, presi
insieme, costituiscono il quadro teorico proposto in questo libro. Il capitolo 4 spiega e
documenta il motivo per cui, nella società in rete, la politica diventa fondamentalmente
politica dei media, concentrandosi sulla sua espressione più caratteristica, la politica dello
scandalo, e collegando i risultati dell’analisi con la crisi mondiale di legittimazione
politica che mette in discussione il significato stesso di democrazia in gran parte del globo.
Il capitolo 5 esplora il modo in cui i movimenti sociali e gli agenti del cambiamento
politico procedono nella nostra società alla riprogrammazione delle reti di comunicazione,
così da essere nelle condizioni di veicolare messaggi che introducono nuovi valori nelle
menti delle persone per suscitare la speranza del cambiamento politico. Entrambi i capitoli
trattano il ruolo specifico dei mass media e delle reti di comunicazione orizzontale, dal
momento che la politica mediatica e i movimenti sociali usano entrambi gli insiemi di reti,
e che le reti dei media e le reti di Internet sono interconnesse. Ma il mio assunto, che andrà
testato, è che maggiore è l’autonomia offerta agli utenti dalle tecnologie di comunicazione,
maggiore è la probabilità che nuovi valori e nuovi interessi entrino nel campo della
comunicazione socializzata, raggiungendo così la mente del pubblico. In questo modo,
l’ascesa della autocomunicazione di massa, come chiamo le nuove forme di
comunicazione sulla Rete, aumenta le occasioni di cambiamento sociale. Le persone, ossia
noi stessi, sono contemporaneamente angeli e demoni, e così la nostra accresciuta capacità
di agire sulla società non farà che portare allo scoperto ciò che in realtà siamo in ciascun
contesto spazio-temporale.
Procedendo con una serie di analisi empiriche, mi baserò sui dati a disposizione, oltre
che su alcuni studi di casi da me effettuati, provenienti da una varietà di contesti sociali,
culturali e politici. La gran parte del materiale riguarda gli Stati Uniti per la semplice
ragione che qui si è fatta più ricerca accademica sugli argomenti affrontati da questo libro.
Sono però convinto che la prospettiva analitica che in esso è portata avanti non dipende
dal contesto nazionale scelto, e può essere utilizzata per comprendere processi politici in
una varietà di paesi, compresi quelli in via di sviluppo. Questo perché la società in rete è
globale, e tali sono le reti di comunicazione, mentre i processi cognitivi nella mente
umana sono universali e condividono i caratteri di base, sia pure con una gamma di
variazioni nelle forme culturali della loro manifestazione. Dopotutto, le relazioni di potere
sono le relazioni basilari della società spaziando attraverso la storia, la geografia e le
culture. E se le relazioni di potere sono costruite nella mente umana mediante i processi di
comunicazione, come questo libro cercherà di dimostrare, queste connessioni nascoste
potrebbero ben essere il codice sorgente della condizione umana.
Ora nel cinema le luci si sono accese. La sala si svuota lentamente mentre gli spettatori
compiono la transizione tra le immagini sullo schermo e le immagini nella loro vita. Vi
mettete in coda per l’uscita, un’uscita verso qualsiasi luogo. Forse alcune parole del film
risuonano ancora dentro di voi. Parole come quelle che concludono Il prestanome (1976)
di Martin Ritt, in particolare le parole di Woody Allen ai maccartisti: «Miei signori… io
non riconosco a codesta commissione il diritto di farmi domande del genere. E inoltre,
vogliate anche andare tutti affanculo». Poi, le immagini di Allen ammanettato, diretto alla
prigione. Potere e sfida al potere. E il bacio della ragazza. Ammanettato, ma libero e
amato. Un turbine di immagini, idee, sentimenti.
Poi, improvvisamente, vedete questo libro. L’ho scritto per voi e l’ho lasciato lì perché
lo ritrovaste. Noterete la bella copertina. Potere. Comunicazione. Sapete ciò di cui parlo.
Quale che sia stata la connessione con la vostra mente, ha funzionato perché state
leggendo queste parole. Ma non sto dicendovi che cosa fare. Almeno questo l’ho imparato
dal mio lungo viaggio. Io combatto le mie battaglie: non chiedo agli altri di farlo per me, e
nemmeno con me. Eppure, continuo a pronunciare le mie parole, parole imparate grazie al
mio lavoro e alla mia attività di ricercatore di scienze sociali. Parole che, in questo caso,
raccontano la storia del potere. O meglio, la storia del potere nel mondo in cui viviamo. E
questo è il mio modo, l’unico che ho davvero a disposizione, per sfidare i poteri forti:
svelare la loro presenza nei meccanismi della nostra mente.
Capitolo 1
IL POTERE NELLA SOCIETÀ IN RETE
Che cos’è il potere?
Il potere è il processo più fondamentale nella società, giacché la società si definisce
intorno a valori e istituzioni, e ciò che è considerato di valore e istituzionalizzato è definito
da relazioni di potere.
Il potere è la capacità relazionale che permette a un attore sociale di influenzare
asimmetricamente le decisioni di altri attori sociali in modo tale da favorire la volontà, gli
interessi e i valori dell’attore che esercita il potere. Il potere è esercitato con mezzi di
coercizione (o con la possibilità di ricorrervi) e/o con la costruzione di significato sulla
base dei discorsi attraverso i quali gli attori sociali guidano la loro azione. Le relazioni di
potere sono inquadrate dal dominio, ossia dal potere che è insito nelle istituzioni della
società. La capacità relazionale del potere è condizionata, ma non determinata, dalla
capacità strutturale di dominio. Le istituzioni possono essere coinvolte in relazioni di
potere basate sul dominio che esse esercitano sui loro soggetti.
Questa definizione è tanto ampia da comprendere la maggior parte delle forme di potere
sociale, ma richiede alcune specificazioni. Il concetto di attore si riferisce a una varietà di
soggetti dell’azione: attori individuali, attori collettivi, organizzazioni, istituzioni e reti. In
ultima analisi, comunque, tutte le organizzazioni, istituzioni e reti esprimono l’azione di
agenti umani, anche se questa azione è stata nel passato istituzionalizzata o organizzata da
processi. Capacità relazionale vuol dire che il potere non è un attributo bensì una
relazione. Non può essere astratto dalla specifica relazione tra i soggetti del potere, quelli
che detengono il potere e quelli che in un dato contesto sono soggetti a tale detenzione.
Asimmetricamente significa che anche se in una relazione l’influenza è sempre reciproca,
nelle relazioni di potere c’è sempre un maggior grado di influenza di un attore sull’altro.
In ogni caso, non c’è mai un potere assoluto, un grado zero di influenza di coloro che sono
soggetti al potere su quelli che sono in posizione di potere. C’è sempre la possibilità di
opporre una resistenza che metta in discussione la relazione di potere. Inoltre, in ogni
relazione di potere c’è un certo grado di duttilità e di accettazione da parte di coloro che vi
sono soggetti. Quando resistenza e rifiuto diventano significativamente più forti di duttilità
e dell’accettazione, le relazioni di potere vengono trasformate: i termini della relazione
cambiano, i potenti perdono potere, e un processo di mutamento istituzionale o di
cambiamento strutturale ne consegue, a seconda del grado di trasformazione delle
relazioni di potere. Oppure le relazioni di potere diventano relazioni non sociali. Questo
perché, se la relazione di potere può essere mantenuta in vita solo poggiando sul dominio
strutturale sostenuto dalla violenza, quelli al potere, per conservare il loro dominio,
devono distruggere la capacità relazionale dell’attore o degli attori che oppongono
resistenza, cancellando così la relazione stessa. Io avanzo il concetto che la brutale
imposizione con la forza non è una relazione sociale perché porta all’annullamento
dell’attore sociale dominato, così che la relazione scompare a causa dell’estinzione di uno
dei suoi termini. È però un’azione sociale con significato sociale perché l’uso della forza
costituisce un’influenza intimidatrice sui soggetti che sopravvivono a un simile dominio,
contribuendo a riaffermare relazioni di potere rispetto a questi soggetti. Inoltre, non
appena la relazione di potere è ristabilita nelle sue molteplici componenti, il complesso
meccanismo stratificato del dominio riprende a funzionare, facendo della violenza un
fattore tra gli altri in un insieme più ampio di determinanti. Più la costruzione di
significato a favore di interessi e valori specifici svolge un ruolo nell’affermare il potere in
una relazione, meno diventa necessario il ricorso (legittimo o meno) alla violenza.
Comunque, l’istituzionalizzazione del ricorso alla violenza all’interno dello stato e suoi
derivati istituisce il contesto di dominio all’interno del quale la produzione culturale di
significato può esprimere tutta la sua efficacia.
Esiste un rapporto di complementarità e di reciproco sostegno tra i due principali
meccanismi di formazione del potere identificati dalle teorie del potere: violenza e
discorso. Dopotutto Michel Foucault apre il suo Sorvegliare e punire (1975) con la
descrizione della tortura di Damiens, procedendo soltanto dopo a esporre la sua analisi
della costruzione del discorso disciplinare, discorso che costituisce una società in cui
«fabbriche, scuole, caserme, strutture ospedaliere, assomigliano tutte a prigioni» (1975, p.
264). Questa complementarità delle fonti del potere la si percepisce anche in Max Weber.
Questi definisce il potere sociale come «la probabilità che un attore all’interno di una
relazione sociale si trovi in condizione di mettere in atto il proprio volere
indipendentemente dalla base su cui tale probabilità poggia» ([1922] 1985, p. 53), e
finisce per mettere in relazione il potere con la politica e la politica con lo stato, «una
relazione di uomini che dominano uomini, una relazione sostenuta per mezzo della
violenza legittima. Se si vuole che lo stato esista, i dominati devono obbedire all’autorità
che i poteri costituiti rivendicano… Il mezzo decisivo per la politica è la violenza» ([1919]
1946, p. 78). Ma avverte anche che uno stato esistente «la cui età eroica non è sentita
come tale dalle masse può comunque essere decisivo come potente sentimento di
solidarietà nonostante i più grandi antagonismi interni» ([1919] 1946, p. 177).
È per questo che il processo di legittimazione, nucleo della teoria politica di Habermas,
è la chiave che mette lo stato in grado di stabilizzare ed esercitare il suo dominio
(Habermas, 1976). E la legittimazione può essere effettuata attraverso svariate procedure,
e la democrazia costituzionale, quella che Habermas predilige, è soltanto una di esse. La
democrazia è infatti un insieme di processi e di procedure, non una scelta di politiche.
Infatti, se interviene nella sfera pubblica a favore degli interessi specifici che prevalgono
al suo interno, lo stato induce una crisi di legittimazione perché si rivela uno strumento di
dominio anziché un’istituzione rappresentativa. La legittimazione si basa in larga misura
sul consenso che viene suscitato dalla costruzione di significato condiviso; per esempio, la
fiducia nella democrazia rappresentativa. La costruzione di senso nella società avviene
tramite un processo di azione comunicativa. La razionalizzazione cognitiva fornisce la
base dell’azione agli attori sociali. Così, la capacità della società civile di fornire il
contenuto dell’azione dello stato tramite la sfera pubblica («una rete per comunicare
informazioni e punti di vista» [Habermas, 1996, p. 360]) è ciò che assicura la democrazia
e in ultima analisi crea le condizioni per il legittimo esercizio del potere: il potere come
rappresentazione dei valori e degli interessi di cittadini espressi per mezzo del loro
dibattito nella sfera pubblica. Così, la stabilità istituzionale è fondata sulla capacità di
articolare differenti interessi e valori nel processo democratico tramite reti di
comunicazione (Habermas, 1989).
Quando c’è separazione tra uno stato interventista e una società civile critica, lo spazio
pubblico crolla, sopprimendo così la sfera intermedia tra l’apparato amministrativo e i
cittadini. L’esercizio democratico del potere dipende a conti fatti dalla capacità
istituzionale di trasferire il significato generato dall’azione comunicativa nel
coordinamento funzionale dell’azione organizzata nello stato secondo i principi di
consenso costituzionale. Così, l’accesso costituzionale alla capacità coercitiva e le risorse
comunicative che permettono la coproduzione di significato sono complementari nello
stabilire relazioni di potere.
Così, a mio parere, alcune delle più influenti teorie del potere, nonostante le diversità
teoriche e ideologiche, condividono un’analisi sfaccettata della costruzione del potere
nella società 1: la violenza, la minaccia di ricorrervi, i discorsi disciplinari, la minaccia di
mettere in atto la disciplina, l’istituzionalizzazione delle relazioni di potere come dominio
riproducibile e il processo di legittimazione in base al quale i valori e le regole sono
accettati dai soggetti in questione, sono tutti elementi che interagiscono nel processo di
produzione e riproduzione delle relazioni di potere nelle pratiche sociali e nelle forme
organizzative.
Questa visione eclettica del potere – utile, mi auguro, come strumento di ricerca al di là
del suo livello di astrazione – articola i due termini della distinzione classica tra potere su
e potere di proposta da Talcott Parsons (1963) e sviluppata da diversi teorici (per esempio,
Goehler [2000] che distingue tra potere transitivo [potere su qualcuno] e potere
intransitivo [potere di fare]). Poiché, se assumiamo che tutte le strutture sociali sono
basate su relazioni di potere insite in istituzioni e organizzazioni (Lukes, 1974), perché un
attore sociale si impegni in una strategia mirante a un determinato scopo, essere in
condizione di agire sui processi sociali significa necessariamente intervenire sull’insieme
di relazioni di potere che inquadrano ogni dato processo sociale e condizionano il
raggiungimento di un dato scopo. L’emancipazione di un attore sociale non può essere
separata dall’aumento del proprio potere contro altri attori sociali, a meno che non
accettiamo l’immagine ingenua di una comunità umana riconciliata, un’utopia normativa
che l’osservazione storica smentisce (Tilly, 1990, 1993; Fernández-Armesto, 2000). Il
potere di fare qualcosa, nonostante quanto affermi Hannah Arendt (1958), è sempre il
potere di fare qualcosa contro qualcuno, o contro i valori e gli interessi di questo
«qualcuno» che sono inscritti negli apparati che governano e organizzano la vita sociale.
Come ha scritto Michael Mann nell’introduzione al suo studio storico sulle fonti del potere
sociale, «nel senso più generale del termine il potere è la capacità di perseguire e
conseguire scopi tramite la padronanza del proprio ambiente» (1986, p. 6). E, dopo aver
riportato le distinzioni di Parsons tra potere distributivo e potere collettivo, afferma che:
Nella maggior parte delle relazioni sociali i due aspetti del potere, distributivo e
collettivo, estrattivo e funzionale, operano e sono interconnessi. Tra i due esiste una
relazione dialettica. Nel perseguimento dei propri scopi, gli esseri umani entrano in
relazioni di potere di tipo cooperativo, collettivo gli uni con gli altri. Ma il realizzare
fini collettivi, dà origine sia all’organizzazione sociale sia alla divisione del lavoro…
I pochi al vertice riescono a mantenere obbedienti le masse alla base della società,
purché tale controllo sia istituzionalizzato nelle leggi e nelle norme del gruppo
sociale in cui entrambi operano (Mann, 1986, pp. 6-7).
Quindi le società non sono comunità, con valori e interessi comuni. Sono strutture sociali
contraddittorie poste in essere da conflitti e negoziati tra attori sociali diversi e spesso in
opposizione tra loro. I conflitti non cessano mai; semplicemente si sospendono grazie ad
accordi temporanei e contratti instabili che sono trasformati in istituzioni di dominio da
quegli attori sociali che raggiungono una posizione di vantaggio nella lotta di potere, sia
pure a costo di concedere un certo grado di rappresentatività istituzionale alla pluralità di
interessi e valori che rimangono subordinati. Così, le istituzioni dello stato e, oltre lo stato,
le istituzioni, le organizzazioni e i discorsi che inquadrano e regolano la vita sociale non
sono mai l’espressione della «società», una scatola nera dal significato polisemico, la cui
interpretazione dipende dalle prospettive degli attori sociali. Sono relazioni di potere
cristallizzate; sono cioè i «mezzi generalizzati» (Parsons) che mettono gli attori in grado di
esercitare potere su altri attori sociali così da avere il potere di realizzare propri scopi.
Questo è un approccio tutt’altro che inedito. Poggia sulla teoria della produzione della
società di Touraine (1973) e sulla teoria della strutturazione di Giddens (1984). Gli attori
producono le istituzioni della società in base alle condizioni delle posizioni strutturali che
occupano, ma hanno anche la capacità (in ultima analisi mentale) di dar luogo ad azione
sociale che è autogenerata, finalizzata, dotata di senso. È in questo modo che struttura e
azione vengono integrate nell’interpretazione della dinamica sociale, senza dover accettare
o respingere i riduzionismi gemelli dello strutturalismo e del soggettivismo. Questo
approccio non soltanto è un plausibile punto di convergenza per le teorie sociali al
riguardo, ma è anche ciò che sembra indicare la testimonianza della ricerca sociale
(Giddens, 1979; Mann, 1986, 1992; Melucci, 1989; Dalton e Kuechler, 1990; Bobbio,
1994; Calderon, 2003; Tilly, 2005; Sassen, 2006).
Comunque, i processi di strutturazione sono pluristratificati e multiscalari. Operano su
diverse forme e vari livelli della prassi sociale: economico (produzione, consumo,
scambio), tecnologico, ambientale, culturale, politico e militare. E includono relazioni di
genere che costituiscono relazioni trasversali di potere attraverso l’intera struttura. Questi
processi pluristratificati di strutturazione generano specifiche forme di tempo e spazio.
Ciascuno di questi livelli di pratica, e ciascuna forma spazio-temporale, (ri)producono e/o
contestano le relazioni di potere all’origine di istituzioni e discorsi. E queste relazioni
coinvolgono complesse articolazioni tra i diversi livelli di prassi e istituzionali: globale,
nazionale, locale e individuale (Sassen, 2006). Quindi, se la strutturazione è multipla, la
sfida analitica consiste nel comprendere la specificità delle relazioni di potere in ognuno di
questi livelli, forme e scale della pratica sociale, nonché nei loro esiti strutturati
(Haugaard, 1997). Così, il potere non è localizzato in una specifica sfera sociale o
istituzione, ma è distribuito sull’intero ambito dell’azione umana. Esistono però
espressioni concentrate di relazioni di potere in determinate forme sociali che
condizionano e inquadrano la pratica del potere nella società più ampia imponendo il
dominio. Il potere è relazionale, il dominio è istituzionale. Storicamente, una forma
particolarmente rilevante di dominio è rappresentata dallo stato, nelle sue diverse
manifestazioni (Poulantzas, 1978; Mulgan, 2007). Ma gli stati sono entità storiche (Tilly,
1974). Di conseguenza, la quantità di potere che detengono dipende dalla struttura sociale
complessiva in cui operano. E questa è la questione più decisiva per capire la relazione tra
potere e stato.
Nella classica formulazione weberiana, «in ultima analisi si può definire lo stato
moderno solo nei termini dei mezzi specifici a esso peculiari, così come a ogni altra forma
di associazione politica, vale a dire l’uso politico della forza. Ogni stato è fondato sulla
forza» ([1919] 1946, p. 77; corsivo mio). Dato che lo stato può essere invocato per
imporre relazioni di potere in tutti gli ambiti della prassi sociale, è lo stato il garante di
ultima istanza di tutti i micro-poteri; ossia dei poteri esercitati al di fuori dalla sfera
politica. Quando le relazioni di micro-potere entrano in conflitto con le strutture di
dominio insite nello stato, o lo stato cambia o il dominio è riaffermato con mezzi
istituzionali. Anche se l’enfasi qui è sulla forza, la logica del dominio può essere anche
insita nei discorsi, in quanto forme alternative o complementari di esercitare potere. I
discorsi sono intesi, nella tradizione foucaultiana, come combinazioni di sapere e
linguaggio. Ma non c’è contraddizione tra il dominio esercitato tramite la possibilità di
ricorrere alla forza e quello imposto tramite discorsi disciplinari. Anzi, l’analisi di
Foucault dei discorsi disciplinari che soggiacciono alle istituzioni della società riguarda
principalmente istituzioni statali o parastatali: la prigione, le forze armate, il manicomio.
La logica basata sullo stato è estesa anche ai mondi disciplinari della produzione (la
fabbrica) o della sessualità (la famiglia patriarcale eterosessuale; Foucault, 1976, 1984a,
b). In altri termini, i discorsi disciplinari sono sostenuti dall’uso potenziale della violenza,
e la violenza di stato è razionalizzata, interiorizzata, e in ultima analisi legittimata dai
discorsi che inquadrano/plasmano l’azione umana (Clegg, 2000). Di fatto, le istituzioni e
le paraistituzioni dello stato (per esempio le istituzioni religiose, le università, le élite
colte, in una certa misura i media) sono le fonti principali di questi discorsi. Per sfidare le
relazioni di potere esistenti, è necessario produrre discorsi alternativi che abbiano la
potenzialità di sopraffare la capacità discorsiva disciplinare dello stato, come passo
necessario per neutralizzare il suo uso della violenza. Di conseguenza, mentre le relazioni
di potere sono distribuite nella struttura sociale, lo stato, da una prospettiva storica, rimane
un esempio strategico dell’esercizio del potere con mezzi variegati. Ma lo stato stesso
dipende da una varietà di fonti di potere. Geoff Mulgan ha teorizzato la capacità dello
stato di assumere ed esercitare il potere tramite l’articolazione di tre fonti di potere: la
violenza, il denaro e la fiducia.
La globalizzazione, portata alla sua logica conclusione, implica che la scienza sociale
deve tornare a essere una scienza della realtà transnazionale – concettualmente,
teoricamente, metodologicamente e anche organizzativamente. Questo include il fatto
che bisogna che i concetti base della «società moderna» – famiglia, genere, classe,
democrazia, dominio, stato, economia, sfera pubblica, politica e così via – vengano
liberati dalle fissazioni del nazionalismo metodologico e ridefiniti e riconcettualizzati
nel contesto di un cosmopolitismo metodologico (Beck, 2005, p. 50).
David Held, a partire dal suo fondamentale articolo del 1991 e nelle sue successive analisi
politiche della globalizzazione, ha rilevato come la teoria classica del potere, concentrata
sullo stato-nazione o sulle strutture governative subnazionali, non abbia un quadro di
riferimento non appena uno delle componenti chiave della struttura sociale è
contemporaneamente locale e globale e non locale o nazionale (Held, 1991, 2004; Held et
al., 1999; Held e McGrew, 2007). Habermas (1998) riconosce i problemi sollevati
dall’avvento di quella che definisce «la costellazione postnazionale» per i processi di
legittimazione democratica, in quanto la Costituzione (l’istituzione determinante) è
nazionale mentre le fonti del potere vengono sempre più costruite nella sfera
sovranazionale. Bauman (1999) teorizza una nuova lettura della politica nel mondo
globalizzato. E Saskia Sassen (2006) ha mostrato la trasformazione dell’autorità e dei
diritti, e quindi delle relazioni di potere, operata dall’evoluzione della struttura sociale
verso «assemblaggi globali».
In sintesi: se le relazioni di potere esistono in specifiche strutture sociali che sono
costituite sulla base di formazioni spazio-temporali, e queste formazioni spazio-temporali
non sono più principalmente collocate al livello nazionale ma sono globali e locali al
tempo stesso, il confine della società cambia, e cambia anche il quadro di riferimento delle
relazioni di potere che trascendono il nazionale (Fraser, 2007). Con questo non si vuol dire
che lo stato-nazione scompare, ma piuttosto che i confini nazionali delle relazioni di
potere sono solo una delle dimensioni in cui operano potere e contropotere. Ciò finisce per
condizionare lo stato-nazione stesso. Anche se non svanisce come specifica forma di
organizzazione sociale, modifica il proprio ruolo, la propria struttura e le proprie funzioni,
evolvendo gradualmente verso una nuova forma di stato: lo stato a rete che analizzerò in
seguito.
Come possiamo comprendere, nel nuovo contesto, le relazioni di potere che non sono
definite primariamente all’interno dei confini territoriali stabiliti dallo stato? La
costruzione teorica proposta da Michael Mann per interpretare le fonti sociali del potere
offre una possibilità di lettura della questione, perché egli, sulla base della sua indagine
storica, concettualizza le società come «costituite da multiple reti socio-spaziali di potere,
che si sovrappongono e s’intersecano» (1986, p. 1). Pertanto, anziché metterci alla ricerca
di confini territoriali, dobbiamo individuare le reti socio-spaziali del potere (locali,
nazionali, globali) che, nella loro intersezione, configurano le società. Invece di una
visione dell’autorità politica mondiale centrata sullo stato per fornire una chiara
indicazione dei confini della società e, di conseguenza, dei centri di potere nel contesto
dell’era globale, dobbiamo cominciare dalle reti per comprendere le istituzioni, per usare
la caratterizzazione di Beck (2005). O, adottando la terminologia di Sassen (2006), le
forme degli assemblaggi, né globali né locali ma entrambe le cose simultaneamente,
definiscono lo specifico insieme delle relazioni di potere che forniscono il fondamento di
ciascuna società. In ultima analisi, si potrebbe dover mettere in discussione la nozione
tradizionale di società perché ciascuna rete (economica, culturale, politica, tecnologica,
militare e simili) ha la sua propria configurazione spaziotemporale e organizzativa, così
che i loro punti di intersezione sono soggetti a un’incessante trasformazione. Le società
come società nazionali diventano segmentate e sono continuamente rimodellate
dall’azione che reti dinamiche esercitano sulle loro strutture sociali storicamente ereditate.
Nei termini di Michael Mann: «Una società è una rete di interazione sociale ai cui confini
esiste un certo livello di chiasmo nell’interazione tra essa e il suo ambiente. Una società è
un’unità dotata di confini» (1986, p. 13).
In effetti, è difficile concepire una società priva di confini. Ma le reti non hanno confini
fissi: sono aperte e poligonali, e il loro movimento di espansione e contrazione dipende
dalla compatibilità o la competizione tra gli interessi e i valori programmati in ciascuna
rete e gli interessi e i valori programmati nelle reti con cui entrano in contatto nel loro
movimento di espansione. In termini storici, lo stato (nazionale o di altro genere) può
essere stato in grado di funzionare come guardiano dell’interazione tra reti, fornendo una
certa stabilità per una particolare configurazione di reti sovrapposte di potere. Ma, entro le
condizioni della globalizzazione stratificata, lo stato diventa un nodo (per quanto
importante) di una particolare rete, la rete politica, istituzionale e militare che si
sovrappone ad altre reti significative nella costruzione della pratica sociale. Così, la
dinamica sociale che si genera intorno alle reti sembra dissolvere la società quale forma
sociale stabile di organizzazione. Comunque, un approccio più costruttivo
all’interpretazione del processo di cambiamento storico è quello di concettualizzare una
nuova forma di società, la società in rete, costituita da specifiche configurazioni di reti
globali, nazionali e locali in uno spazio multidimensionale di interazione sociale. La mia
ipotesi è che configurazioni relativamente stabili di reti globali, nazionali e locali costruite
a partire dalle intersezioni di queste reti possono delimitare e ridefinire una nuova
«società», con l’intesa che questi confini sono altamente instabili per l’incessante
mutamento nella geometria delle reti globali che strutturano le pratiche e le organizzazioni
sociali. Per verificare questa ipotesi devo prendere una deviazione verso la teoria delle
reti, e poi devo introdurre la specificità della società in rete come tipologia particolare di
struttura sociale. Soltanto allora potremo ridefinire le relazioni di potere nelle condizioni
di una società globale in rete.
Reti
Una rete è un insieme di nodi interconnessi. I nodi possono essere di variabile rilevanza, e
così nodi particolarmente importanti sono chiamati «centri» in alcune versioni della teoria
delle reti. In ogni caso, qualsiasi componente di una rete («centri» compresi) è un nodo, la
cui funzione e il cui significato dipendono dai programmi della rete e dalla sua interazione
con altri nodi della rete. I nodi accrescono la loro importanza per la rete assorbendo una
maggior quantità di informazioni pertinenti ed elaborandole più efficientemente.
L’importanza relativa di un nodo non deriva dalle sue caratteristiche specifiche ma dalla
capacità di contribuire all’efficacia della rete nel realizzare i propri obiettivi, definiti dai
valori e dagli interessi programmati nelle reti. Tutti i nodi di una rete, però, sono necessari
per la sua performance, anche se le reti ammettono una certa ridondanza come misura di
sicurezza per il proprio funzionamento. Quando qualche nodo perde la sua utilità per il
raggiungimento degli obiettivi della rete, le reti tendono a riconfigurarsi, cancellando
alcuni nodi e aggiungendone altri. I nodi esistono e funzionano solo come componenti di
reti. L’unità è la rete, non il nodo.
Nella vita sociale, le reti sono strutture comunicative: «Le reti di comunicazione sono i
pattern di contatto che vengono creati dai flussi dei messaggi tra comunicatori nel tempo e
nello spazio» (Monge e Contractor, 2003, p. 39). Così, le reti elaborano flussi. I flussi
sono correnti di informazioni tra nodi, che circolano attraverso i canali di comunicazione
esistenti fra i nodi. Una rete è definita dal programma che le assegna gli obiettivi e le
regole di performance. Questo programma è fatto di codici che comprendono valutazioni
della performance e criteri di successo e fallimento. Nelle reti sociali e organizzative, gli
attori sociali, promuovendo i propri valori e interessi, e in interazione con altri attori
sociali, sono all’origine della creazione e della programmazione delle reti. Ma, una volta
istituite e programmate, le reti seguono le istruzioni inscritte nel loro sistema operativo, e
diventano capaci di autoconfigurazione entro i parametri degli obiettivi e delle procedure
loro assegnati. Per modificare gli esiti di una rete, è necessario che un nuovo programma
(un insieme di codici compatibili, orientati all’obiettivo) venga installato in essa –
dall’esterno della rete stessa.
Le reti (e gli insiemi di interessi e valori che esse incarnano) cooperano o competono tra
loro. La cooperazione è basata sulla capacità di comunicare tra reti. Questa capacità
dipende dall’esistenza di codici di traduzione e interoperatività tra le reti (protocolli di
comunicazione) e dall’accesso a punti di connessione (commutatori). La competizione
dipende dalla capacità che una rete ha di superare le altre grazie a una superiore efficienza
performativa o di capacità di cooperazione. La competizione può assumere anche una
forma distruttiva facendo saltare i commutatori (switches) di reti concorrenti e/o
interferendo con i loro protocolli di comunicazione. Le reti operano in base a una logica
binaria: inclusione/esclusione. All’interno della rete, la distanza tra i nodi tende a zero
quando ciascun nodo è connesso direttamente a ogni altro nodo. Tra i nodi nella rete e
quelli al di fuori di essa la distanza è infinita, non esistendo accesso a meno che non si
modifichi il programma della rete. Quando i nodi nella rete sono raggruppati, le reti
seguono la logica delle proprietà dei piccoli mondi: i nodi sono in grado di connettersi
all’intera rete e con le reti collegate a partire da ogni nodo della rete tramite un numero
limitato di passi (Watts e Strogatz, 1998). Nel caso delle reti di comunicazione,
aggiungerei la condizione della condivisione di protocolli di comunicazione.
Le reti dunque sono strutture di comunicazione complesse costruite intorno a un
insieme di obiettivi che assicurano simultaneamente unità di scopo e flessibilità di
esecuzione grazie alla loro adattabilità all’ambiente operativo. Sono al tempo stesso
programmate e autoconfigurabili. Nelle reti sociali e organizzative, obiettivi e procedure
operative sono programmati da attori sociali. La struttura si evolve in base alla capacità
della rete di autoconfigurarsi nella ricerca continua di assetti di rete più efficienti.
Le reti non sono appannaggio esclusivo delle società del XXI secolo, e nemmeno, in
effetti, dell’organizzazione umana (Buchanan, 2002). Le reti costituiscono il modello
fondamentale della vita, di ogni genere di vita. Come scrive Fritjof Capra, «la rete è un
modello che è comune a tutta la vita. Dovunque vediamo vita, vediamo reti» (2002, p. 9).
Nella vita sociale, gli analisti delle reti sociali vanno da tempo indagando sulla dinamica
delle reti sociali che si trovano nel cuore dell’interazione sociale e della produzione di
significato (Burt, 1980), un’indagine che ha portato alla formulazione di una teoria
sistematica delle reti di comunicazione (Monge e Contractor, 2003). Inoltre, in termini di
struttura sociale, gli archeologi e gli storici dell’antichità hanno evidenziato che la
documentazione storica mostra la pervasività e l’importanza delle reti come spina dorsale
delle società, a partire da migliaia di anni fa, nelle civiltà antiche più avanzate sviluppatesi
in diverse regioni del pianeta. In effetti, se trasferiamo la nozione di globalizzazione nella
geografia del mondo antico, determinata dalle tecnologie di trasporto disponibili, vediamo
che già nell’antichità esisteva una sorta di globalizzazione retificata, dal momento che le
società dipendevano per il proprio sostentamento, le risorse e il potere dalla connettività
delle loro principali attività con reti che trascendevano i limiti locali (LaBianca, 2006).
Storicamente, la cultura musulmana si è sempre basata su reti globali (Cooke e Lawrence,
2005). E McNeill e McNeill (2003) hanno mostrato il ruolo cruciale delle reti
nell’organizzazione sociale nel corso della storia.
Questa valutazione della documentazione storica effettiva va contro la visione
predominante dell’evoluzione della società, che si è concentrata su un diverso tipo di
organizzazione: la burocrazia gerarchica basata sull’integrazione verticale di risorse e
sudditi come espressione del potere organizzato di un’élite sociale, legittimata dalla
mitologia e dalla religione. Questa in una certa misura è una visione distorta, in quanto
l’analisi storica e sociale, il più delle volte, è stata costruita sull’etnocentrismo e
l’ideologia anziché sull’esame scientifico delle complessità di un mondo multiculturale.
Ma la relativa insensibilità della nostra rappresentazione storica all’importanza delle reti
nella struttura e nelle dinamiche della società può essere anche connessa alla
subordinazione di queste reti alla logica delle organizzazioni verticali, il cui potere era
inscritto nelle istituzioni della società e distribuito secondo flussi monodirezionali di
comando e controllo (Braudel, 1949; Mann, 1986, 1992; Colas, 1992; Fernández-Armesto,
1995). La mia ipotesi per spiegare la superiorità storica delle organizzazioni
verticali/gerarchiche sulle reti orizzontali è che la forma-rete di organizzazione sociale
aveva dei limiti materiali da superare, limiti che erano fondamentalmente legati alle
tecnologie disponibili. In effetti, il punto di forza delle reti sta nella loro flessibilità,
adattabilità e capacità di autoriconfigurarsi. Ma, al di là di una certa soglia di dimensione,
complessità e volume di flussi, esse diventano meno efficienti delle strutture verticalmente
organizzate di comando-e-controllo, entro le condizioni della tecnologia di comunicazione
pre-elettronica (Mokyr, 1990). Sì, le navi a vela potevano costruire, attraverso i mari e
persino gli oceani, reti di commercio e conquista. E gli emissari a cavallo o i messaggeri
che correvano a piedi potevano mantenere la comunicazione tra il centro e la periferia di
vasti imperi territoriali. Ma la lentezza del tempo di riscontro nel processo di
comunicazione era tale che la logica del sistema equivaleva a un flusso monodirezionale
della trasmissione delle informazioni e delle istruzioni. In tali condizioni, le reti erano
un’estensione del potere concentrato all’apice di quelle organizzazioni verticali che hanno
plasmato la storia dell’umanità: stati, apparati religiosi, signori della guerra, eserciti,
burocrazie, e i loro subordinati incaricati della produzione, del commercio e della cultura.
La capacità delle reti di introdurre nuovi attori e nuovi contenuti nel processo
dell’organizzazione sociale, dotati di una relativa autonomia rispetto ai centri di potere, è
cresciuta nel tempo con il cambiamento tecnologico e, più precisamente, con l’evolversi
delle tecnologie della comunicazione. È avvenuto così in particolare grazie alla possibilità
di far affidamento sulla rete di energia distribuita che ha caratterizzato l’avvento della
rivoluzione industriale (Hughes, 1983). Le ferrovie e il telegrafo hanno costituito la prima
infrastruttura di rete globale di comunicazione dotata di capacità di autoriconfigurazione
(Beniger, 1986). La società industriale però (tanto nella sua versione capitalista quanto in
quella statalista) era strutturata in misura predominante intorno a organizzazioni verticali
di produzione su larga scala e a istituzioni statali estremamente gerarchizzate, che in
alcuni casi hanno dato vita a sistemi totalitari. Ciò vuol dire che le precedenti tecnologie di
comunicazione elettrica non erano sufficientemente potenti per conferire alle reti
autonomia in tutti i nodi, in quanto tale autonomia avrebbe richiesto la multidirezionalità e
il flusso continuo di elaborazione interattiva dell’informazione. Ma implica anche che la
disponibilità di una tecnologia adeguata è condizione necessaria ma non sufficiente per la
trasformazione della struttura sociale. Fu solo entro le condizioni di una società industriale
matura che poterono emergere progetti autonomi di networking organizzativo. Quando ciò
avvenne, tali progetti poterono sfruttare il potenziale delle tecnologie di comunicazione
digitale basate sulla microelettronica (Benkler, 2006).
Così, le reti sono diventate le forme organizzative più efficienti grazie a tre principali
caratteristiche che hanno tratto vantaggio dal nuovo ambiente tecnologico: flessibilità,
scalabilità e capacità di sopravvivenza. La flessibilità è la capacità di riconfigurarsi in
sintonia con l’ambiente in mutamento e di conservare i propri obiettivi pur cambiando le
componenti, a volte bypassando i blocchi dei canali di comunicazione per trovare nuove
connessioni. La scalabilità è la capacità di espandere o ridurre le proprie dimensioni con
perturbazioni limitate. La capacità di sopravvivenza sta nell’abilità delle reti, visto che
non possiedono un singolo centro e possono operare secondo un’ampia gamma di
configurazioni, di resistere agli attacchi ai propri nodi e codici perché i codici della rete
sono contenuti in molteplici nodi capaci di riprodurre le istruzioni e trovare nuovi modi di
operare. Così, solo la capacità materiale di distruggere punti di connessione può eliminare
la rete.
Al centro del mutamento tecnologico che ha liberato il potere delle reti c’è stata la
trasformazione delle tecnologie di informazione e comunicazione, grazie alla rivoluzione
microelettronica che ha preso forma negli anni Cinquanta e Sessanta (Freeman, 1982;
Perez, 1983). Ciò ha costituito il fondamento di un nuovo paradigma tecnologico,
consolidatosi negli anni Settanta, prima negli Stati Uniti, e in breve diffusosi in tutto il
mondo, aprendo la porta a quella che ho definito l’Età dell’Informazione (Castells, 2000a,
c, 2004c). William Mitchell (2003) ha concettualizzato la logica evolutiva della tecnologia
dell’informazione e della comunicazione nel corso della storia come un processo di
espansione e accrescimento del corpo umano e della mente umana: un processo che,
all’inizio del XXI secolo, è caratterizzato dall’esplosione dei dispositivi portatili che
offrono in ogni luogo capacità di comunicazione ed elaborazione wireless. Questo
permette a unità sociali (individui o organizzazioni) di interagire ovunque, in qualsiasi
momento, basandosi su un’infrastruttura di supporto che gestisce risorse materiali in una
griglia di potere informazionale distribuito (Castells et al., 2006b). Con l’avvento della
nanotecnologia e la convergenza della microelettronica e dei processi e materiali biologici,
i confini tra vita umana e vita delle macchine sfumano, così che le reti estendono la loro
interazione dal nostro io interiore all’intero regno dell’attività umana, trascendendo le
barriere del tempo e dello spazio. Né Mitchell né io indulgiamo in scenari fantascientifici
come sostituti delle analisi del processo di trasformazione socio-tecnologica. Ma è
indispensabile, proprio nell’interesse dell’analisi, sottolineare il ruolo della tecnologia nel
processo di trasformazione sociale, in particolare quando consideriamo la tecnologia
centrale del nostro tempo – la tecnologia della comunicazione – che arriva al cuore della
specificità della specie umana: la comunicazione consapevole e significativa (Capra, 1996,
2002; Damasio, 2003). È stato grazie alle tecnologie elettroniche dell’informazione e della
comunicazione che la società in rete ha potuto dispiegarsi pienamente, trascendendo i
limiti storici delle reti come forme di organizzazione e interazione sociali.
La società in rete globale2
Una società in rete è una società la cui struttura sociale ruota intorno alle reti attivate da
tecnologie dell’informazione e della comunicazione elaborate digitalmente basate sulla
microelettronica. Considero le strutture sociali come gli assetti organizzativi degli esseri
umani che entrano in relazioni di produzione, consumo, riproduzione, esperienza e potere,
espresse in una comunicazione dotata di senso codificata dalla cultura.
Le reti digitali sono globali, in quanto hanno la capacità di riconfigurarsi, secondo le
direzioni dei loro programmatori, trascendendo i confini territoriali e istituzionali grazie a
reti di computer in telecomunicazione. Così, una struttura sociale la cui infrastruttura è
basata su reti digitali ha la potenzialità di essere globale. La tecnologia della rete, però, e
l’organizzazione reticolare, sono solo mezzi per mettere in atto le tendenze inscritte nella
struttura sociale. Il processo contemporaneo di globalizzazione ha la sua origine in fattori
economici, politici e culturali, come documentano le analisi accademiche della
globalizzazione (Beck, 2000; Held e McGrew, 2000, 2007; Stiglitz, 2002). Ma, come
indicano diversi studi, le forze che trainano la globalizzazione hanno potuto essere messe
in atto solo perché hanno a disposizione la capacità di networking globale offerta dalle
tecnologie di comunicazione e dai sistemi di informazione digitali, ivi comprese le reti
logistiche computerizzate a vasto raggio (Kiyoshi et al., 2006; Grewal, 2008). Questo è
nella pratica ciò che, per dimensioni, velocità e complessità, separa il processo attuale di
globalizzazione da precedenti forme storiche di globalizzazione.
Dunque, la società in rete è una società globale. Questo però non vuol dire che
dappertutto gli individui siano inclusi nelle sue reti. Per il momento, la maggioranza non
lo è (Hammond et al., 2007). Ma tutti sono toccati dai processi che hanno luogo nelle reti
globali che costituiscono la struttura sociale. Le attività centrali che modellano e
controllano la vita umana in ogni angolo del pianeta sono organizzate da reti globali: i
mercati finanziari; la produzione, gestione e distribuzione transnazionale di beni e servizi;
il lavoro altamente specializzato; la scienza e la tecnologia, inclusa l’istruzione
universitaria; i mass media; le reti di Internet di comunicazione interattiva multiscopo; la
cultura; l’arte; lo spettacolo; lo sport; le istituzioni internazionali che gestiscono
l’economia globale e le relazioni intergovernative; la religione; l’economia criminale; e le
ONG e i movimenti sociali transnazionali che affermano i diritti e i valori di una nuova
società civile globale (Held et al., 1999; Volkmer, 1999; Castells, 2000a; Jacquet et al.,
2002; Stiglitz, 2002; Kaldor, 2003; Grewal, 2008; Juris, 2008). La globalizzazione è intesa
al meglio come la connessione in rete di queste reti globali socialmente decisive. Pertanto,
l’esclusione da queste reti, spesso in un processo cumulativo di esclusione, equivale
all’emarginazione strutturale nella società globale in rete (Held e Kaya, 2006).
La società in rete si diffonde selettivamente nel pianeta, operando su siti, culture,
organizzazioni e istituzioni preesistenti che costituiscono ancora la gran parte
dell’ambiente materiale di vita degli individui. La struttura sociale è globale, ma il grosso
dell’esperienza umana è locale, in termini sia territoriali sia culturali (Borja e Castells,
1997; Norris, 2000). Le società specifiche, definite dagli attuali confini degli stati-nazione,
o dai confini culturali delle loro identità storiche, sono profondamente frammentate dalla
duplice logica di inclusione ed esclusione in azione nelle reti globali che strutturano la
produzione, il consumo, la comunicazione e il potere. Io propongo l’ipotesi che le
frammentazione della società in inclusi ed esclusi sia qualcosa di più dell’espressione del
ritardo richiesta dalla graduale assimilazione di precedenti forme sociali nella nuova
logica dominante. È, piuttosto, un carattere strutturale della società in rete globale. Ciò
perché le capacità di riconfigurazione insite nel processo di inserimento in rete permette ai
programmi che governano ciascuna rete di cercare dovunque aggiunte utili e di
incorporarle, scavalcando ed escludendo quei territori, quelle attività e quegli individui
che hanno valore scarso o nullo per l’esecuzione dei compiti assegnati alla rete. In effetti,
come osserva Geoff Mulgan, «le reti sono create non soltanto per comunicare, ma anche
per guadagnare posizioni, per coprire la comunicazione altrui» (1991, p. 21). La società in
rete opera in base a una logica binaria di inclusione/esclusione, i cui confini mutano nel
tempo, a seconda sia dei cambiamenti nei programmi delle reti sia nelle condizioni di
esecuzione di questi programmi. Dipende anche dalla capacità degli attori sociali, in vari
contesti, di operare su questi programmi, modificandoli in direzione dei loro interessi. La
società in rete globale è una struttura dinamica altamente malleabile alle forze sociali, alla
cultura, alla politica e alle strategie economiche. Ma ciò che resta in tutti i casi è il suo
dominio su attività e individui che sono esterni alle reti. In questo senso, il globale ha la
meglio sul locale – a meno che il locale non venga connesso al globale in quanto nodo di
reti globali alternative costruite dai movimenti sociali.
Così, la globalizzazione ineguale della società in rete è, nella pratica, un tratto
fortemente significativo della sua struttura sociale. La coesistenza della società in rete,
come struttura globale, con società industriali, rurali, comunali o di sopravvivenza,
caratterizza la realtà di tutti i paesi, sia pure con quote diverse di popolazione e territorio
da un versante e dall’altro dello spartiacque, a seconda della rilevanza di ciascun segmento
sociale per la logica dominante di ciascuna rete. Ciò vuol dire che le varie reti hanno
diverse geometrie e geografie di inclusione ed esclusione: la mappa dell’economia
criminale globale non è la stessa di quella che risulta dagli schemi di ubicazione
internazionale dell’industria dell’alta tecnologia.
In termini teorici, la società in rete dev’essere analizzata, primo, come un’architettura
globale di reti autoconfiguranti incessantemente programmate e riprogrammate dai poteri
costituiti in ciascuna dimensione; secondo, come il risultato dell’interazione tra le varie
geometrie e geografie delle reti che includono le attività centrali – ossia, le attività che
danno forma alla vita e al lavoro nella società; e, terzo, come il risultato di interazioni di
secondo ordine tra queste reti dominanti e la geometria e la geografia della disconnessione
delle formazioni sociali lasciate al di fuori della logica del networking globale.
Qualsiasi interpretazione delle relazioni di potere nel nostro mondo deve riferirsi nello
specifico a questa particolare società. Una discussione informata di questa specificità
richiede la caratterizzazione della società in rete secondo le sue componenti primarie:
produzione e distribuzione di valore, lavoro, comunicazione, cultura, e sua modalità di
esistenza in quanto formazione spaziotemporale. Solo allora potrò avanzare la mia ipotesi
sulla specificità delle relazioni di potere nella società globale in rete – un’ipotesi che
guiderà l’analisi presentata nel corso di questo libro.
Che cosa è il valore nella società in rete?
Le strutture sociali, come la società in rete, hanno la loro origine nei processi di
produzione e distribuzione del valore. Ma che cosa costituisce valore nella società in rete?
Che cosa muove il sistema di produzione? Che cosa motiva gli appropriatori di valore e i
controllori della società? Qui non c’è alcun cambiamento rispetto alle strutture sociali
precedenti: valore è ciò che le istituzioni dominanti della società decidono che sia valore.
Così, se il capitalismo globale plasma il mondo e l’accumulazione di capitale basata sulla
valutazione degli attivi finanziari sui mercati finanziari globali è il valore supremo, questo
sarà valore in ogni circostanza, in quanto, sotto il capitalismo, l’estrazione del profitto e la
sua materializzazione in termini monetari possono in ultima analisi acquisire tutto il resto.
Il punto critico è che, in una struttura sociale organizzata in reti globali, la gerarchia tra le
reti, quale che essa sia, diventerà la regola nell’intera griglia di reti che
organizzano/dominano il pianeta. Se, per esempio, diciamo che l’accumulazione di
capitale è ciò che fa muovere il sistema, e che il rendimento del capitale si realizza
fondamentalmente sui mercati finanziari globali, questi ultimi assegneranno valore a ogni
transazione in ogni paese, dal momento che nessuna economia è indipendente dalla
valutazione finanziaria assegnata dai mercati finanziari globali. Ma se invece stabiliamo
che il valore supremo è il potere militare, allora la capacità tecnologica e organizzativa
degli apparati militari strutturerà il potere nelle loro sfere di influenza e creerà le
condizioni perché altre forme di valore – per esempio l’accumulazione del capitale o il
dominio politico – procedano sotto la loro protezione. Se però la trasmissione di
tecnologia, informazione e conoscenza a una particolare organizzazione armata viene
bloccata, questa organizzazione diventa irrilevante nel contesto mondiale. Così, possiamo
dire che le reti globali di informazione e tecnologia sono quelle dominanti perché
condizionano la capacità militare che, a sua volta, fornisce la sicurezza necessaria per il
funzionamento del mercato. Un altro esempio illustra questa diversità nei processi di
creazione del valore: possiamo affermare che la fonte più importante di influenza nel
mondo attuale è la trasformazione della mentalità degli individui. Se è così, i media sono
le reti chiave in quanto, organizzati in conglomerati e in reti di distribuzione globali,
rappresentano le fonti primarie dei messaggi e delle immagini che raggiungono la mente
degli individui. Se invece consideriamo i media principalmente come business mediatico,
allora la logica che diventa sovrana è quella della creazione di profitto, sia nella
commercializzazione dei media da parte dell’industria pubblicitaria sia nella valutazione
dei loro capitali azionari.
Così, data la varietà delle potenziali origini della dominazione di rete, la società in rete è
una struttura sociale multidimensionale in cui reti di diverso tipo hanno diverse logiche di
creazione del valore. La definizione di ciò che costituisce valore dipende dalla specificità
della rete e del suo programma. Qualsiasi tentativo di ricondurre ogni valore a uno
standard comune si scontra con difficoltà metodologiche e pratiche insormontabili. Per
esempio, se la creazione di profitto è il valore supremo sotto il capitalismo, il potere
militare è la base del potere statale, e lo stato ha una considerevole capacità di decidere e
di imporre nuove regole per gli operatori economici (chiedete di Putin agli oligarchi russi).
Contemporaneamente, il potere statale, anche in contesti non democratici, dipende in larga
misura da ciò che la gente crede, dalla sua capacità di accettare le regole o, viceversa,
dalla sua volontà di opporsi. Quindi, il sistema dei media, e altri mezzi di comunicazione,
come Internet, potrebbero precedere il potere statale, il che a sua volta condizionerebbe le
regole della creazione di profitto, e ciò esautorerebbe il valore del denaro quale valore
supremo.
Dunque, il valore è, di fatto, un’espressione del potere: coloro che detengono il potere
(che spesso non coincidono con coloro che sono al governo) decidono che cosa è di
valore. A questo riguardo, la società in rete non introduce innovazioni. Quello che è
nuovo, invece, è la sua portata globale, e la sua architettura reticolare. Ciò vuol dire, da
una parte, che le relazioni di dominio tra reti sono cruciali. Sono caratterizzate da una
costante, flessibile interazione: per esempio, tra mercati finanziari globali, processi
geopolitici e strategie mediatiche. Dall’altra parte, siccome la logica della creazione di
valore come espressione di dominio è globale, quei casi che presentano un impedimento
strutturale a esistere globalmente si trovano in posizione di svantaggio rispetto ad altri la
cui logica è intrinsecamente globale. Questo riveste una considerevole importanza pratica
perché è alla radice della crisi dello stato-nazione ereditato dall’età industriale (non dello
stato in quanto tale, perché ogni struttura sociale genera la forma di stato sua propria).
Poiché lo stato-nazione può imporre le proprie regole solo sul proprio territorio, salvo il
caso di alleanze o di invasione, esso deve diventare o imperiale o reticolare quando si
mette in rapporto con altre reti nella definizione del valore. È per questo che, per esempio,
all’inizio del XXI secolo lo stato americano si è sentito in dovere di definire la sicurezza
contro il terrorismo come il valore preminente per il mondo intero. Era un modo per
costruire una rete di natura militare che assicurasse la permanenza della propria egemonia
ponendo la priorità della sicurezza al di sopra della creazione di profitto o di obiettivi di
secondo piano, come il rispetto dei diritti umani o la difesa dell’ambiente. Tuttavia, la
logica capitalista spesso si addentella rapidamente ai progetti di sicurezza, come illustra in
maniera lampante il lucroso business delle aziende americane clienti del governo in Iraq
(Klein, 2007).
Al capitalismo è sempre piaciuta l’idea di un mondo senza confini, come ci ha
ripetutamente ricordato David Harvey, tanto che le reti finanziarie globali hanno una
posizione di vantaggio quali istanze di attribuzione di valore nella società in rete globale
(Harvey, 1990). Ma il pensiero umano è probabilmente l’elemento che ha la maggiore
rapidità di propagazione e la maggiore influenza in ogni sistema sociale, a condizione che
si basi su un sistema di comunicazione globale/locale interattivo in tempo reale – il che è
esattamente ciò che, per la prima volta nella storia, sta emergendo adesso (Dutton, 1999;
Benkler, 2006). Così le idee, e specifici insiemi di idee, possono imporsi come il valore
autenticamente supremo (come l’idea di preservare il nostro pianeta o la nostra specie,
oppure quella di servire il disegno di Dio), quale prerequisito per ogni altra cosa.
In sintesi: la vecchia domanda della società industriale – la pietra angolare
dell’economia politica classica – «che cos’è il valore?», non ha una risposta definita nella
società in rete globale. Valore è ciò che viene elaborato in ogni rete dominante in ogni
momento in ogni luogo in base alla gerarchia programmata nella rete dagli attori che sulla
rete agiscono. Il capitalismo non è morto. Anzi, è più pervasivo che mai. Ma,
contrariamente a una percezione ideologica diffusa, non è l’unico gioco in circolazione
nella città globale.
Occupazione, lavoro, classe e genere: l’impresa a rete e la nuova divisione sociale del
lavoro
La precedente analisi della nuova economia politica della creazione di valore nelle reti
globali apre la strada per comprendere la nuova divisione del lavoro, e quindi il lavoro, la
produttività e lo sfruttamento. La gente lavora: lo ha sempre fatto. In realtà oggi, in
termini di ore lavorative totali prestate in una data società, la gente lavora più di quanto
abbia mai fatto, perché gran parte del lavoro femminile un tempo non era contato come
attività socialmente riconosciuta (e quindi pagata). La questione cruciale è sempre stata il
modo in cui il lavoro è organizzato e retribuito. La divisione del lavoro era, ed è ancora,
una misura di ciò che ha valore e ciò che non ne ha nella prestazione di lavoro. Questo
giudizio di valore organizza il processo della produzione. Definisce anche i criteri in base
ai quali il prodotto viene diviso, determinando consumo differenziale e stratificazione
sociale. La divisione fondamentale nella società in rete, ma non l’unica, è quella che
separa forza lavoro autoprogrammabile da forza lavoro generica (Carnoy, 2000; Castells,
2000c; Benner, 2002). La forza lavoro autoprogrammabile ha la capacità autonoma di
concentrarsi sull’obiettivo assegnato nel processo di produzione, di reperire le relative
informazioni, di ricombinarle in conoscenza usando lo stock di conoscenza disponibile, e
di applicarla nella forma di compiti orientati agli obiettivi del processo. Più i sistemi di
informazione sono complessi, e interattivamente connessi a database e fonti di
informazioni tramite le reti di computer, più quello che è richiesto al lavoratore è la
capacità di cercare e ricombinare informazione. Questo richiede un’appropriata
formazione e addestramento, in termini non di specializzazione ma di capacità creativa, e
dell’abilità di sapersi evolvere al passo dei cambiamenti che si verificano
nell’organizzazione, nella tecnologia e nella conoscenza. Viceversa, compiti che sono di
scarso valore, ma necessari, sono assegnati alla forza lavoro generica, che verrà prima o
poi sostituita da macchine o trasferita verso altri siti di produzione che hanno costi
inferiori, in base a un’analisi costibenefici dinamica. La più grande massa delle persone
che lavorano nel pianeta, e la maggioranza nei paesi progrediti, è costituita ancora da
manodopera generica. Questi lavoratori sono usa-e-getta, a meno che non riescano ad
affermare con l’azione collettiva il loro diritto a esistere come esseri umani e come
cittadini. Ma in termini di creazione di valore (nella finanza, nel settore manifatturiero,
nella ricerca, negli sport, nell’intrattenimento, nell’azione militare o nel capitale politico) è
il lavoratore autoprogrammabile quello che conta per qualunque organizzazione che abbia
il controllo delle risorse. Così, l’organizzazione del processo di lavoro nella società in rete
agisce in base a una logica binaria, separando il lavoro autoprogrammabile dalla
manodopera generica. Inoltre, la flessibilità e adattabilità di entrambi i generi di forza
lavoro a un ambiente in costante mutamento è una precondizione per il loro impiego.
Questa specifica divisione della forza lavoro è connotata per genere. La nascita del
lavoro flessibile è direttamente connessa alla femminilizzazione del lavoro remunerato,
una tendenza fondamentale della struttura sociale nell’ultimo trentennio (Carnoy, 2000).
L’organizzazione patriarcale della famiglia induce le donne a vedere l’organizzazione
flessibile del lavoro professionale come l’unico modo per rendere i doveri della famiglia
compatibili con quelli dell’attività lavorativa. È per questo che la grande maggioranza dei
lavoratori part-time e temporanei in quasi tutti i paesi è costituita da donne. Inoltre,
l’occupazione delle donne rientra nella maggior parte dei casi nel lavoro generico: anche
se il loro livello di istruzione è cresciuto notevolmente rispetto a quello degli uomini,
salari e condizioni di lavoro non sono migliorati in pari misura. Così la donna è diventata
il lavoratore ideale dell’economia capitalista globale in rete: da una parte, è in grado di
lavorare efficientemente, e di adattarsi alle mutevoli esigenze del business; dall’altra
riceve un compenso inferiore a parità di lavoro, e ha minori opportunità di promozione a
causa dell’ideologia e della prassi sessuata della divisione del lavoro nel sistema
patriarcale. La realtà però è, per usare un vecchio vocabolo, dialettica. Anche se
l’inserimento di massa delle donne nel lavoro retribuito, in parte a causa della loro
condizione di subordinazione patriarcale, è stato un fattore decisivo per l’espansione del
capitalismo informazionale globale, la trasformazione stessa della condizione delle donne
in quanto salariate ha finito per minare il patriarcato stesso. Le idee femministe emerse dai
movimenti sociali degli anni Settanta hanno trovato terreno fertile fra le lavoratrici esposte
all’esperienza della discriminazione. Ancora più importante, il potere contrattuale di tipo
economico conquistato dalle donne nella famiglia ha rafforzato la loro posizione rispetto
al capofamiglia maschio, minando al tempo stesso la giustificazione ideologica della loro
subordinazione, basata com’era sul rispetto dovuto all’autorità del maschio che manteneva
la famiglia con il suo lavoro. Così, la divisione del lavoro nella nuova organizzazione
sociale è connotata per genere, ma questo è un processo dinamico, in cui le donne stanno
ribaltando tendenze strutturali dominanti e inducendo le imprese a sottoporre gli uomini
alle stesse forme di flessibilità, precarietà, riduzione ed esternalizzazione dei posti di
lavoro che un tempo erano appannaggio delle donne. Così, invece di essere le donne a
venir innalzate al livello dei lavoratori maschi, è la maggioranza dei maschi che vengono
portati al livello della maggioranza delle lavoratrici, mentre le donne professioniste hanno
raggiunto un livello superiore di connettività in quelli che un tempo erano old boys’
networks. Queste linee di tendenza hanno profonde implicazioni sia per la struttura di
classe della società sia per la relazione tra uomini e donne sul posto di lavoro e in famiglia
(Castells e Subirats, 2007).
La creatività, l’autonomia e la capacità di autoprogrammazione dei lavoratori della
conoscenza non darebbero il loro frutto in fatto di produttività se non avessero la
possibilità di essere combinate con il networking del lavoro. Anzi, il motivo fondamentale
del bisogno strutturale di flessibilità e autonomia è la trasformazione organizzativa del
processo di produzione. Questa trasformazione è rappresentata dalla nascita dell’impresa
a rete. La nuova forma di organizzazione aziendale è l’equivalente storico sotto
l’informazionalismo della cosiddetta organizzazione fordista dell’industrialismo (tanto
capitalista quanto statalista), ossia l’organizzazione caratterizzata da una produzione di
massa standardizzata e dal controllo verticale del processo lavorativo secondo uno schema
razionalizzato dall’alto verso il basso (il «management scientifico» e il taylorismo, metodi
che suscitarono l’ammirazione di Lenin portando alla loro introduzione nell’Unione
Sovietica). Anche se sono ancora milioni i lavoratori nelle fabbriche organizzate in questo
modo, le attività che producono valore ai vertici del processo di produzione (R&S,
innovazione, design, marketing, management, e produzione flessibile customizzata in alti
volumi) dipendono da un tipo totalmente differente di azienda e, quindi, da un diverso tipo
di processo e di prestazione lavorativa: l’impresa a rete. Questa non è la stessa cosa di una
rete di imprese. È la rete costituita da aziende o segmenti di aziende, e/o dalla
segmentazione interna di un’azienda. Così, le grandi imprese sono internamente
decentrate come reti. Le piccole e medie imprese sono connesse in reti, assicurando così la
massa critica del proprio contributo in qualità subappaltatori, pur conservando la loro
risorsa principale: la flessibilità. Reti di piccole e medie imprese sono spesso satelliti di
grandi corporation; in molti casi di diverse di esse. Le grandi corporation, e le loro reti
sussidiarie, di solito formano reti di cooperazione chiamate, nella pratica aziendale,
alleanze o partnership strategiche.
Ma raramente queste alleanze costituiscono strutture di cooperazione permanente. Non
stiamo parlando di processi di cartellizzazione oligopolistica. Queste reti complesse sono
legate a specifici progetti di business e riconfigurano la loro cooperazione in reti diverse a
ogni nuovo progetto. La consueta pratica di business in questa economia reticolare è
quella delle alleanze, delle partnership e delle collaborazioni che sono specifiche a un dato
prodotto, processo, tempo e spazio. Queste collaborazioni sono basate sulla condivisione
di capitale e lavoro, ma più fondamentalmente di informazione e conoscenza, allo scopo di
conquistare quote di mercato. Sono quindi principalmente reti informazionali, che
connettono fornitori e clienti tramite l’azienda reticolare. L’unità del processo produttivo
non è l’azienda bensì il progetto di business, realizzato da una rete, l’impresa a rete.
L’azienda continua a essere l’unità legale di accumulazione del capitale, ma poiché il
valore dell’azienda dipende in ultima analisi dalla sua valutazione finanziaria sul mercato
borsistico, l’unità di accumulazione di capitale, l’azienda, diventa essa stessa nodo di una
rete globale di flussi finanziari. Così, nell’economia a rete, lo strato dominante è il
mercato finanziario globale, madre di tutte le valutazioni. Il mercato finanziario globale
opera solo in parte secondo le regole di mercato. È anche plasmato e mosso da turbolenze
dell’informazione di varia origine, elaborate e comunicate dalle reti informatiche che
costituiscono il sistema nervoso dell’economia capitalista globale e informazionale
(Hutton e Giddens, 2000; Obstfeld e Taylor, 2004; Zaloom, 2006).
La valutazione finanziaria determina le dinamiche di breve periodo dell’economia, ma
sul lungo periodo tutto dipende dalla crescita della produttività. È per questo che la fonte
principale della produttività costituisce la pietra angolare della crescita economica, e
quindi di profitti, salari, accumulazione e investimento (Castells, 2006). E il fattore chiave
per la crescita della produttività in questa economia reticolare knowledge-intensive è
l’innovazione (Lucas, 1999; Tuomi, 2002), ossia la capacità di ricombinare i fattori di
produzione in modo più efficiente, e/o di produrre maggior valore aggiunto in un processo
o prodotto. Gli innovatori dipendono dalla creatività culturale, o dall’apertura delle
istituzioni all’imprenditorialismo, dall’autonomia della manodopera nel processo di
lavoro, e dal genere appropriato di finanziamento per questa economia trainata
dall’innovazione.
La nuova economia del nostro tempo è sicuramente capitalista, ma di un capitalismo di
nuovo genere: dipende dall’innovazione come fonte di crescita della produttività; dai
mercati finanziari globali legati da reti di computer, i cui criteri di valutazione sono
influenzati da turbolenze dell’informazione; dalla retificazione della produzione e della
gestione, internamente quanto esternamente, localmente quanto globalmente; e da una
forza lavoro che è flessibile e adattabile. I creatori di valore devono essere
autoprogrammabili e capaci di elaborare autonomamente informazioni trasformandole in
conoscenza specifica. I lavoratori generici, ridotti al ruolo di esecutori, devono essere
pronti ad adattarsi ai bisogni dell’impresa a rete, altrimenti vengono rimpiazzati da
macchine o da forze lavoro alternative.
In questo sistema, oltre alla permanenza dello sfruttamento in senso tradizionale, la
questione chiave per la forza lavoro è la segmentazione in tre categorie: quelli che sono
fonte di innovazione e valore; quelli che sono semplici esecutori di istruzioni; e quelli che
sono strutturalmente irrilevanti, dal punto di vista dei programmi di profitto del
capitalismo globale, o come lavoratori (perché inadeguatamente istruiti e residenti in aree
prive delle infrastrutture e dell’ambiente istituzionale adatti alla produzione globale) o
come consumatori (troppo poveri per partecipare al mercato), o in entrambe le vesti. La
prima preoccupazione per gran parte della popolazione mondiale è quella di sottrarsi
all’irrilevanza, entrando invece in una relazione di senso, come quella che chiamiamo
sfruttamento – perché lo sfruttamento ha un significato per lo sfruttato. Il pericolo
maggiore lo corrono quelli che diventano invisibili ai programmi che comandano le reti
globali di produzione, distribuzione e creazione di valore.
Lo spazio dei flussi e il tempo acrono
Come accade in ogni trasformazione storica, l’emergere di una nuova struttura sociale è
connesso con la ridefinizione delle basi materiali della nostra esistenza, lo spazio e il
tempo, come hanno sostenuto tra gli altri Giddens (1984), Adam (1990), Harvey (1990),
Lash e Urry (1994), Mitchell (1999, 2003), Hall e Pain (2006) e Tabboni (2006). Le
relazioni di potere sono insite nella costruzione sociale di spazio e tempo, essendo allo
stesso tempo condizionate dalle formazioni spazio-temporali che caratterizzano la società.
Due forme sociali emergenti di tempo e spazio caratterizzano la società in rete, pur
coesistendo con le forme precedenti. Sono lo spazio dei flussi e il tempo acrono. Spazio e
tempo sono correlati, in natura come nella società. Nella teoria sociale lo spazio può
essere definito come il supporto materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo:
ossia, la costruzione della simultaneità. Lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione
può essere inteso come il graduale decoupling tra contiguità e condivisione del tempo. Lo
spazio dei flussi si riferisce alla possibilità tecnologica e organizzativa di praticare la
simultaneità senza contiguità. Si riferisce anche alla possibilità di un’interazione asincrona
in un tempo scelto, a distanza. La maggior parte delle funzioni dominanti della società in
rete (mercati finanziari, reti di produzione transnazionali, network mediatici, forme
reticolari di governance globale, movimenti sociali globali) sono organizzate intorno allo
spazio dei flussi. Comunque lo spazio dei flussi non è aspaziale. È fatto di nodi e reti;
ovvero, di luoghi connessi da reti di comunicazione operate elettronicamente attraverso le
quali circolano e interagiscono i flussi di informazioni che assicurano la condivisione
temporale di pratiche elaborate in uno spazio. Mentre nello spazio dei luoghi – basato
sulla contiguità di pratica – significato, funzione e località sono strettamente correlati,
nello spazio dei flussi i luoghi ricevono il loro significato e la loro funzione dal ruolo
nodale che rivestono nelle specifiche reti a cui appartengono. Così, lo spazio dei flussi non
è lo stesso per le attività finanziarie e per la scienza, per i network mediatici e per le reti
del potere politico. Nella teoria sociale, lo spazio non è concepibile come qualcosa di
separato dalla pratica sociale. Pertanto, ognuna delle dimensioni della società in rete che
abbiamo analizzato in questo capitolo ha una sua manifestazione spaziale. Essendo le
pratiche in rete, lo è anche il loro spazio. Dal momento che le pratiche retificate sono
basate su flussi di informazione elaborati tra vari siti da tecnologie di comunicazione, lo
spazio della società in rete è costituito dall’articolazione di tre elementi: i luoghi dove le
attività (e gli individui che le svolgono) sono situati; le reti materiali di comunicazione che
legano queste attività; e il contenuto e la geometria dei flussi di informazione che operano
le attività in termini di funzione e significato. Questo è lo spazio dei flussi.
Il tempo, in termini sociali, veniva abitualmente definito come la segmentazione
sequenziale di pratiche. Il tempo biologico, caratteristico di gran parte dell’esistenza
umana (e ancora oggi la condizione di vita della grande maggioranza della popolazione
del mondo) è definito dalla sequenza programmata nei cicli vitali della natura. Il tempo
sociale è stato plasmato nel corso della storia da ciò che chiamo tempo burocratico, che è
l’organizzazione del tempo, nelle istituzioni e nella vita quotidiana, secondo i codici degli
apparati ideologico-militari, che vengo sovrapposti ai ritmi del tempo biologico. Nell’età
industriale, emerse gradualmente il tempo dell’orologio, comprendente anche quello che
chiamo, nella tradizione foucaultiana, tempo disciplinare. Esso è la misura e
l’organizzazione della sequenzialità con precisione sufficiente ad assegnare compiti e
ordine a ogni momento della vita, a partire dal lavoro industriale standardizzato e dal
calcolo dell’orizzonte temporale delle transazioni commerciali: due componenti
fondamentali del capitalismo industriale, il quale non potrebbe funzionare senza il tempo
dell’orologio: il tempo è denaro e il denaro si fa nel corso del tempo. Nella società in rete,
l’accento sulla sequenzialità è inversa. Il rapporto con il tempo è definito dall’uso delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nello sforzo incessante di annullare il
tempo negando la sequenzialità: da una parte comprimendolo (come nelle transazioni
finanziarie globali concluse in una frazione di secondo o nella pratica generalizzata del
multitasking, concentrando un maggior numero di attività in un dato tempo); dall’altra
parte, offuscando la sequenza delle pratiche sociali, mescolando passato, presente e futuro
in un ordine casuale, come nell’ipertesto elettronico del Web 2.0, o l’allontanamento dai
cicli naturali tanto nel lavoro quanto nella pratica genitoriale.
Nella società industriale, organizzata attorno all’idea di progresso e allo sviluppo delle
forze produttive, il divenire strutturava l’essere, e il tempo si conformava allo spazio.
Nella società in rete, lo spazio dei flussi dissolve il tempo scompigliando la sequenza degli
eventi e rendendoli simultanei nelle reti di comunicazione; pone così la società in una
condizione di transitorietà strutturale: l’essere cancella il divenire.
La costruzione di spazio e tempo è socialmente differenziata. Lo spazio molteplice dei
luoghi, frammentato e sconnesso, esibisce temporalità diversificate, dal dominio
eminentemente tradizionale dei ritmi biologici al controllo del tempo dell’orologio.
Funzioni e individui scelti trascendono il tempo (per esempio passando da un fuso orario
all’altro), mentre attività svalutate e individui subordinati sopportano la vita guardando il
tempo che passa. Esistono però progetti alternativi di strutturazione di tempo e spazio,
espressioni di movimenti sociali che mirano a modificare i programmi dominanti della
società in rete. Così, anziché accettare il tempo senza tempo dell’automazione finanziaria,
il movimento ambientalista propone di vivere il tempo secondo la prospettiva cosmologica
della longue durée, che vede le nostre vite come parte dell’evoluzione della specie umana,
in solidarietà con le generazioni future ed esprimendo un senso di appartenenza
cosmologica: è ciò che Lash e Urry (1994) concettualizzano come tempo glaciale.
Tante comunità in tutto il mondo si battono per conservare il senso di appartenenza
locale e per affermare lo spazio dei luoghi, basato sull’esperienza, contro la logica dello
spazio dei flussi, basato sulla strumentalità, nel processo che ho descritto come il
grassrooting dello spazio dei flussi (Castells, 1999). In effetti, lo spazio dei flussi non
scompare, in quanto è la forma spaziale della società in rete; ma la sua logica potrebbe
essere trasformata. Anziché rinchiudere significato e funzione nei programmi delle reti,
potrebbe fornire supporto materiale alla connessione globale dell’esperienza locale, come
nelle comunità di Internet che emergono dalla messa in rete di culture locali (Castells,
2001).
Spazio e tempo sono ridefiniti sia dall’emergere di una nuova struttura sociale sia dalle
lotte di potere che si svolgono sulla forma e i programmi di questa struttura sociale.
Spazio e tempo esprimono le relazioni di potere della società in rete.
La cultura della società in rete
Le società sono costrutti culturali. Io intendo la cultura come l’insieme dei valori e delle
credenze che informano, guidano e motivano il comportamento della gente. Così, se esiste
una specifica società in rete, dovrebbe esistere una cultura della società in rete che è
possibile identificare come suo marcatore storico. Anche in questo caso, però, la
complessità e la novità della società in rete impongono prudenza. Prima di tutto, essendo
globale, la società in rete attiva e integra una molteplicità di culture, legate alla storia e
alla geografia di ciascuna area del mondo. In pratica, l’industrialismo (e la cultura della
società industriale) non ha fatto sì che specifiche culture nel mondo sparissero. La società
industriale disponeva di numerose manifestazioni culturali, diversificate quando non
conflittuali (dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dal Giappone al Regno Unito). Nuclei
industrializzati erano presenti anche in società per altri versi in larga misura rurali e
tradizionali. Neppure il capitalismo ha unificato culturalmente il suo regno storico. Il
mercato ha sì regnato in ogni paese capitalista, ma sottostando a tali regole specifiche, e
con una tale varietà di forme culturali, che identificare una data cultura come capitalista è
di scarsa utilità analitica, a meno che con cultura capitalista non intendiamo la cultura
americana o occidentale, il che si rivela empiricamente sbagliato.
Nello stesso modo, la società in rete si sviluppa in una molteplicità di ambientazioni
culturali, prodotte dalla storia differenziata di ciascun contesto. Si materializza in forme
specifiche, portando alla formazione di sistemi istituzionali e culturali altamente
diversificati (Castells, 2004b). Comunque, esiste un nucleo comune nella società in rete,
come esisteva per la società industriale. Ma nella società in rete c’è uno strato ulteriore di
unità. Essa esiste globalmente in tempo reale. È globale nella sua struttura. Così, non solo
esprime la sua logica all’intero mondo, ma mantiene la sua organizzazione reticolare a
livello globale specificandosi però in ciascuna società. Questo duplice movimento di
comunalità e singolarità ha due principali conseguenze a livello culturale.
Da una parte specifiche identità culturali diventano comuni di autonomia, e talvolta
trincee di resistenza, per collettivi e individui che rifiutano di dissolversi nella logica delle
reti dominanti (Castells, 2004c). Essere francese diventa rilevante quanto essere cittadino
o consumatore. Essere catalano, basco, galiziano, irlandese, gallese, scozzese, québecois,
curdo, sciita, sunnita, aymara o maori diventa invece una chiamata all’autoidentificazione
rispetto al dominio di stati-nazione imposti. Malgrado quanto dicano visioni normative o
ideologiche che propongono la fusione di tutte le culture nel melting pot cosmopolita dei
cittadini del mondo, il mondo non è piatto. In queste prime fasi dello sviluppo della
società in rete globale sono esplose le identità di resistenza, provocando i conflitti sociali e
politici più drammatici degli ultimi tempi. Stimabili teorici e meno stimabili ideologi
possono anche mettere in guardia sui pericoli di un simile sviluppo, ma noi non possiamo
ignorarlo. L’osservazione deve informare la teoria, non viceversa. In questo senso, ciò che
caratterizza la società in rete globale è la contrapposizione tra logica globale della rete e
l’affermazione di una molteplicità di sé locali, come ho cercato di sostenere e documentare
nel mio lavoro (Castells, 2000a, c, 2004c; vedi anche Tilly, 2005).
Più che la nascita di una cultura globale omogenea, quello che osserviamo è la diversità
culturale storica come tendenza principale: frammentazione più che convergenza. La
questione chiave che sorge allora è la capacità di queste specifiche identità culturali (fatte
con materiali ereditati da singolarità storiche rielaborate nel nuovo contesto) di
comunicare tra loro (Touraine, 1997). Altrimenti, la condivisione di una struttura sociale
globale, interdipendente, che però non è in grado di parlare una lingua comune di valori e
convinzioni, porta a fraintendimenti sistemici, alla base della violenza distruttiva contro
l’altro. Così, i protocolli di comunicazione tra le diverse culture sono il punto critico per la
società in rete, giacché senza di essi non esiste alcuna società ma solo reti dominanti e
comuni di resistenza. Il progetto di una cultura cosmopolita comune ai cittadini del mondo
pone le basi di una governance globale democratica e tocca la questione culturale-
istituzionale centrale della società in rete (Habermas, 1998; Beck, 2005). Purtroppo,
questa visione propone la soluzione senza identificare, se non in termini normativi, i
processi con cui questi protocolli di comunicazione vadano creati o possano essere creati,
considerando che la cultura cosmopolita, a quanto ci informa la ricerca empirica, è
presente, anche in Europa, solo in una minima parte della popolazione (Norris, 2000;
Commissione Europea, Eurobarometer, vari anni). Così, per quanto si possa
personalmente auspicare che la cultura del cosmopolitismo accresca gradualmente la
comunicazione tra popoli e culture, l’osservazione delle tendenze attuali indica una
direzione diversa.
La questione di quali possano essere questi protocolli di comunicazione interculturale è
materia di investigazione. Tale investigazione verrà affrontata in questo libro, sulla base
della seguente ipotesi: la cultura comune della società in rete globale è una cultura di
protocolli di comunicazione che permettono la comunicazione tra culture diverse sulla
base non di valori condivisi ma della condivisione dei valori della comunicazione. Ossia:
la nuova cultura non è fatta di contenuti ma di processi, come la cultura democratica
costituzionale è fondata su procedure, non su programmi concreti. La cultura globale è una
cultura della comunicazione per la comunicazione. È una rete aperta di significati culturali
che possono non solo coesistere, ma anche interagire e modificarsi a vicenda sulla base di
questo scambio. La cultura della società in rete è una cultura di protocolli di
comunicazione tra tutte le culture del mondo, sviluppata sulla base del comune
convincimento nel potere del networking e delle sinergie ottenute dando ad altri e
ricevendo da altri. Il processo di costruzione materiale della cultura della società in rete è
in corso. Ma non si tratta della diffusione della mentalità capitalista tramite il potere
esercitato sulle reti globali dalle élite dominanti ereditate dalla società industriale. Né si
tratta della proposta idealistica di filosofi che sognano un mondo di astratti cittadini
cosmopoliti. È il processo con cui attori sociali consapevoli, con origini svariate, portano
agli altri le loro risorse e convinzioni, aspettandosi di ricevere in cambio lo stesso, e anche
di più: la condivisione di un mondo diversificato, ponendo così fine alla paura ancestrale
dell’altro.
Lo stato a rete
Il potere non si riduce allo stato. Ma una interpretazione dello stato e della sua specificità
storica e culturale è un elemento indispensabile per ogni teoria del potere. Per stato,
intendo le istituzioni del governo della società e le loro agenzie istituzionalizzate di
rappresentanza politica e di gestione e controllo della vita sociale; ovvero, l’esecutivo, il
legislativo, il giudiziario, l’amministrazione pubblica, le forze armate, le forze di polizia e
tutela della legge, le authority di regolamentazione e i partiti politici, ai vari livelli di
governance: nazionale, regionale, locale e internazionale.
Lo stato mira ad affermare la propria sovranità, il monopolio di ultima istanza sulle
decisioni che riguardano i propri soggetti entro dati confini territoriali. Lo stato definisce
la condizione di cittadinanza, conferendo così diritti e imponendo doveri ai suoi soggetti.
Estende inoltre la propria autorità sui cittadini stranieri che si trovano sotto la sua
giurisdizione. E allaccia relazioni di cooperazione, di competizione e di potere con gli altri
stati. Nell’analisi presentata sopra, ho mostrato, in sintonia con diversi studiosi e
osservatori, la crescente contraddizione tra la strutturazione di relazioni strumentali nelle
reti globali e il relegamento dell’autorità dello stato-nazione entro le sue frontiere
territoriali. È in corso, in effetti, una crisi dello stato-nazione come entità sovrana
(Appadurai, 1996; Nye e Donahue, 2000; Jacquet et al., 2002; Price, 2002; Beck, 2005;
Fraser, 2007). Tuttavia, gli statinazione, nonostante le loro crisi multidimensionali, non
scompaiono; si trasformano adattandosi al nuovo contesto. La loro trasformazione
pragmatica è ciò che in realtà modifica il paesaggio della politica e della formazione delle
linee politiche nella società in rete globale. Questa trasformazione subisce l’influenza di
una varietà di progetti che su di essa si scontrano, e che costituiscono il materiale
culturale/ideale su cui operano i diversificati interessi politici e sociali presenti in ogni
società per realizzare la trasformazione dello stato.
Gli stati-nazione reagiscono alle crisi indotte dal duplice processo di globalizzazione
della strumentalità e identificazione della cultura, mediante tre meccanismi principali.
1. Si associano tra loro e formano reti di stati, alcune delle quali multifunzionali e a
sovranità condivisa, come l’Unione Europea. Altre sono concentrate su un insieme di
questioni, in genere di tipo commerciale (per esempio il NAFTA o il Mercosur) o di
sicurezza (per esempio la NATO). Altre ancora si costituiscono come spazi di
coordinamento, negoziato e dibattito tra stati che hanno interessi in specifiche regioni del
mondo; per esempio, l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), l’UA (Unione
Africana), la Lega Araba, l’ASEAN (Association of South East Asian Nations), l’APEC
(Asia-Pacific Economic Cooperation Forum), l’East Asian Summit, la Shanghai
Cooperation Organization, e così via. Nelle reti più forti, gli stati condividono alcuni
attributi della sovranità. Gli stati stabiliscono anche reti informali permanenti o
semipermanenti per elaborare strategie e gestire il mondo secondo gli interessi dei
partecipanti alla rete. Esiste un «ordine di beccata» fra questi raggruppamenti, con il G8
(che sta diventando il G20 o il G22) al vertice della catena alimentare.
2. Gli stati hanno istituito una rete sempre più fitta di istituzioni internazionali e
organizzazioni sovranazionali per affrontare questioni globali, dalle istituzioni a scopo
generale (per esempio le Nazioni Unite) a quelle più specializzate (il WTO, l’FMI, la
Banca Mondiale, il Tribunale Penale Internazionale e così via). Ci sono anche istituzioni
internazionali ad hoc definite intorno a un insieme di questioni (per esempio, i trattati
globali sull’ambiente e le agenzie connesse).
3. Gli stati-nazione in molti paesi hanno iniziato un processo di devoluzione del potere
ai governi regionali e ai governi locali, aprendo contemporaneamente canali di
partecipazione con organizzazioni non governative, nella speranza di metter fine alla crisi
di legittimazione politica che li attanaglia entrando in rapporto con l’identità delle persone.
Il processo concreto di formazione delle decisioni politiche opera in una rete di
interazione tra istituzioni nazionali, sovranazionali, internazionali, co-nazionali, regionali
e locali, estendendosi fino a raggiungere anche le organizzazioni della società civile. In
questo processo, assistiamo al un mutamento dello stato-nazione sovrano che è emerso nel
corso dell’età moderna, con la sua trasformazione in una nuova forma di stato – che io
concettualizzo come lo stato a rete (Castells, 2000a, pp. 338-365). Lo stato a rete
emergente è caratterizzato dalla condivisione di sovranità e responsabilità tra diversi stati e
livelli di governo; dalla flessibilità delle procedure di governance; e da una maggiore
diversificazione di tempi e spazi rispetto al precedente stato-nazione nella relazione tra
governi e cittadini.
L’intero sistema si sviluppa in un modo pragmatico, attraverso decisioni ad hoc,
aprendo la porta a regole e istituzioni talvolta contraddittorie, e rendendo il sistema della
rappresentanza politica più oscuro, e ancor più distante dal controllo dei cittadini.
L’efficienza dello stato-nazione migliora ma la sua crisi di legittimazione si aggrava,
anche se la legittimazione politica complessiva può rafforzarsi se le istituzioni locali e
regionali svolgono efficientemente il proprio ruolo. Eppure, la crescente autonomia dello
stato locale e regionale potrebbe mettere in contraddizione i diversi livelli dello stato,
ponendoli l’uno contro l’altro. Questa nuova forma di stato introduce nuovi generi di
problemi, derivati dal conflitto tra la natura storicamente costruita delle istituzioni e le
nuove funzioni e i nuovi meccanismi che esse devono adottare per agire in rete, mentre
devono continuare a mantenere il loro riferimento a società nazionali territorialmente
definite.
Così, lo stato a rete si trova ad affrontare un problema di coordinamento, che presenta
tre aspetti: organizzativo, tecnico e politico:
1. organizzativo: agenzie dedite a proteggere il proprio campo d’intervento e la propria
posizione privilegiata di comando rispetto alle loro società, non possono avere la stessa
struttura, gli stessi sistemi di incentivo, e gli stessi principi operativi di quelle agenzie il
cui ruolo fondamentale è trovare una sinergia con altre agenzie;
2. tecnico: i protocolli di comunicazione non funzionano. L’introduzione delle reti
informatiche spesso disorganizza le agenzie partecipanti anziché connetterle, come nel
caso della nuova Homeland Security Administration creata negli Stati Uniti all’indomani
della dichiarazione di «guerra al terrore». Le agenzie sono riluttanti ad adottare una
tecnologia di rete che implica il networking delle loro pratiche, perché potrebbe mettere a
repentaglio la capacità di mantenere il controllo sul loro orticello burocratico;
3. politico: la strategia di coordinamento non è solo orizzontale tra agenzie, ma è anche
verticale in due direzioni: in rete con i loro supervisori politici, perdendo così l’autonomia
burocratica; e con i cittadini elettori, essendo così obbligate ad accrescere la propria
trasparenza.
Lo stato a rete si trova ad affrontare anche un problema ideologico: coordinare una
politica comune comporta una lingua comune e un insieme di valori condivisi, per
esempio contro il fondamentalismo di mercato nella regolamentazione dei mercati, o
nell’accettazione dello sviluppo sostenibile nella politica ambientale, o per il primato dei
diritti umani sulla ragion di stato nella politica della sicurezza. Non è detto che tale
compatibilità esista tra diversi apparati dello stato.
C’è, per di più, un problema geopolitico. Gli stati-nazione vedono ancora le reti di
governance come un tavolo di trattativa su cui favorire i propri interessi. Anziché
cooperare per il bene comune globale, gli stati-nazione continuano a farsi guidare da
principi politici tradizionali come: a) massimizzare gli interessi dello stato-nazione, e b)
porre come priorità gli interessi personali/politici/sociali degli attori politici al comando in
un dato stato-nazione. La governance globale è vista come un terreno di opportunità dove
massimizzare i propri vantaggi, anziché come un nuovo contesto in cui istituzioni
politiche condividono la governance intorno a progetti comuni. In realtà, quanto più
procede il processo di globalizzazione, tanto più le contraddizioni che esso genera (crisi di
identità, crisi economiche, crisi di sicurezza) portano alla reviviscenza del nazionalismo e
a tentativi di restaurare il primato della sovranità. In effetti, il mondo è oggettivamente
multilaterale ma alcuni degli attori politici più potenti sulla scena internazionale (per
esempio gli Stati Uniti, la Russia o la Cina), tendono ad agire unilateralmente, mettendo
al primo posto il proprio interesse nazionale senza preoccuparsi della destabilizzazione
del mondo esterno a essi. Così facendo, mettono a repentaglio anche la loro stessa
sicurezza, perché agire unilateralmente nel contesto di un mondo globalmente
interdipendente induce una situazione di caos sistemico (per esempio, vedi il nesso tra la
guerra in Iraq, le tensioni con l’Iran, l’intensificarsi della guerra in Afghanistan, l’aumento
di prezzi del petrolio e la flessione economica globale). Fintantoché queste contraddizioni
geopolitiche persistono, il mondo non potrà passare da una forma retificante pragmatica,
ad hoc, di formazione delle decisioni a un sistema di governance globale
costituzionalmente fondata a rete.
In ultima analisi, è solo il potere della società civile globale, che agisce sulla mente
pubblica tramite i media e le reti di comunicazione, ciò che potrà alla fine superare
l’inerzia storica degli statinazione e così portarli ad accettare la realtà del loro potere
limitato in cambio di una crescita della loro legittimazione ed efficienza.
Il potere nelle reti
Ora ho riunito gli elementi analitici che mi occorrevano per dedicarmi alla questione che
costituisce il tema centrale di questo libro: dove risiede il potere nella società in rete
globale? Per affrontare la questione devo prima differenziare quattro forme distinte di
potere:
• potere retificante (networking power);
• potere in rete (network power);
• potere reticolare (networked power);
• e potere di creazione delle reti (network-making power).
Ciascuna di queste forme di potere definisce specifici processi di esercizio del potere.
Potere retificante si riferisce al potere che gli attori e le organizzazioni inclusi nelle reti
che costituiscono il nucleo della società globale in rete esercitano sulle collettività umane
o sugli individui che non sono inclusi in queste reti globali. Questa forma di potere opera
per esclusione/inclusione. Tongia e Wilson (2007) hanno proposto un’analisi formale che
mostra che il costo dell’esclusione dalle reti cresce più rapidamente dei benefici tratti
dall’inclusione in esse. Questo perché il valore dell’essere in una rete cresce in misura
esponenziale con la dimensione della rete, come asserito nella Legge di Metcalfe del 1976.
Ma, al tempo stesso, anche la svalutazione collegata all’esclusione dalla rete cresce in
misura esponenziale, e a un tasso più rapido del valore dell’essere inclusi. La network
gatekeeping theory ha studiato i vari processi con cui i nodi vengono inclusi o esclusi dalla
rete, mostrando il ruolo chiave che la funzione di guardia (gatekeeping) ha nell’imporre il
potere collettivo di alcune reti su altre, o di una data rete su unità sociali sconnesse
(Barzilal-Nahon, 2008). Gli attori sociali possono fissare la propria posizione di potere
istituendo una rete che accumuli risorse variabili e poi esercitando le loro strategie di
guardia per sbarrare l’accesso a quelli che non aggiungono valore alla rete o che mettono a
repentaglio gli interessi che sono dominanti nei programmi di questa.
Il potere in rete si può comprendere meglio nella concettualizzazione proposta da
Grewal (2008) per teorizzare la globalizzazione dal punto di vista dell’analisi delle reti. In
questa prospettiva, la globalizzazione implica il coordinamento sociale tra attori multipli
collegati alla rete. Questo coordinamento richiede degli standard:
Gli standard che permettono il coordinamento globale mostrano ciò che definisco
network power. Il concetto di potere in rete consiste nella connessione di due idee:
primo, che gli standard di coordinamento hanno più valore quando sono usati da un
più ampio numero di individui e, secondo, che questa dinamica – che definisco come
una forma di potere – può condurre alla progressiva eliminazione delle alternative
sulle quali altrimenti la libera scelta potrebbe essere collettivamente esercitata… Gli
standard globali emergenti… [offrono] la soluzione al problema del coordinamento
globale tra diversi partecipanti ma lo fanno innalzando una soluzione al di sopra delle
altre e minacciando l’eliminazione di soluzioni alternative per lo stesso problema
(Grewal, 2008, p. 5).
Pertanto, gli standard o, nella mia terminologia, i protocolli di comunicazione,
determinano le regole che si devono accettare una volta entrati nella rete. In questo caso, il
potere è esercitato non con l’esclusione dalle reti, ma con l’imposizione delle regole di
inclusione. Ovviamente, a seconda del livello di apertura della rete, queste regole possono
essere negoziate tra le sue componenti. Ma una volta fissate, le regole diventano vincolanti
per tutti i nodi della rete, in quanto la loro osservanza è ciò che rende possibile l’esistenza
della rete come struttura comunicativa. Il potere in rete è il potere degli standard della rete
sulle sue componenti, anche se questo potere favorisce in ultima analisi gli interessi di un
insieme specifico di attori sociali, quelli che sono all’origine della formazione della rete e
dell’istituzione degli standard (protocolli di comunicazione). Il concetto del cosiddetto
«Washington consensus» come principio operativo dell’economia di mercato globale
illustra il significato del potere in rete.
Ma chi ha potere nelle reti dominanti? Come opera il potere reticolare? Come ho
proposto in precedenza, il potere è la capacità relazionale di imporre la volontà di un
attore sulla volontà di un altro attore, grazie alla capacità strutturale di dominio insita nelle
istituzioni della società. Seguendo questa definizione, la questione della detenzione del
potere nelle reti della società in rete potrebbe avere una risposta o semplicissima o
impossibile.
È semplice se rispondiamo analizzando il funzionamento di ciascuna specifica rete
dominante. Ogni rete definisce le proprie relazioni di potere in base ai propri obiettivi
programmati. Così, nel capitalismo globale, i mercati finanziari globali hanno l’ultima
parola, e l’FMI o le agenzie di rating (per esempio Moody’s o Standard & Poor) sono le
autorità che interpretano la loro volontà per i comuni mortali. Quella parola è spesso
espressa nell’idioma del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, dei vertici della Federal
Reserve o di Wall Street, o magari con qualche accento tedesco, francese, giapponese,
cinese, oppure di Oxbridge, a seconda del tempo e dello spazio. Oppure, l’ultima parola
potrebbe essere quella degli Stati Uniti, in quanto potenza statale-militare, e, in termini più
analitici, il potere di qualsiasi apparato in grado di imbrigliare l’innovazione tecnologica e
la conoscenza nella ricerca della potenza militare, e che ha le risorse materiali per
investimenti su larga scala in sistemi bellici.
Ma la domanda potrebbe diventare un vicolo cieco per l’analisi se cerchiamo di darle
una risposta unidimensionale e ci proponiamo di determinare «l’Origine del Potere» come
singola entità. Il potere militare non può prevenire una crisi finanziaria catastrofica; anzi,
in determinate condizioni di paranoia difensiva irrazionale, potrebbe provocarla con la
destabilizzazione dei paesi produttori di petrolio. Oppure, i mercati finanziari globali
potrebbero diventare un automa, sfuggendo al controllo di centro di regolamentazione, a
causa della dimensione, il volume e la complessità dei flussi di capitale che circolano nelle
sue reti, e a causa della dipendenza dei suoi criteri di valutazione da imprevedibili
turbolenze nell’informazione. La formazione delle decisioni politiche dipende si dice, dai
media, ma i media costituiscono un terreno plurale, per quanto affetti da distorsioni
ideologiche e politiche, e il processo della politica mediatica è altamente complesso (vedi
capitolo 4). Quanto alla classe capitalista, essa ha sì un certo potere, ma non il potere su
tutto e tutti: dipende fortemente tanto dalle dinamiche autonome dei mercati globali
quanto dalle decisioni dei governi in termini di regolamenti e linee politiche. Infine, i
governi stessi sono connessi in reti complesse di un’imperfetta governance globale,
condizionati dalle pressioni del business e dei gruppi di interesse, obbligati a negoziare
con i media che trasmettono le azioni dei governi ai loro cittadini, e assaliti
periodicamente da movimenti sociali e da espressioni di resistenza che non hanno alcuna
intenzione di farsi seppellire nelle discariche della fine della storia (Nye e Donahue, 2000;
Juris, 2008; Sirota, 2008). Sì, in alcuni casi, come negli USA dopo l’11 settembre, o nelle
aree di influenza della Russia o della Cina o dell’Iran o di Israele, i governi possono
impegnarsi in azioni unilaterali che gettano nel caos la scena internazionale. Ma lo fanno a
loro rischio e pericolo (mentre noi diventiamo le vittime dei danni collaterali). Così, alla
fine l’unilateralismo geopolitico cede il posto alle realtà del nostro mondo globalmente
interdipendente. In sintesi, gli stati, anche i più potenti, hanno un certo potere (soprattutto
il potere di distruggere) ma non Il Potere.
Forse dunque la questione del potere, nella sua formulazione tradizionale, non ha più
senso nella società in rete. Ma nuove forme di dominio e di determinazione sono cruciali
nel modellare la vita delle persone a prescindere dalla loro volontà. Così, relazioni di
potere sono all’opera, sia pure in nuove forme e con attori di nuovo genere. E le forme più
cruciali di potere seguono la logica del potere di creare reti. Provo a spiegare.
In un mondo di reti, la capacità di esercitare il controllo su altri dipende da due
meccanismi base: 1) la capacità di costituire reti, e di programmare/riprogrammare reti
alla luce degli obiettivi assegnati nella rete; e 2) la capacità di connettere e assicurare la
cooperazione di diverse reti condividendo obiettivi comuni e combinando risorse,
contrastando al tempo stesso la concorrenza di altre reti con l’istituzione di forme di
cooperazione strategica.
I detentori della prima posizione di potere li chiamo programmatori; i detentori della
seconda posizione di potere li chiamo commutatori. È importante notare che questi
programmatori e commutatori sono senza dubbio attori sociali, ma non vanno
necessariamente identificati con un particolare gruppo o uno specifico individuo. Il più
delle volte questi meccanismi operano come interfaccia tra vari attori sociali, definiti alla
luce della loro posizione nella struttura sociale e nella cornice organizzativa della società.
Così, suggerisco che in molti casi chi detiene il potere sono le reti stesse. Non reti astratte,
inconsapevoli, non automi: sono esseri umani organizzati intorno a progetti e interessi. Ma
non sono singoli attori (individui, gruppi, classi, leader religiosi, leader politici), dal
momento che l’esercizio del potere nella società in rete richiede un complesso insieme di
azioni congiunte che vanno oltre semplici alleanze dando vita a una nuova forma di
soggetto, affine a quello che Bruno Latour (2005) ha brillantemente teorizzato come
«attore-rete».
Esaminiamo il funzionamento di questi due meccanismi di creazione del potere nelle
reti: la programmazione e la commutazione. La capacità di programmazione degli
obiettivi della rete (e la capacità di riprogrammarla) è, ovviamente, decisiva perché, una
volta programmata, la rete si comporterà in maniera efficiente, e si riconfigurerà in termini
di struttura e nodi per realizzare i suoi obiettivi. Il modo in cui diversi attori programmano
la rete è un processo specifico a ciascuna di esse. Il processo non è lo stesso nella finanza
globale e nel potere miliare, nella ricerca scientifica, nella criminalità organizzata, o negli
sport professionistici. Quindi, le relazioni di potere al livello di rete vanno identificate e
intese nei termini specifici di ciascuna rete. Tutte le reti però hanno un tratto comune:
idee, visioni, progetti e frame generano i programmi. Questi sono materiali culturali. Nella
società in rete, la cultura è in gran parte incorporata nel processo di comunicazione, in
particolare nell’ipertesto elettronico, il cui nucleo è costituito dalle reti dei business
multimediali globali e da Internet. Così, le idee possono essere generate a partire da una
varietà di origini, e connesse a specifici interessi e subculture (per esempio, l’economia
neoclassica, le religioni, le identità culturali, il culto della libertà individuale e così via).
Ma le idee sono elaborate nella società in base al modo in cui vengono rappresentate nel
regno della comunicazione. E in ultima analisi queste idee raggiungono le popolazioni di
ciascuna rete in relazione al livello di esposizione di queste popolazioni ai processi di
comunicazione. Così, il controllo delle reti di comunicazione, o l’influenza su di esse, e la
capacità di creare un efficace processo di comunicazione e di persuasione lungo le linee
che assecondano i progetti degli aspiranti programmatori, sono le risorse chiave nella
capacità di programmare ciascuna rete. In altri termini, il processo di comunicazione nella
società, e le organizzazioni e le reti che mettono in atto tale processo, sono i campi chiave
in cui si formano i progetti di programmazione, e in cui si costruiscono le popolazioni per
questi progetti. Sono i campi del potere nella società in rete.
C’è una seconda fonte di potere: il controllo dei punti di connessione tra le varie reti
strategiche. Chiamo coloro che detengono queste posizioni i commutatori switchers.
Questi punti di collegamento, per esempio, sono le connessioni che si stabiliscono tra reti
di leadership politica, reti mediatiche, reti scientifiche e tecnologiche, e reti militari e di
sicurezza, per affermare una strategia geopolitica. Oppure riguarda la connessione tra reti
politiche e reti mediatiche per produrre e diffondere specifici discorsi politico-ideologici.
Oppure la relazione tra reti religiose e reti politiche per portare avanti un progetto
religioso in una società laica. Oppure, quella esistente tra reti accademiche e reti
imprenditoriali per fornire conoscenza e legittimazione in cambio di risorse per le
università e posti di lavoro per i propri prodotti finali (ossia i laureati). Non si tratta
dell’old boys’ network. Sono specifici sistemi di interfaccia posti su una base
relativamente stabile allo scopo di articolare il concreto sistema operativo della società al
di là dell’autorappresentazione formale di istituzioni e organizzazioni.
Attenzione: non sto riesumando l’idea di un’élite del potere. Non c’è. Si tratta di
un’immagine semplificata del potere nella società, il cui valore analitico è limitato ad
alcuni casi estremi. È proprio perché non esiste un’élite unificata al potere, capace di
tenere sotto controllo le operazioni di programmazione e commutazione di tutte le reti
importanti, che occorre istituire sistemi di imposizione del potere più sottili, complessi e
frutto di negoziato. Perché queste relazioni di potere si possano affermare, i programmi
delle reti dominanti della società devono porre obiettivi compatibili tra di esse (per
esempio, dominio del mercato e stabilità sociale; potenza militare e prudenza finanziaria;
rappresentatività politica e riproduzione del capitalismo; libertà di espressione e controllo
culturale). E devono essere in grado, tramite i processi di commutazione attuati da reti-
attori, di comunicare tra loro, aumentando le sinergie e limitando le contraddizioni. È per
questo che è così importante che i magnati dei media non diventino leader politici, come
nel caso di Berlusconi. O che i governi non abbiano il controllo totale sui media. Quanto
più i commutatori sono rozze espressioni di dominio a senso unico, tanto più le relazioni
di potere nella società in rete soffocano il dinamismo e l’iniziativa delle sue molteplici
fonti di strutturazione sociale e di cambiamento sociale. I commutatori non sono persone
ma sono fatti di persone. Sono attori, fatti di reti di attori impegnati in interfacce
dinamiche che sono specificamente operate in ciascun processo di connessione.
Programmatori e commutatori sono quegli attori e quelle reti di attori che, grazie alla loro
posizione nella struttura sociale, detengono il potere di creare reti, la forma suprema di
potere nella società in rete.
Potere e contropotere nella società in rete
I processi di formazione del potere vanno visti da due diverse prospettive: da una parte,
tali processi possono imporre un dominio esistente o appropriarsi di posizioni strutturali di
dominio; dall’altra, esistono anche processi compensativi che si oppongono al dominio
costituito a favore degli interessi, valori e progetti che sono esclusi o scarsamente
rappresentati nei programmi e nella composizione delle reti. Analiticamente, entrambi i
processi finiscono per configurare la struttura del potere mediante la loro interazione.
Sono distinti, e tuttavia operano in base alla stessa logica. Ciò vuol dire che la resistenza al
potere si ottiene mediante i medesimi due meccanismi che nella società in rete
costituiscono il potere: i programmi delle reti e le commutazioni tra reti. Così, l’azione
collettiva dei movimenti sociali, nelle loro svariate forme, mira a introdurre nuove
istruzioni e nuovi codici nei programmi delle reti. Per esempio, nuove istruzioni per le reti
finanziarie globali significano che, in condizioni di estrema povertà, vada abbuonato il
debito ad alcuni paesi, come richiesto e in parte ottenuto da Jubilee, il movimento
internazionale per la cancellazione del debito. Un altro esempio di nuovi codici nelle reti
finanziarie globali è la proposta di valutare gli stock delle società in base alla loro etica
ambientale o al loro rispetto per i diritti umani, contando sul fatto che questo finirà per
incidere sull’atteggiamento di investitori e azionisti rispetto a imprese ritenute buone o
cattive cittadine del pianeta. Entro queste condizioni, il codice del calcolo economico si
sposta dal potenziale di crescita al potenziale di crescita sostenibile. Riprogrammazioni
più radicali vengono da movimenti di resistenza che mirano ad alterare il principio
fondamentale di una rete – o il kernel del sistema operativo, se posso permettermi un
parallelo con il linguaggio dell’informatica. Per esempio, se il volere di Dio deve
prevalere in ogni condizione (come vogliono i fondamentalisti cristiani), le reti
istituzionali che costituiscono il sistema legale e giudiziario devono essere riprogrammate
perché non seguano i dettami della costituzione, le prescrizioni legali, o le decisioni del
governo (per esempio, lasciare che siano le donne a decidere del proprio corpo e delle
proprie gravidanze), ma le sottomettano all’interpretazione di Dio con il tramite dei suoi
rappresentanti in terra. Per fare un altro esempio, quando il movimento altermondialista
chiede la riformulazione degli accordi commerciali da parte della World Trade
Organization perché vi siano inclusi la difesa dell’ambiente, i diritti sociali e il rispetto per
le minoranze indigene, agisce per modificare i programmi in base ai quali operano le reti
dell’economia globale.
Il secondo meccanismo di resistenza consiste nel blocco dei commutatori di
connessione tra reti, quelli che fanno sì che le reti siano controllate dal metaprogramma di
valori che esprime il dominio strutturale – per esempio, dando corso ad azioni legali o
influenzando il Congresso USA per sciogliere il cordone che lega il business mediatico
oligopolistico al governo, contestando le regole della FCC che consentono nel settore una
concentrazione della proprietà ancora maggiore. Altre forme di resistenza comprendono il
blocco del collegamento in rete tra le grandi aziende e il sistema politico, regolando il
finanziamento delle campagne elettorali o evidenziando l’incompatibilità tra essere
vicepresidente e continuare a ricevere compensi dalla propria azienda che si è aggiudicata
appalti militari. Oppure opponendosi all’asservimento intellettuale ai poteri costituiti,
come accade quando gli accademici usano le loro cattedre come piattaforme di
propaganda. Una minaccia più radicale ai commutatori riguarda l’infrastruttura materiale
della società in rete: gli attacchi materiali e psicologici ai trasporti aerei, alle reti di
computer, ai sistemi di informazione e alle reti di strutture da cui dipendono il
sostentamento della società nel sistema altamente complesso e interdipendente che
caratterizza il mondo informazionale. La sfida del terrorismo è dichiarata esattamente su
questa capacità di prendere a bersaglio commutatori materiali strategici in modo tale che
la loro messa fuori uso, o la minaccia di una loro messa fuori uso, scompagini la vita
quotidiana della gente e la costringa a vivere in uno stato di emergenza – alimentando così
la crescita di altre reti di potere, le reti della sicurezza, che si estendono a ogni ambito
della vita. Esiste, in effetti, un rapporto simbiotico tra la disattivazione dei commutatori
strategici con azioni di resistenza e la riconfigurazione delle reti di potere in direzione di
un nuovo insieme di commutatori organizzati intorno a reti securitarie.
La resistenza al potere programmato nelle reti si svolge anch’essa mediante e tramite le
reti. Anche queste sono reti di informazione alimentate da tecnologie di informazione e
comunicazione (Arquilla e Rondfeldt, 2002). Quello impropriamente etichettato come
«movimento antiglobalizzazione» è una rete globale-locale organizzata e dibattuta su
Internet, e strutturalmente collegata con le reti mediatiche (vedi capitolo 5). Al Qaeda, e le
sue organizzazioni correlate, è una rete composta da molteplici nodi, che hanno scarso
coordinamento centrale e che mirano anch’essi alla commutazione con le reti mediatiche,
attraverso le quali contano di spargere la paura tra gli infedeli e di infondere speranza tra
le masse oppresse dei credenti (Gunaratna, 2006; Seib, 2008). Il movimento ecologista è
una rete radicata localmente e connessa globalmente, che si prefigge di cambiare la
mentalità del pubblico come mezzo per influenzare le decisioni politiche, così da salvare il
pianeta o almeno il proprio quartiere o territorio (vedi capitolo 5).
Una caratteristica centrale della società in rete è che sia la dinamica del dominio sia la
resistenza al dominio si basano sulla formazione di reti e strategie di rete di offesa e
difesa. In effetti, ciò ripercorre l’esperienza storica di precedenti tipi di società, come la
società industriale. La fabbrica e la grande impresa industriale organizzata verticalmente
hanno costituito le basi materiali per lo sviluppo sia del capitale transnazionale sia del
movimento operaio. Analogamente, oggi, le reti informatiche dei mercati finanziari
globali, i sistemi di produzione transnazionali, le forze armate «intelligenti» a raggio
globale, le reti di resistenza terrorista, la società civile globale, e i movimenti sociali
collegati in rete che si battono per un mondo migliore, sono tutte componenti della società
globale in rete. I conflitti del nostro tempo sono combattuti da attori sociali in rete che
mirano a raggiungere i loro bacini di consenso e le loro platee tramite il collegamento
decisivo con le reti di comunicazione multimediale.
Nella società in rete, il potere viene ridefinito, ma non scompare. Né svaniscono le lotte
sociali. Dominio e resistenza al dominio cambiano di carattere in base alla specifica
struttura sociale da cui traggono origine e che modificano con la loro azione. Il potere
governa, i contropoteri lottano. Le reti elaborano i loro programmi contraddittori mentre la
gente cerca di dare un senso alle proprie fonti di paura e speranza.
Conclusioni: capire le relazioni di potere nella società in rete globale
Le fonti del potere sociale nel nostro mondo – violenza e discorso, coercizione e
persuasione, dominio politico e costruzione culturale – non hanno subito cambiamenti
fondamentali rispetto all’esperienza storica, come teorizzata da alcuni dei maggiori
studiosi del potere. Ma il terreno su cui le relazioni di potere operano è cambiato
soprattutto in due sensi: è principalmente costruito attorno all’articolazione tra globale e
locale; ed è principalmente organizzato attorno a reti, non a singole unità. Poiché le reti
sono molteplici, le relazioni di potere sono specifiche a ciascuna rete. Ma esiste una forma
fondamentale di esercizio del potere che è comune a tutte le reti: l’esclusione dalla rete.
Anche questo è specifico a ciascuna rete: una persona, o un gruppo, o un territorio può
essere escluso da una rete ma incluso in altre. Tuttavia, poiché le reti chiave, strategiche,
sono globali, esiste una forma di esclusione – e cioè di potere – che è pervasiva in un
mondo di reti: includere tutto ciò che ha valore nel globale escludendo il locale senza
valore. Vi sono cittadini del mondo, viventi nello spazio dei flussi, in opposizione ai
locali, che vivono nello spazio dei luoghi. Poiché lo spazio nella società in rete è
configurato intorno all’opposizione tra spazio dei flussi (globale) e spazio dei luoghi
(locale), la struttura spaziale della nostra società è una fonte primaria della strutturazione
delle relazioni di potere.
Lo stesso vale per il tempo. Il tempo atemporale, il tempo della società in rete, non ha
né passato né futuro. Nemmeno un passato prossimo. È la cancellazione della sequenza, e
quindi del tempo, mediante o la compressione o la sfocatura della sequenza. Così, le
relazioni di potere sono costruite attorno all’opposizione tra tempo atemporale e tutte le
altre forme di temporalità. Il tempo acrono, che è il tempo del «qui e ora», privo di
sequenze o di cicli, è il tempo dei potenti, di quelli che saturano il loro tempo fino al limite
perché la loro attività è di grande valore. E il tempo è compresso fino al nanosecondo per
coloro per cui il tempo è denaro. Il tempo della storia, e delle identità storiche, tramonta in
un mondo in cui conta solo la gratificazione immediata, e dove i bardi dei vincitori
proclamano la fine della storia. Ma il tempo dell’orologio del taylorismo è ancora la sorte
della maggioranza dei lavoratori, e il tempo della longue durée, di quelli che prefigurano
ciò che potrebbe accadere al pianeta, è il tempo dei progetti alternativi che si rifiutano di
sottostare al dominio dei cicli accelerati del tempo strumentale. Fatto interessante, esiste
anche un mitico «tempo futuro» dei potenti che è il tempo proiettato in avanti dai
futurologi del mondo aziendale. In effetti, questa è la forma suprema del tempo di
conquista. Colonizza il futuro estrapolando nelle proiezioni i valori dominanti del
presente: come continuare a fare la stessa cosa, con accresciuti profitti e potere, di qui a
vent’anni. La capacità di proiettare il proprio tempo attuale, negando intanto il passato e il
futuro per l’umanità in generale, è un altro modo di imporre il tempo atemporale come una
forma di affermazione del potere nella società in rete.
Ma come viene esercitato il potere all’interno delle reti e dalle reti, per coloro che sono
inclusi nelle reti centrali che strutturano la società? Considererò dapprima le modalità
contemporanee di esercizio del potere mediante il monopolio della violenza, e poi
attraverso la costruzione di significato nelle varie forme di discorso disciplinare.
Primo, avendo le reti carattere di globalità, lo stato, che esercita il potere mediante il
monopolio della violenza, troverà notevoli limitazioni alla sua capacità coercitiva, a meno
che non si impegni in relazioni reticolari con altri stati, e con chi detiene il potere nelle reti
decisive che danno forma alle pratiche sociali nei loro territori, pur venendo anche
impiegate in ambito globale. Quindi, la capacità di connettere diverse reti, e di restaurare
una qualche sorta di confine entro il quale lo stato conservi la capacità di intervenire,
diventa fondamentale per la riproduzione del dominio istituzionalizzato nello stato. Ma la
capacità di istituire la connessione non si trova necessariamente nelle mani dello stato. Il
potere di collegamento è detenuto dai commutatori, attori sociali di generi diversi che
sono definiti dal contesto in cui specifiche reti devono essere connesse per specifiche
finalità. Ovviamente, gli stati possono sempre bombardare, imprigionare e torturare. Ma se
non trovano qualche sistema per mettere insieme diverse reti strategiche interessate ai
vantaggi della capacità statale di esercitare la violenza, il pieno esercizio del potere
coercitivo ha di solito vita breve. Il dominio stabile, fornendo le basi per l’imposizione di
relazioni di potere in ciascuna rete, richiede una complessa contrattazione per istituire
partnership con gli stati, o con lo stato a rete, che contribuiscono a migliorare il
raggiungimento degli obiettivi assegnati a ciascuna rete dai rispettivi programmi.
Secondo, i discorsi del potere forniscono obiettivi sostanziali ai programmi delle reti.
Le reti elaborano i materiali culturali che sono costruiti nel variegato regno del discorso.
Questi programmi sono finalizzati alla realizzazione di determinati interessi e valori
sociali. Ma per essere efficaci nel programmare le reti, essi devono basarsi su un
metaprogramma che assicura che i destinatari del discorso interiorizzino le categorie
tramite cui attribuiscono significato alle proprie azioni, in sintonia con i programmi delle
reti. Questo è particolarmente importante in un contesto di reti globali perché la diversità
culturale del mondo dev’essere inquadrata da alcune cornici comuni che fanno riferimento
ai discorsi veicolanti gli interessi condivisi di ciascuna rete globale. In altri termini, è
necessario produrre una cultura globale che vada ad aggiungersi alle specifiche identità
culturali, anziché scalzarle, affinché i programmi delle reti che sono globali per portata e
finalità possano attuarsi. Per esistere, la globalizzazione deve affermare un discorso
disciplinare in grado di inquadrare le culture specifiche (Lash e Lury, 2007).
Così, il collegamento e la programmazione delle reti globali sono le forme di esercizio
del potere nella nostra società in rete globale. Il collegamento è effettuato dai
commutatori; la programmazione è realizzata dai programmatori. Chi sono i commutatori
e chi sono i programmatori in ciascuna rete è una specificità della rete che non può essere
determinata senza esaminare ogni caso particolare.
La resistenza alla programmazione e la manomissione dei collegamenti per difendere
valori e interessi alternativi sono le forme di contropotere attuate dai movimenti sociali e
dalla società civile – a livello locale, nazionale e globale – con il problema che le reti di
potere sono di norma globali mentre la resistenza del contropotere è di norma locale.
Come raggiungere il globale dal locale, tramite l’allacciamento in rete con altre località –
come realizzare il «grassrooting» dello spazio dei flussi – diventa la questione strategica
chiave per i movimenti sociali della nostra epoca.
I mezzi specifici di collegamento e di programmazione determinano in larga misura le
forme di potere e contropotere nella società in rete. Collegare diverse reti richiede la
capacità di costruire un’interfaccia culturale e organizzativa, una lingua comune, un
medium comune, un supporto di valore universalmente accettato: un valore di scambio.
Nel nostro mondo, la forma tipica multiscopo di valore di scambio è il denaro. È
attraverso questa comune valuta che il più delle volte viene misurata la condivisione del
potere tra le diverse reti. Questa unità di misura è essenziale perché rimuove il ruolo
decisivo dello stato, in quanto la distribuzione di valore da parte di tutte le reti diventa
dipendente da transazioni finanziarie. Ciò non vuol dire che i capitalisti controllano tutto.
Significa semplicemente che chi ha abbastanza denaro, leader politici inclusi, avrà
migliori opportunità di azionare lo switch della rete in suo favore. Tuttavia, come
nell’economia capitalista, oltre che alle transazioni monetarie si può ricorrere anche al
baratto: uno scambio di servizi tra reti (per esempio, potere di regolamentazione in cambio
di finanziamento elettorale, o di accesso ai media per l’influenza politica). Così, il potere
di collegamento dipende dalla capacità di generare valore di scambio, tramite moneta o
tramite baratto.
Esiste una seconda maggior fonte di potere: la capacità di programmazione delle reti.
Questa capacità dipende in ultima analisi dall’abilità di generare, diffondere e
condizionare i discorsi che inquadrano l’azione umana. Senza questa capacità discorsiva,
la programmazione delle specifiche reti è fragile, e dipende esclusivamente dal potere
degli attori inseriti nelle istituzioni. I discorsi, nella nostra società, plasmano la mentalità
del pubblico tramite una specifica tecnologia: quella delle reti di comunicazione che
organizzano la comunicazione socializzata. Poiché la public mind – ossia l’insieme di
valori e cornici interpretative che hanno ampia esposizione nella società – è in ultima
analisi ciò che influenza il comportamento collettivo, la programmazione delle reti di
comunicazione è la fonte decisiva dei materiali culturali che alimentano gli obiettivi
programmati da ogni altra rete. Inoltre, poiché le reti di comunicazione connettono il
locale con il globale, i codici diffusi in queste reti hanno portata globale.
Progetti e valori alternativi portati avanti dagli attori sociali che mirano a
riprogrammare la società devono anch’essi passare attraverso le reti di comunicazione per
trasformare la consapevolezza e i punti di vista nella mente delle persone perché
contestino i poteri costituiti. Ed è solo agendo sui discorsi globali tramite le reti di
comunicazione che riescono a influire sulle relazioni di potere nelle reti globali che
strutturano tutte le società. In ultima analisi, il potere di programmazione condiziona il
potere di commutazione perché i programmi delle reti determinano la gamma di possibili
interfacce nel processo di commutazione. I discorsi inquadrano le opzioni su ciò che le reti
possono o non possono fare. Nella società in rete, i discorsi sono generati, diffusi,
combattuti, interiorizzati, e infine incorporati nell’azione umana, nel regno della
comunicazione socializzata costruito intorno alle reti locali-globali di comunicazione
multimodale, digitale, in particolare Internet e i media. Il potere nella società in rete è il
potere di comunicare.
1
L’analisi di Gramsci delle relazioni tra stato e società civile in termini di egemonia è vicina a questa formulazione,
anche se è concettualizzata secondo una prospettiva teorica diversa, vale a dire in termini di analisi di classe (vedi
Gramsci 1975).
2
Questa sezione riprende e aggiorna l’analisi presentata in La nascita della società in rete (2000c). Mi prendo la
libertà di rinviare il lettore a quel libro per un’ulteriore elaborazione e supporto empirico della teorizzazione presentata
qui. Ulteriore materiale di supporto si può trovare nei miei testi successivi (Castells, 2000b, 2001, 2004b, 2005a, b,
2008, b; Castells e Himanen, 2002; Castells et al., 2006b, 2007).
Capitolo 2
LA COMUNICAZIONE NELL’ETÀ DIGITALE
Una rivoluzione nella comunicazione?
La comunicazione è la condivisione di significato tramite lo scambio di informazione. Il
processo di comunicazione è definito dalla tecnologia della comunicazione, dalle
caratteristiche dei mittenti e dei destinatari dell’informazione, dai loro codici culturali di
riferimento e protocolli di comunicazione, e dalla portata del processo di comunicazione.
Il significato non può essere inteso che nel contesto delle relazioni sociali in cui
informazioni e comunicazione vengono elaborate (Schiller, 2007, p. 18). Approfondirò gli
elementi di questa definizione nel contesto della società in rete globale.
A partire dalla portata del processo, la comunicazione interpersonale dev’essere distinta
dalla comunicazione a livello sociale. Nella prima, mittenti e destinatari sono i soggetti
della comunicazione. Nella seconda, il contenuto della comunicazione ha la potenzialità di
essere diffuso alla società nel suo intero: questo è ciò che abitualmente si chiama
comunicazione di massa. La comunicazione interpersonale è interattiva (il messaggio è
inviato one-to-one con annessi circuiti di feedback), mentre la comunicazione di massa
può essere interattiva ma anche unidirezionale. La comunicazione di massa tradizionale è
generalmente unidirezionale (il messaggio è inviato da uno a molti, come accade con i
libri, i giornali, i film, la radio e la televisione). Per la verità, alcune forme di interattività
possono essere inserite nella comunicazione di massa tramite altri mezzi di
comunicazione. Per esempio, il pubblico può commentare programmi radiofonici o
televisivi telefonando, scrivendo o mandando e-mail. Ma la comunicazione di massa
rimaneva prevalentemente unidirezionale. Con la diffusione di Internet, però, è emersa una
nuova forma di comunicazione interattiva, caratterizzata dalla possibilità di inviare
messaggi many-to-many, in tempo reale o in un momento stabilito, e con la possibilità di
usare la comunicazione point-to-point, in narrowcasting o broadcasting, a seconda dello
scopo e delle caratteristiche della pratica comunicativa prescelta.
Chiamo autocomunicazione di massa questa forma storicamente nuova di
comunicazione. È comunicazione di massa perché ha la potenzialità di raggiungere un
pubblico globale, come accade quando si posta un video su YouTube, si tiene un blog con
link RSS a varie fonti del web, o si invia un messaggio a una grossa mailing list. Ma è
contemporaneamente autocomunicazione perché la produzione del messaggio è
autogenerata, la definizione dei potenziali destinatari è autodiretta, e il reperimento di
specifici messaggi o contenuti dal World Wide Web e dalle reti di comunicazione
elettronica è autoselezionato. Le tre forme di comunicazione (interpersonale,
comunicazione di massa e autocomunicazione di massa) coesistono, interagiscono tra loro
e si complementano più che sostituirsi a vicenda. Quel che è storicamente inedito, con
conseguenze importanti per l’organizzazione sociale e la mutazione culturale, è
l’articolazione di tutte le forme di comunicazione in un ipertesto digitale composito e
interattivo che include, mixa e ricombina nella loro diversità l’intero ventaglio delle
espressioni culturali veicolate dall’interazione umana. In effetti, la dimensione più
importante della convergenza comunicazionale, come scrive Jenkins, «si produce nel
cervello dei singoli consumatori e tramite la loro interazione sociale con gli altri» (2006,
p. 3).
Eppure, perché questa convergenza si verificasse, sono dovute avvenire diverse
trasformazioni cruciali in ciascuna delle dimensioni del processo comunicativo, quale lo
abbiamo definito sopra. Queste varie dimensioni costituiscono un sistema, e una singola
trasformazione non può essere compresa senza le altre. Insieme, formano lo sfondo di ciò
che Mansell (2002) e McChesney (2007) hanno etichettato come «rivoluzione della
comunicazione», che Cowhey e Aronson (2009) caratterizzano come «il punto di
inflessione», o che, qualche tempo fa, Rice et al. (1984) identificavano come l’emergere di
nuovi media tramite l’interazione tra cambiamento tecnologico e comunicazione. Per
maggior chiarezza, esaminerò separatamente le trasformazioni in atto, senza sottintendere
alcun nesso di causa nell’ordine della mia presentazione. Quindi analizzerò la loro
interazione.
Primo, esiste una trasformazione tecnologica che è basata sulla digitalizzazione della
comunicazione, sulle reti informatiche, sul software avanzato, sulla diffusione di una
migliorata capacità di trasmissione su banda larga, e sulla ubiquità della comunicazione
locale/globale tramite le reti wireless, che sempre di più consentono l’accesso a Internet.
In secondo luogo, la definizione di mittente e ricevente si riferisce alla struttura della
comunicazione organizzativa e istituzionale, in particolare della comunicazione
socialitaria, dove i mittenti sono i media e i destinatari il cosiddetto pubblico (persone che
vengono identificate come consumatori di media). Nell’ultimo ventennio in questo ambito
è avvenuta una trasformazione fondamentale:
• commercializzazione diffusa dei media in gran parte del mondo;
• globalizzazione e concentrazione del business mediatico tramite conglomerazione e
networking;
• la segmentazione, customizzazione e diversificazione dei mercati dei media, con
l’accento sull’identificazione culturale del pubblico;
• la formazione di gruppi commerciali multimediali che si estendono a tutte le forme di
comunicazione, compreso ovviamente Internet;
• e una crescente convergenza di business tra imprese di telecomunicazione, case di
computer, società di Internet e aziende mediatiche.
La formazione di queste reti aziendali globali è stata resa possibile dalle politiche
pubbliche e dai mutamenti istituzionali caratterizzati da liberalizzazione, privatizzazione e
regolamentazione proderegulation, a livello nazionale e internazionale, sulla scia delle
politiche governative promercato che a partire dagli anni Ottanta si sono diffuse in tutto il
mondo.
Terzo, la dimensione culturale del processo di trasformazione multistratificata della
comunicazione può essere colta all’intersezione tra due coppie di tendenze contraddittorie
(ma non incompatibili): lo sviluppo parallelo di una cultura globale e di culture a identità
multipla; e la nascita simultanea dell’individualismo e del comunalismo come due modelli
culturali opposti, ma ugualmente potenti, che caratterizzano il nostro mondo (Norris,
2000; Castells, 2004c; Baker, 2005; Rantanen, 2005). La capacità o incapacità di generare
protocolli di comunicazione tra questi quadri culturali contraddittori definisce la
comunicabilità o incomunicabilità tra i soggetti di diversi processi di comunicazione. I
media, dai notiziari televisivi policulturali (per esempio, Al Jazeera in arabo/inglese o la
CNN American/International/en español) al Web 2.0 possono essere protocolli di
comunicazione che o colmano divisioni culturali o frammentano ulteriormente le nostre
società in isole culturali autonome e trincee di resistenza.
Infine, ciascuna delle componenti della grande trasformazione della comunicazione
rappresenta l’espressione delle relazioni sociali, relazioni in ultima analisi di potere, che
stanno alla base dell’evoluzione del sistema di comunicazione multimodale. Questo è
evidente soprattutto nella permanenza del digital divide tra paesi e all’interno di essi, in
relazione al loro potenziale di consumo e al livello delle infrastrutture di comunicazione.
Anche con l’attuale accesso a Internet e alla comunicazione wireless, la disuguaglianza
abissale nella disponibilità della banda larga, e il divario nell’istruzione riguardante la
capacità di operare in una cultura digitale, tendono a riprodurre e amplificare le strutture di
classe, etnia, razza, età e genere del dominio sociale tra paesi ed entro i paesi (Wilson,
2004; Galperin e Mariscal, 2007; Katz, 2008). La crescente influenza che le corporation
nei settori dei media, dell’informazione e della comunicazione esercitano sulle authority
pubbliche di regolamentazione possono distorcere la rivoluzione della comunicazione
mettendola al servizio degli interessi del business. L’influenza dell’industria della
pubblicità sul business dei media, attraverso la trasformazione della popolazione in
audience misurabile, tende a subordinare l’innovazione culturale o il piacere
dell’intrattenimento al consumismo commerciale. La libertà di espressione e di
comunicazione su Internet e nel sistema multimediale globale/locale è spesso limitata e
sorvegliata da burocrazie governative, élite politiche e apparati ideologico-religiosi. La
privacy è da tempo scomparsa in un turbine di «cookies» e di strategie di raccolta di dati
personali, con la parziale eccezione di quegli utenti che dispongono di un alto livello di
sofisticazione tecnica (Whitaker, 1999; Solove, 2004).
Al tempo stesso, però, attori sociali e singoli cittadini in tutto il mondo stanno usando
la nuova capacità di comunicazione in rete per portare avanti i propri progetti, difendere i
propri interessi e affermare i propri valori (Downing, 2003; Juris, 2008; Costanza-Chock,
di prossima pubbl.). Inoltre, essi sono diventati sempre più consapevoli del ruolo cruciale
che il nuovo sistema multimediale e le sue istituzioni di regolamentazione svolgono nella
cultura e nella politica della società. Così, in alcune aree del mondo, e in particolare negli
Stati Uniti, stiamo assistendo a mobilitazioni sociali e politiche che mirano a stabilire un
certo grado di controllo da parte della cittadinanza sui controllori della comunicazione e
affermare il loro diritto alla libertà nello spazio della comunicazione (Couldry e Curran,
2003; Klinenberg, 2007; McChesney, 2007, 2008).
Così, il nuovo campo di comunicazione nel nostro tempo sta emergendo attraverso un
processo di cambiamento multidimensionale, un processo che prende forma da conflitti
che sorgono dalla struttura contraddittoria di interessi e valori che costituiscono la
società. Di seguito, identificherò in termini più precisi il processo di cambiamento lungo
ciascuna di queste dimensioni che, prese assieme, definiscono la trasformazione della
comunicazione nell’età digitale.
La convergenza tecnologica e il nuovo sistema multimediale: dalla
comunicazione di massa all’autocomunicazione di massa
Un processo denominato convergence of modes sta rimescolando i confini tra i
media, persino tra comunicazioni point-to-point come la posta, il telefono e il
telegrafo, e i mezzi di comunicazione di massa come la stampa, la radio e la
televisione. Un singolo mezzo fisico – che si tratti di fili, cavi o onde radio – può
trasportare servizi che in passato erano forniti in modo separato. Viceversa, un
servizio che era offerto in passato da uno specifico medium – come la radio, la
stampa, la telefonia – può essere fornito con diversi mezzi fisici. Così il rapporto di
uno a uno che esisteva tra il medium e il suo uso si sta erodendo (Ithiel de Sola Pool,
1983, cit. in Jenkins, 2006, p. 10).
La tendenza identificata nel 1983 nell’opera pionieristica di Ithiel de Sola Pool è oggi una
realtà che ha ridisegnato il panorama della comunicazione. Non sorprende che l’emergere
negli anni Settanta di un nuovo paradigma tecnologico basato sulle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione abbia esercitato un’influenza decisiva sul mondo
della comunicazione (Freeman, 1982; Perez, 1983; Castells, 2000c; Mansell e
Steinmueller, 2000; Wilson, 2004). Dal punto di vista tecnologico, le reti di
telecomunicazione, le reti informatiche e le reti di informazione si sono trovate a
convergere grazie al networking digitale e alle nuove tecnologie di trasmissione e di
immagazzinaggio dati, in particolare la fibra ottica, la comunicazione satellitare, e il
software avanzato (Cowhey e Aronson, 2009).
Comunque, diverse tecnologie e modelli di business, sostenuti dalle politiche delle
agenzie di regolamentazione, hanno indotto varie tendenze trasformative in ciascuna delle
componenti del sistema di comunicazione. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta,
l’informazione via etere si è evoluta lungo una traiettoria che sottolineava la continuità
nella forma di comunicazione, aumentando però la diversificazione delle piattaforme di
ricezione e la concentrazione proprietaria dei media (Hesmondhalgh, 2007). Le
trasmissioni radiotelevisive e la stampa rimanevano, in linea di massima, mezzi di
comunicazione di massa. Invece le reti di computer e le telecomunicazioni sfruttavano
rapidamente il potenziale della digitalizzazione e del software open source per generare
nuove forme di comunicazione interattiva locale/globale, spesso iniziata dagli utenti delle
reti (Benkler, 2006). La convergenza tecnologica e organizzativa tra i due sistemi ha
cominciato a prodursi nel primo decennio del XXI secolo e ha portato alla formazione
graduale di un nuovo sistema multimediale (Jenkins, 2006).
Televisione mutante: l’eterna compagna
Dai primi anni Novanta, la televisione, il mezzo archetipico della comunicazione di massa,
è sfuggita alle restrizioni dell’allocazione dello spettro sviluppando nuove forme di
trasmissione via cavo e via satellite. Il medium è passato da un sistema di comunicazione
monodirezionale altamente centralizzato, basato su un numero limitato di network e di
stazioni, a un sistema di broadcasting diversificato e decentrato basato su una migliorata
capacità di trasmissione (Croteau e Hoynes, 2006). Le tecnologie digitali hanno permesso
la moltiplicazione del numero dei canali che è possibile ricevere (Galperin, 2004). Mentre
la televisione digitale migliora la capacità del mezzo liberando spettro, la sua operatività è
iniziata solo nei paesi più avanzati per il periodo 2009-2012. Tuttavia, già prima
dell’avvento della televisione digitale si è assistito in tutto il mondo all’esplosione dei
canali TV e alla diversificazione della programmazione televisiva. Nel 2007, la famiglia
americana media aveva accesso a 104 canali, 16 più che nel 2006 e 43 più che nel 2000
(Nielsen, 2007) 1. Secondo l’Osservatorio Audiovisivo Europeo, nei paesi europei
dell’OCSE il numero totale di canali televisivi disponibili (sommando il terrestre, l’etere e
il satellite) è salito da 816 nel 2004 a 1165 nel 2006, con un incremento del 43 per cento
(OECD, 2007, p. 175). Dati parziali relativi al mondo intero mostrano incrementi analoghi
(Sacr, 2001; Hafez, 2005; Rai e Cottle, 2007).
Anche la penetrazione televisiva si è mantenuta costante negli USA, al 98 per cento
negli ultimi vent’anni. In Europa, il numero di famiglie con accesso alla televisione è
cresciuto da 1.162.490,4 nel 2002 a 1.340.201,3 nel 2007 (Euromonitor, 2007). Il numero
di ore davanti alla televisione è aumentato costantemente in quasi tutti i paesi. Negli USA,
la famiglia media passava settimanalmente 57 ore e 37 minuti a guardare la televisione nel
2006, un aumento di 20 minuti rispetto al 2005 e di quasi 10 ore da quando, un ventennio
fa, Nielsen cominciò a rilevare l’audience usando i people meters (Mandese, 2007). E tra
il 1997 e il 2005 la quantità di tempo dedicata all’ascolto televisivo da parte dello
spettatore medio è aumentata in quasi tutti i paesi OCSE (eccettuate la Nuova Zelanda, la
Spagna e la Corea del Sud: OECD, 2007, p. 176). Insomma, la televisione è viva e vegeta,
e resta il primo mezzo di comunicazione di massa dell’inizio del XXI secolo. Quello che è
cambiato è la frammentazione della televisione in canali molteplici, spesso mirati a
pubblici specifici, in una pratica detta di narrowcasting che tende ad accrescere la
differenziazione culturale nel mondo massmediale (Turow, 2005). Inoltre, la pratica della
videoregistrazione digitale e della programmazione computerizzata dell’ascolto televisivo,
con l’introduzione di dispositivi come il TiVo, ha individualizzato e personalizzato la
ricezione dei programmi. Così, la televisione resta un mezzo di comunicazione di massa
dal punto di vista del mittente, ma è spesso un mezzo di comunicazione personale dal
punto di vista del ricevente. La crescente capacità di controllare la ricezione della
televisione include software in grado di programmare le registrazioni saltando la
pubblicità, una pesante minaccia per la maggior fonte di entrate del broadcasting
televisivo.
Dunque, pur essendo ancora il mezzo dominante di comunicazione di massa, la
televisione è stata profondamente trasformata dalla tecnologia, dal business e dalla cultura,
al punto che ora può essere meglio intesa come un medium che combina il broadcasting di
massa con il narrowcasting di massa. Nel 1980, il 40 per cento delle famiglie USA si
sintonizzava su uno di tre maggiori notiziari dei network in una data serata. Nel 2006 il
numero era calato al 18 per cento (Project for Excellence in Journalism, 2007) 2. Secondo
la Nielsen Media Research, nel 2006 più dell’85 per cento delle famiglie USA utilizzava la
televisione via cavo o satellitare; un aumento dal 56 per cento rispetto al 1990. L’audience
di prima serata per la televisione via etere (dalle 20 alle 23) è calata dall’80 per cento del
1998 al 56 per cento del 2006 (Standard and Poor, 2007a).
Mentre però la nuova infrastruttura tecnologica e lo sviluppo della trasmissione via
cavo o via satellite ha aumentato la customizzazione del prodotto mirando alla
segmentazione del pubblico, l’integrazione verticale delle stazioni televisive locali nei
network nazionali di proprietà di grandi imprese (come è avvenuto negli Stati Uniti, ma
anche in Italia, in India, in Australia e altrove) ha indotto una crescente standardizzazione
dei contenuti sotto la sembianza della differenziazione (Chatterjee, 2004; Bosetti, 2007;
Flew, 2007; Hesmodalgh, 2007; Schiller, 2007; Campo Vidal, 2008). Così, Eric
Klinenberg (2007), nel suo studio innovativo sui dibattiti politici sorti intorno alla
trasformazione dei media negli Stati Uniti, ha documentato come le affiliate locali dei
network televisivi hanno visto ridursi la possibilità di decidere sui contenuti della propria
programmazione, e sono state spinte a mandare in onda prodotti realizzati centralmente,
spesso sulla base di sistemi in gran parte automatizzati, come i servizi meteorologici
«locali» presentati in tono familiare da conduttori che non hanno mai messo piede nelle
località di cui parlano.
Radio: mettere in rete il locale immaginato
La radio, il mezzo di comunicazione di massa più adattabile individualmente ai tempi e ai
luoghi del pubblico nel XX secolo, ha seguito un analogo sentiero di integrazione
verticale. Il cambiamento tecnologico, entro condizioni di concentrazione proprietaria, ha
portato a un crescente controllo sui contenuti locali da parte di studi centralizzati che
servono l’intero network. Registrazione ed editing digitali permettono l’integrazione di
stazioni radio locali in network nazionali. Gran parte del contenuto dei notiziari locali è, in
realtà, non locale, e molte inchieste «esclusive» sono in realtà programmi generici adattati
per il contesto di ciascun pubblico. La trasmissione di musica automatizzata in base a
cataloghi preregistrati porta le stazioni radio ad avvicinarsi al modello iPod della musica
su richiesta. Anche in questo caso il potenziale di customizzazione e differenziazione
consentito dalle tecnologie digitali è stato usato per travestire la produzione centrale di
prodotti da distribuire localmente a un pubblico specifico sulla base di modelli di
marketing. Negli Stati Uniti, prima che il Telecommunications Act del 1996 rimuovesse
molte delle restrizioni all’eccessiva concentrazione di proprietà, c’erano più di 10.400
radio commerciali di proprietà individuale (vedi sotto). Durante il biennio 1996-1998, il
numero totale dei proprietari di stazioni si era ridotto di 700 unità. Nei due anni successivi
all’approvazione del Telecommunications Act da parte del Congresso, i grandi gruppi
hanno comprato e venduto più di 4400 stazioni radio istituendo grandi network nazionali
con una presenza oligopolistica nelle maggiori aree metropolitane. Così, le tecnologie di
libertà e il loro potenziale di diversificazione non portano necessariamente alla
differenziazione della programmazione e alla localizzazione dei contenuti: piuttosto,
permettono la falsificazione dell’identità nello sforzo di combinare il controllo
centralizzato e la distribuzione decentrata come efficaci strategie di business (Klinenberg,
2007, p. 27).
L’avvento di Internet e della comunicazione wireless
Le reti informatiche, il software open source (protocolli di Internet compresi) e il rapido
sviluppo della capacità di accesso e di trasmissione digitale nelle reti di
telecomunicazione, hanno portato alla spettacolare espansione di Internet dopo la sua
privatizzazione negli anni Novanta. In effetti Internet è una tecnologia vecchia: fu
utilizzata per la prima volta nel 1969. Ma si è diffusa su larga scala venti anni dopo grazie
a diversi fattori: mutamenti di normative, maggiore ampiezza di banda nelle
telecomunicazioni, diffusione del personal computer, programmi di software user-friendly
che rendevano facile caricare, accedere e comunicare contenuti (a partire dai server e dai
browser del World Wide Web negli anni Novanta) e la domanda sociale in rapida crescita
del collegamento in rete di ogni cosa, nata dalle esigenze del mondo del business e dal
desiderio del pubblico di istituire proprie reti di comunicazione (Abbate, 1999; Castells,
2001; Benkler, 2006).
Di conseguenza, il numero degli utenti Internet sul pianeta è cresciuto da meno di 40
milioni nel 1995 a circa 1,4 miliardi nel 2008. Nel 2008, la penetrazione aveva superato il
60 per cento in gran parte dei paesi sviluppati e stavano crescendo a un tasso rapido nei
paesi in via di sviluppo (Center for the Digital Future, vari anni). La penetrazione di
Internet a livello globale nel 2008 si attestava intorno a un quinto della popolazione della
terra, e meno del 10 per cento degli utenti Internet aveva accesso alla banda larga.
Comunque, dal 2000, il digital divide, misurato in termini di accesso alla Rete, si è andato
riducendo. Il rapporto tra l’accesso a Internet nei paesi OCSE e in quelli in via di sviluppo
è precipitato da 80,6:1 nel 1997 a 5,8:1 nel 2007. Nel 2005, i nuovi utenti di Internet nei
paesi in via di sviluppo erano quasi il doppio che nei paesi OCSE (ITU, 2007). La Cina è
il paese con la crescita più rapida nel numero di utenti Internet, anche se il tasso di
penetrazione rimaneva nel 2008 al di sotto del 20 per cento della popolazione. Al luglio
2008, il numero di utilizzatori di Internet in Cina era di 253 milioni, sorpassando gli Stati
Uniti con i suoi circa 223 milioni di utenti (CNNIC, 2008). I paesi OCSE nell’insieme
avevano un tasso di penetrazione di circa il 65 per cento della popolazione nel 2007.
Inoltre, data l’enorme disparità nell’uso di Internet esistente tra ultrasessantenni e minori
di trent’anni, con lo scomparire della generazione più anziana la proporzione utenti
raggiungerà un punto di quasi saturazione nei paesi sviluppati e aumenterà
sostanzialmente in tutto il mondo.
A partire dagli anni Novanta in tutto il mondo si è compiuta un’altra rivoluzione nella
comunicazione: l’esplosione della comunicazione wireless, con una crescente capacità di
connessione e di ampiezza di banda delle generazioni di telefoni cellulari che si sono
succedute (Castells et al., 2006b; Katz, 2008). È la tecnologia di comunicazione che ha
avuto la più veloce diffusione in tutta la storia. Nel 1991, c’erano nel mondo circa 16
milioni di abbonamenti alla telefonia mobile. Nel luglio 2008 le utenze cellulari avevano
superato i 3,4 miliardi, ossia circa il 52 per cento della popolazione mondiale. Usando un
moltiplicatore prudenziale (i bambini non usano [ancora] i cellulari, e nei paesi poveri
famiglie e villaggi condividono uno stesso abbonamento), possiamo calcolare con
sicurezza che nel 2008 oltre il 60 per cento della popolazione del pianeta aveva accesso
alla comunicazione mobile, anche se il vincolo di reddito ancora incide. In effetti, studi
condotti in Cina, America Latina e Africa hanno mostrato che i poveri danno una priorità
alta alle proprie esigenze di comunicazione e usano una porzione consistente del loro
magro bilancio per soddisfarle (Qiu, 2007; Katz, 2008; Sey, 2008; Wallis, 2008). Nei paesi
sviluppati, il tasso di penetrazione della telefonia wireless va dall’82,4 per cento (Stati
Uniti) al 102 per cento (Italia o Spagna) e sta avviandosi al punto di saturazione.
C’è un nuovo ambito di convergenza tecnologica fra la comunicazione via Internet e
quella wireless, come le reti Wi-Fi e WiMAX, e le applicazioni multiple che
distribuiscono capacità comunicativa lungo le reti mobili, moltiplicando i punti di accesso
a Internet. Questo è particolarmente importante per il mondo in via di sviluppo perché il
tasso di crescita della penetrazione di Internet è rallentato dalla scarsità di linee telefoniche
via cavo. Nel nuovo modello di telecomunicazioni, la comunicazione senza fili è diventata
dovunque la forma predominante di comunicazione, e in particolare nei paesi in via di
sviluppo. Nel 2002 il numero di utenti wireless ha superato quello degli abbonati alle reti
fisse a livello mondiale. Così, la capacità di connettersi a Internet da un’apparecchiatura
senza fili diventa il fattore critico per una nuova ondata di diffusione di Internet nel
pianeta. Questo dipende in larga misura dall’edificazione di infrastrutture wireless, dai
nuovi protocolli per Internet senza fili, e dalla diffusione di capacità a banda larga
avanzata. Dagli anni Ottanta, la capacità di trasmissione nelle reti di telecomunicazione si
è ampliata in maniera considerevole. I leader globali per utilizzo della banda larga sono la
Corea del Sud, Singapore e i Paesi Bassi. Il mondo nel suo complesso ha ancora molta
strada da percorrere per arrivare al loro livello. Ma la realizzabilità tecnologica di una rete
wireless a banda larga quasi universalmente ubiqua esiste già, aumentando così il
potenziale di comunicazione multimodale di ogni genere di dati, in qualunque formato, da
chiunque a chiunque, e da qualsiasi a qualsiasi luogo. Perché questa rete globale funzioni
effettivamente, bisogna però che, a livello nazionale e internazionale, venga costruita
l’appropriata infrastruttura e vengano emanate normative capaci di favorirne lo sviluppo
(Cowhey e Aronson, 2009).
Autocomunicazione di massa
Si noti che la nostra discussione si è spostata dal broadcasting e i mass media alla
comunicazione in generale. Internet, il web e la comunicazione wireless non sono media
in senso tradizionale. Piuttosto sono i veicoli della comunicazione interattiva. Comunque,
io sostengo, come la maggioranza degli analisti in questo campo, che i confini tra la
comunicazione dei mass media e tutte le altre forme di comunicazione stanno saltando
(Cardoso, 2006; Rice, 2008). La posta elettronica è in massima parte una forma di
comunicazione da individuo a individuo, anche considerando le e-mail in cc e il mailing di
massa. Ma Internet è molto più ampio. Il World Wide Web è una rete di comunicazione
usata per postare e scambiare documenti. Questi documenti possono essere testi, audio,
video, programmi di software – letteralmente tutto ciò che può essere digitalizzato. È per
questo che non ha senso confrontare Internet con la televisione in termini di «audience»,
come accade spesso nelle analisi di vecchio stampo sui media. In realtà, nell’economia
dell’informazione, la gran parte del tempo passato in Internet è tempo di lavoro o di studio
(Castells et al., 2007). Noi non «guardiamo» Internet come guardiamo la televisione. In
pratica, gli utenti di Internet (la maggioranza della popolazione nelle società avanzate e in
una percentuale crescente del terzo mondo) vivono con Internet. Come ha dimostrato una
cospicua massa di elementi empirici, Internet, nella variegata gamma delle sue
applicazioni, è il tessuto di comunicazione delle nostre vite, per il lavoro, per i contatti
personali, per il networking sociale, per l’informazione, per l’intrattenimento, per i servizi
pubblici, per la politica e la religione (Katz e Rice, 2002; Wellman e Haythornthwaite,
2002; Center for the Digital Future, 2005, 2007, 2008; Cardoso, 2006; Castells e Tubella,
2007). Non possiamo isolare l’intrattenimento o le notizie fruiti dall’uso ininterrotto di
Internet e compararli ai mass media in termini di ore di «visione», perché lavorare con
Internet include qualche occasionale navigazione su siti non legati al lavoro o l’invio di e-
mail personali, risultato del multitasking diffuso del nuovo ambiente informazionale
(Montgomery, 2007; Katz, 2008; Tubella et al., 2008). Inoltre, Internet viene usato sempre
più per accedere ai mass media (televisione, radio, quotidiani), oltre che a ogni forma di
prodotto digitalizzato culturale o d’informazione (film, musica, riviste, libri, articoli di
giornali, database).
Il web ha già trasformato la televisione. Gli adolescenti intervistati dai ricercatori
dell’USC Center for the Digital Future non riescono neppure a capire il concetto di una
televisione guardata secondo la programmazione stabilita da qualcun altro. Seguono i
programmi televisivi sul monitor dei loro computer e, sempre di più, su dispositivi
portatili. Così, la televisione continua a essere un importante medium di massa, ma la sua
programmazione e il suo formato subiscono una trasformazione con la personalizzazione
della sua ricezione (Center for the Digital Future, World Internet Survey, vari anni;
Cardoso, 2006). Un fenomeno analogo ha avuto luogo nella stampa cartacea. In tutto il
mondo, gli utenti di Internet al di sotto dei trent’anni leggono i quotidiani soprattutto
online. Così, pur rimanendo il giornale un mezzo di comunicazione di massa, la sua
piattaforma di trasmissione cambia. Non c’è ancora un chiaro modello di business per il
giornalismo online (Beckett e Mansell, 2008). Ma Internet e le tecnologie digitali hanno
trasformato il processo lavorativo dei quotidiani e dei mass media in generale. I giornali
sono diventati organizzazioni internamente retificate, connesse globalmente ai network di
informazione su Internet. Inoltre, le componenti online dei quotidiani hanno indotto
networking e sinergie con altre organizzazioni di notizie e di media (Weber, 2007). Le
redazioni dei giornali, della televisione e delle radio sono state trasformate dalla
digitalizzazione delle notizie e dalla loro ininterrotta elaborazione globale/locale
(Boczkowski, 2005). Così, la comunicazione di massa in senso tradizionale è ora
anch’essa comunicazione che si basa su Internet tanto nella produzione quanto nella
distribuzione.
Inoltre, la combinazione di notizie online con l’interattività dei blog e delle e-mail, oltre
che i feed RSS a questi e altri documenti sul web, hanno trasformato i giornali in una delle
componenti di una forma diversa di comunicazione: quella che ho definito sopra
autocomunicazione di massa. Questa forma di comunicazione è emersa con lo sviluppo
dei cosiddetti Web 2.0 e Web 3.0, ossia il grappolo di tecnologie, dispositivi e applicazioni
che supportano la proliferazione degli spazi sociali in Internet grazie all’accresciuta
capacità di banda larga, al software innovativo open source e al perfezionamento di
computer graphics e interfacce, compresa l’interazione che avviene tra avatar digitali in
spazi virtuali tridimensionali.
Con la convergenza tra Internet e comunicazione wireless e la graduale diffusione di
maggiore capacità di banda, la potenza di comunicazione ed elaborazione di informazioni
di Internet viene distribuita a tutti gli ambiti della vita sociale, allo stesso modo in cui la
rete elettrica e il motore elettrico distribuivano energia alla società industriale (Hughes,
1983; Benkler, 2006; Castells e Tubella, 2007). Appropriandosi di nuove forme di
comunicazione, gli individui (i cosiddetti utenti) hanno costruito loro sistemi personali di
comunicazione di massa, tramite SMS, blog, vlog, podcast, wiki e simili (Cardoso, 2006;
Gillespie, 2007; Tubella et al., 2008). Reti di file-sharing e p2p (peer-to-peer) rendono
possibile la circolazione, la miscelazione e la riformattazione di ogni possibile contenuto
digitalizzato. Nel febbraio 2008, Technorati ha censito 112,8 milioni di blog e oltre 250
milioni di articoli di media sociali tagged, a confronto dei 4 milioni di blog dell’ottobre
2004. In media, secondo le informazioni raccolte in un periodo di 60 giorni, ogni giorno
vengono creati 120.000 nuovi blog, pubblicati 1,5 milioni di post, e aggiornati circa 60
milioni di blog (Baker, 2008). La cosiddetta blogosfera è uno spazio di comunicazione
multilingue e internazionale. Anche se l’inglese ha dominato nelle prime fasi dello
sviluppo dei blog, nell’aprile 2007 solo il 36 per cento dei post sui blog erano scritti in
inglese, contro il 37 per cento in giapponese e l’8 per cento in cinese. Altre lingue molto
presenti nei post erano spagnolo (3 per cento), italiano (3 per cento), russo (2 per cento),
francese (2 per cento), portoghese (2 per cento), tedesco (1 per cento) e farsi (1 per cento)
(Sifry, 2007; Baker, 2008). I blog stanno diventando un importante ambito di espressione
per i giovani cinesi (Dong, 2008a). Un conteggio più accurato dei blog cinesi porterebbe
probabilmente la percentuale in cinese della blogosfera più vicina a quella dell’inglese o
del giapponese.
In tutto il mondo, la maggioranza dei blog è a carattere personale. Secondo il Pew
Internet and American Life Project, il 52 per cento dei blogger afferma di tenere i loro
blog soprattutto per se stessi, mentre il 32 per cento lo fa per un pubblico (Lenhart e Fox,
2006, p. III) 3. Così, in una certa misura, una quota significativa di questa forma di
autocomunicazione di massa è più vicina all’«autismo elettronico» che a una vera e
propria comunicazione. Ogni messaggio postato su Internet, però, a prescindere dalle
intenzioni dell’autore, diventa una bottiglia che galleggia nell’oceano della comunicazione
globale, un messaggio sempre suscettibile di essere ricevuto e rielaborato in modi
inaspettati.
Forme rivoluzionarie di autocomunicazione di massa hanno avuto origine grazie
all’ingegno di giovani user trasformatisi in producer. Un esempio è YouTube, un sito web
di condivisione di video in cui singoli utenti, organizzazioni, aziende e governi possono
caricare i propri contenuti video 4. Fondata nel 2005 da Jawed Karim, Steven Chen, e
Chad Hurley 5, tre americani che si sono conosciuti quando lavoravano insieme a PayPal,
YouTube americana ospitava 69.800.000 video nel febbraio 2008. Per esempio, durante il
mese di novembre 2007, 74,5 milioni di persone hanno visto 2,9 miliardi di video su
YouTube.com (39 video a spettatore; ComScore, 2008). Inoltre, emittenti internazionali
come Al Jazeera, CNN, NTV Kenya, France 24, TV3 catalana, e numerosi altri servizi
media mantengono canali su YouTube allo scopo di costruire nuovo pubblico e connettere
i membri interessati delle rispettive diaspore linguistiche. Oltre a ciò, nel luglio 2007
YouTube ha lanciato anche 18 siti partner per specifici paesi e un sito espressamente
dedicato agli utenti di telefonia mobile. Questo ha fatto di YouTube il più grande mezzo di
comunicazione di massa al mondo. In Internet stanno proliferando i siti web che emulano
YouTube, tra cui ifilm.com, Revver.com e Grouper.com. In Cina, Tudou.com è il sito di
video più popolare e uno dei siti dalla crescita più rapida; nell’agosto 2007 richiamava più
di 6 milioni di utenti unici al giorno, un aumento del 175 per cento rispetto al numero
degli spettatori appena tre mesi prima (Nielsen/NetRatings, 2007). Anche siti di social
networking come MySpace.com offrono la possibilità di caricare video. In effetti,
MySpace nel 2008 era il secondo sito del web di video-sharing. Nel novembre 2007, 43,2
milioni di persone hanno visto 382 milioni di video su MySpace.com (ComScore, 2008).
Il video streaming è una forma sempre più popolare di consumo e produzione di media.
Uno studio di Pew Internet and American Life Project ha rilevato che nel dicembre 2007 il
48 per cento degli utenti americani consumava regolarmente video online, rispetto al 33
per cento di un anno prima. Questa tendenza era più pronunciata per gli utenti al di sotto
dei trent’anni di età, il 70 per cento dei quali visita siti di video online (Rainie, 2008, p. 2).
Dunque, YouTube e altri siti web di contenuto generato dagli utenti sono mezzi di
comunicazione di massa. Ma sono diversi dai mass media tradizionali. Chiunque può
caricare un video su YouTube, con poche restrizioni. E l’utente sceglie il video che vuole
guardare e commentare tra un elenco immenso di possibilità. Ovviamente, su YouTube
vengono esercitate pressioni sulla libertà d’espressione, in particolare con minacce di
azioni legali per la violazione del copyright e con la censura governativa su video di
contenuto politico in situazioni di crisi. Ma YouTube è così pervasivo che la regina
d’Inghilterra ha deciso di mettere sul suo sito il discorso di Natale del 2007. Anche i
dibattiti televisivi per le elezioni presidenziali statunitensi del 2008 e le elezioni
parlamentari spagnole del 2008 sono stati mandati in simultanea su YouTube e integrati
interattivamente dai commenti dei cittadini.
Le reti orizzontali di comunicazione costruite attorno alle iniziative, gli interessi e i
desideri della gente sono multimodali e incorporano diversi generi di documenti, dalle
fotografie (ospitate da siti come Photobucket.com, che nel febbraio 2008 aveva 60 milioni
di utenti registrati) e i progetti cooperativi di larga scala come Wikipedia (l’enciclopedia
open source con 26 milioni di collaboratori, anche se di questi solo 75.000 sono redattori
attivi) alla musica e i film (reti p2p basati su programmi informatici gratuiti come Kazaa)
e alle reti dell’attivismo sociale/politico/religioso che combinano forum di dibattito basati
sul web con inserimento a livello globale di video, audio e testi.
Per i teenager, con la capacità che hanno di generare contenuto e distribuirlo in rete, ciò
che importa «non è avere quindici minuti, ma quindici megabyte di fama» (Jeffrey Cole,
comunicazione privata, luglio 2008). Gli spazi sociali sul web, costruiti sulla tradizione
pionieristica delle comunità virtuali degli anni Ottanta e superando le prime miopi forme
commerciali di spazio sociale introdotte da AOL, si sono moltiplicati in contenuto e in
numero fino a formare una variegata e diffusa società virtuale sul web. Al giugno 2008,
MySpace (con 114 milioni di utenti) e Facebook (con 123,9 milioni di utenti) spiccavano
come i siti web di maggior successo a livello mondiale per l’interazione sociale tra utenti
di diversa collocazione demografica ed estrazione sociale (McCarthy, 2008). Le comunità
online sono impegnate in tutta una serie di progetti, come, per esempio, la Society for
Creative Anachronism, con oltre 30.000 membri paganti nel dicembre 2007, una comunità
virtuale di ricostruzione storica fondata nel 1996. Per milioni di utenti di Internet al di
sotto dei trent’anni, le comunità online sono diventate una dimensione fondamentale della
vita quotidiana che continua a crescere dappertutto, compresa la Cina e i paesi in via di
sviluppo, e la loro crescita è stata rallentata solo dalle limitazioni dell’ampiezza di banda e
dell’accesso (Boyd, 2006a, b; Montgomery, 2007; Williams, 2007). Con la prospettiva
dell’espansione dell’infrastruttura e del declino dei prezzi della comunicazione, non è una
predizione ma un’osservazione dire che le comunità online stanno conoscendo un rapido
sviluppo non come mondo virtuale ma come una virtualità reale integrata con altre forme
di interazione in una vita quotidiana sempre più ibridata dai media (Center for the Digital
Future, 2008).
Una nuova generazione di programmi di software sociale ha reso possibile l’esplosione
di videogame e giochi per computer interattivi, oggi un’industria globale che vale 40
miliardi di dollari. Nei soli Stati Uniti, nel 2007 l’industria dei videogame e dei giochi per
computer ha fatturato 18,7 miliardi di dollari. Nel suo primo giorno di uscita, nel
settembre 2007, Halo 3 della Sony ha guadagnato 170 milioni di dollari, più dell’incasso
mai realizzato in un weekend da un film di Hollywood 6. La più vasta comunità di giochi
online, World of Warcraft (WOW), che rappresenta poco più della metà del settore dei
MMOG (Massive Multiplayer Online Game), nel 2008 ha superato i 10 milioni di membri
attivi (oltre la metà dei quali risiede nel continente asiatico). Questi membri sono
accuratamente organizzati in strutture gerarchiche basate su merito e affinità (Blizzard
Entertainment, 2008). Dato che i media sono in gran parte basati sull’intrattenimento, la
nuova forma di entertainment, basata interamente su Internet e sulla programmazione
digitale, è attualmente diventata una componente sostanziale del sistema dei media.
Le nuove tecnologie stanno anche favorendo lo sviluppo di spazi sociali di realtà
virtuale che combinano la socievolezza e la voglia di sperimentazione con i giochi di
ruolo. Il maggior successo l’ha avuto Second Life (Au, 2008). Nel mese di febbraio 2008
aveva circa 12,3 milioni di utenti registrati e circa 50.000 visitatori in un dato momento di
un giorno di media affluenza. Per molti osservatori, la tendenza più interessante delle
comunità di Second Life è la loro incapacità di dar vita a un’Utopia, pur in assenza di
limitazioni istituzionali o spaziali. I residenti di Second Life hanno riprodotto molti dei
tratti della nostra società, comprese molte delle sue negatività, come l’aggressione e lo
stupro. Inoltre, Second Life è di proprietà della Linden Corporation, e l’immobiliare
virtuale è presto diventato un business redditizio, al punto che l’Internal Revenue Service
degli Stati Uniti ha cominciato a sviluppare progetti per tassare i dollari Linden, che sono
convertibili in dollari USA. Ma questo spazio virtuale ha una tale capacità comunicativa
che alcune università hanno aperto dei campus su Second Life; vi sono anche esperimenti
in cui viene usata come piattaforma didattica; banche virtuali aprono e vanno in fallimento
seguendo gli alti e bassi dei mercati statunitensi; nella città virtuale si tengono
manifestazioni politiche e anche scontri violenti tra schieramenti di sinistra e di destra; e le
notizie interne a Second Life raggiungono il mondo reale attraverso un corpo sempre più
attento di corrispondenti dei media. Utopisti delusi stanno già lasciando Second Life per
cercare la libertà in un’altra terra virtuale dove possano iniziare una nuova vita, come gli
emigranti nomadi hanno sempre fatto nel mondo fisico. Nel far questo, stanno ampliando
la frontiera della virtualità fino al confine esterno della interazione tra le diverse forme
della nostra costruzione mentale.
La comunicazione wireless è diventata la piattaforma di distribuzione principale per
molti generi di prodotti digitalizzati, tra cui giochi, musica, immagini e notizie, oltre che
per una messaggistica istantanea che copre l’intera gamma dell’attività umana, dalle reti di
sostegno personale ai compiti professionali e alla mobilitazione politica. Così, la griglia
della comunicazione elettronica si sovrappone a tutto ciò che facciamo, sempre e ovunque
(Ling, 2004; Koshinen, 2007). Gli studi dimostrano che la maggioranza delle telefonate e
dei messaggi da cellulare vengono da casa, dal lavoro e da scuola – i luoghi abituali dove
si trova la gente, spesso con una linea telefonica fissa a disposizione. Il carattere chiave
della comunicazione wireless non è la mobilità ma la connettività perpetua (Katz e
Aakhus, 2002; Castells et al., 2006a; Katz, 2008).
La crescita della autocomunicazione di massa non è limitata al settore di punta della
tecnologia. Organizzazioni di base e pionieri individuali stanno usando nuove forme di
comunicazione autonoma, come le stazioni radio a bassa potenza, le stazioni televisive
pirata, e pratiche di produzione video indipendenti che sfruttano le capacità di produzione
e distribuzione a basso costo del video digitale (Costanza-Chock, di prossima pubbl.).
Certamente, i media mainstream stanno usando blog e reti interattive per distribuire i
loro contenuti e interagire con il pubblico, mescolando modalità di comunicazione
orizzontali e verticali. Ma vi sono molti esempi in cui i media tradizionali, come la TV via
cavo, sono alimentati da una produzione autonoma di contenuti che usano la capacità
digitale per produrre e distribuire molti generi di contenuti. Negli Stati Uniti, uno degli
esempi più noti di questo genere è la Current TV di Al Gore, in cui i contenuti provenienti
dagli utenti, ed elaborati professionalmente, costituiscono circa il 40 per cento della
programmazione della stazione. News media basati su Internet, che si avvalgono
massicciamente di informazioni fornite dagli utenti, come Jinbonet e Ohmy News in
Corea del Sud o Vilaweb di Barcellona, sono diventati fonti di informazione relativamente
affidabili e indipendenti su scala di massa. Così, la crescente interazione tra reti di
comunicazione orizzontali e verticali non equivale a dire che i media mainstream stiano
rilevando le nuove forme autonome di produzione e distribuzione di contenuto. Vuol dire
che è in atto un processo di complementarità che dà vita a una nuova realtà mediatica i cui
contorni e i cui effetti saranno decisi in ultima analisi da conflitti di potere politici ed
economici, mentre i padroni dei network delle telecomunicazioni si posizionano per
controllare l’accesso e il traffico a favore di soci d’affari e clienti preferiti (vedi sotto).
Il crescente interesse della grande industria dei media per le forme di comunicazione
basate su Internet testimonia l’importanza della autocomunicazione di massa. È
comunicazione di massa perché raggiunge un pubblico potenzialmente globale tramite le
reti p2p e la connessione a Internet. È multimodale, in quanto la digitalizzazione dei
contenuti e il software sociale avanzato, spesso basato su programmi open source che si
possono scaricare gratuitamente, permette la riformattazione di quasi ogni contenuto in
quasi ogni forma, con una sempre maggiore distribuzione tramite reti wireless. È anche
autogenerata per contenuto, autodiretta per emissione e autoselezionata per ricezione da
molti che comunicano con molti. Questo è un nuovo regno della comunicazione, e alla fin
fine un nuovo medium, la cui spina dorsale è fatta di reti di computer, il cui linguaggio è
digitale, e i cui mittenti sono globalmente distribuiti e globalmente interattivi. È vero che
un mezzo, anche un medium rivoluzionario come questo, non determina il contenuto e
l’effetto del suo messaggio. Ma ha la potenzialità di rendere possibile un’illimitata
diversificazione e produzione autonoma di gran parte dei flussi di comunicazione che
danno luogo a significato nella mente pubblica. Eppure, la rivoluzione nella tecnologia
della comunicazione e le nuove culture della comunicazione autonoma sono elaborate e
condizionate (benché non determinate) da organizzazioni e istituzioni che sono guidate da
strategie commerciali di profitto e di espansione del mercato.
Organizzazione e management della comunicazione: le reti aziendali
multimediali globali7
Nella società in rete i media operano per lo più seguendo una logica commerciale,
indipendentemente dallo status giuridico. Contano sugli inserzionisti, sugli sponsor
aziendali e sugli abbonamenti dei consumatori per creare profitti a favore dei loro
azionisti. Anche se esistono alcuni casi di servizio pubblico relativamente indipendente
(per esempio la BBC, la TVE spagnola, la RAI italiana, la SABC sudafricana, la CBC
canadese, l’ABC australiana e così via), queste emittenti sono sottoposte a una crescente
pressione per commercializzare la programmazione allo scopo di mantenere la loro quota
di audience a fronte della concorrenza del settore privato (EUMap, 2005, 2008). In effetti,
molte emittenti pubbliche, come la BBC e la sudafricana SABC, hanno istituito rami
commerciali per finanziare le proprie iniziative pubbliche. Intanto, in paesi come la Cina,
le strutture mediatiche controllate dallo stato stanno passando da un modello orientato alla
propaganda a un modello aziendale centrato sulla audience (Huang, 2007) 8. Inoltre,
mentre Internet è una rete autonoma di comunicazione locale/globale, anche le aziende
private e pubbliche possiedono parte della sua infrastruttura, e i loro spazi sociali e siti
web più popolari stanno rapidamente diventando un segmento del business multimediale
(Artz, 2007; Chester, 2007).
Poiché i media sono prevalentemente un business, le stesse grandi tendenze che hanno
trasformato il mondo del business – globalizzazione, digitalizzazione, networking e
deregulation – hanno radicalmente modificato le aziende mediatiche (Schiller, 1999,
2007). Queste tendenze hanno rimosso gran parte dei limiti all’espansione dei media
privati, permettendo il consolidamento del controllo oligopolistico da parte di poche
aziende su gran parte del nucleo centrale della rete globale dei media 9. Comunque, i
maggiori conglomerati di media hanno radice in Occidente, ma gran parte delle imprese
mediatiche nel mondo continuano a concentrare il loro interesse a livello nazionale e/o
locale. Quasi nessuna organizzazione mediatica è autenticamente globale e il numero delle
imprese mediatiche esclusivamente locali è in diminuzione. A essere globali sono le reti
che connettono il finanziamento, la produzione e la distribuzione dei media entro i paesi e
tra paesi. La maggiore trasformazione organizzativa dei media che possiamo osservare è
la formazione di reti globali di aziende multimediali interconnesse organizzate intorno a
partnership strategiche.
Queste reti, però, sono organizzate intorno a nodi dominanti. Un piccolo numero di
megacorporation formano la spina dorsale della rete globale delle reti mediatiche. Il loro
predominio è fondato sulla capacità di influenzare e connettersi dovunque a
organizzazioni mediatiche focalizzate localmente e nazionalmente. Viceversa,
organizzazioni mediatiche focalizzate nazionalmente e regionalmente si fondano sempre
più su partnership con queste megacorporation per facilitare la propria espansione
imprenditoriale. Mentre il capitale e la produzione sono globalizzati, il contenuto dei
media è personalizzato sulle culture locali e sulla diversità di un pubblico segmentato.
Così, con modalità che sono tipiche anche di altri settori, la globalizzazione e la
diversificazione procedono di pari passo. Anzi, i due processi sono intrecciati: solo reti
globali possono padroneggiare le risorse della produzione mediatica globale, ma la loro
capacità di conquistare quote di mercato dipende dall’adattamento del loro contenuto al
gusto del pubblico locale. Il capitale è globale; le identità sono locali o nazionali.
La digitalizzazione della comunicazione ha stimolato la diffusione di un sistema dei
media tecnologicamente integrato in cui prodotti e processi sono sviluppati su piattaforme
diversificate che supportano una varietà di contenuti e di espressioni mediatiche
all’interno della stessa rete di comunicazione globale/locale. Il comune linguaggio
digitale permette economie di scala e, cosa ancora più importante, economie di sinergia tra
le varie piattaforme e i vari prodotti. Con economie di sinergia intendo che l’integrazione
di piattaforme e prodotti dà un ritorno maggiore della somma delle parti investite nella
fusione o nel networking di tali piattaforme e prodotti. La sinergia si verifica in seguito a
processi di creatività e innovazione facilitati dall’integrazione.
La diffusione di Internet e della comunicazione wireless ha decentrato la rete di
comunicazione, offrendo l’opportunità di molteplici punti di accesso alla rete delle reti.
Mentre la nascita di questa forma di autocomunicazione di massa accresce l’autonomia e
la libertà degli attori in comunicazione, questa autonomia culturale e tecnologica non
conduce necessariamente all’autonomia dal business mediatico. Crea piuttosto nuovi
mercati e nuove opportunità commerciali. I gruppi mediatici si sono integrati in reti
multimediali globali, uno dei cui scopi è la privatizzazione e la commercializzazione di
Internet per espandere e sfruttare questi nuovi mercati.
Il risultato di queste varie tendenze e della loro interazione è la formazione di un nuovo
sistema multimediale globale. Per comprendere la comunicazione nel XXI secolo è
necessario identificare la struttura e le dinamiche di tale sistema multimediale. A questo
scopo, comincerò mettendo a fuoco il nucleo globale di questa struttura, e le reti di
comunicazione chiave concentrate intorno al nucleo. Quindi analizzerò l’organizzazione e
le strategie delle maggiori organizzazioni multimediali che costituiscono la spina dorsale
della rete mediatica globale. Terzo, esaminerò l’interrelazione tra queste organizzazioni di
«media globali» e organizzazioni mediatiche regionali e/o focalizzate localmente. Infine,
porterò allo scoperto le dinamiche delle reti mediatiche spiegando in che modo le
organizzazioni di media negoziano e influenzano reti parallele e cercano di controllare i
commutatori di collegamento tra reti dei media e reti finanziarie, industriali o politiche.
Il nucleo delle reti mediatiche globali
Il nucleo delle reti mediatiche globali è formato da grandi imprese multimediali la cui
maggiore fonte di reddito e le cui proprietà diversificate provengono da svariate regioni e
paesi del mondo. Come abbiamo affermato, le global media organizations non sono
realmente globali; le loro reti sì. Comunque, alcune imprese mediatiche hanno una
presenza internazionale più forte di altre, e le strategie globalizzanti di organizzazioni
mediatiche locali e regionali dipendono (facilitandole) dalle dinamiche di questo nucleo di
reti mediatiche globali. Così, esaminerò l’organizzazione delle maggiori corporation
mediatiche globalizzate (misurate per reddito nel 2007 circa): Time Warner, Disney, News
Corporation, Bertelsmann, NBC Universal, Viacom e CBS. Quindi includerò in tale
analisi l’interazione tra queste «Magnifiche Sette» e le maggiori società diversificate di
Internet/computer: Google, Microsoft, Yahoo! e Apple.
Guardando la configurazione di questo core dei media globali, possiamo osservare
quattro tendenze correlate:
1. la proprietà dei media è sempre più concentrata;
2. contemporaneamente, i conglomerati mediatici ora sono in grado di trasmettere una
varietà di prodotti su una sola piattaforma oltre che un singolo prodotto su una varietà di
piattaforme. Inoltre formano nuovi prodotti con la combinazione di segmenti digitali di
diversi prodotti;
3. la personalizzazione e segmentazione del pubblico allo scopo di massimizzare le
entrate della pubblicità è incoraggiata dal movimento fluido dei prodotti della
comunicazione tra piattaforme;
4. infine, la misura del successo di queste strategie è determinata dalla capacità delle
reti mediatiche interne di trovare economie di sinergia ottimali che sfruttano le mutazioni
dell’ambiente delle comunicazioni;
Approfondiamo ognuna di queste caratteristiche del nucleo delle reti multimediali
globali.
Concentrazione della proprietà
Numerosi analisti hanno documentato la tendenza verso la corporizzazione e la
concentrazione dei media in diversi punti del tempo e in diverse aree del mondo (per
esempio, McChesney, 1999, 2004, 2007, 2008; Bagdikian, 2000, 2004; Bennett, 2004;
Thussu, 2006; Hesmondhalgh, 2007; Campo Vidal, 2008; Rice, 2008).
La concentrazione dei media non è una novità. La storia è piena di esempi di un
controllo oligopolistico sui mezzi di comunicazione, compreso il controllo del ceto
sacerdotale sulle tavolette d’argilla incise con lo stilo, il controllo della chiesa sulla Bibbia
in latino, gli statuti degli stampatori, i sistemi postali governativi e i le reti di segnalazione
militari, tra gli altri. Ogni volta che rivolgiamo uno sguardo alla storia e alla geografia,
vediamo una stretta associazione tra la concentrazione del potere e la concentrazione dei
mezzi di comunicazione (Rice, comunicazione privata, 2008). Nel XX secolo, negli Stati
Uniti, tre network, le «Big Three» ABC, CBS e NBC, hanno dominato radio e televisione
fino agli anni Ottanta. Per tutta la prima parte del XX secolo, tre agenzie di stampa, la
britannica Reuters, la francese Havas e la tedesca Wolff, formavano un «cartello globale
delle notizie» che dominò la trasmissione dei servizi giornalistici internazionali (Rantanen,
2006). Al di fuori degli Stati Uniti la maggior parte dei governi ha tradizionalmente
mantenuto il monopolio sulle reti radiofoniche e televisive. Il controllo sullo spazio della
comunicazione ha così sempre seguito un andamento oscillatorio in seguito ai
cambiamenti complementari e contraddittori che si verificavano nei regolamenti, i
mercati, l’ambiente politico e nell’innovazione tecnologica. Ma la digitalizzazione
dell’informazione e la nascita delle piattaforme di comunicazione satellitari, wireless e via
Internet hanno fatto sì che i tradizionali blocchi all’espansione della proprietà
diminuissero. A cominciare dagli anni Novanta, le fusioni e le acquisizioni di media hanno
subito un’accelerazione senza precedenti. Per esempio, tra il 1990 e il 1995 sono avvenute
lo stesso numero di fusioni che tra il 1960 e il 1990 (Greco, 1996, p. 5; Hesmondhalgh,
2007, p. 162).
Nella prima edizione del suo influentissimo libro The Media Monopoly (1983), Ben
Bagdikian identificava 50 aziende mediatiche che dominavano il mercato USA dei media.
Varie edizioni rivedute del testo rivelavano un numero sempre più ridotto di aziende
dominanti: 29 nel 1987, 23 nel 1990, 10 nel 1997, 6 nel 2000 e 5 nel 2002 (cit. in
Hesmondhalgh, 2007, p. 170). Mentre Bagdikian metteva a fuoco la situazione negli Stati
Uniti, la stessa concentrazione emergeva a livello globale (Fox e Waisbord, 2002; Campo
Vidal, 2008; Winseck, 2008). Per esempio, nel 2006, Disney, Time Warner, NBC
Universal, Fox Studios (New Corporation) e Viacom coprivano il 79 per cento della
produzione cinematografica e il 55 per cento della distribuzione di film in tutto il mondo
(IBIS, 2007a, b).
Questo graduale restringimento del campo dei media deriva non solo dalla concorrenza,
ma anche dalla accresciuta capacità delle majors di far rete sia tra loro sia con attori
regionali (ne parleremo più in dettaglio nella prossima sezione). La figura 2.1 mostra le
partnership chiave e gli investimenti incrociati tra aziende dominanti multimediali e di
Internet a livello globale.
FIG. 2.1. Interconnessioni chiave tra media multinazionali e aziende di Internet diversificate. Si noti che il diagramma
rappresenta solo le partnership e gli investimenti incrociati chiave. Non è esaustivo. Le relazioni si riferiscono
al febbraio 2008.
Fonte: Arsenault e Castells (2008a, p. 713).
Come illustra la figura 2.1, le Magnifiche Sette e le maggiori aziende di Internet sono
connesse da una fitta trama di partnership, investimenti incrociati, amministratori e
manager 10. National Amusement, l’azienda di famiglia di Sumner Redstone, detiene una
quota di controllo dell’80 per cento tanto nella CBS quanto in Viacom. NBC Universal e
News Corporation posseggono congiuntamente il fornitore di contenuti online Hulu.com,
lanciato nel 2007 come rivale di YouTube, la piattaforma di video in streaming di Google.
AOL di Time Warner, MSN di Microsoft, MySpace di News Corporation, e Yahoo!
forniscono anch’esse distribuzione per la piattaforma Hulu. Ma mentre Hulu mira a
infrangere il potere di mercato di YouTube sul mercato del video digitale, chi l’appoggia
ha altrove partnership strategiche con Google. Google fornisce distribuzione di pubblicità
per il sito di social networking MySpace della News Corporation di Murdoch. Nel
febbraio 2008, Microsoft ha fatto un’offerta, poi non andata in porto, di 44,6 miliardi di
dollari per acquistare Yahoo!. Così, queste conglomerate multimediali simultaneamente
competono e colludono secondo le esigenze del loro business.
Quando determinate corporation ammassano un controllo sproporzionato sui
meccanismi di consegna o produzione di contenuti, come nel caso del predominio di
YouTube sui video in Internet, altre proprietà mediatiche cercano di forzare questo collo di
bottiglia con investimenti o sviluppo di proprietà rivali. La diversificazione delle proprietà
va di pari passo con la concentrazione dei media. La capacità dei colossi dei media di
spuntare accordi favorevoli, tra loro o con altre aziende chiave per i media, dipende
dall’abilità che hanno di accumulare proprietà mediatiche diversificate attraverso
partnership, investimenti o acquisizioni dirette.
Diversificazione delle piattaforme
Le maggiori organizzazioni mediatiche oggi possiedono proprietà sterminate, e
controllano anche più contenuto proprietario di quanto venga diffuso tramite piattaforme
diverse. La figura 2.2 dà un quadro delle principali proprietà attualmente controllate, o
parzialmente controllate, dalle sette maggiori organizzazioni multimediali globali al 2008.
Come illustra la figura, tutte le aziende leader sono verticalmente integrate. Time Warner,
per esempio, controlla la Warner Brothers, che rappresenta il 10 per cento della
produzione globale cinematografica e televisiva. Time Warner possiede anche il secondo
maggior operatore TV via cavo degli Stati Uniti, 47 canali via cavo regionali e
internazionali, e la piattaforma Internet AOL attraverso la quale vengono distribuite queste
produzioni. News Corporation, forse la società più verticalmente integrata di tutte,
possiede 47 stazioni televisive USA e la piattaforma di social networking MySpace, ha
interessi nelle piattaforme di trasmissione satellitare in cinque continenti, e controlla la
Twentieth Century Fox Studios and Home Entertainment, oltre a numerosi canali televisivi
regionali. L’integrazione verticale è cresciuta soprattutto perché la capacità di distribuire
prodotti è cruciale per il successo di qualsiasi prodotto culturale. L’integrazione verticale
della produzione e distribuzione televisiva e cinematografica ha avuto una forte spinta
negli anni Ottanta con l’integrazione della Twentieth Century Fox di News Corporation
con Metromedia e poi è decollata quando nel 1995 Disney ha acquistato ABC.
FIG. 2.2. Proprietà delle maggiori multinazionali conglomerate di media al febbraio 2008.
Fonte: Arsenault e Castells (2008a, p. 715).
Oggi l’integrazione verticale delle società dei media riguarda anche Internet. Le
organizzazioni mediatiche stanno entrando in Internet, mentre le società di Internet creano
partnership con le organizzazioni mediatiche e investono in funzionalità di streaming
audio e video. Fatto significativo, la più grande acquisizione nel settore dei media a oggi,
è costituita dall’acquisto per 164 miliardi di dollari di Time Warner, un grande gruppo
mediatico tradizionale, da parte di America On Line (AOL), una start-up di Internet.
L’accordo fu finanziato con azioni gonfiate di AOL al culmine della bolla di Internet nel
2000. Negli anni recenti l’evanescenza dei confini tra aziende di Internet, media e
telecomunicazioni è cresciuta ulteriormente. Nel 2005, News Corporation ha pagato 560
milioni di dollari per Intermix, l’azienda madre del sito di social networking MySpace.
Nel 2007, Google ha acquistato YouTube per 1,6 miliardi. Nel 2007, Google, Apple,
Yahoo! e Microsoft hanno iniziato tentativi di scalata competendo con conglomerati
multimediali più tradizionali per il controllo sul mercato sempre più lucroso dei video
online. NBC e News Corporation hanno lanciato Hulu.com nell’intento di competere con
il servizio video di iTunes della Apple e con YouTube di Google, il sito dominante per i
video in streaming. Reciprocamente, le società di Internet si sono mosse per penetrare nel
mercato mediatico offline. Il canale di informazione via cavo MSNBC fu lanciato come
joint venture da Microsoft e NBC nel 1996. E nel 2007, Google ha varato una partnership
con Panasonic per lanciare un televisore ad alta definizione che doveva raccogliere
programmi della televisione tradizionale oltre a contenuti Internet (Hayashi, 2008).
Segmentazione e personalizzazione: il cambiamento delle forme di pubblicità come forza
di trasformazione nell’industria dei media
Le organizzazioni mediatiche possono massimizzare il fatturato pubblicitario con
l’espansione del loro pubblico potenziale trasferendo contenuto da una piattaforma di
distribuzione all’altra. Nel 2006, la spesa globale in pubblicità ha superato i 446 miliardi
di dollari (Future Exploration Network, 2007). Ma se la spesa in pubblicità continua a
crescere, i media continuano a frammentarsi. Per esempio, nel 1995 erano 225 i
programmi della televisione britannica che raggiungevano un pubblico di oltre 15 milioni
di persone; dieci anni dopo non ce n’era più neppure uno (Future Exploration Network,
2007, p. 4). Così, i ricavi pubblicitari affluiscono da un numero sempre crescente di
piattaforme e canali (Gluck e Roca-Sales, 2008).
Inoltre, le barriere tradizionali tra le aziende mediatiche «vecchie» e «nuove» stanno
sparendo con la diversificazione dei portafogli delle corporation. Come abbiamo
documentato, la digitalizzazione di tutte le forme di comunicazione significa che le
barriere tra reti mobili, mediatiche e di Internet si stanno dissolvendo. La capacità di
produrre contenuti tramite dispositivi mobili e di caricare, scambiare e ridistribuire questi
contenuti attraverso il web allarga l’accesso e al contempo complica i ruoli tradizionali di
mittente e ricevente. Le organizzazioni mediatiche hanno più piattaforme con cui proporre
pubblico agli inserzionisti, ma il compito di attribuire, distribuire e controllare i messaggi
sta contemporaneamente diventando più complicato. La diversificazione delle piattaforme,
in particolare le acquisizioni strategiche di proprietà e partnership online con aziende di
Internet come Yahoo! e Google, rappresenta un tentativo di indirizzare le loro scommesse
sulla via centrale che arriva al pubblico in un ambiente mediatico in rapido mutamento, e
insieme una mossa per trarre vantaggio dalla capacità di segmentare il pubblico e farne un
target specifico.
Le organizzazioni mediatiche si stanno muovendo verso modalità nuove e dinamiche
per identificare e trasmettere contenuto individualizzato che prende di mira mercati
pubblicitari critici. L’avvento della videoregistrazione digitale controllata dal computer
significa che gli utenti della televisione possono senza difficoltà saltare gli spot
pubblicitari pagati. Materiale sostenuto dalla pubblicità inserita nel contenuto sta
soppiantando i modelli del contenuto pagato (come i tradizionali spot da 30 secondi). Nel
2006, il product placement nei media confezionati a copione (scripted) è salito a 3 miliardi
di dollari, il 40 per cento in più rispetto al 2004 (Future Exploration Network, 2007, p. 5).
Siamo in un momento della storia in cui si verifica una confluenza tra contenuti e
trasmissione digitale, e sistemi sempre più sofisticati di micropagamento; il che vuol
dire che il valore dell’analisi e dell’intelligence per un utente business riesce a essere
riflesso molto più accuratamente dal prezzo di quel contenuto (News Corporation,
2007, p. 8).
Sotto la proprietà di News Corporation, MySpace ha sviluppato un sistema hypertargeted
di distribuzione pubblicitaria basato sulle nostre abitudini di ricerca. Inoltre, l’acquisto nel
2007 del Wall Street Journal è stata una mossa per acquisire un marchio editoriale che
aveva una forte identità globale in entrambe le versioni, cartacea e online. Le edizioni
indiana e cinese del Wall Street Journal offrono una fonte fondamentale per la pubblicità
rivolta alle élite emergenti in mercati che molto probabilmente in un prossimo futuro
saranno al centro della crescita pubblicitaria globale (Bruno, 2007).
Economie di sinergia
La capacità di replicare contenuti e di conseguenza di distribuire pubblicità su piattaforme
diversificate genera economie di scopo o sinergia, una componente fondamentale della
strategia delle reti aziendali. Lance Bennett (2004) ridimensiona l’importanza della
grandezza e della scala come criteri di dominio sulla scena del business mediatico, in
quanto «i colossi aziendali sono tutt’altro che macchine bene organizzate» (2004, p. 132).
Rileva come AOL e Time Warner e Viacom e CBS non siano state capaci di creare
sinergie redditizie. Gli effetti sinergici dipendono dal valore aggiunto derivante dalla
riuscita integrazione in un processo di produzione che genera superiore produttività, e
quindi maggiori profitti, per tutte le sue componenti. Così, la semplice aggiunta di risorse
mediante acquisizioni non garantisce profitti superiori. Anzi, l’incapacità di CBS e
Viacom di fondere le loro culture aziendali è un esempio eccellente di come le economie
di scala non sempre siano vantaggiose. La relazione tra CBS e Viacom risale al 1973,
quando la CBS fu costretta a scorporare Viacom, la sua unità di syndication televisiva, in
base alle normative della Federal Communications Commission (FCC) che vietava ai
network televisivi statunitensi di possedere aziende di distribuzione televisiva o d’altro
genere, cioè di syndication. Nel 2000, Viacom era diventata la società di maggior successo
e acquistò l’azienda madre, la CBS, per 22 miliardi di dollari, in quella che è stata la più
grande fusione di media mai avvenuta. Le società tornarono a dividersi però nel 2005,
perché tra loro c’erano minori economie di sinergia. National Amusement, una delle più
antiche e più grandi catene di sale cinematografiche degli Stati Uniti, e l’azienda di
famiglia di Sumner Redstone, detiene quote di controllo in entrambe le società. Dopo la
separazione, CBS deteneva la maggioranza delle piattaforme di distribuzione contenuti
(per esempio, CBS Network, CBS Radio e CW), mentre Viacom manteneva la
maggioranza delle proprietà di creazione contenuti (per esempio, Paramount Studios e la
famiglia di network di MTV).
La chiave è la sinergia. La sinergia si basa sulla compatibilità dei network che
realizzano le fusioni. Fusioni di produzioni, non di proprietà. Nei conglomerati
multimediali contemporanei, l’organizzazione a rete mostra di essere il modello di
business di maggior successo per l’integrazione orizzontale di proprietà. In effetti, negli
ultimi anni, diverse delle società mediatiche più altamente capitalizzate hanno cominciato
a snellire le proprie strutture. Clear Channel, un società con sede negli USA, con proprietà
principalmente nel settore radiofonico, ha venduto la sua divisione televisiva. Anche la
New York Times Company ha liquidato le proprie attività nell’emissione televisiva.
Il crescente vantaggio competitivo della News Corporation sul mercato globale dipende
non tanto dalla sua dimensione quanto dalla sua strategia organizzativa di retificazione,
che supporta economie di sinergia. Louw (2001) vede il modello di business globale della
News Corporation come un esempio dell’impresa globale a rete, in cui «possiamo
riscontrare che molteplici (e ancora proliferanti) stili di controllo e di decisione vengono
tollerati in diversi settori del network, purché quelli al centro della rete possano
guadagnare dall’esistenza di una particolare pratica e/o disposizione organizzativa in una
provincia del loro “impero” in rete» (Louw, 2001, p. 64). Mentre Rupert Murdoch ha
mantenuto un rigido controllo verticale, la News Corporation si è trasformata da
un’impresa le cui risorse negli anni Ottanta si trovavano in misura preponderante
nell’editoria di quotidiani e riviste, a un’azienda che, nel primo decennio di questo secolo,
ha il 63,7 per cento degli attivi a bilancio nei settori della programmazione
cinematografica, televisiva e dei network via cavo/satellite (Flew e Gilmour, 2003, p. 14),
e ora sta muovendosi verso proprietà Internet. La News Corporation si è concentrata sulla
massimizzazione della redditività di singoli segmenti della sua rete piuttosto che
sull’integrazione della gestione quotidiana delle sue diverse proprietà (Fine, 2007). Così,
la News Corporation viene generalmente indicata come il più «globale» business
mediatico in termini di proprietà e al tempo stesso come la più sostenibile in termini della
sua strategia di gestione reticolare interna (Gershon, 2005).
In sintesi, le società che formano il nucleo delle reti mediatiche globali perseguono
politiche di concentrazione della proprietà, partnership interaziendali, diversificazione
delle piattaforme, customizzazione del pubblico ed economie di sinergia con vari gradi di
successo. A sua volta, la configurazione interna di questi business mediatici dipende
pesantemente dalla loro capacità di influenzare e agganciare la rete più ampia dei business
mediatici. Inoltre, la sorte delle industrie mediatiche nazionali del secondo strato dipende
in larga misura dalla loro capacità di connettersi con queste reti mediatiche globali.
La rete globale dei network mediatici
Come notato in precedenza, i giganti dei media, diversificati e multinazionali, restano
ancorati territorialmente ai loro mercati principali. Per esempio, la News Corporation,
forse la più globale conglomerata mediatica in termini di proprietà, raccoglie il 53 per
cento del suo fatturato negli Stati Uniti e il 32 per cento in Europa (Standard and Poor,
2007b). Ma una collocazione favorevole nella rete globale delle organizzazioni dei media
comporta molto di più che l’espansione territoriale, la concentrazione delle proprietà e la
diversità delle piattaforme. Il successo dei network interni della News Corporation e di
altre aziende simili, sta nella capacità di sapersi connettere alla rete globale della
comunicazione mediatizzata. Se è vero che alcune organizzazioni mediatiche formano la
spina dorsale della rete globale dei media, ciò non equivale a un dominio unilaterale. I
media locali e nazionali non stanno cadendo sotto l’inarrestabile espansione di
organizzazioni «mediatiche globali». Piuttosto, le aziende globali stanno intensificando
partnership e investimenti incrociati con aziende nazionali, regionali e locali per facilitare
l’espansione del mercato e viceversa. Gli attori regionali stanno importando attivamente
contenuti globali, localizzandoli, e le organizzazioni mediatiche globali cercano partner
locali per trasmettere contenuto personalizzato al pubblico. I processi di localizzazione e
globalizzazione operano di conserva a espandere una rete globale. Cercherò di identificare
più puntualmente il ruolo della struttura e delle dinamiche di questa rete globale. Per farlo,
analizzerò dapprima le strutture formali della collaborazione tra il nucleo mediatico
globale e le organizzazioni regionali, locali e nazionali. Quindi esaminerò in che modo
queste strutture dipendono dai processi della localizzazione di prodotti globalizzati. Infine,
esplorerò le dinamiche dei flussi di produzione mediatica e dell’organizzazione per
documentare come il locale influisce e agisce sulla presenza delle imprese mediatiche
globali.
Strutture di collaborazione
Media multinazionali, sotto forma di agenzie di stampa come la Reuters (istituita nel
1851), esistono fin dalla metà del XIX secolo, aprendo la strada a una maggiore
sovrapposizione tra organizzazioni mediatiche multinazionali e locali (vedi sotto). Il
Telecommunications Act statunitense del 1996, la fondazione della World Trade
Organization nel 1995, e l’appoggio alla privatizzazione dei media dato dal Fondo
Monetario Internazionale (FMI) e da altre istituzioni internazionali, hanno contribuito a
denazionalizzare i processi di produzione e distribuzione di media (Artz, 2007). Reti
mediatiche globali si sono consolidate grazie all’interrelazione tra globalizzazione e
localizzazione, e all’affermarsi di nuovi modelli aziendali di produzione e distribuzione.
La portata globale di organizzazioni come Time Warner e Disney non si può misurare
esclusivamente in base alle loro proprietà. Partnership e investimenti incrociati hanno
ampliato il loro raggio di azione. La figura 2.4 offre un’immagine dei più importanti
investimenti incrociati e partnership tra maggiori attori mediatici globali ed elementi
regionali chiave.
FIG. 2.4. Interconnessioni tra gruppi mediatici multinazionali di secondo strato e il nucleo globale.
Fonte: Arsenault e Castells (2008a, p. 723).
La figura 2.4 mostra solo investimenti e partnership chiave con imprese di secondo
livello. Riflette soltanto una piccola percentuale degli accordi stretti tra le Magnifiche
Sette e altri attori di mercato. Per esempio, Disney ha una presenza ampia ma disuguale in
Cina. I suoi programmi vanno in onda alla televisione statale cinese; personaggi Disney
appaiono nei videogame Shanda; catene commerciali globali come Wal-Mart vendono la
loro mercanzia nei negozi cinesi; e una percentuale dei film stranieri di cui è legalmente
consentita la programmazione in Cina sono anch’essi prodotti e distribuiti dalla Disney. Il
diagramma non include una schiera di partnership e investimenti incrociati ormai defunti,
come la partnership di Bertelsmann con Time Warner per lanciare la AOL Europe. La
figura 2.4 offre però un quadro della vasta rete di partnership e investimenti incrociati
strategici sulla quale si basano l’espansione e la crescita aziendale delle Magnifiche Sette.
Vivendi Universal SA, una società francese, ha ceduto la sua quota nella Universal
Entertainment in cambio di una partecipazione del 20 per cento nella NBC Universal.
Vivendi ha anche una partecipazione congiunta con Bertelsmann nella tedesca Vox.
Bertelsmann, a sua volta, ha interessi nella tedesca Premiere TV insieme alla News
Corporation. La Kingdom Holdings del principe saudita Al-Walid bin Talal è uno dei
maggiori investitori nel settore dei media in Medio Oriente con quote in LBC, Rotanna, e
numerosi altri media commerciali. Inoltre, la società ha partecipazioni anche in molte
delle maggiori aziende di media globali come News Corporation (è il suo terzo maggiore
investitore), Apple, Amazon e Microsoft.
Come illustra la figura 2.4, grandi complessi come News Corporation e Time Warner
sono inseriti in una rete più vasta di organizzazioni mediatiche più focalizzate
regionalmente e localmente, che stanno a loro volta mettendo in atto simili strategie di
espansione e diversificazione. Queste società seguono analoghi schemi di concentrazione
proprietaria e di diversificazione. La figura 2.5 offre una panoramica per regione delle
principali proprietà delle società mediatiche chiave. Come illustrano le figure 2.4 e 2.5,
quello che Lance Bennet (2004) definisce il «second tier» di conglomerate multimediali
sta anch’esso perseguendo strategie di diversificazione, concentrazione di proprietà e
investimenti incrociati. Questi processi sono sostenuti dalla capacità della rete globale
delle reti mediatiche di influenzare condizioni locali e nazionali di produzione e
distribuzione, e viceversa.
Il globale influenza il locale
Le conglomerate globalizzate irrompono in nuovi mercati e riprogrammano efficacemente
il mercato regionale verso un formato commerciale che agevola la connessione con le sue
reti di business. Questa influenza si manifesta in numerose linee di tendenza.
Un esempio ovvio dell’influenza globale sui mercati locali dei media è l’importazione
diretta di programmazione e canali come CNN, Fox, ESPN, HBO, e altri canali mediatici
transnazionali. Secondo, le multinazionali dei media hanno contribuito a diffondere un
modello mediatico di tipo aziendale. L’introduzione dei prodotti mediatici delle
multinazionali crea ulteriore domanda per questi prodotti e spinge gli attori a valle della
catena dei media a adeguarsi ai loro comportamenti. Per esempio, i contratti della CBS
con la SABC (l’azienda di stato sudafricana). I loro programmi hanno successo e
stimolano la domanda dei consumatori. La SABC riconosce il successo di questo modello
di business e crea programmi che si basano sul modello commerciale piuttosto che su
quello del servizio pubblico, e poi li smercia a operatori mediatici minori in tutta l’Africa.
Teer-Tomaselli et al. (2006, p. 154) sostiene che «mentre i media sudafricani occupano
una posizione marginale nell’arena mediatica globale, come mercato per prodotti
mediatici di proprietà e produzione transnazionale, estendono la loro influenza (sia pure su
scala molto inferiore) come attori nel gioco dei media regionale e continentale.» Iwabuchi
(2008) identifica un trend analogo nel mercato dei media giapponese in cui le società di
media cercano attivamente di localizzare il format delle fiction televisive giapponesi per i
mercati locali di tutta l’Asia. Una volta che questi format diventano popolari, vengono
fatti ulteriormente circolare da altre società di media, come è accaduto con i produttori
televisivi coreani che hanno ricercato attivamente format televisivi giapponesi da adattare
al mercato mediatico cinese (Iwabuchi, 2008).
FIG 2.5. Mappa proprietaria dei conglomerati multimediali «di secondo strato». Dati raccolti dalle ultime proxy
statements disponibili e/o dai siti web aziendali al febbraio 2008. Il grafico comprende proprietà chiave e non
rappresenta una lista completa.
Fonte: arsenault e castells (2008a, p. 725).
Diversi studiosi hanno scritto di come format aziendali e culturali si siano diffusi dalla
sfera globale a quella locale. Thussu (1998) definisce la «murdochizzazione dei media» in
India come «il processo che comporta lo spostamento del potere dei media dal settore
pubblico alle corporation multimediali private transnazionali che controllano sia i sistemi
di diffusione sia il contenuto delle reti di informazione globali» (1998, p. 7). Questa
«murdochizzazione» è caratterizzata «dalla tendenza al giornalismo trainato dal mercato
che vive delle guerre di share e di rating; dall’influenza transnazionale di format, prodotti
e discorsi mediatici di ispirazione americana; e infine dall’enfasi sull’infotainment,
l’informazione-intrattenimento, minando il ruolo dei media di pubblica informazione.»
Lee Hartz (2007) ha analizzato la nascita di «progetti mediatici transnazionali» o di
«imprese che producono all’interno di una singola nazione ma sono di proprietà congiunta
di svariate aziende di svariate nazioni [… e] non hanno alcun vincolo di fedeltà nazionale
e mettono insieme classi capitaliste di due o più nazioni allo scopo di produrre e trarre
profitto dalle merci mediatiche» (2007, p. 148). Per esempio, il canale televisivo tedesco
Vox è di proprietà della australo-americana News Corporation (49,5 per cento), della
francese Canal Plus (24,9 per cento), e della tedesca Bertelsmann (24,9 per cento).
Terzo, gli attori mediatici globali esportano programmi e contenuti che sono prodotti
per format locali, ma tipicamente sono basati su format standard popolarizzati in
Occidente. Iwabuchi (2008, p. 148) parla di questo processo chiamandolo
«mimetizzazione locale». Spettacoli come Pop Idol, Survivor e Who Wants to Be a
Millionaire sono stati distribuiti in molti paesi e molte lingue. Viacom è stata in prima
linea nel processo di localizzazione del contenuto. Il suo motto è «pensare globalmente,
agire localmente». La sua controllata MTV (Music Television) è forse la piattaforma
mediatica più customizzata del mondo con servizi in 140 paesi e canali asiatici,
mediorientali, latinoamericani, africani ed europei in cui compaiono talenti e conduttori
locali. MTV stringe anche partnership con emittenti locali. In Cina, per esempio, MTV
sponsorizza importanti trasmissioni a premio in collaborazione con CCTV e lo Shanghai
Media Group (Murdock, 2006). Viacom ha creato anche versioni internazionali di
America’s Top Model, uno spettacolo televisivo prodotto originariamente per l’americana
UPN Network (che oggi fa parte del network CW). Top Model è stato dato in franchising
in 17 paesi, tra cui Taiwan (Supermodel #1), Turchia (Top Model Turkiye’s), Spagna
(Supermodelo), e Russia (Russia’s Next Top Model). E, pur non avendo ufficialmente il
franchising di Top Model, una televisione locale afghana ha fatto scalpore nell’autunno del
2007 quando ha lanciato la sua replica a basso costo del format.
Il locale influenza il globale
Comunque, pur controllando un numero sproporzionato di processi distributivi e
produttivi, le corporation mediatiche globali non detengono il monopolio sui mercati in
cui operano. Anzi, vi sono numerosi «controflussi» che impattano sulla forma e la
struttura delle operazioni di questi giganti dei media (Thussu, 2006).
L’esempio più ovvio di influenza locale/nazionale sulle reti mediatiche globali è quella
che si esercita tramite regulation e deregulation. L’apertura dei mercati dei media in Cina e
in India ha stimolato un’ondata di tentativi da parte delle multinazionali globali di
conquistare quei mercati. Questi stati però mantengono un forte controllo sulla struttura e i
contenuti della loro penetrazione. Per esempio, quando Microsoft e Yahoo! si sono
lanciate in Cina, hanno dovuto installare un software che filtra automaticamente parole
controverse come Tibet, Falun Gong, libertà, democrazia. In precedenza, la Star TV di
Murdoch aveva accettato di rimuovere il World Service della BBC dalla sua
programmazione per avere il permesso di entrare in Cina. Come rileva Murdock (2006), le
strategie di localizzazione delle organizzazioni mediatiche globali devono tener conto del
contemporaneo affermarsi delle strategie di globalizzazione da parte di piattaforme
mediatiche regionali. Cita l’India come l’archetipo di questo processo, dove la
globalizzazione più che come influsso della cultura occidentale si manifesta con la
diffusione di prodotti culturali indiani nella sfera globale (2006, p. 25). Analogamente,
Cullity (2004, p. 408) identifica una nuova forma di nazionalismo culturale basato sulla
attiva e consapevole indigenizzazione dei media globali (per esempio, la tradizione di
Miss India che indossa il sari nella sfilata del concorso di Miss Universo, manifestazione
di cui è proprietario Donald Trump).
Inoltre, se le conglomerate multinazionali hanno contribuito a trasmettere in tutto il
mondo la formula alla base di trasmissioni come Pop Idol e Top Model, le origini di questi
programmi sono svariate. La versione originale del Grande Fratello nasce da un ramo
produttivo indipendente di Endemol, una società di produzione televisiva olandese. Betty
La Fea, una telenovela colombiana, è andata in onda su oltre settanta mercati in tutto il
mondo sia come programma preconfezionato sia come format (vedi più avanti). In seguito
al successo di Ugly Betty nel mercato statunitense, Disney-ABC International Television
ha stretto accordi di programmazione con 13 territori in tutto il mondo, facendo di Ugly
Betty a tutt’oggi la franchise più popolare mai realizzata (World Screen 2007). Allo stesso
modo, il produttore esecutivo di Who Wants to Be a Millionaire aveva precedentemente
sviluppato un programma analogo per la ABC, che l’azienda aveva rifiutato. Solo dopo il
successo sul mercato britannico e in diversi altri mercati, lo show ha raggiunto il mercato
USA. Dunque, mentre le imprese mediatiche globali stanno cercando di introdurre loro
contenuti su mercati locali, altre organizzazioni di media mettono in atto strategie per far
circolare globalmente i loro contenuti, spesso tramite le corporation mediatiche globali
appartenenti al nucleo centrale dei media. Per esempio, la vicenda e i personaggi di Re
Leone di Disney hanno la loro origine nei manga giapponesi.
In molti mercati è in atto tra i media una consistente attività di progettazione comune,
per cui l’agenda mediatica delle aziende globali è influenzata da altre organizzazioni. Gli
studi di Van Belle (2003) e Golan (2006) dimostrano che le corporation «mediatiche
globali» dipendono da pubblicazioni d’élite chiave (non di loro proprietà) per fissare la
loro agenda delle news negli Stati Uniti. Per esempio, Golan (2006) ha rilevato che la
programmazione delle notizie per i telegiornali serali di CBS, NBC e ABC si basava sugli
articoli pubblicati la mattina dal New York Times. È per questo che l’acquisto da parte di
Murdoch della Dow Jones è cruciale – The Wall Street Journal è un elemento chiave nella
programmazione cross-media. Anche Al Jazeera, il World Service della BBC e The
Economist sono fonti fondamentali per l’agenda-setting sia sui media sia pubblica. Quindi,
non è possibile misurare l’influenza delle Magnifiche Sette in termini di puri dati d’ascolto
e/o di introiti di mercato. Queste aziende provvedono alla circolazione e al filtraggio di
contenuti prodotti internamente e da altri membri della rete dell’organizzazione dei media.
L’identità conta: i limiti della concorrenza e della cooperazione
Molte delle più grandi aziende mediatiche hanno azionisti in comune, sono proprietarie di
porzioni l’una dell’altra, hanno consigli di amministrazione incrociati (vedi tabella A2.1 in
Appendice), o sono in dipendenza reciproca per il fatturato pubblicitario (McChesney,
2008). Esistono però numerosi controesempi che illustrano che le industrie dei media
costruite intorno a identità culturali e politiche possono svilupparsi in reti pressoché
parallele.
Al Jazeera, che comprende due network internazionali (in arabo e in inglese) oltre a
diversi canali specializzati dedicati ai bambini e allo sport, è finanziata in misura
prevalente dal principe ereditario dell’emirato del Qatar. Poiché solo il 40 per cento dei
suoi introiti operativi proviene dalla pubblicità, Al Jazeera ha più spazio per l’utilizzo di
format non commerciali. Ed è in concorrenza diretta con canali come la CNN, la BBC e la
CNBC, tanto in Medio Oriente quanto per le popolazioni di lingua araba al di fuori della
regione. La presenza di Al Jazeera all’esterno del Medio Oriente, però, dipende
esclusivamente dalla sua capacità di connettersi ad altre reti mediatiche, o tramite contratti
di fornitura di contenuto e/o con il collocamento su pacchetti televisivi satellitari o via
cavo. Per esempio, la sua presenza nel continente africano è facilitata dagli accordi di
fornitura di contenuti con la SABC e la Multi-choice in Sudafrica.
L’industria cinematografica indiana, la cosiddetta Bollywood, è un altro esempio di
industria che in gran parte si è evoluta indipendentemente dalla rete globale delle reti
mediatiche. Oggi produce oltre 800 film all’anno rispetto ai 600 di Hollywood (The
Economist, 2008) e controlla una porzione significativa di imprese cinematografiche
internazionali. I film di Bollywood dipendono in grande misura da un format culturale
indiano che si discosta quasi totalmente dal format hollywoodiano. Le strutture di
collaborazione tra Bollywood e Hollywood, però, si stanno intensificando. Nel novembre
2007, Sony Pictures Entertainment ha realizzato la sua prima produzione bollywoodiana,
Saawariya, un film che è costato 10 milioni di dollari e ne ha incassati 20. Viacom, tramite
il suo ramo Viacom 18, possiede congiuntamente alla società mediatica indiana TV18 la
Indian Film Company. I cineasti di Bollywood ricorrono con sempre maggior frequenza
anche alle promozioni incrociate e ai prodotti tie-in popolarizzati dagli studi di Holly
wood per incrementare gli introiti.
L’industria cinematografica nigeriana, detta Nollywood, produce oltre 1000 film
all’anno, incassa annualmente 2,75 miliardi di dollari, ed è ormai la terza industria
cinematografica mondiale (UNCTAD, 2008, p. 5). Tipicamente, i film di Nollywood sono
realizzati pensando al mercato interno nigeriano e sono prodotti nelle più diffuse fra le 250
lingue tribali della Nigeria e in inglese (il 65 per cento del mercato d’esportazione). Il
successo dell’industria è nato grazie a un pool di talenti creativi e a un format produttivo a
basso costo che non necessita di grandi disponibilità finanziarie da parte di chi inizia
l’attività. L’economicità dei costi di produzione offre alti utili sul capitale investito. Questi
film sono di norma girati su video in un arco di due settimane e poi distribuiti su video
cassette vendute in tutto il paese (Marston et al., 2007). Nollywood è un esempio di
industria che ha prosperato sviluppando un mercato principalmente nazionale basato su un
format mediatico che non è immediatamente esportabile all’estero. Ma il successo dei film
di Nollywood ha richiamato l’interesse delle conglomerate multinazionali. Nel 2007, Time
Warner e Comcast hanno formato una partnership con IAD per distribuire i film di
Nollywood. Inoltre, membri del governo nigeriano e dell’industria cinematografica
corteggiano attivamente gli investitori di Hollywood. Nel 2006, esponenti dei media e
funzionari governativi hanno invitato a Los Angeles membri della comunità del cinema da
tutti gli Stati Uniti per «The Nollywood Foundation Convention 2006: African Cinema
and Beyond» allo scopo di richiamare una maggiore attenzione da parte del pubblico e
degli investitori internazionali. Così, anche se si tratta di industrie mediatiche e di
operatori che hanno avuto successo indipendentemente dal nucleo delle reti dei media
globali, queste industrie stanno cominciando a stringere legami più stretti con la rete
globale per aumentare gli utili e ampliare la quota di audience.
Passare da una rete all’altra
Le reti mediatiche non esistono nel vuoto. Il loro successo dipende dalla capacità di
attivare efficacemente connessioni con altre reti critiche come quelle della finanza, della
tecnologia, dell’industria culturale, dell’industria pubblicitaria, dei fornitori di contenuto,
delle agenzie di regolamentazione e degli ambienti politici in generale. Il business
mediatico si connette con altre reti mediante molteplici meccanismi. Tra questi,
l’affiliazione incrociata di amministratori e dirigenti è forse il meccanismo più facile da
documentare. La tabella A2.1 in Appendice offre una panoramica delle affiliazioni a
livello globale di dirigenti chiave e di membri dei consigli di amministrazione delle
società multimediali e dei giganti di Internet.
Reti finanziarie
L’intreccio dei consigli di amministrazione e delle direzioni è solo una delle componenti
di queste connessioni. Il consolidamento e l’espansione della rete mediatica globale
dipende anche da numerose altre connessioni con reti non mediatiche, che a loro volta
attivano anch’esse le loro connessioni con le organizzazioni dei media. Così, la
connessione alle reti finanziarie è una componente essenziale delle reti dell’industria dei
media. La tabella A2.1 in Appendice mostra le connessioni personali tra le reti finanziarie
e le reti del business mediatico. I consigli di amministrazione delle multinazionali dei
media sono pieni di individui che siedono come amministratori nei consigli di altre grandi
multinazionali non mediatiche, banche d’investimento e private equity firms, e/o rivestono
posizioni importanti in organizzazioni come il NASDAQ e la Borsa di Wall Street. Queste
interconnessioni non sono prive di conseguenze. Nel suo proxy statement del 2007, per
esempio, Time Warner riferiva di aver condotto transazioni con un numero significativo di
società cui erano affiliati anche membri del proprio consiglio di amministrazione. Anche
se il ruolo specifico di ciascun membro del consiglio nel favorire queste transazioni è
difficile da documentare, è chiaro che questa interconnessione di amministratori non è
priva di conseguenze.
I business mediatici e i relativi settori di attività sono una componente significativa
delle reti del capitale finanziario. Nel 2007, un quinto delle maggiori aziende del mondo in
termini di capitalizzazione di mercato secondo la classifica di The Financial Times erano
società di media, Internet o telecomunicazioni 11. La produzione di hardware e software
per sostenere la distribuzione e il consumo dei prodotti mediatici è tra le maggiori
industrie del mondo. Anche se la stampa popolare abitualmente si concentra sulla
leadership di queste multinazionali mediatiche (per esempio Rupert Murdoch come CEO
della News Corporation e Sumner Redstone come proprietario di maggioranza di CBS e
Viacom), anche un certo numero di organizzazioni non mediatiche detiene significative
partecipazioni in queste aziende (per una lista dei maggiori investitori istituzionali in
queste attività vedi la tabella A2.2 in Appendice). AXA, una compagnia di assicurazioni
francese, per esempio, detiene una quota significativa sia in Yahoo! (0,8 per cento) sia in
Time Warner (5,79 per cento), e Fidelity ha un’importante partecipazione in Google e in
News Corporation.
Tra il 2002 e il 2007 le organizzazioni mediatiche sono state sostenute da un
significativo afflusso di investimenti da ditte di private equity e venture capital per
finanziare le loro fusioni e acquisizioni. Nel solo 2007 i fondi di private equity hanno
investito 50 miliardi di dollari in proprietà mediatiche (Malone, 2007). Così, non
sorprende che le direzioni delle società mediatiche globali siano piene di individui con
strette connessioni con i fondi di private equity come la Bank of America (che gestisce un
fondo di investimento da 2 miliardi di dollari), Highpoint Capital Management, e
Templeton Emerging Markets Investments.
I business mediatici costituiscono un’attrattiva particolarmente allettante per gli
investitori privati perché in linea di massima richiedono un basso immobilizzo di capitale
e generano alti utili. Questi investitori di norma cercano di massimizzare il rendimento
sugli investimenti 12, ma non svolgono alcuna funzione nelle operazioni giornaliere dei
loro investimenti mediatici. L’intervento di questi investitori privati in fusioni e
acquisizioni di media può però avere un ruolo cruciale nel loro successo o fallimento. La
riuscita offerta della Sony per la Metro-Goldwyn-Mayer nel 2004, per esempio, è stata
finanziata dalla Providence Equity Partners e dal Texas Pacific Group, mentre l’offerta del
Grupo Televisa per il canale USA in spagnolo Univision è fallita quando è mancato
l’appoggio di due società di private equity, Blackstone Group e Kohlberg Kravis Roberts.
Reciprocamente, gli attori di potere appartenenti all’élite dell’intrattenimento globale
partecipano alle iniziative delle private equity firm e del capitale di rischio che investono
in attività sia mediatiche sia non relative ai media. Per gli investimenti, Bill Gates usa una
private equity firm personale, la Cascade Investments. Questa società ha partecipazioni in
Gay.com, Planet Out, Groupo Televisa, e ha partecipato alla fallita scalata della Univision
nel 2007. Il suo portafoglio di 4 miliardi di dollari comprende molte imprese non
mediatiche e di tecnologia, come la Canadian National Railway, la Bekshire Hathaway e i
Six Flags Amusement Parks (United States SEC, File 28-05149). Nel 2006 la Cascade
Investments ha partecipato anche a una joint venture con Kingdom Holdings per
l’acquisto della catena di alberghi Four Seasons. E nell’aprile 2007, per ampliare le sue
proprietà, Bertelsmann ha dirottato il 10 per cento del budget destinato alle acquisizioni in
un private equity group da 1 miliardo di dollari messo insieme a Citigroup Privare Equity
e Morgan Stanley Principal Investment.
L’importanza dell’accesso al capitale privato non è esclusiva delle Magnifiche Sette.
Imprese come Blackstone, Cisco e 3i hanno investito pesantemente nelle produzioni
cinematografiche di Bollywood. Inoltre, società indiane come l’Indian Film Company e
altre corporation hanno raccolto liquidità sul British Alternative Investment Market (AIM)
per finanziare propri progetti. Per fare un altro esempio, il ramo del capitale di rischio
dell’Abu Dhabi Group con sede negli Emirati Arabi Uniti ha fatto un importante
investimento nel gruppo Arvada Middle East Sales di Bertelsmann per mettere in piedi un
business dell’intrattenimento digitale a livello regionale.
L’industria della pubblicità
L’industria della pubblicità è un’altra rete decisiva che si connette con le reti del business
mediatico. Le società mediatiche dipendono dalla propria capacità di connettersi
all’industria pubblicitaria globale. Nel solo 2007, le grandi aziende (comprese quelle
governative) hanno speso 466 miliardi di dollari in pubblicità (US Optomedia, riportato in
Future of Media Report 2007 [Future Exploration Network, 2007]) 13. L’industria della
pubblicità comprende oltre alle agenzie pubblicitarie anche servizi di graphic design, di
display advertising e rappresentanti dei media (IBIS, 2008). L’accesso alla rete
pubblicitaria può determinare il successo o il fallimento di un’organizzazione mediatica.
Non è un caso che un gran numero delle affiliazioni che compaiono nella tabella A2.1 in
Appendice siano corporation collocate tra i maggiori acquirenti di spazio pubblicitario
(queste organizzazioni sono presentate in corsivo). Anche l’industria cinematografica, che
storicamente si basava sugli incassi al botteghino, dipende sempre di più dai prodotti di
consumo tiein e dalle promozioni incrociate (Hesmondhalgh, 2007, p. 196). Questo
processo è ulteriormente complicato dal fatto che le conglomerate multimediali sono tra i
maggiori acquirenti mondiali di spazi pubblicitari. Time Warner, Disney, GF (azienda
madre di NBC), News Corporation, Viacom e Microsoft sono tra i primi 100 compratori di
pubblicità a livello globale. IBIS (2008) calcola che i media di intrattenimento sono la
terza maggiore base di domanda per l’industria della pubblicità, costituendo il 16 per
cento del fatturato totale del settore.
La diversificazione delle reti mediatiche condiziona i mutamenti nella spesa
pubblicitaria, e viceversa. Le multinazionali sono state in competizione per entrare nel
mercato dei media cinesi, perché la Cina è uno dei mercati pubblicitari che sta crescendo
più rapidamente, stimato in un valore di 14 miliardi di dollari per il 2007 (Gale, 2008).
Reciprocamente, gli inserzionisti sono attirati dal mercato cinese proprio perché
attualmente qui è disponibile un maggior numero di meccanismi di erogazione.
L’industria pubblicitaria è diventata anche sempre più concentrata. Le agenzie più
importanti sono in maggioranza di proprietà di quattro grandi holding mediatiche: WPP
Group, Interpublic Group of Companies, Publicis Groupe, e Omnicom Group (IBIS,
2008). Oltre a possedere la maggioranza delle agenzie di pubblicità e di marketing del
mondo, questi gruppi hanno anche diversificato i loro investimenti acquistando tecnologie
di distribuzione su Internet che attraggono gli inserzionisti dell’industria dei media e
dell’intrattenimento. Nel 2007, il gruppo WPP, per esempio, ha acquistato 24/7
RealMedia, una società di marketing specializzata in motori di ricerca; Schematic,
un’agenzia pubblicitaria interattiva sul web; e BlastRadius, una società specializzata in
pubblicità sui social network. Le reti mediatiche forniscono così piattaforme su cui altre
corporation promuovono i loro interessi commerciali, veicoli per la pubblicità, e fonti
cruciali di clienti per le vendite di spazi pubblicitari.
Internet, reti di comunicazione wireless e reti mediatiche
Internet e le reti wireless hanno fornito alle conglomerate dei media nuovi mercati per la
pubblicità, ma sono anche spazi aspramente contesi. All’ingresso degli attori mediatici
globali in Internet è corrisposto lo sforzo di rimercificare media e informazioni che
affluiscono dalla cultura della convergenza. Inoltre, YouTube, Facebook, MySpace e altre
simili proprietà online stanno probabilmente emergendo come punti critici di connessione
tra reti mediatiche, reti autonome di autocomunicazione di massa, interessi commerciali
(inserzionisti) e attori politici (che vorrebbero filtrare o introdurre contenuti su tutte queste
reti).
Nel 2008 Google era la più grande società mediatica del mondo per valore azionario,
ma aveva un utile annuo molto minore di quelli degli altri giganti della multimedialità. Il
raggio globale di Google, Microsoft, Yahoo! e delle loro numerose partnership con società
regionali mediatiche e di Internet, non permette di considerare separatamente i giganti
globali di Internet. Inoltre, risulta che le loro iniziative stanno sempre di più fissando
l’agenda di altri giganti multimediali che dispongono di minori proprietà online. Ora che
Google possiede YouTube, Yahoo! possiede Xanga e Microsoft ha una partecipazione in
Facebook, queste imprese controllano nodi critici tra la sfera mediatica e la sfera online.
Tutti i maggiori attori stanno cercando di capire in che modo riportare nell’alveo
commerciale l’autocomunicazione di massa autonoma basata su Internet. Stanno facendo
esperimenti con siti che vivono di pubblicità, con siti a pagamento, con portali di video
streaming gratuiti, e con portali a pagamento.
Con il crescere della quantità dei prodotti mediatici che vengono distribuiti e consumati
online e si intrecciano con il social networking e con altri contenuti online generati dagli
utenti, il comportamento del singolo utente ha finito per svolgere un ruolo più centrale
quale elemento trainante della pubblicità. I motori di ricerca sono ormai configurati in
modo da introdurre una tacita, benché non necessariamente consapevole, partecipazione
dell’utente finale. Gli osservatori mettono in evidenza la crescente importante della
«googlarchia», la collocazione cioè nella lista dei risultati di una ricerca online (Hindman
et al., 2003). Per determinare l’ordine dei risultati della ricerca, Google, Yahoo! e altri siti
web usano una combinazione di rilevanza delle parole chiave, popolarità dei termini di
ricerca, link ad altri siti, e comportamento degli utenti finali. Più sono gli utenti che
seguono un determinato link, più la posizione di questa fonte sale nella googlarchia. In
questo modo gli utenti dei motori di ricerca consumano informazioni e
contemporaneamente contribuiscono a determinare l’accessibilità e il predominio di quella
fonte di informazioni per altri utenti nella sfera di Internet. Questo scatena un effetto
domino. Ci sono tutte le probabilità che gli utenti clicchino su uno dei link presenti nelle
prime pagine dei risultati. La rilevanza quindi genera rilevanza. Per esempio, chi cerca
argomenti riguardanti l’Africa fa scarso uso di fonti africane in quanto queste non si
trovano nella prima schermata di risultati. Solo gli utenti più sofisticati possono
raggiungere fonti a cui i criteri programmati da Google non assegnano una collocazione
alta.
Partnership strategiche tra aziende mediatiche e Yahoo!, Google, Microsoft e molti dei
più diffusi motori di ricerca stanno tentando di agganciare il comportamento degli utenti
per massimizzare gli utili pubblicitari. Nel 2007, per esempio, News Corporation ha
firmato un contratto da 900 milioni di dollari con Google per fornire search advertising
mirata per le sue proprietà in Internet.
Le tecnologie del Web 2.0 hanno messo i consumatori in grado di produrre e distribuire
i propri contenuti. Il successo contagioso di queste tecnologie ha spinto organizzazioni di
media a mettere le mani sul potere produttivo dei consumatori tradizionali. Quasi ognuna
delle maggiori organizzazioni di informazioni offre ai visitatori dei loro siti l’opportunità
di caricare contenuti che, se abbastanza interessanti, saranno mandati online, e cresce il
numero dei programmi televisivi che presentano contenuti generati dagli utenti (per
esempio iReport della CNN e Web Junk 2.0 di VHI). Analogamente i giornali ora citano e
utilizzano membri della blogosfera come fonti di notizie di punta, politiche e sociali.
Questa dissoluzione di confini ha facilitato l’instaurarsi di quello che Thomas McPhail
(2006) definisce un «paradigma del caos» nella comunicazione internazionale.
Reti di offerta e network multimediali
Le reti di fornitori sono fondamentali per l’attività delle reti multimediali. Queste
comprendono, tra l’altro, le agenzie di stampa, le agenzie di talenti e le reti lavorative. La
corporatizzazione dei media ha incoraggiato l’introduzione di misure per ridurre i costi
quali la chiusura degli uffici regionali e internazionali e lo snellimento delle procedure
giornalistiche. Agenzie di stampa come Reuters, Bloomberg, Associated Press e World
Television News diventano così fornitori fondamentali di notizie per gran parte delle
attività mediatiche in tutto il mondo (Klinenberg, 2005). Wu (2005), per esempio,
evidenzia come le agenzie di stampa siano elemento determinante per la copertura
internazionale di CNN e del New York Times.
Poiché l’utilità delle agenzie di stampa è valutata in base alla globalità del loro raggio
d’azione, il settore è nelle mani di un piccolo gruppo di operatori storicamente consolidati:
Associated Press, Getty Images, Bloomberg, Dow Jones, Reuters e Agence France Press
controllano il 70 per cento del mercato globale delle notizie (IBIS, 2007b, p. 17). Dal
2000, questi nuovi consorzi hanno ampliato la loro presenza internazionale per rispondere
alla accresciuta domanda dei loro prodotti. La convergenza digitale ha espanso la
domanda del loro contenuto collettivo mentre i giornali cercano di mantenere ciascuno
una sua versione online dinamica e continuamente aggiornata. I margini di profitto delle
agenzie di stampa seguitano a crescere. Getty Images, per esempio, ha raccolto un
fatturato di 484,8 milioni di dollari nel 2000, raddoppiandolo quasi nel 2006 (807,3
milioni; IBIS, 2007, p. 21). Inoltre, televisione, riviste e radio stanno facendo un uso
sempre più intenso di servizi di informazione digitali (IBIS, 2007b, p. 28). Queste
organizzazioni stanno diversificando i loro contenuti con immagini e video per provvedere
alle esigenze di queste piattaforme.
La connessione con autori, attori, artisti e altri professionisti creativi è anch’essa
essenziale per il successo del business mediatico. Nei soli Stati Uniti, la rete delle agenzie
per artisti, atleti e intrattenitori rappresenta un’industria da 6 miliardi di dollari l’anno
(IBIS, 2007a). Le perdite finanziarie provocate dagli scioperi proclamati nel 2007-2008
dalla Writers Guild of America (WGA) ha mostrato quanto siano importanti queste reti per
il successo complessivo dei business dei media. Lo sciopero ha bloccato la produzione di
tutti i maggiori programmi di fiction televisiva e ha portato alla cancellazione di numerosi
eventi in diretta. Non meno importante è la capacità di influenzare le reti che producono e
alimentano l’infrastruttura fisica della produzione e della distribuzione mediatica. Nel
2006 la produzione di apparecchiature per trasmissioni radiofoniche e televisive, per il
solo mercato USA, ha toccato un fatturato annuo di 38 miliardi di dollari.
Oltre a quelle citate qui, esistono numerose altre reti che hanno una stretta connessione
con l’industria mediatica. Per esempio, come sosterrò più avanti, la capacità di connettersi
con gli attori politici che hanno influenza sulla regolamentazione delle reti, dei media e
delle telecomunicazioni è un fattore determinante perché le aziende mediatiche possano
espandersi e cogliere economie di scala e di sinergia. Così, lo sviluppo e la prosperità delle
reti mediatiche globali dipendono non solo dalla loro capacità di configurare le reti interne
e di espandere il proprio mercato e le reti dei fornitori, ma anche dalla capacità di istituire
commutatori che assicurino la loro connessione a reti cardine in altre aree dell’economia,
della politica e della società in senso lato. La configurazione di vecchie e nuove imprese
mediatiche e società di comunicazione dipende in ultima analisi dalla politica delle
politiche di regolamentazione.
La politica delle politiche di regolamentazione
La trasformazione tecnologica e culturale della comunicazione nella società è stata
incanalata e modellata da strategie di business che hanno portato alla formazione di un
sistema di business multimediale globalmente retificato, secondo l’analisi che abbiamo
presentato nella sezione precedente. Il processo di formazione di questo sistema di
business, però, è stato reso possibile e condizionato dall’evoluzione delle politiche di
regolamentazione in tutto il mondo. In effetti, la comunicazione nella società è una pratica
regolata da istituzioni politiche in ogni paese a causa del ruolo essenziale che essa svolge
sia nell’infrastruttura sia nella cultura della società. Nell’evoluzione della comunicazione,
non esiste una necessità tecnologica o una determinazione spinta dalla domanda. Mentre la
rivoluzione nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è una componente
fondamentale della trasformazione in corso, le sue conseguenze concrete nell’ambito della
comunicazione dipendono da decisioni politiche che risultano dai dibattiti e dai conflitti
tra gruppi di interessi commerciali, sociali e politici che cercano di fissare il regime
normativo all’interno del quale le corporation e gli individui operano. Per esempio, Wu
(2007), nella sua analisi delle strategie degli operatori della comunicazione wireless negli
Stati Uniti, ha mostrato come le strategie di integrazione verticale, che nelle intenzioni
avrebbero dovuto mantenere uno stretto controllo sulle loro reti, in realtà ostacolavano
l’innovazione tecnologica, riducevano la gamma delle applicazioni, e alla fin fine
limitavano l’espansione delle reti, indebolendo così la capacità di aggiungere valore alle
reti. Gli interessi del business, non la tecnologia o il servizio pubblico, spesso sono gli
attori caratterizzanti nello spiegamento delle reti di comunicazione. Non è una regola
ferrea. Dipende tutto dall’interazione tra attori sociali che sta alla base del processo
decisionale riguardo alle linee politiche.
Dalla metà degli anni Ottanta al primo decennio del XXI secolo si è assistito a
movimenti tettonici nella normativa sulla comunicazione, sia pure con diversi
orientamenti ed enfasi in relazione alla cultura e alla politica di ciascun paese. Ma, nel
complesso, la tendenza dominante è andata in direzione delle politiche di liberalizzazione,
privatizzazione e deregulation dei settori radiotelevisivo e delle telecomunicazioni.
È utile differenziare tra quattro principali campi di regolamentazione della
comunicazione: le trasmissioni radiotelevisive (broadcasting), la stampa cartacea, Internet
e le reti di telecomunicazione. Tra i quattro settori esiste un rapporto di reciprocità, e la
loro convergenza ha dato vita al sistema di comunicazione digitale. D’altra parte, poiché le
agenzie di regolamentazione hanno una loro storia pregressa, le linee politiche si sono
sviluppate in maniera differente in ciascuno di questi quattro ambiti. Inoltre, vi sono
almeno tre diverse aree di regolamentazione che sono trasversali ai quattro ambiti citati
sopra, e cioè: regolamentazione del contenuto, compresa l’imposizione dei diritti di
proprietà intellettuale; regolamentazione della proprietà; e regolamentazione del servizio
per operatori ed emittenti (per esempio il servizio universale di telefonia, l’accesso non
discriminatorio alle reti dei gestori, e così via).
Vediamo che la faccenda è ulteriormente complicata se adottiamo una prospettiva
globale perché il regolatore è un attore plurale, in quanto differenti istituzioni assumono
specifiche responsabilità in ciascuno di questi quattro ambiti e di queste tre aree. Persino
negli Stati Uniti, dove una authority presumibilmente indipendente come la Federal
Communication Commission (FCC) ha responsabilità tanto per il broadcasting quanto per
le telecomunicazioni (a differenza, per esempio, di quanto accade nella maggioranza dei
paesi europei), la governance su Internet era originariamente sotto la giurisdizione del
Dipartimento della Difesa, ed è oggi responsabilità del Dipartimento del Commercio; la
regolamentazione della proprietà delle società mediatiche e di Internet ricade parzialmente
sotto la legislazione antitrust di competenza del Dipartimento di Giustizia; e la
sorveglianza dell’attività è condotta dalla Homeland Security Agency, mentre il Congresso
cerca di legiferare su una varietà di temi (come il fallito tentativo di imporre la censura in
Internet con il Communication Decency Act del 1996) e i tribunali intervengono in ultima
istanza per risolvere il crescente numero di conflitti derivanti dall’applicazione delle linee
politiche sulla comunicazione. A rendere la questione ancora più complessa, in Europa la
Commissione Europea ha giurisdizione sulle telecomunicazioni nazionali e le imprese
mediatiche, e la governance di Internet si ritiene debba essere globale, dal momento che
Internet è una rete globale di reti di computer.
Un’analisi di questo complesso insieme di istituzioni, politiche e pratiche normative
travalica i limiti di questo libro, e in effetti non è necessaria perché esistono diversi
eccellenti studi sull’argomento (Price, 2002; Wilson, 2004; Goldsmith e Wu, 2006;
International Journal of Communication, 2007; Klinenberg, 2007; Rice, 2008; Terzis,
2008; Cowbey e Aronson, 2009). Ma è il caso di puntualizzare il processo normativo e di
regolamentazione che, pervadendo le pratiche comunicative odierne, dà forma all’attuale
sistema della comunicazione digitale multimodale. Userò gli Stati Uniti come campione
per la mia analisi prima di ampliare il ragionamento in riferimento ad altri contesti.
L’evoluzione delle politiche di regolamentazione negli Stati Uniti: le telecomunicazioni, la
proprietà intellettuale e Internet
Negli Stati Uniti, si sono avuti tre momenti cardine nell’evoluzione della deregulation
regolamentata sulle comunicazioni nell’età digitale. Il primo è stato nel 1984 con lo
smembramento del monopolio di AT&T nelle telecomunicazioni, che ha aperto la porta alla
concorrenza manovrata nei settori della comunicazione, preservando al tempo stesso i
monopoli locali per gli operatori via cavo. Di conseguenza, le cosiddette «Baby Bells»,
originariamente installate in diversi mercati regionali, sono diventate potenti attori
nazionali e globali dediti a un’intensa attività di lobby presso il Congresso e l’FCC al fine
di affermare il proprio controllo sull’«ultimo miglio» (oggi ribattezzato «primo miglio» da
corporation come Verizon) in accesa concorrenza con le compagnie via cavo, prima che la
regolamentazione permettesse le partnership tra i due settori. La diffusione relativamente
lenta della banda larga negli Stati Uniti è dipesa in parte da questo originario conflitto tra
compagnie via cavo e operatori telefonici, che ha portato a fallimenti
dell’interconnessione a livello nazionale e locale.
La seconda misura legislativa chiave è stato il Telecommunications Act del 1996, che
ha drasticamente ridotto le restrizioni sulla concentrazione proprietaria nelle industrie
mediatiche. Come diretta conseguenza di questa legge, si è assistito a una corsa alle
fusioni societarie, con la formazione di oligopoli multimediali, in particolare nelle
maggiori aree metropolitane, come abbiamo documentato nella sezione precedente di
questo capitolo. Questa concentrazione di proprietà ha toccato televisione, radio e stampa,
anche se in quest’ultimo caso il processo di concentrazione precede l’Act del 1996. Per
esempio, nel 1945, i quotidiani americani erano posseduti privatamente per l’80 per cento,
spesso da famiglie. Nel 2007 più dell’80 per cento dei quotidiani erano di proprietà di
corporation, nella maggior parte sussidiarie di grandi gruppi multimediali (Klinenberg,
2007, p. 31). Inoltre, la legge del 1996 autorizzava fusioni e alleanze tra società di diversi
segmenti dell’industria (per esempio, tra operatori di telecomunicazioni e società
mediatiche, comprese le società di Internet), aprendo così la strada al sistema di
comunicazione commerciale interconnesso che è emerso all’inizio del XXI secolo. L’Act
del 1996 era importante anche perché ribadiva l’obbligo degli operatori di permettere la
condivisione della rete a pari condizioni per tutti gli utenti (la cosiddetta politica dello
spacchettamento). Questo limitava la capacità delle nuove megacorporation risultanti dalle
fusioni autorizzate ad appropriarsi a loro vantaggio della rivoluzione tecnologica.
In termini di contenuto dei media, l’FCC ha tradizionalmente mantenuto un basso
profilo per evitare di interferire con il principio della libertà di espressione garantito dal
Primo Emendamento, anche se invitava alla discrezione per proteggere i bambini da
programmi dannosi e per limitare la trasmissione di pornografia. Il Congresso e il
governo, però, sono diventati molto più agguerriti in fatto di controllo dei contenuti di
Internet. La motivazione chiave del Communication Decency Act del 1996 era la
prevenzione della pedopornografia online. Ma dopo che i tribunali hanno respinto le
disposizioni della legge relative al controllo della libera comunicazione in Internet, i
tentativi di censura sono andati affievolendosi fino al 2001, quando la minaccia del
terrorismo ha agevolato l’emanazione di nuove norme legislative che autorizzavano la
sorveglianza governativa di Internet e il controllo della diffusione di determinati tipi di
informazioni. Questo proposito si è rivelato praticamente impossibile da realizzare, come
mostra la proliferazione dei proclami di Bin Laden e la comparsa in rete di materiale di
altri gruppi terroristi.
Quella che è diventata la questione più importante in termini di controllo dei contenuti
in Internet è stata l’imposizione di leggi sul copyright, tecnologicamente obsolete, sul
materiale digitalizzato circolante nel web, in particolare tramite le reti p2p. Sotto le
incessanti pressioni dell’industria mediatica e culturale, il Congresso ha varato una
legislazione che estende ed espande la protezione del copyright, e i tribunali sono stati
usati come una barriera contro la cultura della condivisione e del remixing che era fiorita
in Internet. Anzi, il Digital Millennium Copyright Act del 1998 rappresentava una seria
minaccia alla cultura del remix che costituisce il cuore della creatività nell’età digitale.
Nonostante il suo effetto intimidatorio sugli utenti della rete, questo arsenale legislativo
non è riuscito a prevenire l’insurrezione di massa degli utenti/produttori di contenuti (a
decine di milioni) contro quello che era percepito come il sequestro della libera cultura
digitale da parte degli oligopoli mediatici (Lessing, 2004; Benkler, 2006; Gillespie, 2007).
Chiamando al soccorso la tecnologia, l’industria dell’intrattenimento ha sviluppato un
nuovo sistema di «management dei diritti digitali» (Digital Rights Management, DRM)
per impedire la riproduzione non autorizzata di materiale. Ma il DRM limita soltanto una
minima parte delle presunte infrazioni perché non impedisce la crescita delle reti p2p, né
blocca il posting di materiale remixato su YouTube e altri siti del Web 2.0 con milioni di
utenti e produttori di contenuti.
L’improvvisata evoluzione della regolamentazione e della gestione di Internet
rispecchia l’accidentale maturazione di Internet in quanto «commons»; bene comune
comunicazionale della società in rete (Abbate, 1999; Castells, 2001; Movius, di prossima
pubblicazione). Al suo apparire nel 1969, ARPANET, il predecessore di Internet, era un
progetto sperimentale di collegamento tra computer che aveva origine nel DARPA,
l’agenzia di ricerca del Dipartimento della Difesa USA, ed era gestito quasi interamente
dagli scienziati e i tecnici che l’avevano creato. Nel 1970 il Dipartimento della Difesa offrì
di trasferirne l’uso e la proprietà ad AT&T. Dopo averne soppesato l’opportunità per
qualche settimana, AT&T, non riuscendo a individuare alcun interesse commerciale in
ARPANET, declinò l’offerta (Abbate, 1999). Grazie a questa monumentale miopia di
AT&T, e all’incapacità di Microsoft di cogliere l’importanza di Internet, il mondo è
diventato oggi quello che è. E c’è chi parla di determinismo tecnologico.
Nel 1984, mentre la rete di Internet si sviluppava e cominciava a essere utilizzata in
tutto il mondo, DARPA e i più eminenti progettisti di Internet, istituirono l’Internet
Activities Board costituito da un certo numero di diverse task force. Una di queste divenne
l’Internet Engineering Task Force (IEFT) creata nel 1986 per gestire lo sviluppo degli
standard tecnici di Internet. Le decisioni dell’IETF venivano prese su base consensuale e
coinvolgevano una ampia varietà di individui e di istituzioni. In linea di massima Internet
emergeva in un vuoto legislativo, con scarsa supervisione da parte delle agenzie di
regolamentazione, FCC compresa. Le agenzie che venivano create si sviluppavano su
punti ad hoc per risolvere le necessità degli utenti della rete. La decisione più cruciale fu
quella di istituire un sistema coerente per assegnare i domini e gli indirizzi IP, un sistema
che organizzasse il traffico in Internet in modo che i pacchetti raggiungessero gli indirizzi
designati. Fu essenzialmente un’operazione in solitario, intrapresa alla metà degli anni
Ottanta da Jon Postel, professore di ingegneria alla University of Southern California, e
uno dei primi co-progettisti di Internet. Questi formulò il sistema sotto contratto con
DARPA e in connessione con lo Stanford Research Institute (SRI, non affiliato alla
Stanford University). L’organizzazione risultante divenne nota collettivamente come
l’Internet Assigned Names Authority (IANA). Postel amministrava gli stanziamenti che il
governo USA assegnava alla IANA per mantenere le sue liste di numeri di riferimento
univoci. Sebbene i root server della IANA fossero mandati avanti su base volontaria da
tredici diverse organizzazioni, era Postel a prendere, dal suo ufficio all’USC, la maggior
parte delle decisioni tecniche. Che una sola persona, senza profitto finanziario per se
stessa, e senza un diretto controllo da parte di un’autorità superiore, abbia creato il sistema
dei domini di Internet senza contestazioni, grazie alla fiducia riposta in lui dalla comunità
degli utenti, è uno degli eventi più straordinari dell’Età dell’Informazione.
Nel 1992, la National Science Foundation (NSF) aveva assunto la responsabilità del
coordinamento e finanziamento della gestione di Internet, lasciando le piccole componenti
militari della rete sotto la giurisdizione del Dipartimento della Difesa. Nel 1993, la
National Science Foundation appaltò l’amministrazione del Domain Name System (DNS)
alla società privata statunitense Network Solutions, Inc. (NSI), anche se Postel ha
continuato a svolgere un suo ruolo fino al 1998, quando è morto di cancro all’età di 55
anni. Poi, nel 1998, allo scadere del contratto dell’NSI con l’NSF, e senza la presenza di
Postel che agisse come fidato garante dell’assegnazione degli indirizzi IP, sono cresciute le
pressioni per formalizzare la gestione istituzionale di Internet. La controversia che ne è
seguita ha portato la IANA e l’organizzazione autonoma creata dalla prima comunità di
utenti – l’Internet Society (ISOC), presieduta da un altro fidato «padre di Internet», Vin
Cerf – a organizzare l’International Ad Hoc Committee (IAHC) per risolvere questioni di
gestione del DNS. L’invenzione del World Wide Web e la libera diffusione del suo
programma di web server da parte del suo creatore Tim Berners-Lee nel 1990 ha fornito il
fondamento tecnologico per lo sviluppo di un’Internet user-friendly. Diventando Internet
un’opportunità immensamente remunerativa per gli investimenti del business, il 1o luglio
1997 il presidente Clinton diede indicazione al segretario del Commercio di privatizzare il
DNS, in modo da aumentare la concorrenza e facilitare la partecipazione internazionale
alla sua gestione. Il Dipartimento del Commercio USA applicò la direttiva e istituì
l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) nel novembre 1998.
Appena Internet fu riconosciuta come una forma straordinariamente importante di
comunicazione retificata, con un’ampia gamma di potenziali applicazioni, gli appetiti
delle imprese per la sua commercializzazione crebbero in misura esponenziale. Ma la
storia, la cultura e l’architettura di Internet rendevano difficile appropriarsene
privatamente o regolarla esclusivamente a favore dei profitti commerciali. Inoltre,
trattandosi di una rete mondiale, e poiché era precisamente questa una delle maggiori
attrattive per gli utenti come per il business, il Dipartimento del Commercio dovette
cedere parte del controllo a enti di regolamentazione internazionali e alla comunità degli
utenti, cosa che condusse nel 2000 a un evento senza precedenti, l’elezione elettronica del
consiglio di amministrazione dell’ICANN da parte di più di 200.000 utenti di Internet
registrati, un’espressione di partecipazione di base nonostante la mancanza di
rappresentatività di questo elettorato. Una coalizione formata da un’attiva comunità di
utenti, operatori delle libertà civili e tribunali statunitensi, divenne il guardiano
dell’autonomia di Internet, così che gran parte di Internet rimaneva un vasto spazio sociale
di sperimentazione, scambio sociale ed espressione culturale autonoma. Ogni tentativo di
addomesticare o parcellizzare Internet fu contrastato con una tale determinazione che
governi e corporation dovettero imparare a usare Internet a loro vantaggio senza
soffocarne lo sviluppo autonomo. Non solo il genio era uscito dalla bottiglia, ma il
patrimonio genetico del genio rifiutava l’imprigionamento di questa nuova libertà di
comunicazione, e questo per deliberato disegno dei suoi creatori, esemplificato dalla
decisione di Tim Berners-Lee di rilasciare liberamente il software del World Wide Web.
Quando però nel primo decennio del XXI secolo l’espansione della banda larga e la
nascita del Web 2.0 aprirono nuove opportunità di profitto, venne introdotto un nuovo
insieme di politiche di regolamentazione miranti all’appropriazione privata non di Internet
in sé ma dell’infrastruttura reticolare su cui Internet si basa.
Recintare i commons dell’Età dell’Informazione (o almeno provarci)
Il terzo maggior passo verso la creazione di un nuovo ambiente normativo per la
comunicazione negli Stati Uniti si è verificato nel primo decennio del XXI secolo: una
serie di disegni di legge approvati al Congresso e di decisioni adottate dalla Federal
Communications Commission (FCC) che riscrivevano le misure dell’Act del 1996, in tal
modo permettendo alle società di investire in diversi settori e di procedere
all’integrazione verticale tra gestori, manifatturieri e fornitori di contenuti, riducendo la
sorveglianza pubblica sulle pratiche del business (Benkler, 2006; Klinenberg, 2007;
McChesney, 2007; Schiller, 2007). Nel 2004 l’FCC introduceva un criterio chiamato
«flessibilità di spettro», che mirava ad aumentare lo spettro disponibile, in particolare per
le comunicazioni wireless, e ad autorizzare la libera rivendita di parti dello spettro da parte
di aziende che operavano entro frequenze regolate, creando così un mercato per le
frequenze che aumentava il campo di azione delle grandi imprese. L’FCC metteva fine
anche alle norma sullo spacchettamento, liberando così gli operatori Bell dai loro obblighi
di condivisione della rete e permettendo anche agli operatori della televisione via cavo di
introdurre la banda larga nelle loro reti e di vendere servizi sulle loro reti proprietarie.
Questa nuova politica dava ai gestori e agli operatori ampia libertà di manovra su accesso
e prezzi nelle reti di loro proprietà.
Come logica continuazione di questo trasferimento di potere in direzione degli operatori
della rete, l’ultima fase della deregulation statunitense punta al rovesciamento della
tradizionale politica di «neutralità della rete» (net neutrality), ossia la consuetudine per cui
le reti degli operatori delle telecomunicazioni sono considerati infrastrutture a uso
generale, il cui accesso non può essere impedito, né sottoposto a condizioni o a
discriminazioni da parte dell’operatore nei confronti degli utenti 14. La decisione chiave
che ha aperto il dibattito sulla neutralità della rete è stato il Cable Modem Order dell’FCC
del 2002, che dichiarava che il servizio su banda larga non veniva più considerato un
servizio di telecomunicazione (soggetto a regolamentazione) come invece lo era in base al
Telecommunication Act del 1996, bensì un «information service» al di fuori della
competenza del regolatore. La Corte Suprema confermava questa decisione nel 2005,
accendendo così un grosso dibattito tra due schieramenti. Da una parte, utenti Internet,
società innovative dell’high-tech e fornitori di contenuti per Internet, come Google,
Yahoo!, Amazon e e-Bay, che rivendicano il libero accesso alle reti. Dall’altra, gli
operatori delle reti vorrebbero differenziare l’accesso e i prezzi per agevolare il loro
controllo privato sull’infrastruttura della comunicazione.
Questo conflitto è qualcosa di più di una disputa tra diversi settori latori di specifici
interessi. Come scrive Clark (2007, p. 207) «In questo momento, ciò su cui sono in lotta è
il futuro della televisione.» Questo perché la digitalizzazione di tutti i contenuti (i bit sono
bit) spiana la strada al fatto che Internet diventi un vettore per la TV. Per esempio,
Hulu.com è usato da quasi tutte le maggiori conglomerate mediatiche per mettere i loro
contenuti in streaming a disposizione gratuita del pubblico, e Joost.com, un servizio
lanciato nel gennaio 2007, trasmette la sua programmazione televisiva usando tecnologia
peer-to-peer. Internet veicola già un consistente traffico voce (vedi Skype), alterando così
fondamentalmente il modello di entrate sia delle compagnie di broadcasting e sia delle
telecom. Così, benché la liberalizzazione e la deregulation abbiano stimolato lo sviluppo
di Internet nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta (in buona parte perché non
interferivano con lo sviluppo autogestito di Internet), il cambiamento normativo tentato
dall’FCC sotto l’amministrazione Bush nel primo decennio del secolo equivaleva a una ri-
regolamentazione a favore delle aziende di telecomunicazione, via cavo e via etere che
continuavano a opporre resistenza alle sfide che la diffusione della banda larga in Internet,
e dei relativi contenuti e servizi del Web 2.0, poneva al loro modello di business.
Così, mentre l’attenzione del mondo era puntata sulla libertà di espressione su Internet,
la trasformazione dell’infrastruttura della comunicazione in una serie di «aiuole recintate»
gestite da operatori di rete attenti solo agli interessi specifici del loro business, imponeva
restrizioni fondamentali all’espansione della nuova cultura digitale. Le condutture della
Galassia Internet sono in via di privatizzazione e lasciate alla gestione frammentata
esistente. Mentre noi eravamo occupati a proteggere la libera frontiera elettronica
dall’intrusione del Grande Fratello (il governo), le Grandi Sorelle (gli operatori delle reti
maggiori) che si appropriano e gestiscono il traffico della banda larga circolante lungo le
Information Superhighways, sono diventate responsabili del restringimento del libero
spazio virtuale.
L’evoluzione delle politiche di regolamentazione è stato il risultato di strategie di
costruzione del potere attuate tramite l’articolazione di interessi commerciali e politici,
rivestite di discorsi sui portenti della tecnologia e la scelta del consumatore, e sostenute da
modelli economici che hanno il culto della suprema autorità della Mano Invisibile. Mentre
negli anni Novanta c’erano conflitti intra-business tra i partigiani delle Baby Bell (le
compagnie telefoniche nate dallo smembramento di AT&T) e quelli degli operatori via
cavo, quando si è trattato di arrivare alla fondamentale decisione di lasciare che il mercato
(ossia il big business) decidesse la forma della rivoluzione comunicazionale, gran parte
della classe politica ha abbracciato quella strategia. L’Act del 1996, sotto Clinton,
raccoglieva il consenso repubblicano al Congresso, e molte delle misure che consentivano
l’integrazione verticale e gli investimenti incrociati tra settori ha raccolto sostenitori in
entrambi i partiti. Questo perché l’industria delle telecomunicazioni svolge un ruolo di
primo piano nel finanziamento delle campagne elettorali, mentre l’industria
radiotelevisiva è essenziale per facilitare la copertura mediatica dei candidati politici. Le
imprese di una neonata Internet non avevano avuto ancora il tempo di sviluppare influenza
politica e si erano lasciate persuadere dal loro stesso mantra, quello che glorificava la loro
innata superiorità di innovatori tecnologici, per preoccuparsi del futuro normativo. Inoltre,
il pubblico era in larga parte ignaro dell’importanza delle questioni che si andavano
decidendo in assenza di qualsivoglia consultazione o dibattito. La regolamentazione delle
comunicazioni era un campo oscuro riservato ad avvocati, economisti e tecnici
apparentemente senza alcuna relazione con gli interessi della gente comune, tranne che per
la fissazione dei prezzi e nelle denunce di abuso di servizio mosse agli operatori
monopolisti via cavo: problemi che il più delle volte erano attribuiti alle licenze concesse
da governi locali scarsamente informati su ciò che stavano facendo.
Le cose sono cambiate drasticamente con l’inizio del secolo, in parte per l’arroganza di
Michael Powell, il nuovo presidente dell’FCC nominato dal presidente Bush. Uomo delle
forze armate e figlio dell’allora segretario di stato Colin Powell, era (ed è) un
fondamentalista del libero mercato; dopo aver lasciato l’FFC nel 2004 è andato a lavorare
per la Providence Equity Partners, una società di investimenti che gestisce risorse per
quelle stesse aziende di media e di telecomunicazione che Powell aveva l’incarico di
regolamentare. Il presidente Bush gli ha dato il suo appoggio personale perché annullasse
le restrizioni sulla proprietà incrociata dei media e ri-regolamentasse a favore delle grandi
aziende nell’industria delle telecomunicazioni e delle emissioni radiotelevisive. La News
Corporation di Rupert Murdoch è stata tra le maggiori beneficiarie della nuova politica. La
concentrazione mediatica nella televisione, nel cavo, nella radio e nella stampa cartacea
che si è verificata in seguito alla decisione dell’FCC ha scatenato un’ondata di protesta,
mobilitando attivisti progressisti, associazioni civiche, operatori delle libertà civili e
sostenitori del governo locale in America, inclusi potenti gruppi conservatori come la
National Rifle Association. Da questa protesta è emerso un movimento sociale potente e
sfaccettato, che comprendeva organizzazioni quali Free Press, il Center for Digital
Democracy, Media Access Project, Reclaim the Media, Media Alliance, Media-Tank, il
Prometheus Radio Project (che rivendica «low power to the people» alludendo alla radio
indipendente in LP, bassa potenza), e molte altre che sono riuscite efficacemente a
respingere il tentativo dell’FCC di separare i cittadini dalla politica della comunicazione.
Questi gruppi hanno suscitato nel pubblico un livello di interesse insolitamente alto per le
udienze pubbliche dell’FCC. Hanno protestato in Internet, esercitato pressioni sul
Congresso e presentato azioni legali presso i tribunali federali, rendendo la nuova
maggioranza democratica in Congresso più ricettiva alle richieste di un controllo da parte
dei cittadini della comunicazione. Questa vasta mobilitazione si è unita ad altri fattori che
hanno finito per portare alle dimissioni di Powell dall’FCC (Costanza-Chock, 2006;
Klinenberg, 2007; McChesney, 2007; Neuman, comunicazione personale, 2007). Quando
nel 2005-2007, in tema di politica della comunicazione, si è aperto un nuovo dibattito
sulla questione della neutralità della rete, una cittadinanza informata è entrata nell’arena
della politica della comunicazione, sospingendola in primo piano nel dibattito pubblico.
Come dice Robert McChesney, «quello che fu cruciale nel 2003 fu il fatto che per milioni
di americani si accese la luce. Non erano tenuti ad accettare tutti le prerogative dei media
come un dato “immodificabile”. Quello mediatico non era un sistema naturale: era il frutto
di scelte politiche» (2007, p. 159). Comunque, per mettere in prospettiva questa
esperienza di presa di coscienza, è il caso di ricordare un dato che fa riflettere sul potere
dell’industria della comunicazione: anche nella campagna elettorale del 2008, come in
ogni altra campagna precedente, nessun candidato presidenziale di primo piano ha
sottolineato la questione del controllo che la cittadinanza deve avere sui media e le reti di
comunicazione.
Deregolamentare il mondo (ma non all’americana)
A partire dagli anni Ottanta, in tutto il mondo, si è assistito a una generale tendenza alla
liberalizzazione, la privatizzazione e la deregulation del broadcasting e delle
telecomunicazioni, ma a un ritmo più lento che negli Stati Uniti. Comunque, il regime
normativo era, ed è ancora, in larga misura diverso da quello degli Stati Uniti. In effetti,
gli Stati Uniti rappresentano l’eccezione nella storia della regolamentazione della
comunicazione da un punto di vista globale. Questo perché, nel resto del mondo, la
comunicazione è sempre stata considerata troppo importante per essere lasciata nelle mani
del business privato. Nel corso della storia la comunicazione è sempre stata vista come un
ambito critico in cui affermare il ruolo dello stato, a volte a favore dell’interesse pubblico,
a volte come pura espressione di potere, mantenendo gli interessi commerciali sempre al
secondo posto. Inoltre, c’è stata in tutto il mondo una netta separazione tra la
regolamentazione dei media e quella delle telecomunicazioni. Queste ultime erano viste
come un’infrastruttura del servizio pubblico, mentre i primi erano considerati uno
strumento chiave di controllo politico e culturale. Così, in linea di massima, i media erano
regolamentati dalle istituzioni politiche e ideologiche dello stato. Televisione e radio erano
di solito di proprietà statale e gestite dal governo, anche se veniva lasciato un certo
margine a disposizione del mercato privato, tenuto però sempre sotto l’occhio vigile di
aspiranti censori. Viceversa, i giornali e la stampa erano abitualmente affidati alle varie
élite, in modo che queste potessero avere la loro voce nella sfera pubblica, con l’eccezione
di paesi sotto dittature di destra o di sinistra, in cui tutti i media erano sotto il controllo del
partito o del dittatore. Ma anche nei paesi democratici, la stampa non era immune da
condizionamenti politici, così che l’immagine idilliaca di una stampa professionale
indipendente era di norma smentita dall’allineamento politico e ideologico di gran parte
dei media, spesso espressione di affiliazioni religiose, preferenze ideologiche, interessi
commerciali e partiti politici. Nel complesso, la matrice dei media erano gli apparati statali
e ideologici più che il mercato. Ovviamente, il business aveva una sua presenza nei media,
ma le strategie commerciali dovevano operare sotto l’ombrello dei detentori del potere
politico-ideologico.
Questo stato di cose è cambiato in molte parti del mondo a partire dagli anni Ottanta.
All’origine del cambiamento c’è stata l’ondata di politiche di liberalizzazione legata a
nuove strategie economiche nel contesto della globalizzazione, il rapido cambiamento
tecnologico che apriva un nuovo universo di potenzialità comunicative, e la svolta
culturale verso l’individualismo e la libertà di scelta che indeboliva le fondamenta del
conservatorismo ideologico, in particolare nei paesi sviluppati. Il modo in cui questo si è
tradotto in nuove forme di regolamentazione varia da paese a paese. In alcuni dei più
importanti del mondo (Cina, Russia, India), nonostante una crescente presenza del
business, esiste ancora nel XXI secolo un rigido controllo governativo diretto (Cina,
Russia) o indiretto (India) sui media. Ma nella maggioranza dei paesi, il regime normativo
è esercitato con una combinazione di proprietà governativa e licenze governative a gruppi
imprenditoriali che devono seguire regole che limitano il loro potere come gruppi
mediatici pienamente indipendenti. Il metodo consueto di sottomettere il business alla
volontà politica nell’industria mediatica consiste nel distribuire licenze di spettro tra
diverse partnership aziendali relative a una pluralità di orientamenti politici. Così,
chiunque sia al potere ha sempre un certo accesso a qualche gruppo mediatico.
L’integrazione verticale di televisione, radio e stampa facilita la divisione del lavoro nei
media sotto il controllo del sistema politico in senso lato. Inoltre, in tutti i paesi esistono
ancora alcune reti che sono di proprietà del governo e in cui l’indipendenza dei media è
limitata.
Vi sono eccezioni, da un lato e dall’altro, a questo schema generale. Per esempio, la
BBC è salutata in tutto il mondo come modello di azienda pubblica che afferma la propria
libertà dalle ingerenze del governo, anche se alcune azioni del governo Blair hanno
offuscato la sua immagine di indipendeza editoriale pur senza distruggere la reputazione
della BBC come punto di riferimento per i media pubblici in tutto il mondo. La BBC però
doveva competere con i network televisivi e le emittenti satellitari e via cavo che hanno
conquistato una quota consistente della audience, così che la BBC ha perso la sua
posizione dominante. All’altro estremo del mondo mediatico liberalizzato, l’Italia, sotto il
governo di Berlusconi, ha prodotto un modello estremamente peculiare di partnership
pubblico-privato. Il governo italiano possedeva le tre reti RAI, soggette a pesanti pressioni
politiche nonostante l’energica resistenza di giornalisti e produttori. Dall’altra parte,
Berlusconi, un imprenditore immobiliare, con l’appoggio del primo ministro socialista
Bettino Craxi, usò una scappatoia presente nella Costituzione italiana per mettere in piedi
tre network privati nazionali basati sulle stazioni televisive locali di cui era proprietario.
Berlusconi usò il potere mediatico di queste reti per essere eletto primo ministro nel 1994,
e poi per essere rieletto nel 2001. Così, per gran parte del primo decennio di questo secolo,
tutte le reti televisive nazionali, pubbliche e private, sono state sotto il suo controllo, con
evidenti conseguenze per l’impoverimento della diversità culturale e politica dell’Italia
(Bosetti, 2007). La Francia ha privatizzato gran parte della televisione pubblica (TF1 è
stata venduta a una azienda edilizia), mantenendo il controllo su alcuni canali, come TV7,
e in parte dedicando un singolo network pubblico (Antenne 2) alla programmazione
culturale a beneficio degli intellettuali francesi.
Germania, Portogallo e Spagna hanno seguito un sentiero analogo. La Spagna, durante
il governo socialista di Felipe González negli anni Ottanta, ha mantenuto due reti
nazionali sotto il controllo del governo e ha concesso licenze a due network televisivi
privati e un canale satellitare a tre consorzi di investitori privati, convenientemente
distribuiti tra diversi gruppi aziendali con la condizione che nessun azionista potesse
possedere più del 25 per cento dei network. Nel 1996, il successore di González, il primo
ministro conservatore José María Aznar, ha seguito il modello di Berlusconi usando il suo
controllo su Telefonica, la multinazionale spagnola delle telecomunicazioni, per acquisire
uno dei canali privati ed esercitare pressioni sull’altro, monopolizzando in pratica gran
parte delle reti televisive durante il periodo 1996-2004. Nel 2006 il nuovo governo
socialista ha assegnato altre due reti televisive a gruppi di investitori simpatizzanti e ha
accelerato la transizione alla televisione digitale, fatto che ha liberato ulteriore spettro
lasciando spazio a un ventaglio più ampio di aziende mediatiche nazionali e internazionali
(Campo Vidal, 2008). Comunque, la trasformazione più profonda del sistema mediatico
spagnolo è avvenuto in seguito alla modificazione costituzionale dello stato che, dal 1978,
ha assunto l’assetto di stato semifederale. Le Comunità Autonome spagnole (l’equivalente
dei Länder tedeschi) ottenevano la possibilità di sviluppare proprie reti radiotelevisive
pubbliche entro i confini del loro territorio. Hanno usato questa capacità appieno, con il
risultato che in Catalogna e in altre aree della Spagna le reti televisive regionali catturano
la maggioranza del pubblico, e in Catalogna, nei Paesi Baschi e in Galizia, sono diventate
uno strumento chiave per il consolidamento dell’identità nazionale tramite, tra l’altro, la
preservazione delle proprie lingue (Imma Tubella, 2004).
In breve, la politica normativa più importante in Europa e in gran parte del mondo è
consistita nel graduale, ma limitato, abbandono del controllo dei governi nazionali su
radio e televisione, e indirettamente sulla stampa, a favore di una diversità di gruppi
commerciali privati e di governi regionali. Le aziende mediatiche hanno spesso usato
questa relativa autonomia per agganciarsi alle reti di business globali, accrescendo così la
propria indipendenza dal governo.
La commercializzazione dei media nel mondo ha ricevuto il vasto appoggio della
pubblica opinione perché hanno significato una liberazione (e in molti paesi il processo è
ancora in corso) dalla gabbia delle burocrazie politiche. L’intrattenimento appena
confezionato ha la meglio sulla propaganda somministrata con vecchi film e folclore
nazionale. Questo sentimento di relativa liberazione dalla stretta politica avvenuta
nell’ultimo ventennio può spiegare la pressoché totale assenza di opposizione sociale
contro la politica mediatica in gran parte dei paesi, a eccezione delle rivendicazioni
interessate dei gruppi di business lasciati fuori dal giro delle concessioni. Anzi, quando e
dove si sono avuti movimenti sociali orientati ai media, questi non hanno preso di mira i
business mediatici ma lo stato, per combattere la sua censura. Questo vale in particolare
per la Russia di Putin, dove giornalisti e cittadini stanno lottando contro un regime
mediatico autoritario governato da motivazioni politiche ai più alti livelli dello stato (vedi
capitolo 4).
In quasi tutto il mondo la regolamentazione delle telecomunicazioni è cambiata
drasticamente passando da un regime monopolistico (legale o di fatto) a una politica di
regolamentazione e concorrenza che ha cominciato a prendere piede in Europa nel 1998 e
in Giappone nel 2000 (Rutherford, 2004; EOCD, 2007; Cowhey e Aronson, 2009).
Garanti delle comunicazioni, in teoria indipendenti, sono stati istituiti in molti paesi, e
nell’Unione Europea la Commissione Europea ha assunto il controllo dei regolatori
nazionali. Queste autorità impediscono le pratiche monopolistiche e gli abusi di mercato
nella formazione dei prezzi, sottoponendo le aziende a multe e direttive forzose. Ma i
monopoli originari, anche dopo essere stati privatizzati, hanno impiegato le loro risorse e
connessioni politiche per conservare una posizione dominante nei territori nazionali,
imbarcandosi al tempo stesso in ambiziose politiche di espansione globale e di partnership
strategiche.
La comunicazione wireless è un campo più competitivo perché si tratta di un settore di
recente nascita, e in alcuni paesi, come in Cina, gli operatori privati di wireless sono usati
dal governo per esercitare pressioni sui vecchi operatori di rete fissa (Qiu, 2007).
Comunque, questa politica di concorrenza controllata in Europa, Giappone e Corea del
Sud sembra aver avuto la meglio sulla concorrenza disorganizzata indotta negli USA
dall’FCC con le sue politiche di «liberi tutti». La penetrazione della banda larga è più alta
in nord Europa, in Giappone e in Corea del Sud che negli Stati Uniti, e il suo costo per bit
è inferiore. La regola dello spacchettamento è ancora in vigore in Europa, mantenendo in
piedi, per il momento, il principio della neutralità della rete. Inoltre, l’accordo sugli
standard e gli schemi di prezzo imposto dalla Commissione Europea agli operatori di
telefonia cellulare in Europa ha condotto a una maggiore penetrazione di questo tipo di
comunicazione, a un uso più diffuso e a un servizio di qualità superiore in Europa rispetto
agli Stati Uniti. Il vantaggio competitivo di Europa e Asia in quest’area è stato anche
agevolato dalla qualità della tecnologia di comunicazione wireless e del design
manifatturiero in Europa (in particolare nei paesi del nord) e nell’Asia orientale. In breve,
la regolamentazione nelle reti di telecomunicazione nel mondo in generale ha mantenuto
un grado di controllo governativo sugli operatori maggiore che negli Stati Uniti, dando
vita a forme di concorrenza controllata. Il risultato finale è stato un’espansione della
comunicazione a banda larga e wireless, spianando il terreno a una diffusione globale
dell’infrastruttura dell’età della comunicazione digitale, e in particolare di Internet, nelle
sue nuove incarnazioni del Web 2.0 e del Web 3.0.
La regolamentazione delle libertà: quando il Cappuccetto Rosso di Internet incontra il
lupo cattivo delle multinazionali
Internet è una rete globale, e quindi la sua regolamentazione non poteva essere lasciata al
Dipartimento del Commercio USA, nemmeno nella forma di un consiglio di
amministrazione ICANN eletto dagli utenti della rete. Ma dal momento che non esiste un
governo globale, Internet si è diffusa globalmente arginata solo dai limiti che ciascun
governo nazionale ha potuto imporre all’interno della propria giurisdizione territoriale.
Ma, a meno che non si pensi di staccare la spina a Internet, è difficile controllarne le
capacità di reticolazione perché queste possono sempre essere reindirizzate a un’altra
spina dorsale da qualche altra parte del pianeta. È vero che è possibile bloccare l’accesso a
determinati siti designati, ma non ai triliardi di e-mail e ai milioni di siti web in constante
aggiornamento. Sì, Internet può essere sottoposta a una supervisione e, in effetti è
attivamente controllata da tutti i governi del mondo (Delibert et al., 2008). Ma il più che i
governi possono fare per imporre la loro legislazione è perseguire alcuni sfortunati
colpevoli colti sul fatto, mentre milioni di altri si godono la loro felice navigazione nella
rete. Centinaia di combattenti per la libertà (più qualche truffatore e qualche
pedopornografo) finiscono in galere reali per espiare le loro malefatte virtuali. Ma, mentre
alcuni dei messaggeri vengono puniti, i messaggi continuano a circolare, solcando liberi
l’oceano della comunicazione globale (vedi capitolo 4).
È per questo motivo che l’unico organismo legittimo con responsabilità per la
governance globale, l’ONU, ha affrontato la questione di Internet in due consecutivi
vertici mondiali sull’informazione, uno a Ginevra nel 2003 e l’altro nel 2005 a Tunisi
(capitale di un paese noto per la sua censura su Internet e in cui i giornalisti che hanno
seguito il meeting sono stati arrestati). Nel dicembre 2003, a Ginevra, si discussero diversi
obiettivi, concentrandosi sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a
beneficio della popolazione mondiale. Naturalmente Internet divenne un punto focale in
molte di queste discussioni. La Dichiarazione dei Principi di Ginevra e il Piano d’Azione
di Ginevra furono adottati il 12 dicembre 2003, ma i partecipanti non riuscirono a
concordare una definizione comune di Internet governance. Le discussioni si concentrano
sulla distinzione tra una definizione «ristretta» che toccava solo le funzioni relative a
ICANN (assegnamento e allocazione delle risorse su Internet) e una definizione
«allargata» che avrebbe finito per includere anche il controllo sui contenuti circolanti in
Internet. Come capita abitualmente nei meeting delle Nazioni Unite, di fronte al
disaccordo sul concetto stesso di «governance di Internet», l’ONU ha istituito un Working
Group on Internet Governance (WGIG) il cui obiettivo era trovare una definizione del
termine e fornire l’input per la seconda fase del World Summit, da tenersi a Tunisi nel
novembre 2005. Dopo due anni di duro lavoro portato avanti dai quaranta membri del
gruppo, di cui facevano parte rappresentanti dei governi, del settore privato e della società
civile, il rapporto del WGIG dell’agosto 2005 dava vita alla seguente definizione
operativa:
Globalizzazione Identificazione
Individualismo Consumismo brandizzato Individualismo in rete
Comunalismo Cosmopolismo Multiculturalismo
FIG. 2.6. Rappresentazione schematica del processo comunicativo secondo Umberto Eco. Lo schema superiore
rappresenta il modello classico della comunicazione; lo schema inferiore rappresenta il modello ridefinito da
Eco.
Fonte: Eco (1994, p. 80).
Nel definire il proprio significante nel processo ricettivo del messaggio significato, il
destinatario costruisce il senso del messaggio per la sua propria pratica, lavorando sui
materiali del messaggio inviato ma incorporandoli in un diverso campo semantico di
interpretazione. Questo non equivale a dire che il soggetto comunicativo non sia
influenzato dal contenuto e dal formato del messaggio. Ma la costruzione di significato è
complessa, e dipende da meccanismi di attivazione che combinano svariati livelli di
coinvolgimento nella ricezione del messaggio. Come scrive Russell Neumann nel suo
studio innovativo sul futuro del pubblico di massa:
Proverò a spiegare il significato del processo rappresentato nella figura 2.7. Mittenti e
destinatari sono collettivamente il medesimo soggetto. Specifici individui o organizzazioni
non sono necessariamente in corrispondenza reciproca: un mittente/ricevente potrebbe non
ricevere necessariamente messaggi dal mittente/ricevente a cui ha inviato un messaggio.
Ma prendendo il processo di comunicazione come una rete multidirezionale condivisa,
tutti i mittenti sono destinatari e viceversa. La comunicazione nella nuova cornice
tecnologica è multicanale e multimodale. La multimodalità si riferisce a varie tecnologie
di comunicazione. La multicanalità si riferisce agli assetti organizzativi delle fonti di
comunicazione. Se un messaggio è multimodale, è veicolato attraverso Internet (via fili o
senza), dispositivi wireless, televisione (con le sue diverse tecnologie di trasmissione),
radio, videoregistratori, stampa, libri, e simili. Inoltre, la multimodalità può fondersi in un
particolare processo comunicativo (per esempio, IPTV, trasmissioni televisive interattive,
MMOG, giornali online, e così via). Ciascuna di queste modalità, e i loro composti,
organizza un particolare codice di comunicazione, da identificare specificamente in
ciascun contesto e processo. Per esempio, sappiamo che l’IPTV non è la stessa cosa della
TV tradizionale, ma le specifiche differenze nei termini del codice implicito di ciascun
medium è più una questione di indagine che l’applicazione di un principio generale.
La comunicazione procede anche tramite molteplici canali: una varietà di canali
televisivi e di stazioni radio (globali, nazionali e locali) e dei loro network, molteplici
giornali cartacei e online, e un oceano ininterrotto di spazi sociali basati sul web che
organizzano le reti di comunicazione di milioni di mittenti e destinatari. Ognuno di questi
canali rappresenta un codice. Per esempio, una rete basata su notiziari televisivi
ventiquattr’ore su ventiquattro fissa un particolare frame di riferimento. YouTube
definisce il proprio codice con un mix di video e libero upload e download, accompagnati
da commenti e classifiche. I network della televisione religiosa o le stazioni porno
preselezionano il proprio pubblico con la propria autodefinizione. Ognuno di questi canali
ha specifiche caratteristiche che definiscono un determinato codice (religioso,
pornografico, video gratuito, networking sociale come in Facebook, cittadinanza virtuale
come in Second Life, e simili).
Così, seguendo il mio adattamento al nuovo contesto comunicativo dello schema di
comunicazione proposto da Eco, avanzo l’idea che diverse modalità di comunicazione
possono essere definite come Codice M e diversi canali di comunicazione come Codice C.
Il Codice M (per esempio la televisione o il web) opera tramite un certo numero di
subcodici che sono le modalità specifiche di un dato processo comunicativo (per esempio
la televisione via cavo contro la televisione specializzata, o l’IPTV contro i giochi online).
In modo simile, il Codice C (per esempio i telegiornali globali o i canali religiosi) operano
tramite vari subcodici (network islamici contro Fox News, Sports IPTV contro diffusione
IPTV dei clip della programmazione televisiva in broadcasting). Così il Codice M opera
tramite un numero 1…n di subcodici M e il Codice C opera tramite un numero 1…n di
subcodici C.
Operano producendo e inviando messaggi (significanti che recano significato).
Ma, purtroppo, devo aggiungere un altro livello di complessità per la comprensione del
nuovo processo di comunicazione. Come nella formulazione di Eco, mittenti e destinatari
interpretano i codici e i subcodici facendo intervenire i propri codici che disaccoppiano la
relazione tra significante e significato nel messaggio che è stato inviato, e filtrano il
significante per ottenere un diverso significato. Il problema è che nel mondo della
comunicazione di massa, mittenti e destinatari si fondono nello stesso soggetto, così che
questo soggetto dovrà negoziare il senso tra il codice del messaggio che ha inviato e il
codice del messaggio che ha ricevuto per poter produrre il proprio significante (il senso
del messaggio per l’individuo coinvolto nella comunicazione). Così, la complessità del
processo di comunicazione si presenta come segue.
Il mittente/ricevente deve interpretare i messaggi che gli arrivano in molteplici modalità
di comunicazione e da molteplici canali di comunicazione, impegnando il proprio codice
nell’interazione con il codice del messaggio originato dal mittente ed elaborato secondo
subcodici di modalità e di canali. Inoltre, deve negoziare il senso quale ricevente sulla
base della propria esperienza di mittente. Alla fine, c’è un significato autoselezionato che
lavora con gli svariati materiali del processo comunicativo. Inoltre, i soggetti comunicativi
non sono entità isolate; interagiscono invece tra loro formando reti di comunicazione che
producono senso condiviso. Siamo passati dalla comunicazione di massa rivolta
all’audience, a un’audience attiva che ritaglia il proprio senso mettendo a confronto la
propria esperienza con i flussi monodirezionali dell’informazione che riceve. Così,
osserviamo la nascita della produzione interattiva di significato. Questo è ciò che io
chiamo audience creativa, la fonte della cultura del remix che caratterizza il mondo
dell’autocomunicazione di massa.
Se è vero che questa è una rappresentazione astratta del processo comunicativo, è anche
vero che essa può offrire un quadro per comprendere l’attuale complessità del nuovo
processo comunicativo osservato dai ricercatori della comunicazione. Così, Tubella et al.
(2008) nel 2007 hanno esplorato l’interazione tra diverse modalità di comunicazione nella
pratica di un focus group di 704 individui in Catalogna. Inizialmente hanno analizzato i
dati (comprese indagini originali compiute da loro stessi) relativi agli usi dei media e di
Internet nella popolazione in senso lato. Il loro campo di osservazione è interessante
perché la Catalogna è un’economia avanzata e ha un sistema multimediale sviluppato, con
circa il 51 per cento delle famiglie connesse a Internet, in grande maggioranza con linee
DSL. Il 56 per cento della popolazione è utente di Internet e, tra questi, l’89 per cento ha
meno di 24 anni. Al tempo stesso, si tratta di una società in transizione, che presenta un
misto di popolazione anziana e non istruita, e popolazione giovane, dinamica, istruita,
esperta di Internet. Così, mentre solo l’8,9 per cento delle persone al di sopra dei 60 anni
erano utenti quotidiani di Internet nel 2006, la percentuale del gruppo tra i 16 e i 29 anni
era del 65,7 per cento.
Da una parte, la televisione (soprattutto la televisione in chiaro via etere) continua a
essere dominante tra i mass media, con quasi l’87 per cento di persone che la guarda ogni
giorno. Inoltre, sia per la Catalogna sia per la Spagna, il numero di ore passato in media a
guardare la televisione è rimasto stabile, tra il 1993 e il 2006, a un livello di 3,5 ore
giornaliere. Dall’altra parte, il sottoinsieme di utenti attivi su Internet, molti dei quali al di
sotto dei 40 anni, mostra un profilo molto netto di pratica comunicativa. Per esaminare
questo nuovo modello di relazione con i media, i ricercatori catalani hanno costituito un
focus group di 704 soggetti che sono stati osservati, usando diverse tecniche, con il loro
pieno consenso, per alcuni mesi. Sono utenti attivi delle nuove tecnologie di
comunicazione, compreso Internet, comunicazione wireless e console di videogame. Il
segmento 18-30 anni di questo focus group si collega a Internet, in media, per 4 ore al
giorno, per lo più da casa. Guarda meno TV del telespettatore medio, e dorme anche
meno. Ma il tempo che questi soggetti passano in Internet è intrecciato con il tempo in cui
guardano la televisione. Cosa più importante, smentiscono il concetto di «prime time».
Gestiscono il proprio tempo di comunicazione, comunicano nel corso della giornata con
mezzi diversi, e spesso lo fanno simultaneamente. Per questo gruppo il multitasking è la
regola più che l’eccezione. Contemporaneamente guardano la televisione, sono online,
ascoltano musica (o la radio), controllano gli SMS sui cellulari e giocano con la consolle.
Nell’uso di Internet, mandano e-mail, navigano tra i siti web, leggono i giornali online,
lavorano e studiano nello stesso quadro temporale. Inoltre, non sono ricettori passivi di
messaggi e informazioni. Un significativo sottogruppo è anche produttore di contenuti.
Remixano e caricano video, scaricano e condividono musica e film, creano blog e vi
partecipano. L’uso di Internet è altamente diversificato.
L’intenso uso di Internet ha effetto su altre pratiche comunicative. Così, circa il 67 per
cento dei membri del focus group dice di vedere meno televisione come conseguenza
dell’attività su Internet. E il 35 per cento legge meno stampa cartacea (leggono invece i
giornali online). D’altra parte, il 39 per cento ascolta più musica (scaricata dalla Rete), e il
24 per cento ascolta più radio, i due canali di comunicazione che possono essere inclusi
senza eccessive interferenze in un’attività di comunicazione basata su Internet. In effetti,
quelle attività che sono incompatibili con l’uso che fanno di Internet (leggere libri,
dormire) o richiedono attenzione visiva (televisione tradizionale) diminuiscono per
quantità di tempo loro assegnata dagli utenti attivi su Internet.
Così, sulla base di questa indagine sull’interazione tra media tradizionali e media basati
su Internet, appare che l’uso attivo di Internet nelle sue varie modalità produce tre effetti
principali:
1. sostituzione temporale della comunicazione basata su Internet al posto di attività
incompatibili;
2. graduale dissoluzione del «prime time» a favore del «my time»;
3. crescente simultaneità delle pratiche comunicative, integrate intorno a Internet e a
dispositivi wireless, dalla generalizzazione del multitasking e della capacità dei soggetti
comunicanti di combinare la propria attenzione su diversi canali, e di complementare fonti
di informazione e di intrattenimento mescolando modalità e canali in base ai propri
interessi.
Questi interessi definiscono i propri codici comunicativi. Come scrivono Tubella et al.
(2008):
Come dicono i neuroscienziati, «neurons that fire together wire together» (i neuroni
che attivano insieme si connettono insieme). Man mano che lo stesso circuito viene
attivato un giorno dopo l’altro, le sinapsi dei neuroni nel circuito si rafforzano finché
si forma un circuito permanente. Questo fenomeno prende il nome di reclutamento
neuronale… «Reclutamento» è il processo con cui si rafforzano le sinapsi lungo un
percorso per creare un sentiero nel quale un’attivazione sufficientemente forte possa
fluire. Più i neuroni vengono usati insieme, e più ne escono «rafforzati». Il
«rafforzamento» è un incremento fisico nel numero di recettori chimici dei
neurotrasmettitori a livello di sinapsi. Un tale circuito «reclutato» costituisce
fisicamente la metafora. Così, il pensiero metaforico è fisico… Semplici metafore
possono poi essere combinate mediante il legame neuronale per formare metafore
complesse (2008, pp. 83-84).
Le metafore sono fondamentali per connettere il linguaggio (e quindi la comunicazione
umana) ai circuiti cerebrali. È tramite le metafore che si costruiscono le narrazioni. Le
narrazioni sono composte di frame, strutture della narrazione corrispondenti alle strutture
del cervello che si sono prodotte mediante l’attività cerebrale nel corso del tempo. I frame
sono reti neurali di associazione a cui è possibile accedere col linguaggio mediante
connessioni metaforiche. Il framing consiste nell’attivare specifiche reti neurali. Nel
linguaggio, le parole sono associate a campi semantici. Questi campi semantici rimandano
a frame concettuali. Così linguaggio e mente comunicano mediante frame che strutturano
narrazioni che attivano le reti nel cervello. Le metafore traducono in frame la
comunicazione scegliendo specifiche associazioni tra lingua ed esperienza in base alla
mappatura cerebrale. Ma le strutture dei frame non sono arbitrarie. Sono basate
sull’esperienza, ed emergono dall’organizzazione sociale che definisce i ruoli sociali
all’interno della cultura che poi viene fissata nei circuiti cerebrali. Così, la famiglia
patriarcale si fonda sul ruolo del padre/patriarca e della madre/massaia derivati
dall’evoluzione e fissati dal dominio e dalla divisione di genere del lavoro nel corso della
storia, che viene poi inscritta nelle reti cerebrali attraverso l’evoluzione biologica e
l’esperienza culturale. Da lì, se seguiamo la proposizione di Lakoff, emergono i frame del
genitore autoritario e del genitore che cura e protegge (non della padre o della madre,
perché le metafore di genere sono culturali) che alimenta, su cui poggiano molte strutture
sociali e istituzionali. Mentre è aperto il dibattito sull’universalità di quest’ultima
proposizione (in realtà Lakoff si riferisce specificamente alla cultura americana), il
meccanismo del framing rivelato da Lakoff regge indiscusso.
Le narrazioni definiscono ruoli sociali entro contesti sociali. I ruoli sociali sono basati
su frame che esistono sia nel cervello sia nella pratica sociale. L’analisi di Goffman (1959)
sul gioco di ruolo come base dell’interazione sociale si fondava anch’essa sulla
determinazione dei ruoli che strutturano le organizzazioni nella società. Il framing risulta
dall’insieme delle corrispondenze tra ruoli organizzati in narrazioni, narrazioni strutturate
in frame, semplici frame combinati in narrazioni complesse, campi semantici (parole
correlate) nel linguaggio connessi a frame concettuali, e la mappatura dei frame nel
cervello grazie all’azione di reti neurali costruite sulla base dell’esperienza (evolutiva e
personale, passata e presente). Il linguaggio non è semplicemente lingua verbale; può
essere anche comunicazione non verbale (per esempio il linguaggio del corpo), oltre che
una costruzione di immagini e suoni mediata tecnologicamente. Gran parte della
comunicazione è costruita intorno a metafore perché questa è la via d’accesso al cervello:
con l’attivazione delle reti cerebrali opportune che saranno stimolate nel processo
comunicativo.
L’azione umana si svolge tramite un processo decisionale che coinvolge emozioni,
sentimenti e componenti di ragionamento, come mostra la figura 3.1 proposta da Damasio.
Il punto critico in questo processo è che le emozioni svolgono un duplice ruolo
nell’influenzare il processo di decisione. Da una parte, attivano in modo velato le
esperienze emozionali relative alla questione che è oggetto di decisione. Dall’altra, le
emozioni possono agire direttamente sul processo decisionale, spingendo il soggetto a
decidere come si sente. Non vuol dire che il giudizio diventi irrilevante, ma che gli
individui tendono a selezionare le informazioni in modo da favorire la decisione che sono
già inclini a prendere.
FIG. 3.1. Il processo decisionale secondo Antonio Damasio.
Fonte: Damasio (2003, p. 149).
Dunque il processo decisionale ha due percorsi, uno basato sul ragionamento per frame,
l’altro direttamente emotivo. Ma la componente emotiva può agire sulla decisione
direttamente, oppure indirettamente marcando il ragionamento con un segnale positivo o
negativo che riduce lo spazio decisionale in base alla nostra passata esperienza. I segnali
rimandano nell’uno o nell’altro senso al corpo, quindi questi segnali sono marcatori
somatici. Gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (1973) sulle decisioni
economiche sembrerebbero confermare l’esistenza di questa scorciatoia per passare dalle
emozioni e dai sentimenti al processo decisionale senza alcuna elaborazione indiretta del
pensiero strategico.
La comunicazione, nelle sue diverse modalità, svolge un ruolo di primo piano
nell’attivare le pertinenti reti neurali in un processo decisionale. Questo perché «parte
della medesima struttura neurale nel cervello è usata quando agiamo una narrazione e
quando vediamo qualcun altro che agisce quella narrazione» (Lakoff, 2008, p. 40). Anche
se tra i due processi esiste una differenza, il nostro cervello usa le stesse strutture per la
percezione e per l’immaginazione.
Un modo in cui l’esposizione alla comunicazione può influenzare il comportamento è
tramite l’attivazione nel cervello dei cosiddetti neuroni specchio (Gallese e Golfman,
1998; Gallese et al., 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004). I neuroni specchio rappresentano
l’azione di un altro soggetto. Attivano processi di imitazione e di empatia. Rendono
possibile mettersi in relazione con lo stato emozionale di altri individui, un meccanismo
che sta alla base della cooperazione negli animali e negli umani. Comunque, i neuroni
specchio non agiscono da soli. Dipendono da processi più ampi nelle reti cerebrali.
Secondo Damasio e Meyer:
Le cellule nelle aree dei neuroni specchio non recano in sé significato, e da sole non
sono in grado di realizzare la simulazione interna di un’azione… I neuroni specchio
inducono una diffusa attività neuronica basata su modelli appresi di connettività;
questi modelli generano la stimolazione interna e stabiliscono il significato delle
azioni… Tutto sommato i neuroni che si trovano al centro di questo processo non
sono poi tanto simili a degli specchi. Sono più come dei burattinai, che tirano i fili di
varie memorie… I neuroni specchio muovono i fili, ma il burattino vero e proprio è
fatto di una vasta rete cerebrale (Damasio e Meyer, 2008, p. 168).
Le emozioni non sono cruciali soltanto per i sentimenti e il ragionamento, ma sono anche
indispensabili per la comunicazione negli animali sociali. I neuroni specchio, attivando
determinati modelli neuronali, mostrano di svolgere un ruolo importante nella
comunicazione emotiva perché le stesse reti neurali sono attivate quando ho paura e
quando vedo qualcun altro che ha paura, o quando vedo immagini di umani che hanno
paura, o quando assisto a eventi che evocano la paura. Inoltre, i processi di simulazione
generati dai modelli attivati dai neuroni specchio facilitano la costruzione del linguaggio
perché presiedono alla transizione dall’osservazione e l’azione alla rappresentazione
generale, vale a dire al processo di astrazione. La capacità di astrazione introduce
l’espressione simbolica, la fonte della comunicazione tramite il linguaggio.
Gli effetti dei neuroni specchio e dei modelli neuronici da loro attivati assistono la
mente nella rappresentazione degli stati intenzionali altrui (Schreiber, 2007). I neuroni
specchio si eccitano quando quando si esegue un’azione e quando si osserva l’azione di un
altro soggetto. Perché questa azione abbia un senso nel mio cervello, però, debbo valutare
che cosa sta facendo il soggetto. La corteccia parietale mediale è attivata da eventi
emozionalmente adeguati (ECS) risultanti dalla valutazione che fa dell’ambiente (Raichle
et al., 2001). Poiché queste regioni mediali sono attive nell’individuazione,
rappresentazione, valutazione e integrazione degli stimoli autoreferenziali, diversi
neuroscienziati ritengono questa regione del cervello fondamentale per la costruzione del
sé (Damasio, 1999; Damasio e Meyer, 2008). Gli esperimenti hanno dimostrato che la
capacità di valutare gli stati intenzionali altrui e di inviare segnali per manipolare queste
intenzioni può agevolare l’evoluzione verso una maggiore cooperazione, inducendo
migliori risultati individuali e di gruppo (Schreiber, 2007, p. 56).
L’attivazione del nostro cervello tramite modelli neuronali indotti dai neuroni specchio
è alla base dell’empatia, l’identificazione o il rifiuto verso le narrazioni della televisione,
del cinema o della letteratura, e verso le narrazioni politiche di partiti e candidati. Come
afferma Lakoff (2008), l’uso della stessa struttura neurale tanto per l’esperienza quanto
per la rappresentazione dell’esperienza ha «enormi conseguenze politiche» (p. 40). Nelle
parole di Westen: «la persuasione politica è fatta di reti e narrazioni» (2007, p. 12) perché
«il cervello politico è un cervello emotivo» (2007, p. XV). È per questo che «gli stati che
davvero decidono le elezioni sono gli stati mentali dei votanti» (2007, p. 4).
In effetti, una mole sempre crescente di ricerche nel campo della politologia e della
comunicazione politica ha stabilito l’esistenza di una complessa serie di connessioni tra
mente e potere nel processo politico. Il potere, come tutta la realtà, è costruito nelle reti
neurali del nostro cervello. Il potere si genera nei mulini a vento della mente.
Emozione, cognizione e politica
La cognizione politica è un fattore chiave nell’evoluzione dell’umanità, contribuendo ad
alimentare la cooperazione e le decisioni collettive nella ricerca della sopravvivenza e del
benessere. Un filone sempre più influente di ricerche dimostra l’integrazione della
cognizione e dell’emozione nel processo di decisione politica. La cognizione politica è
plasmata per via emozionale. Non c’è opposizione tra cognizione ed emozione, ma vi sono
più forme di articolazione tra emozione e cognizione nel processo decisionale.
L’elaborazione delle informazioni (cognizione) può operare in presenza o in assenza di
ansia (emozione), conducendo a due forme diverse di decisionalità: un processo
decisionale razionale come processo di valutazione di nuove informazioni, e modelli
decisionali di routine basati su esperienze passate elaborate nelle mappe cerebrali.
La teoria dell’intelligenza affettiva fornisce un’utile cornice analitica a cui si ispira un
variegato corpus di documentazione nella comunicazione politica e nella psicologia
politica, documentazione che supporta l’idea che gli appelli emotivi e le scelte razionali
sono meccanismi complementari, la cui interazione e il cui peso relativo nel processo
decisionale dipendono dal contesto del processo (Marcus et al., 2000; MacKuen et al.,
2007; Neuman et al., 2007; Marcus, 2008). In effetti, le menomazioni affettive disattivano
la capacità di operare corretti giudizi cognitivi. La valutazione degli eventi è emozionale, e
modellata dai marcatori somatici (Spezio e Adolphs, 2007, pp. 71-95). Secondo MacKuen
et al., «La razionalità è appropriata solo in alcune situazioni» (2007, p. 126). Un aumento
dell’ansia è indice di incertezza e l’incertezza è associata con la razionalità:
L’ideologia domina la scelta degli elettori compiacenti – votanti che non provano
disagio verso il proprio candidato. Dall’altra parte, quando è impegnata da
meccanismi di allerta emotiva, la gente modifica il proprio comportamento…
Quando sono emozionalmente stimolati a una riflessione ragionata che è altamente
ansiosa riguardo al proprio candidato di partito, i cittadini riducono il ricorso alla
predisposizione e accrescono la valutazione di informazioni recenti (MacKuen et al.,
2007, p. 136).
Quindi, cosa piuttosto interessante, le emozioni forti attivano meccanismi di allarme che
accrescono la rilevanza della valutazione razionale riguardo alla decisione (Schreiber,
2007). L’emozione evidenzia il ruolo della cognizione influenzando al tempo stesso il
processo cognitivo.
Secondo la teoria dell’intelligenza affettiva, le emozioni particolarmente rilevanti per il
comportamento politico sono l’entusiasmo (e il suo opposto, la depressione) e la paura (e
la sua controparte, la calma). Ma quali sono le fonti di queste emozioni politiche? E in che
modo le emozioni si colorano positivamente o negativamente in presenza di uno specifico
evento?
Il comportamento politico è condizionato da due sistemi emozionali: a) il sistema di
disposizione induce entusiasmo e organizza comportamenti per raggiungere gli scopi del
soggetto entusiasta in un dato ambiente; b) il sistema di sorveglianza quando si prova
paura o ansia a causa della presenza di un determinato ECS, fa appello al meccanismo del
ragionamento per valutare accuratamente la risposta adeguata alla minaccia percepita.
Così, l’agire sulle predisposizioni comportamentali dovrebbe attivare l’entusiasmo, mentre
l’ansia dovrebbe aumentare la considerazione della complessità di circostanze specifiche. I
cittadini entusiasti seguono la linea di partito, mentre i cittadini ansiosi esaminano più
minutamente le loro opzioni.
Secondo l’analisi di Huddy et al. (2007), affetti positivi e negativi sono connessi ai due
sistemi motivazionali di base che risultano dall’evoluzione umana: approccio ed
evitamento. Il sistema di approccio è collegato al comportamento orientato alla produzione
di emozioni positive, dirigendo un individuo verso esperienze e situazioni che producono
piacere e ricompensa. L’affetto negativo è associato all’evitamento che mira a proteggere
un individuo da circostanze negative. La loro analisi si basa sull’evidenza empirica che
mostra l’attivazione di entrambi i sistemi in diverse regioni del cervello e secondo diversi
percorsi neurochimici (Davidson, 1995). Esiste un debole legame tra emozioni positive e
negative; le une non sono l’opposto delle altre. Le emozioni positive sono più comuni. Le
emozioni negative vengono acuite quando è il momento di passare dalla decisione
all’azione. Comunque, questo modello analitico non tiene conto della differenza tra i
diversi tipi di emozioni negative, come l’ansia e la rabbia. La ricerca neurologica connette
rabbia a comportamento di approccio, e ansia a comportamento di evitamento. Inoltre,
esiste un’associazione tra ansia e rifiuto del rischio, e rabbia e accettazione del rischio
(Huddy et al., 2007, p. 212). L’ansia si associa all’acuita vigilanza e all’evitamento del
pericolo. Ma la rabbia no. L’ansia è una reazione a una minaccia esterna su cui la persona
minacciata ha scarso controllo. La rabbia è la reazione a un evento negativo che
contraddice un desiderio. L’ansia aumenta con la percezione di un atto ingiusto e con
l’identificazione dell’agente responsabile dell’atto. Ansia e rabbia hanno diverse
conseguenze. La rabbia porta all’elaborazione imprudente degli eventi, alla riduzione
della percezione del rischio, e alla maggiore accettazione dei rischi legati a una
determinata azione. L’ansia è connessa all’evitamento e induce un maggior livello di
valutazione della minaccia, una maggiore preoccupazione per il rischio implicato, e una
valutazione prudente delle informazioni. Per esempio, alcuni studi sulle emozioni negative
e il conflitto in Iraq non hanno rilevato l’esistenza di una relazione tra sentimenti e
atteggiamento nei confronti della guerra. Ma questo perché non hanno distinto fra rabbia e
ansia. Uno studio condotto da Huddy et al. (2002) ha rilevato un nesso tra la rabbia verso
Saddam Hussein e verso i terroristi e l’appoggio degli americani alla guerra in Iraq, e un
legame tra l’ansia riguardo agli stessi soggetti e l’opposizione alla guerra. L’ansia porta a
comportamenti di rifiuto del rischio. La rabbia porta a comportamenti di affrontamento del
rischio. L’ansia è associata a oggetti ignoti. Il rifiuto è associato con ben noti oggetti
negativi (Neuman, comunicazione personale, 2008).
L’emozione influenza il giudizio politico attraverso due percorsi: a) fedeltà a partiti,
candidati o opinion-leader basata sull’attaccamento (quando le circostanze sono familiari);
b) disamina critica di partiti, candidati o opinion-leader basata su calcoli razionali
influenzati da un incremento dell’ansia (quando le circostanze non sono familiari). In
entrambi i casi, non è la sola razionalità a determinare la decisione; è un’elaborazione di
secondo livello di informazioni che dipende dalle emozioni attivate.
La componente emozionale della cognizione politica condiziona l’efficacia
dell’elaborazione delle informazioni relative ai temi e ai candidati. Per comprendere in che
modo i cittadini elaborano la conoscenza politica, Redlawk et al. (2007) hanno condotto
un esperimento su un gruppo di studenti usando tecniche di voto a processo dinamico. Le
loro risultanze mostrano che l’ansia agisce solo a favore dei candidati preferiti e dipende
dall’ambiente. In un ambiente ad alto pericolo, l’ansia porta a una attenta elaborazione
delle informazioni, un maggiore sforzo per raccogliere informazioni sul candidato che
genera ansia, e maggiore attenzione alla posizione del candidato sulle singole questioni.
Ma in un ambiente a basso pericolo, l’ansia non ha molto effetto sull’elaborazione e
l’acquisizione delle informazioni. Sembra esista una soglia di ansia: se c’è troppo poca
ansia nell’ambiente, l’apprendimento non viene attivato; ma troppa ansia indebolisce
l’apprendimento. In entrambi gli ambienti, l’ansia non influisce sull’elaborazione delle
informazioni sul candidato o i candidati meno preferiti.
La rabbia, è il caso di ripeterlo, è diversa dall’ansia nei suoi effetti sugli affetti. In
ambienti a bassa minaccia, si presta più attenzione alle informazioni che evocano rabbia.
Quando la rabbia è diretta verso un candidato che si era in precedenza apprezzato, segue
l’avversione: i votanti appoggiano altri candidati e tendono a ricordare in maniera non
corretta le posizioni del candidato che hanno rifiutato dopo un appoggio iniziale. Dall’altra
parte, più entusiasmo si traduce in più ricerca di informazioni, anche se non sempre una
ricerca più frequente si traduce in una più accurata valutazione delle questioni in gioco.
Livelli più alti di esperienza politica aumentano le connessioni emozionali a candidati e
partiti, dal momento che i cittadini si basano sulle associazioni implicite immagazzinate.
Viceversa, chi è privo di esperienza politica è più portato a usare i meccanismi cognitivi
per valutare le opzioni a disposizione (Redlawk et al., 2007).
Uno studio ormai classico di Zaller (1992) ha scoperto che l’incertezza stimolava
l’attenzione per le informazioni politiche e aumentava la probabilità che l’informazione
venisse effettivamente trattenuta. Nella ricerca di informazioni, la gente parte dai propri
valori, e poi cerca informazioni che confermino quei valori. Analogamente, Popkin (1991)
ha mostrato che gli individui sono «taccagni cognitivi» che si limitano alle informazioni
che confermino le convinzioni e le abitudini preesistenti, in una scorciatoia cognitiva che
riduce lo sforzo mentale necessario a eseguire un compito (Popkin, 1991; Schreiber,
2007). Per esempio, la gente formula giudizi basandosi su informazioni che può
richiamare dalla memoria, anziché su un insieme completo di informazioni raccolte dalle
varie fonti. Richiamare la memoria impegna il sistema riflessivo. Il sistema riflessivo, nel
frattempo, svolge un ruolo subconscio nella formazione degli atteggiamenti.
Gli atteggiamenti espliciti costruiscono un set limitato di informazioni. Le opinioni
implicite risultano da associazioni automatiche tra molti fattori, e sono esposte agli
stereotipi. Disposizioni implicite ed esplicite spesso sono in conflitto. Gli atteggiamenti
impliciti hanno un ruolo forte nelle decisioni politiche perché contribuiscono a costruire le
coalizioni che favoriscono la cooperazione. Coalizione e cooperazione sono state
fondamentali per la sopravvivenza dei primi esseri umani e hanno provocato l’evoluzione
dell’intelligenza umana inducendo la competizione cognitiva. Gli umani formano
coalizioni intorno a caratteristiche condivise: una di queste caratteristiche è la razza, cosa
che porta agli stereotipi razziali. Le coalizioni multirazziali debbono stabilire la
cooperazione intorno ad altre caratteristiche comuni. Così, è la cooperazione più che le
specifiche caratteristiche di chi coopera la chiave del legame politico in grado di
trascendere gli stereotipi di razza o genere (Schreiber, 2007, p. 68).
Tutta la politica è personale. Le reti sociali svolgono un ruolo importante nel definire il
comportamento politico. Se la gente trova opinioni congeniali nella propria rete sociale, è
più attiva politicamente, mentre idee contrastanti nella rete sociale riducono la
partecipazione. Le opinioni dei soggetti sono influenzate dai sentimenti verso altre
persone della rete. Le opinioni si producono nella pratica condivisa, e quindi possono
cambiare se cambia la pratica (MacKuen et al., 2007). Le opinioni dipendono dai
sentimenti, e i sentimenti si costruiscono attraverso la percezione delle emozioni. Come
abbiamo visto, gli studi mostrano il ricorrere di un certo numero di emozioni attraverso le
varie culture. Alcune di queste emozioni svolgono un ruolo particolarmente importante nel
processo politico. Una di queste emozioni è la paura. Un’altra è la speranza (Just et al.,
2007). Giacché implica la proiezione di comportamento nel futuro, la speranza è
accompagnata dalla paura che non si realizzerà. Dato che un carattere distintivo della
mente umana è la capacità di immaginare il futuro, la speranza è un ingrediente
fondamentale nell’attivazione della mappe cerebrali che motivano il comportamento
politico orientato al conseguimento di benessere nel futuro come conseguenza dell’azione
presente. Così, la speranza è una componente chiave della mobilitazione politica.
Ma la speranza è anche mescolata con la paura che il candidato preferito perda, o che
tradisca il proprio elettorato. Speranza e paura si combinano nel processo politico, e i
messaggi delle campagne elettorali sono spesso diretti a stimolare la speranza e a instillare
la paura dell’avversario. La paura è essenziale per l’autoconservazione, ma la speranza è
essenziale per la sopravvivenza perché permette agli individui di progettare l’esito delle
loro decisioni e li spinge a muoversi verso una linea di azione dalla quale si aspettano di
trarre beneficio. Paura e speranza incoraggiano entrambe a cercare più informazioni sulle
proprie decisioni. Speranza ed entusiasmo non sono la stessa cosa. La speranza comporta
un livello di incertezza sul soggetto tramite il quale la speranza è mediata (ossia il partito o
il candidato). L’entusiasmo è semplicemente una valutazione positiva e non richiede
necessariamente la proiezione del cambiamento sociale. Ma il punto cardine è che la
valutazione dei candidati o delle opzioni politiche viene elaborata in relazione agli
obiettivi del sé. Non esiste la politica-in-generale: è sempre la «mia politica», elaborata dai
modelli neuronici del mio cervello e messa in atto da decisioni che articolano le mie
emozioni e le mie capacità cognitive, comunicate attraverso i miei sentimenti. Questa è la
cornice dell’azione umana in cui opera il processo politico.
Emozione e cognizione nelle campagne politiche
Come rileva Brader (2006), per molto tempo la ricerca accademica ha sottovalutato
l’impatto che i media e le campagne politiche hanno sul risultato delle elezioni (per
esempio, Lazarsfeld et al., 1944), in contraddizione con le convinzioni e la prassi della
maggioranza dei consulenti politici. A partire dagli anni Novanta, però, si è formato un
consistente corpus di studi sulla comunicazione politica che ha fornito le prove
dell’influenza che i notiziari, le campagne mediatiche e la propaganda politica esercitano
sui processi decisionali dei cittadini (per esempio Ansolabehere et al., 1993; Ansolabehere
e Iyengart, 1995; Saller, 1992; Valentino et al., 2002). La maggioranza di questi studi vede
nel contenuto dei messaggi e nei temi politici i fattori primari nelle decisioni in politica.
Un numero crescente di studi, però, mette in evidenza il ruolo degli appelli all’emotività
presenti nelle campagne politiche (Jamieson, 1992; West, 2001, 2005; Richardson, 2003).
Marcus et al. (Marcus et al., 2000; Marcus, 2002), sulla base delle scoperte della
neuroscienza e della psicologia cognitiva di cui abbiamo riferito nella sezione precedente,
hanno dimostrato la connessione tra emozione e pensiero finalizzato nel processo
decisionale politico. La loro ricerca sulle elezioni presidenziali statunitensi dal 1980 al
1996 ha mostrato che due terzi dei voti possono essere spiegati da due variabili: sentimenti
verso il partito e sentimenti verso il candidato, mentre le questioni politiche pesavano
molto meno sulla decisione dei votanti. Inoltre, le questioni politiche diventavano
importanti soprattutto quando suscitavano emozioni tra gli elettori.
Brader (2006) è partito da questo corpus di ritrovamenti, oltre che dalla teoria
damasiana dei marcatori somatici (Damasio, 1994) e da quella dell’intelligenza emotiva
(Marcus et al., 2000), per verificare empiricamente il ruolo delle emozioni e determinare
gli effetti della propaganda politica sul comportamento di voto, concentrandosi su due
emozioni base considerate le fonti motivazionali chiave: l’entusiasmo e la paura.
Dapprima ha condotto esperimenti miranti a riprodurre il più fedelmente possibile il
processo decisionale reale allo scopo di identificare i meccanismi attraverso i quali le
emozioni insite nella propaganda politica, e in particolare nella musica e nelle immagini,
possono influenzare le intenzioni di voto. I suoi risultati mostrano che la pubblicità
politica che suscita l’entusiasmo mobilita i votanti. Ma polarizza anche le loro scelte,
portando a riaffermare le scelte che avevano già fatto e inducendo un più forte rigetto del
candidato opposto, indipendentemente dalla pubblicità politica cui si è esposti. Viceversa,
l’esposizione a materiale di propaganda basato sulla paura introduceva incertezza nella
scelta del votante, accrescendo così la probabilità che le preferenze politiche del
destinatario mutassero. La propaganda basata sulla paura tende a erodere la base di
sostegno dell’avversario, facendo aumentare la percezione dell’importanza del voto in
quegli osservatori resi ansiosi dalla pubblicità politica. Ma le pubblicità che fanno leva
sulla paura possono anche smobilitare i votanti. Così, una pubblicità che mira a instillare
paura ha un effetto potente a favore di chi la propone, e questo in due direzioni: mobilita i
sostenitori del propositore e scoraggia i potenziali elettori dell’avversario. Fatto
interessante, i cittadini più preparati sono anche i più reattivi agli appelli emozionali.
Questo concorda con l’argomento della teoria dell’intelligenza affettiva, secondo la quale
le emozioni fungono da «rivelatori di rilevanza». Si verifica una situazione di acuita
attenzione verso le posizioni di un candidato quando un messaggio accende la paura delle
conseguenze negative di un dato esito elettorale. Così, l’ipotesi presentata nella sezione
precedente è confermata empiricamente: l’emozione non è un sostituto dell’analisi nel
processo decisionale; è un fattore che attiva un livello più alto di comportamento
riflessivo.
Sulla base delle risultanze del suo esperimento, Brader è passato a effettuare un’analisi
del contenuto di 1400 pubblicità elettorali di candidati al Congresso o alla carica di
governatore di uno stato prodotte durante le campagne elettorali americane del 1999 e del
2000. Ha rilevato che la maggior parte delle pubblicità aveva un forte contenuto
emozionale e che l’entusiasmo e la paura erano i frame dominanti nel campione
considerato. C’era nei candidati in carica la tendenza a basarsi sull’entusiasmo e negli
sfidanti a ricorrere alla paura. Più i votanti sono preoccupati delle conseguenze di una data
politica, maggiore è la probabilità di messaggi di parte che ricorrono alla paura. Tuttavia,
paura ed entusiasmo venivano spesso mescolati nella stessa pubblicità, e messi in
relazione a questioni di decisione politica. In altre parole, Brader scopriva che non c’è
opposizione tra propaganda emotiva e propaganda ragionata. Le emozioni sono incanalate
per veicolare tesi. Come scrive Brader:
quando il contenuto delle notizie suggerisce alla audience che dovrebbe usare
determinate questioni specifiche come metro per valutare la performance di leader e
governi. Spesso viene considerato un’estensione dell’agenda-setting… Rendendo
alcuni temi più salienti nella mente delle persone (agenda-setting), i mass media
possono anche dar forma alle considerazioni di cui la gente tiene conto quando
formula giudizi su candidati o questioni politiche (priming) (Scheufele e Tewksbury,
2007, p. 11).
L’ipotesi del priming poggia sul modello cognitivo delle reti associative presentato nelle
sezioni precedenti di questo capitolo. Ipotizza che i servizi su questioni che colpiscono un
dato nodo della memoria possono estendere la propria influenza anche su altre opinioni e
posizioni relative ad altri temi. Così, più spesso si parla di una questione, più probabilità ci
sono che la gente attinga alle informazioni presentate nel suo trattamento giornalistico per
formulare le proprie valutazioni politiche.
Il framing è il processo con cui «si selezionano e sottolineano alcuni aspetti di eventi o
temi, e si stabiliscono tra loro connessioni in modo tale da promuovere una particolare
interpretazione, valutazione e/o soluzione» (Emman, 2004, p. 5). Il framing è un
meccanismo fondamentale nell’attivazione della mente perché lega direttamente la
struttura di una narrazione veicolata dai media alle reti neurali cerebrali. Si ricorderà che i
frame sono reti neurali associative. Il framing, come azione da parte del mittente del
messaggio, è a volte deliberato, a volte accidentale, e a volte istintivo. Ma fornisce sempre
una connessione diretta tra il messaggio, il cervello ricevente e l’azione che segue.
Secondo Lakoff (2008), il framing non è semplicemente una questione di slogan; è una
modalità di pensiero, una modalità di azione. Non sono solo parole, anche se le parole o le
immagini sono indispensabili per costruire il frame e per comunicarlo. Il punto
fondamentale è che i frame non sono esterni alla mente. Solo quei frame che sono in grado
di connettersi al messaggio di frame preesistenti diventano attivatori di condotta. Entman
(2004) sostiene che i frame che impiegano i termini culturalmente più consonanti hanno il
maggior potenziale per influenzare: parole e immagini che si fanno notare, che sono
comprensibili, memorizzabili e emozionalmente cariche. I frame sono efficaci se trovano
risonanza e accrescono l’ampiezza della loro ripetizione. Maggiori sono la risonanza e la
magnitudo e più probabilità ha il framing di evocare pensieri e sentimenti simili in un
pubblico più vasto. Il framing opera lasciando nelle informazioni lacune che il pubblico
riempie con i propri schemi preconcetti: è un processo interpretativo che si svolge nella
mente umana in base a idee e sentimenti correlati immagazzinati nella memoria. In
assenza di contro-frame alle informazioni fornite dai media, il pubblico graviterà verso i
frame che gli vengono suggeriti. I frame sono organizzati in paradigmi: reti di schemi
abituali che provvedono all’applicazione di analogie tratte da storie precedenti a nuovi
sviluppi. Per esempio, i frame possono reiterare una narrazione ben nota con forte
contenuto emozionale, come il paradigma del terrorismo, evocando in tal modo la morte e
inducendo la paura.
Mentre agenda-setting, priming e framing sono meccanismi chiave nella costruzione del
messaggio, l’erogazione dei messaggi nei media dipende anch’essa da specifiche
operazioni che riducono l’autonomia del pubblico che interpreta il messaggio. Una di
queste operazioni è l’indexing, o indicizzazione. Bennett (1990, 2007; Bennett et al.,
2006) ha indagato sull’importanza dell’indicizzazione nella pratica del giornalismo
professionale. Editori e direttori tendono a indicizzare il rilievo di notizie e punti di vista
in base alla percepita importanza di una data questione tra le élite e nella pubblica
opinione. Più specificamente, i professionisti dei media tendono a classificare
l’importanza di una questione in base alle dichiarazioni del governo. Ciò non vuol dire che
semplicemente riproducano il punto di vista del governo. Significa piuttosto che il
governo è la fonte primaria di informazione sulle questioni di primo piano, ed è
l’organismo che ha la responsabilità di applicare concretamente una proposta politica o
una linea d’azione. Di conseguenza, è comprensibile, per quanto deplorevole, che il
materiale fornito dal governo, o le dichiarazioni delle autorità governative, ricevano
particolare attenzione nel processo di indicizzazione.
La capacità dei media di decidere in fatto di indicizzazione dipende dal livello di
accordo o disaccordo che esiste su un tema tra le élite e gli opinion leader. Se il dissenso
non è forte, i media indicizzeranno secondo un singolo insieme di valutazioni relativo a
una data questione (per esempio, l’11 settembre nelle sue conseguenze immediate negli
Stati Uniti, che indusse l’accettazione del frame della «war on terror»). Viceversa, più
profonda è la divisione e l’ambiguità nelle reazioni dell’élite a una crisi (per esempio,
all’indomani dell’uragano Katrina negli Stati Uniti), più i media esercitano il proprio
giudizio diversificato nell’indicizzazione di un evento. Secondo Bennett (comunicazione
personale, 2008), l’indicizzazione da parte dei giornalisti non dipende dall’importanza di
una questione per il pubblico, ma dal livello di interesse per le élite. I sondaggi sono
selezionati in modo da appoggiare la narrazione che si adatta all’informazione
giornalistica. Inoltre, l’indicizzazione dipende non soltanto dalle posizioni delle élite, ma
anche dal grado di discordia delle élite al potere.
Un’analisi dell’indexing è essenziale per integrare la prospettiva dello studio in termini
di agenda-setting perché fa luce sulla fonte delle notizie. Le organizzazioni giornalistiche
strutturano le loro narrazioni in base all’indicizzazione che favorisce quelle questioni e
quei frame che hanno origine negli ambienti del potere per influenzare il pubblico. Così,
Hallin (1986), in un importante studio sull’opinione pubblica durante la guerra del
Vietnam, mostrava che la grande maggioranza dei media americani rimase non contraria
alla guerra fino all’offensiva del Tet del 1968, e che questa svolta era «intimamente
connessa con il livello di unità e chiarezza del governo, oltre che con il grado di consenso
nella società in senso lato» (1986, p. 213). In un altro studio sull’indicizzazione degli
eventi politici, Mermin (1997) documenta come la decisione USA di intervenire in
Somalia nel 1993 non fu spinta dai media. Invece, il grosso della copertura mediatica della
crisi da parte dei network televisivi seguì più che precedere la decisione del governo
statunitense di concentrarsi sui disordini in Somalia (Mermin, 1997, p. 392). Livingston e
Bennett (2003) analizzano otto anni di copertura internazionale della CNN e rilevano che
mentre le nuove tecnologie hanno aumentato la quantità di servizi su storie dettate dagli
eventi, le autorità «sembrano far parte più che mai delle notizie» (2003, p. 376).
Tuttavia, quando e se gli opinion leader sono divisi nelle loro posizioni, i media offrono
lo spazio per l’espressione dei loro dibattiti e del dissenso. A sua volta, la differenziazione
delle opinioni delle élite su questioni di scelte politiche può riflettere in una certa misura il
modo in cui la pensa la gente su quei temi. Ma, per poter ottenere un’opinione informata, i
cittadini hanno bisogno di informazioni e controframe per esercitare una scelta
nell’interpretazione. Herbst (1998) ha analizzato in che modo le élite politiche operano il
framing sulla pubblica opinione. Mostra come membri degli staff di leader politici,
attivisti, e giornalisti costruiscono dati sulla «pubblica opinione» e si basano su
rappresentanti di gruppi di interessi e opinionisti dei media per le loro interpretazioni.
Howard (2003) sostiene che una piccola élite professionale compila dati sulla pubblica
opinione per influenzare i leader oltre che il pubblico – dati che vengono presentati al
pubblico con tanto di opinioni aggregate a corredo, come se si trattasse di un verdetto
autogenerato sui temi di discussione.
Il framing non va inteso come una sistematica tendenziosità politica da parte dei media.
Diversi studi mostrano che non esistono prove di una tendenza politica uniforme nei
media. Ma come afferma Entman (2007), ciò è contraddetto da altre analisi che
dimostrano che notiziari e servizi giornalistici favoriscono determinate interpretazioni.
Così, potrebbe darsi che la questione non sia formulata in maniera corretta. Invece,
È attraverso il framing che gli attori politici danno forma ai testi che influenzano o
innescano le agende e le considerazioni a cui pensa la gente… Poiché la migliore
definizione sintetica del potere è la capacità di qualcuno di indurre altri a fare quello
che costui vuole (Nagel, 1975), dire agli altri cosa pensare è il modo in cui
l’influenza politica viene esercitata nei sistemi politici non coercitivi (e in misura
minore in quelli coercitivi) (Entman, 2007, p. 165).
Il potere di framing nei media può essere esemplificato dallo studio di Bennett et al.
(2006) sul caso delle torture dei prigionieri iracheni per mano di militari americani nel
carcere di Abu Ghraib nel 2003-2004. Nonostante la più che abbondante documentazione
fotografica di pratiche di tortura che autorità militari responsabili della prigione a dir poco
tolleravano, i media adottarono immediatamente il frame per cui Abu Ghraib
rappresentava abusi isolati a opera di pochi militari. Un meccanismo chiave era l’assenza
della parola «tortura» nella maggior parte degli articoli giornalistici. La vicenda sparì in
fretta dai titoli dei notiziari, con le autorità che ne minimizzavano la rilevanza e con i
media mainstream restii a muovere critiche alle forze armate americane nel bel mezzo di
una guerra. Per limitare l’accesso del pubblico alla realtà delle torture effettuate dalle
truppe USA, era fondamentale limitare l’esposizione a immagini «offensive». Il pretesto
era che il loro contenuto poteva essere eccessivamente traumatico per gli spettatori
sensibili. Internet ha offerto una piattaforma globale per esporre la brutalità dei carcerieri
di Abu Ghraib. Ma nella presentazione di queste immagini i media americani si sono
mostrati molto più reticenti dei loro omologhi europei e del resto del mondo.
Sono stati fatti straordinari sforzi per limitare l’esposizione delle immagini di Abu
Ghraib nella sfera pubblica americana. Per esempio, il celebre artista colombiano
Ferdinando Botero ha esposto le sue opere sconvolgenti sulle torture di Abu Ghraib in
importanti gallerie d’arte europee, ma le sue ripetute offerte di portare la mostra negli Stati
Uniti sono state educatamente respinte da tutte le maggiori gallerie del paese. Alla fine, il
Center of Latin American Studies dell’University of California a Berkeley ha presentato i
dipinti nella biblioteca dell’università, tra le acclamazioni dei critici d’arte e dei visitatori.
Botero ha quindi donato i quadri a Berkeley, dove sono ancora in mostra. Ma la
testimonianza artistica di Botero è stata accuratamente rimossa dal dibattito pubblico in
America a causa del suo carattere controverso, pur essendo ispirata da una ben nota realtà.
Ma una realtà senza immagini è una realtà sbiadita.
Il framing dei media rappresenta un processo stratificato che inizia con un negoziato tra
attori politici chiave o gruppi d’interesse e i media prima di raggiungere la mente della
cittadinanza. Entman ha proposto un influente modello analitico noto come attivazione a
cascata. Lo presentiamo schematicamente nella figura 3.2. Il modello, basato sulla ricerca
di Entman (2004) sulla relazione tra framing delle notizie, pubblica opinione e potere, a
proposito di temi di politica estera USA, evidenzia l’interazione sequenziale tra diversi
attori in una gerarchia di influenza che combina i meccanismi di agenda-setting, priming,
framing e indicizzazione in un singolo processo caratterizzato dalle relazioni asimmetriche
tra gli attori, temperate da loop di feedback. Dichiarazioni e notizie generate al vertice
della gerarchia politica (autorità degli alti livelli dell’amministrazione) il più delle volte
danno l’avvio a notizie giornalistiche di politica nazionale e internazionale. Questo per
due motivi principali: costoro sono in possesso di informazioni privilegiate, e le loro scelte
politiche sono quelle che hanno maggiori probabilità di produrre conseguenze (per
esempio, in determinati casi la decisione tra la guerra e la pace). Il processo di agenda-
setting è filtrato da élite politiche di secondo strato o da élite straniere di primo strato, fino
a raggiungere i media che forniscono i frame per il pubblico in base ai messaggi ricevuti
dalle élite politiche. I frame si diffondono nei media e le reti interpersonali, e vengono
attivati nella mente delle persone. Ma il pubblico reagisce anche influenzando i media, o
con i suoi commenti o semplicemente con il livello di attenzione, che viene misurato in
termini di audience mediatica.
FIG. 3.2. Attivazione a cascata delle reti.
Fonte: Adattato da Entman (2004, p. 10, figura 1.2).
È importante notare che, una volta costruiti, i frame giornalistici hanno un effetto di
feedback sulle élite politiche. Per esempio, una volta che i frame della «guerra al terrore»
si sono ben impiantati nei media, è diventato assai rischioso per le élite politiche di
secondo strato contrastarli con dichiarazioni e voti. Robinson (2002) ha dimostrato che
l’influenza dei frame mediatici sulle élite politiche è più pronunciata quando le decisioni
politiche sono incerte. Robinson propone un modello di interazione media-politica basato
sull’analisi di sei diverse crisi umanitarie in cui i frame mediatici dominanti riguardavano
la questione dell’intervento USA. In tutti i sei casi, rilevava che il livello di incertezza
politica combinato con il framing mediatico era il miglior elemento di previsione sulla
decisione finale riguardo all’intervento americano. Questi riscontri collimano con la tesi
presentata nel corso di questo capitolo: l’incertezza induce ansia che provoca l’acuirsi
dell’attenzione nell’opinione pubblica come nell’establishment politico, predisponendo
così il governo ad agire su questioni di alta priorità.
Nel modello di attivazione a cascata, la audience è equiparata alla pubblica opinione,
quale viene riflessa nei sondaggi di opinione, nei pattern di voto e in altri indicatori di
comportamento aggregato. In questo senso, la logica del modello è interna al sistema
politico. Il pubblico è visto come una miscela di consumatori politici e di audience
reattiva. Questa, ovviamente, non è l’opinione dei ricercatori, e tanto meno quella di
Entman. Riflette la costruzione del processo di agenda-setting e del framing dal punto di
vista delle élite politiche e dei media. Il modello prevede una certa misura di dominanza
del frame, dalla dominanza assoluta di un singolo frame nelle notizie alla «parità di
frame» in cui «due o più interpretazioni sono grosso modo sullo stesso piano», che
rappresentano «le condizioni che le teorie della libertà di stampa preferiscono» (Entman,
2004, p. 48). La ricerca indica però che la parità di frame costituisce l’eccezione a una
regola di dominanza del frame quando si tratta di politica estera, anche se un certo grado
di contestazione del frame si presenta in una consistente minoranza di casi (Entman,
comunicazione personale, 2008).
Le élite politiche dominanti detengono il massimo controllo sui frame mediatici. Questo
livello di controllo si intensifica quando tali frame si riferiscono a eventi culturalmente
congruenti (per esempio, la difesa della nazione contro il nemico dopo l’11 settembre o in
tempo di guerra). In effetti, Gitlin (1980), Hallin (1986) e Luther e Miller (2005) hanno
rilevato che in tempo di guerra la stampa americana tende a emarginare le voci di dissenso
(per esempio, il movimento pacifista), privilegia i professionisti della politica, e spesso si
concentra sullo spettacolo della protesta in sé anziché sulle posizioni dei manifestanti.
Questo non è un carattere esclusivo dei media americano. Gli studi sulla copertura
giornalistica della guerra in Iraq hanno evidenziato che il fenomeno per cui le posizioni
politiche ufficiali ricevono uniformemente maggior tempo mediatico di quelli che
dissentono è attestato anche nel Regno Unito (Murray et al., 2008), in Svezia (Dimitrova e
Strömbach, 2005) e in Germania (Lehmann, 2005; Dornschneider, 2007).
I contro-frame hanno una maggiore influenza quando si riferiscono a eventi
culturalmente ambigui; per esempio, la gestione della catastrofe provocata dall’uragano
Katrina, quando il ruolo di protezione della popolazione civile da parte del governo veniva
contraddetto dai rapporti sul campo. C’è però la possibilità che i media accettino il
framing dell’amministrazione su una questione ma non l’interpretazione dell’azione che
ne segue, come mostrano i casi dell’invasione di Grenada (1983), del bombardamento
della Libia (1986) e dell’invasione di Panama (1989-1990; Entman, 2004).
Nel modello di attivazione a cascata, anche i media sono stratificati. Così, New York
Times e altre pubblicazioni di primo piano hanno una ricaduta sugli altri media grazie a un
processo di agenda-setting intermediatico (Van Belle, 2003; Entman, 2004, p. 10; Golan,
2006). Le variazioni nell’elaborazione del framing nel modello a cascata dipendono da
due fattori principali: il livello di unità o di dissenso nell’élite politica e la congruenza o
incongruenza culturale dei frame proposti al vertice della cascata. Le opportunità di cui
dispongono i professionisti dei media di introdurre contro-frame o una varietà di schemi
interpretativi sono molto più ampie quando esiste una discrepanza tra le élite e/o
incongruenze culturali tra chi formula le decisioni e la cultura del paese (per esempio,
palesi violazioni dei diritti umani). Perché siano sufficientemente potenti da rappresentare
una sfida per i frame indotti dalle élite, i contro-frame debbono essere culturalmente
consonanti con il pubblico – o almeno con la percezione che i giornalisti hanno della
pubblica opinione.
L’attivazione, a ogni livello della cascata, dipende dalla quantità di informazione che
viene comunicata in un particolare set di framing. Ciò che passa da un livello a un altro è
basato sulla comprensione selettiva. Le motivazioni svolgono un ruolo chiave
nell’efficacia del framing a ciascun livello della cascata. I partecipanti al processo di
comunicazione sono «avari cognitivi» che selezioneranno le informazioni in base alle loro
abitudini, come si è già detto in questo capitolo. Le élite scelgono i frame che favoriscono
le loro carriere politiche . I professionisti dei media scelgono le notizie capaci di esercitare
un maggior richiamo sul pubblico senza rischiare ritorsioni da parte degli attori potenti. La
gente tende a evitare la dissonanza emozionale, e quindi si rivolge a quei media che
confermano i suoi punti di vista. Per esempio, quando si cerca di sottrarsi al processo di
cascata in un sistema mediatico perché si dissente da quei frame, si cercano notizie online
da fonti estere. Best et al. (2005) hanno mostrato che individui insoddisfatti del frame
dominante nel loro paese cercano informazioni di conferma (di solito tramite Internet) in
fonti mediatiche straniere. Così, l’attivazione a cascata opera all’interno di specifici
sistemi di politica e in relazione a specifici ambienti mediatici. La rete globale dei media
giornalistici offre al pubblico un’alternativa quando il framing in un particolare contesto
mediatico non riesce a strappare l’accettazione o a fiaccare la resistenza. In effetti, il
framing mediatico non è un determinante irresistibile delle percezioni e del
comportamento della gente. È certamente importante svelare il meccanismo con cui gli
attori sociali influenzano le menti umane tramite i media, ma altrettanto fondamentale è
evidenziare la capacità di quelle stesse menti di rispondere a frame alternativi provenienti
da fonti diverse o di bloccare la ricezione di notizie che non corrispondono al loro modo di
pensare.
Per esaminare l’interscambio tra framing e contro-framing nel modellare la mente
umana attraverso il processo della comunicazione, passerò ora a un caso di studio di
particolare rilevanza per la nostra comprensione di comunicazione e potere: il framing del
pubblico americano nel processo che ha portato alla guerra in Iraq.
Conquistare le menti, conquistare l’Iraq, conquistare Washington: dalla
disinformazione alla mistificazione3
Nel marzo 2004, la Sottocommissione della Camera USA sulla Riforma del governo
(2004) produsse una relazione (The Waxman Report) che comprendeva un database
consultabile di 237 affermazioni false o fuorvianti sulle ragioni della guerra americana in
Iraq, fatte dal presidente George Bush, dal vicepresidente Richard Cheney, dal segretario
alla Difesa Donald Rumsfeld, dal segretario di Stato Colin Powell, e dalla consigliera per
la Sicurezza Nazionale Condoleezza Rice in 125 diverse apparizioni pubbliche4. Queste
dichiarazioni comprendevano riferimenti alle capacità nucleari dell’Iraq, ai suoi legami
con Al Qaeda e al coinvolgimento di Saddam Hussein negli attentati dell’11 settembre.
Nel giugno 2004 il 9/11 Commission Report sottolineava la mancanza di prove su un
collegamento tra Saddam Hussein e Al Qaeda. Il mese seguente, luglio 2004, la
Commissione del Senato sull’Intelligence diffuse un rapporto simile che smentiva le
affermazioni dell’amministrazione. Nell’ottobre 2004, Charles Duelfer, incaricato
dall’amministrazione Bush di indagare sulla questione, produsse un rapporto che
dichiarava che le indagini non avevano trovato alcuna prova di un programma
complessivo di armamenti dopo il 1991 (Duelfer, 2004). A tutt’oggi, nessuna prova
dell’esistenza di armi di distruzione di massa è stata trovata né è stata stabilita alcuna
connessione tra l’Iraq e Al Qaeda anteriore alla guerra.
A suo tempo i media americani e internazionali hanno dato ampia diffusione a questi
risultati. Eppure, nell’ottobre 2004, secondo un sondaggio Harris, il 30 per cento degli
americani era ancora convinto che gli Stati Uniti avessero individuato armi di distruzione
di massa (WMD, Weapons of Mass Destruction) in Iraq. Inoltre, per il 62 per cento «l’Iraq
ha dato un appoggio sostanziale ad Al Qaeda» (Harris, 2004b). La cosa ancor più
straordinaria è che nel luglio 2006, dopo anni di informazioni ufficiali e rapporti mediatici
che documentavano la falsificazione della situazione prebellica in Iraq, un altro sondaggio
Harris (2006) rilevava che il numero di americani convinti che in Iraq erano state trovate
WMD era salito al 50 per cento (dal 36 per cento del febbraio 2005) e che la convinzione
che Saddam Hussein avesse stretti contatti con Al Qaeda era tornata al 64 per cento (da un
punto minimo del 41 per cento nel dicembre 2005; vedi tabella 3.1).
TAB. 3.1. Percezioni errate degli americani sulla guerra in Iraq, 2003-2006
Saddam aveva armi di distruzione di massa (%) a Saddam aveva stretti legami con Al Qaeda (%) a
Giugno 2003 69 48
Agosto 2003 67 50
Ottobre 2003 60 49
Febbraio 2004 51 47
Aprile 2004 51 49
Giugno 2004 – 69
Ottobre 2004 38 62
Febbraio 2005 36 64
Dicembre 2005 26 41
Luglio 2006 50 64
a
Margine di errore +/– 3%.
Fonte: Harris Poll (2004a, b, 2005, 2006).
Una serie di sondaggi effettuati da una fonte diversa e altrettanto affidabile, il Program
for International Policy Attitudes (PIPA), individuava anch’essa diffuse percezioni erronee
sulle circostanze che avevano portato alla guerra in Iraq. Così, secondo il PIPA nell’agosto
2004, cioè dopo che molteplici fonti governative avevano confermato che tali percezioni
erano sbagliate, il 35 per cento degli americani credeva ancora che gli Stati Uniti avessero
localizzato armi di distruzione di massa in Iraq e un ulteriore 19 per cento era convinto
che, sebbene non fossero state trovate le armi, l’Iraq disponesse di un programma
avanzato per crearle. Inoltre, il 50 per cento credeva o che «l’Iraq ha dato un appoggio
sostanziale ad Al Qaeda, ma non era coinvolto negli attacchi dell’11 settembre 2001» (35
per cento) o che «l’Iraq era direttamente coinvolto negli attacchi dell’11 settembre 2001»
(15 per cento). Inoltre nel dicembre 2006, dopo anni di informazioni ufficiali e di rapporti
giornalistici che documentavano la falsificazione della situazione prebellica in Iraq, una
nuova indagine condotta dal PIPA rilevava che il 51 per cento degli americani credeva
ancora che fossero state trovate WMD o che l’Iraq avesse un programma significativo per
realizzarle, e il 50 per cento degli americani credeva che Saddam Hussein avesse stretti
legami con Al Qaeda o fosse direttamente implicato nell’11 settembre5.
Com’è possibile che una percentuale così significativa di popolazione è potuta rimanere
così disinformata tanto a lungo? Qual è il processo sociale che ha portato all’adozione
diffusa della disinformazione? E quali sono stati gli effetti politici di queste percezioni
distorte, in particolare rispetto alle posizioni nei confronti della guerra? Come è stato
ottenuto il sostegno per la guerra a partire dalle errate percezioni attivate nelle elezioni
presidenziali e congressuali? Per affrontare queste domande, mi baserò sulla teoria e la
ricerca presentata in questo capitolo, senza fare ulteriori rimandi a ciò che ho già citato e
documentato.
Comincerò riaffermando che la gente tende a credere a ciò che vuole credere. Filtra le
informazioni per adottarle a giudizi preconcetti. È molto più riluttante ad accettare dati di
fatto che contraddicono le proprie certezze che non quelli che rafforzano le proprie
convinzioni. Inoltre, nonostante tutte le informazioni in senso contrario, l’amministrazione
Bush ha continuato per anni dopo l’inizio della guerra a diffondere dichiarazioni fuorvianti
che giocavano su preesistenti percezioni errate. Per esempio, nel giugno 2004,
rispondendo per il 9/11 Commission Report, il presidente Bush dichiarò ai giornalisti che
«il motivo per cui continuo a insistere che esisteva una relazione tra l’Iraq e Saddam e Al
Qaeda è che c’era una relazione tra Iraq e Al Qaeda». In un altro esempio, il 22 giugno
2006, il senatore repubblicano Rick Santorum, leggendo da un rapporto del National
Ground Intelligence Center, disse a una conferenza stampa:
Abbiamo trovato armi di distruzione di massa in Iraq, armi chimiche. Dal 2003 le
forze della coalizione hanno recuperato circa 500 munizioni di armamenti, che
contengono iprite o agente nervino sarin. Nonostante i ripetuti sforzi per localizzare e
distruggere le munizioni chimiche irachene nella prima guerra del Golfo, è stato
accertato che le munizioni chimiche presenti prima della guerra del Golfo esistono
ancora (Fox News, 2006).
I ricercatori hanno riscontrato che le connessioni emozionali e cognitive tra terrorismo e
guerra in Iraq sono state fondamentali per aumentare il livello del sostegno popolare alla
guerra. Diversi studi hanno mostrato che gli individui che più temevano futuri attacchi
terroristici, e/o erano più preoccupati della propria mortalità, erano maggiormente portate
ad appoggiare il presidente Bush, la guerra in Iraq, e la più ampia guerra al terrore (p. es.,
Huddy et al., 2002; Hetherington e Nelson, 2003; Kull et al., 2003-2004; Landau et al.,
2004; Cohen et al., 2005; Valentino et al., 2008). Così, in un sondaggio sulle opinioni nei
confronti della guerra in Iraq condotto da Huddy et al. (2007), gli individui ansiosi erano
più portati a opporsi alla guerra che non gli individui arrabbiati. L’ansia acuiva il rischio
percepito e riduceva l’appoggio alla guerra, mentre la rabbia riduceva la percezione del
rischio e aumentava l’appoggio a favore dell’intervento militare. La rabbia riduceva anche
la connessione tra le conoscenze sull’Iraq e l’appoggio alla guerra. Le persone arrabbiate
non erano meno informate, ma le informazioni non indebolivano il loro appoggio alla
guerra rispetto alle persone non arrabbiate. Viceversa, un livello superiore di informazione
riduceva l’appoggio alla guerra tra le persone ansiose. L’ansia, comunque, se spinge gli
individui a cercare nuove informazioni, ha anche l’effetto di ridurre la capacità di valutare
e/o ricordare informazioni. Huddy et al. (2005) rilevano che quelli più ansiosi tra l’11
settembre e l’inizio della guerra in Iraq, mentre seguivano la politica con più attenzione,
erano anche meno accurati nel ricordo di quegli eventi.
Questi risultati hanno potenti implicazioni se accoppiati con gli studi da cui risulta che
gli individui che disponevano di meno fatti e più percezioni errate sulla guerra erano più
portati ad appoggiarla (Kull et al., 2003-2004; Valentino et al., 2008). Così, quelli che
erano arrabbiati erano più portati a sottovalutare le conseguenze della guerra, mentre
quelli più ansiosi erano portati a cercare più informazioni. Tuttavia, considerando che la
messa in circolazione di informazioni errate da parte dell’amministrazione avveniva
tramite i media, anche i soggetti ansiosi si basavano su informazioni imprecise e così
erano meno portati a ricordare le informazioni di smentita (Valentino et al., 2008). In altre
parole, le persone ansiose potevano essere meno portate ad appoggiare la guerra, ma le
persone ansiose che comunque appoggiavano la guerra erano meno portate a lasciare che
le loro opinioni fossero influenzate dall’introduzione di informazioni correttive.
Si direbbe che le informazioni in se stesse non alterano le opinioni a meno che non vi
sia un eccezionale livello di dissonanza cognitiva. Questo perché la gente sceglie le
informazioni in base ai propri frame cognitivi. Stimoli destinati a produrre effetti
emozionali che condizionano l’elaborazione delle informazioni e danno forma ai processi
decisionali possono attivare determinati frame. Gli sforzi per mobilitare gli americani in
appoggio alla guerra in Iraq attivavano due frame principali: la guerra al terrore e il
patriottismo. L’amministrazione Bush e i media formavano chiaramente e costantemente
connessioni tra la guerra al terrorismo e la guerra in Iraq (Fried, 2005; Western, 2005). La
guerra al terrorismo e le immagini e i temi a essa associati (Al Qaeda, l’Afghanistan, la
guerra in Iraq, l’islamismo radicale, i musulmani in generale) costruivano una rete di
associazioni nella mente delle persone (Lakoff, 2008). Attivavano l’emozione più
profonda esistente nel cervello umano: la paura della morte. Esperimenti psicologici in
una varietà di paesi hanno accertato che connettere tematiche ed eventi con la morte
favorisce il formarsi di posizioni politiche conservatrici nel cervello degli individui
(Western, 2007, pp. 349-376). Una volta che sia stata evocata la paura della morte, la
gente si aggrappa a quello che ha e a quello in cui crede come rifugio e difesa,
riaffermando così valori tradizionali, valori sperimentati dalla storia e dall’esperienza
collettiva. Le persone diventano meno tolleranti verso il dissenso e più inclini a politiche
di legge e ordine, più nazionaliste, e maggiormente sostenitrici della famiglia patriarcale.
Le ragioni sono profonde.
Come ha affermato Ernest Becker (1973) nel suo ormai classico The Denial of Death, e
come io ho elaborato nella mia analisi sulla trasformazione del tempo nella società in rete
(1996, pp. 481-491), la psicologia individuale e le culture collettive hanno sviluppato
determinati meccanismi per evitare di affrontare la morte quale nostra unica certezza.
Rifiutare la consapevolezza del non essere è una condizione per l’essere. Mettendo le idee
di Becker alla prova della ricerca, Cohen et al. (2005), come riporta Westen (2007), hanno
mostrato gli effetti della salienza della mortalità sulle opinioni e il comportamento delle
persone. Indagando sull’impatto dell’ansia che ne deriva sulle decisioni politiche, hanno
rilevato che la presenza della morte nella mente degli elettori ha portato a un forte
appoggio per Bush e per la sua politica in Iraq nelle elezioni del 2004, anche tra persone di
ideologia liberale. In una indagine mirata, gli elettori nel Nordest hanno votato 4 a 1 a
favore del candidato presidenziale democratico John Kerry quando non gli si ricordava
della morte, mentre quelli che hanno riempito un «questionario sulla morte» votavano 2 a
1 per Bush (Westen, 2007, p. 367). I riscontri combaciano con la teoria della gestione del
terrore sviluppata da Solomon e colleghi, secondo la quale l’evocazione della morte è un
potente strumento strategico nella politica e in particolare nella politica conservatrice
(Solomon et al., 1991; Landau et al., 2004).
I frame guerra al terrorismo e patriottismo sono stati entrambi particolarmente efficaci
nel clima psicologico uscito dagli attacchi dell’11 settembre. Ma sono due cose distinte.
La metafora della guerra al terrore attiva un frame di paura, che come abbiamo visto è
associato con la rabbia e l’ansia (Huddy et al., 2007). La metafora del patriottismo agisce
sull’emozione dell’entusiasmo, suscitando mobilitazione in appoggio al paese, radunando
letteralmente la gente intorno all’immagine della bandiera americana che sventola sugli
schermi televisivi, sui veicoli dei pompieri e della gente comune, e sui distintivi esibiti
dagli opinion-leader (Brewer et al., 2003).
But who framed whom? In linea di massima, l’agenzia politica ha fornito i frame ai
media, che a loro volta li hanno offerti al loro pubblico. Anzi, la gente dipende dai media
per ricevere informazioni e opinioni. Gli studi sull’influenza della copertura
massmediatica sul terrorismo hanno messo in evidenza la correlazione tra l’accresciuta
copertura e le percezioni pubbliche della minaccia del terrorismo (Kern et al., 2003;
Nacos, 2007; Nacos et al., 2008). Ma queste informazioni, quando si riferiscono a
importanti temi politici, hanno origine all’interno del sistema politico e vengono fornite
sotto forma di frame. Sono anche i frame a definire la relazione tra diverse componenti
dell’agenzia politica. Questa relazione è asimmetrica. La presidenza è solo una delle
componenti di questa agenzia, sia pure la più importante a causa della sua facoltà
costituzionale di realizzare il potere esecutivo (Entman, 2004). L’agenzia politica
comprende anche il Congresso (differenziando tra repubblicani e democratici), le forze
armate come istituzione, le Nazioni Unite, e leader stranieri, differenziando tra gli alleati
dell’amministrazione e altri governi. Il successo iniziale dell’amministrazione
nell’imporre i frame della guerra al terrore e del patriottismo alle élite politiche americane
(repubblicane e democratiche senza differenza) ha disarmato la potenziale opposizione.
Associando la guerra all’Iraq con la guerra al terrore e alla difesa della nazione, ogni
dissenso di una qualche entità sarebbe stato facilmente etichettato come antiamericano, o
dall’amministrazione o dai suoi surrogati nei media, mettendo così a repentaglio intere
carriere di politici (Jamieson e Waldman, 2003; Western, 2005; Lakoff, 2008)6.
George Lakoff ha analizzato il modo in cui l’amministrazione Bush ha usato successivi
frame per neutralizzare le critiche dei democratici alla guerra, anche quando, nel
novembre 2006, i democratici hanno conquistato il controllo di entrambe le camere.
Secondo le parole di Lakoff, «la battaglia politica era una battaglia per il framing» (2008,
p. 148). L’amministrazione Bush ha combattuto questa battaglia in fasi successive,
cambiando la narrazione in seguito all’imprevista evoluzione della guerra. Il frame
originario, basato sulla minaccia costituita dalle armi di distruzione di massa, poggiava su
una narrazione di autodifesa. Nelle prime settimane della guerra, mentre le truppe USA
entravano a Baghdad, fu evocato il frame della vittoria per dirottare l’agenda dai pesanti
combattimenti nella capitale e dintorni. In una scena allestita dai militari a beneficio dei
giornalisti, i soldati americani aiutavano i cittadini iracheni a rovesciare una grande statua
di Saddam Hussein in modo tale da evocare un frame di vittoria. Aday et al. (2005), in una
analisi di contenuto sulla copertura dei telegiornali americani sull’episodio della statua,
illustrano lo zelo con cui i media adottavano il «frame vittoria» veicolato dall’evento.
Rilevano anche che, in seguito a questo evento, il numero di servizi che documentavano il
perdurare delle violenze in Iraq diminuì drasticamente, lasciando pensare che nella sfera
mediatica il frame vittoria batteva le narrazioni potenzialmente competitive. Come già
detto, la propensione della stampa a riecheggiare la narrazione fissata
dall’amministrazione in tempo di guerra non è una caratteristica esclusiva degli Stati
Uniti. In uno studio transnazionale sulle immagini che accompagnavano gli articoli dei
quotidiani sulla statua di Saddam Hussein, Fahmy (2007) ha verificato che i quotidiani
pubblicati nei paesi della coalizione usavano più immagini dell’evento complessivo e più
immagini che appoggiavano il frame di vittoria di quanto accadesse nei paesi che non
facevano parte della coalizione. Il frame della vittoria venne parimenti evocato quando il
presidente Bush sbarcò su una portaerei davanti a una folla di soldati (più tardi si scoprì
che il tutto era avvenuto a San Diego) con uno striscione sullo sfondo che annunciava
«Missione compiuta». I critici sottolineano che l’evento aveva un evidente carattere
teatrale. Bush arrivava in tuta di volo a bordo di un caccia, anche se l’elicottero
presidenziale avrebbe potuto comodamente trasportarlo sulla portaerei.
Non essendo state scoperte armi di distruzione di massa, fu introdotta la narrazione del
soccorso: gli USA erano in Iraq per accorrere in aiuto degli iracheni e portare il dono della
democrazia. Quando ben presto fu chiaro che la «missione» era tutt’altro che «compiuta»,
e che la resistenza all’occupazione e la guerra civile intensificavano la violenza in Iraq, gli
iracheni ufficialmente liberati improvvisamente diventarono «insorti» o «terroristi» e fu
reintrodotta la narrazione della guerra per autodifesa. Al Qaeda venne immessa nel frame
con maggiore credibilità, ora che il rovesciamento di Saddam Hussein e lo smantellamento
dell’esercito iracheno facilitavano la presenza di Al Qaeda in Iraq dopo l’invasione del
paese. Nella prima metà del 2004, quando, proprio all’epoca della campagna elettorale per
le presidenziali, l’appoggio alla guerra cominciò a vacillare, i caduti americani
cominciarono a crescere, e vennero alla luce le prove delle torture dei prigionieri di Abu
Ghraib per mano dei militari USA, l’amministrazione intensificò i tentativi di inserire la
guerra in Iraq in un frame che la connetteva con l’11 settembre e con Al Qaeda. I sondaggi
Harris, condotti subito dopo che la commissione sull’11 settembre aveva pubblicato le sue
conclusioni, mostrano che il numero degli americani convinti che Saddam Hussein avesse
forti legami con Al Qaeda guadagnava ben venti punti percentuali, passando dal 49 per
cento dell’aprile 2004 al 69 per cento del giugno 2004.
Perché il presidente assumesse i poteri di guerra era essenziale che l’amministrazione
evitasse di menzionare la parola occupazione e mantenesse il frame della guerra come
parte della guerra al terrorismo per la sicurezza dell’America. Ma una volta iniziata la
guerra, la chiave di una riuscita strategia di framing era introdurre il frame patriottico nel
dibattito, concretizzato nell’«appoggio alle nostre truppe». Qualsiasi tentativo del
Congresso di disimpegnare il paese dall’occupazione dell’Iraq divenne suscettibile di
accuse di slealtà verso il paese e la guerra, e di tradimento per le truppe in azione sul
campo. Il presidente Bush riuscì a utilizzare questi frame per respingere ogni serio
tentativo da parte dei democratici di tagliare i finanziamenti per la guerra, e fu in grado
persino, nel maggio 2007, di convincere il 90 per cento dei rappresentanti nel caucus «Out
of Iraq» nel Congresso a votare la prosecuzione dei finanziamenti, in netto contrasto con
la posizione da loro dichiarata e con la volontà espressa dal loro elettorato nel novembre
2006.
I leader stranieri e le Nazioni Unite venivano o cooptati come «coalizione dei
volenterosi» o attaccati come partner inaffidabili. Poiché la scelta politica doveva
procedere sulla via dell’unilateralismo come esibizione della superpotenza americana,
l’effetto voluto era quello di trascinare la pubblica opinione americana, indipendentemente
dalla pubblica opinione mondiale. Per contrastare l’idea di un isolamento, fu attivato il
frame patriottico: noi, in quanto americani, siamo i difensori della libertà a prescindere
dall’indecisione o dall’irresponsabilità di altri paesi. Nei mesi che precedettero la guerra, il
framing arrivò al punto di cambiare il nome delle patatine fritte, da «French fries» a
«Freedom fries», nel ristorante del Congresso USA.
Il riuscito framing delle élite politiche da parte dell’amministrazione preparava la scena
per l’efficacia del processo di agenda-setting. L’agenda-setting è rivolta ai media, e
tramite i media è trasmessa per influenzare l’opinione pubblica. L’agenda-setting implica
due operazioni connesse: dare evidenza a determinate questioni e definire una narrazione
per tali questioni. In questo caso, l’amministrazione Bush fissava l’agenda collegando la
guerra in Iraq con la guerra al terrorismo, e mobilitando il paese intorno ai sacrifici e agli
atti eroici delle truppe americane. Come s’è detto, la narrazione originaria si basava sulla
disinformazione: Saddam Hussein aveva sviluppato armi di distruzione di massa e non
intendeva cederle; Saddam era collegato con Al Qaeda; Al Qaeda aveva attaccato gli USA
e aveva giurato di intensificare la potenza devastante di futuri attacchi. Ergo, l’Iraq
rappresentava una minaccia diretta alla sopravvivenza del popolo americano, alimentando
le reti del terrorismo che avrebbero finito per seminare il disastro in America e distruggere
lo stile di vita occidentale in tutto il mondo. L’azione preventiva era un imperativo morale
e una necessità difensiva. Come disse George Bush in un discorso ai soldati di Fort Lewis
nel giugno 2004:
Questo è un regime che odiava l’America. E così abbiamo visto una minaccia, ed era
una minaccia reale. E per questo sono andato alle Nazioni Unite… I membri del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno visto il materiale dell’intelligence e
hanno visto una minaccia, e hanno votato all’unanimità per mandare un messaggio a
Mr Saddam Hussein, disarmare o affrontare gravi conseguenze. Come al solito, lui ha
ignorato le richieste del mondo libero. E così avevo una scelta da fare – fidarmi della
parola di un pazzo, o difendere l’America. Davanti a una scelta simile, io difenderò
sempre l’America.
Chiaramente, la protezione delle riserve petrolifere e la liberazione del popolo iracheno
erano elementi aggiuntivi dell’argomento, ma si trattava di argomentazioni cognitive, e
pertanto subordinate all’impatto emotivo cercato con il riferimento alle armi di distruzione
di massa nelle mani dei terroristi dell’11 settembre7.
Seguendo la teoria dell’attivazione a cascata, propongo l’idea che l’agenda-setting è
diretta principalmente ai media perché è per loro tramite che frame e narrazioni
raggiungono la popolazione generale. Come hanno dimostrato Entman (2004, 2007),
Bennett et al. (2007) e altri, i media reagiscono in modo diverso a seconda del livello di
accordo esistente tra élite politiche. Maggiore è il dissenso, più diversificato è il
trattamento della narrazione, con l’accresciuta possibilità di introdurre contro-frame nel
riportare e dibattere le questioni. I media reagiscono al clima politico con il priming degli
eventi e l’indicizzazione delle notizie. Nel periodo 2002-2003, c’era scarso dissenso nel
Congresso USA rispetto alla guerra in Iraq e alla guerra al terrorismo. Finché non
percepirono una seria spaccatura nella valutazione del conflitto, i media rimasero in larga
misura confinati entro la narrazione fornita dall’amministrazione. È questo il motivo per
cui va differenziata l’analisi tra il periodo 2002-2003 e il periodo che ha portato e ha
seguito le elezioni presidenziali del 2004, quando il dissenso politico è cominciato ad
affiorare in termini di narrazione, pur senza mettere in discussione i frame predominanti
che erano stati attivati nella mente della gente.
TAB. 3.2. Frequenza delle percezioni errate per fonte di notizie (%)
Le teorie della gestione del terrore ci dicono che gli stimoli subliminali di morte
accrescono negli individui la tendenza ad appoggiare politiche e azioni che sostengono la
propria visione del mondo o il proprio orientamento culturale (per esempio, la guerra al
terrore; Landau et al., 2004). È anche provato che entro queste condizioni, gli individui
tendono a gravitare verso leader che sembrano rispecchiare la loro visione del mondo e la
loro cultura. Attraverso uno studio sperimentale, per esempio, Cohen et al. (2005) hanno
scoperto che i soggetti per cui la mortalità rivestiva un livello di salienza alta erano molto
più portati a gravitare verso Bush, un leader che consideravano carismatico e rispecchiante
la propria visione del mondo, anziché verso John Kerry, un candidato che era percepito
come «task-oriented». Per estensione, possiamo ritenere che gli americani alla ricerca di
una conferma della propria visione del mondo si rivolgessero al Fox News Channel,
un’emittente che riaffermava costantemente il primato della supremazia politica e
culturale dell’America (Iskandar, 2005). La questione, quindi, diventa quella della
causalità. Gli spettatori sono influenzati dalla parzialità dei media oppure sono attirati da
quegli organi mediatici che ritengono più in sintonia con il proprio punto di vista? Kull et
al. (2003-2004) propendono per l’ipotesi di un effetto indipendente delle fonti mediatiche
sulle percezioni. Ma è probabile che siano in atto entrambi i processi. Le persone che sono
motivate dai propri pregiudizi danno retta solo a chi vogliono ascoltare (Gentzkow e
Shapiro, 2006). Per chi è portato a un maggiore approfondimento a causa dell’ansia
indotta da emozioni negative, l’esposizione a specifiche fonti mediatiche può ribaltare
l’opinione nell’uno o nell’altro senso.
Nei media mainstream, il content bias ha dominato finché le opinioni delle élite
politiche sono rimaste coerenti con i frame istituiti dall’amministrazione8. Quando le élite
hanno cominciato a dividersi sulla guerra, è stata introdotta una parzialità sul processo
decisionale, con i giornalisti professionisti che interpretavano i segnali in arrivo dal
pubblico e propri criteri per differenziare i punti di vista, pur senza mettere in discussione i
frame fondamentali del patriottismo e della guerra al terrore. Quando le critiche sulla
conduzione della guerra sono emerse tra i democratici e si sono intensificate nel mondo, i
media mainstream hanno smesso di seguire l’agenda fissata dall’amministrazione Bush e
hanno dissociato la guerra in Iraq dai frame dominanti che fino a quel momento avevano
influenzato i loro servizi. Hanno iniziato a parlare di disinformazione, introducendo così
dei contro-frame nel processo. Più la competizione politica trasformava il panorama e
l’agenda-setting, più i giornalisti dei media mainstream usavano la parzialità decisionale
(ossia esercitavano le proprie preferenze professionali nel priming e nell’indicizzazione
delle notizie) offrendo tagli diversi, a seconda dell’interazione tra politica d’élite e «fatti
sul terreno». Tuttavia, i frame prodotti dall’amministrazione Bush hanno a lungo dominato
fino alla campagna presidenziale del 2004. Per esaminare l’evoluzione dell’appoggio alla
guerra e della valutazione della sua conduzione, e individuare i punti di flessione in questa
evoluzione, Amelia Arsenault e io abbiamo preparato la tabella A3.1 presente in
Appendice. La tabella A3.1 fornisce una visione d’insieme dei cambiamenti nella pubblica
opinione riguardo alla guerra, in base alla documentazione del Pew Research Center for
the People and the Press, e i mutamenti concreti sul terreno in Iraq come sono stati
presentati dal Brookings Institution Iraq Index tra il marzo 2003 e l’aprile 2008. I dati
della tabella A3.1 sono riportati in forma di grafico nella figura 3.3.
Baserò la mia analisi sulla lettura di questi dati. Nel gennaio 2004, il 65 per cento degli
americani era ancora convinto che l’invasione USA dell’Iraq fosse stata la decisione giusta
e il 73 per cento pensava che la guerra stesse procedendo bene. Nel febbraio 2004
l’opinione cominciò a rivolgersi contro la guerra: il sostegno calò in misura significativa
nel mese di maggio, a un livello del 51 per cento, e raggiunse per la prima volta dall’inizio
del conflitto un livello minoritario di approvazione nell’ottobre 2004 (46 per cento). Per
spiegare come si sia verificato questo cambiamento e come esso fosse connesso alla
disinformazione, dobbiamo riandare alla teoria e ricordare specifici eventi.
Poiché il 2004 era un anno di elezioni presidenziali, i media erano ricettivi a una fonte
di agenda-setting diversa dalle élite politiche. Il presidente Bush fece nella guerra in Iraq il
tema centrale della sua campagna in un periodo in cui godeva di un ampio supporto,
compreso un certo appoggio tra i democratici all’inizio del 2004. Dall’altra parte la
campagna per le primarie di Howard Dean, che rimase il front-runner democratico fino
alla sua sconfitta nei caucus dello Iowa nel gennaio 2004, raccoglieva l’opposizione alla
guerra in Iraq e allargava lo spazio disponibile per l’inclusione di contro-frame nel
dibattito pubblico. Poiché Dean organizzò buona parte della sua campagna intorno a
Internet (Teachout e Streeter, 2008), la discussione sulla guerra divenne particolarmente
intensa nella blogosfera, e parte di questo dibattito ampliò il campo di attenzione dei
media. Il citizen journalism cominciò a giocare un ruolo. Alcune informazioni riuscirono a
penetrare nel labirinto dell’agenda-setting, fino ad allora controllato in gran parte
dall’amministrazione.
FIG. 3.3. Sostegno alla guerra in Iraq e valutazione del suo andamento, marzo 2003 - aprile 2008.
Fonte: Compilato ed elaborato da Amelia Arsenault.
FIG. 3.4. Morti e feriti tra le truppe USA in Iraq, gennaio 2006 - aprile 2008.
Fonte: Compilazione ed elaborazione di Amelia Arsenault.
La nuova agenda apparve sotto le sembianze di una ragionevole strategia per lasciare
l’Iraq a tempo debito dopo aver riportato la stabilità e ottenuto la vittoria su Al Qaeda.
Finché non si fossero consolidati i guadagni ottenuti con la surge strategy, lo spiegamento
di truppe sarebbe stato mantenuto a un livello sufficientemente alto, e i comandanti sul
campo sarebbero rimasti responsabili della decisione sulle fasi del ritiro. I media in
generale presero per buona questa agenda-setting e lo stesso fecero in qualche misura
molti democratici. L’amministrazione Bush riusciva, sia pure temporaneamente, a
consolidare l’idea della legittimità della guerra trasferendo il potere di agenda-setting a
una fonte più credibile e tradizionalmente stimata: i comandi militari impegnati nel
combattimento diretto con il nemico. Questo rappresentava la risurrezione sotto nuova
veste del frame della vittoria, un frame difficile da rifiutare. Quello della vittoria
incorporava sia il frame patriottico sia quello della guerra al terrore. Toccava anche la
paura generale della fallibilità americana che aveva dominato l’opinione pubblica fin
dall’11 settembre. Se la guerra in Iraq era la battaglia chiave contro Al Qaeda, ottenere la
vittoria in Iraq era un passo decisivo per vincere la guerra al terrore. Dotando di
territorialità le invisibili reti del terrorismo, la surge strategy lasciava intendere che la
sicurezza si poteva raggiungere con i mezzi tradizionali dello scontro militare. Poiché il
controllo territoriale richiede una continuità di presenza militare, la vigilanza sulla vittoria
implica una presenza di lungo termine delle forze armate USA, sia pure a livello ridotto,
nella più critica regione del mondo.
Quel che andava perso in questa narrazione era l’incapacità della surge strategy di
affrontare la ricostruzione dell’Iraq, la democratizzazione del paese, la coesistenza di
comunità religiose inconciliabili, l’instabilità istituzionale, l’inaffidabilità delle forze
armate e della polizia irachene, la difficoltà di preservare l’unità dell’Iraq, il
reinsediamento di milioni di sfollati, la funzionalità di un’economia in macerie, e il
mantenimento della presenza di decine di migliaia di mercenari profumatamente pagati dal
contribuente americano. I dati sulle perdite umane in diminuzione offrivano il meccanismo
chiave dell’agenda-setting. Con le immagini di violenza drasticamente ridotte nei
telegiornali, venivano attutiti gli aspetti emozionali della guerra in Iraq, mentre gli aspetti
cognitivi del conflitto, compresa la responsabilità originaria della guerra, diventavano
argomento di editoriali poco letti e di occasionali commenti di giornalisti professionisti
(Project for Excellence in Journalism, 2008b). La figura 3.5 fornisce un’approssimazione
dell’incapacità dei media giornalistici di rispondere adeguatamente alla domanda di
notizie sulla guerra in Iraq avanzata dal pubblico. La linea del grafico riflette la differenza
tra la percentuale di intervistati che riferivano di essere interessati alle notizie sull’Iraq più
che a qualsiasi altra informazione giornalistica e la percentuale dell’agenda dei notiziari
dedicata alla copertura della guerra.
FIG. 3.5. Copertura della guerra nei media a confronto della probabilità dell’interesse degli elettori per le notizie di
guerra, gennaio 2007 - aprile 2008.
Fonte: Dati dal Pew News Interest Index e dal Project for Excellence in Journalism News Index, giugno 2007 -
aprile 2008, elaborati da Amelia Arsenault.
Come illustra la figura 3.5, l’unico periodo in cui i media più che soddisfarono l’interesse
degli americani per le notizie sulla guerra in Iraq fu durante le testimonianze del generale
Petraeus, un periodo in cui l’amministrazione si trovava nella posizione privilegiata di
farsi paladina dei successi della guerra e di ricalibrare il frame delle notizie. In questo
periodo la mistificazione prendeva il posto della disinformazione quale principale
meccanismo dell’amministrazione per garantirsi la continuazione di un ambiente
favorevole per lo sforzo bellico. La maggioranza della popolazione statunitense rimaneva
contraria alla guerra, ma la surge strategy incoraggiava un sottile spostamento. Durante
questo periodo, l’evidenza del successo della strategia riduceva l’importanza della guerra
nella mente di molti americani, concedendo all’amministrazione una maggiore
indipendenza operativa.
Questa indipendenza operativa era agevolata dallo spostamento dell’attenzione
mediatica dalla guerra in Iraq al deteriorarsi dell’economia USA e alla campagna
elettorale presidenziale del 2008, il che metteva in sordina la rilevanza del conflitto in Iraq
nei notiziari. Questo, in realtà, era il risultato di un meccanismo fondamentale di parzialità
decisionale nei media. Frammenti di informazione, presentati come «storie»,
componevano la narrazione nei media, e in particolare alla televisione. Ogni storia ha sue
caratteristiche, un suo formato e una sua via di trasmissione. Sono indicizzate in
dipendenza dalla percepita rilevanza per il pubblico. Ogni storia rimanda a un ambito di
informazione. Il significato della relazione tra diverse storie è trattato come opinione o
analisi giornalistica. Così, a meno che non sia lo spettatore stesso a stabilire la
connessione tra le diverse storie, esse rimangono indipendenti, e portano a valutazioni
indipendenti. Nella realtà, esisteva una connessione evidente tra la guerra in Iraq,
l’economia e la campagna presidenziale. Non credo sia necessario qui fornire sostegno per
questa affermazione (vedi Stiglitz e Bilmes, 2008) perché qui mi concentro sul
meccanismo del media bias. Ma la chiave è la disgiunzione che avviene tra notizie
riportate e ciò che è intimamente connesso nella realtà. Comunque, le conseguenze
economiche della guerra venivano sottolineate da diversi candidati politici democratici, in
particolare da Barack Obama, fornendo in tal modo un contro-frame capace di raccogliere
consensi per la cessazione della guerra. Ma in termini di informazione giornalistica, le
notizie sul legame esistente tra la guerra e l’economia erano nascoste nelle pieghe dei
servizi sulla campagna elettorale. Quanto alla campagna in sé, nelle primarie presidenziali
del 2008 l’Iraq non fu un punto focale del dibattito perché c’era accordo di posizioni sia
all’interno del campo repubblicano sia all’interno di quello democratico (salvo la
sconfessione di Hillary Clinton del suo iniziale appoggio alla guerra nel 2002), e quindi
non c’era molto materiale da sottoporre a priming nel frame della corsa elettorale.
Tutt’altra cosa, come si sa, è stata la campagna presidenziale conclusasi con le elezioni
del novembre 2008. Ma al momento dell’inizio della campagna, considerando l’insolito
protrarsi delle primarie democratiche, la narrazione sul successo della cosiddetta surge
strategy era diventata dominante nei media, nonostante il fatto che tanto Obama quanto la
Clinton si fossero impegnati a un ritiro graduale dall’Iraq, in diretta contraddizione con gli
ammonimenti lanciati dal generale Petraeus nella testimonianza resa al Congresso
nell’aprile del 2008. Il generale veniva promosso capo del comando centrale responsabile
della supervisione in Iraq e in Afghanistan, mentre i contendenti presidenziali democratici
spostavano l’attenzione sulla galoppante crisi economica. Così, mentre oltre due terzi di
americani erano contrari alla guerra nella primavera del 2008, il frame della vittoria
istituito dall’amministrazione continuava a funzionare tra il nocciolo duro dei sostenitori
della guerra, mentre il contro-frame introdotto dai leader democratici rendeva la
conduzione della guerra un derivato della politica economica. A causa dei frame
contrapposti, indotti dalle mutate esigenze di opportunità politica, a partire dal dicembre
2007 l’opinione pubblica sull’evoluzione della guerra fu caratterizzata da alta volatilità più
che da un trend specifico di valutazione della conduzione della guerra. Come già
ricordato, Sears e Henry (2005) hanno rilevato che raramente, nel corso degli ultimi
trent’anni, le preoccupazioni economiche hanno influenzato le posizioni elettorali e
politiche, tranne che in presenza di una seria crisi economica o di un evento che sconvolge
nel profondo la vita quotidiana. Nel 2008, con i prezzi dei carburanti alle stelle, la
contrazione del mercato immobiliare, i massicci pignoramenti di case, e infine il crollo dei
mercati finanziari e una crisi economica paragonabile solo agli anni Trenta, ha diffuso tra
gli americani una maggiore consapevolezza della precaria condizione economica del loro
paese. Per la prima volta, secondo i sondaggi Gallup, l’economia sorpassava la guerra in
Iraq come «il problema più importante» che l’America si trovava davanti. Nel settembre
2006 solo il 7 per cento degli intervistati segnalava le preoccupazioni economiche come
preminenti, mentre il 39 per cento metteva al primo posto la guerra in Iraq. Nel marzo del
2008 la tendenza si era rovesciata. Solo il 15 per cento pensava che la guerra in Iraq fosse
il problema più importante, mentre il 39 per cento dava il primo posto all’economia.
Così, cinque anni di framing e contro-framing avevano portato il pubblico americano
dalla disinformazione alla mistificazione. Per connettere questo caso di studio all’analisi
degli effetti di frame, narrazioni, agenda-setting e altre forme di distorsione mediatica
sulla mente degli individui, sintetizzerò qui l’argomento e presenterò un’illustrazione
sintetica dell’analisi nella figura 3.6.
FIG. 3.6. Produzione sociale delle percezioni mediatiche sulla guerra in Iraq, 2001-2008.
Le conclusioni di questa analisi sulla produzione sociale delle percezioni erronee sulla
guerra in Iraq sono le seguenti. Nel processo che condusse alla guerra in Iraq, i cittadini
americani vennero sottoposti ai frame della guerra al terrore e del patriottismo tramite i
media, e poi disinformati dall’agenda fissata dall’amministrazione, con il consenso delle
élite politiche, come rappresentata dai media. Le emozioni positive (entusiasmo)
mobilitavano il sostegno per le truppe, e in ultima analisi per la guerra, sotto la forma
dell’orgoglio nazionale e dei sentimenti patriottici. La gente rispondeva in base alle
proprie routine ideologiche. Così, i conservatori si schieravano a favore della guerra e
respingevano le informazioni che mettessero in dubbio le proprie convinzioni (Jacobson,
2007b). Emozioni negative, come la paura, avevano differenti conseguenze a seconda del
fatto se scatenavano rabbia o ansia. La rabbia mobilitava all’azione e riduceva il vaglio
delle informazioni. L’ansia viceversa aumentava l’incertezza e attivava i meccanismi di
sorveglianza della mente inducendo a una più accurata ricerca di informazioni per limitare
il livello di rischio. Quindi, i conservatori schierati e i cittadini arrabbiati affermavano le
loro convinzioni in appoggio alla narrazione dell’amministrazione e opponevano
resistenza a qualsiasi informazione alternativa proveniente da fonti diverse, come Internet,
la National Public Radio (NPR), le fonti straniere, o gli editoriali dissenzienti sui media
mainstream. I democratici schierati erano dilaniati tra l’accettazione dei frame iniziali e la
sfiducia verso un presidente che, nell’opinione di molti, nel 2000 era stato eletto con la
frode. I cittadini ansiosi cercavano migliori informazioni per formulare i propri giudizi.
Tuttavia, dal momento che la maggioranza dei media diffondeva in linea di massima la
narrazione impostata originariamente dall’agenda dell’amministrazione, i risultati di tale
ricerca erano inevitabilmente limitati. Le percezioni errate sulla guerra son durate per
anni. In effetti, un sondaggio della CBS News condotto nel marzo 2008 rilevava che il 28
per cento degli americani credeva ancora che Saddam Hussein fosse coinvolto in prima
persona negli attentati dell’11 settembre (pollingreport.com).
Intensità e frequenza delle percezioni errate erano fortemente correlate con l’appoggio
alla guerra, con la convinzione che il conflitto stesse procedendo bene, con l’appoggio al
presidente e con l’appoggio ai repubblicani. Se i repubblicani erano i più portati a
mantenere le percezioni errate, queste erano molto diffuse anche tra i democratici. Una
volta che tali opinioni si erano consolidate nella mente degli individui, informazioni
aggiuntive non cambiavano le percezioni se queste erano radicate in convinzioni
partigiane. Anzi, coloro che erano pronti a votare per Bush nelle elezioni del 2004, più
seguivano le notizie, più rafforzavano i loro punti di vista e il loro appoggio per il
presidente. Per la gente in generale, invece, l’effetto delle notizie variava a seconda della
fonte, come dimostrano i citati studi di Kull et al. (2003-2004) e di Jacobson (2007a, b).
È stato dimostrato che l’appoggio alla guerra è stato pesantemente determinato dalla
disinformazione. Nei sondaggi del PIPA condotti nel luglio-agosto del 2003, tra gli
individui che non avevano nessuna delle tre maggiori percezioni errate sulle circostanze
della guerra (che erano informati cioè dell’inesistenza dei legami tra Saddam Hussein e Al
Qaeda, dell’inesistenza delle armi di distruzione di massa e dell’ostilità della maggioranza
dell’opinione pubblica mondiale nei confronti dell’invasione guidata dagli USA) solo il 23
per cento appoggiava la guerra. Tra quelli che avevano almeno una percezione errata, il
sostegno per la guerra raggiungeva il 53 per cento; tra quelli con due percezioni errate, il
sostegno arrivava al 78 per cento; e tra quelli con tutte e tre le percezioni errate, il
sostegno schizzava all’86 per cento (Kull et al., 2003-2004). La correlazione tra
percezioni errate e appoggio alla guerra continuava negli anni seguenti, anche se il livello
di percezione errata era ridotto, particolarmente per quelli che non erano repubblicani
schierati (PIPA, 2005, 2006; Harris, 2006).
Poiché la guerra era la questione politica più saliente, appoggiarla significava
appoggiare il presidente che l’aveva lanciata, che aveva fissato i frame per i media, e che
aveva disinformato la cittadinanza. Ma questa situazione cambiò nel corso del tempo. Il
dissenso tra le élite politiche diversificava l’agenda proposta ai media. Il giornalismo dei
cittadini e Internet forzavano i frame dominanti che avevano ingabbiato l’informazione.
La perdita di fiducia nel presidente, l’uragano Katrina e una serie di scandali che colpirono
l’amministrazione e il Partito repubblicano, stimolarono un maggiore approfondimento
delle informazioni e delle narrazioni sulla guerra. Le perdite umane cominciarono a essere
percepite come qualcosa di insensato, anziché come l’eroico sacrificio inevitabile
conseguenza della difesa della nazione. L’appoggio alle truppe portò molti ad appoggiare
il ritiro di uomini mandati allo sbaraglio per motivi oscuri o sbagliati. Le elezioni del
novembre 2006 tradussero l’opposizione alla guerra in cambiamento politico.
L’appoggio alla guerra però non svanì dopo queste elezioni (vedi tabella A3.1 in
Appendice). Questo perché un nocciolo duro di cittadini conservatori mantennero le
proprie convinzioni e in larga misura rimasero legati a concezioni sbagliate in quanto i
loro frame mentali non potevano accettare informazioni che ne contraddicessero le
opinioni. Così, al minimo storico dell’appoggio alla guerra, nel dicembre 2007, c’era
ancora un 36 per cento di americani convinto che la guerra fosse una decisione giusta
(saliti al 38 per cento nel febbraio 2008). Cosa ancora più importante, nella seconda metà
del 2007 e all’inizio del 2008 una crescente porzione dell’opinione pubblica (tra il 40 e il
45 per cento) era convinta che la guerra procedesse bene. Questo si può attribuire a due
meccanismi. Uno era il successo dell’agenda-setting proposta dai militari USA in Iraq e la
sua accettazione da parte di quasi tutti i media. La seconda era una certa ambiguità
presente tra i politici democratici, compresi i candidati presidenziali, che erano riluttanti a
porsi in rotta di collisione con i militari, non esistendo una facile via d’uscita dall’Iraq nel
breve termine. Così, l’influenza della nuova narrazione dei repubblicani, impersonata dal
senatore John McCain, si basava sul concetto di responsabilità: anche se dal primo
momento è stato un errore entrare in guerra, ora che siamo in Iraq dobbiamo restarci
finché la faccenda non sarà risolta. Gli esponenti della leadership democratica erano stretti
tra la volontà dell’81 per cento di chi li aveva votati nel 2006, che voleva che ci si ritirasse
dall’Iraq entro un anno, e la loro eleggibilità e responsabilità.
Comunque, la trasformazione più fondamentale nel corso dell’intero processo fu quella
che si verificò nella mente delle persone. Un’ampia maggioranza di cittadini americani
divenne più isolazionista di quanto il paese fosse mai stato dai tempi della guerra in
Vietnam. Erano pronti a barattare il ruolo imperiale del loro paese negli affari mondiali
con l’assistenza sanitaria e un lavoro sicuro. Il patriottismo vennne ridefinito in termini di
benessere della società, e il frame della guerra al terrore perse gran parte del suo spettrale
potere di intimidazione. Come scrivono Baum e Groeling dopo aver proceduto a un’analisi
statistica della relazione tra frame mediatici, agenda-setting politica e opinioni sulla guerra
in Iraq: «Prima o poi, sembrerebbe, il pubblico è in grado di discernere, almeno in una
certa misura, le autentiche qualità di un conflitto, indipendentemente degli sforzi in senso
contrario compiuti dalle élite» (2007, p. 40). Resta però il fatto che più tardi il pubblico
riesce a far saltare i frame della disinformazione, e più le azioni delle élite mistificatrici
riescono a produrre distruzione e sofferenza soprattutto «quando la stampa manca al suo
dovere» (Bennett et al., 2007).
Il potere del frame
La costruzione del potere procede plasmando la formazione delle decisioni, con la
coercizione o con la costruzione di senso, o con entrambe. La lotta secolare per la
democrazia ha portato all’elaborazione di regole di condivisione del potere sulla base della
condizione di cittadinanza. Si diventa cittadini assumendo il proprio ruolo e i propri diritti
come soggetti sovrani di potere, quindi delegando il proprio potere a rappresentanti tenuti
a rendere conto alla cittadinanza. Il meccanismo, imperfetto ma indispensabile, della
rappresentanza in teoria si basa su elezioni politiche libere, controllate da un sistema
giudiziario indipendente, e rese competitive dalla libertà di stampa e dal diritto alla libertà
di parola. Variazioni storiche e manipolazioni delle istituzioni da parte dei detentori del
potere hanno reso molte volte irriconoscibile la democrazia, se assumiamo una prospettiva
mondiale di lungo periodo. Ma gli ininterrotti tentativi di perfezionare la democrazia
continuano ad avere come obiettivo l’avvicinamento a questo tipo ideale di democrazia
procedurale. Si riteneva, e ancora si ritiene, che se si preserva l’apertura del sistema
politico, se i gruppi di pressione non controllano l’accesso alle cariche elettive, se i partiti
e i governi non hanno mano libera nella manipolazione a loro favore del sistema, i
cittadini, liberi, informati, capaci di mettere a confronto i loro punti di vista senza
impedimenti, riusciranno alla fine ad avvicinarsi a un processo trasparente di formazione
condivisa delle decisioni. Questo non garantirà un buon governo ma almeno una buona
governance, con la possibilità di rettificare gli eventuali errori nelle scelte operate dalla
maggioranza e nel rispetto dei diritti delle minoranze.
Ma in che modo il bene comune emerge dalla pluralità di liberi individui autodiretti?
Mediante l’aperta discussione delle opzioni politiche presentate ai cittadini dai loro
aspiranti leader. Così, in questa visione del processo politico, la chiave è il modo in cui
vengono decise le politiche. Ci sono buone politiche e cattive politiche per gruppi specifici
e per la collettività nel suo insieme. Il processo di aggregazione degli interessi tramite il
dibattito sulle scelte di politica implica l’esistenza di una razionalità superiore che
giungerà a rivelarsi grazie al libero confronto delle idee. Naturalmente, occorre che sia
presa in considerazione la pluralità degli interessi e dei valori sociali. La politica liberale è
la politica della ragione. Anzi, per un breve periodo all’apice della Rivoluzione francese,
la dea Ragione fu venerata e posta sul trono della cattedrale di Notre Dame il 10 novembre
1794; le chiese vennero convertite in templi dedicati alla dea. La ragione diventava la
nuova trascendenza, e annullava il potere di Dio facendo appello a quanto di meglio c’era
nella mente degli individui, alla loro unicità di specie autoconsapevole capace di
comprendere e controllare la vita, prefigurarsi il futuro, e appropriarsi della natura dopo
millenni in cui l’umanità si era assoggettata. La ragione ci rendeva superiori, mentre gli
«istinti» o le emozioni avrebbero abbassato la nostra umanità al livello degli animali. La
politica della ragione era modellata su questo principio, e lo è ancora. Ovviamente c’era, e
c’è, la chiara consapevolezza che questo non è un mondo perfetto, e che il comportamento
emozionale inquina il regno della razionalità. Quindi, la purezza degli ideali politici viene
perseguita nel confronto fra politiche ben strutturate a risolvere i problemi della
collettività, reprimendo al tempo stesso il comportamento irrazionale, emotivo, che
potrebbe condurci nelle turbolente acque della demagogia e del fanatismo. Come la
mettiamo, però, se sentimenti ed emozioni sono componenti essenziali del processo
decisionale? Cosa succede se le emozioni e i sentimenti in ultima analisi decidono il modo
in cui la politica, e la formazione del potere in generale, costituiscono significato, e quindi
comportamento, e danno luogo ad azione che, più che razionalmente decisa, è
razionalizzata? Come scrivono Leege e Wald (2007) seguendo Wuthnow (1987):
Passo II: Il fango viene messo in mano ai sondaggisti, che grazie a sofisticate
tecniche di sondaggio possono determinare quale parte di quel fango nella mente
degli elettori può arrecare maggior danno politico.
La nostra convinzione è che quando il prodotto della ricerca sia stato pubblicato, il
lavoro è stato fatto solo a metà. È qui che allora cominciamo a piazzarlo ai media…
Tra il nostro compito c’è lo smercio delle idee, la vendita di proposte politiche. Ci
dedichiamo attivamente a vendere queste cose, giorno dopo giorno. È la nostra
missione (cit. in Rich, 2005a, p. 25).
Così, mentre i think tank liberal e indipendenti sono impegnati principalmente
nell’analisi, in base alla loro fede nella politica razionale, i think tank conservatori sono
soprattutto orientati a plasmare le menti con i mezzi della politica mediatica.
Fatto piuttosto interessante, in Gran Bretagna, gli studiosi dei think tank politici più
attivi e lucidi hanno acquistato preminenza durante i primi tempi di Tony Blair nella carica
di primo ministro. Per esempio, Geoff Mulgan (1991, 1998), uno dei più innovativi
analisti della società in rete, partecipò nel 1993 alla fondazione della Demos e più tardi,
nel 1997, passò a guidare la Forward Strategy Unit di Tony Blair nell’ufficio del primo
ministro. Però, lo shock politico sofferto da molti di questi think tank in seguito
all’allineamento di Blair con Bush in seguito all’11 settembre portò a una separazione tra i
think tank più acuti e il Partito Laburista durante gli ultimi mandati di Blair. In altri paesi,
le fondazioni operanti sulle linee politiche sono abitualmente connesse ai maggiori partiti
politici. E così, per esempio, in Germania, con la Friedrich Ebert Foundation, associata
con i socialdemocratici. O, in Spagna, con la Fundación Alternativas e la Fundación Pablo
Iglesias in area socialista, e la FAES Foundation guidata dall’ex leader conservatore José
María Aznar. Ma la maggior parte di queste fondazioni svolgono principalmente un ruolo
nell’analisi delle politiche e nell’elaborazione ideologica più che possedere una funzione
operativa nel formulare la linea politica del partito. La pratica della politica
informazionale è di solito lasciata ai consulenti politici, un’industria globale in crescita le
cui radici affondano nella politica americana, come ho già ricordato (Sussman, 2005;
Bosetti, 2007).
Mirare il messaggio: il profiling della cittadinanza
Una volta formulate politiche e strategie politiche, la politica mediatica entra in una nuova
fase operativa: l’identificazione di valori, convinzioni, opinioni, comportamenti sociali e
comportamenti politici (compresi gli schemi di voto) di segmenti della popolazione
identificati per distribuzione demografica e spaziale. Mark Penn, uno dei maggiori
sondaggisti americani, e nel 2008 consulente capo nella campagna per le primarie
presidenziali di Hillary Clinton, compie nel suo libro Microtrends (Penn e Zalesne, 2007)
una attenta dissezione dell’elettorato americano in base ai profili sociali. Illustra in che
modo, cercando le correlazioni statistiche tra caratteristiche demografiche, convinzioni,
inclinazioni mediatiche e comportamento politico, diventa possibile strutturare un target
per ciascun gruppo specifico e attingere alle sue predisposizioni, affilando così il
messaggio. Come si traduce, questo, in strategia politica? L’esempio che segue chiarirà il
metodo.
In un’intervista a Vanity Fair, Karl Rove, da molti considerato il principale artefice
della strategia comunicativa di George W. Bush, raccontava che quando nel quartiere
generale della campagna di Bush si seppe che la sitcom televisiva Will & Grace – su un
gay, Will, e la sua amica Grace che abitano insieme in un appartamento di New York – era
estremamente popolare tra i giovani repubblicani e i votanti incerti, particolarmente le
donne, saturarono il programma di 473 spot elettorali a pagamento. La campagna piazzava
le pubblicità in un programma che offriva un ritratto favorevole della vita dei gay urbani,
mentre allo stesso tempo puntava ad aumentare l’affluenza alle urne dei segmenti più
conservatori della popolazione presentando un emendamento costituzionale che metteva al
bando il matrimonio tra omosessuali (Purdum, 2006).
Così, il messaggio è unico: il politico. Le incarnazioni del candidato in diversi formati
varia con la popolazione target (Barisione, 1996). Ovviamente, entro limiti tali da evitare
di esporsi a clamorose contraddizioni tra le immagini proiettate in diversi gruppi, spazi e
tempi. I focus groups contribuiscono a rifinire i messaggi, e i sondaggi offrono un modo
per misurare l’efficacia del messaggio in tempo reale e per seguire l’evoluzione della
pubblica opinione. Per sé, però, i sondaggi non rappresentano uno strumento di
navigazione politica troppo sofisticato perché rivelano solo la posizione del politico nella
pubblica opinione e gli elementi positivi e negativi del suo messaggio. È la combinazione
di messaggi e analisi dei dati sociali ciò che offre un’interpretazione delle tendenze in
tempo reale e accresce l’opportunità di modificare sviluppi sfavorevoli operando su
opinioni latenti con nuove bordate di messaggi mirati differenziati per ciascuna categoria
sociale (Hollihan, 2008). La costituzione di database ha un altro effetto operativo diretto
sulle strategie politiche. È possibile calcolare i dati per ciascuna circoscrizione elettorale,
offrendo così una geografia politica di prima scelta che permette una propaganda politica
personalizzata con telefonate automatizzate dal vivo alle case dei potenziali elettori,
propaganda postale, e sollecitazione di voti, come spiegherò analizzando le campagne
politiche.
Il fatto che questa forma sofisticata di marketing politico sia derivata da marketing
commerciale è chiara indicazione della nascita del cittadino-consumatore come nuovo
personaggio della vita pubblica. In effetti, politici e aziende usano i medesimi database
perché esiste un attivo business della vendita dati, che nasce dall’uso di una massiccia
potenza informatica applicata all’elaborazione di dati di fonte governativa e accademica
grazie all’immensa raccolta di dati risultante dall’invasione della privacy da parte di
aziende di carte di credito, compagnie di telecomunicazione e aziende di Internet che
vendono informazioni su quei loro clienti (la maggioranza) che, ignorando le parti scritte
in piccolo nei contratti, non negano il loro consenso alla politica delle società di vendere i
dati dei loro clienti.
In effetti, il vasto e sofisticato sistema di targetizzazione degli elettori, trainato dalla
costruzione della «Voter Vault», la «cassaforte dei votanti», un database contenente
informazioni sulle popolazioni target, è stato uno dei fattori chiave nel successo del Partito
Repubblicano negli Stati Uniti nel corso dei cicli elettorali del 2000 e del 2004. Karl Rove,
il cervello brillante e privo di scrupoli che stava dietro all’ascesa al potere dei conservatori
nella politica americana, è considerato uno degli artefici chiave dell’adattamento delle
tecniche di marketing aziendale alle campagne elettorali statunitensi. Mi soffermerò
brevemente su questa analisi, essendo uno dei casi più rivelatori della politica
informazionale. Seguire la carriera di Karl Rove come operativo della politica offre una
finestra sull’evoluzione della pratica politica dei primi anni dell’Età dell’Informazione.
Karl Rove è stato il principale architetto della strategia politica dell’amministrazione
Bush fino a quando, nell’agosto del 2007, ha dato le dimissioni per evitare
l’incriminazione nell’affare Plame (vedi tabella A4.1 in Appendice). Ha inoltre guidato la
campagna per l’elezione di Bush nel 1994 e nel 1998 alla carica di governatore del Texas,
la riuscita candidatura di John Ashcroft nel 1994 al Senato, e i riusciti tentativi per il
Senato di John Coryn (2002) e di Phil Gramm (1982 per la Camera e 1984 per il Senato).
Era considerato il «cervello di Bush» e, insieme con Lee Atwater8, gli viene attribuita la
trasformazione delle strategie elettorali del Partito Repubblicano9.
Rove iniziò il suo lavoro ufficiale per il Partito Repubblicano nel 1971 quando lasciò il
college per assumere l’incarico di presidente esecutivo dei College Republicans. Lavorò
per la prima volta con Lee Atwater nel 1973, quando Atwater gli organizzò la campagna
per la presidenza nazionale dei College Republicans. Durante questa campagna, un
avversario che aveva abbandonato la competizione (Terry Dolan) passò dei nastri al
Washington Post in cui si sentiva Rove che spiegava le tecniche sporche impiegate in
campagna elettorale, come frugare nell’immondizia dell’avversario. Il Post pubblicò la
storia all’apice dello scandalo Watergate di Nixon. George H.W. Bush risolse la questione
se Rove dovesse vincere l’elezione date queste rivelazioni pronunciandosi a favore di
Rove. Fu così che Rove incontrò per la prima volta George W. Bush. Rove si trasferì in
Texas qualche anno dopo e lavorò come consulente per la prima candidatura al Congresso
di George W. Bush nel 1978. Due anni dopo George H.W. Bush assumeva Rove per la
campagna del 1980 – ma lo licenziò a metà corsa perché aveva passato informazioni alla
stampa. Lasciata la Casa Bianca, Rove divenne analista politico per il Fox News Channel,
come anche Dick Morris, a cui viene attribuita analogamente la responsabilità di aver
spinto Bill Clinton ad approcciarsi alla politica come a uno stile di vita, un processo di
marketing trainato dal consumismo10.
Sotto la guida di Rove, il Partito Repubblicano aprì la strada all’uso delle tecniche di
MLM (multi-level marketing), quello che i repubblicani e Rove definivano «metrica». Le
società di MLM sono tradizionalmente aziende che costruiscono business tramite un
reclutamento di tipo piramidale e tecniche di marketing (vendendo candidati come si
vendono Tupperware). Uno dei nomi di punta del multi-level marketing aziendale è
Amway. Richard De Vos fondò l’Amway nel 1959, una società che nel 2004 aveva vendite
che superavano i 6,2 miliardi di dollari. La famiglia De Vos ha da tempo un’affiliazione
con la politica del GOP. Ubertaccio (2006a, p. 174) afferma che l’ingresso ufficiale della
famiglia De Vos nella politica elettorale è solo l’ultima prova della sinergia tra partiti e
MLM. Secondo Ubertaccio (2006a), il Partito Repubblicano commissionò degli studi per
verificare l’efficacia di queste tecniche di KLK, a partire dal 2002, riconoscendo la
necessità di accrescere il numero degli elettori tra specifiche popolazioni di votanti se si
voleva spuntarla ancora una volta, visti i margini strettissimi della vittoria ottenuta nel
2000. La ricerca MLM nel mondo aziendale aveva mostrato che i volontari sono più
efficaci nel reclutare e dirigere altri volontari, in particolare nel campo del loro interesse
mirato. Fecero un uso politico di queste tecniche in due progetti che rappresentano la
politica informazionale al suo meglio: la 72-Hour Task Force e il progetto Voter Vault.
Con Rove, il Partito Repubblicano mise in piedi per la prima volta la 72-Hour Task
Force nel 2001 per spingere la partecipazione dei votanti repubblicani. Utilizzando dati di
MLM durante ciascuna elezione, la Task Force si concentra sull’obiettivo di incrementare
l’affluenza di votanti repubblicani durante una campagna mirata di tre giorni prima di una
data giornata elettorale. Lo fanno appoggiandosi a volontari scelti con cura che quindi
attivano le loro specifiche reti (per esempio, chiese, circoli di tiro, membri
dell’Associazione genitori e insegnanti, e così via).
Però, la strategia più ambiziosa ed efficace fu la costituzione di Voter Vault, uno
sterminato database costruito dal Partito Repubblicano in previsione delle elezioni
presidenziali 2004. Il database contiene informazioni su specifici gruppi, tra cui dati sui
consumi, registrazioni di licenze di caccia, abbonamenti a riviste considerate di carattere
«repubblicano». Il sistema possiede informazioni su oltre 175 milioni di individui e
include strumenti di organizzazione di base che facendo riferimento al web permettono
agli attivisti volontari di formare proprie «circoscrizioni». Vault è messa a disposizione dei
partiti nazionali e statali. Fu il sondaggista e stratega di Bush Matthew Dowd (che faceva
capo a Rove) a lanciare Vault. Voter Vault usa un sistema a punti che, in base a determinati
criteri di sollecitazione del voto, può rilevare se da una circoscrizione verrà più
probabilmente un voto repubblicano o democratico. Il materiale del database – elaborato
quasi interamente in India – proviene da varie fonti di informazioni pubbliche. I dati sono
acquistati legalmente in blocco sul web o raccolto da decine di migliaia di operatori sul
campo. I dati statistici venivano da rapporti e rating di credito, abbonamenti a riviste e
documentazione scambiata tra pubblicazioni mensili e settimanali, registrazioni
automobilistiche, questionari sul consumo a cui la gente rispondeva o che spediva in
cambio di un omaggio, registrazioni delle preferenze di acquisto dei consumatori raccolte
con le carte di sconto, liste di ogni locale chiesa evangelica fornita di bus, più i dati di
censimento sulla costituzione razziale e finanziaria di un determinato quartiere.
La Voter Vault contribuì a espandere l’uso da parte del Republican National Commitee
(RNC) di propaganda postale e telefonate micromirate. Nel 2004, il Partito Repubblicano
spese quasi 50 milioni di dollari in propaganda postale (dai 22 milioni del 2000). Spese
8,6 milioni di dollari in telefonate nel 2004 (contro i 3,6 milioni nel 2000; La Raja et al.,
2006, p. 118). Contemporaneamente, le spese per il personale di partito scendevano dai 43
milioni di dollari nel 2000 ai 33 milioni del 2004, probabilmente per il maggior uso di
sistemi automatizzati di targeting degli elettori. Nelle elezioni del 2006, il presidente
dell’RNC, Ken Mehlman, ampliò Vault, come spiegava a Vanity Fair: «Individuiamo il
target degli elettori come Visa individua i clienti delle carte di credito. Questa è la
differenza rispetto a prima. Un tempo li individuavamo in base alla collocazione
geografica. Oggi ci basiamo su quello che fanno e su come vivono» (Purdum, 2006).
Voter Vault permetteva un più alto microtargeting dei media. Nel 2004, il team di Bush
identificò quali siti web erano visitati dai potenziali votanti e quali canali via cavo questi
guardavano. Spese i soldi che aveva in conseguenza, piazzando pubblicità su emittenti via
cavo specializzate come il Golf Channel e l’ESPN, dal pubblico tendenzialmente
repubblicano. Questo permise al partito di inserire nel target votanti repubblicani residenti
in «aree a maggioranza liberal», che con i sistemi tradizionali sarebbero sfuggiti. Tra il
2004 e il 2006, l’RNC estese l’accesso a Vault a organizzatori in tutti i cinquanta stati e
addestrò al suo uso circa 10.000 volontari.
Per non essere da meno, a partire dal 2002 il Partito Democratico sviluppava due
database: DataMart, contenente i dati di 166 milioni di votanti registrati, e Demzilla, un
database più piccolo usato per la raccolta di fondi e per organizzare gli attivisti. Ma
diversamente da Voter Vault, i dati del database del Democratic National Committee
(DNC) coprivano solo le due elezioni precedenti, e soltanto 36 stati vi potevano accedere,
e l’elaborazione dei dati immessi era di gran lunga inferiore che nel sistema repubblicano.
A febbraio del 1997, per iniziativa personale di Howard Dean, al tempo presidente del
comitato democratico, il DNC rimpiazzò questi sistemi con VoteBuilder. Definito «lo stato
dell’arte dell’interfaccia per gli archivi dei votanti a livello nazionale», questo strumento
basato sul web era destinato a far sì che i candidati democratici, dal partito nazionale ai
partiti statali, avessero accesso agli strumenti necessari per vincere le elezioni. Ma solo
con la tornata elettorale del 2008 i democratici istituirono un database centralizzato,
continuamente aggiornato.
In quale misura queste nuove strategie informazionali incisero sul processo politico?
Panagopoulos e Wielhouwer (2008) hanno esaminato le indagini compiute dal National
Election Study (NES) per il 2000 e il 2004, gli anni che hanno visto la maggior quantità di
«propaganda a contatto personale» da quando quell’indagine hanno avuto inizio. Hanno
scoperto che, complessivamente, le campagne individuavano un target di elettori che
avevano già votato per il partito. Nel 2004 gli elettori degli stati in bilico erano una preda
assai ambita per entrambi i partiti. L’attenzione era concentrata sull’assicurarsi la base
elettorale del proprio partito, pur continuando a prestare attenzione agli indipendenti. I
database erano fondamentali per identificare i due gruppi di votanti. L’affluenza alle urne
crebbe nettamente nel 2004 – presumibilmente in seguito all’accresciuta concentrazione
sulla mobilitazione degli elettori. Di 202,7 milioni di votanti idonei, il 60,3 per cento votò
nelle elezioni presidenziali del 2004, un consistente incremento rispetto al dato del 2000,
del 54,2 per cento, e il secondo maggior tasso di partecipazione dagli anni Sessanta
(McDonald, 2004, 2005; Bergan et al., 2005). Questo aumento è particolarmente
significativo considerando il generale declino dell’affluenza elettorale che ha
caratterizzato le democrazie occidentali negli ultimi decenni (Dalton e Wattenberg, 2000).
Le strategie di mobilitazione degli elettori, accoppiate con la polarizzazione ideologica
(altro marchio di fabbrica di Rove), potrebbero aver costituito la combinazione decisiva
per le vittorie repubblicane del 2000 e del 2004. In effetti, secondo l’American National
Election Study del 2004, gli intervistati percepivano nei candidati una maggiore specificità
ideologica nel 2004 che nel 2000 (Bergan et al., 2005).
Esiste un lato più oscuro nella politica informazionale. È la ricerca di informazioni che
danneggiano gli avversari politici. Si tratta di un’attività altamente elaborata, denominata
dagli addetti ai lavori «ricerca sull’opposizione» (Marks, 2007). Poiché svolge un ruolo
essenziale nelle campagne politiche e nello sviluppo della politica scandalistica, mi
occuperò della questione in modo particolareggiato nelle seguenti sezioni di questo
capitolo.
La raccolta di dati, l’elaborazione delle informazioni e l’analisi basata sulla conoscenza
generano una messe di messaggi politicamente forti costruiti intorno alla promozione del
messaggio centrale: il personaggio politico stesso. Una volta costruiti i messaggi, il
processo per trasmetterli al pubblico target procede mediante una varietà di piattaforme e
formati, i più rilevanti dei quali sono la normale programmazione televisiva e le campagne
elettorali. Ho analizzato la prima nel capitolo 3, rimandando ai meccanismi di agenda-
setting, framing, priming e indicizzazione che determinano diverse forme di parzialità dei
media. In questo capitolo, esaminerò la pratica delle campagne politiche come strumento
chiave per conquistare il potere politico, in gran parte tramite la politica mediatica. Devo
prima, però, toccare la madre di tutte le politiche mediatiche: i piani di finanziamento.
La pista del denaro
La politica informazionale è dispendiosa, e in quasi tutti i paesi non può essere mantenuta
dal regolare finanziamento delle organizzazioni politiche. In massima parte la spesa è
legata alle campagne politiche, e in particolare alla pubblicità televisiva a pagamento in
paesi, come gli Stati Uniti, dove questo è il principale canale con cui i candidati
comunicano direttamente con gli elettori. Negli ultimi decenni il costo delle campagne
elettorali negli USA è andato alle stelle, con una significativa accelerazione dalla metà
degli anni Novanta. La figura 4.1 presenta il totale dei contributi raccolti dai candidati
presidenziali USA negli ultimi nove cicli elettorali.
L’impennata dei costi delle campagne non riguarda esclusivamente i candidati
presidenziali. Negli Stati Uniti, nel 2004, la spesa per conquistare un seggio in Senato era
in media di 7 milioni di dollari, mentre un seggio alla Camera richiedeva 1 milione, un
incremento di undici volte rispetto al 1976 (Bergo, 2006). Hollihan (1998) tuttavia
sostiene in maniera convincente che la crescita del finanziamento politico non dipende
esclusivamente dalle aumentate esigenze di campagne politiche a corto di fondi. In realtà è
un meccanismo con cui attori economici e altri interessi speciali esercitano la loro
influenza sul processo di formazione delle politiche a tutti i livelli di governo (Hollihan,
2008, pp. 240-273). L’offerta sembra ancora più consistente della domanda. I politici
possono permettersi di praticare una politica dispendiosa perché c’è abbondanza di fondi
di lobbisti e donatori. Anzi, alcuni politici non riescono neppure a spendere tutto il denaro
che ricevono; e così, lo usano invece per permettersi un altissimo tenore di vita giustificato
con tecniche di contabilità creativa. Dal 1974, negli Stati Uniti sono state introdotte
diverse riforme sui finanziamenti delle campagne, ma ogni volta vengono prontamente
aggirate con nuove pratiche. Così, le leggi elettorali USA oggi fissano un limite alla
somma che un singolo donatore può versare ai candidati durante un ciclo elettorale. Per
esempio, durante la tornata del 2007-2008, gli individui potevano contribuire con un
massimo di 2300 dollari al candidato di loro scelta durante le elezioni primarie e fino alla
stessa somma per le elezioni generali. Per aggirare questi limiti, furono creati dei Political
Action Committees (PAC), autorizzati a raccogliere somme superiori. Quando fu posto un
tetto ai finanziamenti dei PAC, si presentò una nuova possibilità: furono consentite senza
limiti donazioni in contanti effettuate direttamente ai partiti. Poiché i partiti lavorano per i
candidati, il denaro alla fine giunge ai candidati. Inoltre, esiste la diffusa pratica del
cumulo delle donazioni, che permette ad alcuni individui (per esempio il CEO di una
società, partner di uno studio legale, leader di un sindacato) di raccogliere donazioni
individuali (per esempio, dai dipendenti o tra i loro membri) a favore di un candidato.
Spesso le aziende offrono pacchetti di donazioni a entrambi i partiti, per coprirsi dai rischi.
La pubblicità a pagamento nei media – la maggiore voce di spesa in una campagna
elettorale – è spesso l’iniziativa dei cosiddetti gruppi 527 (dal codice fiscale che conferisce
loro uno status legale), privati cittadini o organizzazioni che esercitano il diritto alla libertà
di parola facendo propaganda a favore, o contro, un determinato candidato. Non possono
sollecitare il voto, ma il loro messaggio è inequivocabile, e di solito altamente negativo.
Naturalmente questi gruppi si sviluppano alla periferia delle campagne dei candidati
maggiori, per cui sono, in pratica, surrogati che possono assecondare i programmi di
specifici candidati al di fuori dei confini delle restrizioni ufficiali della raccolta di fondi.
FIG. 4.1. Contributi totali, cicli elettorali 1976-2008, candidati alle presidenziali USA.
Note: I totali comprendono i contributi per le primarie, il finanziamento pubblico per le elezioni generali e il
finanziamento pubblico per le convention. Le cifre in dollari non sono state aggiustate per l’inflazione.
Il dato del 2008 rispecchia il totale dei contributi fino al 6 giugno 2008.
Fonte: Dati della Federal Election Commission compilati dal Center for Responsive Politics.
Inoltre, singoli cittadini pagano migliaia di dollari per partecipare a manifestazioni e/o
banchetti per la raccolta di fondi, eventi che spesso fruttano milioni. Negli anni Novanta il
presidente Clinton raccoglieva finanziamenti invitando ricchi ospiti a pagare il privilegio
di soggiornare alla Casa Bianca o in quella che i media soprannominarono «Motel 1600»
(da 1600 Pennsylvania Avenue, l’indirizzo della residenza presidenziale). Cercando
donatori per la campagna della rielezione presidenziale nel 1996, ai suoi consiglieri venne
l’idea di usare il prestigio della presidenza e il richiamo della Casa Bianca per invitare
potenziali donatori in cambio di un finanziamento prestabilito. Per soli 12.500 dollari a
ogni donatore sarebbe stata offerta una cena di gala in un hotel di Washington e una foto
con il presidente. Per il caffè alla Casa Bianca con il presidente ed altri esponenti
dell’amministrazione, il donatore doveva versare 50.000 dollari. Se l’entusiasmo del
sostenitore del presidente raggiungeva quota 250.000, veniva invitato a passare un’intera
giornata alla Casa Bianca godendo delle sue attrattive, con una nuotata in piscina, una
partita a tennis, una partita a bowling sulla pista presidenziale, o un barbecue sul prato. Per
una donazione eccezionalmente generosa (dall’importo mantenuto riservato), finanziatori
di lusso poterono passare una notte nella camera da letto di Lincoln per riflettere in tutta
comodità sulla sorte della democrazia americana. Questo gruppo scelto divenne, in
pratica, un mercato di massa: tra il 1993 e il 1996 vi furono 103 colazioni di fundraising
alla Casa Bianca e 938 ospiti notturni. Circa la metà di questi erano parenti e amici
personali, ma gli altri erano i ricchi e famosi del mondo, tra cui un funzionario di una
fabbrica d’armi cinese, un broker finanziario incriminato per frode, un multimilionario
accusato di spiare i suoi dipendenti, una famiglia di banchieri indonesiani interessati a
spuntare una politica commerciale USA favorevole con l’Indonesia, il dirigente di un
birrificio cinese, e John Huang, il fundraiser del Democratic National Committee, che più
tardi sarà giudicato colpevole di aver violato le leggi sui finanziamenti per le campagne
sollecitando fondi a donatori asiatici. Ma con i finanziamenti a Clinton non vi furono
problemi legali: tutte le richieste furono fatte nel rispetto delle regole. Ai donatori non
furono chiesti contributi all’interno della Casa Bianca né in alcun’altra proprietà
governativa, e i pagamenti non furono richiesti che in un momento successivo (Fineman e
Isikoff, 1997; Frammolino e Fritz, 1997; entrambi citati da Hollihan, 2008, p. 246).
Anche i singoli candidati possono contribuire in maniera illimitata con fondi personali
alle loro stesse campagne. Di conseguenza, qualsiasi ricco americano può candidarsi a una
carica, aggirando i partiti e ogni altro intermediario e comprandosi l’accesso alla
cittadinanza attraverso i media e la propaganda politica diretta. Questo sistema di
finanziamento della politica negli Stati Uniti non è mai stato seriamente contestato, poiché
la Corte Suprema ha tutelato il diritto di contribuire alle campagne politiche nell’ambito
del diritto d’espressione, sottolineando che anche le corporation godono di tale diritto.
Inoltre, è ben difficile che i politici stessi pongano limiti a un sistema di cui gli eletti si
avvantaggiano. Così, la Federal Electoral Commission (FEC) è rimasta un inefficiente
organismo burocratico, in pratica svolgendo una funzione di facciata per distogliere
l’attenzione dalla imbarazzante verità di una democrazia americana letteralmente in
vendita. Nel caso degli Stati Uniti, il denaro governa la politica, e i politici che non
seguono questa regola non hanno alcuna possibilità di competere (Center for Responsive
Politics, 2008c; Garrett, 2008).
Comunque, è ancora possibile farsi sostenere dai finanziamenti della base nelle
campagne elettorali, come sosterrò più avanti. Ma con due avvertimenti: perché il
finanziamento di base sia significativo, dev’essere il risultato di un massiccio sostegno da
parte di un movimento politico al seguito di un leader carismatico; ma anche in queste
circostanze, non è mai abbastanza, e costringe il politico, indipendentemente dai propri
valori, a cercare fonti di finanziamento nel mondo aziendale e in quello degli interessi
particolari.
Il caso degli Stati Uniti è unico in quanto combina l’influenza diretta del finanziamento
politico diretto con un sistema giuridico che incoraggia le attività delle lobby, un’industria
di primo piano a Washington, tra l’indifferenza o la rassegnazione del grande pubblico
(Hollihan, 2008). Viceversa, in gran parte del mondo, ma non in tutto, il denaro compra
l’accesso alla politica, dalle amministrazioni locali alle cariche presidenziali, senza alcuna
cornice legale efficace che isoli il governo dagli interessi personali. Un esempio calzante è
quello del Kenya, paese democratico fin dall’indipendenza, dove la contestata, e poi
violenta, elezione del 2007 è stata la più dispendiosa della storia del paese. In effetti, tra il
1963 e il 2007 la spesa media per candidato parlamentare è cresciuta del 200.000 per
cento senza alcun quadro normativo che imponesse un rendiconto del flusso di denaro
(CAPF, 2007). I fondi venivano utilizzati per comprare voti, per corrompere giornalisti e
agenzie di sondaggi, per lanciare campagne rivolte ai giovani e alle donne nel paese, per
pagare la pubblicità sui media, per coprire spese di viaggio gonfiate, per pagare il
personale di partito e così via. I finanziamenti venivano da una varietà di fonti. Parte del
denaro per il partito di governo veniva dall’uso occulto di fondi pubblici attraverso conti
fasulli. Una fetta più consistente veniva dalle aziende che si assicuravano gli appalti dal
governo in cambio dell’appoggio finanziario e logistico. Consistenti donazioni
raggiungevano il partito di opposizione da fonti estere. I ricchi venivano sollecitati
implacabilmente dagli aspiranti parlamentari di entrambi i partiti, con richieste di forti
somme di denaro, al punto che le élite keniote sempre più spesso preferivano creare dei
loro partiti per avere un accesso diretto al parlamento senza dover pagare degli
intermediari (evidentemente un metodo più efficace in termini di costi).
Nel 2007, il lucroso business della politica keniana richiamava un numero record di
amanti della democrazia: 130 partiti politici presentarono 2500 candidati al parlamento. In
molti casi avevano dovuto raccogliere personalmente il denaro, ma il previsto guadagno,
in caso di successo, valeva lo sforzo. Uno studio dimostrava che l’investimento nelle
elezioni precedenti aveva prodotto un profitto legale di sette volte la somma investita
cinque anni dopo, in termini di retribuzioni, più le indennità11. Questo senza contare la
corruzione che permea il sistema politico. Dopo le elezioni, nel 2007, è stato fissato un
quadro normativo per il finanziamento delle campagne elettorali, ma osservatori
indipendenti lo reputano inefficace. Il finanziamento extra-legale e gli accordi politici
basati sul denaro sono un carattere sistemico della democrazia keniana (CAPF, 2007).
In fatto di denaro e politica, in una prospettiva globale, il Kenya è la regola più che
l’eccezione. Rapporti dal resto dell’Africa, dall’America Latina (a eccezione del Cile) e
dall’Asia puntano tutti nella stessa direzione (vedi sotto, la sezione sulla politica degli
scandali).
In qualche altro paese, in particolare in Europa occidentale e settentrionale, in Canada,
in Australia e in Nuova Zelanda, la situazione è più complessa, in quanto il finanziamento
pubblico della politica è la norma, la propaganda a pagamento sui media è limitata o
vietata, e il finanziamento diretto di politici in carica è sottoposto a una rigida
regolamentazione. Eppure, la pista del denaro non si ferma sulle loro sponde. A
illustrazione dell’argomento, prenderò in esame due democrazie che appaiono al di sopra
di ogni sospetto: il Regno Unito e la Spagna.
Organi normativi governano il finanziamento dei partiti politici tanto in Gran Bretagna
quanto in Spagna. In entrambi i paesi, come negli USA, i contributi ai partiti politici
devono essere dichiarati. Nel Regno Unito, i donatori e partiti sono tenuti a dichiarare i
contributi oltre una certa soglia, e i partiti devono dichiarare i contributi ricevuti. In
Spagna, vanno dichiarati tutti i contributi ricevuti. Inoltre, a differenza che negli Stati
Uniti, c’è un tetto alla somma che un partito spende per le elezioni. La differenza
fondamentale con gli USA è che in entrambi i paesi i partiti politici, e non i candidati,
ricevono un finanziamento pubblico diretto nel periodo elettorale e tra un’elezione e
l’altra. Lo scopo dei fondi è coprire le spese dell’amministrazione generale del partito e le
analisi e le proposte politiche, oltre a sostenere i costi delle campagne. Il finanziamento è
proporzionale ai risultati dei partiti nelle ultime elezioni, cosa che ovviamente favorisce il
permanere del predomini dei partiti politici maggiori. I costi delle campagne sono
sensibilmente ridotti rispetto agli Stati Uniti perché nel Regno Unito e in Spagna ai partiti
politici è riconosciuto il libero accesso ai media. I criteri di attribuzione del tempo di
trasmissione sono il numero e la distribuzione geografica dei candidati presentati in una
data elezione per il Regno Unito, e il risultato dell’elezione precedente per la Spagna.
D’altra parte, la pubblicità politica a pagamento in televisione è vietata in entrambi i paesi.
In periodo elettorale, ai partiti spagnoli e britannici vengono assegnati determinati spazi
nei canali televisivi terrestri e nelle emittenti radiofoniche nazionali. In Spagna, in periodo
elettorale, anche i notiziari politici delle emittenti statali sono regolamentati, con
un’attribuzione del tempo di presenza dei leader politici proporzionata ai precedenti
risultati elettorali.
Nel Regno Unito, la propaganda a pagamento è ampiamente usata in manifesti,
opuscoli, volantini e altri materiali. I conservatori spendono di più in propaganda (46 per
cento contro il 29 per cento dei laburisti nel 2005), mentre i laburisti spendono più dei
Tories in comizi e manifestazioni, usando quanto resta della loro infrastruttura di base.
Mentre la spesa per le campagne politiche è aumentata in misura sostanziale nel Regno
Unito tra il 2001 (£23,7 milioni per tutti i partiti) e il 2005 (£422 milioni), la somma
impallidisce a paragone degli Stati Uniti (vedi figura 4.1), anche tenendo conto della
diversa dimensione dei due elettorati. In effetti, i partiti del Regno Unito abitualmente
rispettano il tetto fissato per le spese elettorali. Così, una differenza fondamentale tra gli
Stati Uniti e gran parte delle democrazie dell’Europa occidentale sta nel soverchiante
predominio delle lobby nella politica americana, che è in netto contrasto con la
separazione regolata tra business e gruppi d’interesse della politica europea.
La tensione tra denaro e politica, comunque, non è meno reale in Europa che nel resto
del mondo. In effetti, l’attuale assetto regolatorio nel Regno Unito si è prodotto in seguito
alle diffuse preoccupazioni pubbliche nel 1998 sul finanziamento dei partiti politici dopo
una serie di scandali di alto profilo, e in particolare dopo che Tony Blair, nel 1997, andò
alla televisione per chiedere scusa per aver preso una donazione da un milione di sterline
per il Labour dal magnate della Formula 1 Bernie Ecclestone. Henry Drucker, il
fundraiser dei laburisti che si dimise poco dopo l’arrivo al potere del suo partito, criticò la
soluzione, oggi fuori legge, del «blind trust», che permetteva a multimilionari di effettuare
donazioni segrete al Labour senza che i vertici capissero da dove arrivava il denaro.
Queste donazioni non avevano l’obbligo della dichiarazione fino a quando, nel 2001, la
legge fu modificata. Il Committee on Standards in Public Life (un organismo
ufficialmente indipendente istituito da John Major) raccomandò un nuovo sistema per
regolamentare le attività finanziarie dei partiti politici. Il Political Parties, Elections and
Referendums Act (PPERA) fu approvato nel 2000, e le elezioni generali del 2001 nel
Regno Unito rappresentarono le prime elezioni in cui le spese dei partiti per la campagna
venivano controllate. Ciononostante, i problemi con i donatori continuarono a ri-
presentarsi nella politica britannica, e ad affliggere il Partito Laburista. Lo scandalo
divenne significativo durante le elezioni del 2005, quando una commissione della Camera
dei Lord scoprì che il Labour aveva ricevuto da ricchi donatori decine di milioni di sterline
in prestiti non dichiarati alla commissione elettorale. Questo indusse Scotland Yard a
indagare sul cosiddetto scandalo «Cash for honours». In poche parole, Blair stava
vendendo titoli nobiliari per avvantaggiare il partito. Ogni paese ha le sue tradizioni, e ora
quelle tradizioni erano in vendita. Clinton, come si è detto, dava in affitto l’appartamento
di Lincoln alla Casa Bianca con i cimeli presidenziali. Ora, anche la nobiltà inglese stava
diventando merce di scambio. Niente poteva far infuriare di più i pari del regno. Altre
forme di finanziamento occulto vennero alla luce quando fu reso noto che l’immobiliarista
David Abrahams aveva versato oltre 600.000 sterline al Labour Party, usando dei
prestanome per nascondere la propria identità, in aperta violazione delle norme fissate
dalla Electoral Commission (Hencke, 2007).
Quanto alla giovane e fervente democrazia spagnola, alle elezioni parlamentari del
2004, tutti i partiti spesero complessivamente 57,2 milioni di euro nelle due settimane di
campagna elettorale. Le spese elettorali furono ancora più limitate nel 2008: 50 milioni di
euro. Il motivo principale di questo comportamento parsimonioso è che il Ministero
dell’Economia fissa un tetto di spesa per ciascun partito: nel 2008, i due partiti maggiori, il
Socialista (PSOE) e il Conservatore (PP) erano autorizzati a spendere un massimo di 16,7
milioni di euro ciascuno. Intanto, il governo finanziava i partiti nella misura, nel 2008, di
0,79 euro per voto ricevuto e di 21.167,64 euro per seggio ottenuto al Parlamento, più le
spese di trasporto e di alloggio per i candidati. Gran parte dei fondi venivano usati per
manifesti, propaganda postale, materiale a stampa, per l’organizzazione di comizi e per
pubblicità alla radio e sulla stampa (Santos, 2008). I partiti spagnoli, tuttavia, cercano
attivamente donazioni private, alcune nell’area grigia della legalità (Bravo, 2008; Murillo,
2008; Santos, 2008).
Per quale motivo i partiti – le cui esigenze di base di propaganda sui media, campagne
elettorali e gestione dei candidati sono soddisfatte dal finanziamento pubblico – hanno
ugualmente bisogno di attingere a donatori privati? Certo, il denaro per soddisfare le
necessità politiche non è mai abbastanza. Ma visto che tutti i partiti sottostanno alle
medesime restrizioni, il campo da gioco è abbastanza livellato. Il problema è esattamente
questo. Individui ricchi, interessi particolari e grandi industrie aspirano a spostare una
delle opzioni politiche a loro favore fornendo denaro extra. Poiché l’operazione dev’essere
compiuta di nascosto, questo genere di favori ai leader e ai partiti hanno connotazione
assai personale. Questo non è un generico contributo a una causa politica, ma l’apertura di
una linea di credito politico cui il donatore può ricorrere alla bisogna. È clientelismo come
alternativa all’attività di lobby (ovviamente, la scena politica statunitense è
contrassegnata, oltre che dal lobbismo, da un diffuso clientelismo, come sarebbe
esemplificato, stando ai media, dal vicepresidente Dick Cheney e la sua Halliburton
Corporation). Comunque, come mai i partiti necessitano di questo denaro extra al di fuori
del sistema legale? Perché hanno bisogno di spendere i fondi in maniera flessibile e
riservata. Flessibile, perché essere innovativi in politica richiede spendere in aree e in
progetti che sfuggono alla definizione di attività politica nei termini rigidamente normativi
delle commissioni elettorali. Riservato, perché alcune operazioni politiche decisive al di
fuori dei periodi di campagna elettorale (per esempio la raccolta illegale di fondi, lo
spionaggio, la montatura di scandali contro l’avversario, la corruzione di giornalisti, il
pagamento di ricatti e simili) richiedono consistenti finanziamenti occulti. Inoltre, più
l’uso dei fondi è discrezionale, maggiori saranno le opportunità per gli intermediari
politici, all’interno e intorno al partito e alla sua leadership, di ricavare un guadagno
personale. La carica politica è la base per la personale accumulazione primitiva di capitale
dei detentori del potere in democrazia: proprio coloro che accettano la regola
dell’alternanza democratica sono quelli che devono fare buon uso dei tempi favorevoli
quando sono al potere, per sé stessi o per la lotta ideale per cui si battono (Rose-
Ackerman, 1999; International Foundation for Election Systems, 2002).
La manipolazione delle notizie
La gente prende le sue decisioni, comprese le decisioni politiche, in base a immagini e
informazioni che, in linea generale, vengono elaborate tramite i media, Internet inclusa. È
un processo continuo. In pratica, le campagne elettorali – il momento teatrale della scelta
in democrazia – opera sulle predisposizioni immagazzinate nella mente degli individui
attraverso la loro prassi nella vita quotidiana. Pertanto, la politica mediatica delle news è
la forma più significativa di politica mediatica. Certo, l’informazione con implicazioni
politiche non si limita ai notiziari (Delli Carpini e Williams, 2001; Barnet-Weiser,
comunicazione personale, 2008). E il notiziario televisivo (la maggior fonte di notizie per
molti) è inscenato come forma di intrattenimento: costituisce «la politica dell’illusione»
(Bennett, 2007). Ma è proprio perché formattati in modo da attrarre lo spettatore medio, i
media dell’informazione hanno una forte influenza nello stabilire la connessione tra le
predisposizioni degli individui e il loro giudizio sulle questioni che costituiscono la
sostanza della vita politica.
Come abbiamo analizzato nel capitolo 3, le strategie politiche mirano in primo luogo a
fissare l’agenda, a operare il framing e il priming dell’informazione nei media. Ma i
metodi per farlo variano fortemente a seconda del regime mediatico, a seconda
dell’interazione esistente tra governi, imprese e aziende media. Per poter individuare la
logica del framing politico nei media, utilizzerò inizialmente un’analisi dell’esperienza
italiana, seguendo in gran parte lo studio di Giancarlo Bosetti (2007). In effetti, la
televisione italiana è particolarmente adatta all’analisi. Primo, perché la televisione è la
fonte primaria di notizie politiche: oltre il 50 per cento degli italiani dipende dalla
televisione come fonte esclusiva di informazione politica. Questa percentuale balza al 77
per cento durante le campagne politiche, rispetto al 6,6 per cento che segue la campagna
sui giornali. Secondo, il caso italiano è rivelatore perché, pur propugnando formalmente
l’ideologia del giornalismo professionale indipendente, il regime televisivo italiano è, nei
fatti, il più politicizzato del mondo democratico (a eccezione della Russia, nella misura in
cui si possa ancora considerare una democrazia). Questo perché storicamente, prima degli
anni Novanta, i tre canali televisivi statali (quelli appartenenti alla RAI, l’azienda
pubblica) erano assegnati alle tre maggiori famiglie politiche, in ordine decrescente di
importanza: la Democrazia Cristiana (RAI Uno), i socialisti (RAI Due), e i comunisti e le
loro reincarnazioni successive (RAI Tre). Negli anni Novanta, approfittando dell’ondata
europea di liberalizzazione e privatizzazione della televisione, Silvio Berlusconi, un
immobiliarista diventato magnate dei media, riuscì a istituire tre network nazionali privati
gestiti dalla sua azienda Mediaset. Tradusse il suo potere televisivo in vittoria nelle
elezioni nazionali del 1994. Di conseguenza, da quando Berlusconi è stato eletto primo
ministro nel 1994 e poi riconfermato in altre due occasioni (l’ultima nel 2008), controlla
tutte le reti televisive italiane, pubbliche e private, con l’eccezione dei periodi d’instabile
governo della coalizione di centrosinistra. Mentre le reti locali e la televisione satellitare
mantengono la diversità del paesaggio mediatico, il grosso dell’informazione
politicamente rilevante passa per i filtri di figure nominate da Berlusconi.
Analizzando l’evoluzione dei notiziari televisivi italiani nel corso dell’ultimo ventennio,
Bosetti (2007) trova delle analogie tra l’Italia e gli Stati Uniti in alcune delle
caratteristiche chiave del telegiornalismo: personalizzazione, spettacolarizzazione,
frammentazione dell’informazione e sollecitazione di uno schema predominante costruito
intorno al concetto di ordine contro disordine. In effetti il tema dell’ordine è stato il
principale richiamo politico di Berlusconi, nonostante i sospetti di legami con la mafia, per
un elettorato profondamente stanco delle interminabili lotte intestine nei partiti e di una
politica che ruotava intorno agli interessi di una classe politica che godeva di privilegi e
stipendi senza uguali nel mondo democratico (Rizzo e Stella, 2007). Bosetti aggiunge al
menù una specialità italiana: gli attacchi personali tra politici nei telegiornali, che
accrescono il disgusto del pubblico verso la politica in generale, offrendo al tempo stesso
materiale di colore per i notiziari. L’informazione è costruita in gran parte intorno al
comportamento e alle dichiarazioni dei leader di partito, amplificando la personalizzazione
della politica, anche se la scena politica italiana include un’ampia varietà di botteghe
politiche, alcune di cui servono gli interessi di un solo personaggio politico (nella misura
in cui il suo voto può determinare il controllo del parlamento).
L’analisi dei contenuti di Bosetti non registra una particolare differenza tra i canali
televisivi pubblici e quelli privati nella formula che regge la cronaca politica sotto
Berlusconi (Bosetti, 2007, p. 62). Berlusconi usava il dominio dei media per condurre sue
battaglie personali contro i giudici e i parlamentari che cercavano senza successo di
portarlo in tribunale. Abilmente lanciava diverse offensive politiche mediatiche che
screditavano gli avversari, mentre coltivavano la sua immagine di uomo fatto da sé al di
sopra della politica partitica, difensore dell’essenza della nazione italiana, delle virtù del
libero mercato e delle radici cristiane dell’Europa (Bosetti, 2007, p. 85). Scavalcando i
partiti e rivolgendosi alla pubblica opinione, e quindi agli elettori, direttamente attraverso i
media, Berlusconi riusciva a istituire il potere di un’oligarchia mediatica che gradualmente
prendeva il posto dell’oligarchia partitica che aveva fin lì caratterizzato la politica italiana.
La messa in scena della politica diventava più significativa del priming delle notizie, con
canali specializzati nell’informazione 24 ore su 24 impossibilitati a contrastare la cultura
corrente della politica spettacolo, che spesso assumeva le vesti della farsa e della
commedia, e che è arrivata a permeare la scena mediatica italiana.
Pur riconoscendo che si tratta di un esempio estremo di manipolazione politica dei
media dell’informazione, il caso italiano offre una versione patologica dei giochi di
manipolazione che caratterizzano i mass media, e in particolare la televisione, in tutto il
mondo. Così, delineando la politica dei media d’informazione in America, Bennett (2007,
p. 14) scrive:
Inoltre, circa un americano su sei (16 per cento) ha inviato o ricevuto e-mail nel gruppo
dei familiari e amici riguardo i candidati e la campagna, e il 14 per cento ha ricevuto e-
mail da gruppi o organizzazioni politiche sulla campagna elettorale (Pew, 2008c, p. 8).
Due terzi degli americani tra i 18 e i 29 anni dichiara di usare siti di social networking, e
più di un quarto di questo gruppo di età (27 per cento) dice di aver ricevuto da lì
informazioni su candidati e campagna. Quasi uno su dieci fra quelli in età inferiore ai 30
anni (8 per cento) dice di aver visto qualcosa della campagna in un video online – un
discorso, un’intervista, una pubblicità o un dibattito. Per ciascuno di questi quattro tipi di
intervento elettorale, circa il 12-13 per cento degli intervistati riferisce di averlo visto su
un video online. Tra gli intervistati più giovani, i numeri sono ancora più alti. Più del 41
per cento dei minori di 30 anni ha visto almeno uno di questi tipi di intervento online
(Pew, 2008c, pp. 9-10).
Queste risultanze sono confermate anche da uno studio relativo alla Catalogna sugli usi
di Internet e il multimedia nel 2006-2007 (Tubella et al., 2008). Internet è una fonte chiave
di informazione per i segmenti più giovani della popolazione, e poiché i giovani elettori
rappresentano la base principale del progetti politici innovativi e proattivi
(indipendentemente dalla loro ideologia), il ruolo della comunicazione di Internet nel
sostenere il cambiamento politico diventa decisivo. Tuttavia, le fonti principali di notizie
politiche in Internet sono i siti web dei mass media tradizionali (per esempio, MSBNC, 26
per cento; CNN, 23 per cento), oltre a siti web come Yahoo! News e Google News, che si
collegano ad altri media mainstream, e questo vale anche per i cittadini più giovani, anche
se MySpace rappresenta l’8 per cento e YouTube il 6 per cento dell’informazione politica
online per questo gruppo d’età, e «altri siti» sono al 20 per cento (Pew, 2008c, p. 7). Per la
popolazione americana nel suo complesso, tuttavia, nel 2008 il 40 per cento dichiarava
ancora di ricevere l’informazione politica dai notiziari televisivi locali dei network
nazionali (erano il 42 per cento nel 2004 e il 48 per cento nel 2000), e il 38 per cento
citava i canali all-news via cavo o satellite (MSNBC, CNN e Fox).
Tanto negli USA quanto nel mondo in generale, emerge un trend che differenzia i
cittadini per età, con la coorte più giovane che riceve informazioni da una varietà di fonti,
spesso via Internet, mentre la popolazione degli ultratrentenni sembra continuare a seguire
i mass media tradizionali come principali canali di informazione politica, anche se vi si
accede sempre più frequentemente da Internet. Una questione diversa è in che modo la
nuova informazione venga generata, ed è qui che Internet svolge un ruolo inedito e
significativo, come analizzerò nel capitolo 5. Ma in termini di distribuzione dei messaggi,
il grosso della politica elettorale è ancora una politica massmediatica.
Ballare con i media richiede di adattarsi al loro linguaggio e formato. Ciò vuol dire che
gli strateghi elettorali devono essere in grado di fornire ai media filmati interessanti e
informazioni stimolanti. Gli eventi di una campagna, come i discorsi dei candidati e le
visite a quartieri, scuole, fabbriche, aziende agricole, caffè, mercati e manifestazioni
politiche, devono essere tanto pittoreschi da intrattenere il pubblico se vogliono arrivare ai
media. Le dichiarazioni devono rispettare la regola del soundbite: frasi che devono colpire
ed essere più brevi possibile. Negli USA il soundbite medio per i candidati si è ridotto dai
40 secondi del 1968 ai 10 negli anni Ottanta (Hallin, 1992), poi ai 7,8 secondi nel 2000
(Lichter, 2001) e a 7,7 secondi nel 2004 (Bucy e Grabe, 2007). Tendenze analoghe sono
state riscontrate nel Regno Unito (Semetko e Scammell, 2005), in Nuova Zelanda
(Comrie, 1999), e in Brasile (Porto, 2007), anche se in questi casi la durata dei frammenti
sonori è di qualche secondo più lunga che negli Stati Uniti. Giornalisti e anchormen
dominano il tempo assegnato ai servizi sulle campagne negli USA, con una media di 34
secondi per servizio rispetto ai 18,6 dei candidati (Butch e Grabe, 2007).
L’«image bite», lo spezzone di immagine, sta rimpiazzando il soundbite come
messaggio predominante, e i video di YouTube (chiamati «sound blast» da alcuni
osservatori) sono diventati un potente strumento elettorale. Poiché la diffusione dei video
di YouTube è di tipo virale, questi hanno la potenzialità di influire sulle campagne
politiche formando l’immagine del candidato. Per esempio, nelle elezioni al Senato USA
del 2006, il senatore repubblicano Allen, che fino a quel momento era considerato un
promettente candidato presidenziale, fu sconfitto dopo la messa in rete di un video in cui
usava un epiteto razzista contro uno dei sostenitori del suo avversario durante un comizio,
un video che, postato su YouTube, fu poi ripreso dalla televisione e trasmesso in tutto il
paese nei telegiornali serali. La sua sconfitta personale fu l’evento decisivo che contribuì
alla perdita della maggioranza in Senato per i repubblicani nel 2006. Durante le primarie
presidenziali democratiche del 2008, la popolarissima campagna del senatore Obama
rischiò di deragliare in dirittura d’arrivo a causa dei video immessi su YouTube che
mostravano il suo ex pastore, il reverendo Wright, che teneva un polemico discorso nella
sua chiesa nel South Chicago. Anche se la fonte originale di questi video era la ABC
News, la loro diffusione su Internet indusse tutti gli organi mediatici a rimandare in onda
quelle dannose immagini per il resto della campagna12.
È l’interazione tra media mainstream e Internet ciò che caratterizza la politica
mediatica nell’era digitale. Mentre i media sono ancora i veicoli primari delle immagini e
dei suoni che modellano la mente dei votanti, i punti di accesso all’universo audiovisivo di
massa si sono moltiplicati. Chiunque può caricare un video, scrivere un blog o disseminare
informazioni. L’impatto potenziale del loro messaggio dipende dal modo in cui esso entra
in risonanza con le percezioni della gente, oltre che dalla misura in cui i mass media lo
ritengono rilevante per il pubblico. È per questo che le due forme di comunicazione, la
comunicazione di massa e l’autocomunicazione di massa, sono sempre più integrate con i
punti di vista del pubblico. La differenza chiave è il livello di controllo al punto di
ingresso nel sistema audiovisivo. Mentre i filtri istituiti da proprietari, inserzionisti,
direttori e giornalisti favoriscono o bloccano informazioni e immagini, Internet resta
l’ambito elettivo per i messaggi non controllati che ampliano il raggio delle fonti di
informazione e di disinformazione, introducendo una minore credibilità in cambio di una
maggiore diversità.
Le campagne politiche navigano nelle acque turbolente di questo variegato mondo
mediatico alimentando i Blackberry dei giornalisti dei media mainstream con le breaking
news, e insieme postando e contropostando in Internet. Cercano anche di inserire esperti e
surrogati nelle trasmissioni che fanno da cornice ai notiziari veri e propri e seguono la
corsa come se fosse una competizione sportiva. Al tempo stesso, devono mobilitare il
proprio supporto nella blogosfera che inonda i media mainstream, prestando al tempo
stesso attenzione ai commentatori dilettanti che si esprimono sulle notizie nei loro propri
siti web, spesso in termini poco amichevoli. Per la sostanza, nella politica mediatica non
c’è tempo né format: la questione è segnare punti. Così, i servizi vanno presentati in forma
di spettacolo, che raggiunge il proprio climax nei faccia a faccia in diretta.
La messinscena della scelta politica: i dibattiti elettorali
I dibattiti politici televisivi sono meno decisivi di quanto si pensi. Di norma, questi
dibattiti consolidano le predisposizioni e le opinioni della gente (Riley e Hollihan, 1981).
Questo è il motivo per cui il vincitore del dibattito è spesso il vincitore dell’elezione: le
persone tendono più a schierarsi con il loro candidato preferito come vincente, anziché
votare per il candidato che ha dibattuto in maniera più persuasiva. Così, nella campagna
elettorale spagnola del 2008, vi sono stati due dibattiti trasmessi alla televisione e su
Internet tra i candidati principali, il socialista Rodríguez Zapatero e il conservatore Rajoy.
Secondo la maggioranza dei sondaggi telefonici, Rodríguez Zapatero vinceva in entrambe
le occasioni con un ampio margine, quasi lo stesso che avrebbe in seguito riportato nel
risultato elettorale. Ma quando è stato fatto un sondaggio tra quelli che avevano seguito il
dibattito in Internet, la loro opinione rifletteva la tendenza ideologica del sito web che
avevano usato per seguire l’evento, trattandosi dei siti dei principali quotidiani, che di
solito presentavano un orientamento politico inequivocabile.
I dibattiti possono comunque avere un effetto potenzialmente significativo: facendo
degli errori e, di conseguenza, perdendo supporto, salvo che il candidato non sappia
sfruttare l’errore a suo vantaggio ricorrendo allo spirito o suscitando la simpatia degli
spettatori. L’obiettivo di una performance priva di errori porta alla cautela e riduce la
probabilità di uno scambio autentico di opinioni. Le regole di ingaggio vengono
accuratamente contrattate dai responsabili delle campagne di ciascun candidato: ci si
accorda anche sulla collocazione sul set, la sequenza delle domande, i moderatori e gli
intervistatori e, in alcuni casi, l’angolo di ripresa delle telecamere. Di solito è scontato che
lo sfidante attaccherà per erodere la posizione dominante dell’avversario. Spesso, ciò che
accade prima e dopo rappresenta il momento più importante del dibattito. Madsen (1991)
analizza i dibattiti politici televisivi come un discorso composto di tre elementi: il dibattito
in sé, lo spin post-dibattito dei commentatori, e la reazione dei media, che comprende
anche la risposta dei sondaggi e le reazioni del pubblico. Così, anziché un’arena di opzioni
politiche contrastanti, i dibattiti sono esibizioni di personalità e materiale da elaborare a
opera dei media, secondo le regole vigenti della narrazione politica (Jamieson, 2000;
Jamieson e Campbell, 2006).
La politica della personalità
La caratteristica fondamentale della politica dei media è la personalizzazione della
politica, e il fattore chiave nel decidere l’esito della campagna è la proiezione positiva o
negativa del candidato nella mente degli elettori. Numerosi fattori combinati spiegano il
ruolo critico della personalità proiettata dal candidato o dal leader di un partito in una
competizione politica: il declino dell’influenza diretta dei partiti politici nella società in
senso lato; i periodi di tempo tipicamente brevi delle elezioni che impongono che la
percezione di messaggi politici contrastanti sia fissata in poche settimane (con alcune
eccezioni, come le primarie presidenziali democratiche USA nel 2008); la diffusa
dipendenza dai media, e in particolare dalla televisione, quale fonte principale di notizie
politiche; il ruolo della pubblicità politica, a imitazione degli spot pubblicitari, intesa a
produrre un’immediata attrazione, o repulsione, per un candidato in base a caratteristiche
fisiche, postura, o sfondo musicale/scenografico; la tendenza a evitare la chiarezza su
questioni che potrebbero allontanare alcuni votanti, il che conduce a una generica
sollecitazione alla fiducia nella capacità del candidato a trovare soluzioni ai problemi che
colpiscono la popolazione (Paniagua, 2005; Hollilhan, 2008, pp. 75-99).
Ma forse il meccanismo più fondamentale che lega politica mediatica e
personalizzazione della politica è quella che Popkin (1994) individua come «bassa
razionalità di informazione» nel comportamento degli elettori. Mostra che i votanti
tendono a essere degli «avari cognitivi» che si sentono a disagio nel maneggiare questioni
politiche complesse e di conseguenza basano le proprie decisioni di voto sulle esperienze
della vita di tutti i giorni, comprese le informazioni ottenute dai media e i giudizi tratti
dall’interazione quotidiana con il proprio ambiente. Etichetta questo processo la «la
ricerca a tentoni dell’ubriacone», che si rifugia nelle vie più agevoli per l’acquisizione
d’informazione. La via più facile per acquisire informazioni su un candidato consiste nel
formarsi un giudizio basato sull’aspetto e sui tratti di personalità, in particolare in termini
di affidabilità, la qualità suprema che è apprezzata in un aspirante leader, in quanto
l’elezione è in ultima analisi una delega di potere da parte dei cittadini a una specifica
persona (Keller, 1987). Dall’altra parte, l’immagine del candidato deve anche trasmettere
potenziale di leadership, in quanto la gente non si fida della propria capacità di guida. I
votanti cercano qualcuno come loro, ma con una capacità superiore che sappia guidarli. In
pratica, essi procedono attraverso due fasi: prima, valutano la sincerità e le qualità umane
del candidato; secondo, esaminano la sua fermezza, competenza ed efficienza (Kendall e
Paine, 1995). Hollihan (2004, p. 94) cita la ricerca di Tannenbaum et al. (1962), da cui
emerge che quando a qualcuno si chiede quali siano le qualità più importanti di un
candidato, le tre caratteristiche più citate sono sincerità, intelligenza e indipendenza. Come
a dire: una persona a cui possa dar credito alla sua capacità di guidare il mio paese e me13.
In che modo le immagini personali incidono sul processo decisionale dell’elettore?
Hollihan (2001, pp. 85-99), sintetizzando le ricerche sulla questione, sottolinea il ruolo
delle emozioni, un rilievo che si connette direttamente all’analisi che ho presentato nel
capitolo 3. La valutazione emozionale positiva è trainata dalla sintonia tra candidati e
votanti. La capacità di un candidato di relazionarsi con gli elettori è fondamentale, e
spesso porta a racconti biografici che ne sottolineano le umili origini o, in mancanza di
questo, un comportamento alla mano, come nel caso di George W. Bush, la cui immagine
fu trasformata dai consulenti da quella di rampollo viziato in quella del goffo rancher
texano che scherza sulle proprie scarse capacità di lettura. In effetti, la ricostruzione
dell’immagine di George W. Bush da imboscato, alcolista, drogato al riabilitato cristiano
rinato che segue la guida di Dio e porta il paese alla «missione compiuta» è un esempio
magistrale di spinning. Questo esempio mostra che le personalità politiche di successo
sono più spesso create che scoperte. Evidentemente, però, i creatori di immagine hanno
bisogno di disporre in partenza di un buon materiale umano. La loro arte consiste nel
lavorare sul materiale a disposizione e adattare ciò che il candidato (scelto per il suo
denaro o per le connessioni che ha nel partito) ha da offrire. Così, la personalizzazione non
è tanto basarsi su quanto il candidato sia piacevole di aspetto o di pronto eloquio (anche se
importante, questo non è decisivo), ma su quanto sia in grado di relazionarsi con gli
elettori.
Anche nei paesi in cui la politica partitica ha una maggiore influenza, la
personalizzazione della politica non è irrilevante. Semplicemente modifica il meccanismo
di selezione. Così, Nicolas Sarkozy non ha avuto il sostegno della coalizione conservatrice
in Francia, e ha incontrato l’ostilità del «suo» presidente Jacques Chirac. Ma la sua
immagine pubblica, e l’efficacia della sua campagna mentre era ministro degli Interni
(basata su una posizione anti-immigrazione, tutta legge e ordine), ha suscitato un tale
livello di popolarità che il suo partito e, successivamente, la più ampia coalizione di cui
faceva parte, si sono affidati sul suo carisma per riportare la vittoria sulla candidata
socialista, Ségolène Royal, nelle elezioni presidenziali del 2007. I loro calcoli si sono
rivelati corretti.
In Spagna nei tardi anni Settanta, all’alba della democrazia, il Partito Socialista cercò
di presentarsi come un efficace partito di governo contando sull’entusiasmo degli spagnoli
per la ritrovata libertà politica, e attizzando la paura del colpo di coda dei fascisti (in effetti
un tentato golpe nel 1981 ebbe quasi successo). Gli strateghi del partito decisero di
puntare sulla personalità del loro giovane leader, Felipe González, un avvocato del lavoro
di Siviglia, che era carismatico, intelligente, piacente, pragmatico e un brillante
comunicatore. In breve, González era un leader naturale. Nonostante tutte queste qualità,
le prime elezioni democratiche nel 1979 videro il trionfo del Partito Centrista (UDC), che
contava anch’esso su un leader giovane e determinato, Adolfo Suárez, che era fuoriuscito
dal Partito Franchista per guidare la transizione dalla dittatura alla democrazia. I socialisti
comunque non si lasciarono scoraggiare. Si diedero da fare per migliorare l’immagine del
loro leader, dedicandosi contemporaneamente a distruggere con metodo l’immagine del
rispettato primo ministro Suárez, soprannominato «il giocatore del Mississippi»
(alludendo all’immagine dei sinistri personaggi nei popolari film western) in riferimento a
i presunti sporchi trucchi da lui eseguiti al governo. La campagna negativa funzionò e,
combinata con le pressioni provenienti dai settori di destra del partito di governo, portò
alle dimissioni di Suárez all’inizio del 1981.
Nel 1982, Felipe González portò i socialisti al più trascinante trionfo elettorale della
storia spagnola. L’intera campagna fu impostata intorno a lui. Era una grande deviazione
rispetto alla storia del partito, poiché il prevalere della macchina partitica aveva
caratterizzato i socialisti nel corso di tutto il lungo viaggio iniziato negli anni Ottanta
dell’Ottocento. Gli stessi strateghi che avevano portato González alla vittoria erano
preoccupati per la loro scelta. Sapevano che stavano consegnando il controllo del governo,
e dello stesso partito, al leader. Erano perfettamente consapevoli dei pericoli nascosti in
una simile mossa, tanto in termini di democrazia di partito quanto in termini di
vulnerabilità elettorale, in caso di caduta del leader. Percepivano però acutamente la
trasformazione della politica democratica in politica di immagine, e così continuarono a
coltivare l’immagine del leader, ora sostenuta dal rigido controllo delle reti televisive
nazionali e dall’opera di un dipartimento dell’immagine altamente professionale istituito
presso l’ufficio del primo ministro: elemento nuovo nella politica spagnola. Funzionò, più
e più volte, visto che i socialisti furono rieletti tre volte e rimasero al potere per i
successivi tredici anni, nonostante i continui attacchi dell’opposizione e di una parte dei
media (vedi sotto).
Licenza di uccidere: la politica dell’aggressione
La personalizzazione della politica ha conseguenze straordinarie per la tattica elettorale.
Se le probabilità di riuscita di una opzione politica dipendono dalle qualità percepite di
una persona, una campagna efficace deve esaltare le qualità del candidato gettando al
tempo stesso un’ombra sull’avversario. Inoltre, le immagini negative hanno sul
comportamento di voto un effetto più potente di quelle positive, come ho documentato e
analizzato nel capitolo 3 e in questo capitolo. Il killeraggio politico è dunque l’arma più
potente nella politica mediatica. Questo può realizzarsi in vari modi: mettendo in dubbio
l’integrità del candidato stesso, nella vita pubblica e in quella privata; ricordando agli
elettori, in modo esplicito o subliminale, gli stereotipi negativi associati alla personalità
del candidato (per esempio essere nero o musulmano in America o nel Regno Unito);
distorcendo le dichiarazioni o le posizioni politiche dei candidati in modo tale da farle
apparire in conflitto con valori fondamentali dell’elettorato; denunciando malefatte, o
dichiarazioni controverse di persone o organizzazioni legate al candidato; o rivelando
corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti o nelle organizzazioni che
appoggiano una candidatura. In tutti i casi, l’obiettivo è quello di sollevare dubbi tra i
potenziali sostenitori del candidato e mobilitare gli elettori dell’opposizione. A causa
dell’efficacia della costruzione di immagini negative, si è avuta una diffusa tendenza in
tutto il mondo all’uso di informazioni distruttive come tattica predominante delle
campagne politiche. Le informazioni lesive si possono reperire, fabbricare, o distorcere
intorno a un fatto isolato dal suo contesto. Così, una componente chiave di ogni campagna
politica è la pratica che negli Stati Uniti ha preso il nome di opposition research.
Stephen Marks, un consulente dei repubblicani, abbracciò con calore la ricerca
sull’opposizione come specializzazione professionale per oltre dodici anni (1993-2006).
Passava il tempo, secondo le sue parole, a «scavare nel fango» per distruggere le
opportunità elettorali degli avversari dei suoi clienti – di solito candidati democratici, ma
anche altri repubblicani alle primarie. Colpito da una certa stanchezza personale e morale,
ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un notevole libro intitolato
Confessions of a Political Hitman: My Secret Life of Scandal, Corruption, Hypocrisy and
Dirty Attacks That Decide Who Gets Elected (and Who Doesn’t) («Confessioni di un killer
politico: la mia vita segreta di scandali, corruzione, ipocrisia e sporchi attacchi che
decidono chi è eletto (e chi no)»; Marks, 2007). Marks non chiede scusa. Ritiene che
portare alla luce la vera natura dei politici è praticamente un servizio pubblico. E non ci
sono neppure illegalità – almeno non tra gli episodi riportati nel suo libro. La sua
testimonianza, per quanto autoassolutoria, apre una rara finestra sul mondo dei rat-
fuckers, il nome che fieramente si diedero gli operativi dell’affare Watergate. Il compito è
relativamente semplice. Richiede di identificare, con i sondaggi e con il parere di
consulenti politici, tutti i punti dannosi per un dato candidato in una data elezione. La
specificità è essen.ziale. Poi ha inizio la ricerca, usando documenti d’archivio come liste
elettorali, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici corredati di materiale esplicativo,
investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni dei redditi, proprietà, fonti delle
donazioni elettorali, e simili. In alcuni casi di ricerca sull’opposizione (non rivelati nel
libro di Marks ma presentati in altri resoconti), lo scavo tra le informazioni personali,
come le documentazioni delle carte di credito, i tabulati telefonici, le destinazioni e le
spese di viaggio, producono una massa di particolari che aiutano a ricostruire la vita
privata e pubblica del politico preso di mira (Hollihan, 2008). Poiché nessuno è perfetto, e
poiché la politica professionale impone frequenti compromessi morali per mandare avanti
le cose, una attenta ricerca raramente lascia a mani vuote. Questa evenienza è ancora più
rara se la ricerca si estende all’organizzazione politica madre, che si tratti del partito, di
stretti alleati o della campagna stessa. Le informazioni raccolte vengono quindi elaborate
alla luce di ciò che sarebbe più controproducente secondo i sondaggi, e vengono infine
trasformate in messaggi ai media, o come spot pubblicitario lesivo o come informazione
lasciata trapelare a giornalisti ben collocati, con tanto di prove visive a corredo quando
possibile.
Considerando l’efficacia degli attacchi negativi, i politici o i partiti devono essere pronti
a rispondere, anche se non vorrebbero, perché come diceva Truman e come Hillary
Clinton ha ripetuto all’infinito nella sua campagna per le primarie 2008, «Se non sopporti
il caldo, non stare in cucina». Quindi ogni campagna deve accumulare munizioni di
rappresaglia nel caso si rendessero necessarie, spesso come deterrente per l’avversario.
Non molto diversa dalla ricerca sull’opposizione è la «valutazione di vulnerabilità», ossia
una ricerca di informazioni sul candidato della propria parte per scoprire potenziali
problemi nella sua vita e nel suo comportamento prima che possa tirarli fuori l’avversario.
In realtà, i consulenti politici abitualmente includono queste competenze nei loro servizi (e
nei loro emolumenti). A metà strada tra attività di detective, ricatto legale, e marketing
politico, la professione è diventata sempre più popolare e ricercata, prima in America e poi
in giro per il mondo, con alcuni professionisti che sono diventate figure leggendarie. Per
esempio, di Averell «Ace» Smith – il consulente che si dice abbia gravitato per breve
tempo intorno alla campagna per le primarie 2008 di Hillary Clinton al modico costo di
$140.000 – un collega consulente democratico, che lavorava nello staff di Clinton alla
Casa Bianca, diceva che era «uno di quei tizi pelati e occhialuti che non mi piacerebbe
incontrare in un vicolo buio» (Abcarian, 2008, appendice 14).
Tuttavia, una campagna negativa ha i suoi costi, in quanto può produrre un effetto
boomerang tra elettori che non necessariamente amano il gioco sporco, nonostante il
fascino che può esercitare il lato oscuro delle celebrità. Occorre che esista un fine
equilibrio tra la negatività verso l’avversario e la correttezza da parte del candidato. È per
questo che la via più efficace alla distruzione dell’immagine consiste nel provocare una
fuga di notizie verso i media rimanendo al di fuori della mischia, mentre l’avversario
viene tempestato da rispettabili giornalisti trasformatisi di punto in bianco in paparazzi da
tabloid. È per questo che, nonostante le loro capacità, i signori e signore della black
propaganda non sono in grado di spuntare grosse vittorie senza un aiutino: quello dei
media, sempre pronti a diffondere succulente informazioni per mettere a terra qualche
personaggio politico; l’aiuto delle stesse organizzazioni politiche, che forniscono gran
parte del materiale e spesso passano informazioni per eliminare la competizione
all’interno del loro stesso partito; e l’aiuto di un oscuro esercito di trafficanti di
informazioni che riforniscono entrambi i campi di munizioni, in modo da prosperare
personalmente nei killing fields della politica mediatica.
La politica dello scandalo
Gli scandali sono lotte per il potere simbolico in cui sono in gioco reputazione e
fiducia.
(Thompson, 2000, p. 245)
Pechino, 1723. L’imperatore Yongzheng, quarto figlio dell’imperatore Kangxi, è appena
assurto al potere, secondo la volontà del padre. Ma era davvero la volontà del padre? No,
diceva una voce che circolava ai quattro angoli dell’impero. In realtà, dice la storia,
l’imperatore preferiva il suo quattordicesimo giglio. Ma un alto funzionario della corte
aveva aiutato Yongzheng ad alterare il testamento dell’imperatore morente. Benché mai
provate, queste accuse gettarono un’ombra sul regno di Yonghzeng, peraltro pieno di
successi, che durò fino al 1735. I dubbi sulla sua legittimità turbavano particolarmente
molti cinesi perché gli imperatori Qing e la loro corte non erano cinesi Han ma venivano
dalla Manciuria. I ribelli antimanciuriani trovarono appoggio alla loro causa rivoltandosi
contro un Figlio del Cielo che poteva essersi insediato grazie alle diaboliche cospirazioni
che popolavano la tenebrosa corte Manciù. La voce si diffuse presso i regni vassalli
dell’impero, tra cui la Corea, alimentando il risentimento popolare e macchiando l’eredità
dell’imperatore riformista Yongzheng nella mente dei sudditi. Nessuno conosce l’origine
della diceria, essendo probabile che gli eventuali testimoni della presunta frode e gli
indiscreti propagatori del pettegolezzo avessero fatto una brutta fine. Eppure, la vicenda
seguì Yongzheng fin nella tomba arrivando fino alle contemporanee soap opera storiche
cinesi, il formato grazie al quale la storia vive nella mente del pubblico (Chen, 2004).
Parigi, 1847. Segmenti delle classi benestanti escluse dalla rappresentanza da un
sistema politico oligarchico attaccano la monarchia istituita dalla rivoluzione del 1830 a
favore di Luigi Filippo d’Orléans con richieste di democratizzazione e riforme. François
Guizot, brillante accademico-politico che fu il cervello del governo per tutto il regime,
deteneva allora la carica di primo ministro. Resistette alle pressioni, convinto che la
democrazia dovesse essere ristretta a una scelta élite guidata dai «notabili», i politici della
monarchia. Guizot aveva già coniato la celebre frase con cui incoraggiava i francesi ad
arricchirsi, come principio guida per il paese (esempio che sarebbe stato ripreso
centocinquanta anni dopo da Deng Xiaoping all’inizio del capitalismo nella Cina
comunista). Se Guizot non indulgeva in obiettivi così banali, occupato com’era a fare la
storia e a scriverne, i suoi colleghi della classe politica procedevano con zelo a metter in
pratica il suo invito. Si batterono fieramente tra loro per appropriarsi della ricchezza
generata dall’incipiente processo di industrializzazione e dall’espansione del commercio
internazionale nella Francia protocapitalista. L’accesso ai posti ministeriali era la chiave
per l’accumulazione primitiva di risorse personali.
Per battere gli avversari, usavano la stampa che avevano creato e finanziato per formare
e controllare l’opinione delle classi istruite, escluse dal potere politico ma sempre più
influenti nella società. Nel 1845 in Francia c’erano 245 quotidiani, molti dei quali assai
fruttuosi, come Le Journal des débats, segretamente foraggiato dal Ministero delle
Finanze per manipolare il mercato azionario a beneficio degli amici del ministro. Gran
parte degli articoli di stampa riguardavano questioni politiche, con Guizot come bersaglio
preferito delle critiche. Guizot era indifferente a queste allusioni e non senza una certa
soddisfazione assisteva alla scena della folla scomposta dei suoi colleghi che si facevano a
pezzi a vicenda nei titoli dei giornali denunciando scandali politici, perché così non
avrebbero potuto coalizzarsi e mettere in piedi una cospirazione contro il re o contro di lui.
Nel 1847, però, la politica dello scandalo andò troppo in là. Un giornale dell’opposizione,
La Presse, denunciò la diffusa corruzione, e persino le pratiche criminali, tra i circoli più
elevati del regime, tra cui speculazioni finanziarie, omicidi, corruzione, e la
compravendita di titoli nobiliari (una pratica, quest’ultima, rein-ventata da Tony Blair
all’inizio del XXI secolo). Le fughe di notizie fatte trapelare alla stampa, tese a colpire i
concorrenti tra i notabili, ebbero l’effetto di gettare il discredito sull’intera classe
aristocratica (una società che Balzac racconta in modo mirabile in Splendori e miserie
delle cortigiane). Gli scandali acuirono l’ostilità della piccola borghesia politicamente
emarginata, a cui appartenevano i più avidi lettori della nascente stampa. Qualche mese
dopo, la rivoluzione del 1948 era in pieno corso, mettendo fine per sempre alla monarchia
in Francia e mandando Guizot in un confortevole esilio intellettuale a Londra (Jardin e
Tudesq, 1973; Winock, 2004).
Con questo si vuol dire che ben prima dell’avvento della società in rete la politica
scandalistica era già un elemento fondamentale nel determinare le relazioni di potere e il
mutamento istituzionale. Anzi, dovunque si posi il nostro sguardo nella storia delle società
del mondo, vediamo che la politica degli scandali come forma della lotta di potere è più
radicata e tipica che non la conduzione di una ordinata competizione politica svolta
secondo i dettami delle regole dello stato. Eppure, se è vero che non c’è niente di nuovo
sotto il sole, è anche vero che processi formalmente simili assumono nuove forme e nuovi
significati con la trasformazione dei contesti culturali, politici e comunicazionali. La
specificità della politica scandalistica nella società in rete, e la sua centralità nella
politica mediatica, è l’oggetto di questa sezione.
Iniziamo con la Francia del tardo XX secolo in sequenza storica con la vicenda che ho
presentato. Chalaby (2004) si concentra sul ruolo dei giudici e dei media nel riportare gli
scandali in Francia, in una relazione simbiotica che è stata notata spesso anche in altri
paesi (Ramírez, 2000; De Moraes, 2005; Bosetti, 2007; Heywood, 2007). A prescindere da
chi abbia scoperto per primo un illecito, tra giornalisti e giudici, essi si sostengono a
vicenda nelle loro iniziative al punto che, una volta che lo scandalo abbia avuto risonanza
presso il pubblico, i media tendono a elevare i giudici al ruolo di difensori della legge
contro la volontà contraria dei politici, in un frame di difensori della moralità contro
l’impunità dei potenti che trova consonanza nella mente della gente comune. Chalaby
(2004) fa risalire l’origine del giornalismo scandalistico nella Francia contemporanea alla
rivelazione, nell’ottobre del 1979, del settimanale satirico Le Canard enchaîné sui
diamanti donati dal generale Bokassa, autoproclamato imperatore dell’Impero
Centrafricano, al presidente Giscard d’Estaing. Nonostante le pressioni governative, Le
Monde e altre pubblicazioni raccolsero la notizia, assestando così un duro colpo a un
leader politico che aveva basato la propria carriera sull’onestà e l’efficienza nella gestione
delle finanze del paese. Da lì in avanti, i media francesi crearono diverse unità di inchiesta
investigativa che, nonostante le restrizioni economiche e legali di cui soffrivano,
riuscirono nel corso degli anni a scoprire numerosi casi di corruzione, tra cui l’affare
Dumas/Elf che coinvolgeva il ministro degli Esteri e la sua amante, infliggendo un potente
colpo all’amministrazione del presidente Mitterrand nell’ultimo periodo dei quattordici
anni della sua presidenza, e le accuse di corruzione al suo successore, il presidente Chirac,
relative al suo mandato come di sindaco di Parigi.
Ari Adut (2004) illustra l’ascesa della politica dello scandalo in Francia negli anni
Novanta nel contesto di un calo di credibilità dei politici e della crescente sensazione che
le differenze ideologiche non contano in politica (vedi figura 4.3). Adut riporta centinaia
di casi di politici indagati tra il 1992 e il 2001 (vedi tabella 4.1) per il proprio
coinvolgimento in casi di corruzione politica. Mette in evidenza il ruolo dei magistrati nel
perseguire la corruzione politica come espressione dell’indipendenza del potere
giudiziario rispetto a quello politico, con magistrati che si fanno carico di imporre il
rispetto delle norme dell’interesse pubblico che sono fondamentali nella cultura francese,
ma che vengono spesso ignorate dalla classe politica. Dire che questa serie di scandali e di
indagini abbiano avuto un impatto negativo sulla fiducia dei cittadini nel governo sarebbe
davvero poco. La figura 4.3 fornisce un quadro delle opinioni dei francesi sui detentori di
carica elettive tra il 1977 e il 2001, secondo la documentazione dei sondaggi TNS Sofres
compilata da Adut (2004, p. 542).
TAB. 4.1. Risultati delle inchieste sulla corruzione in Francia negli anni Novanta
Note: I numeri tra parentesi specificano la percentuale delle inchieste conclusesi con esiti legali entro la fine del
periodo specificato.
Adut (2004) definisce «politici di alto livello» i deputati dell’Assemblea Nazionale, i senatori e i sindaci. I «politici di
massimo livello» comprendono i politici nazionali; primi ministri, ministri, presidenti dell’Assemblea Nazionale e del
Consiglio Costituzionale e i segretari generali dei partiti politici – in carica o ex.
Fonte: Adut (2004, p. 564).
Negli Stati Uniti, lo scandalo Watergate aprì la strada a una nuova epoca nel giornalismo
investigativo con conseguenze dirette per la pratica della politica e il processo di
governance (Markovits e Silverstein, 1988; Ginsberg e Shefter, 1999; Liebes e Blum-
Kulka, 2004). Uno degli effetti più duraturi del Watergate è stata l’approvazione al
Congresso dell’Ethics of Government Act del 1978, che ha contribuito alla
regolamentazione della vita politica fissando procedure per indagare su pratiche
potenzialmente illegali da parte dell’esecutivo. Questo si è tradotto in una lunga serie di
indagini nei decenni successivi ed è diventato lo strumento di prima scelta con cui gli
avversari politici hanno potuto mettere in discussione la legittimità di un governo e, in
alcuni casi, bloccarne l’attività (Schudson, 2004). Inoltre, il Watergate ha offerto un
modello di giornalismo investigativo che è diventato lo standard di eccellenza negli USA e
in tutto il mondo, con aspiranti «gole profonde» e intraprendenti reporter che facevano
causa comune nella loro crociata dei giusti, raccogliendo così i benefici del loro potere
sopra i potenti. Dall’altra parte, i politici USA risposero intimidendo i potenziali
informatori e la stampa con la presentazione nel 2000 di una proposta di legge che doveva
punire con il carcere la divulgazione e la pubblicazione di informazioni riservate (definite
in termini molto ampi). Solo uno sforzo all’ultimo minuto delle lobby mediatiche spinse il
presidente Clinton a porre il veto sul progetto, nonostante l’appoggio che aveva dato in
origine alla proposta (Nelson, 2003).
Poiché la politica dello scandalo è l’arma preferita del partito di opposizione, negli anni
Novanta Bill e Hillary Clinton furono sottoposti a un fuoco ininterrotto di accuse e
indagini da parte repubblicana – alcune delle quali con gravi conseguenze, altre rigettate
in corso d’inchiesta. Clinton fu infine sottoposto alla procedura di impeachment alla
Camera dei Rappresentanti, quindi salvato da un Senato evidentemente influenzato dalle
minacce avanzate dagli uomini del presidente di rivelare alcuni degli scandali riguardanti
gli stessi senatori (Marks, 2007, pp. 216-249). Durante l’amministrazione Bush fu la volta
dei democratici di esporre una serie di azioni lesive compiute dall’amministrazione
presidenziale e da diversi leader repubblicani di punta, come è documentato nella tabella
A4.1 in Appendice. Così, si può dire che la politica americana nell’ultimo ventennio è
stata in larga misura dominata da rapporti e controrapporti su scandali e informazioni
dannose, aventi come obiettivo diretto specifici leader politici o i loro incaricati (per
esempio, Scooter Libby come uomo di Karl Rove e Dick Cheney). Le battaglie politiche
sono state in gran parte condotte per mezzo della politica scandalistica (Sabato et al.,
2000).
La prevalenza e l’importanza della politica scandalistica negli ultimi anni è stata
documentata e analizzata, su linee analoghe a queste, anche per Regno Unito, Germania,
Italia, Spagna, Argentina, Cina, India, e per una lista interminabile di paesi in tutto il
mondo (Arlachi, 1995; Rose-Ackerman, 1999; Thompson, 2000; Anderson e Tverdova,
2003; Esser e Hartung, 2004; Jimenez, 2004; Tumber, 2004; Tumber e Waisbord, 2004b;
Waisbord 2004b; Chang e Chu, 2006). Anziché appesantire questo capitolo con un esame
dettagliato di tutta questa documentazione, rimando all’estesa (ma non esaustiva) lista
degli scandali politici in tempi recenti elaborata da Amelia Arsenault e presentata nella
tabella A4.2 in Appendice. Inoltre, Transparency International (accessibile online)
contiene gli episodi resi pubblici di corruzione, compresa la corruzione politica,
riguardanti paesi di tutto il mondo: dimostrazione sia dell’universalità dell’occorrenza sia
della variazione della sua intensità a seconda delle culture e delle istituzioni. Le
democrazie più avanzate non sfuggono a questa regola generale della politica scandalistica
come pratica politica standard. La tabella A4.3 mostra la portata della politica degli
scandali e l’importanza dei suoi effetti politici nei paesi del G8, il club esclusivo che tiene
il timone del mondo.
Perché la politica dello scandalo è così diffusa? Da dove viene? È diversa rispetto al
passato nella sua frequenza e negli effetti che ha sulla vita politica? E perché? Esaminerò
questi punti cardine sulla base delle prove limitate disponibili grazie alla ricerca
accademica. La politica scandalistica non è la stessa cosa della corruzione politica
(Thompson, 2000). La corruzione politica, intesa come la vendita illegale di servizi da
parte di politici e funzionari in cambio di benefici per se stessi o per il partito (o per
entrambi) è un carattere standard dei sistemi politici nel corso della storia (King, 1989;
Allen, 1991; Bouissou, 1991; Fackler e Lin, 1995; Rose-Ackerman, 1999). Gli scandali
politici includono anche altri presunti abusi, come attività sessuali illecite, rispetto alle
norme di una data società. La distribuzione degli scandali tra diverse categorie di
comportamento varia da un paese all’altro. Per esempio, in una prospettiva storica, la
proporzione tra scandali illegali e non illegali in Francia e negli Stati Uniti è grosso modo
equivalente, mentre il sesso e lo spionaggio sono più prevalenti della corruzione
finanziaria nel Regno Unito (Barker, 1992). I dati storici compilati nel volume del
Longman International Reference, Political Scandals and Causes Célèbres since 1945 da
Louis Allen (1991), e il Global Corruption Barometer Survey di Transparency
International gestito dalla Gallup International Association dal 2003, non mostrano un
trend coerente in termini di frequenza e intensità di scandalo e corruzione. Variano per
paese e per periodo, a seconda delle congiunture politiche e delle capacità di
comunicazione dei media. La maggior parte degli analisti, tuttavia, sembra convenire che
l’uso degli scandali in politica sia in crescita (Thomson, 2000; Halaby, 2004; Jimenez,
2004; Tumber, 2004; Tumber e Waisbord, 2004a, b; Chang e Chou, 2006). In effetti si
direbbe lo strumento di prima scelta nella contesa politica. Così, Ginsberg e Shefter
(1999), analizzando le tendenze politiche negli Stati Uniti, scrivono:
In anni recenti le elezioni sono diventate meno decisive quale meccanismo per la
risoluzione dei conflitti e la formazione di governi negli Stati Uniti… Anziché
impegnarsi in una competizione a tutto campo per i voti, le forze politiche in
competizione sono arrivate a basarsi su armi di combattimento istituzionale quali le
inchieste congressuali, le rivelazioni dei media e i procedimenti giudiziari per
sconfiggere gli avversari. Nell’America contemporanea, il successo elettorale spesso
non conferisce la capacità di governare, e le forze politiche continuano a esercitare un
considerevole potere anche se perdono nelle urne, e perfino se non competono
nell’arena elettorale (1999, p. 16).
Diverse tendenze concorrono a porre gli scandali nel bel mezzo della vita politica in tanti
paesi in tutto il mondo: la trasformazione dei media; la trasformazione della politica; e la
specificità della politica mediatica.
La politica scandalistica nell’ambiente di comunicazione digitale
Riguardo ai media, l’infotainment predilige le storie di scandali, considerate materiale di
prim’ordine per attirare il pubblico. Questo è diventato particolarmente significativo con
l’avvento del ciclo di notizie sulle ventiquattr’ore, con continue «breaking news» per
alimentare la fame di avvenimenti sensazionali e insoliti (Fallowz, 1996; Sabato et al.,
2000). Poiché ormai tutti i maggiori organi mediatici sono in rete, il ciclo perpetuo delle
notizie non è limitato ai network di informazione televisivi o radiofonici: l’informazione
viene costantemente aggiornata sui siti web di quotidiani e riviste. Inoltre, Boczkowski
(2007) ha mostrato il processo di imitazione che caratterizza i titoli sui siti web dei media:
appena una storia appare da un sito web, viene immediatamente ripresa, riformattata e
discussa da tutti gli altri.
La comunicazione basata su Internet contribuisce in maniera potente all’affermarsi della
politica scandalistica, principalmente in due modi (Howard, 2003; McNair, 2006). Primo,
apre la comunicazione di massa ad accuse e denunce di svariata origine, scavalcando così
la funzione di gatekeeping dei media mainstream. L’esempio più noto è l’ondata di ansia
che percorse i media mainstream quando una newsletter su Internet (il Drudge Report)
diede la notizia che il presidente Clinton aveva avuto una relazione con Monica Lewinsky,
una stagista della Casa Bianca (Williams e Delli Carpini, 2004). La capacità di accedere
direttamente alle piattaforme di comunicazione di massa alimenta un vasto oceano di voci
e teorie del complotto. Apre anche alla possibilità per chiunque di esporre il
comportamento scorretto o illegale dei politici, spesso con il supporto audiovisivo di
YouTube o altre piattaforme. Per i leader politici non c’è più alcuna privacy. Il loro
comportamento è costantemente vulnerabile a essere esposto grazie a piccoli dispositivi di
registrazione digitale, come i cellulari, e messo immediatamente su Internet.
Secondo, qualsiasi notizia, rilasciata sotto qualsiasi forma da qualsiasi fonte, può essere
diffusa all’istante in maniera virale su Internet (McNair, 2006). Inoltre, i commenti dei
blogger e del pubblico in generale alimentano immediatamente le polemiche, portando
una condotta reprensibile al centro dell’agorà elettronica, sottoponendola a un dibattito
pubblico aperto e scatenando così le «guerre dei blog» (Perlmutter, 2008). In effetti, sono
sempre più numerosi i blogger che lavorano come consulenti politici, ora che la blogosfera
è diventata uno spazio comunicativo fondamentale in cui le immagini pubbliche vengono
fatte e rifatte (The Economist, 2008). Il gossip digitale in rete costituisce un amplificatore
di proporzioni gigantesche, che accende la miccia delle accuse scandalistiche nel giro di
qualche ora.
La politica scandalistica e le trasformazioni della politica
La centralità degli scandali è anche una funzione della trasformazione della politica.
Tumber (2004) vede nell’indebolimento dell’identificazione partitica e nel declino del
partitismo l’origine dell’affermarsi della politica scandalistica, con una corrispondente
ascesa di una «cultura del promozionalismo» in cui politici, governi e aziende
promuovono i propri interessi al di sopra degli interessi della collettività (Tumber, 2004, p.
122). Gli analisti sottolineano il fatto che la competizione politica è contrassegnata dalla
lotta per occupare il centro dello spettro politico dell’elettorato in termini di messaggio
percepito, mettendo in secondo piano i contrasti ideologici: partiti e candidati, una volta
che si siano assicurato l’appoggio del nocciolo duro dei sostenitori, si danno da fare per
adottare temi e posizioni dell’avversario mirando a sottrargli potenziali votanti. Ne segue
la tendenza dei cittadini a basarsi più sulle caratteristiche personali dei leader e sull’onestà
dei loro partiti che sui loro programmi e dichiarazioni (Edwards e Dan, 1999). Così,
politici coinvolti in uno scandalo rappresentano buon materiale giornalistico perché questi
scandali minano la loro idoneità a ricevere la delega del potere da parte dei cittadini
(Thompson, 2000; Chalaby, 2004; Tumber e Waisbord, 2004a, b).
Esiste anche un certo numero di fattori che incide sulla crescente vulnerabilità agli
scandali che mostra il sistema politico. Alcuni di questi fattori sono legati a trend
strutturali insiti nella relazione tra globalizzazione e stato che incide sulla moralità della
politica. Così, qualche tempo fa, Guéhenno (1993) proponeva un’ipotesi interessante: dati
i limiti al potere degli stati nazionali imposti dalla globalizzazione, e considerato
l’offuscarsi dell’impegno ideologico, le ricompense del ricoprire una carica non sono più
distinte da quelle offerte nel resto della società: i soldi, che di solito significa soldi ricevuti
al di fuori dei canali ufficiali di retribuzione.
Inoltre, in un numero crescente di paesi, l’economia criminale globale è penetrata in
profondità nelle istituzioni dello stato, offrendo così la possibilità di svelare le connessioni
criminose del sistema politico, frequente fonte di scandali politici in America Latina o nel
Sudest asiatico, ma anche in altri paesi, come il Giappone, l’Italia e la Russia (Castells,
2000c; Campbell, 2008; Glenny, 2008). Il finanziamento illecito dei partiti politici diventa
una fonte di corruzione, accrescendo così le probabilità che informazioni dannose siano
usate dagli avversari (Ansolabehere et al., 2001). Poiché tutti i partiti partecipano a questa
pratica, dispongono tutti di servizi di intelligence e di eserciti di intermediari che
trafficano in minacce e controminacce, creando un mondo politico caratterizzato dalla
possibilità di mutua distruzione assicurata. Secondo questa logica politica, una volta
creatosi il mercato del materiale pericoloso, se non c’è materiale inequivocabilmente
scandaloso, si può sempre ricorrere alle insinuazioni e alle invenzioni. Anzi, la strategia
nella politica scandalistica non mira necessariamente al colpo decisivo inferto con un
singolo scandalo. Piuttosto, un flusso continuo di scandali di genere diverso, e con diversi
livelli di verificabilità, tessono le fila con cui le ambizioni politiche vengono realizzate o
minacciate dalla formazione delle immagini nella mente dei cittadini.
Politica scandalistica e politica mediatica
La politica scandalistica non è separabile dalla politica mediatica. Primo, perché è tramite
i media (compresi, ovviamente, i mezzi di autocomunicazione di massa) che gli scandali
vengono divulgati e diffusi nella società in senso lato. Ma, cosa più importante, non è
separabile perché le caratteristiche della politica mediatica fanno dell’uso degli scandali lo
strumento più efficace nelle contese politiche. Questo in primo luogo perché la politica
mediatica è strutturata sulla personalizzazione della politica, come risulta dall’analisi
presentata sopra. Poiché i messaggi più efficaci sono quelli negativi, e poiché il killeraggio
politico è la forma più netta di negatività, la distruzione di un leader politico attuata
facendo trapelare, inventando, formattando e propagando un comportamento scandaloso
che possa essergli (o esserle) attribuito, personalmente o per associazione, è il fine ultimo
della politica scandalistica. È per questo che tattiche come la «ricerca sull’opposizione»
che ho descritto in precedenza sono basate sul ritrovamento di informazioni incriminanti
che potrebbero essere usate per stroncare il richiamo popolare di un politico o di un
partito. La pratica della politica scandalistica rappresenta il livello più alto di esecuzione
nella strategia dell’introduzione di un effetto «affetto negativo». Poiché la politica
mediatica è la politica dell’Età dell’Informazione, la politica scandalistica è lo strumento
di prima scelta per impegnarsi nelle lotte politiche del nostro tempo. Tuttavia, gli scandali
sono sempre efficaci quanto vorrebbero i loro promotori? Le prove in proposito non sono
conclusive, se per efficacia intendiamo la capacità di distruggere un leader politico, un
partito o un governo.
L’impatto politico della politica dello scandalo
È in corso un notevole dibattito su come e se la politica scandalistica influenzi il
comportamento politico. Alcuni ricercatori sostengono che la politica dello scandalo
danneggia più i politici che il sistema politico. Poiché i politici si presentano sul mercato
puntando su tratti di personalità quali l’onestà e l’integrità, quando vengono colti in un
comportamento biasimevole i votanti potranno anche perdere la fiducia nel singolo
colpevole, ma il loro rispetto per il sistema politico non ne viene necessariamente toccato.
Welch e Hibbing (1997), per esempio, trovano che i candidati accusati di corruzione in
relazione a questioni di moralità possono veder diminuire il loro appoggio di un buon
dieci per cento nel voto dei due partiti. Analogamente, altri studi hanno riscontrato che
l’approvazione di singoli congressisti o politici ha poco a che fare con il livello di fiducia
dei cittadini o con la loro considerazione verso le istituzioni politiche in generale (Hibbing
e Theiss-Morse, 1995). Per esempio, negli Stati Uniti degli anni Novanta, secondo diversi
sondaggi Pew, dopo una iniziale caduta nel livello di fiducia politica, lo scandalo Monica
Lewinsky non ebbe che un impatto limitato sui livelli di fiducia politica.
L’evidenza empirica suggerisce quindi che gli scandali politici influenzano i
comportamenti di voto in maniera diversa a seconda del paese e del livello della carica
politica. Negli Stati Uniti le elezioni per il Congresso e per i parlamenti statali di solito
richiamano un basso numero di lettori, che sanno poco dei nomi dei loro rappresentanti o
dei loro sfidanti. Una massa crescente di ricerche lascia pensare che, per questi politici, in
particolare durante le primarie, essere implicati in uno scandalo potrebbe anzi essere
vantaggioso (Burden, 2002). Questo vantaggio è particolarmente pronunciato per gli
sfidanti. Come per primi hanno notato Mann e Wolfinger (1980), la gente è più brava a
riconoscere il nome di un candidato che a ricordarlo spontaneamente. Questo è importante
perché votare richiede soltanto che il votante riconosca un nome su una scheda. Così, la
partecipazione a uno scandalo potrebbe essere vantaggioso a questi livelli inferiori perché
accresce la riconoscibilità di un nome, il che può tradursi in una più alta percentuale di
voti. Viceversa, per i candidati politici maggiori, gli scandali sono deleteri perché i votanti
già possiedono informazioni su di loro e sono più portati a seguire i particolari dello
scandalo.
Sondaggi Pew condotti negli Stati Uniti suggeriscono anch’essi che lo schieramento con
un partito può influenzare il modo in cui lo scandalo incide sulla fiducia politica. Gli
indipendenti mostrano di essere influenzati dagli scandali politici più dei democratici e dei
repubblicani. Gli elettori indipendenti che pensano che i loro rappresentanti abbiano
intascato bustarelle sono tendenzialmente più del doppio di quelli che non lo pensano (46
per cento contro 20 per cento) portati a dire che l’interessato dovrebbe essere mandato a
casa alle successive elezioni (Dimock, 2006). La ricerca lascia intendere anche che mentre
gli indipendenti tendono a seguire i notiziari con minore attenzione dei loro corrispettivi
che fanno riferimento ai due partiti, il loro interesse per la corruzione nel Congresso è pari
a quella dei loro corrispettivi democratici e superiore a quello dei repubblicani.
Considerando l’importanza del voto indipendente in gran parte delle elezioni USA, questo
fa capire che le notizie degli scandali possono svolgere un ruolo chiave nell’influenzare
l’esito delle elezioni. Inoltre, il 77 per cento degli indipendenti che avevano seguito
vicende di corruzione nel Congresso ritenevano che la maggior parte dei suoi membri
dovessero essere mandati a casa alle elezioni successive. In un raffronto internazionale,
Simpser (2004) ha analizzato le conseguenze politiche della percezione della corruzione
nei votanti. Usando un insieme di dati originali con una nuova misura di corruzione
elettorale per 88 paesi nel 1990-2000, Simpser ha rilevato che la corruzione elettorale e
alti margini di vittoria erano associati con una minore affluenza di votanti in un ampio
ventaglio di paesi. Quindi, gli scandali possono incidere sulla fiducia verso le elezioni, e
non solo verso i politici.
Una questione chiave è il ruolo svolto dai media nel rafforzare l’impatto degli scandali.
Certo, senza i media, non ci sono scandali. Ma le notizie degli scandali riportate dai media
producono specifici effetti politici? Negli Stati Uniti, uno studio del Project for Excellence
in Journalism e del Pew Research Center (2000) effettuato su 2400 servizi e commenti di
quotidiani, televisione e Internet sulle elezioni presidenziali del 2000, rilevava che il 76
per cento di essi si concentrava su due temi: Al Gore mente/esagera ed è macchiato da
scandali. Nonostante le accuse di uso di cocaina e di irregolarità negli affari, lo studio
rilevava che George W. Bush riscuoteva molto più successo nel far arrivare il messaggio
della sua campagna che lo presentava come un «conservatore compassionevole» e «un
repubblicano di genere diverso». Lo studio accertava anche che le raffigurazioni negative
non sembravano trovare troppa risonanza presso i votanti. Mentre presentare Gore come
persona macchiata da scandali era il frame mediatico prevalente, solo il 26 per cento degli
intervistati faceva questa associazione.
Guardando specificamente all’affare Monica Lewinsky, John Zaller (1998) esprime
analoghi dubbi sul fatto che la comunicazione politica sui media abbia svolto un ruolo
nell’influenzare il pubblico nelle sue interpretazioni dello scandalo. Spiega la permanenza
dell’appoggio pubblico per Clinton, nonostante la copertura mediatica nella stragrande
maggioranza critica, facendo riferimento a tre variabili non legate ai media: a) la pace
(l’assenza di pesanti minacce alla sicurezza degli Stati Uniti); b) la prosperità (economia
forte); e c) le posizioni politiche moderate di Clinton. Zaller (1998) sottolinea che le
ramificazioni politiche dello scandalo vennero ampiamente eclissate dal valore che aveva
come puro intrattenimento, come dramma di sesso e potere nell’Ufficio Ovale. Lawrence e
Bennett (2001), però, dissentono da Zaller. Secondo la loro analisi, mentre lo scandalo
Lewinski non ebbe un impatto negativo sull’approvazione dei votanti e i livelli di fiducia,
ebbe invece un più vasto effetto in quanto provocò una discussione pubblica sul ruolo
della condotta sessuale nella vita pubblica americana. In altre parole, nel post-Monica, il
comportamento sessuale dei politici è diventato meno rilevante per il pubblico americano
in termini di impegno politico e fiducia. Lawrence e Bennett (2001) notano che l’appoggio
all’impeachment di Clinton, in caso avesse mentito sotto giuramento a proposito della sua
condotta sessuale, diminuì dal 50 al 31 per cento nel corso dello scandalo. Samuelson
(1998) attribuisce l’ininterrotto alto gradimento di Clinton alla stanchezza generale per la
cultura dell’aggressione politica in generale. Definisce «cultura dell’aggressione» la
degenerazione delle normali indagini pubbliche – da parte delle commissioni del
Congresso, della stampa, e di avvocati e magistrati indipendenti. Si rivelano meno
interessati a scoprire gli illeciti che a rovinare politicamente l’accusato. La gente
istintivamente trova il procedimento sconcertante, scorretto e (per la nazione)
autodistruttivo. Non volle premiarlo e perpetuarlo facendo di Clinton l’ultima e più grossa
preda (Samuelson, 1998, p. 19). Samuelson cita anche il fatto che gli indici di
disapprovazione per i repubblicani raddoppiarono passando dal 22 per cento del gennaio
1998 al 39 per cento di dicembre 1998, come prova ulteriore della stanchezza verso la
cultura dell’aggressione. L’apparente immunità di Clinton dall’indignazione pubblica a
proposito dello scandalo potrebbe essere stata anche una funzione del suo forte carisma
personale: da un sondaggio del Washington Post emergeva un balzo del 17 per cento (dal
44 al 61 per cento) nella percentuale di americani che approvava la direzione in cui stava
andando il paese immediatamente dopo la sua confessione pubblica televisiva (Renshon,
2002, p. 414). Waisbord (2004b) inoltre si basa sul lavoro di Keith Trester sulla
desensibilizzazione da parte dei media per spiegare come la copertura giornalistica
pervasiva di uno scandalo può tradursi nella «banalizzazione della corruzione» e generare
«stanchezza da scandalo» nel pubblico.
Da altri studi però risulterebbe che la conseguenza più seria dello scandalo Lewinsky si
produsse nella decisiva elezione presidenziale del 2000, quando il 18 per cento dei votanti
citarono la moralità come la caratteristica più importante che cercavano in un presidente
(Renshon, 2002). Rensohn rileva che mentre i votanti mostravano alti livelli di
approvazione per il lavoro del presidente Clinton, la stragrande maggioranza (74 per
cento) degli americani si diceva d’accordo con l’affermazione: «Sono stanco di tutti i
problemi associati all’amministrazione Clinton». Tra quelli che esprimevano tale
affaticamento, il 60 per cento dichiarava che avrebbe votato per George W. Bush, e il 35
per cento per Al Gore (Renshon, 2002, p. 424). Analogamente, Morin e Deane (2000),
scrivendo della stanchezza per Clinton, riscontravano che uno su tre votanti che
apprezzavano la politica di Clinton ma non il personaggio erano passati a Bush. Inoltre, i
ricercatori evidenziavano che la «sincerità» si poneva come il singolo tratto più importante
che i votanti nel 2000 cercavano nel prossimo presidente – e otto su dieci di questi votanti
appoggiavano Bush (Morin e Deane, 2000, appendice 10). In altre parole, i livelli di
approvazione per Clinton superavano indenni la serie di scandali durante la presidenza e il
voto sull’impeachment perché le sue politiche ricevevano un ampio sostegno, e la sua
condotta personale era considerata tipica della maggior parte dei politici. Tuttavia, Al
Gore pagò il prezzo dell’immoralità di Clinton, essendo rimasto macchiato per
associazione in un’elezione contro un candidato che era percepito come morale e sincero.
Noi, ovviamente, sappiamo che George W. Bush passerà alla storia come uno dei più
clamorosi e pericolosi mentitori della presidenza americana. Il paradosso estremo è che un
piccolo bugiardo come Clinton aprì la strada per l’arrivo al potere di un grande bugiardo
come Bush, permettendogli di avvolgersi nel manto dell’onestà, in contrasto con quella
persona per bene che era ed è Al Gore.
In sintesi: gli effetti della politica scandalistica sulla politica sono in larga misura
indeterminati. Dipendono dal contesto culturale e istituzionale, dalla relazione tra i tipo di
scandalo e il politico coinvolto, dal clima sociale e politico del paese, e dall’intensità
dell’effetto di stanchezza individuato tra i cittadini dopo l’interminabile catena di scandali
riportati dai media. Gli effetti vanno anche misurati nell’arco del tempo, e spesso sono
indiretti nelle loro manifestazioni: per esempio, un altro politico che ne subisce le
conseguenze per associazione.
Le prove invece le abbiamo su due importanti effetti politici. Primo, un numero
crescente di grandi cambiamenti politici nei governi di tutto il mondo è direttamente
associato con gli effetti degli scandali, come risulta dalla tabella A4.2 in Appendice. In
altre parole, mentre molti degli scandali politici hanno scarsi effetti politici diretti, sono
così tanti gli scandali che esplodono in continuazione nei media che alcuni di essi hanno
effettivamente un grosso impatto, talvolta travolgendo governi quando non regimi.
Secondo, a causa della prevalenza della politica scandalistica, indipendentemente dallo
specifico esito in un dato contesto, l’intero paesaggio politico è trasformato dappertutto
perché l’associazione generalizzata tra politica e comportamento scandaloso contribuisce
alla disaffezione dei cittadini verso le istituzioni politiche e la classe politica, contribuendo
a una crisi mondiale di legittimazione politica. In realtà, è proprio perché si fa di tutti i
politici un unico mazzo, sotto lo stesso giudizio negativo in fatto di moralità e credibilità
personale, che specifici scandali riferiti a specifici personaggi politici possono avere un
impatto poco significativo: giacché i politici sono considerati generalmente inaffidabili
dalla maggioranza della gente, i cittadini disincantati devono scegliere la persona
inaffidabile che sia più vicina ai loro valori e interessi. Questa osservazione solleva la
questione più rilevante riguardo alle relazioni di potere: la relazione tra politica
mediatica, politica scandalistica e crisi di legittimazione della politica. Approfondirò
l’esame delle dinamiche della politica degli scandali concentrandomi su un caso di studio
ricco di lezioni per la pratica della democrazia: la liquidazione dei socialisti spagnoli negli
anni Novanta come risultato di una ben architettata strategia di politica scandalistica.
Colpire il tallone d’Achille: la politica scandalistica nella Spagna socialista
González ha vinto tre elezioni con una maggioranza assoluta, e anche una quarta,
quando tutti i segnali indicavano la sconfitta. Così, abbiamo dovuto alzare la posta a
livelli tanto estremi che a volte hanno toccato lo stato stesso. González stava
bloccando qualcosa di essenziale nella democrazia: l’alternanza politica… La
capacità di González di comunicare, la sua forza politica, la sua straordinaria abilità,
portarono molti a concludere che era necessario mettere fine alla sua epoca. Visto che
i durissimi attacchi lanciatigli nel 1992-1993 non riuscivano a finirlo… ci siamo resi
conto della necessità di alzare il livello delle critiche. Poi, ci siamo messi a frugare in
questo intero mondo di irregolarità, di corruzione… Non c’era altro modo per far
cadere González.
(Luis María Anson, allora direttore del quotidiano ABC, intervistato dal settimanale
Tiempo, 23 febbraio 1998)
La serie di scandali orchestrati che finirono per abbattere il predominio di Felipe González
e del Partito Socialista portando alla loro sconfitta elettorale nel 1996, rappresenta un caso
da manuale di politica scandalistica (Anson, 1996; Ramírez, 2000; Amedo, 2006;
Heywood, 2007; Villoria Mendieta, 2007). Nel 1982, solo cinque anni dopo l’istituzione
della democrazia dopo il quarantennio della sanguinosa dittatura del generale Franco, i
socialisti ottennero una vittoria trionfale. Furono rieletti nel 1986, nel 1989, e, con un
margine minore, nel 1993. Tra i motivi del loro successo c’era la repulsione dei votanti per
i conservatori, molti dei quali erano stati associati allo screditato regime franchista:
l’orientamento di centrosinistra della maggioranza dell’elettorato spagnolo; e la
mobilitazione di «nazioni senza stati» come la Catalogna e il Paese Basco, in difesa
dell’autonomia più piena possibile, una richiesta a cui i conservatori si opponevano
(Alonso-Zaldivar e Castells, 1992). Una volta eletto, il governo socialista varò una serie di
politiche efficienti che stimolarono la crescita economica e l’occupazione, sviluppò una
sorta di welfare state, modernizzò il paese, istituì uno stato semifederale, prese il controllo
delle forze armate, e aprì la strada per l’adesione alla Comunità Europea nel 1986.
Ma l’abile uso della politica mediatica fu anch’esso un fattore che contribuì alle vittorie
elettorali dei socialisti permettendo una permanenza ininterrotta al potere di tredici anni.
Al centro della strategia c’era la personalizzazione della politica nel segretario generale
del partito, Felipe González. González, un socialdemocratico moderato, quarantenne al
momento in cui salì al potere, era assillato dai pericoli di una transizione democratica in
un paese che nel corso di tutta la sua storia tormentata non aveva mai conosciuto la
democrazia, tranne che per cinque anni negli anni Trenta. Il suo pragmatismo stabilizzò il
paese e assicurò la continuità di governo. Beneficiava di una efficiente squadra politica
che usava la politica mediatica e la costruzione dell’immagine in modo innovativo, a quel
tempo senza paralleli nella politica europea. Ad aiutare c’era la circostanza che la Spagna
ereditava un sistema mediatico in cui il governo aveva il monopolio delle emittenti
televisive, possedeva network radiofonici chiave, e aveva un’influenza indiretta su settori
del giornalismo della carta stampata. Va detto che fu proprio il governo González a
decentrare, liberalizzare e privatizzare i media, e questo permise due network televisivi
privati nazionali, aprì la strada alla televisione via cavo e via satellite, e autorizzò network
televisivi regionali controllati dai governi locali. Nel corso di questo processo, il più
importante quotidiano spagnolo, creato all’alba della democrazia come voce
filodemocratica, El País, divenne il fondamento del maggior gruppo mediatico nel paese,
e sviluppò una cooperazione reciprocamente fruttuosa con i socialisti (Machado, 2006).
Nei primi anni Novanta, una simile concentrazione di potere e media nelle mani dei
socialisti e dei loro alleati spinse gli avversari di González a decidere di portare la
battaglia al di fuori del terreno elettorale. Adottarono una strategia di distruzione
dell’immagine che mirava alla graduale erosione della reputazione di onestà e democrazia
alla base dell’attrazione dei socialisti sull’elettorato. Ma chi erano questi avversari?
Certamente includevano il blocco politico dei conservatori che subì numerose
trasformazioni prima di creare il Partido Popular (PP), affiliato con i partiti conservatori
europei. Ma negli anni Ottanta il PP era debole, con un’influenza limitata a una minoranza
dell’elettorato ancorato nella destra ideologica. Così, alla loro opposizione radicale ai
socialisti si unì la coalizione della Sinistra Unita guidata dai comunisti, un gruppo piccolo
ma attivo e influente in alcuni segmenti della società. Contava anche sul sostegno discreto
di alcuni gruppi imprenditoriali (nonostante le politiche di González a favore delle
imprese), e fu aiutato dalla chiesa cattolica, che si batteva per conservare i propri privilegi
finanziari e istituzionali. Ma la leadership reale della rete informale degli oppositori di
González fu assunta da gruppi di giornalisti che, per motivi personali, professionali e
ideologici entrarono nella mischia. L’autorevolissimo giornalista Pedro J. Ramírez,
direttore di Diario 16, un giornale di secondo piano e di tendenze centriste, fu l’attore
chiave. Ramírez, dopo un periodo a Washington, rimase affascinato dal caso Watergate, e
alimentò l’ossessione del giornalismo investigativo. Dopo aver appoggiato i suoi
giornalisti che investigavano sull’affare GAL (Grupos Antiterroristas de Liberación; vedi
sotto) e pubblicato diversi articoli che rivelavano le illegalità del governo, nel marzo 1989
fu licenziato, su richiesta, si pensa, dei socialisti. Giurò vendetta. Ottenne un sostegno
finanziario e qualche mese dopo iniziò la pubblicazione di El Mundo, che sarebbe
diventato l’implacabile inquisitore del governo socialista e, alla fine, un sostegno per i
conservatori. La qualità professionale del giornale e la sua indipendenza dal governo
socialista, fornendo al contempo una piattaforma per i critici di sinistra a González, ne
fece il secondo quotidiano per diffusione e ne garantì la sua buona posizione commerciale.
El Mundo divenne l’esplicito araldo della politica degli scandali e sviluppò un efficiente
format mediatico. Il giornale si procurava informazioni compromettenti sul partito o sul
governo con diritti esclusivi di pubblicazione. Quindi pubblicava una serie di articoli con
titoli esplosivi per diversi giorni di seguito. Dalle sue pagine, l’informazione si diffondeva
al resto dei media. I media erano obbligati a citare El Mundo e a pubblicare queste storie
per l’attrazione esercitata da questi scandali sul pubblico. Naturalmente questa strategia
richiedeva buon materiale scandalistico, e questo c’era in abbondanza. I socialisti erano
così sicuri del proprio controllo politico sul paese che si abbandonavano a disinvolte
operazioni illegali senza prendere le più elementari precauzioni. Squadre di giornalisti
investigativi a volte portavano alla luce le informazioni compromettenti con una mentalità
da crociati, affermando il potere della stampa libera, una conquista costata cara in Spagna,
sui politici. In molti casi, però, i media, e in particolare El Mundo grazie alla sua visibilità,
beneficiarono di fughe di notizie interessate fatte trapelare da vari partecipanti a
operazioni illegali, per rappresaglia o per salvare la faccia o la libertà quando i piani si
mettevano male. Fu così per l’affare Filesa, rivelato nel 1991, che portava alla luce la
creazione del Partito Socialista di una società di consulenza fasulla per estorcere tangenti
alle aziende a favore delle casse del partito. Diversi pezzi grossi della burocrazia del
partito furono giudicati colpevoli e finirono in carcere, quando la richiesta di pagamenti in
nero avanzata dal loro contabile fu rifiutata. Ma lo scandalo più significativo, e quello che
userò come esempio di una lunga serie di affari che non è necessario riportare in dettaglio
ai fini dell’analisi, è l’episodio del GAL.
La più grossa sfida politica interna che i socialisti si trovarono ad affrontare dopo aver
assunto il potere era la stessa sfida che tutti gli altri governi spagnoli hanno dovuto
affrontare negli ultimi cinquant’anni: la lotta dei baschi per l’indipendenza, e in particolare
il terrorismo praticato dall’organizzazione indipendentista più militante, l’ETA, con oltre
800 vittime al suo attivo al momento in cui scrivo. A causa della sensibilità verso la
questione dei militari e delle agenzie di polizia, i socialisti decisero di affrontare l’ETA a
testa bassa fin dall’inizio della loro amministrazione. In generale, l’offensiva socialista fu
politica, puntando sull’appoggio tra la classe operaia basca in varie forme di
collaborazione con il democratico e moderato Partito Nazionale Basco, eletto a governare
le istituzioni basche. Ma vi fu anche una decisa azione di polizia per sradicare l’ETA.
Questa fallì, come ha fallito con tutti gli altri governi, nonostante le decine di militanti
uccisi e le centinaia di arrestati. Poi, qualcuno, un certo Mr X, per usare la terminologia
del giudice Garzón, titolare delle indagini sul caso, immaginò una sorta di «soluzione
finale»: ammazzarli tutti. Perché perdere tempo con i legalismi? (Suona familiare,
all’inizio del XXI secolo?)
Secondo la documentazione che anni dopo forniva la base per le sentenze giudiziarie,
nel Ministero degli Interni fu creata una unità speciale utilizzando fondi segreti del
governo. Diversi elementi della polizia furono assegnati al compito, contattando poi killer
professionisti in Francia, in quanto il rifugio sicuro per l’ETA era in territorio francese. Fu
istituita un’organizzazione ombra e il «Gruppo Antiterrorismo di Liberazione» (GAL)
entrò in azione. Fu un disastro. Cominciarono con il sequestrare e assassinare due attivisti
baschi nell’ottobre 1983. Ma il secondo rapimento, tre mesi dopo, fu un caso di scambio
di persona. E poi, nel 1984, assassinarono per sbaglio un ballerino che non aveva alcuna
connessione con l’ETA. La mancanza di professionismo e l’uso da parte dei poliziotti che
effettuavano la supervisione di fondi neri per godere della vita notturna degli ambienti
criminali condusse all’arresto di due ufficiali di polizia incaricati della cospirazione,
Amedo e Dominquez. Furono giudicati e condannati a lunghi anni di carcere nel settembre
1991. Ma non rivelarono le loro connessioni di livello superiore perché, secondo
successive loro dichiarazioni, «qualcuno» nel governo socialista aveva promesso loro il
perdono giudiziario in cambio del silenzio.
Nell’ottobre del 1994, quando si resero conto di quanto valesse in realtà quella
promessa e che non avrebbero ottenuto alcun perdono, passarono dall’altra parte e
accusarono diversi pezzi grossi del Ministero degli Interni e il ministro stesso. Prima di
andare dal giudice, parlarono con i leader del Partido Popular dell’opposizione, con l’aiuto
del loro avvocato, poiché (secondo la versione di Amedo) gli era stata promessa la grazia
in futuro se il PP fosse andato al potere. Diedero anche un’intervista al direttore di El
Mundo, probabilmente in cambio di denaro (anche se El Mundo ha respinto tutte le
accuse). In base a queste nuove prove, il principale magistrato nei casi di terrorismo, il
giudice di rinomanza internazionale Baltasar Garzón (lo stesso che ha emesso l’ordine di
arresto a Londra contro il dittatore cileno Pinochet), riaprì il caso. Ad alimentare il
procedimento c’era il fatto che Garzón si era lasciato sedurre dall’invito del primo
ministro González di far parte dei suoi candidati alle elezioni del 1993, e poi si era sentito
deluso dall’esperienza di governo tornando al suo posto in tribunale appena in tempo per
assumere l’accusa contro il GAL. Tra il 1995 e il 1998, diversi processi furono celebrati
contro ministri, segretari di stato, il direttore generale della polizia, alti funzionari del
governo, e il segretario generale del Partito Socialista nel Paese basco. Diversi di loro
furono giudicati colpevoli e condannati a pene detentive, anche se con vari perdoni
giudiziari e una generosa applicazione della libertà sulla parola, non rimasero a lungo in
carcere. Nonostante le accuse di alcuni dei condannati, che portarono il giudice a inviare
alla Corte Suprema una richiesta di incriminazione del primo ministro, nulla poté essere
provato, in quanto Felipe González sostenne di essere all’oscuro dell’operazione GAL, e
denunciò la motivazione politica dell’accusa. La Corte Suprema non portò avanti
l’incriminazione contro di lui.
In questa tragica soap opera, Diario 16, e più tardi El Mundo, continuarono a dare in
pasto alla pubblica opinione e ad altri media i particolari e le prove della cospirazione del
GAL. La pista interna delle informazioni risaliva originariamente al lavoro di due cronisti
investigativi di Diario 16, che lavoravano sotto Pedro J. Ramírez. Nell’agosto 1987, pochi
giorni dopo un nuovo assassinio del GAL, questi giornalisti trovarono un bunker segreto
del GAL pieno di documenti, rapporti di polizia, fotografie e armi e munizioni del tipo
usato dalla polizia spagnola. Diario 16 procedette a pubblicare una serie di cinque articoli
esponendo il materiale ritrovato. Altri media seguirono, pubblicando interviste con diversi
individui coinvolti nell’affare. Come ho già detto, fu proprio la scoperta del GAL ciò che
portò al licenziamento di Ramírez da Diario 16 e alla creazione di El Mundo, implacabile
propalatore di scandali politici negli anni successivi.
Il deterioramento dell’immagine del governo che ne seguì, insieme con una contrazione
nell’economia, portò i socialisti sull’orlo della sconfitta nelle elezioni parlamentari del
marzo 1993. Una aggressiva campagna del loro leader, il leggendario Felipe González,
ribaltò tuttavia le previsioni di sondaggi e di esperti e diede ai socialisti un numero di
seggi sufficiente a governare in minoranza con l’appoggio dei partiti nazionalisti in
Catalogna e nel Paese Basco. Era troppo per la coalizione che aveva cercato per anni di
rovesciare González. Era il momento di lanciare un attacco frontale raccogliendo fango
dovunque si potesse trovare con la collaborazione di personale malcontento nel governo e
nella polizia. Per farlo, fu organizzata una vera e propria cospirazione mediatica, di cui,
naturalmente, faceva parte una squadra di El Mundo con Ramírez al timone, ma con
l’aggiunta di numerosi potenti giocatori: Luis María Anson, direttore di ABC, il più antico
e prestigioso quotidiano conservatore, e figura eminente negli ambienti di destra del
giornalismo spagnolo; il direttore del più grande network televisivo privato, Antena 3; il
direttore di un altro quotidiano, El Independiente; il COPE, il network radiofonico di
proprietà e gestione della chiesa cattolica; e diversi giornalisti influenti, più qualche
occasionale associato alla cospirazione proveniente da circoli diversi, tra cui politici di
primo piano del Partido Popular. Formalizzarono la loro alleanza istituendo una
Associazione di giornalisti e scrittori indipendenti (AEPI, secondo la sigla spagnola) che
faceva appello a tutti coloro che desiderassero contribuire alla scomparsa di Gonzâlez.
Poi, i cospiratori si misero all’opera.
Dal 1993 al 1996 una serie di grossi scandali politici scosse il governo e il paese. Nel
novembre 1993, Diario 16 rivelò che Luis Roldan, il primo civile nominato direttore
generale del corpo paramilitare della Guardia Civil (una forza d’élite con una lunga
tradizione nella storia spagnola), aveva rimpolpato sostanziosamente il suo reddito durante
la carica. Nell’aprile 1994 El Mundo forniva le prove delle fonti di questa ricchezza
ottenuta grazie ai pagamenti illeciti di sostenitori e appaltatori alla Guardia Civil, fondi
che Roldan spartiva con il partito nella regione di Navarra, intascandone la maggior parte.
Inoltre, si appropriò di parte dei fondi segreti destinati a operazioni clandestine di
imposizione della legge. A quel punto il parlamento aprì un’indagine. Roldan negò le
accuse ma qualche giorno dopo fuggì a Parigi, e concesse un’intervista a El Mundo,
riconoscendo di aver ricevuto pagamenti dai fondi segreti del governo, aggiungendo però
che il ministro degli Interni e altri funzionari delle forze di sicurezza facevano la stessa
cosa da anni. Quando il governo ne chiese l’estradizione dalla Francia, lui sparì.
Riapparve nel 1995 in Laos, e la polizia spagnola riuscì a mettergli le mani addosso
raggirandolo con falsi documenti di estradizione dal Laos; tornò in Spagna dove fu
condannato e incarcerato. Le sue denunce aggravavano le accuse contro gli alti livelli del
Ministero degli Interni sotto indagine per l’affare GAL. Diversi altri funzionari furono
condannati per appropriazione indebita di fondi pubblici.
Inoltre, nell’aprile 1994 El Mundo rivelava che il governatore della Banca di Spagna,
Mariano Rubio, oltre ad altre personalità, tra cui un ministro, avevano aperto conti segreti
per evadere il fisco tramite una finanziaria (Ibercorp) fondata da un ex presidente della
Borsa di Madrid. Finirono in prigione, e presto furono scarcerati sulla parola, anche se
Rubio morì poco dopo questa esperienza. Di nuovo, El Mundo, nel giugno 1995,
documentava il fatto che il servizio di intelligence militare spagnolo, il CESID, stava
intercettando illegalmente le telefonate di personalità politiche, imprenditori, giornalisti, e
persino del re di Spagna. In seguito a questo, il capo dell’agenzia e i ministri responsabili
si dimisero.
La lista degli illeciti e degli episodi di corruzione è ancora più lunga, ma gli scandali
che ho ricordato dovrebbero bastare a illustrare l’analisi. Alcuni punti analitici vanno
sottolineati:
1) Esiste una relazione diretta tra il livello e l’intensità dell’illegalità e della corruzione
in un’agenzia politica, e la capacità di indurre scandali politici. Mentre un’abile
manipolazione delle informazioni, e la capacità di intrecciare astutamente dati di fatto e
prove fabbricate, accrescono l’impatto dello scandalo, ciò che in ultima analisi determina
l’effetto degli scandali nella mente del pubblico è la materia prima fornita dall’ampiezza e
dall’importanza dell’illecito. Nel caso dei socialisti spagnoli, la corruzione e le pratiche
illegali erano innegabilmente fuori controllo nei piani alti del governo. È una cosa
eccezionale in democrazia che in soli due anni il ministro degli Interni, il capo della
principale forza di sicurezza, il capo dell’intelligence militare, e il governatore della Banca
Centrale, tra le altre autorità, vengano colti con le mani nel sacco. L’arroganza dei
socialisti, dopo un decennio al potere senza una reale sfida da parte dell’opposizione,
svolse chiaramente un ruolo nel creare un clima di elasticità morale e di arricchimento
personale. Mentre González e i suoi più prossimi collaboratori non parteciparono alla
corruzione (le indagini giudiziarie non hanno messo in luce alcun illecito da parte loro), il
suo lassismo su questi temi, occupato com’era a cambiare la Spagna e il mondo, lasciò
incontrollata la diffusione di comportamenti anetici e delinquenziali in pochi, ma
significativi, ambienti dell’amministrazione socialista.
2) I media, e in particolare un importante quotidiano, furono decisivi nello scoprire le
illegalità del governo. L’enfasi sul giornalismo investigativo, e la vendetta personale del
direttore di El Mundo svolsero un ruolo di primo piano nella fonte delle informazioni
compromettenti. I giornalisti scoprirono parte delle informazioni e poi le diffusero tramite
i media. La professione giornalistica si imponeva, dopo aver vissuto per decenni sotto la
censura, dandosi da fare per trovare prove di corruzione negli ambienti politici, locali e
nazionali. Comunque, gli stessi soggetti coinvolti nella corruzione fornirono gran parte dei
documenti che arrivarono a formare la base d’accusa in tribunale. I conflitti personali
interni alle cospirazioni spinsero a una strategia che cercava il vantaggio personale
formulando nella stampa una versione della storia tale che avrebbe permesso a quelli che
rivelavano la cospirazione di salvare la faccia e sottrarsi all’incriminazione finché fosse
ancora possibile farlo. Inoltre, spesso avvenne che passare informazioni compromettenti
alla stampa su avversari nel partito fu l’arma privilegiata nella lotta di fazioni all’interno
del Partito Socialista. In altre parole, gli scandali divennero l’espressione occulta della
lotta politica con altri mezzi, diversi dai dibattiti e dai voti, tanto tra i partiti quanto in
seno ai partiti.
3) I conflitti di business tra gruppi di media costituivano un altro strato che si
sovrapponeva a quello dei conflitti politici. Particolarmente pronunciato era il conflitto tra
il gruppo Prisa, che era editore di El País e vicino ai socialisti, e El Mundo, il gruppo
ABC, e Antena 3 TV, che erano più vicini ai conservatori (Machado, 2006; Campo Vidal,
2008). Oltre all’ideologia, era in gioco la competizione tra grandi aziende, con El Mundo
che cercava di aumentare la propria quota di pubblico presentandosi come l’indipendente
critico di un governo corrotto. Di fronte a una così accesa rivalità, El País e il suo gruppo
multimediale dovettero raccogliere e riportare alcune delle informazioni compromettenti
contro i loro alleati.
4) Portata in primo piano davanti al pubblico dalla campagna anticorruzione,
l’istituzione giudiziaria si caricò del ruolo di salvatore morale del paese, creando
un’alleanza di fatto tra giudici e giornalisti che ha finito per diventare dappertutto il
nucleo centrale del meccanismo della politica scandalistica.
In seguito all’assalto della politica scandalistica guidato dai media e appoggiato dalla
magistratura, Felipe González e il suo Partito Socialista furono infine allontanati dal
potere, con un minimo scarto, alle elezioni parlamentari dell’aprile 1996. Ma i processi
cognitivi e politici su cui poggiava questo esito sono complessi e meritano un esame
(Berreito e Sanchez-Curenca, 1998, 2000; Montero et al., 1998; Boix e Riba, 2000;
Cainzos, 2000; Barreiro, 2001; Jimenez e Fernando, 2004; Rico, 2005; Fundación
Alternativas, 2007).
Il comportamento politico degli spagnoli nel corso della breve storia della loro
democrazia è stato contrassegnato dal divario delle posizioni ideologiche tra
centrosinistra, centrodestra e «senza ideologia». Tra il 1986 e il 2004, la percentuale dei
cittadini che si collocavano nell’area del centrosinistra oscillava tra un minimo del 53 per
cento (nel 2000) e un massimo del 60 per cento (nel 1986 e nel 2004). Dall’altra parte,
quelli che occupavano una posizione di centrodestra rappresentavano un livello molto più
basso dell’elettorato, tra il 15,7 per cento nel 1986 e il 26,5 per cento, il punto più alto, nel
2000, per declinare di nuovo al 21 per cento nel 2004 (Fundación Alternativas, 2007).
Data la condizione minoritaria del voto di destra, le probabilità del Partito Conservatore di
vincere un’elezione dipendevano dalla sua capacità di attirare elettori privi di un’ideologia
dichiarata (tra il 18 e il 24 per cento dell’elettorato), e dalla mobilitazione differenziale tra
votanti di centrosinistra e di centrodestra in termini di partecipazione elettorale. Per tutti
gli anni Ottanta e Novanta, la leadership personalistica di Felipe González forniva il
fattore chiave alla capacità del centrosinistra di mobilitare i propri elettori e di attirare gli
indipendenti.
Esiste una forte correlazione tra la posizione dei leader nell’opinione dei cittadini e le
scelte di voto di questi ultimi. González era costantemente collocato in cima alla
classifica, ed è stato mostrato che tra i votanti che provavano per lui un’alta stima c’era
una probabilità del 23 per cento più alta che votassero socialista (Barreiro e Sanchez-
Cuenca, 1998). Fattori aggiuntivi che spiegano i comportamenti di voto erano l’ideologia
personale, l’ideologia di un partner o di amici, e, molto più arretrati nell’effetto di
causalità, i dibattiti elettorali alla televisione. Nel 1993, la contrazione economica e la
vasta opinione di una diffusa corruzione nel governo socialista (nel novembre 1992, il 75
per cento degli spagnoli pensavano che «il livello di corruzione era intollerabile»)
mostravano di pregiudicare le chance elettorali dei socialisti. Tuttavia, con la
partecipazione personale di González alla campagna nel marzo 1993, la sua leadership
mobilitò l’elettorato di centrosinistra (l’astensionismo fu contenuto al 23 per cento circa) e
richiamò il voto indipendente. In effetti, la sua posizione personale tra gli indecisi crebbe
da 5,58 a 7,58 (su una scala da 0 a 10) prima e dopo la campagna. La personalizzazione
della politica, un leader carismatico e un abile uso della politica mediatica furono
determinanti del comportamento politico più forti dei riconosciuti illeciti del partito di
governo. Gli elettori decisero di concedere a González una nuova occasione per rigenerare
la sua amministrazione, essendo ideologicamente riluttanti a trasferire il loro appoggio ai
conservatori, e continuarono a identificarsi con un leader eccezionale. Il ciclone degli
scandali tra il 1993 e il 1996 alterarono l’equazione politica, al punto che nel 1996
González indisse le elezioni anticipate. Secondo la sua versione, il motivo era la volontà di
sottoporsi al verdetto della cittadinanza. Nella versione di alcuni dei suoi collaboratori, lo
fece in seguito alla stanchezza personale e politica di dover sostenere un costante, e
sempre più virulento, assalto dei media, complicato dall’amarezza per il tradimento e la
corruzione del suo entourage. La cospirazione mediatica descritta sopra alla fine diede i
suoi frutti. Nel giugno 1994, il 19 per cento degli spagnoli riteneva che praticamente tutti
gli alti livelli della politica erano implicati nella corruzione, per il 38 per cento questo
valeva per la maggior parte di loro, e un altro 38 per cento riteneva che almeno alcuni di
loro fossero corrotti. Meno del 2 per cento pensava che l’amministrazione fosse pulita.
Opinioni simili furono espresse nel 1995 nel 1996 (Villoria Mendieta, 2007).
Il risultato fu che, nonostante una rinnovata mobilitazione del voto socialista, che
crebbe del 3 per cento, e un livello di astensione pari a quello del 1993 (22,6 per cento),
questa volta il voto non ideologico fu sensibile alla percezione della corruzione, e passò
dalla parte del Partito Conservatore, che di conseguenza aumentò il proprio voto del 18,5
per cento e vinse le elezioni per la prima volta nella Spagna democratica. Questi trend
politici furono accentuati nelle elezioni del 2000, quando la maggioranza dei votanti
indipendenti scelse il PP ai danni del PSOE, consolidando il potere del Partito
Conservatore che a quel punto si sentì libero di spostare la propria politica verso la destra,
una mossa che avrebbe finito per frustrare le sue attese di permanenza al potere. Tuttavia,
nel breve termine, la strategia della politica scandalistica, formulata nel 1993 da una
cospirazione di leader dei media, politici e imprenditori, con la benedizione della chiesa
cattolica, ebbe l’effetto di delegittimare i socialisti (che si fecero facile bersaglio grazie al
comportamento di un buon numero dei loro funzionari), e di spingere un esausto Felipe
González fuori dalla scena politica spagnola.
González gode ancora dell’ammirazione di molti, e ha continuato negli anni a svolgere
un ruolo significativo nella politica mondiale. Ma il Partito Socialista si è trovato ad
affrontare la sfida di rigenerarsi. Le ferite inferte dalla politica scandalistica persistono
nella memoria dei cittadini, e in particolare nella percezione dei giovani restii a cedere al
cinismo politico. Inoltre, tutta la politica spagnola è rimasta macchiata dallo stigma della
corruzione. Nonostante la mancanza di una equivalente strategia di scandali politici da
parte dell’opposizione dopo la vittoria dei conservatori nel 1996, la corruzione tra le élite
del nuovo governo, ora conservatrici, ha continuato a essere messa in luce sui media,
anche se con un fervore militante assai inferiore in El Mundo nel denunciare i corrotti. Nel
dicembre 1997, il 92 per cento degli spagnoli riteneva che la corruzione continuava a
essere un problema molto serio, e nel dicembre 1998 oltre il 50 per cento pensava che la
corruzione fosse sensibilmente aumentata durante il 1997 (Centro de Investigaciones
Sociológicas, 1998). Nel luglio 2003, il 74 per cento degli intervistati considerava che la
corruzione stesse «incidendo significativamente sulla vita pubblica» (Transparency
International, 2003). Di conseguenza, in Spagna la crisi di legittimazione del sistema
politico si è aggravata, in linea con le tendenze presenti nel resto del mondo. In questo
processo, la giovane democrazia ha perso la sua innocenza.
Lo stato e la politica mediatica: propaganda e controllo
Lo stato rimane un attore critico nella definizione delle relazioni di potere entro le reti di
comunicazione. Mentre abbiamo analizzato la complessità dell’interazione tra media e
politica, non dovremmo trascurare la forma più antica e diretta di politica mediatica:
propaganda e controllo. Si tratta di: a) la fabbricazione e diffusione di messaggi che
distorcono i fatti e inducono disinformazione allo scopo di favorire gli interessi del
governo: e b) la censura di ogni messaggio che si ritiene possa danneggiare tali interessi,
se necessario criminalizzando la comunicazione non controllata e perseguendo il
messaggero. La portata e le forme del controllo governativo sulle reti di comunicazione
variano a seconda dell’ambiente legale e sociale in cui opera un determinato stato.
Analizzerò quindi tre distinti contesti in cui lo stato esercita il controllo sulla
comunicazione seguendo diverse procedure adattate alle sue regole d’ingaggio con la
società in generale: Stati Uniti, Russia e Cina.
Propaganda governativa nella Terra della Libertà: i militari «embedded»
nei media
Il governo USA ha una tradizione consolidata di fabbricazione delle informazioni per
giustificare le proprie azioni, in particolare nei momenti di decisione tra guerra e pace, allo
scopo di dirottare la pubblica opinione (Kellner, 2005). Ma anche per gli standard
americani, la sfaccettata strategia di disinformazione che ha portato nel 2003 alla guerra
con l’Iraq, e ha sostenuto negli anni successivi lo sforzo bellico, spicca come un caso da
manuale di propaganda politica. Nel capitolo 3 ho analizzato il processo di produzione
sociale della disinformazione e della mistificazione intorno alla guerra in Iraq. Qui mi
riferisco a una forma diversa di strategia comunicativa, la penetrazione diretta delle reti
mediatiche da parte del Dipartimento della Difesa per fornire rapporti e commenti di
analisti cosiddetti indipendenti che lavorano per i network.
Il 20 aprile 2008 The New York Times pubblicava i risultati di un’inchiesta che
mostrava, con dettagliata precisione e informazioni di fonte sicura, come il Pentagono
avesse organizzato un gruppo di 75 analisti militari che avevano lavorato per i principali
network televisivi, come la Fox, la NBC, la CBS e l’ABC, tra il 2002 e il 2008, oltre a
collaborare per le reti dei quotidiani (Barstow, 2008). L’iniziativa fu lanciata all’inizio del
2002, mentre cominciava la marcia verso la guerra nonostante l’esitazione del pubblico a
impegnarsi in un’azione militare. Tori Clarke, vicesegretario alla Difesa per gli Affari
Pubblici, ideò un programma che prevedeva il reclutamento di ufficiali dell’esercito a
riposo perché lavorassero come commentatori presso i network mediatici. Grazie alla
credibilità abitualmente attribuita ai militari, erano considerati vettori più efficaci dei punti
di vista del Pentagono sulla guerra. La loro collaborazione fu facilitata dal fatto che di
solito erano felici di collaborare con le forze armate, l’istituzione a cui avevano dedicato
gran parte della loro vita. Fu anche d’aiuto il fatto che molti di questi analisti lavoravano,
e lavorano, per contractors militari o fanno attività di lobby per loro. Anche se non erano
sul libro paga del Pentagono (a parte le occasionali trasferte in Iraq), era in atto uno
scambio: riferisci quello che ti diciamo noi e riceverai accesso alle fonti, e, cosa più
importante, accesso ai contratti del Dipartimento della Difesa. In effetti, le sporadiche
critiche sulla condotta della guerra venivano punite con la perdita di un potenziale appalto,
cosa che portava all’estromissione dal lavoro di lobbista di quell’ufficiale che pretendeva
di avere un’opinione indipendente. Il gruppo degli analisti si incontrava regolarmente con
personale del Dipartimento, e nelle occasioni più importanti con Rumsfeld stesso che,
secondo i verbali delle sedute, dava direttamente istruzioni sul contenuto dei loro
commenti.
A ogni svolta critica del conflitto, quando arrivavano le brutte notizie e aumentava il
numero dei caduti, si tenevano riunioni speciali per coordinare i rapporti che dovevano
fornire una visione ottimistica della guerra, o per sottolinearne l’indispensabilità nel
contesto della guerra al terrore e della minaccia dell’Iran. Quando, nell’aprile 2006 diversi
generali criticarono apertamente Rumsfeld per l’incompetenza della sua leadership fu
montata una campagna in sua difesa, di cui faceva parte tra l’altro un commento sul Wall
Street Journal di due dei maggiori analisti del gruppo, i generali McInerney e Vallely, che,
secondo il New York Times, avevano richiesto l’input allo staff di Rumsfeld per l’articolo
(Barstow, 2008). Una società di monitoraggio dei media ricevette centinaia di migliaia di
dollari per verificare l’efficacia dei commenti pubblicati dai due analisti. Una delle prime
iniziative del generale Petraeus dopo aver assunto il comando in Iraq nel 2007 fu
l’incontro con il gruppo degli analisti. In pratica, organizzò una teleconferenza
nell’intervallo della sua testimonianza al Congresso. Le reti mediatiche erano al corrente
dell’esistenza del gruppo di analisti del Pentagono e della partecipazione dei loro
commentatori a quelle riunioni. La cosa, però, veniva giustificata con il pretesto di
ottenere accesso alle informazioni. Ma non è chiaro fino a che punto i network sapessero
del commercio della propaganda in cambio di un accesso a favore degli appaltatori
militari, che mostrava di essere la vera chiave dell’operazione. Come minimo, alcune reti
erano a conoscenza delle attività professionali dei loro esperti militari e preferirono non
fare domande. Anzi, appena si diffuse la voce, e risultò chiaro che esistevano lampanti
conflitti di interesse, alcuni degli analisti persero il lavoro con i media, anche se molti di
loro continuarono a sostenere, contro ogni evidenza, che riuscivano a separare le loro tre
identità – di dipendenti dei contractors militari, di propagandisti per il Pentagono, e di
analisti indipendenti per i media, senza dimenticare, ovviamente, il servizio patriottico alla
nazione14. Inoltre, nonostante le rivelazioni di Barstow (2008) sulla campagna di
propaganda interna del Pentagono, uno studio del Project for Excellence in Journalism
(2008a) rivelava che i maggiori organi mediatici che avevano in precedenza accolto gli
scritti di questi analisti militari non avevano mai pubblicato nulla sulla vicenda.
I casi di intervento diretto del governo USA sulle informazioni da trasmettere ai media,
tanto in America quanto nel resto del mondo, sono troppo numerosi per essere riportati qui
nei dettagli, ma costituiscono un insieme di regolarità. Così, l’amministrazione Bush
assoldò attori che si facevano passare per giornalisti. Produsse falsi bollettini di
informazione (i Video News Releases, noti come VNR) per proclamare il suo punto di
vista sulla guerra in Iraq. I VNR acquistarono notorietà per la prima volta all’inizio del
2005, quando The New York Times riferì che molte stazioni locali mandavano in onda
segmenti preconfezionati prodotti da agenzie federali sotto l’amministrazione Bush. I
VNR acclamavano la guerra in Iraq, il piano Medicare di Bush e altri programmi federali.
E il commentatore conservatore Armstrong Williams confessò che il Dipartimento
dell’Istruzione lo aveva pagato $240.000 per andare in televisione a promuovere le
politiche dell’istruzione del presidente Bush (Kirkpatrick, 2005). Questi interventi di
propaganda non sono insoliti. I loro artefici li giustificano con l’interesse superiore del
paese e, quando necessario, della democrazia nel mondo. In termini analitici, quel che è
rilevante sottolineare è la consapevolezza dello stato americano che la battaglia
sull’informazione, la costruzione della pubblica opinione tramite i media, è la condizione
necessaria per ottenere il supporto alle proprie azioni. L’esperienza della guerra del
Vietnam ha dimostrato che questo supporto è la condizione più importante per l’esercizio
del potere americano. Il generale Paul Vallely, analista delle Fox News fino al 2007, e
specialista di guerra psicologica, scrisse nel 1980 un saggio in cui accusava i media
americani di avere fatto perdere la guerra in Vietnam. Secondo Barstow del New York
Times, Vallely scrisse che «abbiamo perso la guerra – non perché siamo stati sconfitti sul
campo ma per la guerra psicologica dei media», e proseguiva proponendo strategie
psicologiche per le guerre future mirate sull’opinione interna, a cui dava il nome di
strategia di «guerra mentale», basata sui network radiotelevisivi (Barstow, 2008,
appendice 1). È per questo che nell’ambiente giuridico degli Stati Uniti, paese in cui il
potere statale di censura è limitato, il controllo dell’informazione prende abitualmente la
forma dei messaggi generati e poi affidati a messaggeri credibili i quali, volontariamente o
meno, trasmettono il falso a un pubblico sempre più mistificato.
Altri contesti istituzionali e culturali appaiono più inclini al controllo diretto del
governo sui media. In effetti è così per la maggior parte dei paesi del mondo. I governi
tendono a combinare varie strategie: controllo politico sui media pubblici (spesso i più
influenti); pressioni governative sui proprietari dei media; legislazione che dà al governo il
controllo di ogni forma di comunicazione; e, se tutto il resto non funziona, intimidazione
di giornalisti e blogger. Tale intimidazione è tipica dei tentativi di mettere sotto controllo
la comunicazione basata su Internet nei paesi in cui lo stato è l’istanza dominante della
società. Per esplorare le strategie di controllo governativo diretto delle reti di
comunicazione, analizzerò i processi in corso in due paesi che sono particolarmente
rilevanti per la nostra interpretazione per il ruolo cardine che hanno nel mondo e per
l’esplicita enfasi che danno al controllo della comunicazione nell’Età di Internet: la Russia
e la Cina.
Russia: censura te stesso
Lo stato russo in transizione verso la democrazia non ha mai dimenticato le lezioni
fondamentali del suo passato sovietico: l’informazione è potere e il controllo della
comunicazione è la leva per mantenere il potere15. Ma, ovviamente, la situazione è
cambiata dopo la pacifica transizione democratica che ha messo fine al regime comunista.
La Russia ora era sotto il dominio della legge, e la legge era sotto il dominio del mercato.
La censura fu bandita, tranne quando fosse applicabile una censura legalmente autorizzata,
in particolare nell’ambito della guerra al terrorismo in versione russa. I giornalisti erano
liberi di scrivere, ma potevano essere licenziati quando ritenuto necessario. I gestori dei
media potevano agire autonomamente, ma ci si aspettava che rispettassero lo stesso
obiettivo ultimo delle imprese mediatiche di tutto il mondo – la raccolta di profitto con la
pubblicità mediatica conquistando quote di audience – il che equivale a concentrarsi
sull’intrattenimento e sull’infotainment.
Così, i meccanismi chiave del controllo statale sui media si esplicitano attraverso
interventi burocratici e finanziari sulle reti mediatiche, diretti o indiretti. L’istituzione di
questi meccanismi fu il momento decisivo della lotta di Putin contro gli oligarchi, che
avevano approfittato della debolezza di Eltsin per impadronirsi di reti televisive nazionali
chiave come la NTV. Putin riaffermò il controllo sui media di proprietà governativa, e fece
in modo che i suoi oligarchi avessero la meglio sugli oligarchi avversi negli altri media
nazionali. Quanto alle regioni, la cosa fu più semplice. I governi regionali, dipendenti in
ultima istanza dal delegato del presidente, controllavano i media regionali, e importanti
aziende acquistarono reti televisive regionali, come nel caso di Lukoil che assunse il
controllo di Languepas, un tipico network di quella che in Russia si chiama «televisione
via tubo». Il momento cruciale della battaglia per il controllo sui media si presentò
all’indomani dell’elezione di Putin alla presidenza nel 1999. Appena eletto, Putin tolse a
Berezovsky la proprietà del principale network televisivo (Canale 1) e la restituì allo stato.
Incaricò inoltre Gazprom (il colosso dell’energia controllato dal governo) di chiedere il
rimborso del debito contratto da MediaMost, la conglomerata di proprietà di un altro
oligarca di Eltsin, Gusinsky, che possedeva uno dei più influenti network televisivi, NTV.
Di fatto, NTV era l’unico grande organo mediatico che si era opposto a Putin durante la
campagna elettorale. Il castigo fu immediato. Gusinsky finì in carcere (accusato di frode
fiscale, pratica abituale tra gli oligarchi russi) e finì per raggiungere Berezovsky nel suo
lussuoso esilio a Londra, mentre il suo impero mediatico veniva assorbito da Gazprom
Media.
Oggi Gazprom è diventata una delle più potenti conglomerate di media in Russia.
Possiede NTV (il terzo maggior network in termini di audience), oltre a NTV satellitare, lo
studio di produzione NTV, il network di intrattenimento TNT, lo storico quotidiano
Izvestia, importanti stazioni radio (come Echo Movsky, City FM, Popsa), la rivista Itogy,
società pubblicitarie e una varietà di canali media sparsi attraverso l’immensa estensione
geografica della Russia. Lo stato russo ha dato vita a un’altra grande conglomerata,
VGTRK, che controlla Rossiya TV Network, Kultura Network, Sport Network, 88 reti
televisive regionali, l’agenzia di stampa RIA Novosti, una partecipazione del 32 per cento
nel network europeo Euronews, e grandi investimenti nell’industria della produzione e
dell’esportazione cinematografica (Kiriya, 2007). Lo stato russo mantiene anche il
controllo su Channel 2, il principale network televisivo con il 21,7 per cento dell’audience
nel 2007, e l’ha usato per attirare investitori privati, guidati da Roman Abramovich,
concedendo loro una quota del 49 per cento del network, da gestire da centri finanziari
offshore. Le due reti dominate dallo stato rappresentano il 50 per cento del fatturato
pubblicitario totale (Kiriya, 2007). Altre reti minori, come Mohashny (concentrata su
programmi per famiglia), che fa parte della Holding STS Media, hanno una
programmazione specializzata con spazi limitati per l’informazione giornalistica. TV-3 e
DTV trasmettono esclusivamente film. L’unico oligarca eltsiniano dei media
sopravvissuto, Vladimir Potanin, ha adottato una prudente strategia di business,
concentrando le sue proprietà nella holding Profmedia e occupandosi quasi
esclusivamente di intrattenimento, dopo aver venduto le sue proprietà politicamente più
delicate, in particolare i giornali Komsomolskaya Pravda e Izvestia. Nel complesso, tutti i
gruppi mediatici sono o sotto il controllo diretto dello stato o dipendono dalla buona
volontà dello stato e dei suoi ispettori.
Il ventaglio delle pressioni burocratiche sui media è diversificato quanto creativo.
Secondo fonti affidabili che chiedono di non essere identificate per giustificato timore di
rappresaglie, la pubblicazione di rapporti sgraditi alle autorità (nazionali, regionali o
locali) può provocare diverse conseguenze negative. Potrebbe trattarsi di una visita degli
ispettori dei vigili del fuoco o dell’ufficio d’igiene, che porterebbe alla revoca del
permesso delle strutture di operare. O, se le rotative si trovano a un piano superiore
dell’edificio, l’ascensore può guastarsi all’improvviso e la sua riparazione sarà rimandata
all’infinito. Se l’organo mediatico indipendente non si rimette subito in riga, può esserci
un’escalation della rappresaglia e gli ispettori del fisco si dedicano a rovinare finanze
dell’azienda. Così, posti di fronte a questa poliedrica strategia di intimidazione, i media
indipendenti non possono opporre una reale lotta, dato che le denunce di ostacolare la
stampa libera possono essere facilmente messe in ridicolo se i problemi vengono
dall’azienda elettrica o dal proprietario dell’immobile che improvvisamente decide di
aumentare l’affitto. Inoltre, le esigue protezioni legali di cui i giornalisti godevano in
passato si sono gradualmente erose. Le cosiddette Camere Legali sui Reclami
dell’Informazione sono state sciolte appena hanno mostrato una qualche indipendenza.
Nuovi organismi, le Camere Pubbliche e i Consigli Regionali sui Reclami
dell’Informazione, sono stati istituiti nel 2006, gremite di burocrati e con sparuti
rappresentanti dei giornalisti. In simili condizioni, il meccanismo di controllo sui media è
semplice. Si basa sull’assennatezza dei giornalisti responsabili, e dei loro dirigenti, se
vogliono conservare il posto e preservare le proprie condizioni di lavoro. L’autocensura è
la regola.
Ma, se spinti dalla corsa all’audience o dal senso di professionalità, i giornalisti si
avventurano in informazioni politicamente scottanti, gli viene ricordato con forza quali
sono i poteri commerciali che sovrintendono al loro compito. Un esempio calzante è la
sospensione temporanea della pubblicazione del quotidiano Moskovsky Korrespondent (di
proprietà del miliardario Aleksandr Lebedev) nell’aprile 2008, quando il direttore generale
del giornale si trovò a fronteggiare pesanti problemi finanziari. I proprietari del quotidiano
negarono ogni connessione tra la sospensione e la pubblicazione sul giornale di notizie
riguardanti la presunta relazione tra il presidente Putin e la ginnasta e parlamentare Alina
Kabayeva.
Se il controllo proprietario e la persecuzione burocratica sono i principali meccanismi di
intervento sui media, il governo russo conta anche su una vasta gamma di strumenti
legali, che prendono di mira non solo i media generalisti ma anche la comunicazione via
Internet. In linea di principio, la censura è proibita, ma diverse leggi e decreti introducono
eccezioni per proteggere la sicurezza nazionale e combattere la cybercriminalità.
Particolarmente rilevanti sono le leggi Sorm 1 del 1996 e Sorm 2 del 1998 che autorizzano
l’FSB, l’agenzia per la sicurezza nazionale succeduta al KGB, al controllo delle
comunicazioni; la «dottrina sulla sicurezza dell’informazione» del 2000, che fu aggiunta
alla legge Sorm 2 per reprimere hacking e pirateria su Internet, proteggere l’industria delle
telecomunicazioni e prevenire la «propaganda» e la «disinformazione» in Internet; la
legge del 2001 sui «mass media» e la «lotta al terrorismo», mirante ufficialmente a
impedire ai terroristi l’accesso alle reti di comunicazione; e la legge del 2006 su
«tecnologie dell’informazione e protezione delle informazioni», che aggiornava e
rafforzava le misure sull’uso non autorizzato di quelle reti. Ma forse la legge più
controversa è quella approvata nel luglio 2007 per combattere l’«estremismo». Questa
legge comprende restrizioni alle critiche che i media possono muovere a pubblici ufficiali,
con pene come la sospensione della pubblicazione e la detenzione fino a tre anni. Tra i
casi di applicazione di questa legge ci sono le sanzioni ai portali Pravda.ru, Banklax.ru, e
Gazeta.ru, oltre che una multa comminata al direttore del giornale online Kursiv per la
pubblicazione di un articolo su Putin considerato «offensivo».
C’è poi il controllo del contenuto della programmazione politica da parte dei dirigenti
degli organi mediatici. Avversari politici di primo piano, come Gary Kasparov, Vladimir
Ryzhkov, rappresentanti del principale partito di opposizione (il Partito Comunista) e
persino ex alleati politici di Putin, come Mikhail Kasyanov o Andrei Illarionov, sono
praticamente spariti dalla televisione. Uno dei più popolari autori di satira politica, Viktor
Senderovitch, vide il suo programma di pupazzi e marionette cancellato: gruppi rock che
si esibivano per i partiti di opposizione videro le loro partecipazioni televisive annullate; e
c’è poco da ridere per le barzellette su Putin e Dmitry Medvedev, visto che i loro autori
vengono immediatamente rimossi dal teleschermo (Levy, 2008). Secondo le interviste
fatte da Levy a giornalisti russi, il Cremlino non teneva una lista ufficiale di quelli che non
dovevano apparire in televisione. Dicevano che, in realtà, erano gli stessi network a
operare in base a una lista nera informale, in base alla loro interpretazione di ciò che
avrebbe potuto contrariare il governo.
Inoltre, quando alcuni giornalisti coraggiosi si avventurano nelle torbide acque della
corruzione politica, o peggio ancora si occupano di terrorismo e controterrorismo, come le
operazioni clandestine della guerra in Cecenia, ci sono sempre i sicari per metterli a
tacere, come è accaduto all’autorevolissima giornalista russa Anna Politkovskaya,
assassinata a San Pietroburgo il 7 ottobre 2006, in circostanze che restano misteriose. In
effetti, dal 2000, 23 giornalisti sono stati uccisi in Russia, creando una situazione che
Reporters without Borders ha definito «difficile» per la stampa e per la libertà di
espressione. Nel World Freedom Press Index, la Russia si colloca al 144o posto nella
classifica di 169 paesi (Reporters without Borders, 2002-2008).
La luce della libera espressione nei media russi è tenuta in vita da alcune stazioni
radio, nonostante la regola non scritta per cui almeno il cinquanta per cento delle notizie
devono essere positive per il governo, nelle reti radiofoniche russe controllate dallo stato
(Kramer, 2007). La popolarissima Echo Moskvy, pur essendo di proprietà di Gazprom,
trasmette interviste con i leader dell’opposizione, tra cui Gary Kasparov, anche se dopo
una sua apparizione Kasparov è stato convocato per un’intervista di approfondimento
dall’FSB. Vi sono anche altri organi mediatici che mantengono un certo livello di
indipendenza politica, come il piccolo network nazionale REN TV, e qualche giornale
nazionale e regionale. Internet non è censurata quanto a contenuto prodotto dagli utenti
(vedi sotto) e presenta frequenti critiche al governo nelle sue comunità online e nei suoi
blog. In effetti, scrive Masha Lipman,
Non esiste censura su Zhivoi Zhurnal… Al Cremlino non sono così stupidi. Hanno
visto che la pratica cinese e vietnamita di censurare Internet non porta a niente.
Preferiscono un metodo diverso: cercano di saturare la rete russa con i loro siti di
propaganda e di intervenire con i propri blogger sul web (cit. in Billette, 2008).
Marina Litvinovitch, una politica liberale, sembra concordare: «Internet è la riserva
naturale per la piccola élite intellettuale russa. Il potere la vede così, e tollera questo spazio
di libertà considerando che la sua capacità di creare problemi è limitata» (cit. in Billette,
2008). Medvedev, a differenza di Putin, sembra sia un lettore abituale di blog e siti web.
Comunque, se la società russa dovesse diventare più recalcitrante nei confronti dello
stato, con una nuova generazione che superi le frustrazioni del periodo di transizione e
arrivi a considerare la democrazia e la libertà di espressione come diritti fondamentali dei
cittadini, lo stato appare pronto a estendere a Internet e alle reti wireless il controllo sulla
comunicazione. Quello che non è chiaro, però, è quanta reale capacità politica, culturale e
tecnica abbia di procedere al controllo sistematico dell’opinione in un mondo di reti
interattive globali. È probabile che se e quando verrà il tempo di un simile sforzo, i
burocrati russi presteranno grande attenzione al tentativo a tutt’oggi più determinato e
sofisticato di controllare la comunicazione nell’Età di Internet: l’esperienza cinese.
Cina: domare il drago dei media, cavalcare la tigre di Internet
La storia della Cina è contrassegnata dall’infaticabile sforzo operato dallo stato per
controllare la comunicazione. Questa ossessione arrivò al punto di proibire nel 1430 la
costruzione di vascelli d’alto mare per impedire l’interazione con i paesi stranieri, una
mossa che, insieme con numerose altre misure isolazioniste, secondo alcuni storici ha
contribuito al ritardo tecnologico di quella che fino ad allora era stata probabilmente la
civiltà più ricca di conoscenze mai esistita sulla Terra (Mokyr, 1990). L’avvento dello
stato-Partito Comunista nel 1949 raffinò e approfondì il controllo sistematico
dell’informazione e della comunicazione da parte dell’apparato di partito, con una
concentrazione prevalente sui media, che divennero proprietà dello stato. Ma l’attenzione
della leadership del partito per il controllo della comunicazione si acuì a partire dal 1979,
quando i leader comunisti del dopo-Mao si impegnarono in una vasta trasformazione
dell’economia e della società, restando però aggrappati al monopolio del potere e al
primato dell’ideologia marxista-leninista, ignorando il suo aspetto anacronistico in una
Cina che si andava deliberatamente integrando nel capitalismo globale (Wang Hui, 2003).
Inoltre, il drammatico fallimento del tentativo di Gorbaciov di pilotare una simile
transizione economica e politica, mise in guardia i leader cinesi sui pericoli della glasnost,
ritenuta l’errore fondamentale che aveva messo la società sovietica fuori controllo. La
posta diventò ancora più alta quando la questione del controllo della comunicazione venne
complicata dalla necessità di ammodernare l’infrastruttura nelle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione come prerequisito per competere sul piano
globale, questione strutturale che sta alla base del crollo dell’Unione Sovietica (Castells e
Kiselyova, 1995). La leadership cinese affrontò la questione a testa bassa, con un chiaro
obiettivo che avrebbe guidato la sua azione nei due decenni successivi: affermare il
dominio politico incontrastato sulla società tramite il controllo della comunicazione,
modernizzando allo stesso tempo le capacità tecnologiche nelle telecomunicazioni e
nell’informazione della nuova Cina come fondamenta della sua competitività economica e
della sua potenza militare.
Per far questo, il partito organizzò due insiemi di istituzioni (Zhao, 2008, pp. 19-74).
Nel dicembre 2001 istituì il Gruppo di Leadership di Stato sull’Informatizzazione
(comprendente anche le telecomunicazioni), un organo sovraministeriale presieduto dal
primo ministro (Zhu Rongji al tempo, poi gli altri premier). Del gruppo facevano parte i
capi delle agenzie di comunicazione e di informazione più rilevanti nei settori della
tecnologia, nell’infrastruttura e nella sicurezza, costituendo un «gabinetto informale» al di
sopra dell’autorità del Consiglio di Stato per coordinare l’intero ventaglio delle politiche
relative all’economia dell’informazione e alla sicurezza dell’informazione. Quando
all’inizio degli anni 2000 Internet si diffuse in Cina, al gruppo fu aggiunto un Ufficio
Gestione Informazioni Internet, insieme con tutte le agenzie e le commissioni attinenti, per
dirigere la costruzione e la gestione delle reti di comunicazione. Sotto la guida di questo
gruppo di alto livello, varie agenzie governative (in particolare l’Amministrazione
Generale Stampa e Pubblicazioni, e l’Amministrazione Statale di Radio, Film e
Televisione) fissarono le normative per i diversi settori che costituivano i media:
quotidiani, periodici, editoria, pubblicazioni elettroniche, gestione dei film, gestione di
radio e televisione, e gestione delle strutture di ricezione a terra da satellite. Le normative
riguardavano sia l’industria in sé sia il contenuto dei suoi prodotti. Inoltre, ciascuna
agenzia governativa formulava sue «clausole» per applicare le linee guida generali al
proprio specifico ambito di attività.
Per modernizzare il settore mediatico e per concentrarlo sulla commercializzazione e
l’intrattenimento, senza abbandonare il rigido controllo politico, nel 2003 il governo varò
una vasta riforma dei media, chiudendo svariate pubblicazioni e stazioni, e
riorganizzandone altre. I media furono aperti alla commercializzazione, ma con uno
specifico statuto, in base al quale la regola della proprietà degli investitori non si applica.
Solo l’organizzazione sponsorizzatrice (sempre dipendente dal Partito Comunista) viene
riconosciuta come investitore. Tutti gli altri finanziamenti vengono trattati o come
donazioni benefiche o come prestiti, così che le aziende mediatiche hanno ricevuto
investimenti commerciali che possono essere compensati con profitti ma la proprietà e il
controllo restano nelle mani di un’organizzazione dipendente dal partito. Inoltre, ogni
forma di divulgazione delle informazioni deve essere autorizzata dal governo centrale
(Qinglian, 2004).
Inoltre, il tradizionale Dipartimento Propaganda del partito rafforzò il suo potere e
perfezionò i suoi metodi, in un processo che ebbe inizio cambiando il nome in
Dipartimento Pubblicità, termine considerato più professionale di «propaganda». Il
Dipartimento copre tutte le aree di potenziale diffusione di idee e informazioni in Cina,
comprese, oltre ai media, le istituzioni culturali, le università, e ogni forma di espressione
ideologica o politica organizzata. Estende le sue attività al controllo quotidiano di organi
mediatici, televisione, radio, carta stampata, agenzie di stampa, libri e Internet. Yuezhi
Zhao (2008) ha analizzato e documentato il concreto funzionamento del sistema di
controllo del Dipartimento Pubblicità. Opera su una «modalità direttiva», con specifiche
istruzioni su specifiche informazioni e linee guida ricavate dalle dichiarazioni dei leader e
dai rapporti dell’agenzia di stampa Xinhua. Un meccanismo chiave è la cosiddetta
«riunione di aggiornamento» che si svolge regolarmente in tutte le organizzazioni di
media, in cui i funzionari incaricati di controllare l’informazione trasmettono le istruzioni
del partito e valutano le possibili deviazioni dalla linea del partito. Quando un giornalista
che lavora per un’organizzazione mediatica non è presente alla «riunione di
aggiornamento» spesso riceverà un SMS dal suo supervisore in cui gli si dice di che cosa
non scrivere. Questa è la pratica che Qiu chiama «il guinzaglio wireless» (Qiu, 2007).
Secondo Yuezhi Zhao, sotto la leadership di Hu Jintao la disciplina politica nei media è
stata rinforzata grazie alla microgestione dell’informazione. Anche il controllo del
personale è importante, perché i giornalisti devono essere forniti di una certificazione, e
l’ideologia politica e un comportamento sociale accettabile sono importanti requisiti per
ottenerla.
Tuttavia, come hanno osservato Yuezhi Zhao e altri analisti, il processo di controllo è
più complesso di quanto appaia a prima vista. È impensabile che nel paese più popoloso
del mondo, e in una società altamente complessa, delle commissioni di partito possano
reprimere ogni deviazione nell’elaborazione e diffusione dei messaggi mediatici, in
particolare quando, in gran parte delle questioni, le direttive non possono essere precise
fino al minimo dettaglio. E i dettagli contano, in particolare in contesti locali. È per questo
che la sua struttura distribuita è il meccanismo critico attraverso il quale opera il
controllo della comunicazione. Figure di nomina politica sorvegliano da vicino l’intero
sistema dei media in una cascata di controlli che in ultima analisi scarica la responsabilità
sulle spalle dell’immediato supervisore incaricato della produzione e distribuzione di
ciascun messaggio mediatico, così che l’autocensura generalizzata è la regola.
Gli errori individuali si pagano. Tradizionalmente, i giornalisti perdono il lavoro e, a
seconda della gravità dell’errore, devono vedersela con la polizia politica o essere inseriti
nei programmi di rieducazione del partito. In tempi recenti, con un occhio al capitalismo,
un piccolo sbaglio potrà comportare in una riduzione del magro stipendio del colpevole, in
proporzione alla gravità dell’errore. Per esempio, stando a una fonte affidabile, alla
Televisione Centrale cinese ogni discrepanza tra quel che dice il lettore del notiziario e
quello che è scritto sul gobbo del testo si traduce in una multa di 250 yuan (nel 2008).
Quindi, in caso di dubbio, il giornalista o il conduttore, o l’autore, tende a optare per la
versione politicamente corretta del suo pezzo. Oppure possono rivolgersi al supervisore,
che procederà di conseguenza, distribuendo in questo modo lungo la gerarchia di comando
e controllo l’interiorizzazione della censura. Inoltre, quelli che hanno il potere di
interpretare le linee guida applicano in maniera flessibile il principio del controllo del
partito. Questa flessibilità è indispensabile perché il sistema funzioni in maniera realistica,
e anche perché mantenga la sua capacità di rigenerazione attraverso una relativa apertura
alle critiche. Così, vi sono questioni che sono considerate strategicamente importanti e
altre che sono aperte a una moderata critica. Per esempio, i comunisti sono da qualche
tempo (ultimamente meno) estremamente preoccupati per il Falun Gong, culto che
sembrava capace di scatenare un movimento messianico per la restaurazione delle
tradizioni cinesi (paradossalmente sotto la guida di un leader che risiedeva a New York e
organizzava il movimento attraverso Internet; Zhao, 2003). Così, ogni riferimento al Falun
Gong che ne faccia le lodi o sia anche solo neutrale farà certamente scattare tutti gli
allarmi. L’indipendenza di Taiwan è una questione scottante. Il ricordo del massacro di
Tiananmen deve essere sepolto nella storia. Dibattiti specifici sulla democrazia e sulla
leadership del partito non sono argomenti ben visti. Diritti umani è una frase che in Cina
desta sospetti. La questione tibetana resta abitualmente off limits per il dibattito pubblico,
se non per riaffermare la sovranità dello stato cinese o per ricordare alla popolazione le
connessioni del Dalai Lama con il nazismo durante la seconda guerra mondiale. E i servizi
sulle catastrofi naturali, che si tratti dell’epidemia di SARS o dei terremoti, devono essere
formulati in modo da non provocare allarme nel pubblico, anche se tanto durante la SARS
quanto nel terremoto del Sichuan ci sono stati momenti in cui la censura del governo non è
funzionata appieno.
E allora, che cosa rimane? In pratica, quasi tutto il resto, che è la stragrande
maggioranza degli argomenti e delle idee che interessano il popolo cinese. Quindi, le
critiche ai funzionari del governo locale o provinciale arrivano spesso sui media,
costituendo di fatto una delle forme della lotta politica interna al partito (Guo e Zhao,
2004; Liu, 2004). Le rivendicazioni dei cittadini dei propri diritti, oltre ai servizi sulle
proteste dei contadini e degli sfollati in città popolano la stampa cinese in modo filtrato,
anche se sono meno presenti in televisione (Hsing, di prossima pubblicazione). E i dibattiti
sui problemi sociali, entro i limiti retorici del rispetto per il partito, sono il cibo quotidiano
dei media cinesi. Inoltre, ciò che è proibito e ciò che non lo è cambia secondo il contesto e
l’interpretazione della linea del partito da parte di specifici censori. In un’espressione
indicativa della realtà della censura cinese sul terreno, Zhao (2008, p. 25) scrive che:
non esiste un modo sistematico per essere sicuri che ognuno dei 59 milioni di utenti
Internet della Cina sia registrato o che le informazioni della registrazione siano
veritiere. Di solito si può accedere alla Rete in un cybercafé senza dover esibire un
documento di identità; ed è pratica comune usare una shangwangka, la carta che
fornisce la connessione telefonica senza chiedere informazioni personali. Anche se il
regime censorio cerca di bloccare, filtrare, e rintracciare chiunque, gli utenti cinesi
più determinati possono accedere a informazioni fuori legge attraverso i messaggi
criptati, l’FTP e, più di recente, le tecnologie peer-to-peer.
È per questo motivo che il sistema più efficace per controllare Internet in Cina è quello
che riproduce il metodo, ormai ben sperimentato, utilizzato nel corso degli anni per
controllare i media: la gerarchia a cascata di sorveglianza che finisce per indurre
l’autocensura a tutti i livelli, e punisce il colpevole a ciascun livello appena viene
individuata una significativa falla nella catena di controllo (Dong, 2008b). Così, la
proprietà dei provider di Internet è nelle mani del governo. I fornitori di servizi di Internet
sono sottoposti a licenza, e sono responsabili della diffusione di eventuale contenuto
indebito sulla rete. Anche i fornitori di contenuti a Internet sono responsabili, e inoltre
devono partecipare a sessioni di formazione del governo e ottenere un certificato per
gestire il servizio. Devono anche conservare la documentazione del loro traffico e
consegnare tutto il contenuto fornito dagli utenti, più i loro log, su richiesta delle autorità.
Questo vale anche per gli Internet café. Ma il contenuto generato dall’utente è più difficile
da controllare. È per questo che l’ultimo, e più efficace, livello di controllo è quello dei
webmaster. Ma qui sta la flessibilità segreta del sistema di controllo, come spiega l’analisi
di Dong (2008b). Secondo Guo Liang, autore di Academy of Social Sciences’ Internet
User Report in China, in un’intervista con Dong, personalità, età e retroterra dei
webmaster hanno un impatto diretto sullo stile e il contenuto delle interazioni online.
Mentre i webmaster più anziani sono più rigidi nel cancellare i contenuti, quelli che
appartengono alla nuova generazione di utenti di Internet capiscono meglio il significato
di quel che la gente (di solito giovane) dice, e i limiti di ciò che potrebbe essere offensivo
per i poteri superiori. Ne segue un misto di complicità e autocensura che rende vivibile la
vita in Internet per la stragrande maggioranza degli utenti, quelli che non hanno un’agenda
politica, anche se a volte si scambiano idee sulla politica cinese. Questo, di fatto, è il punto
fondamentale riguardo al controllo di Internet in Cina.
Nel suo studio sulla concreta efficacia del controllo di Internet in Cina, Dong (2008b)
ha seguito per alcune settimane nella primavera del 2008 l’interazione online in due forum
cinesi, registrandone i commenti, compresi quelli scambiati con i webmaster. Uno dei
forum era in Cina, mentre l’altro era negli Stati Uniti e quindi libero dal controllo
governativo. L’autrice ha usato parole chiave per cercare interazioni su temi divisi in tre
categorie: quelli più politicamente sensibili (come Falun Gong e Tiananmen); quelli
considerati mediamente sensibili (come il Tibet, Taiwan, la democrazia, i diritti umani); e i
temi meno sensibili, ma ugualmente controversi, come la corruzione e la libertà. Rileva
che le questioni più delicate non erano trattate direttamente in nessuno dei due forum,
mentre a Falun Gong ci si riferiva indirettamente solo nel forum americano. Il webmaster
sottopose al voto la questione, e una volta ottenuta l’approvazione degli utenti, diede il via
al dibattito, scatenando in realtà un bufera di critiche contro «le ruote» (i seguaci del Falun
Gong) sul forum. Per il secondo genere di questioni, sia con il Tibet sia con Taiwan, vi
furono accese discussioni in entrambi i forum, e in entrambi i forum operarono gli stessi
meccanismi: a determinare se il messaggio fosse bloccato o meno, non era il contenuto
della posizione politica ma il tono in cui veniva espresso. Per esempio, «dobbiamo liberare
immediatamente Taiwan!» era giudicato troppo controverso. Quanto al terzo livello delle
questioni dibattute, la corruzione fu discussa liberamente in entrambi i forum, ma mentre
in Cina ci si focalizzava su specifici casi di corruzione a opera di autorità locali, nel forum
con base negli USA la discussione verteva sulla corruzione come problema della società
cinese.
Anche se non è possibile estrapolare i risultati di questo studio, interessante ma limitato,
le loro implicazioni sono significative. Il dibattito politico in Internet è manovrato in
maniera flessibile dai webmaster, ed è in larga misura autogestito dai partecipanti ai forum
online. Per la stragrande maggioranza il contenuto prodotto dagli utenti in Internet è
apolitico, e così non cade sotto l’occhio dei censori. Quanto al numero ridotto dei
partecipanti ai dibattiti politici, il sostegno alla Cina come nazione, spesso identificata con
il governo, rappresenta la maggioranza delle opinioni. Questa osservazione è stata
confermata nella primavera del 2008 quando le critiche occidentali alla repressione cinese
delle manifestazioni politiche in Tibet scatenarono una tempesta politica su Internet,
particolarmente intensa tra gli studenti cinesi all’estero, che attaccavano i media
occidentali per la manipolazione delle immagini e difendevano la Cina e il suo governo,
da quelle che consideravano aggressioni colonialiste. Anche se è probabile che il governo
cinese gettasse benzina sul fuoco dell’indignazione studentesca, vi sono prove che si trattò
di un movimento genuino. Anzi, il governo cinese bloccò l’accesso a YouTube per placare
la controversia, censurando così i video che gli studenti avevano postato in appoggio alla
Cina in Tibet.
C’è, in effetti, una questione importante alla base della relazione tra la Cina e Internet.
Spesso si pensa che ampi settori del popolo cinese soffrano sotto il comunismo e non
siano in grado di esprimere le loro critiche. In realtà i dati dei sondaggi mostrano che nel
2005 il 72 per cento dei cinesi erano soddisfatti delle condizioni del paese, una
proporzione più alta di quella di ogni altro paese del mondo (Pew Global Attitudes
Project, 2005). Tra gli studenti e i giovani in generale, la principale ideologia politica che
suscita un forte appoggio è il nazionalismo, in particolare contro Giappone e Taiwan. Il
Partito Comunista, che arrivò al potere come un movimento nazionalista nella «guerra
patriottica» contro il Giappone prima di sconfiggere il Kuomintang, è stato capace di
presentare la propria leadership come l’espressione dell’indipendenza e della futura
grandezza della Cina. Così, mentre la democrazia, che il paese non ha mai conosciuto,
resta un ideale astratto, adottato da una esigua minoranza intellettuale, le ferite del
colonialismo e dell’umiliazione straniera rimangono vive e promuovono la fedeltà alla
nazione, e al suo governo, tra la generazione dei giovani. Se aggiungiamo che in Cina
oltre due terzi dell’uso di Internet riguarda l’intrattenimento, e che la principale ambizione
della popolazione urbana istruita, che costituisce il grosso degli utenti di Internet, è di
beneficiare del consumismo (Chinese Academy of Social Sciences, 2007), potrebbe anche
essere che il colossale sistema messo in piedi dal governo cinese per controllare Internet
sia il risultato più di un riflesso del passato che di una necessità attuale. Quanto al futuro,
le sollevazioni dei contadini nelle campagne e degli sfrattati nelle città contro
l’usurpazione speculativa dei suoli che sta al cuore dell’accumulazione primitiva cinese
potrebbero rappresentare una minaccia molto più grave dei pettegolezzi da salotto
scambiati su Internet (Hsing, di prossima pubblicazione).
E così, il potere dello stato, nelle sue manifestazioni più tradizionali, manipolazione e
controllo, è pervasivo sui media e Internet in tutto il mondo. Costituisce un altro strato
della politica mediatica mirata a influenzare il comportamento costruendo significato. Ma
non cancella i processi di formazione del potere esaminati in questo capitolo. In pratica,
con la politica scandalistica spesso ci si riferisce alla capacità dello stato stesso, e non solo
di attori politici, di fabbricare, rivelare o bloccare informazioni compromettenti relative ai
suoi oppositori. In alcuni casi i conflitti all’interno dello stato vengono combattuti sui
media, a volte con l’impiego della politica scandalistica. Così, vi sono molteplici forme di
politica mediatica, ma tutte hanno in comune due caratteristiche fondamentali: mirano alla
costituzione di potere plasmando la mente del pubblico; e contribuiscono alla attuale crisi
di legittimazione della politica che sta scuotendo le fondamenta istituzionali delle nostre
società.
La scomparsa della fiducia pubblica e la crisi di legittimazione della
politica
Come documentato nelle figure A4.1-A4.8 (vedi Appendice in fondo al volume), la
maggioranza dei cittadini del mondo non si fida dei propri governi o dei propri parlamenti,
e un gruppo ancora più folto di cittadini disprezza i politici e i partiti politici, e pensa che
il proprio governo non rappresenti la volontà del popolo. Ciò include anche le democrazie
avanzate, considerando le numerose indagini che mostrano che la fiducia nel governo e
nelle istituzioni politiche è calata in misura sostanziale negli ultimi trent’anni: vedi per
esempio, la Voice of the People Survey del World Economic Forum (2008),
l’Eurobarometer (2007), l’Asian Barometer (2008), il Latinobarometro (Corporación
Latinobarometro, 2007), Accenture (2006), Transparency International (2007), la BBC
(Globescan, 2006), la World Value Survey (Dalton, 2005b) e worldpublicopinion.org (Kull
et al., 2008). Secondo World Public Opinion (2008) il 63 per cento degli intervistati in
tutte le 18 nazioni incluse nell’indagine riteneva che il proprio paese fosse «governato da
pochi grandi interessi che pensano a se stessi» e solo il 30 per cento pensava che era
governato «per il bene di tutto il popolo» (p. 6). Nel settembre 2007, solo il 51 per cento
degli americani mostrava «molta» o «abbastanza» fiducia nel governo federale, la
percentuale più bassa da quando nel 1972 la Gallup iniziò a porre la domanda (Jones,
2007a). Nell’Unione Europea, secondo l’Eurobarometer (2007), oltre l’80 per cento dei
cittadini non si fida dei partiti politici, e oltre due terzi non si fidano del proprio governo
nazionale. In America Latina il 77 per cento degli intervistati da Voice of the People
Survey riteneva che i propri leader politici fossero disonesti (World Economic Forum,
2008).
Da che cosa dipende questa situazione? Indubbiamente l’insoddisfazione verso
specifiche scelte politiche, e verso lo stato dell’economia e della società in generale, sono
fattori importanti per spiegare la disaffezione dei cittadini. Ma i dati dei sondaggi rilevano
che la percezione della corruzione è il più significativo elemento di predizione della
sfiducia politica. Se il tasso di declino della fiducia varia da paese a paese, la generale
tendenza verso il basso è evidente in quasi tutti i paesi più sviluppati (a eccezione dei
Paesi Bassi tra gli anni Settanta e i Novanta). Hetherington (2005), Warren (2006) e altri
sostengono che il grado di fiducia nel sistema di governo è diventato ormai un indicatore
importante e indipendente dell’appoggio alle politiche governative, e che è più importante
del solo schieramento partitico o della sola ideologia. Diverse forme di fiducia politica
interagiscono tra loro. La mancanza di fiducia verso specifici candidati, per esempio, può
trasformarsi in sfiducia verso le istituzioni politiche, e, alla fine, verso il sistema politico
nel suo insieme. La fiducia politica è strettamente connessa con la fiducia sociale generale.
Gli studi sul capitale sociale (per esempio Putnam, 2000) sostengono che l’impegno civile
e la fiducia interpersonale contribuiscono alla fiducia sociale generale, e quindi politica.
Nel complesso, mentre la fiducia verso le istituzioni della società ha subito un netto calo
(con lievi fluttuazioni) nel periodo del secondo dopoguerra, l’impatto di questo declino
non è uniforme o diretto. Per esempio, una fiducia politica in declino non significa
necessariamente una minore affluenza alle urne o una riduzione nell’impegno civile, come
mostrerò nell’analisi che segue. È però opinione comune che periodi prolungati di sfiducia
nel governo generino insoddisfazione verso il sistema politico e potrebbero avere
implicazioni critiche per la governance democratica.
Riconoscendo il problema, i governi in tutto il mondo hanno varato nuove norme per
mitigare le manifestazioni di corruzione, e hanno aumentato il numero delle inchieste
politiche e dei controlli giudiziari. Nonostante questi sforzi, la percezione della corruzione
è dovunque in crescita. Un’indagine del 2007 condotta da Transparency International
(Global Corruption Barometer Survey, pp. 8, 9 e ss.) ha rilevato che:
– Il grande pubblico ritiene che i partiti politici, il parlamento, la polizia e il sistema
legale/giudiziario siano le istituzioni più corrotte della società.
– I partiti politici (al 70 per cento circa) e il ramo legislativo (al 55 per cento circa) sono
percepiti dalla gente nel mondo come le istituzioni più affette dalla corruzione.
– I poveri, tanto nei paesi in via di sviluppo quanto in quelli industrializzati, sono i più
penalizzati dalla corruzione. Sono anche più pessimisti sulle prospettive di una
diminuzione della corruzione in futuro.
– Circa una persona su dieci, a livello mondiale, ha dovuto pagare una tangente nel
corso dell’ultimo anno. I casi di corruzione sono cresciuti nell’Asia del Pacifico e
nell’Europa sudorientale.
– La corruzione è particolarmente diffusa nelle interazioni con la polizia, il sistema
giudiziario e i servizi di registrazione e di concessione di permessi.
– La metà degli intervistati – un numero sensibilmente superiore a quattro anni prima –
prevede che la corruzione nel loro paese aumenterà nei tre anni successivi, con l’eccezione
di alcuni paesi africani (probabilmente una funzione del livello attuale di corruzione).
– La metà degli intervistati pensa che gli sforzi del proprio governo per combattere la
corruzione siano inefficaci.
– Le ONG, le organizzazioni religiose e le forze armate sono percepite dai cittadini
come le meno toccate dalla corruzione.
– In generale, le percezioni dei cittadini sulla corruzione in istituzioni chiave non sono
cambiate sostanzialmente tra il 2004 e il 2007. Ma l’opinione su alcune istituzioni, come il
settore privato dell’economia, è peggiorata nel tempo. Ciò vuol dire che il pubblico oggi
ha una visione più critica che in passato del ruolo del business nell’equazione della
corruzione. Confrontando i dati del 2004 e del 2007, c’è stato a livello mondiale un
incremento nella proporzione delle persone che considerano le ONG corrotte. Ma la
proporzione a livello mondiale delle persone che considerano corrotti la magistratura, il
parlamento, la polizia, le autorità fiscali e i servizi sanitari e di istruzione è diminuita
leggermente nel periodo 2004-2007, anche se la maggioranza delle persone ha ancora una
visione negativa del governo e delle istituzioni giudiziarie.
Perché la percezione della corruzione è così importante per la fiducia politica?
Dopotutto, è una pratica pervasiva e antica quanto l’umanità. Eppure, dato che la
democrazia è essenzialmente procedurale, come ho sostenuto nel capitolo 1, se il processo
dell’allocazione del potere nelle istituzioni statali e la gestione delle istituzioni di governo
possono essere modificate da azioni extra-procedurali a favore di specifici gruppi di
interessi o individui, non c’è ragione per cui i cittadini debbano rispettare la delega del
potere ai governanti. Ciò che ne segue è una crisi di legittimazione; ossia, una diffusa
carenza di fiducia nel diritto dei leader politici di prendere decisioni a nome dei cittadini
per il benessere della società. La governance diventa una pratica da sopportare con
rassegnazione, o a cui resistere quando possibile, anziché da sostenere in seguito a
deliberazioni. Quando i cittadini pensano che il governo e le istituzioni politiche truffino
regolarmente, ognuno sente di avere pari opportunità di truffare. E con questo, vengono
gettati i semi della disgregazione istituzionale. Nei momenti di esplosione sociale, in molti
paesi la gente scende in piazza con lo slogan dei manifestanti argentini che nel 2001
fecero cadere il governo: «Que se vayan todos!!! [Ma che se ne vadano tutti!!!]», riferito
all’intera classe politica del paese.
Inoltre, se la corruzione può non essere cresciuta in misura sostanziale nella storia
recente (potrebbe essere vero il contrario), quel che è aumentato è la pubblicità della
corruzione, la percezione della corruzione, e l’impatto di tale percezione sulla fiducia
politica. Secondo Warren (2006, p. 7), la fiducia politica psicologica coinvolge un giudizio
sui valori e gli attributi morali associati a un determinato governo, una determinata
istituzione, e/o singoli leader politici. Pertanto, si riferisce al punto di vista che le persone
possono avere sulla affidabilità dei loro rappresentanti politici. Nella fiducia politica
basata sul ragionamento psicologico, la gente cerca la sincerità e la autenticità della
personalità, l’apparenza pubblica, il modo di parlare, e il comportamento dei leader
politici.
Quindi, la connessione tra esposizione alla corruzione politica e declino della fiducia
politica può essere riferita direttamente al predominio della politica mediatica e della
politica scandalistica nella conduzione della cosa pubblica. Diversi studi hanno trovato le
prove della relazione tra il declino della fiducia politica generale e la ricorrenza della
politica scandalistica. Treisman (2000) ha analizzato un campione di paesi, usando i dati
della World Value Survey della University of Michigan, e ha trovato una correlazione
diretta tra la corruzione percepita e il calo di fiducia politica, controllando per gli effetti
del PIL e della struttura politica nella stima statistica della fiducia degli elettori.
Guardando alla Germania, però, Herbert Bless e i suoi colleghi (Bless et al., 2000;
Schwarz e Bless, 1992; Bless e Schwarz, 1998) hanno rilevato che l’impatto degli scandali
sul giudizio dei giovani adulti non è semplice come sembrerebbe a prima vista. Hanno
dimostrato che l’effetto di uno scandalo politico in Germania sul giudizio politico dipende
dal soggetto in questione. Più precisamente, l’attivazione di un frame negativo sul politico
coinvolto in uno scandalo (per esempio, un politico inaffidabile) riduceva i giudizi di
affidabilità sui politici in generale (la categoria) ma accresceva i giudizi di affidabilità su
altri specifici politici non coinvolti nello scandalo. Regner e Le Floch (2005) replicavano i
risultati della ricerca di Bless nel contesto francese. Mentre trovavano esiti analoghi nei
partecipanti con alti livelli di conoscenza sull’affare Dumas/Elf, trovavano che era vero il
contrario per i partecipanti con bassa conoscenza. Quelli che disponevano di migliore
conoscenza mostravano effetti di contrasto e giudicavano più positivamente alcuni politici
rispetto a quelli coinvolti nello scandalo. Quelli con livelli inferiori di conoscenza non
esibivano effetti del genere: ritenevano tutti i politici, e la politica in generale, ancora
meno affidabili.
Mentre c’è ampio consenso intorno all’idea che la fiducia nelle strutture della società e
nelle istituzioni ha subito un calo (Putnam, 1995; Brehm e Rahn, 1997; Robinson e
Jackson, 2001), sul ruolo svolto dai media in questo processo la discussione è ancora
aperta. Diversi studiosi sostengono che la copertura negativa dei media porterebbe al
«malessere mediatico» tra i cittadini, accrescendo i sentimenti di impotenza, lo scetticismo
e l’isolamento (per esempio Patterson, 1993; Putnam, 1995, 2000; Cappella e Jamieson,
1997; Mutz e Reeves, 2005; Groeling e Linneman, 2008). In generale sostengono che,
mentre non è chiaro se il discorso civile sia cambiato radicalmente nel corso del tempo, la
proliferazione delle piattaforme mediatiche, in particolare della televisione, implica che i
cittadini siano sempre più esposti ad azioni politiche incivili, il che porta al declino nella
stima delle istituzioni politiche. Robinson (1975) è stato il primo a proporre il termine
«videomalessere» per riferirsi a questo fenomeno. La tendenza attuale è di parlare di
media malaise a proposito della copertura negativa della televisione che viene
scimmiottata dagli altri mezzi di comunicazione.
Dall’altra parte, un gruppo minore ma autorevole di studiosi, come Inglehart (1990),
Norris (1996, 2000) e Aarts e Semetko (2003), sostiene che l’aumento della copertura
mediatica crea una connessione più forte tra governati e governanti, portando a un
«circolo virtuoso» di maggior impegno civile. I termini del dibattito devono però essere
chiariti. Quello che mostrano i dati di Norris è che gli individui che sono più politicamente
impegnati sono più attenti ai media. Ma questo non dice molto sulla direzione del loro
impegno. I cittadini politicamente attivi si attivano per raccogliere informazioni da ogni
possibile fonte. Ma se una massa crescente di informazione politica si presenta nei termini
della politica scandalistica, una maggiore esposizione a queste informazioni potrebbe
minare la fiducia nel sistema politico, ma potrebbe anche condurre alla mobilitazione per
un mutamento sistemico. In altre parole sembrerebbe che la politica scandalistica sia più
direttamente collegata alla crisi di fiducia che non la politica mediatica in sé. Ma siccome
la politica scandalistica opera attraverso i media, e siccome è conseguenza della dinamica
della politica mediatica, come ho sostenuto sopra, la maggioranza degli studi trova una
correlazione tra copertura mediatica (per prospettiva e volume) e valutazioni sulle
istituzioni sociali e politiche. Così, Fan et al. (2001) rilevano che la copertura della stampa
sulla stampa stessa, sui militari e sulla religione organizzata ha un effetto sulla fiducia in
queste istituzioni secondo la misurazione dei dati della General Social Survey. Hibbing e
Theiss-Morse (1998) hanno riscontrato, in contesto USA, che quei cittadini che si basano
principalmente sulla televisione o la radio per valutare le istituzioni politiche esprimevano
valutazioni emozionali significativamente più negative sul Congresso USA che quelli che
sono esposti meno ai media, anche se le loro percezioni cognitive erano le stesse. In uno
studio sperimentale, Mutz e Reeves (2005) scoprivano che l’esposizione da parte della
televisione al discorso politico incivile riduceva significativamente la fiducia nei politici in
generale, la fiducia nel Congresso e la fiducia nel sistema politico americano, mentre
l’esposizione a un discorso civile tramite la televisione accresceva la fiducia (vedi figura
A4.8 in Appendice).
Altri studi indicano che gli individui che si basano sulla televisione come principale
fonte di notizie sarebbero più portati a soffrire di «malessere mediatico» perché il mezzo
visivo intensifica l’importanza delle caratteristiche di personalità (Keeter, 1987;
Druckman, 2003). Così, si può ben affermare che la copertura giornalistica degli scandali
politici mostra di avere un impatto maggiore nell’ambiente mediatico audiovisuale
pervasivo che caratterizza la nostra società.
La relazione tra gli scandali trainati dai media e la pubblica sfiducia si estende, al di là
dell’ambito della politica, alle istituzioni della società in senso lato. Così, in uno studio
sperimentale, Groeling e Linneman (2008) rilevavano che gli individui che erano esposti
ai servizi mediatici sugli scandali sessuali nella chiesa cattolica (specificamente lo
scandalo del cardinale di Boston) nel gruppo di trattamento mostravano significativi cali
di fiducia nella chiesa come istituzione, come pure in altre istituzioni non implicate
direttamente nello scandalo.
In ogni caso, la relazione tra politica scandalistica e fiducia politica è mediata dal
contesto culturale e ideologico in cui si svolgono gli scandali. Per esempio, analizzando
gli effetti politici dello scandalo delle armi argentine, Waisbord (2004b) evidenziava che la
corruzione percepita è fondamentale per le ramificazioni sociopolitiche dello scandalo.
Perché gli scandali tocchino l’immaginazione del pubblico, «hanno bisogno della
pubblicità di informazione che contraddice idee ampiamente diffuse sugli individui»
(2004b, p. 1090). Così, se il pubblico già percepisce che il governo è corrotto, come
avveniva per il 96 per cento degli argentini, scandali come quello del traffico di armi non
richiamano l’attenzione perché queste storie non fanno che confermare quello che la gente
già sospettava/si aspettava18. La diffusa corruzione percepita così alimenta la
«banalizzazione della corruzione», traducendosi in quella che Waisbord chiama
«stanchezza da scandali», che riduce il potenziale riformatore e trasformatore degli
scandali (2004b, p. 1090). Con questo non si vuol dire che tra la politica scandalistica e la
sfiducia del pubblico non vi sia un nesso. Significa che quando la sfiducia è già radicata
nella coscienza degli individui, ogni rivelazione aggiuntiva non fa che riaffermare la
disaffezione per le istituzioni politiche.
Una mediazione decisiva è il contesto ideologico in cui si realizza la politica
scandalistica. Così, negli Stati Uniti, tra il 1980 e il 2004 la fiducia politica in generale si
evolse secondo un modello simile tra diversi gruppi ideologici, suggerendo la presenza di
una bassa correlazione tra autocollocazione ideologica e fiducia. Dopo l’11 novembre,
questa relazione è cambiata drasticamente. Anche se non è chiaro se questo schema
manterrà nel futuro la sua validità, il periodo tra il 2000 e il 2004 ha visto la fiducia
politica verso il governo decollare tra i conservatori e aumentare leggermente tra i non-
ideologizzati, mentre la fiducia politica tra liberal e moderati è precipitata (Hetherington,
2008, pp. 20-22). Per Hetherington questi schemi dimostrano che «indiscutibilmente la
presidenza Bush e il sostegno serrato che il presidente ha ricevuto dalla maggioranza
repubblicana in Congresso hanno politicizzato ciò che significa per i cittadini comuni
fidarsi del governo di Washington» (2008, p. 22). Quindi, mentre la politica scandalistica e
la politica mediatica tendono a influire negativamente sulla fiducia politica in un
determinato contesto caratterizzato da un’acuta polarizzazione ideologica, il sostegno
militante o l’opposizione al governo trova argomenti nelle rivelazioni degli scandali o li
liquida come propaganda, seguendo il meccanismo cognitivo dell’elaborazione selettiva
dell’informazione che ho analizzato nel capitolo 3.
Il paradosso è che, nello svolgere il loro ruolo di propagare gli scandali e delegittimare
le istituzioni, i media corrono il rischio di perdere essi stessi la legittimazione del
pubblico. La fiducia nei media come istituzione è calata del 21 per cento tra il 1973 e il
2000 (Fan et al., 2001, p. 827). Nelle parole di Fan e colleghi (2001, pp. 826-852), i media
potrebbero essere diventati «il messaggero suicida». Nel loro studio, esaminano la
relazione tra la copertura giornalistica sui media e la susseguente opinione del pubblico
sulla stampa. Per contrasto, esaminano anche gli stessi trend per copertura e pubblica
opinione riguardo ai militari e alla religione organizzata. Rilevano che la copertura degli
scandali religiosi riduce la fiducia nelle istituzioni religiose e che la fiducia nei militari è
relativamente stabile a un livello alto, con un picco intorno alla prima guerra del Golfo.
Rilevano anche che, a differenza della fiducia in altre istituzioni, la fiducia nella stampa è
spiegata statisticamente dall’aumento degli articoli sulle carenze della stampa e sulla
perdita di credibilità giornalistica – in altre parole, la stampa è il suo stesso messaggero
suicida. Ciò posa sul loro lavoro precedente, che mostra che gli articoli di stampa in cui
comparivano conservatori che lamentavano le faziosità della stampa liberale accrescevano
le percezioni che la stampa in generale fosse faziosa (Watts et al., 1999). Lungo linee
argomentative simili, Wyatt et al. (2000) rilevavano che il miglior fattore di previsione sia
della fiducia nella stampa sia della credibilità dei media era la fiducia generale verso altre
istituzioni come misurata dalla General Social Survey19. I loro riscontri fanno pensare che
fiducia e credibilità della stampa sono misure di affetto verso le istituzioni in generale
piuttosto che indicatori che segnalano se il pubblico crede a date affermazioni fattuali
espresse in particolari servizi o programmi (Fan et al., 2001). In altre parole, mentre le
informazioni negative sulla stampa non mostrano di mettere in discussione la stampa
stessa, le notizie negative su istituzioni sociali in senso lato possono indebolire la
credibilità di tutte le istituzioni, media compresi.
Dunque, sembra vi sia una connessione, per quanto mediata e complessa, tra politica
mediatica, politica scandalistica e declino della fiducia nelle istituzioni politiche. Ma la
domanda decisiva è: in che modo questa crescente diffidenza dal basso influisce sulla
partecipazione e il comportamento politico? La risposta a questa domanda è fortemente
differenziata, a seconda dei contesti politici e dei regimi istituzionali.
Dappertutto nel mondo percepiamo una tendenza a una crescita dello scontento verso i
partiti politici e le istituzioni politiche. Ma questo non si traduce necessariamente in un
allontanamento dal sistema politico. I cittadini dispongono di svariate alternative. Primo,
possono mobilitarsi contro una specifica opzione politica, seguendo lo schema generale
della politica negativa, come fecero gli spagnoli nel 1996, nel 2004 e nel 2008. Secondo,
possono mobilitarsi alla luce di una ideologia fortemente sentita e mettere la propria forza
organizzativa al servizio di un grande partito e catturarlo diventandone una base elettorale
indispensabile, come hanno fatto gli evangelici con il Partito Repubblicano negli Stati
Uniti. Terzo, possono appoggiare candidature di partiti terzi con il voto di protesta, come è
accaduto in Francia durante le elezioni presidenziali del 2002, in America con la
candidatura di Ross Perot nel 1992, e (ripetutamente) con i liberali, i socialdemocratici e i
liberaldemocratici nel Regno Unito, nonostante le limitazioni presenti nel sistema
elettorale britannico. Quarto, possono raccogliersi intorno a una candidatura insurgent, che
sfida cioè l’establishment politico dall’interno del sistema, come è avvenuto con la
candidatura di Lula in Brazile nel 2003 e con la campagna presidenziale di Obama nel
2008 negli Stati Uniti, oppure dall’esterno del sistema, come nei casi delle prime
candidature di Chávez in Venezuela, Morales in Bolivia o Correa in Ecuador. Quindi, se
niente di tutto questo è attuabile, possono votare con l’astensione (tranne in paesi come
l’Italia o il Cile, in cui il voto è un dovere), anche se questa è evidentemente l’ultima
risorsa per chi cerca ancora di far sentire la propria voce pur nutrendo scarse speranze nel
cambiamento che la politica potrà portare nella sua vita. Poi, c’è ancora una sesta
possibilità: aumentare la mobilitazione sociale al di fuori del sistema politico. In effetti
questo tipo di movimento esterno al sistema è stato documentato da Inglehart e Catterberg
(2002) che, usando i dati della World Values Survey, hanno misurato gli indicatori di
azione di sfida alle élite al di fuori del sistema istituzionale in 70 paesi. Hanno osservato
un incremento nella mobilitazione sociale nel corso di tutti gli anni Novanta. La
circostanza è confermata dallo studio che abbiamo condotto con Imma Tubella in
Catalogna, da cui risultava che, mentre solo il 2 per cento della popolazione partecipa
all’attività di partiti politici (pur votando nelle elezioni generali), e la maggioranza dei
cittadini non si fida dei partiti politici, oltre due terzi pensa che si possa cambiare la
società tramite la mobilitazione sociale autonoma (Castells, 2007).
Persino negli Stati Uniti, considerati fino al 2008 un caso estremo di apatia elettorale tra
le democrazie avanzate, Mark Hetherington (2005, 2008) e altri hanno mostrato che,
nonostante la polarizzazione delle élite e gli accresciuti livelli di sfiducia, la
partecipazione e l’impegno politico sono anzi in aumento. Popkin (1994) sostiene che
l’affluenza alle urne come percentuale di popolazione in età di voto non è un indicatore
affidabile di cambiamento nel corso del tempo. Negli Stati Uniti contemporanei, nel
contesto di una massiccia criminalizzazione delle minoranze etniche e di una vasta
immigrazione senza documenti, la percentuale di popolazione in età di voto che non gode
dell’accesso al voto è molto più alta che in altri paesi, considerando quelli che sono stati
privati del diritto di voto perché in passato detenuti o a causa della condizione di
cittadinanza problematica (vedi capitolo 5). Quindi, la popolazione che ha diritto al voto
(VEP, Voting Eligible Population) è il denominatore più appropriato per calcolare le
percentuali di affluenza. Usando questo dato, risulta che l’affluenza alle urne è aumentata
nel corso delle ultime tre elezioni presidenziali, dal 52 per cento circa nel 1996 a oltre il
60 per cento nel 2004, raggiungendo il 63 per cento nelle elezioni presidenziali del 2008
(Center for the Study of the American Electorate, 2008). L’affluenza calcolata sulla VEP
era nel 2004 quasi esattamente uguale a quella del 1956, e solo di 3,5 punti percentuali
inferiore a quella del 1960 (Hetherington, 2008, p. 5). Inoltre, negli Stati Uniti c’è stato un
aumento del coinvolgimento della cittadinanza nel processo politico nel periodo 2000-
2004, come mostrano le tabelle A4.4 e A4.5 in Appendice, in gran parte per gli sforzi dei
partiti politici di connettersi con le loro basi elettorali. Hetherington (2008) rileva anche
che quelli con forti inclinazioni ideologiche hanno molte più probabilità di essere
contattati da un partito politico (vedi figura A4.9 in Appendice). Le primarie presidenziali
democratiche del 2008 hanno visto livelli senza precedenti di mobilitazione politica negli
Stati Uniti (vedi capitolo 5).
Questa accresciuta capacità dei partiti politici di mobilitare supporto potrebbe essere
connessa all’uso degli strumenti della politica informazionale analizzati in questo capitolo.
Inoltre, Internet sta svolgendo un ruolo di primo piano nel facilitare tanto la mobilitazione
autonoma quanto il collegamento diretto tra partiti, candidati e potenziali sostenitori (vedi
tabelle A4.5 e A5.6 in Appendice). Così, Shah et al. (2005) rilevano che l’uso dei media
informazionali incoraggia la comunicazione tra i cittadini, il che a sua volta induce
l’impegno civico. Quel che è più interessante di queste rilevazioni è il ruolo svolto da
Internet. La ricerca di informazioni online e i messaggi interattivi – l’uso del web come
risorsa e forum – influenzano fortemente l’impegno civile, spesso più dei tradizionali
media cartacei e via etere e della comunicazione faccia a faccia (Shah et al., 2005, p. 551).
La relazione tra fiducia politica e impegno civile mostra di essere diversa nelle
democrazie nuove rispetto a quelle consolidate. Mentre un accresciuto impegno civile
porta con sé una crescita di fiducia nei meccanismi sociali e politici nel mondo
industrializzato, Brehm e Rahn (1997) trovano una relazione negativa tra impegno civico e
fiducia politica nei paesi in via di sviluppo. In altre parole, quelli che sono più civilmente
impegnati nel mondo in via di sviluppo mostrano minore fiducia nella politica. Questo
rilievo converge con i risultati dello studio transculturale di Inglehart e Catterberg (2002).
I loro dati mostrano che nelle nuove democrazie dell’America Latina e dell’Europa
Orientale, una volta che si sia avuta esperienza della democrazia dopo il cambiamento di
regime, si verifica un declino nella partecipazione politica negli anni successivi,
inducendo quello che i due autori definiscono un declino da dopo luna di miele
nell’appoggio alla democrazia. Comunque, la disillusione sulla democrazia, e la
conseguente riduzione nella partecipazione politica, portano in molti casi a una accresciuta
mobilitazione sociopolitica (Inglehart e Catterberg, 2002), aumentando così il divario tra
istituzioni politiche e partecipazione politica.
Così, l’esperienza internazionale mostra la diversità delle risposte politiche alla crisi di
legittimazione della politica, la quale spesso dipende dalle regole elettorali, dalle
specificità istituzionali e da fattori ideologici, come ho cercato di documentare nella mia
analisi della crisi della democrazia nella società in rete (Castells, 2004c, pp. 402-418). In
molti casi, la crisi di legittimazione porta a un aumento della mobilitazione politica
anziché a un ritrarsi dalla politica. La politica mediatica e la politica scandalistica
contribuiscono alla crisi mondiale di legittimazione della politica, ma il declino nella
fiducia pubblica non equivale al declino della partecipazione politica. Davanti alla sfida
della disaffezione dei cittadini, i leader politici cercano nuove vie per raggiungere e
attivare i propri bacini elettorali. Diffidenti verso le istituzioni pubbliche, ma decisi ad
affermare i loro diritti, i cittadini sono in cerca di modi per mobilitarsi alle proprie
condizioni all’interno e all’esterno del sistema politico. È esattamente la distanza
crescente tra la fiducia nelle istituzioni politiche e il desiderio di azione politica a
costituire la crisi della democrazia.
Crisi della democrazia?
Mentre non c’è alcun dubbio sulla crisi mondiale di legittimazione politica, non è chiaro
se e come questo si traduca in una crisi della democrazia. Per accertare questa questione
fondamentale, dobbiamo essere precisi sul significato di democrazia. In effetti, la
democrazia come pratica storica, in contrapposizione alla democrazia come concetto della
filosofia politica, è contestuale. All’inizio del XXI secolo, in un mondo globalmente
interdipendente, la democrazia è abitualmente intesa come la forma di governo risultante
dalla volontà di cittadini che scelgono tra candidature concorrenti in elezioni relativamente
libere che si svolgono a intervalli di tempo obbligatori sotto controllo giudiziario.
Introduco l’elemento della relatività per segnalare l’ampio ventaglio di interpretazioni del
concetto di libere elezioni. Per essere generosi e realistici, poniamo come standard
minimale le elezioni presidenziali USA del 2000 in Florida. Inoltre, perché la pratica della
governance sia percepita come democratica, un certo livello di libertà di espressione, di
associazione e di rispetto dei diritti umani, oltre che determinati meccanismi di controlli
amministrativi e giudiziari sul governo, devono essere affermati dalle leggi e dalla
Costituzione del paese. Anche secondo questo basso livello di requisiti istituzionali per la
democrazia, numerosi paesi al mondo non soddisfano questi criteri, e alcune nazioni
importanti, come la Cina, non riconoscerebbero la definizione di democrazia in questi
termini, o la interpreterebbero in modi che si distaccano nettamente dall’idealtipo di
democrazia rappresentativa. Inoltre, paesi che rappresentano una grande porzione della
popolazione mondiale hanno fondato formalmente istituzioni democratiche solo negli
ultimi 60 anni, e in molti paesi queste istituzioni rimangono fortemente instabili. Ciò vuol
dire che, in una prospettiva globale, la democrazia è in uno stato di crisi permanente. La
questione reale è: quanto sono democratiche le democrazie autoproclamatesi tali, e quanto
stabili sono le loro istituzioni alla prova del crescente divario tra le loro norme
costituzionali e le convinzioni dei loro cittadini? È da questo punto di vista che valuterò la
potenziale crisi della democrazia in riferimento alla politica mediatica.
In larga misura, la crisi di legittimazione e le sue conseguenze per la prassi democratica
sono legate alla crisi dello stato-nazione nella società in rete globale, come conseguenza
dei processi contraddittori di globalizzazione e identificazione che abbiamo analizzato nel
capitolo 1. Poiché la moderna democrazia rappresentativa fu istituita nell’ambito dello
stato-nazione con la costruzione degli individui-cittadini come soggetti politici legalmente
riconosciuti, l’efficienza e la legittimazione dello stato sono state ridotte dalla sua
incapacità di controllare le reti globali di ricchezza, potere e informazione, mentre la sua
rappresentatività è stata oscurata dall’ascesa di soggetti culturali basati sull’identità. I
tentativi di riaffermare il potere dello stato-nazione con i mezzi tradizionali dell’uso della
forza, particolarmente intensi nel periodo successivo all’11 settembre, hanno incontrato
rapidamente i limiti dell’interdipendenza globale e delle strategie di controdominio a base
culturale. La graduale costruzione di reti di governance globale resta ancora dipendente da
istituzioni politiche nazionali che sono in interazione con la società civile locale e globale.
Così la relazione tra le convinzioni della gente e le istituzioni politiche continua a essere al
centro delle relazioni di potere. Più grande è la distanza tra cittadini e governi, più bassa
sarà la capacità dei governi di conciliare i loro sforzi globali con le loro locali/nazionali
fonti di legittimazione e potere.
È in questo specifico contesto che dobbiamo comprendere le conseguenze della politica
mediatica per la pratica della democrazia. La politica dei media, e la politica scandalistica
come suo corollario, hanno aggravato la sua crisi di legittimazione proprio nel momento in
cui lo stato-nazione ha più bisogno della fiducia dei suoi cittadini per navigare le acque
incerte della globalizzazione, incorporando al contempo valori di identità, individualismo
e cittadinanza. Tuttavia, nonostante la massiccia disaffezione dei cittadini verso la classe
politica, e verso la democrazia così come la sperimentano, il più delle volte la gente nel
mondo non rinuncia agli ideali democratici, anche se li interpreta a modo suo. Quello che
osserviamo è che i cittadini in generale hanno adottato una varietà di strategie per
correggere o contestare il malfunzionamento del sistema politico, come si è analizzato
sopra. Queste differenti reazioni/proazioni hanno effetti distintivi sulla pratica e le
istituzioni della democrazia.
Così, il voto usato per punire il politico in carica, anziché per sperare nel cambiamento,
potrebbe correggere la cattiva gestione dei politici mandando un potente avvertimento che
la loro carriera dipende dall’ascolto prestato alle proprie basi elettorali. Ma quando i
ripetuti avvertimenti hanno scarso effetto, e quando i partiti portati al potere dal voto di
protesta riproducono lo stesso disinteresse per la pubblica decenza, si produce una spirale
verso il basso, che arreca ancor più negatività e cinismo a una cittadinanza già stanca di
scandali. Spesso però, anziché rinunciare ai propri diritti, i cittadini si rivolgono a terze
parti, o a nuovi leader al di fuori delle correnti ufficiali, in quella che ha preso il nome di
insurgent politics. Se il loro appoggio si traduce in nuovi progetti, e alla fine in nuove
politiche più allineate con i loro valori e interessi, le istituzioni democratiche potrebbero
subire una rigenerazione, perlomeno temporanea, nella misura in cui sangue politico
fresco prende a scorrere nelle vecchie vene della democrazia, esattamente a causa
dell’adattabilità delle istituzioni democratiche a nuovi attori e a nuove idee. In altri casi,
invece, sfidare il fallimento della politica democratica per raccogliere le preoccupazioni
della società può condurre al cambiamento politico al di fuori del sistema istituzionale.
Questo mutamento è spesso guidato da leader populisti che rompono con il passato a
favore di una nuova legittimazione popolare, che di solito dà vita a una rifondazione delle
istituzioni. Nei casi di protesta radicale, lo scontento può produrre una rivoluzione: ossia
un cambiamento politico indipendente dalle procedure formali della successione politica.
Questo processo si traduce in un nuovo stato, trasformato dalle nuove relazioni di potere
insite in esso. In situazioni estreme, potrebbe intervenire direttamente o indirettamente la
forza militare nella trasformazione o nella restaurazione delle istituzioni politiche,
rompendo così con la prassi democratica. In tutti i casi di frattura istituzionale devianti
dalle pratiche costituzionalmente previste, la politica mediatica e la politica scandalistica
svolgono un ruolo importante nell’attizzare lo scontento e articolare le sfide. In questo
senso, esse sono direttamente legate alla crisi della democrazia.
Esiste però un’altra forma di crisi, meno evidente. Se accettiamo l’idea che la forma
cruciale del potere ha luogo attraverso la modellazione della mente umana, e che questo
processo dipende in gran parte dalla comunicazione, e in ultima analisi dalla politica
mediatica, allora la pratica della democrazia è messa in discussione quando c’è
dissociazione sistemica tra potere della comunicazione e potere rappresentativo. In altre
parole, se le procedure formali della rappresentanza dipendono dall’allocazione informale
del potere di comunicazione nel sistema multimediale, non esiste pari opportunità tra
attori, valori e interessi in campo per attivare i meccanismi concreti di allocazione del
potere nel sistema politico. Ne consegue che la crisi più importante della democrazia entro
le condizioni della politica mediatica è il confinamento della democrazia nell’ambito
istituzionale di una società in cui il significato si produce nella sfera dei media. La
democrazia può essere ricostruita nelle specifiche condizioni della società in rete solo se la
società civile, nella sua diversità, è in grado di sfondare le barriere aziendali, burocratiche
e tecnologiche poste alla costruzione dell’immagine sociale. Cosa interessante, lo stesso
ambiente della comunicazione pervasiva multimediale che racchiude la mente politica
nelle reti mediatiche potrebbe far da veicolo all’espressione diversificata di messaggi
alternativi nell’epoca della autocomunicazione di massa. È davvero così? O si tratta solo
dell’ennesima utopia che si trasforma in distopia sotto la lente d’ingrandimento dello
scienziato sociale? Il capitolo che segue indaga sulla questione.
1
Queste tendenze, tuttavia, non sono altrettanto pronunciate in Europa orientale e nei paesi in via di sviluppo, dove
l’Edelman Trust Barometer (Edelman, 2008), Eurobarometer (2007) e altri studi rilevano una ripresa della fiducia nei
media. Si pensa che queste tendenze riflettano un cambiamento nella definizione dei media (ossia, ottimismo rispetto
all’introduzione di Internet e delle nuove tecnologie mediatiche). È anche possibile che la mancanza di fiducia nelle
istituzioni governative porti alla ricerca di fonti alternative di informazione. Inoltre, molto sta cambiando con la
generazione Internet.
2
Secondo Eurobarometer (2007, p. 54), sono più gli europei che esprimono fiducia nella radio (66 per cento) e nella
televisione (56 per cento) rispetto alla stampa cartacea (47 per cento) o a Internet (35 per cento).
3
Secondo i rilevamenti di Alexa.com, giugno 2008.
4
Postman (2004, discorso pubblicato postumo) sostiene che la sovrabbondanza di fonti di informazione ha degradato
l’autorità di istituzioni sociali come la famiglia, la chiesa, la scuola e i partiti politici che tradizionalmente rivestivano il
ruolo di gatekeeping e di agenda-setting. Soverchiati dalle informazioni, gli individui oggi sono meno attrezzati per
identificare e partecipare ai processi democratici. Tuttavia, l’immagine di una società colta impegnata in passato in una
democrazia deliberativa sembra più un mito che la realtà. Così, Postman, nel suo classico Amusing Ourselves to Death
(1986), raffigura l’America coloniale del Settecento come una società di attivi lettori con una cultura basata sulla stampa.
Senza voler mettere in discussione gli importanti contributi di Postman all’analisi della relazione tra media, cultura e
democrazia, questa visione nostalgica si riferisce evidentemente ai segmenti istruiti e benestanti della società: ossia, il
maschio bianco colto. In realtà, agli afroamericani non era permesso leggere. Quanto ai tassi complessivi di
alfabetizzazione, gli storici hanno dimostrato che il campione di Postman era distorto, sovrarappresentando gli adulti di
età più avanzata, i maschi e i ricchi. Herndon (1996) ha corretto tale sampling bias nei dati per il Rhode Island, rilevando
tassi di alfabetizzazione nel New England alla metà del XVIII secolo del 67 per cento per i maschi e del 21,7 per cento
per le femmine. L’alfabetismo era più basso nelle colonie centrali e meridionali. E ancora nel 1870, il 20 per cento
dell’intera popolazione adulta e l’80 per cento della popolazione afroamericana era analfabeta (Cook, 1977; Murrin et
al., 2005). Questo vuol dire che l’immagine di un passato più culturale e l’idea di perdita della democrazia deliberativa
sono spesso il risultato di un pregiudizio nostalgico ed elitario.
5
Per questo trend in Canada, vedi anche Trimble e Sampert (2004); per l’Australia, vedi Denemark et al., (2007).
6
Il 28 maggio 2008, nel notiziario serale della CNN Anderson Cooper 360, Cooper intervistava una corrispondente
della CNN su un’affermazione fatta da Scott McClellan, ex portavoce della Casa Bianca per il presidente Bush, secondo
la quale la stampa era colpevole di non indagare adeguatamente sulla disinformazione operata dalla Casa Bianca a
proposito della guerra in Iraq. Con grande sorpresa di Cooper, la corrispondente riportava la propria esperienza di aver
subito pressioni dai vertici aziendali della CNN perché appoggiasse la versione di Bush. La direttiva aziendale della
CNN, ipotizzava la giornalista, nasceva dalla convinzione che l’allora alto livello di popolarità del presidente Bush si
potesse tradurre in ascolti altrettanto alti per l’emittente.
7
GOP (che sta per Grand Old Party) è l’espressione americana per Partito Repubblicano.
8
Atwater era consulente sia di Reagan sia di Bush I e più tardi presidente della RNC. È stato il creatore del ben noto
spot della porta girevole per Willie Horton che svolse un ruolo importante nella sconfitta di Dukakis. Arwater morì nel
1991.
9
Rove ha una storia pittoresca per raccontare i suoi sporchi trucchi. Nei suoi primi anni di attività, quando lavorava
per la campagna di un candidato repubblicano dell’Illinois per il Senato USA, finse di fare lavoro di volontariato per un
democratico di nome Alan J. Dixon, che correva per la tesoreria di stato (e più tardi come senatore). Rove rubò della
carta intestata dall’ufficio di Dixon, preparò un volantino che prometteva «birra a volontà, cibo a volontà, ragazze e
divertimento, gratis» e lo distribuì in migliaia di copie presso una comune, un concerto rock e un refettorio pubblico, e
tra gli ubriaconi in strada; una folla si presentò al quartiere generale di Dixon (Purdum, 2006).
10
Morris nel 2008 dirigeva vote.com, un portale web che chiede agli utenti di votare su determinate questioni e poi
inoltra i risultati ai legislatori interessati.
11
In effetti i consistenti benefici finanziari delle cariche politiche sono prevalenti anche negli Stati Uniti. Tuttavia, i
livelli di retribuzione in politica negli Stati Uniti e in gran parte delle democrazie occidentali impallidiscono rispetto ai
privilegi e agli stipendi di cui godono i politici italiani di ogni appartenenza politica, come è stato documentato in un
libro esplosivo di due giornalisti italiani (Rizzo e Stella, 2007).
12
A causa dell’importanza del tema per questo libro, analizzerò dettagliatamente la campagna di Obama nel capitolo
5.
13
Gli studi dimostrano che spesso la gente vota nelle iniziative referendarie a seconda dei personaggi che appoggiano
o respingono il quesito (Aronson, comunicazione personale, 2008).
14
Quando la faccenda venne alla luce, il Pentagono rese pubbliche ottomila pagine di documenti, relativi alle attività
dei suoi analisti sul sito web http://www.dod.mil/pubs/foi/milanalysts/. Inoltre, nel maggio 2008, la congressista
democratica Rosa L. DeLauro e quaranta suoi colleghi inviarono una lettera all’Ispettore generale del Dipartimento della
Difesa chiedendo l’apertura di un’inchiesta sue questa «campagna propagandistica mirante a deviare deliberatamente il
pubblico americano».
15
Alcuni dei dati presentati in questa analisi provengono dalle affidabili fonti web elencate qui sotto. A ulteriori fonti
si rimanda nel testo. http://www.fapmc.ru, http://www.fapmc.ru, http://www.freedomhouse.org, http://www.gdf.ru,
http://www.hrw.org. http://www.lenta.ru, http://www.oprf.ru, http://www.rfe.rferl.org, http://www.ruj.ru, http://sp.rian.ru.
16
Il controllo materiale dei macchinari per la stampa è un’antica tradizione in Russia. Tra le prime misure di Lenin,
dopo la presa del potere nel 1917, vi fu la nazionalizzazione delle reti telefoniche e telegrafiche, e della produzione della
carta da stampa.
17
Nel blog si leggeva: «Sarebbe un’ottima idea se nella piazza centrale di ogni città russa fosse costruita una fornace
come ad Auschwitz, e vi si bruciasse uno sbirro ateo una o, meglio ancora, due volte al giorno» (cit. in Rodríguez,
2008).
18
Il lavoro di Waisbord (2004a) solleva questioni di definizione. Importanti casi di corruzione svelata come la
questione delle armi argentine vanno ancora etichettati come scandali anche se il pubblico rimane in buona parte
disinteressato alla vicenda? Oppure possiamo distinguere tra scandali mediatizzati imperniati sulle élite e scandali
mediatizzati imperniati sulla pubblica opinione?
19
Riscontravano anche una relazione significativa tra la fiducia generale nella stampa e la specifica valutazione di
credibilità del mezzo di informazione che l’intervistato usava di più.
Capitolo 5
RIPROGRAMMARE LE RETI DI COMUNICAZIONE: MOVIMENTI
SOCIALI, POLITICA INSORGENTE E NUOVO SPAZIO PUBBLICO
Il cambiamento, sia esso di tipo evolutivo o rivoluzionario, è l’essenza della vita. Al punto
che lo stato di immobilità per un essere vivente equivale alla morte. Questo vale anche per
la società. Il cambiamento sociale è multidimensionale, ma in ultima analisi dipende da un
cambiamento di mentalità, sia per gli individui sia per le collettività. Il modo in cui
sentiamo/pensiamo determina il modo in cui agiamo. E i mutamenti nel comportamento
individuale e nell’azione collettiva esercitano una graduale ma inevitabile azione di
cambiamento sulle norme e le istituzioni che strutturano le pratiche sociali. Tuttavia, le
istituzioni sono cristallizzazioni di pratiche sociali relative a momenti storici anteriori, e
queste pratiche sociali hanno le loro radici nelle relazioni di potere. Le relazioni di potere
sono insite in istituzioni di ogni sorta. Queste istituzioni risultano dai conflitti e dai
compromessi tra attori sociali, che realizzano la costituzione della società in base ai loro
valori e interessi. Quindi, l’interazione tra mutazione culturale e cambiamento politico
produce il cambiamento sociale. Il mutamento culturale è il cambiamento di valori e
convinzioni elaborato nella mente umana su una scala sufficientemente ampia da
interessare la società nel suo insieme. Il cambiamento politico è l’adozione istituzionale
dei nuovi valori che si diffondono attraverso la cultura di una società. Inutile dire che
nessun processo di cambiamento sociale è generale e istantaneo. Molteplici cambiamenti
procedono secondo ritmi diversi all’interno di una varietà di gruppi, territori e ambiti
sociali. L’insieme di questi cambiamenti, con tutte le loro contraddizioni, convergenze e
divergenze, tesse la trama della trasformazione sociale. Il cambiamento non è automatico.
Risulta dalla volontà degli attori sociali, guidati dalle loro capacità emozionali e cognitive
nell’interazione reciproca e con il loro ambiente. Non tutti gli individui vengono coinvolti
dai processi di cambiamento sociale, ma nel corso della storia ci sono sempre stati
individui che si sono impegnati nel cambiamento, diventando così attori sociali. Gli altri
sono free-rider sociali, come li chiamerebbe la teoria economica. O, nella mia
terminologia, egoisti parassiti del divenire storico.
Concettualizzo gli attori sociali che mirano al cambiamento sociale (un mutamento di
valori) come movimenti sociali, e denomino insurgent politics, o politica insorgente, il
processo che punta a un cambiamento politico (mutamento istituzionale) che è in
discontinuità con la logica insita nelle istituzioni politiche. Propongo l’ipotesi che la
politica insorgente realizzi la transizione tra cambiamento culturale e cambiamento
politico incorporando soggetti mobilitati per il cambiamento politico o culturale di un
sistema politico di cui in precedenza non facevano parte, per una varietà di ragioni (per
esempio, perché non avevano il diritto di voto, erano esclusi dalla partecipazione politica,
o si erano ritirati dal sistema politico perché non vedevano più la possibilità di connettere i
propri valori o i propri interessi con il sistema di rappresentanza politica esistente). Inoltre,
tanto i movimenti sociali quanto la politica insorgente può prendere origine o
dall’affermazione di un progetto culturale o politico, o da un atto di resistenza alle
istituzioni politiche, quando le azioni di queste istituzioni sono percepite come ingiuste,
immorali e in ultima analisi illegittime. La resistenza potrebbe condurre o meno alla
nascita di progetti messi in pratica dai movimenti sociali o dalla politica insorgente. Solo
quando tali progetti nascono una trasformazione strutturale può aver luogo. Così, nessuno
può prevedere in anticipo l’esito dei movimenti sociali o della politica insorgente. Quindi,
in una certa misura, sappiamo se l’azione collettiva era effettivamente veicolo di
cambiamento sociale solo all’indomani di essa.
Questo pone la questione di quale sia la tabella di marcia per determinare quando sia
arrivato l’indomani: una questione che può ricevere una risposta specifica solo dalla
ricerca su un dato processo di cambiamento sociale, una ricerca concentrata su come,
quando e quanto i nuovi valori vengono istituzionalizzati nelle norme e nelle
organizzazioni della società. In termini analitici, non può esserci un giudizio normativo
sulla direzionalità del cambiamento sociale. I movimenti sociali si presentano in tutti i
formati, dato che la trasformazione della società non è predeterminata da leggi astoriche
operanti in base alla volontà divina o a profezie ideologiche, e tanto meno dal gusto
personale dell’analista. Ogni cambiamento strutturale nei valori istituzionalizzati in una
data società è il risultato di movimenti sociali, indipendentemente dai valori portati avanti
da ciascun movimento. In questo senso, la spinta collettiva per istituire la teocrazia è un
movimento sociale non meno di quanto lo sia la lotta per l’emancipazione femminile.
Indipendentemente dalle preferenze personali, il cambiamento sociale è il cambiamento
che le persone cercano di realizzare con le loro mobilitazioni. Quando hanno successo,
diventano i nuovi salvatori. Quando falliscono, vengono dichiarati folli o terroristi. E
quando falliscono ma alla fine i loro valori trionfano in una posteriore rinascita
istituzionale, vengono posti sugli altari come madri o padri fondatori del nuovo mondo o,
a seconda della loro sorte individuale, come protomartiri del nuovo vangelo1.
I movimenti sociali si formano comunicando messaggi di rabbia e di speranza. La
specifica struttura di comunicazione di una data società modella in larga misura i
movimenti sociali. In altri termini, i movimenti sociali e la politica (insorgenti o meno)
nascono e vivono nello spazio pubblico. Lo spazio pubblico è lo spazio dell’interazione
sociale di significato in cui idee e valori sono formati, trasmessi, appoggiati e respinti:
spazio che in ultima analisi diventa un terreno di addestramento per azione e reazione. È
per questo che, nel corso della storia, il controllo della comunicazione socializzata da parte
di autorità ideologiche e politiche, e da parte dei ricchi, è stato una fonte chiave del potere
sociale (Curran, 2002; vedi anche Sennett, 1978; Dooley e Boron, 2001; Blanning, 2002;
Morstein-Marx, 2004; Baker, 2006; Wu, 2008). Ora, questo è ciò che avviene nella società
in rete, adesso più che mai. In questo libro mi auguro di essere riuscito a dimostrare che le
reti di comunicazione multimodale costituiscono in linea di massima lo spazio pubblico
nella società in rete. E così, come ho documentato nei capitoli 3 e 4, forme differenti di
controllo e manipolazione dei messaggi e della comunicazione nello spazio pubblico sono
il nucleo di formazione del potere. La politica è politica mediatica, e questo si estende a
forme di relazioni di potere radicate nel mondo del business o nelle istituzioni culturali.
Ma lo spazio pubblico è un territorio conteso, per quanto sbilanciato verso gli interessi dei
produttori e dei guardiani di questo spazio. Senza poter contestare le immagini create e
proiettate nello spazio pubblico dai poteri costituiti, le menti degli individui non
saprebbero dar vita a una nuova mente pubblica, e così le società rimarrebbero
intrappolate in un processo senza fine di riproduzione culturale sterile, chiuso
all’innovazione, ai progetti alternativi e, in definitiva, al cambiamento sociale.
In sintesi: nella società in rete la battaglia delle immagini e dei frame, all’origine della
battaglia per le menti e le anime, si svolge entro le reti di comunicazione multimediali.
Queste sono programmate dalle relazioni di potere che nelle reti sono inserite, come
abbiamo visto dall’analisi svolta nel capitolo 4. Quindi, il processo del cambiamento
sociale richiede la riprogrammazione delle reti di comunicazione nei termini dei loro
codici culturali e dei valori e degli interessi sociali e politici impliciti che esse veicolano.
Non è un compito facile. Proprio perché multimodali, diversificate e pervasive, le reti di
comunicazione sono in grado di includere e accogliere diversità culturale e molteplicità di
messaggi in misura molto superiore a qualsiasi altro spazio pubblico nella storia. Così, la
mente pubblica è catturata da reti di comunicazione program-mata, che limitano l’impatto
delle forme autonome d’espressione all’esterno delle reti. Ma in un mondo contraddistinto
dall’ascesa dell’autocomunicazione di massa, i movimenti sociali e la politica insorgente
hanno la possibilità di penetrare nello spazio pubblico da molteplici fonti. Usando sia le
reti di comunicazione orizzontali sia i media tradizionali per trasmettere le proprie
immagini e messaggi, accrescono le proprie probabilità di operare il cambiamento sociale
e politico – anche se partono da una posizione subordinata per potere istituzionale, risorse
finanziarie o legittimità simbolica. Tuttavia, il loro potere accresciuto come messaggeri
alternativi ha un vincolo: devono adattarsi al linguaggio dei media e ai formati di
interazione vigenti nelle reti di comunicazione. Nel complesso, la nascita delle reti di
autocomunicazione di massa offre maggiori opportunità di autonomia. Però, perché questa
autonomia possa esistere, gli attori sociali devono affermare il diritto
all’autocomunicazione di massa difendendo libertà ed equità nel dispiegamento e nella
gestione dell’infrastruttura di rete della comunicazione e nella prassi dei settori
multimediali. La libertà, e in ultima analisi il cambiamento sociale, si intrecciano con la
funzionalità istituzionale e organizzativa delle reti di comunicazione. La politica
comunicazionale finisce per dipendere dalle politiche della comunicazione.
Approfondirò il processo del cambiamento sociale nel nuovo spazio pubblico costituito
dalle reti di comunicazione concentrandomi su due diversi tipi di movimenti sociali e su
due casi significativi di insurgent politics. Primo, la costruzione di una nuova coscienza
ambientale che porta alla consapevolezza universale della realtà, delle cause e delle
implicazioni del cambiamento climatico da parte di un movimento sociale basato sulla
scienza che agisce su e tramite i media e Internet. Secondo, la sfida alla globalizzazione
delle corporations lanciata dai movimenti sociali collegati in rete in tutto il mondo,
usando Internet come medium organizzativo e deliberativo per incoraggiare i cittadini a
premere su governi e grandi imprese per ottenere una globalizzazione giusta. Terzo, i
movimenti istantanei di resistenza agli illeciti politici, in diffusione ovunque, spesso
capaci di trasformare l’indignazione in politica insorgente appropriandosi della versatilità
e delle capacità di collegamento della telefonia mobile. Mentre rinvierò a molteplici casi
di queste «mobilitazioni», mi soffermerò su uno dei più significativi di questi movimenti:
la protesta spontanea contro la manipolazione delle informazioni attuata dal governo
spagnolo dopo gli attentati di Al Qaeda a Madrid nel marzo 2004. Infine, analizzerò la
campagna di Obama del 2008 per le primarie presidenziali americane, una campagna che
incarna la nascita di una nuova forma di insurgent politics che ha la potenzialità di
trasformare totalmente la pratica della politica. Come documenterò, è stata caratterizzata
dalla riproposizione di forme tradizionali di organizzazione comunitaria dal basso adattata
alle condizioni comunicative dell’Età di Internet, con notevole successo, si può dire,
compresa la sostituzione col finanziamento dei cittadini del finanziamento elettorale delle
lobby. Quindi cercherò di raccogliere il significato di questi movimenti diversificati in un
filone analitico comune: la potenziale sinergia tra la nascita dell’autocomunicazione di
massa e la capacità autonoma, da parte delle società civili del pianeta, di dare forma al
processo del cambiamento sociale.
Scaldarsi per il riscaldamento globale: il movimento ecologista e la nuova
cultura della natura
Ormai siamo arrivati ad accettare, in linea di massima, l’idea che il clima del pianeta sta
cambiando, e che questo processo potenzialmente catastrofico è dovuto principalmente
alla mano dell’uomo. Se a questa presa d’atto facessero seguito misure e politiche
correttive, potremmo essere ancora in grado di prevenire la piega disastrosa che
prenderebbero gli eventi del XXI secolo, anche se si è perso molto tempo e molto danno è
già stato fatto alla vivibilità sul pianeta azzurro. I fatti sono noti: dalla metà degli anni
Settanta a oggi la temperatura media superficiale è salita di circa un grado Fahrenheit.
Attualmente la superficie della Terra si sta riscaldando a un ritmo di circa 0,32°F al
decennio, ossia 3,2°F al secolo. Tutti gli otto anni più caldi mai registrati (a partire dal
1850) si sono verificati dopo il 1998; il più caldo è stato il 2005. Dal 1979, quando si è
dato inizio alle misurazioni col satellite della temperatura della troposfera, vari insiemi di
dati satellitari per il tratto medio di questo strato dell’atmosfera mostravano tassi di
riscaldamento simili – da 0,09°F a 0,34°F a decennio, a seconda del metodo di analisi
utilizzato (National Aeronautics and Space Administration, 2007; National Oceanic and
Atmospheric Administration, 2008).
La grande maggioranza degli scienziati in questo campo, in base a un ventennio di
ricerche pubblicate su riviste sottoposte al controllo dei colleghi (peer-reviewed),
convengono che l’attività umana contribuisce in maniera essenziale al cambiamento
climatico globale. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che opera sotto
l’egida delle Nazioni Unite, nel rapporto presentato nel 2007 al convegno di Parigi a cui
partecipavano oltre 5000 scienziati, concludeva che il trend di riscaldamento globale è
«inequivocabile» e che l’attività umana «molto probabilmente» (intendendo una
probabilità di almeno il 90 per cento) ne è la causa. Il direttore esecutivo dello United
Nations Environment Program, Achim Steiner, dichiarò che il rapporto rappresentava un
punto di svolta nell’accumulazione dei dati sul cambiamento climatico, aggiungendo che
il 2 febbraio 2007, giorno di chiusura del convegno, sarà forse ricordato come il giorno in
cui il pensiero globale sul cambiamento climatico è passato dal dibattito all’azione
(Rosenthal e Revkin, 2007). Il riconoscimento ufficiale della gravità del problema, e
l’appello all’azione della comunità internazionale, sono arrivati mezzo secolo in ritardo
sui primi allarmi pubblici degli scienziati sulla questione e le prime pressioni degli attivisti
per l’ambiente sui governi, fino ad allora ignari del problema.
La lunga marcia dell’ambientalismo
Perché la consapevolezza del cambiamento climatico e delle sue conseguenze si
installasse nella mente del pubblico, e poi negli ambienti dove si prendono le decisioni,
era necessario un movimento sociale per informare, avvertire e, cosa più importante,
cambiare il modo in cui pensiamo il nostro rapporto collettivo con la natura. In realtà, tutta
una nuova cultura della natura doveva essere prodotta socialmente perché, nonostante i
segnali in arrivo da tempo dalla comunità scientifica, le relazioni di potere insite nelle
istituzioni e nella cultura delle nostre società erano irremovibili nel difendere a ogni costo
la cultura del produttivismo e del consumismo, perché la logica del profitto, base
dell’economia di mercato, e il perseguimento del consumo di massa, fondamento della
stabilità sociale, poggiano sulla premessa dell’uso della natura come risorsa anziché come
nostro ambiente di vita. Il modo in cui pensiamo la natura determina il modo in cui la
trattiamo – e il modo in cui la natura tratta noi. Durante tutta la rivoluzione industriale
l’umanità si prese la storica rivincita sulle forze della natura che per millenni avevano
mostrato di dominare la sopravvivenza senza possibilità di controllo da parte nostra.
Scienza e tecnologia ci misero in grado di mettere mano ai limiti imposti dalla natura. O
così pensavamo.
Seguì un processo largamente incontrollato di industrializzazione, urbanizzazione, e
ricostruzione tecnologica dell’ambiente vivente, un processo che si è tradotto in quello che
è il nostro stile di vita. Poiché in fatto di salute, istruzione, produzione alimentare, e
consumo di ogni cosa, gli standard di esistenza migliorarono in maniera spettacolare,
confermando la nostra fede nella crescita del PIL come indice di progresso, continuammo
a seguire un percorso di crescita lineare all’interno di un modello produttivista la cui
versione statalista era ancora più estrema verso l’ambiente dell’originaria matrice
capitalista. In effetti, ancora nel 1989, la US National Association of Manufacturers,
insieme con i settori petrolifero e automobilistico, organizzò la Global Climate Coalition
per opporsi alle normative vincolanti dei governi sul riscaldamento globale, una posizione
ancora rispecchiata nel primo decennio del nostro secolo da molti governi, tra cui
l’amministrazione Bush. Nell’aprile 1998, The New York Times pubblicava un articolo in
cui riferiva di un memorandum dell’American Petroleum Institute che delineava una
strategia verso i media per rendere «il riconoscimento dell’incertezza [del cambiamento
climatico]… parte del senso comune… e così educare e informare il pubblico, stimolando
[i media] a porre interrogativi sulle istanze preposte alle decisioni» (Cushman, 1998, p. 1).
Lance Bennett ha documentato le strategie dei leader repubblicani negli USA per imporre
ai media la negazione della responsabilità umana verso l’insorgere del cambiamento
climatico (Bennett, 2009, capitolo 3).
Va detto però che negli ultimi anni un certo numero di grandi aziende, comprese alcune
del settore petrolifero e automobilistico, hanno cambiato radicalmente la propria
posizione: tra queste la BP, la Shell, la Texaco, la Ford e la General Motors. Dal 2000, il
Carbon Disclosure Project ha lavorato con grandi aziende per eviden ha lavorato con
grandi aziende per evidenziarne le emissioni di carbonio, e nel 2008 il progetto ha
pubblicato i dati sulle emissioni di 3000 fra le maggiori aziende del mondo. Il World
Business Council for Sustainable Development, un’associazione di 200 grandi imprese, ha
persino fatto appello ai governi perché individuino obiettivi globali condivisi. Lo sforzo
congiunto di attivisti ecologisti e scienziati, che hanno usato i media per modificare
l’opinione del pubblico e influenzare chi è preposto alle decisioni, ha spinto il business a
cambiare atteggiamento, o almeno l’immagine di sé che desidera proiettare. Questo è
esattamente ciò che sintetizza il ruolo che hanno i movimenti sociali nel trasformare la
cultura della società, in questo caso la cultura della natura. I governi, invece, erano
riluttanti a riconoscere la gravità del problema, e ancora più riluttanti a riconoscere
l’attività umana come causa primaria del cambiamento climatico. Inoltre, nessuna misura
efficace è stata presa, mentre si tenevano convegni, si riunivano comitati e si pubblicavano
rapporti in una parata di dichiarazioni retoriche prive di significative conseguenze
politiche.
La comunità scientifica, però, stava studiando il riscaldamento globale, e discutendo
delle sue implicazioni, fin dal XIX secolo (Patterson, 1996). Nel 1938 uno scienziato
britannico, G.D. Calendar, presentò le prove del nesso tra combustibili fossili e
riscaldamento globale, anche se i risultati delle sue ricerche si scontrarono con lo
scetticismo degli specialisti di cambiamento climatico: radicata nelle menti della scienza
era la fede in un equilibrio che la natura avrebbe trovato da sé (Newton, 1993; Patterson,
1996)2.Un momento cardine nella diffusione dell’idea al di fuori del piccolo gruppo di
ricercatori che continuavano testardamente a indagare sulla questione, si presentò nel 1955
quando Roger Revelle, scienziato degli Scripps Laboratories, avvertì il pubblico della
tendenza al riscaldamento globale, e testimoniò al Congresso USA sulle possibili
conseguenze. Nel 1957 Charles Keeling, giovane ricercatore di Harvard, cominciò a
misurare il CO2 atmosferico e produsse la «curva di Keeling», che mostrava l’incremento
di temperatura nel tempo. Revelle assunse Keeling perché lavorasse con lui agli Scripps
Labs e, insieme, i due giunsero alla conclusione che il livello base di CO2 nell’atmosfera
era cresciuto a un tasso approssimativamente eguale a quello calcolato da Revelle (Weart,
2007)3.
Le risultanze di Keeling ebbero un impatto sugli scienziati del campo. La Conservation
Foundation patrocinò nel 1963 un convegno sul cambiamento climatico, e gli scienziati
produssero un rapporto che ammoniva sui «potenzialmente pericolosi incrementi
atmosferici di biossido di carbonio» (Conservation Foundation, 1963). Nel 1965 un
gruppo di esperti dello Science Advisory Committee del presidente affermava che il
riscaldamento globale era una questione di interesse nazionale. Ma il rapporto del panel lo
citava solo come una voce in breve in mezzo a molti altri problemi ambientali. Nonostante
questi avvertimenti, ricerche come quella di Keeling continuarono a essere finanziate in
misura insufficiente. In questo frangente critico, agli scienziati venne in aiuto il
movimento ambientalista che si era sviluppato negli Stati Uniti e in tutto il mondo, una
circostanza di cui era emblema la prima celebrazione dell’Earth Day, la Giornata della
Terra, nell’aprile 1970. Imbaldanzita dall’appoggio del movimento, la comunità scientifica
lanciava un forte appello perché si facessero più ricerche e un più attento monitoraggio
sull’influenza delle attività umane sull’ambiente naturale. Nel 1970 diversi scienziati,
guidati da Carroll Wilson, organizzarono un gruppo al MIT per concentrarsi sullo «Studio
dei problemi critici ambientali». Il rapporto finale del gruppo presentava il riscaldamento
globale come una questione di grande gravità di cui era necessario approfondire lo studio
(SCEP, 1970). Ma se i media dedicarono una certa attenzione a questo rapporto, lo studio
del riscaldamento globale rimase largamente trascurato (Weart, 2007). Wilson diede
seguito allo studio del MIT organizzando un convegno di esperti a Stoccolma, lo «Studio
sull’impatto dell’uomo sul clima», che è considerato una pietra miliare nello sviluppo
della consapevolezza del cambiamento climatico. La relazione finale, che ebbe una vasta
diffusione, si concludeva con il versetto di una preghiera in sanscrito: «Madre Terra…
perdonami se ti sto calpestando» (Wilson e Matthews, 1971).
Weart (2007) afferma che durante questo periodo i temi e le posizioni del movimento
ambientalista si diffusero rapidamente tra gli studiosi del clima, e nei media cominciò a
fare la sua comparsa un nuovo modo di vedere il rapporto tra scienza e società. Una
tendenza, questa, indicata dalla crescita sulle riviste americane del numero di articoli
dedicati al riscaldamento globale: negli anni Settanta si passò dai tre agli oltre venti
articoli per anno. Grazie a questa crescente attenzione, i burocrati posero l’anidride
carbonica in una nuova categoria: «Monitoraggio globale del cambiamento climatico».
Sotto questo titolo, i finanziamenti alla ricerca, che da anni erano fermi, raddoppiarono, e
raddoppiarono nuovamente tra il 1971 e il 1975. Per la fine degli anni Settanta gli
scienziati avevano ormai raggiunto un largo consenso sul fatto che il riscaldamento si
stava effettivamente verificando, e alcuni di essi si rivolsero al pubblico per chiedere che
si prendessero iniziative. In molti paesi gli ambientalisti premettero sui governi perché
varassero normative miranti alla protezione ambientale, e i governi risposero, tra le altre
misure, con provvedimenti atti a ridurre lo smog e purificare l’acqua (Weart, 2007). Nei
primi anni Ottanta, il tema del riscaldamento globale aveva raggiunto sufficiente notorietà
da essere incluso per la prima volta nei sondaggi di opinione. Nel marzo 1981 Al Gore
tenne un’udienza al Congresso sul cambiamento climatico, dove testimoniarono scienziati
come Revelle e Schneider. Questa udienza richiamò l’attenzione sul piano
dell’amministrazione Reagan di tagliare i fondi ai programmi di ricerca sul CO2.
Imbarazzata dall’attenzione dei media, l’amministrazione fece retromarcia. Le pressioni
delle organizzazioni ambientaliste salvarono il Dipartimento dell’Energia appena creato,
che era minacciato di smantellamento.
A livello internazionale, nel 1985 fu organizzato un convegno congiunto a Villach, in
Austria, dallo United Nations Environment Programme (UNEP), dalla World
Meteorological Organization (WMO) e dall’International Council of Scientific Unions
(ICSU) sulla «Valutazione del ruolo del biossido di carbonio e di altri gas serra nelle
variazioni climatiche e gli impatti associati.» UNEP, WMO e ICSU istituirono quindi
l’Advisory Group on Greenhouse Gases per assicurare valutazioni periodiche del sapere
scientifico sul cambiamento climatico e le sue implicazioni. Nel 1986 un rapporto di
WMO e NASA discuteva il modo in cui l’atmosfera stava subendo significative
alterazioni dovute all’attività umana. Negli Stati Uniti, il climatologo James Hansen
testimoniò alle udienze presiedute dal senatore John Chaffee nel 1986 e pronosticò che il
cambiamento climatico sarebbe diventato misurabile entro un decennio. Le affermazioni
di Hansen fecero scalpore tra gli scienziati, ma i media prestarono scarsa attenzione alla
sua deposizione. Il Congresso USA continuò a tenere udienze sul riscaldamento globale
nel 1987, e il senatore Joseph Biden presentò il Global Cli-Global Climate Protection Act,
firmato dal presidente Reagan, che innalzava il cambiamento climatico al livello di tema
di politica estera. Ma la preoccupazione per il riscaldamento globale era ancora
ampiamente confinata entro un ristretto gruppo di scienziati e di legislatori interessati.
Poi, nell’estate 1988, una delle estati più calde mai registrate, un’ondata di calore colpì
gli Stati Uniti. Nessuno può essere certo sulla relazione tra un’estate calda e il
riscaldamento globale, ma non è questo il punto. Perché la gente, e anche i media,
connetta il riscaldamento atmosferico alla propria esperienza quotidiana, bisogna che lo
percepisca in qualche modo, come accadde anni dopo con le stagioni particolarmente
colpite da uragani e tornado che divennero, nella mente di molti, messaggeri di apocalisse
climatica. E così, l’estate calda del 1988 «galvanizzò la comunità ambientalista» come
nessun evento aveva mai fatto dopo il primo Earth Day nel 1970 (Sarewitz e Pielke,
2000). All’inizio dell’estate solo la metà circa del pubblico americano era a conoscenza
dell’idea del riscaldamento globale (Weart, 2007). Poi il senatore Wirth, cogliendo
l’occasione offerta dall’ondata di calore, indisse un’udienza sul riscaldamento globale nel
giugno 1988 e convocò diversi testimoni chiave. Mentre in genere le udienze su temi
scientifici non erano particolarmente seguite, questa era gremita di reporter (Trumbo,
1995). James Hansen, lo scienziato NASA che aveva già deposto nel 1986 e nel 1987,
testimoniò di nuovo, e affermò che i dati dimostravano che gli aumenti di temperatura non
erano dovuti a una variazione naturale. Hansen sostenne che quello che si stava
verificando era un riscaldamento globale e che si trattava di un problema critico a cui era
necessario dare risposta immediata. Questa volta la sua testimonianza raggiunse le prime
pagine di tutto il mondo, non essendo mai accaduto prima che un autorevole scienziato
affermasse così perentoriamente che il riscaldamento globale costituiva una minaccia
diretta alla Terra. Un turbine di copertura mediatica portò il dibattito sul riscaldamento
globale nell’arena pubblica (Ingram et al., 1992). Tra la primavera e l’autunno del 1988,
gli articoli sul riscaldamento globale triplicarono (Weart, 2007). Il numero degli americani
che avevano sentito parlare dell’effetto serra balzò dal 38 per cento del 1981 al 58 per
cento nel settembre 1988 (vedi tabella 5.1), e i sondaggi mostrarono che gli americani
avevano cominciato a preoccuparsi parecchio del riscaldamento globale. Un tale allarme
nel pubblico spinse i politici ad aggiungere alla loro agenda la questione del riscaldamento
globale. Vi fu un aumento dell’attività congressuale relativa e nella seconda sessione del
centesimo Congresso furono presentati 32 disegni di legge, come il Global Warming Act e
il World Environmental Policy Act.
TAB. 5.1. Consapevolezza del riscaldamento globale negli Stati Uniti, 1982-2006: risposte affermative alla domanda:
«Ha mai sentito parlare di effetto serra/riscaldamento globale?» (%)
FIG. 5.1. Opinioni sull’attività umana come causa significativa del mutamento climatico.
Fonte: Sondaggio 2007 BBC/GlobeScan/PIPA, elaborato da Lauren Movius.
In sintesi: i dati mostrano che dai tardi anni Ottanta alla fine del primo decennio del
XXI secolo c’è stato un drastico spostamento nell’opinione pubblica sul riscaldamento
globale, per consapevolezza del fenomeno e preoccupazione sulle sue potenziali
conseguenze. Il riscaldamento globale, un tempo oscuro tema scientifico, è balzato in
primo piano nel dibattito pubblico. Perché, e come? Che cosa è successo tra il 1988 e il
2008? Chi erano gli attori e quali sono stati i processi di comunicazione che hanno portato
individui e istituzioni di tutto il mondo ad affrontare la crisi del riscaldamento globale?
L’inverdimento dei media
Come ho documentato nel corso di tutto questo libro, le persone si formano le loro idee in
base alle immagini e alle informazioni che raccolgono dalle reti di comunicazione; tra
queste i mass media sono stati la fonte primaria per la maggioranza dei cittadini durante i
due decenni in cui la consapevolezza del riscaldamento globale è aumentata. La ricerca sui
media negli Stati Uniti, sintetizzata da Nisbet e Myers (2007), ha mostrato una relazione
diretta tra l’attenzione mediatica e i cambiamenti nella pubblica opinione sulle questioni
dell’ambiente. Per esempio, nella prima metà degli anni Ottanta, con una scarsa copertura
giornalistica del tema, solo il 39 per cento degli intervistati aveva sentito parlare
dell’effetto serra. Nel settembre 1988, dopo la più calda estate mai registrata e un aumento
dell’attenzione dei media, il 58 per cento dei soggetti era al corrente della questione. Nei
primi anni Novanta, continuando ad aumentare l’attenzione dei media, tra l’80 e il 90 per
cento del pubblico aveva sentito parlare del riscaldamento globale4. Mentre però la
maggioranza degli americani crede nella realtà del riscaldamento globale, non è altrettanto
diffusa la convinzione che gli scienziati siano d’accordo tra loro. Nisbet e Myers (2007)
notano che, a seconda della specifica domanda e dello specifico sondaggio, la percentuale
di americani convinta che gli scienziati abbiano raggiunto un consenso va dal 30 al 60 per
cento. Tuttavia, anche secondo questo indicatore, c’è stato un netto spostamento nella
consapevolezza pubblica del riscaldamento globale. I sondaggi Cambridge e Gallup,
usando formulazioni analoghe, rilevavano che la percentuale del pubblico che rispondeva
«la maggior parte degli scienziati ritiene che il riscaldamento globale si stia producendo»
era del 28 per cento nel 1994, del 46 per cento nel 1997, del 61 per cento nel 2001 e del 65
per cento nel 2006. Il Program on International Public Attitudes (PIPA), usando una
formulazione diversa, rilevava che il 43 per cento del pubblico nel 2004 e il 52 per cento
nel 2005 rispondevano che c’era consenso tra gli scienziati riguardo all’esistenza e al
potenziale pericolo del riscaldamento globale.
In effetti, i servizi giornalistici potrebbero aver indotto più dubbi sul consenso nella
comunità scientifica a proposito del riscaldamento globale di quanto sia lecito pensare
dall’attuale livello della disputa sulla questione. Questo perché la copertura giornalistica
del riscaldamento globale ha presentato un acceso dibattito e un forte dissenso tra gli
scienziati, nonostante il fatto che esiste un forte consenso scientifico sul riscaldamento
globale (Antilla, 2005). Questa discrepanza è dovuta alla norma giornalistica
dell’«equilibrio» (Trumbo, 1995; Boykoff e Boykoff, 2007). Boykoff e Boykoff (2004)
hanno esaminato 636 articoli dei quattro maggiori quotidiani statunitensi tra il 1988 e il
2002, e hanno trovato che la maggior parte dei pezzi davano al piccolo gruppo di quelli
che dubitano del cambiamento climatico lo stesso spazio che al consenso scientifico.
Dispensa e Brulle (2003), analizzando articoli di cronaca sui maggiori quotidiani e riviste
scientifiche nell’anno 2000, hanno riscontrato che i media USA fornivano una visione
squilibrata del riscaldamento globale raffigurandolo come un tema controverso, mentre la
stampa della Nuova Zelanda e della Finlandia presentava la questione come
consensualmente accettata.
I mass media svolgono un ruolo chiave nell’identificazione e interpretazione delle
questioni ambientali, dato che le scoperte scientifiche spesso devono essere formulate nel
linguaggio dei media perché il pubblico le comprenda (Boykoff e Boykoff, 2007). Mentre
sulle questioni ambientali i convegni internazionali possono usare un profilo alto di fronte
all’élite politica mondiale, è attraverso i mass media che il pubblico viene a conoscenza
delle scoperte scientifiche relative a temi che toccano la vita della gente. Così, la visibilità
mediatica del riscaldamento globale è stata fondamentale per spostare il tema dallo stato di
condizione a quello di questione pubblica e a quello di preoccupazione di politica.
Secondo Dispensa e Brulle (2003, p. 79), «senza copertura mediatica è improbabile che un
problema importante entri nell’arena del discorso pubblico o entri a far parte dei temi
politici… I media sono la chiave per formare una cornice per il riscaldamento globale…»
Uno studio del 1995 di Kris Wilson, citato in Dispensa e Brulle (2003), mette in rilievo
che i mass media sono stati una fonte di conoscenza fondamentale sul riscaldamento
globale. Krosnick et al. (2006), analizzando i risultati di un campione rappresentativo di
statunitensi adulti raccolto nel 1996, trovavano che una maggiore esposizione alla
televisione corrispondeva a maggiori certezze sull’esistenza del riscaldamento globale.
Come abbiamo documentato nel capitolo 4, il priming dei media può accrescere la
rilevanza di un tema e provocare spostamenti nelle opinioni. Per questa specifica
questione, possiamo osservare all’opera il meccanismo di agenda-setting, ora che la
ricerca ha stabilito l’esistenza di un legame significativo tra il modo in cui i media
costruiscono la questione del riscaldamento globale e la natura delle risposte che vengono
dalle scelte politiche internazionali. Così, Newell (2000) riporta che i picchi di coscienza
ambientalista degli anni Sessanta e tra la metà e la fine degli anni Ottanta avevano forte
correlazione con la copertura mediatica dei temi dell’ecologia, così come la pressione sui
governi perché prendessero iniziative al riguardo, mentre sono declinati con il declinare
della copertura mediatica negli anni Novanta. Nell’analisi di Newell i media potrebbero
avere un effetto diretto di agenda-setting (politicizzando un tema e portandolo
all’attenzione del pubblico, con conseguente traduzione pratica in attività del governo) o
un effetto indiretto di formazione della pubblica opinione (framing del dibattito). Guber
(2003) rileva che l’attenzione dei media nel corso del tempo spiega in parte il livello
costante ma fluttuante dell’appoggio all’ambientalismo. Trumbo e Shanahan (2000),
analizzando i sondaggi di opinione, mostrano che il livello di preoccupazione degli
intervistati riguardo al riscaldamento globale cresce e cala con l’aumentare e il diminuire
della copertura televisiva della questione, e concludono che le oscillazioni nell’attenzione
del pubblico sul riscaldamento globale possono essere viste come un «riflesso dello
sviluppo di una specifica trama all’interno di specifici sviluppi narrativi» (2000, p. 202).
È chiaro quindi che l’attenzione dei media è stata essenziale nel creare una
consapevolezza globale del riscaldamento globale, portandola a un livello senza
precedenti nella lunga marcia dalla cultura del produttivismo alla cultura
dell’ambientalismo. Ma perché i media hanno sottolineato in modo così deciso la
questione del riscaldamento globale? Come risulta dall’analisi svolta nel capitolo 2, la
linea di fondo dei media consiste nell’attirare pubblico. Il pubblico gravita verso le notizie
che eccitano le sue emozioni. Le emozioni negative riescono più efficacemente delle
positive a concentrare l’attenzione. E la paura è l’emozione negativa più potente. La
connotazione catastrofica delle conseguenze del riscaldamento globale instilla una
profonda paura nel pubblico. In effetti, in alcune proiezioni, il riscaldamento globale
potrebbe portare all’innalzamento del livello degli oceani in molte aree del mondo, a
siccità che devasterebbero risorse idriche e produzione agricola, a uno schema ricorrente
di temporali, uragani, tornado e tifoni che porterebbero distruzione diffusa in un pianeta
largamente urbanizzato, inarrestabili incendi di foreste, desertificazione, e una lunga serie
di cavalieri dell’Apocalisse, amplificata dall’immaginazione di produttori e consumatori
di immagini nella nostra cultura degli effetti speciali. Con questo non si vuole negare la
gravità della minaccia del riscaldamento globale, ma semplicemente mostrare come
proiezioni scientifiche e avvertimenti accuratamente formulati si traducono nel linguaggio
mediatico finalizzato a mettere in guardia il pubblico sul pericolo che incombe,
visualizzando un futuro catastrofico. In effetti, Boykoff (2008) ha analizzato la copertura
televisiva negli Stati Uniti del cambiamento climatico dal 1995 al 2004 e ha rilevato che i
notiziari non riflettevano la visione scientifica del cambiamento climatico, ma seguivano il
verificarsi di determinati eventi di cui la gente ha esperienza nella propria vita. Boykoff e
Boykoff, analizzando i servizi mediatici in televisione e sui quotidiani USA dal punto di
vista del «modello interpretativo arena pubblica», affermano che perché un tema diventi
saliente nell’agenda dei media, bisogna che viaggi sulle spalle di eventi del mondo reale.
Così, nel tempo, politici, celebrità e attivisti dell’ambientalismo hanno rimpiazzato gli
scienziati come principale fonte di notizie sul riscaldamento globale (Boykoff e Boykoff,
2007).
In altre parole, i media sono essenziali nel processo di presa di coscienza, e numerosi
giornalisti hanno investito, professionalmente e ideologicamente, nel progetto di innalzare
la consapevolezza ambientale. In ogni caso, la costruzione della questione del
riscaldamento globale nei media è stata condotta lungo la linea di fondo del business
mediatico: richiamare il pubblico allestendo narrazioni che suscitano preoccupazione tra
i cittadini. E i media sono stati allertati sul dramma implicato nelle tendenze del
riscaldamento globale in gran parte grazie a un movimento ambientalista polimorfo, i cui
attori principali sono scienziati, celebrità e attivisti ecologisti. I media sono al tempo
stesso latori dei messaggi del movimento e produttori di tali messaggi in base al formato
che rientra nelle regole e negli obiettivi del loro mestiere.
La scienza arriva in soccorso
Se esiste un valore centrale nella scienza, è il fatto che la ricerca della verità è un
contributo fondamentale al miglioramento del genere umano, e talvolta un elemento
chiave per la sua sopravvivenza. Per quanto autopromozionale possa essere tale
affermazione, di tanto in tanto gli scienziati possono presentare un caso a conferma della
propria tesi. La scoperta del processo di cambiamento climatico, insieme con la
valutazione delle sue conseguenze, è uno di questi casi. Così, per gli ultimi cinquant’anni,
e con crescente intensità e successo, gli scienziati si sono dedicati al compito di avvertire
cittadini e governanti delle allarmanti implicazioni dei risultati delle loro arcane ricerche.
Primo, vorrei sottolineare che la ricerca scientifica sul cambiamento climatico ha
beneficiato in misura straordinaria di due importanti sviluppi: la rivoluzione nella
modellizzazione al computer e l’evoluzione della teoria dei sistemi. La capacità di
costruire giganteschi database ed elaborare calcoli ad alta velocità ha reso possibile la
costruzione di modelli di simulazione dinamici che sono in grado di analizzare e prevedere
un’ampia gamma di processi atmosferici. Intanto, mentre le teorie della complessità sono
ancora in fasce, numerosi scienziati stanno usando la teoria dei sistemi come strumento
metodologico chiave per comprendere il pianeta come ecosistema di ecosistemi, ponendo
le fondamenta della mappatura della relazione fra attività umana e trasformazione
dell’ambiente naturale (Capra, 1996, 2002; National Science Foundation, 2007).
Comunque, nonostante il rapido progresso della ricerca scientifica nell’area del
cambiamento climatico e dell’interdipendenza ecologica, la maggior parte degli scienziati
pubblica le proprie scoperte su riviste scientifiche, solo poche delle quali sono seguite dai
media, e in forma molto frammentaria. E così, quando alcuni scienziati cominciarono a
preoccuparsi seriamente per quanto avevano scoperto sul riscaldamento globale, cercarono
di rivolgersi in prima persona al pubblico e ai politici; per esempio, scrivendo libri
divulgativi. Questo avvenne per un lungo periodo con scarso impatto. In taluni paesi fu
avanzata qualche proposta di legge sul clima, ma la maggior parte dei politici mostrò ben
poco interesse. Nel 1974, alcuni scienziati statunitensi sollecitarono il governo a finanziare
il National Climate Program. Visto che le loro richieste venivano ignorate, cercarono
alleati nella comunità ambientalista e si associarono con l’Environmental Defense Fund, il
World Resources Institute, e altri gruppi. Insieme, cominciarono a pubblicare rapporti e a
fare opera di pressione sul Congresso a proposito del riscaldamento globale.
Alla metà degli anni Ottanta, tra i climatologi continuavano a crescere le
preoccupazioni sul riscaldamento globale, e i modelli informatici del clima conquistarono
la fiducia degli esperti (Weart, 2007). Scienza e scienziati svolsero un ruolo chiave nel
movimento ambientalista e nell’evoluzione della visione che il pubblico aveva del
riscaldamento globale (Ingram et al., 1992). Come già detto, le testimonianze di Hansen
furono un trauma per i colleghi e diedero la sveglia alle menti più acute. Ingram et al.
(1992) ipotizzano che, prima ancora di Hansen, l’archetipo dello scienziato-paladino era
stato Revelle, dato che la sua scoperta del 1957 fu una delle prime a richiamare
l’attenzione sul riscaldamento globale. Revelle fu anche fondamentale nel mettere insieme
uno studio sul cambiamento climatico e nel portarlo al pubblico. Un altro pioniere
nell’attivismo scientifico fu Stephen Schneider, che contemporaneamente conduceva
ricerche e conversava con i media e i politici perché il cambiamento climatico diventasse
un priorità politica. Al di là di queste singole personalità, fu la crescente comunità
scientifica di specialisti nel riscaldamento globale a presentare la questione del
cambiamento climatico come un problema di grande portata per l’umanità. Gli scienziati
che decidevano di farsi carico direttamente di dare una svegliata al pubblico dovevano
«imparare qualche trucco», perché i senatori li avrebbero ignorati – a meno che non
avessero visto gli scienziati in televisione (Weart, 2007). Alcuni scienziati usarono
tecniche di pubbliche relazioni producendo brevi dichiarazioni per i giornalisti. Così,
anche se gli scienziati erano responsabili della scoperta del riscaldamento globale e
tentarono per primi di avvertire il pubblico della gravità della questione, dovettero anche
diventare essi stessi attivisti, e aderire al movimento ambientalista per poter entrare in
contatto con il mondo. Il ruolo fondamentale della conoscenza scientifica nel movimento
globale contro il riscaldamento globale è ampiamente riconosciuto, con organizzazioni
ambientaliste che nominano scienziati in posizioni di rilievo e governi che vedono gli
scienziati come interlocutori privilegiati. In effetti, il riscaldamento globale come
fenomeno naturale poteva essere identificato e definito solo dalla scienza. Il discorso delle
appropriate risposte al riscaldamento globale è un discorso scientifico, così come lo sono
le affermazioni contrarie. Entrambe le parti del dibattito sul riscaldamento globale
ingaggiano l’opera di scienziati per dare forza ai propri argomenti.
I gruppi di scienziati coinvolti nell’IPCC possono essere visti come una comunità
epistemica (Patterson, 1996; Newell, 2000). Una comunità epistemica è una rete di
individui o gruppi che rivendicano il possesso di conoscenze rilevanti ai fini delle scelte
politiche (Drake e Nicolaidis, 1992; Haas, 1992). La comunità epistemica internazionale
costituita dagli specialisti del cambiamento climatico svolse un ruolo chiave di agenda-
setting: identificò il problema del riscaldamento globale, favorì la formazione del
consenso sulla natura del problema, e premette per una risposta politica (Patterson, 1996).
Senza le voci influenti provenienti dalla comunità scientifica, forse il riscaldamento
globale non sarebbe mai entrato nel regno delle iniziative politiche internazionali
(Patterson, 1996; Newell, 2000). Come già detto, l’IPCC ha avuto una precisa influenza
nel fissare i termini del dibattito sul riscaldamento globale. Nel settembre 1995 pubblicò
un rapporto che «cambiava ogni cosa» (Krosnick et al., 2000). Il rapporto affermava che
«il bilancio delle prove suggerisce l’esistenza di una riconoscibile influenza umana sul
clima globale» (IPCC, 1995, p. 3). Con questa transizione dalla mancanza di prove a un
certo livello di consenso scientifico, i media rivolsero la loro attenzione al rapporto, e
l’allarme pubblico cominciò a montare. Nel 2001, l’IPCC portò ancora più in là le sue
conclusioni scrivendo che «gran parte del riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni è
attribuibile alle attività umane» (IPCC, 2001, p. 5). Questo processo ha toccato il culmine
nel 2007, quando il rapporto dell’IPCC, come abbiamo detto, ha mobilitato l’opinione
pubblica internazionale e ha portato il riscaldamento globale in cima all’agenda politica
dei responsabili delle decisioni. Così, gli scienziati hanno trasformato il riscaldamento
globale da «questione oggettiva» in «questione esplicita nel discorso pubblico», e poi in
un dibattito di politica globale. Una volta che il riscaldamento globale fu entrato nel
discorso pubblico, i media cominciarono a parlarne, e questo ebbe un impatto
sull’opinione pubblica e finì per premere sui governi perché entrassero in azione. È chiaro
che non fu solo la scienza a portare il riscaldamento globale da problema oggettivo a
questione politica esplicita. Fu l’intreccio tra la comunità scientifica, attivisti ecologisti e
celebrità a portare il tema all’attenzione dei media, e lo comunicò al grande pubblico
tramite le reti multimediali.
Azione ecologista in rete e riscaldamento globale
L’alleanza tra scienziati, ecologisti e opinion leader che è alla fine riuscita a portare il
riscaldamento globale all’attenzione pubblica va compresa nel contesto del movimento
ambientalista, uno dei movimenti sociali decisivi del nostro tempo5.
Dato il carattere diversificato del movimento e la sua evoluzione differenziata nel
mondo, è difficile fornire un excursus sintetico del suo sviluppo. Penso però che un
indicatore significativo della crescita del movimento sia la partecipazione alle attività
dell’Earth Day dal 1970 al 2007. La figura 5.2 presenta una stima del numero di
partecipanti all’Earth Day. La giornata è stata celebrata tutti gli anni dal 1970. Ha avuto
inizio in America raggiungendo in breve proporzioni planetarie. Il senatore Nelson del
Wisconsin annunciò che nel 1970 ci sarebbe stata una manifestazione nazionale
sull’ambiente diffusa localmente. La risposta, in larga misura spontanea, superò ogni
aspettativa: furono 20 milioni gli americani che vi parteciparono. Nel 1990, la Giornata
della Terra diventò globale, mobilitando 220 milioni di persone in 141 paesi e portando lo
status dei temi ambientali sulla scena del mondo (earthday. net). L’Earth Day del 2000 si
concentrò sul riscaldamento globale e sull’energia pulita. Internet fu cruciale per
connettere gli attivisti delle varie parti del mondo per l’evento del 2000. Nel 2007 l’Earth
Day, con l’adesione dell’intero mondo, varcò il traguardo del miliar do di persone. Mai un
evento, di nessun genere, aveva ottenuto un tale livello di sostegno. Gli eventi sono
coordinati dall’Earth Day Network, un’organizzazione non profit fondata dagli
organizzatori della manifestazione del 1970. La Giornata della Terra è significativa in
termini di crescita della coscienza ambientalista globale in quanto evento celebrato
contemporaneamente in tutto il mondo. Nel 2008, la rete mobilitò 17.000 organizzazioni a
livello mondiale e 5000 organizzazioni negli USA. Nel 2007 il riscaldamento globale fu
uno dei temi principali sottoposti al dibattito dei partecipanti. Nel 2008 la Giornata ha
avuto il riscaldamento globale come questione centrale.
Dal 1970 in poi le organizzazioni ambientaliste negli Stati Uniti e nel mondo hanno
registrato una notevole crescita (Mitchell et al., 1992; Richardson e Rootes, 1995). Il
diffuso affermarsi di una profonda coscienza ecologica spiega come sia stato possibile che
del tema del riscaldamento globale si appropriassero immediatamente organizzazioni di
base, ONG ambientaliste e attivisti dei media, trasformandolo in un tema politico di primo
piano. Oggi, dopo un trentennio di lavoro militante in tutti gli ambiti dell’attivismo
ambientalista, queste organizzazioni sono le fonti più affidabili di informazioni
sull’ambiente. Nell’Unione Europea tanto le associazioni ambientaliste quanto gli
scienziati si piazzano al di sopra della televisione nella classifica delle fonti più affidabili
di informazioni ambientali (Eurobarometer, 2008). Facendo leva sulla legittimità di cui
godono nella pubblica opinione, gli attivisti dell’ambiente usano tutta una gamma di
strategie per influenzare le scelte politiche e i processi decisionali: esercitare pressione sui
politici, inscenare eventi mediatici e ricorrere all’azione diretta.
Come mostrerò più avanti, spesso i gruppi ambientalisti e le loro campagne ricorrono a
celebrità per assicurarsi una maggiore attenzione da parte dei media. Thrall et al. (2008)
affermano che le celebrità non sono usate soltanto per irrompere nella cronaca e richia-
mare l’attenzione, ma anche per irrompere nel mondo mediatico dell’intrattenimento, dal
momento che sempre più frequentemente gli spettatori si rivolgono ai media di
intrattenimento per essere informati. Così, i gruppi ambientalisti usano strategicamente le
vie dell’intrattenimento come canali per comunicare i loro messaggi, e tutto ciò è reso più
facile dalle reti di nuova tecnologia e digitali. Metà dei gruppi ambientalisti studiati da
Thrall et al. (2008) ha usato una forma di intrattenimento per diffondere il proprio
messaggio; tra le tattiche comparivano l’organizzazione di concerti, l’introduzione di
messaggi in trasmissioni di intrattenimento, e la diffusione di video in streaming con
interviste a personaggi famosi. L’esempio più noto di questo tipo di intrattenimento a
favore dell’ambiente è Live Earth, la serie di concerti patrocinata da Al Gore e da gruppi
ambientalisti per combattere il cambiamento climatico (vedi sotto). Nella tattica delle
organizzazioni ambientaliste c’è stato, per comunicare il loro messaggio, uno spostamento
dal broadcasting al narrowcasting. Negli approcci di narrowcasting rientrano: la creazione
di siti web, la formazione di canali su YouTube, l’apertura di pagine su siti di social
networking, e l’invio di SMS via cellulare. Con le reti orizzontali di comunicazione, la
gente può comunicare direttamente con i gruppi di difesa ambientale. Gli aspetti interattivi
possono essere semplici come permettere al visitatore di un sito web di inoltrare per e-
mail un link o una pagina web o una pagina web, oppure può trattarsi di chat o di siti di
social networking che creano reti di individui interessati. Per esempio, la Alliance for
Climate Protection e Current TV decisero di non rivolgersi ad agenzie pubblicitarie
producendosi da soli i propri ecospot. Celebrità come Cameron Diaz, George Clooney e
altri facevano da giudici per scegliere gli spot migliori. Usando la combinazione di
capacità organizzative grassroots, attivismo dal basso orientato ai media e le reti di
Internet, l’azione ecologista ha assunto forme nuove e molteplici in tutto il mondo, con
una crescente capacità di influenzare il pubblico.
Sfruttando la fitta e intensa rete dell’azione ecologista, organizzazioni e attivisti in tutto
il mondo stanno mettendosi insieme per lavorare sulla questione del riscaldamento
globale. Un esempio a questo proposito è Stop Climate Chaos, una coalizione di oltre 70
ONG. Stop Climate Chaos fu lanciato in Gran Bretagna nel settembre 2005 per
sottolineare i pericoli del cambiamento climatico in agguato. C’è grande diversità tra i
membri della coalizione, che va dalle maggiori organizzazioni ambientaliste del Regno
Unito alle agenzie internazionali di sviluppo fino a reti nazionali di attivismo, e
comprende, tra gli altri, Greenpeace, Islamic Relief, Oxfam, UNA-UK, WWF-UK e Youth
Against Climate Change. Stop Climate Chaos si finanzia con le sottoscrizioni dei suoi
membri. Il finanziamento iniziale fu offerto dal Network for Social Change, Friends of the
Earth, Greenpeace, la Royal Society for the Protection of Birds (RSPB), e WWF-UK. Lo
scopo dichiarato di Stop Climate Change è: «Costituire una massiccia coalizione, che dia
luogo a un mandato pubblico e univoco per l’azione politica tesa ad arrestare il
cambiamento climatico provocato dall’uomo». Al fine di realizzare questo obiettivo,
nell’ottobre 2006 Stop Climate Chaos ha lanciato la sua campagna «I count», «io conto».
La campagna fu sostenuta da post su siti web, pubblicità sui giornali e SMS. In occasione
del lancio della campagna fu scoperta una scultura di ghiaccio di un metro e venti
raffigurante la testa di Tony Blair con sullo sfondo la prima edizione del loro libro I
Count: Your Step-by-Step Guide to Climate Bliss. Il concetto era che via via che il Blair si
consumava, il cambiamento climatico diventava la questione più importante su cui
avrebbe potuto agire lasciando una sua eredità. Nel novembre 2006, 20.000 persone si
riunivano in Trafalgar Square chiedendo che il governo agisse sul riscaldamento globale.
Il manuale in 16 passi di Stop Climate Chaos, I Count fu pubblicato da Penguin e
l’Independent ne parlò in concomitanza con la manifestazione. Successivamente, la
coalizione organizzò oltre 200 eventi nel Regno Unito durante la «I Count Climate
Change Bill Week of Action», chiedendo un disegno di legge più deciso sul cambiamento
climatico.
L’uso di Internet è cruciale per Stop Climate Chaos sia per la messa in atto della
strategia mediatica sia ai fini organizzativi. Internet connette le organizzazioni che fanno
parte della coalizione e i loro siti web. La rete dei siti web contiene informazioni sul
riscaldamento globale, il manifesto della coalizione, una lista di eventi, e i link al sito della
campagna «I Count» (Io conto). Il sito web della campagna presenta video, notizie,
elenchi di eventi, podcast, newsletter, consigli di lettura e modi per partecipare, come
mandando messaggi ai ministri che prendono decisioni sui programmi relativi al clima.
Gli individui possono aggiungere la propria firma «per dire io conto» sul sito web. La
campagna invita a sottoscrivere perché «Più firme arrivano, più saremo notati. E più siamo
notati, più i politici ci ascolteranno. E più i politici ascoltano, più dovranno fare»
(www.icount.org.uk). Gli utenti possono anche impegnarsi online a compiere azioni nella
loro vita privata, e i dati sono raccolti dal sito web. Vengono mandati e-mail e SMS per
ricordare gli impegni. Le azioni elencate sul sito web cambiano periodicamente, e gli
utenti possono personalizzare l’esperienza creando un account «My Actions», che registra
le proprie attività.
Un’altra grande organizzazione che ha mobilitato l’opinione pubblica spingendola ad
agire sul riscaldamento globale è l’Alliance for Climate Protection fondata da Al Gore
negli Stati Uniti. Il compito che si è data l’Alliance è quello di educare il pubblico
sull’imporanza del cambiamento climatico e sul ruolo in esso delle attività umane, dato
che i sondaggi di opinione mostrano che, nonostante la consapevolezza del fenomeno in
USA, una minoranza significativa ancora non è ancora convinta del nesso con l’impatto
dell’uomo. La campagna lanciata dalla Alliance il 2 aprile 2008 (300 milioni di dollari per
la durata di tre anni) è una delle più costose campagne di sensibilizzazione sociale nella
storia americana (Eilperin, 2008). La campagna usa tecniche di organizzazione online e
spot pubblicitari in trasmissioni televisive popolari come American Idol e The Daily Show
with Jon Stewart.
Su scala globale, Friends of the Earth comprende sezioni nazionali in 70 paesi, e unisce
5000 gruppi di attivisti locali. Conta oltre 3 milioni di membri e sostenitori, e si presenta
come «la più grande rete ambientalista di base del mondo». Avendo individuato nel
cambiamento climatico «la più grave minaccia ecologica per il pianeta», è impegnata in
una intensa campagna per imporre la «giustizia climatica». Friends of the Earth mira a
unirsi con comunità che sono toccate dal cambiamento climatico per «costruire un
movimento globale». Fermare il cambiamento climatico è uno degli scopi primari anche
dell’attività di Greenpeace International, che cerca nuove politiche energetiche e
incoraggia gli individui a modificare le proprie modalità di consumo dell’energia.
Greenpeace vede la consapevolezza del cambiamento climatico come un obiettivo chiave.
È perfettamente consapevole del carattere retificato del suo movimento, e lavora al
networking con altre organizzazioni ambientaliste, aziende, governi e individui. Un altro
attore di primo piano che spinge all’azione consapevole sul cambiamento climatico è il
World Wide Fund for Nature, o World Wildlife Fund (WWF), una delle più grandi
organizzazioni ambientaliste del mondo, fondata in Svizzera nel 1961. Il WWF ha in corso
oltre 2000 progetti di conservazione ambientale, molti dei quali si concentrano su
questioni locali, dove lavorano in tandem con partner locali. Il cambiamento climatico è
una delle priorità delle loro campagne. Il WWF promuove la Earth Hour, di cui parleremo
più avanti.
Internet ha svolto una funzione sempre più importante nel movimento globale per
contrastare il riscaldamento globale. Come approfondirò nella prossima sezione di questo
capitolo, i movimenti sociali che si occupano di temi globali sono transnazionali per
raggio d’azione e dipendono da Internet per la diffusione delle informazioni, per la
comunicazione e per il coordinamento. I social network mediati da Internet sono
ingredienti chiave del movimento ambientalista nella società in rete globale. Internet ha
migliorato straordinariamente la capacità promozionale dei gruppi ambientalisti e ha
accresciuto la collaborazione internazionale. Così, Warkentin (2001) analizza gli usi di
Internet da parte di diverse ONG ambientaliste e determina il suo ruolo critico nel
rafforzare i servizi per i membri, nel diffondere risorse per le informazioni, e incoraggiare
la partecipazione politica. Per esempio, Internet ha aiutato l’Earth Island Institute ad
ampliare il numero dei suoi membri includendo nel suo sito web strumenti come le pagine
«Take Action» e «Get Involved» e un «Activist Toolbox». Identifica pratiche analoghe nel
Rainforest Action Network e in Greenpeace. Quest’ultima ha una rete di siti web per
coordinare le azioni globalmente e per spingere la gente ad agire con l’azione di
testimonianza. Questi atti sono pubblicizzati e documentati visivamente nella rete del sito
web.
Bimber (2003) ha studiato la maggiore efficienza raggiunta dall’Environmental Defense
Fund grazie al ricorso a Internet. Nel 1999 l’organizzazione si è letteralmente reinventata
su Internet, riducendo il personale a 25 dipendenti a tempo pieno e parziale e
trasformandosi in una rete di organizzazioni di base coordinate e informate attraverso
Internet. Bimber mette in evidenza che un’organizzazione basata sul web è meglio
attrezzata a formare coalizioni, riuscendo ad aggiungere gruppi e partner per campagne ad
hoc. Questo è esattamente quel che ha fatto Environmental Defense con notevole
successo. Nel Regno Unito, Pickerill (2003) ha analizzato il movimento ambientalista
britannico e ha sottolineato il ruolo di Internet nell’irrobustire il movimento. Elenca
cinque processi attraverso i quali le organizzazioni e i gruppi mobilitavano la
partecipazione tramite il computer networking: fornire vie di accesso all’attivismo,
innalzare il profilo delle campagne, mobilitare l’attivismo online, stimolare l’attivismo
locale, e richiamare partecipanti alle manifestazioni di protesta. Per esempio, Friends of
the Earth aveva 4000 link verso di sé a partire da altri siti, e il sito web offriva numerosi
punti di ingresso perché gli utenti si attivassero. Il sito web usava anche la tecnologia per
richiamare l’attenzione sulle campagne: per esempio, la mappa interattiva sul sito di una
bretella autostradale in progetto nel Regno Unito con foto delle aree minacciate, insieme
con la petizione contro l’autostrada che era possibile firmare online.
Molte ONG ambientaliste hanno pagine su MySpace, Facebook o analoghi siti di social
networking, con link a queste pagine dal loro sito web. Oltre a usare Internet per
mobilitare l’attivismo, per esempio con la partecipazione a manifestazioni di protesta, le
organizzazioni usano Internet anche per incoraggiare la partecipazione all’attivismo
online. Per esempio, la campagna online Climate Change di Friends of the Earth UK era
basata su una rete di individui che, su richiesta della ONG, mandavano e-mail ai leader
mondiali che partecipavano al vertice ONU di Kyoto sul cambiamento climatico.
Analogamente, Internet è usato per stimolare l’azione locale. I gruppi ambientalisti
forniscono dati e informazioni locali di interesse delle popolazioni locali. I siti web
contengono consigli su come esercitare pressioni sulle grandi corporation e su come
entrare in contatto con gruppi locali. Friends of the Earth UK incoraggia i cittadini a
dedicarsi all’attivismo locale fornendo informazioni e link per contattare gruppi locali sul
loro sito web. Per appoggiare le campagne su temi specifici, le organizzazioni
ambientaliste mettono a disposizione sul proprio sito bozze di lettere. Negli Stati Uniti, la
coalizione di Safe Climate Act usa i suoi siti web per incoraggiare gruppi o individui a
livello locale a lanciare una campagna o ad agganciare la loro campagna di zona a una rete
più vasta. Essere in grado di scaricare semplicemente materiale per la campagna, dalla
documentazione scientifica al materiale promozionale, semplifica grandemente il processo
di mobilitazione.
Internet accresce la capacità di un’organizzazione di diffondere il proprio messaggio.
Non solo i siti web forniscono informazioni per i visitatori, ma questi sono incoraggiati a
partecipare alla diffusione virale dell’informazione. Per esempio, molti siti offrono la
possibilità ai visitatori di inviare un determinato articolo a un amico via e-mail, di
spedirgli un formulario invitandolo ad aderire a una campagna, di taggare un pezzo usando
Delicious o Diggs, e di inserire video o banner e aggiungere il feed di un’organizzazione
al proprio sito web o al proprio blog. Il sito di Stop Global Warming ha una pagina di
«promozione», dove banner e immagini promozionali sono messi a disposizione per
essere usati su siti web, blog e altre pagine di comunità online. Ai visitatori del sito viene
chiesto di aiutare a far girare la voce sulla marcia virtuale di Stop Global Warming
invitando altri ad aderire oppure ospitando banner o button. In molti casi, il sito web
dell’organizzazione fa conoscere ai naviganti strumenti di cui probabilmente non erano
neppure a conoscenza.
Tuttavia, gli utilizzi di Internet sono integrati in una più ampia strategia multimediale
che caratterizza le azioni del movimento ambientalista. Per esempio, Greenpeace ha una
rete di siti web, podcast, un blog, pagine di siti di social networking e televisione su banda
larga (GreenTV). WWF ha un sito web ben sviluppato, accompagnato da una sua
newletter e suoi video su YouTube, ma usa anche spot televisivi, spot radiofonici e
pubblicità sui giornali per diffondere il messaggio sul riscaldamento globale. In sintesi: la
versatilità delle reti di comunicazione digitale ha permesso agli ecoattivisti di evolversi dal
precedente obiettivo di richiamare l’attenzione dei media tradizionali all’uso di diversi
canali mediatici a seconda dei messaggi e degli interlocutori che mirano a raggiungere.
Dalla sua enfasi originaria sul raggiungere un pubblico di massa, il movimento è passato
a stimolare la partecipazione di massa dei cittadini utilizzando al meglio la potenzialità
interattiva offerta da Internet. Così, le organizzazioni ecologiste agiscono sul pubblico e
sui responsabili delle decisioni sottoponendo temi alla loro attenzione nell’ambito della
comunicazione, tanto nei media tradizionali quanto in Internet. Per attuare questa
strategia, spesso contano sull’appoggio di una fonte potente di influenza sociale: le
celebrità.
Quando le celebrità salvano il mondo (e perché)
Le celebrità usano la loro fama e il loro appeal talvolta carismatico per richiamare
l’attenzione su diversi temi. Nell’ultimo decennio, alcuni degli artisti più popolari si sono
dedicati totalmente al risveglio della coscienza ambientale e alla causa della lotta al
riscaldamento globale. Se è vero che le celebrità hanno storicamente appoggiato
campagne di natura politica ed etica, i personaggi famosi attivi oggi hanno più incentivi ad
adottare cause globali e hanno più probabilità di successo nel proporre queste agende
(Drezner, 2007). Questo, più che con la fama della gente di spettacolo, ha a che vedere con
il modo in cui la gente consuma l’informazione. Per esempio, un numero crescente di
americani riceve le proprie informazioni sulla politica mondiale dalle trasmissioni di soft
news, in cui le celebrità la fanno da padrone (come Entertainment Tonight, Access
Hollywood, The Daily Show). Una tendenza simile si nota in tutto il mondo (Bennett,
2003b; Baum, 2007).
Questo passaggio alle soft news incide sulla formazione dell’opinione pubblica. Quale
che sia il tema, è un notevole impegno mantenere desta l’attenzione del pubblico tanto da
influenzare la politica. Con il crescere del pubblico delle soft news imperniate
sull’intrattenimento, un modo per mantenere l’attenzione è far leva sul richiamo delle
celebrità. Poiché gli attivisti tra i personaggi famosi hanno accesso a un più ampio
ventaglio di punti di esposizione, e quindi a un più vasto pubblico, le celebrità possono
avere un vantaggio rispetto agli attivisti politici nel far passare il messaggio. Drezner
esamina in che modo gli artisti stanno acquisendo un interesse attivo per la politica
mondiale:
Questi sforzi per rivestire di fascino la politica internazionale finiscono per influire su
ciò che i governi dicono e fanno. Il potere delle soft news ha concesso alle star dello
spettacolo un di più di autorità per portare avanti le loro cause. La loro abilità nel far
salire determinati temi in cima all’agenda globale sta crescendo (2007, par. 2).
Il patrocinio delle celebrità per certe cause è un tipo di «strategia esterna», basata sulla
forza delle star, della protesta sociale, una strategia con cui gruppi che operano al di fuori
del processo politico ufficiale si appoggiano a personaggi celebri per ottenere l’attenzione
dei media che con altri mezzi avrebbero maggiore difficoltà a raggiungere (Thrall et al.,
2008).
Quanto all’interesse personale degli artisti celebri, a parte il sincero impegno che molti
di loro avvertono per creare un mondo migliore, abbracciare cause benefiche e popolari
come l’ambientalismo, ha una forte ricaduta in termini di pubblicità gratuita. Legando il
proprio nome alle aspirazioni di milioni di persone in tutto il mondo, raggiungono nuove
platee e consolidano la propria posizione tra i fan. Quindi, è una partita a due con due
vincitori sicuri: lo status di celebrità dà popolarità a determinate campagne, il cui successo
a sua volta rafforza e nobilita la celebrità stessa. In effetti le star hanno avuto una grande
influenza nel portare il profilo del riscaldamento globale al livello di rilevante tema
pubblico. Tra i ben noti attori che appoggiano l’ambientalismo si trovano Leonardo Di
Caprio, Matt Damon, Brad Pitt, Angelina Jolie, Orlando Bloom e Sienna Miller. Nel 1998
Di Caprio ha istituito la Di Caprio Foundation e ha un sito web ambientalista che
raggiunge, informa e interagisce con un vasto pubblico mondiale. La fondazione ha
portato avanti la produzione del film-documentario ambientalista L’undicesima ora, di cui
Di Caprio è stato produttore e voce narrante. Brad Pitt è la voce di una serie
sull’architettura sostenibile.
Leonardo Di Caprio, Orlando Bloom, KT Tunstall, Pink, The Killers, Razorlight e Josh
Hartnett hanno offerto tutto il loro peso allo sforzo di «Global Cool», una fondazione del
Regno Unito istituita nel 2006 con l’obiettivo di raggiungere un miliardo di persone per
ridurre le emissioni di carbonio di una tonnellata procapite entro i dieci anni successivi.
Laurie David, moglie dell’attore Larry David, è un’altra ben nota attivista
dell’ambientalismo. Ha fondato la Stop Global Warming Virtual March con i senatori John
McCain e Robert F. Kennedy. Jr. Laurie David è anche produttrice di An Inconvenient
Truth (Una scomoda verità), che ha ricevuto il premio Oscar come miglior documentario
(vedi sotto). Nel 2007, la produttrice lanciò lo «Stop Global Warming College Tour» con
Sheryl Crow, nel quale visitarono i campus universitari per accrescere la consapevolezza
ecologica e invitare gli studenti a partecipare al movimento per fermare il riscaldamento
globale. Laurie David è stata dichiarata «la Bono del cambiamento climatico» da Vanity
Fair; le sono state dedicate diverse puntate dell’Oprah Winfrey Show ed è apparsa nello
speciale di un’ora della Fox News «The Heat is On». Laurie David è stata anche guest
editor di Elle Magazine, la prima rivista di moda che abbia dedicato un intero numero
all’ambiente, stampando tra l’altro le pagine su carta riciclata.
Anche se ovviamente non è un attore (in effetti la sua inter-pretazione in campagna
elettorale fu davvero mediocre), Al Gore è il più influente tra gli attivisti-celebrità
impegnati nella lotta al riscaldamento globale. Drezner sostiene che «Gore come
attivistacelebrità ha avuto di gran lunga più successo di quanto ne abbia mai avuto come
vicepresidente» e sottolinea i risultati limitati sulla questione del riscaldamento globale
che ebbe come politico convenzionale, e i successi invece significativi (compreso un
Oscar e il Nobel per la pace) come «celebrità post-Casa Bianca» (2007, p. 4). Al Gore ha
svolto un ruolo chiave nel dibattito sul riscaldamento globale come eminente attivista
dell’ambientalismo. Come già detto, Al Gore è il fondatore dell’Alliance for Climate
Protection. Ha anche organizzato, nel 2007, il concerto di beneficenza Live Earth contro il
riscaldamento globale. Consegnando il premio per la pace ad Al Gore, il comitato per il
Nobel dichiarava che Gore era «probabilmente l’individuo che da solo ha fatto di più per
suscitare una più ampia comprensione, a livello mondiale, delle misure che bisogna
adottare [per contrastare il riscaldamento globale]». Nel 2007 il Sierra Club ha conferito a
Gore il suo massimo riconoscimento, il John Muir Award, per il trentennale impegno nel
suscitare la consapevolezza dei pericoli del riscaldamento globale. Nel 2008, la Camera
dei Rappresentanti del Tennessee ha approvato la «risoluzione Gore», che onora i suoi
sforzi per affrontare il riscaldamento globale. Nel 2007 l’International Academy of
Television Arts and Sciences ha assegnato a Gore il Founders Award per la Current TV e
per il lavoro nell’area del riscaldamento globale.
Gore rappresenta un caso interessante, e raro, di politico di mestiere diventato attivista-
celebrità. Ma il suo interesse per i temi ambientali è nato molto tempo fa. Al Gore è stato
uno dei primi legislatori a «vedere le potenzialità insite nella questione del cambiamento
climatico globale» (Ingram et al., 1992, p. 49). Tenne le prime udienze al Congresso
sull’argomento nel 1981. Gore ha scritto che era sicuro che una volta ascoltate le prove, i
legislatori si sarebbero dati da fare. Ma non lo fecero. Come membro della Camera dei
Rappresentanti nel 1981, Gore appoggiò la proposta dell’American Association for the
Advancement of the Science per finanziare la ricerca sul cambiamento climatico globale.
Come vicepresidente si dichiarò a favore della carbon tax, che fu parzialmente applicata
nel 1993. Aiutò anche a far passare il Protocollo di Kyoto nel 1997, anche se questo non
venne poi ratificato dagli USA. Durante la campagna elettorale del 2000, Gore si impegnò
a ratificare il protocollo. Quando «perse» contro Bush nel 2000 (per una decisione di 5 a 4
della Corte Suprema statunitense), tornò a lavorare sul riscaldamento globale e cominciò a
portare in giro per il mondo uno slide show che documentava la questione. Laurie David,
fondatrice della Stop Global Warming Virtual March, vide lo slide show a New York nel
2004, dopo aver assistito alla prima di L’alba del giorno dopo, film su un disastro
ambientale che colpisce tutto il Nordamerica in un futuro prossimo. Divenne la produttrice
del documentario di Al Gore Una scomoda verità, che ha popolarizzato in maniera
significativa il dibattito sul riscaldamento globale. Il film è stato proiettato per la prima
volta al Sundance Film Festival nel 2006 e poi nel 2007 ha vinto l’Oscar per migliore
documentario. Sulla scorta del film Gore ha scritto anche un libro, che è stato bestseller
nel 2006. Gore ha destinato il 100 per cento della sua quota dei profitti del film e del libro
alla campagna dell’Alliance for Climate Protection, e la Paramount Classic, casa
distributrice del film, ha versato il 5 per cento dei profitti del film all’Alliance (Eilperin,
2008). Non è chiaro come e in quale misura il film abbia influenzato l’opinione pubblica,
ma ha scosso le élite economiche e politiche che lo hanno visto (Weart, 2007).
Film e programmi televisivi hanno contribuito in misura significativa a far crescere la
consapevolezza del riscaldamento globale. Prima che fosse realizzato Una scomoda
verità, i media avevano dedicato una notevole attenzione all’eco-catastrofista L’alba del
giorno dopo. Anche se si trattava di pura fiction che aveva solo un tenue rapporto con i
fatti scientifici, il film secondo molti servì a scuotere gli spettatori sul cambiamento
climatico (Semple, 2004). La David si incontrò con Gore per proporgli come si è detto di
trasformare lo slide show in un film (Booth, 2006). I gruppi ambientalisti furono pronti a
offrire i loro commenti al film, sperando di usarlo per far pesare le priorità dell’ecologia.
Da uno studio di Lowe et al. (2006) risultò che L’alba del giorno dopo aveva influenzato
le opinioni di chi l’aveva visto nel Regno Unito, confermando che gli spettatori erano più
preoccupati del cambiamento climatico dei non spettatori. In sintesi: si direbbe che
personaggi famosi di varie origini siano confluiti sulla stessa causa comune – una causa
che sembra trascendere la politica partitica (ma non è così) – usando la propria
reputazione e il proprio ascendente per chiamare alla difesa della vivibilità sul nostro
pianeta. Per farlo, creano eventi, una potente forma di politica mediatica.
Gli eventi come politica mediatica ambientalista
Il movimento ambientalista in generale e la mobilitazione contro il riscaldamento globale
in particolare creano eventi per accrescere la consapevolezza richiamando l’attenzione dei
media. Inoltre, si tratta spesso di eventi globali, o per il coordinamento di esibizioni
inscenate in diversi paesi del mondo, o assicurando alla manifestazione una copertura
globale. Come abbiamo detto, la Giornata della Terra è stata nel 1970 il primo di questi
eventi, e ha continuato a essere l’icona del movimento ambientalista globale. Ma, con
l’intensificarsi della sfaccettata campagna sul riscaldamento globale nel primo decennio
del nostro secolo, gli eventi globali sono diventati tanto strumento di azione quanto
terreno di organizzazione. Qualche esempio illustrerà i contorni contemporanei di questo
movimento sociale mediato dagli eventi.
Stop Climate Chaos è stata una delle principali coalizioni che hanno partecipato nel
2007 all’evento Global Day of Action against Climate Change, insieme con la Campaign
against Climate Change, Greenpeace e iniziative di base indipendenti. Il Global Day of
Action coincise con la conferenza dell’UNFCCC a Bali e con marce e manifestazioni
organizzate contemporaneamente in oltre 80 paesi. Il Global Day of Action iniziò nel 2005
perché coincidesse con la data dell’applicazione legale del Protocollo di Kyoto. Internet fu
fondamentale nel coordinare gli eventi internazionali, con nuovi siti che elencavano le
varie manifestazioni internazionali sul cambiamento climatico e informazioni su come
parteciparvi.
Un altro evento globale, il concerto Live Earth, fu promosso da Al Gore nel 2007.
Molte celebrità, tra cui Kelly Clarkson e Lenny Kravitz, si associarono a Gore e
mostrarono il loro appoggio esibendosi. Live Earth fu una serie di concerti tenuti il 7
luglio 2007 in vari paesi del mondo. Al Gore disse che i concerti davano inizio a una
campagna di tre anni per combattere il cambiamento climatico e «rendere tutti, sul nostro
pianeta, consapevoli di come possiamo risolvere la crisi del clima in tempo per evitare la
catastrofe» (Gore, 2007). I concerti portarono sul palco oltre 150 esibizioni in 11 località
in tutto il mondo e furono trasmessi alla televisione e alla radio, e in streaming in Internet.
Live Earth ebbe oltre 15 milioni di video stream durante il solo concerto dal vivo. Live
Earth agiva in associazione con Save Our Selves, organizzazione fondata da Kevin Wall,
che comprendeva partner come l’Alliance for Climate Protection di Al Gore, Earthlab, e
MSN.
Un altro grosso evento fu la Earth Hour, sponsorizzata dal WWF, svoltasi dalle 20 alle
21 del 29 marzo 2008. L’idea era quella di spegnere le luci per 60 minuti per invitare la
gente a prendere l’iniziativa sul cambiamento climatico. L’evento è per sua natura di tipo
individuale, con l’obiettivo di «creare un evento simbolico che possa diventare un
movimento» e un «semplice atto che crei un punto di svolta positivo» (video Earth Hour,
2007). Earth Hour ebbe inizio in Australia nel 2007, quando 2,2 milioni di persone e 2100
aziende di Sydney spensero le luci per un’ora – l’Ora della Terra – il 31 marzo 2007.
Poiché icone come il Sydney Harbour Bridge e l’Opera House aderirono, l’avvenimento
fece scalpore. L’evento fu promosso attraverso la radio, varie pubblicità, striscioni nelle
strade cittadine e messaggi di promemoria. Nel 2008 parteciparono persone di sei
continenti e più di quattrocento paesi, trasformando l’evento in una manifestazione di
portata mondiale. Grandi aziende ed edifici storici presero parte all’operazione, dal
Colosseo di Roma alla Sears Tower di Chicago al Golden Gate Bridge di San Francisco.
Google aveva un messaggio sulla homepage oscurata che diceva: «Abbiamo spento le
luci. Ora tocca a te».
L’ideatore di Earth Hour si disse stupito di quanto velocemente si fosse diffusa
l’iniziativa da quando, l’anno prima, era stata lanciata per la prima volta (AFP, 2008). In
effetti, Internet fornì lo strumento per seminare in lungo e in largo il messaggio. La pagina
buia di Google portò molti a conoscenza della cosa. Il sito web ufficiale di Earth Hour,
www.earthhour.org, ricevette oltre 2,4 milioni di visitatori nella sola giornata del 29 marzo
(Reuters, 2008). Il sito di Earth Hour contiene materiale informativo, invita gli utenti a
firmare e a impegnarsi a partecipare all’Earth Hour, e permette di mandare e-mail agli
amici con utili link, incoraggiandoli a partecipare. C’è un «kit scaricabile del sostenitore»,
con opuscoli e poster, in modo che gli individui possano diffondere il messaggio nella loro
zona. Il sito web ha anche link da aggiungere alla pagina di amici su MySpace, aderire alla
pagina dei fan su Facebook, postare foto sul gruppo Flickr, seguire su Twitter e caricare un
video YouTube. Un video sulla Earth Hour fu postato sul sito, e diverse versioni di quello
e altri provenienti da tutto il mondo furono messi su You-Tube: uno di questi al 30 marzo
2008 era stato visto 748.531 volte. Il video discute del cambiamento climatico e dei suoi
effetti negativi sul mondo e mostra come «l’attivismo sociale ha preso piede» nel marzo
2007 per Earth Hour.
StopGlobalWarming.org si definisce un movimento di base online che appoggia la Stop
Global Warming Virtual March. Sul sito si legge che «la Marcia Virtuale sta creando una
sola forte voce collettiva che sarà udita in tutto il mondo. Diffondendo la parola, stiamo
costruendo un movimento per arrestare il riscaldamento globale». I visitatori del sito
possono aderire alla Marcia Virtuale cliccando su un’icona e inserendo nome e indirizzo e-
mail. Stop Global Warming ha organizzato una marcia virtuale con 1.037.744 partecipanti,
marciatori verificati che si sono iscritti da tutti i cin-quanta stati degli USA, e da oltre 25
paesi del mondo. Più di 35 legislatori e governatori statunitensi si sono iscritti, tra cui John
McCain e Arnold Schwarzenegger (www.stopglobalwarming.org). Un altro evento, che è
organizzato via Internet ma si svolge in varie località negli Stati Uniti, è un programma di
manifestazioni sul cambiamento climatico connesse in rete chiamato Step It Up. Nel 2007,
Bill McKibben, docente al Middlebury College, lanciò un appello online perché il 14
aprile di quell’anno si tenessero manifestazioni a livello locale sotto la bandiera di «Step It
Up». L’obiettivo della campagna è quello di spingere il Congresso USA a ridurre le
emissioni di carbonio dell’80 per cento entro il 2050. L’appello online di McKibben
generò progetti per centinaia di eventi in tutti i cinquanta stati. Le azioni e le
manifestazioni sono organizzate online da una mezza dozzina di laureati di Middlebury
che «filtrano, attraverso le lenti di YouTube, una sorta di passione e di stile che ricorda gli
anni Sessanta», dice McKibben: «È una fonte di eterno piacere per me accendere il
computer ogni mattina e vedere che cosa la gente ha tirato fuori la sera prima» (Barringer,
2007).
Così, con l’aiuto delle celebrità e con l’impiego della capacità interattiva delle reti di
comunicazione globali, gli ambientalisti entrano in contatto con i cittadini nel mondo
agendo sui media. Mentre le organizzazioni di base svolgono un ruolo importante nel
movimento, il contatto spesso si verifica grazie a eventi mediatici, in cui gli attivisti
creano eventi che richiamano l’attenzione dei media, raggiungendo così un pubblico più
ampio. Molti attivisti ricorrono a tattiche di creazione di eventi che richiamano
l’attenzione e suscitano dibattito, dal farsi arrestare per aver disturbato un incontro al
soggiornare in cima a un albero per mesi (a Berkeley per oltre un anno). Eventi e azioni
dimostrative possono catturare l’attenzione dei media globali e contribuire a divulgare tra
il pubblico i temi dell’ambientalismo. In effetti, un ruolo importante delle organizzazioni
ambientaliste è quello di educare e far crescere la coscienza ecologica, «arrivando persino
a trasformare la cultura globale», come Greenpeace è stata capace di trasformare
l’immagine della caccia alle balene da impresa eroica in strage (Clapp e Dauvergne, 2005,
p. 79).
Comunque, pur svolgendo un ruolo chiave nel costruire immagini del riscaldamento
globale, i media sono diversificati, e quindi possono presentare svariate costruzioni sociali
del riscaldamento globale. Così, le organizzazioni ambientaliste spesso prendono in mano
personalmente il compito della costruzione del messaggio. Per esempio, l’Environmental
Defense Fund, un’organizzazione non profit fondata nel 1967, si è consociata con l’Ad
Council, altra organizzazione non profit, lanciando nel 2006 una campagna di propaganda
televisiva di servizio pubblico sul riscaldamento globale. Gli spot erano accompagnati da
un’iniziativa di educazione pubblica, che comprendeva informazioni su quei semplici
passi che gli individui potevano compiere personalmente. Il sito web della campagna
offriva anche strumenti interattivi con cui l’utente poteva calcolare la quantità di
inquinamento da carbonio prodotto da lui stesso. Gli spot sul riscaldamento globale
crearono un notevole clamore nei media, con servizi su Forbes, Newsweek, Time e varie
stazioni radiofoniche.
Libri, riviste specializzate e altri canali di comunicazione hanno anch’essi contribuito
alla nuova coscienza ambientalista. Clapp e Dauvergne (2005), discutendo dell’evoluzione
del discorso ambientalista globale, notano l’impatto pubblico del bestseller del 1962 di
Rachel Carson, Primavera silenziosa, che aveva un messaggio semplice e potente sugli
effetti distruttivi dei pesticidi sulla natura. Clapp e Dauvergne discutono di come
l’interesse del pubblico abbia mutato punto focale, davanti all’allarme degli ambientalisti
sugli effetti cumulativi dei problemi locali. Le foto della Terra dallo spazio divennero più
comuni e sempre più diffusa tra la popolazione si fece la visione della vita sul pianeta
come qualcosa di interconnesso (Clapp e Dauvergne, 2005, p. 49). I due autori concludono
che determinate pubblicazioni furono importanti nella diffusione dell’ambientalismo: tra
queste Silent Spring (1962), The Population Bomb (1968), Limits to Growth (1972), Small
is Beautiful (1973), il Founex Report e il Brundtland Report. Anche diversi organi
mediatici hanno avuto una forte influenza nel creare una coscienza ambientalista globale.
Uno di questi casi è quello della National Geographic Society, che da più di un secolo
promuove la conoscenza globale del pianeta, della gente che lo abita e dei modi per
proteggerlo. In anni recenti, le sue popolari trasmissioni televisive e i suoi siti web sono
stati tra i più forti paladini della conservazione del pianeta. E così, anche se i sentieri del
cambiamento di mentalità sono tortuosi, la maggior parte di essi sono stati aperti da quelli
che per primi hanno udito il richiamo di Gaia.
Azione, infine: i cambiamenti nelle politiche per l’ambiente come risultato dei
cambiamenti di mentalità
I leader politici sono consapevoli del crescente allarme tra il pubblico per il riscaldamento
globale. Gli appelli all’azione sul cambiamento climatico fanno aumentare gli indici di
gradimento dei politici. Dopo il rapporto di valutazione dell’IPCC del 2007, è diventato
difficile obiettare alla necessità di prendere l’iniziativa sul riscaldamento globale. Oggi
ormai, più che sulla realtà dell’influenza umana sul riscaldamento globale, il dibattito
verte sul che fare in proposito. La visione che il pubblico ha del riscaldamento globale
determina fino a che punto sono disposti a spingersi i politici, i quali a loro volta
dipendono dal ciclo elettorale.
In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, esiste tradizionalmente una spaccatura politica
nelle opinioni sul riscaldamento globale, ma questa divisione si sta riducendo. Il
sondaggista John Zogby spiega che sta crescendo il consenso sull’idea che il
riscaldamento globale deve essere risolto, non solo tra gli elettori di sinistra e giovani, che
sono stati tra i primi ad abbracciarla, ma sempre di più tra tutti i cittadini (Horsley, 2007).
Secondo Zogby, nelle elezioni statunitensi del 2006 di metà mandato, l’esistenza stessa del
riscaldamento globale era un «cuneo» che divideva democratici e repubblicani. Non è più
così. Persino il presidente Bush ha riconosciuto il problema nel discorso dello Stato
dell’Unione del 2007, anche se nei fatti la sua politica è rimasta indifferente alla questione.
Nell’aprile del 2007, la Corte Suprema degli Stati Uniti prendeva la sua prima decisione a
proposito del riscaldamento globale, e per cinque voti contro quattro respingeva la tesi
dell’amministrazione Bush per cui l’Environmental Protection Agency non era autorizzata
a regolamentare l’anidride carbonica. La decisione è stata definita una vittoria
fondamentale per l’ecologismo. Altri indicatori della politica sul cambiamento climatico
negli USA, nell’attesa di un nuovo presidente con una coscienza ambientalista,
comprendevano un’intensa attività congressuale sulle emissioni di gas serra. Al marzo
2008 i legislatori statunitensi avevano presentato più di 195 disegni di legge, risoluzioni
ed emendamenti che riguardavano specificamente il cambiamento climatico globale
durante il 110o Congresso (2007-2008) rispetto ai 106 atti legislativi presentati nel
precedente biennio congressuale, dal 2005 al 2006 (Pew Center on Global Climate
Change, 2008). Il Climate Security Act del 2007 di Lieberman e Warner fu approvato
dalla commissione senatoriale Ambiente e Lavori pubblici il 5 dicembre 2007. L’atto fu
definito dalla stampa un significativo elemento normativo per ridurre il riscaldamento
globale, ed è considerato una prova di quanta strada abbia fatto il Congresso sulla
questione del cambiamento climatico (Kelly, 2008).
Il riscaldamento globale ha svolto un ruolo importante nelle elezioni presidenziali 2008.
Storicamente, quelli dell’ambiente non sono temi di scontro decisivi nelle elezioni
nazionali statunitensi. Per le elezioni presidenziali del 2008, però, l’ambiente è emerso
come una questione significativa, con più del 30 per cento degli elettori che diceva che
avrebbe tenuto conto delle credenziali verdi del candidato: un forte aumento rispetto ad
appena l’11 per cento dei votanti nel 2004. Tutti i maggiori candidati presidenziali hanno
discusso a lungo del tema e hanno appoggiato proposte di tagliare le emissioni di
carbonio. La League of Conservation Voters ha creato un sito web (www.heatison.org) che
segue le opinioni dei candidati sul riscaldamento globale e tiene in caldo la questione nel
corso delle elezioni. I senatori Clinton, McCain e Obama auspicavano, almeno in termini
generali, politiche per ridurre il riscaldamento globale, in netto contrasto con
l’amministrazione Bush – anche se McCain e Obama appoggiavano contemporaneamente
una maggiore estrazione petrolifera in risposta all’aumento dei prezzi del petrolio.
Nell’Unione Europea, come già detto, il 9 marzo 2007, in un summit a Bruxelles, i capi
di stato e di governo concordarono un obiettivo vincolante per ridurre entro il 2020 le
emissioni di gas serra almeno del 20 per cento rispetto ai livelli del 1990. Mentre
l’obiettivo complessivo è il 20 per cento, l’accordo consente obiettivi nazionali aggiuntivi
per ciascuno dei 27 paesi membri. Per esempio, la Svezia conta di ridurre le sue emissioni
serra almeno del 30 per cento entro il 2020. Il 23 gennaio 2008 l’UE ha trovato l’accordo
su un pacchetto complessivo di proposte: il «Climate Action and Renewable Energy
Package». Il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha chiamato gli obiettivi
«20/20 per il 2020». Due obiettivi chiave sono stati fissati dal Consiglio Europeo: una
riduzione di almeno il 20 per cento di gas serra entro il 2020 – da portare al 30 per cento
se c’è un accordo internazionale che impegna gli altri paesi sviluppati; e una quota del 20
per cento di energie rinnovabili sul consumo di energia dell’Unione entro il 2020. Il
pacchetto comprende anche l’aggiornamento dell’Emissions Trading System per la
compravendita di emissioni in Europa. L’UE ha il primo programma al mondo di cap-and-
trade per le emissioni di anidride carbonica. Nel Regno Unito, in risposta all’intensa
pressione dei movimenti ambientalisti, tra cui Friends of the Earth e la Stop Climate
Change Coalition, il governo ha accettato di preparare un progetto di legge che introduca
una normativa finalizzata alla riduzione delle emissioni di gas serra (BBC, 2006; Wintour,
2006). Una Climate Change Bill è stata introdotta nel marzo 2007.
Anche la comunità internazionale sta agendo sul riscaldamento globale. Il Protocollo di
Kyoto, negoziato nel 1997, è entrato in vigore nel 2005, fissando limiti vincolanti alle
emissioni per i paesi industrializzati fino al 2012 (a eccezione degli Stati Uniti, che non
l’hanno ratificato). All’agosto 2008, gli USA e il Kazakhstan erano le uniche nazioni
firmatarie a non aver ratificato il Protocollo di Kyoto. Il primo periodo di impegno del
Protocollo termina nel 2012, e nel maggio 2007 sono iniziati colloqui internazionali su un
successivo periodo di impegno. La Climate Change Conference 2007 dell’ONU, tenutasi a
Bali, culminava nell’adozione della «Bali Roadmap» da parte dei paesi membri del
Protocollo di Kyoto. La Bali Roadmap stabiliva un processo della durata di due anni
mirante ad assicurare un accordo vincolante per il vertice ONU sul clima del dicembre
2009 a Copenaghen. E nel luglio 2008, al G8 di Sapporo, in un contesto di gravi crisi nei
prezzi dell’energia e delle derrate alimentari, il paese ospitante (il Giappone) poneva un
nuovo ciclo di misure contro il riscaldamento globale in cima all’agenda delle discussioni.
Tuttavia all’incontro non fu adottata alcuna misura correttiva a causa dell’indifferenza del
presidente Bush che, anatra zoppa a termine mandato, preferì lasciare il compito in eredità
al successore.
Così, dopo decenni di sforzi compiuti dal movimento ambientalista per mettere in
guardia il pubblico sui pericoli del cambiamento climatico, riprogrammando le reti di
comunicazione per trasmettere il proprio messaggio, il mondo ha finalmente preso
coscienza della minaccia di distruzione autoinflitta rappresentata dal riscaldamento
globale, e sembra si stia muovendo, pur a passo lento e incerto, verso l’adozione di
politiche capaci di rovesciare il processo della nostra scomparsa collettiva.
La nuova cultura della natura
Il movimento sociale per il controllo del cambiamento climatico ha avuto un notevole
successo nel far prendere coscienza e far adottare misure politiche – sia pure, fin qui,
penosamente inadeguate – aderendo al più ampio movimento ambientalista che
nell’ultimo quarantennio ha prodotto una nuova cultura della natura. Un confronto tra la
figura 5.2 e la figura 5.3 offre una buona indicazione della stretta associazione tra la
nascita dell’attivismo ecologista e la crescita della consapevolezza del riscaldamento
globale.
FIG. 5.3. Indice di consapevolezza sul riscaldamento globale negli USA, 1982-2006.
Fonte: Vedi tabella 5.1.
[quello di tempo glaciale è] un concetto in cui la relazione tra umani e natura è vista
come relazione di lunghissimo periodo di tipo evolutivo. Risale a prima della storia
umana contingente e si proietta in avanti verso un futuro totalmente indeterminabile
(Lash e Urry, 1994,p. 243).
Il tempo al rallentatore dell’ambiente naturale e dell’evoluzione della nostra specie, in
contrasto con il tempo in accelerazione della nostra vita quotidiana di individui effimeri,
soggiace al progetto ecologista di ridefinire i parametri della nostra esistenza.
Anche i confini della società vanno ripensati. La nostra organizzazione sociale non può
essere concepita esclusivamente nei termini del nostro presente o del nostro passato, ma
deve anche includere la visione del nostro futuro. La visione della solidarietà
intergenerazionale ci deve legare ai nostri nipoti e ai nipoti dei nostri nipoti, in quanto le
conseguenze del nostro agire riverbereranno per gene-razioni. Come scrivevo nel 1997 (e
mi scuso per questa eccezionale autocitazione):
vari usi di Internet e di altri media digitali hanno agevolato le reti non rigidamente
strutturate, i legami deboli di identità e le campagne per temi e proteste dimostrative
che definiscono una nuova politica globale… Sembra che la facilità con cui vaste reti
politiche vengono create consenta alle reti attiviste globali di risolvere in scioltezza i
difficili problemi di identità collettiva che spesso impediscono la crescita dei
movimenti… Il successo delle strategie di comunicazione in rete in molte campagne
e dimostrazioni sembra aver prodotto sufficiente innovazione e cultura da mantenere
le organizzazioni a galla nonostante (e a causa di) il caos e il cambiamento dinamico
interno… La rete dinamica diventa l’unità di analisi secondo cui tutti gli altri livelli
(organizzativo, individuale, politico) possono essere analizzati in modo coerente.
La pratica del networking di movimento va al di là della funzione strumentale di
coordinare le azioni e sfruttare la flessibilità nelle reti diffuse dell’attivismo. Il networking
basato su Internet è cruciale a tre diversi livelli: strategico, organizzativo e normativo.
Quella che Juris (2008) chiama la nascita dell’utopia informazionale ha la sua origine
nella tattica e nella strategia del movimento, che nell’uso di Internet e nei media alternativi
trova gli attrezzi privilegiati per organizzare, informare e contro-programmare le reti
mediatiche. Uno strumento chiave in questo senso è lo sviluppo di Indymedia, una rete di
centinaia di centri mediatici, alcuni temporanei, altri permanenti, che forniscono agli
attivisti i mezzi tecnici per creare materiale informativo e distribuirlo sulla Rete o su
centinaia di stazioni radio e televisioni di comunità, mentre reporter e redattori di
Indymedia lavorano anche a servizi sul movimento e sui temi che il movimento solleva
(Downing, 2003; Costanza-Chock, di prossima pubbl. a). L’editoria digitale open source è
stata fondamentale nel fornire la capacità di generare e distribuire informazioni in diversi
formati senza dover passare per i media tradizionali. Apparecchiature di
videoregistrazione e produzione, economiche e di alta qualità, hanno messo il potere della
comunicazione nelle mani degli attivisti. La capacità di caricare video su YouTube e in
altri spazi sociali in Internet, o la possibilità di aggiungere link al movimento su siti web
popolari come MySpace o Facebook, hanno amplificato gli usi dell’autocomunicazione di
massa come espressione di nuovi valori e nuovi progetti. I media alternativi sono il nucleo
centrale dell’azione dei movimenti sociali alternativi (Coyer et al., 2007; Costanza-Chock,
di prossima pubbl. a).
Ma il movimento ha guadagnato anche la copertura dei media tradizionali inscenando
manifestazioni spettacolari, per esempio con l’estetica delle Tute Bianche italiane che,
completamente vestite di bianco, avanzavano in file compatte contro i cordoni della
polizia sotto scudi di plastica bianca, una eccezionale coreografia resa più appetibile ai
media quando, occasionalmente, il sangue dei manifestanti picchiati dalla polizia
macchiava l’immacolata purezza della loro pacifica protesta. Oppure il Black Bloc, in cui
giovani vestiti di nero, mascherati, e pronti all’azione, si impegnavano in una forma
simbolica di guerriglia urbana che non poteva mancare di richiamare l’attenzione delle
telecamere. L’esposizione mediatica ricevuta da queste tattiche era ottenuta al costo
dell’etichetta di «violenti» appioppata dai media, anche se le azioni violente erano messe
in mostra solo da una piccola minoranza dei partecipanti. Le performance di teatro di
strada, come quelle condotte dal gruppo britannico Reclaim the Streets o da quello
americano Art & Revolution, erano più efficaci. Altrettanto efficaci erano le parate festanti
con clown, musicisti e danzatori che reinventavano la rivoluzione del «flower power»
degli anni Sessanta. Ma, per quanto immaginative, queste forme di comunicazione
cedevano il control-lo dell’immagine del movimento ai media tradizionali, limitando il
loro impatto su un pubblico divertito ma distante dal modo di agire dei giovani ribelli.
È per questo che il movimento, fin dal suo inizio, non è mai arretrato nella volontà di
produrre personalmente i propri messaggi e di distribuirli attraverso media alternativi, che
fossero media comunitari o Internet. Le reti dell’informazione e della comunicazione
organizzate intorno a Indymedia sono l’espressione più significativa di questa capacità di
contro-programmazione. Tale capacità, pur radicata nella creatività e nell’impegno degli
attivisti, è inseparabile dalla rivoluzione nelle tecnologie digitali. Hacker e attivisti politici
si sono trovati insieme nelle reti dei media alternativi. Oltre a Indymedia, numerosi
hacklab, temporanei o permanenti, hanno popolato il movimento e usato la superiore
competenza tecnologica della nuova generazione per costituirsi una posizione di vantaggio
nella battaglia comunicazionale contro gli anziani dei media tradizionali. In alcuni casi, da
queste trincee di resistenza si sono svilup-pate azioni di guerriglia elettronica, invadendo i
siti web di organizzazioni dell’establishment globale, postando messaggi di movimento
nelle reti mediatiche, deridendo i globalizzatori con video che ne espongono l’ideologia e
ne mettono in ridicolo l’arroganza e, più in generale, praticando una disobbedienza civile
elettronica in linea con la strategia concepita qualche tempo fa dal Critical Art Ensemble
e, più tardi, dall’Electronic Disturbance Theater (EDT). Stefan Wray, il maggior teorico
dell’EDT, iniziò nel 1998 a organizzare sit-in virtuali usando software FloodNet per
permettere a un gran numero di attivisti di partecipare a manifestazioni di protesta con un
semplice clic sul browser. Da allora, gli hacker politicamente attivi (una minoranza degli
hacker) sono diventati una componente chiave del movimento per la giustizia globale. La
loro competenza tecnologica nell’usare le reti informatiche per scopi diversi da quelli
previsti dai loro proprietari aziendali ha portato gli hacker alla ribalta del movimento,
liberando l’attivismo dalle limitazioni imposte alla libera e autonoma espressione dal
controllo proprietario delle reti mediatiche. Come scrive Juris,
FIG. 5.4. Voto finale per PP, PSOE e altri, tra gli elettori indecisi fino all’ultimo nelle elezioni parlamentari spagnole del
14 marzo 2004, in base all’influenza degli eventi dell’11 marzo sulle decisioni dei votanti.
Fonte: Michavila (2005, p. 29).
La grande svolta politica risultava da un cambiamento di mentalità che si è instaurato in
Spagna nel corso degli ultimi trent’anni, con la generazione giovane che ha largamente
abbracciato il desiderio della pace mondiale, e aspira all’autenticità e alla moralità nella
conduzione degli affari mondiali (nonostante un’altrettanto sincera passione per le
discoteche, il sesso e il bere). La tristezza della morte e la rabbia contro gli assassini erano
complicate da un profondo senso di tradimento che era più personale che politico, meno
ideologico che morale. Scatenò un movimento di resistenza che faceva sentire
direttamente il suo impatto sullo stato, non solo cambiando il partito al governo, ma
mandando alla classe politica un messaggio che questa in futuro avrebbe ignorato a suo
rischio e pericolo. In effetti la prima amministrazione di Zapatero, nonostante i numerosi
errori, mostrava di mettere in pratica il criterio che l’onestà viene al primo posto nella
mente di un nuovo genere di cittadini, e nel 2008 è stato rieletto. Ma perché questo
movimento potesse evolvere da rivolta sdegnata a protesta civile doveva sottostare a un
processo di comunicazione che io considero specifico delle proteste sociali della nostra
epoca. Ne evidenzierò brevemente i suoi caratteri principali.
Il processo concreto di comunicazione alternativa ebbe inizio con l’ondata di emozione
che circondava le manifestazioni di piazza indette dal governo, con l’appoggio delle forze
politiche, la sera del venerdì 12. Questo è importante: fu in questo ritrovarsi fisico che la
gente cominciò per la prima volta a reagire, indipendentemente dai partiti politici che per
l’occasione rimasero in silenzio. Proprio lì, gli appelli spontanei dei dimostranti
cominciarono a mettere in dubbio la versione ufficiale. Mentre la manifestazione era stata
convocata dalle forze politiche e sociali dell’establishment per protestare contro il
terrorismo e in appoggio della Costituzione (indiretto riferimento al separatismo basco),
molti dei partecipanti portavano striscioni contro la guerra in Iraq. La manifestazione
doveva segnare la fine delle dichiarazioni politiche, portando alla giornata di riflessione
del sabato e al voto della domenica. Ma il sabato mattina, quando tanti individui, in gran
parte privi di affiliazione politica e indipendenti dai partiti tradizionali, cominciarono a far
circolare SMS tra gli indirizzi programmati nelle rubriche dei loro cellulari, crearono una
rete istantanea di comunicazione e di mobilitazione via cellulare che risuonò nella mente
di migliaia di persone il cui senso di disagio era cresciuto nelle ultime quarantott’ore. Il
sabato, come abbiamo detto, il traffico di SMS raggiunse un livello record. La questione
critica è che mentre la maggior parte dei messaggi erano molto simili, il mittente per
ciascun destinatario era una persona conosciuta, una persona che aveva l’indirizzo del
mittente nella rubrica del suo telefonino. Così, la rete di diffusione cresceva in misura
esponenziale ma senza perdere la prossimità della fonte, secondo la logica del fenomeno
da «piccolo mondo». Ed è importante ricordare che il tasso di penetrazione dei telefoni
mobili in Spagna a quel tempo era del 96 per cento. La gente usava anche Internet per
cercare altre fonti di informazione, in particolare dall’estero. Vi furono numerose
iniziative per organizzare reti di comunicazione alternative, tra cui alcune di giornalisti
che agivano di propria iniziativa istituendo siti web con informazioni e dibattiti da varie
fonti. Fatto interessante: il partito conservatore (il PP) diede il via esso stesso a una catena
di SMS, con un messaggio diverso: «ETA è responsabile del massacro. Pasalo!» Ma il
messaggio venne diffuso principalmente tramite i canali del partito, non raggiunse una
massa critica di persone da conoscente a conoscente, e, più importante, non era credibile
per le migliaia di persone che già dubitavano della parole del governo.
Anche il contesto fornito dai media mainstream fu significativo. I maggiori network
televisivi furono ben presto ignorati come fonti attendibili. I giornali, vista la loro
esitazione, divennero inaffidabili, anche se in alcuni casi, in particolare quello della
Vanguardia a Barcellona, le edizioni del sabato cominciarono a legittimare la versione che
associava Al Qaeda all’attentato. Dall’altra parte, come abbiamo riferito, il maggior
network radiofonico privato (SER), su iniziativa dei suoi giornalisti, cominciò
immediatamente a cercare prove al di fuori della pista basca. Molti, ma non tutti, i servizi
della SER si rivelarono esatti. Di conseguenza, molta gente ricorse alla radio come fonte
primaria di informazione, e poi interagì con SMS e comunicazioni a voce tramite i
cellulari: comunicazione a voce con gli amici più stretti, e SMS per diffondere i messaggi
loro o quelli che andavano ricevendo e con cui erano d’accordo.
Così, a fornire il contesto della comunicazione fu il ritrovarsi fisicamente insieme nelle
strade, circostanza che è all’origine della formazione dello spazio pubblico, e conseguenza
del processo di comunicazione politica: trovarsi tutti uniti davanti alle sedi del PP fu la
verifica dell’efficacia del messaggio. Le azioni in strada richiamarono l’attenzione di
alcune reti radiofoniche e televisive (televisione regionale, CNN-Spain), e infine
costrinsero il ministro degli Interni ad apparire pubblicamente alla televisione nazionale
per riconoscere il possibile ruolo di Al Qaeda. Più tardi, sarebbe apparso in televisione
anche il principale candidato del PP, che con il suo attacco furibondo ai manifestanti
diffondeva senza volerlo un’ulteriore crisi di fiducia tra l’intera popolazione. Così, un
errore di comunicazione politica, provocato in gran parte dai manifestanti e parzialmente
aiutato dal re, amplificava l’effetto delle manifestazioni. Mentre Internet svolgeva una
funzione importante come fonte di informazioni e forum di dibattito nei giorni che
precedettero le dimostrazioni, gli eventi critici furono le manifestazioni di sabato 13, un
tipico fenomeno di mobilitazione istantanea spinto da una massiccia rete di SMS che
faceva crescere esponenzialmente l’effetto della comunicazione attraverso canali
interpersonali. Adesso mi soffermerò sul significato analitico più profondo di questo e di
analoghi movimenti sociali.
Individualismo in rete e comunità insorgenti di prassi
La telefonia mobile è diventata un fondamentale medium di comunicazione e di intervento
per i movimenti di base e per l’attivismo politico in tutto il mondo, come mostra una
crescente letteratura sull’argomento, e come in maniera lampante illustra il caso della
mobilitazione cellulare spagnola contro il vergognoso comportamento di quel governo.
Ma, come ci insegna la storia sociale della tecnologia, la rilevanza di una specifica
tecnologia, e la sua accettazione da parte del grande pubblico, non deriva dalla tecnologia
in sé, ma dall’appropriazione della tecnologia da parte di individui e collettività per
soddisfare i propri bisogni e praticare la propria cultura. Lo studio che ho condotto con i
miei collaboratori sulla comunicazione mobile e la società (Castells et al., 2006b)
mostrava il ruolo chiave della comunicazione wireless nel sostenere l’autonomia personale
e culturale, pur mantenendo modelli di comunicazione e senso in tutti gli ambiti
dell’attività sociale. Gli usi sociopolitici della comunicazione wireless sono l’epitome di
questa analisi. Se i telefoni cellulari e altri dispositivi di comunicazione wireless stanno
diventando gli strumenti privilegiati del cambiamento politico lanciato a livello di base nel
nostro mondo, è perché le loro caratteristiche tecnicosociologiche rimandano direttamente
ai maggiori trend culturali su cui poggia la pratica sociale nella nostra società.
Come proposto nel capitolo 2, due maggiori trend definiscono con la loro interazione i
modelli culturali di base della società in rete globale: individualismo e comunalismo
reticolari. Da una parte, la cultura dell’individualismo, inscritta nella struttura sociale
caratteristica della società in rete, ricostruisce le relazioni sociali sulla base di individui
autodefiniti che mirano a interagire con gli altri seguendo le proprie scelte, i propri valori
e interessi, trascendendo attribuzione, tradizione e gerarchia. L’individualismo reticolare è
una cultura, non una forma organizzativa. Una cultura che parte dai valori e i progetti
dell’individuo ma costruisce un sistema di scambio con altri individui, in tal modo
ricostruendo la società più che riprodurla. L’individualismo reticolare ispira movimenti
sociali orientati al progetto che poggiano sulla condivisione di nuovi valori tra individui
che desiderano cambiare la propria vita e hanno bisogno gli uni degli altri per realizzare i
loro obiettivi. Dall’altra parte, in un mondo di valori e norme in flusso costante, in una
società del rischio, la gente si sente incerta e vulnerabile mentre gli individui cercano
rifugio in comunità che rispondano alle loro identità, sempre costruite, o con i materiali
della storia e della geografia, o con i desideri di cui i progetti sono fatti. Queste comunità
spesso diventano trincee di resistenza contro un ordine sociale percepito come estraneo e
imposto con la forza, quando le istituzioni che prima davano sicurezza (lo stato, la chiesa,
la famiglia) non funzionano più a dovere.
Vi sono anche movimenti sociali che risultano dall’incrocio tra i due modelli culturali:
individualismo e comunalismo reticolari. Sono movimenti che emergono da reti di
individui che reagiscono a un’oppressione percepita, e che poi trasformano la protesta
comune in una comunità di pratica, essendo la loro pratica la resistenza. Così, reti di
individui diventano comunità insorgenti. Proponendo questa formulazione concettuale, mi
appoggio alla tradizione analitica che mostra il ruolo decisivo delle comunità di pratica in
tutti gli ambiti della società (Wenger, 1999; Tuomi, 2002; Wenger e Synder, 2008). Le
comunità di pratica sono comunità: ossia, raggruppamenti sociali di individui che
condividono valori, convinzioni e norme con coloro che vengono identificati come
appartenenti alla comunità. Specifiche comunità si definiscono in base a specifici criteri:
confini territoriali, affiliazione religiosa, orientamento sessuale, identità nazionale e così
via. Le comunità di pratica sono quelle che si costituiscono intorno a una determinata
pratica condivisa, come un progetto scientifico, una creazione culturale, un’impresa
economica. Ciò che è peculiare è il fatto che durante la pratica formano stretti legami, ma
non permangono come comunità al di là della pratica. Sono effimere ma intense. E così,
possono riprodursi ed espandersi, formando differenti comunità; per esempio, degli
scienziati possono incontrare nuovamente i loro colleghi in un altro gruppo di ricerca
formato sulla base di una precedente riuscita esperienza. Ma ogni comunità di pratica è
definita dalla pratica, e si esaurisce nella specifica pratica che era all’origine della
formazione della comunità.
Da questi concetti si può ricavare una migliore comprensione della novità e della
portata delle emergenti mobilitazioni cellulari (mobil-isations), che costituiscono una
pratica di resistenza radunando reti di individui che aderiscono a una particolare occasione
di resistenza in un dato tempo e luogo. Poiché i cellulari permettono di essere
perennemente in rete, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, esplosioni di collera
avvertite a livello individuale hanno la potenzialità di svilupparsi in una comunità
insorgente grazie alla retificazione istantanea di molti individui diversi che sono uniti nella
loro frustrazione, ma non necessariamente uniti intorno a una posizione comune o a una
comune soluzione alla fonte percepita ingiusta di dominino. Basandosi su reti di pratiche
condivise, la comunicazione wireless è l’appropriata tecnologia di comunicazione per la
formazione spontanea di comunità di pratica impegnate nella resistenza al dominio; ossia,
comunità insorgenti istantanee. Poiché gli attori sociali scelgono e usano le tecnologie a
seconda dei loro bisogni e interessi, le persone che reagiscono individualmente contro il
dominio istituzionale, e hanno però bisogno di trovare supporto alla loro rivolta, si
rivolgeranno naturalmente alle forme di comunicazione che usano nella vita quotidiana sia
per essere se stessi sia per essere insieme con quelli con cui intendono condividere senso e
pratica. Entro queste condizioni culturali e tecnologiche, le esplosioni sociali di resistenza
non hanno bisogno di leader e di strateghi, in quanto chiunque può raggiungere chiunque
altro per condividere la propria rabbia. Se la rabbia è espressione di un sentimento
puramente individuale, l’SMS scivolerà senza far danni nell’oceano della comunicazione
digitale. Ma se la bottiglia gettata in mare viene aperta da molti, il genio uscirà, e la
comunità insorgente crescerà connettendo molte menti oltre la rivolta solitaria. Se pensate
che la cosa sia troppo teorica, chiedete a José María Aznar cosa ne pensa delle
conseguenze pratiche.
«Yes, We Can!» La campagna di Obama per le primarie presidenziali del
200810
Speranza – speranza davanti alle difficoltà. Speranza davanti all’incertezza. L’audacia
della speranza! Alla fine, questo è il dono di Dio per noi più grande, il fondamento
della nazione. La fede in cose non viste. La fede che verranno giorni migliori. Io
credo che possiamo dare sollievo al nostro ceto medio e offrire alle famiglie
lavoratrici una strada di opportunità. Io credo che possiamo offrire posti di lavoro ai
disoccupati, case ai senzatetto, e sottrarre i giovani nelle città di tutta l’America alla
violenza e alla disperazione. Io credo che abbiamo alle spalle un vento di giustizia, e
ora che ci troviamo a un crocevia della storia, possiamo fare le scelte giuste per
affrontare le sfide che ci si parano innanzi (Barack Obama, discorso davanti alla
Convenzione nazionale democratica del 2004).
La crisi di legittimità della politica, documentata nel capitolo 4, si manifesta nella
mancanza di fiducia della gente nei suoi rappresentanti politici, nel basso livello di
partecipazione dei cittadini al processo politico, e nel prevalere delle motivazioni negative
nei comportamenti di voto. Da tutti i punti di vista, la più antica democrazia liberale del
mondo, gli Stati Uniti, non se l’è passata bene nell’ultimo trentennio. Tuttavia, nella
campagna per le primarie presidenziali del 2007-2008 un’ondata di partecipazione dei
cittadini e di entusiasmo politico ha segnalato la reviviscenza della democrazia americana
sullo sfondo delle dure realtà della guerra e del declino economico, e della dura realtà
delle menzogne presidenziali su questioni di vita e di morte. La mobilitazione politica è
cresciuta su tutto il campo: tra democratici, repubblicani e indipendenti. Comunque, ci
sono ampie prove che, durante la stagione delle primarie, i votanti democratici si sono
mobilitati in una percentuale molto più ampia degli elettori repubblicani. La lunghezza e
l’intensità della competizione alle primarie democratiche tra Barack Obama e Hillary
Clinton può giustificare in parte il salto nei livelli di partecipazione. Io però sosterrò che
sono state le personalità dei maggiori candidati democratici, Barack Obama e Hillary
Clinton, e la mobilitazione che hanno generato in grandi gruppi di elettori che non
esercitavano il diritto di voto o erano disincantati, a spiegare in gran parte la differenza.
Inoltre, sono stati la novità e l’entusiasmo della campagna di Obama ad attivare le schiere
di cittadini che fino a quel momento erano rimasti ai margini della democrazia durante
lunghi anni di scetticismo politico. Con questo non si vuole sminuire la capacità di Hillary
Clinton di attivare la mobilitazione, in particolare tra le donne, gli anziani e i latini. Ma io
propongo l’ipotesi che la sfida posta dall’improbabile concorrente, Obama, alla presunta
inarrestabile candidatura di lei abbia imposto alla sua campagna un cambiamento di tono,
strategia e impatto. Durante la transizione dalla vittoria data per scontata alla incombente
sconfitta, dopo aver perso in 11 primarie di seguito, Hillary si è trasformata nella leader di
un movimento (parzialmente proattivo e parzialmente reattivo a Obama), «trovando la
propria voce» e alterando il paesaggio della politica americana per anni a venire. Ma, a
prescindere dalle preferenze personali, era appropriato che alla fine perdesse la
nomination, dopo un combattimento accesissimo, perché il suo movimento era almeno in
parte il risultato del suo sforzo determinato di contrastare l’imprevedibile scatto di Barack
Obama che lo portava alla testa della corsa in una campagna che avrebbe potenzialmente
portato alla Casa Bianca.
Quindi, questo sarà il fulcro della mia analisi: come e perché un giovane uomo politico
– un afroamericano con un nome musulmano e discendenza keniana, con precedenti di
voto al senato tra i più di sinistra, privo di supporto significativo nell’establishment del
Partito Democratico, che rifiutava esplicitamente i finanziamenti delle lobby di
Washington – è riuscito ad assicurarsi la nomination democratica per la presidenza degli
Stati Uniti con un confortevole margine di vantaggio?11 Una parziale risposta
all’interessante questione è che è stato capace di penetrare nel cuore della politica
americana portando con sé un consistente numero di cittadini che erano stati emarginati o
scoraggiati dalla politica. Ed è stato in grado di farlo grazie a una combinazione di
personalità carismatica, di discorso politico di nuovo genere, e di innovativa strategia di
campagna che trasferiva gli antichi e sperimentati principi dell’organizzazione delle
comunità in America nella specificità dell’ambiente Internet. Seguendo le orme della
campagna primaria presidenziale di Howard Dean nel 2003-2004 (Sey e Castells, 2004),
Obama è riuscito a padroneggiare perfettamente le regole di ingaggio di quella che è stata
etichettata come «la prima campagna in rete» (Palmer, 2008). È a causa di queste
caratteristiche che la campagna di Obama costituisce un caso paradigmatico di politica
insorgente nell’Età di Internet.
Potere di voto a chi non ha potere
La democrazia, in ultima analisi, risiede nella capacità di contrastare il potere dell’eredità,
della ricchezza e dell’influenza personale con il potere della moltitudine, il potere dei
numeri – i numeri dei cittadini, chiunque essi siano. La politica insorgente è un processo
fondamentale per connettere segmenti senza potere della popolazione con procedure di
formazione del potere. La partecipazione politica è essenziale per mantenere in vita la
democrazia. E dunque, cominciamo con i fatti sulla mobilitazione elettorale12.La
registrazione dei votanti, il tallone d’Achille della democrazia americana13, è cresciuta
numericamente tra il 2004 e il 2008 nei 43 stati su 44 per i quali sono disponibili i dati
(quello che manca è l’Idaho; Jacobs e Burns, 2008). Diciassette stati su 43 toccavano dati
record di affluenza durante le primarie o i caucus tenuti dopo il «Super Tuesday»14 (il 5
febbraio 2008) quando McCain si era già assicurato la nomination repubblicana, segnando
un periodo in cui la campagna di Obama, in quel momento all’inseguimento della Clinton,
cominciava a riportare una serie di vittorie successive. L’incremento spettacolare della
registrazione al voto in stati generalmente considerati «at play» (né solidamente
democratici né solidamente repubblicani) alterò la mappa elettorale degli Stati Uniti. Circa
un quarto delle registrazioni di nuovi votanti ebbe luogo in quegli stati. Dieci stati
aumentarono le loro liste elettorali del 10 per cento e più: tra questi il New Hampshire (24
per cento), il Nevada (20 per cento), l’Arizona (18 per cento) e il New Mexico (11 per
cento; Jacobs e Burns, 2008).
Un caso indicativo è quello della Pennsylvania, uno stato critico nelle elezioni generali.
Tra il 1o gennaio e l’ultima data utile per registrarsi, il 24 marzo, 306.918 nuovi elettori si
iscrissero alle liste dei democratici. Inoltre, 146.166 primi votanti aderivano al Partito
Democratico e 160.752 spostavano la registrazione dai repubblicani o gli indipendenti ai
democratici (a iscriversi presso i repubblicani tra quelli che votavano per la prima volta
erano appena 39.019; Cogan, 2008). La campagna di Obama riportava la registrazione di
200.000 nuovi democratici in Pennsylvania, 165.000 in North Carolina, e più di 150.000
in Indiana durante la stagione delle primarie (Green, 2008). I democratici di nuova
registrazione in Pennsylvania erano concentrati negli ambienti afroamericani, un segmento
demografico che si mosse in misura prevalente per Obama, anche se le primarie della
Pennsylvania le perse. Questa spinta alla registrazione insolitamente intensa non era
casuale. Nelle elezioni del 1992 tra George H.W. Bush e Bill Clinton, Clinton passò dal
secondo posto alla vittoria in Illinois in gran parte grazie a una registrazione di nuovi
elettori senza precedenti. Nella sola Chicago si iscrissero 150.000 nuovi votanti, in grande
maggioranza afroamericani. Secondo un articolo del 1993 della Chicago Magazine:
L’elezione, in una certa misura, ruotava su questi totali… Clinton aveva un sostegno
quasi unanime tra i neri. Ma altrettanto importanti, benché meno ovvie, sono le
implicazioni che potrebbe avere il voto nero per future elezioni municipali e statali:
per la prima volta da dieci anni, più di mezzo milione di neri sono andati alle urne a
Chicago. E con le elezioni del governatore e del sindaco che si terranno nei prossimi
due anni, è una cosa a cui tutti, da Jim Edgar a Richard M. Daley, devono prestare
attenzione: un blocco elettorale afroamericano sarà una forza con cui fare i conti in
quelle competizioni. Niente di tutto ciò, ovviamente, è stato frutto del caso. La più
efficace spinta alla registrazione da parte di una minoranza di cui si abbia memoria è
stato il risultato di un minuzioso lavoro di Project Vote!, la filiale locale di
un’organizzazione nazionale non profit. «È stata la campagna più efficace che abbia
visto in vent’anni che faccio politica», dichiara Sam Burrell, consigliere comunale
del 29o distretto del West Side e veterano di molte campagne di registrazione. Alla
testa di questa iniziativa c’era un poco noto afroamericano trentunenne,
organizzatore di comunità e scrittore: Barack Obama (Reynolds, 1993; corsivo mio).
La mobilitazione dei giovani nella campagna per le primarie del 2008 è stata
significativa. Nelle primarie e nei caucus del 2008 hanno votato oltre 6,5 milioni di
persone di età inferiore ai trent’anni, così che il tasso di affluenza nazionale per le elezioni
primarie è raddoppiato quasi dal 9 per cento del 2000 al 17 per cento del 2008 (Marcelo e
Kirby, 2008, p. 1). Per la prima volta da quando il diritto di voto è stato portato a 18 anni,
la partecipazione dei giovani negli Stati Uniti ha continuato a crescere per tre elezioni di
seguito. Poiché l’affluenza alle elezioni generali abitualmente segue i trend riscontrati
nelle primarie, sembra che il voto giovanile comincerà a svolgere un ruolo significativo
negli Stati Uniti, un fattore di notevole importanza per il rinnovamento dei valori sociali,
di cui i candidati dovranno tener conto nelle competizioni elettorali. Un’indagine svolta
nella primavera del 2008 dall’Harvard University Institute of Politics (2008) sui giovani e
la politica concentrata sulla fascia d’età tra i 18 e i 24 anni, fornisce prove significative del
risveglio alla politica dei giovani americani. Tra le altre risposte, il 76 per cento diceva di
essere registrato al voto (un incremento di 7 punti rispetto al novembre 2007); il 64 per
cento affermava che avrebbe votato alle elezioni generali del 2008; il 40 per cento si
considerava politicamente attivo; il 40 per cento dichiarava di essere democratico, il 25
per cento repubblicano e il 35 per cento indipendente. In base a tutti i criteri di
misurazione, l’impegno civico dei giovani partecipanti al sondaggio crebbe rispetto al
novembre 2007 dopo che ebbero seguito le campagne per le primarie del 2008.
In effetti questo potrebbe essere un punto di svolta per la crisi di legittimità in America.
Analizzando i trend dell’impegno civile tra i giovani, Robert Putnam (2008) scrive:
Nel corso degli ultimi quattro decenni del XX secolo, l’impegno dei giovani nella
vita civica americana è declinato anno dopo anno con deprimente regolarità.
Nell’autunno del 1966, prima della piena fioritura delle proteste contro la guerra in
Vietnam, un sondaggio dell’UCLA sugli studenti di primo anno di college a livello
nazionale rilevava che «seguire la politica» era un obiettivo «molto importante» nella
vita per oltre il 60 per cento… Trentaquattro anni dopo il dato era precipitato al 28
per cento. Nel 1972, quando l’età del voto fu portata a 18 anni, l’affluenza alle
elezioni presidenziali della fascia tra i 18 e i 24 anni fu di un deludente 52 per cento.
Ma pur partendo da questi livelli modesti, le percentuali del voto giovanile nelle
elezioni presidenziali continuarono a calare costantemente negli anni Settanta,
Ottanta e Novanta, raggiungendo appena il 36 per cento nel 2000… Il mese scorso
[febbraio 2008] i ricercatori dell’UCLA riportavano «Per le matricole universitarie di
oggi, discutere di politica è un’attività tanto diffusa come non si vedeva da almeno 41
anni»… Nelle elezioni del 2004 e del 2006, l’affluenza tra i giovani cominciò
finalmente a risalire dopo decenni di declino, raggiungendo il punto più alto negli
ultimi vent’anni nel 2006. Mentre ci avvicinavamo alla stagione presidenziale del
2008, i giovani americani mostravano di essere, in effetti, pronti all’azione civica,
non per la fase della loro vita, ma per la permanenza degli effetti della crisi nazionale
unificante che avevano conosciuto nei loro anni formativi. Le competizioni per la
nomina presidenziale eccezionalmente vivaci di quest’anno – e, va detto, la
straordinaria candidatura di Barack Obama – hanno acceso di una fiammata
incandescente un’esca giovanile che era stata accatastata ed era pronta a divampare
da oltre sei anni… La partecipazione alle competizioni elettorali di questa primavera
finora è stata in generale più alta che nelle precedenti contese per la nomina
presidenziale, ma per quelli intorno ai vent’anni la crescita è stata davvero
fenomenale – un’affluenza in molti casi tre o quattro volte superiore a quanto mai
registrato. Le elezioni del 2008 sono quindi il party in cui questa nuova Greatest
Generationsi dichiara (Putnam, 2008, D9).
Grazie alla straordinaria impennata dei tassi di registrazione al voto, in particolare tra i
giovani e gli afroamericani (un settore chiave della base elettorale di Obama), milioni di
nuovi votanti erano registrati per le elezioni di novembre, preparando il terreno a
un’affluenza record alle urne. Riguardo alle percentuali dei votanti, complessivamente la
partecipazione alle primarie del 2008 è stata la più alta dal 1972. Per tutte le 34 primarie
condotte fino al 10 maggio 2008, votava nel 2008 il 19,2 per cento di democratici
registrati (dal 9,7 per cento del 2004; nel 1972 erano il 21,2 per cento; Gans, 2008b).
L’affluenza degli afroamericani cresceva del 7,8 per cento rispetto alle primarie del 2004,
ma la partecipazione degli elettori latini (che hanno votato in maggioranza per Hillary) è
cresciuta di un clamoroso 41,9 per cento. Comunque, il più alto incremento nel tasso di
affluenza riguarda il voto giovanile (18-29 anni), che ha superato il dato del 2004 del 52,4
per cento (Gans, 2008b; vedi tabella A5.2 in Appendice).
Obama potrebbe aver tratto vantaggio anche dalla generale crescita di popolarità del
Partito Democratico. Secondo Pew (2008b), dal 2004, l’identificazione con il Partito
Democratico è cresciuto in tutti i gruppi di età. Nel 2004 il 47 per cento di tutti i votanti si
identificava con il Partito Democratico o tendeva verso di esso, mentre il 44 per cento si
identificava con il GOP o tendeva verso di esso. Nei sondaggi dall’ottobre 2007 al marzo
2008, i democratici mantenevano un vantaggio di identificazione di partito di 13 punti (51
per cento contro 38 per cento). Forse il cambiamento più netto dal 2004 è avvenuto tra i
votanti nati tra il 1956 e il 1976 – i membri della cosiddetta Generazione X e i tardivi del
Baby Boom. Gli appartenenti a questo gruppo di età tendevano a essere più repubblicani
durante gli anni Novanta, e nel 2004 il GOP conservava ancora un lieve margine di
vantaggio nell’affiliazione partitica in questo gruppo (Keeter et al., 2008). Con questo si
vuol dire che l’ascesa di Obama va collocata nel contesto della crescente disaffezione del
popolo americano per il presidente Bush, dopo averlo eletto due volte (o almeno una volta
e mezzo). O, in altre parole, nella capacità di Obama di attingere alla riserva del desiderio
di cambiamento degli americani.
Obama annovera, comprensibilmente, gli afroamericani nel nucleo consolidato dei suoi
sostenitori. La cosa però non era ovvia all’inizio della campagna, perché Bill Clinton
disponeva di una considerevole influenza nel bacino elettorale afroamericano, e all’inizio
della campagna Hillary Clinton ha beneficiato di questa connessione. Ma con il progredire
della campagna, tre fattori hanno giocato a favore di Obama. Primo, l’idea che un
afroamericano fosse un candidato competitivo capace di arrivare fino in fondo, per la
prima volta nella storia, ha mobilitato e portato alla conversione di voto una grossa fetta
della precedente base elettorale clintoniana. Secondo, la sfumatura razziale di alcune
dichiarazioni della campagna della Clinton, e dello stesso Bill Clinton, ha allontanato da
Hillary molti votanti afroamericani. I dati anno per anno mostrano che, tra i democratici
neri Clinton è passata dall’essere competitiva con Obama come prima scelta per il
candidato del Partito Democratico nel 2007 – 42 per cento per Obama, 43 per cento per
Clinton – al punto in cui la stragrande maggioranza dell’82 per cento di democratici neri
preferiva Obama, rispetto al 15 per cento per Clinton, nel giugno 2008 (Gallup, 2008a).
Terzo, la capacità della campagna di Obama di mobilitare nuovi elettori è stata
particolarmente gradita tra i votanti neri disaffezionati. E così il giudizio sull’immagine di
Obama tra i neri era per il 68 per cento favorevole e per l’8 per cento sfavorevole nel
giugno 2007, passando all’86 per cento di favorevoli e al 9 per cento di sfavorevoli nel
giugno 2008.
Ma l’appoggio a Obama ha riguardato uno spettro molto più ampio della popolazione
americana, in particolare tra i segmenti più istruiti della cittadinanza (vedi tabella A5.3 in
Appendice). È vero che una prima valutazione dello scenario demografico dei votanti
nelle primarie indicherebbe una divisione per razza. Obama ha raccolto il voto
afroamericano in ogni singolo stato, mentre a Clinton andava il voto dei bianchi in tutti gli
stati tranne otto. Tuttavia, mentre la popolazione ispanica appoggiò Clinton durante le
primarie, gli ispanici sostennero Obama in maggior numero durante le elezioni generali,
con un appoggio leggermente superiore a Obama tra gli ispanici più giovani che tra la
popolazione generale (vedi sotto). Ma l’influenza apparentemente determinante della
razza nelle elezioni è il risultato di una appropriata analisi multivariata nell’interpretazione
dei dati. La variabile chiave che spiega l’appoggio a Obama alle primarie è l’età.
Secondo gli exit poll di Edison/Mitofsky, per il voto complessivo delle primarie Obama
aveva la meglio su Clinton tra i votanti dai 45 in giù, inclusa una maggioranza del voto
bianco. Nel voto inferiore ai 30 anni, Obama vinceva in tutti gli stati tranne cinque.
Riceveva anche il consenso dei votanti tra i 30 e i 44 anni in tutti gli stati tranne sette.
Clinton, da parte sua, prendeva tutti gli stati tranne sei nel gruppo di età dai 60 in su,
mentre i due candidati si dividevano gli adulti tra i 45 e i 59 (Carter e Cox). Nel
complesso, nel gruppo di età 18-29, Obama riceveva il 58 per cento dei voti contro il 38
per cento di Clinton, mentre tra i maggiori di 65, Clinton batteva Obama con il 59 per
cento contro il 34 per cento. Data la maggiore proporzione di donne tra i votanti anziani,
sembra sussistere un gap di genere, con il 52 per cento di donne anziane che votavano per
Clinton rispetto al 43 per cento per Obama, mentre il 50 per cento dei maschi votava per
Obama e il 54 per cento per Hillary. Ma controllando per l’età, il gap di genere si ribalta: il
56 per cento delle donne di meno di 30 anni votavano per Obama rispetto al 43 per cento
che votava per Clinton (Noveck e Fouhy, 2008).
Dunque, Obama è chiaramente il leader politico che negli ultimi decenni più ha ispirato
il voto giovanile. Ha anche ampliato il suo richiamo al di là delle linee di razza e di classe,
anche se la sua maggiore forza è tra i segmenti più istruiti della popolazione e tra la nuova
classe media dei professionisti, mentre Hillary ha ricevuto il massimo sostegno dagli
anziani, la maggioranza dei voti delle donne (ma non tra i segmenti più giovani delle
donne) e l’appoggio simbolicamente significativo di segmenti della classe operaia del
Midwest (ma non in tutti gli stati: per esempio il Wisconsin). Una rapida lettura di questi
risultati descrittivi, in attesa delle analisi accademiche una volta che siano disponibili i
dati, indica che Obama è stato il candidato della nuova America, l’America più giovane,
più istruita, e dalla mentalità più aperta, del XXI secolo. Inoltre, nuovi gruppi di cittadini
non solo si sono registrati e hanno votato, ma si sono anche impegnati attivamente nella
campagna. Così, la tabella 5.2 illustra il livello sostanzialmente più alto del
coinvolgimento nell’attivismo in Internet dei sostenitori di Obama rispetto ai sostenitori di
Hillary, essi stessi un gruppo parecchio attivo.
TAB. 5.2. Livelli di attivismo in Internet tra i democratici online (%)
Che cos’è la nostra comunità, e cosa si può fare perché quella comunità si riconcili
con la nostra libertà? Fin dove arrivano i nostri obblighi? Come possiamo trasformare
il puro e semplice potere in giustizia, il puro e semplice sentimento in amore? Le
risposte che trovo nei manuali giuridici non sempre mi soddisfano… Trovo una
quantità di casi in cui la coscienza viene sacrificata alla convenienza o all’avidità.
Eppure, proprio nel dialogo, nell’unirsi delle voci, mi trovo modestamente
incoraggiato a credere che finché le domande si continueranno a fare, quel che ci
tiene uniti possa in qualche modo, alla fine, prevalere (Obama, 1995, 2004, p. 438).
Obama cerca le risposte nella politica del dialogo, nella politica che pone domande
anziché fornire risposte, la politica che cerca la comunità a partire dalla garanzia della
libertà, la politica come ideale e come processo, anziché le proposte politiche per la
costruzione elettorale dell’immagine. Sono approcci inusuali: attraenti, ma
apparentemente poco pratici nei campi di battaglia della politica mediatica. Eppure,
quando un freddo 10 febbraio 2007 Obama annuncia la sua candidatura a presidente,
davanti a 15.000 sostenitori sulla scalinata dell’Old State Capitol a Springfield, Illinois, lo
stesso edificio da cui Abraham Lincoln pronunciò il suo discorso del 1858 sulla «Casa
divisa», il discorso contro la schiavitù, si sta connettendo esplicitamente a quel messaggio.
Quello che sta dicendo è «We», e quello che sta dicendo è «We Can». Ma come è stato
capace di mobilitare il supporto per questo improbabile candidato? In che modo il suo
sogno si è materializzato nella politica di base, nel finanziamento della campagna, nelle
strategie mediatiche, nello schivare la politica delle aggressioni e la politica scandalistica?
Quali sono le lezioni della campagna di Obama per la nostra comprensione della politica
insorgente, o della politica in generale, nell’Età di Internet? Distillerò le più importanti di
queste lezioni, riferendo l’osservazione della campagna all’analisi presentata nel capitolo
4 sui caratteri chiave delle campagne politiche e delle strategie politiche.
Cambiare formula: dal potere del denaro al denaro dei senza potere
Il denaro domina ampiamente la politica in generale e la politica americana in particolare.
La raccolta dei finanziamenti è essenziale, dal momento che senza somme considerevoli
non c’è campagna competitiva. Questa è la soglia che le campagne meglio intenzionate
(per esempio, quella di John Edwards nel 2007-2008) non hanno varcato. La scelta è
semplice: o le aziende e i ricchi finanziano la tua campagna, rendendoti così debitore
verso i loro interessi (salvo qualche raro filantropo con sufficienti quattrini e valori
personali per essere l’eccezione), o devi cavartela da solo e gli elettori non sapranno mai
quanto bene avresti fatto per loro.
Obama è riuscito a sciogliere questo dilemma apparentemente insolubile. Secondo la
documentazione della FEC, per la campagna delle primarie (al 30 giugno 2008), Obama
ha raccolto la cifra record di $339.201.999. Compresi i fondi per l’elezione generale, ha
raccolto un totale, per entrambe le elezioni, di $744.985.655. In netto contrasto, la
campagna inizialmente ben finanziata di Hillary Clinton ha raccolto $233.005.665 (esclusi
i prestiti ma compresi $10.000.000 dei fondi personali di Clinton). In paragone, John
Kerry aveva raccolto $233.985.144 e George Bush $258.939.099 nel corso dell’intera
stagione delle primarie del 200417. Questo nonostante il fatto che, a differenza di Hillary,
Obama non ha voluto accettare denaro dai lobbisti registrati a livello federale. È arrivato al
punto di restituire $50.000 in contributi passati di straforo. Ha accettato invece i contributi
di lobbisti registrati a livello di stato. Obama ha rifiutato anche il denaro delle Political
Action Committees (PAC), ma ha accettato quello dei dipendenti di corporation e altre
imprese che impiegano lobbisti. Eppure, secondo il Center for Public Integrity, Obama ha
ricevuto finanziamenti significativi tramite raccoglitori di donazioni (anche se ne ha
pubblicato i nomi online nell’interesse della trasparenza). Un’analisi di 328 fundraiser
della sua campagna, che hanno raccolto somme dai $50.000 ai $200.000, rivela che hanno
portato almeno 31,65 milioni di dollari, circa l’11,9 per cento del totale degli oltre 265
milioni raccolti al 31 aprile 2008. Di questi 328, 78 hanno portato alla campagna circa
15,6 milioni di dollari – almeno il 5,8 per cento del totale dei fondi (Ginley, 2008).
Fatto sorprendente, Obama si è rivelato anche il candidato preferito tra i gestori degli
hedge fund, secondo un rapporto del Center for Responsive Politics (2008b). Secondo le
interviste a questi manager condotte dal New York Times, se Obama non è il candidato
naturale per il big business, offre però una cosa di cui la Clinton non dispone: potenzialità
di accesso (Sorkin, 2008). A differenza della cerchia interna della Clinton, che è in attività
da tempo, Obama, da nuovo arrivato, offre un’opportunità a chi è relativamente nuovo nei
circoli economici di farsi strada nella sfera politica. Questo potrebbe essere sorprendente,
dato che tanto Obama quanto la Clinton sono favorevoli a un aumento del prelievo fiscale
sui profitti degli hedge fund e dei private equity funds dal 15 al 35 per cento. Comunque, a
parte la spiegazione ovvia dell’atteggiamento opportunistico di chi va dove soffia il vento,
va ricordato che questi non sono contributi che vengono dalle aziende, ma da individui che
gestiscono o lavorano per queste imprese finanziarie, le cui donazioni potrebbero o meno
essere state raccolte in «pacchetti». Questa è in pratica un’indicazione del vasto richiamo
esercitato da Obama sulla classe istruita dei professionisti. Puoi essere un banchiere
d’investimento, ma voler ugualmente mettere fine alla guerra in Iraq. Anzi, le menti
migliori nel settore finanziario sono convinte del danno apportato alla stabilità economica
globale, a partire dai prezzi del petrolio, dalla sconsiderata politica estera
dell’amministrazione Bush. In altre parole, il metro di misura fondamentale
dell’indipendenza di una candidatura è la distanza dalle lobby di Washington perché le
loro donazioni sono direttamente o indirettamente legate alle decisioni politiche.
Il retroterra di classe dei donatori offre interessanti informazioni ma non può essere
assunto come un indicatore del dominio degli interessi di classe su un futuro presidente.
Certo nessuno, neppure Obama, conta di sfidare il capitalismo negli USA, e nemmeno, per
il momento, nel mondo in generale. Ma nel quadro del capitalismo, esiste un ampio
ventaglio di opzioni politiche, ed è improba-bile che questo ventaglio sia stato ristretto per
Obama dalla prove-nienza delle donazioni per la sua campagna. Questo dipende
fondamentalmente dal fatto che, pur considerando la diversificazione di queste donazioni,
come riportato, fino all’88 per cento dei fondi totali ricevuti da Obama per la campagna
delle primarie è venuto direttamente da donazioni individuali (il rimanente 12 per cento
proveniva da pacchetti di donazioni), arrivate da oltre un milione e mezzo di donatori
individuali (dati ufficiali della campagna). Per circa il 47 per cento queste donazioni
erano inferiori ai $200 e per il 76 per cento erano inferiori ai $2000 (Federal Election
Commission, 20 giugno 2008). Viceversa, il 39 per cento dei contributi per Hillary Clinton
e il 41 per cento di quelli di John McCain erano dai $2000 in su18.
Come è riuscita la campagna di Obama a raccogliere questa quantità di denaro senza
precedenti per sostenere il suo progetto politico? Un fattore chiave è l’abile uso di Internet
per la raccolta dei fondi. Anche se i dati non sono conclusivi, le stime sulla proporzione
delle donazioni arrivate attraverso Internet rispetto al totale vanno dal 60 al 90 per cento.
Questo corrisponde a una media del 6 per cento degli americani che effettuano donazioni a
una varietà di cause in Internet. La maggior parte di quelle donazioni venivano da piccoli
donatori che hanno versato piccole somme ripetutamente lungo tutta la durata della
campagna, senza raggiungere il limite massimo di $2300 per persona, e che potevano
quindi reagire prontamente all’evoluzione della campagna in base alle richieste e alle
informazioni presentate sul sito web di Obama. Un rapporto di Norman Ornstein (2008)
sui finanziamenti a Obama rileva che:
Questa tabella contiene coefficienti di regressione non standardizzati per l’effetto di ciascun tratto o emozione sul
giudizio di preferibilità dei candidati da parte di votanti democratici o di tendenze democratiche.
Fonte: Pew (2008b, p. 3).
FIG. 5.5. Disponibilità a votare per un candidato afroamericano, 1958-2007 (Domanda: Se il tuo partito candidasse alla
presidenza una persona ben qualificata, che fosse afroamericana, voteresti per quella persona?).
Fonte: Gallup Organization.
Un fatto interessante è che i dati presentati nella tabella 5.3 si riferiscono alle opinioni
degli elettori bianchi. Dov’è finita la razza nella politica americana? Obama ha trasceso
davvero le iniquità di razza semplicemente evocando la composizione unitaria della sua
famiglia e della sua famiglia estesa, una nuova America comunitaria? In effetti, si è
avvantaggiato di un lungo processo di adeguamento culturale alle realtà di una società
multietnica. Come illustra la figura 5.5, l’approvazione degli americani di un presidente
afroamericano è arrivata praticamente a toccare il livello massimo possibile. A paragone,
nel 2007 solo l’88 per cento degli americani dicevano di essere pronti a votare per un
candidato donna alla presidenza, e solo il 72 per cento avrebbe votato un candidato
mormone (Jones, 2007b). Tuttavia l’effetto Bradley20 ha ancora una sua validità, anche se
gli studi compiuti dal Pew Project Research Center lasciavano intendere che questo trend
stava per cambiare nel 2008:
L’analisi dei conteggi alle primarie e i dati dei sondaggi delle primarie iniziali,
compresi quelli svolti prima e in occasione del Supermartedì (5 febbraio), indicavano
che i sondaggi preelettorali esageravano effettivamente il supporto per il senatore
Barack Obama in tre stati con popolazioni nere relativamente poco numerose – New
Hampshire, California e Massachusetts. Ma il contrario valeva per il South Carolina,
l’Alabama e la Georgia, dove i neri costituiscono un blocco ben più vasto di votanti. I
dati rilevati in South Carolina, Alabama e Georgia ci hanno fatto pensare che ci
trovavamo in presenza di un effetto Bradley «rovesciato», ossia che negli stati con
popolazioni afroamericane relativamente numerose, i sondaggi pre-primarie
tendevano a sottostimare il sostegno per Obama (Greenwalt, 2008).
Parks e Rachlinski (2008) affermano che:
È tempo che i politici e altri leader compiano il passo successivo e vedano gli elettori,
i residenti e i cittadini come produttori di questo cambiamento. Cosa succederebbe se
un politico vedesse il proprio lavoro come quello di un organizzatore, in parte
insegnante e in parte avvocato, uno che non imbroglia gli elettori ma li educa sulle
scelte reali di cui dispongono? (cit. in Slevin, 2007, appendice 1).
Anche se a The New Republic dichiarò che «Alinsky sottovalutava il grado in cui le
speranza e i sogni della gente, i suoi ideali e valori avessero per l’organizzazione non
minore importanza che l’interesse personale» (Lizza, 2007), questa è probabilmente una
salutare correzione al pragmatismo di Alinsky. Ed è una tendenza specifica della politica
di Obama quella di mescolare l’entrare in contatto con i sogni della gente alla sostanza di
fondo dell’organizzazione di base.
Alcuni degli organizzatori chiave di Obama erano veterani, induriti dalle lotte di strada,
provenienti dalle reti di Alinsky. Temo Figueroa era National Field Director di Obama e
antico organizzatore sindacale. Obama arruolò anche Marshall Ganz – ex organizzatore
dello Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC) e ora professore a Harvard e
uno dei maggiori teorici e pratici del paese nel campo dell’organizzazione sociale – perché
lo aiutasse nella formazione di organizzatori e volontari: una componente chiave della sua
campagna presidenziale. Ganz fu fondamentale nello strutturare l’esperienza di
addestramento dei volontari. Molti volontari della campagna di Obama passarono giorni di
intense sessioni di formazione, il cosiddetto «Camp Obama». Le lezioni erano tenute da
Ganz e altri esperti organizzatori, tra cui Mike Kruglik, uno dei mentori di Obama a
Chicago per l’organizzazione. Ai potenziali organizzatori sul campo veniva delineata la
storia delle tecniche dell’organizzazione di base, e suggerite le lezioni chiave da trarre
dalle campagne che avevano avuto successo o erano fallite (Dreirer, 2008). Nell’estate del
2008, la campagna lanciava il programma Obama Organizing Fellows per addestrare gli
studenti universitari nelle tattiche organizzative. Secondo Dreier22 (2008),
Tuttavia, in termini di uso generale di Internet, c’è una notevole differenza nella
frequenza e intensità dell’attività online in dipendenza da caratteristiche sociali, e anche in
questo caso il fattore età è la principale fonte di differenziazione. Mentre il 58 per cento
del gruppo 18-29 anni usava Internet per scopi politici, solo il 20 per cento degli utenti con
più di 65 anni faceva altrettanto (vedi tabella A5.6 in Appendice).
Nell’uso di Internet per scopi politici nel 2008, i sostenitori di Obama erano
considerevolmente più attivi dei sostenitori di ogni altra campagna politica. Questo è in
parte funzione dell’età, come ho mostrato a proposito del considerevole vantaggio di
Obama su altri candidati nel gruppo di popolazione più giovane, ma vale anche
trasversalmente per tutti i gruppi di età. Secondo il sondaggio Pew della primavera 2008
su «Internet and American Life»23, tra i democratici, i sostenitori di Obama erano
tendenzialmente più portati dei sostenitori della Clinton a essere utenti di Internet (82 per
cento contro 71 per cento), probabilmente in funzione dell’età e del livello di istruzione.
Ma anche tra gli utenti di Internet di entrambi i campi, i sostenitori di Obama erano
attivamente impegnati online più dei sostenitori della Clinton – tre quarti dei sostenitori di
Obama (74 per cento) raccoglievano notizie e informazioni politiche online, rispetto al 57
per cento dei sostenitori della Clinton. Tra i democratici online, i sostenitori di Obama
mostravano una maggiore tendenza di quelli di Clinton a effettuare contributi online per la
campagna (17 per cento contro 8 per cento), a firmare petizioni online (24 per cento
contro 11 per cento), a inoltrare commenti politici sui blog e in altre forme (23 per cento
contro 13 per cento) e a guardare video di ogni genere relativi alla campagna (64 per cento
contro 43 per cento). I sostenitori di Obama avevano anche una maggiore tendenza di
quelli di McCain a impegnarsi nella attività online della campagna online. La tabella 5.5
mostra che i sostenitori di Obama erano utenti di Internet molto più intraprendenti di
quelli di Clinton.
TAB. 5.5. Percentuale di sostenitori di Obama e Clinton fra consumatori forti di contenuto politico online
n = 516; margine di errore +/–5%. Tutte le differenze tra i sostenitori di Obama e di Clinton sono statisticamente
significative.
Fonte: Pew Internet and American Life Project, Spring Survey (2008); tabella riprodotta da Smith e Rainie (2008, p.
13).
Time Dodge & Cox (7,14%), AXA (5,79% common stock), Capital Group (4,6%), Fidelity (4,13%), Goldman
Warner Sachs (3,25%), Liberty Media (3%), Vanguard (2,95%), Muneef Tarmoom (UAE) (2,39%)
Steve Jobs (7,3%), Fidelity (5,5%), State Street (3,64%), AXA (2,9%), Vanguard (2,6%), Southeastern
Disney
Asset Management (2,6%), Legg Mason (2,38%), State Farm (2,2%), Kingdom Holdings (1%)
Murdoch Family Trust (31,2% of class B common stock), Dodge & Cox (10,1% class A common stock),
News
HRH Prince Al-Walid bin Talal bin Abdulaziz Alsaud, c/o Kingdom Holding Company (5,7%), Fidelity
Corporation
Management & Research Company (0,96% class A)
Bertelsmann Bertelsmann Foundation (76,9%), Mohn Family (23%)
National Amusements (71,2% class A), Mario J. Gabelli (8,44% class A), Sherry Redstone (8%),
Viacom Franklin (7,8%), Morgan Stanley (6,81%), NWQ Investments (5,47%), Wellington (4,09%), State Street
(3,46%), Barclays (3,5%), Templeton Growth Fund (2,51%)
Sumner Redstone (71,2% class A), AXA (France) (12,2% class B), Sherry Redstone (8%), Goldman
CBS Sachs (6,8%), State Street (4,12%), Barclays (3,24%), Capital Research (2,48%), Neuberger Berman
(2,26%)
NBC (GE) General Electric (80%), Vivendi Universal SA (20%)
Bill Gates (9,33%), Capital Research (5,95%), Steven A. Ballmer (4,9%), Barclays (4,05%), Vanguard
Microsoft
(2,5%), AXA (1,26%), Goldman Sachs (1,2%)
Sergey Brin (President of Technology) (20,4% class B and 28,4% class A - assumes conversion), Larry
Page (21,5% of class B convertible into 28,3% of class A), Eric Schmidt (13,7% class A, 7,7% class B),
Google Fidelity Investments (11,49% class A Common), SAC Capital Advisors (10%), Capital Research (8,3%
class A common), Time Warner (8,2% class A), Citadel (4,6%), Sequoia Capital (3,2%), Legg Mason
Focus Capital (2,2%) common stock), Jennison Associates Capital Corp (1,75%)
Capital Research and Management Company (11,6%), Legg Mason (8,86%), David Filo (5,89%), Jerry
Yahoo!
Yang (4,0%), Citigroup (2,08%), Goldman Sachs (2,02%), Fidelity (1,622%), AXA (0,8%)
Fidelity Investments (6,44%), AXA (3,86%), Barclays (3,69%), State Street (2,96%), Vanguard (2,80%),
Apple Marisco Capital Management (2,44%), Janus Capital Management (2,36%), Bank of New York Mellon
Corp (1,54%)
Fonte: Comunicazioni agli azionisti e bilanci al febbraio 2008 inviati alla US Security and Exchange Commission.
TAB. A3.1. Evoluzione del sostegno alla guerra in Iraq e valutazione della sua gestione in relazione agli eventi bellici
(2003-08)
a
Dati al 4 maggio 2008.
Fonte: Pew (1° maggio 2008); Brookings Institution Iraq Index (1° maggio 2008).
TAB. A4.1. Principali scandali politici che hanno coinvolto l’amministrazione Bush e il Partito Repubblicano (2002/07)
Gennaio
Scandalo Enron. Si scopre che l’amministrazione Bush ha stretti legami con la società e informatori interni
2004
Scandalo Memo. Secondo la commissione giudiziaria del Senato, membri repubblicani dello staff hanno
Marzo
avuto accesso a circa 5.000 file contenenti memo strategici dei democratici sulle nomine giudiziarie
2004
effettuate dal presidente Bush. Alcuni memo sono poi stati passati ai media
28 aprile Scandalo Abu Ghraib. Il programma della CBS 60 Minutes manda in onda il primo servizio sulle torture
2004 inflitte dai soldati americani nella prigione USA di Abu Ghraib in Iraq
Giugno L’Autorità provvisoria delle forze di coalizione in Iraq riporta la scomparsa di una percentuale significativa
2004 di beni
Gennaio Si viene a sapere che l’amministrazione Bush ha pagato una serie di reporter affinché dessero un’immagine
2005 positiva della guerra in Iraq
Affare Plame. Membri chiave dell’amministrazione Bush vengono accusati di aver reso nota l’identità di un
agente CIA, Valerie Plame, a esponenti della stampa nel 2003 per screditare il marito, l’ambasciatore Joseph
Luglio Wilson, che aveva messo in dubbio la notizia data dall’amministrazione appena prima della guerra, ovvero
2005 che l’Iraq avesse cercato di comprare uranio dal Niger. Il 1o luglio 2005 un reporter della MSNCB
testimonia che è Karl Rove la fonte della fuga di notizie. Rove, principale artefice delle campagne
presidenziali di Bush del 2000 e del 2004, si dimette
Scandalo Abramoff. Jack Abramoff, lobbista molto vicino all’amministrazione Bush, viene accusato di
12 agosto
cospirazione e intercettazioni telefoniche. Viene formata una task force con il compito di indagare sulle
2005
accuse di corruzione e collusione con importanti membri repubblicani del Congresso
28
Tom DeLay, leader della maggioranza al Congresso, viene accusato di illeciti finanziari durante la campagna
settembre
elettorale
2005
Dicembre The New York Times pubblica un articolo sulle intercettazioni non autorizzate effettuate dall’Agenzia per la
2005 sicurezza nazionale a danno di cittadini USA
Gennaio Abramoff si dichiara colpevole. Tom DeLay rassegna le dimissioni da presidente della Camera dei
2006 Rappresentanti
Febbraio Lo scandalo Abramoff dilaga man mano che sale il numero dei senatori repubblicani, tra cui Harry Reid, che
2006 si sono fatti corrompere da lobbisti
Settembre Scandalo Foley. Mark Foley, membro conservatore del Congresso, si dimette dopo essere stato accusato di
2006 molestie sessuali nei confronti di giovani valletti parlamentari di Washington
Si dimette il ministro della Giustizia, Alberto Gonzales, per lo scandalo che lo vede accusato tra l’altro di
corruzione per il presunto ruolo avuto nella rimozione di 8 procuratori federali che indagavano su alti
Marzo
funzionari del Partito Repubblicano o si rifiutavano di confermare le accuse contro democratici detentori di
2007
cariche pubbliche che l’amministrazione Bush voleva eliminare alle elezioni del novembre 2006. Gonzales
rassegna formalmente le dimissioni nell’agosto 2007
6 marzo Scooter Libby, capo dello staff del vicepresidente Dick Cheney, viene accusato di falsa testimonianza e
2007 ostruzione alla giustizia per il suo ruolo nell’Affare Plame
Agosto Il senatore conservatore Larry Craig viene arrestato per comportamento osceno e lascivo in un bagno
2007 dell’aeroporto di Minneapolis
Settembre Scandalo Blackwater. L’attenzione si focalizza sulla corruzione dei mercenari che lavorano in Iraq per
2007 conto del governo americano quando i dipendenti della Blackwater uccidono 17 civili iracheni
Canada
Affare Couillard. Vari parlamentari conservatori si dimettono dopo che vengono resi noti i loro rapporti
2008 illeciti con Julie Couillard, membro di una gang di motociclisti criminali, che cerca di ottenere una
commessa governativa
Scandalo sponsorship. Il primo ministro Paul Martin viene sfiduciato dopo lo scoppio di uno scandalo
2005/06 relativo alla distrazione di fondi governativi destinati a una campagna per promuovere il sentimento di
appartenenza nazionale in Quebec
APEC. L’assalto ai manifestanti con spray al peperoncino porta a un’inchiesta di 4 anni sulle procedure
1998 adottate dalla polizia e sul ruolo di supervisione del governo. Il procuratore generale Andy Scott si dimette
per aver detto, mentre era in aereo, che la polizia sarebbe stata il «capro espiatorio» dello scandalo
Airbus. Lungo scandalo che vede coinvolto l’ex primo ministro del Partito conservatore progressista Brian
1995/03
Mulroney, accusato di aver intascato delle tangenti. Controdenuncia di Mulroney per diffamazione
Shawnigate. Il primo ministro Jean Chrétien viene accusato di aver ripetutamente partecipato a transazioni
1993
immobiliari illegali nel corso del suo mandato
Francia
Affare Clearstream. Numerosi politici e membri dei servizi segreti francesi vengono accusati di riciclaggio
di denaro. Secondo accuse anonime, pubblicate dalla stampa nel 2006, nello scandalo sono coinvolti Nicolas
2001/06 Sarkozy, la mafia russa e molti altri. Vengono chieste le dimissioni del primo ministro Dominique de
Villepin, che viene accusato di aver aperto un’indagine su Sarkozy (il suo principale antagonista per la
leadership di partito) per screditarlo
Affare Elf Oil. Vengono processati 40 dirigenti dell’ex colosso petrolifero pubblico, nonché uomini politici
1996/03 e burocrati. Il ministro degli Esteri francese e la sua amante vengono condannati al carcere (lui in seguito
viene rilasciato)
Affare Mitterand-Pasqua. Vendita segreta e invio di armi al governo dell’Angola dall’Europa dell’Est.
1991
Vengono messe sotto accusa 42 persone
Germania
Kohlgate. Helmut Kohl viene accusato di aver intascato tangenti per 10 milioni di $ da Elf Oil durante la
campagna elettorale del 1994. Viene reso noto inoltre che il partito cristiano-democratico ha accettato
1999/00
numerose donazioni illegali durante la leadership di Kohl e che i fondi sono stati depositati su conti bancari
segreti. In seguito allo scandalo il partito praticamente si scioglieb
Waterkandgate. Der Spiegel porta alla luce uno scandalo sulla manipolazione di voti che comprende anche
1987/93
un omicidio e numerose azioni di copertura. All’apice dello scandalo si dimettono due presidenti del partitoc
Italia
Scandalo intercettazioni. La Repubblica pubblica una conversazione tra funzionari di Mediaset e della RAI
2007
in cui si accordano per parlare positivamente del premier Berlusconi
Bancopoli. Scandalo bancario-finanziario che porta alle dimissioni del governatore di BankItalia Antonio
2005/08
Fazio e di altri importanti uomini d’affarid
Tangentopoli. Indagine a 360° che vede coinvolti uomini politici, Vaticano e mafia. 6.000 indagati tra cui
1992/96 l’ex primo ministro socialista Bettino Craxi. Le indagini portano alla disintegrazione dei due principali
partiti politici del dopoguerra
Giappone
Scandalo Suzuki. Un importante membro del partito liberal democratico, Suzuki, viene accusato di aver
accettato denaro da un’azienda della sua circoscrizione, l’Hokkaido. Rassegna le dimissioni nel febbraio del
2002
2002 e a giugno viene condannato. Lo scandalo si ripercuote sul ministro degli Esteri. Il declino politico del
primo ministro Kuzami sembra dovuto anche alla sua indifferenza rispetto agli scandali
Sagawa Kyubin. Uno scandalo di tangenti e corruzione politica, che vede coinvolta anche la mafia, porta
1992 alla condanna del vicepresidente del partito liberal democratico, Shin Kanemaru. Si ritiene che lo scandalo
sia una delle cause della sconfitta elettorale nel 1993, la prima in 34 anni
Scandalo Recruit-Cosmos. Caso di corruzione politica molto esteso e con grande eco sui mezzi di
1988 informazione. 17 membri del governo vengono condannati per insider trading e l’intero gabinetto del primo
ministro Noboru Takeshita rassegna le dimissioni
Russia
Spionaggio tra le rocce. I servizi di sicurezza federali russi indicono una conferenza stampa durante la
quale accusano 12 ONG russe di essere spie dell’ambasciata britannica a Mosca e sostengono che il Regno
2006
Unito abbia nascosto dei dispositivi di spionaggio all’interno di rocce finte e li abbia poi posizionati in zone
pubbliche proprio nel mese in cui Putin decretava la messa al bando delle ONG straniere
Tre balene. Importante indagine per fatti di corruzione tra aziende fornitrici di arredi e funzionari federali. I
2001 testimoni chiave vengono assassinati durante le indagini, che alla fine portano alle dimissioni e/o alla
condanna di molti funzionari di alto livello
Scandalo in sauna. Il ministro della Giustizia Valentin Kovalev viene obbligato a lasciare l’incarico quando
1997 viene reso pubblico un video che lo ritrae mentre fa sesso di gruppo in una sauna. Si sospetta che la «fuga di
notizie» sia opera del ministro degli Interni
Scandalo giovani riformatori. In una serie di «attacchi sotterranei» e ad hoc per tutto l’anno giungono alla
stampa prove della corruzione di un certo numero di alti funzionari del Cremlino. Molti ritengono che la
1997
fonte delle informazioni sia il miliardario russo Boris Berezovsky, uno degli obiettivi delle indagini
intraprese proprio da quei funzionari
UK
Scandalo Peter Mandelson. Peter Mandelson si dimette da ministro per il Commercio e l’Industria in
1998 seguito a un grosso scandalo. La stampa svela infatti che ha ricevuto un prestito segreto da Geoffrey
Robinson, sottosegretario al Tesoro
Denaro in cambio di interrogazioni. Secondo articoli pubblicati da The Sunday Times e The Guardian,
alcuni parlamentari conservatori hanno accettato del denaro da lobbisti per fare delle interrogazioni alla
1994/97
Camera dei Comuni per conto del proprietario di Harrods, Mohamed Al-Fayed. Si può supporre che lo
scandalo abbia contribuito alla travolgente vittoria dei laburisti nel 1997
USA
Jack Abramoff. Il parlamentare Bob Ney, 2 funzionari della Casa Bianca e 9 lobbisti vengono condannati
2006/08
per corruzione
Scandalo Foley. Il parlamentare Mark Foley viene accusato di aver inviato espliciti messaggi sessuali a
2006 valletti minorenni del Congresso. Foley si dimette e la Commissione Etica della Camera apre un’indagine
per capire perché la leadership repubblicana abbia cercato di insabbiare il caso
Maitresse a Washington. Molti uomini politici di primo piano si dimettono quando si viene a sapere che
2006 sono coinvolti in un giro di prostituzione d’alto bordo a Washington. La maitresse sotto indagine consegna
ai giornalisti le registrazioni delle sue telefonate e lascia che vengano rese di pubblico dominio su Internet
2006 Abu Ghraib. Vengono rese pubbliche le foto dei soldati americani che torturano prigionieri iracheni
Affare Plame. Dirigenti della Casa Bianca lasciano trapelare l’identità di un’agente CIA, per screditare il
2003
marito, che sostiene che le prove a sostegno della guerra contro l’Iraq siano false
Scandalo Monica Lewinsky. Il presidente Clinton viene sottoposto a impeachment per aver mentito sotto
1998
giuramento sul suo rapporto con la stagista della Casa Bianca
Scandalo assegni scoperti. La House Bank (Banca del Congresso) viene obbligata a chiudere quando si
1992 viene a sapere che molti parlamentari andavano in rosso senza pagare interessi. L’indagine porta alla
condanna tra l’altro di 5 parlamentari e di un delegato, quando ormai non sono più in carica
Whitewater. Controversia politica circa il coinvolgimento del presidente Clinton e della moglie in una
società immobiliare. Lo scandalo si amplia quando il consigliere della Casa Bianca Vince Foster si suicida.
1992
Il Congresso apre diverse inchieste e affida a Kenneth Starr l’incarico di condurre un’indagine indipendente
sugli interessi dei Clinton
I 5 di Keating. I senatori Alan Cranston, Dennis DeConcini, John Glenn, John McCain e Donald W. Riegle
vengono accusati di aver fornito aiuti impropri a Charles H. Keating jr, presidente della fallita Lincoln
1989
Savings and Loan Association, oggetto di indagine da parte della Federal Home Loan Bank Board. Solo
McCain e Glenn si ricandidano
a
La tabella non vuole essere esaustiva di tutti gli scandali politici. Riporta i principali che hanno avuto grande eco sui
mezzi di informazione e significative conseguenze politiche a livello nazionale.
b
Wolfgang Hullen, capo della delegazione parlamentare cristiano-democratica per il settore finanza e bilancio, si
impicca al culmine delle indagini. Il Kohlgate rappresenta un punto di svolta per l’informazione e la politica tedesche
post-riunificazione. Secondo Hesser e Hartung (2004), lo scandalo – come primo grande scandalo dopo il trasferimento
nel 1999 del governo e dei mezzi di comunicazione da Bonn alla nuova capitale, Berlino – segna la fine della stampa di
parte e della cultura politica da guerra fredda che antepone la sopravvivenza dei partiti alle regole democratiche di
comportamento.
c
Il primo ministro cristiano-democratico Uwe Barschel si dimise nel 1987 dopo essere stato accusato di
manipolazione di voti. Aveva assunto come assistente il giornalista di un tabloid e attraverso di lui messo in atto una
serie di attività che avevano come vittima il suo avversario politico Björn Engholm. Lo faceva seguire da detective
privati, imponeva che venisse denunciato per evasione fiscale, faceva trapelare voci secondo cui era HIV positivo, lo
dipingeva come playboy, omosessuale e sostenitore della pedofilia. Dopo poco due giornalisti lo trovarono assassinato
nella vasca da bagno. Cinque anni dopo, nel 1993, Björn Engholm, segretario della SPD, viene obbligato a dare le
dimissioni in quanto il suo coinvolgimento nello scandalo risulta superiore a quanto presupposto prima delle indagini.
d
Lo scandalo esplode quando Il Giornale, di proprietà di Paolo Berlusconi, pubblica le trascrizioni di telefonate
private tra una serie di personaggi coinvolti nello scandalo, molti dei quali sono alti funzionari del governo di coalizione
di centrosinistra. Le trascrizioni non hanno alcun nesso ufficiale con le indagini e non sono neppure state iscritte tra le
prove. La fonte della fuga di notizie rimane anonima. Tuttavia le intercettazioni diventano uno degli argomenti clou della
campagna elettorale dell’aprile 2006.
Fonte: informazioni giornalistiche raccolte ed elaborate da Amelia Arsenault, 2008.
TAB. A4.4. Partecipazione politica diversa dal voto negli USA, 1980-2004 (valori %)
FIG. A4.1. Percentuale di cittadini che hanno poca o nessuna fiducia nel governo, 1996-2007.
Nota: I dati Gallup ed Eurobarometro si riferiscono al 1997, 2002 e 2007; i dati Latinobarometer sono disponibili per
gli anni 1996, 2002 e 2006.
Domande:
Eurobarometro: «Tende ad avere o a non avere fiducia nel suo governo?».
Gallup: «Quanto spesso ritiene che il governo di Washington stia facendo la cosa giusta?». Le percentuali saranno le
risposte « Solo qualche volta» e «Mai».
Latinobarometer: «Por favor, mire esta tarjeta y dígame, para cada uno de los grupos/instituciones o personas
mencionadas en la lista. ¿Cuánta confianza tiene usted en ellas: mucha, algo, poca o ninguna confianza en …?» Aquí
solo «Mucha» y «Algo».
Fonte: Eurobarometer (1997, 2002, 2007); Gallup (1997, 2002, 2007); Latinobarometer (1996, 2002, 2006).
FIG. A4.2. Cittadini che hanno poca o nessuna fiducia nel parlamento/organo legislativo (valori %), 1997-2007.
Domande:
Eurobarometro: «Tende ad avere o non avere fiducia nel parlamento nazionale?»
Gallup: «Quanta fiducia ha in questo momento nell’organo legislativo, ovvero nel Senato e nella Camera dei
Rappresentanti?»
Latinobarometer: «Por favor, mire esta tarjeta y dígame, para cada uno de los grupos/instituciones o personas
mencionadas en la lista. ¿Cuánta confianza tiene usted en ellas: mucha, algo, poca o ninguna confianza en …?» Aquí
solo «Mucha» y «Algo».
Fonte: Sondaggi Eurobarometro (Europa), Gallup (USA) e Latinobarometer (America Latina).
FIG. A4.3. Cittadini che ritengono che i partiti politici del loro paese siano corrotti o estremamente corrotti (valori %).
Fonte: Barometro Globale della Corruzione da dati tratti da «Voice of the People Survey» di Gallup International in
60 paesi (2007).
FIG. A4.4. Percezione dei leader politici in 60 paesi (valori %), 2007.
Fonte: «Voice of People Survey» di Gallup International in 60 paesi (2007).
FIG. A4.5. Intervistati per regione che ritengono disonesti o non etici i loro leader politici (valori %), 2007.
Fonte: «Voice of the People Survey» di Gallup International in 60 paesi (2007).
FIG. A4.6. Intervistati che ritengono che il loro paese sia governato nell’interesse di pochi (valori %), 2008.
Fonte: Indagine in 19 paesi WorldPublicOpinion.org (2008).
Clinton Obama
Tutti 48 46
Uomini 43 50
Donne 52 43
Bianchi 55 39
Neri 15 82
Ispanici 61 35
Uomini bianchi 48 45
Donne bianche 60 34
18-29 anni 38 58
65+ anni 59 34
Non laureati 52 42
Laureati 44 52
Bianchi non laureati 62 31
Bianchi laureati 48 47
Urbano 44 52
Suburbano 50 44
Rurale 52 40
Reddito < $50.000 51 44
$50.000-100.000 47 47
$100.000 + 45 51
Bianchi < $50.000 51 44
Bianchi $50.000-100.000 54 39
Bianchi $100.000 + 48 47
a
La tavola riporta i dati dei 39 stati in cui la National Election Pool (NEP) effettua gli exit poll nei giorni delle
elezioni. La NEP è un consorzio di organizzazioni operanti nel settore dei media di cui fanno parte ABC, CBS, CNN,
FOX, NBC e Associated Press, creato dopo le controversie sui dati contrastanti degli exit poll alle elezioni 2000 e 2002.
La tabella non riporta alcuni stati che scelgono il candidato senza votazioni e quindi non riflette appieno il vantaggio di
Obama sulla Clinton. Tuttavia non è possibile avere una stima esatta delle percentuali di voto popolare per ogni
candidato. Le primarie democratiche vengono decise in ogni stato per elezione diretta, scegliendo il candidato senza
votazione o adottando entrambi i metodi. Quattro stati che decidono senza votazione non riportano neppure il numero di
cittadini a sostegno di ciascun candidato. Inoltre, nel 2008 la Commissione democratica nazionale ha dichiarato non
valide le elezioni del Michigan (Obama aveva ritirato la propria candidatura dal ballottaggio) e della Florida a causa di
controversie sul modo in cui erano state programmate; di conseguenza, le stime differiscono a seconda che il totale di
questi due stati vengano inclusi, e in che misura, nel conteggio. Se si escludono gli stati problematici (Michigan, Florida,
Iowa, Nevada, Maine, Washington), si stima che Obama abbia ottenuto il 48,1% (17.535.458 voti) dei consensi rispetto
al 48% di Hillary Clinton (17.493.836 voti).
Fonte: ABC News che cita i risultati NEP nei 39 stati in cui vi sono stati gli exit poll.
TAB. A5.4. Primarie democratiche 2008: le qualità più importanti di un candidato al momento del voto (valori %)
Clinton Obama
Porta cambiamento 29 68
Ci tiene 48 42
Ha l’esperienza necessaria 91 6
Ha maggiori probabilità di vincere 50 47
Fonte: ABC News che cita i risultati NEP nei 39 stati in cui vi sono stati gli exit poll.
TAB. A5.5. Primarie democratiche 2008: le questioni più importanti al momento del voto (valori %)
Clinton Obama
Economia 51 44
Guerra in Iraq 42 53
Sanità 52 43
Fonte: ABC News che cita i risultati NEP nei 39 stati in cui vi sono stati gli exit poll.
TAB. A5.6. Impegno politico online durante le primarie democratiche 2008. Percentuali in ogni gruppo di adulti
intervistati (utenti e non utenti Internet) che hanno utilizzato Internet, e-mail e SMS per avere notizie di
politica o scambiarsi punti di vista sulla campagna elettorale
Sesso
Maschio 50
Femmina 43
Età (anni)
18-29 58
30-49 56
50-64 41
65+ 20
Reddito familiare annuo
< $ 30.000 28
$ 30.000-49.999 47
$ 50.000-74.999 56
$ 75.000 + 70
Razza/Etnia
Bianchi (non ispanici) 47
Neri (non ispanici) 43
Ispanici (che parlano inglese) 50
Livello di istruzione
Senza diploma 19
Diploma 32
Alcuni anni di università 56
Laureati 69
Febbraio Su Internet circolano voci anonime secondo le quali il Ku Klux Klan ha dato il proprio
Obama
2008 appoggio a Obama
Obama Circolano voci anonime secondo le quali Hugo Chavez sovvenziona la campagna di Obama
Obama Lo staff della Clinton fa circolare una foto di Obama vestito come un anziano somalo
Gennaio L’autista di limousine Larry Sinclair mette sul suo sito web un video in cui sostiene che Obama
Obama
2008 si è drogato e ha cercato di fare sesso orale con lui
Viene messa in rete un’e-mail a catena sui commenti fatti dall’ex consigliere di Bill Clinton,
Clinton Dick Morris, che afferma che Hillary Clinton non ha superato gli esami di avvocato a
Washington (cosa vera)
Viene messa in rete un’e-mail a catena che asserisce che, da studente, la Clinton ha avuto come
tutor il capo del partito comunista californiano. L’e-mail si basa su un articolo scritto da Dick
Clinton
Morris e pubblicato da FrontMag nell’agosto 2007. Numerose fonti dimostrano che le
asserzioni di Morris sono falseb
Viene messa in rete un’e-mail a catena secondo la quale la principale attività extracurriculare
della Clinton mentre frequentava la facoltà di legge di Yale consisteva nell’aiutare i membri
Clinton
delle Pantere Nere, che erano sotto processo nel Connecticut per aver torturato e ucciso un
agente federale
Circolano voci secondo le quali Obama ha prestato giuramento come membro del Senato sul
Obama
Corano invece che sulla Bibbia
Dicembre Girano due voci distinte: che la chiesa di Obama sia, in verità, musulmana e che accetti solo
Obama
2007 afroamericani
Ottobre Obama viene accusato di antipatriottismo per non aver indossato la spilletta con la bandiera in
Obama
2007 sostegno alle truppe
Obama viene accusato di antipatriottismo per non aver messo la mano sul cuore durante l’inno
Obama
nazionalec
Donny McClurkin, cantante gospel e «omosessuale della chiesa riformista», fa la sua comparsa
Obama
durante una raccolta fondi per Obama
Agosto
Clinton La Clinton fa presunti commenti marxisti
2007
Aprile
Obama Obama viene criticato per l’anacronismo del discorso fatto a Selma
2007
Marzo Un video anonimo anti Clinton e pro Obama viene messo su YouTube; è un adattamento della
Clinton
2007 pubblicità Apple «Think Different»d
Il 17 gennaio, il giorno successivo a quello in cui Obama annuncia di aver istituito una
commissione esplorativa per le elezioni presidenziali, InsightMag. com (conservatore) riporta
che «fonti vicine a un controllo sul passato» presumibilmente «condotto da ricercatori legati a»
Febbraio Hillary Clinton, hanno scoperto che Obama «ha trascorso almeno 4 anni in una Madrasa, o
Obama
2007 scuola coranica, in Indonesia». Secondo l’articolo le fonti hanno asserito che «l’idea è di
raffigurare Obama come bugiardo». Sempre secondo le fonti, la «Madrasa frequentata da
Obama» potrebbe avergli insegnato «una dottrina wahhabista che nega i diritti ai non
musulmani»e
a
Caren Bohan, «Obama defends “bitter” remarks; McCain attacks», Reuters, 14 aprile 2008.
b
Julie Millican, «Dick Morris makes numerous false claims in purported attempt to “correct” Bill Clinton’s syrupy
five minute ad for Hillary», Media Matters.org, 15 agosto 2007.
c
Torie Bosch, «How Barack Obama broke the law», Slate.com, 13 novembre 2007.
d
Si può vedere il video al seguente indirizzo: www.youtube.com/watch?v=6h3GlMZxjo.
e
John W. Delicath, «Myths and falsehoods about Barack Obama», Media Matters. org, 20 marzo 2007.
Fonte: Informazioni raccolte da Sharon Fain e Amelia Arsenault (2008). La documentazione sulle e-mail a catena
proviene da Politicalfact.com, servizio offerto da St. Petersburg Times e Congressional Quarterly.
TAB. A5.8. Principali eventi mediatici e scandali politici durante le primarie democratiche 2008, gennaio-giugno