I.5 Leibniz: la piega che unisce la filosofia e l’arte barocca
L’ultimo lavoro monografico di Deleuze, riguarda l’analisi della filosofia di Leibniz, dove il filosofo francese opera una analogia tra la filosofia e l’arte barocca, al cui sfondo si trova l’immagine della piega Per Deleuze il concetto di “piega che va all’infinito” unisce la filosofia all’arte barocca, tracciando quell’affinità a lui cara tra filosofia e arte, che offre spunti di riflessione e di chiarimenti, sia per la filosofia che attraversa l’arte, che per l’arte che attraversa la filosofia. Deleuze spiega che il rapporto tra la monade e il mondo, può essere chiarito solo se si parte dal mondo e si comprende che la monade, in quanto anima o soggetto è “per” il mondo, ossia essa è un “punto di vista” sul mondo. La monade intesa come punto di vista si afferma non come un essere “nel” mondo, ma come un essere “per” il mondo e pur esprimendo il mondo intero, esprime però chiaramente solo una piccola regione del mondo, un “dipartimento”, una variazione che è il suo punto di vista: “la monade è per il mondo, nessuna contiene chiaramente la ragione della serie, da cui esse risultano tutte e che resta loro superiore come il principio del loro accordo” (Deleuze Gilles, Le Pli (Leibniz et le baroque), Ed. de Minuit, Paris, 1988, tr. It. La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino, 1990, p. 38). Quindi il mondo in quanto espresso della monade, pur essendo unico, “variabile unica”, esprime infinite variazioni. In realtà secondo Deleuze una condizione positiva, è la condizione che le permette di avere un punto di vista singolare e autonomo sul mondo: Bisogna mettere il mondo nel soggetto, affinché il soggetto sia per il mondo. Questa torsione costituisce la piega del mondo e dell’anima. E conferisce all’espressione il suo tratto fondamentale: l’anima è l’espressione del mondo , ma perché il mondo è l’espressione dell’anima. L’essenza della monade è rappresentata da un fondo scuro da cui essa percepisce il mondo intero, è paragonato da Deleuze all’ideale architettonico barocco di “una stanza in marmo nero”, dove la luce penetra esclusivamente attraverso orifizi occultati per non lasciare intravedere niente dal di fuori, illuminando o colorando le decorazioni con un puro interno. Ma la monade non avendo aperture ha come “sigillata una luce, che si illumina e che produce il bianco il quale s’incupisce verso il fondo oscuro da dove escono le cose”. Vi è, dunque un nuovo regime della luce e dei colori, attraverso il quale il chiaro, il bianco, è inseparabile dall’oscuro, dal nero, dando origine alla nuova tonalità del chiaroscuro. Questa scoperta del chiaroscuro è molto importante per Deleuze perché con esso inaugura una nuova logica dell’Idea e della percezione, “un’idea chiara è di per sé confusa, e confusa in quanto chiara ,il chiaro è di per sé confuso, e reciprocamente il distinto, di per sé oscuro” (Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. pp. 343- 344). Ma con la nozione di chiaroscuro si chiarisce anche il movimento della piega interiore alle monadi. Dunque la cosa che maggiormente interessa Deleuze è che la percezione cosciente, chiara, o l’Idea chiara nasce dalle micropercezioni oscure, inconsce. La piega della percezione è dunque sempre un differenziante, un differenziale, una piega che differenzia e si differenzia, in cui la differenziazione “non rinvia ad un indifferenziato precostituito, ma a una differenza che non smette di spiegarsi e ripiegarsi” (Deleuze Gilles, La piega. Leibniz e il barocco, op.cit., p. 46), in cui cioè il fondo oscuro delle pieghe delle monadi non è indifferenziato ma si presenta pieno di differenze. Quindi percepire è piegare in due modi: attraverso le piccole pieghe delle micro percezioni dell’inconscio e con le grandi pieghe delle macro percezioni che ne derivano. La grande percezione rimanda non ad un oggetto ma ai rapporti differenziali tra le piccole percezioni e quest’ultime rimandano al mondo e non ad un oggetto. Ma percepire, nel senso di piegare è anche cogliere il mondo come evento, come molteplicità caotica, da cui però bisogna “fare uscire qualcosa”. Deleuze pone infatti come condizione dell’evento, il caos, ma un caos regolato da tagli attraverso cui “qualcosa”, pur mantenendo la sua infinità, non sprofondi in un abisso indifferenziato. L’evento, non è semplicemente ciò che accade, ma “qualche cosa in ciò che accade che è la semplice espressione che ci fa segno e che ci aspetta”, e che deve essere voluto, liberato. Così come l’insieme delle piccole percezioni potrebbero dare origine ad un caos come stordimento se non si estraessero dei differenziali in grado di integrarsi in percezioni chiare. L’evento dunque riguarda il mondo intero attraversato dalla piega: “il mondo stesso è evento, e deve essere incluso in ogni soggetto come un fondo,da cui ognuno estrae le maniere che corrispondono al suo punto di vista” (Deleuze Gilles, La piega. Leibniz e il barocco, op. cit., p. 80). L’evento esprime la relazione tra mondo e monade, relazione proposizionale in cui “il mondo è la predicazione stessa, le maniere sono i predicati particolari e il soggetto ciò che passa da un predicato ad un altro”. Relazione ed evento trasformano il soggetto che diviene creativo e portatore di novità. Infatti, il soggetto che ha come predicato l’evento è un soggetto necessariamente creativo: esso è definito da Deleuze come “prensione”; quest’ultima indica in ogni individuo e in ogni cosa, una interazione, una comunicazione, una percezione-affezione con tutti gli altri. Dunque ogni cosa in quanto prensione comprende tutto ciò da cui procede e ciò verso cui si dirige, contraendo e contemplando il mondo intero, per cui la prensione si rivela quasi come una ripetizione contraente. Ma ciò che maggiormente interessa Deleuze è il fatto che dall’incontro di due o più flussi di divenire si possa creare qualcosa di nuovo, appunto l’evento, creando nuovi divenire e nuove armonie, ponendo le condizioni per l’affermarsi dell’evento del desiderio che è esso stesso piano di concatenamento. Per Deleuze, dunque, si tratta invece di affermare la divergenza, la dissonanza, in seno all’unicità del mondo stesso, senza esclusione poiché tutto è interazione, tutto passa nell’unica Piega dipanando la molteplicità del mondo, in cui non vi sono frontiere o muri irriducibili. Forse è proprio questo il significato che Deleuze dà all’evento, stabilendo un’etica dell’evento, intesa come un essere degno dell’evento, poiché nel dire “sì” all’evento noi stessi ci liberiamo di tutti gli eventi negativi, affermandoci come “singolarità impersonali e preindividuali, il sì dell’evento puro”. Anche la morte si affermi come evento e si rivolge contro se stessa in quanto fenomeno biologico, poiché l’evento del “morire” destituisce ogni morte personale: “l’impersonalità del morire non segna più soltanto il momento in cui io mi perdo fuori di me, ma il momento in cui la morte si perde in se stessa, e la figura più singolare che la vita assume per sostituirsi a me”. La filosofia non ha altro scopo che diventare degna dell’evento”. Essere degni dell’evento, volere l’evento, diventa allora il momento più alto della libertà in cui si decide una forza selettiva e creativa della volontà, che denuncia l’ordine dei poteri. Deleuze paragona i suoni alle nomadi. Proprio per sottolineare che l’interazione stabilisce tra gli accordi musicali una perfetta armonia Deleuze, per spiegare il concetto di armonia fa riferimento al modello musicale del concerto barocco. Infatti, la casa barocca a due piani diventa una casa musicale, in cui nel piano in basso si estendono le linee melodiche orizzontali del sensibile; mentre nel piano in alto troviamo le monadi verticali armoniche, gli accordi interiori. Ma gli accordi della melodia, gli accordi orizzontali, sono possibili solo in quanto vengono realizzati dagli accordi interni dell’armonia verticale che rappresenta l’unità concettuale, spirituale della monade. E’ la stessa melodia che viene sottoposta ad un principio armonico perchè si realizzino gli accordi. Il principio dell’armonia è dunque di realizzare gli accordi e di risolvere le dissonanze rendendole funzionali all’interno di un’ armonia universale. L’armonia dunque esprime l’unicità del mondo, l’accordo del mondo, “il mondo è come una partitura musicale”, linea orizzontale melodica, che viene espresso armonicamente, verticalmente dalle monadi, ma siccome l’espresso è un solo e unico mondo che non esiste al di fuori delle monade che lo esprimono, si stabilisce una unità tra la melodia e l’armonia, che dà origine ad un unico Piano di composizione, ad una sinfonia della natura. Ma, questo unico piano di composizione riguarda solo il mondo convergente, mentre per Deleuze si tratta proprio di costruire un Piano di immanenza, una Piega del fuori, e non più del dentro in cui “non soltanto le dissonanze non devono più essere risolte, ma le divergenze possono essere affermate. Un mondo, dunque, dove non esiste più una differenza tra l’interiore e l’esteriore, tra i due piani, ma vi è un unico Piano di immanenza. La musica non esprime più accordi, ma crea nuove armonie che nascono da divergenze, da differenze che non sono più opposizioni, da molteplicità che non hanno più un centro e in cui si tratta ancora di “piegare, dispiegare, ripiegare” all’infinito. Uno dei grandi meriti della pittura è quello di trovare una via di uscita dalla rappresentazione figurativa e indica nell’isolamento ciò che Deleuze chiama clichè, evidenziando con ciò il “già dato”,(i dati figurativi, dati psichici e fisici), percezioni già pronte, è già presente sulla tela prima che il lavoro del pittore cominci, ed è anche già presente nella testa del pittore stesso. Deleuze definisce l’immagine pittorica, l’immagine nella sua nudità, come un fatto pittorico : “non un’immagine giusta, ma giusto un’immagine” (Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, op. cit. p. 13), laddove per “giusto un’immagine” si intende proprio una secchezza dell’immagine sottratta ad ogni clichè visivo colta nella sua assoluta presenza, in questo senso essa è pensiero. La questione dei cliché ha dunque una portata più vasta nel pensiero deleuziano, poiché riguarda il problema del rapporto tra pensiero e realtà. Deleuze afferma:”io non credo alle cose” bensì agli eventi mentre i media non riescono a cogliere un evento perché “mostrano spesso l’inizio o la fine, mentre un evento continua. Deleuze dunque “non crede” alla realtà già data, manipolata dai media, alla realtà senso motoria dei corpi, a cui oppone il senso evento che apre un nuovo campo trascendentale, che esclude ogni somiglianza tra i fatti empirici e il senso trascendentale. Sotto questo aspetto potremmo dire che la realtà è prodotta dal senso, o nei termini dell’anti Edipo dal desiderio. Ma il possibile di cui qui parla Deleuze non è ciò che comunemente si pensa, come qualcosa che può accadere, esso non è né ricalcato sul reale, né tantomeno subordina a sé il reale, ma è la pura forma del possibile, che non è mai data in anticipo, ma va sempre creata. In questo senso il possibile si afferma solo nell’evento, irriducibile ai determinismi sociali, storici, ed ai cliché, contro i quali anzi si ribella. Questo significa che la lotta contro i cliché riguarda la creazione di una nuova percezione che è anche una nuova politica, poiché i cliché ci tolgono “la visione pura” della realtà, quella cioè creata nell’evento. Dunque la lotta conto i cliché è fondamentale per Deleuze, poiché essa è liberazione, “libertà per la fine di un mondo”, del mondo dei cliché, in cui si capisce anche la portata rivoluzionaria dell’arte. Infatti il pittore come il “veggente rivoluzionario” distrugge i cliché che sono sulla tela e dentro di lui, pulisce la tela dai dati figurativi, introducendo un caos distruttore e creativo, poiché esso è anche “un germe di ordine o di ritmo” (Deleuze Gilles, Francis Bacon. Logica della sensazione, p. 169). La Figura,è un corpo ma non è un corpo figurativo, non è forma, né ha dei limiti senso-motori, ma è attraversato da forze che lo deformano, che lo fanno fuggire da sé. Deleuze ci dice che “non sappiamo dove finisce il corpo” e”non sappiamo cosa può un corpo”, e non lo sappiamo perché il corpo non è fissato dai limiti dell’organismo , ma del corpo vissuto. La Figura è ora proprio il corpo senza organi, nei termini dell’anti-Edipo, la superficie metafisica del desiderio che disfa l’organizzazione molare dell’organismo a vantaggio di una potenza originale e propria del corpo, di un “corpo nudo”, ovvero senza organismo, che ci spinge fuori di noi stessi, scompaginando tutti i codici e deterritorializzando i “corpi vestiti”, cioè organizzati secondo codici ed organismi, della terra, del despota, del capitale denaro Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, op. cit. p. 320). Poiché esso è puro processo schizofrenico di deterritorializzazione: “il corpo senza organi è il deserto ove scorrono i flussi decodificati del desiderio, fine del mondo, apocalisse”, laddove la fine di tutte le identità degli organismi , coincide con l’affermarsi del puro piano di immanenza, senza confini, del desiderio. Pochi mesi prima di morire, Deleuze ritorna su un concetto a lui caro: l’immanenza, e vi ritorna con la premura di chi voglia chiarirlo e al contempo rilanciarlo in tutta la sua forza. Prima di ogni cosa Deleuze, distingue il campo trascendentale, esso infatti, non riguarda l’esperienza poiché non si riferisce né a un oggetto, né è di pertinenza di un soggetto, e né tantomeno esso riguarda “la pura coscienza immediata senza oggetto né io” (Deleuze Gilles, “L’immanenza: una vita...”, in aut aut, n. 271-272, 1996., p. 4), poiché qualsiasi coscienza implica sempre una trascendenza. Quindi il campo trascendentale non riferendosi a nulla di trascendente “si caratterizza come un puro piano di immanenza”, insomma immanenza assoluta. Ma ecco che Deleuze ci spiega che la pura immanenza di cui sta parlando “è una vita, e nient’altro”, ma anche qui non si tratta di attribuire l’immanenza alla vita come a una coscienza trascendente, l’immanenza non è mai immanente a qualcosa, perché in questo modo si reintroduce la trascendenza, ma è sempre immanente solo a se stessa; quindi non è”immanenza alla vita, ma l’immanente che non è in niente, è una vita. La vita personale dell’ individuo con le sue storie negative è superata nello splendore impassibile e neutro di una vita impersonale, seppure singolare, di una singolarità pre- individuale, che esprime un puro evento liberato dagli accadimenti esteriori e limitanti, è una ecceità: una vita al di là di una vita vissuta.
I.6 Nietzsche il filosofo dell’avvenire.
Deleuze, vede in Nietzsche il primo filosofo capace di creare “qualcosa” di nuovo in filosofia: un nuovo stile, nuovi modi di esistenza, nuovi valori, una nuova critica, ciò lo rende il filosofo dell’avvenire. Nietzsche è qualcosa di completamente diverso, è l’alba di una controcultura”, poiché mentre il marxismo e la psicoanalisi pongono come fine “una ricodificazione di ciò che all’orizzonte non cessa di decodificarsi mediante lo Stato, nel caso del marxismo;o ricodificazione mediante la famiglia nel caso del freudismo, quella che invece viene prospettata è una dialettica conservatrice dei codici, dei valori stabiliti. Nietzsche pone un altro problema “ è il problema della trasvalutazione”, della trasmutazione dei valori, “una decodificazione assoluta: far passare qualcosa che non sia codificabile” (Deleuze Gilles, “Pensiero nomade”, in aut aut, n. 276 nov-dic, 1996, p. 15), cioè creare dei nuovi valori, affermare una nuova potenza che faccia di Nietzsche un filosofo dell’”oggi”. Visto che “la società contemporanea non funziona a partire da codici”, ma soprattutto dell’avvenire, acquista estrema importanza il gesto inaugurale di Nietzsche, la decodificazione assoluta, la trasmutazione, che elimina ogni ricodificazione del presente del passato e del futuro che anticipa un senso nuovo dell’avvenire come sua creazione. La critica di Deleuze verso il panorama della filosofia contemporanea è volta ad affermare la differenza della filosofia di Nietzsche da tutti gli altri filosofi del suo e del nostro tempo, sottolineando il suo carattere creativo e di assoluta novità. Per Deleuze, dunque, leggere Nietzsche è cosa molto diversa che leggere un qualsiasi altro filosofo, poiché si stabilisce una relazione che non è “né legale, né contrattuale, né istituzionale”, ma ci si sente come “imbarcati con” e si è costretti a “remare insieme condividere qualcosa, al di fuori di qualsiasi legge, di qualsiasi contratto, di qualsiasi istituzione. Una deriva, un movimento di deriva o di deterritorializzazione”. Leggere Nietzsche allora significa “cercare con quale forza esterna attuale esso fa passare qualcosa”, ovvero proseguirne la deterritorializzazione, la decodificazione, la trasmutazione. Per questo Deleuze, si situa sulla linea di fuga instaurata da Nietzsche, cercandone “macchinazioni” attuali, forze che ne diano un nuovo senso, poiché è la stessa opera di Nietzsche che si pone in contatto con “un puro fuori”, come un’ “aria pura” che lascia passare nuove forze. Con Nietzsche Deleuze vede l’affermarsi di una nuova immagine del pensiero, una nuova pratica filosofica che si contrappone all’immagine dogmatica del pensiero, come conoscenza del vero, in cui è presupposta una buona volontà rivolta al vero, e dove il pensiero possederebbe in quanto tale, il vero , in cui pensare si confonde con il buon uso, un uso retto delle facoltà per pensare la verità. Tale critica è un punto molto importante per Deleuze, infatti essa verrà ripresa in Differenza e ripetizione contro il buon senso e il senso comune del pensiero. La conseguenza di tale immagine dogmatica del pensiero è che il vero è concepito come universale astratto, ed è proprio da qui che si muove la critica poiché per Nietzsche “non c’è verità che prima di essere una verità, non sia la realizzazione di un senso o di un valore” (Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 132), in altre parole non esiste una verità in sé, indipendente dalle forze o dalla potenza che agiscono in essa, per cui “la verità di un pensiero deve essere interpretata valutata in base alle forze o alla potenza che lo inducono a pensare un cosa piuttosto che un’altra”. Quindi il pensiero con Nietzsche non si muove più nell’elemento astratto del vero, ma in quello reale del senso e del valore. Deleuze vede in Nietzsche il filosofo della differenza, della molteplicità del pluralismo, che garantisce una libertà concreta al pensiero. Per Deleuze è grazie alle nozioni di senso e di valore, introdotte da Nietzsche che , possiamo scorgere un modo di essere, di esistere. Infatti, Nietzsche ribalta la concezione classica dei valori e in questo opera un vero sovvertimento critico: la valutazione, intesa nel senso classico, presuppone dei valori in sé, considerati come principi. valori ad essa corrispondenti: elemento critico e creativo al tempo stesso”. Con tale scoperta del valore dell’origine è possibile realizzare una critica totale, poiché il filosofo- genealogista interpreta e valuta tutti i fenomeni e tutti i valori a partire da una domanda. Per Deleuze Nietzsche è colui che resiste al dentro, a cui oppone una potenza di deterritorializzazione,cioè la potenza di un puro fuori, che investe tutti i codici ed elimina ogni possibilità di ricodificazioni: “Nietzsche fonda il pensiero , la scrittura , su un supporto immediato un aforisma che non vuole dire niente, non ha più né significante né significato, ovvero quelle modalità che servono a restaurare l’interiorità di un testo” (Deleuze Gilles, “Pensiero nomade”, in aut aut, op. cit. pp. 16-17). Così facendo si trasforma il pensiero in “una potenza nomade”. Quindi è sempre con altre forze che la forza entra in relazione, ed è questo il senso del pluralismo della filosofia di Nietzsche, che Deleuze precisa poiché tale rapporto tra le forze non ha nulla di dialettico. Si stabilisce invece un rapporto gerarchico per cui una forza domina, ed un’altra viene dominata , riconoscere la loro differenza non indica nessuna negazione dialettica dell’ una sull’altra. Vi sono dunque due specie di forze: quelle dominanti che hanno come loro qualità l’attività, e quelle dominate che sono qualificate come reattive, ma rimangono forze che esercitano le loro finalità. Esse rappresentano la coscienza., mentre le forze attive sono inconsce, ma il loro ruolo è fondamentale poiché senza di esse “le reazioni non potrebbero venir considerate in termini di forza”. Per cui vi è una differenza di qualità tra le due forze, che corrisponde alla loro differenza di quantità: “la differenza di quantità costituisce l’essenza della forza, il rapporto tra una forza e un’altra”. Quindi, la critica di Nietzsche si pone verso tutti coloro che vogliono negare le differenze tra le forze, poiché essi così facendo vogliono “negare la vita, svalutare l’esistenza preannunciandole una morte che precipiti l’universo nell’indifferenziato”, ed è per questo motivo che Deleuze vede in Nietzsche il filosofo dell’affermazione della differenza contro ogni dialettica dell’opposizione e della riconciliazione. Infatti, quando si elimina la differenza originaria tra forze attive e reattive, quando non si afferma la genealogia come valore dell’origine, come differenza nell’origine, si assiste al trionfo del nichilismo, delle forze reattive, che Nietzsche denuncia nelle figure del risentimento, della cattiva coscienza, e dell’ideale ascetico ; ma perché questo trionfo sia possibile occorre ancora una volontà che lo affermi. Il concetto di forza implica un rapporto tra forze, una duplicità della forza che Nietzsche chiama volontà di potenza quale elemento differenziale della forza. Ma la volontà di potenza perché sia l’origine delle qualità delle forze, deve avere delle qualità diverse da quelle della forza, essa infatti ha come sue due qualità originarie, l’affermativo e il negativo, che entrano in rapporto con le due qualità originarie delle forze, l’azione e la reazione. Per cui si stabiliscono delle affinità tra l’affermazione e l’azione, tra la negazione e la reazione, ma esse rimangono distinte poiché “l’azione e la reazione sono più che altro dei mezzi, degli strumenti di cui la volontà di potenza si serve per affermare o negare” (Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 82). Esse costituiscono la catena del divenire e insieme la trama delle forze”. La volontà di potenza, dunque, si presenta sotto due aspetti : come negazione, cioè volontà del nulla che genera un divenire-reattivo delle forze, ovvero il nichilismo; e come affermazione, volontà di affermare la vita, da cui deriva il divenire attivo delle forze. Il problema è capire che questi due aspetti hanno un significato molto diverso fra loro. Il nichilismo è la svalutazione della vita, ovvero la negazione come qualità della volontà di potenza, ma tale definizione è insufficiente se non si capisce il ruolo svolto dal nichilismo: è esso infatti che ci fa conoscere la volontà di potenza, ma solo come volontà del nulla: “il nichilismo, la volontà del nulla, non è soltanto una volontà di potenza o una sua qualità, ma è la ratio cognoscendi della volontà di potenza in generale e tutti i valori conosciuti e conoscibili ne derivano per natura” (Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 200). Il nichilismo ci fa conoscere solo un aspetto della volontà di potenza e lo assume come unico, ma la volontà di potenza a sua volta rivela all’interno del nichilismo stesso un’altra faccia che va contro esso: “la faccia sconosciuta, l’altra qualità della volontà di potenza, la qualità sconosciuta, l’affermazione. Ma l’affermazione non è solo una volontà di potenza : essa è ratio essendi della volontà di potenza in generale, ratio essendi dell’intera volontà di potenza, dunque,ragione che espelle il negativo dalla volontà, così come la negazione era la ratio cognoscendi di tutta la volontà di potenza ” (Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 200). Infatti lo scopo della filosofia di Nietsche è la liberazione dal nichilismo, che può avvenire proprio grazie ad una trasmutazione all’interno della volontà di potenza. Volontà di potenza, non significa, dunque, volontà di potere, di dominio, ma principio dell’affermazione, “virtù che dona”, ciò che Deleuze chiama desiderio. Infatti, vi è una continuità tra la nozione di volontà di potenza nietzscheana e quella di desiderio che Deleuze sviluppa nell’ anti-Edipo, dove il problema da cui si parte è lo stesso di Nietzsche: si tratta cioè di capire perché trionfano le forze reattive e quali sono le forze, le potenze capaci di superarle. Il punto da cui prendono le mosse Deleuze e Guattari, è quello di Nietzsche, insomma capire che per sconfiggere le forze repressive bisogna individuarne il desiderio che ne è alla base, la volontà del nulla, poiché il problema fondamentale della filosofia politica è la risposta alla domanda, “perché degli uomini sopportano da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la schiavitù, al punto di volerle non solo per gli altri, ma anche per se stessi ?” (Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’anti-Edipo.. Capitalismo e schizofrenia, op. cit. p. 32). Ma la spiegazione non può avvenire distinguendo tra razionalità e irrazionalità poiché invece bisogna scoprire “la comune misura o la coestensività del campo sociale e del desiderio”, insomma il desiderio fa parte della realtà materiale della produzione sociale, esso non produce fantasmi ma del reale: Il fantasma non è mai individuale, è fantasma di gruppo”. Quindi, ci sono due fantasmi di gruppo “a seconda che le macchine desideranti siano prese nelle grandi masse gregarie che esse formano, o a seconda che le macchine sociali siano ricondotte alle forze elementari del desiderio che le formano. Può dunque capitare, nel fantasma di gruppo, che la libido investe il campo sociale esistente, anche nelle sue forme più repressive: oppure al contrario che essa proceda ad un contro investimento che innesta sul campo sociale esistente il desiderio rivoluzionario”. Il problema è capire che se pur tra le macchine desideranti e le macchine sociali non ci sia differenza di natura. Certamente , vi è una differenza di regime, tale che, una forma sociale di produzione esercita una repressione sulla produzione desiderante: “è di importanza vitale per una società reprimere il desiderio, anzi trovar meglio della repressione, perché la repressione, la gerarchia, lo sfruttamento, l’asservimento, siano essi stessi desiderati”, dunque si presenta lo stesso problema di Nietzsche: l’interiorizzazione della repressione che dà origine alla cattiva coscienza, cioè ad una forza reattiva, al desiderio di repressione. Per Deleuze e Guattari, il desiderio nel suo senso affermativo è stato sottoposto ad una durissima repressione per renderlo gregario e assoggettato a forze reattive, in particolare la psicoanalisi, ha cercato di renderlo passivo, improduttivo e reazionario, persuadendo il desiderio di una sua colpevolezza edipiana, adoperando tale mistificazione per rovesciare il desiderio contro se stesso. La grande impresa della psicoanalisi è stata quella di legare il desiderio alla mancanza, rendendolo reattivo, separando la forza attiva del desiderio da ciò che essa può e riducendolo al fatto che essa non può poiché manca sempre di qualcosa. Al desiderio come mancanza, Deleuze e Guattari contrappongono la schizofrenia come desiderio attivo e rivoluzionario, che si distingue dalla schizofrenia come entità psichiatrica resa passiva dalla ospedalizzazione, essa si pone come il limite interno della produzione sociale stessa, cioè del capitalismo; e se il capitalismo rappresenta l’ultima forma del nichilismo, la schizofrenia può rappresentare la sua fine rendendone la deterritorializzazione relativa, perché è già sempre anche una riteritorrializzazione, assoluta. In realtà il pensiero dell’eterno ritorno è un pensiero di “distruzione attiva” delle forze reattive : “l’eterno ritorno produce il divenire attivo”, poiché esso è in rapporto essenziale con la volontà di potenza “con e attraverso l’eterno ritorno la negazione, si trasmuta in affermazione, diventa affermazione della negazione stessa, diventa potenza di affermare” (Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 99), per cui l’unica qualità della volontà di potenza sarà l’affermazione. L’eterno ritorno si pone dunque come essere del divenire-attivo, che elimina ogni divenire reattivo, poiché esso opera la trasmutazione che elimina ogni potere del negativo e attraverso la volontà di potenza lo trasforma in affermativo. Ma ciò che costituisce l’essenza dell’affermativo è la differenza: “l’eterno ritorno non è affatto un pensiero dell’identico ma, al contrario, è un pensiero sintetico, un pensiero dell’assolutamente differente che rivendica il principio della riproduzione del diverso come tale, il principio della ripetizione della differenza”. Con questa scoperta dell’eterno ritorno, per Deleuze, Nietzsche individua il terzo tempo, cioè il tempo dell’avvenire ma non inteso come un futuro bensì la linea retta dell’avvenire che coincide con il rivenire stesso Il problema è capire che nella ripetizione dell’eterno ritorno torna solo la ripetizione come differenza. Per Deleuze con l’eterno ritorno si realizza l’univocità dell’essere come ripetizione della differenza: “l’essere si dice secondo forme che non rompono l’unità del suo senso,si dice in un solo e stesso senso Ma ciò di cui esso si dice differisce, ciò di cui si dice è proprio la differenza il Tutto è uguale e il Tutto torna possono dirsi solo là dove si è raggiunto il punto estremo della differenza” (Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. pp. 481- 482). Con l’eterno ritorno la ripetizione “fa” la differenza, inaugurando una ontologia del molteplice in cui ha valore soltanto la gioia come affermazione della differenza. La grande scoperta di Deleuze, è dunque quella di far “risuonare il rivenire con la differenza” (Foucault Michel, “Theatrum Philosophicum”, introduzione a Differenza e ripetizione, op. cit. p. XXIV), poiché lega l’eterno ritorno ad un pensiero “selettivo”, che consiste esattamente nel “fare la differenza”, cioè nel lasciare apparire solo le forme estreme, quelle che “si dispiegano nel limite e vanno fino al fondo della potenza, trasformandosi e trapassando le une nelle altre. Ritorna solo ciò che è estremo, eccessivo, ciò che passa nell’altro e diviene identico” (Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 74). Questo mondo Deleuze lo chiama il mondo dei simulacri, in cui “ il differente si relaziona al differente mediante la stessa differenza”, dove non vi è più nessuna identità o somiglianza preesistente, poiché tutto è in esso differenza. Infatti il simulacro è il sistema attraverso il quale l’idea di un modello, di un originale è rovesciata, contestata, poiché esso si afferma come immagine senza somiglianza, che si distingue dalla copia. Per Deleuze, si tratta di far risalire il simulacro alla superficie, per negare sia l’originale, sia la copia; sia la somiglianza, sia l’identità, poiché adesso ciò che viene prima, ovvero potenza prima non è né l’identico, né lo stesso,né il simile, ma il simulacro, la differenza in sé è potenza prima, per cui il medesimo e il simile sono soltanto simulati, ossia prodotti dal funzionamento del simulacro stesso. In questo senso non vi è nessuna identità preliminare, né tantomeno essa viene in seguito, poiché il Medesimo e il Simile, in quanto simulazioni “ruotano attorno alla differenza e si dicono della differenza in sé. La differenza del simulacro è una differenza sempre eccessiva, sempre mobile, che non può mai essere identificata, e se essa fa da centro nel cerchio dell’eterno ritorno, è un centro “sempre decentrato per una circonferenza eccentrica”, in questo senso Foucault dice che non bisogna pensare che “il ritorno è la forma di un contenuto che sarebbe la differenza; ma che da una differenza sempre nomade, sempre anarchica, dal segno sempre in eccesso, sempre spostato del rivenire, si è prodotta una folgorazione che porterà il nome di Deleuze: ora, un nuovo pensiero è possibile; il pensiero, di nuovo, è possibile” (Foucault Michel, “Theatrum Philosophicum”, op. cit., p. XXIV).
I.7 Foucault e la critica del linguaggio
Una profonda e lunga amicizia lega Deleuze e Foucault, attraversata da continui confronti e scambi su temi comuni o differenti che li toccava entrambi. Così come vivono insieme esperienze politiche importanti degli anni 70, come il Gruppo Informazioni Prigioni, fondato da Foucault, e a cui Deleuze partecipa con entusiasmo. Foucault scriverà pagine molto belle e appassionanti su Differenza e ripetizione e Logica del senso o sull’Anti-edipo che legge come “una introduzione alla vita non fascista” (Foucault Michel, “L’anti-Oedipe : une introduction a la vie non fasciste”, in Magazine littéraire, n.257, sept.), in cui il desiderio è un’arte. Deleuze, d’altra parte, scrive un libro su Foucault, quando l’amico era già morto, un libro che avrebbe amato scrivere con lui, in cui analizza le tappe del pensiero di Foucault, sottolineandone passaggi e evoluzioni. Prima di tutto, per Deleuze Foucault è “un archivista”, poiché scopre una potenza nuova del linguaggio: l’enunciato, in quanto diverso dalle proposizioni e dalle frasi, dal significato e dal significante. Già nella sua Logica del senso, operava una simile critica al linguaggio come proposizione, in quanto costruito su una logica del significato e del significante trascendenti il linguaggio stesso, che lo rinchiude e lo riduce a una rete di significati già dati e lo lega a soggetti già formati, a vantaggio della scoperta della dimensione di un senso impersonale del linguaggio, che nasce da eventi che sono la “frontiera” tra le parole e le cose e che non ha più nulla a che fare né con un soggetto della frase, né con un oggetto da designare. Ma per Deleuze l’enunciato è una formazione del desiderio: “il desiderio è il sistema dei segni a- significanti cioè enunciati, con i quali si producono dei flussi d’inconscio in un campo sociale” (Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, op. cit., p. 92), che viene represso dalla psicoanalisi nel suo potere di interpretazione e codificazione dei flussi degli enunciati, che vengono da essa “schiacciati, soffocati. È impossibile produrre un enunciato senza che venga ricondotto a una griglia interpretativa prefabbricata. La psicoanalisi è una formidabile costruzione fatta per impedire qualsiasi produzione di enunciati come desideri reali” (Deleuze Gilles, Guattari Felix, Parnet Claire, Scala A., “L’interpretazione degli enunciati”, in aut aut, n.191-192, 1982, p. 92). Quindi la psicoanalisi come potere di interpretazione, opera sempre un tradimento e una repressione dell’enunciato desiderante, andando a cercare un significato nascosto oltre esso, operando una codificazione dei flussi e dei concatenamenti molteplici e reali propri dell’enunciato stesso e sottomettendolo a un “soggetto d’enunciazione” che in realtà non esiste. Dunque, l’enunciato per Deleuze appartiene al desiderio, mentre vedremo che per Foucault esso deriva dal potere. Qui è forse la grande differenza tra Deleuze e Foucault, che lo stesso Deleuze mette in evidenza in un breve articolo su Foucault, laddove egli vede in Foucault un primato del potere sul desiderio, mentre per lui è esattamente il contrario: “io ritrovo il primato del desiderio, poiché il desiderio è precisamente nelle linee di fuga, coniugazione e dissociazione di flussi” (Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 62). Ma che cos’è l’enunciato per Foucault? “Una serie di lettere che traccio a caso, o che ricopio nell’ordine in cui sono disposte sulla tastiera di una macchina per scrivere”. Quindi non è la tastiera con le lettere ma “la curva che passa vicino ad esse” e le congiunge, è una ripetizione “sebbene ciò che ripete sia qualcosa altro che può essergli stranamente identico”, in altri termini le lettere sulla tastiera sono singolarità, intese come un insieme di fuochi di potere, di rapporti di forza che l’enunciato presuppone e ripete. In questo senso l’enunciato rinvia solo a qualcosa che gli appartiene e non a un senso che lo trascende o a un significato nascosto da scoprire, esso è “la semplice inscrizione di ciò che è detto”, in cui ogni realtà si manifesta, è “l’essere del linguaggio il c’è del linguaggio”, in cui il soggetto non è presupposto affinché cominci un discorso, essendo l’enunciato una formazione anonima, che costituisce un soggetto solo come una sua funzione derivata. Il soggetto, è sempre e solo un prodotto : per Foucault del potere, per Deleuze del desiderio. Ma l’enunciato rappresenta solo una forma del sapere, l’altra è il visibile che ci porta direttamente nel campo del potere. Le due formazioni del sapere sono per Foucault, l’enunciato e il visibile, formazione discorsiva e formazione non-discorsiva, ma entrambe sono sapere. Esiste infatti un regime della luce che appartiene al sapere e che insieme all’enunciato costituisce gli strati che rendono possibile una conoscenza, cioè le sue formazioni storiche. Ora, il visibile non è ciò che è direttamente o immediatamente visibile, così come l’enunciato è “al tempo stesso non visibile e non nascosto”, perché l’enunciato sia visibile occorre “fendere, aprire le parole, le frasi o le proposizioni”, così come per rendere visibili le visibilità, occorre fare la stessa cosa, poiché esse “non sono forme di oggetti, e nemmeno forme che si rivelerebbero nel contatto tra la luce e la cosa, ma forme di luminosità, create dalla luce stessa”. In tal senso l’enunciato e il visibile, sono condizioni a priori del sapere, ma in quanto la condizione è immanente all’epoca storica a cui appartiene, è un a priori storico. Per Deleuze come per Foucault, la condizione non è mai più estesa o più larga del condizionato poiché è sempre ad esso immanente, cosicché essa varia a seconda delle formazioni storiche considerate. Ma la cosa importante è che vi sia una irriducibilità reciproca tra l’enunciato e il visibile, così come per Deleuze in Logica del senso, vi era una irriducibilità tra le cose e le proposizioni che scavava un interstizio in cui il senso si poneva quale frontiera “tra” esse, superficie del fuori, e in cui lo spazio, il “tra” è un “fra-tempo” come tempo dell’evento che non si confonde mai con la sua effettuazione in stati di cose. Ma per capire meglio tale irriducibilità su cui insiste Foucault, occorre risalire alle distinzioni “esemplari” che lui pone rispetto a tali forme. Il visibile, per esempio, concerne la prigione: “è un regime di luce ancor prima di essere una figura di pietra, è definita dal panoptismo, è cioè da un concatenamento visivo in cui il sorvegliante può vedere tutto senza essere visto, e in cui i detenuti possono essere visti in ogni istante senza a loro volta vedere”, mentre l’enunciato, in questo caso, concerne il diritto penale. Per Foucault, vi è dunque una differenza, una esteriorità tra enunciato e visibile, che richiede una terza dimensione, questa volta informale, affinché abbia luogo un rapporto che avviene sempre in uno spazio di esteriorità, ciò che Deleuze, chiama un “non-rapporto”. Quest’altra dimensione, è il potere. Per Foucault, dunque, le due formazioni del sapere rinviano, presuppongono il potere, stabilendo così un primato del potere che potremmo definire in termini deleuziani come il piano di immanenza costitutivo, “all’origine” di ogni realtà, mentre abbiamo visto che per Deleuze tale piano del reale appartiene al desiderio. Ma il potere, per Foucault, non è l’Ordine stabilito una volta per tutte, non ha un centro, un cuore da combattere, perché esso non ha una forma definita, è bensì un “rapporto di forze”, e Foucault, come già Nietzsche, intende la forza nel suo essere plurale: “la forza non è mai al singolare, la sua caratteristica essenziale è di essere in rapporto con altre forze, di modo che ogni forza è già rapporto, e cioè potere”. Ciò significa, secondo Deleuze, che la forza viene sempre da un Fuori, poiché essa è in sé plurale; ed è proprio questo concetto del Fuori che Deleuze vede in tutta l’opera di Foucault, anche laddove Foucault sembra ossessionato dalle pratiche di internamento. Si tratta per Deleuze sempre di descrizioni che tengono conto di un fuori che le attraversa. Questa concezione del potere come derivante da un fuori, Foucault la struttura a partire da una critica alle concezioni tradizionali del potere, e in particolare quelle della sinistra. Secondo esse il potere esprime la “proprietà di una classe che l’avrebbe conquistato”, mentre per Foucault il potere è una strategia “lo si esercita più che possederlo”, e in questo senso esso non è mai localizzabile in un centro, lo Stato, la Chiesa, ecc., poiché lo Stato stesso è il risultato di rapporti di forze molteplici che costituiscono “una microfisica del potere”. Dunque, non c’è Il potere, ma i poteri, dispersi e diffusi dappertutto, per questo ogni rivoluzione fallisce quando crede di trovare “un cuore” del potere da abbattere, ma forse ciò avviene solo perché si cerca un centro, un cuore, giusto per prenderne il posto. Così come il potere, secondo Foucault non è subordinato a una struttura economica, ma è esattamente il contrario. Ma vi è un’altra condizione del potere, posta da Foucault, che però poco convince Deleuze, secondo cui il potere non reprimerebbe. Ritorna la differenza tra Foucault e Deleuze, per il quale i dispositivi di potere avendo un carattere secondario rispetto al desiderio conservano “un effetto repressivo, poiché essi schiacciano, opprimono, non il desiderio come dato naturale, ma i punti di concatenamento del desiderio i quali invece non hanno a che vedere con la repressione” (Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 61). Secondo Deleuze, le forme di repressione, che sono molteplici “si totalizzano facilmente dal punto di vista del potere : la repressione razzista contro gli immigrati, la repressione nelle fabbriche, la repressione nell’insegnamento, la repressione contro i giovani in generale” (Deleuze Gilles, Foucault Michel, “Gli intellettuali e il potere”, in Deleuze, Lerici, Cosenza, op. cit., p. 63), ovvero anche se come dice Foucault il potere non agisce attraverso l’ideologia, ha però per Deleuze una visione totale o globale, in quanto esso rappresenta una unità di tutte queste forme di repressione. Ma Foucault non ignora, certamente, che la repressione o la violenza siano procedure del potere, solo che esse esprimono l’effetto di una forza su qualcosa, e non rappresentano la relazione di potere, cioè “il rapporto della forza con la forza” che è una funzione “positiva” del tipo “incitare, suscitare, combinare”, ovvero i dispositivi di potere, prima di tutto, cioè prima di reprimere, normalizzano e disciplinano, per Deleuze invece codificano e riterritorializzano. Per Foucault, il potere innanzitutto “produce reale”, laddove per Deleuze tale produzione appartiene ai concatenamenti del desiderio, che hanno molte dimensioni e in cui “i dispositivi di potere non sarebbero che una di queste dimensioni” (Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 61). Quindi, un concatenamento di desiderio comporterà dei dispositivi di potere, ma “bisognerà situarli fra le differenti componenti del concatenamento”, cioè occorre operare delle distinzioni all’interno di un concatenamento: da una parte, avremo linee di territorialità o di riterritorializzazione, e dall’altra, movimenti di deterritorializzazione che trascinano il concatenamento stesso. I dispositivi di potere sorgono dove “si operano delle ri-territorializzazioni, anche astratte”, mentre le deterritorializzazioni riguardano le linee di fuga del desiderio, che sono primarie rispetto ai dispositivi di potere, i quali non “concatenerebbero, né sarebbero costituenti” del desiderio stesso, ma che operano una “legatura”, una repressione delle linee di fuga del desiderio, le quali però continuano sempre a “far scorrere”, far passare dei flussi sotto i codici sociali dei poteri che vogliono canalizzarli, sbarrarli. È come se, sia Deleuze, sia Foucault, ognuno per conto suo, volessero dirci che il potere non è qualcosa di esterno, estraneo a noi, un nemico preciso fuori di noi da abbattere, ma appartiene a noi stessi. Secondo Foucault, ovunque vi siano relazioni di forze (e purtroppo, quale non lo è?), ovunque vi sia linguaggio, sapere, azione, passione, molteplicità, da cui deriva Stato, prigione, famiglia, scuola, ecc., insomma sembra che per Foucault tutto è potere, poiché esso è immanente a ogni realtà, e non trascendente. Secondo Deleuze il potere è altrettanto interno ai concatenamenti reali, è altrettanto interno a noi come desiderio di potere, desiderio di fascismo, ma solo in quanto desiderio gregario o paranoico, che non ha niente a che fare con la vera natura del desiderio schizofrenico, che con le sue linee di fuga continuamente va contro il potere. Ma l’analisi dettagliata di Foucault sul potere è molto importante, poiché facendo una microfisica del potere scopre tutti i piccoli nascondigli in cui si annida potere, e in cui solo apparentemente sembra non esserci, e considerandolo non come immobile, ma fuggente e sfuggente, riesce a seguirne le molteplici direzioni, che altrimenti mai sarebbero state svelate, e quindi a offrirci anche mezzi nuovi e potenti per combatterlo. Quando Foucault dice che il potere produce verità, ci dice anche che il potere non si nasconde, non è celato, ma bisogna saper leggere e vedere ciò che dice e fa, e dove esso si sta esercitando. In questo senso, per Foucault, la repressione non è il dato importante del potere, se per esempio consideriamo la sessualità, si può credere a “una repressione sessuale insita nel linguaggio se ci si attiene alle parole e alle frasi ; ma questo non è possibile se si isolano gli enunciati dominanti, e specialmente le procedure di confessione esercitate nelle chiese, nelle scuole, negli ospedali, che cercano contemporaneamente la realtà del sesso e la verità nel sesso” (Deleuze Gilles, Foucault, op. cit. p.37), allora ecco che bisogna leggere gli enunciati, che proprio in quanto derivano dal potere lo rendono dicibile e quindi esposto a un qualche possibile attacco. Questo è dunque il compito dell’archeologia : “aprire le parole, le frasi e le proposizioni, aprire le qualità, le cose e gli oggetti”, per far emergere gli enunciati e le visibilità di potere. Infatti, enunciato e visibile attualizzano, integrano, dando forma a istituzioni, le linee fluide dei rapporti di forza del potere, che altrimenti rimarrebbero evanescenti, non visti, non saputi, poiché “i rapporti di potere sono rapporti differenziali che determinano delle singolarità”, e tali singolarità rimarrebbero ad uno stato embrionale se non ci fosse il sapere che traccia come “una linea di forza generale, che ricollega le singolarità, le allinea, le rende omogenee, le mette in serie, e le fa convergere”. Ma per Foucault il primato del potere sul sapere fa sì che “le due forme eterogenee del sapere si costituiscono mediante integrazione, e all’interno di condizioni proprie soltanto alle forze, entrano in un rapporto indiretto al di sopra del loro interstizio o del loro nonrapporto”, ciò può avvenire perché il potere opera nello spazio del Fuori : “proprio là dove il rapporto è un non-rapporto, il luogo un non- luogo, la storia un divenire”. Questo fuori delle forze riguarda il pensiero stesso: “il pensare riguarda un fuori che non ha forma. Pensare è il pervenire al non-stratificato. Vedere è pensare, parlare è pensare, ma il pensare si produce nell’interstizio, nella disgiunzione tra vedere e parlare”. Questo fuori è anche “prendere distanza”, stare “fuori del vedere e del pensare che fa corrispondere l’immagine e la cosa”, è trovare un’altra pratica di pensiero, quale quella di “rendere invisibile ciò che si vede per imparare a vederlo, non per vedere altro ma perché possa accadere altro per giungere fino in fondo al fuori”, quello della metafora che è sempre un altrove, ma che è anche il “qui” di una nuova visione, di un nuovo pensiero. Questa dimensione del Fuori, è molto importante per Deleuze, poiché è la dimensione che può portare a un superamento del potere stesso. Infatti, le forze del fuori esprimono cambiamento, divenire, mutamento, perché esse non sono stratificate, formate, ma sempre mobili, sempre “agitate” per cui operano cambiamenti sulle forme del sapere e permettono l’accesso del nuovo, e tale potere di modificazione esprime una nuova dimensione della forza oltre a quella di subire o produrre affezioni, è la “capacità di resistenza, singolarità di resistenza, per esempio punti, nodi, fuochi, che si attuano a loro volta sugli strati, in modo però da renderne possibile il cambiamento” (Deleuze Gilles, Foucault, op. cit. p. 92). Ma la resistenza significa anche resistenza al potere stesso, infatti quando il potere diventa “biopotere”, cioè assunzione e gestione della vita “la resistenza al potere fa già appello alla vita e la rivolge contro il potere. La vita diviene resistenza al potere quando il potere assume ad oggetto la vita”. È come se Foucault trovasse il modo di combattere e superare il potere all’interno del potere stesso, infatti le forze di cambiamento e del nuovo appartengono al potere stesso, ma nel momento in cui esse appaiono si rivolgono contro esso, la resistenza del potere diventa resistenza al potere, quindi l’unica lotta possibile può avvenire solo seguendo le linee fluide, le linee del fuori del potere, nei termini dell’Anti-edipo, il capitalismo in quanto deterritorializzazione-riterritorializzazione, è una forma di potere che può essere combattuto solo dal suo limite interno, la schizofrenia, la deterritorializzazione assoluta. Vi è dunque un rapporto dentro/fuori tale che rovescia ogni dentro in un fuori e ogni fuori in un dentro, la lotta non si fa fuori del sistema poiché il sistema stesso è già attraversato da un fuori, che si tratta, però, di rendere assoluto, la deterritorializzazione della forza va resa assoluta : “la vita deve essere liberata nell’uomo stesso, perché l’uomo è stato un modo di imprigionarla”. Questo fuori non è, dunque, affatto separato da un dentro, che però non ha niente a che fare con l’interiorità di una coscienza, è invece “un dentro più profondo di ogni mondo interiore, così come il fuori è più lontano di ogni mondo esteriore”. Il fuori non è un limite fisso, ma è animato da movimenti “da pieghe e corrugamenti che costituiscono un dentro del fuori”. Il pensiero per Deleuze, proviene sempre da un fuori, ma questo fuori sorge dal dentro come l’impensato del pensiero “impossibilità di pensare che raddoppia o scava il fuori”. Il dentro è solo la piega del fuori “come se la nave fosse un piegamento del mare”, il dentro è già sempre un fuori, ciò che Foucault definisce il “doppio”, o simulacro per Deleuze: “un raddoppiamento dell’Altro. Non una riproduzione dello stesso, ma una ripetizione del Differente non è l’altro, che è un doppio, sono io che mi vivo come il doppio dell’altro : non incontro me stesso all’esterno, ma trovo l’altro in me”, come diceva Rimbaud “l’io è un altro”, la differenza è sempre interna. Allora, la piega, il raddoppiamento, consiste in un gioco di differenza e ripetizione, in cui la “fodera” della piega è “strappata” affinché il tessuto esterno si torca, si raddoppi per mostrare come “il dentro sia sempre il piegamento di un fuori”. Questo ripiegamento del fuori nel dentro, Foucault lo trova nei Greci, in quanto essi hanno scoperto un “rapporto a sé”, un dentro che è la piega del rapporto con gli altri, il fuori, nel senso che per loro governare gli altri significa governare se stessi, da cui deriva “un rapporto della forza con sé, un potere di autoaffezione, un’affezione di sé attraverso sé”. Tale autoaffezione per i Greci come per Foucault è il piacere, mentre per Deleuze sulla linea di Spinoza è il desiderio, di nuovo la differenza tra i due filosofi. Foucault confessa a Deleuze di non sopportare la parola desiderio: “anche se voi l’impiegate diversamente, io non posso impedirmi di pensare o di vivere che desiderio equivale a mancanza, o che desiderio si dice represso” (Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 63), Foucault preferisce la parola piacere. A sua volta, Deleuze non sopporta la parola piacere, ma usa solo desiderio, perché “il desiderio non comporta alcuna mancanza”, ma è processo, affetto, evento, ecceità, e soprattutto implica la costituzione di un campo di immanenza, mentre il piacere non ha nessun valore positivo, perché interrompe “il processo immanente del desiderio esso appartiene agli strati e all’organizzazione”, cioè esso è una ri- territorializzazione, sta dalla parte del potere, poiché interrompe la positività del desiderio e la costituzione del suo campo d’immanenza in cui il desiderio non manca di niente. Questo piano di immanenza del desiderio è “una vita”, che si distingue dalla vita di cui parlava Foucault, in quanto essa non è solo resistenza al potere, ma è in se stessa potenza positiva e affermativa, beatitudine, desiderio, creazione. Si tratta, come già abbiamo visto, di due tipi diversi di immanenza : l’una del potere, l’altra del desiderio, ma entrambe sono una lotta al potere.