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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA»: CORNICI FIORENTINE ATTORNO AL PRIMO MUSEO

DI ETNOGRAFIA ITALIANA
Author(s): Paolo De Simonis
Source: Lares , Vol. 80, No. 1, Numero monografico: Lamberto Loria e la ragnatela dei suoi
significati (Gennaio-Aprile 2014), pp. 127-188
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/10.2307/26233609

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PARTE SECONDA
L’Italia

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Paolo De Simonis

«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA»:1


CORNICI FIORENTINE ATTORNO
AL PRIMO MUSEO DI ETNOGRAFIA ITALIANA

Mitologia e micologia

«Dunque Loria e Mochi dissero: Si faccia un Museo di etnografia italiana.


La borsa del Bastogi sorrise e il Museo è nato; ed io, genitore di un altro Mu-
seo, l’antropologico ed etnografico di Firenze mi frego le mani con quella tene-
rezza, con cui i nonni salutano la nascita di un bel nipotino»:2 così l’ avus Man-
tegazza tra famiglia e familismo, il 2 dicembre 1906, sulle pagine del periodico
fiorentino «Il Marzocco». A sua volta Loria, nel 1912, propiziava il futuro del
«Bullettino Sociale» della Società di Etnografia Italiana affidandolo ai Lari:
nome che racchiude «tutto il vasto mondo misterioso, che noi ci proponiamo
di penetrare».3 E al 15 dicembre 2007 risale il Convegno Firenze 1907. Primo
Museo di Etnografia Italiana. Un bilancio, cento anni dopo:4 certamente la fa-
miglia si è allargata nel tempo ma non è chiaro se, come e quanto sia cresciuta.
Difficile poi sapere a quali Lari votarsi. Troppi i mutamenti di residenze
e arredi: non è detto quindi che ci abbiano sempre doverosamente seguiti e,
in ogni caso, non sappiamo con certezza in quale parte della casa si siano in-
sediati. Magari hanno anche dimenticato che il nonno ci ha lasciato, nascosto
sotto il focolare, un tesoro aureo.5 I Lari comunque, se occupano il televisore
come sospetta Gian Paolo Caprettini,6 resteranno prima o poi impigliati nei
video tour degli etnografi contemporanei interessati agli oggetti ordinari nella
società di massa.7 Potrebbe esser questa l’occasione per interrogare i figli di


1 Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi del 27 marzo 1906, Archivio Storico del

Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari (d’ora in poi AS), fasc. 64, doc. 1.

2 P. Mantegazza, Un nuovo Museo in Firenze, in «Il Marzocco», 2 dicembre 1906, p. 1.


3 L. Loria, Lares, in «Lares», I, 1, 1912, pp. 5-6: 5.


4 Il Convegno si svolse presso la Biblioteca delle Oblate, con la partecipazione di P. Apolito P.

Clemente, G. Damiani, E. De Simoni, P. De Simonis, F. Dei, G. Dore, D. Jalla, V. Lattanzi, G. Lera-


rio, F. Mirizzi, S. Puccini, C. Rosati, E. Rossi, R. Tucci.

5 Cfr. M. Bettini, Lar familiaris: un dio semplice, in «Lares», LXXIII, 2007, 3, pp. 533-555: 534.


6 Cfr. G.P. Caprettini, Totem e tivù, Roma, Meltemi, 2001, p. 14.


7 Cfr., tra l’altro: F. Dei, Oggetti domestici e stili familiari. Una ricerca sulla cultura materiale tra

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128 PAOLO DE SIMONIS

Larunda attorno a quella sorta di irresistibile riflesso celebrativo che scatta


davanti alle cifre tonde degli anniversari: dai decennali ai millenari. En atten-
dant il responso profondo dei Lari inganno il tempo con ipotesi di superfi-
cie: celebriamo gli antenati scegliendoli e costruendone l’immagine più utile
a noi. Per accreditarci meglio, se sono prestigiosi tanto da ricavarne brand.
Eroi epistemici: Bourdieu.8 Totems and Teachers: Silverman.9 Uomini e cose:
Puccini.10 Ripensarli per ripensarsi, riaprendo il gioco di sempre delle Lettres
persanes. O più semplicemente, come nelle vecchie foto dinastiche, impegnar-
si cercando qualche continuità nelle fisionomie: per validare azioni così come
per compatire difficoltà.
Comunque sia, pare proprio che le celebrazioni non finiscano mai. Un
neoparadigma non ha ancora del tutto cessato di provocare che subito qual-
cuno lo canonizza con cerimonie memorizzanti. Per trovarsi «di colpo, gli
occhi abbarbagliati, in piena vecchiaia» basta anche meno dei «quaranta, cin-
quant’anni» caduti addosso a Giovanni Raboni. Fra due anni è già il trenten-
nale di Writing Culture: «sono sicuro/d’esserci stato – o era già il futuro?».11
Nel Convegno fiorentino del 2007, del resto, non mancarono riferimen-
ti alle celebrazioni previste per il 2011, centenario della romana Mostra di
Etnografia.12 Il mio intervento di allora, qui ripreso e ampliato, voleva essen-
zialmente reagire alla pigrizia manualistica di un sintagma troppo ripetuto:
quel ‘borgos.jacopo20settembre1906’ che condensa e liquida in evento pun-
tiforme il percorso ricco e movimentato che portò Lamberto Loria a fondare
il primo Museo di Etnografia Italiana. Quel ‘dato’ mi pareva assolutamente
autoreferenziale, quasi privo di vere informazioni. Avvertivo inoltre, netto, il
rischio di proiettare meccanicamente all’indietro significati contemporanei.
Come se il ‘Museo’ fosse un dato astorico, nato gloriosamente tra mitologia
e micologia, senza precedenti coltivazioni e successive ibridazioni. Quando
invece il cercare i funghi, e ancor più i tartufi,13 implica impegno, esperien-
za, conoscenza fine dei luoghi nonché frequenti errori e sempre possibili
contenziosi.

famiglie toscane di classe media, in «Etnografia e ricerca qualitativa», II, 2009, 2, pp. 279-93; M.
Relieu – A. Fasulo – S. Giorgi, I luoghi che raccontano/racconto dei luoghi: spazi ed oggetti dome-
stici tra biografia e cultura, in «AM-Antropologia museale», VII, 2008, 19, pp. 37-47; M. Relieu –
M. Zouinar – N. La Valle, At home with videocamera, in «Home Cultures», IV, 2007, 1, pp. 45-68.

8 P. Bourdieu, Homo Academicus, Paris, Ed. De Minuit, 1984.


9 S. Silverman (ed. by), Totems and Teachers. Perspectives on the History of Anthropology, New

York, Columbia University Press, 1981. .



10 S. Puccini, Uomini e cose. Esposizioni, collezioni, musei, Roma, CISU, 2012.


11 G. Raboni, Mi sono distratto oh per poco appena, in Id., Quare tristis, Milano, Mondadori,

1998, p. 61.

12 Cfr.: S. Puccini, L’itala gente dalle molte vite. Lamberto Loria e la Mostra di Etnografia Italia-

na del 1911, Roma, Meltemi, 2005; S. Massari (a cura di), Il fatale Millenovecentoundici. Le esposi-
zioni di Roma, Torino, Firenze, Roma, Palombi, 2012.

13 Cfr. N. Gallerano, Cercatori di tartufi contro paracadutisti: tendenze recenti della storiografia

sociale americana, in «Passato e presente», II, 1983, 4, pp. 181-196 e P. Clemente, La giusta distanza,
in M. Bruttini – M. Muzzi, La dolce Maremma. Immagini parlate, Arcidosso, Effigi, 2011, pp. 8-12.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 129

Da qui l’intento di collocare il sintagma in sintassi: costruendo una prima


bozza di contestualizzazione centrata, in estrema sintesi, su come si rendesse
visibile a Firenze, tra Ottocento e Novecento, l’alterità culturale, prossima e
remota, entro cui nasce il Museo di Loria. All’interno della cornice comples-
siva ho cercato di tener conto, più in particolare, di vari aspetti specifici tra
cui il rapporto con le istituzioni, il sostegno economico alla ricerca, il formarsi
e l’agire di un pubblico ‘antropologico’ legato a connesso mercato culturale
che include forme di comunicazione non esclusivamente accademiche: tutto,
beninteso, in forma di schede, di progetto di lavoro che necessiterebbe di
assai maggiore documentazione e, ancor più, di adeguato sguardo epistemico.
Mi sono avvalso in misura consistente, come si vedrà, di epistolari e diari:
generi testuali relativamente non destinati alla ‘pubblicazione’ e proprio per
questo in grado spesso di aprire varchi di grande interesse nella rigidità pro-
bativa dei documenti ufficiali.
In questa stessa logica ho dato spazio e credito alla dimensione biografica
dei principali attori variamente legati alle vicende del Museo fiorentino: nella
convinzione che testis unus identifichi tutt’altro che una carenza conoscitiva.
Le storie individuali, con Pietro Clemente, «rendono il passato impreve-
dibile»:14 obbligano a rivedere incessantemente gli schemi macro entro cui, a
loro volta, acquistano senso proprio mentre li stanno elaborando ‘personal-
mente’. Ogni cultura, compresa quella degli antropologi, «non è nulla senza
gli individui che la vivono e per i quali essa è un corredo senza il quale non po-
trebbero esistere, ma un corredo che essi agiscono in modi diversi a seconda
dei luoghi e dei tempi, modi che grossolanamente vorrei chiamare ‘libertà’».15
In continua dialettica tra habitus e campo, ‘dipendiamo’ dal potere ma anche
dal nostro piacere, dalle predilezioni e dalle passioni. Fabio Dei ha ricordato
come la rinuncia di Frazer alla spedizione di Haddon fu determinata dall’aver
conosciuto e poi sposato una vedova francese.16 ‘Usi e costumi’, non è male
ogni tanto ricordarlo, li avevano tanto le società esotiche quanto la Società di
Etnografia. E tutti interpretavano personalmente la tipicità del proprio sta-
tus socio-economico in fatto di residenze e abbigliamento, alimentazione e
religione: villini e longhouses, cappelli a cilindro e copricapi rituali di piume.
Senza peraltro trascurare le asimmetrie che guastano la comparazione: Loria,
Mantegazza e De Gubernatis sceglievano di farsi fotografare in curatissime
pose da studio ma consigliavano le istantanee per rappresentare le sembianze
degli indigeni incontrati durante le loro esplorazioni.
La scelta di individualizzare, per quanto possibile e utile, la vicenda del
Museo di Etnografia Italiana ha indubbiamente implicato, nei confronti dei
dati a disposizione, l’esercizio di opzioni, scansioni e organizzazioni narrative


14 P. Clemente, La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un antro-

pologo che si racconta, in «L’ospite ingrato», annuario del Centro Studi Franco Fortini, II, 1999,
pp. 65-96: 73.

15 Ibid.


16 Cfr. F. Dei, La discesa agli inferi, Lecce, Argo, 1998, p. 115.

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130 PAOLO DE SIMONIS

orientate. Con evidente rischio, in particolare rispetto a Loria, di renderlo pro-


feta attraverso ricostruzione agiografica che elabora le informazioni in exempla
se non addirittura in acta martyrum. O passiones. Rischio controllato, mi augu-
ro: Loria veniva scherzosamente definito «profeta» da Aldobrandino Mochi17
e forse tale si sentiva abbastanza lui stesso quando considerava il Museo «l’im-
presa cui ormai ho dedicato la vita».18 L’immagine della profezia, infine, attie-
ne molto ad un interessante approccio alla gestione del tempo che, via Paolo
Jedlowski, ho incontrato in Future Matters di Barbara Adam e Chris Groves:
una prospettiva sul passato che non lo considera tanto come una collezione di fatti
storici, quanto come l’insieme di immagini, progetti, visioni, ambizioni e interesse
riguardanti il futuro che i nostri predecessori hanno coltivato, che possono essersi
realizzati o essere rimasti incompiuti.19

«fior di ragazza»
– Villan fottuto, contadino, bada
Se avrò d’accordo gli altri fiorentini
Mi metterò alla porta con la spada,
E proibirò l’ingresso ai contadini.20

Il Curioso contrasto fra Contadino e Cittadino estenuava in Firenze, nella


seconda metà dell’Ottocento, la ‘satira contro il villano’: genere variamente
letterario21 centrato sulla rappresentazione del selvaggio più prossimo alle
mura urbane. Un approccio complesso e di lunga durata, qui rievocabile solo
per cenni disposti lungo una sequenza che non sottintende certo continuità e
omogeneità di significati.
Frammenti di voci contadine compaiono già nelle Sacre Rappresentazio-
ni, tra Medioevo e Rinascimento, e si consolidano tra Cinquecento e Seicento
nelle commedie rusticali: dal Mogliazzo del Berni alla Tancia di Michelangelo

17
  Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 28 gennaio 1907, AS, fasc. 758, doc. 57.
18
  L. Loria, L’Etnografia Italiana. Dal Museo all’Esposizione, in «Il Marzocco», 2 agosto 1908,
pp. 1-2: 2.

19 Citato in P. Jedlowski, Memorie del futuro. Una ricognizione, in «Studi Culturali», X, 2013,

2, pp. 171-187: 172.



20 G. Pestelli, Curioso contrasto fra Contadino e Cittadino, Firenze, Salani, 1888. Ma potrei

anche far riferimento alla mia memoria personale, avendo appreso questi endecasillabi dalla voce di
mia madre, Amelia Donnini, mezzadra immigrata a Firenze (cfr. P. De Simonis, I Donnini, in Cultura
contadina in Toscana, vol. 2, L’ambiente e la vita, Firenze, Bonechi, 1983, pp. 317-325).

21 Richiamo in proposito tre approcci diversi, per cronologia e metodo: D. Merlini, Saggio di

ricerche sulla satira contro il villano, Torino, Loescher, 1894, che tra l’altro cita (p. 18, nota 22) un
cinquecentesco Contrasto del Cittadino e del Contadino stampato a Siena; M. Feo, Dal «pius agrico-
la» al villano empio e bestiale (a proposito di una infedeltà virgiliana del Caro), XX, in «Maia», 1968,
pp. 89-136 e 206-223; P. Trifone, La retorica del villano. Lingua e società nel teatro popolare senese,
in Id., Rinascimento dal basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni,
2006, pp. 165-184.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 131

Buonarroti il giovane.22 Notevole la strategia ironica adottata da Jacopo An-


gelo Nelli in una commedia del 1724: «in quella stanzona bella, dove sionaano
ghi zufoli e tanti liolini, e che ora venia un maggiaiolo a cantare, ora un ailtro,
e po’ se n’ andaano, e poi rieniano, e che uno voilse ammazzar i compagno,
e una maggiajola lo ritenne piagnendo, e cantando anche liei». A parlare è
Tanganetto, servo «contadinello fiorentino», cui il padrone risponde: «Oh
scimunito! Quella era una commedia in musica, e non un maggio».23 Ma evi-
dentemente Tanganetto ‘non può’ che tradurre e ridurre nel suo ristretto oriz-
zonte quotidiano qualsiasi proposta drammaturgica.
Non infrequenti erano le rappresentazioni cittadine dei contadini perché
frequente era il loro diretto manifestarsi all’interno delle mura soprattutto in
occasione di fiere, mercati, feste e scadenze religiose: altrettanti scenari per ul-
teriori articolazioni satiriche. Larga tradizione narrativa ricordava i contadini
come ingenui e goffi: vittime, tra acquisti incauti e beffe di vario genere, della
destrezza urbana di ciarlatani e monelli.24
Irriso perché ‘arretrato’, il contadino, come d’altronde certificavano lin-
guaggio e abbigliamento, era anche politicamente reazionario: nel 1849
i contadini, poiché il contadino specialmente nelle rivoluzioni è stato e sarà sempre
lo stesso, profittavano del malcontento, per varie ragioni generali, e la notte imbratta-
vano gli editti affìssi in nome della repubblica e ‘attentavano’ agli alberi della libertà,
con l’idea di promuover sommosse per rilevarne il saccheggio !

Netto peraltro il cambio di scena e di segno già allora intervenuto in


clima romantico, con la parlata contadina che, da schernita, diviene «la lin-
gua d’oro che vive illibata nel fondo delle campagne»:25 etica ed estetica si
sono rifugiate in alto per non farsi contaminare dalle bassezze delle città in
espansione.26 È forse il senso di colpa avvertito dalla modernità per la sua
aggressione al mondo precedente a causarne inedita esigenza di esaltazio-
ne e tutela: creando i parchi naturali e il folklore. Quanto si va perdendo
dell’ambiente tradizionale lo si ricerca visitando luoghi ancora non toccati
dal progresso o lo si riproduce artificialmente in patria, in chiave di ‘selvag-
gio addomesticato’.
Notoriamente esemplare in proposito, nel 1832, la Gita nel Pistojese del
Tommaseo:


22 Cfr. A. Gareffi, La scrittura e la festa. teatro, festa e letteratura nella Firenze del Rinascimen-

to, Bologna, il Mulino, 1991.



23 J.A. Nelli, Commedie, I, Bologna, Zanichelli, 1883, p. 139.


24 Cfr. G. Conti, Firenze vecchia. Storia, cronaca aneddotica, costumi (1799-1859), Firenze, R.

Bemporad & Figlio, 1899, pp. 404-408.



25 R. Lambruschini, Versi campestri, in «Giornale Agrario Toscano», I, 1827, pp. 512-515: 514.


26 Cfr., tra l’altro, P. Clemente, I ‘selvaggi’ della campagna toscana: note sull’identità mezzadrile

nell’ottocento e oltre e V. Petrelli, Il contadino e la città in un Almanacco per il senese: note sulla
ideologia del ‘buon mezzadro’ negli scritti educativi per il popolo, in Iid. et alii, Mezzadri, letterati e
padroni nella Toscana dell’Ottocento, Palermo, Sellerio, 1980, pp. 17-123 e 125-137.

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132 PAOLO DE SIMONIS

Chi vuol ritrarre madonne, vada sulla montagna di Pistoia [dove] io finora non ho
rincontrato un cipiglio; e quelle soavissime parole escivano dalla bocca di contadi-
nuccie, di pastorelli, abbellite da un sorriso di campagna, che un cittadino stanco
della città può solo vagheggiar degnamente.27

Ma c’era del metodo in quella romanticheria non cieca all’attualità. Tom-


maseo testimoniava che entro l’idillio alpestre «s’è fabbricata di fresco una
ferriera»28 e la carta fabbricata dai Cini a San Marcello «va ad essere con-
sumata in Egitto»29 mentre «gl’inglesi cominciano a bazzicar Cutigliano»30
e gli intellettuali impazziscono per «l’uguaglianza degli oggetti tra’ quali si
aggirano».31 Comporta quindi qualche responsabilità scegliere la Gita come
atto fondativo della demologia italiana: la ‘cultura contadina’ nasce tramite
sguardi e ascolti esterni, nuovi e attenti al presente perché sollecitati dall’or-
goglio insicuro della modernità. Sguardi e ascolti che costruiscono un oggetto
di studio legato a più ampio mercato culturale. «Feci venire di Pian degli
Ontani una Beatrice» è il certificato di nascita, siglato da Tommaseo, per la
fama di una pastora, analfabeta e straordinaria improvvisatrice di ottave.32
Salirono a conoscerla Massimo d’Azeglio e Giuseppe Giusti, Giuseppe Tigri
e Giambattista Giuliani. Anche Renato Fucini, che la ricordava «chiamata e
festeggiata nelle prime case di Firenze, di Pistoia, di Pescia e perfino di Bo-
logna, dove la rozza pastora dell’Appennino fece risuonare dei suoi canti le
sale più aristocratiche».33 Alla notorietà internazionale di Beatrice contribuì
molto Francesca Alexander, miliardaria bostoniana trapiantata a Firenze e
amica della figlia del Tommaseo, che frequentò a lungo la poetessa e, spronata
da Ruskin, ne redasse la storia di vita.34
Il canto dello stornello è opera di Silvestro Lega, del 1867: al pianoforte,
in salotto borghese, signorine dabbene dalle voci educate eseguono, secon-
do spartito, un canto creato e praticato tra i campi che si intravedono dalla
finestra. Ma è anche possibile che della melodia fosse autore Luigi Gordi-
giani, musicista colto cui capitò per caso di imbattersi, nel 1836, «in un vec-
chio e logoro volumetto a stampa dal titolo Canti popolari toscani».35 Gli

27
  N. Tommaseo, Gita nel Pistojese, in «Antologia», ottobre-dicembre 1832, pp. 12-33: 15-16.
28
  Ivi, p. 20.

29 Ibid.


30 Ivi, p. 21.


31 Ivi, p. 18.


32 Beatrice Bugelli (1802-1885). Cfr. C. Rosati, Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani. Poetessa,

pastora, «Personaggi pistoiesi del ’700 e ’800», Pistoia, Brigata del Leoncino, 2001.

33 R. Fucini, Beatrice del Pian degli Ontani, in Id., Foglie al vento. Ricordi, novelle e altri scritti,

Milano, Trevisini, 1942, (ed. originale 1922), pp. 183-192: 188.



34 F. Alexander, Roadside Songs of Tuscany, translated and illustrated by Francesca Alexander

and edited by John Ruskin, Orpington, G. Allen, 1885.



35 Citato in R. Allorto, La musica vocale da camera dell’ Ottocento nei cataloghi degli editori

Ricordi e Lucca, in F. Sanvitale (a cura di), La romanza italiana da salotto, Torino, EDT, 2002,
pp. 147-166: 161.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 133

piacquero e «come per incantesimo alcune di quelle poesie si trovarono in


un attimo musicate»36 e in seguito pubblicate con grande successo e molto
a lungo. Molti credettero che «fossero veramente melodie tradizionali del
popolo».37
Canti, dunque, estesamente pubblicati e consumati: in ambito specialisti-
co, nella seconda metà dell’ Ottocento, entro l’approccio alla testualità elabo-
rato dalla filologia positivista e dalla metodica storico-comparativa: Carduc-
ci, D’Ancona, Comparetti e relative connessioni di aie e poderi con ballate,
strambotti e madrigali dei secoli aurei della Lingua. Ma anche all’interno di
circuiti editoriali di consumo medio-alto, dove la dimensione popolare anda-
va facendosi arredo, citazione patrimonializzante: spesso con Strenne, Canzo-
nieri del popolo ed eleganti opuscoli per nozze importanti. Nel 1881 Severino
Ferrari curava l’edizione di una maggiolata per il matrimonio fra Guido Maz-
zoni e Nella Chiarini.38
In città gli stornelli potevano anche essere imparati da voce domestica.
Tra i ricordi infantili di Ferdinando Martini appare una Margherita, «fior
di ragazza cresciuta tra le felici aure montane del Mugello» che «cantando
stornelli a perdifiato mi preparava a gustare le fresche ingenuità della poesia
popolare».39
All’aria aperta è il titolo di una serie di racconti di Renato Fucini40 come
anche la collocazione innovativa del cavalletto proclamata dai macchiaioli.
Contro la penombra dello studio e del tavolino: piantare il cavalletto all’a-
ria aperta e piantare la tenda al centro del villaggio. Scene e macchiette della
campagna toscana era il sottotitolo dei racconti del Fucini. Letteratura e pit-
tura, tra documentazione e immaginazione, si incrociano nel ‘bozzetto’ con
descrizioni ravvicinate e dense del mondo contadino che mettono a fuoco tipi
e caratteri regionali: a volte con i toni intensi e partecipati dell’inchiesta che
sfiora la denuncia.
Fucini parlò «delle miserie dei montanini poveri emigranti per le Ma-
remme» a Pasquale Villari che «si interessò e si commosse» e probabilmente
sulla scia di questa emozione propose allo scrittore toscano di arruolarsi «al
suo servizio per la guerra che allora egli faceva alle piaghe del Mezzogiorno d’
Italia».41 Fucini, nel 1877, si trovò così ‘inviato’ a Napoli precipitando dall’ar-
monia del paesaggio mezzadrile in un caos urbano tale da «sognare di trovarti

36
  Ibid.
37
  Ivi, p. 162.

38 S. Ferrari – C. Verzone (a cura di), Le canzoni dell’ova in maggio a Monteguidi, Firenze, Tip.

del Vocabolario di G. De Maria, 1881.



39 F. Martini, Confessioni e ricordi (Firenze Granducale), Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1922,

pp. 22 e 24.

40 R. Fucini, All’aria aperta. Scene e macchiette della campagna toscana, Firenze, R. Bemporad

& figlio, 1897.



41 R. Fucini, Pasquale Villari, in Id., Acqua passata. Storielle ed aneddoti della mia vita, Milano,

Trevisini, 1942 (ed. or. 1921), pp. 264-273: 268.

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134 PAOLO DE SIMONIS

al Cairo in mezzo ai loro Fellah»,42 come l’anno dopo orientalisticamente re-


fertava per i tipi di Le Monnier: «qui un’ondata profumata dal fiore d’arancio
t’inebria, due passi più avanti la padella del friggitore ti strazia l’olfatto».43
Nel 1877 Felice Paggi editava nella sua Biblioteca Scolastica la prima edi-
zione de Il viaggio per l’Italia di Giannettino, di Collodi: un itinerario edu-
cativo tra le diversità di un paese essenzialmente urbano e borghese ma con
qualche attenzione anche ad ambiti popolari e alimentari. Emblematica la
percezione della pizza manifestata dal padre di Pinocchio:
una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di
ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’a-
lice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e
là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in
armonia con quello del venditore.44

Diversamente significativi alcuni indizi, ancora in Fucini, attorno al for-


marsi di una predilezione distintiva per ‘i sapori genuini della cucina povera’.
Invitato a pranzo da «una agiata famiglia di montanini»45 si vede proporre, in
quanto ospite di rilievo, una serie di borghesi piatti insipidi mentre gli sono
rifiutati quelli saporosi ma troppo popolari riservati agli altri commensali:
«Io mi ribello. Parlo della mia ghiottoneria per quei cibi chiamati ordinari:
dichiaro, sul mio onore, che quella zuppa di fagioli la preferisco a quella sul
cappone».46 Ma inutilmente.

Exposizioni

«Palline di barba di giaggiolo» prodotte a Pontassieve ed esposte a Fi-


renze nel 1838: una delle prime ostensioni strutturate e tridimensionali del
mondo contadino che, per tutto l’Ottocento, avrebbe continuato a ‘metter-
si in mostra’ in città quasi unicamente attraverso la pittura o la letteratura
folklorica.
L’elaborazione del giaggiolo era parte della «prima pubblica Esposizio-
ne di Manifatture Toscane» tenutasi «nel Locale della I. e R. Accademia
dei Georgofili»:47 istituzione radicata nel presente, che pensava e presenta-
va l’agricoltura come partner del progresso, assieme alla ricerca scientifica,
alla manifattura e all’industria. La Toscana era stata e doveva rimanere «terra

42
  R. Fucini, Napoli a occhio nudo, Torino, Einaudi, 1976 (ed. originale 1878), p. 5.
43
  Ivi, p. 7.

44 C. Lorenzini, Viaggio per l’Italia di Giannettino, Firenze, Paggi, 1880, 3, p. 46.


45 R. Fucini, Frammenti di scampagnata sull’Appennino, in Id., Acqua passata cit., pp. 151-155: 151.


46 Ivi, p. 153.


47 In via del Cocomero, oggi via Bettino Ricasoli, nella Sala del Buonumore adiacente alla

prima sede del futuro Museo di Antropologia. Cfr. F. Fantozzi, Nuova Guida ovvero descrizione
storico-artistico-critica della città e contorni di Firenze, Firenze, Ducci, 1842, p. 422.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 135

eminentemente Esperimentale»,48 come gli Accademici cercarono di accla-


rare partecipando a successive importanti simili occasioni.49 Tra queste fu di
particolare rilievo l’Esposizione Nazionale di Prodotti Agricoli e Industriali
e di Belle Arti tenutasi in Firenze nel 1861, con l’Italia fresca di unione: «i
Palermitani vi giungono in trenta ore, i Napoletani in quindici, i Genovesi in
dodici, i Milanesi in diciotto».50
All’interno dei padiglioni, allestiti nella stazione Leopolda, il pubblico
poteva muoversi lungo i quasi quattro km di percorso profittando di «pol-
trone mobili (fauteuils roulants)»51 per ammirare, oltre al pantelegrafo di
Caselli, al telefono di Meucci e alla grande macchina perforatrice protago-
nista del traforo del Frejus, anche la «ricca collezione di macchine agrarie,
fra cui si dee a cagione d’onore nominare la fabbrica di Meleto del Marchese
Cosimo Ridolfi».52 Era inoltre in mostra «quanto fa parte della vita pubblica
e della vita intima del contadino pisano, e instrumenti, e modelli, e piante, e
arnesi, e masserizie, tutto è raccolto ed esposto con amorevole sollecitudine
e rara diligenza»:53 aura quindi di antenati per la famiglia museografica. La
campagna toscana era infine presente nella sezione Belle Arti con varie opere
pittoriche ‘riprese dal vero’. Tra queste i Carbonai e i Cavallari maremmani
di Andrea Markò e la Mietitura del grano nelle montagne di San Marcello di
Odoardo Borrani.
‘Terra’, dunque, che nel 1861 è ancora esponibile con orgoglio nelle sue di-
verse articolazioni: proprietari, contadini e tecniche georgiche dialoganti con
l’industria. Abbastanza rapidamente però non sarà più possibile continuare
ad associare anche i contadini alle magnifiche sorti del futuro: il villano non
poteva trovar posto nel galop elettrico del Ballo Excelsior, abbinato in Milano
all’Esposizione Nazionale del 1881. Più precisamente: non poteva apparire fra
i portatori della Luce ma il suo comportamento poteva essere esibito quale
curioso relitto di quanto il Progresso stava spazzando via. In effetti il Comitato
organizzatore pensò di accrescere l’attrattiva della Mostra inserendo in una
galleria sostenuta «da colonne scanalate, stile pompeiano, finto marmo coi ca-
pitelli di bronzo […] la esposizione etnografica, cioè dei caratteristici e pitto-
reschi costumi dei contadini di tutta l’Italia».54 Nel 1884, all’ Esposizione Ge-
nerale Italiana di Torino, la curiosità assumeva tinte coloniali con «un villaggio


48 L. de’ Ricci, Rapporto degli studj accademici dell’anno 1836, in «Atti dell’Accademia dei

Georgofili», 1837, pp. 4-19: 5.



49 L. Bigliazzi – L. Bigliazzi, I Georgofili per le Esposizioni nazionali e internazionali, Firenze,

Accademia dei Georgofili, 2010, solo on line: <http://www.georgofili.it/download/914.pdf >.



50 T. Dandolo, Panorama di Firenze. La Esposizione nazionale del 1861 e la Villa Demidoff a

San Donato, Milano, Schiepatti, 1863, p. 65



51 P. Coccoluto Ferrigni, Viaggio attraverso l’Esposizione Italiana del 1861, Firenze, Bettini,

1861, p. 17.

52 Ivi, p. 252.


53 Ivi, p. 254.


54 F. Venosta, Esposizione nazionale, in Guida di Milano per la Esposizione nazionale 1881,

colla pianta della città, Milano, G. Ottino, 1881, pp. 330-336: 335.

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136 PAOLO DE SIMONIS

di assabesi [futuri celebri biscotti55], tutto di maniera, ma che aveva suscitato


grande curiosità, tanto da essere considerato una della attrazioni irrinunciabili
(l’altra era il castello medievale) in un giro frettoloso della mostra».56

«orrendi sterquilinii»

Distanze profonde nella stratigrafia socio-culturale esistevano ovviamente


anche all’interno delle mura: ma non furono processate in rappresentazioni
con l’intensità e l’angolazione di lettura usate verso i villani.
Autorappresentazione può considerarsi la maschera di Stenterello, creata
nel 1793 dall’orologiaio e drammaturgo dilettante Luigi Del Buono. Tomma-
seo, nel suo Dizionario, definiva Stenterello come «un servo o uomo del po-
polo, tra il furbo e lo sciocco, che mescola scipitezze e sali, qualche accenno
libero e anche lubrico: ma l’eleganza d’alcune locuzioni popolari lo fa gradito
ai non Toscani, ai Toscani il riconoscervisi, e il poter ridere anche di sé».57
Dall’alto e dall’esterno si situa invece l’esperienza drammaturgica, sostan-
zialmente isolata, di Giovan Battista Zannoni: abate, accademico della Crusca
e archeologo attratto dal «tentare un nuovo genere di comica rappresentanza,
nella quale avessero luogo personaggi della nostra più bassa plebe».58 All’aba-
te il loro «modo di favellare»59 era noto avendoli ascoltati a lungo, tra vicoli e
botteghe, «fingendo di far tutt’altro»,60 e grande fu il successo, nel 1819, della
messa in scena dei conseguenti Scherzi Comici: «Se ne parlava nei crocchi e
nelle conversazioni; e per muover riso in altrui se ne ripetevano i motti, i modi
proverbiali e fino le intere scene. Molte persone distinte, massime per cultura
d’ingegno, vollero recarsi a vederle».61
Da pettegoli i vicoli si fecero poi inquietanti, almeno per i tantissimi
che subirono il fascino del filone narrativo riconducibile, in particolare,
a I Misteri di Parigi di Eugène Sue: pubblicati a puntate su Le Journal des
débats tra il 1842 e 1843 e immediatamente tradotti in volume a Firenze.62


55 Cfr. G. Abbatista, La rappresentazione dell’ ‘altro’, in U. Levra – R. Roccia (a cura di), Le

esposizioni torinesi, 1805-1911. Specchio del progresso e macchina del consenso, Torino, Archivio Sto-
rico della Città di Torino, 2003, pp. 253-268.

56 M. Picone Petrusa, Cinquant’anni di esposizioni industriali in Italia 1861-1911, in M. Pico-

ne Petrusa – M. Pessolano – A. Bianco, Le grandi esposizioni in Italia. 1861-1911. La competizione


culturale con l’Europa e la ricerca dello stile nazionale, Napoli, Liguori, 1988, pp. 7-29: 16. Vedi anche
S. Puccini, Presentazione a L. Loria, Come è sorto il Museo di Etnografia Italiana in Firenze (1907),
in «Studi Culturali», VIII, 2011, 1, pp. 67-73: 67-68.

57 N. Tommaseo – B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Pomba, 1861-1879, ad vocem.


58 G.B. Zannoni, Saggio di scherzi comici, Firenze, Stamperia del Giglio,1819, p. vi.


59 Ibid.


60 Ivi, p. ix.


61 Ivi, p. vii.


62 E. Sue, I misteri di Parigi, Firenze, Pezzati, 1843-44, 7 voll. Cfr. anche F. Foni, Alla fiera dei

mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane, 1899-1932, Latina, Tunué, 2007.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 137

«Curiosità mista ad orrore»63 divenne formula vincente: ogni città voleva


avere i suoi Misteri, tanta la presa sul pubblico, non solo medio-borghe-
se, di vicende drammatiche ambientate in bassifondi degradati tra miseria,
sfortuna, malattia, delinquenza, qualche raro riscatto da socialismo conso-
latorio. La città come sentina di vizi rafforzava evidentemente, per oppo-
sizione romantica, la già ricordata identità positiva dell’habitat extraurba-
no. Ma anche all’identità negativa finiva comunque per corrispondere una
rappresentazione a suo modo seducente. Alterità dunque bipolarmente
attrattiva.
Nel 1854 uscirono i Misteri di Firenze. Scene moderne, di Angiolo Pan-
zani64 e nel 1857 I misteri di Firenze. Scene sociali di Collodi,65 peraltro non
molto convinto che anche la sua città fosse dotata di eclatante lato oscuro.66
In effetti i bassifondi di Firenze ancora granducale erano gli stessi degli Scher-
zi comici: poveri ma non degradati quanto richiedeva il modello parigino.
Degrado scandaloso si sarebbe manifestato nella realtà qualche anno più tardi
e, di nuovo, intrecciandosi con la narrazione: dopo Firenze capitale l’area del
Ghetto e del Mercato Vecchio, in pieno centro storico, si trovò drammatica-
mente sovraffollata per l’arrivo di ‘immigrati’ provocati dalle demolizioni di
quartieri popolari limitrofi. Ne derivò una effettiva grave invivibilità tuttavia
sanabile, secondo vari progetti etico-razionali che prevedevano un dirada-
mento selettivo dei volumi in grado di conservare e valorizzare torri e palaz-
zi medievali: finì al contrario per prevalere una scellerata demolizione totale
di stile haussmaniano, in nome dell’igiene fisica e morale e a tutto effettivo
vantaggio di una grande speculazione fondiaria interessata a gentrificare in
salotto buono la vecchia area popolare.
Nel convincere l’opinione pubblica a «purgare Firenze da quel canche-
ro»67 portando luce nel ghetto grazie ad un salvifico ‘sventramento’ svolse
ruolo considerevole una martellante campagna informativa: giornalistica e
letteraria. Nel 1884 propose altri Misteri di Firenze Egisto Maccanti e, nel
1887, l’Orfana del Ghetto di Carolina Invernizio68 riusciva a stento a tirarsi
fuori da «corridoi tenebrosi», «cortili melmosi e tetri» e «brutti ceffi, mendi-
canti, ladri, sgualdrine».69 Ancor più efficaci si dimostrarono gli articoli pub-
blicati70 su «La Nazione» da Jarro (Giulio Piccini), esploratore coinvolgente
che scopriva i selvaggi della piazza accanto, prossimi quanto ignorati:


63 Citato in A. Bianchini, La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento, Napoli,

Liguori Editore, 1988, p. 13.



64 A. Panzani, Misteri di Firenze. Scene moderne, Firenze, Mariani, 1854.


65 C. Lorenzini, I misteri di Firenze. Scene sociali, Firenze, Fioretti, 1857.


66 Ivi, p. 118.


67 G. Piccini (Jarro), Firenze sotterranea. Appunti, ricordi, descrizioni, bozzetti, Firenze, Maria-

no Ricci, 1900 (ed. originale 1884), p. 64.



68 C. Invernizio, L’orfana del Ghetto. Romanzo storico-sociale, Firenze, Salani, 1887.


69 S. Fei, Firenze 1881-1898: la grande operazione urbanistica, Roma, Officina, 1977, p. 23.


70 Raccolti in G. Piccini (Jarro), Firenze sotterranea, cit.

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138 PAOLO DE SIMONIS

in una città raffinata, di tanta civiltà, vi sono uomini, donne, bambini a centinaia, che
vivono in condizioni peggiori de’ bruti !71 […] Siete voi andato mai in quegli antri,
in quelle tane, per que’ sotterranei, dove la notte le pareti formicolano d’insetti, dove
il soffitto è così basso, che è impossibile a un uomo di giusta statura entrare lì senza
curvarsi, e dove su putridi giacigli si scambiano gli amplessi di ladri e di baldracche,
lordure umane, sgorgate in quegli orrendi sterquilinii, dopo aver corso, trabalzate,
per tutte le fogne del vizio ?72

Fu anche grazie a simili sfoggi retorici che il sindaco e marchese Pietro Tor-
rigiani poteva annunziare che la demolizione dell’area del Mercato Vecchio era
finalmente «iniziata a furor di popolo, smanioso di luce, d’aria e di novità».73
Nei fatti, buona parte del popolo di quell’area si trovò improvvisamente senza
casa e, per almeno attenuare il conseguente vulnus, sorse un Comitato per le
case dei poveri e i dormentorii composto da «cittadini solerti e degnissimi».74
Tra questi anche il «dott. Lamberto Loria» immediatamente seguito, nell’e-
lenco riportato da Jarro,75 dall’ «avv. Clearco Freccia» cui Loria avrebbe poi
donato, nel 1904, un album di foto della sua permanenza in India del 1886.76
Nel giugno 1885 tutta la popolazione della zona era stata evacuata e di
questa assenza profittò il montante gusto orientalistico di alcuni artisti che,
per il carnevale del 1886, tradussero scenograficamente in animata quanto
effimera Bagdad il cuore di Firenze che stava per esser demolito: un’area
che «coi suoi cortili, i suoi voltoni, le straducole strette, irregolari, buie, s’è
prestata moltissimo a favorire l’illusione».77 A visitarla accorse folto pubbli-
co che, pagando due lire a beneficio delle Case dei poveri, era accolto da
spahis che montavano cammelli prelevati dalla tenuta pisana di San Rossore:
ci si muoveva in mezzo a caravanserragli e moschee incontrando varie me-
raviglie tra cui la statua di un elefante illuminata da luci multicolori. Piazza
della Fonte era diventata «un cortile sul genere di quelli dell’ Alhambra»78 e
per qualche giorno si chiamò Rahba-el-Kammara. Nel carnevale di due anni
dopo Bagdad virò in simil Pechino: venditori di sete e ideogrammi, fumerie
d’oppio e la scala d’oro del Palazzo Imperiale, mandarini e mercanti, dame
con ombrellini e ventagli.

71
  Ivi, p. 22.
72
  Ivi, pp. 20-21.

73 Il centro storico di Firenze. Studi storici e ricordi artistici pubblicati a cura della Commissione

Storica Artistica Comunale, Firenze, Comune di Firenze, 1900, p. 10.



74 G. Piccini (Jarro), Firenze sotterranea, cit., p. 14


75 Ibid.


76 Cfr. C. Bellini – L. Villa, Muti testimoni di un istante fugace. Due prospettive a confronto

sull’album fotografico di Lamberto Loria, in D. Cevenini – D’Onofrio (a cura di), Islâm. Collected
essays, Bologna, I libri di Emil, 2010, pp. 13-38.

77 G. Carocci, Il ghetto di Firenze e i suoi ricordi, Firenze, Galletti e Cocci, 1886, p. 74. L’inter-

pretazione orientaleggiante di vicoli e piazzette si è ripresentata negli ultimi anni in Toscana (e non
solo) con i ‘presepi viventi’ allestiti nei centri storici di vari piccoli paesi.

78 Ibid.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 139

Circenses legati a viaggi immaginari ambientati non nello spazio ma nel


tempo presero inoltre corpo tra Ottocento e Novecento: ideati da una in-
tellettualità media interessata a popolarizzare una costruzione identitaria di
Firenze centrata su medioevo e rinascimento.
Nella primavera del 1898, le onoranze centenarie italo-americane rivolte
a Paolo Toscanelli ed Amerigo Vespucci79 prevedevano tra l’altro quadri vi-
venti a soggetto rinascimentale e una rappresentazione del calcio fiorentino in
costume80 di cui allora «nessuno sapeva nulla»:81 l’ultima partita essendo sta-
ta giocata il 19 gennaio 1739. L’esito più che soddisfacente della riesumazione
determinò nel 1902 il tentativo di altre inventive resurrezioni. Per «aiutare il
piccolo commercio»82 si volle
compilare un programma di feste che, per una volta tanto, uscisse dall’ordinario: e
fosse veramente capace di richiamare in Firenze, il maggior numero possibile di ita-
liani e di forestieri. Dopo molte discussioni e svariate proposte, si deliberò di tornare
all’antico, di frugare negli archivi e di rimettere in luce qualcuno dei festeggiamenti
grandiosi e bizzarri, di Firenze medioevale, e principesca.83

Identificarsi in questa chiave significava adeguarsi all’immagine di Firen-


ze costruita dall’esterno entro il Grand Tour. La proiezione invece del genio
italiano/fiorentino nel mondo, celebrata dalle onoranze, si manifestò con la
vocazione colonialista riconoscibile negli interventi di un importante Con-
gresso geografico cui aderirono anche la Società Italiana di Antropologia ed
Etnologia (d’ora in poi SIAE) e «famosi viaggiatori come Lamberto Loria e
Stefano Sommier».84

«Lè que cà se magne i fasé ?»

Firenze capitale si trovò, dal 1865 al 1871, variamente esotizzata dall’immi-


grazione improvvisa di migliaia di portatori di usi e costumi diversi: pubblica-
mente esposti in quanto praticati nel quotidiano, tra reciproca curiosità e fre-
quenti contrasti, da soldati, politici, operai, affaristi, professionisti, commercianti,
giornalisti e burocrati di tutte le regioni italiane, ma soprattutto del Piemonte.
I piemontesi, annotava l’editore torinese-fiorentino Gaspero Barbera, po-
lemizzano «contro gli usi e le case [dei fiorentini], contro tutto quello che tro-


79 Cfr. P. Toscanelli dal Pozzo, Le onoranze centenarie italoamericane a Paolo Toscanelli e ad

Amerigo Vespucci, celebrate nella primavera del 1898 in Firenze, Firenze, Tip. M. Ricci, 1898.

80 Ivi, p. 15.


81 P. Gori, Le feste fiorentine attraverso i secoli. Le feste per San Giovanni, Firenze, R. Bempo-

rad & Figlio, 1926, p. 277.



82 Ivi, p. 314.


83 Ivi, p. 315.


84 L. Cerasi, Gli Ateniesi d’Italia. Associazioni di cultura a Firenze nel primo Novecento, Milano,

Angeli, 2000, p. 17.

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140 PAOLO DE SIMONIS

vano nelle vie che percorrono, contro i passeggi, i caffè, le trattorie, i teatri».85
E con ‘piemontese’ i fiorentini presero a connotare non solo chi proveniva
dal Piemonte ma complessivamente, e in prevalente accezione negativa, ogni
‘venuto da fuori’:86 anche il leccese Girolamo De Blasi, autore di Firenze, i
Ciaccioni e i Buzzurri.87 Si formarono, sulla base delle diverse provenienze,
informali microcomunità tendenzialmente chiuse ma si conobbero e confron-
tarono diversi modi di vita, con implicazioni che andavano dalla lingua al
palcoscenico al cibo.
Le molte lingue dell’itala gente, verificandosi tanto diverse da ostacolare
la vicendevole comprensione, riproponevano e riarticolavano nei fatti vecchi
importanti dibattiti politico-culturali. Tra questioni della lingua e satire con-
tro i selvaggi. A Edmondo De Amicis, dal 1867 a Firenze come redattore dell’
«Italia militare», era stato assegnato un attendente sardo, ventenne, analfa-
beta. Davvero un «curioso soggetto»:88 la sua «fronte era alta appena tanto
da separare i capelli dagli occhi»89 e la sua lingua «era un misto di sardo, di
lombardo e d’italiano, tutte frasi tronche, parole mozze e contratte […] che
facevano l’effetto dei discorsi di un delirante».90
Favelle regionali trovarono spazio non secondario sui palcoscenici fio-
rentini dove si esibirono numerose compagnie dialettali: piacque il Gian-
duja di Giovan Battista Penna91 e non altrettanto il Pulcinella di Antonio
Petito.92
«Deputati e nuovi venuti […] frequentavano altresì le trattorie schietta-
mente fiorentine […] per mangiare lo stufatino e il cibreo di rigaglie».93 O
molto più semplicemente i fagioli conditi con l’olio: «Lè que cà se magne i
fasé ? […] l’ è chiel che ‘l cus i fasé ? […] Ora sentirà il nostro cibo plebeo».94
Si consolidò allora come ‘fiorentina’, per gli italiani non toscani, una modalità
di taglio e di cottura della carne estranea alla precedente tradizione locale e
che i fiorentini avevano adottato per soddisfare i gusti dei turisti anglosassoni:
bistecca da beef steak.95

85
  G. Barbèra, Memorie di un editore pubblicate dai figli, Firenze, G. Barbèra, 1883, p. 300.
86
  Cfr. C. Marazzini, Firenze capitale: questioni linguistiche, in N. Maraschio (a cura di), Firen-
ze e la lingua italiana fra nazione ed Europa, Firenze, University Press, 2007, pp. 91-104: 98.

87 Ibid.


88 E. De Amicis, Un’ordinanza originale, in Id., La vita militare, Firenze, Salani, 1909 (ed. ori-

ginale 1874), p. 258.



89 Ivi, p. 256.


90 Ivi, p. 258.


91 P.E. Poesio, Il teatro, in S. Camerani et alii, Panorama di Firenze capitale, Firenze, Il Fauno,

1971, pp.111-121: 117.



92 Cfr. U. Pesci, Firenze capitale (1865-1870), Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1904, pp. 416-417.


93 Ivi, p. 359.


94 A. Novelli, Firenze presa sul serio, Firenze, Editrice «La commedia fiorentina», 1933 (ed.

originale. 1900), p. 100.



95 Cfr. M. Salemi, Cibo dei forti, cibo del potere, in G. Cherubini et alii, Della carne e del vino,

Firenze, Parenti, 1992, pp. 13-23.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 141

‘Bistecca’ era comunque lemma del Dizionario del Tommaseo,96 trasferi-


tosi a Firenze nel 1859, e della quinta edizione della Crusca, avviata nel 1863:
«Firenze, capitale dei vocabolari assieme a Torino, fu comunque al centro di
un’attività lessicografica intensa. Da Firenze venne lo stimolo per una lettera-
tura linguistica d’intrattenimento attenta al parlato, come mai era accaduto in
Italia».97 Attilio Zuccagni Orlandini pubblicava nel 1864 una Raccolta di dia-
letti italiani con illustrazioni etnologiche che informano, ad esempio, come la
pronuncia dei lucchesi sia connotata da una «nasale cantilena» mentre il «loro
abito di corpo è d’ordinario gracile e adusto; la faccia stessa presenta un ovale
piuttosto oblungo, con certi tratti di fisionomia non senza venustà delicati».98

«poligamo di molti amori intellettuali»

Et in Academia, infine, la diversità culturale: non più solo presenza impli-


cita, o rappresentata da linguaggi non scientifici, ma riconosciuto oggetto di
studio per effetto di sintomatica convergenza tra politica e cultura. Il Governo
provvisorio della Toscana, proprio mentre si rendeva protagonista nazionale
contro i rischi di restaurazione post Villafranca,99 progettava per Firenze un fu-
turo di capitale culturale legittimato da una lunga tradizione di grandi Accade-
mie e dalla nascita di una struttura che, per la sua autonomia, potesse favorire
progetti innovativi: il Regio Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfeziona-
mento, concepito dal ministro dell’Istruzione Cosimo Ridolfi, in pieno accordo
con il Presidente Bettino Ricasoli, e battezzato per decreto il 22 dicembre 1859.
L’Istituto avrebbe dovuto rispondere «veramente ai bisogni di un progresso in
atto: una scuola rinnovatrice in un momento rivoluzionario»,100 politico e cul-
turale. Nel 1863 vi ebbe la cattedra di Fisiologia Maurizio Schiff, già espulso da
Gottinga per la pericolosità del suo positivismo. Il 21 marzo 1869 Alessandro
Herzen, assistente di Schiff, tenne una conferenza Su la parentela fra l’uomo e le
scimmie: «La Nazione» riferì «che la sala era stipata di gente e che il coraggio-
so dottore fu applauditissimo»101 ma ne seguì aspra polemica con importanti
esponenti del moderatismo toscano, tra cui Tommaseo, Gino Capponi, Raffa-

96
  N. Tommaseo – B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, cit.
97
  C. Marazzini, Firenze capitale: questioni linguistiche, cit., p. 101.

98 A. Zuccagni Orlandini, Raccolta di dialetti italiani con illustrazioni etnologiche, Firenze,

Tofani, 1864, p. 244.



99 Cfr. S. Rogari, Gli anni dell’Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento, in Id. –

C. Ceccuti (a cura di), L’Università degli Studi di Firenze fra istituzioni e cultura nel decennale della
scomparsa di Giovanni Spadolini, Atti del convegno (Firenze 2004), Firenze, University Press, 2005,
pp.13-17.

100 E. Garin, L’Istituto di Studi Superiori di Firenze (cento anni dopo), in Id., La cultura italiana

tra 800 e 900, Bari, Laterza, 1962, pp. 29-66: 37.



101 Citato in B. Chiarelli, L’Istituto di Studi Superiori. Paolo Mantegazza e l’Antropologia a Fi-

renze, in C. Chiarelli – W. Pasini (a cura di), Paolo Mantegazza e l’Evoluzionismo in Italia, Firenze,
University Press, 2010, pp. 15-34: 15.

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142 PAOLO DE SIMONIS

ello Lambruschini. Herzen era un esiliato politico russo che a Firenze conobbe
De Gubernatis, per qualche mese sedotto dagli ideali anarchici di Bakunin che
nel 1864 era arrivato in riva all’Arno dove, dall’agosto 1849, dopo aver parte-
cipato l’anno prima ai moti napoletani del 15 maggio, aveva dovuto riparare
lo storico Pasquale Villari, dal 1865, insegnante nell’Istituto. Nel suo discorso
inaugurale dell’anno accademico 1868-1869 Villari esprimeva «grande simpa-
tia per le riforme più utili indicate dal progresso de’ tempi»102 auspicando dia-
logo stretto tra storia, filosofia e scienze umane al fine di individuare «le leggi
secondo cui i fatti dello spirito si succedono nel tempo».103
Si deve all’interessamento di Villari, che nel 1869 era anche Segretario Gene-
rale della Pubblica Istruzione, se il Ministro Bargoni chiamò a Firenze in questo
stesso anno Paolo Mantegazza, docente di Patologia a Pavia (nonché deputato
dal 1865)104 per un insegnamento obbligatorio105 di Antropologia ed Etnologia:
il primo in Italia, aggregato alla sezione di Filosofia e Filologia dell’Istituto.
Mantegazza, nel ritratto lucidamente acido di Giovanni Papini, fu «despo-
tico e balzano principale […] vero nume del Museo, della Società e dell’Ar-
chivio. Era lui che aveva imposto l’insegnamento dell’antropologia nelle uni-
versità italiane, era lui l’uomo celebre, il poligrafo popolare»106 che del resto
si autodefiniva «poligamo di molti amori intellettuali».107
Il Ministro Credaro lo ricordava, commemorandone in Senato la scom-
parsa, come «uomo di scienza e scrittore educativo e popolare, nel senso vero
della parola: fu tra i primi a volgarizzare in Italia le leggi dell’igiene, che è an-
che base di educazione morale, e per questo egli esercitò un’azione benefica e
larga sulla coltura e sulla scuola del popolo italiano».108
Noto e indubbio come questa sorta di olismo orizzontale sia andata a di-
scapito della qualità scientifica: «gli mancava una teoria, un’idea sua [...] non
aveva approfondito né risolto nessun problema».109
Tanta ‘superficialità’ iperattiva corrispose d’altronde a una straordinaria
capacità di promozione e visibilità: il suo successo personale di cui molti, non


102 Dalla recensione al Discorso inaugurale alle lezioni dell’Istituto di studi superiori in Firenze,

del prof. Preside Pasquale Villari, Gazzettino bibliografico, in «Rivista Contemporanea Nazionale Ita-
liana», XVII, 1869, p. 118

103 Citato in P. Guarneri, Senza cattedra. L’Istituto di Psicologia dell’Università di Firenze tra

idealismo e fascismo, Firenze, University Press, 2012, p. 24.



104 Lo sarà, lungo quattro legislature, fino al 1876: quando divenne senatore.


105 Sulla effimera ‘fortuna’ accademica della disciplina cfr. S. Puccini, Nascita e primi sviluppi

degli studi etno-antropologici italiani. Introduzione, in Id. (a cura di), L’uomo e gli uomini. Scritti di
antropologi italiani dell’Ottocento, Roma, CISU, 1991, pp. 1-47: 19-22.

106 G. Papini, Il senatore erotico, in Id., Passato Remoto. 1885-1914, Firenze, L’Arco, 1948,

pp. 110-123: 110.



107 P. Mantegazza, Bibbia della speranza, Torino, Società Tipografica Editrice Nazionale, 1909, p. 1.


108 Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 5 dicembre 1910, in <http://notes9.sena-

to.it/web/senregno.nsf/e56bbbe8d7e9c734c125703d002f2a0c/a1b09e335637d2294125646f005d0c52?
OpenDocument>.

109 G. Papini, Il senatore erotico, cit., p. 111.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 143

solo Papini, sembravano in realtà quasi invidiosi, rese popolare nella società
italiana l’approccio antropologico. Mantegazza, primo docente incardinato di
Antropologia, riuscì a incardinare la sua disciplina anche molto oltre aule e
laboratori. Parlare non solo ex cathedra era sua costante raccomandazione110
rivolta agli allievi, non tutti peraltro concordi. Fra questi Mochi che, perfino
quando si trattò di ricordare ufficialmente il Maestro scomparso, non si trat-
tenne dal rimproverargli la dipendenza dal
pubblico numeroso e plaudente, attratto dalla piana smagliante esposizione di dot-
trine nuove e di largo interesse delle quali, del resto, venivano esposte solo le linee
principali intelligibili per tutti. E anche quando non fu più il tempo di trattare argo-
menti così universalmente interessanti, anche quando l’insegnamento avrebbe dovu-
to restringersi e farsi speciale e dettagliato, il maestro non seppe rinunciare al gran
pubblico.111

La ricerca di largo consenso era sorretta da un compatto dispositivo mul-


timediale tendenzialmente inclusivo: il Museo di Antropologia.112 fondato
nello stesso anno dell’istituzione della cattedra, cui andarono ad affiancarsi
nel 1871 la SIAE e il connesso organo di stampa ufficiale, l’ «Archivio per
l’Antropologia e l’Etnologia» (d’ora in poi «AAE»). Che «tutto questo non
sia stato del tutto uno sterile travaglio lo proverebbe il battesimo onorevole
che gli antropologi francesi ci danno d’ École de Florence».113 poteva conclu-
dere Mantegazza. La sua azione coinvolgeva e definiva un bacino di utenza
ampio e sfrangiato, aperto a zoologi, paletnologi, medici, fisiologi, storici,
viaggiatori, funzionari, imprenditori. Un bacino di interessi incrociati cui
corrispondeva una dimensione discorsiva vivace, legata all’attualità e alla fre-
schezza di relazioni, articoli, lettere. E conferenze: allora saldamente inserite
anche in Firenze nelle pratiche culturali medio-alte114 e spesso ben registrate
nelle cronache dei quotidiani.
Per conferenze da tenersi presso la SIAE «su Leonardo da Vinci come
antropologo e sugli Yezidi, ultimi superstiti adoratori del diavolo»115 raccol-
se materiali Giovanni Papini che nel 1902 venne nominato bibliotecario del
Museo di Antropologia per interessamento di Ettore Regàlia. Ma la confe-
renza era soprattutto parte dell’immagine pubblica coordinata, unitamente
a pubblicazioni di testi e immagini, che il viaggiatore/esploratore sviluppava


110 Cfr. quanto affermato da Mochi nell’Adunanza straordinaria tenuta il 6 novembre per com-

memorare Paolo Mantegazza, in «Archivio per l’Antropologia e la Etnologia», (d’ora in poi «AAE»),
XL, 1910, pp. 483-500: 494.

111 Ibid.


112 Per una lettura della storia e del senso del Museo cfr. in particolare L. Varriale, Il Mu-

seo Nazionale di Antropologia ed Etnologia di Firenze. La memoria, il presente e la rappresentazione


dell’alterità, in E. Rossi (a cura di), Forme di antropologia. Il Museo Nazionale di Antropologia e
Etnologia di Firenze, Firenze, Edifir, 2014, pp. 29-69.

113 P. Mantegazza, Progetto di un Museo Psicologico, in «AAE», XVI, 1886, pp. 431-435: 431.


114 Cfr. L. Cerasi, Gli Ateniesi d’Italia, cit.


115 G. Papini, L’asceta osteologo, in Id., Passato Remoto. 1885-1914, cit., pp. 104-109: 108.

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144 PAOLO DE SIMONIS

attorno al rendiconto della sua esperienza esotica: al ritorno dall’avventura


poteva in altri termini contare su di una solida domanda di ascolto che andava
dall’interesse scientifico alla diffusa, non solo popolare, esigenza di eroi.
L’informazione sull’ Altro, inoltre, creava consenso attorno alla imprese
coloniali che su più fronti necessitavano di forte sostegno ideologico. Esplicita-
mente, quasi per statuto, agivano in questo senso la Società Geografica Italiana
(d’ora in poi SGI) e la Società di Studi Geografici e Coloniali, fondate a Firen-
ze, rispettivamente, nel 1867 e nel 1895 ed entrambe dotate di riviste. Più che
probabile che ‘di per sé’, con i suoi contenuti, abbia finito per svolgere funzione
analoga anche il Museo di Antropologia: ma non perché lo volesse il suo fonda-
tore che, al contrario, non guardò mai favorevolmente alle conquiste dell’Italia
in Africa. Inoltre, a detta di Nicola La Banca, i reperti esposti a Firenze «illu-
stravano ancora troppo l’antropologia generale […] e troppo poco quella della
nascente colonia italiana, per poter divenire un saldo punto di riferimento per
gli studiosi ma anche per i politici, i militari, gli amministratori, i funzionari
coloniali […] L’antropologia italiana applicata era ancora al di là da nascere».116
Mantegazza, a seguito dei suoi viaggi, produceva testi destinati a soddisfare
le esigenze di pubblici diversi: lungo una filiera che dalla corrispondenza im-
mediata per qualche quotidiano andava poi all’articolo per rivista di settore e a
volte si concludeva in libro divulgativo paraletterario.117 Farsi «capire dall’ope-
raio, dal contadino; da qualunque uomo che sapesse leggere»118 fu del resto l’o-
biettivo dei suoi scritti esplicitamente indirizzati all’educazione popolare, dove
raggiunse ragguardevoli livelli di fidelizzazione: come nel caso delle ennesime
riedizioni dell’ Almanacco igienico-popolare e della rubrica scientifica curata per
un decennio sulla «Nuova Antologia». Terreno fertile a riguardo metteva a di-
sposizione l’editoria fiorentina che nel corso dell’ Ottocento seppe segnalarsi
per continuità qualitativa in ambito pedagogico. Mantegazza fu anche direttore
scientifico di una collana inaugurata da Barbera: la Piccola biblioteca del popolo
italiano, composta da volumetti di circa 100 pagine dal costo di 50 centesimi.
Comunicare a banda larga significò, e non solo per Mantegazza, affidarsi
anche alla fotografia che si dimostrò indispensabile in particolare dopo l’Uni-
tà: quando occorreva «inventariare, catalogare, classificare, per far conosce-
re, mettere in comune, esaltare […] abbracciare tutto il reale in un numero
sterminato di voci-immagini: si va da Vesuvio, Colosseo, Ciociaria, Brianza, a
spazzacamino, stambecco, opificio, ginnasta, beneficenza».119 Alinari e Brogi,
i due maggiori studi fiorentini, avviarono su scala nazionale campagne fo-


116 N. La Banca, «Un nero non può esser bianco». Il Museo Nazionale di Antropologia di Paolo

Mantegazza e la Colonia Eritrea, in Id. (a cura di), L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni
coloniali, Treviso, Pagus, 1992, pp. 69-106: 94.

117 Cfr. S. Puccini, I viaggi di Paolo Mantegazza. Tra divulgazione, letteratura e antropologia,

in C. Chiarelli – W. Pasini (a cura di), Paolo Mantegazza e l’evoluzionismo in Italia, cit., pp. 51-76.

118 Citato in L. De Franceschi, Paolo Mantegazza e la divulgazione scientifica. Rapporti con la

scienza, editoria popolare e cataloghi di biblioteche, in ivi, pp. 175-183:179.



119 G. Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi,

1983, pp. 147-148.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 145

tografiche dove sulla prevalente bellezza di panorami e capolavori d’arte si


affacciavano ‘tipi e costumi’ regionali. Le foto conseguenti costruirono «una
immagine dell’Italia che diventerà familiare agli Italiani, fino ad essere per un
lunghissimo periodo l’unica immagine conosciuta».120
Maturò a Firenze nel 1887, durante la prima Esposizione Italiana Foto-
grafica, l’intenzione di creare una Società Fotografica Italiana (d’ora in poi
SFI) di cui fu eletto presidente121 Paolo Mantegazza che il 26 maggio 1889,
nell’Aula Magna dell’ Istituto di Studi Superiori, inaugurò i lavori della neona-
ta istituzione. Nella sua prolusione il Presidente proponeva, attraverso le foto,
di «pubblicare una completa raccolta di tutte le espressioni delle emozioni
umane prese dal vero, rendendo così un grande servizio alla psicologia e all’ar-
te».122 Non di soli crani viveva dunque l’antropologo: «Guai a noi, se l’antro-
pologia non fosse che craniologia»,123 sosteneva infatti, e anche, Mantegazza:
i craniologi producono «una farragine di cifre, che nessuno legge».124 E la fo-
tografia antropologica, anche a detta di altri studiosi del settore, non avrebbe
dovuto esclusivamente coincidere con il format fronte/profilo, ai confini del
Bertillonage: «Alle fotografie scientifiche – secondo Morselli – sarà utilissimo
aggiungerne ancora delle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e
libero degli individui ritratti, e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti
ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale».125
Non solo: nell’ Archivio fotografico del Museo sono riconducibili a Man-
tegazza, più o meno direttamente, circa trecento scatti relativi a soggetti ita-
liani. In assoluta minoranza quindi rispetto agli altri più che 25.000 dedicati
ad ambienti esotici ma comunque indicativi di una qualche attenzione riser-
vata all’etnografia italiana.126 Cui rimandano inoltre, confermando l’abilità
di Mantegazza nel rapportarsi alle istituzioni politiche, le diverse Inchieste
nazionali promosse dal polo antropologico fiorentino: nel 1871 la Raccolta
dei materiali per l’etnografia italiana, l’ Inchiesta Concorso sulle superstizioni
del 1887 e la Carta Etnografica d’Italia lanciata da un concorso bandito sulla
Gazzetta Ufficiale del 7 giugno 1895 con un premio di 500 lire.127


120 F. Zevi, Le altre città e il paesaggio italiano, in W. Settimelli – Id. (a cura di), Gli Alinari

fotografi a Firenze. 1852-1920, Firenze, Alinari, 1977, pp. 247-255: 254.



121 Il 6 aprile 1889. Cfr. P. Chiozzi, Manuale di antropologia visuale, Milano, Unicopli, 1993.


122 P. Mantegazza, intervento nella Seduta di inaugurazione della Società Fotografica Italiana, in

«Bullettino della Società Fotografica Italiana», (d’ora in poi BSFI), I, 1889, pp. 5-6: 6.

123 Id., Introduzione a Id., Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze, I, Milano, Brigola,

1871, pp. 7-34: 20.



124 Id., Dei caratteri gerarchici del cranio umano. Studi di critica craniologica, in «AAE», V, 1875,

pp. 32-81: 32.



125 E. Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia all’esposizione Generale Ita-

liana di Torino, in «AAE», XIV, 1884, pp. 123-132: 126.



126 Cfr. C. Chiarelli, Mantegazza e la fotografia: una antologia di immagini, in Id., W. Pasini (a

cura di), Paolo Mantegazza e l’Evoluzionismo in Italia, cit., pp. 93-115: 111.

127 Vedi anche S. Puccini, Strategie politiche, problemi sociali e interessi demologici nelle grandi

inchieste parlamentari, in Id., Il corpo, la mente e le passioni. Istruzioni, guide e norme per la docu-

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146 PAOLO DE SIMONIS

Da scherzi a miti a problemi: è il percorso interpretativo seguito lungo


l’Ottocento dalle diversità culturali nazionali. Unire per progredire, a Risorgi-
mento quasi concluso, ma come ? La modernità etnocida procedeva con tagli
lineari nella tradizione vedendovi soprattutto arretratezza da rimuovere o da
omologare. D’altra parte nello scenario del progresso molte scorie del passato
vennero recuperate e valorizzate in quanto memoria da esibire in un mercato
attratto proprio dalla categoria della distanza.
Mantegazza sapeva muoversi, in questo quadro, anche rispetto alle possi-
bilità di sostegno economico provenienti dal settore privato.
Una monografia128 del 1859 sulle foglie di coca, frutto della sua perma-
nenza in Argentina, gli valse nell’immediato la vittoria in un concorso medi-
co e più avanti lo accreditò quale prestigioso testimonial della Coca Buton:
«uno squisito liquore che si potrebbe chiamare l’elixir del pensiero perché
è un gagliardo eccitatore del cervello»129 «raccomandato dal celebre igieni-
sta Senatore Paolo Mantegazza. Grande specialità della Ditta Gio. Buton e
C – Bologna».130
Nel 1869 a Mantegazza si rivolse il Comune di Rimini quando, per rilan-
ciare adeguatamente il locale Istituto Idroterapico, ritenne indispensabile do-
tarsi di «un professore sanitario che colla direzione, e col suo nome illustre gli
apporti incremento, e rinomanza».131 Mantegazza accettò l’incarico e dedicò
a Rimini, l’anno dopo, la sua Igiene della bellezza citando D’Azeglio, secondo
cui «la Romagna è la provincia d’Italia, ove l’uomo nasce più completo nel
fisico e nel morale; e la stoffa della razza romagnola è fra le migliori che si
conoscano».132
A Firenze, all’interno del combinato disposto fra cattedra, museo, biblio-
teca, società, rivista, è opportuno rilevare come la voce del Museo non fosse
affatto la più specificamente addetta a comunicare e divulgare. Il Museo non
venne praticamente mai regolarmente aperto al pubblico: ancora nel 1922, la
Guida Rossa del TCI refertava che la sola speranza, più che informazione, di ac-
cesso consisteva nel «suonare e chiedere il permesso di visita alla direzione».133
Il Museo era anzitutto il luogo dove il ‘bottino scientifico’ raccolto al-
trove veniva conservato, ordinato e studiato. Scaffali e vetrine esponevano

mentazione, l’osservazione e la ricerca sui popoli nell’etno-antropologia italiana del secondo Ottocento,
Roma, CISU, 1998, pp. 27-32.

128 P. Mantegazza, Dell’azione fisiologica della coca e delle sue applicazioni, in «Annali Univer-

sali di Medicina», XXI, 1859, pp. 488-495.


129  Citato in B. Sallé – J. Sallé, Dizionario Larousse degli alcolici e dei cocktails, Roma, Greme-

se, 2004, (ed. originale 1981), p. 66.



130 Lo si poteva leggeva negli spazi pubblicitari di quotidiani e riviste. Come in «La Let-

tura», XII, gennaio 1912, seconda di coperta condivisa con i liquori Vov e Strega e i dadi per
brodo Maggi.

131 Citato in W. Pasini, Paolo Mantegazza a Rimini, in W. Pasini (a cura di), Paolo Mantegazza

e l’Evoluzionismo in Italia, cit., pp. 151-160: 151.



132 Ivi, p. 155.


133 Citato in L. Varriale, Il Museo Nazionale di Antropologia ed Etnologia di Firenze, cit., p. 55.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 147

classificando i reperti usciti da casse spedite da paesi lontani. Con qualche


significativa eccezione: per il suo Museo Mantegazza acquistò oggetti boli-
viani a Torino, visitandovi l’ Esposizione Generale Italiana del 1898134 e così
confermando, via mercato, la stretta parentela tra le vetrine della scienza e
quelle della meraviglia.
Il Museo era, anche spazialmente, contiguo alla cattedra. Arturo Zannetti,
assistente di Mantegazza, lo considerava nel 1871 «un vero laboratorio nel
quale possano i giovani addestrarsi all’osservazione ed alla esperienza e pren-
der piacere colla loro opera al progresso di un ramo così importante dello
scibile umano».135 Un museo/laboratorio dove capitava tra l’altro di misurare
i selvaggi di passaggio, come accadde ai giovanissimi Akka Thiebaut e Kerallà
che, assieme ad ‘altri reperti’, erano stati consegnati alla SGI e per un giorno
furono esaminati, non senza difficoltà, da Mantegazza e Zanetti:
Noi ci siamo dati tutte le cure per rendere il nostro studio più completo che fosse
possibile, ma dobbiamo subito avvertire che le misure che noi abbiamo prese alla
lesta, quando l’opportunità capitava, quasi sempre contro voglia dei due soggetti non
hanno quel rigore che sarebbe desiderabile dalla scienza, e che è tutt’altro che facile
da raggiungere.136

Assolutamente inadeguata alla mission era peraltro la prima sede del


Museo, in via Ricasoli: una «stanzuccia [che] aveva fino ad allora servito da
legnaia ed era frequentata dalle tarantole»,137 adiacente alla Sala del Buonu-
more, ex chiesa sconsacrata trasformata in aula per i docenti della Sezione di
Filosofia e Filologia nonché sala di riunione per l’Accademia delle Belle Arti e
per quella dei Georgofili.138 Era stato Pietro Leopoldo, nel 1782, a volere che
da un convento soppresso si ricavassero locali «per adunarvi settimanalmente
tutte le persone più pulite dei due ceti».139
Nella memoria dei protagonisti sembra però che la iattura logistica sia
stata elaborata in un ‘com’eravamo’ di compiaciuto sapore bohémien140 per
retoricamente valorizzare i successi che sarebbero stati raggiunti in seguito.


134 Cfr. E. Giglioli, La etnologia all’ esposizione di Torino nel 1898, in «AAE», XIX, 1889,

pp. 19-32: 20.



135 Citato in C. Cipriani, Appunti di Museologia naturalistica, Firenze, University Press,

2006, p. 93.

136 P. Mantegazza – A. Zannetti, I due Akka del Miani, in «AAE», IV, 1874, pp. 137-165: 141.

Vedi anche S. Puccini, Gli Akkà del Miani: una storia etnologica nell’Italia di fine secolo (1872-1883),
pubblicato in due parti in «L’uomo», 1984, 1, pp. 29-57, e 2, pp. 197-217.

137 E. Regalia, Il Museo Nazionale d’Antropologia in Firenze, in «AAE», XXXI, 1901, pp. 9-18: 12.


138 Cfr. O. Fantozzi Micali – P. Roselli, Le soppressioni dei conventi a Firenze. Riuso e trasfor-

mazioni dal sec. XVIII in poi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1980, p. 221.

139 Ibid.


140 Così Mantegazza commemorava il suo Aiuto non retribuito: «Con lui ho passato quella cara

primavera di entusiasmi che indora di poesia la povertà dei mezzi, e che sparge tanto fascino sulle
scaramuccie quotidiane fra il volere e il non potere»: P. Mantegazza, Arturo Zannetti, in «AAE»,
XIV, 1884, pp. 137-142: 138.

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148 PAOLO DE SIMONIS

Regàlia ricordava che «il Direttore del Museo e l’Aiuto andavano, scherzando
tra loro, a lavare nel cortile i teschi sudici».141 E il Direttore:
Siamo stati per un pezzo spazzini e scienziati, servi e professori, in un bugigattolo
degno di un pizzicagnolo e con tavole di pino più modeste di quelle d’ un vinaio,
schierando ogni giorno quei pochi teschi, che dovevano formare la prima pietra di
uno dei Musei fra i più ricchi d’Europa.142

Inadeguato era del resto anche il sostegno finanziario previsto nel decreto
fondativo del Museo, emanato il 28 novembre 1869: mille lire, ossia la co-
pertura finanziaria minima per legittimare la fondazione di nuovi istituti.143
Tanto che il Ministero, il giorno dopo, inviò una circolare ai Rettori delle
Università ed ai Direttori di Musei e Biblioteche: tutti luoghi dove
trovansi sparsi cranii, armi e strumenti delle epoche preistoriche, oggetti dell’indu-
stria primitiva di popoli selvaggi, ed altre preziose cose del dominio dell’antropologia,
[…] che confuse cogli altri elementi non possono sperare di acquistar mai quella im-
portanza che avrebbero se fossero riunite in un centro solo, nel quale, come farebbesi
nel nuovo Museo di antropologia, si desse opera a raccogliere specialmente i materiali
di una etnografia delle diverse stirpi italiche.144

Si chiedeva quindi «la nota degli oggetti che senza danno dell’insegna-
mento locale e con maggiore vantaggio della scienza potrebbero essere man-
dati a Firenze145 […] Il Ministero non mancherà senza dubbio di rilasciare
regolari ricevute degli oggetti donati».146
Saturata da mezzo migliaio circa di pezzi osteologici, la «stanzuccia» di
via Ricasoli non aveva spazio anche per i materiali etnologici che da più fonti
iniziavano a pervenire: occorreva altra sede che venne individuata nella vi-
cina via S. Sebastiano,147 in un vasto «palazzo neoclassico fatto costruire da
Napoleone per l’Arcivescovo di Firenze nei giardini della Santissima Annun-
ziata»148 e dove il chimico Ugo Schiff aveva progettato di riunire le scienze
sperimentali dell’Istituto con le quali l’Antropologia si trovò o, meglio, scelse
di convivere. Nel 1877 infatti la disciplina si separò dalla Sezione di Filosofia
e Filologia, dove il Ministro Bonghi l’aveva retrocessa a insegnamento libero,
per inserirsi in quella di Scienze Fisiche e Naturali. Da notare che il palazzo
di via S. Sebastiano delimitava ad est un quadrilatero urbano da gran tempo

141
  E. Regalia, Il Museo Nazionale d’Antropologia in Firenze, cit., p. 12
142
  P. Mantegazza, Arturo Zannetti, cit., p. 138.

143 E. Regalia, Il Museo Nazionale d’Antropologia in Firenze, cit., p. 10.


144 Ivi, p. 11.


145 Ibid.


146 Ivi, p. 12.


147 Oggi via Gino Capponi.


148 G. Papini, Il senatore erotico, cit., pp. 104-105. Cfr. C. De Benedictis – R. Roani – G.C.

Romby, La palazzina dei Servi a Firenze. Da residenza vescovile a sede universitaria, Firenze, Edifir, 2014.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 149

destinato al sapere e alla sua esposizione: sul lato sud via della Sapienza149
conservava nel nome la memoria di un collegio per studenti ideato ma non
realizzato nella prima metà del Quattrocento. Lo spazio a nord era occupa-
to dall’Orto botanico voluto nel 1545 da Cosimo I. A ovest si insediarono,
dopo Firenze capitale, il Rettorato e gli insegnamenti e musei, provenienti
dalla Specola, di Botanica, Mineralogia, Geologia e Paleontologia. Antro-
pologia coabitava a est con Chimica, Fisica e Fisiologia, esperimenti inclusi:
Gino Capponi, futuro titolare della via, dovette ricorrere «ai Tribunali per-
chè gli fosse tolta la molestia dei continui e penosi ululati dei cani tormentati
dalla vivisezione in vicinanza del suo palazzo»150 che fronteggiava i labora-
tori della scienza.
Il Museo di Antropologia dava conto dell’accrescersi progressivo delle
sue collezioni con le illustrazioni dei corrispettivi esploratori ma molte infor-
mazioni arrivavano a pubblico più ampio anche tramite la stampa quotidiana.
Buona copertura giornalistica151 trovò ad esempio la creatura forse più perso-
nale di Mantegazza: il Museo Psicologico, annunciato in una Adunanza SIAE
del 1886, promulgato da decreto reale del 19 maggio 1889 e inaugurato il 28
dicembre 1891 in tre sale dello stesso palazzo del Museo di Antropologia. La
nuova creatura «doveva raccogliere tutti i documenti che illustrano le pas-
sioni umane all’infuori dell’elemento etnico»152 ossia, come specificato sulla
«Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», gli
amuleti, i voti d’amore, gli strumenti per difendere il pudore delle donne, quelli per
violare l’altrui proprietà, le insegne della vanità e tutti gli ordigni per deformare o mi-
gliorare il corpo umano; gli autografi che devono illustrare i caratteri speciali dell’età,
del sesso, del delitto, del genio; tutto ciò insomma che può illustrare i diversi gusti
degli individui, i loro vizi, le loro superstizioni, i loro eroismi.153

Per un totale di quasi 900 oggetti ordinati in otto vetrine corrispondenti


ad altrettante passioni: Vanità, Sentimenti diversi, Mania delle collezioni, Sen-
timento della proprietà, Crudeltà, Sentimento religioso, Caricature, Lussuria.
L’iniziativa venne citata nella «Revue des Deux Mondes» e Mantegazza, «ce
savant et ce galant homme, ce pétulant et universel polymathe»,154 fu intervi-
stato nel 1897 da Charles Maurras:

149
  Oggi via Cesare Battisti.
150
  M. Tabarrini, Gino Capponi. I suoi tempi, i suoi studi, i suoi amici, Firenze, G. Barbèra,
1879, p. 353.

151 Cfr. in particolare A. Tommasi, Il museo psicologico di Paolo Mantegazza, in «Rivista di psi-

cologia», LXXVII, 1992, 2-3, pp. 89-97.



152 P. Mantegazza, Progetto di un Museo psicologico cit., p. 434. Cfr., per un’interpretazione

aggiornata dell’iniziativa, C. Lanzara, Un museo in un armadio. Indagine sul Museo Psicologico di


Paolo Mantegazza, in E. Rossi (a cura di), Forme di antropologia cit., pp. 133-142.

153 P. Boselli, Relazione a S. M., in udienza 29 maggio 1889, sopra la fondazione di un Museo psico-

logico, in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 1889, 163, mercoledì 10 luglio, pp. 2262-2263: 2262.

154 C. Maurras, Le Musée des passions humaines de Florence, in Id., Anthinéa. D’Athènes à

Florence, Paris, Flammarion, 1901, pp. 161-172: 163.

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150 PAOLO DE SIMONIS

Nous ne connaissons rien de ce qui sortira de nous. Quelle doctrine pourra naître de la
mise en rapport de ces curiosités bizarres ou communes recueillies de tant de côtés, nous
ne le savons pas. Nous ne sommes que le magasin des faits purs. L’esprit scientifique
nous donnera un jour, quand il lui plaira de souffler, le classement, le tour, le sens et la
figure qui lui paraîtront convenables: il tirera de nous les idées qu’il jugera bonnes.155

Per la realizzazione del Museo, avendo il Ministro Boselli fornito compia-


cimento ma non finanziamento, contribuì con 6.000 lire e un consistente cor-
pus di oggetti Luigi Borg de Balzan, maltese naturalizzato francese, cercatore
d’oro in California, console in Messico e a New York, collezionista d’arte a
Firenze.156 Da notare infine che nel Museo di Psicologia l’orizzonte d’inda-
gine includeva anche le Indias de por acá, in termini sia rurali che plebei: dai
«frammenti secchi di diverse piante, con una croce bianca e rossa, adoperati
da una strega della campagna di Signa»157 alla «borsetta di seta, contenente
una preghiera e la misura del piede di Maria Vergine [che era] tenuta a capo
del letto dalla maîtresse di un casino, in Firenze».158
Mantegazza era andato troppo oltre i canoni della Sezione di Scienze Fi-
siche e Naturali: dopo la sua morte, avvenuta nel 1910, il Museo di Psicologia
sarà tolto di scena159 confermando di esser stato fino ad allora essenzialmente
subìto quale presenza scomoda, quasi imbarazzante. I materiali, smembrati
rispetto al senso loro attribuito dall’allestimento di Mantegazza, passarono
dalle vetrine ai depositi e in parte vennero ceduti al futuro Museo di Etnogra-
fia Italiana di Lamberto Loria.160

«poligrafo puro»

Sorte analoga ebbe il Museo Indiano di Angelo De Gubernatis, persona-


lità per molti versi straordinariamente consonante con quella di Mantegazza:
anche nelle autorappresentazioni difensive rispetto all’accusa di aver voluto
‘far troppo’. De Gubernatis, definendosi «poligrafo puro», ammetteva: «È
vero, è proprio scandalosamente vero; io ho avuto nella mia vita molti amori
diversi: la scena, la scuola, la biografia, la letteratura, la mitologia, il folklore,
Manzoni, Dante, l’Oriente, l’India, e, sopra ogni cosa, l’Italia».161 Sempre

155
  Ibid.
156
  Cfr. P. Mantegazza, Commemorazione del Prof. Luigi Calori e del Comm. Borg de Balzan, in
«AAE», XXV, 1896, pp. 369-370: 370.

157 S. Ciruzzi, Le collezioni del Museo Psicologico di Paolo Mantegazza a cento anni dalla sua

inaugurazione, in «AAE», CXXI, 1991, p. 185-202: 195.



158 Ivi, p. 197.


159 Mochi avrebbe detto: «“Questo non serve” e con questo dire dette inizio allo smembramento

delle collezioni»: E. Pardini, «L’Animus» del Fondatore. La Fondazione: sua storia e sue vicissitudini, in
Id. – S. Mainardi, Il Museo Psicologico di Paolo Mantegazza, in «AAE», CXXI, 1991, pp. 138-143: 142.

160 Cfr., in particolare, S. Ciruzzi, Le collezioni del Museo Psicologico di Paolo Mantegazza, cit.


161 A. De Gubernatis, Fibra. Pagine di ricordi, Roma, Forzani e C. Tipografi del Senato, 1900, p. 393.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 151

cercando protagonismo scenico, anche in aula: «il pubblico applaudì; il ru-


more si sparse; la mia seconda lezione: Cenni sul Sanscrito, pubblicata su “La
Nazione” e quindi in estratto, piacque ancora più della prima».162 Non si fece
mancare neppure la passione espositiva: a Firenze nel 1890 organizzò, con
suo grave danno economico,163 una Esposizione Beatrice dove
furono esposti 38.000 oggetti di vario genere (libri, documenti, manufatti, disegni,
pitture, ecc.), presenti 28.000 espositrici e nel corso della quale si svolsero conferenze
letterarie, gare filodrammatiche, gare musicali, un corso per scrittrici, per insegnanti,
per compositrici, per pittrici, per scultrici, per ricamatrici, ecc., all’insegna della esal-
tazione e della celebrazione dell’ingegno femminile.164

A Roma, inoltre, promosse in Castel Sant’Angelo, nel 1911, un non for-


tunato Museo storico della Pace165 in concomitanza con il XIX Congresso
universale della Pace.
Dopo fugace passione per l’anarchia seppe coltivare ottimi rapporti con
il potere politico e istituzionale: quando fondò, nel 1893, la Società nazionale
per le tradizioni popolari ebbe la presenza della regina Margherita e il pieno
appoggio del Governo. Il Ministro Ferdinando Martini inviò circolare a tutte
le scuole del regno invitando gli insegnanti a «porgere soccorso efficace di
ricerche e di studi»166 al «lodevole intento»167 della Società. Occorre «che in
ogni parte d’ Italia professori, maestri e maestre cooperino a scavare dal fon-
do della tradizione tutto il materiale superstite di scienza popolare, sia pure
tenue ed informe».168
A Firenze De Gubernatis era arrivato da Torino, nel 1863, per una cat-
tedra di sanscrito che si inscriveva in una larga attenzione prestata dall’Isti-
tuto di Studi Superiori alle culture orientali: tra l’altro riverberandosi su di
una editoria specializzata che poteva godere della rendita di posizione co-
stituita dai caratteri della Tipografia Medicea Orientale.169 Fiorirono riviste
e iniziative che videro costantemente coinvolto De Gubernatis: nel 1867 la
«Rivista orientale», nel 1872 la Società Italiana per gli Studi Orientali, nel

162
  Ivi, p. 198.
163
  Impietoso il commento di Croce secondo cui De Gubernais, non sapendo più a quale altra
passione consacrarsi, scelse quella di commemorare Beatrice: «vi perdette tutto il suo avere, riuscen-
do all’effetto di rovinarsi, come non pochi altri, per una donna, ma (e questa fu la sua originalità)
per una donna che non si sa se sia mai esistita» (B. Croce, La letteratura della nuova Italia, V, Bari,
Laterza, 1943, p. 390).

164 L. Strappini, Angelo De Gubernatis, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto

della Enciclopedia italiana, vol. 36, 1988, pp. 227-235: 234.



165 Cfr. il Catalogo del Museo storico della Pace, Roma, Tip. Del Senato, 1912.


166 Dalla circolare del 4 luglio 1893 citata in M. Menghini, La “Società nazionale per lo studio

delle tradizioni popolari”, in «Nuova Antologia», 1894, 9, pp. 141-147: 147.



167 Ibid.


168 Ibid.


169 Cfr. S. Fani – M. Farina, Le vie delle lettere. La Tipografia medicea tra Roma e l’Oriente,

Firenze, Mandragora, 2012.

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152 PAOLO DE SIMONIS

1876 il «Bollettino Italiano degli Studii Orientali» e nel 1877 l’ Accademia


Orientale. Nel 1876 De Gubernatis aveva inoltre partecipato a San Pietro-
burgo al III Congresso internazionale degli orientalisti riuscendo, con l’aiu-
to decisivo dell’ambasciatore Costantino Nigra,170 a far preferire Firenze a
Berlino per l’organizzazione del Congresso successivo, previsto nel 1878. La
scelta venne accolta in città con grande favore: il Consiglio municipale di
Firenze, sindaco Ubaldino Peruzzi, contribuì con un finanziamento di 7000
lire nonostante difficoltà di bilancio che proprio in quell’anno causarono il
fallimento dell’Amministrazione. Essendo «fermo il proposito del Comitato
di escludere dal Congresso i semplici curiosi»,171 occorreva ricevere un invi-
to ufficiale per potervi partecipare: «Le donne rientravano certamente nella
categoria dei curiosi, dato che la loro presenza fu cortesemente rifiutata»172
quanto richiesta per alcune manifestazioni di contorno. La vedova di Francis
Sloane, studioso di scienze naturali, organizzò per i congressisti una gita alla
sua villa medicea di Careggi dotata di parco romantico con essenze arbo-
ree esotiche. E con treno speciale da Santa Maria Novella venne raggiunto,
per un ricevimento offerto dalla marchesa Beatrice Panciatichi, il castello di
Sammezzano trasformato in favolosa copia dell’Alhambra, tra policromia di
azulejos e decorazioni mudejar. A Palazzo Pitti aveva del resto dato un pranzo
elegantissimo il principe Amedeo e altre visite e cene vennero proposte da
una specifica Deputazione di ricevimento: ai congressisti, per invogliarli a vi-
sitare l’Italia dopo i lavori, fu concesso il 30% di sconto sui biglietti ferroviari.
Nelle sale di palazzo Medici Riccardi, sede del Congresso, l’Istituto di Studi
Superiori, «perchè nulla mancasse di quanto era necessario»,173 si preoccupò
di realizzare una Esposizione orientale curata da De Gubernatis, con mano-
scritti, oggetti e opere d’arte. Erano in mostra anche gli strumenti giapponesi
raccolti da Alessandro Kraus, nella cui villa fiesolana venne eseguito un ‘con-
certo etnografico’ «così nuovo ed inaspettato, che gli scienziati stessi ebbero
a confessare di non aver mai udito nulla di simile, neppure nelle Indie e nelle
altre orientali regioni da loro visitate […] C’è il canto indiano per gli amori di
Kricha, c’è il canto degli antropofagi di Nonkahiva».174
«Sei casse d’idoli e costumi»175 erano stati donati dal medico indo-por-
toghese Gerson da Cunha per incoraggiare la costituzione in Firenze di un
Museo indiano che De Gubernatis avrebbe realizzato qualche anno dopo,
a seguito di un viaggio in India iniziato il 25 agosto 1885: «Il mio andare fu

170
  A. De Gubernatis, Fibra. Pagine di ricordi, cit., p. 383.
171
  Id., Quarto Congresso Internazionale degli Orientalisti, I, in «Bollettino Italiano degli Studii
Orientali», 1876, 10-11, pp. 209-211: 210.

172 F. Lowndes Vicente, Altri orientalismi. L’India a Firenze 1860-1900, Firenze, University

Press, 2012, p. 57.



173 A. De Gubernatis, Fibra. Pagine di ricordi, cit., p. 389.


174 V. Meini, in «Gazzetta musicale di Milano», XXXIII, 6 ottobre 1878, Corrispondenza da

Firenze del 3 ottobre, pp. 351-352: 352.



175 A. De Gubernatis, Fibra. Pagine di ricordi, cit., p. 389.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 153

quasi sempre precipitoso; un forte assillo pareva spingermi innanzi»176 nel


raccogliere centinaia di manoscritti, materiali zoologici e botanici, oggetti et-
nografici. Il ritorno in patria avvenne il 25 aprile dell’anno dopo e il Museo
indiano fu inaugurato il successivo 14 novembre: il Ministro Coppino aveva
acquistato i materiali raccolti durante il viaggio e li aveva donati all’Istituto
di Studi Superiori che in cambio «obbligavasi a fornire un conveniente locale
al Museo, a stipendiare un conservatore o direttore assistente, designato dal
direttore onorario, ed a fare tutte le spese per la scaffalatura e le vetrine».177
Per la verità a De Gubernatis fu fatta vedere, all’interno del Rettorato, «una
immensa stamberga, con tre stanzette attigue assai malandate»178 ma, «con
meraviglia di chi me le fece vedere, io dissi tosto: Questo mi basta e mi va».179
Il danneggiamento iniziale infatti viene superato grazie alla magia operativa
quanto autocelebrativa del multiforme docente di sanscrito che brillantemen-
te supera ogni ostacolo. A tre giorni dall’inaugurazione manca ancora il pavi-
mento del salone ? De Gubernatis scrive
al nostro contadino, Gaetano Piccini, in villa, con l’ordine di mettersi subito in giro
con tre barocci per la collina, e di caricarvi quanto verde e quanti fiori potesse trova-
re, di qualsiasi specie, nei boschi e nelle ville, e di comparire il 14 novembre, di primo
mattino, alla porta dell’ Istituto di Studi superiori, in piazza San Marco […] Fu allora
sparso lauro e mortella nel salone, per recarvi un primo soffice gran tappeto verde;
poi, sopra di esso, si gittarono e sparsero a piene mani fiori freschi di campo e di
prato, d’ogni colore. La sala presentò allora l’aspetto ridente di una gran primavera180

e «dalle 12 era già gremita d’invitati e fra loro un gran numero di signore. La
folla era tale che si sono dovute aprire tutte le finestre a causa del caldo»,181
come riportato da «La Nazione» che dedicò largo spazio all’inaugurazione
presenziata dalle Loro Maestà e marcatamente scenografata dalla fantasia li-
turgica di De Gubernatis:
Vestì il fanciullo Guido Ricci all’indiana con una tracolla che portava l’iscrizione:
Museo Indiano, e gli affidò un panka, un ventaglio sormontato da due serpenti dalla
bocca dei quali uscivano profumi indiani. Prima che i Sovrani si allontanassero dal
Salone fece avanzare il fanciullo con due vassoi indiani, sull’uno dei quali stava-
no tre corone intrecciate con nastri d’argento all’indiana e sull’altro un’elegante
profumiera d’argento e d’oro in filigrana con dentro essenza di rose e profumo di
sandalo. Secondo l’uso dell’ospitalità indiana il conte De Gubernatis porse prima
una corona al Re e il fanciullo gridò in Sanscrito: Sri Maharaja Ambrato giaiati (il
glorioso gran re Umberto trionfa); la seconda corona fu porta alla regina con il sa-

176
  Citato in ivi, p. 446
177
  Ivi, p. 460.

178 Ivi, p. 455.


179 Ivi, p. 456.


180 Ivi, p. 463.


181 All’Istituto di Studi Superiori, in «La Nazione», 15 novembre 1886.

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154 PAOLO DE SIMONIS

luto: Sri Maharani Margarita giaiati; la terza venne data al principino con il saluto:
Sri Ragia Kamara Viginia giaiati (il glorioso principe reale Vittorio trionfa). Quindi
il De Gubernatis con il cucchiaino d’argento, oro e smalto fece cadere una goccia
di essenza odorosa nei fazzoletti dei tre Sovrani che infine ricevettero in dono la
graziosa profumiera.182

Meraviglia e scenografia rappresentavano cifra dell’intero allestimento e


non solo della cerimonia di inaugurazione: affreschi, decorazioni e «lavori di
falegname in stile indiano»183 eseguiti da artigiani fiorentini contestualizzava-
no i reperti esposti entro un effetto di comunicazione emotivo e complessivo,
assolutamente ‘altro’ rispetto alla sintassi classificatoria dei musei positivisti.
Criteri expografici così fuori linea corrispondevano a una volontà di comu-
nicazione ampia ed effettiva che andava appunto a contrastare la concezione
del museo-laboratorio: il Museo Indiano si presentava al suo avvio come re-
golarmente aperto al pubblico, gratuitamente e per due giorni alla settimana.
Cambiò molto però quando De Gubernatis, anche a causa del dissesto
economico subìto nel 1890 con l’Esposizione Beatrice, si trasferì a Roma:
«Tornato povero, com’ero, quando giunsi a Firenze, ne uscii»184 e il Museo
Indiano, fino ad allora incompreso ma tollerato negli ambienti accademici,
fu, tra il 1901 e il 1907, smantellato e assorbito da quello di Antropologia
esattamente come sarebbe poi accaduto a quello Psicologico dopo la morte di
Mantegazza. Secondo Mochi, suo successore, anche per il Museo Indiano si
imponeva un ritorno all’ordine, dopo tante stravaganze.
A Firenze De Gubernatis aveva lasciato segno pubblico e plastico delle
sue passioni anche in una residenza esplicitamente autobiografica che si fece
costruire nel 1882 dall’architetto Michelangelo Maiorfi con la collaborazione
di artigiani coinvolti nell’arredo del Museo Indiano. Il Villino Vidya, all’an-
golo tra via della Mattonaia e l’allora Viale Principe Eugenio,185 presentava
facciate rinascimentali decorate con medaglioni di Dante, Manzoni, Buddha
e Ganesha e con iscrizioni in latino, vedico e sanscrito.186 All’interno un salot-
tino alla pompeiana con scene marinaresche della mitologia greca, un salotto
da pranzo all’inglese e nel «torrino o belvedere […] una scena mitologica in-
diana, raffigurante gli amori dei Dio pastore Krishna con la ninfa Radhà».187
Nel piccolo giardino, infine, una palma: simbolo di Nizza, «ove i miei vecchi
posero loro stanza, or sono più di quattrocento anni», e «della luce che viene
dall’Oriente».188

182
  Il Museo Indiano, in «La Nazione», 16 novembre 1886.
183
  A. De Gubernatis, Fibra. Pagine di ricordi, cit., p. 461.

184 Ivi, p. 493.


185 Oggi viale Antonio Gramsci.


186 Scomparse nel tempo ma attestate in F. Bigazzi, Iscrizioni e memorie della città di Firenze,

Firenze, Tipi dell’arte della stampa, 1886, pp. 343-346.



187 A. De Gubernatis, Fibra. Pagine di ricordi, cit., p. 433.


188 Ibid.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 155

Il Villino Vidya, pur rappresentando l’originalità espressiva di De Gu-


bernatis, è comunque annoverabile in una sorta di canone manifestatosi a
Firenze nella seconda metà dell’ Ottocento: un pendant architettonico degli
interessi scientifici che avevano reso la città riferimento nazionale per gli studi
orientali. Oltre alle già ricordate scenografie effimere, ambientate nell’area
del Ghetto prima della sua distruzione, sono da ricordare vari importanti edi-
fici: nel 1853 aveva avviato a Sammezzano il suo sogno moresco il marchese
Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona; la sala islamica a cupola, di Villa
Oppenheim, si colloca tra i Sessanta e i Settanta; del 1876, nel parco delle
Cascine, è il Monumento all’Indiano,189 ossia al principe Rajaram Chuttra-
putti, morto a Firenze nel 1870: le sue ceneri vennero sparse alla confluenza
di due fiumi (nella fattispecie Arno e Mugnone) secondo il rito indù che De
Gubernatis spiegò esaurientemente sulle pagine de «La Nazione»;190 nel 1880
Giacomo Roster dosava citazioni neogotiche e neomoresche nel Tepidario
edificato per la prima Esposizione nazionale di orticultura; «il meno provin-
ciale degli edifici moderni costruiti nella Firenze di quegli anni»191 è stato
considerato quello della Sinagoga, inaugurata nel 1882; al 1889 rimandano
la Sala Moresca del Museo Stibbert e il Teatro Alhambra e al 1903 la Chiesa
Ortodossa dove l’artigianato fiorentino si cimentò nella traduzione dell’esu-
beranza ornamentale russo-bizantina.
Vedere prossima la lontananza: spazio di mercato indubbiamente forte
in quegli anni, occupato come si vede dall’offerta di prodotti molteplici, di
diversa natura e stabilità. Si esibirono anche a Firenze le ‘esposizioni etno-
grafiche’, Völkerschaustellungen, di Carl Hagenbeck che, con grande efficacia
comunicativa, completavano, per non dir supplivano, la mission di mostre
e musei. Si trattava infatti di «rappresentazioni di popolazioni più o meno
‘primitive’ che all’aperto e in un ambiente più o meno adattato a riprodurre
l’aspetto delle zone d’origine compivano sotto gli occhi del pubblico una se-
rie di azioni tipiche della loro vita quotidiana o festiva»;192 i fiorentini, come
documentano numerosi scatti Alinari, ammirarono la grande carovana sin-
galese approdata in Europa nel 1884. Elefanti, maghi e giocolieri, maschere
grottesche, baiadere, danze «e infine la grande festa religiosa del Perahera,
tutto ciò esercitava un magico influsso a cui lo spettatore soggiaceva».193 Nel


189 Edificato nel 1876 dall’architetto Charles Mant con la collaborazione dello scultore Carlo

Francesco Fuller. Cfr. C. Cresti, Firenze, capitale mancata. Architettura e città dal piano Poggi a oggi,
Milano, Electa, 1995, pp. 86 e 89.

190 Citato in F. Lowndes Vicente, Altri orientalismi. L’India a Firenze 1860-1900, cit., p. 3, nota 6.


191 A. Boralevi, La costruzione della Sinagoga di Firenze, in Il centenario del Tempio Israelitico

di Firenze, Atti del convegno (Firenze 1982), Firenze, Giuntina, 1985, pp. 50-72: 64.

192 I. Sordi, Etnografia di piazza. Le «Völkerschaustellungen» di Carl Heinrich Hagenbeck, in

G. Sanga (a cura di), La piazza. Ambulanti, vagabondi, malviventi, fieranti, in «La Ricerca Folklori-
ca», n. 19, 1989, pp. 59-68: 59.

193 C.H. Hagenbeck, Io e le belve. Le mie memorie di domatore e di mercante, Milano, Quintie-

ri, 1910 (ed. originale 1908), p. 83.

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156 PAOLO DE SIMONIS

Catalogo del Museo Indiano del 1899 compare una «maschera Singalese in
legno (Dono del Sig. Carlo Hagenbeck)»:194 pratica a lui consueta, nella sua
tenace quanto interessata ricerca di accredito presso gli studiosi.
Forse utile, a questo punto, anche un quadro sintetico della complessiva
offerta museale fiorentina entro cui si collocavano le iniziative di Mantegazza
e De Gubernatis.
Primeggiava ovviamente l’ambito storico-artistico.
Nel 1833 erano state aperti al pubblico alcuni ambienti di Palazzo Pitti
e lo erano fin dal 1769 quelli della Galleria degli Uffizi che, prima di allo-
ra, comprendeva anche meraviglie non artistiche poi confluite alla Specola
con l’istituzione, nel 1775, del più antico museo scientifico d’Europa: a sua
volta in parte smembrato con la costituzione, dopo Firenze capitale, del già
citato quadrilatero della scienza. Dal 1880, nel vicino palazzo della Crocetta,
le vetrine del Museo Archeologico rendevano visibili arte e vita del mondo
classico ed egizio.
Oggetti esotici considerati quali espressioni d’arte erano nel Museo Na-
zionale del Bargello, inaugurato nel 1865, e nelle case-museo dei numerosi
collezionisti. Quella di Stefano Bardini, appositamente rielaborata su prece-
denti strutture nel 1881, era una vera vetrina espositiva in attesa di acquirenti.
Nel 1887 si aprì per la prima volta al pubblico, in coincidenza con l’inaugu-
razione della facciata del Duomo, la sterminata raccolta di Frederick Stibbert
tra cui figuravano armi islamiche e giapponesi che per generazioni avrebbero
fatto sognare i bambini fiorentini.
Mascagni, per la sua Iris, visitò in Firenze una importante collezione di
strumenti musicali che aveva anche fornito «utili informazioni a viaggiatori
e scienziati illustri»,195 tra cui Mantegazza, Sommier, Modigliani. Iniziata
da Alessandro Kraus figlio con «un cembalo del XVIII secolo trovato nel
1875 a Montecatini alto [e che] serviva di pacifico covo a due coppie di
piccioni in una soffitta»,196 la collezione si arricchì grazie ad una vasta rete
di antiquari e viaggiatori: nel 1901 Kraus poteva elencare più di mille stru-
menti provenienti dai cinque continenti, dal «Pocúl-logún, strumento da
corda dei Batacchi»197 al «Vaso fischiato, degli antichi Incas del Perù»198
fino alle «campane di terraglia» di Montelupo e a una «buccina piccola dei
pastori del Monte Amiata».199 Se l’«illustre Mantegazza, ha fondato un mu-
seo psicologico generale, noi abbiamo il nostro museo psicologico-musica-


194 G. Donati, Museo Indiano, in «Giornale della Società Asiatica Italiana», III, 1889,

pp. xvi-xx: xvii.



195 A. Kraus, Catalogo della collezione etnografico-musicale Kraus in Firenze. Sezione istrumenti

musicali, Firenze, Tipografia di Salvatore Landi, 1901, p. 5. Cfr. inoltre G. Rossi Rognoni (a cura di),
Alessandro Kraus musicologo e antropologo, Firenze, Giunti, 2004.

196 Ivi, p. 4.


197 Ivi, p. 11.


198 Ivi, p. 29.


199 Ivi, p. 14.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 157

le-speciale, nel quale si trovano aggruppati gli strumenti, che presso i vari
popoli vengono usati in certe date determinate estrinsecazioni di fenomeni
psichici!».200 Kraus, perché la collezione evolvesse in museo, propose al Co-
mune di trasferirla dalla sua abitazione di via Cerretani 10 nel complesso di
San Pancrazio201 che fu invece destinato ad accogliere la più concretamente
produttiva Manifattura Tabacchi: i preziosi reperti si dispersero così in varie
sedi a seguito di vendite separate.
A fine Ottocento, in ogni caso, le informazioni più costanti e sentite at-
torno all’alterità culturale erano quelle connesse alla cronaca politico-militare
relativa alle imprese coloniali dell’Italia. Con illustrazioni raffiguranti la guer-
ra d’Africa si «tappezzavano i muri delle botteghe e delle osterie, si andavano
ad ammirare per due soldi al ‘buco tondo’, nei baracconi. Non si ragionava di
altro che di Crispi e del generale Barattieri, di Menelicche e della regina Taitù,
del maggiore Toselli, del forte di Macallè e degli Scioani».202 Circolavano an-
che, appoggiate alla linea melodica del Sor Capanna,203 strofette illuminanti
su come il senso comune popolare leggesse le svariate narrazioni dell’espan-
sionismo nazionale:
Oh ! Menelicche !
Eran palle di piombo e non pasticche.
Oh ! Baldissera !
Non ti fidar di quella gente nera.
Oh ! Baratieri !
E se la va così cresce i pensieri.204

abitazioni

A «Lamberto Loria, direttore generale dei principali musei d’Europa, via


Bonifacio Lupi 25, Firenze»:205 l’ironia del mittente, Dino Provenzal, è indica-
tiva di come normalmente venisse percepita la straordinarietà del destinatario
nel suo impegno di immaginazione e azione a favore del Museo di Etnografia
Italiana. L’indirizzo di casa rimanda poi a un territorio conquistato alla civil-
tà solo a fine Ottocento:206 allineando razionalmente villini alto borghesi su
precedente irregolare trama di orti e viottoli che separavano il centro storico

200
  Ivi, p. 5.
201
  Oggi sede del Museo Marino Marini.

202 V. Cardarelli, La ferriera, in Id., Il Sole a picco, in Id., Opere, Milano, Mondadori, 1981 (ed.

originale 1929), pp. 42-49: 42.



203 Pietro Capanna (1865-1921), cantastorie romano.


204 G. Galletti, Poesia popolare livornese, Livorno, Tipografia di Raff. Giusti, 1896, p. 92, nota 2.


205 Lettera di Dino Provenzal a Lamberto Loria del 28 novembre 1907, fasc. 921, doc. 19.


206 Via Bonifacio Lupi: così nominata «Con deliberazione del Consiglio Comunale del 2 otto-

bre 1891, Sindaco il Marchese Pietro Torrigiani»: Stradario Storico e Amministrativo della Città e del
Comune di Firenze, Firenze, 1929, p. 15.

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158 PAOLO DE SIMONIS

dalle mura trecentesche. Non molto diversa la storia e la qualità residenziale


del precedente indirizzo fiorentino di Loria: via Magenta 7, nel quartiere delle
Cascine realizzato tra il 1850 e il 1855207 per le «classi più agiate e ricche»208
distruggendo «l’organica soluzione del rapporto tra città murata e parco».209
La seconda delle due residenze è attestata, per il 1892,210 nell’elenco dei
soci della SGI: a cui il medico Marco Loria era iscritto fin dal 1868, quando
risiedeva con la famiglia ad Alessandria d’Egitto dove nel 1855211 gli era nato,
dalla moglie Clara, il figlio Lamberto. Altre molto precedenti e varie ‘abitazio-
ni’ sono facilmente intuibili per la dinastia dei Loria, variante grafica sefardita
del cognome ashkenazi Luria:212 nel Cinquecento posseduto da Isaac, il più
celebre interprete del pensiero mistico ebraico che in Egitto venne avviato
allo studio della letteratura rabbinica. Meno lontanamente: un «Loria, nego-
ziante d’Alessandria d’Egitto» è registrato nella rubrica ‘arrivi e partenze’ del-
la «Gazzetta di Milano» del 24 ottobre 1820. E da Trieste, trenta anni dopo,
il mantovano Prospero Moisè Loria si trasferì in Alessandria d’Egitto dove
realizzò enormi guadagni vendendo traversine per le prime ferrovie locali.213
Marco Loria rientrò dall’Egitto in Italia dopo la morte della moglie. Il «Bol-
lettino» della SGI lo registra nel 1870 come residente a Pisa, dove concluse i suoi
studi nel 1881, con una laurea in matematica,214 Lamberto: che in seguito avreb-
be abitato a lungo nella tenda, non solo simbolica, del viaggiatore etnografo.
Notizie e reperti delle sue esplorazioni si appalesavano a Firenze nel Mu-
seo di Antropologia, nelle pagine dell’«AAE» e del «Bollettino» della SGI
come anche attraverso conferenze e mostre: del 1884 è la Lettera da Tiflis a
Mantegazza del 19 gennaio215 e del successivo 31 marzo la lettura in un’adu-
nanza della SIAE degli Appunti di un viaggio dalla Lapponia al Caucaso e nel
Turkestan.216 Per la Papuasia si va dalle Lettere dirette al marchese Giacomo
Doria217 del 1890 a I Viaggi del Dott. Lamberto Loria218 del 1897.


207 Via Magenta: così nominata «Con deliberazione del Magistrato dei Priori del 10 agosto

1859. Gonfaloniere il Marchese Ferdinando Bartolommei»: Stradario Storico e Amministrativo della


Città e del Comune di Firenze, cit., p. 68.

208 G. Fanelli, Firenze, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 192.


209 Ibid.


210 Cfr. «Bollettino della Società Geografica Italiana», (d’ ora in poi «BSGI»), XXVI, 1892, p. 29.


211 Il 12 febbraio, come certificato dall’Anagrafe del Comune di Firenze dove risulta iscritto

dal 10 febbraio 1880.



212 Cfr. G. Scholem, La cabala, Roma, Edizioni mediterranee, 1992 (ed. originale 1974), p. 422.


213 Cfr. B. Pellegrino, Il filantropo. Prospero Moisè Loria e la società umanitaria, Bologna,

Minerva, 2014.

214 Cfr. F. Baldasseroni, Lamberto Loria, in «Lares», II, 1913, 1, pp. 1-16: 2.


215 L. Loria, Lettera da Tiflis a Mantegazza del 19 gennaio, in «AAE», XIV, 1884, pp. 414-418.


216 Conservato tra i manoscritti del Museo di Antropologia di Firenze e recentemente trascritto

da R. Riccio e pubblicato a cura di S. Ciruzzi: L. Loria, Appunti di un viaggio in Lapponia al Caucaso


e nel Turkestan, in «AAE», CXXV, 1995: pp. 275-286 e 295-335.

217 L. Loria, Lettere dirette al marchese Giacomo Doria, in «BSGI», 1890, pp. 479-494 e 559-586.


218 Id., I Viaggi del Dott. Lamberto Loria nella Nuova Guinea, in «BSGI», 1897, VI, pp. 156-161.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 159

«Quella vita nella tenda che avevo trascorsa nella mia giovinezza tra le
selvagge popolazioni Papua»219 riaffiora nel 1905 quando «andando per la
prima volta a Circello nel Sannio, fui fortemente impressionato dalla diversità
delle usanze, dei costumi e della psiche di quelle popolazioni»:220 ne derivò il
celebre trasloco disciplinare che lo convinse a importare in Italia le esperien-
ze di ricerca maturate in remoti altrove. La notorietà del ‘fatto’ comprova il
successo della volontà di Loria di costruire narrativamente un attraente mito
fondativo221 che, per esser tale, deve apparire improvviso, epifanico: l’uovo di
Colombo delle Indias de por acá da cui appunto «sorse spontanea la domanda:
perché andiamo tanto lontano a studiare gli usi e i costumi dei popoli, se an-
cora non conosciamo quelli dei nostri connazionali uniti politicamente sotto
un solo governo; ma con nel sangue, fuse o semplicemente mescolate, mille
eredità diverse ?».222
Oggi potremmo contribuire al significato del mito affiggendovi altre me-
morie significanti: nel Sannio vennero deportati, dopo il 180 a.C., i Liguri
Apuani dell’odierna Garfagnana e Lunigiana, «montani atque agrestes»223 ir-
riducibili alla conquista romana. Non solo. Dell’antico sradicamento si stan-
no occupando comparti delle Università di Pisa e di Bologna che indagano
sul possibile legame genetico tra le popolazioni attuali delle due aree: e questo
in esplicita sinergia con la contemporanea domanda di identità patrimonia-
lizzante sostenuta da amministrazioni e stakeholders interessati alla cultura e
all’economia locale.224

«la stessa idea»

Ai miti, come alle tentazioni, non si dovrebbe opporre resistenza. Ma è


proprio per meglio celebrare il mito del Circello che ne suggerisco una sor-
ta di destrutturazione a partire dalla sua redazione più polita: apparsa nel
1912 sul primo numero di «Lares» in veste di programma che dopo poco si


219 L. Loria, Del modo di promuovere gli studi di Etnografia Italiana, in Per la Etnografia Italia-

na, in «Rassegna contemporanea», III, 7, 1910, pp. 123-132: 124. Successivamente anche in Atti del
settimo Congresso geografico italiano, Palermo, Virzì, 1911, pp. 361-369.

220 Id., Come è sorto il Museo di Etnografia Italiana in Firenze, Comunicazione al VI Congresso

geografico italiano, Firenze, Tipografia Galileiana, 1907, p. 5.



221 Cfr. a riguardo, tra l’altro, E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia 1869-

1975, Firenze, SEID, 2011, p. 131.



222 L. Loria, Del modo di promuovere gli studi di Etnografia Italiana, cit., p. 124.


223 Citato in J.R. Patterson, Sanniti, Liguri e Romani. Un aggiornamento, p. 60: al momento

solo on line in <https://www.repository.cam.ac.uk/bitstream/handle/1810/245055/Samnites,%20


Ligurians%20and%20Romans%20text%20Oct%2013revised.pdf?sequence=1> che è appunto
revisione di J.R. Patterson, Sanniti, Liguri e Romani, Circello, Comune di Circello, 1988.

224 Si veda quanto di collaborativo è in corso d’opera tra il Consorzio «Il Cigno», per l’a-

rea apuana (http://www.consorzioilcigno.it/) e l’«Associazione Culturale Cercellus», per il Sannio


(http://www.cercellus.com/).

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160 PAOLO DE SIMONIS

sarebbe tradotto in testamento.225 Là, in quelle pagine, tutto non poteva che
apparir perfetto: illuminazione improvvisa nel Sannio, sostegno economico di
uno sponsor unito a quello, anche organizzativo, del Governo, competenza e
disponibilità dei collaboratori, fondazione imminente di una vera etnografia
italiana e di un suo Museo. Ricondurre le fasi di tale cursus honorum entro la
complessità faticosa del reale credo non le tradisca ma le renda, semmai, «più
sacre e più belle».226
Il Circello, anzitutto, fu illuminazione in realtà più conclusiva che im-
provvisa.
Anche prima della genesi primaverile del 1905 non corrispondeva d’al-
tronde all’etnografia italiana l’immagine di una terra buia, informe e deserta.
Tener conto dei ‘dislivelli interni’ rappresentava piuttosto, questo sì, una la-
tenza più che una presenza: anche per l’antropologia di rito fiorentino, entro
cui Loria si era formato conoscendo e facendosi conoscere con parole e testi
di adunanze e relazioni nonché con immagini di Mostre fotografiche.
La fotografia è una pista importante nel ricostruire le motivazioni che
indussero Loria a dedicarsi all’etnografia italiana. Lo evidenzia, emblematica-
mente, la frase posta in esergo all’opuscolo del 1906 227 annunciante la nascita
del Museo fiorentino: «Contribuire a far conoscere gli italiani agli italiani è
opera santa». Sono parole di Giulio Fano, celebre fisiologo che dalle foto
impiegate per registrare l’andamento delle contrazioni atriali passò a quelle
etnografiche partecipando all’attività della SFI al cui interno, oltre alle rap-
presentazioni dell’alterità esotica, si manifestavano vivi interessi per docu-
mentare la varietà culturale del nostro paese.228
Nel 1898 Loria si iscrive nella Società e il 18 dicembre Fano, come da
verbale di assemblea, «invita la Società a fare un’inchiesta nel campo etnico e
antropologico del nostro paese ed a tale scopo ad aprire una rubrica speciale
nel «Bullettino», che illustri i tipi, gli usi e i costumi dei vari popoli d’Italia.
La proposta è accolta da applausi».229 Analoga esortazione Fano riproporrà
l’anno dopo,230 durante l’Esposizione nazionale e internazionale di fotografia
che vide Loria tra i vincitori di medaglia d’oro grazie ai suoi scatti relativi a
Nuova Guinea, Australia ed Egitto. A detta di Augusto Novelli, commedio-

225
  L. Loria, Due parole di programma, in «Lares», I, 1, 1912, pp. 9-24. Loria morì il 4 aprile 1913.
226
  Endiadi impropria quanto a me carissima, perché appresa da Pietro Clemente entro co-
mune fascinazione per il culto degli antenati, estratta da una novella di Pirandello tradotta in Kaos
(1984) dai fratelli Taviani: «Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne
avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle». Cfr. P. Clemente, La postura del
ricordante, cit., p. 80.

227 L. Loria – A. Mochi, Museo di Etnografia Italiana in Firenze. Sulla raccolta di materiali per

l’Etnografia italiana, Milano, Tip. Marucelli, 1906.



228 Cfr. C. Panerai, Fotografia e antropologia nel “Bullettino della Società Fotografica Italiana”.

Una promessa disattesa, in «AFT», VII, 13, 1991, pp. 64-69: 65.

229 Citato in ivi, p. 67.


230 Cfr. G. Fano, Sull’applicazione della fotografia agli studi etnografici, in Atti del Secondo Con-

gresso Fotografico Italiano (Firenze 1899), Firenze, Tipografia M. Ricci, 1901, pp. 87-90.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 161

grafo e per l’occasione recensore, «l’intendimento suo, come appare subito


all’occhio di un profano, è esclusivamente scientifico».231 Per Giorgio Roster
si tratta di
pittoreschi paesaggi e belle marine, scene e costumanze, fotografie etnografiche e
antropometriche. In faccia alle fotografie del Loria sta sempre un pubblico numeroso
e intelligente, che non sa se debba in esse più ammirare lo scienziato e l’acuto osser-
vatore, oppure l’artista e il fotografo provetto:232

una incertezza ben fondata, sintomo di come in Loria presentasse incrinature


la fede positivista nella foto quale mero calco della realtà,233 in particolare
rispetto alla rappresentazione della figura umana. Loria, tradendo Lombroso
a favore di Fano, andava prendendo distanza dalle classificazioni tipologiche
che estraevano e isolavano il corpo dal contesto di vita e dalle cose cui era pro-
fondamente connesso. Per gli uomini, raccomanda in una Relazione del 1900,
le istantanee saranno da preferirsi alle pose e per «dare all’oggetto illustrato il
suo vero carattere» si dovranno aggiungere «indicazioni di luogo, di tempo e
di misura».234 Nello stesso anno Mochi apre un saggio sulle popolazioni etio-
piche con un elogio delle valenze conoscitive possedute dall’ «utensile [che]
molto ritiene e può raccontare dell’uomo che lo ha inventato e fabbricato».235
Importante sempre, l’oggetto lo è ancor di più quando la «civiltà europea,
con le guerre, le dominazioni politiche e gli attivi scambi commerciali» si
impone ad altre tanto che «ben presto i nostri usi, le nostre credenze, le armi,
gli utensili, e gli ornamenti nostri, in grazia della loro superiorità, avranno
sostituito del tutto quelli indigeni».236
Al 1877 risaliva la Psicologia degli indigeni desunta dall’esame dei prodotti
della loro industria237 di Mantegazza: Mochi si era laureato con lui nel 1894
divenendone poi assistente nel Museo di Antropologia. È in questo ambito
che quasi certamente conobbe Loria, avviando un rapporto di amicizia e col-
laborazione 238 sulla cui datazione e consistenza è probabile indizio un curioso

231
  A. Novelli, Su e giù per l’esposizione, in «BSFI»,1899, pp. 192-207: 199-200.
232
  G. Roster, La Sezione Scientifica nella Esposizione Fotografica di Firenze, in ivi, pp. 273-284:
273-274.

233 F. Faeta, La realtà è prodotto della più augusta immaginazione. La fotografia come prova nelle

scienze antropologiche, in Id., Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia visiva, Milano, Angeli, 2003,
(ed. or. 1995), pp. 29-58: 40-41.

234 L. Loria, Relazione sulla proposta pubblicazione fotografica. Tipi, usi e costumi del popolo

italiano, in «BSFI», XII, 1900, 1, pp. 19-22: 20.



235 A. Mochi, Gli oggetti etnografici delle popolazioni etiopiche posseduti dal Museo Nazionale

di Antropologia, in «AAE», XXXII, 1900, pp. 97-172: 97.



236 Ivi, p. 93.


237 P. Mantegazza, Psicologia degli indigeni desunta dall’esame dei prodotti della loro industria,

in «AAE», VII, 1877, pp. 307-348.



238 Loria più volte esplicitò la sua stima per la professionalità di Mochi, per «la sua attitudine a

ordinare con rigidi criteri scientifici e ad esporre artisticamente le raccolte [anche se] la mancanza di
mezzi finanziari sufficienti a simile impresa e il poco tempo che egli poteva sottrarre ai suoi preferiti

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162 PAOLO DE SIMONIS

episodio di cronaca, locale e personale, apparso nel 1901 su «La Nazione».


Il 13 ottobre De Gubernatis scriveva infatti al quotidiano fiorentino che un
suo «soave genietto famigliare» aveva carpito, all’interno di un tram, una con-
versazione svoltasi tra «due bravissime persone, due valentuomini […] due
persone molto serie, molto intelligenti, molto addentro ne’ secreti del Museo
della via Gino Capponi».239 Oggetto della conversazione sarebbe stato il pro-
getto di trasferire e assorbire il Museo Indiano di De Gubernatis entro quello
di Antropologia. Una delle due persone era Mochi, che si manifestò nella
stessa sede giornalistica dopo due giorni negando la sostanza dell’accusa e
svelando indirettamente l’identità del «compagno di tram che mi degna della
sua amicizia (un noto e serio cultore degli studi etnologici, un viaggiatore
autentico ed ardito)»:240 quasi certamente Loria.241
Nel 1902 gli interessi etnografici di Mochi si manifestano esplicitamente
e in relazione all’ambito nazionale. Già due anni prima, rispetto agli oggetti
etiopici, aveva sostenuto che a ‘noi’, «nello stato adulto della nostra scienza,
non è permesso lasciarci tramontare sotto gli occhi una fase così importante
della vita di un popolo tanto vicino e con cui abbiamo continui rapporti».242
Adesso il popolo di cui serbar memoria è così vicino da essere il ‘proprio’:
«per trovare documenti e tracce non scarse di civiltà ben diverse da quella
in cui viviamo noi europei civili, non occorre davvero andare molto lungi»243
dato che anche in Italia «sopravvive pur oggi un popolo che in alcune delle
sue manifestazioni si dimostra ancor molto simile ai barbari o ai selvaggi.
[…] Di questo popolo e delle secolari sopravvivenze ch’esso presenta, fac-
ciamo troppo scarso conto».244 Anche se, evidenzia Mochi, non sono manca-
te esperienze di rilievo.
A Perugia Giuseppe Bellucci «già da molti anni va raccogliendo gli amu-
leti italiani antichi e moderni».245 A Firenze il Museo Psicologico di Man-
tegazza «contiene pure molti oggetti relativi alla superstizione».246 Enrico
Hillyer Giglioli accresce sempre più la sua collezione «di manufatti litici il

studi antropologici, limitarono grandemente l’opera sua» (L. Loria, Come è sorto il Museo di Etno-
grafia Italiana in Firenze cit., pp. 6-7).

239 A. De Gubernatis, Il Museo Indiano di Firenze. Voci che volano. Conti senza l’oste, in «La

Nazione», 13 ottobre 1901.



240 A. Mochi, A proposito del Museo Indiano. In risposta al prof. De Gubernatis, in «La Nazio-

ne», 15 ottobre 1901.



241 Cfr. M. Taddei, Angelo De Gubernatis e il Museo Indiano di Firenze. Un’immagine dell’In-

dia per l’Italia umbertina, in Id. (a cura di), Angelo De Gubernatis. Europa e Oriente nell’Italia um-
bertina, I, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1995, pp. 1-37: 33.

242 A. Mochi, Gli oggetti etnografici delle popolazioni etiopiche posseduti dal Museo Nazionale

di Antropologia, cit., p. 93.



243 Id., Per l’etnografia italiana, in «AAE», XXXII, 1902, pp. 642-646: 643.


244 Ibid.


245 Cfr. G. Baronti, Tra bambini e acque sporche. Immersioni nella collezione di amuleti di Giu-

seppe Bellucci, Perugia, Morlacchi, 2008. .



246 A. Mochi, Per l’Etnografia Italiana, in «AAE», XXXII, 1902, pp. 642-646: 643.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 163

cui uso ancor sopravvive tra noi».247 In Sicilia «vari musei civici conservano
abiti e oggetti caratteristici della regione».248 Nelle Esposizioni Nazionali di
Milano 1881 e Torino 1884, inoltre, «si fece molta parte all’etnografia nostra-
le»249 e nel 1888 la SFI suggerì «di riprodurre scene, costumi e tipi popolari
del nostro paese».250
Ottime premesse, dunque ma «non esiste ancora […] una raccolta che
abbia per scopo unico e preciso di conservare il maggior numero possibile
degli oggetti, dei manufatti tutti di qualsiasi genere e categoria spontanea-
mente usati e fabbricati dal popolo nostro meno civile».251 Anche per questo
Mochi annuncia di aver avviato una sua personale collezione, di cui mostra
e illustra una ventina di pezzi, che si propone di estendere grazie all’aiuto di
amici e studiosi. Ma occorre affrettarsi perché «ben presto non ne troveremo
più nessun esemplare, perché la nostra civiltà cittadina e modernissima in-
vade rapidamente i più riposti cantucci delle campagne, i più isolati paeselli
montani».252
Elio Modigliani fu tra quanti raccolsero l’invito e l’anno dopo, nell’adu-
nanza del 26 aprile,253 presenta e dona una sua collezione di oggetti valdostani
destinata ad arricchire la raccolta di Mochi. Modigliani segnala inoltre che
anche a Roma, per iniziativa di Angelo Colini e altri, si intende fondare un
Museo Etnografico Italiano: cui rivolge saluti e plausi di maniera che non
riescono ad attenuare la sostanziale e corale reazione negativa alla notizia.
Nell’adunanza si rivendica infatti una sorta di primogenitura fiorentina della
stessa idea, che Mantegazza sostiene aver previsto per il suo Museo di An-
tropologia con «una sezione italiana di oggetti attuali»254 da avviare con abiti
o costumi dell’Esposizione di Milano del 1881: ma «non si volle cedermela,
e non so come sia andata a finire».255 E in ogni caso si tiene a sottolineare


247 Cfr. E.H. Giglioli, La collezione etnografica del Prof. Enrico Hillyer Giglioli geograficamen-

te classificata, II, Città di Castello, Società Tipografico Editrice Coop., 1912.



248 A. Mochi, Per l’Etnografia Italiana, cit., p. 645.


249 Ibid.


250 Ibid. Questi stessi riferimenti figureranno in L. Loria – A. Mochi, Museo di Etnografia Italia-

na in Firenze. Sulla raccolta di materiali per l’Etnografia, cit., pp.16-17, integrati da altri: le intenzioni
etnografiche nazionali avanzate da Pigorini (L. Pigorini, Il Museo Nazionale Preistorico di Roma, in
«Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», VII, 1881, pp. 488-502: 499) nel 1881
e da Giacomo Boni nel 1905; la realtà del Museo Etnografico di Palermo curato da Pitrè; le iniziative
del Club Alpino Italiano che «ha promosso delle Mostre regionali di costumi che si conservano nei
suoi locali». Raffaele Corso, infine, avrebbe nel 1913 completato il quadro ricordando che anche «Co-
stantino Nigra verso il tramonto della sua vita, raccoglieva per le valli alpine collari di capra, coperti
da fregi» e che «l’orefice Castellani ordinava una mostra di gioie popolari» (R. Corso, Per l’Etnografia
Calabrese (a proposito della Mostra di Roma), [Conferenza tenuta il 3 dicembre 1911 al Circolo di
Cultura di Catanzaro] in «Archivio Storico della Calabria», I, 1912-1913, pp. 116-133: 117).

251 Ibid.


252 Ivi, p. 646.


253 Cfr. Presentazione di oggetti etnografici valdostani, in «AAE», XXXIII, 1903, pp. 619-621.


254 Ivi, p. 621.


255 Ibid.

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164 PAOLO DE SIMONIS

come l’iniziativa di Mochi risalga all’anno precedente e in forma assolutamen-


te certa, pubblica e pubblicata. La polemicità latente del rapporto con Roma
emerge infine con il richiamo di Modigliani alla creazione di piccoli musei
che «dopo una clamorosa inaugurazione, vegetano stenti per lunghi anni e
finiscono poi, spesso, campo alle gesta delle tignole e dei tarli».256
Pochi giorni dopo, nel mese di maggio, viene organizzata a Firenze una
Mostra Agricola della Colonia Eritrea:
Una voce nuova sorge dai nostri possessi affricani; è quella dei campi arati, è un grido
giocondo di vittoria strappato dalle imprese pacifiche della grande arte antica. Firen-
ze sola poteva per la prima accogliere questa voce, udire il grido lontano di un Paese
che chiedeva un giudizio sereno sopra le sue possibili risorse.257

Mochi vi collaborò curando l’allestimento di oggetti pertinenti prestati


per l’occasione dal Museo di Antropologia: nell’intento di «richiamare l’at-
tenzione del pubblico in generale, e specialmente quella di chi si reca nella
Colonia, sulla convenienza di allargare e approfondire, più di quel che fin’ora
non si sia fatto, le indagini scientifiche sui nostri soggetti e vicini africani».258
Il Museo «raccoglie, per tal fine, armi, vestiari, oggetti d’uso e d’ornamen-
to, manufatti insomma di ogni genere, pezzi anatomici, fotografie di tipi e
costumi, notizie e documenti di qualsiasi natura che valgano ad illustrare le
popolazioni eritree e le limitrofe».259
Nel 1904 Loria, partecipando alla III Esposizione Sociale della SFI,
ci permette di ammirare nuovamente la meravigliosa serie di fotografie portate dai
suoi viaggi nella Guinea. Egli stesso, che ha preso a cuore l’avvenire della società e vi
dedica il suo tempo e la sua intelligenza, spesso con compiacenza illustra le fotografie
stesse e fa passare un quarto d’ora veramente istruttivo.260

Le foto riprendono «persone durante attività quotidiane o rituali, abi-


tazioni, villaggi, paesaggi, e sono tutte commentate dall’autore, che cerca di
inquadrare le cose mostrate dall’immagine in un contesto più ampio».261
L’esortazione all’etnografia italiana rivolta alla SFI da Giulio Fano non
aveva nel frattempo trovato adeguato riscontro e nel 1905 Loria la ripropone:
«è mia ferma intenzione di fare mia in un prossimo futuro la idea dell’amico
Fano e con il suo aiuto escogitare i mezzi più opportuni per porre in prati-
ca il patriottico proponimento».262 Il futuro era in effetti imminente perché

256
  Ivi, p. 619.
257
  G. Bartolommei Gioli, Prefazione a I. Baldrati (a cura di), Mostra Agricola della Colonia
Eritrea. Catalogo illustrativo, Firenze, Tipografia Luigi Niccolai, 1903, pp. iii-v: v.

258 A. Mochi, Oggetti esposti dal Museo Nazionale d’Antropologia, in ivi, pp. 119-134: 120.


259 Ibid.


260 A. Levy, Impressioni personali, in «BSFI», XVI, maggio 1904, pp. 137-143: 139-140.


261 C. Panerai, Fotografia e antropologia nel “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, cit., p. 68.


262 L. Loria, Collezione fotografica del Museo Forense, in «BSFI», XVII, 1905, pp. 123-125: 125.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 165

ambientato, al Circello, nella primavera di quello stesso anno che si sarebbe


concluso, in Eritrea, con l’ultima esplorazione extraeuropea di Loria.
Tra 1905 e 1906 Loria produce a favore dell’etnografia italiana un’acce-
lerazione sintomatica: non incrementa la riflessione ma avvia l’azione. Bal-
dasseroni lo commemorò sostenendo che «non importa se lesse pochi libri e
se nessuno ne scrisse».263 Quel che conta è che «le difficoltà, che avrebbero
scoraggiato altri meno forti di lui, a lui rinsaldavano le energie sempre pronte
e vigilanti e raddoppiavano la tenacia più grande».264 In effetti molti, faceva
notare Loria, «prima di me, ebbero la stessa idea, ma non vi dedicarono quel-
la perseveranza di propositi, ch’era necessaria ad attuarla»:265 e niente di im-
portante e fattivo ne era scaturito perché, tutto sommato, l’etnografia italiana
rappresentava un ‘anche’ e non un centro, analogamente periferica risultando
negli interessi professionali di chi pur le riconosceva diritto di esistenza.
Loria al contrario ne diviene demiurgo perché letteralmente le consacra la
vita. Con una dedizione assoluta vissuta in termini quasi fideistici. Fino al sa-
crificio, a quell’annullamento di sé in nome della scienza che aveva già testimo-
niato rispetto alle sue esperienze in Nuova Guinea. Richiesto infatti di stender-
ne resoconto da Giacomo Doria, Presidente della SGI, accettò ma precisando:
Non ti aspettare però nulla che si assomigli ad un diario. La letteratura mondiale è al-
lagata da simile genere di lavori che, secondo me, poco interesse destano generalmen-
te nel pubblico. Questi desidera conoscere ciò che il viaggiatore ha osservato e il ri-
sultato dei suoi studi – non già quanti pericoli abbia corso, o quante volte abbia avuto
le febbre. Pericoli, malattie, contrarietà e difficoltà di ogni genere sono da aspettarsi
in tutti i viaggi che non si fanno con i comodi che gli sleeping-cars e i vagoni-ristoranti
procurano a chi gira l’Europa. Non è meraviglia adunque se ancor io ho avuto la mia
parte di pericoli, malattie ecc. Ma, ripeto, non ti aspettare che te le racconti. Ti ho
contentato stavolta scrivendoti questa mia nella quale non faccio altro che parlare di
me. Da ora in poi non parlerò che di ciò che ho osservato, nominando la mia povera
persona il meno che mi sarà possibile.266

«E se l’Africa si piglia si fa tutta una famiglia»267

Tra Sannio e Africa, nell’estate e l’autunno del 1905, il progetto del Museo
di Etnografia Italiana sembra già delineato e avviato: in azioni e attori.
Il 23 luglio Mochi chiede a Loria notizia su di un memoriale da presentare
al conte Giovan Angelo Bastogi, possibile finanziatore dell’impresa, e insieme
lo informa di star preparando a Livorno «il corredo africano. Però non mi è

263
  F. Baldasseroni, Lamberto Loria, cit, p. 15.
264
  Ivi, p. 6

265 L. Loria, Come è sorto il Museo di Etnografia Italiana in Firenze, cit., p. 5.


266 Id., I Viaggi del Dott. Lamberto Loria nella Nuova Guinea, cit., p. 160.


267 Verso di una canzone popolare assai diffusa, tra l’altro citata anche in A. Soffici, L’uva e la

croce, in Id., Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo, I, Firenze, Vallecchi, 1951, p. 173.

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166 PAOLO DE SIMONIS

stato possibile trovare del kaki. Devo prendere invece della comune tela d’A-
frica ?».268 Dopo solo due giorni scrive che «per fare una cosa seria, andrò in
Brianza a posta da un Sabato a un Lunedì», nella certezza di «trovarvi chissà
quante cose».269
Del primo agosto è altra lettera di Mochi straordinariamente emblematica
della situazione e del suo rapporto con Loria:
Benissimo la lettera al Bastogi: se questo sor Giangio non è un cr… (come direbbe
Baldasseroni) si deve lasciar convincere e il Museo Et. It. è bell’ e fatto. […] quanto al
locale e ai dettagli c’è tempo a parlarne in Gennaio: allora ci piglieremo per i capelli.
Sì ! Farò il miracolo di prenderti anche te per i capelli, hai capito ? Il Martini l’hai
lavorato bene anche lui. Sono sicuro che ci aiuterà come meglio potrà. […] Con tutta
codesta aristocrazia di costà non far tanto il p… perché tanto è inutile. Vedrai che gli
Assaortini, ignoranti in fatto di nobiltà, arrostiranno e mangeranno ugualmente te e
noi poveri diavoli ! Stammi bene: pensa all’Africa. Non ti lasciar troppo traviare dai
sogni etnografici italiani [corsivo mio].270

In poche righe c’è davvero molto.


Anzitutto lo stile di Mochi, traversato da ironia distanziante vs l’investimen-
to totalizzante di Loria. Nella trama e sulla scena, inoltre, abbiamo già, oltre a
Loria e Mochi, tutti i protagonisti principali: Bastogi finanziatore, Martini pro-
tettore politico, Baldasseroni futuro successore di Mochi nella cura del Museo.
Più specificamente: il conte Giovan Angelo (Giangio) Bastogi apparte-
neva a famiglia livornese di commercianti e finanzieri che aveva anche grosse
proprietà terriere gestite a regime mezzadrile. Ferdinando Martini era figlio
di un nobile possidente di Monsummano che era stato segretario generale
alle Finanze del Granducato di Toscana e per diletto scrisse opere teatrali.
Anche Ferdinando fu autore di commedie oltre che giornalista, organizzatore
culturale e uomo politico: tra il 1892 e il 1893 ministro della Pubblica istru-
zione nel governo Giolitti, quando trovò modo di appoggiare le iniziative di
ricerca folklorica promosse da De Gubernatis-271 Francesco Baldasseroni si
era formato come storico alla scuola di Villari, di cui condivideva con Loria
stima, amicizia e impegno civile: avrebbe poi fatto parte del gruppo fiorentino
dei liberal-nazionali272 e sottoscritto nel 1922, assieme a Piero Calamandrei
e Giuseppe Lombardo Radice, una circolare di protesta contro una ingiusta
condanna subìta da Dino Provenzal.273

268
  Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 25 luglio 1905, AS, fasc. 758, doc. 3.
269
  L. De Risi, Il carteggio Mochi-Loria. Primo bilancio del contributo di Aldobrandino Mochi all’et-
nografia italiana, in S. Puccini (a cura di), Alle origini della ricerca sul campo. Questionari, guide e istru-
zioni di viaggio dal XVIII al XX secolo, in «La Ricerca Folklorica», n. 32, 1995, pp. 105-109: 107-108.

270 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 1 agosto 1905, fasc. 758, doc. 5.


271 Cfr., p. 151.


272 Cfr. U.M. Miozzi, La scuola storica romana, 1926-1943, I, Roma, Edizioni di storia e lette-

ratura, 1982, p. 75, nota 52.



273 Cfr. A. Tonnellato, Piero Calamandrei, la scuola e i libri di storia per ragazzi, in «Il Ponte»,

febbraio 2009, pp. 110-122: 112.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 167

Il progetto del Museo di Etnografia Italiana poteva dunque già valersi


nell’estate del 1905 di un vero team, sia pure informale, anche se Loria, nel
1912, preferì ricostruire la genesi del Museo ‘fingendo’ che tutto fosse nato solo
in Eritrea: «anche là parlai dei miei futuri progetti con un compagno di viag-
gio e carissimo amico, il prof. Aldobrandino Mochi, e questi mi disse di avere
anch’egli da qualche tempo la stessa idea [tanto che] apprezzatore delle sue
qualità di studioso, credetti bene di aggregarmelo [corsivo mio] nel lavoro».274
Il Circello si rafforzò in Eritrea, tra autunno e inverno, tramite un Con-
gresso e una Missione: iniziative entrambe patrocinate dal Governatore Mar-
tini e leggibili, anche, come propedeutiche alle intraprese che porteranno alla
realizzazione del Museo fiorentino del 1906 e della Mostra romana del 1911.
Il Primo Congresso Coloniale cercava di contribuire alla (ri)costruzione
di una coscienza espansionistica nazionale ferita dal disastro di Adua ma an-
che in precedenza segnata da forte incertezza. «Che siamo venuti a farci qui
? Fra questi sassi, su queste vette, fra queste valli che si somigliano tanto che
dopo aver cavalcato per giorni e giorni avete l’illusione di trovarvi sempre
allo stesso posto?».275 Per governare, guadagnandoci e anche emigrandovi,
era la risposta di prammatica che si trattava però di sostenere informando
capillarmente:
I promotori del Congresso si sono proposti di facilitare ai concittadini la visita della
Colonia perché le idee aprioristiche, le diffidenze, lo scetticismo, che tante vicende
militari e politiche hanno provocato nella Nazione, abbiano a sparire e si possa final-
mente iniziare un periodo di feconda attività economica regolato dalla conoscenza
diretta della terra africana che costò tante vite generose alla patria.276

Occorre che «molti vadano, che molti vedano, che molti imparino, anche
poco per ciascuno, e tornino e scrivano e raccontino e cooperino, ognuno per
la parte sua, a sfatare la leggenda dell’ Africa orrenda e tenebrosa, dell’Eritrea
sterile, inospite, malsana».277 Martini, già da tempo attivo in tale campagna
di controinformazione,278 accolse con estremo favore l’offerta di ospitare il
Congresso che era stata messa a punto a Napoli, il 27 novembre 1904, per
iniziativa della Società africana d’Italia e con la partecipazione di Loria che
riuscì a coinvolgere nell’iniziativa anche la SGI.279

274
  L. Loria, Due parole di programma, cit, p. 10.
275
  Dal reportage dell’11-12 novembre 1895 di Achille Bizzoni, inviato del quotidiano radicale
milanese «Il Secolo», citato in L. Barile, Scrittori e colonie, Convegno su Italian Colonialism and Con-
centration Camps in Libya 1929-1943, Tripoli 12-13 Dicembre 2006, <http://www.storiaememorie.it/>.

276 Citato in A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Roma, Ministero

per i Beni Culturali e Ambientali, 1989, p. 306, nota 72.



277 Ivi, p. 296.


278 Cfr. M. Zaccaria, “Quelle splendide fotografie che riproducono tanti luoghi pittoreschi”. L’uso

della fotografia nella propaganda coloniale italiana (1898-1914), in C. Fiamingo (a cura di), Identità
d’Africa fra arte e politica, Roma, Aracne, 2008, pp. 147-173.

279 Cfr. A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, cit., p. 302.

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168 PAOLO DE SIMONIS

Il 25 settembre Martini annotava nel suo diario: «Inaugurazione del Con-


gresso. Cerimonia seria, decorosa, ben riuscita. Le impressioni continuano ad
essere buone: di gradita sorpresa, le definì il Loria parlando meco».280 Un suo
intervento, centrato sul classico tema del ‘conoscere per governare’ filtrato
dalla sua esperienza, è registrato nel verbale della seduta del 3 ottobre:
Loria. Si dichiara dolente dell’assenza del suo amico congressista Mochi che si oc-
cupa di questi studi. Farà qualche osservazione per esperienza personale. Propugna
lo studio di due legislazioni separate, una per gli Italiani ed Europei, l’altra per gli
indigeni. In questa, crede opportuno curare molto la loro protezione poiché il con-
cetto della superiorità di razza male interpretato porta sempre ad abusi. Fa notare
la necessità di prendere profonda conoscenza degli usi indigeni, poi che certi senti-
menti di questi sono affatto differenti dai nostri e perfino talvolta incomprensibili.
Cita al proposito aneddoti di sua personale osservazione. Continua dicendo che il
diritto di proprietà e di onestà, il concetto del bene e del male, cambiano presso
tutti i popoli; taluni giungono persino a santificare il parricidio. Quindi è necessità
di studiare molto profondamente gli usi indigeni. Cita ad esempio l’Inghilterra che
si preoccupa delle credenze religiose degli indigeni anche rinchiusi nelle prigioni
di Singapore.281

Nel 1910, non molto diversamente, avrebbe sostenuto la necessità di «cre-


are la scienza dell’etnografia italiana, e per via indiretta ammonire e illumi-
nare statisti e legislatori nostri, affinché nel governare e legiferare tengano
il dovuto conto delle profonde differenze e quindi dei diversi bisogni delle
singole regioni italiane».282
Durante i lavori venne inoltre presentata la bozza delle Istruzioni per lo
studio della Colonia Eritrea:283 Loria ne aveva suggerita l’opportunità alla
SSGC curandone poi la sezione dedicata all’uso della fotografia e, con Mochi
e altri, quella etnografica. Al Congresso, di cui era uno dei vicepresidenti,
partecipava come iscritto alla SIAE e alla SGI: venne anche nominato mem-
bro della giuria di una mostra fotografica allestita per l’occasione e fu infine
inserito nel comitato promotore per la formazione dell’ Istituto Coloniale Ita-
liano, che sarebbe nato l’anno dopo.
Ai lavori del Congresso, conclusi il 14 ottobre, seguì, a partire dal 6 no-
vembre, la Missione eritrea, promossa dall’ Istituto di Studi Superiore di Fi-

280
  Ivi, p. 308, nota 75.
281
  Intervento di L. Loria nella Seduta pomeridiana del 3 ottobre 1905, in C. Rossetti (a cura
di), Atti del Congresso Coloniale Italiano in Asmara (settembre-ottobre 1905), II, Verbali delle discus-
sioni, Roma, Tipografia dell’ Unione Cooperativa Editrice, 1905, p. 124.

282 L. Loria, Del modo di promuovere gli studi di Etnografia Italiana, cit., pp. 124-125.


283 Pubblicate nel 1907. Cfr S. Puccini, Le Istruzioni per lo studio della Colonia Eritrea, in Id., Il

corpo, la mente e le passioni, cit., pp. 148-152 e E. Pacini, Dal territorio eritreo al Museo. Gli scopi e le
tecniche di collezione degli oggetti etnografici, in «Ethnorêma», rivista on line (http://win.ethnorema.
it/Index_en.htm), 2009, 5, pp. 29-49: 31-33. Vedi anche E. Pacini, Raccogliere, collezionare, esporre.
Potere coloniale e viaggio scientifico nella formazione delle collezioni Saho del MNAE, in E. Rossi (a
cura di), Forme di antropologia, cit., pp. 99-132.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 169

renze e finanziata dal Ministero della Pubblica istruzione: a Giotto Dainelli e


Olinto Marinelli spettavano le rilevazioni geografiche e geologiche, a Mochi
le antropologiche e a Loria quelle etnologiche.
‘Diario’ significa intimità: spigolando in quello di Mochi, arrivato in Eri-
trea solo il 3 novembe, non è difficile incontrare l’esibizione-confessione di
valutazioni e situazioni altrimenti indicibili. Così ad esempio elabora il gap nei
confronti di Loria attorno all’esperienza di ‘campo’:
«Prima notte di tenda. Posso dire di non aver neppure sentito le emozioni di questo
primo saggio della vita da esploratore perché la stanchezza mi ha come sbalordito. Se
continua così non sarò buono né a vedere, né a studiar nulla ! Anche il noto esplora-
tore è nelle stesse condizioni [corsivo mio]. Curiosa !».284

Loria poi «vuol far tutto con la sua calma e con l’accuratezza che gli è pro-
pria»:285 un apprezzamento sincero che implica anche presa di distanza da uno
stile di lavoro dove l’efficienza rischia di farsi maniacale. L’uomo-cavalletta, come
lo avrebbe in seguito definito D’Ancona,286 non sta mai fermo: «Loria è alle pre-
se con il fido servo Alì e lo assoggetta ad un corso superiore di fotografia».287
Anche Dainelli concorda: la spedizione italiana è invitata a una festa importante
con banchetto ma «Loria aveva ancora e sempre da impacchettar roba».288
Molto legati a quanto sarebbe avvenuto dopo pochi mesi in Italia appa-
iono vari aspetti concernenti le modalità di raccolta degli oggetti: acquisi-
re molto in poco tempo attraverso interazioni inevitabilmente asimmetriche
segnate da valorizzazione mercantile degli oggetti. Gli antropologi, bulimia
acquisitiva inclusa, prospettavano uno dei cardini del turismo di massa in
luoghi (soprattutto) esotici ?
La raccolta eritrea cresceva ogni giorno, «così ricca ed abbondante, che
siamo stati costretti a chiedere a Martini niente meno che un magazzino, per
depositarvela».289 E quanto «alla sua importanza, essa è certo grande; il va-
lore, anche commerciale, in Europa, sarebbe già di varie migliaia di lire».290
Che cento mercati fioriscano: «Ieri ci fu una festa e fiera di beneficenza
[...]; ci andammo anche noi, tanto più che vi dovevano esser messi in vendita
anche oggetti indigeni».291
La tenda si fa bottega: «una bottega però in cui i compratori stanno a
banco e i venditori affluiscono con la merce. […] Vedono che si paga piutto-


284 S. Ciruzzi et alii, “Missione Eritrea”, 1905-1906. Diario di Aldobrandino Mochi, in «AAE»,

CXXXII, 2002, pp. 5-252: 11.



285 Ivi, p. 65.


286 Citato in S. Puccini, L’itala gente dalle molte vite, cit., p. 39.


287 S. Ciruzzi et alii, “Missione Eritrea”, cit., p. 28.


288 G. Dainelli, In Africa: (lettere dall’Eritrea), II, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche,

1908, p. 179.

289 Ivi, p. 35.


290 Ibid.


291 Ibid.

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170 PAOLO DE SIMONIS

sto benino e fanno a gara per arricchire il Museo di Firenze [...]. Chi avrebbe
detto che il Museo avrebbe trovato degli amici validissimi in questi poveri
diavoli!»292 che altre volte, tuttavia, sono rappresentati come astuti consa-
pevoli negoziatori: come quando Loria è in cerca di informazioni sul rama-
dan che un «furbo pretenzolo non lesina avendo subodorato un bascisc non
disprezzabile».293
Business is business, fino al raggiro e, almeno in un caso, al furto.
A uno shekh musulmano cui viene riconosciuto il titolo di Hajj, Naser, Loria rivolge
[...] un sacco di discorsi lusinghieri, gli diamo una manciatina di caffè e si finisce poi
per tirargli una stoccata. I nostri desideri sono modesti del resto. Vogliamo portargli
via solamente l’appoggiatesta su cui dorme, una tavoletta che gli serve da sedile, il
berretto di fibre vegetali intrecciate distintivo del suo grado e un legnetto che serve da
falsariga per scriver dritto. [...] Naser accondiscende di buon grado a regalarci tutto
quello che desideriamo, e noi a nostra volta gli facciamo dono di due talleri. Così il
mercato è concluso.294

Mochi si allea
con Marinelli e Dainelli per una curiosa impresa. In questa grotta [...] sono degli
scheletri e delle mummie di santi. [...] abbiamo pensato di rapire almeno una delle
venerate reliquie e per far ciò ci siamo messi a passeggiare chiacchierando per l’ac-
campamento e poi ad allontanarsi come per far due passi [...]. Ritrovatici a piè della
grotta, Giotto ed io abbiamo aiutato Marinelli a dar la scalata. Questi, entrato dentro
al rustico sacrario ha preso il cranio [...] poi è rapidamente disceso. Con prestezza e
indifferenza siam tornati al campo dove nessuno s’era accorto di niente. Io avevo il
prezioso cimelio sempre ravvolto nel mantello [...] finché, approfittando di un mo-
mento di solitudine sono riuscito a introdurlo nel mio baule che ho accuratamente
chiuso a chiave.295

«15 lire al metro cubo»

La Missione si concluse a metà gennaio 1906 e, racchiusi in bauli e casse


di legno, arrivarono il mese dopo, nel Museo di Antropologia di via Capponi,
1300 oggetti: vennero numerati e catalogati ma dovettero attendere vari lustri
prima di rinascere con funzione espositiva in via del Proconsolo, nella nuova
sede del Museo.296 Immediata fu invece la ripresa da parte di Loria delle
trattative con Bastogi per il progetto museale dell’etnografia italiana: «senza

292
  S. Ciruzzi et alii, “Missione Eritrea, cit., p. 32.
293
  Ivi, p. 98.

294 Ivi, p. 48.


295 Ivi, p. 119.


296 L’inaugurazione della nuova sede avvenne il 30 aprile 1932: cfr. S. Ciruzzi, Le Istituzioni

Scientifiche del Palazzo Nonfinito a Firenze (1869-1986), in «AAE», CXVI, 1986, pp. 257-270: 258.
Vedi anche E. Pacini, Dal territorio eritreo al Museo, cit., p. 43.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 171

nessuno sforzo, senza nessuna insistenza ottenni da lui tutto quanto deside-
ravo: con il pronto intuito della persona colta e intellettuale comprese subito
il fine che mi proponevo, con la mirabile semplicità del gran signore consentì
senza discutere a tutte le mie richieste».297 Così Loria in un articolo che «Il
Marzocco» pubblicò il 2 agosto 1908 e che conviene confrontare con il back
stage ricostruibile attraverso le fonti epistolari.
Il 27 marzo 1906 Loria invia infatti a Bastogi un memoriale che cerca
di render concreto il suo sogno individuandone dimensioni, spazi, funzioni,
arredi. Tutto in termini approssimati perché, essendo ancora indeterminato
il ‘dove’,
non è possibile di fare uno studio accurato di una costruzione senza conoscere la
natura e le dimensioni del terreno in cui si deve fabbricare. È questo adunque un
progetto campato in aria; ma esso ti dà un’idea del fabbisogno del Museo […] Il
Fabbricato si divide in una parte di 3 piani lunga 28 m, larga 12 e alta 16 che si co-
struirebbe immediatamente, e un’altra a 2 piani lunga 27 m, larga 25 e alta 12 che si
costruirebbe successivamente in tre volte.298

Il costo totale previsto ammontava a 204.140 lire, tenendo conto che nel
prezzo di 15 lire al metro cubo «sono comprese le spese necessarie per cor-
redare il Fabbricato di riscaldamento a termosifone, luce elettrica, ascensore,
latrine, infissi in ferro e decorazione. Rimane da provvedere gli scaffali che
devono essere di ferro con vetri grandi».299
I sotterranei, inoltre, avrebbero dovuto essere «perfettamente asciutti e
tali da potere servire di abitazione» e «alti 3 m e luminati giacché il pian ter-
reno dovrebbe essere 1 m al di sopra del piano stradale».300
Per la gestione ? «Fintantoché il Museo resterà chiuso al pubblico, due im-
piegati (un custode e un inserviente) bastano per l’andamento del Museo»301
e per i costi il calcolo in lire è presto fatto: biblioteca 2000, inservienti 2400,
pubblicazioni 4000, collezioni 5000, cancelleria e attrezzi 1000, riscaldamen-
to e illuminazione 600. Infine:
Il patto che deve legare me con te dovrebbe avere valore dal 1 luglio p. v., ed un mese
dopo dovrebbero incominciare i lavori di scasso nel terreno per dar mano ai lavori di
muratura alla fine di Settembre e coprire il fabbricato in Agosto 1907. I lavori suc-
cessivi dovrebbero terminare in Agosto 1908. Il Museo non potrebbe adunque essere
occupato che il 1 Gennaio 1909302

e Bastogi avrebbe dovuto dichiararsi finanziariamente impegnato fino al


1919.

297
  L. Loria, L’Etnografia Italiana. Dal Museo all’Esposizione, cit., p. 2.
298
  Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi del 27 marzo 1906, AS, B4, fasc 64, doc. 1.

299 Ibid.


300 Ibid.


301 Ibid.


302 Ibid.

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172 PAOLO DE SIMONIS

Non andò esattamente così. Bastogi infatti rispose il 14 aprile:


Da un’uomo scenziato [sic, per due evidenti ragioni] e di valore quale tu sei, io non
poteva aspettarmi un progetto per un museo di Etnografia italiana più dettagliato,
più studiato e più chiaro di quello da te rimessomi, ma ti dico subito sinceramente e
lealmente, per quella vecchia amicizia che ci lega, che non è adattabile per me. Tu sai
che la mia fortuna è indivisa con mio fratello Giovacchino e che io ho tre figli ai quali
non posso, né debbo imporre obblighi, responsabilità e gravami per il loro avvenire.
La mia vita, come la tua, sono nelle mani d’Iddio, ed un impegno assunto oggi da
me, non so se potrei mantenerlo fino al 1919, quantunque farei l’augurio per me e
per te di vivere altri 50 anni. Il tuo progetto vasto ed illuminato può essere preso in
seria considerazione dal governo o da una forte società ed io per quel lato, per quel
poco che posso e valgo, mi metto a tua disposizione per aiutarti a raggiungere lo
scopo desiderato, ma personalmente impegnarmi, sotto qualunque forma economica,
non mi conviene né posso farlo. Nei limiti delle mie forze, potrò concorrere a darti
qualche contributo finanziario per fare degli acquisti e per sviluppare praticamente le
tue idee, ma non potrei mai impegnarmi per alcuna quota fissa e tanto meno per una
quota annuale di trentamila lire, che equivarrebbe ad immobilizzare quasi un milione
delle mie attività patrimoniali. Mi auguro che tu troverai giuste queste mie osserva-
zioni, e vorrai prendere amichevolmente questa mia franca e leale dichiarazione, che
ho sentito il bisogno di farti per mettere chiaro la nostra posizione in questo affare,
per la riuscita del quale formulo i miei auguri più sinceri e più vivi. Pensi e provveda
il governo ad una questione d’indole e d’interesse generale come questa, che tu tanto
propugni, ed allora i privati potranno concorrere a mantenerla ed a renderla sempre
più importante, ma l’affidare tutto all’iniziativa privata di una o due persone, sarebbe
sovraccaricarsi di un peso che le mie spalle almeno non possono sopportare.303

‘Teneva famiglia’, insomma, anche il conte Bastogi: che si sentì obbligato


a tenerne conto quando l’entusiasmo ideale di Loria si inverò nel costo in lire
dei metri cubi.
Mentre l’etnografia italiana stentava a rendersi visibile, dal 1 al 3 aprile
fu possibile in Firenze farsi incantare dallo spettacolo multietnico propo-
sto al Campo di Marte da Buffalo Bill, al secolo William F. Cody: tra le
centinaia di figuranti a cavallo si esibirono non solo cow-boys e indiani
ma anche cosacchi, gauchos, samurai, zuavi, beduini. Gli indiani furono
oggetto di survey da parte di Nello Puccioni, futuro Direttore del Museo
di Antropologia:
Gli indiani, dalle fisionomie caratteristiche e intelligenti, acconsentirono quasi subito
a lasciarsi fotografare e misurare, ma dimostrarono in modo evidente il grado della
loro civilizzazione chiedendo per prima cosa un adeguato compenso pecuniario per
ciascun individuo che sarebbe stato misurato e fotografato.304

Anche in assenza di riscontri documentali è facilmente intuibile quanto


debba essersi sentito ‘tradito’ Loria che, comunque, non rinunciò al suo so-

303
  Lettera di Giovan Angelo Bastogi a Lamberto Loria del 14 aprile 1906, AS, fasc 64, doc. 7.
304
  N. Puccioni, Gli indiani di Buffalo Bill, in «AAE», XXXVI, 1906, pp. 85-88: 85.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 173

gno anche perché Bastogi in realtà lo sostenne, sia pure in termini contenuti.
Il 14 luglio, in adunanza SIAE, «fa sapere che in collaborazione con il Prof.
Mochi pubblica un opuscolo per far propaganda del progetto di fondare un
Museo di Etnografia Italiana. Chiede che venga riprodotto nel nostro Archi-
vio. È già raccolto un primo nucleo di oggetti ed egli è in cerca di un loca-
le»,305 successivamente individuato in Borgo S. Jacopo 19, come si legge nel
frontespizio dell’opuscolo ancora in bozze il 5 settembre e dunque a due sole
settimane dall’inaugurazione indicata nel 20 dello stesso mese.
Anche qui occorre incrociare i documenti, leggendo quello a stampa alla
luce del suo parallelo epistolare: Mochi scrive infatti a Loria che «è stato poi
necessario datare l’opuscolo e ho scelto per data il 20 7mbre. Non ti pare che
la storica data vada bene per l’inizio di un Museo italiano ?».306 Una scelta
dunque esclusivamente formale quanto brillantemente ‘finzionale’. In quel
giorno in realtà non accadde niente e questo rende forse significative alcune
importanti incertezze su quale debba considerarsi l’effettivo anno di nascita
del Museo. Lo stesso Mochi fece riferimento al 1907 in due occasioni di par-
ticolare rilievo: nel 1909, per il cinquantenario della Société d’Anthropologie
de Paris,307 e nel 1914, commemorando Loria.308
Mochi inoltre neppure ricordava quale fosse il numero civico di Borgo
S. Jacopo corrispondente al Museo: «Fallo sapere tu al Bertieri»,309 lo stam-
patore dell’opuscolo, chiede a Loria. Una dimenticanza davvero prossima al
lapsus significante se si tiene conto di come questa sede non sia mai stata presa
in considerazione da chi appunto l’aveva non scelta ma di fatto patita quale
soluzione di compromesso: come «una oscura casa»310 la soffre Loria e «sede
provvisoria !» la definisce esclamativamente Mochi il 30 novembre manoscri-
vendo questa qualifica sulla carta intestata di cui si è dotato il Museo.
Borgo S. Jacopo 19 era certamente lontano da dovunque Loria avesse im-
maginato dovesse sorgere ex novo il Fabbricato luminoso proposto a Bastogi:
corrispondeva infatti a una casa torre medievale, stretta fra varie altre conso-
relle in una via decisamente angusta. Al momento non sappiamo perché Lo-
ria, una volta obbligato a rinunciare al sogno, abbia finito per scegliere questa
collocazione: se non causale non sarà stato però casuale che tra i partecipanti
al Congresso eritreo figurasse Arrigo Arrighi residente, come enunciato negli
Atti,311 a Firenze in Borgo S. Jacopo 19.


305 Adunanza del 14 luglio 1906, in «AAE», XXXVI, 1906, p. 281. Mantegazza, come già nel

1903 (vedi p. 163) rivendicava di aver avuto la stessa idea vent’anni prima proponendola a Bellucci
e a Pigorini che «non se ne curò».

306 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 5 settembre 1906, AS, fasc. 758, doc. 14.


307 A. Mochi, Les Institutions et les études anthropologiques en Italie. Histoire et état actuel, in

«Bulletins et Mèmoires de la Société d’Anthropologie de Paris», X, 1909, 1, pp. 376-392: 380.



308 Id., Commemorazione del dott. Lamberto Loria, in «AAE», XLIV, 1914, pp. 352-357: 353.


309 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 5 settembre 1906, cit.


310 Citato in G. Cocchiara, Storia del folklore in Italia, Palermo, Sellerio, 1981, p. 236.


311 Cfr. C. Rossetti (a cura di), Atti del Congresso Coloniale Italiano in Asmara (settembre-otto-

bre 1905), cit., p. vii. Arrigo Arrighi apparteneva ad antica famiglia fiorentina con proprietà immobi-

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174 PAOLO DE SIMONIS

«si parla del nuovo Museo»

Abitare a questo indirizzo significava per il Museo avere dietro le spalle i


quartieri popolari, pratoliniani, di S. Spirito e S. Frediano: dove le condizio-
ni economico-sanitarie si presentavano con «cifre raccapriccianti, da Terzo
Mondo. […] la mortalità infantile saliva [al] 16, 2% in Santo Spirito, con
punte fino al 17% in taluni vicoli».312 Il primo Museo di Etnografia Italiana
avrebbe potuto tenerne conto, dal momento che il suo dedicarsi a «quella
parte delle popolazioni italiane non ancora profondamente modificate dalla
civiltà moderna»313 includeva esplicitamente anche il «popolo infimo delle
nostre città».314 Di fatto, però, le testimonianze di vita materiale conservate
in Borgo S. Jacopo provenivano esclusivamente dai più «romiti villaggi» e dai
«più riposti cantucci delle campagne»:315 altre ce ne sarebbero state, a pochi
passi dal Museo, ma imputando a Loria e Mochi di non averle raccolte si pec-
cherebbe di astrazione dai tempi prima ancora che di ingenerosità. Metello
Salani316 sarebbe interessato a Michele Barbi quando, da ragazzo, era un con-
tadino del Mugello possibile informatore di maggi di questua: non quando,
ormai adulto e muratore fiorentino, cantava Marechiaro, appreso durante il
servizio militare, o andava al Teatro Pagliano per vedere il Ballo Excelsior.
L’ etnografia italiana sostanzialmente317 trascurava artigiani e operai: un
centinaio dei quali, a Firenze, si trovarono obbligati a essere viaggiatori e
osservatori in proprio di varie alterità. Il 30 marzo 1906 il Consiglio Comu-
nale stanziò infatti cinquemilacinquecento lire «per inviare alla prossima
Esposizione internazionale di Milano alcuni operai appartenenti al Comune
di Firenze affinché a tale visita possano essi conoscere i progressi delle arti e
delle industrie e riportare utili e vantaggiose impressioni».318 I 133 prescelti,

liari in Borgo S. Jacopo e nel territorio dell’attuale Comune di Scandicci dove una loro villa-fattoria
di impianto rinascimentale è ancora detta L’Arrigo: da lì proveniva il «vino vermouth» e l’aceto
presenti a Torino all’Esposizione Internazionale del 1911 (Catalogo generale ufficiale. Esposizione
internazionale delle industrie e del lavoro per il 50° anniversario della proclamazione del Regno d’Ita-
lia – 1911, Torino, Fratelli Pozzo, 1911, p. 405).

312 G. Spini, La società, in Id. – A. Casali, Firenze, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 175-224: 203.


313 L. Loria – A. Mochi, Museo di Etnografia Italiana in Firenze, cit., p. 20.


314 Ivi, p. 8.


315 Ivi, p. 15.


316 Cfr. V. Pratolini, Metello. Una storia italiana, Firenze, Vallecchi, 1955,


317 Interessante eccezione quella attestata da Dino Provenzal: cfr. E. V. Alliegro, Antropologia

italiana, cit., pp. 139-140.



318 Archivio Storico del Comune di Firenze (d’ora in poi ASFCi), Commissione deliberazione

della Giunta Comunale del 30 marzo 1906, CF 5058. Cfr., sul tema, A. Pellegrino, Operai intel-
lettuali. Lavoro, tecnologia e progresso all’Esposizione di Milano, 1906, Manduria, P. Lacaita, 2008 e
Id., Macchine come fate. Gli operai italiani alle esposizioni universali (1851-1911), Milano, Guerini
e Associati, 2011. Non si trattò della prima ‘missione’ di questo tipo. Cfr. Rapporti sulla spedizione
degli operaj toscani alla grande Esposizione di Londra, del socio ordinario Francesco Bonaini e del socio
corrispondente Angiolo Vegni, in «Atti dei Georgofili», (n.s.), 1853, 1, p. 157-188 e, più latamente,
L. Bigliazzi – L. Bigliazzi, I Georgofili per le Esposizioni nazionali e internazionali, cit.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 175

in cambio della gratuità di viaggio e permanenza, dal 18 al 26 agosto, erano


tenuti a presentare una relazione scritta sull’esperienza. Andarono quindi in
un altrove meraviglioso e multiforme e osservarono e scrissero come sapeva-
no. Agostino Menaldo, orologiaio: «Devesi considerare ch’io non sono un
letterato ma un semplice operaio atto più ad adoprare la lima che non la
penna».319 Ferdinando Ciolini, tipografo: «Madre natura mi è stata madrigna,
e non concesse a me, povero paria del lavoro, vanni così potenti da innalzar-
mi all’altezza di poter comprendere e narrare lucidamente tutte le bellezze
artistiche, le arditezze del cervello umano, le conquiste della Scienza, i trionfi
della meccanica in ogni ramo».320 Arnoldo Cinotti, calzolaio: «In questa re-
lazione, benché priva di parole più o meno scientifiche, ho cercato di de-
scrivere, con informazioni assunte sul luogo, tutti quei padiglioni che più mi
hanno colpito lo sguardo».321 In quello dedicato all’Eritrea «è da ammirarsi
un quadro in pittura riproducente il ritratto di Barambas Menelik di ritorno
da caccia, eseguito da un soldato italiano di nome Arik senza aver nessuna
istruzione; essendo stata riconosciuta la sua intelligenza, esso attualmente è a
studiare a Torino».322
All’insaputa anche dei 133 operai esploratori il Museo di Borgo S. Jacopo
prese comunque a rapidamente vivere: il 30 novembre «vi sono i muratori a
staccare la biblioteca e a montare la stufa»323 e «questa Direzione ha conti-
nuato gli acquisti d’impianto ed ha fatto delle spese pazze e sfarzosissime»,324
annota la consueta ironia di Mochi.
Il 2 dicembre Mantegazza saluta pubblicamente la nascita del Museo sulle
pagine del «Marzocco»325 e nella adunanza SIAE del 16 invita tutti ad «aiu-
tare la nascente istituzione mediante la pubblicità, facendola conoscere con
articoli nelle riviste scientifiche e letterarie ed anche nei giornali quotidia-
ni».326 Nella stessa sede Loria conferma essere ormai il Museo «una realtà.
Ha dal novembre una sede e un personale proprio: le sue collezioni vanno
aumentando».327
Il 1907 si apre, l’ 8 gennaio, con l’incontro in treno, da Firenze a Roma, di
Loria con Ferdinando Martini, non più Governatore dell’Eritrea ma vicepre-
sidente del Comitato per i festeggiamenti dell’Esposizione di Roma del 1911:
«Presi naturalmente occasione per parlargli allungo [sic] del Museo. […] Egli


319 Relazione di A. Menaldo, ASCFi, Comune di Firenze, Cerimonie, Festeggiamenti, Esposi-

zioni, CF 5050.

320 Relazione di F. Ciolini, ivi.


321 Relazione di A. Cinotti, ivi.


322 Ibid.


323 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 30 novembre 1906, AS, fasc. 758, doc. 17.


324 Ibid..


325 Cfr. p. 127.


326 Intervento in L. Loria, Il nuovo Museo di Etnografia Italiana, Adunanza del 16 dicembre,

in «AAE», XXXVII,1907, p. 461.



327 Ibid.

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176 PAOLO DE SIMONIS

mi ha promesso di interessarsene […] Non so se, come e quanto Martini lavo-


rerà pel Museo, ma certo che l’offerta sua è gentile e promettente».328
Il 18 gennaio inizia una rilevante querelle attorno all’apertura al pubblico
del Museo tra Loria, che è a Palermo, e Mochi che gli scrive: «A Firenze si
parla del nuovo Museo e tutti sono impazienti di vederlo. Bisogna dunque
che tu porti un paio almeno di costumi e qualche altro oggetto caratteristico e
vistoso […] Pensa che Firenze (non dico l’Europa) ci guarda ! E che bisogna
presto far vedere qualche cosa».329 Risposta di Loria: «Dissento interamente
da te quando affermi che ‘bisogna presto far vedere qualche cosa’, che ‘Fi-
renze ci guarda et similia…’ Ma di questo a voce».330 Mochi non demorde,
reiterando la richiesta dopo averci fornito una rara quanto approssimata de-
scrizione spaziale dell’allestimento:
Ho sgobbato parecchio per il catalogo e quasi tutta Val d’Aosta è registrata. Per varie
considerazioni ho deciso di dedicare ad essa la stanza che precede la latrina. La To-
scana ecc. la metterò nella stanza ultima sul vicolo. Così il salone rimane per l’Italia
meridionale e la Sicilia. Quindi se ti è possibile prendere un carretto siciliano com-
pleto con bardatura per il cavallo abbiamo posto dove collocarlo, specie se non è dei
più grandi […] È la vita o la morte del Museo poterlo presto presentare al pubblico
(ristretto) con cose interessanti.331

Loria da Roma: «Ti ripeto che non annetto alcuna importanza a che i
buoni Fiorentini vedano o non vedano questa primavera della bella roba».332
E infine Mochi cerca di adeguarsi, implicitamente riconoscendo a Loria ruolo
preminente:
Io dicevo di fare presto a mettere in ghingheri il Museo e a mostrarlo a chi può inte-
ressarsene veramente, perché questo era, se la mia memoria non sbaglia, il piano di
guerra stabilito di comune intesa fra noi avanti la tua partenza, ed anzi, se ci ripensi,
il movente unico della tua gita costà.333

Comunque si dichiara «convertito alla nuovissima fede anche innanzi di


aver udito il profeta»334 pur ripetendo che l’apertura del Museo sarebbe op-
portuna perché «gli studiosi di folklore cominciano a svegliarsi e accorgersi
che siamo nati e chiedono di vedere».335
Resta aperto il problema della sede. Loria a Mochi, il 3 febbraio: «Se puoi
cerca casa pel Museo in modo da farmi trovare qualche cosa da visitare al mio


328 Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi dell’8 gennaio 1907, citata in S. Puccini,

L’itala gente dalle molte vite, cit., p. 16.



329 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 18 gennaio 1907, AS, fasc. 758, doc. 28.


330 Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi del 20 gennaio 1907, AS, fasc. 758, doc. 32.


331 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 22 gennaio 1907, AS, fasc. 758, doc. 33.


332 Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi del 27 gennaio 1907, AS, fasc. 758, doc. 56.


333 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 28 gennaio 1907, AS, fasc, 758, doc. 57.


334 Ibid.


335 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 28 gennaio 1907, AS, fasc. 758, doc. 57.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 177

ritorno a Firenze».336 Ma il 14: «Non disdire la casa. […] Staremo in Borgo S.


Jacopo anche per questo scaduto semestre».337
Non facile anche il rapporto con Bastogi, di cui Loria lamenta l’insuffi-
cienza del sostegno economico e non solo. Il 22 marzo rimprovera il «Caro
Giangio» di aver tradito numerosi e necessari appuntamenti: «Il danno che
ne risente il Museo è troppo grande perché io ne possa prendere la responsa-
bilità».338 Salta anche un incontro importante, appositamente fissato in vista
della partecipazione di Loria al VI Congresso Geografico Italiano: «Devo an-
nunciare che il Museo è morto dopo un anno di vita ?».339 Ma l’8 maggio gli
comunica di aver già stampato il testo della sua comunicazione «nella quale
parlo di te e annuncio che il Museo progredisce».340 Sta nel frattempo ma-
turando qualcosa di non positivo anche nel rapporto tra Mochi e il Museo:
il 20 giugno sarà Baldasseroni a comunicare a Loria di aver visionato «un
appartamento in Via Guicciardini. Andai: le 26 stanze diventarono 16» 341 e
l’affitto è carissimo.

«sicuro di sbalordire»

Mochi avrebbe cessato in settembre di occuparsi del Museo che poco


dopo si trasferì in via Pietro Colletta 2, tra villini medio-alto borghesi che
stavano cancellando la precedente vocazione orticola della zona.
Il ‘villino’ costituiva allora status symbol assai ambito nella scalata sociale:
avrebbe posto suggello a quella di Giovanni, protagonista dello Scialo,342 e,
fuor di finzione, si impegnò per ottenerlo anche Augusto Novelli, il comme-
diografo che aveva recensito le foto di Loria e che avrebbe potuto343 entra-
re nel novero dei ricercatori impegnati per la Mostra romana del 1911. La
notte del 31 dicembre 1907 Novelli incontrò in un ristorante la compagnia
di teatro vernacolo di Andrea Niccòli, in procinto di partire per l’America.
Perché non esportare qualcosa di fiorentino ? Non bastava la maschera di
Stenterello. Occorreva qualcosa di «più vivo e più moderno» in modo che

336
  Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi del 3 febbraio 1907, AS, fasc. 758, doc. 36.
337
  Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi del 14 febbraio 1907, AS, fasc. 758, doc. 43.

338 Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi del 22 marzo 1907, AS, B4, fasc. 64,

doc. 25.
339
  Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi del 4 maggio 1907, AS, B4, fasc. 64,
doc. 29.

340 Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi dell’8 maggio 1907, AS, B4, fasc. 64 ,

doc. 30. .

341 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 20 giugno 1907, AS, B2. fasc. 51, doc.

3. Via Guicciardini è molto vicina a Borgo S. Jacopo.



342 Cfr. V. Pratolini, Lo Scialo, Milano, Mondadori, 1960.


343 Avrebbe dovuto occuparsi degli «usi fiorentini» ma «ha dato segni di alienazione mentale,

quindi ho creduto inutile di scrivergli per il noto affare»: lettera di Lamberto Loria a Dino Provenzal
del 16 settembre 1910, fasc. 921, doc. 138.

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178 PAOLO DE SIMONIS

«l’America avesse il quadro della vita fiorentina non dalla insulsa ed oramai
incompatibile maschera nostra ma in grazia d’una forma d’arte vera materiata
col profumo delle nostre donne e de’ nostri fiori».344 Era ormai l’alba del pri-
mo gennaio 1908 e il 29 esordiva L’acqua cheta: 44 sere di repliche e 47 mila
lire di incasso fu la risposta del pubblico ai tre atti ambientati nel quartiere di
S. Niccolò, con Ulisse fiaccheraio, Cecco falegname, Asdrubale cavalocchio.
Il 31 Loria scrive a Mochi imputandogli spese fuori controllo che lo ren-
dono «debitore del Museo di L. 595»345 e il 4 febbraio comunica a Bastogi
una buona nuova. Il deputato Rosadi346 ha voluto visitare il Museo e ne è rimasto
entusiasta. Ha più volte ripetuto che ci voleva la tua munificenza e la tua intelli-
genza per far nascere in Italia una istituzione della quale si sentiva la necessità da
tutti coloro che si interessano delle necessità intellettuali d’Italia. Aggiunse poi che
desiderava essere utile alla istituzione e poneva a completa disposizione tua e mia la
sua influenza e l’opera sua come deputato e come cittadino. Volle eziandio esprimere
la sua opinione sul Museo, sul come è diretto, sui criteri scientifici che lo animano,
sulla maniera con cui gli oggetti sono esposti, &c, &. … P. S. Ho altresì un favore a
chiederti. Voglio che tu venga al Museo, che tu lo veda e che tu esprima intorno ad
esso il tuo intelligente giudizio. Questo mi conforterà a continuare nella via percorsa
o a batterne una nuova.347

Lusinghe personali, prospettive invitanti, più o meno pacati rimproveri,


richiami alle parole spese e al traguardo ormai imminente. Anche un quasi
ricatto morale mette in campo Loria con Bastogi, dichiarandosi disposto, il
18 febbraio, a impegnare 2000 lire l’anno per il Museo: «e ti assicuro che per
le mie magre finanze tale somma è addirittura enorme e se mio cognato, l’avv.
Anau, lo sapesse gli si drizzerebbero i capelli, tanto considererebbe ciò una
vera pazzia».348 Ma ne vale la pena perché ormai
tutto il mondo intellettuale conosce che il Museo è sorto in Firenze per iniziativa del
Conte G. A. Bastogi e di Lamberto Loria [e] uomini insigni, come Villari, D’Ancona,
Novati, Pitré, Comparetti, Rajna, Lombroso &c, &c si sono interessati del Museo e
rivolgono ad esso i loro sguardi come a faro luminoso che rivoluziona il Folklore, ne
fa una scienza ben più completa e complessa, dando ai manufatti la importanza che si
meritano e che finora non hanno avuto.349


344 A. Novelli, Il teatro fiorentino di Stenterello e «L’acqua cheta», in «La Lettura», IX, 1909,

pp. 982-988: 988.



345 Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi del 31 gennaio 1908, AS, fasc. 758, doc. 68.


346 Giovanni Rosadi (1862-1925), lucchese laureato in legge a Pisa, fu protagonista nella na-

scente attenzione legislativa alla tutela dei beni culturali. Porta il suo nome l’innovativa legge del 20
giugno 1909 che estende all’ambiente naturale la protezione fino ad allora riservata ai monumenti
storico-artistici. Cfr. M. Ercolini, Il paesaggio (e la sua difesa) nella legislazione italiana dei primi del
Novecento: origini, principi, protagonisti, in G. Ferrara – G.G. Rizzo – M. Zoppi (a cura di), Paesag-
gi. Didattica, ricerche e progetti, Firenze, University Press, 2007, pp. 315-324: 318-321.

347 Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi del 4 febbraio 1908, AS, fasc. 64, doc. 33.


348 Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi del 18 febbraio 1908, AS, fasc. 64, doc. 35.


349 Ibid.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 179

Occorrono però altri investimenti e altre iniziative di accredito. Per il


prossimo Congresso della società per il progresso350 che si terrà in ottobre
a Firenze «ho la intenzione di battere la gran cassa in prò del Museo, lo farò
visitare da quei congressisti i cui studi sono affini ai miei, farò votare al Con-
gresso un ordine del giorno proclamante la necessità del Museo, spronante il
Governo a interessarsi di tale Istituzione, &c, &c».351 Occorre in ogni caso
incrementare la raccolta
giacché, come dicono benissimo tutte le persone che visitano il Museo, poche sono
ancora le regioni rappresentate per ora. Se io potessi andare in Sardegna questa pri-
mavera, riportare da quell’isola incantata una raccolta simile per importanza e per
numero a quella che ho riportato da Caltagirone l’estate scorsa e per la quale fui
obbligato a noleggiare un vagone ferroviario da Caltagirone a Firenze, sarei sicuro di
sbalordire i nostri buoni fiorentini, tutti i congressisti e i rappresentanti del Governo
che faranno parte del Congresso.352

Finalmente e segretamente, l’8 marzo, Dino Provenzal riceve da Loria la


notizia che
da due giorni è avvenuta cosa della più alta importanza, che può cambiare totalmente
la faccia delle cose ed assicurare per sempre le sorti del Museo. Saprai certamente
che l’Italia si propone di fare dei grandi festeggiamenti per il 50° anniversario della
sua costituzione a nazione; e che ciò avverrà nel 1911. Ora, pare che vogliano fare a
Roma una Esposizione Etnografica Italiana. Presidente del Comitato organizzatore
è Ferdinando Martini, il quale ha detto chiaramente che egli non si assumeva la re-
sponsabilità dell’impresa se io non acconsentiva a farla io. È venuto appositamente a
Firenze per conferire meco. Io gli ho fatto vedere il Museo […] Il Martini è rimasto
sbalordito di quanto ho saputo fare in così poco tempo, delle collezioni raccolte,
del come intendo dar vita al Museo […] Se, come non dubito, io farò l’Esposizione,
tutte le collezioni esposte apparterranno al mio Museo. Finisco raccomandandoti la
massima segretezza353

Il giorno dopo Loria a Martini: «In ricompensa dell’opera mia chiedo che
le collezioni che saranno comprate dal Comitato o ad esso regalate, vengano,
finita che sia l’Esposizione, ad essere di proprietà del Museo di etnografia
italiana di Firenze».354
Il 3 luglio Loria comunica a D’Ancona di aver avuto


350 Il Congresso della Società Italiana per il progresso delle Scienze si tenne a Firenze dal 18 al

25 ottobre. Loria vi annunciò la presenza di una sezione di Etnografia Italiana nell’Esposizione di


Roma del 1911 e Mochi, prendendone atto e insieme relativo distacco, «propose che si cercasse di
farvi figurare anche l’“Italia antropologica”» (cfr. il rendiconto del Congresso in «AAE», XXXVIII,
1908, pp. 335-337: 337.

351 Ibid.


352 Ibid.


353 Lettera di Lamberto Loria a Giovan Angelo Bastogi dell’8 marzo 1908, AS, fasc. 64, doc. 34.


354 Lettera di Lamberto Loria a Ferdinando Martini del 9 marzo 1908, AS, b. 9, cart. Comitato,

fasc. 212. doc. 2.

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180 PAOLO DE SIMONIS

la conferma ufficiale che fra pochissimi giorni sarò ufficialmente incaricato di fare
l’Esposizione a Roma. Perciò il Museo cessa di vivere sotto gli auspici del Conte Ba-
stogi e miei: esso verrà donato alla Esposizione e incorporato poi al futuro grandioso
Museo di Etnografia che avrà sede a Firenze o a Roma.355

Il 2 agosto, sul «Marzocco», il padre del Museo chiarisce la nuova situa-


zione della sua creatura:
per il momento non è più visibile al pubblico: tutti gli oggetti sono stati riposti e
aspettano da un momento all’altro di lasciare Firenze. [ma] non abbandona Firenze
e l’Italia, non muore. Cade bensì in un apparente letargo, è temporaneamente tutto
chiuso e seppellito nelle casse e nei magazzini e nei carri delle ferrovie.356

«un compenso mensile»

Nel 1909 il Museo di Firenze funziona a pieno regime come collettore della
grande rete di ricerca condotta nelle regioni italiane dai ricercatori individuati
e coordinati da Loria. Le ‘qualifiche’ che li connotano, puntualmente riportate
dal coordinatore, compongono un colorito panorama sociale: «amico, amo-
re (per), appassionato, avv., barone, baronessa, canonico, cap., cav., comm.,
conte, costruttori di macchine processionali, ditta, don, dott., duca e duches-
sa, ing., liberale e amante della patria, marchese, maresciallo, monsignor, n.
u., on., prof., reverendo, sindaco, vedova».357 Sul tema ha già largamente e
finemente lavorato Sandra Puccini e qui mi limito a considerare solo poche
questioni di carattere generale viste e vissute all’interno di un caso individuale:
quello del canonico Francesco Polese, di Livorno, testimone di problemi legati
al patrimonio culturale ancora oggi in attesa di soluzioni convincenti. Polese
venne arruolato nell’estate per svolger ricerche attorno a «religiosità popolare,
superstizione, pregiudizi».358 Al canonico però non bastava il rimborso spese:
io sento che lavorerei più volentieri, voglio dire con maggiore entusiasmo, se dal Co-
mitato Esecutivo mi fosse assegnato un onorario, che io non so determinare, ma che
accetterei quando esso rappresentasse un compenso equo della occupazione relativa
mentale (diciamo così), e del tempo impiegato.359

Dichiara infatti di dover rinunciare, per assolvere all’impegno di ricerca,


ad altre attività remunerative: «Di qui l’evidente necessità di determinare un
compenso mensile, che mi garantisca dal danno a cui vado incontro, e mi
renda le mani libere o, meglio, l’animo libero per lavorare con agio e tranquil-

355
  Lettera di Lamberto Loria ad Alessandro D’Ancona del 3 luglio 1908, AS, fasc. 21, doc. 5.
356
  L. Loria, L’Etnografia Italiana. Dal Museo all’Esposizione, cit.

357 Id., Due parole di programma, cit., pp. 15-17, nota 1.


358 Lettera di Francesco Polese a Francesco Baldasseroni del 20 luglio 1909, AS, fasc. 899,

doc. 3.
359
  Ibid.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 181

lità».360 Nella stessa linea: perché potesse prendere l’aspettativa dall’insegna-


mento e «fare uno studio sui poemetti a stampa»361 Loria aveva chiesto «una
piccola somma»362 anche per Giovanni Giannini. Alle rivendicazioni per un
adeguato compenso professionale devono però corrispondere competenze di
varia natura. Baldasseroni a Polese:
Ella è un gran bravo raccoglitore e un insuperabile compilatore di schede; ma, mi
permetta di dirglielo, un cattivo spedizioniere. Il bicchiere di cristallo (n°. 13929)
con l’orlo dorato e con la veduta del piazzale del Santuario è arrivato in frantumi, e
la stessa sorte è toccata all’urna di vetro n° 13942: si sono salvate, per miracolo, le
immagini che stavano sotto le campane.363

Polese si muove per l’Italia su indicazioni molto precise anche di


Baldasseroni:
In Nola (prov. di Caserta), credo il 22 giugno, si fa ancora la secolare festa dei gigli.
I cosiddetti gigli sono macchine di legno alte dai 20 ai 25 metri e larghe alla base 4
metri: sarà difficile portarne a Roma uno autentico, perché ogni giglio pesa la bellez-
za di circa 60 quintali; ma bisognerà farne una riproduzione con la cartapesta. Sulle
macchine abbellite con bandiere, colonnine, statue etc., nel giorno della festa salgono
fin 20 musicanti, e tutto quel peso è portato a spalla da 30 o 40 fanatici, non curanti
del sudore e anche del sangue che esce dal loro corpo. Lo spettacolo ha del selvaggio
e del grandioso. La festa è fatta in onore di San Paolino.364

Polese indagava, con evidente disagio, anche sulla contemporaneità: ha


dubbi se degna del Museo sia una Madonna di Montenero «incorniciata di
conchiglie marine, volgarissima».365 Analogamente, per consueto approccio
screditante il presente, il «Carnevale livornese può dirsi finito.[…] Di vera-
mente paesano e locale, rimangono fra noi due ‘maschere’ popolari o, meglio,
plebee, dette l’una la ‘Puce’ (Pulce), e l’altra il ‘Mangia uno, mangia due’».366
Viene segnalata anche la categoria degli
‘uomini macchiette’ tra cui il ‘bersagliere merdoso’ (vivente); già marinaro nella Ma-
rina Italiana, vestito poveramente e stranamente scalzo, cappellaccio a cencio in testa,
randello in mano, e pietre in tasca per tenere in rispetto la folla, che lo schernisce ed
irrita, bociando, in fuga da una cantonata all’altra delle vie. Le risposte che da sono
ultrapornografiche.367

360
  Ibid.
361
  Lettera di Lamberto Loria ad Alessandro D’Ancona del 3 luglio 1908, AS, fasc. 21, doc. 5.

362 Ibid.


363 Lettera di Francesco Baldasseroni a Francesco Polese del 29 settembre 1909, AS, fasc. 899,

doc. 24.
364
  Ibid.
365
  Lettera di Francesco Polese a Lamberto Loria del 18 settembre1909, AS, fasc. 899, doc. 19.

366 F. Polese, Notizia sul Carnevale di Livorno (Tipi Carnevaleschi), saggio dattiloscritto allega-

to a lettera di Id. a Francesco Baldasseroni del 14 ottobre 1909, AS, fasc. 899, doc. 33.

367 Ibid.

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182 PAOLO DE SIMONIS

Inoltre: «Le cartoline delle macchiette costano lire cinque l’una. Le ri-
produzioni di alcune più antiche altrettanto. Manca il ‘Bersagliere’. Per farlo
‘posare’ ci vogliono dieci lire. A meno l’illustre soggetto non si degna».368

«tutto quanto a Roma»

«Accanto all’automobile sopravvive la treggia»,369 avevano ricordato nel


1906 Loria e Mochi: e nel 1903 era divenuto presidente del Consiglio di Ammi-
nistrazione della Florentia, fabbrica fiorentina di autovetture, il conte Bastogi
che nello stesso anno pubblicò Una scritta colonica370 dove, per allinearsi al pro-
gresso anche sociale, aveva sostituito l’arcaico ‘Padrone’ con il più politicamen-
te corretto ‘Proprietario’. Anche se – notava il conte – «non credo che i miei
contadini che mi chiamano il Sor Padrone e non il Sor Proprietario, mi siano
molto grati di questa delicatezza di linguaggio usata a loro riguardo».371 Bastogi
si muoveva evidentemente con disinvoltura fra sviluppo e tradizione, avendo
inoltre personale passione per il teatro: nel 1905 andò in scena un suo atto
unico, Puntiglio.372 Non meraviglia quindi che il suo mecenatismo abbia voluto
includere anche la rappresentazione scenica del mondo contadino: nel 1909
Bastogi indisse un bando per il rilancio della commedia dialettale che venne
vinto, con 1000 lire di premio, da I’ ‘Pateracchio. Scene della campagna toscana
in tre atti373 di Ferdinando Paolieri. «Quel che il Novelli ha insuperabilmente
fatto per le classi piccole della città, io ho cercato di fare per la casta, forse non
abbastanza conosciuta, dei nostri contadini»,374 commentò l’autore. La prima
rappresentazione ebbe luogo a Firenze, nel teatro Alfieri, il 21 febbraio 1910:
seguirono repliche a Pisa, Livorno, Genova, Torino, Venezia, Roma e in varie
altre importanti piazze nazionali con notevole successo di critica e di pubbli-
co che – secondo Domenico Giuliotti – aveva «come l’impressione d’essere
trasportato a pigliar l’aria sul muricciolo d’un’aia».375 La scenografia teatrale
precedeva quella dei padiglioni della Mostra etnografica dell’anno dopo:
La scena rappresenta un’ampia cucina di contadini. Al fondo la porta che dà sopra
una spaziosa loggia d’onde si scende nel campo. – A sinistra il monumentale camino
cogli alari quasi a livello del terreno, la tradizionale panca per sedere nel canto del

368
  Lettera di Francesco Polese a Francesco Baldasseroni del 21 ottobre 1909, AS, fasc. 899,
doc. 36.
369
  A. Mochi, Per l’etnografia italiana, in «AAE», XXXII, 1902, pp. 642-646: 644.
370
  G.A. Bastogi, Una scritta colonica, Firenze, Tipografia di M. Ricci, 1903.

371 Ivi, p. 74.


372 G.A. Bastogi, Puntiglio, Firenze, Tip. di M. Ricci, 1907.


373 F. Paolieri, I’ ‘Pateracchio. Scene della campagna toscana in tre atti, Roma, Società libr. editr.

nazionale, 1910.

374 Ivi, p. 8.


375 D. Giuliotti, Ferdinando Paolieri e altra gente, in Id., Tizzi e fiamme, Firenze, Vallecchi,

1932, p. 100.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 183

fuoco, ecc. Sul camino bollono una pentola e vari tegami. – A destra è una grande
tavola di quercia con una lunga panca e una fila di seggiole. – La tavola è capace di
una ventina di persone […] Utensili rustici sparsi a casaccio, un po’ da per tutto.376

Giulio Bucciolini riferì di una «intelligente accoglienza di ogni pubblico,


il più disparato, che fu preso dall’opera schietta, tutta sole, dal sano sapore di
pane casalingo e di vino, dalla deliziosa fragranza della trama».377 D’Annun-
zio la definì «soffio vivificatore di aria dei poggi toscani».378 Aria del tempo
se anche Papini, su La Voce, rivestiva della sua aggressività l’eco di miti ro-
mantici: «Scappiamo dalla filosofia e dalle città, andiamo verso i monti, verso
i venti e verso le pecore» ma non per «andare a rincantucciarsi in uno dei
soliti alberghetti o in una delle solite casuccie o pensioni rimpannucciate». La
campagna è «la semplicità, la rudezza, la vastità, la natura senza morale e sen-
za mutande, cioè il contravveleno e il contrappeso per quelle pesti dell’anima
che sono l’artificio, la svenevolezza, la mollezza, i pregiudizi piccini meschini
e cittadini».379
Stavano invece per far ritorno in città, dalle campagne e non solo, i ri-
cercatori che il 24 febbraio ricevettero una circolare: «Il 31 agosto 1910 oc-
correrà si interrompa ogni ricerca e si cessi dall’acquisto degli oggetti; entro
il 30 settembre sarà necessario che gli oggetti sieno tutti depositati nei locali
del Museo fiorentino (Via Colletta, 2); poiché dall’ottobre del 1910 alla pri-
mavera del 1911 dovremo attendere all’enorme lavoro di riordinamento».380
Ormai davvero ruit hora e così Loria, il 29 agosto: «fra pochi giorni io traspor-
to tutto quanto a Roma, anche il Baldasseroni».381 Resta in ogni caso spazio
per acquisizioni supplementari. Il 27 ottobre Mochi a Loria: «La Facoltà mi
ha dato carta bianca anche per la sistemazione definitiva del Museo e (notizia
riservatissima) per la liquidazione del Museo Psicologico».382 Ne nasce tratta-
tiva negoziale contrastata. Loria a Mochi, il 5 dicembre: «Non so comprende-
re perché tu valuti ora L. 400 le rimanenti cose che il Museo di Antropologia
dovrebbe cedermi, mentre che le avevamo di comune accordo valutate L.
150».383 Il Museo di Firenze esce completamente e inevitabilmente di scena
di scena nel 1911: la città che l’aveva visto nascere festeggerà il cinquantesimo
dell’Unità nazionale mostrandosi tra pitture e fiori: gli abiti più adatti alla
sua identità di polo turistico. Venne allestita, da marzo a luglio, la Mostra del

376
  F. Paolieri, I’ ‘Pateracchio’, cit., pp. 17 e 49.
377
  Citato in T. Spinelli, Ferdinando Paolieri scrittore di teatro, in R. Albani – C. Vacca (a cura
di), Ferdinando Paolieri, Atti del convegno (Impruneta 1988), Bologna, Printer, 1991, pp: 93-110: 102.

378 Ivi, p, 101, nota 16.


379 G. Papini, La campagna, in «La Voce», 5 agosto 1909, p. 1.


380 Lettera circolare di Lamberto Loria del 25 febbraio 1910 indirizzata a Dino Provenzal, AS,

fasc. 921, doc. 96.



381 Lettera di Lamberto Loria a Dino Provenzal del 29 agosto 1910, AS, fasc. 921, doc. 128.


382 Lettera di Aldobrandino Mochi a Lamberto Loria del 27 ottobre 1910, AS, fasc. 759, doc. 78.


383 Lettera di Lamberto Loria a Aldobrandino Mochi del 5 dicembre 1910, AS, fasc. 758, doc. 89.

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184 PAOLO DE SIMONIS

Ritratto italiano dalla fine del XVI secolo al 1861384 e, in maggio, l’Esposi-
zione Internazionale di Floricoltura. Commentava «Il Marzocco»: «Firenze,
poveretta, col suo Ritratto e coi suoi fiori, se la caverà col modesto decoro che
compete al suo picciol grado».385 In primavera era anche apparsa per le vie di
Firenze una «réclame fatta con grandi avvisi sulle facciate delle case, a caratte-
ri cubitali: “Venere Agreste poema in ottava rima di Ferdinando Paolieri”»386
che, il 3 febbraio, aveva visto l’insuccesso del suo Chiù, Dramma boscherec-
cio in 4 atti in vernacolo della montagna fra il Chianti e il Valdarno».387
Contadini inediti, perfino equestri, apparvero il 21 novembre, nel teatro
di Barga, nell’orazione di Pascoli a favore della guerra di Libia:
O cinquant’anni del miracolo! […] i contadini che Garibaldi non trovò mai nelle sue
file ... vedeteli! […] La rivoltella in pugno, gli occhi schizzanti fuoco, anelanti sui cavalli
sferzati e spronati a sangue, vengono ... i contadini italiani. […] Ora l’Italia, la grande
martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dove-
re di contribuire per la sua parte all’ umanamento e incivilimento dei popoli.388

Contadini finalmente partecipi del Risorgimento, che inciviliscono mi-


seria altrui negli stessi giorni in cui la miseria propria era esposta con altre
a Roma, nella grande Mostra etnografica inaugurata il 21 aprile. Il Risorgi-
mento si completavs anche linguisticamente. Dopo «Che l’inse ?» e «Tiremm
innanz» arriva un «Picciuotti, i cutieddi amanu: Viva Savoia!»389 urlato dal
generale Ameglio ai suoi fanti siculi nei pressi di Bengasi. Del resto
alpi e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente
fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto grana-
tiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo […] E vi sono le classi
e le categorie anche là: ma la lotta non v’è o è lotta a chi giunge prima allo stendardo
nemico […] Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte,
al marchese, al duca.390

L’Italia celebrava il suo primo mezzo secolo di unità sia con i padiglioni
etnografici della Mostra romana che con le tende militari piantate nella sabbia
dello scatolone libico.


384 Cfr. il catalogo: Mostra del ritratto italiano dalla fine del secolo XVI all’anno 1861, Firenze,

Spinelli, 1911.

385 Gaio, Un’Esposizione che è e che fa rimanere di stucco, in «Il Marzocco», 7 maggio 1911,

pp. 2-3: 2.

386 L. Ugolini, Ferdinando Paolieri, trent’anni dopo, in «Nuova Antologia», XI, 1959, 1907,

pp. 391-400: 393.



387 Definizione dello stesso Paolieri espressa nei suoi Ricordi inediti e citata in T. Spinelli,

Ferdinando Paolieri scrittore di teatro, cit., p. 102.



388 G. Pascoli, La Grande Proletaria si è mossa. Discorso tenuto a Barga per i nostri morti e feriti,

Bologna. Zanichelli, 1911, pp. 11-14.



389 Citato in A. Del Boca, Gli italiani in Libia, I, Bari, Laterza, 1986, p. 107.


390 G. Pascoli, La Grande Proletaria si è mossa, cit., pp. 15-16.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 185

«vedrai che saprò fare»

La Mostra del cinquantenario dell’Unità avrebbe dovuto consolidarsi in


Museo a Roma ma già se ne dubitava subito dopo la morte di Loria. Così
Nello Puccioni, tra sfiducia e, quasi, rivendicazione:
Anche questo si sopporterà che, perfino la collezione raccolta dal Loria con tanto
amore e tanta tenacia, vada dispersa, senza che a quel nobil cuore sia eretto il più
degno monumento nel Museo Nazionale dell’Etnografia Italiana ? E se ogni maggio-
re speranza andrà fallita e il governo non si deciderà a fondare nella capitale questo
Museo d’usi e costumi che rispecchi la tradizionale caratteristica vita d’Italia, Firenze
che lo vide sorgere e lo accompagnò a Roma con voto augurale, non saprà in qualche
modo assicurarne e difenderne l’esistenza?391

Modesto, perché debole quanto isolato, fu anche il sussulto di repatriation


espresso dalla Giunta comunale di Firenze che il 14 marzo 1916 invitava il
Sindaco a impegnarsi presso il Ministero della Pubblica Istruzione «affinché
la collezione di Lamberto Loria, illustrante gli usi ed i costumi popolari delle
varie regioni d’Italia, venga assegnata al Museo Nazionale di Antropologia ed
Etnologia di questa Città, il quale potrebbe avere degna sede nell’ex convento
di S. Verdiana».392 E questo al «nobilissimo scopo di fare in modo che Firen-
ze, la quale ha così caratteristica funzione di centro di cultura nell’armonico
svolgersi della vita nazionale, possa aggiungere al cospicuo patrimonio dei
suoi istituti una nuova istituzione scientifica ed educativa».393
Il Museo, come si sa, non tornò a Firenze394 e Roma lo avrebbe davvero
‘avuto’ solo nel 1956: ci volle mezzo secolo per passare da Borgo S. Jacopo
all’EUR, quartiere ideato per celebrare il ventennio fascista entro una gran-
diosa quanto mai nata Esposizione Universale. Storie quindi di progetti falliti,
o profondamente trasformati: di oggetti e documenti raccolti e più volte ripo-
sti in casse spedite, dimenticate e variamente riesumate.
Baldasseroni, avendo constatato quanto largamente il governo locale
avesse sostenuto il Nordiska Museet di Stoccolma, si era posto nel 1910 inter-
rogativi retorici: «Aiuterà il governo italiano, non dico in eguale misura, ma
almeno con eguale buon volere, il Museo di Firenze ? E il pubblico nostro lo
conforterà del suo costante favore ?».395
E ancora: nelle sue Due parole di programma del 1912 Loria, forte di quan-
to appena realizzato, poteva a pieno titolo affermare che l’etnografia italiana
«entra veramente nella pienezza della sua vita ancora giovanile».396 Arduo

391
  N. Puccioni, Per un Museo che nacque in Firenze in «Il Marzocco», 20 aprile 1913.
392
  Delibera del 14 marzo vidimata dal Prefetto il successivo 23.

393 Ibid.


394 Nonostante, tra l’altro, le «accese polemiche e i ripetuti tentativi» di Mochi: cfr. S. Ciruzzi,

Le Istituzioni Scientifiche del Palazzo Nonfinito a Firenze (1869-1986), cit., p. 263.



395 L. Loria, Del modo di promuovere gli studi di Etnografia Italiana, cit., p. 127.


396 Id., Due parole di programma, cit., p. 18.

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186 PAOLO DE SIMONIS

valutarne oggi lo sviluppo successivo: individuando quale gradino della Scala


della Vita occuperebbe oggi questa disciplina in una immaginaria stampa po-
polare sfuggita a Novati o Bertarelli.
Ma il pessimismo è gioco troppo facile e decisamente inopportuno in sede
di celebrazione: dove semmai dovrebbe prevalere nuova tensione progettuale
fondata sulla responsabilità degli eredi chiamati a reinvestire il patrimonio
ricevuto dagli antenati. Con Jankélévitch: «Il passato […] non solamente do-
manda di essere cercato, ma di essere ancora completato»397 mostrandosi così,
come accennato in apertura, un immenso deposito di progetti, di investimenti
sul futuro. Jedlowski si sofferma su quanto l’agire umano sia «costitutiva-
mente orientato verso il ‘non ancora’» e su come l’attenzione ai futuri passati
rimoduli i rapporti fra le generazioni in «un ricorrente confronto fra attese.
Sui figli quelle dei padri pesano a volte come macigni; o più semplicemente
come dei ‘mandati famigliari’»398 a riguardo citando Heimat e il protagonista
di Terra matta, Vincenzo Rabito.399
Naturalmente sarebbe meglio che gli eredi non si facessero schiacciare
dai ‘mandati’ ma reagissero distinguendo tra quelli da completare e quelli da
rifiutare.
Anche del profeta Loria occorrerebbe rileggere criticamente le scritture,
interrogandole per individuarvi cosa portare di loro nel nostro secolo. Perso-
nalmente, traendoli dal suo già citato programma-testamento, sceglierei alcu-
ni tratti relativamente accomunati dalla categoria del ‘fuori posto’.
Leggo in questo senso, intanto, il rilievo assegnato, tra i numerosissimi
anche illustri «benemeriti che mi hanno soccorso»,400 a Marcella Michela:
«una graziosa fanciulla, che io ho vista nascere, e alla quale sono legato da
affetto paterno»401 e che, non ancora sedicenne, «vedendo le prime decine di
oggetti del mio Museo, si entusiasmò della cosa e si offerse di raccogliere nel
senese».402 Loria l’assecondò, nonostante il parere sfiduciante della madre,
e lei «tutta inorgoglita della mia fiducia, mi disse: “Vedrai che saprò fare”; e
difatti seppe fare molto bene».403 Sento l’episodio come una bella parabola
a favore di una generosa e, appunto, fiduciosa apertura alla collaborazione
inclusiva: una deroga, peraltro, alla prevalente convinzione, espressa anche da
Loria, di dover ««togliere questi studi di mano ai dilettanti».404 Trattasi di nota


397 Citato in P. Jedlowski, Memorie del futuro. Una ricognizione, in «Studi culturali», X, 2,

2013, 2, pp. 171-187: 180.



398 Ivi, p. 178.


399 Ibid.


400 L. Loria, Due parole di programma, cit., p. 13.


401 Ibid. Marcella era figlia di Mario Michela, amico e compagno di viaggi di Loria. Cfr., tra

l’altro, P. Mantegazza et alii, Istruzioni etnologiche per il viaggio dalla Lapponia al Caucaso dei soci
L. e Michela, in «AAE», XIII, 1883, pp. 109-114.

402 Ibid.


403 Ibid.


404 Ivi, p. 21.

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«UN PROGETTO CAMPATO IN ARIA» 187

questione molto attuale, di cui farsi carico con grande pazienza etico-etnogra-
fica sapendo bene quanto poco valga anche qui la semplificazione ideologica:
e quanto invece complesso ma fascinosamente prospettico possa risultare il
muoversi in un quadro dove le collaborazioni possono convertirsi in concor-
renze, con annesse frictions. Per Marcus, «via via che il campo è diventato più
mobile e multi-situato, i soggetti si sono fatti più controparti che altri».405
Viene allora a cadenza anche l’endorsement di Loria per «un’opera di
divulgazione che, con purezza di lingua e piacevolezza di stile, narri som-
mariamente gli usi e i costumi delle nostre popolazioni» in un quadro che
«non deve essere soltanto accessibile agli eruditi, agli specialisti, agli etno-
grafi di professione: ma, almeno nelle sue linee più generali, esser veduto e
compreso da ogni colta persona».406 Oggi anche dalla ‘casalinga di Voghera’,
che non saprei quanto lontana da Gus, il lettore medio chiamato in causa da
Hannerz.407
‘Anticipo’ del complessificarsi degli scapes può apparire anche un effetto
collaterale del mito del Circello: «Al mio ritorno, fermandomi alla stazione di
Benevento, vidi un numeroso gruppo di persone che andavano a Napoli: e si
sarebbero imbarcati per le Americhe così vestiti dei loro caratteristici e diversi
abbigliamenti, questi nostri poveri fratelli che forse sarebbero caduti preda
della ingordigia che sfrutta anche oggi i nostri emigranti !».408
Ma in realtà, per l’etnografia, il presente di prima scelta era, e molto a
lungo ha continuato ad essere, quello caratterizzato dalle sopravvivenze del
passato: creava e crea ancora qualche disagio muoversi nel presente in corso
d’opera anche se ormai la questione si dimostra ampiamente discussa e in
buona misura praticata e legittimata. Anche in ambito museografico. Il ‘con-
temporaneo’, per Padiglione, «favorisce una prospettiva conoscitiva che, vol-
ta a rendere straniero il familiare e familiare lo straniero, accomuna etnografia
e museo, potenziandoli reciprocamente».409
Torna la centralità della condizione outsider che rende ineludibile la chia-
mata in causa di Agamben: «È davvero contemporaneo chi non coincide per-
fettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo
senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo,
egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».410


405 A. Paini – M. Aria (a cura di), Oltre «Writing Culture»: per un’etnografia del contempora-

neo. Intervista a George Marcus in occasione del venticinquesimo anniversario della pubblicazione, in
«Studi Culturali», IX, 1, 2012, pp. 77-93: 87.

406 L. Loria, Due parole di programma, cit., p. 24.


407 Cfr. F. Scarpelli, Sopravvivere in mondi inospitali, in «Lares», LXXVIII, 1-2, 2012,

pp. 379-399: 384.



408 L. Loria, Due parole di programma, cit., p. 9. Vedi anche F. Baldasseroni, Come si devono

studiare gli usi e costumi dei nostri emigrati, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1912.

409 V. Padiglione, Museografia del contemporaneo, in «AM-Antropologia Museale», VII, 19,

2008, pp. 6-7: 6.



410 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo ?, Roma, Nottetempo, 2008, p. 8.

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188 PAOLO DE SIMONIS

Mi sono così costruito, almeno spero, la pertinenza per un conclusivo


esercizio di ‘fuori posto’ costituito dal porre Lamberto Loria in esergo fina-
le, e augurale: «I nostri studi dunque non solo riesciranno utili allo studio-
so, ma saranno fonte di benessere nazionale; e la nostra Società, sorta con
intendimenti puramente scientifici, ne avrà anche uno altamente sociale e
nazionale».411

Riassunto – Summary

Celebrare nell’ordinario la straordinarietà dell’antenato: costruendo attorno a Lo-


ria e al suo Museo una prima bozza del come si rendesse visibile a Firenze, tra Ottocen-
to e Novecento l’alterità culturale, prossima e remota. Chiamando in causa il rapporto
con le istituzioni, il sostegno economico alla ricerca, il formarsi e l’agire di un pubblico
‘antropologico’ legato a connesso mercato culturale che include forme di comunica-
zione non esclusivamente accademiche. Avvalendosi ampiamente, nella convinzione
che testis unus identifichi tutt’altro che una carenza conoscitiva, anche di epistolari e
diari: in grado spesso di aprire varchi di grande interesse nella rigidità probativa dei
documenti ufficiali. E sempre guardando al passato come qualcosa che, con Jankélé-
vitch, «non solamente domanda di essere cercato, ma di essere ancora completato».

Celebrating the outstanding ancestor in ordinary way: around Lamberto Loria


and his Museum in Florence, we can weave draft of the first visible, close or distant,
cultural otherness between the 19th and 20th centuries. We refer to the relationship
with institutions, the financial support for the research study, the setting-up of ‘an-
thropological’ audiences, connected with the cultural market, which allows different
forms, not only academic, to communicate. Even though we believe that testis unus
identifies anything but a lack of knowledge, we take also advantage of letters and
diaries: such kind of papers can often spread light thorough the strict probative offi-
cial documents. Evermore, we look to the past as Jankélévitch quoted: «it is not only
searchable, it needs even completion».

411
  L. Loria, L’Etnografia strumento di politica interna e coloniale, in «Lares», I, 1912, pp. 73-79: 79.

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