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2017

Comitato Scientifico
prof. Marco Galdi, prof. Gianfranco Macrì,
prof. Giancarlo Sorrentino, prof. Francesco Armenante,
prof. Tullio Fenucci

Editrice Gaia
Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi.
Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.
Prima edizione: dicembre 2017

ISBN 978-88-97741-84-8

©2017, Editrice Gaia

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Marco Galdi
Dante e il diritto

sommario

1. Dante giurista? | 2. Il diritto al tempo di Dante. | 3. Il con-


cetto di “diritto” per Dante. | 4. Un florilegio di riferimenti
giuridici danteschi. | 5. Una valutazione conclusiva.
Dante e il diritto1

1. Dante giurista?

Quale ex presidente della Lectura Dantis Metelliana – incarico


immeritatamente ricoperto per volere di padre Attilio Mellone
o.f.m., storico presidente e co-fondatore della prestigiosa istitu-
zione2, allorché, stanco per l’età e con gravi problemi di vista,
volle consegnarmi il testimone – non ero certo nelle condizioni
di declinare l’invito che l’attuale presidente dell’Associazione mi
ha rivolto a nome di tutti gli associati.
Ovviamente sento tutta la responsabilità di questa relazione,
per cui preferisco da subito precisare: non sono un letterato e
difetto dei raffinati strumenti interpretativi occorrenti per la let-
tura dei testi danteschi; il mio è un approccio giuridico, che vie-
ne dall’esperienza della docenza universitaria di diritto pubblico
nell’ateneo salernitano.
Però, credo pure possa risultare interessante, una volta tanto,
che durante le nostre annuali Lecturae si ascolti una voce diversa,
con un approccio differente, magari inconsueto, appunto giuri-
dico e non tipicamente letterario.
Peraltro, l’approfondimento dei rapporti fra letteratura e dirit-
to è diventato, di recente, estremamente di moda, costituendo
sempre più i due termini una “coppia di successo”3: in particola-
1
Questo saggio anticipa l’intervento che svolgerò il prossimo 17 aprile 2018
presso l’aula consiliare del Comune di Cava de’ Tirreni a conclusione della XLV
Edizione della Lectura Dantis Metelliana.
2
La Lectura Dantis Metelliana propone a Cava de’ Tirreni, in Provincia di Sa-
lerno, da 45 anni la lettura consecutiva a cura di studiosi italiani e stranieri di
tutti i canti della Divina Commedia. Per informazioni sull’associazione si rinvia a
http://www.lecturadantismetelliana.it/. In data 5 ottobre del 2013 è stata conferi-
ta alla Lectura la medaglia d’argento della Presidenza della Repubblica Italiana.
3
G. Pedullà, Dante «scassinatore» della legge, in «Il Sole 24 ore» del 16 ottobre
2017. Dà ampiamente conto del fermento culturale sviluppatosi di recente in
Italia intorno al binomio diritto e letteratura S. Prisco, Diritto, letteratura, di-
scipline umanistiche. Teorie, metodi e casi. Un programma culturale e un progetto

5
re negli Stati Uniti, nei quali la contaminazione culturale costitui-
sce un tratto distintivo, si registra un’esponenziale proliferazione
di studiosi attenti a siffatte tematiche, di riviste specializzate, di
nuove associazioni in cui convivono e si confrontano letterati e
giuristi. Né questo movimento culturale ha tardato ad approdare
sui lidi italici4.
E in ogni caso, proprio il nostro Paese ha una risalente tradi-
zione di studi incrociati, che vedono intellettuali, adusi per pro-
fessione a trattare temi scientifici, cimentarsi in riusciti approcci
interdisciplinari alla letteratura5. Né sono mancati giuristi che si
sono occupati in passato del Sommo Poeta, anche con riflessioni

di ricerca per il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II, in Rivi-


sta AIC, 4/2016. V. anche G. Brugnara, “Dante e il diritto”. La Commedia riletta,
in «Corriere del Trentino» di martedì 27 settembre 2016, 13, in cui la prof.ssa
Caludia Di Fonzo, intervistata, riferisce che il fiorire di questi nuovi studi sia
debitrice oltre Atlantico, in particolare, alla filosofa Martha Nussbaum.
4
Si segnala al riguardo, con riferimento al nostro Paese, la costituzione nel
giugno del 2008, presso il CIRSFID (Centro interdipartimentale di ricerca in
Storia, Filosofia e Informatica del Diritto dell’Università di Bologna), della So-
cietà Italiana di Diritto e Letteratura (ISLL, Italian Society for Law&Literature);
simultaneamente è nata a Torino l’Associazione Italiana di Diritto e Letteratura
(AIDEL), il cui statuto, all’art. 2, richiama espressamente il rinvigorirsi degli
studi interdisciplinari soprattutto nei paesi anglosassoni: “Negli ultimi decen-
ni si è andato divulgando un campo di studi interdisciplinari che ha posto a
confronto il diritto e la letteratura. Tali studi interdisciplinari di matrice anglo-
sassone si sono sviluppati nell’ambito della Common Law, hanno preso l’avvio
dalla Cardozo School of Law di New York, sono stati riecheggiati dalla School
of Law dell’Università di Yale e dalla School of Law del Birkbeck College di
Londra, hanno avuto illustri rappresentanti nella School of Law dell’Università
di Newcastle e solo recentemente si stanno diffondendo in Italia”. Non da ulti-
mo merita di essere ricordato il movimento culturale “Diritto e letteratura”, di
cui è promotore in Italia il costituzionalista Prof. Alfonso Celotto: il movimento
convenzionalmente nasce a partire dalla pubblicazione dell’opera di J.B.Whi-
te, The Legal Imagination: Studies in the Nature of Legal Thought and Expression,
Boston, Little, Brown & co., 1973, in cui si sottolinea la centralità degli studi
letterari per la formazione del giurista. Sul tema v. anche G. Minda, Teorie post-
moderne del diritto, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 247 ss. Si segnala, infine, anche la
rivista semestrale Pólemos, Journal of Law, Leterature and Culture, edita da Giap-
pichelli e diretta da D. Carpi, P. G. Monateri e A. Somma.
5
Mi permetto di segnalare, perché peraltro appartiene alla tradizione fa-
miliare di chi scrive, il volume di Francesco Galdi, docente di clinica medica
nell’Università di Pisa, intitolato Vittoria Colonna. Dal lato della nevro-psicopatolo-
gia, Portici, Tipografia Spedaliere & C., 1898.

6
approfondite: fra i primi vi fu Giovanni Carmignani, professore
di diritto criminale prima e poi di filosofia del diritto nell’ateneo
pisano, a metà del XIX secolo6: non a caso un filosofo del diritto,
perché la riflessione filosofica è quella che più si adatta al pensie-
ro di Dante, che se ebbe competenze giuridiche le maturò soprat-
tutto in quella scienza che oggi è definita “filosofia del diritto”7.
Non desta, quindi, meraviglia, se, negli ultimi anni, si è rinvi-
gorita, nel dibattito culturale italiano e straniero, l’attenzione sul
rapporto fra Dante e la giustizia, Dante e il diritto8.
In questo contesto si inseriscono le riflessioni che seguono.
Punto di partenza della nostra indagine non può che essere il
quesito preliminare: Dante fu un giurista?
Quasi nessuno fra gli studiosi ed i commentatori di Dante, al-
meno recenti, gli attribuiscono una specifica formazione giuridi-
ca, né una tradizione familiare di studi del diritto9.
6
A lui si deve prima la “Lettera del Professore Giovanni Carmignani all’amico, e
collega suo professor Giovanni Rosini sul vero senso di quel verso di Dante «poscia più
che il dolor poté il digiuno», Inf. C. 33 v. 75 e, successivamente, nel 1865, la pubbli-
cazione de La monarchia di Dante Alighieri. Considerazioni di Giovanni Carmignani,
Pisa, Tipografia Nistri, 1865, che in realtà costituiva un’opera postuma del pro-
fessore pisano, tratta da un capitolo della sua Storia della filosofia del diritto.
7
Ritiene sintomatico che siano i filosofi a porre in rilievo l’importanza della
giustizia in Dante G. Ambrosetti, Giustizia e diritto in Dante, in Scritti in memoria di
P. Gismondi, III, Milano, Giuffré, 1988, 2. La giustizia nell’opera di Dante è come
una sorta di leit-motiv che non rimane a lungo senza apparire, talvolta sotto le
forme meno attese. Cfr E. Gilson, Dante ed la philosophie, II ed., Paris, 1953, 181.
8
Si vedano, per es., i seguenti contributi recenti: J. Steinberg, Dante e i confini
del diritto, Viella, Roma, 2016; C. Di Fonzo, Dante e la tradizione giuridica, Carocci,
Bari, 2016; Id., Dante tra diritto, letteratura e politica, in «Forum Italicum», 41, 1,
2007, 5-22; S. Ferrara, Tra pena giuridica e diritto morale: l’esilio di Dante nelle Epi-
stole, in «L’Alighieri», 40, 2012, 45-65; S. Grossvogel, Justinian’s Jus and Justifica-
tio in Paradiso 6.10-27, in «Modern Language Notes», 127, 2012, supplemento,
130-137; L.M. Valterza, Infernal Retainers: Dante and the Juridical Tradition, PhD
Dissertation, Rutgers University, 2011.
9
D. Bianchini Jesurum, Dante giurista? Sondaggi nella divina commedia, Gip-
pichelli, Torino, 2014, 83, la quale tuttavia nota come “dalle opere di Dante tra-
peli l’esperienza giuridica dell’epoca, tramandata da un testimone qualificato”,
sia per la sua esperienza politica che per le vicende giudiziarie in cui fu coin-
volto. Ritiene tuttavia che Dante abbia comunque avuto una diretta conoscenza
dei testi giuridici romani e canonici L. Chiappelli, Dante in rapporto alle fonti del
diritto e alla letteratura giuridica del suo tempo, in Archivio Storico Italiano, Serie
V, Vol. 41 s., n. 249, 1908, 3 ss. Sul tema v., anche, C. Faralli, a cura di, Diritto e
letteratura. Prospettive di ricerca, Roma, 2010.

7
Quanto agli studi, dovettero essere soprattutto di tipo filosofi-
co, svolti probabilmente presso la scuola dei Domenicani di San-
ta Maria Novella a Firenze, che lo avvicinarono alla conoscenza
di San Tommaso e di S. Agostino.
Quanto alla tradizione familiare, Dante discendeva da una
famiglia della piccola nobiltà fiorentina, come egli stesso rive-
la incontrando in paradiso il trisavolo Cacciaguida10; il padre,
Alighiero di Bellincione, dovette essere un mercante, o probabil-
mente un esattore o un cambiavalute11.
Né con il diritto ha a che fare la Sua professione, se si iscrisse
alla corporazione dei medici e degli speziali: molto probabilmen-
te, in vero, non per esercitare il mestiere di Esculapio; quanto
perché ai suoi tempi, per intraprendere la carriera politica, occor-
reva essere iscritti in una corporazione12.
Tuttavia, Dante di diritto dovette pur occuparsi, se non altro per il
preminente ruolo politico che rivestì nella Sua città13: è noto che nel
1300 fu Priore, cioè l’autorità più rilevante del Comune fiorentino.
Così come, una serie di rapporti con giuristi parimenti dovette
averne, e molti: il suo maestro, Brunetto Latino, era un notaio;
10
Cacciaguida, come Dante ricorda, partecipò alla II Crociata, dove fu “ar-
mato” cavaliere dall’imperatore Corrado III di Hohenstaufen e morì combat-
tendo in Terra santa. Cacciaguida aveva sposato una Alighieri di Ferrara, e, in
omaggio al suocero, chiamò il suo primogenito Alighiero, e da questi derivò il
cognomen della famiglia.
11
Di recente 2 documenti conservati nell’Archivio Diocesano di Lucca e
pubblicati nella nuova edizione del Codice Diplomatico Dantesco, attestano l’at-
tività usuraia del padre di Dante, emersa in un processo svoltosi a Firenze nel
1254. I documenti sono pubblicati nella nuova edizione del Codice Diplomatico
Dantesco curato da T. De Robertis, G. Milani, L. Regnicoli e S. Zamponi, Salerno
Editrice, Roma, 2016.
12
Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella riservavano il governo
del comune solo ai cittadini iscritti a una delle corporazioni d’arti e mestieri.
Cfr. M. Ascheri, I diritti del medioevo italiano, Carocci, Bari, 2000, 263, secondo il
quale “senza affrontare la questione della loro possibile derivazione dalle cor-
porazioni antiche, obbligatorie per legge dal tardo impero romano, possiamo
esser certi che il fenomeno abbia assunto un aspetto rilevantissimo e comunque
nuovo in un contesto di sviluppo”.
13
Dante fu Priore di Firenze nel 1300 in una stagione nella quale l’autono-
mia comunale era particolarmente ampia. Come ricorda M. Ascheri, Istituzioni
medievali, Il Mulino, Bologna, 1994, 261 le realtà urbane ebbero periodi di auto-
nomia pressoché totale che implicò un’amplissima sovranità su uomini e cose
dei loro territori.

8
fra i suoi amici più stretti vi era Lapo di Gianni14, anch’esso no-
taio; Cino da Pistoia, come Dante sostenitore di Arrigo VII, fu
professore di diritto e poeta stilnovista15; Guido Guinizzelli, altro
amico di Dante, considerato l’inventore del “Dolce stil novo”, era
un giudice16.
Quindi Dante si muove in un contesto di giuristi: peraltro,
all’epoca, le persone di cultura per lo più o intraprendevano la
carriera ecclesiastica o erano giuristi; e fra i giuristi, molti si di-
lettavano di poesia17.
Per cui, possiamo dire che Dante fu immerso nel mondo giu-
ridico, tanto che alcuni studiosi parlano di Lui come di un “pro-
fondo conoscitore del diritto”; se non altro, perché il diritto deve
considerarsi una delle basi principali del pensiero medioevale18.
E che il Poeta abbia respirato a pieni polmoni la cultura giuri-
dica del suo tempo si evince, come si cercherà di dimostrare, da
passi significativi delle Sue opere19.
D’altra parte, l’assonanza culturale che i giuristi medioevali do-
vettero avvertire con l’opera dantesca è testimoniata da più di un
14
Lapo Gianni, notaio, viene spesso identificato con l’appellativo di “notaio
Ser Lapo”, figlio di Giovanni Ricevuti, da cui il presunto cognome Gianni. È
citato da Dante nel celebre sonetto delle Rime che inizia con il verso “Guido, i’
vorrei che tu e Lapo ed io”, e in Amore e monna Lagia. Nel De vulgari eloquentia
(I 13 3), viene inoltre annoverato, assieme a Dante stesso, a Guido Cavalcanti e
a Cino da Pistoia, tra i poeti che raggiunsero la vulgaris excellentiam.
15
Scrisse la Lectura super Codicem, un grandioso commento al Codice giusti-
nianeo.
16
Trattasi della corrente letteraria italiana del XIII secolo di cui la canzone Al
cor gentil rempaira sempre amore è considerata il manifesto ufficiale.
17
Nel Purgatorio, XXIV, 56, Dante lo definisce direttamente “‘l Notaio”, rife-
rendosi a Iacopo da Lentini, che insieme a Guittone (Fra Guitton d’Arezzo) non
avrebbero scritto poesie sotto dettatura di Amore, rimanendo pertanto fuori
dal dolce stil nuovo. Jacopo da Lentini, vissuto fra il 1210 e il 1260 circa, fu
notaio imperiale di Catania e poeta considerato da molti il capo della scuola
siciliana fiorita alla corte di Federico II.
18
In sostanza, gli intellettuali del tempo di Dante non potevano non essere
anche giuristi. Cfr. G. Della Torre, Prefazione a D. B. Jesurum, Dante giurista?
Sondaggi nella Divina commedia, Giappichelli, Torino, 2014, X.
19
Ritiene che “l’Inferno di Dante costituisce un esempio altissimo, e per questo
particolarmente rappresentativo, di un’utilizzazione non estrinseca di principi giu-
ridici all’interno di un’opera letteraria” V. Valluzz, Diritto e letteratura, perché? Esempi
di evidente interazione tra le opere letterarie ed il pensiero giuridico, postato il 21 ottobre
2014, in «LD, Diritto & Letteratura» (https://dirittoeletteratura.wordpress.com/).

9
dato: non è a caso se i primi commentatori della Commedia furo-
no soprattutto giuristi20 (dall’Ottimo21 a Francesco de Buti22); se
le prime copie della Commedia furono trascritte da giuristi (nella
scrittura definita dai paleografi “curiale”23); se si rinvengono, in
atti coevi o immediatamente successivi a Dante, frequenti scritti
di cancellieri e notai con citazioni dantesche24; se i giuristi lo ri-
tennero quasi uno di loro e lo citarono nelle opere di diritto25; se
il più antico ritratto documentato sia di Dante che di Boccaccio,
risalente al XIV secolo, sia stato rinvenuto nel “Palazzo dell’Arte
dei Giudici e Notai o del Proconsolo”26, ove, negli ambienti al
piano terreno, si trovava l’antica sala d’udienza. Evidentemente,

20
Così G. Carmignani, Lettera del Professore Giovanni Carmignani all’amico, cit.,
6 s., per il quale “i dottori di legge fino dai tempi vicini a Dante furono nel quasi
possesso del diritto di interpretarlo”.
21
Con questo nome è conosciuto uno dei più importanti commenti alla Com-
media del trecento, databile fra il 1330 ed il 1340. L’appellativo fu attribuito dagli
Accademici della Crusca nella loro edizione della Commedia del 1621, in ragione
della pregevole lingua fiorentina nella quale è scritto. Il curatore del commento è
stato identificato con il notaio fiorentino Andrea Lancia, cultore di Dante.
22
Francesco da Buti (de Buiti, da Butrio), notaio, fu fra i primi commenti
alla Commedia di Dante in lingua italiana, conosciuto per il chiarimento delle
allegorie dantesche. Sul finire del ‘300 fu incaricato dal Comune di Pisa di com-
mentare pubblicamente la Commedia dantesca.
23
All’ambiente delle cancellerie e del notariato si attribuisce il merito della
circolazione della Commedia. La scrittura “curiale” è definita anche “bastar-
da” dai paleografi. Cfr. G. Savino, L’autografo virtuale della “Commedia”, Firenze,
Società Dantesca Italiana, 2000, 8 (ma v., anche, “Per correr miglior acque …”.
Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio, Atti del
Convegno Internazionale, Verona-Ravenna, 25-29 ottobre 1999, Roma, Salerno
Editore, 2001, 1099 s.
24
Nel 1317, ancora vivente Dante, il notaio ser Tieri degli Useppi da San
Gimignano trascrive alcuni versi del III canto dell’Inferno sulla copertina di un
registro di atti criminali che si trova presso l’Archivio di Stato di Bologna. Nello
stesso Archivio sono conservati “memoriali” di altri notai che, nello stesso pe-
riodo, riportano versi del Purgatorio. I notai erano, in sostanza, soliti utilizzare
i versi danteschi per colmare gli spazi bianchi dei propri atti, così da evitare che
altri potessero apportarvi modifiche o interpolazioni.
25
L. Chiappelli, Dante in rapporto alle fonti del diritto, cit., 41, il quale cita Bar-
tolo, che ricorda il De Monarchia e discute un passo del Convivio; Alberico da
Rosciate, che cita circa trenta volte Dante nel suo Dictionarium iuris; Giovanni
Calderini che cita il De Monarchia nel suo Repertorium iuris; Giovanni da Legna-
no, Petrus de Monte, il Williams, ecc.
26
Sito in Firenze alla Via del Proconsolo, n. 6.

10
Dante era percepito dai Suoi contemporanei come un personag-
gio molto prossimo al mondo del diritto.
Fatta questa doverosa premessa, per cui se Dante non fu un
giurista fu certamente un conoscitore del diritto (e soprattutto fu
sentito dai giuristi del tempo come uno di loro), occorre adesso
definire il percorso di questa relazione: per prima cosa si cercherà
di definire cosa fosse il diritto al tempo di Dante, una realtà cer-
tamente diversa da quella che conosciamo oggi27; quindi si inda-
gherà se esiste, nella vasta produzione dantesca, un “concetto di
diritto”, che sia possibile attribuirgli, cioè cosa Dante intendesse
per “diritto”28; dopo di ché, si traccerà una sorta di florilegio –
certo senza pretese di esaustività – di riferimenti giuridici dan-
teschi (si affronterà, così, il tema della fides, cioè della fama pub-
blica; del privilegio; dell’accordo privo di garanzie; del processo
medioevale e del sistema delle pene nella Commedia)29. Non si
prenderà in esame, invece, un altro aspetto parimenti centrale
del tema complessivamente inteso: Dante filosofo del diritto e
dello “Stato” (pur nella consapevolezza della difficile applicazio-
ne della categoria logico-giuridica dello Stato ad un autore del
XIV secolo). La lettura analitica del De Monarchia, che descrive
la Costituzione perfetta immaginata dal Sommo Poeta (la Sua
Politeia), che fu anche Sonno Filosofo della politica ed autore del
primo “trattato di diritto pubblico” che anticipa l’era moderna30,
infatti, ci porterebbe troppo lontano. Ma il tema è solo rinviato
ad altra e, ci si augura, futura riflessione31.

27
§ 2.
28
§ 3.
29
§ 4.
30
L. Chiappelli, Dante in rapporto alle fonti del diritto, cit., 5. Configura il De
Monarchia come un “trattato di diritto pubblico” anche C. Di Fonzo, Dante e la
tradizione giuridica, cit., 33.
31
Sembra, tuttavia, doveroso sin d’ora segnalare come a questo tema abbia
dedicato la Sua tesi di laurea Hans Kelsen, dimostrando fin dalla giovinezza
quella profondità di analisi che Lo consacrerà uno dei maggiori giuristi di tutti
i tempi. L’opera è stata pubblicata con il titolo Die Staatslehre Des Dante Alighieri,
Wien und Leipzig, Franz Deuticke, 1905.

11
2. Il diritto al tempo di Dante

Non dobbiamo certo immaginare che il diritto al tempo di Dan-


te fosse come oggi lo percepiamo: cioè un complesso di regole
prevalentemente espressione dello Stato o anche posto in essere
da istituzioni autonome, ma comunque riconosciute dallo Stato.
Lo Stato in senso moderno non c’era o si andava strutturando
proprio in quegli anni: vi era, piuttosto, un quadro normativo
frammentato e spesso contraddittorio, sviluppatosi in mancanza
di un’autorità centrale, con una serie di fonti del diritto, che si
legittimavano da sé: il diritto locale adottato dai comuni; il diritto
delle corporazioni; il diritto canonico; il diritto romano, che veni-
va studiato nelle Università; il diritto degli Stati, lì dove iniziava-
no già a strutturarsi le prime esperienze statuali.
Ma procediamo per gradi. Tramontato l’impero romano d’oc-
cidente, ebbe inizio una stagione di profonda crisi del diritto, in
conseguenza della carenza di un’autorità idonea ad assicurarne
il rispetto.
Primo sintomo di questa crisi fu l’eclissarsi del principio di
eguaglianza, soppiantato, nei regni romano barbarici, dal princi-
pio della “personalità del diritto”: trovava ancora applicazione il
diritto romano per le popolazioni di origine romana (in partico-
lare si applicava il Codice Teodosiano32); ai conquistatori di razza
germanica, invece, si applicava il proprio diritto, tendenzialmen-
te di natura consuetudinaria. Con la paradossale conseguenza

32
Il codice Teodosiano, adottato tra il 408 ed il 450 d.C., fu voluto dall’impe-
ratore di Oriente Teodosio II e largamente applicato anche nell’impero romano
d’occidente. Viceversa, il codice di Giustiniano troverà una brevissima applica-
zione in Italia: la riconquista bizantina dell’Italia avviene fra il 535 e il 553; il Co-
dice di Giustiniano entra in vigore il 17 novembre del 534; ma in Italia v’è una
guerra che durerà vent’anni; pochi decenni dopo, nel 568, c’è la discesa in Italia
dei Longobardi. Se ha trovato applicazione il nuovo codice è accaduto per circa
15 anni… un lasso temporale troppo breve perché si consolidasse come fonte
diffusa in tutta la penisola, anche considerando che le codificazioni richiede-
vano trascrizioni manuali. Non sorprende, quindi, che per un lungo lasso tem-
porale il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano sarà totalmente dimenticato, come
conferma la circostanza che i longobardi, nel loro progressivo avvicinamento al
diritto romano, avranno come modello il Codice Teodosiano, già in vigore alla
caduta dell’impero romano d’occidente nel 476.

12
della prevalenza – oggi impensabile –, nei casi dubbi (ovvero
quando la fattispecie riguardasse persone di origine tanto roma-
na che germanica), del diritto consuetudinario.
Ulteriore sintomo della crisi del diritto era l’esistenza di una
pluralità di fori concorrenti, a riprova del tipico pluralismo ordi-
namentale medioevale (canonico, regio, comunale, corporativo),
che naturalmente ingenerava notevoli incertezze circa i criteri
per l’attribuzione della giurisdizione. In questo contesto, spesso
un ruolo preponderante era svolto della Chiesa, che giudicava in
base all’equità33, intesa come giustizia del caso singolo.
La supplenza della Chiesa riguardava anche la formazione giu-
ridica dei quadri dirigenti, se si considera che le scuole di diritto in
quanto tali non esistevano in occidente34: vi erano, invece, le scuole
monastiche, nelle quali si formavano gli amanuensi, dediti anche
alla trascrizione di testi giuridici; le scuole episcopali, che forma-
vano i vescovi, anche alla conoscenza del diritto; mentre rare era-
no le scuole “palatine”, cioè quelle istituite presso le corti.
Invero, nel medioevo si registrano alcuni tentativi di imporre
nuovo diritto. Uno di questi fu quello di Carlo Magno, che ema-
na i Suoi “Capitula”. Ma il contesto politico, nonostante la fonda-
zione del Sacro Romano Impero, era così frammentario, il livello
di cultura media così basso35, i tempi di trascrizione e diffusione
dei nuovi codici così lenti, che il tentativo non era certamente
destinato al successo.
Una significativa svolta rispetto al contesto appena descritto si
ha, come tradizionalmente si legge nei libri di storia, a principio
del secolo XI. Se sembra orami superata la lettura che vuole il ri-

33
In questa concorrenza decisamente preferito era il foro ecclesiastico per
varie ragioni puntualmente sottolineate da Giannone: “gli ecclesiastici, come
quelli che meglio dei laici si intendevano di lettere, erano reputati migliori e
più efficienti ad amministrare la giustizia […] ed oltre a ciò, quando s’entrava in
contenzione di giurisdizione con gli ecclesiastici, le scomuniche fulminavano”.
Cfr. P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Vol. 3, Italia, 1821, 216.
34
Frattanto, invece, nell’impero romano d’oriente fiorivano le scuole giuri-
diche, non solo a Costantinopoli, ma anche a Berito (oggi Beirut). In generale
sul fiorire della civiltà bizantina si rinvia a S. Gallina, Bisanzio, Storia di un impe-
ro (secoli IV-XIII), Carocci editore, Bari, 2016.
35
Tant’è che Carlo Magno si preoccupa di inventarsi una nuova scrittura,
la minuscola carolina, e di aprire una serie di suole laiche, sul modello della
scuola palatina di Aquisgrana.

13
sveglio sociale ed economico dell’occidente collegato all0 scampa-
to rischio della fine del mondo, attesa al compimento del millen-
nio, non vi è però dubbio che questa rinascita fu effettiva, anche
in coincidenza – soprattutto nell’Italia centro-settentrionale e in
alcune regioni della Francia meridionale e della Germania –, con il
ripopolamento delle città36.
L’urbanizzazione fu la causa efficiente di intense e, fino ad allo-
ra, inusitate relazioni economiche, con la conseguente pressante
esigenza che fosse predisposto un rinnovato quadro di regole,
capace di sostenere ed accompagnare questo cambiamento.
Alla richiesta, proveniente dal mondo dei commerci, di mag-
giore certezza giuridica non sono, tuttavia, in grado di rispon-
dere le istituzioni politiche, ancora inesistenti nel caso degli Stati
o, nel caso del papato e dell’impero, troppo lontane. Ma poiché
natura abhorret vacuum, la funzione di supplenza questa volta è
svolta dai giuristi, che assumono un compito attivo di “matrice”
del diritto, già sperimentato nella prassi giuridica di età romana.
Riuniti intorno a maestri di diritto, nelle Università che in quegli
anni vengono fondate, a partire da quella di Bologna37, i giuristi
del basso medioevo elaborano un sistema di principi normativi e
di modelli regolatori, attraverso la sistematica esegesi del diritto
romano che, a partire dal Codice di Giustiniano, viene riscoper-
to, studiato, annotato (“glossato”): nasce così il “diritto comune”,
destinato ad acquistare piena dignità di materia d’insegnamento
autonoma, emancipandosi dalla retorica, nella quale l’ordina-
mento del trivium l’aveva in precedenza confinata.
Si sviluppa, così, la “Scuola dei glossatori” (da “glossa”, cioè
annotazione esplicativa), che raggiunge la sua fase di matura-
zione in tempi molto prossimi alla nascita ed alla formazione
culturale di Dante: lo studioso che porta a compimento questo
percorso è Accursio, che muore esattamente due anni prima del-
la nascita del Sommo Poeta (29 maggio del 1265)38.

36
Cfr. J. Heers, La città nel medioevo in occidente, a cura di M. Tangheroni, Jaka
Book, Milano, 1995.
37
La prima università europea fu l’Alma Mater Studiorum, l’Università di
Bologna, fondata nel 1088 da Irnerio (morto presumibilmente dopo il 1125),
definito dai suoi contemporanei “lucerna iuris”.
38
Accursio, conosciuto anche come Accorso da Bagnolo (Firenze) e in lati-
no Accursius (Impruneta, 1184 – Bologna, 1263), Magnus Accursius Florentinus,

14
Quindi, quando Dante viene al mondo si è già compiuta e si va an-
cor più consolidando questa grande costruzione del “diritto comu-
ne”, che trasforma i cinquanta libri dei Digesta, il Codex, le Institusio-
nes e le Novellae in altrettanti “testi sacri” del diritto, manifestazione
di un sapere antico che assume validità universale, perché voluti da
Giustiniano, imperatore cristiano, per vocazione divina39.
Quale era, dunque, il ruolo del “diritto comune” all’epoca di Dante?
Esso svolgeva svariate funzioni: per prima cosa costituiva la
base dell’omogenea formazione dei giuristi, fossero essi laici o
ecclesiastici; rappresentava, poi, indubbio modello per la nuo-
va legislazione, tanto a livello canonico che laico, quanto per le
normative locali (gli “statuti” dei Comuni); infine, fungeva da
criterio di interpretazione e di integrazione di un diritto, troppo
spesso contraddittorio e lacunoso40.
Proprio mentre questa grande esperienza del diritto comune
si stava strutturando, a Bologna come in tutta Italia, si verifica il
secondo significativo tentativo di imporre un diritto ex rescrip-
to principis, cioè in base alla decisione, all’autorità del sovrano:
dopo Carlo Magno, compie quest’opera, in modo ben più signi-
ficativa in termini di quantità della produzione giuridica e di ca-
rica innovativa, Federico II di Svevia.
Uno dei personaggi in assolto più ammirati dall’opinione pub-
blica di tutte le epoche, Federico nel 1231 adotta le Costituzioni
di Melfi, dette anche Liber Augustalis: esse sono composte da tre
libri, per un totale di 253 costituzioni e riguardano, ovviamente,
il Regno di Sicilia41, perché Federico II è il sovrano di questa parte
compie una poderosa opera di risistemazione del diritto romano chiamata la
Magna glossa, Glossa ordinaria o Glossa magistralis, consistente in una raccolta di
circa 97.000 glosse.
39
Già a metà del XIII secolo ormai il diritto comune non solo si è affermato in
Italia ma viene a diffondersi anche in altre Nazioni: in Francia, in Germania, in
Inghilterra e Spagna. Francésco d’Accursio, ad esempio, giurista (Bologna 1225
– ivi 1293), figlio di Accursio, insegnerà diritto civile a Bologna e nel 1273 sarà al
servizio di Edoardo I re d’Inghilterra, che lo nomina suo consigliere.
40
Cioè praticamente il diritto comune diventa una sorta di “sistema”: se c’è
una lacuna, se c’è una antinomia si ricorre al diritto romano mediato dai dotti
bolognesi e i dubbi sono risolti, in questo grande sistema del diritto parago-
nabile ad una grande cattedrale gotica, nella quale una intera generazioni di
giuristi dialoga in tutta Europa in una sorta di nuova koiné giuridica europea.
41
La Costituzione fu promulgata da Federico come legge da essere valida
“solo nel nostro Regno di Sicilia […] preziosa eredità della nostra maestà”. Lo

15
della Penisola. Ma è anche l’imperatore: dunque Federico scrive
il Liber per applicarlo alla Sicilia, con uno sguardo all’Impero42.
Federico II è veramente Stupor mundi. Anticipa per tante ragioni
i tempi e forse per questo non viene compreso dai “Suoi” tempi:
cerca di ridimensionare il ruolo tanto della nobiltà quanto del cle-
ro, andando a cozzare contro interessi e poteri radicati, in partico-
lare con il Papato; reinventa per l’Italia e per l’occidente – perché
per il medioevo italiano ed europeo è una novità, ma per esempio
a Bisanzio è una realtà che dura ininterrottamente fino alla caduta
dell’impero romano d’oriente nel 145343 – la burocrazia, lì dove
istituisce una “Magna Curia”, dalla quale dipendono una serie di
funzionari stipendiati con compensi fissi e compiti sottratti alla
nobiltà; e, per preparare la burocrazia, per renderla effettivamen-
te professionale, fonda lo “Studium” di Napoli nel 122444. Non
solo, Federico istaura un monopolio del diritto in capo al sovrano.
In una Sua costituzione scrive: “Nessuno può essere nominato
giudice o notaio pubblico se non sia del demanio o se non sia
qualificato homo del demanio così che non sia soggetto a nessun
servizio o condizione di alcuna persona ecclesiastica o secolare,
ma sia sottoposta direttamente soltanto a noi”45.
Nasce così il monopolio statale del diritto, strettamente con-
nesso all’impegno di Federico per la nuova codificazione: già il
nonno materno, Ruggero II, aveva posto in essere una serie di
nuove leggi, essendo tra i primi in Europa a far risorgere il diritto
codificato; ma a Federico si deve riconoscere la realizzazione di
un’opera monumentale46.
dice egli stesso nel Proemio del Liber esaltando poi in un’altra disposizione la
Sicilia «giardino eletto» da rendere «specchio per l’imitazione di quanti lo os-
servano e modello per i regni» (I, 95).
42
Non a caso proporrà più tardi, in una Dieta germanica, l’applicazione al-
meno in parte del Liber alla nobiltà tedesca.
43
Si rinvia sul tema all’interessante studio di F. Wikelmann, Byzantinische
Rang- und Ämterstruktur im 8. Und 9. Jahrhundert, Akademie Verlag, Berlin, 1985.
44
Circostanze queste di straordinario rilievo, se si considera che l’istituzione
della burocrazia professionale è considerata il momento fondante dello Stato mo-
derno: dunque, Federico anticipa la nascita dello Stato moderno. Cfr. M. Weber,
Economia e società, Edizioni di comunità, Milano, 1999, vol. 1, 212 ss.; vol. 4, 58 ss.
45
Const. I, 79.
46
La redazione di tale imponente opera legislativa fu affidata ai maggiori
giuristi dell’epoca, tra cui spiccano i nomi di Pier delle Vigne, Jacopo di Capua,
Michele Scoto, Roffredo di Benevento.

16
Al di là dell’ampiezza e della novità della codificazione melfi-
tana, ciò che maggiormente colpisce è come Federico II abbia del
tutto sovvertito la mentalità medioevale: nel medioevo il diritto
era considerato la manifestazione di un ordine trascendete e la po-
litica poteva muoversi solo entro i confini predefiniti dal diritto47.
Quale diritto? Ovviamente il diritto romano, quello glossato
dagli studia juris, il cui primato discendeva dall’essere diretta
espressione della volontà di Dio. Di contro, Federico inverte il
rapporto e piega il diritto ad disegno politico: il diritto lo fa il so-
vrano. Questo primato del diritto del re è fissato espressamente
in diverse disposizioni tra cui la celebre “Puritatem”, fra le prime
costituzioni melfitane, in cui Federico chiarisce il rapporto tra le
costituzioni e le altre fonti giuridiche del Regno: “con la presente
legge stabiliamo che tutti i camerari e baiuli [...] giudicheranno
secondo le nostre Costituzioni ed in mancanza di esse secondo
le consuetudini approvate ed in ultimo secondo i diritti comuni
cioè secondo il diritto longobardo ed il diritto romano, come esi-
gerà la condizione dei litiganti”48. Dunque, la costituzione del re
viene prima del diritto romano, non soggiace ad esso.

Senza entrare nel merito del Liber Augustalis, pare però opportuno segnalare
alcuni elementi di grande modernità: Federico II arriva ad occuparsi della pulizia
delle città (butti) e delle botteghe artigiane conciarie; degli ebrei e dei musulmani,
che sono posti esplicitamente “sotto la protezione del re”; vieta l’esercizio del-
la professione medica senza un diploma universitario ed una adeguata licenza;
affida la giurisdizione quasi completamente a magistrati di nomina regia con
funzioni temporanee e soggetti a controlli finali sul loro operato (sindacato), a
prescindere da quelli processuali sui singoli atti giudiziari (impugnazioni); in
materia di giustizia penale abolisce le prove irrazionali, interviene sulla brevità
dei processi, sul gratuito patrocinio per i non abbienti, sulla possibilità di ricor-
rere direttamente al sovrano nelle condanne gravi (pena capitale, mutilazioni);
elimina il divieto di successione nel feudo delle figlie femmine in mancanza di di-
retti eredi maschi (III, 26); detta molte norme, infine, per garantire il principio di
eguaglianza(I, 27), la tutela dei più deboli e delle donne in particolare (I, 22, 23; II,
41, 42, 44), la difesa dei più deboli con la possibilità a essi riconosciuta di invocare
protettivamente il nome dell’imperatore con l’obbligo ‒ severamente sanzionato
‒ per l’aggressore di desistere dalla violenza(le cosiddette “defense”, I, 16 e ss.).
47
In altri termini, il diritto ispirava l’ideologia politica e l’azione politica do-
veva essere giustificata dal diritto. Cfr. B. Paradisi, Diritto e potere nella storia
europea, in Atti del Quarto Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del
diritto in onore di Bruno Paradisi, Firenze 1982, p. XXII.
48
Puritatem, I, 62.1, nella quale si riconferma come criterio ultimo la “perso-
nalità” del diritto, come al tempo delle leggi romano-barbariche.

17
Federico è consapevole di aver fatto uno strappo, tant’è che cerca
di giustificarlo e lo fa in un’altra costituzione, quando afferma: “Non
togliamo nulla all’autorità dei regnanti antichi se dal nostro grembo
[de nostro gremio] generiamo leggi nuove secondo la condizione
dei tempi nuovi […]”49. Quindi, il sovrano ha il diritto di “generare
leggi nuove”, non è vincolato necessariamente dallo jus precedente,
non deve solo limitarsi ad adattare il diritto degli antichi50.
Era da attendersi una reazione della Chiesa, i cui interessi, il cui
potere è direttamente offeso da queste decisioni dell’imperatore.
Il papa Gregorio IX grida allo “scandalo”, indicando con que-
sta parola l’attentato alla salvezza della comunità dei fedeli, la
messa in pericolo della salus animarum: è la premessa della sco-
munica che colpirà più tardi Federico II51.
Quali i motivi dello “scandalo”? Federico avrebbe attentato
alla libertas ecclesiae, per una serie di disposizioni del Liber che
ridimensionavano il ruolo degli ecclesiastici; sarebbe entrato in
una serie di competenze riservate alla giurisdizione ecclesiasti-
ca, come allorché stabilisce l’ingerenza dei tribunali imperia-
li in tema di usura. Ma, soprattutto, Federico è andato contro
quell’orror tipicamente medievale per il diritto nuovo: le leggi
non si creano, ma possono solo essere interpretate o restaurate,
scaturendo da un ordine precostituito ispirato da Dio.
Così arriva la scomunica il 20 marzo 1239.
L’esperienza politica di Federico II viene presto archiviata52: già
a partire dalla fine del XIII secolo, quando Dante scrive la Com-
media, si registra un complessivo abbandono della codificazio-
49
Const. I, 38.
50
In vero non vi è un pregiudizio di Federico II nei confronti del Diritto
romano: il Liber richiama il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano fin dal proemio,
in cui Federico II si proclama Felix Pius Victor et Triumphator, proprio come fece
Giustiniano nel Proemio delle Istituzioni.
51
Gregorio XI grida allo Scandalo con due lettere indirizzate rispettivamen-
te a Federico e all’arcivescovo di Capua Giacomo, prima ricordato come uno
dei compilatori del Liber. A Federico Gregorio scrive: “Simili novità sono solite
suscitare gravi scandali”; e nella lettera all’arcivescovo capuano si parla di Costi-
tuzioni suscitatrici di “enormi scandali”.
52
In vero, l’esperienza di Federico non passa senza lasciare segno: tra il 1231 e il
1281 si registra uno straordinario numero di codificazioni in tutti gli Stati, sotto la
spinta dei tanti giuristi conoscitori del modello di codificazione giustinianeo, entra-
ti in quel tempo al servizio dei regnanti. Il Liber fu anche un significativo punto di
riferimento per i nascenti statuti comunali (emblematico il caso di Bologna).

18
ne; perché sia ripresa la riflessione giuridica sulla codificazione
bisognerà attendere diversi secoli.
Alla morte di Federico, la restaurazione è immediata anche in
alcuni territori del Regno di Sicilia, dove pure rimarrà in vigore
il Liber fino al 1819 (per il Regno di Napoli l’abrogazione risale,
invece, al 1809)53.
La restaurazione, in vero, non fu neanche necessaria nell’Italia cen-
tro-settentrionale: le Costituzioni melfitane si applicavano al regno di
Sicilia e non a tutto l’impero; peraltro, nonostante Federico II nel 1226
avesse ritrattato la Pace di Costanza del 1183, con la quale il nonno
Federico Barbarossa aveva concesso i privilegi ai Comuni dell’Italia
centro-settentrionale, riconoscendone mores e consuetudines, i Comuni
non avevano mai smesso di dotarsi di propri statuti54; ma soprattutto,
era ormai imperante il diritto comune, quella concezione del diritto
che aveva nell’Università di Bologna il suo motore propulsore55.

3. Il concetto di “diritto” per Dante

Dante si forma in un contesto, quello dell’Italia centro-setten-


trionale, refrattario all’autorità imperiale56; vive in piena restau-
53
Appena un anno dopo la morte di Federico, si sovverte il rapporto tra
legge e consuetudine fissato nella Puritatem (Const. I, 62) nelle consuetudini di
Salerno (1251): “Si leges sanctae fuerunt, sunt, erunt per semper, bone tamen
consuetudines sunt sanctiores, et quoniam ubi consuetudines loquuntur, tacere
debeant leges tote” Cfr. R. Trifone, I frammenti delle consuetudini di Salerno in rap-
porto a quelle dei territori circostanti, Roma 1919, 115. Poco dopo seguirà l’esem-
pio Amalfi : “Lex est sancta, bona consuetudo est sanctio sanctior eo quod ubi
consuetudo loquitur, lex tacet” (Consuetudines Civitatis Amalfie, a cura di A. de
Leone-A. Piccirillo, Cava dei Tirreni-Napoli 1970, 28) (la legge è una sanzione
santa, tuttavia una buona consuetudine è una sanzione ancor più santa, poiché
dove la consuetudine parla la legge tace).
54
Nel 1225 il retore Boncompagno da Signa denuncia il proliferare di Statuti
anche contra legem; Odofredo (morto a Bologna il 3 dicembre 1265), che pure
aveva glossato la pace di Costanza, parla, sempre a proposito degli statuti co-
munali, di “diritto asinino”.
55
Il diritto comune continuò ad applicarsi per ben sette secoli, sino alle co-
dificazioni moderne e caratterizzò, in tempi diversi, gli ordinamenti giuridici
di una larga parte dell’Europa dal XII al XVIII secolo. Cfr. A. Padoa Schioppa,
Italia ed Europa nella storia del diritto, Il Mulino, Bologna, 2003, 21 s.
56
Lo testimonia la storica battaglia di Legnano, con cui i Comuni ottengono
la consacrazione della propria autonomia dall’Impero.

19
razione ideologica rispetto al tentativo federiciano di nuova co-
dificazione; scrive nell’età del trionfo del “diritto comune”.
Nei Sepolcri, il Foscolo lo definisce “ghibellin fuggiasco”; con-
cepisce nel de Monarchia, ma anche nella Commedia, la teoria dei
“due soli”, così respingendo la tesi all’epoca dominante del sole
– papato e della luna – impero, prefigurando due poteri distin-
ti e con proprie specifiche funzioni; considera la causa di tutti i
mali della Sua epoca il potere temporale della Chiesa, esaltando
viceversa il ruolo dell’impero a garanzia della pace e della giusti-
zia… ma non percepisce la portata rivoluzionaria del Liber, di cui
pure doveva avere conoscenza, ed il ruolo innovatore del diritto
sovrano. Né percepisce, in vero, la genialità di Federico.
Nella Commedia Dante menziona Federico II ben cinque volte
(tre nell’Inferno, una nel Purgatorio ed una nel Paradiso) e, al di
là dei casi in cui il richiamo è solo incidentale57, esprime un’opi-
nione sostanzialmente negativa: nel Purgatorio il giudizio nega-
tivo è evidente (“In sul paese ch’Adige e Po riga, / solea valore e
cortesia trovarsi / prima che Federigo avesse briga”)58. Anche se,
alla fine, Dante considera Federico l’ultimo vero imperatore (così
tanto nel Paradiso59, che nel Convivio60).
In ogni caso, il Poeta non mette in dubbio il trionfo del “diritto
comune”, ormai diventato sistema. E così Giustiniano è collocato

57
Altre citazioni di Federico nella Commedia sono: “Dissemi: «Qui con più
di mille giaccio: / qua dentro è ’l secondo Federico, / e ’l Cardinale; e de li altri mi
taccio»”. Inf. X; « son colui che tenni ambo le chiavi/ del cor di Federigo, e che le
volsi,/ serrando e dissertando, sì soavi…; “e l’infiammati infiammar sì Augusto,/
che’ lieti onor tornaro in tristi lutti». Inf. XIII 58-60, 68-69; «Di fuor dorate son, sì
ch’elli abbaglia; / ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, / che Federigo le mettea
di paglia». Inf. XXIII 65-66, dove Dante si richiama alla leggenda secondo cui
Federico II sottoponesse a tortura i rei di lesa maestà, coprendoli di piombo fuso.
58
Per Dante, la “antica età”, in cui “solea valore e cortesia trovarsi”, di “pri-
ma che Federico avesse briga” (Purg. XVI, 122 e 116-117), era giunta a termi-
ne perché il “terzo vento di Soave” non era stato all’altezza di tutelare, come
avrebbe dovuto, la persistenza di quei valori, andati ormai perduti.
59
«Quest’è la luce della gran Costanza/che del secondo vento di Soave/ge-
nerò il terzo e l’ultima possanza». Par. III 118-120, Piccarda Donati.
60
“Federigo di Soave [di Svevia], ultimo imperadore de li Romani ‒ ulti-
mo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo [d’Asburgo] e
Andolfo [di Nassau] e Alberto [d’Asburgo] poi eletti [re dei Romani, ma non
incoronati imperatori a Roma] siano, appresso la sua morte e de li suoi discen-
denti”. Cfr. Convivio, IV, iii, 6.

20
nel terzo ed ultimo dei canti politici, il sesto del Paradiso; a fronte
della condanna nel canto X dell’Inferno di Federico II come ereti-
co: Giustiniano, colui che “per voler del primo amore” dalle leg-
gi trasse “il troppo e il vano”61; colui che stabilisce un diritto che
si connota di eternità e non piuttosto di caducità, come i tentativi
di nuova legislazione del Suo tempo62 …
Conferma di questa visione di Dante, per cui il Corpus juris è
l’alto lavoro ispirato da Dio, la troviamo ancora nel Purgatorio,
dove scrive “le leggi son, ma chi pon mano ad esse”63. A dire: il
diritto c’è, non occorre porre nuove leggi; il problema piuttosto
è costituito dalla mancanza dell’autorità che vi dia attuazione.
Su queste premesse occorre adesso identificare l’idea di diritto
che ha Dante.
Ci soccorre lo stesso Poeta, che nel De Monarchia fornisce due
diverse definizioni.
La prima: “Ius est realis et personalis hominis ad hominem
proportio, quae servata hominum servat societatem, et corrupta
corrumpit”64 (“Il diritto è una proporzione fra cose e persone che
si pone a fondamento dei rapporti interumani, la quale, finché
resta salda, conserva la società, quando si corrompe, ne provoca
il disfacimento”).
Appartiene a S. Tommaso d’Aquino l’idea del diritto come pro-
porzione/equilibrio; e dunque il concetto di diritto appena enun-
ciato è chiaramente legato alla concezione filosofica più consona
alla formazione dantesca, cioè alla scolastica.
Questa concezione è stata da taluni esaltata, sottolineandosi il
valore sociale del diritto65; da altri criticata, perché sembrerebbe
comprendere solo i rapporti tra gli individui e non anche fra que-
sti e la collettività, sfuggendo completamente da essa la dimen-
sione del diritto pubblico66.

61
Paradiso, VI, 10-12.
62
Dante configura le sacratissime leges dei Romani ratio scritta e incarnazione
della giustizia in Epistola, VI, 22.
63
Purgatorio, XVI, 97.
64
De Mon., II, V.
65
G. Del Vecchio, Lezioni di Filosofia del diritto, XIII ed., Milano, 1965, 333:
“Una affermazione della persona in relazione ad altre persone”.
66
P. Fedele, Dante e il concetto di diritto, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, I,
Milano, Giuffré, 1967, 429.

21
In ogni caso, è una definizione di estrema modernità, non solo
perché sottolinea la “socialità del diritto” (realis et personalis ho-
minis ad hominem proportio)67, ma anche perché coglie la centra-
lità del principio di “ragionevolezza”: il diritto deve essere ra-
gionevole, deve disciplinare le fattispecie in modo equilibrato e
proporzionato. Senza entrare troppo in aspetti tecnici, basti in
questa sede ricordare come l’articolo più utilizzato come para-
metro di legittimità costituzionale dalla Corte costituzionale ita-
liana, per decidere le questioni innanzi ad essa, sia l’art. 3 Cost.,
nella parte in cui esprime proprio il principio di ragionevolezza.
Quando Dante parla di “proportio” fra gli uomini, in realtà parla
di ragionevolezza: il principio cardine sul quale si svolge la giu-
risprudenza della nostra Corte costituzionale, ma se vogliamo il
principio giurisprudenziale che rinveniamo in tutte le giurispru-
denze delle Supreme Corti ovunque nel mondo.
In questa concezione della “proportio” è possibile, però, leggere
anche un contenuto ulteriore, estremamente interessante, cioè il
riferimento a quella “giustizia distributiva” che è alla base della
coesione sociale: l’idea che un eccesso di accumulo di ricchezza
distrugga la giusta proporzione fra persone e cose, corrompendo
la società; che poi era l’idea aristotelica (“né troppo ricchi né trop-
po poveri”), espressa dalla congrua distributio della scolastica68.
È così attuale questa descrizione del fenomeno giuridico, che
anche Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte co-
stituzionale, in un recente scritto sembra riproporla: “La legge in
equilibrio è legame sociale. Se rompe l’equilibrio, ne è il disfaci-
mento, la frattura, cioè corruzione”69.
Dobbiamo rilevare che quella dantesca non è una nozione
“giuspositivistica”: esprime apprezzamento per un certo tipo di
67
Che è stata ripresa fin dal principio del XX secolo dalle teorie istituziona-
liste, soprattutto in Francia (Maurice Hauriou) ed in Italia (Santi Romano), per
le quali si rinvia a M. L. Tarantini, Istituzionalismo e neoistituzionalismo: questioni
e figure, Giuffrè, Milano, 2011.
68
Individua le radici filosofiche della definizione del diritto di Dante in Ari-
stotele ed in Tommaso d’Aquino; nonché le radici giuridiche nell’opera di Irne-
rio G.Falsitta, Diritto, principio di proporzionalità e federalismo nell’opera di Dante
Alighieri, in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Giuffrè, Milano, 2011, 79, in
particolare nt. 48 e nt. 49.
69
G. Colombo, G. Zagrebelsky, Il legno storto della giustizia, Garzanti, Milano,
2017, 56.

22
diritto, con specifiche qualità, conforme alla volontà di Dio. Non
a caso, nel Purgatorio, quando paragona Firenze a una donna
malata disposta a cambiare”legge, moneta, officio e costume”
ogni volta che si rigira nel letto70, Dante contesta l’arbitrarietà
delle leggi, perché la legge deve essere proporzione ed equilibrio.
La seconda definizione, che completa la prima e la chiarisce,
non certo ponendosi come antitetica, e che troviamo sempre
nel De Monarchia, ci dice che il diritto, quale “proporzione” ed
“equilibrio”, in tanto esiste in quanto trova fondamento nella
volontà divina. Ecco la citazione: “4. Ex hiis iam liquet quod ius,
cum sit bonum, per prius in mente Dei est; et, cum omne quod
in mente Dei est sit Deus, iuxta illud “Quod factum est in ipso
vita erat”, et Deus maxime se ipsum velit, sequitur quod ius a
Deo, prout in eo est, sit volitum. Et cum voluntas et volitum
in Deo sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ip-
sum ius. 5. Et iterum ex hoc sequitur quod ius in rebus nichil est
aliud quam similitudo divine voluntatis; unde fit quod quicquid
divine voluntati non consonat, ipsum ius esse non possit, et qui-
cquid divine voluntati est consonum, ius ipsum sit” (“Il diritto
essendo un bene è primariamente nella mente di Dio, e siccome
tutto ciò che è nella mente di Dio è Dio, secondo il principio
per cui ciò che è fatto era in lui vita e Dio vuole assolutamente
se stesso, ne consegue che il diritto è voluto da Dio in quanto è
in Lui. Ora, siccome in Dio la volontà e la cosa voluta si iden-
tificano, ne consegue ulteriormente che la volontà divina è lo
stesso diritto, e ancora, che nel mondo il diritto non è altro che
una immagine della volontà divina, per cui tutto quello che non è
conforme alla divina volontà non può essere diritto, mentre lo è,
invece, se è ad essa consono”)71.
Di questa lunga definizione, merita di essere sottolineata la
parte in cui si dice che “Il diritto non è altro che una immagine
della volontà divina”… perché la giustizia è in Dio e nella giusti-
zia deve specchiarsi il diritto.
Si tratta di una concezione molto radicata nel pensiero dante-
sco. La esprime anche nel Paradiso: “La prima volontà, ch’è da
sé bona, / da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse./ Cotanto è

70
Purgatorio, VI, 146.
71
De Mon., II, II.

23
giusto quanto a lei consona”72, ribadendo come sia diritto quanto
consona con la “prima volontà”, cioè con il volere di Dio. E con-
ferma di questa lettura del diritto, come proporzione in quanto
manifestazione della volontà di Dio, si trova anche in un’altra
opera dantesca, la Canzone delle Rime Tre donne intorno al cor mi
son venute: è il canto dei tempi bui, in cui Dante ha da poco com-
preso di non poter far ritorno a Firenze, considera ingiusto l’esi-
lio eppure invoca il perdono, nella speranza di poter ritornare
nella Sua città. Poesia dai contenuti filosofici, caratteristica dello
Stil novo, descrive tre donne che accorrono intorno al Cuore, cioè
intorno al motivo ispiratore della poetica stilnovista; ma l’allego-
ria ha sostanzialmente natura giuridica73.
Chi sono le tre donne che “intorno al cor mi son venute”? Ecco
uno stralcio della poesia:

«Oh di pochi vivanda»,


rispose in voce con sospiri mista,
«nostra natura qui a te ci manda:
io, che son la più trista,
son suora a la tua madre, e son Drittura;
povera, vedi, a panni ed a cintura».
Poi che fatta si fu palese e conta,
doglia e vergogna prese
lo mio segnore, e chiese
chi fosser l’altre due ch’eran con lei.
E questa, ch’era sì di pianger pronta,
tosto che lui intese,
più nel dolor s’accese,
dicendo: «A te non duol de gli occhi miei?».
Poi cominciò: «Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ’l gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda:
sovra la vergin onda
generai io costei che m’è da lato
e che s’asciuga con la treccia bionda.
Paradiso, XIX, 86-88.
72

A. Baldi, Il problema della Giustizia, in A. Carosella, Dante e noi, Albatros,


73

2010, Roma, 52.

24
Questo mio bel portato,
mirando sé ne la chiara fontana,
generò questa che m’è più lontana (…)».

Ebbene, la prima donna è “Drittura: la giustizia. Essa vive un


momento storico difficile ed è in grandi difficoltà, per questo è
“povera” (“povera, vedi, a panni ed a cintura”)74.
Al fianco della Giustizia (“da lato”), si trova la seconda donna,
dalla stessa generata.
Ed a sua volta la creatura, specchiandosi nella fonte, genera per
partenogenesi la terza donna, “che m’è più lontana”.
Pietro di Dante75 individua in Drittura lo Ius Divinum et natu-
rale, cioè la Giustizia divina. Nello stesso De Monarchia Dante ri-
corda che esso consiste nelle norme direttamente manifestate da
Dio nel Vecchio e nel Nuovo Testamento76 e nel diritto naturale,
cioè nell’ordine posto dalla volontà di Dio nella natura77: dunque
la giustizia come espressione diretta di Dio.
Il “portato” di Drittura viene identificato da Pietro nello Ius
Gentium sive ius humanum, cioè nel diritto delle Nazioni o dei di-
ritti umani, conformi a natura e ragione, che sotto il vigore del
diritto romano trovava applicazione anche agli stranieri. Il rife-
rimento è qui chiaramente al “diritto comune”, riscoperto dai
glossatori, che Dante considera diretta espressione della volontà
di Dio e, pertanto, discendente diretto dalla giustizia divina78.
E, infine, la terza donna è la legge positiva, la lex, che rappresenta
74
Su Dante e la giustizia si vedano tuttavia, tra i contributi di maggiore inte-
resse, A.K. Cassell, Dante’s Fearful Art of Justice, Toronto-Buffalo, University of
Toronto Press, 1984; A.H. Gilbert, Dante’s Conception of Justice, Durham (NC),
Duke University Press, 1925; G. Mazzotta, Metaphor and Justice, in Dante’s Vision
and the Circle of Knowledge, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1993, 75-95.
75
Conf. A. Baldi, Il problema della Giustizia, cit., p. 53.
76
De Mon., Lib. III, 14: “omnis namque divina lex duorum testamentorum
gremio continetur”.
77
De Mon., Lib. II, 7.
78
Peraltro, nello stesso Digesto si riconosce il diritto dei popoli di darsi il pro-
prio ius, ma in ogni caso la vigenza per tutti del diritto romano, che quindi è una
sorta di diritto fra le nazioni, di ius gentium. Riprova del valore universale attri-
buito al Diritto romano da Dante è che quando allude ad esso usi l’espressione
“dice la legge” o la formula “è scritto in Raione”, “la Ragione vuole” o simili.
Insomma per Dante il diritto romano è la ratio scipta. Cfr. L. Chiappelli, Dante in
rapporto alle fonti del diritto e alla letteratura giuridica del suo tempo, cit., p. 15.

25
l’applicazione del diritto delle genti al contesto storico, per sua natu-
ra più fallace (“che m’è più lontana”). E questa legge come scaturisce?
È frutto del concepimento verginale (partenogenesi) da parte del di-
ritto comune, che si specchia in una fonte. Così anche questo diritto
“non è altro che una immagine della volontà divina”, parafrasando la
seconda definizione che Dante dà del diritto nel De Monarchia.
L’impostazione dantesca è debitrice alla Summa Theologica di
San Tommaso e finisce per ricostruire il fenomeno giuridico in
modo unitario come derivazione diretta (la giustizia), mediata
(diritto comune) ovvero ancor più indiretta (legge positiva) da
Dio. Una visione, insomma, di chiara matrice teologica.
In sostanza, la concezione dantesca del diritto è tipicamente me-
dioevale, non arrivando a concepire che la politica possa essere
legittimo fondamento del diritto. Tuttavia, sono presenti tutte le
contraddizioni di un’età di passaggio, che portano il Nostro a non
esclude recisamente il ruolo del Monarca di innovare il diritto: sem-
pre nel De Monarchia, infatti, si legge: “monarcha necessitatur a fine
sibi prefixo in legibus ponendis” (La necessità del monarca discen-
de dal compito a lui assegnato di stabilire le leggi)79. Peraltro, è ben
chiara la differenza fra legge morale e diritto positivo, come si evin-
ce dalla lettura del De Vulgari Eloquentia, ove si afferma che “quando
operiamo come uomini in senso assoluto, abbiamo la virtù (a volerla
intendere in senso generale), poiché secondo essa giudichiamo l’uo-
mo buono e cattivo; in quanto operiamo come cittadini, abbiamo la
legge, secondo la quale il cittadino è detto buono e cattivo”80. E pur
tuttavia, nella politìa, cioè nella costituzione ideale di Aristotele (e di
Dante), l’uomo virtuoso e l’uomo rispettoso delle leggi coincidono:
“Philosophus in sui Politicis ait quod in politia oblique bonus homo
est mauls civis, in recta vero bonus homo et civis bonis convertun-
tur”, scrive Dante nel De Monarchia: “Aristotele, nella sua Politica,
afferma che in una forma corrotta di governo l’uomo buono è un
cattivo cittadino, mentre in una forma retta di governo l’uomo buo-
no e il cittadino buono si identificano”81.
79
De Mon, I, XII, 13. Sul punto v. A. Baldi, Il problema della Giustizia, cit., p. 57,
per il quale al Monarca Dio delega il compito di tradurre nel contesto umano
quello ius che nasce in Dio.
80
De Vulgari Eloquentia, I, XVI, 5 (con commento di A. Marigo, Le Monnier,
Firenze, 1938).
81
De Mon., I, XII, 10.

26
D’altronde, la concezione del diritto è perfettamente coerente
con la visione più generale che Dante ha della realtà, fortemen-
te ispirata dal pensiero agostiniano e tomistico: la proporzione,
essenza del diritto, è espressione dell’ordine che governa l’uni-
verso82. Tutta la Commedia ricerca affannosamente, fin nella sua
struttura, quell’ordine che è il kosmos degli antichi, al punto che
nel primo canto del Paradiso Beatrice arriva a dire: “Le cose tutte
quante / hann’ordine tra loro; e questo è forma / che l’universo a
Dio fa somigliante”. E quest’ordine costituisce la regola con cui si
manifesta il Divino nella realtà: “Qui veggion l’alte creature l’or-
ma / dell’eterno Valore, il quale è fine / al quale è fatta la toccata
norma”83. Del pari Dante non poteva non apprezzare il diritto,
che porta ordine fra gli uomini.
Alla luce di questa concezione del diritto si comprende meglio
la regola che governa l’irrogazione delle pene nella Commedia, il
“contrappasso”, che evidentemente richiama la concezione vete-
rotestamentaria della legge del taglione: esso consente di ristabi-
lire, attraverso il parallelismo fra la colpa e pena, l’ordine violato
con il peccato84.
Se questa è la concezione dantesca del diritto, resta da chieder-
si quale sia il giudizio di Dante sul diritto e sui giuristi del suo
tempo.
E la risposta non può che essere molto negativa: Dante è ingiu-
stamente perseguitato; anche i Suoi figli, solo perché figli Suoi,
sono stati condannati a morte; privato dei Suoi averi, ospite in
terra straniera85… per Dante la società corrotta ha prodotto un di-
ritto corrotto, nel quale manca del tutto la proporzione e l’ordine.
E il disordine delle leggi è messo in rapporto all’assenza dell’au-
torità politica, l’impero, a sua volta determinata dall’usurpazio-
ne da parte della Chiesa del potere temporale del monarca, per la
diffusa cupidigia, che è l’altra faccia della giustizia divina.

82
G. Ambrosetti, Giustizia e diritto in Dante, cit., 2, secondo il quale “è il con-
cetto dell’ordine che domina la figura del mondo di Dante. Ogni realtà è inseri-
ta in un tutto armonico”.
83
Paradiso, I, 103-108.
84
D. Bianchini Jesurum, Dante giurista? Sondaggi, cit., 91.
85
Ormai sono diventati proverbiali i versi di Paradiso, XVII, 58-60: “Tu pro-
verai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir
per l’altrui scale”.

27
Dunque, cupidigia della Chiesa, ma anche dei giuristi, a partire
dagli studiosi del diritto canonico. D’altronde, se la società è cor-
rotta, l’accusa di cupidigia non può risparmiare il ceto dei giuristi86.
Si concentra nel Paradiso, in particolare nei canti che vanno dal
IX al XII, l’attenzione del Poeta per gli studiosi del diritto: nel IX
canto lamenta l’abbandono da parte dei canonisti dello studio del-
le sacre scritture e dei maestri della Chiesa, per dedicarsi solo alla
conoscenza e all’approfondimenti delle decisioni dei pontefici (de-
cretali), come può vedersi dai loro margini consunti87; nel X canto,
elogia Graziano, per aver voluto separare il foro civile da quello
canonico (così esprimendosi a favore della secolarizzazione del
diritto)88; nell’XI manifesta tutto il suo disprezzo, in generale, per
chi va “dietro a iura e ad aforismi”89; infine, nel XII, esalta la figura
di San Domenico, che si dedicò allo studio per il solo amore della
sapienza celeste, in contrapposizione a quanti, come i giuristi, si
affannano “per lo mondo” (di retro ad Ostïense e a Taddeo)90.
Il quadro che ne risulta è chiaro e non certo lusinghiero per i
cultori del diritto.

4. Un florilegio di riferimenti giuridici danteschi

Cionondimeno, le opere dantesche sono intrise di riferimenti


giuridici.
Con ogni probabilità esprime semplicemente una critica per i
suoi tempi Ciacco, quando allude ai “due giusti” (“giusti son due

86
D. Bianchini Jesurum, Dante giurista? Sondaggi, cit., 97 s.
87
Paradiso IX, 133-135. “Per questo l’Evangelio e i dottori magni son derelitti,
e solo ai Decretali si studia, sì che pare a’ lor vivagni”. In questo passo traspare
tutta l’avversione di Dante nei confronti dei decretalisti, che commentando le
pronunce papali svilupparono la teoria ierocratica.
88
“Quell’altro fiammeggiare esce del riso / di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
/ aiutò sì che piace in Paradiso.” Paradiso, X 103-105.
89
“O insensata cura de’ mortali / Quanto son difettivi sillogismi / Quei che
fanno in basso batter l’ali! / Chi dietro a iura, e chi ad aforismi / Sen giva…”.
Paradiso, XI, 1-5.
90
“Non per lo mondo, per cui mo s’affanna / di retro ad Ostïense e a Taddeo,
/ ma per amor de la verace manna”. Paradiso, XII, 82-84. Ostiense Cardinale era
commentatore delle Decretali papali; Taddeo, probabilmente un medico fioren-
tino eccellente ovvero parimenti un giurista.

28
e non vi sono intesi”91), nei quali pure Pietro di Dante ha voluto
identificare la contrapposizione aristotelica fra il giusto naturale
e il giusto legale92. Sembra, invece, che l’espressione, anche per
i toni apocalittici e profetici, richiami il riferimento biblico alla
distruzione di Sodoma e Gomorra, per condannare Firenze, nella
quale le antiche usanze della nobiltà sono state soppiantate dai
vizi delle nuove classi emergenti93.
Viceversa, si può ritenere assolutamente centrale nell’opera
di Dante il tema della fides, cioè del valore giuridico della repu-
tazione.
È noto che Dante fu protagonista di un processo politico: “exul
immeritus”, nel titolo dell’Epistola VI si qualifica come “Dante
Alighieri, fiorentino ed esule senza colpa”94. Cosicché, l’esigen-
za di riscattare l’immagine pubblica (fides), lesa da questa onta
immeritata, Lo spinge in gran parte della Sua produzione a di-
scolparsi, perché possa prevalere nell’opinione pubblica l’idea di
una Sua completa estraneità ai fatti contestati.
Per comprendere meglio questa ampia autodifesa, occorre pre-
liminarmente osservare che nel medioevo il disonore era consi-
derato una circostanza giuridicamente rilevante: l’infamia iuris,
come conseguenza del diritto, che poteva discendere direttamen-
te per sententiam o dalla natura della pena inflitta (ex genere poene);
l’infamia facti, ovvero il disonore diffuso nell’opinione pubblica,
indipendentemente da una pronuncia del giudice. L’infamia iu-
ris comportava come conseguenza una rilevante diminutio della
capacità giuridica95: all’infame di diritto era precluso di agire in
rappresentanza di altri, di intervenire in giudizio per conto di
terzi, di rendere testimonianza, di intentare una causa per danni
ricevuti o di denunciare un cittadino non infame. L’infamia facti
giustificava l’avvio di una indagine, l’uso della tortura e concor-
reva a suffragare una decisione di condanna in assenza di prove
certe, per mera verosimiglianza96.

91
Inferno, VI, 73.
92
A. Baldi, Il problema della Giustizia, cit., p. 69, ed ivi nt. 94.
93
Ivi, p. 69 s.
94
A. Jacomuzzi, Dante, le epistole politiche, Giappichelli, Torino, 1974, 32.
95
J. Steinberg, Dante e i confini del diritto, Viella, Roma, 2016, 15.
96
Già per il Digesto “in circostanze oscure, occorre guardare a ciò che è più vero-
simile (verosimilis) o a ciò che si fa di solito (plerumque fieri solet). Digesto, 50.17.114.

29
Ed effettivamente Dante, condannato per “baractaria”97 con rei-
terate sentenze98, era stato colpito assai gravemente da infamia,
al punto che le Sue condanne erano state registrate negli statuti
cittadini, così da essere impresse nella memoria collettiva: ut per-
petua fiat memoria…99
Il dolore per l’onta subita suscita nel Poeta un interesse costan-
te, quasi ossessivo, per il tema della fama100.
Già nel Convivio, composto immediatamente dopo l’esilio, si
rinvengono approfondite riflessioni relative al giudizio giusto ed
alla fama pubblica101.
Ma è soprattutto nella Divina Commedia che Dante compie la
sua “operazione verità”: in essa non solo si realizza, come è stato
osservato, una poderosa “macchina infamante”, in cui i dannati
sono identificati per nome e dati biografici, come se fossero in tri-
bunale102, talora realizzandosi, come nel caso del giurista fiorentino
Baldo d’Aguglione, una sorta di rivincita del reietto103; quanto, so-

97
Definisce baratteria il “fatto che del pubblico ufficiale che, per un corri-
spettivo in danaro, viola o trascura i doveri del proprio ufficio” F. Bambim, Una
nuova lingua per il diritto, I, Milano, Giuffré, 2009, 313.
98
Il 27 gennaio del 1302 Dante viene accusato dal Podestà Cante de’ Gabriel-
li da Gubbio di baratteria e concussione e quindi condannato in contumacia a
due anni di confino, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al pagamen-
to dell’ammenda di 5.000 fiorini, pena la confisca o distruzione dei beni. La
sentenza è conservata nel libro del Chiodo. Dante non si presentò e nel marzo
del 1302 fu condannato alla pena di morte mediante il rogo. Cfr. D. Bianchini
Jesurum, Dante giurista? Sondaggi, cit., 74. Seguirono altre due sentenze: il 15
ottobre 1315 Dante è condannato a morte assieme ai suoi figli ancora giovani
(Pietro e Iacopo), colpevoli per il solo fatto di essere figli del Poeta; il 6 novem-
bre 1315 Dante e i figli sono fatti oggetto della c.d. “condanna del bando mag-
giore”, legittimante i privati all’esecuzione delle pene. Cfr. G. Brafa Misicoro, Le
vicende giudiziarie di Dante Alighieri. La vita politica del più grande fiorentino di tutti
i tempi, Firenze, 2003; D. Bianchini Jesurum, Dante giurista? Sondaggi, cit., 76.
99
Codice diplomatico dantesco, 105.
100
J. Steinberg, Dante e i confini del diritto, cit., 21 ss. V. anche D. Bianchini Je-
surum, Dante giurista? Sondaggi, cit., 82, secondo il quale si ritrovano in diverse
opere di Dante, “atti difensivi che lo stesso non potè mai pronunciare davanti
ai giudici”.
101
Dante Alighieri, Convivio, a cura di G. Inglese, RCS, Milano, 1993.
102
J. Steinberg, Dante e i confini del diritto, cit., 31. È emblematico che Guido
da Montefeltro risponde alla richiesta di Dante sulla sua identità “sanza tema
d’infamia”. Inferno, XXVII, 66.
103
Cacciaguida denuncia “lo puzzo/ del villan d’Aguglion”… (Paradiso, XVI, 55-

30
prattutto, si tende a dimostrare l’assunto per cui altra è la narrazione
terrena, altra la verità reale, i fatti sottoposti al giudizio divino.
In questo senso, quanto mai esplicito è l’ammonimento dell’Aquila
nel XX canto del Paradiso: “E voi, mortali, tenetevi stretti/ a giudicar:
ché noi, che Dio vedemo,/ non conosciamo ancor tutti li eletti”104.
Ma, al di là del richiamo alla prudenza nel giudicare, in modo
implicito e ancor più persuasivo, Dante descrive la sorte ultra-
terrena di diversi personaggi noti dell’élite del suo tempo, con la
malcelata intenzione di sorprendere i suoi lettori, di smontarne
le convinzioni ed i giudizi più radicati, allo scopo appunto di
dimostrare che la verità è tutt’altra cosa rispetto alla “fama”.
Così è lo stesso Dante a mostrarsi meravigliato nel trovare Bru-
netto Latini, il suo maestro, fra i sodomiti: «Siete voi qui, ser Bru-
netto?»105; Pier Delle Vigne, collocato all’inferno come suicida e
non come traditore, insiste sulla propria “fede”106, prega Dante
di riscattarne la memoria, giurando sulle sue “nove radici” di
non aver mai tradito Federico107, mentre Virgilio ne parla come di
“anima lesa”108 e considera la Sua “fama” meritevole di restaura-
zione109; e ancora, Manfredi, scomunicato, come Catone, suicida,
si incontrano all’inizio del Purgatorio (impensabile!); Guido da
Montefeltro, divenuto frate francescano e morto in convento in
odore di santità, è all’inferno, mentre il figlio Bonconte, per es-
sersi pentito in punto di morte, si trova in purgatorio (per i suoi
contemporanei doveva apparire incredibile).
Inoltrandoci nel florilegio giuridico dantesco, ci si imbatte nel
recente studio di Jiustin Steinberg, Dante e i confini del diritto110, in

56). Il d’Aguglione, che aveva decretato nel 1311 l’amnistia da cui Dante e i suoi
figli erano stati esclusi, si ritrova, a sua volta, nella Commedia come barattiere.
104
Paradiso, XX, 133-135.
105
Inf. XV: Così adocchiato da cotal famiglia,/fui conosciuto da un, che mi
prese / per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!»./ E io, quando ‘l suo braccio
a me distese,/ ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,/ sì che ‘l viso abbrusciato non
difese./ La conoscenza süa al mio ‘ntelletto;/ e chinando la mano a la sua faccia,/
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
106
Inferno, XIII, 62, 74.
107
Inferno, XIII, 73.
108
Inferno, XIII, 47.
109
Inferno, XIII, 53.
110
Traduzione italiana di Dante and the Limits of the Law (University of Chica-
go Press 2013) (Viella, 2016).

31
cui si analizzano una serie di ulteriori aspetti giuridici tipicamente
medioevali: il salvacondotto, il privilegio; le immunità… Tesi cen-
trale di questo saggio è che, se Dante richiama nella Commedia
un’elaborata rete di regole è proprio in quanto intende esplorarne
le eccezioni: potendosi ammettere per il diritto medioevale pri-
vilegi in quanto giustificati da norme superiori, motivati da una
“giusta causa”. Lo stesso racconto del viaggio può essere consi-
derato un’eccezione, il privilegio personale accordato a Dante111.
Ed a questo studio si deve anche l’esame dei c.d. patti nudi,
quelli cioè privi di vincolo e formalità, che non producono obbli-
gazioni giudizialmente azionabili112: tali sono i patti di Dante con
i dannati, doppiamente nudi, in quanto non azionabili e stipulati
con persone ormai senza capacità giuridica, in quanto privati de-
finitivamente della fama pubblica (fides).
L’aberrazione del diritto medioevale è poi denunciata dal Poe-
ta nell’invettiva contro Pisa, cui Dante augura alla città di essere
sommersa dalle acque dell’Arno per aver punito i figli innocenti
del Conte Ugolino in ragione delle colpe paterne. Dura l’invettiva,
perché Dante ha ancor vivo il timore per la condanna dei figli Pie-
tro e Iacopo, in ragione della Sua presunta colpa113: “Che se ‘l conte
Ugolino aveva voce/ d’aver tradita te de le castella, / non dovei tu i
figliuoi porre a tal croce”./ Innocenti facea l’eta’ novella…”114.
Una eco del processo medioevale si trova, poi, nella disputa fra
San Francesco e un demone per l’anima di Guido da Montefeltro:
qui il Poeta si colloca sulla scia della letteratura provenzale, che uti-
lizza spesso il processo (ma anche la disputa teologica: contrasto
o disputatio) come modello di riferimento115. E alla fine la spunta il
diavolo, che conclude: “forse/tu non pensavi ch’io loico fossi!”116.
111
La giustificazione del privilegio di Dante si chiarisce nell’incontro con
Cacciaguida (Paradiso, XVII): il Sommo Poeta deve contribuire con il Suo viag-
gio ultraterreno alla salvezza collettiva.
112
Ulpiano: nuda pactio obligationem non parit.
113
V., retro, nt. 98.
114
Inferno, XIV, 85-87.
115
Si può fare il caso della Disputatio rosae cum viola di Bonvesin da la Riva,
per la quale v. M.C. Marinoni, La disputa tra la rosa e la viola dopo Bonvesin, in
ACME, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofie dell’Università di Milano,
VOl XL, Fasc. III, settembre – dicembre 2007.
116
Inferno, XXVII, 123. “Loico” è il sottile ragionatore; colui che ha pieno pos-
sesso dell’arte della disputa.

32
In nuce, è possibile cogliere nelle scarne terzine, la struttura del
processo medioevale: la litis contestatio (“Venir se ne dee giù tra
’ miei meschini/ perché diede ’l consiglio frodolente,/ dal quale
in qua stato li sono a’ crini”)117; il ragionamento giuridico, basa-
to sulla logica aristotelica e sul principio di non contraddizione
(“ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere in-
sieme puossi / per la contradizion che nol consente”)118; infine, la
sentenza (“A Minòs mi portò; e quelli attorse / otto volte la coda
al dosso duro; /e poi che per gran rabbia la si morse”)119.
Un tema naturalmente prossimo a quelli più propriamente giu-
ridici è, infine, quello del peccato, inteso come “azione, detto, o de-
siderio contro la legge eterna”120. Non c’è piena coincidenza con le
condotte giuridicamente rilevanti, ma parziale si: violenti contro
il prossimo, ladri, barattieri, falsari … commettono altrettanti rea-
ti; lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi, ipocriti,
ecc., violano la legge di Dio e non anche quella degli uomini. L’ap-
proccio dantesco al peccato è, in ogni caso, piuttosto filosofico che
giuridico: l’ordinamento delle pene fa esplicito riferimento all’Etica
aristotelica, mediata dalla dottrina scolastica. Ed è lo stesso Virgi-
lio ad indicare la fonte di ispirazione: “Non ti rimembra di quelle
parole,/ Con le quai la tua Ethica pertratta / Le tre disposition che ‘l
ciel non vole,/Incontinentia, malitia, e la matta / Bestialitate, e come
incontinenza / Men Dio offende, e men biasmo accatta?”121. Così,
nella parte meno profonda, l’Alto Inferno, si trovano quanti hanno
peccato di “incontinenza”, la quale “men Dio offende”; “malizia “
e “bestialità”, colpe più gravi, sono punite nella parte più profonda
dell’Inferno. Sembra, tuttavia, potersi cogliere un discrimine signi-
ficativo ai fini che ci interessano: Dante prescrive pene meno gravi
117
Inferno, XXVII, 115-117. F. D’Urso, Sul “ritmo” del processo romanico-canonico
(a proposito di K. W. Nörr, Romanisch-kanonisches Prozessrecht. Erkenntnisverfahren
erster Instanz in civilibus, Berlin-Heidelberg 2012), in Historia et ius, 6/2016, 3.
118
Inferno, XXVII, 118-120. Sul tema v. F. Puppo, a cura di, La contradizion
che nol consente. Forme del sapere e valore del principio di non contraddizione, Fran-
co Angeli, Milano, 2010, nonché M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica
forense, Dieci riletture sul ragionamento processuale, Giappichelli, Torino, 2014, in
particolare il capitolo VIII, intitolato Il valore logico del principio di non contraddi-
zione (a partire da una rilettura di Dante Alighieri), 135 ss.
119
Inferno, XXVII, 124-126.
120
S. Agostino, C. Faust., XXII, 27.
121
Inferno, XI, 76-90.

33
per le violazioni morali122; pene più gravi per le violazioni aventi un
rilievo giuridico. Più gravi, perché l’illegalità distrugge l’equilibrio
nei rapporti fra gli uomini, determinando la decadenza dei valori di
solidarietà essenziali per la convivenza pacifica123.
Ma nel graduare le pene, Dante, uomo del medioevo, imbevuto
in quella cultura e conoscitore delle giurisdizioni civili quanto di
quelle ecclesiastiche, considera la potestas directa in temporalibus
della Chiesa, che comprendeva, fra l’altro, il diritto della Chiesa
a giudicare in tema di usura o di eresia, in quanto regolate dalla
fonte biblica124. Ecco perché Dante colloca gli usurai nel terzo gi-
rone del VII Cerchio dell’Inferno, dei violenti contro Dio, costret-
ti a stare seduti nel sabbione arroventato dalla pioggia di fiam-
melle, e li descrive nel Canto XVII: violenti contro Dio, così come,
in terra, potevano essere giudicati dai soli tribunali ecclesiastici.
Ed ecco perché, parimenti, sono puniti nella città di Dite gli ereti-
ci, nonostante il loro peccato sia difficilmente inquadrabile nelle
categorie della malizia e della matta bestialitade125.

5. Una valutazione conclusiva

Non è agevole esprimere una valutazione conclusiva sul tema


che ci ha occupato nell’arco di questa relazione: Dante vive in
un’epoca di transizione, nella quale Egli stesso contribuisce a
porre in essere le premesse di un cambiamento, che ancora non
appare, però, definito.
A fronte di chi ritiene, tuttavia, che il Poeta non offra “appiglio
all’attualizzazione”126, pare utile richiamare conclusivamente al-
cuni approdi cui si è pervenuti con queste riflessioni.
122
P. Fedele, Dante e il concetto di diritto, cit., 473. La “malizia” si configura
come la volontà diretta a recar danno ad altri.
123
D. Bianchini Jesurum, Dante giurista? Sondaggi, cit., 41.
124
Sulla potestas directa in temporalibus della Chiesa v. M. Ricca, voce Rapporti
Stato-Chiesa, modelli dei, in Le religioni, Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, nonché
F. De Gregorio, Storia e sistemi politici medioevali e istituzioni ecclesiastiche, Giap-
pichelli Editore, Torino, 2015, 117 ss.
125
V. Russo, voce Dite, in Enciclopedia dantesca, treccani.it
126
A. Baldi, Il problema della Giustizia, cit., 72, che prosegue: “Egli è un uomo
del medioevo, per certi aspetti addirittura in ritardo rispetto alle tendenze del
suo tempo”.

34
Dante percepisce la “secolarizzazione” del diritto, donde l’ap-
prezzamento per Graziano nella Commedia, per aver voluto se-
parare il foro civile da quello canonico, e nel De Monarchia per
la monarchia, considerata necessaria per stabilire le leggi; com-
prende la differenza fra legge morale e diritto positivo nel De
Vulgari Eloquentia; eppure rimane ancorato alla concezione me-
dioevale dell’orror per il nuovo diritto. Alterna, cioè, spunti mo-
derni a visioni antiche.
Ma nelle contraddizioni appena evidenziate, come nella critica
serrata all’infamia o all’aberrazione del diritto medioevale che fa
ricadere sui figli le colpe dei padri, si colgono spunti di indiscu-
tibile modernità.
Dante è, poi, moderno quando pone il valore della dignità uma-
na al centro dell’attenzione, così allorché fa dire a Pier Delle Vi-
gne “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:/ben dovrebb’esser la
tua man più pia/se state fossimo anime di serpi”127; ovvero quan-
do viene, nel XXVII canto del Purgatorio, incoronato da Virgilio
signore di sé stesso, acquisendo così uno «status sovrano»128.
E Dante è, infine, moderno proprio perché antico, per la mo-
dernità stessa espressa, in alcuni suoi aspetti, dal pensiero me-
dioevale, che il Poeta profondamente incarna.
L’idea di diritto come proporzione ed equilibrio, come legame
sociale che presuppone queste condizioni, è pienamente medioe-
vale, aristotelica e tomista, ma è insieme profondamente moder-
na, di una attualità tutta da riscoprire, nella misura in cui richie-
de ragionevolezza ed equa distribuzione delle risorse del creato.
Un insegnamento, questo, sul piano giuridico, che il Sommo Po-
eta, a circa 700 anni dalla Sua morte (1321), ancora impartisce
all’uomo del terzo millennio.

Inferno, XIII, 37-39.


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E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica
128

medievale, Torino, Einaudi, 1989, 423 s., per il quale la concezione dantesca della
«regalità antropocentrica», nel porre al centro la «dignità di Uomo», costituisce
una anticipazione del Rinascimento; ciò in particolare si riscontra nel XXVII
canto del Purgatorio, quando il Poeta è incoronato da Virgilio signore di sé
stesso, acquisendo così uno «status sovrano».

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