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IL

WELFARE STATE



DA RICORDARE:

IL PROCESSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE E I MUTAMENTI NELLA VITA DE! SINGOLI
II processo di industrializzazione avviatosi in Gran Bretagna alla fine del XVIII secolo comporta una radicale rottura dei legami
territoriali, famigliari, culturali e sociali che strutturavano l’esistenza di ogni individuo; col venir meno di questi vincoli, i cittadini si
trovarono esposti ai continui e improvvisi mutamenti che avrebbero da questo momento in poi sempre più caratterizzato l’intero
mondo occidentale.
In particolare Ie condizioni di vita dei lavoratori dell’industria apparivano costantemente esposte ai drammatici rischi rappresentati
dalla disoccupazione, dagli infortuni, dalla malattia e, in generale, dal declino fisico, Senza poter disporre del sostegno delle reti di
solidarietà che caratterizzavano in passato le comunità rurali.

LA FUNZIONE DELLO STATO E LA SOCIETÀ CIVILE
Lo Stato costituisce l’organizzazione attraverso cui viene istituzionalizzato il potere politico. Grazie al monopolio dell’uso legittimo
della Forza che esso detiene e possibile evitare che il potere venga esercitato in modo arbitrario. Oltre a questa generale forma di
tutela dalla violenza, spetta allo Stato organizzare il funzionamento della società civile, sottoponendo a specifiche norme differenti
sfere della vita collettiva (giustizia, economia, sanità, istruzione dcc.).
Questo non implica che lo Stato debba organizzare ogni aspetto della sfera pubblica, costituita dalla cosiddetta società civile (come è
invece ambizione degli Stati totalitari), ma che debba intervenire dove il gioco degli interessi contrapposti ponga a rischio la coesione
sociale.

LE DIVERSE FISIONOMIE DELLA FAMIGLIA
Nella società industriale avanzata (o società postindustriale) assistiamo a una profonda modificazione della fisionomia
dell’istituzione famigliare. Riguardo alla sua composizione si verifica una riduzione del numero dei suoi membri (determinata
soprattutto dal calo delle nascite) con una crescita delle famiglie unipersonali (composte di un solo individuo) e monoparentali (un
solo genitore con figli), anche come conseguenza della rottura dei vincoli matrimoniali.
In questo mutato quadro relazionale la maggior partecipazione della donna al lavoro esterno ha comportato una redistribuzione o,
comunque, una diversa organizzazione dei compiti da essa tradizionalmente esercitati in ambito famigliare, in particolare la cura dei
figli e dei membri anziani. .
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IL MERCATO: SCAMBI ECONOMICI E SOCIALI
La più rilevante forma di scambio di beni e di servizi che caratterizza la realtà contemporanea é costituita dal mercato. Esso
rappresenta un’istituzione che, sulla base del criterio di razionalità che ispira il comportamento di chi vi opera (e che si traduce nella
domanda e nell’offerta), regolamenta la vita economica.
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Il mercato non esaurisce però interamente l’ambito degli scambi economici (di beni e servizi). Si ha uno scambio di reciprocità
quando la motivazione principale che sta alla sua base consiste nella relazione (sociale e spesso affettiva) che lega gli attori coinvolti,
Si ha invece redistribuzione quando a un potere centrale viene affidato il compito di raccogliere risorse dai singoli e ripartirle fra di
essi in base a criteri preliminarmente definiti.

1 STORIA E TIPOLOGIE DEL WELFARE STATE

1.1 I DIRITTI DI CITTADINANZA

LE EMERGENZE DELLA VITA
Normalmente la vita umana scorre senza grandi turbolenze e difficoltà evidenti, giorno dopo giorno, tanto che ci sembra di riuscire a
tenerla in pugno. Ma vi sono alcuni momenti in cui le sicurezze fondamentali, come quella di trovare di che mangiare o di conservare
la salute e la vita stessa, vengono meno. Ciò accade, per esempio, quando si perde il posto di lavoro. Improvvisamente non si
dispone più di un reddito e, se non si possiedono ricchezze ingenti, ci si trova di fronte alla prospettiva di consumare rapidamente i
risparmi accumulati.
A ben vedere, molti sono i momenti della vita, al di là della disoccupazione, in cui una persona si viene a trovare in difficoltà più o
meno gravi, dunque in emergenza: quando si ammala, per esempio; quando, dovendo lavorare, le manca il tempo da dedicare alla
cura dei figli o dei genitori anziani; quando non è più autosufficiente o non lo è mai stata; quando perde la casa; quando,
desiderando continuare a studiare, e avendone le doti, non possiede tuttavia abbastanza soldi per farlo; spesso le emergenze
consumano le proprietà di cui le persone dispongono, o, come nel caso della malattia, non possono essere superate col solo uso del
denaro. Si ha allora bisogno dell’aiuto degli altri.
Quando un individuo ha bisogno degli altri, il suo benessere dipende dall’ampiezza e dalla solidità della rete sociale in cui é inserito.
Chi viene da una famiglia solida, chi é in relazione con tante persone, chi ha conoscenze influenti o inserite a loro volta in reti sociali
ampie, chi ha instaurato un legame forte con gli amici troverà più facilmente e durevolmente risposta ai propri bisogni. Venendogli
meno il capitale economico (oppure la salute, o il tempo), egli potrà fare affidamento sul proprio “capitale sociale”, vale a dire sul
patrimonio di relazioni interpersonali che può attivare per ottenere aiuto e che può “far fruttare”, per così dire, a proprio vantaggio.
Avrà un parente che lo ospita finché non trova una nuova casa, un amico che lo indirizza dal medico giusto, l’amico di un amico
disposto ad assumerlo in prova. Il benessere delle persone dipende in maniera rilevante dal capitale sociale di cui esse dispongono, e
spesso é questo capitale sociale a evitarci il naufragio nelle emergenze della vita.

IL DIRITTO A UNA VITA DIGNITOSA
Non tutti, però, dispongono di un capitale economico e di un capitale sociale sufficienti a far fronte agevolmente alle più gravi
avversità della vita. Anzi se lasciati a se stessi molti dovrebbero inevitabilmente rassegnarsi al drastico decadimento delle proprie
condizioni esistenziali. E così è quasi sempre stato fino alle soglie del XX secolo, quando ammalarsi, invecchiare, perdere l’abitazione
o il lavoro significava il più delle volte finire ai margini della società e della vita stessa. Pochi privilegiati potevano sottrarsi a questo
destino.
Oggi non é più così. Oggi, infatti, tutti gli stati moderni hanno incluso tra i principi su cui si reggono l’idea che essere cittadini significa
poter godere, tra gli altri diritti, anche del diritto a condurre in ogni momento una vita dignitosa. La qual cosa implica, in altri termini,
che lo Stato riconosce a tutti i propri cittadini il diritto a un livello minimo di benessere, sotto il quale nessuno dovrebbe mai
scendere. Lo riconosce loro per il semplice fatto di essere cittadini, e quindi indipendentemente da quello che hanno fatto nella vita,
da da ciò che possiedono, da quel che sono.

UOMINI E ANIMALI
Un esempio può aiutare a chiarire questo punto. In Italia chi possiede un cane o un gatto sa, per esperienza diretta o per sentito
dire, che in caso di infortunio del suo animale può rivolgersi a un pronto soccorso veterinario. Egli dovrà però affrontare due ordini
di problemi un problema economico, dato che le prestazioni del veterinario devono essere pagate, e un problema logistico, dovuto
alla difficoltà di trovare un pronto soccorso veterinario nelle vicinanze. In una situazione molto diversa verrebbe invece a trovarsi chi
dovesse ferirsi in un incidente automobilistico.
Egli si rivolgerebbe a un pronto soccorso ospedaliero, che anzitutto è un servizio essenzialmente gratuito fornito da tutti gli ospedali
pubblici, e che inoltre è abbastanza facilmente raggiungibile da qualsiasi località, dato che gli ospedali sono capillarmente diffusi sul
territorio nazionale in funzione della concentrazione di popolazione residente. . .
Perché questa disparità di trattamento tra uomini e animali? Il motivo è semplice e ci introduce al concetto, che qui dobbiamo
illustrate, di Welfare State: mentre la salute degli animali è considerata dalla nostra società un affare privato delle persone che li
possiedono, la tutela della salute di una persona è ritenuta una questione pubblica, di pertinenza dunque dello Stato, che fornisce
gratuitamente un’assistenza sanitaria a tutti i suoi cittadini.

CITTADINI E SUDDITI

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L’idea che lo Stato debba garantire a tutti condizioni di vita accettabili e dignitose ci appare quasi ovvia e naturale, ma non è affatto
così. Si tratta infatti di un’innovazione relativamente recente nella concezione dello Stato, un’innovazione che affonda le sue radici
nella fine dell’Ottocento ma che si realizza compiutamente solo dopo la Seconda guerra mondiale, comportando una modificazione
significativa nei rapporti tra lo Stato e i cittadini.
Che cosa significa, oggi, essere cittadini?
Nella maggior parte delle società comparse nel corso della storia le persone comuni non erano cittadini ma sudditi. Essere sudditi
significa essere sottomessi a un potere politico di cui non si partecipa, su cui non si riesce a esercitare un influsso significativo e
contro cui non si possono far valere alcune libertà individuali fondamentali, come quelle di parola o di stampa.
Essere sudditi significa dunque non godere di diritti individuali. Al contrario, essere cittadini significa godere di tali diritti per il solo
fatto di esistere e di appartenere a quella nazione, a quell’ordinamento giuridico, indipendentemente da altre condizioni come il
possesso di beni o il compimento di azioni.
Ho diritto a votare in Italia semplicemente perché sono italiano, senza dover fornire prestazioni aggiuntive d’altro tipo (denaro,
istruzione, ascendenze famigliari, sesso).

DRITTI CIVILI, POLITICI, SOCIALI
I diritti garantiti dallo Stato ai suoi cittadini vengono chiamati, per questo stesso motivo, diritti di cittadinanza. Essi non sono tutti
dello stesso tipo, e non sono maturati tutti nello stesso momento storico.
L’idea moderna di cittadinanza nasce nell’Inghilterra del XVIII secolo, quando agli abitanti della nazione vengono riconosciuti i
cosiddetti diritti civili, cioè quelli relativi alla libertà individuale. In questa fase ai cittadini sono state via via riconosciute le libertà di
parola, di pensiero, religiosa, di stampa, di associazione, il diritto di proprietà ecc. Successivamente, a cavallo tra il XIX e il XX secolo,
la cittadinanza si é ampliata fino a includere i diritti politici, come i diritti di voto, di eleggibilità, di partecipazione all’esercizio del
potere.
Tuttavia solo nel Corso del XX secolo la cittadinanza ha incluso anche il riconoscimento, per i cittadini, del diritto di accedere a livelli
di reddito, di salute, di istruzione accettabili in rapporto agli standard di vita medi della società. Questo insieme di diritti, che
garantiscono ai cittadini una soglia minima di benessere, una protezione davanti alle incertezze della vita, il senso di poter
padroneggiare l’avvenire, consiste in quelli che sono normalmente chiamati i diritti sociali. Essere cittadini significa oggi non solo
poter votare o esprimere liberamente Ia propria opinione, ma anche avere la possibilità di godere di un tenore di vita dignitoso nella
società di cui si fa parte.

LO STATO DEL BENESSERE
L’ insieme di tutti gli interventi pubblici attraverso cui, nei Paesi industrializzati, lo Stato mira ad attuare i diritti sociali dell’individuo,
viene chiamato con il nome inglese di Welfare State. Tale espressione significa letteralmente Stato del benessere, ma viene spesso
tradotta anche con Stato sociale o Stato assistenziale.
Il nome Welfare State indica un tipo di Stato che si fa carico del benessere dei suoi cittadini, perseguendo l’obiettivo di garantire loro
gli standard minimi di vita rispetto al reddito, all’alimentazione, alla salute, all’abitazione, all’educazione dcc., nonché di tutelare,
legalmente ed economicamente, i momenti critici della vita umana: l’infanzia, Ia maternità, Ia vecchiaia.
Questo significa che quando una persona perde il lavoro o si ammala, trascinando la propria famiglia in uno stato di bisogno
economico o di povertà, il problema non tocca solo quella persona e la sua famiglia, né tocca solo la cerchia parentale allargata
(genitori, zii, suoceri) o eventuali reti sociali informali (gli amici, i conoscenti). Il problema di quella persona in difficoltà riguarda
anche lo Stato, che interviene per affrontare il disagio con gli strumenti di cui dispone: nel caso della disoccupazione erogando
sussidi e approntando strumenti per aiutare nella ricerca del lavoro (tale è la funzione dell’ufficio di collocamento), nel caso di una
malattia fornendo assistenza medica gratuita (o quasi) e corrispondendo al lavoratore malato un contributo più o meno equivalente
d suo salario normale (l’indennità di malattia).

LA POVERTÀ ASSOLUTA E RELATIVA
La povertà è una situazione di bisogno rispetto a ciò che nella società viene ritenuto indispensabile per sopravvivere. Questa
definizione, apparentemente semplice, mette subito in luce un problema che si incontra quando si deve determinare con maggiore
esattezza in che cosa consista la povertà, e in particolar modo chi, nella società, debba essere considerato propriamente “povero”.
Infatti la povertà è definita come una situazione di bisogno rispetto a ciò che socialmente viene percepito come indispensabile per
vivere umanamente. Ma ciò che si ritiene indispensabile per la vita umana può essere molto diverso da società a società. In India,
per esempio, è considerato povero chi non ha nulla da mangiare, ma in Italia lo e già chi, pur soddisfacendo le proprie necessità
alimentari, non ha i soldi per comprarsi un giornale o un caffè.
La povertà è dunque una condizione non solo economica ma anche e soprattutto sociale. Perciò si distingue di solito fra povertà
assoluta e povertà relativa. Con Ia prima espressione ci si riferisce a quelle situazioni che sono caratterizzate da una tale carenza di
risorse che la stessa sopravvivenza fisica dell’individuo è minacciata. Con la seconda, invece, si intende una carenza di risorse
materiali in riferimento alla situazione media dell’ambiente sociale in cui l’individuo o il gruppo sono inseriti.

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Ma la povertà non é nemmeno solo una carenza di risorse materiali, così come la ricchezza di un individuo non é data solo dai suoi
possedimenti e dai suoi conti in banca, ma anche dalle relazioni, dagli affetti, dalla cultura. Oggi (gli studiosi di scienze sociali
tendono ad ampliare Ia considerazione puramente economica della povertà, che ha il pregio di essere facilmente identificabile e
quantificabile, inserendola in un approccio multidimensionale in cui vengono evidenziate tutte le dimensioni dello stato di povertà,
di solito strettamente connesse luna con l’altra: chi è povero economicamente per esempio, sarà facilmente anche meno istruito e
peggio inserito nel mercato del lavoro, e così via.
Lo Stato sociale è nato per rispondere al problema della povertà. Sicuramente nella seconda meta del secolo scorso la povertà
assoluta si è notevolmente ridotta nei Paesi avanzati. Ciò è avvenuto in parte per merito dello sviluppo economico, ma in parte
anche grazie all’attuazione delle politiche di Welfare. Tuttavia negli stessi Paesi più avanzati permane tuttora una quota abbastanza
elevata di poveri, nel senso della povertà relativa, che non sembra essere ulteriormente riducibile.
Inoltre stanno emergendo, accanto alla povertà meramente economica, altre forme di indigenza legate maggiormente a una carenza
di risorse sociali. Per esempio si diffondono sempre più la povertà relazionale, cioè la carenza di relazioni sociali (come nel caso di
molti anziani o malati), oppure la povertà culturale, cioè l’incapacità di comunicare e farsi capire dagli altri (come nel caso degli
immigrati extracomunitari).

1.2 LA NASCITA E L’AFFERMAZIONE DEL WELFARE STATE

BISMARCK E LE ASSICURAZIONI SOCIALI OBBLIGATORIE
Le prime leggi sulla previdenza e assistenza pubblica per i lavoratori dell’industria e le loro famiglie furono emanate fra il 1883 e il
1889 in Germania da Otto von Bismarck (1815-1898), cancelliere (cioè Capo del governo) dell’imperatore Guglielmo I. In politica
interna Bismarck agì in modo energico contro il movimento socialista e la Chiesa cattolica, ma le iniziative di previdenza sociale che
avviò fra il 1883 e il 1889 rappresentarono una vera e propria rivoluzione rispetto al passato.
Prima di allora non esisteva alcuna forma di tutela pubblica dei lavoratori nei confronti dei rischi connessi alla loro attività. A parte
alcune istituzioni private di carità e di assistenza, a carattere per lo più religioso, il peso e l’onere delle situazioni critiche ricadeva
direttamente ed esclusivamente sui singoli e sulle loro famiglie. Bismarck istituì delle assicurazioni sociali obbligatorie, cioè l’obbligo
per il lavoratore e per l’imprenditore di versare allo Stato una quota del salario in cambio di indennizzi monetari (specie di
“pensioni") nel caso in cui si fossero verificati determinati eventi “critici", quali la malattia, l’infortunio sul lavoro, l’invalidità,
l’invecchiamento, la disoccupazione.
L’intervento pubblico predisposto da Bismarck ha modificato radicalmente la concezione dello Stato: per la prima volta nella storia si
profila infatti l’idea che Io Stato debba e possa intervenire direttamente in difesa del benessere economico e sanitario dei propri
cittadini.

IL DRAMMA DELLA DISOCCUPAZIONE NELLE SOCIETÀ INDUSTRIALIZZATE
Si dovette però attendere sino alla fine della Seconda guerra mondiale perché questa logica si estendesse ulteriormente. Si giunse
così all’erogazione, da parte dello Stato, di prestazioni di stampo universalistico, cioè rivolte non solo ai lavoratori che contribuiscono
finanziariamente pagando una quota assicurativa, ma a tutta la popolazione nazionale in virtù del solo status di cittadinanza. Ciò
avvenne per la precisione in Inghilterra, che era allora uno dei Paesi a industrializzazione più avanzata.
L’isola britannica stava attraversando un periodo di grandi difficoltà, ed era stata duramente provata non solo dall’esperienza bellica,
ma anche e soprattutto dalla grande crisi economica degli anni Trenta. Quest’ultima aveva fatto sperimentare per la prima volta alle
società industrializzate il dramma della disoccupazione di massa. Per gli operai della società industriale la perdita del lavoro
significava la caduta in condizioni di estrema indigenza. Ciò non accadeva con uguale immediatezza e drammaticità prima del
processo di industrializzazione. Nelle società preindustriali, infatti, forti legami di parentela e di solidarietà all’interno del villaggio
costituivano un valido aiuto per tutti coloro che per vari motivi si fossero trovati in difficoltà.
Ma con l’industrializzazione, l’urbanizzazione e lo svincolamento degli individui dalla comunità originaria il problema della
disoccupazione divenne particolarmente pressante. Il salario era spesso l’unica fonte di sostentamento di un’intera famiglia, e il suo
venir meno significava la perdita di ogni strumento di sopravvivenza.
Come tutti gli altri rischi connessi all’economia di mercato anche la disoccupazione é un problema tipico della società industriale,
perché solo con l’industrializzazione e l’urbanizzazione essa diviene un’esperienza drammatica. Corrispondentemente, tipico della
società industriale é lo Stato sociale che rappresenta in un certo senso la risposta ai rischi prodotti dal mercato.

IL RAPPORTO BEVERIDGE
Tradizionalmente si fa coincidere la nascita del Welfare State con la pubblicazione, nel 1942, del Rapporto Beveridge. Si trattava del
documento finale di una commissione d’inchiesta, voluta dal governo inglese e presieduta dall’economista William Henry Beveridge
(1 879-1963), sulla situazione economica e sociale del Paese. Esso conteneva un progetto per combattere e risolvere quelli che, in
quel particolare e delicato momento storico, erano emersi come i più gravi problemi sociali della nazione: indigenza, ignoranza,
malattia, squallore morale.

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Alla base del Rapporto Beveridge stava l’idea che l’Inghilterra è un Paese sufficientemente ricco dal punto di vista economico, e
progredito a livello civile, da poter garantire a rutti i suoi cittadini una protezione dai principali rischi insiti in una società fondata
sull’economia di mercato. Questi rischi venivano identificati nel trovarsi in particolari condizioni che, come la malattia e la vecchiaia,
l’invalidità e la maternità, escludono i lavoratori dal mercato del lavoro, esponendoli al pericolo della povertà. La soluzione e la
prevenzione di una simile eventualità erano considerate responsabilità non dei singoli o delle famiglie, ma dello Stato.
Il Rapporto Beveridge trovò attuazione concreta a partire dal 1948 con la creazione di un servizio medico nazionale gratuito per tutti
i cittadini e con l’adozione di altri importanti provvedimenti sociali, quali l’istituzione dell’indennité di disoccupazione, l’elevamento
delle pensioni, il miglioramento delle condizioni dell’insegnamento pubblico, l’estensione degli interventi di edilizia popolare. Il
considerevole aumento della spesa pubblica che ne derivò venne finanziato in larga parte attraverso un aumento del prelievo fiscale,
attuato con rigorosi criteri di progressività: in percentuale versava tasse più elevate, e quindi “finanziava" in misura maggiore i servizi
offerti dal Welfare, chi guadagnava e possedeva di più. Il sistema di Welfare é nato come una forma di redistribuzione delle risorse
economiche prodotte dalla società, attuata e gestita dallo Stato che si assume il compito di prelevare una quota di ricchezza h
cittadini più agiati per distribuirla ai più poveri sotto forma di servizi.

L’ETA’ D’ORO DEL WELFARE
Il modello di Welfare tracciato dal Rapporto Beveridge venne presto fatto proprio, anche se con forme e modalità differenti, dagli
altri principali Paesi europei. Solo successivamente, e parzialmente, esso si diffuse anche negli Stati Uniti e in altri Paesi
extraeuropei, come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada. Di fatto lo Stato sociale può essere considerato un’invenzione del nostro
continente, tanto che é ritenuto una componente essenziale della società europea non solo da un punto di vista istituzionale ma
anche culturale.
Il periodo compreso fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento e unanimemente considerato l’”età d’oro” del Welfare.
In un’epoca di sviluppo economico prodigioso, l’intervento protettivo dello Stato si è infatti integrato perfettamente con l’evoluzione
positiva della produzione, dei consumi, del tenore di vita. Dopo l’esperienza tragica della guerra la gente cominciò a Vivere
progressivamente meglio, a disporre di più denaro e a poter acquistare molti prodotti a prezzi contenuti (i beni di massa). Questo
incremento significativo dei consumi e del tenore di vita medio divenne il punto di riferimento per un parallelo incremento della
qualità e dell’estensione dei servizi e delle prestazioni offerti dallo Stato sociale.
La produzione di ricchezza creò inoltre enormi risorse fiscali che consentirono il finanziamento del Welfare attraverso ingenti
capitali, inimmaginabili prima della guerra. E durante questa età d’oro che avviene l’attuazione delle principali politiche sociali in
campo previdenziale, assistenziale e sanitario. Il Welfare diviene per tutti una componente quotidiana dell’esistenza, connessa al
lavoro, allo studio, alla malattia, alla vita famigliare. Esso si impone al punto di divenire uno fatti più importanti della nostra epoca
anche perchè permise alle società occidentali il raggiungimento di condizioni di vita e di benessere mai ottenute prima.

1.3 I REGIMI DI WELFARE

LA VARIABILITÀ DEI TIPI DI STATO SOCIALE
L’organizzazione e la strutturazione dello Stato sociale hanno richiesto molto tempo e molti sforzi nei diversi Paesi, finendo per
assumere caratteristiche e modalità di attuazione anche molto diverse da un luogo all’altro. Il concerto di Welfare State è insomma
unico ma i tipi sono tanti.
Una delle più note tipologie dei regimi di Welfare è stata elaborata dal sociologo svedese Gosta Esping-Andersen nel 1990. Egli
identifica tre tipi di Stato sociale distinguibili in base all’incidenza che hanno in essi quelle che vengono considerate le tre istituzioni
fondamentali per la protezione e la riproduzione sociale: il mercato, la famiglia e lo Stato.
Attraverso il mercato, la famiglia e lo Stato prendono corpo Ie tre modalità fondamentali di distribuzione delle risorse economiche
a|l’interno della società, vale a dire, rispettivamente, lo scambio, la reciprocità e Ia redistribuzione. Il mercato é infatti il luogo
istituzionale in cui beni e servizi vengono scambiati grazie all’intermediazione del denaro. La famiglia é il luogo istituzionale in cui
beni e servizi vengono reciprocamente offerti in un contesto di relazioni affettive. Lo Stato é il soggetto istituzionale che si incarica di
ridistribuire le ricchezze tra i cittadini. E’ la prevalenza, di volta in volta, di una di queste modalità sulle altre a caratterizzare e
distinguere un particolare dpi di Welfare.

IL REGIME LIBERALE
Il regime di Welfare caratterizzato dalla predominanza del mercato è chiamato regime liberale. Esso è diffuso in genere nei Paesi
anglosassoni (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda), con la parziale eccezione di Gran Bretagna e Irlanda, il cui sistema è una
specie di commistione fra il regime di Welfare liberale e quello conservatore.
Nel regime di Welfare liberale il soddisfacimento dei più importanti bisogni sociali è completamente a carico dell’individuo, che,
inserito nel mercato (primo fra tutti quello del lavoro), vi trova in teoria le risorse necessarie per la propria riproduzione e per il
proprio benessere. Ciò significa che la funzione sociale dello Stato e residuale: lo Stato interviene solo nelle situazioni di bisogno
estremo o di effettiva povertà, senza peraltro apportare aiuti o sostegni considerevoli. Esso non svolge compiti di prevenzione e si
attiva solo per offrire l’assistenza sociale d’emergenza nei casi concreti di indigenza o emarginazione insostenibili.

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Il sistema sanitario, per esempio, non é gratuito né gestito dallo Stato; si può avere accesso alle prestazioni mediche (cure, visite,
esami) soltanto a pagamento, indipendentemente dal proprio reddito o dalla propria posizione lavorativa. Perciò i cittadini di questi
Paesi affrontano generalmente gli alti costi dei servizi sanitari attraverso la stipulazione di contratti privati di assicurazione.
Questo sistema ha il vantaggio di mantenere bassa la pressione fiscale sui cittadini, poiché lo Stato non necessita di enormi somme
per l’organizzazione dei servizi che eroga. Esso ha però Io svantaggio di non operare una redisiribuzione diffusa delle risorse nella
società, e quindi di non contribuire all’eliminazione delle sacche di povertà e di emarginazione.

IL REGIME CONSERVATORE
Il regime di Welfare caratterizzato dalla centralità della famiglia è chiamato invece regime conservatore o corporativo. Esso è tipico
dell’Europa continentale (Germania, Francia, Benelux, Austria, Svizzera) e meridionale (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), i cui
sistemi di Welfare, pur significativamente differenti tra loro, sono tutti fondati sulla tutela della famiglia, considerata come la
principale istituzione responsabile dei compiti di riproduzione sociale e di protezione degli individui. Il mercato è visto come
strutturalmente incapace di raggiungere un’equa distribuzione di beni e di servizi e di garantire a tutti condizioni di vita e di
benessere dignitose. .
Nel regime conservatore lo Stato sociale ha un ruolo redistributivo e ha un carattere soltanto sussidiario, dato che, cercando di
sostenere i tradizionali modelli famigliari, interviene solo quando la famiglia diviene incapace di provvedere pienamente dld
necessità dei propri membri. Tutta la legislazione sociale ruota intorno al nucleo famigliare ed è finalizzata a garantirlo dagli eventi
più gravi di destabilizzazione, mettendolo quindi nelle condizioni di far fronte alle emergenze dei suoi singoli componenti (un
licenziamento, una malattia dcc.). Il tutto viene sostenuto da una pressione fiscale abbastanza significativa.

IL REGIME SOCIALDEMOCRATICO
I regime di Welfare caratterizzato dalla prevalenza dello Stato, infine, é chiamato regime socialdemocratico. Esso é tipico dei Paesi
scandinavi (Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca). Anche questa prospettiva si fonda su un’interpretazione non ottimistica dello
sviluppo nell’economia di mercato, che si ritiene debba essere corretto da una rete di aiuti sociali forniti dallo Stato. Nel regime
socialdemocratico la qualità e il tipo di copertura offerti dallo Stato sono totali, e sono tali da permettere a ogni cittadino di
mantenere un livello di vita socialmente accettabile a prescindere dal suo rendimento sul mercato e dal suo inserimento in una
famiglia. Per esempio il sistema pensionistico dei Paesi Scandinavi prevede per tutti una pensione universale a somma fissa, che
può eventualmente essere ulteriormente integrata con formule pensionistiche collegate alla retribuzione personale.
Una rete così vasta di prestazioni universalistiche é possibile solo grazie a un’elevata pressione fiscale, che é tuttavia compensata
dall’alta qualità ed efficienza dei servizi offerti e dalla consistenza delle erogazioni in denaro. Inoltre la famiglia viene in tal modo
alleggerita dalle situazioni più gravose, sicché i suoi componenti, soprattutto le donne, sono facilitati nella partecipazione al mercato
del lavoro.



2 LE POLITICHE SOCIALI E IL TERZO SETTORE

2.1 LE POLITICHE PREVIDENZIALI, ASSISTENZIALI E SANITARIE

Abbiamo fin qui visto che cos’é il Welfare State e in quali forme si è manifestato.
Dobbiamo però a questo punto chiederci: come agisce concretamente all’interno della nostra società? In altri termini: quali sono le
principali politiche sociali dei Paesi occidentali? Pur tenendo conto delle forti differenze fra i tre regimi di Welfare - liberale,
conservatore, socialdemocratico -, si può in linea di massima dire che il Welfare State si occupa in generale di tre questioni: la
previdenza sociale, l’assistenza sociale e l’assistenza sanitaria. Vediamo ora nello specifico di che cosa si tratta.

LA PREVIDENZA SOCIALE

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Previdente è colui il quale riesce a intuire in anticipo ciò che è possibile accada in futuro, e che quindi si prepara per tempo ad
affrontare le avversità. La previdenza sociale consiste in una serie di misure volte a prevenire le conseguenze negative di certi tipi di
eventi che possono colpire la vita di ogni individuo, come la malattia, l’infortunio, il decesso del coniuge. Lo Stato promuove delle
politiche previdenziali quando opera affinché i cittadini siano garantiti contro le situazioni critiche e quando viene in soccorso di
coloro che in una situazione critica si sono venuti a trovare.
Le pensioni rappresentano la parte più consistente delle politiche previdenziali. Dal punto di vista finanziario esse costituiscono in
quasi tutti i sistemi di Welfare voce di spesa più consistente. Dal punto di vista culturale il diritto alla pensione è entrato a far parte
delle aspettative generalizzate di tutti i cittadini, che considerano normale e come un proprio legittimo diritto, al raggiungimento di
un certo limite di età, interrompere l’attività lavorativa senza cessare di percepire un reddito per poter vivere. Questa peculiarità
spiega perché i progetti di riforma dei sistemi pensionistici siano negli ultimi anni al centro dell’attenzione dei politici - che devono
ridurre le spese dello Stato - e della gente comune, poco disposta a rinunciare a ciò che considera un diritto acquisito.
Si possono distinguere tre modelli principali di previdenza.
Nei regimi di Welfare conservatore l'accesso alla previdenza é subordinato alla partecipazione al mercato del lavoro. Infatti é il
lavoratore che, in linea di principio, si autofinanzia le prestazioni previdenziali versando allo Stato una quota del proprio salario. Se
l’individuo non ha mai lavorato, o ha avuto una vita lavorativa irregolare, può non aver diritto a tali prestazioni. Pensiamo per
esempio alle casalinghe a tempo pieno: in Italia non possono usufruire delle indennità di malattia o di maternità proprio perché,
svolgendo un’occupazione informale, non versano i contributi necessari a maturare - e a finanziare - tali sussidi.
Nei regimi di Welfare libeale, al contrario, solo l’esclusione dal mercato del lavoro consente l’accesso ai sussidi dello Stato, mentre la
parte più rilevante della previdenza è affidata a forme di assicurazione privata.
Nei regimi di Welfare socialdemocratico, infine, viene garantita ai cittadini una copertura più generalizzata, per cui è il bisogno del
singolo a trovare risposta da parte dello Stato, indipendentemente dal fatto che egli sia - o sia stato - un lavoratore regolare. Per
esempio in Svezia e in Finlandia le indennità di malattia e di maternità vengono erogate a tutte le donne, prescindendo dal fatto che
siano o non siano lavoratrici.

L’ASSISTENZA SOCIALE
L’assistenza sociale consiste in un insieme di interventi di sostegno e, in alcuni Paesi, di prevenzione, volti ad assistere i cittadini che
si trovano in situazioni di povertà, di emarginazione o di devianza. L’assistenza sociale mira sostanzialmente a soccorrere Ie fasce più
deboli della società, come i giovani, gli anziani, i portatori di handicap cioè tutti coloro che nella normale vita della società si trovano
in una condizione di netto svantaggio: si muovono con più difficoltà, hanno minori conoscenze, hanno maggiori problemi di
comprensione, sono fisicamente più deboli. Essa mira inoltre ad arginare alcuni problemi rilevanti che disturbano l’ordine sociale,
quali la droga o la criminalità, facendo ricorso tuttavia non ad apparati di dissuasione (cioè a strumenti di controllo sociale, a
sanzioni, a tutto ciò che è di competenza della polizia), ma a interventi volti a eliminare le cause della devianza: la povertà,
l’ignoranza, i difetti di socializzazione.
Tendenzialmente l’assistenza sociale funziona attraverso la creazione di una rete di servizi alla persona, che possono andare per
esempio dal consultorio familiare ai centri ricreativi per i minori, dai centri riabilitativi per i malati mentali alle comunità terapeutiche
per i tossicodipendenti. Contemporaneamente essa cerca, laddove é possibile, di svolgere ur’azione di prevenzione, soprattutto
tramite strumenti di comunicazione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, come per esempio le campagnne informative sui
rischi connessi al consumo di alcol.
Nei regimi di Welfare liberale lo Stato interviene in maniera molto marginale, offrendo per lo più sussidi finanziari a chi dimostra di
trovarsi in condizioni di estremo disagio, come per esempio i poveri o i senzatetto. In quelli di Welfare socialdemocratico, invece,
viene garantita una copertura molto più ampia sia attraverso una rete di servizi, sia con trasferimenti monetari più consistenti e
diffusi (fra l’altro l’erogazione di un "reddito minimo vitale» per tutti). I regimi di Welfare conservatore tendono infine ad avvicinarsi
al modello socialdemocratico, disponendo però di una rete di servizi meno diffusa e meno efficiente.

L’ASSISTENZA SANITARIA
L’assistenza sanitaria consiste nella realizzazione e nel finanziamento di strutture ospedaliere e nell’erogazione di prestazioni
finalizzate a curare e a prevenire le malattie. Essa ha insomma lo scopo di mantenere la società "in salute» anche da un punto di
vista fisico. La prestazione di cure mediche e la creazione di ospedali e di servizi di medicina di base sono stati, come abbiamo visto,
alcuni degli obiettivi iniziali dello Stato sociale.
Tuttavia il modo in cui l’assistenza sanitaria é stata realizzata non é uguale ovunque. Alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, lItalia,
lIrlanda e i Paesi scandinavi hanno creato un sistema sanitario nazionale fondamentalmente gratuito, riconoscendo uguali diritti di
cura a tutti i cittadini. Nei Paesi dell’Europa continentale, invece, il sistema sanitario é stato costruito su base mutualistica: le cure
non sono gratuite, tuttavia i lavoratori sono obbligati ad assicurarsi presso una mutua, sicché di fatto le cure mediche e ospedaliere
non sono mai a carico del singolo individuo. Lo Stato interviene direttamente solo nei confronti di chi non può accedere al sistema
delle mutue perché escluso dal mondo del lavoro. Infine, negli Stati Uniti esiste un regime essenzialmente privatistico: l’assistenza
sanitaria non è fornita gratuitamente dallo Stato e sono previsti solo dei programmi minimi di copertura sanitaria gratuita per gli
anziani e per i poveri.

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LA MATERNITÀ
Previdenza, assistenza e sanità sono tre grandi settori di intervento, distinti ma non separati. Di fronte al bisogno concreto, spesso
l’intervento dello Stato avviene su più livelli contemporaneamente. Consideriamo il caso concreto della maternità, che é un
momento molto particolare nella vita di una donna. La maternità viene supportata dallo Stato sociale anzitutto attraverso un
intervento previdenziale: le lavoratrici hanno diritto, tra prima e dopo il parto, a cinque mesi di assenza retribuita dal lavoro. In
secondo luogo, la maternità é assistita dal punto di vista sanitario: le visite e gli esami medici legati alla gravidanza sono gratuiti, e
ogni donna ha diritto a partorire gratuitamente in un ospedale pubblico. Infine, la maternità é anche assistita, se necessario,
socialmente: i consultori famigliari, per esempio, sono a disposizione di tutte quelle donne (e famiglie) per le quali la maternità può
rappresentare un grave problema di tipo economico o relazionale.

2.2 LE POLITICHE SOCIALI IN ITALIA

Anche nel nostro Paese, come in tutto il mondo industrializzato, esistono attualmente politiche sociali che mirano a istituire e
mantenere uno Stato del benessere. Si é già detto che in Italia vige un regime di Welfare di tipo conservatore, cioè basato su
politiche di supporto alla famiglia, considerata l’organismo sociale cui in primo luogo spetta la cura e il sostegno dell’individuo.
Tuttavia ciò vale solo in termini generali, e il caso italiano presenta, come tutti delle specificità.
Ciò che storicamente contraddistingue le politiche sociali in Italia è la mancanza di una linea politica unitaria e definita, anche se in
tutti e tre i campi - previdenziale, assistenziale e sanitario - sono state infine varate delle leggi di riforma strutturale.

LE PENSIONI IN ITALIA
Il sistema previdenziale italiano, che si basa in linea teorica, su un patto generazionale in cui le nuove generazioni pagano con i
contributi versati allo Stato le indennità pensionistiche a chi per vecchiaia è uscito dal mondo del lavoro, ed ammonta da solo a più
del 60% della spesa sociale dello Stato (dato del 2006), e sembra quindi non operare un’efficace redistribuzione del reddito
nazionale. Non è efficace, in altri termini, nel prelevare una quota delle risorse di cui dispongono i più agiati per metterla a
disposizione degli svantaggiati, affinché questi possano godere di una maggiore sicurezza sociale. E vero che dal 1969 esiste una
pensione sociale, erogata a coloro che hanno più di sessantacinque anni e non hanno alcun reddito, che dovrebbe garantire a tutti,
nella vecchiaia, un introito minimo decoroso. Ma il livello di questi trattamenti pensionistici minimi è sempre rimasto prossimo alla
soglia di povertà, e quindi insufficiente a dare sicurezza alle persone e supporto alla loro sopravvivenza materiale.
Dal canto loro, le pensioni di anzianità lavorativa per certi aspetti introducono o rafforzano le disuguaglianze tra gruppi professionali,
dato che vanno a vantaggio di ceti sociali già privilegiati, come i dipendenti pubblici e i liberi professionisti. Gli appartenenti a questi
gruppi sociali, infatti, ricevono una pensione che, proporzionalmente, é superiore al contributo che essi hanno dato al sistema
previdenziale durante la vita lavorativa. Ciò dipende dal fatto che i gruppi professionali meglio organizzati sono stati in grado di
imporre a una classe politica debole l’attribuzione di benefici specifici alle proprie categorie, in cambio di consenso politico. Lo
stesso tipo di scambio clientelare (favori in cambio di voti, cioè il voto di scambio) è accaduto capillarmente in alcune regioni
dell’Italia meridionale attraverso la distribuzione ai singoli individui di pensioni d’invalidità non dovute grazie.
Nell’insieme, quindi, il sistema pensionistico italiano resta fortemente centrato sull’occupazione, cioé sull’elargizione di un servizio a
chi svolge un’attività lavorativa, mentre non raggiunge risultati apprezzabili - al contrario dei sistemi previdenziali di molti altri Stati
occidentali - rispetto allo scopo di realizzare maggiore uguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. A partire dagli anni Novanta
esso é Stato più volte riformato (vedi oltre), non però con l’obiettivo di renderlo più equo, ma al fine di contenerne la spesa per
ridurre il deficit di bilancio dello Stato.

L’ASSISTENZA IN ITALIA
Fino al termine del XX secolo l’assistenza sociale in Italia non ha avuto un quadro legislativo unitario, ma ha vissuto su un sistema
estremamente frammentato di provvedimenti specifici per i vari gruppi sociali, a seconda del particolare tipo di bisogno o di disagio
espresso (poveri, invalidi sul lavoro, disabili, tossicodipendenti dcc.). Essa ha insomma seguito una tipica logica assistenzialistica: lo
Stato non pianifica azioni di sostegno al benessere dei suoi cittadini in generale, ma prende dei provvedimenti specifici per coloro
che si trovano in situazioni di emergenza, e che quindi potrebbero compromettere il decoro, l’igiene, l’ordine pubblico.
Nel 2000 e stata però approvata una legge generale che mira a dare un assetto organico a tutte le politiche sociali di tipo
assistenziale, e che contiene importanti novità. Lo Stato stabilisce centralmente i livelli essenziali e uniformi di prestazioni sociali da
garantire a tutti i cittadini che risiedono sul territorio nazionale (quindi secondo una logica universalistica da regime di Welfare
socialdemocratico). Ma poi, attuando un criterio di sussidiarietà, delega alle regioni e ai comuni, in collaborazione con i soggetti
privati presenti sul loro territorio, il compito di programmare e realizzare gli interventi concreti che consentiranno di raggiungere
quegli obiettivi. Questo perché si presume che gli enti locali, pubblici e privati, conoscano meglio le condizioni concrete della società
locale. Inoltre la legge cerca di superare sia il tradizionale modo di ragionare per "categorie» di bisogno, sia l’atteggiamento che mira
semplicemente a tamponare le situazioni in cui il bisogno si è più manifestato. Al contrario, la legge introduce l’ambizioso obiettivo
di rimuovere le cause delle situazioni di bisogno (non più, per esempio, dare assistenza ai tossicodipendenti, ma rimuovere quelle

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situazioni famigliari e sociali che spesso stanno all’origine della tossicodipendenza). Il tempo trascorso dall’approvazione della legge
non è ancora sufficiente per dare una valutazione sull’impatto che essa ha effettivamente avuto sulla società italiana. Si notano pero
delle difficoltà nella sua attuazione, dovute soprattutto alla resistenza che essa incontra nel superare gli aspetti pi radicati del
Welfare italiano: il particolarismo (l’esistenza di differenze di trattamento tra gruppi e categorie di persone), l’assistenzialismo (Ia
risposta ai bisogni quando essi si manifestano in forma acuta, senza prevenzione) e il clientelismo.

LA SANITA’ IN ITALIA
Nel Campo della sanità la svolta importante si è avuta con l’istituzione, nel 1978, del Sistema sanitario nazionale, con il quale si sono
volute garantire a tutti i cittadini uguali condizioni di accesso ai servizi sanitari, senza riguardo alla loro condizione professionale
(lavoratori o non lavoratori), al reddito, all’esistenza di uno stato di bisogno accertato. Un piano sanitario nazionale stabilisce i livelli
essenziali di assistenza da garantire equamente a tutti, mentre ciascuno concorre al finanziamento in proporzione al proprio reddito.
Benché tale legge non abbia sortito un’effettiva uguaglianza delle prestazioni sanitarie per tutti i cittadini (per esempio esistono
ancora grosse differenze regionali nella qualità dei servizi offerti), e nonostante la regionalizzazione dell’amministrazione dei servizi
sanitari negli anni Novanta del secolo scorso, la sanità in Italia è stata in grado, nel tempo, di garantire un elevato livello generale di
salute della popolazione.

IL FINANZIAMENTO E IL CALCOLO DELLE PENSIONI IN ITALIA
Storicamente in Italia le pensioni hanno seguito due modalità differenti di finanziamento. Inizialmente, quando si crearono Ie prime
mutue e vennero istituite le assicurazioni sociali obbligatorie (la prima società Italiana di mutuo soccorso é del 1844), si seguirono
meccanismi di capitalizzazione: i contributi versati dai lavoratori venivano accantonati in fondi sociali, gli interessi che via via
maturavano andavano a finanziare direttamente Ie pensioni per quegli stessi lavoratori che Ii avevano creati.
Successivamente, mentre si procedeva all’estensione delle assicurazioni obbligatorie a nuove categorie di lavoratori, come i
coltivatori diretti, i commercianti, gli artigiani, si adottarono invece delle tecniche di ripartizione: i versamenti contributivi non
venivano più accantonati, ma utilizzati immediatamente per pagare le pensioni di altri lavoratori già pensionati. Questo rese
possibile offrire a intere categorie di lavoratori un trattamento pensionistico, per quanto modesto, dopo pochissimo tempo di
contribuzione. I lavoratori autonomi iniziarono a percepire Ie prime pensioni già un anno dopo Ia loro istituzione, sulla base del solo
requisito dell’età anche se vi avevano contribuito per un anno soltanto.
Le tecniche di ripartizione vennero adottate nel periodo d’oro del Welfare, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando
la crescita occupazionaie e quella demograica sembravano garantire un continuo aumento del gettito fiscale. Questi meccanismi,
però, si incepparono al sopraggiungere dei primi segnali di calo della natalità. Essi infatti funzionano solo quando la massa dei
contributi dei lavoratori al sistema pensionistico è superiore alla massa delle prestazioni erogate da questo ai pensionati.
Quando accade l’inverso - come é il caso dell’Italia da alcuni decenni - si crea un deficit finanziario e il sistema collassa.
Anche il calcolo dell’importo della pensione a cui ciascuno ha diritto ha seguito due strade: le formule contributive riconoscono al
lavoratore delle somme proporzionali a quanto egli ha versato durante la sua vita occupazionale, le formule retributive gli
riconoscono invece delle somme proporzionali all’ammontare della sua ultima retribuzione. Con il passaggio dalle formule
contributive a quelle retributive la pensione, nell’immaginario collettivo, cessa di essere vista come il frutto economico di quanto si é
versato in una vita di lavoro per diventare, invece, una sorta di "salario differito», un meccanismo di prosecuzione della retribuzione
e quindi, in ultima analisi, di protezione del tenore di vita dopo il pensionamento.
La cosiddetta "riforma Dini» del 1995 ha gradualmente reintrodotto il calcolo contributivo per cercare di porre un argine al deficit
del sistema pensionistico italiano. Gli aggiustamenti introdotti in seguito hanno cercato di ritardare l’età media di pensionamento
dei lavoratori, così da riequilibrare il rapporto tra il numero medio degli anni di contribuzione e quello degli anni di pensione.
Poiché non solo è aumentata l’aspettativa di vita delle persone, ma anche l’età media del passaggio alla vecchiaia, e nello stesso
tempo si è ridotto il potere usurante della maggior parte delle professioni, si ritiene lecito innalzare l’età di pensionamento.
Operazione che non è semplice portare a termine senza creare tensioni sociali.

2.3 LA CRISI DEL WELFARE STATE

LA RIDUZIONE DELLA SPESA PER LE POLITICHE SOCIALI
Per alcuni decenni lo Stato sociale é sembrato costituire una soluzione ideale per molti dei principali problemi che insorgono nelle
società industrializzate. Esso ha rappresentato un potentissimo strumento di redistribuzione delle risorse economiche trai vari strati
della società, contribuendo a ridurre le disuguaglianze al suo interno. Tuttavia negli ultimi tempi la situazione è radicalmente mutata.
A partire dalla metà degli anni Settanta, e soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, il Welfare State é entrato in una fase di crisi
piuttosto acuta; in tutti i Paesi é in atto un processo di riorganizzazione e, in alcuni casi, di ridimensionamento della spesa per le
politiche sociali. Le ragioni di tale crisi sono molteplici e di vario tipo. Anzitutto cè una crisi di ordine finanziario.
La previdenza, l’assistenza sociale e l’assistenza sanitaria cominciano a costare troppo in rapporto ai bilanci degli stati. In secondo
luogo c’è una crisi di organizzazione. Previdenza, assistenza e sanità non riescono a garantire servizi soddisfacenti per i cittadini.
Infine c’è una crisi di legittimità. Non solo le politiche sociali hanno costi superiori alle risorse effettivamente disponibili, ma

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l’opinione pubblica comincia a ritenere che, anche se le risorse fossero sufficienti, non sarebbe opportuno impiegarle nel sistema del
Welfare, ma per interventi d’atro tipo, come la sicurezza pubblica o lo sviluppo economico.

LA CRISI FINANZIARIA
La crisi del Welfare State é stata causata anzitutto da un problema molto semplice: una società non ha sempre le risorse necessarie
per garantire ai suoi membri una protezione sociale estesa e capillare, ma può farlo solo quando gli individui in stato di bisogno sono
sufficientemente pochi in proporzione alla ricchezza che la società é in grado di produrre. Per comprendere questo aspetto si pensi a
un fenomeno che ha avuto notevoli ripercussioni economiche sul Welfare negli ultimi anni, ovvero l’invecchiamento demografico.
L’invecchiamento demografico é quel fenomeno, tipico dei Paesi occidentali negli ultimi trent’anni, per cui aumenta la percentuale
di persone anziane sul totale della popolazione nazionale. Esso è l’effetto congiunto della diminuzione del tasso di mortalità e di
quello di natalità, per cui nei Paesi più sviluppati si vive sempre più a lungo e nascono sempre meno bambini (e quindi diminuisce
l’incidenza della popolazione giovane nella società). Ma l’aumento degli anziani comporta una crescita del numero di cittadini che
sono bisognosi di qualche forma di intervento statale, dalla pensione agli ospedali, dai farmaci all’assistenza domiciliare. Oltretutto
gli anziani sono una categoria sociale che necessita di servizi particolarmente onerosi (le pensioni sono di durata sempre più lunga,
l’assistenza sanitaria e particolarmente sofisticata, le case di riposo e i reparti ospedalieri di lungodegenza sono estremamente
costosi).
Parallelamente, il costo di tutto ciò deve essere sostenuto da una quota di lavoratori attivi che, in percentuale sul totale della
popolazione, tende progressivamente a diminuire, anche in conseguenza del fatto che i giovani ritardano sempre più il loro ingresso
nel mondo del lavoro. In breve: quando ogni due lavoratori che pagano le tasse c’è un solo pensionato che percepisce la pensione e
usufruisce dell’assistenza sanitaria e più facile offrire a quest’ultimo ricchi sussidi e servizi efficienti, che non quando ogni singolo
lavoratore deve "provvedere" al sostentamento di due pensionati.

LA CRISI ORGANIZZATIVA
Le difficoltà finanziarie del Welfare sono state ulteriormente accentuate da una crisi di organizzazione dei servizi. Lo Stato sociale
sembra essere afflitto da una grave carenza organizzativa, tanto da non riuscire ad attuare concretamente ciò che promette a livello
legislativo, né tanto meno a offrire risposte adeguate ai nuovi bisogni e alle nuove domande emergenti dalla società in
trasformazione.
Pensiamo per esempio ai tempi medi di attesa per accedere nel nostro Paese, ad alcune prestazioni sanitarie specialistiche. Benché
singoli servizi del sistema sanitario nazionale vantino un’efficienza invidiabile, in alcuni ospedali si può aspettare mesi o persino anni.
Ma chi é malato vuole essere curato con tempestività, e di fronte a lunghe attese preferisce rivolgersi a strutture private,
rinunciando alle prestazioni gratuite, o quasi, dello Stato sociale.
L’eccessiva burocratizzazione dei servizi sociali, resa necessaria dall’estensione universale dei loro compiti, ha creato tra l’altro
un’ulteriore fonte di spesa per lo Stato sociale, collegata solo indirettamente all’erogazione di servizi ai cittadini. Per garantire
l’assistenza sanitaria, lo Stato non solo deve retribuire il medico e pagare le sue strumentazioni, ma anche retribuire il personale
amministrativo che versa lo stipendio al medico e compra e mantiene in efficienza le strumentazioni. Ciò che il cittadino "copre” con
l’imposizione fiscale per la previdenza e l’assistenza non corrisponde semplicemente al costo reale dei servizi, ma anche alle spese
relative al mantenimento degli enti erogatori dei servizi e di quanti vi lavorano.

LA CRISI DI LEGITTIMITÀ
Infine, lo Stato sociale ha dovuto affrontare anche una forte crisi di legittimità. La società incontra sempre più difficoltà nel
giustificare l’esistenza di uno Stato sociale così esteso. Da un lato, di fronte ai problemi economici e alle disfunzioni organizzative
l’opinione pubblica ha cominciato a chiedersi se sia giusto mantenere in vita un sistema che sembra costare così tanto e offrire così
poco. In altre parole, si é diffusa nella società la consapevolezza dei limiti e dei difetti strutturali dello Stato sociale, cos’ come si è
venuto fin qui a creare.
Dall’atro lato, è entrato in crisi anche l’ideale di solidarietà sociale che stava alla base dell’invenzione del Welfare si è affievolita la
consapevolezza delle ragioni morali da cui esso era nato. La società si mostra meno solidale verso le sue fasce più deboli e meno
disposta a sostenere i costi di una diffusione universale del benessere.
L’insieme di questi due fattori - l’acquisizione di consapevolezza sui limiti intrinseci dello Stato sociale e la perdita di consapevolezza
sulle motivazioni che ne stanno alla base - ha reso molto incerta la legittimazione, a livello sociale e culturale, del Welfare State;
sempre più persone si chiedono se ne valga ancora la pena.
A partire dagli anni Ottanta la confluenza di tutti quest elementi di crisi ha suscitato, sia a livello politico sia a livello di società civile,
un acceso dibattito sul ruolo e sale funzioni dello Stato sociale. In molti Paesi si è giunti all’adozione di provvedimenti e interventi
tesi a una sua ristrutturazione, del duplice scopo di contenerne i costi e di offrire servizi più efficienti. La crisi dello Stato sociale non
é però una questione di facile soluzione, perché non può essere ridotta a un problema semplicemente economico-finanziario. Essa
mette invece in gioco uno dei traguardi più importanti raggiunti dalle società industriali avanzate: la conquista dei diritti sociali di
cittadinanza.

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2.4 IL TERZO SETTORE

DALLA CRISI DELLO STATO SOCIALE ALLA NASCITA DEL PRIVATO SOCIALE
La crisi del Welfare State è profonda e complessa, e sta conducendo verso una riduzione del peso dello Stato sociale
nell’organizzazione della società. Ciò però non significa che si stiano riducendo anche le aree di disagio economico e sociale a cui il
Welfare si rivolgeva. Calata la fiducia nello Stato, su cui si é retta per molti decenni la nostra società, è nato negli ultimi anni un
nuovo soggetto che si è fatto carico delle questioni di solidarietà sociale, di redistribuzione delle risorse economiche e di diffusione
del benessere. Questo nuovo soggetto viene chiamato Terzo settore, oppure anche privato sociale; esso consiste in un tentativo
sorto spontaneamente in seno alla società civile di ovviare, da un lato, alle più gravi difficoltà e inefficienze dello Stato sociale, e di
dare risposta, dall’altro, alle nuove emergenze sorte nella società e sconosciute fino a pochi anni fa (come la diffusione dell’Aids o la
forte immigrazione straniera).
Si pensi alla questione della tossicodipendenza. Nel nostro Paese questa problematica è stata gestita dallo Stato in termini giuridici
(fissando i comportamenti tollerati, come il consumo di droga; e quelli non tollerati, come lo spaccio o il possesso di un quantitativo
superiore alla dose giornaliera) e in termini sanitari (consentendo il ricovero gratuito in ospedale per la disintossicazione, la
somministrazione controllata di metadone ecc.). Lo Stato non ha però realizzato nessuna struttura per il recupero, per il
reinserimento dei tossicodipendenti nella società e dunque per la loro risocializzazione.
Il Welfare State é stato insomma in grado di offrire assistenza ai tossicodipendenti, non però di risolvere fino in fondo il loro disagio.
Da questa sua grave carenza é nata la proliferazione delle comunità terapeutiche private, che hanno dimostrato di essere efficaci nel
curare gli utenti, ma soprattutto nel rimotivarli a livello umano e sociale. Le comunità terapeutiche per il recupero dei
tossicodipendenti sono un tipico esempio di "privato sociale”, cioè di iniziative private volte, almeno in prima istanza, non alla
creazione di profitto ma alla soluzione di problemi di rilevanza sociale.

CHE COS’E’ IL TERZO SETTORE
Oltre alle comunità terapeutiche, in Italia esistono numerose altre realtà di iniziativa privata che svolgono funzioni di interesse
pubblico: strutture per il tempo libero nella terza età, asili nido, ospedali privati gestiti da congregazioni religiose ecc. Il Terzo settore
e costituito dal variegato mondo del volontariato organizzato, dell’associazionismo, delle cooperative sociali, in breve di tutte quelle
organizzazioni che finalizzano la loro attività all’erogazione di servizi di pubblica utilità, non perseguendo la logica del profitto ma
quella della solidarietà. Tali organizzazioni vengono anche chiamate enti no-profit, o enti non commerciali, o ancora enti senza scopo
di lucro (Onlus), poiché la caratteristica che le contraddistingue, e che le differenzia dalle organizzazioni economiche che partecipano
al mercato, è appunto quella di puntare non alla produzione di utili economici, ma alla soluzione di problemi sociali.
L’ambito del privato sociale corrisponde quindi a un’area intermedia fra pubblico e privato, fra lo Stato (con i suoi apparati) e il
mondo delle imprese e del mercato; proprio per questo viene chiamato Terzo settore ("terzo” rispetto allo Stato e al mercato). La
sua importanza non sta solo nel recupero di efficienza che solitamente permette di realizzare, ma anche e soprattutto nella
rivitalizzazione di quel valore di solidarietà sociale che la delega delle problematiche sociali allo Stato aveva fatto sbiadire.
Lo sviluppo del Terzo settore sembra dunque costituire il passaggio dal Welfare State a quella che alcuni chiamano “Welfare Society”
(o società solidale), cioè una società in cui tutti i soggetti sociali cooperano per la costruzione di una solidarietà comune, senza
ritenere questo un compito di esclusiva pertinenza dello Stato.

I LIMITI DEL TERZO SETTORE
Il Terzo settore è una Strada che la società ha imboccato per affrontare alcuni problemi che la crisi dello Stato sociale ha
determinato. Esso comporta però alcuni aspetti problematici da non trascurare.
Anzitutto esiste un problema di pianificazione del privato sociale. Esso si compone di attività sorte spontaneamente all’interno della
società; tuttavia, in mancanza di un centro coordinatore, tali iniziative potrebbero di fatto rivelarsi non corrispondenti ai reali bisogni
della collettività. Si correrebbe, per esempio, il rischio di avere sovrabbondanza di offerta in un campo e carenza in un altro.
Solo lo Stato ha il potere di coordinate il Terzo settore, cioè di conoscere i bisogni effettivi della società, sapere ciò che esiste
nell’offerta di servizi, stimolarne di nuovi laddove essa rivela lacune.
In secondo luogo esiste un problema di controllo della qualità delle prestazioni erogate. Allo Stato resta comunque il compito di
controllare e garantire che i servizi offerti dal privato sociale rispettino degli standard minimi di qualità (che l’ospedale rispetti le
misure d’igiene, che il personale medico e paramedico abbia la necessaria competenza, che la comunità terapeutica non prevarichi
nei confronti dei suoi ospiti).
In terzo luogo esiste un problema di autonomia del privato sociale dal potere politico. Allo stato attuale il Terzo settore è
ampiamente finanziato dallo Stato. Questo crea però dipendenza e spesso anche vincoli clientelari tra le singole iniziative del privato
sociale e il soggetto politico che le finanzia.
Per ovviare a questo problema è necessario che lo Stato garantisca in qualche modo l’autonomia finanziaria delle organizzazioni del
Terzo settore.

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Tenuto conto di tali problemi, è difficile pensare che lo Stato sia destinato a non avere più alcun ruolo nella gestione dei servizi
sociali. La vera questione non è se Io Stato sociale sia destinato a sopravvivere o a scomparire, ma come esso debba essere
modificato, in relazione anche al peso e al ruolo che il Terzo settore via via assumerà nell’attuazione delle politiche sociali.





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