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Indice

Introduzione. Identità e variazione nell’universo


mediale di Lynch, di Nicola Dusi e Cinzia Bianchi
1. Identità visiva in progress
2. Riconoscibilità stilistica e figuralità
Riferimenti bibliografici

1. David Lynch e la pubblicità, di Cinzia Bianchi


1. Uno sguardo d’insieme
2. Pubblicizzare i profumi
3. Il caffè tra serialità e produzione
4. Singolarità e intertestualità negli anni
Duemila
5. Il cortometraggio pubblicitario: Lady Blue
Shangai
6. Progettare e promuovere: Dom Pérignon e
Louboutin rouge
Riferimenti bibliografici

2. Music Video Art. Sperimentazione formale e


“firma d’autore” nelle produzioni videomusicali
di David Lynch, di Marco Teti
1. Le due fasi della carriera videomusicale di
Lynch
2. La prima fase: il video come perfetto stru-
mento di espressione personale

5
3. La seconda fase: il passaggio da autore a
brand
Riferimenti bibliografici

3. Brandizzazione e radicalismo estetico in Twin


Peaks, di Roy Menarini
1. La frattura prospettica della serie
2. L’inatteso ritorno di Twin Peaks
Riferimenti bibliografici

4. Identità e alterità nel cinema di Lynch, di


Leonardo Gandini
1. Identità, alterità e differenza
2. The Elephant Man
3. Lost Highway
Riferimenti bibliografici

5. Immaginare attraverso il suono: il linguaggio


sonoro di David Lynch, di Lucio Spaziante
1. Eraserhead: all’inizio vi fu il suono
2. Uso del linguaggio audiovisivo
3. No hay banda: it’s all recorded
Riferimenti bibliografici

6. Tra Lynch e Bacon: visibile, sensibile e figura-


le, di Nicola Dusi
1. L’effetto pittorico nel primo Lynch
2. La visione sfocata e la narrazione “blurred”
3. Dall’ottico all’aptico: Velluto blu e Strade
perdute
4. Figuralità e visione embodied
5. Twin Peaks tra intensità e messa in presenza
Riferimenti bibliografici

Postfazione. Quel gran genio di Lynch, di Vanni


Codeluppi

Appendice. Opere di David Lynch

Gli autori del volume

6
Introduzione. Identità e variazione
nell’universo mediale di Lynch
di Nicola Dusi e Cinzia Bianchi1

1. Identità visiva in progress

Regista visionario, surrealista, onirico; narratore di storie


spesso inquietanti e bizzarre, ambientate in luoghi sperduti
dell’America o in angoli inusuali delle grandi città; creativo
poliedrico, amante di tutto ciò che porta lo sguardo e la mente
in un’altra dimensione cognitiva e percettiva; sperimentatore di
nuove tecniche artistiche, molto personali e singolari. Queste
sono alcune delle definizioni più comuni per descrivere il talen-
to originale di David Keith Lynch (Montana, 1946). Tutti cono-
scono almeno uno dei suoi film a partire da Eraserhead (1977),
The Elephant Men (1980) e Dune (1984), passando per Velluto
blu (1986), Cuore selvaggio (1990), e Strade perdute (1997), per
arrivare a Una storia vera (1999), Mullholland Drive (2001),
Inland Empire (2006). Per non parlare della serie televisiva
Twin Peaks (1990/91 e 2017), fenomeno di culto planetario,
che Lynch ha scritto con Mark Frost e che viene considerata
da critici e studiosi dei media un vero e proprio apripista della
serialità contemporanea2.
In un libro dedicato a Lynch è d’obbligo soffermarsi sulla
sua produzione filmica e televisiva, e in questo volume lo fa-

1. L’Introduzione è stata pensata assieme dai due autori, tuttavia Cinzia


Bianchi ha scritto il par. 1, e Nicola Dusi ha scritto il par. 2.
2. Rinviamo all’Appendice del volume per l’elenco dei principali prodotti
mediali di David Lynch.

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remo evidenziando aspetti specifici, come il tema dell’identità,
il ruolo del sonoro o la relazione con la pittura. Abbiamo però
voluto evidenziare anche altri ambiti della sua produzione arti-
stica. Si tratta di cortometraggi, documentari, spot televisivi e
promozioni pubblicitarie, videoclip, oltre a mostre di quadri, fo-
to e sculture, musica e così via: una produzione che permea tut-
ta la vita artistica di Lynch, ma su cui il regista si è concentrato
maggiormente negli ultimi anni, almeno a partire dal 2006, da
quando cioè ha comunicato al mondo che non girerà nessun
altro film. In realtà, le sperimentazioni visive di Lynch hanno
sempre trasceso il suo cinema, anche se i film sono stati i luo-
ghi di sintesi delle sue ossessioni e dei suoi percorsi creativi.
Il cinema di Lynch ha alla base un immaginario pittorico e
decostruisce il reale attraverso un’immagine frammentata, stra-
tificata e scomposta, tipica della pittura cosiddetta astratta. Un
cinema che fa affidamento sulla capacità della mente di dare
un senso a tessere di puzzle apparentemente sconnesse e di co-
struire un tutto leggibile a partire da elementi frammentati e in-
completi. Lynch sfrutta le potenzialità del mezzo cinematogra-
fico, anche se spesso i suoi film confondono e disorientano lo
spettatore, sottoponendolo a sensazioni ed emozioni legate ad
un mondo onirico idiosincratico. Come ben sintetizza Pierluigi
Basso Fossali, il cinema di Lynch rappresenta «il rifiuto di una
forma classica del racconto per immagini a favore di un mo-
dello musicale [assieme al] recupero della tradizione delle arti
visive» (Basso Fossali, 2006, pp. 28-29). Quando Lynch si è
avvicinato ad altri mezzi di espressione artistica lo ha fatto non
solo per sondarne le peculiarità ma anche per sperimentarne
le potenzialità. Ciò è avvenuto, per esempio, con il disegno, la
pittura, la video arte, la scrittura di canzoni, ma anche con le
tecnologie digitali, vero punto di interesse a partire dal 2000.
Altre volte Lynch si è avvicinato ai linguaggi dei media per
evidenziarne i limiti: pensiamo alla scarsa qualità dell’imma-
gine televisiva rispetto al cinema, più volte ribadita dal regista
che però, nonostante tutto, scrive e gira diverse serie tv perché
il mezzo gli permette di raccontare storie lunghe e di ampio re-
spiro. In altro modo, le potenzialità del web sono per lui legate

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a una frammentarietà narrativa ancora più accentuata: all’inizio
del nuovo millennio, il suo sito web (www.davidlynch.com) è
stato il luogo di pubblicazione di cortometraggi, brevi fram-
menti ed esperimenti visivi e narrativi, ossia di idee trasposte
in immagini che difficilmente avrebbero potuto trovare colloca-
zione in altri media.

Molti dei saggi che qui presentiamo sottolineano il fatto che


la produzione di Lynch possa essere letta come la creazione
in progress di un’identità visiva e concettuale molto coerente,
vicina alla creazione di un discorso di marca (Floch, 1995;
Marrone, 2007). Troviamo infatti logiche di autocitazione, tra-
sposizione, auto-remake che si possono identificare sia nel suo
cinema, sia nei cortometraggi, nei videoclip e nelle produzioni
pubblicitarie, tanto che i diversi prodotti mediali dialogano tra
loro in un continuo rimando identitario. Ricordiamo che per
Jean-Marie Floch, che riprende Ricoeur3, la costruzione dell’i-
dentità di una marca è dinamica e processuale, dato che ogni
marca deve perseguire una propria riconoscibilità proponendo
una serie di invarianti formali e valoriali pur dovendo essere
sempre flessibile e aperta ai contesti storico-culturali.
Alla costruzione dell’identità nel cinema di Lynch è dedi-
cato il saggio di Leonardo Gandini. Confrontando la logica
identitaria presente in due film di Lynch (The Elephant Man
del 1980 e Lost Highway del 1997), Gandini richiama studi
sociologici, antropologici e filosofici sul concetto di identità
e sottolinea come non sia possibile in Lynch evidenziare una
netta opposizione tra una costruzione identitaria nel contesto
sociale (che potrebbe riguardare l’alterità della mostruosità di

3. Paul Ricoeur indaga la dualità identitaria dell’individuo sociale come


un altalenare tra identità idem e identità ipse in un processo in continuo
divenire. Se la prima (identità idem) indica la condizione di invariabilità
nel tempo, cioè il lato statico dell’identità formato dal «carattere» e dalle
«esperienze acquisite», la seconda (identità ipse) indica invece la costruzione
dell’identità come processo dinamico, tramite l’esperienza dell’altro da sé e
il «mantenere la parola data». Per Ricoeur l’ipseità è la dimensione narrativa
dell’identità, dato che «in parecchi racconti, il sé cerca la propria identità
sulla scala di un’intera vita» (1990, p. 203).

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John Merrick) e una costruzione identitaria interna al personag-
gio stesso (la metamorfosi di Fred in Pete). Lynch ci propone
qualcosa di più complesso delle semplici opposizioni; nel suo
cinema ogni processo identitario di costruzione dei personaggi
è fluido, problematico, contaminato sia da elementi di alterità
sociali sia da elementi di differenze individuali.
Oltre alla costruzione identitaria dei personaggi, nel nostro
libro ci occupiamo anche del processo di creazione in progress
di un’identità visiva, narrativa e stilistica del regista Lynch,
particolarmente importante per interpretare altri suoi prodotti
mediali come la pubblicità e i video musicali.
Cinzia Bianchi si concentra sulle produzioni pubblicitarie,
procedendo a una disamina sia delle varie campagne che Lynch
ha ideato e girato, sia delle molte altre produzioni che con il
passare degli anni si distaccano sempre più dalle forme tradi-
zionali di pubblicità per divenire forme promozionali inedite,
con una cifra stilistica e autoriale ben identificabile, in cui le
situazioni rappresentate dialogano, in un continuo rimando in-
tertestuale, con i suoi film e cortometraggi. Si tratta in questo
caso di una progressiva rivisitazione dei generi mediali che
può essere identificata anche in altri ambiti della produzione di
Lynch, come sottolinea il saggio di Marco Teti riguardo ai vi-
deo musicali. Alcuni di questi, specialmente i primi, sembrano
nascere un po’ per caso e sono poco accurati al livello formale.
Progressivamente però le sperimentazioni visive sul linguaggio
videomusicale, di per sé propenso a contaminazioni tra ele-
menti formali eterogenei, portano Lynch a mettere a punto uno
stile peculiare in cui emerge in modo preponderante una mar-
ca autoriale ben identificabile e originale, come accade con il
videoclip-documentario Duran Duran: Unstaged (2011).
I saggi di Bianchi e Teti, così come il saggio di Roy
Menarini dedicato a Twin Peaks, sottolineano come il processo
identitario e di riconoscibilità stilistica vadano di pari passo
con un parallelo processo di brandizzazione dell’autore Lynch.
Il quale ha indubbiamente saputo interpretare le trasformazioni
mediali in atto: un indebolirsi progressivo dei confini testuali
dei singoli media fino a una sorta di «polverizzazione mediale»

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(Eugeni, 2015) e una tendenza produttiva transmediale vanno
assieme a pratiche di consumo sempre più frammentate ed
errabonde, tra piattaforme web e tempi di fruizione che i fan
possono scegliere con maggior libertà4. Nel caso di alcune sue
produzioni recenti, come la terza stagione di Twin Peaks - Il
ritorno (2017), o alcune promozioni pubblicitarie (ad es. il ca-
so Lady Dior, Dom Pérignon o Louboutin rouge) si potrebbe
parlare di un processo di media franchise, così come ci viene
spiegato da Derek Johnson (2016): ogni singolo prodotto appa-
re infatti progettato fin dall’origine per entrare in sinergia con
produzioni destinate ad altri media, vive di un’intermedialità
necessaria per produrre altra testualità e per favorire la parteci-
pazione e la condivisione nei social da parte dei fan5.

2. Riconoscibilità stilistica e figuralità

Ragionare su Lynch come brand vuole dire confrontarsi


con almeno due ordini di problemi. Il primo riguarda, come
già anticipato, la disseminazione transmediale del lavoro di
Lynch su diversi media e linguaggi: dalla pittura, fotografia e
design, ai film e agli altri audiovisivi fino ai corti animati, ai
quali Lynch apporta un’attitudine alla ricerca e alla sperimen-
tazione, che trasforma dall’interno i diversi linguaggi espressivi
con cui si confronta. Il secondo problema è dato dalla “rico-
noscibilità” autoriale di Lynch nelle varie piattaforme o nei
dispositivi mediali con cui si confronta. Una riconoscibilità

4. Pensiamo al fenomeno del “transmedia storytelling” studiato da Hen-


ry Jenkins (2006); tra i molti studi sull’argomento si veda anche Dusi (2015).
5. Questa affermazione non deve essere intesa come un giudizio sul
valore estetico e artistico dei testi mediali di Lynch, ma solo come una ri-
flessione sulla logica produttiva a cui il regista si adegua. Seguendo Johnson,
il modello del media franchise spiega infatti l’attuale «migrazione verso
l’industria dei media di logiche di mercato provenienti da altre imprese»
(2016, p. 27) e ci permette di comprendere meglio l’attuale espansione della
produzione culturale attraverso media e settori industriali, ma non implica
necessariamente che i prodotti costruiti seguendo tale logica difettino di cre-
atività e originalità.

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permessa da quelle “torsioni” peculiari e da quelle rotture dei
codici tradizionali che Lynch persegue su più piani espressivi
e contenutistici, strutturando sul piano dell’espressione perce-
zioni, affettività, modi della corporeità e sensibilità mediale,
e sul piano del contenuto modi discorsivi e narrativi, universi
valoriali e tematici. Ma anche insistendo su configurazioni ri-
petute e quasi ossessive in termini figurativi (a metà strada tra
espressione e contenuto). I racconti di Lynch, nei diversi media,
usano strategie enunciative e passionali specifiche per costruire
un’esperienza mediale, che i saggi raccolti in questo volume
esaminano con attenzione: in generale, diremo che essa appare
più fondativa e cupa nei cortometraggi e nei primi film, mentre
diventa tendenzialmente più ludica e autoreferenziale, farci-
ta di citazioni e allusioni meta-discorsive, nei film successivi
all’esperimento televisivo di Twin Peaks, per affermarsi come
norma nei più recenti videoclip e negli audiovisivi pubblicitari.
L’universo Lynch inteso come “marca autoriale” andrebbe
allora pensato come un mondo in cui convivono stilemi ripetuti
e (quindi) riconoscibili, modi discorsivi e modi poetici della
sperimentazione sui linguaggi: sarebbe cioè, seguendo Jacques
Fontanille (2015), una “forma di vita” in cui tutto resta coeren-
temente legato e riconoscibile, un sistema di senso complesso
e in divenire, i cui singoli prodotti e discorsi stanno tra loro in
una relazione di traduzione e reinterpretazione costante6.
La riconoscibilità del brand Lynch come forma di vita ci
porta inevitabilmente a ricercare una continuità formale che
vada al di là del semplice riconoscimento di elementi ricorren-
ti. Non c’è infatti solo una riconoscibilità figurativa e stilistica
delle rappresentazioni e delle messe in scena dei prodotti me-
diali firmati da Lynch: c’è qualcosa di più, a livello espressivo,

6. La “forma di vita” dell’universo Lynch sarebbe quindi un insieme


formato da pratiche, oggetti – come nel caso del David Lynch Signature Cup
Coffee, con design e packaging di Lynch, si veda in questo volume il saggio
di Bianchi –, segni e testi prodotti da semiotiche audiovisive, pittoriche,
sonore, e discorsi – intesi sia come organizzazioni di punti di vista sia come
modi discorsivi diversi, tra i quali vanno considerate anche le molte intervi-
ste concesse da Lynch negli ultimi anni –, nonché dalle strategie di costru-
zione della coerenza di questo universo sensato e sensibile.

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come dimostra l’attenzione al sonoro, o meglio alla “tavolozza
dei suoni” per creare mondi e produrre sensazioni, di cui tratta
nel suo saggio in questo volume Lucio Spaziante analizzando
l’“espressionismo astratto” del suono in Eraserhead (1977), e il
sound design di Una storia vera (1999) e di Mullholland Drive
(2001). E c’è una ricerca pittorica che ritorna in Lynch come
costante figurale, e come passaggio dall’ottico all’aptico (o tat-
tile), come argomenta nel suo saggio Nicola Dusi sofferman-
dosi su Eraserhead ma anche su alcuni momenti perturbanti
di Velluto blu (1986), Strade perdute (1997) e dell’ultimo Twin
Peaks e confrontandoli con i dipinti di Francis Bacon. A livello
del contenuto, proprio in Twin Peaks, risalta la ricerca dell’iro-
nia surreale e del modo comico, dello spiazzante e del bizzarro,
del trasgressivo e dell’horror, come sostiene Roy Menarini nel
suo saggio per questo libro. Si tratta in effetti di un’identità
visiva costruita su ciò che la semiotica definisce come rete figu-
rale, cioè un insieme di modi espressivi dati da intrecci al con-
tempo ritmici, percettivi e affettivi, e una forma di invarianza
negli effetti di senso, o meglio nell’esperienza sensibile prevista
per lo spettatore. Un ritorno e un’invarianza che permettono, in
maniera più sottile e pervasiva, la riconoscibilità del marchio
Lynch.
Per approfondire la pista figurale ci viene in aiuto, ancora
una volta, il pensiero di Floch. In un articolo del 1993, Floch
riapriva la questione dei rapporti tra “iconico” e “figurativo”,
parlando di una messa in presenza dell’iconico e di diverse
astrazioni, con diversi scopi ed effetti. Ragionando di figura-
lità in termini semiotici non bisogna, secondo Floch, pensare
a un solo livello astratto nel passaggio graduale della figura
dall’astrazione all’iconizzazione7. Per intenderci, un passaggio
da un figurativo “astratto” a una rappresentazione riconoscibile
si produce nella trasformazione graduale che aggiunge dettagli
e addensa pixel a una figura dapprima solo sbozzata, per farla

7. Un passaggio prodotto dalla densità dei “semi figurativi”, cioè quelle


unità minime che permettono la costruzione, a partire da contrasti e figure
plastiche, di “formanti” figurativi (per arrivare ai segni visivi).

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diventare silhouette e poi, nella modellazione di un disegno in
3D, raffinarla nella rappresentazione (texture della pelle, capel-
li, abbigliamento e accessori), fino ad arrivare alla costruzione
digitale di un personaggio fantastico credibile.
Floch intende superare queste categorie descrittive, che lui
stesso aveva contribuito a lanciare come metodologia delle
analisi semiotiche del visivo, per svilupparle in una «sociosemi-
otica delle attitudini che adottano le culture di fronte ai loro
segni» (1993, p. 9). Secondo Floch, bisogna allora differenziare
almeno tre modi dell’astrazione, a seconda del tipo di lettura
che si decide di rendere pertinente e a partire dall’oggetto te-
stuale che si ha di fronte: vi sarebbero così una «astrazione del
figurativo», una «astrazione dell’iconico» e una «astrazione del
plastico». Sono altrettanti modi semiotici i cui metodi ed effetti,
secondo Floch, risultano molto diversi: nell’astrazione figura-
tiva avremo un «découpage culturale o una griglia di lettura»;
nell’astrazione iconica, invece, troviamo «un essere-nel-mondo
o una messa in presenza»; infine nell’astrazione plastica si
produce «una messa in intensità del mondo e del sé» (1993, p.
9). Anche se discutibile su alcuni aspetti teorici, l’intuizione di
Floch è preziosa, perché riapre il problema dell’efficacia del
testo visivo – e audiovisivo – e si avvicina secondo noi all’at-
tuale problematica della figuralità nei testi. Floch problematiz-
za infatti un effetto di presenza, e riesce a porre in relazione,
nell’astrazione del livello plastico, il ritmo visivo con un livello
profondo della valorizzazione sensibile e percettiva, in cui si
produce una tensione tra piacere e disgusto. La sua proposta
può a nostro avviso contribuire a creare un ponte tra due acce-
zioni di figuralità che si tratteggiano in questo volume quando
si analizzano i mondi e i prodotti mediali targati Lynch. Una
figuralità come supporto alla rappresentazione figurativa, di
taglio più fenomenologico, e una figuralità più energetica nella
prospettiva psicoanalitica. In fondo, ha ragione Chion quando
scrive:

Lynch insiste spesso sull’aspetto astratto del proprio lavoro; e di rado


se ne tiene conto, forse perché si pensa all’accezione abituale del ter-
mine ‘astratto’ in pittura (come opposto a figurativo), mentre si trat-

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ta qui di un livello astratto di apprendimento della realtà, come per
esempio la questione del ribaltamento completo che si produce quan-
do si altera la scala di riferimento nella visione (Chion, 2000, p. 243).

Nell’universo Lynch troviamo come costanti degli effetti di


presenza creati dall’astrazione iconica, ma soprattutto un’atten-
zione alla forza delle immagini (che Floch chiamerebbe una
“messa in intensità”), che affiora non appena ci allontaniamo
dalla lettura tradizionale della narrazione e della rappresenta-
zione – cioè dagli schemi cognitivi e percettivi depositati dalla
nostra interpretazione figurativa della realtà –, e accettiamo
invece di socchiudere gli occhi, entrare nei contrasti plastici
e prestare attenzione con l’udito e gli altri sensi. Un “livello
astratto di percezione della realtà”, che diventa un modo di
percepire gli effetti della costruzione espressiva e stilistica del
film, dell’episodio televisivo, dello spot o del videoclip, che
Lynch ha sognato e costruito per noi.

Riferimenti bibliografici

Basso Fossali P. (2006), Interpretazione tra mondi. Il pensiero


figurale di David Lynch, ETS, Pisa.
Chion M. (1992), David Lynch, Éditions de l’Étoile, Cahiers du
Cinéma, Paris (trad. it.: David Lynch, Lindau, Torino, 2000).
Dusi N. (2015), Contromisure. Trasposizioni e intermedialità,
Mimesis, Milano-Udine.
Eugeni R. (2015), La condizione postmediale. Media, linguaggi e
narrazioni, La Scuola, Milano.
Floch J.M. (1993), “L’opposition abstrait/figuratif mérite-t-elle
qu’on prenne de graves options méthodologiques en sémiotique
visuelle?”, Versus, n. 65/66, monografico: “Del visibile”, pp. 3-12.
Floch, J.M. (1995), Identités visuelles, PUF, Paris (trad. it.: Identità
visive. Waterman, Apple, Ibm, Chanel, Ikea e altri casi di marca,
FrancoAngeli, Milano, 2016).
Fontanille J. (2015), Formes de vie, Presses Universitaires de Liège,
Liège.
Jenkins H. (2006), Convergence culture: Where old and new media
collide, New York University Press, New York (trad. it.: Cultura
convergente, Apogeo, Milano, 2007).

15
Johnson D. (2016), Media, Franchising. Creative License and
Collaboration in the Culture Industries, New York University
Press.
Marrone G. (2007), Il discorso di marca. Modelli semiotici per il
branding, Laterza, Roma-Bari.
Ricoeur P. (1990), Soi-même comme un autre, Seuil, Paris (trad. it.:
Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993).

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1. David Lynch e la pubblicità
di Cinzia Bianchi

La pubblicità è il capitolo meno studiato (e forse meno cono-


sciuto) della produzione di David Lynch, pur essendo anch’esso
ricco, variegato e anche un po’ controverso, come in definitiva
tutto il resto. In questo saggio cercheremo di tracciare un pro-
filo complessivo del rapporto di Lynch con la pubblicità, cer-
cando di proporre alcuni spunti di riflessione su questo aspetto
della sua produzione artistica che non viene spesso preso in
considerazione dagli studiosi del suo cinema e soprattutto dagli
appassionati lynchani, che mal digeriscono questa sua piega
commercial, un po’ meno onirica e visionaria dei suoi film e
delle sue serie tv (anche se molto onirica e visionaria rispetto
al genere pubblicitario). La sua pubblicità viene spesso declas-
sata a “produzione minore”, considerata troppo frammentaria
per consentire un discorso organico, sebbene alcuni studiosi di
varie discipline si siano già concentrati su alcuni spot, promo
e cortometraggi pubblicitari che la compongono. La brevità
del mio saggio non mi permetterà di completare questa fram-
mentarietà di analisi, semiotiche e mediologiche; una ricostru-
zione che invece sarebbe necessaria, adottando uno sguardo
diacronico e sottolineando lo stretto legame che queste forme
pubblicitarie hanno con la sua coeva produzione cinematografi-
ca, pittorica e televisiva, spesso anticipandone temi e soluzioni
innovative.
L’ipotesi fondamentale che vorremmo dimostrare riguar-
da il fatto che Lynch, in quanto maestro e sperimentatore dei

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linguaggi mediali, è riuscito anche nell’ambito pubblicitario a
giocare con il genere, cogliendone le caratteristiche salienti e
portandole alle estreme conseguenze. Per questo è necessario
ampliare lo sguardo, non parlare cioè solo delle singole pub-
blicità di Lynch, dei suoi prodotti testuali o delle singole cam-
pagne, ma del suo rapporto con la pubblicità (in generale) che,
come vedremo, ha subito una notevolmente evoluzione con il
passare degli anni; uno sguardo che ci sembra particolarmente
appropriato per il suo tipo di poetica, dato che la produzione
pubblicitaria di Lynch comprende certamente spot per singole
campagne pubblicitarie, ma anche promo, videoclip o (meglio)
cortometraggi che, specialmente dopo gli anni Duemila, svol-
gono la funzione di promozione pubblicitaria, coinvolgendo il
regista a volte nella produzione grafica di etichette o confezio-
ni, altre volte nell’evento promozionale o addirittura nella pro-
duzione stessa del prodotto. Insomma, studiare il rapporto che
Lynch ha intrattenuto con il mondo pubblicitario durante tutta
la sua carriera vuol dire imbattersi in una variegata tipologia di
forme brevi della comunicazione – che a volte non sono neppu-
re tanto brevi rispetto al genere pubblicitario.
Studiare Lynch e la pubblicità vuol dire infine riflettere su
cosa sia la pubblicità d’autore, una produzione testuale costi-
tutivamente di frontiera, perché in essa si devono conciliare (e
non sempre ci si riesce) le istanze proprie del discorso di una
specifica marca con gli stilemi (temi, ambientazioni, tecniche
di regia e ripresa) di un regista, di cui l’azienda si presuppone
apprezzare il valore estetico e innovativo. Come vedremo in
questo saggio, Lynch sembra proporre in varie fasi della sua vi-
ta le diverse possibilità di interazione tra le esigenze del discor-
so di marca e quelle dello stile dell’autore, facendo prevalere
a volte le prime a volte le altre, oppure, nei casi più fortunati,
proponendo un connubio testuale convincente ed efficace stili-
sticamente e comunicativamente.

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1. Uno sguardo d’insieme

Prima di proporre una nostra chiave di lettura tematica e


semiotica, non possiamo sottrarci a una ricostruzione cronolo-
gica, proponendo e commentando brevemente l’elenco dei pro-
dotti pubblicitari di Lynch che sono a nostra conoscenza1.

1988 Calvin Klein – Obsession – 4 spot a partire da brani let-


terari
1990 New York City – Clean Up. We care about New York –
Campagna sociale
1991 Japanese Georgia Coffee – 4 spot seriali su plot di Twin
Peaks
Teaser per il videoclip Dangerous di Michael Jackson
Asymmetrical Productions – Promo per la sua casa di
produzione video
1992 Giorgio Armani Giò – Who is Giò?
Yves Saint Laurent – Opium
1993 Lancôme – Trésor
Jil Sander Background – The Instinct of Life
American Cancer Society – Reveal – Campagna sociale
Adidas – The Wall
Barilla – Barilla: Café
Alka-Seltzer Plus
1994 Karl Lagerfeld – Sun, Moon, Stars
1997 Promo di SciFi Channel – Ever Wonder?
Clear Blue Easy One Minute – Olgivy and Mother

1. Non si può essere completamente sicuri del fatto che l’elenco proposto
sia completo per fattori oggettivi, come la reperibilità delle pubblicità o la
poca attenzione a loro dedicata nelle storie biografiche su Lynch; oppure per
la difficoltà a identificare con sicurezza l’autorialità di alcuni spot, special-
mente a partire dagli anni Duemila, da quando cioè la figlia Jennifer ha ini-
ziato a collaborare come regista con il padre alla casa di produzione audio-
visiva di loro proprietà: Asymmetrical Productions. Sappiamo poi per certo
che alcune volte Lynch è l’autore di pochissimi spot di intere campagne,
di cui rimane eventualmente responsabile creativo. La maggior parte degli
audiovisivi di cui parleremo è consultabile su YouTube oppure al seguente
indirizzo web: www.cinziabianchi.it/mm/av/lynch.

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1998 Parisienne Cigarettes – Parisienne people
2000 Sony Playstation 2 – Welcome to the Third Place
JC Decaux
2002 Nissan Micra – Do you speak Micra?
2006 David Lynch Signature Cup Coffee – produzione, design
del packaging, annunci-stampa, promo e spot
2007 Gucci by Gucci – Heart of the Glass
2010 Christian Dior – teaser It holds the love e Lady Blue
Shangai – cortometraggio pubblicitario di 16 min.
2011 Dom Pérignon – The Power of Creation – spot, promo,
design per etichette a numero limitato
The 3 Rs – Trailer per il Vienna International Film
Festival
2014 Louboutin Rouge – spot di Lynch dopo la collaborazione
con Louboutin per mostre fetish di scarpe e quadri del
2007

Le cronache ci raccontano che Lynch abbia ricevuto la pri-


ma offerta per la realizzazione di una campagna pubblicitaria
da Calvin Klein per il nuovo profumo Obsession dopo il suc-
cesso di Velluto Blu (Blue Velvet, 1986). E negli anni Novanta
altre marche di profumi collaborano con il regista, come
Giorgio Armani, Yves Saint Laurent, Lancôme, Jil Sander, Karl
Lagerfeld e poi, più recentemente, Gucci e Christian Dior (che
però si fa pubblicizzare una borsa dedicata a Lady Diana). Tutti
questi audiovisivi costituiscono un corpus di analisi omogeneo,
forse l’unico veramente omogeneo nella produzione pubblicitaria
di Lynch, come vedremo in specifico nel paragrafo 2. Gli altri
prodotti pubblicitari sono invece piuttosto variegati per tipologia
commerciale e per complessità testuale; spaziano dalle campa-
gne sociali (sul problema dei ratti a New York e la prevenzione
dei tumori per la American Cancer Society); ai promo musicali
(teaser per il videoclip Dangerous di Michael Jackson) e di ca-
nali televisivi (SciFi Channel); fino agli spot per Barilla, Alka-
Seltzer Plus e per il nuovo test di gravidanza Clear Blue Easy.
In alcuni di questi spot è davvero difficile riconoscere lo
stile proprio del regista e non si deve assolutamente sottovalu-

20
tare il ritorno economico di tali prodotti, che è stato necessa-
rio a Lynch per portare avanti altri suoi progetti. Non saremo
certamente noi a proporre questa come unica chiave di lettura,
anche perché alcuni degli spot già citati, e sicuramente quelli
prodotti negli anni più recenti, si caratterizzano come dei testi
in cui il mondo immaginifico di Lynch e i suoi stilemi si di-
spiegano in modo compiuto, facendo dialogare tali prodotti con
tutto il resto della sua produzione audiovisiva.
Vedremo quindi come gli spot a cavallo degli anni Duemila
(in particolare Parisienne Cigarettes, Playstation 2 e Nissan
Micra) si costituiscono come una vera e propria sinergia creati-
va tra stile del regista e discorso di marca (cfr. par. 4); e come
invece i prodotti successivi siano un punto di approdo (finora)
della sperimentazione lynchana per quanto riguarda l’ambito
pubblicitario.
In questi ultimi infatti, le forme pubblicitarie “classiche”
lasciano spazio a fenomeni promozionali più ampi in cui i sin-
goli spot (se presenti) sono il risultato di progetti multimediali
e transmediali – come accade con la collaborazione per mostre
di quadri e scarpe fetish con Louboutin, oppure con il progetto
di design, documentari e promo per Dom Pérignon (cfr. par. 6).
Oppure quando la proposta pubblicitaria è anche la proposta
di un nuovo brand di caffè, come accade con la David Lynch
Cup Coffee (cfr. par. 3). Oppure ancora, quando la forma spot
cambia natura, diventando un vero e proprio cortometraggio
pubblicitario (cfr. Lady Blue Shangai per Christian Dior nel
par. 5), complici le possibilità offerte dal web, così come sono
state sondate da Lynch a partire dal dicembre 2001 con il suo
sito www.davidlynch.com, sito di culto per estimatori e fan che
hanno accettato a lungo di pagare per avere in esclusiva i corti
del loro regista preferito.

2. Pubblicizzare i profumi

Come sappiamo, il profumo è un prodotto difficile da pub-


blicizzare. Come un audiovisivo o un annuncio-stampa può tra-

21
smettere il senso dell’aroma e di un’essenza che il consumatore
non può esperire direttamente tramite l’olfatto? A partire dagli
anni Sessanta e Settanta la pubblicità ha intrapreso un lungo
percorso di ricerca per identificare una grammatica dei sensi,
sempre meno legata alla descrizione verbale delle sensazioni
provate dai soggetti rappresentati2 e sempre più orientata alla
costruzione di un rapporto estetico, estesico (e sinestetico) tra
consumatore/lettore e testo. Un nuovo modo di rappresentare e
narrativizzare le emozioni e le sensazioni non è ovviamente un
fenomeno che riguarda solo la pubblicità; anzi, dal punto di vi-
sta teorico, la cosiddetta “semiotica delle passioni” si è concen-
trata primariamente su altri tipi di testi, giungendo solo molto
tardi a riconoscere questa tendenza anche nei testi pubblicitari3.

Quando nel 1988 Lynch ha iniziato a girare gli spot per il


profumo Obsession di Calvin Klein, la pubblicità si trovava nel
mezzo di questo percorso verso il passionale. Non c’era ancora
una vera e propria grammatica dei sensi e per questo non ci
sembra inappropriato affermare che le campagne di Lynch ab-
biano contribuito a definirla e consolidarla.
Ci stiamo riferendo innanzitutto a quattro spot che il re-
gista ha ideato a partire da quattro brani letterari di F. Scott
Fitzgerald, D.H. Lawrence, Ernest Hemingway e Gustav
Flaubert. Fotografia in bianco e nero, affascinanti attori con lo
sguardo perso nel vuoto, in continuità con l’identità della marca
Calvin Klein, a cui si aggiungono caratteristiche dell’estetica
di Lynch: tono noir, atmosfera onirica, inusuali inquadrature
di primi piani e parti di corpi, luci lampeggianti, una vera pas-
sione del regista. Ognuno di questi spot ha poi delle peculia-
rità: più romantico il primo, costruito su un brano del Grande

2. Ricordiamo al proposito l’acuta osservazione di Eco (1968, p. 176)


quando, analizzando l’annuncio-stampa del profumo Camay, constata come
ci sia una contraddizione tra registro visivo, più sofisticato, e registro verba-
le, che cerca di spiegare in modo più didascalico le caratteristiche del profu-
mo e l’effetto che deve provocare nei personaggi (e quindi nei consumatori).
3. Per le passioni in pubblicità cfr. in particolare Melchiorri (2002);
Bianchi (2005, cap. 5); Traini (2005 e 2008).

22
Gatsby di Fitzgerard, che culmina con un sensuale bacio tra
i due attori in un campo di stelle; più intimo il secondo, che
sottolinea con le immagini il lessico amoroso di Lawrence in
Donne in amore; più spettrale (e forse più “lynchano”) quello
che rappresenta un passaggio di Fiesta-Il sole sorgerà ancora
di Hemingway. In quest’ultimo spot un uomo seminudo è sve-
glio in una stanza buia, piena di ombre grottesche, ossessionato
dalle visioni di una donna che, dopo un lampo di luce, gli bacia
la guancia. È allora il momento di inquadrare l’occhio dell’uo-
mo, che si riempie di una lacrima, a sancire la sua ossessione
per un amore che forse c’è solo nei suoi sogni4.

L’apprezzamento generale per questa prima campagna apre


la strada alla sperimentazione di Lynch nell’ambito pubblici-
tario e di comunicazione sociale, ma solo qualche anno dopo,
tra il 1992 e il 1994, torna a girare spot di profumi, in perfetta
continuità con il passato.

4. Ecco i brani narrati da una voce maschile fuori campo:


“He knew that when he kissed this girl, and forever wed his unutterable
visions to her perishable breath, his mind would never romp again like the
mind of God. So he waited, listening for a moment longer to the tuning-
fork that had been struck upon a star. Then he kissed her. At his lips’ touch
she blossomed for him like a flower and the incarnation was complete”
(Fitzgerard, The Great Gatsby, 1925);
“Her fingers went over the mould of his face, over his features. How
perfect and foreign he was – ah how dangerous! Her soul thrilled with com-
plete knowledge. This was the glistening, forbidden apple… She kissed him,
putting her fingers over his face, his eyes, his nostrils, over his brows and
his ears, to his neck, to know him, to gather him in by touch” (Lawrence,
Women in Love, 1920);
“I lay awake thinking and my mind jumping around. Then I couldn’t
keep away from it, and I started to think about Brett. I was thinking about
Brett and my mind started to go in sort of smooth waves. Then all of a sud-
den I started to cry. After a while it was better and I lay in bed and listened
to the heavy trams go by… and then I went to sleep” (Hemingway, The Sun
Also Rises, 1926).
Non è invece disponibile lo spot basato sul brano di Flaubert, che sap-
piamo avere come protagonista Lara Flynn Boyle, una degli attori di questi
spot che reciteranno a breve anche in Twin Peaks (insieme a Heather Gra-
ham e James Marhall). A questi si aggiunge un giovanissimo Benicio Del
Toro.

23
Se il tema letterario è predominante negli spot per Calvin
Klein, in The Instinct of Life, che promuove la fragranza ma-
schile di Jil Sanders, prevalgono motivi pittorici: le tende rosse,
una candela come fonte primaria di luce che, spegnendosi, ren-
de scuro l’ambiente in cui si intravede solo il profilo dell’attore,
la cui energia viene paragonata a quella di una pantera nera,
mentre corrono entrambi nella notte. Negli altri spot viene mes-
sa in immagini l’esperienza sensibile: in Opium di Yves Saint
Laurent, l’immersione della telecamera nell’apertura nera di
una bottiglia di profumo viene seguita, dopo un gioco di dis-
solvenze, da un primo piano della donna che, con la testa incli-
nata verso il retro e con gli occhi chiusi, si sfiora il collo con le
sue dita profumate seguendo il climax della musica di Angelo
Badalamenti. E in Sun, Moon, Stars (per il profumo di Karl
Lagerfeld), Darryl Hannah vaga nei luoghi del suo desiderio
fluttuando tra le stelle mentre i suoi capelli chiari e il vestito
svolazzano in un flusso di immagini celesti che si dissolvono
una dopo l’altra.

Ma lo spot di questi anni, che emerge per complessità e


accuratezza è quello per il profumo Giò di Giorgio Armani.
Considerato come lo spot più politico di un regista piuttosto
apolitico5, è ambientato a Los Angeles e richiama le atmosfere
proprie del periodo tra la fine anni Ottanta e l’inizio degli an-
ni Novanta, durante il quale le tensioni razziali, con frequenti
scontri tra bande di asiatici, afroamericani e bianchi, a cui si
aggiunse una repressione eccessiva della polizia6, offuscarono
decisamente lo spirito creativo della città.

5. Cfr. in particolare Greg Olson, David Lynch: Beautiful Dark (2008),


una storia dettagliata dei film e della vita di Lynch, in cui abbiamo trovato
anche molte informazioni riguardanti la produzione pubblicitaria di Lynch.
6. Proprio durante le riprese dello spot, la città stava subendo saccheggi,
incendi e distruzioni di ogni tipo. Si tratta della cosiddetta “Rivolta di Los
Angeles” (29 aprile - 4 maggio 1992), una sommossa a sfondo razziale la
cui causa scatenante fu l’assoluzione degli agenti di polizia che l’anno prima
avevano pestato pesantemente il tassista afroamericano Rodney King, una
volta che si era arreso dopo un inseguimento durato molte ore lungo le vie
della città.

24
Il lungo spot, in bianco e nero, è suddiviso in parti interca-
late dalla domanda “Who is Giò?” e mostra una donna miste-
riosa, amata dagli uomini e ammirata da tutti, fotografata dai
paparazzi e che sembra possedere tutto ciò che si può desidera-
re, anche se spesso volge lo sguardo altrove, cercando qualcosa
di più e di diverso. La sua espressione è spesso sommessa e
inquieta e diventa davvero piena di vita solo durante una lunga
sequenza girata in un club musicale, dove un gruppo multiet-
nico di musicisti, ballerini e fotografi danza in modo concitato
e sensuale a ritmo di salsa. È una danza che ricorda il grande
ballo finale della serie tv On the Air (1992) e, al di là del pro-
fumo pubblicizzato, è chiaro l’appello di Lynch alla convivenza
pacifica tra razze e ceti sociali attraverso la musica e il ballo,
in contrapposizione ai disordini cruenti che stavano devastando
la città. Nel bel mezzo del ballo dello spot, Lynch non rinuncia
però a gettare un’ombra sulla scena, quando fa riaffiorare la
colonna sonora di Badalamenti in sincronia con il rallenti delle
immagini attraverso cui isola e enfatizza lo sguardo malinconi-
co di Giò, che chiude il racconto.

Se la produzione pubblicitaria di Lynch continua in modo


costante, dobbiamo aspettare il 2007 prima di trovare un nuovo
spot di profumi. Molti anni sono passati, nel mentre la pubblici-
tà ha elaborato complesse strategie comunicative per parlarci di
essenze, fragranze e sensazioni olfattive, sfruttando al meglio
il linguaggio sinestetico. Lo spot Heart of Glass per il nuovo
profumo di Gucci sembra invece sondare un’altra tendenza
emergente nel campo mediale e pubblicitario: il vintage7. Già
dal titolo dello spot di Gucci, è chiaro il riferimento all’este-
tica degli anni Settanta: fa da colonna sonora il famoso brano
di Blondie del 1978, al cui ritmo ballano le modelle (Raquel
Zimmermann, Freja Beha Erichsen e Natasha Poly) con vestia-
rio e acconciature vintage. Montaggio alternato tra interni del

7. Si tratta della diffusione, specialmente tra i giovanissimi, di un gusto


retrò che riguarda molte pratiche e sfere di consumo e molti tipi di audiovi-
sivi, così come viene approfondito da Daniela Panosetti e Maria Pia Pozzato
nel libro: Passione vintage (2013).

25
museo d’arte africana di Parigi e i boulevard illuminati della
città, fino a che immagini e musica perdono la sincronia, la-
sciando spazio a elementi plastici e a una strana luce dorata e
tremula nella quale i soggetti sembrano fluttuare e dissolversi in
una cascata luminescente.

3. Il caffè tra serialità e produzione

Le pubblicità di profumo ci mostrano come Lynch abbia co-


struito le sue campagne a partire da tendenze estetiche correnti
e proponendo proprie soluzioni stilistiche, ma senza alterare
il discorso di ogni singola marca e del sottogenere specifico.
Un’altra modalità attraverso cui un regista cinematografico può
costruire campagne pubblicitarie è invece quella che analizze-
remo in questo paragrafo.
Siamo nel 1991 e Lynch ha affrontato per la prima volta
la serialità televisiva con I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks
1990-1991). La serie riscuote un enorme successo tanto da
divenire immediatamente oggetto di culto; in particolare in
Giappone, dove diventa riferimento per una campagna pubbli-
citaria di una nota marca di caffè, Georgia Coffee. Si tratta di
quattro spot di trenta secondi, dove viene rivisitato il mondo
della serie televisiva: stessa ambientazione, stessa colonna so-
nora di Badalamenti, stessi attori, a partire dall’agente speciale
dell’FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan) e dai personaggi
della stazione di polizia, come l’agente Hawk, il vice sceriffo
Andy, la segretaria Lucy e la signora Log, con il suo insepara-
bile ceppo. Nel loro insieme i quattro spot raccontano la storia
dell’indagine di Cooper per localizzare Isami, una giovane don-
na giapponese scomparsa, e ricongiungerla con il suo ragazzo,
Ken. Ogni episodio si conclude nella stazione di polizia o nella
caffetteria della mitica torta di ciliegie, con l’agente Cooper che
approva entusiasta il caffè in lattina Georgia Coffee mostrando
il pollice rivolto verso l’alto.
È chiaro come in questo caso la notorietà della serie televi-
siva faccia da sfondo alla pubblicità e come questa sia un’altra

26
possibile modalità attraverso cui un regista produce i suoi pro-
dotti pubblicitari: uno stretto riferimento intertestuale ad altri
suoi testi audiovisivi, cinematografici e televisivi.
Trasmessi nel 1991 solo in Giappone, tali spot sono “rie-
mersi” solo di recente, grazie alla globalizzazione della circo-
lazione degli audiovisivi sul web, e in particolare su YouTube,
ma soprattutto perché sono stati inseriti da Lynch stesso tra i
promo di lancio per la terza stagione di Twin Peaks (maggio
2017)8. Si tratta, come è evidente, di un cortocircuito comuni-
cativo tipico degli ultimi anni, in cui i generi testuali tendono
a interagire maggiormente e a costruire insiemi mediali più
disorganici e frammentari. Lynch sembra giocare su questo
processo di disgregazione e ricomposizione testuale, complici
ovviamente le potenzialità del web e la fedeltà dei suoi fan, su
cui ha scommesso da tempo9. Per rimanere nell’ambito della
promozione del caffè, un esempio che possiamo citare riguarda
la marca David Lynch Signature Cup Coffee, un’impresa in cui
il regista è divenuto anche produttore e brand di se stesso.

Quando Lynch ha lanciato la sua linea di caffè biologico ed


equo-solidale nel 2006, non ci fu una vera e propria campagna
pubblicitaria: il suo nome nel brand e la sua notoria predilezio-
ne verso questa bevanda, ribadita continuamente e non solo in
Twin Peaks, ha funzionato come promozione indiretta per la
nuova marca di caffè. Infatti, i primi spot del 2008 che trovia-
mo sul web riferiti a questa marca sono prodotti dai fan che ri-
chiamano, a volte in modo parodistico o esasperato, gli stilemi
lynchani presenti in film (come Eraserhead del 1977) o in altri
cortometraggi. Solo dal 2009 David Lynch decide di produrre
(o far produrre) spot, annunci-stampa e promo “ufficiali” della
marca. Il primo promo Follow the finger fu seguito due anni
dopo dal secondo, in cui sentiamo la voce del regista intratte-
nere un “dialogo” piuttosto bizzarro sulle qualità del caffè con

8. A Twin Peaks e alle differenze tra le tre stagioni della serie è dedicato
il saggio di Roy Menarini nel presente volume.
9. Per approfondire le pratiche di replicabilità intertestuale, di citazione e
auto-citazione, di remix e remake descritte, cfr. Dusi-Spaziante (2006).

27
una Barbie di cui viene inquadrata, in modo piuttosto approssi-
mativo, solo la testa. Dopo le proteste ufficiali della Mattel, il
promo viene ritirato (anche se circola ancora su YouTube, forse
in un’altra versione di qualche anno dopo). Lo spot ufficiale, Oh
Yeah, viene girato da Lynch solo nel 2012: 45 secondi di fondo
nero e camera fissa, con una colonna sonora cupa, da cui emer-
gono in modo cadenzato la busta con la polvere di caffè, la
macchinetta, la tazza in cui finisce il caffè, Emily Stofle che se
lo gusta pronunciando per due volte l’espressione di apprezza-
mento “Oh Yeah”. A questo spot, particolarmente criticato dai
fan sul web, ne seguono poi nel 2015 altri due: Feel Good della
figlia Jennifer e It’s for people di Andrew Parkhurst. Ma la vera
novità di questi anni consiste proprio nella capacità dei fan di
produrre un numero considerevole di corti non-ufficiali, sem-
pre molto cupi o parodistici, che però contribuiscono, spesso
inconsapevolmente, alla promozione del prodotto David Lynch
Signature Cup Coffee in modo molto più capillare ed efficace
di come avrebbe potuto fare qualsiasi altra campagna pubblici-
taria, seppur diretta e ideata da un regista come Lynch10.

4. Singolarità e intertestualità negli anni Duemila

Facciamo un passo indietro. Siamo nel 1998 e Lynch


gira uno spot per la marca di sigarette svizzere Parisienne
Cigarettes. Non è l’unico regista a cui l’azienda ha commis-
sionato uno spot per la sua campagna pubblicitaria Parisienne
People, dal momento che dal 1994 si è avvalsa della collabora-
zione, tra gli altri, anche di Emir Kusturica, Roman Polansky, i
fratelli Coen, Wim Wenders, Robert Altman, Jean-Luc Godard.
Tutti gli spot prodotti hanno una caratteristica comune: sono
tipici del cinema dei registi e invitano il lettore a giocare con il

10. La dinamica di produzione testuale appena descritta può essere me-


glio compresa facendo riferimento a una caratteristica specifica dei nuovi
media che Lev Manovich definisce Remix-culture e che ha favorito l’espan-
dersi di nuove forme variate e frammentate di testualità. Cfr. in particolare
Manovich (2001), ma anche i suoi libri successivi.

28
testo, a individuare i riferimenti intertestuali o semplicemente a
riconoscere stilemi autoriali propri di una specifica modalità di
fare cinema.
In questo tipo di campagne pubblicitarie è messo in atto
un processo di delega da parte della marca, il cui discorso
sembra scomparire per far emergere in modo preponderante
quello dell’immaginario filmico, che nel caso di Lynch vuol
dire anche far emergere le sue ossessioni e l’ambiguità testua-
le che contraddistingue la sua opera. Non si tratta di uno spot
di facile lettura per il fruitore, che si potrebbe interrogare sul
senso delle azioni dei due attori e soprattutto su che cosa c’entri
questa messa in scena con le sigarette pubblicizzate (forse sono
le azioni degli attori che miracolosamente creano le sigarette?).
Oppure, più semplicemente, potrebbe riconoscere proprio quel
meccanismo di delega della marca e interpretarlo come una
delle tante strategie pubblicitarie attraverso cui discorso di mar-
ca e discorso registico possono interagire.
Il fruitore potrebbe compiere riflessioni simili anche di fron-
te ad altre due campagne pubblicitarie dei primi anni Duemila:
Playstation 2 e Nissan Micra, anche se a livello teorico si deli-
nea un rapporto tra discorso di marca e stilemi registici un po’
diverso; il connubio tra le due componenti è del tutto singolare
e piuttosto originale, tanto da aver richiamato l’attenzione di
molti studiosi e l’approvazione (per niente scontata) dei fan. E
ciò accade soprattutto per la prima campagna, quella di lancio
della nuova consolle Playstation 211.

Lo spot principale della campagna Welcome to the Third


Place12 è quasi un cortometraggio e così viene percepito e può

11. Per un’analisi semiotica della campagna per il restyling della Nissan
Micra del 2002, cfr. Bianchi (2005, pp. 42-47), dove si evidenziano le rime e
i contrasti plastici (cromatici, eidetici e topologici) dello spot di Lynch, con
particolare attenzione alle figure retoriche di metafora, metonimia e soprat-
tutto di crasi linguistica e visiva.
12. La campagna è formata da tre spot, il primo sicuramente di Lynch
mentre sono di dubbia attribuzione gli altri, che hanno come protagonisti un
cane addormentato davanti a una lavatrice e un cerbiatto che riesce a soprav-
vivere a un incidente d’auto provocando ingenti danni a quest’ultima. Per l’a-

29
essere analizzato. È un testo denso, intriso di citazioni ai film e
alle serie tv di Lynch, fotografia in bianco e nero, sessanta se-
condi in cui possiamo seguire un uomo in giacca e cravatta che
si trova in mezzo a un corridoio, dove avviene l’azione: fiamme
improvvise, una sirena, rami spogli di alberi, densa coltre di fu-
mo, una donna che chiede il silenzio nel frastuono generale, una
figura ferita e avvolta in bende, un braccio che si distacca dal
corpo e vive di vita autonoma; tutti elementi che precedono l’in-
contro dell’uomo con il suo doppio, con l’uomo bendato e con un
altro ancora che ha la testa d’anatra. Verso la fine una voce fuori
campo chiede chiarimenti sul luogo dove i personaggi si trovano
e l’uomo-anatra chiarisce: “Welcome to the Third Place”.
Spot surreale, in cui la componente umana e quella animale
si uniscono creando esseri immaginari con cui possiamo in-
teragire solo in una dimensione diversa da quella della nostra
realtà, un terzo “luogo”, quello del gioco, in cui si può seguire
finalmente i labirinti della nostra immaginazione, superando
ogni tipo di barriera, grazie all’aiuto dell’oggetto pubblicizzato:
una nuova consolle della Sony, supporto indispensabile per ac-
cedere, attraverso i vari giochi, a esperienze immersive e video-
ludiche proprie di un’altra dimensione percettiva.

A differenza dello spot della Parisienne Cigarettes, qui ab-


biamo un importante ancoraggio per la comprensione del testo,
dovuto proprio a quel “third place” presente nel claim; un terzo
luogo o spazio, cioè una terza dimensione dell’esperienza, che
ci viene suggerita inequivocabilmente. In questo caso il sincre-
tismo verbo-visivo del linguaggio pubblicitario chiarisce il sen-
so dello spot e indirizza il lettore/consumatore verso un’ipotesi
interpretativa coerente del testo, che alla fine non risulta essere
così sconclusionato come potrebbe apparire a una prima lettura,
specialmente per coloro che conoscono, anche non troppo ap-
profonditamente, il cinema di Lynch.

nalisi semiotica dello spot con il cane, cfr. Fusaroli (2005). Anche in questo
caso l’azienda produttrice della consolle, Sony Computer Entertainment, si
era già affidata a un regista famoso di videoclip musicali, Chris Cunning-
ham, per la precedente campagna per Playstation: Mental Wearth (1999).

30
5. Il cortometraggio pubblicitario: Lady Blue Shangai

Come sappiamo, il rapporto tra pubblicità e cinema ha origi-


ni remote, ma ha assunto particolare importanza in un momen-
to in cui la comunicazione pubblicitaria sul web ha permesso di
pensare un prodotto completamente nuovo: spot d’autore estesi,
veri e propri cortometraggi che diventano film pubblicitari. Il
contesto è quindi quello di un discorso di marca che si adatta,
si evolve e si avvale delle nuove forme di comunicazione e che
cerca nel linguaggio cinematografico un potente alleato per tra-
smettere i propri valori.

Nel maggio del 2009, Christian Dior, sotto la direzione


creativa di John Galliano, lancia infatti il primo spot/mini-film
per la nuova campagna Lady Dior, dando così avvio a un espe-
rimento, una “cinematic campaign”, che ha l’obiettivo di pro-
muovere in modo originale un prodotto emblema del marchio,
la iconica handbag Lady Dior. I quattro lunghi spot, che hanno
tutti come protagonista Marion Cotillard, musa Dior dal 2008,
sono stati poi divulgati sul sito della casa produttrice (disponi-
bili fino a fine 2011), in una pagina dedicata all’intera saga, in
cui era possibile anche accedere a diversi altri contenuti, quali
backstage, teaser, video promozionali e fotografie che hanno
accompagnato la realizzazione dell’intera campagna13.
Il corto affidato a Lynch, Lady Blu Shangai, è un mini-
thriller di 16 minuti in cui la protagonista cerca di comprendere
il senso di una situazione del tutto inusuale in cui si è venuta a
trovare ed è preceduto da un teaser in cui la stessa Cotillard re-
cita un poema scritto da Lynch e intitolato It holds the love. Il
video anticipa alcune scene dello spot e ha funzionato da lancio
del corto stesso, proiettato in anteprima mondiale nel maggio

13. I quattro prodotti principali pubblicizzano la borsa Dior in quattro


diverse colorazioni: Lady Noire, spot ambientato a Parigi e diretto da Oli-
vier Dahan; Lady Rouge, videoclip musicale della canzone Eyes of Mars dei
Franz Ferdinand, diretto da Jonas Akerlund; Lady Blue, ambientato a Shang-
hai e diretto da Lynch; Lady Grey, ambientato a Londra e diretto da John
Cameron Mitchell.

31
del 2010 proprio a Shanghai, in occasione della sfilata di moda
della collezione Cruise 2011.

Molto complicato descrivere nel dettaglio ciò che accade nel


cortometraggio, dopo la comparsa dei titoli di testa («Dior pre-
sents lady blue shanghai») che si leggono mentre le luci sof-
fuse illuminano il cielo bluastro di una Shanghai notturna dove
i grattacieli e l’Oriental Pearl Tower si riflettono nello specchio
d’acqua del fiume Huangpu.
Marion Cotillard rientra in albergo osservata dal reception-
ist, si dirige verso la sua stanza, ma mentre cammina lungo il
corridoio la colonna sonora cupa ci abbandona per lasciare spa-
zio a un tango degli anni Venti del novecento. Il turbamento di
Marion ci rivela immediatamente la natura diegetica della musi-
ca, che proviene proprio da un giradischi presente nella sua stan-
za14. Appena Marion riesce a fermarlo, un forte rumore tuonante,
un bagliore che illumina l’intera stanza e infine una Lady Dior
colorata di blu appare magicamente nella camera, lasciando la
protagonista terrorizzata. Chi può aver fatto partire il giradischi
con quella musica? E da dove proviene quella misteriosa borsa?
Il corto costruisce una storia, frammentaria e surreale, su
questo mistero, a partire da un dialogo della protagonista con
le due guardie chiamate a controllare la stanza, ma soprattutto
a partire da un suo lungo monologo, che è anche un flusso di
coscienza, in cui cerca di ricostruire la concatenazione degli
eventi. Il suo racconto si fa sempre più confuso tra ricordi sfu-
mati e visioni oniriche della Pearl Tower in una Shanghai di al-
tri tempi, in cui la protagonista non è sicura di essere già stata,
anche se riconosce alcuni elementi, come lo stesso tango che ha
trovato suonare nella stanza d’albergo. I suoi ricordi la portano
in un’altra stanza con le tende rosse dove compare un uomo

14. Il mix tra tappeto sonoro, rumori diegetici e brano musicale presente
nei primi minuti del cortometraggio è un ottimo esempio di come Lynch,
che si ritiene soprattutto un sound designer, pensa e progetta il trattamento
del sonoro nei suoi audiovisivi. Per approfondire il linguaggio sonoro di
Lynch cfr. in particolare il saggio di Lucio Spaziante nel presente volume.

32
cinese che le si avvicina e la bacia, poi devono fuggire insieme
attraversando un vecchio ponte e si ritrovano su una terrazza
della Shanghai contemporanea in cui dialogano in modo con-
fuso e sconnesso, lui le porge una rosa blu che lei non riesce ad
afferrare, ma insieme possono invece osservare su un gratta-
cielo uno schermo pubblicitario (uniche inquadrature nitide di
questa lunga sequenza) in cui compare la stessa Cotillard con
in mano la borsa Lady Dior blue (immagini che richiamano più
o meno il teaser). Stacco. Siamo di nuovo nella stanza dell’al-
bergo e Marion è molto confusa, ma poi improvvisamente si
dirige verso la borsa, la apre, prende e annusa intensamente la
rosa blu che si trova all’interno e finalmente si congiunge con
l’effettivo oggetto di valore, afferrando e stringendo a sé la bor-
sa Lady Dior.

Questa è grossomodo la trama del corto, anche se tutti colo-


ro che hanno dimestichezza con le produzioni di Lynch sanno
bene che la posta in gioco non sta quasi mai nella storia rac-
contata, ma nel modo in cui viene raccontata. Solo dopo diver-
se visioni del corto si riesce infatti a ricostruire una parvenza
di linearità narrativa, mentre sono immediatamente evidenti
altri aspetti, come i riferimenti intertestuali e il coinvolgimento
patemico del fruitore.
Sono infatti chiari i riferimenti al mondo di Twin Peaks (ma
anche di altri film come Mulholland Drive del 2001 o Inland
Empire del 2006), a quei salti temporali che conducono i per-
sonaggi a vagare in modo sconnesso tra dimensioni narrative
diverse, tra realtà e sogno. E qui, oltre alla usuale atmosfera
e ambientazione, è individuabile una simbologia propria di
Lynch: l’utilizzo delle tende rosse come porta spaziale o, in
questo caso, temporale verso il passato onirico della protagoni-
sta; la rosa blu, simbolo di un amore dimenticato di cui si rie-
sce alla fine a far riaffiorare le emozioni e le passioni, ma che
funziona come un rimando a ciò che Paolo Bertetto considera
«un segreto professionale del regista». La rosa blu è un «sim-
bolo impossibile da ricondurre a un sistema di significazione
forte: la sua opacità finisce per coincidere col dischiudersi di

33
un mistero, cioè con un’improvvisa apertura di senso o di sensi
molteplici» (Bertetto, 2015, p. 64)15.
Al di là di questi giochi intertestuali, ciò che ci sembra
rilevante dal punto di vista semiotico è la costruzione di un
coinvolgimento passionale dello spettatore. Le passioni vengono
raccontate verbalmente, con un’attenta scelta di un lessico pas-
sionale, ma soprattutto vengono raccontate visivamente, attra-
verso immagini frammentarie, stratificate, scomposte e multi-
dimensionali (chiari esperimenti visivi). Sarà poi la capacità del
lettore a dare un senso a tessere di puzzle apparentemente non
combacianti tra loro e a costruire un tutto leggibile partendo da
elementi fortemente incompleti: la realtà narrata da Lynch vie-
ne spesso invasa da eventi che hanno origine in un mondo im-
maginifico, un mondo mentale dove non vigono le stesse leggi
del mondo “reale”. Gran parte del cinema di Lynch costruisce
questo tipo di dinamiche percettive, tanto che Daniele Dottorini
(2004, p. 152) lo definisce proprio un «cinema del sentire», «un
cinema cioè che mette in gioco la totalità dei sensi, da sempre
esposti nell’esperienza estetica». E come aggiunge Pierluigi
Basso Fossali (2006, p. 29), in Lynch

al posto dell’originalità di una “storia” che solitamente regge l’inte-


resse per un film, avremo allora una predilezione per esperienze sen-
sibili anomale, stati percettivi alterati, apprensioni del mondo sensibi-
le del tutto eccentriche; tali modi di percepire e sentire sono narrati
attraverso un’immersione nell’esperienza di personaggi che non han-
no nulla da dirci; si offrono solo come mediazione per accedere ad
altri “sentire”16.

15. Lynch gioca da sempre sul significato da attribuire alla rosa blu che
è collegata a una serie di casi inspiegabili, sparizioni, viaggi ultraterreni, di-
mensioni mistiche in cui è persino possibile perdere se stessi. Nel 2017, con
l’uscita della terza stagione di Twin Peaks, ci fornisce qualche altro elemento
di interpretazione, facendo dire a uno dei personaggi che «le rose blu non
esistono in natura. Non è una cosa naturale, la donna morente non era natu-
rale. Era evocata, come si dice… un tulpa», cioè, con un termine tibetano,
un’entità extracorporea creata attraverso la meditazione (Episodio 14).
16. Per approfondire gli aspetti teorici riguardanti il rapporto tra visibile,
sensibile e figurale in Lynch, vedi anche il saggio di Nicola Dusi nel presen-
te volume.

34
Talvolta Lynch è riuscito a costruire una stessa propensione
estetica ed estesica anche nell’ambito pubblicitario e Lady Blue
Shanghai ne è un esempio eccellente.

6. Progettare e promuovere: Dom Pérignon e Louboutin


rouge

Arriviamo così alle ultime produzioni pubblicitarie di Lynch


di cui abbiamo notizia. Sempre più il regista si fa coinvolgere
nella promozione pubblicitaria di alcuni prodotti, come per
esempio accade con la Dom Pérignon Vintage 2003, a produ-
zione limitata, di cui disegna l’etichetta e cura la promozione
in tutti i suoi aspetti. Gira e firma un corto promozionale nel
2012, ma a partire dal 2011 diventa anche attore del film-
documentario diretto da Gavin Elden e intitolato The Power of
Creation (titolo dell’intera campagna) e dello spot Champagne
Dreams di Luke Gillford. Nel documentario ci racconta la
storia pluricentenaria del Dom Pérignon, ci spiega la sua fasci-
nazione verso i magici luoghi francesi dove ha avuto origine,
così come il processo di produzione e invecchiamento di que-
sto prezioso champagne. Il corto promozionale, invece, si basa
sull’evento di presentazione della produzione Vintage 2003 av-
venuta il 20 giugno 2012 a Los Angeles, in cui la bottiglia è la
protagonista, con le etichette scure disegnate da Lynch.

Un coinvolgimento simile nella promozione di un prodot-


to è quello che accade con la collaborazione con Christian
Louboutin che ha inizio nel 2007, quando viene allestita a
Parigi l’esposizione Portrait Fetish: foto del regista che ritrag-
gono delle ragazze del Crazy Horse con indosso solo le scarpe
dello stilista, esposte e disegnate appositamente per l’occasione.
Quando poi nel 2014 Louboutin decide di produrre una linea di
smalti per unghie affida a Lynch la campagna pubblicitaria.
L’audiovisivo principale della campagna è uno spot, più
tradizionale nel formato ma che trova la sua originalità nell’ani-
mazione computergrafica. Il fluido percorrimento nel paesaggio

35
urbano, caratterizzato da un’architettura surreale bianco-rosata,
viene interrotto bruscamente dall’emergere di elementi formali
collegati alla marca Louboutin e al nuovo prodotto: il rosso
pulsante della suola delle scarpe, dettagli di mani con le unghie
colorate, ma soprattutto un tacco vertiginoso che, distaccandosi
dalla scarpa, diventa un dettaglio della confezione dello smalto
rosso. Nel finale dello spot si moltiplicano poi le confezioni,
che ci fanno ricordare la pioggia di uomini con il cappello a
bombetta del quadro surrealista di Renè Magritte (la Golconde
del 1953). Ciò che maggiormente colpisce di questo spot è lo
stile complessivo che, nelle forme degli edifici rappresentati e
nella sonorizzazione, può essere ricondotto a una computer-
grafica tipica di fine anni Ottanta, dove prevaleva un’atmosfera
siderale e una forte stilizzazione geometrica.

Per concludere questo nostro viaggio nella produzione pub-


blicitaria di Lynch, vorremmo sottolineare alcuni punti che
riteniamo fondamentali riguardanti la pubblicità d’autore, assu-
mendo sia il punto di vista delle strategie di marca sia il punto
di vista della poetica autoriale.
Sappiamo che da sempre case produttrici piuttosto eteroge-
nee hanno affidato a registi affermati la pubblicizzazione delle
proprie proposte commerciali, lasciando ampio spazio alle loro
peculiarità stilistiche e autoriali. Difficile dire se questa stra-
tegia sia sempre efficace, anche se è sicuramente una grande
opportunità per le marche. Più complesso è il fenomeno se
analizzato dal punto di vista autoriale. Oltre a un’indubbia fonte
economica da investire in altri progetti, la scrittura e la regia di
pubblicità è un campo di prova per tutti i registi, che possono
interpretare in modo variegato il rapporto tra la propria estetica
autoriale e il discorso della marca che si deve pubblicizzare.
David Lynch sembra rivestire nel corso degli anni tutte
le possibili forme di questo rapporto; a volte si è adeguato
completamente al discorso della singola marca, altre volte lo
ha completamente stravolto, altre volte ancora ci ha dialogato
creativamente, ibridando forme testuali in una prospettiva iper-
testuale e, talvolta, transmediale. In questi ultimi casi è riuscito

36
sicuramente a giocare con il genere, cogliendone le caratteristi-
che salienti e spesso portandole alle estreme conseguenze.
Nell’insieme della produzione artistica di Lynch, la pubblici-
tà ha un ruolo del tutto peculiare, che è tra l’altro cambiato nel
tempo. Se tra fine anni Ottanta e anni Novanta erano prevalenti
spot e singole campagne pubblicitarie, dopo gli anni Duemila
sono prevalse altre forme di promozione pubblicitaria, molto
più frammentarie e variegate: promo, video, documentari, cor-
tometraggi che, complice le potenzialità del web, hanno reso
possibile una maggiore sperimentazione audiovisiva. Inoltre,
Lynch si è fatto coinvolgere in progetti molto variegati, nella
realizzazione dei quali ha messo a frutto le sue capacità di pro-
gettazione grafica, fotografica e pittorica, oltre alla sua fama di
regista visionario, divenendo ormai un vero e proprio brand di
se stesso.

Riferimenti bibliografici

Bianchi C. (2005), Spot. Analisi semiotica dell’audiovisivo


pubblicitario, Carocci, Roma.
Basso Fossali P. (2008), Interpretazione tra mondi. Il pensiero
figurale di David Lynch, ETS, Pisa.
Bertetto P., a cura di (2015), David Lynch, Marsilio, Venezia.
Dottorini D. (2004), David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani,
Genova.
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replicabilità, Meltemi, Roma.
Eco U. (1968), La struttura assente, Milano, Bompiani.
Fusaroli R. (2005) “Sguardo, voce, corpo: un’analisi semiotica di uno
spot Playstation 2”, in C. Bianchi, A. Zannin, a cura di, “Sguardi
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37
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della brand communication”, in C. Bianchi, A. Zannin, a cura di,
“Sguardi semiotici sulla pubblicità”, Ocula, vol. 6, n. 6, pp. 1-20.
Traini S. (2008), Semiotica della comunicazione pubblicitaria,
Bompiani, Milano.

38
2. Music Video Art.
Sperimentazione formale
e “firma d’autore” nelle produzioni
videomusicali di David Lynch
di Marco Teti

1. Le due fasi della carriera videomusicale di Lynch

L’invidiabile poliedricità di David Lynch si manifesta negli


anni in vari modi, attraverso diversi strumenti espressivi e in
molteplici campi artistici o comunicativi. In questo saggio, l’at-
tenzione viene focalizzata su uno dei meno conosciuti di questi
campi, ossia la produzione videomusicale, a cui i critici e gli
studiosi appaiono di rado interessati. Lo scarso interesse nutrito
dagli esperti sembra dipendere, da un lato, dall’estemporaneità
del processo di realizzazione e, da un altro lato, dal poco ele-
vato livello qualitativo raggiunto da numerosi videoclip diretti
da Lynch. Alcuni video musicali di Lynch danno sicuramente
l’impressione di nascere quasi per caso e di essere quindi rea-
lizzati in maniera, se non del tutto approssimativa, comunque
poco accurata. La preparazione non sufficientemente adeguata
delle riprese (e a volte del montaggio) è proprio uno dei fattori
che condiziona di più, in senso negativo, il valore artistico-
estetico di questi video.
A ben guardare sono, tutto sommato, poche le opere vide-
omusicali che Lynch crea senza seguire un appropriato piano
di lavoro e senza porsi degli obiettivi di natura estetica. Nella
maggioranza dei casi, i videoclip del regista americano vengo-
no al contrario progettati con una certa scrupolosità (seppure

39
con un impegno decisamente minore rispetto ai lungometraggi
cinematografici, agli LP oppure ai dipinti) e hanno delle palesi
finalità di tipo espressivo o comunicativo. Ciò non significa
però che tali videoclip conseguano spesso dei buoni risultati
in termini stilistici o formali e, di conseguenza, in termini di
gradimento da parte degli spettatori e dei critici. La qualità
discontinua dei singoli prodotti, nonché il limitato consenso o
addirittura la lampante indifferenza del pubblico, influiscono
persino sul procedimento di storicizzazione dell’opera video-
musicale di Lynch, condotto di consueto con superficialità1.
La corretta collocazione storica nell’ambito della vasta e
variegata produzione artistica di Lynch è a nostro avviso il
fondamentale presupposto da cui muovere allo scopo di sotto-
lineare la discreta o notevole importanza dimostrata dai video
musicali sotto almeno due profili strettamente uniti. Il primo di
questi profili corrisponde all’impiego e alle funzioni che il re-
gista statunitense assegna al medium del video. Il secondo dei
profili in questione equivale invece alla definizione della figura
autoriale di Lynch, soggetta con il passare del tempo a evidenti
cambiamenti.
Il video viene considerato da Lynch un singolare disposi-
tivo tecnologico in grado di dare vita ad un linguaggio ricco,
articolato e piuttosto complesso fondato sulla contaminazione,
sull’accostamento di componenti sovente eterogenee2. Alla con-
cezione e all’uso del video è con chiarezza legata la progressiva
rimodulazione dello statuto autoriale di Lynch, avvenuta in
particolare dall’inizio del Duemila. Il video coincide in buona
sostanza con il mezzo adoperato negli ultimi due decenni dal
cineasta per rielaborare, in maniera più o meno consapevole, il
concetto e il ruolo di “autore” a lui attribuiti dagli esperti, dagli
appassionati o dai semplici fruitori delle sue opere. I video mu-

1. L’approccio sbrigativo o in ogni caso poco rigoroso all’opera video-


musicale di Lynch adottato sovente dagli studiosi emerge per esempio dalle
ricerche, nel complesso minuziose, meticolose, portate avanti da Odell and
Le Blanc (2007) e da Hughes (2001).
2. Lynch dichiara in varie occasioni di apprezzare le proprietà tecniche e
linguistiche del video. Si consulti in proposito Lynch (2006).

40
sicali si rivelano emblematici sia dalla prospettiva dei compiti
esercitati (o invitati a esercitare) sul piano discorsivo o esposi-
tivo dal medium del video sia dalla prospettiva della riformula-
zione della nozione di autore, diffusa soprattutto dai film girati
da Lynch.
Il rilievo posseduto dal mezzo comunicativo del video vie-
ne colto già nella prima fase di quella che per comodità qui
chiamiamo “carriera videomusicale” di Lynch, mentre lo svol-
gimento dell’attività di ridefinizione dello statuto autoriale è
riscontrabile in special modo nella seconda fase. È bene pun-
tualizzare che la suddivisione dei prodotti videomusicali fir-
mati da Lynch in due distinte fasi viene qui effettuata per pura
convenienza e trae origine dall’esigenza di approfondire il più
possibile l’analisi e di facilitarne la comprensione. La perio-
dizzazione attuata, per forza di cose un po’ rigida, poggia sulla
constatazione di una essenziale vicinanza, di una affinità nean-
che troppo ipotetica sotto l’aspetto strutturale e della rappresen-
tazione, tra svariate opere rientranti nella produzione videomu-
sicale di Lynch.
Il primo periodo copre un arco temporale che va dall’ini-
zio degli anni Novanta alla metà del decennio inaugurale del
Duemila. Il secondo periodo copre invece un arco tempora-
le più circoscritto che va dal 2009 al 2013. A onor del vero,
quest’ultimo arco va allargato e portato ad abbracciare anche
il 2014, anno in cui esce nelle sale cinematografiche Duran
Duran: Unstaged, un documentario musicale dalle svariate
analogie con i videoclip di Lynch dell’epoca. In estrema sintesi,
nel primo periodo Lynch sperimenta in piena autonomia le so-
luzioni visive e formali inedite concesse dal video, mentre nel
secondo periodo raggiunge la maturità mettendo a punto uno
stile e una poetica peculiari, che stanno alla base della rivela-
zione della presenza dell’autore.

41
2. La prima fase: il video come perfetto strumento di
espressione personale

Alcune pagine web fanno risalire l’esordio videomusicale di


Lynch addirittura al 1982 attribuendogli la regia del videoclip
della canzone I Predict del gruppo americano Sparks3. Altre
pagine web smentiscono però la notizia4, sulla quale preferiamo
non soffermarci. Gli studiosi, i critici e i fan sono abbastanza
concordi nel ritenere che Lynch cominci a cimentarsi, forse
un po’ per caso, nella regia videomusicale all’inizio degli anni
Novanta. Esattamente nel 1990, il cineasta dà vita al video-
clip di Wicked Game, un celebre brano del cantautore Chris
Isaak inserito nella colonna sonora di Cuore selvaggio (Wild at
Heart, 1990).
Il videoclip, di cui esiste una versione più conosciuta e ri-
uscita curata dal fotografo Herb Ritts, denota un certo impac-
cio, un certo disagio, o meglio evidenzia la poca confidenza
con l’apparecchiatura tecnologica del video presa all’epoca da
Lynch. Nel video musicale di Wicked Game il regista si limi-
ta ad alternare le sequenze di Cuore selvaggio e le riprese di
una performance canora di Isaak, che esegue il brano su di un
palcoscenico. Bisogna tuttavia notare come l’abbigliamento e
il taglio di capelli esibiti da Isaak nel videoclip ricordino vo-
lutamente quelli resi popolari dai media negli anni Cinquanta,
il decennio dal quale provengono imprescindibili fonti d’ispi-
razione di Lynch, tanto musicali quanto audiovisive. Il video
musicale di Wicked Game restituisce inoltre la dimensione
artificiale e auto-riflessiva posseduta dagli allestimenti scenici e
dai numerosi spettacoli presentati nei film di Lynch.

3. Le pagine web a cui facciamo riferimento sono le seguenti: http://


davesmoviesite.blogspot.com/2015/07/the-films-of-david-lynch-i-predict-by.
html; http://guide.supereva.it/cultura_avantpop/interventi/2010/08/sparks-e-
david-lynch-il-video-di-i-predict; https://imvdb.com/n/david-lynch (data di
consultazione: 28 maggio 2018).
4. Si vedano almeno: https://en.wikipedia.org/wiki/I_Predict; http://
www.tampabay.com/we-predict-youll-find-this-sparks-video-uncomfortable-
and-weird/2325616 (data di consultazione: 28 maggio 2018).

42
Il cineasta dirige in seguito il video musicale di A Real
Indication, un brano inciso dalla Thought Gang, una band da
lui fondata insieme ad Angelo Badalamenti. Il tentativo di pa-
droneggiare il linguaggio videomusicale appare per la verità
ancora goffo e incerto. La videocamera pedina con insistenza
Badalamenti, che compare anche in una foto segnaletica, e che
cammina per strada cantando. Equiparabile più ad un filmato
amatoriale da “tv verità” che ad un documentario tradizionale,
il video musicale di A Real Indication vede la luce nel 1992,
l’anno in cui Lynch gira Fuoco cammina con me (Twin Peaks:
Fire Walk with Me), della cui colonna sonora il brano fa peral-
tro parte.
Il regista dimostra di avere acquisito una maggiore dimesti-
chezza con la tecnologia del video nelle produzioni successive,
tra le quali includiamo la clip della durata di pochi secondi
(denominata teaser) proiettata sempre nel 1992 nelle sale ci-
nematografiche per promuovere l’album Dangerous (1991) di
Michael Jackson. L’assunzione di un buon controllo del mez-
zo elettronico sembra trovare conferma nei video musicali di
Rammstein, canzone il cui titolo è identico al nome del com-
plesso tedesco che la concepisce, e di Thank You, Judge, un
pezzo composto nel 2001 dallo stesso Lynch e dall’ingegnere
del suono John Neff.
Al pari di quelli di Wicked Game e A Real Indication, il
music video della canzone Rammstein è collegato a un lungo-
metraggio cinematografico di Lynch. Il regista matura la deci-
sione di girarlo durante la lavorazione di Strade perdute (Lost
Highway, 1997), nella cui colonna sonora la canzone è inserita.
Il music video, che fa leva sul montaggio, assembla sequenze
di Strade perdute e sequenze prelevate dalla registrazione di
un concerto dei Rammstein. Al di là delle sequenze di Strade
perdute, nel videoclip l’unico rinvio al cinema di Lynch sem-
bra essere l’utilizzo del palcoscenico come spazio privilegiato
dell’azione.
Il video musicale di Thank You, Judge, incentrato sulla
descrizione di un complicato rapporto sentimentale, adotta un
registro parodico e uno stile registico poco appariscente, quasi

43
amatoriale. Anticipando una prassi poi consolidata negli an-
ni seguenti, l’opera recupera elementi iconografici tipici degli
universi diegetici delineati da Lynch al cinema, oppure in te-
levisione; vale a dire: tende di colore rosso, abitazioni vaga-
mente inquietanti che paiono provenire da film o da serie tv
degli anni Cinquanta, luci intermittenti e così via. Essa vanta la
prestazione attoriale di Naomi Watts, convincente interprete di
Mulholland Drive (2001) coinvolta in vari progetti elaborati da
Lynch a partire dal Duemila.
I progetti in questione non riguardano il cinema bensì la
televisione e il video. Dopo l’uscita di Mulholland Drive Lynch
gira un solo film, Inland Empire (2006), ricorrendo tra l’altro
a delle videocamere e non alle tradizionali macchine da presa,
predilige i formati brevi (cortometraggi, spot pubblicitari), ab-
bandona la pellicola e adopera i supporti elettronici o digitali.
Ciò sembra avvenire perché Lynch negli anni Novanta coglie le
potenzialità estetiche del video e afferra, intuisce le enormi op-
portunità che questo medium gli garantisce sotto l’aspetto della
libertà creativa. Il mezzo elettronico permette senza dubbio al
cineasta di dispiegare totalmente il proprio estro e scioglie i
vincoli imposti dalla narrazione, dall’atto del narrare. Lynch
non deve insomma più preoccuparsi di imbastire un racconto.
Il video costituisce un veicolo privilegiato per manifestare
in piena autonomia non solo l’inventiva del regista, ma anche
il suo pensiero, la sua visione dell’esistenza, del cinema e dei
linguaggi comunicativi in generale. Lynch giudica in definitiva
il video come lo strumento adeguato a esprimere la propria
personalità artistica. Come testimoniano Alessandro Amaducci
(2014), Gry Hallberg, Ulf Kring Hanse (2013) oppure Catherine
Elwes (2004), la posizione teorica appena esposta assomiglia
a quella tenuta da numerosi videoartisti, con i quali il cineasta
condivide pure l’applicazione di determinate formule composi-
tive. Analogamente ai videoartisti, Lynch ritiene poi che “l’es-
senza”, la specificità estetica del mezzo elettronico consista nel-
la giustapposizione anzi nella fusione di componenti disparate.
La natura intima, profonda del video risiede in pratica nella
combinazione di elementi distintivi delle altre forme espressive.

44
Il video viene con ogni probabilità percepito da Lynch come
la concretizzazione della propria idea di cinema, imperniata
proprio sulla contaminazione, sull’aggregazione di diversi ele-
menti. «Per me», spiega Lynch (2015), «il cinema è un quadro
che si muove, con il sonoro. Il cinema non è altro che suono
e immagine che si muovono contemporaneamente» (p. 54).
Le tesi avanzate dal cineasta trovano conferma nei suoi video
musicali, ai quali spetta il compito di saggiare le possibilità
discorsive e formali fornite dal medium elettronico. Il videoclip
di Longing, un brano della band nipponica X-Japan, è in tal
senso esemplare.
Realizzato nel 1995, esso attinge a tutte le risorse enun-
ciative e stilistiche rese disponibili dal video. Si tratta di un
sofisticato esperimento visivo in cui le inquadrature servono
soprattutto ad accrescere il fascino delle parole pronunciate dal
cantante Hayashi Yoshiki, il quale interpreta il testo del brano
come se fosse quello di una poesia. Lynch dona alle inqua-
drature un carattere pittorico e così facendo conferisce “ma-
terialità” alle suggestive frasi declamate da Yoshiki, le rende
palpabili.

3. La seconda fase: il passaggio da autore a brand

Il carattere pittorico delle inquadrature scaturisce dalla “pa-


stosità” delle tinte di colore, ottenuta tramite la fotografia e le
luci, nonché dalla disposizione degli oggetti e dell’interprete.
Attraverso una serie di espedienti sia tecnici sia compositi-
vi, nel videoclip di Longing vengono quindi accostate e unite
componenti ricavate dalla musica, dalla poesia, dalla pittura e
dell’audiovisivo. L’intrinseca apertura e il carattere ibrido, com-
binatorio, avvicinano il videoclip di Longing a quelli firmati da
Lynch nella seconda fase del proprio percorso videomusicale.
Il videoclip di Longing è accomunabile a quelli diretti da
Lynch a cavallo del primo e del secondo decennio del Duemila
in special modo per il modello di rappresentazione imitato e
per l’assetto strutturale adottato. Il modello e l’assetto struttu-

45
rale a cui ci riferiamo non vengono mutuati dalla produzione
videomusicale (perlomeno canonica, ordinaria, mainstream) ma
dalla produzione videoartistica. I videoclip più compiuti e si-
gnificativi di Lynch non ruotano intorno alla fotografia e al
montaggio, come le comuni opere videomusicali5, bensì alla
costruzione di ogni singola immagine. Al pari delle opere vi-
deoartistiche, i videoclip di Lynch dalla maggiore rilevanza
mirano a coinvolgere emotivamente e intellettualmente gli spet-
tatori mediante appunto l’accurata composizione di ciascuna
inquadratura. I principali video musicali di Lynch e quello di
Longing sono altresì paragonabili ai prodotti videoartistici, per
il ricorso frequente a inserti grafici e a effetti speciali ottici o
digitali.
Nel videoclip di Longing sono assenti delle marche enuncia-
tive o formali capaci di segnalare con decisione la presenza di
una figura autoriale. Al contrario, nei video musicali più ma-
turi di Lynch sono individuabili differenti contrassegni estetici
dell’autore. I videoclip elaborati da Lynch nel secondo perio-
do della sua carriera videomusicale esibiscono i temi iconici
preferiti o lo stile del cineasta e ne denunciano, ne esplicitano
così l’attività. Essi suggeriscono inoltre con efficacia la modi-
ficazione dello statuto autoriale di Lynch. Quanto sostenuto è
facilmente verificabile nei video musicali di Shot in the Back of
the Head, un pezzo concepito da Moby, di Crazy Clown Time,
un brano scritto e eseguito dallo stesso Lynch, e di Came Back
Haunted, una canzone del gruppo Nine Inch Nails.
Nel video musicale di Shot in the Back of the Head viene
adoperata la tecnica del disegno animato con l’intenzione di
restituire l’atmosfera sognante evocata da Moby con il solo
ausilio dei suoni. Il pezzo è infatti privo di un testo. L’impiego
soltanto di due colori, il bianco e il nero, e il tratto minimale,
essenziale con il quale Lynch raffigura graficamente i perso-
naggi e i luoghi accentuano la natura onirica del mondo deli-

5. Per quanto concerne le peculiarità tecniche e linguistiche del video


musicale, una forma espressiva in realtà molto complessa e duttile, si con-
frontino Peverini (2004), Arcagni, Amaducci (2007) e Liggeri (2007).

46
neato da Shot in the Back of the Head, al contempo indefinito
e tangibile, sfuggente e concreto6. Uscito nel 2009, il video
musicale di Shot in the Back of the Head segue un imprescindi-
bile principio teorico indicato da Dick Tomasovic (2005), Julia
Canonica e Maria Da Silva (2005) e riassunto da Lynch (2015)
nei seguenti termini: «per me è fondamentale che la musica si
sposi perfettamente con l’immagine. E quel che succede è che
uno lo sente, lo capisce quando questo sposalizio sta avvenen-
do» (p. 54).
Nel videoclip di Crazy Clown Time, interpretato da attori in
carne ed ossa, il cineasta dà invece l’impressione di riflettere
sulla coesistenza degli opposti, argomento da lui spesso affron-
tato7. Distribuito sul web e in tv nel 2012, il videoclip ritrae dei
personaggi, degli eventi e un intero universo di finzione sospesi
tra stasi e dinamismo, tra ascesi e sensualità, tra ordine e caos.
Il video musicale di Came Back Haunted esce nel 2013 e
combina riprese dal vero, disegni animati e una tecnica che
pare avvicinarsi a quella dell’animazione degli oggetti. Nel
videoclip di Came Back Haunted Lynch sfrutta in particolare
le risorse fornite dalla post-produzione con l’obiettivo di dare
consistenza alle entità evanescenti o meglio fantasmatiche a cui
il brano allude. Queste entità vengono visualizzate attraverso
un’illuminazione abbacinante, dei primi piani piuttosto mossi
del cantante Trent Reznor e una serie di effetti speciali di gene-
re ottico o grafico.
I video musicali sopra descritti rinviano in maniera ine-
quivocabile e deliberata alla produzione cinematografica e te-
levisiva di Lynch, lo ribadiamo. Nel videoclip di Came Back
Haunted, per esempio, l’estrema mobilità della videocamera al-
tera i lineamenti del viso di Reznor e li fa assomigliare a quelli

6. Un tratto grafico elementare, stilizzato contraddistingue anche I Touch


a Red Button Man, un cortometraggio a disegni animati creato da Lynch e
proiettato nel 2011 al Coachella Music Festival durante l’esecuzione della
canzone Lights degli Interpol.
7. Relativamente alla coesistenza degli opposti nel cinema e nel resto
dell’opera audiovisiva di Lynch si confrontino Žižek (2000), Todd (2012),
Blake (2015) e Mactaggart (2010).

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di Bill Pullman nella sequenza conclusiva di Strade perdute, un
film nella cui colonna sonora sono tra l’altro inclusi brani dei
Nine Inch Nails. Il music video di Crazy Clown Time propone
degli individui, delle situazioni, delle atmosfere che richiamano
subito alla mente il bizzarro e inquietante universo narrativo di
Twin Peaks (1990-1991 e 2017). Il tratto del disegno, che costi-
tuisce forse un omaggio alla corrente espressionista e a quella
surrealista, evidenzia invece la relazione intrattenuta dal music
video di Shot in the Back of the Head con Eraserhead (1977),
Inland Empire o Mulholland Drive, da cui viene mutuata la di-
mensione onirica.
Uno dei personaggi raffigurati nel videoclip di Shot in the
Back of the Head sembra persino avere le sembianze di Lynch.
Sia che il cineasta si ritragga o meno nel videoclip, appare in-
dubbia la volontà di palesare il suo apporto e la sua presenza. I
video musicali realizzati tra il primo e il secondo decennio del
Duemila dimostrano come la figura autoriale di Lynch cambi e
assuma i contorni di una “etichetta”, di un marchio di garanzia,
di un brand. Justus Nieland (2012) è giustamente dell’opinione
che Lynch assommi qualità dell’autore moderno (cinemato-
grafico ma non solo) e dell’autore post-moderno8. Negli anni
Ottanta e Novanta il regista americano concorre a rafforzare
il carattere autoreferenziale o “post-moderno”, per l’appunto,
posseduto dal cinema e dalla televisione, del quale egli è ben
cosciente. I suoi film, osserva Nieland, non si risolvono comun-
que in una banale successione di citazioni e il suo apporto non
è limitato alla manipolazione di materiali preesistenti. Nel cine-
ma di Lynch, così come in quello della modernità, i toni assunti
sono riflessivi e non ironici, gli intenti perseguiti sono polemici
e non ludici, il registro adottato è grottesco e non comico o pa-
rodico.
A cavallo degli anni Novanta e Duemila l’avvento del web
e dei nuovi media digitali stravolge l’assetto del sistema ci-

8. Riguardo alla confluenza di diverse istanze autoriali nella produzione


cinematografica e televisiva di Lynch si vedano anche Todd (2012) e Teti
(2018).

48
nematografico, o meglio, audiovisivo e ridimensiona in modo
deciso l’importanza del ruolo ricoperto dall’autore nel processo
creativo9. Sopraffatta dal protagonismo e dall’interattività degli
utenti, la figura dell’autore si frantuma, si polverizza e si disper-
de negli innumerevoli dispositivi offerti dall’industria mediale.
Nel primo decennio del Duemila, Lynch acquisisce consapevo-
lezza della mutata condizione dell’autore audiovisivo. Il regista
comprende in particolare che la funzione esercitata dall’autore
equivale sostanzialmente alla diversificazione dell’opera pro-
dotta, all’interno di un mercato mediale molto ampio e molto
eterogeneo.
Egli è conscio del fatto che la nozione di autore diffusa dai
media sia il risultato di un autentico “marketing degli effetti
di firma”, per dirla con le note parole del critico Serge Daney
(2001). Nei video musicali di Shot in the Back of the Head,
Crazy Clown Time e Came Back Haunted il principale compito
svolto da Lynch sembra proprio corrispondere all’apposizione
di una ideale “firma”. L’attività compiuta dal cineasta coincide
con l’applicazione della propria firma, ossia con l’applicazione
di una serie di contrassegni formali e contenutistici subito rico-
nosciuti dal pubblico. Nei video musicali di Shot in the Back of
the Head, Crazy Clown Time e Came Back Haunted Lynch si
propone quindi come un brand, come un “marchio”, cioè come
un insieme di proprietà estetiche (nonché di motivi iconici) fa-
cilmente identificabili. Tali proprietà sono ciò che differenzia le
produzioni mediali del regista da tutte le altre.
La fisionomia assunta dalla figura autoriale di Lynch emerge
con chiarezza anche in Duran Duran: Unstaged, documentario
al quale il cineasta lavora per tre anni10. Equiparabile a un vi-
deoclip della durata di quasi due ore diretto e montato in tempo
reale, Duran Duran: Unstaged cerca di dare forma ai pensieri

9. In merito alla comparsa del web e delle apparecchiature digitali e alla


conseguente diminuzione della rilevanza della figura autoriale nell’apparato
dei media, si confrontino Menarini (2018), Boni (2018), De Pascalis e Pesca-
tore (2018).
10. Un’analisi approfondita di Duran Duran: Unstaged viene condotta in
Teti (2015), a cui rimandiamo.

49
e ai sentimenti del regista. Tramite sovraimpressioni, dida-
scalie, split-screen e inserti grafici il documentario suggerisce
per l’esattezza al pubblico le sensazioni, le idee e le emozioni
suscitate in Lynch dalle canzoni eseguite dai Duran Duran in
occasione di un concerto tenuto a Los Angeles nel 2011. La
presenza di Lynch risulta palpabile, avvertibile, viene rivelata
da molteplici marche testuali e, si configuri o meno come l’e-
sito di una strategia di marketing, contribuisce senza dubbio a
rendere Duran Duran: Unstaged un prodotto audiovisivo origi-
nale, forse unico.

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51
3. Brandizzazione e radicalismo estetico
in Twin Peaks
di Roy Menarini

1. La frattura prospettica della serie

Il confronto tra i due Twin Peaks – le prime due stagioni di


inizio anni Novanta e la terza del 2017 – mette in prospettiva
l’intera questione della serialità televisiva. È stato ripetuto ad
nauseam che Twin Peaks ha rivoluzionato simultaneamente i
codici di rappresentazione e narrazioni televisivi, e cambiato
per sempre la percezione triviale che gli spettatori più esigenti
avevano delle serie su piccolo schermo. Talvolta, questa ver-
sione rischia di essere un po’ di comodo poiché alimenta la
sensazione – per chi non è molto esperto di prodotti televisivi
– che fino a quel momento ci si trovasse di fronte a un deserto
culturale e a nessuna prospettiva di mutamento linguistico. In
verità, il medium televisivo aveva già attraversato alcune tra-
sformazioni importanti e aggiornato (specialmente in ottica re-
alista) alcuni prodotti seriali, come Hill Street - Giorno e notte
(1981-1987) o alzato vertiginosamente i budget a disposizione,
come per Ai confini della realtà (1985-1989).

Fatte le dovute precisazioni, non c’è dubbio che Twin Peaks


abbia rappresentato una frattura prospettica davvero sorpren-
dente, che ha vissuto almeno due fasi. La prima, coincidente
con la stagione uno e sostanzialmente integrata alla massima
esposizione mediatica della star autoriale David Lynch, è stata
oggetto di una forte alleanza con l’industria dell’audiovisivo

52
e con la brandizzazione della serie – e viene da chiedersi che
cosa sarebbe accaduto se, oltre al merchandising e ai media
tradizionali, ci fosse già stato a disposizione il web. La secon-
da, grosso modo identificabile con la stagione due (la più spe-
rimentale e rizomatica), aveva già in sé le premesse della ridu-
zione scalare di visibilità e l’attenzione al nucleo più compatto
e meno numeroso degli spettatori ben motivati. Il terzo polo
dell’operazione, prima del revival del 2017, è stato Twin Peaks
- Fuoco cammina con me (1992), un film straniante per come
decostruiva tutti i sistemi di attese possibili e si candidava a
una fruizione da adepti, quasi a dimostrare l’allergia di David
Lynch a scenari troppo esposti1.
Prima di dire qualcosa sulla sorprendente terza stagione di
Twin Peaks, ancora nel segno del contropiede e dell’inatteso, è
possibile cercare di identificare alcune linee identificative delle
prime due stagioni.

L’aspetto strange. Secondo la nozione anglofona dello


“strange cinema”, in questa categoria si trova tutto ciò che è
spiazzante, bizzarro, morboso, assurdo e inquietante in modo
conturbante2. Twin Peaks ha funzionato decisamente da questo
punto di vista, proponendo sia alle audience generaliste sia agli
spettatori poco interessati alla serialità un universo narrativo e
iconografico originale e alternativo. Non è secondario, rispetto
ai fruitori, al successo del prodotto una sorta di promessa co-
municativa di sfidare più e più volte codici televisivi e orizzonti
di attesa, trasformando il medium mentre si trasforma il genere.

L’aspetto comico. Questo è sempre stato un elemento poco


studiato del linguaggio lynchano. Una possibile interpretazione
è che Lynch trasferisca i meccanismi della suspense in quelli
della gag e viceversa. Pensiamo alla sequenza di Fuoco cammi-
na con me! in cui i due investigatori, interpretati da Chris Isaak
e Kiefer Sutherland, si recano presso un sospetto che vive in un

1. Si rimanda per l’esatta collocazione del film nella filmografia di Lynch


almeno a Chion (2000) e Menarini (2002).
2. Nell’ottica dello “strange” in versione artistica rimandiamo all’interes-
sante Frey (2016).

53
deposito di roulotte (l’attore feticcio Harry Dean Stanton). Solo
dopo aver bussato, i due si rendono conto che sulla porta di
ingresso c’è scritto di non disturbare prima delle 10 di mattina.
Sopravvalutando il dato, gli agenti si preparano ad affrontare
chissà quale ira e mettono mano al distintivo: la porta, in ve-
rità, si apre scoprendo nulla più di un burbero poveraccio in
vestaglia. Ecco, in questo caso tipico di “assurdo” lynchano, as-
sistiamo ad un arbitrario accumulo di tensione su una sequenza
assolutamente neutra – giocando anche con i codici di genere,
dove la parte investigativa rasenta il cliché ed è per solito routi-
naria e ripetitiva. Il piano viene eseguito perché una situazione
eventualmente di suspense dà vita a una gag: due poliziotti
imbranati che bussano alla porta sbagliata e vanno nel panico
per nulla. Un’altra sequenza dello stesso film appare persino
più rappresentativa: Leland e Laura Palmer stanno percorrendo
in auto una strada di Twin Peaks. Durante la sosta davanti a un
semaforo rosso, un autista che aveva cercato di superarlo apo-
strofa Leland accusandolo di essere un poco di buono. Leland
reagisce con sgomento e vorrebbe ripartire di corsa se non fos-
se in fila dietro a varie vetture e a un camion trasportatore. Una
ripresa dall’alto, improvvisamente, mostra un povero vecchio
con deambulatore che comincia il suo lento attraversamento
delle strisce: si spalanca una dimensione ironica nel testo che
però non oblitera quella di incombente tensione. Gag e suspen-
se convivono senza fondersi, producendo una sensazione di fa-
stidio e ansia. Come ricordano Buccheri, Colombo e Scaglioni:

la suspense costituisce un esempio assai eloquente di come, all’inter-


no del testo cinematografico, le dimensioni del tempo, dell’attenzio-
ne e dell’attesa giochino costantemente tra di loro, in un fitto gioco
di intrecci e sovrapposizioni […]: durata e attesa, questi due fattori ci
paiono strettamente congiunti. Di più: la nostra ipotesi è che la mag-
giore o minore intensità dell’attesa derivi dal modo in cui il film co-
struisce tale durata (1999, pp. 122-123).

Ancora, nella prima stagione di Twin Peaks, durante la


sequenza dei funerali di Laura Palmer, il padre Leland – in
verità l’assassino – si getta sulla bara nel momento in cui essa

54
viene calata nel terreno per l’inumazione. Il suo gesto inceppa
il meccanismo del montacarichi e dà vita a un macabro su e
giù in cui l’uomo, abbracciato al mogano, sembra copulare con
la figlia. La situazione, oscura e morbosa, è però costruita con
la struttura di una gag, tanto che poco dopo il personaggio di
Shelley ricorda l’episodio come se si trattasse di un avvenimen-
to assai divertente.

L’aspetto trasgressione. Abbiamo già insistito sulla sensazio-


ne di superamento accelerato delle regole vigenti, ma in questo
caso intendiamo riferirci alla materia orrorifica e sessuale della
serie. Le numerose ossessioni dei protagonisti, la presenza di
un elemento soprannaturale, l’oscenità di alcune allusioni, la
promiscuità sessuale dei giovani personaggi, la raffigurazione
tenebrosa del non-visibile di una normale cittadina americana
sono tutti temi in totale conflitto con le forme eufemistiche
della serialità statunitense. Non è la dimensione sociale a dare
problema, bensì quella soggettiva. La galleria di soggetti e iden-
tità distorte, paralizzate da patologie varie o persino stravolte da
deliri predatori di ogni tipo, è di per sé stessa un passo in avanti
clamoroso rispetto all’orizzonte di attesa di inizio anni Novanta.
Si potrebbe arrivare a sostenere che David Lynch e Mark Frost
abbiano allargato a dismisura i confini del visibile nella tele-
visione generalista, fino a incuneare nell’agenda civile temi
liminari senza mai affiancarvi una sponda pedagogica. E l’as-
senza dell’aspetto pedagogico della narrazione è a sua volta una
trasgressione discorsiva. La presenza dell’agente Cooper – la cui
positività e trasparenza emotiva rasentano la purezza angelica –
non è altro che un polo estremo rispetto ad altri poli estremi, un
solutore benefico rispetto alle forze distruttive e disgreganti.

I tre aspetti, indissolubilmente legati tra di loro, e sostenuti


inizialmente da un formidabile apparato pubblicitario, hanno
poi contribuito alla mitizzazione della serie e alla forza simbo-
lica di alcune icone (dalla torta di mele alla donna del ceppo)3.

3. Ricostruisce l’esperienza di fruizione con grande completezza Marco


Teti (2018).

55
2. L’inatteso ritorno di Twin Peaks

In quale contesto è invece piombato Twin Peaks - Il ritorno?


Lo scenario televisivo è completamente cambiato. Come noto,
la serialità si è complessificata4, il mezzo televisivo si è inte-
grato al digitale e alla Rete, la fruizione è stata rivoluzionata
e, soprattutto, l’abbondanza di prodotti all’epoca della peak
television non permette posizioni di rendita e tanto meno fe-
nomeni unici se non in presenza di operazioni paragonabili al
blockbuster cinematografico (Il trono di spade, per esempio).
La strategia di Showtime è stata dunque pensata attraverso il ri-
corso a uno degli strumenti più frequenti della televisione con-
temporanea, che rimane un’industria culturale a forte rischio
di impresa: il revival, questa volta in forma di sequel delle due
stagioni originarie. Complice la formidabile architettura nar-
rativa di Frost e Lynch, esoterica e fatta apposta per generare
l’attivismo dei fan, Twin Peaks - Il ritorno si è posto come
prodotto di nicchia, che ha accresciuto assai più la reputazione
della rete che non i conti correnti dei produttori. Dal punto di
vista dei contenuti, Lynch ha portato alle estreme conseguen-
ze il radicalismo della seconda stagione, arrivando a proporre
momenti di assoluto sperimentalismo da piccolo schermo, con
una durata (diciotto episodi lunghi) a sua volta inconsueta per
le serie contemporanee. Usando effetti speciali platealmente
posticci, mescolando videoarte e cinema indipendente, il regista
ha nuovamente stravolto gli orizzonti di attesa, spazzando via
da subito l’eventuale pericolo di un nostalgismo imitativo fuo-
ri tempo massimo. Inoltre, l’attento uso del palinsesto (niente
distribuzione tutta in una volta, stile Netflix, e dunque niente
binge watching), ha permesso, tra un episodio e l’altro, e tra
una settimana e l’altra, l’articolarsi di un ampio discorso critico,
oltre alla già citata – e abbondante – attività dei fan (nel caso di
Lynch, la prima e la seconda pratica, quella critica e quella fan
culture, sono necessariamente intrecciate).

4. Rimando obbligato a Mittell (2015); ma citiamo anche le integrazioni


critiche a Mittell in Pescatore (2018).

56
Certo, tra tutte le emozioni che si pensava di provare ve-
dendo Twin Peaks - Il ritorno, quella della commozione era la
meno prevedibile. L’autore non ha lesinato gli elementi consueti
del suo cinema: inquietudine, orrore, surrealtà, straniamen-
to. Tuttavia, ciò che Lynch non ha potuto né voluto evitare, e
anzi ha integrato al racconto, è il ritorno a Twin Peaks come
un canto sulla vecchiaia e sullo scorrere del tempo. I perso-
naggi, segnati dal tempo, recano sul volto espliciti elementi
crepuscolari, che poco hanno a che fare con rimpianto e nostal-
gia: anzi, per molti versi, ciò che è accaduto venticinque anni
prima a Twin Peaks è l’inizio di tutti gli orrori e un passato
che non si riesce a emendare. L’ultima, straziante telefonata
della Signora del Ceppo (chiaramente immaginata dall’attrice
Margaret Lanterman, malata terminale, come un vero addio ai
suoi spettatori) si lega a una dimensione flagrante e documenta-
ria insolita per il regista. La trasformazione del personaggio di
David Bowie, ormai scomparso, in teiera gigante conferma la
spiazzante fantasia con cui Lynch risolve problemi di casting.
La rieducazione da “idiot savant” di Cooper, ovvero Dougie,
è un’inversione bambinesca della demenza senile. La parata di
tutti gli invecchiatissimi Bobby, Shelley, Benjamin, Ed, Norma,
Jamees, Sarah, Gordon e molti altri, tra cui ovviamente Laura
Palmer, è molto più una sofferta Spoon River che non il freak
show previsto inizialmente.
A dispetto della fama di artista alieno a ogni pensiero ester-
no alla pura arte cinematografica, David Lynch ha in verità
saputo interpretare con grande acume le trasformazioni me-
diali in atto, e compreso l’unica strada possibile per una terza
stagione, scontentando in parte chi desiderava l’impossibile
ripristino del mito originario (quindi la sola prima stagione) e
rafforzando attraverso il radicalismo estetico la schiera degli
appassionati.

57
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58
4. Identità e alterità nel cinema di Lynch
di Leonardo Gandini

1. Identità, alterità e differenza

La condensazione di un liquido scuro che introduce la com-


parsa dello stravagante Dougie Jones coincide senza dubbio con
uno dei momenti di massima originalità della seconda stagione
di Twin Peaks. Nello stesso tempo essa rappresenta anche la
figura forse più estrema ed esemplare di un processo di fluidi-
ficazione delle identità che attraversa tutto il cinema di Lynch,
caratterizzandolo in profondità. Nei suoi film infatti le identità,
oltre ad avere contorni instabili e indefiniti quando applicati
alla caratterizzazione dei personaggi, rappresentano veri e pro-
pri centri di propulsione della messa in scena, oltre che nuclei
concettuali che rimandano alla relazione dell’identità stessa
con nozioni quali l’alterità e la differenza. Ovvero le medesime
nozioni intorno alle quali ruotano da sempre i dibattiti e le di-
spute sull’identità.

In estrema sintesi, questi ultimi possono essere divisi in due


grandi ambiti di riflessione e discussione. Il primo, articolato
soprattutto sul versante sociologico e antropologico, riguarda
la natura appunto controversa del rapporto con l’alterità, intesa
in tutte le accezioni possibili – etnica, razziale, linguistica, re-
ligiosa, ecc. – del termine. In quest’ambito le questioni riguar-
dano evidentemente la possibilità – accettata con entusiasmo,
rassegnazione o riluttanza, a seconda della posizione ideologi-

59
ca di partenza – che l’identità individuale venga condizionata
dall’impatto con un contesto sociale che non gli è omologo.
Il secondo ambito, oggetto di riflessioni soprattutto in campo
filosofico, vede nell’alterità un tratto non esterno, ma interno
all’individuo, dunque alla sua identità. Di conseguenza, la re-
lazione fra i due termini andrebbe esaminata innanzitutto nella
prospettiva di una differenza, fisica ed esistenziale, che rende
l’individuo un organismo fluido, in costante evoluzione, e come
tale inevitabilmente destinato ad essere, prima o poi, altro da
sé; e ad esserlo in modo graduale e non radicale, tanto da vani-
ficare ed eludere in partenza, sul piano ontologico, la possibilità
di un criterio realmente oppositivo tra i termini di identità e
alterità.

2. The Elephant Man

Ad entrambi gli ambiti di riflessione il cinema di Lynch


ha contribuito con film importanti e, a loro modo, esemplari.
Nel primo caso, quello della relazione fra identità e alterità,
possiamo considerare tale The Elephant Man (1980). Nella
scelta dell’argomento – l’orrore e la curiosità suscitati da un
uomo deforme nell’Inghilterra vittoriana – Lynch apparente-
mente opta per un approccio tradizionale al tema, che pone al
centro del palcoscenico un’alterità fisica, mostruosa e imme-
diatamente percepibile come tale. Tuttavia, la convenzionalità
della premessa serve soltanto a ribaltare le logiche narrative che
le sono conseguenti e dunque nel film questa mostruosità non
genera conflitti e opposizioni violente, come avviene ad esem-
pio nell’horror, né forme di solidarietà e comprensione, come
avviene, per contro, nel cinema che vede nel tema l’opportunità
di innescare parabole sulla tolleranza. Questo perché la figura
(realmente esistita) di John Merrick, a dispetto del titolo, non
costituisce il fulcro del film, se non sotto forma di reagente, ov-
vero di personaggio in grado, con la sua sola e stessa esistenza,
di evidenziare certe caratteristiche dell’ambiente sociale circo-
stante. In breve, Merrick è uno specchio, tanto che a contare

60
davvero, sul piano drammaturgico, sono gli individui che vi si
riflettono. È per questo che, come osserva acutamente Daniele
Dottorini, il motivo dello sguardo domina il film sul piano nar-
rativo e stilistico:

La sua vita è determinata dall’altro da sé, dipende e si modifica in re-


lazione alla quantità e alla qualità di sguardi che si producono in-
torno a lui. Tanto che il film stesso sembra più vertere intorno agli
sguardi sull’uomo elefante che sulla sua identità (Dottorini, 2004,
p. 92).

Tuttavia, gli sguardi di cui è oggetto Merrick, più che de-


signarne l’eccezionalità, riflettono – come si conviene ad uno
specchio – la natura e il carattere degli osservatori. Come ha
notato Michel Chion, il tempo del film è solcato da una netta
linea divisoria fra il territorio del giorno e quella della notte,
«due mondi impermeabili con leggi loro proprie: la notte è il
regno del portiere, […] il giorno quello della gente per bene»
(Chion, 1992, p. 70).
A ciascuno di questi due mondi corrisponde una modalità
precisa di sguardo, materiale e morale, su Merrick. La luce
diurna illumina una platea di aristocratici e nobili che si com-
piacciono della propria benevolenza nei confronti del diverso,
la cui mostruosità riflette il loro desiderio di apparire generosi
e privi di pregiudizi. Le ombre della notte invece tratteggiano
in chiaroscuro un universo popolato da malfattori ed ubriaconi
che si specchiano in Merrick per avere conferma della propria
marginalità sociale. Non è un caso che, nella scena notturna
dell’irruzione in ospedale, essi insistano per farne uno di loro,
forzandolo a bere e baciare le signore, in una sorta di patto di
sangue scritto nella lussuria e nell’alcolismo. In entrambi i ca-
si, nello scenario diurno come in quello notturno, la figura di
Merrick, in ragione della sua stessa mostruosità, amplifica iden-
tità sociali rispetto alle quali egli finisce per fare da detonatore,
innescando comportamenti estremi e paradossali, ma anche
assolutamente complementari gli uni agli altri. Sotto questo
profilo, la donna che il portiere di notte costringe Merrick a
baciare è il perfetto corrispondente dell’attrice che insiste per

61
recitare insieme a lui un passaggio sentimentale del Romeo e
Giulietta di Shakespeare. Questi episodi non sanciscono l’iden-
tità di Merrick agli individui che lo circondano, tanto meno la
volontà di questi ultimi di annullare generosamente la distanza
che li separa da lui. Al contrario, la sua mostruosa diversità ge-
nera un meccanismo di difesa che li porta tutti, senza distinzio-
ne di classe, a cercare forme di conferma della propria identità
emotiva e sociale: l’attrice, donna di mondo, bene educata, flirta
con Merrick in modo intellettuale e platonico; l’alcolizzata in-
vece lo fa in modo volgare ed aggressivo, come si conviene ad
una donna del popolo.
The Elephant Man dunque, a dispetto del protagonista, non
è un film sulla diversità, né sull’alterità, quanto sulla sua neces-
sità per l’identità di chi vi sta intorno, volto inevitabilmente a
strumentalizzarla per certificare e corroborare la propria. Come
ha bene scritto, in un’articolata riflessione filosofica sull’argo-
mento, Umberto Curi:

Poiché l’identità non è un “dato” da cui si possa partire, quanto piut-


tosto il prodotto di un processo attraverso il quale si giunge a ricono-
scere la propria identità, è soltanto attraverso la relazione con l’altro,
attraverso il riconoscimento dell’étran-je, che io produco la mia iden-
tità (Curi, 2010, p. 139).

3. Lost Highway

Altrettanto esemplare risulta, questa volta per il rapporto


che l’identità intrattiene con la nozione di differenza, un film
successivo di Lynch, Lost Highway (Strade perdute, 1997).
Quasi vent’anni di distanza separano le due opere, nel corso
dei quali il regista ha raggiunto uno stadio di maturità estetica
tale da permettergli di affrontare ora l’argomento in modo non
solo più complesso, ma anche più estremo. Se dunque in The
Elephant Man la questione dell’identità prendeva le mosse da
una evidenza fisica – la deformità manifesta del personaggio
del titolo – in Lost Highway essa corre sottotraccia a tutto
il film, condizionandone la struttura narrativa prima ancora

62
della fisionomia dei personaggi. Di conseguenza questi ultimi
non determinano l’intreccio – come nell’impianto tradizionale
di The Elephant Man, che segue appunto le vicende di John
Merrick e di coloro che vi si accostano – ma ne sono determi-
nati, poiché è la narrazione stessa a farsi altra nel momento in
cui il sassofonista Fred Madison si tramuta nel meccanico Pete
Dayton. Come hanno osservato, nella loro puntuale analisi del
film, Warren Buckland e Thomas Elsaesser, da quel momento
«è come se il film fosse ricominciato, o per meglio dire, sembra
di assistere alla seconda metà di un altro film» (2010, p. 213).
Il problema quindi, dal punto di vista dello spettatore, non
riguarda più la distanza e/o prossimità fra due creature visibil-
mente differenti (Merrick e i suoi interlocutori), ma la distanza
e/o prossimità fra due oggetti cinematografici che, a dispetto
della continuità temporale con cui gli vengono presentati, sem-
brano non avere fra loro alcun grado di conseguenzialità. Nello
stesso tempo, il fatto che la metamorfosi di Fred in Pete sia
avvenuta nello spazio circoscritto di una cella, dove il perso-
naggio è confinato in isolamento, garantisce circa il fatto che
Fred sia effettivamente Pete, e che dunque i due siano accomu-
nati da una qualche logica di tipo allucinatorio/onirico che ha
appunto consentito la trasformazione. Come ha scritto Andrea
Minuz, «Fred è in tutto e per tutto Pete, abolisce qualsiasi con-
fine tra se stesso e la propria possibilità di identificazione. Non
si costruisce un doppio […] ma letteralmente diventa un altro»
(Minuz, 2008, p. 105).
In questo modo la stessa struttura del film diventa un pa-
radigma dell’alterità come parte integrante e costitutiva dell’i-
dentità, nel segno della differenza. Rappresentata qui, in modo
davvero radicale, dal cambio di fisionomia e di nome del perso-
naggio, che spiazza lo spettatore ma al contempo lo forza a cer-
care di compensare e bilanciare l’alterità (nuovo protagonista,
nuova storia) con l’identità, ovvero con tutto ciò che gli possa
consentire di ricondurre la figura del meccanico a quella del
sassofonista. Quando l’identità è esterna all’alterità, può per-
mettersi di utilizzarla – questa la lezione di The Elephant Man
– per rafforzare le proprie certezze. Ma laddove i due termini si

63
ritrovano uniti e congiunti da una logica di evoluzione e trasfor-
mazione, allora il processo di distinzione si fa più complesso e
problematico.
Per ben due volte nel corso del film Lynch si prende gioco
di questa problematicità con le armi del paradosso. Nella pri-
ma circostanza il protagonista ad un party incontra un uomo
che gli dice di essere, in quel preciso momento, a casa sua. Di
fronte alla sua incredulità, gli porge un telefono, invitandolo a
digitare il suo numero di casa, per poi rispondere tranquilla-
mente alla sua chiamata. Nella seconda, che cade alla fine del
film, vediamo Fred suonare il citofono esterno della propria
abitazione e pronunciare una frase – “Dick Laurent è morto”
– identica a quella che, nella sequenza iniziale, lo stesso perso-
naggio aveva ascoltato dalla prospettiva opposta, ovvero come
ricettore del messaggio dal citofono interno alla propria abita-
zione. Entrambe le sequenze attestano la possibilità di un’ubi-
quità spaziale nella quale possiamo leggere una sorta di sugge-
rimento, rivolto allo spettatore, ad affrontare la visione del film
con un atteggiamento diverso, capace di vedere l’alterità – dei
personaggi ma prima ancora della narrazione che li contiene –
nell’identità, non fuori di essa.
Questo, nella fattispecie, significa leggere Lost Highway non
a partire da una serie di incompatibilità che ce lo farebbero
sembrare semplicemente un film confuso e indecifrabile (come
possono l’uomo incontrato ad una festa e Fred essere in due
luoghi contemporaneamente?), ma in ragione di una logica di
coabitazione, di mondi narrativi e delle figure che li popolano,
che trovano appunto nella figura dell’ubiquità spaziale la pro-
pria metafora. Per cogliere il senso della metamorfosi di Fred,
ovvero l’essenza di un’identità che si fa altra, è quindi opportu-
no pensare alla stessa identità come un’entità plurale, che attra-
versa stadi di mutamento non necessariamente progressivi, ret-
tilinei e ordinati. È per questo che, non appena nella vicenda di
Pete comincia a profilarsi una traiettoria che potremmo leggere
in chiave di rivalsa rispetto a quella di Fred – conquista e sedu-
zione di una donna che nella prima parte del film gli manifesta
freddezza – il film riporta bruscamente al centro della scena il

64
sassofonista e lo fa interagire con figure – Dick Laurent in testa
– apparse nella storia incentrata sul meccanico.
Questo ulteriore cambio di scenario e di personaggi elude
la possibilità di raccordare le due parti secondo un principio
di causa ed effetto o di nitida inclusione dell’una nell’altra.
Come appunto scrivono Buckland ed Elsaesser, «sembra di
assistere alla seconda metà di un altro film»: appunto niente
di più che una impressione, poiché in realtà la riapparizione
finale di Fred ci ricorda da un lato che siamo sempre dentro la
medesima storia, dunque dentro lo stesso film, dall’altro che le
due vicende non sono connesse secondo un criterio di identità
e alterità tale da rendere speculari e leggibili le loro differenze
e corrispondenze (come avviene ad esempio, per citare un film
recente, in Nocturnal Animals di Tom Ford). Possiamo dunque
giungere alla conclusione che la vicenda di Pete rappresenti un
tentativo maldestro e incompiuto, da parte di Fred, di affidare
all’immaginazione il compito di sublimare le proprie paure e
colpe. Maldestrezza e incompiutezza che la riapparizione del
sassofonista sanciscono in modo evidente: come bene scrive
Pietro Montani,

inizio e fine entrano in corto circuito mandando in pezzi la storia che


avrebbero dovuto circoscrivere e il suo importo catartico: quella rifi-
gurazione di cui Fred ha un così disperato bisogno (Montani, 1999,
p. 96)1.

La peculiarità di questa configurazione narrativa provvede a


far deragliare la possibilità di una relazione nitida e oppositiva
fra identità e alterità. Se il film non avesse riproposto nell’e-
pilogo la figura del sassofonista, ci saremmo trovati di fronte
ad un equivalente, sul piano della narrazione, della dinamica
esaminata in The Elephant Man sul fronte dei personaggi: una
storia (quella di Fred) che certifica e rafforza la propria identità
a partire dal confronto con una ulteriore (quella di Pete) che le
è radicalmente e costantemente “altra”. In questo modo invece

1. Oltre al bel libro di Montani dedicato all’immaginazione narrativa, su


questo punto si veda anche Minuz (2008, pp. 103-104).

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l’identità non guarda all’alterità quanto piuttosto vi si ibrida,
fluidificando i confini della narrazione sino a renderli permea-
bili ad una reciproca contaminazione. Come bene ci suggeriva
la scena della cella – posta non a caso all’inizio della seconda
parte – Pete è Fred (e viceversa), l’identità dell’uno include l’al-
tra, in ragione di logiche improntate alla differenza piuttosto
che all’opposizione.

Riferimenti bibliografici

Chion M. (1992), David Lynch, Édition de L’Étoile, Cahier du


cinema, Paris (trad. it.: David Lynch, Lindau, Torino, 2000).
Curi U. (2010), Straniero, Raffaello Cortina, Milano.
Dottorini D. (2004), David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani,
Genova.
Elsaesser T., Buckland W. (2002), Studying Contemporary American
Film: A Guide to Movie Analysis, Arnold P., London (trad. it.:
Teoria e analisi del film americano contemporaneo, Bietti,
Milano 2010).
Minuz A. (2008), “Strade perdute”, in P. Bertetto (a cura di), David
Lynch, Marsilio, Venezia, pp. 90-108.
Montani P. (1999), L’immaginazione narrativa. Il racconto oltre i
confini dello spazio letterario, Guerini e Associati, Milano.

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5. Immaginare attraverso il suono:
il linguaggio sonoro di David Lynch
di Lucio Spaziante

Nell’universo filmico di David Lynch il ruolo del suono


possiede un peso molto rilevante. Scorrendo le pagine nelle
rassegne storiche dedicate al suono nel cinema, egli viene col-
locato – assieme a Francis Ford Coppola, George Lucas, Philip
Kaufman (Beck, 2015, p. 100) – all’interno di quella rinascita
autoriale del cinema americano dei primi anni Settanta che
ha conferito al suono un ruolo primario e del tutto inedito nel
processo creativo e produttivo. Il linguaggio audiovisivo cine-
matografico ha visto, nel corso della sua storia, la strutturazione
di una grammatica convenzionale che regola il rapporto tra la
dimensione sonora e la dimensione visiva, dove è quest’ultima
a detenere quelle caratteristiche di “meraviglia” che hanno con-
notato da sempre il medium cinematografico. Il ruolo del so-
noro è stato tradizionalmente posto in secondo piano, e, d’altra
parte, esso si associa solo in un secondo tempo ad un linguag-
gio già sviluppato quale era quello del silent film. A partire da-
gli anni Trenta nel cinema si pose il problema di quali modalità
sonore fossero adatte a un mondo che era stato per così tanto
tempo “muto”. Il “sogno modernista” di trattare la materia ci-
nematografica come una materia artistica, al pari della musica
o della pittura, condusse alcuni registi – ad esempio Alfred
Hitchcock, ma anche René Clair, Dziga Vertov e altri – a non
farsi ingabbiare nell’obbligo della sincronizzazione tra suono
e immagine. Costoro intendevano considerare il sonoro come
uno spazio di sperimentazione, a differenza di chi proponeva di

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replicare nella dimensione sonora quanto era contemporanea-
mente visibile sullo schermo (Wierzbicki, 2009, p. 101). Il suo-
no veniva adoperato come una superficie creativa mediante la
quale produrre “associazioni libere” o comunque meno suddite
dell’immagine, sperimentando la manipolazione di suoni “sog-
gettivi” off – ovvero fuori schermo. A titolo di esempio, si può
citare la celebre sequenza del coltello contenuta in Blackmail
(UK, 1929) di Hitchcock (primo film sonoro britannico di cui
esiste anche una versione muta), nella quale si ascolta in modo
ripetuto la parola knife, con la funzione, mediante l’impiego di
una logica soggettiva, di generare l’effetto di un suono che pro-
venga dalla “mente” della protagonista, cioè, che non sia visibi-
le tramite sincronizzazione labiale (Dancyger, 2014).
Ad affermarsi come modello dominante fu invece la sincro-
nizzazione, nella quale il suono era posto al servizio del reali-
smo audiovisivo, teso a rafforzare la credibilità delle azioni dei
personaggi e alla comprensibilità dei dialoghi.
Se dunque, storicamente, il suono nel cinema è stato in-
stradato verso un ruolo ancillare, con la generazione del New
Cinema è emersa una progressiva rivoluzione che ha condotto
l’audio a riguadagnare terreno rispetto al video, e David Lynch
ne è stato uno dei protagonisti indiscussi. La mutazione di
statuto del sonoro è stata favorita anche dalle trasformazioni
tecnologiche che, dapprima con il Cinemascope e l’impiego dei
suoni multicanale, poi con la miniaturizzazione dei registratori
a nastro e con i microfoni portatili, poi ancora con l’afferma-
zione del sistema Dolby per la riduzione del rumore, hanno
consentito di aumentare la qualità e le potenzialità del sonoro
nell’audiovisivo.
Nella creazione cinematografica di Lynch, in particolare,
il suono possiede un ruolo centrale, non relegato alla fase fi-
nale di post-produzione come sovente avviene (Davison, 2017,
p. 180).

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1. Eraserhead: all’inizio vi fu il suono

Già con Eraserhead, il primo lungometraggio (USA, 1977),


pur trovandosi in una situazione di difficoltà di mezzi, con
cinque lunghi e laboriosi anni di lavorazione, Lynch lavorò sul
suono in una fase strategica di pre-produzione, portata avanti
grazie alla collaborazione con Alan Splet, un tecnico del suo-
no con cui aveva già collaborato nel corto The Grandmother
(Davison, 2017, p. 179). La tavolozza dei suoni in questo caso
non fu desunta da library sonore bensì del tutto realizzata ex-
novo: creazioni attuate da Alan Splet sotto la supervisione di
Lynch, non adoperando strumenti elettronici ma solo e unica-
mente attrezzature analogiche, seguendo «tecniche analoghe a
quelle della musica concreta francese» (Chion, 1992, p. 50). Un
metodo artigianale che veniva eseguito per prove ed errori, fin
quando il suono non si “sposava” (è il termine letterale adope-
rato da Lynch) con l’immagine (Lynch, 1997).
Allo scopo fu, tra l’altro, sperimentato un microfono a con-
tatto denominato FRAP (Flat Response Audio Pickup), che
veniva posto all’interno di tubi metallici o di altri oggetti, per
riuscire a ottenere una particolare risposta nella vibrazione so-
nora (Beck, 2015, p. 103). La consuetudine di creare suoni ad
hoc è una caratteristica che si mantiene costante lungo l’intera
filmografia di Lynch, il quale viene spesso accreditato anche
nel ruolo di sound designer. Egli, del resto ha dichiarato: «la
gente mi chiama regista ma in realtà io mi considero un foni-
co» (Chion, 1992, p. 212).
In Eraserhead l’approccio di Lynch appare, sin dalla prima
sequenza, affine a una creazione artistica, nel senso più stretta-
mente pittorico. Nelle immagini iniziali lo spettatore potrebbe
pensare di essere di fronte ad una installazione di videoarte,
piuttosto che ad un film, e nel complesso le sequenze si susse-
guono spesso come veri e propri quadri. Già da questo lavoro
appare evidente che per Lynch il trattamento della superficie
audiovisiva rappresenti una sorta di spazio extra-mondano nel
quale dare corpo a realtà che sono allo stesso tempo proiezioni
del suo immaginario interno, e componenti di una sorta di in-
conscio collettivo profondo.

69
Nel corso delle interviste Lynch si è di solito rifiutato di for-
nire una spiegazione, in senso stretto, dei suoi film. Quasi che
questi rappresentino una finestra attraverso la quale è possibile
assistere ad eventi difficilmente comprensibili se non davanti
alla loro pura manifestazione. Ed è seguendo questa logica che
egli ha concepito il panorama sonoro di Eraserhead, anzitut-
to, conferendovi una sorta di primarietà concettuale al suono.
Creare, cioè, in primo luogo i suoni, affinché essi potessero a
loro volta “generare” il senso delle immagini a cui venivano
associati.
Abitualmente si tende a pensare che il suono sia il correlato
secondario dell’immagine (ad esempio, vediamo un personag-
gio camminare, e dunque ne ascoltiamo i passi), mentre Lynch
non solo ha dichiarato esplicitamente che nel cinema il suono
rispetto all’immagine conta almeno per il 50%, ma anche che
vi sono casi nei quali è appunto il suono a dettare la linea.
Proviamo ora ad esaminare alcune sequenze del film, per
comprendere meglio l’impiego del suono.
La caratteristica dominante dal punto di vista sonoro è la
presenza costante di una sorta di rombo cupo, sordo e continuo,
dalla tonalità bassa, modificato tramite semplici variazioni di
timbro e intensità. Una nota dominante – sorta di atmosfera che
avvolge il mondo filmico – che ne definisce l’umore. Qualcosa
di paragonabile a ciò che in musica si definisce un bordone, ov-
vero un suono grave e continuo di accompagnamento, ad esem-
pio impiegato con le cornamuse, e che Lynch adopera in modo
reiterato nei suoi film (Corbella, 2008). Una soluzione che è
altrettanto possibile ritrovare in Alien (USA, 1979) – dove l’am-
biente dell’astronave presenta una sorta di rombo sonoro costan-
te sullo sfondo (Whittington, 2007) – così come in altri ambien-
ti sonori filmici, primo fra tutti 2001: A Space Odyssey (UK,
USA, 1968), in particolare nella sequenza dedicata al viaggio
oltre Giove, nella quale Stanley Kubrick fornisce una sorta di
visione allucinatoria fatta di pure forme e colori mutanti.
Anche le prime sequenze di Eraserhead propongono una
ambientazione “cosmica”, ovvero l’apparizione di una sorta di
pianeta verso il quale è in corso un avvicinamento, sottoline-

70
ato dall’aumento dell’intensità del rombo sonoro e dalle sue
variazioni di altezza sonora. Se questo suono cupo e continuo
suggerisce da un lato una identificazione con il suono di un’a-
stronave o di un razzo cosmico, d’altra parte questa associazio-
ne nel film non viene supportata sul piano visivo o narrativo in
genere. Questa sorta di bassa frequenza, di vibrazione continua,
si potrebbe dire che in realtà sia un rumore di “sfondo” più
che di fondo, perché funge da costante sfondo sonoro sul quale
si stagliano piccole entità che concorrono a prendere forma.
L’apparente corrispondenza figurativa tra suoni e immagini si
rivela in realtà essere qui, spesso, un pretesto. Ribaltando la
prospettiva usuale, è come se fossero le immagini a dover for-
nire una sorta di alibi, ovvero una plausibilità, all’esistenza dei
suoni, i quali peraltro appaiono per nulla realistici. Il trattamen-
to operato da Lynch in Eraserhead si rivela consistere in una
vera e propria forma di espressionismo astratto (Smith, 2014,
p. 113) realizzato attraverso il suono, successivamente messo
in correlazione con un universo visivo che va ad assumere, in
questo modo, caratteri simbolici e surrealisti. La realizzazione
sonora presenta tratti figurativi che potremmo paragonare a un
quadro di Jackson Pollock eseguito tramite suoni. Tratti, figure,
segni che, pur non possedendo un carattere strettamente refe-
renziale, mantengono un intrinseco potenziale semantico che
contribuisce a definire in modo preciso una data “atmosfera”.
Una base figurativa che consente di generare un universo visivo
altamente caratterizzato e significativo, anche grazie al soste-
gno semantico garantito dal sonoro.
Lynch tratta la materia sonora come un pittore tratta la
figurazione visiva. Nulla, sul piano sonoro, è come appare.
Essere sound designer significa per Lynch essere sound painter.
Pensiamo per un attimo a quelle “ombre” che nel disegnare
una figura umana sono necessarie a renderla più efficace. Con
Lynch il disegno delle ombre avviene attraverso il suono: un
contorno che conferisce realtà ad una figura.
I suoni di Eraserhead possiedono al contempo un caratte-
re materico ma astratto: conservano un tratto di concretezza
organica (perché non elettronici), ma allo stesso tempo non

71
possiedono elementi di riconoscibilità. C’è dunque un tratta-
mento plastico del suono, che insiste su quelle che la semiotica
definirebbe categorie semi-simboliche. Non possiamo, cioè,
dire che quel dato rumore continuo “rappresenti” effettiva-
mente qualcosa o possa fare esplicito riferimento ad oggetti
visivi mostrati nel film. Possiamo però tentare di descriverlo
adoperando aggettivi come “cupo”, “oscuro”, oppure suggerire
che risulti simile ad un motore, ad un oggetto meccanico di
grossa taglia, come un trattore, una trebbiatrice, un’astronave
o una fabbrica. Nessuno di questi oggetti evocati risulta, però,
presente nella dimensione visiva, sebbene la visualizzazione
di ambienti industriali possa evocare la presenza di motori o
fabbriche nella prossimità (quella dei suoni off) degli ambienti
visivi visualizzati.

2. Uso del linguaggio audiovisivo

Nel cinema di Lynch prevale un’impostazione non conven-


zionale nel trattare le convenzioni linguistiche audiovisive. Ad
esempio, nell’universo sonoro la tradizionale separazione tra
suoni diegetici ed extra-diegetici viene spesso ignorata. Si trat-
ta – per semplificare – della distinzione che divide: da un lato,
i suoni “interni” alla storia, in grado dunque di essere ascoltati
dai personaggi (diegetici); dall’altro, quei suoni inudibili dai
personaggi (extra-diegetici), posti su un differente livello, tipici
ad esempio della colonna sonora, che infatti è estranea all’uni-
verso della storia ma è udibile dagli spettatori.
Nel caso di Eraserhead è molto arduo adoperare tale distin-
zione, sin dalle prime sequenze. Si tratta di suoni interni alla
storia? Ma c’è effettivamente una “storia”? Anche nelle sequen-
ze dove appaiono i rari dialoghi “teatrali” del film, i suoni sono
ben poco realistici e slegati da una logica convenzionale basata
su una equivalenza del tipo: se figura, allora suono. Questa
impostazione è rilevabile nell’intero lavoro di Lynch, il quale
adopera con consapevole maestria la possibilità di attivare,
disattivare o sabotare le convenzioni linguistiche. Da un lato

72
vi sono casi, come lo stesso Eraserhead, nei quali la diffusa
dimensione surreale trova un prevedibile correlato in suoni coe-
renti con quel tipo di universo. Vi sono però altri casi – fra tutti
The Straight Story (UK, USA, Francia 1999) e in parte The
Elephant Man (UK, USA, 1980) – nei quali a prevalere è inve-
ce una razionalità realistica, dove la capacità di controllo della
dimensione sonora da parte di Lynch si fa paradossalmente an-
cora più spinta, proprio a causa del vincolo – per lui inusuale –
alla coerenza causale sincrona. È significativo per questo l’ini-
zio apparentemente convenzionale di The Straight Story: i titoli
di testa (collocati su uno sfondo cosmico da Lynch così amato)
sono accompagnati da un tema – per archi e piano – tipico di
Angelo Badalamenti. Una scelta musicale classica, rassicurante
ma anche sottilmente inquietante (con alcune somiglianze con
il tema di Twin Peaks), utile ad introdurre questa elegia figura-
tiva del paesaggio del Midwest. L’avvio dell’azione narrativa è
contraddistinto da circa due lunghi minuti di silenzio – audaci,
se pensiamo si tratti di un film prodotto dalla Disney – che ci
conducono all’ambiente quotidiano di Alvin Straight. In real-
tà, il silenzio in Lynch non è mai totale: ascoltiamo le fronde
degli alberi, mentre un lento movimento di macchina dall’alto
gira attorno alla casa, allo scopo di tendere lo spettatore verso
l’attesa di un evento, ed ecco emergere un’appena percettibile
nota bassa di archi. Il sostanziale silenzio viene bruscamen-
te interrotto dall’improvviso rumore di un tonfo prodotto da
qualcosa di non visibile (che poi si comprenderà essere la ca-
duta per terra di Alvin). Se la sequenza segue rigorosamente le
regole del realismo sincrono, assecondando la causalità della
relazione suono-immagine, Lynch vi aggiunge, però, il proprio
“tocco” sonoro che rende inconsueta la cura minuziosa nei
dettagli e il gioco delle intensità sonore. In questo modo egli
riesce, pur mantenendo l’impianto realistico che caratterizza
il film, a determinare un’esplosione di tensione, contrapponen-
do il silenzio e l’atmosfera di tranquillità con l’imprevedibile
invisibilità del rumore improvviso. Tra le varie ma ben celate
eccezioni al puro realismo che caratterizza The Straight Story,
si segnala l’intenso dialogo – basato su ricordi di guerra – che

73
Alvin intrattiene al bancone di un bar con un vecchio reduce.
Il ritorno sul loro drammatico vissuto di guerra si trasforma
per i due personaggi in una sorta di rielaborazione del trauma
e in una confessione densa di emozione (Nochimson, 2013, p.
80). Lo sfondo sonoro è costituito dalle parole di una canzone
degli anni Quaranta significativamente intitolata Happy Times:
per convenzione siamo condotti a pensare che, dato il contesto,
la musica provenga dall’ambiente del bar, ma si tratta solo di
una presupposizione volutamente non corroborata da elementi
visivi (radio o altoparlanti). Dopo poco, la musica viene trat-
tata con un riverbero che crea l’effetto di un allontanamento,
per poi tendere a scomparire. Inaspettatamente, invece, mentre
il racconto si fa più dettagliato e doloroso, compaiono rumori
di guerra: suoni di esplosioni, aerei, bombardamenti. Effetti
sonori che non possiedono una motivazione causale di tipo
realistico: semplicemente “abitano” la mente dei personaggi e
vengono evocati dal loro racconto. Questa prassi è tipica del
contratto che Lynch tende a instaurare con lo spettatore: una
sorta di patto fiduciario che trascende le regole e le mediazioni
del linguaggio per costruire con lui/lei una relazione soggettiva
diretta.
Ciò che Lynch inserisce in un film assume senso al di là
della plausibilità e della stretta comprensibilità. Si tratta di una
modalità che mira ad impiegare la superficie audiovisiva per
creare mondi e produrre sensazioni, senza vincoli. Dunque, a
seconda dei casi, e anche all’interno dello stesso film, Lynch
ridefinisce sul momento le regole e le razionalità che defini-
scono il contesto, pur mantenendo motivi e percorsi ricor-
renti. Scorrendo la sua filmografia troviamo alcune costanti
che riemergono e che consentono di tracciare una sorta di
profilo di Lynch come manipolatore del linguaggio audiovisi-
vo. Un’ennesima convenzione che viene resa obsoleta nel suo
cinema, ad esempio, è la tradizionale suddivisione dell’universo
sonoro in tre aree: voci, rumori e musica. Egli tende piuttosto a
concepirle come un’unica superficie nella quale articolare per
continuità/discontinuità lo sviluppo lineare dei suoni. Davison
(2017, pp. 186-187) analizza a questo scopo una sequenza nel

74
finale di Wild At Heart (USA, 1990), collocata approssimati-
vamente attorno a 1h e 50 minuti, nella quale il personaggio di
Lula conversa al telefono con la madre Marietta. Il suono della
cornetta sbattuta sul telefono da Lula viene alterato sovrappo-
nendovi all’unisono sia uno sparo, sia un accordo dissonante
di pianoforte (rumore e musica). Questo impasto sonoro viene
subito replicato quando Lula lancia del liquido contro un ri-
tratto fotografico della madre, aumentando ancor più il carat-
tere “simbolico” e non-realistico dell’effetto sonoro. A seguire,
Marietta emette un urlo stridulo e continuato (voce), poi con-
nesso senza stacchi di montaggio con un suono dello stridere
di freni (rumore), con il quale crea una rima acustica. Si tratta
di un efficace esempio che dimostra il rapporto orchestrato da
Lynch tra dialoghi, rumori e musica, adoperati in modo tale da
annullare il loro statuto differenziato e porli invece in una di-
mensione condivisa: sia sul piano verticale (unisono), che oriz-
zontale (sequenza di suoni con valenza narrativa).

3. No hay banda: it’s all recorded

Ma il film che, forse più di altri, rappresenta la summa


del pensiero di Lynch sul cinema come linguaggio sonoro è
Mulholland Drive (USA, Francia, 2001). Ogni suono è qui per-
fettamente distinguibile e accuratamente misurato nell’intensità,
nell’orientamento spaziale, e nella definizione timbrica. La qua-
lità sonora è tale da essere paragonabile all’ascolto di un brano
musicale in cuffia. Allo stesso tempo, nulla di questo universo
sonoro segue consuetudini canoniche. Le intensità sono insolite
(ad esempio volumi alti per suoni marginali), e lo statuto di re-
altà è spesso indecidibile. Chi sente quel suono? Da dove viene?
Sono domande non rilevanti nell’universo-Lynch, tanto quanto
le domande sulla concreta dinamica degli eventi nel plot. Si
tratta piuttosto di invertire la relazione e porre ciò che acca-
de, anche sul piano sonoro, come fenomeno auto-significante.
Ovvero, piuttosto che chiedersi a quale relazione causale esso
appartenga, è più utile osservare l’effetto di senso complessivo.

75
Lynch “colora” il visivo tramite il sonoro, cioè arricchisce la
semplice evidenza visiva con una rilettura che passa attraverso
il suono. Ciò che appare normale sul piano visivo viene “fil-
trato” e reso anomalo attraverso l’elemento sonoro. Prendiamo
ad esempio la celebre sequenza del diner Winkie’s, a circa 10
minuti dall’inizio del film. È contenuta tra due scene in cui il
personaggio di Rita appare dormiente, dunque una delle ipotesi
è che si tratti di una sequenza onirica.
Si apre con uno squillante suono di sirena da ambulanza
che crea un brutale scarto con la scena precedente. È una pras-
si costante di Lynch, che tende a costruire i collegamenti per
contrasti e per rotture e non mediante legami (Chion, 1992, p.
56). Il contesto sonoro nel quale dialogano i due personaggi
nel diner è inizialmente regolare: oltre alle voci, ascoltiamo
i rumori ambientali del ristorante e della strada. Man mano,
però, che il racconto dell’incubo si fa più intenso e perturbante,
il suono ambientale sparisce e viene sostituito da una sorta di
bolla sonora che avvolge il tutto, creando un effetto di distacco
della realtà e di isolamento dal contesto: l’usuale rumore cupo
e continuo, poi arricchito da una nota continua, ad intensità
crescente. Quando i due personaggi escono dal diner, i rumori
della strada sono poi filtrati da un reverbero che ne accentua la
sensazione irreale, e mentre la scena si sposta verso il retro, i
suoni dei passi sono alterati da un’eco. Dopo il boato improv-
viso che coincide con l’apparizione di un mostro, la scena si
conclude con il suono della voce completamente ovattata, atto
a descrivere lo stato di malessere del personaggio che infatti
crolla al suolo.
Questa descrizione illustra il modo con il quale Lynch crea
una improvvisa impennata di tensione, affidandosi unicamente
all’organizzazione sonora senza alcun effetto visivo. Egli appa-
re perfettamente consapevole del mezzo cinematografico come
strumento di creazione di realtà ad hoc: in parte si serve delle
convenzioni, in parte le sovverte, in parte le salta a pié pari.
Concludiamo con la celebre scena del Club Silencio, che
costituisce una vera e propria finestra aperta da Lynch sul pro-
prio modo di concepire il linguaggio audiovisivo, e che è stata

76
infatti oggetto di ripetute e approfondite analisi (si vedano, tra i
numerosi esempi, Corbella, 2008; Van Elferen, 2012).
Le due protagoniste femminili entrano in un teatro semi-
vuoto, il Club Silencio (ecco ancora un riferimento al suono),
mentre, al loro ingresso, il personaggio identificato come “il
Mago” declama alcune battute, accompagnate da un’ampia ge-
stualità:

No hay banda! There is no band! Il n’est pas de orquestra! This is


all… a tape-recording. No hay banda! And yet we hear a band. If we
want to hear a clarinette… listen… Un trombone “à coulisse”. Un
trombone “con sordina”. Hear le son… and mute it… drop it… It’s
all recorded. No hay banda! It’s all a tape. Il n’est pas de orquestra. It
is… an illusion.

Il Mago sembra rappresentare, dunque, colui che manipola


la magia del sonoro nel linguaggio audiovisivo: si può ascol-
tare un suono di orchestra anche se l’orchestra non si vede,
perché nel cinema tutto è registrato, montato e sincronizzato.
Che appaia o meno un suonatore di tromba, o che venga o me-
no mimata un’esecuzione, non è rilevante: il suono si sentirà
ugualmente. Conclusione: il cinema “è un’illusione” e contiene
una natura magica che si esprime principalmente attraverso il
suono. E, particolare trascurato nelle analisi, il Mago adopera
quattro diverse lingue per esprimere i suoi concetti, traducen-
doli tra loro. Per quale motivo? Forse vuole suggerire l’idea che
le lingue e i doppiaggi possono mutare, mentre la magia artifi-
ciale del sonoro nell’audiovisivo rimane la medesima.

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78
6. Tra Lynch e Bacon:
visibile, sensibile e figurale
di Nicola Dusi

Proveremo a dare conto del “senso di malessere” che si


prova a ragionare sull’opera di David Lynch. Innanzitutto, va
detto che il lavoro di Lynch appare a prima vista imprendibile,
sfuggente ad ogni definizione. Forse perché, per capirlo me-
glio, bisognerebbe conoscere (anche) la sua produzione pittorica
defigurante, spuria, a volte a metà tra fumetto e geroglifico; e
certo anche le strip di fumetti, i progetti televisivi attuati (come
Twin Peaks) e quelli solo tentati; la produzione di cortometrag-
gi orrorifici e spesso tremendamente “cattivi”, urticanti, senza
scampo; tutto questo assieme al suo complicato e polisemico
(ma anche poliscopico e polimorfo) corpus cinematografico. Un
cinema in cui domina il gusto della costruzione di situazioni
narrative spesso indecidibili, a forte carica visiva e sonora, di
spiazzante valenza onirica e metaforica. Nei film di Lynch lo
spettatore si fa avvolgere con tutti i sensi, l’ambiente diventa
“immersivo” (come si dice oggi per i mondi dei videogiochi),
e lo spettatore vive un’esperienza a rischio: si immerge cioè nel
racconto in modo sinestesico, e con una sensazione costante di
pericolo e di spaesamento. Secondo Paolo Bertetto, in effetti,
la «scrittura dell’eccesso» di Lynch si avvale di una messa in
scena «ipnotico-fascinativa, trascinante, immersiva, fortemente
emozionale […] progettata e configurata per realizzare un iper-
coinvolgimento dello spettatore» (Bertetto, 2008, p. 23).
Seguendo Vivian Sobchack (2004), nell’esperienza sineste-
tica (anzi, per il film, «cinestesica») ci sarebbe una dimensione

79
incarnata (o embodied) come effetto della relazione tra attività
espressiva del film e attività percettiva dello spettatore, queste
ultime mediate da un’organizzazione sensibile che fa diventare
il film una sorta di corpo che non solo coinvolge, ma mette lo
spettatore in grado di attuare una conoscenza sensibile (senso-
riale e percettiva), in una relazione che per Sobchack ha una
«base somatica»1. Come se il film «toccasse» lo spettatore
non solo in senso cognitivo, ma proprio attraverso una «parte-
cipazione sensuale all’esperienza cinematografica» (Sobchack
cit., trad. it., p. 39), che gli fa vivere una visione che è sempre
«incarnata», perché «l’esperienza cinematografica ha significato
non in modo collaterale rispetto al nostro corpo ma attraverso
di esso» (Ib., corsivo nel testo). Sobchack parla di una esperien-
za di “comprensione corporea preriflessiva del visibile” (cit., p.
42), e lo spiega in questi termini:

siamo in grado, secondo una qualche modalità incarnata, di tocca-


re ed essere toccati dalla sostanza e dalla testura delle immagini; di
sentirci avvolti da un’atmosfera visiva; di provare un senso di peso,
di soffocamento e di fame d’aria; di prendere il volo con euforia e li-
bertà cinetica, anche se siamo relativamente ancorati alle nostre pol-
trone; di essere catapultati all’indietro da un suono; a volte, persino
di annusare e gustare il mondo che vediamo sullo schermo. Anche se
forse l’olfatto e il gusto sono meno mobilitati del tatto nel conformare
la comprensione delle immagini che vediamo (Sobchack, 2004, trad.
it., pp. 43-44).

Alla luce di queste proposte, e tornando alla fascinazione


per i film di Lynch e al sopracitato malessere, cercheremo nelle
analisi di affrontare l’universo sensibile del cinema di Lynch
ed in particolare i momenti in cui la visione entra in modi a
dominanza «aptica» (o tattile) come li chiama Gilles Deleuze
(1981): un regime non più solo ottico e sonoro. I film di Lynch
mettono in contrasto modi del visibile e del narrativo nitidi e
distinti, con riferimenti ai generi classici del cinema (ad esem-

1. Ricordiamo che Sobchack si rifà alla fenomenologia di Merleau-Ponty


(1945).

80
pio nelle tematiche del noir) e a paesaggi urbani rassicuranti
della (apparentemente) quieta provincia americana, con racconti
che si sdoppiano e si moltiplicano, perdendo coerenza tempo-
rale. Mentre lo fanno, però, sfibrano i piani narrativi e i mondi
figurativi, che spesso si sovrappongono in modo imperfetto,
per indagare la profondità ambigua e perversa delle relazioni
umane, relazioni cioè sentimentali, erotiche e di potere. Il mon-
do discorsivo di Lynch predilige atmosfere cupe e opache, a
luminosità rarefatta, – che tende volentieri al semibuio –, inner-
vate di musica extradiegetica spesso percussiva e inquietante.
A volte, nello spazio in between tra le visioni nitide e le visio-
ni opache, tra narrazioni apparentemente lineari che svoltano
nell’indistinto e nella discontinuità, vi sono inserti in cui l’au-
diovisione si fa sfumata, sfocata, la visibilità ridotta, e l’ascolto
si complica con volumi altissimi e con suoni in cui si mescola
organico e inorganico. Sono questi lacerti visivo-uditivi, dove
appaiono corporeità e mondi incongrui e informi, che mi in-
teressano particolarmente2. Si tratta di sequenze audiovisive
disturbanti che nell’economia complicata dei mondi possibili
(spesso) co-presenti dei film di Lynch, diventano un segnale di
svolta narrativa e sensoriale – anche se marcata di indecidibili-
tà – a partire dai corpi e dai volti dei personaggi, che sembrano
subire una mutazione profonda, una trasformazione somatica
e affettiva. Sequenze in cui il film va oltre il piano figurativo
e rappresentativo, per entrare appunto in un regime “aptico”.
A dir meglio, questi momenti fanno svoltare il discorso in un
regime figurale, che cercheremo di ridefinire come una tensione
tra il modo semiotico e il modo estetico. Un figurale in cui si
alterano le configurazioni visive e sonore ancora riconoscibili
con trasformazioni date attraverso torsioni, fibrillazioni e de-
formazioni plastiche e ritmiche, sfocature e defigurazioni. Un
mondo, allora, al contempo riconoscibile e sfigurato, superfi-
ciale e viscerale, che a tratti svolta repentinamente e trasforma
corpi e soggetti in una «carne del mondo», come la chiama
Maurice Merleau-Ponty (1945). Con un immediato riferimento

2. Rinviamo al saggio di Lucio Spaziante in questo volume.

81
intermediale esplicito: l’universo pittorico di Francis Bacon,
presente nei lavori di Lynch fin dai suoi primi cortometraggi.
Faremo una carrellata sui lavori di Lynch che citano o usano
in sottotraccia i dipinti di Francis Bacon, per poi soffermarci
su alcune scene e momenti perturbanti nei film di Lynch che
marcano un repentino cambiamento di registro e una svolta
percettivo-espressiva; infine, per ancorare teoricamente le no-
stre ipotesi, ragioneremo di figuralità e di visione embodied nei
film di Lynch.

1. L’effetto pittorico nel primo Lynch

Per capire l’importanza del sottotesto pittorico soffermia-


moci sugli esordi di Lynch, e in particolare su The Alphabet
(1968), il suo secondo cortometraggio, dove appaiono figure
prelevate in modo esplicito dai dipinti di Francis Bacon. In
questo breve film si fondono cinema sperimentale e arti pla-
stiche e, mentre vediamo una donna che dorme, tra scrittura,
canto e pittura astratta, si formano immagini disturbanti, o
meglio perturbanti, dato che dalla loro quotidianità apparente
passano inaspettatamente all’orrore. Si tratta di un cortometrag-
gio “antinarrativo”, che cioè non concatena azioni causalmente
connesse, e produce un “effetto pittorico”. Ricordiamo che per
Antonio Costa l’«effetto dipinto» in film fa convivere il pitto-
rico e il cinematografico con due effetti di realtà diversi, che
interferiscono a vicenda. Il modello di Costa prevede un «ef-
fetto quadro», che si produce ad esempio nei film di Pier Paolo
Pasolini come Accattone (1961) o La ricotta (1962), o nel film
sul Settecento a luce naturale o a lume di candela di Stanley
Kubrick, Barry Lindon (del 1975): in questi casi «l’inquadratura
cinematografica fa l’effetto di un quadro, d’un dipinto […] ne
riproduce determinati effetti luministici, cromatici o di organiz-
zazione spaziale […] ne imita la staticità, la sospensione tempo-
rale, la selettività cromatica» (Costa, 2002, p. 311). Si ha invece
un «effetto pittorico», quando, come accade già nei film di
Méliès, «lo spettatore […] è, per così dire, costretto a fermarsi

82
di fronte alla dimensione “enunciativa”, impedito a immergersi
[totalmente] nella diegesi» (Costa, 2002, p. 308). Nell’effetto
pittorico ricercato da The Alphabet di Lynch il racconto è spez-
zato, annichilito, e si risolve nella svolta orrorifica del finale.
Come direbbe Costa: «siamo di fronte a una marca di enuncia-
zione riconducibile a una intenzionalità espressiva forte […] in
cui la teatralità e l’effetto scenografico condizionano o rendono
variamente problematico l’accesso al puro dispiegarsi della sto-
ria» (Id., p. 310).
Rammentiamo la posizione centrale in The Alphabet del
pianto di un bimbo, e di una madre che cerca di calmarlo: un
tema sonoro che tornerà come un’ossessione in Eraserhead,
il primo lungometraggio di Lynch. E notiamo l’importanza
dell’ambiente “alla Bacon”, cioè di uno spazio chiuso claustro-
fobico, senza profondità, dai colori freddi e bicromatici: quasi
una «Struttura» (come la chiama Deleuze nell’analisi dei dipinti
di Bacon) in cui si disegna un rettangolo-gabbia, e dove cam-
peggia un manichino-porta abiti, o meglio una figura che rico-
nosciamo come organica e quasi umana, poiché viene animata
da lettere e forme svasate, fino a mostrare la carne che sangui-
na, con varie configurazioni di un viso in formazione e defigu-
razione, e di un seno che palpita. E ancora: troviamo un cuore
che pulsa e manda lettere alla figura, come in un dialogo possi-
bile, ma questo provoca un eccesso, uno sbocco di sangue o la
morte, cosa che accadrà anche alla donna nel letto. Questa rapi-
da descrizione è al servizio di quello che Basso Fossali (2006,
pp. 39-40) chiama un «ragionamento figurale», dato che The
Alphabet «ha a che fare con una malattia che si chiama lin-
guaggio», che contamina tutto. Secondo Basso Fossali, Lynch
prende dal cinema sperimentale «una mistura di materiali ete-
rogenei», e produce una morfogenesi creativa con «effetti di
derealizzazione, operazioni di decontestualizzazione, strategie
di ibridazione, ricezioni per sedimentazione e stratificazione di
immagini e suoni di diversa provenienza e di differente materia
dell’espressione» (cit., p. 28). Un procedimento che pervade il
cinema di Lynch, in continua sperimentazione non solo riguar-
do alle forme espressive e a quelle narrative, ma anche rispetto

83
all’esperienza spettatoriale. Nei suoi racconti Lynch infatti pri-
vilegia, per Basso Fossali, non le forme narrative classiche ma
«un modello musicale di concatenazione di episodi discorsivi»,
con il risultato di una «narrativizzazione dell’esperienza per-
cettiva»: come se al posto di una narrazione tradizionale – che,
ricordiamo, Brecht derideva nella sua funzione “digestiva” –
Lynch cercasse di creare per lo spettatore «esperienze sensibili
anomale, stati percettivi alterati, apprensioni del mondo sensibi-
le del tutto eccentriche» (Ib.).
La pista pittorica, e in particolare il rapporto con la pittura
di Francis Bacon, sembra quindi promettente per capire meglio
gli esordi di Lynch. Anche in Eraserhead (Eraserhead. La
mente che cancella, 1976) il suo primo lungometraggio, trovia-
mo molti indizi in questo senso: è come se Lynch creasse figu-
re mostruose e situazioni perturbanti a partire da suggestioni
vissute di fronte a un dipinto, o meglio per animare e mettere
in movimento le figure di un dipinto, come fa nei suoi primi
cortometraggi. Lynch in effetti, come ricorda Marco Teti (in
questo volume), pensa al cinema come «un quadro che si muo-
ve, con il sonoro. Il cinema non è altro che suono e immagine
che si muovono contemporaneamente» (Lynch, 2015, p. 54). Le
figure di Eraserhead mettono in prossimità organico e inorga-
nico, finito e non-finito, mentre la visione gioca con zone dello
schermo a visibilità ridotta. Alla nostra tensione a voler vedere
si sovrappongono infatti sfocati parziali e invisibilità, dati ad
esempio dai grandi sbuffi di fumo di un macchinario o di una
fabbrica che possiamo solo intravedere (e immaginare), così
come siamo portati a fissare il viso di Mary, la ex-fidanzata del
protagonista, nonostante sia inquadrato al di là di una porta-
finestra poco pulita: una visione offuscata, in alcune zone del
quadro totalmente buia (opaca), se pensiamo alla scena del pri-
mo incontro tra Mary ed il protagonista Henry, in attesa nello
spoglio giardino di fronte a casa di lei. Oppure è l’ambiente
esterno a degradare la visione nitida, con l’insieme di pioggia
battente, fumi e semioscurità che non permettono a Henry (e
allo spettatore) di vedere con chiarezza cosa accade fuori dalla
finestra della sua camera: pensiamo a quando, in Eraserhead,

84
Henry sbircerà sconsolato in strada per intravedere qualcosa di
violento che sta accadendo: un uomo a terra, anzi in una poz-
zanghera, assalito brutalmente da un altro. Perfino gli oggetti
e gli arredi della stanza a pensione di Henry partecipano di
questa indefinitezza: troviamo infatti mucchi di terra, qualcosa
che sembra una collinetta di muschio, messi lì come desolanti
decorazioni andate a male, figure stranianti che rimano con
il mostruoso figlio nato prematuro a cui Henry deve accudire,
spostando la coppia organico/inorganico verso un’idea di non-
finito e di informe. Il lamentoso lattante è immobilizzato da
una stretta fasciatura che lo contiene tutto, lasciando fuori solo
il lungo collo e la testa animalesca, da agnello, quasi una pre-
monizione del mostro di Alien (di Rydley Scott, 1979). E quan-
do Henry alla fine taglierà la fasciatura al bambino, scopriremo
che non c’è alcun corpo-involucro, non c’è pelle né struttura di
sostegno-contenimento, ma solo carne che si scompone e pulsa,
una viva carne del mondo (Merleau-Ponty, 1945).
Se molte figure mostruose dei dipinti di Bacon sono perfet-
tamente compatibili con il neonato urlante e con l’ambiente di
Eraserhead, c’è nel film un momento di massima omogeneità
tra i due mondi possibili, quello dei dipinti di Bacon e quello
creato dal primo film di Lynch, nei loro livelli figurativi e pla-
stici. Si tratta del sogno (o dell’incubo) di Henry, quando si ri-
trova sul palco del teatrino immaginario che lui intravede (nelle
sue fughe immaginifiche) dietro al termosifone. Siamo alla
scena finale in questo teatrino: Henry è accanto a una cantante
dal viso deforme, che svanisce in un lampo di luce quando lui
cerca di avvicinarsi. Henry, rimasto solo, si appoggia a una
testiera del letto, riproponendo un gesto che abbiamo visto fare
poco prima alla seducente vicina di camera, quasi un prelimi-
nare alla loro notte di passione. Ed ecco che, improvvisamen-
te, la testa di Henry si mozza3 e cade per terra in un lago di
sangue: dal collo spunta così la testa del bambino deforme, il
quale inizia a urlare sempre più forte. Questa figura ibrida, che

3. Un effetto che torna nell’ultimo Twin Peaks, con la morte per sparizio-
ne progressiva di Dougie Jones.

85
chiameremo di “uomo con la testa di feto”, sembra un perfetto
omaggio a Bacon4. Tra l’altro è una figura che ritorna, nel film,
quando più avanti Henry scoprirà la bella vicina tanto desidera-
ta accompagnata da un laido vecchio che le carezza la schiena.
In questa scena, allo sguardo annichilito di Henry fa da con-
traltare lo sguardo di lei, che lo fissa a sua volta, e nella sua
soggettiva vediamo Henry divenire per un istante il mostruoso
e perturbante “uomo con la testa di feto”. Un essere ibrido che
racconta, o meglio metaforizza, la condizione di fusione – o di
totale immedesimazione – tra Henry e il figlio di cui si sta oc-
cupando. L’unico modo per uscire da questa paternità debilitan-
te e carceraria, seguendo il finale horror del film, è di uccidere
il neonato urlante: ma quando Henry affonderà disperatamente
le forbici nelle viscere a cielo aperto del mostruoso essere “sfa-
sciato”, molta materia scura inizierà a zampillare, espandendosi
fino a diventare una massa enorme e viscosa che sommerge
tutto. Con la materia che aumenta, il collo e la testa del figlio
iniziano una mutazione, allungandosi e ingrossando, divenendo
a loro volta figure deformi che sembrano voler invadere la stan-
za, mentre le luci iniziano a sfrigolare e a spegnersi. Sembra
così di vivere all’interno di uno degli ultimi dipinti di Bacon5,
in cui la materia ha preso il sopravvento sulle figure, ed ormai
è pura forza che fuoriesce dalle griglie e dalle strutture che
prima la contenevano costringendola in una forma. Nelle parole
di Deleuze, si tratta del prevalere della forza di dissipazione:
una «pura forza senza oggetto, onda di tempesta, getto d’acqua
o vapore, occhio del ciclone […]. La figura si è dissolta realiz-
zando la profezia: tu non sarai altro che sabbia, erba, polvere o
goccia d’acqua…» (1981, pp. 74-76).
Nel finale di Eraserhead da queste mutazioni riapparirà
l’enorme ovulo-meteorite che aveva inaugurato il film, in una
sorta di incubo premonitore di Henry (un incubo che, quindi,

4. Pensiamo alla figura mostruosa protagonista del trittico di Bacon dal


titolo Deuxième version du triptyque 1944 (1989).
5. Riferendosi a dipinti di Bacon come A piece of waste land (1982) o
Sand Dune (1983), Deleuze parla di un uso “irradiante”, totalizzante del co-
lore, in cui lo sfocato assume valore a sé e invade il dipinto.

86
ingloba tutto il film). In un crescendo sonoro l’ovulo-meteorite
si spezza, bucandosi all’interno, e così Henry, rimasto in at-
tesa immobile, viene invaso da fumi, scintillii e cenere. Ecco
riapparire la cantante deforme, che abbraccia Henry quasi a
congratularsi, come se il suo desiderio di chiudere i conti con
la paternità si fosse risolto. Tra parziali invisibilità, sfigurazioni
e catastrofi visive e sonore, mondi horror misti a fantascienza,
siamo ormai persi in un limbo indecidibile tra realtà e incubo.

2. La visione sfocata e la narrazione “blurred”

A inizio millennio, in un numero speciale di Segnocinema,


proponevamo una parziale ricapitolazione su un’estetica cine-
matografica che sembrava aver preso forma nelle opere contem-
poranee, definendola un «cinema blurred», da blur: macchia,
apparenza confusa (Dusi, 2000). Sotto quell’etichetta tentavamo
di ripensare le forme della visione proposte negli ultimi anni
del secolo a partire dal nuovo cinema danese nato sotto il se-
gno del movimento “Dogma” nei termini di una nuova “estetica
della bassa fedeltà”, con film come Festen e Idioterne, prima di
Mifune, per arrivare a Dancer in the Dark o a The Blair Witch
Project6. Per alcuni registi questo tipo di visione “imperfetta”
si costruisce con le figure dell’acqua e l’uso dei riflessi, o con
altri filtri e ostacoli posti rispetto alla visibilità nitida, al punto
da diventare una precisa scelta stilistica: pensiamo all’uso di
vapori, riflessi e piogge in alcuni film di Martin Scorsese come
Taxi Driver (1976), Al di là della vita (1999), fino al più recente
Shutter Island (2010); oppure ai ralenti e agli sfocati che diven-
tano una rappresentazione del mondo interiore e psicologico nel
cinema di Gus Van Sant. Tornando a David Lynch, ricordiamo
i vapori della nebbia e gli sfocati del mondo inquietante e cere-
brale, preso tra il delirio surreale e il gioco patafisico, di film
come The Elephant Man (1980), Muhlhollad Drive (2001), op-
pure Inland Empire (2006).

6. Festen (Vintemberg, 1998); Idioti (Von Trier, 1998); Dancer in the


Dark (Von Trier, 2000); The Blair Witch Project (Myrick e Sánchez, 1996).

87
In The Elephant Man le immagini vaghe e sfocate, tra fumi
e fuochi, contraddistinguono la presentazione della città vissuta
dalla masse popolari, tra circo e luna park, e si contrappongono
alla nitidezza dell’ambiente abitato dal dottor Treves, il London
Hospital, luogo della razionalità e degli istinti tenuti sotto con-
trollo. A livello percettivo, questi sfondi sfocati agiscono sullo
spettatore e drammatizzano lo spazio. Come ricorda Giovanni
Curtis, nell’incipit del film intravediamo ad esempio una scena
di violenza, con degli elefanti dalla grana deformata che come
ombre quasi indistinte aggrediscono una donna, ma l’azione
rimane fuori fuoco7. L’uso della visione indistinta, tra fumo,
lampi e figure sfocate, prosegue fino all’arrivo sulla scena della
sagoma del dottor Treves, e qui la visione torna gradualmente,
grazie alla profondità di campo, ad una percezione nitida: è
come se dal sogno – o dal ricordo – si fosse passati al tempo
presente. Sono immagini che torneranno altre volte in The
Elephant Man, in cui si racconta di come un essere deforme,
un freak, cerchi di diventare faticosamente qualcuno a cui si
riconosce un’umanità.
Le sfocature diventano nei film di Lynch quasi dei mecca-
nismi strutturali, che incidono non solo sulla rappresentazione
ma sulle configurazioni narrative. Bertetto (2008, p. 8) sostie-
ne infatti che l’immaginario di Lynch «mette in discussione il
mondo esterno ed effettua una sistematica derealizzazione del
visibile», presentando un mondo ricco e misterioso, retto da
«logiche inusuali e nascoste» (Ib.). Nel paragonare il modo di
Lynch al surrealismo dei film di Louis Buñuel e alle tempora-
lità moltiplicate di quelli di Alain Resnais, Bertetto spiega che
in Lynch non si dà solo l’ibridazione di sogno, delirio e realtà,
ma qualcosa di più, perché nella finzione filmica si introducono
la «illogicità e la contraddizione più radicale» (Bertetto, 2008,
p. 9). Vediamo allora come questi meccanismi lavorino nei film
di Lynch: in Eraserhead, e in Twin Peaks: Fire Walk with Me
(Fuoco cammina con me, 1992), ricorda Bertetto, «l’apertura
al mistero si fa apertura alle forze segrete e malvagie nasco-

7. In questa analisi riprendo aspetti indagati da Curtis (2007).

88
ste nelle pieghe del mondo, tra realtà e irrealtà» (Ib.). In Lost
Highway (Strade perdute, 1997), come vedremo, il protagoni-
sta cambia identità e immagine anche se resta il personaggio
di riferimento, e il film si apre a «configurazioni palesemente
alternative e contraddittorie» del racconto (Ib.); in Mulhollad
Drive (2001), «un mondo finzionale subentra al precedente, con
spazi simili o comuni e logiche intersoggettive differenti» (Ib.),
quando a un certo punto le due protagoniste femminili, Betty/
Diane e Rita/Camilla mutano di nome e di ruolo nel raccon-
to, invertendo le prospettive narrative. Per arrivare a Inland
Empire (2006), in cui «i frammenti molteplici e contraddittori
della vita della protagonista si mescolano e si intrecciano con
immagini del mondo del cinema, in un gioco di rifrazioni di
specchi in cui diventa difficile distinguere le componenti e le
funzioni» (Ib.). Nel cinema di Lynch, secondo Bertetto, entrano
in copresenza molteplici universi immaginari, e sin dal primo
Lynch siamo di fronte all’irrompere di fantasmi soggettivi, cioè
un “altro” mondo che diventa rilevante e riconfigura il visibile
come «il terreno di affermazione dell’allucinazione e dell’os-
sessivo» (Ib.). Se le storie di Lynch sono comunque godibili,
prossime allo spettatore, si fa anche esperienza dell’urgenza dei
«percorsi del desiderio» (Bertetto, 2008, p. 10), e nonostante il
carattere finzionale lo spettatore a volte fa anche una «esperien-
za di angoscia» (Ib.)8. Esploriamo nei prossimi paragrafi alcu-
ne di queste ipotesi, riprese però da una prospettiva semiotica.

3. Dall’ottico all’aptico: Velluto blu e Strade perdute

Portiamo avanti la nostra indagine con altri due esempi,


presi da Velluto blu (Blue Velvet, 1986) e da Strade perdute
(Lost Highway, 1997) tra i molti sparsi nei film di Lynch. Sono

8. Ricordiamo, con Bertetto, che nei film di Lynch si va oltre la semplice


citazione intertestuale di altri film: il cinema diventa per Lynch «un mondo
di riferimento posto sullo stesso piano degli altri mondi possibili, o addirit-
tura il mondo centrale di riferimento, l’orizzonte in cui si produce un imma-
ginario che si sostituisce alla realtà esterna» (2008, p. 10).

89
momenti di “svolta” del figurativo e del narrativo in una alterità
“figurale”, come quella che abbiamo appena descritto per il fi-
nale di Eraserhead. Scene che, come dicevamo, sembrano una
trasposizione filmica delle svolte “aptiche”, catastrofi della per-
cezione “ottica”, studiate da Deleuze nei dipinti di Bacon.
Riguardo a Velluto blu si parla spesso di una «visione desta-
bilizzante», perché «sotto la superficie di questo mondo ameri-
cano quotidiano di sogno si trovano il voyeurismo, la violenza,
il sadomasochismo, l’aggressione sessuale – forse solo l’incubo
di qualcuno che dorme, o forse, per Lynch, l’autentico sogno
americano» (Sklar, 2000, p. 1742). In questo film ci interessa la
scena in cui esplode la passione erotica tra il ragazzo e la can-
tante, quando il loro primo incontro sessuale svolta in qualcosa
di perverso, tra violenza e godimento, dove sembra prevalere
l’aspetto pulsionale. Ricordiamo che la donna è già presa da
un intreccio sadomasochista con un gangster che la ricatta e ne
abusa sessualmente, perché tiene in ostaggio suo figlio e suo
marito, e che il ragazzo sta indagando su di lei in un modo ine-
sperto, preso tra curiosità di sapere e attrazione morbosa.
La scena si apre con una musica calma e rassicurante (il leit
motiv “Blue Velvet”) che accompagna il ragazzo che sale le
scale del condominio, filmate da un punto di vista fisso che lo
vede arrivare in basso, superare il punto di ripresa e poi salire,
in una penombra fredda e inospitale. Quando la cantante gli
apre la porta, e i due si baciano, il vestito rosso della donna e
l’abito in bianco e nero del ragazzo entrano in risonanza con
l’appartamento in cui dominano i toni caldi grazie a un certo
«colorismo» degli interni, dovuto alle tonalità del rosa delle
pareti, a un punto luce sopra due verdi piante affusolate (e
alla moquette rossa che vedremo più avanti). Il contrasto tra il
nero e il rosso sta alla base della scena, grazie alla porta scu-
ra e al lungo armadio cupo che incornicia i due mentre lei lo
tira verso la camera da letto. La macchina da presa resta nella
stanza vuota ancora per un po’, a marcare la sua presenza, e a
riprendere una lunga tenda di velluto rosso che prende a muo-
versi (forse) per il vento, mentre la musica diventa inquietante:
quasi un ammonimento di una forza negativa. La tenda assume

90
spessore e sembra rigare lo schermo verticalmente. Lo sguar-
do in oggettiva si posa poi con un primo piano sul velluto blu
del letto, per muoversi ad inquadrare i rosei corpi abbracciati.
Per comprendere meglio la distinzione tra «ottico» e «aptico»,
rammentiamo con Deleuze che «la luce è il tempo, ma lo spa-
zio è il colore. […] Il colorismo pretende di far emergere un
senso particolare della vista: una vista aptica del colore-spa-
zio, contrariamente alla vista ottica della luce-tempo» (1981,
p. 206).
Torniamo all’incontro sensuale tra i corpi dei due amanti
che si baciano: tutto sembra nella norma fino alla richiesta im-
prevista della donna (Dorothy) che propone al ragazzo di fare
“cose cattive”: vuole che lui le faccia male, mentre il ragazzo
(Jeffrey) le dice che ha indagato sulla sua situazione di ricatto
e vorrebbe invece aiutarla, anzi chiamare la polizia. A questa
parola la donna si spaventa, e scatena una scenata, calciandolo
fuori dal letto. Ma il ragazzo reagisce e la picchia, accettando
così la sua richiesta di violenza. Ed ecco aprirsi la scena che ci
interessa, con la quale entriamo in un regime visivo diverso e
figurale, una scena incorniciata da figure del fuoco e stacchi di
nero, con dettagli sulla bocca semiaperta di Dorothy, cromati-
camente caricata dal rossetto che contrasta con i denti bianchis-
simi e po’ scheggiati. In un inquietante ralenti, parzialmente
defigurato, i due corpi si avvinghiano come le figure dei lottato-
ri/amanti nei quadri di Bacon, e lei sembra cedere mentre il so-
noro cresce in un misto perturbante, tra organico e inorganico,
con un ruggito di leone e un urlo di uccello, o meglio con «suo-
ni disarticolati, stridenti e animaleschi, (che) sottolineano il
carattere più feroce del rapporto carnale» (Catanea, in Bertetto
cit., pp. 66-67). Nel lungo stacco nero che conclude la scena,
sentiamo la voice off di Dorothy che dichiara: “adesso ho la
tua malattia in me”. Torniamo poi di fronte alla tenda rossa che
si muove, e ritroviamo Jeffrey, rivestito, seduto sul divano del
salotto che gioca con un cappellino da carnevale (un indizio del
figlioletto assente di Dorothy). Tra crudeltà e voluttà, meraviglia
e abiezione, tra la prossimità del dettaglio sulla sensuale boc-
ca di Dorothy e la «ripetizione ossessiva di parti incomplete»,

91
sembra innescarsi nel racconto cinematografico una «estetica
masochista» (Ib.).
Secondo Bertetto, in Velluto blu tale estetica diventa par-
te del racconto con «l’irruzione di un desiderio inaccettabile,
filtrato e chiuso dalla censura psichica, che assume la forma
dell’allucinazione onirica per trovare una via di configurazio-
ne» (cit., p. 12). Seguendo questa prospettiva estetica e psi-
coanalitica, per Bertetto il racconto del film si costruisce tra
intensità e pulsioni del desiderio, grazie a condensazioni e
spostamenti, che fanno emergere i «fantasmi lynchani» perché
«i soggetti e i corpi sono iscritti in una situazione di anomalia,
verificano tutta la loro fragilità, sono portati al parossismo:
sperimentano l’esistenza a un grado elevatissimo di tensione»
(Ib.). Tra eccesso e «disgregazione delle regole», il protagonista
Jeffrey vive un’esperienza in cui irrompe la «sensazione pura»
(Bertetto cit., p. 13)9. Rafforzando la nostra indagine, Bertetto
ritrova in questo film gli stilemi e le figure della pittura di
Bacon, quando scrive: «come i corpi dipinti da Bacon, i perso-
naggi dell’allucinazione sono segnati dal disfacimento, portano
inscritti i segni della violenza e dell’aggressione, hanno la fra-
gilità della carne destinata a essere tormentata e torturata» (Ib.).
Basso Fossali parla invece per Velluto blu di una detection
story che «dimostra l’impossibilità di qualsiasi pura attesta-
zione, dato che chiunque assuma il ruolo di testimone finisce
bene o male per trovarsi in sincretismo con altri due ruoli at-
tanziali», cioè diventa anche spettatore (con «aspetti di teatra-
lizzazione») oppure «ingrato mentore con il corpo che si lascia
contaminare» (cit., p. 178). Rispetto alla dimensione espressiva
ed enunciativa, Basso Fossali ragiona su una figuralità intesa
semioticamente, pensando ad esempio ai cromatismo semi-
motivati (o “semisimbolici”), tra artificiosità del blu e naturalità
del rosso, che ritrova anche in Mulhollad Drive:

9. Anche Stefano della Casa parla di «un senso di claustrofobia e di com-


pressione», che deforma la nostra percezione visiva «mettendo in discussione
ogni possibile approccio realista alla narrazione» (2001, p. 199).

92
In Blue Velvet si afferma un semisimbolismo cromatico che attraver-
sa tutta l’opera di Lynch, fino a Mulhollad Drive: il blu sta al rosso
come l’artificio dei simulacri sta alla datità inemendabile della carne.
Booth (il gangster) sostituisce l’artificio alla carne, malgrado ne sia
profondamente ossessionato […]. Il blu si presenta come il tentativo
di reperire una conciliazione tra l’artificio del dispositivo e la natura;
è il colore della metamorfosi teatrale, della rosa impossibile […]. Il
rosso è semisimbolicamente connesso a dei processi che invertono la
direzione (natura – dispositivo) e vanno verso una datità della carne
che si fa pericolosamente artificio (Basso Fossali, 2006, pp. 185-186).

Continuiamo la nostra indagine grazie a un paio di scene di


Strade perdute. Ricordiamo che nel film il personaggio prin-
cipale della prima parte è un sassofonista, Fred Madison, che
viene perseguitato da una figura inquietante e ubiqua, maligna
e potente (il diavolo, o chi ne fa le veci), e si scopre uxoricida
grazie a una visione intermediale, fornita da filmati in VHS
che gli vengono recapitati a casa. Quando Fred sarà in carcere,
subirà una trasformazione in un nuovo personaggio: un giovane
meccanico che era stato dato per morto (Pete Dayton). La se-
conda parte del film fa ripartire il racconto dal ragazzo, e Pete
diventa l’amante della fidanzata di un boss mafioso, prima di
una nuova svolta temporale verso il finale del film: qui il ragaz-
zo torna ad essere il sassofonista, e la moglie di questi appare
come un doppio della fidanzata del boss amata dal ragazzino
(scopriamo anzi che il boss, a sua volta, era l’amante della
moglie del sassofonista), in una sorta di collasso delle diverse
faglie spazio-temporali del racconto. Se abbiamo ripercorso la
trama, cosa in effetti quasi impossibile, è perché ci interessa
la sequenza della trasformazione in carcere di Fred, nonché
una brevissima scena finale del film, in cui troviamo delle ve-
locizzazioni di convulse defigurazioni del corpo, sfocature sul
volto, urla e spasimi del protagonista, che richiamano le figure
umane mosse e dilaniate dei dipinti di Bacon. Se le scene delle
metamorfosi possono sembrare delle allucinazioni psicotiche di
Fred, esse producono però degli effetti diegetici di trasforma-
zione del personaggio, attestate dallo stupore che vira al terrore
del secondino, quando scopre che il prigioniero non è più lo

93
stesso (si è trasformato in Pete). Non ci soffermeremo in questo
caso sulla descrizione analitica della scena in carcere in Strade
perdute, e neppure della scena finale del film, che riprende in
modo molto più rapido la convulsa trasformazione nell’altro
da parte del protagonista Fred, alla guida di un auto e inse-
guito dalla polizia. Ci basta tornare alle riflessioni sui dipinti
di Bacon condotte da Deleuze, che spiega come lo scopo di
Bacon fosse quello di riuscire a «dipingere il grido», piuttosto
che l’orrore, mirando cioè ad esprimere le forze che agiscono e
che determinano un effetto, e non la causa né il “sensazionale”.
Nell’opera di Bacon non vi sono sentimenti, ricorda Deleuze,
ma solo «affetti», o meglio la creazione di una «logica della
sensazione» attraversata da forze vettoriali o da forze duali in
risonanza tra loro, e da ritmi di apertura e di chiusura (diastole/
sistole), di svasamento o incanalamento, tra stirato e dilatato
da una parte e contratto e aspirato dall’altra, con una spinta
alla dissipazione verso il fondo, o alla concentrazione verso la
figura, o anche all’uscita dal quadro attraverso lavandini, fori
o serrature delle porte (Deleuze, 1981, pp. 79-101)10. Nella sua
analisi su Strade perdute, Curtis muove da queste proposte di
Deleuze, per ragionare sulle sfocature nelle zone liminali del
film, come la prima scena che abbiamo evocato:

Il punto maggiormente misterioso del film è anche il punto in cui


l’immagine si fa più incerta, e con essa diviene più incerta anche l’i-
dentità del personaggio. Il passaggio e i momenti di caos spazio/tem-
porale sono infatti sottolineati da visioni che ne sono metafora. L’in-
definitezza delle immagini è allo stesso tempo lo stato confusionale
in cui versano i personaggi. Quest’immagine è una zona liminale ol-
tre la quale sembrano prefigurarsi un tempo e una dimensione spazia-
le diversi (Curtis, 2008, pp. 115-116).

Se la defigurazione diventa un modo di raccontare la «per-


dita d’identità del soggetto dell’immagine» (Ib.), quando i mo-

10. Anche questo aspetto tornerà come una figura di transizione da un


mondo all’altro dell’agente Cooper nella terza stagione di Twin Peaks (in
particolare attraverso le prese della corrente). Si veda Teti (2018).

94
vimenti della testa diventano troppo veloci per essere distingui-
bili e le immagini si fanno totalmente mosse, ricorda Curtis, il
montaggio inserisce delle «tracce visive» che permettono allo
spettatore di continuare a riconoscere la figura umana. L’effetto
che ne deriva, è quello di rappresentare degli «spasmi intensi»
che scuotono il corpo e lo sfigurano dall’interno, come accade a
molte figure umane dipinte da Bacon: sono quelli che Deleuze
chiama anche «movimenti sul posto», provocati dalla «azione
sui corpi di forze invisibili» (Deleuze, cit., p. 90): forze e ritmi
che producono una logica della sensazione.
Curtis analizza anche la scena del mutamento conclusivo
del volto del sassofonista Fred, in cui si defigura il personaggio
«attraverso una deformazione del suo corpo» (cit., p. 116): come
se i movimenti convulsi che sfocano il viso, riprendendo gli
stilemi delle figure di Bacon, ad esempio i ritratti11 con gli oc-
chi semi-chiusi e la bocca aperta attraverso cui il corpo sembra
voler fuggire12, mettessero in evidenza pulsioni che diventano
forze e torsioni che «si imprimono in punti variabili del corpo»
(Curtis, 2008, pp. 116-117).
Nel caso di Strade perdute si tratta in effetti di un mecca-
nismo ancora più ampio, che investe tutta la narrazione. Lo
spiega Basso Fossali, definendole «anamorfosi discorsive» pa-
tologiche, anzi «paralogiche»: il film ha infatti «diversi copioni,
diverse storie al suo interno che intrattengono degli elementi
simmetrici contemporaneamente ad altri asimmetrici […]. La
sfida estetica posta dal testo non è risolta riducendolo a rebus;
ad essa si risponde cercando di saturare più elementi testuali
possibili» (Basso Fossali, cit., pp. 333-334). Quello che accade
al personaggio principale di Strade perdute, è allora una mani-
festazione del pensiero figurale che tiene tutto il film, secondo
Basso Fossali, poiché «tutta l’enunciazione filmica pare vicina a
una destabilizzazione delle proprie stesse condizioni di ripresa,
in preda a forze eteronome soverchianti» (Ib.).

11. Si vedano ad esempio i Tre studi per il ritratto di Henrietta Moraes


di Francis Bacon (1963).
12. Come suggerisce Deleuze, cit., p. 109.

95
4. Figuralità e visione embodied

Torneremo in chiusura sulla relazione tra i mondi possibili


di Lynch e quelli della pittura di Bacon, con degli esempi dal
più recente Twin Peaks. Soffermiamoci ora su alcuni problemi
teorici emersi nelle analisi che abbiamo tratteggiato. Il cinema
di Lynch permette di fare un passo avanti nello studio delle re-
lazioni tra figuralità e intermedialità13, nonché di comprendere
meglio cosa si intenda per visione aptica e per dimensione em-
bodied della visione (Sobchack, 2004).
Nelle citazioni di Bertetto che abbiamo incontrato, la de-
finizione di «figurale» si confronta coi lavori di Lyotard e di
Deleuze, e apre l’analisi dei film di Lynch alla dimensione di
una «figurazione» che si presenta come irriducibile al livello
della rappresentazione. In un libro più teorico, Lo specchio e
il simulacro, Bertetto (2007, pp. 182-201) cerca quegli elementi
che «fanno figura» nelle pieghe del visibile, producendo trasfor-
mazioni percettive e affettive nello spettatore. Gli effetti figu-
rali sono allora di «evidenza» e di «presenza», perché qualcosa
ci tocca e ci coinvolge sensorialmente e affettivamente, proprio
grazie all’emergere di una «frattura» che sospende la narrazio-
ne, con la valorizzazione del dettaglio e con zone di intensità.
È una figuralità dell’ordine della «forza» e della «potenza»,
costruita con un percorso tra presenza, figurazione, sensazione,
potenza (Ib.). Se il “figurativo” viene qui inteso come «mime-
tismo della rappresentazione», il “figurale” diventa invece una
«alterità, dissimile, un altro del discorso» (Bertetto, 2007, pp.
183-185), rinviando a Lyotard che, citando Freud, parla di «a-
temporalità» e di momento «qualitativo e discontinuo» (Ib.).
A partire dalle sue analisi sui dipinti di Bacon, Deleuze lo
definisce invece, come abbiamo visto, il prodotto di una «lo-
gica della sensazione», al contempo ritmica e affettiva. E insi-
ste sullo «strappare la figura al figurativo», sulla «captazione
di forze», sulla deformazione e defigurazione dell’immagine

13. Rimando per una discussione sulla figuralità e i suoi aspetti interme-
diali a Dusi (2015).

96
(Deleuze, 1981, pp. 14-16, passim). Il figurale in questi termini
si presenta come legato al movimento e alla trasformazione,
e per Deleuze un buon esempio è proprio la rottura del regi-
me ottico che sfocia nel regime aptico. A sua volta, Bertetto
ricorda che Lyotard distingue tra «figura-immagine» (allucina-
zione o sogno); «figura-matrice», una «violazione dell’ordine
discorsivo», «immersa nell’inconscio»; e una «figura-forma,
presente nel visibile [come] un tracciato regolatore, la Gestalt
di una configurazione, l’architettura di un quadro, lo schema»
(Bertetto, 2007, p. 182). Seppure per Lyotard il figurale abbia
a che fare con un flusso connesso al desiderio, non interpreta-
bile ma solo «attraversabile come un campo di forze», come
una «materia-flusso incandescente» (Bertetto, 2007, p. 186),
Bertetto lo rilegge in una prospettiva ermeneutica, per affer-
mare che invece il figurale «è interpretabile [proprio] perché
costruisce un campo di forze, fondendo relazioni e interazioni
energetiche e fantasmatiche, che producono espressioni, sensa-
zioni e si materializzano in immagini e parole, cioè in catene
di interpretanti» (Ib.).
Diventa così possibile mappare alcune «tecniche di ogget-
tivazione del figurale nel cinema», che producono una sorta
di «concretizzazione molteplice del figurale stesso» (Bertetto,
2007, p. 187). È d’altronde la proposta di Deleuze: studiare co-
me Bacon renda visibili le forze invisibili al lavoro nella pittura.
Il visibile e il sensibile che abbiamo indagato nei film di Lynch
– nel loro rapporto con la pittura di Bacon –, vanno allora
nella direzione di aprire attraverso le relazioni intermediali le
«configurazioni e de-figurazioni dell’immagine» (Bertetto, Ib.).
Nel chiudere questo percorso, diventano pertinenti alcuni modi
di innesto testuale di un figurale che resta riconoscibile per il
suo effetto di «immediatezza», dovuto alle caratteristiche di
eterogeneità e di «forza eccedente». Secondo Bertetto un modo
è quello della «irruzione, l’emergenza forte e violenta», come
abbiamo visto nel caso di Eraserhead o di Velluto blu, ma il fi-
gurale può anche operare attraverso percorsi di «disgregazione
o di defigurazione intenzionale del tessuto testuale» (2007, p.
189), come emerge dall’analisi di Strade perdute.

97
Questa figuralità eccedente, incoerente e slegata dalle lo-
giche figurative e narrative, rimane a nostro avviso impigliata
– e diventa così analizzabile – nelle logiche discorsive e nelle
strategie enunciazionali, e soprattutto nella costruzione plastica
(cromatica e luminosa, legata alle forme e alle inquadrature,
agli spazi, ai ritmi dell’immagine) che apre nei film delle mi-
cronarrazioni sensibili. In sintesi, si può analizzare come una
testualità che produce affetti e sensorialità organizzati. Questa
prospettiva si avvicina alla figuralità intesa semioticamente,
che abbiamo visto trasparire nelle citazioni di Basso Fossali ri-
spetto ai film di Lynch14. Un figurale che ridefiniamo come una
configurazione astratta, una “filigrana sensibile” che vive nel
conflitto e nel confronto tra logiche figurative e logiche plasti-
che, tra puntualità temporale, problemi tensivi e ritmici, trasfor-
mazioni affettive. E che certo incide nella costruzione di una
strategia enunciazionale tra il film e lo spettatore, in una visio-
ne embodied tesa a creare effetti di presenza. Per riassumere,
il figurale diventa semioticamente una serie organizzata di «fi-
ligrane sensibili, percettive, tensive ed affettive, che lavorano
sul corpo dello spettatore in modo diverso rispetto alle variabili
narrative e figurative e alla loro messa in discorso» (Dusi, 2015,
p. 25). Si tratta di una figuralità «testualmente motivata» (Ib.)15
che ci permette (anche) di analizzare le relazioni intermediali
dei film di Lynch nei confronti della pittura, mentre collabora
con la figuralità intesa in senso più energetico a costruire l’ef-
ficacia delle esperienze mediali degli spettatori. Non solo, ma
crea la riconoscibilità stessa dei lavori di Lynch quando si de-
clinano in diversi media e linguaggi.
La proposta di una figuralità testualmente motivata potreb-
be allora ricollegarsi e in qualche misura convivere con l’acce-

14. Studiando la figuralità nei film di Lynch, Basso Fossali la definisce


come «[una dimensione] in cui livelli enunciazionali diversi divengono l’uno
interpretativo della significanza dell’altro, il primo (quello diagrammatico-
sensibile) perché diviene pregnante per una forma di vita, il secondo (quello
simbolico) perché trova una manifestazione nel sensibile» (Basso Fossali,
2006, p. 19).
15. Rinviamo a Dusi, 2015 per una discussione di questi temi.

98
zione del figurale inteso in termini «energetici» e psicoanaliti-
ci. Ricordiamo en passant che alcune idee di Ejzenštejn, nella
sua teoria del montaggio cinematografico, già sembrano andare
in questa direzione. Per Ejzenštejn il «pathos» in un film si può
costruire grazie al montaggio di scarti improvvisi, con salti e
passaggi di «qualità» tra le tensioni e le forze dell’immagine,
oppure negli scarti da sostanza sonora a sostanza cromatica, o
spaziale, ecc.16. Studiando le tensioni interne alla costruzione
di un’immagine, per produrre un senso narrativo ma anche
patemico (affettivo), Ejzenštejn ipotizza una «immaginità» che
definisce come un modello formale che permette di «ricom-
porre l’eterogeneità dei materiali nell’unità di un tratto costi-
tutivo che gli accomuna» (Montani, 1992, pp. IX-XXXIX)17.
L’immaginità studiata da Ejzenštejn individuerebbe quindi una
sorta di «criterio di coerenza» il cui campo di applicazione
può andare da singoli segmenti testuali al film nel suo com-
plesso (Ib.).
Riprendendo sia alcune proposte di Ejzenštejn (ad esempio
sul ritmo), sia della semiotica visiva, Ruggero Eugeni propone
una semiotica dell’esperienza mediale con una fertile metodo-
logia di analisi. Eugeni identifica, attraverso il livello plastico
e ritmico dei testi mediali, delle «microsceneggiature sensibili:
piccoli programmi di esperienza» (Eugeni, 2010, p. 82), che
chiama configurazioni sensibili, tonali e ritmiche. Passando
per processi interpretativi, queste configurazioni percettivo-
sensoriali attivano determinate sensazioni nello spettatore pre-
visto dal film, e pongono le basi per una esperienza mediale
che si stratifica poi in configurazioni narrative, discorsive ed
enunciazionali. Nel suo modello, Eugeni propone l’analisi di
reti di «configurazioni sensibili elementari», che si organiz-
zano in configurazioni complesse e articolano delle qualità
tonali, visive e sonore. Nell’analisi delle «qualità ritmiche» di

16. Rinviamo alla corposa “Introduzione” di Montani (1992) sul concetto


di «organicità» e sulla teoria del «pathos» in Ejzenštejn.
17. Secondo Montani, Ejzenštejn ipotizza una immaginità «applicabile
ai più diversi materiali, e anzi di fatto applicato proprio a configurazioni
espressive che risultano dalla concorrenza di materiali eterogenei» (Ib.).

99
una sequenza audiovisiva, così, si legano schemi propriocetti-
vi e configurazioni sensomotorie. L’insieme di tali configura-
zioni crea secondo Eugeni «diagrammi di qualità sensibili»:
diagrammi «tonali», che si intrecciano nei testi audiovisivi a
diagrammi «ritmici» (sincronici o progressivi), con relazioni in-
terne di completamento, analogia o contrasto (Eugeni, cit., pp.
88-91)18. Questa prospettiva di ricerca permette di analizzare
l’audiovisione come una esperienza sensibile, percettivamente
ed affettivamente complessa, in una parola come un’esperienza
embodied.

5. Twin Peaks tra intensità e messa in presenza

Nell’introduzione a questo volume ricordavamo la discussio-


ne dei rapporti tra «iconico» e «figurativo» fatta da Jean-Marie
Floch (1993)19, e la sua proposta di una messa in presenza
dell’iconico e di diversi percorsi nell’astrazione figurativa. Per
quest’ultima Floch parla di «un découpage culturale o una
griglia di lettura», e la distingue da una astrazione iconica in
cui trovare «un essere-nel-mondo o una messa in presenza»,
nonché da un’astrazione plastica che produce «una messa in in-
tensità del mondo e del sé» (Ib.), che focalizza l’attenzione sulle
forze e le tensioni in gioco. L’intuizione di Floch riapre nella
nostra lettura la discussione sulla figuralità e sull’efficacia del
testo audiovisivo, perché problematizza l’effetto di presenza (o
presentificazione), mentre tesse la costruzione ritmica e il livel-
lo profondo della valorizzazione tra sensibile e percettivo, gusto
e disgusto.

18. Le azioni dei personaggi, della macchina da presa, della messa a


fuoco, del sonoro, possono creare ad esempio delle «rime ritmiche» che sono
parte di diagrammi ritmici «sincronici», spiega Eugeni, mentre quelli «pro-
gressivi» creano prosodia e accentuazioni legando segmenti di movimenti,
tra cesure e pause (Ib.).
19. Il saggio di Floch del 1993 (nato come relazione a un convegno di
Bilbao del 1990) porta un titolo minacciosamente serio e quindi carico di
ironia, per chi conosceva l’autore.

100
La messa in intensità e la presentificazione appaiono come
due effetti di senso fondamentali delle trasformazioni del visi-
bile e dell’udibile nei film di Lynch. Sono, come abbiamo visto,
modi che diventano anche un veicolo per “rifigurare” le corpo-
reità, gli ambienti e i paesaggi, tutti innervati da tensioni spesso
in contrasto tra loro o attraversati da forze devastanti, come ac-
cade nelle scene che abbiamo analizzato in Eraserhead, Velluto
blu e Strade perdute. Non a caso, sono modi che ritroviamo,
come una firma autoriale, anche nei primi trenta minuti del
pilot del terzo Twin Peaks, con delle figure, ancora una volta
molto “baconiane”, che inquietano lo spettatore.
Nel primo caso, due placidi poliziotti di mezza età riescono
finalmente ad entrare nell’appartamento di una anziana signora,
allertati dalla stramba vicina di casa per il fetore che arriva da
sotto la porta di ingresso. Le loro espressioni di turbamento e
sconcerto restano in sospeso per poche inquadrature, e si anco-
rano subito in un controcampo che svela una donna morta sotto
le coperte, con la testa poggiata sul cuscino e un buco vistoso
al posto dell’occhio sinistro. Quando arriva il fotografo, due
medici legali tolgono con cautela e ribrezzo lenzuolo e coperta
che coprono il corpo, esponendo alla nostra vista il cadavere
gonfio ed allungato, ripreso a figura intera e da diversi punti
di vista. Il corpo nudo appare tumefatto, deforme ed espanso
come qualcosa che è stato un corpo, mentre ora è in fase di
decomposizione avanzata20. Una massa grigia e livida, fetida.
A incrementare l’orrore di tale scoperta, la testa risulta separata
dal corpo, troncata all’altezza della gola.
Come si crea l’efficacia figurale di questa scena? E come si
costruisce l’esperienza dello spettatore? Mettiamo alla prova le
proposte di Floch. In una prima lettura, riconosciamo un corpo
tumefatto e degradato, ai limiti dell’inguardabile, attraverso
una griglia «figurativa», legata a un realismo (o meglio a un
«verosimile filmico»21) che si appoggia alle nostre credenze

20. Nei dipinti di Bacon spesso i corpi distesi sul letto sono di questo
tipo, ad esempio in Sans titre (1966) o in Studies of the human body (1980).
21. Si veda sul «verosimile filmico» Metz (1968).

101
nonché a saperi culturalmente dati. Non è in effetti un’astrazio-
ne, ma certo il cadavere è talmente deformato e gonfio da esse-
re riconoscibile come corpo solo attraverso un nostro «décou-
page culturale o una griglia di lettura» fortemente ancorata al
contesto narrativo finzionale della detection story. Una lettura
iconica, che si sovrappone alla prima, lo colloca come per-
sonaggio di quel mondo possibile, e lo fa corrispondere alla
vicina di casa che potremmo intravedere in una foto nel lindo
soggiorno all’ingresso. Quel corpo fetido e fatiscente diviene
allora anche un’astrazione della sua presenza come «essere-nel-
mondo», come fosse una marca di presenza/assenza dovuta alla
morte e alla perdita di identità22. Non è tanto la “morte al la-
voro”, come vedremo tra poco in un’altra sequenza baconiana:
piuttosto è il prodotto di una morte, il lascito di una fine vio-
lenta per mano omicida e folle (o forse maligna e sovrannatu-
rale, conoscendo Lynch). Nei termini di una lettura «plastica»,
il corpo presenta un colore grigio spento, la figura è svasata
e quasi informe, repellente, la posizione è fetale, quasi banale
nel letto di casa, e questo contrasta con la potenza visiva data
dalla scopertura graduale, che produce una sorta di «messa in
intensità del mondo e del sé», per riprendere le espressioni di
Floch discusse più sopra. Ecco allora al lavoro dei contrasti
figurativi, dei contrasti iconici e dei contrasti plastici, delle
«configurazioni sensibili» che si organizzano (Eugeni, cit.), e
portano a effetti di senso percettivi e sensibili, che agiscono
tra l’altro come un contagio tra i personaggi presenti in scena,
i poliziotti e i medici legali, e arrivano come un’ondata di di-
sgusto nell’esperienza mediale dello spettatore. Effetti corporei,
percettivi ed affettivi, dati dalla costruzione visiva e sonora
della scena, che da spiacevoli diventano ripugnanti. Una marca
di genere horror, certo, in cui riconosciamo il gusto di Lynch
per sconvolgere o épater lo spettatore, per turbarlo e scuoterlo
nelle sue certezze.

22. A queste letture aggiungiamo quella intertestuale, che si apre quando


diciamo che il corpo decomposto è una “figura baconiana” e pensiamo ad
esempio ai dipinti Reclining Woman (1961) e Lying Figure (1969).

102
Passiamo alla seconda sequenza perturbante, che si trova
subito prima nello stesso episodio della terza stagione di Twin
Peaks. Un ragazzo che, come lavoretto estivo, tiene sotto con-
trollo in totale solitudine una grande scatola di vetro osservata
da telecamere e illuminata a giorno, viene raggiunto dalla sua
ragazza, contravvenendo alla regola della segretezza che (come
le spiega) gli è stata imposta. Il luogo è un grande magazzino
spoglio, che appare adibito a sala di osservazione e ripresa,
pieno solo dei macchinari utili all’esperimento, e all’ingresso di
solito c’è una guardia giurata, ma stavolta è assente, così che la
ragazza riesce a passare. I due giovani siedono sul divano posto
su una piccola pedana, di fronte a una grande teca di vetro, a
sua volta rialzata su un vero palco, così da permetterne l’osser-
vazione. Dopo una rapida fase di effusioni i due iniziano a fare
l’amore, ma improvvisamente capiamo dalle riprese in campo e
controcampo che sono a loro volta osservati, perché nel grande
box di vetro inizia una turbolenza, che oscura l’interno di nero
fumo. Anche il nostro sguardo di spettatori, ricordiamo, si è
posizionato dalla parte della scatola di vetro, nell’osservare vo-
yeuristicamente la ragazza che si spoglia e l’inizio del rapporto
sessuale. Il ragazzo si accorge che qualcosa sta accadendo nella
teca di vetro, ed entrambi si fermano a guardare con apprensio-
ne, poi con paura, e infine con orrore, il repentino formarsi al
di là del vetro di una forma fantasmatica che sembra emergere
nello spazio nero. Dall’informe sfocato qualcosa si delinea e si
configura in una figura mostruosa dal colore lunare, un corpo
androgino nudo con il cranio a teschio, ma quello che più ter-
rorizza i ragazzi e inquieta lo spettatore è la forza e consistenza
del fantasma, che inizia a battere con violenza sul vetro della
teca. Intravediamo poi, in una rapida e confusa successione, la
figura mostruosa che riesce a rompere il vetro, cala sui ragazzi
come un’ombra violenta e rapidissima, e li massacra. In effetti,
tutto ciò che cogliamo sono lacerti di immagini accelerate, di
uno scontro violento tra l’essere sovrannaturale e i due indifesi
corpi umani, con schizzi di sangue e una sorta di “intra-visio-
ne” fulminea del risultato mortale dell’azione, data alla destra
dell’inquadratura, che resta nitida, mentre sulla sinistra incom-

103
be l’ombra, il bianco del fantasma e la sua opera di massacro.
L’orrore, come sempre in Lynch, arriva anche grazie all’immer-
sione in un sonoro assieme diegetico e imprevedibile, costruito
non solo come supporto delle immagini (il rumore del vetro
battuto e poi infranto, le urla della ragazza), ma anche come au-
tonomo valore ritmico in cui si coglie il crescendo di intensità
col lacerarsi del vetro e dei corpi.
La scena termina bruscamente nel nero, senza inquadrature
che permettano allo spettatore una maggiore comprensione di
ciò che è successo, e negando qualsiasi riconciliazione narrativa
data dal ritorno ad una visione nitida23. Un salto di montaggio
ci porta fuori dall’orrore appena vissuto, per passare ad un
quieto paesaggio con boschi e la strada trafficata di un paesino:
una situazione riconoscibile e familiare. Questo gioco di mon-
taggio tra scene di intensità e ritmi totalmente diversi, tipico
dei film di Lynch, crea una sospensione del sapere nello spet-
tatore, con un contrasto che diventa stridente tra il momento
perturbante appena vissuto e il placido mondo della normalità
quotidiana.
Se torniamo a osservare la scena con la figura mostruosa
che si forma all’interno della stanza di vetro, possiamo facil-
mente riconoscere alcune invarianti della pittura di Francis
Bacon, ben descritte nelle analisi di Deleuze: il «piedistallo»
– o il tondo – su cui poggia la figura umana o animale, nei di-
pinti, è qui la pedana rialzata; la gabbia, o la «Struttura», che
racchiude quelle che Deleuze chiama le «Figure» di Bacon, si
traduce nella costruzione di vetro24; mentre la figura semi-uma-
na che si svasa, si dilata o si comprime nella parziale sfocatura
ricorda gli sfocati, le torsioni e deformazioni dei corpi macilen-
ti dei dipinti di Bacon. Quando assistiamo in Twin Peaks alla

23. In effetti sapremo il risultato dell’azione violenta solo nel terzo epi-
sodio, dalle foto di due corpi nudi mutilati della testa mostrate ai detective
dell’FBI (tra cui recita anche David Lynch): corpi che ricordano il dipinto di
Bacon Étude du corps humain d’aprés Ingres (1984).
24. Ringrazio per questa osservazione Gabriella Fauci, laureanda magi-
strale in “Pubblicità, comunicazione digitale e creatività di impresa”, DCE,
UNIMORE (a.a. 2017-2018).

104
rottura della gabbia e alla deflagrazione della forza fantasmati-
ca dall’interno all’esterno, con i suoi effetti micidiali sui corpi
dei due ragazzi, è come se i quadri di Bacon liberassero final-
mente la propria energia orrorifica e disforica. Ricordiamo che,
prima di diventare vittime, i due ragazzi sono spettatori a loro
volta, e che Lynch parla spesso per il suo lavoro di una «confu-
sione» tra dentro e fuori, tra cinema e vita25. È quello che sem-
bra accadere in questa scena horror: un set costruito per una
osservazione rigorosa e asettica, quasi un dispositivo mediale
in vitro, si rompe, la ferocia deflagra, e lo spettatore resta senza
difese, come carne da macello.

Riferimenti bibliografici

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Dusi N. (2000), “Millennium Blur”, Segnocinema, n. 101, pp. 23-27.

25. Ci riferiamo alle interviste raccolte in Io vedo me stesso da Chris


Rodley.

105
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(trad. it. parz. “Quello che le mie dita sapevano. Il soggetto
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cura di, Teorie del cinema. Il dibattito contemporaneo, Raffaello
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Teti M. (2018), TWIN PEAKS. Narrazione multimediale ed
esperienza di visione, Mimesis, Milano-Udine.

106
Postfazione. Quel gran genio di Lynch
di Vanni Codeluppi

È molto difficoltoso riuscire ad incasellare all’interno di


un’etichetta definita l’enorme lavoro creativo che è stato svilup-
pato da parte di David Lynch e questo libro l’ha chiaramente
dimostrato. Lynch, infatti, può essere considerato una figura
intellettuale che oggi rappresenta una vera e propria rarità: un
artista d’avanguardia. Corrisponde cioè a quei personaggi che
nei primi decenni del Novecento, animavano i trasgressivi e
rivoluzionari movimenti artistici dell’epoca. Vale a dire a per-
sonaggi come Filippo Tommaso Marinetti, Marcel Duchamp,
Man Ray o Tristan Tzara. Di questi tempi però figure di tale
tipo non godono di una grande considerazione. Un radicale
processo di “mercantilizzazione” del mondo dell’arte le ha pro-
gressivamente emarginate per lasciare spazio agli artisti che ac-
cettano pienamente le regole commerciali del mercato e sanno
utilizzare al meglio gli strumenti del marketing. Ad artisti cioè
che cercano prima di tutto di raggiungere quell’obiettivo che il
celebre Andy Warhol considerava fondamentale, perché pensa-
va che “essere bravi negli affari è la forma d’arte più affasci-
nante”. Si tratta, ad esempio, di artisti come Damien Hirst, Jeff
Koons o Maurizio Cattelan. Questi può essere probabilmente
considerato oggi l’artista italiano contemporaneo più famoso al
mondo e non è un caso se lo è diventato anche grazie al fatto di
aver trascorso per diversi anni molta parte del suo tempo negli
uffici di una importante agenzia pubblicitaria di Milano come
la McCann Erickson, dove sfogliava riviste e osservava i ma-

107
teriali che tale agenzia produceva in continuazione. Per aggior-
narsi, si è nutrito cioè dei linguaggi della pubblicità e del con-
sumo, esattamente come gli artisti dei secoli passati andavano
ad abbeverarsi alle fonti della classicità. L’eclettico Lynch, che
nasce come pittore e che diventa regista di cortometraggi spe-
rimentali, di film di finzione, di audiovisivi pubblicitari e video
musicali, si nutre invece di cinema, come fosse il suo archivio
di possibilità da riattivare e ripensare in ogni momento.
David Lynch, come si è detto, è un artista d’avanguardia.
È sbagliato però tentare di applicare a tale personaggio la
categoria del genio. D’altronde, lo è in generale per qualsiasi
essere umano. L’ideologia del genio è ancora estremamente
viva infatti all’interno della cultura occidentale ed è frutto della
concezione tipicamente romantica dell’artista considerato un
essere geniale e superiore alle persone comuni. La creatività
però, è dimostrato ormai da parecchio tempo, non si sviluppa
grazie all’arrivo d’intuizioni geniali, ma è piuttosto il frutto di
un lavoro di ricerca approfondito e costante. Solitamente, infat-
ti, la creatività non consiste nello scoprire dei fenomeni com-
pletamente nuovi, ma nel trovare nuovi rapporti tra entità che
sono già esistenti e ciò può accadere solo grazie a un intenso
impegno. Il documentario David Lynch: The Art Life (2016) ha
mostrato in maniera efficace come ciò debba essere considera-
to particolarmente vero per quanto riguarda l’attività artistica
di David Lynch. Il quale, in questo film, si reca con assiduità
in una specie di studio-garage dove, per produrre i suoi dipin-
ti, lavora ossessivamente su vari materiali plasmandoli sino a
quando non ha ottenuto il risultato voluto. E così ha sviluppato
il suo stile, che ha poi applicato sistematicamente a numerosi
ambiti artistici: cinema, serie televisive, video musicali, spot
pubblicitari, brani musicali, dipinti, sculture, fotografie, ecc.
Il suo problema però era riuscire ad uscire da quell’ambito
élitario e ristretto in cui vengono di solito confinati socialmente
gli artisti d’avanguardia e c’è riuscito grazie alla sua capacità
di dare vita, com’è risultato evidente dai saggi contenuti in
questo libro, a un proprio specifico “discorso di marca”. Cioè
a un personale linguaggio che è pienamente riconoscibile ed

108
è dotato di un elevato livello di coerenza interna sia sul piano
visivo che su quello stilistico nonostante la sua applicazione a
diversi contesti espressivi. Lynch ha saputo perciò sfruttare a
suo vantaggio quel processo di cambiamento che è particolar-
mente intenso nell’attuale contesto mediale: la disseminazione
dei materiali espressivi. Vale a dire quella crescente mesco-
lanza tra i vari messaggi testuali che comporta una sempre più
evidente natura transmediale dei processi di comunicazione e
richiede pertanto di adottare pratiche produttive innovative che
consentano al soggetto che comunica di mantenere una identità
unitaria. Apparentemente dunque il mondo di Lynch sembra
essere caratterizzato da una natura contraddittoria e fortemente
irrazionale, ma in realtà è dotato di un livello di coerenza estre-
mamente elevato. Forse perché fa spesso ricorso al modello del
sogno, il quale si presenta sempre ai nostri occhi come ciclico
e totalmente reversibile. Basti pensare al racconto promozionale
in forma di cortometraggio Lady Blue Shangai per Christian
Dior: un prodotto di un universo creativo autoriale, potremmo
dire del brand Lynch, dove si confondono modi del cinema, del
sogno e del racconto pubblicitario.

109
Appendice. Opere di David Lynch1

Cinema

Cortometraggi
1967
Six Men Getting Sick (Six Figures), in collaborazione con Jack Fisk
Absurd Encounter with Fear
Fictitious Anacin Commercial
Sailing with Bushnell Keeler
1968
The Alphabet
1970
The Grandmother
1974
The Amputee

Lungometraggi
1977
Eraserhead (Eraserhead - La mente che cancella)
1980
The Elephant Man

1. Per una lista aggiornata delle opere audiovisive di David Lynch rinvia-
mo a https://www.imdb.com.

111
1984
Dune
1986
Blue Velvet (Velluto blu)
1990
Wild at Heart (Cuore selvaggio)
1992
Twin Peaks: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me)
1995
Premonition Following an Evil Dead (episodio del film collettivo
Lumière et compagnie)
1997
Lost Highway (Strade perdute)
1999
The Straight Story (Una storia vera)
2001
Mulholland Drive
2006
Inland Empire (Inland Empire-L’impero della mente)

Televisione

1988
The Cow-boy and the Frenchman (episodio della serie Les français
vu par…)
1990-1991
I Segreti di Twin Peaks - serie TV, 2 stagioni, una puntata pilota e
29 episodi (ideata e prodotta con Mark Frost. Episodi diretti da
David Lynch: 1, 2, 8, 9, 14, 29)
1990-1991
American Chronicles - serie di documentari TV (prodotta con Mark
Frost)

112
1991-1992
On the Air (Un catastrofico successo) serie TV, 7 episodi (ideata e
prodotta con Mark Frost, con il primo episodio diretto da Lynch)
1992
Hotel Room (Camera d’albergo), film TV (3 episodi, di cui il
secondo e il terzo diretti da Lynch)
1999
Mulholland Dr. (puntata pilota, produzione ABC)
2000
Un matin partout dans le monde (corto TV)
2001
Out Yonder - serie TV, 3 episodi
2007
Intervalometer Experiment - serie TV, 4 episodi
2012
Meditation, Creativity, Peace, documentario
2017
Twin Peaks - The Return (Twin Peaks: il ritorno), 18 episodi

Spot pubblicitari e audiovisivi promozionali

1988
Obsession, per Calvin Klein
1990
Clean Up. We care about New York, per New York City, campagna
sociale
1991
Japanese Georgia Coffee
Dangerous, teaser per il videoclip di Michael Jackson
Asymmetrical Productions, promo per la casa di produzione video di
David Lynch
1992
Giò – Who is Giò?, per Giorgio Armani
Opium, per Yves Saint Laurent

113
1993
Trésor, per Lancôme
The Instinct of Life, per Jil Sander Background
Reveal, per American Cancer Society, campagna sociale
The Wall, per Adidas
Barilla: Café, per Barilla
Alka-Seltzer Plus per Alka-Seltzer
1994
Sun, Moon, Stars, per Karl Lagerfeld
1997
Ever Wonder?, promo di SciFi Channel
Olgivy and Mother, per Clear Blue Easy One Minute
1998
Parisienne people, per Parisienne Cigarettes
2000
Welcome to the Third Place, per Sony Playstation 2
JC Decaux, per JC Decaux
2002
Do you speak Micra?, per Nissan Micra
2007
Heart of the Glass, per Gucci by Gucci
2006
David Lynch Signature Cup Coffee
2010
It holds the love, per Christian Dior, teaser
Lady Blue Shangai, per Christian Dior, cortometraggio pubblicitario
2011
The Power of Creation, per Dom Pérignon
The 3 Rs, trailer per il Vienna International Film Festival
2014
Louboutin Rouge, per Louboutin

114
Videoclip e progetti musicali

Video musicali (selezione)


1990
Industrial Symphony n. 1
Wicked Game, Chris Isaak
1992
A Real Indication, Thought Gang
1995
Longing, X-Japan, Togireta Melody
1997
Rammstein, Rammstein
2001
Thank You Judge, John Neff e David Lynch
2009
Shot in the Back of the Head, Moby
2012
Crazy Clown Time, David Lynch
2013
Came Back Haunted, Nine Inch Nails

Album prodotti (selezione)


1989
Floating Into the Night, Julee Cruise, testi di David Lynch, musica di
Angelo Badalamenti
1993
The Voice of Love, Julee Cruise, testi di David Lynch, musica di
Angelo Badalamenti. Album
1998
Lux Vixens (Living Night): The Music of Hildegard Von Bingen.
Album
2001
Blue Bob, John Neff e David Lynch. Album

115
2011
Crazy Clown Town, David Lynch
2011
This Train, Chrysta Bell e David Lynch
2013
The Big Dream, David Lynch
2016
Somewhere in the Nowhere, Chrysta Bell e David Lynch

Video documentario da spettacolo musicale dal vivo


1990
Industrial Symphony No. 1: The Dream of the Brokenhearted (dallo
spettacolo alla Brooklyn Academy of Music di New York del 10
nov. 1989), regia di David Lynch, musica di Angelo Badalamenti

Documentario musicale
2014
Duran Duran: Unstaged

Fumetti, pittura

Lynch ha esposto i suoi dipinti a partire dal 1967 in gallerie e musei,


sue opere si trovano tra l’altro al Musem of Modern Art di New York,
alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia, al Museum
of Contemporary Art di Tokyo
The Angriest Dog in the World, striscia di fumetti uscita
principalmente su Los Angeles Readers

Corti video, cartoni animati, corti di animazione

1992
Thought Gang: A Real Indication (corto video)
1999
BlueBob: Thank You, Judge (corto video)

116
2001
Head with Hammer (corto di animazione)
Pierre and Sonny Jim (corto di animazione)
Eraserhead Stories (video documentario)
2002
The Disc of Sorrow is Installed (corto video)
The PIg Walks (corto video)
Factory Mask (corto video)
Laura Palmer (corto video)
2002
Dumb Land, serie di brevi cartoni animati (corti video on line), otto
episodi disegnati da David Lynch, pubblicati su www.davidlynch.
com
Rabbits, sitcom con tre uomini dalla testa di coniglio, nove episodi
(corti video on line), pubblicati su www.davidlynch.com
Darkened Room (corto video on line), pubblicato su www.davidlynch.
com
2003
Lamp (corto documentario)
Bees (corto documentario)
Coyote (corto documentario)
Dead Mouse with Ants (corto documentario)
2004
BlueBob Egg (corto video)
2007
Ballerina (corto video)
Blue Green (corto video)
David Lynch Cooks Quinoa (corto documentario)
Out Yonder (corto video)
More Things That Happened (corto video)
Absurda (corto video), episodio del film collettivo di Chacun son
cinéma
Boat (corto video)
Working with Marilyn Manson (corto documentario)
2008
Bug Crawls (corto video)
Early Experiments (corto video)
Hollyshorts Greeting (corto video)

117
Industrial Soundscape (corto video)
Twin Peaks Festival Greeting (corto documentario)
2010
Ariana Delawari: Lion of Panjshir (corto video)
42 One Dream Rush (corto video)
Dream #7 (corto video)
2011
Interpol: I Touch a Red Button (corto video)
2012
David Lynch: Crazy Clown Time (corto video)
2013
Idem Paris (corto documentario)
2014
Twin Peaks: The Missing Pieces (director’s cut di Fuoco cammina
con me)
2017
David Lynch’s Comic-Con Message (corto video)
2018
Ant Head (corto video)

Documentari su david lynch

2007
Lynch, di S. Jason
2016
The Art Life, di Jon Nguyen, Rick Barnes, Olivia Neergaard-Holm

118
Gli autori del volume

Cinzia Bianchi è ricercatrice di Filosofia e Teoria dei linguaggi


e insegna Semiotica del testo e Semiotica della pubblicità presso
l’Università di Modena e Reggio Emilia. Oltre a numerosi saggi
riguardanti la semiotica e la cultura di massa, ha pubblicato Su
Ferruccio-Rossi-Landi (1995), Spot: analisi semiotica dell’audio-
visivo pubblicitario (2005), (con altri) Spettri del potere (2002)
e L’annuncio pubblicitario (2013). Ha curato un numero della rivista
internazionale  Semiotica dedicato al pensiero di Umberto Eco (vol.
2015, issue 206). È attualmente Coordinatrice (Editor in chief) della
rivista telematica Ocula. Occhio semiotico sui media (www.ocula.it).

Vanni Codeluppi è professore ordinario di Sociologia dei processi


culturali e comunicativi e insegna Sociologia dei media presso l’U-
niversità IULM di Milano. Per i nostri tipi ha pubblicato L’era dello
schermo. Convivere con l’invadenza mediatica (2013) e I media sia-
mo noi. La società trasformata dai mezzi di comunicazione (2014).
Negli ultimi anni ha pubblicato anche Il divismo. Cinema, televisio-
ne, web (2017) e Il tramonto della realtà. Come i media stanno tra-
sformando le nostre vite (2018).

Nicola Dusi è ricercatore di Cinema, fotografia e televisione e in-


segna Linguaggi Intermediali e Analisi critica del cinema presso
l’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni: Il
cinema come traduzione. Da un medium all’altro: letteratura, cine-
ma e pittura (2003); Dal cinema ai media digitali. Logiche del sen-
sibile tra corpi, oggetti, passioni (2014); Contromisure. Trasposizioni
e intermedialità (2015). Ha curato numeri monografici di riviste
internazionali dedicati alla traduzione intersemiotica (Versus, 2000);

119
all’adattamento cinematografico (Iris, 2004); alle performance urba-
ne (E/C, 2008); all’intermedialità della danza (Degrés, 2010). Tra i
volumi a sua curatela: Remix-Remake. Pratiche di replicabilità (con
Lucio Spaziante, 2006) e il recente Confini di genere. Sociosemiotica
delle serie tv (2019).

Leonardo Gandini è professore associato di Cinema, fotografia e


televisione, insegna Storia del cinema ed Estetica del cinema presso
l’Università di Modena e Reggio Emilia ed è docente di Iconografia
del cinema presso il Dams di Bologna. Ha scritto e curato diverse
pubblicazioni sul cinema classico e contemporaneo. Tra le più re-
centi: Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contempora-
neo (2014) e Fuori di sé. Identità fluide nel cinema contemporaneo
(2017).

Roy Menarini è professore associato di Cinema, fotografia e tele-


visione ed è critico cinematografico. Insegna Cinema e Industria
Culturale presso l’Università di Bologna. Dirige la rivista Cinergie
- Il cinema e le altre arti. Studia le trasformazioni della cultura cine-
matografica e ha pubblicato numerosi volumi dedicati alla storia del
cinema italiano e al cinema contemporaneo. Ha scritto in anni recenti
Il corpo nel cinema. Storie, simboli e immagini (2015) e Il discorso
e lo sguardo. Forme della critica e pratiche della cinefilia (2018). È
consulente per festival e istituzioni di cultura cinematografica, come
la Cineteca di Bologna.

Marco Teti ricopre attualmente il ruolo di ricercatore di Cinema, fo-


tografia e televisione presso l’Università degli Studi e-Campus, dove
insegna Storia della televisione e Forme della serialità televisiva. Ha
pubblicato varie monografie, tra cui Twin Peaks. Narrazione mul-
timediale ed esperienza di visione (2018) e Generazione Goldrake.
L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta
(2011). Suoi articoli sono apparsi in volumi collettanei e in riviste
scientifiche tra le quali Cinergie - Il cinema e le altre arti, G|A|M|E -
The Italian Journal of Game Studies, Imago - Studi di cinema e me-
dia, L’Avventura - International Journal of Italian Film and Media
Landscapes, Ocula - Occhio semiotico sui media e Segnocinema.

Lucio Spaziante è ricercatore di Filosofia e Teoria dei linguaggi


presso l’Università di Bologna e si occupa di Semiotica con parti-
colare riferimento alla musica, alle culture giovanili, ai media e al
linguaggio audiovisivo. Ha insegnato presso varie università italiane

120
(Ferrara, Modena e Reggio Emilia, IULM), ed ha svolto attività di ri-
cerca in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Recentemente
ha tenuto corsi di Teorie e modelli della Semiotica, e Analisi della
Comunicazione visiva. È tra l’altro autore di Icone pop. Identità e
apparenze tra semiotica e musica (2016) e ha curato Remix-remake:
pratiche di replicabilità (con Nicola Dusi, 2006). Dal 2009 al 2013
è stato Vice-presidente dell’AISS (Associazione Italiana di Studi
Semiotici).

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