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Le Olimpiadi e le Paralimpiadi sono due dei più grandi eventi sportivi che si
verificano in tutto il mondo. Entrambe si svolgono ogni quattro anni, in due
segmenti: le Olimpiadi estive e le Olimpiadi invernali e allo stesso modo le
Paralimpiadi estive e le Paralimpiadi invernali. Le Olimpiadi sono supervisionate dal
Comitato Olimpico Internazionale (CIO), mentre le Paralimpiadi sono supervisionate
dal Comitato Paralimpico Internazionale (IPC).
È importante specificare che le Olimpiadi sono molto più antiche delle Paralimpiadi,
infatti la prima Olimpiade moderna si svolse nel 1896 allo stadio Panathinaiko di
Atene, mentre le Paralimpiadi nacquero nel 1948 come tentativo di riabilitazione per
gli ex soldati, veterani della seconda guerra mondiale, rimasti gravemente feriti.
Le Paralimpiadi sono infatti destinate agli atleti disabili a differenza delle Olimpiadi
che sono destinate ai cosiddetti atleti “normodotati”; tuttavia, vi sono numerose
differenze tra l’una e l'altra che ora approfondiremo.
1. Il logo
La prima differenza che possiamo notare parlando di Olimpiadi e Paralimpiadi
è il logo. Sulla bandiera dei Giochi Paralimpici, infatti, non troviamo i cinque
cerchi olimpici che tutti conosciamo, ma i tre agitos, dal latino agito, ovvero io
mi muovo, in blu, rosso e verde. Questo logo è stato istituito a partire
dall’edizione di Atene 2004 in sostituzione ai tre pa in uso dal 1992, che
simboleggiavano i tre aspetti più significativi dell’essere umano, ovvero
mente, corpo e spirito, sempre negli stessi colori che sarebbero quelli più
utilizzati nelle bandiere dei Paesi del Mondo.
2. Il nome
Un’altra differenza molto evidente parlando di Olimpiadi e Paralimpiadi è il
nome, seppur possa sembrare una differenza banale, la distinzione non è
affatto sottile, perché pur essendo Giochi per tutti, si tende da sempre a
distinguere nettamente i due eventi, al punto poi da trarre da questa
distinzione la definizione di atleti olimpici e atleti paralimpici per differenziare i
normodotati dai disabili. A proposito di ciò la campionessa paralimpica di
nuoto Cecilia Camellini ha espresso il suo parere dicendo: “Penso che la
parola Paralimpiadi serva per distinguere l’evento dalle Olimpiadi che a
questo punto potremmo chiamare anche Normolimpiadi. Un’Olimpiade è
un’Olimpiade. Che poi venga disputata seduti in carrozzina o in piedi sulle
proprie gambe, non cambia nulla perché lo sport è sport e non credo abbia
bisogno di distinzioni grammaticali”
3. Il compenso economico
La più dibattuta e criticata distinzione tra Olimpiadi e Paralimpiadi è il valore
dei premi ricevuti dagli atleti. Prendendo come riferimento gli ultimi Giochi a
cui abbiamo assistito, ovvero quelli di Tokyo 2020, le retribuzioni degli atleti
sono state nettamente diverse: il CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano)
per queste Olimpiadi ha aumentato del 20% i guadagni degli atleti mentre
nessun aumento è arrivato da parte del CIP (Comitato Italiano Paralimpico).
L’oro di Jacobs, Tamberi e degli altri campioni azzurri di Tokyo 2020 è valso
loro 180 mila euro, l’argento 90 mila euro e il bronzo 60 mila euro, mentre gli
atleti paralimpici guadagnano meno della metà dei loro connazionali:
l’oro 75 mila euro, l’argento 40 mila euro, 25 mila euro invece per il bronzo.
Questo ampio divario di finanziamento ha costretto i paralimpici a lottare per
avere un trattamento uguale agli atleti olimpici non disabili. Una lotta iniziata
da tempo, ma che ancora non ha visto una fine.
Qual è la causa di tali differenze?
A questo punto sorge naturale chiedersi quale sia la ragione di queste differenze. I
motivi sono molteplici: sicuramente influiscono tantissimo le disponibilità
economiche dei due Comitati ma ciò che fa soprattutto la differenza è il giro
d’affari intorno a tali competizioni. In questo modo si arriva ad avere due
competizioni di diversa importanza: una di “Serie A” e l’altra di “Serie B” quando
invece l’unica reale differenza che ci dovrebbe essere tra queste è che i partecipanti
delle Olimpiadi sono persone che non hanno menomazioni fisiche. L’allenamento per
arrivare a certi livelli, le difficoltà superate, la forza di volontà e l’ambizione per
ottenere certi risultati contraddistinguono tutti gli atleti sia olimpici che paralimpici ed
è giusto che la nostra attenzione sia rivolta a questo.
Il talento degli atleti, in modo particolare di quelli paralimpici, molte volte è al centro
dell’attenzione più per le loro problematiche fisiche che per i loro risultati atletici.
Spesso la forza degli atleti paralimpici viene sminuita per via del fatto che,
rispetto agli atleti olimpici, gli atleti con disabilità siano molti meno e sia quindi più
semplice per loro raggiungere alti livelli nello sport. Eppure se questo può essere
visto come un punto a loro vantaggio, in realtà non lo è. Come viene mostrato nel
documentario “Rising Phoenix” esistono molte tipologie di disabilità differenti e
creare delle categorie per le competizioni risulta molto complicato, in quanto
potrebbero crearsi gruppi con troppi pochi atleti per competere, per questo si tende a
raggruppare tipologie simili di disabilità ma non identiche, rendendo così, le gare
poco eque.A causa di ciò, molti atleti paralimpici si trovano a dover competere con
atleti con disabilità minori ma, nonostante questo, spesso riescono a vincere
ugualmente grazie alla loro forza di volontà. Infatti, quello che questo documentario
vuole mettere in evidenza è che ogni atleta paralimpico ha una storia, spesso difficile
e dolorosa, come quella di Jean Baptiste Alaize, atleta francese, che ha vissuto
l’orrore della guerra civile in Burundi, la gamba gli è stata amputata con un machete
e ha dovuto subire l’orrore di vedere i propri genitori assassinati davanti ai propri
occhi, oggi è un campione paralimpico e continua a correre per scappare dal
dolore che lo perseguita. La sua storia, come tante altre, è la prova che i risultati di
questi atleti non derivano semplicemente dalla fortuna ma da “sangue, sudore e
lacrime”, come dice il loro motto, che purtroppo spesso non vengono
riconosciuti.
Bebe Vio: le ambizioni della portavoce italiana degli atleti
paralimpici
Bebe Vio, atleta paralimpica di scherma italiana, diventata molto famosa dopo la
vittoria dell’oro alle paralimpiadi di Rio 2016, a differenza dell’atleta di cui abbiamo
precedentemente parlato, non continua ad allenarsi per via della rabbia, ma anzi, per
la positività. A Bebe vennero amputate le braccia e le gambe all’età di 11 anni, a
seguito di una grave malattia, la meningite, un’infezione che causa il 97% di morti
nelle prime 24 ore. Mossa dalla fortuna di essere in quel 3% di sopravvissuti,
Bebe, ha continuato a lottare per raggiungere il suo sogno, le Olimpiadi. Come
portavoce di molti atleti paralimpici e con grande ambizione, ad oggi, Bebe vuole
attivarsi per eliminare tutte le disuguaglianze tra Giochi Olimpici e Paralimpici.
Grazie al suo contributo, la Federazione Italiana Olimpica di Scherma e la
Federazione Italiana Paralimpica di Scherma si sono unite creando una sola
Federazione, questo ha portato ad un grandissimo miglioramento degli atleti in
questo sport. Oggi in Italia esistono 19 federazioni per le diverse discipline, e il
sogno di Bebe è proprio quello di unirle per riuscire ad ottenere un unico Comitato
senza più distinzione tra il CONI ed il CIP. Questo sarebbe un grandissimo
cambiamento per gli atleti paralimpici italiani, che otterrebbero finalmente diritti pari a
quelli degli atleti olimpici.