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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI

NAPOLI FEDERICO II
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
LAUREA TRIENNALE
CORSO DI STUDI IN FILOSOFIA

Lineamenti della società dello spettacolo:


separazione, merce, immagine

ELABORATO FINALE IN ESTETICA

Relatore: Candidato:
Prof. Leonardo V. Distaso Francesco Asante
Matr. N58 001163

ANNO ACCADEMICO 2016-2017


A Luisa Cocci
Lineamenti della società dello spettacolo:

separazione, merce, immagine


INDICE

Introduzione

Sezione prima: la Società


1. Che cos’è società per Debord
2. Qual è la società di Debord

Sezione seconda: lo Spettacolo


1. La separazione, logica della società dello
spettacolo
2. La merce, origine dello spettacolo
3. L’immagine, organo dello spettacolo

Conclusione

Bibliografia
Introduzione

L’oggetto del presente lavoro è una riflessione intorno agli elementi fondamentali
che costituiscono la società dello spettacolo. Prendere atto di ciò definisce in primo
luogo il terreno problematico su cui si muoverà la nostra analisi, e ci permette di
rendere ragione del metodo usato e del modo in cui il presente testo si articola.
Il punto di riferimento principale sarà La Société du Spectacle1, testo di Guy Ernest
Debord, pubblicato per la prima volta nel 1967 da Buchet/Castel, a Parigi. La nostra
riflessione non si indirizza però a una sintesi o un’esposizione dei contenuti del testo;
piuttosto, esso verrà usato come strumento per l’individuazione di concetti che ci
permettano di ricostruire il significato dell’espressione società dello spettacolo. Per
questo motivo, nel corso della riflessione non seguiremo linearmente la scansione de
La Société du Spectacle, ma ci concentreremo su quelle porzioni di testo in cui sono
presenti delle formulazioni utili alla definizione di cosa sia la società dello spettacolo.
Il testo di Debord si presenta come un testo complesso e stratificato, in cui sussistono
diverse linee interpretative. Non sarebbe infatti erroneo considerarlo ad esempio
secondo la prospettiva di una critica del marxismo, specie nelle sue formulazioni
leniniste e kautskiane2; né sarebbe errato considerarlo come una critica sociologica,
in cui sono presenti riflessioni sullo statuto sociale degli individui e dei lavoratori.
Tuttavia, le diverse prospettive ermeneutiche ruotano intorno ad alcuni elementi
fondamentali, che definiscono le nozioni di società e di spettacolo e a partire dalle
quali si sviluppano.
Si è scelto per questo di articolare il presente lavoro in due sezioni, corrispondenti ai
due termini dell’espressione società dello spettacolo. Nella prima sezione si è tentato
di ricostruire l’oggetto società così come appare nella riflessione di Debord,
aggiungendovi alcune coordinate storiche che permettessero di tracciarne una
corrispondenza nella società reale; nella seconda sezione si è, invece, tentato di
individuare gli elementi che permettono la definizione della nozione di spettacolo,

1 G. Debord, La société du Spectacle (1967), Gallimard, Parigi, 1992


2 Il capitolo IV, Le proletariat comme sujet et comme representation, occupa una porzione più che
rilevante di testo e abbonda di considerazioni su Marx, Lenin e Kautsky.

5
strutturata a partire da tre nuclei concettuali fondamentali: la separazione, come
logica essenziale del suo funzionamento; la merce, o più precisamente la forma-
merce, come sua origine; e l’immagine, come suo organo essenziale.

6
Sezione Prima: La Società

Una riflessione sui caratteri fondamentali della società dello Spettacolo richiede in
primo luogo una chiarificazione del significato del termine “società” all’interno del
quadro teorico sviluppato da Guy Debord. Tuttavia, il nostro scopo non sarà di
indicare il significato del termine in modo univoco, operazione qui irrealizzabile sia
per spazio che per mezzi; piuttosto, in questa prima fase ci occuperemo di fornirne
una forma concettuale che renda più agevole e precisa l’interpretazione del pensiero
dell’autore francese.
Risolvere questa problematica vuol dire indicare a cosa si riferisce Debord quando
utilizza il termine “società” all’interno de La Société du Spectacle. Per fare ciò
articoleremo la nostra riflessione in due momenti: nel primo, critico-definitorio,
ricostruiremo il significato di società da un punto di vista concettuale, e quindi cosa
è società per Debord; nel secondo, storico-contestuale, ci riferiremo alla società reale
nel momento storico in cui l’autore elabora il suo pensiero, e quindi a qual è la
società di Debord.

7
Che cosa è società per Debord

Una premessa

Nella riflessione di Guy Debord sulla società dello spettacolo, si può intendere la
società come un “sistema” o una “struttura”, riferendoci con tale definizione alla
nozione di sistema delineata da Ferdinand de Saussure all’interno del suo Cours de
Linguistique Genérale3 e di struttura ricostruita da Gilles Deleuze nel suo articolo A
quoi reconnaît-on le structuralisme?4
Prima di entrare nel merito della nostra definizione, occorre però una premessa
metodologica che ne definisca la legittimità. Nell’adoperare la definizione che
abbiamo fornito, infatti, si corre il rischio di lasciar trasparire un accostamento di
Debord allo strutturalismo; ciò andrebbe contro il pensiero dell’autore, il quale è un
dichiarato avversatore di questa corrente, come si intende facilmente da quanto
scrive nel paragrafo 202 de La Société du Spectacle: «Il punto di vista in cui si colloca
il pensiero anti-storico dello strutturalismo è quello dell’eterna presenza di un
sistema che non è mai stato creato e che non finirà mai. Il sogno della dittatura di
una struttura preliminare incosciente su ogni prassi sociale ha potuto essere
abusivamente estratto dai modelli di strutture elaborate dalla linguistica e
dall’etnologia (e perfino dall’analisi del funzionamento del capitalismo) […]
semplicemente perché un pensiero universitario […], integralmente radicato
nell’elogio meravigliato del sistema esistente, riconduce ogni realtà all’esistenza del
sistema»5. È quindi necessario spiegare in che modo la nostra riflessione non fa di
Debord uno strutturalista, il che comporta anche esplicitare la natura delle critiche
che egli muove a questa corrente.
Anzitutto, seppur si tratti di nozioni desunte dal cosiddetto strutturalismo6, la

3 F. de Saussure, Cours de linguistique générale (1916), con note critiche e commenti di Tullio de Mauro
(1967), Payot et Rivages, Parigi 2005
4 G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme ? (1967), in G. Deleuze, L’île deserte. Textes et

entretiens 1953 – 1974, Les Editions de Minuit,Parigi, 2002, pp. 238 - 269
5 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 193
6 Osserviamo brevemente che gli stessi autori che abbiamo preso in riferimento non sono

8
definizione di società come “sistema” o “struttura” nel pensiero di Debord non
implica direttamente una vicinanza dell’autore a questa corrente. Sebbene la nostra
definizione appaia come un punto di contatto, essa non cancella la profonda
diversità del metodo strutturalista rispetto a quello di Debord: il primo pone la
struttura come dato fondamentale, che precede i soggetti e li determina, e la
comprensione dei fenomeni studiati avviene attraverso un’analisi degli elementi
della struttura7; nel secondo, invece, la struttura è considerata come il prodotto di
un processo materiale e storico, risultante dall’attività umana, e la riflessione si
concentra sugli elementi che la determinano. Se nel primo caso abbiamo un primato
della struttura sui soggetti, in Debord c’è l’esatto opposto, ovvero il primato dei
soggetti sulla struttura8. Questo chiarisce la ragione per cui la nostra operazione
teorica non è illegittima; occorre però adesso spiegarne il senso, il che riteniamo ne
chiarirà la validità.
La scelta di adottare la definizione di struttura/sistema come chiave ermeneutica del
concetto di società in Debord non è arbitraria, bensì scaturisce da due elementi: il
primo consiste nel fatto che lo stesso Debord parla in più circostanze di sistema,
allorché si riferisce all’ordine socio-economico che egli denomina società dello
spettacolo e che identifica con un particolare stadio dello sviluppo del capitalismo,
come si può leggere per esempio al paragrafo 56: «[…] la verità della loro
particolarità risiede nel sistema9 universale che li contiene: nel movimento unico che

propriamente strutturalisti: Ferdinand de Saussure, sebbene sia considerato padre dello


strutturalismo, non parla mai propriamente di struttura, ma sempre di sistema (la paternità che gli
viene addotta è legata all’elaborazione di un concetto che sarà alla base degli studi di altri autori);
Gilles Deleuze, che nel testo preso in considerazione formula una ricostruzione concettuale dello
strutturalismo, svilupperà nel corso della sua vita un nuovo paradigma interpretativo, quello
macchinico, insieme a Félix Guattari, che ne segnerà proprio l’allontanamento dal pensiero
strutturalista.
7 «I veri “soggetti” non sono questi occupanti e questi funzionari […], ma la definizione e la

distribuzione di questi posti e di queste funzioni»: Deleuze, nell’articolo menzionato sopra, cita Lire
le Capital (L. Althussre, E. Balibar, Lire le Capital [1965], Éditions François Maspero, 2 voll., Parigi,
1975, vol. II, p. 53) e poi aggiunge: «Il vero soggetto è la struttura stessa» (G. Deleuze, A quoi reconnaît-
on le structuralisme?). Queste due citazioni restituiscono chiaramente la prospettiva del metodo
strutturalista, ed è esattamente ciò cui si riferiva Debord nel paragrafo che abbiamo menzionato,
allorché scrive che lo strutturalismo «riconduce ogni realtà all’esistenza del sistema», o quando lo
definisce un «pensiero anti-storico» (G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 193).
8 Si tratta di ciò che Debord vuole affermare quando dice «Lì dove vigeva il questo economico deve

subentrare l’io». (Ivi, p. 46): tale prospettiva vuole il capovolgimento del soggetto tra la società e gli
individui, lì dove vige il primato della società.
9 Corsivo mio.

9
ha fatto del pianeta il suo campo, il capitalismo»10.
Il secondo elemento consiste nel fatto che il pensiero di Debord è una critica della
società, e la nostra definizione vuole cogliere la specificità della critica dello
strutturalismo proprio in quanto inerente a una critica della società: identificare in
questa una struttura serve a mettere in luce la convergenza tra le due critiche. In
questo senso, nella prospettiva di Debord lo strutturalismo è da iscriversi tra le forme
di autolegittimazione prodotte da un certo tipo di sistema, il quale le elabora per
garantire la propria conservazione: al paragrafo 202 de La Société du Spectacle
leggiamo «La struttura è figlia del potere presente. Lo strutturalismo è il pensiero
garantito dallo Stato […]»11.
Esiste pertanto un nesso tra rigetto dello strutturalismo e critica del potere, ed è da
leggersi come politica la natura del rifiuto di questo tipo di pensiero. Tale prospettiva
viene ribadita immediatamente dopo, quando Debord prosegue: «[…] il quale [lo
strutturalismo, n.d.r.] pensa le condizioni presenti della “comunicazione”
spettacolare come un assoluto»12. L’oggetto esplicitamente messo in discussione non
è la validità descrittiva dello strutturalismo, bensì la prospettiva politica immanente
al suo metodo, che pone la struttura come un «eterno presente» o un «assoluto»,
ovvero come necessaria e precedente rispetto agli individui, eliminando così la
possibilità teorica di un suo superamento. Debord adotterà la prospettiva opposta,
e concentrerà quindi la sua analisi sugli elementi materiali che determinano la
struttura, elaborando un pensiero che la spieghi a partire dalle condizioni che la
rendono possibile. L’analisi dei Debord circa la società dello spettacolo vuole essere
utile per mettere in campo una forza pratica atta al suo superamento13, innanzitutto
attraverso una presa di coscienza delle condizioni esistenti e, quindi, tramite un
diverso tipo di rapporto con il reale14:

10 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 52


11 Ivi, p. 194
12 Ibid.
13 Debord era perfettamente cosciente della centralità dell’elemento della prassi all’interno della sua

riflessione, ciò che è chiaro da quanto scrive al paragrafo 203: «[…] Per distruggere effettivamente la
società dello spettacolo, occorrono degli uomini che mettano in azione una forza pratica. La teoria
critica dello spettacolo non è vera se non unificandosi alla negazione pratica nella società […]», G.
Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 195
14 Nella prospettiva di Debord, la presa di coscienza delle condizioni esistenti è ciò che permette anche

la presa di possesso su queste condizioni. Il filosofo francese, parlando dell’incosciente sociale in cui
giace l’economia, cita Freud: «Tutto ciò che è cosciente si usa. Ciò che è incosciente resta inalterabile
[…]» (Ivi., p. 46). Si comprende dunque la critica allo strutturalismo come critica a un pensiero che

10
«È essendo gettati nella storia, dovendo partecipare al lavoro e alle lotte che la
costituiscono, che gli uomini si vedono costretti a considerare le loro relazioni in
modo disilluso. Questa storia non ha altro oggetto che ciò che essa realizza su
sé stessa, benché l’ultima versione metafisica incosciente dell’epoca storica
possa guardare il progresso produttivo attraverso cui la storia si è dispiegata
come l’oggetto stesso della storia. Il soggetto della storia non può essere che il
vivente che produce sé stesso, che diventa signore e possessore del suo mondo
che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco»15.

La società come sistema

Alla luce della premessa effettuata, è possibile ora entrare nel merito della
definizione e spiegare cosa significhi che la società sia un sistema o una struttura16.
Per individuare l’oggetto della nostra analisi in questa sede, osserviamo che
interrogarsi sulla società vuol dire indagare le relazioni che esistono tra gli individui:
non è infatti possibile parlare di società se non in quanto composta di persone che
sono in determinati rapporti tra di loro, ed è la natura di questi rapporti a dover
essere chiarita. Ne tracceremo dunque alcuni caratteri, dei quali si mostrerà come
appartengano al concetto di sistema/struttura e come, al contempo, ineriscano alla
nozione di società ricostruibile nel pensiero di Debord.

La divisione del lavoro come insieme di relazioni differenziali

Il primo carattere da prendere in considerazione è il «differenziale», che consiste nel


fatto che gli elementi della struttura «[…] non esistono indipendentemente dalle
relazioni in cui entrano e attraverso cui si determinano reciprocamente» 17. Esso

pone la struttura come incosciente e, quindi, immutabile.


15 Ivi., pp. 69 - 70
16 Per ragioni espositive, a partire da qui utilizzeremo i due termini come sinonimi, dovendo

necessariamente trascurare le possibili sfumature di significato che li hanno differenziati nel corso
della loro storia semantica.
17 G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme?, cit., p. 246. All’interno del testo, il soggetto della

proposizione è «i fonemi», utilizzati da Deleuze come esempio di elementi di una struttura.

11
inerisce alla reciprocità del rapporto e, tuttavia, esprime qualcosa di più: l’elemento
fondamentale è l’essere determinante della relazione, ovvero la natura simbolica18
degli elementi che appartengono a una struttura.
Per comprendere cosa questo voglia dire, ovvero per capire in che senso le relazioni
determino gli elementi che sono presi in esse, occorre riferirsi al concetto di valore
linguistico elaborato da Ferdinand de Saussure. Descritto all’interno del capitolo
sulla linguistica sincronica, il valore linguistico di una parola può essere definito come
«la proprietà che essa ha di rappresentare un’idea»19. Tuttavia, come l’analisi di de
Saussure evidenzierà, esso non va confuso con il significato, che ne rappresenta solo
un aspetto: il valore è da intendersi come la possibilità pratico-espressiva di un
elemento linguistico, legata al suo impiego.
Per chiarire questo punto, de Saussure ricorre a diversi esempi, uno dei quali è la
differenza tra il plurale francese e il plurale sanscrito: «Così il valore di un plurale
francese non ricopre quello di un plurale sanscrito, sebbene la significazione sia nella
maggior parte dei casi identica: ciò perché il sanscrito possiede tre numeri invece di
due (i miei occhi, le mie orecchie, le mie braccia, le mie gambe, ecc. sarebbero al duale);
sarebbe inesatto attribuire lo stesso valore al plurale in sanscrito e in francese, perché
il sanscrito non può20 usare il plurale in tutti i casi in cui è di norma in francese; il
suo valore dipende dunque effettivamente da ciò che c’è fuori e intorno ad esso»21.
Da questo esempio possiamo trarre i due aspetti concettuali del valore: il primo
ribadisce la prospettiva da cui è partita la nostra analisi, ovvero che il valore di un
elemento è determinato dalle relazioni che esso intrattiene con gli altri elementi del
sistema22 («il suo valore dipende […] da ciò che c’è fuori e intorno ad esso»); il
secondo è che esso ha un carattere pratico, in quanto definisce il campo delle
possibilità espressive di quell’elemento («sarebbe inesatto attribuire lo stesso valore
[…] perché il sanscrito non può usare il plurale in tutti i casi in cui è di norma in

18 Qui il termine “simbolico” è usato con riferimento al rimando reciproco che intercorre tra i due
elementi del rapporto: si tratta di un significato più vicino all’etimo greco (da συμβάλλω, lett. “mettere
insieme, unire”) che all’uso comune, in quanto quest’ultimo inerisce per lo più a un carattere
rappresentativo.
19 F. de Saussure, Cours de Linguistique générale, cit., p. 158
20 Corsivo mio.
21 Ivi., p. 161
22 «Quando diciamo che essi [i valori, ndr.] corrispondono a dei concetti, sottintendiamo che questi

sono puramente differenziali, definiti non positivamente per il loro contenuto, ma negativamente per
il loro rapporto con gli altri termini del sistema». (Ivi., p. 160)

12
francese»).
Se si esce dalla sfera linguistica, in cui il valore può essere confuso con il significato
di un termine, l’aspetto del suo carattere pratico diventa più evidente. Volendo
restare nell’ambito di esempi saussuriani, si può recuperare l’analogia tra uno stadio
della lingua e una partita di scacchi23: «il valore rispettivo dei pezzi dipende dalla
loro posizione sulla scacchiera»24, per cui se nel corso di una partita uno di questi,
ad esempio un cavallo, andasse distrutto, lo si può sostituire, e «anche una figura
sprovvista di qualunque somiglianza sarebbe dichiarata identica, posto che le si
attribuisca lo stesso valore»25. Nella partita di scacchi il valore del pezzo corrisponde
a ciò che quel pezzo rappresenta per il giocatore, ovvero a ciò che quel pezzo può
fare.
In generale, dunque, dire che le relazioni determino gli elementi che sono presi in
esse significa che ne definiscono i comportamenti, la prassi, le possibilità d’azione.
In questo senso Deleuze osserva che alle relazioni differenziali corrispondono delle
«singolarità»26, ovvero delle «unità di posizione» all’interno della struttura, «un
ordine di posti che determinano simultaneamente i ruoli e i comportamenti»27 degli
individui che li occupano: «Ogni struttura è in questo senso psicosomatica, o
piuttosto rappresenta un complesso categoria-comportamento»28. Le singolarità, a
loro volta, corrispondono a delle «specie», che sono ciò in cui i valori dei rapporti
differenziali si incarnano29 (nell’esempio degli scacchi, il cavallo è la specie in cui si
incarna un dato valore dei rapporti, e i quattro cavalli presenti sulla scacchiera, con
la loro posizione, costituiscono le singolarità corrispondenti).
A questo punto, è possibile riferire il carattere del “differenziale”, insieme con gli
elementi ricavati dalla sua analisi, alla nozione di società, così come ricostruibile ne
La Société du Spectacle.

23 «Ma di tutti i paragoni che si potrebbero immaginare, il più dimostrativo è quello si stabilirebbe tra

il gioco della lingua e una partita di scacchi. Da una parte e dall’altra, si è in presenza di un sistema
di valori e si assiste alle loro modificazioni». (Ivi., p. 126)
24 Ibid.
25 Ivi., p. 153 - 154
26 «Ogni struttura presenta i due aspetti seguenti: un sistema di rapporti differenziali a partire dai

quali gli elementi simbolici si determinano reciprocamente, un sistema di singolarità corrispondenti


a questi rapporti e traccianti lo spazio della struttura» - G. Deleuze, op.cit., p. 247
27 Ivi., p. 248
28 Ivi., p. 249
29 Ivi., p. 248-249

13
Il primo dato da analizzare è in che senso la società dello spettacolo sia un insieme
di rapporti differenziali e, quindi, in che modo essa si costituisca a partire da una
differenza di attività e di ruoli. Questa prospettiva, nel pensiero di Debord,
corrisponde al fatto che il funzionamento stesso della società dello spettacolo, ovvero
la separazione che essa mette in atto, è basato sulla divisione del lavoro: «[…] La
scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, ovvero
dalla forma generale della scissione nella società, prodotta dalla divisione del lavoro
sociale e organo della dominazione di classe»30.
La vita degli individui, il loro costituirsi in società, e anzi la modalità stessa della
forma generale che la società assume, cioè lo Stato, sono per Debord direttamente
legati al fatto che esiste una divisione del lavoro, che gli individui sono presi in
determinati rapporti di produzione. E nella divisione del lavoro possiamo riconoscere
le relazioni differenziali che fanno della società un sistema, proprio in quanto
l’attività dei soggetti che partecipano al processo produttivo dipende dalla loro
posizione all’interno dello stesso.
Osserviamo qui che il dato della divisione del lavoro, intesa come insieme di relazioni
alla base delle forme sociali, proviene da un autore il cui pensiero è centrale per la
comprensione della riflessione di Guy Debord, ovvero Karl Marx. Il pensiero di Marx
costituisce per Debord una premessa, e alcuni importanti aspetti dell’analisi della
società dello spettacolo possono essere letti proprio come uno sviluppo di riflessioni
marxiane31, in particolare quelle sull’alienazione e sulla merce. In questa sede, ciò
che ci preme evidenziare è che per Debord le forme sociali dipendono dalle relazioni
del modo di produzione, così come per Marx: «Inoltre con la divisione del lavoro è
data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo […] e l’interesse collettivo di
tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo […]
esiste innanzitutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali
il lavoro è diviso. Appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e
interesse collettivo, l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come
Stato»32. E, come in Debord, anche in Marx la società può essere vista come una

30 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 27


31 Si veda in proposito A. Jappe, Guy Debord (1999), Manifestolibri – la talpa, Roma, 2005
32 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma (I ed. 1958), 1975, p. 23

14
struttura33, che è anzitutto struttura economica, e in cui le relazioni differenziali tra
gli individui li determinano, nella misura in cui incidono sulla loro attività: «Cioè
appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività
determinata ed esclusiva che gli viene imposta e alla quale non può sfuggire»34. A
partire dalla divisione del lavoro, la società è dunque differenziale, in quanto insieme
di posizioni cui corrispondono determinati valori, e differenziante, in quanto impone
questi valori agli individui che la compongono35.

La realtà e le immagini come serie

Sebbene quello appena descritto rappresenti il carattere fondamentale della società


nella prospettiva ermeneutica qui adottata, è necessario evidenziarne altri per
renderne più completa la sua definizione in termini di struttura. Il secondo carattere
da analizzare è quello che inerisce al criterio «seriale»36, e che consiste nel fatto che
«gli elementi simbolici […] si organizzano necessariamente in serie»37.
Secondo Deleuze, una caratterizzazione in termini di struttura non si può operare
senza considerare il suo essere composta da almeno due serie di elementi simbolici,
con i corrispondenti rapporti differenziali: «La determinazione di una struttura non
si fa solamente per una scelta di elementi simbolici di base e di rapporti differenziali
in cui entrano; nemmeno solo per una ripartizione dei punti singolari che gli
corrispondono; ma [si fa] ancora attraverso la costituzione di una seconda serie,
almeno, che intrattiene delle relazioni complesse con la prima»38.

33 «L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia
la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale» - K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in K. Marx
e F. Engels, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 746 – 748, - estratto da Marx. Antologia di
scritti sociologici, a cura di Gianfranco Poggi, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 71
34 Ivi., p. 24
35 Il «differenziante» non viene esaminato come carattere a parte in quanto costitutivamente legato

al «differenziale», sebbene nell’analisi di Deleuze esso venga indicato come altro criterio: nel quarto
paragrafo, Deleuze dice della struttura che è «in sé stessa un sistema di elementi e di rapporti
differenziali; ma in più essa differenzia le specie e le parti, gli esseri e le funzioni in cui si attualizza.
È differenziale in sé stessa, differenziatrice nel suo effetto» (G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le
structuralisme?, cit., p. 252)
36 G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme?, cit., p. 255
37 Ibid.
38 Ivi., pp. 256 - 257

15
Nella riflessione sulla società dello spettacolo, questo elemento di serialità duplice è
riscontrabile nel rapporto esistente tra la realtà, cioè l’insieme dei rapporti sociali e
il vissuto dei soggetti, e le immagini, cioè la manifestazione oggettiva delle relazioni
spettacolari. Nel paragrafo 4 di La Société du Spectacle leggiamo:

«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra delle


persone, mediatizzato da delle immagini»39.

La società dello Spettacolo non è dunque tale esclusivamente in ragione


dell’abbondanza di immagini, ma e soprattutto in virtù del fatto che queste sono in
un rapporto di omologia strutturale con i rapporti sociali, da esse mediatizzati. Nel
pensiero di Debord, si tratta di un fenomeno analogo a quanto avviene con la
religione, in cui un certo tipo di immaginario determina e viene determinato da
rapporti sociali e modi di vita: «Lo spettacolo è la ricostruzione materiale
dell’illusione religiosa. […] Così è la vita più terrestre che diviene opaca e
irrespirabile. Essa non rigetta più nel cielo, ma ospita presso di sé il suo rifiuto
assoluto, il suo fallace paradiso. Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei
poteri umani in un aldilà; la scissione compiuta all’interno dell’uomo»40. Tra
l’«illusione religiosa»41 e la vita esisteva un processo di determinazione reciproca,
poiché da un lato la vita proiettava la propria potenza nell’aldilà celeste, e dall’altro
la religione indicava i modi di vita da seguire per guadagnare il paradiso; e la
religione, o meglio l’immaginario religioso, è indicabile come serie, in quanto
costituita di elementi simbolici presi in rapporti differenziali42.

39 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p.16


40 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 24
41 La continuità della religione nello Spettacolo è un elemento concettuale importante nel pensiero di

Debord; la separazione, che abbiamo individuato essere la logica del funzionamento dello spettacolo,
era stata già analizzata in ambito religioso da Ludwig Feuerbach, una cui citazione viene non a caso
posta in epigrafe del primo capitolo de La Société du Spectacle. D’altra parte, in Feuerbach ritroviamo
diverse riflessioni in merito al ruolo dell’immagine, elemento eminentemente religioso, che
rappresenta il punto di continuità tra religione e spettacolo. Nel quinto capitolo de L’essenza del
Cristianesimo, intitolato «Il segreto del “logos” e dell’immagine divina», leggiamo in una riflessione
sul culto delle immagini: «L’immagine è l’essenza della religione quando è l’espressione essenziale,
l’organo della stessa» (L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, traduzione e cura di Francesco
Tomasoni, Editori Laterza, Bari, 2007, p. 91)
42 Il carattere di serialità duplice tra una società e il suo immaginario religioso appartiene anche al

totemismo, nelle analisi di Claude Levi-Strauss, che viene da Deleuze citato proprio per spiegare il
«seriale»: nelle riflessioni di Levi-Strauss, ci sono «Da una parte una serie di specie animali prese
come elementi di rapporti differenziali, dall’altra una serie di posizioni sociali anch’esse colte

16
Nella società dello spettacolo le immagini, considerate come forma oggettivata delle
relazioni spettacolari, costituiscono una serie omologa alla serie dei rapporti sociali,
nei quali Debord individua relazioni tra individui e, soprattutto, tra classi; tuttavia,
il fatto che le relazioni spettacolari appaiano come oggettive, nasconde la loro
origine, ovvero offusca la prima serie: «L’apparenza feticista di pura oggettività nelle
relazioni spettacolari nasconde il loro carattere di relazioni tra uomini e tra classi»43.
Le relazioni spettacolari sono quindi un’espressione dei rapporti sociali. Allo stesso
tempo, però, questi vengono modificati dalle relazioni spettacolari, in quanto
modificano la relazione tra i soggetti e il mondo. Tale reciproca significazione è il
senso dell’omologia strutturale tra le due serie, e una sua sintesi si può trovare al
paragrafo 8 de La Sociétè du Spectacle:

«Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva;


questo sdoppiamento è a esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale
è effettivamente prodotto. Allo stesso tempo la realtà vissuta è materialmente
invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riprende in sé stessa l’ordine
spettacolare dandogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è presente da
entrambe le parti. Ogni nozione così fissata non ha come fondamento che il suo
passaggio nell’opposto: la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale.
Quest’alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente»44.

È importante chiarire che tale omologia è da intendersi qui non come corrispondenza
univoca, ma come reciproca conformità che, nel caso della società dello spettacolo,
proviene dalla conformità dell’apparato strumentale di cui essa si è munito. Al
paragrafo 24 Debord sottolinea: «Se lo spettacolo, preso sotto l’aspetto ristretto dei
“mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più
schiacciante, può sembrare invadere la società come semplice strumentazione,
quest’ultima non è in effetti alcunché di neutro, ma la strumentazione che conviene
al suo auto-movimento totale»45.
Nella riflessione di Debord, lo spettacolo costituisce un’evoluzione del capitalismo,

simbolicamente nei loro rapporti: il confronto si fa “tra questi due sistemi di differenze”, queste due
serie di elementi e di rapporti» (G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme?, cit., p. 255 – 256).
43 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p.26
44 Ivi., p. 18
45 Ivi, p. 26

17
e per questo motivo il suo apparato tecnico, che permette la diffusione di immagini
su larga scala, è un apparato tecnico conforme al suo stesso «auto-movimento
totale»: la diffusione delle immagini non fa che estendere l’attitudine contemplativa
immanente alla produzione capitalistica. Per rendere ragione di questa prospettiva,
in questa analisi si è scelto di considerare solo due serie come base della definizione
della società in termini di struttura, ovvero la serie delle relazioni spettacolari e
quella dei rapporti sociali, invece di considerarne tre, nel qual caso si sarebbe
considerata come serie ulteriore quella dei rapporti di produzione. Distinguere la
serie dei rapporti di produzione da quelli spettacolari significherebbe rinunciare alla
continuità essenziale tra l’attitudine contemplativa insita nel capitalismo e la sua
evoluzione in termini di società dello spettacolo: quest’ultimo è, infatti, lo stesso
capitalismo giunto a un nuovo stadio di sviluppo e di astrazione46. Sono le due serie
realtà e immagine, ovvero rapporti sociali e relazioni spettacolari, a esprimere
pienamente il carattere seriale della struttura della società.

Lo Spettacolo: elemento strutturante, casella priva di definizione

A questo punto della nostra analisi, rimane un ultimo elemento da considerare per
completare la nostra definizione. Dal momento che la prospettiva di partenza era
quella della definizione della società all’interno del quadro teorico sviluppato da
Debord, e quindi della società in quanto società dello spettacolo, è proprio il
significato di quest’ultimo che rimane da integrare. Si tratta però di una nozione
complessa, che richiede un’analisi in termini concettuali e che, in questo senso, sarà
oggetto della seconda sezione di questo scritto; in questa sede, ciò che ci preme è
un’analisi dello spettacolo all’interno della società, quest’ultima considerata nel suo
caratterizzarsi come struttura47. Da questo punto di vista, il ruolo ricoperto dallo
spettacolo corrisponde a ciò che nella ricostruzione deleuziana viene indicato come

46 Emerge qui un legame importante tra Debord e Lukács, che in Storia e Coscienza di Classe aveva
individuato l’atteggiamento contemplativo richiesto dal sistema di produzione capitalistico. Il
significato di questa riflessione nella società dello Spettacolo verrà approfondito più avanti nel corso
di questo scritto.
47 Il significato dello spettacolo sarà oggetto di analisi nella seconda sezione di questo testo, in cui ci

riserviamo di considerarlo in maniera più approfondita da un punto di vista concettuale.

18
«Oggetto=x»48 o «casella vuota»49.
L’Oggetto=x è l’elemento che determina la configurazione della struttura, che
appartiene a essa, cioè a entrambe le serie che la compongono, ma non è riducibile
ad alcuno degli elementi dell’una o dell’altra: «In effetti, è rispetto a lui che la varietà
dei termini e la variazione dei rapporti differenziali sono ogni volta determinati. Le
due serie di una struttura sono sempre divergenti (in virtù delle leggi della
differenziazione). Ma quest’oggetto singolare è il punto di convergenza delle serie
divergenti in quanto tali. Esso è “eminentemente” simbolico, ma precisamente
perché è immanente a entrambe le serie contemporaneamente»50. L’Oggetto=x è
dunque ciò che comanda alla struttura, in quanto «Distribuendo le differenze in
tutta la struttura, facendo variare i rapporti differenziali con il suo spostamento,
l’Oggetto=x costituisce il differenziante della differenza stessa»51.
Nel pensiero di Debord lo spettacolo ricopre esattamente questo ruolo, ovvero quello
di determinare la configurazione della società: è a partire da esso che un certo tipo
di relazioni differenziali si determina, e La Société du Spectacle costituisce una
riflessione volta proprio a spiegare i modi e le cause di questa determinazione.
Inoltre nello spettacolo, così come viene ricostruito nel testo di Debord, si può
individuare una delle caratteristiche fondamentali dell’Oggetto=x, ovvero l’«eccesso
di senso». Nel definire l’Oggetto=x come casella vuota, Deleuze fa riferimento al suo
essere «il non-senso che anima almeno le due serie, ma che le fornisce di senso
circolando attraverso di esse»52; poco più avanti, però, chiarisce che «il non-senso
non è assenza di significazione, ma al contrario l’eccesso di senso»53. E anche nello
spettacolo è ravvisabile un eccesso di senso, un’impossibilità di darne una
definizione univoca, che si esprime nella molteplicità delle definizioni che vengono
fornite da Debord, di cui riportiamo qualche esempio: «Lo spettacolo, come
inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente»54, nella
prima parte; «lo spettacolo è l’altra faccia del denaro»55, nella seconda; «lo

48 G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme?, cit., p. 258


49 Ibid.
50 Ibid.
51 Ivi., p.260
52 Ivi., p. 262
53 Ibid.
54 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 16
55 Ivi., p. 44

19
spettacolo è un catalogo [della totalità degli oggetti della produzione]»56, nella terza;
lo spettacolo […] è la falsa coscienza del tempo»57, nella sesta, e così via.
D’altro canto, lo stesso Debord riconosceva che «Il concetto di spettacolo unifica e
spiega una grande diversità di fenomeni apparenti»58, il che dal punto di vista della
sua definizione consiste nel fatto che esso ha diversi significati e, pertanto, un
eccesso di senso.
È interessante osservare che Deleuze, nel corso della sua analisi dell’Oggetto=x,
faccia una riflessione su quale sarebbe la casella vuota dell’economia intesa come
struttura, individuandola nel valore come espressione del lavoro in generale: «È
evidente che la casella vuota di una struttura economica, come scambio di merci,
debba essere determinata tutt’altrimenti: essa consiste in “qualche cosa” che non si
riduce ai termini dello scambio, ne allo stesso rapporto di scambio, ma che forma un
terzo eminentemente simbolico in perpetuo spostamento, in funzione del quale si
definiranno le variazioni dei rapporti. Tale è il valore come espressione di un “lavoro
in generale”, al di là di tutte le qualità empiricamente osservabili […]»59. Al fatto che
questa visione dell’economia proviene dalla stessa radice marxiana da cui partiranno
molte riflessioni di Debord, si aggiunge che il ruolo del valore descritto in questo
passaggio corrisponde al ruolo rivestito dallo spettacolo, che rappresenta ciò in
ragione di cui si determinano le relazioni differenziali, come rapporti sociali, al di là
delle sue manifestazioni empiriche: «Sotto tutte le sue forme particolari,
informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di passatempi, lo
spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante»60. Lo
spettacolo corrisponde dunque all’Oggetto=x, o casella vuota, da un lato in ragione
del suo eccesso di senso, che corrisponde alla molteplicità di manifestazioni e di
definizioni che gli si possono attribuire, dall’altro e più strettamente in virtù del ruolo
che riveste all’interno della società, ovvero quello di determinatore delle relazioni.
Con quest’ultimo elemento si conclude l’analisi della definizione della società in
termini di struttura. Si è visto come il senso di questa definizione sia nel fatto che la
società è descrivibile come sistema di valori, cioè insieme di relazioni differenziali

56 Ivi., p. 60
57 Ivi., p. 156
58 Ivi., p. 19
59 G. Deleuze, A quoi reconnaît-on le structuralisme?, cit., p. 263 - 264
60 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 17

20
che si sviluppano su due serie, determinate da un Oggetto=x, o casella vuota. Si è
inoltre visto come questi caratteri fossero riscontrabili nel pensiero di Debord: il
primo attraverso una riflessione sulla divisione del lavoro; il secondo nella
considerazione del rapporto di conformità tra le immagini, ovvero le relazioni
spettacolari oggettivate, e i rapporti sociali; il terzo nel ruolo rivestito dallo
spettacolo, e nelle molteplici definizioni che ne denotano l’eccesso di senso.
È in ragione di questi elementi (divisione del lavoro come insieme di relazioni
differenziali, serie immagine-realtà, e spettacolo come elemento determinante dei
rapporti) che, all’interno del quadro teorico sviluppato da Guy Debord, la società
può essere definita come un sistema o una struttura.

21
Qual è la società di Debord

In questo capitolo si intende ricostruire qual è la società di Debord, ovvero indicare,


da un lato, il contesto in cui egli formula il proprio pensiero e, dall’altro, la forma
storica determinata dell’oggetto della sua riflessione.
Assolvere a questo compito non significa, però, svolgere un’operazione di carattere
biografico, né tantomeno di carattere storico in senso stretto: non si intende
ricostruire gli avvenimenti negli anni che vanno dal 1931 al 1967, cioè dalla nascita
di Debord sino alla pubblicazione de La Société du Spectacle; si cercherà, invece, di
individuare alcuni elementi essenziali di quel periodo, per mostrare in che modo essi
siano confluiti nel pensiero dell’autore francese.
Per svolgere questa operazione, si analizzerà il periodo da tre punti di vista specifici:
il significato di quel momento nella storia dell’economia, lo scenario politico globale
e, infine, il momento storico attraversato dalle avanguardie.

Gli anni d’oro61 e il nuovo stadio del capitalismo

Com’è emerso dal capitolo precedente, la riflessione di Debord sulla società dello
spettacolo non si può separare da una critica della forma economica capitalistica 62.
Ciò perché, da un lato, questa corrisponde alla forma della società in cui Debord vive
e, dall’altro, gli elementi essenziali di quella che lui identifica come società dello
spettacolo sono strettamente connessi con la struttura del capitalismo. Per
comprendere appieno le riflessioni e le critiche contenute ne La Société du Spectacle
occorre dunque indicare lo stato del capitalismo al momento della sua apparizione.

61 Gli anni d’oro è il titolo del capitolo IX del testo Il secolo breve. 1914-91 di E. J. Hobsbawm, che verrà
qui utilizzato come riferimento principale. Per l’edizione consultata: E. J. Hobsbawm, Il secolo breve.
1914 – 1991 (1997), Rizzoli Libri S.p.a., Milano, 2016, pp. 303 e ss.
62 A tal proposito si veda l’articolo di A. Jappe, La critica dello spettacolo è una critica del capitalismo?

Debord interprete di Marx (in Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, a cura
di Stefano Taccone, ombre corte, Perugia, 2014, pp. 61-71): qui Jappe riconduce l’analisi di Debord a
un’interpretazione marxiana delle condizioni del capitalismo dopo il secondo conflitto mondiale.

22
Il periodo che va dalla nascita di Debord, nel 193163, sino alla pubblicazione de La
Société du Spectacle, nel 1967, non può essere considerato omogeneo, anche solo per
il fatto che esso vide quasi dall’inizio alla fine lo svolgersi del secondo conflitto
mondiale e i vent’anni seguenti la sua fine. Il dato che qui ci interessa è invece che,
all’interno di questo stesso periodo, si inscrive quasi interamente una fase di
espansione economica64 con un ritmo mai conosciuto prima d’allora, e i cui anni
vennero definiti in Francia come i «trent’anni di gloria»65 e nei paesi angloamericani
come «il quarto di secolo di Età dell’oro»66. Le trasformazioni che si
accompagnarono a un tale periodo furono sostanziali.
Le prime e più logiche conseguenze dello sviluppo economico furono la crescita
demografica, l’aumento dell’aspettativa di vita (con una media di sette anni) e il
grande incremento della produzione alimentare67. Tuttavia, altri e più significativi
effetti vennero da quella che Hobsbawm chiama «Età dell’oro», poiché cambiarono
radicalmente i modi di vita delle persone.
Se le prime conseguenze elencate caratterizzano ogni fase di espansione economica,
seppure con un ritmo più contenuto, durante il periodo in cui visse Debord ve ne
furono altre che modificarono il paesaggio esistenziale dei soggetti, ovvero le loro
pratiche e gli spazi e i tempi a esse connessi. L’analisi e la ricostruzione di Hobsbawm
mostrano proprio come «le trasformazioni quantitative materiali si riflettessero nei
mutamenti qualitativi della vita»68, cosa che lo stesso Debord non mancò di
osservare: al paragrafo 39, laddove indica il dominio della categoria del quantitativo
nello sviluppo capitalistico, egli scrive che «Questo sviluppo che esclude il
qualitativo è esso stesso sottomesso, in quanto sviluppo, al passaggio qualitativo: lo

63 Un dato biografico forse significativo è che Debord nasca due anni dopo la crisi del ’29, crisi dalla
quale la sua famiglia fu colpita e egli stesso, come si legge in Panegirico: «Sono nato nel 1931 a Parigi.
La fortuna della mia famiglia era a quell’epoca già fortemente compromessa dalla crisi economica
mondiale che era inizialmente apparsa in America, poco tempo prima. E ciò che restava non poteva
durare molto oltre la mia maggiore età, come infatti avvenne. Così dunque, sono nato virtualmente
rovinato». Questo fu forse uno degli elementi che indusse Debord ad avere un atteggiamento critico
nei confronti della società e del sistema economico in cui viveva. Per l’edizione di Panegirico
consultata si veda: G. Debord, Panegirico. Tomo primo e Tomo secondo, traduzione tomo primo di Paolo
Salvadori (1996), traduzione tomo secondo di Michele Bertolini, Lit Edizioni, Roma, 2013, p.17
64 La crisi economica seguente questo periodo arriverà meno di dieci anni dopo, con gli shock

petroliferi di inizio anni ‘70.


65 Ivi., p. 303
66 Ibid.
67 Ivi., p. 306
68 Ivi., p. 340

23
spettacolo significa che esso ha varcato la soglia della propria abbondanza»69.
Per capire allora il significato di questo periodo nella storia economica, e in che modo
una sua comprensione si sia riflessa nel pensiero di Debord, bisogna individuare quei
cambiamenti che hanno determinato un passaggio irreversibile a un nuovo tipo di
società.
Uno di questi è ad esempio la «morte della classe contadina»70, ovvero il fatto che
l’agricoltura e l’allevamento smisero di costituire la base di sussistenza della maggior
parte della popolazione terrestre. Questo dato si collega immediatamente con la
crescente urbanizzazione, che nel corso di trent’anni mutò l’aspetto delle città e in
particolare delle periferie: «[…] le periferie delle città si riempirono di squallidi
palazzoni pieni di appartamenti, che faranno passare alla storia gli anni ’60 come il
decennio più disastroso nella storia dell’urbanizzazione»71. Debord, insieme con
l’Internazionale Situazionista, si dimostrò sensibile a questo tema, partecipando alla
formulazione di concetti come la psicogeografia72 e l’urbanismo unitario73, volti a
ripensare il rapporto con l’ambiente in un modo che non fosse quello imposto dal
modo di produzione. Ne La Société du Spectacle, il VII capitolo è intitolato proprio
L’organizzazione del territorio, in cui si osserva che «l’urbanismo è questa presa di
possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo»74, in quanto esso
è la «tecnica stessa della separazione»75.
Oppure ancora si può citare «una conseguenza […]» che «non fu subito notata,
benché già allora a un giudizio retrospettivo apparisse minacciosa: l’inquinamento e
la degradazione ambientale»76, e sul quale tema Debord riflette nel suo testo La
Planète malade77.

69 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 37


70 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914 – 1981, cit., p. 341
71 Ivi., p. 308
72 La psicogeografia è «lo studio degli effetti precisi che l’ambiente geografico, coscientemente

ordinato o no, esercita direttamente sugli individui» - da International Situationniste [1957 – 1969],
1997, Paris, Fayard, I, p. 13 citato in M. Perniola, L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima
avanguardia del XX secolo, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni, 2013, p. 42
73 L’urbanismo unitario o urbanistica unitaria è «la teoria dell’impiego d’insieme delle arti e delle

tecniche concorrente alla costruzione di un ambiente in legame dinamico delle esperienze di


comportamento» - da I.S., V, p. 43, citato in Ivi., p. 43
74 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 165
75 Ivi., p. 166
76 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, cit., p. 307
77 Testo del 1971, rimasto inedito fino al 2004, pubblicato poi in una raccolta con lo stesso titolo ad

opera di Gallimard.

24
Il dato più rilevante, e che maggiormente ha implicazioni nella riflessione sulla
società dello spettacolo, è però il mutamento delle condizioni di mercato. La crescita
della produzione alimentare e lo sviluppo tecnologico permisero di investire quote
di reddito sempre maggiori su merci diverse da quelle alimentari: «Negli anni ’30,
persino in una nazione ricca come gli Stati Uniti, circa un terzo delle spese familiari
era ancora destinato al cibo, mentre all’inizio degli anni ’80 la quota era scesa a solo
il 13%»78. Nacque così un’economia basata sul consumo di massa79, ed è questo che
definisce essenzialmente lo stadio avanzato del capitalismo su cui Debord si trovò a
riflettere: «Il commercio mondiale di manufatti si moltiplicò di dieci volte nei
vent’anni dopo il 1953»80 e «La gamma di beni e di servizi offerta dal sistema
produttivo e disponibile per loro [per gli operai, ndr.] faceva rientrare nel consumo
quotidiano ciò che in passato era un lusso»81. È la struttura dell’economia basata sul
consumo di merci a tradursi nello spettacolo, che Debord definisce come «una
guerra dell’oppio permanente per far accettare l’identificazione dei beni alle
merci»82.
Lo spettacolo fu dunque l’esito della diffusione di questo stato di benessere legato
alla circolazione e al consumo delle merci, e comportò una ritirata della sinistra
basata non sulla perdita di consensi, ma sul fatto che lo stato d’animo del decennio
degli anni ’50 non era adatto ai cambiamenti83. Infatti, se da un lato l’Età dell’oro fu
caratterizzata dalla quasi estinzione della classe contadina e da un mutamento
generalizzato delle condizioni di vita, esso non significò la scomparsa della classe
operaia84, che «non subì terremoti demografici, almeno fino agli anni ‘80»85.
L’attenuazione del conflitto sociale durante l’Età dell’oro si determinò piuttosto
come l’esito della rottura dell’elemento collettivo della classe operaia, resa possibile
da un lato dalla crescita dei redditi e dal miglioramento delle condizioni di vita
(«Dove i lavoratori scorgevano vie private dal proprio destino di classe, come negli

78 Ivi., p. 316
79 Ivi., p. 332
80 Ivi., p. 317
81 Ivi., p. 314 - 315
82 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 41
83 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, cit., 333
84 Ecco perché Debord considera ancora il proletariato, attraverso i consigli operai, come soggetto

rivoluzionario fondamentale, come si vede chiaramente dal capitolo IV de La Société du Spectacle,


intitolato Il proletariato come soggetto e come rappresentazione.
85 E. J. Hobsbawm Il secolo breve. 1914-1991, cit.., p.355

25
USA, la loro coscienza di classe, benché non assente, non assumeva il valore
dell’unica caratteristica che definiva la loro identità»86) e dall’altro dal venire meno
delle condizioni di socializzazione che avevano caratterizzato i tempi precedenti, in
cui «la vita, per i fini più piacevoli, era qualcosa che si sperimentava
collettivamente»87: «Fino all’invenzione della radio […] tutte le forme di
divertimento al di là di qualche festa privata dovevano essere pubbliche»88; «il
televisore sopprimeva la necessità di andare a vedere la partita di calcio, proprio
come la stessa tv e i videoregistratori avevano soppiantato l’abitudine di andare al
cinema o i telefoni l’abitudine di chiacchierare con gli amici sulla piazza o al
mercato»89.
Tutta la riflessione di Debord può essere letta come una critica del tipo di vita
imposto dallo sviluppo del capitalismo, che apparentemente attenua le
contraddizioni, e tuttavia non giunge mai a eleminarle, anzi le approfondisce: la
società dello spettacolo contro cui egli scrive è una società dominata dalla merce e
dall’isolamento, realizzate per mezzo delle immagini che il televisore, merce
eminente tra le merci spettacolari, diffuse su scala superiore.

La guerra fredda90 e il conflitto ideologico

Il secondo aspetto sotto cui considerare il periodo in cui si inscrive la riflessione di


Debord è quello dello scenario politico internazionale. Il periodo che va dal lancio
delle prime bombe atomiche sino alla caduta dell’URSS, pur non essendo in sé
omogeneo, è stato saldato in un unico contesto a causa della situazione che dominò
la scena della politica internazionale: la Guerra Fredda91. È proprio questo conflitto
a interessarci, nella misura in cui alcuni suoi caratteri sono stati intercettati e
analizzati nelle riflessioni di Debord sulla società dello spettacolo.
Anzitutto bisogna osservare che lo scontro tra le due superpotenze, USA e URSS, era

86 Ivi., p. 360
87 Ivi., p. 361
88 Ivi., p. 360
89 Ivi., p. 361
90 La guerra fredda è il titolo del capitolo VIII de Il secolo breve. 1914-1991 (Ivi., p. 267)
91 Ivi., p. 267

26
uno scontro connotato ideologicamente, che contrapponeva da un lato il capitalismo
e dall’altro il socialismo, ed è proprio questo carattere ideologico che permetterà di
rilevarne le contraddizioni di fondo. A proposito dell’ideologia, Debord osserva che
«I fatti ideologici non sono mai state delle semplici chimere, ma la coscienza
deformata della realtà, e in quanto tali dei fattori reali esercitanti a loro volta una
reale azione deformante»92. Ciò è effettivamente vero per la Guerra Fredda, in cui la
conseguenza dello scontro ideologico fu il clima di paura suscitato da una possibile
distruzione nucleare di massa. A tal proposito, osserva Hobsbawm, che «Entrambe
le superpotenze fecero però ricorso in alcune circostanze alla minaccia nucleare,
quasi certamente senza l’intenzione di metterla in atto»93.
Come l’analisi di Hobsbawm evidenzia, chiamando in causa anche quei momenti in
cui un conflitto nucleare apparve possibile (come nel caso della crisi missilistica
cubana del 1962), un pericolo reale di conflitto aperto non ci fu mai davvero: «La
peculiarità della Guerra fredda fu che, a voler esserre obiettivi, non esisteva alcun
pericolo imminente di guerra mondiale. Ancor meglio: a dispetto della retorica
apocalittica fomentata da ambo le parti, ma specialmente da parte americana, i
governi di entrambe le superpotenze accettarono la divisione mondiale stabilita alla
fine della guerra […]»94.
Il carattere principale del conflitto della Guerra Fredda fu dunque che essa si giocò
sul piano dell’immagine: da un lato quella che l’URSS e gli USA volevano dare di sé
e, dall’altro, quella che volevano dare del proprio nemico. In questo senso la Guerra
Fredda fu eminentemente spettacolare. Due delle sue manifestazioni furono
significative da questo punto di vista: gli «istrionismi radiofonici»95, con cui gli Stati
Uniti invitavano a «ributtare indietro il comunismo»96, e lo «spettacolare lancio di
satelliti spaziali e cosmonauti»97 (Hobsbawm evidenza che il successo sovietico fu
utilizzato dagli americani come conferma della superiorità tecnologica, e quindi della
pericolosità dell’URSS).
Tuttavia, la ragione più profonda per cui la Guerra Fredda fu fondamentalmente

92 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 203


93 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, cit., p. 272
94 Ivi., p. 268
95 Ivi., p. 270
96 Ibid.
97 Ivi., p. 287

27
spettacolare fu che il conflitto ideologico venne utilizzato per tutelare un certo
ordine internazionale, specialmente dagli USA, in cui «l’isteria collettiva
anticomunista rendeva più facile per l’amministrazione presidenziale reperire le
grandi somme di denaro richieste dalla politica americana»98.
Ne La Société du Spectacle, Debord scrive :

«È la lotta dei poteri che si sono costituiti per la gestione dello stesso sistema
socio-economico che si dispiega come la contraddizione ufficiale, appartenente
in realtà all’unità reale; questo su scala mondiale così come all’interno di ogni
nazione»99.

Nella riflessione di Debord, il carattere spettacolare del conflitto dipende dal fatto
che essi i poteri si scontrano in realtà per lo stesso sistema socioeconomico, che è la
struttura dell’ordine internazionale. Da questo punto di vista, ciò che non rende
diverso il socialismo sovietico dal capitalismo americano è che in entrambi casi si
tratta di un sistema di potere separato che gestisce la vita delle persone, ed ecco
perché Debord definisce il loro scontro come «Le false lotte spettacolari delle forme
rivali del potere separato»100.
Secondo Debord, «la radice dello spettacolo è nell’economia divenuta abbondante,
ed è da lì che vengono i frutti che tendono in fin dei conti a dominare il mercato
spettacolare, a discapito delle barriere protezioniste ideologico-poliziesche di un
qualsiasi spettacolo locale con pretese autarchiche»101. Questa riflessione trova
conferma nelle relazioni economiche che pure esistettero, a discapito di ogni
retorica, tra l’URSS e gli USA: «Fatto ancora più rilevante, il commercio tra gli USA
e l’URSS, strangolato a lungo da ambo le parti per ragioni politiche, cominciò a
fiorire tra gli anni ’60 e ‘70»102.
L’incontro in una logica economica di mercato costituisce il punto di contatto tra i
due paesi, la cui opposizione, come rilevano Hobsbawm e Debord, era per lo più
apparente. Tale carattere costituisce il senso della loro comune appartenenza al

98 Ivi., p. 278
99 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 51
100 Ivi., p. 52
101 Ivi., p. 54
102 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, cit., p. 288

28
sistema spettacolare, seppure sotto le due forme che Debord distingue, quella dello
«spettacolare diffuso»103 e quella dello «spettacolare concentrato»104. Il primo, che
«accompagna l’abbondanza di merci, lo sviluppo imperturbato del capitalismo
moderno», corrisponde al modello americano; nel secondo, corrispondente al
modello socialista (sovietico ma anche cinese), «la proprietà burocratica in effetti è
essa stessa concentrata, nel senso che il singolo burocrate non ha rapporti con il
possesso dell’economia globale che attraverso l’intermediario della comunità dei
burocrati […]»105. I due modelli corrispondono a due forme spettacolari del potere
separato, e non a caso Debord definisce il modello sovietico come capitalismo
burocratico106.
In questo senso, le diverse immagini dell’ordine internazionale e il carattere
spettacolare del loro conflitto costituiscono una seconda lente attraverso cui Debord
intercetta i principali aspetti di quella che definisce società dello spettacolo.

L’Internazionale Situazionista come ultima avanguardia del XX secolo

L’ultimo aspetto secondo cui è necessario analizzare il contesto in cui si sviluppa il


pensiero di Debord è quello delle avanguardie: L’Internazionale Situazionista,
movimento all’interno del quale si svolse gran parte della sua formazione e che vide
Debord nel ruolo di leader indiscusso, viene infatti considerata da alcuni studiosi
come «l’ultima avanguardia del XX secolo»107. Ci preoccuperemo qui di indicare due
dei processi fondamentali in cui le avanguardie erano coinvolte, per indicare quei
percorsi concettuali che in esse si andavano sviluppando e mostrare le loro
ripercussioni nel pensiero di Debord. Per fare ciò, i riferimenti saranno le due
avanguardie i cui temi più direttamente confluirono nell’Internazionale Situazionista:
il Lettrismo e Socialisme ou Barbarie.

103 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 60


104 Ivi., p. 60
105 Ivi., p. 58 - 59
106 Ibid.
107 Si veda a tal proposito il già citato testo di Mario Perniola, L’avventura situazionista. Storia critica

dell’ultima avanguardia del XX secolo

29
Il primo dato da cui partire è l’appartenenza del giovane Debord a movimenti
artistici: il suo primo contatto con delle forze rivoluzionarie si caratterizza come
legato all’esperienza estetica. Nel 1951, appena ventenne, Debord si unisce al gruppo
parigino dei «Lettristi», che quell’estate arrivarono a Cannes, città in cui egli era
cresciuto, e li seguì nel loro rientro a Parigi108. In questa esperienza, seppur breve109,
si determinarono le coordinate fondamentali che ritroveremo, in forma radicalmente
politicizzata, nell’Internazionale Situazionista.
Da un lato, è in quest’ambiente che Debord sviluppa la tendenza sovversiva che
caratterizzerà tutta la sua opera, e che costituiva nel Lettrismo uno dei motivi
principali: «Il Lettrismo fondato da Isidore Isou nel 1946 (movimento letterario […])
ha avuto un ruolo provocatorio di opposizione e di eversione anarchica dei vecchi
valori culturali […]»110; dall’altro, il nucleo dell’attività dei lettristi conteneva già una
tendenza alla sua caratterizzazione come politica: «i lettristi passarono infatti tra il
1950 e il 1960, e con l’uscita dalla dimensione del libro e del quadro, in
un’appropriazione del reale […], in un ritorno al concreto, all’immediatezza, alla
fisicità […] dell’ambiente e del corpo»111. Oltre a questi elementi più direttamente
teorici, all’esperienza Lettrista Debord deve anche l’attenzione per alcune pratiche
innovative, come per esempio il cinema senza immagini (il film Hurlements en faveur
de de Sade112 verrà realizzato da Debord proprio nel periodo di appartenenza al
movimento Lettrista nel biennio ’51-52), ma anche altre che confluiranno
direttamente nel programma dell’Internazionale Situazionista, come la dérive e il
détournement 113.

108 R. Ohrt, The master of the Revolutionary Subject: Some Passages from the Life of Guy Debord, in
SubStance. A review of theory and literary Criticism. Special Issue: Guy Debord, Volume XXVIII, The
University of Wisonsin Press, 1999, p. 13
109 Debord, insieme ad altri, uscì dal gruppo dei lettristi nel 1952, costituendosi come Internazionale

Lettrista. Si veda: M. Bandini, L’estetico il politico. Da Cobra all’Internazionale Situazionista 1948/1957,


Editori Associati srl, Ancona-Milano, 1999, p. 37
110 Ivi., p. 31
111 Ivi., p. 33
112 R. Ohrt, The Master of the Revolutionary Subject : Some Passages from the Life of Guy Debord, cit.,

p. 14
113 La deriva consiste nella «tecnica del passaggio rapido attraverso vari ambienti» (M. Perniola,

L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, cit., pp. 42-43), mentre il
détournement consiste nell’ «integrazione delle produzioni attuali o passate delle arti in una
costruzione dell’ambiente» (ivi., p. 47), ovvero in una composizione alternativa di produzioni esistenti
(immagini o discorsi) al fine di conferirgli un significato diverso e rivoluzionario.

30
Come si vede, l’indirizzo preso dal movimento Lettrista conteneva già i nuclei di una
tendenza al superamento dell’arte che ritroviamo annunciata all’interno de La
Société du Spectacle:

«Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che marcarono la fine dell’arte
moderna. Esse sono, sebbene solo in maniera relativamente cosciente,
contemporanee dell’ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario
proletario: e la disfatta di questo movimento, che li lasciava rinchiusi nello stesso
campo artistico di cui avevano proclamato la caducità, è la ragione
fondamentale della loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono al
contempo storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione, che
costituisce anche per ciascuno la parte più rilevante e radicale del proprio
apporto, appare l’insufficienza della loro critica, sviluppata dall’uno come
dall’altro da una sola parte. Il dadaismo ha voluto sopprimere l’arte senza
realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l’arte senza sopprimerla. La
posizione critica elaborata a partire dai situazionisti ha mostrato che la
soppressione dell’arte e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di
uno stesso superamento dell’arte»114.

Questo volgimento verso il reale, che aveva trovato espressione in ambito lettrista
nell’attenzione al vissuto e al ruolo svolto al suo interno dalla creazione, avrebbe
dovuto dunque indirizzare verso una prassi che fosse direttamente azione politica,
non mediata dal meccanismo artistico, considerato ormai giunto al suo termine: il
gruppo di lettristi che insieme a Debord produce il bolletino Potlacht, «nuovo gruppo
di lettristi radicali, sceglie infatti di “vivere” la rivoluzione culturale, invece di
produrre opere, anche d’avanguardia: “Sperimentare, nella natura del possibile,
forme di architettura e regole di condotta” […]»115. La mancata politicizzazione del
movimento sarebbe dunque alla base della scissione di questo gruppo dal resto dei
lettristi, e del loro costituirsi prima come Internazionale Lettrista116 e
successivamente come Internazionale Situazionista. In entrambi i gruppi, o meglio in
entrambe le forme assunte dal gruppo di rivoluzionari capeggiato da Debord, si sentì
l’eco dell’opera del sociologo marxista Henri Lefevbre che, con le sue opere, tra le

114 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., pp. 185 - 186


115 M. Bandini, L’estetico il politico. Da Cobra all’Internazionale Situazionista 1948/1954, cit., p. 37
116 Ibid.

31
quali menzioniamo Critique de la vie quotidienne (1946), aveva posto attenzione alla
tematica della trasformazione della vita quotidiana: si approfondiscono dunque
quegli elementi che costituiranno la base di riflessione su cui verranno costruiti i
concetti di psicogeografia, urbanismo unitario e, più importante di tutti, creazione
di situazioni.
La creazione di situazioni rappresenta il cardine concettuale dell’attività
dell’Internazionale Situazionista, racchiudendo in sé l’antitesi di ciò che è lo
spettacolo: se quest’ultimo è infatti passività consumabile e precostituita o
standardizzata, la situazione è invece «un momento della vita, concretamente e
deliberatamente costruito per mezzo dell’organizzazione collettiva di un ambiente
unitario e di un gioco di avvenimenti»117: in questo senso, la situazione rappresenta
una risposta alla questione dell’alienazione.
Il modo in cui la riflessione di Debord sullo spettacolo costituisca una critica
dell’alienazione nella società capitalistica sarà approfondito più avanti nel corso di
questo scritto. In questo momento, essa ci interessa perché ci consente di individuare
un’altra prospettiva di riflessione che Debord intercetta in un’avanguardia, ovvero
la questione della teoria marxista sviluppata da Socialisme ou Barbarie. Una critica
del vissuto e una sua comprensione sono inscindibili da una riflessione su ciò che
definisce il campo delle possibilità della vita e dell’attività umana, e quindi anche sul
sistema economico in cui essa si sviluppa. In quegli anni, gran parte delle teorie
rivoluzionarie si incardinavano intorno a riflessioni sul marxismo e, in particolare,
quelle dell’Internazionale Situazionista e di Socialisme ou Barbarie, nell’analisi di
Stephen Hastings-King, sono riconducibili alla crisi dell’immaginario marxista118.
Socialisme ou Barbarie era nato nel 1949, a Parigi: «Nell’emergere europeo delle
nuove sinistre, esso si inserisce nel dibattito di ricerche dialettiche che
l’intellighenzia neomarxista francese del periodo teneva, oltre che su “Les Temps
Modernes, anche sulla rivista “Arguments” […]»119. Debord frequentò attivamente
il gruppo nel biennio ’60-61, e una convergenza di prospettive si può rintracciare sia
nella considerazione del socialismo stalinista come una forma di capitalismo

117 M. Perniola, L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, cit., p. 45
118 S. Hastings-King, L’Internationale Situationniste, Socialsime ou Barbarie, and the Crisis of the
Marxist imaginary, in SubStance. Special Issue: Guy Debord, cit., pp. 26 e ss.
119 M. Bandini, L’estetico il politico. Da Cobra all’Internazionale Situazionista 1948/54, cit., p. 44

32
burocratico120, che nel ruolo di unica forza realmente rivoluzionaria riconosciuto al
proletariato, e della forma di democrazia-diretta dei consigli operai (questi ultimi,
centrali ne La Société du Spectacle, appaiono già nel pamphlet di Claude Lefort
L’insurrection Hongroise, in cui il membro di Socialisme ou Barbarie elabora delle
riflessioni sul ruolo della classe lavoratrice nel corso della Rivoluzione Ungherese):
«Lefort sosteneva che la caratteristica centrale e maggiormente rivoluzionaria della
rivolta fosse il ruolo dei lavoratori di fabbrica, che iniziarono quasi immediatamente
a organizzare dei consigli diretti democratici per amministrare la vita di tutti i
giorni»121.
I consigli operai rappresentavano la realizzazione pratica del progetto rivoluzionario
di riappropriazione dell’attività e del vissuto che era stata teorizzata nelle esperienze
delle altre avanguardie, e si costituiva come un’azione direttamente politica.
Tuttavia, questo significativo punto di contatto non elimina però la profonda
distanza tra le due posizioni: «La più visibile incommensurabilità è che Debord e
SB122 non elaboravano il problema dell’alienazione nello stesso modo. Da questa
divergenza, a ogni modo, emersero nozioni fondamentalmente diverse del
cambiamento sociale, della rivoluzione e del socialismo. Per Debord, la situazione
paradigmatica attraverso cui si immaginava il problema era la relazione dello
spettatore allo spettacolo»123.
La comprensione del pensiero di Debord passa da una considerazione unitaria della
sua opera teorica e della sua concezione della prassi rivoluzionaria: il marxismo
rappresenta nel suo pensiero il fondamento per una critica della società capitalistica,
il cui scopo è una metamorfosi della vita quotidiana nel suo costituirsi come insieme
di attività, eventi e situazioni. Le avanguardie, prime tra tutte il Lettrismo e
Socialisme ou Barbarie, rappresentarono i luoghi di gestazione124 dei nuclei
concettuali a partire dai quali si svilupperà la sua opera.

120 Si tratta di una concezione ereditata dalla revisione trotskista del marxismo, come sia Hastings-
King che Bandini evidenziano.
121 S. Hastings-King, L’Internationale Situationniste, Socialsime ou Barbarie, and the Crisis of the

Marxist imaginary, in SubStance. Special Issue: Guy Debord, cit., pp. 29


122 SB: Socialisme ou Barbarie, ndr
123 Ivi., p. 38
124 Non a caso Gianfranco Marelli riflette sulla relazione tra l’Internazionale Situazionista e le altre

avanguardie in un paragrafo che, inserito nel ciclo vitale di un’avanguardia, rappresenta il momento
della germinazione (G. Marelli, Una bibita mescolata alla sete, BFS Edizioni, Pisa, 2015 p.39)

33
Sezione seconda: lo spettacolo

In questa seconda sezione cercheremo di chiarire il significato del secondo termine


dell’espressione “società dello spettacolo”. Non esiste tuttavia, una definizione unica
e univoca di Spettacolo, al punto che il termine sembra assumere in momenti diversi
significati diversi. La nostra ricerca non è quindi indirizzata ad un’analisi filologica
del testo, ma è piuttosto volta a una ricostruzione della nozione di spettacolo nella
sua struttura puramente filosofica.
Per fare ciò, affronteremo in capitoli distinti i nuclei concettuali fondamentali del
concetto di spettacolo: in primis, la separazione come logica del funzionamento della
società dello spettacolo; successivamente, la merce come origine dello spettacolo;
infine, l’immagine, come organo dello spettacolo.

34
La separazione, logica della società dello spettacolo

La separazione come forma di alienazione

Il nucleo concettuale intorno al quale si costituiscono le definizioni di Spettacolo che


possono essere desunte dalla prima parte de La Société du Spectacle è dato dalla
nozione di séparé125. La separazione costituisce la logica essenziale del
funzionamento della società dello Spettacolo e una critica di tale società è, quindi,
una critica della separazione che mette in atto; essa ha come obiettivo primario
l’esplicitarne i caratteri.
Per assolvere a questo compito è necessario, anzitutto, ricostruire alcune delle radici
teoriche da cui questo concetto proviene. Il concetto di separato infatti non nasce dal
nulla, bensì costituisce uno sviluppo del problema dell’alienazione così com’era stato
posto e affrontato da Marx: chiarire questa provenienza è fondamentale per averne
una comprensione adeguata.
Del filosofo tedesco, Debord riprende le analisi sul concetto di estraniazione, legata
da Marx all’attività lavorativa; tuttavia, vedremo come il filosofo francese individua
un nuovo stadio dell’alienazione che, nella fase attuale dello sviluppo della società
capitalista, oltrepassa la sfera del lavoro.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx aveva dedicato un capitolo al
lavoro estraniato, del quale aveva descritto quattro determinazioni.
In particolare, egli aveva individuato che nel lavoro estraniato «l’operaio si viene a
trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo»126.

125 Separato;
126 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004 p. 69. La
scelta di studiare l’alienazione all’interno dei Manoscritti è data dal fatto che in questo testo essa ha
una formulazione filosoficamente chiara. Nelle opere successive, sebbene l’alienazione permanga
come problematica, il linguaggio di Marx tende sempre più a identificarla con la divisione del lavoro.
Al netto della differenza semantica, che in un primo momento è più orientata verso una categoria
filosofica e in un secondo verso una categoria economico-politica, rimangono le determinazioni e i
significati che tale problematica ha rispetto all’organizzazione dell’economia capitalista. Per una
panoramica sullo sviluppo del problema dell’alienazione nel pensiero marxiano, si consiglia la lettura
di L. Parinetto, Teorie dell’alienazione. Hegel, Feuerbach e Marx, a cura di Dario Borso, ShaKe Edizioni,
Milano Rimini, 2012, pp. 129 - 174

35
Il primo carattere dell’alienazione consiste nel fatto che il prodotto del lavoro si
presenta come estraneo a colui che lo produce.
Il secondo carattere coinvolge invece l’attività produttiva stessa: «l’alienazione non
si mostra soltanto nel risultato, ma anche nell’atto della produzione, entro la stessa
attività produttiva»127. Per Marx è la stessa attività lavorativa a essere alienata
all’interno del sistema di produzione capitalistico, e ciò in virtù del fatto che essa
non appartiene al lavoratore, ma a un altro, il cosiddetto datore di lavoro. In questo
senso, nel lavoro estraniato avviene un’alienazione di sé: «[…] il lavoro non è suo
proprio, non appartiene a sé stesso, ma ad un altro. […] così l’attività dell’operaio
non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé»128. Il
lavoro domina l’operaio come una forza esterna, separata dalla sua attività e fuori
del controllo del suo volere: «il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al
suo essere, e quindi nel lavoro egli non si afferma, ma si nega»129. Poco più avanti il
filosofo tedesco chiarirà il senso di questa frase, sottolineando come il lavoro sia solo
lavoro forzato, nella misura in cui è necessario alla sopravvivenza e non rappresenta
qualcosa che provenga direttamente dall’operaio. Rispetto a quest’ultimo il lavoro si
pone come estraneo e opprimente: «Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente
presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro»130. L’attività lavorativa è, infatti, al
servizio di chi possiede i mezzi di produzione e non può essere vissuta dall’operaio
come proveniente da sé: egli lavora direttamente per un altro e solo indirettamente
per sé, e solo nella misura in cui il lavoro è necessario alla sua sopravvivenza.
Da questa seconda determinazione del lavoro alienato ne discende una terza,
secondo la quale un esito dell’attività estraniata è la perdita della propria umanità.
Marx intende per “umanità” ciò che è proprio dell’uomo in quanto membro della
specie umana, ragion per cui la perdita dell’umanità significa la perdita della
relazione naturale con la specie: «Poiché il lavoro estraniato rende estranea all’uomo
1) la natura e 2) l’uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale,
rende estranea all’uomo la specie»131. Tale estraneità dalla specie si realizza con la
perdita nell’uomo del suo carattere specificamente umano, ovvero quello

127 Ibid.
128 Ivi., p. 72
129 Ivi., p. 71
130 Ibid.
131 Ivi., p. 74

36
dell’attività libera e cosciente132, poiché questa viene sottomessa alla necessità di
sopravvivere: diviene cioè un semplice mezzo per la sua esistenza fisica.
Tale estraniazione dell’uomo dalla sua umanità significa immediatamente
l’estraniazione dell’uomo dall’uomo: «Se l’uomo si contrappone a sé stesso, l’altro
uomo si contrappone a lui»133. Infatti, così come l’individuo si ritrova estraneo a sé
stesso, cioè non riconosce l’uomo che è in lui, allo stesso modo egli non può
riconoscere l’altro uomo.
Le quattro determinazioni trovate da Marx descrivono l’alienazione sotto quattro
aspetti che si implicano reciprocamente: nel lavoro alienato avvengono
l’estraniazione dell’uomo dall’oggetto del lavoro, l’estraniazione dell’uomo da sé
stesso, l’estraniazione dell’uomo dalla propria umanità e l’estraniazione dell’uomo
dagli altri uomini; esse non sono altro che separazioni, realizzate per il tramite del
lavoro, in ognuna delle quali si realizza una forma del progressivo isolamento degli
individui.

La separazione e il passaggio dall’attività alla contemplazione

La comprensione della categoria dell’alienazione marxiana si realizza in Debord


attraverso anche una lettura di György Lukács134, che spiega come la separazione
degli individui nel processo lavorativo conduca a una reificazione della loro
coscienza:

«Per effetto del processo lavorativo le qualità e peculiarità umane del lavoratore
appaiono sempre più come mere fonti di errori di fronte al funzionamento
calcolato in anticipo di quelle leggi parziali esatte. […] egli viene invece inserito
come una parte meccanizzata in un sistema meccanico, un sistema che egli trova
bell’e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da lui secondo
leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà.
Questa assenza del volere viene accentuata col fatto che […] l’attività del
lavoratore perde sempre più il suo carattere di attività, trasformandosi in un

132 Ibid.
133 Ivi., p76
134 Per un approfondimento del rapporto tra Debord, Lukács e Marx si veda il già citato testo di

Anselm Jappe, Guy Debord.

37
comportamento contemplativo»135.

Lukàcs descrive così la nascita di un rapporto contemplativo nei confronti del


mondo, rapporto che sorge e si sviluppa all’interno della dinamica della produzione.
Queste premesse teoriche condurranno Debord alla concezione del concetto di
separazione come logica stessa del funzionamento capitalistico, che si sviluppa in
società dello spettacolo. Il filosofo francese riprende in modo chiaro la questione del
progressivo isolamento degli individui e del suo legame con il modo di produzione.
Nel paragrafo 28 de La Société du Spectacle leggiamo:

«Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare


dell’isolamento. L’isolamento fonda la tecnica, e il processo tecnico isola a sua
volta. Dall’automobile alla televisione, tutti i beni selezionati dal sistema
spettacolare sono anche le sue armi per il rinforzo costante delle condizioni di
isolamento delle “folle solitarie”. Lo spettacolo ritrova sempre più concretamente
i propri presupposti»136.

In questo senso, lo Spettacolo è un’organizzazione della società che produce


isolamento e che su questo isolamento si basa. L’isolamento degli individui è
prodotto tramite il processo tecnico che si basa sull’isolamento, ovvero sulla catena
di montaggio di stampo taylorista. La crescita della produttività si basa
sull’«incessante raffinamento della divisione del lavoro e della parcellizzazione dei
gesti»137, per via delle quali gli individui sono separati già all’interno del processo
produttivo: «Con la separazione generalizzata del lavoro e del suo prodotto, si perde
ogni punto di vista unitario sull’attività svolta, ogni comunicazione personale diretta
tra i produttori»138. Separare i gesti e dividere il lavoro significa renderlo sempre più
individuale e sempre più identico a sé stesso, isolando così il lavoratore, da un lato,
dagli altri lavoratori e, dall’altro, dalle altre fasi della produzione: è per questo che
l’oggetto prodotto diviene estraneo, poiché il lavoratore non partecipa a tutte le fasi
della sua produzione, bensì lo incontra come qualcosa di realizzato da una forza

135 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, trad. di Giovanni Piana, Arnoldo Mondadori Editore, 1973,
p. 116
136 G. Debord, La Société du Spectacle, pp.29 - 30
137 Ivi., p. 28
138 Ibid.

38
produttiva esterna.
Inoltre, i beni che vengono prodotti fungono da strumento per un isolamento fuori
dell’attività lavorativa, determinando il rafforzamento di quelle che Debord chiama
folle solitarie, nelle quali possiamo riconoscere i gruppi di individui le cui comunità
e il cui senso critico si sono dissolti lungo il movimento di crescita delle forze
produttive139.
Considerata in questi elementi, il senso della riflessione di Debord non oltrepassa
quello della riflessione marxiana, poiché in questi termini il filosofo francese ha
ricostruito il legame tra alienazione e modo di produzione. La parte fondamentale
della riflessione sul separato è però quella che lo determina come un nuovo stadio
dell’alienazione, un suo sviluppo ulteriore.

Il nuovo stadio dell’alienazione e la forma concreta dell’astrazione

La perdita di unità legata al lavoro estraniato è infatti solo l’origine dello Spettacolo.
Nel paragrafo 29 de La Socièté du Spectacle Debord afferma che «l’astrazione di ogni
lavoro particolare e l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono
perfettamente nello spettacolo, il cui modo d’essere concreto è giustamente
l’astrazione»140. Nel lavoro estraniato, per il sistema di produzione capitalistico ciò
che conta è la forza lavoro, ovvero il lavoro preso nel suo carattere astratto. La
divisione del lavoro interrompe i caratteri essenziali di un’attività particolare, in
quanto la frammenta nelle operazioni minime che la compongono. Questo significa
che chi viene impiegato nel processo produttivo non vi è impiegato in quanto in
grado di realizzare un oggetto particolare, ma in quanto in grado di eseguire
un’operazione semplice. Ciò permette l’intercambiabilità dei lavoratori: in altre
parole il lavoro diviene lavoro astratto, che può essere svolto tanto da un operaio
quanto da un altro. E dunque tutta la produzione appare come astratta, poiché non
è l’esito del lavoro dell’individuo, bensì dell’organizzazione produttiva in generale.
Ora, secondo Debord, queste astrazioni si traducono nello Spettacolo, che ha come
modo d’essere concreto l’astrazione. Per comprendere il senso di questa

139 Ibid.
140 Ivi., p. 30

39
affermazione, bisogna introdurre l’elemento che permette all’analisi di Debord di
fare un passo in avanti rispetto a quella marxiana: nella società dello Spettacolo
diviene infatti centrale l’elemento dell’immagine.
L’introduzione dell’elemento dell’immagine non rompe assolutamente con le
considerazioni raggiunte da Marx e da Lukàcs, ma ne costituisce anzi uno sviluppo:
nell’ultimo paragrafo di questa prima parte, accingendosi a passare alla seconda
parte Debord scriverà che «lo spettacolo è il capitale a un tale grado di
accumulazione che esso diviene immagine»141. Precisamente, così come nell’analisi
marxiana il capitale – e, come vedremo, la merce, da cui esso ha origine - era
l’elemento concreto oggettivo dietro il quale si celano dei rapporti sociali, nell’analisi
di Debord tale ruolo è svolto dall’immagine142.
La consapevolezza che l’autore francese aveva della continuità della propria
riflessione con la riflessione marxiana emerge ancora di più nel paragrafo 32, in cui
scrive:

«Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta


dell’alienazione. L’espansione economica è principalmente l’espansione di
questa produzione industriale precisa. Ciò che cresce con l’economia che si
muove per sé stessa non può essere che l’alienazione che era giustamente
contenuta nel suo nucleo originale»143.

Debord stesso riconosce dunque l’alienazione della fase spettacolare come uno
sviluppo dell’alienazione dell’economia capitalistica. E, come abbiamo detto,
l’elemento che porta a un nuovo stadio l’estraniazione è appunto l’immagine.
L’immagine e le possibili relazioni con essa costituiscono due dei caratteri
fondamentali della nozione di separato, su cui stiamo conducendo la nostra analisi.
La separazione assume qui una nuova forma rispetto alle quattro determinazioni del
lavoro estraniato che abbiamo ricostruito nell’analisi marxiana: «La separazione fa
essa stessa parte dell’unità del mondo, della prassi sociale globale che si è scissa in
realtà e in immagine»144. La separazione della società dello Spettacolo è dunque

141 Ivi., p. 32
142 Come abbiamo già indicato, nel paragrafo 2 Debord dirà chiaramente che «Lo spettacolo […] è
[…] un rapporto sociale mediato da immagini». Ivi., p. 16
143 Ibid.
144 Ivi., p. 18

40
quella messa in atto dall’immagine, che si distacca dalla realtà andando a formare
un ambito fenomenico distinto:

«Le immagini che si sono distaccate da ogni aspetto della vita si fondono in un
corso comune, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà
considerata parzialmente si dispiega nella sua propria unità generale in quanto
pseudo-mondo a parte, oggetto della sola contemplazione. La specializzazione
delle immagini del mondo si ritrova, realizzata, nel mondo dell’immagine
automatizzata, dove il mentitore ha mentito a sé stesso. Lo spettacolo in
generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-
vivente»145.

Nel paragrafo 2 viene così descritto il movimento della separazione, dato dal
distaccarsi delle immagini dalla vita e dal loro riunificarsi come mondo a parte.
Tuttavia, in questo paragrafo emergono altri elementi fondamentali nella
comprensione della separazione messa in atto dalle immagini: anzitutto il modo
essenziale di relazione con l’immagine, ovvero quello della contemplazione; in
secondo luogo il suo carattere automatizzato, che realizza una specializzazione delle
immagini del mondo; e infine la considerazione dello spettacolo come movimento
del non-vivente, ovvero inversione concreta della vita.
Comprendere in cosa consiste la nozione di separato significa comprenderne questi
tre aspetti ed è dunque con una riflessione su di essi che chiuderemo l’analisi di
questa prima parte.
L’aspetto più semplice da chiarire e anche più indipendente dagli altri due è quello
del carattere automatizzato dello spettacolo, che si traduce in una specializzazione
delle immagini del mondo. Tale specializzazione significa che la produzione delle
immagini è prerogativa di una parte della società, cioè di un settore che concentra
ogni sguardo e ogni coscienza146. Il fatto che questo settore è separato implica,
secondo il filosofo francese, che esso è il luogo dello sguardo abusato e della falsa
coscienza147, ovvero di una mistificazione ideologica della realtà: sottolineare che la
gestione delle immagini appartiene a una parte della società serve a Debord per

145 Ivi., pp. 15 - 16


146 Ivi., p. 16, 3
147 Ibid.

41
indicare nello Spettacolo uno degli strumenti della dominazione di classe, adoperato
per legittimare l’ordine economico e sociale vigente. Nel paragrafo 23 egli affermerà
che:

«È la più vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è


alla radice dello spettacolo. Lo spettacolo è così un’attività specializzata che
parla per l’insieme delle altre. È la rappresentazione diplomatica della società
gerarchica davanti a sé stessa, in cui ogni altra parola è bandita. Ciò che vi è di
più moderno è anche il più arcaico»148

Esso è dunque uno strumento di sottomissione, nuovo sviluppo della sottomissione


che l’economia capitalista aveva già realizzato: «Lo spettacolo si sottomette gli
uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi»149, avendo
esteso all’ambito del vissuto la propria attitudine contemplativa.
A questo punto ci si può chiedere quale sia il senso della contemplazione all’interno
della società dello spettacolo. Rispondere a questa domanda significa chiarire come
lo spettacolo realizzi la sua sottomissione degli uomini e in che cosa tale
sottomissione consista.
La risposta a questa domanda ci permette di analizzare il secondo carattere della
separazione operata dallo spettacolo, ovvero il suo avere come modo di relazione
essenziale la contemplazione. È infatti la riduzione della vita umana a mera
contemplazione a costituire l’essenza della dominazione spettacolare.
Abbiamo già chiarito che la sottomissione messa in opera dallo Spettacolo non è
altro che la sottomissione messa in opera dall’economia, intesa come settore
separato, sviluppatasi a un nuovo stadio. Nel paragrafo17 Debord descrive il
passaggio dalla prima fase della dominazione dell’economia alla seconda:

«La prima fase della dominazione dell’economia sulla vita sociale aveva
provocato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente
degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della
vita sociale da parte dei risultati accumulati dall’economia conduce a uno
scivolamento generalizzato dall’avere al sembrare, da cui ogni avere effettivo

148 Ivi., p. 25
149 Ivi., p. 22

42
deve prendere il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima […]»150

Nella fase attuale dello sviluppo della società vi è dunque l’affermazione della
categoria dell’apparenza; questa stessa affermazione implica come presupposto il
dominio della contemplazione. Bisogna ora spiegare come questo dominio si sia
realizzato.
Secondo Debord il dominio della contemplazione è l’esito dello sviluppo del pensiero
filosofico:

«Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale


che fu una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere; allo
stesso modo esso si fonda sull’incessante dispiegamento della razionalità tecnica
precisa che è tratta da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, esso
filosofizza la realtà. È la vita concreta di tutti che è degradata in universo
speculativo»151.

Per Debord è dunque il pensiero occidentale in quanto razionalista e dominato dalla


categoria del vedere a costituire uno dei fondamenti dello spettacolo, il quale
proietta sul reale caratteri che provengono da questo pensiero.
Tale proiezione ricostituisce in forma mondana quella che era stata l’illusione
religiosa: «La tecnica spettacolare non ha dissipato le nuvole religiose in cui gli
uomini avevano posto i propri poteri distaccati da loro: essa li ha solamente legati
ad una base terrestre […]. Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei poteri
umani in un aldilà; la scissione compiuta all’interno dell’uomo»152.
Come abbiamo accennato nella prima sezione di questo scritto, l’esistenza di
immagini in serie determina il carattere dello spettacolo che lo lega alla
contemplazione e fonda, quindi, anche il suo contenuto religioso, ovvero quegli

150 Ibid.
151 Ivi., p. 24
152 Riprendiamo qui il già menzionato legame con Feuerbach, altro autore il cui contributo in merito

al concetto di alienazione è fondamentale, sia in generale che nello specifico del pensiero di Debord.
In tal senso è interessante che Feuerbach, la cui teoria dell’alienazione è una teoria del trasferimento
delle capacità umane in Dio (e quella di Debord è una teoria del trasferimento dell’attività umana
nello spettacolo), sostenga che la differenza della religione dalla filosofia consiste appunto
nell’immagine: «La differenza essenziale della religione dalla filosofia si fonda in verità sull’immagine.
La religione è essenzialmente drammatica» - in L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, Editori
Laterza, Bari, 2007, p.5

43
attributi che esso ha in comune con la religione. Essi permettono a Debord di usare
frasi spiccatamente evocative di questa dimensione: «La separazione è l’alfa e
l’omega dello spettacolo»153, dirà il filosofo francese nel paragrafo 25.
Da uno di questi caratteri religiosi possiamo dedurre in cosa il carattere
contemplativo costituisce la base dell’inversione della vita che lo spettacolo realizza.
Nel paragrafo 12, Debord scrive:

«Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e


inaccessibile. Esso non dice niente di più “ciò che appare è buono, ciò che è buono
appare”. L’attitudine che esso esige per principio è questa accettazione passiva
che esso ha già ottenuto in pratica per il suo modo di apparire senza repliche,
per il suo monopolio dell’apparenza.»154

È dunque il fatto di monopolizzare l’apparenza che permette allo spettacolo di porsi


come il «contrario del dialogo»155, come afferma Debord nel paragrafo 18.
Riportiamo di seguito il testo del paragrafo, in cui il filosofo francese descrive
esattamente cosa avviene con l’affermarsi dello spettacolo:

«Là dove il mondo reale si trasforma in semplici immagini, le semplici immagini


diventano degli esseri reali, e le cause efficienti di un comportamento
ipnotizzato. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere tramite differenti
mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente raggiungibile,
trova normalmente nella vista il suo senso privilegiato che in altre epoche fu il
tatto; il senso più astratto, e più mistificabile, corrisponde all’astrazione
generalizzata della società attuale; Ma lo spettacolo non è identificabile al
semplice sguardo, quand’anche combinato all’ascolto. Esso è ciò che sfugge
all’attività degli uomini, alla riconsiderazione e alla correzione della loro opera.
Esso è il contrario del dialogo. Ovunque ci sia rappresentazione indipendente, lo
spettacolo si ricostituisce.»156

Il senso della separazione come contemplazione emerge qui chiaramente. Lo


spettacolo si pone davanti all’individuo come rappresentazione indipendente, sciolta

153 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 27


154 Ivi., p. 20
155 Ivi., p. 23
156 Ibid.

44
dall’attività e dall’intervento umano. In questo modo, più il mondo si trasforma in
spettacolo, più sfugge all’azione dell’uomo, più gli diviene estraneo.
Per capire appieno il senso dell’alienazione così espresso e la sua prossimità con la
riflessione marxiana, bisogna sottolineare il valore che Marx e Debord attribuiscono
all’attività, che essi considerano la vera essenza della vita umana; nei Manoscritti
Marx chiede: «[…] e infatti che altro è la vita se non attività?»157; e Debord affermerà
che «Non può esserci libertà fuori dell’attività»158.
Il carattere contemplativo dello spettacolo rappresenta una forma di alienazione
proprio in quanto espropria l’individuo della propria attività, così come faceva il
lavoro estraniato: «[…] nella cornice dello Spettacolo ogni attività è negata […]»159
e ciò proprio perché l’attività viene nello spettacolo sostituita dalla contemplazione.
Il paragrafo 30 troviamo una spiegazione chiara di come ciò avvenga:

«L’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il


risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più egli contempla,
meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno,
meno egli comprende la propria esistenza e il proprio desiderio. L’esteriorità
dello spettacolo rispetto all’uomo che agisce appare nel fatto che i suoi gesti non
appartengono più a lui, ma a un altro che glieli rappresenta. Ecco perché lo
spettatore non si sente a casa da nessuna parte, perché lo spettacolo è
ovunque»160.

Dunque la società dello spettacolo mette in campo un’alienazione che coinvolge il


vissuto degli individui. Ridotti a semplici spettatori, i soggetti vengono espropriati
della propria vita, che si allontana in una rappresentazione161. Possiamo dire che tale
espropriazione significa la riduzione dei soggetti a meri fattori della produzione: se
nel lavoro estraniato infatti il lavoratore è ridotto alla sua semplice forza lavoro, nello
spettacolo l’individuo è ridotto a fattore della produzione, poiché esaurisce la sua
attività nel lavoro e fuori di questo è mera passività, forza lavoro inerme in attesa di
rimettersi all’opera nel ciclo produttivo.

157 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 72


158 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 29
159 Ibid.
160 Ivi., p. 31
161 Ivi., p. 15

45
Lo stadio superiore raggiunto dall’alienazione consiste nel fatto che essa si infiltra
nella vita del lavoratore fuori del tempo di lavoro e, poiché tale alienazione è
determinata dal modo di produzione, è il modo di produzione ad appropriarsi della
vita dell’operaio: «Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è insieme il risultato e
il progetto del modo di produzione attuale […], l’affermazione onnipresente della
scelta già fatta nella produzione. Forma e contenuto dello spettacolo sono
identicamente la giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema
esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in
quanto occupazione della parte principale del tempo fuori della produzione
moderna»162.
La critica dello spettacolo di Debord supera dunque l’analisi dello spettacolo che lo
coglie come mera apparenza e, approfondendo le forme dell’alienazione che esso
determina, ne chiarisce il carattere di negazione visibile della vita, di negazione della
vita che è divenuta visibile163 nella forma dell’immagine.
Alla fine della nostra riflessione abbiamo dunque ricostruito il concetto di separato
come uno sviluppo del tema dell’alienazione, già affrontato in Marx per quanto
riguarda il lavoro estraniato; abbiamo dunque mostrato in cosa il separato costituisce
un nuovo sviluppo, una nuova fase della suddetta alienazione; nel far ciò ci siamo
confrontati con i tre caratteri fondamentali che gli sono propri, ovvero la
contemplazione legata alla scissione tra realtà e immagine, il suo essere determinato
dal monopolio dell’apparenza da parte di un settore della società, il suo carattere di
negazione della vita.
Il senso della società dello spettacolo non si esaurisce però in queste determinazioni.
L’analisi di Debord avrà modo di ricondurre lo spettacolo alla sua sorgente, che sarà
oggetto dell’analisi della parte successiva e che è la matrice dello sviluppo della
coscienza del consumatore come spettatore: la merce164.

162 Ivi., p.17 - 18


163 Ivi. p. 19
164 Il titolo del secondo capitolo de La Société du Spectacle è la marchandise comme spectacle. Ivi., p. 33

46
La merce, origine dello spettacolo

Il secondo nucleo concettuale da analizzare si costituisce a partire da una riflessione


sulla struttura della merce: la separazione di cui abbiamo discusso nel precedente
capitolo è infatti una conseguenza dello sviluppo del sistema economico basato sullo
scambio di merci165, al punto che Debord potrà definire lo spettacolo come «il
momento in cui la merce è arrivata all’occupazione totale della vita sociale»166. Il
nostro obiettivo in questa sede sarà quello di ricostruire come la merce contenga già
nella sua struttura quelle determinazioni che apparterranno allo spettacolo e in che
modo essa si evolva proprio nello spettacolo.

La struttura fondamentale della merce

In primo luogo bisogna esplicitare la struttura della forma merce cui si rifà Debord:
essa è costituita da un valore d’uso e da un valore di scambio. Una merce è infatti
un oggetto che per le sue proprietà soddisfa bisogni umani, ovvero un valore d’uso167;
tuttavia, questa proprietà non è sufficiente affinché si possa parlare di merce:
bisogna infatti che l’oggetto possa essere scambiato in una certa proporzione con
altri oggetti e, quindi, essere un valore di scambio168. Questi due caratteri implicano
che un oggetto-merce può essere considerato sotto due aspetti: quello qualitativo,
per ciò che riguarda il valore d’uso (poiché questo dipende dalle qualità dell’oggetto)
e quello quantitativo per ciò che riguarda il valore di scambio (poiché legato alle
quantità scambiabili).
Tali aspetti, che si presentano a prima vista come complementari, sono in realtà in

165 Si veda a tal proposito la puntuale analisi di Anselm Jappe in A. Jappe, Guy Debord, cit., pp.11-25
166 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 39
167 K. Marx, Il Capitale, a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi, UTET, 1974, ristampato per conto

di De Agostini Libri S.p.A., Roma, 2013, Volume primo, p. 107. Ancora una volta le radici concettuali
alla base del pensiero di Debord sono da rintracciare nell’opera di Karl Marx.
168 Ivi., p. 109

47
conflitto tra loro: l’aspetto quantitativo deve necessariamente astrarre da quello
qualitativo, poiché il valore di scambio pone oggetti di generi diversi come dotati di
uguale utilità e, dunque, come equivalenti; allo stesso modo, secondo l’aspetto
qualitativo due oggetti diversi dovrebbero essere incomparabili, in quanto
espressioni di valori d’uso diversi che non possono trasformarsi l’uno nell’altro.
Debord rileva questa conflittualità e riconduce la nascita dello spettacolo alla
vittoria del valore di scambio: «[…] Il valore di scambio è il condottiero del valore
d’uso, che finisce per condurre la guerra per conto proprio»169.
Prima di mostrare cosa significhi per la società la vittoria del valore di scambio, è
importante illustrare in che senso essa costituisca l’elemento che induce l’evoluzione
alla società dello Spettacolo: dobbiamo cioè illustrare in cosa il valore di scambio
contiene i caratteri dello spettacolo.

Lo scambio come momento contemplativo

In primo luogo, l’elemento fondamentale comune è il carattere dell’astrazione: come


abbiamo detto, il valore di scambio astrae dalla qualità dell’oggetto cui si riferisce;
inoltre, se si considera il valore come determinato dalla quantità di lavoro contenuto
nella merce, allora in un sistema di produzione basato sullo scambio di merci anche
il lavoro va considerato come lavoro umano astratto170, in quanto il valore di un
oggetto dipende dalla quantità di lavoro contenuto e non dalla tipologia di lavoro
necessario a produrlo. Debord riprende esattamente queste considerazioni e le
collega immediatamente con lo spettacolo: «l’astrazione di ogni lavoro particolare e
l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono perfettamente nello
spettacolo, il cui modo d’essere concreto è giustamente l’astrazione»171.
Tuttavia, non è la semplice astrazione in quanto tale a determinare il sorgere dello

169 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 43


170 K. Marx, Il Capitale, Volume primo, p. 111. Il valore di scambio, ponendo come uguali due oggetti
di genere diverso, sottintende che entrambi siano uguali a un terzo elemento che ne costituisce il
valore: Marx rintraccia questo elemento nel lavoro. Tuttavia, sebbene nel produrre due oggetti di
genere diverso siano necessari lavori di tipo diverso, affinché l’uguaglianza abbia un senso è
necessario che il lavoro venga considerato come privo di determinazioni qualitative e, quindi, come
lavoro umano astratto.
171 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 30

48
spettacolo, bensì la specifica astrazione del valore di scambio che si opera a danno
del valore d’uso: lo spettacolo è infatti una negazione della vita e dell’attività umana
e, nella merce, tale negazione si dà proprio nel prescindere da ogni suo eventuale
uso, ovvero dal suo carattere reale, oggettivo e qualitativo.
In questo movimento riconosciamo quella degradazione dell’essere in avere di cui
Debord parla nel paragrafo 17172. A questo stesso nucleo strutturale della merce
inerisce però anche il movimento che implica la degradazione dell’avere
nell’apparire173: il carattere contemplativo è già contenuto nella merce e consiste nel
modo con cui il consumatore si relaziona a essa. Un oggetto è infatti merce in quanto
acquistabile, ma l’acquisto non è niente di più che il movimento di adesione positiva
che segue la contemplazione e, rispetto all’oggetto-merce, rappresenta l’unico modo
possibile di relazione: in esso ogni attività è negata, in quanto è negato il suo valore
d’uso: ecco perché Debord può definire le merci come «cose che sono divenute il
valore esclusivo per la loro formulazione in negativo del valore vissuto»174. Inoltre, nel
sistema capitalistico le merci appaiono all’individuo come prodotte dalla forza
produttiva della società: in questo modo, ciò che è il prodotto di rapporti sociali tra
persone appare invece come un insieme di rapporti tra cose: è questo il carattere di
feticcio della merce175, che Debord riconosce come il principio che si compie nello
spettacolo:

«È il principio del feticismo della merce, la dominazione della società da parte


“di cose sovrasensibili benché sensibili”176, che si realizza nello spettacolo, in cui

172 Ivi., p.22


173 Ibid.
174 Ivi., p. 35
175 «L’enigma della forma merce consiste semplicemente nel fatto che, a guisa di specchio, essa rinvia

agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro lavoro come caratteri oggettuali degli stessi
prodotti del lavoro, proprietà naturali sociali di questi oggetti; quindi rinvia loro anche l’immagine
del rapporto sociale fra i produttori da un lato e il lavoro complessivo dall’altro come rapporto sociale
fra oggetti, esistente al di fuori dei produttori medesimi»; e più avanti «[…] è solo il rapporto sociale
ben determinato esistente fra gli uomini che qui assume ai loro occhi la forma fantasmagorica di un
rapporto fra cose»; più avanti ancora Marx definirà in modo chiaro il feticismo come «parvenza
oggettiva delle determinazioni sociali del lavoro».
K. Marx, Il Capitale, Volume primo, pp. 149-150, 161
176 Questa definizione della merce come qualcosa di sovrasensibile benché sensibile è un richiamo a

Marx, che nel paragrafo sul feticismo della merce scrive a proposito di un tavolo: «Ma, non appena si
presenta come merce, eccolo trasformarsi in una cosa insieme sensibile e sovrasensibile» (in K. Marx,
Il Capitale, Volume primo, p. 148); un altro riferimento a questo stesso paragrafo marxiano si trova
nel primo paragrafo di Debord, in cui definisce la merce come «il nostro vecchio nemico, che sa così
bene apparire a prima vista come qualcosa di triviale e di comprensibile da sé, mentre è al contrario

49
il mondo sensibile si trova rimpiazzato da una selezione d’immagini che esiste
al di sopra di lui, e che allo stesso tempo si fa riconoscere come il sensibile per
eccellenza»177.

Il feticismo e la sua evoluzione nella sopravvivenza aumentata

Ora, appare immediatamente come lo spettacolo debba intendersi non come «un
insieme di immagini, bensì un rapporto sociale tra persone, mediatizzato attraverso
delle immagini»178. E l’immagine non è altro che un nuovo stadio dell’astrazione,
un’evoluzione dell’astrazione operata dalla merce179.
Prima di approfondire questo aspetto, è necessario chiarire in che modo avvenga il
dominio della merce e, quindi, lo sviluppo del feticismo al livello dell’intera società:
si deve esporre cioè come la forma-merce diventi costituiva della società, che viene
riplasmata secondo la sua immagine e di cui permea ogni manifestazione di vita.
Da questo punto di vista, il dato fondamentale è l’aumento del volume degli scambi.
Ciò perché la «ripetizione costante dello scambio lo trasforma in un processo
regolare. Nel corso del tempo almeno una parte dei prodotti del lavoro deve perciò
essere deliberatamente prodotta a fini di scambio»180. Il significato di questo dato
viene ripreso da Debord, il quale vede proprio nel progressivo aumento della mole
degli scambi ciò che determina il prevalere del valore d’uso. Infatti, nel capitalismo
avanzato che conduce alla società dello spettacolo, la produzione è orientata
direttamente al commercio: il fine della produzione diviene lo scambio, creando un
appiattimento del valore d’uso sul valore di scambio: «Mobilizzando ogni uso umano
e afferrando il monopolio della sua soddisfazione, [il valore di scambio] ha finito per
dirigere l’uso. Il processo di scambio si è identificato ad ogni uso possibile, e l’ha

così complessa e piena di sottigliezze metafisiche» (in G. Debord, La Société du Spectacle, p. 35); Marx
scrive: «Una merce sembra a prima vista una cosa ovvia, banale. La sua analisi, tuttavia, rivela che è
una cosa molto ingarbugliata, piena di sottigliezze metafisiche e di ghiribizzi teologici» (K. Marx, Il
Capitale, Volume primo, p.148).
177 G. Debord, La Société du Spectacle, pp. 35 -36
178 Ivi., p. 16
179 «L’immagine e lo spettacolo di cui parla Debord sono da intendere come un ulteriore sviluppo

della forma-merce», in A.Jappe, Guy Debord, p.


180 K. Marx, Il Capitale, Volume primo, p. 168

50
ridotto alla sua mercé»181.
Il secondo dato è legato all’organizzazione del lavoro. Nel paragrafo 41, Debord
spiega che la merce appare effettivamente come una potenza che occupa la vita
sociale solo con la rivoluzione industriale, cioè con la divisione manifatturiera del
lavoro e la produzione massiccia per il mercato mondiale182: è ovvio che i due dati
siano collegati, in quanto la produzione di merci ha spinto verso la rivoluzione
industriale e quest’ultima a sua volta ha creato le condizioni per la sua dominazione
a livello globale.
Il significato di questi due dati non si esaurisce soltanto nello spiegare il modo in cui
si orienta la produzione capitalistica a partire dalla sua cellula, la merce, ma
permettono di comprendere anche i comportamenti soggettivi a essa correlati.
Riteniamo che sia in virtù di ciò che si possa spiegare l’effettivo dominio del
capitalismo moderno e che sia in questo senso che si debbano interpretare le nozioni
di coscienza reificata183 e di spettacolo come Weltanschauung184.
Il primo comportamento è l’atteggiamento contemplativo che il sistema produttivo
di merci richiede già a partire dalla partecipazione alle fasi della produzione. Poiché
la produzione di merci fonda la divisione del lavoro e la riproduce su livelli via via
superiori, essa ha come proprio fondamento la razionalizzazione del sistema
produttivo, basata sul calcolo185, e la cui dinamica di separazione dall’individuo e dal
processo produttivo sono state analizzate nel capitolo precedente.
Il secondo comportamento cui ci riferiamo è l’uso della merce in quanto merce: «La
soddisfazione che la merce abbondante non può più dare nell’uso viene ricercata nel
riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l’uso della merce bastante a sé
stesso»186. Debord spiega come il movimento che orienta la produzione divenga
anche il movimento del soggetto individuale: la coscienza dell’individuo, formandosi

181 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 43


182Ivi., p. 39
183 Il concetto di coscienza reificata proviene da Lukács, che identifica così quella coscienza in cui

sussiste il feticcio della merce: essa è detta reificata in quanto assume come rapporti fra oggetti quelli
che sono in realtà rapporti sociali.
184 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 17. Nel paragrafo cui ci riferiamo Debord identifica lo

spettacolo come una «visione del mondo che si è oggettivata»; Debord intende che i comportamenti
soggettivi sono determinati dall’affermarsi di un certo modo di produzione che si organizza a partire
dalla diffusione di merci, prima, e di immagini, poi.
185 G. Lukàcs, Storia e Coscienza di Classe, p. 114
186 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 61

51
per una produzione il cui unico scopo è lo scambio, cioè la vendita, si adatta sino a
sviluppare come modo di relazioni con le merci quel comportamento che è proprio
della merce: lo scambio, cioè l’acquisto.
L’affermazione del valore di scambio ha dunque riflessi sia sul sistema economico
che sulla coscienza degli individui. In entrambi i casi, ciò cui si assiste è l’affermarsi
della categoria del quantitativo a discapito del qualitativo. Nel paragrafo 38,
leggiamo:

«La perdita di qualità, così evidente a tutti i livelli del linguaggio spettacolare,
degli oggetti che loda e dei comportamenti che regola, non fa che tradurre i
caratteri fondamentali della produzione reale che scarta la realtà: la forma-
merce è da parte a parte l’uguaglianza a sé stessa, la categoria del quantitativo.
È il quantitativo che essa sviluppa, e non si può sviluppare che in esso» 187.

Tuttavia, sottolinea Debord, lo sviluppo quantitativo ricade a sua volta in un


cambiamento di natura qualitativa188: lo spettacolo significa proprio che «[lo
sviluppo quantitativo] ha varcato la soglia della propria abbondanza»189.
Il concetto di abbondanza diviene centrale per comprendere appieno le conseguenze
dell’affermazione della forma-merce, alcune delle quali abbiamo rilevato nel modo
in cui essa influisce sulla produzione e nel modo in cui regola i comportamenti
soggettivi. L’abbondanza di merci, ovvero lo sviluppo delle forze produttive, ha
alcune conseguenze ulteriori, legate proprio alla sua capacità di sviluppo
quantitativo.
In particolare, l’autore francese rileva che lo sviluppo e la diffusione su larga scala
delle merci significa un cambiamento nel regime di vita della società: lo sviluppo
economico libera le società dalla lotta per la sopravvivenza 190. Tuttavia, secondo
Debord «è dal loro liberatore che esse non sono liberate»191.
Per spiegare come ciò avvenga, ovvero perché «l’economia trasforma il mondo, ma
lo trasforma solo in mondo dell’economia»192, Debord introduce il concetto di

187 Ivi., p. 36
188 Ivi., p. 37
189 Ibid.
190 Ivi., p. 38
191 Ibid.
192 Ibid.

52
sopravvivenza aumentata.
Le nuove società prodotte dallo sviluppo economico risolvono la questione della
penuria di beni; tuttavia, il sistema economico che permette il superamento di
questo problema, basandosi sulla forma-merce non può che riprodurre la privazione
originaria. Ciò avviene in quanto, nello spettacolo, esiste un movimento continuo di
identificazione dei beni alle merci e della soddisfazione alla sopravvivenza crescente
secondo le proprie leggi193. La sopravvivenza aumentata si può definire come una
sopravvivenza divenuta più ricca, in quanto riproduce le stesse condizioni di
necessità che le preesistevano. In particolare, Debord lo registra dal punto di vista
del lavoro: «l’apparato strumentale tecnico che sopprime oggettivamente il lavoro
deve allo stesso tempo conservare il lavoro come merce»194.
Alla conservazione della forma-merce della forza lavoro e, dunque, del carattere
astratto dell’attività umana vigente all’interno del capitalismo, alla conservazione
delle condizioni di sfruttamento si aggiungono inoltre l’abbassamento tendenziale del
valore d’uso e l’umanismo della merce.
Quest’ultimo rappresenta il fatto che con lo sviluppo delle forze produttive, il
capitalismo smette di vedere nel proletario soltanto l’operaio. Nel mondo della
diffusione delle merci, esso viene rivestito dell’abito del consumatore, sotto il quale
esso riceve un trattamento da gran persona195: così Debord vuole sottolineare il
movimento in cui la società spettacolare riprende in sé i possibili elementi di
conflittualità, celando il rapporto di dominazione che contiene.
Anche il concetto di abbassamento tendenziale del valore d’uso inerisce alle forme
della dominazione messe in campo dalla società dello spettacolo. In questo caso, si
tratta dello sviluppo della privazione contenuta nella sopravvivenza aumentata:

«Questa costante dell’economia capitalista che è l’abbassamento tendenziale del


valore d’uso sviluppa una nuova forma di privazione all’interno della
sopravvivenza aumentata, la quale non è più affrancata dall’antica penuria
poiché esige la partecipazione della maggior parte degli uomini, come lavoratori
salariati, alla prosecuzione infinita del suo sforzo; e che ciascuno sa che bisogna
sottomettervisi o morire. E’ la realtà di questo ricatto, il fatto che l’uso, nella sua

193 Ivi., p. 41
194 Ivi., p. 42
195 Ivi., p. 41

53
forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se non imprigionato nella
ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata, che è la base reale
dell’accettazione dell’illusione in generale nel consumo di merci moderne. Il
consumatore reale diviene consumatore d’illusioni. La merce è questa illusione
effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale».196

Lo spettacolo è qui definito come la manifestazione generale dell’illusione generata


nel consumo. La sua diffusione in ogni livello della vita sociale, il controllo esercitato
sulla coscienza, il suo porre le basi necessarie della sopravvivenza e il determinare il
modo di relazione dei soggetti con il mondo sembrano non aprire alcuno spazio di
possibilità. Tuttavia, Debord ritiene che, come sostiene Freud, tutto ciò che viene
sottratto al dominio dell’inconscio può essere usato:197 «Nel momento in cui la
società scopre di dipendere dall’economia, l’economia, nei fatti, dipende da lei.
Questa potenza sotterranea, che è cresciuta sino a apparire sovranamente, ha
perduto la sua potenza. Lì dove vigeva il questo economico deve venire l’io»198.
È a partire da queste considerazioni che quella che si può definire, seppure con tutte
le riserve del caso, come una teoria critica dell’alienazione capitalistica, assume i
caratteri di una teoria della prassi rivoluzionaria e sociale: l’obiettivo è «l’abolizione
delle classi, cioè il possesso diretto dei lavoratori su tutti i momenti della loro attività.
Il suo contrario è la società dello spettacolo […]»199

196 Ivi., p. 44
197 Ivi., p. 46
198 Ibid.
199 Ivi., p. 47

54
L’immagine, organo dello spettacolo

Lo scopo di questo capitolo è di ricostruire il significato che l’immagine riveste


all’interno de La Société du Spectacle. Nel quadro teorico che Debord sviluppa nel
testo non esiste però una vera e propria teoria dell’immagine: egli non si preoccupa
mai di indicarne una definizione, o di chiarirne strettamente la natura. Essa
rappresenta piuttosto un concetto fluttuante, che attraversa l’intero testo e sostiene
tutta la riflessione sulla società dello spettacolo, condizione che ci ha portato a
formulare alcune riflessione anche nei precedenti capitoli. Per questo motivo,
nell’indicarne una prospettiva ermeneutica, si farà ricorso ad alcuni dei saggi più
recenti sulla questione delle immagini, e si cercherà di partire da essi per ricostruire
il significato dell’immagine in relazione al pensiero di Debord.
Senza alcuna pretesa di fornire una definizione esaustiva di cosa sia un’immagine,
operazione che richiederebbe ben altro spazio e altri strumenti, possiamo
circoscrivere il compito di questo capitolo alla sua problematica fondamentale,
ovvero in che modo si deve intendere il rapporto tra immagine e spettacolo.

Lo spettacolo come regime scopico200.

Nell’intraprendere una riflessione sul rapporto tra spettacolo e immagine, il primo


dato da evidenziare è che i due termini non sono equivalenti. Si tratta di una
distinzione evidente, se si fa caso al fatto che ne La Société du Spectacle sono presenti
diverse definizioni dello spettacolo, mentre sono quasi inesistenti definizioni
dell’immagine e, quando vi sono, sono sempre indirette. In più, se ciò non bastasse,
Debord lo afferma chiaramente nel già citato 4: «Lo spettacolo non è un insieme di
immagini»201. L’immagine e lo spettacolo sono dunque due oggetti distinti, e
comprendere il loro rapporto significa ricostruire i ruoli reciproci che essi rivestono.

200 Il termine «regime scopico» fu coniato da Christian Metz, ma la sua definizione venne ampliata
dallo storico della cultura Martin Jay. A tal proposito si veda il paragrafo 5 del Capitolo terzo di
Cultura visuale (A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Giulio
Einaudi Editore, Torino, 2016, pp. 130 – 131)
201 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 16

55
Anzitutto, l’immagine è uno degli elementi costitutivi dello spettacolo, nel senso che,
come indica il titolo di questo capitolo, essa ne è l’organo. Con tale definizione
vogliamo riferirci al fatto che le immagini non costituiscono un semplice strumento
dello spettacolo, un accessorio del suo dispiegarsi; esse sono piuttosto un elemento
che assolve una funzione specifica, costituente la stessa natura dello spettacolo e
conforme a esso, nello stesso modo in cui gli organi lo sono per un corpo. In questa
prima accezione, si potrebbe dire che l’immagine è il corpo dello spettacolo.
Da una seconda prospettiva, la definizione dell’immagine come organo dello
spettacolo vuole anche richiamare il legame tra questo e la religione, già accennato
nel primo capitolo di questo scritto. In particolare, essa si riferisce all’affermazione
di Ludwig Feuerbach, che ne L’essenza del cristianesimo scrive: «L’immagine è
l’essenza della religione quando è l’espressione essenziale, l’organo della stessa»202.
Dato questo tipo di relazione essenziale tra l’immagine e lo spettacolo, occorre
chiarire in che modo questa stessa relazione si configuri. In questo senso, si può
definire lo spettacolo come un certo regime scopico, intendendo con questo termine
che le immagini assumono una data connotazione perché inserite in un certo tipo di
sistema culturalmente e storicamente determinato. La nozione di regime scopico,
così come definita da Martin Jay, consiste nel fatto che «non vi può mai essere un
“esterno” al di là di un filtro culturale, che ci permetta di riguadagnare un occhio
“selvaggio” o “innocente”, un’esperienza visiva originaria e non-mediata da una
prospettiva parziale, che è invece implicata nel termine “scopico”» 203. Per
comprendere dunque la connotazione dell’immagine nello spettacolo, e dunque il
suo ruolo all’interno dello stesso, bisogna dunque spiegare in che modo questo
funzioni come regime scopico.
La definizione di un regime scopico dipende dal modo in cui esso gestisce la visione,
che non viene più considerata come un trascendentale universale, ma come
condizionata e determinata in un certo orizzonte storico-culturale. Il regime scopico
si basa dunque sulle condizioni di possibilità e di impiego della visione, sulle
modalità del suo esercizio, ovvero sui dispositivi204 attraverso cui essa viene

202 L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, cit., p. 91. Abbiamo già osservato come per Debord lo
spettacolo sia un prolungamento nel mondo terreno dell’«illusione religiosa».
203 M. Jay, Scopic regimes of modernity, in FOSTER (a cura di), Vision and Visuality, pp. 3 – 23, citato

in A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, cit., p. 131.
204 Il termine dispositivo è qui inteso come «tutto ciò che – all’interno o all’esterno dei margini

56
praticata.
Da questo punto di vista, i dispositivi eminentemente spettacolari esistenti al tempo
di Debord sono il cinema e, in maniera ancor più significativa rispetto al periodo
storico, il televisore205. Essi sono rilevanti perché rappresentano due modalità di
consumo delle immagini inserite nell’impiego del tempo libero:

«Il tempo pseudo-ciclico consumabile è il tempo spettacolare, sia come tempo


del consumo di immagini, in senso stretto, che come immagine del consumo del
tempo, in tutta la sua estensione. Il tempo del consumo delle immagini, medium
di tutte le merci, è inseparabilmente il campo in cui si esercitano pienamente gli
strumenti dello spettacolo, e lo scopo che questi presentano globalmente, come
luogo e come figura centrale di tutti i consumi particolari: si sa che i guadagni
di tempo costantemente ricercati dalla società moderna – che si tratti della
velocità dei trasporti o dell’uso di minestre liofilizzate – si traduce positivamente
per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la sola contemplazione della
televisione la occupa in media tra tre e sei ore al giorno. […]»206

Dal punto di vista del loro carattere di dispositivo, ciò che è interessante non è
l’apparato tecnico-materiale su cui essi si basano, e che pure costituì elemento
importante nella loro diffusione di massa. Il dato rilevante è, piuttosto, il modo in
cui essi gestiscono la visione: in entrambi i casi il dispositivo articola e determina
una visione privata.
Nel caso del televisore, il carattere privato è evidente: l’apparecchio appartiene a
cerchie progressivamente più ristrette di individui, e la sua rapida diffusione finì per
renderne presente almeno un esemplare in ogni famiglia, sicché la comunità che esso
finì per convogliare coincide con la cellula familiare.
Nel caso del cinema, invece, si può avere la sensazione che vi permanga una forma
di collettività, in quanto vi si trovano soggetti che non necessariamente si conoscono
tra loro. Tuttavia, anche nel cinema è chiaramente presente una dimensione privata:
non tutti gli abitanti della città vi partecipano, conferendo così a quelli che assistono

dell’immagine – concorre a disporre nello spazio l’immagine stessa e a organizzare il suo rapporto con
lo spettatore, configurandone in qualche modo lo sguardo». (Ivi., p. 172)
205 Dell’importanza storica dell’invenzione del televisore si è fatto cenno nel secondo capitolo di

questo scritto, dedicato alla definizione della società reale al momento in cui Debord scrive. Il cinema
invece esisteva già da tempo.
206 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 153 - 154

57
alla rappresentazione lo stesso carattere privato di membri di una comunità, nello
specifico una comunità di spettatori.
A uno sguardo più attento, inoltre, si coglie l’esistenza di un privato più profondo,
interno allo stesso dispositivo cinematografico o televisivo, e che pertiene
propriamente all’immagine: il carattere assolutamente individuale dello sguardo. La
proiezione delle immagini, infatti, impedisce agli spettatori di guardarsi
reciprocamente. Per questa ragione, pur essendo presenti simultaneamente più
soggetti, e pur partecipando apparentemente a un momento collettivo, essi sono
presi nella più privata forma di interazione possibile, in cui anche l’individuo accanto
a me rappresenta un esterno rispetto al mio stato di spettatore isolato: da questa
condizione proviene la definizione di Debord delle «folle solitarie»207 e delle
«pseudo-collettività»208.
Secondo i termini di questa dinamica, i dispositivi cinematografico e televisivo
agiscono dunque come veicoli di forze, in accordo con la definizione di Louis Marin
in un testo sul potere delle immagini: «Una forza è forza solo per annichilimento e
in questo senso, nella sua stessa essenza, ogni forza è assoluta poiché non è altro che
l’annientare ogni altra forza, che esser priva di esteriorità e di paragone»209. E, nella
loro stessa azione, esse riprendono la logica della separazione che costituisce il modo
stesso di funzionare della società dello spettacolo, riproducendo l’isolamento del
sistema produttivo capitalistico basato sulla divisione del lavoro.
A questo punto della riflessione si apre l’interrogativo sulla relazione tra il carattere
sensibile e materiale dell’immagine e il suo potere, ciò che le permette di fungere da
organo dello spettacolo. Prima di indagare questo aspetto, è opportuno completare
la definizione della società dello spettacolo come regime scopico indicando gli
oggetti su cui si concentra la visione presa al suo interno, giacché anche il tipo di
oggetto preso in considerazione non è neutro, ma è anzi esposto a partire dai
dispositivi. A tal proposito, non si può proseguire senza ribadire lo stretto legame

207 «Dall’automobile al televisore, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue
armi per il rinforzo costante delle condizioni di isolamento delle “folle solitarie”» (Ivi., p.30)
208 «L’integrazione al sistema deve riprendere il controllo degli individui isolati in quanto individui

isolti insieme: le fabbriche come gli istituti culturali, i villaggi per le vacanze come i “complessi”, sono
specialmente organizzati per i fini di questa pseudo-collettività che accompagna anche l’individuo
isolato nella sua cellula familiare […]» (Ivi., p. 167)
209 L. Marin, L’essere delle immagini e la sua efficacia, in A. Pinotti e A. Somaini (a curia di), Teorie

dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, pp. 270 - 286

58
che esiste tra l’immagine e la merce. Questo dipende, in primo luogo, dal provenire
dell’immagine dall’essenza stessa della merce210, di cui si è discusso nel secondo
capitolo di questa sezione; in secondo luogo, dipende dal fatto che le immagini,
producendo una legittimazione del sistema esistente, raffigurano prevalentemente
merci e stili di vita volti a garantire la conservazione dell’economia di mercato, e lo
fanno creando l’«immagine di un ruolo possibile»211 nella figura del «divo»212, che
rappresenta un modo di vita impoverito basato sulla banalità e sull’apparenza:

«Concentrando in sé l’immagine di un ruolo possibile, il divo, la


rappresentazione spettacolare dell’uomo vivente, concentra dunque questa
banalità. La condizione di divo è la specializzazione del vissuto apparente,
l’oggetto dell’identificazione alla vita apparente senza profondità, che deve
compensare la dispersione delle specializzazioni produttive effettivamente
vissute. I divi esistono per figurare dei tipi vari di stili di vita e di stili di
comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente. Essi incarnano il
risultato inaccessibile del lavoro sociale, mimando i sottoprodotti di questo
lavoro che sono trasferiti magicamente al di sopra di lui come suo scopo: il potere
e le vacanze, la decisione e il consumo che sono all’inizio e alla fine di un processo
indiscusso […]»213

L’ immagine come agente dello spettacolo

Definire le immagini come organo dello spettacolo, identificarle nella loro funzione
di oggetto che ricrea materialmente la separazione a esso immanente, significa

210 Interessante che l’unica definizione esplicita dell’immagine fornita da Debord sia «medium di

tutte le merci» (Ivi., p. 153). In un saggio sulla svolta iconica che ha caratterizzato gli studi visuali,
Hans Belting elabora la triade immagine-medium-corpo, definendo il medium come ciò che permette
all’immagine di acquisire visibilità, come lo è per eccellenza la luce (H. Belting, Immagine, medium,
corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, in A. Pinotti e A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il
dibattito contemporaneo, cit., p. 73 – 98). Nello stesso senso, le immagini, intese dunque non solo nella
loro forma di oggetto concreto, ma in quanto condizione di possibilità, sono il medium che permette
l’apparizione delle merci.
211 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 55
212 Ibid.
213 Debord si riferisce col termine divo all’insieme dei personaggi pubblici, soprattutto personalità

politiche. Nel paragrafo successivo, Debord scrive un’invettiva contro personaggi politici, e per
esempio osserva che «Kennedy è rimasto oratore sino a scrivere il proprio elogio funebre, poiché
Théodore Sorensen continuava a redigere per il successore i discorsi in quello stile che aveva tanto
contato per far riconoscere la personalità dello scomparso. Le persone ammirevoli in cui il sistema si
personifica sono ben noti per non essere ciò che sono; essi sono divenuti grandi uomini scendendo al
disotto della realtà della vita individuale minima, e tutti lo sanno» (Ivi., p. 55 – 57)

59
riconoscerle come corpo dello spettacolo. Il termine corpo può qui essere inteso in
un duplice senso: da un lato come veicolo sensibile che permette allo spettacolo di
entrare in contatto con la sensibilità dei soggetti, di agire su e con i loro corpi, di
intervenire nella loro vita; dall’altro, alla stregua di un corpo militare, come insieme
di agenti che attraverso la loro azione servono lo spettacolo. In entrambe le accezioni,
il dato fondamentale è che le immagini hanno un certo potere.
Un riferimento alla serie di riflessioni su questo tema, divenuto centrale nell’ambito
del dibattito contemporaneo sugli studi visuali, costituisce un utile strumento
ermeneutico per ricostruire il potere e il significato dell’immagine all’interno del
regime scopico della società dello spettacolo.
Il punto comune di queste riflessioni, e che caratterizza quelli che alcuni autori
hanno definito come iconic o pictorial turn214, è l’idea dell’insufficienza della
considerazione delle immagini come meri oggetti passivi: esse esprimerebbero invece
delle forme di soggettività, di capacità d’agire, che vari studiosi hanno declinato in
diversi modi (per esempio l’idea che «l’image est acte» di Henri Lefebvre nella sua
Critica della vita quotidiana, o l’atto iconico215, di cui Bredekamp svilupperà una
teoria, la nozione di agency216 di Alfred Gell, o ancora il desiderio217 delle immagini
di William J. T. Mitchell).
L’idea di fondo è che le immagini, per la loro stessa natura, compiano delle azioni,
ossia provochino degli effetti analoghi all’espressione di forme di soggettività. In una
certa misura, una concezione di questo tipo è la stessa sottesa alla riflessione di
Debord, che dice chiaramente:

214 A tal proposito, la raccolta di saggi precedentemente citata, Teorie dell’immagine. Il dibattito
contemporaneo, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, costituisce una risorsa utile e sarà il nostro principale
riferimento in questo paragrafo.
215 All’atto iconico Bredekamp dedica un interessante testo, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto

iconico, che si apre con un’introduzione e un primo capitolo dedicati alla definizione di ciò che egli
intende con quel termine (H. Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico (2010),
Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, pp. 5 – 41)
216 A. Gell, Art and agency. An Anthropological Theory, Clarendon Press, Oxford, 1998, p. 6, citato in A.

Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, cit., p. 222
217 W.J.T. Mitchell, Cosa vogliono le immagini?, citato in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie

dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., pp. 99 - 133

60
«Laddove il mondo reale si trasforma in semplici immagini, le semplici immagini
diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento
ipnotico»218

Le immagini sono dunque degli esseri reali che producono degli effetti nel mondo,
in particolare inducono dei comportamenti.
Una formulazione chiara del potere delle immagini, e che ne coglie i due aspetti
essenziali già riconoscibili in questa citazione, è quella di Louis Marin nel suo saggio
L’essere dell’immagine e la sua efficacia219, in cui l’autore riferisce all’immagine due
capacità fondamentali: quella di «presentificare l’assente»220 e di «istituire un
soggetto come spettatore»221. Si tratta di nozioni che, pur nella loro semplicità,
possono richiedere qualche indicazione.
Innanzitutto, occorre chiarire che l’immagine rende presente l’assente non nella
misura in cui lo imita, in cui lo finge, ma in quanto gli fornisce un nuovo medium
per la sua manifestazione. Osserva Hans Belting (che come abbiamo indicato
precedentemente riflette sulla triade immagine-medium-corpo): «Le immagini,
soprattutto quelle tridimensionali, prendevano il posto dei defunti, che avevano
perso, insieme al corpo, la loro presenza visibile. Le immagini occupavano, per conto
del corpo mancante, il posto lasciato vuoto dalla persona morta»222. Allo stesso
modo, nella religione cristiana il Figlio è l’immagine del Padre, ovvero lo spirito
fattosi carne223, che fa le veci di Dio in terra.
Anche nello spettacolo le immagini presentificano un assente: si tratta di forme di
apparizione del vissuto, che ormai è scomparso dalla vita sociale. È il reale come tale
che è scomparso nella dinamica produttiva capitalistica, e che ora riappare in forma
di immagine (ecco perché, nel paragrafo riportato sopra, Debord dice che «il mondo
reale si trasforma in immagine»):

218 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 23


219 L. Marin, L’essere dell’immagine e la sua efficacia, in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie
dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., pp. 271 - 286
220 Ivi., p. 277
221 Ibid.
222 H. Belting, Immagini, medium, corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 81
223 Ci riferiamo qui al già citato capitolo de L’essenza del cristianesimo di L. Feuerbach

61
«[…] Il sacro ha giustificato l’ordine cosmico e ontologico che corrispondeva agli
interessi dei padroni, ha spiegato e abbellito ciò che la società non poteva fare.
[…] l’adesione di tutti a una tale immagine immobile non significava altro che il
riconoscimento comune di un prolungamento immaginario per la povertà
dell’attività sociale reale […]»224.

Così come l’immagine del defunto fa ciò che il defunto non può fare, cioè apparire
nel mondo visibile, essa fa nello spettacolo ciò che l’uomo non può fare, cioè agire
ed esprimersi come azione. Questa interpretazione coincide col significato che Marin
dà al termine rappresentare, inteso come «presentare nuovamente (nella modalità
del tempo) o al posto di … (in quella dello spazio)»225: nello spettacolo le immagini
agiscono al posto dell’attività umana, che è scomparsa e non può tornare che come
immagine.
Il potere rappresentativo dell’immagine va però compreso come concomitante al
secondo effetto che la sua presenza produce, ovvero quello di istituire un soggetto
come spettatore. Se la presentificazione di un assente spiega il nesso tra immagine
e mondo reale, bisogna ora entrare nel merito del rapporto tra immagine e soggetto
dello sguardo.
Dal momento che ogni sguardo non è scindibile dal corpo che lo esercita, per capire
come l’immagine istituisca lo spettatore «l’unico modo […] sarà allora di
riconoscerne gli effetti leggendoli nei segni del loro esercizio sui corpi che
guardano»226. D’altra parte, il senso di definire l’immagine come ente attivo si
determina proprio a partire dagli effetti che essa produce sui soggetti con cui entra
in contatto, e l’idea di atto iconico «allude appunto alla capacità delle immagini di
innescare azioni e reazioni nell’osservatore»227.
L’aspetto degli effetti sui corpi di chi guarda, ovvero lo stato sensibile dello
spettatore, trova un’interessante analisi nel testo di David Freedberg e Vittorio
Gallese, Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica228. In esso gli autori
ricostruiscono alcune delle basi neurofisiologiche del coinvolgimento nell’esperienza

224 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 27


225 L. Marin, L’essere dell’immagine e la sua efficacia, cit., p. 274
226 Ivi., p. 278
227 A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, cit., p. 223
228 D. Freedberg, V. Gallese, Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica, in Ivi., p. 331 -

351

62
estetica, intesa non solo come fruizione di immagini d’arte, ma di immagini e di altri
oggetti che siano segni di un’attività umana.
In particolare, il concetto con cui Freedberg e Gallese descrivono il modo in cui il
corpo somatizza la propria attività di contemplazione è quello della simulazione
incarnata, «un meccanismo funzionale attraverso cui le azioni, emozioni e sensazioni
che vediamo attivano le nostre rappresentazioni interne degli stati corporei associati
a questi stimoli sociali, come se vivessimo la stessa azione, emozione o
sensazione»229. La simulazione incarnata dà fondamento scientifico a teorie del
rapporto tra le forme esteriori del movimento e la percezione degli stati d’animo,
come le Pathosformeln di Aby Warburg. Inoltre, essa sussiste anche in presenza di
oggetti statici che siano segni di una possibile azione: «l’osservazione di oggetti
manipolabili, come strumenti, frutta, ortaggi, vestiti e persino organi sessuali,
stimola l’attivazione della corteccia premotoria ventrale, un’area corticale
normalmente associata al controllo dell’azione e non alla rappresentazione degli
oggetti»230. Emerge così che esiste una partecipazione fisica del corpo coinvolto nella
contemplazione, attraverso la riproduzione nel soggetto spettatore di stimoli inerenti
all’oggetto rappresentato. Ciò spiega, da un lato, il fondamento del potere delle
immagini, in grado di farci sentire come se fossimo attori della rappresentazione cui
in realtà stiamo solo assistendo; dall’altro lato, questo mostra che il carattere di
immagine della merce contribuisce al suo movimento: la visione dell’immagine di un
oggetto, di un azione possibile, stimolano in noi le sensazioni connesse con l’uso di
quell’oggetto, o con lo svolgimento di quell’azione; tali sensazioni si trovano, però,
alla fine dell’esposizione all’immagine-merce, disattese, suscitando così un desiderio
verso ciò che si è visto. In sintesi, la simulazione incarnata permette di comprendere
la possibilità e l’efficacia dello spettacolo come azione in immagine, cioè
intrattenimento, e dello spettacolo come merce in immagine, cioè pubblicità. La
necessità di vivere in prima persona viene sostituita dalla fruizione di azioni e
sensazioni in forma di immagine, mentre il desiderio di consumo viene stimolato
attraverso la trasposizione dei soggetti in figure che possiedono cose che a loro
mancano.

229 Ivi., p. 334


230 Ivi., p. 342

63
Tuttavia, esiste anche un altro statuto del corpo che vive nel regime scopico della
società dello spettacolo. La riflessione che precede si è, infatti, soffermata sulla
percezione dell’immagine in quanto tale. Esiste un’ulteriore dimensione in cui il
corpo viene coinvolto in quanto spettatore, ovvero quello della condizione in cui si
trova nel momento in cui osserva. Nei dispositivi che abbiamo individuato prima,
una delle condizioni dello spettatore è quello di trovarsi in un certo grado di
isolamento, lasciato il più possibile solo nel suo rapporto con l’immagine: «il
dispositivo cinematografico [che il televisore riproduce tra le mura domestiche]
tende a occultare il suo funzionamento»231. A questo dato si aggiunge un altro, di
pari importanza, che riguarda i movimenti del corpo dello spettatore: si tratta di un
corpo immobile. Sia che si sia seduti nelle poltrone di un cinema, o sul divano di casa
davanti al televisore, il corpo di uno spettatore è sempre un corpo i cui movimenti
sono ridotti al minimo indispensabile.
W.J.T. Mitchell riconduce questo dato a quello che lui individua essere uno dei
desideri delle immagini: «In breve, il desiderio dei dipinti è scambiarsi di posto con
chi guarda, di immobilizzare l’osservatore, trasformarlo in un’immagine per lo
sguardo del dipinto»232. È interessante che quello che lui chiama “effetto Medusa”
non si accontenti, come nel mito greco, della trasformazione, ma preveda
un’inversione di ruoli tra l’osservatore e l’osservato: si riconosce dunque un altro
principio di soggettività dell’immagine nella loro possibilità di guardare. D’altra
parte, questa prospettiva dell’inversione è perfettamente in sintonia con l’inversione
diagnosticata da Debord nella società dello spettacolo.
In questa immobilità del corpo di chi guarda possiamo individuare il fatto che lo
spettacolo si configuri non come semplice regime dello sguardo, ma come «ciò che
sfugge all’attività degli uomini»233: è questa sembianza di corpo morto dei soggetti,
nel loro essere privi di movimento di fronte alle immagini, a fare dello spettacolo una
«negazione della vita che è divenuta visibile»234.
Una metafora di Georges Didi-Huberman nel suo testo L’immagine brucia235 può

231A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, cit. p. 180
232W.J.T. Mitchell, Cosa vogliono le immagini?, citato in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie
dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., pp. 107
233 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 23
234 Ivi., p. 19
235 G. Didi-Huberman, L’immagine brucia, cit. in A. Pinotti, A. Somaini, Teorie dell’immagine. Il

64
essere una buona immagine di sintesi delle prospettive delineate. La metafora
dell’immagine-fuoco la descrive sia come presenza di un assente, in quanto l’aria
che brucia nel bagliore scompare con l’atto stesso che la rende visibile in quella
forma; come sembianza di vita, nel movimento incessante della fiamma, che tiene
fermi a guardarla; e, infine, come rapporto di fascinazione, che attrae così come
attraggono le immagini, anche quando inducono in soggettivazioni che sono fondate
sulla vita come sola apparenza.

dibattito contemporaneo, cit., pp. 241 - 270

65
Conclusione

Appunti per alcune riflessioni critiche

A partire dall’analisi degli elementi fondamentali della società dello spettacolo, in


sede di conclusione è possibile indicare alcune prospettive critiche, indirizzate a
riflettere sulla validità ermeneutica del concetto ideato da Debord nei riguardi della
società attuale. La problematica che ne deriva consiste nell’individuazione dei
termini secondo cui è necessario respingere la società dello spettacolo, posto che la
società attuale lo sia, in quanto dominata dalla diffusione capillare di merci e
immagini.
Per procedere in questo senso, la prima osservazione da fare riguarda l’aderenza
dell’analisi di Debord alla società contemporanea. Alcuni dei limiti delle riflessioni
dell’autore francese provengono dal fatto che egli scrive in un momento storico
determinato, il che rende necessario evidenziare i punti di distacco rispetto alla
situazione storica attuale.
Nella riflessione di Debord, uno dei caratteri fondamentali della dominazione
spettacolare dipende dalla sua unilateralità: Debord lo definisce il «contrario del
dialogo»236, «monologo elogiativo»237, asserendo che l’amministrazione della
comunicazione spettacolare poggia sul fatto che essa è essenzialmente unilaterale238,
il che lo costituisce come un «falso senza replica»239.
La fine dell’unilateralità è l’elemento che più di altri segna, almeno apparentemente,
un mutamento di scenario rispetto alla società di cui parla Debord. I mezzi per la
produzione di immagini sono diffusi ormai tra quasi tutte le fasce della popolazione,
la creazione di oggetti multimediali non è più prerogativa di un settore specializzato,

236 G. Debord, La Société du Spectacle, p. 23


237 Ivi., p. 26
238 Ibid.
239 G. Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Paris, 1988, p. 27

66
parte della società che concentra e indirizza ogni sguardo240. La fine del «monopolio
dell’apparenza»241 sembrerebbe indicare la fine dei caratteri principali della
dominazione spettacolare, in quanto gli stessi mezzi tecnici della dominazione sono
adesso appannaggio di tutti.
È questa, ad esempio, una delle tesi di Gilles Lipovetski e Jean Serroy, autori del testo
L’esthétisation du monde242: nel capitolo intitolato Lo stadio estetico del consumo, gli
autori indicano la nascita di una nuova figura, quella dell’«iperconsumatore»243:
questo tipo di individuo «tende a divenire […] il co-produttore di ciò che
consuma»244, determinando così la fine del carattere passivo del consumo e,
implicitamente, dell’attitudine contemplativa a esso connessa; ciò sarebbe ancora
più evidente negli internauti, che sono «effettivamente al contempo produttori e
consumatori, utilizzatori e realizzatori, autori e pubblico dei contenuti che si
cambiano online»245.
Tuttavia, gli autori si rendono conto che questo mutamento implica solo
apparentemente una fine delle condizioni spettacolari, mentre al contrario: «Bisogna
convenirne: è sempre la logica spettacolare che governa tutt’un insieme di
produzioni commerciali»246. Secondo Serroy e Lipovetski, ciò che è mutato è il modo
di manifestazione dello spettacolo, che non seguirebbe più le parole d’ordine «che
prediligeva Debord - alienazione, passività, separazione, falsificazione,
impoverimento, privazione -, ma eccesso, rilancio, creatività, diversità, mescolanza
dei generi, secondo grado, riflessività»247, ciò che ci porterebbe in quella che loro
chiamano fase dell’iperspettacolo, «Non più la “sopravvivenza aumentata”, ma la
realtà aumentata»248.
Pur condividendo alcune delle considerazioni in merito alle nuove condizioni
spettacolari, ai mutati atteggiamenti degli spettatori che interagiscono in modo più
attivo con gli spettacoli cui prendono parte, riteniamo che non si possa definire
quello attuale un nuovo stadio dello spettacolo, in quanto la sua forma essenziale

240 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 16


241 Ivi., p. 20
242 G. Lipovetsky, J. Serroy, L’esthétisation du monde, Gallimard, Paris, 2013.
243 Ivi, p. 435
244 Ibid.
245 Ibid.
246 Ivi., p. 307
247 Ibid.
248 Ivi., p. 311

67
non ha subito un mutamento reale (cosa che invece è vera del passaggio dal
capitalismo alla società dello spettacolo, che è pertanto un nuovo stadio del
capitalismo stesso)249.
Infatti, sebbene i mezzi tecnici per la creazione di immagini siano a disposizione di
ampie fasce della popolazione, i flussi delle immagini sono veicolati sempre
attraverso dispositivi e piattaforme codificate la cui gestione appartiene a solo un
settore della società, che può anche intervenire sui flussi stessi attraverso la
moderazione e la censura.
Inoltre, la cosiddetta fase dell’iperspettacolo non aggiunge né toglie ai fondamenti
concettuali dello spettacolo stesso: le dinamiche dominanti dipendono ancora dalla
merce, dalla separazione e dall’immagine. Lo spettacolo continua a sussistere come
rovescio della situazione: è essenzialmente precostituito e standardizzato. Il sistema
in cui circolano le immagini, e che le immagini sostengono nella sua riproduzione, è
sempre il capitalismo250, con la sua logica basata sul rapporto della forma merce.
Ciò che è nuovo di questo momento storico è che la separazione è stata
compiutamente integrata nei percorsi di soggettivazione degli individui, in quanto
sono stati essi stessi tramutati in produttori di spettacoli: la contemplazione diventa
così l’unico modo di relazione con il mondo e con gli altri, e l’attività si costituisce
come produzione di ulteriore materiale spettacolare. Tutto il vissuto è ridotto a
semplice apparenza.
Ciò diventa chiaro se si coglie il movimento spettacolare come il contrario del gesto
artistico: il gesto artistico istituisce un’immagine come esperienza, e il carattere di
finzione del suo prodotto è apertamente dichiarato, nonché necessario alla sua
stessa comprensione come oggetto d’arte (chi si reca a teatro, ad esempio, sa bene
che ciò che vedrà è finzione scenica). Al contrario, lo spettacolo, in alcune delle sue
modalità specifiche, si dispiega nel movimento di trasformazione dell’esperienza in
immagine, basata sulla premessa che l’immagine sia veicolo di verità (ecco perché
Debord dirà che «nel mondo realmente capovolto, il vero è un momento del

249 Osserviamo che non è in questa sede possibile rendere adeguatamente ragione dello sviluppo del
pensiero dei due autori ne L’esthétisation du monde. Piuttosto alcune loro considerazioni vengono
adoperate come strumento per il sostegno della nostra prospettiva critica sulla società dello
spettacolo.
250 A onor del vero, Serroy e Lipovetski lo riconoscono, e denominano questo stadio del capitalismo

«capitalismo artista».

68
falso»251): ciò è evidente se si prende in considerazione il tipo di piattaforme usate
oggi per la condivisione delle stesse. La dimensione dell’immagine come separata
non è giunta a conclusione, si è anzi estesa sino a essere parte del modo di
relazionarsi degli individui tra loro e con sé stessi.
Pur con alcuni dei limiti legati al momento storico in cui scrive, l’analisi che Debord
sviluppa resta pertinente, adeguata al tipo di società in cui viviamo. La
considerazione della natura umana come attività è una premessa, che può essere
condivisa o meno, ma che trova la sua ragion d’essere nella volontà di liberazione
degli individui. Di nuovo, la riflessione dell’autore francese non è scindibile da una
ricaduta pratica e, in quanto tale, estetica e politica.
Per questo motivo, chiedersi se oggi ha senso adottare la prospettiva ermeneutica
che Debord ci propone significa, in prima istanza, chiedersi se ne è condivisibile la
considerazione della vita umana come attività. Tale prospettiva non è scindibile
dall’identificazione di quella parte del sistema che gestisce l’attività umana, per
considerare se e quanto gli individui nella società attuale siano liberi di determinarsi
nell’uso del proprio tempo.
La logica dello sviluppo della forma-merce, la valutazione dell’esperienza in termini
di immagine, la separazione dagli altri individui (rafforzata dalla portabilità degli
schermi, che riproducono su scala individuale l’isolamento che prima non poteva
eliminare la possibilità di una minima compresenza) sono ancora le dinamiche
dominanti della società attuale. Tuttavia, esiste la possibilità che, come
marxianamente avviene nel capitalismo, anche la società dello spettacolo produca
da sola i mezzi per la propria dissoluzione, sviluppando, con la diffusione dei mezzi
tecnici, la contraddizione tra la necessità del controllo delle immagini e l’incremento
della loro produzione. Questo significa che esiste una possibilità di creazione di un
contropotere, di un contro-spettacolo: esso mira a distruggere la diffusione di
immagini come strumento di una dominazione, per recuperare una considerazione
dell’esperienza e della vita non sottomessa a quella trasformazione, operata
dall’economia, che riduce il mondo alla sua rappresentazione.

251 G. Debord, La Société du Spectacle, cit., p. 19

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