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Alessandro Gabbianelli

Spazi residuali
La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana
SPAZI RESIDUALI
La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana
Alessandro Gabbianelli

Progetto grafico di Alessandro Gabbianelli


Fotografie di Alessandro Gabbianelli
Disegni di Giada di Sante

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Via 1° Maggio, 8 – Quarto d’Altino (VE)

© GOTOECO Editore
Collana Interpretazioni, GOTOECO Editore, Gorizia
GOTOECO Editore, via P. Sarcinelli, 87 – 33052 Cervignano del Friuli (UD)
www.gotoeco.it – editore@gotoeco.it

1a edizione – copyright 2017


isbn: 978-88-97102-11-3

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riproduzione e di adattamento totale e parziale di questa pubblicazione, con qualsi-
asi mezzo (compresi i microfilm, le fotocopie e altro) sono riservati in tutti i Paesi.
SPAZI RESIDUALI
La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana

Alessandro Gabbianelli
INDICE

Ringraziamenti 9

Introduzione 11

1. GLI SPAZI RESIDUALI 19


1.1 Gli spazi residuali nella città contemporanea 19
1.2 Ipotesi sui processi di formazione degli spazi residuali 26
1.3 Quale definizione per lo spazio residuale? 34

2. STRATEGIE DI RIGENERAZIONE 53
2.1 Marginalità urbane. La vegetazione come elemento di relazione 59
D. Kienast, Progetto paesaggistico per Kronsberg 65
C. Dalnoky, M. Desvigne, Progetto paesaggistico per la fabbrica Thompson 69
2.2 Aree produttive urbane. Dalla dismissione alla colonizzazione vegetale 71
R. Cecchi, V. Lima, P. Nicolin, P. Traversi, Nove parchi 77
P. Latz + Partners, Parco Dora 81
M. Desvigne, La “Confluence” 85
2.3 Paesaggi dell'infrastruttura. Connessioni vegetali 88
P. Mathieux, J. Vergely, Promenade Plantée 93
I. Kowarik e A. Langer, Gruppe Odious, Schöneberger Südgelände Park 97
2.4 Interstizi urbani. Pratiche di giardinaggio 99
Community Gardens a Manhattan 107
Lois Weinberger, Ruderals 110

3. CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA 113


3.1 Un atlante degli spazi residuali 119

Bibliografia 139
11

Introduzione

“È nel silenzio che si deve scavare per trovare il senso di essere o non es-
sere, oggi, nello spazio bianco tra parola e parola, nella pausa tra due battute
musicali. Non è vero che, dove non c’è la cosa, è niente”1. (Massimo Cacciari)

L’attenzione per gli spazi residuali parte da una prima considerazione: il


suolo è un “bene” limitato. Già dalle prime immagini catturate dalla Luna alla
fine degli anni Sessanta, era evidente la finitezza del pianeta Terra e quanto
fosse limitata la superficie terrestre a disposizione dell’uomo; in seguito si pre-
se coscienza anche di quanto fossero limitate e ritenute affatto inesauribili le
risorse non rinnovabili2.
Quando l’edificazione della città si è “distaccata” dal suolo ha perso anche
il rapporto con il territorio3, la sua topografia, i suoi valori, ma soprattutto
con i limiti fisici che esso imponeva; l’urbanizzazione ha iniziato ad avanza-
re superando qualsiasi ostacolo, in un rapporto di indifferenza con il suolo.
La città diventa metropoli e successivamente megalopoli4 : ma un singolo ter-
mine non sembra più sufficiente per definirne le caratteristiche. “Ci sono nel
mondo agglomerati urbani che solo per convenzione si continuano a chiamare
città. Non c’è più alcunché di veramente urbano in uno spazio che è divorato
dall’infrastruttura e comunica un crescente senso di allarme: la vita nella città
somiglia a una perpetua battaglia contro il tempo scandita dalle luci violente,
che di notte animano le tante città ricavate nella magmatica e indistinta massa
edificata”5. I processi di edificazione parcellizzati, diffusi, occasionali, il loro
distacco dal contesto funzionale, e nel contempo poetico, si sono trasforma-
ti in cieco sbandamento, indiferrenza, atopia, estraniazione. Se da una parte
la città cresce inesorabilmente aumentando vertiginosamente la sua densità,
12 INTRODUZIONE

dall’altra si espande, richiedendo sempre più spazio, in una civiltà del consumo.
Si parla ormai di città-diffusa, città-regione, città-nazione, città-territorio,
città-infinita, fino ad arrivare all’equazione mondo=città6. L’associazione tra
un lemma che metta in relazione il concetto di città con uno che ne esplichi la
sua “conquista” territoriale sembra essere inevitabile. L’unica relazione che la
città contemporanea instaura con il suolo è quella dello sfruttamento. L’occu-
pazione di suolo appare inarrestabile: in Italia, solo nell’ultimo decennio del
duemila, le costruzioni hanno consumato circa duemilioniottocento ettari di
suolo, perlopiù sottratti all’agricoltura7. La domanda di alloggi non giustifica
assolutamente questo dato poiché il nostro paese sembra essere il primo in
Europa per disponibilità di abitazioni, su venti milioni di alloggi, il venti per
cento non sono occupati8.
Durante questo inarrestabile processo di trasformazione e occupazione del
territorio, “la città produce tanti più residui quanto più il suo tessuto è rado. I
residui sono scarsi e piccoli nel cuore delle città, vasti e numerosi in periferia”9.
Gli spazi residuali sono qui considerati come un elemento imprescindibile dei
processi di trasformazione della città. Già da oltre un decennio, alcune pub-
blicazioni e mostre hanno riportato all’attenzione del dibattito disciplinare il
tema degli spazi residuali. Ad esempio Il manifesto del terzo paesaggio (2005)
di Gilles Clément, nel quale si rileva la loro importanza come spazi della biodi-
versità, o lo studio dell’americano Peter Berger, Drosscape (2006)10, che ne de-
linea l’intrinseco legame con i processi di trasformazione della metropoli. Nel
2006 la Fondazione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Torino orga-
nizza, all’interno della rassegna “Creare Paesaggi”, il convegno internazionale
intitolato “Paesaggi indecisi”, dove ci si interroga riguardo ad alcune strategie
d’intervento sugli spazi residuali. Nel 2005 in occasione della mostra Ground-
swell: Constructing the Contemporary Landscape, tenutasi al Museum of Mo-
dern Art di New York, Peter Reed scriveva sulla brochure che accompagnava
la mostra: “Quasi tutti i nuovi paesaggi più significativi progettati negli ultimi
anni occupano un luogo che è stato reinventato e recuperato dall’obsolescenza
e dal degrado: le città dell’era postindustriale ricreano e ridefiniscono i loro
spazi aperti”11. Qualche anno prima, nel 1999, la I Biennale Europea del paesag-
gio si intitolava Remaking Landscape e concentrava la sua attenzione su “quei
paesaggi che appaiono rifatti in quegli spazi che, nel recente passato, hanno
perso il loro nome […] a metà strada tra ciò che è naturale e ciò che è costruito,
tra ciò che è reale e ciò che è immaginato”12. Si arriva poi all'ambizioso progetto
triennale (2012-2015) Re-cycle Italy che si interroga sulle questioni dell’abban-
dono progressivo del costruito nelle città della post-produzione e la nuova di-
INTRODUZIONE 13

mensione ecologica urbana (recycleitaly.net). É questo lo scenario disciplinare


in cui si vuole articolare la ricerca sugli spazi residuali.
Partendo dall’osservazione del fenomeno urbano, nella prima parte, gli
spazi residuali vengono descritti nelle loro diverse sfaccettature mettendone
in evidenza le caratteristiche fisiche e spaziali. La descrizione viene effettua-
ta pensando anche all’opera di fotografi contemporanei che per primi hanno
esternato la fascinazione subita da questi spazi, mostrandone l’intrinseca com-
plessità. Una complessità che viene trasposta anche nelle svariate definizioni
che cercano di descrivere questi spazi. La varietà di appellativi utilizzati dalla
letteratura (terrain vague, spazi in-between, waste land ecc.) mette in evi-
denza due questioni principali: la molteplicità delle chiavi di lettura che questi
luoghi offrono e la relativa difficoltà di creare categorie definitive che permet-
tano di delineare in modo univoco tali spazi. La ricerca analizza le differenti
accezioni, mettendone in evidenza le peculiarità, per poi proporre una lettura
che considera gli spazi residuali non come luoghi “morti” e inattivi, ma come
potenziali risorse, all’interno dei processi della vita contemporanea, capaci di
innescare nel territorio urbano nuove modificazioni: spaziali, sociali, economi-
che, ma soprattutto ambientali.
La loro risignificazione e rifunzionalizzazione costituisce una problematica
per il progetto dello spazio aperto13. Una strategia possibile, qui analizzata, è
l’uso del materiale vegetale come elemento di risposta a tale problematica. “È
solo alla fine del secolo che una maggiore attenzione per i problemi ambienta-
li, come le più numerose e dettagliate descrizioni dei territori della porosità
e della dispersione, portano ad osservare questi fenomeni con occhi nuovi, a
concepire porosità e dispersione anche come occasione per costruire una nuo-
va forma urbana e sociale nella quale per molti versi si rappresenti un nuovo
rapporto con la natura e l’alterità del ventesimo secolo rispetto al passato”14.
Proprio in questa direzione si muove la ricerca, prendendo coscienza della rin-
novata sensibilità riguardo alle questioni ambientali: si ipotizza un nuovo uti-
lizzo degli spazi residuali, che attraverso l’uso della vegetazione come “mate-
riale urbano”15, diventano spazi strutturanti la città, spazi che creano un nuovo
equilibrio tra pieni e “vuoti” (vegetali), ma anche spazi che offrono ai cittadini
la possibilità di ritrovare una vicinanza con i ritmi della natura, distanti dalla
frenesia delle pratiche consumistiche. L’aspetto ambientale non è secondario,
Linda Pollak propone la lettura del sistema urbano “come inseparabile da quel-
lo vivente e il paesaggio non è considerato come semplice attrezzatura ricreati-
va o attrazione visiva, ma come parte integrante della città. […] L’uso crescen-
te del paesaggio come agente di rigenerazione urbana non può essere scisso
14 INTRODUZIONE

dall’aumento della presenza di luoghi difficili nel contesto delle città postindu-
striali – contesto che comprende processi di degrado così come di crescita. La
maggior parte dei siti disponibili a essere trasformati in spazi pubblici contem-
poranei e futuri è affetta da diversi stadi di degrado: abbandono, sfruttamento
ambientale, inquinamento e/o pratiche di desertificazione del terreno”16.
Oltre vent’anni fa, la Commissione delle Nazioni Unite per l’Ambiente e lo
Sviluppo redigeva il cosiddetto Rapporto Brundtland (1987) che auspicava uno
“sviluppo sostenibile”, ossia uno sviluppo che si preoccupasse di rispondere ai
bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere le opportunità delle
generazioni future di soddisfare i propri bisogni.
Nel 1995, in occasione della conferenza della Convenzione Quadro delle Na-
zioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), viene sottoscritto, da parte
di 160 paesi, il Protocollo di Kyoto. Il trattato internazionale, entrato in vigore
nel 2005, prevede l’obbligo da parte dei paesi industrializzati di operare una
diminuzione dell’emissione di elementi inquinanti (biossido di carbonio e al-
tri gas serra) attraverso meccanismi flessibili. Questi eventi testimoniano la
preoccupazione e la presa di coscienza, a livello planetario, della necessità di
conciliare sviluppo economico e risorse ambientali.
L’effettiva applicazione da parte dei paesi firmatari del trattato è in continua
discussione, ma l’incessante dialogo dei potenti della Terra su tali questioni
ha avuto numerosi risvolti trasversali. Questo rinnovato interesse ecologico
ha spinto numerose aziende a incrementare gli investimenti verso la ricerca di
tecnologie più rispettose del patrimonio ambientale, e tali da costituire un’al-
ternativa agli attuali processi produttivi. Se nuove tecnologie “ecologiche” fan-
no fatica ad essere applicate su larga scala, la massiccia campagna d’informa-
zione, promossa da numerose associazioni ambientaliste ed enti di ricerca, ha
prodotto una significativa sensibilizzazione nella popolazione, che non può più
essere ignorata.
“Nel crescente interesse di fine secolo delle politiche urbane, degli urbanisti
e degli architetti per le questioni ambientali vi è certamente la curiosità per un
tema relativamente nuovo, ma vi è forse anche qualcosa di più importante: il
tentativo di inserire, tra un tempo sociale sempre più accelerato e il tempo più
lento della città fisica, un tempo intermedio, il tempo della natura, degli alberi,
delle piogge, delle stagioni, del sole, del vento e delle maree, un tempo cui si dà
il compito di costruire un legame tra i ritmi della società e lo spazio abitabile
cercando, ancora una volta, di legare il presente ad un futuro più distante”17.
L’utilizzo della vegetazione per modificare gli spazi residuali diventa non solo
una risposta ai problemi legati all’ambiente, ma riesce a essere anche un modo
INTRODUZIONE 15

per soddisfare l’ancestrale necessità dell’uomo di stabilire un rapporto diret-


to con la “natura” e i suoi elementi. La ricerca prende come oggetto di studio
un campione di progetti che, senza alcuna velleità esaustiva riguardo l’uso del
“verde”, mostrano delle possibili strategie d’intervento nella reinterpretazione
e nella trasformazione degli spazi residuali. “I maggiori progetti paesaggistici
degli anni recenti si sono confrontati con un tema comune: la trasformazione
di ambiti cha avevano sino a pochi anni prima una destinazione diversa. Hanno
perciò dovuto immaginare identità del tutto nuove, con la finalità di sottrarre
all’abbandono siti che l’accellerato processo di trasformazione del territorio
aveva esaurito e marginalizzato. L’era postindustriale pone la questione del ri-
utilizzo di zone produttive obsolete, di tracciati viari e ferroviari scartati, di
lacerti di campagna frammisti a zone urbanizzate e, per questo, esclusi dalla
coltivazione intensiva”18.
Nel prendere in considerazione i casi studio, non ci si occuperà delle diffe-
renziazioni riguardo la nomenclatura degli spazi vegetali, poiché non interessa
in questo contesto fare distinzioni tra parco, giardino urbano, aiuola. Si vuole
mettere in evidenza invece come la vegetazione sia utilizzata come materiale di
progetto capace di innescare modificazioni all’interno di tali spazi, che posso-
no avere risonanze più estese nel territorio urbanizzato.
Nell’ultimo capitolo, l’indagine sugli spazi residuali viene calata nel conte-
sto della città adriatica. Caratterizzata da una forte complessità, generata dalla
commistione di paesaggi eterogenei (agrario, urbano, infrastrutturale) e da un
sistema orografico che ne vincola lo sviluppo lungo la fascia costiera, la conur-
bazione adriatica offre numerosi casi che ci permettono di studiare le relazioni
tra gli spazi residuali e le trasformazioni del territorio urbanizzato.
16 INTRODUZIONE

NOTE

1
Da un’intervista Gian Luca Favaretto a Massimo Cacciari pubblicata sull'inserto «Venerdì» di «Re-
pubblica» del 15 Maggio 2009 in occasione della presentazione del suo libro Hamletica, Adelphi.
2
Nel famoso rapporto Club di Roma I limiti dello sviluppo (1972) erano già contenute previsioni
allarmanti sul prossimo esaurimento delle risorse non rinnovabili del pianeta. A proposito si veda
Musu Ignazio, “L’economia e la natura”, in Cadevo Elio (a cura di), Idea di natura. 13 scienziati a
confronto, Marsilio, Venezia, 2008.
3
“Il territorio, letteralmente, non conosce più alcun Nòmos, (poiché Nòmos, Legge, significa all’ori-
gine, appunto, suddivisione-spartizione-articolazione di un territorio o pascolo, ‘nòmos’, determina-
to). [...] La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile, o meglio, si è ridotta
ad affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo città quest’area per ragioni assolutamente
occasionali. I suoi confini non sono che un mero artificio. Il territorio post-metropolitano è una geo-
grafia di eventi, una messa in pratica di connessioni, che attraversano paesaggi ibridi.” , Cacciari Mas-
simo, “Nomadi in prigione”, in Bonomi Aldo, Abruzzese Alberto (a cura di), La città infinita, Bruno
Mondadori, Milano, 2004, p. 52.
4
Vedi a proposito Secchi Bernardo, “Città, metropoli, megalopoli”, in Secchi Bernardo, La città del
ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005.
5
Purini Franco, “Dopo la città, il paesaggio”, in Petranzan Margherita, Neri Gianfranco (a cura di),
La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005.
6
Ci si riferisce al termine usato da Rem Koolhaas nel catalogo Mutations dell’omonima mostra
tenutasi a Bordeaux nel 2000. Rem Koolhaas dedica questa mostra alle trasformazioni cui sono andati
incontro concetti quali: urbano, metropolitano, pubblico, sociale.
7
In un rapporto del WWF si stima che “il suolo vergine, in Italia, si perde al ritmo di 110 chilometri
quadrati all’anno, pari a 30 ettari al giorno, 200 metri quadrati al minuto”, vedi In Italia si “consuma-
no” 200 metri quadri di suolo al minuto, in «Corriere della Sera» del 11 Gennaio 2010.
8
Dati Eurostat.
9
Clément Gilles, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2007.
10
Il termine Drosscape è stato ripreso come titolo anche dalla rivista «Architettura del Paesaggio»
n. 20, Marzo/Giugno 2009, dove viene esplorato il tema della riconversione paesaggistica degli spazi
degradati.
11
Reed Peter, “Beyond Before and After: Designing Contemporary Landscape”, in Reed Peter,
Groundswell. Constructing the Contemporary Landscape, Thames & Hudson, London, 2005, p. 15;
catalogo della mostra omonima presso il Museum of Modern Art di New York, 2005; vedi anche Pollak
Linda, Il paesaggio per il recupero urbano. Infrastrutture per uno spazio quotidiano che compren-
da la natura, in «Lotus», n. 128, 2006.
12
“The theme of this year’s Biennial focuses on those landscapes which appear remade in those
spaces that have lost their names in the recent past. On the brown-fields, the cracks of the image-
less periphery, in the forgotten places of the urbanised territory, there are hidden opportunities
to improve an environment that we already consider our own; half way between that which is
natural and that which is built, between that which is real and that which is imagined. We want to
get ready to conquer those future territories”. Con questo testo veniva presentato il tema della prima
INTRODUZIONE 17

Biennale Europea del Paesaggio a Barcellona.


13
Vedi a proposito Gregotti Vittorio, Gli spazi aperti urbani: fenomenologia di un problema pro-
gettuale, in «Casabella», n. 527, 1986.
14
Secchi Bernardo, La città del ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005, p. 39.
15
Paola Viganò scrive: “Con materiali urbani ho sin qui inteso gli elementi che concorrono alla co-
struzione della città e dei quali la città è deposito attivo; attraverso di essi, osservandone mutamenti,
permanenze e assenza, è possibile leggere tradizione e innovazione nella progettazione della città e
del territorio; intenzioni e pratiche dei differenti soggetti e attori, comportamenti e stili di vita, dif-
ferenti teorie e progetti di città”, scrive ancora Paola Viganò: “…l’impiego del termine materiale pone
come problema aperto quello della relazione tra la parte e il tutto, sottintende la costruzione di un qua-
dro d’insieme i pezzi del quale non sono dati a priori, ma si incontrano, portate da esigenze particolari,
sono riconosciuti come utilizzabili, sono oggetto di bricolage”, in Viganò Paola, La città elementare,
Skira, Milano, 1999, p. 121 e p. 10.
16
Pollak Linda, Il paesaggio per il recupero urbano. Infrastrutture per uno spazio quotidiano che
comprenda la natura, in «Lotus», n. 128, 2006, p. 33.
17
Secchi Bernardo, La città del ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005, p. 39-40.
18
Panzini Franco, Progettare la natura. Architettura del paesaggio e dei giardini dalle origini
all’epoca contemporanea, Zanichelli, Bologna, 2005, p. 334.
19

1. SPAZI RESIDUALI

1.1 Gli spazi residuali nella città contemporanea

“Nella vastità del territorio urbanizzato gli spazi liberi mostrano origini e
connotazioni diverse, sono aree smarginate che si insinuano tra gli edifici e si
dissolvono nella campagna, aree residuali ritagliate casualmente dal limite mu-
tevole dell’edificato, spazi interstiziali compressi tra la residenza e l’infrastrut-
tura o aree della dismissione industriale e agricola: modi diversi di declinare
il vuoto, ‘specie di spazi’ non chiaramente definibili, difficili da classificare”1.
Ignasi de Solà Morales constata come la fotografia sia un efficace mezzo
per descrivere la complessità della città2. I fotomontaggi di Paul Citroen, Man
Ray o John Heartfield, che attraverso l’accumulazione e la giustapposizione di
grandi oggetti architettonici intendono spiegare l’esperienza della metropoli,
creano un immaginario di città. Ma con l’esibizione al MOMA nel 1955 dell’ope-
ra di Cartier Bresson, Robert Capa e David Seymour, raccolta nella pubblica-
zione di Robert Frank The Americans, ha inizio un altro fenomeno che avrà il
suo culmine negli anni settanta quando si svilupperà una diversa sensibilità nel
guardare le grandi città. Non vi è più la sola esigenza di mostrare/elencare la
moltitudine degli oggetti architettonici come unici elementi costituenti la città.
L’attenzione si sposta verso quegli spazi vuoti e abbandonati dove una serie di
avvenimenti hanno avuto luogo: queste pause spaziali sembrano sottomettere
l’occhio del fotografo urbano e divengono il principale soggetto da raccontare
non solo come esperienza fisica dello spazio, ma anche come narrazione di uno
stato emozionale, mentale, psicologico.
Sono molti i fotografi che hanno cercato di carpire l’essenza di questi spazi;
John Davies, David Plowden, Thomas Struth, Jannes Linders, Manolo Laguillo
e altri ci mostrano come questi luoghi siano interni alla città, ma allo stesso
tempo esterni all’uso quotidiano, isole svuotate lasciate fuori dai circuiti pro-
26 1. SPAZI RESIDUALI

1.2 Ipotesi sui processi di formazione degli spazi residuali

I fenomeni naturali che, attraverso la dissipazione di energia, producono


residui sono numerosi. I frammenti generati dalle supernove che esplodono
nello spazio raccolgono polvere e gas formando nuove stelle. Il magma che
fuoriesce dai vulcani e distrugge tutto quello che incontra nelle sue devastanti
colate, si trasforma nel tempo in suolo fertile, ricettacolo di nuove vite vegetali.
Le piante, attraverso il processo di fotosintesi, scambiano ossigeno e anidride
carbonica che poi rilasciano sotto forma di carbone fossile o in sacche di pe-
trolio. Anche l’uomo è un agente di questo processo dinamico: egli è artefice
più di altri di questo continuo processo di trasformazione di elementi in tempi
che sono ben più brevi di quelli dettati dalla natura.
“Questi grandi processi dissipativi trovano eco nell’insediamento umano.
Gli edifici vengono abbandonati, spostati o demoliti, intere aree vengono sgom-
brate e riedificate. I materiali si degradano e invecchiano, vengono frantuma-
ti e riusati. Il vandalismo e gli incendi rendono inutilizzabili solide strutture.
Aree centrali delle città possono cadere in abbandono – prima lentamente, poi
con velocità crescente. I suoli vengono svuotati o abbandonati. Usi rifuggiti,
non desiderati vengono deviati verso aree marginali. Intere città possono deca-
dere o essere gradualmente abbandonate”1.
Un intervento distruttivo su uno spazio urbano non rappresenta l’annulla-
mento dello stesso, ma la sua trasformazione verso un nuovo stato, quello di re-
siduo. “Il carattere distruttivo non ha alcun modello. Ha pochi bisogni, e nulla
gli importa meno che: sapere cosa subentra al posto di ciò che è stato distrutto.
In un primo momento, almeno per un attimo, lo spazio vuoto, il luogo dove
stava la cosa, dove la vittima ha vissuto. Si troverà certamente qualcuno che lo
usa, senza prenderne possesso”2, così lo racconta Walter Benjamin. In questa
34 1. SPAZI RESIDUALI

1.3 Quale definizione per gli spazi residuali?

Gli spazi residuali, terreni abbandonati e desertici, venivano identificati se-


condo una lettura prettamente economica e produttiva come luoghi di puro
degrado; in seguito la loro immagine viene riscattata dall’interesse degli artisti
che, affascinati da questi “vuoti”, dal loro carattere di abbandono e margina-
lità, ne hanno messo in evidenza il carattere estetico. Queste “terre incolte”1
vengono rappresentate per quel che sono, mettendo in evidenza il loro carat-
tere di libertà, dato dalla distanza dalle dinamiche capitalistiche, e sono dun-
que intese come riserve sottratte ai meccanismi economici, terreni estranei e
stranieri rispetto all’efficienza produttiva della città. “Combinando un senso
dell’abbandono come resa e nostalgia con un’attrazione per il vuoto contrad-
detta, in una coinvolgente alternanza, da una pronunciata agorafobia, si ottiene
una singolare dimensione poetica”2.
Ignasi de Solà Morales nel 1996 descrive quei luoghi coniando il termine ter-
rain vague 3. Egli usa il termine francese terrain piuttosto che quello inglese
land perché lo ritiene più appropriato: il termine francese connota infatti una
qualità più urbana, si riferisce al lotto minimo necessario per la costruzione
della città, mentre quello inglese ha assunto significati più agricoli e geologici.
Ma terrain si riferisce anche a territori più vasti e meno precisamente definiti,
legati al concetto fisico di una porzione di terreno con le sue potenzialità di
sviluppo, ma già in possesso di una forma di definizione a cui siamo estranei.
Per quanto riguarda il secondo termine, vague, Solà Morales mette in evidenza
la doppia radice latina vacuus e vagus, che si riferisce ad uno spazio vuoto,
non occupato, ma al tempo spesso libero, disponibile. La natura che caratte-
rizza questi territori indefiniti e incerti dunque, è sia quella dell’assenza di uso
e funzione, che quella di promessa e di speranza, che li trasforma in territori
48 1. SPAZI RESIDUALI

Schema Processi-Definizioni

Con questo schema si mettono in


relazione, in modo sintetico, i pro-
cessi di formazione dello spazio re-
siduale con alcune delle definizio-
ne prese in esame in precedenza.
I processi di trasformazione pos-
sono essere letti sia seguendo un
andamento ciclichico dove ognuno
è in qualche modo correlato a quel-
lo successivo secondo una possibile
logica di casualità, sia come eventi
esterni che si inseriscono all’in-
terno del sistema generando delle
modificazioni. Le diverse accezioni
di spazio residuale sono posizio-
nate secondo due diversi criteri:
l’influenza che un determinato pro-
cesso esercita nella formazione di
tale spazio, esplicitata dalla distan-
za più o meno rilevante dal vettore
che lo identifica; l’affinità all’acce-
zione di residuo che ne determina
la posizione più o meno centrale.
1.3 QUALE DEFINIZIONE PER GLI SPAZI RESIDUALI? 49
50 1. SPAZI RESIDUALI

Condizione di residualità in funzione del tempo e del grado di


sabilità dello spazio. Caso1: catastrofe

In questi grafici si descrive la con-


dizione di residualità di uno spazio
urbano in funzione del suo grado
di stabilità e del tempo. Per grado
di stabilità intendiamo il grado di
persistenza delle caratteristiche
spaziali, relazionali e fenomeno-
logiche presenti all’interno di un
sistema urbano.
Nel primo caso, che potremmo as-
sociare ad un processo di “distru-
zione”, lo “0” coincide con l’inizio
dell’osservazione dei fenomeni
e delle relazioni già presenti nel
sistema urbano; tale sistema è con-
traddistinto da un grado di stabi-
lità costante nel tempo. L’instante
t1 rappresenta l’inizio dell’azione
distruttiva e coincide con una va-
riazione del grado di stabilità del
sistema urbano, da questo momen-
to lo spazio viene caratterizzato da
una condizione di residualità che
presenta un grado di stabilità dif-
ficilmente definibile. Nel momento
t2 interviene un’azione di recupe-
ro, di riprogettazione dello spazio
che definisce un nuovo livello del
grado di stabilità.
1.3 QUALE DEFINIZIONE PER GLI SPAZI RESIDUALI? 51

Condizione di residualità in funzione del tempo e del grado di


stabilità dello spazio. Caso2: abbandono.

In questo secondo caso, che po-


tremmo associare ad un processo
che si attua in un lasso di tempo
più dilatato: processo di “abbando-
no” ad esempio, si può osservare
come il grado di stabilità, dal mo-
mento dell’inizio dell’osservazione
“0”, stia già subendo una diminu-
zione costante nel tempo poichè il
processo è già in atto. Il momento
t1 coincide con il compimento del
processo e con il conseguente ini-
zio della condizione di residualità
caratterizzante il sistema urbano.
L’andamento del grado d’instabilità
diminiusce con maggiore velocità
fino a raggiungere il momento t1’,
da questo punto la sua progres-
sione nel tempo diventa costante
finché non verrà innescato nel
sistema urbano un processo di ri-
progettazione (t2).
53

2. STRATEGIE DI RIGENERAZIONE

“La natura crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò
che fu non ritorna – tutto è nuovo seppur sempre antico. Viviamo in mezzo a
lei, e le siamo stranieri. Essa parla continuamente con noi, e non ci tradisce il
suo segreto. Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di lei nessun po-
tere. Sembra aver puntato tutto sull’individualità, ma non sa che farsene degli
individui. Costruisce sempre e sempre distrugge: la sua fucina è inaccessibile.
Vive tutta nei suoi figli; ma la madre dov’è? Unica vera artista, essa va dalla più
semplice materia ai contrasti più grandi e, apparentemente senza sforzo, alla
perfezione assoluta – alla determinatezza più precisa, eppure delicata. Ognuna
delle sue opere ha la propria essenza, ognuna delle sue manifestazioni il con-
cetto più isolato; eppure, formano un Tutto unico. […] C’è in lei una vita eterna,
un eterno divenire, un moto perenne; eppure, non fa un passo avanti. Si trasfor-
ma di continuo, non conosce un attimo di quiete. Ignora l’immobilità; colpisce
di maledizione l’indugiare. […] Anche la cosa più innaturale è natura. Chi non
la vede dappertutto, non la riconosce in nessun luogo. […] Non ha linguaggio
né discorso, ma crea lingue e cuori attraverso i quali parla e sente. […] A cia-
scuno appare in una forma diversa. Si nasconde sotto mille nomi e termini, ma
è sempre la stessa”1 .(J. W. Goethe)

In una sorta di rapporto di continuità, la vegetazione che si fa carico della


trasformazione dello spazio residuale ne conserva la natura instabile e in con-
tinuo divenire, ma lo modifica in altro, attraverso l’azione progettuale.
Il materiale vegetale, termine con cui si intendono genericamente alberi,
arbusti, erbacee, è un materiale in continua trasformazione. Esso segue un
doppio ciclo di sviluppo: uno è quello vitale, durante il quale assistiamo alla
2.1 MARGINALITÀ URBANE. LA VEGETAZIONE COME ELEMENTO DI RELAZIONE 59

2.1 Marginalità urbane.


La vegetazione come elemento di relazione

L’utilizzo di materiale vegetale nel disegno dei margini urbani è stato teoriz-
zato nella prima metà dell’800 in Inghilterra da John Claudius Loudon per Lon-
dra. Il problema si pose quando il “signore di Hemstead chiese a John Claudius
Loudon di recintare Hampstead Heath, una vasta area incolta, composta di
prati e boschi, di cui fino ad allora aveva potuto liberamente godere la collet-
tività. […] La recinzione dei duecento acri di Hampstead Heath rappresentava
un altro clamoroso tassello nella progressiva edificazione dei tradizionali spazi
aperti, e con questo spariva, secondo la definizione prediletta dai contempora-
nei, uno dei più importanti polmoni verdi”1. Nello schema a centri concentrici
della città di Londra, John Claudius Loudun ipotizza “che quando una cittadina
sta per estendersi oltre un diametro di mezzo miglio, si dovrebbe individuare
un’area di respirazione da lasciare inedificata, a vantaggio della salute della
parte più povera degli abitanti”2. Nelle principali città inglesi si sentiva già la
necessità della presenza di aree verdi per risanare, moralizzare e ricreare la
popolazione, ma soprattutto per ovviare alle problematiche poste dall’urba-
nizzazione. Il piano di John Claudius Loudon, seppur nella sua formalizzazione
utopica, si pone la questione dell’assoluta necessità per il benessere dei cittadi-
ni di alternare ad aree costruite aree verdi utilizzabili dagli abitanti.
La proposta di John Claudius Loudon di utilizzare la vegetazione come ele-
mento di limitazione dello sviluppo incontrollato dell’edificato ha un rovescio
molto più importante che è quello del ruolo di connessione che la green belt
può assolvere: “la belt non divide, ma riconnette senza dover ricorrere alla li-
nea retta delle percées e senza rinunciare a tenere distinte città e campagna”3.
Quello che John Claudius Loudon prefigura è la trasformazione della metropo-
li londinese, “che sarebbe divenuta un succedersi di scenari collegati fra loro
2.1 MARGINALITÀ URBANE. LA VEGETAZIONE COME ELEMENTO DI RELAZIONE 63
64 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
2.1 MARGINALITÀ URBANE. LA VEGETAZIONE COME ELEMENTO DI RELAZIONE 65

Dieter Kienast
Progetto paesaggistico per Kronsberg
Hannover, Germania
1995-2000

Il quartiere di Kronsberg si sviluppa nella periferia sud-est della città di Han-


nover in Germania. Nato nel 1990 per rispondere alle esigenze che si sarebbero
presentate in occasione dell’EXPO del 2000, ospita circa 6000 abitanti. Esso
sorge sull’omonima collina che costituisce il limite topografico tra il paesaggio
agricolo che si estende ad est e la periferia della città a ovest. Il piano di svilup-
po prevede una lottizzazione più vasta che inizia dall’autostrada a nord, fino a
confluire nell’area dell’EXPO posta a sud; inoltre è previsto il rimboschimento
del crinale della collina. Il rilievo collinare di Kronsberg ha una altitudine poco
rilevante: il dislivello è minimo e difficilmente chi cammina si rende conto di
aver raggiunto la sommità.
Il progetto del paesaggista svizzero intende dotare questa area di una sua
identità riconoscibile partendo dalle sue caratteristiche topografiche e orogra-
fiche, con l’obiettivo di definire in modo chiaro ambiti di paesaggio che possa-
no dialogare con il territorio agreste e lo sviluppo del nuovo distretto urbano,
spazi vegetali atti a soddisfare le esigenze ricreative dei cittadini che possano
costituire un’esperienza sensoriale, in quanto dotati di numerose varietà di flo-
ra e di fauna tali da formare degli habitat dall’alto valore ecologico.
La testata orientale della conurbazione di Hannover è composta da una suc-
cessione di pieni e vuoti che, spostandosi verso ovest, risulta costituita dalla
lottizzazione dei nuovi quartieri, dal grande prato, dal bosco situato sul crina-
le della collina; questo costituisce il limite ultimo verso il territorio agrario.
Tale successione di spazi viene attraversata e messa in collegamento da “par-
chi-corridoio” che stabiliscono una connessione fisica e visiva tra la città e la
campagna. Il terreno comune, caratterizzato semplicemente dalla presenza di
prato, garantisce un grande spazio pubblico estremamente flessibile e si con-
2.2 AREE PRODUTTIVE URBANE. DALLA DISMISSIONE ALLA COLONIZZAZIONE VEGETALE 71

2.2 Aree produttive urbane.


Dalla dismissione alla colonizzazione vegetale

“Nelle città si aprono continuamente fratture, si moltiplicano i luoghi depri-


vati di funzioni e ruoli, i luoghi che hanno perso la loro fisionomia per lo scio-
glimento del rapporto tra l’aspetto fisico, il carattere sociale delle attività e
degli abitanti, la storia della città. Di questi ‘vuoti’ le aree industriali dismesse
costituiscono certamente la componente più rilevante. Nonostante il carattere
esteso e radicale del fenomeno non emergono indicazioni progettuali che con-
sapevolmente colgano l’occasione per una ridefinizione dell’assetto urbano”1.
Negli anni Ottanta la risposta alle problematiche poste dalle aree industriali
dismesse aveva come obiettivo primario quello di massimizzare le quantità di
superfici e volumi insediabili. Questo portò alla costruzione di grande aree
dedicate alle attività terziarie determinando nuove concentrazioni edilizie e
congestioni nei poli metropolitani. Successivamente, vi fu una ridefinizione dei
metodi d’approccio per il recupero delle aree urbane dismesse derivante da
una maggiore sensibilizzazione nei confronti di temi quali l’ecologia e la biodi-
versità, “a partire degli anni Novanta comincia a formarsi un discreto interesse
intorno al concetto di parco come parte della città, che muta con l’evoluzione
e il cambiamento del tessuto urbano e della storia della città”2. L’utilizzo del-
le aree dismesse, spazi residuali all’interno del denso tessuto della metropo-
li contemporanea, costituisce una grande occasione per dotare la città di un
elemento indispensabile per la costruzione del suo paesaggio e per la buona
qualità di vita dei suoi abitanti: la vegetazione. “I processi di dismissione, infat-
ti, determinano non soltanto una diminuzione del carico inquinante in ambito
urbano, ma dischiudono opportunità connesse all’introduzione di elementi at-
tivi nel bilancio ecologico urbano: in relazione alle scelte di destinazione d’uso
futura, gli interventi di riqualificazione potranno consentire di accrescere il
2.2 AREE PRODUTTIVE URBANE. DALLA DISMISSIONE ALLA COLONIZZAZIONE VEGETALE 75
76 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
2.2 AREE PRODUTTIVE URBANE. DALLA DISMISSIONE ALLA COLONIZZAZIONE VEGETALE 81

Peter Latz + Partners


Parco Dora
Torino, Italia
2004-

L’area oggi denominata “Spina 3”, che si estende per una superficie di circa
100 ettari, è stata caratterizzata, sino a due decenni fa circa, da una forte pre-
senza industriale, grazie alla sua localizzazione strategica nei pressi del fiume
Dora e lungo i binari della linea ferroviaria. L’area si colloca nella zona nord-o-
vest della città, non troppo distante dal centro ed oggi è in parte inglobata
all’interno dello sviluppo edilizio e in parte si apre verso ovest al territorio
agrario circostante.
Dagli ultimi decenni dell’Ottocento, su questo territorio si insediarono alcune
delle storiche fabbriche torinesi: Ferriera Fiat, Michelin, Savigliano e Paracchi.
I quartieri limitrofi, nati come borghi extraurbani – San Donato e Campidoglio
a sud, Lucento e Madonna di Campagna a nord – attrassero un numero sempre
maggiore di lavoratori e divennero il cuore della “barriera operaia” torinese.
Questi formano un tessuto edilizio estremamente compatto e ai densi blocchi
abitativi si alternano edifici adibiti a piccole attività produttive, botteghe e pic-
cole industrie legate allo sfruttamento dei canali. Questi quartieri, che hanno
convissuto strettamente con le fabbriche, oggi confinano direttamente con i
nuovi comprensori residenziali.
Il progetto del parco Dora, che occuperà una superficie di circa 45 ettari
all’interno dell’area “Spina 3”, diverrà il cuore pulsante di questa trasformazio-
ne e si farà carico della ricucitura del tessuto urbano dell’intera zona, diventan-
do l’elemento connettivo tra nuovi e vecchi insediamenti. All’interno dell’intera
area sono previsti anche il centro di ricerca e sviluppo tecnologico, la chiesa
di San Volto di Mario Botta con la ciminiera trasformata in campanile, edifici
per uffici e per abitazione ad alta densità. Il progetto del parco è il risultato di
una gara internazionale a procedura aperta, avviata nella primavera del 2004;
88 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE

2.3 Paesaggi dell'infrastruttura.


Connessioni vegetali

La questione dello spazio residuale in relazione all’infrastruttura coinvolge


entrambi i temi precedentemente analizzati: la marginalità e la dismissione.
Nel primo caso si tratta di ripensare i confini dell’infrastruttura, quei bordi
sfrangiati, dallo spessore variabile, che la relazionano con il paesaggio urbano
che attraversa. Ma si tratta anche di ripensare a tutti quegli spazi interstiziali
che genera: gli svincoli, le rotatorie, gli spartitraffico. L’opera infrastrutturale
non è più solamente il collegamento funzionale che nel minor tempo possibile
ci permette di andare da un punto all’altro, ma diventa uno spazio complesso e
multifunzionale. La nuova strada torna ad essere una sorta di boulevard con-
temporaneo che cerca relazione con la metropoli e l’utilizzo della vegetazione
sembra prendere sempre più importanza in questo nuovo approccio all’infra-
strutturazione. “Questo ‘ritorno al giardino’ nella pratica contemporanea ma-
nifesta senza dubbio una condizione di debolezza dell’architettura: l’intervento
paesaggistico appare chiamato a riempire o a creare un luogo, trovando una
maniera coerente con l’architettura, soprattutto all’intorno o ai margini delle
infrastrutture o di edifici di grandi dimensioni, o a creare una ‘soglia’ tra l’in-
frastruttura e la città contemporanea. L’opera di paesaggio è invitata così a
porre rimedio e ricomporre con un’azione estetizzante le situazioni problema-
tiche, create soprattutto dalle infrastrutture o dall’abbandono, e l’intervento
del paesaggista è visto come una cura necessaria per il territorio, finalizzato a
generare uno spazio ‘vivibile’”1.

_ri-marginare/ri-definire

Nel complesso snodo stradale della Trinitad situato su quello che era origina-
2.3 PAESAGGI DELL'INFRASTRUTTURA. CONNESSIONI VEGETALI 91
92 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
2.3 PAESAGGI DELL'INFRASTRUTTURA. CONNESSIONI VEGETALI 93

Philippe Mathieux, Jacques Vergely


Promende plantèe
Parigi, Francia
1996-99

La linea ferroviaria che collegava Place de la Bastille al sobborgo di Verneu-


il-l’Etang, lunga 54 chilometri, fu costruita nel 1959 con lo scopo principale di
concentrare nel Faubourg Saint-Antoine la popolazione operaia che lavorava
nelle numerose officine; d’altra parte, permetteva alla popolazione parigina
di spostarsi verso le piste da ballo sulle sponde della Marna. La breve linea
ferroviaria fu dismessa il 13 Dicembre 1969 e ciò rappresentò subito un pro-
blema per il recupero di questa infrastruttura incastonata al centro di Parigi.
Il tracciato ferroviario era punteggiato da tre luoghi: la stazione di Vincennes
alla Bastiglia, sostituita nel 1984 dal teatro dell’Opera, lo scalo merci di Reully,
la cui area di tredici ettari fu convertita in zona di pianificazione concentrata
(ZAC) e la piccola stazione di Bel-Air che fu subito demolita per fare posto al
quartiere soprannominato Sahel-Montempoivre. Il tracciato rotabile tra questi
punti ha una lunghezza di quattro chilometri ed è caratterizzato da viadotti,
terrapieni e trincee. Affinché sia possibile comprendere totalmente la natura di
questo progetto di recupero infrastrutturale è necessario individuare la testata
est della promenade, quella situtata nel quartiere Sahel-Montempoivre. Si trat-
ta di uno spazio che conserva ancora tutte le caratteristiche di residualità del
tracciato ferroviario dismesso, dove la vegetazione cresce in modo spontaneo
e invasivo. I binari sono ancora presenti nel terreno e stanno ad indicare il vec-
chio tracciato ferroviario, altri sono stati utilizzati come elementi di “arredo
urbano”. L’intervento progettuale di trasformazione di questa testata è davvero
minimo, tutto teso a trasformare questo spazio in un luogo della memoria che
vuole mettere in evidenza tutte le caratteristiche embrionali che hanno genera-
to l’intera operazione di trasformazione. Qui sono ancora presenti gli elementi
dell’infrastruttura, la vegetazione infestante, il carattere di residualità e di in-
96 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
2.3 PAESAGGI DELL'INFRASTRUTTURA. CONNESSIONI VEGETALI 97

Ingo Kowarik e Andreas Langer, Gruppe Odious


Schöneberger Südgelände Natur Park
Berlino, Germania
2008-2009

Il parco naturale di Südgelände è situato all’interno di una vasta area carat-


terizzata da una forte infrastrutturazione e sorge sul sito del vecchio tracciato
ferroviario adibito alla movimentazione delle merci che fu costruito tra il 1880-
1890 e rimase in funzione fino alla seconda guerra mondiale. Fino al 1952 il
tracciato e i capannoni per la riparazione continuarono ad essere utilizzati e
negli anni successivi non furono mai del tutto abbandonati, tuttavia per tutta
l’estensione del sito la presenza della natura diventava sempre invasiva fino
a caratterizzare quel luogo. Benché quest’area sia situata nella zona centrale
di Berlino, a sud-ovest dell’aeroporto Tempelhof, le questioni politiche interne
lasciarono che questo sito passasse inosservato per molti anni e l’assenza di
strade e percorsi lo rese inaccessibile agli abitanti. Alla fine degli anni settanta,
le autorità proposero la nuova costruzione di una piccola stazione di smista-
mento, ma il rinnovato interesse a quest’area portò i cittadini a proporre la
creazione di un parco naturale. Gli studi ecologici evidenziarono l’alto indice
di biodiversità animale e vegetale che si era sviluppata nel corso degli anni
dell’abbandono, indicando la Südgelände come una delle zone della città più
preziose dal punto di vista ecologico. In seguito a queste considerazioni gli enti
locali abbandonarono l’idea della nuova stazione e di urbanizzazione intensiva
dell’area, e si orientarono verso la creazione di un grande parco naturale dalle
alte valenze ecologiche. Solo dopo la riunificazione delle due Germanie è stato
possibile attuare il piano per il parco ed è stato inaugurato solo nel 2000, ben 50
anni dopo la chiusura del tracciato ferroviario e venti dopo che la popolazione
propose l’idea di destinare l’area per la creazione di una riserva naturale. Il
parco si estende su una superficie di circa 18 ettari e si sviluppa verso nord per
una lunghezza di circa 1,5 Km. L’assenza dell’uomo, le diverse esposizioni del
2.4 INTERSTIZI URBANI. PRATICHE DI GIARDINAGGIO 99

2.4 Interstizi urbani.


Pratiche di giardinaggio

Finora sono stati analizzati quegli spazi residuali che trasformati con l’uso di
materiali vegetali sono diventati, attraverso il progetto, parchi, giardini urbani,
aree verdi. Questi spazi hanno assunto all’interno della città contemporanea il
ruolo di spazi pubblici, restituendo agli abitanti aree un tempo abbandonate,
degradate e inaccessibili. Si è messo in evidenza quanto questi spazi siano in-
dispensabili per l’equilibrato sviluppo della città, ma anche per il loro valore
sociale che si esprime sia attraverso un miglioramento della qualità di vita dei
cittadini, sia nella conservazione di un buon equilibrio ambientale nelle aree
urbane. All’interno di questi spazi vegetali si svolgono numerose attività: ri-
creative, ludiche e oziose; alla natura viene affidato il compito estetico di fare
da sfondo a queste senza che vi sia però una interazione tangibile tra l’uomo e
la vegetazione. È necessario a questo punto cambiare il punto di vista, traslar-
lo dal “giardino al giardiniere, o dal giardino al giardinaggio, sarebbe a dire
dall’oggetto all’attività, dall’oggetto al processo, dall’oggetto all’atto”1 e quindi
chiedersi se il giardinaggio possa avere un ruolo nella trasformazione degli
spazi residuali e più in generale nella “costruzione” del paesaggio urbano. Nel
2002 la ventitreèsima conferenza annuale dell’Associazione dei giardini comu-
nitari americani (ACGA 2) che si è tenuta a New York adottò il titolo: Gardeners
Restore Our World testimoniando chiaramente le preoccupazioni di questa as-
sociazione nei confronti dello stato di salute del nostro pianeta e quale ruolo
possa avere il giardinaggio nel contrastare un degrado planetario apparente-
mente inarrestabile3. L’attività di cura delle piante, o più in generale di giar-
dinaggio, viene espletata perlopiù all’interno dei giardini, che non si vogliono
identificare solamente nello spazio dove viene messa in atto l’estetizzazione
della natura; “il giardino è un’antica immagine, metafora della ‘leggibilità del
110 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE

Lois Weinberger
Ruderals
Innsbruck
1992-1998

Alla teoria del giardino in movimento di Gilles Clément è assimilabile il lavoro


degli artisti austriaci Lois e Franziska Weinberger, tutto incentrato ad indagare
il rapporto tra natura, arte e società. “La ricerca analitica e l’investigazione ar-
tistica delle forme, entrambe realizzate dalla scienza creativa degli autori, sono
adatte per liberare i processi naturali e culturali verso un modello di crescita
non strutturato, marginale, incidentale. […] Il loro lavoro si presenta come una
meticolosa esplorazione dello spazio poeticamente codificato per dinamici,
proliferanti e fragili rappresentazioni di processi vitali sociali enti-normativi
e culturali”1. La vegetazione non viene utilizzata per creare paesaggi idilliaci,
tantomeno per riproporre l’idea di un utopico “giardino dell’Eden”, la loro atten-
zione è incentrata sulle erbacce che spuntano ai margini e negli interstizi della
città e prosperano tra gli scarti della società umana. Si tratta di una “natura se-
condaria” che fiorisce in un paesaggio post-industriale dove nella periferia del-
lo spazio sociale convergono una moltitudine conflittuale di forze e la natura si
sovrappone alla civiltà. L’opera Ruderals (1992-1998), una gabbia costituita da
tondini di ferro, è stata costruita in uno spazio adiacente alla Facoltà di Scien-
ze Sociali dell’università di Innsbruck. Questa gabbia, inaccessibile all’uomo,
crea uno “spazio vuoto all’interno del tessuto urbano e la sua riforestazione
viene affidata al vento / agli uccelli / ai semi già presenti nel terreno”2. Wein-
berger vuole evidenziare quanto siano inutili recinti o demarcazioni territoriali
per la vegetazione spontanea, “non c’è distinzione tra dentro e fuori, tra ‘buono’
e ‘cattivo’. Esiste semplicemente un processo vitale, un flusso dinamico, reso
evidente attraverso strutture e modelli di percorsi evolutivi incontrollati. Na-
turalmente questo flusso dinamico è valido tanto per il ‘sociale’ quanto per la
natura”3. Tutto il lavoro degli artisti austriaci può esser interpretato in senso
113

3. CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

Negli ultimi trenta anni gli studi sulla città adriatica si sono succeduti senza
sosta. Capofila di numerose ricerche sono state le Università di Architettura
di Pescara prima e poi la più giovane Scuola di Architettura e Design di Ascoli
Piceno. Architetti, urbanisti, sociologi, antropologi hanno dato, secondo le spe-
cificità della loro disciplina, una chiave di lettura che ha contribuito a costru-
ire un’idea ampia su questa complessa porzione di territorio italiano. Gli studi
hanno seguito le evoluzioni del tempo, le trasformazioni della società, le varia-
zioni dell’economia e le trasformazioni del territorio. Da una parte cercando di
interpretare il presente, dall’altra cercando di proiettarsi in un prossimo futuro
attraverso risposte progettuali in grado di migliorare le condizioni di vita della
cittadinanza e di preservare gli equilibri di un territorio sensibile.
Ogni periodo storico ha avuto il suo tema trainante attorno al quale ruo-
tavano ipotesi e tesi della ricerca: l’importanza dell’infrastruttura, la scarsa
qualità degli spazi abitativi, il valore dei tessuti urbani consolidati, il fascino
dell’archeologia industriale, la molteplicità degli spazi aperti. È chiaro che le
questioni si intrecciano e lo studio di una non può prescindere dall’altra in una
città diffusa così stratificata ed eterogenea. Gli studi elaborati negli anni han-
no prodotto mappe, schemi, diagrammi, progetti che hanno vivisezionato ogni
aspetto del territorio evidenziandone tutti gli elementi che lo compongono, le
relazioni tra le parti, gli usi, la densità, inoltre hanno cercato di esaltarne le
qualità e circoscriverne le fragilità.
In questa sede non racconteremo la città attraverso quegli strumenti per cui
esiste una bibliografia esauriente, dettagliata e scientificamente ineccepibile.
Ma ci riferiremo a un lavoro molto recente di un artista d’eccezione che, attra-
verso la macchina fotografica e uno sguardo originale, ha raccontato molte
114 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

città del mondo: Olivo Barbieri.


Il lavoro La città perfetta, parte della raccolta “site specific”, voluto dal Mu-
seo MAXXI e realizzato in collaborazione con Eni, il Corpo Forestale dello Sta-
to e l’Associazione Demanio Marittimo. Km-278 è stato presentato in anteprima
regionale nel mercato ittico ad Ancona in occasione della presentazione del
numero 7 della rivista MAPPE. La città perfetta è una lunga sequenza di 7942
immagini fisse riprese dall’elicottero intervallate da una partitura cromatica
rossa e alcune sequenze filmate dal basso, tutta l’opera è accompagnata da
un suono incessante che scandisce il ritmo della successione dei fotogrammi1.
Non c’è una struttura nel racconto di Olivo Barbieri, non c’è un procedere logi-
co nell’esplorazione dello spazio, non c’è un tema nella successione delle imma-
gini. Tutta la sequenza, che dura circa 30 minuti, è un incalzare incessante di
immagini che mostrano la molteplicità degli elementi della conurbazione adria-
tica. Si succedono, una dietro l’altra con ritmo serrato, immagini di capannoni,
abitazioni, centri storici, infrastrutture, centri commerciali, parcheggi, uliveti,
stabilimenti balneari, fortezze, alberghi, boschi, giardini recintati, fiumi, monu-
menti, campi agricoli. La serie di fotografie mostra, in un tempo lineare, le tre
topografie sovrapposte che costruiscono la ”Adriati-città” raccontata da Pippo
Ciorra. “La prima di queste topografie è evidentemente quella ‘naturale’. Fat-
ta da un sistema alternato di valli e creste collinari perpendicolari alla costa
[…] La seconda è quella della struttura urbana storica, che si è consolidata
in questione tra il Quattro e il Cinquecento […] La terza, e più complessa, to-
pografia è quella della città contemporanea, metropolitana e continua, che si
sovrappone con brutale neutralità alle altre due, ininterrotta e indifferente sia
all’andamento del paesaggio che alla struttura urbanistica storica, governata
dalle nuove infrastrutture e dalle trasformazioni del tessuto produttivo”2. Pro-
prio le immagini che si soffermano sul paesaggio contemporaneo creano nello
spettatore un senso di spaesamento. È impossibile collocare geograficamente
nel territorio adriatico un capannone piuttosto che un altro, una casa isolata
nella campagna, un centro commerciale, una lottizzazione o un segmento di in-
frastruttura. L’assenza di una struttura narrativa nel racconto di Olivo Barbieri
fa apparire questi elementi della città come pezzi di un collage appartenenti
ad uno stesso sfondo territoriale, ma che possono essere intercambiabili, per
“analogia”, senza che l’essenza del territorio si snaturi. A proposito di questo
aspetto è necessario ricordare l’esperimento condotto nella Scuola di Architet-
tura di Ascoli: True-topia. Città adriatica riciclasi3 all’interno del program-
ma di ricerca Re-cycle Italy. Cinque tasselli del territorio adriatico sono stati
estratti dai contesti reali e ricomposti in un contesto immaginario caratteriz-
3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA 115

zato dalla presenza di un fiume e un fascio infrastrutturale. “Al fotomontaggio


adriatico non si intende dare una valenza espressiva, comunicativa o artistica,
ma semplicemente una valenza tecnica finalizzata ad esprimere il carattere
di generalità che assumono le cose all’interno di un determinato insediamen-
to urbano. Le cose si affermano come tipologie elementari predefinite, forme
stereotipate che, isolate dal contesto di appartenenza, si rendono esportabili
e ricomponibili in un altrove, a dimostrazione della loro validità generale”4. Si
tratta quindi di una città dove elementi sempre diversi generano territori ur-
bani sempre uguali con i quali il progetto deve confrontarsi adottando delle
strategie idonee ai processi di trasformazione in atto. Ad esempio, l’abbandono,
il disuso, la dismissione di molti manufatti residenziali e produttivi.
La città adriatica è fatta anche di alcune architetture moderne5 riconoscibili
e a proposito di queste, e di dismissione, l’occhio di Olivo Barbieri scende. In
una di quelle poche occasioni che dicevamo, il suo sguardo si posiziona ad
altezza d’uomo e filma dal basso per una decina di secondi lo stabilimento ab-
bandonato della Montecatini a Porto Recanati, opera (forse) di Pier Luigi Ner-
vi. La grande copertura testimonia un periodo storico caratterizzato da una
produzione industriale che non esiste più e le sue qualità spaziali e costruttive
invitano a una riflessione riguardo un possibile riutilizzo. Lasciando da par-
te l’archeologia industriale che vede manufatti di pregio (costruttivo, estetico,
spaziale) abbandonati, nel territorio adriatico sono in numero esiguo, queste
immagini ci rimandano a un problema più recente inerente l’abbandono de-
gli spazi produttivi che costituiscono il patrimonio ordinario. Come racconta
Luigi Coccia in Riciclasi Capannoni si tratta di “capannoni dismessi, capan-
noni sottoutilizzati, capannoni ultimati, ma mai occupati, capannoni non finiti
sono gli elementi che contraddistinguono le aree improduttive nel territorio
medio-adriatico. Il capannone, fulcro delle attività di piccole e medie imprese
che nell’arco di un ventennio hanno dato forte impulso all’economia italiana,
è divenuto uno spazio vuoto, il segnale più evidente della crisi in atto. Lo sta-
to di abbandono non investe solamente i capannoni, opere edilizie che, come
direbbe Daniele del Giudice, ‘non hanno avuto tempo di accumulare tempo’,
ma anche lo spazio aperto espresso da aree di stoccaggio deserte, parcheggi
vuoti, piazzali desolati, strade trasformate in discariche abusive”6. Si tratta di
una quantità di manufatti che hanno eroso territori agricoli, o sono dispersi nel
territorio urbanizzato, o si trovano concentrati nei distretti industriali. Edifici
vuoti che a volte sono il frutto di una politica speculativa che vedeva nel capan-
none un investimento proficuo incentivato anche dalle leggi statali sugli utili
reinvestiti, altre volte sono la conseguenza di una riduzione dell’attività pro-
116 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

duttiva oppure di un’operazione di dislocazione. In questi ultimi anni ci si sta


interrogando sulle possibili strategie di riciclo di questi spazi cercando utilizzi
alternativi che seguano dinamiche differenti da quelle proprie della produzione
industriale, ma guardano a economie maggiormente legate al territorio o a for-
me alternative di turismo. Oppure si sono ipotizzati scenari nei quali si prevede
una ri-naturalizzazione degli spazi produttivi affinché si possa stabilire nuovo
equilibrio delle nuove relazioni tra trame agricole e piattaforme industriali.
In seguito, l’occhio di Barbieri si fissa su un altro “monumento” testimone di
un tempo che non è più: la Rotonda al mare di Senigallia. Nell’ipnotico alter-
narsi delle immagini con il colore rosso, questa pausa apre un’altra questione di
grande interesse e attualità per il territorio adriatico: il turismo. Già a partire
dagli anni Settanta, con la fine della costruzione della A14, il turismo adriatico
si sviluppa in modo veloce raggiungendo il suo apice negli anni Novanta. Mar-
co D'Annuntiis fa notare che “per rispondere alla crescente domanda di spazi
e servizi per il turismo balneare, le città rivierasche attuano una strategia di
crescita addizionale, di tipo ‘lineare’, conformata sull’immediata disponibilità
del bene spiaggia”7. Questo processo di espansione contribuisce a rafforzare
quella commistione tra spazi del quotidiano, della produzione, del turismo e
della natura, quest’ultima sempre più relegata a piccole aree protette in corri-
spondenza di fiumi o siti dall’ecosistema particolarmente fragile. La Rotonda di
Senigallia fu inaugurata negli anni Trenta, vide il suo massimo splendore negli
anni Cinquanta e Sessanta, venne chiusa negli anni Ottanta e riaprì nei primi
anni Duemila per ospitare eventi culturali o mondani. Questo edificio potrebbe
essere preso come simbolo di un’offerta turistica del litorale adriatico che nel
corso dei decenni non è riuscito a rinnovarsi né a trovare alternative alla risor-
sa mare. Antonio di Campli osserva che “da una condizione stabile e definita, lo
spazio del turismo adriatico, con i suoi tempi e le sue pratiche si sta ‘liquefacen-
do’: una perdita di capacità di attrazione, di solidità e valore simbolico, che si
accompagna ad una ibridazione con altri spazi e altre pratiche”8. Oggi il turista
va al mare, sceglie di vedere una mostra in qualche palazzo storico del centro
urbano, si inoltra nell’entroterra per una scampagnata e un pasto in qualche
agriturismo o sale fino al Monte Catria, come ci mostrano alcuni fotogrammi
di Barbieri, per godere della natura e della vista verso la valle. Il turista “divo-
ratore di paesaggi”, come li definisce Jost Krippendorf, è sempre più bulimico
e cerca stimoli sempre diversi.
Una terza e ultima questione che ci preme indagare e che ha rapito anche lo
sguardo del fotografo emiliano è quella sugli spazi residuali adriatici. Verso la
fine dell’opera, per circa trenta secondi, la macchina da presa rimane fissa a
3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA 117

inquadrare una coppia di signori seduti sui loro lettini prendisole sotto l’om-
brellone. Gli ignari protagonisti si trovano su una spiaggia dove vige il divieto
di balneazione a causa della vicinanza con la foce del fiume Esino e perché si
trova a ridosso della raffineria di Falconara, sfondo dell’inquadratura. Sono
questi gli spazi di frizione, dove l’impianto industriale semi dismesso è affian-
cato dalla foce del fiume che lo separa dalla spiaggia, questa si trova in con-
tinuità con una campagna delimitata verso il mare da architetture effimere
autocostruite e il tracciato ferroviario assieme alla statale adriatica divide il
tutto. Una vicinanza di materiali che si compenetrano ibridandosi, in altri casi
presentano dei limiti ben definiti, ma il loro impatto ambientale ha una risonan-
za che va ben oltre il perimetro delle loro recinzioni. “La costa, spazio a metà
tra lo stato liquido e lo stato solido si configura, almeno in Adriatico, come un
luogo residuale di frizioni tra differenti razionalità, spazio periferico che per
alcuni aspetti mostra i caratteri di ‘residuo’ (nel senso che a questo termine
viene dato da Gilles Clément). In questa situazione il progetto del litorale si
configura prevalentemente come un progetto di interfaccia ponendo la propria
attenzione in particolare sulle situazioni di frizioni tra ambienti e situazioni
diverse, sugli spazi di frizione tra l’ambito propriamente urbano, edificato, e
l’arenile, e tra spazi costruiti e spazi inedificati, spazi agricoli abbandonati e
dall’alto valore ambientale come negli spazi residuali posti a ridosso delle foci,
che sono spesso inedificati, ma che presentano rilevanti qualità ambientali e
paesaggistiche”9.
In un sistema territoriale che vede la continuità infrastrutturale dispiegarsi
parallela alla costa e una trasversalità segnata da valli più o meno profonde, gli
spazi residuali si dispongono in modo puntiforme, con intensità variabili per
la natura che li genera e in relazione ai contesti. Sono questi gli spazi dai quali
possono partire nuove riflessioni sulla trasformazione della città adriatica che
tengano assieme la molteplicità delle situazioni, l’emergenza del surplus volu-
metrico e rispondano a rinnovate dinamiche di turismo che non siano limitate
alla fruizione della spiaggia, ma offrano alternative all’interno di un territorio
più allargato. In una sorta di continuità virtuale con il lavoro di Barbieri, la
ricognizione fotografica che segue è una raccolta di immagini di spazi residuali
individuati in una porzione circoscritta della città adriatica che va da Senigallia
a Fano, per uno spessore che dal mare arriva fino ai piedi delle colline. Si tratta
dell’inizio di un’indagine tematizzata che esplora le molteplice sfaccettature di
tali spazi e analizza le relazioni territoriali per valutarne le potenzialità. Un’im-
presa che vede nelle prossime pagine l’inizio di un progetto più ambizioso.
118 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

NOTE

1
Colli Cristiana (a cura di), La città perfetta di Olivo Barbieri, in «Mappe. Luoghi percorsi progetti
nelle Marche», n. 8, luglio 2016.
2
Ciorra Pippo, “Adriati-città”, in Ciorra Pippo (a cura di), A14. La città adriatica in «Le cento città»,
n. 21, 2002.
3
Si è trattato di un workshop di progettazione che si è svolto l’11 e 12 ottobre presso la Scuola di
Architettura e Design di Ascoli Piceno (UNICAM). Questo evento ha costituito la prima tappa nazio-
nale della ricerca triennale PRIN Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture
della città e del paesaggio (2013-2016). Gli esiti progettuali e teorici del workshop sono stati raccolti
in: Menzietti Giulia (a cura di), True-topia. Città adriatica riciclasi, Aracne Editrice, Roma, 2014
4
Coccia Luigi, “Analogie”, in Menzietti Giulia (a cura di), Op. Cit., p.28.
5
“…il moderno è così profondamente mediterraneo, forse per questo ha trascurato anche lui le coste
adriatiche, depositandovi rarissimi e sporadici capolavori: qualche colonia marittima, una chiesa di
Libera presto demolita, e poco più, negli anni Venti e Trenta, una chiesa di Quaroni e poco altro negli
anni Cinquanta, in una fase che altrove vedeva una grande espansione dell’architettura italiana più
colta”, in Ciorra Pippo, Op. Cit., p. 9.
6
Coccia Luigi, “Dissoluzione programmata”, in Coccia Luigi, Gabbianelli Alessandro (a cura di),
Riciclasi capannoni, Aracne Editrice, Roma, 2015, p. 45.
7
D’Annuntiis Marco, “Città adriatica e turismo”, in Coccia Luigi, D’Annuntiis Marco, Oltre la spiag-
gia. Nuovi spazi per il turismo adriatico, Quodlibet, 2012, p.30.
8
di Campli Antonio, Adriatico. La città dopo la crisi, LISt Lab, Trento, 2009, p. 37.
9
di Campli Antonio, Op. Cit., p. 64.
119

3.1 Un atlante degli spazi residuali


120 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

Nei pressi di Torrette di Fano vi è


una fascia residuale, tra la strada
statale e la ferrovia, dove il suolo
è lasciato in completo stato di
abbandono. Limitato ad est dal
tracciato ferroviario, oltrepassato il
quale vi sono le strutture ricettive
alberghiere, e a ovest dalla statale
adriatica, oltre la quale si dispiega
il paesaggio agrario con le colline
che fanno da sfondo, questo nastro
vegetale, largo circa cento metri,
cosituisce un cuscinetto naturale
tra i due paesaggi. La sua prece-
dente vocazione all’attività agri-
cola è testimoniata dalla presenza
sporadica di alcune case coloniche
adesso abbandonate. Gli abitanti
delle zone residenziali adiacenti si
sono appropriati di alcuni fazzo-
letti di terra che hanno adibito ad
orto e in corrispondenza dei sotto-
passaggi ferroviari alcune porzioni
di terreno vengono utilizzate come
parcheggi.
Si tratta di un’area estesa che, at-
traverso l’utilizzo della vegetazione
potrebbe strutturare una conti-
nuità trasversale con il paesaggio
agreste interrompendo l’edifica-
zione lungo il sistema infrastrut-
turale.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 121
122 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

Pratiche di vita quotidiana inve-


stono gli spazi residuali, lasciando
tracce ben evidenti. L’attraversa-
mento costante da parte dei ba-
gnanti per raggiungere la spiaggia
segna, in alcuni mesi dell’anno,
sentieri nella bassa vegetazione
spontanea, indicando il percorso
più breve per raggiungere la meta
prefissata.
Questi spazi dimenticati e invisibili
durante i mesi invernali diventano
a un tratto utili nella circolazione
pedonale e costituiscono una pre-
ziosa alternativa al sistema con-
venzionale. Il passaggio in questi
spazi permette di avere un punto
di vista alternativo della città e
offre prospettive differenti, scono-
sciute a chi attraversa il territorio
urbanizzato percorrendo le solite
strade.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 123
124 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

Lo stabilimento Italcementi di
Senigallia fu aperto nel 1906 e
successivamente ampliato. Ormai
dismesso da circa trenta anni, il
grande complesso industriale ha
sempre caratterizzato l’attività
economica, la storia lavorativa del
luogo e la morfologia urbana.
Situato sul lato nord-est della città
costituisce, assieme alla ferrovia,
un fronte invalicabile lungo circa
cinquecento metri verso il mare e
il porto-canale. Questa estesa area
recintata da muri crea una grande
discontinuità tra la città e la costa,
costringendo l’accesso al lungo-
mare e al porto per mezzo di una
viabilità estremamente tortuosa e
affatto intuitiva. L’area Italcementi
costituisce inoltre la testata sud-
est del lungomare di ponente, lun-
go circa cinque chilometri.
Tutti gli edifici all’interno dell’area
sono stati demoliti, ad eccezione
dell’alta ciminiera che è stata con-
servata a memoria dello storico in-
sediamento produttivo. Quest’area
presenta numerose potenzialità: vi
è ad esempio la possibilità di crea-
re una cerniera, un sistema aperto
che possa mettere in relazione il
lungomare, il porto e il centro della
città. Sito di numerosi progetti,
anche di grandi firme (ad esempio
Paolo Portoghesi) oggi è un par-
cheggio a servizio della città.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 125
126 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

La realtà produttiva, in questo ter-


ritorio, è caratterizzata da piccole
imprese di artigiani, che prima di
concentrarsi in aree industriali,
erano diffuse all’interno dell'ag-
glomerato urbano. È possibile
incontrare, lungo la conurbazione
adriatica, delle piccole strutture
dismesse che creano un sistema
puntiforme, agganciato all’infra-
struttura.
Ai limiti del nucleo urbano di Ma-
rotta, questo sito, costretto tra la
Statale Adriatica e la ferrovia, co-
stituisce un interressante esempio
di spazio residuale. Incastonato
tra l’infrastruttura e l’espansione
urbana più o meno recente, questo
vuoto crea un’interruzione nella
continuità disomogea della strada
mercato adriatica. La sezione pres-
sochè costante della statale trova
in questi punti delle dilatazioni dal
grande potenziale. La vegetazione
ha invaso completamente il suolo e
parte dell’edificio, creando un net-
to contrasto tra l’aspetto selvatico
del sito e l’ordine dei piccoli giardi-
ni delle case adiacenti.
Il recupero di queste strutture
potrebbe contribuire alla crea-
zione di un sistema puntiforme di
aree verdi attrezzate ad uso degli
abitanti e dei turisti che nei mesi
estivi popolano questa parte di co-
sta adriatica. Il collegamento alla
statale potrebbe essere l’occasione
per creare vie di comunicazione
alternative all’interno del sistema
diffuso dei giardini.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 127
128 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

La ferrovia costituisce da sempre


un ostacolo per raggiungere il
mare da ovest. L’accesso sud alla
spiaggia di Fano, denominata “sas-
sonia”, avviene attraverso un caval-
cavia che collega la strada statale
16 adriatica con il lungomare. Se
è vero che solitamente i grandi
svincoli autostradali creano dei
poli di attrazione per la presenza
di strutture industriali o terziarie,
centri commerciali e altro, le tra-
sformazioni indotte dagli svincoli
di piccola entità hanno un carat-
tere differente. Nel caso di questo
svincolo, si viene a creare un este-
so spazio residuale che coinvolge
il tracciato ferroviario, la costa e
il limite dell’urbanizzazione che
si prolunga da sud e s’interrompe
all’altezza del crocevia. Aree incol-
te confinanti con giardini privati si
alternano a superfici dure, piccoli
orti “abusivi” ad uso del vicinato
sono addossati ai margini dei bi-
nari ferroviari. Durante l’estate, la
superficie praticabile si trasforma
in parcheggio per le automobili dei
bagnanti che si sono aperti dei var-
chi nelle recinzioni perimetriche
per raggiungere più velocemente la
spiaggia.
Adiacente all’area dell’infrastrut-
tura è presente anche uno spazio
che ospita, a ridosso del mare,
strutture temporanee per il circo
e un’area demaniale un tempo adi-
bita al tiro a segno. Si tratta di uno
spazio importante, che garantisce
l'accesso al lungomare, ma presen-
ta scarse qualità estetiche.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 129
130 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

L’autostrada A14, nei pressi di Se-


nigallia, si allontana leggermente
dalla costa e segue un tracciato
che attraversa le prime colline.
La trasversalità della valle che
connette l’entroterra al mare vie-
ne attraversata dal viadotto che
corre da sud a nord. L’orografia
del terreno non consente al nastro
asfaltato di aderire al suolo, ma lo
obbliga a dispiegarsi su dei lunghi
viadotti che superano le piccoli
valli segnando il territorio agrario
in maniera indelebile. La presenza
dell’infrastruttura segna una forte
cesura nel paesaggio collinare e si
riverbera nello spazio sottostante.
Si viene a creare un paesaggio
caratterizzato dalla vegetazione
selvatica, lontano dall’ordinata or-
ganizzazione del territorio agrario
dalle culture intensive. In questa
“riserva”, dove non arrivano i diser-
banti degli agricoltori, si sviluppa
una grande varietà vegetale e, al
pari dell’autostrada che crea colle-
gamento per gli uomini, il nastro di
vegetazione sottostante crea una
“autostrada” per lo spostamento
agevole e senza soluzione di conti-
nuità di flora e fauna.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 131
132 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

La piccola frazione Cesano si svi-


luppa a ridosso della costa a nord
di Senigallia. Un tempo piccolo
borgo di pescatori, dagli anni 80 ha
risentito del boom edilizio scoppia-
to in seguito alle numerose richie-
ste di seconde case per vacanze.
Il complesso residenziale “Le Pira-
midi” rientra all’interno di questa
logica speculativa che ha prodotto
una intensa urbanizzazione della
porzione di costa compresa tra la
foce del fiume Cesano (a nord) e
Senigallia (a sud).
L’enorme complesso edilizio, come
un corpo estraneo caduto dal cielo,
si colloca tra la costa, la ferrovia, la
foce del fiume e la conurbazione, in
modo assolutamente indifferente
al territorio generando ampi spazi
residuali attorno a sé. Spazi com-
plessi che si dovrebbero confronta-
re con il delicato ecosistema della
foce del fiume Cesano, con l’intri-
cato sistema dell’infrastruttura,
con le necessità degli abitanti della
piccola frazione, e infine con le esi-
genze turistiche del luogo. Enormi
potenzialità animano questi spazi,
nei quali si potrebbero prefigua-
rare scenari interessanti per la ri-
qualificazione di un’area lasciata ai
margini della conurbazione e della
vita turistica costiera.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 133
134 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

Alcuni spazi residuali risentono


fortemente del carattere di stagio-
nalità che hanno questi luoghi. Al-
lora succede che prati abbandonati
recintati, forse di proprietà privata,
diventino in estate parcheggi per i
bagnanti, ospitino campi da gioco
nel lato più vicino al mare e si tra-
sfromino in un passaggio diretto
per raggiungere la spiaggia dalla
strada. Lo spazio residuale diventa
un'infrastruttura attraverso l'u-
tilizzo di pochi elementi e senza
alcun tipo di pianificazione. Alcuni
paletti in legno segnano le corsie,
nastri bianco/rossi da cantiere de-
limitano grossolanamente gli spazi,
tracce a terra indicano i percorsi.
Il carattere effimero dei paesaggi
costieri viene esaltato da pochi
elementi e da nuove pratiche che in
estate riconfigurano radicalmente
lo spazio. In Inverno, le reti dei
campi da gioco permangono come
fossero ruderi di una stagione pas-
sata, l'erba rende omogenea l'intera
superfcie, le barche portate a secco
rimangono in attesa della nuova
estate. Nel frattempo lo spazio
desolato torna a sottomettersi alle
dinamiche silenziose della natura.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 135
136 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

L'espansione urbana ha eroso por-


zioni sempre più ampie di territorio
agrario e l'agglomerato di edifici
lungo la costa si è sempre più in-
spessito compresso nell'infrastrut-
tura. In questa porzione della città
adriatica, la campagna ha perso
completamente quelle che erano i
segni di un territorio caratterizza-
to dalla mezzadria. Le coltivazioni
sono di tipo estensivo, la regimen-
tazione delle acque è insufficiente
a causa dell'interramento di nu-
merosi canali, i filari di alberi che
seguivano le strade poderali sono
rimasti un’eccezione, alcuni tipi di
coltivazione, come la vigna, sono
completamente scomparse. Il pa-
trimonio edilizio rurale è del tutto
abbandonato. Il paesaggio non ha il
fascino sufficiente per incentivare
possibili attività agrituristiche e
quindi attrarre investimenti per la
trasformazioni di casolari, perlopiù
anonimi. Si tratta di aree che i pia-
ni regolatori vigenti destinano per
campeggi e comunque strutture
ricettivi non permanenti, ma come
si è detto, il turismo balneare non
costituisce più un‘attrattiva capace
di stimolare ingenti investimenti.
Questi spazi tra città e campagna,
collina e mare, a ridosso delle in-
frastrutture dovrebbero fare del
loro carattere ibrido il loro punto
di forza e innescare nuove relazioni
tra il litorale e il territorio agrario.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 137
139

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CAPITOLO 1_LO SPAZIO RESIDUALE

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CAPITOLO 3_CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA

_Ciaffi Bruno, Il volto agricolo delle Marche, Edizione Edagricole, Bologna, 1953.
_Ciorra Pippo (a cura di), A14. La città adriatica in «Le cento città», n. 21, 2002.
_Coccia Luigi, D’Annuntiis Marco, Oltre la spiaggia. Nuovi spazi per il turismo
adriatico, Quodlibet, Macerata, 2012.
_Coccia Luigi, Gabbianelli Alessandro (a cura di), Riciclasi Capannoni, Aracne
Editrice, Roma, 2015.
_Clementi Alberto, Dematteis Giuseppe, Palermo Pier Carlo (a cura di), Le forme del
territorio italiano, Laterza, Roma, 1996.
_di Campli Antonio, Adriatico. La città dopo la crisi, LISt Lab, Trento, 2009.
_di Campli Antonio, Gabbianelli Alessandro (a cura di), Il progetto dello spazio
turistico. Strategie dell'effimero e del radicamento, GOTOECO Editore, Gorizia, 2016.
_Lanzani Arturo, I paesaggi italiani, Meltemi, Roma, 2003.
_Mangani Giorgio, Mariano Fabio (a cura di), L’immagine delle città. Storia della
cartografia delle Marche, Il lavoro editoriale, Ancona, 1998.
_Menzietti Giulia, True-Topia. Città adriatica riciclasi, Aracne editrice, Roma, 2014.
_Pavia Rosario, Marche. Figure e luoghi della trasformazione, Fratelli Palombi
Editore, Roma, 2000.

TESI DI DOTTORATO

_Balestrero Andrea, La natura in città. Forme e ruolo del verde nella città
contemporanea. (Dottorato di ricerca in Architettura e Progettazione Edilizia XV Ciclo.
Politecnico di Torino-Facoltà di Architettura).
BIBLIOGRAFIA 143

FILMOGRAFIA

_Antonioni Michelangelo, Deserto Rosso, Italia, 1964.


_De Sica Vittorio, Miracolo a Milano, Italia, 1951.
_Fellini Federico, La strada, Italia, 1954.
_Fellini Federico, La dolce vita, Italia, 1960.
_Carné Marcel, Gioventù nuda (tit. orig. Terrain Vague), Francia, 1960.
_Gaglianone Daniele, Nemmeno il destino, Italia, 2004.
_Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di lei, Francia, 1967.
_Lawrence Francis, Io sono leggenda, USA, 2007
_Moretti Nanni, Ecce bombo, Italia, 1978.
_Moretti Nanni, Caro diario, Italia, 1993.
_Milani Riccardo, La guerra degli Antò, Italia, 1999.
_Pasolini Pierpaolo, Uccellacci uccellini, Italia, 1966.
_Pasolini Pierpaolo, Accattone, Italia, 1961.
_Schumacher Joel, Un giorno di ordinaria follia, USA, 1993.
_Seidl Ulrich, Canicola, Austria, 2001.
_Tarkovskij Andrej, Stalker, URSS, 1979.
_Van Sant Gus, Paranoid Park, Francia/USA, 2007.
_Wenders Wim, Alice nelle città, Rft, 1973.
_Wenders Wim, Lo stato delle cose, Rft/Portogallo, 1982.
_Wenders Wim, Fino alla fine del mondo, Rft/Francia/Australia, 1991.
_Zampa Luigi, L’onorevole Angelina, Italia, 1947.

FOTOGRAFI

Andreoni Luca [www.lucandreoni.com]


Basilico Gabriele
Chiaramonte Giovanni
Cristaldi Massimo [www.massimocristaldi.com]
Di Bello Paola [www.paoladibello.com]
Fossati Vittore
Guidi Guido
Laguillo Manolo [www.manololaguillo.com]
Obiso Enzo [www.enzoobiso.com]
Finito di stampare nel Luglio 2017
Gli spazi residuali generati dai processi di modificazione della città sono una
potenziale risorsa e la loro rigenerazione può innescare significativi processi
di trasformazione urbana.
L’autore propone la riconfigurazione di questi spazi attraverso l’uso della ve-
getazione. L’ipotesi nasce per soddisfare la crescente necessità dei cittadini di
avere dei luoghi distanti dalla frenesia della metropoli e per rispondere a una
rinnovata attenzione per l’ecologia. Al tempo stesso, l’idea incontra l’esigenza
di incrementare parchi, giardini e spazi per la natura in contrappunto alla den-
sità del costruito.
La lettura di alcuni casi studio individua possibili strategie di trasformazione
che mettono in evidenza il valore e le potenzialità di questi spazi, così come la
loro importanza nel riattivare relazioni spaziali e sociali.
Infine, uno sguardo sui territori del litorale medio adriatico segna l’inizio di un
nuovo studio sugli spazi residuali nella città adriatica.

Alessandro Gabbianelli è architetto, dottore di ricerca e professore a contratto in Composi-


zione Architettonica e Urbana presso la Scuola di Architettura e Design “Eduardo Vittoria”
di Ascoli Piceno (UNICAM). I suoi temi di ricerca si focalizzano sullo studio degli spazi e
territori residuali e sulla loro riconfigurazione attraverso il progetto di paesaggio. Inoltre
indaga i temi dell’agriurbanismo nel contesto della città adriatica italiana.
Tra le sue pubblicazioni, Il progetto dello spazio turistico con Antonio di Campli (Edizioni
GOTOECO, 2016) e Riciclasi capannoni con Luigi Coccia (Aracne Editrice, 2015).

codice isbn: 978-88-97102-11-3


prezzo di copertina: 18,00 euro

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