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Spazi residuali
La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana
SPAZI RESIDUALI
La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana
Alessandro Gabbianelli
© GOTOECO Editore
Collana Interpretazioni, GOTOECO Editore, Gorizia
GOTOECO Editore, via P. Sarcinelli, 87 – 33052 Cervignano del Friuli (UD)
www.gotoeco.it – editore@gotoeco.it
Alessandro Gabbianelli
INDICE
Ringraziamenti 9
Introduzione 11
2. STRATEGIE DI RIGENERAZIONE 53
2.1 Marginalità urbane. La vegetazione come elemento di relazione 59
D. Kienast, Progetto paesaggistico per Kronsberg 65
C. Dalnoky, M. Desvigne, Progetto paesaggistico per la fabbrica Thompson 69
2.2 Aree produttive urbane. Dalla dismissione alla colonizzazione vegetale 71
R. Cecchi, V. Lima, P. Nicolin, P. Traversi, Nove parchi 77
P. Latz + Partners, Parco Dora 81
M. Desvigne, La “Confluence” 85
2.3 Paesaggi dell'infrastruttura. Connessioni vegetali 88
P. Mathieux, J. Vergely, Promenade Plantée 93
I. Kowarik e A. Langer, Gruppe Odious, Schöneberger Südgelände Park 97
2.4 Interstizi urbani. Pratiche di giardinaggio 99
Community Gardens a Manhattan 107
Lois Weinberger, Ruderals 110
Bibliografia 139
11
Introduzione
“È nel silenzio che si deve scavare per trovare il senso di essere o non es-
sere, oggi, nello spazio bianco tra parola e parola, nella pausa tra due battute
musicali. Non è vero che, dove non c’è la cosa, è niente”1. (Massimo Cacciari)
dall’altra si espande, richiedendo sempre più spazio, in una civiltà del consumo.
Si parla ormai di città-diffusa, città-regione, città-nazione, città-territorio,
città-infinita, fino ad arrivare all’equazione mondo=città6. L’associazione tra
un lemma che metta in relazione il concetto di città con uno che ne esplichi la
sua “conquista” territoriale sembra essere inevitabile. L’unica relazione che la
città contemporanea instaura con il suolo è quella dello sfruttamento. L’occu-
pazione di suolo appare inarrestabile: in Italia, solo nell’ultimo decennio del
duemila, le costruzioni hanno consumato circa duemilioniottocento ettari di
suolo, perlopiù sottratti all’agricoltura7. La domanda di alloggi non giustifica
assolutamente questo dato poiché il nostro paese sembra essere il primo in
Europa per disponibilità di abitazioni, su venti milioni di alloggi, il venti per
cento non sono occupati8.
Durante questo inarrestabile processo di trasformazione e occupazione del
territorio, “la città produce tanti più residui quanto più il suo tessuto è rado. I
residui sono scarsi e piccoli nel cuore delle città, vasti e numerosi in periferia”9.
Gli spazi residuali sono qui considerati come un elemento imprescindibile dei
processi di trasformazione della città. Già da oltre un decennio, alcune pub-
blicazioni e mostre hanno riportato all’attenzione del dibattito disciplinare il
tema degli spazi residuali. Ad esempio Il manifesto del terzo paesaggio (2005)
di Gilles Clément, nel quale si rileva la loro importanza come spazi della biodi-
versità, o lo studio dell’americano Peter Berger, Drosscape (2006)10, che ne de-
linea l’intrinseco legame con i processi di trasformazione della metropoli. Nel
2006 la Fondazione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Torino orga-
nizza, all’interno della rassegna “Creare Paesaggi”, il convegno internazionale
intitolato “Paesaggi indecisi”, dove ci si interroga riguardo ad alcune strategie
d’intervento sugli spazi residuali. Nel 2005 in occasione della mostra Ground-
swell: Constructing the Contemporary Landscape, tenutasi al Museum of Mo-
dern Art di New York, Peter Reed scriveva sulla brochure che accompagnava
la mostra: “Quasi tutti i nuovi paesaggi più significativi progettati negli ultimi
anni occupano un luogo che è stato reinventato e recuperato dall’obsolescenza
e dal degrado: le città dell’era postindustriale ricreano e ridefiniscono i loro
spazi aperti”11. Qualche anno prima, nel 1999, la I Biennale Europea del paesag-
gio si intitolava Remaking Landscape e concentrava la sua attenzione su “quei
paesaggi che appaiono rifatti in quegli spazi che, nel recente passato, hanno
perso il loro nome […] a metà strada tra ciò che è naturale e ciò che è costruito,
tra ciò che è reale e ciò che è immaginato”12. Si arriva poi all'ambizioso progetto
triennale (2012-2015) Re-cycle Italy che si interroga sulle questioni dell’abban-
dono progressivo del costruito nelle città della post-produzione e la nuova di-
INTRODUZIONE 13
dall’aumento della presenza di luoghi difficili nel contesto delle città postindu-
striali – contesto che comprende processi di degrado così come di crescita. La
maggior parte dei siti disponibili a essere trasformati in spazi pubblici contem-
poranei e futuri è affetta da diversi stadi di degrado: abbandono, sfruttamento
ambientale, inquinamento e/o pratiche di desertificazione del terreno”16.
Oltre vent’anni fa, la Commissione delle Nazioni Unite per l’Ambiente e lo
Sviluppo redigeva il cosiddetto Rapporto Brundtland (1987) che auspicava uno
“sviluppo sostenibile”, ossia uno sviluppo che si preoccupasse di rispondere ai
bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere le opportunità delle
generazioni future di soddisfare i propri bisogni.
Nel 1995, in occasione della conferenza della Convenzione Quadro delle Na-
zioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), viene sottoscritto, da parte
di 160 paesi, il Protocollo di Kyoto. Il trattato internazionale, entrato in vigore
nel 2005, prevede l’obbligo da parte dei paesi industrializzati di operare una
diminuzione dell’emissione di elementi inquinanti (biossido di carbonio e al-
tri gas serra) attraverso meccanismi flessibili. Questi eventi testimoniano la
preoccupazione e la presa di coscienza, a livello planetario, della necessità di
conciliare sviluppo economico e risorse ambientali.
L’effettiva applicazione da parte dei paesi firmatari del trattato è in continua
discussione, ma l’incessante dialogo dei potenti della Terra su tali questioni
ha avuto numerosi risvolti trasversali. Questo rinnovato interesse ecologico
ha spinto numerose aziende a incrementare gli investimenti verso la ricerca di
tecnologie più rispettose del patrimonio ambientale, e tali da costituire un’al-
ternativa agli attuali processi produttivi. Se nuove tecnologie “ecologiche” fan-
no fatica ad essere applicate su larga scala, la massiccia campagna d’informa-
zione, promossa da numerose associazioni ambientaliste ed enti di ricerca, ha
prodotto una significativa sensibilizzazione nella popolazione, che non può più
essere ignorata.
“Nel crescente interesse di fine secolo delle politiche urbane, degli urbanisti
e degli architetti per le questioni ambientali vi è certamente la curiosità per un
tema relativamente nuovo, ma vi è forse anche qualcosa di più importante: il
tentativo di inserire, tra un tempo sociale sempre più accelerato e il tempo più
lento della città fisica, un tempo intermedio, il tempo della natura, degli alberi,
delle piogge, delle stagioni, del sole, del vento e delle maree, un tempo cui si dà
il compito di costruire un legame tra i ritmi della società e lo spazio abitabile
cercando, ancora una volta, di legare il presente ad un futuro più distante”17.
L’utilizzo della vegetazione per modificare gli spazi residuali diventa non solo
una risposta ai problemi legati all’ambiente, ma riesce a essere anche un modo
INTRODUZIONE 15
NOTE
1
Da un’intervista Gian Luca Favaretto a Massimo Cacciari pubblicata sull'inserto «Venerdì» di «Re-
pubblica» del 15 Maggio 2009 in occasione della presentazione del suo libro Hamletica, Adelphi.
2
Nel famoso rapporto Club di Roma I limiti dello sviluppo (1972) erano già contenute previsioni
allarmanti sul prossimo esaurimento delle risorse non rinnovabili del pianeta. A proposito si veda
Musu Ignazio, “L’economia e la natura”, in Cadevo Elio (a cura di), Idea di natura. 13 scienziati a
confronto, Marsilio, Venezia, 2008.
3
“Il territorio, letteralmente, non conosce più alcun Nòmos, (poiché Nòmos, Legge, significa all’ori-
gine, appunto, suddivisione-spartizione-articolazione di un territorio o pascolo, ‘nòmos’, determina-
to). [...] La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile, o meglio, si è ridotta
ad affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo città quest’area per ragioni assolutamente
occasionali. I suoi confini non sono che un mero artificio. Il territorio post-metropolitano è una geo-
grafia di eventi, una messa in pratica di connessioni, che attraversano paesaggi ibridi.” , Cacciari Mas-
simo, “Nomadi in prigione”, in Bonomi Aldo, Abruzzese Alberto (a cura di), La città infinita, Bruno
Mondadori, Milano, 2004, p. 52.
4
Vedi a proposito Secchi Bernardo, “Città, metropoli, megalopoli”, in Secchi Bernardo, La città del
ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005.
5
Purini Franco, “Dopo la città, il paesaggio”, in Petranzan Margherita, Neri Gianfranco (a cura di),
La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005.
6
Ci si riferisce al termine usato da Rem Koolhaas nel catalogo Mutations dell’omonima mostra
tenutasi a Bordeaux nel 2000. Rem Koolhaas dedica questa mostra alle trasformazioni cui sono andati
incontro concetti quali: urbano, metropolitano, pubblico, sociale.
7
In un rapporto del WWF si stima che “il suolo vergine, in Italia, si perde al ritmo di 110 chilometri
quadrati all’anno, pari a 30 ettari al giorno, 200 metri quadrati al minuto”, vedi In Italia si “consuma-
no” 200 metri quadri di suolo al minuto, in «Corriere della Sera» del 11 Gennaio 2010.
8
Dati Eurostat.
9
Clément Gilles, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2007.
10
Il termine Drosscape è stato ripreso come titolo anche dalla rivista «Architettura del Paesaggio»
n. 20, Marzo/Giugno 2009, dove viene esplorato il tema della riconversione paesaggistica degli spazi
degradati.
11
Reed Peter, “Beyond Before and After: Designing Contemporary Landscape”, in Reed Peter,
Groundswell. Constructing the Contemporary Landscape, Thames & Hudson, London, 2005, p. 15;
catalogo della mostra omonima presso il Museum of Modern Art di New York, 2005; vedi anche Pollak
Linda, Il paesaggio per il recupero urbano. Infrastrutture per uno spazio quotidiano che compren-
da la natura, in «Lotus», n. 128, 2006.
12
“The theme of this year’s Biennial focuses on those landscapes which appear remade in those
spaces that have lost their names in the recent past. On the brown-fields, the cracks of the image-
less periphery, in the forgotten places of the urbanised territory, there are hidden opportunities
to improve an environment that we already consider our own; half way between that which is
natural and that which is built, between that which is real and that which is imagined. We want to
get ready to conquer those future territories”. Con questo testo veniva presentato il tema della prima
INTRODUZIONE 17
1. SPAZI RESIDUALI
“Nella vastità del territorio urbanizzato gli spazi liberi mostrano origini e
connotazioni diverse, sono aree smarginate che si insinuano tra gli edifici e si
dissolvono nella campagna, aree residuali ritagliate casualmente dal limite mu-
tevole dell’edificato, spazi interstiziali compressi tra la residenza e l’infrastrut-
tura o aree della dismissione industriale e agricola: modi diversi di declinare
il vuoto, ‘specie di spazi’ non chiaramente definibili, difficili da classificare”1.
Ignasi de Solà Morales constata come la fotografia sia un efficace mezzo
per descrivere la complessità della città2. I fotomontaggi di Paul Citroen, Man
Ray o John Heartfield, che attraverso l’accumulazione e la giustapposizione di
grandi oggetti architettonici intendono spiegare l’esperienza della metropoli,
creano un immaginario di città. Ma con l’esibizione al MOMA nel 1955 dell’ope-
ra di Cartier Bresson, Robert Capa e David Seymour, raccolta nella pubblica-
zione di Robert Frank The Americans, ha inizio un altro fenomeno che avrà il
suo culmine negli anni settanta quando si svilupperà una diversa sensibilità nel
guardare le grandi città. Non vi è più la sola esigenza di mostrare/elencare la
moltitudine degli oggetti architettonici come unici elementi costituenti la città.
L’attenzione si sposta verso quegli spazi vuoti e abbandonati dove una serie di
avvenimenti hanno avuto luogo: queste pause spaziali sembrano sottomettere
l’occhio del fotografo urbano e divengono il principale soggetto da raccontare
non solo come esperienza fisica dello spazio, ma anche come narrazione di uno
stato emozionale, mentale, psicologico.
Sono molti i fotografi che hanno cercato di carpire l’essenza di questi spazi;
John Davies, David Plowden, Thomas Struth, Jannes Linders, Manolo Laguillo
e altri ci mostrano come questi luoghi siano interni alla città, ma allo stesso
tempo esterni all’uso quotidiano, isole svuotate lasciate fuori dai circuiti pro-
26 1. SPAZI RESIDUALI
Schema Processi-Definizioni
2. STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
“La natura crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò
che fu non ritorna – tutto è nuovo seppur sempre antico. Viviamo in mezzo a
lei, e le siamo stranieri. Essa parla continuamente con noi, e non ci tradisce il
suo segreto. Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di lei nessun po-
tere. Sembra aver puntato tutto sull’individualità, ma non sa che farsene degli
individui. Costruisce sempre e sempre distrugge: la sua fucina è inaccessibile.
Vive tutta nei suoi figli; ma la madre dov’è? Unica vera artista, essa va dalla più
semplice materia ai contrasti più grandi e, apparentemente senza sforzo, alla
perfezione assoluta – alla determinatezza più precisa, eppure delicata. Ognuna
delle sue opere ha la propria essenza, ognuna delle sue manifestazioni il con-
cetto più isolato; eppure, formano un Tutto unico. […] C’è in lei una vita eterna,
un eterno divenire, un moto perenne; eppure, non fa un passo avanti. Si trasfor-
ma di continuo, non conosce un attimo di quiete. Ignora l’immobilità; colpisce
di maledizione l’indugiare. […] Anche la cosa più innaturale è natura. Chi non
la vede dappertutto, non la riconosce in nessun luogo. […] Non ha linguaggio
né discorso, ma crea lingue e cuori attraverso i quali parla e sente. […] A cia-
scuno appare in una forma diversa. Si nasconde sotto mille nomi e termini, ma
è sempre la stessa”1 .(J. W. Goethe)
L’utilizzo di materiale vegetale nel disegno dei margini urbani è stato teoriz-
zato nella prima metà dell’800 in Inghilterra da John Claudius Loudon per Lon-
dra. Il problema si pose quando il “signore di Hemstead chiese a John Claudius
Loudon di recintare Hampstead Heath, una vasta area incolta, composta di
prati e boschi, di cui fino ad allora aveva potuto liberamente godere la collet-
tività. […] La recinzione dei duecento acri di Hampstead Heath rappresentava
un altro clamoroso tassello nella progressiva edificazione dei tradizionali spazi
aperti, e con questo spariva, secondo la definizione prediletta dai contempora-
nei, uno dei più importanti polmoni verdi”1. Nello schema a centri concentrici
della città di Londra, John Claudius Loudun ipotizza “che quando una cittadina
sta per estendersi oltre un diametro di mezzo miglio, si dovrebbe individuare
un’area di respirazione da lasciare inedificata, a vantaggio della salute della
parte più povera degli abitanti”2. Nelle principali città inglesi si sentiva già la
necessità della presenza di aree verdi per risanare, moralizzare e ricreare la
popolazione, ma soprattutto per ovviare alle problematiche poste dall’urba-
nizzazione. Il piano di John Claudius Loudon, seppur nella sua formalizzazione
utopica, si pone la questione dell’assoluta necessità per il benessere dei cittadi-
ni di alternare ad aree costruite aree verdi utilizzabili dagli abitanti.
La proposta di John Claudius Loudon di utilizzare la vegetazione come ele-
mento di limitazione dello sviluppo incontrollato dell’edificato ha un rovescio
molto più importante che è quello del ruolo di connessione che la green belt
può assolvere: “la belt non divide, ma riconnette senza dover ricorrere alla li-
nea retta delle percées e senza rinunciare a tenere distinte città e campagna”3.
Quello che John Claudius Loudon prefigura è la trasformazione della metropo-
li londinese, “che sarebbe divenuta un succedersi di scenari collegati fra loro
2.1 MARGINALITÀ URBANE. LA VEGETAZIONE COME ELEMENTO DI RELAZIONE 63
64 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
2.1 MARGINALITÀ URBANE. LA VEGETAZIONE COME ELEMENTO DI RELAZIONE 65
Dieter Kienast
Progetto paesaggistico per Kronsberg
Hannover, Germania
1995-2000
L’area oggi denominata “Spina 3”, che si estende per una superficie di circa
100 ettari, è stata caratterizzata, sino a due decenni fa circa, da una forte pre-
senza industriale, grazie alla sua localizzazione strategica nei pressi del fiume
Dora e lungo i binari della linea ferroviaria. L’area si colloca nella zona nord-o-
vest della città, non troppo distante dal centro ed oggi è in parte inglobata
all’interno dello sviluppo edilizio e in parte si apre verso ovest al territorio
agrario circostante.
Dagli ultimi decenni dell’Ottocento, su questo territorio si insediarono alcune
delle storiche fabbriche torinesi: Ferriera Fiat, Michelin, Savigliano e Paracchi.
I quartieri limitrofi, nati come borghi extraurbani – San Donato e Campidoglio
a sud, Lucento e Madonna di Campagna a nord – attrassero un numero sempre
maggiore di lavoratori e divennero il cuore della “barriera operaia” torinese.
Questi formano un tessuto edilizio estremamente compatto e ai densi blocchi
abitativi si alternano edifici adibiti a piccole attività produttive, botteghe e pic-
cole industrie legate allo sfruttamento dei canali. Questi quartieri, che hanno
convissuto strettamente con le fabbriche, oggi confinano direttamente con i
nuovi comprensori residenziali.
Il progetto del parco Dora, che occuperà una superficie di circa 45 ettari
all’interno dell’area “Spina 3”, diverrà il cuore pulsante di questa trasformazio-
ne e si farà carico della ricucitura del tessuto urbano dell’intera zona, diventan-
do l’elemento connettivo tra nuovi e vecchi insediamenti. All’interno dell’intera
area sono previsti anche il centro di ricerca e sviluppo tecnologico, la chiesa
di San Volto di Mario Botta con la ciminiera trasformata in campanile, edifici
per uffici e per abitazione ad alta densità. Il progetto del parco è il risultato di
una gara internazionale a procedura aperta, avviata nella primavera del 2004;
88 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
_ri-marginare/ri-definire
Nel complesso snodo stradale della Trinitad situato su quello che era origina-
2.3 PAESAGGI DELL'INFRASTRUTTURA. CONNESSIONI VEGETALI 91
92 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
2.3 PAESAGGI DELL'INFRASTRUTTURA. CONNESSIONI VEGETALI 93
Finora sono stati analizzati quegli spazi residuali che trasformati con l’uso di
materiali vegetali sono diventati, attraverso il progetto, parchi, giardini urbani,
aree verdi. Questi spazi hanno assunto all’interno della città contemporanea il
ruolo di spazi pubblici, restituendo agli abitanti aree un tempo abbandonate,
degradate e inaccessibili. Si è messo in evidenza quanto questi spazi siano in-
dispensabili per l’equilibrato sviluppo della città, ma anche per il loro valore
sociale che si esprime sia attraverso un miglioramento della qualità di vita dei
cittadini, sia nella conservazione di un buon equilibrio ambientale nelle aree
urbane. All’interno di questi spazi vegetali si svolgono numerose attività: ri-
creative, ludiche e oziose; alla natura viene affidato il compito estetico di fare
da sfondo a queste senza che vi sia però una interazione tangibile tra l’uomo e
la vegetazione. È necessario a questo punto cambiare il punto di vista, traslar-
lo dal “giardino al giardiniere, o dal giardino al giardinaggio, sarebbe a dire
dall’oggetto all’attività, dall’oggetto al processo, dall’oggetto all’atto”1 e quindi
chiedersi se il giardinaggio possa avere un ruolo nella trasformazione degli
spazi residuali e più in generale nella “costruzione” del paesaggio urbano. Nel
2002 la ventitreèsima conferenza annuale dell’Associazione dei giardini comu-
nitari americani (ACGA 2) che si è tenuta a New York adottò il titolo: Gardeners
Restore Our World testimoniando chiaramente le preoccupazioni di questa as-
sociazione nei confronti dello stato di salute del nostro pianeta e quale ruolo
possa avere il giardinaggio nel contrastare un degrado planetario apparente-
mente inarrestabile3. L’attività di cura delle piante, o più in generale di giar-
dinaggio, viene espletata perlopiù all’interno dei giardini, che non si vogliono
identificare solamente nello spazio dove viene messa in atto l’estetizzazione
della natura; “il giardino è un’antica immagine, metafora della ‘leggibilità del
110 2 STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
Lois Weinberger
Ruderals
Innsbruck
1992-1998
Negli ultimi trenta anni gli studi sulla città adriatica si sono succeduti senza
sosta. Capofila di numerose ricerche sono state le Università di Architettura
di Pescara prima e poi la più giovane Scuola di Architettura e Design di Ascoli
Piceno. Architetti, urbanisti, sociologi, antropologi hanno dato, secondo le spe-
cificità della loro disciplina, una chiave di lettura che ha contribuito a costru-
ire un’idea ampia su questa complessa porzione di territorio italiano. Gli studi
hanno seguito le evoluzioni del tempo, le trasformazioni della società, le varia-
zioni dell’economia e le trasformazioni del territorio. Da una parte cercando di
interpretare il presente, dall’altra cercando di proiettarsi in un prossimo futuro
attraverso risposte progettuali in grado di migliorare le condizioni di vita della
cittadinanza e di preservare gli equilibri di un territorio sensibile.
Ogni periodo storico ha avuto il suo tema trainante attorno al quale ruo-
tavano ipotesi e tesi della ricerca: l’importanza dell’infrastruttura, la scarsa
qualità degli spazi abitativi, il valore dei tessuti urbani consolidati, il fascino
dell’archeologia industriale, la molteplicità degli spazi aperti. È chiaro che le
questioni si intrecciano e lo studio di una non può prescindere dall’altra in una
città diffusa così stratificata ed eterogenea. Gli studi elaborati negli anni han-
no prodotto mappe, schemi, diagrammi, progetti che hanno vivisezionato ogni
aspetto del territorio evidenziandone tutti gli elementi che lo compongono, le
relazioni tra le parti, gli usi, la densità, inoltre hanno cercato di esaltarne le
qualità e circoscriverne le fragilità.
In questa sede non racconteremo la città attraverso quegli strumenti per cui
esiste una bibliografia esauriente, dettagliata e scientificamente ineccepibile.
Ma ci riferiremo a un lavoro molto recente di un artista d’eccezione che, attra-
verso la macchina fotografica e uno sguardo originale, ha raccontato molte
114 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA
inquadrare una coppia di signori seduti sui loro lettini prendisole sotto l’om-
brellone. Gli ignari protagonisti si trovano su una spiaggia dove vige il divieto
di balneazione a causa della vicinanza con la foce del fiume Esino e perché si
trova a ridosso della raffineria di Falconara, sfondo dell’inquadratura. Sono
questi gli spazi di frizione, dove l’impianto industriale semi dismesso è affian-
cato dalla foce del fiume che lo separa dalla spiaggia, questa si trova in con-
tinuità con una campagna delimitata verso il mare da architetture effimere
autocostruite e il tracciato ferroviario assieme alla statale adriatica divide il
tutto. Una vicinanza di materiali che si compenetrano ibridandosi, in altri casi
presentano dei limiti ben definiti, ma il loro impatto ambientale ha una risonan-
za che va ben oltre il perimetro delle loro recinzioni. “La costa, spazio a metà
tra lo stato liquido e lo stato solido si configura, almeno in Adriatico, come un
luogo residuale di frizioni tra differenti razionalità, spazio periferico che per
alcuni aspetti mostra i caratteri di ‘residuo’ (nel senso che a questo termine
viene dato da Gilles Clément). In questa situazione il progetto del litorale si
configura prevalentemente come un progetto di interfaccia ponendo la propria
attenzione in particolare sulle situazioni di frizioni tra ambienti e situazioni
diverse, sugli spazi di frizione tra l’ambito propriamente urbano, edificato, e
l’arenile, e tra spazi costruiti e spazi inedificati, spazi agricoli abbandonati e
dall’alto valore ambientale come negli spazi residuali posti a ridosso delle foci,
che sono spesso inedificati, ma che presentano rilevanti qualità ambientali e
paesaggistiche”9.
In un sistema territoriale che vede la continuità infrastrutturale dispiegarsi
parallela alla costa e una trasversalità segnata da valli più o meno profonde, gli
spazi residuali si dispongono in modo puntiforme, con intensità variabili per
la natura che li genera e in relazione ai contesti. Sono questi gli spazi dai quali
possono partire nuove riflessioni sulla trasformazione della città adriatica che
tengano assieme la molteplicità delle situazioni, l’emergenza del surplus volu-
metrico e rispondano a rinnovate dinamiche di turismo che non siano limitate
alla fruizione della spiaggia, ma offrano alternative all’interno di un territorio
più allargato. In una sorta di continuità virtuale con il lavoro di Barbieri, la
ricognizione fotografica che segue è una raccolta di immagini di spazi residuali
individuati in una porzione circoscritta della città adriatica che va da Senigallia
a Fano, per uno spessore che dal mare arriva fino ai piedi delle colline. Si tratta
dell’inizio di un’indagine tematizzata che esplora le molteplice sfaccettature di
tali spazi e analizza le relazioni territoriali per valutarne le potenzialità. Un’im-
presa che vede nelle prossime pagine l’inizio di un progetto più ambizioso.
118 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA
NOTE
1
Colli Cristiana (a cura di), La città perfetta di Olivo Barbieri, in «Mappe. Luoghi percorsi progetti
nelle Marche», n. 8, luglio 2016.
2
Ciorra Pippo, “Adriati-città”, in Ciorra Pippo (a cura di), A14. La città adriatica in «Le cento città»,
n. 21, 2002.
3
Si è trattato di un workshop di progettazione che si è svolto l’11 e 12 ottobre presso la Scuola di
Architettura e Design di Ascoli Piceno (UNICAM). Questo evento ha costituito la prima tappa nazio-
nale della ricerca triennale PRIN Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture
della città e del paesaggio (2013-2016). Gli esiti progettuali e teorici del workshop sono stati raccolti
in: Menzietti Giulia (a cura di), True-topia. Città adriatica riciclasi, Aracne Editrice, Roma, 2014
4
Coccia Luigi, “Analogie”, in Menzietti Giulia (a cura di), Op. Cit., p.28.
5
“…il moderno è così profondamente mediterraneo, forse per questo ha trascurato anche lui le coste
adriatiche, depositandovi rarissimi e sporadici capolavori: qualche colonia marittima, una chiesa di
Libera presto demolita, e poco più, negli anni Venti e Trenta, una chiesa di Quaroni e poco altro negli
anni Cinquanta, in una fase che altrove vedeva una grande espansione dell’architettura italiana più
colta”, in Ciorra Pippo, Op. Cit., p. 9.
6
Coccia Luigi, “Dissoluzione programmata”, in Coccia Luigi, Gabbianelli Alessandro (a cura di),
Riciclasi capannoni, Aracne Editrice, Roma, 2015, p. 45.
7
D’Annuntiis Marco, “Città adriatica e turismo”, in Coccia Luigi, D’Annuntiis Marco, Oltre la spiag-
gia. Nuovi spazi per il turismo adriatico, Quodlibet, 2012, p.30.
8
di Campli Antonio, Adriatico. La città dopo la crisi, LISt Lab, Trento, 2009, p. 37.
9
di Campli Antonio, Op. Cit., p. 64.
119
Lo stabilimento Italcementi di
Senigallia fu aperto nel 1906 e
successivamente ampliato. Ormai
dismesso da circa trenta anni, il
grande complesso industriale ha
sempre caratterizzato l’attività
economica, la storia lavorativa del
luogo e la morfologia urbana.
Situato sul lato nord-est della città
costituisce, assieme alla ferrovia,
un fronte invalicabile lungo circa
cinquecento metri verso il mare e
il porto-canale. Questa estesa area
recintata da muri crea una grande
discontinuità tra la città e la costa,
costringendo l’accesso al lungo-
mare e al porto per mezzo di una
viabilità estremamente tortuosa e
affatto intuitiva. L’area Italcementi
costituisce inoltre la testata sud-
est del lungomare di ponente, lun-
go circa cinque chilometri.
Tutti gli edifici all’interno dell’area
sono stati demoliti, ad eccezione
dell’alta ciminiera che è stata con-
servata a memoria dello storico in-
sediamento produttivo. Quest’area
presenta numerose potenzialità: vi
è ad esempio la possibilità di crea-
re una cerniera, un sistema aperto
che possa mettere in relazione il
lungomare, il porto e il centro della
città. Sito di numerosi progetti,
anche di grandi firme (ad esempio
Paolo Portoghesi) oggi è un par-
cheggio a servizio della città.
3.1 UN ATLANTE DEGLI SPAZI RESIDUALI 125
126 3 CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA
Bibliografia
_Venturi Ferriolo Massimo, Etiche del paesaggio, Editori Riuniti, Roma, 2002.
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FOTOGRAFI