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INDICE

p. 11 Introduzione
LA CONFIGURATIVITÀ TERRITORIALE, BENE COMUNE
Angelo Turco
11 1. Stare al mondo, abitare la terra: il senso della
territorialità
15 2. Configurazioni della territorialità: il mondo
nuovo
33 3. Configuratività territoriale, bene comune

43 Parte prima
VERSO UNA GEOGRAFIA DEI BENI COMUNI

45 1. AVVENTURE DEL LINGUAGGIO: BENI COMUNI


Donella Antelmi
45 1. Per cominciare
47 2. Discorso: oggetto e metodo
51 3. Formula
55 4. Beni comuni, bene comune
59 5. Piccola disgressione
63 6. Origini e attualità del discorso sui commons:
tragedie, soluzioni, retoriche
68 7. Digressione seconda: uno sguardo alle origini
72 8. Conclusioni

75 2. TERRITORIALITÀ E COMUNITÀ: ECHI D’AFRICA


Angelo Turco
75 1. Fondazioni territoriali e spirito comunitario
nelle culture d’Africa
80 2. Nu bofi: la terra proibita
6 Indice

87 3. Enb ajukru: la comunità è il territorio


p. 102 4. Tessiture: la trama territoriale, l’ordito
comunitario

105 Parte seconda


TRAIETTORIE CONFIGURATIVE

107 3. IL PAESAGGIO, BENE COMUNE


Marco Maggioli
107 1. Siamo nel paesaggio
109 2. Paesaggio capitale comunicativo
110 3. Ambiguità
113 4. Memorie
115 5. Sguardi e narrazioni
119 6. Paesaggio come spazio pubblico e del benessere

123 4. PAESAGGIO, CONFLITTI INTERCONFIGURATIVI E


NUOVE MAPPE ATTORIALI
Marco Maggioli
123 1. Diritti fondamentali, territorialità configurati-
va, energia eolica
130 2. Legalità e quantità
134 3. Politiche
138 4. Razionalità, legalità, legittimità
141 5. Paesaggi
143 6. La sentenza del Monte Mindino
146 7. Nuove mappe attoriali

149 5. IL LUOGO, BENE COMUNE


Angelo Turco
149 1. Un posto chiamato luogo
155 2. Un antico motivo ecumenale
170 3. Modernità ed eclisse della ragione topica
176 4. Topogenesi e complessità
183 5. Bene comune, beni comuni

187 6. CITY TURISM: L’ATTRATIVITÀ URBANA COME


TOPOGENESI
Angelo Turco
187 1. Un mondo senza luoghi: verso una
geografia dell’omologazione?
Indice 7

193 2. Eu também: se venite a Lisbona


p. 202 3. Frugal traveler: se venite a Shanghai

213 7. L’AMBIENTE, BENE COMUNE


Claudio Arbore
213 1. La Sindrome di Istanbul
214 2. “É morto un albero, si è svegliata una nazione”
221 3. Una nuova luta per le foreste di Colbuiá
226 4. Ambiente come bene comune: un nuovo
paradigma ambientalista?

231 8. LA CASA COMUNE. ANIMALI CHE AIUTANO GLI UOMINI


AD AIUTARE GLI ANIMALI
Berardina Clemente, Angelo Turco
231 1. La casa comune
233 2. Veleni e Antidoti
238 3. Progetto Antidoto: un piano di comunicazione
partecipativa
246 4. L’indagine sugli stakeholders: metodologia
254 5. L’indagine sugli stakeholders: svolgimento
256 6. Risultati dell’indagine
266 7. Valutazioni e proposte degli stakeholders
274 8. Costruire un percorso partecipativo nella
comunicazione pubblica
276 9. Modello di prevenzione durevole dell’uso
illegale del veleno

287 Indice delle figure


289 Indice delle tabelle
290 Indice dei riquadri

291 Autori
6

CITY TURISM: L’ATTRATIVITÀ URBANA COME TOPOGENESI

Angelo Turco

1. Un mondo senza luoghi: verso una geografia dell’omologazione?

Il mondo diventa sempre più povero di luoghi e sempre più ricco


di località. La topìa si degrada, riducendo la geografia a un catalogo
referenziale: una nomenclatura di pure posizioni. Cose che stanno
da qualche parte: città e borghi, fiumi e laghi, mari e monti. Siti
omologhi, interscambiabili, ognuno reso uguale a mille altri. Nel
mondo senza luoghi, il luogo stesso non ha posto: svanisce persino
concettualmente nell’alluvione sinonimica. Quante volte, infatti,
ciascuno di noi nelle ultime 24 ore ha impiegato il designatore
“luogo”, privo di un significato proprio, mentre poteva utilizzare per
le proprie generiche esigenze indicative un altro dei parecchi termi-
ni che i nostri dizionari appunto qualificano come “sinonimi”? E
dunque, quante volte abbiamo detto “luogo” per dire “posto, sito,
situazione, posizione”? E quante volte abbiamo detto o sentito dire
“spazio” intendendo con ciò un “luogo grande” o un “contenitore di
luoghi”? E quante volte abbiamo potuto rimarcare la corrisponden-
za implicita o esplicita tra “luogo” e “regione, paese, zona”, o ancora
“settore, paraggi, terreno”?
Questo appiattimento sinonimico, beninteso, è un lavoro lingui-
stico, nel senso di Rossi Landi1: non è innocente, quindi, e viene da
lontano. Un compagno di strada della modernità? È probabile2. In
ogni caso, esso partecipa alla degradazione della qualità ecumenale
della superficie terrestre. In questo modo, lo spazio tellurico subisce

1 F. Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato: una teoria del-

la produzione e dell’alienazione linguistiche, Bompiani, Milano, 2003.


2 A. Turco, “Topogenèse: la généalogie du lieu et la constitution du terri-

toire”, in: M. Vanier (dir.), Territoires, territorialité, territorialisation. Contro-


verses et perspectives, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2009.
188 ANGELO TURCO

una violenza simbolica, viene deterritorializzato e finalmente reso


rappresentabile da una carta bianca, totalmente piatta, isotropa e
dunque georeferenziata a piacere: a seconda degli interessi perse-
guiti e delle funzionalità desiderate. Il sogno di ogni attore domi-
nante, di ogni conquistatore di imperi: un territorio banale, su cui e
del quale si finisce per (pensare di) poter fare di tutto.
Il lavoro linguistico, evidentemente, continua. Prendiamo la co-
municazione turistica. Nel suo più potente canale, che ha a che fare
con il marketing turistico, il “luogo” semplicemente non esiste, sop-
piantato ormai universalmente dalla “destinazione”. Ma questa so-
stituzione, apparentemente innocua, è molto di più di una “questio-
ne terminologica” (peraltro mai banale): è la spia, piuttosto, di un
interdiscorso altamente performativo, che ha effetti sul piano se-
mantico, sul piano sintattico e, soprattutto, sul piano pragmatico3.
Vediamo di intenderci. È chiaro a tutti come, secondo l’espressione
di R. Amirou4, il “devoir de vacances” sia un potente motore di con-
dotta sociale. Ed è perciò che la sua critica è consistente e finemente
articolata in modi non solo ideologici ma rigorosi sul piano tanto
analitico che documentale. È invece chiaro a pochi come il discorso
che fonda e alimenta il “devoir de vacance” sia un dispositivo di
produzione di “destinazioni” e, in modo speculare, di annientamen-
to di ubietas: precisamente, la maniera di essere in un luogo e, in-
sieme, il luogo in cui si è5. Prendiamo ad esempio uno dei tratti
fondamentali dei meccanismi di costruzione dell’informazione turi-
stica nell’età della rete: l’elaborazione di una graduatoria. Da un
primo ad un ultimo, da uno a 10, o da uno a 100, e oltre. Ve ne sono
di tutti i tipi. Alcuni ci fanno sorridere: i 40 posti più belli del mon-
do (40, non 35 o 100). Altri sono il frutto di laboriose sommatorie,
medie ponderate, interpolazioni. Tutte però finiscono nell’immane
tritacarne del catalogo delle destinazioni, iniettando rudemente le
scale comparative (accessibilità, dotazioni o addirittura “vibrazio-

3 “Non esiste ‘un’ discorso univoco, ma ogni discorso si costruisce all’interno

di una rete di altri discorsi, che gli analisti del discorso chiamano interdiscorso”
(D. Antelmi, “Le legittimazioni discorsive”, in: A. Turco (a cura), Governance
territoriale. Norme, pratiche, discorsi, Unicopli, Milano, 2013).
4 R. Amirou in conversazione con M. Houellebecq, intorno al romanzo: Pla-

teforme, Flammarion, Paris, 2001


(http://www.youtube.com/watch?v=lo2Tn1WdZq8).
5 La lingua inglese con il termine “ubiety” riprende e veicola esattamente

questa significazione latina, resa malamente dal francese con “lieuité” e pessi-
mamente in italiano con “località”.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 189

ni”6) in faccende tremendamente serie come le campagne pubblici-


tarie, le strategie di immagine, il destination management e perfino
le politiche di patrimonializzazione.
È la competizione, bellezza!
Tutto questo potrebbe essere anche divertente se non riflettesse
talune problematiche sui modi attraverso i quali si alimentano la
geografia dell’omologazione e il suo correlato concettuale, il pensie-
ro unico.
La prima ha a che fare con il riduzionismo. La qualità, che e-
sprime diversità, viene trasformata in quantità, che esprime diffe-
renze, predicati calcolabili e dunque riducibili gli uni agli altri. Ma
ciò seppure possa e di fatto sia stato sempre considerato una specie
di errore metodologico7, non è senza effetto pratico. Il riduzioni-
smo, già ampiamente sperimentato come tecnicalità del capitali-
smo, diventa in ambito turistico un autentico fattore di produzione,
più precisamente una componente essenziale del capitale comuni-
cativo. Il fatto stesso che molti vanno da qualche parte, questo il
senso delle graduatorie, costituisce per me attrazione: è una realtà
aumentata. E specularmente, ciò che arriva a contare nelle politiche
pubbliche o d’impresa (comprese quelle di branding) è il posizio-
namento nella scala: che è un valore in sé. Un’informazione auto-
consistente che, come nelle logiche complessive di funzionamento
dell’interdiscorso, non spiega niente perché non deve spiegare nien-
te.
Una seconda problematica, strettamente connessa alla preceden-
te, ha a che fare con l’assertività. Nessun valore all’argomentazione, ai
pre-requisiti, alla pertinenza, agli interessi in gioco, agli scopi dichia-
rati e a quelli sottesi. L’informazione non ha un bersaglio cognitivo,
ma è costruita per il circuito mediale e per quello decisionale. Entrambi
puntano a un sapere facilmente assimilabile e rapidamente trattabile. I
media devono risolvere il problema degli spazi, o dell’audience e
quant’altro: che vengono prima di ogni cosa, ivi compresa la fondatez-
za scientifica della conoscenza, che viene sostituita da una melmosa

6 Alla maniera ironica dell’ultimo film di Paolo Sorrentino (La grande bel-

lezza), ma anche secondo una tradizione che viene almeno dai The Beach Boys
(Good vibrations è del 1966), ovviamente ben lontani dall’immaginare una gra-
duatoria di posti vibratili. Una tradizione “californiana”, ottimistica e spensiera-
ta come allora si poteva, beninteso, ma seria nella sua levità. Ricordate? “…I
hear the sound of a gentle word, on the wind that lift her perfum through the
air…”.
7 Anche sull’onda di critiche demolitrici come quella di F. Affergan, Esoti-

smo e alterità: saggio sui fondamenti di una critica dell’antropologia, Mursia,


Milano, 1991.
190 ANGELO TURCO

“plausibilità”. Dal suo canto, il sistema decisionale (di natura politi-


co-amministrativa oppure economico-finanziaria) tende sempre più
ad accontentarsi della tenuta comunicativa dell’informazione, se-
condo un principio di verosimiglianza piuttosto che di veridicità.
Bisogna, qui, fare i conti con il tempo: difficile che un ministro pos-
sa leggere un libro o un capitano d’industria possa dedicarsi alla let-
tura critica di ponderosi studi analitici, dove si ricostruisce la genesi
di un bisogno conoscitivo o la pertinenza di una scelta metodologica.
Una terza problematica, anch’essa inscindibile dalle prime due,
ha che fare con il concetto gramsciano di egemonia, metamorfosato
nelle pragmatiche della vacanza. I linguaggi, soprattutto quelli della
quantificazione, sono mission-defining e le credenze che ne deriva-
no sono practice-determining8. Sicché, una volta che l’informazione
calcolabile entra nel circuito mediatico-decisionale, non c’è verso di
contestarla, approfondirla, metterla in discussione. Un indice che
fonda una graduatoria, rispetto al quale gli autori di un Rapporto
hanno pur preso le loro precauzioni (criteri di applicazione, limiti di
validità), diventa un fatto incontrovertibile.
Ecco, questo capita se affidiamo l’essenza dei luoghi, l’unicità
che fornisce consapevolezza identitaria, a meccanismi omologanti,
del genere classificatorio e non solo. Ma dopotutto cos’è, per cia-
scuno di noi, questa consapevolezza identitaria? È il fatto di trovarti
in un posto e di sentirlo come tuo: perché lo ri-conosci estraendolo
dalle profondità della tua cultura9, determinandolo in base alle tue
proiezioni mistiche o ideologiche10, individuandolo come il territo-
rio delle tue possibilità professionali o esistenziali11. La quieta voglia
di tornarci. Il fatto di trovarti bene, finalmente nel posto giusto al
momento giusto. E il fatto, anche, che quando te ne vai non ti senti
triste perché sai che il luogo è lì, è per tutti ed è tuo nel senso che è
aperto, accessibile in ogni momento senza sforzo e nel senso che hai
stabilito con esso una complicità vitale che non tradisce.
Questi sentimenti, e la stessa intelligenza delle emozioni che essi
suscitano, non possono acquisirsi in un mondo omologato. Qui, an-

8 A. Turco (a cura), Governance ambientale e sviluppo locale in Africa,

FrancoAngeli, Milano, 2010, specialm. Cap. 1.


9 È l’essenza del “viaggio in Grecia” per i ventenni della mia generazione.
10 Pensiamo ai trails nei molti orienti della beat generation, dal Maghreb

all’India e al Tibet.
11 Gli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra, il Brasile di Juscelino Kubi-

tshek, la Milano degli anni ’60, dove “tutto era possibile”, Berlino dopo la cadu-
ta del muro, il Sudafrica con la fine dell’apartheid e l’elezione di Nelson Mande-
la alla Presidenza della Repubblica.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 191

zi, l’esperienza è regressiva, se posso dire. Mentre la fai, mentre ne


godi, senti che ti passa sopra. Come acqua che scorre. Ma senza ba-
gnarti. Non si riverbera nella tua biografia narrativa, non assume
uno spessore pur minimo e tale da poter essere condiviso: attraver-
so pratiche memoriali, relazionali, progettuali. Puoi goderne al
momento, certo, come quando mangi un gelato, nel mentre lo man-
gi. Ma nel nostro “desir d’être”, per dirla con J. Généreux, prevale
“il sé e per sé” e scompare l’altra faccia di noi stessi, “essere per e
con gli altri”12. È perciò che possono darsi le situazioni descritte con
terribile ironia da F. Piccolo, i sistemi di vita che “affiancano la tua
volontà e qualche volta la superano” come il trasferimento aereo
(finalmente) in business class. Durante il quale c’è un moto di co-
scienza che deve darsi da fare per rassicurarti: “non essere preoccu-
pato, è solo un modo di stare comodo e sentirti a tuo agio prima di
immergerti nella verità dei luoghi dove ti stanno accompagnando;
solo, lo fanno dolcemente. Non riguarda il cuore del viaggio, stai
tranquillo…”13. Salvo poi entrare al Wing, “in teoria, la sala vip
dell’aeroporto di Hong Kong. In pratica, un posto meraviglioso”. E
avere l’idea di “proporre a un tour operator un ‘tre giorni e quattro
notti’ qui al Wing, tutto compreso”14.
Affinché si dia non la banale località, che descrive “l’essere-da-
qualche-parte” e può manifestarsi ovunque, bensì l’ubietas, ossia
uno spazio topico e la maniera di essere in quello spazio topico, so-
no necessari appunto dei luoghi. Vale a dire delle singolarità territo-
riali, capaci di assolvere il ruolo di dispositivi di identificazione: non
fungibili, non sostituibili l’una con l’altra, per le quali quindi l’idea
stessa di concorrenzialità è povera di senso. Queste singolarità, an-
corché spesso siano gommate dai discorsi dominanti e dalle prati-
che che questi generano, mostrano una potente vitalità, tentando di

12 J. Généreux, La dissociété, Seuil, Paris, 2008, p. 17 e Cap. 4. Continua l’A.:

“Le due facce del nostro desiderio d’essere sono indissociabili; l’una non è più
importante dell’altra, esse sono in interazione permanente. Abbiamo bisogno
dell’altro per crescere e costituirci in soggetto singolare, abbiamo bisogno della
stima degli altri per conoscere la stima di noi stessi. Ma il sentimento di essere
sé stesso, di essere libero ci è altrettanto indispensabile per essere con e per gli
altri”. Si capisce dunque come gli effetti di questa mutilazione, interrompendo il
processo di “interazione permanente”, siano devastanti, nel lungo periodo, sul
piano personale non meno che su quello sociale.
13 F. Piccolo, Allegro occidentale, Einaudi, Torino, 2013, p. 25.
14 Ivi, p. 30. E di seguito: “Con un bel volo da dove volete, atterrate nel ma-

gnifico aeroporto di Hong Kong, vi dirigete al Wing e lì restate per la vostra va-
canza: non ve ne pentirete, è perfetto e rilassante e oltretutto è l’essenza di
Hong Kong senza il disturbo di… Hong Kong. Pensateci”.
192 ANGELO TURCO

resistere all’appiattimento, di forare il velo omologante, di nascere e


di rinascere in ogni momento e in ogni dove. Al punto che lo stesso
turista, a cui la cultura della vacanza affida una preminente funzio-
ne di “consumo”, elabora un suo specifico modo di produzione di to-
pia, ad esempio attraverso il gioco15, oppure la mise en abîme trian-
golare del sé, dell’altro e dell’altrove16. Riconquistando dall’interno e
dal basso la sua dimensione vitale di homo ludens, il turista si riap-
propria del suo statuto di theoros, di persona che apprende girando
il mondo, gode di questo e ne dà testimonianza.
Prendiamo le città. “Che ti move, o omo, ad abbandonare le pro-
prie tue città, a lasciare li parenti e amici, ed andare in lochi campe-
stri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo?” Siamo
molto lontani, in tutti i sensi, da questa notissima riflessione di Le-
onardo. Oggi gli “omini”sono mossi non solo dalla “naturale bellez-
za”, ma da plurimi attrattori per andare dalle loro città e dai luoghi
più remoti, verso altre e sempre più numerose città. Il turismo ur-
bano è uno degli ambiti più dinamici della pratica della vacanza e uno
dei motivi più diffusi della cultura del viaggio. Ebbene da un punto di
vista turistico, quando diciamo “città” non solo evochiamo un feno-
meno di grande complessità funzionale, economico-organizzativa,
culturale; ma stiamo parlando di qualcosa che è costitutivamente “al-
tro” da una city destination. La città è la struttura territoriale nella
quale si combinano e ricombinano incessantemente il mutamento e
la stabilità. L’innovazione tecnologica, istituzionale, produttiva, con
la fabbricazione di memoria e, spesso, la sua sacralizzazione. La
creatività scientifica e artistica con la stratificazione dei saperi e de-
gli stili rappresentazionali. Un dispositivo di rimescolamento e di
promozione sociale, ma al tempo stesso, come dice B. Secchi nel suo
ultimo libro, “una potente macchina di distinzione e separazione…
dove temi, conflitti, soggetti, politiche e progetti si sono sovrapposti
e cumulati nel tempo senza cancellarsi”17. Dal punto di vista di theo-

15 C. Minca, “Il gioco del turista, il turista in gioco”, in: A. Turco (a cura), Co-

operazione turistica internazionale. Narrazioni, politiche, territori, Unicopli,


Milano, 2013; ed anche: Id., T. Oakes (eds), Real Tourism: practice, care and
politics in contemporary travel culture, Routledge, Abingdon, 2012; M. Sheller,
J. Urry (eds), Tourism mobilities: Places to play, places in play, Routledge, Ab-
ingdon, 2004.
16 Uno degli scandagli più interessanti in questo campo è quello proposto da:

J. Urry, The Tourist Gaze, Sage, London, 2002; tra i molti scritti che sono segui-
ti, si veda, sulla stessa scia ma con diversi spunti innovativi: C. Minca, T. Oakes
(eds), Travels in paradox: Remapping tourism, Rowman&Littlefield, Lanham
(Maryland), 2006.
17 B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Bari, 2013, p. 3 ss.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 193

ros, di chi coltiva una concezione del turismo come atto creativo
piuttosto che come atto esecutivo, il turismo urbano appare come
un’espansione vistosa, forse epocale, della pulsione inclusiva della
città, della sua attitudine a reinventare senza posa l’amalgama so-
ciale, della sua vocazione a rendere partecipi flussi sempre maggiori
di persone alle sue dinamiche evolutive.
Delle “destinazioni urbane”, si possono stilare graduatorie, ov-
viamente18; ma non delle “città”, che possono essere indicate solo
come luoghi, degli universali singolari, appunto, perché nella loro
specificità, individualità, infungibilità, riescono a coinvolgere un
sacco di gente, trasformando senza sosta gli abitanti in visitatori e i
visitatori in abitanti. Sicché, verrebbe fatto di dire, le vere “città
mondiali” non sono quelle segnate da gigantismo metropolitano, o
quelle che determinano la decisione globalitaria: politica, culturale,
economico-finanziaria. Ma piuttosto quelle che riescono ad esibire e
a far riconoscere ai più questo status di singolarità universale, e
l’attitudine a far sì che ciascuno si senta lì in viaggio, se residente, e,
se straniero, un abitante, uno che sta a casa sua perché condivide
non solo interessi strumentali (cose da fare e da vedere, varietà dei
servizi e loro qualità, anche in rapporto al prezzo), ma valori comu-
nitari, percorsi emotivi, sentimenti partecipati.
Questa topogenesi, questa incessante produzione e trasforma-
zione di topìa, avviene in infiniti modi e sarebbe vano immaginare
delle tipologie. Proviamo, così, a cogliere qualche esperienza di fer-
mentazione del luogo urbano, attraverso due esempi assai diversi
tra loro: Lisbona e Shanghai.

2. Eu também: se venite a Lisbona

Ogni nazione ha bisogno di un mito fondatore? Se ciò è vero,


certamente il Portogallo individua il suo nell’epopea delle grandi
scoperte geografiche, che forgia la stirpe dei figli di Luso. Quei Lu-
siadi che nei canti di Luis de Camões “sciolsero dal Tago armati le-
gni, solcaro novi mar, fondaro regni, e sott’astri d’incogniti emisferi,

18 Notissimo è il Top 100 cities destination ranking di Euromonitor Inter-

national
(http://blog.euromonitor.com/2013/01/top-100-cities-destination-
ranking.html). Ma le praterie del ranking, sia per quanto riguarda le classifiche
che i criteri in base alle quali sono stabilite, sono molto più vaste e pullulanti. Si
veda a titolo di esempio:
http://www.citymayors.com/sections/rankings_content.html.
194 ANGELO TURCO

ciò che non era ardir d’umani ingegni, vinser nembi e procelle…”. E
ovviamente: “dove regnava l’african tiranno, casti costumi richia-
maro e riti”19.
Ma il Portogallo, seppur già ben fondato sui descubrimientos20, ri-
propone se stesso come icona della modernità attraverso un’apocalisse
sismica: il terremoto di Lisbona del 1755. La capitale viene distrutta da
uno sciame sismico interminabile, brucia per cinque giorni e cinque
notti, perde qualcosa come ¼ dei suoi duecentomila abitanti, 9/10
dei suoi edifici. Di fronte a questo immane disastro, in pieno secolo
dei lumi, infatti, si misurano sulla scena culturale europea delle po-
sizioni laceranti21. E molto aggrovigliate. C’è la posizione liebniziana
di chi dice che “tutto è bene” perché voluto da Dio: e le stesse cata-
strofi, dunque, in quanto castigo dell’Onnipotente, lo sono. Chi, come
Kant, richiama le responsabilità umane – tecniche, politiche, stori-
che – e sollecita il dovere della scienza di capirne di più. Chi insiste
sulla vanità delle opere umane, che in qualunque momento possono
essere distrutte dal minimo sussulto di una “natura” che si credeva
se non vinta, perlomeno addomesticata. Infine, coloro che assumo-
no nella sfida l’incoercibile segno dell’agire umano, il segno del suo
abitare in un mondo non meccanicistico ma sempre aperto al “peri-
colo” del cambiamento. Tutto questo fermenta nella polemica cele-
bre tra Voltaire e Rousseau, che però si protende in diverse direzio-
ni e approda, in una di esse, su una nuova e ambivalente metafora,
quella del Vesuvio, slanciandosi verso Leopardi e Nietzsche22,

19 Il riferimento, si capisce, è a: Luis de Camões, I Lusiadi, nella traduzione

di Antonio Nervi (Sonzogno, Milano, 1882).


20 Sottoposti è vero alla sfida durissima non solo della Spagna, ma altresì

delle potenze emergenti in Europa: Olanda, Francia, Inghilterra.


21 Per una contestualizzazione culturale nell’età dei Lumi rinviamo tra i lavo-

ri recenti a: A.-M. Mercier-Faivre, Ch. Thomas (dir.), L’invention de la catas-


trophe au XVIIIe siècle: du châtiment divin au désastre naturel, Droz, Genève,
2008.
22 Per Leopardi, parliamo della Ginestra, si capisce, laddove “lo sterminator

Vesevo….[che] con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto. Dipinte in queste ri-
ve/son dell’umana gente/le magnifiche sorti e progressive”. Quanto a F. Nie-
tzsche, l’esortazione nella Gaia Scienza (IV, 283) è agli Erkennenden, gli “uo-
mini della conoscenza”: “Credete a me! Il segreto per raccogliere dall’esistenza
la fecondità più grande e il più grande godimento si chiama: vivere pericolosa-
mente! Costruite le vostre case sul Vesuvio… la conoscenza stenderà la mano
verso ciò che le spetta”.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 195

quest’ultimo ripreso nel programma filosofico popperiano della


“scienza su palafitte”23.
Dopo la ricostruzione ad opera di Sebastião de Carvalho e Mel-
ho, futuro marchese di Pombal, “remodelée à son goût” come dice
P. Kyria24, dalla Rotunda alla Praça do Comercio, Lisbona diventa il
crocicchio discreto e tenace di una società cosmopolita, un mondo
che viaggia, si incontra, si mescola, riflette, si avvita nelle sue con-
traddizioni, costruisce le sue mitologie e le diffonde un po’ dovun-
que in Europa e verso i vasti orizzonti dell’Ultramar. È così che alla
capitale ci si può avvicinare in molti modi. Seguendo il modello di-
dascalico del Pessoa che parla al turista, ad esempio25. Oppure, gu-
stando altri Pessoa e dopo molte letture ulteriori, in maniera dimes-
sa e fiduciosa, con sguardi fugaci, sensazioni impalpabili, consape-
volezza crescente di aver fatto un’esperienza importante, senza tut-
tavia saperla dire. Una conquista interiore, che fatica ad esterioriz-
zarsi. Già: avere a che fare con Lisbona, in qualche modo, pone il
problema di un contenuto di esperienza che non si riesce a trasferi-
re nella scrittura. A meno che non si possegga la penna di Antonio
Tabucchi (la Lisbona di un mio libro)26, di José Cardoso Pires (la
città che naviga)27 o di qualcuno dei personaggi da lui evocati: dal
Cervantes della “famosa Lisbona, al centro del Cielo”, al Dos Passos
della “nostalgia addormentata”, al Saint-Exupéry del “paradiso chiaro
e triste”. Ed è tutto ciò che, alla fine, rende plausibile e perfino neces-
saria l’impresa di una critica “letteraria” di Lisbona28. Certo, puoi
sempre sbarazzarti della scrittura e passare dalle emozioni che la pa-
rola letteraria descrive ed evoca, ai sentimenti che si vedono e si a-
scoltano: l’amicizia, l’amore, la nostalgia, l’ammirazione. Come in Li-
sbon Story, il film di W. Wenders (1994). Il quale però gioca in casa,

23 “La scienza non poggia su un solido strato di roccia. L’ardita struttura si

eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte.
Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non in una base
naturale o ‘data’: e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a
fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido” (K.R.
Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1970, p. 107-108).
24 P. Kyria, Lisbonne, Champ Vallon, Seyssel, 1985, p. 26.
25 F. Pessoa, Lisbona. Quello che il turista deve vedere, Einaudi, Torino,

2007.
26 A. Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli, Milano, 2010.
27 J. Cardoso Pires, Lisboa, livro de bordo: vozes, olhares, memorações,

Circulo de Leitores, Lisboa, 1998.


28 A. Montandon (dir.), Lisbonne: géocritique d’une ville, PU Blaise Pascal,

Clermont-Ferrand, 2006.
196 ANGELO TURCO

in qualche modo, dal momento che “il cinema e le città sono cre-
sciuti e diventati adulti insieme”29.
Ma ancora, per riprendere il filo del nostro discorso, a Lisbona si
può entrare con la passione implacabile di un José Saramago, che
conduce il viaggiatore, appena fosse entrato in città, direttamente
verso il Museo di Archeologia ed Etnologia alla ricerca del famoso
collare usato dallo schiavo dei Lafetà. Si, direttamente alla radice
dei descubrimentos o, come qualcuno che non è Saramago pur di-
rebbe, a uno dei loro effetti collaterali. Un collare su cui si può leg-
gere: “questo negro è di Agostinho de Lafetà di Carvalhal de Obi-
dos… Un vero e proprio collare, si noti bene, [che] è stato al collo di
un uomo, gli ha succhiato il sudore, e forse un po’ di sangue, di una
frustata diretta alla schiena che ha sbagliato strada. Il viaggiatore
ringrazia dal profondo del cuore chi ha raccolto e non ha distrutto la
prova di un grave delitto”30.
La storia, le storie di Lisbona. Le storie scritte, consegnate ai
monumenti, alle opere, agli oggetti, alla morfologia urbana che si
adatta così mirabilmente ad alture e vallecole, evocazioni, talora
consegnate ad una scritta su azulejos: come quella che nel Patio do
Tronco, di fronte alla sede della Società Geografica, ricorda l’agguato
di cui fu vittima proprio lui, Luis de Camões.
Ma anche le storie al presente. E le storie da scrivere. È questo
che fa José Cabral, giovane fotografo di street style, nella campagna
Lisboa somos Nos, commissionata nel 2012 dalla Câmara Municipal
a partire dal suo blog, o Alfaiate Lisboeta31. Da Milano a Londra, da
Parigi a New York, a Copenaghen e altrove, oltre che in molte città
portoghesi e spiagge e campagne, José ha cercato persone: è così
che comincia il suo blog che, dapprima solo un’occasione di comu-
nicazione cool, per sfuggire alle trappole di un lavoro poco eccitan-
te, diventa poi la sua occupazione e la sua nuova possibilità di vita.
José cerca “pessoas, apenas pessoas” per scriverne, così dice: la fo-
tografia viene dopo, e non è che “uma forma para chegar às pesso-

29 W. Wenders, “A paisagem urbana”, in: Revista do Patrimônio Historico e

Artistico Nacional, 23, 1994.


30 J. Saramago, Viaggio in Portogallo, Einaudi, Torino, 1999, p. 376. Sara-

mago così continua: “Purtuttavia [il viaggiatore] dal momento ch non ha mai
taciuto i propri suggerimenti, adesso ne darà un altro e cioè quello di mettere il
collare del negro di Agostinho de Lafetà in una sala dove non ci fosse nient’altro,
solo il collare, perché nessun viaggiatore si potesse distrarre e affermare poi di
non averlo visto”.
31 http://oalfaiatelisboeta.blogspot.it/.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 197

as”. Nel 2012 pubblica un libro32, collabora con Vogue e in parallelo


“esplode” in tutta Lisbona con i suoi manifesti in una originalissima
e coinvolgente rappresentazione della città33. E come il libro, Liboa
somos Nos è il racconto di una relazione esistenziale tra pessoas e
cidade: uno sguardo “sobre pessoas; sobre as gentes e os lugares
que habitam; sobre as gentes que fazem esses lugares”.
As gentes, niente di speciale, eppure tutto singolare (Fig. 1). Fo-
tografie che mettono in scena un’essenzialità travestita da normali-
tà. Anche quando si tratta di citazioni vistose, come il beijo di Largo
Camões che rinvia al bacio dell’Hotel de Ville, di Robert Doisneau
(1950).

Fig. 1 - Paixão

32 Il primo, ma – possiamo supporre – non l’ultimo: J. Cabral, O Alfaiate Li-

sboeta, Oficina do Livro, Lisboa, 2012.


33 Segnalo la video-intervista: http://vimeo.com/38521168.
198 ANGELO TURCO

Prova a mettere da parte, per un istante, tutto quello che hai let-
to, udito, visto su Lisbona. Guardati intorno. Incrocerai pessoas, lu-
gares, momentos, una triade nei cui confronti hai un debito im-
menso: proprio così, di essere quello che sei qui ed ora, di non
“prenderti per un altro” ma di accettarti finalmente per te stesso.
Hai un debito immenso, e però immediatamente cancellato da un
tuo piccolo credito di cui acquisisci consapevolezza crescente in o-
gni attimo che passa: tu sei a tua volta parte delle pessoas, lugares,
momentos che altri sguardi, altri corpi, altri sentimenti incroceran-
no, qui ed ora. Tutti, individualità che partecipano a un’esperienza
plurale, denominata Lisbona: qui ed ora, in un luogo che mi appar-
tiene e di cui faccio parte. Ecco, è questa la ragione per cui ci sto be-
ne, a Lisbona: con la ragazza della Calçada da Gloria, con il pensio-
nato del Largo da Graça, con gli innamorati al parco, con la signora
un po’ sorpresa che attraversa le strisce pedonali in mezzo a un traf-
fico, tutto sommato, gentile. Si, ci sto bene e credo di essere, come si
dice, la persona giusta, nel luogo giusto, al momento giusto: perché
mi rispecchio nella gente e mi impegno senza ansia in uno scambio
simbolico nel quale tutti i partecipanti traggono vantaggio.
I manifesti di eu também sou Lisboa richiamano alla mente “I,
too, am America”, il poema-blues di James Langston Hughes. Una
rivendicazione orgogliosa e dolente dell’americanità dei neri e, più
ancora, della negritudine americana, nutrita di una consapevolezza
tranquilla: del “fratello più scuro” che cresce forte e bello. Nessuna
rivendicazione sulle rive del Tago, solo una notazione mite, quasi
“fattuale”, a significare l’ovvietà di una presenza, quella degli abi-
tanti, indispensabile alla composizione dell’organismo urbano e alla
sua comprensione. E per dire a ciascuno che anche lui, turista, è Li-
sbona: è il visitatore che la città non separa dai suoi abitanti, ma li
associa ad essi, letteralmente li incorpora.
Una notazione mite, certo, e però molto esigente. Per dire che
l’agire politico, le politiche pubbliche devono puntare su tutto que-
sto, tenere conto di tutto questo come è venuto impastandosi stori-
camente e nella quotidianità presente in un luogo che non a caso si
chiama Lisbona: voglio dire non solo per la storia e per i monumen-
ti, ma perché ci sono anch’io, il lisboeta. Ed è qui che il turismo co-
glie qualcuna delle sue grandi verità. Intanto, che la città non può esse-
re in nessun modo ridotta a un’entertainement machine. L’attrattività
urbana non è nelle cose, o nei dispositivi di fruizione. È, piuttosto,
nei modelli di urbanità: nei modelli di interazione tra la scena urba-
na e i cittadini. Se la città è realmente di tutti, democratica e parteci-
pativa; ed è dovunque, senza centri né periferie: ebbene io che ci sto
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 199

dentro, in este momento também, sono l’attrattività. La socialità che


sviluppo e nella quale ti coinvolgo, facendoti scoprire te stesso, o un
altro te, facendoti varcare quella soglia che ti introduce al vero luogo:
quello che, come direbbe M. Butor, è tale solo se ti rivela a te stesso.
Ma ciò può accadere solo nel seno di una relazione con altri che e-
speriscono lo stesso luogo e, esperendolo, lo fanno. Il luogo non è
una cosa, e men che meno un posto o una località. È, piuttosto, un
processo, un divenire topico nel quale i soggetti stessi che ne fanno
esperienza sono implicati.
Ma ecco, col divenire topico, eu também evoca anche le storie da
scrivere, le transazioni che si possono costruire. Transazioni tra sog-
getti, beninteso, e tra questi e il luogo: Lisbona. I soggetti si inscrivo-
no nel luogo, lo fabbricano e ne sono incorporati, declinando pensie-
ri, comportamenti, atteggiamenti. Il luogo diventa l’intermediario
fondamentale delle attività umane, piccole e grandi. Un intermedia-
rio nella concezione, oltre che “nell’esecuzione o nell’espletamento
delle attività umane, così come è il canale attraverso il quale esse si
muovono e il veicolo con cui esse procedono”34.
Ce ne sono tre di queste storie, in particolare, che propongono
altrettante metafore, strettamente avviluppate in una serie di ri-
mandi reciproci.
Una è l’allegria (Fig. 2), la metafora di un presente possibile per
un futuro diverso. Lisbona è l’allegria della mamma e del bambino:
la nostra allegria, também. Nonostante le nubi di un mondo intrap-
polato nei parametri della finanza, nonostante il baratro che rischia
di inghiottire il Portogallo (come da molti anni ormai sembra che ci
dicano proprio tutti) si può essere gioiosi: ed essere allegri è qui.
L’idea sembra dare ragione a chi pensa che “resistere non serve a
niente”35. È necessario, invece, abbandonare quel terreno di lotta,
impegnarsi in un’altra partita…
Una seconda è quella del presente progettante (Fig. 3). La giova-
ne donna incinta racconta l’avvenire del futuro, consegnato sempli-
cemente alla vita, la complessità della vita e la sua potenza. E il luo-
go dove questo avvenire si sta fabbricando, semplicemente, è Lisbo-
na, nos também.

34 J. Dewey, A.F. Bentley, Conoscenza e transazione, La Nuova Italia, Firen-

ze, 1974, p. 313.


35 Titolo dell’ultimo romanzo di: W. Siti, Resistere non serve a niente, Rizzo-

li, Milano, 2012.


200 ANGELO TURCO

Fig. 2 - Alegria

Infine l’incorporazione della diversità (Fig. 3). Non l’amalgama,


ma la distinzione orgogliosa e insieme connettiva che fa di un luogo
quel luogo, Lisbona. Il ragazzo del Bairro Alto, e il suo sorriso tam-
bém, proclamano il rispetto per la diversità e la cura delicata che ad
essa si deve. L’ammirazione per la diversità. Oltre l’integrazione,
neri o verdi, l’umanità dell’uomo è quel che conta. Il ruolo storico
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 201

della città si invera nel suo quotidiano al presente e diventa una vi-
sione per il suo futuro.

Fig. 3 - Maternidade, Sorriso


202 ANGELO TURCO

3. Frugal traveler: se venite a Shanghai

Ma se ogni nazione ha bisogno di un mito fondatore, quella che


fu e resta la “Cina di Mao” ha per sé la Lunga Marcia36. E come nel
mito di fondazione del Portogallo si inscrive – a suo modo – Lisbo-
na, nel mito di fondazione della Cina contemporanea si inscrive
Shanghai. A suo modo. Ma è certo che mai luogo, forse, fu cogniti-
vamente dissonante come Shanghai, “la più splendente e la più cor-
rotta città di tutto l’Estremo Oriente”37. Il suo nome ci racconta una
genesi puramente referenziale: un generico insediamento “sul ma-
re” (hai). Tuttavia, la territorialità che si condensa nel designatore
non cessa di crescere nel corso del tempo, già a partire dall’XI sec.
quando i Song ne fanno una città-mercato. Ma i significati simbolici
e performativi si moltiplicano vertiginosamente dopo il trattato di
Nanchino che nel 1842 pone fine alla prima guerra dell’oppio e in-
dica nella città uno dei cinque “porti aperti” al commercio interna-
zionale. La storia accelera, se così si può dire. La città diventa rifles-
so e condizione della dissoluzione della Cina moderna fino alla Li-
berazione, con la sua tentacolare borghesia compradora. Al punto
che ancora verso la fine degli anni ’60, G. Parise può dire di Shan-
ghai che “non è una città cinese ma un meteorite di città inglese,
belga, francese (un poco anche americana), insomma nord-europea,
staccatosi improvvisamente da quei nebbiosi territori e proiettato
attraverso l’Asia fino alla sua estrema costa orientale”38. Perno della
rinascita della Cina dopo la Liberazione, insieme a Pechino39. Infine
gigantesco polmone economico-produttivo col denghismo e piatta-
forma simbolica del capitalismo comunista.
Eccomi dunque a Shanghai. Ci ritorno, per la prima volta dopo la
morte del Grande Timoniere. Ho con me una delle venerabili guide
che circolavano un tempo – neppure molto lontano – e che mi ac-
compagnò nel primo viaggio. Ma non l’ho aperta, in realtà, se non
per verificare qualche dettaglio dinastico, qualche peculiarità regio-

36 Leggo questo postulato, da ultimo, nel suggestivo: S. Shuyun, La lunga

marcia, Mondadori, Milano, 2007. Come è noto, la Lunga Marcia designa la


ritirata strategica dell’Armata Rossa cinese di fronte agli eserciti nazionalisti del
Kuomintang. Dura un anno (1934-1935) e si svolge per oltre 12.000 Km. tra il
Jangxi e lo Shaanxi con una lunga curvatura verso l’interno del Paese. Nella du-
rissima esperienza della “Marcia dei 10.000 li”, come pure è detta, emerge la
personalità di Mao Tsetung nel gruppo dirigente comunista.
37 G. Parise, Cara Cina, Longanesi, Milano, 1970, p. 170.
38 Ivi, p. 169.
39 A. Turco, “La struttura urbana nella Repubblica Popolare Cinese”, Mondo

Cinese, 11, 1975.


6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 203

nale, il nome di un geografo Tang. Perché sì, si facevano così le gui-


de turistiche ancora fino agli anni ’80, confezionate da curatori in-
telligenti e colti, con il contributo di studiosi di prim’ordine (la sto-
ria, la geografa, l’archeologia, l’architettura), di celebrati artisti, di
viaggiatori curiosi, sensibili e informati.
Se ne sa davvero molto, oggi, di Shanghai. Il racconto della città,
dei protagonisti piccoli e grandi che l’hanno plasmata e, correlati-
vamente, dell’influenza che essa ha avuto sulle persone che l’hanno
anche solo avvicinata è denso di fascino40. Ma se nell’ultimo quarto
di secolo tanto si è guadagnato in documentazione, in dettaglio in-
formativo, in profondità analitica; ebbene tantissimo si è perso “sulla
strada”, con l’evaporazione delle testimonianze iscritte nell’impianto
urbanistico sconvolto dai riassetti avviati negli anni ’90, con sven-
tramenti, ricostruzioni, de-socializzazione urbana provocata
dall’evacuazione e dal reinsediamento di migliaia e migliaia di
persone. Il denghismo ruggente, che concentra e sviluppa e rilan-
cia e trascina, approdando ai fasti dell’Expo 2010, alle 5.000 torri e
alla Perla d’Oriente, ha anche altre facce: squilibri regionali, degra-
dazione ambientale, stravolgimento della personalità urbana41.
Nondimeno, Shanghai è indispensabile per capire la Cina mo-
derna come pure, vorrei dire, i meccanismi globalitari che si metto-
no in moto, verso la metà del secolo scorso, per avviare le sconvol-
genti mutazioni dell’Oriente Estremo, Cina e Giappone in testa. Ma
per camminarci davvero dentro, senza prendere troppi scivoloni,
può essere utile seguire storie più frammentarie42, magari seguendo
l’evoluzione della forma urbana attraverso la cartografia. Senza man-
care, ovviamente, i nomadismi piuttosto sincopati dell’ispettore capo
Chen Cao, attraverso i resoconti che ne fa Qiu Xiaolong dal suo os-
servatorio ormai americano: resoconti voluminosi, certo, ma di tra-

40 Penso ad esempio ai lavori di M.-C. Bergère e in specie: M.-C. Bergère,

Histoire de Shanghai, Fayard, Paris, 2002; Id., L’âge d’or de la bourgeoisie


chinoise, 1911-1937, Flammarion, Paris, 1986. Come pure, considerando le pro-
blematiche qui evocate: S.Y. Liang, Mapping modernity in Shanghai: space,
gender and visual culture in sojourners city, 1853-98, Routledge, London, 2010.
41 Su questi temi, la letteratura è ormai abbondante. Si può vedere, anche

per contestualizzare sotto il profilo spaziale e temporale il caso di Shanghai: T.


Cannon, A. Jenkins (eds), The geography of contemporary China. The impact
of Deng Xiaoping’s decade, Routledge, London, 1990; M. Elvin, The retreat of
the elephants. An environmental history of China, Yale UP, New Haven, 2004;
B.B. Erring et al. (eds.), The horizontal skyscraper, Tapir Academic Press, Trond-
heim, 2002.
42 Come ad esempio: J.N. Wasserstrom, Global Shanghai: 1850-2010. A hi-

story in fragments, Routledge, New York, 2009.


204 ANGELO TURCO

scinante lettura43. E naturalmente dedicando da subito il tempo che


serve all’Urban Planning Museum, nella Piazza del Popolo. Giova
osservare qui senza fretta il grande plastico che ricostruisce minu-
ziosamente una megalopoli di 17 milioni di persone (oltre 23 nella
municipalità) proiettata al 2020. Rimirarlo/studiarlo da Est, da O-
vest, da Nord, da Sud: e naturalmente dall’alto, ancorando lo sguar-
do zenitale a qualche punto ben referenziato, nella topografia men-
tale prim’ancora che in quella reale: ad esempio il fiume Huangpu,
o la stessa Piazza del Popolo, o entrambi.
Fare il punto, visualizzandolo sul modello urbano, non serve sol-
tanto da orientamento. Dopotutto, come dice Benjamin, “Non sa-
persi orientare in una città non significa molto. Tuttavia, perdersi in
una città, come ci si perde in una foresta, è una cosa tutta da impa-
rare”44. Puoi dunque “fissare” una pista, rispetto alla quale situare
tutto il resto. Insomma, sapersi perdere. E valutare ad esempio le
distanze, specie se ti ostini a credere che la città, qualunque città,
debba essere percorsa a piedi se vuoi avere qualche chance che essa
possa parlarti. A piedi, almeno per un po’, ma non prima che tu sia
stanco di camminare e con la voglia di andare, ancora intatta, come
l’eterno flaneur. Il mio percorso, per l’appunto, comincia dal ventre
cinese della città, presso i Giardini Yu, grande mistura urbanistica e
punto apicale dello shopping tour cittadino. Si dirige verso il Bund e
lo segue a lungo, fino all’altezza di via Nanchino. Ciò dà modo di as-
semblare i sentimenti contrastanti di una delle più potenti ibrida-
zioni urbane di cui si può avere esperienza in questi anni: da una
parte, di qua dal fiume, Puxi, la sconvolgente modernità di Shan-
ghai arrivata sulla punta delle baionette europee ed americane delle
guerre dell’oppio; oltre il fiume, a est, Pudong, la vetrina postmo-
derna che celebra il nuovo millenarismo capital-comunista della
Repubblica Popolare Cinese. Il Bund sembra scardinare ogni possi-
bilità di costruire discorsi identitari su Shanghai. Esso stesso è or-
mai “sospeso”: nella sua consistenza materiale – un terrapieno rial-
zato rispetto al fiume e al piano stradale –; non meno che nella sua
individualità funzionale: il vecchio molo dove attraccavano navi
provenienti da ogni dove e sempre pronte a ripartire, è diventato
una passeggiata dove milioni di persone ogni giorno, sempre uguali

43 Qiu Xiaolong può essere ormai considerato uno scrittore di successo an-

che in Italia, a partire dalla pubblicazione di: La misteriosa morte della compa-
gna Guan, Marsilio, Venezia, 2011, primo romanzo con protagonista l’ispettore
capo Chen Cao.
44 W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, To-

rino, 1973, p. 62.


6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 205

e sempre diverse proprio come l’acqua del fiume che gli scorre al
fianco, rimirano i fondali teatrali di qua e di là dal Pu. Vi si spec-
chiano, presi dalle scenografie – composizioni, illuminazioni –
piuttosto che dalle drammaturgie – la territorialità eterocentrata
delle Concessioni, il globalitarismo che maschera la bolla edilizia
del quartiere degli affari. Irretiti, sembrerebbe, dalla spettacolariz-
zazione dello spazio pubblico. Appagati, dalle vedute e per nulla tur-
bati dall’assenza di paesaggio.
Il sentiero urbano piega poi verso la via Nanchino, pedonalizza-
ta, brulicante e senza sorpresa alcuna con i suoi chioschi, negozi,
edifici, tutti rigorosamente international style. Infine la Piazza del
Popolo, immensa, polimorfa, che sembra vivere una sua vita propria
rispetto alla città, dove tutti possono trovare una sorpresa perché,
inevitabilmente, ci si perde e, pur restando sempre lì, sembra tutta-
via di stare altrove. Ovvero perché, venuti qui per fare qualcosa, si
finisce per farne un’altra.
Dal punto di vista topografico, dunque, un semplice percorso re-
ferenziale. Ma sul piano simbolico, si tratta di muoversi sulla scia
della topomachia costitutiva di Shanghai, dove gli opposti convivo-
no e dove la teoria maoista delle contraddizioni si invera nella terri-
torialità urbana. Le contraddizioni, si diceva verso la fine degli anni
’50 del secolo scorso, al tempo del Grande Balzo45, sono di due tipi:
antagonistiche e non antagonistiche. Quelle che fanno male, e van-
no combattute, sono le prime. Le seconde possono essere sanate,
tollerate, o anche sfruttate, messe al servizio del popolo. A Shan-
ghai, come nel resto della Cina, la teoria delle contraddizioni ha
pieno corso; ma a Shanghai, ancor più che nel resto della Cina,
quelle che interessano sono le contraddizioni non antagonistiche.
Con le quali si può scendere a patti. Si può far politica, si possono
perseguire interessi personali, familiari, clanici, regionali intenden-
do ciò tranquillamente come una serie di declinazioni del bene co-
mune. Si può trafficare in beni e servizi secondo stilemi neo-
compradores. Si possono coltivare persino fruttuose “dialettiche”
culturali tra ideologie “moderne” a prima vista impermeabili l’una
all’altra, o anche tra “antichi” sistemi di pensiero, certo non dogma-

45 Tramontata la fase della pianificazione di stampo sovietico, la parola

d’ordine divenne: “sviluppo simultaneo e proporzionato di tutti i settori


dell’economia”. Così osservavamo all’indomani della Rivoluzione Culturale in:
A. Turco, “La struttura territoriale dell’economia cinese”, in: G. Corna Pellegrini
(a cura), Geografia sociale ed economica della Cina, Vita e Pensiero, Milano,
1973.
206 ANGELO TURCO

tici come, per dire, le religioni del Libro, ma neppure troppo aperte
a reciproche concessioni.
Per parte mia, colgo in molti modi questo contrastivo genius
loci, il “singolare potere che esercita una città… sullo spirito dei suoi
abitanti o dei suoi visitatori”46. L’idea è che, dopotutto, “Shanghai è
quella che è”. Con l’insolenza teatrale del Bund, che, da porto che era,
mette oggi in scena se stesso come un passeggio soprelevato. Una
metafora del Regno di Mezzo: uno stereotipo del presente che ser-
peggia tra lo stereotipo del passato (Puxi) e quello del futuro (Pu-
dong). E con le operazioni immobiliari architettate tra Hong Kong e
New York che, con il dichiarato intento di far rivivere le forme inse-
diative della Shanghai coloniale, scagliano artificiosi frammenti di
un’urbanità sepolta dalla storia e dalle ruspe, nel corpo di una città
che è certo possibile ricomporre in un plastico, ma assai difficile
pensare in un progetto.
Siamo nel pieno del paradosso del patrimonio architettonico si-
nico, tra “abbondanza spirituale” e “penuria materiale”47? Forse. Ma
allora, in questa città paesisticamente aperta, con le autostrade che
curvando si arrampicano in cielo, con i templi buddisti appena visi-
bili nel folto delle torri in vetrocemento e con i shikumen messi in
circolo dalle strategie di branding, ebbene vorrei contribuire a mia
volta, io turista, a secernere la “Shanghai che è”, con una mia infi-
ma possibilità: attuare un programma. No, no, niente colpi di testa,
tipo andare alla ricerca dello “spirito di Shanghai”, il mitico haipai,
un tempo fieramente opposto allo jingpai, lo spirito di Pechino, e
oggi divenuto uno smartphone; o puntare a ricostruire qualcosa che
somigli a un’identità urbana48.
Questi sono “vastes programmes”! No, io vorrei solo “essere
frugale”, nei pochi giorni che resterò qui. Frugalità, ecco. Che parte
dal rispetto di sé, delle proprie buone ragioni che vengono da lonta-
no: dalla propria formazione, dalla propria predisposizione emoti-
va, dalla propria curiosità. E perciò non vanno intese come pre-
giudizi, cinture protettive, ma rappresentano piuttosto le condizioni
personali di apertura al mondo. Non muraglie isolanti, ma talenti
grazie ai quali ciascuno di noi traffica col mondo senza dissolversi in
esso. In continua mutazione, ma preservando la nostra individuali-
tà. Sistemi, direbbe N. Luhmann, cognitivamente aperti (votati

46 M. Butor, Le Génie du lieu, Grasset, Paris, 1958, p. 5.


47 C. Fang, R. Wenhui, “The paradox of architectural heritage in China:
spiritual abundance and physical shortage”, in: B.B. Erring et al., (eds), Sky-
scraper…, op cit.
48 F. Ged, “What is Shanghai’s identity?”, Ivi.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 207

all’apprendimento) e normativamente chiusi (rispettosi del proprio


patrimonio valoriale).
Delle retoriche sulla frugalità, che idealizzava gli “originari co-
stumi” della classicità mediterranea, vorrei fare una piccola “buona
pratica” personale. Riprendendo una distinzione di Roma antica,
alla pubblica magnificenza – come provvisoriamente rubrico i fasti
scenografici di Shanghai – vorrei giustapporre una mia privata so-
brietà49. Investirò in una buona amministrazione del mio tempo
(sempre poco per una città-mondo come questa), selezionando le
mie esigenze conoscitive ed emotive, mantenendo alta la pretesa
qualitativa della loro soddisfazione pur lasciando netta e non resi-
duale la possibilità di nuove esperienze. Già, perché frugalità non
vuol dire penuria ma avversione per gli sprechi: di soldi, di tempo,
di energia.
La frugalità ha a che fare in modo speciale con “io turista”. Se-
guiamone il programma informativo e le pragmatiche che ne conse-
guono. Frugale corrisponde al latino frugalem, che viene da frux
(gen. frugis), il frutto della terra, che ciascuno di noi può raccoglie-
re: se gli serve, se necessario. Ma ricordiamo che frux ha la stessa
radice di frui, un agire volto non tanto all’utilità (uti, faccio qualcosa
perché ne traggo un vantaggio), bensì al diletto, al godimento. La
frugalità, dunque, è costitutiva di un turismo che pone al suo centro
il turista. Come soggetto, si capisce, e non come oggetto. “Io turista”
che rivendica la libertà di decidere quali sono i suoi “bisogni”, con
relative priorità e modalità di soddisfazione. Ed in questa libertà a-
bita un luogo, coltiva una relazione consapevole e simmetrica con
esso, fabbrica topìa.
Devo lavorarci, lo so. Pensiamo solo al denaro, la mia risorsa più
imperativamente sollecitata e nella quale, ahimé, le altre mie risorse
(tempo, energia, informazione, intelligenza, emotività) finiscono
per essere convertite. E consideriamo altresì il contesto in cui ci tro-
viamo: Shanghai, Cina. Il post-denghismo e il rampantismo esibito
delle nuove classi affluenti e globalitarie. Nonostante la “trappola
della classe media”50: in corsa per diventare il più potente blocco

49 S.F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico, Agalma, 5, 2003. La pub-

blica magnificenza, nella cultura latina, ha un valore pedagogico e svolge una


funzione di utilità sociale. Come nell’orazione ciceroniana In Verrem, le opere
d’arte destinate a pubblico ornamento sono segno di elegantia e di humanitas e
quindi la magnificenza delle città è una delle basi dell’identità aristocratica, che
contrasta la rozzezza e il decadimento dei costumi.
50 Liu Wei in: China Daily (http://africa.chinadaily.com.cn/weekly/2013-

05/24/content_16528440.htm).
208 ANGELO TURCO

sociale del pianeta, come continuano a ripetere i giornali occidenta-


li, ma che ha problemi seri con l’alloggio, con gli ospedali, con le
scuole per i figli. E sta facendo un duro apprendistato nella palestra
di una “life as competition”51, davvero lontana dall’etica comunista
per la quale, alla fin fine, tutto era nato: Lunga Marcia compresa.
Fece un certo effetto la notizia secondo la quale, nel 2009, quando
si pensava che ci sarebbe stato un crollo dei consumi di alta gam-
ma52, nel primo giorno della fiera del lusso Top Show di Shenzhen,
in Cina appunto, ci furono acquisti per 300 milioni di yuan (30 mi-
lioni di euro) in 3 giorni. La Cina, si capì, non avrebbe tradito per
un piatto di lenticchie chiamato crisi il sogno di una società affluen-
te, e dunque il collante (consu)mistico della sua classe media in ver-
tiginosa ascesa. E, correlativamente, i beni e servizi di sfera alta sa-
rebbero rimasti fuori dalla bufera, il branding avrebbe avuto lunga
vita. Alimentato dalle nuove ideologie della “pursuit of wealth and
success”, i valori cinesi tradizionali della parsimonia e della mode-
stia sarebbero stati soppiantati da una “luxury possession” che ten-
de a rappresentare la posizione del chinese consumer nella gerar-
chia sociale. Non diversamente da quanto avviene altrove, peraltro,
con un’accentuazione dell’orientamento sociale, forse, su quello in-
dividuale: conformismo confuciano oblige53. Già, Confucio e il con-
sumo ostentatorio: il sobrio concetto del sé, intrecciato al significato
imitativo della dipendenza dagli altri54. Del resto, esistono da sem-
pre nel Celeste Impero tradizioni culturali plurime, che legittimano
propensioni al consumo plurime, disinnescandone la carica antago-
nistica. Pensiamo all’incrocio di confucianesimo, appunto, buddi-
smo e taoismo: consumo simbolico per il primo, utilitario per il se-
condo, naturalistico per il terzo55. Questa straordinaria souplesse,

51 “Life is a competition”, titolo del libro della “fashion icon” Yue-Sai Kan

(http://www.chinadaily.com.cn/entertainment/2013-
03/28/content_16352262.htm;
e, in video:
http://www.chinadaily.com.cn/entertainment/2013-
03/29/content_16357038.htm).
52 Stimato nel 10% del fatturato, 150 miliardi di euro, in crescita rispetto a

precedenti stime comprese tra il 3 e il 7%.


53 T. Mo, E. Roux, “Exploring chinese consumer values and attitudes toward

luxury-brand consumption”, European Journal of Marketing, 2, 2009.


54 J.-C. Usunier, “Consommation ostentatoire et valeurs asiatiques”, Déci-

sions marketing, 1997, 10.


55 E può essere una propensione confluente, di ispirazione plurima cioè ma

validata da un’unica tipologia di acquisto: i cosmetici ad esempio. Cfr. M.X.


Zhang, A. Lolibert, “Les valeurs traditionnelles des acheteurs chinois: raffine-
ment conceptuel, mesure et application”, RAM-Recherche et application en
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 209

anch’essa riconducibile dopotutto alla teoria delle contraddizioni,


configura un fermentante ideologema, per usare la terminologia di
Bachtin56: un gigantesco apparato discorsivo incaricato di mettere
in coerenza ideologica ogni propensione consumistica, individuale o
collettiva che sia, ogni comportamento effettivo o vocazionale con-
cernente il possesso di beni e l’utilizzazione di servizi. E se tutto ciò
vale per la Cina, tanto più varrà per Shanghai, dove si continua “à
faire de l’argent. C’est la matière première et la dernière”, come al
tempo di Albert Londres57. Tanto più varrà per Shanghai, dove il
Paese si sublima e continuamente rilancia, su ogni fronte.
Ecco, io qui, nella Perla d’Oriente, voglio “abitare” da turista
quale sono e non come fin troppi vorrebbero che io fossi. Si, abitare:
prendere e dare habitus, stile di vita, per godere come theoros di ciò
che vedo (sperimento, vivo); e come theoros recarne in qualche mi-
sura testimonianza in giro per il mondo.
Per restare in una città budget-friendly, seguirò i consigli di Seth
Kugel, sul suo blog del New York Times58. Con qualche infedeltà,
probabilmente, ma facendo tesoro di una osservazione fordamenta-
le del frugal traveler: Shanghai è per la più gran parte tua, libera-
mente. Proprio così, non costa nulla. Abituandomi progressivamen-
te alla silhouette del World Financial Center, un Polifemo il cui uni-
co occhio quadro mi aveva messo a disagio in un primo momento,
potrei pensare di destreggiarmi tra coppie (tentativamente) opposi-
tive, come a Shanghai si conviene. Dentro/fuori, potrebbe essere
una di quelle. Combinabile, beninteso, come in un circuito di Red
Tourism, che mi porterebbe in giro per la città, a piedi o con mezzi
pubblici, a visitare le residenze di Sun Yatsen, Mao Tsetung, Ciu En-
lai, e molto altro. Come che sia, “dentro” è certamente il Museo di
Shanghai. L’ingresso è completamente gratuito. Per davvero, e non
in modo solo retorico, come capita per certi musei americani. Il Mu-
seo è immenso, anche se da fuori non vi dà questa impressione: co-
me subito tiene a fare, per dire, il Louvre a Parigi. Difficile visitare

marketing, 1, 2003. Ed anche: C-F. Yang, “Une conception du comportement


du consommateur chinois”, RAM- Recherche et application en marketing, 1,
1989.
56 M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino, 1997.
57 Basato su materiali d’epoca e sugli scritti e reportages di Albert Londres il

documentario Shanghai, les années folles, trasmesso sul canale televisivo fran-
cese Arte il 25/11/2009 si può vedere ora su:
http://www.youtube.com/watch?v=VGHT_8m1kdQ.
58 “Shanghai on a Dime? Pretty close”

(http://travel.nytimes.com/2013/03/17/travel/in-the-alleys-of-shanghai-the-
funky-charm-of-china.html?ref=frugaltraveler&_r=0).
210 ANGELO TURCO

più di una galleria al giorno, data la ricchezza dei reperti: e di giorni


ce ne vogliono parecchi.
“Fuori” è tutta la città, beninteso, con la sua straordinaria “street
life”. È quella da cui mi lascio portare, in fondo, ignorando certe zo-
ne e immergendomi in altre. Anche quando mi dico che sto inse-
guendo, in realtà, la traccia dei lilong della Shanghai coloniale: di
cui restano, oggi, “la tela di fondo e la memoria viva, città nella cit-
tà”59. Perlomeno quelli che ne rimangono, perché dopo il “carnet de
voyage” di Pascal Amphoux, quando ancora i ¾ della popolazione
di Shanghai abitavano in qualcosa come 200.000 lilong, l’azione dei
bulldozer è stata devastante. Lilong, una realtà urbanistica racchiu-
sa e veicolata da un designatore di alta potenza memoriale: li,
un’unità di misura (500 m) che però nella sua ricca semantica rin-
via all’idea di vicinato e, ancor più profondamente, di “comunità”;
long è l’organizzazione spaziale di questa comunità, tra le stradine e
i passaggi che si intrecciano in un luogo ben circoscritto topografi-
camente e individualizzato da un nome proprio: come Xingrenli, il
primo, costruito nel 1872, o come Yiyuan, l’ultimo, costruito nel
194060. Il lilong è un’unità insediativa, dotata di un accesso, tradi-
zionalmente affidato a un guardiano, lo shifu, e si compone di di-
versi tipi di abitazioni, il più caratteristico dei quali porta il nome
generico di shi ku men fan zi (le case dalle porte di pietra), abbre-
viato, come abbiamo già visto, in shikumen. Di questo si riconosco-
no diverse tipologie, ognuna delle quali sancisce l’affermarsi di un
gusto o un’opzione funzionale della borghesia montante.
Shanghai sfugge all’intento ordinativo, alla comprensione siste-
matica. Recupero nella mia memoria questa riflessione di cui ci a-
veva fatto parte ancora P. Amphoux in un Colloquio della metà degli
anni ’70 e resa con una tecnica scritturale insolita: non in sequenza,
rigo per rigo sulla pagina, ma in parallelo, su tre colonne61. Un Col-
loquio memorabile, organizzato a Cà Foscari con la consueta intelli-
genza da Gabriele Zanetto, che da poco ci ha lasciato e che per que-
sta strana via compare nel mio vagare cinese: it’s just you and I my

59 P. Amphoux, “Travel writing/Carnet de voyage”, Arch. & Comport/Arch.

Behav, 2, 1988.
60 M. He, S. Guo, “Present states and maintenance suggestions on tradi-

tional timber residence in Shanghai”,


(http://www.ewpa.com/Archive/2008/june/Paper_178.pdf).
61 P. Amphoux, “Traversées de l’espace shanghaien”, in: G. Zanetto (a cura),

Les langages des représentations géographiques, Università degli Studi di


Venezia-Dipartimento di Scienze Economiche, Venezia, 1987, Vol. 1.
6. City turism: l’attratività urbana come topogenesi 211

friend, on the streets of Shanghai62. Come tante volte abbiamo va-


gato a Venezia per calli e callette, campi e campielli. Cerco dunque i
lilong sopravvissuti alle operazioni di urban regeneration, e non
manco di visitare qualcuna almeno delle eterotopie che le operazioni
di rinnovamento urbano hanno consegnato pronte per l’uso
all’entertainement machine shanghaiana. Prima fra tutte: Xintiandi.
Vivo anche altre “semplici” esperienze, “fuori”, sia chiaro. Per
esempio vado nei Parchi, come tutte le gens de peu63. Per godere
delle “fronde della città”, certo. Per meditare, sicuro: come davanti
alla statua di E. Delacroix al Jardin du Luxembourg a Parigi, o di
fronte al massivo edificio che ospita il MRAC (Musée Royal de
l’Afrique Centrale) a Tervuren, appena fuori Bruxelles; oppure, e
solo per fermarci qui, girando attorno all’Orologio ad acqua del Pincio,
a Roma. Per tutto ciò, dunque. Ma anche per coltivare un’attitudine
che, almeno da una quindicina d’anni – e cioè da Boston e da Algeri
in poi – accompagna ogni mio tentativo di comprensione urbana:
osservare e assorbire i modi della “gente comune” di vivere gli spazi
verdi della città.
Insomma: io turista come frugal traveler nella megalopoli più
sfacciata del mondo? Proprio così. È il mio modo di fare luogo, di
contribuire alla topia, di vivere confluenze inaspettate. E poco male
se spendo solo 50$ al giorno.

62 Bruce Springsteen, che mi presta i versi, gira per Philadelphia, si capisce.


63 P. Sansot, Les gens de peu, PUF, Paris, 1991, specialm. pp. 132 ss.
212 ANGELO TURCO

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